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PUBBLICAZIONI
DBEl? ISTITUTO UNIVERSITARIO di magistero
DI OATANIAj
SERIE FILOSOFICA
Sà 9, « MONOGRAFIE
PASQUALE MAZZARELLA
IL PENSIERO
DI GIOVANNI SCOTO ERIUGENA
SAGGIO INTERPRETATIVO
JUN 1 4 1966
UNIVERSITY OF CALIFORNIA
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C E D A M - CASA EDITRICE DOTT. ANTONIO MILANI - PADOVA
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PASQUALE MAZZARELLA
IL PENSIERO
DI GIOVANNI SCOTO ERIUGENA
SAGO IO INTERPRETATIVO
C E D A M - CASA EDITRICE DOTT. ANTONIO MILANI - PADOVA
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19 5 7
PUBBLICAZIONI
DELL'ISTITUTO UNIVERSITARIO DI MAGISTERO
DI CATANIA
SERIE FILOSOFICA - MONOGRAFIE
N. 3
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CA79
fac - 3
ÀUa memo-ùa, di mia Ohadie,
tempie viua nei mio- cuó-ie
142
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CAPVfolo I.
LA PATRISTICA E SCOTO ERIUGENA *
Giovanni Scoto Eriugena è un pensatore della Patristica, anzi possiamo
dire che è l'ultimo pensatore di questa età . L'averne fatto un pensatore iso-
lato e solitario è stato motivo di confusione, per cui a taluni storici egli è
apparso un razionalista, ad altri un mistico, ad altri ancora un eclettico,
in cui i motivi del fideismo misticizzante si sarebbero giustapposti, senza
peraltro fondersi, con i motivi del razionalismo eterodosso.
Se si considera che la distinzione tra fede e ragione sarà chiaramente
posta con l'aristotelismo albertino-tomista come conclusione di un lungo
travaglio iniziatosi con Anselmo d'Aosta, nel cui pensiero peraltro accanto
al motivo schiettamente razionalistico, di cui è l'iniziatore, permaneva pure
il motivo fideistico, che era particolarmente espresso nella via inveniendi
della prova del Proslogio, allora, alla stregua cioè di tale considerazione,
sarà chiaro che nei pensatori anteriori ad Anselmo la distinzione in parola
non si troverà ed invece sarà affermata l'identificazione della vera religione
con la vera filosofia. Questa posizione, propria di tutta la Patristica sia nei
primi Padri Apologisti e sia ancor più chiaramente in Agostino, pone non la
confusione, ma l'identificazione tra ragione e fede.
* R* merito indiscutibile di C. Otiaviano aver per primo individuato la distinzione tra
Patristica e Scolastica e l'aver collocata la filosofia di Scoto nella Patristica. Di tale
esatta interpretazione in questo capitolo ci siamo sforzati di dare un'analitica dimostra-
zione. Cfr. per la teoria dell'Ottaviano; Anselmo D'Aosta, Opere filosofiche, traduzione
prefazione e note di Carmelo Ottaviano, voli. 3, Carabba, Lanciano 1928; C. Ottaviano.
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Metafisica dell'Essere Parziale, 3* edizione, Rondinella, Napoli 19S4-5S, voi. I, p. 211 ;
chi scrive si permette rimandare all'articolo pubblicato in Sophia, anno XXIV, luglio-
dicembre 1956, pp. 334-376: P. Mazzarella: // contributo di Carmelo Ottaviano agli studi
di filosofia medioevale. Per una discussione del razionalismo e misticismo di Scoto Eriu-
gena, v. M. Dal Pra, Scoto Eriugena, Bocca, Milano 1951, che, pur escludendo il razio-
nalismo di Scoto, insiste sull'importanza che ha nel suo pensiero la tagione; U. Corsini,
Su alcuni testi di G. Scoto Eriugena, Razionalismo o misticismo ?, Mafrini, Rovereto 1955.
L'interpretazione razionalistica sostenuta da C. Albanese, (Il pensiero di Giovanni Scoto
Eriugena, Principato, Messina 1929, pp. 412) ebbe a suo tempo una giusta messa a punto
da C. Ottaviano (Cfr. La Scuola Attualista e Scoto Eriugena, in Rivista di Filosofia Neo-
scolastica, 1936, pp. 142-151). M. Cappuyns (Cfr. Jean Scot Erigène, sa vie, son ouevre, sa
— 8 —
La ragione infatti da sola è condannata all'errore e allo scetticismo, dal
quale essa può salvarsi solo a patto che Dio la illumini.
L'illuminazione soprannaturale è la condizione prima perchè la ra-
gione possa rettamente intendere; ma essa suppone a parte subiecti la fede
e quindi la grazia e la vita moralmente pura. Tutta la Patristica, cioè, consi-
dera il processo razionale come condizionato dalla fede; e la filosofia, se è
veramente tale, ricerca cioè della verità con tutta l'anima, non solo non si
opporrà alla fede, ma il suo contenuto s'identificherà con la religione, sic-
chè la vera religione farà tutt'uno con la vera filosofia. E' ovvio che tale
affermazione non è espressione di razionalismo, in quanto essa non riduce
il contenuto della religione a mera dimostrazione razionale; tutt'altro: è la
fede che dà alla ragione la possibilità di comprenderla. Nè d'altronde abbia-
mo una posizione fideistica, che rinneghi la ragione, in quanto i processi
razionali, ottenuto il crisma della universalità e necessità dall'illuminazione
di Dio, valgono nel proprio ambito e le conclusioni a cui pervengono hanno
pieno valore.
Alla base quindi di tutta la ricerca agostiniana sta l'illuminazione: essa
garentisce gnoseologicamente il pensiero, conferendogli i caratteri dell'uni-
versalità e necessità , a cui mai potrebbe per sè solo aspirare; essa ontologi-
camente conferisce l'immortalità all'anima, che, essendo creata, non po-
pensée, Desclée de Brouwer, Paris-Louvain 1933, pp. 415) ha sostenuto che Scoto
Eriugena non è un filosofo, ma un teologo, il che può essere accettato solo nel senso patri-
stico, per cui teologia e filosofia si unificano nel soprannaturalismo proprio di quest'epoca,
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come cercheremo di mostrare nel corso dell'indagine. Già prima comunque il P. Jacquin
(cfr., Le néoplatonisme de Jean Scot, in Revue des Sciences philosophiques et théologiques,
1907, pp. 674-685; e Le rationalisme de Jean Scot, in Revue des Sciences philosophiqu.es
et théologiques, 1908, pp. 747-748) aveva negato che l'Eriugena fosse un razionalista ed
aveva messo in evidenza le varie tappe della formazione neoplatonica del suo pensiero.
Importante per i richiami ai Padri della Chiesa: W. Betzendorfer, Glauben und Wìssen
bei Joannes Scotus Eriugena, in Zeitschrift fùr systematische Theologie, 1924, p. 732-747.
Recentemene in Italia G. Bonafede {Saggi sul pensiero di Scoto Eriugena, Boccone del
Povero, Palermo 1950, pp. 140), ha negato il razionalismo di Scoto Eriugena. Anche
S. Vanni Rovichi (La prima Scolastica (dal sec. IX al sec. XII), in Grande Antologia
Filosofica, Marzorati, Milano 1953, p. 643), dopo una rassegna delle principali interpre-
tazioni del razionalismo dell'Eriugena, ne nega il razionalismo e giustamente conclude:
« Di « razionalismo » si può parlare, caso mai, solo nel senso di un grande ottimismo di
Scoto nelle capacità della ragione: Scoto ritiene che la ragione possa arrivare a spiegare
tutto quel che la Rivelazione insegna ». Si può osservare che il grande ottimismo di
Scoto nei poteri della ragione non giunga a ritenere che questa possa spiegare tutto il
contenuto della Rivelazione; vedremo che in non pochi problemi Scoto riterrà , con espli-
cita confessione, la ragione impotente a spiegare il contenuto della Rivelazione. Il motivo
dell'illuminazione della ragione da parte di Dio è anche accennato da B. Geyer, il quale
però parla anche di razionalismo nel pensiero dell'Eriugena (Die Patristiche und Schola-
stische Philosophie, Berlin 1928, pp. 169-70). Va anche notata l'interpretazione di F. Vernet
(cfr. articolo Erigène, in Dictionnaire de Theologie Catholique, Paris 1924, V. pp. 401-434),
il quale esclude, pur riconoscendo gli errori teologici di Scoto, che egli sia un razionalista.
— 9 —
trebbe averla per sua essenza; essa infine, in quanto grazia, sorregge nell'a-
dempimento del bene la volontà dell'uomo, che in quanto decaduto, con le
sole sue forze non potrebbe compielo.
Questo il Leit-motiv della Patristica, che vive con accenti personali nel
pensiero di Scoto Eriugena, il quale, nello stabilire i rapporti tra fede e
ragione, elabora una dottrina sana e ortodossa senza nessuno sbandamento
nè verso forme di misticismo eterodosso, nè verso forme di razionalismo.
Scoto Eriugena afferma ripetutamente che la conoscenza umana ha un
valore obbiettivo: come tutta la realtà dipende da un unico Principio nel
quale poi ritorna, così il nostro conoscere si compie attraverso un duplice
processo, che riproduce il processo della realtà . La dialettica difatti è l'arte
che fa conoscere la realtà ; essa fa si che, partendo dal primo ontologico e
attraverso la divisione in generi e in ispecie, si raggiunga l'individuo, che
trova la sua spiegazione alla luce dei principi i quali l'hanno prodotto:
« Ac per hoc intelligitur, quod ars illa, quae dividit genera in species, et
species in genera resolvit, quoe SiaXsxxixyj dicitur, non ab humanis machina-
tionibus sit facta, sed in natura rerum ab audore omnium artium, quae vere
artes sunt, condita, et a sapientibus inventa, et ad utilitatem solerti rerum
indagine usitata ». (1)
Questa scienza dialettica creata da Dio si svolge in un duplice processo:
il processo che chiamiamo deduttivo o sintetico, ed il processo induttivo o
analitico: « Est igitur reditus et resolutio individuorum in formas, formarum
in genera, generum in oòalaz, ousiarum in sapientiam et prudentiam, ex
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quibus omnis divisio oritur, in easdemque finitur ». (2)
La gnoseologia dell'Eriugena è comandata, nei suoi principi e nelle
sue conseguenze, dal concetto che egli ha dell'uomo. L'uomo occupa nella
natura un posto privilegiato, in quanto ha in comune con l'Angelo l'intelletto,
ed è inoltre dotato di sensazione: l'anima difatti lia, pur essendo semplice,
molteplici funzioni, delle quali alcune sono comuni con l'Angelo, altre in-
vece sono comuni con l'animale. (3)
Ritornano nel pensiero di Scoto, per quanto riguarda la teorica della
conoscenza, i motivi classici dell'innatismo platonico, a cui si uniscono
motivi di orientamento realistico ed empiristico, die temperano l'innatismo
(1) Joanms Scoti, De divisione naturae, IV, 749 A, in Micne, P. L„ voi. CXXII.
(2) De Div. nat., II, 526 C.
(3) Parleremo in seguito più diffusamente della dottrina del microcosmo di Scoto
Eriugena, dottrina fondamentale nell'economia del suo sistema ; ai fini attuali ci preme
intanto stabilire alcuni punti a chiarificazione di quanto sopra si è detto. I») Innanzitutto
per l'Erìugena la vera creatura intellettuale è l'Angelo, che ha la conoscenza intuitiva,
mentre l'uomo è creatura razionale: « Et rationalis quidem vita angelis homnibusque
distributa est; sed in angelis, veluti specialis significationis causa, intellectualis dicitur,
in hominibus vero rationalis » (cfr. De Divisione, III, 732 C). 11°) Nell'uomo è contenuta
tutta la realtà , difatti: « Intelligit quidem ut angelus, ratiocinatur ut homo, sentit ut
— 10 —
dei Platonici. Egli innanzi tutto sostiene che il senso è la finestra con cui
l'anima guarda nella realtà , il mezzo con cui comunica col mondo esterno.
I sensi sono legati all'organo materiale, ma l'elemento, di cui sono costituiti
gli organi sensoriali, è una materia più sottile, meno spessa di quella di cui
sono fatti i corpi: difatti poichè l'anima è spirituale essa non può comuni-
care con la natura se non attraverso una materia sottile, che stia cioè fra lo
spirito e la materia. Dei quattro elementi cosmici, l'aria e il fuoco sono
quelli meno pesanti, e perchè tali costituiscono gli organi dei sensi cor-
porei (4). Sede, però, delle sensazioni è l'anima poichè è essa a riceverle
attraverso i sensi : « Exterior mamque sensus exteriorum rerum internun-
animal irrationale, vivit ut germen, corpore animaque subsistit, nullius creaturae . expers »
\lbid. 733A); tuttavia però l'anima mantiene la sua semplicità : « Siquidem ultra corporeos
sensus et ratiocinatur et intelligit, ut angelica vita; in sensibus corporis seni tendi vim
exercet similitudine irrationabilium, suam rationabilitatem non deserens; nutrit et auget
corpus suum, ut illo, quae sensu caret, herbasque ac Ugna penetrai; ubique in se ipsa tota,
et in omnibus tota, totos sensus suos custodit » (Ibid., 733 D - 734 A).
(4) La vera sostanza umana è costituita dall'anima che si serve dei corpi: nel corpo
difatti hanno sede i sensi i quali sono il mezzo di cui l'anima usa per mettersi a contatto
con le altre realtà : « Nos sumus substantia nostra, quae vitalis et intellegibilis est, supra
corpus omnesque eius sensus visibilemque formam. Nostrum est, non autem nos, corpus,
quod nobis adhaeret, quanto et quali, ceterisque accidentibus compositum, atque sensibile,
mutabile,' solubile, corruptibile ; nihilque aliud esse verissimum est dicere, quam sensuum
instrumenta vel sedes, quae a Graecis vocantur aiailrjrTJp'.x. id est aia$yja3u>v Tijpta sen-
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suum custodiae. Dum enim anima incorporea sit, suasque operationes per seipsam sine
sensibus aperire non possit, sensusque ipsi non nisi in sedibus quibusdam custodiri
valeant, uuturae conditor corpus ad usus uttimae, in quo quasi quaedam vehicula, id est,
sensus custodiret. Circa nos sunt omnia sensibilia, quibus, utimur ». (De Div. nat,,
1, 497D - 498A). I sensi inoltre hanno anche un'altra funzione: quella cioè di mettere
in comunicazione l'anima col corpo: « Partium siquidem ipsius (vìventis corporis) quaedam
ponderosae . sunt, et in crassitudinem densatae, ut sunt ossa, carnes, nervi quoque, ac venae,
omnes etiam humores, quibus moles tota irrigatur, et nutritur, et fabricatur; haec enim
omnia ex aquatili, terrenaque qualitate in constitutionem corporis sumuntur ; quaedam
vero levissimae, nulloque gravilatis, seu crassitudinis pondere impeditae, quaqua versum,
prout anima iusserit. nulla mora interstante confestim perveniunt, ut est visus et auditus.
Quas jMtrtes corporis esse ex igne et aere deductas, nemo recto, philosophantium abnegarit »
(De Div. nat.. III, 730 B-C). E dopo aver elencate la natura e le proprietà dei cinque sensi
ribadisce l'unità e semplicità dell'anima presente in tutte le parti del corpo che da essa
dipendono : « Et dum ipsa nullo loco contineatur, locaIes tamen partes sui corporis, ubi-
cunque sint, vivificat atque gubernat. Non enim cumulo carnalium membrorum localiter
concluditur, nec cum sensibus foras porrectis localiter. Adest autem potentialiter ad
recipiendas phantasias, quae in sensuum suorum instrumentis, ubicunque sint, formantur ».
[Ibid., Liber III, 731 Hi. Si noti che, dall'essere presente l'anima in tutti i suoi sensi per
ricevere le sensazioni ha luogo il passaggio dalla sensazione alla percezione e la rapiditÃ
della composizione nelle immagini; nella stessa colonna difatti l'Eriugena così continua:
« Uno siquidem eademque temporis momento, et siderum in radiis oculorum per aethera
sparsis, et vocum in auditu per aera diffuso, et odorum in olfactu seu intra corpus seu
extra, et saporum in gustu, in tactu quoque omnium, quae tactui accidunt, phantasias,
hoc est imagìnes, primum quidem nullis temporum morulis mirabili celeritate ex corpo-
—11 —
tius, quamvis proprie et naturaliter ad animam pertineat, corpori tamen
deputatur, quoniam per corporis instrumenta vim suam exercet » (5).
Il senso quindi è mezzo della conoscenza delle cose esterne e questa
conoscenza sensibile ha un triplice modo di essere: un modo infallibile
che offre alla considerazione della ragione le specie sensibili; il secondo
modo invece è soggetto all'errore, come avviene quando il remo appare spez-
zato nell'acqua: questo modo errato di conoscere le cose abbisogna della
correzione della ragione (6). Il terzo modo infine è costituito da sensazioni
oltremodo complesse, le quali talvolta possono essere vere, ma sovente son
causa d'errore (7). Ma oltre il senso esterno, che è soggetto all'errore (8),
nell'anima vi sono il senso interiore, la ragione e l'intelletto.
La divisione ternaria dell'anima umana, espressione della Trinità nel-
l'uomo, è dall'Eriugena insistentemente ribadita. Tra queste tre facoltà vige
una gerarchia, per cui la parte più nobile è costituita dall'intelletto o animus,
che è direttamente in contatto con Dio; la ragione, invece, può innalzarsi
alla conoscenza delle cause primordiali, conoscenza che viene conservata
nella memoria; il senso interiore, poi, direttamente dipende dalla ragione e,
attraverso la ragione, dall'intelletto. Occorre poi notare la differenza che
ralibus numeri* in sensualibus formatas sentit. per occorsores recipit, per progressores
introducit, per recordabiles memoriae commendat, per rationabiles ordinat, per intel-
lectuales approbat aut improbat, secundum regulas divinorum numerum qui supra eam
sunt. » Questa teoria gnoseologica, di orientamento platonico-agostiniano, trova il suo
completamento ontologico in un'altra teoria schiettamente neoplatonica. Secondo il pen-
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satore irlandese l'anima, decaduta in seguito al peccato originale, si crea il corpo, come
sua immagine, per poter venire, attraverso i sensi, a contatto con la realtà sensibile. Del
corpo, sua creazione, l'anima non acquista che una phantasia o similitudo «/Varo
quemadmodum animam ad imaginem suam Deus creavit; ita anima corpus veluti instru-
mentum quodam quodammodo sui simile effecit ». De Div. imi.. Il, 598 C.
(5) De div. nat., IV, 783 C.
(6) « Secundus vero modus est... ìlle, per quem sacpinsime animus fallitur, veluti in
quibusdam nocturnis lucubrationis ambiguus atque errabundus. ut non facile de bis. quae
per sensum recipit, rectum iiuiicium proferre possit : huiusmodi exempla sunt remus in
aqua quasi fractus, aversa facies in speculo, motus navigantibus turrium, imago vocum,
quae a Graecis tiytóì tocatur, et mille huiusmodi species falsitatum omnibus corporeis
sensibus naturaliter adhaerentium, quas discernere ex vera specie rationubilis animae
judicium laboriosissime ac solertissime sudat ». Ibid.. 783 D - 784 A.
(7) « Tertius modus est. qui multipliciter et cumulatim sensibilium formarum numeros
animo infunili!.... ut aut vix, aut numquam de eis sine errore vulva! iudicare, sed quibusdam
argumentationibus utens quodammodo similia, ac veluti de incertis certa proferre conatur
probamina, et nec semper eodem modo de minutissimis visibìlium rerum rationibus dispu-
tat; aliquando quippe clarius veritatique propinquità , ut splendidae stellae, aliquando
obscurius et a veritate longius ut obscurae, aliquando obscurissime et ab ipsis rebus longis-
sime, ut vix apparentes, opiniones quasdam depromit. » Ibid., 784 B.
(8) « Propria autem falsitatis possessio est sensus corporeus. Nulla enim alia pars
humanae naturue falsitatis errorem recipit praeter sensum exteriorem, siquidem per ipsum
et interior sensus et ratio, ipse etiam intellectus saepissime fallitur. » Ibid., 826 B.
— 12 —
passa, per l'Eriugena, tra il senso interiore ed il senso esterno: il primo è
facoltà dell'anima, il secondo invece è il mezzo onde si produce in noi la
sensazione, la quale è un atto immanente dell'anima, così come era per
Agostino (9).
I sensi per l'Eriugena hanno ai fini della conoscenza un valore strumen-
tale e sono fonte di errore. L'errore dei sensi è causato dal peccato; se l'uomo
non avesse peccato avrebbe avuto un corpo spirituale e non vi sarebbe stato
il pericolo delle illusioni sensibili, che, come abbiamo visto, è sentito dal-
l'Eriugena in tutta la sua importanza. L'uomo nello stato d'innocenza avreb-
be avuto una conoscenza sensibile puramente intuitiva. « Si homo non pec-
caret, non solimi interiori intellectu, verum etiam exteriori sensu naturas
rerum et rationes snmma facilitate, omni ratiocinationis necessitate absolutus,
purissime contemplaretur » (10). E non è solo questa la conseguenza del
peccato che pesa sulla conoscenza sensibile, ma ben altra e maggiore ere-
dità esso ha lasciato: il senso non è più a contatto con la realtà , col tessuto
ontologico delle cose, ma è invece a contatto diretto solo con le proprie
modificazioni soggettive, il che è sovente causa di errore. Giova riportare que-
sto importante passo, che mostra come già nell'alto medioevo, e prima an-
cora, con Agostino, il problema gnoseologico fu sentito con tutta la sua
importanza e il criterio della certezza fu ancorato nell'illuminazione divina.
« Postquam vero peccavit per organa exterioris sensus non nisi solas sensi-
bilium superficies, et quantitates, et qualitates, situs quoque, et habitudines,
ceteraque, quae corporeo sensui succumbunt, animus percipit. Eh lince
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omnia non per seipsa, sed per eorum phantasias attingit, quas secum tractans
suum iudicium saepissime fallitur » (11).
E si noti che l'errore in cui incorre la conoscenza sensibile vizia ogni
(9) La divisione ternaria ritorna, come si è detto, insistentemente nelle opere di Scoto,
ma vi è, fra gli altri, un passo particolarmente chiaro del Commento al Vangelo sec. Joan..
« Ternaria quippe rationabilis intimae divisio est: in animimi, et rationem, et sensum
interiorem. Animus semper circa Deum volvitur, ideoque vir atque rector ceterarum
animae partium merito dicitur, quoniam inter ipsum et creatorem suum nulla alia Inter-
posita est creatura. Ratio vero circa rerum creatarum causas et cognitiones versatur, et
quicquid animus a superna contemplatione percipit, rationi tradit, ratio vero commendat
memoriae. Tenia pars animae est sensus interior, qui rationi subditur, quasi superiori
parti, ac per hoc per rationem subditur menti. Sub illo vero interiori sensu naturali ordine
sensus exterior positus est, per quem tota anima quinquepartitum corporis sensum vegetat,
regit, totumque corpus vivificat. Quoniam itaque anima rationalis nil de supernis donis
percipere valet, nisi per virum suum, hoc est per animimi, qui principatum totius naturae
tenet, merito jubetur mulier, anima videlicet, vacare virum suum, intellectum suum, cum
quo et per quem dona spiritualia potest bibere, absque nullo modo supernae gratiae potest
esse particeps. Ideo ait, vaca virum tuimi et veni Ime; absque viro tuo minime praesumas
ad me venire. Absente quoque intellectu, nemo novit altitudinem theologiae ascendere,
nec dona spiritualia, pari iti pare. » Comment. in Ev. sec. Joan., 336 B - C.
(10) De div. nat„ IV, 855 A.
(11) Ibid., 855 A.
— 13 —
altra conoscenza che nella sensazione trova il suo presupposto (12). Con
questa premessa, di fondamentale importanza, si pone il problema in che
modo l'anima possa raggiungere una conoscenza certa. La via analitica del
processo ascensivo è condizionata dall'apprensione sensibile che è soggetta
come si è visto all'errore. In chi allora riporre il criterio di verità ? I motivi
del platonismo ritornano nel pensiero di Scoto Eriugena, filtrati atttraverso
la Rivelazione cristiana. L'anamnesi platonica difatti era legata alla « teolo-
gia » di Platone, che, con un appello alle credenze misterioso fiche, aveva
risolto il problema dell'errore e della verità , che nel Teeteto si era imposto
alla mente del grande Ateniese e gli era parso insolubile in termini di pura
razionalità .
Come la sofistica di Protagora era stata superata con il ricorso alla pree-
sistenza dell'anima, cosi la sofistica dello Scetticismo dell'ultimo periodo
sarà superata con un ricorso all'illuminazione di Dio.
Per poter chiarire esattamente la portata dell'illuminazione di Scoto
occorre che noi ci distraiamo temporaneamente dal nostro tema e cerchiamo
di stabilire l'importanza che nel suo pensiero ha la teologia. Questo excursus,
in cui sarà necessario, per maggior chiarezza, ripetere cose già dette, è indi-
spensabile sia per comprendere esattamente la teoria gnoseologica dell'Eriu-
gena ed ancor più per inquadrare il suo pensiero nell'epoca in cui egli visse.
Per Giovanni Scoto Eriugena non vi è autentico sapere che non prenda
le mosse da Dio. Dio è il principio e il fine di tutta la realtà , dal quale deri-
vano la natura e la grazia, dal quale il conoscere umano riceve il crisma
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della certezza onde l'uomo raggiunga la verità , nel quale si unifica l'umana
conoscenza sicchè nella subordinazione alla teologia tutte le scienze acqui-
stino valore e costituiscano la sapienza. « Nunc itaque ad theologiam redea-
mus, quae pars prima est et summa sophiae; nec immerito, quia aut sola
aut maxime circa divinae naturae versatur speculationem » (13).
E' quindi per Scoto la teologia la parte prima della Sophia e lo è non
solo in ordine cronologico, ma anche in ordine deontologico, ontologico (14).
(12) a Propterea autem aerumnas, et conceptus, filiosque exteriori sensui divina depu-
tai auctoritas, quoniam omne studium mi piemiac. omnisque mentis conceptio puraque veri-
tatis cognitio a sensibus corporis auspicium summit, ab inferioribus ad superiora, et ab
exterioribus ad interiora ratione gradativi ascendente. » (Ibid., 855 B). Molte interessanti
osservazioni si trovano nell'opera di Scoto Eriugena circa la fenomenologia della sensa-
zione: particolare importanza assume per lui il tatto, in quanto è presupposto a tutti gli
altri sensi; il tatto, difatti, non ha bisogno degli altri sensi per ottenere la sensazione,
gli altri sensi invece suppongono sempre il tatto, cioè un incontro o contatto diretto
tra l'organo e il sensibile. « Nullus vero aliorum quattuor illius cooperatione ministerium
suum valet adimplere. Nam et visus non potest videre, nisi tetigerit quod videi ; nec auditus
audire nisi tetigerit quod audit ; nec olfactus olfacere, si non tetigerit quod gustat ».
Ibid., 854 B-C.
(13) De Div. not., II, 599 B.
(14) Nel libro quinto del « De Divisione naturae » Scoto Eriugena ci offre una classi-
— 14 —
Che la teologia sia la parte prima della sophia in ordine cronologico, o
forse meglio metodologico, risulta dal fatto che col trattato « de Deo »
s'inizia la trattazione del « De divisione naturae », che è un indagine con-
dotta intorno a tutta la realtà . Realtà in senso pieno in quanto si riferisce sia
alle cose che sono che a quelle che non sono, ove il non essere, si badi,
equivale a ciò che supera le possibilità dell'umana conoscenza: « Est igitur
natura generale nomen, ut dicimus omnium quae sunt et quae non sunt ».
E più sotto è spiegato il senso dell'esse e del fiori esse: « Quorum primus
videtur esse ipse, per quem ratio suadet, omnia quae corporeo sensui, vel
intelligentiae perceptioni succumbunt, posse rationabiliter dici esse; ea vero
quae per excellentiam suae naturae non solum ùXeov id est omnem sensum,
sed ri in in ini rilevi n in rationemque fugiunt, jure videri non esse » (15).
Ma la teologia non solo è la suprema scienza in quanto tratta di Dio,
che è l'essere dal quale dipende tutta la realtà , e quindi essa metodologica-
mente viene prima delle altre, ma lo è anche in ordine di valore. Dio infatti
è la realtà suprema, è l'unico essere al quale di diritto spetti tal nome, men-
tre tutti gli altri esseri sono tali solo in quanto da lui dipendono. Dio solo
fii a/ione delle arti liberali. Innanzitutto queste arti hanno in comune di essere arti razionali
« quae sola mentis concepitone pereipiuntur » (i sensi da soli non possono offrirci neanche
la cognizione delle cose sensibili. « Rerum namque sensibilium veram cognitionem solo
corporeo sensu impossibile est inveniri » Ibi il., 868 D) e di avere un processo circolare
perchè partono da un principio e ad esso ritornano. La dialettica parte dalla conside-
razione di una prima essenza da cui ricava la molteplicità degli effetti, per poi risalire,
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attraverso il procedimento inverso, al principio : « Quid tibi videtur ? Nonne ars illa quae
a Graecis dicitur Dialectica, et definit ur bene disputandi scientia, primo omnium circa
O'jaiav veluti circa proprium sui principium versatur, ex qua omnis divisio et multipli-
catio eorum de quibus ars ipsa disputat, inchoat per genera generalissimo mediaque genera,
usque ad formas et species specialissimas descendens, et iterum complicationis regulis per
eosdem gradus, per quos degreditur, donec ad ipsam oùafav ex qua egressa est, perveniat
non desinit redire in eam, qua semper appeti! quiescere, et circa eam vel solum vel maxime
matu convolvi » (Ibid., 869 A). Ugualmente avviene per l'aritmetica, anch'essa parte dal-
l'unità , che svolge e sviluppa attraverso la serie numerica, per poi far ritorno nella stessa
unità : « Quid de Aritmetica dicendum ? Numquid et ipsa a monade incipiens, perque
diversas numerorum species ad eandem monada redit, ultra quam ascendere nescit »
[Ibid., 869 B). Lo stesso procedimento razionale è operante nella geometria e nella musica,
la prima parte dal « cnuelov» " « si unum » ed in esso si risolve, la seconda dal tono.
Ugualmente avviene per l'astrologia « cuius maxima vis est, motus siderum per loca et
tempora considerare, ab atomo cursum suum incipere, inque ipsum resolutis tem por uni
spatiis suum recursum terminare ». Ibid., 869 D.
L'Eriugena esplicitamente dice che non ha trattato della grammatica e della retorica
perchè possono considerarsi parti della dialettica. Dalla dialettica infatti esse prendono
l'oggetto naturale a cui si riferiscono, mentre se poi vuol considerarsi come oggetto proprio
della retorica la voce, e della grammatica la scrittura, queste, cioè la voce e la scrittura,
non sono die mezzi artificiali per esprimere il pensiero, oggetto naturale proprio della
dialettica. « Sunt enim veluti quaedam ipsius brachia rivulive ex ea manantes, vel certe
instrumenta, quibus suas intelligibiles inventiones humanis usibus manifestat » Ibid., 870 B.
(15) De Div. nat., I, 441 A.
— 15 —
è veramente sostanza, gli altri esseri sono solo in quanto del suo essere par-
tecipano (16).
Dall'eccellenza e dalla precedenza di Dio sulle cose, la teologia, in
quanto scienza di Dio, ricava la sua eccellenza e la sua precedenza sulle altre
scienze.
Essa inoltre si pone su un piano di superiorità e di eccellenza, perchè,
solo dalla conoscenza di Dio, l'uomo acquista la vera sapienza, nettamente
distinta dalla scienza. La teologia è il coronamento di tutte le altre scienze
perchè le unifica e le convoglia verso un unico principio. La realtà cosmica
ed umana non illuminata dalla teologia perde ogni significato, l'azione del-
l'uomo è priva di ogni bellezza se non è in funzione di Dio Creatore e Re-
dentore, tutta la natura aspira a Dio da cui è stata creata.
In un passo assai chiaro l'Eriugena ci parla dell'importanza della teolo-
gia che si pone come coronamento di tutte le altre scienze. Questo passo è
contenuto nelle « Expositiones super lerarchiam caelestem S. Dionysii ». Al
capitolo 1° l'Eriugena dice che le sette arti liberali non sono che un vestigio
della teologia; esse sono un modo imperfetto di significare la pienezza della
contemplazione intellegibile. Come, egli dice, molti fiumi confluiscono nel-
l'alveo di un unico fiume, così le discipline liberali si unificano nella fonte
unica di tutta la sapienza, che è Cristo, da dove penetrano per le diverse
speculazioni della teologia (17).
L'uomo, in quanto essere vivente, appartiene al genere dell'animale, ma
dall'animale esso si distingue per la ragione, che, a sua volta si distingue
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in intellectus e ratio: « Rationis iteni duplex species arridet, una sapientia,
altera scientia » (18). La sapienza è propria dell'intelletto, che conosce la
verità «Omnis quidem intellectus, qui veritatem intelligit, sapientia est» (19).
Della ragione invece, è propria la scienza, la considerazione degli effetti
delle cause primordiali, cioè lo studio della fisica che è rivolto agli enti natu-
rali: « Sapientia namque proprie dicitur virtus Ma, qua contemplativus
animus, sive humanus, sive angelicus, divina, aeterna et incommutabilia
considerat, sive circa primam omnium causam versetur, sive circa primor-
diales rerum causas, quas Pater in Verbo suo semel simulque condidit, quae
species rationis a sapientibus theologia vocitatur » (20) La sapienza quindi
s'identifica con la teologia, mentre la scienza con la fisica: « Scientia vero
est virtus qua theoreticus animus, sive humanus, sive angelicus, de natura
rerum, ex primordialibus causis procedentium per generationem inque ge-
nera ac species divisarum, per differentias, et proprietates tractat quae
(16) Ibid., 443 A.
(17) Expositiones Joannis Scoti super lerarchiam caelestem S. Dionysii, 139 D - 140 A.
(18) De Div imt.. III, 629 A.
(19) Super Jerarchiam caelestem, 153 C.
(20) De Div. nat.. HI 629 A.
— 16 —
species physica dicitur » (21). La teologia quindi è superiore alle scienze e
queste da essa ripetono la loro importanza.
Nella dottrina della sapienza s'inquadra la dottrina dell'illuminazione.
E' attraverso l'illuminazione, invero, che si risolve il problema della certez-
za: noi difatti abbiamo visto che la conoscenza nel suo processo ascensivo
è viziata, nel suo punto di partenza, dall'errore dei sensi, che inficia tutto
il processo conoscitivo. Ed ancora, non solo l'errore dei sensi toglie la possi-
bilità di conoscenze universalmente vere, ma, indipendentemente dalla possi-
bilità di errare, anche nel caso privilegiato di una conoscenza sensibile asso-
lutamente certa, da Scoto esplicitamente ammessa, rimane sempre il gran-
de problema della possibilità da parte del soggetto di conoscere la res chiuso
come egli è sin dall'inizio del processo ideogenetico, nell'ambito delle phan-
tasiae e delle similitudines.
Se col processo induttivo la scienza umana rimane viziata nell'errore,
nel processo deduttivo, che da Dio ha inizio, l'uomo, per dono di Dio
diventa partecipe della sapienza. La sapienza in quanto tratta delle cose
eterne è immutabile ed è propria di Dio, che ab aeterno, nelle supreme ra-
gioni di tutta la sua realtà , conosce ogni cosa; l'uomo intanto può vera-
mente conoscere qualcosa in quanto gli viene partecipata da Dio (22). Come
Dio è l'essere supremo, che in sede ontologica partecipa l'essere ad ogni
altro essere, così, in sede gnoseologica, è il prius absolutum per il cui dono
l'uomo può attingere la sapienza. La teologia quindi si pone al culmine di
tutte le scienze in quanto la conoscenza di Dio, vero maestro dell'uomo,
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garantisce il suo conoscere, sia elevandolo al rango della certezza, sia confe-
rendogli direttamente quelle conoscenze superiori che egli non potrebbe
avere con le forze naturali. Il maestro umano non potrebbe insegnare nè
(21) Ibid., 629 B.
(22) Nel commento all'Evangelo secondo Giovanni, Scoto Eriugena, sottolineando
l'insufficienza di tutta la natura creata, riporta il passo : « Respondit ei Philippus : Ducen-
torum dcnarorum panes non sufficiunt his, ut unusquisque modicum quid accipiat » ed
aggiunge questo commento : « Adhuc Philippus lacte doctrinae nutritus, solidum verae fidei
atque cognitionis cibum capere non valens, juxta suae jam virtutis facultatem respondit,
impossibile existimans, tantam multidudinem paucis panibus refici posse. Erudiendi itaque
gratia ludit Dominus cum Philippo tentans eius fidei simplicitatem, ut per hoc disceret
altius ascendere, nullamque difficultatem Deo crederet inesse. Ordo itaque evangelisantium,
qui, ut diximus, per Philippum typice insinuatur, tentanti se Domino, hoc est, fidem
illorum probanti, ac per hoc etiam laudanti, respondit: Ducentorum denariorum panes non
sufficiunt. Centenarius numerus perfectus est; decies cnim decem eum conficiunt; qui
numerus, si fuerit duplicatus, faciunt ducentos, pulchre perfectionem bonae actionis et
rationabilis scientiae typum gerens, quae pascendis, hoc est audiendis in fide non suffi-
ciunt, nisi eis altitudo theologiae addatur. Actio quippe virtutem fidelium animus solum-
modo purgat, scientia vero rerum creaturum illuminat; sed Uhi purgatio atque illuminatio
eis non sufficit, nisi habitus perfectae contemplations addatur, qui solus unimas ad consu-
matuni spiritualium refectionum plenitudinem perducit » Comment. in Evang. sec. Joan,
340 D - 341 A.
— 17 —
convìncere il discepolo se Dio non gli concedesse con la sua illuminazione di
conoscere la verità . Il Maestro del De Divisione naturae così risponde al di-
scepolo esitante su una questione di aritmetica: «De me bene, ut video,
aestimas, quando mihi difficiliora quaerenda, invenienda, suadenda comm.it-
tis. Veruntamen meum est quaerere, invenire vero illius solius est, quia illu-
minat abscondita tenebrarum; suadere quoque eiusdem est, qui potest solus
aperire sensum et intellectum » (23). L'azione dell'illuminazione di Dio è
quindi triplice, illuminare cioè il nostro intelletto, concedere (invenire) la
conoscenza delle cose supreme che l'uomo non potrebbe avere, concedere la
persuasione, il che vale quanto dire, dare all'uomo il criterio discriminante
il vero dal falso.
Ma occorre ancora precisare in che maniera Dio illumina l'uomo. E' da
premettere che l'indagine non può essere completa: si può cioè indagare
l'aspetto ricettivo dell'illuminazione: il modo con cui l'uomo riceve l'illu-
minazione, ma sfugge completamente ad ogni presa razionale il processo
ex parte Dei.
L'illuminazione è un dono di Dio è come tale è gratuito, l'uomo non ha
diritto alcuno ad essa, che supera la sua natura. Scoto al riguardo così
testualmente si esprime a proposito della conoscenza di Dio, che Dio stesso
partecipa all'intelletto: « In hac parte theoriae, quae de intellectualibus
rationalibusque substantiis disputat, dum pervenitur ad considerandum,
quomodo natura creata extra seipsam potest ascendere, ut creatrici naturae
valeat adhaerere, omnis de potentia naturae ratiocinantium inquisitio defi-
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cit. Non enim ibi naturae ratio, sed divinae gratiae ineffabilis et incom-
prehensibilis altitudo conspicitur. Nulli siquidem conditae substantiae natura-
liter inest virtus, per quam possit et terminos naturae suae superare, ipsum-
que Deum immediate per seipsum attingere; hoc enim solius est gratiae,
nullius vero virtutis naturae. Hinc apostolus fatetur se ignorasse, quomodo
raptus est in Paradisum, dicens: scio hominem, raptum, sed nescio quomodo,
in corpore, an extra corpus, ac si diceret, non enim in naturalibus animae
motibus, in corpore vel extra corpus video ullam virtutem, per quam rapi
possum in tertium caelum; Deus autem solus scit. cuius gratia sola raptum
me fuisse non ignoro » (24).
L'anima umana in sè semplice fu creata ad immagine di Dio, e l'esser
creata ad immagine di Dio le permetteva il possesso dell'eterna sapienza;
nelle condizioni invece attuali, dopo il peccato, all'uomo occorre la grazia
per raggiungere la sapienza : la grazia è dono di Dio, a cui però egli coopera
con la purezza di vita, condizione ineliminabile per esser degno di tale dono.
Egli, da materiale qual'è, deve diventare spiritualis; ed egli diventa: « spiri-
tualis vero, dum mutata omni conversatione in melius, divini amoris incen-
(23) De Div. nat., IH, 656 D.
(24) De Div. nat., II, 576 A-B-C.
— 18 —
dio inflammatus, mundo et carne omni modo spretis, omnibusque anima-
lium motibus relictis, ad caelestium essentiarum similitudinem totus trasfor-
matur, ut, quod ei futurum est secundum inconversibilem substantiam, hoc
in eo praecedat secundum vitae virtutibus orna tao qualitatem Similiter
spiritualis et secundum naturimi subsistens, et secundum bonam voluntatem
divina gratia praeventam, actu et scientia purgatam, virtutum ornamentis
redimitam, ad pristìnam divinae imaginis dignitatem revocatus » (25).
La purezza di vita è quindi per l'Eriugena coefficiente essenziale perchè
l'uomo possa ottenere il dono di Dio e con questo dono l'illuminazione.
L'uomo ha avuto da Dio la ragione ed in ciò egli si distingue dagli altri ani-
mali (26). Ma mentre questa ragione umana prima del peccato conosceva
Dio, (27), ora invece vive nella caligine dell'errore « decepta et lapsa, pravae
suae voluntatis tenebris obcaecata, et seipsam et Creatorem sui oblivioni
tradidit » (28). Essa ha perduto i doni ricevuti da Dio, ed anche tutto ciò che
è proprio della sua essenza naturale è offuscato; Cristo non solo le ridarà i
doni soprannaturali, ma la reintegrerà anche naturalmente, in quella natu-
ra, cioè che pur rimanendo integra a totum integrum manet, adhuc tamen
latet » (29), è ora offuscata dal peccato ed è necessaria la grazia perchè l'uo-
mo possa nuovamente acquistare conoscenza di Dio, rimuovendo le foschie
del peccato, che, se moralmente indeboliscono i poteri volitivi, gnoseologi-
camente, lo privano di conoscere la verità . L'uomo difatti mentre coi sensi
inferiori appartiene al regno animale con l'intelletto, con la ragione, e con
la memoria delle cose eterne e divine partecipa con le celesti essenze (30).
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Per l'Eriugena quindi nell'uomo vi sono due memorie, una sensibile ed una
intellettiva, con la seconda come è detto nella citazione riportata in nota,
l'uomo si ricorda delle cose eterne e divine. Scoto ci offre ancora qualche
altra indicazione a proposito della memoria intellettiva, di chiara ispira-
zione platonica agostiniana: in essa difatti potremo trovare un punto sicuro
per orientarci intorno alla dottrina dell'illuminazione.
(25) Ibid., 756 B-C.
(26) Ibid., 752 A.
(27) Conoscere Dio per l'Eriugena significa conoscere le « teofanie » di Dio, perchè
Dio in sè è sempre inconoscibile sia ad ogni creatura e sia a Se stesso.
(28) De Div. nat., JV, 761 A.
(29) Ibid., 761 A.
(30) « Dum enim in ipso corpus et vita nutritiva, et sensus, et memoria sensibilium.
omnisque irrationabUis appetitus, ut est furor et cupiditas considerantur, omnino animai
est; haec enim omnia communia sunt UH cum ceteris animalibus: altiori vero sui parte,
qua ratione consistit et intellectu, et interiori sensu, cum omnibus suis rationalibus motibus
quos virtutes appelìant, cumque aeternarum divinarumque rerum memoria, omnino animai
non est. Siquidem cuncta haec eadem sunt hominem cum caelestibus essentiis, quae orane.
quod in animalium natura comprehenditur, excellentia substantiae incomprehensibiliter
superant. » Ibid., 752 D - 753 A.
— 19 —
Nell'attuale condizione l'anima, nel processo della conoscenza, è sog-
getta ad un continuo incessante divenire, ogni apprendimento è difficile ed
è soggetto all'errore, essa sembra nascere completamente ignorante e tutta la
conoscenza è frutto di una laboriosa acquisizione. In che modo allora si può
dire che l'anima fu creata a somiglianza ed immagine di Dio, quando in essa
non vi è assolutamente nessuna conoscenza ? Tutto ciò dice Scoto è conse-
guenza del peccato che ha offuscato l'anima (31). Tuttavia però in essa vi è
questo ricordo, sia pure inconscio di Dio e delle cose eterne, la grazia fa si
che quella conoscenza latente diventi conoscenza chiara. « Quamvis enim
imperita et insipiens nasci videatur, quod ei accidit divini trasgressione
mandati, qua et suimet et Creatoris sui oblita est, doctrinae tamen regulis
reformata Deum suum et seipsam, snique peritiam et disciplinam, et omnia
quae naturaliter in ea subsistunt, in seipsam potest reperire, Redemptoris
sui gratia illuminata » (32). Da quest'affermazione risulta che la grazia di
Dio illumina l'uomo disperdendo le tenebre sicchè egli possa conoscere Dio,
se stesso e le ragioni eterne di tutte le cose. L'anamnesi platonica, ripensata
attraverso il creazionismo cristiano, ritorna in Scoto Eriugena con una dot-
trina simile a quella di Agostino che aveva a più riprese parlato della « me-
moria sui » e della « memoria Dei ». E' l'anima quindi che conosce, ma
come esplicitamente l'Eriugena dice, « divini radii repercussione perei-
pit i> (33).
Da quanto abbiamo detto risulta che per l'Eriugena l'illuminazione si
concreta nell'aiuto soprannaturale di Dio, che si rende conoscibile all'uomo
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rimovendo la tenebra del peccato e facendo sì che egli possa attingere la sua
vera natura, che giace nascosta nella memoria. L'uomo cioè fu creato ad
immagine di Dio, immagine che, esprime la vera sostanza umana, e che non
è stata distrutta dal peccato, ma vive nascosta dalla caligine del corpo, conse-
guenza anch'esso del peccato; perchè ciò che è soltanto latente diventi chia-
ro è necessario l'aiuto di Dio,
E' ovvio poi che l'uomo conoscendo Dio, conosce anche se stesso, difatti
l'opera dell'illuminazione consiste nel ridare all'uomo il ricordo della sua
natura, la quale essendo immagine di Dio, implica ad un tempo la cono-
scenza dell'uomo e di Dio stesso.
La dottrina dell'illuminazione, indispensabile dopo il peccato, ritorna
continuamente in Scoto, nell'f/owu/io in Prologum Evangelii secundum
(31) « Non ausim hoc dicere. Neque enim virisimile est, Deum ad immaginem et simi-
Iitudinem suam creasse mentem, cui naturaliter peritia atque disciplina non ingenita sit;
alioquin non esset mens, sed bruta quaedam irrationabilisque vita. Nam non recte quis
dixerit, ut arbitror, hominem ad immaginem Dei factum secundum accidens, et non secun-
dum substantiam praesertim cum intellectum et rationem substantialiter inesse ei videa-
mus ». Ibid., 767 B-C.
(32) Ibid., 767 C.
(33) Ibid., 767 C.
— 20 —
Joannem è nuovamente ripetuta, anzi in quest'opera l'appello all'illumina-
zione diventa necessario anche se l'uomo non avesse peccato. Mentre nel De
Divisione l'illuminazione è resa necessaria onde rimuovere la tenebra del
peccato ed epurare l'immagine di Dio, a somiglianza del quale l'anima è stata
creata, in questa opera invece l'illuminazione è richiesta dall'indigenza
essenziale che l'uomo porta con sè; indipendentemente dal peccato, l'uomo
per conoscere la verità ha bisogno dell'illuminazione di Dio: « Humana na-
tura,etsi non peccaret, suis propriis viribus lucere non posset. Non enim
naturaliter lux est, sed particeps lucis, capax siquidem sapientiae est non
ipsa sapientia, cuius partecipatione sapiens fieri potest. Sicut ergo aer iste
per se ipsum non lucet, sed tenebrarum vocabulo nuncupatus, capax tamen so-
laris luminis est; ita nostra natura, dum per se ipsam consideratur, quaedam
tenebrosa substantia, capax ac particeps lucis sapientiae. Et quemadmodum
praefatus aer, dum solari radio participat, non dicitur per se lucere, sed
solis splendor dicitur in eo apparere, ita ut et naturalem suam abscuritatem
non perdat, et lucem supervenientem in se recipiat, ita rationalis naturae
pars, dum praesentiam Dei verbis possidet, non per se res intelligibilis et
Deum suum, sed per insitum sibi divinum lumen cognoscit » (34).
Se noi vogliamo renderci ancora più chiara questa teorica dell'illumi-
nazione nel pensiero di Scoto Eriugena, dobbiamo fermarci su quanto egli
ci dice intorno alla conoscenza intellettiva. E' l'intelletto che conosce Dio
e questa conoscenza è possibile solo perchè Dio si rende, attraverso le sue
teofanie, visibile all'anima umana (35). La conoscenza deduttiva che prende
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le mosse da Dio stesso è vera: è vera nel suo punto di partenza ed è vera
nel processo delle tappe successive: a proposito della conoscenza matema-
tica Scoto Eriugena ci rivela il suo pensiero.
(34) Homil. in Prolog. Evang. sec. Joan., 290 C-D. Questo passo è di fondamentale
importanza ai fini della considerazione metafisica della sostanza nel pensiero di Scoto E..
Questi difatti « De Divisione » considera la sostanza indistruttibile e immutabile (elemento
naturalistico plotiniano del pensiero eriugeniano), mentre nell'Omelia parla di una natu-
rale indigenza della creatura. Questo contrasto, non certo di poco conto, trova la sua
spiegazione nel fatto che il Neoplatonismo di Scoto, come ha ben mostrato il Jacquin,
ha avuto una sua evoluzione dalle opere giovanili a quelle della maturità .
(35) Abbiamo già accennato quale grande concetto Scoto faccia dell'uomo, che ricava
la sua dignità proprio dall'essere creato a somiglianza di Dio. Nel VII capitolo «Sulla
Gerarchia celeste di San Dionigi », a proposito della funzione dell'Angelo deputato anche,
attraverso una gerarchizzazione di forme e di funzioni, a trasmettere all'uomo la sapienza
divina, egli afferma che se l'uomo col peccato non avesse offuscato l'immagine divina,
che vive in lui, sarebbe in diretto contatto con Dio. « Humana quoque anima a philosophis
OCÒTO>Uv7)Té{'ioc est per se ipsam mota non irrationabiliter nominatur, quia nulla creatura
propinquior est Deo, et si non peccaret, per nullum superiorem se ordinem administra-
retur, quoniam nullus superior illa fieret ordo, quemadmodum non erit, quando in primi-
nam naturae suae revocabitur dignitatem » (Super lerarchiam caelestem S. Dionysii, 181 B.)
E' qui bene notare che l'Angelo non ha la funzione d'illuminare l'intelletto dell'uomo
ma solo di trasmettere e rivelargi precetti, ordini e consigli divini. La differenza princi-
— 21 —
Noi abbiamo una conoscenza intellettiva della unità , dalla quale cono-
scenza l'intelletto prende le mosse onde potere poi ricavare la serie nume-
rica attraverso successive moltiplicazioni. Il punto di partenza è intuitivo, è
cioè costituito da una rivelazione che viene dall'alto. Su questo primo dato
che egli chiama motus intellectus s'innesta l'opus della ragione, la quale
nella sua opera non si volge alla contemplazione, come è per il primo motus,
ma sottopone alla discorsività sua ciò che le viene offerto dall'intelletto.
Nella ragione però il procedimento è ancora privo di immagini sensibili,
siamo cioè nella sede puramente astratta della conoscenza; attraverso la me-
moria sensibile e i sensi che concorrono alla visione sperimentale della cono-
scenza, queste intuizioni, pure forme, assolutamente astratte, acquistano il
proprio coutenuto. Grande importanza ha quindi la memoria in quanto in
essa alla forma astratta, che ha inizialmente sede nell'intelletto si unisce il
contenuto che viene dai sensi : « Conaris enim, ut opinor, suadere, omnes
numeros ex monade velati ex quodam fonte manantes, instar duorum fiumi-
num ex una vena surgentium profluere inque duos alveos segregatos, quorum
unus per interiores poros naturae, hoc est per intellectum, et ratìonem,
alter vero exteriores visibilium rerum species decurrit et per sensus, donec
simni in memoriam multipliciter formatur » (36).
pale tra la conoscenza di Dio che hanno, in vario grado, secondo la gerarchia a cui
appartengono, gli Angeli e quella che invece hanno gli uomini è data dal fatto che la
conoscenza degli Angeli è conoscenza intuitiva, quella degli uomini invece è discorsiva:
per gli Angeli non vi è assolutamente bisogno di nessun processo discorsivo, o comunque
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d'intermediario o simbolo per raggiungere Dio, che sempre e solo attraverso le teofanie
si manifesta alle creature, anche se angeliche. L'essenza di Dio, lo ripetiamo rimane
sempre inaccessibile. « Non siquidem adhuc roIliti parvuli in symbolis sanctisque figmentis
divinant similitudinem, qua nunc in fide deificamur, et in specie deificabimur, in nobis
formamur, sed ut vere, hoc est, absque ullo fìgmento ipsi, videlicet Jesu, approximantes in
prima partecipatione sunt scientiae deificorum eius luminum, hoc est, deificantium se eius,
Jesu piane, illuminationum. Nulla quippe imaginatio, nullum sacramentum vel figmentum
formatum inter eas est medium et ipsum lesum Christum, cui proximae sunt » (Super
Ierarchiam caelestem S. Dionysii, 184 A.) E più sotto egli dice che gli Angeli non hanno
bisogno delle discipline liberali come gli uomini « Aestimandum similiter; hoc est, prio-
ribus benefìciis aequaliter perfectas esse, non quasi illuminatas, sicut nos, sancta symbo-
lorum varietate in analytica scientia vel discipIina... Noster quippe animus ipsa disciplina,
quae a Graecis dicitur à vocX'JTvXr, I"'r sacram symbolorum varietatem illuminatus, in alti-
tudinem supernae deificationis reducitur ». Tuttavia, però, perchè l'uomo possa ascendere
a Dio attraverso la dieretica e l'analitica è necessaria, come premessa fondamentale, l'illu-
minazione « Ac per hoc rationalis anima, poenam praevaricatiois suae luens, in mutipliees
multiformesque temporalium rerum appetitus veluti quadam diaeretica vi partita est et
scissa, donec partitionis suae in amore rerum corporalium terminum posuerit, infra quem
prodire non potuit. Sed iterum Creatoris sui gratia praeventa, salvata, adjuta, revocata;
quibusdam gradibus analyticis in seipsam recolligitur, ac deinde in unitatem Creatoris
sui, quam peccando sciderat, in deificationis virtute restauratur. Non ita est in caelestibus
essentiis, praesertimque eminentibus, quae numquam Creatoris sui unitatem disruperant ».
lbid., 185 A.
(36) De Div. nat„ III, 661 B.
— 22 —
Quanto l'Erìugena ha dichiarato per la conoscenza matematica, che si
inizia dall'unità , vale per ogni altra forma di conoscenza concernente le ve-
rità eterne. Sarebbe infatti impossibile all'anima umana raggiungere veritÃ
universali e necessarie se ad essa non pervenissero direttamnte da Dio « Et
ne me existimes velle suadere, ipsos numeros ab intellectu vel ratione molti-
plicari et creari et non ab ipso omnium conditore, multiplicatore, ordinatore.
Si enim ab nilo creato intellectu multiplicationem suam, numeri primum
paterentur, non eis divina et ineffabilis immutabilitas et harmonia rationum
inesset. Proinde non ideo intellectus intellectnales numeros creare putandus
est, quia in seipsos contemplat nr. Ab uno autem Creatore omnium in intel-
lectibus, sive humanis, sive angelicis, fieri credendum est, a quo et ili m in
monade aeternaliter sunt » (37).
Anzi occorre notare che, non solo le verità eterne, ma ogni forma di
conoscenza razionale è possibile esclusivamente attraverso l'innatismo virtuale
che ha sede nell'intelletto o meglio nella memoria intellettiva; difatti l'Erìu-
gena precisa « Non enim intellectus naturalium artium factor est, sed inven-
tor, non tamen extra se, sed intra eas invenit; tiimì vero ipsa ars ab arcanis
suis, in quibus simul in animo, in quo est, in ratione intelligibili progres-
sione incipit descendere, mox paulatim suas occultas regulas apertis divisio-
nibus atque differentiis inchoat aperire, adhuc tamen purissimas, omnique
immaginatione alienas; et haec processio prima artis ab ipsa scientia, in
qua primitus subsistit, per intellectum in rationem ipsius intellectus actu
perficitur; omne siquidem, quod ex secretis naturae in rationem pervenit,
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per intellectus actionem accedit; iterum autem velati secundo descensu
eadem ars ex ratione in memoriati! descendens, paulatim apertius in phanta-
siis, velati in quibusdam formis seipsam lucnlentius declarat; tertio vero
descensu ad corporales sensus diffnnditur, ubi sensibilibus signis virtutem
suam per genera et species, omnesque divisiones suas, et subdivisiones, et
partitiones exerit » (38).
Sono da notare quindi due punti : 1°) la sapienza e la scienza sono possi-
bili in quanto nell'intelletto esse sono già presenti potenzialmente; II") la co-
noscenza sensibile, che come sopra si è visto, è inficiata dall'errore a cui il
senso è legato, non ha altra funzione che di pura strumentatilà per mostrare
la moltiplicazione in generi, specie ed individui delle cause primordiali.
Dio ha creato nel suo Verbo le ragioni eterne, in esse è raccolta in un'unitÃ
la molteplicità delle cose individuali. Dio stesso, che ha creato le cause
primordiali, le ha rese conoscibili all'intelletto dell'uomo, ma dopo il pec-
cato la immagine di Dio nell'uomo, e con essa tutto il mondo intellegibile è
rimasta offuscata dalla tenebra del corpo materiale: tuttavia, poichè la
sostanza umana, fatta ad immagine di Dio, non è stata distrutta, ma solo na-
(37) Ibid., 658 A.
(38) Ibid., 658 C.
— 23 —
scosta, è necessaria l'illuminazione, perchè l'uomo possa scoprire l'autentico
suo essere. Questa illuminazione è concessa da Dio attraverso il suo Ver-
bo (39).
Ma un'ulteriore chiarificazione s'impone, e cioè mentre nella conoscenza
della realtà materiale i sensi hanno una funzione, sia pure limitata, quale è
quella di mostrare la molteplicità delle cose in corrispondenza dell'unitÃ
della causa primordiale, nella conoscenza di Dio la funzione dei sensi ha
ben poco valore. Innanzi tutto bisogna notare che Scoto in numerosi passi
delle sue opere ci parla dell'intelletto come facoltà che porta in sè il ricordo
di Dio (40) e distingue chiaramente la conoscenza di Dio, la conoscenza
delle cause primordiali e la conoscenza degli effetti delle medesime: la
primavoù; o oùafa, la seconda Xóyo; o5uva[U{ la terza ò'.ivoix o biip(V.% (41).
La superiorità dell'intelletto è da Scoto Eriugena affermata in tutte le sue
opere: è il moto dell'intelletto quello che si rivolge direttamente a Dio,
solo attraverso la sua opera l'uomo può ascendere alla teologia ed attraverso
(39) L'uomo, dice l'Eriugena, a differenza delle altre realtà oltre la sua forma naturale
riceve un'altra forma che perfeziona suo essere, questa forma è l'illuminazione del Verbo:
« Invisibili! vero creatura, id est intellectualis et rationalis, informis dicitur, priusquam
ad formimi suam, Creatorem videlicet smim, convertatur. Non enim ei sufficit ad perfectio-
nem ex essentia essentialique differentia subsistere, his enim duobus omnis intellectualis
creatura componitur, nisi ad Verbum unigenitum. Dei Filium dico, qui est forma omnis
intellectualis vitae remanet » De Div. nat., II, 548 B.
(40) « Non ergo etiam in languoribus nostris Deum penitus deserìmus, nec ab ipso
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deserti sumus, dum inter menten nostram et illum nulla interposita natura est. Lepra
siquidem animae vel corporis non aufert aciem mentis, qua illum intelligimus et in qua
maxime imago creatoris condita est. » (De Div. nat., II, 531 C.) Vedremo nell'esposizione
della Metafisica eriugenianu come questa affermazione sia dovuta a) fatto che egli ritiene
la natura umana indistruttibile.
(41) « \»mvo0; et oòoilz.hoc est intellectus et essentia excelsissimam nostrae naturae
partem significant, immo excelsissimum motum. Siquidem ut tu ipse intelligis, non alimi
est nostrae naturae esse, et aliud moveri; essentia enim eius est motus circa Deum et
creaturam stabilis, et mobilis status. Sed dum movetur circa Deum, qui superat omnia,
summus motus eius datur; dum vero circa primordiales causas versatur, quae proximae
immediate post Deum sunt, veluti medio quodam moderamine intelligitur moveri ; quando
autem primordalium causarum effectus sive visibiles, sive invisibiles perspicere conatur,
extremum sui motum pati dignoscitur, non quia idem motus substantialis augeri vel minui
in seipso possit, sed quod secundum dignitatem rerum circa quas volvitur, et minimus,
et medius, et maximus esse iudicatur. Essentia itaque animae nostrae est intellectus, qui
unìversitati hamanae naturae praesidet, quia circa Deum supra omnem naturam incognite
circumvehitur. XÓY0{ vero vel Stivatiti hoc est, ratio vel virtus secundam veluti partem
insinuat; non irrationabiliter, quia circa principia rerum, quae primo post Deum sunt,
circumfertur. Tenia vero pars, Stavofa{ et 6v£CYsfas W est sensus et operationis voca-
hulis denominatur, et veluti extremum Immane animae obtinet locum; nec immerito,
quoniam circa effectus causarum primordalium, sive visibiles, sive invisibiles sint, circum-
volvitur » (De Div. nat., II, 570 B-C). Secondo Scoto Eriugena, la triplice funzione del-
l'anima in oòola - 5'JvautJ - èvlovsta riproduce nell'anima la Trinità . Non si dimentichi
che il senso che è facoltà dell'anima è il sensus interior, che ha sede nel cuore ed ha la
— 24 —
la sua mediazione l'anima ricevere il dono dell'illuminazione, (42) è l'intel-
letto ancora che dopo la resurrezione finale potrà ricevere la deificazione (43).
A conclusione di quanto fin qui abbiamo detto intorno all'illuminazione
occorre rilevarne un altro aspetto, che ci offre maggiori ragguagli circa l'in-
natismo virtuale dell'idea di Dio nell'intelletto. L'anima umana, dice Scoto,
ha tre movimenti verso Dio: il movimento attraverso l'intelletto, attraverso
la ragione ed infine attraverso il senso.
Superiore ad ogni altra è la conoscenza intellettiva: difatti in tanto noi
possiamo volgerci a Dio attraverso la ragione, considerandolo cioè come prin-
cipio assoluto delle cause primordiali, ed in tanto possiamo elevarci a lui
attraverso i dati sensibili, elaborati ed unificati dal senso interno, in quanto
vi è la conoscenza intellettiva, condizione prima di ogni altro conoscere.
Questa conoscenza attraverso l'intelletto è anche in dignità superiore alla
altra, perchè è ineffabile come ineffabile lo stesso Dio (44). Ma se ogni
funzione di unificare le immagini sensibili « Sed quod per quìnquepertitum corporis
instrumentum, veluti per quasdam cuiusdam civitatis quinque portas, sensibilium rerum
similitudines ex qualitatibus et quantitatibus exterioris mundi venientes, ceterisque, quibus
tensus exterior formatur, interius recipiat, et veluti, ostiarius quidam internunciusque ea,
quae extrinsecus introduci!, praesidenti interiori sensui annunciet » {Ibid., 569 D-70 A.)
L'Eriugena, basandosi sulla distinzione tra senso interno e senso esterno, distingue due
categorie di pliamasiae, quelle del senso esterno e quelle del senso interno; le prime con-
sistono nel processo legato sempre all'organo corporeo, le seconde sono parallelamente
dal senso interiore sviluppate in occasione delle prime ; quest'ultime essendo del senso inte-
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riore ineriscono all'animo: « Et Ma prior corpori semper adhaeret, posterior vero animae;
et prior quamvis in sensu sit, seipsam non sentit; posterior vero et seipsam sentit, et
priorem suscipit. » (Ibid., II, 573-B.) Il rapporto quindi tra le fantasie del senso esterno
e quelle del senso interno è un rapporto di parallelismo, che trova la veracità della sua
corrispondenza in Dio. Infatti il primo « motus » dell'intelletto verso Dio è intuitivo ed è
condizionato dalla illuminazione, mentre il secondo e il terzo, il razionale e il sensibile
cioè, ricavano il loro valore dalla subordinazione al primo. L'elemento fondamentale quindi
che garantisce la conoscenza sensibile dall'errore e che la mette attraverso le fantasie a
contatto con il tessuto ontologico della realtà è sempre l'elemento intuitivo proprio dell'in-
telletto, che, illuminato e fecondato dalla grazia, riesce a scoprire l'immagine di Dio, che
è in lui e a vedere tutto nella somma veracità della luce divina. Cfr. quanto abbiamo detto
a proposito della conoscenza matematica e quanto diremo a proposito della conoscenza
di Dio attraverso l'intelletto, la ragione ed il senso.
(42) « Absente quoque intellectu, nemo movit altitudinem theologiae ascendere, nei-
dona spiritualia partecipare » Comment. in Evangelium secundum Joannem, 336 A.
(43) De Uiv. nat., V, 907 A.
(44) « Et primus quidem simplex est, et supra ipsius animae naturam, et interpreta-
lione caret, hoc est, cognitione ipsius circa quod movetur; per qucm circa Deum inco-
giurimi mota, nullo modo ex ullo eorum, quae sunt, ipsum propter sui excelletiam cognoscit
secundum quod, quid sit, hoc est, in nulla essentia seu substantia, vel in aliquo, quod
dici vel intelligi valeat, eum reperire potest. Superat enim omne, quod est et quod non est,
et nullo modo definiri potest, quid sit. » (De div. nat., II, 572 D.) Ma oltre questa cono-
scenza intuitiva speciale di Dio, l'uomo ha anche la conoscenza discorsiva attraverso la
ragione, che afferma l'esistenza di Dio come causa di ogni realtà . Questa seconda cono-
— 25 —
processo discorsivo, per cui l'anima si eleva a Dio, è subordinato al processo
intuitivo, è ancora in questa primigenia e fondamentale luce che l'intelletto
riesce ad organizzare ogni altra conoscenza.
Noi precedentemente abbiamo visto come ogni conoscenza sensibile è
inficiata dalla possibilità dell'errore che dal suo punto di partenza vizia
ogni altro superiore processo; l'universalità e la necessità della conoscenza
matematica sono garantite dall'illuminazione di Dio, e il passaggio dalla sem-
plice unità alla molteplicità della serie numerica parte dall'intelletto e giun-
ge ai sensi, ugualmente avviene per ogni altra conoscenza la quale partendo
dall'intelletto giunge ai sensi e rende possibile all'uomo di avere una cono-
scenza vera. « Et ut apertius dicam, quodcumque anima humana per Intel-
lectum suum in ratìone sua de Deo deque rerum principiis uniformiter
cognoscit, semper uniformiter custodit; quodcumque vero per rationem in
causis unum et uniformiter subsistere perspicit, hoc totum per sensum in
causarum effectibus multipliciter et uniformiter intelligit; et iterum totum,
quod per sensum multipliciter sparsum in effectibus intellegit, per rationem
in causis unum uniformiter subsistere perspicit. » (45)
E' bene a questo punto però notare che l'intelletto pur essendo, come
scenza, però, suppone la prima. Difatti la ragione nel suo moto di ascesa attraverso la
catena delle cause create arriva alle cause primordiali le quali sono in Dio stesso ab
aeterno. Se già , attraverso l'intelletto, l'anima non avesse in sè la conoscenza intuitiva di
Dio, non potrebbe averla discorsivamente. Un terzo moto prende le mosse dalla cono-
scenza sensibile e perviene, dalla conoscenza delle creature, alla conoscenza delle loro eterne
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ragioni « Deinde per ipsas ad rationes earum, quorum phantasiae sunt perveniens, intra
seipsam eas, rationes dico, tractat atque conformat » (Ibid. 573 A..) E' da notare come
anche questo terzo modo, che Scoto chiama moto secondo il senso « tertius sencundum
sensum » ricava tutto il suo valore dal primo moto, quello « secundum intellectum ».
Difatti il secondo moto ricava il suo valore dal primo: in tanto è possibile una conoscenza
discorsiva di Dio, in quanto già Dio è virtualmente presente all'intelletto. Il terzo moto
poi ricava direttamente il suo valore dal secondo e indirettamente dal primo. A proposito
del secondo moto Scoto chiaramente dice: « Et hic est motus, qui a Grecis XÓYOJ vel
S'JvatUJ, a nostris vero ratio seu virtus vocatur et ex primo motu nascitur, qui est intel-
lectus » (Ibid., 577 A) ; il terzo moto a sua volta è condizionato dal secondo e dal primo
« Tertius motus est compositus, per quem quae extra sunt, anima tangens, veluti ex quibu-
sdam signis a pud seipsam visibilium rationes reformat, qui compositus dicitur, non quod
in seipso simplex non sit, quemadmodum primus et secundus simplices sunt, sed quod
non per seipsas sensibilium rerum rationes incipit cognoscere. Primo siquidem phantasias
ipsarum rerum per exteriorem sensum quinquepertitum secundum numerum instrumen-
torum corporalium, in quibus et per quae operatur, accipiens easque secum colligens,
dividens ordinans disponit: deinde per ipsas ad rationes earum, quarum phantasiae sunt,
perveniens, intra seipsam, eas, rationem dico, tractat atque conformat... Dum vero tertius
Me motus pliantasias rerum visibilium deserit, nudasque omni imaginatione corpora ratio-
nes ac per se simplices pure intellegit, ipse quoque simplex simpliciter, hoc est universale
universaliter rationes visibilium, omni phantasia absolutas, inque semetipsis purissime ac
verissime perspectas, per medium primo motus renunciat » Ibid, 573 A-B.
(45) De Div. nat., II, 578 C-D.
— 26 —
abbiamo cercato di chiarire, la più alta conoscenza umana, tuttavia esso non
può conoscere l'essenza della realtà . La conoscenza immediata e diretta delle
essenze è impossibile all'intelletto umano (46), questa affermazione è il risul-
tato gnoseologico di una premessa metafisica; difatti l'essenza, cioè la parte
immutabile degli esseri, s'identifica con Dio, essendo inconoscibile Dio, sarÃ
a pari titolo inconoscibile l'essenza delle cose. E si noti che la conoscenza
di Dio e dell'essenze non 90I0 all'uomo, ma anche all'angelo, è preclusa (47).
Senza l'illuminazione quindi l'uomo non potrebbe conoscere Dio, nè le
ragioni eterne delle cose, ne le verità matematiche. (48) Ma condizione del-
(46) L'Eriugena espone tale pensiero sin dall'inizio della sua opera quando cioè egli
definisce la natura come comprensiva dell'essere e del non essere; tra i vari modi in cui
noi possiamo dire che le rose non sono, occorre considerare anche ciò che supera le capa-
cità conoscitive dell'uomo. Il primo posto occupano Dio e le essenze delle cose, che sono
nel Verbo di Dio (le ragioni delle cose sono nel Verbo, ma non sono il Verbo), questa è per
Scoto la vera realtà , che è inconoscibile, mentre la realtà sensibile è una pura apparenza.
Cfr. De Div. nat., I, 443 B-C.
(47) « In angelicis vero intellectibus < arimi rationum theophanias quasdam esse, hoc
est. comprehensibiles intellectuali naturai' quasdam divinas apparitiones, non autem ipsas
rationes, idem principalia exempla, quisquis dixerit, non ut, arbitror a veritate errabit.
Quas theophanias in angeIica creatura Sanctum Augustinum ante omnium generationem
inferiorum se visas non incongrue dixisse credimus. Non ergo nos moveat, quod diximus,
quia angeli et primum in Deo, deinde in seipsis inferioris creaturae causus vident. Non
enim essentia divina Deus solummodo dicitur, sed etiam modus ille, quo se quodammodo
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intellectuali et rationali creaturae, proni est capacitas uniuscuiusque, ostendit. Deus saepe
a sacra Scriptura vocitatur. Qui modus a Graecis Tkeophania, hoc est, Dei apparitio solet
appellari » (De Div. nat., I, 446 C.) Ed a proposito delle teofanie che Dio concede all'uomo
Scoto, ribadendo il principio che nè l'uomo, né altra creatura intellettuale può conoscere
l'essenza di Dio, ne quella delle cose, afferma che la conoscenza che l'uomo ha attraverso
l'intelletto è anch'essa una teofania: « Ex itoque theophaniae in natura angelica atque
humana illuminata, purgata, perfecta per grotiam, fumi ex descensione divinae sapientiae,
et ascensione humanae angelicaeque intelligentiae » (Ibìd., 449 D.) E più sotto precisa
ancora la dottrina da noi sopra esposta diffusamente che questa teofania viene rivelata
all'intelletto. Egli alla col. 450 cosi precisa quest'apparizione dell'essenza divina all'intel-
letto: « Ac per hoc intellige, divinam essentiam per se incomprehensibitem esse, adjunctam
vero intellectuali creaturae mirabili modo apparere, ita ut ipsa, divina dico essentia, sola
in ea creatura, intellectuali videlicet, appareat. Ipsius enim ineflabilis excellentia omnem
naturam sui participem superat ut nil aliud in omnibus praeter ipsam intelligentibus
occurat, ilum per seipsam, ut diximus, nullo modo appareat. » lbid., 450 B.
(48) L'Eringena in continuazione ripete che l'uomo riceve da Dio la conoscenza delle
verità eterne E' questo il soprannaturalismo schiettamente patristico che parte appunto
dalla fede. Non si dimentichi che per l'Eriugena è. sempre la fede, giova ancora ripeterlo,
che precede la ragione. Chiaramente ciò è espresso nell'Omelia al Prologo al ì angelo
secondo Giovanni; Pietro simbolo della Fede precede Giovanni, simbolo della ragione,
come egli dice espressamente: « Ambo (idest Petrus et Joannes) currunt ad monumentum.
Monumentimi Christi est divina Scriptura, in qua divinitatis et humanitatis eius mysteria
densissima veluti quadam muniuntur petra. Sed Joannes praecurrit citius Vetro. Acutius
namque atque velocius intima divinorum operum penetrat secreta virtus contemplationis
penitui purificatae, quam uctionis adhuc purificandae. Verumtamen primo intrat Petrus
— 27 —
l'illuminazione è la fede, che trova nella Scrittura rivelata da Dio il suo
oggetto. L'illuminazione, quindi, conditio sine qua non della verità dell'u-
mana conoscenza, è un dono gratuito di Dio: alla radice di tutta la cono-
scenza è un atto di fede. Dio difatti non elargisce la sua grazia se non a coloro
che credono in Lui e che meritano questo dono con la vita santa.
in monumentimi, deinde Joannes, oc sicut ambo currunt, ambo inirunt. Petrus siquidem
fidei symbolum, Joannes significat intcllectum. Ac per hoc, quoniam scriptum est: « Nisi
credideritis, non intelligetis », necessario precedit fides in monumentimi sanctae Scripturae,
deinde sequens intrat intellectus cui per fidem praeparatur aditus » Op. cit., 284 D -
285 A. Nel De Divisione ancora l'Eriugena dice: « Nunc enim nobis ratio sequenda est,
quae rerum veritatem investigat, nullaque auctoritate opprimitur, nullo modo impeditur,
ne ea, quae et studiose ratiocinantium ambitus inquirit, et laboriose imeni!, publice
u per iai et pronuntiet. Sacrae siquidem Scripturae in omnibus sequenda est auctoritas,
quoniam in ea relitti quibusdam suis secretis sedibus veritas possidet. Non tamen ita
credendum est, ut ipsa semper propriis verborum seu nominum signis fruatur, divinam
nobis naturam insinuans; sed quibusdam similitudinibus, variisque translatorum verborum
seu nominum modis utitur. infirmitati nostrae condescendens, nostrosque adhuc rudes
infantilesque sensus simplici doctrina erigens. Audi Apostulum dicentem: Lac vobis
Iiotum dedi, non esca. In hoc enim divina student eloquia, ut de re ineffabili, incomprehen-
sibili, invisibilique aliquid nobis ad nutriendam nostram fidem cogitandum tradant atque
suadeant » (De Div. uut.. I, 508 D - 509 A). E' chiaro quindi, che non v'è, nè può esservi
assolutamente opposizione tra Scrittura e ragione, ma l'opposizione è tra interpretazione
letterale sensibile ed interpretazione razionale (nota razionale non razionalistica) della
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Scrittura, il passo citato nel testo indica chiaramente la via da seguire. Vedi a proposito
di questo passo la disamina del Dal Pra: M. Dal Pra, Scoto Eriugena e il Neoplatonismo
medioevale. Bocca, 1941 p. 81. D'altronde Scoto a più riprese torna sull'argomento del
valore degli attributi di Dio, i quali non possono esprimere l'essenza di Dio. Valgano al
riguardo i seguenti passi: « Non enim est unitas neque trinitas talis, qualis ab humano
quamvis purissimo cogitari, aut angelico inteIlectu etsi serenissimo considerari potest. Sed
ut de re ineffabili atque incomprehensibili religiosi piorum animorum motus aliquid
cogitare ac praedicare possent, maxime propter eos, qui Christianae Religionis rationem
a Catholicis viris exigunt, sive discendae veritatis gratia, si boni sint, sive tentandae et
reprehendendae occasione, si mali, haec religiosa fidei symbolica verbo a sanctis theologis
et reperto et tradita sunt, ut corde credumus, et ore confiteumur, divinam bonitatem in
unius essentiae tribus substantiis esse constitutam. Et nec hoc absque spiritualis intelli-
gentiae rationabilisque, investigationis continui inventum est ». (De Div. imt.. I, 456 A-B.)
L'interpretazione letterale appartiene ai sensi,, mentre l'interpretazione spirituale è pro-
prio della ragione. A proposito della moltiplicazione dei pani narrata nel VangeIo è dal-
l'Eriugena chiaramente spiegato il significato del valore della ragione, in quanto diversa
dai sensi, e non già come superiore all'autorità della Scrittura. « Quoniam itaque nemo
ad altitudìnem virtutum et contemplationum sinitur ascendere, nisi prius sensibilium rerum
significationibus nutriatur, pulchre Dominus sequenti se turbae fidelium panes distribuit
hordaceos, ut prius inde satiatos, si fidem quam acceperant, servaverint ad spiritualia et
altiora rationabilis creaturae perducat, quibus priusquam corporeos sensus, omniaque,
quae per eos accipiunt, trascendant nutriri non possunt. » (Comment. in Evang. sec. Joan.,
341 D - 342 A). E poco più sotto, alla stessa colonna: « Primus quippe gradus est, ad
ascendendam altitudìnem virtutum, sanctae scripturae littera, rerumque visibilium species,
ut prius leda littera, seu creatura intpecta, in spiritum litterae, et in rationem creaturae.
— 28 —
Abbiamo detto che da Dio promana la conoscenza di Dio e delle veritÃ
eterne; se quindi il supremo valore della conoscenza intellettiva viene da
Dio, è chiaro che la teologia, garante di ogni altra scienza, è superiore a
queste ultime. D'altronde se la filosofia riceve la sua veridicità dalla teologia
è ovvio che tra filosofia e teologia non vi potrà essere alcun contrasto in
quanto entrambe si unificano in Dio e da Dio procedono.
Alla luce di questa premessa appare chiaro come a Scoto non si possa
fare nè l'addebito di razionalismo, ne quello di misticismo, nè si può vedere
nella sua opera la giustapposizione dei due motivi mal fusi. Scoto non è un
razionalista perchè egli pur esaltando la ragione non sostituisce questa alla
fede: la fede è da lui infatti sempre presupposta sia nel suo contenuto per
quanto riguarda verità dogmatiche e sia come processo euristico, perchè
ogni conoscenza suppone la illuminazione, epperò la ragione dalla fede
ricava il suo valore.
Stabiliti questi principi vediamo più da vicino quali rapporti vi sono
per Scoto tra la ragione e l'autorità . L'autorità è duplice: quella delle Sacre
Scritture e quella dei Padri.
1) Per quanto riguarda l'autorità della Sacra Scrittura, Scoto afferma
che ogni processo conoscitivo deve, ad un tempo, fare uso della ragione e
dell'autorità : « Utendum igitur est, ut opinor, ratione et auctoritate, ut
haec ad purum dignoscere valeas. His enim duobus tota virtus inveniendae
rerum veritatis constituitur » (49). La ragione e l'autorità difatti non possono
contradirsi in modo alcuno, perchè sia l'ima che l'altra dipendono da Dio.
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« Nulla itaque actoritas te terreat ab his, quae rectae contemplationis ratio-
nabìlis suasio edocet. Vera enim auctoritas rectae rationi non obsistit, neque
recta ratio verae auctorictati. Ambo siquidem ex uno fonte, divina videlicet
sapientia, manare dubium non est ». (50)
Se perciò ragione ed autorità ricavano valore dalla divina sapienza, è
ovvio che la ragione, in quanto ragione umana, non può porsi come giudice
dell'autorità divina. Siamo quindi in una posizione assolutamente ortodossa,
posizione che possiamo chiamare intellettualistica, in quanto è dalla sapienza
rectae rationis gressibus uscendant. » Riportiamo per maggior chiarezza un passo del
«De Praedestinatione » capitolo XVI, par VI, col. 423; nel quale è ripetuto che nell'in-
terpretare la Sacra Scrittura bisogna superare le immagini sensibili, anzi è detto che Dio
nsò d'immagini sensibili nella Scrittura proprio per esercitare il nostro intelletto. « Ad
exercitium quippe nostra? intelligentiae Deus procuravit, et in Scripturis suis, et in
tractatoribus eius, ut audientes tales locutionum modos evigilaret nostra intentìo ad intel-
Iigendum, quid mysticum ìateat, non quid verborum simplex superficies ostendat ». Fran-
camente non credo che l'Eriugena, il quale fu simili affermazioni, ed altre ancora potreb-
bero essere riportate, possa veramente considerarsi un razionalista: il suo razionalismo
è una creazione degli storici di mentalità illuminista, come l'Haureau e l'Albanese.
(49) De Div. nat., I, 499 B.
(50) Ibul, 511 B.
— 29 —
divina che ricava valore la ragione umana, ma non certo razionalista: è di-
fatti la ragione divina fonte di verità per la ragione umana e non viceversa.
E' chiaro, quindi, che la ragione umana non può assolutamente giudicare la
Scrittura : essa ha un compito .assai più modesto, interpretare la Scrittura
e mostrare come questa non sia assurda nè irrazionale, pur superando le de-
boli forze dell'intelletto umano.
Alla stregua di questa premessa fondamentale cerchiamo di renderci
conto delle affermazioni, in senso razionalista, di Scoto Eriugena.
Egli dice che la Scrittura intende rivolgersi sia ai dotti che agli igno-
ranti, epperò è necessario che essa si serva di un linguaggio figurato ed im-
maginifico accessibile a tutti. E' compito della ragione interpretare e dare
il giusto senso a questo linguaggio. Particolarmente vigilante deve essere la
ragione quando la Scrittura parla degli attributi di Dio, perchè essa non sia
ingannata dalle immagini grossolane, di cui questa fa uso e che dovranno
essere intese in senso figurato (51). Quando la Scrittura parla di Dio trasfe-
risce al Creatore non solo attributi propri della creatura, ma finanche attri-
buti che sono « contra naturarn », e che esprimono passioni quali l'odio e
Tira, il furore (52): queste espressioni sono assolutamente inadeguate alla
superessenzialità di Dio e devono essere intese nel giusto valore, onde evitare
ogni antropomorfismo.
L'Eriugena, per la sua formazione cristiana e neoplatonica, ha il ter-
rore dell'antropomorfismo: per evitare questo pericolo egli indulge alle for-
mule della teologia negativa, tanto da essere considerato un agnostico da al-
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cuni storici; spinto da questa medesima esigenza egli insiste sull'opera delle
ragione per purificare la Scrittura da quell'espressioni, che non si addicono
alla divinità .
La necessità di interpretazione della Scrittura, stabilisce in maniera
perentoria la sua superiorità . Se infatti non fosse stato ammesso in prece-
denza l'assoluto valore della Scrittura, allora piuttosto che interpretare e
cercare di chiarire l'esatto significato dei termini scritturali, che a prima
vista sembrano contrari alla ragione, questa dovrebbe senz'altro respingere
come assurdo ciò che con essa non collima. Scoto reiteratamente ribadisce
questa necessità di una esatta ed inequivocabile interpretazione dei testi sacri.
Di fronte agli attributi impropri di Dio, che si trovano nella Bibbia,
non vi è che da scegliere una delle due vie: o respingerli, ovvero intenderli
in senso figurato: « ut eorum quae contra naturarti sunt, nomina de condi-
tore rerum praedicari auscultans, aut animo falsa esse nidicet et respuat,
aut figurate dicat et concedat et credat ». (53)
I limiti del razionalismo di Scoto Eriugena ci vengono indicati da lui
(51) ìbid., 512 A.
(52) Ibid., 512 A.
(53) ìbid., 512 B.
— 30 —
stesso quando avverte che i suoi ragionamenti intorno alla Scrittura hanno
come scopo di indicare l'esatta via da seguire nello studio della parola rive-
lata, egli difatti cosi esplicitamente afferma togliendo qualsiasi dubbio in
proposito: a Quid Ubi viderer his argomentationibus machinari, nisi ut intel-
iigas, quemadmodum significativa rerum vocabula, sive mbstantiarum sint,
sive accidentium, sive essentiarum, translative, non autem proprie, ita etiam
significativa naturalium seu non naturalium naturae conditae motuum verbo
de natura conditrice translative, non autem proprie, posse predicari ? Si
e nim essentiarum vocabula, seu substantiarum, seu accidentium, non revera,
sed quadam necessitate ineffabilis naturae significandae in Deo ponuntur,
num necessario sequitur, ut et verba, quac essentiarum, substantiarum, acci-
dentium significant motus, proprie de Deo dici non possint, qui omnem
essentiam, substantiam, omneque accidens, omnemque motum, actionemque
et passionem et quodcumque de talibus dicitur et intelligitur, et tamen ei
inest, incomprehensibili ineffabilique suae naturae excellentia superascen-
dìt », (54) ed il passo continua mostrando il significato traslato e metaforico
di ogni attributo di Dio.
Compito della ragione è quindi quello di tentare di spiegare la fede
quale è contenuta nella Scrittura. Per l'Eriugena il fine della Scrittura è di
portare gli uomini all'eterna salvezza: essa è in funzione dell'uomo e deve
perciò adattarsi alla mentalità dell'uomo decaduto, onde questo possa acqui-
stare la vera conoscenza di se stesso e di Dio. E' anche conseguenza del pec-
cato la Scrittura, nel senso che Dio ha voluto con essa avviare gli uomini
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alla salvezza: « Non enim luminine, animus propter divinam Scripturam
factus est, cuius nullo modo indigeret, si non peccaret; sed propter huma-
num animum sancta Scriptura in diversis symbolis atque doctrinis contexta
scilicet, est, ut per ipsius introductionem rationabilis nostra natura, quae
prevaricando ex contemplatione veritatis lapsa est, iterum in pristinam purae
contemplationis reduceretur altitudinem. » (55)
La Scrittura è da Dio destinata all'uomo, che vive immerso nella grosso-
lanità dei sensi, essa perciò si avvale di immagini sensibili, a somiglianza
dei poeti eroici che si servono di finte favole come simboli di virtù morali,
per portare gli uomini alla conoscenza di sè: «ita theologia, per veluti
quaedam poetria sanctam Scripturam fictis imaginationibus ad consultum
nostri animi et reductionem corporalibus sensibus exterioribus, veluti ex
quadam imperfetta pueritia, in rerum, intelligibilium, tanquam in quandam
interioris hominis grandaevitatem conformat » (56). Ed ancora l'Eriugena,
commentando Dionigi, dopo avere spiegato il valore dei simboli, che vengo-
no pure assunti per magnificare le virtù, asserisce che la oscurità della Sacra
(54) Ibid., 512 B-C.
(55) Expos. super Jerarchiam caelestem S. D., 146 C.
(56) Ibid., 146 B.
--
— 31 —
Scrittura trova una spiegazione nel fatto che Dio esige dall'uomo, perchè
possa penetrare in essa, santità e purezza di vita « ...Non omnis humanus
animus purus et santificatus est, veritatisque comeni piattone dignus: corni m-
pitur quippe mnitis delictis fallacibusque cogitationibus. Neque omnibus,
ut divinae perhibent Scripturae, conceditur stmima scientia. Et non hoc
divinae bonitatis imputatni- largitati, sed pollatue mentis tarditati ac male-
volentiae... Solis igitur pi iris sanctificatisque animis aperta et pervia est
divinorum intellectum veritas » (57).
L'autorità della Scrittura è, quindi, fuori discussione per l'Eriugena :
perchè il discepolo del De Divisione rimanga convinto, le diverse afferma-
zioni non solo debono essere razionalmente evidenti, ma devono anche con-
cordare con la Scrittura e con l'autorità dei Padri. Si dirà che l'Eriugena
interpreti la Scrittura secondo la propria filosofia, ma questa è una que-
stione di fatto, che non pregiudica la sincerità della sua fede. Perchè
l'uomo possa salvarsi è necessaria la parola rivelata di Dio, ma perchè egl'
possa penetrare con sicurezza nel giusto significato della Scrittura è neces
saria la grazia, che illuminandolo dall'alto lo mantenga lontano dall'errore
E' davvero singolare che si sia potuto parlare di razionalismo dell'Eriu-
gena, quando egli sottolinea continuamente l'insufficienza dell'uomo a inter-
pretare rettamente la Scrittura. La speculazione eriugeniana si accompagna
sempre con l'umiltà di chi è consapevole dei limiti dei suoi poteri conosci-
tivi, essa invoca sempre l'aiuto ed il conforto dall'alto, e, nell'interpreta-
zione di uno dei passi più difficili della Genesi, si scioglie in una calda invo-
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cazione di luce: « Nulla enim pejor mors est, quam veritatis ignorantia,
nulla vorago profundior, quam falsa prò veris approbare, quod proprium
est erroris. Ex his enim turpissima et abominabilia monstra in humanis cogi-
tationibus solent fingi, quae dum carnalis anima veluti vera et amat et se-
quitur, dorsum convertens vero lumini, umbrasque fttgaces comprekendere
volens, et non valens, in baratrum miseriae consuevit ruere. Hinc assidue
debemus orare ac dicere: Deus, nostra salus atque redemptio, qui dedisti
naturam, largire et gratiam, praetende lumen tuum in umbris ignorantiae
palpitationibus quaerentibus te: porrige dextram tauni infirmis, non valen-
tibus sine te pervenire ad te; ostende te ipsum his, qui nil petunt praeter
te; rumpe nubes vanarum phantasiarum, quae mentis aciem non sinunt intu-
eri eo modo, quo te invisibilem videri permittis desiderantibus videre faciem
tuam, quietati suam, finem smini, ultra quem nil appetunt, quia ultra nihil
est summum honum essentiale i> (58).
La ragione umana perciò è fallibile e solo da Dio può ricevere la luce
che la preservi dall'errore, poichè essa pur essendo il maggiore e migliore
mezzo di ricerca dell'assoluto è, dopo il peccato, che l'ha ricoperta con le
(57) Und., 152 A.
(58) De Dir. noi., Ili, 650 AB.
— 32 —
tenebre del corpo sensibile, soggetta all'errore. E' chiaro quindi come Scoto
pur affermando il valore della ragione, non fa di essa il criterio di misura
della fede e della verità rivelata: perchè se tale essa fosse dovrebbe essere
infallibile, mentre è soggetta all'errore da cui solo la grazia di Dio può preser-
varla.
Il rispetto di Scoto per l'autorità divina, e quindi per la Scrittura, ritor-
na in ogni passo, giova invero esaminare alcuni fra quelli che a chi scrive
sembrano i più importanti. In tutte le più importanti questioni la Scrittura
fa testo ed in duplice senso: sia per iniziare la discussione, infatti tutta la
dottrina della creazione, della natura, dell'uomo, della predestinazione, è
un commento ai testi sacri; sia come punto di arrivo, in quanto, la confor-
mità e la disformità del pensiero della Scrittura, viene considerato come
criterio discriminante della verità o falsità delle dottrine trattate. L'Eriu-
gena non ha assolutamente dubbi della divina ispirazione delle Scritture, biso-
gna però saperle interpretare e l'esatta interpretazione di esse è certo il
premio più bello che lo Spirito Santo conceda all'uomo: e Scoto rivolge
nuovamente a Dio una preghiera perchè gli renda chiaro il significato delle
Scritture. (59).
L'autorità della Scrittura e la sua superiorità sulla ragione è certo
per Scoto un fatto indiscutibile. L'uomo decaduto per poter conoscere la
realtà divina ha bisogno dell'aiuto di Dio, che si esplica attraverso due vie:
l'illuminazione e la Scrittura. L'illuminazione è indispensabile perchè l'ani-
ma possa ritrovare in sè l'immagine del suo io autentico e di Dio; è ancora
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indispensabile perchè l'uomo possa esattamente interpretare la Scrittura
senza lasciarsi fuorviare da espressioni sensibili che non si addicono all'as-
soluta trascendenza di Dio.
Vi sono però determinate verità che l'intelletto non avrebbe mai potuto
aspirare a conoscere se a lui non fossero direttamente comunicate da Dio.
(59) La preghiera allo Spirito Santo è nel De Div. imt., V, 1010, a proposito della
Resurrezione dei corpi. Prima infatti è ripetuto come le immagini e i traslati della Scrit-
tura richiedono un'esatta interpretazione: « Saepissime enim imam eandemque expositionis
speciem absque ullo transitu in diversas figurationes sequentibus aut errar aut maxima
difficultas innascitur interpretando; concatenutus quippe est divinae Scripturae contextus
daedalicisque diverticulis et obliquatibus perplexus. Neque hoc Spiritus sanctus invidia
voluti intelligendi, quod absit exsistimari, sed studio nostram intelligentiam exercendi,
sudorisque et inventionis praemii reddendi, praemium quippe est in Scriptura laborantium
pura perfectuque intelligentia. O domine Jesu, nullum aliud praemium, nullam aliam
beatitudinem. nullum aliud gaudium a te postulo, nisi ut ad purum absque ullo errore
fallacis theoriae verba tua, quae per tuum sanctum spiritum inspirata sunt, intelligam.
Ilaec est enim summa felicitatis meae, finisque perfectae est contemplationis, quoniam
nihil ultra rationabilis anima etiam purissima inveniet, quia nihil ultra est. Ut enim non
alibi aptius quaereris, quam in verbis tuis. ita non alibi apertius inveneris, quam in eia.
Ibi quippe ìiabitas. et UIne quarentes et diligentes te introducis: ibi spirituales epulas
verae cognitionis electis tuis praeparas. Mie transiens ministras eis ».
— 83 —
A questa funzione rispondono le gerarchie angeliche.
L'Eriugena, chiaramente, e a più riprese, ritorna sulla diversità tra la
conoscenza angelica e la conoscenza umana: la prima è intuitiva, la seconda
discorsiva.
Anche a proposito della conoscenza angelica l'Eriugena precisa che
questa, pure essendo intuitiva, non può aspirare a conoscere l'essenza di
Dio e dei misteri rivelati; rimane difatti anche per l'Angelo inconoscibile il
a quomodo » dell'Incarnazione. (60)
Intanto un'altra questione si pone. Abbiamo detto che per Scoto la vera
religione s'identifica con la vera filosofia in quanto la filosofia si muove nel-
l'ambito dell'illuminazione, in cui religione e filosofia fanno tutt'uno perchè
la ragione è sempre subordinata alla grazia e quindi alla fede che le dà ,
per così dire, l'avvio della conoscenza e la sorregge preservandola dall'errore.
Ma pur acquistando la ragione attraverso l'illuminazione il suo vero potere,
essa, tuttavia, non può pretendere di dimostrare il dogma. E cioè la ragione
presuppone la fede in un senso molteplice. Innanzitutto la presuppone in
quanto attraverso la fede essa può volgersi a Dio; la presuppone ancora in
quanto fine della speculazione è la conoscenza razionale del contenuto della
Scrittura : « \/7 avidius quaesierim, nil libentius audieritn, nil salubrius ere-
diderim, nil altius intellexerim, quam quod de universali omnium ineffabili
fonte veris probabilibusque dicitur investigationibus. Non enim alia fidelium
animarum salus est, quam de uno omnium principio, quae vere predicantur,
credere, et quae vere creduntur, intelligere » (61). Tuttavia però la ragione,
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anche se fecondata dall'illuminazione, non esaurisce, nè può esaurire tutto
il contenuto della fede. Il mistero come tale rimane al di sopra dei poteri
razionali e non può essere assolutamente conosciuto nella sua essenza.
E' dottrina dell'Eriugena la distinzione fondamentale tra « datum » e
« donum » : egli chiaramente distingue ciò che dalla natura e ciò che è dalla
soprannatura. Il mistero della Trinità , come abbiamo visto, nella sua essen-
za sfugge alla conoscenza dell'uomo; nè l'uomo e nè l'Angelo possono cono-
scere il « quomodo » e il « qualiter » della generazione del Verbo del Padre.
Tutto ciò quindi che è conosciuto dall'uomo intorno a Dio viene da Dio
direttamente o come datum o come donum ed il dono è proprio dello Spi-
rito Santo che è unico nella sostanza col Padre (62). Neanche può l'uomo
(60) Super Jerarchiam caelestem S. D., 187 B. Cfr. De Div. nat., 55 A - 558 A.
(61)De Div. n„i.. II, 556 AB.
(62) « Mullu enim natura est èreata, quae habeat quid, praeter quod a creatrice acce-
perit. Si enim est, ut praediximus inde accepit esse; si vivit, inde vivere; si sentit, inde
sentire ; si rai ione fruitur, inde ratio ; si intellegit, inde intellectus, ceteraque id genus
mille. Si igitur nil in natura rerum creatarum esse cognoscitur, praeter quod a Creatore
donatur, sequitur nil aliud esse creaturam, sive essentialiter, sive secundum accidens, nisi
Creatoris data et dona; donorum autem distributionem quasi quondam proprietatem
Spiritui sancto theologia dedicat ». Ibid., 565 D - 566 A.
— 34 —
conoscere razionalmente in che modo le ragioni eterne siano create, ma solo
in che maniera esse, che sono nel Verbo, possano dirsi eterne e nello stesso
tempo create (63).
L'ordine della natura è distinto dall'ordine della Grazia: se difatti il
libero arbitrio, intorno a cui Scoto insiste in maniera particolare nel De
Praedestinatione, appartiene alla natura umana, il retto uso di esso appar-
tiene alla Grazia (64).
Dio, che è somma Bontà , dà innanzitutto l'esistenza alle cose creandole
dal nulla, ma non solo Dio le fa essere, ma le fa essere eternamente, nel
senso che esse continuano a vivere anche dopo la morte: con l'uomo, difatti,
tutte le cose sono rendente e con lui godranno la vita eterna : « Et non solum
superessentialis bonitas dat omnibus esse, verum etiam eternabiliter
esse » (65). Ma perchè le cose possano aeternabiliter esse, occorre il bene
esse; il bene esse è la ragione per cui l'esse e il super esse convengono alle
creature: « esse enim et semper esse sublato bene, nec vere esse est, nec
vere semper esse » (66), perchè solo ciò che è bene esse può essere eterna-
mente: « enim vere et est et semper est, quod bene ae beate subsistit » (67).
Ma questa medietà , cioè il bene esse, che si pone come ragione dell'esse e
del semper esse, e come spiegazione del loro legame, è un dono della divina
bontà , ed in quanto tale è solo dato alle nature angelica ed umana.
Il dono della grazia non opera secondo leggi naturali, « sed supressen-
tialiter » (68), nè « intra terminos conditae naturae » (69). Nella resurre-
zione dei corpi cooperano insieme l'opera della natura e della grazia:
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« Sana itaque fide possumus attribuire resurrectionis virtutem et dato divinae
bonitatis secundum naturalem effectivam potentiam, et dono eiusdem boni-
tatis secundum superexcellentem omnes naturas gratiam » (70). La distin-
zione tra natura e sopranna tura come due ordini, di cui il secondo suppone
e perfeziona il primo è anche chiaramente posta dall'Eriugena (71). E' sta-
bilito che la Redenzione, è dovuta alla bontà di Dio; è anche chiaramente
(63) De Div. nat., III, 670 D.
(64) « Et notandum, quod etiam in hac vita, priusquam totum, quod in homine animale
est, vertatu r in spirituale, et omne, quod in eo compositum est, ineffabilem adunetur sim-
plicitatem, potest totus homo et animalis fieri et spiritualis; sed animalis sola liberiate
arbitrii, spiritualis vero et libero arbitrio simul et gratta, sine qua naturai in potentia volun-
tatis movere hominem in spiritum nullo modo sufficit. » De Div. nat., IV, 755 D - 756 A.
(65) De Div. nat., V, 903 C.
(66) Ibid., 904 A.
(67) Ibid., 904 A.
(68) Ibid.. 904 B.
(69) Ibid., 904 B.
(70) Ibid., 904 C.
(71) « Ut igItur breviter concludamus: natura est datum, gratili vero donum: natura
ex non existentibus in existentia, adducit, donum vero quaedam existentium ultra omnia
existentia in ipsum Deum evehit » Ibid., 905 A.
— 35 —
affermata, a proposito della vita attuale, la necessità della grazia, perchè
l'uomo possa vivere nell'amore di Dio. Ancora alla grazia è dovuta la spi-
ritualizzazione del corpo dopo la morte, spiritualizzazione che suppone la
reintegrazione del corpo nella sua natura (72).
Questa fondamentale distinzione tra natura e grazia, che dirime, in ma-
niera categorica ed inequivocabile, la questione del preteso razionalismo di
Scoto si accompagna in tutte le opere del pensatore irlandese. La gratuitÃ
della grazia è chiarissima. Nel libro quinto del De Divisione naturae il di-
scepolo, con la piena approvazione del maestro, riassume il pensiero di
Scoto: « Addidisti etiam utriusque proprietatem, et naturae dedisti de nihilo
esse et semper manere, gratiae vero deificare, hoc est efficere homines in
Deum transire eos, quos affluentia divinae bonitatis gratis, absque naturae
subsidio, nullis praecedentibus meritis, exaltat super omnia quae sunt et
quae continentur intra universitatis conditae terminos » (73).
La distinzione tra natura e soprannatura è fondamentale nel pensiero
di Scoto Eriugena: essa ha una grande importanza anche nella sua meta-
fisica, ove, come vedremo diffusamente, questa distinzione mal si regge
colle premesse panteistiche o semi panteistiche del suo sistema; egli tuttavia
la manterrà ugualmente attraverso sottili distinzioni, che, se non reggono
logicamente, tuttavia mostrano la sincerità della sua fede cristiana.
Possiamo quindi concludere riaffermando che tutto il pensiero di Scoto
Eriugena è orientato verso la teologia: Dio è il principio ed il fine di tutta
la speculazione, senza la grazia l'uomo non potrebbe conoscere Dio, nè
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senza il suo aiuto potrebbe usare rettamente dei suoi poteri conoscitivi. Il
soccorso che Dio dà all'anima si esplica attraverso l'illuminazione e attra-
verso la Scrittura: la Sapienza somma di Dio è quindi condizione e causa
della sapienza umana. Tra ragione e fede non può essere nessun contrasto,
perchè entrambe dipendono da Dio (74).
(72) Ibid., V, 889 A.
(73) Ibid., 906 C.
(74) Onde non vi giano dubbi di sorta sulla chiara distinzione di natura e grazia nel-
l'Eriugena, riportiamo ancora altre sue affermazioni assai significative. A proposito del
godimento di beni spirituali dopo la morte, Scoto distingue una fruizione di beni naturali
da una fruizione di beni soprannaturali : « Fruentur mini omnes homines ipsius fructu
parteci pattone naturalium honorum generaliter; fruentur electi sui excelsitudine deifica-
tionum ultra omnem naturam specialiter. Deificationes itaque, quas soli iusti partici'pahunt
spiritualibus figurantur nuptiis. » (De Div. nat., 1015 B.) Ancora molto chiara è nel pen-
siero di Scoto la differenza tra la legge e la Grazia, tra il nuovo e il vecchio Testamento,
nonchè sul valore soteriologico della venuta di Cristo Redentore e Salvatore E' difatti
continuamente ripetuto il valore della soprannatura, come implicante una realtà diversa
dalla natura; ogni natura, in quanto è creata da Dio è immutabile e immortale, ma la
Grazia non costituisce solo la salvezza della natura, bensì la sua deificazione. Nel com-
mento al Vangelo secondo Giovanni, (Fragmentum I, 297 A-B) così Scoto si esprime:
« Non dixit: dedit eis potestatem salvari, aut in pristinum statum et dignitatem humanae
naturae dedit eis potestatem redeundi, sed, quod ineffabile est, et omni naturae per se
— 36 —
A questo punto, ed a conclusione di quanto fin qui si è detto, s'impone
un'altra e conclusiva chiarificazione: il valore dell'autorità dei Padri. Noi
abbiamo mostrato come non vi può essere contrasto tra ragione e Rivela-
zione; per Scoto, cioè, la teorica pragmatistica della doppia verità , per
usare un termine moderno, è un assurdo in quanto porterebbe in Dio stesso
un'insanabile contraddizione. Nel De Praedestinatione, Scoto nettamente
afferma : « Omne, quod a veritate est, verum esse necesse est, omne igitiir,
quod veritati contradicit, verum, non esse necesse est » (75). Dio quindi è
somma verità , e la ragione in quanto illuminata da Dio, (soprannaturalismo)
è il criterio metodologico umano per distinguere ciò che e vero da ciò che è
falso, di fronte alla Scrittura che viene direttamente da Dio la ragione s'in-
ipsam impossibile, dedit eis per sublimitatem suue. gratiae filios Dei fieri » ; ed ancora
« Plenitudo quippe gratiae secundum humanitatem, et plenitudo veritatis juxta divinitatem
ire Christo habitat » (Ibid., 299 C.) Ancora a proposito di Cristo e della legge del vecchio
Testamento: « Propterea dico ex plenitudine Christi nos omnes accepisse gratiam et veri-
totem, et non ex lege, quia lex tantummodo per Moysen data est, quae nullam gratiam
accipientibus eam secundum litteram impertitur, quoniam nihil aliud est, nisi umbra
quaedam et symbolorum Novi Testamenti. » (Ibid., 300 A.) E precisa commentando il
versetto di Giovanni: « Gratia et veritas per Jesum ('.tirisium facto est », che la legge in sè
non è la grazia, ma può essere considerata in funzione della grazia qualora venga vista
in funzione di Cristo : « Potest et sic intelligi : quia lex, dum consideratur in Moysi, id est.
in littera nuda, solummodo lex est, dum vero in Christo, gratia et veritas est » (Ibid.,
300 A-B.) Ancora a proposito del vecchio testamento ( Fragni. III, Cap. VI 341 B) così si
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esprime: « Hoc est in Veteri Testamento, quod iam Novo clarescente vilescere coepit, adhuc
tamen omnino non recessit ». Ed inoltre nel « De Praedestinatione », opera giovanile, in
cui il rispetto della Scrittura e dei Santi Patri è affermato con piena ed assoluta convin-
zione, non lascia assolutamente dubbi la distinzione tra natura e grazia ; al riguardo Scoto
così scrive: « Omnium quippe honorum, quae Deus creavit, quaedam suiti eius bonitate.
quaedam largitate » e cioè il tiutimi o natura è ex bonitate, il donum o Grazia, è ex largi-
tate, (De Praedestinatione, 385 C.) Molti errori gravi in materia teologica (in particolare
Scoto si riferisce alla Predestinazione) sono dovuti all'ignoranza ed al cattivo uso della
dialettica : « Errorem saevissimum eorum, qui venerabilium Patrum maximeque sancti
Augustini sententias confuse, ac per hoc mortifere ad suum pravissimum sensum redigunt.
ex utilium disciplinarum, quas ipsa sapientia suas comites investigatricesque fieri voluit.
ignorantia crediderim sumpsisse primordia. » (De Praedestinatione, 430 C.) La dialettica,
quindi, illuminata da Dio, è un mezzo per rettamente interpretare e la Sacra Scrittura e i
Padri. La dialettica, dice in altro passo, non è un bene sommo come le quattro virtù
fondamentali, che non possono essere usate mai male, ma è un bene medio, in quanto
offre grande vantaggio se ben usata, è causa invece di grandi errori se usata male: « Mediis
vero bonis, minimisque prò arbitrio utentis et recte vivitur et perverse. Potest enim aliquis
in disciplina, verbi causa, disputandi, quae dicitur dialectica, peritus. quae nullo dubitante
a Deo homini donatur, si voluerit bene Mi, quoniam ad hoc certissime data est, dum ea
ignorantes eam erudit, vera falsaque discernit, confusa dividit, separata colligit, in omnibus
veritatem inquirit. Potest e contrario perniciose vivere, ad quod non est data, dum falsa
prò veris approbuns, alios in errorem mittat, falsisque ratiocinationibus simplicium con-
fundat, contundendo caliginat, ne eorum oculus interior, qui est animus, ad notitiam
purae ipsius veritatis perveniat. » De Praedestinatione, 389 B-C.
(75) De Praedestinatione, 365 B.
— 37 —
china e l'uomo individuo trova nella tradizione dei Padri una guida sicura
per interpretarla rettamente. Anche per i Padri, quindi, la ragione deve usare
il massimo rispetto: essi sono gli interpreti della Santa Scrittura, interpreti
degni della massima considerazione e il cui pensiero va indagato con vene-
razione. Tuttavia anche per i Padri la ragione deve intervenire, non per
giudicare il loro pensiero, ma per organarlo, chiarirlo, interpretarlo. Ma
nell'interpretare il pensiero dei Padri la ragione deve procedere con la mas-
sima cautela, essa abbisogna dell'aiuto dell'illuminazione per non travisarlo;
per l'Eriugena, infatti, tutto l'errore predestinazionistico di Godescalco, a
cui non risparmia la sua violenta disapprovazione, è sorto da un'errata
interpretazione del pensiero di Agostino. Al riguardo è molto significativo
questo passo di Scoto : « Proinde ne nostra ista ratiocinatio videatur nulla
divinae seu humanae auctoritatis formula esse suffulta, quid divinae Scriptu-
rae paginis, quid sancti Patris Augustini dictis potest effici, investigare de-
bemus, non quod aliorum catholicorum Patrum exemplis haec eadem con-
cludere non possi ni u a. sed quod necessaria m duximus, et utiliter ad rem
pertinere videmus, illius auctoris dieta ponere, cui maxime Gotescalcus
haereticus sui nefandi dogmatis causas solet referre. Nulla etenim scriptura
est, de qua non facile non intelligentes eam prava possint sentire. Itine est
quod praedictus sanctorum Patrum mendosus adulterator merito, dum veri-
tatis neque sit investigator, neque inventor, non ea, quae Pater Augustinus
suis verbis insinuare voluit, intellexit, sed ut ea, quae ipse a se ipso atque
diabolo finxit, suaderet, praedicti Patris non quidem verba in sibi conve-
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nienza, sed piane resistentia violenter retorsit » (76).
Benchè Scoto parli sempre e col massimo rispetto dei Padri, e benchè
egli consideri la loro parola come interprete ufficiale della Scrittura, noi
troviamo un passo assai famoso, che ha dato luogo a interpretazioni razio-
nalistiche; ivi difatti è detto che l'autorità è subordinata alla ragione, anzi
il valore dell'autorità ricava valore dalla ragione. Il passo in esame è la
continuazione di quello più sopra citato in cui Scoto mostra come il testo
della Scrittura abbia bisogno di essere rettamente chiarito e interpretato
quando attribuisce a Dio qualità che assolutamente di Dio non si possono
predicare. Il passo è il seguente: « Non ignoras, ut opinor, maioris digni-
tatis esse, quod prius est natura, quam quod prius est tempore. Disc. Hoc
paene omnibus notum est. Mag. Rationem priorem esse natura, auctoritatem
vero tempore didicimus. Quamvis enim natura simni cum tempore creata sit,
non tamen ab initio temporis atque naturae coepit esse auctoritas. Ratio
vero cum natura ac tempore ex principio rerum orta est. Disc. Et hoc ipsa
ratio edocet. Auctoritas siquidem ex vera ratione processit, ratio vero nequa-
quam ex auctoritate. Omnia enim auctoritas, quae vera ratione non appro-
di) ma., 398bc.
-38-
batur, infirma videtur esse. Vera antan ratio, quoniam suis virtutibus rata
atque immutabilis munitur, nullius auctoritatis astipulatione roborari indi-
get. Nil enim alind mihi videtur esse vera auctoritas, nisi rationis virtute
reperta veritas, et a sanctis Patribus ad posteritatis utilitatem commendata.
Sed forte Ubi aliter videtur. Mag. Nullo modo. Ideoque prius ratione uten-
dum est in his, quae nunc instimi, ac deinde auctoritate » (77).
Dal passo in esame, come già il Dal Pra ha visto, (78) risulta in maniera
chiara che si parla di autorità umana, difatti Scoto afferma che l'autoritÃ
ha inizio col tempo ed è costituita dalla sua adeguazione alla ragione, canone
discriminante e fondante della autorità stessa. Ora è ovvio che se si parlasse
di autorità divina, questa non sarebbe soggetta al tempo; e che il problema
sia posto tra ragione umana ed autorità umana risulta anche dal riferimento
alla creazione che fa essere prima la ragione in quanto essenza dell'uomo e,
subordinatamente, l'autorità , in quanto acquisizione ripetuta della ragione.
Come l'autorità di Dio procede dalla sapienza somma di Dio, così ogni
autorità umana sorge dalla ragione che rimane quindi criterio di giudizio
su ogni altra autorità . Comunque dal passo in esame, ripetiamo, è escluso
ogni riferimento all'autorità divina. Ma in verità crediamo che su questo
passo, unico in tutta l'opera di Scoto, non si possa fondare un'interpreta-
zione razionalistica del suo pensiero quasi che egli voglia screditare l'auto-
rità dei Padri e rimettersi all'arbitrio soggettivo dell'individuo.
Occorre innanzitutto fare un rilievo estrinseco e cioè che alla colonna
509 del primo libro appena tre colonne prima di quella in cui trovasi il passo
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in esame, Scoto così si esprime a proposito dell'autorità dei Padri: « Quis
enim de natura ineffabili quippiam a seipso repertum dicere praesumat,
praeter quod Ma ipsa de se ipsa in sanctis organis, theologis dico, modu-
didata est ? » (79) Ora è assolutamente impossibile che a distanza di appe-
na tre colonne possa Scoto negare valore a quell'autorità che egli ha prece-
dentemente proclamata valida. Troviamo inoltre altri passi in cui Scoto
afferma che la ragione non deve giudicare ciò che hanno detto i Padri, ma
solo scegliere quella opinione che più conviene alla parola divina, laddove
vi siano opinioni diverse: « Non enim nostrum est, de intellectibus sancto-
rum Patrum diudicare, sed eos pie ac venerabiliter suscipere; non tamen
prohibemur eligere, quod magis videtur divinis eloquiis, convenire » (80).
(77) De Div. nat., I, 513 ABC.
(78) Dal Pra, Scoto Eriugenu e il Neoplatonismo med., pp. 91-92
(79) De Dio. nat., I, 509 B.
(80) De Div. nat., II, 548 D - 549 A. Ancora in altro passo l'Eriugena così si esprime:
« Sanctorum autem Patrum solummodo sententias interim inter nos conferimus: qui miteni
magis sequendi sunt, non est nostrum judicare; unusquisque suo sensu abundet, et quos
sequatur, eligat, litigationibis relictis. » (De Div. nat., V, 816 D.) L'Eriugena fa qnesta
affermazione a proposito del Paradiso poichè egli, all'opinione di Sant'Agostino circa
il Paradiso localem, preferisce invece l'interpretazione di Gregorio di N'issa. Ed ancora a
-3§-
I."autorità dei Padri per l'Eriugena è quindi degna del massimo rispetto,
essa conforta la veridicità delle affermazioni filosofiche, tuttavia però essa
è un'autorità umana, e, come tale, può essere soggetta all'errore: invero men-
tre l'autorità divina è infallibile perchè riposa sulla sapienza divina, l'auto-
rità dei Padri può, sia pure con grande rispetto e con grande cautela, essere
revocata in dubbio perchè poggia stilla ragione umana.
Questa giusta conclusione a cui è giunto il P. Jacquin (81) è stata poi
ripresa dal Cappuyns (82) e da S. Vanni Rovighi, che così conclude la sua
esposizione intorno al razionalismo di Scoto Eriugena: « Il primato della
ratio sull' auctoritas, poi, non riguarda l'autorità di Dio rivelante, ma l'au-
torità dei Padri, che è sempre, per quanto grande, un'autorità umana. Il
primato della ratio sull'auctoritas non è altro che il primato, potremmo
dire, della teologia speculativa sulla teologia positiva » (83).
Ed infine, a conclusione ed a conferma di quanto fin qui abbiamo detto,
riteniamo opportuno riportare un passo dell'Eriugena, da cui emerge non
solo la divinità della Scrittura, ma anche la divinità della Chiesa, di cui
Cristo è capo, ed alla quale Cristo, attraverso lo Spirito Santo, distribuisce
i suoi doni soprannaturali; « Et si nemo sane credentiam recteque intelli-
proposito della preferenza accordata ai Padri Greci sui Latini, Scoto sente il bisogno di
mostrare il rispetto del suo pensiero verso tutti i Padri e così si esprime: « Sed ne videamu
r
Graecorum auctorum solummodo sententias de paradiso sequi, latinorum vero auctoritatem
in talibus aut praetermisisse, aut in eis talem sensum de paradiso invenire non potuisse,
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ac per hoc temere affirmasse quod in magistris utriusque linguae non valuimus invenire,
sancti Ambrosii sententias de paradiso huic nostrae disputatìoni inserere congruum videtur
ac necessarium si tibi placet » {De Div., IV, 430 C.) Appare quindi chiaro che per Scoto
tutta la autorità dei Padri ha una grande importanza, tanto che ad essa egli vuol mostrare
tutto il suo rispetto e la conformità del suo pensiero. E" qui bene notare una cosa. Scoto
ispira, come .-i è detto tutto il suo pensiero a Origene, a Dionigi e a Massimo, ma per
quanto riguarda il suo pensiero sul libero arbitrio il suo autore è S. Agostino, che difende
in tutti i modi la libertà dell'uomo. Nel de Praedestinatione egli espressamente afferma
di volersi rifare ai Padri ed in particolare ad Agostino: tale sua opinione rimane ferma
nelle opere posteriori, anche quando nel « De Divisione », l'influenza neoplatonica sarÃ
preponderante; anzi nel De Divisione, come fra poco vedremo, tutto il suo sforzo sarÃ
rivolto a ripensare cristianamente il Neoplatonismo.
La presenza del Neoplatonismo nel sistema di Scoto Eriugena è stato rilevato pri-
ma dal Jacquin, che, nello studio sul Neoplatonismo di Scoto, ha messo in risalto co-
me l'elemento neoplatonico nel pensiero dell'Eriugena non sia presente nel De Praede-
stinatione, ma compaia nelle opere successive. Lo stesso tema è stato trattato con
ricchezza di documentazione da M. Techert, Le plotinisme dans le système de Jean Scot
Erigène, in Revue néoscolastique de philosophie, XXVIII, Louvain 1927, pp.28-68. Non en-
triamo nella discussione storica dell'argomento, ma è certo che il pensiero, oltre che le
espressioni e le immagini di cui si serve l'Eriugena, mostra una conoscenza di Plotino.
(81) Jacquin, Le rationalisme de Jean Scot, pp. 747-748.
(82) Cappuyns, Op. dt., pp. 280-290.
(83) Vanni - Rovighi, La prima Scolastica, p. 643.
— 40 —
gentium haesitat affirmare, spiritualis dona, quae propheta Isaias super
caput Eccelsiae, quod est Christus, requietura profetavit, non per alium
nisi per Spiritimi Sanctum Deo verbo incarnato, distributa esse, quid mirnni,
si Ecclesiae, quae est corpus eius, non solimi dona gratiae per Christum, sed
etiani dona naturue per eundum Christum idem Spiritus dividot et det » (84).
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(84) De Div. nat., 563 D - 564 A.
Capttolo II.
TEISMO E PANTEISMO NELLA FILOSOFIA DI SCOTO ERIUGENA
SECONDO ALCUNE INTERPRETAZIONI
Grandi difficoltà d'interpretazione offre il pensiero di Giovanni Scoto
Eriugena: queste difficoltà son dovute alla mancanza di unità di trattazione,
alle digressioni frequenti, allo stile non sempre limpido, alla sproporzione
delle diversi parti. Si è visto nel precedente capitolo quanto sia difficile tro-
vare una linea di sviluppo nella trattazione del problema gnoseologico, a
proposito del quale si è parlato di fideismo e di razionalismo o addirittura
della giustapposizione, senza una vera fusione, dell'uno e dell'altro indi-
rizzo. Queste difficoltà aumentano in sede metafisica, a proposito della quale
abbiamo un'interpretazione teistica ed un'altra panteistica. Ed invero sia
l'ima che l'altra interpretazione trovano appiglio nel pensiero non certo
chiaro di Scoto Eriugena, nei cui testi si susseguono luoghi di orientamento
nettamente panteista, con altri in cui il teismo dualistico creazionistico sem-
bra potersi indiscutibilmente affermare. A tal proposito L. De Simone così
si esprime: « Tutti interrogativi ai quali non è consentito dare una rispo-
sta decisa e indiscutibile, perchè, come si è detto per il razionalismo, anche
per questo problema del panteismo i testi oscillano a volte verso una dire-
zione, a volte verso un'altra » (1).
Noi divideremo le interpretazioni in due grandi categorie: l'interpre-
tazione antipanteistica e l'interpretazione panteistica.
L'INTERPRETAZIONE ANTIPANTEISTICA
L'interpretazione antipanteistica ha trovato uno dei suoi maggiori rap-
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presentanti nel P. Cappuyns (2), che allo studio di Scoto ha dedicato una
monografia, frutto di lungo e paziente studio. Dobbiamo innanzi tutto dire
che la parte dedicata al pensiero è molto esigua di fronte alla ricostruzione
della storia, della vita e delle opere, ed ancora più esigua la discussione
(1) Ludovico de Simone, Scoria della Filosofia Medioevale, Libreria Scientifica Edi-
trice, Napoli 1949, p. 88.
(2) Maieul Cappuyns, Op. cu., pp. 316-361.
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fondamentale limitata alla negazione del panteismo. Questa dimostrazione
è condotta sui seguenti punti.
1) Concetto fondamentale della filosofia di Scoto è il concetto di teofa-
nia, alla stregua di tale principio è escluso il panteismo dinamico. Difatti
per Scoto le cose, dice il Cappuyns, in tanto hanno valore in quanto sono
delle teofanie, nelle quali « nil alinli in eas intelligas nisi Ipsum » (3). Ed
allora secondo il C. quando Scoto afferma che Dio si crea nelle cose, ciò
significa che « Dieu se crée en ce sens quii se manifeste, que son oeuvre est
une « théophanie » (4). « Car la création de Dieu, e est-a-dire, sa manife-
station, e est la production des ètres » (5). Questa affermazione di Scoto è
la conclusione di alcune proposizioni panteistiche, nelle quali egli arriva a
dire che è Dio stesso che si crea nelle cose. Questa interpretazione del Cap-
puyns, a nostro avviso, molto poco convincente, pertanto riteniamo oppor-
tuno rifare un esame di tutto l'argomento. Infatti il passo riportato dal Cap-
puyns non è certo il più pregnante in senso panteista, e anche se lo fosse,
non deporrebbe certo in funzione della sua tesi. Ecco quanto scrive il C. :
« Il arrive a Jean Scot d'écrire que Dieu lui-mème est créé. Non pas que la
création soit le fait d'un autre, mais parce qu'on petit dire en un certain
sens que Dieu se crée. « Je trouve, dit le maitre, dans les livres de Saints
Pères qui ont essayé de parler de la nature divine, qui celle ci non seulement
crée toutes les choses mais encore est elle-mème créée: eam non solum omnia
quae sunt creare sed etiam creari. Et devant le disciple qui se scandalise,
il explique: « Tu sais par la foi et l'ìntellect que la nature divine n'est créée
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par personne... Tu ne dois donc pas douter, lorsque tu entends dire qn elle
est créée, que ce n'est pas un autre qui la crée, mais quelle ménie se crée:
Non ergo ambigis, dum ipsam creari audis, non ab alia sed a seipsa creari. »
(Ju'est - ce à dire ? « Lorsque nous affirmons que Dieu se crée, continue le
maitre, il ne faut rien entendre d'autre que la création méme des choses.
Car la création de Dieu, c'est-à -dire, sa manifestation, c'est la production
des étres. Ipsius namque creatio hoc est in aliquo manifestatio, omnium
existentium profecto est substitutio » (6).
Orbene abbiamo voluto riportare l'intero passo del C. per mostrare,
quanto questo passo, sia pure esso isolato, non dice affatto che la creazione
intesa come manifestazione escluda il panteismo. Difatti il termine teofania
può essere usato sia in senso teistico che in senso panteistico: ben può dirsi
che il mondo sia una teofania di Dio, purchè sia ben chiaro e fermo che
questa teofania sia ontologicamente altra da Dio e che abbia una sostanza
sua, la quale pur implicando per necessità logica ed ontologica, l'esistenza
(3) Op. cu., p. 316.
(1) Op. cit., p. 346.
(5) Op. cit., p. 346.
(6) Op. cit., p. 346.
-43-
dell'Essere necessario, non sia identificabile con la sostanza di Dio stesso.
Se però si usa il termine teofania nel senso della manifestazione stessa di
Dio, sicchè tale teofania non è dotata di autonoma sussistenza, ma è un modo
di essere e di atteggiarsi di Dio, allora il panteismo trionfa. Questo esame
manca nel Cappuyns, manca cioè un'esatta preliminare definizione del con-
cetto di sostanza in Scoto Eriugena, e quindi la sua affermazione è del tutto
gratuita o, meglio, contraddice al testo stesso che porta per esemplificazione
della tesi, la quale è così priva di una qualsiasi dimostrazione probante.
Vogliamo ancora, sia pur brevemente, soffermarci sui testi riportati
dall'Autore. Scoto afferma, a proposito dell'etimologia del nome Dio, che
esso viene dal greco ftéd), corro e che perciò tutte le cose sussistono in
quanto in esse è Dio, che si crea col correre; ora è chiaro che se Dio si crea,
manifestandosi nelle cose, tra Dio e le cose non vi è più differenza ontologica.
La realtà è una teofania la quale è costituita dal crearsi di Dio, non si dimen-
tichi che tutta la discussione sorge proprio dall'esatto significato dal quo-
modo Deus dicitur creati, ed allora ogni distinzione tra la realtà del mani-
festato e la realtà della manifestazione cade e la manifestazione viene assor-
bita sostanzialmente nel manifestato. Che sul passo in esame non si possa
assolutamente fondare un'interpretazione creazionistica viene chiaramente
dimostrato da un'analisi un po' più minuta dei paragrafi dell'opera dell'E-
riugena ai quali il Cappuyns ha inteso riferirsi. Infatti, dice Scoto, il nome
Dio ha una duplice origine -d-ewpò), vedere; %-iiù, correre, le due azioni
sono unificate perchè il vedere o conoscere di Dio è il suo correre nelle
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cose, nella sua simplicità conoscere e creare fanno un solo atto: egli cono-
scendo crea e creando conosce (7). D'altronde, aggiunge, non bisogna cre-
dere che il correre di Dio debba essere inteso come un movimento da parte
di Dio, essere immutabile, ma solo come la decisione della sua volontà che
fa essere le cose (8). Ed a questo punto va '.otato: 1) il moto volontario di
Dio non va inteso come se in Dio vi fosse i'na decisione e quindi un divenire,
ma s'identifica con la sua essenza (9); 2) il far venire all'essere le cose da
parte di Dio è un'apparizione della sua essenza. Dio perciò non solo è spiri-
tualmente in coloro i quali vivono secondo le virtù teologali, « ned etiam,
quia in omnibus, quae sunt, apparet, quae per scipsam invisibilis est, non
incongrue dicitur facta » (10). E' chiaro quindi che le cose, in quanto mani-
(7) De Div. nat., I, 4S2 D.
(8) « Deus ergo currens dicitur, non quìa extra se currat, qui semper in seipso
immutabiliter stat, qui omnia implet; sed quia omnia currere facit ex non-existentibus in
existentia » Ibid., 453 D.
(9) « Confectum est inter nos quod motu divinae naturae nihil aliud intelligendum.
praeter divinae voluntatis propositum ad ea condendo, quae facienda sunt. Fieri ergo
dicitur in omnibus divina natura, quae nihil aliud est, nisi divina voluntas. Non enim
est esse et velle, sed unum idemque velle et esse in condendis omnibus, quae facienda
visa sunt ». Ibid., 453 D.
(10) De Div. nat., 454 B.
— 44 —
festazioni di Dio, sono a Dio stesso essenziali perchè il loro essere è l'essere
stesso di Dio, ontologicamente identico, sia pure depotenziato, secondo lo
schema neoplatonico della degradazione.
Il Cappuyns poi nella sua conclusione riporta una citazione, in cui Scoto
afferma che Dio è nelle cose, come il pensiero è nelle sue idee e nei suoi
propositi, orbene questa citazione, che afferma l'inconoscibilità di Dio in se
stesso e la sua conoscibilità nelle cose, ha un sapore schiettamente pantei-
stico, per cui la manifestazione si pone come coessenziale col manifestato.
La citazione è questa : « ita divina essentia, quae per se subististens omnem
superat intellectum, in his, quae a se, et per se, et in se, et ad se faeta sunt,
recte dicitur creari, ut in iis site intellectu, si solummodo intellegibilia sunt,
sive sensu inquirunt, cognoscantur » (11). Invero l'immagine, di cui usa
l'Eriugena, del pensiero articolantesi nella molteplicità delle sue attivitÃ
non può certo essere inteso, come vorrebbe il C, in un senso dualistico, ma
semmai in senso monista: le idee, i propositi, le parole, non sono opere che
il pensiero pone fuori di sè, ma costituiscono la vivente dialettica in cui il
pensiero si esplica e con lui fanno tutt'uno. La teofania in tal modo intesa
non ha valore creazionista, ma panteista: l'essere della creatura consiste in
una divina apparizione che è l'essere stesso di Dio. Non possiamo quindi
sottoscrivere la conclusione del Cappuyns: « On le voit, ni la création éma-
native, ni la création passive de Dieu ne sont, au sens propre, des conceptions
érigèniennes; et nous sommes loin du panthéisme dynamiste » (12).
Ma se mal si regge la negazione del panteismo dinamico, ancor meno
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regge la dimostrazione condotta dall'A. per negare il panteismo statico o per
così dire sostanzialistica. Quest'esame, che dovrebbe essere il fulcro della
dimostrazione del teismo di Scoto è condotto con troppa rapidità in un'o-
pera tanto ricca di dottrina e di erudizione.
Perchè si possa parlare di teismo creazionistico occorre che si stabilisca
l'eterogeneità tra la sostanza di Dio creatore e la sostanza della creatura:
parlare di teofania, senza precisare quale sia il tessuto ontologico di questa
teofania, significa rimanere fuori dal problema. Questa seconda parte dell'a-
nalisi del C. con cui si cerca di stabilire il valore della sostanza è quindi
decisivo. L'A., dopo aver riportato alcuni passi dell'opera di Scoto sia del
« De Divisione » che del « De Praedestinatione », sostiene che l'affermazione
dell'Kriugena secondo la quale Dio è la sostanza delle creature, le quali sono
in Dio e Dio è nelle creature, debba essere intesa nel senso paolino: In ipso
vivimus, movemur et sumus. D'altronde, aggiunge il Cappuyns, Scoto inten-
de per sostanza l'essenza delle cose che è nel pensiero divino, quindi Dio si
identifica con la sostanza delle cose, nel senso che l'essenza della realtà è
nel pensiero di Dio ed è la nozione eterna che Dio ha delle cose, « Dieu est
(11) De Div. nat., 454 D.
(12) Cappuyns, Op. cit., p. 347.
— 45 —
tout et tout est Dieu, parce que le véritable étre des choses n'est pas celui
cju'elles paraissent avoir en elles-niémes, mais celni quelles ont dans la
connaissance divine, ou tout est un et Dieu méme ». (13) Al riguardo il
Cappuyns avverte che la riduzione della sostanza delle cose all'idea eterna,
presente nella mente divina può aprire l'adito ad un'interpretazione ideali-
stica del pensatore irlandese, interpretazione che dall'A. è esclusa con la
considerazione che Scoto E. parla della reale molteplicità degli effetti con-
tingenti delle cause primordiali.
Il nucleo di questa affermazione del C. è il seguente: è da escludere,
egli dice, che l'Eriugena affermi un monismo sostanzialista, perchè se è vero
che per lui Dio si identifica con la sostanza delle cose, qual'è nel suo eterno
pensiero, egli parla pure di una realtà degli effetti contingenti. Infatti men-
tre le cause primordiali sono una partecipazione di primo grado, in quanto
partecipano direttamente Dio, gli effetti sono una partecipazione di secondo
grado. A nostro avviso occorrerebbe un'analisi ben più approfondita. Affer-
mare che Scoto ammette una realtà molteplice non vale certo a scagionarlo
dal monismo; nessun monista, a cominciare da Parmenide, ha mai negato
la molteplicità nella sua apparenza fenomenica soggettiva ovvero oggettiva.
Pertanto, perchè possa escludersi il monismo, occorre che gli effetti molte-
plici delle cause primordiali, o seconda teofania, come li chiama Scoto Eriu-
gena, siano dotati di sostanzialità propria: non basta cioè affermarne l'esi-
stenza.
Certamente, ed in questo il C. ha ragione, non possiamo parlare di pan-
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teismo idealistico di Scoto Eriugena: è vero, come vedremo, che nell'Eriu-
gena noi troviamo la negazione della materia, ma essa è una manifestazione
fenomenica di elementi corporei immateriali. Siamo quindi ben lontani dal-
l'aco8mismo idealistico, che molto più tardi comparirà nella storia della
filosofia (14).
Ma ripetiamo, negare il panteismo idealistico e dire che Scoto ammette
la molteplicità , non significa negare tout court il suo panteismo. Nè la parte-
cipazione può valere a scagionare l'opera eriugeniana dal panteismo: la
teoria della partecipazione, come osserva S. Vanni Rovighi, può essere in-
tesa sia in un senso panteistico e sia in un senso teistico. Se, infatti, parte-
cipare alla realtà delle cause primordiali ed alla realtà di Dio significa che
la realtà del mondo si esaurisce nell'essere ontologicamente una parte dell'es-
sere di Dio, allora il panteismo trionfa.
(13) Op cit., p. 351.
(14) Se diciamo che la dottrina di Scoto Eriugena non possa essere considerata come
una forma di acosmismo, intendiamo questo termine nella sua comune accezione e non nel
senso in cui l'usa Hegel nel par. 50 dell'Enciclopedia, in cui il termine viene riferito al siste-
ma di Spinoza che assorbe il mondo in Dio. Nell'accezione Hegeliana ogni panteismo, e
quindi anche la dottrina di Scoto, per quell'aspetto che ha di panteismo, è acosmismo.
— 46 —
Si presenta per il termine partecipazione, termine equivoco di una dot-
trina che allo stesso Platone, che ne fu l'inventore, apparve insostenibile,
la stessa ambiguità del termine teofania, col quale in parte coincide. Dire
che gli esseri sono, in quanto partecipano di Dio, non significa affermare,
ne escludere la riduzione dell'essere delle creature all'essere del Creatore.
La risposta al problema deve essere data dal concetto di sostanza. Se cioè,
ripetiamo, la creatura è fornita di un'autonomia ontologica, benchè creata,
allora il panteismo è superato, diversamente il panteismo trionfa. Il Cappuyns
s'impiglia in un circolo vizioso. Difatti, dopo aver detto che la realtà della
creatura, come effetto delle cause primordiali e indiscutibile, e che essa è
una partecipazione delle cause primordiali, che a loro volta sono una parte-
cipazione di Dio, quando si tratta di spiegare l'essenza di queste partecipa-
zioni e scagionarla dall'interpretazione panteista, quale risulta dai testi di
Scoto, che parlano di Dio come unica e vera sostanza di tutte le realtà , egli
rimanda alla sua teoria della teofania. Ma noi qui abbiamo un evidente cir-
colo vizioso, in quanto la teofania deve, per poter essere interpretata teisti-
camente, esser chiarita dalla realtà sostanziale della creatura, questa intanto
viene chiarita con un rimando alla teofania. In realtà il problema non viene
risolto, se infatti contenutisticamente teofania e partecipazione si equival-
gono, noi abbiamo un giudizio tautologico che nulla spiega (15). Ma invero
lo stesso Cappuyns è tanto poco convinto del valore della sua dimostrazione
che immediatamente dopo questa affermazione si preoccupa di citare passi
dai quali risulta che la realtà molteplice della creatura non si può ridurre a
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Dio (16). Come risulta dalla lunga citazione riportata in calce la spiegazione
(15) Giova riportare qualche passo della dimostrazione del Cappuyns onde rilevarne
meglio l'assoluta debolezza: « Ces participations du deuxième degré, que l'on appello
également c< théophanies », quelle réalitè propre convieni - il de leur reconnahre ? Sont -
elles simplement, camme les causes primordiales, des étres de raison immaginés pour
représenter en quelque manière l'essence unique de Dieu? Ore pourrait le croire à ne lire
que super ftei et lement certaines phrases comme celles-ci: « Caetera quae dicumur esse, ipsius
theophaniae sunt, quae etiam in ipsa vere subsistunt; nil enim extra ipsum vere essentiale
dicitur, quia omnia quae ab eo sunt, nil aliud sunt in quantum sunt. nisi partecipatio
ipsius qui a seipso solus per seipsum subsistit ». Mais les explications que nous avons
données dans les pages préeédents concernant la theoria théologique et le vere esse
réservé « Dieu seni, ne permettent pas de s'y méprendre. Et n'eussions-nous dans le
De Divisione naturae a"uutre garantie de la réalitè distincte des étres contingents
que les restrictions expresses uvee les quellen Dieu est identifié nux choses, il ne
seruit pas permis de la mettre en dout. De fjit preoccupé avant tout de retrouver dans les
créatures les vestiges de Dieu, les théophanies - ne vu t'on pus jusq'à ne considérer dans les
six jour de la Genèse que Vintelligibilis septimana, le symbole des causes primordiales ?
- Jean Scot ne s'arréte guère à définir leur étre propre. » (Op. cit., pp. 354-55). Ma veramen-
te quest'affermazione non è soddisfacente: affermare che Scoto non si preoccupa di stabilire
l'essere proprio della creatura, dopo aver affermato che la vera realtà essenziale delle cose
è Dio, significa non già addurre una prova per la sostanzialità delle cose, ma anzi negarla.
(16) La citazione precedente così continua onde mostrare che se anche, come ha detto
prima, « Jean Scot ne s'arréte guère à définir leur étre propre (della creatura cioè) Nèon-
_ 47 —
del Cappuyns, non offre nessuna chiarificazione al problema, nè riesce a
suffragare la tesi del teismo creazionistico di Scoto.
Il ragionamento dell'A. può così schematicamente riassumersi: le affer-
mazioni di Scoto intorno a Dio, unica e vera realtà , sostanza di tutte le cose,
vanno intese nel senso che Dio è in tutte le cose perchè queste sono sue
teofanie e partecipano del suo essere, difatti, egli dice, Scoto parla anche di
una realtà delle cose corporee sia pure essa depotenziata. Ora si noti: 1°) la
teoria della teofania e della partecipazione non decidono per la loro biva-
lenza, nè per il panteismo, nè per il teismo; 2°) le citazioni in senso teistico
dualistiche addotte dall'A., ci dicono che in effetti in Scoto i testi panteistici
ed i testi teistici si susseguono l'uno all'altro, ma si conciliano ? E' questo
il punto di cui il Cappuyns non dà alcuna dimostrazione, perchè la teoria
della teofania e quella della partecipazione, non possono certamente, per le
anzidette ragioni, servire da spiegazione. In fondo l'A. dà per ammesso il
teismo di Scoto, valorizzando, senza sufficiente motivo, i testi teistici, e cerca
di trovare una spiegazione dell'apparente contraddizione nelle teoriche della
teofania e della partecipazione, che ripetiamo da sè non spiegano nulla, anzi
come sono nei testi eriugeniani si prestano ad un'interpretazione in senso
panteistico, più che teistico. L'A. è preoccupato di trovare un significato uni-
voco al pensiero di Scoto e quindi, sbrigandosi facilmente, troppo facil-
mente, della espressione panteista della filosofia di Scoto, sostiene senz'altro
il suo teismo. Ma il suo ragionamento si può capovolgere e si può dire col
Turner, che l'espressioni teistiche di Scoto non hanno importanza : « giacche
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non sono che un uso incidentale del modo comune di parlare, essendo certo
che Eriugena sostiene l'ente delle creature essere l'ente di Dio, e che, per
la creazione, Dio diventa le sue creature » (17); per questo autore, dato il
significato indiscutibilmente panteista di Scoto alle espressioni teistiche non
« possiamo dare alcuna importanza filosofica, a meno che non lo vogliamo
accusare di contraddizione con se stesso » (18). Il ragionamento del Cappuyns
è lo stesso di quello del Turner, ma in senso contrario. Togliamo essi dicono
la contraddizione nel pensiero di Scoto, ma senza, aggiungiamo noi, sacrifi-
care nessuna parte ad un'altra.
moins, on trouve dan sdii oeuvre un certain nombre d'indications qui sont camme aiti ani
d'aveux explicites. Après avoir groupé, sous le nom un peti équivoque de creatura, les
causes primordiales et leurs effets contingenta, il nous dit par exemple: la distinction
entre ces deux formes de la quadruple nature n'est pas, commc celle qui discerne entre
les deux autres, - Dieu - principe et Dieu fin - le fruit de notre esprit ; elle se rencontrc
également dans la nature des choses, ou les causes sont séparées des effets » iOp. cit.
p. 355.) In realtà questa separazione delle idee dalle cose, come diremo, deve intendersi
come una separazione conseguente al peccato e che non riguarda la sostanza delle cose
molteplici, che permane sempre nelle cause.
(17) W. Turneh, Storia della Filosofia, trad. it., S. A. T., Vicenza 1936, voi. I, p. 280.
(18j Op. cit., ibid.
— 48 —
In base quindi alle predette affermazioni, che si riducono alla teoria
della partecipazione ed alla teoria della teofania, il Cappuyns nega il pan-
teismo di Scoto affermando che se un'identificazione c'è tra Creatore e crea-
tura, questa identificazione appartiene solo alle due prime nature, cioè alla
Natura creans nec creata con la Natura creata creans, pertanto di monismo,
in senso stretto, non si può parlare, ma di un « monisme exemplariste », che
lascia pienamente sussistere fuori di Dio e del suo Verbo la sostanzialità della
creatura (19). Se 1' « anima » di Scoto, per usare un'espressione di Mons.
Olgiati, fosse nel monismo esemplarista, inteso come identificazione di Dio
con le sue idee eterne, la stessa designazione si potrebbe usare per tutti i
filosofi cristiani. Ossrva L. De Simone a proposito di questa designazione:
« l'utto si accomoderebbe con un esemplarismo alla maniera agostiniana;
ma i testi di Scoto si esprimono ben altrimenti e indicano la prospettiva {in
senso panteistico o non, ciò che è in discussione) dell'unificazione del reale
in Dio » (20). Eloquente circa l'interpretazione del Cappuyns, il giudizio del
Del Wulf. clii' nell'ultima edizione del suo Manuale pur sostiene la trascen-
denza di Dio nel pensiero dell'Eriugena. Egli in una nota così si esprime:
« Doni Cappuyns conclude chiamando il sistema di Scoto un monismo esem-
plarista. L'unità di cui si tratta non riguarderebbe l'ordine dell'esistenza del
creato, perchè, dice l'autore, appartiene unicamente all' ordine della causa-
lità esemplare e riguarda il modo con cui l'essenze sono conosciute da Dio,
e per conseguenza contenute in lui. Interpretazione fedele, ma incompleta,
perchè trascura la realtà del creato realizzato fuori da Dio. Tutto il De Divi-
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sione non sarebbe che un lungo commento alla tesi esemplarista di S. Ago-
(19) Ecco per esteso la conclusione del Cappuyns sulla negazione del panteismo:
« Quant uu grief de panthéisme, nous ne lui avons pas trouvé davantage de fondement
serieux. Certes, Erigène est porte uu paradoxe comme aux doctrines ésotèriques: les mots
n'ont pas toujours chez lui leur sens usuei: et par surcroit son vocabulaire Théologique,
comme celui de ses traductions, est inconstant. Mais le monisme, qu'un examen imparimi
nous a fait découvrir dans son oucvre, n'est ni un monisme substantialiste, ni un monisme
idéaliste, ni comme on l'a dit un panthéisme thèistique. Il n'est pas davantage un simple
méthode, une sorte de monisme conceptualiste. Etroitement rivé à ses sources grecques, le
Pseudo-Denys et Maxime el Confesseur, il n'est que la forme chrétienne du monisme
néoplatonicien, exprim.ée au moyen d'un terminologie latine dèfecteuse. L'unité que ce
monisme chrétien suppose entre Dieu et la créature n'est pas une identité: elle ne se tieni
ni dans l'ordre de l'existence, ni dans l'ordre des essences individuelles informées par
l'existence; elle appartieni ioni entière a l'exemplarisme. Considérés sous l'angle de ce
dernier, Dieu contient en lui toutes les créatures, et toutes les créatures sont des théopha-
nies de Dieu. La conception moniste qui en résulte ne confonde ni ne supprime les
Substances, et d'autre part nunifie pas seulement des concepts. Elle prétende s'attacher
aux réalités les plus élevées, à l'aspect éterne!, immuable, divin des choses, e'est-à -dire,
d'aprés les déclarations expresses de notre auteur, à Dieu et aux prototypes divins des
créatures. Bref, s'il nous fallait caractèriser d'un mot le monisme de Jean Scoi nous l'ap-
pellerions: monisme exemplariste » Op. cit., p. 585.
(20) Lidovico de Simone, Op. cit., p. 89.
— 49 —
stino: si semplifica troppo e si svuota l'opera di ogni originalità . Qualifica-
zione d'altra parte, equivoca, perchè essa usa l'espressione monismo in un
senso abusivo per indicare che le idee divine, prototipi dell' essenze, non sono
altro che Dio. In questo modo tutti i pluralisti del Medio evo sono monisti,
e ciò difatti sembra ammesso da Dom Cappuyns che parla di un monismo
cristiano » (21). Ma crediamo che vi sia a proposito dell'esemplarismo di
Scoto da fare ancora alcuni rilievi all'interpretazione del Cappuyns.
Innanzitutto non è esatto che l'esemplari smo di Scoto sia lo stesso esem-
plari «ino di S. Agostino: tra i due esemplarismi vi è un'abissale differenza,
quella cioè che passa tra l'assoluta trascendenza delle idee di Platone, ripen-
sato da Agostino in senso teistico, e l'emanatismo Plotiniano, che si ribella
ad una rettificazione teistica dualistica (22). Ora mentre per Agostino il
Verbo, generato da Dio, è identico con le essenze primordiali, per Scoto inve-
ce il Verbo, generato da Dio ed identico a lui per natura, si distingue dalle
cause primordiali, come Creatore e creatura : teoria indiscutibilmente equi-
voca, ma fondamentale per intendere il pensiero di Scoto (23). Difatti se le
essenze delle cose sono creature, sia pur fuori dallo spazio e dal tempo,
e se Dio s'identifica con queste creature, e su ciò il Cappuyns è d'accordo,
allora abbiamo un chiaro emanatismo, per cui Dio e la creatura s'identifi-
cano. Per ora noi abbiamo l'identificazione di Dio con l'essenze delle cose,
che però, come abbiamo accennato e come svolgeremo diffusamente, sono
inferiori a Dio epperò sue creature (natura creata creans). Per il momento a
noi non interessa stabilire quale sia il rapporto tra l'universale ante rem
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e l'universale in re, cioè tra la sostanza seconda e la sostanza prima, per dirla
con Aristotele, ma solo i rapporti tra l'universale ante rem e Dio, e dal fin
(21) Maurizio de Wulf, Storia della Filosofia Medioevale, Fiorentina Editrice, Firenze
1944, voi. I p. 137, nota 37.
(22) A questo proposito siamo pienamente d'accordo con la tesi sostenuta dal P. Carlo
Boyer per il quale S. Agostino non è mai stato neoplatonico, ma il Neoplatonismo è stato
per lui il mezzo onde acquistare il senso della spiritualità per superare il materialismo
dei Manichei (v. C. Boyek, Christianisme et Neoplatonisme dans la formation de Saint
Augustin, Officium Libri Catholici, Romae 1953, pp. 215). Il sistema di Scoto Eriugena
rappresenta invece il tentativo di cristianizzare Plotino, di qui l'aspetto panteistico del
sistema e la teoria della partecipazione, che intesa in senso neoplatonico è indiscutibil-
mente panteista.
(23) A questo proposito molto chiare sono le pagine dedicate a Scoto dal Gilson.
Quest'autore difatti dopo aver discusso in che senso le idee sono creature, in quanto
non sono Dio, ed in che senso non sono identificabili tout court con le creature,
perchè fuori dallo spazio e dal tempo, così conclude: « Lui - méme déclare dans le De
Divisione naturae (II, 21): Nous croyons absolument que le Fils est tout à fait coéternel au
Pére, quant aux choses que le Pere fait dans le Fils. nous les disons coéternelles au Fils,
mais pas tout à fait coéternelles (non mitem omnino coaeterna). Le Verbe est Dieu, cornme
le Pére; les Idées ne sont que de partecipations de Dieu. Reste le texte ou Scot Erigène
re fuse aux Idées le nom de créatures, mais parce qu'il definit la créature: ce qui a un
commencement dans le temps, et non parce qu' il refuserait une cause dans l'ordre de
— 50 —
qui detto risultano due considerazioni. 1) Ammessa l'identificazione delle
cause primordiali con Dio mostrato che queste sono creature di Dio ne viene
di conseguenza, come già si è detto, che Dio non è più identico con se stesso,
come nella relazione col Verbo, ma con una sua creatura. Se quindi noi
dovremo parlare di teofania, la teofania in questo caso sarà in senso pantei-
stico, perchè non è essa teofania una realtà autonoma, ma una degradazione
della stessa sostanza di Dio. 2) Se il processo di autocreazione da Dio alle cause
primordiali è lo stesso processo, qualitativamente identico, a quello da Dio al-
le realtà contingenti allora è ovvio che, come Dio s'identifica con le cause pri-
mordiali, con un processo, ontologicamente identico, sia pur quantitativamen-
te diverso, si identificherà anche con gli effetti delle cause contingenti. Cioè
noi avremo che come le cause primordiali sono identiche alla sostanza di Dio,
di cui sono una degradazione, così gli esseri contingenti sono essenzialmente
strutturati dalla sostanza divina numericamente una, ma degradantesi in un li-
vello inferiore. D'altronde è il Cappuyns stesso che ci porta, con l'afferma-
zione che segue, a questa conclusione. « La manifestatìon pour la quelle Dieu
est dit se créer lui-méme est doublc. Elle se réalise d'abord dans le causes
primordiales; creatur enim a seipsa in primordialibus causis, ac per hoc
seipsam creat, hoc est, in suis theophaniis incipit apparere. Ensuite dans
les effets contingents de ces causes: creatur enim discendens in extremos
effectus ultra quos nil creat » (24). Ora è chiaro che per Scoto il procedi-
l'étre. Erigane est on ne peut plus formel sur ce point: les Idées eternelles rentrent dans
l'ordre de ce qui vieni après Dieu, paree que Dieu en est la cause. Ceci posé, peu imporre
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qu'on leur donne ou non le titre de créatures: de quel nomme qu'on le mimme, puisqu'elles
sont des ètres inférieures à Dieu, on ne voit plus comment elles pourraient ètre Dieu o
(Etienne Gii.son, La philosophie au Moyen Age, II ed., Payot, Paris 1947, pp. 211-212.)
Lo stesso autore a p. 261-62 a proposito delle idee eterne nel pensiero di Bernardo di
Chartres scrive: « En effet, l'Idée n'atteint pas ce degré d'égalité a Dieu: Sa nature lui est
en quelque sorte postérieure, elle en est camme un effet (velut quidam effectus) cache au
sein du conseil divin; éternelle assurément, puisqu'elle ne deperid d'aucune cause extrin-
seque, mais pas coéternelle à Dieu, puisqu'elle dépend de lui. » (Op. cit., p. 261). QueBta
concezione, secondo il Gilson, è stata da Bernard di Chartres presa da Scoto Eriugena ed
è diversa dall'EsempIarismo agostiniano, per il quale le idee s'identificano col Verbo.
(24) Cappuyns, Op. cit., pp. 346-47. Per maggior chiarezza crediamo utile riportare
l'intero passo del « De Div. nat. » (III, 689 B-C.) Dal passo ci pare che emerga una tesi
contraria a quella sostenuta dal C: « Ralionem meditimi, restare solummodo arbitror,
quae duplici modo contemplatoribus suis arridet. Primo quidem, quando et creari, et
creare conspicitur divina natura. Creatur enim a seip a in primordialibus causis, ac per
hoc seipsam creat, hoc est, in suis theophaniis, incipit apparere, ex occultissimi^ naturae
suae finibus volens emergere, in quibus et sibi ipsr incognita, hoc est, in nullo se cognoscit
quia infinita est, et supernaturalis, et superessentialis, et super omne, quod potest intelligi
et non potest, descendens vero in principiis rerum, ac veluti seipsam creans in aliquo
inchoat esse. Secundo vero, dum in extremis effectibus primordialium causarum percipicitur,
in quibus creari tantummodo, non autem creare recte praedicatur. Creatur enim descendens
in extremos effectus, ultra quos nil creat, ideoque dicitur creari solummodo, et non creare.
Non enim ultra extremos effectus descendit, quo et creari et creare videretur. Creatur
— 51 —
mento con cui Dio si manifesta, si noti, creandosi nelle cause prime è ontolo-
gicamente identico a quello con cui si manifesta nella realtà contingente,
epperò, stando alla stessa affermazione del Cappuyns, se le cause primordiali
sono identiche con Dio, anche gli effetti creati saranno identici con lui, sia
pure in senso diverso, perchè ulteriori sue degradazioni. Il nostro lungo
discorso quindi ha voluto mostrare tre punti a proposito dell'interpretazione
del Cappuyns.
1) Parlare di teofania e di partecipazione per salvare il sistema di Scoto
dal panteismo, non ha assolutamente nessun senso, perchè prima occorre
stabilire la natura del manifestato o del partecipato che dir si voglia.
2) L'espressione di monismo esemplaristico è ambigua e non tien conto
che le cause primordiali sono per Scoto creature e quindi dire che Dio
s'identifica con le cause primordiali, che peraltro per lo stesso Cappuyns,
sono teofanie e partecipazioni, significa dire che Dio s'identifica con una
creatura.
3) Ammesso che Dio sia identico con le cause primordiali, poichè dalla
citazione addotta dallo stesso Cappuyns, e se ne potrebbero addurre altre e
più significative, risulta che il procedimento di derivazione è identico sia
per le cause primordiali che per le cose, ne risulterà che sia le cause primor-
diali che gli effetti contingenti sono un'autocreazione di Dio.
La negazione del panteismo dinamico e del panteismo statico, addotta
dal Cappuyns non ci convince, e aggiungiamo non ci convince proprio da un
esame dei testi da lui addotti. Eppure nel fondo di questa tesi vi è un prin-
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cipio di verità : Dio pur essendo la sostanza delle cose è nello stesso tempo
trascendente alla molteplicità spazio temporale, egli cioè rimane « segre-
gattmi » dalla creatura. Ora il problema a nostro avviso consiste non giÃ
nel sottovalutare un aspetto di fronte all'altro, ma di render conto dell'uno e
dell'altro ugualmente importanti nella problematica filosofica dell'Eriu-
gena. E' ovvio che per intendere il problema, senza nessuna unilateralità ,
bisogna però trovare il punto d'incontro delle due, apparentemente opposte,
esigenze. Noi vedremo quanta coerenza vi sia nel pensiero dell'Eriugena,
per ora ci preme sottolineare che assolutamente di contraddizione non si può
parlare, perchè in tal caso bisognerebbe, data la molteplicità dei testi nel-
l'uno e nell'altro senso, ritenere che manchi a Scoto qualsiasi senso filoso-
ergo et creat in primordialibus causis; in earum vero efj'cetibus creatur, et non creat. Nec
immerito, quoniam in ipsis finem descensionis suae, hoc est, apparitionis suue constituit. »
Il De Wulf che, pur criticando il Cappuyns, ne ha sentito tanto l'influenza da cambiare
completamente il suo parere intorno a Scoto Eriugena, che da panteista quale era consi-
derato nella prima edizione, diventa teista nella sesta, così scrive, nella ultima edizione,
intorno al concetto di sostanza dell'Eriugena : « Dio è nelle cose particolari senza perdere
niente della sua immutabilità , ed emerge così dal profondo della sua infinità . Alla fin fine
non c'è dunque che un'unica sostanza, Dio » (Op. cit., p. 131). Non riusciamo a compren-
dere come Scoto non sia panteista, se Dio è l'unica sostanza.
— 52 —
fico del problema. Di teismo o di panteismo non si può perciò parlare in
senso assoluto, perchè allora unilateralmente si tenterà di sacrificare un
aspetto all'altro del complesso problema. Urge quindi, onde poter trovare
una via che soddisfi l'una e l'altra esigenza, iniziare un'esame della nozione
di sostanza nel pensiero di Scoto, prima però vogliamo esaminare le altre
interpretazioni in senso creazionistico, e poi quelle in senso nettamente
panteistico.
La tesi del Cappuyns è stata seguita da alcuni storici che, basandosi sulla
teoria della partecipazione e della teofania, e valorizzando le espressioni
teistiche dell'opera dell'Eriugena, hanno negato il panteismo di Scoto. Que-
sti storici sono E. Gilson, Sofia Vanni Rovighi e G. Bonafede, che al pen-
siero di Scoto ha dedicato una recente monografia, in cui la filosofia di Scoto
è rivendicata con un'ampia esposizione del suo pensiero: il Cappuyns inve-
ce, male interpretando il soprannaturalismo Patristico di Scoto, per cui filo-
sofia e teologia s'identificano, ha negato l'esistenza di un pensiero filosofico
nell'opera di Scoto.
In un capitolo della sua storia della Filosofia Medioevale (25) E. Gilson
ricostruisce, enucleando in sintesi i vari problemi, il ricco pensiero di Scoto,
in cui riconosce un'assoluta novità di fronte ai suoi contemporanei ed ai suoi
predecessori. Anche egli, d'accordo col Cappuyns, offre un'interpretazione
teistica creazionistica ed anch'egli fa leva sui concetti di « teofania » e di
« partecipazione » (26). L'opera e la dimostrazione del Gilson sono, per
penetrazione filosofica sia pure nei limiti brevi di un'esposizione manuali-
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etica, al di sopra di quella del Cappuyns, tuttavia neanche si dimostrano
convincenti di fronte ad un sereno esame. Come abbiamo detto a proposito
dell'opera del C. sia la teoria della teofania che quella della partecipazione
in 6e e per sè, non depongono positivamente nè per il teismo nè per il pan-
teismo, la decisione spetta alla costituzione ontologica dell'esistente, se que-
(25) Etienne Gilson, Op. cit., pp. 201-222.
(26) « Pour nous, le créateur est cause de l'étre de la créature, et ce qui définit une
^créature comme telle, e'est quelle tienne son étre de son créateur. Là ou nous ramenons
tout à des rapports de cause à effet dans l'ordre de Vétre, Erigène pense plutot à ce que
sont, dans l'ordre de la connaissance, le rapport de signe a chose signifiée. Le Dieu
d'Erigène est comme un principe qui, se sachant incompréhensible, déploierait d'un seul
coup la totalité de ses conséquences, hors dei soi afin de s'y révéler. Un tei Dieu n'agit
jamais hors de soi que pour se « manifester ». Cet acte d'automanifestation divine qui
occupe une place importante dans la doctrine d'Erigène, est ce quil nonne, en se récla-
mani de Gregoire de Saziarne et de Maxime le confesseur, une « théophanie ». A quelque
degré qu'on la considère, la production des ètres par Dieu n'est qu'une théophanie
Pour Dieu, créer est se révéler, D'où il resuite que comme la création est ré-
vélation, la révélation est création. C'est pourquoi Scot Erigène va jusqu'à dire que Dieu se
crée lui mime en crèant les ètres. » (Op. cit., p. 212). Non sappiamo in qnal maniera si pos-
sa escludere il panteismo di Scoto, quando si dice che il mondo è un automanifestarsi di
Dio, la teofania, in questa forma, è l'essere di Dio stesso, sia pur degradato.
— 53 —
sto sarà costituito da una sostanza autonoma, dipendente nel suo essere da
Dio, ma da Dio nettamente ed infinitamente distinto, noi avremo un siste-
ma teistico, creazionistico, diversamente no. Ora, a proposito della produ-
zione delle cause primordiali, l'A. afferma che esse rappresentano la prima
manifestazione di Dio e il loro essere sostanziale è una degradazione della
stessa sostanza divina, numericamente una, che soggiace sia a Dio che alle
cause primordiali (27). Giustamente il Cilson mostra come l'esemplarismo
eriugeniano sia ben diverso dall'esemplarismo agostiniano, in quanto per
l'Eriugena le cause primordiali, pur essendo coeterne, sono create: è chiaro
quindi che tra il Creatore e la creatura, sia pure la prima fra tutte, vi è
identificazione di sostanza. E' la stessa sostanza divina, che è in sè incono-
scibile, e nelle creature conoscibile. Ma come le cause primordiali, così an-
che la terza natura è una manifestazione dello stesso Dio. In realtà ci riesce
inspiegabile come il Gilson possa, dopo le affermazioni riferite, sostenere
che Scoto non è panteista. Egli dice che l'essere delle cose è fatto dal nulla
della propria esistenza e dal nulla che è il Super Essere di Dio, ma tuttavia
conclude che è falso l'aspetto panteistico del pensiero dell'Eriugena: esso, a
suo dire, sorge perchè « Encore une fois, il parie d'autre chose, qui est le
rapport d'une pensée a sa formule, ou d'un principe à son explication » (28).
E non è forse questa la miglior prova dell'immanenza di Dio nelle cose ?
Possiamo ripetere per il Gilson, quanto si è detto per il Cappuyns, e
cioè che la teoria della teofania e della partecipazione non valgono a supe-
rare l'interpretazione panteistica del pensiero di Scoto Eriugena: tutti gli
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elementi della ricostruzione del Gilson sono più in favore della tesi pantei-
stica che della tesi teistica.
(27) « Considerées nous cet aspect, les idées divines sont la première autocréation de
Dieu. En elles, la nature divine apparali camme à la fois créatrice et créée. Elle crée par
elle-méme dans ces causes primordiales, elle s'y crée-elle-méme, c'est-à -dire qu'elle y
commence d'apparaitre en ses théophanies, voulant pour ainsi dire émerger du secret le
plus caché de sa nature Dieu lui méme ne peut se connaitre que comme un étre, une
nature, une essence, c'est-à -dire comme fini; or il est infini, au delà de l'étre, de la
nature et de l'essence; pour se connaitre, il lui faut donc commencer d'ètre, ce quil ne
peut faire qu'en devenant quelque chose d'autre que soi. » (Op. cit., pp. 212-13). Quindi
la creazione è, come appare dalle parole stesse del Gilson, una manifestazione di Dio:
è cioè Dio stesso che appare nelle cose la cui sostanza si riduce ad un depotenziamento
(emanazione) della sostanza di Dio.
(28) Op. cit., p. 215. Riportiamo a chiarimento di quanto sopra alcuni passi signi-
ficativi dell'opera del Cilson: « Créées du néant, c'est-à -dire du néant de leur propre
existence, les choses, le soni aussi de ce Néant qu'est le super-étre, c'est-à -dire Dieu » {Op.
cit., p. 214.) A proposito della teoria deìVousia, così è detto: « Le fond stahle et substatiel
des étres reste donc l'essence intelligible et invisible d'où jaillit tout le reste, et qui tombe
directement sous l'ade crèatur » (Op. cit., p. 218.) Se quindi l'essenza delle cose è costi-
tuita dalle idee eterne, che pur essendo create, sono consustanziali al Verbo, tanto da
costituire con Lui un'unità , allora è chiaro che Dio s'identifica con l'essenza stessa delle
cose. Svilupperemo in seguito e diffusamente questo punto, che costituisce il fulcro della
— 54 —
Il tema della teofania e della partecipazione è stato ripreso da G. Bona»
fede (29), che dedica una lunga indagine oltre che alla ricostruzione
del pensiero, anche a mostrare infondati il razionalismo e il panteismo attri-
buiti all'Eriugena. Conveniamo senz'altro con l'A. per quanto riguarda la
negazione del razionalismo: per quanto riguarda invece il teismo di Scoto,
riteniamo che la teoria della teofania non salvi Scoto dal panteismo, perchè
l'autonomia della sostanza creata non ci pare possa sostenersi. A differenza
degli altri storici il B. appunta la sua attenzione sul concetto di sostanza:
questa, a suo dire, è distinta dalla causa primordiale, che è l'essenza, la
quale poi, nell'esemplarismo originale dell'Eriugena, non è identificabile
con Dio.
Come intendiamo dimostrare in seguito, la sostanza delle cose, che esi-
ste nello spazio e nel tempo, non è altro, a nostro avviso, che un accidente
dell'essenza; d'altronde, come emerge dal passo riportato (30), si nota che
nostra interpretazione, per ora ci basti notare che per Scoto mentre Vousia delle cose è
nel pensiero di Dio, la sostanza soggetta allo spazio e al tempo è solo un accidente della
essenza. Lo stesso Gilson nell'edizione precedente del suo manuale così si era espresso:
« // n'y a (Ione de réel et d'existant dans la créature que ce qu'elle tien! de Dieux et à ce
titre la création est fait de Dieu, son étre est celui de Dieu » (Etienne Cilson, la Philo-
Sophie au Moyen age, Payot, Paris 1925, p. 18.) In questa precedente edizione il Gilson,
pur lasciando insoluta la questione intorno al panteismo di Scoto, non manca di notare
come l'insieme del sistema mostri i pericoli di una costruzione fondata sul Neoplatonismo
« Visibilment, la perspective que l'on embrasse d'un tei point de vue ne laisse pas au
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monde de la Création le degré de la réalité et d'existance pour soi que le dogme semole
requérir » (p. 25). Se quindi si riconosce come substrato della dottrina di Scoto l'emana-
tismo neoplatonico è chiaro che la pretesa distinzione tra il Creatore e la creatura sfuma,
non essendo quest'ultima che un fugare apparire di Dio stesso « La créature, dit-il, subsite
en Dieu et Dieu se crée, d'une manière ineffabile et secrète, en créant la créature; invi-
sible, il se rend visible; incompréhensible, il se donne une essence et une nature; créateur
de l'univers, il devent univers créé et lui qui produit toute chose devent produit en toute
chose. Ainsi donc du sommet jusq'au plus humble degré de la hiérarchie des ètres, Dieu
nous apparali comme toujours éternel et toujours créé; il se produit lui-méme de lui
méme; il crée de rien, c'est-à -dire, de cette ineffable et incompréhensible perfection que,
prise en elle-mème, n'est rien, puree quelle déborde l'ètre de toute pari » (p. 19). In
questa edizione, inoltre, il Gilson piuttosto che salvare dal panteismo tutta la filosofia di
Scoto, distingueva, ed a nostro avviso la distinzione è pienamente fondata, tra le inten-
zioni e il fatto. Parlare difatti di Scoto come un razionalista ed eretico, significa falsare
la sua prospettiva. Egli fu un'anima cristiana, che se errò, errò contro le sue intenzioni,
come si può desumere da tutta la sua opera.
(29) Giulio Bonafede, Op. cit., pp. 4291.
(30) Ecco per esempio un passo in base a cui il Bonafede ritiene che Scoto con la
teoria della teofania si ponga assolutamente fuori dal panteismo : « Per esempio Scoto,
parlando delI'espressione dell'Apostolo: in Dio viviamo, ci muoviamo e siamo, commenta:
Et ne quis aestimaret, aliud nos esse, et aliud nostras rationes, non dixil, in quo nostrac
rationes vivunt, et moventur. et sunt, sed dixit, in quo vivimus, et movemur et sumus.
Nihil enim aliud nos sumus, in quantum sumus, nisi ipsae rationes nostrae aeternaliter
in Dei subsitutae. Scrive ancora Scoto; Vera ratio et sacrae Scripturae auctoritas in hoc
-55-
l'essenza eterna e la sostanza esistente nello spazio e nel tempo, non sono due
realtà ontologicamente diverse, ma due modi di essere della stessa essenza
ontologicamente una, che è ab aeterno nel Verbo, pur essendo creata, e che
appare nello spazio e nel tempo, ove ha un'esistenza puramente accidentale,
per cui il corpo è una mera apparenza, ma non illusoria, di principi corporei,
in sè immateriali. Inoltre, se teniamo l'occhio alla resurrezione finale,
vedremo subito come il ritorno delle cose a Dio sia un ritorno delle creature
ai loro principi, cioè alle cause primordiali, dalle quali, motivo chiaramente
neoplatonico, esse non si erano mai del tutto staccate; ancora la dottrina
del trionfo del bene, d'ispirazione origeniana, si sostiene nell'Eriugena sul
presupposto, da lui tante volte ripetuto, che la sostanza è unica e quindi in
sè non può avere differenziazioni di sorta tra eletti e reprobi, ma che la
distinzione tra eletti e reprobi ha sede solo nell'accidente (31).
ÌNè certo di maggior convinzione è fornita la prova condotta dal B. sulla
teoria della partecipazione; perchè, lo ripetiamo ancora, sull'oscura nozione
della partecipazione, possa costruirsi una teoria creazionistica, occore che
tra partecipante e partecipato non vi sia identità di sostanza, se invece l'es-
unanimiter consentiunt, et non alia esse quae aeterna timt, et alia quae facta, sed eadem
sunt situai et aeterna et facto. E ancora: Aliter sub illo (ti Verbo) sunt, dum per genera-
tionem facto in generibus, et formis, locis quoque, temporibusque visibiliter per materiam
npparent; aliter in ipso sunt, dum in primordialibus rerum causis, quae non solum in Deo,
rerum etiam Deus sunt, aeternaliter intelliguntur. Et ideo ait: ea, quae ipse est; non quod
alia sint, quae in Deo sunt, et Deus esse discuntur propter unitatem naturae et alia quae
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per generationem in mundum veniunt. sed quia una eademque natura aliter consideratur
in aeternitate Verbi Dei, aliter in temporalitate constituta mundi. Ma il significato esatto
di queste espressioni è iI seguente: le cose dipendono dalla conoscenza divina. Dio ha
creato quelle che ha conosciute, e non altre: Sancta siquidem Sophia non alia profitetur
Deum in seipso, priusquam fierent, ridisse, et alia postmodum in seipso fecisse, sed eadem
aeternaliter ri mi et aeternaliter factu. L'essenza quindi è identica ma i modi con cui questa
essenza ci si manifesta sono differentissimi. L'Eriugena non rinunzia alla differenza dei
modi per l'unità dell'essenza ne all'unità e identità dell'essenza per la duplicità dei modi.
/Voi non siamo in noi stesso una essenza differente da quella che Dio ha conosciuto e che
vive in lui e che è lui stesso, ma abbiamo un modo d'essere che è altro dall'essenza. Tra
essenza e natura la differenza è enorme, corrisponde a quella che passa tra idealità e
realità ». (Op. cit., p. 83). A noi pare che dai testi addotti dal B. emerga che la stessa
essenza, ontologicamente e numericamente una, sia nel Verbo e soggiaccia alla molte-
plicità delle cose, difatti l'Eriugena dice: « Non alia esse quae aeterna sunt, et alia quae
facta, sed eadem sunt simul et aeterna et facto », il che significa che tra'possibilità e realtà ,
tra essenza ed esistenza vi è identità . Difatti quando Scoto dice che aliter sono le essenze,
aliter sono le cose nello spazio e nel tempo, vuol riferirsi alla medesima realtà in momenti
diversi.
(31) Si noti come il trionfo assoluto del bene sia dall'Eriugena sostenuto non solo
con l'argomentazione filosofica che la sostanza in quanto creata da Dio è ottima e non
può nè accogliere il male, né soffrire la pena, ma anche con argomentazioni teologiche e
cioè, che Cristo, avendo salvato tutta l'umanità , non può esservi una parte della sostanza
umana soggetta al castigo eterno, pena la limitazione dell'opera salvatrice del Redentore.
- 56-
sere partecipante ha lo stesso essere del partecipato, allora siamo all'emana-
tismo neoplatonico con le inevitabili conseguenze ad esso connesse. Se Scoto
parla di Dio come unica essenza delle cose e della partecipazione, come di-
stribuzione dell'essere stesso di Dio alle cose, allora è chiaro che la creatura
sta al Creatore come parte a tutto. Così scrive il B. : E dirà ancora: « Est
igitur partecipano divinue essentiae assumptio ». La partecipazione fa esistere
gli esseri, è una largizione continua di bene , un flusso perenne che non
esaurisce la fonte, mentre va degradando negli esseri degli ordini inferiori,
per ritornare poi in maniera misteriosa alla fonte originaria: « Siquidem ex
fonte totum flumen principaliter manat, et per ejus alvenm aqua quae primo
surgit, in quantamcumque longitudine protendatur, semper ac sine ulla
intermissione defunditur. Sic divina bonitas, et essentia, et vita et sapientia.
et omnia, quae in fonte omnium sunt, primo in primordiales causas defluunt,
et eas esse faciunt, deinde per primordiales causas in earum effectus ineffa-
bili modo per convenientes sibi universitatis ordines decurrunt, per supe-
riora semper ad inferiora defluentia, iterumque per secretissimos ruttarne
poros occultissimo meatu ad fontem suum redeunt » (32). In realtà questo
passo, addotto dal B., e se ne potrebbero addurre ancora altri, ci da una
visione neoplatonica della realtà , in cui i vari gradi dell'essere sono degra-
dazioni della sostanza divina. L'interpretazione del Bonafede quindi neanche
riesce a dare alla dottrina della teofania e della partecipazione un signifi-
cato inequivocabile, tale cioè da evitare a superare gli scogli di un'interpre-
tazione neoplatonica a sfondo monistico.
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Anche sulla partecipazione fa leva Sofia Vanni Rovighi (33) per inqua-
drare filosoficamente Scoto e per stabilire il principio fondamentale del suo
pensiero. L'A. così scrive: « Scoto, seguendo l'ispirazione di tutta la teolo-
gia cattolica, si propone di chiarire, spiegare, comprendere per quanto è
possibile, il dato rivelato. Per compiere questo lavoro deve adoperare con-
cetti razionali, e adopera quelli che possiede, quelli de1la tradizione filoso-
fica che conosce. In particolare: Scoto vuole spiegare filosoficamente la crea-
zione, e per spiegare questo dogma egli adopera il concetto platonico e neo-
platonico di partecipazione, che è un concetto valido e fecondo senza dubbio,
ma ancora generico per esprimere il rapporto dell'; cose con Dio. E proprio
perchè generico, esso può specificarsi sia in senso panteistico, sia in senso
teistico e creazionistico. In Scoto esso non è ancora filosoficamente specifi-
cato. Voglio dire: Scoto crede alla creazione, ma quando si pone a spiegare
filosoficamente il termine, egli non trova di meglio del concetto di parteci-
pazione e si esprime, a dir poco, in modo ambiguo. Non a caso il De divi-
(32i Op. cit., p. 86.
(33) S. Vanni Rovighi si è interessata del pensiero di Scoto Eriugena nella sua
sofia Patristica e Medioevale » pp. 158-61 in Storia della Filosofia diretta da C. Fabro.
Coletti, Roma 1954, II parte, pp. 130 298; e nella «.Prima Scolastica» estratto dalla
« Grande Antologia Filosofica », Mazzorati Editore, Milano 1953.
— 57 —
sione naturae fu condannato solo nel 1225, per l'interpretazione a cui diede
luogo nella dottrina di Amalrico di Bène » (34).
Sottoscriviamo a quest'affermazione; una minuta indagine intorno al-
l'opera di Scoto ci farà intendere il senso della sua ambiguità , che mette
l'uno accanto all'altro testi panteistici e testi creazionistici : egli cercò, come
esattamente dice l'A., d'interpretare alla luce del Neoplatonismo la dottrina
della creazione, ma, ed in ciò ci allontaniamo dall'interpretazione dell'A.,
più tendente al teismo che al panteismo di Scoto, in sede filosofica il Neopla-
tonismo, attraverso tutta la corrente patristica orientale, s'impone in maniera
tale per cui per Scoto il creare è lo stesso creari e l'essenza o parte immu-
tabile delle cose viene ad identificarsi con Dio.
***
Fra le interpretazioni di Scoto Eriugena che si ebbero nella seconda metÃ
dell'Ottocento, merita maggior interesse, ad avviso di chi scrive, quella conte-
nuta nella monografia del Taillandier (35), che per la serietà a cui si ispira,
si legge ancora con profitto. Secondo questo A., Scoto è l'iniziatore della
Scolastica: tra lui e i Padri della chiesa latina e greca vi è un netto distacco.
Il Neoplatonismo, di Dionigi e di Massimo è superato dalla concezione di
Scoto assolutamente cristiana. Questi difatti non sacrifica la persona umana
alla divinità : « Quand' il parie de l'union dernière avec Dieu, de la deifica-
tion de l'anie, il s'applique tonjours, ce que néglige i Aréopagite, à maintenir
la permanence de la personne humaine au sein de l'anie divine qui la reqoit
et l'embrasse » (36). Ancora Scoto supera l'agnosticismo e l'emanatismo
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neoplatonico col concetto di creazione e con la dottrina cristologica.
Inoltre l'A., basandosi sull'affermazione che fa Scoto sulla libertà uma-
na, sulla distinzione della creatura dal Creatore, nega che si possa parlare
di panteismo. L'aspetto panteistico del sistema nasce, secondo questo autore,
da due principi: 1) avendo l'Eriugena allontanato Dio dall'uomo attraverso
il procedimento della teologia negativa, egli sente il bisogno, schiettamente
cristiano, di avvicinare il mondo a Dio, di qui le sue espressioni panteisti-
che (37). 2) Contro le tendenze nominaliste penetrate nella scuola Palatina,
Scoto afferma chiaramente il realismo, che nelle sue più dure espressioni
(34| S. Vanni Rovichi. La prima scolastica, p. 644. L'A, pur mettendo in risalto la
ambiguità del pensiero di Scoro, tende ad una interpretazione teistica: la sua riabilitazione
però è condotta con un senso di scientifica moderazione: a p. 161 della storia della filo-
sofia scrive: « Certo la teorica erìugeniana del ritorno rivela la medesima incertezza di
quella della creazione; non è ben determinato quale sia l'essere proprio della creatura ».
(35) M. Saint-René Taillandier, Scot Erigène et la philosophie scholastique, Strasburg-
Paris 1843, pp. 356.
(36) Op. cit., p. 191.
(37) a Certe double idée d'un Dieu infinement éloigné et qui se révèle sans cesse Ã
nous, indique le passage du néoplatonisme à une direction vraiment chrétienne: or, ce
— 58 —
può apparire inficiato dal monismo (38). Questo realismo, riconosce ancora
il Taillandier, si rivela con una fisionomia singolare ed una vera audacia,
quando Scoto, parlando dell'umanità e del suo ritorno in Dio, afferma che
essa vi ritornerà tutta intera, perchè la natura umana è una, semplice, indi-
visibile ed è impossibile dividerla in due parti, gli eletti e i reprobi (39).
Tuttavia questo realismo ad oltranza mantiene l'aria e senza cadere nei pan-
teismo riesce a salvare l'individuo, che non si confonde con la specie e rico-
nosce la pena per i cattivi e la ricompensa per i giusti (40).
passage se fait avec un certain mélange d'enthousiasme et d'effroi que nous avons vu
na'ivement exprimé. » Op. ci*., p. 199.
(38) « Enfin, Jean Scot arrive à dea affirmations où son réalisme se dessine avec netteté ;
car, pour prover cene distinctìon de l'essence e du corps, il dit très bien, que le corp n'a
de realité que lorsqu'il est unit à l'essence, tandis que l'essence, c'est à dire, l'universel,
existe par elle-méme, et n'a pas besoin de l'individu. » Op. cit., p. 212.
(39) Op. cit., pp. 213-14.
(40) Op. cit., pp. 214-15. Quanto afferma il Tallandier in questa pagina non è esenti-
da evidenti contraddizioni : « Or, si cette confusion est l'écueil dans le quel pourrait en
effet tomber fècole réaliste, Scot Erigène, qui en semble si pres ici, finit cependant par
l'éviter; car après avoir exigé le retour de tout l'humanité en Dieu, après avoir demontré
qu'il est impossible qu'elle soit divise en deux parts, il predarne trés-clairement la di-
stinction de l'universel et du particulier, du genre et de l'individu, de l'humanité et de
l'homme; il reconnait des peines pour les méchants et des récompenses pour les justes,
bien que d'ailleurs chez les uns et les autres l'universel ne soffre pas, n'éprouve ni joie,
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ni douleur, et demeure parfaitement immuable. Jean Scot était là sur la pente rapide de
toutes les extravagances du réalisme etagéré, c'est, qu'il pouvait étre entrarné vers ces
conséquences monstrueuses, le panthéisme, l'impeccabilitè de la nature tumiuine et
Vimpossibilitè absolute de punir le mal et de récompenser le bien. Mais il échappe
ù tous ces dangers et reste dans les limites du réalisme de Guillaume de Champeaux.
Il y a dans l'homme quelque chose d'universe!, quelque chose qui est commun Ã
tous les hommes, qui est un, simple, indécomposable ; mais ce quelque chose d'universel
ne se confond pas avec l'individu de manière « abolir tout distinction de personne
au sein de resurrection du monde en Dieu. On a vu les consequences hardies, les
nouveautés théologiques quil en fait sortir, l'abolition de l'enfer, la destruction,
future du mal, le triomphe définiti! de la bonté divine sur la misere et la mort. Le
réalisme qui est au fond de ces théories est irréprochabIe, c'est lui que, trois siècles plus
tard, Guillaume de Champeaux dévoloppa sous une forme plus nette à l'école de Notre
Dame ». Ora come è possibile conciliare la distruzione futura del male, l'abolizione del-
l'inferno, il trionfo definitivo della bontà divina sulla miseria d la morte, con le pene per i
cattivi e le ricompense per i giusti e con lu distinzione dell'universale e del particolare ?
Scoto in realtà tenta, come diciamo nel testo, una conciliazione, ma questa non è tale da
porlo nettamente fuori dal monismo. Singolare poi è l'affermazione che la filosofia di
Scoto rimane nei limiti del realismo di Guglielmo di Champeaux, intanto mentre tutto il
panteismo di Davide di Dinant e di Amaury de Benes si fa derivare da Guglielmo di
Champeaux, si esclude che possa derivare da Scoto Eriugena. (V. a questo proposito le
pp. 230 e segg. dell'opera). In realtà supposta la fondamentale identità delle due dottrine
non si vede come una teoria, sorta come logica conseguenza di tutte e due, possa derivare
da una sola di essa. I.a verità è una altra e che cioè che le teorie di Guglielmo di Champeaux
e di Scoto Eriugena, pur assai simili nelle conseguenze semi-panteiste hanno origine e
— 59 —
La tesi sostenuta dal Taillandier presenta nel suo complesso una giusta
esigenza, sia per ciò che riguarda il sedicente razionalismo di Scoto, dall'A
giustamente negato (41), sia per quanto riguarda più specificamente la que
stione del panteismo. L'A. difatti focalizza la sua attenzione sul principio
fondamentale dell'opera di Scoto, cioè sul problema degli universali, in cui
appunto nel Medio Evo appare il problema della sostanza, inteso come prò
blema dei generi e delle specie. L'affermazione del realismo assoluto di Scoto
per cui la sostanza umana, che soggiace a tutti gli individui, è ontologica
mente una, apre appunto la via al panteismo, il problema quindi che si pone
è: riesce Scoto ad evitare il panteismo che deriva dall'esistenza dell'u
nica sostanza ? Il Taillandier risponde in senso positivo, sostenendo che
l'Eriugena, pur ammettendo l'unità della sostanza, riesce a salvare l'indivi
duo che permane nella sua individualità , tanto da distinguere gli eletti dai
reprobi.. Noi abbiamo mostrato in calce, riportando l'intero passo del T.,
come l'Eriugena si avvolge in una contraddizione in quanto afferma l'aboli-
zione del male la distinzione dell'inferno, il trionfo del bene, ed intanto
mantiene pure la punizione dei reprobi, come distinta dalla ricompensa de-
gli eletti. Ma giova apportare alcune considerazioni onde lumeggiare l'au-
tentico pensiero di Scoto.
L'Eriugena distingue nettamente la sostanza dall'accidente ed afferma
che, mentre la sostanza non può essere punita, perchè Dio non può punire
ciò che da lui deriva ed in cui non è, nè può esservi male, punisce solo
l'accidente. Noi in seguito documenteremo tutta questa ingenua posizione
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di Scoto, di cui è pieno sia il « de Divisione natnrae » e sia, benchè con altre
prospettive, il « De Praedestinatione », per ora ci sia sufficiente tale affer-
mazione, dalla quale risulta come la sostanza, cioè la parte immutabile degli
esseri, sia divina, cioè sostanzialmente simile a Dio ma degradata. La sostan-
za, infatti, non ritornerà in Dio, ma nelle cause primordiali, le quali sono
eterne, ma create: essa, come meglio vedremo, non è identica con Dio e col
Verbo, in quanto è una degradazione, d'altronde è nel Verbo.
E' chiaro quindi, e con ciò intendiamo rispondere al primo punto della
tesi antipanteistica del Taillandier, che Scoto pur sincero nella sua affer-
igpirazione diverse: l'una quella di Guglielmo di Champeaux sorge su base logica, l'altra,
quella di Scoto Eriugena, su base psicologica-gnoseologica, in quanto è una filiazione
dell'ontologismo agostiniano.
(41) V. a questo riguardo le pp. 200-209 e 226 e 9gg. Per il Taillandier Sooto è ad un
tempo l'iniziatore della Scolastica e della mistica ortodossa. Al riguardo abbiamo giÃ
parlato nel I cap. Non crediamo di togliere valore a questa monografia, ancor bella ancbe
se invecchiata, dicendo che non poche inesattezze vi sono espresse a proposito della filo-
sofia scolastica, al cui riguardo l'A. ripete i giudizi, sia pur mitigati qua e là , della sua
età cecundo l'A. l'autentico cristianesimo trova una migliore espressione nel Cortesia-
nesimo, anzi che nella scolastica; Scoto Eriugena, che fu abbandonato dalla successiva
scolastica, è per lui anche il precursore dei tempi moderni.
— 60 —
inazione di Cristianesimo rimane prigioniero dello schema emanatista neopla-
tonico, sicchè la sua dottrina della creazione e della molteplicità degli esseri
rimane solo affermata e non dimostrata. Come l'A. riconosce il processo di
derivazione degli esseri da Dio è un processo eterno e necessario (42). Tutta-
via il T. nega che Scoto sia un panteista : egli spiega le formule emanatistiche
con l'affermazione che l'Eriugena affermi Dio sostanza delle cose onde avvi-
cinare il Creatore, che la teologia negativa aveva relegato in altezze inacces-
sibili, alla creatura. In realtà ci sembra che la paternità divina e il mistero
dell'Incarnazione siano elementi sufficienti per rendere Dio vicino all'uomo,
senza indulgere ad affermazioni che fanno di Dio la sostanza delle cose.
Scoto, invero, sia pure con tutti gli sforzi del suo genio potente, è rimasto
irretito nelle maglie dell'emanatismo neoplatonico, e la sua opera rimane
inficiata da un panteismo librato a mezz'aria per cui la molteplicità e l'indi-
vidualità degli esseri, che dovrebbe esser garantita dall'accidente, affogano
nell'unità indiscriminata dell'unica sostanza (43). Non ha senso parlare della
punizione di Dio rivolta solo all'accidente, quando poi, ripetiamo con Abe-
lardo, quest'accidente non esiste se non unito alla sostanza, e ciò è ricono-
sciuto dallo stesso Scoto, quando afferma che il corpo, principio di molte-
plicità ed individualità non può sussistere senza l'essenza (44).
Da quanto abbiamo detto risulta che l'interpretazione in senso plurali-
stico, creazionista data dal Taillandier trascura alcuni elementi essenziali,
che pur sembrando sfumature insignificanti, mettono in evidenza come non
si possa negare l'aspetto panteistico della dottrina di Scoto Eriugena, esso
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va valorizzato nella giusta misura, che ha nella sua opera, onde, senza unila-
teralità , si possa stabilire il peso che esso ha in una possibile interpretazione
che cerchi di unificare in un unico principio testi tanto disparati, che pur
coesistono, con apparente contraddizione, in un'unica opera, svolta con mera-
vigliosa coerenza, che non risulta ad un superficiale esame (45).
(42) V. a questo proposito p. 103 e segg. e p. 284.
(43) V. in particolare il par. 49 del libro 1 del « De Divisione », pp. 486-87-88.
(44) Ottamano C, Pietro Abelardo, la vita - le opere - il pensiero, Optima, Roma,
1929 pp. 278, V. in particolare la geniale ricostruzione di tutto il realismo moderato di
Abelardo, non mai prima tentata, e, per la questione che a noi interessa, le pp. 110 e segg.
(45) Come sopra si è detto, il Taillandier nega il Neoplatonismo di Scoto, sostenendo
che gli elementi neoplatonici del pensiero patristico vengano superati dall'Eriugena. Ci
sembra che tale interpretazione non possa sostenersi perchè tutto l'orientamento del pen-
siero dell'E. è chiaramente neoplatonico: in lui vi è appunto il titanico sforzo di ripen-
sare cristianamente Plotino, senza peraltro riuscire a superare sostanzialmente l'emana-
tismo. In tal senso appunto si esprime E. Brehier (La filosofia nel Medioevo, Einaudi,
Torino 1952, pp. 60-79; e Histoire de la philosophie Tome I, l'Antiquité et le Moyen-age,
P.U.F., Paris 1948, pp. 540-43) il quale sostiene il Neoplatonismo dell'Eriugena presente
nella struttura e nelle dottrine del suo pensiero. Pur negando il razionalismo di Scoto, l'A.
vede nel Verbo esclusivamente la funzione cosmica di unificare la molteplicità nell'Unità ,
il che non pare possa sostenersi. Non riusciamo tuttavia a comprendere come il Bréhier,
— 61
LE INTERPRETAZIONI MONISTICHE
Fra le interpretazioni panteistiche del pensiero di Scoto va innanzitutto
ricordata quella di M. De Wulf, che nelle prime edizioni della sua storia
della filosofia medioevale, riteneva l'Eriugena un filosofo antiscolastico, nel
senso contenutistico che egli dava ai termini scolastica ed antiscolastica, ed
il capo dei panteisti. Per il De Wulf la teofania di cui parla l'Eriugena.
deve essere intesa in senso panteista. Egli scriveva : « Tutti gli esseri contiti'
genti tanto corporei che spirituali, non sono che uno sbocciare della sostanza
dopo aver mostrato l'unità , secondo lo schema neoplatonico, di tutte le cose in Dio, e la
riduzione della sostanza delle creature all'essenza nel pensiero di Dio, possa, parlando
del panteismo del IX secolo, escludere che questo si trovi nell'opera di Scoto. Egli, a p. 7°
della « Filosofia nel Medioevo » cosi dice: « Se vi è movimento panteista, nel secolo IX,
non lo si troverà certo in Giovanni Scoto, in quanto pensatore attento, secondo la tradi-
zione plotiniana e dionisiana, a sublimare l'individuo in Dio e non a sopprimerlo. » Ma
di quale autonomia ontologica può essere dotato l'individuo singolo, quando si è detto
che tutta la realtà è Dio ed un apparire di Dio ? V. al riguardo in particolare le pp.. 71-75.
Come il Br:hier, il De Wulf, come si è detto, nella VI edizione della sua storia della
Filosofia medievale nega il panteismo di Scoto Eriugena, mentre poi nell'esposizione del
pensiero rileva gli aspetti panteistici in esso impliciti. Egli così scrive: « La metafisica
del De Divisione naturae è un monismo o un pluralismo ? Noi intendiamo per monismo
ogni dottrina che insegna la compenetrazione di parecchi di tutti gli esseri in uno solo
(monismo parziale o integrale) e per panteismo un monismo completo che dà a quest'Uno
gli attributi dell'Ente Supremo. Per il pluralismo invece ogni essere esistente o che può
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esistere gode di indivisione interna (indivisum in se, individuum), la sua individualitÃ
esige la distinzione da ogni altra cosa {distinctum ab omni alio): da ciò segue che non
solamente non si può confondere il mondo creato con Dio. ma anche gli esseri creati
sono molteplici e distinti. Tra i testi metafisici di cui è pieno il De Divisione naturae
affermano gli uni l'unità e la compenetrazione di tutto in Dio, gli altri la pluralità e la
diversità . I primi descrivono in tutte le forme l'assumptio dell'essenza divina nel finito
ed hanno un sapore monista accentuato: questo spiega come la maggior parte degli storici
abbia fatto di Scoto un monista ed un panteista... Altri testi stabiliscono non meno netta-
mente una distinzione tra Dio e il Creato o almeno si studiano di mostrare che l'uliud si
concilia coll'unità di una essentia unica che tutto avvolge.. A quale di queste due serie
si deve dar peso ? (Op. ci*., p. 135). Dopo questa premessa introduttiva, il tentativo della
conciliazione è fatto tutto a netto svantaggio dei testi panteistici. Difatti il De Wulf così
scrive: « Le due serie sono conciliabili. Scoto non è un monista (Gilson e Cappuyns
hanno stabilito con precisione questo punto), perchè egli ritiene che la sostanza di Dio
e le sostanze create non sono identiche. Se si vuole scoprire un senso ammissibile nei
testi che presentano una parvenza di monismo, bisogna precisare i limiti dell'unità avvol-
gente, e le lacune della descrizione fattane da Scoto. I limiti dell'unità : questa si fonda
non sull'identità sostanziale di Dio e del finito, ma su relazioni gerarchiche. Dio è
posto alla sommità di una scala ed ogni perfezione è determinata in funzione di Dio »
(Op. cit., 136). Ma questa relazione gerarchica è costituita su sfondo monista o su
sfondo dualista ? Cioè queste relazioni gerarchiche sono relazioni di un'unica sostanza,
che soggiace a tutte le varie relazioni, ovvero trattasi di molteplici sostanze ontologica-
mente diverse ? Se vogliamo stare all'esposizione dello stesso De Wulf la gerarchia è su
— 62 —
divina, o secondo l'energica espressione di G. Scoto, Teofania: la diviniti
scorre nelle viscere del mondo. A tale scopo egli fa derivare %-£oi da frèoì,
correre » (46). In questa prima edizione del suo libro il De Wulf tratta Scoto
da panteista, i motivi del panteismo sono certamente tali che s'impongono
ad ogni considerazione del pensiero di Scoto Eriugena, ma a nostro avviso,
però, l'insigne, compianto storico della Filosofia Medioevale, trascurava tre
aspetti fondamentali del pensiero di Scoto, quei tre aspetti che poi costitui-
ranno la base della interpretazione teistica: 1) l'affermazione di Dio super
omnia e superessenziale; 2) la oscura distinzione tra il Verbo di Dio e le
cause primordiali, per cui queste pur essendo creature di Dio sono parte del-
l'essere di Dio; 3) la distinzione tra l'essere di Dio e la sostanza umana.
Inoltre il De Wulf nel concetto di Redenzione, quale è sostenuto dal-
l'Eriugena vedeva soltanto un momento del processo naturale: ciò è vero
fino ad un certo punto, nel senso cioè che per il filosofo irlandese la Reden-
zione ha certo valore cosmico, che non toglie ne diminuisce il significato
soprannaturale di questo mistero.
Tutti questi elementi,invero, salvo l'ultimo, che manderebbe a gambe
per aria tutto il preteso razionalismo dell'Eriugena, sono presenti nella
monografia ponderosa dell'Albanese (47), che giustamente il Dal Pra ritiene
« tma vasta e non sempre ordinata esposizione » (48), in cui mancano una
linea di sviluppo ed una visione unitaria. I/A. espone analiticamente il pen-
siero dell'Eriugena seguendo l'ordine del « De Praedestìnatione » e del
« De Divisione naturae », in quest'analisi non mancano alcune giuste interpre-
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tazioni, ma una tesi centrale di ricostruzione nell'opera non vi è, pertanto
nell'esposizione dell'Albanese noi, così come per i testi di Scoto, troviamo
lanciate analisi teiste ed analisi panteiste, senza peraltro raggiungere una
sintesi armonica. Veramente, a guardar bene, una linea di interpretazione
esiste nel libro in esame, ma questa linea finisce per stravolgere il significato
baee monistica; egli, esponendo il pensiero di Scoto così scrive: «Scoto fa derivare 'fréoc.
da &étt), correre; oppure paragona le multiformi apparenze di Dio ai riflessi infinita-
mente vari della luce sulle penne del pavone. Dio è nelle cose particolari senza perdere
niente della sua immutabilità ; egli si percepisce così negli esseri determinati ed emerge
così dal profondo della sua infinità . Alla fin fine non c'è dunque che un'unica sostanza,
Dio » (Op. cit., 131). Ancora in altri passi, seguendo lo sviluppo della filosofia di Scoto,
l'A. mette in risalto come la gerarchia degli esseri, vada intesa nel senso neoplatonico
dell'emanazione degradante ( V. Op. cit., pp. 132-136). Ora con queste obbiettive pre-
messe come può sostenersi che Noto non è monista ? E' vero che Scoto parla di una
molteplicità di individui, ma questa molteplicità è solo accidentale, come ben dovrebbe
vedere il De Wulf. che al realismo esagerato di Scoto dedica un chiaro cenno.
(46) Maurizio de Wulf, Storia della Filosofia Medievale, trad. ital. di A. Baldi, Li-
breria Editrice Fiorentina, Firenze 1913, voi. I p. 234.
(47) Clodimiro Albanese, Il pensiero di Giovanni Eriugena, Casa editrice Principato,
Messina 1929, pp. 415.
(48) Mario dal Pra, Scoto Eriugena, 11 ediz., Bocca, Milano 1951, p. 257.
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del pensiero eriugeniano, che diventa un annalista ante litteram ed un razio-
nalista ad oltranza; da Scoto Eriugena, attraverso Gioberti, si arriva a Gio-
vanni Gentile.
A quest'opera, come si è detto, l'Ottaviano dedicò un articolo (49) in
cui mostrava come le conclusioni dell'A. contrastassero con i testi eriuge-
niani. L'Albanese infatti con insistenza ripete che Scoto Eriugena è un mo-
nista, ma non un panteista, perchè distingue Dio dalle creature; questa unitÃ
distinzione avverrebbe secondo lo schema idealistico. Nella filosofia dell'Eriu-
gena, poi, vi sarebbe già l'universale concreto, ed il ritorno della realtà a
Dio si attuerebbe secondo lo schema triadico hegeliano.
Non comprendiamo in verità come nel monismo possa esservi, non ver-
balisticamente s'intende, distinzione tra Creatore e creatura. A proposito
poi di quanto l'A. sostiene che l'Eriugena sia un « seguace di quel monismo
eli soggetto ed oggetto, di Dio e di mondo, di materia e di spirito, non cade
nella confusione del panteismo » (50). Giustamente l'Ottaviano, al riguardo,
così scrive: a In verità attribuire all'Eriugena la conoscenza del sistema
hegeliano e le preoccupazioni della speculazione moderna è una cosa asso-
lutamente ingiustificabile storicamente, anzi priva di senso del tutto. L'Eriu-
gena non è panteista (d'intenzione, si noti), ma non perchè conosca Hegel
(o Gioberti), bensì perchè Dio per lui, pur essendo identico con le cose feno-
meniche, è, in tale identità , segregatum da esse, in sé immutabile e perfetto:
cioè è identico con l'elemento o parte immutabile delle cose mutabili, con
l'essere e non con l'essenza; onde le cose in divenire sono, rispetto a Lui,
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create. Come ciò possa conciliarsi con una qualsiasi forma d'idealismo asso-
luto, per il quale tutto l'oggetto è identico con il soggetto, riesce proprio
incomprensibile » (51).
Osservazioni acute sono nel lavoro dell'Eswein, intorno al concetto di
essenza e sostanza nel pensiero delI'Eriugena; l'A. difatti incentrando la
sua ricerca nel concetto di essenza, mostra la particolare fisionomia del pan-
teismo delI'Eriugena, che non va confuso con quello di Plotino, anche se
a Plotino s'ispira e da lui prende le mosse (52). A proposito della differenza
tra Plotino e Scoto Eriugena, l'Eswein cosi scrive: « In dem System des Eriu-
gena ist alles Leben und Bewegung, wenn diese auch trotz der Betonung des
« creare » keine schopferische Bewegung, sondern mehr ein stufenweises
Emanieren im Sinne des Neuplatonismus und besonders seines ersten Urhe-
bers, des Plotin, ist, dem zwar die schopferische Tdtigkeit des Ureinen, seines
Gottes, iiber alles geht, (fa Gott ist fiir ìhn reines Schaffen) fiir den sich
(49) Carmelo Ottaviano, La Scuola Attualistu e Scoio Eriugena, già citato.
(50) Albanese, Op. cit., p. 28.
(51) C. Ottaviano, La scuola attualita ecc., p. 150.
(52) Karl Eswein, Die Wesenheit bei Johannes Scotus Eriugena. Begriff, Bedeutung
und Charakter der « essentia » oder » o'Jlltx » bei demselben, in Philosophisches Jahrbuch,
1930, XLIII, pp. 189-206.
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aber dieses Schaffen in unpersònliche Emanation und kunstlerische Bilder
auflòscn m/ni, da doch eigentlich nur Persònlichkeiten handelnd auftreten
kònnen, tveshalb (Iris schopferische Prinzip im Pantheismus sozusagen keinen
Platz hat. Gott ist dagegen bei Eriugena im christlichen Sinne zundchst der
schopferische Ursprung aller Wesenheiten, der unbewegte Beweger des
Aristotele*; die pantheistischen Gedanken treten erst bei ausfiihrlichen
Entivicklung des Systems hinzu » (53).
La ricostruzione compiuta dall'Eswein è basata sul concetto dell'essenza
unica, che soggiace alla molteplicità degli individui. Il concetto di essenza è
egregiamente trattato dall'A., in quanto è messa in risalto la sua realtà onto-
logica con la conseguente unicità e immutabile spiritualità . Tuttavia però
mentre l'A. non manca di accennare, come abbiamo visto, alle differenze che
passano tra il Neoplatonismo e l'Eriugena, non chiarisce sufficientemente
la distinzione tra l'essenza creata e la superessenzialità di Dio, ed il rapporto,
davvero fondamentale, tra essenza, sostanza e individuo sia nella creazione e
sia nella resurrezione finale, elementi, a nostro avviso, assai importanti
onde cogliere l'unità del pensiero dell'Eriugena.
Una ricostruzione completa presenta la monografia di Mario Dal Pra.
I/A., nelle due edizioni della sua opera, pur mantenendo immutata o quasi
l'esposizione della filosofia eriugeniana, presenta due diverse interpreta-
zioni (54). La prima edizione infatti sosteneva la tesi di un panteismo mistico,
in cui il motivo neoplatonico determinava l'agnosticismo, il misticismo ed il
panteismo. Questa interpretazione mentre metteva in risalto l'aspetto pantei-
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sta del pensiero di Scoto, assorbiva nel panteismo tutte le dottrine teistiche
presenti nella sua opera. Nonostante tutti gli sforzi dell'A. per unificare nel
principio agnostico tutta la completa problematica eriugeniana, tuttavia ri-
maneva sempre fuori dal suo schema il motivo cristiano creazionista. A que-
sto motivo ha dato maggiore rilievo nella seconda edizione della sua opera.
In questa nuova edizione il Dal Pra, pur riconoscendo, in una esposizione
d'insieme, prevalente il motivo monista, ha messo in risalto anche l'aspetto
creazionista. Secondo lui anzi i due elementi, presenti nella filosofia eriuge-
niana, sono assolutamente inconciliabili perchè l'uno è espressione della
mentalità intellettualisticca greca, l'altro della mentalità attivistica cri-
stiana. Questi due aspetti dominano tutto il pensiero dell'Eriugena;
la filosofia di Dio, della creazione, del mondo, dell'uomo, del ritorno
della realtà in Dio, tutta è determinata dall'urto di queste due men-
talità . In una delle pagine conclusive del suo volume il Dal Pra così scrive
al riguardo: « In termini più precisi, la posizione filosofica di Scoto è da
(53) K. Eswein, Op. cit.. pp. 191-92.
(54) Mario dal Pra, Scoto Eriugena ed il Neoplatonismo Medioevale, Fratelli Boeca,
Milano 1941, pp. 308. Mario dai. Pra, Scoto Eriugena, Seconda edizione interamente ri-
fatta, Fratelli Bocca, Milano 1951, pp. 275.
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considerare, a nostro avviso, come il risultato di due orientamenti logici di-
versi e contrastanti: l'orientamento teoricistico ed intellettualistico della tra-
dizione greca in generale, penetrato ben presto anche nell'ambito della spe-
culazione cristiana e l'orientamento pratico trascendentale caratteristico di
tutta una corrente dell'esperienza cristiana volta ed una interpretazione atti-
va del compito religioso. La tradizione intellettualistica postulava una visio-
ne del mondo in cui Dio, l'uomo, la realtà naturale ed il destino dell'uomo
fossero interpretati in base ad una struttura presupposta ed assolutamente
valida dell'universo; la istanza pratico pura postulava, per contro, un conti-
nuo intervento dell'uomo per la realizzazione progrediente di un mondo mi-
gliore; da un lato si voleva costruire una visione definitiva del reale, in cui
l'uomo potesse accontentare l'i sua sete di conoscenza, dall'altra si voleva
tenere aperta davanti all'uomo la strada di un perfezionamento infinito, che
prescindesse da ogni punto terminale » (55).
A questa interpretazione noi ci permettiamo di osservare: la tesi del
contrasto tra intellettualismo greco e attivismo cristiano, che risale a Luciano
Laberthonnière, esagera una distinzione che non è certo un contrasto, almeno
se si considera la tradizione greca in generale, e non un determinato indi-
rizzo. Tale contrapposizione poi introduce in seno alla visione cristiana un
attivismo pragmatistico, che è la negazione dell'autentica trascendenza, an-
corata per il Cristianesimo alla Personalità di Dio, e ridotta per l'A. ad un
deismo vago. Che in Scoto fosse sempre presente il motivo neoplatonico co-
me elemento filosofico, in cui ripensare il Cristianesimo, è certamente vero,
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ed anche noi siamo in ciò d'accordo con l'Autore. Ma il problema è un altro
e cioè: Scoto ha lasciato sussistere i due elementi l'uno accanto all'altro,
ovvero ha cercato di stabilire, nel suo ripensamento, un punto d'incontro tra
le due metafisiche la emanatista e la creazionista ? E' ovvio che se si cerca
di ridurre l'un aspetto all'altro si falsifica il pensiero oriu geni.ino. in quanto
si mette in ombra uno dei due aspetti del suo pensiero. Se poi si lasciano
sussistere nel suo pensiero i due aspetti, allora la filosofia di Scoto, che ben
a ragione il Dal Pra rivendica contro il Cappuyns, diventa un campo contra-
stato da opposte tendenze, senza un principio unificatore di base, su cui si
calibra la tensione filosofica di un sistema, degno veramente di tal nome.
Ora noi crediamo che in Scoto vi sia questa unificazione ed essa è incentrata
sul concetto di essenza.
All'interpretazione del presupposto « teoreticistico », che sorregge l'in-
terpretazione del Da Pra ha dedicato una nota il Mazzantini (56), il quale
sostiene innanzitutto come la tesi del contrasto tra pensiero « teoreticistico »
(55) Dal Pra, Op. cit., II ed., p. 259.
(56) Carlo Mazzantini, In testo di Giovanni Eriugena (« De Divisione naturae », I 1;
P. L. 122, 442 A), di ironie ad una recente interpretazione del suo pensiero, in Atti della
Accademia delle Scienze di Torino, Voi. 90 (1955-1956) pp. 30.
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greco e orientamento pratico-trascendentale cristiano, anche se Dal Pra
mantenuto in giusti limiti, può, come in effetti in altri storici è avvenuto,
giungere a conclusioni estranee alle esigenze proprie del pensatore studiato.
Per il Mazzantini il discorso filosofico è apertura del pensiero all'essere, e
tale è l'orientamento della filosofia dell'Eriugena, che nel finale ritorno
della realtà a Dio, mentre tien l'occhio alla perfezione di Dio, d'altronde
considera sia la condizione degli eletti, e sia quella dei dannati, non come
uno stato di quiete raggiunto una volta per sempre, ma come una tensione
verso una felicità sempre più perfetta: principio questo non certo estraneo
a tutto il pensiero greco classico.
A nostro sommesso avviso il Mazzantini ha ragione di ribadire in questo
suo scritto il principio fondamentale della sua interpretazione del pensiero
classico, di cui egli ha rilevato l'aspetto di cattolicità naturale e la fecon-
dità virtuale (57) della sua metafisica, la cui attualità era stata già rilevata
da Marino Gentile ed a cui anche Paolo Rotta ha dedicato uno studio recen-
temente (58). Per quanto però riguarda l'interpretazione del pensiero del-
l'Eriugena e la sua dottrina circa il ritorno finale a Dio, ci preme sottolineare
che la beatitudine è dall'Eriugena innanzitutto intesa, come un ritorno del-
l'uomo alle cause primordiali, cioè allo stati/ quo ante peccatum; ciò sup-
pone un'immutabilità della sostanza, per cui solo nell'accidente vi potrÃ
essere pena o gaudio e differenza nella pena e nel gaudio. La tensione quindi
o nella beatitudine o nella pena, di cui il Mazzantini parla, ci pare che con-
trasti con tale elemento, fondamentale nella dottrina dell'Eriugena.
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Ancora di intonazione e di orientamento panteistico sono le tesi del
Grabmann e quelle del Geyer, il primo parla chiaramente del panteismo e
dell'idealismo dell'Eriugena e così si esprime: « Er hat in seinem Werhe
De divisione naturae ein originelles philosophisch-theologisches System, eine
spekulative Verbindnng von Neuplatonismus und christlicher Glaubenslehre
gèschaffen. Es hat dieses idealistische System pantheistischen oder doch
semipantheistischen Charakter » (59). Il secondo mostra il realismo esagerato
dell'Eriugena e si sofferma sull'unità della sostanza di tutte le cose, ridotte
ad apparizioni della sostanza divina (60).
(57) Carlo Mazzantini, Storia del Pensiero Antico, Marietti, Torino 1949, pp. 480.
(58) Marino Gentile, // valore classico della Metafisica antica, appendice al vo-
lume: La metafisica presocratica, Cedam, Padova 1939 e Paolo Rotta, L'Eredità del Pen-
siero greco. La Scuola Brescia 1951. Fondamentale poi per un ripensamento teoretico del
pensiero classico è il libro di Francesco Olciati, Fondamenti della Filosofia Classica,
Vita e Pensiero, Milano 1950.
(59) Grabmann M., Geschichte der Philosophie, HI Die Philosophie des Mittelalters,
Berlin und Leipzig 1921, p. 58.
(60) Geyer, Op. cit., pp. 172-73.
— 67 —
L'INTERPRETAZIONE AGNOSTICA
Una interpretazione a parte presenta il Vernet nel suo articolo dedicato
a Scoto nel Dictionnaire de Théologie Catholique (61). Secondo quest'autore,
tutti gli errori di Scoto Eriugena derivano dal suo agnosticismo. In verità a
noi, non sembra, e lo diremo più diffusamente in seguito, che Scoto sia un
agnostico, e poi, anche ammesso che lo sia, non riusciamo a comprendere
quale possa essere il legame tra agnosticismo e panteismo: l'una è una dot-
trina gnoseologica negativa in quanto pone Dio inconoscibile, l'altra una dot-
trina metafisica positiva, nel senso che afferma Dio immanente nelle cose.
***
Alla fine di questo nostro esame ci sia permesso concludere osservando
che sia l'interpretazione teistica che quella panteistica sono unilaterali, in
quanto pur presentando un aspetto di vero non riescono a rendere ragione
di entrambi i motivi presenti nel pensiero dell'Eriugena.
A nostro avviso il problema della filosofia di Scoto si deve riproporre
focalizzando l'interesse sul problema della sostanza individuale, onde stabi-
lire il valore ontologico della medesima. Attraverso questo esame cerche-
remo prima di stabilire quale sia l'esatto significato della creatura sul piano
dell'essere e poi su quello del divenire, onde renderci conto dei rapporti
tra Dio e il mondo.
Come già abbiamo già accennato il significato dell'immanenza e della
trascendenza si conciliano secondo l'intuizione dell'Ottaviano e del Grab-
mann (62) sulla base del semi-panteismo dell'Eriugena. Infatti Dio, pur ri-
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manendo trascendente alla molteplicità degli individui, s'identifica con la
loro essenza, che è immutabile, unica, identica a lui, tanto che è ab
aeterno nel Verbo, con cui fa tutt'uno, ma che tuttavia l'Eriugena dice
creata. In questa singolare, e direi equivoca posizione, è l'anima del com-
plesso e sottile pensatore: essa difatti con lineare coerenza comanda tutti i
problemi ed in essa si conciliano le espressioni creazionistiche e pantei-
stiche, di cui i testi son pieni.
(61) Vernet, Art. cit., pp. 425-26.
(62) Il Crabmann, come può rilevarsi dalla citazione riportata nel testo, aveva parlato
del semipanteismo e dell'idealismo di Scoto Eriugena senza però accennare in che con-
sistesse questo suo semi panteismo, che invece l'Ottaviano ha individuato nel senso che la
creatura nella sua parte immutabile s'identifica col Creatore.
Capttolo III
L'UNITA' DELL'ESSENZA E L'INDIVIDUO
Nel corso del capitolo precedente abbiamo sottolineato come l'elemento
fondamentale, onde stabilire la posizione di Scoto Eriugena nei riguardi del
panteismo, sia il concetto di essenza. Cerchiamo quindi di enucleare attra-
verso le lunghe digressioni e gli accenni, sparsi in diversi luoghi, tale teoria
nell'economia del suo pensiero.
Per Giovanni Scoto Eriugena il tutto (xò rc4v) si distingue in ciò che
è in statu e ciò che è in motu : questi due fondamentali principi poi si diffe-
renziano nelle dieci categorie, che vengono a raggrupparsi in maniera che
sono in statu: l'oùaJa, la quantità , il sito e il luogo; sono invece in motu
la qualità , la relazione, l'abito, il tempo, l'agire ed il patire (1).
Tra queste dieci categorie 1* oòota si presenta con un carattere di asso-
luta preminenza, in quanto essa sola è tale da non aver bisogno di nessu-
n'altra per esistere, mentre tutte le altre categorie sono in quanto esiste
l'oùafa come soggetto di inesione (2). L' oùafa è per se stessa assoluta-
mente inconoscibile sia al senso che all'intelletto umano, solo Dio vera-
mente la conosce: l'uomo può averne solo una conoscenza indiretta, dagli
accidenti ai quali essa soggiace (3). Ma le altre categorie, che ci rivelano
il quia, debbono considerarsi da un diverso punto di vista, a seconda cioè
che esse siano unite all'otuia in maniera tale da rivelarcela (quantità , luogo,
sito e tempo), ovvero siano in essa come veri e propri accidenti, i quali non
solo sono nell' obalx, ma sono anche in altre categorie, come la qualità ,
che inerisce ad un'altra categoria, la quantità (4).
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(1) De dir nat., I, 469 B.
(2) Ibid., 470 D - 471 A.
(3) « otjafocv per seipsam definire, et dicere quid sit memo potest... itaque nullo modo
definitur quid est, sed definitur quia est. (Ibid., I, 487 A.) L'inconoscibilità dell'&0aia
è ricavata dal fatto che essa non può essere colta sensibilmente, ma « solo semper intel-
lectu cernitur; in nullo enim visibilità - apparet ». Ibid., 495 B.
(4) Scoto distingue le categorìe in nepcoxaf, « id est, circumstates dicuntur, quia circa
eam inspiciuntur esse », e 9t>(iB&|ia-ca « id est accidentia vocantur, qualità s, relatio, habitus,
agere, pati. Quae etiam extra eam in aliis categoriis intelliguntur, verbi gratta, qualitas
-to-
Se noi cerchiamo di seguire più da vicino i testi in coi l'Eriugena ci
parla dell'essenza ci troviamo di fronte ad una teoria ardita, che ci può
dare tutta la chiave del suo sistema. Infatti per Scoto noi non possiamo
identificare l' oùofa con la sostanza individuale alla maniera aristotelica,
ma siamo trasportati subito in clima platonico, anzi neoplatonico.
Ripetiamo che l'essenza è tale da sussistere per sè, mentre tutte le altre
categorie non esistono se non in quanto ad esse soggiace l'essenza (5). Ma se
l'essenza o sostanza (vedremo nel corso di questo e del successivo capitolo
perchè, ed in che senso, esse sono sinonimi) è dotata di tale autonomia, sic-
ché è in sè e per sè, mentre gli accidenti sono in essa e per essa, si ha questa
conseguenza, che mentre gli accidenti sono in continuo divenire, perchè
vanno e vengono dalla sostanza, questa, invece, permane immobile ed im-
mutabile. Negli accidenti vi sarà il moto di avvicendamento nella sostanza,
a cui essi desiderano unirsi, perchè di per sè privi di realtà autonoma; nel-
l'essenza invece vi sarà esclusivamente quel movimento, che è costituito dal-
l'appetizione a permanere nell'essere (6). L'essenza pertanto è ciò che costi-
tuisce l'elemento fondante nella realtà : la differenza che passa tra gli enti
geometrici e gli enti reali è costituita appunto dal fatto che gli enti geome-
trici vengono considerati solo sotto l'aspetto della quantità per l'astrazione
compiuta dal pensiero. Da ciò deriva la differenza tra la figura e la forma:
gli enti geometrici sono solo figure, perchè astratte dall'essenza, gli enti natu-
rali ricevono, invece, il loro essere dalla loro forma sostanziale (7).
Alla base di tutti i caratteri, che si predicano deWousia, l'Kriugena
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pone come fondamentale l'unità , anzi l'unicità . L'essenza proprio perchè è
unica, è comune a tutte le cose e di nessuna esclusiva non può subire in sè
alcun mutamento di nessun genere, mentre le realtà individuali partecipano
ad essa secondo il più e il meno, « ipsa quoque in omnibus partecipantibus
se una atque eadem permanet, nullique ad partecipandum se plus aut minus
in quantitate, ut color in corpore ». (Ibid., 471 C.) Insomma la differenza tra i 7teplOYa£
e i autlSÃ uaxa consiste nella considerazione che, mentre i primi sono esclusivamente
nell' oijaitx e dell' oùafa i secondi sono dell' ojata ma possono essere anche di altri
accidenti. Così per esempio la relazione tra padre e figlio è una relazione a extra o'jai'av»,
poichè « Non enim sunt ex natura, sed accidente corporum corruptUi generatione. Siqui-
dem pater non naturae filii pater est, neque filius naturae patris filius est. Unius enim
eiwidem naturae sunt pater et filius; nulla enim natura seipsam gignit, aut a seipsa
gignitur » {ibid., 471 D.) Ma d'altro canto la relazione può anche essere nell' oùafoc
quando cioè stabilisce i rapporti tra il genere e la specie: « In ipsa vero oùafa relatio est,
cum genus ad speciem refertur, et species ad genus ». {Ibid., 472 B.) E cosi è anche per
l'habitus per l'agere e per il pati.
(5) Ibid., 467 D - 468 A. E precisa poi in seguito: « Nam de oùafa, id est essentia
nemo dubitat, quod nullius indiget ad subsistendum. Ab ipsa enim cetera fulciri credun-
tur ». Ibid., 470 B.
(6) Ibid., 470 C.
(7) Ibid., 493 C D; 494 A . B; 495 C.
— 70 —
adest » (8). Da quest'affermazione deriva la logica conseguenza che, solo
ciò che nelle cose è immutabile rappresenta la
vera unica ed autentica sostanza, mentre gì'indi-
vidui, che comunemente si ritengono sostanze,
sono invece accidenti, perciò l'Eriugena conclude « Deinde
Ma trinita*, quae in singulis considerati potest, et a prima trinitate essen-
tiali procedents, veluti praecedentis causae effectus, eiusque primordialis
Hiatus, quaedamque primordialia accidentia pensando est ut video » (9).
Occorre intanto ancora fermarsi sull'unità dell'essenza (10). Essa è
unica per tutti gli esseri, e si noti che l'unità dell' cùafa per gli esseri crea-
ti non è già unità della specie, ma è un'unità che involge in se il genere
e la specie, in quanto compresi nell'ambito della sua estensione. « Genera
quoque et species ipsius oùafa{, cum in se diversas species numerosque
multiplicant, agere videntur » (11). Ma c'è di più l' oùofa, così conside-
rata, non è solo un principio logico, ma è anche l'unico sostra-
to ontologico dei generi, delle specie e degli in-
dividui, essa non sussiste fuori delle cose, ma
immanente nel le cose stesse: a. Nil aliud esse video in quo
naturaliter inesse oxjqLcl possit, nisi in generibus et speciebus, a summo
usque deorsum descendentibus, hoc est, a generalissimis usque ad specialis-
sima hi est individua; seu reciprocatim sursum versus ab individuis ad gene-
ralissimo. In his enim veluti naturalibus partibus universalis o'joix snbsi-
stit » (12). A tutti gli esseri creati (13) quindi soggiace un'unica essenza, la
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quale è tutta nelle singole sue forme e specie, nè è maggiore nella totalitÃ
degli individui, che negli individui singoli, nè più ampia nel genere più
esteso, che nella più determinata specie, nè minore nella specie determi-
(8) Ibid., 506 D.
(9) Ibid., 507 B.
(10) Al concetto deIl'otitio ha dedicato, come abbiamo detto, un nutrito studio
l'Eswein, il quale a proposito dell'unità dell'essenza così scrive: « Ihm ist es ja auch
hauptsà chlich um die Wesenheit als metaphysische Einheit und Substrat alles real Existieren-
den zu tun und nichi als Kategorie zum logischen und erkenntnistheoretischen Gebrauch.
Es gibt nur e i n e substantiale Wesenheit, die von Cott dem Lieberwesentlichen, ausgeht,
emaniert. Wie man von Cott nur uussagen kann, dass er ist, nicht w a s er ist, so kann
man von der Wesenheit nur erkennen, dass sie ist. nicht w a s sie ist. » Eswein.
Op. cit., p. 194. Lo spaziato è dell'Esweui.
(11) De Div. wa.. 472 BB.
(12) Ibid., 472 C. Precedentemente, nello stesso pa.-so. così è deUoT~« Num oùaia
in generibus generalissimis et in generibus generalioribus, in ipsis quoque generibus
eorumque speciebus, atque iterum specialissimis speciebus, quae atoma, id est individua
dicuntur, universaliter proprieque continetur ? » La risposta affermativa è quella conte-
nuta nel tetto.
(13) Chiariremo nel seguito dell'indagine in che senso l'essenza è creata.
— 71 —
nata, che nel genere più generale (14). Ma oltre al carattere dell'unità ,
all'ousia spettano anche: 1°) Il carattere delTummutabilità . Sono difatti in
moto i quattro elementi, i quali, con il loro unirsi e separarsi danno origine
ai corpi, ma al disotto del variare degli elementi permane sempre immuta-
bile l'essenza, in cui si risolvono e ritornano le cose dopo la corruzione (15).
2°) Il carattere della semplicità : essa è immutabile perchè semplice. L'ansia
difatti, a più riprese dice Scoto, non è corpo, ma il corpo è un suo acci-
dente; non essendo corpo, essa non è soggetta a nessuna composizione e
neanche a decomposizione. Mentre il corpo ha una composizione di materia
e forma, l'ousia ha solo una composizione di essentia e di essentialis diffe-
rentia (16), composizione da cui non è esente neanche lo stesso Dio. 3°) Dalla
semplicità dell'essenza deriva un altro suo carattere: l'incorruttibilità difatti
« tintinm eorum quae sunt, in quantum essentia et natura est, ullo modo
corrumpi posse » (17). 4°) A proposito di queste fondamentali caratteristiche
dell' oùaJa l'Eriugena precisa che essa, nella sua unità e semplicità impli-
ca la trinità di oùaix, Stivaci;, èvépyeia, cioè essenza, virtù e operazione
naturale. Questo triplice essere dell' oùaia non ne compromette l'assoluta
(14) Giova riportare per intero l'importantissimo passo a£ contrario a: prima ha
parlato del corpo e della sua divisibilità « autem oÙCJta tota in singulis suis formis
speciebusque est, nec maior in omnibus simul collectis, nec minor in singulis a se invicem
divisis. Non enim ampIior est in generalissimo genere, quuni in specialissima specie; nec
minor in specialissima specie, quam in generalissimo genere. Et ut exemplis utamur:
0ÃŒX3ÃŒCC non est maior in omnibus hominibus, quam in uno /tornine, nec minor in uno nomi-
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ne, quam in omnibus hominibus. Non est maior in genere, in quo omnes species animalium
unum sunt, quam in nomine solo, vel bove, vel equo ». (De div. mil., 1, 492 A.) E succes-
sivamente 492 D, precisa: « At vero oòoiot quamvis sola ratione in genera sua speciesque
et numeros dividatur, sua tumen naturaIi virtute individua permanet, ac nullo actu seu
operatione visibiIi segregaltir. Tota enim simul et semper in suis subdivisionibus aeterna-
Iiter et incommutabiliter subsistit, omnesque subdivisiones sui simul ac semper in seipsa
unum inseparabile sunt. Atque ideo, etsi corpus, quod nihil aliud est quam o'JOt'af quan-
titas, et ut verius dicam, non quantitas, sed quantum, actu et operatione, vel certae suae
fragilitutis passione, in diversas segregetur partes, ipsa, per se id est oùaia, cuius et
quantum, corpus immortalis inseparabilisque sua propria naturalique virtute perdurat ».
(15) « Quae resoluta » (i corpi cioè) ce iterum ex propietatibus in universalites recur-
rum, munente semper immutabiliter quasi quodum centro singularum rerum propria natu-
raIique essentia, quae nec moveri, nec augeri, nec minui potest. Accidentia enim in motu
sunt, non essentiae ». Ibitì.. 476 A. Cfr. anche, 486 B.
(16.) « Item omnis oòai'a simplex est, nullamque ex materia formaque compositionem
recipit, quonium unum inseparabile est. NuIla igitur oùoltx corpus mortale intinti,ibiIiter
condeditur esse. Hoc autem dictum est, quia omnis oòolx. quanquam intelligatur ex
essentia et essentiali differentiu composita esse -hac enim compositione nulla incorporea
compositione potest carere siquidem et ipsa divina oùai'a, quae non solum simplex, sed
plusquam simplex creditur esse, essentialem differentiam recipit ; est enim in ea ingenita,
genita procetIens substantia -ipsa tamen compositio, quae soIa ratione cognoscitur, nulIoque
actu et operatione fieri comprobatur, rationabiliter simplicitas esse iudicanda. » Ibid.,
489 D - 490 A.
(17) lbid., 490 A.
— 12 -
semplicità , perchè la dunamis e Yenergliela sono elementi interni al con-
cetto di essenza, che non importano in essa nessun mutamento o comunque
divisione. La nostra autocoscienza può chiarire questo concetto: invero, af-
ferma l'Eriugena, quando io dico che comprendo di essere, in questo atto
è la piena consapevolezza del mio essere attuale, che è realizzazione della
possibilità di essere e di comprendere (18). Nell'atto del mio intendere è,
pertanto, logicamente ed ontologicamente presupposta l'essenza, la quale è
il prius absolutum. Abbiamo cioè, e questo principio ritorna sempre nell'o-
pera di Scoto, la formulazione del principio di sostanza come fondamento
dell'essere e dell'agire; valga questa affermazione contro coloro che parlano
di un monismo idealistico di Scoto. Se monismo vi è nell'opera dell'Eriugena,
questo, inteso nei giusti limiti e nelle debite proporzioni, è un monismo
oggettivista; l'Eriugena appartiene alla filosofia classica e tra lui ed Hegel
vi è l'abissale distanza creata dal gnoseologismo moderno.
Dall'insieme di questi caratteri, i quali tutti promanano dalla recisa
affermazione dell'unità dell'essenza, deriva logicamente la negazione dell'in-
dividualità sostanziale ed ontologica. Su questi presupposti l'Eriugena so-
stiene che l'essenza, essendo semplice, non può dividersi, contrariamente
al corpo, soggetto a divisione interna ed a moltiplicazione numerica; mentre
ogni individuo ha un proprio corpo, l'essenza, soggiacente ai molti individui,
è partecipata da questi, senza peraltro essere propria di nessuno (19).
Questa teorica trova il suo sviluppo nell'ilemorfismo dell'Eriugena : egli
sostiene con Agostino che tutte le creature sono costituite da materia e forma,
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la quale si distingue in forma sostanziale e forma qualitativa; mentre la for-
ma qualitativa varia da individuo ad individuo, la forma sostanziale è la
specie sostanziale del genere, che di essa si predica, in quanto in essa sus-
siste. « Genus namqne, ut saepe diximus, totum in singulis suis formis est,
(18) « Haec enim tria in omni creatura, sive corporea, site incorporea, ut ipse certis-
simin argumentationibus edocet, incorruptibilia sunt et inseparabilia, cùafa, "* saepe
diximus, 8uvaiJU{, èvépysia, noc es' essentia, virtus, operatio naturalis Nulla na-
tura, sive rationalis, sive intellectualis, est quae ignoret se esse, quamvis nesciat, quid
sit Dum ergo dico intellìgo me esse, nonne in hoc uno verbo, quod est intelligo, tria
significo a me inseparabilia ? Nani et me esse, et posse intelligere me esse, et intelligere
me esse demonstro. Num vides uno verbo et meam oÃ’CTl'av, meamque virtutem et actionem
significar!. » Ibid., 490 B.
(19) « Fiat igitur maxima proposito sic: utrum cuoia corpus corruptibile est ? Omnis
OUCTta incorruptibilis est Omne incorruptibile corpus materiale non est. Omnis igitur
oùoiot. corpus materiale non est. Et reflexim. Omne igitur corpus materiale oùafa non est.
Item: omne corpus, quod ex materia et forma componitur, simplex non est. Omnis autem
OÒaiOC simplex est. ISullum igitur corpus forma materiaque compositum ijùafa est. Item:
omnium hominum una eademque oòzlx est. Omnes enim unam participant essentiam, oc
per hoc, quia omnibus communis, nullius proprie est. Nam unusquisque suum proprium
possidet corpus, non et oùaiav. Igitur communis est, et corpus commune non est. Est
autem 0Òa£a communis. Non est igitur corpus. Eadem ratio in ceteris animalibus inani-
malibusque perspicue splendei ». Ibid., 491 A-B.
-?3-
qttemadmodum et singulae formae unum in suo genere sunt. Et haec omnia,
id est genera et formae ex uno fonte ousiae manant, inque eam naturali
ambitu redeunt (20).
Non solo Scoto sostiene l'unità della forma sostanziale per tutti gl'indi-
vidui, ma anche la materia è da lui ridotta ad un accidente dell'unica ousia:
essa è costituita dai quattro elementi, che sono il risultato della concrezione
della quantità e qualità , a loro volta accidenti dell'essenza (21). La real-
tà sostanziale degli esseri viene quindi a ridursi
a mera accidentalità di un'uni e a ed identica es-
senza.
Secondo Scoto, può chiamarsi veramente sostanza soltanto « quod sem-
per id ipsum est » (22), mentre ciò che è soggetto al divenire è un mero
accidente. Ora, mentre nelle creature vi è una essenza immutabile, la quale
dal Creatore è costituita come fondamento del loro essere, vi è, poi, un'altra
parte, quella propria ed individuale, la quale, in quanto spetta ai singoli
come tali, è una derivazione o un effetto della prima, e deve considerarsi
come un accidente, sia pure primordiale, della medesima (23). Da questa
premessa si deduce che l'individuo che è comunemente ritenuto sostanza, e
che per Aristotele era la prima sostanza, viene degradato al rango di acci-
dente: « Prima siquidem rerum omnium divisio est in essentias et accidentia,
secunda accidentium in substantias. Quae fere in infinitum protenditur, dum
quod mine accidens est prioris .se, mox sequentis se substantia effi-
citur » (24). Sulla base di questa teoria, che vedremo articolarsi in tutti i
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problemi, Scoto Eriugena costituisce tutto il suo sistema. Da essa derivano
due conseguenze di grande importanza:
(20) Ibìd., 494 B.
(21) a Non enim aliud te suadere aestimo, quam ut cognoscamus quuttuor mundi
huius elementorum in se invicem concursu contemperantiaque materiam corporum fieri,
cui adiecta qualicunque ex qualitate forma perfectum corpus efficitur ». (lbid., I, 495
D - 496 A.) Ma si precisa subito che questi quattro elementi non sono altro che un acci-
dente dell' 0J3t« ; precedentemente aveva affermato che il corpo è una determinazione
della quantità « quantum », « rectius corpus quantum vocari quam quantitas, quoniam Ma
accidentia. quae naturalis dicuntur dum in se ipsis naturaliter perspiciuntur, incorporatio
sunt et invisibilia ». (lbid., 492 D.) Successivamente precisa come i quattro elementi fon-
damentali siano il risultato del concorso degli accidenti dell' ofrafa « Nec mirimi, quo-
niam ìllos latet, non aliunde mundi huius elementa, nisi praedictorum ousiae accidentium
concursu componi ». lbid.. 496 A.
(22) lbid., 507 A.
(23) « Nam quod semper id ipsum est, vera substantia recte dicitur; quod vero varia-
tur, aut ex mutabilitatc instabilis substantiae, aut ex partecipatione accidentium, sive natu-
rullimi sive non naturalium, procedi!. Et ne mireris quaedam accidentia, substantias dici,
quoniam aliis accidentibus subsistunt, dum vides quantitati, quae sine dubio accidens
substandiae est, alia accidentia uccidere, ut est color, qui circa quantitatem apparet, et
tempora, quae in morosis rerum motìbus intelliguntur. Est enim tempus mutabilium rerum
moroe motusque certa rationabilisque dimensio. » lbid., 507 A - B.
(24) lbid., 508 A.
-n —
1) L'affermazione di un'unica essenza, la quale porta.con sè la riduzione
di tutte le sostanze individuali ad accidenti, privi di una autentica realtà .
2) La riduzione della materia a degradazione dello spirito. Scoto espli-
citamente riduce il corpo ad apparenza fenomenica, nel senso che il corpo
è il risultato dell'incontro dei quattro elementi, i quali in sè sono immate-
riali. Il nostro filosofo stabilisce, difatti, che il corpo è costituito da una ma-
teria ed una forma; però, se si considera, come sopra si è visto, che la ma-
teria è anch'essa un accidente dell'otf.sia ed è, come questa, inconoscibile,
allora anche la materia verrà a perdere la sua realtà autonoma.
E' ovvia l'importanza che ha nell'economia del pensiero dell'Eriugena
questa dottrina dell'ousia; in base ad essa noi possiamo stabilire l'esatto
significato del suo pensiero, se cioè noi ci troviamo di fronte ad una dottrina
teistica dualistica ovvero monistica.
Occorre, intanto, accennare ad un'altra dottrina per comprendere la
singolare posizione di Scoto, nella cui opera, chiaramente neoplatonica, noi
troviamo da una parte affermata la creazione, dall'altra il pnteismo. L'Eriu-
gena indiscutibilmente parla, e ritorna sempre, sul concetto di creazione,
come produzione ex nihilo; egli anche ha chiaro il concetto di creatura,
che non è a se, ma è ab alio e di Essere necessario, infinito, non soggetto a
limitazione e metafisicamente indivenibile. Questo complesso cristiano viene
ria lui pensato neoplatonicamente: di qui sorgono tesi di carattere moni-
stico panteistico. Vedremo come sulla base del Cristianesimo egli ci parla
ili creazione, ma questa cerazione è necessaria ed eterna, anzi possiamo dire
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fatale (iNeoplatonismo); ancora su base cristiana sostiene la dottrina del
Verbo come generato e non causato da Dio. Nei rapporti tra il Verbo e le
idee eterne s'insinua una tesi neoplatonica: le cause primordiali delle cose,
pur essendo nel Verbo, si distinguono dal Verbo medesimo; esse difatti sono
create, non genite, epperò pur essendo coessenziali alla natura del Verbo,
con cui ontologicamente fanno tutt'uno, tanto che sono le idee dell'eterna
sapienza, sono da lui distinte logicamente. Esse sono, come vedremo più
diffusamente in seguito, eterne e create, une e molteplici, ma tuttavia divine.
Su questo punto occorre tener fermo l'occhio perchè esso ci da, insieme alla
teoria dell'essenza, quello che per Scoto doveva essere il punto d'incontro
tra le opposte esigenze del teismo cristiano e del monismo neoplatonico. Di-
fatti queste ragioni primordiali sono costituite dalla medesima essenza di-
vina che in esse si manifesta; l'essenza delle cose, poi, è questa stessa realtÃ
delle cause primordiali, che si manifesta in una terza apparizione e permane
essenzialmente identica e immutabile nella molteplicità infinita degli esseri,
che sono puri accidenti.
Avremo allora questo risultato: 1) Il Creatore e la creatura sono tra loro
distinti, però la creatura avrà come sua sostanza Tessere di Dio stesso, ma
degradato. 2) Sarà affermato con un'apparente contraddizione il panteismo
ed il teismo. Ma questa contraddizione sarà , ripetiamo, solo apparente, per-
— 75 —
che quando l'Eriugena parlerà di Dio immanente nelle cose, non identifi-
cherà Dio tout court con le cose, ma affermerà Dio sostanza delle cose, in
quanto Yousia, che è l'apparire delle cause primordiali nelle cose, è divina,
mentre la realtà individuale, che è nello spazio e nel tempo, cade fuori
della realtà essenziale e quindi fuori di Dio.
Stabilita la fondamentale importanza del concetto di essenza ai fini di
una ricostruzione sistematica del pensiero di Scoto Eriugena, dobbiamo stu-
diare questo concetto in relazione prima con le cause primordiali (la seconda
natura) e poi con Dio (prima natura); successivamente l'esamineremo nelle
sue applicazioni fisiche e cosmologiche, per trattare infine del ritorno di
tutte le cose a Dio.
Intanto a conclusione di questo capitolo dobbiamo notare, come l'es-
senza, pur proclamata creata, assume caratteri divini, in quanto è unica,
semplice, immutabile, indistruttibile. Siamo così in un clima nettamente
naturalistico, proprio di ogni panteismo, abissalmente lontano dalla filosofia
di S. Agostino e dei primi Padri della Chiesa, i quali tutti proclamavano la
mortalità di ogni ente creato e l'immortalità dell'anima per volontà di Dio.
Giova infine ancora ripetere, e sarà questo il fulcro della nostra inda-
gine, come tutto il sistema riposi su una posizione equivoca: l'unità distin-
zione delle cause primordiali, a cui, come vedremo, si riduce l'essenza delle
creature, dal Verbo. Scoto difutti proclama l'identità Ira il Verbo e Dio,
essendo il Verbo generato dall'eternità da Dio, pone intanto una distinzione
tra il Verbo e le cause primordiali, distinzione che egli non spiega, nè riesce
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a spiegare.
Capttolo IV
L'ESSENZA NELLO SPAZIO E NEL TEMPO
E L'ESSENZA NELLE CAUSE PRIMORDIALI
Finora noi abbiamo considerato l'essenza in quanto principio imma-
nente in tutta la realtà ed abbiamo sottolineato i suoi vari caratteri, i quali
tutti concordano nell'unità di un unico sostrato soggiacente alla molteplicitÃ
degli individui, occorre ora esaminare l'essenza, non in quanto si manifesta
nello spazio e nel tempo, ma in quanto è nel Verbo di Dio e stabilire, se
l'essenza delle cose, in quanto è nello spazio e nel tempo, è ontologica-
mente diversa dall'essenza in quanto è nel pensiero di Dio.
In un passo famoso del « De Divisione naturae » Scoto definisce il nostro
vero ed autentico essere con queste parole: « Nihil alimi nos su ni ti s in quan-
tum su m ns, nisi ipsae rationes nostrae aeternaliter in Deo substitutae » (1),
cioè la nostra vera realtà non è nel mondo empirico, ma nell'essenza eterna,
che è nel pensiero di Dio. L'affermazione si presta a vari sensi, il Cap-
puyns (2) su essa si è basato per escludere il monismo di Scoto.
Ora noi dobbiamo condurre un esame su quest'affermazione di origine
platonica e stabilire se tutta la realtà ontologica dell'individuo si risolve
nella eterna essenza, ovvero se esiste un modo di essere dotato di autonomia
sostanziale oltre quello, che esiste nel pensiero di Dio. Cioè la sostanza del-
l'uomo è tutta nel pensiero divino, per cui la realtà del mondo è solo acci-
dentale, ovvero anche la realtà esistente in rerum natura ha una sua sostan-
zialità ? Cerchiamo di seguire il pensiero di Scoto, chiarendo inanzitutto il
significato e il valore, che ha, nel suo sistema, il mondo delle idee.
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La seconda realtà , secondo lo schema eriugeniano, è costituita dalla
natura creata e creatrice, la quale contiene le cause primordiali di tutte le
cose. Queste cause dai greci venivano chiamate 7tpti)x6xu7ra, cioè primi
ed eterni esemplari, o 7ipop(au,aTa, predestinazioni, ovvero anche freXi^aTa ,
esse sono le idee o modelli o forme in cui sono disposti i principi immuta-
li i De Uiv. ma., IIl, 640 A - B.
(2) Capplyns, Op. cit., p. 351.
- 77 —
bili degli esseri creati. L'Eriugena, che imposta la sua opera come un com-
mento alla Sacra Scrittura cita il versetto della Genesi: « In principio fecit
Deus coelum et terram », con questo versetto deve intendersi non già la
creazione del cielo e della terra spazio-temporali, ma la creazione delle cause
primordiali, che dal Padre furono create nel Verbo (3). Esse costituiscono
la perfezione dell'essere e le forme delle cose, unificate dalla unità semplice
del Verbo di Dio, verso cui sono sempre rivolte e da cui non si staccano mai,
senza peraltro rivolgersi alla natura terrena, che è ad esse inferiore e da esse
defluisce (4).
Queste ragioni primordiali sono la seconda natura, creata, ma nello
stesso tempo creatrice; in quanto natura creata esse sono distinte da Dio e
dal suo Verbo, in cui però eternamente vivono. La loro caratteristica fonda-
mentale è la semplicità , quando difatti la Scrittura parla di « terra inanis et
vacua » si riferisce appunto ad esse, create nel Verbo prima di ogni altra
realtà (5) ed anteriormente alla loro manifestazione nei generi e nelle forme
sensibili : « In quibusdam nebulis corporis sensibus apparent » (6).
Dalla loro semplicità deriva l'unità « sunt enim simplices omnique
compositione omnino carentes. Nam in eis est ineffabilis unitas inseparabi-
lisque incomposita harmonia. universaliter differentium seu sim iliuin partium
copulationem supergrediens » (7).
Occorre però precisare che queste eterne idee, pur formando un'asso-
luta e semplice unità nel Verbo di Dio, qualora vengano esaminate come
archetipi delle creature, sono soggette ad una considerazione molteplice.
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Sotto questo angolo visuale esse costituiscono la bontà assoluta, la veritÃ
assoluta, l'intelletto assoluto, la ragione assoluta, la virtù assoluta, la giu-
stizia assoluta, la salvezza assoluta, la grandezza assoluta, l'onnipotenza as-
soluta, l'eternità assoluta, la pace assoluta e tutte le virtù e le ragioni, che
furono eternamente e simultaneamente create, e secondo le quali è creato
l'ordine di tutte le cose, dalla creatura intellettuale, la quale a Dio è la più
vicina, fino all'ordine infimo della realtà , che è costituita dai corpi (8).
L'ordine stabilito dall'Eriugena nelle cause primordiali, segue lo sche-
(3) De Div. MI., II, 546 B - C.
(4) Ibìd., II, 547 B - C.
(5) lbid., II, 549 B.
(6) lbid., 550 B.
(7) lbid., 550 C.
(8) « Sunt igitur primordiales causae, quas rerum omnium principia divini sapientes
appellant, per seipsam bonitas per seipsam essentia, per seipsam vita, per seipsam sapien-
tia, per seipsam verìtas. per seipsam intellectus, per seipsam ratio, per seipsam virtus,
per seipsam iustitia, per seipsam salus, per seipsam magnitudo, per seipsam omnipotoniia.
per seipsam aeternitas, per seipsam pax, et omnes virtutes, quas semel et simul Pater fecit
in Filio, et secundum quas ordo omnium rerum a summo usque deorsum texitur, hoc est
ab intellectuali creatura, quae Deo post Deum proxime est, usque ad extremum rerum
omnium ordinem, quo corpora continentur. » lbid., II, 616 B.
— 78 —
ma di Dionigi l'Areopagita. A proposito della organizzazione di queste es-
senze, occorre tenere presente due principi: 1) gli attributi, che si predi-
cano delle cause primordiali, devono essere intesi come attributi essenziali,
nel senso che quella determinata qualità , che si riferisce ad esse, non è inte-
sa come una qualità limitata, inerente ad un sostrato, ma in senso assoluto,
senza limitazione di sorta (9); 2) l'ordine o « consideratio » o « intentio »
delle cause primordiali segue lo stesso ordine della predicazione degli attri-
buti di Dio. Pertanto poichè di Dio noi predichiamo innanzitutto la bontà ,
questa avrà anche il primo posto nella consideratio delle cause primordiali.
Alla bontà segue l'essenza, e Scoto spiega che la precedenza della bontà sul-
l'essenza sorge dall'analisi, per cui la realtà in tanto è, in quanto è bene (10).
La bontà ha infatti un'estensione maggiore dell'essere, perchè mentre l'es-
senza si predica solo di ciò che è, la bontà si predica anche di ciò che non
è; di ciò, che pur essendo superiore all'essenza, tuttavia è somma bontà :
Dio. I ;i terza consideratio è costituita dalla vita, la quale, a sua volta, è razio-
nale o irrazionale; da ciò una nuova categoria: la ragione, dalla quale dipen-
dono Yintelligentia o scientia e la sapientia. Anche l'affermazione della
sapienza, in quanto causa primordiale, trae origine dalla consideratio della
divina natura, che è costituita dalla somma sapienza: « llinc non immerito
inter primordialea causas sexto loco per seipsam sapientia collocatur, quae
prima partecipatio est summae oc verae sapientiae, parteci patione vero sui
omnibus post se si pi enti bus sapiendi causa creata est » (11). Con questo
stesso metodo si affermano, prima come attributo di Dio, e poi come a causa
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primordialis », altri sei gradi e cioè la virtù, la teoria « in quo mens pura
stmima veraque divinae naturae beatitudinem intuetur. Cuius prima parte-
cipano est per se beatitudo, quam veluti octavam primordialium participant,
beataque sunt, quaecumque post se beata sunt, omnia » (12); successiva-
mente seguono la verità e l'eternità , ed infine l'Eriugena conclude: « Eadem
ratio est de magnitudine, de amore et pace et perfectione » (13). ,Non biso-
gna, però, credere che le cause primordiali siano numericamente finite, esse,
in quanto dipendono solo dalla volontà di Dio, sono infinite (14).
Stabilito in tal modo l'ordine e la molteplicità delle cause primordiali,
in quanto, essendo l'essenza della realtà , in esse si dovrà trovare l'esemplare
di tutto ciò che è, l'Eriugena subito, ed insistentemente, precisa che que-
(9) « I:t haec r fimi a in omnibus primordialibus Causis uniformiter observatur, hoc est,
limili per se ipsas partecipationes principales sunt unius omnium causae, quae Deus est. »
Uè Div. nat.. 622 C.
(10) iliiit . 622 C - D.
(11) limi.. 623 A.
(12) Ibid., 623 B.
(13) Ibid., 623 C.
(14) « Et ipsae finem nesciunt, quo claudantur, praeier Creatoris sui voluntatem. »
limi.. 623 D - 624 A.
— 79 —
st'ordine non ha valore per la realtà in sè, ma solo per la nostra mente
« I\'on in ipsis, sed in theoria, hoc est, in animae cointuitur quaerentis
eas » (15). Difatti le ragioni eterne in quanto sono in sè stesse, costituiscono
un'unità assolutamente semplice, che non implica nessuna molteplicità di
nessun genere: « Ipsae siquidem primae cunsae in se ipsis unum sunt, et
simplices, nullique cognito ordine definitae, aut a se invicem segregatae;
hoc enim in effectibus suis patiuntur » (16). La molteplicità quindi, è solo
negli affetti, e vedremo fra poco in qual senso ed in qual limite essa sia pos-
sibile, ma, in quanto le idee eterne sono nel Verbo, costituiscono un'unitÃ
semplice ed assoluta. Come tutti i numeri considerati nella monade, in cui
razionalmente sono « unum sunt et simplex unum », così l'ordine delle cose
del mondo, finché è considerata nella sua vera ragione d'essere è un'assoluta
e semplice unità . Pertanto, come gli attributi, che si predicano di Dio, non
introducono nessuna molteplicità di nessun genere nell'assoluta semplicitÃ
dell'essenza divina, ma sono solo un'esigenza dell'anima umana, così la mol-
teplice considerano delle cause prime nulla toglie alla loro semplice unità ,
che è però, secondo lo schema neoplatonico, inferiore a quella di Dio. Esse
perciò « omnia unum sunt, et simni et simpliciter sunt » (17) e, per usare
un esempio sensibile, come nel cerchio non è possibile stabilire un ordine
di successione dei vari raggi, essendo tutti identici e tutti equidistanti dal
centro, così ogni ordine nelle cause primordiali è puramente convenzio-
nale (18).
Dall'assoluta semplicità ed unità delle idee eterne deriva la loro incono-
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scibilità : di esse, così come di Dio e dell'essenza delle cose, noi possiamo
conoscere il quia, ma non il quid. Giammai l'uomo potrà conoscerle nella
loro essenza: anche quando esse si saranno manifestate e sviluppate nella
varietà delle cose sensibili ed intelleggibili, ugualmente rimarranno inacces-
sibili, come la divina saggezza in cui permangono unite.
l.e ragioni eterne, pertanto, in quanto sono nel Verbo danno gli stessi
caratteri di semplicità , unità , propri del Verbo stesso. Noi intanto notiamo
che gli stessi attributi, che, nel precedente capitolo, abbiamo riscontrato a
proposito dell'oi/sia, ora ritroviamo a proposito delle cause primordiali.
Urge, perciò, porre e risolvere il problema del rapporto tra le cause primor-
diali, quali sono nel Verbo, e l'essenza delle cose, che sono nello spazio e
nel tempo.
E' da ripetere che, pur essendo le cause primordiali le ragioni eterne
delle cose, esse sono creature: « Num itaque vides duas » cioè la seconda
e la terza natura, « secundam dico et tertiam, in creaturam recollectas » (19):
(15) Ibid., 624 A.
(16) Ibid., 624 A.
(17) Ibid., 624 D.
(18) Ibid., 625 A.
(19) De Div. nat., II, 527 D.
— 80 —
esse sono creature, ma unificano in sé la molteplicità delle cose, che si di-
spone nello spazio e nel tempo.
Cerchiamo innanzitutto di spiegare quale realtà abbia la molteplicitÃ
spazio temporale. Secondo l'Eriugena, tutto ciò, che è nello spazio e nel
tempo, non appartiene alla natura essenziale della creatura, ma è una conse-
guenza del peccato originale.
Il peccato, per Scoto Eriugena, non ha solo importanza per l'umanità ,
ma ha un significato cosmico, poichè l'esistenza di questo mondo, diste-
so nello spazio e nel tempo, è tutto condizionato da esso; se l'uomo non
avesse peccato il mondo sarebbe rimasto sempre presso le cause primordiali
a cui ritornerà dopo la universale resurrezione. Alla base di questa dottrina
è il concetto dell'uomo microcosmo, che contiene in sè tutta la realtà , eppe-
rò il peccato, che degrada l'uomo, degrada nello stesso tempo la realtÃ
cosmica, la quale, poi, con la redenzione dell'uomo, viene anch'essa redenta,
per tornare alla sua vera natura.
Giova precisare questa importante teoria, che è al centro del sistema
dell'Eriugena. Per ora a noi interessa solo il problema della molteplicitÃ
spazio temporale dell'universo, che promana dal peccato, lasciamo quindi
per il momento nell'ombra il problema proprio dell'uomo, che tratteremo
poi a parte. L'uomo quale è attualmente costituito, con la divisione in dupli-
ce sesso, con la diversità delle sue forme e dei suoi pensieri, smembrato nello
spazio e nel tempo, non è sorto dalla natura, ma dal vizio. « Non enim in
his, in quibus, nunc videtur esse homo, subsistit, sed in occultis naturae
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causis, secundum quas primitus conditus est, et ad quas reversurns est, con-
tinetur, in quantum est » (20). L'essenza dell'uomo è costituita dalle cause
primordiali, che permangono nel Verbo di Dio, e di cui l'uomo sensibile
è un modo di apparire accidentale: la stessa causa primor-
diale, che esiste e sussiste nel Verbo, soggiace
alla molteplicità degli u omini, che sono nello
spazio e nel tempo, e che vengono a perdere in
tal modo, la propria sostanzialità .
Se l'uomo non avesse peccato sarebbe sempre rimasto nelle cause primor-
diali nelle quali fu creato ad immagine di Dio: « Nam si primus homo non
peccaret, naturae suae partitionem in duplicem sexum non pateretur, sed
in primordialibus suis rationibus, in quibus ad immaginem Dei conditus
est, immutabiliter permaneret » (21). E si noti che con il ritorno dell'uomo
alla primitiva semplicità , dopo l'apocatastasi, si avrà anche l'unificazione
(20) Ibid., 533 C.
(21) Ibid., 532 B. E cobi continua, dopo una citazione di Massimo: « Homo numque
solummodo esset, in simplicitate suae naturae creatus, eoque modo quo sancti Angeli
niulti pIica/i sunt, intellectualibus numeris multi plicatus ».
— 81 —
della molteplicità della terra nel paradiso (22). Questa unificazione della
terra nel paradiso sarà un'unificazione della terra nell'uomo un ritorno cioè
all'unità : « Nam in homine omnia adunantur secundum partium suarum,
terrue videlicet, differentiam ; ut, quemadmodum nulla partium diversitas
in nomine erit, quoniam nulla compositio in eo permanebit, ita etiam ter-
rena natura sibi copulabitur, ut in eo ut cum eo esse videatur. Ait enim:
sed magis congregatum, quatenus nullam tilla partium eius subductionem,
hoc est, separationem patiatur. Ubi quippe vera est simplicitas, ibi nullius
subductionis, id est segregationis, reperitur varietas » (23)
Si pone così il problema dell'essenza della natura, cioè, anche per la
natura, come per l'uomo, l'essenza, che soggiace ai fenomeni, è ontologica-
mente e numericamente la stessa, che permane nelle cause primordiali ?
Scoto, trattando del ritorno di tutte le cose a Dio, ci rivela il suo pensiero.
E' da precisare che il ritorno della natura in Dio, si compie attraverso
l'uomo. Per l'Eriugena l'uomo microcosmo riunisce in sè tutto il creato, la
caduta dell'uomo non solo è causa dello smembramento dell'uomo, ma lo è
anche di tutta la realtà , la quale dispersa con l'uomo nello spazio e nel
tempo, con lui sarà , attraverso la mediazione di Cristo, unificata nel para-
diso, cioè nelle cause primordiali.
Il peccato originale diventa per Scoto l'unico modo (come poi sarà per
l'ultimo Schelling) onde introdurre la molteplicità in seno all'unità . Difatti,
avendo affermato che la realtà ontologica delle creature si riduce alle cause
primordiali, e che, la molteplicità in queste è solo quoad homines, nel senso
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che esse sono unite nell'eterna sapienza del Verbo, la molteplicità non pote-
va sorgere se non come rottura dell'unità iniziale. La molteplicità non po-
teva sorgere per creazione da Dio, perchè l'opera creatrice di Dio si ferma
appunto alla creazione delle idee eterne. Conforme poi alla teologia neopla-
tonica, per l'Eriugena tutto il mondo terrestre è male in quanto sorto dal
peccato. L'ottimismo si ferma alla considerazione dell'aspetto immutabile
della realtà , che s'identifica con Dio, come andiamo chiarendo, e che non
può subire pena.
Stabilito che, attraverso la redenzione dell'uomo ed il suo conseguente
ritorno all'unità delle cause primordiali, si ha l'unificazione in Dio di tutte
le cose, cerchiamo spiegarci come sia possibile quest'unificazione: è, cioè,
essa solo intenzionale, nel senso che la natura si unificherà nelle cause pri-
me, in quanto sarà tutta spiritualizzata nel pensiero dell'uomo, ovvero, que-
sta unificazione della natura sarà un'unificazione ontologica ed obiettiva, in
quanto la natura non sarà solo unita nel pensiero dell'uomo, ma, con un
processo a se stante, avrà la sua realtà nelle cause primordiali, ontologica-
mente distinta dall'uomo ? (24). Si noti che il problema ha una grande
(22) ìbid., 533 C.
(23) Ibid., 534 C.
(24) Ibid., 535 B- C. cfr. pure De Div. nat., V, 893 C - D.
— 82 —
importanza perchè entra nel cuore della questione dell'o&aJa; se l'essenza
di tutte le cose è unica, allora in questa realtà essenziale non potrà più pene-
trare molteplicità di sorta; in fondo Scoto ripropone il problema sopra
accennato della unità e molteplicità delle idee eterne. Se, invero, la molte-
plicità di esse è solo quoad nos, ma in sè costituiscono una semplice unità ,
come si potrà parlare di un'essenza, o causa primordiale della natura distinta
dall'essenza, o causa primordiale, dell'uomo ? Già veramente le precedenti
affermazioni dell'assoluta unità ed identità delle idee dovrebbero essere
sufficienti a mostrare come non sia certo possibile parlare di una molteplicitÃ
di cause se non soggettivamente, la tesi ora sviluppata è un elemento di
applicazione a quanto più sopra si è detto. E' ripetuto che la vera realtÃ
è nell'intelletto: « Imellectus enim rerum veraciter ipsae res sunt » (25); in
quanto l'uomo prima del peccato era stato fatto ad immagine di Dio, la sua
essenza, partecipe della natura intelleggibile e sensibile, portava in sè con-
giunti i due mondi: « Est enim ex duabus conditae naturae universalibus
partibus mirabili quadam adunatione compositus, ex sensibili namque et
intellegibili; hoc est, ex tot in* creature extremitatibus conjunctus » (26).
In tale condizione l'orbe materiale e tutta la natura in lui sarebbe stata
paradiso « hoc est, spiritualis terra atque conversatio »; non vi sarebbe stata
separazione della terra dal cielo, la moltiplicazione numerica in lui sarebbe
avvenuta come per gli angeli e « nullo modo a primordialibus suis causis, in
quibus condì tu s est, recederet; creatura, quae in eo condita est, nullam divi-
sionem in eo pateretur » (27).
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Tutta la molteplicità è quindi una conseguenza del peccato, che ha reso
l'uomo simile all'animale, da spirituale, quale era stato creato da Dio; tutta-
via, la divina Bontà volle ridare all'uomo la felice condizione del primor-
diale stato ed il Verbo si fece uomo.
Se il corpo dell'uomo, con la distinzione in duplice sesso, è una conse-
(25) Ibid., 535 C.
(26) Ibid., 531 B. E precisa ancora al par. 9 col. 536 B « Ad hoc igitur, quantum ex
praedicti magistri sermonibus datur intelligi, inter primordiales rerum causas homo ad
immaginem Dei factum est, ut in (co) omnis creatura et intellegibilis et sensibilis, ex
quibus velati diversis extremitatibus compositus unum inseparabile fieret, et ut esset
medietas atque adunatio omnium creaturarum. Non enim ulla creatura est, quae in
homine intelligi non possit: unde etiam in sacris Scripturis omnis creatura nominari solet.
In Evangelio siquidem scriptum est : Praedicate Evangelium omni creaturae ; item in
Apostolo: Omnis creatura congemescit et dolet usque adhuc ».
(27) Ibid., 536 C. Alla colonna 538 C, l'Eriugena riprende, a conclusione, lo stesso
discorso e dopo aver detto che, l'Incarnazione prima, e la Redenzione poi, ristabiliranno
l'uomo nella primitiva condizione, così si esprime: « Nam et primus homo, si non pec-
carct, feliciter in orbe terrarum vivere posset, quoniam una eademque ratio est in princi-
palibus causis orbis terrarum et paradisi. Quod apertissime in seipso Dominus noster post
resurrectionem manifestavi!, simul enim in Paradiso er.at, et hac terra et lum discipulis
suis moratus est. »
— 83 —
guenza del peccato, si pone un grave dilemma per la dottrina dell'unione
ipostatica delle due nature nel Cristo, cioè: se la natura umana assunta dal
Verbo è la natura anteriore al peccato, il suo corpo materiale è apparente
(Docetismo), se invece la natura assunta dal Verbo comprende il corpo e
col corpo il sesso, allora il Verbo assume il corpo reale, ma con esso il pec-
cato, il che è ugualmente un grande errore teologico, giusta la definizione
del Concilio di Calcedonia.
L'Eriugena, per risolvere questo problema in tutti i suoi aspetti, sostie-
ne che nell'Incarnazione, in un primo momento il Verbo assume la natura
integrale col sesso maschile, è così escluso qualsiasi Docetismo; il corpo che
Cristo assume è reale, di quella «tessa realtà che porta ogni uomo, in quanto
caduto nello spazio e nel tempo in seguito al peccato. Però questo corpo,
determinato nel sesso, dopo la Resurrezione di Cristo, torna nella purezza
del corpo, che l'uomo avrebbe avuto prima del peccato, che è solamente
uomo senza divisione di sesso (28).
Giova rilevare la conseguenza eretica a cui l'Eriugena perviene: se,
difatti, il corpo, che il Verbo assume durante il periodo della sua vita mor-
tale, è un corpo determinato nel sesso, esso è un corpo decaduto e quindi
la natura umana di Cristo non è esente dal peccato di origine.
La Redenzione non ha per Scoto Eriugena, come si è dettò, solo un
significato per l'uomo, ma ha un significato cosmico: attraverso Cristo l'uo-
mo ritorna nel paradiso, e, attraverso l'uomo, tutte le creature di ogni cate-
goria formeranno un unico paradiso. Il senso del termine paradiso è inteso
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da Scoto Eriugena come la semplice unità delle cause primordiali; egli
chiaramente dice che tra la molteplicità delle creature e l'unità delle idee
non vi è assolutamente, differenza di natura, ma è la stessa realtà , diversa
solo negli accidenti, quella che è nell'unità del Verbo e quella che è nelle
cose spazio-temporali. Le parole, che l'Eriugena fa rivolgere da Cristo agli
Apostoli, esprimono senza ombra di dubbio questo concetto: « Nam ex
mortuis in Paradisum rediens, in hoc orbe cum discipulis suis conversatus
est, ostendens eis manifeste, non aliud esse Paradisum praeter resurrectionis
gloriam, quae primum in eo apparuit, et quam omnibus fidelibus suis datu-
rus, est, docensque nostrum orbem terrarum differentiam a paradiso juxta
rationem naturae non habere; non enim natura separantur, sed qualitatibus
et quantitatibus, ceterisque varietatibus, quae propter peccatimi generale
generalis humanae naturae ad poenam eius, immo etiam ad correctionem
et exercitationem huic terrae habitabili superaddita sunt: et quoniam una
t'28) Primo igitur Dominion Jesum divisionem, "ni est, masculum et feminam in seipso
adunasse edocet, non enim in sexu corporeo, sed in nomine tantum surrexit ex mortuis,
in ipso enim nec masculus nec femina est, quamvis in ipso sexu virili, in quo natus est ex
virgine, et in quo passus est, apparuit discipulis suis post resurrectionem, ad confirmandam
resurrectionis suae fidem. » lbid., 537 D - 538 A.
— 84 —
terra, dum ad seipsam constituitur, inseparabilis est, ipsam naturae rationem
in qua est, liberani divisione secundum differentiam salvans; non enim mole
vel spatiis discernitur paradisus ab isto habitabili orbe terrarum, seri diver-
sitate conversationis, differentiaque beatitudinis » (29). Questo mondo, quin-
di, non si sarebbe moltiplicato nelle specie sensibili e nelle sue diverse parti
se l'uomo non avesse peccato, e fu, aggiunge Scoto, la bontà di Dio che volle
che questo mondo esistesse perchè l'uomo attraverso la penitenza potesse
riacquistare la perduta condizione (30).
Le considerazioni fin qui svolte ci portano a queste conseguenze: 1) La
vera realtà è costituita dall'essenza delle cose, questa essenza è nelle cause
primordiali, che sono in sè stesse unificate nel Verbo di Dio, la molteplicitÃ
delle cause primordiali sorge solo dalla considerazione soggettiva dell'uomo.
2) L'uomo col suo finale ritorno a Dio, che significherà unificazione del reale
nella sua vera essenza, ripristinerà nell'unità delle ragioni eterne il reale
disperso e molteplice.
In base a queste riflessioni possiamo concludere che, l'essenza
unica, che soggiace a tutti gli individui, è la stes-
sa essenza da Dio creata nel suo Verbo: la realtÃ
effettuale del mondo è un transitorio accidente,
esistente come conseguenza del peccato ed in
funzione della purificazione. Vedremo in seguito, e più
diffusamente la struttura di questo mondo sensibile.
Intanto però si pone un altro problema, che deriva dal precedente: e
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cioè se questo mondo spazio temporale non ha una realtà ontologica propria,
ma deriva dal peccato, senza il peccato sarebbe esistito il mondo ? Il pro-
blema è affrontato direttamente da Scoto e la nostra tesi riceve ancora una
(29) Ibid., 538 A - B.
(30) « E tettim, ut ratio edocet, muntlus iste in varias sensibilesque species diversasque
partium suarum multiplicitates non erumperat, si Deus casum et interitum primi homìnis,
unitatem suae naturae deserentis, non praevideret, ut saltem post ruinam suam de spiri-
tualibus ad corporalia, de aeternis ad temporalia, de incorruptibilibus ad caduca, de
summis ad ima, a spirituali homine in animalem, a simplici natura ad sexuum divisionem.
ex angelica dignitate et muUiplicatione ad pecorinam contumeliosamque corruptibilemque
secundum corpus generationem, suum miserabilem interitum tali poena admonitus cogno-
secret, et ad suae dignitatis pristinum statum poenitendo, superbiamque suam deponendo,
divinasque leges, quas transegressus fuerat, implendo redire postularet. Non enim creden-
dum est, divinissimam conditoris clementiam peccantem hominem in ìume mundum retru-
sisse quasi quadam indignatìone commotam, aut quodam vindicandi motu cupidam; his
enim accidentibus divinam bonitatem carere vera ratio indicat: sed modo quodam inef-
fabilis doctrinae incomprehensibilisque misericordiae, ut homo, qui liberae voluntatis
arbitrio in suae naturae dignitate se custodire noluerat, conditoris sui gratiam suis poenis
eruditus quaereret, et per eam divinis praeceptis obediens, quae prius superbiendo ne-
glexerat, ad suum pristinum statum cautus providusque pristinae suae negligentiae super-
bisque casus humilis atque memor rediret, unde iterum gratia ac libero suae voluntatis
arbitrio custoditus non caderet, nec cadere vellet, nec posset. » Ibid., 540 A - B - C.
-65-.
conferma. 11 mondo attuale è sorto dal peccato, però, anche se l'uomo non
avesse peccato, ugualmente l'unità delle cause primordiali si sarebbe molti-
plicata, ma in maniera diversa. Tutta l'indagine è connessa al problema
della Trinità : Dio padre genera il Figlio, dal Padre e dal Figlio procede lo
Spirito. Le ragioni primordiali, lo abbiamo detto, rappresentano la prima
realtà e quindi la più alta, esse, pur partecipando alla natura di Dio, sono
inferiori a Dio stesso, causa unica e universale, che le precede come la causa
precede l'effetto.
Dio crea eternamente nel Verbo le ragioni primordiali, le quali, se non
vi fosse stato il peccato, sarebbero state moltiplicate nei loro effetti dallo
Spirito santo. I/Eriugena, parlando della creazione e delle diverse opera-
zioni delle tre Persone della Trinità , ribadisce, con particolare vigore, l'uni-
tà della sostanza divina. A questo proposito Scoto, onde giovarsi di un esem-
pio, ricorre alla trinità , che si rivela in noi: noi siamo intellectua, ratio,
sensus, ma la nostra anima è tutta intera in ogni sua facoltà .
L'Eriugena, quindi, riconosce che, indipendentemente dal peccato, vi
sarebbe stata una moltiplicazione delle cause negli effetti. Ritorna perciò il
problema: questi effetti, prodotti dalla molteplicazione delle cause primor-
diali, sarebbero stati dotati di propria ed autonoma sostanzialità , ovvero la
loro sostanza sarebbe stata sempre assorbita da quella dell'essenza eterna ?
Veramente la soluzione del problema è già implicita in quanto si è detto
prima, perchè, se teniamo presente che la struttura della realtà attuale è
costituita dal sovrapporsi della corporeità ad una natura per sè stessa incor-
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porea, la cui sostanzialità si risolve nelle ragioni eterne delle cose, è chiaro
che il sovrapporsi dell'attuale corpo materiale nulla aggiunge, per la sua
fenomenicità , alla realtà sostanziale, che è solo delle cause prime, ed unica
per tutti gli individui. Comunque, poichè Scoto Eriugena sente il problema
metafisico come esigenza che supera e travalica la realtà effettuale per affis-
sarsi nel campo dell'eterno, occorre, per rendere chiaramente conto della
sostanza delle cose, indagarla nei suoi motivi essenziali. Il nostro esame si
limita in questa parte della nostra esposizione alla considerazione esclusiva-
mente sul piano dell'essere, in altra parte noi ci fermeremo sul piano del
divenire e della produzione delle cose, per rendere così, con maggiore chia-
rezza, e con una certa sistematicità , un pensiero che si esprime in un vivace
dialogo, in cui le varie soluzioni interferiscono accavallandosi.
Abbiamo detto che, «e non ci fosse stato il peccato, le cause primordiali
sarebbero state moltiplicate negli effetti dello Spirito 'santo; questa
molteplicità , come precisa l'Eriugena, sarebbe
stata puramente spirituale e sarebbe rimasta
nell'eterna semplicità ed unità di Dio (31). L'Eriu-
gena quando parla di questa distribuzione non accenna mai ad una produ-
rli ìbid., 576 0; Cfr. anche 566 B.
— 86 —
zìone di una realtà sostanziale, ma sempre e solo ad una mera estrinseca-
zione di ciò, che ontologicamente è e permane nel Verbo.
La riduzione della realtà ontologica del mondo alle cause primor-
diali viene da Scoto affermata in termini che non lasciano assolutamente
dubbi di nessun genere. Il problema vien posto chiaramente quando si tratta
dell'eternità del mondo: al riguardo il filosofo irlandese sostiene che le
cause primordiali, come abbiamo visto, sono create, ma eterne; tra Dio ed
esse non vi è successione cronologica, ma esclusivamente logica, in quanto
Dio è la causa, che produce l'effetto. La creazione quindi non può essere nel
tempo perchè se fosse nel tempo allora Dio sarebbe soggetto all'accidente:
il mondo creato è ab aeterno ed ò necessario, come vedremo, perchè neces-
sarie e ab aeterno sono le ragioni primordiali al di fuori delle quali esistono
solo accidenti, ma non sostanze. Noi siamo in Dio, precisa l'Eriugena, in
quanto in lui esiste la nostra essenza: « Porro in Deo vivimus secundum
praecedentem in ipso semper vivendi et existendi rationem » (32) e perciò
il nostro vero essere sostanziale è quello che sussiste 06 aeterno in Dio (33).
Non vi è distinzione essenziale tra il modo di essere delle cose, in quanto
sono nell'unità del Verbo di Dio, ed in quanto sono nella molteplicità delle
cose create: si tratta solo di una diversa considerazione, che non intacca
per nulla la realtà ontologica. Giova a questo punto analizzare un passo
assai significativo. Scoto rifacendosi ad un passo di S. Agostino, interpretato
secondo la propria visuale, cosi scrive: « Aliter sub illo sunt, (Inm per gene-
rationem facta in generibus, et formis, locis quoque, temporibusque visibi-
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liter per materiem apparent; aliter in ipso sunt, dum in primordialibus
rerum causis, quae non solum in Deo, verum etiam Deus sunt, aeternaliter
intelliguntur » (34). Non si tratta pertanto di due essenze o nature distinte,
quella delle cause primordiali e quella della realtà del mondo, ma di una
unica natura diversamente considerata nel Ver-
bo di Dio e nella molteplicità degli effetti.
Scoto ancora chiarisce il suo pensiero: « Non quoti alia sint, quae in
Deo sunt, et Deus esse discantar propter unitatem naturae, at alia, quae,
per generationem, in mundnm veniunt, sed quia una eademquv. rerum natura
aliter considerantur in aeternitate Verbi Dei, aliter in temporalitate consti-
tuta mundi » (35). E, ad abudantiam, nel libro IV del De Divisione naturae,
col. 772 B, così si esprime: « Atque hinc datar intelligi, nullius creaturae
aiiani subsistentiam esse praetei Ulam rationem, secundum quam in primor-
dialibus causis in Dei Verbo substituta est, ac per hoc definiri non posse
quid sit, quia superat omnem substantialem dofìnitionem ».
(32) De Div. naturae, III, 640 B.
(33) Ibid.. 640 A- B - C.
(34) Ibid., 640 B - C.
133) Ibid., 640 C - D.
^87 -
Possiamo, pertanto, senza remora alcuna, concludere che, per il pensa-
tore irlandese, non esiste altra realtà sostanziale al difuori di quella che eter-
namente esiste e sussiste nel Verbo di Dio.
La nostra interpretazione viene ancora confortata da un altro argomento.
L'Eriugena pone una distinzione tra essenza e natura: ogni creatura, egli
dice, in quanto sussiste nelle sue ragioni eterne è cuoia., in quanto, poi, è
creata nella materia è
quale ha, pur nell'unità della sua essenza, un modo di essere reale ed un
modo di essere fenomenico. Infatti l'Eriugena afferma che ciò che veramente
permane della creatura è la sua essenza, mentre il suo essere spazio tempo-
rale, è soggetto al nascere ed al perire. Egli poi precisa che la natura umana,
pur non essendo, nella finale resurrezione, beata in tutti gli uomini, in tutti
sarà libera dalla morte e dalla miseria. Vedremo, a questo proposito, la
particolare teoria di Scoto, per cui mentre la sostanza umana sarà tutta inte-
gralmene salvata nella sua unità , nell'accidente vi saranno differenze tra
reprobi ed eletti e tra eletti e beati. E' certo che a questo punto l'Eriugena
ripete, ancora sotto altro aspetto, il suo realismo di concetti, che interferisce,
vuoi come causa, vuoi come effetto, con ogni panteismo: egli, invero, ripete
che lo stesso circolo, che comanda la nostra dialettica, per cui dalla unitÃ
indistinta si passa per gradi alla molteplicità degli individui, vige pure nella
realtà per cui dall'unità della essenza si passa per gradi alla molteplice
realtà (37).
Rimandiamo questo problema del ritorno ad altro capitolo, per ora
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c'interessa sottolineare che la sostanza delle cose si risolve nelle cause pri-
mordiali; ancora infatti, egli così scrive: « Quid tibi videtur de substantiis
rerum, quae in praedictis causis et factis et snbstitutae sunt ? Num verisi-
mile, imo verissimum, ut credamus, etiam ipsas, substantias dico, in suis
semper et incommutabiliter permanere, et ab eis nunquam nusquam nullo
modo recedere ? Ut enim ipsae causae primordiales non deserunt sapientiam,
sic ipsae substantiae non deserunt causas, sed in eis semper subsistunt. Et
quemadmodum causae extra substantias nesciunt esse, ita substantiae extra
causas non possunt fluere » (38).
In base a quanto si è detto possiamo concludere questo capitolo riba-
dendo tre punti fondamentali :
1) La vera essenza della realtà è costituita dalle cause primordiali le
quali pur essendo create, sono create ab aeterno.
2) Realtà puramente accidentale è quella materiale corporea, che è stata
voluta dalla bontà di Dio, il quale invece di distruggere l'uomo, volle che in
( 36) « Ornnis itaque creatura quantum in suis rationibus subsistit, obala est, in
quantum vero in aiiqua materia procreatur, T'iste. " De Dir. nat., V, 867 B.
(37) Ibid., 869 A.
t38) Ibid., 886 C.
-M-
questo mondo egli esercitasse la sua libera volontà e si rendesse degno della
grazia.
3) Se l'uomo non avesse peccato, lui e tutta la natura sarebbero rimasti
in una molteplicità tutta spirituale presso le cause primordiali. Anche in
questo ipotetico caso però, anzi maggiormente in questo caso, la realtà delle
cause primordiali sarebbe stata l'unica vera realtà di cui il mondo sarebbe
stato un suo fenomeno privo di vera ontologica sostanzialità . Possiamo per-
ciò affermare col Bauemker « Le forme e le determinazioni nelle cose corpo-
ree sono per lui (per Scoto, cioè) gl'intrecci occasionali e i punti di intreccio
di concetti universali; la materia come supporto di queste forme è anch'essa
nulla più di un concetto universale: quello della mutabilità . Così le sostanze
individuali corporee si sono risolte in concetti generali, in generi e modi,
per i quali il concetto del genere supremo (essere o sostanza), per così dire,
si diffonde Le cose che a noi appaiono sono fondate nelle idee divine. Da
queste esse provengono per una emanazione nello spazio e nel tempo » (39).
La realtà del mondo è quindi solo una emanazione o un apparire delle
ragioni eterne, le quali sono ab aeterno create nel Verbo di Dio, ma anch'esse
però in quanto creature, sono, in quanto partecipano di Dio, anzi « verum
etìam Deus sunt », come dice nel passo riportato. Urge quindi la imposta-
zione di un nuovo problema quello cioè del rapporto tra Dio e le cause pri-
mordiali, e così il nostro interesse si sposta dal piano dell'essere a quello
del divenire.
Infine pensiamo che tornerà utile, prima di metter fine a questo capi-
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tolo, di chiarire ancora la distinzione che Scoto pone tra essenza e sostanza.
Come giustamente ha rivelato l'Eswein (40), Scoto usa indistintamente il
termine essenza ed il termine sostanza; per lui questi termini indicano l'es-
senza universale: a preferenza però il termine sostanza è usato nella dot-
trina del ritorno finale a Dio.
Tuttavia però nel capitolo quindicesimo del Libro quinto esplicitamente
si pone questo problema: « Adlrne tamen velim breviter definias, qualis
inter causas et substantias differentia sit. Utraeque namque incorporales et
intelligibiles sunt » (41). Questa domanda del discepolo trova la sua logica
spiegazione in quanto Scoto, con la piena consapevolezza di sostenere una
dottrina assolutamente nuova (42), ha precedentemente detto. Egli prima ha
stabilito: 1) che le sostanze delle cose sono nelle cause primordiali, con cui
fanno tutt'uno ed in cui permangono: « Et quemadmodum causae extra
substantias nesciunt esse, ita substantiae extra causas non possunt flue-
(39) C. Baf.umker, La Filosofia nel Medioevo, trad. italiana di A. Masnovo, Vita e
Pensiero, Milano 1945, pp. 52-53.
(40) Eswkin. Op. cit., pp. 198-201.
(41) De Divisione nat., V., 887 A.
(42) a Nimis ista inquisitio alta oc nondum in civilem animi promulgata. » Ibid., 886 A.
re » (43). 2) che questo mondo sorto da una mera concrezione di accidenti
è destinato a finire, questi accidenti, poi, in maniera solo a Dio nota, sono
contemporaneamente e nelle sostanze e nello spazio e nel tempo: « Restat
itaque, de qualitatibus substantiarum - qualitates autem dico, sicut solent
sapientes omnia, quae substantiis decidimt, appellare, quia mutabiles sunt,
et circa substantias suas volvuntur - hunc mundum fabricatum compactumque
fuisse et in easdem resolvendum fore. Omne enim, quod temporaliter per
generationem incipit esse, necesse est essendi finem habere » (44).
K" ovvia quindi la domanda del discepolo, che desidera stabilire la di-
stinzione tra le cause primordiali e la sostanza, visto che entrambe perman-
gono nel Verbo di Dio ed entrambe sono spirituali.
La risposta di Scoto conferma in pieno quanto abbiamo detto: tra cause
essenziali e sostanze non vi è nessuna distinzione ontologica, le prime sono
universali, le seconde sono individuali, ma le seconde sono nelle prime ed in
esse si risolvono : « Cansas dicimus generalissimas omnium rerum sii,mi
iti!i otivi in Verbo Dei constitutas. Substantias vero singulas et specialissimas
singularum et specialissimarum rerum proprietates et rationes, in ipsis causis
distributas et constitutas » (45).
)43) Ibid., 886 C.
(44) Ibid., loc. cit.
(45) Ibid., 887 A - 6. L'Albanese a proposito dei rapporti ira essenza — sostanza —
individuo, così scrive, commentando il libro primo del « De divisione uuturae »: « L'es-
senza perciò nella metafisica eriugeniana è originariamente e rimane sempre una e sempli-
cissima, svolgentesi molti plicantesi in diversi modi e determinazioni, non sì da perdere
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la sua originaria individualità ed unità ». Albanese, Op. cit., p. 130. L'A. poi continua
sul tema unità - distinzione, che in successive pagine, diventa nientemeno che Vuniversale
concreto !
Capttolo V
DIO
TEOLOGIA NEGATIVA E AFFERMATIVA
Nei capitoli precedenti la nostra indagine è giunta a queste conclusioni:
che tutta la sostanza della realtà si riduce all'essenza unica, semplice, immu-
tabile, incurruttibile, che, come unità , è nel Verbo di Dio, mentre, come
pluralità , è nello spazio e nel tempo. Abbiamo mostrato poi che questa
molteplicità non ha una realtà ontologica, in quanto l'essere della sua esi-
stenza è costituito dalle cause primordiali, le quali, a rigore, sono molte-
plici solo nella nostra umana considerazione. La realtà è un fenomeno non
in senso soggettivista, ma in senso oggettivista, perchè la sua essenza si risol-
ve nella realtà delle idee eterne. Urge intanto risolvere il problema centrale:
Scoto chiama questa realtà una divina teofania, in quanto è un'apparire di
Dio, in che rapporto sta essa con Dio ? Affrontiamo il problema di Dio in
sè ed in quanto è principio delle cose, onde stabilire in che senso Dio s'iden-
tifica con le creature.
Abbiamo, nel primo capitolo, considerato Scoto Eriugena come un
pensatore della Patristica, perchè la sua speculazione è tutta condizionata
dalla illuminazione di Dio. Dio per lui si pone al principio ed alla fine della
realtà , è lontano da noi ed è vicinissimo a noi, mentre riempie di sè tutta
la realtà , di cui costituisce l'esseVe e la vita, d'altronde è in sè trascendente
alla realtà ed inconoscibile all'uomo, all'angelo, a sè stesso. Non è agevole
parlare di questo Dio infinito e nascosto, con un linguaggio chiaro: Scoto
Eriugena ripete, con Dionigi l'Areopagita, che nessuna designazione e nessun
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nome possono adeguatamente esprimere la somma causa di tutte le cose, che
trascende finanche l'essere: vediamo in che modo l'Eriugena intenda la
trascendenza di Dio ad ogni realtà determinata.
Il termine natura secondo Scoto Eriugena è, possiamo dire, servendoci
del linguaggio scolastico, trascendentale, nel senso che esprime tutta la
realtà ed involge e comprende in sè tutto ciò che è e che non è. Si è parlato,
da parte di non pochi critici, in senso diverso, del valore del non essere
per il pensiero di Scoto, ma in verità questo non essere non è la negazione
dell'essere, inte:o come r. alta, bensì un non essere relativo, il quale, inteso,
- w-
nel senso in cui l'intende Platone nel Sofista, serve a moltiplicare la realtÃ
in se stessa unica (1). Supposta difatti l'unità della cp'jatg, come realtà uni-
voca, omnideterminante, in essa la pluralità non può essere introdotta se
non attraverso la categoria del non essere, la quale moltiplica ab intra
l'unità assoluta. Questa unica natura include in sè « quae sunt et quae non
sunt » (2) e si divide in quattro specie « videtur mini divisili naturai' per
quattuor differentias quattuor species recipere » (3), delle quali, la prima è
costituita dalla natura « quae creat et non creatur », la seconda da quella
che a creatur et creat », la terza da quella che « creatur et non creat » ed
infine la quarta da quella « quae nec creat nec creatur ». Queste quattro
distinzioni della natura, precisa Scoto Eriugena, sono tra loro opposte a
due a due, in quanto la terza che è creata e non crea si oppone alla prima
che non è creata e crea; la quarta alla seconda, in quanto la quarta non è
creata e non crea, mentre la seconda è creata e crea (4).
Se la natura si esprime in queste quattro specie, prima ancora di chiarire
ognuna di esse, occorre intendere in qual senso la natura accolga in sè « ea
quae sunt et quae non sunt ». Cerchiamo di chiarire in che senso possiamo ac-
cogliere questo concetto del non essere, come principio intrinseco all'essere
stesso: 1) Un primo modo d'intendere l'essere e il non essere è dato dalla ac-
cezione del termine essere, come ciò che è oggetto di conoscenza, per cui sono
tutte le cose, le quali cadono sotto i sensi, ovvero sono conosciute dalla ragio-
ne; non sono, invece, tutte le cose che superano la ragione e l'intelletto; in tal
modo non sono: Dio, l'essenza delle cose, la materia (5). 2) Nella visione ge-
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li) Per la storia del « Problema dell'Uno e dei molti », cfr., C Ottaviano, Metafisica
dell'Essere Parziale, 3" edizione, Rondinella, Napoli 1954, voi. I, pp. 372, ove è trattato
in modo completo e nel suo sviluppo dialettico questo problema. Per il Sofista, in parti-
colare, v., Platone, // Sofista a cura di Marino Gentile, CEDAM, Padova 1938. L'A.,
nell'introduzione e in acute note, tratta dell'importanza del dialogo nella evoluzione del
pensiero di Platone, con riferimento ai Presocratrici ed al pensiero posteriore a Platone.
Interessante anche Giovanni di Napoli, La concezione dell' Essere nella Filosofia greca.
Mar/orati, Milano 1953, pp. 296.
In particolare, per il valore della conoscenza di Dio in Scoto Eriugena, cfr. l'eccel-
lente studio: W. Sevi., Dis Gotteserkenntnis bei Joannes Skotus Eriugena unter Berucksich-
tigung ihrer neuplatonischen und augustinischen Elemente, Bonn 1932, in cui sono anche
esaminate le fonti del pensiero dell'Eriugena.
(2) De Divisione naturac. I, 441 A.
(3) Ibid., 441 B.
(4) lbid.. 441 D - 442 A. E continua a spiegare: « Vides ni fallar, tertiae speciei primae
oppositionem. Prima iamque creat et non creatur; cui e contrario opponitur, illa quae non
creatur et creat. Secunda vero quartae; siquidem secunda et creatur et creat, cui uni-
versaliter quarta contradicit, quae nec creai neque creatur ».
(5) Ibid., 443 A. Lo stesso concetto troviamo nella « Homilia in Prologum S. Evangelii
secundum Joannem », ove, a proposito di Giovanni, il quale riuscì, per grazia di Dio, a
figgere lo sguardo in ciò che non è e in ciò che è, è detto: « Dico autem quae sunt, quae
sire humanum sive angelicum non omnino fugiunt sensum, cum post Deum sint, et eorum
-w_
rarchica della realtà l'ordine inferiore è detto non essere, in considerazione
dell'ordine superiore; l'ordine superiore non essere, in considerazione del-
l'inferiore: l'uomo, in quanto animale, è il non essere angelo, e l'angelo, in
quanto non animale, è il non essere uomo, in quanto animale (6). 3) Tutto
ciò, che è allo stato attuale, è detto essere, tutto ciò che, invece, è allo stato
potenziale è detto non essere; questa affermazione ha grande importanza
nel pensiero di Scoto in quanto introduce le dottrine delle ragioni seminali.
Secondo Scoto, difatti, tutti gli uomini simultaneamente furono creati ab
aeterno nel primo uomo, ma la molteplicità degli uomini compare alla realtÃ
nel corso del tempo; sicchè « qui iam in mundo visibili ter apparent, et appa-
ruerunt dicuntur esse, futuri tamen sunt, dicuntur non esse » (7); tra questi
due modi di essere, quello cioè degli uomini, che sono e che furono e quello
degli uomini che saranno, ve ne è un terzo, che considera la realtà , non nel
suo essere in atto, ma nella sua ragione spermatica o seminale « quae virtu-
tem seminimi considerat, sive in animalibus, sive in harboribus, sive in
herbis » (8). E questa virtù seminale in quel tempo in cui ancora è nel
grembo della natura è detta non essere, quando invece dal germe, in cui
essa fu costituita da Dio, si sviluppa nella realtà effettuale è detta essere.
4) Nella natura umana è detta essere l'immagine di Dio, che ebbe per crea-
zione, non essere la distruzione di questa natura; è ugualmente essere questa
immagine restaurata dalla grazia, non essere la distruzione della grazia
(9). Tutto ciò, che è intellegibile è, tutto ciò che è nello spazio nel tempo,
non è.
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Giova intanto sottolineare che, affermata l'unicità della natura, la
molteplicità sarà prodotta dal non essere, ma non dal non essere assoluto
il quale, in quanto non è, non può penetrare nell'essere, ma dal non essere
relativo, o alterità , affermata da Platone, onde introdurre nell'unità del
mondo ideale, di origine parmenidea, la molteplicità . Ma come già per
numerum. quae ab una omnium causa condita sunt, non excedant ; quae vero non sunt.
quae profecto omnes intelligentiae vires relinquint ». Op. cit.. 283 B.
quae profecto omnes intelligentiae vires relinquunt ». Op. cit., 283 B.
(6) « I hi mirabili intelligentiae modo unusquisque ardo cum ipso deorsum versum
novissimo, qui est corporum, et in quo omnis divisio terminatur, potest dici esse et non esse.
Inferioris enim affirmatio, superioris est negatio. Itemque inferioris negatio, superioris est
alfirmatio. Eodemque modo superioris affirmatio, inferioris est negatio. Negatio vero supe-
rioris erit affirmatio. Affirmatio quippe hominis, mortalis adhuc dico, negatio est angeli:
et vicessim. Si enim homo est animai rationale, mortale visibile, profecto angelus neque
mortale, neque visibile. Item si angelus est essentialis motus intellectualis circa Deum et
rerum causas, profecto homo non est essentialis motus intellectualis circa Deum rerumque
causas. Eademque regula in omnibus caelestibus essentiis, usque ilum ad supremum omnium
perveniatur ordinem, observari potest ; ipso vero in suprema sursum negatione terminatur ».
Ibid., 444 B.
(7) Ibid., 445 A.
(8) Ibid.. 445 B.
(9) Ibid.. 445 D - 446 A.
— 93 —
Platone questo principio non riusciva a {ondare la molteplicità , onde Ari-
stotele farà appello alla nozione di materia prima, cosi per Scoto lo stesso
principio, riferito a tutta la realtà ontologica, non raggiunge lo scopo. In-
fatti proclamare una differenza ontologica sulla base di una molteplicitÃ
di concetti, quando poi si è per altra'via affermata l'unità assoluta ed indi-
scriminata del tutto, non significa rompere l'unità originaria, ma introdurre
solo, con un processo empirico, una pluralità che mal regge con le premesse
del sistema. Per questo motivo, tutte le affermazioni di Scoto, relative
alla molteplicità , sono prive di valore ed il sistema rimane inficiato dal mo-
nismo iniziale, chiaramente affermato con l'unità della q>óai{.
Come risulta dai vari significati attribuiti dall'Eriugena al termine non
essere, questo ha per lui sempre il significato di non essere relativo, o priva-
zione, axép7)ai{ : in questo senso Dio può dirsi non essere. Se infatti si
accettasse il termine non essere, come non essere assoluto, affermare il non
essere di Dio significherebbe negare l'sistenza di Dio: proclamare cioè Dio
come non esistente. Accettando invece il non essere come non essere relativo,
allora, mentre si affermerà che Dio è, si negherà un determinato essere di
Dio.
Scoto, mentre dice che Dio è superiore all'essere, afferma tuttavia che
Egli è la prima natura: nel suo linguaggio il termine essere esprime sem-
pre l'essere determinato, che non può predicarsi di Dio, che supera ogni
empirica determinazione: il termine natura, invece, accoglie in sè, come
si è visto, sia ciò che è, che ciò, che non è, nel senso ripetiamo, che Scoto
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attribuisce al non essere. Accettando in tal senso l'essere e il non essere,
si comprende l'affermazione di Scoto che Dio è e non è, al tempo stesso.
Dio non è in quanto supera ogni possibile conoscenza umana, è, in
quanto è compreso, nella sua esistenza, ma non nel suo essere, dall'intelletto.
Nessuna realtà creata può conoscere Dio: non lo conosce l'uomo, nè l'angelo,
nè si conosce da se stesso. Difatti l'angelo conosce non Dio in sè, ma nelle
teofanie, ugualmente, ed a maggior ragione, l'uomo, sia pure nella sua
visione beatifica, non conoscerà Dio nella sua essenza, ma solo nelle teofanie.
Vedremo tra poco in che senso Dio non è conoscibile a se stesso.
Dopo questa premessa, che chiarisce il senso dell'essere e del non
essere, l'Eriugena passa alla considerazione della realà nelle sue quattro
divisioni : « Praedictarum itaque naturae tliristorni ni prima differentia nobis
visa est in eam, quae creat ed non creatur » (10) ed in tal modo inizia la
specifica trattazione del problema teologico. La prima divisione si predica
solo di Dio, che crea tutta la realtà , di cui Egli è causa e fine: « Nec imme-
rito, quia talis Naturae species de Deo solo recte praedicatur, qui solus
omnia creans 4vap)(0£, hoc est sine principio intelligitur, quia principalis
causa omnium, quae ex ipso et per ipsum facta sunt, solus est, ac per hoc
(10) Ibid., 446 D-447 A
-94 —
et omnium, quae ex se su ni, finis est. Ipsum enim omnia appetunt. Est igitur
principium, medium et finis. Principium, quia ex se sunt omnia, quae
essentiam participant; medium autem, quia in ipso, et per ipsum subsistunt
atque moventur; finis vero, quia ad ipsum moventur quietem motus sui
suaeque perfectionis stabilitatem quaerentia » (11). Ma se Dio è il principio
di tutta la realtà , che è da lui creata, mentre Egli è senza principio e senza
fine (12), di lui, attraverso la conoscenza delle sue creature, noi possiamo
solo dire che è, ma non ciò che è.
Alla radice della possibile conoscenza di Dio vi è l'affermazione fonda-
mentale, per cui Dio viene detto non essere; si pone perciò questo problema:
e possibile, ed in qual senso, all'uomo la cui conoscenza è limitata nell'am-
bito dell'essere determinato, parlare di Dio, che, in quanto supera ogni
potere di umana conoscenza, rientra nel non essere ? E' chiaro che se di
Dio si può predicare qualcuno degli attributi ricavati dal mondo dell'essere,
questa predicazione non può certo avvenire negli stessi limiti e con lo stesso
senso con cui essi si riferiscono all'essere concreto e finito, ma avverrà in
senso metaforico e traslato. Scoto al riguardo così si esprime: « Nonne
diximus, quod ineffabilis natura nullo verbo, nullo nomine, seu aliquo
sensibili sono, nulla re significata proprie possit significari ? Et hoc dedisti.
Non enim proprie, sed translative dicitur essentia, veritas, sapientia, cete-
raque huiusmodi, sed superessentialis, plusquam veritas, plusquam, sapen-
tia, et similia dicitur » (13). Come emerge da queste parole dell'Eriugena
perchè sia possibile affermare qualcosa di Dio, occorre che qualsiasi attri-
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buto subisca una intrinseca trasformazione.
Scoto distingue la teologia in due parti: la teologia affermativa-/.xxoLyxzwq
e la teologia negativa à Trotpa-ixr/. La teologia affermativa, considerando Dio
quale causa di tutta la realtà , afferma di lui quegli attributi, che si rica-
vano dal mondo degli esseri, ma questi attributi non possono essere accolti
sic et simpliciter per Dio, pena l'antropomorfismo, che abbassa Dio al li-
vello della creatura (14). Occorre che questa primitiva affermazione venga
intesa nel giusto senso: a ciò provvede la teologia negativa. La sua funzione
consiste nel limite che essa apporta ad ogni attributo che si riferisce a Dio;
es
dell'essere, ma ridimensiona, allargandoli all'infinito, gli attributi calibrati
sull'essere contingente. Pertanto i predicati, che sono nomi delle creature,
per essere degnamente riferiti a Dio, devono essere negati nel loro significato
contingente, sicchè dalla sintesi della prima affermazione, e della succes-
(11) Ibid., 451 D.
(12) Ibid., 451 D-452 A.
(13) Ibid., 460 C.
(14) Tutta la teologia di Scoto è comandata da questa esigenza di mantenere la tra-
scendenza incontaminata di Dio, esigenza, la quale, a nostro avviso, non sfocia in un
agnosticismo, come vuole il Vernet.
— 95 —
siva negazione, risulti un termine nuovo che implichi, con una significa-
zione parzialmente identica e parzialmente diversa, l'iniziale posizione:
« Sed nonne et haec quasi quaedam propria nomina videntur esse, si essentia
proprie non dicitur, superessentialis miteni proprie ? Similiter si veritas sen
sapientia proprie non vocatur, plus vero quam veritas, et plusquam sa piemia
proprie dicitur ? Non ergo propriis nominibus caret; haec enim nomina,
quamvis apud Latinos sub uno accentu, subque una compositionis harmonia
usuate non proferantur, excepto eo nomine quod est superessentialis,
a Graecis tamen sub uno tenore composita pronunciantur. Nunquam
enim, aut vix invenies, superbonum seu superaeternum ceteraque similia
composite proferri » (15). La teologia negativa perciò da il vero senso a quei
nomi che noi attribuiamo a Dio, per cui : « ea quoque, quac per privationcm
de Deo dicuntur, per exellentiam in ipso intelligenda esse » (16).
La teologia negativa e la teologia affermativa non devono intendersi
come contrastanti tra di loro, sicchè Luna neghi quella che l'altra afferma
rendendo così impossibile ogni affermazione intorno a Dio: esse in realtÃ
(s'integrano a vicenda ed indicano, ad un tempo, l'assoluta trascendenza di
Dio e la limitazione della conoscenza dell'uomo (17). Le due teologie, per-
ciò, s'integrano e si completano: l'tma l'affermativa predica di Dio, in
quanto causa di tutta la realtà , gli attributi delle cose create, l'altra quali-
fica questa affermazione nei suoi limiti giusti (18). L'applicazione pratica
(ISi Ibid., 460 D - 461 A.
* 16> Versio Operum S. Dionysii, praefatio, 105 A.
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)17) Duas namque ni fallar, sublimissimas theologiae partea esse diximus; et hoc non
ex nobis. sed auctoritate S. Dionysii accipientes. qui apertissime ut dictum est, bipertitam
Theologiam asserit esse, id est, xaTacpaTlxVjv et à rto^OCTlxVjv.quas Cicero in intentionem
et repulsionem transfert, non autem, ut vis nominum clarescat in affirmationem et ne-
(tationem maluimus transferre ». (De Div. nat., I, 461 A-B.). E poco piò sotto Scoto spiega
in qual senso queste due forme di teologia, piuttosto che esser tra di loro in contraddi-
zione, si completano a vicenda, sì da poter dare all'uomo una qualche conoscenza di Dio.
Egli così testualmente dice: « Mag. Nonne vides haec duo, affirmationem videlicet et nega-
ìonem, sibi invicem opposita esse ? Disc. Satis video, et nil plus contrarium posset esse,
arbitror. Mag. Intende igitur diligentius. /Vam cum ad perfectae ratiocinationis contuitum
perveneris. satis dare considerabis, haec duo, quae videntur inter se esse contraria, nullo
modo sibimet. opponi, dum circa divinam naturam versantur, sed per omnia in omnibus
sibi invicem consentiunt ». Ibid., 461 B-C.
( 18) Ecco come Scoto esemplifica al riguardo : « Verbi gratia, xaTacpaTlxVj dicit, veritas
est; Ã noepaTlxV] contradicit, veritas non est. Hic videtur quaedam forma contradictionis;
ted dum intentius inspicitur, nulla controversia reperitur. Nam quae dicit, veritas est,
non affirmat, proprie divinam substantiam veritatem esse, sed tali nomine per metaphoram
a creatura ad creatorem vocari posse; nudam siquidem omnique propria significatione
relictam divinam essentiam talibus vocabulis vestit. Ea vero, quae dicit, veritas non est.
inerito divinam naturam incomprehensibilem ineffabilemque clare cognoscens, non eam
negat esse, se veritatem nec vocari proprie, nec esse. Omnibus enim significationibus, quas
XflCTacpoCTlXT) Divinitatem induit, dbrtOSa'ClxVi eam spoliare non nescit ». De Div. not.,
I, 461 C
— 96 —
del problema della teologia positiva e negativa si ha nella discussione circa
la possibilità di riferire a Dio le dieci categorie di Aristotele. Poichè le
dieci categorie sono i sommi generi, in cui si unificano tutti i possibili pre-
dicati della realtà , trattare delle categorie significa stabilire la possibilità , il
senso ed il limite degli attributi di Dio.
Abbiamo più sopra detto come il metodo della teologia negativa non
voglia essere un'esclusione o una negazione totale, ma solo una sublimazione
dell'aggettivo, perchè questo, negato nel suo aspetto contingente, possa ele-
varsi ad una significazione eminenziale. D'altronde che noi non ci troviamo,
con l'Eriugena, di fronte ad una forma di agnosticismo, ci viene confermato
dal fatto che, egli per limitare ed adeguare a Dio il significato che gli attri-
buti hanno per la realtà finita, parte da un'affermazione positiva di Dio.
Egli afferma di Dio l'eternità , l'infinità , la sem-
plicità , l' unità e l'individualità e da questi pre-
dicati ricava l'assoluta individualità . Ora, egli dice,
se Dio è assolutamente uno, semplice ed eterno, di lui non si può predi-
care nessun attributo, che implichi in sè opposizione. Infatti l'Essere asso-
lutamente semplice, eterno ed uno, non può certamente avere opposti: i
termini tra loro opposti assolutamente non possono essere eterni, poichè, è
questo l'argomento sempre sotteso da Scoto, tutto ciò che è eterno è infinito
(infinità ed eternità sono concetti analitici), e nell'infinito, che è semplice,
gli opposti si conciliano. In base a tale considerazione risulta che noi non
possiamo predicare di Dio, sic simplicitcr, gli attributi delle creature, poi-
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chè questi, essendo presi dalla natura creata, implicano sempre il proprio
opposto, per privazione, per contrarietà , per relazione o per assenza. Ora.
dice Scoto, la funzione della negazione consiste nell'accettare il nome con
l'esclusione dell'opposto, il che vai quanto dire accettare l'attributo, negan-
done la sua finitezza ed elevandolo al livello dell'infinito (19).
(19) De Div. nat., 1, 458 C D - 459 A - D. E' curioso come Scoto stabilisca sulla
base della eternità di Dio il limite della teologìa affermativa e la necessità della nega-
zione e poco dopo, aggiunga 460 B la negazione della stessa eternità di Dio: « Non enim
proprie aeternitas dicitur, quoniam aeternitati temporalitus oppornitur ». Invero quando
Scoto nega di Dio l'eternità , per essa come per tutti i concetti umani, vale il triplice pro-
cedimento sopra accennato della negazione, affermazione sublimazione. In effetti clic
non si tratti per l'eternità , e il ragionamento può valere anche per la semplicità e l'infi-
nità , di un puro concetto negativo, ma di un concetto profondamente ricco (perciò addi-
rittura ineffabile) di positività , ci è chiaramente detto dal fatto che, l'Eriugena esclude
che si possa predicare di Dio l'eternità come opposta al tempo. Se noi ci trovassimo di
fronte ad un cencetto assolutamente negativo di eternità , egli dovrebbe far suo proprio
il concetto di eternità , in quanto opposto al concetto di tempo, perchè è questo il con-
cetto negativo dell'eternità , che è poi il concetto a cui si solleva la mente dell'uomo,
eternità cioè, che si oppone al tempo in quanto nega i limiti propri del tempo. In realtÃ
Scoto parlando di una eternità , che è sopraeternità , nella negazione del termine umano,
indica una più ricca positività .
— 97 —
Invero se noi consideriamo che l'Eriugena parla di Dio come Sommo
bene (sia pure bene che non è quello della bontà creata), che è assoluta
volontà buona, la quale crea le cose dal nulla; che egli ancora, e diffusa-
mente, parla di tutta l'opera della creazione extra-temporale; che offre,
come abbiamo visto, un'organizzazione delle ragioni primordiali, le quali
ricavano il loro ordinamento secondo gli attributi, che l'uomo, partendo
dalle cose, predica di Dio, se noi, diciamo, teniamo fermo l'occhio a tutti
questi elementi, ed innanzi tutto all'autentico valore, ed al significato, che
ha nel suo pensiero la teologia negativa, ci accorgiamo che parlare del suo
agnosticismo, è un non senso. E diciamo di più: se si vuol parlare del razio-
nalismo di Scoto, allora l'agnosticismo diventa ancor più un assurdo. Difatti,
ammesso, per mera ipotesi, che Scoto sia stato razionalista, egli lo è stato
nel senso medioevale di questo termine, nel senso, cioè, che, intende ridurre
la Rivelazione a fatto puramente razionale: in tal senso il razionalismo e
l'agnosticismo diventano assolutamente incompossibili, per la contraddizione
che vi è tra l'uno e l'altro. L'opera di Scoto, l'abbiamo già notato: vive nel
clima patristico, in cui filosofia e teologia s'identificano poichè, come non
vi è una ragione autonoma, così non si può parlare neppure di una teologia
distinta dalla filosofia, entrambe difatti si unificano nel clima del sopranna-
turale, orbene quest'opera perderebbe tutti i suoi caratteri se fosse intrisa
di agnosticismo. Se Scoto fosse stato un agnostico non avrebbe potuto scri-
vere il « De Divisione naturae ».
Riprendiamo intanto dopo queste preliminari chiarificazioni il filo del
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nostro discorso in cui avremo ancora la riprova di quanto abbiamo affer-
mato; abbiamo infatti detto che, Scoto conduce un esame minuto circa la
possibilità di predicare di Dio le dieci categorie aristoteliche. Iniziando la
trattazione della prima categoria, l' oùafa. Scoto nega che, Dio possa dirsi
semplicemente essenza: essenza sono le cause primordiali. Dio non è essenza,
« quia plus est quatn ovaia. » (20), tuttavia in senso traslato può dirsi
ausili, in quanto è creatore di tutte le essenze. Ma è chiaro che se Dio oltre-
passa questa prima categoria fondamentale, sicchè non può dirsi sempli-
cemente essenza, come non può dirsi nè bontà , nè verità , a maggior ragione
egli supera le altre categorie: pertanto Dio non è nè quantità , nè qualitÃ
(21). Neanche la relazione può predicarsi di Dio, infatti essa, quando si
riferisce all'immanente relazione trinitaria, acquista un significato tutto di-
verso. L'uomo, dice l'Eriugena, parla di relazione tra le Persone trinitarie,
ma egli usa impropriamente di questo termine; non si può certo parlare
della paternità del Padre verso il Verbo, come si dice quella di Abramo
verso Isacco: « Ut enim ni fallor, quemadmodum superat omnem essentiam.
sapientiam, virtutem, ita etiani et omnem habitudinem ineffabiliter super-
(20) Ibid., 464 A.
(21) Ibid., 464 C.
— 98 —
greditur. Quis enim crediderit talem habitudinem Inter Patrem et Verbum
suum esse, qualem inter Abraham et Isaac potest cogitare » (22). Ed ugual-
mente avviene per il « xetad-ai », questo non può predicarsi di Dio, in
quanto esso implica un corpo, che sia in un luogo: « verbi gratia, de aliquo
corpore dicitur aut jacet aut stat » (23). L'esclusione di questa categoria
implica però un concetto positivo di Dio, invero lo stato e il luogo si predi-
cano delle creature perchè esse sono corporee, di Dio non si predicano per-
chè Egli è spirituale: « Sed quia Deus nec stat, nec iacet, praedicta categoria
nulla ratione proprie de eo praedicari potest » (24). Per esclusione, quindi,
dall'analisi di questa categoria, si ricava la spiritualità di Dio, che, unita
agli altri attributi, della infinità , individualità , eternità e semplicità , ci
offre di Dio una considerazione positiva (25). Scoto, tuttavia, pur esclu-
dendo che di Dio possa predicarsi propriamente il xslad-at, aggiunge che,
in senso traslato, la predicazione è possibile, perchè Dio « standi et iacendi
causa est; in ipso enim omnia et stant, hoc est, immutabiliter secundum suas
rationes subsistunt, et iacent, hoc est quiescunt » (26).
Ugualmente, ammessa l'infinità con la conseguente eternità di Dio, non
possiamo predicare di lui lo spazio e il tempo; Scoto conduce un esame
approfondito di queste due categorie per mostrare in qual maniera metafo-
rica, esse possono predicarsi di Dio. Egli innanzitutto, ripensando, con perso-
nale genialità , quanto aveva detto Aristotele, nega uno spazio assoluto, in
quanto, essendo lo spazio l'ambito da cui ogni cosa è circoscritta con limiti
definiti, non può esistere uno spazio assoluto, perchè ogni cosa ha un pro-
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prio limite (27); con la negazione di uno spazio assoluto critica pure la dot-
trina dei luoghi naturali. Infatti, se ogni cosa ha il proprio spazio, che è
identificato col suo limite esterno, si può parlare di un alto e di un basso
solo in senso relativo. Al riguardo Scoto dice che le cose, che noi chiamiamo
superiori, inferiori e medie, ricevono questa loro collocazione dal punto di
vista dello spettatore: « Non enim haec omnia ex natura rerum proveniunt,
sed ex respectu quodam intuentis eas per partes. Sursum siquidem et deor-
sum in universo non est, atque ideo neque superiora, neque inferiora, neque
media in universo sunt, nam universitatis consideratio haec raespuìt, partium
vero introducit intentio » (28). Ma Scoto, con un evidente traslato, che ha
(22) Ibid., 465 B.
(23) Ibid., 465 C D.
(24) Ibid., 465 D.
(25) Già di per se stesse l'eternità , la semplicità e l'infinità implicavano la spiritua-
lità , che l'ultimo accenno ribadisce in maniera ancora più esplicita.
(26) De Div. nat., I, 465 D.
(27) « Nil enim alimi est locus, nisi umbitus quo unumquodque certis terminis con-
ciudi tur. Incortini autem multae specie! sunt; tot enim loca sunt, quo res, quae circum-
scribi possimt, sive corporales, sive incorporales sint ». Ibid., 474 B.
(28) Ibid., 467 A.
— 99 —
la sua base nella sua personale dottrina della essenza, intesa come elemento
spirituale, elabora una dottrina nuova dello spazio e del tempo. Noi abbia-
mo detto che lo spazio è il limite delle cose, che non va confuso assoluta-
mente col corpo o con la materia, in quanto esso è il contenente e non il
contenuto, pertanto vanno rifiutate tutte quelle dottrine che ritengono,
imaginificamente, essere Io spazio Paria. Se lo spazio è il termine, che cir-
coscrive le cose, possiamo anche dire che lo spazio è la definizione delle
cose: « Ac per hoc datur intelligi sive locum quis dixerit, sive finem, sive
terminimi, sive definitionem, sive circumscriptionem, unum idipsumque si-
gnificare, ambitimi videlicet finitae naturae » (29); ma la vera definizione
è quella che si ottiene attraverso l'intelletto, epperò essa è incorporea,
« in genere invisibili um definitiones, quas locos rerum circumscriptorum
diximus » (30). All'analisi più approfondita, il luogo si rivela identico con
la definizione, e, poichè la definizione è nel pensiero, ed è attività del pen-
siero, il luogo delle cose è l'anima (31).
Prima di stabilire in che senso si può predicare lo spazio e il tempo di
Dio, è necessario chiarire anche cosa sia il tempo per Scoto Eriugena. Egli
afferma che, il tempo è la misura del divenire. Infatti ogni cosa, che è
« praeter Deum », ha il suo inizio; essa riceve il suo essere per creazione (32)
ed è soggetta al tempo. Il filosofo irlandese ha ben chiara la differenza tra
essere contingente, che è in quanto est ab alio, ed essere necessario. Tutto
ciò, difatti, che è oltre Dio, non è in senso assoluto, ma « aliquo modo »,
ed in quanto non è l'essere per sè, ma la realizzazione di un'essenza, è nello
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spazio; d'altronde l'essere « aliquo modo », per il fatto stesso, che rappre-
senta un'esistenza determinata di un'essenza, è nel tempo perchè, in quanto
è determinato, finito e contingente, non può essere dall'eternità ; se fosse
dall'eternità sarebbe eo ipso semplice ed uno (33). Affermata, così, la tra-
(29) lbid.. 483 C. Nello stesso passo, 483 B: « ic per hoc concluditur, nil aliud esse
locum, nisi nuturalem definitionem, modumque, positionemque uniuscuiusque generatis
sive specialis creaturac ».
(30) ìbid.. 484 D.
(31) « Atque definitiones corporum, rerumque ratione carentium non alibi nisi in
anima rationabili sunt. In ea itaque et loci omnium quae localiter comprehenduntur. At si
rationalis anima incorporea est, unde nullus sapiens dubitat, necessario quicquid in ea
intelligitur, incorporeum esse manifestum est. Et Incus in animo intelligitur, sicut prius
datum est. Incorporalis est igitur ». lbid., 485 B - C.
(32) lbid., 482 A.
(33) «Non enim possibile est, locum subtracto tempore intelligi; sicut ncque tem pus
.line loci cointelligentia definiri potest. Haec. enim ea quae simul et semper sunt, inseparabi-
Ii in ponuntur; ac sine bis nulla essentia, quac per generationem accepit esse, ullo modo
vaict consistere vel co/mosci. Omnium itaque existentium essentia localis et temporalis est ;
atque ideo, nisi in loco et tempore, et sub loco et tempore, nullo modo cognoscitur. (lbid.,
481 C.) Poco più sotto l'Eriugena precisa il rapporto tra Dio, Essere necessario, e la crea-
tura contingente: « Omne enim, quodeumque rationem recipit, alicuiusmodi esseatiae,
etsi est, non erat. Itaque aliquo modo esse, hoc est localiter esse, et aliquo modo inchoasse
— 100 —
scendenza di Dio (34) sullo spazio e sul tempo, è ovvio che queste categorie
non possono predicarsi di Dio se non metaforicamente. Se infatti noi affer-
massimo che Dio è spazio, allora non sarebbe trascendente alle cose (35):
tuttavia noi possiamo affermare che, Dio è il luogo o spazio di tutte le cose,
in quanto in lui sussistono, « quasi quidam loci », le definizioni vere ed
autentiche di tutta la realtà (36). Come si è detto, il vero luogo delle cose
è la definizione, che è nell'animo, e quindi le cause primordiali di tutta la
realtà sono le vere definizioni e perciò anche i veri luoghi; esse, poi, pur
essendo create, come abbiamo detto, han sede nell'eterno pensiero di Dio.
Allo stesso modo possiamo predicare traslativamente il tempo di Dio, poi-
chè, essendo Egli causa di tutta la realtà , è anche causa del tempo che muo-
ve e regge: Dio è più che tempo, è più che spazio e non è, pertanto, nè
spazio, nè tempo secondo la comune accezione (37).
Scoto, poi, esamina le ultime categorie: l'agere ed il pati. Queste, così
come sono comunemente accettate, non possono predicarsi di Dio: Egli è
immobile ed immutabile e non può assolutamente subire cambiamento di
sorta nè nell'agire, che implica un mutamento nel soggetto attivo, nè nel
patire, che, ancora più chiaramente, implica mutamento nel soggetto pas-
sivo (38). E' ovvio, aggiunge Scoto, che di Dio non può predicarsi Yagere
e il pati; d'altronde l' « amare » e l' « amari » rientrano nell'agere e nel pati,
pertanto neanche Yaniare Tamari possono predicarsi di lui : « Si itaque
agere et pati de Deo, ut praediximus, non revera, id est non proprie praedi-
esse, hoc est temporaliter esse. Ideoque omne quod est, praeter Daim, quoniam aliquo
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modo subsistit, et per generationem subsistere inchoavit, necessario loco ac tempore
concluditur. linde Deum esse dicentes, non aliquo modo esse dicimus. Ac per hoc et est et
erat, simpliciter et infinite et absolute in ipso dicimus. Ibid., 482 A. E poi così conclude:
« Ideoque omne quod non erat et est, a principio temporis coepit esse. Solus itaque Deus
ìnfinitus est; cetera ubi et quando terminantur, id est locus et tempus in numero eorum.
quae a Deo creata sunt, non sint, sed quod omnia, quae in universitate sunt, non spatiis
temporum, sed sola ratione conditionis praecesserint ». Ibid., 482 C.
(34) Non solo Dio, ma anche, come abbiamo precedentemente detto, le cause primor-
diali sono trascendenti allo spazio e al tempo « Omnes siquidem, qui ad aeternas suas
rationes, quae neque initium temporis per generationem in loco temporeve, neque finem
per resolutionem habent, neque locali positione circumscribuntur, reversuri sunt, ut solae
in eis et nil aliud sint, profecto omni locali temporalique termino carebunt, causae enim
omnium rerum, quae omni caret circumscrìptione, quoniam infinita est, infiniti in infini-
tum adhaerebunt ». Ibid., 483 A.
(35) « Num si proprie locus diceretur et tempus, videretur non extra omnia per excel-
lentiam essentiae, sed in numero omnium, quae sunt includi ? Locus siquidem et tempus
inter omnia, quae creata sunt, computantur. In his namque duobus totus mondus, qui
mine est consista, et sine quibus esse non potesti). Ibid., 467 C.
- (36) Ibid.. 468 C.
(37) « Causa igitur est omnium. Eodem modo causa temporum tempora movet, ipsa
vero a nullo, in nullo tempore movetur. Est enim plusquam tempus, et plusquam motus.
Neque locus igitur, neque tempus est ». Ibid., 469 A.
(38) Ibid., 504 C - D; 505 A - D; 506 A.
-loi-
cantur, sequitur nec movere, nec moveri. Movere enim agere est, moveri
vero pati. Item si nec agit nec patitur, quomodo dicitur amare omnia, et
amari ab omnibus, quae ab eo facta sunt ? Amare enim motus quidam agentis
est, amari vero patientis; et causa et finis est motus » (39).
Escluso, perciò, in Dio ogni agere e pati, si pone il problema della possi-
bilità di conciliare quanto è detto in sede filosofica con quanto è detto dalla
Scrittura circa l'amore di Dio per le creature e delle creature per Dio. A tal
riguardo, Scoto, come abbiamo già notato nel primo capitolo, ripete cbe tra
la Scrittura e l'indagine razionale non può esservi nessuna contraddizione,
perchè sia l'una che l'altra promanano da Dio, che è somma sapienza (40).
Come quindi è possibile una conciliazione tra queste due affermazioni in sè
apparentemente contraddittorie; o meglio tra un'affermazione ed una nega-
zione ? Occorre notare due punti : 1) Scoto nuovamente afferma la superio-
rità della teologia negativa. « Quodcumque enim de ipso negaveris, vere
negabis: non autem omne, quodcumque firmaveris, vere firmabis. Siquidem
si approbaveris, hoc vel hoc illum esse, falsitatis redargueris, quia omnium
quae sunt, quae dici vel intelligi possunt, nihil est. Si vero pronuntiaveris,
nec hoc, nec illud, nec ullum Me est, verax esse videberis, quia nihil horum
quae sunt et quae non sunt est; ad quem nemo potest accedere, nisi prius
corroborato mentis itinere sensus omnes deserat, et intellectuales operatio-
nes, et sensibilia, et omne quod est et quod non est, et ad unitatem, ut possi-
bile est, inscius restituatur ipsius, qui est super omnem essentiam et intelli-
gentiam, cuius neque ratio est, neque intelligentia, neque dicitur neque
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intelligitur, neque nomen eius est, neque verbum » (41). 2) Anche nell'appli-
cazione della teologia negativa a queste ultime due categorie risulta: a) la
negazione delYagere e pati in Dio, secondo quella che è l'accezione comune
di queste categorie, in quanto enucleate e valide per il reale, oggetto di
umana conoscenza; b) la predicabilità di esse in Dio sub specie aeterni o
come Scoto ama esprimersi traslative; e) che tutto il processo dell'afferma-
zione e della negazione è comandato da una positiva conoscenza di Dio.
Infatti, se a Dio non possono essere attribuite le suddette categorie, ciò di-
pende dal fatto che Egli non ammette in sè nessun accidente; tale
affermazione suppone l'immutabilità di Dio. Il
processo negativo è quindi logicamente ed onto-
logicamente preceduto dal l'incontrastata affer-
mazione del l'immutabilità divina. Si potrà obiettare
che questa immutabilità , secondo il canone fondamentale indicato da Scoto,
è una super immutabilità e quindi l'agnosticismo, che noi vedevamo supe-
rato, ritorna e si afferma: come che sia, una cosa è certa, e cioè, che anche se
(39) Ibid., 504 D.
(40) Ibid., 511 B.
(41) Ibid., 510 CD.
— 102 —
noi ci troviamo di fronte ad un concetto d'immutabilità , che non è quella
umanamente sperimentabile,tuttavia dell'immutabilità divina abbiamo un
concetto positivo, tanto da escludere che di Dio possono predicarsi gli attri-
buti dell'agere e del pati.
Ma c'è di più: si è detto che secondo Scoto Eriugena, Yagere e il pati,
passati attraverso il vaglio della teologia negativa, possono predicarsi di
Dio (42). Orbene questo processo di purificazione e di sublimazione delle
categorie dell'agere e del pati, di cui Vamare e Vamari sono un aspetto de-
terminato, ci offre ancora un altro modo di conoscere Dio.
Scoto così ragiona : è impossibile da un lato affermare il movimento di
Dio, perchè egli è immutabile, e perchè il movimento supporrebbe un ter-
mine, che non esiste, in quanto tutte le cose sono in lui ed Egli è tutte le
cose: « Motum Deo dare non possimi, qui solus immutabilis est, nec habet,
quo, vel ad quid se moveat, cum in ipso omnia sint, immo cum sit ipse
omnia » (43). Ma non è neanche possibile escludere che Dio non agisca,
essendo Lui il Creatore. Intanto sorge la difficoltà : come conciliare il creare
con l'immutabilità di Dio; se noi affermiamo che Dio era prima di creare,
s'introduce in Lui un agere accidentale, per cui Dio prima è, e poi crea :
assurdo manifesto per cui verrebbero ad essere negate la semplicità e l'infi-
nità assoluta di Dio (44). Di fronte a questa tremenda difficoltà è possibile
una soluzione affrontando il problema sulla base dell'infinito, che implica
nella sua assoluta unità la coincidenza degli opposti. Difatti, tutto ciò che la
ragione coglie nel finito, come limitato ed opposto, nell'infinito attuale si
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concilia in una ineffabile armonia : « Est enim similium similitudo et dissi-
militudo dissimilium, oppositorum oppositio, et contrariorum contrarietas.
Haec enim omnia pulchra ineffamilique luirmonia in unum concordimi!
colligit atque componit. Nam quae in partibus universitatis apposita sibimet
videntur atque contraria et a se invicem dissona, dum in generalissimo ipsius
universitatis harmonia consideratur convenientia consonaque sunt » (45). II
concetto della « coincidentia oppositorum » spiega ad un tempo il valore,
per così dire eminenziale, che ricevono tutte le categorie quando vengono
riferite a Dio, e da il senso della predicazione dell'avere e del pati. In Dio
Yagere non è un accidente, pertanto il creare non si aggiunge al suo essere,
ma in lui l'essere e il creare s'identificano. In Dio tra l'essere e l'azione, tra
la potenza e l'atto, non vi è differenza, ma identità assoluta, epperò Dio,
che non era prima di creare il mondo, è una causa eternamente creatrice.
Non si può negare l'eternità della creazione, pena a sommettere Dio alla
composizione accidentale, mentre riconoscendo questa eternità noi, dice
(42) Ibid., 512 D.
(43) Ibid., 516 D - 517 A.
(44) Ibid., 517 B.
<45j Ibid., 517 B - C.
— 103 —
l'Eriugena, proclamiamo, fuori da ogni coposizione accidentale, che «e non
ergo filimi est Deo esse et aliud facere, sed si esse id ipsum est et fa-
cere » (46).
Dio pertanto è creatore, perchè il creare è la sua stessa essenza:
vedremo le conseguenze di questa affermazione. Il creare è proprio Yagere
di Dio; non diversamente avviene per Yamare e Yamari. Tutti gli attributi
che la Scrittura predica di Dio non devono intendersi come suoi accidenti,
ma come l'assoluta ed indecomponibile realtà di Dio (47): considerando
l'amore, che si predica di Dio, in una maniera più elevata, esso, dice l'Eriu-
gena, è il vincolo e l'unione con cui e da cui l'universa realtà è unificata in
un'armonia insolubile ed in una ineffabile amicizia. Anzi Yamari da parte
di Dio può anche definirsi, soggiunge immediatamente, come il movimento
di tutte le creature verso il loro fine ultimo, in cui riposano (48). Simile al
magnete, che per sua intrinseca virtù, senza subire in sè alcun movimento,
attira il ferro, o per usare un esempio più immateriale, come lo spirito che
è attirato e sollecitato dalle scienze naturali cosi tutta la realtà è attirata da
Dio: in tal modo, senza subire mutamenti, l'amore muove tutte le cose.
Ben a ragione oltre che Yamare di Dio si predica Yamari: Egli, assoluta-
mente impassibile, senza subire nessun mutamento, ama ed è amato:
« quia eum omnia appetunt, ipsiusque pulchritudo omnia ad se attrahit.
Ipse enim solus vere amabilis est, quia solus summa ac vera bonitas et
pulchritudo est » (49). Possiamo concludere, alla fine di questo esame mi-
nuto, che nessuna delle dieci categorie si può attribuire propriamente a Dio.
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Attraverso quest'analisi siamo pervenuti non solo ad un risultato nega-
tivo; la negazione ci ha condotti anche ad un risultato positivo, quello cioè
>li proclamare Iddio, eterno, semplice, uno, immutabile, realtà somma, che
d'identifica col suo creare, sommo amore e somma bontà . A questo punto
occorre sottolineare un aspetto fondamentale, con cui si presenta Dio nel
pensiero di Scoto Eriugena. Questi, non solo fa suo il motivo neoplatonico
della teologia negativa, ma fa suo anche un altro motivo neoplatonico: Dio
identico al suo creare. Affermata la necessità della creazione, per cui D i o
non può non creare, da essa discende logicamente l'eternità del
mondo. Anzi i due motivi sono tra loro interferenti perchè, se la creazione
non fosse eterna e Dio non s'identificasse col suo creare, in Dio vi sarebbe
una composizione d'accidenti, ma, essendo Dio somma semplicità , e non
potendo avere in sè accidenti, il suo essere s'identifica col suo creare.
(46) lbid., 518 A.
i 47) « Non aliud itaque Deo esse, et velle et facere, et amare, et amari, et diligere,
et videre, ceteraque huiusmodi. quae de eo, ut diximus, possunt praedicari, sed huec omnia
in ipso unum idipsumque accipiendum, suamque ineffabilem essentiam eo modo, quo se
significari sinit, insinuarli ». lbid., 518 D.
(48) lbid., 519 C.
(49) lbid., 520 B.
-Ì04-
La necessità della creazione, conseguenza del Neoplatonismo, sottende
tutto questo discorso, che Scoto ferma a metà strada, proclamando Dio som-
ma bontà . Sullo sfondo neoplatonico s'innesta il concetto cristiano della
creazione come atto d'amore. Per decidere quali delle due concezioni, la
neoplatonica o la cristiana, comandi e determini la teologia di Giovanni
Scoto Eriugena, occorre indagare quale sia per lui il concetto di creazione
e quale rapporto vi sia tra Dio e le cose; ciò sarà in seguito oggetto della
nostra indagine.
Intanto prima di iniziare questa trattazione occorre notare, sia pure
di sfuggita, quale grande trasformazione abbia subito il concetto di creazione
tra Agostino e Scoto Eriugena. Mentre infatti per Agostino la creazione e
l'immutabilità di Dio si conciliavano sull'eternità dell'atto creativo, che
però rimaneva sempre libero e condizionato
dalla volontà di Dio (50), per Scoto, invece, la libertà di Dio
è improntata alla visione neoplatonica, secondo la quale libertà e necessitÃ
coincidono (51). Certo è che tra il platonico Agostino ed il neoplatonico
Scoto la differenza è abissale.
Abbiamo finora mostrato in che senso Dio sia superiore ad ogni umana
conoscenza, e come, attraverso le due teologie, l'uomo si possa elevare a lui,
predicando di lui, in un senso metaforico e traslato, le dieci categorie. Ma
Scoto va oltre questa posizione e giunge fino ad affermare che Dio è incono-
scibile a se stesso. Bisogna precisare che l'ignoranza, che Dio ha di se stesso,
è una diretta conseguenza di quanto ha detto precedentemente dalla realtÃ
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di Dio: anche questa tesi dell'inconoscibilità di Dio a se stesso rampolla
dall'infinità , semplicità ed assoluta unità di Dio. Abbiamo già detto e ripe-
tuto, come questi attributi pongano Dio al di sopra dell'essenza ed in certo
senso, nel senso cioè relativo che si da all'essere, anche al di sopra dell'esse-
re: Dio è infinito e superessenziale, questo il punto fondamentale che co-
manda tutta la discussione del problema. Con queste parole difatti s'intro-
duce il discorso: « Mag. Num tibi videtur divina essentia infinita esse an
finita ? Disc. Ilinc dubitare et impium et stultissimuni est, praesertim cum
non essentia, sed plusquam essentia, et essentiarum omnium infinita causa
et credi debeat et intelligi, et non solimi infinita, sed omnium essentiarum
(50) Non è questo il luogo di trattare il concetto di creazione in S. Agostino, per il
quale la creazione nel tempo, pur essendo eterno l'atto creativo, e la libertà della crea-
zione sono tesi indiscutibili. Per la creazione nel tempo fondamentale è il De Genesi ad
litteratn, Liber imperfectus, P. L. III, 223. Per la seconda oltre alle Confess. lib. XIII,
specialmente Gap. II, P. L., Tomus I, 845; cfr. « si autem causa creandi quaeritur, nulla
citius et melius respondetur, nisi quia omnis creatura Dei bona est » Ep., CLXVI, P. L.,
Tomus II, 727.
(51) V. su questo argomento della emanazione necessaria e libera ad un tempo e
sull'immutabilità dell'Uno, che emana senza affatto muoversi e senza nulla perdere.
5* Emi., II, 1, 2, Pi.otin, Les Ennéades, V, Texte établi et traduit par E. Brehier, Paris,
1931. pp. 31 e sgg.
-105-
in finitura m infittii a s, et plusquam in fi ni ras ». Ed a questa affermazione il
maestro decisamente approva e conferma « recte itaque atque catholice
omnino igitur infinita est » (52). Ora, soggiunge Scoto, conoscere è definire,
ma non si possono definire se non le cose che sono nello spazio e nel tempo;
difatti, come si è visto, il tempo è la circoscrizione, la limitazione o la defi-
nizione delle cose. In base a tale concetto del conoscere, Scoto ha escluso
dal campo dell'essere conoscibile, Dio, l'essenza, la materia, ed ha anzi
affermato che, tali realtà di cui si conosce solo il quia est, ma non il quid est,
cadono fuori da quello che noi chiamiamo essere. Orbene, se conoscere è
definire, Dio infinito non è circoscrivibile in alcun concetto, nè da parte
dell'uomo, nè da parte di sè stesso: « Sive enim ab intellectuali creatura,
sive a seipsa in aliqua definita essentia intelligatur divina natura, non omnino
est infinita et incircumscripta, omnique accidenti carens » (53). Solo ciò
che è finito e circoscritto può essere conosciuto e definito, ma, essendo Dio
infinito, egli non può esser conosciuto attraverso quella conoscenza, che è
definizione. Egli non potrà in uhm modo conoscere il suo quid est, perchè
non è un quid est. Scoto al riguardo è quanto mai esplicito, e senz'altro pro-
clama che, attribuire a Dio il quid est significa abbassarlo al ruolo del finito.
La netta affermazione di Scoto: « Quomodo divina natura potest ititeli i-
gere, quid sit, cum nihil sit ? » (54), ha dato luogo alle interpretazioni più
strane del suo pensiero, in cui è ribadito solo che se l'essenza è il quid est,
e Dio è superiore all'essenza, Dio non è quid est, e non essendo essenza, ma
superessenza, non sarà conoscibile, beninteso, lo ripetiamo, della conoscenza
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che è circoscrizione e definizione, nè all'uomo, nè a se stesso (55). Ma l'af-
(52) De Divisione naturae, II, 585 B.
(53) Ibid., '588 D. Il passo assai importante cobi continua xldeoque non ultra omne
quod dicitur et intelligitur, veraciter remota esse creditur, quoniam intra quosdam termi-
nos definitae naturae intelligitur. Omne enim, de quo potest praedicari vel intelligi, quid
sit, eorum quae sunt, numerum non potest excedere, sed velini pars in toto, vel innmi in
partibus, vel forma in genere, vel germe in formis, vel individui numeri in specie, vel
species in individuis, vel praedictorum omnium quaedam in quandam unitatem ex multis
collectio jure aestimabitur esse. Quod longe distat ex divinue uuturae simplici infinitaque
veritate, quae nihil horum quae sunt subsistit. Ibid., 588 D - 589 A. L' u n i t à e sem-
plicità di Dio sono da Scoto sempre affermate anche nel « De
Praedestinatione », cfr. l'Epilogo, coli. 438-39.
(54) Ibid., 589 B.
(55) Oltre ai passi già citati è anche molto significativo questo che riportiamo:
« Itaque quando interrogami, quid est hoc vel illud, num tibi videmur aliud quaerere,
nisì aut jam definitam substantiam, aut definiri valentem ? Disc. Non aliud. Hoc enim
nomen, quid, dum sit interrogativum, non quaerit, nisi ut illa substantia, quam quaerit,
quodammodo definiatur ». Ibid.. 586 C. Ed il passo continua affermando che se è impos-
sibile definire il « quid sit de omni essentia », di cui si può solo conoscere il quia est,
attraverso gli accidenti « quibus ipsa ratione subiecti substantia per seipsam, incognita
indefinibilisque subsistens, esse tantum, non mitem quid sit, manifestatur », a maggior
ragione nessun teologo a. interrogare praesumat de divina substantia, quid sit, cum puris-
— 106 —
fermazione che Dio non è quid est non significa nè la riduzione di Dio ad un
nulla trascendentale, nè la problematizzazione dell'essere di Dio stesso (56).
Scoto, vuole semplicemente affermare l'infinità di Dio, con la conseguente
esclusione della sua realtà dal piano dell'essere finito: tale nostra afferma-
zione trova conferma nel passo che segue, senza alcuna soluzione di conti-
nuità , all'espressione sopra riportata che Dio non è quid est. Il passo inte-
rirne intelIigat, de ipsa nec difiniri posse, nec uIlum eorum, quae sunt, esse omniaque,
quae definiri possunt, superare ». V. per tutti questi passi il cap. 28 del II libro del « De
Divisione naturae » col. 586 e segg. E' ovvio quindi che per l'Eriugena essendo Dio infi-
nito non è un quid est, cioè non è nessuna delle creature. Insomma I'Eriugena che nel
primo libro ha detto che Dio non è, precisa ora che non è « quid est ». V. pure a questo
proposito: Commettt, in Evang. sec. Joannem, coli. 300 e segg.
(56) 11 Dal Pba cosi scrive: « Non si potrà sottovalutare nella delineazione comples-
siva della posizione di Scoto nella storia del pensiero, la particolare sua accentuazione del
motivo della trascendenza di Dio rispetto al piano dell'essere finito. Tale trascendenza
mira a contestare ogni riduzione del piano di giustificazione radicale del reale al piano
del reale stesso ; gli sforzi del pensatore irlandese sollecitati dai testi del Pseudo - Dionigi
e di Massimo sono volti a liberare il principio di giustificazione radicale del reale da
ogni forma finita, e perciò a purificarlo da ogni determinazione. Per questo Dio tende a
identificarsi col nulla, cioè con la negazione delle forme e delle determinazioni, essenzial-
mente irriducibile all'ambito della conoscenza. In forma di tale trascendenza, nessun
momento o aspetto del reale attuale può assurgere a validità dell'essere, può identificarsi
con Dio. Dio è dunque la realtà limite che si sposta al di là di ogni punto conseguito
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dall'umana conoscenza, ossia di ogni aspetto del reale acquisito all'attualità del dato.
Da questa istanza di trascendenza viene investita, nell'opera di Scoto, tutta la tradizionale
serie degli attributi di Dio, la quale ne esce purificata in senso radicale, la stessa caratte-
rizzazione personalistica di Dio viene problematizzata per lasciare il posto ad un Dio più
rigorosamente trascendente, più essenzialmente libero, più strettamente irraggiungibile per
via conoscitiva. Al vertice, lo stesso « quia est » di Dio, in quanto si richiama al piano
dell'essere, viene investito dalla problematizzazione ; ed il « quia est » si trasforma in un
« plusquam quia est ». Qui In spinta di Scoto alla trascendenza consegue il suo massimo
limite e si arresta di fronte ad un residuo di « quia est » che sembra scaturire comunque
dallo stesso « plus quam quia est », sovrastandolo. M. Dal Pra, Scoto Eriugena, 2* ed.,
pp. 129-30. Ora noi mentre da un lato siamo d'accordo con il Dal Pra per quanto riguarda
la sua affermazione dell'assoluta trascendenza di Dio, non condividiamo quanto egli dice
a proposito di un Dio più libero, che diventa un indeterminato, che verrebbe, liberato,
sia pur non del tutto, per il residuo della tradizione greca ereditata dal Cristianesimo,
« dal piano eidetico dell'essere ». Innanzitutto, a nostro sommesso avviso, quello che per iI
Dal Pra è il presupposto cristiano della assoluta infinità di Dio, ci pare invece sia proprio
di origine greca, cioè Napolatonica, mentre proprio il concetto di Dio come Persona è di
origine cristiana. In secondo luogo, poi, noi riteniamo che la teologia negativa di Scoto,
di cui lungamente si è discusso in questo capitolo, parta da un concetto positivo, sia pur
non finitamente positivo, di Dio e giunga all'affermazione di un altrettanto concetto posi-
tivo, che ci dice a chiare note, anche se espresse attraverso un metodo negativo, l'infinità ,
la semplicità , l'eternità , l'unità , l'immutabilità di Dio, sommo Amore e Sapienza. A ben
riflettere la posizione di Scoto Eriugena, per quanto riguarda gli attributi di Dio ed il valore
della teologia negativa, non è diversa da quella di Sant'Agostino. V. l'espressione agosti-
niana « (Deus) cui honorificum potius silentium, quam ulla vox humana competere »
— 107 —
graie è il seguente : « Quomodo igitur divina natura seipsam potest intelligere,
quid sit, cum nihil sit ? Superat enim omne quod est, quando nec ipsa est
esse, sed ab ipsa est omne esse, quae omnem essentiam et substantiam virtute
suae excellentiae supereminet. Aut quomodo infinitum potest in aliquo defi-
nivi a se ipso, vel in aliquo intelligi, cum se cognoscat super omne finiinm et
infinitum, et finitatem ed infinitatem ? Deus itaque nescit se, quid est, quia
non est quid, incomprehensibilis quippe in aliquo et sibi ipsi et omni intel-
lectus » (57). Dio quindi che non è limitato, non può conoscersi come alcun-
chè di finito, tuttavia, però, aggiunge Scoto, non può sostenersi che Dio non
abbia di sè nessuna conoscenza di nessun genere. Tale affermazione finirebbe
per ridurre la soprarealtà di Dio ad un cieco energetismo incosciente, il che
è assolutamente contrario al pensiero di Scoto, che, pur ponendo, nella
umana e relativa considerazione degli attributi divini, la bontà e l'amore
come primigenii, di fronte all'essere ed alla sapienza, ha tuttavia, un con-
cetto di Dio, non riducibile a cieco impulso. Iddio quindi non può cono-
scersi come nessuna delle dieci categorie, in quanto come si è visto nessuna
di esse si predica propriamente di lui; ciò però assolutamente non significa
«he Dio ignori se stesso. L'ignoranza, che Dio ha di se stesso può chiamarsi
tale, perchè Dio non si conosce nè definisce come una realtà finita; questo
procedimento negativo c'indica che Dio si conosce come realtÃ
infinita, conoscenza che l'uomo non può assolutamente afferrare, per-
chè investe la stessa autocoscienza divina: « Deus se intellegit subsistere
quoniam se cognoscit nullum eorum esse dum omnia ineffabili essentiali
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sua virtute et incomprehensibili sua infinitate intelligit se excellere » (58).
Se quindi l'ignoranza di Dio è una conoscenza ineffabile, Scoto a ragione
può proclamare che la divina ignoranza è una somma sapienza: « Solari
( Contro-Adamantinum Manichaei discipulum, P. L., tornua octavus, 142), ovvero « Deus
qui Minti melius nesciendo » ^De Ordine, II, cap. XVI, P. L. tonni» primus 1015; iIi. della
stessa opera il cap. XVII del lib. Il, 1017). Per la trattazione della teologia negativa in
Agostino cfr. la Quaest. Il del lib. 11 del De div. quaest. ad Simpl., P. L., tomus sextus,
138-142. In questa questione Agostino sostiene il valore delIa teologia negativa, mostra che
« De Deo nihil dignuni dicitur », ed indica il senso traslato con cut debbono intendersi
gli attributi che la Scrittura riferisce a Dio. Per il valore della teologia negativa nel pen-
siero di Scoto fondamentale e pure l'opera : Expositiones super lerarchiam coelestes S.
Dionysii. Qui ancora, specialmente alle coli. 155 e segg., è ripetuto il maggior valore
della teologia negativa sulIa positiva a causa dell'infinità di Dio u vere enim negatur Deus
utiltimi eorum, quae sunt, non vere aIiquid eorum praedicatur esse, quoniam superessen-
tiaIiter removetur » (Op. cit., 11, 155 B cfr.; Expositiones seu gIossae in Mysticam
Theologiam Sancti Dionysii, 271 A - B) « Superignotus dicitur, quia ad ipsum ratio deficit
per investigationem ; supersplendens dicitur, quia ad ipsum inteIlectus deficit per supere)-
fluentem lumini-, effusionem; summus dicitur, quia ad ipsum intelligentia deficit per
excedentem affectionis unitionem ». Cfr. pure di quest'opera la coI. 279. Nello stesso
seneo si esprime Scoto anche nel « De Praedestinatione » cap. IX, coIi. 390-393.
(57) De Divisione naturae, II, 589A - B.
(58) Ibid., 596 C.
- 103-
namque radio lucidius patefactum, divina ignorantia nil aliud intelligendurn
esse, nisi incotnprehensibilem infinitamque divinimi scientiam » (59). A pro-
posito poi tIella divina ignoranza, Scoto, precisa che: 1) Iddio non conosce
il male, perchè il male è non essere, e se Iddio lo conoscesse, per ciò stesso,
diventerebbe essere. Difatti, le cose, in tanto sono, in quanto Dio le conosce,
anzi il loro vero essere si risolve nella conoscenza che Iddio ne ha (60);
2) Iddio non conosce ciò di cui non abbia in sè l'eterna ragione; evidente-
mente Scoto intende tutta la realtà corporea che è prodotta non dal volere
divino, ma dal peccato; 3) Iddio non conosce ciò che è ancora nelle ragioni
seminali; tuttavia però, Scoto precisa, la realtà di queste ragioni seminali
Dio le conosce nelle eterna essenza (61).
Non è il caso che noi ci indugiamo a lungo su questa teoria, la quale è
basata sulla creazione a gradi del Neoplatonismo, per Scoto il corpo è pro-
dotto dall'anima, la quale crea il corpo mortale per orientarsi nel mondo
sensibile, che non è da Dio, come diffusamente abbiamo visto, ma dal pec-
cato (62). In tal modo, attraverso la dottrina del peccato originale, viene
interpretata in senso cristiano una dottrina chiaramente neoplatonica.
(59) Ibid., 498 C. In alto luogo dopo aver escluso che Dio possa conoscersi come
alcunchè di finito « Non enim suades, Deum seipsum ignorare, sed solummodo ignorare,
quid sit. Et merito, quia non est quid, infinitus quippe est et sibi ipsi et omnibus, quae ab
eo sunt. Ac per hoc in hac specie ignorantiae apertissime pulcherrimeque summo et inef-
fabilis arridet sapientia. Stultum enim Dei sapientius est hominibus ». (Ibid., 590 D.) II
passo riportato nel testo è la conferma di questo riferito qui in nota, conferma a cui Scoto
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Eriugena perviene, ribadendo ancora come l'infinità e l'assoluta semplicità di Dio non si
lasciano circoscrivere in alcuna categoria. Ed in questa lunga dimostrazione in cui nuova-
mente fa l'esame delle dieci categorie Scoto ripete, e non una sola volta, a Num tibi
videmur aliud suadere, dum dicimus, Deum seipsum, quid sit, ignorare, quam in nullo
eorum, quae sunt, se esse intelligere ? Quomodo enim in seipso potest cognoscere, quod
non potest in seipso esse ? » (Ibid., 593 D.i Ed ancora in seguito: «Quis in eo alìquod
fiuitum termino, distenium spatio, partibus discretum, substantiis accidentibusque cogitant ?
Ipsa itaque ignorantia summo ac vera est sapientia ». Ibid., 594 A.
(60) « Divina siquidem scientia omnium quae sunt causa est. Non enim ideo Deus
sin ea, que sunt, quia subsistunt; sed ideo subsistunt, quia Deus ea scit. Eorum enim
essentiae causa est divina scientia, ac per hoc, si Deus matum sciret, in aliquo substantia-
liter intelligeretur, et particeps boni malum esset, et ex virtute et bonitate vitium et malitia
procederent, quod impossibile esse vera edocet ratio ».lbid., 596 B.
(61) Ibid., 596 C.
(62) Ibid., 598 C.
Capttolo VI
DIO CREATORE
Attraverso lo studio di Scoto noi finora siamo giunti a questi risultati:
1) abbiamo mostrato come la realtà sostanziale delle creature qual'è nello
spazio e nel tempo è una realtà puramente accidentale prodotta dal peccato
originale. Se il peccato non vi fosse stato questa realtà sarebbe stata radi-
calmente diversa, perchè tutto sarebbe stato immateriale ed il mondo sa-
rebbe rimasto presso le cause primordiali. 2) Abbiamo inoltre visto come la
sostanza prima di Aristotele si risolva, in tutto il suo valore ontologico, nel-
l'essenza, che, mancando il peccato, sarebbe stata l'unica vera realtà . Ritor-
neremo ancora su questo punto a proposito della dottrina dell'apocatastasi
finale. 3) Nel corso della indagine, discutendo del panteismo di Scoto, ab-
biamo in più punti accennato al suo semipanteismo, inteso nel senso che,
nel suo pensiero, Dio s'identifica con la parte immutabile degli esseri; onde
render conto di tale affermazione abbiamo iniziato, nell'ultimo capitolo,
l'analisi della sopraessenziale realtà di Dio, per spiegare in un secondo
momento la creazione della realtà . In questo primo capitolo abbiamo segui-
to Scoto passo passo per comprendere l'esatto significato della trascendenza
di Dio e della teologia negativa. E' necessario ora precisare il significato
della creazione nel pensiero dell'Eriugena.
Il rapporto tra Dio e le cose nel pensiero di Scoto Eriugena è avvolto
nell'oscurità delle immagini con cui egli si esprime. Se non poche sono le
affermazioni in senso teistico trascendente, e di queste ci siamo già occu-
pati, non minori sono quelle panteistiche. Invero la definizione stessa di
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Dio è bivalente, in quanto afferma Dio fuori delle cose, nella sua assoluta
trascendenza, e, nel contempo, immanente nelle cose. Il nome di Dio, dice
Scoto, ha una duplice derivazione, esso dipende da due verbi greci : -8- e «o & ro
vedo, e 0-étò, corro. Dio, in quanto vede tutte le cose in sè stesse, le fa
essere, d'altronde, in quanto deriva dal verbo -9-éo>, Dio significa correre;
le cose difatti in tanto sono, in quanto in esse corre Dio. Ma il correre di Dio
nelle cose non è altro che un vedere le cose stesse da parte sua, sicchè, in
— 110 —
fondo, le due radici ben si unificano nell'unico nome: Dio, che esprime la
duplice posizione immanente e trascendente nello stesso tempo (1).
In tutte le opere di Scoto è mantenuto questo duplice concetto di Dio, in
quanto cioè è « super omnia et in omnibus ». Il problema consiste nello stabi-
lire in che senso Dio e trascendente, ed in che senso è immanente: è ovvio che
la brutale contrapposizione non può mantenersi, perchè dovremmo in tal caso
negare a Scoto qualsiasi capacità filosofica. Non possiamo, però, accettare
neanche la soluzione del Dal Pra col ricorso alla duplice logica, intellettuali-
stica greca, attivistica cristiana, perchè, in tal caso, dovremmo ritrovare
questo immanente contrasto non diciamo in tutti i filosofi cristiani, ma
quanto meno noi filosofi medioevali, ed in quelli posteriori a Scoto ancor
più chiaramente che in lui, per l'apporto nuovo, aristotelico, che si verserà ,
nei secoli successivi, nel pensiero cristiano. E ciò invece non avverrà , difatti
nè in Anselmo, ne in Tommaso d'Aquino, nè nei Maestri della Scuola fran-
cescana, lo storico si trova di fronte a testi teistici e panteistici, nello stesso
tempo lanciati quasi a confondere la buona fede del lettore, come studiosi
di ogni tempo hanno riconosciuto. D'altronde, come già si è visto, le opposte
interpretazioni teistiche e panteistiche prendono soltanto un aspetto della
problematica dell'E'riugena e ad esso sacrificano l'altro aspetto.
Il capitolo precedente ci ha mostrato la trascendenza assoluta, ineffa-
bile di Dio verso il mondo, occorre ora chiarire in qual senso si compie,
attraverso la creazione, che è un'emanazione, l'immanenza di Dio nelle
creature. Abbiamo visto più sopra come uno dei caratteri di Dio, secondo
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l'Eriugena, è la sua assoluta immutabilità , la quale esclude qualsiasi movi-
mento in lui, sicchè non vi è alcuna distinzione tra Dio e il suo creare, di
qui la necessità e l'eternità della creazione. Ma non solo è proprio di Dio
il creare, bensì anche il creari. Vediamo come deve intendersi questo creare,
che è anche un creari.
Dio, dice l'Eriugena, è nello stesso tempo creatore e creatura, mentre
che fa tutte le cose, è fatto in tutto le cose, e mentre sussiste in sè perfetto e
segregato da tutte le cose, d'altronde si estende in tutte le creature, e il suo
estenedersi è tutte le cose (2). E bisogna anche intendere, « subtilissime in-
telligendum », che, il distendersi di Dio nella realtà , è lo stesso porre in
(1) « Movet autem seipsum per omnia, ut sint ea, quae a se essentialiter subsistunt :
motii enim ipsius omnia fiuni. Ac per hoc unus idemque intellectus est in duabus interpre-
tationibus eiusdem nominis, quod est Deus. Non enim aliud Deo currere per omnia,
quam videre omnia; sed sicut, ita et currendo per eum fiunt omnia-». De Div. no/.,
I, 452 D.
(2) « Manet ergo in se ipso universaliter et simpliciter, quoniam in ipso unum sunt
omnia. Attingit autem a fine usque ad finem, et velociter currit per omnia, hoc est sine
mora facit omnia, et tit in omnibus omnia et dum in seipso unum perfectum et plusquam
perfectum et ab omnibus segregatimi subsistit, extendit se in omnia, et ipsa e.xtensio est
omnia. » Ibid., III, 643 B.
— Ili —
essere la realtà : cioè, spiega Scoto, non già prima Dio crea le cose e poi,
come in uno spazio, in esse si dispiega, ma il suo dispiegarsi è l'essere stesso
delle cose (3). Dio difatti può considerarsi come lo spazio. Tutte le cose
sono in quanto partecipano di Dio : Dio è per sè, le cose sono partecipazioni
di Dio.
Questo termine partecipazione ricorre continuamente nel linguaggio
di Scoto, cerchiamo di renderne chiaro il senso. Già nell'introdurre il con-
cetto di partecipazione, egli, dopo aver distinto l'essere che è Svacco;, cioè
senza principio, dall'essere il quale ha un principio, precisa che, quando si
parla del creare (o faceré) di Dio, bisogna intendere che Dio è in tutte le
cose « cum ergo audimus, Deum omnia facere, nil alimi debemus intelligere,
quam Deum in omnibus esse, hoc est, essentiam omnium subsistere. Ipse
enim solus per se vere est, et omne, quod vere in his, quae sunt, dicitur esse,
ipse solus est. Nihil enim eorum, quae sunt, dicitur esse, ipse solus est » (4).
Sin dall'inizio della trattazione, alla partecipazione è connessa l'immanenza
di Dio nelle creature: vediamo in che maniera sono connessi i due problemi.
Se Dio solo veramente può dirsi essere per sè, le altre cose, continua
l'Eriugena, possono dirsi essere solo per partecipazione: esse, infatti, non
hanno l'essere da sè, ma, in tanto sono, in quanto partecipano l'essere di Dio.
Non è qui il caso di fare una storia della partecipazione, trattasi di un con-
cetto platonico, di cui Platone stesso, nel Parmenide, aveva visto le diffi-
coltà intrinseche, difficoltà che egli supera poi nel Timeo in senso trascen-
dente, nel senso, cioè, che le idee rimangono assolutamente trascendenti alle
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cose e queste, attraverso la mediazione del Demiurgo, partecipano all'essere
e all'idee. Questa la più lontana origine del termine partecipazione |ié9-e?t{,
( [ìsto^y], xotvwvfa ). La nozione in se stessa si presta ad una interpre-
tazione teistica e ad una interpretazione panteistica, dal Neoplatonismo essa
sarà intesa in senso panteista, e, attraverso Agostino, che la intenderà in
senso platonico teistico, sarà poi ripresa da Boezio. Troveremo ancora in Dio-
nigi e in Massimo questa nozione e da essi l'erediterà Scoto Eriugena.
fn un passo assai noto l'Eriugena, parlando dell'ordine con cui l'uomo
contempla le cause primordiali, introduce la nozione di partecipazione, in
cui la nozione logica è trasportata sic et simpliciter in campo ontologico:
già abbiamo visto come per Scoto i nostri concetti abbiano un valore reale, e,
come, sulla base dell'unità del concetto di essenza, abbia affermato l'unitÃ
indiscriminata ontologica dell'essenza stessa. Egli così discute il problema:
(3) « Ubi subtilissime intelligendum, quod insio sapientiae vel extensio, vel cursus,
quel quoquo alio modo verbi multiplicatio dicatur, non quasi in ea, quae prius erant,
quam funderetur vel extenderetur verbum Patris et sapientia, sed ipsius fusio, vel extensio,
vel cursus pniecedit omnia, et causa existentiae omnium est, et omnia. Quis enim veritatem
consulens crediret vel cogitaverit, Deum praeparasse sibi locos, per quos sese diffunderet,
qui nullo loco continetur, dum locus omnium communis sit ? » Ibid., coa B - C«
(4) De Div. nat., I, 518 B.
— 112 —
la bontà sta al primo posto nell'ordine della gerarchia della causa primor-
diale perchè le cose per essere occorre che siano buone, il bene difatti
comprende ciò che è e ciò che non è, l'essenza, poi, specie della bontà , di-
venta a sua volta, genere della specie dei viventi e non viventi, ad essa
infatti partecipano « quae vivunt et quae non vivant » (5). Il disce-
polo, che pur ripete questa dottrina circa le cause primordiali, non com-
prende però chiaramente il significato esatto della oscura nozione di parte-
cipazione, onde così, perplesso, si rivolge al maestro: « Sed quid sit par-
tecipati*), nondum intelligo, sine cuius intelligentia nemo potest praedicta
ad purnm dignoscere, ut arbitror » (6). Ed a lui il maestro risponde: tutto
ciò che è, o è partecipato, ovvero partecipante, ovvero partecipante e parte-
cipato ad un tempo. Dio soltanto è solo ed esclusivamente partecipato, per-
chè è la somma e vera realtà , che tutti partecipano, mentre Egli non parte-
cipa di nessuno, non essendovi altro Essere da cui Egli, l'assoluto, potrebbe
partecipare la realtà . Tutto ciò, che è dopo di Dio, è ad un tempo parte-
cipato e partecipante, ovvero solo partecipante, come è il caso dei corpi, e
quando si parla dei corpi, che sono esclusivamente partecipanti, bisogna
intendere, non i corpi semplici, ma i corpi composti.
La partecipazione secondo Scoto avviene per gradi gerarchici: alla som-
mità della gerarchia vi è Dio, solo partecipato, di cui sono partecipazioni di-
rette le cause primordiali; tutta la realtà inferiore partecipa direttamente del-
le cause primordiali ed indirettamente di Dio (7). Questa gradazione gerar-
chica si diffonde per tutta la realtà : « Omnia enim ordo a summo usque
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deorsum in medio constitutus, hoc est a Deo usque ad cor pora visibilia, et
superiorem se ordinem participat, et ab inferiori se participatur, ac per ho-:
et participans est, et partecipatur » (8). E, precisa Scoto, tra questi vari ordini
di realtà , vige un'armonia « quandam concordiam, seu amicitiam, seu pacem,
seu amorem, seu quocumque modo rerum omnium adunatiti significari pos-
sit » (9). Ma volendo, ancor meglio e più precisamente, intendere la parteci-
pazione, Scoto afferma che essa è una distribuzione di essere e di bene essere,
l'essere che vien dato dalla natura, il bene essere che viene dalla natura e dal-
la grazia: dalla natura in quanto tutto ciò che è, è bene, dalla grazia, che per-
feziona la natura. La dialettica ontologica dell'essere necessario e dell'essere
senza principio e senza fine distribuisce l'essere alle creature.
Vediamo, ora, più esattamente cosa intende Scoto per distribuzione di
essere ed esaminiamo innanzitutto la creazione ex nihilo, attraverso la quale
si ha la distribuzione dell'essere alle creature.
(5) De Div. nat., III, 629 C - D.
(6) Uml.. 630 A.
(7) Ibid., 630 A-B-C.
(8) Ibid., 630 C.
(9) Ibid., 630 D.
— 113 —
Il problema già affrontato da Santo Agostino, e - che S. Anselmo
sentirà con tanta urgenza, è così posto da Scoto Kriugena: Dio crea
le cose dal nulla : cosa s'intende per nulla ? Così chiede il discepolo
del De Divisione: « Sed ctmi audio, vel dico, divinarn bonitatem omnia de
nihilo creasse, non intelligo, quid eo nomine, quod est nihil de nihilo, signi-
ficatur, utrum privatio lotius essentiae, vel substantiae, vel accidentis, an
divinile superessentialis excellentia » (10). Prima di affrontare un ulteriore
problema occorre stabilire, se con l'affermazione ex nihilo si debba inten-
dere, riferendosi a Dio, un nulla come privazione di essere, ovvero come
supereccellenza di essere. E' da escludere innanzitutto che il nihil, se rife-
rito a Dio, possa significare povertà , anzi totale assenza di essere, infatti
quando si parla di non essere di Dio, tale espressione è intesa nel senso del-
l'assoluta trascendenza « duni super omnia, quac sunt et quae non sunt,
esse intelligatur » (1i). Pertanto non è nel senso indicato dal discepolo che
si deve intendere il creare di Dio ex nihilo, ma nel senso che Dio fece per
la sua bontà , venire all'essere le creature, che prima non erano (12). Perciò
quando si dice che Dio fece tutto dal niente, non è esatto interpretare que-
sto niente come un alcunchè di preesistente su cui Dio abbia foggiato le cose.
Non si deve, affermando che Dio ha fatte le cose dal nulla, pensare al nulla,
come realtà , che sarebbe una concausa di Dio nella creazione, e che limite-
rebbe, di conseguenza, l'opera di Dio stesso, occorre invece intendere il
termine nihil: « Omnino totius essentiae privationis nomen erat, et ut verius
dira ni. vocabulum est absentia totius essentiae » (13).
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E' certamente degno di rilievo quanto Scoto dice a proposito di Dio e
della materia. Solo da Dio, egli dice, dipende tutta la realtà e anche la ma-
teria è sua creatura. Se si dice che Dio fece il mondo dalla informe materia, si
deve aggiungere che anche l'informe materia fu creata da Dio, diversamente
non può parlarsi di Dio come unico creatore del mondo: « Qui enim fecit
(10) limi., 634 B.
(11) Ibid., 634 C. E valga ancora il passo che segue a ribadire quanto si è detto a
proposito della trascendenza di Dio. « Non facile concesserim, divinarn superessentialitatem
nihil esse, vel tali nomine privationis posse vocari. Quamvis enim a theologis Hicatur
non esse, non eam tamen nihil essen suadent, sed plusquam esse ». Ibid., 634 C.
(12) ci Intellige ex non existentihus existentia per virtutem bonitatis divinae facta
fuisse. Ea enim, quae non erant, acceperunt esse de nihilo. Namque facto sunt, quia non
crant, priusquam fiereni ». Ibid., 634 C.
(13) Ibid., 634 D. Ed il discepolo cosi consente alle parole del Maestro. « Eo igitur
nomine, quod est nihilum, negatio atque absentia totius essentiae vel substantiac, immo
etiam cunctorum, quae in natura creata sunt, insinuantur ». Non è da escludere che, in
questo passo. Scoto Eriugena nell'addurre argomenti per dimostrare che il creare ex
nihilo, debba intendersi come creazione dall'assoluto non essere, abbia voluto riferirsi
alla confutazione dell'opera di Fredegiso : « De nihilo et tenebris », opera, che dovette
avere tanta influenza e diffusione nel Medioevo, che Sant'Anselmo, a distanza di tre
secoli, ancora sentì il bisogno di insistere e chiarire il senso della creazione ex nihilo, a
cui dedicò l'ottavo capitolo del Monologio.
— 114 —
mundum de materia informi, ipse fecit informem materiem de omnino nihilo,
siquidem non alias est auctor mundi de informi materia facti, et alius ipsius
materiae de omnino nihilo prius creatae, sed unus atque idem utriusque est
conditor, quoniam ab uno principio omnia quae sunt, sive informia, sive for-
mata procedunt » (14). Scoto chiaramente dice che egli preferisce seguire la
Scrittura anzichè quei molti filosofi laici (secolari dice lui), i quali ritengono
la materia coeterna a Dio, perchè pensano che sia indegno di Dio, eterno, im-
mobile, semplice, incorruttibile, creare la materia, soggetta a continui cangia-
menti e fonte della molteplicità spazio-temporale: « Nos autem sacrae scrip-
turae veritatem inspicientes divinorumque ipsius interpretum vestigia se-
quentes, et informitatem rerum omnium, et formas, et onine, quod in eh,
sive secundum essentiam, sive secundum accidens est, ab una omnium causa
condita esse, et per fidem credimus, et quantum datur per intellectum consi-
derami » (15).
Intanto noi dobbiamo esaminare più diffusamente il processo per
cui noi diciamo, seguendo la Scrittura, che Dio crea le cose dal
nulla; a tal riguardo troviamo due affermazioni significative. Dio fa tutto,
dice Scoto, in quanto è lui stesso che diviene in tutte le cose, ma, nel mo-
mento stesso in cui Dio diviene tutte le cose, permane nella sua trascendenza:
e Scoto continua dicendo « de nihilo facit omnia, de sua superessentialitate
producit essentias, de supervitalitate vitas, de superintellectualitute intel-
lectus, de negatione omnium quae sunt et quae non sunt, affirmationes
omnium quae sunt et quae non sunt » (16). Alla luce di questo passo noi
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possiamo intendere il valore della partecipazione: abbiamo detto che la
partecipazione si presta ad una interpretarione panteistica e teistica. Per
Scoto però la partecipazione è in senso panteistico, perchè, giusta l'emana-
tismo neoplatonico, l'essere delle creature è lo stesso essere di Dio degradato.
Il passo riportato lo dice in maniera chiara ed inequivocabile quando afferma
che creare ex nihilo significa, intendendo il nihil come riferito a Dio, che
Dio crea la vita in quanto distribuisce la sua stessa supervitalità alla creatura.
Tra l'essenza del Creatore e l'essenza della creatura vi è solamente
differenza di grado, Scoto difatti quando cerca di spiegare il senso della
partecipazione così asserisce: « Ipsam vero partecipatioaem nihil aliud esse.
praeter eiusdem essentiae assumptionem. Non enim, inquit, fortassis essent,
nisi eorum quae sunt, essentiae et principii assumptione. Est igitur parte-
cipatio divinae essentiae assumptio. Assumptio vero eius sapieatiae divinae
lasin. quae est omnium substaatia et essentia, et quaecunque in eis naturalitcr
intelliguntur » (17).
(14) Ibid., 636 D.
(15) Ibid., 637 A - B. Cfr. pure V, 890 C.
(16) Ibid., 683 B.
(17) Ibid., 644 C.
— 115 —
Ora se Dio crea l'essere delle creature elargendo ad esse il suo
stesso essere, e se, quindi, le cose partecipano alla realtà somma di
Dio perchè ricevono la sostanza stessa dell'Essere di Dio, sia pur degradata,
è ovvio il senso panteistico delle espressioni di Scoto.
Dio pertanto è l'essenza delle cose perchè egli è il principio di
tutte le creature, che egli pone in essere, e che, essendo la crea-
zione necessaria, costituiscono il termine essenziale, senza di cui Dio
non può essere detto creatore; in lui sono tutte le cose immutabil-
mente ed « Ipse est divisili et collectìo universalis creaturae, et genus
et species, et totum, et pars, tinnì nullius sit vel genus, vel species, seu
totum, seu pars, sed haec omnia ex ipso, et in ipso, et ad ipsum sunt » (18).
Su queste basi Scoto parla della realtà delle cose come di un fiume, la cui
acqua defluisce incessantemente da un unico fonte, a cui poi ritorna: « Sic
divina bonitas, et essentìa, et vita, et sapientia, et omnia quae in fonte
omnium sunt, primo in primordiales causas defluunt, et eas esse faciunt,
deinde per primordiales causas in earum effectus ineffabili modo per conve-
nientes sibi universitates ordines decurrunt, per superiora semper ad inferiora
defluentia, iterumque per secretissimos naturae poros occultissimo meatu ad
fontem suum redeunt » (19). Possiamo anche dire che il reale è una divina
teofania, perchè è la manifestazione della sostanza stessa di Dio, che è in
tutte le cose e che è le cose stesse. Invero Scoto non esita a concludere:
a Summae siquidem ac trinae soliusque verae bonitatis in seipsa immutabilis
motus et simplex multiplicatio et inexhauMa a seipsa, in seipsa, ad seipsam
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diffusio causa omnia est » (20).
Sorge intanto un problema molto importante, occorre, cioè, spie-
gare in che senso Dio è tutte le cose ed è la sostanza stessa delle
cose. Proclamare semplicemente che Dio è le cose, significa dare a
Dio gli attributi infimi della realtà , significa fare Dio responsabile del
male e di ogni bruttura: il sincero cristianesimo di Scoto prende il soprav-
vento sul panteismo che viene modificato profondamente. Infatti di fronte
alle affermazioni con cui Scoto ha sostenuto che Dio è l'unica realtà per cui
« quae dicuntur esse, ipsius theophaniae sunt, quae etiam in ipsa vere
subsistunt. Deus itaque est omne, quod vere est, quoniam ipse facit omnia,
et fit in omnibus, ut ait sanctus Dionysius Areopagita » (21), si pone il pro-
blema, attraverso le domande del discepolo, come sia possibile affermare
(18) Ibid., 621 C.
(19) Unii.. 632 C. il passo, assai importante invero, così continua: « Inde enim est
omne bonum, omnia essentia, omnis vita, omnis sensus, omnis ratio, omnis pulchritudo,
omnis ordo, omnis unitas, omnis aequalitas, omnis differentia, omnis locus, omne tem pus.
et omne quod est, et omne quod non est, et omne quod intelligitur, et omne quod sentitur,
et omne quod superat sensum et intellectum ».
(20) lbid., 632 D.
(21) lbid., 633 A.
— 116 —
che Dio è tutte le cose, fatto in tutte le cose, quando d'altronde si è affermato
che Dio è uno. Siamo al cuore del nostro problema, quello cioè di stabilire
in che senso l'affermazione panteistica, per cui Dio s'identifica con le
creature, sia compatibile con l'unità di Dio (22).
Ripetiamo ancora che le note conciliazioni, attraverso la nozione di
partecipazione e la nozione di teofania, per voler troppo spiegare non spie-
gano nulla, data l'ambiguità di queste nozioni; anzi il senso, che l'Eriugena
da ad esse, è certamente, come abbiamo mostrato, con le lunghe citazioni,
panteistico e non teistico. Occorre seguire Scoto e vedere, al problema sopra
proposto, quale soluzione egli dia.
Anche a questo proposito Scoto si avvale di immagini e appellandosi
all'autorità di Boezio ricorre alla matematica. Egli si riferisce, come chiara-
mente dice, non già ai numeri sensibili, ma ai numeri intellettuali, non ai
numeri numerati, cioè alle cose molteplici che vengono dai numeri ordinate
e contate, ma ai numeri numeranti. Questi sono il vero oggetto dell'aritme-
tica, mentre i numeri numerati sono oggetto delle varie scienze particolari,
in cui rientrano, come oggetto proprio le diverse categorie di realtà , che noi,
attraverso i numeri, disponiamo in ordine. Orbene all'inizio dell'ideale scala
numerica è l'unità , la monade; tutti i numeri sono nella monade, la quale
contiene in sè la molteplicità o meglio, come Scoto dice, l'infinità dei nu-
meri finiti. Ora lo stesso rapporto che vi è tra la monade e i numeri, è tra
Dio e la realtà . Tutti i numeri difatti « unum sunt individuimi simplici-
ter » (23) nella monade, che è di tutti i numeri causa e sostanza, di modo
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che essa, mentre maniene la sua immutabile unità , si diffonde in tutti molti-
plicandosi : i numeri che sono finiti, se considerati singolarmente, procedono
all'infinito, e, nella stessa monade, sono infiniti « uhi omnes unum sunt,
infiniti sunt » (24). E la monade è al contempo principio e fine di tutta la
serie numerica. Per i numeri, come per la realtà delle cose, noi dobbiamo
dire che essi sono eterni, semplici ed infiniti nella monade: « At si ita est,
nemo nisi impudens contradicet, aeternos in unitate numeros suis rationibus
subsistere, et si quis intentus inspexerit, ipsas rationes sempiternas esse non
dubitabit » (25). Pertanto i numeri in quanto sono contenuti nella monade
sono eterni, ma nella loro realtà finita sono molteplici « ubi vi et potestate
(22) « Et his omnibus incomparabiliter altius et mirabilius mihi videtur, quod sancti
Dionysii Areopagitae auctoritate utens asseris, ipsum videlicet Deum et omnium factorem
esse et in omnibus factum; hoc enim adhuc inauditum et incognitum non solum mihi,
sed et multis ac paene omnibus. Nam si sic est, quis non confestim erumpat in hanc
vocem et proclamat: Deus itaque omnia est, et omnia Deus ! Quod monstrosum aestima-
bitur etiam his, qui putantur esse sapientes, multiplici rerum visibilium et invisibilium
varietate considerata. Deus autem unum est ». Ibid., 650 C - D.
(23) Ibid., 652 B.
(24) Ibid., 653 A.
(25) Ibid., 654 A.
"N
— 117 —
causaliter sunt, hoc est, in monade; ubi vero actu et opere intelliguntur, ibi
factos esse » (26). Il paragone, addotto da Scoto Eriugena, e trasportato dal-
l'aritmetica air ontologia c'illumina su di un aspetto fondamentale del suo
pensiero: come i numeri sono identici con la monade, perchè in essa sono
contenuti prima di manifestarsi nella molteplicità , così la creatura è conte-
nuta ed identificata col Creatore, perchè, prima di esistere nella molteplicitÃ
spazio temporale, essa esiste nell'eterno pensiero di Dio. Dio, cioè, s'identi-
fica con le cose, in quanto s'identifica con l'essenza di esse, o causa primor-
diale che è nel suo Verbo.
Il dubbio del discepolo è quindi diradato
perchè Dio è sostanza delle cose, in quanto s' iden-
tifica con la parte immutabile di esse, che è co-
stituita dalle cause primordiali. Ma occorre che noi ci
fermiamo un poco su questa dottrina eriugeniana, irta di contraddizioni
apparenti, dottrina di origine neoplatonica, ma in cui il Neoplatonismo su-
bisce una revisione con una sfumatura sottilissima, che, come abbiamo già a
più riprese accennato, costituisce il centro della metafisica eriugeniana.
Scoto Eriugena distingue le cause primordiali del Verbo. La Trinità è
da lui ripetutamente distinta dalle idee. Quando la Scrittura dice : « In prin-
cipio fecit Deus coelum et terram » ciò, spiega Scoto, va inteso nel senso che
« Deus in Verbo suo intelligibilium essentiarum sensibiliumque universaliter
causas condidit » (27); ed ancora è precisata la distinzione tra la generazione
del Verbo dal Padre e la creazione delle cause primordiali nel Verbo: « Deus
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pater Verbum suum genuit, in quo et per quod omnium naturarum primor-
diales causas perfectissimas creavit, quae divina providentia administrante
mirabili quadam harmonia processionibus suis per generationem, numeris
locorum et temporum, generum quoque ac specierum multiplicibus differen-
tiis hunc mundum visibilem ab initio, quo coepit, usque ad finem, quo desinet
esse non abolitione essentiae, sed qualitatum et quantitatum mutatione natu-
rali cursu perficiunt » (28). Poichè le cause primordiali sono create, pur
essendo create ab aeterno, non possono dirsi coeterne al Verbo, perchè esse
non sono, come Dio e rome il Verbo, « a se », sono « ab alio »: « Hinc
conficitur quia semper in Dea sine ullo temporali principio subsistunt, non
ninnino tamen Deo esse coaeternas, quia non a seipsis, sed a suo Creatore
i uci piu ut esse; ipse vero creator nullo modo incipit esse; solus enim ipse est
vera aeternitas, omni principio omnique fine carens, quia ipse est princi-
pium-omnium et finis. Non enim est vera aeternitas, quae quodammodo
incipit esse, sed vere aeternitatis, quae ivap^o{ est, hoc est, omni caret
principio, partecipano est » (29). Le cause primordiali pertanto si distin-
to, Ibid., 657 B.
(27) Ibid., 554 D.
(28) Ibid., 560 B.
(29) Ibid.. 561 D -562 A.
— 118 —
guono dal Verbo in quanto sono create, mentre il Verbo è generato. Ma
questa dottrina della creazione delle cause primordiali, distinte dal Verbo
e da Dio, si complica con grande oscurità , come ben hanno visto il Gilson,
il Paulus ed il Forest (30).
Difatti mentre l'Eriugena mantiene tra le cause primordiali ed il Verbo
la distinzione creatura - Creatore, a più riprese dice che le ragioni eterne,
pur essendo create, sono coessenziali al Verbo e fanno tutt'uno con lui.
Innanzi tutto egli afferma che, pur essendo create, esse sono, in senso tempo-
rale, coeterne al Verbo: « Non incongrue concesserim, hoc est generationem
Verbi a Patre nullo modo creationem omnium in Verbo a Patre temporaliter
praecedere, sed coaeternam sibi esse » (31). Inoltre le idee eterne, essendo
la sapienza di Dio, sono unificate nel Verbo, e, con lui fanno tutt'uno:
« Verbum Dei, inquit, per quod facta sunt omnia, ubi incommutabiliter
vivunt omnia, non solum quae fuerunt, sed quae futura sunt; nec tamen in
illo fuerunt, nec futura sunt, sed tantummodo sunt, et omnia sunt et omnia
unum sunt, et magis unum est » (32).
Ora, se le ragioni primordiali sono il contenuto del pensiero di Dio, in
che modo può sostenersi che, tra eterno pensiero ed eterno pensato, sussista
la stessa distinzione che sussiste tra Creatore e creatura? L'unità delle cause
primordiali col Verbo ritorna senza soste; infatti, l'Eriugena, dopo aver ad-
dotto l'esempio sopra riferito dell'unità della serie numerica coi numeri
(30) Abbiamo già riportato l'opinione del Gilson nel secondo capitolo. Il Paulus,
al riguardo di questo problema così si esprime riprendendo la tesi di Gilson: « Mais
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enfin, M. Gilson a eu nasini d'y insistere qu'entre Dieu et l'Idée, entre l'Essence pure
et simple et l'Essence, cause exemplaire, Jean Scot introduise une distinction plus poussée
que ne fait l'augustinisme, puisque l'Idée, assure - t - il, est, en un sens, créée, en meme
temps. que créatrice, et non absolument coéternelle à Dieu, méme si elle est éternelle »
Jean Paulus, Henri de Gand Essai sur le tendances de sa métaphisique, Vrin, Paris,
1938, p. 107.
A proposito di questo problema A. Forest così si esprime: « Erigène developpe sous
ses aspeets variés la doctrine de l'exemplarisme suivant une logique qui comporte parfois
des conséquences inattendues, mais quil a le souci d'accorder avec ses principes essen-
tiels. La question quil exprime avec le plus de soin est celle de la création et de l'éternité
des idées. Erigène en vient à dire que l'eternité des idées a été faite et que leur
création est éternelle dans le Verbe divin. Ainsi nous sommes en présence de deux
affirmations d'égale importance et qui paraissent contradictoires. Elles doivent ètre
également maintenues. Les idées, et d'abord les causes primordiales, sont éternelles; la
generation du Verbe ne précède pus temporellement la production des choses qui sont
formées en lui, mais non coéternelles. Dieu les précède camme cause, elles sont le
produit de son art; il est ainsi lui-mème au-dessus de cette sagesse en laquelle consistent
les idées. Les deux affirmations de l'éternité et de la création doivent ètre conciliées bien
que nous ne puission arriver à une intuition claire de cet accord » Fobest A., Van
Steenbebghen F., De Gandii.lac, Le mouvent doctrinal du IX au XIV siede, Bloud et Gay,
Paris 1951, pp. 1617.
(31) De Div. nat., 557 A.
(32) Ibid., 559 A.
— 119 —
così conclude: « Similiter primordiales causae, dum in principio omnium, in
Verbo videlicet Dei unigenito, substitutae intelliguntur, unum simplex atque
individuimi sunt » (33).
L'ambiguità della dottrina appare a luce solare, quando, nel libro terzo
si cerca di stabilire in che senso le cause primordiali, pur essendo create, sono
eterne. Innanzitutto viene affermata la superiorità di tale processo ad ogni
possibile conoscenza umana ed angelica, e l'indagine, mentre esclude, come
limite invalicabile per l'umana ragione, il quomodo le cause primordiali siano
eterne e create, viene circoscritta alla ricerca, in che modo esse possano
dirsi create ed eterne: « qua ratione dicantur et facta et aeterna » (34), poco
dopo, difatti, l'Eriugena soggiunge, « modum autem et rationem omnium
in Verbo Dei dicat, qui potest, me nescire fateor » (35). Successivamente
Scoto stabilisce che non vi è nessuna differenza tra la volontà di Dio e il
prodotto della sua volontà , se infatti altro fosse la volontà di Dio ed altro
l'effetto della sua volontà , Dio non vedrebbe la sua volontà , ma qualcosa di
diverso, il che è impossibile perché la semplicità e l'immutabilità di Dio
esigono che, nell'unico eterno e semplice atto della sua visione, siano unifi-
cate la divina volontà e ciò che egli ha fatto: « Una enim eademque et
simplex divina visio cogit, unum et id ipsum esse omne, quod videt, videt
autem ut suas voluntates, quae fecit. Unum igitur et id ipsum sunt divinae
voluntates, et quae Deus fecit » (36). Ma se le cause primordiali s'identifi-
cano con la volontà di Dio, e la volontà di Dio con Dio stesso (37), e se que-
ste volontà sono le ragioni delle cose e, nello stesso tempo, l'essenza stessa
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che soggiace alle cose, ne verranno come fra poco vedremo due conclusioni
1°) l' eternità della creazione; difatti la volontÃ
di Dio è eterna come Dio stesso (38); 2°) L' i m m a-
nenza di Dio nel l'essenza delle cose.
Scoto così continua a spiegare. Se il vero essere della realtà è costituito
dalle cause primordiali, queste rappresentano la prima creatura, che pur es-
sendo creata è coessenziale a Dio, se difatti non fosse coessenziale e coeterna
a Dio, questi perderebbe la sua assoluta semplicità , essendo coessenziale a
Dio, noi dobbiamo concludere che Dio è al tempo stesso Creatore e creatura
essenza e sostanza di tutte le cose : Ut simpliciter dìcam, omne quod vere est,
et non est, superessentialis in essentiis, supersubstantialis in substantiis, super
omnem creaturam creator, et intra omnem creaturam creatus, et infra
omnem creaturam subsistens, a seipso esse incipiens, et per seipsum seipsum
(33) De Div. nat., III, 624 B.
(34) Ibid., 670 D.
(35) Ibid., 671 A.
(36) Ibid., 673 D.
(37) Ibid., 674 A.
(38) a Divinae ergo voluntates aeternae sunt, quoniam ipse, cuius voluntates sunt,
teternus est ». Ibid., 674 D.
— 120 —
movens, et ad seipsum motus, et in seipso quiescens, per genera et species
in seipso in infinitum multiplicatus, simplicitatem suae naturue non dese-
rens, et multiplicationis suae infinitatem in seipsum revocans. In ipso enim
omnia unum sunt » (39).
Dio quindi è l'essenza delle cose, il Creatore è creato e la
creatura è eterna, la creatura è eterna in Dio, che è il suo fon-
damento necessario e assoluto, il Creatore è creato nella creatura, giacché
in essa diviene visibile ed intelligibile, mentre in sè è assolutamente invisi-
bile ed inintelligibile. Dio e la creatura perciò fanno I ti( mimo : « Proinde non
duo a seipsis distantia debemus intelligere Deum et creaturam, sed unum
et id ipsum. Nam et creatura in Deo est subsistens, et Deus in creatura mira-
bili et ineffabili modo creatur, seipsum manifestans, invisibilis visibilem se
faciens, et incomprehensibilis comprehensibilem, et occultus apertimi, et
incognitua cognitum, et forma et specie carens formosum ac speciosum, et
superessentìalis essentialem, et supernaturalis naturalem, et simplex compo-
situm, et accidentibus liber accidentibus subiectum, et accidens, et infinitus
finitum, et incircumscriptus circumscriptum, et supertemporalis temporalem,
et superlocalis localem, et omnia creans in omnibus creatuni, et factor
omnium factus in omnibus, et aeternus coepit esse, et immobilis movetur
in omniafi et fit in omnibus omnia » (40).
Da tale premessa seguirà che le teofanie di Dio
non sono altro da Dio, ma s' identificano con la
sua essenza e con l'essenza di Dio s' identifica
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la stessa materia in ciò che essa ha d' intelligi-
bile (41).
La Scrittura anche, dice Scoto, conferma ciò che noi abbiamo detto,
quando afferma «Omnia in sa piemia f ecisti »: questa affermazione deve
intendersi non già come se Dio nella sua sapienza, quasi come in uno spazio
abbia collocato le cose, ma nel senso che la sapienza divina divenne tutte le
cose, perchè il Verbo fa tutt'uno con l'essenza della realtà . Questo mistero,
per cui Dio diviene tutte le cose è in cerio senso rivelato dal sole visibile,
che si diffonde con la sua virtù per tutto questo mondo, penetra in tutte le
cose, che, dal suo calore, ricevono la vita.
Pertanto Scoto mentre parla della creazione delle cause primordiali,
in quanto sono dopo di Dio e sono sue partecipazioni, le identifica con Dio
stesso. Anzi a fermar bene l'attenzione noi vediamo che il processo, per cui
Dio crea le cause primordiali nel suo Verbo, è sullo stesso piano della
generazione del Verbo e della processione dello Spirito santo; da queste
operazioni immanenti, il creare si distingue per la stessa ineffabile distin-
(39) Ibid., 677 C.
(40) Ibid., 678 C.
(41) Ibid., 679 A.
— 121 —
zione, che distingue la processione dalla generazione. Non neghiamo, inve-
ro, che l'Eriugena cerchi di mantenere distinte la generazione e la proces-
sione dalla creazione delle cause primordiali. Egli all'erma che, mentre la
creazione delle cause primordiali è tale per cui le cause, in quanto create,
non possono dirsi uguali a Dio, perchè da lui prodotte, e a lui inferiori, la
Trinità , invece, costituisce un'assoluta unità individua (42); tuttavia però
questa creazione eterna non si distingue dalla generazione e processione in
modo tale da potersi considerare una creazione ad extra, distinta dalle ope-
razioni ab intra. Infatti nel libro II del De Divisione, laddove è posta la
distinzione tra generazione, del Verbo, processione dello Spirito e creazione
delle cause primordiali, non si fa differenza ontologica alcuna tra questi pro-
cessi, per cui la creazione delle cause in sostanza s'identifica con la genera-
zione e la processione. Egli cosi dice: « Omnia creatura incipit esse, quia
erat, quando non erat : erat in causis, quando non erat in effectibus. Non
omnino igitur vere aeternitatì coaeterna est. Si autem in ipsa causa causarum
omnium, in Trinitate dico, quaedam inte1ligitur praecessio; Deitas enim
gignens et mittens praecedit Deitatem genitum et Deitatem procedentem ex
gignente et genita, iiiim sit una et inseparabi1is Deitas: num mirum ant
incredibile, causarum causam omnium omnia, quorum causa est, praecedere
et in ea commutabiliter aeternaliterque sine temporali initio fuisse ? » (43)
La risposta affermativa conferma in pieno la domanda.
Ancora in un altro passo troviamo esposto lo stesso concetto per cui la
creazione viene intesa come un atto immanente. Nel commento dell'ottava
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Omelia di San Basilio alla Genesi l'Eriugena cosi dice: « Intende, quam
fiducialiter pronunciava, naturam omnium, quae facta sunt, Dei Verbum
esse. Ac nulla Iibi auspicio subrepat existimandi, quod aliud sit Dei Verbum,
aliud eius praeceptum. Id ipsum namque in eo et esse est, et omnia esse
jubere, essendo enim ipsum fiunt omnia, quoniam ipsum omnia est. Et ut
certius cognoscas Dei Verbum et naturam omnium esse et consubstantialem
Patri ante omnia, et in omnibus, quae in eo facta sunt, creatum, audi Eccle-
siasten: sapientiam Dei, inquit, praecedentem omnia quis investigavit ?
Ecce coaeternitatem et coessentialitatem » (44). Nel libro V poi l'Eriugena
sostiene che solo impropriamente possono dirsi create le cause primordiali,
(42) Ibid., 687 B - C - D.
(43) De Div. nat.. Il, 562 A - B. Bene ha visto l'identità sostanziale dei due processi,
la generazione e la processione da una parte, e la creazione dall'altra, G. De Ruggiero
(cfr., Storia della Filosofia, parte II» La Filosofia del Cristianesimo, voi. Il Dalla Patristica
alla Scolastica, Laterza, Bari 1950, p. 197). Quest'A., però, come G. Saitta (cfr. articolo
Scoto Eriugena nell'Enciclopedia Treccani offre un'interpretazione idealistica di Scoto
Eriugena, conforme in certo senso a quella dell'Albanese.
(44) De Div. nat., III, 685 C.
— 122 —
mentre creature nel senso proprio sono soltanto le cose nello spazio e nel
tempo (45).
E' ovvio che se la creazione delle cause, pur essendo distinta,
è come la generazione e la processione un atto immanente di Dio, si pone
questo dilemma : o la creazione delle cause primordiali è vera creazione, ed
allora lo saranno allo stesso titolo la generazione del Verbo e, con essa, la
processione dello Spirito Santo, in tal easo siamo in un triteismo; ovvero
la Creazione si riduce, come la generazione e la processione, ad un atto
interiore a Dio stesso, in questo caso siamo fuori dal triteismo, ma la distin-
zione tra Dio e le cause primordiali si riduce ad una mera distinzione logi-
ca. E che sia vera questa seconda alternativa ce lo confermano quanto Scoto
dice intorno all'unità di natura della Trinità , tutta la logica del sistema e
quanto veniamo ad esporre.
Ma onde render chiaro questa confusione è necessario che noi ci rifac-
ciamo nuovamente, precisandone alcuni punti, alla dottrina della creazione;
abbiamo visto come alla base di questa dottrina l'Eriugena ponga due ele-
menti cristiani: 1) la creazione come creazione ex nihilo sui et subiecti;
2) la distinzione di creatore e creatura come essere necessario ed essere
contingente. Tuttavia però questa esigenza cristiana, ripensata alla luce del
Neoplatonismo, non supera il concetto di emanazione.
La creazione per l'Eriugena è un fatto necessario anzi fatale, così come
lo era per Plotino; la necessità della creazione è, come già abbiamo detto,
così affermata: Dio è immutabile e assolutamente privo di ogni accidente,
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pertanto la sua essenza deve identificarsi col suo fare: « Non ergo aliud est
Deo esse, et aliud facere sed ei esse id ipsum est et facere » (46). La volontÃ
di creare s'identifica con l'essere di Dio, assolutamente semplice, in cui per
l'Eriugena, non può esservi nessuna distinzione, tra la volontà di fare ed il
fare (47). Dalla creazione necessaria dipende la riduzione della causa effi-
ciente a causa immanente. Difatti Dio non solo non può non creare, perchè
la sua essenza è identica al suo creare, ma il creare, come abbiamo visto
diffusamente, è un creari, perchè, ciò che è il prodotto della sua volontÃ
s'identifica con la sua stessa volontà . Se, invero, l'effetto non si identifica con
la causa che lo produce, allora non si avrà più un vero produrre. La ridu-
zione del creare a processo immanente a Dio è d'ispirazione nettamente
neoplatonico: Plotino difatti nella quarta Enneade affronta e risolve il pro-
blema non solo con gli stessi principi, ma finanche con gli stessi esempi, che
poi addurrà a Scoto.
Noi ancora vedremo nelle pratiche applicazioni gli sviluppi di
questo principio nel sistema dell'Eriugena : per ora c'interessa solo
(45) De Div. nat., V 887 D - 888 A.
(46) De Div. nat., 1, 518 A.
(47) De Div. nat., III, 675 B.
— 123 —
la formulazione ontologica del problema, che comanda tutta la sua
metafisica. Dio, proclama insistentemente il pensatore irlandese, è causa
creatrice, e, perchè tale, non può essere senza la sua creatura : se la creatura
è da Dio, Dio è la causa e la creatura l'effetto; ma 1' effetto si ri-
duce alla causa realizzata, e p però Dio in tanto
crea il monde in quanto egli stesso diviene nel
mondo. Per Scoto l'effetto non può essere diverso dalla causa cosi come
il fuoco produce insieme la luce ed il calore che sono della sua stessa natura.
Scoto riconosce che la creatura e Dio sono tra loro distinti perchè
la creatura è da Dio, mentre Dio è fivap)(oS. a Si autem Deus ex nullo,
creatura vero ex Deo, erit unum ab altero et non sunt aequalia; unum
namque ab aequali sibi uno non gignitur. At si creatura ex Deo erit, erit
Deus causa, creatura enim effectus » (48). Se, però, noi ci domandiamo
qual'è la realtà dell'effetto, l'Eriugena chiaramente ci dice che l'effetto è
la causa realizzata, quindi l'effetto, in tanto è, in quanto in esso si fa la
causa : « Si autem nil alimi est effectus, nisi causa facta, sequitur, Deum
causam in effectibus suis fieri » (49).
la dottrina della creazione, come causalità immanente, perchè la
causa, per essere tale, deve essere nell'effetto ed identificarsi con
l'effetto, riduce il processo creativo a pura emanazione, per cui la
creatura s'identifica con il creatore, del quale è una degradazione.
E si noti che l'essere sostanziale della creatura si riduce, come si è detto,
alla causa primordiale, che Dio, ab aeterno, previde.
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Da questi fondamentali principi risulta che per Scoto non vi è un
duplice modo di esistere della creatura : l'uno nel pensiero di Dio e l'altro
nello spazio e nel tempo, perchè in questo caso noi avremmo, a suo dire,
che la stessa creatura sarebbe inferiore e superiore e se stessa; inferiore in
quanto è nello spazio e nel tempo, superiore in quanto è nell'eterno pensiero
di Dio. Occorre ben figgere lo sguardo su questa affermazione, che Scoto
scarta come assurda : « Et si creaturam vidit, quae adhuc non erat, et erat,
quo vidit; omne enim, quòd Deus videt, verum et aeternum est: nil ninni
relinquitur, nisi ut intelligamus, creaturam fuisse in Deo, priusquam fieret
in seipsa; duplexque de creatura dabitur intellectus, unus quidem considerat
aeternitatem ipsius in divina cognitione, in qua omnia vere et substantialiter
permanent, alter temporalem conditionem ipsius, veluti postmodum in se
ipsa. Et si ita est, rationis consequentia compellit, unum e duobus eligere,
ut aut randnn creaturam meliorem seipsa, aut inferiorem dicamus: meliorem
quidem quantum in Deo aeternaliter subsistit; inferiorem vero, quantum
in se ipsa aestimabitur, et erit contrarium Scripturae, que dicit: Omnia in
Sapientia fecisti: aut non eandem naturam esse, quae aeternaliter in cogni-
(48) Ibid., 687 C.
(49) Ibid., loc. cit.
— 124 —
tione Dei erat, et quae velati postmodum in seipsa condita est. Ac per hoc
non va quae facto su nt, antequam fierent, vidit, sed ea solummodo, quae
a ci crini sunt, in seipso vidit. Et si quis hoc dederit, catholicae fidelium
professioni videbitur resistere. Sancta siquideni sophia non alia profitetur
Deum in seipso, priusquam fierent, vidisse, et alia postmodum in seipsis
fecisse, sed eadem aeternaliter visa et aeternaliter faala, et hoc totum in
Deo » (50).
Se, invero, l'atto della creazione facesse esistere un essere altro da Dio,
allora l'essere contingente, ben potrebbe essere sottoposto al giudizio di
valore che, come poi precisarà la scolastica posteriore, costituisce la veritÃ
ontologica di ogni essere. Questo giudizio tra l'essere contingente ed il suo
eterno esemplare, per Scoto, non è possibile, come è detto nel passo ora
riportato, perchè per lui la contingenza della creatura è frutto non della
t-reazione, ma del peccato : tutto ciò che, invece, produce Dio, è, come Dio.
necessario, e a lui consustanziale, poichè, come sopra si è visto, è una produ-
zione immanente di Dio, o una sua eterna generazione.
Sulla base di questi principi neoplatonici della necessità della crea-
zione e della riduzione della causalità efficiente a causa immanente, la
creazione viene abbassata a emanazione degradante di cui la partecipazione
costituisce l'immagine concreta della diffusione dell'essere. E l'Eriugena
difatti così conclude: « De simplicitate divinae naturae discussimi, quod non
in ea vere ac proprie intelligitur, quod ab ea alienimi sit et non ei coessen-
tiale, et quonìam omnia vere ac proprie esse, quod ipsa non sit » (51).
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E si noti, aggiunge Scoto, continuando il testo riportato, che questo
divenire di Dio, non va inteso come la manifestazione del Verbo nell'Incar-
nazione, ma come la manifestazione della Trinità , che è, in sè eterna, ed in
se stessa si fa dall'eternità , facendosi tutte le cose « semper facta a seipsa, in
seipsa, aeterna a seipsa, in seipsa facta ». Possiamo, pertanto, concludere
che pur essendo le cause primordiali, in quanto create, inferiori a Dio, tut-
tavia sono identiche a lui nell'essere.
La posizione di Scoto Eriugena è certo una posizione equivoca, perchè
egli, da una parte, proclama le cause primordiali creature, e quindi non
identificabili col Verbo, a cui sono inferiori, in quanto degradazioni di Dio
stesso; dall'altra esse s'identificano, pur essendo inferiori ed essendo le pri-
me partecipazioni, con l'essere stesso di Dio, che in esse, per così dire,
defluisce.
Scoto Eriugena è più vicino a Plotino di ogni altro filosofo
medioevale ed in lui l'emanatismo, sia pur colorato di Cristiane-
simo, rimane integro. Quando parla della distinzione tra il Verbo
e le cause primordiali, in quanto increato e impartecipato il primo,
I50i lbid., 677 A - B.
(51) lbid., 678 B - C.
— 125 —
create e partecipate le seconde, egli esprime, con immagini cristia-
ne, un concetto schiettamente neoplatonico. Difatti il rapporto di degrada-
zione, che Plotino pone tra l'Uno e il Nous, Scoto Eriugena lo pone tra il
Verbo e le idee. E' chiaro che in tutto ciò il complesso cristiano pone la sua
importanza, in quanto Scoto mantiene l'emanazione neoplatonica, ma non
la porta tra Dio Padre ed il Verbo, ma tra il Verbo e le idee, le quali, e
crediamo di averlo detto e mostrato ad abundantiam, pur rimanendo consu-
stanziali a Dio, vengono dette create.
Il Gilson ha rilevato la novità di tale visione e così scrive: « La
deuxième division de la nature comprend ceux des ètres créés qui sont eux-
mèmes des créatures. Puisque il sont créés, nous sortons avec eux de la
nature divine, mais, puisque ils sont créateurs ce sont les plus nobles de
toutes les créatures » (52). Ed ancora il Gilson stesso precisa, sempre notan-
do tutta l'ambiguità della posizione dell'Eriugena, che « Les idées eternelles
rentrent dans Fordre de ce que vient après Dieu, parce que Dieu en est la
cause. Ceci posé, pen importe qu'on leur donne ou non le titre de créatures,
de quel nom qu'on les nomme, puisqu'elles sont des ètres inferieurs a Dieu,
on ne voit plus comment elles pourraient ètre Dieu » (53). Non siamo d'ac-
cordo con l'A., che insiste sulla distinzione delle cause primordiali da Dio,
la distinzione, lo abbiamo visto, rimane puramente logica. A sommesso
nostro avviso in questa singolare dottrina delle cause primordiali create e
coessenziali nello stesso tempo a Dio, è l'anima del pensatore irlandese.
E', invero, nella equivocità di questa dottrina eretta a sistema, che si
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spiegano le formule monistiche e le formule teistiche dell'Eriugena, tutto
il sistema suo filosofico e teologico sarà comandato da questa particolare
concezione. Quando difatti l'interpretazione teistica sosterrà la distinzione
Dio creatura, ed invocherà a sostegno di questa tesi, la distinzione che Scoto
mantiene nel finale ritorno tra Dio e la creatura, non terrà conto di un ele-
mento importante e cioè che solo a parole può essere mantenuta questa di-
stinzione. Come infatti è possibile affermare la distinzione tra Dio e la
creatura, se. quando questa ritornerà nelle cause primordiali, ritornerà nel
seno del Verbo, e se è nel Verbo, ed unificata in Eni. come può esser di-
stinta da Dio ? Si noti che le idee sono il pensiero di Dio, il quale, poi,
secondo Scoto, non è da esse conosciuto.
E', questo dell'Eriugena, lo sforzo più poderoso e più acuto, ma non per
questo riuscito, di inserire nella logica del Neoplatonismo il Cristianesimo,
che per la netta affermazione della trascendenza, non può ripensarsi su
basi emanistiche immanentistiche. Ecco perchè S. Agostino non è un Neo-
platonico, ma un platonico: la questione storica ha avuto dal Boyer una
(52) Gilson, Op. cit., II ed., p. 209.
(53; Ibul., 212.
— 126 —
sicura dimostrazione, ma a parte la dimostrazione storica, è logicamente
impossibile che un assertore della trascendenza possa essere un neoplatonico.
Ma torniamo a Scoto. Abbiamo detto che in questa particolare dottrina
noi troviamo la spiegazione del suo teismo e del suo panteismo. Noi invero
non solo dobbiamo figgere l'occhio alla dottrina esemplaristica di Scoto, per
cui le cause primordiali sono una creatura, e quindi dire che Dio s'identi-
fica con le cause primordiali significa già affermare la coessenzialità del
Creatore con la creatura, ma dobbiamo ancora tener l'occhio fermo ad un
altro aspetto del problema, quello cioè die abbiamo discusso nelle pagine
precedenti, per cui tutta la realtà sostanziale delle molteplici creature si
risolve nell'essenza spirituale o causa primordiale. Se quindi vi è una coes-
senzialità ed una coeternità tra Dio e le cause prime, e se queste sono l'es-
senza stessa che nella sua unità soggiace alla molteplicità delle cose, degra-
date al rango di puri accidenti, allora l'essenza stessa delle cose, che è costi-
tuita dalle cause prime, è coessenziale e coeterna a Dio. Di qui quello che
abbiamo definito il semi panteismo di Scoto Eriugena. Dio è uno ed immu-
tabile e trascendente alla molteplicità , spazio temporale, perchè questa è un
accidente e cade fuori dall'essenza delle cose ed è un prodotto del peccato
originale; Dio, però, pur trascendendo questa realtà , è coessenziale con la
essenza della realtà stessa, che è quella che veramente è, e che solo soprav-
viverà con la fine del mondo. Dio perciò, lo ripetiamo, è l'essenza delle
cose, in quanto è coessenziale alle ragioni primordiali, che sono l'unica, la
vera essenza delle creature.
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Con tali presupposti, se di teofania si vuol parlare, questa ha un signi-
ficato panteistico e non teistico, perchè l'apparire di Dio non è un costi-
tuire le creature nella loro realtà ontologica, ma solo un'estrinsecazione del-
l'essere stesso di Dio; la stessa essenza divina infatti soggiace a Dio ed alle
sue apparizioni. E' Dio stesso, quindi, che si manifesta nelle sue teofanie
come l'Eriugena a tutte lettere dice: « At vero in suis theophaniis incipiens
apparere, velati ex nihilo in aliquid dicit procedere, et quae proprie supra
omnem essentiam existimatur proprie quoque in omni essentia cognoscitur,
ideoque omnis visibilis et invisibilis creatura theophania, id est, divina
apparitio potest appellari » (54). E queste teofanie, quanto più sono vicine
a Dio, tanto più sono lontane dalle capacità conoscitive dell'uomo, che
invece riesce a cogliere quelle manifestazioni più degradate.
In base a quanto abbiamo detto possiamo comprendere in che senso Dio
è super omnia ed in che senso è immanente in omnibus: Dio se è considerato
nella sua superessenzialità è non essere, se invece è considerato in quanto si
manifesta nelle cose, è l'essere stesso delle cose. Dalla sua superessenzia-
lità , nella quale è detto non essere, Egli si crea nelle cause primordiali, e,
successivamente, dalle cause primordiali, che hanno una posizione inter-
isti) De Div. nat., III, 6»! A.
— 127 —
media, tra l'assoluta ineffabilità di Dio e la manifestazione delle creature,
Egli procede fino all'estremo limite della natura, che è costituito dai corpi,
non quelli però sorti dal peccato. « Ac sic ordinate in omnia proveniens facit
omnia, et fit in omnibus omnia, et in se ipsum redit, revocans in se omnia,
et dum in omnibus fit, super omnia esse non desinit » (55).
Pertanto concludiamo: Dio è il principio, il mezzo ed il fine di tutta la
realtà , che è tutta divina perchè è una manifestazione di Dio, una divina
teofania. La prima natura, come abbiamo mostrato seguendo Scoto, è Dio;
la quarta, quella che non crea e non è creata e di cui parleremo fra poco è
anche Dio, considerato come fine di tutta la realtà . Fra queste due nature,
che rappresentano un unica realtà , che l'umano pensiero considera distin-
tamente, vi è la natura creata.
Ma, ancora, nel mondo della creazione l'uomo, il quale ha l'occhio abi-
tuato alla considerazione spirituale delle cose, vede la natura divina, che,
nelle cause primordiali, crea ed è creata, mentre, negli effetti delle cause
primordiali, è soltanto creata (56). Per elevarsi a questa divina contempla-
zione della realtà occorre uno spirito puro, purgato di ogni terrena imma-
ginazione, occorre, insiste l'Eriugena, una illuminazione particolare di Dio.
L'uomo in questa vita non può comprendere il grande mistero della
creazione, che gli sarà rivelato, quando egli avrà la beatitudine eterna:
l'uomo, decaduto per il peccato dalla primitiva sua condizione, è ora oscu-
rato da terrene immagini. Anche a questo proposito Scoto ribadisce che
l'uomo carnale, sentendo che Dio è tutte le cose, attribuisce a Dio anche il
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male e le brutture di questo mondo. Non bisogna però dimenticare, egli
dice, che Dio s'identifica solo con quella parte della realtà , che veramente
è, cioè con l'essenza o sostanze delle creature, la quale è, perchè creata da
Dio, ottima;; il male, difatti, e lo vedremo tra poco, non esiste come
realtà (57). Poichè la sostanza è ottima non può peccare, in tal modo la
(55) Ibid., 633 B.
(56) « Primo quidem, quando et creari, et creare conspicitur divina natura. Creatur
enim a sei/ma in primordialibus causi s. ac per hoc seipsam creat, hoc est, in suis theophaniis
incipit apparere, ex occultissimis naturae suue finibiis volens emergere, in quibus et sibi
ipsi incognita, in nullo se cognoscit, quia infinita est, et supernaturalis, et superessentialis,
et super omne, quod potest intelligi et non potest, discendens vero in principiis rerum, ac
veluti seipsam creans in aliquo inchoat esse. Secundo vero, dum in extremis effectibus
primordialium causarum perspicitur, in quibus creari tantummodo, non autem creare recte
praedicatur. Creatur ergo et creat in primordialibus causis, in earum vero effectibus creatur,
et non creat. Nec immerito, quoniam in ipsis finem descensionis siiue, hoc est, apparitionis
suue constituit ». Ibid., 689 A - B.
(57) « Ignorans, qui haec dicit, nullam turpitudinem in universitate toius creaturae
posse esse, nullam mali tianì ei nocere, nullo errore falli vel seduci. Quod enim panini
contiglt, in toto fieri Deus non sinit, cuius universitatis, nec turpitudo turpis est, nec
malitiu, nec error errat. Turpiter quidem et maligne viventibus; et a veritate errantibus
turpia honesta, mala bona, errantia recta, prava iusta putantur esse. Quorum turpitudine.
— 128 —
pena acquista un particolare valore, essa non colpirà la sostanza, ma solo
l'accidente, la sostanza sarà integralmente salvata, perchè ritornerà nelle
cause primordiali.
La teoria, che era stata prima sostenuta da Origene, sulla negazione
dell'Inferno, viene originalmente ripensata da Scoto Eriugena ed inquadrata
nel suo sistema a completamento ed integrazione del suo singolare pantei-
smo, che su uno sfondo ontologico neoplatonico tenta assimilare l'ottimismo
cristiano. La creazione per l'Eriugena difatti suppone, come si è cercato di
dimostrare, attraverso lunghe, forse troppo minute citazioni, l'unità fontale
e fondamentale dell'essenza della realtà : così, difatti, afferma ancora il
Maestro: « Non negabis, ut npinor, cnncta quae de nihilo facta esse scriptum
testatnr, imam quandam naturarn communem omnibus, cuius porteci patione
subsistunt, secnndum uninsciusque proportionem possidere ». Ed il disce-
polo approva: « Hoc negare risu est di gnu tu. Creditnus namque et intelligi-
mns, Deutn sitnul et semel communem omnium rerum naturavi creasse, ex
cuius parteci patione fiunt omnia » (58).
et malitia, et errore sublatis, omnia pie intelligentibus punì, perfecta, impollina valde bona,
omni errore carentia remanent. Et non cogitans. quod sacra pronunciut Scriptura. Omne
ilntimi optinum, et omne donum perfectum de sursum est, descendens a Patre luminum,
dati quidem vocabulo omnium rerum substantiales constitutiones, doni vero virtutes,
quibus ornatur universa natura, declarans. Et hoc intimi. substantia videlicet et virtus,
de sursum descendit e Patre luminum, hoc est, ex fonte omnium honorum, Deo. qui in
omnia, quae suiti et quae non sunt, profluens, in omnibus fit, sine quo nihil esse potest ».
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Ibt.I- 684 B - C.
(58) Ibid., 685 A. A proposito della identificazione di Dio con le creature l'Albanese
così scrive: « Ma allora si potrebbe dire chc le cose sono Dio stesso. Scoto, come abbiamo
notato innanzi, rigetta questa confusione, perche è vero che la creatura è da Dio, ma non è
identica con lui; Dio e le cose sono un solo essere, una sola realtà , ma non sono uguali,
perchè Dio non ha alcuna causa di sé, né procede da alcuno, la creatura invece procede
da Dio ed è suo effetto. Ora se Dio è causa e la creatura è effetto, non possono identifi-
carsi né essere uguali. Non sono uguali insiste Scoto, ma neppure sono due cose separate,
distinte si, ma non separate ed indipendenti, Dio è il mondo sono un'unica realtà , come
essenza, ma sono distinti nella loro concretezza e perciò non sono neppure uguali. E se si
vuole interpretare bene il pensiero di Scoto quando ripete spesso che Dio è in tutte le
cose, e tutte le cose in lui, bisogna tener sempre presente questa recisa affermazione che
egli fa., cioè che quantunque Dio e il mondo sono un solo essere, una sola natura, tuttavia
non sono uguali, perchè l'uno è causa, l'altro effetto. La dimenticanza di questa afferma-
zione ha fatto annoverare facilmente l'Eriugena tra i panteisti » C. Albanese, Op. cit.,
p. 205; tuttavia l'Albanese, pur avendo interpretato giustamente il problema in esame,
non ci offre una conciliazione dei testi controversi dell'Eriugena, ma s'irretisce in contrad-
dizioni insuperabili.
^\
Capttolo VII.
IL MONDO CREATO
L'esposizione del pensiero di Scoto intorno alla realtà effettuale del
mondo è presentata come un commento esegetico alla Genesi. Il pensatore
irlandese, quindi, si trova nella grande difficoltà di conciliare una dottrina
chiaramente monista, emnatista con un testo schiettamente dualista creazio-
nista. E' ovvio che di questo strano connubio, che d'altronde è una chiara
prova della sincerità filosofica del nostro e della sua non meno sicura fede
cristiana, soffriranno la Scrittura e la filosofia; la Scrittura in quanto rice-
verà , in alcuni punti, un'interpretazione assolutamente errata, la filosofia,
in quanto Scoto, pur di mantenere fede alle premesse del suo sistema, si
appiglierà , in tanti problemi particolari, a cavillose soluzioni. Comunque il
tatto che Scoto cerchi d'interpretare la Scrittura razionalmente non è certo
un argomento a favore del suo preteso razionalismo, l'errore d'interpreta-
zione non deve assolutamente indurci a ritenere che Seoto sia un raziona-
lista; il suo razionalismo va visto alla luce dell'orientamento proprio della
Patristica in cui fede e ragione sono inizialmente identificate.
Come noi abbiamo mostrato nei capitoli precedenti l'essenza della realtÃ
è costituita dalle cause primordiali che producono le cose in quanto si mani-
festano nei loro effetti. Abbiamo visto come le cause primordiali siano create
nel Verbo, vediamo in che modo si manifestino nei loro effetti. Innanzi
tutto è da notare che quando nella Genesi noi leggiamo: « Et dixit Deus fiat
lux», il fìat lux va inteso nel senso che le cause primordiali, le quali in sè sono
invisibili e inaccessibili, diventano chiare e manifeste nelle proprie produ-
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zioni. E' questo, secondo Scoto, il vero significato del versetto biblico: il
passaggio cioè dall'uno al molteplice, dal non essere all'essere, intendendo
il non essere come l'essenza inconoscibile, che poi si manifesta nella molte-
plicità .
E l'incomprensibilità delle ragioni eterne trova, a dire del nostro,
un'altra affermazione nel versetto: « Et tenebrac erant super abyssum », le
tenebre delle idee eterne sono contrapposte alla manifestazione della luce,
che si ha con la produzione delle creature spazio - temporali. Tuttavia però,
conferma Scoto, la produzione degli effetti, cioè la creazione del mondo nello
— 130 —
spazio e nel tempo, non è la produzione di una realtà ontologicamente di-
versa da quella delle cause primordiali: è sempre un'unica realtà quella
che soggiace alle cause primordiali, in quanto sono nel Verbo, ed in quanto
si manifestano nello spazio e nel tempo. 1l monismo di Scoto non subisce
incrinature di sorta ed egli conferma il concetto di causa immanente nella
realtà , per cui la produzione di un effetto è un apparire della stessa causa,
che si fa e diviene nell'effetto: «Non enim alia creatura intelligitur in
causis facta, alia in effectibus causarum condita, sed una cademque in ratio-
nibus aeternis, veluti in quibusdam tenebris secretissimac sapientiae, omni-
quc intellectu remotae facta, et in processionibus rationum in effectus intel-
lectibusque succumbens, veluti in quadam die perfectae notitiae manife-
stata » (1). Pertanto tutta la realtà spazio temporale è una manifestazione
delle cause primordiali, le quali sono partecipanti, in quanto prima mani-
festazioni di Dio, partecipate, in quanto si manifestano nelle creature. Lo
stesso processo di causalità immanente che vige tra la prima e la seconda
natura, vige tra la seconda e la terza, e questa, come la seconda, è anch'essa
una manifestazione di Dio, ovvero una divina teofania, sia pure ad un livello
più basso della precedente. Scoto, seguendo la Genesi, ci descrive questo pro-
cesso di successive degradazioni delle cause primordiali, che sono dotate di
potere creativo, non in senso autonomo, ma in quanto sono l'essenza divina
degradata.
Tutta la realtà per l'Eriugena o è spirito, o è corpo, o è qualcosa d'in-
termedio tra Io spirito e il corpo. Il mondo, se lo si considera nelle ragioni
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primordiali (2), è assolutamente spirituale, se, invece, lo si considera negli
esseri corporei, è assolutamente materiale e soggetto al continuo divenire ed
alla morte; tra questi due estremi, di puro ed assoluto spirito e di assoluta
materialità , si trovano i quattro elementi, che in sè stessi sono semplici e
immateriali, benchè la materia sorga proprio da essi. A proposito della for-
mazione dei corpi materiali, l'Eriugena elabora una sua teoria, a cui noi
abbiamo già accennato parlando della teoria dell'essenza. Come abbiamo
detto, il nostro filosofo si muove sempre sul terreno teologico e scritturale
ed anche la dottrina della formazione dei quattro elementi viene da lui espo-
sta a proposito del versetto: Dixit quoque Deus. Fiat firmamentum in medio
aquarum, et dividat aquas ab aquis, et fecit Deus firmamentum. Il firma-
mento, egli dice, è rappresentato dai quattro elementi, che sono intermedii
tra la profondità delle cause primordiali e il mutabile fluire dei corpi, for-
mati appunto dal concorso degli elementi. La separazione, a cui accenna
la Scrittura, delle acque dalle acque, deve intendersi come la separazione
delle idee, semplici e incorruttibili, dai corpi composti, fragili, soggetti al
nascere e al perire. Però, ancora ribadisce Scoto, bisogna sempre disun-
ii) De Divisione naturae, III, 693 A - B.
(2) Ibid., 695 B.
\
— 131 —
guere le cause semplici dai quattro elementi. Le ragioni eterne sono fuori
rial tempo e dallo spazio, mentre gli elementi sono nel tempo e nello spazio,
e, mentre le cause primordiali non possono ricevere in nessun modo acci-
denti, i quattro elementi possono ricevere accidenti, qualora vengano consi-
derati negli individui (3).
Chiariti questi fondamentali concetti preliminari, è necessario ora
stabilire in qua] modo, per l'Eriugena, avvenga la formazione dei corpi. Alla
molteplicità delle creature soggiace, come si è detto, un unica essenza : come
si compie il passaggio dall'unità dell'essenza alla molteplicità dei fenomeni ?
A proposito della realtà dei corpi, così si esprime l'Eswein: « Die Kòrper
sind deshalb nicht im bejahenden, realen Sinne des Wortes Sein, weil sie
immer im Werden stehcn und sich schliesslich auflósen » (4). I corpi infatti
non hanno una realtà sostanziale, ma si riducono ad un'apparenza dell'es-
senza. Per spiegare questa realtà accidentale dei corpi dobbiamo innanzitutto
chiarire il processo di produzione di questa terza natura.
Spiega Scoto, proseguendo il suo commento alla Scrittura, che la crea-
zione dei corpi avvenne nel terzo giorno: « Dixit autem Deus: congregentur
aquae quae sub caeìo sunt in locum unum ». In questo passo, dice l'Eriugena,
la Genesi si riferisce alle acque inferiori con cui, come si è detto a propo-
sito della separazione delle acque inferiori dalle acque superiori, s'intende
il mondo materiale degli esseri terrestri.
Scoto assolutamente nega che la creazione sia avvenuta nei sei giorni:
la Scrittura, con tale affermazione, intende solo indicare l'ordine che regna
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nel creato. Secondo il pensatore irlandese la creazione avvene « simul et
semel » (5), perchè, per lo stesso motivo per cui si è ammesso che la
creazione non può non essere ab aeterno, pena la negazione dell'immuta-
bilità di Dio, ugualmente non si può ammettere, da parte di Dio, una suc-
cessione di momenti nel creare. A proposito della creazione simultanea è
(3) Come abbiamo detto il firmamento, secondo Scoto, è costituito, simbolicamente,
dai quattro elementi al disopra di questi quattro elementi, non localmente beninteso, sono
le cause primordiali, die allegoricamente la Scrittura chiama acque; comunque, dice Scoto,
esattamente può chiamarsi cielo il firmamento, in quanto caelum, traduce il significato di
O'JOatvóf che, nella sua etimologia 5co; fivo) significa appunto visione dall'alto. E'
errato, dice l'Eriugena quanto alcuni, interpretando letteralmente la Scrittura, affermano,
che cioè al di sopra del firmamento siano le acque. Tale interpretazione, secondo costoro,
renderebbe ragione del pallore e della frigidità delle stelle, ma la frigidità , dice Scoto, non
è dovuta alla presenza dell'acqua, che spegnerebbe il fuoro. Invero la presenza del fuoco
non è sufficiente da sola a generare calore, che è prodotto dalla combustione, la quale oltre
al fuoco esige la materia. Non è quindi necessario, ammettere che al di sopra del firma-
mento vi sia l'acqua, basta considerare che al fuoco del firmamento manca la materia:
« Non igitur pallor siderum cogit nos intelligere, aquae dementimi ullo modo supra
caelum top, dum ipsn palliditus ex caloris absentia nascatur ». (Ibìd., III, 698 B - C).
(4) K. Eswein. Op. cit.. p. 197.
(5) De Div. nat., IlI, 699 B.
— 132 —
ribadita, dall'Eriugena. l'immanenza della causa nell'effetto; la causa, in
tanto è causa, in quanto si realizza nell'effetto. La dottrina della causalitÃ
immanente, elemento neoplatonico, vive in tutte le teorie del sistema: essa
non solo vige tra Dio creatore e le ragioni eterne, ma anche tra queste e le
creature spazio-temporali, che da esse defluiscono.
L'effetto perciò è nella causa e la causa nell'effetto, fra i due non può
esservi assolutamente distinzione ontologica e cronologica, ma solo logica,
come la voce, dice Scoto, precede la parola solo logicamente, così anche Dio
precede, solo logicamente, la creatura; e come la voce si articola nella pa-
rola, così Dio, senza nessun intervallo di tempo, fa uscire, dalle loro occulte
ragioni, le cause primordiali e le fa manifestare nella molteplicità del mondo.
L'immanenza di Dio nelle cose create è nuovamente ripetuta da Scoto;
ancora egli afferma: « Et qui de materia informi mundi un fecit, quemadmo-
dum non aliunde accepit materiam, de qua faceret, sed a seipso, et in seipso et
accepit et fecit; ita neque loca extra se quaesivit, in quibus faceret, ncque
tempora spectavit, quorum intervallis opus suum perageret, sed in seipso
omnia fecit, qui locus omnium est, et tempus temporum et seculum sccu-
lorum, qui simul operatus est, omnia enim in momento oculi facta sunt » (6).
Ma tale immanenza viene dall'Eriugena inquadrata in quei limiti
da noi indicati, egli si affretta ad aggiungere che « ea, quae per cursus
temporum distincta generationem acceperunt, et accipiunt, et acceptura
sunt, in ipso facta sunt, in quo et praeterita, et praesentia, et futura simnl
et semel et unum sunt » (7). Con questo passo l'immanenza, e la conse-
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guente limitazione dell'identità dell'essere di Dio con la creatura, viene ad
essere chiarita: Dio s'identifica, e giova sempre ripetere, sia pur degradan-
dosi, con le cause primordiali, di cui le cose sensibili non sono che un appa-
rire fenomenico.
Chiarito il processo dinamico per cui avviene il passaggio dalle eterne
idee alle cose sensibili, tentiamo di enucleare la dottrina della composizione
strutturale delle creature sensibili: troveremo in questo particolare proble-
ma applicati i principi fondamentali della ontologia eriugeniana. Nei corpi
composti o soggetti al divenire, i quali tutti dipendono « ex quattuor simpli-
cium elementorum coitu » (8), dobbiamo considerare tre elementi: la ma-
teria, la forma qualitativa, che unita alla materia produce i corpi sensibili,
la forma sostanziale, che è il principio immutabile, che soggiace al divenire.
Vediamo in quale rapporto sono questi elementi. I corpi più grandi,
(6) Ibid., 699 C.
(7) Ibid., 699 D.
(8) « Qualitativam quidem formam dico ilInni. quae ex qualitute stimota et quantitam
sensibus corporei! apparet materiaeque instabilitati adhaerens, cum ipsa semper fluctuat,
generationem et corruptionem patiens, incrementa per quantitates et qualitates recipit,
multisque ac variis differentiis, quae extrinsscus ex qualitate locorum, aerum, humorum,
ciborum similumque occasionum accidunt, succumbit ». Ibid., 701 D - 702 A.
— 133 —
sono la terra, l'aria, l'etere e il cielo, e questi si moltiplicano in ogni altro
corpo; essi sono formati dai quattro elementi semplici, completamente privi
di materia, mentre i quattro corpi, anche se possono, come avviene per
l'etere, il cielo e l'aria apparire spirituali, sono formati da materia. Questa
è il sostrato amorfo del divenire e si specifica attraverso la forma. Occorre
intanto precisare che la forma, la quale in unione con la materia, da origine
ai corpi sensibili, non è la forma sostanziale, ma la forma qualitativa. Scoto
definisce la forma qualitativa, quella che risulta dalla quantità e dalla qua-
lità e che aderisce alla materia. Questa forma per Scoto ha due funzioni:
1) specifica la materia, in quanto la determina proprio nel suo essere; 2) è
principio del divenire sostanziale ed accidentale della realtà corporea (9).
E' chiaro che la forma qualitativa presiede e comanda tutto il divenire de-
gli esseri ed esplica quelle funzioni, che, secondo Aristotele, venivano espli-
cate dalla forma sostanziale.
La forma sostanziale, poi, è assolutamente immutabile e non subisce
alcun mutamento nel composto formato dalla forma qualitativa e dalla ma-
teria. Essa non ha inizio col corpo benchè soggiaccia al corpo, senza del
quale esiste e sussiste in sé e per sè; non subisce nè mutamento nè corru-
zione, poichè essa è l'essenza, che non subisce nessun mutamento di nessun
genere. Pertanto, dice ancora Scoto, a ragione la Scrittura chiama arida la
stabilità delle forme sostanziali « quoniam nuda et absoluta est omnium
accidentium experimento omnis enim forma et species, in generali simpli-
citate, qua subsistit, considerata accidentium concursu omnino est libera;
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corpora vero, quibus subsistit, omnino accidentium capacia sunt » (10).
Con tale premessa si ha la conclusione che la forma sostanziale in tutti
gli individui è una: « Substantialis vero forma est ipsa, cuius partecipatione
omnis individua species formatur, et est una in omnibus, et omnis in una,
et nec multiplicatur in multiplicatis, nec minuitur in refractis » (11).
La sostanza è comune a tutti, le differenze non provengono dalla natura
ma dagli accidenti; cosi, esemplifica Scoto, le differenze che noi troviamo
nel volto, nella quantità , nella qualità , nei costumi e nei pensieri degli
uomini « non ex humann natura, quae una eademque est in omnibus, in
quibus est, et sibi semper simi1lima, nullamque varietatem recipiens, sed ex
his, quae circa eam intelliguntur, contigit, ex locis videlicet, temporibusque,
ex generatione, et qualitate et quantitate alimoniorum, regionum, aerum,
(9) Subst'intialis vero forma vel species, in genere suo incommutabiliter subsistens,
quae nullo modo cum torpore ex materia et qualitativa forma composito mutabilitadem
patitur - non enim cum carpare incipit, quamvis in carpare nascatur, sine quo per seipsam
in genere suo essentialiter permanet, neque cum eo currumpitur, quoniam omnis essentia,
et virtus, et aperatio cum corruptibilibus et mutabilibus nec corrumpi, nec mutari possunt
propriis suae naturae subsidiis solidata. Ibid.. 702 A - B.
(10) Ibid., 702 D.
(11) Ibid., 703 A.
— 134 —
in quibus quisquis nascitur, seu nutritur, et ut universaliter dicam, ex omni-
bus, quae circa substantiam intelliguntur, et non ipsa substantia sunt. Ipsa
enim simplex et uniformis est, nullisque varietatibus seu compositionibus
obnoxia » (12). E la sostanza che soggiace unica, immutabile ed indefini-
bile, precisa l'Eriugena, ed intorno alla quale Umitiami i diversi accidenti,
è la stessa eterna essenza, che: a Aliter enim in causis aliter in effectibus una
eademque res theoriae speculat ionibus intimatur » (13). Chiarita la struttura
ontologica dei corpi, abbassati a puri accidenti, rimane da spiegare come
questi accidenti si producano.
Quando noi abbiamo parlato dei quattro elementi, abbiamo detto che
essi sono semplici e perciò immateriali ed incorruttibili e sono, come si è
detto nel terzo capitolo, accidenti primordiali dell'assenza; dai quattro ele-
menti sono distinti i corpi, che sono corruttibili. I corpi, difatti, per Scoto
Eriugena, non sono formati da essi, ma dalla mescolanza delle loro qualità :
il caldo, l'umido, l'asciutto il secco e il freddo (14). Secondo l'Eriugena i
corpi sono mortali perchè sono formati di accidenti, la materia risulta dalla
unificazione della quantità e qualità , accidenti dei quattro elementi, che a
loro volta sono accidenti primi dell'essenza; tolte difatti la quantità e la
qualità , dai corpi non rimane più nulla.
A proposito di tale teoria il Dal Pra così sintetizza: « L'ori-
gine dei corpi è dunque caratterizzata da due elementi: dal con-
corso di elementi accidentali, dai quali si ritira la sostanza e dal
trapasso dall' incorporeo al corporeo nell ' ambito della stessa accidenta-
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lità . Il passaggio fondamentale è quello dell'incorporeo al corporeo; ed in-
torno ad esso Scoto non fornisce alcuna spiegazione esauriente. Egli ricorre
piuttosto a dei paragoni, come quando afferma che il corpo nasce da ele-
menti incorporei al modo stesso che dalla luce e dal corpo, che non sono
ombra nasce l'ombra. Per queste ragioni, dei corpi si può dire che non sono.
Essi non sono centri di realtà , hanno una realtà , soltanto apparente e provvi-
soria, il centro del reale rimane nella sostanza, che è la vera « ratio » del-
l'individuo » (15).
I quattro elementi, precisa Scoto, le cui qualità , unendosi, producono
i corpi, si dividono in attivi e passivi: attivi sono l'aria e il fuoco, passivi
la terra e l'acqua; gli elementi passivi sono pesanti, mentre gli attivi sono
leggeri. Si avrà allora che tutti i corpi, in quanto partecipano della gravitÃ
(12) Ibid., 703 C.
(13) Ibid., 704 B.
(14) Aliter mamque in onini sensibili corpore quantitatis molem, qualitatibus auis
subiectam, corporeis sensibus eonaiderumus, aliter invisibilem substantiam, speciesque
proprius in ipsa subsistentes mentis ade intelligimus, secundum quae rerum omnium visi-
bilium et invisibilium numerositas muItiplicatur, universalitas colligitur, proprietas custo-
ditur. Ibid., 711 C.
(13) Dal Pra, Op. cit., p. 187-188.
— 135 —
ricevono qualità terrene, in quanto partecipano alla leggerezza ricevono
qualità celesti; certo è, comunque, che questi quattro elementi sono tutyi
presenti, attraverso le loro qualità , in ogni corpo.
Un'applicazione dell'unità dell'essenza in tutto il creato è data dal sin-
golare panvitalismo dell'Eriugena e dalla dottrina dell'immortalità dell'a-
nima di tutti gli animali. Ridotta la realtà sostanziale delle cose all'idea
archetipa, ne viene di conseguenza che tutto ciò che è reale è spirituale.
In tal caso è ovvio che non può assolutamente ammettersi che i corpi, rite-
nuti inorganici, siano effettivamente tali : essi sono una manifestazione di una
realtà spirituale, che è costituita dalle cause primordiali; ma se i corpi sono
spirituali nella loro essenza, a maggior ragione, essi sono viventi. Pertanto
se la Scrittura introduce solo nel quinto giorno la creazione della vita, bi-
sogna considerare che la Scrittura intende riferirsi ai gradi più alti della
vita, a quelli cioè in cui oltre alla vita semplicemente vegetativa, compare
anche la sensibilità . Il versetto biblico: « Producant aquae reptile animae
viventis, et volatile super terram, sub firmamento coeli » indica appunto
la creazione della vita sensitiva.
Scoto mostra che i maggiori filosofi e teologi sono d'accordo nell'affer-
mare un unico e universale principio di vita, che, da alcuni è detto anima
del mondo, da altri invece vita comune. L'esistenza unica ed assoluta di un
principio che soggiace a tutte le cose, ha come propria conseguenza che la
morte dei corpi è solo un apparenza perchè ciò che costituisce l'essenza dei
corpi non può assolutamente corrompersi, e, con la decomposizione degli
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accidenti, si ha un ritorno alla purezza degli elementi fondamentali.
Da questo stesso principio dell'unità , semplicità e spiritualità dell'es-
senza è dedotta anche l'immortalità dell'anima degli animali, che ha, con-
trariamente a quanto potrebbe sembrare, un'impostazione nettamente mo-
nistica.
L'immortalità degli animali è da Scoto provata con questi argomenti:
1) Il principio universale generico della vita si distingue in due specie, la
vita dell'anima razionale e la vita il.-M'anima irrazionale. Ora non è possi-
bile sostenere che possano sussistere, come vogliono coloro che riservano
l'immortalità solo all'anima razionale, due specie contrarie nell'unità del
genere. Si noti che questa dimostrazione è condotta su due punti: a) la tesi
platonica dell'anima sostanza, principio di vita; b) sull'accettazione del
genere, come entità metafisica oltre che logica. Se infatti il genere fosse stilo
un predicabile, in esso potrebbero ben coesistere specie contrarie, ma dato
che, per l'Eriugena. il genere è una realtà , la quale costituisce un'oggetti-
vazione dell'essenza, allora portare in un'unica realtà opposte determina-
zioni significa distruggere la realtà stessa del genere (16). 2) La seconda di-
llo) « Quare sub uno genere vitue duae species sibi invicem contrarile ponuntur? Non
enim rationaIe et irrationale sibimet adversantur, sed differentiam specierum unins generis
— 136 —
mostrazione, poi, è condotta sull'osservazione della superiorità dell'anima
sul corpo, ora, se il corpo, per le ragioni suesposte, non perisce, ma ritorna
negli elementi, a più forte ragione l'anima, che è semplice e non composta,
e che è superiore al corpo, non potrà morire. Ed inoltre, aggiunge Scoto,
se noi esaminiamo la sensibilità degli animali, questa mostra una meravi-
gliosa potenza giustamente apprezzata e valorizzata dagli uomini.
exprimunt. Vivere autem et mori sibimet omnino opponuntur; unum enim habitum signi-
ficat, alterum privationem ; habitus autem et privatio sibimet contradicunt. Si ergo post
solutionem corporis una species manet, altera perit, quomodo earum genus totum suum
servabit ? Ut enim pereunte genere omnes species itlius perire necesse est, ita intereuntibus
speciebus illorum genus interire ratio cogit; genus enim in suis speciebus salvatur, et spe-
cies in genere. Si autem formarum. seu specierum, sub uno genere constitutarum, quaedam
quidem mori possunt, et moriuntur, quaedam vero nec possunt mori, nec moriuntur.
quid de ipsarum genere dicemus ? An et ipsum in quibusdam peribit. in quibusdam non
peribit ? Non enim integrimi, potest permanere, quod quasdam suas partes patitur per-
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dere, uc per hoc non erit genus, sed generis ruina ». Ibid., 737 B - C.
Capitolo Vili.
L' UOMO
Scoto Eriugena è indiscutibilmente un grande umanista: per lui l'uomo
è al centro di tutta la creazione e della Redenzione; la sua umanità si su-
blima in una visione d'ispirazione cristiana, in cui viene celebrata la na-
tura perchè creata da Dio, la sopraunatura perchè anch'essa dono di Dio e,
nel contempo, conquista della volontà buona. Anche se egli, come nota
al riguardo Sofia Vanni Rovighi, è il grande rappresentante « dell'altro tipo
di neoplatonismo ispirato anche ai Padri greci più metafisico e cosmolo-
gico » (1), tuttavia nella distinzione tra scienza e sapienza, e nell'eccellenza
della sapienza, che trova il suo culmine nella teologia, afferma principi di
carattere chiaramente agostiniano.
E. S. Vanni Rovighi così continua la sua esposizione: « Anch'egli
sottolinea, riprendendo una frase di S. Agostino, la spiritualità dell'uomo:
noi siamo l'anima; il corpo non è nos, ma nostrum, noi siamo l'anima e
abbiamo il corpo; ma insiste pure sul motivo dell'uomo che riassume in sé
l'universo e può ben dirsi fucina di tutto il creato, officina omnium creatu-
rarum « perchè in lui tutte le creature sono contenute. E' infatti intelli-
gente come l'angelo, ragiona come uomo, sente come l'animale irrazionale,
vive come il germe, sussiste in corpo e anima e non è privo di nessuna
natura creata ». a E se uno considera puù attentamente la mirabile e ineffa-
bile condizione della natura umana, troverà chiaramente che l'uomo
(I) Sofia Vanni Rovighi, Umanesimo medioevale, in Rivista di Filosofia Neosco-
lastica, luglio-agosto 1952, p. 289. - In questo articolo è contenuta un'indagine volta a stabi-
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lire l'esatto significato dottrinale dell'Umanesimo medioevale nei suoi maggiori espu-
ntemi. Sono valorizzati, diIani, aspetti poco noti del pensiero di Scoto Eriugena, di S. An-
selmo, dei Vittorini e di San Bonaventura. Fondamentale sull'essenza dell'Umanesimo e
sui suoi rapporti col Medioevo la Storia dell' Umanesimo di Giuseppe Toffanin, Zani-
chelli, Bologna, 1953 in tre voli.. li Toflunin, per primo, ha parlato della « Sapienza »
umanistica, nettamente contrapposta allo scientismo naturalistico del Rinascimento; in
questo senso egli, nel Secolo senza Roma )i» voi. della Storia dell'Umanesimo), ha soste-
nuto che le origini dell'antiumanesimo sono nello scientismo arabo del sec. XII, contrap-
posto al preumanesimo del platonismo medioevale, che nel platonico Agostino trova il
primo ed il più grande rappresentante.
— 138 —
è una specie del genere animale, e perciò si può di lui affermare
e negare che sia animale. Quando infatti si considerano in lui il
corpo e la vita nutritiva, il senso e la memoria sensibile e ogni appetito
irragionevole è del tutto animale , ma per la sua parte più alta, che
consiste nella ragione, nell'intelletto e nel senso interiore con la me-
moria delle cose eterne e divine, non è affatto animale » (2).
Abbiamo riportato integralmente questo passo dell'A., perchè, attra-
verso la larga documentazione, esso rende il senso esatto dell'impostazione
del problema dell'uomo nel pensiero di Scoto Eriugena, che mantenne,
pur nell'arditezza della sua concezione, il senso cristiano dell'uomo orien-
tato e proteso in Dio creatore ed in Cristo salvatore. La sincera adesione
dell'Eriugena al Cristianesimo è un fatto indiscutibile e parlare di lui, co-
me fa per esempio l'Albanese, come di un anticipatore dell'umanesimo im-
manentista, facendone un attualista ante luteram, è certo porre in un pen-
satore del secolo IX esigenze che matureranno ben dieci secoli dopo (3).
La dottrina dell'uomo di Scoto Eriugena è basata su tre punti: 1°) L'uo-
mo nel suo essere spirituale; 2") L'uomo al centro della creazione; 3°) L'uo-
mo al centro della Redenzione.
1) Dei problemi dell'anima, dell'intelletto e della sapienza noi abbia-
mo già parlato nel primo capitolo di questo saggio, a proposito dei rap-
porti tra ragione e fede, in cui, trattando della illuminazione, abbiamo an-
che accennato alla spiritualità dell'anima, e alla sua signoria sul corpo. In
tale occasione abbiamo anche, sia pur fugacemente, mostrato la rivaluta-
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zione che l'Eriugena compie, in clima cristiano, attraverso i Padri greci e
S .Agostino, della sapienza platonica.
Passiamo al secondo punto, l'uomo cioè come centro della creazione.
2) [Sei primi cinque giorni della creazione, dice l'Eriugena, Dio creò
il mondo intelligibile ed il mondo sensibile, ma questi due mondi sono tra
loro nettamente opposti. Per stabilire una mediazione tra essi, Dio creò
l'uomo che, partecipando nello stesso tempo all'una ed all'altra natura, do-
veva unificare nel suo essere i due mondi. INon vi è, infatti, nella gerarchia
dell'essere creato un grado più basso del corpo, nè uno più alto dell'intelli-
genza, ora questi due estremi si ritrovano nell'uomo, che posto all'oriz-
zonte dei due mondi, per usare un'espressione di S. Vanni Rovighi, li uni-
(2) Sofia Vanni Rovighi, Op. cit., ibid.
(3) L'Albanese nella sua opera citata dedica all'uomo l'intero capitolo IX pp. 257-302.
Certamente non mancano, in questo, come negli altri capitoli, buone interpretazioni del
pensiero deIl'Eriugena, ma il presupposto razionalista, che è il punto di partenza ed il
punto di arrivo della ricerca, fmisce per stravolgere il significato esatto della problematica
di Scoto. Molto più aderente al testo è la ricostruzione del Dal Pra, che dedica tutto
il capitolo VII pp. 198-220, a questo problema. Secondo iI Dal Pra nella dottrina di Scoto
sull'uomo, come in tutto il suo pensiero si manifesta la duplice esigenza cristiana — dina-
mica e intellettualista a — greca, statica.
— 139 —
fica e li sintetizza in sè. L'uomo è quindi un microcosmo, che unifica, nella
sua essenza, tutta la realtà in tutti i suoi i suoi aspetti : questa è la dignità del-
l'uomo, che viene ad avere una funzione simile a quella di Dio, di cui è
immagine: in lui difatti, come in Dio, si unificano gli opposti. L'uomo,
qual'è nelle cause primordiali, contiene in sè tutte le creature sensibili ed
intelligibili: « ex quibus veluti diversis extremitatìbus compositus unum
inseparabile fieret, et ut esset medietas atque adunatio omnium creatura-
rum » (4).
Se l'uomo unifica in se tutte le creature, è necessario stabilire, prima
di tutto, in qual senso può dirsi che l'uomo è animale, ed in qual senso che
non è animale: « Videsne igitur hominem in omnibus animalibus, et omnia
in nomine, et super omnia hominem ? Et si quis intentius naturae ipsius
mirabilem ac penitus ineffabilem conditionem inspexerit, dare inveniet,
eundem hominem et formam quandam in genere a ni mali imi esse, et super
omnem formam animalem subsisterc, ac. per hoc et affirmationem et nega-
tionem recipere, et de eo praedicari, recte posse: Homo animai est; homo
animai non est » (5). l/uomo, precisa l'Eriugena, è animale perchè ha un
corpo, una vita vegetativa, i sensi, hi memoria sensibile e tutti gli appetiti
irrazionali, non è, invece, animale perchè ha la ragione, l'intelletto, il
senso interiore, la memoria intellegibile, la volontà : è l'uomo interiore,
ripete Scoto con Agostino, l'uomo spirituale, mentre l'uomo esteriore è
l'uomo sensibile.
La duplicità di struttura della natura umana non implica, per Scoto,
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che in essa sia una duplice anima. L'anima è unica: è -semplice ed è razio-
nale e, nella sua integrità , presiede a tutte le funzioni della vita vegetativa,
sensitiva e razionale; l'Eriugena interpreta Platone con Plotino ed Ago-
istno, recisamente negando il tripsichismo. L'unità dell'anima umana, che
accoglie ed unifica nella sua semplicità i due mondi, è la migliore espres-
sione della sua nobiltà , che sintetizza l'intera realtà ; se nell'uomo vi fos-
sero due anime allora la dottrina del microcosmo verrebbe a cadere, per-
chè non avremmo più una vera unificazione di realtà diverse. E' tutto
l'uomo, insiste l'Eriugena, che comprende e ragiona come l'angelo e, nello
stesso tempo, sente ed amministra il corpo come l'animale: è per questa
duplicità di natura che in lui noi ritroviamo ogni creatura.
Le creature vengono unificate in cinque categorie: corporea, vitale, sen-
sensitiva, razionale ed intellettuale; nell'uomo poi si ritrovano fuse ed unifi-
cate in una semplicità ineffabile tutte queste categorie. Tale singolare posi-
zione dell'uomo viene spiegata dall'Eriugena come commento alla Genesi.
(4) De Div. nat., II, 536 B. Si noti clic quando l'Eriugena parla, in questi passi, del
corpo dell'uomo e del mondo sensibile intende sempre riferirsi alla condizione dell'uomo
quale sarebbe stata se egli non avesse peccato.
(5) De Div. nat., IV, 752 C.
— 140 —
Dio creò l'uomo a sua immagine, perchè questa immagine fosse adeguata
occorreva die, come Dio, anche l'uomo fosse se stesso e tutte le cose.
Chiarita la struttura del microcosmo, si pone il problema del perchè Dio
volle creare la sua immagine nel genere dell'animale, quando poi sarebbe
stata, certamente, per l'uomo una condizione migliore l'essere una sostanza
solo intellettuale. Il problema del quia della creazione è superiore alle
forze intellettuali dell'uomo, e Scoto, quindi, mentre respinge la possibi-
lità di dimostrazione, si limita a chiarire come la complessa essenza del-
l'uomo è certamente superiore e più completa di quella dell'angelo: l'an-
gelo è solo intelletto, l'uomo, invece, è tutte le cose, e nell'essere tutte le
cose esprime la sua autentica somiglianza di Dio. Scoto perciò si limita solo
ad una spiegazione di convenienza e ritiene impossibile dimostrare razio-
nalmente il problema, che investe la volontà stessa di Dio e, che, come' tale,
non può essere risolto.
L'uomo, pur nella sua eccellenza, è, per l'Eriugena, sempre creatura
di Dio, e, come ogni creatura, è sempre inferiore al Creatore, anche se nella
sua parte immutabile egli è una manifestazione di Dio. Al problema, quindi,
del perchè Dio volle creare l'uomo nel genere degli animali Scoto non da
altra risposta, che, volendo Dio creare una sua immagine, era necessario
che Dio creasse l'uomo in maniera tale da comprendere e superare ad un
tempo, nella dignità e nella grazia, ogni altra creatura, così come Egli stesso
supera in eccellenza ogni altra essenza. E' al di sopra, però, di ogni possi-
bilità di conoscenza umana il perchè Dio volle insignire di tale superiorità ,
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fra tutte le altre creature, proprio l'uomo (6).
Stabilita cosi l'eccellenza dell'umana dignità , viene a porsi un altro
importante problema, in che modo, cioè, tutta la realtà creata sia conte-
nuta nell'uomo. Il problema è così impostato: nell'uomo è contenuta la realtÃ
dell'animale solo in ciò che essa è per essenza, oppure solo in ciò che è per
accidente, ovvero, terza ipotesi, in ciò che è per essenza e per accidente
nello stesso tempo ? E' da escludere che nell'uomo siano costituiti insieme
l'essenza e l'accidente dell'animale, perchè, in tal caso, l'uomo sarebbe un
mostro risultante dalla giustapposizione di accidenti del tutto opposti alla
sua natura.
(6) « Cur autem ita voluti quisquis quaerit, divinue voluntatis causas quaerit, quas
quaerere turni.* praesumptivum est atque superbum ». Ibid., 763 C. Nell'Eriugena non vi
è ombrìi di razionalismo, nè nel senso moderno, che nega completamente la Rivelazione,
nè nel senso medioevale che ammette la possibilità di esaurire il dogma in un fatto
razionale, negando così il mistero. D'altro lato occorre precisare, e lo vedremo ancor
meglio in seguito, che l'Eriugena, pur nella sua glorificazione dell'uomo, mantiene sempre,
sia pur venendo meno alla coerenza delle premesse della sua metafisica, la distinzione tra
Dio, primo e fondamentale esemplare e l'uomo sua immagine. Certo questa distinzione
nel quadro della sua metafisica si attenua, fino a scomparire, ma ciò non toglie che Scoto,
intenzionalmente non veda la grandezza dell'uomo in funzione della superec-
cellenzu di Dio.
— 141 —
L'uomo è tutte le cose, precisa Scoto, perchè in lui sono contenute
soltanto le essenze di tutte le cose. A questo punto s'impone un nuovo chia-
rimento: se nell'uomo vi sono solo le essenze delle altre creature, ciò può
spiegarsi in uno di questi due modi, o perchè in lui non vi sono integral-
mente le altre creature, ovvero, perchè la creatura integrale, quale è creata
da Dio, quale Dio la conosce e quale è nell'uomo, non è la creatura mate-
riale. Per l'Eriugena, infatti la creatura materiale è effetto del peccato, e,
pertanto, non rientra né nel vero disegno della creazione, nè nella struttura
ontologica del microcosmo. Mostreremo tra poco l'importanza di questa
teoria nell'unità del pensiero dell'Eriugena; per ora è bene continuare
l'esposizione della sua dottrina.
Se tutta la realtà , quindi, nei suoi principi essenziali, è nell'uomo,
occorre precisare in che modo l'essenza delle cose è nell'uomo, ed in che
modo è in Dio. L'Eriugena distingue un duplici- modo di essere: i" « essere
reale » e l' « essere intenzionale ». per usare la terminologia della Scolastica.
iNell'atto conosciti.vo, invero, il soggetto che conosce diviene la cosa
conosciuta, poichè il conoscere implica, in certo modo, a parte sttbiecti,
una creazione, per cui il soggetto crea in sè tutto ciò che conosce sia sensi-
bilmente che intellettivamente: « Omne, quod cognoscitur intellectu et ra-
tione, sen corporeo senstt imaginatur, putasne in ipso, qui intellegit et sentit,
qttodammotlo posse creari et effici? Disc, videtur mihi posse » (7).
Se tale è il conoscere, sicchè l'uomo, conoscendo, diviene tutte le cose,
possiamo comprendere in che senso l'uomo è tutte le creature: egli è tutte le
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creature perchè le conosce. Il modo di essere delle cose nel pensiero è certo
diverso dal modo di essere nella realtà , ma il primo è di gran lunga supe-
riore. Infatti, è nel pensiero la vera sostanza delle cose, e, volendo definire,
con definizione essenziale, una qualunque realtà , noi dobbiamo riferirci alla
nozione che è la mente di Dio.
Pertanto la definizione che possiamo dare dell'uomo è la seguente:
l'uomo è una nozione nella mente di Dio; questa
è la vera definizione essenziale, ogni altra, in-
vece, è una pura descrizione di alcuni aspetti
con cui l'essenza si manifesta negli effetti
creati.
(7) Ibid., 765 C.
(8) « Quid ergo mirum, si rerum notio. quarn mena humanu possidet, dum in ea
creata est, ipsarum rerum, quarum natio est, substantia intelligatur, ad similitudinem
videlicet mentis divinae, in qua notio universitatis conditae, ipsius universitatis incommu-
nicabilis substantia est ; et quemadmodum notionem omnium, quae in universitate et
intelliguntur, et corporeo sensui percipiuntur, substantiam dicimus eorum, quae intellectui
Del sensui succumbunt, ita etiam notionem differentiarum ac proprietatum naturalium
accidentium ipsas differentias. et proprietates, et accidentia esse dicamus ? Disc. Non
mirum ». Ibid., 769 B. Anche nel libro V, Scoto tornerà a parlare della differenza tra Dio
— 142 —
Orbene, se la vera essenza della realtà consiste nella nozione, che è nel-
l'eterno divino pensiero, nella niente umana, che è creata a somiglianza
della.mente divina, avremo una nozione simile a quella della mente di Dio.
E' chiaro che non allo stesso modo le essenze sono nel pensiero di Dio e nel
pensiero dell'uomo, perchè mentre nel Verbo di Dio le essenze sono crea-
trici, nell'uomo, invece, come precisa Scoto, sono create, epperò l'uomo ha
solo una notitia della vera essenza (9). Ma l'uomo è vicinissimo a Dio, vici-
nissimo non perchè vive nello spazio e nel tempo, bensì perchè permane nelle
cause primordiali; qui è la sua vera essenza, la quale tuttavia non è conosci-
bile nel suo quid est, ma solo nel quia est. Come Dio non può conoscersi
in se, così neanche l'uomo può conoscersi: egli non sarebbe un'autentica
immagine di Dio. se potesse conoscersi nel suo quid, sarebbe, in tal caso,
circoscritto e quindi non esprimerebbe l'infinità di Dio.
In questa teorica dell'uomo immagine di Dio, nella quale, come in Dio,
sono contenute le essenze di tutta la realtà , è il punto di partenza del semi-
panteismo di Scoto Eriugena.
Come già abbiamo reiteratamente detto la chiave della interpre-
tazione di Scoto ci è stata fornita dagli spunti che l'Ottaviano ha
dedicato a questo pensatore, egli tlifatti, per primo, ha visto la netta
e chiara distinzione tra Patristica e Scolastica ed ha inquadrato, sulla
base della teoria dell'illuminazione, Scoto nell'epoca Patristica, stabilendo
che la storia metafisica di Scoto è una derivazione dell'illuminazione di Ago-
stino. L'Ottaviano così scrive in una nota: « Dal postulato agostiniano Scoto
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Eriugena deriverà il suo semi-panteismo: se quanto è universale e immuta-
bile promana da Dio, è ovvio dedurre che Dio s'identifica con la parte im-
mutabile, degli enti, restando distinto dalla parte mutevole di essi. Se patri-
stica è il soprannaturalismo di Agostino. Scoto Eriugena, che ne deriva le
logiche conseguenze, è ancora in seno a questa filosofia e non è affatto da
considerare come l'iniziatore della Scolastica » (10); cerchiamo di renderci
conto di questa affermazione.
Alla base di ogni panteismo vi è sempre una confusione tra l'ordine
ideale e l'ordine reale, tra le verità di ragione e le verità di fatto. Ora l'onto-
logismo porta difilato al panteismo e per questa ragione. Se si assume che
l'universalità e necessità logica sono condizionate dalla luce di Dio, per ga-
rantire graniticamente la necessità e l'universalità si proclama che non solo
Iddio è la luce che illumina l'intelletto, ma che Egli s'identifica con l'intel-
letto stesso.
IJno dei caratteri più importanti della dottrina agostiniana della cono-
e l'uomo, in quanto l'unum può peccare e Dio no. Si tratta di un rapporto di somiglianza
condizionato dalla emanazione degradante.
(9) De Div. nat., 769 C.
)10) Carmelo Ottaviano - Metafisica dell'Essere parziale, voi. I., p. 211, nota 1.
N
— 143 —
scema è costituito dall'interiorità . I.a realtà delle idee viene, secondo
Agostino, comunicata direttamente da Dio all'uomo e i sensi hanno un va-
lore puramente occasionale.
Ma occorre notare che tra Agostino e Scoto Eriugena vi sono due
fondamentali differenze: I") Agostino, pur affermando che la verità viene
direttamente comunicata da Dio all'uomo, distingueva l'uomo da Dio:'
Scoto Eriugena, invece, per spiegare l'illumina-
zione di Dio trasforma la luce di Dio nella imma-
gine stessa di Dio che è nel l'uomo. In tal modo
la distinzione tra Dio e l'uomo si assottiglia
fino a scomparire. Infatti non è più Dio trascen-
dente che illumina l'uomo, ma Dio è .presente
nel l' uomo perchè questo è sua immagine. Per-
tanto il punto di attacco del semi panteismo di
Scoto Eriugena è da ricercare nei presupposti
metafisici della sua gnoseologia. Di qui il secondo
punto, condizionato dal primo, che ci immette in quella che, ad avviso di
chi scrive, è la novità del sistema eriugeniano ed è nello stesso tempo LI
centro unificatore delle opposte tendenze del suo pensiero. IT") Mentre il
platonico Agostino manteneva chiaramente distinto l'ordine ideale dell'or-
dine reale. Scoto Eriugena, invece, identifica questi due ordini.
La differenza profonda è data dalla diversa dottrina esemplaristica che
essi sostengono: mentre l'esemplarismo agostiniano identifica le idee eterne
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con Dio e ritiene queste idee come gli archetipi trascendenti la realtà . Scoto
Eriugena. invece, distingue Dio e le cause primordiali come creatore e crea-
ture: però le cause primordiali, pur essendo create, sono in certo senso
coessenziali con Dio, di cui sono la prima partecipazione o degradazione.
Eil ancora, per Agostino, le idee erano distinte ontologicamente dalle cose,
come l'ideale dal reale, e gnoseologicamente come verità di ragione dalle ve-
rità di fatto, per Scoto Eriugena l'ordine ideale s'identifica tont court con
l'ordine reale. I! punto di partenza è dato sempre dallo stesso concetto d'il-
luminazione; non ò più per Scoto Eriugena. come era per Agostino, l'idea
di Dio. e con essa quella delle verità eterne, che è irraggiata per illumina-
zione da Dio stesso, ma l'immagine di Dio che l'uomo porta in sé esprime
una coessenzialità dell'uomo con Dio.
Oltre a questa considerazione, che deriva dal fatto che ogni forma di
ontologismo, in quanto afferma la presenza t1 i Dio nell'anima umana, inevi-
tabilmente conduce al panteismo, vi è anche un'altra considerazione da fare,
sul piano non più del soggetto, ma dell'oggetto. Difatti se, come affermava
Agostino, solo ciò, che è di Dio e da Dio può essere universale e necesserio,
in quanto tutto ciò che è creato è particolare, e, perchè tale, corruttibile,
si avrà che la parte essenziale degli esseri, in quanto universale ed immu-
atbile, sarà divina, epperò incorruttibile. Questa l'evoluzione dall'ontolo-
_ 144 —
gismo di Agostino, che cristianamente proclamava tutto il creato contin-
gente, particolare e mortale, al semipanteismo di Scoto. Non è certo super-
fluo qualche altro chiarimento su questo punto importante della dottrina
eriugeniana.
L'uomo, abbiamo visto è un microcosmo, che ha nel suo pensiero le
essenze di tutta 'la realtà , ed è tale, perchè è fatto ad immagine di Dio.
I/essere fatto ad immagine di Dio, implica una somiglianza, per cui la sua
essenza, pur non essendo Dio stesso, è una manifestazione degradata della
sostanza di Dio. 11 problema dell'illuminazione, pertanto, con tutte le tesi
metafisiche ad esse connesse, è al centro del problema metafisico di Scoto
Eriugena, per il quale l'eternità e la necessità di cui sono fornite le nostre
idee, che esprimono l'essenza del creato, è pari all'eternità e necessità delle
essenze die sono nel pensiero di Dio, e che costituiscono la vera realtà delle
cose. L'idea di Dio, giova ripeterlo, è diventata immagine di Dio e questa
immagine ha un valore metafisico tale da infrangere il limite tra finito e
infinito; l'essenza dell'uomo acquista i caratteri propri di Dio (eternità ,
inconoscibilità , incorruttibilità ), a cui è coessenziale aliquo modo.
Non esita l'Eriugena a riferire all'uomo attributi, che appartengono di
diritto solo a Dio; anche a questo proposito noi veniamo ad avere una con-
ferma del suo semi-panteismo, l'uomo, nella sua essenza è identico-distinto
da Dio. L'uomo è creato, ma come ogni creatura, considerata nel suo vero
essere, è anche coessenziale al Creatore, di cui è una degradazione. Su que-
sta base noi possiamo intendere come l'Eriugena affermi dell'uomo, crea-
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tura, attributi, che competono proprio ed esclusivamente a Dio; egli difatti
così dice a proposito dell'inconoscibilità dell'uomo: « ut enim Deus com-
prehensibilis est dum ex creatura colligitur quia est, et ìncomprehensibilis
est, quia a nullo intellectu humano voi angelico comprehendi potest quid sit,
nec a seipso, quia non est quid, quippe superessentialis: ita humanae menti
hoc solum datur nosse, se esse, quid autem sit, nullo modo ei conceditur;
et quod est mirabilius, et considerantibns seipsos et Deum smim pulchrius,
plus laudatur mens humana in sua ignorantia, quam in sua scientia. Lauda-
bilius namque in ea est se nescire quid sit, quam scire quia est, sicut plus
et convenientius pertinet ad divinae naturae laudem negatio eius quam
affirmatio, et sapientius est ignorare Ulam quam nosse, cuius ignorantia
vera est sapientia, quae melius nesciendo scitur. Apertissime ergo divina
similitudo in humana mente dignoscitur, dum solummodo esse scitur; quid
autem est, nescitur; et ut ita dicam, negatur in ea quid esse, affirmatur
solummodo esse » (i1). E se questi sono gli attributi propri dell'uomo, essi
vengono a trasferirsi all'essenza di tutta la realtà , qualora venga considerata
nel suo valore ontologico. Scoto, difatti, così conclude: « Atqne hinc datur
intelligi, nullius creaturae aliam subsistentiam esse, praeter Ulam rationem,
(11) De Div. nat., IV, 771 B - C.
— 145 —
sccundnm quam in primordialibus causis in Dei Verbo substituta est, ac per
hoc definiri non posse quid sit, quia superat, omnem substantialem defini-
tionem » (12).
Il motivo ispiratore del panteismo eriugeniano è nella sua teoria gno-
seologica, o meglio, nei presupposti metafisici della sua teoria gnoseologica;
egli rappresenta la fine di un'epoca, cioè la conclusione della Patristica.
Infatti, quando dopo il periodo di silenzio dell'alto Medio Evo, si
tornerà a filosofare, si tornerà al Platonismo di Agostino, ma non al Neopla-
tonismo, anzi, occorre considerare che, mentre il Platonismo agostiniano
sarà ripreso da S. Anselmo, non sarà ripreso il soprannaturalismo di Agostino
e per due ragioni: l) perchè il soprannaturalismo di Agostino, come ha visto
l'Ottaviano, assumendo come punto di partenza la fede, era insufficiente
ad opporsi alle religioni nuove, Ebraismo e Maomettanesimo, che penetra-
vano nel mondo occidentale, ed abbisognava, nel suo punto di partenza, di
una dimostrazione. Di qui il carattere apologetico della Scolasitca, che ha
in Anselmo il suo iniziatore (13); 2) Perchè, per intima dialettica, il sopran-
naturali: mo di orientamento platonico sfocia necessariamente nel panteismo:
esorbita dal nostro tema quest'argomento teoretico, ci limitiamo solo a ri-
cordare come il soprannaturalismo platonico, legato alla preesistenza del-
l'anima, integrato dagli elementi di origine orientale, verrà filosoficamente
sviluppato nel monismo di Plotino, il soprannaturalismo di Agostino, che
proclama di origine divina tutto ciò che nella creatura è universale e neces-
sario, nel panteismo dell'Eriugena; il soprannaturalismo di Cartesio nell'on-
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tologismo di Malebranche e, successivamente, nel panteismo di Spinoza; il
soprannaturalismo di Rosmini nell'ontologismo di Gioberti. E ci limitiamo
a questi esempi per non parlare del trascendentalismo di Emanuele Kant,
di orientamento platonico, che avrà il suo sviluppo dialettico nel panlogismo
tli Hegel.
Per questo motivo la filosofia medioevale dopo l'Enriugena imboccherÃ
nuove strade.
Proseguiamo, intanto, nell'analisi espositiva del pensiero di Scoto. Ab-
biamo detto che la sua dottrina del microcosmo pone l'uomo ai centro della
creazione e della Redenzione, abbiamo anche accennato all'uomo centro
della creazione, vediamo ora in che senso per l'Eriugena egli è mediatore
tra il mondo e Dio.
Al riguardo innanzitutto s'impone una necessaria chiarificazione: se
nell'uomo sono le essenze di tutte le cose, la creazione dell'uomo dovrebbe
precedere quella di ogni altro essere, intanto la Scrittura parla dell'uomo
alla fine e non al principio del processo creativo, come è ciò possibile ?
(12) IbUi., 772 B.
(13) l'or la chiara impostazione della differenza tra Patristica e Scolastica rimandiamo
alle opere dell'Ottaviano più volte citate.
— 146 —
L'Eriugena dice che con i primi cinque giorni della creazione, la molti-
plicazione delle cause primordiali nei propri effetti è compiuta, intanto oc-
corre nuovamente riportare la creatura al Creatore; appunto perchè l'uomo
è l'unica creatura la quale, per la sua appartenenza ai due mondi, può ripor-
tare il finito nell'infinito, di lui si parla alla fine della creazione. Per questo
motivo, precisa Scoto, per render cioè chiara la missione cosmica e divina
dell'uomo, di lui la Scrittura parla alla fine del processo creativo; in tal
modo appare chiaro che in lui si unifica la realtà . Perciò l'uomo fu creato
non alla fine, ma al principio di tutto il processo creativo.
Il peccato, poi, non ha tolto a lui la missione a cui era stato desti-
nato: permane per l'umanità il dovere di ricondurre a Dio tutte le cose,
questo ritorno dell'effetto alla causa, del finito nell'infinito, del temporale
all'eterno, esige innanzitutto la reintegrazione allo stato naturale. Tale rein-
tegrazione non è solo una restituzione allo stato primitivo, ma anche, per i
meriti di Cristo, la produzione di una realtà nuova (14).
L'antropologia dell'Eriugena s'inquadra, senza soluzione di continuità ,
nelle premesse della sua ontologia. Come abbiamo cercato di chiarire, la
negazione del corpo, per Scoto, va intesa solo come negazione della mate-
rialità del corpo; egli sostiene che, se il pecccato originale è causa della
corporeità materiale, quale noi nelle attuali condizioni sperimentiamo, an-
che se l'uomo non avesse peccato, ugualmente avrebbe avuto un corpo, in
tal caso spirituale.
A questa soluzione, d'altro canto, egli era costretto da due consi-
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derazioni: 1") una considerazione di carattere filosofico, in base alla
quale, nessun pensatore dell'età classica, di fronte alla realtà massiccia del
mondo esterno, pensò mai di ridurre questa a mero fenomeno soggettivo.
2") una considerazione di carattere teologico, in base alla quale la riduzione
del corpo a mero fenomeno soggettivo avrebbe significato la negazione del
dogma della Incarnazione e conseguentemente della Resurrezione: questa
teoria avrebbe, come si è già detto, restaurato il Docetismo. L'Eriugena,
quindi, mentre da un lato mantiene ferme le premesse del suo sistema, ela-
bora un'originale dottrina del corpo dell'uomo prima e dopo il peccato.
Egli ritiene che il corpo umano, come ogni altro corpo materiale, è conse-
guenza del peccato, esso, anzi, è creato dall'anima, come strumento di cui
(14) Secondo il pensiero dell'Eriugena, Dio tende sempre al bene ed Egli, dopo il
peccato, come meglio vedremo in seguito, non distrugge la natura, che essendo da lui
creata non può subire nessuna distruzione di nessun genere. Essa, dal peccato, viene ad
essere, per così dire, offuscata, nascosta dal sovrapporsi del corpo materiale; l'opera della
grazia, poi, non solo compie una restitutio in integrimi, ma aggiunge anche una realtÃ
nuova: la soprannatura: « Nullo enim pacto Deus destruit, quod in natura creavit, sed
quaedam bona naturalia, quae condidit, in melius eadem convertit, non ut ab eis, quod
lecit, (timi. «-«/ ut eis, quod addere voluit, adjiciat ». De Praedestinatione, Cap. ViII,
386 C - D.
— 147 —
essa si serve nel mondo materiale, tuttavia, anche senza il peccato, l'uomo
avrebbe avuto un corpo.
E' opportuno intanto sintetizzare, sia pur brevemente, la dottrina
di Scoto intorno alla natura umana prima e dopo il peccato. L'uomo prima
del peccato era creato ad immagine di Dio, e, per poter unificare nel suo
essere tutta la realtà , doveva necessariamente unire in sè il mondo corporeo
ed il mondo spirituale: a tal fine egli doveva avere un corpo, non certo
materiale. Questo corpo spirituale fu creato da Dio: esso, immateriale e
perciò semplice ed incorruttibile, apparirà dopo la finale resurrezione, nello
stato attuale dell'uomo, pur offuscato dal corpo empirico e materiale, sovra-
struttura causata dalla colpa, continua a vivere in noi, e sempre immuta-
bilmente; difatti non è soggetto al divenire: « illo semper interiori in suo
stato incommutabiliter manente » (15). A tal proposito Scoto, arriva a dire
che il corpo spirituale ed eterno è la forma universale di tutti gli individui
umani : « Universaliter antem in omnibus corporibus humanis una cademque
forma communis omnium intelligitur, et semper in omnibus incommutabiliter
stat n (16).
Pertanto, mentre il corpo creato da Dio come sua immagine è l'ele-
mento immutabile negli individui, e permane senza subire cambiamenti, nè
corruzione, il corpo sorto dal peccato è, invece, un rivestimento del corpo
primitivo, un involucro esteriore corruttibile, mortale, che subisce aumenti
e diminuizioni (17). Non bisogna, però, credere che nella creatura umana
vi siano due corpi: uno è il corpo, con cui « connaturaliter et consubstantia-
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liter animae compacto homo conficitur » (18); l'altro corpo, quello attuale,
cioè, non è vera realtà , perche è mutabile e corruttibile, epperò, come tutte
le cose mutabili e corruttibili, non può essere dotato di autonomia onto-
logica. Per il corpo dell'uomo, così come per tutta la realtà , il pensiero di
Scoto è quanto mai coerente, ciò che veramente esiste è
uno, la molteplicità non è che apparenza. L'uomo
integrale, che ha in sè principi universali necessari, ricava questa necessitÃ
ed universalità dall'essere, più di ogni altra creatura, simile a Dio, somi-
glianza che implica una comunità ontologica tra Dio e l'uomo. La creatura
(15) De Div. nat., IV, 802 B.
(16) limi.. 801 C.
(17) « Nam innumerabiles differentiae, quae eidem formae accidunt, non ex ratione
primae conditionis, sed ex qualitatibus corruptibilium seminum contigunt. Ipsa-igitur for-
ma spiritualia spirituale corpus est, in prima conditione hominis factum: quod autem ex
materia, hoc est ex qualitatibus et quantitatibus quattuor elementorum mundi sensibilis cum
ipsa forma qualitative, de qua in prioribus libris disputavimus, quoniam et augeri et
minui patiuntur ad compositionem superadiecti ac veluti superflui corporis pertinere non
dubium est ». Unti.. 801 D - 802 A. Ogni distinzione dalla primitiva unità è quindi dovuta
al peccato.
(18) Ibid., 803 A.
— 148 —
umana quale fu creata da Dio nel paradiso con la sua anima, immagine
della Trinità , e col suo corpo incorruttibile, aveva ricevuto una missione
sacra: riportare a Dio tutta la realtà .
Ma l'uomo, continua Scoto spiegando il testo sacro, non ha voluto
adempiere questa sua missione cosmica ed umana, egli, invece di compiere
il disegno divino, si è ribellato agli ordini di Dio, e, col suo peccato, ha
prodotto una profonda lacerazione. L'uomo, dice Scoto, nel paradiso era
come gli Angeli, non aveva sesso, si sarebbe moltiplicato spiritualmente,
mentre nello stato attuale del peccato la sua moltiplicazione è assoggettata
alla riproduzione materiale come i bruti (19). Il peccato è stato causa di
una frattura nell'uomo per cui dalla semplicità della sua primitiva natura
egli si è sdoppiato nei due sessi, che non sono dalla natura, ma dal peccato.
Anche nella divisione dei sessi Dio mostrò la sua bontà , così, sia pur in
maniera inadeguata alla primigenia natura, con la creazione della donna,
alla specie umana è garantita la continuità : se Dio avesse voluto punire
l'uomo peccatore, avrebbe dovuto annientarlo.
Col peccato l'uomo precipitò se stesso nell'abisso e con lui tutte
le creature furono allontanate da Dio: create nell'uomo esse partecipano
alla sua caduta. Ma Dio, con sua grande condiscendenza e bontà , fece assu-
mere al suo Verbo forma umana perchè potesse reintegrare l'ordine violato;
anche in questa nuova condizione l'uomo è al centro della realtà di cui
parleremo nel prossimo capitolo.
Del peccato l'Eriugena da tutta una spiegazione personale, che non è
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certo esente da errori teologici. Per Scoto, Adamo non è mai stato nel
Paradiso terrestre: « Argumenta mitem non desunt, quibus approbnri potest
aut brevissimo ant nullo temporis intervallo ante peccatimi vixisse » (20);
tutto ciò che la Scrittura dice, circa la permanenza di Adamo nell'Eden,
deve riferirsi, non ad un periodo veramente trascorso, ma alle condizioni
della futura felicità , con cui saranno premiati gli eletti. Invero, commenta
Scoto, se l'uomo fosse vissuto, sia pur brevemente nel paradiso, avrebbe
raggiunto la felicità piena e avrebbe mangiato dell'albero della vita, che
avrebbe assicurato a lui ed ai suoi discendenti il possesso della vita eterna:
l'albero della vita, impropriamente avrebbe tale nome, se procurasse solo
una temporanea e non una eterna felicità .
Ancora un'altra ragione è addotta da Scoto con questa considera-
zione; il testo sacro chiama il diavolo omicida, anzi precisa: « Ille homicida
(19) Ibid., 899 B. Lo stesso principio della duplicità dei sessi, come conseguenza del
peccato, è ripetuto nelle altre opere. Nel commento all'Evangelo secondo Giovanni, Scoto
dice così : « Divisio quippe naturae in duplicem sexum virilem dico et femineum, et ex
ipsis humanae processionis et numerositatis per corruptionem generatio, poena generalis
peccati est, quo tinnii totum genus humanum praevaricatum est mandatum Dei in para-
diso ». Comment. in Evang. sec. Joan., 310 D.
(20) De Div. nat., IV, 810 C.
— 149 —
erat ab initio », ma se il diavolo era omicida dall'inizio, tale era dall'inizio
in cui fu creato sia lui che l'uomo; epperò, se, sin dall'inizio della sua e
dell'umana creazione, egli fu omicida, non rimane più alcuno intervallo
di tempo in cui l'uomo abbia potuto vivere nel paradiso terrestre. L'uomo
non fu nei paradiso, nè fu creato in uno stato di innocenza. Il racconto
biblico, secondo l'Eriugena, va interpretato tenendo presente che Dio è nel-
l'eternità e non nel tempo, e che, quando si parla del prima e del poi,
secondo il linguaggio umano, questa successione non ha significato alcuno
per tutta la realtà , che trascende l'essere effettuale delle creature. Perciò i
vari momenti, con cui viene descritta la creazione, si riducono ad un atto
simultaneo ed il peccato, in realtà , si riduce alla previsione che Dio ebbe
del peccato.
La creazione della donna è, a dire di Scoto Eriugena, anteriore al
peccato: Dio difatti,previde che l'uomo avrebbe peccato e volle assicurargli,
nello stato decaduto, la possibilità di moltiplicarsi. L'Eriugena, con queste
argomentazioni, esclude che l'uomo in un solo momento sia vissuto nello
stato d'innocenza, questa condizione appartiene all'essenza dell'uomo, pri-
ma che essa si manifesti nella molteplicità degli effetti; esso è uno stato idea-
le, pur realissimo, di quella realtà autentica, che hanno le cause primor-
diali, ma che come realtà effettuale non è mai esistita. Lo stato attuale del-
l'uomo, con tutte le deficienze e le manchevolezze proprie dell'uomo ani-
male, è l'unico che nel mondo creato sia esistito; questo stato è una conse-
guenza del peccato, che l'uomo, nel l'intenzione, commise e che
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Dio previde: « Haec autem consequentia peccati propter peccatimi, priu-
squam fieret peccatimi, ab eo, cuius praescientia non fallitur, in nomine et
cum nomine velati extra hominem ac superadtlita » (21). Ciò premesso, Scoto
conclude che all'uomo, e non a Dio, è da imputare il peccato con tutte le
sue conseguenze; egli concisamente dice: « consequentia peccati praeeessit
peccatimi in homine, quoniam et ipsum peccatimi praeeessit seipsum in
eodem homine » (22). La cattiva volontà dell'uomo, il peccato occulto, pre-
cedette il gusto del frutto proibito, la manifestazione del peccato (23).
Con la dottrina del peccato originale si pone il problema dell'origine del
male, problema che nel pensiero dell'Eriugena acquista un significato parti-
colare: difatti in questa teoria noi vediamo chiaramente la conseguenza del-
l'ambiguità della sua metafisica. Scoto su sfondo monistico neoplatonico ha
tentato innestare il Cristianesimo, e neoplatonicamente ha proclamato che
la vera realtà delle cose è nella unità della causa primordiale. A proposito
(21) lbid., 807 C - D.
(22) lbid., 808 B.
(23) lbid., 808 C. L'Eriugena al riguardo cobi chiaramente afferma: « Ac per hoc
datur i nieIli pi, hominem peccato nunquam caruisse: sicut nunquam intelligitur abaque
mutabili voluntate substitisse ».
del male egli sempre sostiene che questo non ha sede nella sostanza, ma nel-
l'accidente: porre infatti il male nella sostanza significa senz'altro porlo in
Dio, essendo la sostanza coessenziale a Dio; a proposito del peccato origi-
nale il problema esige una soluzione più esplicita.
Noi abbiamo già visto come, secondo i principi dell'antropologia di Scoto
Eriugena, l'uomo, considerato nella sua realtà concreta, è stato creato
ab origine nella condizione decaduta, quindi lo stato di assoluta perfezione
si sposta ad uno stato anteriore alla creazione, si sposta cioè all'esistenza che
aveva l'uomo quando era nelle cause primordiali. Scoto difatti del paradiso
terrestre tenta una spiegazione simbolica, o, come egli dice, spirituale. Non
per questo il problema diventa meno pressante: se difatti l'uomo peccò con
la sua volontà prima ancora che apparisse nel creato, come è possibile che
nella sua essenza spirituale, immutabile e perfetta, dotata cioè degli stessi
attributi della sopraessenza di Dio, l'uomo abbia potuto peccare ? La vo-
lontà peccaminosa dell'uomo si trasferisce, eo ipso, in Dio; d'altronde, negare
il peccato originale, significa negare tutta la Rivelazione. Vediamo in che
modo Scoto cerca di salvare le due esigenze, quella della divinità dell'es-
senza (Neoplatonismo), e quella opposta della creatura, che, per la sua
indigenza, è soggetta al peccato. A proposito di questo problema si limita ad
affermare che altro è il male, altra la causa del male; egli afferma che la
causa del male è la volontà , ma questa volontà « ad eligendum bonimi data
seipsam servilem fecit ad sequendum malum » (24). Non ha senso, per Scoto,
attribuire al serpente la causa del peccato, questo è nell'interiorità dell'uo-
mo, che certamente avrebbe respinto la tentazione, se, con la sua volontà ,
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non avesse inclinato al male, volgendosi all'adorazione di se stesso, invece
che di Dio.
La tentazione può influire sull'uomo solo quando questo si pone in
condizione di peccare, ma se l'uomo non volesse peccare, la tentazione non
avrebbe efficacia su lui. La dottrina, per l'Eriugena, trova una conferma
nella parabola del Vangelo, che racconta come un uomo cadesse nelle mani
dei ladroni mentre si recava da Gerusalemme a Gerico. Questa parabola dice
simbolicamente che se l'uomo fosse rimasto a Gerusalemme, se cioè non si
fosse fatto trascinare dall'orgoglio e dalle passioni, non sarebbe caduto nel-
l'abisso del peccato: all'origine del peccato quindi vi è il cattivo uso che
l'uomo fa della libertà , che in se stessa è un bene.
Certamente Scoto ha il concetto cristiano della libertà ; sotto
questo aspetto l'alto Medio Evo, nel ferreo secolo IX, ci ha lasciato un do-
cumento altissimo del valore dell'uomo celebrato alla luce della nuova intui-
zione cristiana. I capitoli quinto, sesto e settimo del De Praedestinatione,
oltre a quelli che si trovano e sono moltissimi nel De Divisione costituiscono
un autentico inno alla libertà dell'uomo. Scoto nel De Praedestinatione fa
(24) lbkl., 808 C.
— 151 —
uu largo Uso del De Lìbero arbitrio di Agostino e, senz'altro, afferma che
l'umana natura non solo è volontà , ma è volontà libera, e come tale non
può essere assolutamente costretta, neanche da Dio, a compiere il bene o il
male, la grazia non è necessitante, e se l'uomo vive bene è perchè egli lo
vuole con la sua volontà « cooperante divina gratia » (25). Dio ha dato al-
l'uomo il libero arbitrio, ed, essendo questo un dono di Dio, non può essere
certamente causa di male. Al primo uomo, continua Scoto, Dio dette il libe-
ro arbitrio lasciandogli la possibilità di scegliere tra il bene e il male, e se
l'uomo scelse il male, ciò è dovuto ad un abuso di libertà : perciò « conclu-
iliInr omnis malefacti occasio, poenaque eius omnis, in propria hominis
voluntate » (26).
Tale dottrina della libertà umana, riferita all'uomo creatura di
Dio, rientra pienamente nell'ambito della visione cristiana; quando però si
cerca di spiegare la causa del peccato originale, che, secondo l'interpreta-
zione data dall'Eriugena, è compiuto dall'uomo in quanto essenza, che vive
nel Verbo di Dio e che è, in certo senso, coessenziale a Dio, rimane assoluta-
mente inspiegata. Affermare la volontà di peccare nell'essenza dell'uomo,
logicamente dovrebbe portare Scoto ad affermarla nello stesso Dio.
L'uomo è immagine di Dio e ha caratteri comuni con Dio: come Dio è
in tutte le creature, sicchè la sua bontà è tutta in tutte le cose e tutta in cia-
scuna, così l'uomo, considerato nella purezza del suo essere, indipenden-
temente dal peccato, è in tutti gli individui singoli smembrati nello spazio
e nel tempo. A questo proposito Scoto porta un paragone tra l'uomo e Dio,
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paragone, che, per la sua importanza, giova riportare integralmente: « i.i
quemadmodum divina bonitas in omnibus partecipantibus se tota est, et
nullius malitia, seu stultitia, seu ignorantia prohibetur penetrare universita-
tem ab ea conditam; ita humanitas in omnes homines diffunditur, et tota in
omnibus est, et tota in singulis, sive boni sint sive mali. Nullius enim
stultitia repellitur, nullius malitia detinetur, nullius vitio corrumpitur, sordi-
busve polluitnr, pura in omnibus, in superbis non inflatur, in pusillanimis
non tabescit, in maioribus corporìbus non est maior, neque in minoribus
minor, aequalis in omnibus, aequaliter in suos participes proveniens, melior
in bonis non est quam in malis, neque deterior in malis quam in bonis, in
integris corporibus non est integrior, quam in his quae occasione aliqua
integritatem suam aut perdimt aut non attingtmt » (27).
( 25) n Non ergo ullo modo concedendum, ulìquum cuusum compulsiitivum, sive bimam,
sive maIimi, praecedere voluntutem hominis, seu alierius rationuIis naturae, ne ab ea
merinmi sune libertatis auferatur, sive bonum, si bene vixerit cooperante divina gratili,
sive moIimi. si male vixerit suo motu irrationabili perversoque ». De Proedestinatione,
cap. V, 377 B.
(26) Ibid., cap. VI, 381 A.
(27» De Div. mi/., V, 942, C - D.
— 152 —
Ed allora, se nella sostanza umana non può, perchè immagine di Dio,
esservi nessun peccato, onde e come è avvenuto il peccato originale ?
Donde l'origine del male ? Abbiamo detto, e ripetuto più e più
volte, che l'uomo è immagine di Dio, immagine, che, per il processo di
causalità efficiente, da Scoto ridotto a causalità immanente, implica in essa
la presenza ontologica di Dio; ora come è possibile che in questa immagine
s'impianti il peccato, da che cosa ha origine la volontà di peccare, che è la
vera causa del peccato '{ Esplicitamente l'Eriugena avverte che il problema
non si può impostare nel senso che l'uomo, dopo aver perduto l'immagine
di Dio, abbia potuto peccare. Questa asserzione sposterebbe il problema
senza però risolverlo; difatti, in tale ipotesi, rimarrebbe sempre da spiegare
in che modo l'uomo ha potuto perdere l'immagine di Dio, il che infine si-
gnificherebbe riproporre il problema; in che modo l'uomo, che è imma-
gine di Dio, ha potuto peccare (28).
La soluzione equivoca che sostiene Scoto circa questo problema è
una soluzione insoddisfacente, ma è in pieno accordo con le premesse
metafisiche del sistema: egli è contrario alla divinizzazione del ma-
le, che rappresenterebbe la soluzione logica, anzi l'esclude con tutta ener-
gia. La causa del peccato, egli dice, non può essere nella natura, perchè se
fosse nella natura, questa non sarebbe più simile a Dio. Infatti come in
Dio non vi può essere peccato, cosi non si può essere neanche nella natura
fatta a sua immagine e somiglianza (29).
Ed allora l'Eriugena, confondendo la causa metafisica, con la causa mo-
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rale del male, scavalca il problema senza peraltro risolverlo. Egli nega che
del male possa darsi una causa vera e propria, perchè il male è non essere, e
del non essere non vi è causa; possiamo dire che del male sia causa la vo-
lontà , ma, trattandosi del primo uomo, che è poi l'essenza dell'uomo, dob-
biamo intendere quest'affermazione con molte riserve. Dobbiamo cioè esclu-
dere che vi sia una volontà malvagia accanto ad una volontà buona, dobbia-
mo inoltre precisare, ripete Scoto, che non nel libero arbitrio in quanto
tale, ha sede la volontà di peccare, ma nell'abuso che l'uomo fa di esso.
iNon può la causa del male essere, sic et simpliciter, nel libero arbi-
trio, per lo stesso motivo per cui non può essere nella natura, perchè in que-
sto caso l'origine del malesi sposterebbe in Dio. E' d'uopo quindi conclu-
dere che « Quo in loco nihil aliud verisimilius occurit, in quo causa irratia-
nabilis motus intelligamr, praeter naturalibus bonis abusionem divinis legi-
(28.) Ibid., 974 B.
)29) « Natura siquidem ad imaginem Dei facta non omnino principali exemplo suo
similis est, si causam peccandi in seipsam recipit. Ut enim principale exemplum nulliiu.
peccati vel malitiae causa subsistit, ita et natura ad imaginem et similitudinem eius facta ».
De Dlv. nat., V, 974 B.
— 153 —
bus prohibitam, quod proprium est perversae et illicitae cupiditatis
uniuscuiusque liberi arbitrii, bono male utentis » (30).
Scoto, perciò, risolve il problema in senso cristiano, affermando che il
male è un abuso di libero arbitrio: certo con le sue premesse metafisiche
questa soluzione non è, a rigore, possibile, perchè rimane sempre aperto il
problema in che modo l'immagine di Dio possa usare male della
libertà .
Nel Platonismo di Agostino la risposta a quest'ultima esigenza era radi-
cata nella contingenza delle creature, nel semipanteismo di Scoto, in cui,
come in ogni monismo, la creatura è coessenziale a Dio la risposta rimane
equivoca, come equivoca è, a nostro sommesso avviso, tutta la sua metafisica.
La sua sincera fede cristiana mantiene lontano
Scoto dalla conseguenza panteistica di ripor-
tare il male in Dio, le premesse semipanteisti-
che del suo sistema lasciano ingiustificato il
problema del l'origine prima del male. Ogni qual-
volta il problema si presenta, Scoto lo risolve nel senso anzidetto, negando
cioè che il male sia una realtà , che abbia una causa metafisica.
Quando da una una spiegazione allegorica del paradiso ed afferma che la
piantagione nel paradiso dei due alberi deve interpretarsi come la presenza
nell'uomo del sommo bene, di Cristo cioè, e rlel male, non trova alcuna
spiegazione di questo male presente nella natura umana. Egli si limita a
ripetere che il male non è realtà « neque ex certa causa et naturali proce-
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dit », ed è solo da attribuirsi ad un moto della natura irrazionale, che ha
sede nella parte sensibile dell'uomo (31). Invero, essendo i sensi soggetti ad
errore, l'errata valutazione da, come equivalente pratico, il peccato. Ma
se questa spiegazione intellettualistica non è esente da pericoli, perchè essa
può menomare la libertà , da Scoto tanto celebrata, quando è poi chiamata
in causa per render ragione del peccato originale diventa assolutamente
insufficiente, poichè, nello stato di perfezione in cui l'uomo si trova prima
della caduta, è impossibile supporre, come Scoto stesso reiteratamente dice,
una conoscenza errala, anche se trattasi di conoscenza sensibile.
Vedremo le stesse oscillazioni, le stesse incertezze e le stesse conclusioni
poco chiare a proposito della dottrina della resurrezione finale, in cui Scoto
cercherà di conciliare tesi contrastanti (32).
(30) Ibid., 975 B.
(31) De Div. nat., IV, 826 B. In seguito l'Eriugena cobi conclude: « Non ergo in
natura humana plantatum est malum, sed in perverso et irrationabili motu rationabilis
liberaeque voluntatis est constitutum. Qui motus non intra naturam, sed extra et ex
bestiali intemperatia sumptus perspicitur, miscetur tumen bono ac tingitur antiqui hostis
Consilio et antutia, ad decipiendos carnalium sensuum libidinosos affectus, ac per hoc
morte perimendos ». Ibid., 828 D - 829 A.
(32) A proposito della spiegazione dell'orìgine del male il Dal Pra, muovendo da
— 154 —
Abbiamo detto che l'Eriugena svolge il suo pensiero come commento
al testo biblico, ed abbiamo anche detto che egli, avendo negato lo stato
d'innocenza di Adamo, sostiene un'interpretazione allegorica del Paradiso:
riteniamo opportuno riportare brevemente questo racconto simbolico, per-
chè in esso troveremo espressi, in forma sensibile, quei concetti della sua
filosofia, ai quali ci siamo richiamati.
Tra i Padri latini e greci che parlano del paradiso, Scoto preferisce l'auto-
rità di questi ultimi, i quali hanno sostenuto il significato soltanto spirituale
dell'Eden; i Padri latini, invece, accanto al significato spirituale, hanno
mantenuto anche il significato letterale affermando l'esistenza reale del pa-
radiso terrestre. Scoto, che ha negato l'esistenza reale del paradiso, prefe-
risce appellarsi ai Padri greci ed in particolare a Gregorio di Nissa e ad
Origene. Accettando l'autorità di quest'ultimo, egli dice che il paradiso sim-
boleggia l'uomo quale sarebbe stato creato nello stato di perfezione e di
beatitudine conferitegli dalla rassomiglianza divina; la terra fertile del pa-
radiso rappresenta il corpo dell'uomo prima del peccato, corpo in sè immor-
tale. A questo proposito l'Eriugena ha un accenno poco chiaro, perchè,
mentre dice che il corpo originale dell'uomo era immortale per possibilità ,
poi aggiunge che questo corpo è in se immortale per essenza, e sembra mo-
rire perchè è il corpo sovrapposto che muore (33). Strana e contraddittoria
altre esigenze, arriva alla stessa conclusione; egli così scrive: « Tuttavia resta sempre inso-
luta la questione dell'origine prima del male, del come sia dato all'animo di usare bene
o nude dei doni divini. A questo proposito Scoto si rifiuta esplicitamente di dare una
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risposta. Il male è « incausale », nè si può pertanto sapere donde venga: lo stesso si deve
ripetere anche per l'abuso dei doni divini, che non deriva da alcuna causa naturale ;
ed incausale ed insostunziale è tutto ciò che non fu fatto da Dio. In conclusione, Scoto
afferma, che il male non è inserito nelIa natura umana, ma nel movimento irragionevole
di essa: e questo non è nella natura, ma « extra naturam ». Non solo dunque non esiste
il male, inteso come risultato del libero arbitrio; ma esso non esiste nemmeno come quel
male che rende accessibile al maIe la stessa volontà ». Op. cit., II* ed., pp. 219-20. Non
siamo, in verità , d'accordo con l'A. per quanto riguarda quest'ultima conclusione: il male
per Scoto esiste, salvo die non è da natura, ma extra naturam, in quanto se fosse da natura
sarebbe da Dio. Ci sembra die l'unica spiegazione possibile di questa dottrina sia da
ritrovare nei presupposti metafisici. A proposito di questa dottrina V. anche il cap. XVI
del De Praedesinatione, 417-425. Nel quinto libro del De Divisione questo problema ritor-
na con particolare insistenza; significativo, Ira i moltissimi, die potrebbero essere citati,
questo passo : « Et si libera voluntas rationabili et intelligibili creaturae non ideo concessa
sit., ut per eam peccar et, sed ut per eam pulchre et rationabiliter Conditori suo inservirei,
tamen in suis licet veluti captiva irrationabilibus motibus ad illicita attracta sit, non inde
nudimi nascitur, sed aliquod corrigendum divina iustitia et revocandum divina misericordia,
si correctionibus suis et emendationibus liberae voluntatis arbitrium fuerit obediens;
sin vero contumax superbiaque inflatum in suis perversis motibus perseverare voluerit,
eius libidinosus retinebitur, ne, quod illicite appetit, apprehendat ». De Div. nat., V,
966 D - 967 A.
(33) o Cuius terra fertìlis erat corpus essentiale, immortale per possibilitatem. Natu-
rale quippe corpus mori dicitur, quia superadditus commori videtur, dum sit semper
"^
— 155 —
teoria, che, a nostro avviso, può spiegarsi col duplice motivo che è alla hase
del sistema dell'Eriugena : il neoplatonico, cioè, ed il cristiano.
I due alberi del paradiso, simbolo della natura umana, rappresentano
l'uno lo stesso Cristo, principio del bene, l'altro invece il principio del
male. Cristo nella natura umana rappresenta il principio della creazione,
vero principio della nostra vita, il Salvatore, che, assumendo la nostra na-
tura, la riportò al suo primo stato (34). I due alberi continua l'Eriugena
significano appunto l'uomo integrale, nella cui interiorità abita Dio, ma che
ha in sè, dopo la caduta, anche « universitas tot in s mali » (35). Intorno alla
allegoria di questi due alberi l'Eriugena si sofferma a lungo. Egli mostra la
importanza che ha l'albero della vita, cioè Cristo, per l'uomo e per la storia
umana, intorno a lui difatti si muove tutta la Scrittura, il vecchio e il nuovo
Testamento. L'albero, invece, della scienza del bene e del male rappresenta
la gamma della passionalità , che sotto apparenza del bene induce l'uomo al
male.
E ancora per l'Eriugena l'uomo è simbolo dello spirito, la donna della
sensibilità ; il sonno di Adamo rappresenta l'abbandono della contempla-
zione delle cose eterne e la tensione verso i sensi e le passioni e, commenta
Scoto, per avvalorare la sua tesi, si era addormentato, perchè aveva ceduto
alla passione ed al peccato. La creazione della donna fu, secondo Scoto,
voluta da Dio onde garantire la continuità della specie, che, nello stato
d'innocenza, sarebbe avvenuta in maniera dei tutto spirituale.
Ma la creazione della donna ha un significato più profondo: essa rap-
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presenta pure la istituzione della chiesa, creata da Cristo (36).
La vergogna di Adamo ed Eva, quando si accorsero della loro nu-
dità , vuol significare la coscienza, per cui furono consapevoli di aver per-
duto le virtù di cui Dio li aveva ornati. Scoto continua l'analisi simbolica
di tutto il racconto biblico, sottolineando sempre che il peccato ebbe per
origine la volontà dell'uomo e non la tentazione: la tentazione potette in-
durre l'uomo al peccato, poichè già vi aveva interiormente aderito; il ser-
pente, che tentò la donna, ìappresenta allegoricamente la passione che
vive nel suo cuore.
Infine, a conclusione, possiamo ribadire con l'Eriugena che tutto il rac-
conto della caduta dell'uomo deve essere inteso in senso ideale,
immortale in se: quippe referiur, quod sibi suiteradiectum patitur, hoc est. posse mori,
posse non mori ». De Dir. nat.. IV, 822 li.
(34) Ibid.. 823 A - C. In verità il mistero dcila Incarnazione ha, nel pensiero Hi Scoto,
una soluzione ed impostazione del tutto ortodossa: tutto l'insieme della sua dottrina è
d'accordo con la tradizione e con la dottrina ufficiale cattolica.
(35) Ibid., 824 B.
(36) « Plus tumen Christi et Ecclesiae mysterium prophetice praefiguratum intelli-
gendum esse arbitrar ». Ibid.. 836 B.
— 156 —
perchè l'uomo giammai è stato nel paradiso terrestre. Non è esistito
l'Eden, esso rappresenta la natura umana nell'integrale ed essenziale suo
essere, quale sarebbe stata se non avesse peccato usando male del dono della
libertà , quale certamente sarà se l'uomo, aderendo alla grazia, saprà unifi-
care sè e l'intero creato nella ineffabile semplicità dell'essenza, riportando a
Dio la molteplicità delle esistenze smembrate e lacerate nello spazio e nel
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tempo.
Capttolo IX.
L'UOMO AL CENTRO DELLA REDENZIONE
ED IL RITORNO DI TUTTE LE COSE IN DIO
Nell'allegoria che Scoto Eriugena espone, commentando il racconto bi-
blico, vi sono due punti su cui noi dobbiamo fermare la nostra attenzione.
Il primo punto è costituito dalla maledizione di Dio: Dio non maledice
l'uomo e la donna, ma solo il serpente. Dio, infatti non può maledire le sue
creature, che sono da lui create, e perciò maledice solo il serpente, simbolo
appunto della perversa passione, non creata da lui (1). Il piacere carnale
non è dalla natura, ma è qualcosa che sorge nell'anima dalla irrazionale
passione, epperò cade fuori dalla natura e dall'opera di Dio. Il secondo
punto da tener presente è la nuova missione che incombe all'uomo dopo il
peccato. L'uomo porta in sè nascosta la sua primitiva natura, offuscata dal
corpo peccaminoso: egli rimane libero, ma non può compiere la funzione
di mediatore tra i due mondi della materia e dello spirito.
Quest'altissima missione, che il primo Adamo, rendendosi schiavo dei
sensi, non ha voluto adempiere, sarà invece compiuta dal secondo Adamo :
da Cristo. Il Verbo assumerà la natura umana e la restituirà allo stato primi-
fi) De Div. nat., IV, 848 C. Questo principio della sostanza, che non può peccare e
non può essere punita da Dio, è alla base di tutto il pensiero di Scoto Eriugena. Ritorna
insistentemente nel De Praedestinatione, in cui vi è un intero capitolo dedicato a questa
questione, il capitolo XVI, che ha per titolo : « De eo quod nulla natura naturam punit ;
et nihil alimi esse poenas peccatorum, nisi peccata eorum », ove, si noti per incidens,
il problema, come risulta dal titolo, viene dimostrato in base all'affermazione che nessuna
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natura può punire un'altra natura. Quest'affermazione suppone la comunanza, sia pure
parziale, della natura creatrice e creita, comunanza che implica un'unità le cui divisioni,
come saranno poi prospettate nell'opera della maturità , tendono a scomparire unificate nel
concetto logico-ontologico dell'ousia. A proposito della sostanza che non può peccare, e
che non può essere punita, l'Eriugena così si esprime: « Proinde in nullo natura punitur,
quia ex Deo est, et non peccati). (De Praedestinatione, cap. XVI, 420 A); e, più sotto,
« Omne peccatum, quia malum est, vitium boni est: omne vitium boni ex bona non est:
omne peccatum, quia malum est ex bono esse non potest ». Ibid., 421 A.
— 158 —
tivo, aggiungendo ad essa i doni della grazia (2). Per Cristo e in Cristo non
solo l'uomo, ma con l'uomo tutta la realtà , sarà riscattata dal male. L'uomo,
pertanto, in seguito all'Incarnazione, con l'aiuto della grazia, potrà conti-
nuare la sua missione, potrà essere nuovamente il mediatore tra il mondo
sensibile e il mondo intellegibile, perchè la sua redenzione dalla schiavitù
del peccato, sarà la redenzione di tutto il creato, che, in essenza, è in lui.
Perciò, avendo Cristo assunta e salvata la natura umana, con essa ed in essa
è assunta e salvata ogni altra creatura (3).
Soffermiamoci sul primo punto, sulla maledizione che da Dio è sca-
gliata solo sull'illecita passione, ma non sulla creatura, che da lui è fatta.
Per poter spiegare adeguatamente il senso riposto di quest'affermazione di
Scoto, occorre che noi ci rifacciamo indietro col discorso e riprendiamo il
concetto di essenza e sostanza. A proposito di queste nozioni nel pensiero
eriugeniano, noi abbiamo mostrato che l'essere sostanziale delle creature è
costituito dall'essenza unica, immutabile, creata ed eterna, inconoscibile
nella sua realtà ontologica. I caratteri dell'essenza sono in certo senso i carat-
teri della divinità , essa è quindi una realtà consustanziale a Dio: dobbiamo
dire una realtà , in certo senso coessenziale, perchè di Dio è sempre una
degradazione, che in Dio ha la sua ragione d'essere, mentre Dio è senza
principio, ed ha soltanto in sé e da sè la sua ragione. Abbiamo visto che, in
base a questa considerazione, conseguenza del ripensamento del Neoplato-
nismo alla luce della Rivelazione cristiana, la filosofia di Scoto Eriugena
viene ad acquistare in tutte le sue opere, ed in tutte le manifestazioni del
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suo pensiero, una linea unitaria in cui si possono intendere le affermazioni
teistiche e le affermazioni panteistiche. Dio trascende la realtà individuale,
che è un mero accidente, s'identifica, aliquo modo, invece, con la realtÃ
essenziale che è substantia sui, pur essendo a so inferiore. Questo concetto
che è, alla base descensus delle cose da Dio, è anche alla base dtAVascensiis
di tutta la realtà in Dio. Su questa base metafisica la concezione di Origene
intorno alla pena acquista un nuovo significato nella filosofia di Scoto Eriu-
gena.
Se noi ci portiamo difatti ad indagare il motivo profondo per cui Dio
non maledice la sua creatura, troviamo in esso la medesima ragione che ab-
biamo trovato nel problema dell'origine del male. La sostanza della crea-
(2) De dii: nat.. V, 910-913. I commenti dell'Eriugena al Vangelo di San Gio-
vanni illuminano, con maggiore chiarezza, la dottrina cristologica, profondamente orto-
dossa, di Scoto Eriugena, cfr. le coli. 30910 del Commento dell'Evangelo secondo
Giovanni.
(3) « Non dico in omnibus hominibus solummodo, sed in omni sensibili creatura,
ìpsum siquidem Dei V'erbum. quando accepit humanam naturam, nullam creatam substan-
tiam praetermisit, quam in ea non acceperit. Accipiens igitur humanam naturam omnem
creaturam accepit. Ac per hoc si humanam naturam, quam accepit, salvavit et restauravit,
omnem profecto creaturam visibilem et invisibilem restauravit ». De Div. nat., V, 912 B - C.
— 159 —
tura non è maledetta per Io stesso motivo per cui da essa non può promanare
il male. Scoto ha ripetuto con insistenza clio il libero urbitrio è un bene e
che i moti irrazionali, che sono nella volontà , non dipendono dalla natura.
La natura per lui è divina, non perchè creata da Dio, ma perchè identica
a Dio, nel suo autentico ed essenziale essere, il monismo eriugeniano è
sempre un monismo religioso che assorbe la natura, in Dio e non un moni-
smo naturalistico che naturalizza Dio: è Neoplatonismo non Averroismo.
Ora se la natura s'identifica con Dio. e chiaro che non si risolve l'ori-
gine del male, salvo dal non riporlo in Dio, ed inoltre, per la stessa ragione,
la natura non può certo da Dio esser maledetta. Se Dio maledisse la natura,
maledirebbe l'essenza della natura, che è ab aeterno nel suo Verbo, e che è
una parte del suo essere, quindi maledirebbe se stesso. Scoto non potrebbe
essere al riguardo più chiaro: il punto che a lui interessa, è salvare la so-
stanza da ogni peccato, da ogni maledizione, e da ogni pena, come fra poco
vedremo.
Il peccato, per l'Eriugena, non apporta una menomazione nella sostanza,
perchè questa è incorruttibile: « Non enìm homo naturam snam perdidit,
quae quoniam ad imaginem et similitudinem Dei facta est, necessario incor-
ruptibilis » (4); l'uomo perde solo quella felicità , che egli avrebbe otte-
nuta se fosse stato obbediente a Dio. E l'incorruttibilità della natura, che
non perde il suo naturale vigore (5), deriva dal fatto che essa è immagine di
Dio, e Dio non volle dannare la. sua immagine (6). Se quindi l'umana natura
non è, nè può essere condannata, noi, dice Scoto, dobbiamo fermamente
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ritenere, per fede e per ragione, che essa tornerà nel Verbo, in cui e creata
ed in cui sussiste.
Cerchiamo allora di seguire fedelmente Scoto in questa dottrina del
ritorno, dottrina, a suo dire, irta di difficoltà , che per essere superate, richie-
dono un particolare soccorso di Dio. Il cammino è aspro, comunque, dice
l'Eriugena, occorre tentare, con l'aiuto della grazia, e cercare la verità con
tutta l'anima, anche se essa richiede grandi sforzi.
Scoto innanzitutto costata che tutta la realtà è animata da un moto
circolare, per cui tutte le cose in movimento tornano al punto da cui son
partite. Questo ritmo meraviglioso vige in tutta la natura, tutte le cose ten-
dono a ritornare alla loro origine: « Finis enim totius motus est principìum;
non enim alio fine ter mina tur, nisi a suo principio, a quo incipit movevi, et
ad quod redire semper appetìt, ut in eo desinat atque quiescat » (7).
Principio e fine sono aspetti di un unico processo e i Greci indicano
l'uno e l'altro con un unico termine, xÉXo{. E si badi che anche nel-
(4) Ibid., 863 B.
(5) Ibid., 872 A.
(6) Ibid., 864 B.
(71 Ibid., 866 C.
— 160 —
l'uomo, precisa l'Eriugena, noi riscontriamo questa naturale e necessaria
aspirazione di ritornare al principio dal quale ha avuto origine. Il desi-
derio naturale, che egli ha di essere felice, esprime questa legge, poichè solo
col ritorno a Dio l'uomo può raggiungere quella felicità il cui bisogno è
immanente nelle radici del suo essere. Ed infine non solo nelle creature
naturali vige questa legge, ma anche nelle produzioni del nostro pensiero :
la dialettica e l'aritmetica, che riproducono il ritmo della realtà , e che hanno,
per tal ragione, un valore ontologico, nel loro moto sono dominate dallo
stesso principio. La dialettica infatti ha come principio e come fine Vousia,
da cui parte ed a cui ritorna, dopo la divisione e moltiplicazione in generi e
specie, ugualmente l'aritmetica ha nell'unità il suo principio ed il suo ter-
mine ultimo; l'unità è a principio della molteplicità dei numeri, i quali,
poi, in essa unità hanno il loro termine.
Chiarito che il ritorno al principio originario è legge immanente di
tutta la realtà , è necessario precisare tre punti : 1°) se il ritorno della crea-
tura al Creatore ha come conseguenza l'annullamento della medesima in Dio;
2°) stabilito che la realtà creata non si annulla in Dio, è d'uopo mostrare la
natura ontologica dell'apocatastasi; 3') considerata, la natura ontologica del-
la finale resurrezione, è necessario esaminare le varie tappe del processo.
Infine tratteremo in qual maniera l'uomo riporta a Dio tutta la realtà creata.
Per l'esame di questi problemi, fondamentale ancora è il problema della
sostanza, perchè le stesse dottrine della costituzione metafisica dell'ente, che
sono alla base della creazione e della moltiplicità degli individui, comandano
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ora la teoria del ritorno.
Riguardo al primo punto, cioè all'annichilamento della creatura in Dio,
Scoto Eriugena è quanto mai preciso. Innanzi tutto egli dice che il ritorno
finale della creatura a Dio è un potenziamento della sostanza, che, in quanto
tale, non può perire. La sostanza non è annullata, però, nell'ultimo grado
del ritorno, essa sarà trasfigurata in Dio, anzi, in questo supremo grado, non
vi sarà che Dio: « Erit enim Deus omnia in omnibus, quando nihil erit nisi
solus Deus. Nec per hoc conamur astruere, substantiam rerum perituram,
sed in melius per gradus praedictos redituram. Quomodo enim potest perire,
quod in melius probatur redire ? » (8) Su questo punto l'Eriugena non la-
scia dubbi ed adduce a chiarimento un'esemplificazione abbondante: per lo
stesso motivo per cui la sostanza non può assolutamente essere distrutta non
può neanche essere annullata in Dio. Il principio fondamentale di tutta
l'argomentazione è sostenuto dall'affermazione che « inferiora vero a supe-
rioribus naturaliter attrahuntur, et absorbentur, non ut non sint, sed ut in
cis plus salventur, et subsitant, et unum sint » (9). Il pensatore irlandese
nello sforzo di conciliare la permanenza della sostanza con il suo ritorno
(8) Ibid., 876 B.
(9) Ibid., 879 A.
— 161 —
in Dio, si serve di molteplici immagini : l'aria rimane aria quando è pervasa
dalla luce, anche se all'osservatore pare che esista soltanto la luce; ugual-
mente il ferro o qualsiasi altro metallo, anche se liquefatto nel fuoco, con-
tinua ad essere ferro, mentre tutto sembra fuoco, « salva metalli substantia
permanendo » (10). In Dio, quindi, si avrà un'unione senza confusione, di
modo che ogni sostanza rimane quella che è, unita e nello stesso tempo
distinta da Dio.
E, al riguardo. Scoto ribadisce che come in ogni costanza noi riscon-
triamo i tre attributi essenziali « essentw, virtus, et naturalis operatio » (11),
i quali, pur essendo intimamente fusi, si possono anche distinguere, così
avremo un'unità delle sostanze in Dio, unità che non è confusione, perchè
la sostanza rimane distinta da Dio. Ancora altre immagini adduce l'Eriugena,
l'unità che unifica in sè la serie dei numeri; l'essenza che unifica i generi,
le specie e la molteplicità degli individui. Ma, a noi sembra, che questi
esempi, che sono gli stessi che l'Eriugena ha addotti a proposito della proces-
sione delle cose da Dio, non siano esenti da un contenuto panteista. I tre
attributi essenziali, ontologicamente, s'identificano con la sostanza, la mo-
nade che comprende i numeri, nell'interpretazione di Scoto, è l'essenza im-
manente nei numeri, da cui essi profluiscono ed in cui ritornano. Dobbiamo,
però, osservare, che la fede cristiana, come nel processo creativo ha fatto
insistentemente distinguere a Scoto la creatura dal Creatore, salvo che meta-
fisicamente questa distinzione non era affatto dimostrata, così, nel processo
del ritorno, gli fa ripetere che le sostanze create, le quali ritornano a Dio.
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con Dio non si confondono.
Infatti, se noi, esemplifica l'Eriugena, determiniamo in una chiesa
un'illuminazione con molte lampade, la luce, che esse producono, sarà una,
ma in questa unica luce ogni lampada illuminerà per contro proprio, sicchè,
se noi trasportiamo una lampada in un'altro posto, essa, che nella chiesa
produceva una luce che risultava unica per il concorso delle altre lampade,
splenderà ora di luce sua. Lo stesso fenomeno si verifica pure nella musica,
ove, per il concorso di diverse voci, si produce un'unica armonia, ma poichè
ognuna di queste voci può tacere, ciò significa che ognuna di esse, pur parte-
cipando al coro, mantiene la sua individualità distinta dalle altre. Su questa
ricca esemplificazione, l'Eriugena così conclude: « Quod enim confunditur
vel miscetur, non facile in suam proprietatem resolvitur. His itaque atque
hiusmodi rerum intelligibilium et sensibilium exemplis facillime possumus
cognoscere, adunationem humanae naturae fieri posse, proprietatibus singu-
larum substantiarum observatis » (12).
Con queste premesse diremo allora che la sostanza umana la quale ri-
(10) Ibid., 879 B.
(11) Ibid., 881 A.
(12) Ibid., 883 D - 884 A.
— 162 —
torna a Dio non solo è distinta da Dio, ma permane anche nella sua indi-
vidualità numerica ? Occorre esaminare a fondo il problema per stabilire
se, ed in quali limiti, è garantita da Scoto l'immortalità personale. Prima
però occorre chiarire un altro aspetto, dal quale dipende il precedente, e cioè
vedere in che cosa consiste questo ritorno a Dio ed in qual modo la sostanza
è distinta da lui. Siamo così al secondo punto della nostra indagine.
Per stabilire il valore ontologico del ritorno della creatura al Creatore,
nel pensiero dell'Eriugena, bisogna che noi ci rifacciamo nuovamente al con-
cetto di essenza e di sostanza. Invero è il testo che c'induce a tanto: Scoto
ripropone al lettore, e non casualmente, la teoria da noi esposta e ripone
il problema: la sostanza delle cose mutevoli permane nelle cause primor-
diali, ovvero essa stessa dalle cause primordiali passa localmente, per così
dire, nelle cose ed assume diversi accidenti ? (13) L'Eriugena ribadisce i
principi della sua ontologia; la sostanza permane sempre nelle cause pri-
mordiali di cui è una determinazione meno universale, pur essendo nelle
cause e per le cause primordiali : solo in esse ha la propria ragion d'essere, e,
come le cause primordiali non possono sussistere al di fuori del Verbo, così
le sostanze non possono sussistere al di fuori delle cause primordiali (14).
Anzi, aggiungiamo, se tra il Verbo e le cause primordiali vi è sempre la
distinzione di creatore e creatura, questa distinzione viene a cadere tra so-
stanze e cause. Se quindi la sostanza è trascendente alla realtà spazio tempo-
rale, si ha, come conseguenza, l'assoluta indivenibilità della sostanza da una
parte, e dall'altra la mera accidentalità e fenomenicità del mondo, che, nella
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sua apparente materialità , è formato da qualità per se stesse immateriali,
le quali ricevono poi la propria determinazione attraverso la forma quali-
tativa.
Il mondo, quale è nello spazio e nel tempo, perirà e con esso periranno
lo spazio e il tempo: « Peribit autem. Totus igitur peribit, neque ulta pars
sui post suum interitum remanebit sine interitu. Sunt autem partes eius locus
et tempus. In ipso et cum ipso peribunt locus et tempus i> (15). Ma, se il
mondo quale è nello spazio e nel tempo, è soggetto a perire, perchè non ha
vera esistenza, sopravviverà solo il mondo qual'è nella sostanza, che rimane
sempre nelle cause primordiali.
Una delle tappe del ritorno, come diffusamente vedremo fra poco,
è costituita dal ritorno dell'uomo allo stato anteriore al peccato e
questo stato, come Scoto ci ha detto, riguarda l'uomo essenza, Turno qual'è
nelle cause primordiali, pertanto il ritorno dell'uomo a Dio è il ritorno del-
l'uomo alle cause primordiali. Questo concetto eriugeniano è oltremodo pe-
ricoloso : quando si è ammesso che la sostanza del-
(13) Ibìd.. 885 D - 886 A.
(14) Ibid., 886 C.
(15) Ibid., 889 D.
— 163 —
l'uomo è sempre presso le cause primordiali, non
li a senso più parlare di ritorno, ma solo della
fine del l' individuo singolo. Il mondo nel quale noi viviamo
non ha nessun valofe, la storia degli uomini diventa una fugace parentesi,
che scompare del tutto, perchè è un prodotto di realtà accidentali. Questa
la conseguenza logica della teoria del ritorno, a cui però Scoto non arriva
sia pure a prezzo di gravi contraddizioni : invero non si riesce a compren-
dere come, mentre tutta la sostanza sia integralmente salvata, possano, poi,
i vari individui, meri accidenti, essere soggetti alla pena e alla beatitudine.
La sua, quella di Scoto, è una soluzione irta di gravi compromessi e
che si esprime sempre in maniera equivoca. Difatti se la sostanza è imma-
gine di Dio ed è dotata d'immutabilità e d'incorruttibilità , è in certo senso
coessenziale a Dio, ed appunto perchè è, in certo senso coes-
senziale, si spiega perchè Scoto Eriugena possa mantenere la distin-
zione tra Dio e la creatura. Rifacciamoci a quanto abbiamo detto a pro-
posito delle cause primordiali: esse sono create ed eterne, Scoto le chiama
creature e le distingue da Dio. Noi abbiamo però pur sottolineato quanto sia
poco chiara questa distinzione, tanto che, come si è detto, l'Eriugena arriva
financo ad affermare che esse possono chiamarsi creature solo nel senso che
per esistere esigono Dio, ma che sono poi dotate degli attributi della divi-
nità .
Su questi presupposti, la dottrina del ritorno delle creature a Dio ap-
pare pienamente inquadrata nelle premesse metafisiche del suo sistema. Co-
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me più e più volte abbiamo ripetuto, per Scoto, il ritorno delle cose a Dio
significa il ritorno alle cause primordiali. Se la sostanza delle creature si
identifica con le cause primordiali, e nel loro ritorno le creature s'identifi-
cheranno con le cause primordiali, che sono, in quanto creature, distinte da
Dio, le creature avranno con Dio quell'identità -distinzione, che hanno con
Dio le cause primordiali.
T-a dottrina di Scoto è al riguardo, pur nella sua equivocità , chiarissima:
egli difatti dice che l'uomo se non avesse peccato sarebbe sempre rimasto
presso le cause primordiali, in cui veramente sussiste come immagine di
Dio, ed alle quali egli farà ritorno (16). Nei paragrafi nono e decimo e unde-
cimo del secondo libro del De Divisione Scoto Eriugena, ripete con insi-
stenza questa tesi, ripresa nel libro quinto e precedentemente accennata nel
« De Praedestinatione »: il ritorno dell'uomo al primitivo stato sarà costi-
tuito dal ritorno alle cause primordiali (17); epperò possiamo concludere
che, ritornando l'uomo alle cause primordiali, sarà distinto da Dio, come
lo sono le cause primordiali. Pertanto, sulla base di questi principi, Scoto
afferma che nel Verbo, in cui è il principio della realtà , è anche il fine:
(16) De Div. ma., II, 533 C.
(17) Ibid., 5S7 C.
— 164 —
« Vniversalis quippe totius creaturae finis Dei Verbum est. Principium itaque
et finis mundi in Verbo Dei subsistunt, et, ut apertius dieam, ipsum Verbum
sunt, quod est mutiplex sine fine, finis et principium à vap)(ov, hoc est, sine
principio praeter Patrem » (18).
Stabilito il significato della distinzione della creatura dal Creatore nel
ritorno finale di tutte le cose a Dio, bisogna precisare, come si è detto, se.
in questo ritorno della creatura al Creatore, sia assicurata all'uomo l'immor-
talità personale. Prima di affrontare quest'ultimo problema è necessario
risolvere l'altro, in che senso, ed attraverso quali gradi, avvenga questo
ritorno.
Abbiamo cercato di sottolineare come la filosofia di Scoto sia animata
dall'esigenza di ripensare il Neoplatonismo in funzione del Cristianesimo, da
quest'esigenza, perseguita con una capacità filosofica straordinaria, rampolla
la tesi del suo semipanteismo. Ancora su queste basi s'innesta la dottrina
dell'immortalità , che s'inquadra meravigliosamente nell'unità del sistema.
L'Eriugena, che a prima vista sembra un filosofo irto di contraddizioni,
ha invece, a guardarlo in profondità , una linea chiara di sviluppo. Quelle
che, inizialmente, possono sembrare contraddizioni sono il risultato, e come
risultato, indiscutibilmente coerente, di una tesi ambigua, che consiste nel-
l'identificazione di Dio con la parte immutabile della creatura, che è e non è,
per i motivi detti e ripetuti, a lui coessenziale. Questa stessa tesi noi trovia-
mo a proposito dell'immortalità , cerchiamo di seguire Scoto nel suo itine-
rario.
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L'uomo cacciato dal paradiso, venne da Dio confinato in questo mondo.
Questa condanna, sottolinea l'Eriugena, non fu certo dovuta all'indignazione
di Dio: nell'Essere immutabile non esistono passionalità e sentimenti di
vendetta, essa piuttosto fu un effetto della misericordia divina. Dio volle
che l'uomo, il quale, col cattivo uso del suo libero arbitrio, aveva volonta-
riamente distrutto quella felicità a cui l'aveva destinato, potesse, con la
sua libertà e con la grazia, riacquistare la primitiva condizione (19). In tal
modo l'Eriugena, pur venendo meno alle premesse metafisiche del sistema,
ni sforza di ilare all'opera umana in questo mondo, un'integrale significato
cristiano: la vita mortale ha un senso, perchè l'uomo eserciti la propria
virtù onde riconquistare la immagine di Dio che il corpo mortale conse-
guenza del peccato, ha offuscato. Ma l'uomo, per obbedire ai divini precetti,
ha bisogno dell'opera di Cristo, vero Dio e vero uomo: la mediazione di
Cristo è condizione ineliminabile perchè egli possa tornare allo stato primi-
tivo.
Ciò premesso cerchiamo di esaminare le tappe à elYascensus della realtÃ
in Dio. Secondo l'Eriugena il ritorno di tutte le cose a Dio ripercorre, in
(IH) Dc «ii». nat., V, 893 A.
(19) De Div. no/.. II, 540 BC
— 165 —
senso inverso, gli stessi gradi, che sono stati percorsi nella creazione. Le
creature che, nel Verbo e dal Verbo hanno origine, in lui hanno anche il
loro fine. La divisione e moltiplicazione delle cose passa attraverso cinque
tappe: la prima distinzione è tra la natura creatrice e creata, la seconda
distingue la natura creata in sensibile ed intellegibile, la terza, la sensibile, in
cielo e terra, la quarta separa il paradiso e l'orbe terrestre, la quinta infine,
riguarda l'uomo che è distinto nel duplice sesso maschile e femminile e che:
» officina omnium dicitur, quoniam in eo omnia, quae post Deum sunt,
continentur » (20).
Scoto Eriugena, dopo aver enumerato questi gradi di divisione,
mostra che con l'uomo, col quale si compie l'estrema divisione, s'inizia an-
che il processo di unificazione. Nella resurrezione difatti sarà innanzitutto
abolita la distinzione di sesso. E' ovvia questa conclusione perchè se la vera
sostanza dell'uomo è l'essenza, in essa non possono essere disinzioni di sesso,
epperò, quando egli tornerà all'antico stato, cioè nella sua essenza, scompa-
rirà il sesso. Negli altri gradi la terra si trasfigurerà nel paradiso, i corpi
terreni si muteranno nei corpi celesti, e tutta la natura sensibile si trasfor-
merà nella natura spirituale: « postremo universalis creatura creatori adu-
nabitur, et erit in ipso et cum ipso unum » (21). L'uomo, perciò, così come
è al centro della creazione, è al centro della resurrezione; non solo l'uomo
ma tutte le cose, in lui, con lui, e per lui risorgono: sarebbe irrazionale che,
essendo tutte le cose create nell'uomo, queste non risorgessero con lui (22).
A dire dell'Eriugena, tale ritorno a Dio consta di due momenti, la disso-
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luzione del corpo e la resurrezione; a nostro avviso parlare della resurre-
zione, come momento autonomo del processo, non ha senso nella sua filo-
sofia. Infatti, stando alle premesse della sua metafisica, la morte del corpo,
che consta di puri accidenti ed è soggetto alla decomposizione, dovrebbe
(20) De Div. nat., V, 893 C.
(21) Ibid., 893 D.
(22) « Et quoniam unteta sensibilia et inielligibiliu in humanae intuirue conditue pleni-
tudine condita sunt, unm rationi resisti!, si totum mundum eum omnibus suis partibus
tempore restitutionis ipsius naturae, in qua totus continetur, generali quadam resurrectio-
nis specie resurrecturum deliberemus ? Praesertim cum omnium sensibilium, dum in se
ipsa consideratur natura, una eademque perspicitur, et in hoc mundo non magnitudinem
corporeae molis, sed incorporalium substantiarum adunationem absque omni cumulo et
partium exaggeratione vel eompositione vera considerat ratio: sicut in monade et in centro
non quantitatem vel qualitatem numerorum et linearum, sed solam virtutem, quae nulla
mole, nullo spatio, nulla quantitate et qualitate circumscribitur, perspicit. Est enim tota
per totum in seipsa, nullo loco ambita, nullo tempore mota. (Ibid., 900 D - 901 A.) Come
è chiaro, il principio, clic comanda tutta la dottrina del ritorno, è costituito dall'unitÃ
dell'essenza e dalla sua divinità . Giustamente, a proposito della universale resurrezione,
l'Albanese così scrive:
creazione. Ammesso che Dio creando si crea; se le cose create ricadessero nel nulla, anche
Dio si annullerebbe ». C. Albanese, Op. cit., p. 345.
— 166 —
senz'altro produrre il ritorno della sostanza a Dio: l'opera catartica della vo-
lontà e l'opera della grazia, sono assolutamente superflue. Se la sostanza
permane, nella sua assoluta integrità presso le cause primordiali, senza
subire variazioni, non si comprende il significato di Cristo, nè lo sforzo della
volontà ; la negazione della pena, poi, dovrebbe essere la logica conseguenza
di tutto il sistema. La pena non ha significato, perchè il peccato è stato giÃ
punito nel suo effetto, nel mondo sensibile, cioè, che è stato distrutto, ed
anche perchè col mondo è stato annientato l'individuo soggetto ad essa.
A queste conseguenze, implicite nella posizione metafisica di Scoto, egli
però non giunge, destreggiandosi con una abilità dialettica, che sfiora il sofi-
sma e che mostra a chiara luce la sua sincera adesione al Cristianesimo. Co-
munque, a parte le aporie del sistema, cerchiamo di esaminare in che modo
si compia l'opera della resurrezione ed il conseguente valore della pena e
della beatitudine.
Innanzi tutto Scoto distingue l'ordine della natura dall'ordine della
grazia: egli, a più riprese, in tutta la sua opera, distingue il datuni dal do-
mi in: il dot um è la natura, il donum invece è la grazia. Ogni sostanza in
quanto è creata da Dio è creata con l'attributo della immutabilità , solo gli
accidenti sono soggetti alla corruzione : « Ea siquidem, quae perpetuimi
perseverare nequeunt, accidentia sunt substantiis superaddita. Est itaque
datimi divinae bonitatis natura omnis, quae in essentiam ducta est, et perpe-
tualiter custoditur, ne pereat » (23). Se la permanenza immutabile nell'es-
sere è opera della natura, ed è propria tutta la realtà , la deificazione non
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spetta alla natura come datimi, ma è un dono riservato solo alle creature
intellettuali, qualora di tale dono esse si rendano meritevoli (24).
Al centro della resurrezione dell'uomo è Cristo, il quale assumendo
la natura umana salva tutto l'universo materiale, che sussiste ab aeterno
nella divina sapienza e non può perire (25).
Intanto sorge a questo punto un altro problema, cioè la salvezza della
realtà , operata da Cristo si estende al mondo delle cause primordiali, ovvero
anche agli effetti di queste cause che costituiscono l'universa realtà ? L'Eriu-
gena arditamente sostiene che non solo le cause primordiali, ma anche gli
effetti di queste cause, cioè la terza natura, creata e non creatrice, benefica
della salvezza universale. Quest'affermazione di Scoto a prima vista sembra
riaffermare la pluralità ontologica e la conseguente individualità della per-
sona. Ma non è così, Scoto non si contraddice ed afferma, attraverso una
(23) De Div. nat., V, 903 D.
(24) lbid., 904 B.
(25) « In I crini igitur, quod est sapientiu Dei, omnis creatura et est et vivit, et omne,
itluni in ipso est, perire non potest. Si enim, quod continet, semper et incommutabiliter
manet et vivit, imo etiam vita est et vita aeterna: omne quod in eo continetur, necessario
et est, et semper manet, et aeterna vita est ». lbid., 908 B.
— 167 —
tesi, che dovrebbe esserne la negazione, l'unità della sostanza. Occorre che
nuovamente noi ci rifacciamo indietro col nostro discorso e richiamiamo, tre
elementi che sono stati alla base della esposizione: 1) l'unità dell'essenza;
2) l'unità della sostanza, come conseguenza dell'unità dell'essenza, perchè la
sostanza è la stessa essenza unica che soggiace alla pluralità delle sostanze;
per Scoto la sostanza prima di Aristotele si riduce ad accidenti sostanziali;
3) la molteplicità degli effetti delle cause primordiali come un modo di esse-
re aliter dalle cause primordiali, e non come essere ontologicamente alii
dalle cause stesse. E si noti che Scoto quando parla de-
gli effetti delle cause primordiali, si riferisce
agli effetti quali sarebbero stati se non fosse
avvenuto il peccato.
In base a questi elementi, che vivono nella sua metafisica e comandano
la soluzione di tutti i problemi, possiamo chiarire il senso di questa indagine.
Scoto, per mostrare come la resurrezione si riferisca all'universa realtà ,
fa uso di due argomentazioni. 1) In tanto, egli dice, noi possiamo parlare
di cause primordiali in quanto esistono gli effetti. La stessa nozione, cioè, di
causalità immanente, che riduce la creazione ad un atto necessario ed eterno
di Dio, riduce la produzione degli effetti ad un atto necessario ed eterno
delle cause primordiali; la necessità della creazione vige in tutto il processo
del descensus, sia da Dio alle ragioni eterne, e sia da queste agli effetti sen-
sibili.
La creazione, perciò, non è una verità di fatto legata al volere di Dio,
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ma una verità di ragione radicata nell'essenza di Dio, che per definizione è
creatore. Aspetto neoplatonico della dottrina, che il pensatore irlandese tem-
pera con il ricorso alla bontà di Dio, come principio di creazione. Ed allora,
se è necessaria la produzione degli effetti da parte delle cause, avremo que-
sta conseguenza chiaramente monistica, che se gli effetti non fossero salvati
nell'eternità e per l'eternità , non sarebbero salvate, per l'anzidetta ragione,
neppure le cause: « Si Dei sapientia in effectus causarum, quae in ea aeterna-
liter vivunt, non descenderet, causarum ratio periret: pereuntibus enim
effectibus nulla causa remaneret, sicut pereuntibus causiti nulli remanerent,
effectus; haec enim relativorum ratione simul oriuntur et simul occidunt,
aut simul et semper permanent » (26). Dall'eternità e necessità della crea-
zione deriva la conseguenza che, tutto ciò che è creato da Dio e dalle cause
primordiali, non può non essere eterno, a parte ante e a parte post, pena
l'annientamento delle stesse nature creatrici. Beninteso, non rientra nell'im-
mutabilità dell'essere creato, il mondo materiale, che non essendo creatura
di Dio, ma prodotto del peccato, non è essenziale all'essere di Dio.
2) La seconda argomentazione è basata sul fatto che il Verbo, assumendo
la natura umana integrale, in cui è contenuta tutta la realtà , sia del mondo
(26) Ibid., 912 B.
— 168 —
sensibile e sia del mondo intelligibile, con l'uomo e per l'uomo, sono sal-
vati anche gli effetti delle cose.
Tutto quindi rinascerà e rivivrà : risorgeranno e rivivranno le cause pri-
mordiali e con essi gli effetti che sono ad esse necessariamente legati. Stabi-
lito che gli effetti risorgeranno, cerchiamo di vedere ciò che sopravviverà di
questi effetti.
Scoto Eriugena non intende affatto che la
resurrezione degli effetti si riferisca alla re-
surrezione delle cose che sono nello spazio e
nel tempo, queste, egli ripete, ribadendo i prin-
cipi della sua metafisica non sono realtà , ma
ombre di realtà : a I t a q u e s i e u t imagines v o e u m
umbraeque corporum per se non subsistunt, quia
substantia non s u n t: sic e o r p o r a i s t a sensibilia
v e l u t i rerum subsistentium q u a e d a m similitu-
dine s s u n t, et per se subsistere nesciunt» (27). Ma
se dalla resurrezione degli effetti sono esclusi, e non potrebbe essere diver-
asmente, gli enti del mondo spazio temporale, è necessario precisare, cosa
sopravviverà delle creature ed in che cosa si risolve la resurrezione degli
effetti delle cause primordiali. Nella loro spiritualizzazione, ci risponde
l'Eriugena, perchè, infatti, egli dice, mentre è irrazionale un mutamento del-
la realtà superiore nell'inferiore, questo è avvenuto una volta ed è stato
reso possibile dal peccato, tuttavia è naturale che le nature inferiori vogliano
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rivivere ed unificarsi nelle superiori.
Su tale premessa è affermato che tutto il mondo privo di ragione passa
nella natura umana ed in essa si trasforma, la stessa natura umana subirÃ
una radicale trasformazione per cui tutte le sue passioni, prodotte dalla ca-
duta, si muteranno in virtù e, con la cooperazione della grazia, dalla morte
l'uomo risorgerà con il corpo spirituale che avrebbe avuto se non avesse
peccato (28). A proposito di questo corpo spirituale, bisogna sempre tener
presente che per Scoto è unico ed indistruttibile. In conclusione,
gli effetti delle cause primordiali saranno sal-
vati perchè ritorneranno alle sostanze che im-
mutabilmente permangono nelle eterne ragio-
n i (29). E' chiaro, quindi, che tutto il problema
(27) Ibid.. 914 A.
(28) Ibid., 916 A-D.
(29) « Ibi ergo spiritualis homo iudicnt omnia, ubi omnia unum sunt, et vere et
immutabiliter vivunt et subsistunt, et quo omnia, quae ex primordialibus causis profecta
sunt, reversura sunt, et quorum nihil extra relinquetur temporalibus mutabilitatibus
subiectum, seu IocaIibus circumscriptionibus inclusimi, quando universita! naturae super
omnia localia et temporalia spatiu in causas suus, in quibus omnia unum sunt, finito sensi-
— 169 —
circa la regurrezione degli effetti rielle cause
primordiali riguarda, secondo Scoto, non l'im-
mortalità dell'individuo singolo, ma l ' immorta-
lità dell'unica sostanza umana.
La natura umana è un'imagine di Dio, epperò, conclude Scoto, non
può non essere unica in tutti; se la natura si moltiplicasse col moltiplicarsi
degli individui, essa non sarebbe fatta ad immagine di Dio, ma a somi-
glianza del mondo dei corpi, il che è assurdo (30). Difatti, afferma ancora:
« Porro si Immunli natura imago et simili I mio Dei est, profecto et tota per
Iui u tu in se ipsa est et tota in singulis eam participantibus, uni Inm in seipsa
vel in aliquo suae uniformiter simplicitatis divisione vel partitionem, seu
possibilitate dividendi vel partiendi, seu actu et opere recipiens. Si enim
una et individua Divinitatis est, ad cuius imaginem humanitas facta est et
omnes homines, nemine excepto, in ea unum sunt » (31). Conseguenza del-
l'unicità e divinilà della natura umana è la universalità della Redenzione,
se infatti unica è la natura umana, questa è stata tutta redenta da Cristo, se
è stata tutta redenta da Cristo, essa si salverà nella sua integrità .
La finale redenzione dell'umanità è, per Scoto, radicata nell'unità della
sostanza ed è dimostrata con quattro argomenti : 1) La bontà di Dio è eterna
ed infinita, perciò non può essere eterna la malvagità , che dovrà finire ne-
cessariamente (32). 2) La natura umana, che è razionale, e che è fatta ad
immagine di Dio, aspira al bene, il male sorge da errore di valutazione (33).
Anche in questa teoria l'intellettualismo di Scoto rampolla dalle sue pre-
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messe metafisiche. Egli vuole dire che la natura umana è divina e non può
compiere il male, ma perchè l'esperienza ci dice che essa lo compie, non
rimane che affermare che lo compie per errore. Come già abbiamo visto a
proposito dell'origine del male, questa soluzione sposta, senza peraltro risol-
verlo, il problema. Difatti come è possibile l'errore in una natura fatta ad
immagine di Dio ? Ora è chiaro che, se la natura umana è per essenza tale
da non poter commetterre il male, essa nella sua essenza non pecca e non
può essere punita. Sarà integralmente salvata ed il desiderio che in essa di
vedere Dio sarà soddisfatto nel senso che vedrà le divine teofanie, mentre
Dio le rimane invisibile: invero è questo il punto centrale, questa natura è
bili mundo revertetur ». {Ibid., 970 C-D.) In tutta l'opera di Scoto queste affermazioni
tono sempre presenti.
(30) « Vera item ratio pitraque terum speculatio cum deridebit simplicitatem humanae
naturae in partes dividentem, ac reluti ex multis dissimilibus et multiplicitate partium
libera: alioquin non iam ad imaginem Dei facto est, sed ad mortalium et corruptibilium
corporum multiformem varietatem, quod existimare et stultissimum est, et turpissimum,
et omnimo a veritate alienum ». Ibid., 922 A-B.
(31) Ibid., 922 B.
(32) Ibid., 918 B.
(33) Ibid.. 919 B.
— 170 —
sempre una natura creata che non s'identifica tout-court con Dio, ma è una
sua degradazione (34). 3) L'universalità della Redenzione di Cristo salva
tutta l'umanità , pertanto deve essere estesa a tutti: non vi è perciò posto
per i reprobi. 4) L'unicità e divinità della sostanza umana, che non ammette
molteplicità di individui ontologicamente distinti.
In questa dimostrazione il quarto punto è fondamentale ed è il fulcro
intorno a cui si muovono gli altri tre. Invero è dall'unicità e divinità , della
natura umana, che, nel discorso di Scoto Eriugena, dipendono l'universa-
lità della Redenzione ed il desiderio di bene presente in tutta la natura. La
bontà di Dio poi è causa della bontà essenziale della natura umana, con cui
s'identifica nella parte immutabile.
E' ovvio quindi come la teoria del l'essenza
unica in tutta la realtà trovi la sua applicazione
coerente non solo al l'origine della realtà , nel
processo creativo cioè, ma quanto anche nel
ritorno di tutte le cose a Dio. E' anche logico come in
questa visione con la negazione dell'immortalità personale, non solo
la distinzione tra beati e dannati, ma anche l'efficacia della grazia
non abbiano senso. Scoto Eriugena sente tutta l'importanza del
problema, si accorge delle conseguenze anticristiane a cui va in-
contro e cerca, con una sottile distinzione, di mantenere l'equilibrio tra
l'esigenza monista e l'esigenza cristiana.
Egli innanzitutto confuta l'opinione della materialità dell'oltretomba
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di cui offre, invece, una spiegazione spirituale. Tutto ciò, dice l'Eriugena,
che il volgo intende delle pene dell'Inferno, posto sotto la terra, in cui le
anime soffrono supplizi corporali, è una favola creata dagli antichi. Con
maggiore acutezza, egli soggiunge, affrontarono il problema i Greci, che
videro la pena non in un patimento corporale ma in una sofferenza spiri-
tuale, la quale in quanto data da Dio, non è un male, ma un bene: « Et hoc
est totum, quod dicitur malarum cogitationum irrationabiliumque cupi-
aitatimi poena atque supplicium dolor videlicet atque tristitia, quibus duobus,
impiantin coscientia intra semetipsam punitur (35). In questo senso spiri-
tuale vanno interpretati il paradiso e l'inferno, che non sono luoghi mate-
riali di delizie e di patimenti. Se di pena e di beatitudine si vuol parlare,
runa e l'altra devono intendersi sempre distinte dalla natura, la quale sarÃ
tutta salvata nella sua essenza, perchè ritornerà nel suo stato primitivo.
Il principio della salvezza universale della natura umana è ripetuto
da Scoto Eriugena con insistenza straordinaria. Nei giusti e negli empii,
egli dice, la natura umana sarà salva, integra ed incontaminata, in tutte e
due queste categorie la spiritualità dei corpi e la gloria della natura sarÃ
(34) Ibid., 919 C.
(35) Ibid., 955 B.
— 171 —
comune: a aequaliter omnibus insunt, et bonis et malia; a nullo retrahuntur;
aeternaliter in omnibus et substatialiter permanebunt, omni corruptione
contrariaque passione absoluta » (36). Non è conveniente alia infinita bontÃ
del Creatore distruggere la sua immagine: « Omne itaque quod corrumpi
non potest, puniri posse ratio non sinit; omne autem, quod ex una omnium
causa factum est, incorruptibile esse necesse est. Omne igitur, quod ex una
omnium causa factum est, poenas pati impossibile est » (37).
Ma come è possibile la pena ? Scoto dice che Dio nella natura, che in
sè non subisce, nè può subire, alcuna pena, perchè da lui è fatta, punisce
il delitto, che non è da natura : « naturai uni autem optimus conditor,
piissimus provisor, iustissimus delictorum in his, qui se spernunt aut ne-
sciunt, ultor, punii in natura, quam fecit, delictum, quod non fecit, liberans
ex delieto, separansque, quod fecit, ineffabilique modo in eo, quod fecit,
impunito punit, et ut verius dicam, puniri sinit, quod non fecit. Non enim
peccata naturalia sunt, sed volontaria » (38). E', quindi, la cattiva volontà ,
che Dio punisce, o meglio il cattivo uso che fa l'uomo della volontà .
La stessa risposta che ci ha dato l'Eriugena circa l'origine del male, ci
ripete ora a proposito della pena; non è la sostanza che è punita, ma l'uso
che l'uomo fa della volontà .
Alla stregua di queste affermazioni si pone il problema, come è possi-
bile che la volontà sia punita e la sostanza no ?
Scoto risponde che la sostanza è unica ed immutabile, mentre la puni-
zione è riservata alla parte mutabile, molteplice, che non è sostanza; ma,
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se ciò che subisce la pena, non e sostanza, è accidente, e, di conseguenza,
l'individualità , che riceve la pena, è un accidente (39). A dire dell'Eriugena
la dottrina che riserva la pena all'accidente, non contamina, in modo alcuno,
la bontà del sostrato: a et quemadmodum mala voluntas naturale bonum non
contaminat, ita etiam tormentum eius, malae voluntatis dico, naturale subiec-
!uin, cui accidit, et in quo continetur, non torquet. Ipsa siquidem natura,
sic ut libera est, penitusque absoluta ab nnini povna peccati » (40). La dot-
trina è inconsistente, ma ben s'inquadra nelle premesse del sistema dell'Eriu-
gena. Il principio d'individuazione è un accidente, l'immortalità personale
è anch'essa un accidente.
Come possa in sè sussistere una pena nella volontà soltanto, mentre la
sostanza permane sempre immutabile ed è sempre integralmente salvata, è
certamente impossibile a concepirsi. A tal proposito si pone il dilemma,
assurdo in entrambi i suoi corni: o l'accidente rimane sempre aderente
(36) Ibid., 946 B.
(37) Ibid., 959 C.
(38) Ibid.. 943 D - 944 A.
(39) Ibid., 939 CD.
(40) Ibid., 943 C.
— 172 —
alla sostanza, ed in questo caso si avià l'assurda posizione di un individuo che
in parte soffre ed in parte no, soffre nell'accidente ed è felice nella sostanza;
ovvero, altro corno del dilemma, si avrà che la sostanza sarà felice per suo
conto e l'accidente soffrirà per conto suo, assurdo anche questo, perchè è
impossibile affermare l'aseilà di un accidente, che sia per conto suo. La
nozione diIani di accidente implica, pena la violazione del principio di ra-
gion sufficiente, la nozione di sostanza come substratum permanente a cui
inerisce.
La dottrina è oltremodo ambigua: essa, con
una coerenza meravigliosa, riproduce nelle con-
seguenze l'ambiguità delle premesse.
E Scoto è ben consapevole delle difficoltà cui la dottrina va incontro,
egli difatti si appella all'onnipotenza divina, la quale ben può separare ciò
che fece, la sostanza umana, che non pecca ed integralmente si salva, da ciò
che non fece, il peccato, cioè, che non dipende da natura, ma da un cattivo
uso del bene; ciò, dice Scoto, non è possibile al giudice umano. Anche que-
sto, quando non è animato da propositi di vendetta, pur volendo, non può
punire solo il delitto e non la natura: « Quoniam vero delieta per se, naturali
subiecto segregata, punire non possunt, propterea corpus simul e um delieto
pnniunt » (41). Del resto Scoto, dopo aver a lungo girato intorno al problema,
ne vede tutta la difficoltà e si affida alla fede, perchè esso rientra tra quei
problemi, come la creazione ed il ritorno delle cose a Dio e tanti altri
ancora, i quali superano le possibilità della ragione (42).
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Stabilita in tal modo la possibilità della pena, l'Eriugena ne esamina
la natura. Abbiamo già detto che essa si riduce ad una sofferenza spirituale,
dovuta al ricordo delle colpe passate; è il senso di tristezza e di dolore, che
sorge nell'anima di fronte alla vanità di tutti i beni terrestri, affannosa-
mente ricercati durante la vita: « quanta tristitia, quantus dolor, qualis
fiamma perpetuae egestatis eos torquebit, quando nihil terrenarum cupidi-
tatum mortaliumque deliciarum, quas spe vana imbiberant, reperturi,
nihilque eis remanebit praeter vacuam incomprehensibilemque rerum, quas
sibi futuras esse crediderant, umbram fugitivam ? » (43)
Come la pena anche la beatitudine è dall'Eriugena intesa in senso emi-
nentemente spirituale. Egli ripete la distinzione tra natura e soprannatura :
(41) Ibid., 943 D. I par. 31 e segg. del libro quinto sono fondamentali al fine di questa
dottrina.
(42) u Si ameni a me quaeris, qua ratione ea quae a Deo facta non sunt, intra ea,
quae ab eo factu sunt, continentur, aut quomodo ea, quae extra humanam naturam com-
pntuitmi-, intra eam puniri possunt, primo tibi respondebo juxta simplicitatem catholicae
fidei: Quis cognovit sensum Domini, aut quis consiliarius eius fuit ? Et quoniam investi-
gabiles sunt vitti- illius in omni tempore ». Ibid., 950 D - 951 A.
(43) Ibid., 949 D.
— 173 —
occorre distinguere egli dice la restaurazione, che è opera della natura, dalla
deificazione, che è opera della grazia. E' fondamentale questa distinzione
perchè Scoto introduce nel suo sistema la concezione della grazia, che sem-
brava del tutto vacillare. Quale altra realtà la grazia possa aggiungere ad una
creatura, già per essenza, divina, non si riesce a comprendere in un sistema
chiaramente monista, ma si spiega solo con l'adesione incondizionata del-
l'Eriugena al Cristianesimo. Comunque la distinzione della natura dalla
grazia è da Scoto affermata nel ritorno di tutte le cose a Dio: « Qui reditus
duobus modis consideratur, quorum unus est, qui totius humanae naturae
docet in Christo restaurationem, alter vero, qui non solam ipsam restaura-
tionem generaliter perspiait, verum etiam eornm, qui in ipsum Deum
ascensuri sunt, beatitudinem et deificationem » (44). E l'Eriugena specifica
che ritornare in paradiso non significa mangiare del legno della vita, questo
è riservato agli eletti, i quali si cibano di Cristo, di cui l'albero è simbolo.
Nell'unico paradiso, Cristo, in cui ab aeterno sono le cause primor-
diali, ed in cui la realtà tornerà tutta, in una unica essenza si raccoglieranno
tutti gli individui. Non vi è differenza alcuna nell'essenza, ma solo nella
qualità spirituale; gli uomini unificati nell'unica essenza, identica in tutti,
saranno diversi nella grazia: « Una omnibus communis natura, diversa
autem gratia ». (45).
Noi, dice Scoto Eriugena, possiamo nel tempio di Salomone
trovare una mistica raffigurazione della resurrezione di tutta l'umanità : que-
sto tempio in cui tutti, senza distinzione alcuna, vengono ammessi, è il para-
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diso dove gli uomini, senza alcuna eccezione, saranno salvati, ma dove cia-
scuno, secondo i suoi meriti, sarà più o meno felice, a seconda che sarà piti
o meno vicino a Dio. Dio, in questa raffigurazione, è rappresentato dal taber-
nacolo, dove solo Cristo può penetrare, e con Cristo gli eletti, che avranno
meritato di essere deificati. In questa visione spirituale vi saranno tutti con
le pene e con le gioie, che non implicano una differenza di persona: « non
quantitas et pulchritudo corporum, scd honestas et magnitudo virtutum lau-
datur; non personarum, sed morum dignitas et nobilitas quaeritur » (46),
perchè « una siquidem essentìo iungit, quos meritimi dissimile dividit » (47).
li'unità del l'essenza, che è l' unica, vera realtÃ
nel mondo creato, è ciò che permane quando tut-
to sarà unificato in Dio; del mondo spazio tem-
porale, sorto dal peccato non rimarrà più nulla,
e, con tali presupposti, l'immortalità personale,
affidata al l' accidente, diventa insostenibile.
(44) Ibid.. 978 D -979 A.
(45) Ibid., 983 B.
(4
(47) Ibid., 983 C.
-■- 174 —
Indiscutibilmente la distinzione tra natura e grazia non regge: se di-
fatti tutta la sostanza è incorruttibile, perchè divina, quale distinzione vi
può essere tra le due realtà ? O meglio come la grazia può per se stessa
elevare una natura, che è già nel Verbo di Dio ? Sono queste aporie radicate
nella logica del sistema, ma da cui l'Eriugena trova un modo di sfuggire
attraverso la sottile distinzione posta tra il Verbo e le idee: se difatti le
cause primordiali pur essendo nel Verbo, sono a lui inferiori, è ovvio che,
in quanto creature, esse possono essere elevate ad uno stato superiore. La
difficoltà è quindi nel punto di partenza, nel considerare create, le cause
primordiali, che, come abbiamo visto, hanno, e non possono non avere, gli
stessi attributi di Dio, a cui si rivelano coessenziali (48).
(48) Questa dottrina di Scoto del ritorno finale di tutta la realtà in Dio è etata in
vario modo giudicata dagli storici. .1. Rivière (Cfr. Le dogme de la Rédemption, Lecoffre,
Paris 1905, p. 287) ha sostenuto che questa è la parte migliore del sistema e non è viziata
dall'eterodossia, tanto frequente nel sistema eriugeniano. Contro il Rivière si espresse
E. Bi'onaiuti (Cfr. Giovanni Scoto Eriugena in un Commento boeziano, in. Rivista sto-
rico-critica delle Scienze Teologiche, Roma 1908, p. 148), che sostenne l'aperta tendenza
eretica di Scoto su alcuni punti fondamentali della sua dottrina. Anche il Geyer (cfr.
Op. cit., pp. 175-76! ritiene erronea questa dottrina dal punto di vista dell'ortodossia cri-
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stiana.
CONCLUSIONE
Scoto Eriugena non è un razionalista, ne un eretico: egli appartiene
alla Patristica, nel cui soprannaturalismo s'identificano ragione e fede, filo-
sofia e teologia. Opportunamente nota il Turner che l'Eriugena, più che
razionalizzare la teologia, teologizzò la filosofia (1).
Non è d'altronde l'Eriugena un eretico, perchè, anche se non poche
proposizioni filosofiche e teologiche del suo sistema sono errate, egli non
volle deliberatamente errare.
Egli volle ripensare il Neoplatonismo alla luce della intuizione cri-
stiana, ma questo suo grande sforzo non raggiunse lo scopo.
Per quanto, difatti, l'Eriugena parli, ed insistentemente, di creazione,
questa è ridotta ad emanazione eterna, necessaria e degradante, che con-
siste nella distribuzione dell'essere proprio di Dio alle creature.
Tuttavia l'emanatismo neoplatonico nel sistema di Scoto subisce una
trasformazione, che spiega l'apparente ambiguità della metafisica eriuge-
niana, in cui sono contenute formule teistiche e panteistiche ad un tempo.
Per l'Eriugena Dio s'identifica solo con la parte immutabile o essenza delle
cose. L'essenza è l'unica vera realtà di tutte le creature, che, nel loro
aspetto materiale, spazio-temporale, hanno solo un essere accidentale, pro-
dotto dal peccato.
L'essenza unica, eterna, immutabile, che esiste nel pensiero di Dio e
che si manifesta nelle cose è ad un tempo identico-distinta da Dio e dal
Verbo.
Le cause primordiali, invero, per l'Eriugena, costituiscono l'essenza
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unica che soggiace alla molteplicità degli accidenti materiali: esse sono
create, ed in quanto tali la loro produzione è diversa dalla generazione del
Verbo e dalla processione dello Spirito santo; tuttavia, ad un attento esa-
me, il processo creativo si rivela identico agli altri due, sicchè anche la
creazione viene ad essere un atto necessario ed eterno, immanente a Dio
stesso.
(1) Tlkvkr V-'., Erìgena and Aquinas, in The Catholic University Bulletin, 1897,
pp. 340-344.
— 176 —
In questa singolare ed equivoca posizione, che comanda tutta la me-
tafisica eriugeniana, è l'anima del pensatore irlandese, che, sia pure con
tutto l'acume della sua potente genialità , non riuscì a superare le aporie
dcU'emanatismo neoplatonico.
Per questo motivo, per l'impossibilità cioè di costruire una W eltansch-
auung cristiana su base neoplatonica, Scoto Eriugena rimase un grande
isolato, sicchè quando, dopo il periodo ferreo dell'alto Medioevo, si tor-
nerà a filosofare, la filosofia medioevale si rifarà , con Anselmo, al plato-
nico Agostino, mentre il neoplatonico Scoto sarà retaggio degli eretici di
tutti i tempi, che nell'emanatismo plotiniano troveranno il substratum dot-
trinale delle proprie eresie.
Comunque, per quanto riguarda la posizione propria di Scoto Eriu-
gena, noi ripetiamo col Gale, primo editore del » De divisione naturae »:
« Potuti ergo errare, haereticus esse noluit » (2).
(2) Thomas Galei, Praefatio editionis cui titulus: JOANNIS SCOTI ERIGENAE De
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Divisione naturae libri quinque diu desiderati, in MIGNE, /'. L., voi. 122, 90 B.
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INDICE
Capttolo I. — La Patristica e Scoto Eriugena . . . pag. 7
Capttolo II. — Teismo e panteismo nella filosofia di Scoto
Eriugena secondo alcune interpretazioni . » 41
Capttolo III. — L'unità dell'essenza e l'individuo . » 68
Capttolo IV. — L'essenza nello spazio e nel tempo e l'es-
senza nelle cause primordiali ... » 76
Capttolo V. — Dio. Teologia negativa e affermativa . . » 90
Capttolo VI. — Dio creatore » 109
Capttolo VII. — // mondo creato » 129
Capttolo Vili. — L'uomo » 137
Capttolo IX. — L'uomo al centro della redenzione ed il
ritorno di tutte le cose in Dio ... » 157
Conclustone » 175
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Btbltografta » 177