Ivan Lantos
La Vita Di Stalin Il dittatore che dominò per mezzo secolo la storia dell'U.R.S.S. © 1985
PREFAZIONE L'uom...
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Ivan Lantos
La Vita Di Stalin Il dittatore che dominò per mezzo secolo la storia dell'U.R.S.S. © 1985
PREFAZIONE L'uomo al centro della storia. Questo è il principio al quale mi sono ispirato quando, alcuni anni fa, ho intrapreso la strada della divulgazione storica attraverso le biografie. L'uomo protagonista della storia. Lo è ciascun essere umano, ma è incontrovertibile che vi sono personaggi che occupano posizioni di privilegio, nel bene o nel male. I «grandi» sono veramente pochi Stalin è uno di essi. «Si può dire con certezza» scrive Isaac Deutscher, uno dei più autorevoli biografi del grande e discusso statista sovietico «che Stalin appartenne alla famiglia dei grandi despoti rivoluzionari la stessa di Cromwell, Robespierre e Napoleone. Come Cromwell, Robespierre e Napoleone egli ha cominciato come servitore di un popolo in rivolta e se n'è reso poi padrone». Stalin perseguitato, Stalin idolatrato, Stalin odiato a morte, Stalin efferato, Stalin marito e vedovo, Stalin padre, i volti dell'uomo sono tanti, alcuni in piena luce, altri avvolti nell'ombra, ma tutti tali da suscitare una grande curiosità, il desiderio di fissare tutti questi volti in altrettante fotografie da consegnare alla storia, quindi agli altri uomini che ne sono protagonisti. Anche nelle pagine che seguono c'è una raccolta di queste «fotografie», scattate cercando di allontanare quanto più possibile emozioni e passioni che un personaggio di tale portata inevitabilmente suscita Intendiamoci, nessuna pretesa o presunzione d'impossibile obiettività, ma senza lusinghe e senza livori. Il 5 marzo 1953, giorno nel quale Stalin morì, mi trovavo sul portone di casa, nel quartiere operaio di Genova Sampierdarena. A pochi passi da me un anziano operaio cincischiava tra le mani una copia dell'«Unità» listata a lutto, piangeva e tra i singhiozzi diceva: sono rimasto orfano un 'altra volta. Ivan Lantos
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Nei giorni della rivoluzione ungherese del 1956, ancora a Genova Sampierdarena vidi un gruppo di comunisti disperati che bruciavano un ritratto di Stalin. Io non mi sono mai sentito né figlio, né parente di quello che popolarmente gli italiani chiamavano «Baffone»? Ma non ho mai neppure partecipato a roghi! Ho voluto raccontare la sua vita, che è poi quella di oltre mezzo secolo della Russia, con il disincanto del cronista, ricollocando Stalin al centro delle vicende. I.I.
CAPITOLO I IL FIGLIO DEL CIABATTINO Da qualche ora aveva smesso di nevicare. Il vento gelido di nord-est aveva spazzolato il cielo, trasformando in una crosta di ghiaccio la neve nei campi e sulle strade. Era il primo giorno d'inverno, il 21 dicembre 1879. Il giorno più corto dell'anno. La notte era scesa presto sulla cittadina di Gori, in Georgia, tra le montagne del Caucaso. Ekaterina, moglie ventenne del calzolaio Vissarion Ivanovic Giugashvili, si era coricata non appena le prime ombre della precoce sera invernale s'erano allungate nell'unica stanza della sua poverissima casa. Aveva fatto appena in tempo a mettere l'unico lenzuolo della sua dote sopra al pagliericcio del letto e, contrariamente al solito, aveva lasciato acceso il lume. Solitamente lo spegneva prima di infilarsi sotto la spessa trapunta; soldi in casa per l'olio non ce n'erano davvero. Ma quella era una sera del tutto particolare. Ekaterina, forte dell'esperienza dei tre precedenti parti, sentiva che stava per venire al mondo il quarto dei suoi figli. Sperava soltanto che questo riuscisse a sopravvivere: i primi tre erano morti poco dopo la nascita. S'era spogliata tenendo indosso soltanto la sottoveste e, sotto la coperta, rabbrividiva nell'attesa che arrivasse la babuska che l'avrebbe assistita durante il parto. Faceva freddo, molto freddo, nella stanza. Nella piccola stufa finiva di bruciare la poca legna che il calzolaio Vissarion Ivanovic Giugashvili era riuscito a comperare, avendo cura di tenersi qualche Ivan Lantos
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copeco da spendere all'osteria. Il bambino, un maschio, era venuto al mondo dopo un travaglio breve. Nel momento in cui era uscito dal suo ventre, a Ekaterina era sembrato che la creatura si portasse dietro anche la sua anima, s'era raccomandata alla Madonna, ma sapeva bene che quel dolore lacerante era dovuto soltanto al fatto che il bambino era grosso. Lo sentì vagire e, in cuor suo, ringraziò il Padreterno. Per ora era vivo. La babuska, nel mettere il piccolo fagotto di fasce nel letto accanto a lei, disse: «Ekaterina Giugashvili, è un maschio». Era nato Josif Vissarionovic Giugashvili, destinato a essere conosciuto in tutto il mondo come Josif Stalin. Mentre il piccolo Josif si apprestava a fare la sua apparizione nel consorzio umano, suo padre, Vissarion Ivanovic, se ne stava, come suo solito, nell'osteria, consolandosi con il vino della sua miseria e del suo fallimento. Vissarion Ivanovic Giugashvili era figlio di contadini georgiani che, fino ai primi decenni del 1800, erano stati servi della gleba. S'erano poi riscattati diventando piccoli coltivatori e artigiani: i Giugashvili esercitavano, in particolare, il mestiere di calzolai. I servi della gleba non godevano di dignità umana; venivano comperati e venduti come se fossero stati oggetti facenti parte del podere. Vissarion Ivanovic era nato a Didi Lilo, un villaggio non lontano da Tiflis, capitale del Caucaso. Per un giovanotto come lui, pieno di ambizioni e sogni, il paese natale ricordava troppo un passato abbastanza recente di abiezione sociale. Se, come voleva, c'era una possibilità di dare la scalata alla condizione di borghese, questa andava cercata altrove. Fu così che il giovane Vissarion «emigrò» a Gori, dove, come artigiano indipendente, sperava di costruirsi un'esistenza all'insegna della dignità che deriva dal benessere. A Gori, Vissarion Ivanovic Giugashvili conobbe Ekaterina, figlia quindicenne del servo della gleba Georgij Gheladze del villaggio di Gambaruelli. Ekaterina, già donna nonostante la giovane età, s'era trasferita a Gori per fare la serva. Molte ragazze della sua condizione erano domestiche nelle case dei russi, armeni o ebrei che costituivano la borghesia abbiente della Georgia. Quando e in quali circostanze si fossero conosciuti il giovane calzolaio e la graziosa servetta non lo sappiamo, ma nel 1875 erano già marito e Ivan Lantos
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moglie. Andarono ad abitare in una casa da poveri, poco più che una catapecchia, alla periferia di Gori e l'affitto di un rublo e mezzo sembrava loro un capitale. E, forse, non si può dire neppure che si trattasse della capanna per i classici due cuori. Il matrimonio tra due esseri poveri e ignoranti si esauriva in una specie di rapporto di mutuo soccorso e il sentimento, seppure ci fosse stato, restava comunque inespresso per la mancanza di un linguaggio idoneo a comunicarlo, soffocato dalle mille preoccupazioni e angosce del quotidiano. Quanto all'alcova, se così possiamo definire il misero pagliericcio dei coniugi Giugashvili, si riduceva a teatro di frettolosi abbracci mortificati dalla brutalità di Vissarion, al quale il vizio del bere eccitava i sensi quanto obnubilava la mente, e dai pudori ancestrali e dall'inesperienza della giovanissima sposa. Ma accadeva talvolta che Vissarion Ivanovic tornasse dall'osteria così ubriaco da cadere sul letto come un sacco capace soltanto di emettere sibili e brontolìi. In questi casi, Ekaterina faceva un rapido segno di croce e ringraziava il Signore perché le venivano risparmiate le pesanti attenzioni del suo sposo. Il frutto degli amori tra il calzolaio Vissarion Ivanovic e sua moglie Ekaterina, erano stati, tra il 1875 e il 1878, tre figli concepiti più per i capricci del caso che per una manifesta volontà, venuti al mondo e morti in un breve volgere di tempo, senza troppi rimpianti da parte dei genitori. Bastava guardare la casa per capire che davvero una prole numerosa non poteva essere davvero considerata una benedizione di Dio. Isaac Deutscher, uno dei più autorevoli biografi di Stalin, così descrive la casupola dove nacque il futuro «zar rosso»: «L'abitazione era costituita da una cucina e da una sola stanza di superficie non superiore ai cinque metri quadrati e scarsamente illuminata dalla luce che entrava attraverso un'unica finestrella. La porta dava direttamente su un cortile sudicio dal quale, nei giorni di pioggia, l'acqua e il fango potevano entrare liberamente nell'abitazione, poiché il pavimento era allo stesso livello del cortile, senza scalini interni. Il pavimento era di mattoni nudi, e tutta la mobilia di casa consisteva in un tavolino, una sedia, un divano e un rozzo letto di legno coperto da un pagliericcio». La botteguccia da ciabattino di Vissarion Ivanovic non era meno squallida: una panchetta sgangherata, un minuscolo deschetto, pochi attrezzi ne erano l'intero arredamento. Oggi, sia la casa, sia il negozio sono Ivan Lantos
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diventati museo, forse a testimoniare con le prove materiali di una infanzia di miseria l'autenticità delle origini proletarie dell'imperatore del proletariato internazionale. Pochi giorni dopo la nascita, il figlio di Ekaterina, chiamata familiarmente Keke, e di Vissarion Ivanovic Giugashvili, detto Beso, venne portato al fonte battesimale; il pope greco-ortodosso gli impose il nome di Josif e poiché fungeva anche da ufficiale dello stato civile, lo iscrisse nei registri dell'anagrafe come Josif Vissarionovic Giugashvili. Josif, che secondo l'uso georgiano di imporre a tutti un diminutivo veniva chiamato Soso, divenne così cittadino russo, suddito dello zar Alessandro II, padre di «tutte le Russie». Tra le «Russie» che formavano lo sterminato impero zarista c'era anche la Georgia caucasica. «Il Caucaso apparteneva alla leggenda ancor prima di entrare nella storia» scrive Boris Souvarine che di Stalin ha redatto una monumentale biografia. Il Caucaso è la mitica Colchide dove, secondo l'antica leggenda greca, Giasone insieme con i suoi Argonauti erano andati a cercare il vello d'oro. Ai monti del Caucaso appartiene l'Ararat sulla vetta del quale, secondo la tradizione biblica, si posò l'arca di Noè scampato al diluvio universale. E ancora a una roccia del Caucaso, nel mito pagano, venne incatenato l'eroe semidivino Prometeo, colpevole, per Giove, di aver insegnato agli esseri umani la potenza del fuoco, origine dell'evoluzione degli uomini. Geograficamente il Caucaso è terra di confine tra Europa e Asia, appartenente un po' all'uno e un po' all'altro continente, senza essere né dell'uno né dell'altro. Terra di montagne altissime dalle vette perennemente innevate, di strette vallate percorse da torrenti, bagnata dal mar Caspio, ricca di una vegetazione rigogliosa, di una fauna che secoli di caccia non sono riusciti a compromettere. Forse anche la vite ebbe origine in questo strabiliante angolo di mondo. Ma il Caucaso non è soltanto questo. Lo storico greco Strabone affermava che le popolazioni della regione erano settanta; Plinio, divulgatore scientifico romano, sosteneva che vi si parlavano ben centotrenta lingue diverse; gli arabi chiamavano questa zona «Montagna delle lingue». Tra le innumerevoli tribù caucasiche, Stalin discendeva da quella di Carteveli (georgiani), ma certamente non poteva conservarne le Ivan Lantos
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caratteristiche di purezza originaria. La storia del Caucaso, infatti, è scritta da invasori: conquistatori feroci o pacifici, ma altrettanto inquinanti, uomini di commerci. «Venticinque secoli fa» annota Boris Souvarine «la Georgia aveva raggiunto una civiltà superiore a quella della maggior parte dell'Europa». Sulle sue coste (il Ponto Eusino) s'erano stanziati colonizzatori greci, persiani, ebrei, romani e, successivamente, genovesi avevano navigato i suoi mari, il mar Nero e il mar Caspio. Fu terra di conquista per Alessandro Magno (re dei Macedoni), per Mitridate Eupatore, per le orde devastatrici degli unni. I monaci itineranti della Chiesa di Bisanzio vi portarono il cristianesimo e, per altra via, giunse la religione di Maometto. Il francese Elisée Reclus, in L'Asie Russe, scrive: «Vi si formò un ambiente molto colto caratterizzato da una singolare sintesi della civiltà bizantina e con influssi dell'oriente arabo e iraniano». Se volessimo identificare uh «rinascimento» georgiano lo potremmo collocare nel XII secolo, all'epoca dei regni del re David e del suo successore, la regina Tamara. Un periodo di pace cancellato con il ferro, il fuoco e il sangue dalle orde tatare di Genghiz khan prima e da quelle di Tamerlano successivamente. Per cinque secoli la Georgia fu un campo di battaglia sia per le bellicose popolazioni locali, sia per gli eserciti turchi, terreno di caccia dal quale i razziatori del sultano di Costantinopoli strappavano prede pregiate: splendide ragazze e delicati fanciulli destinati all'harem. Nel 1801, i Romanov annetterono la Georgia alla «grande madre Russia» garantendone così la sicurezza, ma pretendendone in cambio la russificazione. Per qualche decennio piccoli, ma determinati gruppi di partigiani combattenti tentarono di opporsi al processo di forzata assimilazione. «I russi» scrive Boris Souvarine «per motivi strategici costruirono strade, facilitando così la circolazione e gli scambi; incoraggiarono la viticoltura, che non poteva far concorrenza alla loro, e contribuirono al ripopolamento inviando militari, funzionari, mercanti, turisti, esuli politici e deportati religiosi. Un secolo di pace rianimò lo sfortunato paese senza tuttavia elevarne sensibilmente il livello spirituale e materiale né farne progredire la tecnica». Gori, la cittadina natale di Stalin, si trova sulla riva sinistra del fiume Kura; dista una settantina di vherste da Tiflis, capitale della Georgia e Ivan Lantos
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della Transcaucasia e, all'epoca della nascita di Josif Vissarionovic Giugashvili contava cinquemila abitanti. È situata al centro di una pianura d'origine alluvionale con terra fertilissima che consente di produrre vino e grano. Un anonimo viaggiatore citato da Boris Souvarine scrive: «Non c'è nulla di più pittoresco della fortezza vecchia di dieci secoli che domina la città dall'alto di una collina la quale s'innalza, isolata in mezzo a una pianura circondata da alte montagne dominate in lontananza dalla vetta nevosa del Kazbek». Questo lo scenario della prima infanzia di Josif Vissarionovic. Per sua madre fu quasi una sorpresa che riuscisse a sopravvivere una settimana dopo l'altra e si convinse che fosse un miracolo la guarigione dal vaiolo che lo aveva colpito quando aveva sette anni. Il vaiolo all'epoca era considerato come la peste dagli esiti normalmente letali. Il piccolo Josif, un autentico kinto (monello), restò soltanto con il viso butterato. Poco tempo dopo si ferì a una mano, la ferita si trasformò in una brutta piaga e l'infezione gli procurò una setticemia. Rimase alcuni giorni in fin di vita, ma neppure questa volta morì. Ekaterina, profondamente religiosa come sono solite esserlo le contadine russe, si convinse ancor più che il suo Soso godeva di una particolare protezione divina. Quanto a Josif, divenuto ormai Stalin e negatore dell'esistenza di qualsiasi divinità, commentava così l'episodio della sua infanzia: «Non so che cosa mi abbia salvato allora, la mia forte costituzione o gli impiastri del ciarlatano del villaggio». In seguito alla malattia l'articolazione del gomito sinistro perse un po' della sua motilità e per questo Josif venne dichiarato inabile al servizio militare nel 1916. Come fu l'infanzia di Stalin? La domanda è legittima (ma rischia di rimanere senza una risposta precisa) se si considerano la totale assenza di documenti (lettere, pagelle e relazioni scolastiche, diari) e le profonde discordanze che si riscontrano nelle testimonianze dei coevi. C'è chi sostiene la tesi di una vita all'insegna della miseria più dura e dell'abbrutimento. Vissarion Ivanovic, detto Beso, riusciva a racimolare a malapena qualche rublo con il suo lavoro di ciabattino, e anche quei pochi soldi finivano inevitabilmente in vino e vodka. Ekaterina cercava di tirare avanti la pericolante baracca familiare spaccandosi la schiena come lavandaia. Vissarion tornava a casa ubriaco e violento. Svetlana Alliluieva, figlia di Stalin, nel suo libro di memorie Soltanto un anno, scrive: «Talvolta mio padre mi raccontava qualcosa della sua Ivan Lantos
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infanzia. Le risse, la grossolanità non sono un fenomeno raro in una famiglia povera e ignorante, dove il padre beve. La madre picchiava il bambino, il marito picchiava lei. Ma il bambino amava la madre e la difendeva; una volta lanciò un coltello contro suo padre. Costui lo inseguì gridando ed egli trovò rifugio presso dei vicini». Il biografo e contemporaneo di Stalin, Josif Iremashvili, scrive: «Le percosse terribili e non meritate resero il fanciullo duro e senza cuore come il padre». E c'è persino chi attribuisce l'atrofia del braccio di Stalin, dovuta, come s'è detto, a una ferita infetta, alla tara ereditaria dell'alcolismo paterno. Sul fronte delle testimonianze positive ce n'è una dello stesso Stalin il quale, nel 1931, confidava allo scrittore Emil Ludwig: «I miei genitori non avevano alcuna cultura ma fecero molto per me». E, nel 1930, ormai settantenne, Ekaterina Giugashvili, in una delle rarissime interviste, aveva affermato: «Soso è sempre stato un bravo ragazzo. Non ho mai avuto occasione di punirlo. Soso era il mio unico figliolo, certo mi era caro. Suo padre voleva farne un calzolaio. Io invece non volevo che facesse il calzolaio, volevo che diventasse prete». La verità, probabilmente, come accade il più delle volte, è da ricercarsi nel mezzo. I Giugashvili erano veramente molto, ma molto poveri. I sogni di riscatto economico e sociale di Vissarion Ivanovic erano naufragati nella misera botteguccia nella quale doveva arrangiarsi a riparare le calzature scalcagnate di clienti poveri quanto e più di lui. All'osteria certamente andava, qualche bicchiere di vino o di vodka erano l'unico mezzo per affogare i dispiaceri, per dimenticare il fallimento d'una illusione cullata a lungo e perseguita forse con tenacia e certamente con sfortuna. Quando il piccolo Josif ebbe quattro anni, suo padre, consapevole e rassegnato ormai che la sua botteguccia non si sarebbe mai trasformata in un negozio per signori e men che meno in una fabbrichetta, si decise ad andare a cercare lavoro in città. Divenne così operaio nel calzaturificio Adelchanov di Tiflis. La non comune intelligenza di Josif registrò l'avvenimento. Qualche anno dopo, in uno dei suoi primi opuscoli politici di ispirazione marxista, scrisse: «Immaginate un calzolaio che, non potendo resistere alla concorrenza delle grandi fabbriche, abbia dovuto chiudere il suo negozietto e sia andato a lavorare, per esempio, dagli Adelchanov, nel Ivan Lantos
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calzaturificio di Tiflis. Egli è entrato nella fabbrica non già per fare l'operaio tutta la vita, ma per risparmiare un po' di denaro, per mettere da parte un piccolo capitale che gli permetta poi di riaprire un negozio di sua proprietà. Come vedete, la condizione di questo operaio è già quella di un proletario, mentre la sua coscienza non è ancora proletaria, bensì in tutto e per tutto piccolo borghese». Mentre a Tiflis papà Giugashvili tentava la sua sfida alla sorte nella fabbrica (la diagnosi postuma di Stalin era sostanzialmente esatta), a Gori, mamma Ekaterina affrontava con altrettanto coraggio il destino assegnato ai figli dei poveri. Josif aveva nove anni, età nella quale, solitamente, i ragazzini della sua condizione andavano a imparare un mestiere da qualche artigiano, quando sua madre decise di mandarlo invece alla scuola ecclesiastica di Gori. Ekaterina, povera e analfabeta (imparò a leggere e scrivere soltanto da vecchia per adeguarsi alla posizione del figlio), aveva capito che il fallimento del marito poteva essere riscattato a una sola condizione: Josif doveva diventare un uomo colto e, possibilmente, un prete al quale tutti si sarebbero rivolti con deferenza e rispetto. Josif Vissarionovic Giugashvili frequentò la scuola ecclesiastica di Gori nel quinquennio 1888-1893. Nel 1890, quando Josif aveva undici anni, suo padre, Vissarion Ivanovic, detto Beso, morì a Tiflis, appena trentottenne e, forse, l'alcol non fu del tutto estraneo a quel decesso prematuro. Keke (Ekaterina) andò a Tiflis a riprendersi i resti mortali del marito e diede loro sepoltura in una fossa comune del piccolo cimitero di Gori. La morte di Vissarion Ivanovic non cambiò sostanzialmente l'esistenza della vedova e dell'orfano. Mamma Keke guadagnava quanto serviva per vivere lavando i panni altrui; le spese per l'istruzione di Soso erano coperte da una borsa di studio di tre rubli al mese che veniva integrata da altri due rubli che sua madre guadagnava facendo piccoli lavori domestici per la scuola. Non se la passavano poi così male. H. Montgomery Hyde, biografo inglese di Stalin, scrive: «Si dice che Keke abbia serbato lindo e pulito il bambino e durante il freddo inverno lo vestiva con un cappotto caldo. Spesso gli cantava canzoni popolari georgiane, e da lei gli derivò l'amore che più tardi dimostrò per la musica e il canto. Nonostante le difficoltà, di rado i due patirono la fame, anzi mangiavano passabilmente bene, nutrendosi dei prodotti della cucina georgiana: carne arrostita, fave rosse, Ivan Lantos
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patate bollite, pomidoro, riso e frutta». Soso era cresciuto bene, sano e robusto; gran nuotatore, il suo svago preferito era quello di misurarsi con le acque fredde e le forti correnti dei fiumi di casa, il Kura e il Liakhva. Alto non lo divenne mai, la sua statura si fermò a un metro e sessantacinque, ma era forte e agile. Aveva grandi occhi neri nei quali brillava una luce che, secondo il biografo Iremashvili, incuteva in chi lo guardava paura e sfiducia. A scuola, Soso era uno degli alunni migliori. Dotato di un'intelligenza pronta e di una memoria prodigiosa imparava senza fatica. Ma non era tutto: fino dai primi giorni aveva maturato la consapevolezza di essere, tra i suoi compagni, un diverso, un diseredato. Gli altri allievi della scuola ecclesiastica erano tutti figli di commercianti e artigiani agiati che non perdevano occasione per far sentire a Josif che lui era soltanto il figlio d'una misera lavandaia. «Proprio in quell'oscura scuola di Gori» scrive Isaac Deutscher «il futuro Stalin assaporò per la prima volta le differenze e l'odio di classe». Sviluppò e accrebbe così il patrimonio di volontà, ostinazione e ambizione che la natura gli aveva dato. L'orfano del ciabattino superò ben presto i suoi compagni sia nel profitto scolastico, sia nei giochi di abilità e coraggio. E se il disprezzo per le sue umili condizioni non sparì, esso venne mascherato da un'insopprimibile ammirazione: era nato un «leader». Emilian Jaroslavskij, già amico di Stalin e storico del partito bolscevico, scrisse: «Era primo negli studi e nei giochi, era quello che dirigeva tutti gli svaghi, un buon amico e il beniamino dei compagni di scuola». Altri però sostengono che Josif imponeva la sua supremazia a suon di pugni, che era intollerante con chi la pensava diversamente da lui, che si divertiva a spaventare e ad angariare i più deboli. Se nel confronto con gli altri allievi della scuola Soso aveva preso coscienza delle differenze che tra gli esseri umani crea il denaro e la posizione sociale, nel suo quotidiano misurarsi con le materie d'insegnamento ebbe la sensazione delle differenze etniche che determinavano i problemi delle minoranze razziali. I suoi genitori, Vissarion Ivanovic e Ekaterina, non conoscevano per niente la lingua russa, in casa parlavano il georgiano e, in georgiano, Soso aveva imparato ad esprimersi. A scuola invece la lingua ufficiale era il russo e al georgiano erano destinate pochissime ore di lezioni settimanali. Soso imparò il russo facilmente e molto bene, ma fuori della scuola, con Ivan Lantos
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gli amici e con la madre continuò a parlare georgiano; altri suoi compagni avevano come madre lingua l'armeno o il turco: nella scuola era vietato qualsiasi idioma che non fosse il russo. Lo scontro tra la dura opera di russificazione messa in atto dalle pubbliche istituzioni e spirito nazionalistico che, albergava nell'animo di ogni georgiano non potevano non trasformarsi anche in Josif in spirito di ribellione. «Persino i ragazzi partecipavano a scioperi scolastici o ad altre manifestazioni in difesa della madrelingua» scrive Isaac Deutscher. «Dopo il 1870 i disordini furono frequenti nelle scuole della Georgia; gli insegnanti russi venivano aggrediti e percossi mentre gli allievi appiccavano il fuoco alle scuole. Negli anni in cui Giugashvili frequentò la scuola di Gori non avvennero incidenti del genere, ma il risentimento doveva essere ancora molto forte». La tradizione georgiana era ricca di storie che narravano di eroici briganti: nobili caucasici che combattevano contro gli stranieri, mongoli, turchi o russi; valorosi figli del popolo che animati dall'odio per i ricchi e dalla pietà per i poveri organizzavano bande per la difesa dei diritti dei più deboli. Nell'un caso e nell'altro i «banditi» avevano i loro inaccessibili rifugi tra le montagne e scendevano sulle strade per operare le loro scorrerie. E qualcuno di questi leggendari personaggi sopravviveva ancora ai tempi di Josif Vissarionovic mescolandosi, nelle storie che si raccontavano nelle osterie o nelle notti d'inverno davanti ai camini delle case, ai mitici eroi nazionali. C'è chi sostiene che, clandestinamente, il giovanissimo Soso esercitasse fin dagli anni della scuola ecclesiastica di Gori la sovversione nazionalistica tra i suoi compagni. Nei verbali della scuola non c'è traccia di un comportamento del genere il quale certamente non sarebbe sfuggito agli attentissimi insegnanti. Pare invece che Soso partecipasse con grande fervore alle cerimonie religiose durante le quali si pregava per la salute dello zar e della sua augusta famiglia. Se un certo fermento nazionalistico doveva provarlo, certamente non lo manifestava in maniera palese e ancor meno violenta. I biografi, o meglio, gli agiografi cercarono con ogni mezzo di accreditare l'immagine di uno Josif Vissarionovic Giugashvili che, fin dall'adolescenza avesse in sé le «stigmate» dello Stalin. Il già citato Emil Jaroslavkij, per esempio, sosteneva che a tredici anni, Soso, aveva già letto Darwin e Marx, aveva ripudiato la fede dei padri e s'intratteneva quanto Ivan Lantos
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più gli era possibile non soltanto con gli studenti, ma con operai e contadini per spiegare loro le ingiustizie di classe. È lecito dubitare di queste affermazioni, anche se, condividendo l'opinione di Isaac Deutscher, possiamo credere che una sommaria infarinatura di darwinismo Soso potesse essersela fatta leggendo qualche opuscolo o manuale di divulgazione scientifica. Molto più improbabile è la sua iniziazione precoce al marxismo, dottrina assai poco diffusa, all'epoca, non soltanto nella capitale della Georgia, Tiflis, per non dire nella modesta cittadina di Gori. Alla fine dell'estate del 1894, Josif Vissarionovic Giugashvili sostenne gli esami finali nella scuola ecclesiastica di Gori classificandosi primo assoluto e ottenendo uno speciale attestato di merito. Poche settimane dopo, accompagnato da mamma Keke, si recava a Tiflis per l'esame d'ammissione al seminario teologico di Tiflis. È persino superfluo dire che superò brillantemente tutte le prove. Il sogno di Ekaterina Giugashvili sembrava realizzarsi.
CAPITOLO II DESTINATO AL SACERDOZIO Così, nell'autunno del 1894, Josif Vissarionovic Giugashvili venne iscritto nel registro degli allievi del seminario teologico di Tiflis. Certamente nel percorrere le settanta verste che separavano la natia Gori dalla capitale della Georgia il suo pensiero era andato all'analogo viaggio che suo padre aveva compiuto, senza successo, alcuni anni prima, da Didi Lilo a Gori: l'itinerario della speranza verso il riscatto sociale, rivelatosi poi una crudele chimera. Ma lui, Josif Vissarionovic, era determinato a riuscire dove suo padre aveva fallito. Non accadeva tutti i giorni che il figlio di una povera lavandaia, discendente di servi della gleba, varcasse la soglia del prestigioso seminario. Quello che immediatamente dopo la buona riuscita degli esami d'ammissione era sembrato un ostacolo insormontabile, il reperimento dei fondi per pagare la retta, s'era risolto al meglio: grazie ai buoni uffici del direttore della scuola di Gori e del prete gli venne assegnata una borsa di studio per le tasse, l'alloggio, i libri e i vestiti. Tiflis apparve al giovanissimo seminarista come un mondo immenso e Ivan Lantos
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straordinario: la capitale della Georgia aveva, allora, circa centocinquantamila abitanti; oltre ai georgiani c'erano russi, armeni, persiani, tatari, tedeschi, ebrei che creavano un ambiente vivace e cosmopolita, un caleidoscopio di costumi, usanze e parlate. La città era attraversata da belle strade, il fiume era scavalcato da ponti; c'erano giardini, teatri, alberghi. L'illuminazione elettrica dava un'impressione di ricchezza c'erano giardini, teatri, alberge di magia. Il quartiere orientale, alla fine del corso Rustaveli, aveva un qualcosa di misterioso con i suoi bazar pieni di ombre e mercanzie, con le botteghe dei venditori di tappeti, degli orefici, degli armaioli, degli artigiani del cuoio. Tiflis era anche il principale nodo ferroviario della ferrovia transcaucasica che collegava l'occidente all'oriente e ciò incrementava traffici animatissimi. Il seminario teologico di Tiflis aveva fama d'essere la miglior scuola superiore della Russia europea. Era situato in piazza Pushkin sulla quale era collocato il monumento al grande poeta. L'edificio aveva la struttura austera e un po' lugubre della caserma e al rigore militare era ispirata la disciplina che vigeva tra quelle mura garantita da un numeroso gruppo di monaci intransigenti. Quando il quindicenne Josif Vissarionovic Giugashvili sentì chiudersi alle spalle il monumentale portone di legno era già consapevole che i regolamenti gli imponevano una pressoché totale separazione dal mondo esterno; non avrebbe potuto allontanarsi dal seminario né di giorno, né di notte, salvo ottenere dal monaco addetto alla sorveglianza della sua classe due ore di permesso ogni tanto. Come figlio di poveri, Josif avrebbe dormito in uno sterminato camerone con venti o trenta compagni e avrebbe avuto un vitto più scarso e più scadente di quello destinato ai seminaristi figli di famiglie agiate. La giornata incominciava alle sette del mattino con una funzione religiosa che, in diverse occasioni, durava anche molte ore ed era seguita in piedi dagli allievi. Alle nove, se appunto la cerimonia non si prolungava, suonava la campana per il tè del mattino. Seguivano le lezioni di teologia scolastica e poi ancora preghiere e preghiere. Alle cinque e mezzo del pomeriggio scattava puntualmente il «coprifuoco» e per nessuna ragione gli studenti avrebbero potuto uscire dal seminario. Leon Trotskij, coetaneo di Josif Vissarionovic, nella biografia dedicata al compagno della rivoluzione, riferisce la testimonianza di un ex allievo del seminario: «Chiusi notte e giorno tra le muraglie d'una caserma, ci Ivan Lantos
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sentivamo molto simili a prigionieri che dovessero scontare anni e anni di detenzione senza essere colpevoli di alcun delitto. Eravamo tutti avviliti e di pessimo umore. Soffocata in quelle stanze e in quei corridoi l'allegria giovanile non poteva manifestarsi quasi mai. Se, di tanto in tanto, l'esuberanza degli allievi tentava di erompere liberamente, i monaci e i censori si affrettavano a imbavagliarla». Una censura implacabile veniva esercitata sulle letture dei seminaristi ai quali era vietato prender libri a prestito dalle biblioteche e i monaci sorvegliavano che fosse rispettato l'elenco delle opere consentite. Trasgressioni anche di insignificante entità, lamentele e qualsiasi altro comportamento non in linea con i regolamenti veniva punito con la segregazione in apposite celle. Nel 1930, Stalin, intervistato dal giornalista Emil Ludwig, affermava a proposito della vita di seminario e, in particolare, sulla condotta dei monaci: «Il loro sistema prediletto è quello di spiare, rovistare, infiltrarsi nell'animo della gente e offenderne i sentimenti più segreti. Che cosa c'è di positivo in questo comportamento? Per esempio, spiare nelle stanze degli studenti. Alle nove del mattino suona la campana per il tè, scendiamo in refettorio e quando torniamo di sopra costatiamo che i dormitori sono stati perquisiti e tutti i cassetti messi sottosopra. Dov'è mai la bontà di un sistema come questo?». Paradossalmente però il seminario di Tiflis costituiva un autentico vivaio di intellettuali e attraverso le sue mura impenetrabili filtravano le più avanzate idee politiche e sociali che finivano col fermentare nell'animo dei giovani e trasformavano la truce scuola per preti in un attivo centro di opposizione politica. Nel 1930, la facoltà di storia dell'università comunista della Transcaucasia pubblicò i rapporti di polizia sul seminario di Tiflis relativi al periodo 1873-1894. Secondo tali rapporti, nel 1873, nel corso di una perquisizione erano state rinvenute opere «proibite» di Darwin, Stuart Mill, Buckle e Cerniscevskij. In un'altra occasione vennero sequestrati la Vita di Gesù di Renan e Napoleone il Piccolo di Victor Hugo. Tre docenti che ispiravano le loro lezioni a uno «spirito liberale» furono espulsi, denunciati alle autorità di polizia e condannati al termine di un processo che vide sul banco degli imputati anche altri insegnanti ritenuti colpevoli per non aver denunciato l'attività sovversiva dei loro colleghi rei di «nazionalismo georgiano». La tensione raggiunse il parossismo quando, nel giugno del 1886, Josif Ivan Lantos
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Laghijev, un seminarista espulso per comportamento antirusso, uccise il rettore Pavel Ciudeskij. L'omicida era figlio di un prete di Gori. Il responsabile dell'ordine pubblico di Tiflis redasse un rapporto dal quale emergevano tutte le (giustificate) preoccupazioni del capo della gendarmeria. «Rispetto agli altri seminari russi, quello di Tiflis si trova nelle condizioni peggiori» denunciava il rapporto. «Gli allievi che s'iscrivono al seminario dimostrano sovente una mentalità antireligiosa e sono ostili all'elemento russo. E quasi sempre impossibile emendare codesti allievi a causa dell'estrema suscettibilità e del morboso amor proprio degli indigeni». Dopo l'assassinio del rettore il seminario rimase chiuso per alcuni mesi. L'esarca della Georgia, Paolo, ventilò l'ipotesi che l'omicidio di Pavel Ciudeskij non fosse opera di un singolo, ma avrebbe potuto trattarsi di un complotto organizzato in quella roccaforte di attività antirusse che era il seminario di Tiflis. L'esarca faceva riferimento all'aggressione che il rettore aveva subito un anno prima d'essere ucciso. L'aggressore era lo studente Silvester Gibladze destinato a diventare fondatore e capo di un'organizzazione socialdemocratica e «maestro» politico di Josif Vissarionovic Giugashvili. Tra gli studenti indicati come coinvolti nel complotto a danno del defunto rettore c'era anche Michail Tskhakaja, figlio di un pope, successivamente amico di Lenin, presidente della Georgia sovietica e membro del comitato centrale bolscevico. La repressione non scoraggiò gli studenti del seminario i quali diedero vita a una nuova serie di scioperi che culminarono nel dicembre del 1893. I seminaristi chiesero l'allontanamento di molti insegnanti russi e l'istituzione di una cattedra di letteratura georgiana. I tentativi dell'esarca per indurre i giovani a desistere dal blocco delle lezioni e d'ogni altra attività del seminario si rivelarono vani. Dopo un'intera giornata di trattative intervenne la polizia che chiuse il seminario congedando tutti gli allievi. Il provvedimento venne aspramente criticato anche da coloro che non condividevano i metodi di lotta degli studenti: anche i benpensanti considerarono la chiusura del seminario una arrogante risposta alle istanze della «nazione» georgiana. Ottantasette allievi vennero espulsi e tra questi Lado Ketskhoveli, ex allievo della scuola ecclesiastica di Gori, di tre anni più anziano di Josif Vissarionovic Giugashvili destinato a diventare una delle sue guide politiche. Nei rapporti della polizia, firmati dal generale Jankovskij, Ivan Lantos
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figurava, come ispiratore dei torbidi, Michail Tskhakaja. È importante rilevare a questo punto che il socialismo non faceva parte, in quel periodo, del patrimonio ideologico dei turbolenti seminaristi di Tiflis i quali s'agitavano mossi dal sentimento patriottico georgiano avvilito e offeso dallo strapotere russo. Quando Josif Vissarionovic Giugashvili, detto Soso, entrò nel seminario la protesta s'era sopita. Dei disordini dell'anno precedente e di quelli del passato si parlava soltanto e sottovoce. Soso sentiva in cuor suo d'esser solidale con quei colleghi che avevano rivendicato elementari diritti nazionali e che, per questo, avevano pagato di persona, ma seppe nascondere i suoi veri sentimenti. Le sue condizioni non gli permettevano di mostrarsi meno che ossequiente a tutte le regole della casa, essere espulso sarebbe stato come ripercorrere la strada del fallimento che già era stata sperimentata da suo padre e perdere il diritto alla borsa di studio significava dover automaticamente abbandonare gli studi. Agli occhi del rettore, il monaco russo Ermogene, e dell'ispettore, il georgiano Abascidze (che per i russi ostentava una servile sottomissione), il giovane Giugashvili si rivelava quello che era stato alla scuola di Gori: un allievo modello, intelligente e volonteroso. I due responsabili del seminario non sapevano e non si rendevano conto del fatto che Josif Vissarionovic era un maestro della simulazione. Il gruppo clandestino del quale faceva parte riusciva persino ad avere contatti con i giovani che erano stati espulsi dal seminario. Nonostante la rigorosissima sorveglianza il seme della sedizione e della rivolta si sviluppava dentro le mura della fortezza ecclesiastica di Tiflis alimentando la trasgressione civile e quella religiosa. Dopo il primo anno di condotta esemplare, Josif Vissarionovic incominciò a scoprire le sue carte mettendosi in contatto con membri dell'opposizione di Tiflis. Il 29 ottobre 1895, la rivista Iberija, diretta dal leader liberale Ilija Ciavciavadze, pubblicò una poesia che il futuro Stalin aveva dedicato a un poeta georgiano, Eristavi. «Strapperò la mia veste / e scoprirò il mio petto alla luna / e con le mani tese / adorerò colei che fa piovere la sua luce sul mondo» dicevano alcuni versi del componimento che rivelava un'ancor confusa ispirazione socialdemocratica e che era firmato «Soselo» (Giuseppino). Se la firma era servita a nascondere ai capi del seminario la vera identità del poeta, Josif Vissarionovic si fece prendere con le mani nel sacco Ivan Lantos
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quando vi introdusse libri proibiti presi in prestito da una biblioteca circolante. G. Glurgidze, un compagno di Josif, ricordava: «Qualche volta leggevamo anche nella cappella durante il servizio divino, nascondendo i libri sotto i banchi. Naturalmente dovevamo stare molto attenti per non farci sorprendere dai maestri. I libri erano gli amici inseparabili di Josif: non li lasciava neppure durante i pasti». Nel novembre del 1896, sui registri disciplinari del seminario apparve la seguente nota di biasimo redatta da uno dei monaci: «Risulta che Giugashvili è in possesso di una tessera della libreria economica dalla quale prende volumi in prestito. Oggi gli ho sequestrato I lavoratori del mare di Hugo, nel quale ho trovato la tessera in questione». Il rettore mise il suo visto alla nota e aggiunse: «Che sia chiuso nella cella di punizione per un lungo periodo. L'ho già ammonito una volta per un libro interdetto, Il '93 di Hugo». Josif Vissarionovic non nascondeva più la natura dei suoi interessi. Quattro mesi dopo la severa nota di biasimo della quale abbiamo appena riferito, nel marzo del 1897, ne ebbe un'altra. «Alle undici di sera» era scritto nel registro dei provvedimenti disciplinari «ho sequestrato a Josif Giugashvili L'evoluzione letteraria delle nazioni del Letourneau, libro preso a prestito dalla biblioteca itinerante. Giugashvili è stato sorpreso mentre leggeva sui gradini della cappella. Questa è la tredicesima volta che lo studente in questione viene sorpreso a leggere libri presi in prestito dalla biblioteca economica. Il volume è stato consegnato al padre ispettore». Chiosa del rettore: «Chiuderlo nella cella di rigore per un lungo periodo e con un ammonimento severo». Le trasgressioni del giovane seminarista non si limitavano però soltanto alle letture proibite: Josif Vissarionovic aveva aderito a un gruppo di protesta clandestino che si era costituito all'interno del seminario e a un'organizzazione segreta socialista di Tiflis, il Messame Dossi. Messame Dossi significa letteralmente «terzo gruppo» e l'organizzazione si chiamava così per distinguerla dal Piriveli Dossi o «primo gruppo» una vecchia associazione di aristocratici progressisti georgiani che si erano battuti, a loro tempo, per l'abolizione della servitù della gleba; c'era stata anche una Meori Dossi, «secondo gruppo», organizzazione di intellettuali liberali progressisti che aveva operato negli anni intorno al 1880. Il Messame Dossi era stato fondato nel 1893 da patrioti georgiani i quali avvertivano accanto alle istanze di tipo nazionalistico forti motivazioni Ivan Lantos
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socialiste. Tra i promotori c'erano Noè Jordania, Georgij Chkheidze e Georgij Tseretelli a costoro, destinati a diventare famosi anche oltre i confini della Georgia come esponenti del socialismo moderato, s'era aggiunto anche Silvester Gibladze, espulso da seminario per aver aggredito il rettore Pavel Ciudeskij poi ucciso da un altro studente. Il Messame Dossi pubblicava anche un proprio giornale, Kvali (Il solco). Noè Jordania, nel 1936, esule a Parigi, raccontò quello che dovette essere il primo incontro di Josif Vissarionovic Giugashvili con il gruppo dei socialdemocratici. Nella redazione di Kvali si presentò un giovanotto dai lunghi capelli neri e il viso segnato dal vaiolo. Era il futuro Stalin che offriva il suo aiuto. Jordania era ben disposto ad accettare la collaborazione del giovane, volle tuttavia accertare il suo grado di preparazione storica, politica, economica e sociologica. Le poche e lacunose nozioni che Josif Vissarionovic dimostrò di possedere erano frutto di una sola fonte di letture, Kvali per l'appunto. Era un po' poco per intraprendere la rischiosa carriera di agitatore politico. «Era difficile poterlo utilizzare in quelle condizioni» disse Jordania. «I nostri operai erano curiosi e avidi d'imparare. Quando si fossero resi conto dell'impreparazione del propagandista si sarebbero rifiutati d'ascoltarlo. Consigliai perciò al giovanotto di non abbandonare il seminario e di approfondire nel frattempo la sua preparazione». Gli iniziatori e maestri del futuro Stalin furono Sascia Tsulukidze e Lado Ketskhoveli. Sascia Tsulukidze aveva soltanto ventidue anni, ma già godeva nel movimento di un notevole prestigio. Era un letterato ed era costretto a smorzare la sua ansia d'attivismo a causa della tubercolosi che gli devastava i polmoni e che nel giro di qualche anno doveva ucciderlo. Si sfogava così scrivendo articoli e saggi sui giornali progressisti georgiani, facendosi apprezzare per la vasta cultura e per lo stile chiaro. Lo sfortunato Tsulukidze aveva anche redatto uno scrupoloso compendio delle opere economiche di Marx. Lado Ketskhoveli, uno degli ottantasette studenti espulsi nel 1894 dal seminario di Tiflis, era un uomo più pratico e il ruolo che si era scelto nel movimento era quello del proselitismo. Dopo l'allontanamento dal seminario era andato a Kiev dove aveva potuto approfondire l'esperienza socialista grazie anche a contatti con i compagni di Pietroburgo e con i leader esiliati in Inghilterra, in Francia e in Svizzera. Era tornato a Tiflis più consapevole e maturo deciso a rimuovere le remore provinciali che Ivan Lantos
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frenavano l'azione dei compagni suoi concittadini. Fu lui che intuì l'importanza di dar vita a una stampa clandestina. «La stampa locale di ispirazione semisocialista e semiliberale non poteva essere di alcuna utilità» scrive a questo proposito Isaac Deutscher «i redattori di questi giornali, infatti, dovevano continuamente guardarsi alle spalle, pesare attentamente ogni parola che scrivevano, sottoporre ogni articolo alla censura zarista. Una propaganda di tal genere, timida e flebile, non poteva convincere nessuno, non poteva condurre a nulla. Era necessario che essi, i rivoluzionari della nuova generazione, si svincolassero dalla schiavitù della censura: occorreva, cioè, una stampa clandestina. E appunto verso questi problemi pratici Ketskhoveli indirizzò la mente di Giugashvili, quando questi divenne membro del Messame Dassi». Dopo un breve quanto intenso periodo di istruzione teorica, Sascia Tsulukidze e Lado Ketskhoveli spedirono in campo Josif Vissarionovic affidandogli la direzione di alcuni circoli di studio per operai. «Gli toccava tenere lezioni di socialismo a piccoli gruppi di muratori, calzolai, tessitori, tipografi, addetti alla lavorazione del tabacco, conducenti di tram a cavalli» ricorda Isaac Deutscher. L'organizzazione si serviva di studenti come lui per diffondere le teorie socialiste tra il proletariato che, a causa dell'analfabetismo, non poteva leggere gli opuscoli e i libri. Le lezioni erano clandestine e venivano tenute nei miserabili alloggi degli stessi operai, in piccole stanze sovraffollate, piene di tanfo, annebbiate dal fumo denso del tabacco dei poveri, la micidiale makorka, con i nervi tesi per il timore che il compagno lasciato fuori della porta a fare da «palo» annunciasse l'arrivo della polizia zarista. Non si trattava certamente dell'azione rivoluzionaria alla quale legittimamente con l'intemperanza caratteristica dell'età avrebbe potuto aspirare un giovane, tuttavia Josif Vissarionovic Giugashvili si sentiva sufficientemente gratificato dal suo compito che lo collocava in una posizione di prestigio. Estremamente problematici si presentavano alla sua coscienza i rapporti con i superiori del seminario. Non si preoccupava certo di dover assumere un atteggiamento ipocrita e accondiscendente che considerava una giusta risposta al regime di spionaggio e di delazione instaurato dai monaci. Lo angosciava semmai il timore di essere scoperto ed espulso: un lusso questo che non si poteva permettere. La permanenza in seminario gli consentiva infatti di avere, oltre all'istruzione, vitto, alloggio, abiti. Se ne fosse stato allontanato sarebbe stato costretto a trovarsi un lavoro e non Ivan Lantos
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avrebbe potuto aspirare ad altro che a un posto da operaio o da modestissimo impiegato, in alternativa avrebbe potuto farsi mantenere dalla madre. Ma nessuna di queste soluzioni lo attraeva; quanto all'organizzazione essa era troppo povera per mantenerlo. «Egli era figlio di gente appena uscita dalla servitù della gleba» scrive Isaac Deutscher «e, benché ora lavorasse per trasformare la vita di tutto un popolo, aveva pur sempre ereditato, almeno in parte, quell'immobilità e quell'inerzia proprie dei contadini, nate nel timore di qualsiasi mutamento. Era vero che per rimanere nel seminario era necessario sorvegliarsi e dissimulare costantemente; ma, fin da fanciullo, egli si era esercitato in queste arti, che ormai erano per lui una seconda natura». La situazione però s'andava facendo sempre più difficile da sostenere. Spesso le due nature di Josif Vissarionovic, quella portata palesemente alla ribellione e quella ipocrita, entravano in conflitto e, sovente, aveva la meglio la prima. Una delle ultime annotazioni del registro di disciplina del seminario che lo riguarda porta la data del 16 dicembre 1898 e dice: «Nel corso di una perquisizione degli studenti della quarta classe, condotta dai membri della commissione di supervigilanza, Josif Giugashvili cercò parecchie volte di attaccare una discussione con loro protestando per le ripetute perquisizioni degli studenti e dichiarando che tali perquisizioni non erano mai effettuate negli altri seminari. Giugashvili è solitamente poco rispettoso e villano con le persone che godono d'autorità e sistematicamente si rifiuta di fare l'inchino a uno dei professori come ha più volte riferito il docente alla commissione di supervigilanza». Il 29 maggio 1899, Josif Vissarionovic Giugashvili uscì per sempre dal seminario di Tiflis. Perché? «Ufficialmente» scrive Emilian Jaroslavskij «il compagno Stalin fu espulso dal seminario in quanto non aveva pagato la retta e aveva disertato gli esami per motivi non chiari». Diversa la versione dell'altro biografo di Stalin, Josif Iremashvili, il quale sostiene che Josif Vissarionovic decise di lasciare il seminario un anno prima del termine degli studi perché s'era disgustato. Colui che era stato il più brillante dei seminaristi era diventato il peggiore: studiava sempre meno, il minimo indispensabile per passare da una classe a quella superiore e i suoi voti diventavano sempre più scadenti; rispondeva con strafottenza e disprezzo alle rimostranze dei monaci. Insomma non ne poteva più. Ma anche mamma Keke volle dire la sua. «Fui io a portarlo a casa per Ivan Lantos
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motivi di salute» dice Ekaterina Giugashvili. «Quando era entrato in seminario era robustissimo. Ma il troppo lavoro fino a diciannove anni lo indebolì e c'era il pericolo che potesse ammalarsi di tubercolosi. Perciò lo portai via dalla scuola. Lui non voleva andarsene, ma io lo portai via. Era il mio unico figlio». Quanto alla versione di Stalin, egli la fornì qualche anno dopo, quando rispondendo a un questionario del partito comunista, scrisse: «Espulso da un seminario teologico per aver svolto propaganda marxista». Quale che sia la verità, non si può ignorare quanto scrive Josif Iremashvili: «Uscì dal seminario portando in sé un odio feroce contro l'amministrazione religiosa, contro la borghesia e contro tutto ciò che nel paese rappresentava lo zarismo».
CAPITOLO III ESORDIO RIVOLUZIONARIO «Sono diventato marxista grazie, per così dire, alla mia condizione sociale. Mio padre era infatti operaio in un calzaturificio e operaia era mia madre. Ma anche perché sentivo le prime avvisaglie minacciose della rivolta nell'ambiente che mi circondava, al livello sociale dei miei genitori, infine a causa dell'intolleranza rigorosa e della disciplina gesuitica che imperversavano nel seminario ortodosso in cui trascorsi alcuni anni». Così, alcuni lustri più tardi, Stalin giustificò la sua metamorfosi da prete mancato a socialista militante. «Io sono stato e sono ancora un discepolo degli operai pionieri delle officine ferroviarie di Tiflis» diceva ancora. «Ricordo l'anno 1898, quando, per la prima volta, i lavoratori delle officine ferroviarie mi affidarono la direzione di un circolo. Mi ricordo bene come, nelle stanze del compagno Sturua, alla presenza di Gibladze, che fu allora uno dei miei maestri, di Ninua e di altri operai progressisti di Tiflis, imparai il lavoro pratico». Una piccola andata della rivoluzione industriale aveva investito anche Tiflis. Vladimir Ilic Uljanov, l'allora poco conosciuto Lenin, non ancora trentenne, aveva così descritto le condizioni socio-economiche della regione caucasica: «Il paese, scarsamente popolato negli anni posteriori alla riforma, abitato da montanari, ignari degli sviluppi dell'economia mondiale, ignari perfino della storia, andava trasformandosi in un paese di Ivan Lantos
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petrolieri, di mercanti di vino, di industriali del tabacco e del grano». Consistenti apporti di capitale francese e inglese contribuirono allo sviluppo dell'industria petrolifera a Batum e Baku e la scoperta, a Ciaturi, di imponenti giacimenti di manganese fece nascere e prosperare l'industria mineraria. «Nel 1886-87 il valore complessivo della produzione industriale di due regioni georgiane, quelle di Tiflis e di Kutaisi, ammontava appena a dieci milioni di rubli» scrive Isaac Deutscher. «In capo a quattro anni questo valore fu più che triplicato. Nel 1891-92 raggiungeva trentadue milioni di rubli. Nello stesso periodo il numero dei lavoratori industriali passava da dodicimila a ventitremila, senza contare i ferrovieri. Tiflis era il principale nodo ferroviario sulla linea che congiungeva la costa del Caspio col mar Nero, Baku con Batum. Le officine ferroviarie divennero la principale industria della stessa Tiflis, nonché il ganglio più importante del movimento operaio del Caucaso che cominciava a formarsi clandestinamente». In quelle officine Josif Vissarionovic Giugashvili conobbe il fabbro Sergei Alliluiev e il tornitore Michail Kalinin destinati a lasciare ricordo di sé nella storia del movimento rivoluzionario. Qualche anno prima avrebbe potuto incontrarvi il manovale Aleksei Peskov entrato nella storia della letteratura mondiale con il nome di Maksim Gorkij. Il movimento dei lavoratori stava acquistando in tutta la Russia una fisionomia ben definita: i circoli operai d'avanguardia clandestini, i kruziki, si davano un'organizzazione e una direzione politico-strategica. «A Minsk ebbe luogo una riunione ristretta di nove delegati che si definì audacemente: Congresso del partito socialdemocratico operaio russo» scrive Boris Souvarine. «In una provincia dell'Ucraina, vicino a Nikolaev, un adolescente dell'età di Soso aveva già subito un arresto e, trasferito di carcere in carcere, era in attesa della deportazione in Siberia: si trattava del futuro Trotskij. Nella Siberia orientale, un deportato di ventinove anni stava lavorando a un'opera documentata sullo sviluppo del capitalismo in Russia, scriveva un saggio sul "romanticismo economico" di Sismondi, traduceva la Storia del tradunionismo di Sydney e Beatrice Webb: si trattava del futuro Lenin». Quanto al futuro Stalin, studente espulso dal seminario teologico di Tiflis, trascorse i primi sei mesi, dopo l'allontanamento dalla scuola, a casa della madre, a Gori. Ma non poteva rimanerci a lungo: Ekaterina non era in grado di mantenerlo nell'ozio e, a Tiflis, si reclamava la sua presenza Ivan Lantos
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nell'organizzazione. Tornò a Tiflis con l'assillo di trovare un posto di lavoro che gli consentisse di percepire uno stipendio seppure modesto. Non era un'impresa facile, anche perché Josif Vissarionovic non aveva alcuna intenzione di rassegnarsi a fare l'operaio. Grazie all'aiuto dei compagni trovò ospitalità in casa d'un ferroviere membro dell'organizzazione e la maniera di guadagnare qualche rublo impartendo lezioni private a figli di borghesi agiati. Tra i suoi allievi ci fu certamente Semion Ter Petrosian, armeno originario di Gori, al quale non fece soltanto ripetizione delle materie scolastiche. Lo iniziò anche alla dottrina marxista e con successo: Semion Ter Petrosian, qualche anno dopo, divenne uno dei più audaci rivoluzionari terroristi della Georgia con il nome di battaglia di Kamo. Alla fine del 1899, presso l'Osservatorio geofisico di Tiflis si rese vacante un modesto posto d'impiegato. Josif Vissarionovic Giugashvili, su segnalazione e consiglio di Lado Ketskhoveli il fratello minore del quale, Vano, lavorava già all'osservatorio, presentò domanda d'assunzione. La domanda venne accolta. L'impiego, s'è detto, era di poco conto e lo stipendio irrisorio, ma il posto offriva alcuni vantaggi non irrilevanti: il lavoro non era impegnativo, Josif aveva una stanza tutta per s'è e la sorveglianza in pratica non esisteva. Dopo l'atmosfera da convento e da penitenziario della scuola teologica, Josif Vissarionovic poteva finalmente assaporare il piacere dell'indipendenza e dell'isolamento; nella sua stanza poteva tenere qualche riunione e, come afferma Isaac Deutscher, «sperare che lo schermo rispettabile dell'osservatorio l'avrebbe protetto, almeno per un po' di tempo, dagli occhi della polizia», la famigerata Okrana. La polizia segreta esisteva, in Russia, fino dai tempi di Ivan il Terribile, nel XVI secolo, ma soltanto nel 1881, dopo l'assassinio dello zar Alessandro II, ucciso da terroristi politici, venne istituito il servizio di sicurezza che prese il nome di Okrana, sinonimo di oscure delazioni, di interrogatori e sevizie, di repressione spietata, di esecuzioni sommarie e di deportazioni. L'Okrana agiva alle dirette dipendenze del ministero degli interni di Mosca e all'organizzazione poliziesca facevano capo tutti i servizi di informazione, spionaggio e controspionaggio su tutto il territorio dell'impero zarista che comprendeva, allora, anche la Finlandia e la Polonia. Ivan Lantos
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A Parigi era stato istituito un «ufficio estero» dell'Okrana che aveva giurisdizione sui paesi dell'Europa occidentale, del Medioriente, dell'America del Nord e su ogni angolo di mondo dove ci fosse il sospetto di attività clandestine antizariste. Al servizio dell'Okrana erano assoldate spie, agenti provocatori e doppiogiochisti. Non c'era organizzazione clandestina che non fosse stata infiltrata da agenti dell'Okrana e, spesso, dietro un acceso rivoluzionario, si nascondeva una spia della polizia segreta. «Il più famoso doppiogiochista» scrive H. Montgomery Hyde «fu Jevno Azev, un venditore di burro che, dopo un periodo di latitanza, entrò nell'Okrana e organizzò un certo numero di attentati terroristici importanti, compreso l'assassinio dell'odiato ministro degli interni Plehve, mentre nello stesso tempo forniva alla polizia segreta molte informazioni sui suoi compagni rivoluzionari. L'Okrana talvolta faceva a bella posta ad arrestare un suo agente e lo metteva in carcere o lo esiliava in Siberia per stornare i possibili sospetti da parte dei rivoluzionari nei confronti dei quali l'agente aveva compiuto le delazioni». Alcuni biografi, tra i quali Isaac Don Levine, Alexander Orlov e Edward Ellis Smith, hanno avanzato l'ipotesi che, fino alla rivoluzione, Josif Vissarionovic avesse collaborato con l'Okrana. Edward Ellis Smith, nel suo Stalin giovane, deduce l'attività d'infiltrato di Josif Gingashvili dall'esame di una serie di documenti, dalla valutazione delle date dei suoi spostamenti, da considerazioni sulla facilità con la quale il giovane rivoluzionario, ufficialmente braccato dalla polizia, riuscì a sfuggire diverse volte alla cattura o a evadere. Negli anni '40 cominciò a circolare una lettera che venne riprodotta, nel 1956, sulla rivista americana Life a cura di Isaac Don Levine la quale dimostrerebbe in maniera ine quivocabile il tradimento di Josif Vissarionovic Giugashvili. Sarebbe stata scritta, nel 1913, dal colonnello dell'Okrana di Tiflis, Aleksandr Mikhailovic Eremin, a un suo collega. Eccone il testo: «Caro Aleksei Fedorovic, Josif Vissarionovic GiugashviliStalin, che è stato esiliato d'autorità nella regione di Turuchansk, dopo il suo arresto nel 1906, fornì importanti informazioni delatorie al capo della gendarmeria di Tiflis. Nel 1908 il capo dell'Okrana di Baku ebbe da Stalin una serie di rapporti spionistici e in seguito, dopo il suo arrivo a Pietroburgo, Stalin diventò un agente dell'Okrana di quella città. Il lavoro di Stalin era notevole per l'accuratezza, ma frammentario. Dopo la sua Ivan Lantos
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elezione nel comitato centrale del partito a Praga, e il suo ritorno a Pietroburgo, si pose in aperta opposizione al governo e si staccò definitivamente dall'Okrana. Vi informo, caro signore, perché vi sappiate regolare nel vostro lavoro. Con la mia massima stima, Eremin». Diversi storici e tra questi alcuni certamente non sospetti di simpatia o di facile condiscendenza verso Stalin e il bolscevismo, negano l'autenticità del documento. Edward Ellis Smith, per esempio, sostiene che esso contiene strani errori; uno di essi riguarda il destinatario, cioè il capitano Zelezniakov il quale si chiamava Vladimir Fedorovic e non Aleksandr. È dubbio il riferimento all'arresto del 1906, così come appare strano quello allo pseudonimo Stalin che non figura in nessun rapporto di polizia dell'epoca. Tuttavia, sempre sul numero del 23 aprile 1956 della rivista Life, c'è la testimonianza di Aleksandr Orlov, ex ufficiale della polizia segreta bolscevica, il quale riferisce della sensazionale scoperta fatta frugando tra i documenti della polizia segreta zarista. «C'erano rapporti e lettere scritte a mano» dice Orlov «la calligrafia era quella ben nota del dittatore, indirizzate al capo della polizia segreta Vissarionov. La pratica cioè riguardava non uno Stalin rivoluzionario bensì uno Stalin agente provocatore che aveva lavorato assiduamente per la polizia segreta degli zar. Benché fosse evidente che i documenti erano autentici, furono fatti tutti gli esami e le analisi per accertare la qualità e l'invecchiamento della carta e l'autenticità della scrittura. Non rimase nemmeno la più pallida ombra di dubbio: Josif Stalin era stato per molto tempo una spia zarista e lo era ancora nel 1913. Il fascicolo non conteneva soltanto i rapporti delatori di Stalin, ma rivela anche che egli si era intensamente prodigato per far carriera nelle file dell'Okrana». Per quanto riguarda un giudizio obiettivo su questo aspetto oscuro e inquietante della vita di Stalin, è opportuno sottolineare che gli elementi dei quali si dispone sono indizi e non prove. Ai posteri dunque il beneficio del dubbio. Durante i primi mesi trascorsi nell'osservatorio, Josif Vissarionovic lavorò intensamente, insieme con alcuni compagni, per preparare la prima grande dimostrazione del 1 ° maggio nel Caucaso. Scopo della manifestazione era provare la solidarietà verso i lavoratori del resto d'Europa e misurarsi con le forze dell'ordine. Si trattò, tuttavia, di una prova poco riuscita: vi parteciparono circa cinquecento operai i quali si Ivan Lantos
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radunarono insieme con i capi del movimento sulle rive del lago Salato, alla periferia di Tiflis, cioè in una località di scarso interesse per la polizia. C'era anche la coreografia (poi divenuta consueta) delle bandiere rosse e dei grandi cartelli portati a mano sui quali campeggiavano i ritratti (in quell'occasione eseguiti a mano in maniera naive) di Marx e Engels. «Quella modesta riunione» commenta Isaac Deutscher «assomigliò piuttosto a una processione religiosa, in cui il posto delle icone ortodosse fosse stato preso dalle effigi dei padri del comunismo». Ma qual era la condizione del movimento marxista in Russia in quell'anno di inizio secolo? Il socialismo marxista era, per la Russia, una scoperta abbastanza recente. Quasi fino al 1890 le idee di giustizia ed equità sociale erano state propagandate dai populisti, i narodniki, i quali perseguivano una specie di socialismo agrario piuttosto primitivo. La grande aspirazione dei narodniki era di evitare «le calamità dell'industrialismo affaristico moderno» proponendo, in alternativa, un socialismo fondato sul mir o sull'obshcina, cioè sulla primitiva comunità rurale sopravvissuta nelle campagne. I narodniki perseguivano l'ideale di un socialismo slavo e agricolo, in aperto dissenso da quello internazionalista e industriale dei rivoluzionari dell'Europa occidentale. Nel 1879, proprio nell'anno di nascita di Josif Vissarionovic Giugashvili, durante un congresso segreto dei narodniki, si produsse nelle file del movimento (la riunione si tenne a Voronez) una insanabile scissione. Da una parte si schierarono gli «ortodossi», fedeli alle idee originali dei narodniki, dall'altra coloro che si riconoscevano nel socialismo industriale di tipo occidentale; costoro erano guidati da Georgij Plekhanov, intelligente divulgatore della filosofia e della sociologia marxiste, maestro di Lenin e di tutta una generazione di rivoluzionari russi. Plekhanov aveva intuito, forse con troppo anticipo per trovare largo credito, che l'industrialismo capitalista stava per sostituire, in Russia, la struttura patriarcale-feudale e questa metamorfosi avrebbe finito col cancellare quelle primitive comunità rurali (il mir e l'obshcina) sulle quali i narodniki fondavano le loro speranze di riscossa. Ma la polemica tra narodniki e marxisti non si esauriva nella divergenza di valutazione politica, investiva e in modo pesantissimo anche i metodi di lotta: i primi, vista l'impossibilità di dar vita a un'insurrezione contadina, avevano optato per il «terrorismo individuale» (l'assassinio dello zar Ivan Lantos
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Alessandro II, nel 1881, avrebbe dovuto esserne il momento culminante). I marxisti rifiutavano invece i metodi terroristici: secondo loro bisognava attendere ed educare le masse a diventare proletariato attivo, aspettare che lo sviluppo industriale producesse un grande esercito di operai in grado di rovesciare il sistema. «Frattanto» dice Isaac Deutscher «essi potevano soltanto far propaganda, arruolare i proseliti del socialismo e organizzare gruppi sparsi di persone unite dalla medesima fede». Georgij Plekhanov aveva visto giusto. Nel 1894 (anno dell'ingresso di Josif Vissarionovic Giugashvili nel seminario teologico di Tiflis), il giovane Lenin sferrò un duro attacco contro i narodniki, Chi sono gli amici del popolo?. Per i seguaci del vecchio e superato movimento populista era l'inizio della fine. Ma i dissidi non mancavano neppure in campo marxista ed erano destinati a produrre lacerazioni profonde. Da una parte si erano schierati i cosiddetti «marxisti legali», coloro cioè, in gran parte sociologi ed economisti, i quali si fermavano a una teorizzazione del marxismo, si preoccupavano di non urtare eccessivamente la suscettibilità delle autorità, cercavano di non attirare su di sé l'attenzione della censura. Tra costoro figuravano: Petr Struve, M.T. Tugan-Baranovskij e S. Bulgakov (omonimo dell'autore di Il maestro e Margherita). Sull'altro fronte si ritrovavano i giovani decisi a preparare concretamente il terreno alla rivoluzione, essi agivano e rischiavano in una continua sfida alle autorità. Si ispiravano alle idee di lotta di Herzen, Bakunin, Tkacev e di Lavrov. Nel 1898, a Minsk, la polizia fece irruzione nei locali dove s'erano riuniti i delegati. Georgij Plekhanov dovette andare in esilio, Lenin fu condannato alla deportazione. Per tre anni attese, in un villaggio sperduto della Siberia nord-orientale, nella provincia dello Jenissei, a cinquecento chilometri dalla stazione ferroviaria più vicina, che la condanna avesse termine. Le opere scritte durante la deportazione lo avevano reso famoso non soltanto in Russia, ma in tutto il mondo, tuttavia, come sottolinea Isaac Deutscher, «l'esule non era soddisfatto del successo letterario: lo divorava l'ansia di fare qualcosa per costruire un vero partito socialista». Nel 1900, liberato, Lenin si ricongiunse con i compagni esuli, a Monaco di Baviera, insieme con Plekhanov, Akselrod e Vera Zazulic fondò l'Iskra (La scintilla), giornale del partito socialdemocratico operaio. «La redazione» ricorda Boris Souvarine «nell'affermare la continuità della tradizione rivoluzionaria russa, poneva come epigrafe le parole che i Ivan Lantos
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martiri decabristi (autori di un fallito tentativo rivoluzionario nel dicembre del 1825) indirizzarono a Puskin: Dalla scintilla divamperà la fiamma». Il primo numero di Iskra fu pubblicato a Stoccarda, la dichiarazione introduttiva e l'articolo d'apertura erano di Lenin. In breve tempo il modesto giornale dei rivoluzionari esuli divenne il punto di riferimento dei socialisti russi. Per vie misteriose esso giungeva anche a Tiflis e l'arrivo di un nuovo numero «rappresentava un avvenimento solenne». Tra i lettori più avidi c'era Josif Vissarionovic Giugashvili. Iskra era la fonte che alimentava il pensiero e forniva solidi argomenti per il dibattito con i compagni e gli avversari. Nel corso della manifestazione del 1° maggio 1900, Josif Vissarionovic pronunziò il suo primo discorso pubblico; altri oratori si avvicendarono su un piccolo palco improvvisato. Poi, al canto di inni socialisti, la riunione ebbe termine. I partecipanti si allontanarono alla chetichella. La majevka (così si chiamava in russo quel genere di manifestazione) non ebbe conseguenze clamorose, né gli organizzatori, Giugashvili, Vano Sturua, Sergei Alliluiev e Mikho Bocioridze, se ne aspettavano. Accadde tuttavia che qualche operaio fosse licenziato per aver preso parte alla majevka. La risposta dei socialdemocratici non si fece attendere: un'ondata di scioperi bloccò l'apparato produttivo di Tiflis. Nel movimento c'era anche chi era contrario, il Messame Dossi era diviso: Noé Jordania guidava l'ala moderata che contestava diverse richieste dei lavoratori in lotta e particolarmente quella relativa all'abolizione del lavoro straordinario che, secondo i più oltranzisti danneggiava la salute degli operai, incrementava la disoccupazione e contribuiva ad abbassare il livello dei salari di base. Lo sciopero più imponente fu quello dell'agosto 1900: quattromila operai incrociarono le braccia nelle officine ferroviarie; erano guidati da Michail Kalinin, divenuto, successivamente, presidente del Presidium sovietico. Per dare un sostegno ideologico alle lotte dei lavoratori era giunto a Tiflis Victor Kurnatovskij, ingegnere chimico, già esponente del movimento dei narodnikì, convertitosi poi al marxismo leninista. Di Lenin, con il quale aveva condiviso un lungo periodo d'esilio, era grande amico e, nella capitale georgiana; era stato mandato da Lenin stesso come suo rappresentante personale. «L'arrivo di Kurnatovskij» scrive Isaac Deutscher «impresse un improvviso impulso al socialismo di Tiflis. Amico e ammiratore di Lenin deve certamente aver parlato ai compagni georgiani del condottiero Ivan Lantos
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lontano, delle sue idee e dei suoi progetti. L'emissario di Lenin, del resto, viene rappresentato da tutte le fonti come una personalità ricca di ascendente. Più tardi divenne un eroe leggendario della rivoluzione del 1905. Giugashvili ne fu profondamente impressionato, ma per Kurnatovskij egli rimase soltanto un fidato componente del gruppo di dirigenti locali e niente altro: non risulta, infatti, che vi siano stati legami più stretti fra i due uomini». Tutti gli sforzi dei socialisti di Tiflis erano concentrati per un unico scopo: organizzare un 1° maggio 1901 che restasse memorabile nella storia del movimento operaio. Ovviamente la polizia ne era al corrente, vigilava e prendeva provvedimenti. Josif Vissarionovic Giugashvili era nel centro del mirino dell'Okrana. Il compagno Georgi Ninua gli trovò un nascondiglio abbastanza sicuro in una casa della città, altri gli davano da mangiare, le sue assenze dall'osservatorio incominciarono a farsi più frequenti. Appariva alle riunioni all'improvviso e nessuno sapeva da dove venisse, era sempre accompagnato da due o tre compagni, uno dei quali aveva il compito di far da sentinella vicino alla porta del locale. Parlava brevemente e quando aveva terminato spariva velocemente. Il 1 ° maggio s'avvicinava. Era stato diffuso un volantino che suonava come una sfida violenta e sfrontata alle autorità. «I lavoratori di tutta la Russia» era scritto «hanno deciso di celebrare il primo maggio apertamente, nelle strade principali di Tiflis. Essi dicono fieramente alle autorità che le fruste e le sciabole dei cosacchi, la tortura della polizia e della gendarmeria non bastano a incutere in loro il terrore». Per l'Okrana era davvero troppo. Nella notte tra il 21 e il 22 marzo ci fu una vasta operazione di rastrellamento: tutti gli edifici di Tiflis nei quali si sospettava fosse rifugiato un sovversivo vennero accuratamente perquisiti. Le autorità irritate e, forse, spaventate; avevano deciso di decapitare il movimento rivoluzionario. Vennero messe ai ferri cinquanta persone tra le quali Noé Jordania, Silvester Gibladze e lo stesso Victor Kurnatovskij. Josif Vissarionovic Giugashvili invece sfuggì alla cattura. Eppure l'osservatorio era stato messo sottosópra dagli zelanti e infallibili segugi dell'Okrana. Trovarono infatti Vaso Berdzenishvili, collega di Josif. Perquisirono accuratamente la sua stanza e vi sequestrarono una notevole quantità di opuscoli d'ispirazione marxista. Si fecero poi mostrare la camera di Josif Vissarionovic, nella quale, nonostante avessero perfino sventrato i materassi, secondo la testimonianza dello stesso Berdzenishvili, Ivan Lantos
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non trovarono nulla. Stranamente Vaso Berdzenishvili non venne arrestato. Rimase nell'osservatorio messo a soqquadro ad aspettare il ritorno di Josif Vissarionovic. Questi era rientrato appena gli uomini della polizia erano andati via. Al collega aveva detto che avvicinatosi una prima volta s'era reso conto della presenza dei poliziotti e quindi s'era allontanato girovagando per le vie della città finché non era tornata la calma e non s'era liberata la via per rientrare nell'osservatorio. Secondo i biografi J. Fishman e J. Bernard Hutton, i fatti si svolsero un po' diversamente. Durante la perquisizione, Josif Vissarionovic Giugashvili sfuggì alla cattura non perché era fuori casa, ma perché era riuscito a eludere le ricerche dei gendarmi che frugavano l'edificio. Passando attraverso un lucernario, era sgusciato sul tetto e v'era rimasto acquattato finché la polizia non se n'era andata. Non c'è dato sapere quale sia la versione più attendibile sull'accaduto, una cosa tuttavia è certa: l'essere scampato all'arresto era una gran fortuna, ma la sicurezza di Josif per il futuro era irrimediabilmente compromessa. Il comando locale dell'Okrana aveva diramato un ordine di servizio nel quale era scritto tra l'altro di «ricercare e arrestare il detto Josif Giugashvili». Il terreno dunque scottava, restare nell'osservatorio significava mettersi in trappola con le proprie mani, ma non era ancora il momento di abbandonare Tiflis. La sfida del 1 ° maggio era un appuntamento al quale Josif non poteva mancare. Sarebbe rimasto ancora in città, si sarebbe mimetizzato e avrebbe cessato di esistere legalmente. Per prima cosa aveva bisogno di un rifugio sicuro e, dopo la grande retata della polizia, non era facile trovarlo, le case dove l'Okrana sospettava abitassero sovversivi sfuggiti al blitz del 21 marzo erano sorvegliate. D'altra parte, Josif aveva amici fidati soltanto tra i compagni di lotta. Gli venne in aiuto Alioscia Svanidze, già suo condiscepolo nel seminario teologico, membro attivo del Messame Dossi Alioscia aveva una zia, Ekaterina, una brava donna, georgiana all'antica, non coinvolta in alcun modo con le attività del nipote e dei suoi amici. L'anziana signora non esitò ad aprire le porte della sua casa a quello strano giovanotto dal volto butterato e dai penetranti occhi neri. Presso zia Ekaterina abitava anche la giovane sorella di Alioscia, si chiamava Ekaterina pure lei, ma tutti le si rivolgevano con il soprannome Keke. Aveva diciotto anni, era la tipica bellezza bruna georgiana, aveva un Ivan Lantos
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temperamento dolce e riservato che tuttavia non riusciva a dissimulare del tutto una sottile e penetrante sensualità. Non sappiamo che genere di vita sentimentale avesse avuto fino ad allora il giovane Josif Vissarionovic. Certamente i regolamenti severi e ipocriti del seminario non gli avevano consentito frequentazioni femminili e, in ogni caso, il tempo che gli era riuscito di sottrarre alle lezioni di teologia e alle preghiere l'aveva destinato totalmente all'impegno politico. Possiamo affermare dunque con certezza che fino a quel momento nella sua esistenza non c'era stato spazio per l'amore. Si può supporre verosimilmente che avesse potuto sfogarsi in frettolosi rapporti con qualche ospite di bordello (ma certamente non disponeva di denaro per potersi concedere frequentemente questo genere di compagnia) o con qualche servotta disinibita e disponibile a cedere al fascino dei suoi occhi neri, della sua parlantina suadente, del suo carattere un po' tenebroso. Keke Svanidze era la prima ragazza che Josif poteva frequentare. Gli era piaciuta subito, fisicamente attraente, lasciava intendere di essere stata allevata «nel sacro obbligo di servire» come tutte le brave georgiane, non diversamente da mamma Ekaterina la quale, per Josif, costituiva il modello ideale di donna. Bastarono poche settimane perché fosse chiaro che tra i due giovani era nato un sentimento destinato ad avere un qualche seguito. Ma quale? In circostanze normali, Keke, la quale era religiosissima e l'ateo Josif si sarebbero trovati davanti al pope per diventare marito e moglie secondo un rito al quale neppure il miscredente Josif avrebbe voluto rinunciare. Il futuro di Soso, così lo chiamava Keke, era oscuro, il suo destino quello di un clandestino braccato dalla polizia. A Keke non restava che pregare e sperare. L'amore non riuscì a distrarre Josif Vissarionovic dalle attività politiche: se una parte del suo cuore batteva per Keke, tutto il resto del suo corpo e del suo spirito era impegnato per la riuscita della manifestazione del 1 ° maggio. Era una giornata bellissima, faceva caldo e il sole splendeva in un cielo che sembrava di smalto. Nonostante la temperatura quasi estiva si potevano vedere per le vie di Tiflis frettolosi passanti imbacuccati in pelliccioni e pesanti cappotti di panno con in testa i colbacchi. Erano coloro che avrebbero guidato la sfilata. Lo strano abbigliamento era un ordine di Giugashvili, bizzarro ma non privo di logica. Sui capifila si Ivan Lantos
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sarebbero abbattuti i primi e più violenti colpi di frusta dei cavalieri cosacchi addetti all'ordine pubblico, pellicce, cappotti e colbacchi avrebbero attutito la violenza delle scudisciate. Una folla di duemila lavoratori (cinque volte più numerosa di quella dell'anno precedente) si riunì in Soldatski bazaar, non lontano dal giardino Alessandro, nel centro di Tiflis. La polizia e i cosacchi erano pronti ad attaccare. Sergei Alliluiev, testimone oculare della manifestazione, la ricorderà nelle sue memorie. «La polizia» scrive Alliluiev «si gettò sull'uomo che portava la bandiera rossa, ma questa fu passata di mano in mano. Tutte le volte che la polizia caricava, la bandiera ricompariva in un punto diverso della folla. Seguì una rissa sanguinosa. Le fruste dei cosacchi sibilavano nell'aria, le sciabole mandavano scintille sotto il sole, e i lavoratori rispondevano con sassi e bastoni. Fu uno scontro disperato. Molti operai vennero feriti, anche la polizia ebbe i suoi contusi». Alla fine degli scontri, dopo che la manifestazione si sciolse, il bilancio fu di quindici dimostranti feriti più o meno gravemente e di quindici arrestati. Josif Vissarionovic Giugashvili non era né tra gli uni né tra gli altri. Era incolume e libero, ma anche consapevole che quel 1° maggio chiudeva un ciclo della sua esistenza. Era venuto il momento di abbandonare Tiflis, la confortevole casa degli Svanidze e gli occhi scuri e i dolci sorrisi di Keke. Le promise di tornare per sposarla. Josif Vissarionovic Giugashvili cessava d'esistere legalmente. Al suo nome scritto nei registri dell'anagrafe e nell'elenco dei ricercati dalla polizia, sostituì quello di battaglia di Koba, antico eroe guerrigliero georgiano celebrato nei romanzi del poeta Aleksandr Quazbegi. Ma all'occorrenza si sarebbe potuto chiamare anche David Nizeradze, Josif Ivanovic, Budu Bosocvili, David Cizikov, Organess Totomianz, Muradiats, Lado Dumbadze, Papadzanian, Stefan Papadopulos, Piotr Galkin. Mille nomi per il nemico senza volto dell'odiato regime zarista, nascosto nelle ombre fitte della clandestinità dalle quali uscire per colpire e poi rientrarvi. L'eroe di una guerra spietata, continua, combattuta senza esclusione di colpi e senza regole, fino a che uno degli avversari non avesse riportato la vittoria. Se l'esito della «battaglia» del 1° maggio non fu lusinghiero, tuttavia estremamente significativo suona il commento che su Iskra venne redatto personalmente da Lenin: «Ciò che è avvenuto a Tiflis è un fatto Ivan Lantos
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d'importanza storica per tutto il Caucaso: quel giorno ha segnato l'inizio di un aperto movimento rivoluzionario nel Caucaso».
CAPITOLO IV IL CLANDESTINO L'epoca della clandestinità, destinata a durare per Josif Vissarionovic fino al 1917, incominciò, secondo alcuni biografi, con un episodio che di eroico aveva proprio poco. Fuggito da Tiflis, Koba (useremo spesso questo suggestivo nome di battaglia) aveva trovato un rifugio sicurissimo in uno sperduto villaggio sulle montagne nelle vicinanze di Gori: pochi casolari e una baita tra i vigneti, di proprietà di un suo amico. Koba fu costretto ad abbandonare precipitosamente la baita per un motivo che non aveva niente a che fare con la politica. «Uno degli abitanti del villaggio» riferiscono J. Fishman e J. Bernard Hutton «aveva scoperto che Koba non solo era stato l'amante di sua moglie, ma aveva anche violentato la sua giovanissima sorella di quattordici anni. Il malcapitato paesano avrebbe voluto consegnare il fuggiasco nelle mani della polizia, ma poi l'affare si concluse soltanto con una ragguardevole dose di legnate». Uno dei primi atti compiuti da Koba nella clandestinità fu la fondazione di un giornale illegale in lingua georgiana: il primo numero del giornale, intitolato Brdzola (La lotta), uscì nel settembre del 1901. «Brdzola era il primo giornale libero, poiché realizzava la libertà dalla censura» scrive Isaac Deutscher. «Veramente caratteristica era la modestia politica dei redattori. Essi dichiaravano esplicitamente di non voler iniziare nessuna politica propria, poiché il socialismo georgiano doveva far parte del movimento operaio di tutta la Russia. Perciò la loro condotta si sarebbe inevitabilmente subordinata a quella dei capi del socialismo dell'impero zarista. Anche questo era un colpo di spillo alla maggioranza del Messame Dassi, la quale propugnava invece la creazione di un partito georgiano indipendente, federato col partito russo, ma non subordinato ad esso». Nel secondo numero di Brdzola c'era un lungo saggio intitolato «Il partito socialdemocratico russo e i suoi compiti immediati», non era firmato, ma l'autore era Josif Giugashvili. Vi si riprendevano concetti fondamentali più volte espressi da Lenin sulle pagine di Iskra; l'articolo di Ivan Lantos
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Giugashvili era una specie d'atto di riconoscimento di paternità ideologica nei confronti di Lenin e vi si ribadiva il principio di stretta dipendenza politica del partito georgiano da quello russo. Per il resto la vita di Koba si svolgeva con una certa monotonia, tra riunioni clandestine, giorni passati in nascondigli segreti a leggere, a scrivere e a progettare la rivoluzione prossima ventura. I suoi movimenti, per quanto cauti, non sfuggivano alla polizia, tanto che in un rapporto si legge: «La domenica del 28 Ottobre, alle nove di mattina, in via della Stazione, ha avuto luogo una riunione d'operai d'avanguardia delle ferrovie, con la partecipazione dell'intellettuale Josif Giugashvili». «Altre denunce e ulteriori informazioni» scrive il biografo Boris Souvarine «si riferiscono ai suoi spostamenti, alla sua corrispondenza e segnalano la sua estrema prudenza». Perché, viene fatto di chiedersi, se la polizia lo controllava così scrupolosamente e da vicino non lo ha mai arrestato? Perché non condivideva il destino degli altri sovversivi come lui? Nasce, da queste domande che non trovano una risposta precisa, il sospetto che le accuse mosse da qualcuno di connivenza e collaborazione con l'Okrana possano avere qualche fondamento. Oppure, come affermano i suoi apologeti, Koba era davvero una specie di abilissima «primula rossa» del Caucaso? L'11 novembre 1901, venticinque delegati dei vari circoli operai si riunirono a Tiflis, nel sobborgo popolare di Avlabar, per eleggere il comitato del partito socialdemocratico di Tiflis. Josif Vissarionovic Giugashvili venne eletto nell'importante organismo, formato da nove persone, che per qualche tempo ebbe funzioni di esecutivo per tutta la regione del Caucaso. Per Koba era un passo avanti estremamente importante nella carriera politica ma forse anche il motivo di una delusione: ambiziosissimo s'era illuso d'essere eletto non semplice membro, ma presidente del comitato, invece la carica centrale era andata a Silvester Gibladze «lo stesso uomo che un giorno aveva aggredito il rettore del seminario teologico ed era stato il mentore di Giugashvili nel socialismo». I rapporti tra allievo e maestro, forse già deteriorati, finirono con il guastarsi del tutto. Koba, come avremo modo di verificare ampiamente e tragicamente nel corso di tutta la sua esistenza, aveva un carattere incline al rancore e alla vendetta, la riconoscenza gli era un sentimento tutto sommato sconosciuto. Era quel che si direbbe oggi un «duro». Ivan Lantos
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Alla fine del 1901, Josif Vissarionovic lasciò improvvisamente Tiflis. La sola spiegazione a questa strana partenza ci è fornita dalla rivista socialdemocratica georgiana Brdzola chma (L'eco della lotta), redatta da un gruppo di menscevichi esuli a Parigi nel 1930. «Sin dai primi tempi della sua attività nei circoli operai» scrive l'anonimo estensore dell'articolo «Giugashvili, con i suoi intrighi, attirò l'attenzione contro il principale dirigente dell'organizzazione, Silvester Gibladze. A questo proposito, ricevette un avvertimento che tuttavia ignorò, continuando a diffondere calunnie per denigrare i rappresentanti autentici e riconosciuti del movimento e accedere così alla direzione. Deferito a un tribunale del partito e riconosciuto colpevole di calunnia indegna contro Silvester Gibladze, fu espulso all'unanimità dall'organizzazione di Tiflis». Il provvedimento ebbe probabilmente aspetti ed effetti meno drammatici di quelli che l'articolo di Brdzola chma (di certo un po' fazioso data l'epoca e le circostanze nelle quali fu redatto) lascia intendere. Si trattava di una soluzione di ripiego, la migliore per Gibladze, per Giugashvili e per il comitato di Tiflis, che non estrometteva Josif Vissarionovic dall'attività politica. La destinazione di Koba fu Batum, cittadina portuale sul mar Nero. Batum era stata, nel passato, un villaggio di pescatori e un rifugio di pirati. Situata al confine con la Turchia, in una regione poco salubre, aveva soltanto venticinquemila abitanti, contro i centocinquantamila di Tiflis, ma nel giro di pochi anni, tra la fine del 1800 e l'inizio del 1900, la sua importanza era cresciuta in maniera incredibile. Batum infatti era il più importante centro caucasico per la lavorazione del petrolio, al terminale di un oleodotto che partiva da Baku, principale centro d'estrazione del grezzo. Oltre alle raffinerie c'erano a Batum due tabacchifici, una fonderia per la lavorazione del ferro e uno stabilimento per l'imbottigliamento dell'acqua minerale. La popolazione operaia era di undicimila lavoratori costretti a sgobbare per quattordici ore al giorno che, con l'obbligo degli straordinari, potevano diventare anche diciassette; la paga giornaliera era compresa tra sessanta copechi e un rublo. I principali nuclei operai erano concentrati nelle raffinerie Rothschild e nelle officine Mantasev: gente già aperta alla propaganda socialista, ma ancora poco organizzata. In realtà, a Batum esisteva una cellula del Messame Dossi, diretta da Nikolaj Chkedidze e Isidor Ramishvili, moderati, che seguivano la linea «legalitaria» che faceva capo, nel Caucaso, a Noé Jordania. Koba attuò Ivan Lantos
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contro di loro un colpo di mano, perfettamente consono al suo modo d'agire cinico e privo di scrupoli morali. Fu lo stesso Jordania a denunciare i metodi troppo spicci (anche se straordinariamente efficaci) di Koba. «Aggirando alle spalle i capi locali Nikolaj Chkedidze e Isidor Ramishvili» afferma Jordania «prese come base il quartiere operaio e incominciò a raccogliere lavoratori intorno a sé. Detestando tutti i compagni progressisti, li accusava di viltà, di mancanza di iniziativa e di tradimento nei confronti della classe lavoratrice e chiamava i lavoratori a dimostrazioni di piazza. Dentro l'organizzazione ne creò una personale, fedele a lui soltanto e che rifiutava qualsiasi responsabilità verso il comitato». Koba mise in piedi anche una tipografia clandestina, analoga a quella che Lado Ketskhoveli aveva allestito a Baku. La macchina da stampa era stata sistemata in una casa di operai alla periferia della città. «La strada per arrivarci» scrive il biografo H. Montgomery Hyde «era così malridotta e fangosa, da essere quasi intransitabile, e per questa ragione, a quanto pare, la polizia locale lasciava in pace gli abitanti della zona» La macchina venne istallata in una stanza del seminterrato priva di finestre e con due porte, una che dava sull'interno della casa, l'altra sulla strada consentendo una certa sicurezza. I caratteri da stampa erano sistemati in vecchie scatolette per fiammiferi. Koba sedeva a un tavolinetto collocato al centro della stanza e scriveva il testo dei documenti e dei manifestini su piccoli fogli che passava a mano a mano ai tipografi. Ma quella piccola stanza non era soltanto una stamperia, vi si riunivano gli agitatori delle fabbriche con i quali Koba discuteva i temi generali della politica e i piani delle agitazioni operaie. Ovviamente la presenza e l'attività di Koba non erano sfuggite all'attenzione della polizia. Ecco quanto si legge in un rapporto segreto dell'Okrana: «Nell'autunno 1901, il comitato socialdemocratico di Tiflis ha inviato a Batum uno dei suoi membri, Josif Vissarionovic Giugashvili, già allievo della classe sesta del seminario di Tiflis, con l'incarico di svolgere propaganda tra gli operai delle fabbriche. Come risultato dell'attività di Giugashvili organizzazioni socialdemocratiche sono sorte in tutti gli stabilimenti di Batum. Già nel 1902 gli effetti della propaganda socialdemocratica si sono potuti constatare nel prolungato sciopero degli stabilimenti Rothschild e in una serie di dimostrazioni di piazza». Agli scioperi, la direzione delle aziende rispondeva con massicci Ivan Lantos
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licenziamenti; alle dimostrazioni di piazza, la polizia reagiva con arresti. Alla fine di marzo, nel 1902, proprio per protestare contro l'incarcerazione di alcune centinaia di operai, Koba organizzò una massiccia protesta davanti alla prigione. Duemila lavoratori, con bandiere rosse, si radunarono di fronte all'edificio nel quale erano rinchiusi i loro compagni, cantando la Marsigliese. Era una scena magnifica e terribile. Koba, convinto che i soldati, chiamati a dar manforte alla polizia, non avrebbero sparato sulla massa dei dimostranti, incitava i suoi ad attaccare. Ma aveva fatto male i conti. Il battaglione dei fucilieri del Caucaso aprì il fuoco: quindici lavoratori caddero uccisi, i feriti furono cinquantaquattro. Al di là delle conseguenze immediate già per se stesse gravissime, i fatti del marzo 1902, aspramente criticati dai socialisti più moderati, ebbero come effetto un ulteriore irrigidimento delle autorità di polizia: la sorveglianza nei confronti degli attivisti politici fu aumentata, le indagini si fecero più serrate e s'infittirono le perquisizioni nelle case sospette di esser luoghi di cospirazione. Il 5 aprile, Koba fu invitato a una festicciola a casa dei fratelli Darachvelidze, due operai amici suoi. Riferisce Emilian Jaroslavskij: «Soso vi si recò insieme con Kotzia Kandelaki (un altro operaio e il più stretto collaboratore di Giugashvili). Soso aveva ventitré anni; era bello, con barba e baffi neri. Sembrava un artista romantico con la capigliatura scura sempre arruffata. Ad un certo momento qualcuno notò che l'Okrana di Batum aveva circondato la casa. Soso che fumava una papirosa (la tipica sigaretta russa con il bocchino di cartone molto lungo) e parlava con Kandelaki, non si scompose. Disse con calma: "Non è nulla". Pochi istanti dopo la polizia fece irruzione nella stanza e dichiarò in arresto i fratelli Darachvelidze, Kandelaki e Soso». Così, dopo soli quattro mesi e mezzo, aveva termine l'attività rivoluzionaria di Koba a Batum e, per la prima volta, si aprivano per lui le porte della prigione. Ebbe, come tutti i carcerati, la sua scheda d'identificazione personale, redatta personalmente dal capo della polizia di Batum, colonnello Sergei Petrovic Shabelskij: Altezza: Corporatura: Età: Ivan Lantos
2 arsinij, 4 verski e mezzo (m. 1,60 circa). media. ventitré anni. 37
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Segni particolari: Aspetto esteriore: Capelli: Barba e baffi: Fronte: Viso:
2° e 3° dito del piede sinistro uniti. comune. castano scuro. castano scuro. diritta e bassa. lungo, di colorito bruno, butterato (dal vaiolo).
Alla scheda era unita anche la consueta serie di foto segnaletiche: il viso diritto e di profilo e la figura intera. Nel rude linguaggio carcerario, i poliziotti soprannominarono Koba, Riaboi (il butterato). Tra le mura della prigione, Koba non si comportò mai come un martire della rivoluzione, un po' per temperamento un po' perché non ce n'era necessità. «Nelle prigioni e nei luoghi di deportazione della Russia zarista vigeva un regime nel quale brutalità e inettitudine "liberale" si combinavano stranamente» scrive Isaac Deutscher. «Vi era abbastanza brutalità per rinfocolare nei detenuti l'odio contro l'ordinamento politico, e abbastanza inettitudine e disorganizzazione per consentire un'efficace continuazione dell'attività rivoluzionaria anche dietro le sbarre del carcere. Per molti giovani socialisti le prigioni erano "università", nelle quali avevano modo di formarsi una solida educazione rivoluzionaria, spesso sotto la guida di docenti esperti. In generale i detenuti politici, che godevano di certi "privilegi" negati ai criminali comuni, organizzavano la loro vita in uno spirito di solidarietà e di mutua assistenza. Il carcere era, di solito, un grande circolo di discussioni politiche». Koba affrontò la detenzione imponendosi una disciplina assai più rigorosa di quella prescritta dai regolamenti carcerari. Si svegliava prestissimo, lavorava senza risparmiarsi, leggeva molto ed era uno dei membri più attivi e ascoltati dell'assemblea dei detenuti. Nei suoi interventi mostrava un'oratoria essenziale, logica, acuta; era sempre pronto ad attaccare con feroci polemiche i socialisti che ancora mostravano di sostenere le teorie socialiste-agrarie dei narodniki e tutti coloro che avevano un atteggiamento diverso o contrario a quello suggerito dal giornale Iskra. Era in generale calmo fino all'impassibilità, poco incline a mostrare calore umano, distaccato. Dopo aver trascorso circa un anno nella prigione di Batum, Koba venne trasferito in quella di Kutaisi da dove venne ricondotto a Batum. Mentre Koba si trovava chiuso in carcere accaddero tre fatti importanti, dei quali il Ivan Lantos
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detenuto venne a conoscenza per quelle misteriose vie di comunicazione che collegano le prigioni al mondo esterno. Nel marzo 1903, i gruppi socialisti del Caucaso s'erano riuniti in una federazione regionale, Koba venne eletto membro dell'esecutivo. Non succedeva spesso che un militante detenuto fosse eletto negli organismi direttivi del partito e non tanto per ragioni di carattere morale, ma perché risultava difficile, per non dire impossibile, tenere al corrente il compagno recluso sulla vita di partito e consultarlo in caso di decisioni che comportassero un voto collegiale. Se l'elezione del detenuto avveniva, come nel caso di Koba, questo significava che si trattava di un membro di prestigio e la collaborazione del quale era ritenuta indispensabile a prescindere dalle circostanze. Il secondo fatto provocò a Koba dispiacere e fece crescere, se era possibile, il suo odio per la tirannica autorità zarista. Lado Ketskhoveli, amico e maestro di Koba, prigioniero nella fortezza-carcere Metekh di Tiflis, era stato ucciso, con un colpo di fucile da una delle guardie di custodia. L'episodio viene riferito da Sergei Alliluiev. Lado s'era affacciato alla finestra della sua cella e aveva chiamato un gruppo di pastori armeni che si trovavano sull'altra sponda del fiume Kura. Quel tentativo di dialogo a distanza non era piaciuto all'ufficiale delle guardie carcerarie il quale aveva ordinato a uno dei suoi uomini in servizio all'esterno dell'edificio di puntare il fucile verso la finestra alla quale s'era affacciato Ketskhoveli. Altri prigionieri che assistevano alla scena avevano gridato a Ketskhoveli di togliersi, ma lui era rimasto. S'era sentito uno sparo e Ketskhoveli era caduto all'indietro fulminato, con il cuore spaccato dalla pallottola. Il terzo e più importante avvenimento era destinato ad avere indelebili ripercussioni sia sul futuro di Koba sia su quello dell'intero movimento operaio internazionale. Nel luglio del 1903, preceduto da lunghe trattative preparatorie, si aprì, a Bruxelles, il congresso costitutivo del Partito socialdemocratico operaio russo. La sede dei lavori era una piccola stanza stipata di balle di lana e infestata dalle pulci nella Maison du peuple socialista. La polizia aveva disturbato i lavori e il congresso s'era trasferito nella più tollerante Londra. I delegati erano cinquantotto, quattordici avevano voto consultivo, gli operai erano soltanto quattro e nel corso delle trentasette sedute dovettero faticare molto per ottenere la parola. Riferisce Boris Souvarine: «In un primo tempo gli iskristi (coloro cioè Ivan Lantos
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che si rifacevano alla linea dura di Lenin), che avevano la maggioranza nell'assemblea, fecero blocco principalmente contro il Bund che voleva conservare la proprio indipendenza in seno a un'organizzazione federativa. Ma sul primo articolo dello statuto si divisero in due frazioni quasi uguali: 28 voti a Martov e 23 a Lenin. In mancanza di una definizione politica valida questi furono detti i "duri" (bolscevichi), quelli "molli" (menscevichi) per caratterizzarli secondo il loro temperamento. Con una differenza di pochi voti, la maggioranza oscillò ora a destra, ora a sinistra. Finalmente quando l'elezione degli organi direttivi pose il problema delle persone, Lenin, favorito dall'assenza dei congressisti più moderati, ottenne un vantaggio di 19 voti contro 17 e 3 astensioni, ma la minoranza rifiutò di sottomettersi. Il partito era virtualmente giunto alla scissione. D'ora in poi la socialdemocrazia avrà due grosse frazioni distinte, quella maggioritaria (bolscevichi), quella dei minoritari (menscevichi), senza menzionare quelli che, come Riazanov, si mantennero indipendenti da entrambi». Tra i menscevichi s'era distinto un giovane marxista: Lev Davidovic Brònstein detto Trotskij, nato il 7 novembre 1879 (lo stesso di Josif Vissarionovic Giugashvili). A ventidue anni aveva già conosciuto la galera e la deportazione, tornato libero, era andato a Londra dove s'era presentato a Lenin. Già conosciuto per la sua attività pubblicistica, il grande capo lo aveva inserito nella redazione di Iskra dove s'era distinto per lo zelo di propagandista, per l'avidità di cultura, per la passione verso i più complessi problemi di dottrina. Fra gli emigrati russi, Trotskij divenne ben presto un personaggio di primo piano sia come scrittore, sia come oratore. Anche se non aveva potuto assistere al congresso, Koba non esitò a scegliere la parte dalla quale schierarsi: quella di Lenin e dei bolscevichi. Da Lenin, Koba era stato completamente sedotto, come testimoniano le sue stesse parole. «La conoscenza dell'attività rivoluzionaria di Lenin negli ultimi anni del secolo scorso e particolarmente dopo il 1901, dopo la fondazione dell'Iskra, mi aveva convinto che avevamo in Lenin un uomo straordinario. Non lo giudicavo allora un semplice dirigente del partito, ne era il vero creatore. Quando lo confrontavo con gli altri dirigenti del nostro partito, avevo sempre l'impressione che i suoi compagni d'armi, Plekhanov, Martov, Akselrod e gli altri, non arrivassero neppure alla spalla di Lenin, e che in loro confronto Lenin non fosse soltanto uno dei dirigenti, ma un capo di tipo superiore, un'aquila delle montagne, impavido nella lotta e audace guida del partito sulle vie inesplorate del movimento Ivan Lantos
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rivoluzionario russo». Il 17 agosto 1903, per una bizzarra coincidenza lo stesso giorno della tragica morte di Lado Ketskhoveli, il ministro della giustizia di Pietroburgo firmò il decreto di deportazione di Koba. Le accuse contro di lui non trovavano riscontri specifici in prove, sul suo conto c'erano soltanto i rapporti della polizia segreta che «un giudice normale non avrebbe potuto accettare come base per un'azione legale». Così, come accadeva normalmente per individui fortemente indiziati, Koba fu oggetto di una sanzione «amministrativa» secondo la quale il prigioniero Jósif Vissarionovic Giugashvili veniva inviato nella Siberia orientale e costretto a starvi per tre anni sotto la stretta sorveglianza della polizia. Il luogo nel quale Koba era destinato a scontare la deportazione era Novaja Uda, un villaggio dimenticato da Dio e dagli uomini, ma non dall'Okrana che vi spediva con regolarità e abbondanza i nemici conclamati o semplicemente sospettati del regime zarista. Il trasferimento della lunga colonna dei deportati dalle rive del Mar Nero alle pianure siberiane attanagliate dal gelo dell'inverno durò più di un mese. Un po' a piedi e un po' in treno. Ogni tanto il convoglio si fermava lungo il percorso per caricare altre persone destinate alla deportazione. Racconta Isaac Deutscher: «A mano a mano che si spostavano verso est, gli esuli sentivano sempre più chiaramente l'avvicinarsi del conflitto russogiapponese. V'erano troppa febbre e troppa eccitazione nell'aria perché Koba potesse rassegnarsi all'idea d'esser tagliato fuori dalla politica per tre lunghi anni». Così appena arrivato a Novaja Uda il suo pensiero fisso divenne la fuga, il progetto dell'evasione. L'attenzione delle autorità s'era attenuata, lungo la frontiera con la Manciuria, per l'imminente scoppio della guerra consentendo il crearsi di un'atmosfera di incertezza e di disordine. Il 5 gennaio 1904, Koba incominciò il viaggio di ritorno. L'immensa pianura coperta di neve, oggi grande bacino industriale del Kuzneck, appariva al fuggiasco come un terrificante deserto gelato inospitale per qualsiasi forma di vita. Compì la sua fuga un po' a piedi e talvolta sui carri dei contadini che andavano a ovest, verso gli Urali. Soffrì la fame e fu colpito da dolorosissimi geloni, ma nei primi giorni di febbraio era nuovamente a Tiflis. E a Tiflis, ad aspettarlo fedele, e paziente come una Penelope, c'era Ekaterina Svanidze, la giovane Keke. «La vita personale e privata di un Ivan Lantos
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rivoluzionario clandestino in Russia era quasi sempre tenuta in ombra: di solito essa si identificava con un concetto comune di rivoluzione» scrive H. Montgomery Hyde. «Sotto questo aspetto della vita rivoluzionaria, Trotskij è un testimone pertinente. Secondo la sua esperienza, la medesima lotta, lo stesso pericolo, un comune isolamento dal resto del mondo, portavano a stretti legami fra i due sessi. Le coppie si mettevano insieme nella clandestinità, erano divise dalla prigione e di nuovo si cercavano nell'esilio». Anche Koba e Keke Svanidze avevano seguito una sorte analoga: s'erano incontrati tre anni prima, ai tempi della grande majevka, avevano incominciato ad amarsi, erano stati separati dalla sfortunata vicenda politica di lui. Non si sa in che modo, ma è quasi certo che anche durante la prigionia e la deportazione di Koba fossero riusciti a mantenere dei contatti. Ora Koba veniva a riprendere l'attività politica e a riprendersi la donna. Per qualche mese convissero; Keke aveva accettato, per amore, una situazione che era in conflitto con le sue convinzioni morali e il suo spirito profondamente religioso, ma più d'una volta s'era lamentata con l'anziana suocera, Ekaterina Giugashvili, del fatto che l'amante si mostrasse poco disposto a regolarizzare la loro unione davanti al prete. Ekaterina Giugashvili s'era molto affezionata a quella mite ragazza georgiana, graziosa e piena d'attenzioni, e si dette molto da fare perché il suo Soso si decidesse a portarla all'altare. Koba, il rude e austero rivoluzionario, nato per comandare più che per obbedire, non seppe dire di no all'anziana madre: il 22 giugno 1904, nella chiesa di Gori, si unì in matrimonio, secondo il rito ortodosso, a Keke Svanidze. Alla cerimonia oltre a Ekaterina Giugashvili, unica parente dello sposo, c'erano numerosi familiari della sposa venuti da Tiflis e da diversi villaggi, anche da Didi Lilo, paese d'origine di Vissarion Ivanovic Giugashvili, il defunto ciabattino, padre di Koba. C'era anche Aleksandr Svanidze, fratello di Keke e grande amico di Josif Vissarionovic, il quale aveva efficacemente contribuito alla combinazione del matrimonio. E fu un'unione felice, come testimonia Josif Iremashvili: «Questo fu un matrimonio felice. È vero: era impossibile scorgere nella casa di Koba l'uguaglianza dei sessi che lui stesso sosteneva come forma base del matrimonio del nuovo ordine nello Stato socialista. Non rientrava nel suo carattere dividere, con chiunque fosse, la parità dei diritti. Poiché sua Ivan Lantos
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moglie non aveva la pretesa di mettersi al suo livello e considerava Koba una specie di divinità, il matrimonio fu felice. Come donna georgiana, cresciuta nella sacrosanta tradizione che obbliga le donne a servire, Keke badava al benessere del marito con tutto il cuore; passava le notti, mentre aspettava il suo ritorno, a pregare che Soso abbandonasse le idee che dispiacevano a Dio e ritornasse alla tranquilla e soddisfatta vita familiare. Così quest'uomo irrequieto trovò l'amore soltanto nella sua povera casa, dove solo la moglie, il figlio e la madre si salvavano dallo scherno amaro che lui riversava su tutti gli altri». E come si conveniva a una moglie perfetta, Keke diede a Koba un figlio maschio, Jakov, destinato a una sorte infelice. Quanto alla situazione politica, Koba si trovò in mezzo a polemiche caotiche che coinvolgevano fazioni e sottofazioni del movimento socialista, l'insanabile divisione che si era creata al centro tra i bolscevichi di Lenin e i menscevichi si rifletteva sulla periferia. Lenin aveva lasciato il comitato centrale del partito e l'Iskra, progettava un nuovo giornale, Vperiod (Avanti). Leonid Borisovic Krasin, l'ingegnere amico di Lenin, che era stato mandato in Georgia a rimpiazzare Victor Kurnatovskij dopo l'arresto come emissario diretto di Lenin, aveva compiuto un completo voltafaccia e aveva rilasciato dichiarazioni compiaciute sulle dimissioni del suo ex capocorrente. La risposta di Lenin non si fece aspettare: «Noi non abbiamo più un partito» scrisse «ma sta nascendo un partito nuovo e nessun sotterfugio e delazione, nessun senile e maligno rimprovero da parte dell'Iskra possono impedire la vittoria finale e decisiva di questo partito». Nell'estate del 1904, ritornava a Tiflis da una prigione di Mosca Lev Borisovic Kamenev, un giovane e brillante intellettuale ebreo, che successivamente avrebbe sposato la sorella di Trotskij, Olga. Kamenev, nato a Mosca, era giunto a Tiflis da bambino insieme con il padre, funzionario della ferrovia. Kamenev, quattro anni meno di Koba, aveva conosciuto Lenin durante uno dei molti periodi d'esilio in Europa occidentale. Aveva maturato, sotto la personale guida di Lenin, una notevole esperienza rivoluzionaria, messa in pratica tra gli studenti dell'università di Mosca e tra gli esuli russi nelle principali capitali europee. Lenin aveva inviato il suo giovane luogotenente a Tiflis per organizzare il congresso regionale dei bolscevichi del Caucaso, Ivan Lantos
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analogamente a quanto era stato fatto nella Russia meridionale e nella Russia settentrionale. Koba non prese parte al congresso caucasico che fu tenuto in novembre e non si conoscono le ragioni di questa assenza. Dai tre congressi (quello della Russia meridionale, quello della Russia settentrionale e quello del Caucaso) venne eletto un ufficio centrale bolscevico presieduto da Aleksej Rykov (che sarebbe diventato primo ministro sovietico) e da Maksim Litvinov (il futuro commissario per gli affari esteri). L'ufficio centrale bolscevico doveva servire, secondo Lenin, a controbilanciare il comitato centrale ormai privo di significato. «Ora Lenin» scrive Isaac Deutscher «poteva affermare che il suo atteggiamento di intransigenza nei confronti dei menscevichi era approvato e sostenuto dai socialisti clandestini operanti in Russia. Perciò propose la convocazione di un nuovo congresso che ponesse fine all'ambigua situazione creatasi per effetto della scissione». Koba si trovò, senza esitazione, impegnato attivamente nella campagna di preparazione del congresso. Era più che mai un leninista convinto, poiché grazie a Lenin aveva trovato un modello di rivoluzionario nel quale identificarsi; «Koba» sottolinea Isaac Deutscher «non aveva una posizione riconosciuta nella società ufficiale e non poteva recitare una parte brillante neppure nel mondo clandestino», ma Lenin aveva dato dignità al rivoluzionario di professione, all'agitatore infaticabile braccato dalla polizia, l'organizzatore instancabile e miserabile era «il sale della terra». «Nella pronta risposta di Koba all'atteggiamento di Lenin» annota acutamente Isaac Deutscher «vi era, quindi, una sfumatura di inconsapevole gratitudine, come di chi si sentisse debitore di una promozione morale».
CAPITOLO V IL «BANDITO» Cecile Spring-Rice, in quegli anni primo segretario e incaricato d'affari dell'ambasciata di Gran Bretagna a Pietroburgo, descrive così, in una nota la situazione politico-sociale russa: «Qui c'è un curioso stato di cose. Innanzitutto l'imperatore, al limite del fanatismo religioso, senza uno statista e senza un Consiglio, circondato invece da un vero e proprio Ivan Lantos
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esercito di granduchi: sono trentacinque e non uno di loro, in questo momento, compie il proprio dovere in guerra (il diplomatico si riferisce al conflitto russo-giapponese), con un piccolo gruppo di preti e di donne bigotte alle loro spalle. Non esiste il ceto medio; l'aristocrazia è rovinata e del tutto ininfluente. La burocrazia è malpagata e di conseguenza corrotta. Sottomessi a questo fantasma d'organizzazione statale ci sono cento milioni di uomini assolutamente fedeli al loro zar, completamente ignoranti, tenuti nell'ignoranza per paura delle conseguenze dell'istruzione (attraverso una complessa complicità tra Chiesa e Stato) e che diventano sempre più poveri in quanto sono loro a sopportare il peso delle tasse e quello del reclutamento per il quale vengono arruolati a migliaia nell'esercito. Questo esercito devoto, coraggioso, resistente e religioso e disposto a far tutto ciò che lo zar ordina. I polacchi servono a tener sottomessi i caucasici i quali, a loro volta, presidiano la Polonia. Gli uni e gli altri combattono insieme, per la Russia e la gloria dello zar, in Estremo oriente o nell'Asia centrale. Non ci fu mai, ne sono certo, da quando questo mondo ha avuto inizio, un meccanismo così spaventoso in una sola mano. Neppure nell'esercito di Napoleone, perché quell'esercito dipendeva dal successo del suo capo, mentre quello russo è fedele allo zar, che abbia successo o che fallisca. E i due fini dello zar sono di opprimere i pagani e distruggere i liberali; in questa missione è convinto che Dio sia con lui. Quanto durerà? Naturalmente il sistema alimenta l'interrogativo e da questo può conseguire che, un giorno, i contadini scoprano come sono trattati, in pratica ridotti alla fame...». La situazione, così come l'aveva descritta il diplomatico britannico e come realmente era, rappresentava il terreno ideale per una rivoluzione. I socialdemocratici russi, bolscevichi o menscevichi che fossero, non facevano che parlarne, ma tutto restava confinato nel campo (sterile) delle grandi enunciazioni teoriche. Nella realtà quotidiana il socialismo clandestino era perduto a seguire le polemiche interne: i bolscevichi erano assorbiti dalla preparazione del congresso che avrebbe dovuto tenersi a Londra nell'aprile del 1905; i menscevichi a fornire spiegazioni sui motivi che li avrebbero indotti a disertare il congresso al quale avrebbero contrapposto una loro conferenza alternativa. Alle tensioni interne si aggiunse anche la sconfitta nella guerra russogiapponese, risoltasi a favore delle armi nipponiche con la caduta di Port Arthur. Nel dicembre 1904, a Baku, era scoppiato uno sciopero, Ivan Lantos
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organizzato dai socialdemocratici, che aveva segnato una recrudescenza delle agitazioni operaie. Nel gennaio 1905, un incidente sul lavoro, avvenuto nelle officine Putilov di Pietroburgo, aveva provocato uno sciopero di solidarietà al quale aveva partecipato tutto il proletariato della capitale. Ma la vera scintilla della prima rivoluzione rossa scoccò domenica 22 gennaio 1905 (secondo il vecchio calendario russo) senza che i socialisti se ne accorgessero e certamente senza esserne i protagonisti. Il prete Gapon, figura ambigua e secondo alcuni agente provocatore dell'Okrana, s'era messo alla testa di duecentomila proletari che si dirigevano in corteo verso la reggia pietroburghese. Si trattava di una manifestazione pacifica nelle intenzioni e lealista nel programma. Gli operai portavano con sé donne e bambini e innalzavano icone e ritratti dello zar. Il prete Gapon marciava davanti a tutti reggendo tra le mani, come fosse stato un ostensorio, la petizione indirizzata al «piccolo padre», allo zar di tutte le Russie. «Maestà. Noi lavoratori, i nostri figli, le nostre mogli e i nostri disperati genitori» era scritto nel documento «siamo venuti a cercare verità e protezione presso di te. Noi siamo immiseriti e oppressi. Ci è imposto un lavoro insopportabile; siamo disprezzati e non siamo considerati esseri umani». Seguiva un lungo elenco di angherie e atrocità subite dalla classe operaia e la richiesta di garanzie costituzionali. La petizione si concludeva drammaticamente: «Se tu non vuoi esaudire la nostra supplica, noi moriremo qui sulla piazza davanti al tuo palazzo». La folla avanzava verso il palazzo d'Inverno costeggiando la Neva ghiacciata: nessuno portava armi, nessuno levava grida ostili, il silenzio gravido di tensione era rotto soltanto dallo scricchiolio delle suole sulla neve gelata che ricopriva la strada e coloro che portavano i caratteristici stivali di feltro non facevano neppure rumore camminando. Ma quando la processione giunse in prossimità del palazzo d'Inverno si scatenò il finimondo: crepitarono le mitragliatrici della guardia imperiale, le scariche di fucileria dei poliziotti, i cavalieri cosacchi si lanciarono in cariche selvagge brandendo le sciabole e i micidiali scudisci. Fu un massacro. Le vittime rimasero sul selciato a migliaia. Il sangue che macchiò quella domenica, nel quale venne soffocata una manifestazione non violenta, cancellò per sempre una leggenda che era sopravvissuta a lungo nell'anima russa: la leggenda di uno zar buono Ivan Lantos
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malgrado tutto, dedito al benessere del suo popolo, e nel caso di errori malamente influenzato da cattivi consiglieri. La «domenica di sangue» provocò un'insurrezione generale, una catena di scioperi che coinvolse più di cento città. «La rivoluzione sperata da molte generazioni» scrive Boris Souvarine «così spesso profetizzata e alla quale tanti eroi avevano sacrificato la vita, era iniziata senza aspettare il segnale dei rivoluzionari di professione». Gli episodi di rivolta si susseguirono: anche la famiglia imperiale pagò il suo tributò con la vita del granduca Sergio, assassinato dai rivoluzionari. Poi l'apocalisse che minacciava di travolgere e cancellare per sempre un ordine pluricentenario parve placarsi. Ma si trattava di una tregua effimera. Agli scioperi degli operai seguirono le rivolte dei contadini, il bacillo della rivoluzione attecchiva dovunque trovasse il terreno fertile della miseria e dell'oppressione; la febbre si propagava dal centro all'estrema periferia dell'impero. A Lodz, in Polonia, gli scioperi degenerarono in insurrezione armata, con scontri sanguinosissimi che si protrassero per sette giorni. Le strade di Varsavia e di Odessa furono bloccate dalle barricate. Persino gli uomini in uniforme disattesero al giuramento di fedeltà: nel porto di Odessa l'equipaggio dell'incrociatore Potemkin fece causa comune con gli insorti; l'atto di ribellione dei marinai entrò a far parte della leggenda rivoluzionaria, immortalato da un film del regista Eisenstein. Il menscevico Vladimir Antonov Ovssenko guidò una sfortunata sedizione militare nel campo di Nova Aleksandrja e il tenente Schmidt, un giovane ufficiale sedotto dalle idee socialiste, pagò con la vita per aver capeggiato un ammutinamento a Sebastopoli; nel sangue naufragò anche un analogo tentativo a Kronstadt. Ovviamente neppure la Georgia era rimasta fuori del ciclone rivoluzionario: alla «domenica di sangue» di Pietroburgo gli operai georgiani reagirono con gli scioperi, i contadini con l'insurrezione. A Tiflis, in risposta alle violenze dei cosacchi, i lavoratori organizzarono numerosi attentati. E Koba dov'era? La domanda sorge spontanea e legittima poiché il suo nome non compare in nessuna delle cronache di quei giorni convulsi e tumultuosi. Da quanto ci è dato ricostruire, Koba si era limitato a un'attività di agitazione e propaganda, ben guardandosi d'esporsi fisicamente in prima linea; l'altro aspetto, ormai «istituzionale» del suo lavoro, era la lotta Ivan Lantos
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contro i menscevichi. Come la pensasse su questo argomento l'aveva esposto in un opuscolo pubblicato nel maggio del 1905, intitolato In breve sui dissensi nel partito, talmente virulento da attirare l'attenzione di Lenin e della compagna di questo Nadezda Kostantinova Krupskaia. Uno degli elementi della polemica di Koba contro i menscevichi nasceva dal suo radicato antisemitismo e dal fatto che nelle file dei menscevichi di ebrei ce n'erano molti. «In realtà» scriveva Koba «che razza di gente è questa: Martov, Dan, Axelrod. Soltanto ebrei non circoncisi! E quella vecchia cagna di Vera Zasulic! Va bene, andate a lavorare con loro. Essi non vogliono lottare e nelle loro feste non c'è gioia. Sono dei vigliacchi e dei bottegai. Non sanno gli operai georgiani che il popolo ebraico genera soltanto codardi, inutili nel combattimento?». Nell'ottobre del 1905, sotto la spinta di uno sciopero generale promosso dai tipografi di Mosca che minacciava di trasformarsi in rivoluzione totale, lo zar promulgò un manifesto costituzionale e promise la convocazione di una duma, cioè di un'assemblea rappresentativa con potere consultivo alla quale avrebbero partecipato anche gli operai. Ai partiti d'opposizione l'editto imperiale non piacque e gli scioperi ripresero. A Pietroburgo i lavoratori elessero un consiglio di loro delegati che chiamarono soviet (consiglio) di Pietroburgo, alla presidenza del quale venne messo Leon Trotskij. Il soviet di Pietroburgo divenne la più importante centrale rivoluzionaria di tutta la Russia che si contrappose all'amministrazione ufficiale come una specie di governo clandestino gli ordini del quale venivano eseguiti con prontezza e obbedienza da gran parte della popolazione. Il soviet invitò i cittadini alla disobbedienza civile e in primo luogo a non pagare le tasse. La polizia rispose con durezza arrestando i membri del soviet non escluso Trotskij e alla repressione seguì immediata l'insurrezione che venne prontamente soffocata. Koba intanto continuava nel suo lavoro di agitatore e propagandista, s'era trasformato in una specie di commesso viaggiatore delle idee rivoluzionarie e della polemica contro tutti coloro che non s'erano allineati con le direttive bolsceviche. Intervenne anche nel grande sciopero di Baku, ma non in prima linea, si limitò a fare il consigliere e, ovviamente, i suoi avversari ne approfittarono per accusarlo di codardia e per dire che nel movimento aveva un ruolo del tutto irrilevante. Comunque fossero le cose, i proclami e i documenti redatti da Koba testimoniano la sua attività di apologeta della rivoluzione e del Ivan Lantos
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bolscevismo. «È giunta l'ora di distruggere il governo zarista» tuonava Koba «e noi lo distruggeremo». Oppure affermava: «La Russia è come una pistola carica con il cane alzato, pronta a far fuoco alla minima percussione. Stringiamoci dunque la mano e riuniamoci intorno ai comitati del partito. Non dobbiamo dimenticare, neppure per un momento, che soltanto i comunisti del partito possono guidarci in maniera degna e che essi soli possono illuminare la via che condurrà alla terra promessa di un mondo socialista». Isaac Deutscher commenta: «Com'era ancor vivo l'antico seminarista sotto le vesti del duro uomo dei comitati! Nella sua visione il popolo vagava attraverso il deserto alla ricerca della terra promessa del socialismo, mentre il partito, simile alla biblica colonna di fuoco, illuminava la strada da percorrere. Chi altri, dunque, poteva guidare il popolo, nella gioia e nel dolore, se non i sacerdoti e i leviti dei comitati di partito?». E tra questi sacerdoti e leviti, se a Lenin spettava, di diritto, il ruolo di Mosé, certamente Koba aspirava a quello di Aronne. La rivoluzione minacciava seriamente la regione del Caucaso e il ministero dell'interno zarista corse ai ripari sguinzagliando le famigerate «centurie nere» contro i socialisti, i liberali e gli ebrei. L'antisemitismo era profondamente radicato nell'anima russa e l'autorità zarista ne aveva fatto uno strumento istituzionale di potere: gli ebrei venivano indicati dalla propaganda come la causa di tutti i mali ed era inevitabile che essi diventassero le vittime del malcontento che si traduceva spesso in violenza. Vale la pena di ricordare che pogrom, cioè l'azione persecutoria violenta contro gli ebrei e le loro proprietà, è parola del lessico slavo. Nel Caucaso, le centurie nere adottarono i metodi antiebraici applicandoli contro gli armeni che in quella regione rappresentavano agli occhi della popolazione locale ciò che gli ebrei rappresentavano altrove. Le centurie nere non ebbero difficoltà ad aizzare i musulmani contro la borghesia armena. Il risultato fu il massacro degli armeni e la riuscita della manovra diversiva contro i fermenti rivoluzionari. Ma neppure la durissima repressione era servita a spegnere le braci. Due mesi dopo la concessione paternalistica e contestata dello zar, il sovrintendente della polizia del Caucaso telegrafava angosciato a Pietroburgo: «Nella provincia di Kutaisi la situazione è critica. Gli insorti hanno disarmato i gendarmi, si sono impadroniti della linea ferroviaria Ivan Lantos
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occidentale e sono loro a gestire la biglietteria e a mantenere l'ordine pubblico. I documenti dei corrieri della gendarmeria vengono regolarmente sequestrati e io sono privo di notizie. Il vicereggente ha avuto un collasso nervoso, cerca di sbrigare le faccende più importanti, ma è ancora molto debole...». Nell'atmosfera di semilibertà i partiti erano usciti dalla clandestinità e i socialisti stampavano, pubblicavano e distribuivano i loro giornali: Litvinov e Krasin, la Novaija zizn (La vita nuova); Trotskij, Nacialo (La partenza) e, a Tiflis, Koba dirigeva Kavkaski rabocij listok (Foglio d'informazioni dei lavoratori caucasici). Tuttavia i giornali avrebbero avuto una vita effimera. Lenin s'era tenuto abbastanza distante da quell'embrione di rivoluzione del 1905; per diversi mesi s'era trattenuto all'estero e soltanto verso la fine dell'anno aveva fatto ritorno a Pietroburgo. Era rimasto defilato poiché non era uomo tagliato per azioni clamorose, era un tessitore paziente e instancabile. Ma c'era anche un'altra ragione: i bolscevichi non erano i protagonisti della vicenda rivoluzionaria, ruolo che s'erano assunti i menscevichi e i social-rivoluzionari. Il commento di Lenin all'insurrezione di Mosca era stato: «Non si sarebbero dovute prendere le armi». Lenin era convinto che prima dell'azione fosse necessaria una meticolosa messa a punto della base ideologica e la definizione della strategia politica. Insomma rifiutava l'improvvisazione, ne conosceva i limiti e i pericoli. E se era tornato in Russia non era certamente per partecipare in qualche modo alla rivoluzione, ma per preparare adeguatamente la conferenza nazionale del partito. Koba diede il suo contributo lavorando per l'organizzazione della quarta conferenza dei bolscevichi del Caucaso durante la quale fu, secondo alcuni biografi, eletto delegato alla conferenza nazionale. Altri sostengono che Koba fosse soltanto inviato al congresso poiché mai e poi mai la maggioranza menscevica caucasica avrebbe affidato la propria delega a quello che considerava il suo principale nemico. Lenin aveva programmato che, per la prima volta, e non senza significato provocatorio nei confronti del regime zarista, la conferenza fosse tenuta sul territorio russo. Alla fine la scelta era caduta su Tammerfors, in Finlandia, poiché questa regione godeva di una certa autonomia e di maggiore libertà di altre dell'impero e consentiva quindi maggior sicurezza ai delegati. Ivan Lantos
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Per Koba fu un avvenimento memorabile: era la prima volta, a parte la deportazione in Siberia, che lasciava la regione del Caucaso per recarsi nella Russia europea e, soprattutto, era la prima volta che avrebbe incontrato Lenin di persona. «Incontrai Lenin per la prima volta nel dicembre 1905 durante la conferenza dei bolscevichi a Tammerfors, in Finlandia» ricorderà qualche anno più tardi Koba. «Mi aspettavo di vedere l'aquila del nostro partito, il grande uomo, grande non soltanto politicamente, ma se vogliamo anche fisicamente; nella mia immaginazione infatti, Lenin appariva come un gigante maestoso e imponente. Quale fu invece la mia delusione nel vedere un uomo dall'aspetto comunissimo, di statura inferiore alla media, che non si distingueva in nulla, letteralmente in nulla, dai comuni mortali. Si ritiene di solito che un "grande uomo" debba giungere in ritardo alle riunioni affinché gli altri lo attendano con il fiato sospeso e ne annuncino l'apparizione sussurrando: "Zitti.... silenzio... sta arrivando". Questo rito non mi sembrava superfluo poiché ispira e impone rispetto. Quale fu la mia delusione nell'apprendere che Lenin era arrivato alla riunione prima di tutti i delegati e che s'era andato a mettere in un angolo qualunque dove, con la massima indifferenza, stava facendo conversazione, la più comune delle conversazioni, con i più comuni delegati. Non vi nasconderò che, allora, tutto ciò mi sembrava, in qualche modo, una violazione di certe norme essenziali». La conferenza, alla quale Koba s'era recato con un passaporto falsificato, intestato a un certo Ivanovic, ebbe luogo tra il 12 e il 17 dicembre. Nadezda Kostantinova Krupskaia, moglie di Lenin, descrisse l'atmosfera generale della conferenza in termini decisamente trionfalistici. «L'entusiasmo fu straordinario» scrive la Krupskaia. «Ogni compagno era pronto alla lotta. Negli intervalli imparavamo a sparare. Una sera assistemmo a una manifestazione di massa finlandese alla luce delle torce e la sua solennità fu pienamente adeguata allo stato d'animo dei delegati. Dubito che qualcuno dei presenti alla conferenza abbia potuto dimenticarlo». Alla delusione per l'aspetto fisico «insignificante» di Lenin e per il suo comportamento troppo disinvoltamente «democratico» dovette certamente seguire e fu senz'altro più pesante, quella per la condotta e le scelte politiche congressuali. C'è da credere che di quest'ultima delusione, Koba non fece mai pubblicamente menzione soltanto per ragioni d'opportunità. Ivan Lantos
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Al primo posto, nell'ordine del giorno, c'era la fusione tra bolscevichi e menscevichi. A livello nazionale infatti le imperscrutabili vie del trasformismo politico avevano riavvicinato le due fazioni ed entrambe erano consapevoli e preoccupate della debolezza che la loro divisione provocava al movimento operaio. Koba-Ivanovic non era in grado di comprendere a fondo il problema almeno per due motivi: l'avversione violenta e irrazionale che provava per i menscevichi e la scarsa importanza che aveva la scissione nel Caucaso per la presenza irrilevante dei bolscevichi. Venne approvata la proposta di delegare direttamente la riunificazione alle organizzazioni locali senza rendere vincolante il parere della direzione. I menscevichi, anche loro riuniti in conferenza, approvarono un analogo ordine del giorno. L'altro argomento che trovò Koba su posizioni completamente opposte a quelle del «maestro» furono le elezioni alla Duma. Si poneva il quesito se i socialdemocratici dovessero parteciparvi o meno. Koba, alla conferenza dei bolscevichi caucasici, aveva affermato che le elezioni dovevano essere boicottate. La classe lavoratrice doveva risolvere i propri problemi nelle piazze e sulle barricate e non nei seggi elettorali. Lenin invece si pronunciò a favore della partecipazione alle elezioni. Non già perché fosse un convinto assertore del parlamentarismo borghese fatto di discorsi roboanti e di compromessi nati da mercanteggiamenti, ma perché riteneva giusta, d'accordo con i menscevichi, la presenza nella Duma di forze che avrebbero potuto trasformarne positivamente la fisionomia politica. Lenin insomma era convinto che si potesse difendere la causa della rivoluzione anche dai banchi del parlamento zarista: sosteneva che la rivoluzione potesse essere predicata anche da un letamaio o da un porcile. Koba si trovò schierato con i delegati che disapprovavano il parere di Lenin. «Anche lui» scrive Isaac Deutscher «come altri aveva pensato che il capo, analogamente a quanto era successo a molti emigrati, aveva perso i contatti con la vita della Russia e sottovalutava il significato e la portata degli avvenimenti più recenti. Essi invece, gli oscuri lavoratori clandestini che studiavano il corso della rivoluzione nei tuguri di Mosca, Kazan o Baku e non nelle biblioteche di Ginevra, Londra o Parigi, essi erano meglio informati». Lenin restò stupito da quella reazione che non s'aspettava così violenta, ammise che poteva anche non avere ragione e «annunciò giovialmente di voler "ritirarsi in buon ordine dalla sua posizione"». Per risolvere la Ivan Lantos
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questione fu deciso di costituire una commissione che avrebbe redatto un testo risolutivo: tra i membri di questa commissione fu eletto anche KobaIvanovic. Era la prima volta che partecipava a una assemblea nazionale e già riportava una prestigiosa affermazione. «Averla ottenuta contro Lenin» commenta Deutscher «poteva soltanto aumentare la sua fiducia in se stesso». «Qualche giorno dopo la conferenza di Tammerfors» si legge in un rapporto dell'Okrana che, inevitabilmente, aveva un suo infiltrato nel partito «il comitato centrale socialdemocratico e un certo numero di delegati, menscevichi e bolscevichi, s'incontrarono al numero 9 della prospettiva Zagorodnij a Pietroburgo, per discutere del problema dell'unità». Nell'elenco della polizia c'è anche il nome di Ivanovic, delegato di Tiflis. Ancora una volta, Koba ebbe di che dolersi: Lenin e Martov (il capofila dei menscevichi) si trattavano con grande cordialità e discutevano di problemi correnti; Martov accettò proprio quelle proposte che, tempo prima, avevano provocato la scissione. E se Koba aveva sufficienti motivi per rodersi il fegato, altrettanti ne aveva Lenin per essere soddisfatto: la riunificazione sembrava cosa fatta e alle sue condizioni. Nei primi giorni di gennaio del 1906, Koba fece ritorno a Tiflis agitato da sentimenti antitetici: la soddisfazione per essere diventato «qualcuno» nel movimento rivoluzionario e il disappunto per aver dovuto ridimensionare il mito personale che s'era costruito intorno alla figura di Lenin. Per analizzare gli avvenimenti dell'anno che era appena passato, dalla «domenica di sangue» di Pietroburgo in aprile, alla fallita insurrezione di Mosca in dicembre, scrisse un opuscolo intitolato Due scaramucce. «Questa volta (cioè a Mosca) non si vedevano stendardi religiosi, né icone, né ritratti dello zar» sottolineava. «Sventolavano invece le bandiere rosse e venivano issati i ritratti di Marx e di Engels. Non s'udiva il canto dei salmi o di Dio salvi lo zar, ma ad assordare i tiranni si cantavano la Marsigliese e altri inni rivoluzionari». E a commento del sanguinoso fallimento dei due tentativi di rivolta annotava: «Il proletariato russo non abbasserà la sua bandiera insanguinata. Non cederà a nessuno la guida della rivolta. Sarà l'unica degna guida della rivoluzione russa». Qualche settimana dopo un periodico menscevico georgiano ospitava un articolo con il quale i suoi avversari consentivano a Koba d'esprimere un Ivan Lantos
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parere sulla Duma nell'approssimarsi delle elezioni. Koba non si fece davvero troppi scrupoli d'esser «ospite» sulle pagine del foglio menscevico e scrisse parole durissime e sprezzanti. Definì la Duma «un parlamento bastardo». Affermò che non avrebbe avuto alcun potere «poiché sarebbe stato dominato in qualità di censori dalla Camera alta e da un governo armato fino ai denti». «La Duma non sarà un parlamento di popolo ma un parlamento dei nemici del popolo, perché le elezioni per la Duma non saranno né universali, né uguali per tutti, né dirette, né segrete». Ancora una volta, pervicacemente, Koba invitava i veri democratici al boicottaggio delle votazioni. Intanto la repressione continuava senza tuttavia riuscire a stroncare del tutto l'attività insurrezionale. I soldati e i marinai che s'erano resi colpevoli d'aver partecipato a sommosse e ammutinamenti venivano fucilati dopo processi sommari. La condanna a morte o la deportazione erano il destino di molti insorti civili, ma né i plotoni d'esecuzione, né i tristi convogli diretti in Siberia facevano paura ai druziny veri e propri distaccamenti di tipo militare che compivano azioni contro obiettivi ben determinati. Scrive Boris Souvarine: «Abbandonata la loro originaria missione difensiva, i boevichi (militanti armati, franchi tiratori) passavano all'attacco seguendo l'esempio dei lanciatori di bombe caucasici, dei bojowcy polacchi. Attentati mortali contro poliziotti, cosacchi e agenti governativi, incominciarono a moltiplicarsi, così come gli espropri a mano armata di fondi pubblici o privati. «Gli espropri (ekspropriacija), sequestri con forza di somme di denaro sia custodite presso banche, sia presso uffici postali, magazzini di Stato, trasportate da treni postali o furgoni, ma all'occorrenza anche appartenenti a privati divennero una pratica frequente nel 1906 e 1907». Nella maggior parte dei casi le ekspropriacija avvenivano senza spargimento di sangue: le operazioni riuscivano a rimanere incruente perché le bande sfruttavano l'elemento sorpresa e una grande rapidità d'esecuzione. Accadeva tuttavia che qualche guardiano addetto alla sorveglianza degli obiettivi scelti dai druziny fosse ucciso. Quanto agli espropriatori rischiavano, in caso di cattura, la pena di morte per banditismo. Qualche biografo sostiene che già in questo periodo, cioè subito dopo il ritorno dalla Finlandia, anche Koba fosse impegnato in operazioni del genere sopra descritto, ma non è accertato. È sicuro, invece, che fu Ivan Lantos
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coinvolto nella preparazione di un complotto per l'assassinio del generale Grisanov, il governatore militare della Georgia che aveva personalmente comandato le cariche dei cosacchi contro i dimostranti e aveva fatto cannoneggiare i quartieri operai di Tiflis. Koba partecipò alla riunione per l'estrazione del nome di colui che, materialmente, avrebbe dovuto eseguire l'operazione. L'incontro avvenne in una osteria dei sobborghi di Tiflis. La sorte indicò un giovane operaio, Arsenius Dzhordzhashvili. Nell'atmosfera di diffusa esaltazione che accompagnava queste macabre liturgie, mentre tutti si congratulavano con il prescelto e brindavano alla sua salute, Koba smorzò gli entusiasmi richiamando l'attenzione dei suoi compagni sulla possibilità che il prescelto avesse commesso qualche errore, in tal caso avrebbe eseguito lui stesso l'attentato. Secondo Koba, la mano dell'attentatore avrebbe potuto tremare o la bomba, lanciata troppo in fretta, non esplodere. Un'operazione importante come la sopressione del generale Grisanov non poteva essere affidata a una sola persona. Le parole di Koba trovarono tutti d'accordo e fu incaricato lui stesso di trovare un vice-attentatore volontario. L'attentato non avrebbe comunque dovuto presentare complicazioni: il generale era solito fare una passeggiata servendosi di una carrozza aperta e offriva un bersaglio facile da colpire. Tuttavia, nel giorno scelto, il piccolo commando che accompagnava l'esecutore materiale s'accorse che insieme con il generale c'era anche la figlia. La bomba non venne lanciata; a un autentico georgiano, anche se bandito, ripugnava infatti di far del male a una donna. Il giorno dopo però il generale era solo, Dzhordzhashvili lanciò i suoi ordigni e il famigerato Grisanov morì dilaniato. Lo sventurato attentatore finì immediatamente nelle mani dei cosacchi, venne processato per direttissima da un tribunale militare e condannato a morte per pubblica impiccagione. Era stato sottoposto a un pesantissimo interrogatorio e, nonostante le sevizie, non aveva rivelato i nomi dei suoi complici. Affrontò coraggiosamente la morte da solo sulla forca che era stata issata nella piazza principale di Tiflis. Il vero eroe, il guerrigliero impavido e temerario di questo genere d'azioni era Semion Ter-Petrosian, il giovane armeno che era stato allievo di Koba al tempo in cui, immediatamente dopo esser stato espulso dal seminario teologico, questi si guadagnava da vivere facendo lezioni private. Semion Ter-Petrosian aveva assunto il nome di battaglia di Kamo e con questo nome era destinato ad entrare Ivan Lantos
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nella leggenda della lotta partigiana. Non tutti però, e soprattutto i menscevichi, condividevano questi metodi di lotta e non per un aprioristico rifiuto del terrorismo, ma perché s'erano resi conto che il fenomeno, generalizzandosi, sfuggiva sempre più al controllo delle organizzazioni. A coloro che agivano in nome di un ideale politico si mescolavano e si sostituivano veri e propri banditi i quali taglieggiavano, rapinavano e uccidevano soltanto per proprio personale tornaconto. Agli atti di guerra partigiana s'affiancavano delitti comuni, gettando sospetto e discredito sul movimento anche presso coloro che lo vedevano di buon occhio. Il problema venne affrontato durante il quarto congresso che si tenne nell'aprile del 1906 a Stoccolma e nel corso del quale si doveva sancire la riunificazione dei menscevichi e dei bolscevichi. Il Caucaso aveva inviato undici delegati, dieci menscevichi e soltanto un bolscevico: era KobaIvanovic. Il congresso approvò una risoluzione che condannava i furti, gli espropri, i contributi forzosi, la distruzione di edifici pubblici e di linee ferroviarie, ma i bolscevichi riuscirono a far passare un loro emendamento, caldeggiato da Lenin con il quale si riconosceva «la fatale necessità di una lotta attiva contro il terrore governativo e le violenze dei Cento neri». La raccomandazione era di evitare gli «attentati alle proprietà personali di cittadini pacifici». Altro tema di fondo, dibattuto al congresso di Stoccolma, e che vide una volta tanto menscevichi e bolscevichi attestati su posizioni non molto lontane, riguardava il destino delle proprietà terriere, argomento importantissimo per una nazione che, come quella russa, fondava la sua economia soprattutto sull'agricoltura. I menscevichi progettavano la repubblica russa ventura dominata dalla borghesia liberale e intendevano conferire poteri rilevanti alle amministrazioni locali. Lenin ipotizzava invece una «dittatura democratica degli operai e dei contadini» nella quale la proprietà di tutte le terre fosse affidata al governo centrale. Il delegato caucasico Koba-Ivanovic si dichiarò contrario a entrambe queste ipotetiche soluzioni, sia alla municipalizzazione, sia alla nazionalizzazione. Per lui la riforma fondiaria doveva essere attuata con la ridistribuzione delle grandi proprietà ai contadini. Secondo Koba, che bene Ivan Lantos
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o male era d'origine contadina e affermava d'avere quindi specifica competenza sul problema, né la municipalizzazione, né la nazionalizzazione avrebbero accontentato i lavoratori della terra. «Anche nei loro sogni» sottolineò Koba «i mugichi vedono i campi dei signori come una loro proprietà». La soluzione prospettata da Koba venne definita «distributismo» e condannata dalla maggior parte dei socialisti come una concessione reazionaria all'individualismo dei contadini. Scrive Isaac Deutscher: «Lenin tuonò contro quei militanti del partito che pensavano soltanto a ingraziarsi il mugic arretrato e, trascurando i principi socialisti, giocavano senza scrupoli sulla sua brama di proprietà. Koba-Ivanovic replicò che la riforma agraria da lui proposta poteva, sì, promuovere il capitalismo nelle campagne, ma questo era appunto lo scopo che i rivoluzionari, di comune accordo, si prefiggevano. Le piccole proprietà e il capitalismo rurale rappresentavano certamente un progresso rispetto al vigente feudalesimo». Lenin, alla fine, votò a favore della tesi del «distributismo», ma continuò ad accusare di miopia politica i personaggi del tipo di Koba-Ivanovic. Al suo ritorno da Stoccolma, Koba redasse un opuscolo informativo: secondo lui il bilancio del congresso era da ritenersi fallimentare, le risoluzioni adottate erano l'immagine dello spirito opportunistico che animava la maggioranza menscevica.
CAPITOLO VI VEDOVO INCONSOLABILE Il 1906 fu per gli ekspropriacija e per i terroristi un anno degno d'essere ricordato. In marzo, a Mosca, un gruppo d'assalto socialista prese di mira una banca portandosi via un bottino di 875 mila rubli. Sempre in marzo, a Duseti, nella zona di Tiflis, sei socialisti federalisti che erano riusciti a impadronirsi di divise militari, mascherati da soldati, confiscarono 315 mila rubli. In Polonia, i bojowcy di Josef Pisudski portarono un attacco simultaneo in diverse città a soldati e poliziotti uccidendone alcune decine. In agosto un commando misto di massimalisti e di uomini scelti dall'ufficio tecnico bolscevico di Pietroburgo compì un attentato contro la villa del ministro Piotr Stolipin e, in ottobre, assalì e saccheggiò Ivan Lantos
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un'automobile portavalori della Banca di Stato. In quell'anno memorabile, il mese d'ottobre fu certamente il più animato per i terroristi. Eccone il bilancio: 121 atti terroristici, 47 scontri con la polizia, 362 espropri. In soli quattro mesi erano stati uccisi 2118 funzionari o rappresentanti del regime. Uno dei centri più attivi era quello di Tiflis. E il «cervello» del terrorismo di Tiflis era Josif Vissarionovic Giugashvili nascosto dietro il nome di battaglia di Koba. «Il Caucaso» scrive Isaac Deutscher «fu la principale zona di operazioni delle squadre di combattimento. In principio, queste furono avvolte da un'aura di romanticismo che si addiceva perfettamente alla tradizione locale di brigantaggio cavalleresco». Nel maggio 1907, Koba tornò a servirsi del suo pseudonimo «da congresso» Ivanovic. Doveva infatti recarsi a Londra dove si teneva un nuovo congresso del partito. Rispetto alla precedente assise di Stoccolma c'erano rilevanti novità sia dal punto di vista qualitativo, sia quantitativo. Evidentemente il movimento stava davvero crescendo. A Stoccolma (aprile 1906) la ripartizione dei delegati era la seguente: trentasei operai e centotto intellettuali che si dividevano trecentoquarantatré incriminazioni per reati politici e duecentottantasei anni di carcere o di deportazione. A Londra, poco più che un anno dopo, i delegati operai erano centosedici e gli intellettuali erano centonovantasei, più diversi altri d'incerta collocazione. I rivoluzionari di professione erano cinquantasei, centodiciotto vivevano a spese del partito; quanto al certificato penale collettivo registrava settecentodieci imputazioni, ottocentotrentaquattro anni di reclusione o di deportazione, duecentodieci evasioni. E ancora, in un solo anno, i menscevichi erano passati da diciottomila a quarantatremila iscritti, i bolscevichi da tredicimila a trentatremila, i bundisti erano anche loro trentatremila, i polacchi ventinovemila, i lettoni tredicimila. Il congresso di Londra si tenne in una chiesa e si svolse attraverso trentacinque sedute alcune delle quali estremamente burrascose. Anche la partecipazione di Koba era stata oggetto di non poche complicazioni. I menscevichi non ritennero valido il suo mandato e, dopo estenuanti discussioni, venne ammesso con il solo voto consultivo. «La Georgia» ricorda Isaac Deutscher «era diventata una fortezza menscevica, al punto che Koba non poté ottenere credenziali da nessun organismo caucasico riconosciuto». La presenza più significativa al congresso di Londra fu quella di Leon Ivan Lantos
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Trotskij, da poco evaso dalla Siberia. Il giovane intellettuale aveva assunto una posizione centrista, cercando di conciliare due posizioni che avevano raggiunto un tale equilibrio numerico da rischiare la paralisi del partito. «Dove vi ha condotto la scissione» chiedeva Trotskij a menscevichi e bolscevichi «a fare le stesse cose gli uni a fianco degli altri, a calpestare un terreno comune e a pestarvi i piedi a vicenda. E tutto questo a che cosa vi ha portato? Prima siete stati costretti a trovare un accordo federativo, poi avete pensato alla riunificazione». Il monito a evitare successive scissioni e riunificazioni era solenne. Tuttavia la posizione di mediatore che Trotskij s'era assunto era priva di qualsiasi facile accondiscendenza: verso la sinistra del partito era estremamente critico, aveva accusato Lenin di ipocrisia tanto che il presidente del congresso s'era sentito in dovere di richiamarlo all'ordine. Ma i suoi discorsi non erano rimasti nel campo sterile della polemica, molti delegati avevano recepito il suo messaggio all'unità. Persino la combattiva Rosa Luxemburg, la passionarla anarco-socialista, pronunciò un intervento vicino alla concezione di «rivoluzione permanente» proposta da Trotskij. Nella Brotherhood church di Londra riesplose la polemica tra Martov e Lenin sul terrorismo rivoluzionario al quale anche molti bolscevichi volevano rinunciare. La risoluzione che condannava tutte le azioni armate e le espropriazioni venne approvata a larghissima maggioranza. Koba-Ivanovic fu, al congresso di Londra, una comparsa muta; forse Lenin stesso gli aveva chiesto di non mettersi in mostra. Era la prima volta che Koba vedeva di persona Leon Trotskij il quale non s'era neppure accorto dell'esistenza di quello che per lui era soltanto un oscuro delegato caucasico. Tornato in Georgia, Koba riferì del congresso londinese su Bakinski proletari} (Il proletario di Baku), giornale clandestino. Quanto alla non sopita polemica tra menscevichi e bolscevichi, Koba aveva scritto: «Qualcuno tra i bolscevichi ha osservato scherzosamente che essendo i menscevichi la fazione degli ebrei e i bolscevichi quella dei russi, ci converrebbe fare un pogrom nel partito». Affermazione di agghiacciante ambiguità se si pensa all'intimo antisemitismo di Giugashvili e alle sue dichiarazioni ufficiali che condannavano l'odio di razza. Quanto a Trotskij, Koba aveva pesantemente sottolineato la «magnifica inutilità» dell'ex presidente del soviet di Pietroburgo. Era sancita così una Ivan Lantos
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rivalità che doveva, alcuni anni dopo, costare cara, molto cara, al brillante Trotskij. Nonostante l'esplicita condanna pronunciata contro le varie azioni di guerriglia dal congresso di Londra, questo genere di risoluzioni e di raccomandazioni trovavano scarso seguito alla periferia del partito. Fin dal primo giorno del suo ritorno a Tiflis, Koba si dedicò alla preparazione della più clamorosa ekspropriacija della storia del movimento bolscevico: coinvolse oltre sessanta cospiratori e provocò la morte di una cinquantina di persone tra le quali numerosi poliziotti e guardie cosacche. Il mattino del 26 giugno 1907 (13 giugno secondo il vecchio calendario russo), verso le dieci e trenta, un reparto di cavalieri cosacchi armati fino ai denti passava per piazza Erivan, a Tiflis. Era la scorta di un furgone che trasportava trecentomila rubli in denaro contante e altri valori che dagli uffici della Posta centrale dovevano essere trasferiti alla filiale cittadina della Banca imperiale. Poco prima che il convoglio fosse apparso sulla piazza, un tale che indossava la divisa da capitano dell'esercito aveva invitato i passanti ad allontanarsi, facendo vaghe allusioni a qualche cosa di pericoloso che avrebbe potuto verificarsi. All'arrivo del furgone, l'uomo travestito da capitano gli si era lanciato contro gettando bombe. Dal tetto di una casa, di proprietà del principe Zumbatov, sulla piazza, venne scagliata un'altra bomba. Altri rivoluzionari, con ordigni vari, sbucarono improvvisamente da dietro gli angoli delle strade: almeno altre dieci bombe esplosero in rapida successione. Nel mezzo di una indescrivibile confusione, tra i fumi, i vetri infranti, i morti e i feriti sul selciato macchiato di sangue, il falso ufficiale s'era lanciato sui cavalli che imbizzarriti trascinavano all'impazzata il furgone. Era riuscito a fermarli. Dal furgone semidistrutto dalle bombe prelevò i sacchetti che contenevano il denaro e li passò ai suoi complici che sparirono come se fossero stati fantasmi. Poi anche lui si dileguò in una nuvola di polvere. Il falso capitano dell'esercito era l'ormai leggendario Kamo (Semion Ter-Petrosian) ed era assistito dal suo braccio destro Kote Tsintsadze, entrambi dotati di un fisico gigantesco e di un coraggio da eroi della mitologia banditesca georgiana. Al colpo avevano partecipato anche due donne: Pacija Goldava e Anja Sulamidze. Il bottino della sanguinosa rapina fu di trecentoquarantunomila rubli, quasi tutti in taglio da cinquecento rubli. Quello che né Koba, cervello dell'assalto, né gli esecutori potevano sapere è che i numeri di serie Ivan Lantos
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compresi tra AM 62900 e 63650 erano stati registrati. Accadde così che il cambio del bottino presso le banche estere (immediatamente avvertite) divenne quasi impossibile. Diversi personaggi di spicco del bolscevismo, tra i quali lo stesso Litvinov, vennero arrestati in vari paesi dell'Europa occidentale mentre tentavano di cambiare il denaro. L'intera vicenda venne ripresa con grande risalto sia dalla stampa russa, sia da quella europea: sul movimento rischiava d'essere impresso un marchio d'infamia. I menscevichi lanciarono pesantissime accuse contro lo stesso Lenin, colpevole secondo loro d'aver tradito i principi sanciti dai congressi di Stoccolma e Londra e denunciarono la questione a una giuria di partito presieduta dal menscevico Georgij Cicerin. Leon Trotskij scrisse articoli di fuoco sui giornali socialdemocratici tedeschi indicando Lenin come responsabile della disintegrazione materiale e morale del socialismo russo. Koba venne sottoposto a un'inchiesta e al successivo giudizio della maggioranza menscevica del partito caucasico. Alcuni membri della commissione raccomandarono l'espulsione di Koba e di tutti coloro che avevano partecipato alla fallimentare rapina di piazza Erivan. L'andamento dell'inchiesta e i risultati non sono noti; questo genere di procedimenti disciplinari interni non veniva mai verbalizzato per evitare che l'eventuale confisca dei verbali da parte della polizia danneggiasse l'intero movimento. È poco probabile che Koba fosse stato espulso, più verosimilmente fu sottoposto a censura e indotto a lasciare Tiflis, così come era accaduto quando sei anni prima s'erano scoperti i suoi intrighi contro Gibladze e gli altri menscevichi ed era stato «esiliato» a Batum. Costretto a lasciare Tiflis, non gradito a Batum dove era ancora vivo il ricordo della manifestazione che era costata la vita a tanti operai, a Koba restava soltanto una città del Caucaso dove poter trasferire le sue attività: Baku, la capitale del petrolio georgiano. Antica cittadina tataro-persiana, Baku era cresciuta in fretta dopo la scoperta dell'«oro nero»: dai quattordicimila abitanti del 1865 ai centododicimila del 1897 fino ai duecentomila del 1907. Aveva conservato la caratteristica fisionomia orientale con moschee e minareti, il grande bazar, l'intrico dei vicoli dove, in abitazioni minuscole e sordide s'ammassava la popolazione musulmana. I pozzi di petrolio dalla produzione in continuo aumento davano da lavorare a un proletariato miserabile e analfabeta composto da turchi, persiani, armeni, tatari e russi. Ivan Lantos
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«Era il proletariato industriale più numeroso della Georgia» sottolinea H. Montgomery Hyde «e, grazie agli sforzi di Leonid Krasin, il più impregnato di socialismo marxista in tutto l'impero russo, fatta eccezione per Pietroburgo e Mosca». A Baku, Josif Vissarionovic Giugashvili abbandonò il nome fittizio di Koba per quello di Kaios Vissarion Nisciaradze, un defunto commerciante di tappeti. Insieme con lui c'era la moglie, Keke: abitavano secondo la testimonianza di Sergei Alliluiev in una modesta casetta a un solo piano. Il lavoro politico a Baku non era agevole. La città era troppo marcatamente oriente asiatico e occidente europeo per consentire l'adozione di un metodo di proselitismo e di lotta univoco. Il quarantotto per cento degli operai era costituito da russi e armeni, il quarantadue per cento da persiani e tatari. C'erano poi i persiani che formavano un gruppo soggetto a migrazioni stagionali. Riunire tutte queste razze diverse sotto la bandiera del denominatore comune marxista era un'impresa ciclopica. I russi, operai specializzati, vivevano secondo i canoni dell'Europa industrializzata; i musulmani, la manovalanza, brancolavano ancora in una miseria di stampo medievale; i tatari, come annota Isaac Deutscher, «praticavano ancora l'autoflagellazione nei giorni della loro festività lo sciakhssei-vakssei. Spesso faide e vendette erano gli strumenti extragiudiziari che regolavano le controversie tra singoli e gruppi. Il quartiere musulmano era una specie di roccaforte misteriosa e impenetrabile, scenario ideale per attività clandestine e fu proprio in questo quartiere che Kaios Vissarion Nisciaradze, alias Koba, alias Ivanovic, cioè Josif Vissarionovic Giugashvili istallò la tipografia clandestina. Aveva individuato immediatamente il terreno sul quale operare per destare la sensibilità politica di quelle masse amorfe e semiselvagge: quello dei salari. Le grandi compagnie petrolifere erano proprietà di azionisti europei, ma il sistema retributivo rifletteva curiosamente la mentalità asiatica ed era formato da pochi denari contanti, il bacscisc o beshkes (come lo chiamava Koba) e da pagamenti in natura. La proprietà metteva in atto tutte le truffe che l'astuzia levantina poteva escogitare per truffare i lavoratori sul salario. È pur vero che nelle officine meccaniche nelle quali erano impiegati soprattutto lavoratori russi il sistema salariale era molto simile a quello Ivan Lantos
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occidentale, ma ciò contribuiva ad accentuare la discriminazione e la divisione tra i lavoratori. Oltre a occuparsi dei problemi salariali da convogliare nell'alveo della lotta politica, Koba s'interessava attivamente delle elezioni preliminari per la Duma previste per settembre. Le elezioni non erano dirette e ogni categoria sociale doveva scegliere separatamente i propri «grandi elettori»; a Baku, grazie al lavoro svolto da Koba, la scelta degli operai cadde sui bolscevichi. Per l'occasione, Koba scrisse un opuscolo dal titolo Istruzioni degli operai di Baku al loro deputato: il rappresentante doveva dipendere strettamente dagli ordini del partito e del comitato centrale, il suo compito non era quello di tutti gli altri membri della Duma, ma doveva in pratica portare nell'assemblea legislativa i fermenti rivoluzionari. Doveva, in altre parole, fungere da coscienza proletaria della Duma, mettendone in risalto l'illegalità in quanto espressione del potere zarista. Terminate le elezioni, Koba riprese la sua attività preferita: l'esacerbazione dei conflitti di lavoro nell'ambito delle industrie di Baku. I padroni, sosteneva Koba, dovevano trattare con le organizzazioni dei lavoratori e la base per avviare le trattative era abbandonare i metodi di retribuzione asiatica per adottare quelli europei. Koba espose il suo pensiero in una serie di articoli sul giornale Gudok (Il segnale), bollettino legale delle organizzazioni sindacali bolsceviche. La linea intransigente dei bolscevichi ebbe successo: gli industriali accettarono di trattare con tutti i rappresentanti dei lavoratori. Allora, Koba chiese ai cinquantamila operai di Baku di eleggere i loro delegati; ottenne anche dalle autorità che la polizia non disturbasse i lavori dell'assemblea. Tutto questo mentre i menscevichi s'erano dichiarati disposti a trattare senza porre alcuna condizione e i rappresentanti della comunità operaia armena avevano proposto di boicottare le trattative. Koba non era solo in quella battaglia, l'unica ancora in corso mentre nel resto della Russia infuriava la reazione imposta dal nuovo primo ministro Piotr Stolipin dopo che lo zar s'era rimangiato una gran parte delle concessioni semiliberali. Accanto a Koba, a Baku, ultima roccaforte della rivoluzione, c'erano uomini destinati a un futuro illustre: un giovane operaio metalmeccanico del bacino del Don di nome Kliment (Klim) Voroscilov che avrebbe portato la greca di maresciallo; Sergej Orgionikidze; i fratelli Jenukidze, Abel diventerà vicepresidente dell'Unione Sovietica; Suren Spandarian; Prokofi Giaparidze e Stepan Ivan Lantos
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Georgevic Sciaumian futuri commissari di Baku. Lenin seguiva con attenzione l'attività di Koba il quale aveva rinunciato a scrivere in georgiano per adottare il russo, lingua unificante nella babele di idiomi locali che divideva i lavoratori di Baku. Lenin leggeva con curiosità quegli articoli, certamente non brillanti, ma redatti con grande rigore logico e ne ammirava l'ortodossia bolscevica. Koba non era più l'anonimo delegato che Lenin aveva conosciuto e forse subito dimenticato al congresso del partito a Londra, era diventato, agli occhi del «capo», uno dei protagonisti della politica nazionale. Tuttavia, se da una parte la stella politica di Koba era in piena ascesa nel partito, lo aspettavano giorni terribili. Nell'autunno del 1907 la dolce e graziosa Keke si ammalò di polmonite. La malattia degenerò in una forma tubercolare acuta. Fino all'ultimo essa pregò perché il suo Soso si riconvertisse alla fede dei padri che lei non aveva mai abbandonato. Keke spirò serenamente all'alba di una giornata ventosa e soleggiata. Koba ne aveva seguito la breve agonia rigido come una statua di sale, senza lasciar trasparire la benché minima emozione. Con gli occhi asciutti, dinanzi alla salma di quella donna che forse non aveva avuto tempo e capacità d'amare come avrebbe voluto, disse: «Le avevo promesso che sarebbe stata sepolta con il rito ortodosso e manterrò la promessa». Per il rivoluzionario ateo e materialista, per l'esponente di un partito che negava il diritto d'esistenza a qualsiasi chiesa, doveva esser stata una promessa difficile da fare e ancor più difficile doveva essere mantenerla. Testimone di quella personale tragedia di Koba fu Josif Iremashvili il quale raccontò che ai funerali, Koba era sconvolto, distrutto dal dolore. Josif Iremashvili era diventato avversario politico di Koba passando nelle file dei menscevichi; nonostante ciò era stato accolto all'ingresso del cimitero con un abbraccio fraterno. «Soso» gli disse Koba, «questa creatura addolciva il mio cuore di pietra. Ora è morta e con lei sono morti i miei ultimi sentimenti di bontà per tutti gli esseri umani». Poi con una mano appoggiata alla bara e l'altra contratta sul petto, aveva aggiunto: «Adesso è tutto così desolato qui dentro, così indicibilmente desolato». E Josif Iremashvili che ben conosceva quell'uomo annientato dal dolore, commentò: «Dal giorno in cui seppellì la moglie, egli perdette le ultime tracce di sentimento umano. Il suo cuore fu pieno dell'odio inalterabile che Ivan Lantos
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suo padre aveva incominciato a generare in lui quando era ancora bambino. Privo di pietà verso se stesso lo divenne anche con tutti gli altri». Il piccolo Jakov, tre anni, figlio di Koba e della defunta Keke, venne affidato a parenti della madre, il fratello Aleksandr Svanidze e alla moglie di questo. Per dieci anni il bambino doveva vivere convinto di essere orfano d'entrambi i genitori. Poco tempo dopo la scomparsa della moglie, Koba e il suo compagno Sergej Orgionikidze vennero arrestati dalla polizia segreta e rinchiusi nel carcere Bailov. Le spesse mura e le sbarre del carcere non furono d'ostacolo al proseguimento dell'attività politica dentro e fuori della prigione. Gli opuscoli di propaganda entravano per quelle stesse misteriose vie per le quali uscivano gli articoli di giornale redatti dal detenuto Koba. Tra i carcerati per motivi politici si svolgevano animati dibattiti e se appartenevano a fazioni avversarie roventi polemiche. Ma la popolazione carceraria non era costituita soltanto dai reclusi e dai loro custodi, c'erano, mescolati ai primi, gli agenti provocatori dell'Okrana. La consapevolezza di queste inquietanti presenze rendeva l'atmosfera del carcere tesa, lacerata dai sospetti e talvolta la violenza faticosamente repressa esplodeva. L'uomo sospettato, qualche volta a torto, di essere un infiltrato della polizia politica segreta veniva ucciso. Si trattava di una misura autodifensiva prevista e accettata dal codice non scritto del movimento clandestino. La vita, nella prigione costruita per ospitare quattrocento detenuti e nella quale ne erano invece rinchiusi millecinquecento, era durissima, ma Koba sopportava disagi, percosse, insulti con una tale freddezza, una tale indifferenza come se non lo riguardassero. Simon Verescak, un socialista rivoluzionario compagno di pena di Koba, fornì sul suo comportamento interessanti testimonianze anche se forse in alcuni casi un po' alterate dall'antagonismo politico. Gli elementi essenziali sono comunque tali da poter essere creduti. Non era raro che i condannati a morte in attesa dell'esecuzione trascorressero gli ultimi giorni di vita insieme agli altri detenuti. Le impiccagioni avvenivano nel cortile della prigione e tutti potevano assistere alla terribile «passeggiata» del compagno che si avviava verso la forca. Per i nervi dei detenuti si trattava di una vera e propria tortura. Simon Verescak ricorda a questo proposito: «Mentre l'intero carcere era in Ivan Lantos
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agitazione per una condanna a morte che doveva essere eseguita nel corso della notte, Koba dormiva, s'esercitava nella grammatica tedesca o recitava frasi in esperanto che, secondo lui, sarebbe stata la futura lingua dell'Internazionale». Simon Verescak insinua anche che Koba fosse stato l'istigatore occulto dell'assassinio di alcuni detenuti ritenuti agenti provocatori. «Questa abilità nel colpire segretamente con la mano altrui, pur restando inosservato, fece di Koba un perfido organizzatore al quale non ripugnava l'uso di nessun mezzo e che eludeva ogni resa dei conti, ogni responsabilità». Un giudizio questo che pare estremamente grave e non privo di faziosità. Dal carcere ammonì i compagni delle industrie petrolifere di Baku a non abusare dell'arma degli scioperi generali e a non lasciarsi andare a violenze individuali contro i padroni o i dirigenti delle istallazioni e delle fabbriche. Ovviamente tutto ciò non doveva essere scambiato per una resa o un atteggiamento accomodante di fronte ai comportamenti paternalistici dei padroni e dei capi. Alla fine di novembre del 1908 venne notificato a Koba il decreto di deportazione, ma questa volta non era destinato alla Siberia. Avrebbe dovuto restare per due anni a Solvicegodsk, una minuscola colonia fondata nel XIV secolo dai mercanti russi nella parte settentrionale della provincia di Vologda come centro di scambio di sale e di pellicce, a circa cinquecento chilometri a nord-est di Pietroburgo. La località aveva un clima certamente meno ostile di quello, polare, dei luoghi di deportazione siberiani. Durante il viaggio di trasferimento, Koba si ammalò di tifo e venne ricoverato nell'ospedale di Viatka. La malattia rappresentò soltanto una sosta forzata; appena ristabilito il prigioniero riprese il disagevole viaggio verso la località designata per la sua deportazione. Koba arrivò a Solvicegodsk nel febbraio 1909. Poco si sa di come Koba trascorresse le sue giornate nella piccola località della Vologda sulle rive del fiume Sukhona; certamente godeva di un regime di semilibertà poiché la categoria di prigionieri alla quale apparteneva, deportati a seguito di un decreto amministrativo e non di una vera condanna penale, erano sottoposti a controlli polizieschi periodici. Un rapporto della gendarmeria lo definisce «volgare, insolente, privo di qualsiasi rispetto nei confronti delle autorità». A Solvicegodsk, Koba restò soltanto quattro mesi. Il 24 giugno 1909 Ivan Lantos
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fuggì e questa evasione «facile» alimentò ancora una volta le voci di una sua connivenza con l'Okrana. Secondo alcuni detrattori, ma un'involontaria conferma venne successivamente anche dal suo amico Lavrentij Beria, capo della polizia sovietica, Koba poté lasciare l'esilio di Solvicegodsk con un passaporto rilasciatogli dalla gendarmeria locale e intestato a tale Oganess Vartanovic Totomiants. Il passaporto aveva il numero 982 e la data del rilascio era quella del 12 maggio 1909, soltanto poche settimane prima della fuga di Koba. Prima di ritornare a Baku, Koba si fermò a Pietroburgo dove incontrò l'amico (e futuro suocero) Sergei Alliluiev e successivamente a Mosca. Durante la tappa a Pietroburgo, Koba aveva ripreso i contatti con i membri del quartier generale clandestino del partito dal quale era stato accolto come un amico e come un eroe di quell'ultima trincea della rivoluzione che era unanimemente considerato il Caucaso e in particolare la città operaia di Baku; Koba garantì ai compagni che avrebbe inviato dal Caucaso le sue corrispondenze ai giornali di partito che venivano pubblicati dagli esuli russi nei vari paesi dell'Europa occidentale. In cambio della sua fedeltà e disponibilità ebbe un nuovo passaporto, anche questo naturalmente falso, intestato a Zachar Grigorian Melikiants. Con questa nuova identità, Koba giunse a Baku nel luglio del 1909. La situazione che trovò nell'ultima trincea della rivoluzione non gli piacque, la trincea infatti era squallidamente in disarmo: gli iscritti s'erano ridotti a duecento bolscevichi e poco più di cento menscevichi; l'attività dei sindacati languiva soprattutto per mancanza di aderenti; i circoli culturali, prima della sua partenza per la deportazione, vere e proprie centrali dell'eversione, agonizzavano. Le finanze del partito erano inesistenti e l'attività della stampa clandestina s'era ridotta a zero: dal giorno che Koba aveva lasciato Baku per Solvicegodsk il Bakinski proletari] aveva sospeso le pubblicazioni. Le ore di lavoro, negli impianti d'estrazione del petrolio, erano state aumentate da otto a dieci e i lavoratori non avevano ottenuto nessuna contropartita economica. Insomma era lo sfascio. Koba non perse tempo in sterili recriminazioni, semmai la situazione era la prova della sua forza, del fatto che il suo lavoro era indispensabile all'organizzazione. Koba, cioè Zachar Grigorian Melikiants, trovò rifugio nel campo petrolifero di Balaklana dove mise in piedi una stamperia clandestina: tre settimane dopo il Bakinski proletari] riprendeva le pubblicazioni. Nei suoi Ivan Lantos
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articoli non firmati la «talpa» esaminava le ragioni che avevano prodotto la crisi del partito non soltanto in Georgia e nel Caucaso, ma in tutta la Russia e persino in esilio. Mancanza di collegamento, soggiorno della direzione all'estero e quindi mancanza di contatti reali con la realtà russa, dissensi non soltanto tra le varie fazioni, ma all'interno dello stesso gruppo bolscevico, questi erano i sintomi principali della malattia che aveva colpito secondo Koba il partito e dalla quale avrebbe dovuto affrettarsi a guarire se non avesse voluto soccombere. Inutile dire che il «medico» al quale Koba si rivolgeva era Lenin. L'allarme accorato del rivoluzionario georgiano era stato lanciato in un momento tanto poco opportuno per essere ascoltato, quanto emblematico del fatto che si trattava di un allarme giustificato. Infatti mentre la situazione, in Russia, era fallimentare, all'estero i grandi capi erano impegnati in una disputa ideologica ad altissimo livello che sconfinava nel campo della filosofia. Lenin e i suoi seguaci, assertori dell'ortodossia marxista, erano ingabolati in una dura polemica con i radicali che pretendevano di modificare alcuni fondamenti del materialismo storico. Lenin, isolato nelle biblioteche di Parigi, s'era dedicato alla redazione della sua opera filosofica Materialismo e empiriocriticismo, i suoi allievi riuniti nella scuola di Longjumeau (vicino a Parigi). I radicali, «sponsorizzati», come si direbbe oggi, dallo scrittore Maksim Gorkij, avevano istituito la loro scuola alternativa nell'isola di Capri. La polemica, non a torto ritenuta sterile e distruttiva da Koba, assorbiva energie, denaro e uomini sottraendoli alla vera e urgente causa rivoluzionaria. Koba evitò di entrare in aperto conflitto con Lenin del quale affermava di condividere la concezione filosofica, ma era evidente che dal suo rifugio nel campo petrolifero di Balaklana non aveva alcuna intenzione di lasciarsi coinvolgere in dissertazioni che non avevano alcuna attinenza con la realtà russa. E quasi per sottolineare di essere rimasto solo a confrontarsi con le preoccupazioni del quotidiano scrisse una serie di articoli per Social democrat, l'organo del comitato centrale bolscevico-menscevico che veniva pubblicato a Parigi e a Ginevra. Social democrat era diretto da un comitato nel quale figuravano Lenin, Zinoviev, Kamenev, Dan e Martov e a loro, più che alla vasta cerchia di lettori, erano indirizzate le «Lettere dal Caucaso» (questo era il titolo delle corrispondenze di Koba). Vi si riferiva Ivan Lantos
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con scrupolo notarile della situazione dell'industria petrolifera, della condotta delle autorità locali, delle vicende sindacali, delle attività legali e clandestine dei socialisti; e dal contesto affioravano i termini di un dibattito a distanza che Koba voleva restasse saldamente ancorato al reale. Il movimento dei lavoratori era stato rivitalizzato da Koba anche se non erano stati raggiunti i livelli precedenti. Il 23 marzo 1910, proprio alla vigilia di uno sciopero generale che avrebbe dovuto paralizzare le industrie petrolifere, Koba venne arrestato nuovamente dalla polizia. Zachar Grigorian Melikiants era stato scoperto, ma era comunque riuscito a stampare nella tipografia clandestina un opuscolo in onore di August Bebel, settant'anni, prestigioso leader della socialdemocrazia tedesca. L'opuscolo dedicato a colui che con le sue parole «ha fatto tremare le teste coronate di tutt'Europa» incominciò a circolare clandestinamente proprio nel giorno in cui i poliziotti rinchiudevano Koba nella prigione Bailov. Il giorno successivo all'arresto, il capitano Fedor Ivanovic Galimbatovski, ufficiale addetto alla gendarmeria di Baku, inviò a Pietroburgo una relazione nella quale raccomandava alle autorità di sicurezza di tener conto della pericolosità del recidivo rivoluzionario e delle due evasioni da lui compiute. Lo zelante poliziotto suggeriva anche che contro il detenuto fossero prese misure particolarmente severe: almeno cinque anni di deportazione in un distretto lontano della Siberia. Lo scrupolo poliziesco del capitano Galimbatovski fu profondamente deluso, Josif Vissarionovic Giugashvili venne rimandato, con il consueto decreto amministrativo, a Solvicegodsk, dove avrebbe dovuto finire di scontare il biennio d'esilio interrotto la volta precedente. Inoltre in base a un'ordinanza del vicerè, una volta rientrato dalla deportazione, gli era interdetta la residenza nella regione del Caucaso e in tutte le grandi città industriali dell'impero russo. Koba lasciava il Caucaso per sempre.
CAPITOLO VII NASCE STALIN Nell'ottobre 1910, Koba giunse per la seconda volta a Solvicegodsk, località amena di boschi e praterie dove però i deportati non potevano Ivan Lantos
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recarsi né per passeggiare, né per raccogliere funghi. Secondo lo storico bolscevico V. Nevskij, Koba partecipò «alla creazione di un'organizzazione socialdemocratica, tenne conferenze, lavorò alla formazione di propagandisti». Poche sono tuttavia le notizie relative a questo periodo: Koba abitava nella casa di una certa Maria Kuzakova e certamente s'annoiava molto. La sorveglianza della polizia era costante e la censura sulla corrispondenza abbastanza meticolosa. Nonostante ciò egli inviò almeno due lettere, una indirizzata al bolscevico Isaac Schwarz, membro del comitato centrale, molto vicino a Lenin, con la quale suggeriva la formazione di un centro di coordinamento russo, offrendosi senza però dirlo esplicitamente come responsabile del centro. Questa lettera, Koba l'aveva, inspiegabilmente, inviata per mezzo della posta ordinaria; quel che è ancora più strano, certamente intercettata dalla censura zarista, era stata poi fatta proseguire fino al destinatario. La seconda lettera, affidata a una maestra di nome Bobrovskaia, era diretta ai bolscevichi di Mosca e riflette lo stato d'animo irrequieto e irritato di Koba il quale scriveva tra l'altro: «Nel luglio di quest'anno avrà termine la mia segregazione in questo luogo. Ilic e compagni mi chiamano a uno o due centri senza aspettare che sia giunto il momento (le possibilità sono maggiori per una persona che è in regola con la giustizia). Ma se ci fosse una necessità urgente, in tal caso, naturalmente, io prenderò il largo. Qui si soffoca nell'inedia. Io boccheggio. Ci è giunta notizia della tempesta in un bicchier d'acqua che s'è scatenata all'estero: i blocchi di LeninPlekhanov da una parte e quello di Trotskij-Bogdanov dall'altra. L'atteggiamento dei lavoratori nei confronti del primo blocco, per quello che risulta a me, è favorevole. Tuttavia, in generale, i lavoratori incominciano a guardare con disprezzo "l'estero". Protestano: "Che striscino pure sul muro come e finché vogliono, ma la nostra opinione è che colui il quale ha a cuore gli interessi del movimento debba darsi da fare. Quanto agli altri, baderanno a se stessi". Questo penso è per il meglio. Indirizzo: esiliato politico Josif Giugashvili, Solvicegodsk, provincia di Vologda». Alcuni storici sostengono che le parole durissime rivolte da Koba all'«estero» cioè a quel gruppo di compagni che si trovavano esiliati volontariamente nei diversi paesi d'Europa avessero fatto irritare Lenin il quale aveva gratificato l'irrequieto e irascibile georgiano d'immaturità Ivan Lantos
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politica. Ma Lenin non era uomo da covare a lungo la malapianta del risentimento. Questa volta, Koba finì di scontare per intero il periodo di deportazione che si concluse nel giugno del 1911. Poteva lasciare Solvicegodsk, ma non far ritorno nel Caucaso e nemmeno stabilirsi in qualche grande città: come residenza scelse Vologda, capoluogo dell'omonima provincia, ben collegata sia con Mosca, sia con Pietroburgo, città dalle quali la divideva la medesima distanza. Ma poteva un uomo come Josif Vissarionovic Giugashvili-Koba intristire nell'inattività, assistere passivamente al passaggio di quel treno della storia che per tanto tempo aveva contribuito a far marciare? Cambiata ancora una volta identità facendosi chiamare Cizikov, il 6 settembre 1911, alla stazione di Vologda, salì sul treno del pomeriggio diretto a Pietroburgo. La trasgressione era per lui uno degli esercizi più eccitanti. C'erano nuvole basse e pioveva sulla capitale quando la mattina presto il treno arrivò alla stazione Nikolaevskij. KobaCizikov si mise a girovagare per la città, un vagabondo vestito modestamente non attirava l'attenzione dei poliziotti: il suo scopo era d'incontrare all'uscita del turno di lavoro qualche compagno al quale chiedere aiuto e alloggio. Sulla prospettiva Newski riconobbe in un gruppo di operai il tipografo Sila Todria. Lo seguì con prudenza, poi quando fu certo che nessuno lo notasse gli si avvicinò. Non ci furono né abbracci, né gesti di gioisa o di commozione per quell'incontro sorprendente per Sila Todria. Neppure una stretta di mano. Koba, da parte sua era troppo allenato alla prudenza del clandestino per meravigliarsi dell'apparente indifferenza del compagno. In poche parole Sila Todria gli illustrò la situazione: l'Okrana era in stato di massima all'erta poiché poche ore prima, durante uno spettacolo di gala nel teatro dell'Opera di Kiev, presenti lo zar e diversi membri della famiglia imperiale, era stato assassinato il primo ministro Piotr Stolipin. L'attentatore che aveva freddato l'odiatissimo Stolipin con un solo colpo di rivoltella era un certo Bagrov, agente provocatore al soldo dell'Okrana, il quale con quel gesto estremo aveva voluto «redimersi agli occhi del movimento clandestino». Sila Todria trovò alloggio a Koba in un piccolo albergo nella via Gonciarnaia sul registro del quale fu registrato come Cizikov. Il mattino successivo si recarono insieme a casa di Sergei Alliluiev che abitava nel quartiere operaio di Viborg. Tutta la zona e, in particolare, la casa di Ivan Lantos
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Alluiluiev del quale era nota l'attività politica erano sottoposte a una scrupolosa sorveglianza da parte di poliziotti in borghese, ma Koba, una volta tanto, aveva rinunciato all'abituale circospezione. Bussarono. Andò loro ad aprire una delle figlie di Sergei Alliluiev, Anna Alliluieva. Todria fece le sommarie presentazioni e Anna si rese conto che l'uomo magro, dalla barba lunga, coperto da un lungo e dimesso cappotto nero che le stava davanti era il grande rivoluzionario georgiano del quale suo padre tante volte aveva parlato come d'un romantico eroe. Sergei Alliluiev tornò dal lavoro per l'ora di cena. L'incontro con il compagno di lavoro di Tiflis e di Baku fu calorosissimo. Dopo cena i tre uomini si chiusero in una stanza per parlare mentre Anna e suo fratello Fedia vennero mandati in strada per verificare se i poliziotti in borghese, ovviamente riconoscibilissimi, fossero ancora appostati. C'erano, con in testa le loro assurde bombette che li rendevano più identificabili della stessa uniforme. Successivamente, a casa di Sergei Alliluiev, si presentò un altro operaio, tale Zabelin, il quale, a notte fonda, si offrì di accompagnare Koba al sicuro. Zabelin conosceva ogni strada e ogni vicolo della città e non gli fu difficile far perdere le tracce. Ospitò Koba per il resto della notte che trascorse senza incidenti. Il giorno dopo il clandestino incontrò altri compagni, poi la sera ritornò al suo albergo. Non era ancora spuntata l'alba che udì bussare con violenza alla porta della stanza. Mezzo inebetito dal sonno sentì gridare la fatidica frase: «Aprite, polizia!». Gli uomini dell'Okrana che a sua insaputa lo seguivano dal momento in cui aveva posato i piedi sul marciapiede della stazione Nikolaevski, gli diedero appena il tempo di sciacquarsi il viso e di indossare gli abiti. Era di nuovo in arresto. Lo condussero al carcere di Pietroburgo dove trascorse tre mesi tra inattività forzata e interrogatori. Neppure in questa non fortunata occasione la sorte gli fu particolarmente avversa: a metà dicembre gli venne comunicata la destinazione dove avrebbe dovuto trascorrere tre anni di deportazione. No, non. era la temuta Siberia. Era, inaspettatamente, Vologda. Meglio di così non gli poteva andare. Per Koba era un momento decisamente favorevole. Nel gennaio del 1912, Lenin riunì a Praga i bolscevichi e un gruppo di seguaci di Plekhanov: lo scopo della riunione era quello di comunicare la costituzione in partito della sua fazione o, come dice Isaac Deutscher «per fare della sua fazione "il" partito». Dopo tante polemiche, dopo innumerevoli e Ivan Lantos
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pazienti tentativi di riunificazione, era venuto il momento della definitiva rottura con i menscevichi. In occasione di quel congresso praghese, Lenin propose Josif Vissarionovic Giugashvili-Koba come candidato a far parte del comitato centrale. Il nome del candidato georgiano non era così popolare tra i delegati come invece aveva creduto Lenin. Il fatto è che la maggior parte dei congressisti svolgeva la propria militanza in esilio e gli esuli si conoscevano bene tra loro, ma sapevano ben poco (e soltanto per sentito dire) di Koba che, per questa ragione, non venne eletto. Venne invece eletto Sergei Orgionikidze che di Koba era stato uno degli aiutanti e che aveva diviso con lui la cella nella prigione di Baku. L'elezione di Orgionikidze non fu altro che la conferma della condotta dei delegati: egli infatti era conosciuto in quanto viveva a Parigi dove frequentava la scuola ideologica leninista di Longjumeau. Ma Lenin non si diede per vinto. Aveva deciso che Koba doveva far parte del comitato centrale e così sarebbe stato. Secondo lo statuto del partito il comitato centrale eletto aveva diritto a cooptare un certo numero di membri e Lenin fece valere per Koba questa norma. Il nuovo comitato centrale era formato da Lenin, Grigorij Zinoviev, Sergei Orgionikidze, Roman Malinovskij (un polacco naturalizzato russo che successivamente si rivelò un agente dell'Okrana) e Josif Vissarionovic Giugashvili detto Koba, assente giustificato. Josif Vissarionovic Giugashvili, o meglio Ivanovic come era chiamato da Lenin, dovette attendere la metà di febbraio (del 1912) per sapere della prestigiosa nomina e dei lavori del congresso. Soltanto allora, Sergei Orgionikidze, emissario del comitato centrale, riuscì a recarsi a Vologda per informarlo. «Sono stato a trovare Ivanovic» riferì poi Orgionikidze a Lenin «e ho chiarito con lui ogni cosa. È molto contento di come si sono svolti i fatti e le notizie che gli ho portato lo hanno molto soddisfatto». Koba era senz'alcun dubbio lusingato per la nomina, tanto più che l'aveva voluta personalmente Lenin, e non poteva non compiacersi per il definitivo divorzio tra bolscevichi e menscevichi. Entrambi i fatti gli misero addosso una gran voglia d'evadere, di far ritorno tra i «vivi» per riprendere la lotta tanto più che ora poteva fregiarsi dei «gradi di ufficiale» e, finalmente, la distinzione tra «nemici» e «alleati» era chiara e inequivocabile. Mentre studiava un piano d'evasione rivolse un proclama ai socialisti russi per spiegare e commentare il congresso di Praga e lo firmò «comitato Ivan Lantos
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centrale del partito socialdemocratico russo dei lavoratori»; per la prima volta «parlava a nome della direzione nazionale del bolscevismo». Le seimila copie del proclama vennero distribuite nei principali centri industriali del paese. Il 29 febbraio, cinque giorni dopo la visita di Sergei Orgionikidze, Koba si allontanò da Vologda. La sua prima mèta era il Caucaso, la regione che gli era stata interdetta per decreto vicereale. Una sfida? Forse, ma più verosimilmente volle recarsi a Tiflis e a Baku per illustrare di persona ai suoi compaesani le decisioni del congresso di Praga. Di certo non ebbe il tempo per placare la nostalgia della sua terra d'origine. Pochi giorni dopo era già a Mosca per consultarsi con Sergei Orgionikidze su alcuni aspetti operativi del leninismo. Ai primi d'aprile rientrò a Pietroburgo: c'era parecchio da lavorare, si doveva preparare la manifestazione del 1° maggio e, soprattutto, l'uscita del primo numero della Pravda (La verità). Koba si dette da fare con la consueta solerzia e il grande entusiasmo di sempre. Organizzò riunioni con i deputati bolscevichi della Duma dei quali controllava l'attività su incarico del comitato centrale, scrisse alcuni articoli per la Sveszda (La stella) e la presentazione della Pravda e redasse il testo di un altro proclama. Il tono, tenuto conto che si trattava del proclama di preparazione del 1° maggio, era tremendamente retorico e riecheggiava la cultura religiosa assimilata da Koba ai tempi del seminario teologico di Tiflis. «Sempre più s'allarga l'oceano del movimento operaio, inghiottendo sempre nuovi paesi e Stati, dall'Europa all'Asia, dall'America all'Africa e all'Australia» aveva scritto Koba. «Il mare della collera proletaria si sta gonfiando in altissime ondate e sferza in maniera sempre più minacciosa le rocce ormai corrose del capitalismo. Fiduciosi nella loro vittoria, calmi e forti, i lavoratori marciano con fierezza sulla strada della terra promessa. I lavoratori russi debbono dire oggi che, al pari dei loro compagni dei paesi liberi, essi non adorano e non adoreranno mai il vitello d'oro». La Pravda uscì il 22 aprile 1912: il primo articolo di fondo, come abbiamo detto, era opera di Koba; il segretario di redazione si chiamava Viaceslav Michajlovic Scriabin, aveva ventidue anni, era nipote del celebre musicista Aleksandr Scriabin, era destinato a condividere la buona sorte dell'impero sovietico insieme con Koba con il nome di Molotov (che in russo significa martello). Ivan Lantos
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Nell'articolo di fondo della Pravda, Koba assicurava che non avrebbe cercato di nascondere o attenuare le polemiche che dividevano i socialisti. «Noi crediamo che un movimento forte e vitale» scrisse Koba «sia inconcepibile senza qualche polemica. La perfetta identità di vedute può essere realizzata soltanto in un cimitero». Koba viveva a Pietroburgo in un nascondiglio sicuro: la casa del giornalista Politaiev, deputato bolscevico alla Duma, l'abitazione del quale, proprio per il mandato dell'inquilino, non era sottoposta a sorveglianza da parte dell'Okrana. Ma il 22 aprile 1912, giorno dell'uscita del primo numero della Pravda, Koba decise di abbandonare il suo comodo rifugio. Poche ore dopo essere uscito venne arrestato. Rinchiuso nella prigione di Pietroburgo, attese tre mesi che gli fosse notificato il consueto ordine di deportazione: questa volta la destinazione fu Narim, nella provincia di Tomsk, nella Siberia centrale, a circa duemilacinquecento chilometri da Pietroburgo. A Narim, Koba trovò un'ottima compagnia di deportati. C'erano Jakov Sverdlov, futuro presidente della repubblica sovietica; Michail Lascevic e Ivan Smirnov, destinati a portare la greca di comandante dell'Armata rossa; Semion Verescak che era stato compagno di Koba nella prigione Bailov di Baku e Semion Suri, un socialrivoluzionario, compagno di Koba nell'esilio di Vologda, sospettato di essere un informatore della polizia. Poco dopo l'arrivo di Koba, Jakov Sverdlov tentò la fuga servendosi di un passaporto abilmente falsificato da Semion Verescak, ma venne catturato e ricondotto a Narim. Koba s'imbarcò su un battello che risaliva il fiume Irtish senza che nessuno lo fermasse. Fece due tappe, la prima a Tobolsk e la successiva a Tomsk dove salì, sempre indisturbato, su un vagone della Transiberiana. Qualche giorno dopo scendeva alla stazione di Pietroburgo. Avrebbe dovuto restare a Narim tre anni, c'era rimasto due mesi esatti. Koba venne ospitato nella casa di Sergei Alliluiev, in via Sampsonievskaia e si mise immediatamente al lavoro: c'era da organizzare e seguire la campagna elettorale del partito nelle elezioni della quarta Duma. Redasse un manifesto, il destinatario del quale era, idealmente, il candidato bolscevico: suscitò l'entusiasmo di Lenin, a tal punto che ne pubblicò il testo su Social democrat. «Nella situazione attuale l'arena della Duma è uno dei mezzi più efficaci per guidare e organizzare le grandi Ivan Lantos
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masse del proletariato» scrisse Koba. «Proprio per questa ragione noi mandiamo un nostro deputato alla Duma e incarichiamo lui e tutta la delegazione socialdemocratica alla quarta Duma di rendersi interpreti delle nostre richieste. Vogliamo udire le voci del gruppo risuonare forte dalla tribuna della Duma, proclamando le finalità ultime del proletariato, ribadendo le richieste globali e intatte del 1905, proclamando la classe lavoratrice russa guida del movimento popolare, i contadini come l'alleato più affidabile della classe lavoratrice e la borghesia come traditrice della libertà popolare». Per tutta la durata della campagna elettorale bolscevichi e menscevichi si contesero duramente i suffragi dell'elettorato operaio. Le operazioni si svolsero in tre fasi: elezione dei rappresentanti nelle fattorie e nelle fabbriche; elezione degli elettori; elezione dei deputati. Le autorità tentarono di invalidare la prima fase dopo aver verificato i risultati ottenuti dai bolscevichi in alcune delle aziende industriali più importanti, ma dovettero fare marcia indietro. Lenin, che si trovava a Cracovia, allora nella Polonia austriaca, aveva dato istruzioni a Koba di riunire l'esecutivo bolscevico di Pietroburgo per indire uno sciopero generale. Di fronte alla minaccia il governo convalidò tutti i risultati. Furono eletti tredici deputati socialdemocratici: sei bolscevichi espressione dell'elettorato operaio e contadino e sette deputati menscevichi che ricevettero il mandato dalla borghesia. Concluse le elezioni, Lenin convocò una riunione del comitato centrale a Cracovia, chiese che intervenisse anche Valentina Lobova che fungeva da segretaria del gruppo bolscevico alla Duma. Valentina Lobova aveva anche l'incarico di procurare a Koba un passaporto finlandese, il documento doveva essere fornito da Aleksandr Shotman, un bolscevico che abitava a Helsinki e che era in grado di ottenere con grande facilità passaporti dalle autorità finlandesi. Valentina Lobova accompagnò Koba a Helsinki dove Aleksandr Shotman spiegò che per recarsi a Cracovia avrebbero potuto seguire due itinerari: quello più rapido, ma più rischioso, partiva dal porto di Abo, via mare; l'altro, più lungo e più sicuro, da Tornio a Harapanda e fino alla frontiera svedese. Koba scelse la strada più rapida: Shotman, Valentina Lobova e lui si diressero verso il porto di Abo e mentre si avvicinavano al traghetto vennero fermati da due gendarmi per il controllo dei passaporti. Fu, per Shotman, un momento d'angoscia, temeva infatti che i poliziotti s'insospettissero per l'aspetto fisico di Koba che non Ivan Lantos
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era certamente finlandese. Ma non accadde niente. L'imbarco avvenne regolarmente e dopo alcuni giorni Koba e Valentina Lobova giunsero a Cracovia. Lenin avrebbe voluto che, anche in seno alla Duma, si realizzasse la divisione netta tra deputati menscevichi e bolscevichi che riflettesse la situazione generale del movimento socialdemocratico. Con sua grande sorpresa Lenin dovette constatare che proprio il suo «pupillo» Koba era quello che con maggior decisione gli era contrario. Koba però sapeva, per esperienza diretta, che la classe operaia, anche quella parte di essa che era più vicina ai bolscevichi, non condivideva la scissione. Neppure i deputati bolscevichi alla Duma s'entusiasmavano all'idea di rendere pubblico un dissidio, atto che significava ammettere la propria debolezza in un'assemblea di blocchi reazionari fortissimi. Koba, tornato a Pietroburgo, non nascose la volontà scissionista di Lenin ai compagni, ma cercò di limitarne gli effetti. Tutto ciò non piacque a Lenin, tanto più che Koba si servì della Pravda per manifestare il suo dissenso verso il capo. Lenin riconvocò il comitato centrale e i sei deputati bolscevichi della Duma a Cracovia. Era dicembre e Koba partì da Pietroburgo senza passaporto con il treno. Scese alla stazione di frontiera di Dabrowa Gornicza dove aveva fatto in modo di arrivare prima dell'alba, convinto che a quell'ora la sorveglianza della polizia fosse allentata. Era saltato giù dall'ultimo vagone mentre il treno rallentava prima di fermarsi e aveva imboccato la strada che, gli avevano detto, portava in direzione di Cracovia. Aveva percorso alcune verste quando giunse in prossimità di una casa di contadini, si avvicinò con circospezione e sbirciò da una finestra dietro la quale ardeva un lume. Dentro c'era un uomo di mezz'età che stava riparando la suola d'uno stivale. Un ciabattino, come Vissarion Ivanovic, il padre di Koba. Gli parve un buon segno. Bussò. L'uomo chiese chi fosse e lui rispose: «Un rivoluzionario». L'uomo scostò l'uscio e lo fece entrare domandandogli che cosa volesse. Koba gli espose brevemente il suo problema: doveva passare il confine per andare a Cracovia ed era senza passaporto. Il contadino si offrì d'accompagnarlo, ma prima gli diede da mangiare e mentre consumavano il cibo semplice ma saporito gli chiese da dove venisse. Saputo che era georgiano si mostrò lieto e pieno di comprensione, lui era polacco e sapeva che la Georgia, come la Polonia, era oppressa dal regime zarista. E Ivan Lantos
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particolarmente contento fu nell'apprendere che il padre del suo ospite era stato ciabattino come era lui. S'era messo in movimento un complesso sistema di solidarietà e di complicità. Poi si misero in cammino. Koba non era del tutto certo che il polacco lo conducesse veramente verso il confine. E se lo avesse consegnato alla polizia? Dopo un'ora erano al limitare di un bosco e stava per spuntare il giorno. Il ciabattino indicò a Koba un sentiero. Avrebbe dovuto proseguire da solo. A un'altra ora di cammino c'era la stazione ferroviaria di Trzebinia dove avrebbe potuto salire sul treno diretto a Vienna che l'avrebbe portato a Cracovia. Il contadino-ciabattino rifiutò d'accettare la modesta somma (in rubli) che Koba gli offrì; dichiarò che era sufficientemente soddisfatto d'aver potuto aiutare un avversario del regime russo. Non avendo pratica del luogo gli ci vollero due ore per arrivare alla stazione di Trzebinia. In attesa del treno per Vienna si sedette al ristorante. Qui gli accadde un curioso incidente: era affamato e ordinò da mangiare al cameriere. L'uomo servì gli avventori che avevano ordinato prima di Koba, poi quelli che erano arrivati dopo di lui, poi altri ancora. Arrivavano i treni, i viaggiatori s'affrettavano a lasciare il ristorante per salire nelle vetture, ai tavoli del ristorante s'alternavano i clienti che venivano serviti dal solerte cameriere che continuava a ignorare Koba. Finalmente arrivò il treno per Cracovia e Koba affamato e inviperito si mise in viaggio. Arrivato a destinazione, la prima cosa che chiese a Lenin fu di poter mangiare qualche cosa e gli raccontò quello che gli era capitato nel ristorante della stazione di Trzebinia. Lenin ascoltò l'ancora furente Koba con aria divertita, poi gli fornì la spiegazione di quell'episodio che sembrava misterioso e assurdo, ma che misterioso e assurdo non era. Koba, naturalmente, non conoscendo il polacco, aveva ordinato in russo; e qui stava la chiave di tutto. Il cameriere polacco, come la stragrande maggioranza dei suoi connazionali, odiava talmente i russi oppressori della sua patria da far finta di non capire la loro lingua. Koba scoppiò in una gran risata: proprio lui era rimasto vittima di un'azione di boicottaggio antizarista. Lenin gli suggerì per un'altra eventuale occasione analoga di servirsi, visto che non sapeva il polacco, di gesti da sordomuto, sicuramente gli avrebbero dato da mangiare. Nel corso della riunione di Cracovia, Lenin nominò un nuovo direttore della Pravda. era Jakov Sverdlov (futuro presidente della repubblica Ivan Lantos
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sovietica) ritenuto in grado di garantire un più elevato livello qualitativo al giornale e a Lenin una più ferrea ortodossia. Il «capo» riuscì anche a convincere i sei deputati bolscevichi della Duma a staccarsi dal gruppo menscevico. Koba non si accorse, o fece finta di non accorgersi, che Lenin gli impartiva una garbata, ma rigorosa lezione di disciplina. E dopo la lezione fu sottoposto a uno scrupoloso esame al termine del quale il «maestro» gli espresse apprezzamento e soddisfazione: a Koba vennero assegnate alcune delicate missioni a Cracovia e a Vienna. Lenin gli chiese anche di preparare un ampio articolo sul problema delle nazionalità nel Caucaso; durante i loro colloqui infatti aveva avuto modo di accertare che quel giovanotto georgiano di trentatrè anni, intelligente e astuto (anche se non geniale e culturalmente un po' limitato) aveva dell'argomento una conoscenza pratica e teorica veramente ragguardevole. L'articolo sarebbe stato pubblicato sulla prestigiosa rivista teorica del partito, la Prasvescenie (L'illuminazione). Lenin, con tutta la discrezione della quale era capace, suggerì a Koba l'impostazione generale dell'articolo. Koba si mise a lavorare, ma si rese ben presto conto che non si poteva limitare un esame serio del problema delle nazionalità al pur complesso mondo del Caucaso trascurando tutto il resto dell'impero russo e di quello, non meno caleidoscopico, austro-ungarico. Espose le sue riserve a Lenin che lo ascoltò con entusiasmo e gli suggerì di approfittare della sua missione a Vienna per approfondire ed estendere le sue ricerche. Nacque così il grande saggio «I problemi delle nazionalità e la socialdemocrazia». E, possiamo dire, nacque anche Stalin, nome con il quale, per la prima volta, Koba comparve nella firma in calce al saggio. Boris Souvarine commenta: «Diventato uomo politico a livello nazionale, Koba sceglie un nome con la desinenza russa ed esprime con una segreta soddisfazione la sua principale qualità: la durezza dell'acciaio. Rupert aveva chiamato gli uomini di Cromwell "fianchi di ferro", Augustin Robespierre a suo fratello Maximilien indicava nella persona del giovane Bonaparte un "soldato di ferro". Stalin non aspettò nessuno per far risuonare il metallo nel suo nome di battaglia». Del lavoro di K Stalin sulla questione delle nazionalità, Lenin scrisse in termini di grande e sincero entusiasmo a Maksim Gorkij, definendo il suo pupillo un «magnifico georgiano». A metà febbraio del 1913, Stalin era sulla strada del ritorno verso Ivan Lantos
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Pietroburgo, ignaro del tradimento ordito da Roman Malinovskij, deputato bolscevico alla Duma, membro del comitato centrale, ma, soprattutto, spia dell'Okrana (attività scoperta soltanto nel 1917 quando furono aperti gli archivi della polizia segreta zarista). Roman Malinovskij aveva riferito al suo principale interlocutore, il capo della polizia in persona, S.P. Beletskij, tutto ciò che era avvenuto ed era stato detto a Cracovia. La trappola dell'Okrana era dunque pronta a scattare non appena i capi bolscevichi avessero fatto ritorno a Pietroburgo. Il 23 febbraio (1913) i bolscevichi avevano organizzato un concerto pubblico pomeridiano per celebrare il primo anniversario della fondazione della Pravda: le autorità avevano regolarmente autorizzato la manifestazione che doveva avere soltanto aspetti culturali e faceva parte delle attività legittime del partito. Stalin aveva chiesto proprio a Roman Malinovskij se c'era qualche rischio a partecipare alla manifestazione e il traditore gli aveva dato ampie assicurazioni. Ma aveva anche provveduto ad avvisare i suoi amici dell'Okrana: la preda era pronta per essere catturata. Qualche cosa però aveva insospettito gli organizzatori del concerto e all'arrivo di Stalin lo avevano portato in una stanzetta per travestirlo con un cappotto da donna. L'operazione non riuscì. La polizia irruppe nella stanzetta, Stalin venne identificato per il pericoloso rivoluzionario e plurievaso Josif Vissarionovic Giugashvili e portato via. Pochi giorni dopo l'arresto di Stalin e del direttore della Pravda Jakov Sverdlov, Lenin preoccupato di non avere notizie dei suoi collaboratori scrisse una lettera chiedendo informazioni circa la sorte di «Vasilij» (questo era il nome in codice di Stalin), proprio a Roman Malinovskij. Il giuda s'affrettò a rispondere: «La nostra cara anima, il georgiano, è stata arrestata l'altra sera». A questo punto la faccenda si fece veramente grottesca. Stalin era stato deportato a Krasnoiarsk, provincia di Turukansk, nella Siberia settentrionale, a oltre tremilasettecento chilometri da Pietroburgo, distanza ritenuta tale da scoraggiare un tentativo d'evasione. In più, il deportato era sottoposto a misure di sorveglianza speciale. Nel luglio del 1913, a Poronino, in Galizia (Polonia), dove aveva affittato una casa in campagna, Lenin indisse una riunione alla quale parteciparono sua moglie Nadezda Krupskaia, Zinoviev, Kamenev e Malinovskij. Si doveva scegliere uno speciale comitato ristretto, formato Ivan Lantos
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di tre persone, per coordinare un'attività particolarmente delicata: l'eliminazione degli agenti dell'Okrana infiltrati nel movimento e l'organizzazione delle evasioni dei compagni detenuti o deportati. Vennero nominati Lenin, la Krupskaia e, ironia della sorte, Roman Malinovskij. Il risultato di questa crudele beffa del destino non si fece attendere troppo a lungo. Stalin venne imbarcato su un battello che faceva servizio sul fiume Jenissei e trasferito di altri milleottocento chilometri, nel villaggio di Monastirskoie. Ma l'odissea non era ancora giunta al termine. Nel marzo del 1914, a poco più di un anno dal suo arresto, grazie ai buoni uffici del famigerato Malinovskij, Stalin venne nuovamente trasferito: destinazione Kureika, oltre il circolo polare artico. Insieme a lui c'era Jakov Sverdlov, il direttore della Pravda. Così, Isaac Deutscher, uno dei più attendibili biografi di Stalin, descrive la colonia di Kureika. «Circa diecimila persone, tra russi e indigeni, erano sparse su un territorio di superficie pari a quella della Scozia. Abitavano in piccoli villaggi, separati l'uno dall'altro da decine o centinaia di chilometri di terra selvaggia e coperta di ghiaccio. L'inverno vi durava otto o anche nove mesi, e l'estate era breve, calda e asciutta. In estate, gli indigeni, gli ostiachi, vivevano in tende di pelle di renna; durante l'inverno si ritiravano in abitazioni primitive, per metà capanne e per metà caverne. Il suolo gelato non produceva nulla di commestibile. Gli indigeni ostiaxhi vivevano di caccia e di pesca, si scaldavano con pellicce e vodka». Nel secondo decennio del XX secolo, in quel remoto angolo di mondo, sopravviveva una glaciale preistoria. In questo strano luogo, Stalin trascorreva le giornate pescando, cacciando con le trappole e leggendo i libri e i giornali che gli amici gli mandavano e che gli arrivavano dopo molte settimane e talvolta dopo qualche mese. Stalin, il quale aveva imparato a pescare secondo l'usanza degli ostiachi, cioè praticando un foro nella superficie ghiacciata del fiume e facendo passare di lì la lenza, amava ricordare, qualche anno più tardi, quel periodo della sua esistenza. «Mi chiamavano Osip, gli ostiachi, e mi avevano insegnato a pescare» rammentava. «Presto riuscii a portare a casa più pesci di loro e un bel giorno mi mandarono una delegazione per dirmi che s'erano convinti che io conoscevo formule magiche adatte a propiziare una pesca abbondante. Mi venne da ridere. Spiegai loro che la mia magia consisteva nel non Ivan Lantos
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restare fermo sull'orlo della medesima buca se i pesci non abboccavano, mentre loro perdevano ore e ore in inutili attese. Se una buca non funzionava io cambiavo appostamento finché la pesca non era fruttuosa. Non fui creduto. Restarono convinti che io possedevo una formula magica segreta». Sul soggiorno di Stalin a Kureika c'è una testimonianza interessante: quella di Vera Shweister, moglie di Suren Spandarian, già commissario politico a Baku, entrambi esiliati a Monastirskoie. I coniugi Spandarian erano andati a far visita a Stalin in un giorno d'inverno. «Durante quella parte dell'anno il giorno e la notte si perdono in una continua notte artica devastata da gelate spaventose» ricordava Vera Shweister. «Scendemmo velocemente lungo lo Jenissei gelato con una slitta trainata da cani, senza fermarci, attraverso quel desolato deserto che si stende lungo il fiume da Monastirskoie a Kureika: una corsa di circa centonovanta chilometri tra branchi di lupi ululanti. Arrivati a Kureika andammo alla ricerca della capanna dove abitava il compagno Stalin. Il villaggio era composto di quindici capanne e la sua era la più misera. Una stanza esterna, una cucina nella quale s'erano ridotti a vivere il proprietario e la sua famiglia e sul retro la stanza del compagno Stalin. Lui si mostrò felice della nostra visita inattesa e fece tutto quello che poté per procurarci un po' di benessere. Ci chiamava "i viaggiatori dell'Artico". Andò di corsa al fiume dove aveva gettato le lenze attraverso dei larghi fori aperti nel ghiaccio e, dopo non molto, tornò con in spalla uno storione di notevoli dimensioni. Mi insegnò a pulire il pesce con il quale preparammo una zuppa saporita e a estrarre dal suo ventre il caviale. Mentre preparavamo da mangiare discutemmo di politica». Ciò che Vera Shweister omise di dire, forse perché non se n'era accorta, è che nella piccola stanza sul retro della capanna, Stalin non abitava da solo. La divideva con Jakov Sverdlov il quale ricordò quel periodo con queste parole: «Siamo in due, poiché divido la mia stanza con il georgiano Giugashvili. È un bravo ragazzo, ma troppo individualista e disordinato nella sua vita d'ogni giorno, mentre io non posso rassegnarmi a vivere senza almeno una parvenza di ordine. Appunto per questo, qualche volta, mi lascio prendere dai nervi. Ma quel che è peggio, non c'è modo di condurre un'esistenza separata da quella della famiglia del padrone di casa. La nostra stanza è attigua alla loro e non c'è un ingresso separato. Hanno diversi bambini e questi, naturalmente, trascorrono molte ore in nostra Ivan Lantos
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compagnia. Vi sono poi gli altri componenti della colonia che spesso vengono a fare una visitina nella nostra capanna. Vengono, si siedono, se ne stanno così, zitti, per una mezz'ora, poi s'alzano all'improvviso e dicono: "Va bene, adesso debbo proprio andare. Addio". Ma come uno esce, ne arriva un altro e la scena si ripete identica. Neanche a farlo apposta questo viavai si verifica sempre nelle ore serali che sarebbero le migliori da dedicare alla lettura. Qui non c'è petrolio e dobbiamo leggere a lume di candela». Jakov Sverdlov non dovette però sopportare molto a lungo il disordine che Stalin creava nella stanza della quale erano inquilini, né il fastidio delle insolite visite degli indigeni alla famiglia proprietaria della capanna, venne trasferito in un'altra colonia per deportati. Un'altra testimonianza tra le non molte sul periodo che Stalin trascorse nell'esilio di Kureika ci viene dallo stesso esule ed è una lettera inviata a Olga Evgenievna Alliluieva, moglie di Sergei (e futura suocera di Stalin). «Tante, tante grazie, cara Olga Evgenievna, per i cortesi e affettuosi sentimenti che nutrite verso di me. Non dimenticherò mai le vostre premure. Aspetto con ansia il momento di essere rilasciato e non appena sarò tornato a Pietroburgo la prima cosa che farò sarà di venire a ringraziare voi e anche Sergei per tutto quello che fate per me» scriveva Stalin. «Ho ricevuto un altro pacco che ho gradito molto. Ne avevo chiesto uno soltanto. Non spendete altro denaro per me: quei soldi servono a voi. Sarò felice se mi manderete ogni tanto una cartolina con una bella veduta. In questo maledetto paese anche la natura diventa brutta: d'estate c'è il fiume e d'inverno la neve. Niente altro. Ho tanto desiderio di vedere un bel paesaggio sia pure soltanto in cartolina. Tutti i miei auguri e saluti ai ragazzi e alle ragazze. Vivo come prima. La salute è buona, anzi ottima. Mi sto abituando a questo posto. Il clima è piuttosto rigido: tre settimane fa abbiamo avuto 45° sotto zero. Fino alla prossima lettera, rispettosamente vostro Josif». Nella mente di Stalin s'agitava il progetto di una nuova, irrealizzabile, evasione. E mentre il deportato trascorreva le sue giornate andando a caccia o a pesca, continuando gli studi sul problema delle minoranze nazionali e sognando gli ameni paesaggi della sua Georgia e la fuga, la storia accelerava i suoi passi verso un disastro di dimensioni ancora mai viste, verso l'apocalisse. Il vero primo ministro dello zar e confidente della zarina era un ambiguo Ivan Lantos
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monaco nero, dedito alla crapula, al sesso e all'intrigo, al quale i sovrani attribuivano poteri magici: Rasputin. Il torvo personaggio, appartenente a una setta eretica che predicava la più bieca abiezione come unico strumento di riscatto spirituale, inviò, un giorno, allo zar questo telegramma: «Caro amico, torno a ripeterti che su tutta la Russia si sta addensando una nube spaventosa. Calano da ogni parte le tenebre e non vedo su tutto l'arco dell'orizzonte una sola luce di speranza; ma lacrime ovunque, uno sterminato oceano di lacrime! E quanto al sangue, non trovo parole idonee a dipingere tutto l'orrore. L'unica cosa che so con certezza è che il destino dipende da te. Coloro che vogliono la guerra non comprendono che si tratta della rovina totale e per tutti. Tu, zar, sei il nostro piccolo padre, impedisci che gli insensati vincano; non permettere che essi trascinino il popolo alla rovina! Se pure riuscissimo a sconfiggere la Germania che ne sarà della Russia? Te lo dico con sincerità: da che mondo è mondo non vi sarà stato martirio più grave di quello che colpirà la Russia; essa verrà sommersa dal sangue». Ma lo zar Nicola II non volle, o non poté, dar retta agli ammonimenti del suo profeta di corte. La Russia entrò nella danza macabra della prima guerra mondiale. Stalin ne ebbe notizia nell'esilio di Kureika: le conseguenze per lui (e per gli altri deportati) furono l'istituzione della legge marziale, l'intensificazione delle misure di sicurezza e quindi la rinuncia a qualsiasi progetto d'evasione. Russia e Austria erano nemiche: Lenin che si trovava ancora a Cracovia (quindi in territorio austriaco) venne sospettato d'essere una spia russa e fu espulso. Trovò rifugio in Svizzera e da questo paese, campione di neutralità, incominciò la sua predicazione contro la guerra in nome dell'«internazionalismo proletario». La guerra infatti, secondo Lenin, era stata voluta dalle potenze europee per poter estendere i propri interessi a danno dei nemici. Con un manifesto, Lenin chiamava a raccolta tutte le forze interessate a creare una nuova Internazionale con lo scopo di «iniziare a organizzare le forze del proletariato per un attacco rivoluzionario ai governi capitalisti, per la guerra civile contro la borghesia di tutti i paesi, per il conseguimento del potere politico e la vittoria del socialismo». Poco prima dell'entrata in guerra della Russia, Roman Malinovskij, il traditore e spione dell'Okrana, aveva dato le dimissioni dalla Duma: allo scoppio delle ostilità s'era arruolato volontariamente nell'esercito ed era Ivan Lantos
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stato mandato a combattere sul fronte tedesco. Il messaggio di Lenin era giunto in Russia inatteso e particolarmente sgradito alle autorità. «All'inizio della guerra» scrive Isaac Deutscher «il governo zarista mise in prigione i deputati bolscevichi, accusandoli di tradimento. Con loro salì sul banco degli imputati anche Kamenev, il quale dopo la deportazione di Stalin aveva ispirato la politica bolscevica e diretto la Pravda di Pietroburgo. Il pubblico ministero addusse le dichiarazioni disfattiste di Lenin come prove contro gli imputati. Allora Kamenev e alcuni deputati si staccarono da Lenin, sia perché erano realmente contrari al suo disfattismo, sia perché speravano di difendersi dai colpi dell'accusa. I deputati e Kamenev furono deportati in Siberia, nelle colonie penali dello Jenissei. Con il loro arrivo incominciarono tra gli esuli aspre e tumultuose polemiche. I seguaci di Lenin, i disfattisti, rinfacciavano ai nuovi arrivati la mancanza di principi politici e l'indegna condotta tenuta davanti alla corte». Alle riunioni che obbligavano i partecipanti a estenuanti trasferimenti su slitte trainate da cani o da renne, partecipò anche Stalin. Sulla sua condotta, come accadde in altre occasioni, le testimonianze sono controverse. I biografi ufficiali affermano che egli fosse il portavoce e il sostenitore più intransigente delle tesi disfattiste di Lenin. I detrattori lo descrivono ambiguo e distaccato da un problema che sembrava non lo riguardasse. Isaac Deutscher, solitamente obiettivo, scrive: «In ogni caso è certo che Stalin non si prese molto a cuore la controversia. Si trovava a migliaia di chilometri di distanza dalle scene dell'azione politica e il battersi per principi astratti, senza la più vaga possibilità di dar loro un'applicazione immediata, non era la sua occupazione preferita. Gli esuli più ottimisti o più portati al pensiero speculativo s'agitarono, discussero e scrissero trattati e tesi per tutta la durata di due o tre lunghi inverni artici. Stalin si isolò sempre più, e alla fine si ritirò in una solitudine da eremita». La guerra, per la Russia, così come aveva ammonito Rasputin, si stava rivelando una catastrofe senza rimedio. Lo stesso Rasputin aveva indotto lo zar e la zarina, ormai in sua balìa, a liquidare i ministri liberali e a sostituirli con ministri a lui graditi. Nicola II e sua moglie erano forse convinti che il monaco possedesse una formula magica per esorcizzare il pericolo mortale che sempre più evidentemente incombeva sulla «santa madre Russia». Ivan Lantos
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Leon Trotskij descrive così la situazione interna dell'ormai fatiscente impero zarista: «Verso la fine del 1916 il costo della vita aumenta a salti. All'inflazione e alla disorganizzazione dei trasporti s'aggiunge una vera e propria penuria di medici. La curva del movimento operaio delinea una brusca ascesa. A partire dall'ottobre, la lotta entra in una fase decisiva che unisce insieme tutte le svariate gamme del malcontento: Pietrogrado (nome rivoluzionario di Pietroburgo) prende la rincorsa per il grande salto di febbraio. «Nelle fabbriche i comizi dilagano. Argomenti trattati: i rifornimenti alimentari, l'alto costo della vita, la guerra, il governo. Vengono distribuiti i volantini dei bolscevichi. Si proclamano scioperi politici. All'uscita delle fabbriche si svolgono manifestazioni improvvisate. Capita che gli operai fraternizzino con i soldati». L'atteggiamento mentale della corte imperiale si riconosce facilmente in una brevissima nota della zarina allo zar, datata 13 dicembre 1916: «Opporsi soprattutto a quella che sembra essere l'idea fissa di tutti: un governo costituzionale. La calma tornerà, la situazione sta continuamente migliorando, ma vogliono sentire il tuo pugno. È da molto tempo che da molte parti mi sento ripetere la solita storia: ai russi piace sentirsi accarezzare la schiena dallo staffile, è nella loro natura». La verità era che lo zarismo s'era ormai definitivamente sfiancato negli sforzi d'una guerra senza speranza. Il meglio della gioventù russa s'era perduto nelle fangose trincee dei vari fronti. Così l'agonizzante regime imperiale non trovò di meglio che chiamare alle armi i deportati. Negli ultimi gelidi giorni del 1916, Stalin si trovò insieme con i compagni della colonia di Kureika, in viaggio per Krasnojarsk, dove aveva posto la sua base la commissione medica addetta al reclutamento. Stalin non venne giudicato abile a causa del difetto al braccio sinistro che aveva contratto per l'infezione contratta da bambino e che gli impediva di imbracciare correttamente il fucile. Con lui vennero scartati Lev Borisovic Kamenev, cognato di Trotskij, e M.K. Muranov, già deputato alla Duma. Secondo le autorità non era necessario che Stalin ritornasse a Kureika, gli venne permesso di trascorrere gli ultimi mesi di deportazione a Akinks, a centocinquanta chilometri da Krasnojarsk, importante stazione della Transiberiana. Il 30 dicembre 1916, sulle acque non ancora completamente gelate della Neva, a Pietrogrado, affiorò un cadavere. Il giudice istruttore accorso Ivan Lantos
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subito dopo che il corpo era stato ripescato aveva steso un verbale nel quale si leggeva: «È il cadavere di uno sconosciuto dell'età apparente di cinquant'anni. Di statura superiore alla media, vestito di una blusa azzurra ricamata sopra una camicia bianca. Le gambe, chiuse in alti stivaloni di capretto, sono legate con una corda. La stessa che stringe anche i polsi. Porta una grande catena d'oro al collo. Capelli color castano chiaro, barba e baffi lunghi e in disordine». L'autopsia subito eseguita rivelò che l'uomo era stato ucciso prima d'essere scaraventato in acqua, in stato di grave ubriachezza. Si trattava di Rasputin. La congiura per togliere di mezzo il nefasto plagiatore dello zar e della zarina era stata organizzata dal principe Felix Jussupov, marito di una nipote dello zar. L'assassinio di Rasputin era avvenuto per mano dello stesso Jussupov aiutato dal granduca Dimitri e da un deputato di destra alla Duma, un tale Puriskevic. Ma non era sufficiente l'eliminazione di Rasputin per salvare la monarchia, anzi, la popolazione di Pietrogrado accolse la notizia della morte del monaco malefico con manifestazioni di giubilo, per molti era il segno della fine del regime, il prologo della rivolta.
CAPITOLO VIII ZAR, ADDIO Pietrogrado. Fine febbraio 1917. È qui, in questi giorni, che ha inizio la fine. La più importante rivoluzione della storia moderna nasce con l'aspetto confuso dell'insurrezione popolare. La fame e il freddo avevano esasperato lo scontento, fino dai primi giorni di febbraio a Pietrogrado il pane era diventato una rarità. Gli operai indicono uno sciopero dopo l'altro e le donne del popolo non esitano a scendere in strada al fianco dei loro uomini. L'esercito che da principio esita a obbedire agli ordini di repressione, si unisce al movimento di protesta. Il diario della zarina, in quei giorni, testimonia la totale insipienza politica di un regime che era già morto senza sapere di esserlo. «Bisogna far sapere, e con fermezza, agli operai che è vietato scioperare e inviare per punizione al fronte chi infrange questa legge» scriveva l'imperatrice. «Le sparatorie sono inutili: basta mantenere l'ordine e impedire che gli operai passino i ponti». Ivan Lantos
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Un cronista francese riferì: «L'inevitabile si avvicina di ora in ora. L'esercito incomincia a parteggiare per il popolo. Ormai le autorità non possono fare affidamento altro che sulla lealtà dei gendarmi e della polizia. Dappertutto la folla si ammassa al grido di "pane, pane". Ovunque si assiste a scene drammatiche. Un battaglione del reggimento della guardia Semenovskij ha ricevuto l'ordine di far sgomberare la prospettiva Nevskij. Corre sul posto e si scontra con un battaglione del reggimento Volinskij che si è schierato dalla parte del popolo insorto. La folla è scossa da un brivido: che cosa accadrà? Poi un fatto straordinario. L'anziano ufficiale che comanda i soldati della guardia si alza sulle staffe e arringa i suoi uomini: "Soldati" grida "non posso davvero ordinarvi di sparare sui vostri fratelli, ma sono troppo vecchio per mancare al mio giuramento di militare". Estratta la pistola, si spara un colpo alla tempia e si accascia sul collo del cavallo, fulminato. Poi, lentamente, crolla a terra. Il corpo senza vita viene avvolto nella bandiera del reggimento e i suoi soldati si schierano ai lati della folla». Il 2 marzo 1917, lo zar Nicola II abdicò in favore di suo fratello, il granduca Michele. Ma questo, il giorno successivo, aveva già rinunciato a una corona troppo pesante e che, da tempo, aveva perso il suo lustro. I ministri dello zar erano stati messi agli arresti. Il principe Georgi Lvov, monarchico liberale, si mise alla testa del nuovo governo provvisorio; come ministro degli esteri c'era il professore liberale Pavel Miliukov e al dicastero della giustizia l'ex deputato di sinistra Aleksandr Kerenskij. Circa la validità costituzionale del nuovo gabinetto c'era molto da eccepire, infatti esso era l'espressione di pochi membri dell'ultima Duma, cioè di un parlamento mutilato e disciolto dallo zar. Nonostante questa situazione di precarietà istituzionale nessuno volle creare difficoltà; il popolo era entusiasta d'avere un governo «liberale» e persino il soviet (consiglio) degli operai e dei soldati di Pietrogrado, rinato pochi giorni prima dell'abdicazione dello zar, si dichiarò disposto a collaborare. Le notizie dei grandi mutamenti giunsero a Akinsk due giorni dopo l'abdicazione di Nicola II. Stalin riunì immediatamente tutti i rivoluzionari deportati nella zona: la caduta della dinastia dei Romanov meritava di essere festeggiata. L'8 marzo 1917, Stalin e gli altri militanti bolscevichi salivano su un treno diretto verso Pietrogrado. Si fermarono a Perm da dove inviarono un telegramma, destinatario Lenin, Ginevra, Svizzera: «Saluti fraterni, Ivan Lantos
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partiamo oggi per Pietrogrado. Firmato: Kamenev, Muranov, Stalin». Leon Davidovic Bronstein detto Trotskij ebbe notizia dell'inizio della rivoluzione in Canada. Il 12 marzo, Stalin e i suoi compagni di viaggio arrivarono a Pietrogrado e siccome i capi storici erano ancora nei rispettivi paesi d'esilio vennero accolti come dignitari anziani. Stalin si recò immediatamente a cercare i suoi amici e benefattori, gli Alliluiev, nella loro casa nel quartiere operaio di Viborg. Ma essi s'erano trasferiti in un'altra abitazione, più vicina alle officine elettriche dove lavorava Sergei Alliluiev. Gli ex vicini non ebbero difficoltà a dare a Stalin il nuovo indirizzo e le indicazioni per arrivarci. Fu Anna Alliluieva, la maggiore delle figlie di Sergei, ad aprirgli la porta. La ragazza, che pure lo conosceva bene, ebbe un attimo d'esitazione: l'uomo che le stava davanti era senza barba e mostrava così un volto scavato, aveva i baffi in ordine e i capelli tagliati con cura. Certo gli occhi erano sempre gli stessi e immutato era quello strano sorriso che gli increspava le labbra. E non aveva più quell'aspetto da mendicante vagabondo dell'ultima volta, quando cinque anni prima s'era presentato da evaso alla loro porta chiedendo aiuto; ora indossava una blusa scura pulita abbottonata fino al collo e alti stivali di feltro siberiani. Il ritorno di Stalin fu, per tutta la famiglia Alliluiev, motivo di grande gioia e, forse per la prima volta, egli notò che Nadia, la figlia minore di Sergei, s'era fatta una graziosa ragazza. Nadia aveva quindici anni, quando Stalin era stato deportato era soltanto una bambina. Al ritorno di Sergei dal lavoro, tra i due uomini ci fu un lungo silenzioso abbraccio, una stretta che esprimeva l'amicizia, ma anche la solidarietà di chi, come loro, insieme avevano combattuto e sofferto per una causa che ora, dopo tante vicissitudini dolorose, dopo tante traversie, sembrava avviata alla vittoria. Tutta la famiglia si riunì intorno a Stalin il quale fu costretto a raccontare per ore e ore la sua odissea siberiana. Non aveva ancora terminato un episodio che già veniva bersagliato di nuove domande, doveva soddisfare nuove e crescenti curiosità. Venne l'ora di coricarsi. Per Stalin fu allestito un letto di fortuna in sala da pranzo accanto al divano dove dormiva Sergei. Al buio i due uomini continuarono a parlare sottovoce; ora era Stalin che faceva domande e Sergei gli rispondeva illustrandogli la situazione del movimento operaio a Ivan Lantos
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Pietrogrado. Ma, nell'altra stanza, neppure le ragazze dormivano: attraverso le pareti s'udivano il loro cicaleccio e le loro risatine soffocate. Il ritorno di Stalin, il racconto delle sue avventure, le aveva riempite di eccitazione, erano rimaste affascinate da quella specie d'eroe che le trattava con la familiarità d'un parente. La più affascinata di tutte sembrava la piccola Nadia che, da quando era tornata a casa dalla lezione di musica, per tutta la giornata e fino al momento d'andare a letto, non era riuscita a distogliere lo sguardo dagli occhi magnetici di «zio Josif». Al mattino s'alzarono di buon'ora. Stalin doveva recarsi alla redazione della Pravda che s'era trasferita in un elegante edificio della centralissima via Moika, non lontano dal palazzo del principe Jussupov, dove era stato assassinato Rasputin. Anche le ragazze avevano qualche cosa da sbrigare in città. Era domenica e a Stalin parve strano che ci potesse essere una commissione così importante da dover essere sistemata nel giorno di festa. Anna Alliluieva spiegò che andavano a trattare l'affitto di una nuova casa, più grande e non lontana dalla sede del soviet di Pietrogrado, quindi più comoda per gli incarichi di Sergei. Stalin disse subito che nel nuovo alloggio degli Alliluiev avrebbe voluto una stanza tutta per sé. Per recarsi in centro presero il trenino a vapore. Quando scesero, al momento di separarsi, Stalin ricordò alle ragazze la sua camera. Fu accontentato, ma per molti mesi la stanza dello «zio Josif» confortevolmente arredata con un grande letto e un tavolo da lavoro, restò vuota. Stalin infatti andò ad abitare in una casa di via Shivokaia, nella città vecchia, dividendo l'alloggio con Viaceslav Michajlovic Scriabin, meglio conosciuto come Molotov, e con Ivan Smilga, rappresentante degli operai e dei contadini finlandesi e amico personale di Lenin. Quanto alla situazione politica, Stalin aveva trovato una notevole confusione. Durante la rivoluzione, a Pietrogrado, il comitato centrale bolscevico era stato diretto da una «troika» provvisoria della quale facevano parte il già citato Molotov e due operai autodidatti, Aleksandr Shliapnikov e Piotr Zalutskij. Nonostante il febbrile attivismo e la grande buona volontà i giovanissimi triumviri non avevano il prestigio e l'ascendente necessario a dominare una situazione resa particolarmente complicata dalle divisioni interne al movimento alle quali s'aggiungeva il grande caos generato dalla Ivan Lantos
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rivoluzione. Il gruppo bolscevico s'era diviso in due fazioni, destra e sinistra, tra le quali lo stato permanente d'estrema tensione minacciava di degenerare in frattura, mentre né da una parte, né dall'altra c'erano capi in grado di ricomporre il dissidio in nome della disciplina di partito. La destra bolscevica aveva, in pratica, fatto causa comune con i menscevichi i quali avevano nel soviet di Pietrogrado la maggioranza insieme con i socialisti agrari. Bolscevichi di destra e menscevichi sostenevano il governo del principe Lvov e l'opportunità di continuare la guerra «fino alla sua conclusione vittoriosa». Alla guida della destra bolscevica c'era V. Voitinskij. Molotov, Shliapnikov e Zalutskij appartenevano invece alla sinistra bolscevica che avversava il liberalismo borghese del governo Lvov e il suo atteggiamento patriottico, o «difensivismo», per quello che riguardava l'impegno della Russia nella perdurante guerra mondiale. Molotov, che era anche direttore della Pravda, si serviva anche del giornale per sostenere le tesi della sinistra bolscevica e reclamava la destituzione del principe Lvov. L'arrivo di Stalin e Kamenev contribuì a sistemare un po' le cose, ma certamente non nella maniera sperata da Molotov e dal suo gruppo di radicali. Con l'appoggio di Leon Kamenev infatti fu la destra a sentirsi rinforzata e per quanto riguarda Stalin egli cercò di collocarsi in una posizione mediana, tale, in ogni caso, secondo la sua opinione, da costituire una cerniera tra i due blocchi; l'ipotesi di Stalin era quella di rappresentare l'unità del partito che riteneva indispensabile in un momento come quello. In effetti egli divenne il capo del partito. La maggior parte dei militanti non lo conosceva, ma questo si dimostrò essere tutto sommato un fatto positivo poiché evitava il sorgere di sospetti di personalismo. Scrive Isaac Deutscher: «Quando Stalin, alcuni giorni dopo il suo ritorno, partecipò a una riunione dell'esecutivo del soviet di Pietrogrado, fu salutato come una vecchia conoscenza soltanto da alcuni menscevichi georgiani che, come Chkheidze, ricoprivano ora posizioni di primissimo piano nella capitale. Per tutti gli altri, Stalin era un milite ignoto della rivoluzione». L'atteggiamento moderato di Kamenev e quello sostanzialmente neutrale di Stalin non tardarono a produrre i loro effetti nell'ambito del gruppo Ivan Lantos
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bolscevico. Molotov era stato praticamente esautorato sia nell'ambito del partito, sia alla direzione della Pravda. Sul giornale incominciarono ad apparire gli articoli di Stalin. Il suo pensiero sulla guida politica del paese era contenuto in un saggio sulla funzione dei soviet che rappresentavano l'alleanza tra gli operai dell'industria e i contadini. Tra queste due fondamentali categorie di lavoratori non s'era ancora creata una perfetta fusione d'intenti e di strategia, pertanto esse dovevano trovare un loro momento di convergenza sotto la guida di un soviet centrale in grado di rappresentare tutto il popolo intento a realizzare la sua rivoluzione. L'articolo di Stalin sviluppava l'ormai consolidato slogan di Lenin «tutto il potere ai soviet», ma secondo i bolscevichi più rigorosi non riusciva a essere immune da una certa ambiguità laddove non prendeva una posizione di netto rifiuto del governo retto dal principe Lvov. La poca chiarezza di Stalin si poteva rilevare anche laddove egli riassumeva il proprio saggio affermando: «Terra per i contadini, sicurezza di lavoro per gli operai, repubblica democratica per tutti i cittadini della Russia» affermazioni che prefiguravano una rivoluzione che si limitava ad essere soltanto antifeudale e non anticapitalista e un nuovo ordine democratico e non socialista. Ma le critiche non potevano certo spaventare un cocciuto georgiano come Stalin. Anche l'articolo successivo che affrontava il tema spinoso della guerra finiva con l'essere nebuloso; Stalin, come afferma Isaac Deutscher «abbinò ancora il radicalismo dei principi generali con l'indeterminatezza delle conclusioni pratiche». Dato per scontato che anche dopo la caduta del regime zarista la partecipazione alla prima guerra mondiale della Russia non aveva perduto le sue caratteristiche di operazione capitalistica, Stalin finiva con l'accogliere e far sue le tesi semipacifiste e semidifensiviste lanciate dal soviet di Pietrogrado di marca menscevica. Nell'articolo di Stalin si mescolavano confusamente le ipotesi di una pace separata tra Russia e Germania promossa dalla pressione di operai, contadini e soldati e quella di un'azione internazionalista tale da indurre tutte le potenze coinvolte nel conflitto a mettere da parte le armi e sedersi al tavolo della pace. In aggiunta a tutto ciò, Stalin si dichiarava convinto che i cosiddetti difensivisti, fossero essi liberali o menscevichi, agivano in perfetta buona fede. Il disegno politico di Stalin sfuggiva alla comprensione dei bolscevichi di sinistra ai quali non erano chiare, vuoi per poca esperienza, vuoi per la Ivan Lantos
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rigida ortodossia, certe finezze strategiche. A creare maggiore sgomento venne un altro articolo, ancora sul tema della guerra, nel quale Stalin recuperava completamente la linea del rigore disfattista. Commentando una dichiarazione del ministro degli esteri Pavel Miliukov, Stalin aveva scritto: «I lettori della Pravda sanno bene che gli scopi della guerra sono, da parte russa, imperialistici: conquista di Costantinopoli, annessione dell'Armenia, smembramento dell'Austria e della Turchia, annessione della Persia settentrionale. È quindi chiaro che i soldati russi spargono il loro sangue sui campi di battaglia non già per la difesa della patria, non in nome della libertà, come afferma la corrotta stampa della borghesia, ma per la conquista di terre straniere». L'improvvisa sterzata a sinistra di Stalin aveva colto di sorpresa anche il ministro della giustizia Aleksandr Kerenskij, che rappresentava le istanze più avanzate del governo. Kerenskij s'era fatto scrupolo di ribadire a Stalin che le dichiarazioni di Miliukov sugli esiti della guerra si dovevano considerare esclusivamente un punto di vista personale che non coincideva con quello dell'esecutivo. La replica di Stalin era stata durissima: «O Kerenskij ha mentito, o Miliukov deve rassegnare immediatamente le dimissioni». Vale la pena di ricordare a questo punto, in ossequio all'obiettività storica, che una trentina di anni dopo, alla fine della seconda guerra mondiale, i progetti espansionistici del ministro Miliukov, che tanto l'avevano scandalizzato, erano diventati esattamente quelli perseguiti (con successo) da Stalin. Alla fine di marzo, i bolscevichi si riunirono a Pietrogrado; avevano requisito per adibirla a loro quartier generale una sontuosa villa che era appartenuta alla danzatrice Kscesinskaia, ballerina di corte e amante dello zar. Si trattava della prima conferenza bolscevica dopo la caduta dell'ordinamento imperiale. Il chiarimento che sarebbe dovuto venire da un confronto di idee che andava ben oltre la lealtà fino ad essere brutale, non ci fu. Qual era il ruolo della rivoluzione? Quale la sua fisionomia? Certamente non quella di una rivoluzione socialista: il sistema che avrebbe prodotto era una repubblica democratica di operai e contadini e non una dittatura del proletariato. E quale sarebbe stato l'atteggiamento della borghesia liberale? Secondo una parte dei bolscevichi essa si sarebbe arroccata nella difesa dello zarismo, lasciando che il proletariato si muovesse a tutto Ivan Lantos
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campo per la creazione di un assetto istituzionale alternativo. Invece s'era verificato che il fallimento e la liquidazione dello zarismo e la creazione della repubblica erano avvenuti proprio a opera dell'aristocrazia liberale e dei ceti medi progressisti. I bolscevichi si trovavano spiazzati da avvenimenti che, almeno secondo loro, non avevano seguito le regole della logica. Che fare? Appoggiare il governo del principe Lvov o attuare un'opposizione dura e intransigente con lo scopo di sbarazzarsi, quando se ne fosse presentata l'opportunità, di quel vecchio strumento del capitalismo borghese? La discussione si rivelava sterile, persa in un labirinto senza uscita. Stalin, il quale presiedeva la conferenza, intervenne ancora una volta con l'ambiguità che distingueva la sua azione in quel momento. Non intendeva affatto suggerire una soluzione, anzi il suo scopo era allontanare quanto più possibile i termini del problema, al fine di evitare che la polemica si esacerbasse procurando una frattura. «Attrito e lotta esistono e non potrebbero non esistere», disse riferendosi al conflitto di poteri tra il governo del principe Lvov e i soviet degli operai e dei contadini. «Le funzioni sono state divise. Il soviet dei delegati degli operai e dei contadini ha preso l'iniziativa di attuare una trasformazione rivoluzionaria. Il soviet è la guida rivoluzionaria del popolo insorto, è l'organo incaricato di controllare il governo provvisorio. D'altra parte, il governo provvisorio si è assunto l'impegno di consolidare le conquiste del popolo in rivoluzione. Il soviet mobilita le forze ed esercita il controllo, mentre il governo provvisorio, pur tra molti tentennamenti, s'incarica di consolidare le conquiste popolari. Questa situazione ha i suoi vantaggi e i suoi svantaggi. Non sarebbe utile per noi, in questo momento, forzare gli avvenimenti e provocare fin d'ora l'ostilità dei gruppi borghesi che, inevitabilmente, ci abbandoneranno in avvenire. È necessario guadagnare tempo, ritardando la diserzione di quei gruppi, in modo da poterci preparare per la lotta contro il governo provvisorio». Riemerse anche il problema dell'unificazione con i menscevichi, contro il quale prese una posizione durissima Molotov il quale sosteneva che la questione non si doveva affrontare finché i menscevichi non avessero abiurato la loro posizione bellicista. Stalin liquidò anche la polemica resuscitata da Molotov. «È inutile precorrere i tempi» affermò Stalin «e voler prevedere dissidi. La vita di un Ivan Lantos
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partito non è possibile senza qualche dissenso. Noi sopravviveremo alle leggere divergenze che si potranno manifestare in seno al partito». Al di là dei giudizi di ambiguità, sembrava (ed è verosimile che fosse proprio così) che Stalin facesse sforzi colossali per rinviare ogni decisione o ogni deliberazione di una certa importanza fino all'ormai imminente rientro di Lenin. Attivo uomo di partito, Stalin non era ancora pronto, e di questo era senz'altro consapevole, per essere il vero capo del partito. Il 3 aprile, dopo aver attraversato la Germania a bordo dell'ormai mitico «vagone piombato», Lenin, accompagnato dalla moglie Nadezda Krupskaia, da Grigori Zinoviev e da altri esuli bolscevichi, giunse alla stazione di Finlandia, a Pietrogrado. Alcune biografie ufficiali narrano che Stalin si fosse recato, con una delegazione ufficiale, incontro a Lenin alla stazione di Belo-Ostrov, sul confine finlandese. Emilian Jaroslavskij, successivamente sconfessato come storico del partito, scrisse: «Fu con grande gioia che i due capi della rivoluzione e del bolscevismo s'incontrarono dopo la lunga separazione. Durante il viaggio per Pietrogrado, Stalin informò Lenin dello stato delle cose nel partito e dei progressi della rivoluzione». Pare invece che Stalin non fosse nemmeno alla stazione di Finlandia dove Kamenev ed altri erano andati ad accogliere Lenin. In ogni caso, Lenin espresse la propria irritazione per quanto aveva letto sulla Pravda proprio a Kamenev. Lenin era estremamente teso a causa della situazione della quale era perfettamente a conoscenza, ma anche per il timore di essere arrestato e rinchiuso nella fortezza dei santi Pietro e Paolo, carcere di molti dei rivoluzionari della prima ora. Dovette ricredersi: a salutare il suo ritorno in patria c'erano operai, contadini e soldati che facevano ala al passaggio della sua automobile. Ma quelle ovazioni non gli piacquero, l'istinto gli suggeriva che mescolati a quella folla di lavoratori c'erano anche i menscevichi, i socialrivoluzionari, i borghesi, insomma i traditori del vero socialismo. Lenin era sdegnato e proprio il giorno dopo il suo ritorno in patria, quando bolscevichi e menscevichi progettavano d'incontrarsi per discutere ancora di una possibile riunificazione, scatenò la sua offensiva che era destinata a colpire tutti coloro che non stavano dalla sua parte. Il vangelo del bolscevismo, o meglio, se ci si concede l'analogia biblica, i suoi Ivan Lantos
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comandamenti, erano contenuti in dieci tesi. «Ciò che in Russia è veramente caratteristico è il passaggio incredibilmente rapido dalla violenza più sfrenata alla finzione più raffinata» affermò Lenin riferendosi alla metamorfosi del popolo insorto in masse che s'inchinavano dinanzi al governo provvisorio che continuava a sostenere le ragioni della guerra. Ai bolscevichi, secondo Lenin, non era consentito condividere le posizioni «difensivistiche». «Anche i nostri bolscevichi» aveva detto ironizzando «dimostrano d'avere fiducia nel governo. Ciò si può spiegare soltanto con un'accidentale intossicazione del movimento rivoluzionario». Quello che Lenin predicava non era un colpo di stato bolscevico, reso impossibile dal fatto che i bolscevichi erano ancora in minoranza, ma essi dovevano convincere le masse che era necessario prepararsi a una nuova rivoluzione dalla quale doveva nascere non una repubblica parlamentare, ma una repubblica dei soviet. E si dovevano preparare cambiamenti radicali come l'abolizione della polizia e dell'esercito, la requisizione dei latifondi, la fusione di tutte le banche in una sola banca nazionale controllata dai soviet, il controllo dei lavoratori sulla produzione e distribuzione nelle industrie. Insomma si doveva dar vita alla rivoluzione socialista. E per prima cosa si doveva cambiare il partito, incominciando dal nome stesso. «Io propongo di chiamarlo partito comunista» aveva detto Lenin. «La maggioranza socialdemocratica ufficiale ha tradito il socialismo. Avete forse paura dei vostri vecchi ricordi? Ma è tempo di cambiare la nostra biancheria: dobbiamo toglierci la camicia sporca e indossarne una pulita». Propose poi la costituzione della terza Internazionale. Infine avvertì i compagni che se non si sentivano preparati a seguirlo non avrebbe avuto cedimenti. Solo, come Karl Liebknecht in Germania, avrebbe combattuto contro di loro nella certezza che alla fine la vittoria sarebbe stata sua. Lenin sembrava davvero un Mosé che tuonava contro gli adoratori del vitello d'oro, un santo che lanciava anatemi contro una massa di eretici, la tensione emotiva aveva raggiunto il parossismo, ma s'era ben guardato dal lasciarsi andare ad accuse o coinvolgimenti personali. Sapeva che anche nel suo gregge c'erano pecorelle smarrite e voleva che esse tornassero spontaneamente all'ovile. Nikolai Suchanov, uno scrittore non bolscevico che aveva assistito al Ivan Lantos
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discorso di Lenin, scrisse: «Non dimenticherò mai quel discorso tonante che scosse e sorprese profondamente non soltanto me, eretico capitato lì per caso, ma anche tutti gli ortodossi. Affermo che nessuno s'aspettava niente di simile. Sembrava che tutti gli elementi naturali fossero usciti dai loro recessi e che lo spirito della distruzione universale, che non conosceva né limiti, né dubbi, né difficoltà, né calcoli, si librasse nella sala della Kscesinskaia sopra le teste dei discepoli stregati». Il 20 aprile le dieci tesi di Lenin furono pubblicate sulla Pravda: Kamenev e Kalinin affermarono che si trattava di posizioni inaccettabili e accusarono Lenin di essere completamente all'oscuro della realtà russa. Un gruppo di bolscevichi di destra abbandonò Lenin affermando che aveva perso tutti i connotati socialisti e s'era trasformato in un anarchico dello stampo di Bakunin. Tuttavia la maggioranza dei bolscevichi gli restò entusiasticamente al fianco. Stalin si trovava in una posizione quanto mai imbarazzante, era lui che aveva dato alla Pravda un colpo di timone verso destra e toccava a lui l'umiliazione di dover pubblicare le tesi radicali del capo. Ma Stalin non era uomo da lasciarsi disarmare per quello che non gli sembrava più che un paterno rimprovero: se aveva sbagliato era pronto a fare «mea culpa». Per dimostrare l'autenticità del suo pentimento scrisse, per la Pravda, un articolo di fondo intitolato «Terra ai contadini» nel quale ritrattava tutto ciò che aveva scritto prima dell'arrivo di Lenin. L'articolo era un trionfo di retorica radicale con espressioni del tipo: «La terra brucia sotto i piedi dei predoni capitalisti, la bandiera rossa dell'Internazionale torna a garrire sull'Europa». C'era anche un severo ammonimento ai menscevichi e ai bolscevichi moderati: «Coloro che tentano di fermarsi durante una rivoluzione sono condannati a restare indietro; e chi resta indietro non troverà misericordia. La rivoluzione lo butterà nel campo della controrivoluzione». Alla fine d'aprile, una nuova conferenza nazionale del partito bolscevico elesse il nuovo comitato centrale che risultò formato di nove membri: Stalin che la volta precedente era stato cooptato, o meglio imposto da Lenin, raccolse in questa occasione un grandissimo numero di voti. Non era più uno sconosciuto, per quanto attivissimo, manovale della rivoluzione, era salito al superiore livello dei grandi leader bolscevichi. Insieme a lui c'erano anche Lenin, Zinoviev, Kamenev, Sverdlov. A Stalin, per la sua particolare conoscenza del problema delle minoranze che si Ivan Lantos
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faceva sempre più acuto (finlandesi e polacchi s'agitavano per costituire partiti autonomi) e probabilmente per l'atto di fede e sottomissione a Lenin, venne conservata la direzione della Pravda. Il bolscevismo era una forza crescente, emergente, come si dice oggi: durante la rivoluzione di febbraio erano a malapena trentamila, tre mesi dopo circa settantamila e la loro presenza nei soviet degli operai, dei contadini e dei soldati era ampia e qualificata. E proprio a Stalin e Sverdlov venne affidato il compito di guidare e coordinare l'azione dei bolscevichi all'interno dei soviet, in modo da farne le avanguardie della rivoluzione prossima ventura. In quei giorni si verificò un'importantissima conversione al bolscevismo: quella di Leon Davidovic Bronstein detto Trotskij. Trotskij era rientrato in Russia, proveniente dal Canada, un mese dopo Lenin. S'era reso conto che la sua antica aspirazione, veder unificati menscevichi e bolscevichi, era naufragata, ma non era tutto, i menscevichi, contrariamente a quanto aveva sperato, non s'erano spostati a sinistra di un solo passo, anzi, tenacemente attaccati alle tesi «difensiviste», avevano finito con lo sterzare ancor più a destra. I bolscevichi invece, dei quali aveva sempre denunciato il radicalismo settario, ora che la rivoluzione evolveva ed erano praticamente usciti dalla clandestinità, gli apparivano più aperti, più adeguati alla situazione reale. Trotskij era troppo intelligente per non riconoscere che i fatti avevano dato torto a lui e ragione a Lenin ed era pronto a un abbraccio di pacificazione. Lenin, da parte sua, non riteneva opportuno giocarsi per un atto di pura e ottusa testardaggine il contributo di un personaggio della levatura intellettuale di Trotskij. D'altra parte le tesi d'aprile esposte da Lenin coincidevano con quanto Trotskij aveva detto molto tempo prima sulla necessità che la rivoluzione russa aveva di diventare dittatura del proletariato. Il successo di Trotskij tra i rappresentanti dei soviet fu immediato: le cose che diceva non avevano soltanto il fascino superficiale di un'oratoria seducente, ma seguivano un rigore logico patrimonio di pochi. Attorno a Leon Davidovic Bronstein detto Trotskij si coagulò un esiguo gruppo di intellettuali che aderì al bolscevismo. C'era Anatol Lunaciarskij, destinato a ricoprire la carica di commissario all'educazione, c'era lo storico Michail Pokrovskij, il biografo di Karl Marx D.B. Riazanov, e poi Manuilskij, Joffe e Jurieniev che avrebbero ricoperto importanti incarichi Ivan Lantos
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diplomatici. Il contributo degli intellettuali era indispensabile alla rivoluzione fino da questa fase preparatoria e Lenin ne era perfettamente consapevole. E certamente la marea rivoluzionaria cominciava a montare. In giugno le elezioni municipali a Pietrogrado sanzionarono la debolezza politica dei liberali, il governo avvertiva aria di tempesta. Dal fronte arrivavano notizie allarmanti, i soldati sempre più numerosi reclamavano la pace. Nei quartieri operai la maggioranza bolscevica diventava sempre più potente. Il 4 luglio, Stalin istigò i marinai della base navale di Kronstadt a una dimostrazione pacifica, lasciando però intendere, con molta ambiguità, che sarebbe stato preferibile che, pacifici o no, portassero con sé i fucili. I marinai, armati, risalirono il corso della Neva, sbarcarono sulla sponda settentrionale e, pacificamente, marciarono fino alla villa Kscesinskaia da un balcone della quale Lenin parlò loro dell'immancabile vittoria della rivoluzione. Aleksandr Kerenskij, ministro della guerra, il quale riteneva contrario allo spirito degli uomini alle armi qualsiasi impegno politico, interpretò la manifestazione dei marinai di Kronstadt come un atto di insubordinazione. Ordinò dunque a reparti, sulla fedeltà dei quali era certo di poter contare, d'intervenire. Tra i marinai e gli uomini di Kerenskij scoppiò una vera e propria battaglia; all'angolo tra la via Sadovaia e la prospettiva Nevskij i fucili crepitarono a lungo. Alla fine dello scontro giacevano a terra numerosi morti e feriti. Quattrocento, secondo le stime dei bolscevichi; venti morti e centoquattordici feriti secondo i bollettini ufficiali. Aleksandr Kerenskij non voleva arrendersi all'evidenza, la Russia era in guerra e l'unico ideale di chi portasse una divisa doveva essere combattere per sconfiggere il nemico; i soviet, il bolscevismo, la rivoluzione appartenevano a una realtà che si rifiutava di riconoscere e che andava repressa. Scrive H. Montgomery Hyde: «Il governo provvisorio rispose al colpo mandando truppe ad occupare il quartier generale bolscevico di palazzo Kscesinskaia e anche ad accettare la resa dei marinai di Kronstadt che avevano occupato la fortezza dei santi Pietro e Paolo. Successivamente i soldati fecero irruzione anche negli uffici della Pravda e fecero a pezzi le macchine tipografiche. Vennero anche emessi ordini di cattura per coloro che erano considerati i capi bolscevichi: Lenin, Zinoviev, Kamenev e Trotskij. Ma non Stalin, a quanto pare perché non era sufficientemente famoso e non lo si riteneva pericoloso». Ivan Lantos
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Lenin non aveva nessuna intenzione di trasformarsi in martire di una rivoluzione che non era neppure ancora entrata nel vivo e che desiderava continuare a guidare e decise quindi di sparire dalla circolazione. Fu proprio Stalin a trovargli un rifugio in casa di Sergei Alliluiev. In quella casa sulla Rozdestvenskaia c'era una stanza arredata per lui (le ragazze avevano mantenuto la promessa) nella quale non era mai andato ad abitare; sarebbe stato il luogo ideale dove nascondere Lenin. L'11 luglio, dopo essere stato reso irriconoscibile da una rasatura effettuata dallo stesso Stalin e travestito con abiti prestati da Sergei Alliluiev, Lenin, accompagnato da Stalin e Alliluiev, raggiunse la stazione ferroviaria dove salì su un treno diretto a Razliv, una città sulla costa settentrionale del golfo di Finlandia, dove c'era un compagno di nome Nikolai Emilianov pronto a ospitare Lenin finché le acque non si fossero calmate. Mentre Lenin, dopo tre soli mesi dal suo ritorno in Russia, era nuovamente costretto alla clandestinità, Kamenev e Trotskij vennero incarcerati. Anche Zinoviev era fuggito. Toccava nuovamente a Stalin di mettersi alla guida del partito. Pochi giorni dopo la partenza di Lenin, sulle affettuose insistenze di Olga Evgenievna Alliluieva, moglie di Sergei, Stalin traslocò nella casa degli amici, nella stanza che era stata preparata apposta per lui. Quello stesso giorno, il principe Georgi Lvov, capo del governo provvisorio, al quale la situazione stava sfuggendo sempre più di mano, passò le consegne al ministro della guerra Aleksandr Kerensky. L'essere andato ad abitare dagli Alliluiev cambiò le condizioni di vita di Stalin che da tempo era considerato uno di famiglia; Olga Evgenievna e le figlie Anna e Nadia, lo colmarono di quelle attenzioni e di quelle cure che nessuno, a parte la defunta moglie Keke, gli aveva riservato. Stalin, quando si trasferì con il suo esiguo bagaglio (una piccola valigia di vimini e un pacco di libri) a casa degli Alliluiev, provvide ad avvisare i suoi ospiti dei suoi movimenti di lavoro e dei suoi orari; li tranquillizzò per quanto poteva riguardare certe sue assenze notturne. I suoi mancati rientri potevano dipendere da impegni o da motivi di sicurezza. In nessun caso avrebbero dovuto cercarlo e parlare con chicchessia. • Il guardaroba di Stalin era poverissimo: una sola giacca della quale, sotto gli innumerevoli rammendi, non si riconosceva più il tessuto originale, un solo paio di calzoni anche quelli devastati dall'uso. Se Stalin andava in giro conciato Ivan Lantos
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come un mendicante vagabondo, non era più per mancanza di denaro; il comitato centrale, infatti, gli passava uno stipendio di cinquecento rubli al mese, la sua trascuratezza nasceva dal fatto che non c'era accanto a lui una persona che si prendesse cura delle sue cose e lui non aveva né il temperamento, né il tempo, per occuparsi del proprio decoro. Ci pensò Olga Evgenievna Alliluieva: gli comperò un bell'abito e gli fece confezionare dei panciotti di velluto nero con il collo alto poiché Stalin non portava camicie senza il tradizionale colletto duro e non indossava mai la cravatta. L'esistenza di Stalin trascorreva abbastanza monotona tra il lavoro di partito, quello presso la redazione della Pravda e le serate in casa Alliluiev con innumerevoli bicchieri di tè e il fumo della pipa che scandivano le chiacchiere finché, mentre gli altri si ritiravano nelle loro stanze per dormire, lui continuava a lavorare nella sua camera. Talvolta il sonno lo coglieva al tavolino. Toccò a Stalin presiedere un congresso del partito, il sesto, tenuto in condizioni di semiclandestinità. I menscevichi cercarono di far cadere sull'assente Lenin l'accusa di tradimento dei soldati russi impegnati sui fronti di guerra. Il congresso provvide anche a nominare un nuovo comitato centrale composto di ventiquattro membri: gli esuli o reclusi Lenin, Zinoviev, Kamenev e Trotskij e poi Sverdlov, Rykov, Bucharin, Nogin, Uritskij, Miliutin, Artem, Krestinskij, Dzerzhinski (un polacco destinato a diventare capo della polizia segreta bolscevica), Joffe, Sokolnikov, Smilga, Bubnov, Muranov, Sciaumian, Berzin, Aleksandra Kollontai e lo stesso Stalin. Lenin, Trotskij, Zinoviev, Lunaciarskij, Kamenev e la Kollontai, in riconoscimento della loro particolare condizione di perseguitati furono nominati membri del Presidium onorario. Stalin, come di consueto, si dimostrò un capo «burocratico», freddo, determinato, incapace di grandi idee e di originalità, ma interprete rigoroso dell'ortodossia. Nel giorno stesso in cui il congresso terminò, Kamenev venne rilasciato dalla polizia segreta e immediatamente i menscevichi scatenarono una campagna denigratoria contro di lui, accusandolo d'essere una spia dell'Okrana. Stalin, dalla nuova sede del comitato centrale, nell'istituto Smolny, una volta scuola per ragazze aristocratiche, fondata da Caterina la Grande, e dalle pagine di Rabocki put (La strada dei lavoratori organo del partito in sostituzione della Pravda gli uffici della quale erano stati Ivan Lantos
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devastati) si lanciò in una appassionata difesa del compagno, contrattaccando i menscevichi tacciati d'essere reazionari malamente camuffati. Forse Stalin ordinò anche una di quelle azioni delle quali era stato in altri tempi brillante organizzatore: un gruppo di rivoluzionari riuscì a fare un'irruzione negli uffici dell'Okrana dove una gran parte del materiale venne dato alle fiamme. Non tutti i documenti andarono distrutti, vennero tra gli altri conservati quelli relativi alla colpevolezza di Roman Malinovskij che, al ritorno dal fronte, scontò il suo continuato tradimento. A poco a poco anche altri capi bolscevichi uscirono dal carcere, Stalin non era più solo alla testa del partito, ben felice di condividere con altri responsabilità ancora troppo gravose per le sue capacità. «Alla fine d'agosto» racconta Isaac Deutscher «la capitale fu messa in allarme dalla rivolta del comandante supremo, generale Kornilov, contro il governo provvisorio. Le origini della rivolta, che confermava i continui moniti bolscevichi sul pericolo di una controrivoluzione, rimasero oscure. «Il primo ministro Kerenskij, prevedendo la possibilità di uno scontro decisivo con i bolscevichi, aveva invitato il generale Kornilov a inviare truppe fidate nella capitale. Ma il generale non si accontentò del progetto di sopprimere il bolscevismo: intendeva liberare il paese dai soviet, dai socialisti moderati e dallo stesso Kerenskij. Pieno di fiducia nella propria forza, esaltato dall'importanza della sua missione di "salvatore della società", non esitò a prendere l'iniziativa e, rifiutata obbedienza al governo, consegnò Riga ai tedeschi e ordinò alle sue truppe di marciare su Pietrogrado». Il momento era difficile e drammatico, Kerenskij e le forze politiche più vicine a lui erano nel panico, senza l'appoggio dei bolscevichi non c'era nessuna possibilità di opporsi al progetto revanscista di Kornilov, d'altra parte coinvolgere i bolscevichi significava anche ridare potere ai soviet e, eventualmente, riarmare le «guardie rosse» messe in congedo forzato dopo l'insurrezione di luglio. Era indispensabile che i bolscevichi convincessero i marinai di Kronstadt a intervenire. I bolscevichi compresero immediatamente l'occasione che si offriva loro; senza tener conto di rivalità e risentimenti persuasero i marinai di Kronstadt a scendere in campo e li convinsero a limitare la loro azione contro Kornilov, mentre essi si erano offerti di eliminare tutti gli avversari del movimento bolscevico compreso Kerenskij. Fu Trotskij a suggerire ai determinati marinai un comportamento moderato: la rivoluzione si poteva permettere Ivan Lantos
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tempi lunghi, tanto più che le forze controrivoluzionarie avevano perduto la loro credibilità in quanto s'erano rese responsabili del tentativo di Kornilov. Non era certamente merito del governo di Kerenskij, dei menscevichi e dei socialrivoluzionari se Kornilov era stato sconfitto: loro l'avevano chiamato per far fuori i bolscevichi senza sapere che, a loro volta, sarebbero stati vittime del generale legittimista. La liquidazione della rivolta di Kornilov e il suo arresto non tardarono a produrre il loro effetto positivo per i bolscevichi. Pochi giorni dopo, nelle elezioni supplementari, i bolscevichi ottennero la maggioranza, non soltanto a Pietrogrado, ma anche a Mosca e in altre città importanti. Trotskij venne eletto presidente del soviet di Pietrogrado, carica che già era stata sua nel 1905. Il potere dei bolscevichi aumentava consolidando il terreno sul quale si sarebbe giocato l'ultimo atto della rivoluzione. In questo periodo l'attenzione di Stalin non era tutta rivolta ai problemi della politica. Nadia Alliluieva, la figlia più giovane di Sergei Alliluiev, che aveva trascorso le vacanze estive presso amici a Mosca, era tornata a casa nell'imminenza dell'inizio dell'anno scolastico. La ragazza aveva subito una di quelle metamorfosi così frequenti nell'adolescenza avviata verso la piena maturazione. Una mattina, di buon'ora, Stalin s'accorse che una graziosa donnina stava facendo le pulizie di casa: i rumori di mobili spostati l'avevano svegliato. S'era affacciato dalla porta della sua stanza con l'intenzione di protestare, ma di fronte a Nadia, così bella anche se vestita da casa, con un fazzolettone che ne fasciava la testa perse ogni velleità. Al burbero georgiano piaceva quella piccola massaia e la incoraggiò a continuare senza curarsi di lui. «Nadia non era soltanto un'abile donna di casa» scrive H. Montgomery Hyde «ma anche una fervente giovane bolscevica che accantonava bruscamente le critiche delle compagne secondo le quali "i bolscevichi vogliono distruggere tutto" e dichiarava apertamente la sua fede politica. Quando Stalin non era in casa, cercava di strappare notizie alla sorella Anna che lavorava al quartier generale bolscevico». La giovane Nadia era curiosa, attenta e innamorata della rivoluzione. Una sera, Stalin portò a casa degli Alliluiev l'eroe-terrorista Semion Ter-Petrossian, meglio conosciuto con il nome di battaglia di Kamo; per le ragazze fu una serata indimenticabile ed eccitante. Kamo raccontò, per ore ed ore, le sue avventure: gli espropri nelle banche, negli uffici pubblici e gli assalti ai treni che trasportavano denaro e Ivan Lantos
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valori, la sua vita di bandito da strada costretto alla clandestinità, l'arresto e gli orrori della prigione, la finzione della pazzia per sottrarsi agli spietati interrogatori dell'Okrana, il rocambolesco progetto di evasione da Karkov fingendo d'essere morto in maniera da essere trasferito all'obitorio e di lì poter raggiungere i compagni impegnati nella rivoluzione di febbraio, l'inaspettato rilascio. Anna e Nadia Alliluieva avevano tempestato di domande il leggendario Kamo, ne avevano seguito i racconti con l'aria stregata, ma a Stalin non era sfuggito che, proprio nei momenti di maggior tensione, i grandi occhi scuri di Nadia saettavano sguardi infuocati su di lui. Insomma era evidente che il vero eroe per la piccola Nadezda era il baffuto georgiano, amico dei suoi genitori, pensionante fisso nella loro casa, di vent'anni più anziano di lei. Stalin, da parte sua, pensava soltanto alla rivoluzione. I problemi in effetti erano molti e complessi: il potere dei soviet cresceva, ma il governo provvisorio non intendeva prendere atto del cambiamento in corso; menscevichi e socialrivoluzionari tentavano, benché ormai in minoranza, di far valere i loro diritti; i tempi sembravano maturi per l'insurrezione finale, ma Lenin e gli altri capi erano esuli all'estero e, in loro assenza, Stalin non se la sentiva di prendere decisioni radicali, era consapevole di essere ancora un gregario. Sulla Domenica del Corriere del 2 settembre 1917, si legge una divertente annotazione, apparentemente marginale, più di colore che dettata da rigore storico, ma estremamente significativa della situazione. «La passione dei comizi» scriveva l'autorevole settimanale «si è ormai generalizzata in tutte le città russe, e a Odessa ha assunto forme stranissime, che non si spiegano se non con la natura ingenua e col troppo repentino passaggio di quel popolo immaturo dalla schiavitù a una libertà senza limiti. A Odessa, dunque, vi sono state innumerevoli riunioni plenarie non solo politiche, ma anche professionali: e persino le professioni illecite, non hanno esitato a presentarsi nell'arringo per dettar le leggi civili e morali della società nuova. I borsaiuoli, per esempio, hanno tenuto il loro bravo meeting votando un ordine del giorno con il quale la confraternita si obbligava a non esercitare la sua ladresca attività durante le dimostrazioni del primo maggio; e il giorno dopo un accolito si è recato in questura per chiedere se qualche compagno non avesse per caso trascurato la parola d'ordine. Ma non basta. Anche i reclusi comuni, evasi dalle carceri allo scoppio della rivoluzione, si sono riuniti in comizio per Ivan Lantos
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promettere d'astenersi d'ora innanzi dai delitti. Alla riunione assisteva la stampa; cosicché il presidente del comizio, un delinquente che aveva quaranta omicidi sulla coscienza, si credette in dovere di recarsi subito a ringraziare i direttori dei giornali». I tempi per il «colpo finale», come s'è detto, erano maturi; c'era soltanto da aspettare un segno di Lenin. E questo arrivò verso la metà di settembre. A casa Alliluiev giunse una serie di lettere indirizzate a Stalin il quale doveva fungere da tramite tra Lenin, clandestino, e i membri del comitato centrale; il capo invitava i compagni a prepararsi per la fase decisiva. In sostanza, Lenin riassumeva in due memorie le sue disposizioni; i documenti erano intitolati: «I bolscevichi devono prendere il potere» e «Marxismo e insurrezione». Il 15 settembre, Stalin li presentò al comitato centrale. Si trattava di prescrizioni operative, del tutto prive di valutazioni che tenessero conto della realtà, della situazione politica, delle conseguenze immediate e di altri fattori dai quali sarebbe stato indispensabile non prescindere. «Affrontare l'insurrezione in maniera marxista è né più né meno che un'arte» scriveva Lenin. «Senza aspettare un solo minuto, noi dobbiamo organizzare uno stato maggiore dei reparti insurrezionali, distribuire le forze, dislocare i reggimenti fidati nei punti più importanti, circondare il teatro Aleksandrinskij (sede dei lavori della cosiddetta assemblea democratica), occupare la fortezza di Pietro e Paolo, arrestare lo stato maggiore generale e il governo, occupare gli uffici telegrafici e telefonici, insediare il nostro stato maggiore insurrezionale nella centrale telefonica, collegarlo per telefono con tutte le fabbriche, i reggimenti, gli avamposti, eccetera». Stalin e Trotskij accolsero quel documento con stupore e incredulità, esso era così lontano dalla realtà da sembrare d'esser stato redatto da uno studente un po' fanatico. «Alla luce dei fatti, quali successivamente si svilupparono, il primo abbozzo può sembrare un saggio piuttosto ingenuo di letteratura avventurosa» scrive Isaac Deutscher. Successivamente lo stesso Lenin ammise che non era sua intenzione dare indicazioni precise, ma soltanto provocare i membri del comitato centrale, dando loro la sensazione dell'urgenza del problema. Tuttavia le disposizioni non mancarono di scatenare una pesante polemica all'interno del comitato centrale che si divise in due gruppi: uno, del quale faceva parte anche Stalin, aveva il suo portavoce in Trotskij, l'altro in Kamenev. Trotskij era d'accordo con Lenin sulla necessità d'agire in tempi molto Ivan Lantos
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brevi, ma proponeva l'elaborazione di un piano insurrezionale dettagliatamente articolato sia sul piano politico, sia sul piano militare. Secondo Trotskij non era opportuno escludere dalla responsabilità dell'insurrezione i soviet e poiché c'era già un congresso panrusso dei soviet stessi convocato per la seconda metà d'ottobre, si doveva cogliere quell'occasione come inizio dell'insurrezione. C'era dunque tra Trotskij e Lenin una parziale identità di vedute, il dissenso si limitava ai tempi e ai modi che Trotskij, presente sul luogo delle operazioni, riteneva di poter valutare con maggior cognizione di causa. Kamenev e Zinoviev, invece, dissentivano totalmente. Kamenev arrivò addirittura a proporre la distruzione dei documenti redatti da Lenin giustificando la sua richiesta con l'opinione che essi avrebbero potuto recare grave danno all'immagine del partito. Con l'inasprirsi della polemica, Stalin adottò un atteggiamento che già aveva collaudato in circostanze analoghe: le due posizioni contrapposte dovevano essere mediate sottoponendole al giudizio delle organizzazioni periferiche. Ma la proposta di Stalin venne clamorosamente bocciata. Intanto un elemento nuovo, esterno, s'aggiunse al dissenso rendendolo più acuto. Il capo del governo, Kerenskij, consapevole che ormai il terreno gli stava irrimediabilmente e velocemente franando sotto ai piedi, aveva convocato un'assemblea consultiva, detta preparlamento, che avrebbe dovuto, secondo i suoi progetti, arginare il potere dirompente dei soviet. I membri del preparlamento sarebbero stati designati dal governo stesso, ma per salvare un'apparenza di democrazia, sarebbero stati chiamati a farne parte anche alcuni bolscevichi. Ora al comitato centrale si poneva il dilemma: accettare le eventuali designazioni o rifiutarle? In pieno clima insurrezionale, secondo Trotskij, la proposta di Kerenskij non aveva alcun valore, era opportuno dunque boicottarla; secondo il gruppo di Kamenev sarebbe stato invece giusto accettare. La maggioranza si raccolse intorno alla posizione «deviazionista» di Kamenev. Un determinante passo falso il governo provvisorio lo commise quando avanzò l'ipotesi di trasferire, per ragioni connesse con il catastrofico andamento della guerra, la capitale da Pietrogrado a Mosca. I bolscevichi sostennero che non c'erano ragioni strategiche valide per un tale progetto, se non quelle di preparare la controrivoluzione e proposero la difesa di Pietrogrado «non come capitale dell'impero, ma della rivoluzione». Il Ivan Lantos
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compito della difesa se lo assunsero i soviet che, in questo modo acquistarono prestigio agli occhi della popolazione che, dopo il tentativo golpista del generale Kornilov, diffidava sempre più degli ufficiali, e ottennero in pratica il controllo assoluto sui movimenti di truppe e le decisioni dei comandi militari. Venne nominato un comitato militare rivoluzionario, la presidenza del quale venne affidata allo stesso presidente del soviet. Commenta Isaac Deutscher: «Quasi incredibile a dirsi, l'organo direttivo dell'insurrezione non era un gruppo clandestino, non era una combriccola di cospiratori autoelettisi, bensì un comitato eletto pubblicamente da un istituto numeroso e rappresentativo come il soviet. Poiché la cospirazione era, per così dire, paludata nella legalità del soviet, si creò uno stato di cose che paralizzò in gran parte l'opposizione dei socialisti moderati. I menscevichi e i socialrivoluzionari restarono nel soviet come spettatori impotenti e sbigottiti e, fino a un certo punto, come complici dei progetti bolscevichi. Trotskij (tutte le file dell'insurrezione erano adesso nelle sue mani) riuscì a dare alla rivolta l'apparenza di un'operazione difensiva destinata a prevenire o piuttosto a fronteggiare una controrivoluzione: finissimo accorgimento tattico che spinse i settori ancora esitanti della classe operaia e della guarnigione a schierarsi dalla parte degli insorti. Ciò non significa che il carattere difensivo dell'insurrezione fosse in tutto e per tutto falso e pretestuoso. Il governo, e dietro a esso i generali monarchici e i politici di destra, si preparavano alla riscossa: tant'è vero che alla vigilia dell'insurrezione, Kerenskij dichiarò fuori legge il comitato militare rivoluzionario, emise nuovi mandati di cattura contro i capi bolscevichi, tentò di mobilitare le truppe fedeli e di sopprimere la stampa bolscevica. Ma nella corsa tra la rivoluzione e la controrivoluzione, la prima aveva acquistato un forte vantaggio iniziale; e questo vantaggio fu aumentato dall'abilità con la quale il capo dell'insurrezione seppe accreditare, sino alla fine, il suo apparente scopo difensivo». Trotskij, nella sua qualità di presidente del soviet di Pietrogrado, preparava il terreno per l'ultimo atto della rivoluzione; Lenin si dava un gran daffare per recuperare Kamenev, Zinoviev e il loro gruppo al rigore bolscevico, convincendoli dell'opportunità di uscire dal preparlamento di Kerenskij, definito una assemblea di complicità controrivoluzionaria. Dopo molto tergiversare, Kamenev e Zinoviev si lasciarono convincere e il 7 ottobre la delegazione bolscevica abbandonò il preparlamento. Ivan Lantos
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Alle prime luci dell'alba dell'8 ottobre, uno strano personaggio bussò alla porta di casa Alliluiev. Fu Anna ad aprire con una certa diffidenza: aveva davanti un uomo non molto alto, imbacuccato in un lungo cappotto nero, con in testa un berretto finlandese, aveva gli occhiali e sul volto perfettamente rasato spiccavano i baffetti scuri. Soltanto quando lo sconosciuto visitatore chiese se Stalin fosse in casa, Anna Alliluieva si rese conto della sua identità, la voce era quella di Vladimir Ilic Ulianov, cioè Lenin, rientrato clandestinamente in Russia. Il travestimento era perfetto, sotto al berretto Vladimir Ilic portava anche una parrucca. Davanti a un'abbondante colazione preparata da Olga Evgenievna Alliluieva, Lenin e Stalin convennero che era indispensabile riunire al più presto il comitato centrale. L'unico grosso problema da superare era quello della sicurezza, il governo provvisorio era in stato d'allerta e la possibilità di mettere le mani sull'intero stato maggiore bolscevico era estremamente allettante, era quindi necessario agire con la massima prudenza e segretezza. Di riunirsi nei locali della scuola Smolny non c'era proprio da parlarne e l'appartamento degli Alliluiev poteva essere sotto sorveglianza. Si decise allora per la casa di Nicolai Sukhanov, un giornalista, la moglie del quale, Galina, era una delle più attive collaboratrici di Lenin e che già aveva offerto il proprio ufficio come nascondiglio per il capo. Il 10 ottobre, dodici dei ventiquattro membri del comitato centrale bolscevico si presentarono alla riunione. Uno soltanto l'argomento all'ordine del giorno: fissare la data per l'inizio dell'insurrezione. Kamenev e Zinoviev espressero il loro parere sfavorevole. «Davanti alla storia, davanti al proletariato internazionale, davanti alla rivoluzione russa e alla classe operaia di questo paese, noi non abbiamo il diritto di puntare tutto l'avvenire sulla sola carta di un'insurrezione armata» sostennero. Il governo provvisorio aveva promesso la convocazione di un'assemblea costituente e, secondo Kamenev e Zinoviev, si doveva attendere quantomeno questo evento. Secondo loro si poteva instaurare il nuovo ordine utilizzando per metà i risultati già conseguiti dalla rivoluzione e per un'altra metà l'arma incruenta delle deliberazioni parlamentari. Non esistevano, secondo loro, i presupposti affinché l'insurrezione armata potesse essere vittoriosa. Lenin era profondamente irritato: diffidava totalmente delle promesse del governo, era convinto che differire i tempi dell'insurrezione avrebbe consentito alla classe politica e militare conservatrice di prepararsi al Ivan Lantos
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contrattacco o addirittura a un'azione preventiva, aveva la radicata certezza di poter contare sull'appoggio dei movimenti socialisti europei. Insomma Kamenev e Zinoviev erano soltanto dei codardi. La discussione si protrasse per tutta la giornata e per l'intera notte: all'alba dell'11 ottobre si giunse alla votazione; dei dodici membri del comitato centrale presenti soltanto Kamenev e Zinoviev votarono contro la decisione d'incominciare l'insurrezione armata il 20 d'ottobre. Su proposta di Felix Dzerzhinski venne eletto un Politburo, cioè l'ufficio politico destinato alla direzione politica nel futuro immediato. I suoi membri erano: Lenin, Stalin, Trotskij, Sokolnikov, Bubnov, Kamenev e Zinoviev. Potrebbe sembrare contraddittoria la presenza di Kamenev e Zinoviev nel nuovo organismo direttivo, ma si voleva proprio garantire la dialettica interna, soltanto qualche tempo dopo il dissenso sarebbe stato liquidato con la violenza. Vale anche la pena di ricordare che il Politburo, organismo che era stato previsto come provvisorio sarebbe diventato «l'istituto che un giorno doveva dominare sovrano sopra lo stato, il partito e la rivoluzione». Accanto all'aperto e duro contrasto tra Lenin e Kamenev-Zinoviev ne era sorto un altro, meno radicale, tra Lenin piuttosto indeciso sulla città dalla quale far partire il segnale dell'insurrezione (Helsinki, Pietrogrado, Mosca) e Trotskij il quale nella sua qualità di presidente del soviet di Pietrogrado e del comitato militare procedeva per la sua strada, incurante delle discussioni del comitato centrale, assistito da due personaggi di assoluta fiducia, Vladimir Antonov-Oveseenko e Nicolai Podvoisky. Trotskij considerava Lenin strategicamente inattendibile, un «profano» della rivolta armata. Il 16 ottobre vi fu una nuova riunione del comitato centrale che confermò le decisioni di quello precedente. Kamenev e Zinoviev, più che mai fermi nella loro opposizione, resero pubblico il loro dissenso dalle colonne del giornale di Maksim Gorkij, Novaija zizn (Vita nuova) che si trovava in una posizione intermedia tra il radicalismo bolscevico e il riformismo menscevico. Il gesto esasperò Lenin che accusò Kamenev e Zinoviev d'infamia, d'essere «crumiri», «traditori della rivoluzione», e chiese che fossero immediatamente espulsi dal partito. Fu proprio Stalin ad assumere un atteggiamento di mediazione che indusse il comitato centrale a non adottare un provvedimento giudicato dalla maggioranza troppo severo. Stalin pubblicò sul giornale bolscevico Ivan Lantos
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un articolo che praticamente replicava a quello di Kamenev e Zinoviev e nel quale era scritto tra l'altro: «È certo che la proposta di Kamenev e Zinoviev offre alla controrivoluzione la possibilità di prepararsi e organizzarsi. Noi dovremmo ritirarci all'infinito e perdere la rivoluzione. In un momento come questo occorre dimostrare più fede. Vi sono due strade dinanzi a noi: una conduce alla vittoria della rivoluzione e a guardare all'Europa; l'altra non è segnata dalla fede nella rivoluzione e conduce il partito a restare semplicemente un partito d'opposizione. Tuttavia il soviet di Pietrogrado s'è già messo sulla strada dell'insurrezione». Insomma Trotskij, come s'è detto, non stava perdendo tempo in polemiche di carattere dogmatico, fuori del comitato centrale, nel soviet, era già sceso sul campo di battaglia. Molti storici s'interrogano sui motivi della posizione ambigua di Stalin il quale proclamava a gran voce la sua ortodossia leninista, redarguiva ma non condannava Kamenev e Zinoviev limitandosi a un commento di tipo censorio nei confronti della loro opposizione, enfatizzava l'opera di Trotskij che certamente non era in linea con le direttive generali di Lenin. C'è chi sostiene che l'atteggiamento di Stalin fosse dettato da un certo attendismo opportunista: la situazione era estremamente fluida, gli esiti dell'insurrezione incerti e mantenendosi equidistante, o ambiguo, lui si garantiva in ogni caso una buona posizione per il futuro quale che esso fosse. Un'interpretazione certamente dettata dalla malevolenza, ma resta il fatto che quando al successivo comitato centrale Kamenev presentò le dimissioni, Stalin lo difese. Inevitabilmente le dimissioni di Kamenev vennero accettate, Lenin espresse critiche sul comportamento di Stalin e così anche lui offrì di andarsene. Il comitato centrale rigettò le dimissioni di Stalin, Lenin replicò con tono conciliante preoccupato forse di perdere il contributo di un uomo discutibile in certe prese di posizione, ma certamente indispensabile alla rivoluzione. Lenin e Trotskij vennero designati come capi della delegazione bolscevica al congresso panrusso dei soviet che si sarebbe dovuto tenere di lì a qualche giorno e che in pratica avrebbe dovuto sancire la rivoluzione. L'esecutivo dei menscevichi prese la decisione di rinviare dal 20 al 25 ottobre l'inizio del congresso, decisione che non venne contestata dai bolscevichi che si resero conto di poter utilizzare quei cinque giorni per concretizzare l'insurrezione. Ivan Lantos
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Il 21 ottobre i rappresentanti dei comitati militari riconobbero i pieni poteri al comitato militare rivoluzionario, cioè a Trotskij e ai suoi luogotenenti, Antonov-Ovseenko e Podvoiskij, senza le firme dei quali nessun ordine aveva valore. Il 23 ottobre il comitato rivoluzionario militare nominò i propri commissari presso le varie unità militari della capitale i quali dovevano assicurare i vari collegamenti. Intanto lo stato maggiore governativo, resosi conto dell'evolversi della situazione, aveva incominciato a emanare ordini di trasferimento per i vari reparti; l'intenzione era quella di allontanare da Pietrogrado le unità rivoltose e farvi affluire truppe fedeli. Gli ordini vennero sistematicamente disattesi. Gli ufficiali che tentarono di opporsi all'autorità del soviet vennero sollevati e taluni anche messi agli arresti. Mancava soltanto il «casus belli», un pretesto anche irrisorio offerto dal governo, per scatenare l'insurrezione armata. E fu veramente, come spesso accade in questi casi, un piccolo pretesto: un esiguo reparto di soldati governativi occupò la redazione del giornale bolscevico diretto da Stalin e chiuse la tipografia. Una rappresentanza dei tipografi invitò il comitato militare rivoluzionario a mandare truppe che garantissero la preparazione e la stampa del giornale. I soldati della rivoluzione accorsero rapidamente. Era il 24 ottobre 1917. «Un pezzetto di ceralacca con lo stemma del governo sulla porta della redazione bolscevica come sanzione militare: non era certamente una gran cosa. Ma quale magnifico segnale di battaglia» commentò Trotskij in Storia della rivoluzione russa. Scrive Isaac Deutscher: «La battaglia si estese rapidamente ai ponti, alle strade, alle stazioni della ferrovia, agli uffici postali e agli altri obiettivi strategici: tutti furono occupati senza colpo ferire dalle truppe agli ordini di Trotskij. L'unico vero combattimento si svolse durante l'assalto degli insorti al palazzo d'Inverno, sede del governo provvisorio». Il palazzo era difeso soprattutto da truppe femminili che non opposero una gran resistenza, ma molte soldatesse si lamentarono nelle giornate successive all'insurrezione di essere state violentate dalle truppe rivoluzionarie. Qualche sparatoria senza conseguenze ci fu attorno alla fortezza di Pietro e Paolo e l'incrociatore Aurora che aveva risalito la Neva per difendere il governo tirò alcune bordate che si rivelarono essere a salve. Il governo si dissolse nell'ignominia: Kerenskij si diede alla fuga su un'automobile dell'ambasciata degli Stati Uniti garantendosi l'immunità Ivan Lantos
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sotto la bandiera a stelle e strisce. «Il governo provvisorio» commenta Isaac Deutscher «era ridotto in uno stato tale d'isolamento politico e gli insorti godevano di una così schiacciante superiorità che bastò l'urto lievissimo d'una gomitata per togliere di mezzo il governo». Il 25 ottobre, come fissato, si riunì il congresso panrusso dei soviet. La rivoluzione aveva vinto e, in pratica, era già terminata. Il suo eroico condottiero era Leon Davidovic Bronstein, detto Trotskij. E Stalin dov'era? La domanda sorge legittima in quanto nelle cronache convulse di quei giorni il suo nome praticamente non compare tra quelli dei protagonisti. Poco conta che, nella riunione del comitato centrale del 16 ottobre, Stalin, insieme con Sverdlov, Dzerzhinski, Bubnov e Uritskij, fosse stato designato a rappresentare il comitato centrale nel comitato militare rivoluzionario che era in pratica un monopolio di Trotskij nel quale era impossibile cacciare il naso. Trotskij affermò: «Quanto maggiore era la portata degli eventi tanto minore era il ruolo di Stalin». È da credere che l'assenza di Stalin dalla prima linea dell'insurrezione non fosse dovuta né a vigliaccheria, che certamente vigliacco non era, né ad altri motivi reconditi, quanto piuttosto alla consueta abilità del georgiano nel valutare le situazioni e le opportunità. Egli stava ancora costruendo il proprio destino politico, la sua immagine non era ancora completa, tanto valeva restare nell'ombra, non esporsi. Il suo temperamento, come s'è già avuto modo di dire, non era facile agli entusiasmi, anzi era freddo e di conseguenza non s'era messo in luce neppure per salutare in toni trionfalistici e calorosi la buona sorte dell'insurrezione. Insomma, Stalin riteneva più utile tessere le trame del suo progetto personale protetto dall'anonimato. La sua trincea, durante l'insurrezione, fu la redazione del Rabocij put (La strada del lavoratore), il giornale che aveva sostituito la Pravda. La sua violenza rivoluzionaria l'espresse, seppure evasivamente, in un articolo. «Ecco la risposta» scrisse Stalin. «Quanto alla borghesia e al suo apparato: con costoro regoleremo i nostri conti in separata sede. Quanto agli agenti e ai mercenari della borghesia: saranno deferiti al controspionaggio; così potranno chiarire a se stessi e agli altri il giorno e l'ora del colpo che è già stato laboriosamente digerito dagli agenti provocatori della diena. A quegli eroi (i socialisti moderati) che si sono schierati con il governo, contro i lavoratori, i soldati e i contadini, non Ivan Lantos
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dobbiamo loro alcuna spiegazione. Ma sarà nostra cura registrare questi eroi del raggiro sul libro mastro del congresso dei soviet... Quanto ai nevrastenici della Novaija zizn (il giornale di Maksim Gorkij) non siamo in grado di comprendere che cosa vogliano da noi. La rivoluzione russa ha rovesciato non pochi idoli. La sua potenza si rivela, tra l'altro, anche in questo: non s'inchina dinanzi ai "grandi nomi". La rivoluzione li ha arruolati al suo servizio o li ha gettati nel nulla quando essi non hanno voluto imparare alla sua scuola. C'è tutta una legione di questi "grandi nomi" rigettati dalla rivoluzione: Pleckanov, Kropotkin, la Breskovskaija, Zazulic e in genere tutti quei vecchi rivoluzionari che sono notevoli soltanto perché sono "vecchi". Noi temiamo che gli allori di queste colonne non facciano dormire Gorkij. Temiamo che queste anticaglie abbiano avuto un vantaggio enorme su Gorkij. Ebbene, ciascuno è padrone di se stesso. La rivoluzione è incapace di rimpiangere o di seppellire i suoi morti». Un documento questo redatto da Stalin che la dice più lunga di quanto non sembri sul suo modo di pensare, sul suo modo di concepire la storia e la realtà. C'è in esso un livore che affonda le radici nella sua vicenda personale, nell'amara odissea dei suoi avi servi della gleba, uomini senza storia e senza tradizione, nel fallimento di suo padre, ciabattino alcolizzato, incapace di redimere se stesso e la sua famiglia nel segno del passaggio alla condizione di borghese. C'è forse inconsapevolmente il rammarico per essere lui stesso, seppure in conseguenza di una scelta, una figura di piccola fama nella vicenda rivoluzionaria. Commenta Isaac Deutscher: «Gli avvenimenti successivi dovevano attribuire alle parole di Stalin il significato di una sfida inconsapevole, o forse semicosciente, a quei nuovi "grandi nomi". Per il momento la rivoluzione mostrava al mondo soltanto una delle sue facce: quella raggiante d'entusiasmo e di nobili speranze. L'altra faccia, quella del mostro che divora i propri figli, era ancora nascosta. Eppure sembrava che già in quei giorni, Stalin adorasse quest'altra faccia. "La rivoluzione è incapace di rimpiangere o di seppellire i suoi morti": eloquente epitaffio per le grandi epurazioni alle quali egli avrebbe dato corso una ventina d'anni dopo». Per ora, nell'ombra, il discendente degli schiavi georgiani preparava la sua ascesa e covava la sua vendetta contro la storia.
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CAPITOLO IX NELLA GUERRA CIVILE L'insurrezione d'ottobre segnò l'inizio di un lungo e drammatico travaglio che costrinse il partito della rivoluzione a mutamenti di rotta che potrebbero apparire assurdi rispetto alle promesse, ma che rappresentavano un indispensabile adeguamento alla situazione reale. La nuova classe dirigente dovette confrontarsi con la guerra, la carestia, il caos nei servizi sociali (trasporti, sanità, eccetera). «Ogni grande rivoluzione» scrive Isaac Deutscher «incomincia con una straordinaria esplosione di energia, insofferenza, collera e speranza; e ognuna termina nella stanchezza, nell'esaurimento e nella disillusione del popolo che l'ha iniziata». È questa una regola valida per tutte le rivoluzioni e quella sovietica non poté sottrarvisi. Ma, quali che siano i termini dell'involuzione, è anche vero che il processo rivoluzionario non può né arrestarsi, né tantomeno tornare indietro. La vittoria dell'insurrezione ebbe come conseguenza immediata per gli uomini che l'avevano organizzata un radicale cambiamento di vita: dall'oscurità alla fama, dalla miseria a un potere praticamente illimitato, dalla persecuzione all'immunità totale e addirittura alla possibilità di diventare persecutori. Lenin stesso, che finalmente poteva abbandonare il suo travestimento e spostarsi liberamente e senza timori per le strade di Pietrogrado, ammise che quel trapasso lo aveva profondamente emozionato. «Una sensazione analoga» scrive Isaac Deutscher «dovette provarla Stalin, il 26 ottobre 1917, quando sentì leggere da Kamenev, davanti ai delegati dei soviet, i nomi degli uomini chiamati a formare il primo governo sovietico, il primo consiglio dei commissari del popolo. La lista comprendeva il nome di Josif Vissarionovic Giugashvili-Stalin "presidente del commissariato per le nazionalità"». Il congresso s'era riunito nel collegio Smolnij. Era toccato ad Anna Alliluieva, nella sua qualità di segretaria, di controllare la validità delle deleghe e di assegnare i posti ai congressisti e agli ospiti. Assolti i compiti organizzativi era tornata a casa per prendere la sorella Nadezda che aveva insistito per assistere ai lavori. Aveva incominciato a nevicare e la coltre bianca che rapidamente ispessiva sui tetti e sulle strade dava alla città un aspetto pulito e di grande pace. Ivan Lantos
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Se fuori la temperatura era già invernale, nella grande sala del congresso era arroventata dall'accalcarsi della folla e dall'entusiasmo, il fumo di innumerevoli pipe e sigarette formava una fitta nebbia dall'odore penetrante. Fu, come s'è detto, Kamenev a leggere la composizione del governo che era presieduto da Lenin; ne facevano parte undici intellettuali e soltanto quattro lavoratori. A Trotskij era stato affidato il commissariato per gli Affari esteri, a Aleksej Rykov quello degli Interni, a Vladimir Miliutin quello dell'Agricoltura, a Aleksandr Shliapnikov il commissariato del Lavoro. A presiedere il commissariato per l'Educazione venne designato il coltissimo Anatol Lunaciarskij e gli Affari militari e navali furono affidati a una troika formata da Vladimir Antonov-Ovseenko, già braccio destro di Trotskij nel comitato militare rivoluzionario, Nikolai Krilenko, avvocato, e Pavel Dibenko, un marinaio dal fisico gigantesco, più o meno analfabeta, di temperamento allegro e di modi piuttosto primitivi. L'ordine del giorno del congresso comprendeva anche altre questioni pratiche e di principio: l'arresto di Kerenskij, l'abolizione della pena di morte nell'esercito, la confisca delle scorte di viveri private, la proibizione del saccheggio, l'abolizione della proprietà terriera. Il governo, comunemente chiamato con la sigla sovnarkom, tenne le sue prime riunioni in un ufficio che Lenin s'era fatto allestire alla bell'e meglio a palazzo Smolnij. E fino dai primi giorni incominciarono le difficoltà. Non soltanto i partiti non bolscevichi cercarono in ogni modo di boicottare il lavoro dei commissariati, ma anche una considerevole parte degli impiegati e funzionari governativi, eccettuati quelli destinati a mansioni più umili, come uscieri e messi, si rifiutò di collaborare con i commissari. Aleksandra Kollontai era stata nominata commissario per l'Assistenza pubblica e si vide impedita di esercitare il suo delicato mandato da uno sciopero al quale aveva aderito in pratica tutto il personale del suo ministero. La massa di indigenti, di vedove e orfani, di invalidi e d'ogni genere di disgraziati, la sopravvivenza dei quali era garantita soltanto dai sussidi del commissariato, era enorme, e incontenibile la sua rabbia provocata dalla disperazione. Aleksandra Kollontai, in preda a una violenta crisi di pianto, dovette ordinare l'arresto degli impiegati e funzionari scioperanti per costringerli almeno a consegnarle le chiavi degli uffici e delle casseforti, aperte le quali constatò che il loro contenuto era stato trafugato dal suo predecessore. Ivan Lantos
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Mentre a Mosca l'insurrezione armata era ancora in corso, giunse a Pietrogrado la notizia che il Cremlino era stato praticamente raso al suolo dai bombardamenti. Immediatamente Anatol Lunaciarskij si dimise dal suo incarico di commissario per l'Educazione in segno di protesta contro il comportamento vandalico delle truppe bolsceviche, scrivendo in una nota pubblica: «Compagni, quanto avviene a Mosca è orrendo, è un'irreparabile catastrofe. Il popolo, nella sua lotta per il potere, ha mutilato la nostra gloriosa capitale. È particolarmente penoso, in questi giorni di aspra lotta e di guerra devastatrice, essere il responsabile del commissariato per l'Educazione. Anche i più ignoranti si desteranno e capiranno quale fonte di letizia, di forza e di saggezza sia l'arte». La notizia sulla distruzione del Cremlino si rivelò ben presto infondata, ma Lenin dovette faticare non poco per far recedere il sensibile Lunaciarskij dai suoi propositi. Neppure Trotskij ebbe un insediamento facile: quando arrivò a quella che era stata la sede del ministero degli Affari esteri, ribattezzato commissariato affinché persino nel linguaggio ci fosse il segno di tempi nuovi, i dipendenti si ammutinarono chiudendosi nelle loro stanze e rifiutandosi di riconoscere l'autorità di Trotskij. Quando questi, con l'impiego della forza, li stanò dai loro rifugi, presentarono le dimissioni in massa. Si rifiutarono anche di consegnare le chiavi degli archivi per cui fu necessario chiamare dei fabbri nel caso si fosse reso necessario forzare le serrature. Finalmente dopo estenuanti discussioni, Trotskij riuscì a farsi dare le chiavi. La sua soddisfazione fu di brevissima durata: gli archivi erano vuoti, tutti i documenti riservati erano spariti. Il commissario per il Lavoro, Aleksandr Shliapnikov dovette affrontare il problema del riscaldamento del suo ministero, ridotto a una specie di ghiacciaia dal boicottaggio degli addetti alle caldaie. L'unico tra i commissari a non dover combattere con grane di questo tipo fu proprio Stalin, per la semplice ragione che un ministero per le varie nazionalità russe non era mai esistito. Dovette perciò organizzarsi il commissariato dal nulla. Stalin s'era insediato in una stanza spoglia a palazzo Smolnij e non riusciva a trovare neppure un tavolo e una sedia con i quali arredarla. In suo aiuto giunse Stanislav Pestkovskij, un anziano rivoluzionario polacco, già esule in Siberia. Fattosi firmare un mandato da Stalin, requisì, non si sa dove, un tavolo e alcune sedie, poi inchiodò alla parete un pezzo di cartone sul quale c'era scritto «Commissariato del popolo per gli affari delle Ivan Lantos
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nazionalità». Restava insoluto il problema dei fondi: il nuovo commissariato non disponeva neppure di un copeco. Con un nuovo mandato, Stanislav Pestkovskij si fece imprestare dai funzionari di Trotskij tremila rubli che non furono mai restituiti. Successivamente partecipando con energia alle risse che avvenivano tra i vari commissari per ottenere le sedi migliori, anche Stalin riuscì a trasferire il commissariato per le nazionalità in uffici più dignitosi e mise insieme un gruppo di collaboratori georgiani, polacchi, ucraini ed ebrei esperti nei problemi dei propri gruppi etnici. Ma non era certamente solo il caos organizzativo a mettere in difficoltà il giovane governo rivoluzionario. Un generale cosacco, Krasnov, s'era messo in marcia con i suoi cavalieri verso Pietrogrado, con l'intenzione di impadronirsi della città e liquidare i soviet e il loro governo. Venne fermato e fatto prigioniero dalle guardie rosse. Convinto di essere passato per le armi, restò sconvolto nel sentirsi dire dal tribunale militare rivoluzionario che veniva rilasciato in cambio di un impegno solenne a non attentare più alla sicurezza dello Stato. Ovviamente il generale Krasnov promise e se ne andò nella Russia meridionale dove costituì un'armata controrivoluzionaria. «Ci volle del tempo» scrive Isaac Deutscher «prima che la rivoluzione, tra le atroci esperienze della guerra civile, si asciugasse le lacrime, smettesse di credere alle promesse dei suoi nemici e imparasse ad agire con quella fanatica risolutezza che le diede sembianze nuove e forse ripugnanti, ma alla quale dovette in ogni modo la sua salvezza. Presto troveremo l'"uomo d'acciaio" tra coloro che svezzarono la rivoluzione dal suo sensibile (o sentimentale?) idealismo». E così, tra mille difficoltà e vittima delle lacerazioni tra l'ala moderata del partito (che era stata avversaria dell'insurrezione e nel governo aveva ampia rappresentanza), il primo consiglio dei commissari andò in crisi. La causa determinante furono le dimissioni di Kamenev, eletto presidente della repubblica, Lunaciarskij, Rykov (commissario degli Interni), Miliutin (commissario per l'Agricoltura), Nogin (commissario per l'Industria e Commercio) e Zinoviev. Questi commissari volevano costringere Lenin ad affrontare la questione della riunificazione delle diverse forze socialiste (bolscevichi, socialrivoluzionari, menscevichi). Lenin non rifiutò di rimettere sul tappeto il problema, ma qualsiasi possibilità di riconciliazione venne vanificata da un'assurda pregiudiziale pretesa dei menscevichi: Lenin e Trotskij non avrebbero dovuto far parte del nuovo governo. Ivan Lantos
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L'esclusione dei due protagonisti dell'insurrezione era improponibile, i bolscevichi più intransigenti l'interpretarono come un tentativo di decapitare il partito. La situazione si fece convulsa; numerosi dimissionari moderati furono minacciati di espulsione dal partito, Lenin, Trotskij e Stalin si schierarono sul fronte dell'intransigenza. Alla fine si riuscì a mettere insieme un governo nel quale accanto ai bolscevichi c'erano anche gli esponenti dell'ala sinistra dei socialrivoluzionari, entrati a far parte della coalizione con la speranza di poter attuare una loro riforma agraria. Venne anche costituito una specie di superministero, un consiglio di gabinetto formato da tre commissari bolscevichi e da due socialrivoluzionari; i bolscevichi erano Lenin, Trotskij e Stalin. La carriera politica di Stalin procedeva lenta, ma senza perdere i colpi. L'8 novembre 1917, Trotskij indirizzò agli ambasciatori dei paesi alleati una nota per l'armistizio immediato su tutti i fronti e il contemporaneo inizio delle trattative di pace. Il generale Nicolai Dukhonin, comandante in capo, ricevette l'ordine di avviare negoziati con il nemico; gli ambasciatori alleati protestarono e cercarono di trovare consensi tra i commissari per far fallire il progetto pacifista, ma invano, Dukhonin si rifiutò di eseguire l'ordine di Trotskij giustificandosi con il pretesto di non avere autorità sufficiente per trattare a nome del governo. Un durissimo telegramma lo sollevò dall'incarico. «In nome del governo della repubblica russa e per ordine del consiglio dei commissari del popolo, siete sollevato dall'incarico per non aver adempiuto le istruzioni del governo e per esservi comportato in modo da minacciare calamità senza precedenti per le masse lavoratrici di tutti i paesi e particolarmente per le forze armate. Perciò vi si ordina, pena le sanzioni previste dalla legge marziale, di restare al vostro posto fino all'arrivo del nuovo comandante in capo o di un suo rappresentante autorizzato che vi rileverà assumendo le consegne. È stato designato comandante in capo il guardiamarina Krilenko. Firmato: Lenin, Stalin, Krilenko». Tre settimane dopo l'insurrezione, Stalin si recò a Helsinki quale rappresentante del governo sovietico al congresso del partito socialdemocratico finlandese. Dinanzi a un uditorio stupefatto e commosso, uno Stalin quasi impacciato, proclamò: «Diamo completa libertà al popolo finlandese e agli altri popoli della Russia affinché dispongano come meglio credono della propria esistenza. Una volontaria e sincera alleanza tra i popoli di Russia e Finlandia. Nessuna protezione, Ivan Lantos
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nessun controllo dall'alto sul popolo finnico. Questi sono i principi ispiratori della politica dei commissari del popolo. Soltanto tramite questa politica si può attuare una mutua fiducia tra i popoli della Russia; soltanto una tale fiducia può spingere i popoli di Russia a unirsi in un solo esercito. Soltanto in una tale unità di popoli si possono consolidare le conquiste della rivoluzione d'ottobre e portare avanti la causa della rivoluzione internazionale socialista. Per queste ragioni noi sorridiamo quando si dice che la Russia andrà allo sfascio se l'ideale del diritto all'autodeterminazione dei popoli sarà messo in atto». Era stato lo zar Alessandro I, dopo la sconfitta di Napoleone in Russia, ad annettere completamente la Finlandia all'impero. Il governo repubblicano di Kerenskij aveva confermato la sovranità russa sulla vicina nazione baltica. Il governo socialista sovietico inaugurava la propria esistenza con un atto solenne di riparazione. Ben presto i «sorrisi» che Stalin e Lenin, redattori dei principi d'autodeterminazione delle nazioni, avevano riservato ai loro critici, sia antibolscevichi, sia bolscevichi si spensero. Il 22 dicembre 1917 Stalin dovette ammettere davanti all'esecutivo centrale dei soviet, che l'autodeterminazione funzionava come fenomeno borghese e antisocialista. Emblematici e preoccupanti i casi dell'Ucraina e della Russia meridionale. In Ucraina s'era formato un governo provvisorio, la Rada, decisamente antibolscevico e l'atamano Petliura, comandante in capo delle milizie ucraine, aveva ordinato a tutte le sue truppe di abbandonare il fronte e rientrare in patria. Nella Russia meridionale il generale Kaledin, graziato dopo la promessa che non avrebbe commesso nessun atto contro la repubblica sovietica, disattese l'impegno, mise insieme un'armata controrivoluzionaria e il governo dei commissari si trovò costretto a inviare truppe per difendere il distretto minerario Donez, nella parte sud del paese. Le «guardie rosse» avrebbero dovuto attraversare l'Ucraina per raggiungere la zona delle operazioni, ma la Rada, rivendicando il principio di autodeterminazione, negò il permesso di passaggio. Al terzo congresso panrusso dei soviet, nel gennaio del 1918, Stalin annunciò una revisione del principio di autodeterminazione che doveva essere uno strumento nelle mani dei lavoratori e non della borghesia, uno strumento di attuazione del socialismo e non della sua liquidazione. Ne derivò uno schema per la costituzione del nuovo stato sovietico inteso come federazione di soviet, la possibilità di distacco delle nazioni più Ivan Lantos
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piccole, prevista da Stalin nel documento sulle nazionalità del 1913, veniva abolita. Ma non fu questo il solo provvedimento autoritario del governo dei commissari. Un altro passo verso la progressiva scomparsa della democrazia si ebbe quando l'assemblea costituente, eletta secondo una legge elaborata sotto il governo di Kerenskij, si rifiutò di avallare alcuni importanti provvedimenti rivoluzionari. Si trattava della nazionalizzazione delle banche, dell'esproprio dei latifondi, dell'immediato inizio dei negoziati di pace e del controllo degli operai sulle industrie. I bolscevichi e i socialrivoluzionari di sinistra reagirono al rifiuto sciogliendo l'assemblea costituente che non trovò nessuno disposto a difenderne la sopravvivenza. Abortiva così il primo e unico embrione di democrazia parlamentare della Russia postzarista, tutto il potere era concentrato nelle mani dei soviet. Sul fronte della guerra le complicazioni non mancavano. Nikolai Krilenko, promosso da ufficiale subalterno a comandante in capo, si recò a rilevare il caparbio e sventurato generale Dukhonin a Mogilev, sede del quartier generale. Dukhonin, un vecchio militare con un radicato senso dell'onore, non aveva intuito che per lui si trattava della fine, così non aveva minimamente pensato a salvarsi fuggendo. Venne catturato e condotto nel vagone ferroviario sul quale Krilenko aveva installato il suo comando. La stazione di Mogilev pullulava di soldati, marinai e contadini. Alla loro «giustizia proletaria» Krilenko affidò l'anziano generale che venne massacrato a pugni e calci. «Il destino di Dukhonin» scrive H. Montgomery Hyde «segnò la fine del vecchio esercito russo e l'emergere di una nuova Armata rossa "democratizzata" senza spalline e segni di gradi». Il ristabilimento della pace era molto più complesso di quanto i grandi capi bolscevichi avevano sperato; essi s'erano illusi che la rivoluzione si sarebbe rapidamente propagata a tutta l'Europa mettendo fine alla guerra, il proletariato in armi avrebbe gettato i fucili e abbandonato i cannoni e i soldati delle varie nazioni in conflitto si sarebbero abbracciati sulle trincee in nome della fraternità socialista. Ma evidentemente la rivoluzione era una merce difficile da esportare e le grandi potenze non avevano alcuna intenzione di abbandonare i campi di battaglia. Non lo voleva la Germania che conservava un formidabile potenziale militare e non lo volevano la Francia, l'Inghilterra e l'Italia rafforzata dall'entrata nel conflitto degli Stati Uniti. Soltanto la Russia non era più in grado di combattere e il popolo Ivan Lantos
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aspettava la pace come unico segno di serietà del nuovo governo. Perdite paurose avevano decimato le truppe al fronte e, come se questo non fosse bastato, la riforma agraria con l'ipotesi di una ridistribuzione delle terre aveva indotto i contadini alle armi ad abbandonare i campi di battaglia per quelli di casa, la proprietà dei quali passava dalle mani dei latifondisti a quelle dei mugiki. Una pace o quantomeno una pace separata con i tedeschi era indilazionabile, ma le condizioni dettate dalla Germania erano pesantissime e prevedevano, tra l'altro, umilianti concessioni territoriali. La Russia doveva cedere alla Germania gli Stati baltici, una parte dell'Ucraina e la Polonia, più tutti i territori russi che l'esercito tedesco aveva occupato nel corso della guerra. Come conciliare queste rivendicazioni con la promessa incautamente fatta dai bolscevichi al popolo russo di una pace senza indennità né annessioni? Che cosa fare quando s'era perfino proclamato che la pace sarebbe stata discussa soltanto con un governo tedesco socialista e rivoluzionario e non con i rappresentanti del kaiser Guglielmo? Lenin, affranto, ma realista, cercava di convincere i compagni più irriducibili, capeggiati da Bucharin, ad accettare le condizioni dei tedeschi, riservandosi di preparare in Germania una rivoluzione analoga a quella russa. Bucharin e i suoi, apocalittici, dichiaravano che era preferibile la distruzione totale a qualsiasi umiliante compromesso. Preso tra due fuochi, Trotskij al quale erano state affidate le trattative che si svolgevano a Brest-Litovsk, mostrò di non curarsi della polemica. Stalin s'era schierato sulle posizioni di Lenin. Anche lui aveva sognato la grande rivoluzione proletaria europea, anche lui s'era realisticamente arreso all'evidenza dei fatti. Non s'era lasciato troppo coinvolgere dalla durissima polemica tra bolscevichi di sinistra e socialrivoluzionari, ma non aveva nascosto la sua opinione. Poi alcuni fatti avevano accelerato il cammino verso quella pace che Lenin non esitò a definire «ignominiosa»: i tedeschi, rotto l'armistizio, avanzarono quasi fino a Pietrogrado; il governo indipendente ucraino firmò la pace separata con la Germania; i soviet erano sul piano militare ridotti all'impotenza. Trotskij era stato sostituito, come capo della delegazione sovietica a Brest-Litovsk, da Grigori Brilliant Sokolnikov e a lui toccò, il 3 marzo 1918, di firmare il trattato di pace. Le conseguenze, all'interno del partito Ivan Lantos
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bolscevico e della coalizione di governo, furono immediate. La sinistra bolscevica si dissociò dal resto del partito. «Essa rappresentava» commenta Isaac Deutscher «l'ingenua donchisciottesca e utopistica fedeltà ai principi primitivi, la purezza irrazionale della fede rivoluzionaria». I socialrivoluzionari abbandonarono il governo lasciando i bolscevichi padroni assoluti. Il caos e l'incertezza di quei tempi generarono anche un figlio destinato a crescere nel segno del terrore: la famigerata Ceka (abbreviazione di Crezvicajnaia komissija), Commissione straordinaria panrussa per combattere la controrivoluzione e lo spionaggio e che in anni successivi cambiò il proprio nome in Ghepeu e in Nkvd, ma non i propri compiti di polizia politica. A presiedere la Ceka venne designato Felix Dzerzhinski che nei primi tempi ebbe un limitato numero di collaboratori, ma in pochi mesi gli «addetti» della Ceka divennero 31 mila che assicuravano un controllo repressivo capillare. Le prime vittime dell'organizzazione poliziesca furono criminali comuni, poi essa incominciò a occuparsi anche dei controrivoluzionari e dei nemici del popolo. Accanto a Felix Dzerzhinski c'erano il lettone Jakov Peters e il georgiano Sergej Orgionikidze, amico e uno dei primi compagni di lotta di Stalin nel Caucaso. La sede definitiva della Ceka fu il numero 11 di via Lubianka, a Mosca, e Lubianka divenne sinonimo, per ogni russo, di terrore. Il 12 marzo 1918 il governo dei commissari si trasferì da Pietrogrado a Mosca. La decisione dettata fondamentalmente da motivi di sicurezza ebbe anche giustificazioni di carattere storico: Mosca era stata la prima capitale della Russia, finché lo zar Pietro il Grande non aveva deciso di trasferire la corte in una città fondata da lui, che portasse il suo nome, sulle rive della Neva. Il governo s'installò negli edifici del Cremlino, la fortezza di Mosca, un complesso di monumentali palazzi sormontati dalle caratteristiche cupole a cipolla. I ministeri, cioè i commissariati, trovarono posto nell'ex edificio del senato e nel palazzo Kavalerskij dove venne sistemato anche il comandante del Cremlino con i suoi miliziani. Il sontuoso arredamento venne sistemato in un museo e sostituito con tavoli, sedie e letti spartani. Trotskij dichiarò: «Il profumo della vita scioperata della classe padronale esalava da ogni sedia». Venne ripristinata la grande campana di bronzo della porta Spaskij che immette sulla piazza Rossa e i carillon che ogni quarto d'ora avevano suonato «Dio salvi lo zar» vennero sostituiti con un concerto di campane che diffondevano le note dell'«Internazionale». La Ivan Lantos
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«sovietizzazione» del Cremlino comprese anche l'allestimento di una mensa dove, per ammissione dello stesso Lenin, si mangiavano cibi pessimi: carne in scatola di dubbia freschezza e cereali poco puliti. Unico alimento di pregio era il caviale rosso, abbondante perché ne era cessata l'esportazione. Il sempre acuto e sarcastico Trotskij aveva commentato: «Quell'inevitabile caviale colorò i primi anni della rivoluzione e non soltanto per me». Tra il personale del Cremlino c'era anche Nadezda Alliluieva, assunta come dattilografa nell'ufficio di Lenin. Il suo trasferimento da Pietrogrado a Mosca avrebbe avuto conseguenze straordinarie per il suo futuro. Dalla metà del 1918 la guerra civile si estese e salì di tono, coinvolgendo su fronti diversi bolscevichi (soli contro tutti) e socialisti antibolscevichi e controrivoluzionari. In luglio, i socialrivoluzionari di sinistra si assunsero il ruolo di provocatori; un loro esponente, Jakov Blumkin, assassinò l'ambasciatore tedesco von Mirbach con il progetto di far fallire il trattato di BrestLitovsk e indurre la Germania a riprendere la guerra. Il 30 luglio, ancora i socialrivoluzionari misero a segno un attentato contro Lenin che restò ferito e uccisero i capi bolscevichi Moses Uritskij e Volodarskij, mentre l'attentato contro Trotskij fallì per un pelo. La risposta dei bolscevichi fu immediata e violentissima. Stalin, in quei giorni in missione a Zarizin (la futura Stalingrado) come commissario del popolo, scrisse a Sverdlov un messaggio che riassume in maniera eloquente il clima di violenza che s'era creato. «Il consiglio di guerra della zona militare del Caucaso» scrive Stalin «avendo appreso del subdolo attentato dei mercenari capitalisti contro la vita del più grande rivoluzionario, il provato capo e maestro del proletariato, compagno Lenin, risponde a questo volgare e proditorio attacco con l'organizzazione dell'aperto e sistematico terrore di massa contro la borghesia e i suoi agenti». La Ceka poteva incominciare a lavorare a pieno ritmo. A rendere più complessa e drammatica la situazione c'era, accanto ai nemici interni della rivoluzione, la presenza straniera sul suolo russo. Così essa viene descritta dallo stesso Stalin. «Dalla prima metà del 1918, apparvero due forze distinte, pronte a rovesciare il potere sovietico: gli imperialisti dell'Intesa e la controrivoluzione interna. S'ebbe in questo modo l'intervento militare straniero contro il potere dei soviet, intervento Ivan Lantos
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appoggiato dalle rivolte controrivoluzionarie dei nemici interni del governo sovietico. Gli imperialisti inglesi, francesi, giapponesi, americani sferrarono l'intervento armato senza neppure dichiarare la guerra, benché esso fosse di fatto una guerra e della peggior specie. Quei banditi civilizzati s'infiltrarono furtivamente come ladri sul territorio della Russia e vi sbarcarono le loro truppe. Nel Caucaso del nord i generali Kornilov, Alekseev e Denikin, sorretti dagli anglofrancesi, organizzarono un esercito volontario di guardie bianche. Sul Don, i generali Krasnov e Mamontov, aiutati segretamente dagli imperialisti tedeschi (alla luce del giorno non osano farlo per il trattato di pace concluso con la Russia) scatenano una rivolta di cosacchi del Don. Nella regione del medio corso del Volga e in Siberia, gli intrighi degli anglofrancesi provocano la rivolta del corpo d'armata cecoslovacco, composto da prigionieri di guerra». W.H. Chamberlain, autore di una monumentale storia della rivoluzione russa, cerca di giustificare quanto Stalin denunciava. «Il crollo militare della Germania» scrive lo storico anglosassone «mise gli alleati di fronte alla Russia rivoluzionaria. Come abbiamo ricordato, l'intervento militare da parte degli alleati fu deciso nell'estate del 1918 e le loro forze armate occuparono Vladivostok, Arkangelo, Murmansk e altre città russe. Tuttavia questa prima parte dell'intervento si presentava come una fase dell'offensiva contro la Germania, anche se, in alcuni casi, quelli che lo dicevano non erano tanto ingenui da crederci. Per esempio l'occupazione di Arkangelo e la spedizione siberiana furono giustificate con la necessità di salvaguardare i depositi militari allestiti nel corso della guerra, di vanificare i piani tedeschi d'impiantare basi di sottomarini sulla costa del mar Glaciale Artico e di utilizzare, armandoli, i prigionieri di guerra tedeschi e austro-ungarici che si trovavano in Siberia. Bisogna anche tener presente che in quel tempo era diffusa la convinzione, sia nei paesi stranieri, sia nell'interno della Russia tra gli elementi antibolscevichi, che i bolscevichi fossero agenti della Germania e che combatterli, quindi, fosse come combattere i tedeschi». Durissima la critica di Winston Churchill, espressa senza mezzi termini. «Erano gli alleati in guerra con la Russia sovietica?» si chiedeva lo statista inglese e rispondeva «Certamente no. Eppure sparavano a bruciapelo sui russi sovietici. Armavano i nemici del governo sovietico; bloccavano i porti della Russia; affondavano le sue navi da guerra; desideravano ardentemente e facevano progetti per liquidare quel regime. Ma la guerra, Ivan Lantos
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che orrore! L'intervento, che vergogna! Non si cessava di ripetere che gli affari interni di quel paese non ci riguardavano. Eravamo imparziali, caspita! E nel frattempo cercavamo di attuare tentativi di riconciliazione e di ripresa dei rapporti commerciali». Il 10 luglio, Stalin chiese a Lenin i pieni poteri militari per le operazioni nella zona di Zarizin. «Per il bene della causa» scrisse «i pieni poteri militari mi sono indispensabili. Ho già scritto su questo argomento senza ottenere risposta. Benissimo. In questo caso metterò alla porta senza nessuna formalità quei comandanti e quei commissari che rovinano il nostro lavoro. Se i nostri "esperti" militari (nient'altro che ciabattini) non avessero dormito e non fossero rimasti con le mani in mano, la ferrovia non sarebbe saltata. Se verrà rimessa in funzione, sarà a dispetto dei militari e certamente non per merito loro». Incominciava così un dissidio insanabile tra Stalin e Trotskij che di quei militari tacciati d'incompetenza era il capo. Stalin si faceva forte per esempio del fatto d'essere riuscito, il 16 giugno, a far partire per Mosca un carico di provviste indispensabili alla sopravvivenza della capitale. Poiché gli antibolscevichi attuavano un durissimo blocco dei trasporti via terra, Stalin s'era servito dei mezzi di comunicazione fluviale. Ma non intendeva continuare ad affrontare l'emergenza, era fermamente determinato a ripristinare la normalità. Il 19 luglio, Stalin venne nominato membro del consiglio di guerra del fronte di Zarizin. Insieme con lui c'erano Klim Voroscilov, l'operaio che una decina d'anni prima gli era stato vicino nel comitato bolscevico di Baku e che era stato responsabile del sindacato dei lavoratori petroliferi e Sergei Orgionikidze. Il quartier generale della decima armata sembrava ricreare il primo nucleo rivoluzionario del Caucaso. Alla troika s'era aggiunto Sèmen Budiennij, ex sergente maggiore, il quale aveva progettato la costituzione di un'armata a cavallo rossa. L'idea fantasiosa e suggestiva di Budiennij venne respinta sia dagli esperti militari, sia da Trotskij il quale temeva che nella nuova armata potessero infiltrarsi cosacchi ostili al regime sovietico. «Solamente più tardi» scrive Isaac Deutscher «Trotskij decise di diramare il suo ordine: "Proletari a cavallo!" che riprendendo l'idea di Budiennij, doveva dare origine alla più romantica leggenda della guerra civile, la leggenda della cavalleria rossa e del suo comandante Budiennij». Ma sul fronte di Zarizin non c'erano soltanto la guerra civile, il terrore bolscevico e le polemiche tra Stalin e Trotskij. In quella Ivan Lantos
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desolazione, in quella specie di deserto dei sentimenti, accadde qualche cosa destinato a mutare le vicende umane dell'uomo d'acciaio. Nadezda Alliluieva, segretaria nell'ufficio di Lenin, era stata promossa da dattilografa ad addetta al codice e al cifrario segreto e in questa veste svolgeva anche funzioni di inviata di Lenin presso i comandanti delle formazioni militari. Nadezda, giovanissima, era affidata alle cure di una compagna anziana, Natalia Truscina, amica degli Alliluiev, i quali l'avevano pregata di vegliare sulla figlia a Mosca. Fu proprio Natalia Truscina la prima testimone del nascente idillio tra Stalin e Nadezda. «Andai con lei a Zarizin» ricorda la Truscina. «Allora chi comandava in quella città era Stalin. Una sera, aveva bevuto un po', fece delle proposte a Nadia». L'11 ottobre 1918 la sorte di Zarizin sembrava segnata. La città era completamente assediata dalle guardie bianche. Tuttavia, pochi giorni dopo, grazie anche al trasferimento di truppe dal fronte settentrionale del Caucaso che attaccarono dall'esterno le forze assedianti, la città venne liberata. Stalin, Voroscilov, Orgionikidze e Budiennij, il cosiddetto «gruppo di Zarizin», vennero considerati da una larga parte della popolazione autentici eroi, Trotskij, da parte sua, fece di tutto per ridimensionare quello che affermava essere un "mito" montato ad arte, ma privo di fondamento reale: non agli assediati andava il merito della liberazione della città, ma all'intervento delle truppe esterne. La polemica sulla vicenda di Zarizin rinvigorì le fiamme dell'inimicizia, ormai insanabile, tra Stalin e Trotskij. Lenin, consapevole della tensione, decise che era opportuno far rientrare a Mosca il focoso georgiano. Per non urtarne la suscettibilità incaricò il presidente della repubblica Sverdlov di riportare Stalin a Mosca con un treno speciale e con tutti gli onori dovuti a un eroe. Mentre il treno di Stalin viaggiava in direzione della capitale, un altro treno con a bordo Trotskij correva verso Zarizin. I due convogli s'incontrarono. Trotskij ricevette nel suo vagone Stalin. Nonostante la presenza dell'autorevole Sverdlov l'atmosfera era glaciale. Stalin, capace di fingere quando le circostanze lo richiedevano, recitò da grande attore il copione della modestia. Con tono quasi mellifluo chiese a Trotskij di non essere troppo severo con «i ragazzi di Zarizin». Il commissario alla Guerra, sincero fino alla brutalità, rispose: «Quei bravi ragazzi saranno la rovina della rivoluzione e la rivoluzione non può concedersi il lusso d'aspettare che diventino adulti». Il suo primo provvedimento, appena Ivan Lantos
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giunto a Zarizin, fu di trasferire Voroscilov sul fronte ucraino. A Mosca, tra le mura del Cremlino, Stalin si concesse il riposo del guerriero. Natalia Truscina, alla tutela della quale era stata affidata Nadezda Alliluieva, ricorda: «Quando Stalin ritornò da Zarizin al Cremlino, incominciò a corteggiarla. Decisi di avvertire la famiglia, ma essi, in un primo momento, non dettero importanza ai miei avvertimenti. Soltanto dopo, quando Kalinin, vecchio amico degli Alliluiev, richiamò la loro attenzione su ciò che stava accadendo, si preoccuparono. Ma ormai Stalin aveva fatto girare la testa a Nadia... Nadia era affascinata dall'abilità di Stalin nel districarsi tra gli scogli delle polemiche e dei conflitti interni del Cremlino. Stalin, a sua volta, era lusingato dall'interesse che lei gli dimostrava. E non soltanto perché era tanto giovane e bella, ma anche per il fatto che essa aveva una posizione chiave nell'amministrazione del Cremlino. Spesso Nadia gli fu di grande aiuto facendogli conoscere in anticipo il contenuto di comunicazioni che aveva decifrato per conto di Lenin. Ciò consentì a Stalin di prevenire e neutralizzare i progetti dei suoi avversari. Naturalmente non era il caso di parlare d'amore autentico tra di loro. C'era la grande differenza d'età. Lui aveva il doppio degli anni di lei e non era per nulla attraente. La pelle scura del suo viso era butterata dal vaiolo e aveva un aspetto volgare e rozzo. Era anche di un'altra nazionalità. Nadia invece era diventata straordinariamente bella. Mi sembra di rivederla: graziosa, soave di modi, le guance rosate, la carnagione come il cielo all'alba. La piccola Nadia era un sogno». Accadde tutto una sera. S'era organizzata una festicciola in onore di un vecchio amico di Stalin, un georgiano di nome Lominadze. Abel Jenukidze mise a disposizione il suo appartamento. Gli invitati erano pochi, tra essi Stalin e Nadezda Alliluieva, le bottiglie di vino molte. L'atmosfera era calda e allegra resa più vivace dai canti, poi l'ebbrezza attenuò l'eccitazione, le canzoni si fecero tenere e nostalgiche e Nadezda si rannicchiò tra le braccia forti di Stalin con la complicità della penombra. La compagnia si sciolse soltanto alle prime luci del giorno. Sul bellissimo viso di Nadezda, insieme con la stanchezza, c'era un'espressione nuova. Qualche settimana dopo Nadia Alliluieva confessava all'esterrefatta Natalia Truscina d'essere incinta. Il compagno Sergei Alliluiev, a Pietrogrado, ne venne subito informato. Come comunista era un sostenitore delle teorie del libero amore codificate da Aleksandra Kollontai, ma come padre di una figlia «messa nei guai» la Ivan Lantos
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sua reazione fu quella di un comunissimo borghese. Stalin aveva tolto l'illibatezza alla piccola Nadia e doveva quindi riparare sposandola. Il georgiano, messo brutalmente davanti alle sue responsabilità, accettò. Il matrimonio riparatore venne celebrato in un giorno di marzo del 1919 in un ufficio di Mosca. Fu una cerimonia semplice e riservata alla famiglia, non c'era nessuno dei dirigenti del partito. I testimoni furono Stanislav Redens, un bolscevico lettone, marito di Anna Alliluieva e Abel Jenukidze, il quale era, in un certo modo, il responsabile dell'«incidente» nel quale era incappata Nadezda. Stalin e la sua giovanissima sposa trovarono alloggio in una piccola casa del Cremlino: una grande stanza e una cucina al piano terreno e due camere al primo piano in un edificio, vicino alla porta Spaskij, che era servito come alloggio per i domestici durante l'epoca zarista. Quanto all'arredamento, pochi modestissimi mobili usati, provvide il comandante delle guardie del Cremlino. Vi sono alcuni biografi che danno poco credito all'episodio della festicciola. Nadezda Alliluieva sarebbe diventata l'amante di Stalin in occasione di una delle trasferte a Zarizin; la relazione s'era poi trascinata finché, dopo l'allegra serata in casa di Abel Jenukidze, la ragazza s'accorse di aspettare un bambino. La situazione economica della Russia era fallimentare, come risulta anche da una nota di Leonid Krasin, commissario dell'Industria e del Commercio. «Le condizioni rasentano l'assurdo» scriveva l'uomo di governo. «Mentre i commissari mangiano nella sala dei banchetti del Cremlino, le loro famiglie talvolta hanno difficoltà a procurarsi il pane. Nelle grandi città si vive come in fortezze assediate. Nei villaggi invece il pane e i viveri in genere sono abbastanza abbondanti e i mugichi hanno mucchi di cartamoneta per comperare altri generi di prima necessità. Spesso rifiutano di vendere quello che hanno a meno di trarne un profitto enorme e sproporzionato, al confronto del quale quello ricavato dagli speculatori può apparire esiguo. Stiamo mettendo a punto i provvedimenti da adottare nei loro confronti: a volte è sufficiente la buona volontà, altre volte invece occorre la repressione. La distribuzione delle derrate è resa difficilissima dal caos nel quale versano i trasporti ferroviari. I treni per passeggeri sono praticamente inesistenti poiché le vetture sono necessarie per le esigenze militari e i rifornimenti. Tutto questo accade dopo quattro anni dalla grande guerra europea e dopo due dalla rivoluzione. Ivan Lantos
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Naturalmente si tratta della guerra civile e il nostro isolamento dal resto del mondo contribuisce al completo dissesto della nostra economia. Tutto deve essere requisito dall'esercito: metalli, pellami, stoffe. Un certo numero di fabbriche è inattivo e la flotta del Volga è paralizzata dalla mancanza di combustibile. È difficile per chiunque non ne abbia esperienza diretta rendersi conto della situazione nella quale siamo costretti a vivere». Il 1919 segnò il momento più acuto della guerra civile. I diversi comandanti «bianchi» che combattevano per ripristinare il vecchio ordine in Russia, appoggiati dalle potenze occidentali sferravano gli ultimi durissimi colpi di coda. Kolciak, Denikin, Judenic riportarono effimeri successi, ma le milizie rosse comandate da Trotskij e in subordine da Stalin e da altri luogotenenti. In margine alla guerra civile ci fu, nel 1920, la guerra russo-polacca. Nel maggio di quell'anno le truppe di Josef Pilsudski invasero l'Ucraina e occuparono Kiev. La conquista non durò a lungo; ai polacchi venne meno l'appoggio dei contadini ucraini i quali temevano la restaurazione dell'aristocrazia terriera polacca sui loro territori. Osteggiati dalla popolazione locale, attaccati a settentrione da Tuchacevskij e a meridione da Budiennij e Jegorov, i polacchi evacuarono Kiev. L'offensiva dell'armata rossa si spinse fino al fiume Bug che rappresentava la frontiera «etnica» tra ucraini e polacchi. Il Bug costituì per i sovietici quello che era stato secoli prima il Rubicone per Giulio Cesare e le sue centurie. Era opportuno passarlo e tentare la conquista di Varsavia? Lenin era dell'opinione di proseguire la campagna contro i polacchi e di attizzare in questo modo le fiamme della rivoluzione socialista in Europa; Trotskij, che conosceva a fondo la situazione delle risorse militari, era contrario al progetto di Lenin e suggeriva la pace. Stalin, in un primo tempo, condivise la linea pacifista di Trotskij, poi si lasciò affascinare dal «maestro» e si schierò decisamente sulle posizioni «bellicistiche» di Lenin. Il 12 luglio ritornò al suo quartier generale sul fronte meridionale. La marcia di Tuchacevskij verso Varsavia sembrava irresistibile, in poche settimane il generale era in vista della capitale polacca. Venne dato ordine a Jegorov e Budiennij di andare ad appoggiare Tuchacevskij e ad arginare la controffensiva di Pilsudski. Stalin, coerente alla indisciplinata condotta adottata a Zarizin, disattese l'ordine: intimò a Jegorov e Budiennij di dirigersi su Lvov. Fu un errore clamoroso. I Ivan Lantos
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polacchi contrattaccarono vittoriosamente sulla Vistola. Stalin, Jegorov e Budiennij tentarono in extremis di riparare la catastrofe, ma era troppo tardi. L'armata rossa si ritirava precipitosamente. Il commento di Trotskij fu feroce: «Una delle ragioni per le quali la nostra catastrofe sotto Varsavia ebbe proporzioni colossali, fu il comportamento del comando di quel gruppo occidentale delle armate del gruppo meridionale che aveva il compito di puntare su Leopoli. Al centro di questo gruppo, almeno come figura politica, c'era Stalin». La replica di Stalin, con lo scopo di ribaltare le accuse su Trotskij, è un esempio d'acrimonia. «L'esercito dei feudatari polacchi» scrive Stalin «stava per essere definitivamente sgominato. Ma le losche trame di Trotskij e dei suoi seguaci nel quartiere generale dell'esercito rosso compromisero i nostri successi. Per colpa di Trotskij e di Tuchacevskij l'offensiva dell'esercito rosso sul fronte occidentale, in direzione di Varsavia, procedeva in modo del tutto disorganizzato. Ai soldati non si lasciava il tempo di consolidare le posizioni conquistate. Le unità d'assalto furono lanciate avanti troppo in fretta e si trovarono senza munizioni e senza riserve, rimaste troppo indietro nelle retrovie. La linea del fronte era stata allungata esageratamente e ciò la rendeva vulnerabile ai tentativi di sfondamento. «Per queste ragioni, quando un debole contingente di truppe polacche ruppe il nostro fronte occidentale in un settore, le nostre truppe, sprovviste di munizioni, furono costrette a ripiegare». L'ultimo epigono dell'antibolscevismo fu il barone Wrangel, rappresentante l'agonia del vecchio ordine zarista. Venne cacciato dal suo ridotto in Crimea e spinto fino al mare. La guerra civile era praticamente terminata. Aveva anche i suoi eroi. Nel novembre del 1920 a Trotskij e Stalin venne solennemente conferito l'ordine della Bandiera Rossa. Verso la fine del 1920, Stalin dovette essere ricoverato in ospedale per una forte infezione all'appendice. Il primario dell'ospedale militare ritenne urgente e indispensabile un intervento che si rivelò più complicato di quanto la diagnosi aveva previsto. Lenin seguì con costanza e amichevole trepidazione la malattia di Stalin tenendosi continuamente in contatto con il medico. Quando Stalin venne dimesso cercò anche di convincerlo a prendersi un periodo di convalescenza. Tenuto conto del pessimo funzionamento dei convalescenziari, gli suggerì di tornare per qualche tempo in Georgia. Certamente l'aria del paese natale gli avrebbe giovato. Ivan Lantos
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Ma a Stalin il suggerimento del capo non piacque. La Georgia, in quel momento, per lui, non era la possibile mèta per una vacanza, ma un personale assillo politico. Nel maggio del 1920, un trattato internazionale ne aveva sancito l'indipendenza e un governo menscevico guidato da Noé Jordania s'era istallato alla guida del paese. Stalin ne era contrariato. Riteneva intollerabile che la sua terra natale fosse restata fuori dello stato russo bolscevico e fosse guidato dai menscevichi che odiava. Voleva vendicarsi dei torti che gli avevano fatto subire quando, anni prima, avevano osteggiato la sua linea politica e per realizzare i suoi piani progettava un'invasione militare. Stalin si guardò bene dall'informare Trotskij o gli altri responsabili dell'alto comando: l'11 febbraio 1921, a capo della seconda armata rossa, attraversò la frontiera russogeorgiana. Fu un autentico blitz. Tre giorni dopo, Stalin annunciò al Politburo l'intervento militare in Georgia al quale, affermò, era stato costretto per aiutare l'insurrezione bolscevica. La sovietizzazione della Georgia richiese diverse settimane: la popolazione era in realtà ostile ai bolscevichi e agli atti di saccheggio perpetrati dalle truppe seguirono quelli del terrore messi in atto dalla Ceka. Stalin s'illuse di poter celebrare il proprio trionfo nel corso di una grande riunione popolare nel Teatro dell'opera di Tiflis nel luglio del 1921. Ma invece delle ovazioni e degli applausi trovò fischi e pesantissimi insulti da parte del pubblico. Lasciò precipitosamente il teatro protetto da una folta schiera di guardie rosse e di agenti della Ceka, spaventato e fuori di sé per la rabbia, tanto che ebbe un malore. Poiché le sue condizioni di salute non erano buone, Lenin decise di mettere a sua disposizione un alloggio più confortevole di quello che gli era stato assegnato quando s'era sposato. Il nuovo appartamento, secondo la testimonianza di Abel Jenukidze, era sontuosissimo e si trovava all'interno dell'ex palazzo imperiale. Era arredato lussuosamente con mobili antichi e sedie dorate imbottite di velluto rosso; c'erano preziosi tappeti orientali e pesanti tendaggi che in altri tempi avevano fatto bella mostra di sé alle finestre del palazzo d'Inverno a Pietroburgo. Nel salotto c'era anche un imponente pianoforte Bechstein che Nadezda suonava spesso e con grande maestria. Nel marzo del 1921, la rivolta scoppiata a Kronstadt fece temere un improvviso riaccendersi della guerra civile proprio in coincidenza del decimo congresso del partito. L'8 marzo, sulle pagine dell'Izvestija di Kronstadt era apparso il seguente articolo-proclama: «A tutti... a tutti... a Ivan Lantos
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tutti. Il primo colpo è stato tirato. Il maresciallo Trotskij sporco del sangue degli operai, per primo ha aperto il fuoco su Kronstadt rivoluzionaria, insorta contro la dittatura comunista per ristabilire il vero potere dei soviet. Senza un colpo d'arma da fuoco, senza aver sparso una sola goccia di sangue, noi marinai e operai di Kronstadt ci siamo liberati dal giogo dei comunisti. Abbiamo anche risparmiato la vita ai bolscevichi che erano tra noi. Ora, i comunisti, con la minaccia dei cannoni, vogliono imporci nuovamente il loro potere. Desiderosi di evitare un massacro, avevamo proposto a Pietrogrado di inviare qui dei delegati imparziali perché potessero rendersi conto che Kronstadt è in lotta per ridare il potere ai soviet. Ma i comunisti hanno tenuto nascosta la nostra richiesta agli operai di Pietrogrado e hanno aperto il fuoco contro di noi. È questa la risposta consueta del cosiddetto governo popolare alle esigenze delle masse lavoratrici. È opportuno che gli operai di tutto il mondo sappiano che noi, ultime sentinelle del potere dei soviet, veglieremo sulle conquiste della rivoluzione sociale. Noi vinceremo o moriremo sotto le rovine di Kronstadt, combattendo per la causa del popolo lavoratore. Soltanto gli operai del mondo intero potranno giudicarci». A debellare l'insurrezione fu inviato Tuchacevskij e alle truppe rosse si unirono molti delegati del congresso, i lavori del quale erano stati precipitosamente sospesi. Ancora dalle pagine dell'Izvestija di Kronstadt: «Oggi si scava un'altra tomba sulla piazza dell'Ancora a Kronstadt. È su questa piazza che sono state poste le prime pietre della terza rivoluzione; è lì che sono sepolti i primi eroi morti nella lotta. Fratelli, per le nostre idee essi giaceranno nella tomba comune. Saranno calate venti bare rosse con dentro i corpi dei nostri difensori. Queste bare rosse sono il simbolo del sangue versato nella lotta. Il simbolo dell'incendio rivoluzionario che spazza via dalla sua strada tutti quelli che osano alzare la mano contro la volontà del popolo. Esso rianima la fiamma della libertà». Lenin, il quale aveva capito perfettamente la situazione, commentò: «Ci eravamo spinti troppo avanti e non ci eravamo assicurati una base sufficiente. Le masse avevano intuito ciò che noi stessi non riuscivamo ancora a esprimere in forma cosciente e concreta, cioé il passaggio diretto a forme puramente socialiste, alla distribuzione puramente socialista, era un compito superiore alle nostre forze, e che un disastro ci avrebbe minacciato se non fossimo stati capaci di ritirarci e limitarci a compiti più Ivan Lantos
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facili». L'economia di guerra venne sostituita con la cosiddetta nuova politica economica, meglio conosciuta con la sigla NEP. Secondo la definizione di Stalin, convinto assertore del nuovo corso economico, la NEP era una «particolare politica dello stato proletario, intesa a tollerare il capitalismo, ma a conservare nelle mani dello stato proletario le posizioni chiave. La NEP mira alla lotta tra elementi capitalisti e socialisti, all'incremento dell'importanza degli elementi socialisti a scapito di quelli capitalisti, all'abolizione delle classi e a gettare le fondamenta di un sistema economico socialista». L'iniziativa privata era limitata alla piccola industria e al commercio; i trasporti e i servizi pubblici in genere e la grande industria erano invece proprietà dello Stato. Si cercava d'incoraggiare gli investimenti industriali stranieri in Russia. La normale tassazione, prima in natura e successivamente in denaro, doveva sostituire, nelle campagne, il sistema della requisizione delle derrate alimentari. Doveva essere stabilizzato, sia sul mercato valutario interno, sia su quello internazionale, il valore del rublo. Se, in un primo tempo, la NEP si rivelò un buon sistema economico riferito alla classe lavoratrice, successivamente essa finì con l'esprimere una nuova classe di potere, quella degli industriali di Stato, d'origine borghese, infiltrati nella gerarchia politica, insomma una classe di privilegiati, scollegata dalle masse. Edward Carr in Storia della Russia sovietica, osserva: «La politica del lavoro della NEP somigliava a quella di un'economia capitalistica per il modo in cui, consapevolmente o no, essa si serviva della disoccupazione come strumento per la tutela della disciplina e la direzione del lavoro. Secondo quelle che furono in un secondo tempo accettate come statistiche ufficiali, il totale degli operai disoccupati salì rapidamente da mezzo milione nel settembre 1922 a un milione e duecentocinquantamila alla fine del 1923, e nel 1924 era ancora cresciuto».
CAPITOLO X IL POTERE Al 3 aprile 1922, alla chiusura dell'XI congresso, Josif Vissarionovic Ivan Lantos
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Giugashvili-Stalin venne nominato segretario generale del comitato centrale del partito comunista pan-russo, Viaceslav Michajlovic ScriabinMolotov e Valerian Kuibiscev suoi assistenti. Il primo atto significativo per la conquista del potere da parte di Stalin era stato compiuto. A due anni dalla conclusione della guerra civile la società russa viveva già sotto il virtuale governo di Stalin, senza rendersene conto e senza neppure conoscere il nome di chi la governava. Stalin era commissario per le Nazionalità e questa carica gli consentiva di controllare quasi il cinquanta per cento dell'intera popolazione della repubblica federativa socialista sovietica russa; infatti su centoquaranta milioni d'abitanti, oltre sessantacinque milioni appartenevano a popolazioni non russe. Stalin era anche commissario per l'Ispettorato degli operai e dei contadini e membro del Politburo, organismo del quale, durante la guerra civile avevano fatto parte soltanto cinque membri: Lenin, Trotskij, Kamenev, Bucharin e Stalin. Nelle mani del Politburo era accentrato il potere effettivo. Quanto al partito esso era controllato dell'Orgburo, organismo eletto dal comitato centrale, con il compito di dirigere il personale del partito stesso. Dal 1919, Stalin ebbe l'incarico permanente di collegamento tra il Politburo e l'Orgburo. Isaac Deutscher annota: «Egli assicurava l'unità politica e organizzativa, cioè disponeva delle forze del partito secondo le direttive del Politburo. A differenza di tutti i suoi colleghi, vivendo immerso nel lavorìo giornaliero del partito, finì con il conoscere tutte le cabale e gli intrighi più sottili». Ma c'era un'altra e più oscura carica che doveva diventare nelle mani di Stalin un'arma micidiale. Nel 1921 era stata istituita la commissione centrale di controllo, incaricata di tutelare la moralità all'interno del partito. Alla commissione centrale di controllo facevano capo le commissioni locali chiamate a giudicare l'operato dei membri del partito. Chi s'era reso colpevole di qualche irregolarità poteva essere ammonito e censurato e in casi di particolare gravità poteva essere epurato, cioè espulso. La commissione centrale di controllo di Mosca fungeva da grado d'appello nei confronti delle commissioni periferiche. «Secondo il progetto originale», scrive Isac Deutscher, «essa doveva restare indipendente dal comitato centrale e dal Politburo. Successivamente fu posta su un piede di parità con il comitato centrale e i due organismi tennero regolarmente le loro sedute in comune. Il segretariato generale rappresentò allora l'anello di congiunzione tra essi. Così, anche se non ufficialmente, Stalin divenne il Ivan Lantos
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principale artefice delle epurazioni». C'è nell'ascesa di Stalin una strana bizzarrìa, della sorte: Lenin era preoccupato della crescita politica del georgiano che conosceva bene e del quale aveva capito perfettamente l'indole. «Questo cuoco è capace di preparare soltanto piatti molto pepati» aveva dichiarato. Trotskij trovava Stalin insopportabile; Zinoviev e Kamenev lo disprezzavano moderatamente. Tuttavia nessuno dei membri del Politburo impedì a Stalin di assumere le varie cariche che a loro sembravano troppo «pratiche», troppo lontane da quei problemi di principio che soddisfacevano maggiormente le loro esigenze di intellettuali. Nelle ruvide mani contadine di Stalin la democrazia lentamente soffocava mentre cresceva la burocrazia. Il 26 maggio 1922, Lenin fu colpito da una piccola emorragia cerebrale. Il capo del partito bolscevico, che da diverse settimane aveva avvertito un certo malessere al quale, però, aveva attribuito scarsa importanza, aveva da poco terminato di fare colazione quando una piccola vena si ruppe nel suo cervello. La mano e la gamba sinistra si paralizzarono e Lenin perse completamente l'uso della parola. Appena le sue condizioni lo permisero venne trasportato nella sua casa di campagna, vicino a Gorki, dove Stalin gli fece visita, trovandolo di buon aspetto, ma estremamente teso, preoccupato della proibizione assoluta di lavorare che gli avevano imposto i medici. Nel corso della convalescenza di Lenin, Stalin lavorò alacremente a uno dei progetti che più gli stavano a cuore: l'assorbimento delle repubbliche satelliti nell'«impero» sovietico. In particolare l'attenzione di Stalin s'appuntava sulle repubbliche caucasiche della Georgia, dell'Arzebaigian e dell'Armenia, sull'Ucraina e sulla Bielorussia. Secondo il suo progetto esse dovevano aderire alla federazione sovietica rinunciando a una serie di servizi autonomi e indipendenti come gli affari esteri, le poste e i telegrafi, il commercio estero, la finanza, l'approvvigionamento dei viveri, il lavoro e l'economia. Per quanto riguardava il dissenso politico interno, cioè le attività controrivoluzionarie, esse dovevano passare sotto l'esclusivo controllo del comando centrale della Ceka. Si trattava, in pratica, di liquidare quei margini d'autonomia, formale e sostanziale, ai quali lo stesso Stalin, nel progetto per le nazionalità del 1913, era parso attribuire fondamentale importanza. Il 15 settembre Stalin si recò a Gorki per sottoporre il suo piano a Lenin. Ivan Lantos
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Il capo ne fu profondamente contrariato, anche se non dichiarò tutto il suo dissenso, limitandosi a formulare alcune critiche in maniera estremamente pacata. Tuttavia qualche settimana dopo il suo atteggiamento cambiò. Che cosa ci fosse all'origine del cambiamento non ci è dato saperlo, ma è verosimile che Lenin avesse raccolto una massa d'informazioni sia attraverso il responsabile della Ceka, Felix Dzerzhinski, sia direttamente dai dirigenti georgiani, dalle quali traspariva la volontà «colonizzatrice» di Stalin. Lenin era del parere che dovessero essere salvaguardati alcuni margini d'indipendenza alle repubbliche autonome; Stalin, il quale s'era accorto che il capo andava perdendo le energie, nutriva la segreta speranza che i membri del governo e del Politburo si sarebbero convertiti alla linea «dura» che lui proponeva. In ottobre, Lenin ritornò a Mosca e riprese a lavorare con grande impegno trasgredendo le prescrizioni dei medici. Le cose tuttavia non andavano più come prima, c'era qualche elemento che sfuggiva alla sua valutazione e che gli impediva un controllo meticoloso dell'apparato governativo e di partito. C'è chi, come H. Montogomery Hyde, sostiene che un fatto determinante fosse la presenza nella segreteria particolare di Lenin, diretta da Lidia Fotieva, di Nadezda Alliluieva, la quale faceva per così dire da «talpa». Nadezda avrebbe fornito al marito le informazioni necessarie a prevenire e aggirare le decisioni di Lenin che non erano in sintonia con il suo pensiero. I rapporti tra maestro e discepolo si stavano rapidamente deteriorando. Il 13 novembre, Lenin ebbe un collasso mentre svolgeva un intervento al quarto congresso dell'Internazionale; era il segnale di un nuovo attacco che lo colpì il 16 dicembre, anche se in forma non grave. In quei giorni accadde un episodio destinato a compromettere definitivamente l'amicizia tra Lenin e Stalin. Stalin, nella sua qualità di segretario generale del comitato centrale, era stato incaricato di seguire l'evolversi della malattia del capo e di assicurarsi che le prescrizioni mediche fossero scrupolosamente applicate. Lenin, nonostante gli fosse stato prescritto il riposo assoluto (avrebbe dovuto trasferirsi a Gorki, ma le cattive condizioni meteorologiche avevano indotto i medici a lasciarlo al Cremlino) aveva dettato alcuni appunti alla moglie. Stalin ne era venuto a conoscenza e aveva affrontato Nadezda Costantinova Krupskaia per telefono coprendola d'insulti, minacciandola Ivan Lantos
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persino di denunciarla alla commissione centrale di controllo per comportamento negligente. La Krupskaia reagì indignata scrivendo una lettera durissima a Lev Borisovic Kamenev. «A causa di una breve missiva che con l'autorizzazione dei medici Vladimir Ilic mi ha dettato per lui, Stalin ieri s'è permesso di farmi una scenata. Da trent'anni sono nel partito e nessuno mi ha mai rivolto una parola sgarbata. Gli interessi di Ilic e del partito stanno a cuore a me non meno che a Stalin. Ho bisogno in questo momento di tutto il mio sangue freddo. Quello che si può o non si può discutere con Vladimir Ilic lo so meglio di tutti i medici e, in ogni caso, molto meglio di Stalin. Mi rivolgo a te e a Grigorij Zinoviev come ài compagni più vicini a Vladimir Ilic per pregarvi di proteggermi da brutali interferenze nella mia vita privata, da volgari insulti e da minacce meschine. Non ho dubbi su quale sarà la decisione unanime della commissione centrale di controllo con la quale Stalin ha ritenuto opportuno minacciarmi. In ogni caso, mi mancano il tempo e la forza per sprecarmi in questa stupida farsa. Sono un essere umano e i miei nervi sono tesi allo spasimo». I rimproveri di Stalin e le sue premure di dubbia origine non impedivano a Lenin di continuare a occuparsi delle vicende del partito e del governo e con grande lucidità annotava in quei giorni: «Il compagno Stalin, eletto segretario generale, ha concentrato nelle sue mani enormi poteri; e io non sono certo che egli sappia usare questi poteri con sufficiente cautela». E ancora, il 30 dicembre, riferendosi alla questione georgiana: «Ritengo che la brutalità, la superficialità amministrativa, l'intemperanza di Stalin e il disprezzo nel quale egli tiene il patriottismo delle minoranze, abbiano avuto conseguenze disastrose. Il disprezzo degli altrui sentimenti è sempre stato un vile e stupido consigliere». Lenin lavorava ormai alla stesura del suo testamento politico, consapevole com'era della possibilità di dover, in un modo o nell'altro, uscire di scena. La sua preoccupazione riguardava le sorti del partito e del paese una volta che lui non fosse stato più presente a smussare polemiche, a mediare tra le fazioni, a dirimere le grandi questioni ideologiche, ad assumere con l'autorità che gli veniva dal prestigio e dalla dottrina decisioni salomoniche. Era consapevole della lotta esiziale che si consumava al vertice dell'organizzazione soprattutto tra Stalin e Trotskij ed era in grado di prevedere, da straordinario politico qual era, che la vera Ivan Lantos
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vittima di quella guerra non dichiarata e combattuta nell'ombra sarebbe stato soprattutto il popolo russo. Il 24 gennaio 1923, Lenin dettò alla sua segretaria particolare, Lidia Fotieva, la seguente aggiunta: «Stalin è troppo rozzo e questo difetto, anche se abbastanza tollerabile nel modo di fare di noi comunisti, diventa assolutamente insopportabile nello svolgimento dei compiti di un segretario generale. Perciò io propongo ai compagni d'escogitare un modo per esonerare Stalin da quell'incarico ed eleggervi un altro il quale, sotto ogni aspetto, sia diverso da Stalin per qualità. Cioè qualcuno più paziente, più leale, più comprensivo nei confronti dei compagni, meno imprevedibile. Questa circostanza può sembrare insignificante, eppure io credo che, per prevenire una frattura tra Stalin e Trotskij, che ho esaminato prima, non sia affatto insignificante, al contrario possa diventare decisiva». E ancora l'irrisolto affare georgiano e i rapporti tra Stalin e la Krupskaia erano gli elementi che corrodevano quella che, un tempo, era stata più che un'amicizia. Esaminati tutti i rapporti sulla Georgia, Lenin, nel marzo 1923, aveva scritto alcune lettere. Una, indirizzata ai bolscevichi georgiani Budu Mdivani e Philip Macharadze, è d'una eloquenza sconcertante. «Miei stimati compagni» scriveva Lenin «nella presente questione sono vicino a voi con tutto il cuore. Sono sdegnato della brutalità di Orgionikidze e della disonestà di Stalin e Dzerzhinski». A Trotskij: «Caro compagno Trotskij, ti chiedo molto seriamente di assumere la difesa dell'affare georgiano al comitato centrale del partito. Ora esso viene condotto da Stalin e da Dzerzhinski, ma con modalità tali da non permettermi di avere fiducia nella loro imparzialità. Anzi, proprio il contrario! Se tu acconsentissi di assumerne la difesa, io sarei più tranquillo. Se invece, per qualche ragione, tu non lo volessi fare, ti prego di restituirmi la relativa documentazione. Considererò la sua restituzione come la conferma del tuo rifiuto». Quanto al comportamento di Stalin nei confronti di Nadezda Costantinova Krupskaia, ecco ciò che Lenin scrisse a Stalin in una «segretissima personale»: «Al compagno Stalin e per conoscenza ai compagni Kamenev e Zinoviev. Caro compagno Stalin, ti sei permesso di chiamare mia moglie al telefono e di rimproverarla aspramente. Anche se ti ha comunicato che è disposta a dimenticare l'accaduto, ho ritenuto opportuno informare della Ivan Lantos
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cosa Zinoviev e Kamenev. Io non ho intenzione di dimenticare facilmente quanto viene fatto contro di me. Mi sembra quasi superfluo precisare che ciò che viene fatto a mia moglie lo considero fatto a me. Ti invito quindi a comunicarmi se sei disposto a porgere le tue scuse o se, invece, preferisci che vengano rotti i rapporti tra noi». Stalin, probabilmente consigliato da Trotskij, scrisse una lettera di scuse che però Lenin non fu mai in grado di leggere: un nuovo attacco del male ne compromise definitivamente le facoltà fisiche e mentali. La lotta per la successione era aperta, ma ancora i contendenti, Stalin e Trotskij non erano arrivati al mortale confronto diretto. Entrambi sapevano che i tempi non erano maturi: Lenin era fuori causa, ma era ancora vivo e molti nel partito non erano disposti a riconoscergli un successore. Trotskij stesso non aveva del tutto abbandonato la speranza che il grande capo potesse riprendersi. Stalin, invece, più realista, sfruttando le numerose antipatie delle quali Trotskij era oggetto ai vertici del partito, aveva incominciato a muovere le sue pedine. S'era alleato con Zinoviev e Kamenev: il primo, presidente del soviet di Pietrogrado e dell'Internazionale, il secondo brillante ideologo e presidente del soviet di Mosca. Il triumvirato aveva in pratica il controllo del partito e del governo isolando sempre più Trotskij, arrivando persino ad accusarlo di essersi candidato alla successione di Lenin, di ambizione personale e di negligenza. Trotskij, sostenuto da poco più di quaranta seguaci replicò con un documento nel quale denunciava la stratificazione burocratica del partito. Scrive Isaac Deutscher: «Alla fine di dicembre, Stalin scese pubblicamente in lizza, sparando una prima bordata diretta principalmente contro gli estremisti dell'opposizione e soltanto secondariamente contro la persona di Trotskij. Le sue argomentazioni, per quanto irte di solecismi e di contraddizioni, riuscirono nondimeno efficacissime, poiché misero in luce le riserve mentali e le incongruenze dell'opposizione. Che cosa chiedeva l'opposizione? Chiedeva l'abolizione delle leggi di Lenin che mettevano al bando le fazioni e i raggruppamenti in seno al partito? Sì o no? Proprio su questo punto l'opposizione non era in grado di rispondere nettamente con un sì o con un no. «Trotskij rischiava quantomeno di trovarsi in una posizione ambigua e contraddittoria: egli voleva, sì, che restassero in vigore le disposizioni di Lenin, alle quali aveva dato egli stesso il proprio avallo, ma sosteneva che Ivan Lantos
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quelle disposizioni erano state svisate o contorte. Su questo punto delicatissimo Stalin concentrò tutto il suo fuoco, costringendo Trotskij a ripiegare, a vacillare, ad abbandonare una posizione dopo l'altra e infine a tentare di riprendere il terreno perduto quando ormai era troppo tardi, quando i suoi seguaci s'erano già lasciati confondere e intimidire». Trotskij, alcuni anni dopo, dall'esilio annotò: «A quel tempo la prognosi medica fu meno favorevole. Sentendosi sicuro di sé, Stalin cominciò ad agire come se Lenin fosse già morto. Ma l'ammalato pareva prenderlo in giro. Il suo organismo fortissimo, sostenuto da una volontà inflessibile, s'impose. Verso l'inverno Lenin incominciò a migliorare lentamente, a muoversi con maggiore libertà; ascoltava quanto gli si leggeva e leggeva qualcosa lui stesso; incominciò a riprendere l'uso della parola. I bollettini medici si fecero sempre più ottimistici. Per Stalin non era in gioco il generale svolgersi degli avvenimenti ma piuttosto il suo stesso destino; o riusciva subito a diventare il padrone della macchina politica e quindi del partito e del paese o sarebbe stato relegato per il resto della sua vita in un posto di terza categoria. Stalin mirava al potere, a tutto il potere, a qualunque costo. Lo teneva già forte nelle sue mani. Il traguardo era vicino, ma in quel tempo si faceva sempre più vicino il pericolo che veniva da Lenin. In quel tempo egli concluse probabilmente che doveva agire senza esitazioni. Ovunque aveva complici il destino dei quali era del tutto legato al suo. Al fianco gli stava il farmacista Jagoda. Non so se Stalin abbia mandato il veleno a Lenin forte del fatto che i medici non avevano lasciato alcuna speranza di una guarigione. Ma sono fermamente convinto che egli non può aver atteso passivamente in un momento in cui il suo destino era sospeso a un filo e la decisione dipendeva da un piccolo, piccolissimo gesto della sua mano». L'insinuazione di Trotskij sul conto di Stalin, presunto avvelenatore di Lenin, è destituita, alla luce dei documenti che si possiedono, di qualsiasi fondamento. Lo stesso Trotskij, precedentemente, aveva affermato di aver sentito Stalin dire che Lenin, quando era ancora in possesso delle sue facoltà mentali, gli aveva chiesto di mettergli a disposizione un flacone di veleno da usare in casi estremi. Questa affermazione, non dimostrata, pare «preparatoria» a quella successiva, una vera e propria accusa di eutanasia. Il 21 gennaio 1924, Lenin morì a Gorki. Erano le 6 e 50 del mattino. Alle 9 e 30, Stalin, accompagnato da altri componenti del Politburo, giunse all'abitazione del defunto. Aveva deciso che il protagonista delle Ivan Lantos
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complesse liturgie funebri sarebbe stato lui, agevolato in questo dall'assenza di Trotskij il quale, per ragioni di salute, si stava recando sulla riviera del Caucaso. Successivamente, Trotskij accusò Stalin d'avergli fatto avere le comunicazioni sulla morte di Lenin in maniera tale da escluderlo dalle cerimonie. Il 22 gennaio, Stalin redasse un documento indirizzato a tutti i lavoratori dell'Unione Sovietica invitandoli a mantenere fede agli insegnamenti di Lenin. Alle 9 del mattino del 23 gennaio, Stalin e gli altri dirigenti del partito uscirono dalla casa di Lenin a Gorki. Portavano a spalle il feretro che conteneva le spoglie del capo. Stalin aveva predisposto tutti gli adempimenti: dall'autopsia, all'imbalsamazione, alla regìa dei solenni funerali. Alle 13 e 30 il feretro viene portato a spalla da Stalin e da altri membri del Politburo dalla stazione Paveltskij al palazzo dei Sindacati di Mosca dove resterà esposto per quattro giorni. Alle 18 e 10, Stalin monta la guardia d'onore al catafalco. Il 26 gennaio, al secondo congresso dei soviet, Stalin legge il giuramento di fedeltà a Lenin, un documento sconcertante. Isaac Deutscher afferma: «In esso lo stile del Manifesto comunista si mescola stranamente con quello del libro di preghiere ortodosso e la terminologia marxista si sposa al vecchio frasario slavo. Le sue invocazioni rivoluzionarie riecheggiano le litanie composte per i cori ecclesiastici». Insomma nel burocrate di partito georgiano convivono le antiche eredità dell'allievo del seminario teologico di Tiflis e le radicate convinzioni del rivoluzionario bolscevico. «Compagni, noi comunisti siamo uomini d'una specie particolare. Siamo stati tagliati in una materia speciale. Non vi è titolo più solenne che quello d'essere membri del partito di cui il compagno Lenin è stato fondatore e guida. Non a tutti è dato d'essere membri d'un partito siffatto. Non a tutti è dato di resistere alle difficoltà e alle tempeste che si accompagnano all'appartenenza a un partito siffatto. Figli della classe lavoratrice, figli della miseria e della lotta, figli d'incredibili privazioni e di eroiche imprese, questi soprattutto debbono essere i membri d'un partito siffatto. «Nel lasciarci, il compagno Lenin ci ordinò di tenere alto e di conservare puro il grande titolo di membro del partito. Ti giuriamo, compagno Lenin, di osservare con onore questo tuo comandamento. «Nel lasciarci, il compagno Lenin ci ordinò di custodire l'unità del partito come la pupilla dei nostri occhi. Ti giuriamo, compagno Lenin, di osservare con onore anche questo tuo comandamento. Ivan Lantos
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«Nel lasciarci, il compagno Lenin ci ordinò di conservare e consolidare la dittatura del proletariato. Ti giuriamo, compagno Lenin, di osservare con onore anche questo tuo comandamento. «Nel lasciarci, il compagno Lenin ci ordinò di rinforzare con tutti gli strumenti in nostro potere l'alleanza degli operai e dei contadini. Ti giuriamo, compagno Lenin, di osservare con onore anche questo tuo comandamento. «Nel lasciarci, il compagno Lenin ci ordinò di rafforzare e allargare l'Unione delle repubbliche. Ti giuriamo, compagno Lenin, di osservare con onore anche questo tuo comandamento. «Nel lasciarci, il compagno Lenin ci ordinò di tener fede ai principi dell'Internazionale comunista. Ti giuriamo, compagno Lenin, che non risparmieremo le nostre vite nello sforzo di consolidare e allargare l'alleanza dei lavoratori di tutto il mondo: l'Internazionale comunista». Il 27 gennaio, alle 8 del mattino, Stalin tornò a montare la guardia alla salma del grande compagno. Intanto una folla sterminata e chiassosa, accompagnata da una babele di suoni (campane, strumenti musicali d'ogni genere, sirene di fabbriche) sfilava ininterrottamente davanti al feretro. Alle 9 esso venne portato fuori dal palazzo dei sindacati e alle 16 venne deposto, dopo esser stato portato a spalla da Stalin e da altri illustri necrofori, nella cripta dell'erigendo mausoleo. Nadezda Costantinova Krupskaia aveva seguito contrariata quella liturgia che lasciava trasparire l'anima d'una Russia barbara legata a remote religioni pagane. Il grande mausoleo di marmo rosso ricorda quello di Tamerlano. Boris Souvarine commenta: «La tomba di Karl Marx, nel cimitero di Highgate a Londra, consiste in una semplice pietra. Le spoglie di Engels furono incenerite, l'urna contenente le ceneri gettata nel mare del Nord... Non era sufficiente che Lenin fosse stato un eroe, un superuomo, un genio; i triumviri della troika lo trasformarono in una sorta di divinità di cui aspirano a essere considerati i profeti... Più di chiunque altro Stalin conduce l'orchestrazione di queste chiassose manifestazioni di delirio collettivo, nelle quali il fariseismo si coniuga all'impeto spontaneo». Per Isaac Deutscher: «La complicata cerimonia funebre era in aperto contrasto con le concezioni e con lo stile di Lenin, del quale erano quasi proverbiali la sobrietà e il disprezzo per la pompa. La cerimonia rispondeva allo scopo di colpire la mente di un popolo primitivo e semiorientale, portandola in uno stato di esaltazione quanto mai favorevole Ivan Lantos
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all'affermarsi del nuovo culto leninista». Sepolto Lenin, a Stalin restava ora da liquidare i suoi avversari, ma prima ancora doveva evitare d'essere liquidato dal feroce testamento di Lenin che la Krupskaia insisteva fosse reso pubblico. Stalin invece faceva di tutto per archiviarlo definitivamente. Nadezda Costantinova Krupskaia, minacciando un pubblico scandalo, ottenne che il testamento di Lenin fosse letto nel corso di una seduta plenaria del comitato centrale, delegando ad esso la decisione se presentarlo al prossimo congresso del partito o tenerlo segreto. Per Stalin era un momento terribile e decisivo. Seduto sulla tribuna con aria di falsa indifferenza sembrava piccolo e meschino nell'attesa che il suo destino, nel bene o nel male, si compisse. Fu l'abilissimo Zinoviev a salvarlo, senza sapere che in questo modo egli perdeva se stesso e molti compagni. «Ogni parola di Ilic» disse Zinoviev «è per noi legge. Abbiamo giurato di osservare con scrupolo e lealtà tutto ciò che in punto di morte Ilic ci ha ordinato. Voi sapete che manterremo questo giuramento. Ma siamo felici di poter affermare che su un punto i timori di Lenin si sono mostrati privi di fondamento. Mi riferisco al punto che riguarda il nostro segretario generale. Voi tutti, negli ultimi mesi, siete stati testimoni della nostra armoniosa collaborazione; e, come lo sono io, anche voi sarete felici di dire che i timori di Lenin si sono dimostrati non avere alcun fondamento». Poi fu la volta di Kamenev il quale chiese al comitato centrale di confermare Stalin al suo posto. Soltanto la Krupskaia protestò, peraltro inutilmente, della totale disattenzione al testamento del marito. Trotskij non intervenne, soltanto le sue smorfie e gli scuotimenti della testa segnarono, senza alcun risultato pratico, il suo disappunto. Stalin era salvo. Ora toccava a lui colpire. Ma non intendeva esporsi direttamente: si servì delle annotazioni di Lenin che riguardavano polemiche con Trotskij e dell'opera dottrinaria di Zinoviev e Kamenev per isolare progressivamente ed espellere l'avversario «numero uno». Quanto a Stalin adottò un atteggiamento talmente moderato da sembrare ambiguo, limitandosi a polemizzare con Trotskij sul piano teorico. Trotskij continuava a sostenere la teoria della «rivoluzione permanente» che non era dispiaciuta, nel passato, né a Lenin, né allo stesso Stalin. Secondo Trotskij era opportuno esportare la rivoluzione nei paesi dell'Europa occidentale poiché una società socialista non avrebbe potuto resistere a Ivan Lantos
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lungo se non su ampie basi internazionali: il mondo intero avrebbe dovuto diventare socialista poiché anche la minima sopravvivenza di capitalismo poteva rappresentare un pericolo mortale. Stalin replicò con la sua teoria del «socialismo in un solo paese» fondata sul principio esattamente opposto a quello di Trotskij, cioè che in una grande nazione come quella russa, ricca di risorse, un forte governo proletario poteva senza intoppi mantenere e consolidare il socialismo. Stalin intendeva dimostrare così a un paese logorato che poteva ritrovare forze nell'applicazione dell'ortodossia leninista. Nei confronti dei partiti comunisti stranieri e dell'organizzazione che li riuniva, il Comintern, Stalin mostrò indifferenza e in taluni casi, come quello tedesco, disprezzo. Il Comintern avrebbe dovuto diventare uno dei tanti strumenti di potere nelle sue mani. All'atteggiamento di Stalin si può attribuire in parte il fallimento della repubblica di Weimar in Germania e la conseguente ascesa di Adolf Hitler fino all'involuzione nazista. In Cina, Stalin appoggiò il borghese nazionalista Ciang Kai Shek e il suo partito, il Kuomintang, senza curarsi del viscerale anticomunismo di Ciang Kai Schek stesso. Nel gennaio 1925, Trotskij venne indotto a dimettersi dal commissariato della Guerra. La degradazione, inutile dirlo, era stata voluta da Stalin, ma attuata da Zinoviev il quale propose anche di arrestare Trotskij trovando la decisa opposizione di Stalin. Quello invece che fu sciolto, per aver sostanzialmente esaurito la sua missione, fu il triumvirato. Stalin s'avviava a diventare il padrone assoluto del partito e del paese. Emblematico circa i metodi di gestione del potere da parte di Stalin è l'episodio che riguarda il successore di Trotskij al commissariato della Guerra: Michail Frunze, uomo di Zinoviev. Frunze, che fino dai primi giorni del suo incarico s'era scontrato con Stalin, aveva quarant'anni, era stato un eroe della guerra civile combattendo contro Kolciak e Wrangel, soffriva da tempo di ulcera allo stomaco e di disturbi cardiaci. Il suo medico personale gli aveva sconsigliato di sottoporsi a un intervento chirurgico nel timore che il suo cuore malandato non reggesse all'anestesia. Alla decisione del medico si sostituì il comitato centrale che impose a Frunze di farsi operare. Frunze resse bene alla narcosi, l'intervento da un punto di vista tecnico riuscì, ma qualche giorno dopo il commissario della Guerra da poco nominato morì. Stalin in persona ne fece l'elogio funebre, ma questo non impedì, successivamente, a Trotskij di Ivan Lantos
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insinuare pesanti sospetti sul ruolo avuto da Stalin nel decesso, peraltro ipotizzato dai medici, del povero Frunze. Quale che sia la verità, resta il fatto che fu Stalin a mettere nelle mani del chirurgo il bisturi. Frunze lasciò erede del commissariato della Guerra Klim Voroscilov, uomo di Stalin. Kamenev e Zinoviev, ormai consapevoli della loro malasorte, cercarono di attaccare Stalin al quattordicesimo congresso del partito, alleandosi con Trotskij e cercando appoggi nel gruppo bolscevico di Leningrado, nome che era stato dato, dopo la morte di Lenin, all'ex capitale imperiale Pietrogrado. Stalin si appoggiò a nuovi alleati: Bucharin, Rykov e Tomskij e accusò gli ex triumviri d'essere disertori e crumiri. L'opposizione antistalinista si trovò in minoranza. Stalin inviò a Leningrado un uomo di sua fiducia, Sergej, Kirov con lo scopo di ristabilire la disciplina tra i bolscevichi di quella città e la missione ebbe successo. Nel luglio 1926 Zinoviev venne espulso dal Politburo ed estromesso dalla carica di presidente dell'Internazionale comunista. Nell'ottobre del 1927, Trotskij e Zinoviev vennero allontanati dal comitato centrale e nel novembre dal partito. In quello stesso mese venne estromesso dal comitato centrale anche Kamenev. Nel dicembre 1927, Kamenev e Zinoviev ammisero i propri errori, ritrattarono e chiesero d'essere riammessi nel partito. Trotskij non si piegò, con il risultato che nel 1928 venne esiliato ad Alma Ata, nel Kazakistan, al confine con la Cina e, un anno dopo, espulso dall'Unione Sovietica. L'espulsione di Trotskij e Zinoviev dal partito ebbe anche una vittima innocente e «laterale»: Adolf Joffe, un «vecchio bolscevico» di 47 anni, esponente di spicco del commissariato per gli Affari esteri che si suicidò con un colpo di pistola alla testa nel suo ufficio del Cremlino. Un estremo gesto di protesta come scrisse in una lettera «contro coloro che hanno ridotto il partito in uno stato tale da impedire qualsiasi reazione contro l'obbrobrio» dell'espulsione di Trotskij e Zinoviev. Joffe chiedeva anche a Trotskij di combattere contro l'usurpatore Stalin con tutti i mezzi solitamente adottati dai rivoluzionari per abbattere i nemici del popolo. L'asse Stalin, Bucharin, Rykov, Tomskij non resse a lungo e si frantumò in circostanze analoghe a quelle che avevano portato alla liquidazione della troika (Stalin, Zinoviev, Kamenev). Il copione prevedeva che gli alleati resi inutili dopo il raggiungimento di un determinato obiettivo fossero gettati a mare. Stalin, questo è vero, non s'era servito dei suoi Ivan Lantos
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nuovi pretoriani soltanto per basse manovre di potere. Aveva, per esempio, sostenuto la politica economica elaborata da Bucharin il quale riteneva, esattamente all'opposto di Trotskij, che l'industrializzazione dovesse essere un processo graduale. Si trattava di una politica errata e che non teneva conto delle esigenze di una corretta pianificazione. In agricoltura, Stalin mostrò una certa predilezione per i contadini ricchi, i cosiddetti kulaki, concedendo loro sgravi fiscali e agevolandoli negli obblighi d'assunzione dei braccianti. Secondo l'idea di Bucharin un potenziamento del capitalismo agrario avrebbe agevolato gli approvvigionamenti. Gli errori si sommavano agli errori: nel gennaio del 1928 l'ombra scura della carestia minacciava la Russia. La produzione di grano era stata di due milioni di tonnellate inferiore al fabbisogno. Stalin invertì improvvisamente rotta. I kulaki furono accusati di essere nemici della rivoluzione e affamatori del popolo e contro essi vennero presi durissimi provvedimenti repressivi. Il fallimento della politica economica fu il pretesto per bandire il gruppo Bucharin, Rykov, Tomskij. Bucharin che aveva capito bene la situazione era terrorizzato. «Stalin» scrisse «è un intrigante senza principi che subordina tutto alla brama del potere. Può cambiare parere da un momento all'altro, a seconda della persona della quale si vuole sbarazzare. Adesso temporeggia per poterci strangolare meglio. Ci strangolerà». Allontanati dalle loro cariche i reprobi cercarono di ottenere il perdono con un'umiliante autocritica che però non servì a nulla in quanto giudicata assolutamente insufficiente dal congresso del partito nel 1929. Insomma non c'era nessuna possibilità di remissione. Il ciclone delle grandi purghe degli anni Trenta travolse anche fisicamente Bucharin e Rykov condannati a morte e Tomskij che si suicidò. Nel 1929, Stalin era il padrone del partito e della Russia: dietro di lui si schieravano gli oltre seicentomila iscritti al partito (e c'era un mezzo milione di candidati), l'impero dello zar «rosso» rappresentava un sesto del mondo. Se Lenin era stato il primo «dio» ammesso nell'olimpo ateo del materialismo storico e c'era salito dopo la morte, il processo di deificazione di Stalin incominciò quasi subito come dimostrano queste reboanti attestazioni. Kruscev (i tempi del XX congresso erano lontani): «Lunga vita al genio Ivan Lantos
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che si erge come una torre su tutta l'umanità, al maestro e alla guida che ci conduce vittoriosamente al comunismo. Lunga vita al nostro amato compagno Stalin!». Lo scrittore Avdienko: «Scrivo libri. Sono uno scrittore; grazie a te, grande educatore, Stalin. Amo una donna e perpetuerò la mia vita nei miei figli; grazie a te, grande educatore, Stalin. Ogni cosa ti appartiene, o capo del nostro grande paese. Quando la donna che amo mi regalerà un figlio, la prima parola che io pronuncerò in quel momento sarà: Stalin!». Un anonimo agiografo: «O grande Stalin, o capo dei popoli, tu che fai nascere l'uomo, tu che fecondi la terra, tu che ringiovanisci i secoli, tu che fai fiorire la primavera, tu che fai vibrare la cetra, tu, sole riflesso da migliaia di cuori». E ancora: «Le stelle dell'aurora obbediscono al tuo volere, il tuo estro meraviglioso arriva fino al cielo, il tuo ingegno scandaglia l'oceano profondo». Nel 1929 venne anche varato il primo piano economico quinquennale: potenziamento della produzione di carbone, dell'acciaio, dell'energia elettrica. Riorganizzazione della rete di trasporti. Controllo della produzione agricola attraverso la collettivizzazione. Alcuni anni dopo Charles de Gaulle commentava: «Solo di fronte alla Russia, Stalin la vide misteriosa, più forte e più duratura di tutte le teorie e di tutti i regimi. A modo suo l'amò. Anch'essa lo accettò come uno zar per tutto un terribile periodo e sopportò il bolscevismo per servirsene come di uno strumento. Unire gli slavi, schiacciare i tedeschi, estendersi in Asia, accedere ai mari liberi, erano i sogni della patria e divennero i fini del despota. Due le condizioni per riuscirvi: fare del paese una grande potenza moderna cioè industriale e, al momento opportuno, vincere in una guerra mondiale».
CAPITOLO XI LA TRAGEDIA Dopo che la prima moglie di Stalin, Keke Svanidze, era morta, Josif Iremashvili aveva scritto: «Dal giorno in cui seppellì la moglie, egli perse le ultime vestigia del sentimento umano. Il suo cuore si riempì dell'odio inalterabile che il padre aveva cominciato a generare in lui quando era Ivan Lantos
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ancora bambino. Spietato con se stesso, lo divenne anche con tutti gli altri». Già, Stalin aveva molto amato Ekaterina Svanidze, una donna fatta su misura per lui, modesta, sottomessa, un autentico modello di moglie georgiana. Quando la tubercolosi l'aveva uccisa, aveva giurato sulla sua tomba che non avrebbe più amato nessuna. E Nadezda Alliluieva? Essa fu protagonista d'una tragedia che ebbe origine con ogni probabilità dalla durezza di cuore di Stalin e che non si limitò all'ambito privato della vita familiare, ma ebbe anche un fosca connotazione politica. Svetlana Stalin, la primogenita del georgiano e di Nadia Alliluieva, ha alzato il sipario sulla vicenda. «La mamma non era, né poteva essere felice con lui» scrive Svetlana. «Ma anche per mio padre lei era una donna troppo complicata, troppo fine, troppo esigente. Egli era soddisfatto poiché la mamma era una brava donna di casa e i bambini erano puliti e ordinati, ma le sue aspirazioni, le sue opinioni, il suo spirito d'indipendenza gli procuravano soltanto irritazione. Una donna moderna, indipendente nel pensare, che difendeva la propria concezione dell'esistenza, gli sembrava qualche cosa di innaturale in casa sua. È pur vero che ufficialmente egli s'espresse spesso a favore della parità femminile, soprattutto quando ciò serviva a spronare le masse al lavoro. Le sue affermazioni come: "Le donne nei kolchoz sono una grande forza" facevano bella mostra di sé in tutti circoli dei villaggi. Ma in casa propria le sue affermazioni erano totalmente diverse». Da Nadezda, Stalin aveva avuto un figlio maschio, Vassilij, detto Vasja, e una femmina, Svetlana, appunto, che era solito chiamare Setanka (passerotto). Alla famiglia s'era riunito anche Jakov, il figlio avuto da Keke Svanidze. Era un giovanotto di ventiquattro anni, dal carattere difficile, allevato, in Georgia, dal fratello della sua defunta mamma, Aleksandr Svanidze. Quasi coetaneo della matrigna, aveva trovato in lei quell'affetto e quella comprensione che il padre continuava a negargli. L'unica preoccupazione di Stalin era stata quella d'avviarlo agli studi d'ingegneria ai quali però Jakov s'applicava ben poco. I calcoli che preferiva erano quelli delle traiettorie delle palle sul tavolo del biliardo, passione che condivideva con il figlio del capo della polizia segreta Ghepeu, Menzinskij. I rapporti tra padre e figlio erano improntati a una perenne tensione che talvolta esplodeva in aperti conflitti. Pare addirittura Ivan Lantos
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che un giorno, dopo un ennesimo scontro, spinto dalla disperazione, Jakov avesse tentato di spararsi un colpo di pistola alla testa. Si ferì soltanto leggermente e il padre commentò con sarcasmo il fallimento persino nel suicidio. Nadezda, preoccupata per la situazione e per le condizioni di nervi disastrose di quel figliastro al quale voleva molto bene, lo mandò a Leningrado, a casa dei suoi genitori. Stalin, ovviamente, non approvò quella decisione, segno, secondo lui di debolezza, e di eccessiva indulgenza verso un buono a nulla. La verità è che Jakov aveva un disperato bisogno d'affetto, pianta che in casa Stalin era destinata a morire o a sopravvivere soltanto per la piccola Svetlana, non per altri. A Leningrado, Jakov Josipovic Giugashvili tentò di formarsi una famiglia; sposò una ragazza, ebbe una bambina la quale però morì e con la sua scomparsa naufragò anche il matrimonio dei suoi genitori. Stalin, a quel punto, mandò il figlio a studiare ingegneria ferroviaria nel Caucaso, ordinandogli di non farsi rivedere finché non fosse laureato. Anche nei confronti dell'altro figlio maschio, Vassily, Stalin nutrì una sorta d'avversione, di astio. Neppure Vassily mostrò una particolare propensione per lo studio, era uno scolaro poco diligente e ciò contribuì a peggiorare, se era possibile, la sua posizione nei confronti del padre che era autoritario tra le mura domestiche così come lo era nella vita pubblica. Come s'è detto, affettuoso e tollerante, addirittura permissivo lo era soltanto con Svetlana. «Mi viziava» ricorda «e gli piaceva giocare con me. Per lui ero il riposo, lo svago. Mia madre, invece, era più indulgente con Vassily, poiché a lui toccava subire la ferrea disciplina imposta da mio padre. Eppure tra i due era mia madre che amavo di più». Nadzda Alliluieva aveva sposato Stalin per amore, anche se è difficile capire quali elementi di fascino potesse trovare in quell'uomo tanto più anziano di lei che non s'era mai tolto di dosso l'originaria rozzezza contadina. Poi, con il passare del tempo e l'affievolirsi di una passione che inevitabilmente perdeva lo slancio giovanile, l'unione cominciò a deteriorarsi. Vi sono diverse testimonianze che ci danno la misura dei dissapori che dividevano la coppia. K.V. Pauker, capo dipartimento operativo della Ghepeu e responsabile della sicurezza di Stalin e dei suoi familiari e Stanislav Redens, cognato di Nadezda, riferiscono entrambi che Nadezda trovava insopportabile la volgarità del marito, le sue espressioni triviali, il Ivan Lantos
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suo modo di scherzare da caserma. Ogni ricevimento era occasione per formidabili ubriacature che scatenavano i peggiori istinti del georgiano e provocavano pesanti umiliazioni alla delicata e signorile Nadezda. Sei mesi dopo la nascita di Svetlana, il piccolo Vassily aveva allora due anni, Nadia, arrivata al limite della sopportazione, prese i figli e tornò a Leningrado dai genitori, decisa ad abbandonare per sempre le imponenti mura del Cremlino dentro le quali si sentiva prigioniera e il marito del quale si sentiva vittima. Dopo qualche tempo, Stalin telefonò alla moglie: giurò di cambiare atteggiamento e pregò Nadezda di consentirgli di raggiungerla a Leningrado da dove sarebbero tornati insieme a Mosca. Nadia replicò che, nella capitale, sarebbe tornata da sola; non c'era bisogno che Stalin abbandonasse i suoi impegni per andarla a prendere. Nel 1929, Nadezda, dopo molte insistenze e con l'appoggio di Jenukidze e Orgionikidze, convinse Stalin a darle il permesso di frequentare l'Accademia industriale di Mosca. Nessuno, all'infuori del direttore, doveva sapere la vera identità della nuova allieva che veniva accompagnata da un'automobile di servizio fino ad una via adiacente alla scuola. Nell'Accademia erano stati introdotti anche due giovani agenti della polizia segreta, ovviamente camuffati da alunni, con lo scopo di riferire a Stalin tutto ciò che la moglie diceva e faceva. Nadia ebbe un compagno di scuola eccezionale, si chiamava Nikita Krusciov il quale la ricordava così: «Nadezda Alliluieva e io eravamo compagni di studi all'Accademia industriale di Mosca. Lei era iscritta alla facoltà tessile ai corsi di chimica e voleva specializzarsi nelle fibre artificiali. Era molto scrupolosa e non abusava mai del suo legame con Stalin, tanto che erano pochissimi coloro che sapevano che fosse sua moglie. Non sfruttò mai i privilegi che le derivavano dalla sua condizione». Nella scuola, Nadezda ebbe modo di scoprire un mondo completamente diverso da quello rappresentato nella fortezza del Cremlino, scambiando opinioni con gli altri studenti poté rendersi conto di qual era e di come viveva la vera Russia e ne fu sconvolta. Era un paese che non conosceva, gli abitanti del quale erano sottoposti a pesantissime rinunce e privazioni. La gente aveva poco o niente per nutrirsi, molti bambini morivano di fame, c'erano orfani, vedove, invalidi che vivevano in condizioni inumane. Un giorno, un gruppo di studenti ucraini le riferì un caso di Ivan Lantos
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cannibalismo estremo segno di degradazione alla quale s'era giunti a causa della carestia: un cadavere era stato fatto a pezzi e venduto poi come carne commestibile. Nadia affrontò l'argomento con Stalin il quale la rimproverò di prestare attenzione alle chiacchiere calunniose dei nemici del popolo trotskisti. Quando Nadezda gli riferì della faccenda del cannibalismo, Stalin esplose in una di quelle sue collere destinate a restare nella storia: i rimproveri alla moglie si trasformarono in insulti e nella proibizione di tornare a frequentare l'Accademia. Diede poi ordine alla polizia segreta di arrestare gli studenti che avevano rivelato l'episodio a sua moglie e a procedere all'allontanamento e all'arresto dei «disfattisti» che diffondevano idee controrivoluzionarie nelle scuole. Soltanto qualche tempo dopo e con la promessa che non si sarebbe più fatta coinvolgere in volgari pettegolezzi, Stalin consentì alla moglie di riprendere a frequentare la scuola. La famiglia Stalin trascorreva lunghi periodi in una piccola tenuta di campagna, a Zubalovo, nella regione di Usovo, a una trentina di chilometri da Mosca, era la residenza preferita di Stalin, la sua dacia che aveva modellato sul modello georgiano con una piccola coltivazione di grano saraceno, un allevamento d'api, un orto con aiuole di fragole e ribes, un piccolo recinto con animali da cortile. Nella stessa zona avevano la loro dacia altri bolscevichi caucasici e ciò consentiva allegre riunioni: la musica era garantita dalla fisarmonica di Semion Budiennij, Stalin e Voroscilov guidavano vecchi cori georgiani e, talvolta, Nadezda ballava. La famiglia Stalin disponeva di un'altra dacia a Soci, sul mar Nero, per le vacanze estive, ma Josif Vissarionovic preferiva la calde acque delle terme di Matsesta a quelle del mare che poco giovavano ai suoi dolori reumatici. Non gli piaceva prendere il sole e trascorreva lunghe ore sdraiato all'ombra a leggere o passeggiava nei boschi. Poi, a mano a mano che il potere di Stalin crebbe si moltiplicò il numero delle residenze disponibili, nei dintorni di Mosca, sulle rive del mar Nero, nel Caucaso, tuttavia le visite di Stalin erano piuttosto rare poiché egli preferiva, tra tutte, quella di Kuntsevo. Le stigmate del potere non corrisposero per i coniugi Stalin a quelle della felicità e dell'armonia familiare, anzi i loro rapporti continuarono a deteriorarsi. Se da una parte il segretario particolare di Stalin, Bazanov, sosteneva: «Stalin, questo politico appassionato, non ha altri vizi al di fuori della politica. Non ama né il denaro, né il piacere, né lo sport. Le donne, a Ivan Lantos
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parte sua moglie, non esistono per lui», altre testimonianze accreditano uno Stalin assai diverso. Già nel 1927 s'era verificata una crisi familiare profonda, quando Nadezda, scoperta una relazione dell'illustre marito con una cantante georgiana, aveva minacciato di uccidersi se l'adulterio non fosse immediatamente cessato. La cantante era stata diplomaticamente «esiliata» nel consolato sovietico di Kandahar, in Afghanistan. L'episodio non fu che uno dei tanti analoghi, anche se meno drammatici e, secondo alcuni personaggi vicini a Stalin, già dopo la nascita di Svetlana, marito e moglie dormivano in camere separate. Ma il distacco di Nadezda dal marito più che a causa di dispiaceri «di cuore» divenne più serio e radicale per motivi morali e politici. Essa non aveva potuto dimenticare quanto aveva appreso, quasi clandestinamente, dai compagni di scuola dell'Accademia sulle condizioni del popolo russo e successivamente divenne un'attenta osservatrice di quanto avveniva nel paese che i dirigenti volevano far passare per una culla di democrazia, per il paradiso dei lavoratori, ed era invece uno stato poliziesco nel quale ogni cittadino viveva in un regime di libertà provvisoria. Accadde nei primi mesi del 1931. Un'amica di Nadezda Alliluieva, Zoia Mossina, funzionarla della sezione codici segreti del commissariato degli Affari esteri, venne accusata di essere una spia al soldo delle potenze capitalistiche occidentali. Nadezda era certa che l'amica fosse innocente, qualcun altro, nell'ambito della sezione aveva fornito la chiave dei cifrari, ma nessuno era disposto a difendere la Mossina. Lo stesso Maksim Litvinov, commissario (cioé ministro) degli Affari esteri, il quale conosceva la verità e il nome della vera spia (un impiegato d'origine polacca di nome Vinogradov), non ebbe il coraggio di contraddire i sospetti, anzi le «certezze» degli uomini della Ghepeu. Invano Nadezda lo pregò personalmente di intervenire per salvare l'amica, Litvinov si comportò da Ponzio Pilato, cercando di restare il più estraneo possibile alla faccenda. Zoia Mossina venne deportata in un gulag nella provincia di Vologda, la stessa dove era stato esiliato (dal regime zarista) anche Stalin. Il «campo 7», questo il nome del luogo di detenzione, era noto come uno dei più duri tra quelli esistenti, al quale erano destinati i dissidenti, membri del partito e dell'apparato statale accusati di congiura contro «il popolo». La vita di coloro che venivano inviati al «campo 7» che si trovava sotto il controllo Ivan Lantos
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direttto di Genric Jagoda, capo della polizia politica, era in costante pericolo: l'esito di un processo per tradimento era quasi sempre la condanna a morte. Nadezda Alliluieva, consapevole della situazione nella quale si trovava l'amica, chiese aiuto al marito. La reazione di Stalin fu tremenda: ordinò alla moglie di non immischiarsi in faccende che non la riguardavano, l'assicurò che Jagoda svolgeva il suo lavoro con scrupolo e onestà, si dichiarò certo della colpevolezza di Zoia Mossina. Nadezda non resse alla scenata che era degenerata negli insulti più volgari: uscì precipitosamente di casa dirigendosi verso i boschi. Era ormai notte fonda quando Stalin s'accorse che non era ancora rientrata. I poliziotti la ritrovarono stesa a terra tra i cespugli di un bosco, non lontano da casa, in uno stato di gravissima prostrazione fisica e nervosa. Per consolarla, Stalin la minacciò di farla rinchiudere in una clinica per malati di mente, poi, rendendosi conto d'aver esagerato, promise a Nadia che sarebbe intervenuto presso Jagoda affinché la Mossina fosse trasferita in un gulag meno duro. Il trasferimento ci fu, il «campo 2» era di certo meno peggiore del «campo 7», ma si trattava pur sempre di una potenziale tappa intermedia prima di finire davanti al plotone d'esecuzione. La Mossina riuscì a tenere aggiornata Nadezda con una fitta corrispondenza clandestina che una guardia rimasta segretamente fedele a Trotskij faceva uscire dal campo. Nell'agosto del 1932, la moglie di Stalin venne avvertita che un tribunale moscovita stava per celebrare un processo contro quaranta giovani del Komsomol accusati di cospirazione; la Mossina chiese all'amica di fare qualcosa per salvare i quaranta ragazzi. Nadezda ne parlò con Stalin senza ottenere altro risultato che rivelargli la fuga di notizie dal «campo 2» e scatenare una durissima inchiesta. Jagoda non risparmiò nessun mezzo per dimostrare che esisteva un vasto complotto il fine ultimo del quale era l'assassinio di Stalin e che coinvolgeva oltre ai quaranta giovani anche la Mossina e la guardia trotskista che portava i suoi messaggi a Nadia e quelli di Nadia a Zoia Mossina. Tutti finirono davanti ai tre inesorabili giudici del tribunale speciale di Mosca. Pochi giorni dopo il processo, Nadezda venne a sapere da una dottoressa che prestava servizio presso il comitato centrale che Zoia Mossina e i suoi complici erano stati fucilati. La morte di Zoia Mossina fece precipitare ulteriormente i rapporti tra Nadia e Stalin. Alle accuse della moglie che gli rinfacciava di essere un Ivan Lantos
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usurpatore preoccupato soltanto di estendere il suo potere usando gli strumenti del terrore sanguinario, lui le rispondeva di aver perduto la fede rivoluzionaria, di essere diventata un «bagaglio inutile e ingombrante». Nei loro continui e violentissimi scontri compariva il nome di Rosa Kaganovic, la bella e seducente sorella di Lazar Kaganovic, membro influente del Politburo. Rosa, a quanto si dice, consolava con grande ardore rivoluzionario il compagno Stalin dei suoi dispiaceri coniugali. Il 7 novembre 1932 ricorreva il quindicesimo anniversario della rivoluzione. Per celebrare la solennità, Kliment Voroscilov offrì un pranzo nella sua dacia: ospiti i massimi dirigenti del Cremlino con le rispettive mogli. Un mancato brindisi fu l'occasione di una clamorosa lite pubblica tra Stalin e Nadia, la quale s'era rifiutata di bere della vodka. Stalin sapeva bene che la moglie era astemia e l'insistere perché bevesse il liquore sembrava soltanto una provocazione. Ai ripetuti dinieghi di Nadezda Stalin rispose con l'insolenza che gli era tipica nei momenti d'ira. Nadia, offesa, abbandonò la sala del pranzo. Nessuno attribuì importanza alla scenata, non Stalin per il quale si trattava di una consuetudine, non gli altri troppo impegnati a mangiare, bere e conversare. Soltanto Polina Zemchuzhina, moglie di Molotov e grande amica di Nadezda, la seguì in giardino, poi la riaccompagnò al Cremlino. La mattina dopo Nadia Alliluieva era morta: s'era sparata un colpo di rivoltella alla tempia. Com'erano andate le cose? Che cosa era successo tra le mura del Cremlino quella notte? La balia, addetta alla sorveglianza dei bambini, riferì a Svetlana, che al mattino s'era affacciata alla camera di Nadezda per darle, come di consueto la sveglia. Ma si rese conto che la padrona non si sarebbe mai più svegliata: era stesa per terra, accanto al letto, in una pozza di sangue. Nella mano destra stringeva ancora un piccola rivoltella. Inorridita aveva chiesto aiuto alla governante. Il corpo senza vita di Nadezda era stato steso sul letto, il viso imbrattato di sangue lavato, la stanza ripulita. Stalin, rientrato tardissimo dal pranzo e obnubilato dalle grandi bevute s'era chiuso in camera ed era sprofondato in un sonno dal quale non s'era svegliato né per la detonazione, né, qualche ora dopo, per il trambusto. La balia e la governante avevano telefonato immediatamente al comandante delle guardie del Cremlino, a Polina Zemchuzhina Molotov e Ivan Lantos
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ad Abel Jenukidze. La notizia della morte di Nadezda Alliluieva Stalin si diffuse rapidamente. Quando finalmente Stalin si riebbe dal suo sonno d'ubriaco trovò il salone di casa pieno di gente, c'erano anche Voroscilov e Molotov che gli dissero che Nadia era morta. Una testimonianza più dettagliata viene fornita da Natalia Truscina, la donna che aveva assistito Nadezda quando s'era trasferita dalla casa dei genitori a Mosca per lavorare nella segreteria di Lenin. La Truscina che, come si ricorderà, era stata contraria sia alla relazione, sia al matrimonio di Nadia Alliluieva con Stalin, non aveva abbandonato la sua protetta. L'aveva seguita prima come domestica e poi come governante dei bambini; in realtà essa era l'alter ego di Nadezda, sostituendola nel mandare avanti la casa quando essa era impegnata con i suoi studi. La Truscina riferisce che Nadezda era tornata a casa accompagnata da Voroscilov che poi era stato congedato. Nadezda era crollata a sedere sul letto in uno stato pietoso. Piangendo confessò all'anziana amica che era terrorizzata all'idea che Stalin potesse farla uccidere. Era consapevole che il loro matrimonio era definitivamente naufragato e conosceva i metodi che il marito adottava nei confronti di coloro che riteneva superflui e ingombranti. Poi s'era ritirata in bagno per prepararsi ad andare a letto. Forse aveva anche telefonato a Stalin che ancora si tratteneva a casa di Voroscilov. Tra i due ci sarebbe stata una conversazione particolarmente drammatica, terminata con la minaccia di Nadezda di uccidersi. Quando Natalia Truscina era tornata aveva trovato Nadia Alliluieva stesa al suolo nella stanza da letto, la pistola in mano, un rivolo di sangue che le usciva dalla tempia e s'allargava sul tappeto. Benché apparisse chiaro che non c'era più niente da fare, l'aveva trascinata sul letto, aveva lavato la ferita e il viso e aveva bendato la testa di Nadezda. Avvertiti telefonicamente, Voroscilov, Molotov, Jenukidze si precipitarono al Cremlino: la loro più grande preoccupazione fu, insieme con Stalin, di evitare che le vere circostanze della morte di Nadia Alliluieva fossero conosciute fuori delle mura del Cremlino. Il viso della morta, ridotto piuttosto male dalla revolverata, venne sottoposto ad un'accurata quanto macabra operazione di maquillage. Natalia Truscina venne allontanata con un pretesto, confinata in un vecchio monastero e successivamente deportata in un gulag. I solenni funerali di Nadezda si svolsero nella sala delle Colonne nel Ivan Lantos
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palazzo dei Sindacati, dove c'erano stati quelli di Lenin. I membri del Politburo e del governo sfilarono davanti al feretro aperto, al popolo non fu invece consentito di vedere la «piccola padrona» del Cremlino; i sudditi di Stalin le rivolsero l'ultimo saluto dopo che il coperchio era stato inchiodato sulla bara. L'atteggiamento di Stalin durante i funerali fu quello d'un uomo irritato da un improvviso contrattempo. Ci fu chi sostenne che egli fosse estremamente preoccupato per una serie di lettere che Nadezda aveva scritto e spedito prima di uccidersi: si trattava di pesanti documenti d'accusa sia personali, sia politici. Se queste lettere ci furono davvero, esse furono anche tempestivamente intercettate e distrutte e tutti coloro che erano venuti a conoscenza del loro contenuto compromettente per l'immagine di Stalin, eliminati. L'11 novembre 1932, poco dopo le ore 14, il corteo funebre s'avviò attraverso la piazza Rossa. Il feretro era portato a spalla da alcuni membri della famiglia Alliluiev, da Molotov, Kaganovic e Jenukidze, Stalin lo seguiva a piedi. In un primo tempo egli aveva assicurato che avrebbe seguito a piedi la bara della moglie fino al cimitero Novedevichij, in un convento nei sobborghi di Mosca e ciò aveva indotto Jagoda a predisporre un imponente servizio di sicurezza che aveva previsto anche lo sgombero degli edifici, sia uffici, sia abitazioni sul percorso del corteo. Poi Stalin aveva cambiato idea e aveva raggiunto il cimitero in automobile. La gente di Mosca si chiedeva perché la moglie di Stalin non venisse sepolta insieme con gli eroi della rivoluzione e i maggiorenti del partito nella piazza Rossa. La risposta non rivela affatto, come qualcuno avrebbe voluto, un supremo atto d'offesa nei confronti della scomparsa: furono invece i vecchi genitori di Nadezda a chiedere che i suoi resti non fossero cremati ma affidati alla terra, secondo l'antica usanza russa, nel piccolo cimitero dove riposavano anche la prima moglie di Pietro il Grande, lo scrittore Anton Cechov, i musicisti Rimskij-Korsakov e Scriabin. Lazar Kaganovic pronunciò poche parole a nome del partito, il professor Kalashnikov parlò a nome dei docenti e degli allievi dell'Accademia industriale dove, quell'anno, Nadezda avrebbe dovuto diplomarsi. Poi qualche palata di terra coprì la bara nella quale giaceva Nadia Sergievna Alliluieva Stalin «figlia di un operaio rivoluzionario, compagna Ivan Lantos
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splendidamente fedele al partito». La stampa sovietica fu piuttosto avara di spazio con la povera Nadezda. Dopo un laconico annuncio che ne comunicava «l'improvvisa e immatura scomparsa», venne pubblicata una commemorazione scritta dal poeta Demian Bednij e un breve ringraziamento rivolto da Stalin a tutti coloro che avevano voluto prendere parte al «grande dolore per la scomparsa della diletta amica e compagna». Sulla tomba di Nadia venne successivamente eretta una stele sormontata da un busto che la ritrae in atteggiamento pensoso con il mento appoggiato alla mano. Le date di nascita e di morte ne ricordano la breve esistenza: trent'anni meno due mesi. Alcuni anni dopo, Svetlana Stalin scrisse in Soltanto un anno. «La versione secondo la quale sarebbe stato mio padre a uccidere mia madre sembra a molti molto più verosimile della verità (cioè che lei si sia uccisa) ed essi si ostinano a non credere la verità. Egli portò mia madre al suicidio, ve la condusse per il fatto di essere quello che era. E giunse il momento in cui mia madre non resistette più. Se avesse retto al momento della massima tensione, forse avrebbe trovato in se stessa la forza di allontanarsi da lui, come più volte aveva minacciato di fare. In questo modo, egli fu naturalmente il suo indiretto assassino. Uccideva sempre "indirettamente", anche quando mandava a morte milioni di persone mediante i suoi esecutori».
CAPITOLO XII LA CRISI Stalin certamente non aveva amato Nadezda Alliluieva, quantomeno non l'aveva amata come Keke Svanidze, ma è incontrovertibile che nelle settimane seguite ai funerali della seconda moglie egli parve estremamente provato, come testimoniano tutti coloro che lo videro alle due sole apparizioni pubbliche di quel periodo: la riunione del comitato centrale al quale riferì sui risultati del primo piano quinquennale e la commemorazione della morte di Lenin. Abbandonò l'appartamento nel quale Nadia s'era tolta la vita e si trasferì nel palazzo del Senato, in un'abitazione che confinava con la sala di riunione del Politburo e quella del Consiglio dei commissari. Rinunciò Ivan Lantos
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anche alla dacia di Zubalovo e si fece costruire una villa tutt'altro che sontuosa a Kuntsevo, più vicino a Mosca, che divenne, nel tempo, la sua residenza principale. La sua vita casalinga si svolgeva tutta in una sola stanza: dormiva su un divano-letto accanto al quale c'era un tavolino ingombro di apparecchi telefonici, un altro tavolo grande gli serviva come piano d'appoggio per lavorare e per consumare i pasti. Dei figli più piccoli, Vassily e Svetlana s'occupava poco limitandosi a cenare insieme con loro la sera. Amareggiato per la morte della moglie che considerava forse un atto di trasgressione nei propri confronti, consapevole dell'insuccesso del piano quinquennale, Stalin propose al Politburo le dimissioni. «Forse sono diventato un ostacolo per l'unità del partito» disse per giustificarsi «in questo caso, compagni, sono pronto a scomparire». I membri del Politburo, tutti fedeli a Stalin dopo che gli elementi di destra erano stati epurati, lo guardarono esitanti e imbarazzati. Nessuno di loro si sentiva in grado di rispondere: «Vattene», nessuno riusciva a trovare parole diverse, adeguate al momento. Soltanto Molotov, insolitamente emozionato, riuscì a mormorare: «Basta, basta. Avete la fiducia del partito». La crisi era in questo modo superata, anche se, per qualche mese, Stalin si mostrò cupo e taciturno. Alla successiva seduta del comitato centrale egli parlò con ritrovata sicurezza, anche se non con la consueta grinta. «Il partito» affermò «ha spronato il paese accelerando la sua corsa in avanti. Eravamo obbligati a spronare il paese. Esso era arretrato di cent'anni, minacciato da pericoli mortali». Alcuni giorni dopo, Stalin ammonì contro la situazione che minacciava le campagne, sia sul piano produttivo, sia sul piano politico. La collettivizzazione infatti aveva legato i contadini in gruppi che potevano appoggiare i soviet, ma allo stesso modo avrebbero potuto rappresentare una forte opposizione organizzata; in questa prospettiva vennero istituite sezioni rurali del partito destinate a un severo controllo dei contadini. Un anno dopo, nel 1934, al diciassettesimo congresso del partito, Stalin poté tracciare le linee della rivoluzione «culturale» in atto nel paese. Centoundicimila tecnici agrari avevano svolto un proficuo lavoro nelle campagne: due milioni di mugichi avevano imparato a servirsi dei trattori e altri due milioni, tra uomini e donne, avevano appreso, attraverso appositi corsi d'istruzione, le tecniche d'amministrazione delle aziende agricole collettive. L'analfabetismo era stato ridotto ad appena il dieci per Ivan Lantos
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cento della popolazione totale. Si consolidò in questo periodo una specie di «religione del lavoro». Il lavoro era stato trasformato, come scrive Isaac Deutscher «da un peso vergognoso e intollerabile in un motivo di gloria, di valore e di eroismo. Certo espressioni che suonavano amara ironia agli ospiti dei campi di lavoro. Ma il loro suono fu assai diverso per quei lavoratori più fortunati, ai quali l'industrializzazione aveva offerto una reale possibilità di miglioramento sociale». Il 31 agosto 1935 la «religione del lavoro» ebbe il proprio «santo» o in un'accezione più materialista, il proprio eroe: il minatore Aleksei Stakanov il quale, in una sola giornata, da solo, riuscì ad estrarre centodue tonnellate di carbone, moltissime in più di quanto prescriveva la «norma» fissata per ciascun lavoratore. Stakanov entrò nella leggenda del lavoro sovietico e nel linguaggio internazionale per indicare il «superlavoratore». Per gli operai e i contadini sovietici, il compagno Aleksei Stakanov divenne l'esempio al quale riferirsi in termini di emulazione, anche perché il «lavoro socialista» veniva premiato non soltanto con medaglie, diplomi ed altri riconoscimenti formali, ma anche con aumenti retributivi, dopo che, nel 1931, era stato abolito il sistema del salario uguale per tutti, uno dei capisaldi della rivoluzione bolscevica. «È facile vedere quanto Stalin si fosse allontanato da quella che finora era stata la principale corrente socialista e marxista» scrive Isaac Deutscher. «Ciò che il suo socialismo aveva in comune con la nuova società, immaginata dai socialisti di quasi tutte le sfumature, era la proprietà pubblica dei mezzi di produzione e la pianificazione. Ne differiva invece per la degradazione alla quale sottoponeva alcuni settori della comunità, sia per la riapparizione di stridenti diseguaglianze sociali in mezzo alla miseria che la rivoluzione aveva ereditato dal passato. Ma la differenza radicale tra lo stalinismo e il pensiero socialista tradizionale stava nel diverso concetto della funzione che la forza doveva esercitare per la trasformazione della società... In Stalin il concetto della funzione della forza politica, rispecchiato dalle sue azioni più che dalle sue parole, risente dell'atmosfera del totalitarismo del ventesimo secolo. Stalin avrebbe potuto parafrasare così il vecchio aforisma marxista: la forza non è più la levatrice, la forza è la madre della nuova società». Tra il 1934 e il 1935, Stalin ebbe modo di provare la propria forza destreggiandosi con l'abilità di un funambolo sulla corda dell'ambiguità tra Ivan Lantos
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provvedimenti liberalizzanti e improvvise restrizioni. Egli giocava con se stesso e con i membri del partito sottoposti a continue provocazioni che ne dovevano provare la coerenza e la fedeltà. Un gioco perverso che consentiva a Stalin di redigere un elenco di «buoni» e «cattivi». Il gioco ebbe termine, trasformandosi in un qualche cosa di terribilmente serio, il 1° dicembre 1934, quando in una stanza dell'ex istituto Smolnij, a Leningrado, un giovane di nome Nikolaev assassinò Sergej Kirov, membro del comitato centrale del Politburo. Kirov era stato mandato a Leningrado, dopo che Zinoviev era caduto in disgrazia, per dirigere l'epurazione degli zinovievisti. Era portato ad aperture di tipo liberale e, tra i più diretti collaboratori di Stalin, aveva sostenuto l'opportunità di alleggerire il peso della dittatura. Kirov godeva di una vasta popolarità e non aveva temuto di mettersi in polemica con Voroscilov, commissario della Difesa, confiscando e facendo distribuire ai lavoratori di Leningrado derrate alimentari destinate all'esercito. Chiamato a giustificarsi davanti al Politburo, aveva dichiarato che se si pretendeva che i lavoratori producessero era necessario dar loro da mangiare. Sul problema del razionamento alimentare, Kirov aveva anche osato mostrare il proprio dissenso anche a Stalin. Appena avuta notizia dell'assassinio di Kirov Stalin era partito per Leningrado. Aveva anche preteso e ottenuto d'interrogare personalmente il giovane omicida. L'occasione sembrava fabbricata ad arte per incominciare un processo d'eliminazione degli oppositori del regime. Secondo alcuni dissidenti, Nikolaev era un provocatore, più o meno consapevole, manovrato a bella posta dal Cremlino, carnefice e vittima di un progetto del quale certamente non era a conoscenza. Nikolaev e i suoi complici vennero fucilati. Il processo ebbe luogo a porte chiuse come impose un decreto emanato appositamente e che negava ai terroristi il diritto di difesa e d'appello. In questo modo, Stalin evitò, nella specifica circostanza e per il futuro, che il banco degli imputati fosse, come dice Isaac Deutscher «una tribuna dalla quale si potessero esporre le idee dell'opposizione e lanciare accuse al governo». Lo sventurato Nikolaev s'era dichiarato zinovievista e tanto bastò perché anche Zinoviev e Kamenev si trovassero sul banco degli imputati accusati di aver ispirato l'assassinio di Kirov. Anche per loro il processo fu celebrato a porte chiuse. Ovviamente, sia Zinoviev sia Kamenev rifiutarono categoricamente Ivan Lantos
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l'accusa d'aver avuto rapporti di qualsiasi genere con l'omicida Nikolaev del quale condannarono il gesto. Ammisero tuttavia che esso avrebbe potuto essere ispirato, in qualche modo, dalle critiche che, in passato, essi avevano formulato a Stalin. D'altra parte essi sostennero anche il principio che il comportamento liberticida dello stesso Stalin poteva indurre i comunisti più giovani, i komsomoltsy, ad azioni sconsiderate. Insomma se proprio si volevano trovare responsabilità remote esse dovevano essere equamente ripartite. Il processo si concluse con la condanna di Zinoviev a dieci anni di carcere e di Kamenev a cinque. L'apparente lievità delle condanne era strumentale: a Stalin serviva dimostrare la colpevolezza dei suoi due ex amici e alleati della troika, non riteneva, fino a quel momento, di farne dei martiri utili all'opposizione. Alternando le minacce più dure alle blandizie e alla promessa di prosciogliere Zinoviev e Kamenev dall'accusa di complicità nell'omicidio, Stalin riuscì ad ottenere da entrambi l'ammissione che, in quanto membri dell'opposizione, essi avevano anche potuto ispirare «la degenerazione di quei criminali». Commenta Isaac Deutscher: «I capi dell'opposizione avevano fatto un altro scivolone lungo la china che portava ai grandi processi di epurazione». L'assassinio di Kirov fece balenare davanti agli occhi di Stalin uno spettro assai più temibile del dissenso, quello del terrorismo: ne vide aggirarsi il fantasma persino nei suoi uffici e di conseguenza, sulla base di semplici e non provati sospetti, nella primavera del 1935, quaranta uomini della sua guardia del corpo vennero processati in segreto. Due finirono davanti al plotone d'esecuzione, tutti gli altri vennero condannati a pene durissime. Poi la caccia alle streghe si estese a tutte le organizzazioni del partito e colpì con particolare rigore Leningrado dove le epurazioni furono affidate al giovane e risoluto Andrej Zdanov, nominato successore di Kirov. Decine di migliaia di iscritti vennero deportati in Siberia, sia da Leningrado, sia da altre città, con generiche accuse di complicità nell'omicidio di Kirov. «Il trattamento riservato ai prigionieri politici subì un mutamento radicale» scrive Isaac Deutscher. «Fino ad allora non v'era stata una grande differenza con il comportamento del regime zarista. I prigionieri politici avevano goduto di certi privilegi, avevano potuto dedicarsi agli studi e anche alla propaganda politica. I manifesti, gli opuscoli e i periodici dell'opposizione non soltanto erano passati con una certa libertà da una Ivan Lantos
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prigione all'altra, ma qualche volta avevano anche raggiunto, di contrabbando, l'estero. Come ex detenuto, Stalin sapeva perfettamente che le carceri e i luoghi di deportazione erano le "università" dei rivoluzionari. Gli avvenimenti più recenti gli suggerirono un maggiore rigore anche in questo campo. D'ora in avanti si dovevano eliminare tutte le discussioni e le attività politiche nelle prigioni e nei luoghi di deportazione. Le privazioni e i lavori forzati dovevano ridurre gli uomini dell'opposizione a un'esistenza miserabile e animalesca che li rendesse incapaci di pensare e di formulare le loro idee». Il 6 febbraio 1935, Stalin pose un'altra pietra che consolidava l'edificio del suo potere, il settimo congresso dei soviet approvò la mozione di una riforma costituzionale e nel novembre del 1936 l'ottavo congresso approvò la nuova costituzione. Il vero volto della dittatura era feroce, ma Stalin, abile regista di se stesso, cercò di mostrare al suo popolo la maschera della cordialità. I servizi fotografici e cinematografici della propaganda lo mostravano sorridente in mezzo agli operai e ai contadini, tra giovani che gli offrivano fiori o spighe di grano e con bambini in braccio. Così come i suoi colleghi, capi d'altri regimi totalitari, Mussolini e Hitler, gli piaceva mostrarsi in atteggiamenti da buon padre dei suoi sudditi. Nel 1936 anche l'esercito subì una trasformazione; non più prevalentemente milizia territoriale, ma forza permanente. All'ordinamento esasperatamente democratico del periodo rivoluzionario si sostituì quello gerarchico: Tuchacevskij, Voroscilov, Budiennij, Blùcher e Jegorov furono insigniti del grado di maresciallo. Insomma, come solitamente accade, la reazione precedeva il completamento della rivoluzione, i sogni di una società utopisticamente, ma autenticamente nuova morivano all'alba di un ritorno al totalitarismo. L'agosto del 1936 segnò l'inizio, o la ripresa, di un periodo nerissimo per la Russia. Kamenev, Zinoviev e altri quattordici eminenti membri del partito, tornarono davanti ai giudici per subire quello che è passato alla storia delle nefandezze come il «processo dei sedici». Il dibattimento, una tragica farsa dominata dal pubblico accusatore Andrej Viscinskij, si concluse con un verdetto egualitario: la fucilazione. «Quei folli cani del capitalismo» aveva dichiarato Viscinskij nella sua requisitoria «si sforzano di dilaniare pezzo per pezzo il meglio della nostra patria sovietica. Uccisero colui che ci era più caro tra i rivoluzionari, l'ammirevole e delizioso Kirov, allegro e brillante, come allegro e brillante Ivan Lantos
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era il suo sorriso, come allegra e brillante è la nostra nuova vita. Lo uccisero e ci colpirono diritto al cuore. Chiedo che questi cani impazziti siano fucilati, tutti!». Al fascino di un così straordinario esempio di oratoria giudiziaria non riusciva a sottrarsi neppure chi, nel rispetto formale della liturgia dibattimentale, era incaricato della difesa. Il difensore dell'imputato Grigori Piatakov aveva mirabilmente replicato: «Compagni giudici, non vi nasconderò la posizione particolarmente difficile, anzi senza precedenti, nella quale si viene a trovare la difesa in questo processo. Premetto, compagni giudici, che anche l'avvocato della difesa è figlio del nostro paese; anche lui è un cittadino dell'Unione Sovietica e non può esimersi dal condividere l'indignazione, la rabbia e l'orrore che prova tutto il nostro popolo, sentimenti tanto efficacemente espressi dal compagno procuratore generale. I fatti sono stati ampiamente provati e su questo la difesa non intende certamente polemizzare con il procuratore generale. Così come non è possibile contraddire il procuratore generale sugli aspetti morali e politici del caso che è proposto alla nostra attenzione. Le circostanze sono chiare, la valutazione espressa dal procuratore generale è incontrovertibile, tanto che la difesa non può che associarsi». In questo clima per il quale è superfluo spendere aggettivi, si tennero tutti i grandi processi per i quali Stalin aveva predeterminato la sentenza e la pena. Nel gennaio del 1937, il «processo dei diciassette»: vittime più illustri, Radek, Sokolnikov, Piatakov, Serebriakov. Giugno 1937: processo contro Tuchacevskij e molti alti ufficiali dell'Armata rossa. Marzo 1938: «processo dei ventuno» che spazzò via Rykov, Bucharin, Rakovski, Jagoda, Krestinskij e altri personaggi minori. Soltanto un imputato, il principale di tutti i procedimenti, il colpevole per antonomasia, Leon Davidovic Bronstein, detto Trotskij, ebbe salva la vita, ma con una serie di condanne a morte in contumacia. Non uno dei «padri della rivoluzione», compagni del Politburo voluto da Lenin, rimase in vita. Nel 1938, la tortura precedentemente dichiarata illegale, venne ripristinata con l'eufemistica designazione di «pressione fisica». La testimonianza è di Nikita Krusciov: «Il comitato centrale spiega che l'applicazione del metodo di pressione fisica nei procedimenti della polizia politica è ammissibile dal 1937 in poi, in conformità all'autorizzazione del Ivan Lantos
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comitato centrale stesso. Tutti i servizi di spionaggio borghesi adottano sistemi di pressione fisica nei confronti dei rappresentanti del proletariato socialista, metodi applicati nelle forme più scandalose. Ci si chiede dunque perché i servizi di spionaggio socialisti debbano adottare sistemi più umanitari nei confronti degli agenti della borghesia, contro i nemici mortali della classe lavoratrice». Perché tanto orrore? La domanda sorge legittima e angosciosa. Una risposta plausibile la fornisce Isaac Deutscher. «La cronologia dei processi non si può spiegare con considerazioni di politica interna» scrive il grande biografo di Stalin. Se una ragione ci poteva essere a una tale diffusa violenza, essa deve essere ricercata nella consapevolezza maturata da Stalin, che non si può considerare un ottuso dispensatore di morte, della minaccia che stava sull'Europa. Il georgiano, scaltro e attento nel valutare i sintomi politici anche i più irrilevanti, aveva fiutato venti di guerra. Un grande conflitto non poteva e non doveva cogliere la Russia travagliata da lacerazioni interne, il pericolo di un capovolgimento, di un improvviso cambiamento di rotta, favorito dall'impegno in una guerra globale, andava prevenuto ad ogni costo. Stalin era stato protagonista di una rivoluzione che proprio l'impegno della Russia zarista nella prima guerra mondiale aveva favorito e la sua determinazione era che la storia non si ripetesse. Stalin teneva d'occhio con malcelata preoccupazione quanto accadeva in Germania, dove dal 1933, l'ex imbianchino austriaco Adolf Hitler, divenuto cancelliere, aveva riarmato il paese e farneticava sul dominio mondiale del regime nazista. Hitler poteva anche essere un pazzo, ma il suo atteggiamento non era quello di un visionario, di un puro teorico. La guerra civile spagnola, dalla quale Stalin aveva cercato di prendere le distanze, nel 1936, era sembrata, giustamente, un allarmante banco di prova. Il 30 settembre 1938 a Monaco di Baviera, i primi ministri di Gran Bretagna e Francia consegnavano di fatto la Cecoslovacchia nelle mani di Hitler. Per Stalin era la conferma delle sue intuizioni e dei suoi sospetti, tuttavia non ritenne opportuno prendere posizione nei confronti dei tedeschi. Si trattava senza dubbio di nemici, ma, almeno fino a quel punto, andavano affrontati con prudenza.
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CAPITOLO XIII LA GUERRA E IL DOPOGUERRA Adolf Hitler era determinato a invadere la Polonia, ma temeva che Francia e Inghilterra potessero contrastare con le armi i suoi progetti espansionistici, di conseguenza le manovre d'avvicinamento di Stalin non lo trovavano indifferente. Un accordo con il dittatore sovietico l'avrebbe certamente garantito a oriente; Stalin, da parte sua, era convinto che l'atteggiamento cauto, quasi accomodante delle potenze occidentali nei confronti di Hitler non dipendesse tanto da debolezza, quanto piuttosto da «una diabolica strategia: erano tutti d'accordo, egli pensava, per deviare da occidente il ciclone nazista dirigendolo sulle steppe russe». Incominciò così un balletto diplomatico, una specie di «gioco dei quattro cantoni», tra Mosca, Londra, Parigi e Berlino. Alla fine, tenuto conto delle incertezze e delle riserve morali d'inglesi e francesi, il gioco venne condotto da Molotov, sostituito al commissariato degli Affari esteri a Litvinov, ebreo del quale Stalin non si fidava del tutto e dal conte von Schulenburg, ambasciatore del terzo Reich a Mosca. Il diplomatico tedesco, alla fine del luglio 1939, inviò al suo governo una nota telegrafica nella quale scriveva: «La mia impressione generale è che il governo sovietico si è attualmente deciso a firmare un accordo con l'Inghilterra e con la Francia, a patto che esse accolgano tutti i desiderata dei sovietici». Qualche giorno dopo però la situazione era di fatto cambiata: Hitler intendeva dare contenuti reali all'amicizia con Stalin. Il 3 agosto l'ambasciatore von Schulenburg consegnò a Molotov un messaggio del suo collega tedesco il ministro Ribbentrop che prometteva «rispetto per gli interessi sovietici in Polonia e negli Stati baltici». «Stalin» scrive Isaac Deutscher «prese allora la sua decisione. Tutto sommato il suo scopo immediato era restare fuori della guerra». Il 23 agosto 1939, Stalin e il ministro degli Esteri nazista Joachim von Ribbentrop firmarono, a Mosca, un patto di non aggressione e di neutralità nel caso che uno dei due paesi si fosse trovato coinvolto in una guerra. Il patto nazi-sovietico aveva spiazzato i partiti comunisti dell'Europa occidentale aderenti al Comintern: Maurice Thorez, il segretario generale dei comunisti francesi, aveva espresso con estrema chiarezza quale sarebbe stato l'atteggiamento del suo partito nel caso di azioni aggressive da parte Ivan Lantos
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di Hitler. «Se Hitler scatenerà la guerra» aveva scritto Thorez «è bene sappia che il popolo di Francia, con i comunisti in prima fila, gli sbarreranno il cammino, per difendere la sicurezza del paese, la libertà e l'indipendenza dei popoli. Per questa ragione il partito comunista francese approva le misure adottate dal governo per tutelare le nostre frontiere e offrire, se ce ne fosse bisogno, l'aiuto alla nazione che potrebbe essere aggredita e alla quale siamo legati da un trattato d'alleanza». Thorez alludeva proprio alla Polonia. Ma, come in altre circostanze, a Stalin poco interessavano il parere e le deliberazioni dei partiti comunisti «fratelli», quando l'opportunità lo suggeriva essi diventavano «fratellastri» o peggio. Il patto sottoscritto tra l'Unione Sovietica e la Germania comprendeva un protocollo addizionale segreto nel quale erano contenute le rivendicazioni espansionistiche e le sfere d'influenza dei firmatari. Hitler si ritenne autorizzato ad effettuare i blitz che gli consentirono d'occupare non soltanto la Polonia, ma anche il Belgio, i Paesi Bassi e la Francia. L'unico «nemico» della Germania che resisteva grazie a una strenua difesa combattuta nei cieli era l'Inghilterra. Hitler, maestro d'inganni e d'ambiguità quanto e più di Stalin, incominciò a interferire nelle zone baltiche (d'influenza sovietica secondo i patti) trovando pretestuose giustificazioni di tipo antibritannico. L'attrito tra gli alleati si limitò inizialmente allo scambio di note diplomatiche, ma intanto Hitler ammassava 150 divisioni sui confini orientali, si trattava della fase preparatoria del «piano Barbarossa», cioè l'invasione dell'Unione Sovietica. D'altra parte Hitler non aveva di Stalin una grande opinione. «Stalin è una delle figure più straordinarie nella storia del mondo» sosteneva il dittatore tedesco. «Ha incominciato come un piccolo impiegato e non ha mai cessato d'essere un mezzemaniche. Governa dal suo ufficio con gli strumenti di una burocrazia che gli obbedisce ciecamente. Si atteggia anche ad araldo della rivoluzione bolscevica, ma in pratica si identifica con la Russia degli zar, poiché ha soltanto resuscitato le tradizioni del panslavismo. Il bolscevismo, per Stalin, non è che uno strumento, un trucco escogitato contro i tedeschi e i popoli latini. Stalin è mezzo bestia e mezzo gigante. Gli aspetti sociali dell'esistenza non gli interessano affatto; per quello che gl'importa il popolo può anche andare in malora». E se Hitler si faceva i fatti suoi, alla faccia dell'alleato sovietico, Stalin Ivan Lantos
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non gli era da meno: il 13 aprile stipulò un patto di non aggressione con il governo nipponico in modo tale da garantirsi dall'eventuale pericolo di un fronte estremo orientale. Il 22 giugno 1941, le truppe di Hitler sfondarono il confine sovietico: Stalin non aveva voluto credere ai segnali d'allarme che Richard Sorge, un giornalista tedesco in missione a Tokio, da diciassette anni agente dello spionaggio sovietico, gli aveva inviato. Secondo Stalin, poche settimane prima dell'invasione tedesca, il povero Sorge era un visionario, e le notizie che egli con scrupolo inviava a Mosca erano da ritenersi false, insensate e provocatorie. I fatti però davano ragione a Sorge e a tutti coloro, come gli agenti del servizio segreto inglese, che avevano quantomeno tentato di mettere in stato di allerta Stalin. Il 3 luglio 1941, egli cercò di fornire giustificazioni al popolo russo. In un discorso radiofonico disse: «Compagni, è probabile che vi stiate chiedendo come il governo sovietico abbia potuto concludere un patto di non aggressione con gente così perfida, con autentici mostri come Hitler e Ribbentrop. Certamente un dubbio vi tormenta: è stato un errore? Naturalmente non si è trattato di uno sbaglio. Abbiamo assicurato un anno di pace al nostro popolo e quest'anno ci ha consentito di apprestare le forze per difenderci nel caso la Germania nazifascista avesse osato aggredirci nonostante il patto. Questo ha senza dubbio rappresentato un vantaggio per noi». L'avanzata delle truppe tedesche sul territorio russo fu rapida: settecento chilometri in meno d'un mese: sembrava ripetersi la situazione che s'era verificata centotrent'anni prima quando Napoleone aveva tentato di conquistare e sottomettere le estreme propaggini orientali d'Europa. Stalin seppe rileggere e rendere nuovamente attuali quelle pagine di storia: così come nel 1812, il popolo russo avrebbe trovato il modo di difendersi vittoriosamente dall'invasore. Della resistenza Stalin divenne il simbolo e il supremo condottiero concentrando nelle proprie mani tutto il potere decisionale. Scrive Isaac Deutscher: «... faceva tutto da sé... Dal suo tavolo, in costante contatto con i comandi dei diversi fronti, Stalin seguiva e dirigeva le operazioni... Dopo una giornata tempestosa, tutta trascorsa tra rapporti militari, decisioni operative, istruzioni economiche e sondaggi diplomatici, all'alba si curvava sugli ultimi dispacci dal fronte o su qualche rapporto confidenziale sul Ivan Lantos
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morale della popolazione. Così continuò Stalin giorno per giorno, per tutti i quattro anni della guerra: un prodigio di pazienza, di fortezza e di vigilanza, quasi onnipresente, quasi onnisciente». Nel novembre del 1941, i tedeschi erano a una trentina di chilometri da Mosca; Hitler aveva ordinato di distruggere il Cremlino, ma nella fortezza assediata era rimasto soltanto Stalin. Aspettava l'arrivo del tradizionale alleato dei russi in tutte le guerre, quel «generale inverno» contro il quale ben poco avrebbero potuto le centonovanta divisioni germaniche, i loro oltre tremila carri armati e altrettanti aerei. Il prezioso alleato arrivò e la sua offensiva fu dura: l'8 dicembre le condizioni meteorologiche erano tali da costringere Hitler a ordinare la sospensione delle operazioni. Non si sarebbe mai aspettato che il suo avversario avrebbe contrattaccato. Dopo una battaglia durissima le armate tedesche furono costrette a ripiegare. A Stalin non riuscì di annientare il nemico, ma Mosca era salva e i nuovi alleati, Winston Churchill e Franklin Delano Roosevelt, furono costretti a prendere atto dei meriti di Stalin, dovettero riconoscerne l'abilità, ammettere che era stato l'artefice della prima seria sconfitta dei tedeschi in quella guerra, garantirgli il loro appoggio. Poco meno di un anno dopo, il 19 novembre 1942, Stalin scatenò quella che si deve considerare la controffensiva «chiave», decisiva, per gli esiti della seconda guerra mondiale: Stalingrado, parola che evoca terrori apocalittici, ma anche esaltanti immagini di vittoria. Il 6 dicembre, Stalin scriveva a Churchill: «Sia a Stalingrado, sia sul fronte centrale, i combattimenti si sviluppano. A Stalingrado abbiamo accerchiato un forte gruppo di truppe tedesche e speriamo di condurre a termine l'accerchiamento». La più grande battaglia di tutta la seconda guerra mondiale si concluse il 2 febbraio 1943, per Hitler era l'inizio della fine. Il contrattacco di Stalin da oriente verso occidente si concluse soltanto nel maggio del 1945, a Berlino. Vittoriosamente. Il 6 febbraio 1943, ancora Stalin a Churchill: «Vogliate gradire i sensi della mia gratitudine per le amichevoli espressioni di congratulazione per la resa di von Paulus e della vittoriosa conclusione dell'annientamento dei tedeschi accerchiati a Stalingrado». I costi della vittoria furono, per l'Unione Sovietica, altissimi sia in termini economici, sia in sacrifici umani: i caduti sui fronti della guerra, i deportati nei campi di sterminio tedeschi, i civili. Anche Stalin pagò il suo Ivan Lantos
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personale tributo all'angelo sterminatore. Jasha, il figlio che gli aveva dato la prima moglie, Keke Svanidze, perse la vita in un lager nazista, Vassily, avuto da Nadezda Alliluieva, cadde nella spirale dell'alcolismo. «Il fatto che durante la guerra Jasha fosse caduto prigioniero, per suo padre era soltanto una vergogna agli occhi del mondo» scrive nelle sue memorie Svetlana Alliluieva Stalin. «In Unione Sovietica questo fatto venne taciuto. Quando un giornalista straniero pose a mio padre una domanda precisa a questo proposito, egli rispose che non c'erano prigionieri russi nei lager tedeschi, ma soltanto traditori russi. "Di loro ci occuperemo non appena sarà finita la guerra". Quanto a Jasha, rispose: "Non ho nessun figlio con questo nome". Jasha fu estremamente colpito e abbattuto da questa notizia che venne riferita in una trasmissione radio per prigionieri. Secondo molti testimoni, in prigionia s'era comportato come spettava a un ufficiale, difendendo le buone ragioni del suo paese. Ma quel giorno cercò la morte e morì gettandosi sul filo spinato percorso dall'elettricità». Certamente il destino di Vassily Josipovich Giugashvili, figlio minore di Stalin, avrebbe potuto essere diverso da quello del suo sfortunato fratellastro. Vassily, all'inizio della guerra, incominciò una folgorante carriera d'ufficiale d'aviazione: da membro dello Stato maggiore a comandante di corpo d'armata aerea. A trent'anni era generale, ma era anche giunto per misteriosi percorsi, forse l'eccessivo peso delle responsabilità, forse l'ereditarietà del nonno paterno, all'estremo dell'alcolismo. Stalin stesso fu costretto a destituirlo. Se con Lenin la Russia aveva avuto il suo «semidio», ora con Stalin aveva trovato il suo «eroe» circonfuso d'una aureola di gloria. Ma Stalin, al quale peraltro il ruolo non dispiaceva, era anche un uomo estremamente pratico per farsi irretire e immobilizzare dal ruolo. Già nel corso della guerra, trattando con i suoi alleati inglesi e americani a Teheran i futuri assetti dell'Europa, aveva gettato i semi di una nuova guerra, questa volta non cruenta e combattuta a distanza dai «palazzi»: un conflitto che avrebbe, talvolta drammaticamente, opposto il blocco dei paesi socialisti a quello dei paesi capitalisti. Nel febbraio del 1945, a Yalta, la svendita del mondo tra i grandi compratori Stalin, Churchill e Roosevelt, si svolse in un clima di apparente armonia, il nodo della guerra legava ancora i tre personaggi a comuni interessi. Dal 1945 al 1948 Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania e Ivan Lantos
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Bulgaria vennero trasformate, senza cercare il consenso della popolazione, in repubbliche comuniste. A sorvegliare che la trasformazione avvenisse senza traumi c'erano i soldati dell'Armata rossa. Negli anni successivi si riaffaccia lo spettro della guerra, quella «fredda» minaccia di degenerare: nel marzo del 1948 c'è il blocco di Berlino, con il quale Stalin aveva tentato di impedire agli occidentali l'accesso alla capitale tedesca. Nel 1950 la guerra di Corea iniziava l'era dei conflitti a distanza, fuori del territorio nazionale russo o degli americani, delegata a paesi appartenenti all'una o all'altra area d'influenza. Nel 1950 l'Unione Sovietica diventa potenza nucleare facendo esplodere la prima atomica marchiata con il simbolo della falce e del martello. E subito dopo si rimette in movimento la spirale del terrore interno: le epurazioni colpiscono i dissidenti avviati di nuovo verso i plotoni d'esecuzione o verso la morte lenta nei gulag. Nel gennaio del 1953 è il turno di nove medici del Cremlino, eminenti clinici, quasi tutti ebrei: l'accusa è di connivenza con l'imperialismo americano e sionismo. Come agenti nemici sarebbero stati responsabili della morte di due capi del partito, Zdanov e Serbiakov. In Unione Sovietica non c'è nessuno, uomo di partito, intellettuale, scienziato o semplice operaio che non sia attanagliato dalla paura.
CAPITOLO XIV MORTE PER EMORRAGIA? Il 5 marzo 1953 l'agenzia ufficiale della stampa sovietica, la Tass, annuncia al mondo intero che Stalin è morto. Lo ha stroncato, secondo i referti medici, un'emorragia cerebrale che lo aveva colpito sei giorni prima. Alle nove e trenta del mattino il decesso. Stalin aveva settantatré anni. Intorno al cadavere del dittatore si scatenò la ridda delle più disparate ipotesi. Qualcuno insinuava con insistenza che fosse stato ucciso dai suoi stessi collaboratori. Finiva un uomo, incominciava un mito. Nel bene e nel male. A Stalin, alla testa dell'immenso impero russo, successe Malenkov, primo proconsole. Ma il potere gli restò nelle mani per poco. A Malenkov successe Krusciov. Tra il 14 e il 15 febbraio, al ventesimo Ivan Lantos
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congresso del partito, Krusciov lesse il suo famoso rapporto. Era il tramonto del mito. Ora Stalin, indubbiamente un «grande», nel bene e nel male, appartiene soltanto alla storia. Ma molte verità sono ancora da rivelare. FINE
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