Alan Campbell
IL RACCOGLITORE DI ANIME
Traduzione di Laura Prandino
In mezzo alla distesa di Sabbiemorte sorge Deepg...
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Alan Campbell
IL RACCOGLITORE DI ANIME
Traduzione di Laura Prandino
In mezzo alla distesa di Sabbiemorte sorge Deepgate, un'immensa città sospesa su un insondabile abisso grazie a un sistema di catene, cavi e reti. I suoi abitanti credono che nell'oscurità sottostante viva il dio Ulcis, il "Raccoglitore d'Anime", sconfitto ed esiliato dalla madre Ayen, dea della luce e nume tutelare degli Heshette, la popolazione nomade contro cui Deepgate combatte una guerra ormai secolare. È per questo che i morti della città vengono gettati nell'abisso, dove Ulcis sta formando un esercito di anime per spodestare Ayen e riconquistare il paradiso per sé e per i suoi fedeli. Al centro di Deepgate si erge l'enorme complesso del Tempio, un labirinto di torri, edifici in pietra e sotterranei da dove i sacerdoti della Chiesa di Ulcis amministrano la teocrazia che governa la città. E, in una cella alla sommità di una delle guglie, vive anche il giovane Dill, l'ultimo degli arconti, una stirpe di guerrieri cui, secondo una leggenda millenaria, Ulcis avrebbe assegnato la difesa della città e dei suoi fedeli. Ma Dill è soltanto un ragazzo di sedici anni, che ha trascorso una vita da recluso e al quale non è mai stato permesso di addestrarsi nelle arti del combattimento. Eppure toccherà proprio a lui affrontare il più grande nemico di Deepgate, un nemico invisibile ma onnipresente nelle menti e nei cuori degli abitanti della città: un nemico che si nasconde nelle profondità dell'abisso...
PROLOGO ..................................................................................................... 6 PARTE PRIMA - MENZOGNE 1 DILL .................................................................................................... 14 2 MR. NETTLE ....................................................................................... 25 3 DILL E RACHEL ................................................................................... 37 4 IL FABBRO ARMAIOLO ....................................................................... 47 5 FANTASMI, VELENI E PASTICCINI ...................................................... 55 6 LA CONSEGNA ................................................................................... 74 7 LA FORTUNA DI MR. NETTLE ............................................................. 85 8 LA BATTAGLIA DEL DENTE ................................................................. 91 9 FOLLA AL POZZO DEI PECCATORI .................................................... 105 10 UN POSTO SEGRETO...................................................................... 111 PARTE SECONDA - OMICIDIO 11 LA NOTTE DELLO SFREGIO............................................................. 122 12 LE CUCINE DEI VELENI ................................................................... 150 13 LA LEGA DEI CORDAI ..................................................................... 168 14 DUE ASSASSINI .............................................................................. 185 15 TRAPPOLE PER I GONZI E LUMACHE ............................................. 201 16 CACCIA ALL'UOMO ........................................................................ 219 17 VINO D'ANGELO ............................................................................ 234 18 PROBLEMI NEL SANCTUM ............................................................. 240 19 UN PIANO PERICOLOSO ................................................................ 248 20 CAMBIAMENTI .............................................................................. 263
21 DILL E CARNIVAL ............................................................................ 270 22 LE COSE SI METTONO MALE.......................................................... 284 PARTE TERZA – GUERRA 23 L'ABISSO ........................................................................................ 299 24 ALLEANZE DIFFICILI ....................................................................... 310 25 IL DENTE ........................................................................................ 319 26 L'ATTACCO..................................................................................... 335 27 PRIGIONIA E SABOTAGGIO ............................................................ 354 28 ULCIS ............................................................................................. 366 29 IL RAZZIATORE ............................................................................... 379 30 IL PALAZZO DELLE CATENE ............................................................ 387 31 SULL'ORLO ..................................................................................... 408 32 LA CADUTA DI DEEPGATE .............................................................. 419 33 CANTAVELENO .............................................................................. 431 EPILOGO ................................................................................................... 437 RINGRAZIAMENTI..................................................................................... 440
A mio padre, che spesso si è grattato la testa perplesso davanti ai miei sogni e alle mie ambizioni, ma non ha mai smesso di fare tutto il possibile per aiutarmi a realizzarli
PROLOGO
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Le catene ingombravano il cortile dietro la fonderia di cannoni abbandonata di Applecross: tratti di catene che si irradiavano in tutte le direzioni, assicurate alle mura con ganci arrugginiti e perni di metallo, aggrovigliate come il lavoro a maglia di una pazza. Intrappolata al centro di quel viluppo si ergeva la torre di guardia di Barraby. Dalla sommità in rovina si levava del fumo, per poi disperdersi a ovest sopra la città, sotto un milione di stelle notturne. Sbuffando e annaspando, il presbitero Scrimlock si arrampicava tra le catene. La sua lanterna ondeggiava e sbatacchiava contro anelli e giunti e dio solo sapeva cos'altro, gettando ombre simili a reticoli di crepe sul selciato luccicante. Quando sollevò lo sguardo, Scrimlock scorse riquadri e triangoli fitti di stelle. I suoi sandali scivolavano come sul vetro fuso e le catene erano umide al tocco. Quando infine raggiunse l'adepto della Spina che lo attendeva vicino alla torre, capì il perché. «Sangue», sussurrò il presbitero, orripilato. Si strofinò freneticamente le mani sulla tonaca, ma il sangue non voleva andare via. L'adepto della Spina, la pelle così tesa sui muscoli da renderlo simile a un cadavere, rivolse al prete uno sguardo esangue. «È quello dei morti. Lei li scaraventa fuori dalla torre. Non sopporta di tenerli con sé all'interno.» Piegò il capo di lato. Sotto le catene giacevano i corpi di numerose Spine, in un ammasso informe, le armature di cuoio che luccicavano come veleno. «Che Ulcis abbia pietà», disse Scrimlock. «Quanti ne ha uccisi?» «Undici.» Scrimlock trasse un profondo respiro. La notte sapeva d'umido e di ruggine, come l'aria di un sotterraneo. «Così peggiorate le cose», recriminò. «Non ve ne rendete conto? State alimentando la sua furia.» «L'abbiamo ferita», replicò l'adepto. La sua espressione restò imperscrutabile, ma appoggiò una mano pallida contro il paletto della porta, come a puntellarlo. «Cosa?» Il presbitero ebbe un tuffo al cuore. «L'avete ferita? Ma questo è... Come avete fatto a...» «Guarisce in fretta.» L'adepto guardò in alto. «Dobbiamo sbrigarci.» Scrimlock seguì il suo sguardo, chiedendosi per un attimo cosa stesse guardando. Poi li individuò: sagome che si stagliavano contro lo splendore notturno, figure snelle che si arrampicavano lungo le catene, muovendosi 7
veloci e silenziose verso l'unica finestra della torre. Più Spine di quante Scrimlock ne avesse mai viste. Dovevano essercene cinquanta o sessanta. Come aveva fatto a non vederli prima? «Ogni singolo adepto ha risposto all'appello.» «Tutti?» sibilò Scrimlock, abbassando la voce. «Follia! Se lei riuscisse a fuggire...» Si torse le mani. La Chiesa non poteva permettersi di perdere tanti dei suoi assassini. «Non può fuggire. La finestra è troppo piccola per le sue ali; il tetto è sigillato e la porta sbarrata.» Scrimlock guardò la porta della torre. Il paletto di ferro pareva abbastanza solido da trattenere un esercito. Eppure non bastava a tranquillizzarlo. Cercò rassicurazione negli occhi dell'adepto, ma ovviamente non c'era nulla: solo un vuoto assoluto che il prete percepì fin nel midollo. Possibile che l'avessero davvero ferita? Quale sarebbe stato il prezzo per la Chiesa? E lei, quale sarebbe stata la sua vendetta? Per amor di dio, tutto ciò era troppo. «Non intendo dare la mia approvazione», protestò. Con un gesto indicò il cumulo di cadaveri e il sangue che ancora gocciolava sul selciato. «Ulcis non accetterà questi corpi straziati; sono tutti dannati.» «Disponiamo di rinforzi.» «Moriranno anche loro!» ribatté il presbitero. Ma si accorse che la sua voce suonava poco convinta. Sono riusciti a ferirla. In mille anni, nessuno era mai arrivato a tanto. «Il sacrificio è inevitabile.» «Il sacrificio? Guarda questo sangue! Guardalo!» Scrimlock fece un passo indietro e liberò la tonaca dal sangue che aveva formato una pozza attorno alle sue caviglie. «L'inferno stesso si solleverà a reclamare questo sangue, queste anime dannate. Questo cortile è maledetto! Il male vi dimorerà per secoli. Non basterebbero cento preti a sollevare l'ombra di Iril da queste pietre. Non c'è niente da salvare in questo posto. Niente.» Il presbitero non riusciva a decidere cosa lo sconvolgesse di più: il pensiero che il signore Ulcis, il dio delle catene, sarebbe stato privato delle anime dei migliori assassini della sua Chiesa, o che l'inferno potesse celarsi in agguato lì attorno. Si diceva che il Labirinto potesse aprire varchi in questo mondo per impadronirsi delle anime di chi aveva versato sangue. Scrimlock scrutò ansiosamente le tenebre che lo circondavano. Che l'inferno fosse già arrivato? Quelle anime stavano forse già varcando qualche oscuro portale che conduceva agli infiniti corridoi di Iril? E, in quel caso, 8
cosa sarebbe potuto entrare dalla parte opposta? Cosa ne sarebbe potuto fuggire? «Mettete fine alla caccia, subito. Lasciatela andare. È troppo pericoloso.» «Vuoi che sopravviva?» chiese l'adepto. «No, io...» Le spalle del presbitero urtarono contro qualcosa e lui si girò di scatto, allarmato. Una catena. «Voglio solo proteggere la Spina», proseguì, afferrandosi il petto. «Porta via i tuoi uomini, prima che sia troppo tardi.» Dall'alto giunse l'ululato di una risata. «I rinforzi hanno raggiunto la finestra», spiegò l'adepto. Scrimlock alzò gli occhi. Del fumo filtrava dal tetto frastagliato della torre e si allargava come grasso sulle stelle. I rapaci di pietra e le merlature erano crollati verso l'interno, come promesso dai genieri, bloccando l'uscita verso il tetto e dunque la fuga. Nell'aria indugiava ancora l'odore sulfureo della polvere nera. Giunto a metà altezza della torre, l'assassino più vicino a loro sgusciò attraverso la finestra. Un sonoro clangore di spade. Scrimlock s'inumidì le labbra secche. «È armata. Che dio ci aiuti, si sta difendendo con la spada.» «No», replicò l'adepto. «Le scale della torre di Barraby e i passaggi interni sono stretti. Combattere lì dentro sarebbe pericoloso. Hai soltanto sentito sbattere sulla pietra la spada di una Spina. Lei è ancora disarmata.» «Non capisco.» Il prete diede un'altra occhiata ai corpi ammucchiati da una parte. «Devono esserci armi abbandonate, là dentro. Non potete averle recuperate tutte. Perché non le usa per difendersi?» Un urlo, seguito da una terrificante risata. A Scrimlock venne la nausea. Sia l'urlo sia la risata sembravano venire dalla medesima gola. «Siamo convinti che voglia essere sconfitta», disse l'assassino. «Ma non ha senso. Lei...» Fu distratto da un rumore che veniva dall'alto, e levò lo sguardo appena in tempo per vedere un corpo forzato attraverso la stretta finestra della torre. Si sentirono scricchiolare le ossa, poi il corpo precipitò, andando a colpire una delle catene. Braccia e gambe si avvolsero attorno agli anelli massicci e, per la durata di una pulsazione, il corpo rimase appeso, a ciondolare come una bambola di pezza. Riprese a scivolare e andò a sbattere sulla catena sottostante, dove rimase impigliato, per poi accartocciarsi a terra. Le catene si tesero e vibrarono. Altri quattro assassini 9
si erano radunati fuori dalla finestra della torre, appesi ai chiodi e ai ganci del muro che sostenevano le catene. Altri ancora si stavano arrampicando dal basso. La Spina più vicina alla finestra, una sagoma snella, si infilò dentro, facendosi precedere dalla sua spada. Gridò verso il basso: «È ferita. Sta...» Un gemito, a metà fra tormento e rabbia, penetrò nel cuore di Scrimlock, subito seguito da singhiozzi come di un bambino spaventato e quindi da un urlo infernale. Il corpo martoriato e sanguinante dell'assassino riapparve alla finestra e volò per tre o quattro metri prima che il collo rimanesse incastrato in una delle grosse punte che sporgevano dalla torre. Una terza Spina sbirciò all'interno attraverso la finestra. «Sta scendendo.» «Come?» Il presbitero Scrimlock si ritrasse dalla porta. «Dobbiamo andarcene da qui. Presto, subito, dobbiamo...» «Non potrà scappare da questa porta», disse l'adepto. «Niente può sfondarla.» I sandali di Scrimlock scivolarono sui ciottoli coperti di sangue. La lanterna vacillò, quasi si spense, riprese a brillare. Le ombre si infittirono e gli danzarono attorno. Sopra di loro, le Spine si stavano infilando dentro la finestra: tre, sei, otto. «Adesso morirà», annunciò l'adepto con voce atona. Bum. Qualcosa aveva colpito la porta dall'interno, con la forza di un ariete. Dalle spesse travature si levò una nuvola di polvere, e l'adepto della Spina spinse contro il paletto. «Andiamocene», disse Scrimlock. «Lasciatela in pace, ti prego. Questa è la sua notte.» «La sua ultima notte», precisò l'adepto. Bum. Il paletto sussultò. Il legno si scheggiò con uno scricchiolio. L'adepto arretrò di scatto, poi avanzò di nuovo per gettarsi con tutto il proprio peso a sostegno della porta. Scrimlock si guardò attorno, cercando la via di fuga più sicura. Ansimò: «Non terrà. Lei...» All'interno della torre risuonò un clangore metallico: rumori netti, furiosi, come un macellaio esperto che taglia la carne a colpi di mannaia. Gli assassini avevano raggiunto il lato interno della porta. Un altro urlo. Colpi di lame contro la pietra in rapida successione. 10
Scrimlock si tappò le orecchie con i pugni e cadde in ginocchio. Tremava. Si mise a pregare. «Mio signore Ulcis, metti fine a tutto questo, ti prego. Concedi la vittoria ai tuoi servitori. Fa' che la porta resista. Risparmia queste anime dal Labirinto, risparmiaci tutti. Abbi pietà di me, abbi pietà di me.» Silenzio. «È finita.» L'adepto si allontanò dal paletto. Bum. La porta della torre esplose verso l'esterno, le enormi tavole si frantumarono come assicelle fradicie. Il paletto si spaccò da una parte. L'adepto fu scaraventato lontano e andò a sbattere contro una catena, ma Scrimlock, stupefatto, notò che aveva sguainato la spada e si stava già rialzando. Poi il presbitero guardò verso lo squarcio dov'era stata la porta della torre. C'era qualcosa, un'ombra più scura delle ombre circostanti. «Eccola», sibilò. L'angelo uscì sulla strada, piccola e snella e con gli abiti di cuoio antico chiazzati di muffa. Le ali della creatura risplendevano oscure, come una scia di fumo alle sue spalle. Il suo volto era un ammasso di cicatrici. Più cicatrici di quante ne avrebbe potute provocare quel combattimento con la Spina, più cicatrici di quante ne avrebbero potute provocare mille battaglie. Il sangue le imbrattava braccia e mani, anch'esse coperte di cicatrici, e gli occhi avevano il colore delle nubi di tempesta. Portava nastri e fiori tra i capelli flosci e ingarbugliati. Aveva cercato di farsi bella. Era disarmata. Scrimlock, ancora in ginocchio, disse: «Ti prego». Un angolo delle labbra dell'angelo si contrasse. «Corri.» Il presbitero lottò per rimettersi in piedi e schizzò via. Con tutta la velocità consentitagli dalle gambe di piombo inciampò e zigzagò fra le catene. Attorno a lui, le Spine scivolavano a terra silenziose, i volti pallidi e privi di espressione, le lame bianche di luce delle stelle. Convergevano sull'angelo. Scrimlock non si trattenne per assistere al massacro. Si liberò dal viluppo di catene e corse, e corse ancora; lontano dal fragore della battaglia, lontano dalle urla di dolore e di tormento; lontano dall'empia risata. E lontano dalle Spine, che morivano senza emettere suono. 11
DUEMILA ANNI DOPO
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PARTE PRIMA MENZOGNE
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1 DILL
Il crepuscolo sorprese la città di Deepgate pesantemente adagiata sulle sue catene. Case e stamberghe si abbandonavano sulle intricate ragnatele di ferro, tetti e camini oscillavano sulle stradine sinuose. Le catene si tendevano e si allentavano attorno a vie lastricate e giardini pensili. Torri in rovina si piegavano sui tetri cortili, come a prendere atto della rispettiva decadenza. Labirinti di vicoli affondavano nelle pozze di oscurità crescente; il tutto cucito assieme da innumerevoli ponti e passerelle che ondeggiavano, gemevano, scricchiolavano. Piangevano. Con lo svanire del giorno, la città sembrò sospirare. Una brezza si levò dall'abisso attraverso la massa sommersa di ferro e pietra, si riversò sul collare di rocce attorno a Deepgate e fischiò attraverso le barriere arrugginite e semisepolte nella sabbia. Turbini di polvere si levarono dalle lontane Sabbiemorte e danzarono selvaggiamente sotto il cielo che si andava oscurando, prima di dissolversi nel nulla. I lampionai avanzavano per le strade, trasformando a poco a poco la città in una coppa di stelle. Le lanterne ondeggiavano e affondavano in cima alle lunghe aste, gli stoppini si accendevano e le lampade a petrolio cominciavano a risplendere. Dal quartiere conosciuto col nome di Lega dei Cordai, appena sotto il bordo dell'abisso, attraverso il Dedalo degli Operai e giù fino a Lilley e ai vicoli di Bridgeview, le luci ammiccavano nel fitto delle catene. Catene che ingombravano le strade, avvolgevano le case o le trafiggevano, collegavano, connettevano, intessevano intelaiature per le abitazioni dove i fedeli attendevano la morte. Per tutta la città, i rumori annunciavano ormai il calare della notte: imposte serrate e sbarrate con tonfi e schianti; porte inchiavardate e rinforzate; lucchetti che scattavano. Le grate che si chiudevano fragorosamente sulle bocche dei camini risuonavano in lontananza per tutti i quartieri, Poi il silenzio. Ben presto non si sentì altro che l'eco dei passi dei lampionai, ora affrettati, che si ritiravano nei vicoli scuri attorno al tempio. Il tempio di Ulcis si ergeva orgoglioso dal cuore di Deepgate, nero co14
me uno squarcio nel cielo rosso sangue. Dalle mura risplendevano le vetrate decorate, e i corvi turbinavano tra le guglie e i pinnacoli. Orridi doccioni affollavano vertiginosi posatoi sugli archi rampanti, sulle balconate e sui coronamenti merlati. Legioni di creature dalle ali di pietra montavano la guardia con lo sguardo fisso oltre l'intricata città, verso le Sabbiemorte: ghignanti, maligne, furiose. Quasi sperduta tra quelle vertiginose altezze, dalle tenebre si levava una guglia più bassa e spuntata, rivestita d'edera che saliva a ricoprire un lato della balconata e le inanellava la cima. Soltanto una cuspide aguzza d'ardesia svettava libera dalla vegetazione, e risplendeva un po' sghemba nella luce calante. Una banderuola arrugginita ruotava cigolando, come se non sapesse bene dove puntare. Aggrappato alla banderuola c'era un ragazzo. Si avvinghiava al metallo con le sottili braccia bianche. Dietro le orecchie, i capelli gli si agitavano nel vento e la camicia da notte sventolava e sbatteva come una bandiera lacera. Rimase aggrappato a lungo, tutto gomiti e ginocchia, a ruotare regolarmente assieme alla banderuola e a osservare il panorama con rapide occhiate nervose. Aveva i piedi gelati, ed era sudicio. Però Dill era felice. Si sollevò con cautela, mentre la barra Nord-Sud gli si piegava sotto i piedi nudi e gemeva per lo sforzo. Un po' di ruggine si sbriciolò precipitando sulle lastre d'ardesia sottostanti. Uno stormo di corvi gli volteggiò attorno gracchiando, poi spiegò il volo in alto, sparpagliandosi fra i doccioni e le vetrate. Dill li guardò allontanarsi e sorrise da un roseo orecchio all'altro. Solo. Respirò a fondo, con avidità, e poi ancora, quindi spiegò le ali e lasciò che l'aria si raccogliesse sotto le penne. Irrigidì i muscoli della schiena e il sangue gli scorse nelle vene fino alle ali distese. Il vento lo sostenne, lo strattonò come per gioco, sfidandolo a lasciarsi andare. Si sporse gettando all'indietro la testa, gli occhi che brillavano. La banderuola lo fece girare come una giostra. Una corrente ascensionale si gonfiò sotto di lui. Fletté le ali, le allargò e si lasciò sollevare. I suoi piedi si staccarono dal sostegno e lui rise. Qualcuno fischiò. Una figura curva e incappucciata a una finestra, che teneva sollevata una lanterna gialla. 15
Dill annaspò per stringere di nuovo la banderuola al petto ansimante, ripiegò strette le ali e si acquattò, col cuore che batteva all'impazzata. La figura indugiò un momento, l'ombra del cappuccio che si allungava come un artiglio sul ripido tetto inclinato del tempio. Poi abbassò la lanterna e si allontanò. Dill osservò l'ombra del prete che passava rapida dietro la vetrata, poi la finestra tornò buia. Rimase aggrappato lassù a rabbrividire per cento battiti di cuore. Per quanto tempo il prete era rimasto a guardarlo? Cosa aveva visto? Era passato di là per caso, o era rimasto nascosto nella stanza ad aspettare, osservare, spiare? E avrebbe fatto rapporto su Dill? Il reticolo di cicatrici sulla sua schiena suggeriva che lo avrebbe fatto di certo. Non volavo. Non stavo per mettermi a volare. Aveva solo spiegato le ali per prendere aria. Tutto lì. Quello non era proibito. Ancora tremante, Dill scese dalla banderuola e si acquattò sul cono coperto di muschio in cui culminavano le lastre d'ardesia. Di colpo gli sembrò che ci fossero osservatori in agguato dietro ogni finestra, volti incappucciati che lo scrutavano da ogni direzione, labbra nascoste che sussurravano menzogne destinate al presbitero stesso. Dill si sentì avvampare. Strappò un pezzetto di muschio e finse di studiarlo con attenzione, se lo strofinò sul palmo senza nemmeno sentirne la consistenza, lo esaminò senza vederlo. Quando lo lasciò andare, il vento lo trascinò via sopra Deepgate. Si diceva che un tempo si potesse stare in piedi sull'orlo dell'abisso e scrutare nelle tenebre sotto la città senza nient'altro che le catene d'ancoraggio a separare dalle profondità insondabili. Con un cannocchiale, forse, si sarebbero potuti vedere i fantasmi sul fondo. Ma ormai non era più così. Le grandi catene erano ancora laggiù, da qualche parte, nascoste sotto la città che cento generazioni di pellegrini avevano costruito. Ma col tempo catene secondarie, cavi, corde, sbarre e travi erano cresciuti come radici tra quegli antichi anelli. Nuovi edifici erano stati innalzati o ancorati, collegati da ponti e passerelle sospesi, finché Deepgate non aveva soffocato le sue stesse fondamenta. Dill sollevò un piede calloso e lo sbatté a terra. Una tegola gli si frantumò sotto il tallone. Ne raccolse un frammento grande quanto un pugno e prese lo slancio per scagliarlo contro la finestra. Ma si fermò in tempo. Le 16
finestre erano antiche, antiche forse quanto il tempio e le catene di fondazione. Antiche quanto la tegola del tetto che aveva appena spezzato, pensò contrito. Gettò allora il pezzo d'ardesia nel tramonto e rimase in ascolto per sentire se esso avrebbe colpito qualcosa prima di scomparire nell'abisso sotto la città. In lontananza, uno schianto di vetri infranti. Si lasciò cadere all'indietro, senza badare alle penne che gli restavano schiacciate sotto la schiena, e puntò lo sguardo oltre le strade ammiccanti di luci, dove le Sabbiemorte si stendevano fino all'orizzonte come seta gualcita. A occidente torreggiavano nubi temporalesche viola bordate d'oro, mentre a oriente le Condotte dell'Alba serpeggiavano nel deserto: un'increspatura argentea nel cielo catturò la sua attenzione. Si rizzò a sedere. Un'aeronave stava svuotando le nervature per la discesa, scaricava aria calda dalle strisce di tela che circondavano l'involucro del gas ascensionale. Virando mentre scendeva, mosse pesantemente verso il pilone d'attracco di Deepgate, abbandonando la carovana che aveva scortato dalle città fluviali. La carovana proseguì il proprio tragitto tra le condotte per l'acqua e quelle di scarico, mentre i cammelli sollevavano sbuffi di sabbia. Dietro i mercanti arrancava una fila di pellegrini in ceppi, tra due file di guardie missionarie a cavallo. «Ci vediamo domani», mormorò Dill ai pellegrini, senza pensare di rivederli davvero. Ci sarebbe voluto qualche giorno prima che morissero. L'oscurità dilagava nel cielo, trafitta dalle prime stelle notturne. Si lasciò allora scivolare lungo il tetto inclinato fino a urtare la gronda con un tonfo e un arruffio di piume. Un graticcio in rovina e ricoperto d'edera forniva una precaria scala rugginosa per raggiungere la sua balconata. Quando finalmente poggiò i piedi sulla solida pietra, tremava più che mai. Non appena dentro tirò tutti e quattro i paletti della porta della terrazza, e poi controllò che fossero ben chiusi anche i catenacci della finestra. Il fuoco si stava estinguendo, e ombre profonde infestavano gli angoli della sua stanza. Dill aggiunse altro carbone, e si inginocchiò poi davanti al camino per sistemarlo meglio con l'attizzatoio. Il fuoco scoppiettò e divampò brevemente, emanando ondate di calore. Scintille arancioni risalirono a spirale la canna fumaria, le braci crepitarono e ricaddero. Scrollò l'attizzatoio battendolo contro i denti metallici del parafuoco e lo riappese al suo gancio. Quindi tirò fuori da una cassa una bracciata di candele del tempio e le disseminò lungo le pareti della sua cella, accendendole a una a una con 17
un tizzone preso dal fuoco prima di piazzarle sul mozzicone residuo del giorno prima, da dove avrebbero tenuto a bada la notte. Compiuta la sua opera, sollevò lo sguardo verso la cappa del camino, verso la spada. La sua spada. Si precipitò sull'arma e la staccò dal sostegno. Le sue dita sudicie riuscivano a stento a contenere l'elsa rivestita di pelle, ma non gli importava. L'indomani l'avrebbe portata comunque. La luce delle fiamme inondò la lama e il guardamano. Abbassò la spada e la sollevò di nuovo, saggiandone il peso rassicurante. Era ancora troppo grande per lui, troppo pesante, ma Dill arretrò di un passo, fece un affondo e alzò contemporaneamente l'altra mano nel modo in cui immaginava facessero tutti i grandi spadaccini. La spalla della camicia da notte gli scivolò oltre il gomito e la punta della spada vacillò. Gli ci volle un attimo per riprodurre la sua espressione più minacciosa. Le labbra scesero a coprire i denti irregolari, sporse il mento in fuori e allargò le ali. «Hai paura?» chiese alla parete. Aggrottò la fronte e fece sibilare la spada una volta, due volte. «Temi quest'arma? O colui che la brandisce?» Inarcò un sopracciglio. «Il mio nome?» Sbuffò ripulendosi la mano sudicia sulla camicia da notte. «Non ha importanza. Sono arconte della Chiesa di Ulcis, Custode del Raccoglitore d'Anime.» Esitò, riflettendo. «Della stirpe mortale del suo araldo Callis.» Suonava bene. Nella sua immaginazione, un esercito di infedeli avanzava battendo l'elsa delle spade sugli scudi. Gridarono con voci incrinate dalla paura: Un solo arconte contro cento guerrieri. «Cento?» sghignazzò Dill. «Ecco allora perché tremate.» Con una rotazione del polso fece ruotare la spada sul suo asse come un'elica... ... e l'agguantò dalla parte sbagliata della guardia, quella tagliente. «Palle fritte!» La spada cadde a terra di schianto. L'elsa fece schizzare una scheggia dal pavimento, ma il segno che lasciò era minuscolo, quasi invisibile in mezzo agli altri. Dill si succhiò il dito e poi lo esaminò. Il graffio, come tutti quelli che 18
l'avevano preceduto, non era niente di serio. Anche perché i preti non avevano mai affilato la lama per l'intera durata della sua esistenza, e lui sapeva perché. Raccolse la spada e la riappese malamente al muro, accoccolandosi poi davanti al camino. Stirpe mortale del suo araldo Callis. Stavolta riuscì a non fissare lo sguardo sulla spada, giusto un'occhiata veloce. Si abbracciò le ginocchia e si dondolò avanti e indietro, fissando le correnti di calore fra le braci, pensieroso. Le tenebre si infittirono fuori della sua cella. Si levò il vento, che prese a sussurrare oltre la finestra e attizzò le fiamme nel camino. Solo una volta lo sguardo di Dill saettò verso la spada. Storse la bocca e si strinse più forte le ginocchia. L'indomani l'avrebbe portata... Dill imprecò, schizzò in piedi e liberò di nuovo la spada dal sostegno. Erano sei anni ormai che la possedeva, quasi metà della sua vita. Ormai avrebbe dovuto essere capace di usarla. I preti avevano detto che era grande abbastanza. Era una buona spada, avevano detto. Ruotò su se stesso, spiegò di colpo le ali e si rivolse di nuovo alla parete: «Hai paura?» Stavolta non c'era l'esercito di infedeli: nient'altro che le fredde pietre del tempio a separare Dill dal cielo notturno. Mulinò la spada avanti e indietro, tracciando archi minacciosi. «Hai paura?» Fendente. «Hai paura?» Affondo. «Hai paura?» Con un balzo infilzò la spada nella parete. La punta della lama affondò un paio di centimetri fra le pietre, sbriciolando la malta. La guardia gli vibrò dolorosamente contro il pugno. Con un sussulto, Dill lasciò cadere l'arma un'altra volta. Si premette la mano dolente sotto l'ascella e cadde in ginocchio accanto alla spada. «Perché hai paura?» chiese, stavolta a se stesso. Perché aveva paura? Essere al servizio della Chiesa era un privilegio, un onore. Custode delle Anime, una posizione di tutto rispetto. Non avevano forse ricoperto lo stesso incarico anche i suoi progenitori? Suo padre Gaine? Ma loro erano stati arconti guerrieri, addestrati assieme alla Spina, per conto della Chiesa avevano sorvolato le estreme distese delle Sabbiemorte, avevano combattuto contro gli Heshette e conficcato a forza la volontà di Ulcis fin nelle viscere delle roccaforti pagane. Mentre Dill... Sollevò la spada con entrambe le mani sudicie. 19
Chi sono? Un angelo che legge sui libri le imprese dei suoi avi, che passa un giorno dopo l'altro sul suo terrazzo a guardare le aeronavi che ritornano dalle città fluviali, dal delta del Coyle, dagli insediamenti dei briganti dove un tempo gli arconti guerrieri hanno combattuto e sono morti. Posti che lui non avrebbe mai visto. Ormai a solcare il cielo erano le navi da guerra e quelle della chiesa, e il posto di un angelo era lì a Deepgate, fra le catene. Mentre l'armatura di suo padre arrugginiva sotto chiave in un deposito nelle viscere del tempio, l'edera era cresciuta incontrollabile attorno alla guglia di Dill. La polvere aveva oscurato le vetrate colorate delle vecchie finestre. Ormai i ragni si erano insediati nell'intrico dei travicelli del soffitto e le loro ragnatele ne foderavano il legno. L'umidità risaliva strisciando dalla tromba delle scale e saturava le camere sottostanti, piene soltanto di fango e di lumache. Dill era nato troppo tardi. Eppure gli avevano dato lo stesso una spada, e ciò doveva pur significare qualcosa. O no? Dei colpi alla porta lo fecero sussultare. Si rimise in piedi alla svelta e riappese la spada al suo sostegno, con le mani si spazzolò il sudiciume dalla camicia da notte facendolo penetrare ancora più a fondo, e si avviò ad aprire. Il presbitero Sypes ansimava ancora per la salita. Il vecchio prete era affogato in una tonaca nera che si confondeva con l'oscurità della tromba delle scale. Si vedevano soltanto la testa e le mani: la testa tentennava come un osso allentato nella sua articolazione e le mani si aggrappavano al bastone saldamente piantato sul pavimento di pietra. «Novecentoundici scalini, li ho contati», esordì. Per un attimo Dill lo fissò sbigottito. Poi balbettò: «Vostra grazia, non mi aspettavo... voglio dire, non credevo...» «Non ne dubito», borbottò il presbitero. «Mi sembra di aver continuato ad arrampicarmi fino da stamani dopo colazione.» Zoppicò nella cella, la veste che spazzava il pavimento, e aggrottò la fronte. «Ecco dove finiscono tutte le candele del tempio. Questo posto sembra il Sanctum.» Gli porse un involto sgualcito, legato con una corda. «Ecco i tuoi vestiti, ma ti toccherà piegarli di nuovo; mi sono caduti due volte.» «La prego, signore, si sieda.» Dill trascinò uno sgabello accanto al fuoco. 20
Il presbitero guardò il minuscolo sgabello. «Sarebbe il colpo di grazia, temo. Le mie ossa stanno ancora salendo le scale. No, mi riposerò qui vicino alla finestra finché non avranno capito che sono finalmente arrivato.» Raccolse le pieghe della tonaca e si appollaiò sul davanzale della finestra, le mani poggiate al pomo d'argento del bastone. «Allora?» Dill giocherellò con l'involto che stringeva al petto. «Ho detto: allora?» Dill esitò. «Non vedo l'ora», disse abbassando lo sguardo. «Ne sei certo?» Dill annuì. «Non sei nervoso?» Dill scosse il capo. «Davvero?» Gli occhi del vecchio si strinsero. «Bene.» Cadde un lungo silenzio. Le braci si agitavano fra le fiamme. Dill risollevò lo sguardo. La spada era ancora lassù, splendeva debolmente alla luce delle candele. «La spada di Callis», osservò il presbitero. Dill le diede un'altra rapida occhiata, e quando si voltò teneva il capo ancora più basso. Lo sguardo del presbitero percorse la cella, soffermandosi appena sulle mattonelle scheggiate, sullo sgabello di Dill, sulla cassa delle candele, sul secchio pieno di lumache e sul materasso. Non restava nient'altro su cui fermare l'attenzione. Mosse le mani sul pomo del bastone. «Bene...» «Grazie per avermi portato i vestiti», lo interruppe Dill. Il presbitero Sypes tossicchiò. «Dovevo comunque salire, per andare al mio osservatorio. E volevo augurarti buona fortuna per il gran giorno.» La cella di Dill non era di strada per l'osservatorio. Non era di strada per nessun posto. «Le sono grato, vostra grazia.» «Non sei nervoso?» «No.» Il presbitero si morse le labbra, come se lottasse contro qualcosa. Alla fine disse: «Sei stato di nuovo sul tetto, vero?» Dill arretrò. «Io...» «Certi preti che non hanno di meglio da fare che spiare e sparlare...» Il volto del presbitero si raggrinzì. «Non farò nomi.» Le rughe si accentuarono. «È stato Borelock, quel pallido leccapiedi. Sempre a strisciare nell'om21
bra peggio di un maledetto sabotatore Heshette, a osservare tutto, nemmeno fossero affari suoi. Se non altro è venuto da me, stavolta...» La sua voce si spense. «Però non posso certo dirti che approvo», aggiunse infine. «Buona parte dei tetti del tempio sta marcendo.» Col bastone colpì il davanzale della finestra. «È, pericoloso. Non voglio che cadi e ti rompi l'osso del collo.» Dill sbirciò il presbitero di nascosto, ma non scorse traccia di ambiguità. «Non succederà più», disse, e in quel momento ne era anche convinto. Sentì tirare le cicatrici delle frustate sulla schiena, a ricordargli che non sempre Borelock aveva riferito le sue scoperte al presbitero. Sypes stava esaminando il davanzale, come aspettandosi che la pietra si sbriciolasse sotto i suoi occhi. «Fa' molta attenzione. Il tempio non tollera errori stupidi. È pericoloso, capisci?» Una folata di vento scosse i vetri della finestra nelle loro impiombature e ululò nella canna fumaria. La fiamma crepitò ondeggiando e la cera colò dalle candele. Dill sentiva che fuori dalla cella la notte si stringeva su di loro, una pressione che spingeva dietro i vetri, alla ricerca di una via d'accesso. Deglutì, annuendo velocemente. Il presbitero risucchiò le guance e le rilassò. «Meglio che vada», borbottò. «Ho troppe scartoffie che mi aspettano per perdere altro tempo quassù.» Si rimise in piedi alquanto malfermo, lo sguardo già concentrato dentro di sé sui doveri che l'attendevano. «Il potere si muove all'interno della nobiltà», mormorò. «Commercio, scienze, censo, conti, tutto. Le forniture, i conti da pagare, le tasse, le paghe, le storie, le ricette, perfino... aah!... la poesia.» Incurvò le spalle. «Non finisce mai. Il Codice continua a crescere, i pilastri della biblioteca del tempio sono carichi di libri, pieni da scoppiare, e io sono sepolto sotto pagine e pagine che ancora devono essere aggiunte. Non c'è posto per metterci tutto. Quanto ci vuole a costruire una nuova colonna d'archivio, eh? Il capomastro ci lavora da mesi, ormai, da mesi.» Si guardò attorno. «Tu l'hai già conosciuto? Il capomastro?» «No, vostra grazia.» «Lo immaginavo. Mi sa che è morto. Oppure si è gettato nell'abisso.» Sospirò. «Ci sono pazzi che ancora lo fanno. Basta un po' di duro lavoro e si buttano, spariscono, scivolano giù fra le catene come infedeli. Come se Ulcis accettasse cadaveri non consacrati!» Si strofinò gli occhi. «Non lo so, Dill, non so proprio come andrà a finire.» A Dill sembrava che il presbitero invecchiasse di dieci anni per ognuno 22
che ne trascorreva. Le sue dita erano rovinate, macchiate d'inchiostro, incurvate come artigli, come se reggesse sempre il suo calamo. Ma continuava a lottare, un anno dopo l'altro, a collezionare, ordinare, rilegare tutta la documentazione della città, a riempire un pilastro della biblioteca dopo l'altro con libri che nessuno avrebbe mai letto. Finché non ne morirà. A schiena curva il vecchio prete attraversò la stanza strascicando i piedi. «Che dio mi aiuti. Se lo scopro in agguato laggiù in fondo a confabulare con i morti, gli torco il collo. Non intendo tollerare loschi traffici nel mio tempio, o sotto di esso. Nessun traffico. Non sopporterò le loro stupidaggini.» Dill si affrettò verso la porta. «Qualcuno dovrebbe tenerli d'occhio», disse il presbitero percuotendo il pavimento col bastone. «Assicurarsi che non stiano macchinando qualcosa di poco piacevole. Senti questo maledetto vento. Ci giurerei che sono loro. Ascolta: i morti si lamentano più dei vivi. Sono irrequieti, sono sempre così prima della cerimonia.» Si fermò sul pianerottolo, e la sua espressione si addolcì. «Non sei nervoso, Dill?» «No, vostra grazia.» «Bravo ragazzo.» Il presbitero Sypes gli strizzò una spalla e poi la lasciò. «Per domani...» Sembrava a disagio. «Il tuo sovrintendente passerà a prenderti in tempo per la campana della lamentazione. La tua istruzione comincerà subito dopo la cerimonia.» Dill se l'era aspettato. John Reed Burrsong era stato sovrintendente di suo padre, e del fratello maggiore di suo padre, lo zio Sewender. Soldato e studioso rispettato, Burrsong istruiva gli arconti della Chiesa da più di cinquant'anni. Dill aveva otto o nove anni quando aveva visto il vecchio sovrintendente per l'ultima volta, e già allora Burrsong gli era sembrato centenario, per quanto solido come una vecchia armatura e ancora capace di tener testa con la sua grande spada di ferro a uomini con la metà dei suoi anni. «È così che dev'essere», disse il presbitero. «La tua spada. Devi sapere come usarla, giusto? E ci sono anche altre cose: i veleni, il decoro, e la diplomazia.» Attese una sua conferma. «Sì, vostra grazia.» «Il sovrintendente saprà spiegarti tutto molto meglio di me. Sii pronto 23
domattina. Andrete d'accordo, dovrete andare d'accordo per forza. È un esserino piccolo e grazioso, se non badi troppo a quello sguardo tormentato. Tu non ci baderai, vero?» Dill dissimulò la sorpresa. Evidentemente il presbitero si era smarrito in uno dei suoi pensieri, era scivolato in qualche altra conversazione. Nemmeno col più spericolato sforzo d'immaginazione si sarebbe potuto descrivere John Reed Burrsong come piccolo e grazioso, e nemmeno come un esserino. «No, vostra grazia.» Di colpo il vecchio sembrò riprendere vita. «Sono proprio contento che abbiamo fatto due chiacchiere.» Gli voltò velocemente le spalle. «In bocca al lupo per domani.» Gli scalini di pietra s'inabissavano a spirale nelle tenebre. Il vento fischiava dalle finestre in frantumi e dagli anfratti dei piani inferiori. «Vuole che l'accompagni giù?» chiese Dill titubante, combattuto fra il senso del dovere e la paura di calarsi in quel buio spaventoso. Si avvicinò al primo scalino. Il presbitero Sypes avrebbe potuto inciampare, farsi del male nell'oscurità. Magari qualcuna delle torce più in basso si era spenta. Il vecchio prete lo osservò per un momento, poi appoggiò una mano sulla superficie scabra del muro e scese il primo gradino. «Non importa, non importa. Torna davanti al fuoco, ragazzo. Restano soltanto novecentodieci scalini.» Dill esitò. Dall'involto che ancora stringeva al petto scivolò uno stivale. Si chinò per raccoglierlo e lasciò cadere il resto degli abiti, da quanto gli tremavano le mani. «Novecentonove.» Il presbitero gli indirizzò un sorriso stiracchiato mentre gli faceva segno col bastone di allontanarsi. «Novecentootto!» Il giovane angelo ricompose il fagotto e tornò nella sua cella. Controllò per l'ultima volta le serrature e la finestra assicurandosi che fosse tutto a posto, e per un attimo considerò la possibilità di accendere altre candele. La notte era appena cominciata, e la cella era piena di spifferi. Se davvero i morti sotto la città erano irrequieti, qualche candela avrebbe potuto spegnersi.
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2 MR. NETTLE
La portava con la disinvoltura di chi è abituato a trovare la strada nelle tenebre. Le tavole di legno scricchiolavano sotto i suoi passi; le corde gemevano e cigolavano, la passerella sussultava e dondolava verso le baracche che la fiancheggiavano. Quelli che ci abitavano lo chiamavano vicolo delle Querce, ma in tutto quel posto non c'era una sola dannata scheggia di quercia. Più facile che ci fossero legno pressato e lamiera. Mr. Nettle abbassò una spalla per evitare che il sudario della figlia si impigliasse in una lamiera penzolante. Quando si chinò, le assi si chinarono con lui, facendo sobbalzare le passerelle che univano il corridoio centrale alla soglia delle singole case, come altrettante lingue. Le baracche erano sospese immobili sulle tenebre, quietamente contorte sui sostegni di canapa. In alto, sopra la sua testa, una torcia sgocciolava nel suo supporto annerito, sputacchiando catrame. Ombre gigantesche gli danzavano attorno mentre passava. Mr. Nettle sollevò la bottiglia e ingollò un'altra sorsata, asciugandosi poi la bocca col dorso della mano, e tornò a concentrarsi sul ritmo dei propri passi. Il cappuccio gli grattava la pelle. Tutta quella stramaledetta veste grattava. La tela grezza da sacco gli irritava i polsi come una gogna, e lo faceva sudare nonostante il freddo. Nella Lega dei Cordai le voci si diffondevano più veloci di un'epidemia, e le menzogne che aveva borbottato per spiegare la morte di Abigail non avevano fatto altro che alimentare quelle voci. Incapace di nascondere il pallore e le ferite della sua figliola morta, aveva mandato via le prefiche venute a bussare alla sua porta, e da solo aveva lavato e avvolto nel sudario il corpo. Nessuna veglia, niente bevute di birra. Le voci dapprima incuriosite si erano presto fatte rabbiose e spaventate. Per evitare gli sguardi penetranti dei vicini aveva calcolato di consegnarla in piena notte, quando le strade erano tranquille come l'abisso che sbadigliava sotto di esse. Vicolo delle Querce s'inabissava per passare sotto le catene del crocevia di Tummel, che prendeva nome dall'incollatore che aveva combattuto ed era morto ad Acquamarcia, e dopo il crocevia si innalzava di nuovo più ri25
pido. Mr. Nettle si cacciò la bottiglia sotto un'ascella e si aiutò con la corda per issarsi a forza di braccia sulle assi scivolose. Raggiunta la cima, si rese conto dell'inutilità delle sue pretese di segretezza. La Taverna della Fregatura era sospesa a una catena di sostegno a poco più di due metri dalla passerella. Ammaccata, panciuta, di metallo rivettato e col fumo che ne eruttava, non aveva perso nulla del fascino della sua primitiva funzione di caldaia per il catrame. Dalla botola che si apriva sul tetto della taverna provenivano violente risate. Fuori c'erano quattro uomini. Un tizio nerboruto con la faccia da tagliaborse ingombrava il passaggio principale scuotendo le funi corrimano mentre un altro, più secco, risaliva ondeggiando la passerella della taverna per raggiungerlo. Gli altri due erano accovacciati fra le cortine di catene che circondavano la porta, e si dividevano il fumo di un vecchio narghilè di latta. Delinquenti, tutti quanti, che si voltarono al sopraggiungere di Mr. Nettle. I ghigni da ubriachi sparirono. Il tagliaborse mollò le funi corrimano. Uno dei fumatori disse con un filo di voce: «E questo dove crede di andare, con quella roba?» «È quel grosso razziatore che sta giù alle Tane», rispose il tizio sulla passerella. «Con la ragazza tagliuzzata.» Il tagliaborse abbassò la testa e le ombre sotto i suoi occhi si accentuarono. Fece un passo verso Mr. Nettle, spavaldo come se fosse il padrone della strada. «Lascialo alle guardie del tempio», disse il fumatore. «Quello non ragiona. O è ubriaco o è impazzito dal dolore.» «Non ha nessun diritto di portare quella cosa al tempio», replicò il tagliaborse. Mr. Nettle strinse la presa su Abigail e lo spinse di lato per superarlo. Le tavole ondeggiarono. Vacillando, l'altro si aggrappò al corrimano per sostenersi. «Credi davvero che faranno entrare quella cosa?» gli urlò dietro. «Credi che non se ne accorgeranno?» «Può anche darsi che qualcuno vada a raccontarglielo prima», disse l'uomo sulla passerella. «Fai prima a seppellirla nelle Sabbiemorte, così ti risparmi la camminata.» Mr. Nettle calciò via l'asse che lo sosteneva. L'uomo gettò il gomito oltre la fune corrimano. La canapa gemette e si tese pericolosamente ma tenne, lasciandolo sospeso sull'abisso. I fumatori scoppiarono a ridere. 26
Mr. Nettle grugnì. Per la miseria, se era ubriaco. Quando gli uomini furono fuori vista, si aggiustò meglio sulla spalla il cadavere di Abigail. Il cuore gli batteva forte, quasi dolorosamente. Rimase a lungo a fissare il terreno senza vederlo. Come avrebbe reagito Abigail al suo pessimo umore? Quante volte si era incupita e accigliata, si era intristita e aveva pianto e lo aveva scrollato per spezzare il silenzio con cui lui reagiva alle sue crisi? Lui non si era mai infuriato, non aveva mai alzato la mano su di lei come avrebbero fatto altri padri. Si limitava a starsene seduto a osservarla attraverso il suo whisky, quasi tranquillo. La bottiglia era fredda nella sua mano. Ne buttò giù un altro sorso. Dopo un po' la strada lo condusse al margine del Dedalo degli Operai, dove la massa disordinata di capanne e passerelle di legno lambiva le mura degli edifici di pietra. Il ghiaccio incrostava i ciottoli e le pietre della via dei Carbonai, una stretta fessura che condusse il razziatore nel quartiere del Pozzo della Cappella. La nebbia aleggiava sul terreno e si insinuava tra le falde della sua veste da lutto, risalendogli fino alle ginocchia. Mancavano forse quattro ore all'alba: il tempo stringeva. Bevve a lungo, assaporando il fuoco che gli invadeva la gola. La mutilazione non poteva essere una risposta. Non per la sua figliola. Coloro che consegnavano alle lame i propri morti erano peggio dei delinquenti, dei ladri e dei tagliagole. Peggio degli infedeli. Eppure, che altra scelta aveva? Se voleva salvarla? Sotto la veste, la scure gli pesava alla cintura. La via dei Carbonai si restringeva mentre lui si addentrava nel Dedalo, e la nebbia pareva pressata in una stretta vena umida. Superò la Locanda della Caldaia, sbarrata e silenziosa, e seguì la lunga curva che la strada disegnava attorno al mercato del pesce. Un po' di fumo si levava tra le grate serrate. Socchiuse gli occhi e proseguì, augurandosi che l'odore non impregnasse il sudario. Oltre il mercato del pesce gli edifici si fecero più grandi, sporgenti sopra la strada. In certi punti i piani superiori arrivavano quasi ad appoggiarsi al palazzo di fronte come lottatori esausti, e i passi di Mr. Nettle echeggiavano nella tenebra più completa. Gallerie invisibili penetravano nelle mura, fauci spalancate da cui provenivano spifferi gelidi, tanfo di paglia fradicia e di cavalli, fumo di narghilè e di sigaro. Una volta gli giunse anche l'odore speziato dei turiboli del Pozzo dei Peccatori: gli si contrasse lo stomaco. Superate le gallerie, la luce aumentò leggermente. Spenti ormai da un 27
pezzo i lampioni, il chiaro di luna si stendeva in lastre grigie che riuscivano solo ad accentuare l'oscurità delle ombre. Passò davanti a una porta sbarrata dietro l'altra. Ponti arrugginiti collegavano le varie zone del Dedalo, superando stretti canali di vuoto. Lasciò il Pozzo della Cappella per inoltrarsi verso Belvarco, facendo risuonare il ferro dei suoi stivali chiodati. Si trovava all'interno del Dedalo, dove Belvarco si fondeva con Applecross e la strada costeggiava le rovine della torre di guardia per seguire la Catena di Dolmen, quando scorse un movimento nel mucchio di coperte afflosciato sul bordo della strada davanti a lui. Ne scaturì una voce: «Una moneta per un pellegrino, signore, un centesimo o una doppia? Guarda il sorriso della luna, solo una notte prima che sia nera. Una doppia per una camera che mi custodisca al sicuro». Le coperte nascondevano il viso del ragazzo, ma Mr. Nettle vide la tazza protesa. «Ho fame», disse il mendicante portando la mano verso la bocca. «Non ho padre né madre.» Mr. Nettle gli sputò addosso senza neppure rallentare il passo. Cinquant'anni da razziatore gli avevano insegnato quanto bastava. Non aspettarti nulla, non chiedere niente. Se ti serve qualcosa, o te lo procuri o paghi per averlo. Se non te lo sai procurare o non te lo puoi permettere, allora non ne hai bisogno. Una doppia non avrebbe fatto nessuna differenza. Non aveva più importanza che notte fosse. Luna piena o luna nera, il ragazzo non sarebbe stato al sicuro comunque. Nessuno era al sicuro di quei tempi. «Straccione!» gridò il mendicante. «Tieniti la tua sudicia moneta della Lega, non sei migliore di me.» Sbatté la tazza contro il muro e cominciò a cantare: «Vieni domani. Vieni a vedere la luna. Domani. A vedere la luna». Mr. Nettle rallentò il passo per un istante. Pestare il mendicante gli avrebbe solo fatto perdere tempo. Afferrò meglio Abigail, raddrizzò la schiena e proseguì. In breve la città inghiottì il canto folle del ragazzo. L'alba era vicina, ma i quartieri di Deepgate dormivano ancora, immersi nel gelo: l'aria sembrava trattenere il fiato in attesa del mattino, le stelle splendevano come punte di lancia negli squarci frastagliati fra le gronde dei tetti. La bottiglia era quasi vuota. La portò alle labbra ma la riabbassò senza berne neppure un sorso. Che stava facendo? Doveva pensare. Il mal di testa stava avanzando dalla base del cranio e i suoi pensieri scorrevano lenti co28
me catrame. Aveva forse attraversato quel labirinto dimenticato da dio come un sonnambulo? Dove si trovava? Via dei Mendicanti, dove una volta aveva rotto la mascella di un venditore d'olio perché gli aveva appesantito la botte con delle pietre. Era quasi fuori dal Dedalo, quanto tempo gli rimaneva? Non sapeva di preciso, ma non molto. Lo aveva sprecato. Per ascoltare i propri passi e osservare il suo stesso fiato che gli si arrotolava davanti al naso e bere il whisky. La lama della scure era come ghiaccio contro la coscia, il collo della bottiglia un nodo nel pugno. Scagliò via la bottiglia, e la sentì frantumarsi. Dietro la curva successiva, la strada sprofondava nella nebbia più fitta. Lampioni a petrolio risplendevano in distanza: i quartieri del tempio. Era quasi arrivato. Si fermò un momento accanto a un «buco della serratura», un varco lasciato dalle pietre del selciato che si erano staccate ed erano volate giù nell'abisso. Qualcuno l'aveva tappato con delle assi, ma quelle si potevano facilmente rimuovere. Di certo ci doveva ancora essere del ferro, là sotto, un bel po'. A volte si potevano sfilare fino a tre travi di ferro, aprendo qualche altra buca e senza indebolire la strada. Ma certe volte toglievano troppo ferro, e allora l'intero tratto sprofondava non appena un carro a pieno carico ci passava sopra. Era difficile accorgersene prima. Fece scivolare Abigail dalla spalla e la tenne in braccio. Sul suo viso risplendeva una patina di ghiaccio. Bianco come il lino in cui l'aveva avvolta. Era lino di buona qualità, meglio di qualunque cosa si potesse comprare all'interno della Lega. Ne aveva trovato una pezza sotto il Ponte del Gas, quattordici anni prima, che nessuno aveva toccato per via del tanfo che aleggiava in quel punto, e se l'era tenuto. Comunque, i mercanti dei Chiostri vendevano anche seta, e il giorno prima aveva camminato per miglia e miglia per sapere quanto costava. E aveva ripercorso le stesse miglia indietro a mani vuote. Il lino sarebbe stato più che sufficiente. Non c'era niente di delicato nell'aspetto di Abigail. Non era una bellezza: la mascella forte, la fronte larga, lineamenti piatti come i suoi, ma appena più dolci. Le spalle e i fianchi troppo larghi erano ormai ben diversi da quelli della ragazzina che ancora scorgeva in lei. Eppure, anche dopo tutto quel tempo, non pesava nulla. Avrebbe potuto portarla per sempre. Mr. Nettle chiuse gli occhi e immaginò che Abigail aprisse i suoi. Avrebbe sollevato le braccia per cingergli le spalle. Non c'è bisogno che mi 29
porti in braccio, avrebbe detto. Posso camminare. L'avrebbe messa giù e avrebbero potuto voltarsi e tornare a casa. Appoggiò la fronte contro quella di lei. Ancora fredda come la pietra. Riaprì gli occhi, ammiccò alla luce dei lampioni a gas in lontananza e proseguì, attraversando il Ponte della Pietra Focaia verso Lilley. Abigail era andata spesso a dipingere in quel posto. Le piacevano le vecchie case contorte con le persiane a stecche e i delicati terrazzini di ferro battuto, e le piaceva sedersi all'ombra di un albero, nelle piazzette acciottolate, per ascoltare il cinguettio degli uccelli mentre lavorava. Ma ancora di più le piacevano i giardini. Una volta erano andati laggiù assieme a cercare di vendere un rastrello che aveva rimediato ai Chiostri e Abigail, che era ancora piccola, andava a bussare alle porte. Un vecchio li aveva fatti entrare in uno dei giardini e si era messo a mercanteggiare con Mr. Nettle peggio d'un Cordaio, mentre Abigail correva in giro e si incantava davanti a tutti quei fiori l'uno diverso dall'altro. Dopo averne visto uno, avrebbe voluto entrare in tutti i giardini, ma la gente di Lilley li teneva chiusi a chiave. Era comunque riuscito a ottenere otto doppie per il rastrello, che l'avevano messo di buon umore, così se l'era sollevata sulle spalle affinché potesse sbirciare oltre i muri di cinta. A sud-est di Lilley la strada si allontanava dalla Catena del Dolmen e cominciava a salire verso il Ponte del Mercato, ed ecco i venditori ambulanti che battevano i piedi, si fregavano le mani, e strillavano nella foschia mattutina. «Petrolio... petrolio.» «Pane caldo, pandolce.» «Cacciatori di uccelli e di topi, per la guardia.» Alcuni servitori di Lilley erano già in circolazione, giravano attorno alle bancarelle a comprare, litigare e sghignazzare, nemmeno fossero soldi loro quelli che stavano spendendo. Non c'era altro modo per superare il mercato che attraversarlo. A testa bassa, Mr. Nettle affrettò il passo, e nessuno lo infastidì fino a quando non raggiunse la zona dei fiorai, dalla parte opposta. «Signore?» L'uomo si alzò dal suo sgabello e gli si parò davanti, bloccandogli il passaggio. «Ho margherite e papaveri, e cotonastro della Foresta di Scisto, tutti freschissimi e per la miseria di una doppia a mazzo.» Aveva una barbetta rada dal colore indefinito e un cerchio d'oro all'orecchio grande abbastanza per infilarci un dito. 30
«Solo una doppia, e per mezzo penny questi rami di bacche delle Vigne Alte, e guarda qua.» Prese un mazzo di rose bianche e le cullò come se tenesse in braccio un neonato. «Rosegiglio, produzione propria, sei per un penny.» Mr. Nettle fissava l'orecchino. Il venditore guardava il sudario di Abigail. «I nobili li pagano il doppio. Il terreno lo faccio arrivare dai vivai dell'Oca Rapace di Clune. Senti, te ne aggiungo un altro paio per lo stesso prezzo.» Spinse i fiori in mano a Mr. Nettle. Il mazzo aveva l'aria appassita, con i petali flosci e gli steli brunastri. «Sono otto per un penny», sollecitò il venditore. Mr. Nettle strinse i gambi e li scrollò forte. I petali si sparpagliarono in giro. «Ehi!» «Sfioriti», disse Mr. Nettle. Raccolse una manciata di petali da terra e li gettò addosso al venditore. «Morti.» Il cielo era bianco opaco quando arrivò con Abigail a Bridgeview, dove la strada si ramificava in dozzine di vicoli stretti. Zigzagò come una spola dall'uno all'altro, controllando le targhe con i nomi per evitare di perdersi. Vicolo della Vittoria, vicolo del Susino, Mercato dell'Argento. In vicolo della Rosa udì uno scalpiccio di piedi e sollevò lo sguardo. Sopra la sua testa, i contorni indistinti dei ponti dei nobili si allungavano da un palazzo all'altro. Conversazioni soffocate fluttuavano verso il basso: stavano andando a vedere l'angelo. Erano stanchi e infreddoliti e, se quella tremenda nebbia non si fosse diradata, non avrebbero visto nulla. Mr. Nettle raggiunse l'estremità del vicolo, scese pesantemente quattro scalini e arrivò infine in un cortile nebbioso che si affacciava direttamente sull'abisso. Lì si fermò. Il Ponte della Porta sfidava l'alba. Archi e puntoni di ferro si levavano come uno scheletrico ventaglio. Le lampade a gas inchiavardate al suolo ardevano frenetiche sul passaggio sospeso, illuminando spicchi delle grosse travi di quercia che si protendevano fino agli scalini del tempio all'estremo opposto del ponte. Era laggiù che deponevano i morti: riusciva a scorgerne sei o sette. Così pochi? Lo stomaco gli si annodò come una corda e lui fece per portare la mano alla bocca, prima di ricordarsi di aver gettato via la bottiglia. Il suo sguardo indugiò per un momento sui pallidi sudari. Non potevano essercene un po' di più, quel giorno? 31
Subito dietro si ergeva la chiesa di Ulcis, le mura simili a nere scogliere. Dai portali si dispiegavano selvagge circonvoluzioni di pietra che risplendevano affilate nella luce delle lampade, per farsi poi indistinte e svanire nella nebbia, così che l'edificio pareva estendersi fino ai confini del mondo. Mr. Nettle sapeva quanto fosse grande. Nelle giornate limpide, le spire che si levavano come dita erano visibili fino dalla Lega, così grandi che pareva di poter allungare una mano e afferrarle. Ma era la prima volta in ventitré anni che arrivava così vicino. La volta precedente i morti erano stati tredici, quattordici con sua moglie. Aveva lasciato la piccola Abigail che dormiva nella sua culla e aveva portato Margaret in quel posto. In quel caso mancava una settimana alla Notte dello Sfregio, e le guardie erano state negligenti: non avevano aperto nemmeno uno dei sudari. Ma lui non aveva avuto niente da nascondere. Il silenzio che covava nel cortile sembrava una pausa nel clangore delle campane. Se lo sentì fin nelle ossa, e gli fece venire la pelle d'oca. La scure era un peso freddo sotto la cintura, l'acciaio gli premeva sulla coscia. Ora o mai più. Tenne stretta la figlia. Per un lungo istante fu tentato di voltarsi e andar via. Poi però si tirò il cappuccio sul volto e avanzò. Imboccò il ponte, facendone risuonare l'assito sotto gli stivali. Altri dolenti affollavano il passaggio. Alcuni se ne stavano in silenzio, altri sussurravano stretti in capannelli. Le vesti nere gli ribollirono attorno mentre si scostavano per fargli strada: vesti di seta e di velluto, alcune di taglio elegante, con pieghe che si increspavano al loro ritrarsi, altre più semplici ma comunque tutte nere come la sua. La maggior parte dei dolenti distolse lo sguardo da lui, ma qualche cappuccio si chinò al suo passaggio, lasciando sporgere bianche dita sollevate in un saluto. Gente del Labirinto, probabilmente. Mr. Nettle li ignorò e proseguì verso le porte del tempio, le mascelle contratte e il cuore che gli pestava contro le costole. All'estremità opposta del ponte la adagiò assieme agli altri, concedendosi un momento per lisciarle i capelli e spazzare via un po' del ghiaccio che incrostava il sudario. Era tornata a essere proprio come rammentava di averla vista qualche notte prima, addormentata, i capelli che le incorniciavano il viso come riccioli di rame, la bocca socchiusa, come se potesse ancora sospirare e risvegliarsi. Ricordò di aver pensato che sembrava davvero in pace, bella come 32
in uno dei suoi quadri. Avrebbe potuto essere una buona moglie per qualche brav'uomo. Apri la mano, le infilò nel sudario i tre petali di rosa bianca che ancora stringeva, e poi le coprì dolcemente il volto col telo di lino. In un attimo divenne anonima come tutti gli altri. Mr. Nettle rimase in ginocchio, continuando a distendere invisibili pieghe anche quando il sudario era già perfettamente liscio. Sagome scure lo circondarono e rimasero in attesa. Il gas sibilava nelle lampade. Mr. Nettle contò trenta pulsazioni prima che una mano gli afferrasse la spalla, altre trenta prima di voltarsi. La guardia del tempio portava una corazza ben oliata, nera come l'abisso. Le lame di luce disegnate dalle lampade a gas scivolavano sulla sua superficie senza mai fermarsi. Sul petto gli risplendeva debolmente il talismano di Ulcis, il Raccoglitore d'Anime. Il viso della guardia era sbarbato, rosso e screpolato dal freddo; sotto l'elmo, gli occhi erano gonfi di sonno. In mano reggeva una picca, come fosse una bandiera. «Apri il sudario», gli intimò tirando su col naso e asciugandoselo con la mano guantata. Mr. Nettle sollevò lo sguardo, il volto ancora nascosto dal cappuccio, la mano che ancora stringeva il sudario della figlia. «Li devo controllare tutti», disse la guardia. Mr. Nettle continuò a tacere. La guardia lo fissò impassibile, mentre il suo respiro annebbiava l'aria fredda. Poi si spostò di lato, appoggiò a terra la picca e si inginocchiò accanto al cadavere di Abigail. Le piastre d'acciaio degli spallacci stridettero l'una contro l'altra mentre scioglieva le pieghe del tessuto e liberava un braccio. I due uomini fissarono la carne martoriata del polso. La guardia lasciò cadere il braccio come fosse un topo appestato. «Questo è dissanguato», annunciò a voce più alta del necessario. Mormorii si levarono dai dolenti alle loro spalle. Mr. Nettle sentì che si avvicinavano per vedere meglio. La guardia tracciò un segno attorno al proprio talismano e si toccò la fronte. «Un guscio vuoto. È stato tenuto in fresco.» Raccolse la picca e si rimise in piedi lentamente. «Perché hai portato quest'affare alle porte del tempio? Dèi degli inferi, uomo, ma non ti rendi conto del pericolo?» Allargò di colpo le braccia. «Lei non può entrare.» 33
Mr. Nettle continuava a fissare il braccio esposto di sua figlia. «Lo capisci? Non c'è l'anima.» Le parole della guardia risuonarono come campane nell'alba immobile. Nel profondo, il razziatore sentì qualcosa che gli si sbriciolava dentro. E con esso scivolò via la perla di speranza che aveva serbato per tutta la notte. Aveva sbagliato a non cercare di nascondere le sue ferite? Si senti improvvisamente esausto, la testa gli ricadde sul petto. Per la prima volta gli sembrò di sentire il peso gelido di Abigail che gli gravava sulle spalle. Si afflosciò a terra. E poi le mascelle gli si serrarono e le labbra si ritrassero a scoprire i denti. Sotto la veste, i muscoli del collo si tesero, le spalle si contrassero, le mani si chiusero a pugno e lui schizzò in piedi con un ringhio, afferrando la guardia alla gola con tutte le sue forze e facendola arretrare. L'uomo mise un piede in fallo, agitò un braccio, inciampò su un cadavere e si schiantò a terra in un clangore di ferraglia, il collo ancora stretto nella morsa del razziatore. La picca vacillò, e rovinò a terra con uno schianto spaventoso. Il cappuccio di Mr. Nettle ricadde all'indietro; il volto gli si contorse in un turbine di denti e barba lunga e furia omicida. La guardia cercò di torcere il braccio di Mr. Nettle e lo colpì, gli si aggrappò alla veste. La stoffa si lacerò, ma il braccio rimase fermo come l'acciaio. Mr. Nettle aumentò la stretta. Tutta l'aria si riversò dai polmoni della guardia, che diventò paonazza e rovesciò gli occhi. Annaspò ancora contro il braccio di Mr. Nettle, poi gli piantò le dita in faccia. I guanti irrigiditi dal gelo gli graffiarono la pelle. Poi qualcosa colpì duramente Mr. Nettle sopra l'orecchio scaraventandolo da una parte. Sbatté la testa sulle pietre del ponte e rotolò goffamente, torcendosi i muscoli della spalla. Gli si oscurò la vista. Si ritrovò supino, ansimante. L'orecchio gli bruciava e aveva la sensazione che il cranio gli si stesse restringendo. Scrollò la testa e alzò lo sguardo. Tratti di catena ruotavano vorticosamente nel cielo che si andava schiarendo. Un secondo guardiano gli si ergeva davanti, livido nell'alba, la corazza splendente, la picca spianata. Mr. Nettle lottò per rimettersi in piedi, il sangue che gli colava da uno squarcio sulla fronte e gli riempiva gli occhi. La folla dei dolenti arretrò. 34
Il razziatore si avventò sulla guardia, o almeno ci provò. Il dolore lo colpì come un chiodo conficcato in cima alla spina dorsale. Di colpo tutto s'inclinò da una parte; il ponte gli scivolò via di sotto. Le gambe cedettero, lui inciampò e cadde in ginocchio, agitando i pugni come un ubriaco. La seconda guardia gli cacciò la base della picca nello stomaco. Mr. Nettle si raggomitolò, afferrandosi al legno sotto di lui. Schegge gli penetrarono sotto le unghie. Strinse forte i denti e cercò di alzarsi, fu colpito di nuovo. E ancora. E ancora. I dolenti lo fissavano in silenzio. Uno di loro si chinò a controllare la guardia ferita. Immobilizzato dall'armatura, l'uomo tossiva e sputacchiava, inspirando a grandi boccate rantolanti. Mr. Nettle non sapeva per quanto tempo lo avessero picchiato. Dopo un po' smise di sentire i colpi che continuavano a piovergli addosso. Arrivavano veloci come le lingue di fiamma dell'inferno. Era appena cosciente del dolore provocato dal metallo sulla carne, della superficie scabra del ponte sotto la guancia, del sangue che gli schiumava nel naso a ogni respiro. Poteva continuare da qualche minuto, oppure da ore. Alla fine la guardia si ritrasse. «Sparisci», gli intimò ansimando. Le tremavano le braccia quando puntò l'estremità acuminata della picca alla gola di Mr. Nettle. «Vattene! Via da qui. Sparisci.» Mr. Nettle cercò di muoversi, i muscoli che protestavano urlando. Torrenti di dolore fresco gli inondarono le braccia e le gambe. Ricacciò indietro i conati di vomito e fece leva sul ponte per sollevarsi carponi sulle mani e sulle ginocchia. L'occhio sinistro si era gonfiato fino a chiudersi. Almeno una costola doveva essere rotta o incrinata. Sputò a terra un dente insanguinato. Ma si allontanò. Senza voltarsi a fronteggiare il suo aggressore, strisciò di nuovo accanto al corpo della figlia. Lentamente, con attenzione, le ricoprì il braccio col sudario. Dalla sua faccia un po' di sangue gocciolò sul lino. Poi la sollevò, e fece forza per rizzarsi in piedi. Vacillò per un attimo: di colpo era diventata così pesante. Gli tremavano le gambe, ma si raddrizzò con uno strattone e una specie di rantolo che echeggiò rimbalzando sonoro sulle mura del tempio. Ormai senza cappuccio, i denti scoperti e il viso gonfio e coperto di sangue, si incamminò per riattraversare il ponte. La veste ormai lacera penzolava a brandelli dal braccio. Gettò uno sguardo selvaggio sui dolenti, che 35
si divisero come una corrente scura davanti alla prua di una nave, ammucchiandosi il più lontano possibile da lui per seguire poi la sua ritirata con sguardi furtivi. Voci agitate mormorarono al suo passaggio. Mr. Nettle continuò ad attraversare il ponte col sangue che gli pulsava nelle orecchie e con soltanto il silenzio nella sua scia. Nell'ombra delle travi all'imboccatura del Ponte della Porta tenne la figlia sollevata sul bordo, sospesa sull'oscurità, e abbassò lo sguardo sul tessuto sgualcito che le copriva il volto e sulle ciocche di capelli che sfuggivano da sotto il tessuto. Sulle sue guance le lacrime si mescolarono col sangue, e l'uomo la lasciò cadere nell'abisso. Il sudario bianco fiammeggiò per un istante alla luce delle lampade a gas, e poi era sparita. Il manico della scure gli affondava nelle costole e, per quanto gli era servita, ebbe la tentazione di gettare nell'abisso anche quella. A che poteva ormai servirgli? Quando mai avrebbe potuto arrivare così vicino all'assassino di sua figlia da poterla usare? Gli occorreva un'arma più efficace per uccidere un angelo.
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3 DILL E RACHEL
Dill si svegliò di soprassalto annaspando in cerca d'aria, ancora nella morsa del suo incubo. Era stato in qualche posto da solo, immerso in una gelida oscurità opprimente. No, non completamente solo: c'era anche una ragazza. Occhi neri, labbra rosse, denti bianchi. Per quanto cercasse di ricordarsela, i suoi lineamenti erano svaniti, lasciandolo con la sensazione che fosse allo stesso tempo bellissima e spaventosa. La ragazza stava piangendo, oppure rideva? Era mattina e lui giaceva a faccia in giù sul materasso, in una pozza della sua stessa saliva. Le candele si erano consumate fino a ridursi a mozziconi di sego. Nel camino il fuoco covava sotto la cenere, e la luce del sole penetrava dalle vetrate colorate della parete orientale. Gli occhi ancora cisposi di Dill misero a fuoco l'immagine raffigurata sul vetro. Il suo antenato Callis, Araldo e comandante degli arconti di Ulcis, ad ali spiegate e spada sguainata davanti a un gruppo di infedeli tremanti di paura. Davanti ai piedi dell'angelo si levavano nuvole di polvere che sfumavano dal rosa all'azzurro e oro. Dill tirò su col naso, si pulì la bocca con la manica della camicia da notte e si alzò dal letto tutto indolenzito. Stirò braccia, gambe e ali, prima di rendersi conto che gli occhi gli prudevano terribilmente. Borbottò: «Ti prego... oggi no, non per la cerimonia». Ma nessuna supplica poteva cambiare le cose. Gli occhi di Dill erano del colore sbagliato: del tutto inappropriato. Nervi. Ovvio che fosse nervoso. L'oscurità del sogno l'aveva innervosito ancora di più. E oggi cingerò per la prima volta la spada. Si sarebbe preoccupato degli occhi più tardi, intanto doveva lavarsi. L'acqua nel secchio era gelida, ma si lavò fino ad ansimare dal freddo, poi rimase nudo, fradicio e tremante, le braccia ossute avvolte attorno alle costole, le piume inzuppate. L'uniforme giaceva sullo sgabello, piegata con cura come l'aveva lascia37
ta la sera prima, una massa di velluto pesante, broccato finissimo e tocchi d'argento. Gli stivali accanto allo sgabello erano nuovi, e odoravano di cuoio appena lucidato. Ma la spada appesa sul camino brillava più di tutto il resto. La lama lo chiamava ma lui non poteva toccarla, non ancora. Prima doveva essere tutto perfetto, e doveva prendersi cura delle lumache. Quella mattina ce n'erano soltanto sette: una vicino al camino, una sotto la finestra, le altre aggrappate alle pareti a diverse altezze. La più grossa aveva le dimensioni di una noce, la più piccola della punta di un mignolo. Le staccò dolcemente dalle loro posizioni e le infilò nel secchio delle lumache, assieme alle altre. A quel punto dovevano essercene una quarantina in tutto, notò. Probabilmente era stata la pioggia a farle uscire in abbondanza. Da dove venivano? Dill aveva passato anni a cercare di capirlo. C'era una fessura sotto la porta della terrazza, e un'altra sotto la porta che dava sulle scale: avrebbero potuto entrare nella sua cella da quei passaggi, e c'erano anche dei fori nelle pareti, dove la malta si era sbriciolata per l'umidità. Ma aveva fissato per ore ognuno di quei buchi senza mai vederne uscire una sola lumaca. Le sale vuote ai piani inferiori ne erano piene, ma quelle stanze restavano perennemente al buio, e non c'era torcia o candela che facesse luce a sufficienza da convincerlo ad avventurarsi là dentro. Per quanto nemmeno le lumache che c'erano laggiù sembravano muoversi. Le lumache, essendo lumache, si muovevano soltanto quando nessuno le osservava. Un boato improvviso fece tremare i vetri della finestra. Un'esplosione? Dill ruotò su se stesso, confuso, aspettandosi di vedere crollare i muri, e mancò poco che rovesciasse il secchio delle lumache. Ma tutto rimase al proprio posto, e il rumore esterno si dissolse nel nulla. La porta che dava sulla terrazza sembrava sigillata, come se la cornice ad arco si fosse gonfiata durante la notte, ma alla fine riuscì ad aprirla con un calcio e strizzò le ali per uscire. Frizzante aria mattutina: le lastre di pietra gli ghiacciarono i piedi nudi, e il parapetto da cui si affacciò era gelido. Deepgate si stendeva ai suoi piedi, splendente alla luce del sole. Possibile che da qualche parte si fosse spezzata una catena, che una parte della città fosse sprofondata nell'abisso? Si sporse di più per vedere meglio. Appesantite dalle balconate, le case di Bridgeview si adagiavano in strane angolazioni attorno ai loro cortili chiazzati, ai giardini cintati e alle 38
fontane che splendevano come schegge di vetro. Più avanti, i tetti spioventi di Lilley e dei Chiostri si accalcavano sulle catene. Ancora più lontano, il fumo si levava da un migliaio di camini nel Dedalo. E, ai margini estremi della città, la Lega dei Cordai era ammucchiata attorno agli ancoraggi delle catene, appena sotto le Sabbiemorte, come legname trasportato a riva dalla corrente. Nessun segno di disastro. Un altro profondo boato. I corvi sorvolarono la torre stridendo allarmati. Dill corse verso il lato opposto della balconata per investigare. La scritta a grandi caratteri neri sulla pinna di coda proclamava che la nave da guerra era l'Adraki. Stava virando lentamente, accostando al tempio. Eliche grandi due volte un uomo vorticavano ai due lati della gondola intarsiata d'ottone appesa sotto l'involucro. Quattro aeronauti in uniforme bianca erano ritti sul ponte e scrutavano oltre la battagliola del castello di poppa, tra le luci all'etere e gli arpioni d'attracco. Il segnalatore lo vide e agitò le braccia in un rapido messaggio di bandiere che Dill dubitava fosse garbato. Dill alzò il braccio in un esitante gesto di risposta. Non aveva mai visto una di quelle navi tanto da vicino. L'involucro argenteo riempiva metà del cielo; e si avvicinava ancora, superandolo per dirigersi verso il pontile d'attracco che sporgeva più in basso dalle ripide mura del tempio. Mai nel corso della sua vita una nave aveva usato quell'attracco. Nemmeno le navi della Chiesa erano autorizzate ad avvicinarsi tanto e quella, l'Adraki, era addirittura una nave da guerra, le gabbie sul ponte piene di fusti di gas di calce viva e bombe incendiarie. Era evidente che doveva trattarsi di qualche pezzo grosso. Di colpo l'agitazione di Dill fu al culmine, e gli occhi gli bruciavano sempre di più. Bianchi come la bandiera di un codardo, avrebbe detto il capitano della guardia del tempio. Se non altro gli aeronauti erano troppo distanti per scorgere il suo terrore. Chiuse gli occhi e pensò alla spada di Callis, la sua spada, ma sentì che il bianco degli occhi gli virava verso il porpora. Scosse il capo e si aggrappò forte al parapetto finché il colore non sbiadì in un più tranquillo e rispettabile grigio. «Cime d'ormeggio», gridò un aeronauta, lanciando una prima lunghezza di cima. Evidentemente non intendevano usare gli arpioni così vicino a tante pietre e vetrate antiche. Dal ponte d'ormeggio uno scaricatore afferrò la cima, la fece passare in una puleggia fissata alla gru d'attracco e di corsa la tirò fino a un verricello. Seguirono altre cime, e altri uomini si misero 39
all'opera. Dal ponte arrivò un richiamo: «Cime fissate. Pronti a tesare». «Recuperare.» I cavi si tesero e vibrarono quando gli scaricatori cominciarono ad alare le cime che scendevano dagli argani montati sul ponte dell'aeronave. I motori della nave da guerra rombarono ancora. Con una vibrazione, accostò piano al pontile. «Ehi, arconte, vuoi un passaggio?» gridò il segnalatore. Gli altri aeronauti scoppiarono a ridere. «Lasciate in pace quel poveraccio», disse uno di loro. «Non è mica colpa sua.» «Stavo solo chiedendo.» Dill chinò il capo, in modo che non vedessero i suoi occhi diventare rosa, poi seguì le sue stesse impronte umide per tornare dov'era venuto. Gli aeronauti potevano tenersela, la loro nave. Dill aveva la sua uniforme, adesso. E la spada, ovviamente. Si illuminò: gli restava ancora tempo per fare un po' di esercizio con la spada. Fece il giro della balconata di corsa, ripiegò le ali e si chinò per rientrare nella sua cella. Ma a metà stanza si fermò di colpo, sbalordito. Una giovane donna lo aspettava, in piedi accanto al camino. Piccola, gracile, i capelli biondi tirati all'indietro e acconciati in quella treccia severa che andava per la maggiore tra le figlie dei nobili. Ma era quella la sua unica concessione alla moda, perché non portava gioielli e indossava un paio di calzoni di pelle frusti e irti di armi. L'elsa consumata di una spada sporgeva da un fodero assicurato alla schiena, coltelli da lancio bluastri e aghi d'argento correvano per l'intera lunghezza delle braccia rivestite di pelle, mentre dalla cintura pendevano sacche di veleno, una cerbottana, e tre pezzi di canna di bambù ossidati dal tempo. Aveva staccato la spada di Dill dal suo supporto, e la stava esaminando. Quella spada era troppo grande per lui, ma tra le mani minuscole della ragazza sembrava addirittura enorme. «Rimettila a posto», scattò Dill. Due occhi verde scuro lo sfidarono. Il viso era talmente pallido da farla sembrare malata. «La tua spada?» gli chiese. Il suo sguardo si abbassò brevemente sull'arma, poi si alzò di nuovo a incontrare quello di Dill. Lui si ricordò di essere nudo. Afferrò la camicia da notte, se la avvolse attorno ai fianchi e la guardò torvo. «È la spada di Callis.» «Così dicono.» Studiò l'arma più da vicino. «È abbastanza antica. Un 40
unico strato d'acciaio, piuttosto fragile, pesante. Non affilata. Il bilanciamento...» Fece scorrere il dorso della lama lungo la propria manica e poi la tenne a due mani. «È inesistente. A un certo punto devono aver tagliato via il pomo, non che faccia molta differenza. La guardia...» Sbuffò. «Qualcuno deve averla sostituita. Questo è piombo dorato. Basterebbe un cucchiaio per intaccarla.» La rimise a posto sul suo sostegno. «Se non altro è lucida.» Dill attese, impassibile. «Rachel Hael», disse lei. C'era qualcosa di familiare nel suo cognome, ma Dill non riusciva a individuarlo. «Cosa vuoi?» «Niente», rispose subito lei in tono piatto, come se la risposta fosse un riflesso condizionato a quella domanda. Poi esitò, quasi rendendosi conto che avrebbe dovuto dire qualcosa di più. «Sono il tuo sovrintendente.» «Cosa?» «Sovrintendente. Precettore. Guardia del corpo.» Rachel Hael era una spanna più bassa di lui, pesava la metà e poteva avere al massimo tre o quattro anni più di lui. Trasudava quell'aria da secchiona di chi detesta gli scarafaggi. «Tu non sei il mio sovrintendente», disse lui. Rachel si stava guardando attorno nella cella. «Quante candele ti servono, qui dentro?» «Il mio sovrintendente è John Reed Burrsong.» «È morto sette anni fa.» Burrsong era morto? Ecco perché era un pezzo che non lo vedeva più in circolazione. Ma ci saranno pur stati altri soldati, altri studiosi! Il tempio ne pullulava: vecchi polverosi con barba e occhiali. Che si ricordavano delle guerre e di quando l'acqua aveva un sapore migliore e tutti erano cortesi, e ti raccontavano tutte quelle cose inframmezzandole di sospiri di stanchezza e ammiccando. Ci doveva essere qualcuno più adatto. Più vecchio. Che sembrasse meno fragile. «Sypes mi ha detto di vegliare su di te», disse Rachel. «E di istruirti, immagino. Maneggiare la spada, i veleni, la diplomazia, cose del genere.» Infilò la mano in un sacchetto appeso alla sua bardatura e ne trasse un libricino, che gli lanciò. Dill gettò un'occhiata al titolo. Etichetta del commercio nel deserto per nobili mercanti, di P. E. Wallazvay. «E questo cos'è?» «Qualcosa che ha a che fare con la diplomazia, non credi?» Guardò la 41
copertina. «Almeno così mi hanno detto. Dovresti leggerlo, se puoi. Sono sicura che sarà affascinante.» «Io non...» «Non ti biasimo», concesse lei. Dill si morse il labbro. Sembrava tutto sbagliato. Possibile che il presbitero Sypes avesse ceduto al rimbambimento galoppante? Una ragazza armata di un libro che non aveva letto e di una spada che probabilmente non sarebbe riuscita a estrarre dal fodero senza farsi del male non poteva essere il sovrintendente di cui aveva bisogno. «Attira poco anche me», continuò la ragazza. «Fammi indovinare: arancione significa seccato?» Dill distolse lo sguardo, concentrandosi per riportare i suoi occhi sul grigio. Il pulviscolo danzava e splendeva davanti alla finestra di Callis. Sotto c'era il secchio delle lumache, ed ebbe la tentazione di tirargli un calcio. «Perché tieni in camera un secchio pieno di lumache?» chiese lei dopo un po'. «Cosa?» «Le lumache.» «Perché?» Lei attese. «Perché si arrampicano fin quassù», rispose Dill. «Le metto nel secchio e poi le porto via.» «Dove?» Lui si accigliò. «Che addestramento hai avuto, a ogni modo?» «Dove porti le lumache?» Perché si era messa a parlare di lumache? Agitò il libro verso di lei, impaziente. «Giù dabbasso, nel tempio.» «Perché?» «Per liberarle.» «Perché?» «Non lo so!» Faceva così e basta. In camera non le voleva, e così le portava via, e le liberava nei corridoi davanti alle celle dei preti. Quella ragazza stava cercando di distogliere la sua attenzione, e lui si era stufato. «Perché proprio tu?» 42
Rachel Hael emise un lungo sospiro. «Questa mattina è arrivato alle porte del tempio un guscio vuoto. Gira voce che ci sia un altro ladro d'anime in circolazione in città, come se uno non fosse già abbastanza. Forse sta diventando di moda.» Alzò le spalle. «Suppongo che loro preferiscano che il tuo sangue rimanga nelle tue vene.» Questa mattina? «Ma la Notte dello Sfregio è stasera. Non è ancora luna nuova.» «Ma davvero?» fece lei con uno sbadiglio teatrale. E così quella era la sua sovrintendente tascabile: un fringuello di ragazzina che credeva di sapere qualcosa sui ladri di anime. Magari aveva letto un libro sull'argomento. Il crepitio nei suoi occhi s'intensificò. «E tu che c'entri?» «Dio solo lo sa.» Ma di colpo lo seppe anche Dill. Riconobbe la sua uniforme. Guardò di nuovo l'elsa della sua spada, accorgendosi finalmente di quanto fosse consumata. Fu invaso da una sensazione di disagio. Ecco perché è così pallida. «Sei una Spina», affermò. «Spina.» Sembrò sputare la parola. «Odio quel titolo. La Spina dorsale del tempio, molto nobile. Preferisco 'striscianotte'. Non è così che ci chiamano? Almeno fino a quando non li trasciniamo via per l'interrogatorio.» Che ci faceva lì? Alle Spine di solito non assegnavano altri incarichi. Non potevano assegnare loro altri incarichi, non dopo quel tipo di addestramento. Che aveva in mente il presbitero? Rachel interruppe le sue riflessioni. «Ho un messaggio per te.» Gli lanciò un pacchetto, avvolto in carta pesante. Dill pasticciò nel prenderlo al volo e il pacchetto cadde a terra, aprendosi. Conteneva una chiave di ferro appesa a una catena, e un biglietto del presbitero. Fa' attenzione a chiudere a chiave la gabbia delle anime fuori dal tempio. Finché i morti non saranno benedetti., l'inferno continuerà a cercarli, e non voglio che il Labirinto riesca ad aprirsi un varco qui dentro. Dio solo sa cosa ne potrebbe fuggire. E cerca di non perdere la chiave, risale a tremila anni fa ed è l'unica che abbiamo. Dill appallottolò il biglietto e lo gettò nel camino. Non perdere la chiave! Lo prendevano forse per un idiota? Callis lo osservava con sdegno dall'alto del suo campo di battaglia di vetro, e persino i suoi nemici dipinti sembravano meno terrorizzati e più maligni. 43
«Buone notizie?» chiese Rachel. Lui si accigliò. «Mattinata storta, oggi», sospirò lei. «il che significa che può soltanto peggiorare.» Si comportava in maniera molto strana per una Spina. Di solito si limitavano a fare quel che dovevano senza batter ciglio né sprecare una parola. Non erano mai arrabbiate o deluse, tantomeno sarcastiche o sgarbate. Probabilmente dipendeva dal loro addestramento. Ma quella Rachel era insolitamente emotiva, e Dill cominciava a sospettare che fosse qualcosa di più del recente incarico di sovrintendente a preoccuparla. Ma, qualunque cosa fosse, non gliene importava nulla. «Ci vediamo dopo la cerimonia», disse lei. «Non ce ne sarà bisogno.» «Non hai scelta. E io neppure.» Fuori i motori dell'aeronave rombarono ancora. Gli urli lontani dei manovali salirono fino a loro, assieme al clangore delle campane. Dill sentì che i denti gli vibravano per il frastuono. L'espressione di Rachel Hael si inasprì. «La Adraki. Pare che Mark sia riuscito a far attraccare la nave senza distruggere l'intero tempio.» Poi, accorgendosi della sua perplessità, aggiunse: «Mark Hael, mio fratello». A quel punto Dill si ricordò dove aveva già sentito il suo cognome. Mark Hael era stato nominato comandante delle aeronavi di Deepgate dopo che la nave da guerra di suo padre, il generale Edward Hael, era stata abbattuta dalle frecce incendiarie degli Heshette, nelle Sabbiemorte settentrionali. Ostacolati dalle tempeste di sabbia, gli aeronauti avevano cercato il relitto della nave per giorni, per recuperare il corpo del generale. La ragione dell'arrivo della Adraki al tempio diventava perciò evidente. Avevano trovato Edward Hael: il padre di Rachel sarebbe stato fra i morti consegnati all'abisso nella cerimonia che si sarebbe tenuta da lì a poco. «Devono aver trovato tuo padre.» Lei incrociò le braccia sul petto. «Perciò ci sarai anche tu alla cerimonia della Consegna». «Non se posso evitarlo», disse lei voltandosi per andarsene. «Ma...» Ma lei si stava già avviando alla porta. 44
«Aspetta», la chiamò, agitando il libro. «Un momento, avevi parlato di spada, e di veleni.» Non che gliene importasse qualcosa, ma non aveva intenzione di lasciarla andar via così facilmente; non con tutte quelle domande che ribollivano nel calderone. «Se è questo il tuo incarico...» Lei si fermò a metà strada, estrasse dalla cintura una fialetta nera e gliela lanciò. «Vuoi conoscere i veleni?» chiese. «Bevi questo.» E poi se ne andò. Dill rimase fermo dov'era, a giocherellare con fiala, libro e chiave, e cercando di sbrogliare i propri pensieri. Si sentiva beffato. Perché una Spina come sovrintendente? Il suo primo giorno di servizio, e doveva essere proprio uno degli assassini del tempio a fargli ombra. E, quel che era peggio, doveva addirittura farsi addestrare da un assassino del tempio. Non erano studiosi. Non erano nemmeno veri soldati. Striscianotte! Che figura avrebbe fatto? Strinse la chiave della gabbia delle anime così forte da farsi male alla mano. Non perdere la chiave. Dèi degli inferi, era un arconte della Chiesa, mica un bambino. Arrotolò la catena e la sbatté sulla mensola del camino, e accanto a essa appoggiò anche il libro e la fiala. Una minuscola lumaca che prima gli era sfuggita era abbarbicata lì vicino. Dill la scaraventò via con un colpo secco del dito e la sentì rimbalzare contro la parete opposta. «Bastarda.» Calzò gli stivali, poi imprecò e se li tolse di nuovo per infilarsi prima i calzoni. Erano troppo larghi, ma la cintura della spada li teneva su. La camicia gli faceva prudere la schiena all'attaccatura delle ali, e le cinghie erano troppo complicate perché riuscisse a stringerle a dovere. Ne allacciò solo una parte: non importava. Nessuno se ne sarebbe accorto, nascoste com'erano sotto la giacca. Anche la giacca era rigida e difficile da infilare, un altro indumento sistemato alla meno peggio per adattarsi alle sue ali da sarti da strapazzo abituati a cucire solo tonache, e che tanto non avrebbero mai dovuto infilarsela. Finalmente vestito di tutto punto, respirò a fondo e obbligò i propri occhi a virare dall'arancio lampeggiante a. un più opportuno grigio. Solo allora si rimirò. Le lumache avevano lasciato tracce di bava su un fianco della giacca. Ovviamente uno dei bottoni d'argento si era staccato. Gli stivali erano flosci, e sembravano inspiegabilmente già consumati, i calzoni erano grinzosi 45
e pieni di ragnatele. Sembrava un idiota. «Sono un arconte della Chiesa», proclamò all'immagine del suo antenato sulla finestra, ma ciò non lo fece sentire meglio. Afferrò allora la spada e la infilò nel fodero appeso alla cintura. Che importava se avevano tagliato via il pomo? Forse non era una spada da Spina, e forse neppure una buona spada, ma era appartenuta a Callis, e quello per lui era sufficiente. Tamburellò sulla guardia posticcia. Probabilmente l'assassina della Spina era solo gelosa. Dill si tolse dalla manica una piuma vagabonda, spazzolò via della polvere immaginaria e poi, afferrando orgoglioso l'elsa della propria spada, si avviò verso il suo primo vero giorno di lavoro. Rientrò un attimo dopo, a prendere la chiave.
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4 IL FABBRO ARMAIOLO
L'intera città si ritraeva davanti a Mr. Nettle. Al mercato della carne di Applecross la folla si divideva, i commercianti smettevano di urlare, venditori ambulanti, servitori, giocolieri e pazzi si facevano da parte, e persino i mendicanti chiudevano le bocche piagnucolose e smettevano di far tintinnare le loro ciotole. Poteva essere la sua mole, o la faccia pesta e sanguinante, o il modo in cui avanzava con la mascella contratta e dondolando i pugni serrati come se volesse colpire qualcuno. E magari l'avrebbe anche fatto, se non si fossero tolti di mezzo alla svelta. Aveva avuto l'intenzione di tornare subito nella Lega, andarsene a casa e perdersi in una bottiglia, ma per qualche ragione i piedi l'avevano invece condotto a est di Belvarco, verso il dedalo dei fabbri armaioli. Per sostenere tutte le fucine e il peso delle pietre c'erano più catene che in qualunque altra parte del Dedalo, eppure sembravano senza scopo, non si capiva in che modo fossero collegate. Gli stessi fabbri si erano messi al lavoro su quelle catene, facendo aggiunte, collegamenti, rinforzando il ferro più vecchio con parti nuove, e così adesso Mr. Nettle era costretto a chinarsi e a infilarsi fra le catene per riuscire a passare. Enormi graffe, grandi quanto un braccio, collegavano una catena all'altra o rinserravano gli anelli dove qualche saldatura si era allentata. Grossi perni sbucavano dal selciato o penetravano nei muri, e in certi punti sotto i piedi non c'era altro che ferro. Ne risultava un intrico di metallo che cigolava e cantava al minimo soffio di vento, un canto che risuonava per miglia e miglia nell'oscurità dell'abisso sotto le strade. Vicolo Bronconero aveva ricevuto il nome che più gli si addiceva. La fuliggine ricopriva i mattoni come una fitta pelliccia. Respirando si sentiva il sapore del carbone, sembrava quasi di avere in bocca una patina nera che si poteva grattare via. Sputando, si sputava carbone nero. Le botteghe dei fabbri si accalcavano sui due lati della via. Dalle forge il fumo ribolliva nei tubi che si arrampicavano sui muri, per poi aleggiare come un baldacchino di volute tra i palazzi. Le insegne di ferro che sovrastavano le porte delle botteghe erano mangiate dalla ruggine, e cigolavano e dondolavano anche 47
se non c'era vento. Il sole non aveva ancora fatto in tempo ad asciugare la foschia mattutina, che già quel posto ribolliva di attività. Un flusso continuo di facchini che arrancavano trasportando carbone, legna e pesanti contenitori di metallo grezzo o lavorato. L'intera strada vibrava sotto i loro passi. Con la Notte dello Sfregio alle porte, la gente si era alzata presto per sfruttare al meglio la giornata e finire quel che aveva da fare prima del calar del sole. Si sentiva risuonare il ferro, il clangore dell'acciaio. Le fiamme ruggivano. Le pale stridevano e gli uomini sudavano. I martelli battevano sulle incudini, clang, clang, clang, e Mr. Nettle avanzava in mezzo ai facchini, in mezzo alle catene, per poi chinarsi per superare la soglia di una porticina che si apriva sulla strada. Due uomini stavano alimentando la fornace, la pelle arrossata dalle fiamme. Un altro lavorava all'incudine, martellando la lama d'acciaio rovente di una spada. «Che c'è?» chiese quest'ultimo senza alzare lo sguardo. «Sono qui per un baratto», disse Mr. Nettle. L'uomo gli lanciò una rapida occhiata senza interrompere il proprio lavoro. «Che cosa e in cambio di che?» Mr. Nettle glielo spiegò. L'uomo sbuffò. «Alla porta accanto.» Risate accompagnarono l'uscita di Mr. Nettle. E così passò di porta in porta, da una fucina all'altra, da un'occhiataccia all'altra. Le risate dei fabbri si propagavano lungo la strada come un contagio e le risposte, anche sincere, erano sempre uguali: La porta accanto... La porta accanto. Dei tanti fabbri di vicolo Bronconero, nessuno offriva più di quattro pence per la sua scure, e nessuno era disposto ad accettarla in cambio di ciò che lui chiedeva. Prima di arrivare in fondo alla via, le risate, gli schiamazzi e il clangore del metallo minacciavano già di spaccargli il cranio. Il vicolo finiva in una frana, dove l'ultimo pezzo si era staccato dalle catene. Avrebbe potuto scivolare giù nell'abisso nel giro di una settimana, o di un anno, ma qualche volta i vicoli in parte franati continuavano a resistere per un pezzo, e la gente della zona continuava a servirsene. Cataste di spazzatura in decomposizione si erano ammucchiate in fondo alla discesa, 48
spinte dalla pioggia. L'ultimo dei fabbri giaceva in un'impossibile culla di travi e catene, intrecciate fra loro come una gigantesca pira di ferro assicurata con cavi e corde. La porta era sbilenca, ingombra di casse su cui Mr. Nettle si inerpicò a fatica. Il fabbro aveva incuneato un lastrone di pietra sotto la propria incudine per metterla in piano, e continuava a lavorarci tirando potenti martellate a una sbarra di ferro incandescente, con una forza tale che pareva che a ogni colpo l'intero vicolo dovesse ruzzolare di sotto. Era vecchio per essere un fabbro, i muscoli tesi e nodosi, il viso incartapecorito da anni di fuliggine. Alla luce delle fiamme la sua pelle sembrava bruciata fino alla carne viva. Quando l'ombra di Mr. Nettle gli cadde addosso, sollevò lo sguardo e disse: «Allora dev'essere una faccenda complicata. Nessuno arriva fin qui se può permettersi quello che gli chiedono gli altri. A quanto pare la gente crede che il mio cervello sia malconcio come questi muri». «Gli altri sono dei ladri», disse Mr. Nettle. «Questo è vero.» Il fabbro non aveva neppure interrotto il proprio lavoro. Continuò a martellare la barra di ferro mentre si raffreddava, l'appiattì a entrambe le estremità e poi la piegò in mezzo a formare una staffa da muro. «Però la gente deve mangiare, e per mangiare deve commerciare, e io più degli altri. Sono sessant'anni che me ne sto a questa forgia e gli affari sono più magri che mai. Chiunque possa permettersi qualcosa di meglio non arriva fin quaggiù. Hanno paura che la strada gli si sbricioli sotto i piedi.» «Io voglio proporti un baratto.» Il fabbro agguantò la staffa con un paio di lunghe pinze, e la lasciò cadere in una tinozza d'acqua. Il vapore sibilò, furioso. L'uomo si asciugò la fronte con uno straccio. «Vediamo cos'hai.» Mr. Nettle gli porse la scure. «Be', potrei usare l'acciaio, ma tu cosa vuoi in cambio?» Mr. Nettle esitò. «Una balestra.» Il fabbro lo guardò con un'espressione che avrebbe potuto essere un ghigno, o anche solo una smorfia di stanchezza. «Vedi per caso delle armi, qui dentro?» gli chiese. «Io fabbrico perni e staffe per i muri. Perni e staffe, e sono fortunato se ci guadagno un penny a pezzo. Nessuno paga in anticipo il ferro lavorato sull'orlo di una frana, a meno che non costi meno della sabbia.» «Saresti disposto a lavorare la parte in ferro se io te lo procuro? La parte in legno me la faccio da me.» 49
«Non a questo prezzo.» Restituì la scure a Mr. Nettle. «Pagherò, ti offrirò dei soldi per il lavoro.» «Bene, allora torna quando ce l'hai. Se puoi procurarmi altro acciaio, se ne riparla.» «Mi serve per questa sera.» Il fabbro scosse la testa. «Lo era davvero, una faccenda complicata. Le parti metalliche di una balestra in un giorno, e con un anticipo così misero.» «Posso pagarti col mio lavoro», disse Mr. Nettle. «Alimentare la fornace, portare il carbone. Ti fabbrico le staffe, se mi insegni come si fa.» «A che ti serve la balestra?» Mr. Nettle non rispose. Il fabbro guardò la veste da lutto rovinata di Mr. Nettle, i lividi e il sangue che aveva in faccia. Dopo un momento disse: «Stanotte è luna nera, eh? Se hai intenzione di andare a caccia, non vedo come potrai pagarmi il debito». Mr. Nettle s'infuriò. Non aveva riflettuto sul dopo Notte dello Sfregio, non pensava che fosse importante. Ma quell'uomo aveva il diritto di essere diffidente: un debito era un debito, e i debiti vanno pagati. Ognuno ha diritto di mangiare quanto chiunque altro e, se Mr. Nettle non fosse tornato, sarebbe venuto meno al suo patto col fabbro. Il che equivaleva a rubargli il cibo di bocca. Fu allora che Mr. Nettle provò un senso di nausea, di vuoto allo stomaco, e più che mai ebbe il desiderio di tornare alla sua bottiglia. «Senti», disse il fabbro. «Parlavi di intagliare il legno per la balestra. Sei un carpentiere? Sei capace di fare una cosa del genere? Hai mai tirato con una balestra? Ne hai mai vista una?» «No», ammise Mr. Nettle. Ebbe la stessa sensazione di quando si era trovato sul Ponte della Porta: intrappolato dalle circostanze e, nonostante tutta la sua rabbia e la sua forza, le mura che lo imprigionavano erano più forti di lui. «Già, me lo immaginavo. Forse è meglio che lasci perdere. Lascia stare.» «Non posso.» Il razziatore strinse i denti. «Spiacente.» Il fabbro gli voltò le spalle. Una disperazione improvvisa si impadronì di Mr. Nettle. Cercò di fermare l'uomo afferrandolo per una spalla, con più forza di quanto avesse voluto. Poi allentò la morsa. Era stato sul punto di dirgli: Aiutami, ma la paro50
la gli era rimasta in gola. Gli disse in fretta: «Ti pagherò, lavorerò per te», e si stupì da solo per il tremito nella sua voce. Gli suonava estranea, come se fosse stato un altro a parlare. Il fabbro si girò a guardarlo, il volto duro come il bronzo alla luce del fuoco. Cos'era quello che Mr. Nettle scorse nei suoi occhi? Non aveva mai visto uno sguardo del genere. Poi capì che si trattava di pietà. Abbandonò la presa sull'uomo e si girò per andarsene, timoroso che il fabbro avesse percepito la sua supplica silenziosa. Era stato un pazzo a recarsi in quel posto. Un maledetto pazzo. Non gli serviva l'aiuto di nessuno, né ora né mai. «Aspetta», disse il fabbro. Mr. Nettle esitò, le orecchie che bruciavano più che per i colpi della guardia del tempio. «Vieni nel retro. Forse ho qualcosa che ti posso prestare, se lavori per guadagnartelo.» Il pavimento si inclinava in maniera così improvvisa che Mr. Nettle fece fatica ad attraversarlo. Dovette camminare di lato, le braccia tese in fuori per mantenere l'equilibrio, i piedi che scivolavano. Il fabbro non parve curarsi della pendenza, e si mosse a lunghi passi sghembi che lo fecero sembrare uno sciancato. Si arrampicarono attraverso una porta tutta storta per infilarsi in una celletta di pietra alta appena quanto bastava perché Mr. Nettle potesse stare in piedi. Con la testa sfiorava delle pietre che avrebbero potuto essere indifferentemente un soffitto o una parete. Un po' di paglia copriva un tavolaccio appoggiato da una parte, che formava un angolo acuto contro il muro, o contro il pavimento. Accorgendosi del suo sguardo, il fabbro disse: «All'inizio raddrizzavo il tavolaccio perché rimanesse in piano. Ma un giorno mi sono accorto che non riuscivo più a dormirci. Non riuscivo più a dormire su un letto in piano. Alla fine ci si abitua a tutto, vero?» La pendenza della stanza gli provocava un vago senso di nausea. Lunghi chiodi erano piantati nel muro a bloccare dozzine di staffe di metallo e di perni sghembi, che parevano lancette d'orologio che segnassero le sette o le otto. Il fabbro si inginocchiò davanti a un enorme baule di legno rossastro, la cui solida struttura era rinforzata con bande di metallo ribattute attorno alle fibre rosso scuro. Aprì la serratura e cominciò a frugare all'interno, poi tirò fuori una serie di attrezzi, per la maggior parte martelli e pinze in vari stadi di riparazione e li allineò da una parte. «Eccolo. Dammi una mano.» 51
Assieme, sollevarono un grosso involto di tela di sacco e lo appoggiarono in terra. Era pieno di armi: quattro coltelli, senza manico ma con buone lame affilate; una semplice spada corta, del tipo a volte usato dai riservisti di Deepgate, una mazza «stella del mattino» dalle lame scanalate e ben oliate; e una grossa balestra. Quest'ultima aveva un grosso flettente di tasso rinforzato con metallo e laminato d'acciaio e un pesante meccanismo, simile a un martinetto, fissato in fondo al teniere. «Mi pagavano meglio, prima che la strada franasse», disse il fabbro. «Ai miei tempi facevo anche qualcosa di più dei perni da muro, eh?» Mr. Nettle prese in mano la balestra. Con tutto quel ferro e gli strati di legno pesava quanto un sacco di carbone. «Non è fatta per essere trasportata a mano», fece notare il fabbro. «Questa è una grande balestra, il mercante per il quale l'avevo fatta voleva montarla sul proprio carro per le spedizioni alle Piantagioni. Non sarà tra le più eleganti a vedersi, ma è capace di trapassare un uomo da parte a parte. Questo qui in fondo è il martinetto, vedi, per mettere in tensione la corda. Qui da qualche parte dovrei avere anche la corda, avvolta in una tela cerata.» Frugò di nuovo nella cassa, parlandogli da sopra la spalla: «Bada che ho soltanto tre frecce per questa: sono i campioni che mi aveva fatto l'armaiolo. Dovevo farmene fare delle altre, ma il mercante non tornò più. Immagino che gli Heshette lo abbiano beccato durante il viaggio. Però sono tre belle frecce. Eccole, ed ecco anche la corda». Quando si voltò gli brillavano gli occhi. A un'estremità della prima freccia era attaccato un bulbo di vetro con dentro un liquido denso. «Incendiaria», spiegò il fabbro. «Meglio fare attenzione, con questa.» La posò con cautela. «Ci sono un bel po' di riservisti che si sono ritrovati con un occhio finto o la pelle di cuoio per aver acceso la pipa nelle vicinanze di una di queste.» La freccia successiva aveva la punta d'acciaio a forma di falce di luna. «Punta da caccia», spiegò il fabbro. «Forse il mercante aveva sognato di andare a caccia di falchi o di avvoltoi quando non doveva difendere le sue carote dagli infedeli. Ho come l'impressione che sapresti su chi usarla, eh? Non è avvelenata, ma basta infilare la punta nello sterco d'uccello e può fare un gran brutto lavoro.» L'ultima freccia aveva la punta coperta da uno spesso cappuccio di 52
cuoio. Il fabbro prese un paio di pinze e sfilò il cappuccio con grande attenzione, rivelando una semplice punta d'acciaio. «Questa sì che è rara sul serio, una cantaveleno. Forse non è più potente come una volta, ma forse sì. Non ho intenzione di toccarla per metterla alla prova.» Il fabbro rigirò in mano la freccia come fosse di cristallo. «La peste dell'ingluvie, della migliore produzione di Devon. Estratta da ragni che crescono all'interno della carne umana. Dico sul serio. Lo sai cosa fa?» Mr. Nettle scosse il capo. Il fabbro sogghignò. «La ferita non guarisce mai. Mai più. Non smette di sanguinare fino a quando non rimane più sangue e il Labirinto viene a reclamare la sua parte.» Con molta cautela, rimise il cappuccio sulla punta. «Strappanime, le chiamano.» Diede un'altra occhiata alla lacera veste da lutto. «Magari ti piace come nome, eh?» «Me la presti?» chiese Mr. Nettle. «Ecco, diciamo che te la presto. E in cambio voglio il tuo lavoro. Ho due tonnellate di ferro grezzo da trasportare dal deposito e una cinquantina di chili di staffe che devono arrivare a Rins prima del buio. E, se non ti dispiace, devi pagare il debito prima di stanotte.» Si agitò a disagio. «Niente di personale, ma so bene che notte è stanotte.» Mr. Nettle abbassò la balestra. «Non posso accettare.» «Eh?» «È troppo. Non ce la faccio a ripagartela.» Un giorno di lavoro non poteva bastare a pagare il debito. E con ogni probabilità il fabbro non avrebbe mai più visto la sua arma. Lo sapevano entrambi. La gentilezza dell'uomo lo colpì come un pugno, e Mr. Nettle si voltò per nascondere il proprio sconforto. Doveva trovare un altro sistema. «Ascolta, figliolo», disse il fabbro. «Mi faresti comunque un favore. Con questi bastardi che pagano venti doppie per una misura di ferro, non posso nemmeno permettermi i facchini per portarlo fin qui. E a che vuoi che mi serva questa balestra che se ne sta qui a raccattare polvere?» Mr. Nettle non riuscì a guardarlo negli occhi. «Potresti venderla», suggerì. Il fabbro grugnì. «A chi? Hai mai visto qualche soldato con dei soldi in tasca? Quei poveracci non hanno neppure da mangiare, di questi tempi. I regolari guadagnano qualcosa, d'accordo, ma le armi gliele fornisce la 53
Chiesa, e loro di certo non comprano un ferrovecchio come questo.» «A un mercante?» «Ormai quelli hanno le aeronavi. Dèi degli inferi, e ci devono pagare anche un bel po' di tasse sopra. Trovami un mercante che non abbia le mani del tempio infilate in saccoccia e magari riesco anche a combinare una vendita, ma ormai quelli che non avevano tasche profonde abbastanza da tener lontani la Spina e l'Avulsore sono spariti, marchiati come infedeli. Tu lavora per me, e levami di sotto gli occhi questa maledetta cosa prima che la trovino i preti e se la prendano come pagamento per le tasse.» Mr. Nettle esitò. «Se noi disgraziati non ci aiutiamo fra noi, chi altro vuoi che lo faccia?» Alla fine il razziatore annuì. «D'accordo.» Il fabbro mostrò a Mr. Nettle come incordare la balestra e caricare il dardo azionando il martinetto. «Però ricordati che ci sono solo tre frecce, non di più. Nel caso che tu debba, per dire, colpire qualcosa che si trova piuttosto in alto, dovrà essere un colpo maledettamente preciso, oppure dovrai avere una gran fortuna, eh?» Mr. Nettle non aveva mai preso in mano una balestra prima d'allora, figuriamoci se sapeva usarla. Quanto alla fortuna, non gli era mai toccato granché neppure di quella. Ma adesso aveva almeno una possibilità di rimettere le cose a posto, e cominciò a recuperare un po' di fiducia. Avrebbe pagato il suo debito prima del tramonto, sarebbe stato quanto più corretto possibile verso quell'uomo e poi, giunta la notte, sarebbe stato corretto con l'angelo. Sollevò la balestra all'altezza degli occhi e prese la mira, immaginando le ali nell'ombra. «Come ti chiami?» chiese al fabbro. «Smith»,1 rispose l'uomo con un ghigno da cospiratore.
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Smith in inglese significa «fabbro». (N. d. T. )
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5 FANTASMI, VELENI E PASTICCINI
Il presbitero Willard Sypes osservava e registrava i movimenti dei fantasmi. Per facilitare la visione dell'abisso sottostante aveva spento le lampade dell'osservatorio, lasciando accesa solo qualche sparuta candela dentro le lanterne di cristallo. Nella penombra la veste nera del presbitero aveva perso ogni contorno, e la sua testa sembrava fluttuare al di sopra della scrivania come quella di uno spettro, gialla e rugosa come la pergamena che aveva davanti, mentre il calamo pareva scaturire dalla stretta artritica di una mano staccata dal corpo. Al coadiutore Fogwill Crumb sembrò che il viso del presbitero si fosse immobilizzato per un attimo, prima di confondersi con la pagina. Dalla superficie maculata del cranio calavano pieghe di pelle che parevano accumuli di sego. Piccoli occhi chitinosi saettavano fra quelle pieghe, mentre il vecchio prete allungava la mano per intingere il calamo nell'inchiostro, poi rimetteva a fuoco la pagina, e riprendeva quindi a graffiare parole sul suo registro. Sypes posò la penna e si chinò in avanti con uno scricchiolio per dare un'occhiata attraverso l'oculare dell'auroletiscopio, e per un peccaminoso istante Fogwill si chiese se il rumore fosse venuto dalla sedia o dalle vecchie ossa del suo maestro. L'auroletiscopio occupava quasi interamente l'osservatorio. Sypes girò una manovella e la struttura d'ottone cominciò a ruotare come il meccanismo interno di un enorme orologio. Ruote e rotelle dentate scattarono e si misero in moto a velocità diverse. Il tubo delle lenti girò dolcemente, sollevandosi di una frazione dal foro del pavimento quando il presbitero lo mise a fuoco. I riflessi delle lanterne danzarono sulle lucide superfici riflettenti in movimento, facendo sembrare d'oro brunito l'intero macchinario. Fogwill era in piedi davanti al suo maestro: basso, tozzo e splendente nella sua veste cerimoniale. Il cranio rasato era liscio e duro come una noce, il viso florido spolverizzato del suo prediletto talco al papavero di Clune. Le dita risplendevano di anelli e pietre preziose: grossi rubini dalla montatura d'oro, sottili acquemarine su argento, e una clessidra color 55
dell'ambra che si abbinava ai suoi occhi sorridenti. «Le luci delle anime risplendono, stamani?» chiese. Il presbitero aguzzò lo sguardo nell'oculare. «Non si vede niente da giorni, ormai. Comincio a temere che la mia vista si stia indebolendo.» «Forse i morti stanno diventando meno irrequieti.» Sypes si lasciò andare contro lo schienale della sedia. Aveva l'aria di essere rimasto ingobbito sull'auroletiscopio per tutta la notte. «Oppure più guardinghi.» Scrisse un'altra frase sul registro e lo chiuse con un tonfo. La polvere ricadde lentamente. «Ha chiesto di vedermi», disse Fogwill. Sypes si voltò verso di lui, in una successione di scricchiolii. «Non mi pare.» Fogwill congiunse le dita sotto il mento, cercando di decidere se il vecchio gli stesse lanciando un'esca. Estrasse un rotolo dalla manica. «Ho ricevuto un messaggio.» «Sì, sì.» Sypes sembrava irritato. «È tutto in ordine per la Consegna?» Fogwill arrotolò di nuovo il messaggio e lo ripose nella manica. «I preparativi sono stati quasi completati. Il Sanctum è stato ripulito e benedetto, ho richiesto nuove candele...» «Non profumate?» Il viso del coadiutore si allungò un attimo, prima che riuscisse a riprendere il controllo. «Capisco», disse Sypes. «Possibile che ci tocchi sempre quell'odore da bordello?» «Il profumo maschera l'odore della decomposizione.» Sypes si sporse in avanti e annusò. «Come no.» Fogwill arretrò di un passo, ma conservò l'espressione paziente. C'era in effetti uno strano odore lì dentro, ora che ci faceva caso. Diede un'occhiata verso il camino. Un malloppo di carta pergamena fumava sui carboni ardenti, fumo bluastro si arricciolava attorno ai bordi bruciacchiati. «Poesia», disse il presbitero intercettando lo sguardo di Fogwill. «Il contributo al Codice di un macellaio di Applecross: cento modi di scuoiare un gatto.» «Divertente?» chiese Fogwill. Di certo lunga, per essere una poesia. «Non per il gatto», borbottò Sypes. «Che dio ci scampi dai popolani che 56
imparano a scrivere.» Con una teatrale scrollata del capo si abbandonò sconfortato contro lo schienale. Dalla sedia, o dalle ossa, si levò una flebile protesta. «Come sta Dill?» «In procinto di incontrare la gabbia delle anime.» «Credi che sia pronto?» Fogwill alzò le spalle. «Mah.» Le labbra di Sypes fremettero. «Ormai il ragazzo ha... quanti anni? Dieci?» «Sedici», precisò Fogwill. Come ben sai. Dill aveva già superato di un anno intero l'età prescritta dalle leggi del Codice per diventare Custode delle Anime, e la popolazione lo sapeva. Negli anni seguiti alla morte di Gaine era toccato a Borelock assumersi i doveri dell'angelo e, per quanto fosse competente, la sua presenza non era sufficiente a ispirare i fedeli. Dill era più di un servo della Chiesa, più di un simbolo. Era il legame col passato, con le fondamenta della Chiesa stessa. Come discendente diretto dell'Araldo di Ulcis, la sua stirpe era il legame che collegava l'uomo al dio. Ma fuori dal tempio i pettegolezzi imperversavano. La stirpe di Callis si era conclusa con la morte del padre di Dill? Se la linea di sangue si fosse interrotta, Ulcis avrebbe ancora onorato la proprio promessa verso coloro che lo adoravano? O li avrebbe abbandonati in balia di Iril, il Labirinto di Sangue? A Deepgate l'esistenza era spesso squallida, a volte turbolenta. La Chiesa aveva imparato da molto tempo che per tenere a bada i fedeli era necessario dar loro qualcosa cui aggrapparsi. Fogwill era perciò rimasto sorpreso dello scarso rispetto di Sypes per il Codice su quella particolare questione, ma all'epoca l'aveva attribuito all'apparente declino delle facoltà mentali del vecchio. Solo più tardi aveva cominciato a nutrire qualche sospetto. Il presbitero pareva mostrarsi senile solo quando gli faceva comodo. Sypes si passò sul mento un dito macchiato d'inchiostro, lasciando uno sbaffo blu scuro. Fogwill non poté fare a meno di chiedersi se anche quel gesto fosse stato deliberato. «Non può tenerlo nascosto in quella torre per sempre», disse Fogwill. Il presbitero annuì con aria stanca. «Certo, hai ragione. Ma non posso fare a meno di preoccuparmi per quel ragazzo. Basterebbe così poco: una freccia, un coltello, una bevanda avvelenata.» «Non è troppo tardi per impartirgli un'istruzione da combattente», disse 57
Fogwill. «Può occuparsene la guardia del tempio, oppure... perfino la Spina, voglio dire...» Intendeva dire qualunque Spina all'infuori di Rachel Hael. L'assurdità della sua nomina non era sfuggita a Fogwill. Sypes aveva scelto il peggior assassino di Deepgate per sovrintendere all'addestramento di Dill. «Sono sicuro che lei sarà in grado di insegnargli almeno i rudimenti», disse Sypes. «Be', può darsi.» Qualunque cosa l'angelo avesse imparato da lei sarebbe stata di certo rudimentale. Lei stessa non era stata ancora temprata, per amor di dio. «Col suo permesso, credo che sia il momento di trovargli una moglie.» Sypes sollevò gli occhi, lo sguardo gelido. «Le famiglie sono sempre state ben compensate», continuò Fogwill. «Prima e dopo.» Sypes grugnì: «Il tipo di donna di cui lui ha bisogno è quella che lo sposerà senza nessun...» Agitò la mano verso tutto e niente in particolare. «Le donne hanno altre motivazioni che io...» «Sciocchezze! Ricordo benissimo la moglie di Gaine il giorno del suo matrimonio, il suo sorriso impietrito.» Sypes emise un lungo sospiro e il suo sguardo scivolò verso il foro nel pavimento dell'osservatorio. «E adesso è laggiù che ci osserva.» Appoggiò il mento sulla mano e fissò l'abisso. «Che staranno facendo i morti, eh, Fogwill? Si nascondono, si crucciano, complottano, fanno dei piani, laggiù nell'abisso.» La sua voce si ridusse a un sussurro. «E intanto quassù io svanisco pian piano, come vecchio inchiostro da una pergamena. Li raggiungerò presto.» Sottolineò l'ultima parola con un colpo del dito. «E credo che loro lo sappiano.» Guardandolo là seduto, con la pelle macchiata e le dita che tremavano, Fogwill pensò che probabilmente il vecchio aveva ragione. «Stupidaggini», disse invece. «Lei è forte come un cavallo.» «Quanto al matrimonio, lo lascio a te», disse Sypes. «Non ho stomaco per cose del genere.» Raccolse il calamo macchiato di blu e lo intinse in una boccetta d'inchiostro rosso. «Un messaggio, vostra grazia.» Un ragazzo era comparso sulla soglia, e si tormentava i polsini consunti. «Dèi», disse Sypes. «Non si usa bussare?» Il ragazzo sorrise e gli porse un rotolo, fece un rapido inchino e schizzò 58
via, veloce come un topo. Sypes aprì il messaggio e lo tenne alla distanza di un braccio, sforzandosi di decifrarlo. «Bene, bene. L'Adraki ha attraccato. Il corpo di Edward Hael è arrivato.» «Ottima notizia», disse Fogwill. Sypes si era preoccupato del generale per giorni e giorni. «I suoi figli ne saranno sollevati.» Il presbitero stava ancora leggendo, la fronte aggrottata. «Il corpo?» azzardò Fogwill. Sypes lo ignorò. Alla fine depose il messaggio e si alzò dalla sedia. Afferrò il bastone e disse: «Vieni con me». Lasciarono l'osservatorio e arrancarono su per le scale che si snodavano all'interno della Spirale dell'Accolito. Un branco di preti diretti verso la Sala delle Missioni si fermò e fece ala al loro passaggio. Man mano che salivano, il pavimento si allontanava sotto di loro. Sypes continuava a borbottare, lamentandosi del proprio cuore, della polvere, di tutto quanto. A metà strada Fogwill fece scattare la serratura di una grata e continuarono a procedere lungo i corridoi appena illuminati dalla fioca luce all'etere, in direzione del pontile d'attracco. Mark Hael li attendeva nell'anticamera del pontile. Il viso del comandante degli aeronauti era tirato ma asciutto, la pelle abbronzata dal deserto di una sfumatura color terra sul candore dell'uniforme. Tre galloni dorati gli bordavano le maniche. «Abbiamo lasciato il corpo all'esterno. Per l'odore.» Un vago tanfo di decomposizione aleggiava nell'aria. Fogwill trattenne il fiato, poi aprì le porte che davano sul pontile. Consumato dal tempo e infestato d'erbacce, il molo sporgeva di una cinquantina di passi dalle mura del tempio. Era largo abbastanza da non richiedere ringhiere di protezione, ma così alto da farne sentire la mancanza a Fogwill. Ormeggiata alle bitte in fondo al pontile c'era l'Adraki. Intrappolato in una rete di cavi, l'involucro argenteo torreggiava sopra di loro, lampeggiando violentemente sotto il sole. Oblò e finiture d'ottone risplendevano nella gondola. Deepgate si stendeva abbacinante molto più in basso, adagiata sulle proprie catene sotto l'azzurro del cielo. «Buon dio!» boccheggiò Fogwill tappandosi il naso. Contro quella roba, il suo profumo non aveva la minima possibilità. «Siamo rientrati dal Porto di Sabbia durante la notte», riferì Mark Hael. 59
«Abbiamo prosciugato i serbatoi per arrivare in tempo.» Ma Fogwill non lo stava ascoltando. Guardava il cadavere. La cosa che una volta era stato il generale Edward Hael giaceva supina, le dita annerite contratte sul petto. Sangue secco e brandelli d'uniforme incrostati di cenere macchiavano la pelle screpolata, e al posto degli occhi si vedevano soltanto due orbite nere carbonizzate. Le piante dei piedi nudi richiamarono alla mente di Fogwill due prosciutti bruciacchiati. Sypes tossicchiò. «Sei sicuro che sia lui?» chiese. Mark Hael annuì. Si frugò in tasca e porse qualcosa al presbitero. «Quei selvaggi degli Heshette hanno abbattuto la Skylark nei pressi di Dalamoor. Deve essere precipitata al suolo di schianto, fracassando uno dei serbatoi di combustibile. Ci abbiamo messo un bel po' a ripulire la zona e raggiungere i rottami. Nessun sopravvissuto; l'equipaggio era tutto... così.» Sypes stava osservando quello che aveva in mano. «Brutto affare.» «È secco come cuoio», disse Fogwill. «Consegneremo l'anima oggi stesso», disse Sypes. «Ma...» Sypes sollevò la mano, e Fogwill vide che stringeva una manciata di medaglie. «È ovvio che abbia perso un po' di sangue, coadiutore. Un po'. Non molto per Edward, che ne ha da vendere, trabocca.» Gettò al cadavere un'occhiata poco convinta. «Era un devoto, un buon soldato. Un brav'uomo. Ritengo giusto sostenere che la sua anima sopravvive intatta.» Mark Hael chinò il capo. «Presbitero...» «Puoi andare, comandante», disse Sypes. «Ce ne occuperemo il coadiutore e io.» «Molto bene, vostra grazia.» Hael si voltò per andarsene. «Comandante.» «Vostra grazia?» «Non ho ancora informato tua sorella.» Mark Hael annuì e rientrò nel tempio. Non appena si fu allontanato, Fogwill levò le braccia. «Ma guardi quel corpo, è un guscio vuoto! Non gli è rimasta una sola goccia di sangue nelle vene. La sua anima è già a Iril.» «Mark Hael è un bravo ragazzo», mormorò Sypes quasi fra sé. «Un giorno diventerà un ottimo generale. Buon sangue non mente. Non sarebbe 60
opportuno creare attriti fra la Chiesa e i militari.» Strizzò gli occhi e fissò lo sguardo lontano, verso il deserto. «Soprattutto ora.» «Ma non può benedire quella cosa! Renderebbe Ulcis furioso.» Sypes scacciò la sua obiezione con un gesto. «Soldati devoti come il generale Hael sono rari, e il dio delle catene ha bisogno di uomini valorosi.» «Ma la sua anima è già nel Labirinto!» «Sciocchezze.» Fogwill scosse il capo. «Mi procurerò dei portatori», borbottò, ansioso di sottrarsi a quel tanfo. «No, Fogwill. Non c'è molto tempo prima della Consegna. Cerca piuttosto di trovare Devon, vuoi? Dovrebbe essere qui anche lui.» Fogwill aggrottò la fronte. Aprì la bocca per ribattere, ma cambiò idea. A che pro? Sypes sembrava deciso a contrastarlo. «Manderò un ragazzo», disse infine. «Preferirei che te ne occupassi di persona.» Sypes si strinse la radice del naso fra due dita macchiate d'inchiostro, lasciando altri segni bluastri. «Se mandi un messaggero, Devon non farà altro che metterlo sotto a strofinare tinozze in quell'infernale officina, e non lo rivedremo mai più.» «Strofinare tinozze?» Fogwill non riuscì a celare il disprezzo nella propria voce. Aveva le sue idee su cosa accadeva al personale del tempio che andava a finire nel Dipartimento di Scienza Militare di Deepgate. Le sopracciglia cespugliose di Sypes si aggrottarono fin quasi a nascondere gli occhi tra i rilievi del volto. «Vuoi andare a cercare Devon?» «Non avrò il tempo di arrivare fino a laggiù. La cerimonia...» «Allora ti suggerisco di provare in cucina.» «In cucina?» Gli occhi del coadiutore si ridussero a due fessure. «Nella nostra cucina? La cucina del tempio?» «Mi risulta che abbia ricominciato con i suoi giochetti.» Lo sguardo di Fogwill si abbassò oltre la veste fresca di bucato, sulle sue pantofole preferite di feltro blu, un dono di sua madre, che l'amata vecchietta aveva personalmente ricamato punto per punto in spirali d'argento dalla forma vagamente floreale. Il suo viso incipriato si afflosciò. «La cucina, ovvio. Dove altro potrebbe essere oggi l'Avvelenatore?»
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*** Rachel Hael era appesa a testa in giù, nel buio. Si concentrò sul proprio respiro. Sui muscoli, sulle pulsazioni cardiache, per costruire uno stato mentale capace di controllare la circolazione sanguigna e la respirazione. Visualizzò un gelo paralizzante che le prosciugasse tutto il sangue dall'epidermide, una minaccia che le accelerasse le pulsazioni e rinvigorisse i muscoli stanchi. La Spina definiva quel processo la «focalizzazione». Ogni adepto bene addestrato era in grado di controllare per un certo periodo la fatica, la fame e persino la sete. Avrebbe dovuto essere in grado di rimanere appesa per i piedi a quella corda per ore, forse anche giorni, senza effetti nocivi. Ma era in quella posizione da soli dieci minuti e già un feroce mal di testa la tormentava. Il suo maestro della Spina, un uomo sottile di cui non conosceva il nome, avrebbe disprezzato la sua incapacità di focalizzare, se solo fosse stato capace di disprezzo. Tra tutti gli adepti della Spina, Rachel era l'unica capace di provare disprezzo, risentimento, rabbia, felicità. Tutte debolezze, per un assassino, perché per una Spina le emozioni erano un anatema. Contaminavano la purezza di pensiero e azione, impedivano la focalizzazione, ostacolavano la Spina sul campo. L'emozione non poteva essere tollerata a lungo. Agli occhi della Chiesa, ciò faceva di lei l'adepto più debole fra tutti, e ne aveva dato prova più volte. Qualcuno tirò la corda. Con un volteggio, sfilò le caviglie dal loro sostegno, e si arrampicò di nuovo in camera sua. Il fratello era in piedi accanto alla botola nel pavimento. «Cercavi di arrivare più vicina a dio?» le chiese. Rachel si sedette sul bordo della botola e recuperò la corda, avvolgendola tra mano e gomito. «Mi aiuta a rilassarmi.» Lui le diede un'occhiata inespressiva. «Il silenzio», chiarì lei. C'era un mare di silenzio laggiù nell'abisso, miglia di silenzio attorno a lei e per indicibili miglia più in basso, ma non riusciva più a calmarla come una volta. Negli ultimi tempi bastava appena a smussare gli spigoli. «E se la corda si rompesse?» chiese Mark. Lei scrollò le spalle. 62
«O qualcuno la tagliasse?» Altra scrollata di spalle. «Dèi degli inferi!» gridò Mark. «I monaci mi avevano detto che ti avrei trovata quaggiù, ma non ci avevo creduto. Ho pensato che fosse una specie di scherzo fra Spine, prima di ricordarmi che non hanno assolutamente il senso dell'umorismo.» «Cosa vuoi?» «Anch'io sono contento di vederti.» Rachel prese la spada dalla rastrelliera e la fece scivolare nel fodero che portava sulla schiena. Appese le fiale di veleno alla cintura, infilò i tre tubetti di bambù nelle cartucciere laterali, e poi si sedette sul letto a infilare coltelli e aghi nei foderi della sua armatura di pelle. «L'abbiamo trovato», disse Mark. Lei si interruppe per un istante, poi riprese a rifornire l'armamento. «Sypes si aspetta che assistiamo entrambi alla Consegna.» «Ho da fare.» «Non hai scelta,» Un sorriso amaro le distese le labbra. Mark aprì la finestra e si sporse a osservare le catene di ancoraggio e il ventre del Ponte della Porta. «Questa dev'essere la camera più bassa del tempio. Ha un qualche significato simbolico? Tenervi quaggiù, nelle fondamenta, nell'oscurità?» «Accesso.» «Cosa?» «Lascia stare.» Mark si guardò attorno nella stanza, ma apparentemente non trovò nulla di interessante. «Non ti offrono molto, vero?» Rachel fece scivolare una cerbottana nella cintura, poi sollevò la propria balestra dal suo sostegno e cominciò a ingrassare la corda. «Ho tutto ciò che mi serve.» «Te la cavi bene con quell'affare?» «Sono ancora viva.» Mark sospirò. Scrutò di nuovo la stanza, prima che il suo sguardo tornasse sulla balestra che la sorella teneva in grembo. «Ho sentito di quel nuovo ladro di anime. Gli aeronauti lo cercano da queste parti. Pare che la maggior parte dei gusci fosse personale del tempio.» Lei non gli badò. «Tu hai visto niente?» 63
«Di che genere? Tipo qualcuno che trasporta un cadavere dissanguato?» Mark Hael rimase in silenzio per un momento, poi disse: «Se nascondi qualcosa...» Lei sbuffò. «Dovresti conoscermi meglio.» Lui alzò le mani. «No, Rachel, non ti conosco, Ti ho vista a malapena, negli ultimi dodici anni. Non hanno fatto altro che spostarti da una fogna all'altra. Quando non eri a marcire in quei sotterranei infestati dai monaci che si ostinano a chiamare scuola, vagabondavi in giro per caverne puzzolenti contaminate dagli Heshette, sotto qualche maledetta montagna.» Aveva finalmente trovato il vino su un cassettone. Rachel sentì che toglieva il turacciolo dalla bottiglia e lo annusava. «Bassa valle del Coyle. Quasi non vale lo sforzo di versarlo.» «Allora non farlo.» Mark rimise il turacciolo. «Senti, mi dispiace. Ho avuto una settimana difficile.» Rachel strinse i denti. Posò la balestra e si diresse alla finestra, volgendogli le spalle. Si sporse, lasciando che la brezza le accarezzasse il viso. Le catene di sostegno si stagliavano contro il cielo mattutino. Conosceva bene quelle catene: fornivano passaggi per ogni angolo di Deepgate, passaggi segreti. Ma conosceva anche meglio i tetti della città. Erano quattro anni, ormai, che erano il suo terreno di caccia a ogni Notte dello Sfregio. Quattro anni, una cinquantina di Notti in totale, e in tutto quel tempo aveva scagliato solo nove frecce. La cosa che inseguiva conosceva i tetti meglio di chiunque altro. Un corvo saltellò su una sporgenza sotto di lei, nero come il ferro che aveva attorno. Lei osservò lui che osservava lei. Forse anche la sua preda la stava osservando? Improbabile, pensò: Carnival rifuggiva la luce del giorno. «Sypes è stato clemente a permettere la Consegna di nostro padre», disse Mark. «Non credo sia rimasta in lui una sola goccia di sangue. Persino il verme se n'è accorto. Secco come il cuoio, ha detto. È stato come se avesse tirato uno schiaffo sul viso alla grassa principessina, a parlargli in quel modo.» I privilegi di essere un Hael. Il rango di Mark fra gli aeronauti, la propria ammissione all'addestramento della Spina, tutto grazie al nome di famiglia, un nome che generazioni di contrabbandieri di ferro, schiavisti delle Piantagioni e leccapiedi della Chiesa avevano innalzato un centimetro 64
alla volta dalla Lega fino ai Chiostri. «Non te ne importa nulla», disse Mark. «Dopo tutto quello che lui ha fatto per te.» «Vattene», scattò lei. «Un tempo ti avrei schiaffeggiato se mi avessi parlato in questo modo.» Rachel se ne ricordava, ma non si voltò. Dodici anni di Spina le avevano fornito sufficienti difese contro Mark. E contro chiunque altro. Sospirò. Quasi chiunque. La voce di Mark si ridusse a un sussurro. «Ho i documenti per il consenso, l'autorizzazione per il tuo addestramento, per essere temprata. I maestri della Spina insistono perché li firmi.» Rachel si irrigidì. «Non so», disse Mark. «Ci ho riflettuto... Rachel, non voglio che diventi come loro.» Lei chiuse gli occhi. «Sono senz'anima.» Mark rimase in attesa. «Nient'altro che cadaveri che camminano. Non riesco a immaginarti in quello stato, tu, mia sorella. Non voglio che...» Rachel non riuscì più a trattenersi. «Tu menti!» gridò, voltandosi per fronteggiarlo. «Lo fai solo per ferirmi. Sei amareggiato perché tu hai fallito le prove di ammissione e io le ho superate. Incolpi me per la delusione che hai dato a nostro padre...» «Sei ancora solo un'adepta.» «Ma hai idea di cosa ho dovuto fare per raggiungere questo rango? Hai idea di quanto sia stato duro?» Mark le rivolse un sorriso freddo. «Ho sentito del tuo piccolo spettacolo.» «Spettacolo?» Aveva battuto ogni altro adepto, l'uno dopo l'altro, in combattimento singolo, e non era stato sufficiente. E così, malconcia ed esausta, aveva sfidato il maestro. Un insulto, se mai lui fosse stato capace di percepire un insulto come tale. Alla fine, l'unica cosa che il maestro era stato ancora in grado di fare era stata focalizzare per mantenere i propri polmoni liberi dal sangue. «Be'...» Mark si stava guardando attorno in cerca di qualche argomento di distrazione, ma non ne trovò. «Questa è l'ulteriore dimostrazione che non hai bisogno di cadere nelle grinfie della Spina. Se riesci a combattere in quel modo senza nemmeno essere stata temprata...» 65
«Non avevo scelta! Non si fidano di me, non mi accettano. Ho dovuto fornire gli argomenti affinché aspettassero il tuo consenso. Se non firmi quei documenti si libereranno di me, mi butteranno fuori a calci, se non peggio...» Si interruppe, fissò duramente il fratello e di colpo se ne rese conto. «È quello che vuoi, non è vero? Vuoi che mi buttino fuori. Vuoi che fallisca.» «Voglio solo proteggerti», mormorò lui. «Bastardo senza cuore.» «Senza cuore?» Mark divenne paonazzo. «Detto da te è fantastico! Quanti Heshette hai liquidato a Collecavo?» Giusto Mark poteva usare un termine come «liquidare». Lui uccideva dall'alto di un'aeronave, da lontano. Intere tribù di Heshette erano state liquidate grazie all'impiego di veleni. Uomini, donne e bambini erano stati liquidati da intelligenti, precise, ben dirette, economiche bombe incendiarie. Mark non si era mai avvicinato abbastanza da sentirli urlare o implorare. Non li aveva mai visti sanguinare né impazzire. Erano stati semplicemente liquidati, mai uccisi, mai sterminati. Le sue mani si contrassero su uno dei tubetti di bambù appesi alla cintura, poi le rilassò. Respirò a fondo. «Per favore, firma quelle carte», disse con calma. «Lascia che mi temprino. Non posso più vivere senza tutto questo. Non posso fare quello che tu vorresti farmi fare.» «No, Rachel.» «Allora vattene. Voglio restare sola.» «Lo sei sempre, sola. Com'è che detesti tanto la compagnia?» Era così? Non che i monaci proibissero esplicitamente le relazioni. Non era mai così semplice. Si limitavano a tenerla laggiù a addestrarsi, a focalizzare, o la spostavano da una parte oscura del mondo a un'altra. Si ricordava della prima volta che aveva preso in mano una spada, come aveva riso, ruotando su se stessa come una danzatrice mentre suo padre la guardava sorridendo. Era stata una delle ultime volte che aveva riso. Ma aveva danzato ancora con la spada: a Collecavo e nella Foresta di Scisto, nelle caverne degli Heshette, nelle bettole che puzzavano di gin e nei bordelli del Porto di Sabbia, finché la spada non era diventata parte di lei come lo era la fede per i temprati. Aveva danzato un centinaio di volte, prima di venire assegnata ai tetti, a Carnival. Non sei ancora pronta, l'avevano messa in guardia. Comunque non farà differenza. Strizzò gli occhi guardando l'abbagliante cielo azzurro oltre le catene 66
delle fondamenta. I suoi occhi non erano abituati alla luce del giorno, perché per cacciare di notte doveva vivere e addestrarsi nel buio. Per quattro anni si era svegliata al crepuscolo, e addormentata prima dell'alba. «Sypes vuole che tu resti qui», disse Mark. «A badare a quel suo passerotto.» «Dill.» Il corvo zampettava sulla sporgenza sotto la finestra, strappò un brandello di muschio e volò via. Rachel lo guardò innalzarsi verso la città illuminata dal sole. Di sicuro la Chiesa aveva impastoiato Dill proprio come Mark aveva impastoiato lei. Dopo Gaine, la Chiesa aveva impedito ai propri arconti di volare. Una volta soffocate le guerre con gli Heshette e introdotte le aeronavi, gli arconti da battaglia non erano più necessari. O almeno così diceva il presbitero. Rachel sospettava che ci fosse qualcosa di più. Sewender, il fratello maggiore di Gaine, era morto giovane e senza eredi e Gaine, che considerate le circostanze avrebbe dovuto prendere diverse mogli, si era sposato soltanto una volta. Con sommo orrore del clero, Sypes non lo aveva spinto a sposarsi di nuovo. E, dopo che un ignoto balestriere aveva ucciso Gaine, la linea di sangue si era di nuovo ridotta a un solo angelo. E che angelo. Per quanto Gaine, con tutta la sua fama, fosse stato solo l'ombra dei suoi avi, Dill - il povero Dill - non era che la pallida ombra di suo padre. Era evidente quanto il sangue di Callis si fosse diluito. Nessuna meraviglia che Sypes lo tenesse segregato nella torre, fuori vista. La Chiesa aveva nemici ovunque. A quanto si diceva, Deepgate era piena di spie Heshette, e il presbitero faceva del suo meglio per conservare al proprio gregge l'ultimo legame tangibile col dio. L'interdetto, quella crudele legge immutabile, era stato imposto a Dill fin da quando era stato grande abbastanza da poter volare. O da poter volare via? Sypes si era comportato da folle: tenere qualcuno incatenato l'avrebbe solo reso più determinato alla fuga. «Ti piacerà, vedrai», disse Mark. «A te piacciono gli animali, non è vero?» «Stai cercando di farmi innervosire? È per questo che sei venuto?» «Bene!» Batté le mani. «Me ne vado. Ti lascio ai tuoi coltelli, alle tue frecce e alla tua celletta buia. Vedi solo di essere al Sanctum in tempo per la cerimonia.» Esitò un attimo accanto alla porta. «Non ti metterai addosso quella roba, vero?» 67
Rachel non rispose. Stava pensando a Dill. Tenendolo recluso, la Chiesa gli aveva salvato la vita o gliel'aveva rovinata? E, mentre il corvo si allontanava tra le catene di fondazione, si chiese perché gliene dovesse importare. *** Da una stanza rotonda alla base della sua guglia, Dill scese ancora più in basso nelle viscere del tempio, con un ascensore asmatico. Poco più di una gabbia di ferro in cui si sprofondava fino alle caviglie in un tappeto ammuffito, la macchina attraversò un buco nel pavimento, cigolando e vibrando, superò circa quattro metri di pietra, per emergere in uno spazio enorme e apparentemente senza fondo: la Sala degli Angeli. La luce del sole risplendeva attraverso le enormi finestre dalle vetrate color ciliegia, arancio e limone che si allineavano sulle pareti più lontane, trasformando in sottili sagome scure la moltitudine di preti freneticamente impegnati a preparare il tempio per la Notte dello Sfregio. Le figure sciamavano sulle passerelle e sulle scale, schermavano le finestre con enormi grate e ne controllavano e ricontrollavano le serrature, montavano le balestre sui loro sostegni piazzati davanti alle bocche di lupo a forma di croce. Dill tirò uno dei cordoni adorni di nappe che in teoria avrebbe dovuto avvertire gli invisibili operatori che desiderava essere portato nel corridoio del Sanctum. Un campanello risuonò sotto di lui, in lontananza, e da qualche parte là sotto una mezza dozzina di uomini avrebbe dovuto azionare gli argani. L'ascensore si fermò ondeggiando e poi riprese a scendere, avvicinandosi di più al muro meridionale. Un piccione si posò sulle sbarre sottostanti e cominciò a tubare, prima di accorgersi della presenza dell'angelo e fuggire con uno stridio. Dill detestava quell'ascensore. Il presbitero l'aveva fatto installare apposta, dopo che la Chiesa aveva interdetto ogni volo ai propri arconti. Il marchingegno era lento, scomodo e difficilmente raggiungeva il piano richiesto. E, anche quando ci arrivava, si fermava spesso così lontano dal piano da doverlo raggiungere con un salto pericoloso. Che poi ciò dipendesse da un guasto del meccanismo, o dallo scontento di chi lo manovrava, Dill non era in grado di stabilirlo. L'ascensore si fermò con un sussulto e rimase a ondeggiare nel vuoto, a settanta metri sopra il pavimento e ad almeno trenta di distanza dalla parete più vicina. «Ehi?» chiamò Dill. 68
Nessuno dei preti lo sentì. Erano troppo lontani e troppo indaffarati a bloccare le finestre o sistemare e caricare le balestre della Spina. Con la mano sulla spada, Dill rimase in attesa nell'ascensore. E attese. «Ehi?» Nessuno rispose. Molto più in alto, lo stesso piccione di prima continuava a svolazzare. *** La cucina era un campo di battaglia. Il clangore di innumerevoli coltelli si levava sopra il ruggito dei fuochi per gli arrosti e le urla degli uomini. Battaglioni di cuochi in cappellone bianco sudavano sui taglieri, intenti ad affettare, sminuzzare, sbuzzare, pestare. Calderoni sobbollivano sui fuochi dei fornelli. Gli sguatteri sgobbavano davanti alle tinozze fumanti di vapore a strofinare quantità infinite di vasellame, mentre i dispensieri si aggiravano reggendo vassoi carichi di capra abbrustolita e dolci montoni, tortini d'allodola e di cornacchia e patate bollenti imburrate. Il viso di Fogwill era già congestionato, e rivoli di sudore si aprivano minuscoli sentieri nello strato di talco che gli copriva le guance. Decise che, più veloce camminava, più pulito sarebbe riuscito a mantenersi, quindi zigzagò rapidamente tra fornelli e tinozze, si chinò sotto file di vasi di rame appesi in aria e superò con un salto ruscelli di saponata. Cercando di coprirsi il naso con una manica, andò quasi a sbattere contro un facchino brizzolato che trasportava un maiale. L'animale gridò e si agitò fra le braccia dell'uomo, che sputò una maledizione. Un garzone distolse l'attenzione dai limoni che stava tagliuzzando e sogghignando lanciò una battuta sicuramente poco gentile, ma Fogwill non riuscì a distinguere le parole nel frastuono generale. «Bestiale», borbottò il coadiutore. «Semplicemente bestiale.» Quel posto era un serraglio. Bastava pensare ai germi, al sudiciume introdotto con gli animali. Gli sarebbe toccato immergersi nell'olio di limone dalla testa ai piedi, dopo. Attorno alle caviglie la sua veste era già inzuppata, quanto alle pantofole... meglio non guardarle troppo da vicino. Alla fine trovò il capocuoco che se la dormiva beatamente su un giaciglio di fortuna fatto di sacchi ammucchiati sotto la rastrelliera delle anguille, e quasi vomitò per il tanfo. Persino il cadavere del generale Hael ema69
nava un fetore meno malsano. Le anguille trasudavano gocce unte che si spiaccicavano sulle guance carnose del dormiente, che borbottava e si agitava nel sonno. Con la punta del piede, Fogwill pungolò la figura distesa. «Sveglia, Fondelgrue. Svegliati.» Una goccia oleosa atterrò anche sulla sua testa. Fondelgrue si svegliò con un grugnito e si grattò il ventre grasso sotto la tunica che una volta doveva essere stata bianca. Quando vide Fogwill strizzò un occhio, mollò una scoreggia e sospirò: «Crumb? Che vuoi?» Fogwill si accorse delle gocce scure che ormai macchiavano la sua veste cerimoniale e arretrò dalla verticale delle anguille, pregando con tutte le sue forze che l'orrendo puzzo venisse dall'uomo e non dalle creature sopra di loro. «Sto cercando Devon. L'hai visto in giro?» Dietro di loro si sentiva un acciottolio di piatti, e qualcosa andò in frantumi. Fondelgrue ignorò l'incidente. «Che vuoi che ci venga a fare quaggiù quell'Avvelenatore del cavolo?» «Magari potrebbe fare un altro tentativo di manipolare il cibo.» Fogwill gettò un'occhiata sprezzante ai calderoni che sobbollivano e schiumavano e ai forni fumanti incrostati di vecchi avanzi. «Ma vedo che hai la situazione completamente sotto controllo.» Il capocuoco si passò una mano fra i capelli unti, poi si fermò per osservare qualcosa che gli era rimasto incastrato sotto le unghie. Scoccò a Fogwill un'occhiata di traverso. «Credo che sperimenti su di noi i suoi veleni e le sue pestilenze.» «A sentire lui, viene qui per trarre ispirazione.» Fondelgrue fece un sorrisetto stentato. «Be', se lo vedi ti prego di comunicargli che è atteso con urgenza nel Sanctum... per una questione estremamente importante», disse il coadiutore. Il capocuoco soffocò un sorriso. «Con voialtri, tutto quanto è sempre maledettamente importante.» Dietro di loro un dispensiere si mise a strillare contro un garzone. Qualcos'altro andò in pezzi, senza che Fondelgrue avesse il minimo sussulto. Alla fine grugnì e richiuse gli occhi. «Be', a ogni modo puoi vedere che Devon non è qui.» Fogwill esaminò di nuovo i dintorni. Due garzoni facevano la lotta nel passaggio fra i banconi carichi di catinelle e taglieri. Mentre scivolavano e si rotolavano sul pavimento bagnato, uno di loro urtò un tavolo, facendo rovinare a terra un cesto pieno di posate, con un clangore metallico. 70
«Vedo che hai del personale nuovo», commentò Fogwill. «Sono già stati tutti controllati?» Il presbitero Sypes aveva ogni diritto di sentirsi nervoso. Ora che i nemici Heshette erano stati decimati, c'era sempre il rischio che passassero a metodi di vendetta più sottili. Una coppa di veleno? Fogwill respirò a fondo e se ne pentì immediatamente. Un cane uggiolò poco lontano, per interrompersi di colpo. Un cane? Meglio non indagare. Diede ancora un'occhiata ai garzoni che lottavano e si avviò nella direzione opposta. Con orrore, si rese conto che l'odore lo seguiva. Mentre si faceva strada per uscire dall'ampia cucina dovette scansare innumerevoli cuochi, lavapiatti, sguatteri addetti a sbattere, scalcare, sminuzzare verdure, dispensieri, cameriere e inservienti. La cucina ne ribolliva, chi avrebbe mai notato l'assenza di un individuo? O anche di una dozzina? Nel corso degli anni, chissà quanti ne aveva potuti smistare l'Avvelenatore verso le sue fetide cucine. Gli tornarono alla mente le parole di Fondelgrue: Credo che sperimenti su di noi i suoi veleni e le sue pestilenze. Quando riuscì finalmente a raggiungere la porta, Fogwill aveva cominciato a immaginare che ognuno di quei calderoni contenesse orrori sconosciuti. Quella carne, dalle sospette striature verdi? Quel pollame pallido, quale malattia l'aveva ridotto così? In quel preciso momento il coadiutore decise che non avrebbe mai più mangiato cibi preparati in quella cucina. Almeno per una settimana. E nel frattempo avrebbe insistito con Sypes sulla questione della sicurezza, si sarebbe occupato personalmente di sovrintendere ai cambiamenti. Un vivandiere gli scivolò accanto reggendo un vassoio d'argento carico di pasticcini. Fogwill ne agguantò uno e lo ispezionò con cura. Il ripieno di crema emanava forse un vago odore di zolfo? Appoggiò appena la lingua sull'impasto soffice: c'era per caso un tocco di amaro mascherato dalla dolcezza succulenta e burrosa? Si cacciò in bocca il pasticcino tutto intero e abbandonò la cucina masticando. A volte valeva la pena di correre qualche rischio. *** L'Arcichimico e Avvelenatore Alexander Devon giaceva disteso e sveglio, e sanguinava. Il sangue stillava dalle spaccature che gli solcavano il 71
viso, il collo e il petto, dalle lacerazioni sotto braccia e ginocchia, e inzuppava il vecchio lenzuolo macchiato. Le vesciche sulla schiena scoppiavano non appena si muoveva. Si sentiva i polmoni come incrostati: ogni respiro gorgogliava e bruciava, e a ogni colpo di tosse espelleva filamenti di muco che sputava in un secchio accanto al letto. Le palpebre ridotte a carne viva gli sembravano vetro tritato sugli occhi gonfi. Quando si voltò per controllare l'orologio a muro accanto alla finestra, le ossa cigolarono e i muscoli stridettero contro l'interno della pelle. Era in ritardo per il lavoro e, anche se ogni movimento gli causava dolore, Devon si alzò comunque dal letto, e cercò di mutare la propria smorfia di dolore in un sorriso. La vita, dopotutto, era un susseguirsi di piccole sfide. Il lato del letto di Elizabeth era ancora liscio e asciutto. Lui si posò un dito sulle labbra e toccò il punto dove una volta il suo capo aveva riposato. Anni di lavaggi avevano sbiadito la sagoma del suo corpo ferito finché non era rimasto altro che un pallido contorno di sangue vecchio. Un giorno, immaginava, di lei sarebbe scomparsa completamente ogni traccia. Tolse il lenzuolo e lo gettò in un cesto, poi si mise al lavoro per medicare le proprie ferite. Prima le braccia: tamponò la pelle sanguinante con un soffice panno di cotone immerso nell'alcol, la ripulì dal sangue, e con delicatezza si fasciò con bende pulite. Poi il petto: una volta ripulita la pelle, bloccò sotto un'ascella l'estremità della benda, e se l'avvolse più volte attorno al torace, fino alla vita. Una fitta di dolore gli saettò nelle ginocchia quando si piegò per prendersi cura di gambe e piedi, ma fece con calma. Era importante coprire ogni singola ferita, per evitare ulteriori infezioni. Le Cucine dei Veleni pullulavano di agenti infettivi. Quando ebbe finalmente terminato, indossò con cura il vecchio completo di tweed e cercò di riacquistare la propria compostezza per la giornata che lo attendeva. Sentiva ogni centimetro del proprio corpo ridotto a fragile carne viva. Inforcò gli occhiali. Sebbene la sua vista stesse calando, gli occhi restavano vivi e caldi. Un tempo attraente, pur con una certa aria da mascalzone, aveva un viso bonario, che ancora recava traccia di sorridenti rughe d'espressione, un viso che la gente tendeva a trovare istintivamente simpatico, non fosse stato per le lacerazioni e le vesciche e la pelle che trasudava sangue. La carne di Devon aveva conosciuto il tocco del veleno. La luce del mattino filtrava attraverso le tende trasparenti della sua camera da letto, mentre fuori i mattoni e i tetti catramati della Depressione si 72
crogiolavano al sole. Gli uccelli cinguettavano senza posa, dopo essere andati a nidificare a migliaia lontani dai ladri di uova e dai malviventi che ormai da tempo avevano spogliato di tutto quel quartiere derelitto. Devon chiuse gli occhi e si lasciò sommergere dalle loro melodie. In lontananza, la campana a lutto rintoccò solenne nel tempio. A Elizabeth sarebbe piaciuto stare in quel posto. Lui aveva atteso con ansia di poterglielo mostrare non appena la ristrutturazione fosse stata completata; doveva essere una sorpresa. Vasi d'argilla e attrezzi ingombravano ancora il tetto del magazzino, e i ciottoli demarcavano i vialetti che serpeggiavano tra i cumuli di fertile terreno importato dalle Piantagioni. Aveva piantato iperico, panicella e rose, eretto pergolati e costruito uno snello gazebo di legno giovane. Ma i fiori che aveva piantato erano tutti avvizziti, il terreno era inaridito e sterile. Ci aveva messo troppo tempo a realizzare la sua sorpresa. E di lei non sopravvivevano altro che vaghe tracce: le macchie sbiadite sulle lenzuola che aveva portato con sé dalla loro casa di Bridgeview, alcuni flaconi del suo profumo, ormai vuoti, e il ritratto che gli era costato sei mesi di salario per far dipingere. Devon divideva la sua nuova casa con i ricordi. Prese uno dei flaconi di profumo di Elizabeth e aspirò a fondo. Persino l'aroma era ormai sbiadito, come il fantasma di un fiore appassito da tempo, ma, come sempre riusciva a fare, ebbe l'effetto di rafforzare la sua risoluzione. Dolcemente, rimise il tappo al suo posto e posò la bottiglietta, indugiando con la mano sul vetro liscio. Dal laboratorio nella stanza accanto si sentivano provenire dei singhiozzi: bene, la ragazza era sveglia. Forse avrebbe dovuto prepararle un po' di caffè e cercare di tranquillizzarla. Ma il caffè poteva interferire col sedativo che aveva in programma di usare su di lei. Sospirò. Magari avrebbe cercato di parlarle con dolcezza, di dare qualche sollievo al suo dolore. Non era comunque facile: il dolore sarebbe stato intenso, e la poveretta avrebbe lottato con tutte le proprie forze. La vita, dopotutto, era un susseguirsi di piccole sfide.
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6 LA CONSEGNA
L'odore di cera al limone pervadeva il corridoio, ma quella velatura di profumo dolciastro non riusciva a mascherare il puzzo di decomposizione. Candelieri di ferro pendevano dalle catene fissate alle volte, e le fiammelle delle candele arrivavano a riflettersi nel pavimento di marmo, senza però fornire più di una flebile illuminazione che pareva disperdersi nella vastità degli spazi. All'estremità più interna del corridoio c'era Dill, in piedi davanti alla porta del Sanctum, a desiderare che ci fosse qualche finestra. Attorno a lui strisciavano le ombre, figure in movimento ai margini della sua visuale. Ma, non appena si voltava a guardare, non c'era più nulla. Qualcosa scricchiolò sopra la sua testa. Probabilmente una catena mossa da uno spiffero isolato. Dill evitò di alzare gli occhi: quello che c'era lassù era di gran lunga peggiore di ciò che si muoveva nell'ombra attorno a lui. Fissò invece lo sguardo sulla porta della stalla, ansioso che si aprisse e augurandosi allo stesso tempo che restasse chiusa. Era Borelock che si occupava delle stalle. Un altro scricchiolio in alto, e Dill guardò. Dalle altissime colonne pendevano i resti dei Novantanove, appesi come demoniache marionette alle catene che assicuravano al loro posto le braccia scheletriche e mantenevano tese le ali sbrindellate. Alcuni di loro conservavano frammenti di armatura o sembravano sbirciare oltre il bordo degli scudi ammaccati, però tutti portavano le loro armi: spade, lance, alabarde o picche, sforacchiate, intaccate e arrugginite. Dill spostò il peso da un piede all'altro. Si sentiva a disagio nell'uniforme rigida, l'elsa della spada gli affondava fra le costole. Strinse e rilassò i pugni, esaminò il pavimento, si slacciò qualche bottone e allentò il colletto, ma non riuscì a trattenersi dal guardare di nuovo in alto. Gaine gli aveva narrato molte storie su quel lugubre posto, delle tempeste invernali durante le quali l'intero tempio ondeggiava e le reliquie sferragliavano sulle catene all'ululare del vento. Dill fece scorrere lo sguardo lungo le loro file, quasi aspettandosi di individuare il suo defunto padre. 74
Ma i resti che fissavano il vuoto e raccattavano la polvere erano soltanto quelli dei Novantanove. La porta della stalla che dava sul corridoio si spalancò con un frastuono metallico, e la luce delle torce dilagò sul pavimento recando con sé l'odore della paglia e delle bestie. Borelock condusse fuori due enormi giumente, dietro le quali la gabbia delle anime apparve rombando sulle ruote di legno. Era una pesante struttura di ferro e legno catramato, e una speciale benedizione dei preti garantiva che le anime in essa contenute e affidate alla cura del tempio fossero protette fino alla loro liberazione finale nell'abisso. In quel momento era vuota, ma una volta riempita era abbastanza grande e robusta da custodire al sicuro cinquanta anime. Nel regno della morte, il pericolo era il sangue non ancora benedetto. L'inferno spalancava le proprie porte per accoglierlo e, quando le porte di Iril erano aperte, non si poteva mai sapere cosa sarebbe potuto uscirne. Con inaspettata precisione, Borelock condusse i cavalli lungo il pavimento di marmo lucido. Sotto il cappuccio s'intravedeva la linea di una bocca stizzosa, sotto la quale sporgeva un mento aguzzo come una chiglia d'osso. Il corpo del prete si agitava e si muoveva goffamente nella tonaca come se là sotto ci fosse più d'una serie di gambe e braccia. Si fermò davanti a Dill, reggendo le redini fra le dita macchiate di giallo. Dill si chiese se anche gli occhi del prete fossero gialli. Deglutì e disse: «Belle bestie». Il cavallo più vicino scoprì i denti e sbuffò. Aveva un mantello nero e lucido come l'armatura di una guardia del tempio. «Cinque anni», borbottò Borelock. «Sono cinque anni che guido questa gabbia al tuo posto. Cinque anni prima che il presbitero ritenesse giunto il momento di tirarti fuori da quella torre e metterti al lavoro. Non credi che abbia modi migliori di impiegare il mio tempo, che affrontare gli scherni di quei miserabili bastardi là fuori?» «Te ne sono grato», rispose debolmente Dill. «Non fare casino», disse Borelock. «Ci saranno anche Mark Hael e sua sorella.» Puntò il pollice verso le porte del Sanctum alle loro spalle. «Il figlio e la figlia dell'ultimo generale.» Dill si arrampicò al suo posto a cassetta, davanti alla gabbia, e il cuoio scricchiolò. Il sedile era ancora più in alto di quanto sembrasse da terra e Borelock dovette lanciargli le redini. I cavalli agitarono la testa su e giù e 75
mossero la coda, impazienti di uscire. «Le ali», disse Borelock. Dill spiegò le ali. Quando i cavalli si misero in moto barcollando, Dill quasi ruzzolò all'indietro contro le sbarre della gabbia. Tirò forte le redini, ma gli animali lo ignorarono. La gabbia si mosse rumorosamente in avanti, prendendo velocità. «Ti terrò d'occhio», gli urlò dietro Borelock. Procedettero zoccolando, un po' troppo veloci, sotto gli sguardi degli angeli in decomposizione. La ruggine aveva divorato le targhette di metallo con i nomi che pendevano dai piedi degli scheletri, ma Dill riusciva ancora a riconoscerne qualcuno, dai tempi della sua unica precedente visita laggiù. Aveva undici anni quando suo padre l'aveva condotto nel lugubre corridoio, aveva ordinato l'apertura delle porte del tempio affinché lasciassero trapelare un po' di luce, e l'aveva lasciato lì con un foglio di pergamena sul quale avrebbe dovuto ritrarre le reliquie. Alla luce del giorno gli scheletri gli erano sembrati meno minacciosi, perciò Dill si era dedicato dapprima con piacere al compito assegnatogli, e si era messo a copiare sotto ogni schizzo i nomi degli scheletri nella sua grafia migliore, ben deciso a ritrarli tutti. La mattinata era trascorsa in fretta, e di tanto in tanto Gaine era tornato a portargli una tazza di tè zuccherato e ad ammirare la sua opera. Quando avevano fatto una pausa per il pranzo, al ruvido tavolo appena fuori dalla cucina, Dill aveva orgogliosamente mostrato i propri disegni a chiunque si trovasse a passare. E tutti si erano mostrati colpiti. A metà pomeriggio ne aveva ritratti otto, e cominciava ad annoiarsi. Sembravano tutti uguali. Aveva allora pigiato i restanti novantuno in una gigantesca scena di battaglia su un unico foglio di pergamena, con una dozzina di Heshette filiformi che fuggivano verso l'angolo in fondo. Su richiesta di Dill, Gaine aveva contato gli arconti ritratti, e aveva dovuto ammettere che erano in effetti novantanove in tutto. Non c'era spazio sufficiente per riportare tutti i loro nomi, ma suo padre aveva comunque apprezzato la composizione. Era stata una delle ultime giornate che avevano trascorso assieme. Gaine era morto appena poche settimane più tardi, per mano di un arciere Heshette. Quella notte il presbitero Sypes aveva portato a Dill altre candele, e l'aveva aiutato a disporle in giro per la sua stanza nella torre. 76
La gabbia delle anime transitò a quel punto sotto l'arconte dalle ali sbilenche che a un certo punto avevano dovuto essere riparate con graffe d'ottone, e lassù a sinistra c'era quello che si sporgeva troppo in fuori, sempre sul punto di lasciar cadere la propria lancia. Quello che Dill aveva ritratto di profilo. Mentre li guardava, Dill cercò di attribuire ai vari scheletri i nomi che ancora ricordava. Quello che si appoggiava fiero e orgoglioso alla sua grande spada doveva essere Simon, o forse Barraby? E quello più malinconico, appoggiato alla lancia, poteva essere Dolmen? E quell'altro, il portatore d'arco che mostrava i denti in un ghigno, gli fece pensare a Praxis, l'ultimo arconte a morire prima di Callis. Immaginò come dovevano essere apparsi tutti quegli angeli da vivi: l'élite di Ulcis che sciamava in battaglia, le ali come frammenti di luce solare e le armi splendenti come cristalli di ghiaccio. Tremila anni erano trascorsi da quando gli angeli erano sorti dall'abisso, e ormai le loro ossa vegliavano sui morti, e sui Custodi delle Anime che scortavano al tempio quei morti. Mentre si contorceva nel tentativo di identificare l'emblema di uno scudo che poteva essere quello di Mesa oppure di Perpaul, la gabbia si fermò di schianto con un tonfo irriverente. Dill si voltò di scatto, accorgendosi che una delle ruote anteriori era andata a sbattere contro la colonna alla sua sinistra. I pochi secondi che seguirono sembrarono dilatarsi nella lentezza di un lungo sogno. Entrambe le giumente abbassarono la testa, colpirono il terreno con gli zoccoli e schizzarono avanti come proiettili. Dill strillò. La gabbia delle anime gemette. La colonna si mosse... e vacillò. Lassù in alto, la spina dorsale dell'arconte si piegò e le sue gambe parvero muoversi, come se lo scheletro cercasse di mantenere l'equilibrio. Lentamente, la colonna oscillò nella direzione opposta. Le catene cigolarono... Dill trattenne il fiato... la colonna tornò al suo posto. E si fermò. Dill riprese a respirare. Ci fu uno schiocco, e l'angelo crollò in uno scroscio d'ossa. Un elmo precipitò di schianto sul pavimento, una lancia rotolò sferragliando sul marmo e scivolò lontano nell'oscurità. Le ossa gli piovvero in testa, mani e arti e costole che si frantumarono a terra. I cavalli nitrirono e scalpitarono sul pavimento, spaventati. Il teschio dell'angelo colpì il sedile accanto a 77
Dill e rimbalzò fin quasi in cima alla colonna prima di ripiombare a terra con uno schianto rivoltante. La mascella si staccò e i denti esplosero in ogni direzione. Il teschio continuò a rimbalzare, disintegrandosi sempre più ogni volta che toccava terra, finché non rotolò lungo il corridoio per andare infine a fermarsi a una decina di metri di distanza, rivolto verso di lui. La polvere d'ossa si depositò lentamente. Borelock strillò. Corse lungo il corridoio come uno spettro, le braccia sottili sollevate sopra la testa. Dill cercò di sprofondare nel sedile del conducente, rabbrividendo. «Tremila anni», stava ululando Borelock. «Conservati per tremila anni, protetti, custoditi al sicuro dalla distruzione e dagli intrusi. Ma non al sicuro da te! Non dalle rozze grinfie malferme e sciagurate di pazzi e bambini. Tre...» Quasi si strozzò sulla parola. Gli occhi di Dill lampeggiarono sul rosa. Il rosa più cupo e rovente che avesse mai sperimentato. Sentì il sangue defluirgli dal volto, come se gli occhi l'avessero assorbito in un falò che proclamava la sua vergogna. «Che disastro», disse Borelock. Si guardò attorno, trovando ulteriori prove di distruzione blasfema ovunque volgesse lo sguardo. «Polvere! Uno dei Novantanove ridotto in polvere!» Corse a controllare la targa col nome affissa alla colonna e levò le braccia al cielo: «Samuel, la Stella dell'Alba, il Flagello degli Heshette, ridotto in questo stato. Distrutto!» Il teschio sdentato e privo di mascella della Stella dell'Alba ricambiò il loro sguardo da un tappeto di ossa in frantumi. «Cosa dirà il presbitero Sypes? Eh? Cosa farà? A te toccherà la frusta, senza dubbio. La frusta di sicuro. Sarai punito e scorticato a sangue. Ma io? Che ne sarà di me?» Fronteggiò Dill, il mento proteso come una lama sotto il cappuccio. «Adesso muoviti. La Consegna non può attendere. La punizione verrà dopo, ma adesso devi andare, va' a caricare i morti nella gabbia. Io dovrò arrangiarmi da solo con questo disastro. Muoviti!» Dill scrollò le redini con mani tremanti. Non appena le giumente si mossero con un nitrito, le ossa scricchiolarono e si frantumarono sotto le ruote della gabbia. Dill lasciò Borelock in ginocchio, a singhiozzare e borbottare mentre raccoglieva i frammenti dell'arconte caduto. Il resto del tragitto lungo il corridoio durò un migliaio di respiri rapidi e affannosi. Giunti in fondo, i cavalli si fermarono davanti all'enorme porta rinforzata che si apriva sul Ponte della Porta, e Dill si ritrovò ad alzare lo sguardo sull'ultimo degli scheletri. Lassù erano appese le ossa di Callis, il 78
più grande dei primi angeli. L'Araldo di Ulcis sembrava essersi deteriorato più degli arconti che aveva un tempo comandato: innumerevoli graffe tenevano assieme le giunture ingiallite. Nel pugno scheletrito stringeva un libro sgretolato, nell'altro una chiave avvolta da una sibilante fiamma bluastra. La fiamma avrebbe dovuto ardere in eterno, ma Dill aveva sentito dire che spesso i preti dimenticavano di sostituire il serbatoio di gas che l'alimentava, e la fiamma restava spenta per giornate intere. Chinò comunque il capo in segno di rispetto. Due guardie dall'armatura smaltata di nero spinsero verso l'interno i battenti della porta, lasciando entrare la luce brillante del sole. Dill strizzò gli occhi. Sei cadaveri giacevano sui gradini del tempio, avvolti nei sudari. Le prefiche si affollavano attorno ai corpi, e dietro di loro dozzine di curiosi si erano arrampicate ovunque per appollaiarsi o appendersi alle strutture metalliche e godere così di una vista migliore. Dai più giovani tra la folla si levò un'acclamazione, subito soffocata dai severi rimbrotti di mogli e madri. Colonne di fumo si levavano dai camini delle case di Bridgeview, mentre in lontananza il martello di un fabbro scoccava cupi rintocchi ferrosi. Dill fece muovere il carro lentamente e avanzò sulla spianata che sovrastava i gradini del tempio. Poi scivolò giù dal sedile, e armeggiando con la chiave riuscì finalmente ad aprire la gabbia delle anime. Mentre le guardie caricavano i cadaveri nella gabbia, Dill osservava le prefiche. I cappucci nascondevano i loro volti, ma tutte le teste erano voltate verso di lui, a osservarlo. Qualcuno lo indicava sussurrando qualcosa, e provocava risatine nervose. Di colpo Dill si ricordò dei propri occhi: alla luce del sole dovevano apparire rosa conchiglia. Con sua somma costernazione, il colore si fece ancora più intenso. Quando le guardie ebbero finito di caricare i corpi, una di loro fece girare i cavalli in una curva stretta. Dill rimontò a cassetta e agitò le redini. Le bestie non si mossero. La guardia tossicchiò e accennò in direzione della gabbia. Gli occhi di Dill si fecero ancora più rossi. Scivolò di nuovo a terra e la chiuse a chiave. Al rumore familiare i cavalli si misero in movimento, e a Dill toccò arrampicarsi alla svelta. Una prefica si fece avanti e lanciò in aria una pioggia di petali, che scese fluttuando sull'angelo e sui morti. Le porte del tempio vennero richiuse alle sue spalle, e si ritrovò nuovamente confinato nell'oscurità silenziosa. Un'unica guardia era rimasta con 79
lui per scortare la gabbia delle anime lungo il corridoio, ma persino con quella misera compagnia lo spazio dagli ampi soffitti a volta sembrava più vuoto di prima. Dill incitò i cavalli. Non erano più ansiosi di obbedirgli di quanto lo fossero stati poco prima: si mossero solo dopo una breve esitazione, e quando furono pronti a farlo. L'assale gemette e i cavalli nitrirono. Dieci passi più indietro la guardia in armatura li seguiva, i passi che rimbombavano come una lenta pulsazione metallica. Ogni guardia che contasse un parente tra i cadaveri poteva reclamare il diritto di scortare la gabbia, e Dill si chiese se fosse quello il suo caso. L'uomo aveva forse un proprio caro fra i morti? Si voltò a guardarlo, ma non scorse nessuna traccia di dolore sul viso dell'uomo, solo stanchezza, e forse noia. Borelock aveva intanto radunato le ossa frantumate in una pila accanto alla loro colonna ormai vuota ed era chino su di esse, la rabbia che ancora gli aleggiava attorno come una nuvola invisibile. La piccola processione raggiunse infine le porte del Sanctum, e Dill controllò il proprio aspetto. Frammenti di polvere e di ossa gli ricoprivano la giubba. Se li spazzolò via come meglio poteva, e si lisciò con le dita i capelli arruffati. Fiammate di rosso gli indugiavano ancora nelle iridi: chiuse gli occhi strizzandoli forte per cercare di liberarsene, ma senza risultato. Qualcosa gli premeva sulla schiena: forse un piccolo osso, magari il frammento di un dito rimasto intrappolato fra le sue piume. Una chiave sferragliò nella serratura. Dill si cacciò l'osso in tasca, raddrizzò la schiena e tenne le ali ben strette contro la schiena. Punte di ferro battuto acuminate come spine orlavano le mura del Sanctum. Stalattiti di sego pendevano dai candelieri incassati nelle pareti, da dove le candele accese gettavano ombre simili ad artigli attorno a una vasta voragine che si apriva nel pavimento. Spirali di benedizioni incise lungo i bordi dell'apertura impedivano ai morti di levarsi dall'abisso sottostante fino a quando lo stesso Ulcis non li avesse liberati. Una catena scorreva dapprima in un verricello fissato di lato e quindi dentro una serie di carrucole più in alto, per poi raccogliersi in numerose spire sul pavimento. Era quello il vero cuore del tempio, il cuore della stessa Deepgate. Dill scosse ancora le redini e per fortuna i cavalli avanzarono senza esitazioni nel Sanctum, gli zoccoli che risuonavano nel silenzio come colpi di frusta. Il profumo di fiori lo sopraffece, così denso da poterlo quasi sentire in bocca, e lui si sforzò di fare brevi respiri poco profondi. Il presbitero 80
Sypes si chinò su un leggio di legno duro. Accanto a lui, sugli scranni dagli alti schienali, rivolti verso l'apertura, sedevano altri tre personaggi. Il coadiutore Crumb era il più vicino al presbitero, Rachel Hael accanto a lui, e quindi un giovane che doveva essere suo fratello. Il nuovo comandante degli aeronauti di Deepgate? La quarta sedia era vuota. Aspettavano qualcun altro. Chi avrebbe ignorato una convocazione della Chiesa? Un corpo giaceva sul pavimento davanti al gruppetto, avvolto in un drappo di seta su cui erano stampate migliaia di benedizioni. Lo sguardo di Dill indugiò per un attimo sul sudario, prima di ricordarsi del proprio compito e arrampicarsi sulla gabbia delle anime per aiutare la guardia ad aprire la serratura. Dopo aver sciolto la catena, la guardia la trascinò sul pavimento con un rumore di ferraglia. Passò il gancio a Dill, che lo attaccò alla sommità della gabbia e quindi ridiscese per staccare i cavalli. Le giumente trotterellarono da sole nel corridoio e Dill chiuse la porta dietro di loro. Clic. La guardia del tempio aveva sbloccato il verricello, e girò la manovella per recuperare il tratto di catena allentata. Presbitero, coadiutore e ospiti osservarono in silenzio la catena che lentamente si tese, e un centimetro alla volta la gabbia cominciò a sollevarsi, ruote e tutto. «Esemplare senza dubbio più fragile di Gaine.» Il sussurro di Mark echeggiò incredibilmente sonoro nel silenzio del Sanctum. Il comandante si era piegato verso la sorella, guardando Dill con la coda dell'occhio. Rachel Hael non rispose, ma rimase seduta immobile e con lo sguardo fisso davanti a sé. Il fratello si abbandonò sulla propria sedia, perplesso. Mark Hael era snello come la sorella, ma lì finiva ogni somiglianza. Il comandante degli aeronauti di Deepgate sedeva rilassato, le braccia abbandonate e un'espressione di noia sul viso abbronzato. In confronto, Rachel sembrava pallida come un cadavere. Eretta e composta, indossava ancora il frusto abito di pelle di prima. Il presbitero Sypes si appoggiava al leggio come fosse il suo unico sostegno, gli occhi infossati puntati sulla voragine davanti a lui. Al suo fianco il coadiutore Crumb risplendeva come il forziere del tesoro, le mani ordinatamente raccolte in grembo, la testa lustra e rosea come un flacone di profumo. Incrociò lo sguardo di Dill e gli indirizzò una viscida strizzata 81
d'occhio. La gabbia ondeggiò al di sopra dell'abisso e la guardia si fermò a riposare, ansante e rossa in viso. Rimasero tutti in attesa. Il presbitero Sypes fissò a lungo il vuoto che si apriva sotto la gabbia mentre Rachel, suo fratello e il coadiutore Crumb sembravano profondamente immersi nei loro pensieri. Una brezza smosse l'aria e fece vacillare la fiamma delle candele. Le ombre ondeggiarono sul pavimento come rami mossi dal vento. Trascorsero i minuti. Le palpebre di Sypes si chiusero. All'improvviso il coadiutore Crumb si schiarì la gola e il presbitero Sypes riaprì gli occhi con un sussulto. Annusò l'aria, aggrottò la fronte e borbottò qualcosa che Dill non riuscì a capire. Il coadiutore sorrise. Il presbitero Sypes sembrò ricordarsi di colpo dove si trovava e annui in direzione della guardia, che cominciò a calare la gabbia attraverso l'apertura, nell'abisso in attesa. Una volta che fu sparita alla vista, la guardia bloccò il verricello e Dill udì un mormorio come d'ingranaggi di orologio. «La morte è sempre prossima», annunciò il presbitero. «La morte è nella pausa fra ogni respiro, nello spazio fra ogni battito del cuore.» Chinò il capo. «Quando Ayen sigillò le porte del paradiso ci condannò tutti all'inferno. I fantasmi dei giusti furono abbandonati, destinati a percorrere per sempre i corridoi di Iril assieme ai malvagi...» Dill ripulì l'elsa della spada da un residuo di polvere d'ossa. Una bella arma, solida e pesante... un'arma degna dell'arconte del tempio. E si sarebbe anche abituato, immaginava, al suo peso. «... per quei corridoi senza fine, immersi fino alla vita in quello stesso sangue in cui demoni purulenti e spettri, pazzi e assassini, i bastardi più disgustosi, i blasfemi e le puttane sono dannati a vagare per l'eternità...» Frammenti di foglia d'oro si erano staccati dalla curva del guardamano. Dill fece scorrere un dito sulla superficie lucida. Piombo dorato o no, le vecchie spade erano di gran lunga superiori a quelle nuove. «... ma la crudeltà della signora Ayen rinforzò il Labirinto. Nutrito di anime su cui non aveva dominio, Iril divenne senziente e astuto...» Le armi antiche avevano una presenza, una personalità propria, e l'acciaio si poteva sempre affilare. «... e anche adesso sta cercando di farsi strada in questo mondo. E se il 82
suo primogenito Ulcis non avesse cercato di deporla...» Dill avrebbe chiesto ai preti di affilargli la spada. Ora che prestava servizio attivo per il tempio, avrebbero dovuto dargli retta. «... cent'anni di guerra nei cieli. Solo per esserne esiliato, cadute le legioni dei suoi angeli... imprigionato nell'abisso sotto il tempio...» Si poteva sostituire anche il guardamano, riportare la spada a un vero assetto da battaglia. I fabbri di Deepgate si sarebbero probabilmente offerti di decorarla con un blasone: qualcosa nello spirito dei Novantanove... «... Ulcis offrì la salvezza nell'abisso... Per tremila anni gli abbiamo affidato le nostre anime... Un esercito in attesa nella città di Deep... Per reclamare un giorno il paradiso e... Dill?» ... ma non troppo simile. Usando un emblema speciale per Dill: magari un'aquila, o un falco del deserto. Non appena finita la cerimonia avrebbe cominciato a buttare giù qualche schizzo. «Dill, ti sto forse annoiando?» Dill sussultò. Si era messo a disegnare col dito linee Immaginarie sull'ampia superficie dorata del guardamano della spada. Scattò sull'attenti e simulò un dignitoso interesse. Gli occhi del presbitero ammiccarono. «Se il colpo di Stato di Ulcis avesse avuto successo, il nostro mondo sarebbe oggi ben diverso.» Il sorriso abbandonò i suoi occhi e lui sembrò estraniarsi per un attimo, prima di recuperare la voce. «Ora, davanti al Cancello della città di Deep, offriamo questo sangue benedetto come libagione a Ulcis, primogenito di Ayen, dio delle catene, Raccoglitore d'Anime.» Una folata di vento si levò dalla voragine. Le fiamme delle candele vacillarono e risplendettero più luminose. Le ombre si allungarono verso l'apertura per poi ritrarsi. Dill fissò il vuoto ma non vide nulla, solo un'assoluta e completa oscurità. Il presbitero Sypes si aggrappò al leggio e si chinò su di esso, la voce che rimbombava: «Sottrai questo sangue a Iril. Affranca le anime che questo sangue trattiene e lascia che si uniscano al tuo esercito e risorgano per svellere le porte del paradiso». Le punte di ferro sembrarono contorcersi lungo i muri. L'odore di fiori si fece così intenso che Dill si ritrovò a lottare per respirare, come se qualcosa gli spremesse l'aria fuori dai polmoni. La gabbia delle anime tremò, il metallo sbatté, sferragliò e frusciò. E di colpo fu tutto finito. 83
Dill riuscì finalmente a respirare. La gabbia venne nuovamente sollevata, ormai vuota. Una botola aperta sul fondo dondolava avanti e indietro, sbatacchiando contro la propria cerniera. Il presbitero Sypes scese dalla pedana del leggio e si avvicinò al sudario del generale Hael. Appoggiò una mano sul cadavere e disse: «Edward Hael cadde proteggendo tutto ciò che ho di più caro». Fece scorrere lo sguardo su Rachel, suo fratello e Dill. «Sarà ora Mark, a proteggere la città in sua vece. E Rachel...» Mark Hael fissava solennemente il presbitero, ma Rachel aveva nascosto il viso fra le mani. Quando risollevò la testa c'erano lacrime nei suoi occhi. Il coadiutore Crumb le notò e non riuscì a nascondere la sorpresa, ma il presbitero parve non accorgersene, intento a lisciare la propria tonaca. All'improvviso Rachel sembrò ancora più piccola, ancora più fuori posto di quanto non fosse apparsa prima. Dill le indirizzò un debole sorriso. Forse lei non se ne rendeva conto, ma la morte era un'occasione di gioia. Suo padre sarebbe rinato nell'abisso, la sua anima affrancata al servizio di Ulcis. Le lacrime erano segno d'egoismo, mancanza di fede. Dill lo sapeva, ma ricordò la Consegna del suo stesso padre, e le lacrime che aveva versato allora. E nemmeno quella volta il presbitero Sypes sembrava averle notate. Anche in quell'occasione era tutto preso a lisciarsi la tonaca. La guardia del tempio gettò il cadavere del generale nell'abisso. Dill non si trattenne oltre: la frusta lo attendeva.
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7 LA FORTUNA DI MR. NETTLE
Con la ricevuta di acquisto di Smith stretta in pugno e il carretto del fabbro che cigolava davanti a lui, Mr. Nettle stava cercando il caposquadra dell'attracco diciassette. Le navi da trasporto rombavano sopra una foresta di piloni d'attracco e catene coperte di catrame su cui eserciti di uomini erano al lavoro con martelli e ganci e fiamme eteriche per mantenere tutto in funzione. Altri uomini scaricavano la merce dalle navi ormeggiate: minerale ferroso e carbone da Collecavo, legname dalla Foresta di Scisto, provviste, bestiame e terriccio dalle Piantagioni sul Coyle, vino di Vallalta; sale, tessuti, oro, argento e bronzo lavorati dagli insediamenti nel deserto. Vibrazioni percorrevano le travi e le pietre sotto i piedi. L'aria sapeva di carburante e di ferro. Le navi in arrivo venivano dai depositi di Porto di Sabbia e di Clune, appesantite dalle ricchezze caricate lungo le città fluviali, ma quelle in partenza erano agili e leggere. Trasportavano poco più che ingiunzioni di tasse e qualche occasionale cassa di corazze o frecce per le guarnigioni avanzate. Mr. Nettle ricordava i tempi in cui le grandi navi ancora non solcavano i cieli. Tutte le merci raggiungevano Deepgate soltanto con le carovane, e molte carovane non raggiungevano mai la città. Al culmine della guerra con gli Heshette, quando gli infedeli avevano tagliato le linee di rifornimento, c'erano stati anni difficili. All'epoca era appena un ragazzo, ma si ricordava bene le code per il cibo, la fame e i massacri. Erano tempi in cui Iril aveva preso molte anime. Grandi squarci frastagliati butteravano il cantiere, alcuni grandi abbastanza da consentire il passaggio delle aeronavi in manovra che attraccavano ai piloni, permettendo così a rattoppatori e incollatori di montare sull'involucro per le loro riparazioni. Ma in quel momento tutte le fosse che si trovò a costeggiare erano vuote, ospitavano soltanto oscurità e catene. E uno strano vento metallico che si levava dall'abisso. Ma lui sapeva lo stesso che laggiù c'erano degli uomini, assicurati a corde e imbracature, intenti a rinforzare il ferro vecchio col nuovo. Mr. Nettle poteva sentire le loro 85
grida e risate in distanza, e i colpi dei loro martelli. Si chiese come facessero quegli uomini ad affrontare le stesse catene un giorno dopo l'altro, e se le loro mogli sopportassero ancora di guardarli quando uscivano la mattina. Trovò il caposquadra che sbraitava contro un gruppo di manovali raccolti attorno a un carro stracarico. Il peso dei sacchi di carbone accumulati aveva fatto ribaltare il carro all'indietro, e il mulo ancora aggiogato ciondolava a qualche spanna da terra. L'asino ruminava, e pareva semplicemente annoiato. «Brutti scansafatiche, cosa credete che sia, uno scherzo?» Il caposquadra sbatté il proprio bastone contro il palmo della mano. «Volete per caso assaggiare qualche bastonata in testa?» «Non è colpa nostra», protestò uno dei manovali. «Quell'asino ha perso peso, da ieri.» «Ah, sì? E tu farai la stessa fine, quando ti avrò ridotto la paga per questa bestialità.» I sorrisi scomparvero dalle loro facce, e gli uomini si misero al lavoro per scaricare il carro. «Ferro grezzo. Per Smith», disse Mr. Nettle. Porse la ricevuta al caposquadra, che la ignorò. «Domani», grugnì quello, e poi rivolto ai suoi uomini: «Togliete prima quelli in cima, massa d'idioti, volete che si rovesci tutto?» «No», disse Mr. Nettle. «Adesso.» L'uomo lo squadrò. Sembrò sul punto di dire qualcosa, e poi di cambiare idea. Forse aveva notato il modo in cui Mr. Nettle aveva irrigidito le spalle. Con un sospiro agguantò la ricevuta. «Laggiù. Magazzino undici, com'è scritto qui. Lotto trecentodue.» Dopo essersi fatto vidimare la ricevuta dal capomagazziniere, Mr. Nettle individuò le casse nel punto che gli era stato indicato, e cominciò a caricare la prima sul carretto. Con l'assale che cigolava sotto il carico, ripartì verso vicolo Bronconero. Per tutto il pomeriggio lavorò sodo per Smith. A ogni passo le sue costole protestavano e qualche volta il dolore era peggiore di quando l'avevano picchiato, ma nonostante tutto non si fermò, continuava a mettere un piede davanti all'altro e cercava di scacciare dalla mente ogni cosa tranne le pietre che aveva davanti e il brontolio delle ruote del carretto. Ogni cassa sembrava più pesante della precedente, e pareva non finissero mai. Avreb86
be potuto giurare che qualcuno aggiungesse le casse sul bancale mentre lui andava a scaricarle. A quel ritmo, sarebbe stato fortunato a finire il lavoro prima del buio. Fortunato? Si accigliò. Che cos'era mai la fortuna? Non c'era che la sfortuna, che si ripresentava un giorno dopo l'altro. La sfortuna era un mattino gelido, o trovare le reti vuote per una settimana di fila, o ammalarsi quando c'era da lavorare. Sfortuna era la vita stessa. E la fortuna? Nient'altro che una pausa fra una sfortuna e l'altra. Quando non ci si ammalava, e si poteva quindi continuare a tirare le reti un giorno dopo l'altro. Trovare qualcosa da poter rivendere, e quindi mangiare. Ma forse la sua fortuna stava per cambiare. Smith era un brav'uomo. Ma non voleva pensarci. Più ci pensava, più sentiva di metterla a repentaglio, quella fortuna. La fortuna, quella vera, non capitava mai a gente come Smith o come Nettle. Alla quarta campana del pomeriggio aveva consegnato metà del materiale. Gli dolevano le costole e i muscoli cominciavano a cedere. Il sole picchiava senza pietà e lo fiaccava, la veste da lutto era zuppa di sudore. Vicino alla torre di guardia di Belvarco si gettò a terra sotto una condotta comune per spegnere la sete e sciacquarsi il viso. Alcune persone lo guardarono in modo strano, qualcuno lo fissò apertamente, ma la maggior parte lo ignorò come si ignorano i mendicanti. Solo tre frecce. Quante possibilità aveva? Se avesse fallito con la prima, di certo l'angelo l'avrebbe finito prima ancora che potesse incoccare la seconda, avvelenata o no. Doveva farcela con un colpo solo. Ma quale usare? La strappanime sembrava la più adatta: anima per anima. Anche se sarebbe stata la più difficile da ripagare, rare com'erano le frecce avvelenate. Smith non aveva mai accennato a un pagamento per le frecce, ma Nettle riteneva che fosse il minimo che poteva fare per lui, sempre che fosse sopravvissuto a quella notte. Mr. Nettle si strofinò gli occhi con le mani. E se l'angelo l'avesse ucciso? La balestra sarebbe rimasta per strada, alla mercé di chiunque l'avesse raccolta, e Smith non l'avrebbe mai più rivista. Misero scambio per una giornata di lavoro. Accantonò il pensiero. Si tirò in piedi a fatica e sollevò il carretto, appoggiandoselo contro lo stomaco. Il dolore gli saettò nelle costole ma fece del proprio meglio per ignorarlo: gli restava davanti un intero pomeriggio di lavoro. Ancor prima di tornare in vicolo Bronconero, Mr. Nettle seppe che c'era qualcosa di storto. Mentre procedeva lungo le stradine sinuose verso il 87
quartiere dei fabbri cominciò a sentirsi invadere da una sensazione di terrore. Dapprima cercò di scrollarsela di dosso, giudicandola una semplice ombra del proprio dolore, ma la sensazione crebbe quanto più si avvicinava, finché non si ritrovò quasi a correre senza nemmeno sapere il perché. Era ancora a un isolato di distanza quando si rese conto di cosa c'era che non andava: le martellate e il clangore di metallo si erano interrotti. Vicolo Bronconero era silenzioso. Mr. Nettle fece gli ultimi metri di corsa, le casse che traballavano sul carretto. La folla ingombrava l'imbocco del vicolo. I fabbri erano tutti per strada, lontano dalle loro forge a spintonarsi a vicenda con le spalle muscolose e striate di fumo di carbone per cercare di vedere oltre le teste che avevano davanti. Da qualche parte si levava del fumo e in fondo al vicolo qualcuno gridava: «Indietro, state indietro, sta per crollare!» Mr. Nettle mollò il carretto e cercò di farsi largo. La folla gli lanciò occhiatacce irate e Io sballottò da una parte e dall'altra, ma l'uomo riuscì a incunearsi fra loro e ad aprirsi un varco. Per quanto grossi fossero i fabbri, Mr. Nettle era più grosso di loro. Nell'aria aleggiava un odore acre di corda bruciata. «Indietro, ho detto! State indietro, pazzi!» Più avanti c'era gente che tossiva. Altri stavano urlando. Ci fu uno schianto, poi il gemito del metallo in tensione. Dal fumo schizzarono in alto tizzoni ardenti e di colpo la folla arretrò, trascinando con sé Mr. Nettle. Alcuni uomini lottarono per superarlo, uno gli tirò un pugno, un altro una ginocchiata nello stomaco che quasi lo fece cadere. Agguantò l'uomo per i capelli e lo trascinò a terra, fra i piedi della folla. D'un tratto davanti a lui apparve uno spazio vuoto. E le fiamme. Vicolo Bronconero finiva di colpo: dove prima c'era un ammasso di pietre, catene e muri anneriti dal sudiciume adesso si apriva una voragine, orlata di macerie fumanti. L'estremità del vicolo era rovinata nell'abisso, portandosi dietro metà delle fucine adiacenti e buona parte del vicinato. Un cerchio di catene intrecciate penzolava dal bordo, come un cesto sfondato. Il crollo aveva sventrato dozzine di case. Le pareti erano crollate lasciando sporgere le travi dai mozziconi di pietra ed esponendo l'interno delle stanze allo sguardo di Mr. Nettle, con i mobili intatti ma adesso a pochi centimetri dall'abisso. Smith e la sua fucina erano scomparsi. Mr. Nettle fece un passo indietro, e altri ciottoli franarono davanti a lui. 88
Arretrò fra la folla. I carboni delle fucine avevano incendiato le lacere reti sottostanti e, proprio mentre lui guardava, le fiamme si levarono più alte e fu avvolto da una nuvola di fumo. «Indietro!» ruggì, e spinse forte dietro di sé. Alcuni uomini inciamparono e caddero, ma quelli alle sue spalle lottavano ancora cercando di liberarsi, mentre quelli più indietro continuavano a spingere avanti per vedere. La folla si gonfiò in maniera allarmante e per un terribile istante Mr. Nettle si trovò sospinto verso l'abisso. Inciampò, agguantò qualcosa - l'orecchio di qualcuno - e riuscì a rimettersi in piedi. Quel qualcuno strillò e ricadde all'indietro: se fosse finito oltre il bordo dell'abisso, Mr. Nettle non riuscì a vederlo. C'erano altri uomini che da ogni parte si aggrappavano a lui, lo tiravano, lo spingevano. Se li scrollò di dosso a calci, a uno tirò una gomitata in faccia e lo mise a terra. Un altro schianto e un frastuono tremendo. Alle sue spalle, altre pietre smosse rotolarono nell'abisso. Non c'era via d'uscita attraverso la folla. Doveva salire, passarci sopra. Lottò con quelli più vicini, li abbatté. Urli e strilli si levavano da ogni parte. Si arrampicò su schiene, facce, gambe e braccia, spingendo e mulinando colpi. Scalciò, afferrò manciate di capelli e di pelle, si fece strada con le unghie e con i denti. Per un attimo si trovò trasportato al di sopra della folla, ma subito affondò in mezzo a loro, in mezzo ai piedi e agli stivali. Qualcosa lo colpì in piena faccia; cercò di alzarsi ma c'erano altri uomini sopra di lui che lo schiacciavano, lo soffocavano. Sentì lo schiocco e il sibilo di un cavo che cedeva. Di colpo si ritrovò coperto di sangue: mani e braccia erano rosse e bagnate. Non sapeva se il sangue fosse suo. Uno stivale lo colpì sui denti, poi gli schiacciò la testa. Un peso tremendo gli premette sulla schiena dolorante. Mr. Nettle urlò, cercò di opporsi al peso dell'uomo sopra di lui e riuscì ad alzarsi facendo leva su un gomito. Un'altra spinta e appoggiò i piedi sul terreno, con un ultimo sforzo spinse verso l'alto, alcuni uomini caddero a entrambi i lati e lui riuscì a tirarsi in piedi. Era immerso nel fumo denso. Chiuse gli occhi, colpi verso l'esterno con una mano, spinse e spinse ancora, e colpì, e colpì di nuovo facendosi strada nella massa di persone. Il suo pugno incontrò dozzine di bersagli. Un rombo profondo si levò da qualche parte dietro di lui. Altri uomini si misero a gridare. Con gli occhi chiusi, i polmoni pieni di fumo, Mr. Nettle avanzò ancora 89
tra la folla. E di colpo fu libero. Attorno a lui i fabbri stavano trascinando via dalla folla i compagni caduti. Altri accorrevano sulla scena con secchi d'acqua ma, intralciati dalla massa inestricabile di persone, non potevano far altro che rovesciarli a breve distanza e correre a riempirli di nuovo. Mr. Nettle si fermò a riprendere fiato. La sua veste era ormai ridotta a brandelli e coperta di sangue, troppo sangue per essere venuto dalle ferite che aveva inferto. I cavi spezzati, si rese conto, dovevano aver colpito tra la folla. Si controllò gambe e braccia, contò le dita. Gli girava la testa, era pieno di lividi, ma tutto intero. Era stato fortunato, concluse miseramente.
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8 LA BATTAGLIA DEL DENTE
Dill non riusciva a capire se il presbitero Sypes fosse ancora immerso nella lettura o si fosse addormentato. La testa del vecchio prete ciondolava a pochi centimetri dal tomo che aveva davanti, e il suo viso sembrava essersi sgonfiato e afflosciato come il porridge di Fondelgrue. Aspri respiri gli raschiavano in gola ma non russava, quindi forse stava ancora leggendo. Però, da quando Dill era entrato nell'aula, il vecchio non aveva ancora voltato pagina. Lo sguardo di Dill percorse gli scaffali dietro la scrivania. Dal pavimento al soffitto, i dorsi degli antichi volumi formavano un mosaico a tinte cupe, illuminato dall'occasionale balenio dei titoli dorati. Tranne che per la distesa di libri e per un paio di tavoli e le relative sedie, l'aula era spoglia. La luce del tardo pomeriggio penetrava dalle finestre alte sulla parete occidentale, e disegnava strisce dorate sul pavimento di legno. Una mosca solitaria svolazzava languida tra i raggi di luce e sembrava faticare attraverso un'aria appesantita dall'eccessivo silenzio. Di colpo Dill si rese conto che il respiro raschiante si era interrotto, e voltandosi scoprì che il presbitero Sypes lo stava fissando. «Da quanto tempo sei qui?» chiese il vecchio. «Non volevo interrompere, vostra grazia.» «No, immagino di no.» Squadrò Dill dall'alto in basso. «Non era prevista una lezione per oggi, vero?» «No, vostra grazia.» «Allora cosa vuoi?» Dill esitò. «Mi è stato detto di venire qui. Me l'ha detto Borelock, di venire.» «Ah, sì.» Il presbitero Sypes si raddrizzò sulla sedia. «L'incidente di questa mattina. A quanto pare, i Novantanove sono diventati novantotto.» Fece una pausa. «Bene, che hai da dire a tua discolpa?» Dill chinò il capo. «Sono mortificato.» il presbitero Sypes lo fissò con attenzione. «Vedo.» La mosca svolazzò rabbiosa attorno all'orecchio di 91
Dill, tracciò un'ampia curva e si posò sulla scrivania del presbitero. Il vecchio le tirò una manata, mancandola. Dill sussultò. Il presbitero si stava esaminando il palmo della mano, apparentemente perplesso. «Mi sembra di capire che, prima che tu prendessi servizio al tempio, era Borelock a occuparsi di questo genere di cose.» «Sì, vostra grazia.» «Cosa ti aspetti che io faccia?» «Mi è stato detto...» Il mento di Dill rimase appoggiato sul petto, gli occhi puntati a terra. «Vostra grazia, mi hanno parlato di frustate.» «Mmm, in effetti sarebbe la punizione standard, non ti pare? Per un ritardo, magari, o per aver macchiato una pergamena o rovesciato l'inchiostro... o per altri misfatti del genere.» «Sì, vostra grazia.» «Ma credi davvero che le tue azioni di questa mattina meritino una punizione standard? A quanto mi risulta, ci ritroviamo con una carrettata di polvere e denti sparpagliata sul pavimento del corridoio del Sanctum. Nientemeno che Samuel, la Stella dell'Alba. Credi davvero che qualche frustata sia sufficiente?» «No, vostra grazia.» «No davvero.» Il presbitero Sypes scrollò la testa. «Lo sai quant'era antica quella reliquia?» «Sì, vostra grazia.» Chiuse dolcemente il libro. «Figliolo, prima del tuo incidente era soltanto un mucchio d'ossa. E continua a essere un mucchio d'ossa. Ossa molto importanti, d'accordo, resti sacri.» Lasciò che le parole si depositassero. «Lo ripareremo, certo richiederà qualche sforzo e una spesa considerevole, ma in fin dei conti tornerà a essere il solito mucchio d'ossa.» Esitò. «Però la tradizione esige delle frustate, e delle frustate riceverai.» La sua voce si fece più dolce, appena un sussurro. «Però, Dill, abbiamo un problema. Io sono vecchio e debole. Dubito fortemente di riuscire anche solo a sollevare una frusta, figuriamoci usarla con la forza necessaria a infliggere dolore.» Dill rabbrividì solo a sentir rammentare la frusta, ma si sforzò di rispondere: «Capisco. Ne parlerò con Borelock». «No, ragazzo, no. Non voglio che pensino che sono uno smidollato, un vecchio prete raggrinzito che non è più in grado di compiere il suo dovere. 92
In questo caso, credo che ti dispenserò dalle frustate.» C'erano veleni cento volte peggiori delle sferzate, veleni capaci di creare interi paesaggi di sofferenza senza infliggere nessun danno corporale evidente. Negli occhi di Dill lampeggiò un biancore accecante, gli tremavano le ginocchia e non riuscì a far altro che rimanere in piedi. «Quando te ne andrai ti suggerisco di camminare un po' curvo, con una smorfia di dolore», disse il presbitero. «Evita di guardare in faccia i preti... e non dire nulla.» Scrollò le spalle. «Lascia che la loro mente si riempia di punizioni immaginarie e veleni e dio sa che altro. Lasciali fantasticare sulla furia del loro vecchio maestro. Perché non dovremmo approfittare dell'effetto pur senza doverci sforzare troppo? Non credi che questo risparmierà del dolore a tutti e due? E se qualcuno dovesse ridere di te, o prenderti in giro, fammelo sapere con discrezione. Hai capito?» Dill tremava al punto che il suo cenno d'assenso non fu che una semplice estensione del tremore generale. «Non avere tanta paura, figliolo. Aiutami a nascondere la mia debolezza, e io farò in modo di amministrare allo stesso modo eventuali future punizioni. Non che mi aspetti di vederti di nuovo comparire davanti a me per questioni del genere: ormai sei grande. Affare fatto?» «Sì, vostra grazia.» «Bene.» Il presbitero Sypes sorrise. «Non facciamo sapere a nessuno che sono un vecchio scemo tremolante.» «No, vostra grazia.» «Visto che il mio sonnellino è stato interrotto e che sto attraversando uno dei miei rari momenti di lucidità, vediamo di metterlo a frutto. Direi che abbiamo a disposizione il tempo che ci vorrebbe per una trentina di frustate, e si aspettano che le amministri in tutta tranquillità. Siamo in un'aula, quindi approfittiamone per leggere qualcosa. A che punto sei nel tuo programma di studi?» «Vostra grazia, durante l'ultima lezione lei ha gettato via il mio programma.» «Ho fatto questo?» «Dalla finestra.» Dill indicò un pannello di vetro nuovo di zecca, che recava ancora le impronte sbavate del vetraio. «Povero me. Di che libro si trattava?» «Non so. Uno pesante.» 93
«Buon per me. Detesto gli argomenti pesanti. E poi abbiamo studiato qualcos'altro?» «Aveva detto che avendo compiuto sedici anni era tempio che imparassi la ben più importante lezione della vita.» «Davvero?» Il presbitero aggrottò la fronte. «Ah, sì, certo, naturale. Certo che mi ricordo», disse poco convinto. «Mi stavo chiedendo...» «Sì?» «L'argomento che avevamo toccato l'ultima volta... ?» «Oh.» Il presbitero Sypes si irrigidì. «La mia memoria...» Tamburellò le dita contro i denti. «Oh, be', vediamo di non tirarci indietro: se ho cominciato un argomento, sarà bene finirlo... immagino fosse solo questione di tempo. Sedici anni, quindi per forza...» Aprì di nuovo il volume e scorse una pagina, ma Dill sospettò che stesse solo fingendo di leggere. Il presbitero aveva assunto un'insolita sfumatura rossastra, le labbra strette. Fece uno strano verso chiocciante. Infine puntò lo sguardo addosso a Dill. «Le donne.» «No, vostra grazia, non quello.» «No?» «Stavamo parlando della guerra.» «La guerra?» Il presbitero Sypes esalò un lungo sospiro. «Ulcis sia ringraziato, sì, la guerra. Ti racconterò della guerra.» Per un attimo sembrò raccogliere i pensieri, lo sguardo perso in un punto alle spalle di Dill. «Contro gli Heshette, più che altro. Gli altri erano troppo impegnati a strangolarsi a vicenda per questioni di capre o a rubarsi la moglie. Ma gli Heshette...» Continuò ad annuire. «Tremila anni fa Callis venne per erigere il tempio sopra il reame di Ulcis, ma gli Heshette giurarono di abbatterlo. La prima battaglia, la battaglia del Dente, fu combattuta quando Deepgate era soltanto un ammasso di tende e capanne di fango tirate su alla meglio attorno all'abisso. Senza neppure le mura di una città a tener fuori gli infedeli, un centinaio di arconti e appena duemila pellegrini riuscirono a sconfiggere un'orda venticinque volte più numerosa.» Il presbitero sorrise. «Ma questa parte della storia la conosci già, vero?» «Sì, vostra grazia.» Dill conosceva bene il racconto della battaglia. Studiosi e presbiteri del passato ne avevano lasciato innumerevoli resoconti, e lo stesso presbitero Sypes gliel'aveva raccontata più di una volta. «Allora la salterò.» 94
«No, vostra grazia, per favore.» Il sorriso del vecchio prete si fece più ampio. «Il resoconto di Scrimlock comincia con due domande.» Dill se ne ricordò: quello era il suo aneddoto preferito sulla battaglia. *** «Quanti?» aveva chiesto Callis. «E dove?» Balthus Brine si inginocchiò sul tappeto della tenda cotta dal sole dell'araldo, le larghe spalle che gettavano un'ampia ombra sulla mappa distesa davanti a lui. «Araldo, secondo le nostre stime più precise arrivano a quaranta o cinquantamila. Ottomila Heshette purosangue, due volte tanti sono i loro cugini commercianti di Dalamoor, e una dozzina di tribù Heshban che vengono dalle Sabbiemorte del nord. Poi ci sono i cammellieri delle steppe, nomadi matricolati coinvolti nella guerra, e un piccolo gruppo di mercenari del sale richiamati dalle Terrebasse, sui millecinquecento uomini. Non si erano più visti tanti infedeli riuniti in un unico posto da quando York il barcaiolo aveva sparso la voce che a Sanpah era rimasta una vergine. Al momento l'esercito è accampato dieci miglia a sud-ovest di Trononero, qui.» Indicò un punto sulla mappa. «A dieci o dodici giorni di distanza.» «Mercenari del sale?» chiese l'angelo. «Araldo, gli Heshette li pagano col sale del Delta Chiazzato.» Callis esplose in una risata. «Auguriamoci allora che portino le loro paghe con sé in battaglia. Sbaglio o siamo a corto di sale?» «Siamo a corto di parecchie cose, tra cui la fortuna.» Balthus si massaggiò la nuca. «Araldo, l'esercito avanza veloce. Tranne i mercenari, sono tutti uomini del deserto. Se vogliamo avere una possibilità di raggiungere il Coyle e il riparo offerto dalle città fluviali, dobbiamo muoverci subito.» «Fuggire, Balthus?» Gli occhi di Callis lampeggiarono. «Io non fuggirò.» «Araldo, non possiamo difendere Deepgate da una forza del genere. Potremmo costruire delle mura di difesa, ma...» Lasciò la frase in sospeso. Una fortificazione del genere avrebbe forse ritardato la loro inevitabile fine per non più di un'ora. «Concordo. Non ci sarebbe di vantaggio restare in questo insediamento.» «Allora ci asserragliamo nel tempio? Potremmo anche difendere le ca95
tene, ma non abbiamo riserve a sufficienza per sostenere un assedio. La tubatura dell'acqua di Jakka non è ancora completata, e non più di metà delle nostre carovane riuscirà a rientrare prima che l'orda ci sia addosso. Moriremmo di sete nel giro di un mese.» «Verissimo», disse Callis distrattamente. Balthus attese, ma l'angelo non aggiunse altro. Alla fine, gli chiese: «Araldo, quali sono i tuoi ordini?» «Marceremo contro di loro.» Balthus quasi si strozzò. «Contro cinquantamila uomini?» «L'hai detto tu, che potrebbero essere anche solo quarantamila.» «Comunque...» Ma non riuscì a sostenere lo sguardo di Callis. L'intensità di quegli occhi grigio scuro lo innervosì, e Balthus abbassò lo sguardo sulla mappa come se potesse comparirvi una soluzione al loro dilemma. «Abbiamo spade a sufficienza per settanta uomini. E quattro barili di esplosivo proveniente da... oltremare. E i Novantanove, naturalmente.» Tracciò un cerchio attorno al talismano sul suo petto e si toccò la fronte. «Se per volontà di Ulcis risponderanno alla tua convocazione.» «Dubiti di me, Balthus?» «No, araldo, ma cento arconti, appena duemila pellegrini... ?» «E un Dente», disse Callis. Balthus fissò l'araldo per un lungo istante, poi un sorriso gli si allargò sul volto. Per tutto quel tempo la soluzione era stata - e la battuta rese il suo sorriso ancora più ampio - proprio davanti alla loro faccia. «Araldo, inizierò immediatamente i preparativi.» Lasciò l'angelo a meditare sulla mappa e uscì dalla tenda. All'ombra del Dente. Il Dente era una meraviglia: torreggiava sopra l'insediamento come una cittadella scolpita nell'avorio. Callis aveva portato la macchina a Markeh quarant'anni prima, e aveva scosso la terra in diverse maniere. L'araldo aveva predicato dall'alto delle mura del Dente, di come Ayen, dea della luce e della vita, furiosa per la malvagità degli uomini, avesse sigillato il paradiso, abbandonando le anime della terra in balia del Labirinto. Il che aveva portato grande costernazione tra gli uomini di Markeh, che non avevano nessun desiderio di vagare per i corridoi insanguinati di Iril, assieme alle anime dei malvagi. Callis aveva calmato la folla. Sette dei figli di Ayen si erano levati contro di lei, e avevano sollevato un esercito di angeli per spodestare la dea. 96
La loro rivolta aveva quasi avuto successo, ma all'ultimo momento le forze di Ayen si erano dimostrate troppo forti. La dea aveva prevalso e aveva cacciato dal paradiso i figli che l'avevano tradita, gettandoli sulla terra assieme ai superstiti del loro esercito sconfitto, a condividere il sottostante reame con gli uomini. Balthus aveva ascoltato il racconto con timore e stupefazione, come tutti gli altri, e ne aveva riconosciuto la veridicità. L'inverno precedente non avevano forse visto il cielo fiammeggiare per la furia di Ayen? Non avevano forse assistito alla caduta di sette stelle? Non tutto era perduto, aveva allora spiegato Callis. La speranza degli uomini era adesso riposta nel figlio maggiore di Ayen, Ulcis. Il dio delle catene era caduto in quella zona, inabissandosi profondamente nel terreno. Indebolito ma non distrutto, il dio aveva inviato il proprio araldo a erigere un tempio, per proclamare che il signore Ulcis offriva la salvezza nell'abisso. Le anime a lui consegnate dopo la morte sarebbero state al riparo da Iril. Il dio delle catene stava formando un nuovo esercito per riconquistare il paradiso. Balthus era rimasto così sconvolto dalla rivelazione da liberarsi della sua vita precedente come di un vecchio mantello, per unirsi immediatamente ai pellegrini impegnati nella costruzione del tempio. Uscito dalla tenda dell'araldo, Balthus sollevò lo sguardo oltre i cingoli del Dente, larghi come un fiume, dal pallido teschio fino ai comignoli anneriti a decine di metri d'altezza, dove il fumo sprigionato dai suoi polmoni si spandeva nel cielo del deserto. Quell'affare era una fortezza, comprese Balthus, e anche di più: era un'arma. Per gli ultimi quarant'anni le enormi lame del relitto avevano affondato il morso nelle pendici di Trononero, per scavare quello strano minerale dalle viscere della montagna e portarlo a Deepgate per forgiarne catene per il tempio. Cinquantamila uomini? Fossero stati cinquanta sarebbe stato lo stesso. Eppure Balthus non aveva considerato cosa poteva diventare per loro quella macchina in battaglia. Il Dente era diventato parte del paesaggio come lo stesso abisso. Quante volte si faceva caso al terreno sotto i propri piedi o al tetto sopra la testa? Era cambiato fino al punto di dare per scontata una simile manifestazione del potere di dio? Balthus si spinse fino al bordo dell'abisso e si inginocchiò sulla sabbia a chiedere perdono al suo dio degli inferi. 97
Tutti i lavori si erano interrotti quando la notizia dell'orda in avanzata li aveva raggiunti. Le passerelle che dal perimetro zigzagavano verso il centro erano deserte. Un profondo silenzio regnava sopra l'abisso. Tutte le novantanove catene delle fondamenta erano state posate e lo scheletro della struttura principale del tempio stava prendendo forma. Balthus fece vagare lo sguardo lungo l'ampiezza della costruzione: la catena di Mesa, quella di Perpaul, di Simon; ognuna potente come la leggenda da cui traevano il nome. Erano i più grandi guerrieri di Ulcis, i sopravvissuti della guerra in paradiso. Quarant'anni prima Balthus non avrebbe creduto che i mortali fossero in grado di erigere una costruzione come quella. In verità era riconoscente. I preparativi per la battaglia furono condotti scrupolosamente. I pellegrini immagazzinarono nel Dente tutte le provviste a loro disposizione. Uomini, donne e bambini vennero alloggiati all'interno, in rifugi temporanei. E Callis convocò i Novantanove. Gli angeli di Ulcis si levarono dall'abisso per unirsi al loro comandante, le armature circonfuse di luce mortale, le spade splendenti sotto il feroce sole d'Ayen. Balthus rabbrividì alla loro vista. «Sono morti?» chiese a Callis. «Hanno rinunciato all'eternità per noi», rispose l'angelo. «Non possono sopravvivere in questo mondo. La luce di Ayen li distruggerà, così come distrugge gli uomini.» Ridusse gli occhi a due fessure. «Ma finché vivono arderanno fieramente.» All'ordine dell'araldo venne portata una bottiglia contenente un liquido nero. Balthus rivolse a Callis un'occhiata interrogativa. «Vino d'angelo», rispose Callis. «Un dono dal nostro signore.» «Una pozione?» Callis rise. «Una specie. Conferisce grande potenza, forza e longevità agli arconti che la bevono. È un dio magnanimo, Ulcis, che condivide temporaneamente la sua divinità, non trovi?» Balthus osservò il vino d'angelo. Possibile che quell'elisir contenesse il potere di un dio? Il liquido ribolliva come fumo e gli parve di udire sussurri che venivano dall'interno del vetro. «È vivo», ansimò. 98
Callis sollevò la bottiglia. «Questo vino contiene le anime di molti uomini.» «Anime umane?» «Nemici di Ulcis.» Con un tono che bandiva ulteriori domande. Balthus restò a guardare mentre ognuno dei Novantanove beveva un sorso di vino d'angelo. Guardò i loro occhi che diventavano neri e la luce di morte che s'incupiva attorno alle armature. E, quando anche l'araldo ebbe avuto la sua parte, Balthus non riuscì più a dominare il proprio desiderio. «Un servo fedele potrebbe avere il permesso di averne un sorso?» Callis sembrava in preda a una febbre omicida. Ruotò selvaggiamente su se stesso, il viso stravolto, e per un attimo Balthus temette per la sua stessa vita. Ma poi la violenza abbandonò lo sguardo dell'angelo, che indirizzò al suo servo uno sguardo impietosito. «Balthus, questo elisir è troppo potente per gli uomini. Ti farebbe impazzire.» L'alba del giorno della battaglia si levò una grande tempesta di sabbia, come se il dio delle catene stesse agitando le proprie ali nel sottosuolo. Balthus Brine osservava dall'alto del Ponte del Dente, con Callis al suo fianco. Per l'intera durata della battaglia l'araldo non parlò. La sua furia era svanita, e seguiva il massacro sotto di loro con un'espressione quasi di rimpianto sul volto senza età. «Sei addolorato per loro?» chiese Balthus. «Sono dei selvaggi», disse Callis. Balthus annuì, scoprendo i denti candidi fra le labbra scure. «Come noi», aggiunse Callis, unendosi al sorriso del suo servo. La tempesta infuriò e il Dente affondò nelle carni dei nemici e le spade degli arconti lampeggiarono finché il terreno non diventò rosso come il sole soffocato dalla sabbia. E, quando infine il vento scemò e il massacro terminò, i cadaveri di ventimila uomini giacquero sulle Sabbiemorte. I superstiti dell'orda fuggirono lontano dal Dente, e Callis e gli angeli si levarono trionfanti sulla montagna di morti. «Tutti coloro che sono ancora interi siano benedetti e gettati nell'abisso», ordinò. «Saranno redenti.» Balthus intervenne. «Ma hanno cercato di distruggerci. Non meritano di entrare nell'esercito del nostro signore.» L'angelo sorrise. «È un dio magnanimo, Ulcis.»
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*** «Callis ha davvero vissuto per mille anni?» chiese Dill. Al presbitero occorse un attimo per metterlo a fuoco, e poi distolse lo sguardo. «Le varie versioni sono contrastanti», borbottò. «Per quanto la maggioranza concordi con questa stima. Purtroppo i suoi figli non hanno ereditato la longevità del padre.» Dill ci rimuginò sopra. Mille anni di vita per un sorso di vino d'angelo. Se ci fosse stato più elisir, l'angelo sarebbe stato ancora vivo? «Ma gli Heshette ritornarono.» «Ritornarono, certo, però mai più in quel numero. La battaglia del Dente insegnò loro una dura lezione. Fu solo duecento anni fa che la bilancia ricominciò a sollevarsi. Le nostre spie scoprirono fra gli Heshette una casta di sciamani, che cercava di sollevare i popoli del deserto in una seconda guerra. Colpimmo per primi, cercando di fermare il loro slancio, di uccidere gli sciamani, ma i nostri sforzi non fecero che rafforzare la loro causa.» Il vecchio prete tirò su col naso, si grattò una narice e continuò: «Si sollevarono di nuovo, e per molti anni i nostri eserciti riuscirono a tenerli lontani soltanto grazie alla fede e all'acciaio. E naturalmente con l'aiuto dei figli di Callis. La discendenza dell'araldo si mantenne robusta». Dill sorrise fra sé. Il graffio sul dito si fece improvvisamente sentire con una fitta di dolore. Ma il presbitero continuò, come se parlasse da solo. Il suo sguardo era appannato, ma parlava con passione. «Ogni volta che gli infedeli recuperavano le forze, ritornavano, anche se mai forti come prima. Più che altro tribù sbandate, come sempre guidate dal nucleo Heshette e dai loro stregoni dalla lingua suadente. Sono rimasti fedeli ad Ayen, e hanno giurato di distruggere i suoi figli esiliati.» Sypes sembrò fluttuare in se stesso, per un momento. «Selvaggi tatuati e barbuti... persino cannibali, si dice. Divorano i loro stessi feriti e bevono qualche orrenda bevanda fermentata di latte e sangue.» Il presbitero aggrottò le sopracciglia. «Ma, a ogni modo, girano un sacco di voci del genere, in questa città.» Dill cercò di figurarsi gli Heshette, i loro riti del sole e i sacrifici umani di cui parlavano a volte i missionari. Nella sua immaginazione, si azzuffavano come cani, mentre gli sciamani dalla lingua biforcuta volteggiavano fra loro sussurrando come fantasmi. Immaginò di trovarseli di fronte, ritto sull'orlo dell'abisso, l'ultimo arconte a difesa delle vie di una Deepgate in 100
preda al panico. La spada sguainata, gli occhi neri e oscuri come la tana di Ulcis. Il presbitero proseguì: «Fede e acciaio, e la volontà di dio ci hanno protetti per tutto questo tempo. Ma quell'estate di trent'anni fa ha galvanizzato le tribù e risvegliato le loro speranze. La peggiore siccità della nostra storia ha rovinato la maggior parte dei raccolti. Tempeste di sabbia hanno distrutto il resto. Il Coyle, che mai ci era venuto meno, si ridusse a un rivolo. Tutti soffrivamo allo stesso modo; noi di Deepgate così come la gente del deserto. Ma le tribù scorsero un segno in quella siccità: credettero che la dea Ayen stesse punendo loro per le nostre azioni. Per la prima volta dai tempi della battaglia del Dente, smisero di lottare fra loro e si unirono. Ancora una volta marciarono su di noi come un solo esercito, con gli sciamani fra loro, a incitarli. Lo schieramento delle nostre truppe nel deserto era troppo esteso, quindi ci ritirammo per batterci lungo il perimetro dell'abisso. «Anche quella volta eravamo in minoranza. I nostri soldati avevano addestramento, disciplina e spade più affilate, ma dovettero lottare contro la forza del numero. Lo stesso Gaine uccise più di quaranta nemici. Le tribù hanno sempre temuto la tua stirpe, e a ragione. Avresti dovuto vederlo». Nella sua mente Dill vide l'avanzata delle tribù: selvaggi tatuati dallo sguardo folle. Un esercito di stracci e muscoli. Vide suo padre solo, sprezzante, di fronte a loro. La spada di Gaine lampeggiava, affondava nella carne e nelle ossa. Le teste volavano spiccate dalle spalle e il sangue sprizzava. Gli uomini si abbattevano davanti a lui. Gaine si levò in volo e i pagani si ritrassero urlando, fuggendo nelle Sabbiemorte. «E fu Devon a salvarci», disse Rachel Hael. Era entrata senza bussare e, a giudicare dall'espressione di Sypes, Dill ebbe la sensazione che fosse un'abitudine di cui avrebbe fatto meglio a liberarsi. Dill si voltò. «E tu che vuoi?» scattò, girandosi poi a guardare il presbitero. Gli occhi gli virarono sul rosso. Il sollievo di Rachel nel vedere che l'angelo aveva evitato le frustate stava diminuendo rapidamente. Il presbitero la fissò con diffidenza. «L'adepta Hael ha ragione su questo. All'epoca Devon era apprendista dell'Arcichimico Elizabeth Lade, la sua futura moglie, nelle cucine dei veleni.» «Devon è sposato?» Dill sembrava sorpreso. «Lo era», rispose Sypes volgendosi verso di lui. «Quella povera donna. Ben pochi riescono a sopravvivere fino a tarda età, in quella professione... 101
per via dei vapori.» Rachel fremette di fronte alla scarsa considerazione di cui Sypes dava prova. Trattenne a stento una replica. «Elizabeth si occupava soprattutto dello sviluppo dei narcotici», continuò Sypes. «Eravamo alla ricerca di sistemi alternativi per contrastare la minaccia costituita dagli Heshette senza dover ricorrere al completo genocidio. Stavamo perciò considerando la possibilità di renderli dipendenti da un narcotico chimico.» Scrollò le spalle. «Ma tale possibilità non fu mai esplorata fino in fondo. Alla morte di sua moglie, Devon tornò a studiare i puri e semplici veleni diretti e roba del genere, per applicazioni militari. Svolge questo lavoro con un certo... zelo.» «Gas che ustionano la pelle e provocano la cecità», disse Rachel. Sypes annuì con una certa esitazione. «Polveri per inquinare l'acqua degli Heshette e storpiare i loro bambini», aggiunse. A quel punto il vecchio sembrò sopraffatto. «Loro...» «Armi spaventose.» «Di certo...» «Armi sacrileghe.» Dill la guardò torvo. Il presbitero si agitò a disagio. Rimase in silenzio per un lungo istante, poi incrociò il suo sguardo e le si rivolse con asprezza: «Armi necessarie». «Efficaci», aggiunse lei, gelida. Sypes grugnì; «Temo che il dolore interessi Devon più dell'efficacia letale». Rachel lo fissò con gli occhi ridotti a due fessure. Al contrario di suo fratello e dei suoi ufficiali, il presbitero non si nascondeva dietro gli eufemismi. Si rese conto che l'animosità di Sypes non era rivolta contro di lei. Era evidente che il vecchio si sentiva in colpa per aver lasciato libero Devon di scatenarsi contro gli Heshette. Sypes riportò l'attenzione su Dill. «Verso la fine, ci aiutò a progettare le aeronavi, affinché potessero spargere meglio i suoi veleni. Le tribù furono...» «Umiliate?» suggerì Rachel. «Decimate», ribatté Sypes. Trasse un fazzoletto dalla manica e si asciu102
gò la fronte. «Non avevamo scelta: viviamo in tempi difficili.» Rachel incrociò le braccia sul petto. C'erano mai stati tempi facili? La colpa era forse più lieve da sopportare della minaccia dei nemici di Deepgate? «E così li abbiamo sconfitti.» Dill continuò risolutamente a volgere le spalle a Rachel. «Gli arconti hanno sempre protetto il tempio?» chiese. «Sempre, fino a quella battaglia», rispose Sypes continuando intanto a fissare l'assassina con diffidenza. «Adesso le cose sono diverse. Spade e simboli hanno minore importanza al giorno d'oggi. Anziché l'arte della spada, ti viene insegnato il cerimoniale, il codice legislativo...» È sempre troppo poco. Cosa mai si aspettava il vecchio che lei potesse insegnare all'angelo? I suoi doveri come Guardiano delle Anime? L'etichetta del Sanctum? Il modo migliore per allacciarsi gli stivali? C'erano altre cose, decise Rachel, che di certo Dill avrebbe trovato più interessanti, o perlomeno più illuminanti. Il presbitero Sypes sorrise debolmente. «... e la storia, quando sarai in grado di sopportarla.» «Ma se le tribù ci attaccassero di nuovo...» Rachel sbuffò. «Il campo di battaglia non è posto per te.» Troppo tardi si rese conto di quanto fossero suonate aspre le sue parole. Lui vuole combattere. Dio lo aiuti, lui vuole davvero andare là fuori. Si morse le labbra. Sypes le scoccò un'occhiata d'avvertimento. «Non c'è pericolo di un altro attacco. Il nostro esercito è troppo forte per gli infedeli. Le tribù sono ancora una volta disperse, anche se gli Heshette e i loro maledetti sciamani sono tutt'altro che distrutti.» In quel momento il vecchio appariva esausto. Dill abbassò gli occhi. «Sono riconoscente, vostra grazia.» «Adesso dovresti andare con l'adepto Hael», disse Sypes. «Sono certo che potrà insegnarti come usare quella tua spada.» Rachel annuì. E molto altro. Nel corridoio fuori dall'aula Dill si voltò verso di lei. «Sei sempre così sgarbata?» Per una volta, non riuscì a rispondergli. E, se anche aveva delle scuse pronte per lui, le rimasero ficcate in gola. Lui si allontanò di gran carriera, la cima della spada spuntata che strusciava sul pavimento. «Aspetta.» Rachel lo seguì. 103
Lui la ignorò. Lo afferrò per un braccio, improvvisamente e di nuovo infuriata. «Quanti anni hai?» La guardò in cagnesco. «Hai sedici anni, non sei forse... un uomo, ormai?» «E allora?» «E allora ti insegno una lezione.» «Non ho bisogno di lezioni da te.» Cercò di divincolarsi, ma lei lo trattenne saldamente, Le sue ali fremettero, e Rachel percepì un soffio d'aria fresca sul viso. «Non mi interessa quello che credi tu», disse lei. «Ti insegnerò comunque. Dimenticati la spada. Adesso che sei un uomo, c'è qualcosa di molto più importante che devi imparare.» «Cosa?» Stava diventando rosso di nuovo: sia gli occhi sia il viso. Rachel trattenne un sorriso. «Vieni con me.» «Dove?» «In un posto segreto.» Era diventato così rosso che irradiava quasi calore. Scosse la testa. Ma Rachel lo condusse via comunque, sentendosi deliziosamente crudele.
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9 FOLLA AL POZZO DEI PECCATORI
Si erano radunati a centinaia per assistere all'esecuzione. Attendevano silenziosi e immobili sotto la massa di catene rugginose che circondavano la torre di guardia, ma Mr. Nettle percepì una sensazione di aspettativa che gli fece accapponare la pelle. A ovest, basse sull'orizzonte, lame di luce perforavano le nubi temporalesche in aumento. La Notte dello Sfregio si avvicinava. La torre di guardia di Barraby svettava attraverso le catene, un pugno merlato sbriciolato e annerito dal fuoco. Porte e finestre erano state murate duemila anni prima, ma si raccontava che si udissero ancora passi provenienti dall'interno, e persino le voci e gli urli dei demoni. Mr. Nettle spinse avanti il suo carretto sotto i tratti di catena, urtando stinchi e caviglie mentre procedeva. Le mosche gli ronzavano attorno. Costeggiò il palco dell'esecuzione per raggiungere la zona dove sostavano i carri del tempio, carichi delle offerte per Ulcis: manufatti di ferro, rame e legno, fiori e spade, ogni dono l'esemplare migliore di quanto il donatore potesse produrre. Dopo l'esecuzione, i carri sarebbero stati ricondotti all'interno del tempio, e i doni gettati nell'abisso. Un maledetto spreco. Due soldati del tempio in corazza leggera montavano la guardia accanto ai carri. Al rumore del carretto di Mr. Nettle quello più vicino sollevò lo sguardo. «Che trasporti là sopra?» tuonò. «Ferro?» Mr. Nettle grugnì. «Non è roba per te.» «Lo spettacolo non è mica gratis.» «Non sono qui per veder scorrere il sangue di qualche pellegrino.» «Allora riprendi la tua strada.» Chinando le spalle, Mr. Nettle proseguì rumorosamente. Niente di peggio dei soldati senza nulla da fare. Quello avrebbe dovuto essere già contento di avere un lavoro, visto che erano rimasti non più di novecento soldati regolari alle dipendenze dirette del tempio, per la maggior parte di guarnigione nelle città fluviali. A migliaia erano stati invece 105
retrocessi al rango di riservisti, senza salario e senza niente a ripagarli del tempo passato nell'esercito se non le armi e l'armatura, che dovevano tenere affilate e lustre per le regolari ispezioni, se non volevano finire tra le grinfie dell'Avulsore stesso. Anche la cavalleria di Deepgate aveva subito tagli del genere, i cavalli da guerra erano stati venduti ai mercanti per trainare i carri, o ai macellai del mercato della carne e agli incollatori. Un mormorio percorse la folla e Mr. Nettle si voltò per vedere Ichin Samuel Tell, l'Avulsore in persona, che saliva i gradini del patibolo. Col volto privo d'espressione, con l'abito nero, la barbetta sottile oliata e appuntita come una lancia, Ichin Samuel Tell era il capo della Spina. Si rivolse con calma a una delle due guardie del tempio, che si raddrizzò, poi annuì e cominciò a trascinare avanti il primo dei pellegrini. La pelle del guerriero Heshette pareva una corteccia d'albero. Lui non lottò, e nemmeno sollevò la testa dal petto. Continuò a tenere gli occhi chiusi: evidentemente pregava. Gli altri erano schierati in fila dietro di lui, polsi e caviglie scorticati dai ceppi. Mezza dozzina di uomini, due donne, un ragazzino singhiozzante, tutti vestiti di stracci color sabbia. Mr. Nettle affrettò il passo e spinse avanti il carretto fino a superare un capannello di nobili profumati, dopo aver incrociato lo sguardo delle loro guardie del corpo. Forse quell'esecuzione era giusta, e forse non lo era: non gli piaceva riflettere troppo su certe cose. A ogni modo, l'oscurità lo cogliesse, non si sarebbe certo fermato a guardare. L'Avulsore consultò un rotolo di pergamena prima di voltarsi a fronteggiare la folla e annunciò con voce monotona: «Quest'uomo è un infedele e un bestemmiatore». La folla rumoreggiò: «Redenzione!» «Così sia.» Ichin Tell cominciò a mormorare benedizioni mentre una delle guardie del tempio apriva il Pozzo dei Peccatori - un varco che attraversava il patibolo per spalancarsi nell'abisso sottostante -, pronto a ricevere il corpo non appena l'anima fosse stata redenta. La seconda guardia strinse un cappio al collo del pellegrino, prima di chinarsi ed estrarre accette e sega a nastro dalle loro custodie di tela. Una redenzione procurata con la sola corda, aveva scoperto da tempo la Spina, non bastava a soddisfare la folla. Era necessario veder scorrere il sangue sopra il Pozzo dei Peccatori. Sangue benedetto, ma... Su ogni volto Mr. Nettle scorse la stessa espressione: avido disgusto mescolato alla brama di orrore e di grottesco. E 106
ancora di più: il bisogno di assistere a qualcosa di pericoloso, di percepire l'intervallo tra le pulsazioni. Allettare l'inferno per dar valore all'abisso. Le due facce della Chiesa di Ulcis: Sypes e il suo angelo, e la Spina col suo Pozzo dei Peccatori. Un difficile equilibrio di poteri, ma per quanto tempo? La maggior parte della gente riteneva che Sypes fosse diventato pigro, se non addirittura senile. È rimasto un solo angelo in tutta la Chiesa, ormai, e la colpa è del vecchio. Avrebbe dovuto convincere Gaine a prendere un'altra moglie. Non mancavano certo le fanciulle desiderose di martirio. Mr. Nettle guardò ancora le facce smaniose che lo circondavano, e grugnì. O le famiglie volonterose disposte a offrire le figlie in cambio del denaro della Chiesa. Forse, dopotutto, Sypes non era per niente senile. Il piccolo Heshette in catene si lamentava ad alta voce. Ichin Tell lo aveva messo in fondo alla fila, così da farlo assistere alla morte degli altri prima che arrivasse il suo turno. Il razziatore contrasse la mascella e si fece largo a spallate tra la folla, le nocche dolorosamente serrate sulle stanghe del carretto. Alle sue spalle la corda cigolò, e gli spettatori acclamarono. *** Rientrato nel quartiere della Lega, Mr. Nettle faceva risuonare gli stivali sulle assi delle passerelle e spingeva via gli altri passanti, senza preoccuparsi di quanto oscillassero i ponticelli o dei sobbalzi delle passerelle o di chi si doveva aggrappare in tutta fretta per non cadere di sotto. Le assi minacciavano di spezzarsi sotto il peso del carretto che spingeva. La veste da lutto gli sventolava attorno, sudicia, sbrindellata e incrostata di sangue. La gente della Lega lo fissava corrucciata e cercava di scansarlo, ma nessuno osò levare una parola di protesta fino al Ponte delle Nove Funi, dove una vecchia zitella con le gambe storte gli strillò dietro: «Villano! Grosso maiale!» Mr. Nettle si voltò di scatto, pronto a colpirla, ma quando la vide tutta ingobbita a aggrappata al corrimano si sentì un vero maleducato. Si limitò a lanciarle un'occhiataccia, e sputò sulle assi ai suoi piedi, poi si rimise in marcia stando più attento a non scuotere troppo il ponte. Avrebbe sbattuto forte la porta, senonché lo stipite era tenuto assieme giusto da un budello d'animale ed era sul punto di crollare. Una volta dentro scaricò il ferro, una barra alla volta, che sparpagliò a terra sulle travi più robuste del pavimento. Non appena finito si precipitò nell'ingresso, cal107
ciando via bottiglie vuote e botti d'olio. L'intera casa tremava e ondeggiava, le funi scricchiolavano in maniera preoccupante. Non ci badò: le funi potevano tenere o no. All'inferno la fortuna. In soggiorno accese una lampada, si strappò di dosso la veste da lutto, e scagliò la scure contro il muro, dove rimase conficcata. A vibrare. Mr. Nettle aprì una nuova bottiglia di whisky e si lasciò cadere sulla poltrona, digrignando i denti. Angelo. Si batté un pugno sul ginocchio. Angelo, angelo, angelo. Perché diavolo la chiamavano così. Quella lì non aveva timor di dio come l'angelo del tempio. Era una sanguisuga, un abominio, una piaga della città, proprio come le piaghe che infliggeva alle sue vittime, che non guarivano più. Come quelle che aveva inferto ad Abigail. Bevve, versandosi il whisky sul mento. Notte dello Sfregio o no, quella cagna assassina e ladra d'anime doveva pagarla. Senza scampo. Quella notte sarebbe uscito a cercarla. Fuori, nella notte senza luna, lui e lei e nessun altro tranne i mendicanti, i pazzi e la Spina. Quegli striscianotte, ma chi si credevano d'essere, con le loro spade sacre, e le balestre e i veleni? I mendicanti non avevano scelta, i pazzi non avevano una mente che permettesse loro di scegliere, ma la Spina... se erano così dannatamente in gamba, allora come mai quel demonio era ancora in circolazione? Perché la sua Abigail era morta? Fissò la scure piantata nella parete. Non aveva bisogno della balestra del fabbro. Che idea stupida. Venti centimetri d'acciaio e un braccio robusto per scagliarli, ecco cosa ci voleva. Avrebbe trovato il modo di avvicinarsi. Ingollò un'altra sorsata. E solo uno sprazzo di vera fortuna, gli bastava quello. Solo un piccolo colpo di fortuna. Uno solo. Quella maledetta l'avrebbe visto subito, se le storie su di lei erano vere. L'avrebbe visto a cinque chilometri di distanza. Ci avrebbe pensato lui a farsi vedere... e le avrebbe anche fatto sentire le sue urla. Tutta la stramaledetta città l'avrebbe sentito. Sarebbe stata una vera Notte dello Sfregio in cui nessuno avrebbe chiuso occhio. Ma anche lui aveva bisogno di vedere lei, e quello sarebbe stato più difficile. La sua nemica detestava la luce. Rimase seduto a lungo, a rimuginare. Se solo fosse riuscito ad attirarla giù dai tetti e tenderle una trappola. Magari poteva stendersi in mezzo a una strada e fingersi ubriaco. No, a lei non piaceva il sangue pieno di whisky, o di colla, almeno così si diceva. Avrebbe dovuto fingersi ferito piuttosto o, meglio ancora, uno di quei pazzi che vagavano per la città cantan108
do canzoni da folle come a volte facevano. Mr. Nettle scacciò anche quel pensiero. Sua moglie gli diceva sempre che cantava peggio di un orso malato. Sarebbe riuscito solo a farla scappare. Alle pareti erano ancora appesi i quadri di Abigail, a dozzine. Vivaci rettangoli di compensato: tutti i suoi giardini immaginari, fiori e alberi rossi e gialli. Non era mai riuscito a procurarle della pittura verde, solo quei due colori. Ma a lei non importava. Gli aveva detto che rosso e giallo erano i suoi colori preferiti, e lo aveva abbracciato. Lui se l'era scrollata di dosso con un grugnito, e le aveva detto di andare a dipingere qualcosa. Il respiro gli uscì come un rantolo e si strofinò gli occhi: alberi rossi e gialli si confusero attorno a lui. Altre due dita di whisky. Chissà come, la bottiglia era quasi finita. Sentiva le palpebre pesanti, la testa ciondolava. Gambe e braccia gli parevano carne macinata. Avrebbe preparato la trappola dopo un sonnellino. Aveva bisogno di essere riposato e con la mente fresca per studiare un piano. Una stanchezza mortale gli prosciugò dai muscoli anche l'ultima goccia di sangue, e lui sprofondò ancora di più nella poltrona. Chiuse gli occhi. Avrebbe dovuto essere astuto, abile. E sobrio. Non poteva lasciare che Carnival gli arrivasse vicino mentre era ubriaco. *** Era in piedi su un'altissima torre, a rimirare una città fatta di guglie delicate e ponti slanciati. Una luna nera risalì veloce nel cielo color avorio. Ammassi di nuvole scure ribollirono all'orizzonte, come trascinati da un vento rabbioso. Il cielo era trapunto di stelle nere. Le strade sottostanti erano deserte, dapprima fu certo di essere solo, l'unico in tutta la città. Ma poi qualcuno toccò la sua mano. Abigail era in piedi accanto a lui, il sudario che sbatteva nel vento. Levò su di lui uno sguardo triste e gli afferrò la mano in una stretta gelida. Deep, disse lei. Sì. Poi vide le luci. Il calore trapelava dalle finestre sbarrate. Le case furono improvvisamente piene di gente. Rumori lontani di canti e risate salirono fino a lui. Ma lassù sulla torre regnava un gelo mortale. L'esercito di Ulcis, spiegò Abigail. Aspettano il paradiso. Lui alzò le spalle. Hai ancora una scelta. Credi davvero di poterla sconfiggere? Anche 109
ammesso che non tenga per sé la tua anima, la spedirà all'inferno. Cosa vuoi che sia un inferno rispetto a un altro? Chiese lui. Ho vissuto per tutta la vita a Deepgate - sì o no? - e senza mai lamentarmi. Il Labirinto non può essere peggiore. Iril è infinito, replicò lei. Gli si strinse il cuore, a pensarla laggiù. Voleva dirle che almeno sarebbero stati assieme, ma sapeva che era una bugia. Chiunque vagasse nel Labirinto era solo, dannato a camminare in eterno per corridoi di sangue, in cerca della propria anima. Non sopportava più di guardarla, quindi tornò a fissare il cielo. Una sagoma scura sì muoveva in alto. Ali? Allungò la mano verso la scure. Non farlo, disse Abigail. Non fare cosa? Chiese lui come se non lo sapesse. Lei gli strinse più forte la mano. Papà, ti prego, non farlo. Lui si liberò della sua stretta. Non seccarmi, le disse. Vattene. Era stato sul punto di dire: Va' a dipingere qualcosa, e il dolore nel suo cuore si era fatto più intenso. Ho paura, disse lei. Avrebbe voluto afferrarla, stringerla fra le braccia, ma non poteva. Non dipende da te, fu tutto quello che riuscì a rispondere. Torna a casa, papà. E dov'è?
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10 UN POSTO SEGRETO
Mimetizzata tra le guglie del tempio, una torre coperta d'edera si innalzava da un nido di tetti. Il primitivo coronamento ad archi era crollato, ma i doccioni erano ancora acquattati fra le restanti dita di pietra; animali con zampe di leone, ali e zanne. I licheni sfregiavano le loro smorfie smussate, il muschio impellicciava le loro ali e minuscoli fiorellini bianchi sbocciavano dalle crepe fra le zampe, ma le bestie continuavano a montare la guardia impassibili. In piedi ad ali spiegate, col tramonto che gli scaldava le piume, Dill osservava i fringuelli che striavano l'aria attorno a lui. «È qui?» chiese. Rachel Hael si era appoggiata a uno dei mostri. «La tua ombra è quasi uguale alle loro», disse assestando una pacca sulla testa della creatura di pietra. Dill gettò un'occhiata alla, propria ombra, e gli occhi cominciarono a bruciargli. «Rosa significa imbarazzo, vero?» Il ragazzo sentì che il colore si faceva più intenso. Lei emise un lungo sospiro e guardò oltre Dill, oltre le pietre e le guglie del tempio. «È da quando ero piccola che non tornavo quassù. Quando c'era mio padre, mi permettevano di vagare in ogni meandro del tempio. Questo è sempre stato il mio posto preferito.» Gli girò lentamente attorno, spolverando lo sbriciolio di pietra dalle ali del mostro. «Allora non sembrava così in rovina.» Esitando, allungò una mano verso le sue piume. «Puoi volare, con queste?» Dill ritrasse le ali. «Non mi è permesso.» «Ma devi averci provato. Io l'avrei fatto.» «La legge del Codice lo proibisce. Adesso abbiamo le aeronavi per difenderci, i veleni, gli assassini.» Sottolineò l'ultima parola. Se anche l'aveva notato, lei non lo diede a vedere. «Hanno paura che voli via?» Dill alzò le spalle. «Le regole sono regole.» «Che risposta idiota.» 111
Dill fremette. Le dita di lei accarezzarono di nuovo le ali, e lui le ritrasse ancora di più. In passato aveva avuto la tentazione di volare, ma i preti l'avrebbero saputo. Sapevano sempre quando faceva qualcosa di sbagliato. «I miei occhi...» cominciò. «Sono rosa», disse lei. «Diventano verdi se mi sento in colpa o mi vergogno.» «Come i miei.» Dill sorrise suo malgrado. «Ti senti sempre in colpa?» Ma il sorriso svanì quando vide l'espressione sul viso di Rachel. Non voglio saperlo. «Scusami», sospirò lei. «Dicono che quelli della Spina sono privi di senso dell'umorismo, e hanno ragione. Dovrei cercare di comportarmi in maniera più umana.» Si accosciò accanto a lui, apparentemente incerta su come proseguire. Nemmeno Dill sapeva che dire. Deepgate borbottava piano sotto le guglie che li circondavano, case e catene scomparivano piano nelle ombre che si allungavano dal margine occidentale. Grida lontane e deboli profumi salivano verso di loro trasportati dalla brezza della sera: aliti di fumo di carbone e di piante venivano dai giardini, con un fondo di spezie aride dalle più lontane Sabbiemorte. Una coltre di fumo aleggiava sopra le aeronavi e sopra la Falce, dove la nave che Dill aveva avvistato poco prima si stava avvicinando a un pontile d'attracco, risplendendo dorata. Da quell'altezza, la nave non pareva più grande del suo pollice. «Attracca per fare rifornimento», spiegò Rachel. «Mark sta per partire per il Porto di Sabbia con un carico di merce destinato agli avamposti militari.» Grugnì. «Sarà già lontano prima che sorga la luna nera.» il suo sguardo si sollevò verso un temporale in formazione a ovest. Di colpo distolse lo sguardo e sibilò un'imprecazione. «Fammi un favore.» «Cosa?» «Vola.» «Non posso.» «Sì che puoi.» Lo prese per il collo della giacca e lo tirò in piedi. D'un tratto cominciò a spingerlo verso il bordo della torre, verso il baratro. Dill cercò di opporre resistenza, ma lei era sorprendentemente forte. «No, io...» Il cielo gli si apriva davanti. «Aspetta.» Affondò i talloni nel terreno. «Ti prego, non farlo.» Cercò disperatamente di allontanarsi da lei. 112
Rachel lo lasciò andare, con una strana occhiata. «Credevi davvero che ti volessi buttare di sotto?» «Non è quello che stavi per fare?» Dill era rosso in viso, gli occhi ora bianchi. Lei sembrò sinceramente colpita. «Il mio compito è prendermi cura di te, non ucciderti. Cercavo di farti volare da un estremo all'altro di questa torre.» Si sporse a guardare oltre il parapetto, poi si voltò di nuovo verso di lui. «Però sarebbe un'idea. Se ti getto di sotto... non potrebbero punirti se cerchi di salvarti la vita.» Dill arretrò. Lei lo afferrò per la mano, impedendogli di allontanarsi oltre. «Umorismo da Spina.» Lui la fissò. «Lascia perdere.» Rachel esitò, poi gli indicò un doccione davanti a loro. «Vola solo da qui a lì.» «Perché?» Lei ci rifletté un attimo. «Perché non te lo lasciano fare.» «Così potrai farmi rapporto?» L'espressione di lei si incupì. «Credi che lo farei? Che stia cercando di tenderti una trappola? È solo un voletto, per amor di dio. Non ti sto mica chiedendo di erigere un tempio a Iril.» «Sarò punito.» «Solo se ti scoprono. Ce la fai a sopravvivere a qualche frustata, no? Ne hai già ricevuto la tua parte, fino a ora, quindi non metterti a fare il santerellino con me. La Spina non verrà certo a cercare le tue ossa.» Dill sussultò. «Cosa?» Lei sospirò. «Scusami, non avrei dovuto. Dopo quest'ultimo guscio vuoto, hanno di nuovo tirato fuori la storia degli Uomini Molli.» «Gli Uomini Molli?» Rachel aggrottò la fronte, perplessa. «Non sai degli Uomini Molli?» Lui si fissò i piedi. «Ma non ti arriva niente lassù, in quella tua torre?» Dato che non rispondeva, Rachel continuò: «Secondo la storia, gli Uomini Molli erano tre scienziati che una volta, in segreto, erano riusciti a produrre il vino d'angelo. Facevano incetta di ubriachi e mendicanti e li dissanguavano per ottenere le anime. Ma, quando alla fine sperimentarono l'elisir, li fece impazzire. La Chiesa li scoprì, e mandò allora la Spina a ucciderli. Ma gli assassini non riuscirono a ucciderli, il vino d'angelo li aveva mutati. Dovettero ac113
contentarsi di disossarli e portar via le ossa, e seppellire il resto nelle Sabbiemorte. Dicono che siano tuttora lì, ancora vivi dopo centinaia d'anni, ma incapaci di disseppellirsi e liberarsi. I cammellieri continuano a raccontare di aver sentito gemiti e grida che vengono da sotto la sabbia». Fece una pausa. «È una leggenda, ovviamente. Come lo Strisciacatene, la Strega, o la Vedova Legata. Non va presa sul serio. Almeno...» «La Vedova Legata?» «Una donna del Varco della Cappella che...» Si interruppe. «Lasciamo perdere. Non ho intenzione di raccontartela, questa. È troppo raccapricciante.» Dill non ritenne importante farle notare che non aveva mai sentito parlare neppure dello Strisciacatene o della Strega. Ma a quel punto era ancor meno disposto a farsi obbligare a un volo illecito. Evitò lo sguardo di Rachel e guardò la botola che riconduceva all'interno del tempio. «I preti non salgono mai fino a quassù», disse lei. Però vengono sempre a sapere tutto. Come faceva a non capirlo? «Mi hanno detto che nella Sala degli Angeli c'è un ascensore», continuò Rachel. Dill le scoccò un'occhiataccia. «Io non ho bisogno...» «Sinceramente, non ci avevo creduto. Volevo vederlo con i miei occhi, quindi dopo la Consegna ho parlato con uno degli addetti al verricello, una guardia del tempio di nome Snat. Lo sapevi che lanciano i dadi per decidere a che piano portarti?» Dill sentì che gli occhi gli si incupivano, dal bianco al grigio. «E qualche volta ti lasciano sospeso a metà, vero?» Grigio più scuro. «Per loro è un gioco», disse lei. «Quante volte suonerai la campana? Ci scommettono sopra.» Ancora più scuro. «Snat mi ha detto di aver vinto tre doppie, quando ho parlato con lui.» Sempre più scuro. «Che tipo, non riusciva a smettere di ridere. Dice che gli mancano altre cinque vittorie per comprarsi una spada nuova.» Dill spiegò le ali. «Da qui a lì», disse Rachel. Fece un passo indietro, continuando a te114
nergli la mano. L'angelo sbatté le ali una volta, e poi un'altra. E poi, lentamente, cominciò a batterle. Percepì la consistenza dell'aria, sentì che i muscoli delle spalle e della schiena si contraevano quando le ali si abbassavano. Accelerò il ritmo, fece scattare le ali all'indietro e le trascinò in basso, più forte, ancora più forte. I suoi piedi si alzarono da terra. Ciocche di capelli furono sollevate lontano dal viso di Rachel. Lei gli lasciò la mano. E lui volò. Si sollevò in aria senza fiato, il cuore che batteva forte, l'intero corpo che formicolava. L'aria fresca gli accarezzò la schiena e gli scorse sul viso. Sentiva le guance frementi e in fiamme. Le ali battevano su e giù, ripetutamente, come mani che affondassero nell'acqua fresca di fonte. Aspirò una boccata tremante d'aria che sapeva di cristallo. Il cielo aperto, infinito, mutava dal rosa al rosso-oro nel punto in cui montagne di nuvole nere si ammassavano a ovest. Le Sabbiemorte sobbollivano all'orizzonte, raddoppiate in un riflesso arancione. Sotto di lui, Rachel urlò qualcosa. Si voltò a guardarla. Lo spostamento del peso compromise il suo equilibrio e si spaventò, annaspando alla ricerca di un appiglio e incapace di trovarlo. Di colpo cominciò a cadere, scomposto. Con lo stinco andò a urtare contro la testa di uno dei mostri di pietra, rimbalzò all'indietro e ricadde sulle lastre di pietra del pavimento, con una botta che lo lasciò senza fiato. Rachel fu subito al suo fianco, un'espressione di incontrollabile preoccupazione sul viso. «Sei ferito? Niente di rotto?» Dill annaspò in cerca d'aria. Gli pareva di avere bande di ferro a stringergli il petto, e il respiro arrivava a brevi ansiti. Si tirò in piedi tremante, spolverandosi i pantaloni. Qualche piuma staccata gli fluttuò attorno. Una fitta di dolore allo stinco. Sussultò, barcollò, poi si mise a sedere sulla spalletta della torre. «Sto bene. È solo che...» «Cosa? Che c'è che non va?» Gli tremavano le gambe. «Colpa mia. Mi sono spaventato, ho perso il controllo.» «Adesso come ti senti?» Si strofinò lo stinco. Il dolore al petto si era allentato e riuscì a respirare 115
meglio. «Mi sento... non saprei... stupido.» Un rivolo di sangue gli colò lungo il mento. «Ti sei tagliato.» Rachel tirò fuori un fazzoletto e gli tamponò il labbro. Dill si guardò le mani. Aveva i palmi graffiati, e cominciarono a fargli a male non appena li guardò. «Credo di essere atterrato sopra la mia spada.» «Meno male che c'era del buon acciaio a interrompere la tua caduta.» Dill sorrise debolmente. Nell'espressione di Rachel c'era una tenerezza che non le aveva mai visto prima. «Hai volato... più o meno.» Dill fremette d'imbarazzo e fece per alzarsi. «Si sta facendo buio, devo andare. Fra poco cominceranno a chiudere a chiave tutte le guglie. Le finestre, le botole.» Rachel annuì. «Domani ti vedrò?» Aveva buttato lì la domanda con leggerezza, ma sperando, dentro di sé, che quel giorno così inusuale non fosse reale, che Rachel avrebbe capito il suo bisogno di un vero sovrintendente e avrebbe trasmesso l'incarico a qualcuno più adatto di lei. Ma dalla tensione dei muscoli sul suo viso, dall'infinitesimale contrazione dei suoi occhi, capì che l'assassina, aveva percepito una domanda diversa. «Lo spero.» *** Fogwill strascicò i piedi al fianco del suo maestro mentre il vecchio prete zoppicava verso la scrivania. Aveva visto Sypes muoversi anche più in fretta, di solito quando non sapeva di essere osservato o quando una faccenda urgente gli faceva scordare per un po' la propria infermità, ma Fogwill portò pazienza. I pilastri del Codice torreggiavano su di loro, rivestiti dal pavimento fino agli altissimi soffitti a volta di scaffali pieni di libri le cui coste di pelle consunta erano custodite dietro grate di filigrana dorata. Era in corso la costruzione del trentunesimo pilastro. Contro le travi che stavano alla base della colonna completata solo a metà erano appoggiati blocchi di pietra squadrata e lastre di marmo per la decorazione, ma nessuno scalpellino era in quel momento al lavoro sulle impalcature di legno. Dove sono? Due mesi di lavoro, e ancora non ho visto innalzare una pietra. Li paghiamo un tanto all'ora? Zigzagarono fra cataste di rotoli di pergamena, inchiostrati di fresco e pronti per essere usati dal presbitero. Rapporti dalle guarnigioni e dalla 116
corporazione dei mercanti, dissertazioni dai chimici delle Cucine dei Veleni, bilanci, letteratura, storia, elenchi su elenchi... e ancora elenchi. Come faceva Sypes a occuparsi di tutto? Nessuna meraviglia che bruciasse la poesia. Quando finalmente raggiunsero la scrivania, Sypes si sistemò sulla propria sedia e si voltò verso Fogwill. «Racconta.» «Vostra grazia?» «Mi stai ronzando attorno, Fogwill. Niente di strano in sé, ma stai ronzando in silenzio, il che accade raramente. Dimmi tutto.» «Quel guscio, la ragazza, pare che fosse la figlia di un Cordaio.» «Sì, sì.» Sypes aprì un cassetto e ne trasse un librone su cui era inciso il titolo: Anime non classificate. «Il furto dev'essere comunque registrato. Il suo nome?» «Non lo sappiamo. Era un guscio vuoto, e le guardie hanno cacciato via il padre. Dovrò fare delle indagini. Dovrebbe essere abbastanza semplice rintracciarlo. Una morte così sarà sulla bocca di tutti, nella Lega.» Il presbitero intinse il calamo nell'inchiostro e cominciò a scrivere. «Non me ne preoccuperei troppo. La maggior parte di queste registrazioni è incompleta.» «Non è stata Carnival.» Il presbitero non sollevò neppure lo sguardo. «Coadiutore, in questa città c'è soltanto una ladra di anime.» «Con tutto il rispetto, vostra grazia, era un cadavere fresco la mattina prima della Notte dello Sfregio.» «Mi pare ovvio che lo abbiano tenuto in ghiaccio.» «Per un mese intero? Come avrebbe fatto un Cordaio a procurarsi tutto quel ghiaccio?» «Questa gente sa essere ingegnosa, Fogwill. Non dimostra nulla.» Allora perché eviti il mio sguardo? Fogwill respirò a fondo. «La guardia ha riferito di aver visto dei lividi sul suo braccio, sopra il gomito...» Sypes non sollevò lo sguardo. «Il che fa pensare che chiunque l'abbia dissanguata l'avesse prima legata. I gusci che lascia Carnival mostrano i lividi soltanto attorno alle caviglie, per via dei ceppi.» Sypes stava tamponando l'inchiostro sul suo registro. «Questo assassino è assai più imprevedibile della Sanguisuga», continuò Fogwill. «Perlomeno 117
Carnival segue un suo metodo costante nell'uccidere. Un'anima per sé la Notte dello Sfregio, le altre...» Lasciò la frase in sospeso. «Ma questi nuovi gusci sbucano fuori a ogni ciclo lunare, tutto il sangue prosciugato con cura. Qualcuno vuole che siano trovati. Qualcuno ci sta inviando un messaggio.» «E di quale messaggio si tratterebbe?» Fogwill si torse le mani. «Vino d'angelo. Qualcuno sta cercando di produrre il vino d'angelo... e vuole che noi lo sappiamo.» «Vino d'angelo?» sbuffò Sypes. «Ma ti senti, Fogwill? Il vino d'angelo non può essere fabbricato.» «Ma...» Sypes sollevò una mano. «Miti, leggende... racconti di vecchie comari.» Fogwill si accigliò. Lanciò un'occhiata ai volumi custoditi nei pilastri del Codice. Diecimila anni di storie di vecchie comari. «La gente comune continua a credere agli Uomini Molli. Se Devon...» «Basta così.» Il tono di Sypes era severo. «Non ti lascerò ciondolare qui dentro a muovere accuse e minare la fiducia che assieme all'esercito abbiamo tanto penato a costruire per questi... assurdi pettegolezzi da caserma», disse liquidandoli con un vago gesto della mano. «Possibile che detesti tanto quell'uomo?» Ecco il punto. Nei sette mesi in cui Fogwill aveva subito i rifiuti di Sypes di prendere in considerazione i suoi sospetti, quattro gusci, vuoti più di quanto ci si potesse ragionevolmente aspettare erano comparsi sulla scena. Altre quattro anime reclamate, prosciugate dal sangue, eppure Carnival, con tutta la sua voracità, si limitava a reclamarne una per sé la Notte dello Sfregio. Ma come poteva convincere Sypes della colpevolezza di Devon, se non dicendogli tutta la verità? Il mio odio per Devon è abbastanza grande da farmi sopportare il tuo disprezzo? L'ultima volta che Fogwill si era lamentato che i vapori provenienti dalle Cucine dei Veleni facevano appassire i gerani della sua adorata madre, l'intero personale del tempio si era ammalato. Sospettando una mossa sleale, Fogwill aveva sollevato il finimondo. L'ulteriore malattia che aveva fatto seguito a quel reclamo gli aveva provocato un mese di diarrea, e quando si era finalmente ripreso aveva scoperto che nel frattempo Devon si era messo a reclutare operai fra il personale delle cucine del tempio. Non si indagò mai sulla loro fine. Quel maiale di Fondelgrue non lo sapeva e non 118
gliene importava, e apparentemente non importava a nessun altro. Tranne che a Fogwill, ovviamente. Esitò. «Avevo un amico.» Sypes nascose il volto fra le mani. «Non voglio sentirlo, Fogwill.» «Un facchino delle cucine», insistette Fogwill, riacquistando coraggio adesso che era riuscito a partire. «Devon disse che quelle notte c'erano quattro navi in arrivo, e quindi aveva bisogno gente robusta per caricare le provviste. Si lamenta di continuo che gli manca la manovalanza, e si rifiuta di utilizzare soldati o studenti. Sostiene di non avere il tempo di controllare direttamente ogni singolo sguattero o cavallo da soma.» «Parole sue?» «Non certo mie.» «Di sicuro si tratta di un lavoro sgradevole, ma qualcuno dovrà pur farlo, e la guerra ci ha messo tutti sotto pressione.» Sypes richiuse il registro che aveva davanti. «E quando sarebbe successo?» «Sei settimane fa.» «E cosa ne è stato del tuo... amico?» «Scomparso. L'Avvelenatore ha simulato ignoranza, naturalmente. Ha detto che probabilmente... Be', preferisco non approfondire questo dettaglio. Non è stato molto cortese. I suoi commenti, per essere sincero, sono stati assolutamente osceni. Lui mi odia, quindi non perde occasione...» Fogwill non riuscì a trovare le parole per esprimere la propria frustrazione. «Non perde occasione...» «Nessun cadavere?» Uno sguardo ferito. «Sono davvero dispiaciuto per la perdita del tuo amico, Fogwill, ma non c'è ragione di sospettare qualche gioco sleale. Può essersene semplicemente andato. Credo che sia un'abitudine abbastanza diffusa tra il personale delle Cucine dei Veleni. Nessuno con la testa a posto vorrebbe restarci. Nonostante la sua qualifica ufficiale, Devon non è malvagio.» «Opinione discutibile. Basta pensare alle armi che mette a punto: il livello di sofferenza che provocano va ben oltre il necessario.» «Il tuo giudizio sulla sua opera è del tutto irrilevante. -» «Mi lasci far intervenire la Spina... soltanto per tenerlo d'occhio.» «Impossibile.» «Potremmo servirci di Rachel Hael. Non è stata ancora temprata, ha contatti con i militari, noi...» 119
«No. Voglio che lei si occupi di Dill.» «Allora mi permetta di parlare col Cordaio, per scoprire dove e quando è morta sua figlia, e magari esaminare il corpo.» Si stupì da solo nel pronunciare quelle parole. La Lega dei Cordai non era certo la zona più sicura di Deepgate. Il presbitero scosse la testa. «Fogwill, abbiamo negato la nostra benedizione a quella ragazza. Suo padre sarà di certo addolorato e ferito. Non voglio che tu sparga sale sulle sue ferite. La mia risposta è no.» Perché mi ostacoli? Fogwill scrollò il capo per la frustrazione. Che Sypes nascondesse qualcosa? Una pioggia leggera cominciò a tamburellare contro il vetro della finestra alle spalle del presbitero. Il tramonto era ormai uno squarcio dorato fra l'orizzonte e le nubi torreggianti. C'era una tempesta in arrivo. Quella Notte dello Sfregio avrebbe fatto buio prima del solito, e Fogwill temeva che ci fosse in circolazione più di un solo assassino.
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PARTE SECONDA OMICIDIO
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11 LA NOTTE DELLO SFREGIO
La pioggia cadeva a scrosci, tamburellava sulle piastre di raccolta e gorgogliava lungo le grondaie fino alla gola delle cisterne. Le catene in tensione gemevano e gocciolavano sotto il peso degli edifici zuppi d'acqua, cupe voci metalliche che si levavano da ogni angolo di Deepgate. La luce del tardo pomeriggio scemò e si spense, ma nemmeno un lampionaio comparve a illuminare le strade, e ben presto i distretti del tempio, il Dedalo e la Lega dei Cordai affondarono nel buio. Dodici assassini della Spina si erano radunati in vicolo della Salamoia: fantasmi dai volti scarni, immobili, la pioggia scorreva sibilando sulle loro armature di cuoio. Coltelli, spade e balestre a portata delle pallide mani. Tra tutti e dodici, soltanto Rachel rabbrividì. Aveva già incontrato gli altri diverse volte prima d'allora, eppure non conosceva il nome di nessuno di loro. L'uomo dallo sguardo spento e con una cicatrice a forma di uncino che gli s'incurvava attorno al naso si rivolse a lei: «Tu farai da esca». «Perché io?» «Perché hai la capacità di farla infuriare.» «E tu no?» sbuffò Rachel. «Non illuderti. Basta che apri bocca e dici una cosa qualunque, e lei va in bestia, te lo garantisco.» «Vedi di provocarla, adepta. Carnival risponderà... reagirà ai tuoi insulti. Hai un vero talento per far leva su queste... reazioni emotive. Farai da esca.» Le conversazioni con la Spina erano sempre piuttosto legnose. Erano quelli i momenti in cui Rachel era quasi grata che le fossero stati risparmiati gli aghi, le torture e la tempra brutale, necessari a purificare l'adepto e renderlo in grado di agire senza il fardello dell'emozione. Quasi grata. «E ovviamente sei sacrificabile.» Quello era venuto da una donna magra dalle labbra piene ma esangui. Era in piedi accanto a una ragazza sottile che avrebbe potuto essere sua sorella, più giovane di lei e con profonde 122
ombre scure sotto gli occhi inespressivi. Dio, ho anch'io quell'aspetto? Sembro anch'io uno spettro come loro? Un guscio? Gli occhi di Rachel si spostarono da uno sguardo inespressivo all'altro, senza trovarci niente. «Sacrificabile», borbottò. «Già, che stupida sono stata a dimenticarmelo. Grazie tante.» La donna magra annuì rigidamente. Insulti, sarcasmo, ironia, era tutto sprecato con i suoi pari. Rachel avrebbe anche preso a schiaffi quella donna, se ciò fosse servito a farla infuriare, ma che soddisfazione c'era a colpire un muro di mattoni? Eppure Rachel la invidiava, come invidiava gli altri. L'essere temprata garantiva un silenzio interiore che non le avrebbe fatto rimpiangere il sacrificio della propria personalità. «Sparisci dalla mia vista», scattò. «Ci vedremo al planetario.» Sguardo spento disse: «Non vorrai attaccare Carnival prima che la trappola sia pronta a scattare?» «E se lei mi attaccasse prima?» «Non fare nulla.» «Nulla?» «Esatto.» Rachel contrasse i pugni. «Come vuoi.» Sguardo spento inclinò il capo. «La luna nera sta sorgendo.» Al comando inespresso, le Spine scivolarono via nella notte, lasciando sola Rachel. Non fare nulla? Si voltò da una parte, poi imprecò e si voltò dall'altra. E invece no. Mi trovo una taverna, busso alla porta finché non mi fanno entrare, mi siedo e mi metto a bere come la gente normale. Magari incontro anche un uomo... Magari... Magari non era ancora troppo tardi per lei. Schizzò via sotto la pioggia. Le strade erano deserte, ma Rachel percepiva una strana tensione nell'aria che la circondava. Un migliaio di rumori diversi proveniva dalle case buie: imposte che venivano ricontrollate; chiodi piantati nelle assi che sbarravano le finestre; grate di ferro assicurate agli stipiti; catene e serrature chiuse a chiave. Deepgate si preparava alla battaglia. «Una moneta per un pellegrino?» Una figura sudicia rannicchiata in un androne, lunghe ciocche di capelli unti e una barba incrostata di resti di ci123
bo che sbucavano da un cappuccio. «Signore, la luna nera sta arrivando, la pioggia è fresca e pulita, e noi siamo vivi. Tu hai sangue nel tuo cuore, io ho la colla nel mio. Che evento glorioso! Dammi una moneta.» Un incollatore? La pelle sotto quegli stracci doveva essere viscida e giallastra; la lingua spessa trasudava sostanze chimiche. E il suo sangue... insolito. «Signore?» ribatté lei. «Ah, una gentile signora, allora. E giovane, a giudicare dalla voce, anche carina, sì, sì, ora sento anche i seni, oh, signore, sulle cosce, la tensione di qualche materiale attillato... è per caso pelle? Ma che bellezza! E senza un uomo a scortarti in questa terribile notte. Ti ha cacciata via, oppure è morto e ti ha abbandonata a vagare intontita e spezzata dal dolore? Divorziata? Condoglianze, mia povera piccola.» Rachel si rese conto che era cieco. Ecco perché mi ha sentito passare. «Tutto questo da una sola parola?» «Sette parole, adesso, gattina. Ognuna gravata da un dolore così pesante da spezzare le pietre. E anche desiderio. Così piena di conflitti, confusa, poveretta. Sento una corrente sotterranea di desiderio. Sento...» Fece una pausa, come in ascolto, poi abbassò la voce. «Oh, che vergogna, è così, allora. Sei proprio bagnata, vero che lo sei, sei bagnata?» Prese a dondolarsi avanti e indietro. «Dimmi una parola. Una parola per conoscere la tua anima. Per me, ti prego, ti prego.» L'assassina sospirò. «Che parola?» Il mendicante si avvicinò agitandosi nei suoi stracci, sussurrò: «Sporcaccione». «Tu vuoi che ti dica... quella parola?» «Dilla, ti prego.» «Non te la dico.» «Ti prego», disse lui. «Ti prego.» «Neanche per sogno, mendicante.» «Piccola, abbi pietà. Guarda come sono conciato e tutto solo, come sono disperato. I miei fratelli perduti in un incidente al cantiere navale. Mia moglie fuggita con uno spiantato d'un riservista di sesso incerto. Il mio vecchio padre-incollatore portato via perché aveva tirato sassi contro l'Avulsore. Mia madre...» «Va bene.» Avrebbe finito col risvegliare l'intero vicinato. Rachel lanciò un'occhiata vergognosa tutto attorno, per assicurarsi che non ci fosse 124
nessun altro nei dintorni, poi borbottò alla svelta: «Sporcaccione». «Libidine! Delizia!» gridò il mendicante. «E adesso vieni qui, siediti sul mio grembo.» Rachel si accigliò. «L'ho sentito, quel cipiglio.» «E comunque, che ci fai qui?» «Me ne sto seduto in terra a mendicare.» Le labbra di Rachel si contrassero. «Molto astuto. Non puoi trovare un posto più sicuro di questa soglia, per sederti? Può darsi che il tuo sangue da incollatore protegga la tua anima, ma non certo la tua carne. Non c'è niente di certo, stanotte. Sei comunque in pericolo.» «Ah, ma Carnival e io abbiamo un patto.» «E quale sarebbe?» «Io non uccido lei, e lei non uccide me.» «Un patto equo.» L'adepta della Spina si ritrovò a sorridere. «Quindi hai parlato con lei?» «Ho sentito le sue ali sopra di me e l'ho chiamata. Lei si è abbassata e mi ha fatto un regalo.» «Un regalo?» «Un bel regalo! Un coscio d'agnello, ben speziato e cotto in salsa di bacche rosse. Guarda...» L'incollatore si frugò fra gli stracci e tirò fuori qualcosa. Un topo morto, la testa rosicchiata fino all'osso. Il sorriso di Rachel si raggelò. «Lei ti ha dato... questo agnello?» «Lo giuro sulla mia anima. E quindi vedi che non ho nulla da temere.» «Sei... fortunato.» Frugò in una delle tasche della cintura, tirò fuori una doppia di rame, e gliela appoggiò con cura sul palmo. «Che Ulcis il vendicatore protegga le tue notti», disse il mendicante. Poi aggiunse piano: «E l'astiosa Ayen protegga i tuoi giorni». Strizzò un occhio cieco. «Non che preghi mai nessuno dei due. Io sono destinato all'inferno.» Lo affermò con orgoglio. «Così mi sono dedicato a Iril: la dannazione offre meravigliosi vantaggi. Il Labirinto sta crescendo. Sento i suoi corridoi di pietra che avanzano nei luoghi più derelitti della città. A volte sento persino pulsare il sangue.» Intascò la moneta. «Con questo comprerò vino per la nostra festa. Devi dividerlo con me, insisto. C'è abbastanza carne per due, e 125
con te che sei vedova da poco, e così arrendevole, potremmo...» «No, grazie. Devo tornare al lavoro prima che...» Le parole le uscirono prima che se ne rendesse conto. «Lavoro?» Strisciò lontano da lei e sibilò: «Spina. Sta' lontana da me, maledetta». Rachel rimase immobile. «Una puttana di Ichin Tell», ringhiò il mendicante, stringendo forte il suo topo. «Non ho niente per te.» Rachel si voltò, il cuore che perdeva i colpi. «Quanti coltelli hai ripulito in vita tua, striscianotte?» gridò il mendicante. Si era messo a divorare il suo trofeo. «La Notte dello Sfregio è la sua notte... La luna nera... Un'anima per l'angelo... Il sangue della Spina per Iril...» Ridacchiò. «Ma niente anime per nutrire il Labirinto. Le hai già date via!» L'assassina si allontanò a grandi passi, lasciando il mendicante al suo festino, camminò per miglia, perdendosi fra le catene gocciolanti, e superò quattro taverne senza gettare più di un'occhiata alle loro porte saldamente chiuse e sbarrate. *** La pioggia era finalmente cessata, lasciando l'aria della notte pulita e fredda. Soffiava il vento fresco del nord, trascinando brandelli di nuvole sopra le stelle. I tetti a scaglie dei palazzi risplendevano debolmente, ma le strade che li separavano erano buie. Ogni imposta era stata chiusa per riparare dalla notte, ogni tizzone spento, nessun lampione era stato acceso. Ben pochi si trovavano in giro, adesso. Nessun altro all'infuori di lei e quelli che la cacciavano. Le ali sbrindellate ripiegate contro di sé, si acquattò sul tetto della torre dei Chiostri, le braccia strette attorno al corpo per difendersi dal vento gelido, assaporandone la forza. Grandi falchi di pietra erano appollaiati agli otto angoli della torre ottagonale, a osservare la città con occhi ciechi e truce determinazione. Il viso di Carnival era inespressivo. I lunghi capelli scuri frustavano le innumerevoli cicatrici: sulle guance e sulla fronte, attraverso il naso, il collo, sotto gli occhi di luna nera. Tutte cicatrici da coltello, tranne una. Quelle torri di guardia erano state costruite ere prima: Carnival non ricordava con esattezza quando, solo che c'era stato un tempo in cui il profilo 126
della città era diverso. Dal grado di rovina delle pietre consumate dalle intemperie riusciva a giudicare se avessero più o meno di mille anni. Chissà se la Spina le aveva usate, un tempo? Un vago ricordo si agitò in lei, come veleno che sobbolliva al limite del calderone. Un'altra torre... Camminamenti in rovina... Fumo... Sangue. Le cicatrici si contrassero attorno al suo cuore. Quasi si mise a gridare, e conficcò le unghie nel palmo delle mani finché l'emozione non fu passata, lasciandola tremante e senza fiato. Qualcosa di terribile era accaduto un tempo nella torre di guardia di Barraby, nel luogo ora chiamato il Pozzo dei Peccatori. E non voleva sapere cosa. C'erano altre zone di Deepgate che le provocavano lo stesso dolore: il Canto del Conservificio e la Casa dei Mille Mattoni, e l'intrico sotto il mercato del Varco della Cappella. Frammenti di antichi, remoti ricordi affioravano in superficie ogni volta che si avvicinava a quei luoghi; ricordi che la costringevano ad allontanarsi ringhiando e annaspando. Immaginava di essere stata un tempo in quei luoghi, e che qualcuno vi fosse morto. Il peggiore era l'abisso. Più volte aveva tentato di volare in quell'oscurità, ma ogni volta la cicatrice della corda che le segnava la gola sembrava serrarsi fino a costringerla a ritirarsi di nuovo verso la città, dibattendosi in cerca d'aria. L'abisso la terrorizzava. In quel momento sorvegliava pazientemente la città. La sua fame cresceva - la sentiva dietro gli occhi e nelle vene - ma lei non aveva ancora perso il controllo su di essa. Così attese, pronta a cogliere ogni trascuratezza o debolezza: la finestra di una soffitta lasciata aperta; tegole smosse su un tetto rovinato dal maltempo; un camino che non fumasse o un'imposta non assicurata che sbattesse al vento. Niente. Nessun varco evidente, nessun facile accesso alle case. Le sue prede avevano imparato da tempo a essere accorte. Carnival ne era compiaciuta. Un miglio più a ovest vide un'ombra che si muoveva. Una Spina, con una pesante balestra fra le braccia, che correva china sui tetti della locanda della Capra e del Granchio, a Belvarco, per poi nascondersi dietro un camino. Il nono assassino che vedeva quella notte. La pelle dei suoi abiti è assai più scura delle lastre del tetto. Se ne renderà conto? Possibile che una mimetizzazione così approssimativa sia deliberata? 127
Strinse la presa sul bordo del tetto mentre le cicatrici sul dorso delle mani cominciavano a pruderle. Il cuore prese a batterle più in fretta, si leccò le labbra. Una parte di lei avrebbe voluto seguire l'assassino, bramava di seguirlo. Contrasse le mascelle e strinse la presa finché le dita non le fecero male, poi trattenne il fiato. L'impulso si placò. Una trappola. Era per forza una trappola. Chiuse gli occhi, cercando di percepire rumori di normalità oltre le folate di vento. Frammenti di conversazioni soffocate si levarono dalle case più vicine. «... no, dormono tutti e due...» La voce di una madre preoccupata per i figli. «... è chiuso a chiave, ho controllato...» Un'altra donna, più anziana, che parlava col marito. Sentì il crepitare dei carboni in un camino, passi su un pavimento di legno e tintinnio di posate. Sentì qualcuno che piangeva e i frammenti di una discussione. E poi sentì l'ubriaco. «Brutta cagna assassina, che sia stramaledetta!» Aprì gli occhi di scatto e saettò un'occhiata dalla parte opposta della torre, il cuore che batteva all'impazzata e il sangue che pulsava sotto le cicatrici. «Sudicia puttana sfregiata!» Era in mezzo alla strada, pochi isolati più avanti, e urlava rivolto ai tetti. Un omone grande e grosso barcollava mulinando una scure contro le ombre; nell'altra mano brandiva a mezz'aria una bottiglia. All'improvviso pencolò di lato e si abbatté su una pila di cassette. Per qualche secondo giacque immobile, borbottando qualcosa di incoerente, poi si rimise in piedi e proseguì zigzagando lungo la strada. «Vieni fuori, maledetta assassina!» Venti passi più avanti cadde in ginocchio, vomitò, poi si afflosciò su un fianco e rimase immobile. La pelle di Carnival fremette per le fitte di un delizioso dolore. «Sttt», sibilò posandosi un dito sulle labbra. «Ti ho sentito.» Col dito percorse la sottilissima ragnatela di linee attorno alla bocca, poi scese lungo le bianche cicatrici ispessite del mento, fino a fermarsi sul grosso segno lasciatole sul collo dalla corda. Un lieve sorriso le tese le labbra. Poi balzò via dalla torre e si tuffò nella notte.
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*** Il planetario se ne stava appollaiato sulla torre dell'orologio della gracile casa di Oberhammer come un grosso uovo di cristallo sul punto di ruzzolare nel vicolo sottostante. Tralci e rampicanti si abbarbicavano al lato ovest della curvatura, insinuandosi nella struttura d'ottone attraverso i varchi aperti dai sassi lanciati negli anni e da decenni di gelate invernali. Ma per la maggior parte i pannelli erano intatti, pitturati di nero e traforati di minuscoli forellini. Nelle giornate di sole, per gli osservatori all'interno quei forellini avevano rappresentato le stelle. Dentro, dodici comode sedie erano montate su una piattaforma che qualche diavoleria meccanica manteneva perpetuamente immobile, mentre il globo che ruotava sui suoi ingranaggi simulava il movimento dei cieli. Seduta su una delle sedie dell'osservatorio, Rachel fissava le vere stelle che scintillavano attraverso i vetri rotti e cercava di ricostruire l'illusione. Nel corso della sua vita, l'osservatorio non era mai stato in funzione. L'intolleranza della Chiesa aveva condotto Oberhammer a una morte da indigente, un altro tipo strambo che si era suicidato quando la sua fortuna si era esaurita. Come la maggior parte delle scienze in via di sviluppo, l'astronomia era stata considerata con sospetto, i risultati di decenni di studi erano finiti al tempio, rinchiusi sottochiave e dimenticati. Le masse non dovevano esser istruite. Che bisogno c'era, con Ulcis in attesa sotto i loro piedi, Ulcis che era tutto? Ancora un'altra generazione e ben pochi avrebbero ricordato anche solo il nome dello scienziato. Ormai la casa di Oberhammer stava andando in rovina: finestre sbarrate con assi, mura rinforzate da catene che ne impedivano il crollo sotto il peso della follia che le sovrastava. L'orologio della torre era fermo per sempre sulle nove e tredici, l'ora dei topi e dei pipistrelli e dei pazzi, e di ogni fantasma e demone che i cittadini di Deepgate potessero concepire. Lo scienziato aveva fermato l'orologio su quell'ora, si era tranquillamente ritirato nel suo salotto e si era aperto le vene dei polsi con un rasoio, il suo commiato della Chiesa. Da allora si diceva che quel posto fosse infestato. Le porte di Iril si erano aperte là dentro e, quando il Labirinto si apre, qualcosa ne rimane sempre fuori. Rachel ricordò le storie della sua infanzia: il Mimo di cenere, lo Strisciacatene, la Monaca, peccatori senza età sfuggiti da un inferno traboccante per vagare nella casa sotto di lei. Per un angelo, c'era una miriade di accessi al planetario, e altrettante vie di fuga. Era un posto impossibile per tendere una trappola. Il che, ovvia129
mente, lo rendeva perfetto. Rachel si alzò dai cuscini bagnati, avvertendo l'umidità attraverso i pantaloni di pelle. Sia la casa sia il planetario raccoglievano vecchia acqua piovana, che filtrava nelle fradicie stanze sigillate sottostanti e ne discioglieva il tessuto. I corridoi piangevano. Le scalinate si afflosciavano e scricchiolavano. La superficie dei dipinti si sollevava sotto i soffitti imbarcati. Rabbrividì, immaginandosi lo Strisciacatene che si arrampicava in casa fino a raggiungerla, la Monaca che si aggirava per le stanze con i suoi spilloni. Una selva di controlli sporgeva verso di lei dalla piattaforma di osservazione: il braccio di leve ossidate e ruote corrose dalla ruggine. Le catene che le collegavano agli enormi meccanismi dell'orologio sottostante erano state rimosse, probabilmente dagli operai che avevano provveduto alla chiusura della casa di Oberhammer, ma Rachel cercò comunque di smuovere una delle ruote. Niente da fare, era saldata dalla ruggine. Un ululato si levò a sud, poco lontano, facendola irrigidire. Carnival era vicina. Rachel lottò contro l'impulso di lasciare la sua postazione e scalare il planetario per assicurarsi una posizione di vantaggio da cui poter osservare l'avvicinamento dell'angelo. Ma il suo lavoro era in quella gabbia. La Spina doveva tendere la trappola a Carnival. Rachel non doveva far altro che attirare la sua attenzione. Si lasciò andare sulla sedia, allentò i lacci dei coltelli da lancio e attese. La casa di Oberhammer si lamentava sotto di lei, come facevano le vecchie case. *** Una serie di colpi secchi svegliò Mr. Nettle. Sollevò la testa e sussultò per il dolore che gli pulsava in testa. C'era puzzo di whisky e di letame, ed era disteso in un vicolo che non riconobbe. Ciottoli bagnati dalla luce delle stelle si sollevarono sfocati davanti ai suoi occhi, per poi fondersi in un canale in discesa che svoltava bruscamente a sinistra, una cinquantina di metri più avanti. Le case incombevano ai due lati, come muscoli di pietra tesi contro le catene. Si tirò in piedi a fatica, cercando di ricordarsi chi diavolo era e cosa ci faceva in quel posto. Poi se ne ricordò. Si voltò appena in tempo. Carnival gli stava piombando addosso come un demone, le ali distese, i capelli al vento e gli occhi neri di furia. 130
Mr. Nettle sollevò la scure. Lei sorrise. Poi scartò a sinistra, mentre una salva di frecce da balestra si fracassava sui ciottoli in mezzo a loro. Mr. Nettle si voltò. Sui tetti c'erano dozzine di Spine. «Civile», gli giunse una voce dall'alto. «Rientra immediatamente al coperto. Se non disponi di una residenza in questo distretto, puoi trovare asilo temporaneo presso un rifugio della Chiesa o un riparo per mendicanti, alle tariffe rispettivamente di sei doppie o di un penny e mezzo...» «Va' al diavolo!» le urlò Mr. Nettle, e si girò per fronteggiare l'angelo. Carnival si stava slanciando in alto attraverso una seconda scarica di frecce, alcune delle quali le strapparono brandelli di ali, mentre altre affondarono nelle vecchie vesti di pelle chiazzate di muffa. Con un urlo, volò lontano dagli assassini della Chiesa. Mr. Nettle le corse dietro. Il vicolo sbucava in una strada di poco più ampia che riconobbe subito. Stretto e ondulato, vico delle Gabbie digradava dal vecchio planetario fino ad Applecross, attraverso una serie di ponti a schiena d'asino, per dirigersi a sud, verso i cantieri navali. La strada doveva il suo nome alle grate e alle sbarre inchiavardate su ogni finestra e su ogni porta. I catenai e gli operai dei cantieri che vivevano in quella zona avevano modo di procurarsi il ferro con maggiore facilità degli stessi fabbri. Lo sapevano tutti tranne la Chiesa: ogni volta che due tonnellate di ferro andavano perdute a Deepgate, almeno una finiva da quelle parti di contrabbando, per essere poi utilizzata per rinforzare le difese delle case private da ogni possibile attacco. Intere facciate erano ricoperte di pesanti barre e piastre metalliche e punte acuminate: pareva quasi di stare fra le fauci spalancate di un mostro. Col peso devastante delle sue difese di ferro, era un miracolo che vico delle Gabbie non si fosse trascinato da anni l'intero distretto nell'abisso. Persino il vecchio planetario che svettava sopra le costruzioni in cima alla strada era stato spogliato di ingranaggi e travi di sostegno, e acciaio e ottone erano stati riciclati in sostegni di fortuna per le case sottostanti. Era rimasto ben poco, oltre alle piante rampicanti, a mantenere il grosso globo in posizione sopra la torre dell'orologio. 131
Mr. Nettle sentì un sibilo improvviso e sollevò lo sguardo per vedere delle sagome scure che sciamavano sui tetti di fronte. Le Spine stavano scagliando dozzine di frecce verso un punto in alto sul suo stesso lato della strada, poco più a nord. Grugnì e si rimise in moto per attraversare la strada e ottenere così una migliore visuale del bersaglio degli assassini. A quanto pareva stavano spingendo Carnival a nord, verso il planetario. Le frecce facevano schizzare via schegge di pietra, placche di metallo e tegole dei tetti, e affondavano nelle travi scoperte. «Cagna!» Mr. Nettle roteò la sua arma. Carnival si voltò a mezz'aria, e scese in picchiata verso di lui. Le frecce delle Spine la respinsero di nuovo, costringendola a risalire vico delle Gabbie in direzione del planetario. L'avrebbero braccata a quel modo fino all'alba, tenendola in movimento e lontana dai distretti del tempio e dal Dedalo. Fuori dalla sua portata. Il razziatore ruggì e balzò verso di lei. Ogni volta che la Spina feriva Carnival, lei si prendeva una perversa vendetta. Più grave era la ferita, peggiore la sua ricompensa. Nemmeno le barricate più robuste potevano trattenere l'angelo ferito. Cordai e mendicanti detestavano la Spina per quello, perché erano poi loro a soffrirne. Le baracche di legno nella Lega avrebbero anche potuto esser fatte di carta. Chi se lo poteva permettere, costruiva delle gabbie all'interno delle case, e ci si chiudeva dentro assieme ai propri figli. A volte il riparo era sufficiente, spesso non lo era. Era risaputo che Carnival aveva fatto a pezzi dozzine di case come quelle la Notte dello Sfregio, e strappato interi edifici dalle catene che li sostenevano. Adesso le Spine si stavano muovendo in fretta, le sagome convergevano verso il planetario sotto l'ampia volta stellata. Avevano smesso di scagliare frecce. «Qui, puttana!» Ma Carnival lo ignorò: qualcos'altro aveva attirato la sua attenzione, qualcosa che si trovava all'interno del planetario. Imprecando, Mr. Nettle osservò con attenzione l'edificio sotto l'enorme globo d'ottone. La vecchia casa puzzava di Iril. La torre dell'orologio era stata avvolta in catene per tenere assieme la pietra che si sbriciolava, le finestre erano sbarrate con assi, ma tra una tavola e l'altra si scorgevano grossi varchi. A Mr. Nettle sembrò di vedere dei movimenti all'interno, come di strane figure saltellan132
ti. Alcuni sostenevano che i corridoi all'interno della casa si muovessero e si spostassero, dando origine a labirinti sempre diversi per tenere a bada ciò che era intrappolato dentro. Esitò per un attimo solo prima di rimettersi in marcia. Raggiunse la torre dell'orologio e cominciò ad arrampicarsi sulle catene. *** D'un tratto una sagoma coprì le stelle che si intravedevano da una delle finestre rotte. Rachel si adagiò più a fondo nella sedia, quel tanto che bastava per farla scricchiolare. La sagoma cambiò forma. Carnival l'aveva vista, ma non si era ancora mossa per affrontarla. Naturale che sospetti una trappola. Adesso che ti hanno indirizzato dove volevano, quegli idioti hanno smesso di scagliare frecce. E io dovrei stare qui senza fare nulla. Così Rachel scagliò un coltello, con l'intenzione di uccidere. Carnival lo scansò, ringhiando. Ma ancora non attaccava. Andiamo, accidenti a te, vieni a prendermi. L'assassina scagliò un altro coltello, e poi un altro ancora, ma l'angelo li evitò con disinvoltura, nemmeno fossero foglie portate dal vento. Come fa a vederli arrivare? Rachel strinse le labbra. Provocala, così hanno detto. «Ehi, mostro!» le urlò Rachel. Sembrò funzionare. Carnival si tuffò. Rachel saltò in avanti e di Iato appena in tempo, mentre la sedia su cui era seduta andava in pezzi dietro le sue spalle. Mentre rotolava sulla piattaforma d'osservazione estrasse un altro coltello dalla manica, e allo stesso tempo sentì che la pesante balestra nascosta sul tetto della casa sottostante scoccava il suo colpo. Una rete d'acciaio avvolse il planetario. L'intera struttura fremette quando le pesanti bolas si avvolsero attorno alla sua base. L'angelo ruggì. E adesso viene il peggio. Sono intrappolata qui dentro anch'io. Rachel lanciò il coltello, ma lo sentì rimbalzare contro una trave in un punto diverso da quello cui aveva mirato. Accidenti a lei! Carnival ha deviato il coltello. Per quel che serve, potrei anche tirarle addosso dei palloncini. Si alzò ed estrasse la spada. Al fioco chiarore delle stelle, le ali dell'angelo incombevano nere ed enormi. «Sei destinata al sacrificio», sibilò Carnival. 133
«Non se posso evitarlo.» Carnival le si scagliò contro, una massa di oscurità. Rachel affondò la spada ma sentì che veniva deviata. L'angelo non fece altro che spostarla col palmo della mano, e avanzò verso Rachel. Oddio. Di colpo Rachel si sentì vulnerabile, la sua difesa inutile, e Carnival stava puntando alla sua gola. Rachel si piegò sulle ginocchia incuneandosi sotto la mano dell'assalitrice e, trovandosi così sbilanciata, non poté far altro che gettarsi all'indietro. Quanto a Carnival, il suo stesso slancio la catapultò oltre. Il dolore saettò nel collo di Rachel, una sedia si frantumò sotto la sua schiena. Non poté concedersi il lusso di occuparsene, perché Carnival si stava di nuovo voltando per affrontarla, per avventarsi su di lei. Così veloce! L'assassina rotolò via e si tolse di mezzo alla svelta, agitando la spada alla cieca dietro di sé. Mi sto battendo come una recluta terrorizzata. Per pura fortuna, quella manovra scomposta le diede il tempo di rimettersi in piedi. Il vetro collassò sopra la sua testa. Cosa? Rachel ruotò sui talloni e per un folle momento le sembrò che stesse ancora piovendo, sebbene il cielo sopra la sua testa fosse privo di nuvole. L'acqua scorreva dai varchi dei vetri rotti, sgocciolava dalle nervature dello scheletro del planetario. Carnival si ritrasse da quello scroscio, allargando lo spazio che le separava. Una goccia cadde sulla mano di Rachel, untuosa. Allora riconobbe il pesante odore chimico, e capì cosa stava succedendo. Non era acqua. E non faceva parte del piano, o almeno del piano che avevano raccontato a me. Evidentemente anche l'angelo si era accorto dell'odore. «Sacrificata», le disse con un ghigno di scherno. Rachel udì le frecce incendiarie prima ancora di vederle. La prima colpì il rampicante che cresceva sulla curva occidentale della parete, sfrigolò per un attimo e poi esplose. La seconda fracassò uno dei pannelli che simulavano una costellazione sul lato est, e si infilò sulla piattaforma d'osservazione. Le fiamme le sbocciarono attorno. Seguì un'altra mezza dozzina di frecce. Olio da lampada. Questo posto ne è inzuppato. Stanno per bruciarci vive tutte e due. Non trascorsero più pulsazioni di quante erano state le frecce, e il planetario di Oberhammer era in preda alle fiamme. «Spine», ringhiò Rachel. «Maledetti bastardi.» 134
Gli occhi di Carnival si ridussero a due fessure; alla luce delle fiamme le sue cicatrici risplendevano rosso sangue. Spiegò le ali e si sollevò a un metro e mezzo dalla piattaforma. Le fiamme si allungarono, fino a lambire l'aria attorno a lei. Sacrificabile? Rachel abbassò la spada. Non stavano scherzando. Ma Carnival non sembrava condividere la rassegnazione della sua compagna di prigionia. Avvolte dalle fiamme, le ali dell'angelo sbatterono rumorosamente al centro del globo. Si fermò un attimo per raccogliere le forze, e poi si gettò contro la curvatura meridionale del planetario. Rachel percepì il sobbalzo attraverso il pavimento quando tutti i pannelli di quel lato andarono in frantumi. Il vetro esplose verso l'esterno, inondando la strada sottostante. Il metallo gemette sotto l'impatto. Oh, merda, non vorrà per caso... Non può... Questa sfera peserà almeno cento tonnellate. Carnival arretrò per prendere lo slancio, si irrigidì, e si scagliò di nuovo contro la superficie interna della sfera. Uno stridio assordante. Il planetario oscillò. Le fiamme si erano impadronite della piattaforma d'osservazione e crescevano, avanzando lungo le file di poltrone. Il fumo si sprigionava sibilando dalle imbottiture, si levava in colonne palpitanti per poi allargarsi sul tetto, e alcune volute risalivano a spirale dietro le ali distese di Carnival. Il calore respinse Rachel verso la parete meridionale. Tenendosi una mano sulla bocca, saltò giù dalla piattaforma afferrandosi a una nervatura di metallo che sporgeva tra due pannelli in frantumi. Strattonò la rete d'acciaio, senza risultato. La struttura d'ottone del planetario risplendeva alla luce delle fiamme e lasciava colare rivoli di verde e rosso e oro. Carnival riprese lo slancio, frustando le fiamme con frenetici battiti d'ali. Chiuse gli occhi, ruggì e si slanciò di nuovo avanti. Grrrriiiii. Rachel sentì le pietre che si spezzavano e sbriciolavano sotto di lei. Il metallo stridette, gemette, si deformò. Il rampicante tremò, scricchiolò e si spezzò. La follia di Oberhammer ruzzolò di sotto. *** Mr. Nettle era a due terzi del muro esterno della torre quando il fuoco divampò. Si fermò, senza fiato e incerto, gli stivali incuneati tra le catene 135
di sostegno e il muro che si sbriciolava. Aveva visto la rete volare sopra il planetario e le bolas che si erano avvolte ai pignoni della base. Aveva maledetto la Spina per quello, e ora li stava maledicendo per il fuoco. Dopo tremila anni di battaglie dovevano scegliere proprio quella notte per avere la meglio su Carnival? La constatazione gli pesava sullo stomaco come carne avvelenata. Fortuna sfacciata: l'angelo non meritava di morire per mano della Spina. Meritava di farsi piantare una scure in mezzo al cranio. Ma forse poteva ancora riuscire a raggiungerla prima che il fuoco si impadronisse di tutto. Non gli sarebbe importato di bruciare anche lui, purché fosse riuscito ad assestarle prima un buon colpo, a lasciarle un bello sfregio per conto di Abigail. Guardò in basso. Le Spine si erano radunate sui tetti ai due lati della strada sottostante, almeno venti o trenta, armate di balestre. In mezzo a loro, vico delle Gabbie scendeva lungo la collina verso le gru e i bacini dei cantieri aeronavali. Il razziatore aspirò il fiato fra i denti. Non aveva intenzione di lasciar bruciare l'angelo prima di aver ottenuto la sua vendetta. Si voltò di nuovo verso il muro e cominciò ad arrampicarsi più velocemente. Sopra la sua testa il planetario ondeggiò. Pietre e malta si sbriciolarono e gli piovvero addosso. E poi l'intero, enorme globo rotolò in basso. Mr. Nettle si appiattì contro la parete. Il calore lo colpì quando il planetario gli passò accanto ruggendo. Colpì le case sottostanti, fracassando le grondaie a entrambi i lati della strada con uno schianto poderoso. Nuvole di polvere e frammenti in fiamme esplosero verso il cielo. Ma il globo era più grande della strada. Rimase incastrato, bloccato tra le facciate di ferro, a più di venti metri da terra. Le Spine schizzarono lontano per evitare i camini che crollavano. Scariche di tegole scivolarono dai tetti giù nella strada. Mr. Nettle sorrise. Era sua, adesso. Poi il suo sorriso si spense. Ancora in fiamme e avvolto nella fitta rete d'acciaio, il planetario di Oberhammer esalò un poderoso gemito e cadde in avanti, schiacciando i tetti ai due lati della strada, sbriciolando camini e strappando grondaie, e prese a rotolare al di sopra di vico delle Gabbie, in direzione dei cantieri. *** L'impatto gettò a terra Rachel. Ogni singolo pannello della sfera esplo136
se, e frammenti di vetro dipinto le piovvero addosso. Cadde in uno squarcio quadrato fra le nervature d'ottone, una gamba che penzolava attraverso le maglie d'acciaio della rete. Molto più in basso, i vetri tintinnarono contro il selciato della strada. Rachel sobbalzò sentendo l'ululato di piacere di Carnival. Cazzo. Quella caduta avrebbe potuto ucciderla. Per fortuna il planetario era abbastanza ampio da rimanere incastrato sopra vico delle Gabbie, e le facciate rinforzate col ferro si dimostrarono abbastanza robuste da reggerne il peso. La caduta dalla cima della torre dell'orologio era stata di appena una decina di metri. Rachel liberò la gamba dalla rete e giacque supina cercando di riprendere fiato. La sfera era ancora in fiamme, e lei era ancora intrappolata al suo interno assieme a Carnival. Doveva uscire da lì. Poi si sentì un ruggito che pareva l'urlo di un dio ferito. L'intera struttura prese a rotolare. Cazzo, cazzo, cazzo, cazzo! La piattaforma, con le sedie ancora in fiamme, si drizzò in verticale, poi si sollevò ancora fino a incombere sopra di lei come un soffitto incendiato e sul punto di crollare. Tenendosi ben stretta alla rete seguì il movimento in alto e poi in avanti. Abbassò lo sguardo per vedere Carnival, sempre sospesa a un metro e mezzo dalle nervature d'ottone, ma adesso sotto di lei. Attraverso il fumo Deepgate sembrò avventarsi verso Rachel, sollevandosi a riempirle la visuale: vicoli fitti di case rivestite di ferro, un labirinto di tetti bagnati dalla pioggia, il tempio... I cantieri. Le gru si innalzavano da bacini larghi abbastanza da inghiottire un'aeronave. Cazzo, cazzo, cazzo, cazzo, cazzo, cazzo! Rachel si tenne ben stretta, risoluta. La sfera continuò a rotolare, schiacciando tegole e camini sui lati. Quando la struttura metallica sotto di lei fu in piano, Rachel si tirò in piedi e cominciò a saltare da una nervatura all'altra come un topo nella ruota. Carnival si batteva il petto. «Fatti avanti!» Rachel avanzò verso l'angelo, abbassò la spada e vibrò un fendente tenendosi sulla destra, per anticipare la deviazione. Ma Carnival si limitò ad 137
arretrare ridendo, senza fare il minimo tentativo di penetrare la sua difesa. Adesso Carnival era alle sue spalle. Incapace di frenare il suo movimento ma con la schiena vulnerabile, Rachel affrettò la corsa. Arrancò verso l'alto all'interno del planetario, aggrappandosi alla rete d'acciaio, e menò un colpo disperato all'indietro che sibilò a un paio di centimetri dal mento di Carnival, bloccandone l'assalto. Rachel scalciò, e colse l'avversaria nel ventre, mandandola a rotolare lontano. Le fiamme! Con quella luce doveva essere praticamente accecata! La follia di Oberhammer divampava. Tralci di rampicanti in fiamme gemevano e scoppiettavano e vorticavano in aria. Rachel si alzò e si mise a correre. La piattaforma era di nuovo sopra di lei e si stava riabbassando. Ci saltò sopra, schizzò lungo il corridoio fra due file di sedie incendiate e saltò giù dalla parte opposta. Afferrò la rete e tirò le giunzioni d'acciaio, sfruttando tutto il proprio peso. I muscoli si tesero, al massimo dello sforzo, ma la rete non si rompeva. Continuò a insistere. La sfera prese velocità, saltava e rimbalzava, mentre rotolava sempre più in fretta giù per vico delle Gabbie. Carnival intanto si era ripresa. L'angelo sfregiato si levò di nuovo in aria, sbattendo le ali per mantenersi al centro del globo, lontano dalle pareti in movimento. Rachel scivolò sotto di lei e si rialzò dalla parte opposta. Piovvero detriti: pezzi di una sedia in frantumi, foglie e tralci fumanti. Le fiamme divampavano e ruggivano. Deepgate turbinava nel cielo - selciato, lampioni, mattoni, catene - mentre le stelle scorrevano sotto i piedi. La velocità aumentò ancora. La forza centrifuga spinse di nuovo Rachel contro la rete. Percorse di nuovo un arco sotto Carnival, risalì dall'altra parte, poi sopra la sua testa, e giù di nuovo. Lottò per muoversi, ma la spinta la tenne inchiodata. Le ossa vibravano, sul punto di spezzarsi. Sempre più veloce, adesso era proprio sopra l'angelo. Il planetario colpì qualcosa di solido, rimbalzò, e per un attimo Rachel fu priva di peso. Con ogni brandello di forza che le restava, scalciò per allontanarsi dalla rete. Carnival scartò di lato, ma non fu abbastanza veloce. La spada di Rachel le affondò nel ginocchio, facendola sanguinare, e poi l'assassina andò a sbattere contro la rete più in basso. La sfera ricadde sui camini di vico delle Gabbie e ripartì ancora più veloce. Carnival si avventò nel punto che Ra138
chel aveva occupato una frazione di secondo prima, ma l'assassina era già di nuovo sopra di lei. Estrasse un coltello dalla manica e lo lanciò, e questa volta la lama affondò nella spalla dell'angelo. Carnival urlò e si strappò via il coltello. «Spina!» ringhiò con la morte nella voce. «Verrò a cercarti quando sarà buio. Mi hai sentita? Quando è buio, quando ci vedo, ti troverò e ti strapperò via quel tuo cuore maledetto.» Rachel dubitava che l'angelo avrebbe avuto l'occasione di mettere in pratica la minaccia. La sfera rotolava così veloce che non riusciva praticamente a muoversi, e accelerava ancora: ogni rimbalzo le si ripercuoteva nelle costole e le sferzava il collo. I suoi abiti erano strinati dal fuoco, le mani coperte di vesciche; sentiva il puzzo dei propri capelli bruciacchiati. Tizzoni e piume in fiamme vorticavano e volteggiavano e turbinavano. Un attimo prima Carnival era davanti a lei, l'attimo dopo era sotto, o capovolta a testa in giù. Rachel aveva la nausea. Tirò la rete alle sue spalle, fino allo spasimo, la prese a calci. Per quanto d'acciaio, la rete era sottile. Qualunque adepto della Spina sarebbe riuscito a lacerarla. Qualunque adepto tranne lei. Cercò di focalizzare, diede uno strattone, i muscoli che urlavano. Non accadde nulla. Rachel Hael si lasciò cadere contro la rete, senza più nemmeno sforzarsi di calmare il proprio respiro. Carnival era da qualche parte sopra di lei, o dietro, o sotto. Ormai non aveva importanza: non era in grado di battersi con lei, non poteva fermarla. Non era mai stata pronta ad affrontare l'angelo. E ormai non lo sarebbe stata mai più. Non poteva fare altro. Il suo servizio con la Spina finiva lì. E poi vide il varco. Dietro un vetro a un metro di distanza la rete era lacerata, e pendeva a brandelli. Non l'aveva notata prima per via delle fiamme. Metà della rete dev'essere stata strappata via. Dèi degli inferi, sono fortunata a non esserci già precipitata attraverso. A denti stretti, l'assassina si trascinò verso l'apertura. Respirava a stento. Le sembrava di arrampicarsi e precipitare allo stesso tempo, incapace di capire dov'erano l'alto e il basso. Le fiamme divampavano e ululavano avventandosi contro le mani e il collo indifesi. «Ti sento», ruggì Carnival. 139
Rachel colse una visione dell'angelo: gli occhi serrati, le ali fumanti, il volto livido di cicatrici. E poi fu tutto fumo e fiamme. Con un'ultima spinta si issò attraverso il varco, attraverso la rete lacerata, e fuori nell'aria fresca. Ciottoli e stelle le turbinarono davanti agli occhi. La città barcollava ubriaca, fra anelli di luce e oscurità. Rachel sentì che Carnival le afferrava un piede, scalciò e fu improvvisamente libera, e precipitava. Un attimo prima stava sprofondando verso il cielo, l'attimo dopo verso le lastre grigie dei tetti. Un silenzio benedetto rotto solo dal frusciare del vento, la freschezza serica dell'aria. La spossatezza l'avvolse, avviluppandola fra morbide braccia. Rachel chiuse gli occhi. Urtò contro qualcosa di duro, si sentì rintronare un fianco, ma in lontananza... uno schianto, poi cadde ancora. Un altro urto, un'altra caduta. Alla fine atterrò con un tonfo su qualcosa di morbido. Della sabbia contro la guancia. «Mamma!» L'urlo sembrò venire da un altro mondo. «Mamma, è caduta una donna dal tetto!» «Non essere ridicolo!» Un'altra voce, che veniva da ancora più lontano. «Ce l'ho nel letto!» «Dormi! E non voglio dovertelo ripetere.» L'assassina della Spina sorrise, ma senza aprire gli occhi. La seconda voce aveva ragione: aveva un disperato bisogno di dormire. E niente l'avrebbe svegliata fino al mattino. *** «Perché mi fai questo?» supplicò la ragazza. Devon smise di leggere per guardarla. La poveretta era un disastro: occhi arrossati e gonfi di lacrime, il viso sempre più pallido, ormai quasi diafano, ma umido di sudore e venato di capelli color inchiostro. Portava ancora il grembiulone da sguattera a righe bianche e azzurre, ormai tutto spruzzato di sangue da un lato, dopo gli sforzi di Devon per infilarle l'ago. Lividi violacei si allargavano cupi sul candore delle braccia, dove l'aveva ammanettata alla sedia, e sul polso dove le aveva inserito la cannula per levarle il sangue. «Sono alla ricerca di dio», le rispose. La ragazza si rimise a piangere, e Devon si chiese se fosse il caso di somministrarle una dose maggiore di sedativo. Il flacone stava sulla sua 140
scrivania, appoggiato sul margine di alcuni fogli sparsi, la siringa ancora infilata dentro. La sacca di sangue ai piedi della ragazza era già piena per due terzi, perciò decise di lasciar perdere. La posta in gioco era troppo alta, e il sedativo avrebbe solo prolungato ulteriormente il necessario procedimento di purificazione. Non poteva permettersi di perdere altro tempo per quello. Le sacche già piene erano impilate contro la parete, rosso scuro, e convenientemente fuori portata. Le aveva spostate laggiù quando lei si era messa a scalciare. Oltre le pesanti imposte, la luna nera della Notte dello Sfregio si stava levando sopra la città, e Carnival doveva essere a caccia di parassiti per le strade gelide. Ma dentro lo studio di Devon c'erano luce e calore. Ricco di legno lucidato a cera e stoppini a olio che ardevano dietro i cristalli, lo studio era stato trasformato per l'occasione in un laboratorio. La luce del camino danzava fra una moltitudine di contenitori di vetro, distillatori d'acciaio, pinze e sostegni d'ottone che riempivano ogni superficie d'appoggio. Ritratti a olio di scienziati ormai morti da tempo, nelle loro cornici dorate, erano appoggiati negligentemente a terra lungo le pareti, sotto i fogli di diagrammi e schemi scarabocchiati a mano che li avevano sostituiti. Solo un ritratto era ancora appeso al muro: una donna elegante, dall'espressione austera riscaldata però dallo sguardo dolce degli occhi d'ambra e da un'ombra di sorriso sulle labbra. La sua amata Elizabeth. Devon fissò a lungo gli occhi dipinti, come in cerca di rassicurazione. La Spina verrà a cercarmi? Forse già in questo momento stanno strisciando lungo le scale di casa mia, le lame ben oliate, le balestre cariche e pronte a colpire. No. Un potente protettore vegliava su di lui. Gli aveva già fornito i mezzi per salvarsi. Un personaggio molto in alto nella gerarchia della Chiesa. Era successo sette mesi prima, quando rientrando nel suo appartamento Devon aveva trovato un innocuo pacchetto: aveva immaginato si trattasse dell'esperimento di qualcuno dei suoi chimici. L'aveva messo da una parte e se n'era quasi scordato ma, quando alla fine l'aveva aperto, il terrore si era impadronito di lui. Fra le sue mani c'era il diario degli Uomini Molli: tre scienziati conosciuti come Mr. Partridge, Mr. Hightower, e Mr. Bloom. Conteneva pagine e pagine di appunti, vecchi di centinaia d'anni, se non migliaia. In calligrafia arcaica, le pagine spiegavano il procedimento per produrre il vino d'angelo. 141
Non c'erano indizi su chi gli avesse fatto avere il pacchetto, ma Devon aveva sviluppato qualche sospetto. Il diario poteva venire solo da un posto. Il Codice. Che venisse dal presbitero Sypes? Perché? La domanda continuava a tormentarlo, ma sentiva che sarebbe stato imprudente affrontare apertamente Sypes. Era evidente che il misterioso benefattore desiderava restare anonimo. E se Devon si fosse sbagliato? Una parola fuori posto poteva costargli la vita. La Spina non avrebbe certo accolto benevolmente la ricomparsa di quell'opera. Abbassò lo sguardo dal ritratto della sua compianta moglie alla mensola del camino che c'era sotto, dove un elaborato orologio ticchettava consumando i minuti, confuso tra una massa di flaconi di sostanze chimiche dalle etichette scritte a mano e tappi di sughero incrostati di zucchero. Veleni per produrre il vino d'angelo. Devon annusò l'aria. Aleggiava un vago odore di zolfo, piacevolmente sgradevole. Tornò a immergersi nel diario, tamburellando una matita contro la montatura d'oro degli occhiali. Del fluido trasudava dalle bende sulla schiena, e un po' di sangue fresco si era raccolto nella piega del braccio: non molto, ma quanto bastava per aggiungere una nuova macchia alla giacca di tweed che ne era già piena. Devon non ci badò; non si preoccupava del proprio aspetto. Elizabeth lo aveva amato comunque. Le labbra screpolate si strinsero mentre studiava le pagine che aveva davanti. Il sangue conteneva energia: una forza vitale, o anima, come la chiamava la Chiesa. Il diario gli proponeva un sistema di estrazione, un modo per separare lo spirito dal sangue. Per imbottigliarlo. La carne si avvizzisce. Tutto ciò che è materiale è veleno, tutto ciò che consumiamo. Persino l'aria che respiriamo ci distrugge. Ma, quando il corpo viene nutrito con lo spirito, un elemento etereo viene introdotto nella carne... Da qualche parte là fuori c'era una creatura che faceva proprio quello, e lo aveva fatto per migliaia d'anni. «Ti prego», disse la ragazza. «Smettila.» Devon gettò un'altra occhiata alla sacca del sangue prima di riportare l'attenzione sugli appunti. Aveva seguito alla lettera il procedimento di estrazione e purificazione, ma fino a quel momento non c'era segno dei ri142
sultati previsti. Che ci fosse un errore nella trascrizione in suo possesso? O aveva omesso qualcosa? Impossibile. Nessun errore, ne era certo, nelle sue procedure né nell'applicazione della tecnica. Che altro mancava? Qualche ulteriore manipolazione che non era stata registrata? Improbabile. Il diario, per quanto fondesse misticismo e scienza, sembrava completo. Devon rosicchiò la sommità della matita. Un inquinante nei materiali che aveva usato? Difficile. Non avrebbe potuto renderli più sterili di così. Aveva perfino fatto benedire i contenitori. Ammesso che servisse a qualcosa. E le quantità di sedativo nel sangue erano state minime. E allora? Cosa mancava? Le suppliche della ragazza si susseguivano in brevi ansiti. «Mi stai... uccidendo. Ti prego... smettila.» «Taci, ragazza», le disse. «Mi chiamo Lisa», gemette lei. Lo sforzo la lasciò senza fiato. Devon fece ruotare la matita fra le dita. Una vescica si aprì, inumidendone il legno. Possibile che le anime venissero in qualche modo contaminate o danneggiate dal procedimento di estrazione? Oppure era lui che non riusciva a estrarle completamente? Gli Uomini Molli avevano estratto tredici anime prima che l'elisir raggiungesse il punto di saturazione, quando la soluzione non era fisicamente più in grado di assorbire altro spirito. Solo allora la carne del ricettore era stata in grado di assorbire il vino d'angelo. Devon aveva giù mietuto dieci anime. Dopo quella della ragazza, gliene sarebbero servite altre due. Ma non c'era ancora nessun segno che l'elisir si avvicinasse al punto di saturazione, e la cosa lo preoccupava. Che una sola anima costituisse la differenza quantitativa? «Mio padre è Duncan Fry, tenente della guardia del tempio», ansimò la ragazza. «Abbiamo soldi. Lo so che ha dei soldi da parte. Te li darà.» Devon tirò una manata sulla scrivania. «Non lo vedi che sto lavorando?» Una fitta di dolore gli attraversò il petto e lui fece una smorfia. «Per cosa, cosa vorresti essere salvata? Cos'è che brami? Una vita di fatiche sotto le grinfie sudate di Fondelgrue? Il grugnito di un maiale puzzolente che ti monta? Anni senza fine passati a tirar su la sua spazzatura? Che Iril ti colga, ragazza, abbi un po' di rispetto per te stessa.» Lei sussultò, distogliendo il capo per quanto concesso dai legami. Quando rispose le tremavano le labbra. «Io... farò tutto quello che vuoi. Ti darò tutto quello che vuoi.» Cercò di immergersi di nuovo nelle note, ma era inutile. Le suppliche 143
della ragazza avevano interrotto il filo dei pensieri. Allora si alzò dalla scrivania e le andò vicino, poi si accosciò sul tappeto davanti alla sua seggiola. Le sollevò il viso affinché lo guardasse, vedesse le pustole e le screpolature che trasudavano pus. «Ma è proprio quello che stai facendo», le disse con un sorriso beffardo. Fu colta da un nuovo accesso di singhiozzi. Il muco le colava dal naso sul braccio. Devon glielo asciugò col suo stesso grembiule e le mise un braccio attorno alle spalle. «Il più grande mistero della vita è la morte», le disse. «Cosa ne è di noi? Dove andiamo? Tu credi in dio, vero? Credi nell'anima?» La ragazza annuì tirando su col naso, e sollevò la testa per incontrare il suo sguardo. «Allora devi credere che Ulcis libererà la tua anima dal sangue.» Le allontanò una ciocca di capelli dal viso. «Se l'anima esiste davvero, trai conforto dal pensiero che la tua non andrà sprecata.» La sua espressione si addolcì. «Intendo farne ottimo uso. Un altro grappolo ben maturo in una bottiglia di vino raro, eh?» Lei gemette e scosse la testa, facendo ricadere altri capelli sul viso. «Taci, ragazza, non devi preoccuparti. Presto sarà tutto finito.» Le indirizzò il più caldo dei suoi sorrisi, sussultando fra sé per il dolore che gli provocava, e tese la mano a carezzarle una guancia. Le lacrime gli bagnarono le dita. Si chinò più vicino a lei, parlando con dolcezza: «Sttt... Devi essere coraggiosa. Tutti noi rifuggiamo la morte: la teniamo in disparte, cerchiamo di scordarcene, finché un giorno non scuote la scatola e ci ricorda che c'è. Per me quel giorno è venuto quando mia moglie si è ammalata. Ma Elizabeth aveva quella bellezza implacabile che nemmeno la forza dell'uomo o della natura poteva guastare. Persino alla fine, quando la sua pelle trasudava come la mia, era ancora bellissima... per me». Il respiro della ragazza era meno difficoltoso. Sulla mensola l'orologio ticchettava costante, e i ciocchi scoppiettavano nel camino. Devon le fece appoggiare il capo contro il proprio petto e la cullò dolcemente fino a quando non morì. *** «Per amor di dio, donna, per amore di tutto quello che c'è di buono e sacro, vuoi stare zitta?» La mano del dottor Salt si strinse attorno a un collo immaginario. 144
Rosemary Salt era in piedi a braccia conserte e gli bloccava la fuga dal salotto. «Non ti permetterò di cavartela a modo tuo, questa volta, Arthur. Non me ne importa un cavolo di che notte è.» «Ti sentirà», sibilò Arthur Salt. «E in tal caso non farà un accidente di differenza. Vuoi farci ammazzare tutti e due?» Ma la moglie non si mosse. «Dodici bottiglie, Arthur? Come hai fatto a far fuori dodici bottiglie in un mese, in nome di dio? Devi essere stato sbronzo marcio per tutto il tempo!» Il dottor Salt allargò le braccia, a mani aperte. «Non le ho mica bevute tutte io. Negli ultimi tempi ho dovuto partecipare a un sacco di cerimonie, lo sai anche tu, e non posso certo presentarmi senza portare qualcosa.» «Oh, sì, portare qualcosa, certo. La prossima volta portaci la tua zucca dura piena di bruciabudelle del Labirinto, ma non provarti neppure a pescare dalla mia scorta della distilleria. Quella cassa avrebbe dovuto bastarci per un anno. Che fine ha fatto la bottiglia che avevo promesso a mio padre, e quella che dovevamo dare a tuo fratello, per quel che vale?» Rosemary Salt puntò un dito grasso contro il marito. «Credi forse che non sappia cosa combini? È Jocelyn Wilton, vero? Sei sempre a ronzarle attorno.» Il dottor Salt le rispose a denti stretti: «Vado a trovare Patrick. Non posso certo rifiutare gli inviti dal preside di facoltà, non credi? Ha bisogno di qualcuno con cui parlare: è preoccupato per la salute di Jocelyn, ecco tutto». «La sua salute!» strillò Rosemary. «Ma se voi due messi assieme siete i peggiori ubriaconi di Deepgate! Ci si potrebbe conservare le uova sottaceto, col suo sangue!» «Vuoi abbassare la voce? Sono sicuro che possiamo discuterne in un altro momento. Ti compro dell'altro stramaledetto whisky.» «Ci puoi scommettere che lo...» Un colpo alla porta. Rosemary Salt si immobilizzò, a bocca aperta, la lingua assurdamente protesa. Il dottor Salt guardò verso l'ingresso che era dietro di lei, a occhi sbarrati. «Non può essere lei», sussurrò. «Non credo che si preoccuperebbe di...» Altri colpi alla porta, pressanti. Il dottor Salt deglutì. «Non siamo obbligati a rispondere.» La moglie si premeva una mano sulla bocca. «E se non fosse lei?» mormorò fra le dita. «Potrebbe essere uno dei tuoi pazienti. Non possiamo lasciarlo fuori stanotte.» 145
«Puoi giurarci che possiamo!» «E se fosse un'emergenza?» «'Fanculo.» Rimasero a fissarsi per un lungo momento. Altri tre colpi. «Vado a chiedere chi è», disse Rosemary. Prese la lanterna dalla credenza e scivolò nell'ingresso, da dove si voltò a guardarlo. «Senza aprire davvero la porta.» Lui la seguì, i nervi tesi come cavi d'acciaio. La porta d'ingresso era chiusa a chiave; oltre il battente non si udiva nessun suono, a parte il vento che scuoteva i pannelli di legno. «Chi è?» chiese Rosemary. Una voce gelida disse: «Sono Jocelyn. Fatemi entrare». I muscoli del dottor Salt si rilassarono. Sospirò rumorosamente di sollievo e si avviò per aprire. «Aspetta!» La moglie lo afferrò per un braccio e lo guardò dritto in faccia, sussurrando: «Cos'è questo odore?» «Che odore?» «Come di peli bruciati, o di...» Altri colpi alla porta. «Mi fate entrare, per piacere?» Rosemary si voltò di nuovo verso la porta. «Jocelyn, cos'è successo? Hai una voce strana,» «Certo che ho una voce strana: sono terrorizzata.» La voce non sembrava per niente terrorizzata, ma che poteva saperne il dottor Salt? Nel migliore dei casi le donne erano del tutto imprevedibili, figuriamoci quando erano spaventate. Si scrollò di dosso la moglie e si diresse di nuovo alla porta. Rosemary lo agguantò per la manica e lo fece voltare verso di lei, piantandogli in viso uno sguardo allarmato di silenzioso avvertimento. «Perché sei qui, Jocelyn? Lo sai che notte è questa.» «E per Patrick. Gli è preso un colpo.» Il dottor Salt allungò la mano verso la porta ma la moglie lo trattenne di nuovo. Gli mimò con le labbra: Non possiamo esserne sicuri. *** «All'inferno», le disse il dottore. «Non la lascerò là fuori un secondo di più.» Spostò di lato la moglie, fece scattare la serratura e spalancò la porta. 146
Avrebbe fatto male. Morire faceva sempre male. Non ci si era mai abituata. Aveva teso la catena sulla carrucola e poi l'aveva bloccata, e chiusa col lucchetto. Quella avanzata ciondolava in un tenue raggio di luce, cigolando dal gancio infilato nelle travi. Aveva legato e imbavagliato il dottore, bloccato le gambe, e l'aveva appeso per i piedi, in modo che la sua testa sfiorasse le assi del pavimento. Il respiro gli sibilava dagli angoli della bocca. Aveva lo sguardo folle, il petto nudo era bianco come cera, ansante, il volto livido e gonfio di sangue e striato di lacrime. Fece forza con i piedi nei ceppi che lo trattenevano, cercò di sollevare le spalle e ricadde verso il pavimento, oscillando dentro e fuori dall'ombra. Carnival avrebbe abbandonato la mansarda non appena finito. L'odore avrebbe attirato la Spina, e il sangue avrebbe attirato i demoni. Si sarebbe ricordata di recuperare il gancio, la carrucola e le manette per portarseli in qualche altro posto oscuro e derelitto, lasciando invece le catene inzuppate di sangue. A Deepgate non mancavano certo le catene. Fermò il corpo che oscillava e fece scivolare un recipiente metallico sulle assi del pavimento, fino a sistemarlo sotto di lui. Le si strinse lo stomaco. Continuò a guardarlo finché ce la fece. Lo sguardo di lui saettava verso il coltello che teneva in mano e poi si distoglieva, in un urlo silenzioso. Il respiro gli usciva dal naso in brevi soffi affannosi. Se anche gli avesse tolto il bavaglio, avrebbe solo lottato per respirare. Gli afferrò un polso e lo sentì contrarsi. L'uomo non riuscì a controllare la vescica e l'urina gli colò sul petto e sul mento, finendo nel recipiente. Carnival non ci badò, si inginocchiò e praticò un'incisione. Il sangue sgorgò a fiotti. Lui tremò quando lei gli avvicinò le labbra alla pelle. Un delizioso tepore riempì la soffitta. Le catene cigolavano dolcemente avanti e indietro mentre l'angelo beveva. Avanti e indietro, sempre più piano. Carnival si rilassò poco a poco. Lo strazio della fame si dissolse lentamente. L'oscurità si infittì, riempiendo la soffitta, e inzuppò legno, carne e sangue. Sopra di lei, le catene si fermarono in silenzio. L'uomo era ormai immobile, e solo la gola di Carnival continuava a muoversi. Quando fu sazia si alzò, e abbassò lo sguardo sul polso del morto. Lo aveva morso più a fondo di quanto avesse voluto, lacerando malamente la pelle attorno al taglio originale. Lasciò ricadere il braccio e alcune gocce di 147
sangue spruzzarono il pavimento. Carnival si asciugò la bocca e sollevò di nuovo il coltello. Dalla punta gocciolava sangue. Attese, tremante. E morì. E poi rinacque. Il dolore la percorse, così intenso che sembrò rovesciarle l'anima. Cadde in avanti, a quattro zampe, annaspando in cerca d'aria, il sangue che le rombava nelle orecchie. Le si torse lo stomaco, ed ebbe un conato. Stringendo i denti, si rimise in piedi. Le girava la testa. Per un attimo Carnival non seppe chi era e dov'era, poi vide il sangue e ricordò. Cos'ho fatto? Un altro tipo di dolore la invase, un dolore che la lacerò dall'interno, come gli artigli di un animale che cercasse di liberarsi. Si voltò e mosse qualche passo in avanti, poi si voltò di nuovo, senza sapere bene dove andare. Le dita disegnarono vaghe forme sul petto. Sangue ovunque, sangue sulle sue mani, sugli abiti. Cos'ho fatto? Esitò, si girò, si girò di nuovo. Dentro di lei si sollevò un'ondata di nausea. Abbassò lo sguardo sulla propria coscia e vi affondò profondamente il coltello. Lo sentì rimbalzare contro il femore e il sangue le schizzò sulla gamba. Il dolore era spaventoso, squisito. Lo assaporò, ci si aggrappò, torse il coltello e allargò ancora la ferita. Sbocciò nuovo dolore; chiuse gli occhi e trasse un profondo sospiro tremante. Strappò via il coltello e lo affondò di nuovo, il dolore crebbe, pulsandole nel cuore e nelle ossa. Contrasse le mani come artigli. Saliva - o forse sangue - le colò sul mento. Trasse un altro sospiro raschiante... e gemette. Il dolore rifluì lentamente. La ferita sulla coscia si stava già rimarginando, lasciandosi dietro una cicatrice. Il recipiente era schizzato e sporco. Il braccio dell'uomo ciondolava ancora sopra di esso, gocciolante. Carnival estrasse di tasca un sudicio pezzo di lino e si pulì le labbra, il viso e la gola. Appallottolò la stoffa e si strofinò le mani. Gettò via lo straccio, poi cercò con scarsi risultati di rosicchiarsi le unghie spezzate. Si leccò i denti e sputò, e poi sputò ancora. Cercò di 148
passarsi le dita fra i capelli ma senza riuscirci: erano troppo arruffati e aggrovigliati. Per la prima volta, si accorse dell'odore: sangue che si ispessiva sulle assi del pavimento, dolciastro e nauseabondo. Prima dell'alba la soffitta si sarebbe riempita di mosche. Carnival distolse Io sguardo, tremante, lottando contro l'impulso di vomitare. Fece qualche passo incespicando, scivolando sul pavimento inzuppato. Si acquattò, percepì la pulsazione sorda della nuova cicatrice sulla coscia e il battito pesante del suo stesso cuore, finché non riuscì più a tollerare la sensazione. Urlò, ruotò su se stessa, e tirò un calcio alla testa del morto, spezzandogli il collo come un ramo secco. Carnival ricadde di nuovo sul pavimento, le braccia strettamente avvolte attorno al busto. Gancio e catene cigolarono sopra la sua testa mentre piangeva, il corpo squassato dai singhiozzi che le salivano dal profondo delle viscere. Afferrò ancora il coltello, sollevò la lama e l'affondò di nuovo nella coscia, riaprendo la cicatrice appena rimarginata... e ancora, ancora, ancora. Il dolore della ferita era terribile, ma nemmeno lontanamente sufficiente.
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12 LE CUCINE DEI VELENI
Aspettando Rachel Hael nell'aula, Dill era alle prese con un dilemma. Come faccio a liberarmene? Dopotutto, neppure lei aveva avuto possibilità di scelta. Il presbitero Sypes gliel'aveva messa alle costole. Una sovrintendente che non era un vero studioso, un'insegnante che non si preoccupava di insegnargli, un'adepta della Spina che lo incoraggiava a violare la legge della Chiesa: in Rachel niente aveva senso. Quel giorno avrebbe dovuto tenergli una lezione sui veleni, ma ovviamente era in ritardo. Come minimo era ancora a letto. Il presbitero si era accasciato sulla scrivania davanti alla pila polverosa di libri, e russava tranquillo. Una mosca tracciava pigri cerchi attorno alla sua testa. Sembrava ci fossero sempre mosche che svolazzavano attorno al vecchio, e Dill era rimasto a osservare quella per almeno un'ora. Di tanto in tanto si posava sulle dita macchiate d'inchiostro del presbitero, o sulla testa lentigginosa, fino a quando lui non si muoveva e la mosca ripartiva per un altro giro. Raggi di luce saettavano dalle alte finestre, pieni di pulviscolo e fragranti d'inchiostro e di cera d'api. L'aria pesava come sciroppo sulle ali di Dill. La lancetta dell'orologio alla parete scattò su un minuto dopo il nove, ma non sembrò avvicinarsi più di tanto all'undici. Gli sembrava di essere lì in attesa da giorni. Dill guardò il libro che avrebbe dovuto leggere, Gerarchia dei custodi delle campane, e sospirò. Tutti i libri che c'erano nella stanza erano così: aridi, ponderosi e assolutamente noiosi. Avevano tutti un peso autorevole, che gli risultava stranamente rassicurante, eppure fino ad allora non era riuscito ad arrivare in fondo neppure a una frase. Il volo illecito del giorno prima continuava a tormentarlo. Perché l'aveva incoraggiato a volare? Anzi non solo incoraggiato, l'aveva costretto. Rachel era una prepotente. Aveva una pessima influenza su di lui, gli complicava la vita. 150
Dov'era finita? Clic. La lancetta dell'orologio aveva fatto un altro passettino nell'enorme distesa che la separava dall'undici. La mosca gli ronzò attorno alla testa. Dill tentò di acchiapparla, la mancò. Rimase per un po' a fissare le finestre, immaginando di volare via in un'armatura dorata, verso qualche battaglia lontana. Il giorno dopo ci sarebbe stata un'altra Consegna, e la cosa non lo entusiasmava. Borelock era ancoro furioso con lui. Chissà se avevano già risistemato l'arconte, oppure la colonna sarebbe stata ancora vuota? Vuota e accusatoria: un monumento alla sua incompetenza, al suo fallimento, che torreggiava davanti ai novantotto arconti superstiti, davanti allo stesso araldo. Pagliuzze rosa balenarono negli occhi di Dill. L'arrivo al tempio di Rachel sembrava aver scatenato la sua malasorte. Prima il crollo dell'arconte, poi il volo. Cercò di deviare il corso dei propri pensieri, prima che i suoi occhi se ne impadronissero. Se entrambi tacevano, il presbitero non avrebbe mai saputo cos'era successo. Avrebbe potuto scordarsi dell'incidente. Un'esistenza al servizio della Chiesa si stendeva davanti a lui come un fiume sinuoso. Per navigare senza affondare avrebbe dovuto seguire la corrente delle leggi della Chiesa. Dill annuì lentamente fra sé. Quando il presbitero Sypes si fosse svegliato, gli avrebbe detto che non aveva bisogno di un sovrintendente. Avrebbe insistito. Per il proprio bene. Chiazze di cielo azzurro, fresco e lontano, risplendevano alte nel vano delle finestre. Dov'era finita? Per introdurre Dill all'arte dei veleni, l'assassina aveva fatto in modo che intervenisse addirittura Alexander Devon, il responsabile della Scienza Militare. Dill lo aveva incontrato solo una volta, anni prima: un tipo affascinante dallo sguardo vivace e con un caldo sorriso, nonostante la pelle lacerata. Mentre il presbitero non stava guardando, l'Avvelenatore gli aveva allungato qualche caramella: quelle alla mora, che gli avevano lasciato la lingua macchiata di viola per giorni, e un sacchetto di caramelle al limone che aveva nascosto sul suo terrazzo. I corvi gliele avevano rubate, e lui aveva continuato per ore a prenderli a sassate finché i preti non gli avevano urlato di piantarla. L'avevano accusato di aver spaccato una dozzina di finestre, ma non erano state più di otto. 151
L'orologio aveva ticchettato di nuovo. Adesso sembrava addirittura che si muovesse all'indietro. Il presbitero Sypes sbuffò, e borbottò qualcosa sottovoce prima di rimettersi a russare. Dill cercò di riportare l'attenzione sul suo libro. La porta dell'aula cigolò, e Rachel sbirciò dentro. «Vieni. Non svegliarlo», lo chiamò, e sparì di nuovo dietro il battente. Dill diede un'occhiata al presbitero, poi all'orologio. Si alzò e la seguì. *** Ritratti dei precedenti presbiteri, cupi nelle loro tonache nere, si allineavano lungo il corridoio rivestito di legno. Tutti quei vecchi preti gli indirizzavano dall'alto sguardi colmi di disprezzo, come sapessero esattamente quello che Dill stava per fare e non lo approvassero. Le lampade a gas facevano sibilare lingue gialle di fiamma che sapevano di ciliegie bruciate. «Devon ci attende», disse lei affrettandosi. Dill corse per raggiungerla. «Ascolta...» «È in cucina. Di nuovo.» «Stavo pensando...» «Non può venire qui se non trova qualcuno da spedire a tener d'occhio le sue tinozze. Manda in bestia Fogwill, e questo è il punto», sorrise lei. «Devon potrebbe requisire personale ovunque, in tutta Deepgate. Invece no, preferisce mietere il suo raccolto nell'orticello di Fogwill. Puoi scommetterci che il coadiutore fa di tutto per mettergli i bastoni fra le ruote, per difendere quei ragazzoni grandi e grossi dalle grinfie dell'Avvelenatore. Dèi degli inferi, non so chi sia il peggiore dei due: se non altro con Fogwill potrebbero avere un minimo di possibilità di scelta.» Dill notò delle bende sulla mano sinistra di Rachel. I calzoni di pelle erano bruciacchiati su un lato, e i capelli strinati. Sembrava esausta. «Che ti è successo?» le chiese. Lei fece un gesto vago con la mano. «Le solite cose. Ascoltami: quando incontri Devon non bere niente di quello che ti offre. Ha uno strano senso dell'umorismo.» Per un momento assunse un'aria pensierosa. «Non hai mica bevuto da quella fialetta nera che ti ho dato, vero?» «Uh, no. Rachel, senti, io...» «Bene. Non farlo. Hai letto il libro?» «Be'...» 152
«Siamo arrivati. Sbrigati.» Una ripida scala conduceva nella sala dei banchetti inferiore, la Sala Azzurra, dove pasteggiavano le guardie del tempio. La colazione era terminata alle nove, e sciami di camerieri vestiti di bianco stavano sparecchiando i lunghi tavoli, pulivano, e impilavano le sedie contro le pareti. Il coadiutore Crumb era già arrivato. Il grasso prete risplendeva in mezzo al suo staff, un miraggio di vesti e gioielli, tutto preso a dirigere le operazioni di pulizia e a stare fra i piedi di chiunque. «Coadiutore», lo salutò Rachel mentre si avvicinavano. Il coadiutore sussultò. «Tu? Che ci fai tu qui?» «Devo vedere Devon.» «Be', qui non c'è. Guarda che macello, guarda questo tappeto. Vorrei sapere perché le guardie del tempio non riescono a mangiare tenendo la bocca chiusa!» Un cameriere che stava raccogliendo piatti pieni di avanzi di pasticcio e cotenne di maiale dal tavolo accanto a loro attirò la sua attenzione. «Tu, che stai facendo? Non accatastarli in quel modo. Non vedi che stai sparpagliando cibo dappertutto...» «Problemi col personale, Fogwill?» Dill si voltò per vedere Devon che dalle cucine veniva verso di loro, e trattenne il fiato. Come fa a essere ancora vivo? Le ferite dell'Avvelenatore erano peggiorate dal loro ultimo incontro. Sangue secco gli incrostava gli angoli degli occhi e della bocca. La pelle si staccava e si sollevava in vesciche in almeno una dozzina di punti. Macchie scure chiazzavano la giacca di tweed. Calva e sorridente, la sua testa sembrava un teschio sbollentato che fuggiva giulivo dalla cucina di Fondelgrue prima di essere cucinato a dovere. Era seguito da uno scarno sguattero di cucina, che li sbirciò da dietro le sue spalle. «Ti presterei qualcuno dei miei», continuò Devon. «Ma si rifiutano di mettere la divisa. A quanto mi dicono, è troppo attillata, e irrita dappertutto. Pare che tu non gli ordini mai le taglie giuste.» «Ti stavo cercando.» Lo sguardo del coadiutore Crumb continuava a saettare da Devon allo sguattero. «Mi hanno detto che stai di nuovo reclutando personale.» «Per la decima volta, quest'anno», rispose Devon. «Per qualche strana ragione, non restano mai a lungo al mio servizio. Forse c'è troppo lavoro per loro.» 153
«Di che lavoro si tratta, per l'esattezza?» Il sorriso di Devon si allargò. «Non ti annoierò con i dettagli.» Il coadiutore Crumb avvampò, e tutti i suoi gioielli tintinnarono. «Ti dispiacerebbe unirti a me per un tè?» gli chiese. «Ci sono alcune cosette che vorrei discutere con te.» Devon si tolse gli occhiali e pulì il sangue con un fazzoletto che aveva tratto dal taschino del panciotto. «Ne sarei felice, ma devo purtroppo declinare l'invito. Sono stato convocato per prestare un servizio alla Chiesa.» Si rimise gli occhiali sul naso e inarcò le sopracciglia. «Nientedimeno che dalla Spina. Il nostro nuovo arconte deve essere istruito nell'uso dei veleni. Ritengo che una visita alle nostre attrezzature possa risultargli illuminante.» «Naturalmente.» Una visita? Dill lanciò un'occhiata a Rachel, ma lei lo ignorò. Non gli aveva parlato di una visita. Come poteva visitare le Cucine dei Veleni? Voleva dire uscire dal tempio, attraversare la città, e il presbitero Sypes non l'avrebbe mai permesso. Ci doveva essere un malinteso. Si rivolse verso il coadiutore Crumb in cerca d'aiuto, ma l'attenzione del grasso prete era ancora concentrata su Devon. «Se permetti, prima riporto questo ragazzo in laboratorio, prima potrò metterlo all'opera», disse Devon indicando lo sguattero. Il rossore del coadiutore sembrò intensificarsi. «E di che opera si tratta?» Devon si chinò verso di lui con una strizzata d'occhi da cospiratore, mentre un rivolo di liquido rosato gli colava attorno all'occhio. «Se glielo dicessi prima, nessuno accetterebbe mai il lavoro.» Si inchinò. «Ti prego di scusarci.» Poi, rivolto a Rachel e Dill: «Andiamo?» «Solo un momento», disse Rachel. Prese una striscia di cotenna di maiale da un piatto sul tavolo più vicino, la divise in tre parti, e ne fece scivolare una in ognuno dei tubi che portava alla cintura. Rimise velocemente i tappi e affermò: «Sarebbe andata sprecata». A Dill sembrò che i contenitori di bambù fremessero. «Deliziosamente raccapricciante», disse Devon. Lasciarono la Sala Azzurra attraverso un passaggio a volta che curvava attorno al lato esterno del tempio, in direzione del Ponte della Porta. Finestre ad arco dalle vetrate multicolori si aprivano nel muro esterno, proiet154
tando ventagli colorati sulle pietre. «Grazie per aver accettato», disse Rachel a Devon. «È un piacere», rispose lui. «Non possiamo permettere che il nostro angelo continui a ignorare la maggiore esportazione di Deepgate.» La pelle tropo tesa si lacerò attorno agli angoli della bocca. Una porta laterale li condusse verso l'estremità del corridoio del Sanctum. L'arconte distrutto, notò Dill, non era ancora stato riparato. Lo sguattero tenne aperte per loro le porte del tempio, e uscirono alla luce del sole. A ogni passo avanti che faceva, Dill si voltava due volte a guardare indietro verso il tempio. Eserciti di doccioni di pietra ne ornavano le mura nere. Guglie, pinnacoli e coronamenti si levavano ad altezze impossibili. I vetri risplendevano come arcobaleni spezzati. E tutto attorno la città si incurvava a formare un'enorme coppa di pietra e ferro, a partire dall'orlo dell'abisso. Le catene scintillavano dietro un velo d'aria umida. Dill tenne la testa bassa, vergognoso del color ghiaccio dei suoi occhi. In fondo al ponte deviarono a destra e si infilarono nell'intrico dei vicoli di Bridgeview. Era una zona in cui la città arrivava a lambire il fossato di catene che circondava il tempio stesso e, non trovando più spazio per espandersi in larghezza, si innalzava verso l'alto. I più ricchi vivevano lì: le loro case cercavano di sopraffarsi a vicenda, abbandonando all'ombra perpetua gli stretti passaggi che le separavano. Per consentire a quei privilegiati di muoversi alla luce del sole, delle passerelle erano state innalzate al di sopra dei vicoli: snelle piattaforme di legno di ciliegio dondolavano placide da una balconata all'altra, come striscioni. Le dimore più alte e più antiche incombevano sul fossato del tempio e quelle alle loro spalle, quasi gelose della loro posizione in prima fila, premevano da vicino, in certi punti non più lontane della larghezza di una passerella. A volte davano l'impressione che dalla finestra di una casa si potesse bussare direttamente a quella di fronte. «La tua famiglia possiede una casa in questa zona?» chiese Devon a Rachel. «A ovest di qui», rispose Rachel. «Sempre che sia ancora in piedi. Non ci vado da anni.» «Mi è dispiaciuto sapere di tuo padre. Era un buon generale. Perdonami per non aver partecipato alla Consegna.» «Sono sicura che dovevi essere molto impegnato.» «Il lavoro non si ferma mai.» 155
Per una volta Dill apprezzò la penombra: si adattava al suo umore. Tra tutti, solo lo sguattero sembrava condividere il suo sgomento per lo spazio esterno. Il giovane procedeva curvo, le mani affondate nelle tasche, mentre Devon camminava a grandi passi decisi, a testa alta, e Rachel gli teneva dietro con la leggerezza di un gatto. Dill trascinava i piedi dietro di loro, guardandosi attorno con la coda degli occhi bianchi. I muri erano traforati da minuscole finestre: solo la servitù occupava i livelli inferiori, e il vetro costava caro. La maggior parte delle finestrelle era coperta di sudiciume e di ragnatele, ma di tanto in tanto Dill riuscì a cogliere una visione delle stanze che c'erano dietro: tappezzerie a strisce dorate, mobili antiquati, figurine di ceramica su uno scaffale. Sentì il canto di una donna da una finestra aperta, da cui fluttuava il profumo di pane appena sfornato. I granchi che ha comprato al Porto di Sabbia li ha pagati più del necessario. Gettò un'occhiata all'interno, ma non riuscì a scorgere altro che il balenare di un grembiule annodato attorno ai fianchi abbondanti. Rachel, Devon e lo sguattero procedevano imperterriti, senza badare a quelle immagini né ai rumori. Più di una volta Dill si ritrovò a dover correre per raggiungerli. Per quanto l'acciottolato unisse i palazzi senza soluzione di continuità, le fondamenta sottostanti si reggevano su vaste reti di catene. I costruttori di Deepgate avevano eretto Bridgeview seguendo un antico e imperscrutabile disegno. Avvolti nelle catene, gli stretti vicoli si diramavano sinuosi quasi fossero vivi, zigzagando e serpeggiando, affondando e risalendo, come cunicoli scavati dai topi. Lasciarono un vicolo e seguirono per qualche tempo il percorso di un altro, per poi riprendere a seguire la stessa direzione di massima di prima. Fino a quel momento, non avevano incontrato anima viva, ma, proprio mentre Dill stava cominciando a pensare di poter passare inosservato, si spalancò una porta e un ragazzino ne schizzò fuori andando quasi a sbattergli contro. Il ragazzo, cicciottello e col naso rincagnato, fissò Dill a bocca aperta, e Dill fece altrettanto, finché Rachel non gli urlò di muoversi. Il ragazzo strillò e schizzò di nuovo in casa. «Non prendertela», disse Devon con un ghigno demoniaco. «A me capi156
ta di continuo.» Quando Dill si guardò alle spalle c'erano due bambini che li seguivano. Il ragazzo era tornato, ora accompagnato da una ragazzina con le scarpette rosse e nastri rossi fra i capelli. Quando si accorsero di essere osservati, si precipitarono strillando dietro una scala, da dove continuarono a sbirciarli a occhi sbarrati. Rachel scoccò a Dill uno sguardo rassegnato. «Sarà meglio che prendiamo la strada attraverso la Valle del Giardino», disse Devon. «Dalla parte di Lilley stanno ancora lavorando per ripulire tutto.» Inarcò le sopracciglia, rivolto a Rachel. «L'altra notte è venuto giù il planetario di Oberhammer. A quanto mi hanno detto, è rotolato per un miglio verso Applecross, prima di andare a sbattere contro una catena di fondazione e rimbalzare oltre la Falce.» «L'ho sentito dire.» «Ha aperto una voragine nella casa del padrone di una fabbrica dalla parte opposta. Quel povero diavolo stamani era al tempio a maledire la Spina, che finisca tra le grinfie di Iril, e a cercare di ottenere un risarcimento.» «Sono sicura che la Spina gli troverà un'altra sistemazione.» La risata di Devon suonò alquanto forzata all'orecchio di Dill. Fiori rosa sbocciavano sugli alberi della Valle del Giardino e si adagiavano in un soffice tappeto ai loro piedi. I due bambini adesso erano diventati quattro. Si mantenevano a distanza di sicurezza e ridacchiavano, agitavano le braccia e sollevavano nuvole di petali a calci. Quando Rachel cercò di cacciarli via, si sparpagliarono dietro gli alberi più vicini. Era il primo pomeriggio quando arrivarono nelle vicinanze della Falce. La Valle del Giardino divenne più fitta, gli edifici più solidi. La cenere ingrigiva le mura di pietra. Travi e catene coperte da uno spesso strato di ruggine suddividevano il cielo in triangoli azzurri. La strada si strinse, risalì e andò a finire di fronte a un alto muro tra due edifici torreggianti simili a una prigione. Un'insegna sbiadita con lo stemma del Dipartimento di Scienze Militari di Deepgate ciondolava sopra una porticina rossa. «Eccoci arrivati», annunciò Devon. «E mai troppo presto.» Accennò con un gesto alle loro spalle. Dill guardò indietro: otto ragazzini se ne stavano in fila in fondo alla strada, sbattendo le braccia come per volare. «Si moltiplicano in maniera esponenziale», osservò Devon. «A questo 157
ritmo l'intero vicinato sarà per strada prima del crepuscolo.» La porta si aprì per rivelare una piattaforma di legno delimitata da una ringhiera arrugginita. Una passerella di corda si inabissava dalla piattaforma, per poi risollevarsi in prossimità del cancello principale delle Cucine dei Veleni, a circa trecento metri di distanza. Il ponte superava una sezione d'abisso che s'incurvava su entrambi i lati, come l'ansa di un fiume nero che scorresse attraverso la città. Mostruose catene d'ancoraggio affondavano nella voragine spalancata. Obeso e annerito dalla fuliggine, il Dipartimento delle Scienze Militari di Deepgate somigliava a un gigantesco calderone in cui sobbollivano e fumavano enormi camini e fumaioli di ferro. Il fumo usciva dal tetto, e fiammate di gas incendiato eruttavano rombando in lontananza. Da sotto la struttura sporgevano i pontili d'attracco per le aeronavi. Dill scorse la sagoma indistinta dello scafo di una nave da guerra che stava per attraccare e si avvicinò alla ringhiera per vedere meglio. Lo sguattero affondò ancora di più le mani nelle tasche. Non appena vi misero piede, la passerella di corda ondeggiò. «È sicura?» chiese Dill. «Certo: almeno fino a quando non cadi», rispose Devon. Presto si ritrovarono sotto il livello degli edifici, per poi risalire lungo il versante opposto della voragine. Un intrico di tubazioni di piombo collegava fabbriche e abitazioni alle reti cittadine di distribuzione dell'acqua e degli scarichi. Reti si estendevano in tutte le direzioni: onde di canapa, screziate dalle lame di luce proveniente dall'alto, sprofondavano tra una strada e l'altra. Le reti trattenevano i rifiuti gettati di sotto e impedivano agli occasionali ubriachi o aspiranti suicidi di precipitare nell'abisso. Ulcis non era benevolo con i vivi che finivano nel suo reame, indipendentemente da quanto tempo riuscissero a sopravvivere. «Il regno dei razziatori», disse Devon accorgendosi dell'interesse di Dill. «Ti stupirebbe vedere cosa riescono a recuperare da quelle reti.» Rachel stava esaminando una delle catene di fondazione che si allungava al di sopra del ponte di corda. «Queste catene le ha forgiate Callis?» chiese. «Come molte altre cose.» Devon lanciò un'occhiata a Dill, con un guizzo di divertimento negli occhi. «Il macchinario che ha usato per estrarre il minerale e poi fondere questi anelli si trova ancora ai piedi di Trononero. Le nostre navi da guerra l'hanno individuato non molto tempo fa. I preti lo chiamano il 'Dente di dio'.» Devon sbuffò. «Dovresti sentirli, come si esal158
tano: la reliquia è in attesa, ci protegge, come se fosse cosciente, come se fosse addirittura senziente.» «Tu non sei d'accordo?» chiese Rachel. «Più ingranaggi che coscienza, direi. Per essere antica, è antica, enorme, grande quanto i nostri impianti, qui, ma resta il fatto che si tratta solo di una macchina. Un tempo estraeva i metalli da Trononero e li trasportava attraverso le Sabbiemorte fino a Deepgate. Adesso giace derelitta e abbandonata all'ombra della montagna. Gli Heshette l'hanno utilizzata come cittadella. Ci crederesti? Un'intera comunità di persone che vivono e si accoppiano là dentro come animali?» «Quindi non credi che Trononero sia stato un tempo il trono di Ulcis?» «Quella montagna è unica, certo. E i metalli che ha eruttato sono singolari, la loro semplice presenza avvelena il terreno attorno per centinaia di miglia, ma, se mai fosse stata un trono, certo sarebbe stato ben scomodo.» Fece una pausa. «Però credo che almeno una parte della leggenda sia vera: che Trononero sia caduto dal cielo.» Rachel sembrò sorpresa. «Perché no? Avrai visto le stelle cadenti: credo che la montagna sia qualcosa del genere.» «E il Dente?» chiese Rachel. «Anche quello potrebbe essere caduto dal cielo?» «Questa è la parte più misteriosa», rispose Devon. «La Chiesa continua a mantenersi reticente sull'argomento. E credo che preferirebbero che ci scordassimo del tutto anche di quella macchina. Strano, non credi?» I rumori della fornace e dei macchinari crebbero d'intensità mentre si avvicinavano alle Cucine dei Veleni. L'aria era acre, appesantita dalle ceneri che fluttuavano dagli sfiati. Una patina dal puzzo disgustoso ricopriva le assi del ponte, e si sollevava a nuvole a ogni passo. Prima di aver raggiunto la porta d'ingresso, abiti e penne di Dill erano lerci. L'Avvelenatore sembrava impenetrabile a quel puzzo rivoltante. A gesti, li indirizzò verso un ingresso che forse un tempo era stato sontuoso, ma ormai era ricoperto di cenere. Impronte nere di passi rovinavano il tappeto dal ricco disegno, e lampade all'etere crepitavano e sibilavano alle pareti. Devon tirò da una parte lo sguattero, e aprì per lui la porta più vicina. «Laggiù in fondo, a sinistra per un centinaio di passi, poi ancora a sinistra, quindi a destra, la terza porta a destra, su per le scale, e al secondo pianerottolo la quarta porta a sinistra. È l'ufficio del sovrintendente. Ti procurerà una maschera e ti mostrerà quello che devi fare. Hai capito tutto?» 159
Il ragazzo lo fissò con espressione vuota. «Sciò», disse Devon. Lo sguattero filò via. «Mi auguro che duri un po' più degli altri», borbottò Devon, «Ci vuole un'eternità per ottenere operai che abbiano superato i controlli, e quelli che ho mi bastano appena per mandare avanti le fucine.» Condusse Rachel e Dill attraverso un'altra porta. Furono sopraffatti dal calore e dalla polvere, e Dill spalancò gli occhi. Nella sala che si perdeva in lontananza, dozzine di enormi fornaci a forma di botte si allineavano sul pavimento della fabbrica. Operai alimentavano le fauci ardenti da una fila di tramogge che si muovevano lungo una rotaia che correva al centro della sala. Tubature grandi quanto pinnacoli del tempio si innalzavano dalle fornaci e scomparivano nell'alta volta fitta di carrucole e passerelle. Tubature più piccole si diramavano dalle principali e serpeggiavano come rampicanti, mentre le valvole liberavano a tratti getti di gas in fiamme. Il vapore sibilava e le fornaci ruggivano, soffocando gli urli degli operai, il costante stridio delle pale e il basso profondo delle ruote di ferro dei vagoncini di carbone sulle rotaie. Il pavimento tremava sotto i piedi di Dill. «Combustibile», gridò Devon. Seguirono la fila di tramogge lungo la sala. Uomini dai volti fuligginosi e coperti di sudore salutarono l'Avvelenatore con cenni del capo e qualche sorriso, con un'ulteriore pausa non appena notavano l'angelo. A ogni sportello di fornace che superavano, il calore schiaffeggiava il viso e le ali di Dill, si impadroniva di qualche piuma staccata e la faceva risalire a spirale verso l'alto. Una porta all'estremità opposta del salone li condusse alla relativa tranquillità di un magazzino per gli attrezzi. Le orecchie di Dill vibravano ancora per il rumore della sala combustibile, e gli sembrava di essere stato scorticato vivo. Da una fila di ganci alla parete Devon prese due maschere dallo strano aspetto e ne porse una ciascuno a Dill e Rachel. Dai boccagli pendevano tubi che somigliavano a tentacoli di calamaro. «Per proteggere i polmoni», spiegò prendendone una anche per sé. «Stiamo per attraversare dei reparti pericolosi.» La sala successiva era grande la metà di quella della fornace. Il pavimento scomparve quasi immediatamente, e proseguirono rumorosamente 160
su una passerella che superava file e file di grossi tini, dentro i quali sobbolliva un liquido lattiginoso, liberando verso di loro volute di vapore. Tecnici in maschere da calamaro e grembiuli macchiati di grasso regolavano le valvole e controllavano gli indicatori mentre altri, in cima alle scale appoggiate ai tini, rimuovevano la schiuma dal liquido in ebollizione con mestoli grandi come remi. Devon si fermò a controllare il lavoro che si svolgeva sotto di loro. «Acidi, alcali e ammoniaca», disse con la voce ovattata dalla maschera. «Armi?» chiese Rachel. «Le più semplici. Quei componenti possono bruciare polmoni e pelle.» Devon lanciò un'occhiata a Dill. «E piume.» Dill guardò il contenuto dei tini attraverso il vetro graffiato del visore della maschera. L'aria che respirava attraverso le fibre dei tubi era vagamente acre e metallica. Si sentiva le gambe malferme sull'instabile passerella: sembrava facile rischiare di sporgersi troppo. All'ingresso della stanza successiva Devon sostò brevemente. «Il laboratorio ricerche», annunciò. «Non toglietevi le maschere e, per favore, non toccate niente.» Entrarono in un laboratorio, ancora più piccolo della sala precedente. Provette e becher di vetro si affollavano sui grandi banchi di lavoro. I chimici portavano camici sudici e macchiati come grembiuli da macellaio. Concentrati sul proprio lavoro, ignorarono i visitatori mentre continuavano a versare e misurare, a mescolare soluzioni, a scribacchiare appunti su enormi registri. File e file di provette tappate riempivano un enorme raccoglitore circolare di legno sistemato nel mezzo della stanza. Dill si avvicinò, accorgendosi che ogni provetta conteneva poche gocce di liquido rosso. «Cosa sono?» chiese Rachel un attimo dopo. «Malattie», rispose Devon. Dill trattenne il fiato. «Alcune provocano febbre, sfoghi cutanei, influenza, ittero, anemia. Ci sono soluzioni per favorire le infezioni, indebolire le ossa, causare piaghe e ulcere, e persino per provocare sterilità e mutazioni genetiche.» «Sterilità?» Rachel aveva gli occhi sbarrati. «Mutazioni genetiche?» «È una scienza ancora agli inizi, e di solito preferiamo usare i veleni. Ma alcuni derivati di quello che vedete qui sono già stati sperimentati sul 161
campo.» «Contro le tribù?» «L'idea ti sconvolge?» Lo sguardo della ragazza percorse le file di provette. «Sapevo dei veleni, ma queste malattie... sembrano così crudeli, innaturali.» Devon rise dietro la maschera. «La natura è crudele... e noi non siamo forse parte della natura? Niente di quel che facciamo potrà mai essere innaturale, dato che la nostra volontà è un prodotto della natura, e pertanto essa stessa naturale.» Si voltò verso Dill. «E tu che ne pensi? Sei contrario a questo uso della nostra conoscenza?» Dill rispose: «Credo che certe cose sia meglio lasciarle a dio». L'Avvelenatore batté le mani. «Ma certo!» esclamò portandosi un dito sulla fronte. «Non fa una grinza. E, adesso, lasciate che vi mostri il nucleo del mio lavoro.» Prese dei guanti da un cassetto, simili a quelli dei tecnici, e li porse a Rachel e Dill. «Se volete essere così gentili da infilarveli, passeremo alle stanze dei veleni.» La prima stanza non era come Dill se la sarebbe aspettata. Nell'aria aleggiava un denso odore di salmastro. Il pavimento era debolmente rischiarato dalla luce verdastra che proveniva da file di acquari incastonati nelle pareti. Devon si tolse la maschera, e dopo un attimo di esitazione Dill e Rachel fecero lo stesso. Si avvicinarono alle vasche, e osservarono a bocca aperta i mostri dietro i vetri. «I veleni più mortiferi sono quelli estratti dalle creature che vivono sul fondo dei mari di questo mondo», spiegò Devon, fermandosi davanti a una delle vasche. Un serpente a strisce gialle e verdi si agitò all'interno. «Serpenti a vite, dalla barriera corallina di Ordan. Nel loro morso c'è abbastanza veleno da ammazzare cinquanta uomini.» Dill guardò i serpenti che strisciavano avanti e indietro sulla sabbia. Senza pensarci, appoggiò una mano guantata contro il vetro. Uno dei serpenti ci si avventò contro, e Dill l'allontanò di scatto. «Ecco», disse Devon indicando la vasca successiva. «Tra quei coralli, se guardate con attenzione, potete vedere un polipo pappagallo. Ci sta osservando.» Un grande occhio nero bordato d'azzurro li fissava senza un fremito da dietro i coralli. «Più furbo di un gatto», spiegò Devon. «Riesce persino a sopravvivere 162
per qualche tempo fuori dall'acqua. Questo qui lo abbiamo scoperto a farsi delle passeggiate notturne in giro per la stanza, finché non abbiamo sigillato il contenitore. Ha un debole per i gamberetti martello che ci sono nelle vasche d'alimentazione.» Dill gettò un'occhiata nervosa al pavimento ai suoi piedi, chiedendosi che altro poteva essere fuggito dalle vasche. Percorsero la sala in tutta la sua lunghezza, con Devon che si fermava davanti a ogni acquario per illustrarne il contenuto. Dill venne a sapere che le spine dei pesci striscianti causavano vesciche fatali, e della morte lenta e dolorosa patita dai pescatori per il morso delle anguille vedova che restavano impigliate nelle reti. Si meravigliò davanti alle pallide meduse globulari con la loro spettrale pioggia di tentacoli. C'erano enormi lumache azzurre a chiazze, vari tipi di anemone, ammassi gelatinosi dalla forma indistinta e dai colori brillanti, e creature corazzate simili a millepiedi e irte di spine. In fondo alla stanza Devon sollevò una tenda sotto la quale si infilarono per passare in un'altra zona zeppa di vasche di vetro. Il nuovo ambiente era più luminoso, ma puzzava di stantio e l'aria era densa di segatura. Colonne di luce calavano dai grandi lucernari, rivelando le sagome scure accoccolate dietro i vetri. In un angolo della stanza c'era una nicchia rivestita di scaffali, sui quali erano appoggiate pezze di tessuto pregiato, una delle quali era spiegata su un tavolo lì vicino. «Artropodi», spiegò Devon. «La maggior parte dei veleni che estraiamo qui è meno potente. Ma hanno comunque il loro impiego. A volte una morte lenta è preferibile a una troppo veloce.» Scoccò un'occhiata a Rachel. «Viene da pensare all'incidente del capitano Mooreshank, sulla Penisola di Torrespaccata.» Rachel annuì. Devon continuò: «Stiamo giusto mettendo a punto un sistema per impregnare di veleno di ragno la seta tessuta dai loro cugini. Abiti fatti con questo tessuto sarebbero tanto splendidi quanto mortali». Sorrise. «E redditizi, ci auguriamo.» Un'altra tenda segnava il passaggio alla terza stanza dei veleni. Una cappa di caldo umido scese su di loro mentre avanzavano in un'ampia serra, inondata dalla luce verde filtrata da enormi felci torreggiami e dalla nebbiolina spruzzata dalle tubature sul soffitto. L'aria era densa di ricchi odori tropicali. 163
«Flora», disse Devon. «Non toccate niente. Certe spine possono trapassare i guanti protettivi. Fa' attenzione alle ali.» Passarono accanto a ondeggianti orchidee dalle foglie che parevano di cera, superarono rampicanti abbarbicati su tronchi che stillavano umidità, tralci screziati di pallidi fiori che pendevano come corde. Il sudore colava lungo il collo di Dill. «Queste piante vengono dal Margine: da Miraggio e dalle Isole Vulcaniche oltre il Mar Giallo», disse Devon. «Ci sono alcuni esemplari rarissimi. E molto fragili.» Qualcosa frusciò in mezzo al fogliame. La mano di Rachel si mosse verso la spada, ma Devon la fermò. «È una pianta trappola», spiegò. «La pianta percepisce la nostra presenza. Attira la preda muovendosi, per simulare il rumore di una piccola vittima che si muove nel sottobosco. Delle spine velenose alla base della pianta fanno in modo che il predatore che si avvicina per scovare l'origine del rumore non si allontani mai più. Le creature morte fertilizzano il terreno attorno alla pianta, e l'odore della carne in decomposizione attira altre prede.» «Non avevo mai sentito niente del genere», mormorò Rachel. Devon abbassò la testa e la guardò al di sopra degli occhiali. «In natura l'inganno è un metodo piuttosto comune per assicurarsi il cibo.» Superata la serra, li condusse nella frescura di un'alta torre sottile. Una spirale di stretti gradini sporgeva dalla parete circolare, salendo per altezze vertiginose. Mensole intagliate nella pietra seguivano l'andamento della scala, ognuna stracarica di centinaia di flaconcini polverosi. Da una parte, un bancone traboccava di becher, provette e contenitori di polveri e liquidi colorati. C'erano anche mortai e pestelli di varie misure, fornellini d'ottone e pinze, accatastati accanto a una pila di gabbie di metallo dentro le quali dei topi raspavano e sgattaiolavano da una parte all'altra. «Qui misceliamo e testiamo i veleni», spiegò Devon. «Sui topi?» chiese Rachel. «Inizialmente.» Lo sguardo di Dill seguì la scala che si inerpicava verso l'alto, apparentemente senza fine. «Quanti veleni ci sono qui dentro?» chiese. «Oh, be', tutti», rispose Devon liquidando gli scaffali con un gesto della mano. «E adesso, amici miei, devo purtroppo concludere il nostro giro. C'è un importante esperimento che devo completare questo pomeriggio.» Indi164
rizzò loro un sorriso caldo e rosso. «Ma, vi prego, non esitate a tornare, qualora vogliate approfondire la conoscenza del mio lavoro.» *** Più tardi Dill e Rachel erano seduti sulla piattaforma che sovrastava le Cucine dei Veleni, e osservavano la cenere che dalle ciminiere scendeva fluttuando nell'abisso. Un fievole e ritmico suono metallico si levava al di sopra della voragine. Rachel faceva dondolare le gambe attraverso le sbarre della ringhiera. Staccava grosse schegge di ruggine dalla superficie metallica, e le lasciava cadere vorticando nell'oscurità. «Tu cosa credi che ci sia, laggiù?» chiese d'un tratto. Dill le scoccò un'occhiata stupita. «Ulcis, è ovvio. La città di Deep.» «Ci credi davvero? A tutto quello che raccontano? La città dei morti? La Ziggurat? Il Giardino delle Ossa? L'esercito in attesa di reclamare il paradiso?» «Tu no?» «Una volta.» Fece scorrere un dito sul metallo che si sfogliava. «Adesso non ne sono più sicura. Sembra che tutti aspettino qualcosa di meglio, anche se questo significa aspettare di morire. Però questo non ci dà la certezza che qualcosa di meglio ci sia davvero, non credi?» Lo osservò, poi distolse in fretta lo sguardo. «La Spina agisce come la mano di dio, ma credo che nemmeno gli assassini temprati possano sentirlo. Più mi avvicino a loro, ai miei colleghi, e meno mi sento tranquilla.» Dill deglutì. Non aveva nemmeno ricevuto l'addestramento completo? «Non gli hai permesso di temprarti?» osò chiedere. Lei esalò un profondo sospiro. «Dio, credi che non voglia che lo facciano? Liberarmi da tutto questo. È peggio del dolore fisico.» Si premette i palmi sulla fronte. «Ma non dipende da me. Adesso il capo della famiglia è mio fratello, e lui non vuole firmare i documenti di autorizzazione. Vuole punirmi perché posso fare quello che a lui non è mai riuscito. Posso uccidere, da vicino, e riesco a sopportarlo. Colpire un uomo col coltello e guardarlo sanguinare.» Grugnì. «Il che mi rende in un certo senso un mostro anche peggiore di Carnival. Dicono che lei si ferisca da sola dopo ogni uccisione, si infligge dolore per liberarsi dalla sofferenza.» Dill aggrottò la fronte. «E questo non provoca maggior dolore?» «Ci sono tipi diversi di dolore», disse Rachel. «Certe volte un dolore può scacciarne un altro.» Si accigliò guardando le proprie mani bendate. 165
«Tutte le mie ferite mi sono state inferte da altri. Non ho bisogno di infliggermene da sola, mai avuto bisogno. E quindi forse non merito di essere temprata. Bramiamo gli aghi perché è una morte senza il terrore della morte.» Rise. Una risata secca, stridula. «La Spina dovrebbe dare la caccia a me, non a lei.» Dill osservò le bende di Rachel e si sentì a disagio. «Hai combattuto contro di lei?» Rachel alzò le spalle. «Da dove viene?» «Dritta da Iril, a dar retta ai preti. Un demone inviato a raccogliere anime per il Labirinto. Altri sostengono che sia uscita dall'abisso assieme a Callis e ai Novantanove, e che quando il vino d'angelo è finito abbia cominciato a uccidere per sopravvivere.» Fissò intensamente l'abisso. «Prima credevo che le storie su di lei fossero esagerate, credevo che Carnival uccidesse, ma senza prendere davvero le anime. Pensavo che fosse mortale quanto te e me. Ma ho visto troppi gusci vuoti che si è lasciata indietro dopo le Notti dello Sfregio, e ho anche visto come si muove: è troppo veloce, troppo forte. E i suoi occhi... c'è tanta rabbia, fame. Sempre neri.» «Puoi fermarla?» «Ne dubito.» «E allora perché ci provi?» Un sorriso amaro. «Sono una Spina.» Rimasero in silenzio per un po'. Le fiamme sopra le Cucine dei Veleni eruttavano a intermittenza, una fiammata brillante che poi diminuiva. Grossi coaguli di fumo si levavano dai comignoli, si gonfiavano e ricadevano poi sotto forma di cenere. Sullo sfondo, il sole stava calando verso il bordo dell'abisso. Nella foschia dell'inquinamento il cielo appariva livido e malato. Rachel staccò un'altra scaglia di ruggine e la gettò nell'oscurità. «Ci sono state delle spedizioni, sai, laggiù.» Ne fu sorpreso. «Nell'abisso?» «Spedizioni segrete. Senza che la Chiesa lo sapesse. Hanno rubato delle aeronavi, costruito palloni aerostatici, strane macchine alate, aggeggi strani. E sono scesi laggiù.» «Che fine hanno fatto?» «Non sono mai tornati.» Dill fissò il baratro. Persino lì, nella luce della sera, l'oscurità dell'abisso lo innervosiva. Rachel continuava a gettare scaglie di ruggine, e le guardava scendere danzando come minuscole foglioline. Dalla parte opposta della 166
voragine su cui erano affacciati risuonò una sirena, e una nave da guerra si staccò dal pontone di rifornimento sotto le Cucine dei Veleni. Discese dolcemente per un tratto e poi uscì dall'ombra e si fece strada sopra l'abisso, trainata dai cavi. Sentì il rumore lontano delle manovelle dei verricelli e gli urli dei portuali. Poi la grande nave fu libera e puntò verso il cielo con un rombo profondo, salendo con regolarità fino a trovarsi al di sopra delle gru e delle catene e delle colonne di fumo. La guardarono virare lentamente, scura sullo sfondo del tramonto. Rachel si alzò e si sporse oltre la ringhiera. Il metallo scricchiolò sotto il suo peso. «Se cado mi vieni a salvare?» gli chiese. Sollevò i piedi, reggendosi solo sullo stomaco. Si alzò anche Dill. «Non so volare molto bene.» «Ma almeno ci proveresti a salvarmi?» Si sporse ancora di più, e la ringhiera scricchiolò più forte. Fece un passo verso di lei. «Ti prego, non sembra troppo solida.» «Ci proveresti, pur sapendo che non ce la faresti a riportarmi su?» «Sì.» Rachel si rilassò e riappoggiò i piedi a terra, ma non si voltò a guardarlo. «Forse lo faresti.»
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13 LA LEGA DEI CORDAI
Un unico lucignolo illuminava di luce rossastra i tetti di lamiera arrugginita e il legno sbiadito delle baracche della Lega. Le capanne giacevano sghembe sulle loro reti, collegate alle passerelle da assi sottili. Oltre le corde, le luci di Deepgate sprofondavano in lontananza, per poi riemergere sullo sfondo, interrotte soltanto dalla sagoma del tempio. Fogwill guardò i riflessi che percorrevano le curve dell'armatura nera del capitano Clay, mentre la guardia del tempio si guardava attorno disgustata. Le assi scricchiolavano sotto i suoi pesanti stivali rinforzati. «Sei sicuro che sia qui?» chiese Fogwill. Clay arricciò il naso e annusò l'aria. «Dall'odore sembrerebbe.» A Fogwill non serviva che glielo facesse notare. C'era qualcosa che si stava decomponendo, lì attorno. Forse un topo morto? E Clay aveva insistito che si recasse in quel posto senza mettersi profumo. La sua tonaca ne conservava comunque una traccia, aveva sottolineato truce il capitano, ma non abbastanza da mascherare quel puzzo orrendo. «Allora sarà meglio che tu vada. Da qui mi arrangerò da solo.» Il capitano della guardia del tempio grugnì: «Coadiutore, queste sono le Tane». Si appoggiò sulla propria picca. «Quel delinquente ha quasi strangolato uno dei miei uomini. È un brutto bastardo grosso e cattivo. Non mi fiderei di lui più che di un branco di gatti.» «Comunque sia, parlerò con lui da solo. La tua presenza lo farebbe infuriare ancora di più. Troverò la strada da solo per tornare.» Di colpo Fogwill si rese conto di quello che aveva detto, e avrebbe preferito non averlo fatto. Clay esitò, poi scuotendo la testa si voltò e tornò indietro lungo le assi malferme, la picca orizzontale per tenersi in equilibrio. La passerella ondeggiava a ogni passo; le funi di sostegno vibravano e si sfilacciavano. Non sono neppure cavi, da queste parti, giusto delle funi. Fogwill si tenne saldo, cercando di non guardare l'oscurità che incalzava da entrambi i lati, dietro le baracche, ma senza successo: l'abisso attirava inevitabilmente il suo sguardo. Chiuse gli occhi. 168
Quando la passerella si fu stabilizzata e la nausea fu sotto controllo, il coadiutore si ritrovò da solo davanti a una specie di scatola fatta di legno e lamiera che, apparentemente, faceva da casa. Dall'unica finestra spalancata non si scorgeva nessun segno di vita all'interno. Si chinò per passare sotto la fune stradale che sosteneva quel lato della passerella e gettò un'occhiata alle assi che superavano il baratro collegandola alla porta d'ingresso. Poco più di un metro e mezzo, senza nient'altro che un paio di corde lise alle quali aggrapparsi: nient'altro a impedire una caduta nell'oscurità dell'abisso. Sotto non si vedeva nessuna rete. Ci dev'essere una rete per forza. Persino qui. È la legge. Il pensiero non lo rassicurò più di tanto, e col piede saggiò la solidità della passerella. Emise uno scricchiolio sinistro. E se avesse chiamato chi c'era in casa per farsi aiutare? Rivelandosi così un moccioso terrorizzato? Che mossa intelligente. Avrebbe anche potuto svegliare i vicini, e preferiva non svegliare un vicinato del genere. Non c'era scampo: doveva attraversare. Fogwill respirò a fondo e avanzò piano, aggrappandosi con entrambe le mani e meglio che poteva alle due funi laterali. Persino a quella luce fioca si vedevano i segni bianchi sulle dita, lasciati dagli anelli che si era tolto. Le assi si incurvarono sotto il suo peso, mentre trascinava le pantofole verso il centro del passaggio. Quel metro e mezzo gli sembrò più lungo dell'intera camminata dal tempio, e quando finalmente raggiunse la porta era ridotto a un relitto tremante. Dovette raccogliere tutto il proprio coraggio per staccare una mano dalle corde e bussare. Nessuna risposta. Fogwill imprecò. Avrebbe dovuto dire a Clay di aspettarlo. Quella non era una zona di Deepgate in cui fosse salutare trattenersi dopo il calare delle tenebre. Bussò ancora, più forte. «Chiuso», gridò una voce roca dall'interno. Fogwill si avvicinò di più alla porta e parlò a voce tanto alta quanto riuscì ad azzardare. «Posso parlare con lei un momento?» Non ci fu risposta. Fogwill attese. Bussò di nuovo. «Via!» urlò la voce. Fogwill sussultò. Sveglierà tutta la strada. «La prego, è urgente.» Le altre baracche restarono buie e silenziose. Da una torcia sospesa al centro della passerella stradale, una goccia di catrame sfrigolò nel contenitore sottostante. Sollevò la mano per bussare di nuovo quando la porta si socchiuse 169
di uno spiraglio. Nessuna luce veniva dall'interno. Si chinò verso la fessura e bisbigliò in fretta: «Devo parlare con lei. Si tratta di sua figlia». «Maledetto prete, lasciami in pace. Se l'è presa la sanguisuga.» La porta sbatté sulla faccia di Fogwill. «No!» protestò il prete. Sentì dei movimenti dentro la casupola, e la porta si riaprì appena. Decise di approfittare del vantaggio. «Non credo che sia stata Carnival.» Questa volta la porta si spalancò, e la faccia più brutta che Fogwill avesse mai visto sbucò dalle tenebre. L'uomo soffocò un urlo. La faccia - sì, era davvero una faccia, adesso che era riuscito a vederla meglio - sbirciò su e giù lungo la strada e poi tornò su di lui. Lo annusò. «Puzzi», disse Mr. Nettle. Il sollievo di Fogwill nel togliersi da quelle assi si dissolse non appena la porta si chiuse dietro di lui. Là dentro non vedeva a un palmo dal naso. Per un terribile momento temette di aver preso la decisione sbagliata andando in quel posto. Se quel tanghero l'avesse aggredito sarebbe stato del tutto incapace di difendersi. Clay l'aveva avvisato che quell'uomo aveva fama di essere violento, e di certo non era amico della Chiesa. E se l'avesse accoltellato? O peggio? Che dio avesse pietà, avrebbe potuto persino stuprarlo. Poi Mr. Nettle fece scattare un acciarino, e una lampada a olio si accese nell'ingresso. In piedi nel minuscolo spazio delimitato da lamiere e assi di compensato, Mr. Nettle sollevò la lampada e osservò accigliato Fogwill. Il razziatore era enorme. Con una vestaglia sbrindellata addosso, sembrava più grosso di una guardia del tempio in armatura completa, e ingombrava il minuscolo ingresso come una catasta di calcinacci. Aveva lineamenti grezzi e indefiniti, come una pietra appena sgrossata prima che lo scultore cominciasse a lavorare sui dettagli. Il naso appiattito era stato rotto e si era poi risaldato male: metà del viso era coperta di stoppie di barba ruvide e dure come fil di ferro, e l'altra metà spariva sotto i lividi. Occhi arrossati e orlati di ombre scure si abbassarono a fissare Fogwill. A giudicare dalla stanchezza del suo sguardo e dalle guance infossate, sembrava che l'uomo non mangiasse né dormisse da una settimana. Sembrava sfinito. E puzzava come una fogna. «Di qua», grugnì Mr. Nettle. Avanzò faticosamente lungo il corridoio, inciampando su mucchi di car170
taccia e scatoloni di bottiglie, poi girò di fianco le spalle poderose per superare una pila di cassette appoggiate contro il muro. L'intera casa vibrava come se stesse per crollare da un momento all'altro. Chiodi sporgevano disordinatamente dai punti più strani, dove erano stati piantati per fermare toppe di legno e di lamiera. A un esame più ravvicinato, Fogwill si accorse che le pareti stesse erano costruite a forza di scarti. Lì, l'anta di un armadio costituiva una porzione della parete laterale, mentre la sua gemella faceva parte del soffitto. In un altro punto la cornice di uno specchio rotto da chissà quanto riempiva l'apertura fra due montanti. Pezzi di tubature arrugginite e scale spezzate erano stati utilizzati come travi per sostenere quel mosaico. Evidentemente Mr. Nettle non era un carpentiere: non una delle giunzioni era diritta. E quello cos'era? Uno scudo? Riconobbe il disegno: Lo scudo di una guardia del tempio. Fogwill avanzò tenendo le mani accostate al petto, attento a non toccare niente. Cercò di non pensare ai topi. Bottiglie vuote di whisky erano rotolate lungo il pavimento in discesa per raccogliersi contro una pubblicità sbiadita dell'Olio da Bagno al Miele Whitworth, un prodotto che - sospettava Fogwill - Mr. Nettle non doveva aver mai usato. Il razziatore tolse alcune scatole da una vecchia sedia e le ammucchiò assieme all'altra spazzatura che c'era dietro. «Siediti», gli grugnì. Fogwill si appollaiò circospetto sul bordo della sedia, che aveva uno dei braccioli ridotto a un semplice mozzicone puntuto. Non era così che si era immaginato la casa di un razziatore. Si era aspettato qualcosa di più simile al negozio di un antiquario: mobili massicci, oggetti rari ripescati dalle reti, pronti per essere restaurati e rivenduti. Non tutte quelle cartacce e bottiglie, lattine e pile di stracci. D'accordo, c'erano alcuni oggetti insoliti che spiccavano in mezzo a quei rottami: un orologio di marmo privo di una lancetta, che evidentemente non veniva da quella parte della città; dei grossi ingranaggi d'ottone che avrebbero potuto venire dall'auroletiscopio del presbitero; alcune vivaci tele di vedute cittadine montate su tavole di compensato inchiodate alle pareti. Ma, per il resto, nient'altro che spazzatura, che ingombrava la stanza dal pavimento al soffitto. Come si faceva a vivere in quel sudiciume? Mr. Nettle posò la lampada a olio e incrociò le braccia, in attesa che Fogwill parlasse. Il prete si lisciò la tonaca, quella semplice e nera che aveva messo dietro insistenza di Clay. «Posso chiederle cosa faceva sua figlia per vivere?» 171
chiese con la sua voce più melliflua. Mr. Nettle fece una smorfia e alla fine rispose: «Pittrice». Fogwill gettò un'occhiata ai quadri. «Li ha dipinti lei?» Sembravano decisamente dilettanteschi. Possibile che qualcuno li comprasse? Mr. Nettle annuì. «Ottimi lavori», aggiunse Fogwill in fretta. «A occhio.» «Un penny ciascuno.» Fogwill si chiese se fosse il caso di comprarne uno per facilitare le cose, ma si ricordò che aveva lasciato i soldi al tempio e decise perciò di cambiare argomento. «Mr. Nettle, sa dove si trovava esattamente sua figlia quando è scomparsa?» Per tutta risposta, Mr. Nettle allungò una mano dietro di sé e prese un pezzo di compensato quadrato e sbrindellato. Fogwill vide che si trattava di un quadro incompleto, un disegno preliminare brutto quanto gli altri. Non c'erano comunque dubbi su quale fosse il soggetto rappresentato. «Stava lavorando a questo?» «L'ho trovato sulle reti là sotto. Ho cercato lì, prima di tutto.» Fogwill studiò il disegno. Riconobbe il posto. Le ciminiere e gli sfiati delle Cucine dei Veleni che si vedevano nello sfondo erano inconfondibili. Ovviamente non costituiva una prova. Le implicazioni erano davanti ai suoi occhi, ma non erano sufficienti per accusare Devon, nonostante i preesistenti sospetti di Fogwill. Carnival aveva ucciso in ogni parte della città. Dovette chiedere subito: «Aveva lividi su entrambe le braccia?» Gli occhi del razziatore si strinsero. «Aveva lividi sulle braccia?» ripeté Fogwill. Mr. Nettle lo valutò per un momento. «Già.» Il nostro assassino. Allora non l'aveva tenuta sotto ghiaccio per tutto quel tempo. Fogwill diede un'occhiata ai quadri: diverse zone della città ritratte nei pochi e invariati colori vivaci. Evidentemente, la ragazza nutriva una strana passione per rosso e giallo, gli unici colori che usava, indipendentemente dai soggetti. «Ne abbiamo trovati altri», spiegò. «Le ferite da penetrazione sono le stesse, ma i lividi... Non sono opera di Carnival. Carnival appende le sue vittime per i piedi.» «Chi è stato?» «Non lo sappiamo.» 172
Il razziatore avvicinò ancora di più il viso a quello di Fogwill. «Però hai qualche sospetto?» Nel suo tono c'era una minaccia. Fogwill vide che i muscoli delle braccia di Mr. Nettle erano tesi come i cavi stradali che reggevano una casa. Dentro di sé si ritrasse, ma si sforzò comunque di guardarlo negli occhi. «No.» Il razziatore tenne a lungo lo sguardo fisso su Fogwill, i lividi sul suo volto sembravano quasi pulsare. Fogwill lottò per apparire calmo. Sentiva l'odore di whisky nell'alito dell'altro, e sentì un rivolo di sudore che gli scorreva sotto l'orecchio. Perché aveva avuto tanta fretta di mandare via Clay? Alla fine Mr. Nettle si tirò indietro. «Vattene.» Fogwill attraversò la passerella in due passi e filò di gran carriera in direzione del tempio, la tonaca che gli svolazzava attorno. Le passerelle si piegavano e ondeggiavano sotto i suoi passi, ma non rallentò. Non rallentò per niente. *** Mr. Nettle si vestì in fretta. Cacciò in uno zaino i suoi attrezzi da razziatore: la corda, il rampino, il martello, gli arpioni, una piccola carrucola, lanterna antivento e acciarini. Prese la fiasca dell'acqua, una ruota di pane secco, un sacchetto d'uva passa e una striscia di cotenna di maiale, e buttò tutto nello zaino. Poi si infilò la scure nella cintura, portò il carretto del fabbro fuori sulla passerella, e si mise a caricarlo di ferro grezzo. L'aiuto che gli serviva costava caro. Forse il ferro sarebbe bastato, forse no. Avrebbe potuto costargli molto di più. Mentre lavorava, una folata d'aria fredda si levò dall'abisso e percorse la Lega dei Cordai. Le baracche ondeggiarono e sbatacchiarono l'una contro l'altra. Le travi rimbombarono contro le assi delle pareti e i chiodi stridettero contro le tettoie di lamiera. Più in basso, persino il Dedalo si mosse. Le lampade a gas si agitavano fra le catene. Soltanto il tempio restava immobile, nero e immenso, le finestre simili a zampilli di brace congelati sopra il cuore della città. Il grasso pretonzolo aveva mentito. Mr. Nettle se lo sentiva nelle viscere. La Chiesa sospettava qualcuno. Si passò una mano sul viso sudato e sospirò lentamente. Non Carnival? Forse i preti avrebbero fatto qualcosa, forse no. Non importava. Ci avrebbe pensato lui per primo. A qualunque costo. 173
La stregoneria non esisteva, lo sapevano tutti. In ogni taverna e nelle osterie del Dedalo la sola idea veniva liquidata con una risata. Ma un ascoltatore attento non poteva non accorgersi che certe risate erano un po' troppo rumorose, che qualcuno liquidava l'idea un po' troppo precipitosamente. Quando il carretto fu completamente carico Mr. Nettle sputò in terra, si fece forza e si avviò per andare a incontrare l'unico uomo di Deepgate che poteva parlare con l'inferno. *** Più Fogwill si allontanava dalla casa di Mr. Nettle, più forte sentiva ritornare nausea e vertigini. Come in tutte le zone periferiche della città, anche lì la distanza fra le catene principali era maggiore; ciascun quartiere era sostenuto da una rete decisamente approssimativa di catene, cavi e corde. Tutto beccheggiava, ondeggiava e gemeva. Il legno trasudava. Il puzzo era terrificante. Sembra un lazzaretto pieno di appestati. L'intero quartiere è marcio, in decomposizione. Le funi minacciavano di spezzarsi. Una sola rottura, e tutto quel brutto, orrendo, sudicio, puzzolente ammasso sarebbe finito in fondo all'abisso. A ogni passo Fogwill aveva il terrore che sarebbe stato l'ultimo. Persino le reti che riusciva a intravedere sotto le passerelle lo rassicuravano ben poco. Per la maggior parte erano sottili e sfilacciate, e parevano troppo consumate per reggere anche solo il peso di un cane, figurarsi la sua notevole stazza. Le tenebre certo non aiutavano. Rade lanterne gettavano una luce annebbiata, ma di solito Fogwill si ritrovava a inciampare al fievole chiarore della luna, senza mai abbandonare la presa delle corde corrimano ai due lati della strada. Passata da poco la Notte dello Sfregio, la luna era appena una sottile falce crescente. La gente della Lega difficilmente si avventurava per strada col buio e le strade erano vuote, ma l'assenza di malintenzionati e tagliagole era di ben poca consolazione. L'uomo che stava per incontrare era di gran lunga più pericoloso di loro. *** Il taumaturgo storpio viveva dentro il Ponte del Passero, al Varco della Cappella. Il ponte, una torreggiante costruzione di legno eretta su una base di granito, si allungava sull'abisso per congiungere la Fossa dei Conciatori sul lato occidentale alle vecchie torri di sfiato del gas illuminante sul lato orientale. Un tempo scoperto e largo abbastanza per lasciar passare due carri affiancati, il Ponte del Passero era stato un simbolo dello sviluppo 174
dell'industria di lavorazione del gas illuminante del distretto. Negli anni passati, gli operai che si sporgevano oltre i suoi parapetti potevano scorgere un canale d'aria e catene che s'inabissava profondamente nel Dedalo, delimitato da entrambi i lati da mura di buona pietra solida e da colonne di fumo. Ma la prosperità reca con sé la ricchezza, e la ricchezza attira gli uomini, e gli uomini hanno bisogno di case. Ormai il Ponte del Passero si innalzava per quattro piani. Ci avevano eretto sopra delle case, accatastate l'una sull'altra come costruzioni infantili e assicurate da catene agganciate a qualunque ancoraggio disponibile. La linea frastagliata dei tetti appuntiti ne delineava il profilo. Quando Thomas Scatterclaw ci si era stabilito, almeno una quarantina di famiglie già popolava il ponte. I carri percorrevano ancora il lungo tunnel sotto le case, carichi di pellami che venivano dal mercato del Varco, o di ferro proveniente dallo smantellamento degli impianti di gas illuminante, però uno alla volta e soltanto di giorno. Mr. Nettle alzò lo sguardo verso il ponte. C'erano impalcature aggrappate alle facciate delle case, ma stavano cedendo, pali e scale in rovina. Sui tetti si vedevano dei buchi, nei punti in cui le assicelle di legno si erano staccate. Finestre rotte si affacciavano sull'abisso, tutte buie tranne una, in alto, in cui splendeva una tenue luce rossastra. «È ferro, vero?» Mr. Nettle si voltò verso la voce. L'uomo emerso dal tunnel era seduto su una bassa piattaforma su ruote, e si spingeva avanti con le mani bendate. Mentre si avvicinava, Mr. Nettle vide che le sue gambe erano state amputate appena sotto il ginocchio. Nonostante quello, sembrava ancora assai robusto: i muscoli guizzavano sul largo torace, e le braccia sembravano abbastanza forti da spezzare il collo di un cavallo. Due grosse cicatrici, come di colpi di spada, gli segnavano l'avambraccio sinistro, facendo pensare a Mr. Nettle che potesse essere stato un soldato o una guardia del tempio. «Basta?» chiese Mr. Nettle. «Dipende da cosa vuoi», rispose l'uomo. Le ruote cigolarono sotto di lui. «Comunque no, alla fine non basterà.» «Cos'è, un indovinello?» L'uomo grugnì. «Mi chiamo Danning. Vuoi sapere cos'è successo alle mie gambe?» «No.» L'altro sorrise. «Immagino vorrai parlare con Mr. Scatterclaw. Di sopra. Io prendo il ferro.» 175
«Magari non potrà aiutarmi.» Danning alzò le spalle. «Non è affar mio. È così che funziona da queste parti.» Il razziatore esitò. Il ferro di Smith rappresentava una fortuna per chiunque della Lega, sufficiente a sfamarlo per sei mesi o più. Se il taumaturgo non fosse stato in grado di aiutarlo, Mr. Nettle non vedeva per sé nessun futuro. E se invece Scatterclaw avesse potuto aiutarlo? Allora poteva aspettarsi un futuro anche peggiore. «Non posso decidere io per te», disse Danning. «Però mi sembra che a venire qui hai già corso un bel rischio.» Sorrise, ma non era un sorriso gentile. «Mr. Scatterclaw sa già che sei qui. E, se lo sa Mr. Scatterclaw, lo sa il Labirinto.» Mr. Nettle mollò la presa sul carretto. Danning piegò la testa di lato. «La porta di fianco alla finestra rossa.» Si spinse verso il carretto, agguantò le stanghe e si appoggiò le impugnature sulle larghe spalle. Poi si avviò con un grugnito per la stessa strada da dove era venuto, cigolando ora su sei ruote. Le impalcature ondeggiarono durante l'intera salita. Le corde ingrassate protestavano e le assi troppo morbide si curvavano sotto il suo peso, ma Mr. Nettle raggiunse senza incidenti la passerella superiore. Il canale del Varco della Cappella disegnava una curva allontanandosi giù in basso, le catene illuminate dalla luna che lo suddividevano in sottili strisce d'abisso. Di fianco alla porta, una luce rossa trapelava da una finestra sbilenca, e all'interno si scorgevano confuse sagome rossastre. Mr. Nettle nascose nell'ombra il proprio zaino e bussò. Una voce aspra emerse da dentro: «È qui. Nascondetevi». Il razziatore attese. Non voleva sapere con chi o cosa stesse parlando Thomas Scatterclaw. Iril aveva aperto diverse porte sul Ponte del Passero. «Abbiamo compagnia», urlò Scatterclaw. «Volete per caso spaventarlo a morte? Fuori dai piedi. Tutti quanti. Sparite!» Mr. Nettle rimase in ascolto alla porta per un bel po'. Non sentì altro. Niente passi, niente di niente. Senza sapere che fare, bussò un'altra volta. Una pausa e poi: «Avanti». La porta rivelò una parete di vetri rotti. Frammenti affilati come rasoi, di ogni forma e colore, erano stati incollati su un tramezzo di legno piazzato poco oltre la porta. Alto sui due metri e mezzo, il divisorio si allungava su 176
entrambi i lati a delimitare una grande sala, e dava origine a un lungo ingresso da cui si diramava una dozzina di corridoi che si inoltravano verso l'interno, delimitati anch'essi da pareti di vetri rotti. Una lanterna rossa pendeva dalle travi del soffitto, diffondendo una luce color sangue. Un labirinto? Il taumaturgo aveva eretto un tempio a Iril. Mr. Nettle entrò chiudendosi la porta alle spalle. Il corridoio era largo appena quanto gli bastava per avanzare di lato senza lacerarsi i vestiti contro i frammenti di vetro. A Deepgate qualunque forma di labirinto era proibita. I demoni di Iril traevano forza dai labirinti. Nemmeno due mesi prima un argentiere dei Chiostri era stato trascinato davanti all'Avulsore per aver fabbricato una spilla dal disegno così intricato, si era detto, da somigliare ai corridoi di Iril. Ma quello era un labirinto vero, solido e reale, fatto di legno e vetro. La Chiesa l'avrebbe bruciato sino alle fondamenta se l'avesse scoperto. Si incamminò verso la prima biforcazione. Se ne staccava un corridoio senza uscita, che si interrompeva cinque o sei metri più avanti. Da quello si dipartivano altri sei corridoi. Mr. Nettle chiamò ad alta voce: «Scatterclaw?» «Da questa parte.» Ma la voce sembrava provenire da tutte le direzioni. Mr. Nettle si infilò con attenzione nello stretto passaggio e proseguì circospetto, nel timore di perdersi. Su un lato notò un frammento di vetro a forma di falce, nero sotto la luce rossa, e cercò di imprimerselo nella memoria. Decise di svoltare alla terza a destra. Un altro corridoio, lungo almeno una dozzina di metri, da cui si staccavano altri passaggi. Il razziatore si accigliò. Visto dall'esterno, il Ponte del Passero non sembrava grande abbastanza da contenere tutto quello. Si guardò alle spalle, individuò il frammento a forma di falce, poi si strizzò a fatica fra le insidiose pareti di vetro e avanzò ancora di più verso il centro del labirinto. Qualcosa gli pizzicò una spalla e lui si fermò, sentendo un rivolo di sangue che gli scorreva lungo la schiena. «Fermi, fermi, fermi!» gridò Scatterclaw. «Restate dove siete, tutti quanti. Non si è ancora perso. Non ti sei perso, vero, razziatore?» «No.» «Allora prosegui.» Il sudore gli colava sulla fronte, ma non osava sollevare la mano per asciugarselo: c'era appena lo spazio per respirare, là dentro. Tirò indietro lo stomaco e riprese ad avanzare. Una nuova apertura portava a un altro cor177
ridoio, apparentemente due volte più lungo del precedente. Le pareti di vetro risplendevano nerastre. Non aveva senso: l'intera sala non poteva essere più grande di una ventina di metri per lato. Alzò lo sguardo e vide la lanterna rossa appesa al soffitto. Era sempre stata sopra la sua testa? Cominciava ad averne le tasche piene. «Scatterclaw!» urlò. «Non perdere tempo. Sanno dove sei.» «Chi?» Nessuna risposta. Mr. Nettle imprecò e riprese a muoversi. Svoltò a sinistra, proseguì per una cinquantina di passi, poi a destra. Quando guardò in alto, la lanterna era ancora sopra la sua testa, dritta in verticale. Accidenti al taumaturgo. Non bastava avergli pagato una fortuna in ferro, per poter parlare con quell'uomo? Doveva anche strisciare in quella trappola. Aveva una mezza idea di arrampicarsi su una parete e dare una bella occhiata dall'alto, o di usare la scure per buttare giù un bel po' di vetri. Ma non fece niente di tutto ciò. Thomas Scatterclaw non era il tipo d'uomo che volesse far infuriare. Si diceva che fosse venuto attraverso il Mar Giallo, proveniente da un posto dove adoravano Iril. Dicevano che fosse arrivato centoquaranta anni prima e che allora il suo corpo fosse grigio e scarno. Si diceva che si fosse perforato labbra, occhi e orecchie con schegge di legno di un patibolo, per poter parlare con i demoni, e che avesse dei chiodi piantati nella spina dorsale per impedirsi di contemplare il paradiso quando dormiva. Il razziatore attese per una dozzina di respiri, e poi proseguì. A sinistra e poi ancora a sinistra. Venti passi. A destra. Dieci passi, di nuovo a destra. Sempre gli stessi corridoi perfidamente diritti, sempre la stessa lanterna color sangue sopra la testa. Lo avevano giocato? Avrebbe passato il resto dei suoi giorni là dentro? Continuò a vagare per quelle che gli sembrarono ore, corridoio dopo corridoio, col vetro a pochi centimetri dal petto e a pochi centimetri dalla schiena. Alla fine si fermò. Dieci passi più avanti c'era un'apertura sulla parete di sinistra. Ma non portava a un altro corridoio, si apriva in uno spazio più ampio. Persino da dove si trovava poteva vedere un altro divisorio poco più indietro, ma questa volta era una parete senza vetri. Mr. Nettle si avvicinò con cautela. Thomas Scatterclaw sedeva a gambe incrociate a cinque o sei metri di distanza, al centro di uno spazio quadrato che somigliava a una scatola, de178
limitato da divisori. Una veste rosso scuro con cappuccio lo nascondeva completamente, ma a Mr. Nettle sembrò di vedere delle protuberanze che sollevavano la stoffa sulla schiena, dove non avrebbe dovuto esserci nessuna protuberanza. Sul pavimento davanti a lui c'erano un coltello da cucina arrugginito e una semplice ciotola sbeccata. La ciotola era piena di sangue. Mr. Nettle grugnì: «Sei tu il taumaturgo?» «Prendi il coltello e apriti una vena», disse Thomas Scatterclaw senza sollevare lo sguardo. «Aggiungi il tuo sangue a questo... al sangue morto.» «Perché?» «Fallo subito.» «Non sai cosa voglio.» «No», disse Scatterclaw. «Ma Iril lo sa. Adesso sbrigati, ci sono dei demoni qui dentro.» Mr. Nettle si guardò attorno. Nient'altro che i divisori di legno sfibrato. Nemmeno un rumore, uno scricchiolio del legno, il taumaturgo stava cercando di innervosirlo. «Subito!» ringhiò Scatterclaw. Mr. Nettle prese il coltello e, senza pensarci oltre, si incise il dorso della mano, dietro il pollice. Il sangue sgorgò e cominciò a scorrergli sulla mano. «Nella ciotola», disse Scatterclaw. «Presto.» Mr. Nettle fece come gli era stato detto. Il prete di Iril sembrò rabbrividire sotto la veste. Si chinò in avanti, raccolse la ciotola e Mr. Nettle vide che le sue mani erano nere e nodose come se fossero ustionate, le dita contorte e aggrovigliate come un intrico di radici. Anche quello se l'era fatto da solo? Scatterclaw inclinò la ciotola sotto il cappuccio, e bevve. Disgustato, il razziatore guardò l'uomo che svuotava la ciotola e poi la rimetteva sul pavimento. «Non chiudere gli occhi», disse Scatterclaw. «Neppure per un istante, hai capito? Mai per più di un battito di ciglia. Ti entrano attraverso gli occhi, ma solo se non puoi vederli. Cercheranno di insinuarsi, di ingannarti. Se entrano in te non lascerai più questo labirinto. Rimarrai intrappolato qui dentro finché non verrà Iril a prenderti.» «Chi?» «I Non Morai.» 179
Mr. Nettle si guardò di nuovo attorno, nervoso. «Se osservi con sufficiente attenzione li vedrai», proseguì Scatterclaw. «E ti consiglio di osservare con molta attenzione. Sii grato che non sia buio, perché l'oscurità li rende più audaci. Tutto quel macello sull'Isola dell'Ingranaggio è stato provocato dai Non Morai di notte. Le porte dell'inferno li attirano come mosche.» La luce nella stanza sembrò addensarsi, finché a Mr. Nettle non parve di guardare attraverso un velo rosso. Pareti e pavimento e travi diventarono di un rosso così scuro da sembrare quasi nero. Sentì un movimento alle sue spalle e si voltò. Niente. Sentiva un odore come di carne in decomposizione. Vide muoversi qualcosa con la coda dell'occhio, come se cercasse di avvicinarsi inosservato, ma quando si girò a guardare non c'era nulla. Eppure in quello spazio vuoto percepiva un'atmosfera di malvagità così opprimente da fargli accelerare le pulsazioni. Thomas Scatterclaw fece qualche respiro lento e profondo, poi cominciò a parlare con una voce impastata che non era la sua. «Quanti siete qui?» Alle sue spalle, Mr. Nettle sentì un coro di bisbigli. Undici. Si voltò a guardare, non vide niente. «È un'anima vivente», disse Scatterclaw. Nostra, sibilarono le voci. Thomas Scatterclaw, o qualunque cosa si fosse impadronita di lui, rimase in silenzio a lungo, poi il cappuccio si voltò verso Mr. Nettle. «Tua figlia non è con noi. È un vivente che l'ha presa.» I pugni del razziatore si contrassero. «Chi?» «È malato. Hafe lo reclama.» «Hafe?» «L'inferno del quarto angelo. Stanze di sozzure e veleni. Spettri verdi, celle di tortura e fiori.» Mr. Nettle aggrottò la fronte. Sospettava che il Labirinto stesse cercando di confonderlo. Era sempre così con Iril. «Chi è?» Le voci gli sciamarono attorno. Chiudi gli occhi. Lasciaci entrare e te lo diremo. Per un istante fu sul punto di obbedire. Chiudere gli occhi e far entrare le voci gli sembrava la cosa più naturale. Ma una parte di lui oppose resistenza. «Chi è?» Le voci sibilarono e ringhiarono. 180
Thomas Scatterclaw disse: «Devon». *** Il fumo si levava dagli incensieri attorno al Pozzo dei Peccatori e aleggiava come una cappa fragrante tra le teste recise. Nove delle venti picche erano occupate: sei uomini, due donne, un bambino. Cartelli di legno li proclamavano bestemmiatori, adoratori di Iril o spie Heshette. Tutti catturati dalla Spina e condotti al cospetto di Ichin Samuel Tell per essere redenti davanti alla folla. I loro corpi, ancora sanguinanti, erano stati gettati nell'abisso; le teste conservate come monito dell'efficienza della Spina. Fogwill osservava la scena con occhi lacrimosi e respirava attraverso le pieghe della manica. Il suo uomo era lì? Era in ritardo? Poi vide nell'ombra la brace di una pipa, che illuminava un volto sottile e striato di sudicio, subito inghiottito dalle tenebre. Fogwill si avvicinò alla sua spia. «Buona sera, coadiutore», lo salutò l'uomo. «Qualche novità?» chiese Fogwill. «No. Lavori fino a tardi, come sempre.» «Sei riuscito a uscire senza problemi?» L'uomo succhiò la pipa fino a illuminare una fila di denti sottili, zigomi ossuti e un mento affilato come una lama. «Sono uscito a farmi una fumatina, ecco tutto. Una buona metà degli operai fa lo stesso.» Sorrise. «Chi vuoi che me lo impedisca? Il capoofficina? Ha paura di me. Ho ancora il mio coltello, e gli altri lo sanno.» Fogwill diede un'occhiata alla testa più vicina. I corvi avevano già strappato gli occhi e le labbra della donna. Fece una smorfia. «Perché ci siamo dovuti incontrare qui? Detesto questo posto.» «A me piace.» Il fumo indugiava fra i denti della spia. «Le teste mi raccontano delle cose.» Fogwill tentò di deglutire, ma aveva la gola troppo secca. Quell'uomo era pazzo. «Quali cose?» chiese malgrado tutto. «Cose segrete», rispose la spia. «Qui è stato versato del sangue», disse il coadiutore. «È pericoloso. Dio solo sa cosa possa aggirarsi qui attorno.» «Gli incensieri sono benedetti.» «La prudenza non è mai troppa.» Fogwill percepì un movimento e si voltò. Una forma scura, simile a un cane ma molto più grande, scivolò via fra le catene. «Guarda, l'hai visto? Cos'era? Un'apparizione?» 181
La spia alzò le spalle, e Fogwill trovò quel gesto sconcertante. Quell'uomo un tempo era stato una Spina: non un adepto, ma un semplice sicario. Aveva ancora i segni degli aghi sul collo, a testimoniare il tentativo di temprarlo dei maestri della Spina. Ma quelle tracce erano evidenziate dai nodi tatuati, la macchia indelebile del fallimento. Un caso che si verificava spesso, perché non sempre la tempratura aveva successo. A volte, le menti semplicemente si spezzavano. Espulsi dal santuario del tempio, gli assassini falliti non sopravvivevano a lungo. La società li emarginava, ed era soltanto questione di tempo prima che qualche tagliagole particolarmente ricco di ingegno e povero di morale, avesse qualcosa da ridire su di loro. «Non hai saputo niente dal razziatore?» chiese la spia. «Sua figlia è scomparsa vicino alla Falce, nella Depressione. I lividi indicano che non è opera di Carnival.» «Indizi.» L'assassino aspirò. «Vuoi che continui?» Fogwill annuì. «E se non trovo niente?» «Vieni a riferirmi domattina.» «E se invece trovo qualcosa?» Fogwill esitò. «Conosci la volontà di dio.» Ecco fatto, le parole erano state pronunciate, semplici e chiare. Ho appena decretato un omicidio. *** Qualunque cosa avesse posseduto Thomas Scatterclaw, adesso se n'era andata, lasciandolo afflosciato e privo di sensi. Le voci del labirinto stavano invece crescendo, più audaci. Perché non chiudi gli occhi? Solo un momento. La luce è così forte. In effetti la stanza si era rischiarata, quasi dolorosamente, ma Mr. Nettle non aveva il minimo desiderio di chiudere gli occhi. La rabbia gli dava la forza di ignorare i demoni, sempre ammesso che fossero demoni. Devon aveva ucciso Abigail. Devon era mortale, poteva soffrire. Quale forma di sofferenza, il razziatore non l'aveva deciso, non ancora. Ma avrebbe fatto in modo che l'Avvelenatore urlasse e supplicasse per aver salva la vita, prima che quella notte finisse. Noi possiamo aiutarti. Chiudi gli occhi. Oppure spacca la lanterna. Sì, 182
frantumala. Se è buio possiamo aiutarti. «Piantatela!» Doveva pensare. Era ancora intrappolato nel labirinto del taumaturgo e non sapeva proprio come uscire da lì. Non gli sorrideva l'idea di infilarsi di nuovo tra le pareti di vetro in frantumi con quei demoni alle calcagna. Meglio se avesse trovato un'altra via. C'è un'altra strada. Una strada sicura. Rompi la lanterna e te le mostreremo. Mr. Nettle osservò la stanza. Le travi del soffitto erano troppo in alto per raggiungerle, e le assi del pavimento sembravano troppo solide per poterle sfondare. Forse avrebbe potuto scalare le pareti divisorie e muoversi sulla loro sommità per raggiungere i margini della stanza? Si maledisse per aver lasciato fuori lo zaino. Qualcosa di freddo gli sfiorò una mano. Menò un colpo alla cieca. Nient'altro che l'aria. Le voci vorticavano attorno a lui, sghignazzando. Mr. Nettle si voltò lentamente. Movimento ovunque, ma non riuscì mai ad avere una visione precisa di cos'era che si muoveva, come se l'aria ribollisse attorno a sagome indistinte. Ombre che smettevano d'essere ombre non appena le guardava; figure che evaporavano, diventavano parte della trama della parete. Sulla sua testa, la luce della lanterna ammiccò e diminuì, e in quel breve istante Mr. Nettle colse una rapida visione: uomini sottili con i volti bianchi e i sogghigni rossi, che lo accerchiavano. Corse verso la parete più vicina, si afferrò alla cima e si issò. Il vetro gli morse le dita: il lato opposto del divisorio di legno era perfidamente acuminato. Sollevò un ginocchio e si accovacciò in cima al divisorio. Ora il labirinto sembrava più piccolo di quanto gli fosse apparso dal basso, non più di una quindicina di metri per lato, ma la sua complessità lo lasciò stupefatto. Stretti corridoi si accalcavano l'uno sull'altro, in tutte le direzioni. Percorsi a spirale quadra, a forma di L e di S. Innumerevoli tratti senza uscita. Tutti orlati di vetro color sangue. A venti passi di distanza c'era la porta da cui era entrato, e di fianco alla porta l'unica finestra della stanza. Se faceva attenzione, poteva raggiungerla passando sopra il labirinto. Si alzò lentamente: la sommità del divisorio era larga appena cinque centimetri. Non vale, ulularono le voci. Non vale, non vale, non vale. 183
Mr. Nettle fece un passo raggiungendo la parete successiva, e ondeggiò per un attimo. Avvertì il soffio dell'aria, che lo spingeva, come se cercasse di farlo cadere, e allargò le braccia. Per diversi istanti rimase lì con le ginocchia tremanti, certo di esser sul punto di cadere. Ma riuscì a recuperare l'equilibrio. Un profondo respiro, e poi un altro passo. Il divisorio gemette e ondeggiò, e gli si torsero le budella. Il cuore gli batteva forte. Il labirinto di vetro scintillò sotto di lui, come muri irti di denti che sogghignavano, lucidi di saliva. Non vale, non vale, non vale. La furia dei demoni era palpabile. Respiri gelidi gli accarezzarono il viso. Creature invisibili gli si agitarono attorno. Avanzò sul divisorio successivo. Il legno scricchiolò, ma tenne. Per un terribile istante, Mr. Nettle ondeggiò pericolosamente. I corridoi di vetro si agitarono e s'inclinarono. Un altro passo. Ancora uno. Era a metà strada quando la lanterna si spense, facendo piombare la stanza nell'oscurità.
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14 DUE ASSASSINI
Bussarono alla porta del laboratorio. Devon chiuse di scatto la gabbia dei topi e sollevò la maschera che portava. «E adesso che c'è?» Un chimico infilò dentro la testa, nervoso. «Mi scusi, signore, avevamo bisogno di sapere se vuole sempre svuotare stasera i serbatoi dell'etere. C'è una nave in arrivo dalle Piantagioni domani mattina Se svuotiamo i serbatoi bisognerà poi ricalibrarli, e la nave dovrà aspettare buona parte della giornata prima che siamo in grado di rifornirla.» «Nave da trasporto o della Chiesa?» «Della Chiesa.» «Svuotate i serbatoi.» «E la nave?» «La nave può anche aspettare. Non voglio altre interruzioni, stasera.» «Molto bene, signore.» Il chimico sgattaiolò via. L'Avvelenatore tornò alla gabbia e si chinò a osservare il topo che correva all'interno. Dal taschino del panciotto pescò una fialetta e l'agitò, studiando il liquido rosato che conteneva. Si risistemò la maschera, aprì la fiala e fece cadere con attenzione una goccia di liquido in una pipetta. La mescolò poi con un cucchiaio di miele dentro un piattino, che infilò nella gabbia. Il topo arrivò di corsa e cominciò a leccare il composto. Devon lo osservò con ansia. Quando fu tutto finito studiò per qualche minuto il topo. Nessuna variazione apprezzabile nel suo comportamento. «Adesso temo che dovrò farti un po' male», mormorò afferrando un bisturi. Tenne la lama sopra il topo, seguendolo pazientemente mentre saltellava in giro per la gabbia. Poi glielo affondò nella schiena. Il topo squittì e si dimenò per liberarsi, ma Devon tenne il bisturi ben fermo, bloccando l'animaletto finché non smise di lottare, poi lo estrasse e lo infilò in un becher pieno d'alcol. Devon attese, il respiro affannoso dietro la maschera. Trascorsero i mi185
nuti. Il topo sussultò una volta, e del sangue colò dalla ferita. Poi più nulla. Devon gli infilò un dito sotto il ventre e lo fece rotolare a pancia in su. L'animale era morto. L'Avvelenatore sospirò pesantemente. Si tolse la maschera e la lasciò cadere sul bancone. Gli prudeva la faccia, e aveva i capelli arruffati sopra le orecchie. Con attenzione, si sfilò gli occhiali e li ripulì prima di inforcarli di nuovo. Guardò un'altra volta il topo morto nella gabbia. Continuava a essere un topo morto in una gabbia. L'Avvelenatore si lasciò andare sullo sgabello. Per quel giorno poteva bastare. Si sentiva esausto, e doveva ancora ripulire il suo studio. In quel periodo era sempre stanco. Nel corso degli anni si era scoperto ad andare a letto sempre prima e alzarsi sempre più presto, già stanchissimo prima ancora di cominciare la giornata. Il suo stesso corpo gli sembrava sempre più pesante, ogni faccenda sempre più faticosa. La stanchezza poteva anche sopportarla, ma il dolore... Certe notti Devon si svegliava in preda agli spasmi, si artigliava il petto come se respirasse schegge di vetro. Le ferite gli sanguinavano di continuo. Veleni, combustibili e solfati delle Cucine dei Veleni gli erano penetrati nella carne e gli avevano riempito le ossa come piombo. Il suo corpo non era più in grado di assorbirne. Stava morendo. Il salvatore di Deepgate... avvelenato e lasciato marcire dalla gente che ho salvato. E per che cosa? La plebaglia mi disprezza, i miei stessi chimici mi disprezzano. La Chiesa mi disprezza per quello che ho fatto per loro. Chi è questa gente? Gente la cui salvezza è stata pagata con la mia sofferenza. Dalla sofferenza della mia Elizabeth. Eppure continuo a sopportare tutto questo dolore affinché loro possano sopravvivermi. Quell'ipocrisia suscitò la sua rabbia. A Deepgate tutti aspettavano di morire. Tranne Devon. Non si meritavano la loro vita, eppure prendevano la sua. Ma non era ancora spacciato. Si sarebbe ripreso ciò che gli avevano rubato, e anche di più. Ci volevano soltanto tredici anime per dare potenza al vino d'angelo. Ce ne fossero anche volute mille, Devon le avrebbe strappate alla città senza la minima esitazione. Deepgate glielo doveva. Immaginava che fosse stato imprudente da parte sua lasciare il corpo della ragazza nel suo appartamento, ma non aveva intenzione di avventurarsi fuori nella Notte dello Sfregio, e quella mattina gli era mancata la forza necessaria per rimuovere il cadavere. La prospettiva di doversi caricare 186
quel corpo addosso lo faceva sentire ancora più stanco. Si sarebbe limitato a gettarla nella prima apertura sopra l'abisso che gli fosse capitata a tiro, e poi si sarebbe preparato qualcosa per cena. Negli ultimi tempi non si era nutrito a sufficienza. Una buona cena gli avrebbe fatto bene: magari una bistecca con patate alla menta. Prese il barattolo di miele dal bancone, ripulì qualche goccia di sangue di topo, e se lo cacciò in tasca... frittelle col miele per dessert. Per evitare qualunque possibile contatto con i chimici, Devon se ne andò da una delle uscite posteriori. Gli operai entravano e uscivano dalla porta trascinando i piedi, in fila, avvicendandosi alle fornaci. Facce stanche annerite dalla fuliggine, facce rosse e fresche, e già scoraggiate. Con disappunto, Devon vide un gruppo di chimici sotto il lampione della torre dell'orologio. Sopra le loro teste, l'orologio batté la mezzanotte con un rintocco metallico. Riconobbe Danderport, uno zelante rompiscatole sempre allegro, dalle labbra perennemente umide e con le dita sempre in movimento, impegnato in una vivace discussione con un operaio lubrificatore grinzoso e coperto di zolfo. Danderport gli fece segno di avvicinarsi. «Signore, vorrei la sua opinione, per favore.» «Che c'è?» disse seccato. «Il Dente, signore.» «E allora?» Danderport sfoderò un debole sorriso, le dita in movimento. «Gli aeronauti dell'Adraki l'hanno osservato da vicino durante l'inseguimento della Skylark, mentre giravano attorno a Trononero. Ci stavamo chiedendo se lei aveva qualche opinione in merito alla tecnica della sua costruzione. La mia teoria è che il materiale dell'involucro dev'essere stato creato artificialmente in laboratorio. Ma Brent, qui, non è d'accordo.» Devon ci rifletté. Il Dente di dio, come lo chiamavano i preti, sembrava troppo pesante per essersi mai spostato senza sprofondare nelle Sabbiemorte. Eppure una volta si era mosso. In alcune zone del deserto si vedevano ancora a tratti le profonde tracce che solcavano il terreno, e svanivano sotto le sabbie in movimento per ricomparire poi dopo anni. I materiali usati per costruirlo, qualunque fossero, erano di gran lunga più leggeri e robusti di quelli a loro familiari. «È possibile», concesse. «Signore, crede che prima o poi sarà possibile effettuare un'ispezione 187
più da vicino del Dente?» La voce di Danderport era esitante. «Solo un'ispezione. Non toccheremmo niente.» L'Avvelenatore si schiarì rumorosamente la voce. «Se Sypes acconsente, ve lo farò sapere.» Il viso di Danderport si afflosciò per un attimo, prima che si rituffasse nella sua discussione. Gli impegni di Devon lo reclamarono. Lasciò i chimici a rimestare nella brodaglia delle teorie di Danderport e attraversò il cortile e i cancelli. Era tardi, era stanco, e doveva liberarsi di un cadavere prima di cena. *** Nel buio Mr. Nettle continuò a tenersi in equilibrio sulla sommità larga cinque centimetri della parete divisoria. Non poteva muoversi, non riusciva a vedere il divisorio successivo né il labirinto di vetri rotti sotto di lui. Però avvertiva sagome invisibili che gli vorticavano attorno e percepiva la loro rabbia, come una tempesta imprigionata dentro una bottiglia. Senza neppure toccarlo, i Non Morai lo tiravano da tutte le parti. Chiudi gli occhi. Chiudi gli occhi. Chiudi gli occhi. «Fuori dai piedi!» grugnì. Estrasse la scure dalla cintura e menò colpi a vuoto nell'aria. Il divisorio ondeggiò e lui quasi perse l'equilibrio. I demoni stridettero: Chiudi gli occhi! Lasciaci entrare! Li vedeva solo quando non cercava di guardarli, sempre con la coda dell'occhio. Vaghe sagome nere, più scure dell'oscurità che lo circondava. Lampi di lunghe zanne rosse e lunghe dita bianche. Artigli affilati. Ogni volta che cercava di vederli meglio sparivano, come furiosi per le sue occhiate. Ruotava freneticamente la testa, cercando di localizzarli. Erano dappertutto contemporaneamente, eppure in nessun punto preciso, e si muovevano così veloci che non era mai sicuro di aver visto davvero qualcosa. Adesso che i suoi occhi si stavano abituando al buio, osservò la finestra sulla parete di fondo, un rettangolo grigio indistinto, e il bordo superiore del divisorio che aveva davanti, ma avrebbe dovuto calcolare le distanze a memoria. Se avesse sbagliato, sarebbe precipitato nel labirinto, e senza la lanterna ci sarebbe probabilmente rimasto per sempre. Qualcosa gli sfiorò la nuca. Mr. Nettle sussultò e si voltò di scatto. Le ombre palpitavano come uno sciame di scarabei, e sibilavano. Chiudi gli occhi. Resta con noi. 188
Col cavolo. Il razziatore si rimise la scure nella cintura e fece un passo nel vuoto. La suola dello stivale trovò qualcosa di solido. Per un attimo rimase in equilibrio con un piede su ciascun divisorio, poi attraversò. Lasciaci entrare! Adesso riusciva a distinguere qualche vaga traccia: la sommità di due o tre divisori, quelli più vicini alla finestra. Il vetro risplendeva più in basso. Però doveva prima attraversare almeno sei metri di oscurità profonda quanto il canale del Varco della Cappella. Come faceva anche solo a sapere se c'era un altro divisorio che corresse parallelo a quello su cui stava? O se sarebbe finito nello spazio vuoto in cui due corridoi si incrociavano, piombando a capofitto fra due pareti di vetro? E, se fosse caduto, avrebbe chiuso gli occhi d'istinto? Non c'è pericolo per te, cantilenarono i Non Morai. Noi vogliamo aiutarti. Se cerchi di attraversare qui cadrai. Fai un passo a sinistra. È più sicuro. L'ultima cosa di cui aveva bisogno era che loro gli dicessero dove passare. Fece un altro passo. Non c'era niente sotto il suo piede. Cadde. I vetri gli affondarono profondamente nelle spalle e nelle braccia, lacerando la carne. Sbatté la mascella sul pavimento, con una botta che gli fece uscire tutta l'aria dai polmoni. Non riuscì a evitarlo: chiuse gli occhi per un istante. Fu sufficiente. Mr. Nettle riaprì gli occhi di scatto ma era già troppo tardi. Sentì che qualcosa entrava a forza dentro di lui, come se dell'acqua stagnante gli invadesse i polmoni. Ne sentiva persino il sapore, di paludi immobili ed erbacce morte. Artigliò l'aria davanti a sé, cercò di tirar via qualunque cosa avesse di fronte. Ma non c'era niente. Il liquido rancido gli riempì la gola e i polmoni. Mr. Nettle cercò di vomitare, tossì, lottò in cerca d'aria. Il terrore si impadronì di lui: schizzò in piedi e si mise a correre. Le pareti di vetro gli lacerarono le spalle. Correva alla cieca, incapace di respirare. Mr. Nettle sapeva di essere un vigliacco. Lo era sempre stato. Lo sapeva da quando suo padre, un omone con le dita macchiate di tabacco, lo aveva tenuto sospeso per la collottola oltre il bordo del Ponte delle Nove 189
Funi, sopra l'oscurità. Ci sono delle bottiglie laggiù. Aveva cinque anni e non sapeva che ci fosse una rete. Aveva supplicato il suo vecchio di non lasciarlo andare. Subito dopo stava cadendo. Poi venne la rete. Era rimasto disteso là sopra per un'eternità, a singhiozzare aggrappato alle maglie di canapa e, quando le lacrime si erano infine fermate, si era messo a razzolare in giro alla ricerca delle bottiglie. Non ce n'erano. Non c'era mai stata nessuna bottiglia, sibilarono i Non Morai imitando la voce del vecchio. Credeva che la rete fosse fragile e rovinata. Mr. Nettle sperimentò lo stesso terrore di allora: una paura cieca che gli invadeva il cuore e i polmoni. Avanzò pesantemente lungo il corridoio, mentre le schegge acuminate gli mordevano incessantemente la carne. Il sangue gli scorreva sulle braccia, ma non gliene importava, respirava a fatica, non riusciva a pensare. Stava per morire. Andò a sbattere contro una parete. Frammenti di vetro gli si frantumarono sotto le mani, le spalle, il petto. Ruggì per il dolore, arretrò, e si gettò di nuovo contro la parete. Il tempio di Iril tremò. Il divisorio cadde, infrangendosi contro quello successivo. Poi si arrampicò sulla parete di vetro inclinata, la superò. Dalla cima vide la finestra, ad appena tre metri di distanza. Saltò, ma ricadde troppo presto. Gettò le braccia sulla sommità del divisorio seguente; stavolta le schegge gli penetrarono a fondo nelle ginocchia. Si issò e si catapultò dall'altra parte. La finestra era davanti a lui. No! Un vortice di urla, i Non Morai gli artigliavano la pelle sanguinante con un tocco di pioggia gelida. Non vale! Non puoi lasciare il labirinto! Non oserai! Dimenticata ormai la porta, Mr. Nettle si tuffò attraverso la finestra. Ricadde sull'impalcatura esterna in una pioggia di vetri. L'intera struttura gemette, sussultò e ondeggiò verso l'esterno, sopra il canale del Varco. Dei vetri tintinnarono sulle catene sottostanti. Mr. Nettle giacque immobile per una dozzina di pulsazioni, senza osare muoversi né respirare. Poi, lentamente, la pressione nel suo petto si affievolì, sentì i polmoni che si svuotavano e la gola che si allentava. Il sapore di stantio che aveva in bocca svanì. Sputò freneticamente... e respirò. Ogni centimetro del suo corpo era tagliuzzato, aveva gli abiti a brandel190
li, la pelle delle mani lacerata. Ma si alzò come un uomo appena liberato da pesanti catene, e guardò arcigno oltre il Varco della Cappella, dove le fiamme delle Cucine dei Veleni ruggivano sotto il sorriso di una luna benigna. *** Il tanfo di sangue che regnava nell'appartamento costrinse Devon a spalancare una finestra. Avrebbe dovuto liberarsi del cadavere e arieggiare la stanza, se voleva godersi la cena. Da uno sgabuzzino prese uno dei sacchi che teneva proprio per quello scopo. Ne erano rimasti meno di una dozzina, e si fece un appunto mentale di farsene dare degli altri. Dopo aver ripulito l'alloggio, se ne sarebbe fatto portare qualcuno dai suoi uomini. Poi avrebbe dovuto esaminare di nuovo i documenti anagrafici del tempio, trovare qualcuno che non avesse famiglia. Ormai prosciugato dei suoi fluidi, il corpo della ragazza era relativamente leggero, così non incontrò troppe difficoltà nell'infilarlo nel sacco. Per un attimo si chiese se non fosse il caso di liberarsene un po' più lontano del solito. C'erano posti privi di reti, dove l'abisso avrebbe ingoiato ogni prova per sempre. No, Devon voleva che i corpi venissero trovati. Voleva che il presbitero, se era lui ad averlo aiutato, vedesse i risultati del suo intervento. Hai visto a cosa sto lavorando? Lo approvi? Gli dava piacere il pensiero della silenziosa riluttanza del vecchio. Uccidere non era facile, nemmeno per un uomo come Devon. Nonostante la purezza delle sue motivazioni, riteneva l'omicidio faticoso e sgradevole, persino volgare. Deepgate lo aveva ridotto a quello, a un comune tagliagole, e la città aveva perciò l'obbligo di condividere con lui il fardello che gli aveva imposto. Ma più di tutto voleva che Sypes mettesse fine a quell'insopportabile silenzio. Cosa sperava di guadagnare il vecchio dall'opera di Devon? Potere? Immortalità? Pensava forse che Devon sarebbe stato così pronto a condividere i frutti delle proprie fatiche? Possibile che abbia tanta paura della morte? Oppure c'è qualcosa di più? L'Avvelenatore si strofinò gli occhi. Senza dubbio avrebbe presto scoperto la risposta. Per il momento, aveva un cadavere di cui liberarsi, ed era davvero stanco e affamato per spingersi troppo lontano. Ma la parte più prudente di lui si intromise: perché attirare l'attenzione 191
su di sé? Se fosse stato pubblicamente smascherato come ladro d'anime, nessuno avrebbe potuto proteggerlo. La Spina l'avrebbe fatto penzolare dal patibolo dell'Avulsore. Raggiunse un compromesso: avrebbe nascosto il corpo a una certa distanza. Prima finiva il lavoro, prima si sarebbe potuto concedere la cena. Palazzi in rovina affollavano le tenebre. Qualunque direzione scegliesse, avrebbe dovuto trasportare il corpo in salita. Vent'anni prima quella zona brulicava di attività industriali, ma col passare degli anni il semplice peso delle fabbriche, delle fonderie e dei magazzini aveva provocato una serie di cedimenti in seguito ai quali il quartiere aveva cominciato ad avvallarsi verso il centro. Per molto tempo si erano susseguiti gli interventi di riparazione per mantenere gli edifici in orizzontale, ma ormai non c'era più molto che si potesse fare per le catene trasversali di sostegno ormai troppo sforzate, che avevano provocato il cedimento. A ovest, lungo l'asse laterale della Depressione - così si chiamava ormai il quartiere - la voragine dell'abisso disegnava una curva allontanandosi dalle Cucine dei Veleni e dagli adiacenti cantieri navali. Coloro che vi lavoravano l'avevano chiamata la Falce, per la sua forma a mezzaluna. L'estremità più sottile partiva dal Mulino di Drake, dalle parti della trentatreesima catena, si allargava fino a un'ampiezza capace di accogliere un'aeronave dalle parti del Muro di Cotter e delle Buche del Salto, dove le reti erano state danneggiate dai suicidi. Da lì la spaccatura superava il Varco della Cappella, dove un tempo si lavorava il gas illuminante, i Rivetti di Rin, le Camere dei Tessitori e la voragine dove un tempo era sorta la taverna della Cisterna, fino a raggiungere le Cucine dei Veleni nel suo punto di massima ampiezza. Lì sfiorava i piloni d'attracco dei cantieri principali, tra cui l'ormeggio di Coulter, ancora carbonizzato e contorto da quando l'aeronave della flotta della Chiesa, l'Ataler, era andata a fuoco cinque anni prima. I martelli della Metalli rari Samuel North risuonavano più indietro, coprendo la pulsazione continua delle fonderie, delle fornaci e dei laboratori dei vasai. La Falce si assottigliava nuovamente verso la Breccia, mai riparata da quando una catena secondaria si era spezzata squarciando nettamente in due un negozio di terrecotte e uccidendo sessantatré uomini. Terminava poi verso la quarantasettesima catena, la Catena di Mesa, ingoiata fra le baracche degli operai che crescevano come funghi attorno ai suoi bordi. Un tempo la Depressione vibrava per il rombo e i sibili delle navi della Chiesa, da trasporto e da guerra, le grida degli scaricatori, degli addetti ai 192
verricelli e dei manovali, che sovrastavano l'urlo dei cavi in tensione. Ma ormai giaceva immobile, sbriciolandosi in silenzio. A qualche isolato più all'interno rispetto alla spaccatura, lo stesso appartamento in cui viveva Devon era la ristrutturazione dall'ultimo piano di quello che una volta era il Deposito di Rhak e Whisky Crossop. Per quanto non fosse mai stata una di quelle aziende di primo piano che di solito ottenevano le posizioni migliori sul fronte del porto, ai suoi tempi era comunque un'attività redditizia, e l'edificio restava tuttora imponente. Per via della sua posizione praticamente al centro della Depressione, non aveva subito ulteriori inclinazioni durante i successivi cedimenti, ed era stato sufficiente aggiungere qualche blocco alle pulegge che ne sostenevano il peso. Il vecchio Crossop aveva assistito al declino, in tal caso letterale, delle attività circostanti, fino a rimanere uno tra gli ultimi, e poi decisamente l'ultimo. Alla fine le navi mercantili avevano smesso di attraccare da quella parte della Falce e lui era rimasto isolato dai suoi fornitori. Era stato costretto a vendere, a un prezzo così basso da borbottare col cuore stretto dall'angoscia. Le pur misere rimanenze gli avevano comunque fruttato più del prezzo totale dell'edificio. Devon aveva comprato anche quelle. Di tanto in tanto non gli dispiaceva farsi un bicchierino di Rhak. Devon aveva comprato il palazzo una quindicina d'anni prima, e persino allora era l'unica costruzione abitabile per diversi isolati. Nessuna finestra si apriva sulle sue facciate, porte d'acciaio da un centimetro tenevano alla larga gli intrusi e le solide mura smorzavano tutti i rumori provenienti dall'interno, per quanto non ci fosse più nessuno a sentirli. Per l'Avvelenatore era il posto ideale per viverci. Però, in qualunque direzione si muovesse, le strade erano in salita, e doveva quindi fare una scelta. Utilizzare i moli d'attracco per liberarsi del cadavere significava dover lanciare il corpo in modo da evitare i cinque o sei metri di rete sottostante oppure affrontare la pericolosa scalata di una gru d'attracco, e nessuna delle due prospettive lo attirava. C'era anche la possibilità che qualcuno lo vedesse da una delle case affollate sulla riva opposta della Falce. Gli venne in mente un posto più vicino. Prima di aver raggiunto la sommità della collina, Devon aveva il torace in fiamme. Si accasciò senza fiato, schiacciato dal cadavere che gli sembrava adesso così pesante. Quei dolori erano peggiorati negli ultimi tempi, e l'acido gli ribolliva nei polmoni. Sputò, e vide che c'era sangue nella saliva. 193
Nelle Cucine dei Veleni stavano svuotando i serbatoi di etere, e le fiammate erompevano come fiori argentati, illuminando i mattoni e il ferro e i piatti tetti incatramati della Depressione. La cenere eruttata dalle lontane ciminiere arrivava fino alla sua posizione, fluttuando come fiocchi di neve. La maggior parte delle persone avrebbe considerato sgradevole quell'aria, ma Devon ormai ci si era abituato: la combustione dei gas e degli oli minerali aveva l'aroma del progresso, grezzo e concentrato, un odore che poteva significare potere. Non potere, catene. Gli venne voglia di urlarlo alla città. Lo vedete come mi avete ridotto? Il sacrificio che ho compiuto per mantenervi al sicuro... Ve ne importa qualcosa? Batté il pugno contro il corpo della ragazza. Non siete altro che morti che camminano. Tutti quanti. Cadaveri da gettare nell'abisso. Sono l'unico vivo in questa città, e mi uccidete lentamente. Ecco di che si trattava: omicidio. Deepgate stava cercando di ucciderlo. Devon sputò di nuovo e rimase a fissare la propria saliva insanguinata. Omicidio? Gliel'avrebbe fatto vedere lui, come si uccide. In fondo all'isolato un ponte di carico superava il varco tra la fonderia Blacklock, con la sua solitaria ciminiera pendente, e le arcate in ritirata che collegavano il laboratorio di follatura Smithport con i suoi magazzini. Sotto c'erano le reti, ma erano abbastanza in profondità. Considerò l'idea di tagliarle, però la discesa gli sembrò troppo faticosa. Sono troppo stanco per farlo. Di giorno l'ombra del ponte avrebbe nascosto il sacco e ci sarebbero stati ben pochi passanti, sempre che ce ne fossero, che avrebbero potuto sentire l'odore. I razziatori non lavoravano più nella Depressione: le reti erano state ormai ripulite da lungo tempo. Devon issò il sacco sulla ringhiera arrugginita e lo lasciò cadere dall'altra parte. Un gemito della rete, più in basso. Per un lungo momento rimase a fissare l'abisso. Aveva perso del tutto l'appetito. *** Mr. Nettle sapeva cosa c'era nel sacco. L'aveva saputo dal momento in cui aveva visto Devon che usciva dal deposito Crossop. La settimana precedente era stato lui a recuperare un sacco molto simile da una rete non lontana da lì. Quel giorno aveva aspettato, aspettato a lungo, prima di squarciarlo. 194
Accoccolato nell'imbotte di una porta che si apriva lungo il muro della fonderia, attese che Devon sparisse alla vista. Poi schizzò verso l'angolo del ponte, agganciò il proprio rampino alla balaustra, e si lasciò scivolare nella rete. Oscurità e silenzio lo circondarono. Mr. Nettle accese la lanterna antivento. La cenere che incrostava le maglie della rete si sbriciolò e cadde nell'abisso al tocco delle sue mani lacerate. Il sacco giaceva proprio sotto il ponte, nel punto più basso della rete. Reggendo la lanterna fra i denti, tirò fuori la scure e tagliò la superficie del sacco. Era più giovane di Abigail, forse quindici o sedici anni. Aveva i capelli più scuri e le labbra più piene. Ma, per tutto il resto, avrebbe anche potuto essere sua figlia: la pelle era adesso altrettanto pallida, gli occhi altrettanto vuoti. Le prese una mano fra le sue, e si appoggiò la testa della ragazza nell'incavo del braccio. Era leggera come un fiore. La tenne a lungo in quel modo, come aveva tenuto Abigail, cullandola avanti e indietro e avvertendo il proprio respiro che echeggiava attraverso di lei. Si chiese se qualcuno la stesse cercando. Magari suo padre stava vagando per le strade anche adesso, e la chiamava per nome. Quale sarà stato il suo nome? Chissà se l'Avvelenatore lo sapeva? O se gliene importava? I tagli sulle mani, sulle braccia e sulle spalle di Mr. Nettle pulsavano dolorosamente, come se il labirinto di Scatterclaw lo lacerasse ancora. Si afferrò stretto alla rete, abbassò la propria scure e tagliò la canapa tutto attorno al corpo della ragazza, che scivolò subito nell'oscurità. Riguadagnata la superficie, marciò verso il Deposito, curandosi appena dello strepito degli stivali, che tradiva il suo avvicinamento. Arrivò all'angolo dell'edificio giusto in tempo per vedere l'Avvelenatore che spariva all'interno. La porta di metallo rimbombò chiudendosi dietro di lui. Una, due, tre serrature sferragliarono in successione. Mr. Nettle uscì dall'ombra ed esaminò la costruzione. La luce veniva da una finestra all'ultimo piano. La grondaia che passava lì accanto sembrava vecchiotta, ma non c'era altra strada. Pa'. La voce di Abigail sembrava venire da un punto lontano e tranquillo della sua mente, ma lo shock penetrò comunque attraverso la sua rabbia. No, figliola, non adesso. Pa', non farlo. Lasciami stare. 195
È un omicidio. È giustizia. Omicidio! Il suo grido gli attraversò il cuore, e per un attimo rimase incerto. Omicidio? Come poteva arrivare a uccidere un essere vivente? Ma era davvero omicidio? Se l'uomo che ammazzi non ha un'anima, è comunque peccato? E se anche lo fosse? Se anche fosse? Il sangue cominciò a pulsargli di nuovo nelle orecchie. Si issò lungo la grondaia. Scaglie di ruggine si staccavano sotto le dita, ma la conduttura sembrava reggere il suo peso. Si arrampicò con vigore, ignorando il dolore delle braccia e delle spalle ferite; i mattoni friabili si sbriciolavano sotto gli stivali e franavano nel vicolo sottostante. Se fosse riuscito a raggiungere l'appartamento prima di Devon, il suo compito sarebbe stato più facile. Non voleva venire sorpreso mentre ancora si arrampicava, quando sarebbe stato più vulnerabile. Meglio se fosse riuscito a trovarsi già dentro, pronto. Giunto in cima appoggiò un piede sul davanzale della finestra e bilanciò il proprio peso tra quello e la grondaia, sbirciando all'interno. Lampade a olio illuminavano di una luce calda le pareti rivestite di legno. Attrezzature d'ottone, bottiglie di vetro, fiasche. Una scrivania e una sedia imponente dall'alto schienale rivolto verso la finestra, e di fronte un'altra sedia con legacci di cuoio che ciondolavano dai braccioli. Il suo sguardo si posò su quella sedia e sulle cannule agganciate a un supporto di metallo di fianco a essa. Controllò che la scure fosse saldamente infilata nella cintura e allungò la mano verso la cornice della finestra per issarsi all'interno... e si immobilizzò. Uno sbuffo di fumo si era levato dall'alto schienale della sedia che gli dava le spalle. Qualcuno, invisibile, ci era seduto sopra. Mr. Nettle si ritirò di nuovo dietro la finestra, col cuore che batteva all'impazzata. Come aveva fatto il bastardo a rientrare così in fretta? Impossibile. Allora chi? Un complice? Strinse i denti. Con l'Avvelenatore da solo poteva farcela, ma con due uomini sarebbe stato più difficile. Non riusciva a scorgere nulla dietro l'ingombrante schienale. Il che voleva dire che nemmeno il fumatore poteva aver visto lui. Se si muoveva alla svelta e in silenzio, poteva ancora approfittare del vantaggio della sor196
presa. Ma un dubbio lo trattenne. Da un secondo all'altro sarebbe arrivato Devon. All'inferno. Si allungò di nuovo verso la finestra. Proprio in quell'istante entrò l'Avvelenatore. *** Devon si arrestò di colpo. Un operaio era seduto sulla sua sedia, nero di fuliggine da capo a piedi. Quel sudiciume in casa sua era francamente inaccettabile. «Che posso fare per te?» gli chiese. L'operaio estrasse un coltello, un trincetto. Nell'altra mano teneva sollevate le manette che Devon aveva di recente usato sulla ragazza. «Lividi sulle braccia», disse, poi accennò col capo alla sedia da dissanguamento e alle fiasche e cannule macchiate di sangue. «Ci siamo messi a rubare anime, eh?» Devon sentì che il cuore gli precipitava nei calcagni. Che mi sia sempre sbagliato? Era stato irrimediabilmente folle e arrogante da parte sua dare per scontato che fosse Sypes colui che lo proteggeva. «C'è una spiegazione assolutamente razionale per tutto questo.» Silenzio. «Dimmi, Sypes intende concedermi un processo?» chiese Devon. Uno sguardo circospetto. Non lo sa? Allora non è Sypes. Ma, allora, chi? «Fogwill», disse Devon, e immediatamente scorse la verità nello sguardo dell'altro, il coadiutore aveva agito alle spalle del suo maestro. Esaminò con attenzione il potenziale assassino, e quasi sorrise nel vedergli sul collo i nodi tatuati e parzialmente nascosti dalla fuliggine. Uno scarto della Spina, spezzato dalla tempratura. Devon avvertì un improvviso barlume di speranza: allora c'era ancora una possibilità. Era risaputo che gli scarti della Spina erano decisamente instabili. Quell'uomo doveva essere un calderone ribollente di ego e fanatismo. Oltre che pazzo. Devon intendeva esasperare la situazione. «Il coadiutore ha commesso un errore a mandarti qui. Il tuo zelo è fuori discussione, ma senza la tempratura ti manca la capacità di controllo. Il che rende più facile manipolarti.» «Credi di potermi manipolare?» 197
«Dovrebbe essere abbastanza facile», disse Devon con leggerezza. «Mi basta farti infuriare.» I denti dell'altro balenarono. «La tua arroganza è stupefacente. Sei così desideroso di morire?» Assolutamente patetico. Proprio non riesce a trattenersi. «In effetti, no», rispose Devon. «La morte è la mia avversaria, e attraverso il mio lavoro ho sempre lottato per sconfiggerla. I nostri avi ci sono quasi riusciti, mille anni fa. Immagino ti ricorderai la storia degli Uomini Molli.» L'espressione dell'assassino si incupì. «Ricordo la loro punizione.» Devon sorrise. «Avevano sviluppato un procedimento per estrarre le anime e imbottigliarle. Sai cosa succede quando un uomo consuma l'anima di un altro? Te lo dico io. Quando la carne è satura dell'unica sostanza che davvero l'arricchisce, l'equilibrio tra fisico e metafisico si sposta. Così potenziata, la volontà diventa irresistibile. Un semplice desiderio permette di allungare la vita, rendere il corpo più forte, guarire le ferite. L'invecchiamento fisico diventa una questione di capriccio.» Si avvicinò di un passo alla sedia da dissanguamento e al supporto di metallo che reggeva le cannule. «L'equipaggiamento è simile a quello utilizzato dagli Uomini Molli. Occorrono tredici anime per raggiungere il punto di saturazione, il livello di efficacia che corrisponde al limite di assorbimento da parte del ricettore. Una sola goccia potrebbe sostenere un uomo per più vite; con un simile controllo sulla propria carne, anche le ferite mortali diventano semplici graffi. Un uomo che assume il vino d'angelo si avvicina, in tutti i sensi, a dio.» L'assassino era raggomitolato come un serpente, il coltello saldamente stretto in pugno. «Non avrai un processo», ringhiò. Devon prese una bottiglietta dalla tasca della giacca e la tenne sollevata, mostrando il liquido trasparente che sciaguattava all'interno. «Undici anime non benedette.» Tolse il tappo e annusò. «Sottratte a Ulcis, e senza dubbio ricercate da Iril persino mentre stiamo parlando. Mi chiedo se il Labirinto riesce a percepire ciò che ha perduto.» L'assassino pareva inorridito, si tirò indietro. «Rimetti quel tappo», sibilò. «Nascondi quelle anime, prima che...» Devon gli gettò in faccia il contenuto della bottiglia. L'uomo urlò e si piegò in due, sputacchiando, passandosi freneticamente il braccio sul viso. 198
Devon afferrò il supporto metallico e lo roteò con tutte le sue forze. La botta scaraventò l'assassino oltre la scrivania. Nella caduta frantumò becher e provette, per scivolare poi a terra sul tappeto. Il dolore attanagliò il petto di Devon. Sentì il sangue che gli scorreva sotto le bende dalle ferite appena aperte. Sussultando per il dolore estrasse dalla tasca del panciotto una bottiglietta più piccola, ed esaminò il liquido rossastro che conteneva. «C'è posto per un'altra?» Si avvicinò la bottiglietta all'orecchio e sospirò, scuotendo il capo. «Che Iril mi colga, sto parlando con una bottiglia di anime.» E una parte di me quasi si aspetta una risposta. Gettò via l'altra bottiglia ormai vuota. «Che spreco di buon Rhak», borbottò. Il pavimento era ingombro di vetri rotti. Devon li calpestò mentre trascinava l'assassino privo di sensi verso la sedia da dissanguamento. «Sono vecchio e malato, ma al contrario di te...» Sollevò l'assassino fino a piazzarlo sulla sedia. «Sono vivo. E invece tu, amico mio, sei morto fin dalla nascita.» Serrò i legacci attorno alle braccia e alle gambe dell'uomo. «Fanatici», borbottò. «Così facili da manovrare.» *** Mr. Nettle tremava mentre si sporgeva verso la finestra a guardare Devon che legava l'assassino alla sedia e gli inseriva le cannule nelle braccia. Guardò il sangue che fluiva nella sacca sul pavimento. Guardò tutto, ma senza vederlo. Stava pensando al vino d'angelo. Undici anime. L'anima di Abigail? Lei era morta, il suo corpo perso nell'abisso, ma la sua anima non era mai stata consegnata a Ulcis né presa da Iril. Era intrappolata in questo mondo, nell'elisir dell'Avvelenatore. Ancora adesso, c'era una speranza per lei. C'era modo di riunire la sua anima al corpo? Sarebbe tornata in vita, e non nell'abisso o nel Labirinto, ma lì in città? Con lui? Mr. Nettle seppe cosa doveva fare. Alzò le spalle. 199
Doveva lasciare che Devon completasse il suo lavoro. Quando il vino d'angelo avesse raggiunto la dovuta potenza, avrebbe ucciso Devon e se lo sarebbe preso. Avrebbe reclamato l'anima di Abigail dall'uomo che gliel'aveva presa. E poi? In un modo o nell'altro, doveva recuperare il suo corpo.
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15 TRAPPOLE PER I GONZI E LUMACHE
Dopo tre ore di sonno irrequieto Fogwill si alzò all'alba per ricevere l'assassino. Passeggiò avanti e indietro davanti alla colazione intatta e ormai fredda, sbattendo gli occhi stanchi e tormentando e rigirando gli anelli che portava alle dita. A metà mattinata non si era ancora fatto vedere, e Fogwill cominciò a temere il peggio. Mezzogiorno venne e passò, e il coadiutore si ritrovò alla finestra, a guardare il paesaggio senza vederlo. Un cielo minaccioso faceva sembrare l'orizzonte più vicino, premeva sui tetti e prosciugava i colori. Le Spine non erano mai in ritardo. Persino una Spina rifiutata si presentava a rapporto. Seppe che l'assassino era morto. Ma quella era la minore delle preoccupazioni. La minima critica al lavoro di Devon poteva provocare vere e proprie epidemie nella Chiesa. Che avrebbe mai fatto l'Avvelenatore se avesse saputo chi c'era dietro il suo tentato omicidio? Fogwill fremette: la diarrea sarebbe stata un gioco da ragazzi. Doveva agire subito, prima che fosse troppo tardi. Mandò dei messaggeri alle Cucine dei Veleni a informarsi su Devon, e per ordinare al capitano Clay di radunare sei uomini e incontrarlo al Ponte del Varco entro un'ora. Clay uscì dal tempio a passo pesante, sferragliando nell'ingombrante corazza color carbone, il volto terreo sotto il peso grigio della calura pomeridiana. Sei guardie del tempio letargiche lo seguivano in formazione serrata. «La pioggia tarda», disse Clay. «Le nuvole ne sono gravide, ma la trattengono lassù per tormentarci. Pessima giornata, e ho la netta sensazione che stia per peggiorare. Se ci troviamo qui, immagino che ci aspetti una spedizione in città.» Fogwill si deterse la fronte. «Siamo diretti agli appartamenti dell'Avvelenatore.» «Porca puttana!» sbottò Clay. «Lo sapevo!» 201
Il coadiutore decise di ignorare quell'insolenza. Nonostante la sua rozza franchezza, Benedict Clay era un brav'uomo. «L'Avvelenatore non si è presentato al lavoro questa mattina. Temo che possa essergli accaduto qualcosa.» «E questo richiede sei guardie?» Quando Fogwill non rispose il capitano sospirò. «Be', non è che stando qui ad aspettare farà più fresco. Meglio che ci muoviamo.» Le strade erano tranquille, e le persone che incrociavano se ne andavano indolenti per i fatti loro, trovando appena la forza di sollevare lo sguardo dalla strada per dare un'occhiata a Fogwill e alla sua scorta. Le guardie sudavano nelle loro corazze e Fogwill sudava sotto la tonaca. Persino le catene sembravano sudare sotto il fardello della città. Quando attraversarono la Falce sul Ponte degli Scaricatori, l'aria era pesante, senza neppure una traccia di brezza dall'abisso, e Fogwill si chiese se lo stesso Ulcis sudasse nell'oscurità sottostante. Il coadiutore cercava di non preoccuparsi di quello che avrebbe potuto trovare in casa dell'Avvelenatore, ma non riusciva a evitarlo. Se Devon aveva sopraffatto l'assassino, allora doveva essere fuggito. Facendo anche sparire ogni traccia dei suoi crimini? Di sicuro. Sypes si sarebbe infuriato. Ma la scomparsa di Devon avrebbe convinto il presbitero della sua colpevolezza? Fogwill non ci avrebbe giurato. Dopotutto, lui aveva dato carta bianca all'assassino, gli aveva detto di comportarsi secondo il suo giudizio. Il che equivaleva a mettere un coltello in mano a un pazzo e dirgli di farne l'uso che credeva. Raggiunsero la Depressione verso metà pomeriggio. Il quartiere ribolliva sotto la fioca luce rossastra delle fiammate provenienti dalle Cucine dei Veleni. Un'aria calda e fetida ristagnava dove fabbriche e magazzini sembravano adagiati sul fondo di una coppa. I mattoni trasudavano della foschia densa d'umidità. Frammenti di cenere scendevano fluttuando su catene e ciottoli come falene in cerca di cibo, e annerivano il sudore che colava sulle guance e sul collo di Fogwill. Il suo povero fazzoletto era lercio. La porta del magazzino Crossop si apriva su una scala buia. Clay grugnì: «Non mi piace questo posto. Cosa dobbiamo dirgli, nel caso fosse qui?» «Ditegli che sono preoccupato, e che vorrei parlare con lui.» «Tutto qui? Siamo venuti quaggiù solo per questo?» Clay sbuffò, quindi ordinò alle guardie di entrare nel magazzino. 202
Fu l'ultima volta che Fogwill le vide vive. L'esplosione scosse l'intera Depressione. Pietre e mattoni e travi e calcina furono scagliati verso l'alto. Il fumo eruppe come un fungo dal tetto dell'edificio. Fogwill cadde all'indietro battendo una gran sederata, le orecchie che rintronavano per l'esplosione. Clay lo afferrò e gli stava urlando qualcosa, ma in un primo momento Fogwill non riuscì a sentirlo. «Ho detto che dobbiamo andarcene», strillò Clay, strattonandolo per la tonaca. «Svelto, le macerie! Finiremo schiacciati!» Il capitano lo trascinò lungo la strada, verso l'ingresso di una fabbrica abbandonata. Fogwill scivolava e inciampava, cercando di tenersi in piedi. Si guardò alle spalle. La metà superiore del magazzino era sparita. Dall'interno le fiamme si avvolgevano a spirale attorno ai muri e lambivano le finestre ormai prive di vetri. Un fumo nero risaliva dalla voragine spalancata dove una volta c'era il tetto. Clay lo spinse oltre la porta proprio mentre le macerie cominciavano a cadere. I mattoni si fracassarono sul selciato. Longheroni di ferro e travi di legno precipitavano per strada, oppure travolgevano le grondaie, svellendo le condutture dai loro sostegni. Le macerie cadevano a pioggia. Fogwill si premette le mani sulle orecchie. Il cielo si oscurò. Una densa cappa di fumo si stava allargando sopra la Depressione. Illuminata dalle fiamme lontane, la nuvola che si allargava sembrava ardere ai margini come basalto fuso. Risuonò un basso rombo di tuono e la casa di Devon collassò su se stessa. «Via!» Clay si precipitò di nuovo per strada. Attorno a loro, piovevano ancora i mattoni: Fogwill esitò per un attimo. I sassi risuonavano sulla corazza del capitano. «Le catene stanno cedendo!» gridò. «L'intero quartiere sta per sprofondare!» Il coadiutore guardò verso il magazzino semidistrutto e il calore del fuoco lo colpi con forza. Fiamme alte una quindicina di metri inghiottirono un ammasso di mattoni e catene che ondeggiarono e si tesero sotto muri e blocchi di camini che crollavano. Persino mentre le stava guardando, quelle stesse catene presero a spezzarsi frustando l'aria attorno. Fogwill si mise a correre dietro Clay, ansimando. Raggiunsero la fine della strada proprio mentre un potente boato faceva 203
tremare il terreno sotto i loro piedi. Il selciato tremò e si torse, e Fogwill fu scagliato a terra. Rotolò come una botte e andò a sbattere contro un muro. E poi cadde il silenzio. «Che Iril sia dannato», ansimò Clay. Il coadiutore si rimise in piedi, si levò la polvere di dosso e guardò dietro di sé. Il magazzino Crossop era sparito. Era sparito anche mezzo isolato della Depressione: dove un attimo prima c'erano state fabbriche e fonderie, restava soltanto una grossa voragine, coperta di polvere e fumo. Clay grugnì. «Ecco come finisce il quartiere.» *** Rabbiose nuvole di tempesta immersero la città in una tenebra precoce. Venti saturi di pioggia facevano girare le banderuole, sbattevano le finestre e scagliavano scrosci di pioggia contro i vetri della biblioteca del presbitero Sypes. Il vecchio sedeva alla scrivania con gli occhi chiusi, e si strofinava le tempie. «Per quanto tempo ha spiato per tuo conto nelle Cucine dei Veleni?» Fogwill camminava avanti e indietro di fronte a Sypes, a testa bassa, giocherellando con gli anelli. Ogni parola di Sypes era come uno schiaffo in pieno viso. «Diverse settimane.» «Ne è al corrente nessun altro?» «No, ho ritenuto fosse meglio...» «Minare la mia autorità?» Le dita ossute di Sypes si strinsero attorno al bastone. «Credi forse che sia troppo vecchio, troppo debole e troppo confuso per prendere delle decisioni?» «Cercavo di essere discreto.» Aggrottando le sopracciglia, il vecchio puntò il bastone verso Fogwill. «E questa la chiami discrezione? Adesso il tuo... assassino è svanito. Devon è sparito. E io mi ritrovo con una voragine grande abbastanza da inghiottire metà del Porto di Sabbia.» «Mandiamo un reparto di guardie del tempio. E più Spine...» «Più Spine!» Il ruggito di Sypes sommerse il fragore della pioggia sui vetri. «Cosa credi di trovare? Devon che segnala la sua posizione dalla cima di un tetto? Una scia di cadaveri?» Sbatté il bastone sulla scrivania. 204
«Fino a ieri sapevo perfettamente dov'era.» «Ieri ha liquidato i miei sospetti.» Uno sguardo corrucciato. Fogwill interruppe il suo andirivieni. «Lei lo sapeva? E non ha fatto niente? Era disposto ad accettare che gli omicidi continuassero? I furti di anime?» Sypes evitò il suo sguardo. «Per amor di dio, perché?» Il vecchio raggrinzì le labbra, come se stesse masticando qualcosa di sgradevole. «Vieni con me. C'è qualcosa che devi vedere.» Lasciarono la biblioteca e imboccarono una delle scale degli accoliti che si inabissavano nelle viscere del tempio. Giunto in fondo, Sypes staccò una torcia dal suo supporto alla parete e lo condusse attraverso una rete di passaggi e celle umide che sembravano utilizzate come magazzini. Ragnatele si estendevano ovunque. Dopo un po' raggiunsero una pesante porta di metallo nascosta dietro alcune casse. Sypes aprì la serratura e discesero per una nuova scala a chiocciola. Giù, sempre più giù, finché Fogwill non credette che non avrebbero potuto scendere più di così. «Dobbiamo trovarci più in basso della Sala della Spina.» «Fa parte dei vecchi sotterranei», echeggiò la voce di Sypes. «Ormai in disuso. Vieni, aiutami con questa porta.» In fondo alle scale il presbitero aprì un'altra porta che sembrava molto antica, e Fogwill lo aiutò a sbloccare il battente. Furono assaliti da un odore ripugnante. Carne in decomposizione? Fogwill non si illuse: sembrava che, ogni volta che il presbitero lo conduceva da qualche parte, fosse per vedere un cadavere. «Un altro morto?» azzardò. «Sì, più o meno. L'ho rinchiuso in una delle celle.» Poi il vecchio si infilò nei sotterranei. Perplesso, e anche con una certa apprensione, Fogwill si affrettò a seguirlo. Grate rugginose alle pareti marcavano l'accesso a celle buie. Il tanfo peggiorò. La torcia di Sypes sgocciolava, e li fece piombare in una quasi completa oscurità. «Aggeggio inutile», borbottò il presbitero. «Non l'hanno incatramata da anni.» Si fermò davanti a una delle celle e fece cenno a Fogwill di raggiungerlo. «Attento a non avvicinarti troppo alle sbarre. Sputa.» «Credevo avesse detto che era morto.» 205
«Non ne sono del tutto sicuro.» Fogwill sbirciò nella cella. La luce fioca della torcia non riusciva ad arrivare oltre le sbarre, e lui si sforzò di vedere qualcosa. Per un attimo gli sembrò di scorgere un movimento. Dal fondo della cella venne il rumore di catene che strusciavano contro la pietra. Si tirò indietro. «Cos'è?» Il presbitero grugnì e agitò la mano in un gesto d'impazienza. Fogwill si avvicinò di più per guardare. Quando i suoi occhi si abituarono all'oscurità riuscì a distinguere una sagoma. Un'ala? «È un angelo...» «Non proprio», disse Sypes. Poi Fogwill capì cosa intendesse il suo maestro. L'ala era attaccata a una spalla, la spalla a un torace, il torace a una gamba, un braccio, un collo e una testa. O alla maggior parte di una testa. Il resto dell'angelo non c'era. Sembrava che lo avessero diviso approssimativamente a metà. Stava rosicchiando qualcosa di bianco e bagnato. «Quella cosa è Callis», disse il presbitero. «O quel che resta di lui. L'altra metà è rimasta con Ulcis, nell'abisso.» Diede un colpetto sul pavimento col bastone. «Mi colga l'oscurità! E cosa ci fa qui?» «Quello che ha sempre fatto. Riferisce la volontà del suo padrone. Impartisce ordini.» «Può parlare?» «Non smette mai. Questa è la prima volta da anni che sta zitto.» Come in risposta, Callis parlò. «Dammi da mangiare.» «No!» tuonò Sypes. «Ne hai avuto abbastanza.» Il rumore di un respiro rauco uscì dall'oscurità. «Non basta mai», sibilò l'angelo. Fogwill era stupefatto. Quella pietosa creatura era l'antenato di Dill, mutilato, abbandonato a marcire per millenni in un sotterraneo. Poi le parole dell'angelo penetrarono la sua coscienza, e gettò un'occhiata circospetta al presbitero. «Cosa gli dà da mangiare?» «Tutto, tranne quello che chiede lui.» Il coadiutore deglutì. «Ma, se questo è l'Araldo di Ulcis, allora di chi sono le ossa che ci sono nel corridoio del Sanctum con i Novantanove?» «Hai guardato da vicino quelle ossa? Sono simili come misura, ma non esattamente uguali.» Il presbitero alzò le spalle. «Lo scheletro è una com206
posizione. Una costola qui, un avambraccio di là... Elargiti, senza ombra di dubbio, dai resti degli altri Novantotto.» «Ma perché? Perché Callis è qui? In questa... cella?» Con un sogghigno Sypes si rivolse all'angelo: «Diglielo». La voce strisciò fuori dalle tenebre, gonfia di malvagità. «Dammi da mangiare.» «Diglielo.» Un ringhio. «Diglielo! O patirai la fame per un anno!» «Tu osi rinnegarmi !» gridò la creatura. Si trascinò ansante attraverso il pavimento della cella. «Ulcis non sarà rinnegato. Sta per arrivare, prete. Un esercito forgiato dai corpi dei vostri padri e piegato al suo volere. Ci riprenderemo ciò che è nostro. Presto.» «All'inizio erano semplici richieste», disse il presbitero Sypes. «Più anime, più anime. E sapeva chiederle con cantilene così suadenti per una richiesta tanto orribile. Ma poi cominciò a pretenderne più di quante gliene potessimo mai fornire. Gli Heshette sono decimati. Chi ci rimane da uccidere? Quando non riuscii più a escogitare un sistema per soddisfare le sue richieste, cominciò a liberarsi del suo stesso involucro. Poi vennero le pretese, e quindi le minacce. Ma non sono tipo da lasciarmi minacciare impunemente.» «Buon dio!» esclamò Fogwill. «Ma non capisce? Questa fretta... ? Ulcis sta per reclamare il paradiso. Sta per sfidare Ayen. Dobbiamo prepararci. Dobbiamo...» «No», disse Sypes. «Come?» «No, Fogwill. Quando ha fame questo mostro parla più liberamente, e negli ultimi tempi ho avuto cura di tenerlo affamato. Ulcis non ha mai avuto intenzione di reclamare il paradiso. È il mondo, quello che vuole. La nostra Chiesa si basa interamente su una menzogna.» Il coadiutore fissò a bocca aperta il suo maestro. Quello che aveva appena sentito era così sconvolgente che per un attimo dimenticò la paura e si lasciò andare contro le sbarre della cella. «Indietro!» urlò Sypes. Un clangore di catene. Fogwill avvertì dei denti che gli affondavano nel polpaccio. Strillò e cercò di allontanarsi, ma la stretta era feroce. 207
«Lascialo!» ruggì Sypes. «Oppure non avrai mai più nulla da mangiare. Ti lascerò marcire quaggiù per l'eternità.» L'angelo mollò la presa ringhiando. Fogwill barcollò via, pallido e tremante. Il sangue scorreva copioso dalla ferita e sulla tunica. Il coadiutore si voltò da una parte, poi dall'altra, incerto e con la testa che gli girava. Sapone... gli occorreva del sapone. Doveva uscire da lì, allontanarsi dalle parole di Sypes, da quell'angelo mutilato. Non voleva saperlo. Voleva la luce del sole, un posto per raccogliere le idee. Un posto per ritrovare la propria fede e aggrapparcisi stretto. Il presbitero Sypes lo stava scuotendo rudemente. «Riprendi il controllo! Ho bisogno che tu riesca a pensare!» Le catene sferragliarono di nuovo in fondo alla cella. «Dammi da mangiare! Dammi da mangiare!» *** Giunto al margine della Depressione, Devon si sedette su una sdraio sul tetto di una vecchia torre pendente che era appartenuta un tempo a Jacob Blacklock, un agiato proprietario di fonderie. Il parasole bianco che aveva aperto si agitava nel vento, e offriva un ben misero riparo dalla pioggia battente, ma l'Avvelenatore si stava comunque godendo il panorama. Nuvole nere cingevano Deepgate, illuminate dalle vampe delle fabbriche e dei depositi che si affollavano attorno allo squarcio spalancato nella città. Persino a quella distanza, le fiamme si riflettevano sulle lenti dei suoi occhiali e sul cristallo del calice di Rhak che aveva in mano. Tenendo il bicchiere sotto il naso, annusò i vapori oleosi, e lo posò. Le vecchie scorte di Crossop avevano fatto un ottimo lavoro per alimentare le fiamme: se non altro non erano andate sprecate. Ora aveva un lavoro importante da fare. Facendo attenzione all'inclinazione del tetto si alzò e si avviò giù per la scala a chiocciola che conduceva alla sua nuova abitazione. I Blacklock avevano abbandonato la torre dopo la chiusura della loro fonderia, avvenuta quando le catene che la sostenevano si erano tese al punto di far dichiarare pericolante la Depressione, ma Devon non se ne curava. La torre era rimasta in piedi per tutto quel tempo, ed era improbabile che crollasse a breve. Non che avesse possibilità di scegliere. Paragonata alla sua precedente dimora, la stanza che aveva occupato era spartana. Mucchi di macerie sbriciolate si accumulavano lungo le pareti 208
circolari. Il vento fischiava attraverso una finestra rotta. Qualche nicchia scavata nella nuda pietra ospitava alcuni dei suoi libri e una lampada a olio gocciolante. Il resto dei libri era accatastato in terra, tranne quei pochi che aveva utilizzato per puntellare tavolo e sedie in modo che restassero in piedi e orizzontali. Cassette piene della sua attrezzatura essenziale, di abiti e cibo erano impilate da una parte, ognuna con la scritta crossop impressa nel legno. Al centro della stanza c'erano la sedia da dissanguamento e sette fiasche di sangue della Spina. Devon aveva esplorato la torre anni prima, durante una delle sue passeggiate invernali, e aveva preso mentalmente nota del posto. I Blacklock si erano lasciati dietro qualche semplice mobile: un tavolo tarlato che non sarebbe passato attraverso la finestra né dalla stretta tromba delle scale, e che non valeva la fatica di smontarlo; un vecchio scrittoio con cassetti e una cassapanca, anch'essi difficili da spostare, e una botticella di olio da lampada. La cisterna della torre era piena per un terzo, poco più di quattrocento litri, vagamente salmastra ma potabile. Gli ci era voluta una nottata di duro lavoro per trasportare il resto del suo equipaggiamento su per la collina e quindi su per le scale. Lo sforzo l'aveva quasi esaurito. Comunque, una volta sistemato, avrebbe potuto vivere lì per diverse settimane senza doversi avventurare dentro Deepgate. Nonostante un certo rimpianto per la perdita dei suoi bei mobili e dei quadri - il delicato specchio di Clune e la serie dei Bradenka rilegati in pelle - non era il tipo da piangere sulle proprie perdite, e si mise al lavoro per disimballare quel che restava della propria attrezzatura. La sua situazione era diventata in un certo senso più semplice. Il lavoro alle Cucine dei Veleni non avrebbe più interferito con lo sviluppo del vino d'angelo, e liberarsi dell'ultimo cadavere, chiunque fosse, non avrebbe presentato difficoltà: la torre aveva sotterranei profondi. Una volta sistemati i suoi attrezzi - fiasche, supporti e fornelli per l'estrazione, la purificazione e il filtraggio - Devon si sedette alla scrivania e aprì la borsa dei documenti. Sistemò il resoconto degli Uomini Molli da una parte, e i suoi appunti accanto a esso. Tredici anime avevano portato l'elisir originale fino al punto di saturazione. Devon si era aspettato che qualche segnale dell'imminente potenza si sarebbe manifestato in anticipo, ma, con sua grande delusione, non si vedeva ancora nessuna traccia degli effetti descritti. In realtà i resoconti erano frammentari e a volte contraddittori. Il linguaggio era arcaico, spesso infarcito di termini che Devon non comprendeva del tutto, ma da quanto era riuscito a capire gli effetti erano stati portentosi. 209
Dopo aver ingerito il vino d'angelo, i topi da laboratorio guarivano velocemente da quelle che prima sarebbero state ferite o malattie mortali. Arti amputati ricrescevano, neppure la decapitazione risultava fatale: le teste sopravvivevano, vigili, mentre i corpi continuavano a scorrazzare nelle loro gabbie; e, quando teste e corpi venivano riuniti, le due parti si fondevano e i topi erano di nuovo in piena efficienza. Aggiungendo via via gocce di elisir alla carne già precedentemente saturata, la durata della vita sembrava aumentare a tempo indefinito. Devon sfogliò le pagine delle sue trascrizioni. Oltre alla mancanza di risultati preliminari, un'altra cosa lo preoccupava profondamente. Gli animali diventavano preda di accessi di rabbia incontrollabile... e di follia. I topi che avevano ingerito il vino d'angelo attaccavano e facevano a pezzi qualunque essere vivente gli capitasse a tiro. Spesso rivolgevano la propria furia persino su se stessi, divorando i propri arti come in un impulso di morte. Forse in cerca di sollievo da un trauma insopportabile? L'elisir, comunque, non si lasciava rinnegare, e la vita aveva il sopravvento. Qualunque danno gli animali riuscissero a provocarsi, guariva in fretta. L'unico modo di porre fine ai tormenti di quegli sventurati era il completo dissanguamento, fino all'ultima goccia. A ulteriore riprova che l'energia della vita risiede nel sangue. L'anima? Una parola della Chiesa. E, giù nell'abisso, cos'è che prosciuga il sangue dai morti prima che questa energia si disperda? Il dio delle catene? Devon sorrise. Un giorno poteva valere la pena di scoprirlo. Negli appunti che seguivano i primi esperimenti sugli animali c'erano grosse lacune. Alcune pagine erano state cancellate, come se certe conoscenze fossero così pericolose che neppure la Chiesa poteva conservarle. Ma qualche accenno era rimasto: note scarabocchiate a margine dopo che Mr. Partridge, Mr. Hightower e Mr. Bloom avevano bevuto un sorso di vino d'angelo. Devon fece scorrere il dito su alcuni indizi che era riuscito a decifrare: poche frasi angosciate scritte da Mr. Hightower appena prima che la Spina venisse a prendere lui e i suoi colleghi. ... uno o più spiriti contaminati, celati nella miscela, possono piegare la volontà di un collettivo lacerato. ... assassini o empi? O splendidi spiriti resi folli dal peso del peccato che si aggrava? 210
... tempestosa è la loro ira per i nostri peccati. ... le anime sussurrano dal velo. La più affilata delle lame è incapace di tagliarle via. La carne guarisce. Le voci mi spingono più vicino a Iril. Con tutta evidenza il testo lasciava intendere che le anime, estirpate e impiantate nei nuovi ospiti, restavano coscienti. E furiose. Devon scacciò il pensiero, benché con qualche difficoltà. Aveva a che fare con energie metafisiche applicate alla materia fisica, energie inconsce che potevano essere utilizzate e dirette da un cervello vivo e cosciente. Non stava imbottigliando fantasmi. Hightower, con l'ardore della sua fede, stava semplicemente lottando con forze che era incapace di comprendere se non in termini spirituali. Credeva di essere posseduto. Devon considerò l'idea. Era evidente che Hightower avesse sofferto orribilmente. La demenza poteva essere un prodotto della sua fede conflittuale, o un effetto collaterale della contaminazione dell'elisir. Più probabile la seconda. Dopotutto, persino i topi privi di raziocinio avevano urlato. *** Di ritorno nella biblioteca del tempio, Sypes aveva ceduto a Fogwill la propria sedia, e aveva mandato a prendere garze, alcol e bende. Il vecchio si era poi inginocchiato per medicare lui stesso le ferite del coadiutore. «Ci sono voluti mesi per ritrovare il resoconto degli Uomini Molli», spiegò Sypes mentre tamponava il sangue sul polpaccio di Fogwill. «In mezzo a tutta questa...» Col batuffolo macchiato di sangue che teneva in mano indicò i pilastri di libri alle sue spalle. «A questa rovina.» Fogwill sentiva a malapena le spiegazioni del presbitero. Non riusciva a smettere di tremare. Avvertiva un terribile gelo nel petto. Nello sconvolgimento che la sua esistenza stava sperimentando, brancolava disperatamente alla ricerca di qualcosa che avesse un senso. Tutta la nostra fede, costruita su una menzogna? Il paradiso ci è precluso per sempre. Callis, l'Araldo del Raccoglitore d'Anime, è poco più di una bestia famelica. E il nostro dio... L'intero tempio di Ulcis gravava su di lui, un peso intollerabile. Nient'altro che gelidi spazi vuoti. Cos'è il nostro dio? «Ovviamente non riuscivo a comprenderne il principio scientifico: ben pochi dei nostri chimici sono in grado di farlo.» 211
Sottrarre tredici anime, e per cosa? Speravi forse di trasformare Devon in un mostro capace di rivaleggiare con Ulcis? Sypes avvolse il polpaccio ben disinfettato di Fogwill in bendaggi puliti, ben stretto, tanto da farlo sussultare. Poi il vecchio si alzò, il viso stanco e le sopracciglia aggrottate. «Credi che sia stata una decisione facile da prendere?» ribatté. «Devon è l'unico abbastanza coraggioso da portare a termine una cosa del genere. Detesta la Chiesa!» «Vuole fare di lui un dio?» «Non lui, stupido pazzo! Un sorso di vino d'angelo e diventerà matto come un cavallo. Dovremo sottrargli l'elisir al più presto.» Non tu, Sypes... che l'oscurità mi colga... Non penserai davvero di riuscire a controllare la pazzia? «Guardati attorno, coadiutore!» Con uno slancio del bastone, Sypes indicò i pilastri del Codice. «C'è forse la verità, qui dentro? Quali verità stanno marcendo sepolte da tutte queste menzogne?» Zoppicò verso il pilastro più vicino, aprì la serratura di una delle grate e tirò fuori un volume. «Miscela esplosiva. Cannone. Parole dimenticate.» Cominciò a strappare le pagine. «Non c'è niente di sensato, qui! E qui...» Un'altra grata, un altro libro. «Culti pagani. I Monti vicino al Miraggio. Che vuol dire?» Scagliò il libro sul pavimento, ne tirò fuori un altro. «Ah! Un resoconto della battaglia del Dente. Menzogne!» Il vecchio strappò altre pagine, le gettò in aria. «Tutte menzogne! Non significano niente!» Il presbitero rimase in piedi fra le pagine che fluttuavano, ansimante. Le dita macchiate di inchiostro si strinsero attorno al bastone. «I libri più antichi sono polvere, Fogwill. E quella è l'unica verità. Il tempo sconfigge tutto. Verità e menzogna diventano sinonimi. Alla fine, niente di ciò pensiamo o facciamo ha importanza.» «Ma non può crederci davvero. Davvero vuole opporsi al suo stesso dio, assumere il vino d'angelo e arrendersi alla follia? Rischierebbe la collera della Spina... per salvarci.» Il vecchio prete sospirò. «L'elisir doveva essere per Carnival. Un rimedio per le sue sofferenze. Col vino d'angelo noi...» Si appoggiò pesantemente al bastone. «Solo con quello potevamo garantirci il suo appoggio.» Volevi avere Carnival come alleata? Soltanto un'ora prima Fogwill avrebbe giudicato stupefacente una bestemmia del genere. Ma adesso? L'intero piano è un castello di carte. Un nemico usato per raccogliere i 212
mezzi per reclutare un secondo nemico, che dovrebbe opporsi al nemico più pericoloso di tutti. Per il nostro bene? Il presbitero doveva aver letto l'espressione del suo viso, perché gli disse: «Il dio delle catene è furioso, Fogwill. Sta venendo a prendere le nostre anime, al comando di un esercito di morti, stupidi prigionieri succubi della sua volontà. Chi se non Carnival potrebbe opporsi a lui?» Si passò una mano sul viso ed emise un lungo sospiro. «Il vino d'angelo... ? Dobbiamo trovare Devon.» Fogwill annuì lentamente. «E le nostre forze?» «Richiamale», rispose Sypes. «Ci servono qui... pronte.» «Cosa diremo loro?» Sypes si strinse nelle spalle. «Non ne ho la più pallida idea.» *** Stava succedendo qualcosa di strano. Erano due giorni che Dill aveva notato il cambiamento, ma come al solito nessuno si era preoccupato di spiegargli cosa c'era in ballo. Le aeronavi continuavano a rientrare dagli avamposti, più di quante ne avesse mai viste radunarsi prima. I cieli sopra Deepgate ne pullulavano. E soldati: reparti schierati ogni mattina nel cortile del Ponte della Porta, da dove marciavano poi verso la città. Dai brandelli di conversazione del personale delle cucine che gli era capitato di sentire, aveva capito che ci dovevano essere manovre militari in corso. Preti dall'espressione cupa sgattaiolavano ovunque, e non avevano il tempo di parlare con Dill. Persino le prefiche, alla Consegna, sembravano più agitate del solito, mentre nel Sanctum sia il presbitero sia il coadiutore Crumb parevano avviluppati ognuno nella propria cappa di tetraggine. L'angelo cominciò a domandarsi se tutti in città fossero al corrente di qualche segreto, tranne lui: che Deepgate si aspettasse un attacco degli infedeli? Senza dubbio Rachel doveva essere impegnata nei suoi doveri di Spina, perché non l'aveva più vista dalla visita alle Cucine dei Veleni. Il giorno prima, non appena il sole aveva fatto la sua comparsa sopra la corona di pinnacoli, si era arrampicato per le scale e scalette fino al tetto della torre dove Rachel l'aveva convinto a volare. Ma lei non era comparsa. Non che ci fosse andato per cercarla; era giusto che si ritrovava ad avere più tempo libero del solito, e gli piaceva la sensazione della brezza sulle piume, e la 213
possibilità di sfuggire ai preti dalle labbra cucite che lo evitavano, tutti presi com'erano dalle loro faccende. Anche le lumache stavano diventando un problema. Mai come allora ce n'erano state così tante che si facevano strada fino alla sua cella, e negli ultimi tempi aveva dovuto cominciare a liberarle più lontano del solito. Camminava per miglia all'interno del tempio, lasciandone una qui e una là. Le posava davanti alle celle dei preti, una per porta, e le aveva lasciate nel corridoio del Sanctum; le metteva sulle scale, o sui davanzali delle finestre, fuori dall'aula. Una volta si spinse verso la Sala della Spina con un secchio mezzo pieno, ma laggiù era troppo buio e cambiò idea, lasciandole invece nella Sala Azzurra, sotto i tovaglioli che c'erano in tavola. Quel giorno ne aveva un secchio pieno, quasi cento lumache, e stava vagando lungo i passaggi polverosi attorno alle scale degli accoliti alla ricerca di un posto adatto dove posarle, quando un prete terreo e ingobbito gli passò accanto a fatica con una bracciata di rotoli stretti al petto, spostando le ali di Dill per farsi largo. «Ma devi sempre stare fra i piedi di tutti?» «Mi dispiace.» Dill cercò di appiattirsi contro il muro. «Non puoi legarle strette, quelle cose?» ringhiò il prete. Sgattaiolò lungo il corridoio, la tonaca che spazzava le pietre sotto i suoi piedi e la testa che ciondolava come una pietra che cercasse di liberarsi da quelle attorno. Il prete gli lanciò un'ultima battuta da sopra la spalla: «E, se proprio ci tieni a collezionare lumache, non lasciare che Fondelgrue ci si avvicini, per amor di dio!» La cucina? A quella Dill non aveva pensato. Faceva caldo, in cucina. Forse alle lumache il calore sarebbe piaciuto, e ci sarebbero rimaste. Allargò le ali e partì di corsa, le penne che spazzavano la polvere dalle pareti. Io mi prendo tutto lo spazio che voglio. Corse attraverso corridoi e sotto le volte ad ali allargate, ritirandole solo quando passava vicino alle torce montate sulle pareti. E dove passava si lasciava dietro una scia di lumache. Prima di raggiungere le scale che portavano alla torre d'edera il suo secchio era vuoto, e si sentì trionfante. Non aveva ceduto il passo a nessun altro prete. In effetti, non ne aveva incontrati altri, ma non era quello il punto. Afferrò una torcia e si avviò su per le scale. Un centinaio di scalini più in alto, cominciò la sequenza delle finestrelle. Dill infilò la torcia in un sostegno vuoto, posò il secchio, e salì a passo 214
pesante il resto della scala. Se qualcuno stava scendendo, avrebbe fatto meglio a togliersi dalla sua strada. La botola si aprì sull'immensità del cielo azzurro. Sotto gli archi in rovina i mostri di pietra sedevano ingobbiti, rivolti verso l'esterno e indifferenti. Rachel non c'era. Dill si lasciò cadere a terra. Nessuno aveva più tempo per lui. Perché avevano sempre tutti fretta? Se la città si stava preparando a un attacco, non avrebbero dovuto perlomeno informarlo? O forse non era ancora una guardia del tempio a pieno titolo? Saltò in piedi, sbattendo le ali irritato. Mi state osservando? Le finestre delle guglie circostanti erano tutte chiuse, i preti troppo occupati a sgattaiolare nei corridoi, a tessere la rete dei loro grandi segreti per notarlo o preoccuparsi di lui. Dill sbatté più forte le ali e si sollevò di qualche centimetro da terra, prima di lasciarsi prendere dal panico e ricadere. Ma una porta che si apre anche solo di qualche centimetro resta comunque una porta aperta. Fu allora che Dill decise di fare qualcosa che sapeva essere proibito. Decise di imparare a volare. I primi tentativi furono penosi. Preoccupato che qualcuno potesse sbucare sulla torre, trovò un travicello di legno per bloccare la botola. Anche così, passeggiò nervoso avanti e indietro per un po', prima di convincersi che nessuno sarebbe comparso di colpo. Ogni volta che batteva le ali e sentiva che si stava sollevando, si fermava timoroso, tendendo l'orecchio per sentire se qualcuno stesse per caso salendo. Alla fine raccolse il coraggio e si sollevò in aria di ben trenta centimetri. Poi un metro. Poi due. Ma ogni volta scendeva alla svelta per appoggiare l'orecchio contro la botola. Il problema era girare. Si accorse che poteva librarsi nell'aria con una certa facilità, ma, quando cercava di muoversi a destra o a sinistra, avanti o indietro, perdeva l'assetto, si spaventava, e ripiombava sulla superficie di pietra prima di rendersi conto di cos'era andato storto. Poteva sollevarsi, restare sospeso in aria e ridiscendere, ma a che gli sarebbe servito, se non a cambiare le candele nei candelabri del tempio? Come aveva fatto Gaine? Dill non aveva mai visto volare suo padre, ma sapeva che in gioventù l'angelo aveva volato in battaglia con le aeronavi. Se solo suo padre fosse stato lì a insegnarglielo... Passarono i giorni. Ogni mattina Dill tornava alla torre coperta d'edera a esercitarsi. Rimaneva in aria ogni volta più a lungo, sospeso al centro del tetto circolare, mentre i doccioni di pietra lo ignoravano e allo steso tempo 215
si prendevano gioco di lui, terrorizzato ogni volta che tentava di girare, e finiva inevitabilmente col cadere sulle pietre del tetto. Aveva mani e ginocchia perennemente scorticate, gli abiti sempre sudici e strappati. Nessuno sembrava accorgersene. Il personale del tempio era tutto preso dal proprio segreto dilemma, e Rachel non era più ricomparsa. Dill continuava per conto suo. E un giorno ci riuscì. Si stava librando a un paio di metri dal tetto e ascoltava i fringuelli che cinguettavano fra le arcate, quando notò un minuscolo fiore che spuntava dal collo di uno dei doccioni. D'impulso decise di raccoglierlo e, prima di rendersene conto, aveva attraversato il tetto in tutta la sua ampiezza e stringeva il fiore in mano. Gli sembrò un trofeo di vittoria. Si mosse indietro e a sinistra sulla circonferenza del tetto, dirigendosi verso un altro doccione. Adesso non richiedeva nessuno sforzo: gli bastava pensare di muoversi in una direzione, e così faceva. Il cuore gli batteva forte. I movimenti delle sue ali erano così impercettibili che non era nemmeno del tutto sicuro di quello che stava facendo. Cercò di muoversi deliberatamente a destra e sentì che stava per cadere, riprendendosi appena in tempo. No: non doveva pensarci. Doveva rilassarsi, lasciare che le ali lo trasportassero senza sforzo. Il trucco, scoprì, era non provare a farlo, ma lasciare semplicemente che accadesse. Lentamente, bordeggiò a destra e in alto, e poi si voltò di nuovo per tornare verso il centro del tetto. Questa volta più in alto; ignorò i movimenti delle proprie ali e tracciò una stretta curva sopra il centro della torre, poi salì ancora, più in alto, fino al punto in cui una caduta gli avrebbe provocato gravi danni. La fiducia in se stesso cresceva a ogni manovra. Ce l'aveva fatta. Sapeva volare. Si levò in volo ridendo. Si lasciò alle spalle i doccioni e gli archi in rovina e volò oltre cuspidi affilate di pietra e comignoli, lontano, oltre la Guglia dei Corvi. Deepgate gli si apriva davanti, offuscata dalla nebbia mattutina. Aspirò una profonda boccata di aria fragrante, girò attorno alla guglia e poi tornò indietro per osservare dall'alto, trionfante, la torre coperta d'edera. Adesso i doccioni parevano minuscoli, costretti a terra e sgraziati, con lo sguardo fisso all'esterno e il ghigno pietrificato, ignari dell'angelo sopra di loro. E poi si rese conto che la botola stava sbatacchiando: qualcuno cercava di uscire sul tetto. 216
Un attimo di panico lo fece quasi precipitare, ma si riprese e riuscì a controllare la propria discesa atterrando sano e salvo, anche se in modo non proprio elegante. Quando levò il paletto di legno e aprì la botola, tremava ed era senza fiato. Rachel uscì alla luce del sole e lo osservò sospettosa. «Cosa stavi facendo?» gli chiese, percorrendo con una sola occhiata i suoi abiti rovinati. «Niente.» «Perché la botola non si apriva?» Arrossì, viso e occhi. «Io stavo... facendo esercizio.» Lo sguardo di Rachel colse gli strappi sulle brache di Dill. «Esercizio?» L'ombra di un sorriso le aleggiò sulle guance. «Diceva così anche mio fratello.» Dill sentì che gli occhi gli stavano diventando rosa. Si voltò dall'altra parte e cercò di levarsi un po' di polvere di dosso. «Dove sei stata?» le chiese. «Sono secoli che non ti vedo in giro per il tempio.» «Ho avuto da fare. Questa faccenda di Devon ha precipitato i militari nel caos. Nessuno sa quale nave va rifornita e dove, né quale carico dovrebbe portare. Hanno richiamato le navi da guerra e i soldati regolari dalle guarnigioni. Parlano persino di reintegrare i riservisti.» «Quale faccenda con Devon?» La ragazza gli diede una strana occhiata. «Ma nessuno ti dice niente?» Dill scosse il capo. Cercò di sembrare indifferente, ma nella sua frase si avvertiva l'umiliazione. «No, pare di no.» Così Rachel gli raccontò della scomparsa dell'Avvelenatore e dell'esplosione che aveva ucciso le guardie del tempio che stavano per perquisire il suo alloggio. In quel momento era in corso una caccia all'uomo per tutta la città. Dill l'ascoltò con un miscuglio di meraviglia e crescente vergogna. La città non si stava preparando per un attacco. La Chiesa non gli aveva voltato le spalle mancando di coinvolgerlo. Però lui aveva infranto la legge della Chiesa imparando a volare. «Stava preparando il vino d'angelo», spiegò Rachel. «Come gli...» «Esatto. Gli Uomini Molli. Vengono fuori dei gusci vuoti, la Chiesa manda le guardie del tempio a fare due chiacchiere con Devon, e bum! Sei corazze bruciacchiate e nessuna traccia dell'Avvelenatore.» 217
«E la Chiesa ha... ?» «Sì, Sypes ha dovuto fare una dichiarazione ufficiale. Se la Spina fosse in grado di provare ansia, sarebbero già tutti a strisciare su ogni catena di Deepgate. Vino d'angelo!» Scrollò il capo. «Si è perfino parlato di disseppellire gli Uomini Molli per chiedere a loro cosa dobbiamo aspettarci.» «Ma perché...» «Sta morendo, e in punto di morte gli uomini diventano disperati.» Dill si accigliò. «Ma perché non mi... ?» «Non ti lascio finire una frase?» Fece una pausa. «Non lo so. Scusami. Continua, non ti interromperò più.» Ma a Dill non venne in mente nient'altro da dire.
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16 CACCIA ALL'UOMO
Nei giorni seguenti la caccia a Devon proseguì senza sosta. Tutte le mattine Dill faceva il giro della terrazza della sua torre e vedeva le navi che pattugliavano Deepgate a bassa quota, riempiendo col loro ronzio il cielo sopra la città. Di notte, i loro fari di ricerca all'etere frugavano negli angoli più oscuri sotto la luna crescente, mentre Dill se ne stava raggomitolato nella sua cella, tra candele e lumache, sperando che, anche solo per una volta, le luci di ricerca inquadrassero pure lui. Portare le lumache nelle cucine era stata una pessima idea. Fondelgrue aveva colto al volo l'occasione e le aveva infilate tutte in una borsa. Poi il grasso cuoco aveva assicurato a Dill che conosceva un posto dove sarebbero state felici, e Dill non le avrebbe mai più riviste, ma l'angelo non era del tutto convinto. Si era offerto di accompagnare Fondelgrue, per assicurarsi che le lumache stessero bene, ma il cuoco l'aveva quasi cacciato dicendogli di non preoccuparsi, che sarebbero state benissimo, al caldo, contente, e adesso levati dai piedi. Così Dill aveva trovato un altro posto dove liberare il suo carico, la Sala delle Armature della guardia del tempio. Là dentro c'erano un sacco di anfratti bui in cui potevano nascondersi. Era appena tornato da una spedizione serale spargilumache nell'armeria quando Rachel irruppe nella sua cella, facendogli cadere di mano il libro che stava leggendo. «Hanno mandato in giro per la città tutte le guardie del tempio a bussare alle porte, perquisire le case, fare domande a tutti, segugi che annusano dappertutto, e la terza, la settima e la nona sono state richiamate dagli avamposti del Porto di Sabbia e delle Piantagioni per unirsi alle ricerche. E hanno cominciato a richiamare in servizio i riservisti, a centinaia. Ci sono più soldati in città di quanti ne abbia visti da anni, e altri ancora ne stanno arrivando. Hai visto le navi da guerra? Sypes ha piazzato aeronauti sui ponti con i cannocchiali.» Si fermò a riprendere fiato. «La nobiltà è sottosopra, e i plebei miagolano come gattini in una vasca da bagno. Sanno che sta per arrivare il coprifuoco, l'aumento delle tasse. Dovresti sentire le chiacchiere nelle birrerie e 219
nelle taverne. Perché tanti soldati per una semplice caccia all'uomo? E perché diavolo dovrebbero essere loro a pagare per tutto questo?» «Ci saranno disordini?» chiese Dill ancora vagamente risentito perché lei non aveva bussato. «Non da parte dei militari: i riservisti sono ben felici di guadagnare di nuovo il soldo, e mercanti e nobili possono permettersi un aumento delle tasse. Ma la plebe può diventare un problema, ovvero tutti quelli che sono ben contenti di salvarsi l'anima e godersi una bella esecuzione, ma non hanno intenzione di svuotarsi le tasche per sfamare un esercito di queste dimensioni.» Si diresse verso la porta e uscì sulla balconata. Dopo un attimo Dill afferrò il libro e la raggiunse. Le ombre avanzavano dal margine occidentale dell'abisso, e avevano già coperto un buon terzo della città. A est, strade e case risplendevano ancora: catene, tetti e comignoli rilucevano dorati nel tramonto, riflessi bronzo e oro, finestre brillanti come gemme sparpagliate. Una dozzina di aeronavi sorvolava la città, come razziatori in cerca d'un tesoro. «Stanotte è luna piena», disse Rachel. «La Spina celebra l'occasione con una notte di preghiere a Ulcis. Loro pregheranno che la luna non svanisca, e che la Notte dello Sfregio non ritorni.» «Loro?» Lei si strinse nelle spalle. «Di solito mi sento meglio con la luna piena, perché Carnival si tiene nascosta. Di notte le strade sono ragionevolmente affollate, la gente si rilassa. Ma stanotte...» Una nave ronzò avvicinandosi al tempio. Rachel si interruppe per osservarla. «Stanotte sembra tutto sbagliato. Hanno lasciato sguarnite le fattorie lungo il Coyle e hanno richiamato i soldati fin dal lontano nord, dalle segherie della Foresta di Scisto e da Collecavo. Troppi soldati per un uomo solo. C'è qualcosa sotto, e il presbitero Sypes non ci sta raccontando tutto.» «Un attacco degli Heshette?» «No.» Rimase per un po' a osservare la nave da guerra, poi si voltò a fronteggiarlo. «Sono decenni che gli Heshette non rappresentano più una minaccia. A proposito, cosa stavi leggendo?» Dill le mostrò il libro: Strategie di volo da battaglia per Arconti della Chiesa. Sorrise. 220
«Non è proibito», disse lui. «Ho controllato.» Ma sentiva che gli occhi gli diventavano un po' rossi. *** Nell'oscurità della tana che si era costruito nelle reti sotto la torre di Devon, Mr. Nettle guardò le navi che passavano sopra di lui. I motori rombavano in lontananza; i fari da ricerca penetravano la notte, muovendosi senza sosta, come zampe di strani dèi d'etere. Una lastra di lamiera di circa tre metri per quattro e tre robuste travi recuperate dalla struttura di un deposito di gas formavano un tetto di fortuna. Un po' di corda teneva assieme il tutto e lo ancorava alla rete. Come in tutte le zone industriali, le reti erano robuste, e potevano sopportare senza problemi il peso del suo rifugio. Nelle due settimane precedenti si era avventurato qualche volta fuori, per procurarsi una scorta di provviste. Senza niente da barattare e non avendo il tempo di organizzare dei recuperi, aveva dovuto rubare il cibo dai carri diretti al mercato della Valle del Giardino. Quanto all'acqua, aveva riempito la sua fiasca a una fontana di operai della Falce, senza però lasciar cadere neppure un penny in cambio nella fessura. Le malefatte di Mr. Nettle gli ringhiavano contro - la sua mente continuava a tornarci sopra, come sulle ferite aperte - ma non lo perseguitavano come l'altro problema. Quello che gli pesava sullo stomaco come un mattone. Erano state raccolte dodici anime, ne mancava ancora una. Per dare potere al vino d'angelo, l'Avvelenatore doveva per forza dissanguare a morte un altro innocente. E Mr. Nettle avrebbe dovuto lasciarglielo fare. Strinse i denti e si rigirò sulla rete, come se in quel modo potesse attenuare il dolore. Abigail era l'unica cosa che contava. Abigail, Abigail: continuava a ripetere il nome dentro di sé, come se quel ritmo potesse scacciare gli altri pensieri. Adesso che sapeva dov'era la sua anima, doveva permettere a Devon di completare l'elisir. Doveva farlo, per lei. Ma la voce di Abigail echeggiava sempre nella sua mente, e non era contenta. Che ne sarà delle altre anime? Gli chiedeva. Resteranno intrappolate dentro di me? O sarò io a rimanere intrappolata dentro di loro? Non voleva pensarci. Quante persone sarebbe stata Abigail? Le corde si tesero sotto di lui mentre si girava sullo stomaco per guarda221
re giù nell'abisso. La discesa non sarebbe stata facile. Impossibile, insisteva Abigail. Come farai a scendere? Con la corda? Pensi di usare i tuoi rampini e le picche per tutta la strada fino alla città di Deep? E poi? Entrerai nel palazzo di Ulcis e gli chiederai di liberare la mia anima? Non lo sapeva. Tutti avevano sentito le storie di coloro che erano scesi laggiù. E nessuno ne era mai tornato. Troverò un sistema. Come? Non lo so. Magari avrebbe potuto rubare una nave, o calarsi dall'orlo dell'abisso. Rubare una nave? Abigail rise. Chi credi di essere? Sei solo un razziatore, per amor di dio. Lasciami in pace. Che ne sarà della tua anima? Stai rinunciando all'eternità. Un'immagine di Abigail gli si presentò alla mente: a sei anni, mentre batteva il piede per terra. La sua anima? Era dannata fin dal momento in cui aveva deciso di recuperare il corpo di sua figlia dall'abisso. Il dio delle catene non ammetteva intrusioni. Non ci sarebbe stata salvezza per Mr. Nettle. Non mi importa, le disse. E si rese conto che davvero non gliene importava. C'era sollievo nella dannazione. Se doveva permettere a Devon di uccidere ancora, allora era giusto così. Necessario. Li dissanguerà! La rabbia di lei lo fece sussultare. Come puoi permettergli di fare del male ad altre persone? Persone come me? Taci! Una morsa gli strinse il cuore. Come era arrivato a quel punto? Quali forze l'avevano guidato? Non aveva più avuto scelta fin dalla morte di Abigail. Nessuna scelta. Non era colpa sua, era colpa di dio. Dio che stava cercando di portargli via tutto, di svuotarlo, di annientarlo. Per un attimo si lasciò invadere dalla disperazione. Nell'oscurità delle reti sotto la torre e la città e le navi, si sentì minuscolo e vuoto, se non per l'eco della voce di Abigail. Poi la rabbia ribollì, riempiendo il vuoto che aveva dentro, travolgendo tutto. Tanta rabbia da sostenere una città. Torse manciate di rete, col sangue che gli pulsava nelle orecchie, e sputò nell'abisso. E se anche ne mori222
va un altro? Non era lui a impugnare il coltello. Non farlo! Lui non mi sconfiggerà. Abigail sarebbe stata la sua vittoria. Si accorse di ansimare pesantemente e rotolò sulla schiena, ancora aggrappato alla rete. La nave era sparita alla vista dietro la torre, ma un'altra stava rombando avvicinandosi da sud. In alto, la finestrella della torre era illuminata. Incauto. Di recente, Devon aveva preso l'abitudine di tenere una luce accesa tutta la notte. Nel corso della prima perlustrazione della Depressione, le guardie del tempio non erano riuscite a forzare la porta della torre, e quindi avevano semplicemente proseguito quando i segugi non avevano mostrato particolare interesse per quel posto. Ma, se Devon pensava di essere al sicuro, era pazzo. Alla fine quella luce avrebbe attirato l'attenzione di qualcuno, soprattutto in quella zona. Come faceva l'Avvelenatore a essere così stupido? Una testa si affacciò dalla finestra e guardò il cielo. Un lampo degli occhiali, e sparì di nuovo all'interno. Mr. Nettle portò una mano all'impugnatura della scure, continuando a tenere lo sguardo fisso sulla finestra. D'un tratto un rumore martellante lo fece sussultare. Si tirò di colpo a sedere, in ascolto. Ci fu una pausa, poi il rumore si ripeté. Non c'era dubbio: qualcuno stava battendo alla porta della torre dell'Avvelenatore. *** Carnival osservava le aeronavi dalla cima di un vecchio albero di pietra. Un alone brillante filtrava attraverso le nuvole più basse, ma dopo quella notte la luna piena avrebbe cominciato a calare. Mancavano ancora due settimane alla Notte dello Sfregio e la fame aveva già cominciato a strisciarle nelle vene. Un dolore sordo le si annidava nello stomaco, un malessere che sarebbe aumentato nei giorni a venire, fino all'arrivo della luna nera, e di una sua nuova morte. Cercò di ignorare la sensazione. La notte era deliziosamente fresca, fragrante di fiori del giardino sottostante: biancospino, erba del cuore e rami di gelsomino delimitavano l'ordinato praticello ai piedi dell'albero, e sfioravano le pareti coperte d'edera subito dietro. 223
Andava spesso in quel posto di notte, per ripulirsi i polmoni, starsene seduta sull'albero e ascoltare il sussurro delle foglie nella brezza. Un vecchio giardiniere arrivava tutti i giorni all'alba, apriva la grata di ferro nel muro settentrionale, se la richiudeva a chiave alle spalle, e poi cominciava senza fretta il suo giro delle aiuole. Difficilmente Carnival si tratteneva fuori fino a quell'ora - quando la luce le feriva gli occhi - ma una volta o due era rimasta a osservare in silenzio il vecchio dalla sua postazione. Trovava rilassante la sua tranquilla devozione, il modo in cui lavorava borbottando fra sé, zappava e sfrondava, godendosi la pace della mattina. Era il momento in cui si sentiva più vicina a una qualunque persona della città. Evitava il giardino durante la Notte dello Sfregio. Dall'aspetto malmesso del giardiniere, dubitava che le piante di cui si prendeva cura fossero sue. Era un giardino che ostentava ricchezza e, se mai i proprietari lo visitavano, dovevano farlo quando il sole aveva ormai prosciugato la rugiada dall'erba e aveva costretto Carnival a nascondersi di nuovo nella sua tana. Ma in quel momento, col fresco della notte sulla pelle, e immersa nel profumo di fiori e corteccia, sollevò lo sguardo e si accigliò nel vedere una nave da guerra che rombava nel cielo e fendeva l'oscurità con i suoi fari. Da quanto tempo andava avanti quella caccia? All'inizio aveva osservato le navi con appena un vago interesse. Che avesse ucciso qualcuno di importante, l'ultima Notte dello Sfregio? Il dottore non le era sembrato di un rango sociale particolarmente elevato. Che fosse imparentato con qualche generale o qualche pezzo grosso della Chiesa? A intervalli di qualche decennio, di solito quando veniva nominato un nuovo presbitero, la Chiesa faceva mostra di cercarla con più accanimento. Guardie nervose pattugliavano le strade, senza mai frugare troppo a fondo tra le ombre. Imponevano il coprifuoco, per mostrare alla popolazione che qualcosa stavano facendo. Di solito quella specie di farsa si concludeva in breve tempo, ma quella ricerca sembrava non finire mai, e cominciava a darle sui nervi. Quelle navi erano così rumorose da farla imprecare ogni volta che una di esse disturbava il suo riposo. E cominciava a chiedersi se dopotutto fosse davvero lei il bersaglio. La nave fece una lenta virata a bassa quota, i motori che tossivano e pulsavano come se il loro unico scopo fosse infastidire lei. Un faro spazzò il giardino, accecandola. 224
«Maledetti!» Distolse il viso. Il faro esitò brevemente, sbiancando il giardino, poi riprese a muoversi. L'oscurità tornò a sommergerla. Carnival si afferrò stretta al ramo mentre aguzzava lo sguardo su quell'intruso volante. Quella storia doveva finire. Se era lei che stavano cercando, gli avrebbe reso le cose più facili. Abbandonato sul terreno ai piedi dell'albero vide un forcone da giardinaggio a tre rebbi. Saltò giù dal ramo sbattendo le ali e planò a bassa quota sul prato, agguantandolo mentre passava. Poi risalì in volo verso la nave da guerra. *** Mr. Nettle sollevò di nuovo lo sguardo verso la finestra della torre. Devon aveva spento la luce. Evidentemente, aveva sentito anche lui i colpi alla porta. «Troppo tardi», sibilò fra i denti. «Ti hanno trovato, vecchio pazzo.» Attento a non fare rumore, strisciò dalla sua tana fino al punto in cui la rete si univa a una delle catene di sostegno della torre. Un nido metallico di travi arrugginite e spesse lastre - spezzate e risaldate chissà quante volte sprofondava nell'abisso sottostante. Reggendosi con una mano alla pietra per tenersi in equilibrio, saltò passando da una catena all'altra, fino a raggiungere un punto da cui poteva avere una buona visuale della porta della torre. Anche se era buio, Mr. Nettle riuscì a distinguere due figure in corazza davanti all'ingresso della torre, guardie del tempio armate di picche. Un segugio stava annusando ai loro piedi, una massa di saliva e orecchie ciondolanti. Il più vicino dei due uomini batté ripetutamente la picca contro la porta. «Aprite», gridò. «Ordine del presbitero.» Mr. Nettle bestemmiò fra sé. Se fosse saltato addosso alle guardie, difficilmente avrebbe potuto sopraffarle tutte e due, e il rumore avrebbe rivelato a Devon la sua presenza. Era una situazione disperata. Con la sinistra premeva forte il muro di pietra, mentre la destra si contraeva di continuo attorno al manico della scure. C'era solo da sperare che le guardie non avessero visto la luce alla finestra e che si trattasse di un controllo casuale, così forse si sarebbero stancate e se ne sarebbero andate. Poi una voce che veniva dall'interno della torre gli fece trattenere il fiato: «Un momento, volete aspettare un momento? Sto facendo più presto che posso». 225
Devon che scendeva ad accoglierli? I pensieri gli si affollarono nella mente. Che stava facendo quell'idiota? Era ubriaco o aveva perso la testa una volta per tutte? Aveva forse deciso di arrendersi? Possibile che Ulcis gli negasse ora persino l'elisir? Con sua somma gratitudine la voce di Abigail rimase in silenzio. Lo conosceva abbastanza bene da non intromettersi nella sua disperazione. Scosse il capo, appoggiandolo contro la parete. Il dio l'aveva sconfitto. Lo sferragliare di una serratura, poi Mr. Nettle sentì che la porta della torre si socchiudeva. «Chi siete? Che volete a quest'ora della notte?» Devon sembrava infastidito. Il segugio annusò per un momento la porta, poi riprese a trascinare le ganasce attorno ai piedi delle guardie. Qualunque odore gli avessero fatto sentire, l'Avvelenatore doveva essersene liberato. Era evidente che le guardie non riuscivano a vedere bene ' con chi stavano parlando. «Abbiamo ordine di perquisire tutti gli edifici della zona.» «Ordine? E con quale autorità?» «Del presbitero Sypes.» Una pausa. «No, sono spiacente ma è del tutto impossibile.» Le guardie si scambiarono un'occhiata, si irrigidirono e puntarono le picche verso la porta. «Perché?» chiese la prima delle due. «Perché questo porterebbe al mio arresto», disse Devon. E poi Mr. Nettle sentì un rumore, come di un soffio d'aria. Rimase sbigottito nel vedere una guardia che si accasciava di colpo. L'altra barcollò all'indietro per qualche passo e ondeggiò per un attimo come ubriaca, prima di piombare al suolo con un tonfo e un clangore di ferraglia. Il segugio trotterellò per un breve tratto, poi si voltò agitando coda e ganasce e abbaiò. Devon emerse dalla soglia e guardò su e giù per la strada. In mano teneva un contenitore di metallo dal quale sporgeva un tubo flessibile. «Due settimane. Ci avete messo due stramaledette settimane per arrivare fin qui. Mancava solo che mettessi un cartello.» Il segugio arretrò, sollevò la testa e abbaiò di nuovo, poi si fece avanti. Devon gli gettò qualcosa che si era tolto di tasca. Il cane fece un giro completo su se stesso, con le zampe che slittavano, e si chinò a sbavare su quello che gli era stato lanciato. Poi si girò, con i fi226
lamenti di saliva che gli ciondolavano dalla bocca, e guardò Devon in attesa del resto. Mr. Nettle rimase a osservare l'Avvelenatore che trascinava le guardie dentro la torre. Il cane lo seguì, continuando a scodinzolare. *** Il seminterrato della torre era umido e privo di finestre. I pannelli di metallo imbullonati sopra il pavimento di legno marcio rimbombavano sotto i passi di Devon, che passeggiava su e giù davanti ai suoi prigionieri. I topi scorrazzavano nell'intercapedine fra i due pavimenti zampettando attraverso le pesanti fondamenta di ferro che c'erano sotto. Una fumosa lampada a olio montata bassa sulla parete gettava ombre scure al passaggio dell'Avvelenatore, coprendo e rivelando a intermittenza i lividi sui volti delle guardie. Devon aveva semplicemente fatto rotolare i due uomini per venti ripidi scalini, lasciando che si ammonticchiassero in fondo alla scala, l'uno sopra l'altro. Era stato rumoroso, ma non aveva richiesto particolare fatica, e nelle sue condizioni attuali era importante evitare ogni ulteriore sforzo. La corazza li aveva protetti da danni peggiori. Un po' ammaccati e graffiati, risplendevano debolmente alla luce delle fiamme. I due uomini erano confusi ma coscienti; incatenati schiena contro schiena attorno a uno dei sostegni che reggevano il peso delle stanze impilate sopra quella. Uno era giovane, con la pelle ancora morbida ma grosso come un lottatore; l'altro, probabilmente il suo superiore, aveva l'aspetto consunto di un veterano e recava in volto le tracce di innumerevoli servizi di pattuglia nel gelo dell'alba. Il cane era tutto preso ad annusare il terreno in fondo alla stanza. «Come vi sentite?» chiese Devon, in un tono reso gioviale dall'abitudine. Era importante apparire cortese, importante far sentire a quegli uomini - almeno in parte, date le circostanze - che lui era un possibile alleato obbligato suo malgrado ad agire in un certo modo. Ma era anche necessario creare degli attriti fra i due fin dall'inizio, perché non aveva né tempo né energie per interrogarli separatamente. Sarebbe stato più semplice aizzarli l'uno contro l'altro. Più riusciva a scoprire su di loro, più danno sarebbe riuscito a provocare e il dolore, dopotutto, era sempre stato al centro del suo lavoro. «Il petto», ansimò il più giovane. «Non riesco a respirare.» 227
Devon annuì. «Probabilmente ti sei rotto una costola cadendo per le scale. Non credo che sia niente di serio, comunque. Di sopra dovrei avere un unguento per attenuare il dolore.» Il veterano strizzò gli occhi sotto la luce violenta della lampada. «Devon?» «Ho un problema», proseguì Devon scrutando i due uomini con attenzione. Attesero in silenzio che continuasse. Si tamburellò il labbro con un dito seguitando a camminare. Sospirò, si torse le mani e poi adottò un tono dolente, quasi avvilito. «Temo che soltanto uno di voi due sopravvivrà.» Sorprendentemente, furono gli occhi del veterano a dilatarsi per la paura: forse le albe gelide erano tutto quello che l'uomo aveva patito fino ad allora. Anche l'espressione del più giovane, comunque, si indurì. Bene. «Come vi chiamate?» chiese Devon in tono conciliante. Dalla gola del più giovane venne solo un respiro spezzato. Il veterano rispose a disagio: «Angus. E lui è Lars». «E il cane?» «Fitzgerald», aggiunse il veterano. Nel sentire il suo nome, Fitzgerald sollevò il muso per un attimo, prima di tornare alle proprie esplorazioni. Il ritmico impatto degli stivali di Devon sui pannelli metallici del pavimento ricordava il lento ticchettio di un orologio di ferro. Dalle pareti, l'eco rimbalzava su di loro. E faceva sembrare ancora più limitato quello spazio sotterraneo. «Qualcuno di voi due ha famiglia?» chiese. «Cosa?» Il veterano, Angus, trasalì. «Cosa vuoi da noi?» Devon fece in modo di mantenere il viso in ombra tenendosi fra la lampada e le guardie, senza alterare la cadenza dei suoi passi. «Perdonate la franchezza, ma devo risolvere questo punto prima di procedere. Vi ho fatto una domanda.» Lars crollò il capo e chiuse gli occhi. «Moglie. Due figli.» Angus rimase per un attimo in silenzio, poi scosse la testa. «Sono sposato, con quattro figli.» Devon notò il tremito nella sua voce e continuò a passeggiare, la sua 228
ombra scorreva sul pavimento. «Sta mentendo», sibilò Lars. Angus fece forza contro le catene, cercando di voltarsi per guardare in faccia il compagno. «Bastardo.» Devon sbuffò. «Non intendo perdere altro tempo per cercare di fare la vostra conoscenza. Non sono sicuro di quale sia il sistema migliore per risolvere la questione.» Si avvicinò ai suoi prigionieri e si accovacciò accanto a loro. «Forse dovrei lasciare la decisione a voi.» «Sanno dove siamo.» Angus sembrava sul punto di scoppiare in lacrime. «Verranno a cercarci.» Devon riprese a camminare. «Il mio problema è che devo ottenere l'aiuto di uno di voi.» Si voltò a fronteggiare i prigionieri continuando a muoversi. «Ma quale dei due? Tutte le guardie del tempio hanno accesso al Sanctum, per cui non è questo il problema. Lars, tu sembreresti quello conciato peggio, eppure c'è qualcosa nel tuo compagno che non mi piace.» Lars chinò il capo sul petto respirando a scatti brevi e aspri. Angus fece di nuovo forza con le spalle contro le catene. Il ritmo dei passi di Devon continuò costante. «Lasciaci andare», supplicò Angus. «Non diremo niente.» Lars sollevò la testa e strinse i denti. Roteò gli occhi e poi li chiuse. «Facciamola più semplice.» Devon emise un profondo sospiro. «Uno di voi due morirà qui, in questa torre. L'altro lavorerà per me. Non mi importa quale dei due, quindi potete decidere da voi.» Si fermò. Il suo ultimo passo echeggiò per un istante, poi svanì. «Vi serve qualche minuto per prendere una decisione?» *** A Carnival l'aeronave faceva venire in mente una larva d'insetto, un enorme verme che si scavava la strada dentro e fuori le nuvole. Lampi argentei percorrevano l'involucro quando catturava la luce lunare. L'aria calda convogliata dal sistema di raffreddamento alimentava le grosse nervature attorno all'involucro di gas, garantendo così un maggior controllo della spinta aerostatica e una rapida ascesa della nave. Un motore che alimentava le due eliche gemelle montate a poppa fece tracciare all'aeronave una lenta virata proprio mentre lei la stava osservando. Alcune valvole scattarono. Degli oblò si illuminarono nella gondola, una sagoma buia nell'ombra dell'imponente sagoma di tela. A prua c'era il ponte, mentre gli alloggi dell'equipaggio, la cambusa e la sala macchine erano a poppa. Ponti in per229
fetto ordine, larghi quanto bastava per il passaggio di un uomo, sporgevano da entrambe le fiancate della gondola, e si protendevano oltre la sala macchine, dove quattro aeronauti si occupavano dei fari piazzati a ogni estremità, regolando la pressione dell'etere e ruotando i proiettori a specchio in modo che i fasci di luce percorressero la città. Carnival atterrò in silenzio sull'estremità anteriore del ponte di sinistra, aprì un portello e scivolò dentro. Si trovò in un corridoio rivestito di teak e dolorosamente illuminato, che si allungava dalla sala macchine fino al ponte. Porte bordate d'ottone si aprivano verso stanze interne dagli oblò in quel momento bui. La vibrazione dei motori scuoteva la folta passatoia rossa. L'aria sapeva di carburante e cera. Percorse il corridoio in tutta la sua lunghezza, fino a uscire in plancia. Il capitano era dritto come un fuso nella sua uniforme, bianche linee diritte e bottoni d'argento, e osservava attraverso la serie di finestre sopra il pannello di controllo. Un timoniere, il berretto bianco sulle ventitré, manovrava una grossa ruota al centro della plancia. «Undici gradi a dritta», disse il capitano. «Signorsì, signore», rispose il timoniere. «Undici gradi a dritta.» Con un occhio alla bussola sulla sua sinistra, fece ruotare diverse volte il timone, rallentò, e infine si fermò. Carnival si chiuse la porta alle spalle. Il capitano si voltò a dare un'occhiata. Per un attimo rimase a fissare Carnival come se la sua presenza fosse poco più di un'inaspettata interruzione. Poi, di colpo, il colore gli scomparve dal viso. «In rotta», disse il timoniere. «Per uno uno cinque gradi.» Il silenzio riempì il ponte. Il timoniere guardò il capitano, e poi si voltò per seguire il suo sguardo. «Diavolo.» Carnival si avvicinò ai due uomini, rilassando le ali. Le penne sfiorarono il soffitto e spazzarono il ponte. Le sue cicatrici parevano più scure sotto le luci all'etere. Gli occhi color della notte si strinsero. «No. Sono solo io.» Il timoniere mosse un passo verso il capitano, che sembrava invece piantato sul posto, le braccia rigide lungo i fianchi, gli occhi sbarrati, la 230
mascella protesa come una mensola. Carnival si fermò a pochi passi dal capitano. «Non sono in vena di massacri.» I due uomini la fissarono. «Cosa state cercando? E quando finirà?» Il capitano deglutì. «Hai intenzione di rispondermi, o preferisci che ci scambiamo qualche cicatrice?» Scoprì i denti. Gli occhi del capitano saettarono verso le cicatrici sul viso di Carnival e si fecero ancora più sbarrati. Rispose in un rauco bisbiglio: «Devon». Carnival piegò la testa di lato e aggrottò la fronte. «L'Avvelenatore di Deepgate», disse il capitano. «Il capo della Scienza Militare.» «Perché proprio lui?» ribatté Carnival. Il capitano esitò e guardò il timoniere, ma quello non se ne accorse, tutto preso com'era da Carnival. «Vino d'angelo», disse il capitano. «Devon si è messo a preparare il vino d'angelo.» Carnival sbatté le palpebre, stupefatta. «La Chiesa continuava a trovare dei gusci», cercò di spiegare il capitano. «Voglio dire, più del solito.» «Dove?» «In tutti i quartieri di...» «Quando?» «Anche in altre notti, non solo...» Uno schiocco, e le ali erano allargate. Fece un passo avanti e si chinò verso il capitano, gli occhi stretti come due lame di coltello. «Questo... Devon li dissangua?» La mascella del capitano era così contratta che l'uomo riuscì appena a muovere le labbra. «Sì, lui...» Di colpo la porta alle sue spalle si spalancò. Carnival si voltò di scatto, le ali che fendevano l'aria, per vedere gli aeronauti che irrompevano sul ponte, le corte spade già sguainate. Il primo a superare la porta esitò, inciampò e quasi cadde quando vide cosa lo aspettava. Dietro di lui, altri due gli sgusciarono di lato per evitare di travolgerlo, e poi si fermarono anche loro. Mentre altri ne seguivano, quelli già entrati si allargavano, bloccando231
le la fuga. Erano otto uomini, adesso, che la fissavano a bocca aperta da dietro le spade. Carnival ringhiò. Un uomo brizzolato e corpulento accanto al corridoio di dritta fu il primo a riprendere il controllo. Dalle stellette sul bavero, doveva essere il primo ufficiale. Tenendo lo sguardo fisso su Carnival, si rivolse al capitano in tono basso e fermo: «Abbiamo sentito attraverso l'interfono». Carnival avvertì il movimento del capitano e del timoniere, che si spostavano verso il perimetro della plancia. «Ordini, capitano?» chiese il primo ufficiale. Carnival fletté le ali, e una corrente d'aria soffiò sugli uomini che aveva di fronte. Distese al massimo le penne, in una tenda rada che arrivava fin quasi a toccare le pareti laterali. Dai piedi fino alle sopracciglia cespugliose, le cicatrici che le attraversavano tutto il corpo cominciarono a pruderle. Sentì che le vecchie ferite sul volto si tendevano, fremevano. «Dèi degli inferi», mormorò un aeronauta, arretrando. «Non può fuggire», disse un altro, giovanissimo. «Noi siamo otto, e armati.» Ma la spada gli tremava fra le mani. L'ufficiale più anziano guardò il capitano in attesa di ordini. «Ammazzatela», disse il timoniere. Gli aeronauti esitarono, incerti. Gli occhi di Carnival ardevano. Raccolse le ali e si abbassò, contrasse i muscoli pronta a balzare. I tendini le si tesero sul collo, premendo contro il segno della corda che aveva sulla gola. Lentamente, staccò dalla cintura il forcone da giardiniere. Otto uomini fecero un involontario passo indietro. «Non sono in vena di massacri», disse lei. «Andatevene.» «Ammazzatela!» ringhiò il timoniere. Una spada saettò nell'aria verso di lei. Carnival ne catturò la lama fra i rebbi del forcone e con una rotazione la scagliò contro la parete della plancia, dove rimase infilzata, a vibrare. «Andatevene!» gridò. «Subito!» «Ammazzatela!» gridò il timoniere. Come un sol uomo, gli aeronauti le si gettarono contro, le spade protese. Carnival trasse un lungo respiro e lo trattenne. Poi saltò con una forza tale che due degli attaccanti, d'istinto, chiusero gli occhi e schizzarono in232
dietro sollevando le spade. Ma il balzo di Carnival la portò dritta in aria, attraversò il soffitto della plancia come fosse di carta, e penetrò nell'involucro che c'era subito sopra. Il gas ondeggiò e sibilò attorno a lei. Un fragile scheletro di cerchi metallici collegati da sottili travicelli percorreva l'intera lunghezza della nave, assottigliandosi verso le estremità. Carnival ruotò su se stessa. Ancora col forcone in mano. Avrebbe potuto aprirsi una via d'uscita ovunque. Volò verso l'alto. Le punte penetrarono con facilità nel tessuto teso. Arrampicandosi e facendosi strada con le unghie fu presto fuori, nella fredda aria notturna. Respirò. L'involucro ondeggiò sotto di lei, mentre il gas fuoriusciva dalla lacerazione che si andava allargando. La nave si inclinò di colpo, in picchiata. Le eliche urlarono, lanciando ancora più velocemente la nave verso le strade sottostanti. Gli aeronauti sul ponte di poppa si afferrarono disperatamente alla battagliola, incapaci di muoversi. Uno di loro scivolò via, urlando forte prima che le eliche lo zittissero del tutto. Sospesa in aria, Carnival guardò l'aeronave che precipitava. La gondola colpì una fila di case, squarciando i tetti. Un lampo... ... e una palla di fuoco esplose verso l'alto. L'involucro della nave andò in pezzi, sparpagliandosi sui tetti delle case circostanti. I vetri delle finestre tremarono per diversi isolati, le tegole schizzarono via disegnando ampie parabole in aria, lingue di fiamma divamparono alte sopra la città. Quando il rombo dell'esplosione giunse alle orecchie di Carnival, arrivò anche lo spostamento d'aria, che la scagliò ancora più in alto. Lo cavalcò, le grandi ali distese, le fiamme riflesse negli occhi. «Forse ero in vena, dopotutto.»
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17 VINO D'ANGELO
L'Avvelenatore continuò i suoi preparativi senza affrettarsi. Il procedimento era troppo importante per ammettere errori. Pulì con cura, quasi con reverenza, le sacche di raccolta e le cannule, immerse nell'alcol per essere disinfettate e risciacquò per ben quattro volte il cilindro di distillazione per poi asciugare il vetro giallastro e opaco con aria compressa, dentro e fuori. Disinfettò allo stesso modo le siringhe, allineandole quindi in file dall'acuminato scintillio su un vassoio d'acciaio. Ne approfittò anche per dare una veloce lucidata al supporto di metallo che faceva da sostegno alle cannule di aspirazione. Tutto doveva essere perfetto. Se ci fosse stato un prete a portata di mano, forse si sarebbe anche fatto benedire l'intero equipaggiamento. Quando fu tutto pronto si versò un abbondante bicchiere di Rhak, e lo sollevò in un brindisi solitario. «Al presbitero Sypes», disse, e ne ingollò il contenuto in un sorso. Era un vero enigma. Più ci rifletteva sopra e più si convinceva che il vecchio prete l'aveva aiutato deliberatamente, e l'assassino della Spina che aveva ucciso era invece uno strumento del coadiutore. Il ciccione ha agito alle tue spalle, vero? E, adesso che mi ha costretto alla fuga, hai paura di aver perso il vino d'angelo. Avevi programmato di prendermelo? E cosa speravi di guadagnarci? Potere? L'immortalità? Devon doveva sapere la verità. E quindi gli serviva l'aiuto di una guardia del tempio. C'era anche il problema che lo stavano cercando per tutta la città. Presto si sarebbero accorti della sparizione delle due guardie. Era il momento di procurarsi una moneta di scambio. Ma prima di tutto aveva un lavoro da fare. Cominciò a raccogliere fiasche, provette, cannule e siringhe in un profondo contenitore di metallo sterile. Proprio in quel momento udì un'esplosione in lontananza. Spense la lanterna e rimosse il pesante drappo con cui aveva schermato 234
la finestra. Non si vedeva nulla. Si arrampicò sulla scaletta fradicia fino a raggiungere le merlature della torre. Navi da battaglia convergevano verso un incendio che divampava a est, apparentemente dalle parti di Belvarco. Devon contò i fasci dei fari di ricerca e sorrise. Una di meno di cui preoccuparmi. Qualunque cosa poteva aver causato la distruzione della nave: l'incompetenza degli aeronauti, la freccia di un plebeo risentito, un sabotatore Heshette. Oppure Carnival stufa di quella caccia? Non che in quel momento gliene importasse più di tanto. Doveva estrarre ancora un'anima. Quando raggiunse il sotterraneo, Devon capì subito quale sarebbe stata l'ultima anima del suo elisir. Angus volse su di lui un volto madido di sudore, dagli occhi arrossati e colmi di dolore. Era evidente che aveva lottato per liberarsi, perché le catene che gli cingevano il petto avevano graffiato e inciso il pettorale della corazza. A ogni passo di Devon, sembrava ritrarsi di più. Dietro di lui Lars giaceva privo di sensi, accasciato sulle catene. Fitzgerald continuava ad annusare gli angoli bui della stanza. Devon si accosciò di fronte ad Angus. «Sembra che il tuo compagno sia svenuto. Siete riusciti a mettervi d'accordo, durante la mia assenza?» Angus rispose piano, cercando disperatamente di conferire un tono di sincerità alla sua voce: «Lars soffre troppo. Ha deciso...» Abbassò gli occhi. «Abbiamo deciso assieme che sarò io ad aiutarti.» «Se il tuo amico fosse cosciente mi direbbe la stessa cosa?» La guardia annuì rigidamente. «Devo svegliarlo per farmelo confermare anche da lui?» Angus sbatté gli occhi per liberarli dalle gocce di sudore. «Non c'è bisogno. È d'accordo.» «Eppure, mi sembra una strana decisione», commentò Devon. «Ha una famiglia che sentirà la sua mancanza, al contrario di te, pare.» «Gli fa troppo male», sibilò Angus fra i denti. «Perché dovrei crederti?» Tutti i muscoli del viso e del collo di Angus erano in tensione. La pelle grigiastra risplendeva di sudore. Per un lungo istante sostenne lo sguardo di Devon, poi disse: «Ti prego». 235
Devon si batté un dito sul mento continuando a fissare il veterano. Infine annuì. «Angus, sei esattamente il tipo d'uomo che mi serve. Credo che potrai essermi utile.» Si dedicò al contenitore, tirando fuori l'equipaggiamento che gli serviva. «Vivo?» «Cosa?» Mentre si voltava di nuovo verso di lui, gli sembrò che la guardia in catene cercasse di nascondere qualcosa dietro la schiena. «Sì, certo. Vivo.» *** Accovacciato nell'ombra scura della rete, Mr. Nettle attese... e attese. In alto sopra di lui l'unica finestra della torre rimase buia. Alla fine si alzò, tenendosi in equilibrio sulla canapa che cedeva sotto il suo peso. Se fosse riuscito ad agganciare la merlatura col suo rampino, la pendenza della torre gli avrebbe facilitato la scalata. E poi? Non poteva certo strizzarsi in quella minuscola finestra. Gli ci voleva un'altra postazione da cui tener d'occhio la porta e aspettare la comparsa di Devon. L'Avvelenatore non sarebbe certo rimasto nella torre per sempre. Decise allora di abbandonare la sua tana e trovarsi un altro punto di osservazione in una delle carcasse di edifici bruciati dall'altra parte della strada. A giudicare dai pezzi di tubature che ingombravano ciò che era rimasto del pavimento, dedusse che una volta doveva essere stata una fornace per la lavorazione dell'argilla, ma il fuoco aveva ormai da lungo tempo ridotto l'interno a uno scheletro annerito. Cavi e catene mantenevano in piedi e in apparenza intatti i muri esterni, ma il piano inferiore scivolava vertiginosamente verso l'abisso. Quasi tutto il piano superiore era crollato, e solo una minuscola piattaforma fatta di spuntoni di travi coperte d'assi sporgeva dalla parete che dava sulla strada, offrendo a Mr. Nettle un punto da cui osservare tenendosi nascosto. Lanciò il rampino agganciandolo a un travetto spezzato e si issò a forza di braccia, per poi piazzarsi accanto alla finestra. Qualche frammento di vetro sporgeva ancora dalla cornice. Mentre la nottata trascorreva lentamente, Mr. Nettle si raggomitolò tra il legname fradicio di pioggia e i mucchi di detriti, timoroso anche solo di accendere la lampada antivento. Il puzzo di marcio e di cenere gli penetrò 236
nella pelle e negli abiti, e ci rimase. Le stelle ammiccavano attraverso il graticcio di travi sopra di lui. Non vide più passare altre aeronavi, ma avvertiva la vibrazione lontana dei loro motori proveniente da qualche altra parte della città. Poco prima ne era precipitata una. La cosa non lo riguardava. Di là dalla strada, la torre custodiva silenziosamente i suoi segreti. Dopo un bel po' di tempo le strisce di cielo sulla sua testa cominciarono a schiarirsi. Spigoli di legno e di detriti si delinearono più definiti sullo sfondo della muratura carbonizzata. Il ronzio delle navi svanì nei suoni dell'alba: il cinguettio degli uccelli, grida in lontananza, clangori smorzati dai cantieri navali. Man mano che il mattino procedeva verso il pomeriggio sotto un cielo di piombo, caldo e umidità aumentarono. Mr. Nettle cambiò posizione, cercando di alleviare l'intorpidimento delle giunture. Si strusciò gli occhi stanchi, poi tirò fuori la fiasca dell'acqua e una manciata di uvette, che erano tutto ciò che restava delle sue provviste. E tutte e due sapevano di cenere. La testa gli ciondolava per la stanchezza. Gli abiti, irrigiditi dal sudiciume, grattavano sulle innumerevoli piccole ferite. Fece scrocchiare il collo, cercando di mettersi comodo. Il peso della scure contro la gamba era rassicurante. L'omicidio non è una cosa da cui trarre piacere. La voce di Abigail suonava esausta. Lui era troppo stanco per discutere. Dio, quanto avrebbe voluto qualcosa da bere. Gli dolevano le viscere, dalla sete. Per recuperare la concentrazione, strinse forte il manico della scure nel pugno lacerato. C'era qualcosa che lo tormentava: gli rodeva la coscienza come un topo che poteva sentire ma non vedere. Doveva essere qualcosa che aveva detto l'Avvelenatore, qualcosa che gli era passato di mente. Di qualunque cosa si trattasse, se ne sarebbe ricordato a tempo debito. Con un certo sforzo mollò la presa sulla scure e si rilassò all'indietro, allontanandosi dalla finestra. I mattoni allentati fecero piovere altra cenere sui suoi vestiti, oltre a quella che già gli anneriva mani e unghie. Quel bastardo non poteva restare là dentro per sempre. Per tutto il pomeriggio il sole non si fece vedere, non gettò nessuna ombra. L'aria rimase pesante e umida, e quasi attutiva il lontano martellio e il 237
clangore che veniva dai cantieri della Falce, gli urli dei manovali e gli occasionali rintocchi delle campane del tempio. Mr. Nettle sbatté le palpebre per levarsi il sudore dagli occhi e li chiuse soltanto un momento, vagamente cosciente del ronzio dei motori. *** C'era qualcosa che non andava. Mr. Nettle era all'interno dell'appartamento di Devon e brandiva una lama da trincetto... un'arma da assassino. Devon era seduto davanti a lui e sorrideva, il viso un'orrenda tappezzeria di pelle lacera. L'Avvelenatore teneva in mano una bottiglietta, in cui sciaguattava e frusciava un liquido rossastro che lambiva il vetro in languide ondate. Mr. Nettle si rese conto che dal liquido venivano dei sussurri, flebili lamenti e gemiti d'angoscia. Anche quello non gli tornava: il vino d'angelo era trasparente. No, quello era stato un trucco, una bottiglia di Rhak. Non stava pensando con chiarezza. Il vero elisir era quello. L'Avvelenatore parlò, ma nessun suono gli uscì dalle labbra. Mr. Nettle si avvicinò faticosamente a Devon, come se avanzasse con l'acqua fino al petto. Cercò di affondare la lama, compiendo uno sforzo per muovere il braccio. Ma la lama non c'era più e la sua mano era vuota. Una risata silenziosa di Devon, un gelido divertimento nei suoi occhi. Mr. Nettle arretrò, sentì contro la schiena il davanzale della finestra. Si voltò e si sporse fuori, in un'oscurità così totale che pareva quella dell'abisso. Da qualche parte sopra la sua testa un'aeronave ronzava come una vespa rabbiosa. Allungò la mano verso la grondaia che sapeva esserci in quel punto. Niente. Solo mattoni, anneriti e molli di cenere. Sentì la mano dell'Avvelenatore sulla schiena, che spingeva, e d'un tratto stava cadendo. Il ronzio della nave gli riempì la testa... e da qualche parte, in lontananza, l'urlo di Abigail. Si svegliò di soprassalto. Buio, cenere, rumore di motori. Per qualche istante restò a sedere confuso, cercando di schiarire la nebbia che gli ingombrava il cervello, poi si ricordò dov'era. Si raddrizzò di scatto e sbirciò di nuovo dalla finestra. Il vicolo era deserto, vagamente argenteo sotto le nuvole illuminate dalla luna. La porta della torre era sempre chiusa. Mr. Nettle si passò la mano sugli occhi, doveva aver dormito per buona parte della notte. Evidentemente avevano ripreso a cercare Devon nel quar238
tiere: il motore di una nave pulsava da qualche parte nelle vicinanze, fuori vista. Devon era ancora dentro la torre? Gli si ripresentò alla mente un'immagine del sogno, la lama di trincetto che gli spariva dalle mani. Di colpo fu completamente sveglio e travolto dal terrore. Quel tormento indefinito ai margini della coscienza era riemerso: le implicazioni dimenticate della conversazione tra Devon e l'assassino. Capì che dopotutto non sarebbe riuscito a uccidere l'Avvelenatore. Una volta che il vino d'angelo avesse raggiunto la potenza dovuta, Devon ne avrebbe bevuto un sorso. Mr. Nettle l'aveva accettato in cuor suo. Ne sarebbe rimasto comunque abbastanza per riportare in vita Abigail. Però aveva trascurato l'effetto che avrebbe avuto su Devon. Le parole dell'Avvelenatore gli tornarono in mente come un lamento funebre. Le ferite mortali diventano dei semplici graffi. Come avrebbe potuto uccidere un uomo del genere? Doveva farlo adesso, prima che fosse troppo tardi; doveva fermarlo subito. Raggiungerlo prima che assaggiasse anche un solo sorso di vino d'angelo. Mr. Nettle balzò in piedi. La porta della torre si aprì. Una guardia del tempio si affacciò nel vicolo, la corazza ammaccata che rifletteva pozze di luce lunare. L'elmo le ombreggiava il viso, ma Mr. Nettle la riconobbe da prima. Trasportava in spalla un corpo avvolto in un sudario e reggeva in mano l'elmo del compagno morto. Dalla torre saltò fuori anche il segugio che l'affiancò, annusò l'aria, e si avviò in direzione del tempio. Una delle guardie era sopravvissuta. Quindi Devon era morto. Nel cuore di Mr. Nettle palpitavano troppe domande e troppo in fretta. E il vino d'angelo? Era già potente? Era ancora nella torre? O la guardia lo stava portando al tempio? Comunque fosse, doveva scoprirlo... e alla svelta, prima che i preti lo distruggessero. Mr. Nettle si lasciò scivolare dal suo nascondiglio e andò a frugare la torre in cerca dell'anima di sua figlia. Se non avesse già abbandonato dio, avrebbe pregato.
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18 PROBLEMI NEL SANCTUM
Dill si risvegliò ansante da un incubo di sangue e sfregi. L'eco di una folle risata malvagia si spense nel clangore delle campane. Aveva la fronte madida di sudore e il petto serrato dall'angoscia. Una delle ali gli era rimasta incastrata sotto la schiena durante il sonno e adesso era tutta anchilosata. Si alzò lentamente, sussultando al formicolio doloroso nei muscoli intorpiditi. Mentre cercava di lisciarsi le penne, tentò di togliersi dalla testa quella risata maligna. Negli ultimi tempi Carnival infestava sempre più spesso i suoi sogni. Le lacerazioni sulla pelle di lei erano sempre fresche, sempre a pochi centimetri dal viso, e l'oscurità dei suoi occhi era una sfida beffarda. Perennemente neri: come fa un angelo a sopportare tanta rabbia? E per tanto tempo? Rabbrividì nonostante il calore nella stanza. Dietro i vetri colorati della finestra il mattino avanzava. Con l'alba erano giunte in massa montagne di nuvole grigie, che minacciavano altra pioggia. L'aria era pesante come una tenda fradicia. Vestirsi fu come entrare a fatica in una corazza. La giacca di velluto nero e gli stivali erano percorsi da scie di lumaca... non che avesse importanza. Con Devon ancora introvabile, forse tuttora intento a saccheggiare anime per il suo vino d'angelo, e la Notte dello Sfregio che si avvicinava, nessuno gli avrebbe prestato troppa attenzione. Quando finì di vestirsi si sentiva già stanco. Si cinse la spada e uscì per andare al lavoro. Borelock lo stava già aspettando nel corridoio del Sanctum. Il prete borbottò qualcosa di incomprensibile sul tempo schifoso e porse le redini a Dill, ma non aggiunse altro sul crollo della reliquia. Davanti alla gabbia delle anime le due giumente abbassarono la testa, i mantelli già lucidi di sudore. Dill schioccò le redini e i cavalli sbuffarono e trotterellarono avanti rassegnati. Persino gli scheletri sulle loro teste parevano stravaccati sulle catene. Le porte del tempio si aprirono su un piatto calore grigiastro che costrinse Dill a distogliere lo sguardo, sbattendo le palpebre. Sul Ponte del 240
Varco gravava un pesante silenzio. Oltre i cadaveri radunati al centro, le prefiche si agitarono nelle loro vesti pesanti. Una delle guardie abbaiò un ordine, e le altre si mossero di malavoglia per caricare la gabbia. Fu solo dopo aver girato il carro e averlo ricondotto all'interno del corridoio che Dill notò la guardia del tempio che lo accompagnava. Dapprima pensò che quell'uomo doveva essere ferito. Camminava malfermo, ingobbito e reggeva la picca come se fosse una stampella più che un'arma, e la sua armatura era graffiata e ammaccata. Doveva essersi accorto che l'angelo lo stava osservando perché sollevò lo sguardo, e Dill vide il pallore malsano del suo viso, le ombre scure sotto gli occhi e l'angoscia appena dissimulata. Dill distolse lo sguardo, vergognoso e imbarazzato. Quell'uomo aveva reclamato il diritto di accompagnare i morti: nella gabbia doveva esserci qualcuno che lui piangeva. Per il resto del percorso Dill non lo guardò più e cercò di rallentare i cavalli affinché fosse più facile per l'uomo tenere il passo. Ma le giumente, ormai abituate a quella corvée, mantennero la loro solita cadenza. Comunque l'uomo sembrava seguirle senza troppe difficoltà, appena qualche passo più indietro; il tintinnio della sua corazza sottolineava il ritmico cigolio delle ruote del carro. Non c'era il minimo soffio d'aria a rinfrescare il Sanctum. Incassate nelle loro nicchie di pietra, le fiamme delle candele tremarono appena quando la porta si chiuse alle spalle dei cavalli. Il presbitero Sypes era accasciato sul suo leggio e il coadiutore Crumb sedeva ingobbito su una sedia al suo fianco. Entrambi fissavano il pavimento. Col viso incrostato di sudore e ansimando per il caldo, la guardia trascinò la catena per agganciarla alla gabbia. Dill si arrampicò in cima al carro, pronto a sistemare il gancio. Si chiese per quale di quei cadaveri la guardia fosse in lutto, e se riusciva a riconoscerlo. L'angelo tese la mano per ricevere la catena, ma la guardia non gliela porse. Fece invece qualcosa di stupefacente. Sollevò la picca, la puntò verso Dill e gli intimò: «Dammi la chiave». Dill la fissò sbalordito. Il presbitero Sypes si raddrizzò. «Guardia?» «La chiave della gabbia. Dammela», grugnì l'uomo, premendo l'estremità aguzza della picca contro il petto di Dill. 241
Una fitta di dolore gli percorse le costole. Si tirò indietro, ma la guardia premette ancora più forte. «Subito!» Dill le gettò la chiave. Il presbitero Sypes batté il bastone contro le lastre del pavimento. «Che diamine sta succedendo?» Il coadiutore Crumb era schizzato dalla sedia ed era in piedi accanto a lui, pallido e con gli occhi sbarrati. La guardia aprì la serratura della gabbia e ci si arrampicò dentro. «Esci da lì», sibilò il presbitero. «Cosa credi di fare?» La guardia stava lacerando uno dei sudari. «Guardia, sei forse impazzita?» Dill sbirciò in basso attraverso le sbarre della gabbia. L'uomo strappava manciate di tessuto per liberare uno dei cadaveri. Il cadavere si alzò. Dill schizzò indietro terrorizzato e quasi ruzzolò giù dalla gabbia. La pelle del cadavere era rossa e scorticata, le palpebre afflosciate. Ciuffi di capelli bianchi si arricciavano attorno alle piaghe, sopra orecchie che parevano lacere e quasi rosicchiate. E, quel che era peggio, sanguinava ancora. Il cadavere si liberò dei brandelli di sudario, poi estrasse dal taschino del panciotto un paio di occhiali dalla sottile montatura dorata e li inforcò. Allora Dill lo riconobbe. «Che giornata.» L'Avvelenatore saltò giù dalla gabbia. Il suo sorriso non aveva niente in comune col viso: era un sorriso che apparteneva direttamente al teschio che c'era sotto. «Roba da far sudare persino i morti.» Il presbitero Sypes e il coadiutore Crumb erano rimasti a bocca aperta. La guardia recuperò la picca e seguì Devon fuori dalla gabbia. Fece due o tre passi, barcollando, lo sguardo offuscato che vagava confuso sul pavimento. Il coadiutore Crumb ritrovò la voce per primo. «Hai deciso di arrenderti?» Devon imprecò, ritraendo le labbra rosse dai denti da scheletro: «Ti sembra anche solo lontanamente possibile, Fogwill? Possibile che non ci sia il minimo rapporto fra la tua bocca e il cervello? Nemmeno un collegamento interno?» L'Avvelenatore si tamponò la fronte con un fazzoletto già sudicio, facendo così scoppiare e suppurare altre vesciche. 242
«Soldato!» Il presbitero Sypes scrollò il suo bastone. «Arresta quest'uomo!» La guardia afferrò la picca, le nocche sbiancate. Piegò la testa in direzione dell'Avvelenatore e sibilò: «Il dolore... non posso...» «Ancora un momento, Angus», intervenne Devon. Si girò verso Sypes, che si stava avvicinando alla campana per richiamare le guardie del tempio. «Lui non ti aiuterà, Sypes. Avvicinati ancora di un centimetro a quella corda, e ti trafiggerà lì dove sei.» Il presbitero si fermò e sussurrò: «Cosa gli hai fatto?» «Ha già tradito il suo compagno per avere salva la vita. Tradire la Chiesa gli è quindi venuto più facile.» C'era una nota di tristezza nella voce di Devon. «Come il ferro, la fede è forte, ma anche facile a spezzarsi. Può sopportare l'enorme peso del dubbio, eppure basta una leggera pressione nel punto giusto per stroncarla.» Fece il gesto di un colpetto leggero. «Basta assistere a una delle... esibizioni di Ichin Tell per vedere con quanta facilità il dolore scuote la fede. Se è troppo, distrugge il soggetto, troppo poco rafforza la risoluzione e prolunga il procedimento.» Fece una smorfia indirizzata alla guardia, come se la sua vista gli risultasse sgradevole. «Il nostro sfortunato amico soffre per una dolorosa punizione che può essere alleviata con un siero oppure lasciata a seguire il suo corso naturale. È al mio servizio perché vuole sopravvivere.» «Lui non ti salverà», disse il presbitero rivolto alla guardia. «Per amor di dio, adesso aiutaci, e salvati l'anima!» «Ecco una buona offerta per cui morire!» lo schernì Devon. «Persino ora privilegi la fede sulla convinzione. Credimi, Sypes. Il destino dell'anima non ha molta importanza quando ogni goccia del tuo sangue brama un'altra ora di vita. Ma guardalo!» La guardia trasalì. «Speravo che non sarebbe stato necessario», disse Devon con espressione più dura. «Il veleno che c'è in lui è raro e costoso. Ma sono stato obbligato a usarlo, non è vero, Angus?» Angus annuì come un bambino colto in fallo. «Un coltello nascosto!» disse Devon, indignato. Guardò il presbitero Sypes, come se si aspettasse che il vecchio prete condividesse la sua disapprovazione per un'azione del genere. «Quest'uomo ha tentato di uccidermi nel momento in cui gli allentavo le catene.» Il presbitero si accigliò. «Suppongo che tu faccia lo stesso effetto a diverse persone. Allora, che vuoi?» 243
Gli occhiali di Devon balenarono alla luce delle candele. «Cosa voglio?» Fissò il presbitero per qualche istante. «Voglio mostrarti un miracolo.» Tirò fuori dal panciotto una siringa piena di liquido color sangue. «Sai cos'è questo?» «Non farlo», disse il presbitero. «Non qui. Parliamone in privato.» Devon si arrotolò una manica. «Parleremo, Sypes, ma dopo.» Guardò Fogwill, e poi Dill. «Questo richiede dei testimoni del tempio.» Avvicinò la siringa al braccio e si infilò l'ago nella pelle. «Naturalmente avrei preferito disporre di un flacone di vetro scuro, o di una fiala ornata d'oro, qualcosa di più appropriato...» Una piccola dose di liquido gli sparì nella vena. «Ma alla fine una comune siringa mi è sembrata la scelta più pratica.» Devon sfilò l'ago e mostrò il braccio come un imbonitore. «E adesso guardate.» «Matto da legare», borbottò il presbitero Sypes. Se in seguito qualcuno avesse chiesto a Dill di raccontare come si erano svolti i fatti nel Sanctum, l'angelo sarebbe stato incapace di riferire cosa fosse successo esattamente, o in che ordine. Per quanto riusciva a ricordare, gli eventi si erano susseguiti alla velocità di un sogno. Una raffica di emozioni - beatitudine, meraviglia, dolore - attraversò il viso di Devon in rapida successione, ma provocando un tale cambiamento che ogni espressione sembrava appartenere a una persona diversa. La pelle rossa impallidì fino a diventare rosa e poi bianca, quindi si tese attraverso la fronte e sotto gli occhi. Le vesciche si ridussero e il fluido sembrò essere riassorbito nella carne. Le piaghe purulente si seccarono e guarirono. Smise di sanguinare. Devon rimase in piedi a braccia allargate sull'orlo dell'abisso e disse: «Li sento dentro di me». I suoi occhi sembravano risplendere più intensamente a ogni pulsazione e scrutava selvaggiamente il pavimento. «Li sento tutti, sento... le loro voci.» Mentre l'attenzione del presbitero e di Fogwill era fissa su quella trasformazione, e Angus era piegato sulla sua picca a fissare un qualche punto lontano, soltanto Dill si accorse dell'uomo che si stava arrampicando fuori dall'abisso, alle spalle di Devon. Dapprima un rampino apparve sul bordo, poi una mano bendata e poi un'altra, e quindi l'uomo più grosso e brutto che Dill avesse mai visto si issò a forza nel Sanctum. Indossava abiti così laceri da rivelare almeno un centinaio di ferite. Sudiciume, sangue e barba incolta avevano trasformato il suo viso in una visione dell'inferno, e gli occhi gli ardevano di puro odio. 244
Il nuovo arrivato si tolse una scure dalla cintura e la sollevò. «Mr. Nettle!» gridò il coadiutore Crumb non appena si accorse della sua presenza. «Il razziatore!» Devon si voltò barcollando, con le braccia tese. I possenti bicipiti del razziatore si gonfiarono, lacerando altre cuciture negli abiti già a brandelli. Calò l'arma con una rotazione feroce. La scure recise di netto la mano destra di Devon, e il sangue sprizzò ovunque. Stringendo ancora la siringa, la mano cadde a terra. Devon fissava a bocca aperta il proprio polso e il sangue che zampillava dal moncherino. Sembrò sul punto di dire qualcosa, poi chiuse la bocca e rimase impietrito per qualche istante, prima di decidersi a stringere il polso ferito con la mano buona. Il sangue gli ruscello fra le dita, gocciolando sul pavimento del Sanctum. Dill non aveva mai visto tanto sangue. Mr. Nettle raccolse la mano recisa e la sollevò come un trofeo. La siringa risplendeva rossa alla luce delle candele. «Abigail.» Devon ruggì e si scagliò addosso a Mr. Nettle. Finirono a terra entrambi, in una massa scomposta, e la mano schizzò in aria tracciando un'alta parabola verso l'abisso. Mr. Nettle rotolò di fianco e si rimise in piedi di scatto. Annaspò, strisciò, scivolò sul pavimento insanguinato, all'inseguimento della mano. Troppo tardi. Mano e siringa precipitarono nell'oscurità. Angus era stato lento a reagire, ma ora si avventò contro il razziatore sollevando la picca. Mr. Nettle gli voltava le spalle, in piedi sull'orlo dell'abisso, a guardare in basso istupidito. La guardia del tempio caricò tutto il proprio peso nell'affondo e colpì con uno schianto. Mr. Nettle cadde a capofitto nel vuoto. Sparì in un lampo, ingoiato dall'abisso. «No!» gridò Devon. Corse a raggiungere Angus sull'orlo del baratro, stringendosi ancora il moncherino. Rimasero entrambi a fissare le tenebre sotto di loro. Dill sentì nuovi colori che gli crepitavano negli occhi. L'Avvelenatore si voltò all'improvviso, scuro in volto, e si precipitò a fronteggiare il coadiutore Crumb e il presbitero. «Un altro dei vostri assassini?» 245
«Non era nostro», ribatté con una certa calma il presbitero. «Credo che tu abbia ucciso la figlia di quell'uomo.» «Selvaggio ignorante», sputò Devon. «Le ho solo estratto l'anima.» «Credo che avrebbe preferito che l'anima restasse dov'era», disse il coadiutore Crumb. Devon lo ignorò. Stava osservando il moncherino dove una volta c'era stata la sua mano destra. Il sangue risplendeva ancora, bagnato, ma aveva smesso di sgorgare dalla ferita. «Non importa. Guarda come sta già guarendo.» Protese il braccio ferito. Dill vide che stava davvero guarendo. La pelle nuova ricresceva a vista d'occhio sopra la ferita. «Angus, adesso ce ne andiamo», disse Devon. «Sypes verrà con noi. Se resiste, infilzalo.» Tornò verso la gabbia, frugò nel sudario e tirò fuori una sacca di pelle. Con la punta della picca, la guardia fece allontanare il presbitero dal leggio. «E gli altri due?» chiese. «Cosa credi che sia?» disse Devon. «Un volgare assassino?» Alzò le spalle. «Deepgate deve sapere cos'è successo qui dentro. Credo che non ci guadagnerei nulla a uccidere l'ultimo Arconte di Ulcis. Il dio delle catene potrebbe prenderlo come un affronto personale. Quanto al ciccione, è l'idiota ideale per prendere il posto di Sypes in sua assenza. Chiudili tutti e due nella gabbia.» Agitando la picca, Angus spinse Fogwill e Dill dentro la gabbia delle anime, chiuse il chiavistello e gettò la chiave nell'ombra. Poi pungolò il presbitero Sypes verso la porta, mentre Devon raccoglieva la sacca di pelle e li seguiva. Il coadiutore Crumb inciampò sui cadaveri avvolti nei sudari e cadde pesantemente addosso a Dill. Gridò a Devon: «Ti aspetti di poter uscire da qui così facilmente? La città è piena di soldati che ti cercano». Devon emise un lungo sospiro esausto. «Ormai la ricerca è arrivata fino ai confini di Deepgate. E ho improvvisamente sviluppato una certa sfiducia nelle armi dei tuoi soldati.» Mentre raggiungeva la porta, Devon strizzò l'occhio a Dill, indaffarato ad aiutare il coadiutore a rimettersi in piedi. «Bel combattimento, arconte.» Per la prima volta Dill si ricordò della spada che portava al fianco. I suoi occhi virarono sul rosso. 246
La serratura della porta del Sanctum scattò mentre l'uscio si chiudeva, come un coltello che affondava nel cuore di Dill.
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19 UN PIANO PERICOLOSO
«Era ferito, aveva con sé una guardia e teneva il presbitero all'estremità della sua stramaledetta picca», esclamò Mark Hael. «In nome di cento arconti, volete spiegarmi come ha fatto a svanire nel nulla?» Il giovane capitano degli aeronauti rimase rigido sull'attenti mentre il suo comandante camminava avanti e indietro davanti a lui. «Riteniamo che abbia rubato un'aeronave.» Fogwill sedeva immobile alla scrivania di Sypes, ornamentale come un soprammobile, le dita ingioiellate a cupola sotto il mento. La tonaca scarlatta si riversava sul pavimento in scure cascate che profumavano di lavanda. Sopra di lui si ergevano i pilastri del Codice; cataste di pietre e di marmi ingombravano il pavimento attorno al pilastro ancora da completare, notò il coadiutore. Erano trascorse più di due settimane dall'ultima volta che era stato lì, e ancora non si era visto un solo muratore sull'impalcatura. Li pagavano a ore, di sicuro. Clay, il capitano della guardia del tempio, era stravaccato sulla sedia di fronte e osservava l'interrogatorio con espressione annoiata, gli occhi indistinti come teste di chiodo piantate in una pietra scabra. Un mantello color fumo copriva la corazza, chiuso al collo da una spilla di ferro con l'emblema delle guardie del tempio. Il comandante Hael era accigliato. La sua uniforme era di un bianco spettrale, bordata d'oro. «Tu ritieni che abbia rubato un'aeronave?» Smise di camminare. «Ci risulta o non ci risulta che manchi una nave?» «Una nave da guerra risulta mancante.» «Una nave da guerra?» Il giovane mantenne lo sguardo fisso davanti a sé. «La Birkita, una corazzata. Era in arsenale per il riarmamento completo. L'equipaggio avrebbe dovuto imbarcarsi dopo la Consegna di questa mattina.» Il comandante sibilò: «Per cui è armato fino ai denti». Fogwill fece segno a Mark Hael di rimettersi a sedere e si sporse attraverso la scrivania. «Vorrei sapere come hanno fatto ad arrivare fino al pontile senza che nes248
suno li vedesse.» L'aeronauta lo guardò negli occhi. «Abbiamo un rapporto su una guardia del tempio che scortava due dolenti che lasciavano il ponte. Supponiamo si trattasse di quell'Angus: ovviamente i volti degli altri erano coperti, ma...» Clay abbaiò una risata. «Siamo da biasimare tutti quanti: che vogliamo farci?» Fogwill si massaggiò le tempie. Gli stava venendo mal di testa. Avrebbe voluto essere solo, lontano da quell'uomo così aspro. «Che direzione ha preso la nave?» «Nord.» «Puoi andare, grazie.» L'aeronauta gettò un'occhiata a Hael, che annuì. «Comandante.» Il giovane salutò, fece dietrofront e uscì. Clay si adagiò ancor di più sulla sedia. «Se n'è semplicemente andato dal tempio», disse, senza perdere l'occasione di sottolineare quel che era ovvio. «Dotta osservazione, capitano Clay», lo rimbeccò aspro Fogwill, ma era più arrabbiato con se stesso che col capitano della guardia del tempio. Il coadiutore aveva passato un'ora rinchiuso nella gabbia delle anime assieme a un silenzioso e meditabondo Dill, prima che Borelock entrasse nel Sanctum con un secchio in mano per pulire. Borelock aveva sbarrato gli occhi per la sorpresa ed era corso a liberarli, dopodiché Fogwill aveva immediatamente dato l'allarme alle guardie del tempio, che a loro volta avevano mandato messaggeri a convocare il capitano Clay e il comandante Hael. Gli avevano assicurato che il presbitero Sypes non era passato dal ponte, e quindi Fogwill le aveva sguinzagliate a perquisire il tempio, dopo aver disperso prefiche e dolenti. Era già mezzogiorno, ed era ormai evidente che Devon avesse lasciato Deepgate. «Bisognerà mandare l'intera flotta all'inseguimento», suggerì Clay. Furioso, Fogwill si faceva ruotare un anello attorno al dito. «Comandante Hael, fra quanto tempo la tua nave resterà a secco?» «Era a pieno carburante», rispose Hael rigido. «Direi quindi una settimana, otto giorni al massimo. Dipende dal tempo, dai venti e dalla velocità che le farà tenere Devon.» Guardò Fogwill con malcelata avversione, incapace di nascondere il proprio disprezzo. «Cosa vuole Devon dal presbitero?» Fogwill ricambiò imperturbabile il suo sguardo. «Risposte.» 249
«A cosa?» Il prete esitò prima di rispondere. Sypes era stato irremovibile: nessuno tranne loro due doveva conoscere le intenzioni di Ulcis. Come si poteva ordinare a un esercito, a un'intera città, di combattere il dio che avevano fino ad allora adorato? Tutto si era basato sul reclutamento di Carnival, e adesso sembrava che non avessero più niente da offrirle. Si ritrovavano invece con un esercito di morti destinato a ingrossare a forza le proprie file, un presbitero rapito e un pazzo in libertà su una nave da guerra. «Non è certo l'unico che vorrebbe delle risposte», disse Hael. «Questa caccia all'uomo è stata una pagliacciata fin dall'inizio: le nostre Piantagioni sono esposte agli attacchi lungo tutto il Coyle. Abbiamo a malapena gli uomini necessari per la sorveglianza dei porti di scambio di Racha e Clune. Sia la Jasmin Eulen sia la Marisa sono state incendiate dai razziatori l'ultima volta che hanno attraccato. E abbiamo almeno un migliaio di riservisti richiamati che aspetta la paga prima della Notte dello Sfregio. Potrei almeno sapere chi ci stiamo preparando a combattere?» Fogwill non rispose. «Esigo...» «Comandante», lo interruppe Fogwill. «Non permetterti di esigere qualcosa da me nel mio stesso tempio. Le intenzioni di Devon si chiariranno senz'altro in breve tempo, e fino ad allora voglio che l'esercito sia qui e pronto a intervenire. L'Avvelenatore dispone di una nave da guerra con armamento completo, e il vino d'angelo potrebbe già aver avuto su di lui effetti che non siamo in grado di prevedere.» Gli occhi di Hael si fecero duri come i bottoni della sua uniforme. Fogwill cercò di non trarre piacere dall'irritazione del comandante, ma non era facile. Hael era un prepotente, e Fogwill aveva sempre disprezzato i prepotenti. «Dubito che il vino d'angelo farà qualche differenza per Devon», biascicò Clay. «Era già matto da legare anche prima, il semplice fatto che si sia iniettato quella roba lo dimostra. Non mi sono mai fidato di lui. Non mi sarei avvicinato alle torte di Fondelgrue per almeno una settimana, dopo che Devon si era aggirato ad annusare per le cucine.» «Grazie, capitano.» Fogwill sciolse le mani che aveva tenuto intrecciate in grembo. «Comandante Hael, hai detto che ha condotto la nave a nord, verso le Sabbiemorte. Perché a nord? Cosa potrebbe trovare lassù?» «Niente», ammise Hael. «Qualche sparuto accampamento Heshette, 250
sabbia, la foresta pietrificata e... Trononero. La maggior parte delle oasi è stata avvelenata. A ogni modo, gli Heshette sarebbero un pericolo più per lui che per noi.» «E allora perché si dirige da quella parte?» Clay si batté un dito sulla tempia. «Matto come un cavallo.» Ma Fogwill non era ancora convinto. Devon aveva qualche piano. Devon aveva sempre qualche piano. «Bene. Prepara la flotta per l'inseguimento.» Dopo che gli altri se ne furono andati, Fogwill rimase seduto da solo alla scrivania di Sypes, a riflettere. A quanto pareva, Carnival aveva già saputo dell'esistenza del vino d'angelo. A sentire un navigatore che era sopravvissuto alla recente distruzione di un'aeronave, il capitano le aveva raccontato tutto quello che sapeva. Solo che adesso il vino d'angelo era andato perduto nell'abisso. Però quello lei non lo sapeva. *** Il ponte della Birkita vibrava mentre l'aeronave si dirigeva a tutta velocità verso le Sabbiemorte. I motori pulsavano regolarmente. Devon era in piedi davanti al timone, una mano e un moncherino appoggiati sulla grande ruota, a guardare fuori dall'ampia curvatura della finestra del ponte. Un sole arancione stava tramontando a ovest, gettando lunghe ombre scure sulle dune. Il teak e l'ottone del ponte di comando risplendevano nella luce calda. Dozzine di lucenti trombe di comunicazione sporgevano dal ponte e dalle pareti, su entrambi i lati. File di grossi quadranti mostravano pressione, velocità, altitudine, rotta e innumerevoli altre ricercatezze che i tecnici avevano aggiunto al suo progetto originale. Devon diede per scontato che i dati che non era in grado di leggere non fossero così importanti. Un'aeronave è un involucro di gas. Sale, scende, va avanti e indietro. Si muove a una certa velocità e in una certa direzione. Che altro c'è da sapere? Una brezza polverosa proveniente dalle prese d'aria sopra i finestrini gli increspò qualche ciocca di capelli. In lontananza, i picchi nodosi di Trononero risplendevano color del bronzo sotto un cielo striato di rosa e azzurro. «Il tuo uomo è sparito», disse Sypes con voce stridula. «Ti ha forse abbandonato? Oppure non hai trovato in tempo il siero che gli occorreva?» Il vecchio prete non si era mosso dalla sedia che Angus gli aveva procurato nella cabina del capitano e aveva piazzato al centro del ponte. Le pie251
ghe scure della tonaca sembravano inghiottirlo del tutto: ne sporgeva solo la testa, ancora più scarna del solito e appena tentennante quando parlava, come quella di un tacchino. «Hai fatto un sonnellino piacevole?» chiese Devon. «Ho dormito?» «Per tutto il tempo.» «È il caldo.» «Farà più fresco dopo il tramonto. Angus è in sala macchine, felicemente pieno di siero. Se dovessi pensare io ai motori, mi sarei perso questa magnifica vista, e se li controllassi tu saremmo tutti morti.» Ruotò il timone di una frazione. «Anche se almeno non mi sarei dovuto sorbire il tuo russare incessante. Se hai sete c'è del vino, sul pavimento accanto alla tua sedia.» Sypes trovò la bottiglia e se la portò alle labbra con mani tremanti. Il vino sembrò calmargli i nervi. «Difficile che uomini della mia età siano buoni viaggiatori.» Fece uno sforzo per mettere a fuoco Devon. «Come sta la tua mano?» Devon sollevò il moncherino su cui un tempo c'era stata la mano. La pelle nuova copriva il polso. «Se quel tanghero non l'avesse fatta cadere nell'abisso, la mano sarebbe di nuovo attaccata al polso. E così avrei potuto usarle tutte e due per strozzarlo.» «Sembrava un tipo pieno di risorse.» Devon sbuffò. «Non abbastanza da farsi crescere le ali.» «Mi par di capire che hai ucciso sua figlia.» «Direi che ne condividiamo la colpa tutti e due, Sypes.» Sypes abbassò gli occhi. L'Avvelenatore studiò uno degli indicatori del pannello di controllo, poi ruotò il timone di qualche grado. «Mi chiedo che ne abbiano fatto i fantasmi laggiù dei nuovi arrivi di stamani: la mia mano, e dietro di essa un pazzo assassino che volava di sotto.» Le rughe sul viso di Sypes si approfondirono. «Di solito sono morti, prima di raggiungere la tana di Ulcis.» «Tana? Che strana scelta di termini.» Diede un'occhiata al vecchio. «Così la sua anima non ha dovuto fare un lungo viaggio, immagino. Quanto sarà stata lunga la caduta, secondo te, prima di toccare il fondo?» Sypes non rispose. La nave vibrò e sbandò di lato. Il ponte scricchiolò 252
in maniera sinistra. Sypes accennò alla montagna lontana, che si stagliava un po' sghemba oltre la finestra anteriore. «Ti aspetti di trovare alleati a Trononero?» «Alleati? No, schiavi.» La risata di Sypes si trasformò in una tosse stizzosa. «Credi davvero che gli Heshette faranno mai quello che gli dici?» «Sono un ottimista.» «Ci ammazzeranno tutti.» Devon sollevò il moncherino. «Che ci provino pure.» Il vecchio prete aggrottò la fronte. Allungò la mano verso la bottiglia di vino per impedirle di rovesciarsi. «Distruggeranno la nave non appena scenderà.» «Probabile.» «Quel vino d'angelo», borbottò Sypes. «Te ne rendi conto, vero, che ti sta già facendo impazzire?» L'Avvelenatore si limitò a sorridere, e si voltò per guardare dalla finestra. Trononero risplendeva a una strana angolazione, sotto gli ultimi raggi del sole. Devon mormorò un'imprecazione fra i denti, poi parlò nel tubo di comunicazione con la sala macchine, che sporgeva dal pannello di controllo: «Angus, scarica le nervature di dritta di...» - gettò un'occhiata all'indicatore - «... ottocento galloni circa». Si voltò di nuovo verso Sypes. «Vedi come risplende la montagna? Il minerale di Trononero... la sventura dei minatori, lo chiamavano. Devono essercene milioni di tonnellate, là dentro. La cosa più strana e che non ne abbiamo mai trovato nessun altro giacimento al di fuori di quella montagna. Nemmeno uno. Credo che Trononero non sia una montagna naturale, ma parte di qualcosa che è precipitato dal cielo ere fa.» Devon alzò le spalle. «Ecco perché non cresce quasi nulla nelle Sabbiemorte. La montagna è veleno per questo mondo.» Lo sguardo di Sypes dardeggiò verso l'orizzonte e poi di nuovo su Devon. «E così avresti deciso di riaccendere il tuo interesse per la metallurgia?» «Tutte le scienze mi interessano... soprattutto quelle proibite, negli ultimi tempi.» Devon si accorse che il presbitero cercava di evitare il suo sguardo. «Smettiamola di girarci attorno, Sypes: perché mi hai aiutato?» Il presbitero era sprofondato ancora di più nella sedia. Guardò a lungo 253
fuori, con gli occhi socchiusi. Alla fine parlò: «Non avrebbe mai dovuto verificarsi, questa caccia all'uomo». «Fogwill», disse Devon. Sypes annuì con aria stanca. «Sapevo che non appena ricevuto il resoconto degli Uomini Molli non avresti resistito alla tentazione di procedere con la distillazione. I dolori che patisci, il danno che ti hanno causato i veleni... Era la soluzione per mettere fine alle tue sofferenze, o almeno a quelle fisiche. Mi dispiace che la conoscenza mi sia arrivata troppo tardi per poter salvare Elizabeth.» L'espressione di Devon si incupì. «Non pronunciare il suo nome, Sypes. Non te ne sei guadagnato il diritto.» «Mi dispiace», ansimò il vecchio. La furia di Devon si attenuò. «Non ti fidavi abbastanza di me per contattarmi direttamente?» «Ovviamente no.» «Se non altro è ragionevole.» «Quando il vino d'angelo fosse stato pronto, l'avrei capito dal tuo aspetto. A quel punto sarebbe stato semplice prendertelo.» Senza pensarci, Devon sollevò il moncherino verso il mento. La sensazione era di pelle nuova, tenera, ma non avvertiva nessun dolore. Si rese conto all'improvviso che sotto gli abiti aveva ancora i bendaggi; negli anni ci si era così abituato che ormai non se ne accorgeva quasi più. Ma ovviamente adesso poteva farne a meno, anche se il suo abito sarebbe stato troppo grande sul corpo privo di bende. Fu quasi sul punto di sorridere. «Volevi l'elisir per te?» «No, per Carnival.» Vuole scatenarmela contro? In un certo senso, l'idea lo divertì. C'era una sorta di profonda soddisfazione nell'aver raggiunto quel livello di infamia. «La Spina ti avrebbe adorato per questo», commentò. «Era un rischio.» Il presbitero bevve un altro sorso di vino. «Il minore dei mali: col vino d'angelo nelle vene non avrebbe più avuto bisogno di far vittime per sopravvivere. Sarebbe stata la fine delle Notti dello Sfregio... tredici sacrifici per salvarne chissà quanti altri. Ma adesso quelle stesse anime mi pesano come gli anelli di una catena attorno al collo.» Il ponte rollò bruscamente di lato, il metallo che protestava gemendo 254
sempre più forte. Qualcosa vibrò oltre le pareti, come una corda troppo tesa. Devon agguantò il tubo di comunicazione: «Angus, ti ho detto di sfiatare...» Poi estrasse un secondo comunicatore, che un tubo flessibile collegava al pannello di controllo, e se lo portò all'orecchio mentre ne usciva una flebile voce metallica. «Sì... No... Portalo a mille galloni, adesso... A dritta... No, quello a destra... Sì, quello che sembra una valvola d'arresto... Cosa? Non lo so, gira quello stupido coso un paio di volte...» Dopo qualche secondo la Birkita si raddrizzò con un sibilo e un fremito. L'orizzonte tornò a essere più o meno dritto, prima di cominciare a inclinarsi nella direzione opposta. Devon fece per afferrare di nuovo il comunicatore, ma il ponte si rimise quasi subito in piano. L'Avvelenatore si voltò verso il prete e rimase a fissarlo per qualche istante. La spiegazione di Sypes gli era sembrata piuttosto fiacca. Possibile che avesse accettato con tanta facilità il furto di tredici anime solo per porre fine allo spargimento di sangue della Notte dello Sfregio? Andava contro tutto ciò che il vecchio e la sua Chiesa avevano sempre rappresentato agli occhi del mondo. Di certo non c'era colpa peggiore agli occhi del suo dio. Doveva esserci altro in gioco. Teme qualcosa, sta nascondendo qualcosa. Era pronto a sfidare addirittura l'ira del suo stesso dio, per questo. Da qualunque punto di vista lo considerasse, Devon non riusciva a venirne a capo. Che abbia forse paura del suo dio? O di qualunque cosa consideri il suo dio? «Dimmi, cosa giace davvero in fondo all'abisso?» gli chiese. «I morti... e Ulcis.» La risposta di Sypes era stata troppo precipitosa. Devon sbuffò. «Un dio spodestato, privato del suo trono, che regna su un esercito di spettri? Non lo posso accettare.» Sypes bevve un altro lungo sorso di vino e rimise la bottiglia sul ponte. La sua mano era più ferma; la trattenne un attimo sopra la bottiglia per assicurarsi che restasse in piedi. «Non credi in Ulcis?» «Credo che qualcosa dimori laggiù. Ma un dio? No.» «Tua moglie ci credeva...» Devon capì che Sypes stava cercando di distrarlo, ma non riuscì comunque a controllare la propria ira. «Elizabeth è morta e sepolta, vecchio pazzo», insorse. «Soltanto i vermi potevano raggiungerla già prima che fosse morta, quegli stessi vermi adoratori dell'abisso per proteggere i quali ho dato la vita. E adesso dimmi ciò che sai, sto perdendo la pazienza.» «Hai intenzione di torturarmi?» 255
«Cosa?» Devon si accorse solo allora che stava stringendo il braccio del vecchio, abbastanza forte da fargli male. Lo lasciò andare. «Certo che no. No, certo che no.» Che diavolo gli stava succedendo? Quegli accessi d'ira non erano da lui. Si sentiva la testa annebbiata, non riusciva a pensare con chiarezza. Il vino d'angelo... erano quelli gli effetti collaterali di cui parlavano gli Uomini Molli? No, sarebbe passato, così come erano svanite le voci. C'erano state delle voci? Dopo che l'elisir gli era entrato nelle vene, si era convinto di averle sentite... le voci di tutti coloro che aveva dissanguato, che sussurravano, piangevano, urlavano. Ma ora? Non se ne ricordava più. «Mi sorprende sentirtelo dire», disse Sypes. «Hai sempre sostenuto che l'efficacia della sofferenza non va sottovalutata.» «Temo che il tuo cuore non reggerebbe se mi limitassi anche solo a urlarti contro.» Il presbitero fece una risatina poco convinta, una risata che presto si trasformò in un accesso di tosse. Fece per prendere la bottiglia, ma la urtò facendola rovesciare. Rotolò via, sprizzando vino sul ponte. Devon la raccolse e gliela porse. Sypes bevve a lungo. Quando la crisi di tosse passò, gli disse: «Se stai cercando di farmi ubriacare...» «Che dio mi scampi, per sopportarti ancora mentre russi?» «Allora?» Allora cosa? Che avrebbe fatto? Era quasi sicuro di aver avuto la risposta, qualche attimo prima. Ma adesso si sentiva confuso. Cercò di concentrarsi, di farsi strada in quel sudario di nebbia che gli velava i pensieri. Dov'era? Dov'era Elizabeth? Elizabeth... Distesa sul letto, a piangere. A morire, mentre lui la osservava addolorato e impotente. Una vita che era filtrata via finché non ne era rimasto più nulla. Prima la sua bellezza, l'energia, e alla fine anche la speranza. Aveva pianto come una bambina, e lui non era riuscito a escogitare niente che fosse in grado di salvarla. Devon avvertì una morsa fantasma che gli stringeva l'estremità del braccio. Alla fine la città gli aveva tolto tutto. Sapeva ciò che doveva fare. «I morti non abitano in fondo all'abisso», ringhiò. «Ci sono radunati sopra. Pellegrini che vengono trascinati fino a Deepgate per ingrassarli prima 256
di essere macellati... anime mietute solo per sostentare qualunque cosa dimori laggiù. È forse vita, questa?» «Che vuoi saperne tu della vita?» Devon ruggì: «Sono il mio sangue e il mio sudore che vi hanno mantenuto sani e salvi! Mi avete storpiato, rovinato. Me l'avete portata via. L'avete uccisa!» «Non sei più storpio...» Sypes si stava dibattendo, cercava di distogliere il viso come temendo che Devon potesse colpirlo. «E allora?» Devon sollevò il moncherino verso Sypes. «Non siete ancora sazi di me, non lo sarete mai. Le masse trovano ciò che gli serve e poi lo consumano. Una fame ottusa, bovina. Già morti, tutti quanti, marci sotto la pelle, pronti a diventare mangime per la vostra fede.» Trasse un profondo respiro: prima di allora un simile sfogo gli avrebbe massacrato di dolore il petto. Ma non adesso. Il sangue gli pompava nelle vene, fresco e vigoroso. Dalla città aveva strappato a forza la propria vita. Ma non era sufficiente. Come avrebbe potuto esserlo? Deepgate gli doveva più di quanto avrebbe mai potuto restituirgli. «Qualunque sia la cosa che giace in fondo all'abisso, ha costruito il Dente di dio per estrarre il minerale da Trononero e ha forgiato le catene, e si è poi inabissato laggiù per tremila anni... a nutrirsi. Un dio?» Sogghignò. «No, un parassita, come tutti quanti voi.» Sypes strinse gli occhi. «Tu mi dirai cosa c'è esattamente laggiù.» «Cosa intendi fare?» Devon sorrise appena. «Attirerò la sua attenzione. Reciderò le catene.» Sypes annaspò in cerca d'aria. «Perché no?» disse Devon. «Tanto non finirete tutti laggiù, prima o poi? Non è quello il fine ultimo delle vostre esistenze? Perché non spedire tutti giù fin da ora?» Persino le macchie scure sulla testa del presbitero sembrarono impallidire. «E uccideresti tutti gli abitanti della città?» «Uccidere?» gridò Devon. «Non farei che dargli quello che vogliono!» *** Lo sguardo del giovane aeronauta era rapito dallo splendore d'ottone dell'auroletiscopio, e parlava senza guardare il coadiutore Crumb. «Trenta corazzate sono partite all'inseguimento della Birkita, a massima spinta di compressione. Scioglieranno la linea di bandiere dietro di sé mentre proce257
dono.» «Affascinante», rispose Crumb. «E in fin dei conti del tutto incomprensibile. Dill, tu hai idea di cosa abbia appena detto quest'uomo?» Dill confessò di non averne idea. L'aeronauta guardò Crumb e ricominciò da capo. «Le corazzate...» «Corazzate?» «Navi da guerra con armamento pesante. Gas di calceviva, incendiarie...» «Capisco. Continua, ti prego.» «Stanno inseguendo la Birkita a spinta di compressione. Hanno accoppiato i motori e incrementato la pressione del carburante...» «Va bene, va bene, non mi servono tutti i dettagli. Hanno fatto qualcosa ai motori per far andare le navi più veloci. Ma cos'era tutto quello sproloquio sullo sciogliere le bandiere?» «Le navi si staccheranno a una a una dal grosso della flotta e rimarranno ferme a formare una linea di bandiera.» «Linea di bandiera?» «Una linea di comunicazione.» «Ah.» Il prete sembrò compiaciuto. «Perché non l'hai detto subito? Ora via, sciò. L'angelo e io abbiamo questioni importanti da discutere.» Quando l'aeronauta riuscì a distogliere l'attenzione dall'attrezzatura dell'osservatorio e se ne fu andato, il coadiutore Crumb fece cenno a Dill di avvicinarsi all'auroletiscopio. «Questa gente ha davvero l'abitudine di spiegare nella maniera più complicata le cose più semplici. C'è da stupirsi che la marina di Deepgate riesca a funzionare!» Allungò un braccio verso il macchinario e cominciò a regolare alcuni elementi. «Ora, se ben ricordo, Sypes faceva così. Bisogna inserire l'ultralente nella torretta del prisma...» Infilò qualcosa. «E poi ruotare i filtri mattinici fino a una prudente obrezione.» Fece ruotare qualcosa di luccicante. «Ecco fatto. Ora dovremmo riuscire a vederli. Vuoi vedere i morti?» Dill si avvicinò con cautela all'auroletiscopio, cosciente dell'ingombro delle proprie ali nel minuscolo osservatorio, timoroso di rovesciare qualcosa e allo stesso tempo dolorosamente consapevole delle tenebre che lo circondavano. Il buio era opprimente: gli pareva di sentirsi addosso tutto il peso del tempio che gli spremeva il sangue fin nelle viscere, e dovette lottare per mantenere il respiro sotto controllo. 258
La scrivania dell'osservatorio era ingombra di rotoli sigillati con la cera, calami d'osso e piramidi di inchiostri rossi, verdi, neri e blu nei loro flaconi di vetro. Altri rotoli racchiusi in cilindri di cuoio riempivano gli scaffali circostanti. Un armadietto con le ante di vetro esponeva, come in una vetrina di attrezzi chirurgici, gli elaborati strumenti per la regolazione e la calibratura dell'auroletiscopio. Il macchinario era talmente ingombrante che la stanza stessa sembrava farne parte, uno spazio celato all'interno dei suoi meccanismi. La colonna che conteneva l'insieme delle lenti torreggiava due volte più alta di lui, e tutti gli ingranaggi, collegamenti e montanti che ne sporgevano sembravano affollare lo spazio sotto il soffitto lievemente arcuato. Il coadiutore cercò di strizzarsi dalla parte opposta della scrivania, le maniche a livello del petto per evitare la fiamma delle candele. Attorno a lui aleggiava una nuvola di profumo, un aroma dolciastro di frutti estivi. «Ora guarda qui dentro e dimmi cosa vedi.» Dill si chinò sopra la scrivania e si avvicinò all'oculare. La lente rifletté il suo occhio bianco-grigio mentre si avvicinava ancora di più, finché non vide altro che un nero profondo. «Riesci a vederli?» Dill osservò con più attenzione, cercando di distinguere ogni possibile variazione nella tenebra fitta. «È... difficile a dirsi.» «Dai ai tuoi occhi il tempo necessario per adattarsi.» Scrutò il vuoto che aveva davanti. Ancora niente. Avrebbe potuto avere davanti un foglio di carta nera. Sentì che le ombre dell'osservatorio gli s'infittivano attorno, le sue pulsazioni si facevano più affrettate. «Che aspetto hanno?» Il coadiutore Crumb sbuffò. «Cerca di aggiustare la messa a fuoco: è la manovella sulla destra dell'oculare. Ecco, quella.» Dill girò la manovella. Sentì che la struttura d'ottone si metteva in movimento con uno scatto sopra la sua testa. Laggiù. Si fermò. Per una frazione di secondo aveva percepito un movimento nel buio. Minuscole luci. Girò appena indietro la manovella e le luci riapparvero, molto fievoli e ammiccanti. «Li vedi?» Due, tre luci. Si libravano lentamente nel buio, mutavano forma, di tanto in tanto si spegnevano e riaccendevano. «Li vedo», disse in un soffio. «Le anime dei morti», confermò il coadiutore. Dill si sforzò di distinguerle meglio, cercando di scorgere le sagome delle persone dentro le luci. Ma erano troppo lontane, solo pallidi barlumi in movimento. Se solo Rachel potesse vederli... Continuò a osservare i fantasmi finché non uscirono 259
dalla visuale. E anche dopo che erano scomparsi rimase a lungo con l'occhio incollato allo strumento, nella speranza che tornassero, ma non vide più nulla. Alla fine il coadiutore Crumb gli appoggiò una mano sulla spalla e lo fece spostare con dolcezza. «Sei fortunato ad averli visti, pochissimi ci sono riusciti, specie a quest'ora. Di solito compaiono soltanto verso l'ora della Consegna.» «Per dare il benvenuto ai nuovi morti?» Il coadiutore Crumb sembrò sforzarsi di nascondere un sussulto. «Così riteniamo.» Dill guardò l'oculare dell'auroletiscopio, sperando che il coadiutore gli permettesse di dare un'altra occhiata, ma il prete si lasciò cadere sulla sedia e osservò Dill con espressione pensierosa. «Siamo circondati dai nemici», annunciò. «Gli infedeli?» «Certo.» Esitò. «Ma temo che ora abbiamo un altro nemico, ancora più pericoloso.» Dill annuì. È per questo che mi ha convocato? Hanno bisogno del mio aiuto contro Devon? Rachel gli aveva già riferito tutte le novità: il vino d'angelo aveva fatto impazzire l'Avvelenatore, che vagava in libertà su una nave da guerra rubata e stracarica di armi, mentre la città si preparava al peggio. Di colpo Dill si ritrovò senza fiato, diviso fra l'eccitazione e la paura. «Ricordi il giuramento che hai fatto, di servire e proteggere la Chiesa?» continuò Crumb. La cerimonia era stata celebrata per il suo decimo compleanno. In piedi sull'orlo dell'abisso, con un milione di candele che ardevano dalle mura del Sanctum, Dill aveva giurato fedeltà davanti al presbitero Sypes, al coadiutore Crumb e a Gaine, che lo avevano nominato arconte della Chiesa e gli avevano consegnato l'antica spada che ora pendeva al suo fianco. «Farò tutto quello che chiedete.» Il coadiutore Crumb guardò nell'oculare dell'auroletiscopio. «Dimmi, cosa sai di Carnival?» «La sanguisuga?» Il prete si accigliò. «L'hanno definita in molti modi. Per quanto non sia certo di approvare 'la sanguisuga'. Un termine plebeo, se mai ne ho sentito 260
uno.» «È un mostro, una ladra di anime», disse Dill. «Rachel mi ha raccontato di lei.» «Bene. So che a volte ti teniamo nascoste alcune cose, ma è per il tuo bene. Un angelo non dovrebbe essere gravato più del dovuto dalle crudeltà della vita.» Però un arconte dovrebbe sapere tutto sui nemici della Chiesa. «Carnival sarebbe per noi una grande alleata.» Carnival? «Lei...» Il coadiutore Crumb girò oziosamente la manovella dell'auroletiscopio. «So cos'ha fatto in passato. È una creatura tormentata, ma temo che ora come ora potrebbe essere il minore dei mali.» Dill era rimasto senza parole. Come poteva Devon essere peggiore di Carnival? Come poteva esserci qualcuno peggiore di Carnival? Il coadiutore continuò a giocherellare con la manovella, avanti e indietro. Non sembrava si stesse concentrando su ciò che vedeva. «Carnival è senz'altro un demonio in tutti i sensi, ma è un demonio che conosciamo, per quanto non riusciamo a comprenderla.» Sul suo dito, un rubino risplendette per un attimo alla luce delle candele. «Non sto certo proponendo di perdonarla, però...» Le ruote dentate scattarono sopra di loro. «Al di là della Notte dello Sfregio, la vita continua.» «E perché mai dovrebbe aiutarci?» chiese Dill. «Credevo che ci odiasse.» Stava quasi per dire che vi odiasse. L'auroletiscopio si fermò. Il coadiutore Crumb si appoggiò allo schienale e unì le dita sotto il mento. «Noi possediamo qualcosa di cui lei ha disperato bisogno.» Tornò a fissare l'abisso. «Sono venuto a sapere che lei sa dell'esistenza del vino d'angelo di Devon.» «Ma è andato perduto. È caduto...» «E questo lei non dovrà mai saperlo. Se mai scoprisse che non lo abbiamo più, il nostro vantaggio svanisce.» «Cosa volete che faccia?» Il coadiutore Crumb si era rimesso a giocherellare con la manovella. L'intero macchinario ticchettò e si mise a ruotare con uno scatto secco. «Voglio che tu le riferisca un messaggio.» Le ali di Dill sussultarono suo malgrado. Avvertì che gli occhi stavano diventando color ghiaccio per la paura. «Io?» 261
«Per te sarà più facile trovarla. Puoi volare.» «Ma finora io non ho mai volato, io non...» La menzogna gli soffocò la voce. Nelle iridi si avvicendarono pulsazioni bianche e verdi. Per fortuna il coadiutore non distolse lo sguardo dall'auroletiscopio per accorgersene. «È giunto il momento che tu impari. Dovrai farlo alla svelta, e Rachel ti aiuterà. Voglio che tu trovi Carnival prima della prossima Notte dello Sfregio e le consegni una proposta di trattativa. Non devi parlare di questo a nessuno, capisci? A nessuno.» Fece una pausa. «Dill, devi essere tu a farlo. Ucciderebbe chiunque altro provassi a mandarle. I plebei sono le sue prede. La Spina le ha sempre dato la caccia. I preti le hanno sguinzagliato contro la Spina. Odia gli aeronauti. Anche di recente ha abbattuto una nave da guerra senza ragione apparente, e la maggior parte della ciurma ha perso la vita.» Dill riusciva a malapena a respirare. Gli arconti da battaglia avevano affrontato Carnival in passato. Lo aveva letto sui libri: arconti che già avevano avuto molti altri figli. Altrimenti la Chiesa non avrebbe mai messo in pericolo le loro vite. Pochi erano sopravvissuti, e nessuno ne era uscito senza danni. «Mi ucciderà.» «No», disse il coadiutore Crumb. «Credo che ti starà a sentire.» «Perché?» «Perché tu sarai disarmato.»
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20 CAMBIAMENTI
Un forte vento di prua contrastava la Birkita che avanzava rombando nella notte, i condotti dell'aria che sibilavano e i cavi di sostegno che vibravano. La nave da guerra era un'orchestra di inquietanti rumori notturni. Le stelle si ammassavano oltre le vetrate del ponte, e in basso le Sabbiemorte si gonfiavano in un'indistinta foschia argentea. «Si farebbe prima a piedi», borbottò Devon mentre razzolava nella sua borsa dei veleni. Ma non si fidava abbastanza di Angus in sala macchine, né di se stesso ai controlli, da stabilire una velocità di oltre due terzi della potenza. Il che poteva consentire agli inseguitori di guadagnare terreno su di lui. «Non ho nessuna fretta di raggiungere Trononero», disse Sypes. Il vecchio prete non si era più alzato da quella sedia, e Devon cominciava a domandarsi se avrebbero dovuto scaricarlo dalla nave con sedia e tutto una volta che fossero atterrati. «Non stento a crederlo», ghignò. «E nemmeno ho fretta che tu trovi il veleno adatto.» L'Avvelenatore grugnì. Col lento progresso della nave nel vento contrario, era diventato ancora più impaziente per il rifiuto di parlare di Sypes. Il cuore gli pulsava più forte, e la pelle gli si era tesa sui muscoli. I denti sembravano lucidati con un abrasivo, gli occhi erano rapidi e in continuo movimento. Il vino d'angelo lo stava ancora dominando e trasformando. Perché non avrebbe dovuto torturare il prete? Doveva pur concludere qualcosa, prima che quel maledetto vento finisse per scaraventarli fino a Deepgate. «Questo no», borbottò appoggiando un flacone sul pannello di controllo. «E questo nemmeno.» Mise da parte un'altra bottiglia. Tirò fuori una fialetta verde, ne lesse l'etichetta e scosse la testa. Possibile che nella borsa non ci fosse niente di adatto alle sue necessità? Niente che non avrebbe subito ucciso il vecchio? Gli serviva qualcosa che provocasse dolore, ma senza far precipitare il presbitero nello shock, nel coma, o anche peggio. Veleni di serpente, spore fungine, estratti di dyssodia e di giglio rosso, pigmento di anguilla velenosa: scartò tutto quanto. 263
«Accidenti a te.» Sypes si mosse sulla sedia alle sue spalle. «Trovato nulla?» «Ci sto lavorando.» «C'è ancora un po' di vino? O magari qualcosa da mangiare? Sono affamato.» «Dammi solo un momento.» L'Avvelenatore sollevò l'ultima delle bottiglie e aggrottò la fronte, poi le ributtò tutte nella borsa ed esalò un lungo sospiro. «Cosa vorresti da mangiare?» «Qualunque cosa non crei problemi. Non voglio essere di peso.» «In cambusa ci sono dei molluschi in salamoia, almeno un metro di maiale salato. Oppure seppie... secche, temo.» «I molluschi andranno benissimo.» Quando Devon aprì la porta del ponte di comando i motori rombarono più forte. Il vento minacciava di strappar via i portelli. Chiuse la porta a chiave dietro di sé e si avviò lungo la scala del boccaporto di dritta, reggendosi al corrimano d'ottone lucidato. Pentole e padelle pendevano dai ganci nella semioscurità della cambusa. I barili erano impilati contro la parete di fondo, la maggior parte di essi ormai vuota o con qualche rimasuglio incrostato di sale sul fondo. Anche gli scaffali erano praticamente spogli: tutta la frutta fresca e la carne erano state consumate, e la Birkita non era stata ancora rifornita di provviste dopo l'ultimo viaggio. Devon trovò nella dispensa il vaso di molluschi che stava cercando, e se lo cacciò sotto il braccio. E se avesse torturato Sypes alla vecchia maniera? Avrebbe potuto legarlo e procurarsi un coltello. O anche una candela accesa avrebbe potuto mostrarsi efficace. La perdita sotto anestesia di qualche dito, o di un occhio, non avrebbe costituito un grosso rischio per la sopravvivenza del presbitero, almeno finché avesse fermato l'emorragia e mantenuto pulite le ferite. Di certo a bordo dovevano esserci bende e filacce, da qualche parte. Avrebbe anche potuto tagliargli le palle. Devon sussultò al solo pensiero. Di certe cose preferiva evitare la vista. La tortura tradizionale era poco sofisticata, sgradevole, decise infine. Priva di eleganza. Ma era pronto ad aspettare ancora, mentre la flotta di Deepgate lo inseguiva? Prima era stato sul ponte di poppa, a osservare le luci che si intravedevano in lontananza attraverso la coltre di fumo sopra la città. C'erano 264
nemici che lo inseguivano, e altri nemici che lo aspettavano nel deserto dov'era diretto. Gli Heshette non gli avrebbero certo dato il benvenuto al Dente di dio. Qualcosa gli diceva che lo scontro imminente avrebbe messo alla prova la sua resistenza al dolore. Scacciò il pensiero: ora come ora i problemi erano altri. Il perdurante silenzio di Sypes lo mandava in bestia. Era evidente che quel vecchio caprone aveva una paura matta di qualcosa. Era arrivato al punto di farsi beffe della dottrina della Chiesa e si era spinto oltre ogni limite pur di assicurarsi l'aiuto di Carnival. Perché? Le questioni irrisolte innervosivano Devon. Sypes sapeva cosa c'era davvero laggiù e, se Devon doveva far sprofondare l'intera Deepgate fino al proprio creatore, voleva sapere almeno chi era quel creatore. Un dio? Non ci credeva: la Chiesa era costruita sulla fede e mantenuta con la menzogna. Ma come poteva l'ignoranza costituire il fondamento di un ordine stabilito? Devon detestava ogni forma di sottomissione al soprannaturale. Dopotutto, che altro era il soprannaturale, se non una forza naturale per la quale ancora non era stata trovata una spiegazione? Il sangue conteneva un'energia che poteva essere raccolta per prolungare la vita. Dèi, demoni, diavoli e spettri non avevano niente a che farci. Tutto andava ridefinito in termini che Devon fosse in grado di comprendere. Per un uomo della sua intelligenza, era una questione vitale. Con i pensieri ancora in ebollizione, lasciò la cambusa e percorse lo stretto passaggio coperto che conduceva verso gli alloggi, sempre col vaso di molluschi sotto il braccio. Forse avrebbe dovuto imparare a esser più paziente, visto che ormai il tempo era una risorsa di cui poteva disporre in abbondanza. Alla fine Sypes avrebbe parlato. Quando il vecchio avesse visto la sua amata città sul punto di soccombere alla rovina, avrebbe detto a Devon tutto ciò che voleva sapere. La cabina del capitano era di poco più grande di quelle dell'equipaggio, ma riccamente rifinita: rivestimenti di lucido legno massiccio, vetri molati, tappeti soffici come oro liquido. Bottiglie di rhak, whisky e vino luccicavano nel mobile bar. Non c'erano vini bianchi in vista, quindi Devon optò per un rosso leggero di Valdivespro che, pur non essendo l'ideale per i molluschi, almeno non 265
ne avrebbe coperto troppo il sapore. Stava giusto leggendo l'etichetta quando la nave si inclinò improvvisamente in avanti, e venne scagliato contro la parete della cabina. Il Valdivespro gli sfuggì di mano. Bottiglie e bicchieri tintinnarono, e poi si frantumarono a terra, ruzzolando sul ponte. Il ronzio dei motori salì di colpo, fino a trasformarsi in un urlo. «Sangue e catene», borbottò mentre recuperava l'equilibrio. «Ammazzerò quel vecchio scemo, per questo.» Devon uscì a fatica dalla cabina, appoggiandosi pesantemente contro la parete. Il corridoio di dritta si inabissava verso la porta del ponte di comando. Un po' corse e un po' scivolò lungo il corridoio, fino ad andare a sbattere contro il portello del ponte. Attraverso il boccaporto vide Sypes chino sul pannello di controllo, aggrappato alle leve del timone verticale. Una tempesta di sabbia velò le vetrate del ponte. Devon armeggiò con le chiavi fino a trovare quella giusta e aprì la serratura. La porta rimase fermamente chiusa. Il prete doveva aver incastrato la sedia sotto la maniglia. «Vecchio pazzo!» Devon scrollò la porta, ci si gettò contro. Sypes si voltò, accigliato. Facendo forza sul corrimano, Devon risalì il corridoio inclinato e girò a destra, infilandosi nel passaggio di mezzana che portava al corridoio di sinistra. Andò a sbattere contro la parete con la spalla. Adesso i motori della Birkita stridevano e sputacchiavano, le prese d'aria intasate dalla sabbia. Quando finalmente lo raggiunse, il corridoio di sinistra era talmente inclinato che dovette sedersi in terra e lasciarsi scivolare lungo il ponte finché le sue ginocchia non andarono a sbattere contro l'altra porta che dava sul ponte. Di nuovo fece tintinnare le chiavi, ne provò una, poi un'altra, e alla fine fece scattare la serratura. La porta non si apriva. Sypes aveva spostato la sedia. Incastrandola sotto la maniglia della porta di sinistra. «Apri.» Devon tirò un calcio alla porta. Sypes lo ignorò. La sabbia turbinava oltre le vetrate anteriori del ponte. La pendenza del corridoio si era ulteriormente accentuata, troppo ripido per poterlo risalire. Il vecchio aveva fatto inclinare la nave con i timoni verticali, riempito di gas le nervature di poppa e svuotato quelle di prua, in modo che il peso stesso del ponte li aveva fatti inclinare in avanti. 266
«Ti ammazzerai!» urlò Devon, scalciando di nuovo la porta con entrambi i piedi, ancora e ancora. Alla fine la porta si aprì, e lui ci cadde dentro. Sypes non si voltò neppure quando Devon colpì il pannello di controllo dietro di lui. Le sue mani stavano spingendo avanti entrambe le leve del controllo verticale, fino a farsi sbiancare le nocche. La voce di Angus schiamazzava selvaggiamente dal tubo di comunicazione della sala macchine. I cavi si tendevano e gemevano per lo sforzo. Il legno scricchiolava. La tempesta di sabbia si squarciò, lasciando vedere le dune dietro la vetrata. Devon spostò di peso il prete, aprì le valvole per far riempire le nervature di prua e tirò indietro del tutto le leve dei timoni verticali. Non accadde nulla. Oltre la vetrata le dune si avvicinavano. Zolle d'erba secca turbinavano nel vento. Rocce e alberi pietrificati gettavano ombre scure alla luce dei fari all'etere della nave. Non erano a più di un centinaio di metri da terra, poi novanta, ottanta. La prua della nave si sollevò leggermente. «Più in fretta», ringhiò Devon. Con una mano e un moncherino tirò le due leve quanto più indietro poteva. Poi strillò nel comunicatore: «Angus! Dai più pressione. Abbiamo bisogno di quanta più aria calda possibile a prua, subito!» Si voltò a fronteggiare Sypes. «Dove diavolo hai imparato a manovrare un'aeronave?» «Non è altro che una sacca di gas», spiegò Sypes da terra. «Che c'è di difficile?» Con un ringhio, l'Avvelenatore tornò a dedicarsi ai controlli. Le dune erano sempre più vicine. Sessanta metri, cinquanta, quaranta. La prua si sollevò di un'altra frazione. Devon riusciva a scorgere tra la foschia le increspature della sabbia, onde e avvallamenti disegnati dal vento sotto i rami degli alberi pietrificati. Trenta metri. L'aria sibilava nelle nervature di prua che si gonfiavano fin quasi a scoppiare sotto l'aumento della pressione. Venti metri. Rami di pietra scorrevano davanti alle vetrate come artigli pronti a ghermirli. La Birkita recuperò l'assetto orizzontale. Cominciò a risalire. 267
Devon allentò la stretta sulle leve. Il presbitero Sypes si rialzò dal ponte e accennò al vaso tuttora incastrato sotto il braccio di Devon. «Hai scordato il vino.» *** «Cosa ti ha detto di fare?» «Di trovare Carnival e consegnarle un messaggio.» Gli occhi di Dill erano ancora bianchi dopo l'incontro col coadiutore Crumb, ma lui non ci badò. Rachel ormai ci era abituata. «Perché?» Dill glielo spiegò. «Vuole trattare con lei? Reclutarla per catturare Devon? Non ha senso.» «Ha detto che sarò al sicuro se mi presento disarmato.» Fece una pausa. «Mi ha preso la spada.» Lei lo guardò sbalordita. «Ha detto che nessuno l'ha mai affrontata disarmato, prima d'ora.» «E per ottime ragioni. Non mi passerebbe nemmeno per la testa di affrontarla se non con l'intero arsenale della Spina a mia disposizione.» Si sedette sul davanzale della finestra di Callis e cominciò ad aprire e chiudere le mani ferite, senza pensarci. Si era tolta le bende, ma la pelle era ancora rossa e gonfia. Dill aveva saputo da poco del combattimento di Rachel nel planetario. La Spina aveva fatto rapporto ai preti e uno di loro, un tizio strabico di nome Primpleneck, l'aveva raccontato a una guardia che si chiamava Paddock. La storia si era sparsa fra i ranghi delle guardie del tempio, fino a che anche il personale di cucina non li aveva sentiti che ne parlavano a colazione. Il maggiordomo l'aveva detto ai cuochi, che l'avevano detto alle cameriere e ai garzoni, che a loro volta l'avevano detto agli sguatteri che, non avendo più nessuno cui raccontarlo, avevano spettegolato con gli stallieri. O almeno, era così che gliel'aveva raccontata quella mattina lo spalatore di letame che aveva accostato Dill fuori dalla stalla. «Oh, sì», gli aveva detto Dill. «Ho sentito quella storia secoli fa.» Poi se n'era andato e aveva intrapreso una lunghissima spedizione di distribuzione delle lumache. C'erano un sacco di posti in cui si potevano nascondere quelle cosine viscide, se soltanto uno cominciava a rifletterci sopra. «Non permetterò che lo facciano», disse Rachel. «Cosa?» 268
«È troppo pericoloso: non permetterò che ti ci mandino.» Si alzò. «Non possono aspettarsi che io riesca a proteggerti in queste condizioni. Mi hanno nominata tua sovrintendente, ed è quello che intendo fare. Parlerò con Fogwill, gli chiederò di lasciar perdere, e ti farò riavere la tua spada.» Scosse il capo. «Non riesco a credere che possano mettere a rischio la tua vita. Non si rendono conto di chi sei?» «L'ultimo arconte.» «No...» Si accigliò. «Non è quello che intendevo. Intendevo...» Sembrò lottare alla ricerca delle parole giuste. «Volevo dire che in questa massa di marciume sei l'unico non ancora rovinato né corrotto. Sei il cuore della Chiesa... il cuore di Deepgate. Hanno bisogno di te più di quanto possano immaginare.» Dill sentì che i suoi occhi cambiavano colore, un colore che subito non riconobbe. Non l'aveva più avvertito da quando suo padre era morto. Rachel si stava già avviando alla porta. «Aspetta», le disse. Lei non si fermò. «È una pessima idea, Dill. Pura follia. Non so cosa Fogwill pensi di fare.» «Ti prego, voglio farlo. Lasciami andare.» Lei si fermò. Forse era stato qualcosa nella sua voce a trattenerla. «Non saprei.» Ma Dill lo sapeva. Era il momento che aveva atteso per tutta la vita: la possibilità di fare qualcosa per la Chiesa; la possibilità di essere un arconte degno dei suoi antenati. Era quella l'occasione per mettersi in luce. Anche senza la spada si sentiva più arconte ora di quanto si fosse mai sentito prima.
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21 DILL E CARNIVAL
Mancavano altri dieci giorni alla Notte dello Sfregio e la luna calante sorse ancora grande e rossastra dalle Sabbiemorte. Levandosi nel cielo, perdeva man mano colore, diventò sempre più chiara e brillante fino a risplendere solitaria nel cerchio della propria notte, come fossero le stelle stesse a illuminarla. Deepgate scintillava più in basso, migliaia di puntini luminosi ammiccanti. Un gelido vento che soffiava da nord percorse la città, fischiando e ululando fra i camini. I cavi rabbrividirono e cantarono. Le ragnatele di ferro vibrarono facendo risuonare strane note discordanti. A Dill parve di sentire urla lontane tutto attorno a sé. Era una notte fredda, e faceva ancora più freddo sul tetto dove l'angelo era accovacciato. Dalle lastre di copertura il gelo gli strisciava nelle dita fino all'osso, il respiro si trasformava in brina davanti ai suoi occhi, eppure restava immobile. L'oscurità lo tratteneva. Da dove cominciare? Ogni direzione sembrava inospitale come le altre. Il coadiutore Crumb gli aveva raccomandato di rimanere in alto e continuare a muoversi. «Sarà lei a trovarti», gli aveva detto. La mano di Dill si mosse verso l'elsa della spada, per trovare nient'altro che aria. Gliel'avevano presa, si ricordò. A quell'ora era probabile che il coadiutore dormisse già. La massa scura del tempio ritagliava una sagoma frastagliata alle sue spalle, qualche fioca lampada risplendeva debolmente dietro le vetrate colorate, come braci morenti. Era probabile che dormissero tutti, anche Rachel. Solo Dill era sveglio. Sveglio... solo... e fuori. Al buio. Da quanto tempo era lassù? Dovevano essere ore. Non aveva più avvertito mutamenti di colore nei suoi occhi fin da quando aveva lasciato il tempio. Erano diventati bianchi, e così erano rimasti da allora. Da dove cominciare? La brina gli ricamava le ali, braccia e gambe erano intorpidite. Nonostante il freddo, aveva sonno, e l'alba non doveva più essere molto lontana. 270
Ma non osava muoversi. Una stella cadente saettò a sud. Cos'era, la quarta o la quinta che vedeva, quella notte? Ayen aveva avuto da fare, allora. Un altro compagno bandito dal cielo. La guardò ardere e poi morire. Resta in alto e continua a muoverti. Muoviti. Doveva muoversi, o si sarebbe congelato. La sua cotta di maglia frusciò mentre si alzava e distendeva le ali. Il coadiutore Crumb gli aveva consegnato l'armatura che una volta era appartenuta a Gaine. I minuscoli anelli erano ricavati da acciaio antico, un tempo leggeri e robusti e ora corrosi e mangiati dalla ruggine. Impregnata di gelo, come una morsa sembrava trasferirlo nel cuore di Dill. Fece un altro respiro profondo. La notte odorava di metallo. Dill fece un passo, poi un altro, scivolando sulle lastre gelate. Oltre l'orlo del tetto, un labirinto di strade si snodava ai suoi piedi, splendente sotto la luce della luna, come una distesa di ghiaccio spezzata solo dalle catene. Dill si fermò per un lungo istante, sotto la sferza del vento, ad ascoltare l'affascinante musica di Deepgate. Muoviti. O ti congeli. Alla fine saltò dal tetto. Il freddo gli si avventò addosso, gli attraversò camicia e calzoni e gli soffiò via i capelli dal viso; gli scivolò nel collo, sul petto e gli tolse il fiato. Seguì il percorso di una strada lastricata battendo le ali una volta, due volte, e lasciando poi che fosse l'aria gelida a trasportarlo. Calmo e misurato. Una volta, due volte, mantenendo la stessa distanza dai tetti sotto di lui. Cuspidi rivestite di pietra si innalzavano come onde congelate sulle stradine strette. Le ombre si radunavano attorno alle pozze di luce dei lampioni. Volando scrutava quelle ombre, come il coadiutore gli aveva detto di fare, attento a scorgere il minimo movimento. Carnival può vedere anche al buio, lo aveva avvertito il prete. Non lasciare che ti colga di sorpresa. C'erano ombre ovunque. E se lei si nascondeva là sotto, e proprio in quel momento lo stava osservando? Volò più in alto, aspirando boccate d'aria pungente. Batté le ali una volta, due volte, ogni battito lo portava più lontano dal tempio, più lontano dalla salvezza. E se lei fosse stata in volo? L'avrebbe sentita avvicinarsi? E se fosse sta271
ta dietro di lui? Con una stretta al cuore si girò a guardare, armeggiando alla ricerca della spada che non c'era, aspettandosi di vedere Carnival che allungava una delle sue mani piene di cicatrici per afferrarlo, gli occhi come squarci di coltello. Ma vide solo la sagoma scura del tempio, e le stelle gelide. Rilassò il pugno, mollando la presa sul... niente. La strada tagliava attraverso la città. Solide porte, finestre sbarrate, grate di metallo ai camini. Le ombre indugiavano ovunque. Troppe ombre. Si mise a volare più veloce, la cotta di maglia che gli penzolava dal petto, la camicia che portava sotto gonfiata dal vento. Batteva le ali senza sosta. I muscoli delle spalle tesi, le penne che gli risplendevano attorno come una coltre di neve portata dal vento. Si concentrò sul ritmo del proprio movimento e cercò di scacciare dalla mente ogni altro pensiero. Sotto di lui, la strada si inabissò sotto una casa pendolo sospesa sopra una delle catene principali di ancoraggio. Dill se la lasciò alle spalle e si innalzò al di sopra della catena, in un ampio arco che l'avrebbe portato di nuovo verso il tempio. Avrebbe volato in spirali sempre più ampie, fino a raggiungere il margine. E poi? Pregò che a quel punto sarebbe stata l'alba. Calmo e misurato. La luna guardava in basso col suo occhio brillante, e Dill immaginò che altri occhi, nascosti, lo osservassero dal basso: occhi che sbirciavano da sotto le grondaie, dalle finestre buie, nel tempio, tra le catene, che lo scrutavano dall'abisso sottostante. Girò attorno al tempio, sorvolando le banderuole di Lilley, e vide sotto di sé lo squarcio della Falce e le ciminiere delle Cucine dei Veleni. Le fabbriche affollavano le rive della Falce, velate di smog color ambra. Improvvise fiammate si innalzavano a illuminare il ventre delle nuvole di fumo. I vapori si avviluppavano attorno all'intrico delle tubazioni. Torri d'ancoraggio, gru e pontoni innalzavano le loro strutture metalliche attraverso i fumi. Cercò con lo sguardo le aeronavi, ma non ne scorse neppure una. Gli venne in mente che dovevano essere all'inseguimento di Devon nel deserto, e si sentì ancora più solo per quello. Dill continuò a volare verso le fiamme, verso la luce. Si lasciò Lilley alle spalle, librandosi sopra i Chiostri. La ragnatela delle catene si estendeva ovunque: un giardino di alberi nodosi; una torre pendente con una finestra illuminata in cima; una locanda con l'insegna di legno di una capra appesa sopra la porta. Non c'era nessuno in giro; nessun suono tranne il fruscio dell'aria, il tintinnio dell'armatura e il battito delle 272
sue ali. Vicino alla Falce faceva più caldo, così Dill decise di riposarsi un momento e scrollarsi il gelo dalle ossa. Atterrò su un tetto piatto incatramato che si affacciava sull'abisso e su cui aleggiava l'odore agrodolce del gas illuminante. Le catene di ancoraggio si allungavano sopra la Falce come se galleggiassero su un oscuro lago immobile. Sulla riva opposta si affollavano le fabbriche, che riempivano il vento di cenere. Getti di vapore sibilavano e gemevano tra il fumo e le fiamme, mentre un rombo più cupo e profondo si levava dalle Cucine dei Veleni. Se non altro era caldo e c'era luce. Il calore delle fiamme raggiungeva il lato opposto del golfo e gli scaldava il viso e le mani, scioglieva la brina dalle sue ali. La cotta di maglia arrugginita risplendeva di un rosso dorato. «Che ironia, vero?» disse una voce di donna alle sue spalle. «Inquinano la tana del loro stesso dio.» Dill rimase agghiacciato. «Rilassati», continuò la voce. «Non sono in vena di uccidere.» *** «Finalmente si è mosso.» Clay stava guardando nel cannocchiale che avevano sistemato su un treppiede davanti alla finestra di Fogwill. «Cominciavo a credere che si fosse congelato su quel tetto.» «Finiremo per congelarci noi qui dentro, se continui a tenere ancora aperta quella finestra.» Fogwill si agitò sotto la coperta. «Non c'è niente di più pericoloso di una corrente gelida di notte.» Clay grugnì. «Mi verrebbero in mente almeno un paio di altre cose.» Imbronciato, Fogwill avvicinò la propria sedia al fuoco. Prese un attizzatoio e smosse i carboni. «Da che parte si sta dirigendo?» «A sud.» Nonostante i logori abiti di pelle, il capitano della guardia del tempio rimaneva chino sul cannocchiale, apparentemente incurante del freddo. «Per le palle roventi dell'inferno, sembra una colomba zoppa, a tirarsi appresso quel grosso fodero vuoto. Si può sapere perché gliel'hai fatto mettere?» «Non sono stato io. È lui che ha insistito.» «Povero disgraziato.» Fogwill rimise a posto l'attizzatoio e si pulì le mani con un telo di lino. «Non l'avrei certo mandato se non fossi certo che è al sicuro.» Fece del suo meglio per suonare convincente. 273
«Altro che correnti gelate, là fuori», grugnì Clay scuotendo il capo. «Quel tuo piano è pura follia.» Fogwill era propenso a dargli ragione, ma che altra scelta gli restava? Non era neppure riuscito a rivelare a Clay la vera ragione del suo tentativo di parlamentare con Carnival. Quella era una cosa che non poteva rivelare a nessuno. Da lì la menzogna per cui a Carnival sarebbe stato offerto il vino d'angelo in cambio della morte dell'Avvelenatore. Nessuno all'infuori di Fogwill doveva conoscere il vero bersaglio di Carnival. Anche Dill si era lasciato convincere senza difficoltà. Ora che la Chiesa si trovava a dover fronteggiare due nemici immortali, non era forse logico e ragionevole aizzarli l'uno contro l'altro? Ma qualcuno continuava a mostrarsi scettico, così Fogwill aveva studiato un sistema per parlare con Carnival in assoluta sicurezza. Le avrebbe teso una trappola. Mark Hael, apparentemente elettrizzato all'idea di mettere Fogwill e Carnival nella stessa stanza, se n'era andato per organizzare i dettagli; Clay, al contrario, si era limitato a fissare Fogwill per un lungo momento, per poi andarsene di colpo imprecando fra sé. Fogwill rabbrividì di nascosto nel rammentare la reazione del capitano. Gettò il telo di lino fra le fiamme. «Speravo che a quest'ora il comandante Hael sarebbe già stato di ritorno con le notizie dalle Cucine del Veleni.» «Dalla scomparsa di Devon quel posto è piombato nel caos. Nessun altro sa come far funzionare la baracca. Non mi sorprenderebbe se metà della flotta fosse partita con le stive piene di barili di burro, anziché di gas di calceviva.» «Forse dovrei andare a controllare i preparativi di persona.» «Non cambierebbe niente. Arriverà presto, non appena sarà tutto pronto. Guarda, Fogwill: l'angelo sta armeggiando col fodero. Forse ha visto qualcosa.» Il coadiutore fece per alzarsi. «Carnival?» «No. Sarà stata una corrente gelida.» Il prete si abbandonò di nuovo sulla sedia. Clay ruotò il cilindro del cannocchiale. «Maledetta messa a fuoco...» borbottò. «Rieccolo, ancora diretto a sud.» Il fuoco si alzò, scoppiettando. Fogwill aggiunse un altro ciocco e osservò le fiamme che lo avvolgevano. Da una scatola accanto al camino pescò un altro telo di lino e si pulì di nuovo le mani. «Avremmo dovuto addestrarlo assieme alle guardie, come avevamo fatto con Gaine. Ma Sypes non ne vedeva l'utilità. Non più, con gli infedeli in rotta e la crescente po274
tenza della nostra flotta. Era convinto che presto la guerra si sarebbe conclusa del tutto. Un angelo dovrebbe essere simbolo di pace, non di guerra... così mi aveva detto.» «Non mi sono mai fidato di Gaine», borbottò Clay. «Giuro che i suoi occhi diventavano scuri ogni volta che mi guardava.» «Era proprio per quello che ci si poteva fidare di lui: gli angeli non riescono a nascondere le proprie emozioni, al contrario degli umani.» «Da far accapponare la pelle, se vuoi il mio parere. E Carnival? Immagino che anche i suoi occhi cambino colore.» «Lei non è un angelo. Be', non è un angelo della Chiesa.» «Ma lo era una volta, così ho sentito.» «Pettegolezzi del Dedalo.» Clay lottò di nuovo con la ghiera di messa a fuoco del cannocchiale. «L'ultimo arconte venuto dall'abisso, dicono. Dicono che i suoi occhi fossero neri come la pece quando è comparsa, e questo è successo tremila anni fa. Alcuni sono convinti che prenda il sangue per rimpiazzare...» «Capitano...» «Così dicono...» Fogwill arricciò il naso. Una volta che Clay attaccava era difficile farlo tacere. «Si dicono un sacco di cose nelle birrerie di Deepgate. Pure che sia alta più di due metri, con sette teste e sette lingue.» «Sette lingue?» Il capitano si voltò sogghignando. Fogwill chiuse gli occhi. Clay riportò la propria attenzione al cannocchiale. «I soldati su quella nave l'hanno vista abbastanza bene. Il navigatore è sopravvissuto allo schianto riuscendo a conservare intatta buona parte della pelle. L'avevano quasi presa, ha raccontato. L'avevano circondata e ce l'avevano a tiro di spada, ma lei è schizzata via attraverso il soffitto e si è aperta un varco attraverso il...» Agitò una mano. «L'involucro. Però non li ha attaccati direttamente.» «Loro erano in maggioranza. Dovevano prenderla in quel momento. Il navigatore dice che aveva i denti di un gatto selvatico e occhi spaventosi.» «Non li ha attaccati perché non era la Notte dello Sfregio.» «Vallo a dire a quelli che sono morti nel naufragio.» Fogwill fissò il fuoco senza parlare. 275
Il cannocchiale andò a sbattere contro la cornice della finestra. Clay si voltò. «Adesso è fuori vista. Sta girando attorno al tempio.» «Allora chiudiamo quella finestra. Si gela, qui dentro.» Clay diede un'altra occhiata di disapprovazione ai drappi di seta che ornavano il soffitto e ai vasi di fiori disposti in giro per lo studio, prima di decidersi a chiudere la finestra. Prese una sedia e raggiunse Fogwill vicino al camino. La stanza si riscaldò in fretta. Rimasero seduti in silenzio per un po', a scaldarsi le mani e ascoltare il crepitio della legna. «Ho pensato una cosa», riprese Clay. Fogwill inarcò un sopracciglio, scettico. Clay borbottò qualcosa sottovoce. «Prego?» «Niente. Pensavo a cosa Devon potrebbe volere dal presbitero.» «Sì?» «E se fosse stata tutta una finta? Se fossero d'accordo?» Fogwill prese un altro telo di lino e si pulì le mani che però stavolta non avevano nessun bisogno di essere ripulite. «D'accordo?» Se persino Clay era riuscito a intuire la verità, che sarebbe successo con la Spina? «Assurdo. Sypes non accetterebbe mai una cosa del genere. Sarebbe contraria alle leggi della Chiesa. Contraria alla volontà di dio. Davvero, non è possibile...» «Ma se dio fosse morto?» «Morto?» Fogwill smise di pulirsi le mani. «Credi che dio sia morto?» Il capitano alzò le spalle. «Sei un uomo di fede, Mr. Clay? Credi nell'anima?» «Certo», rispose brusco il capitano. «Le ho viste», disse Fogwill. «Ho visto le luci delle anime con questi occhi. Credimi, gli spettri sono laggiù e, se loro esistono, allora anche Ulcis è vivo. Anche Sypes guardava i morti. Passava tutte le ore della notte a scrutare nell'abisso, a chiedersi cosa stessero facendo laggiù.» «Capisco», sbadigliò Clay. «Non si fidava neppure dei fantasmi.» «Tu ne hai mai visto uno, Mr. Clay?» Il capitano si agitò sulla sedia. «Non direttamente, però una volta mi hanno raccontato...» Fogwill alzò una mano. «Non è questo il posto adatto per parlarne.» Clay sibilò fra i denti: «Tutta questa storia è una perdita di tempo. Lei 276
non tratterà». «Immagino che non ti fidi nemmeno di Carnival.» «Neanche per sogno. C'è qualcosa di innaturale in lei.» Un sorriso si fece strada sulle labbra di Fogwill. «Credi che ci sia qualcosa di innaturale in un angelo immortale coperto di cicatrici e succhiatore di sangue, che ruba le anime nelle notti senza luna? Che ci sarà mai di innaturale?» Clay ci stava riflettendo. Dopo un momento, Fogwill si mise a ridere. «No, capitano, non viene in mente neppure a me.» Passò un'altra ora prima che arrivasse Mark Hael. Con lui c'era un chimico, con un grembiulone macchiato e una maschera antigas che penzolava ancora attorno al collo. Le braccia e la testa dell'uomo erano nude, la pelle arrossata e scorticata: persino le labbra sembravano spellate. Annusò l'aria ed esaminò la stanza con aria giuliva. Fogwill non poté fare a meno di notare le macchie sull'uniforme del comandante, e le pedate sudicie che entrambi gli uomini stavano lasciando sul suo tappeto di Loombenno. «Lui è Coleblue», disse Hael. «Ha sistemato i serbatoi di gas nel Sanctum.» Coleblue avanzò a passo pesante sul tappeto, seminando altro sudiciume, e si stropicciò vivacemente le mani arrossate. «Non posso garantire che funzionerà di sicuro. L'abbiamo provato sugli uccelli: piccioni, passeri, colombe, che dovrebbero avere lo stesso sistema respiratorio, più veloce e più sensibile del nostro, ma non si può mai sapere.» «Che effetto ha avuto sugli uccelli?» chiese Fogwill. «Una morte veloce.» Coleblue schioccò le dita. «Così, come i canarini dei minatori.» Fogwill guardò la pelle scorticata del chimico. Attorno a lui aleggiava uno sgradevole odore acre che gli ricordava quello delle lampade a gas. «E cosa accadrebbe a me se lo respirassi?» Gli occhi di Coleblue si strinsero. «Non vorrà mica farlo, vero? O, comunque, non troppo a lungo. Carnival sarà di certo più sensibile al veleno, sì. Come aveva ipotizzato, dovrebbe trovarsi nell'impossibilità di reagire molto prima di voi. Ma, nella peggiore delle ipotesi, può sempre trattenere il fiato e lasciare la stanza non appena il gas verrà rilasciato.» 277
Clay grugnì. «Il gas contenuto in quell'aeronave non mi pare le abbia dato fastidio.» «Il gas ascensionale non brucia i polmoni come questo. Non che si possa respirarlo, questo no, ma, sapendo che c'era, era cosciente di non doverlo respirare.» Coleblue spostò lo sguardo da Clay a Fogwill. «Di questo non sentirà neppure l'odore prima di finire fuori combattimento.» Batté le mani. «Mi auguro di non doverlo neppure usare», disse Fogwill. «È solo una precauzione.» «Non mi piace questa storia», disse Clay. «Troppo rischiosa.» Fogwill inarcò le sopracciglia. «Non ti fidi molto del gas, vero, capitano?» «Non mi fido mai di ciò che non posso vedere.» «E dell'aria?» «Meno che mai.» Scuotendo appena la testa, il prete si voltò verso il chimico. «Dov'è nascosta la valvola?» «Sotto il leggio», rispose Coleblue. «Per liberare il gas va ruotata in senso antiorario. Il Sanctum si riempirà in pochi secondi. Possiamo andarci un momento, così glielo mostro.» «Benissimo.» Fogwill si alzò. «Torniamo subito, Clay. Ti dispiace tenere d'occhio Dill?» Seguì Coleblue e Hael verso la porta, poi si fermò. «Mr. Coleblue, cosa accadrebbe se Dill respirasse il gas?» «Brutta storia.» Coleblue schioccò le dita. «Così, come i canarini.» *** Ha intenzione di uccidermi. Dill non sarebbe riuscito a estrarre la spada neppure se l'avesse avuta con sé. Gambe e braccia erano paralizzate, il sangue gli si era ghiacciato nelle vene. La leggera armatura gli gravava addosso come una catena avviluppata attorno alle spalle, e il fodero vuoto pesava come l'ancora di un'aeronave. Carnival lo fronteggiava con le ali semiaperte, leggermente curva, come se si preparasse a prendere il volo. O a saltargli addosso? Le piume erano di varie sfumature di grigio scuro, con qualche chiazza di nero e marrone. Era scarna, con i muscoli tesi come cavi attorno alle os278
sa sottili, tirata come un assassino della Spina. I pantaloni e la giubba di pelle ammuffita avrebbero potuto avere mille anni. I capelli neri arruffati le ricadevano sul viso come una rete malridotta, coprendole in parte le cicatrici. Quante cicatrici. Cicatrici vecchie che si sovrapponevano a cicatrici antiche, bianche linee sottili che le percorrevano le guance, la fronte, il mento, le braccia nude, senza lasciare nemmeno un brandello di pelle intatto. Tutte cicatrici da coltello tranne una: una scanalatura simile al segno di una corda che le girava attorno al collo. Ci giocherellava soprappensiero mentre lo osservava, la testa piegata di lato, come se non avesse mai visto prima niente di simile. Eppure sotto quelle cicatrici doveva esser stata bella. Sembrava di poco più vecchia di lui. Senza quelle cicatrici sarebbe potuta passare per un angelo della Chiesa, non fosse stato per gli occhi. Gli occhi di Carnival erano neri come l'abisso, più oscuri della furia di cento arconti, freddi e vuoti come la morte. I fuochi delle Cucine dei Veleni si riflettevano in fondo a quegli occhi, e sembravano l'unica scintilla di vita che splendeva là in fondo. «Odio questo posto», disse lei. «Fa freddo...» osservò Dill. «Ma vicino alle fiamme... fa più caldo.» Si fissarono a lungo. Rombi e clangori provenienti dalle fabbriche si levavano oltre la Falce assieme alla cenere e riempivano la notte. Lei stava osservando il suo fodero vuoto. Dill notò una piccola forca di ferro infilata alla cintura: un attrezzo da giardiniere? Carnival annusò l'aria. «C'è una puzza tremenda.» Lui annuì. «Venefica.» Lui annuì. «A te piace respirare veleno?» Lui scosse il capo. «Vieni con me.» Non era una richiesta. Lei si voltò e si avviò a piedi, e Dill la seguì. Carnival si alzò in volo, e subito si voltò a guardarlo. Fece balenare i denti e poi si innalzò in un arco potente e aggraziato, battendo le ali e guadagnando quota velocemente. Col cuore che batteva forte, Dill si sollevò dietro di lei. Carnival si diresse a nord. Dill si sforzò di tenerle dietro, ma la corazza 279
lo trascinava in basso. Le sue ali frustavano l'aria e gli bruciavano i polmoni. Il fodero continuava a sbattergli contro la gamba, e desiderò non esserselo portato dietro. Ma aveva avuto bisogno di qualcosa che gli facesse ricordare che era un guerriero della Chiesa. In quel momento gli era sembrato importante; adesso si sentiva solamente stupido. La città sottostante appariva sfocata. Case e catene e strade scorrevano veloci. Lo sguardo di Dill era fisso su Carnival. Le sue ali solcavano la coltre di stelle, il vento le agitava i lunghi capelli neri. Per ogni battito d'ali di Carnival, Dill doveva batterne due, e nonostante tutto la distanza fra loro continuava ad aumentare. «Aspettami!» le urlò, ma il vento portò lontano la sua voce. Stringendo i denti, obbligò i muscoli esausti a continuare a muoversi. E poi, di colpo, Carnival si fermò, gettandosi come un proiettile contro i tetti giù in basso. Dill fece per seguirla, ma si fermò quando vide dov'era atterrata. Era un giardino recintato da mura, buio come una pozza di catrame. Soltanto un fazzoletto di prato risplendeva debolmente sotto la luce della luna, attraversato dalle ombre scure dei rami di un albero piantato al centro e dall'intrico di catene tese fra le case circostanti. Il prato stesso era assediato dalla tenebra più fitta. Dill lo sorvolò planando in cerchio, un dolore sordo che gli artigliava il petto. Dalle ali sembrava sparita ogni traccia di sangue. «Che c'è?» urlò Carnival. Per riprendere fiato, Dill atterrò su una sottile catena tesa sopra il giardino. Con un cigolio metallico, la catena ondeggiò. Perse l'equilibrio, vacillò e di colpo si ritrovò disteso supino sul prato, annaspante e col viso rivolto verso le stelle. Carnival sbuffò. «Bella manovra.» Dill si alzò tremando. Il giardino non era poi così buio come gli era apparso dall'alto. Il prato era circondato da cespugli di fiori e mura coperte d'edera, mentre un cancello di ferro battuto si apriva sulla strada oltre il muro. L'aria era fragrante di rose notturne. Provò a flettere cautamente le ali: sembrava non ci fosse niente di rotto. Carnival sembrava tranquilla come prima. «Ti ho sognato.» Dill sbatté le palpebre. «Sogno tutti gli angeli.» Lo guardò di nuovo con quell'aria incuriosita. «Perché pensi che succeda?» 280
«Non lo so.» «Non so mai i nomi, ma conosco tutte le facce. Vecchi e giovani. A volte li sogno in mezzo ai cadaveri e a volte li sogno mentre muoiono. Poi mi abbandonano per sempre, e sogno i loro figli.» Fece una pausa. «Tu mi hai mai sognata?» Gli si risvegliò un ricordo... catene che cigolavano, cicatrici, sangue appena versato. «Qualche volta.» «Come ti chiami?» «Dill.» «Il mio nome lo conosci già.» Dill si limitò a deglutire. «È la Chiesa che ti ha mandato.» Riuscì ad annuire. «Perché?» Il coadiutore Crumb gli aveva dato istruzioni su come rispondere. Aveva parlato con eloquenza di pace e comprensione, di odio e paura e perdono. Dill aveva trascorso ore a imparare il discorso, ma sotto quello sguardo le parole non gli vennero. «Io... Loro...» cominciò. Carnival sembrava non ascoltarlo. Lo sguardo di quegli occhi neri come la notte pareva trafiggerlo. «Mi piace questo giardino. Un vecchio servitore coltivava queste piante per ricchi proprietari che non ci venivano mai.» Staccò un germoglio di gelsomino e si strofinò i fiori bianchi sul palmo coperto di cicatrici. «Credo che una volta si sia accorto che lo stavo osservando dalla cima dell'albero. Ho avvertito l'accelerare del suo sangue, ho visto i suoi muscoli che si tendevano. Sai cos'ha fatto?» Dill scosse il capo. «Ha continuato a prendersi cura dei suoi fiori, a strappare le erbacce, a potare le rose e Federa, senza mai alzare lo sguardo verso l'albero, e per tutto il tempo il cuore gli batteva come un tamburo. Quando ha finito, si è messo a tagliar l'erba con le cesoie, poi l'ha raccolta e messa nella carriola e l'ha portata via, come aveva sempre fatto. Da allora sono venuta qui tutte le mattine. Non è mai più tornato.» «Loro vogliono trattare», riuscì infine a dire Dill. Lei rise: una risata acuta, selvaggia, che gli fece accapponare la pelle. Arretrò di un passo. Carnival gli si avvicinò. «Cosa credono di potermi offrire? Pace? Assoluzione? Promettono di tenere a freno la Spina?» Dill arretrò ancora. Carnival avanzò. «Un posto nell'abisso per la mia anima e per tutte le altre che ho dentro di me?» Lame di luce lunare le attraversavano gli occhi. Le cicatrici si contrassero sotto i capelli aggrovigliati. «Oppure sangue? Mi 281
offrono la prima scelta dei morti, prima che la Chiesa li scarichi di sotto?» Scoprì i denti. «O mi daranno una spada, faranno di me un angelo come te?» Gli affondò un dito nel petto e si avvicinò ancora, finché i loro volti non furono a pochi centimetri di distanza. «Io non credo agli angeli.» Dill sentì che le sue ali premevano contro il muro del giardino. «Vino d'angelo», riuscì ad articolare. Carnival si fermò. Aveva i denti stretti, i capelli selvaggi attorno al viso, ma il fuoco aveva abbandonato i suoi occhi. «È una trappola.» «No.» «Vogliono uccidermi.» «No», disse Dill. «Voglio dire, sì, però...» «Credono che non mi ricordi. Credono che abbia già dimenticato il planetario. Credono che non mi ricordi niente!» La sua espressione si era fatta furibonda. «Quella cagna della Spina, avrebbe dovuto bruciare, avrebbe dovuto...» Rachel? Sta parlando di Rachel. Cercò disperatamente di distoglierla dalla sua furia. «Vogliono che tu venga al Sanctum all'alba. Il coadiutore Crumb sarà lì per parlarti da solo. Senza soldati. Niente Spina. Ti offrirà un accordo.» Lei sbuffò. «Digli di andare all'inferno. Mi hai preso per pazza?» A quello Dill non rispose. «Ci sono già state altre trappole», ringhiò. «Molto tempo fa. In altri posti. In dozzine di altri posti.» Aveva il respiro affrettato, il suo sguardo saettava furioso sul terreno. «Posti in cui il Labirinto seguiva la mia traccia. È sangue. Credo...» Sbatté forte le mani contro i fianchi. «Loro sanno che non mi ricordo. Loro...» «Ci sarà anche lei», disse Dill. «Chi ?» «La Spina. Quella del planetario. Ci penso io.» Carnival si immobilizzò. Lo fissò a lungo, prima che le cicatrici si rilassassero in uno spaventoso sorriso. «Puoi davvero pensarci tu?» Dill si senti come se dalla città stesse spiccando un passo direttamente nell'abisso. Annuì. «I tuoi occhi», disse Carnival. Dill la sentì appena. Per tutta la vita aveva desiderato di fare qualcosa di 282
degno, che rendesse la Chiesa orgogliosa di lui. Poter stare a testa alta tra le file dei suoi antenati. E invece adesso avrebbe voluto rimangiarsi tutto ciò che aveva detto e fatto. Gli si affacciò alla mente il ricordo di Rachel china sulla ringhiera sopra la Falce. Se cado mi vieni a salvare? In quel momento Dill capì chi era. Non un guerriero della Chiesa come Callis. Non era nemmeno degno di essere chiamato angelo. Era un codardo e un traditore, e i suoi occhi brillavano verdi proprio come quelli della sua amica. «Non hai più paura di me», disse Carnival. Lui sostenne il suo sguardo. «No», rispose aspro. «Aspetta e vedrai», ringhiò lei.
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22 LE COSE SI METTONO MALE
Appoggiato alla ringhiera del ponte di poppa della Birkita, Devon osservava l'alba. Aveva concesso ad Angus qualche ora di sonno prima di tentare l'atterraggio, in modo che fosse più fresco e meno propenso a combinare pasticci durante la discesa. Gli Heshette li avrebbero tenuti d'occhio, ed era importante che l'atterraggio sembrasse perfettamente sotto controllo. Sypes era ancora sul ponte, però legato alla sedia, a smaltire russando il vino che aveva ingurgitato. Il vecchio prete sembrava incapace di restare sveglio se non per brevi intervalli, come se la sua mente cercasse di celare i propri segreti sotto una coltre di sonno. Da parte sua, Devon non avvertiva nessuna necessità di riposare. Il vino d'angelo era come fuoco nelle sue vene. Bruciava e fremeva e lo manteneva all'erta. Si chiese se avrebbe mai più avuto bisogno di dormire. Però sapeva che c'erano anche altri cambiamenti in lui: si infuriava per un nonnulla e la sua rabbia, una volta scatenata, era difficile da tenere sotto controllo. Dopo il tentativo di Sypes di distruggere la nave aveva dovuto esercitare un enorme sforzo di volontà per non strozzare il vecchio prete. Gli pareva che la propria coscienza fosse sottilissima, ma pronta a gonfiarsi come la superficie di una nuvola temporalesca. Ma per cosa? È una rabbia che viene dal mio stesso subconscio, o dal vino d'angelo? Possibile che l'elisir conservi dei residui di odio? Era un pensiero ridicolo - le anime non erano coscienti né consapevoli; non erano altro che pura energia per alimentare la carne - eppure si sentiva a disagio. Si sporse oltre la ringhiera e lasciò che il vento del deserto gli rinfrescasse il viso. Deepgate giaceva lontano a sud, oltre dune rosate, nascosta dietro l'orizzonte, niente più che un alone di fumo a rivelarne la posizione. Una nube di particelle argentee si distendeva tra lui e la città. Erano apparentemente immobili, ma Devon era certo che le navi da guerra lo inseguissero sfruttando tutta la velocità di cui potevano disporre. Luci all'etere ammiccavano tra loro mentre si scambiavano messaggi avanti e indietro. A nord Trononero si ergeva aspro e frastagliato nella luce dell'alba. Persino da quella distanza la montagna aveva un aspetto innaturale, co284
me fosse stata scolpita dagli antichi: come le nocche di un enorme pugno scagliato attraverso le colline circostanti. Il deserto era vergine, senza le tracce delle carovane che solcavano invece quello attorno a Deepgate. Onde e increspature di sabbia si susseguivano senza fine, sollevate a pennacchi dal vento e interrotte soltanto da distese di massi e gruppi di alberi pietrificati. Devon stimò che avrebbero raggiunto le pendici del monte nel giro di un'ora. Avrebbe lasciato dormire i suoi prigionieri fino ad allora: se non altro, per godersi indisturbato la pace del mattino. E poi le tribù? Sarebbe stata la prima vera prova del vino d'angelo, di ciò che lui era diventato. Forse avrebbe dovuto semplicemente proseguire, sorvolare Trononero e procedere verso l'orizzonte? Che nuove terre gli sarebbero comparse davanti? Le Sabbiemorte si stendevano a nord fino a Dalamoor, un aspro insediamento in pieno deserto all'ombra di montagne aride e senza nome. I missionari che prendevano quella direzione difficilmente ritrovavano la strada di casa: vittime della sete o degli Heshette. I pochi sopravvissuti riferivano storie di culti malvagi, banditi, terreni inariditi e impossibili da coltivare, e imprevedibili distese di sabbie mobili. Se la passavano meglio i viaggiatori diretti a est lungo le rive verdeggianti del Coyle, tenendosi a sud delle città fluviali. Trecentosettanta anni prima Arthur Drum era stato acclamato dall'intera Deepgate dopo essere tornato sano e salvo con la sua barchetta e con la notizia che il Coyle andava a sfociare nel Mar Giallo. Ulteriori spedizioni non avevano scoperto altro che fango e villaggi su palafitte abitati da selvaggi. Ma in seguito, novant'anni prima, quel vecchio lupo di mare del capitano Donald Bosonson era salpato dritto verso il mare. Era tornato dopo un anno con appena metà dell'equipaggio con cui era partito e con pessime notizie. A sud sorgevano dal mare isole lussureggianti e completamente disabitate, le Isole Vulcaniche, ma, se pure il Mar Giallo finiva da qualche parte, i suoi confini giacevano ben oltre la portata della più grande delle navi. Venti permettendo, le aeronavi potevano viaggiare più veloci, ma il peso del carburante limitava il loro raggio d'azione. Solo le più grandi riuscivano a raggiungere il delta del Coyle. E a che scopo? Migliaia di miglia di fango che risucchiava tutto e vipere d'acqua salata. Di tanto in tanto c'era ancora qualche rara spedizione via mare diretta alle Isole Vulcaniche, ma ciò che riportavano non bastava a giustificare i costi, e la Chiesa era sempre molto attenta a tagliare le spese. 285
Le sue serre erano piene di piante provenienti da quelle verdi marcite, il suo acquario era colmo di esemplari che venivano dalla stessa acqua salmastra che aveva risucchiato tanti marinai. Così è la vita: tutto è veleno. Tutto decade, si consuma, per dare vita ad altra voracità e altra decadenza. Ancora una volta il suo sguardo percorse le Sabbiemorte a sud, verso il punto in cui il Mar Giallo ribolliva oltre l'orizzonte. Nient'altro che sabbia e pianure percosse dal vento e alberi pietrificati. La civiltà era sbocciata in un punto soltanto di quella desolazione. Civiltà? La parola gli lasciò un sapore acido in bocca. In quella città l'ingordigia era palpabile, la brama di succhiare anche il midollo di chiunque potesse mantenere ancora per un momento le pulsazioni dei loro cuori già morti. Ma c'era un'altra prova di quell'ingordigia: quella che si levava dall'abisso. La fame di anime. Avrebbe presto procurato a Ulcis un vero banchetto di anime. La porta del corridoio di sinistra si aprì, e Devon si voltò per vederne emergere Angus. La guardia si era liberata della corazza, rivelando il giustacuore di cuoio bollito che portava sotto. Linee scure le segnavano il viso di un pallore malsano. «Ho bisogno di altro siero», disse in preda a un dolore evidente. Ne aveva bisogno a intervalli sempre più frequenti. Angus non sarebbe durato molto. Devon annuì ed estrasse la bottiglia di siero dalla tasca del panciotto. La tenne stretta nella piega del braccio, mentre riempiva la siringa. Angus stava fissando la bottiglia. «Non ne è rimasto molto.» «Ce n'è ancora abbastanza.» Devon tenne la siringa fra i denti mentre riponeva in tasca il prezioso farmaco. «Abbastanza per quanto? Per un altro giorno?» In effetti per dodici ore. Angus aveva sviluppato una resistenza al trattamento più in fretta di quanto Devon si fosse aspettato- La guardia avrebbe potuto rivelarsi preziosa per pilotare quella grossa macchina terrestre, il Dente di dio, fino a Deepgate. Ma adesso sembrava che Devon avrebbe dovuto contare esclusivamente sull'aiuto delle tribù. Prospettiva poco gradevole. «Abbastanza fino a quando non torneremo a casa», insistette. «E se non bastasse?» L'Avvelenatore sorrise mentre faceva scivolare l'ago nel braccio della 286
guardia. «Posso mettere fine al dolore... in altre maniere.» Angus chiuse gli occhi e rabbrividì mentre il siero faceva effetto. La fronte gli si imperlò di sudore, e aspirò bruscamente il fiato nei polmoni. Poi riaprì gli occhi e sogghignò: «La misericordia dell'Avvelenatore. Mi incateni al tuo fianco come un cane e poi mi offri la morte come ricompensa». «Preferisci il dolore?» «Preferisco la vita.» «La vita non è altro che differenti gradazioni di dolore e di fame. Perché aggrapparsi a una simile sofferenza? Non aspetti solo di morire, come tutti gli altri?» La guardia sbuffò. «La vita è qualcosa di più che attendere la morte.» «E cosa? Procreare? Mettere al mondo altre bocche voraci che prolunghino la tua fame di un'altra generazione?» «A te non piacciono le donne?» Gli tornò in mente Elizabeth sul suo letto di morte, che resisteva, mentre il veleno la portava sempre più lontano da lui. Non era riuscita ad aprire gli occhi o a parlargli. Devon le aveva tenuto la mano, così stretta da provocare dolore a entrambi. Lei gemeva, e lui le aveva stretto la mano fino a quando non era scoppiato in lacrime. In quel momento il dolore era la sola cosa che ancora poteva dividere con lei. Angus disse: «Quando quella roba finisce, ti ucciderò». Devon lo studiò per un attimo, poi si voltò a guardare il cielo che si schiariva, pensando ancora a Elizabeth. Per la prima volta da quando aveva assunto il vino d'angelo, sentiva la mancanza del dolore. «Atterreremo presto. A quel punto tutti vorranno uccidermi.» *** Rachel era ancora sulla balconata sommitale della Guglia dei Corvi quando ricevette la convocazione. Era il punto più alto del tempio, dal quale si godeva la veduta migliore di Deepgate. Appena un'ora prima aveva guardato Dill che saltava finalmente dal tetto e prendeva il volo, ma l'aveva subito perso di vista nell'enorme città illuminata dalla luna. Da allora aveva passato la maggior parte del tempo a misurare la balconata a grandi passi, giocherellando col coltello da lancio che teneva in mano. Nell'altra mano aveva ancora la spada di Dill, che aveva recuperato da Fogwill per tenerla al sicuro. 287
Il messaggero che le si avvicinò era ansante e sovrappeso: c'erano oltre duemila scalini per arrivare in cima alla Guglia dei Corvi. «Devi... presentarti... al Sanctum», rantolò artigliandosi il petto. «Io?» Era disorientata. Il messaggero annuì. «Sono l'ultima persona che vorrebbero là dentro.» «Il coadiutore Crumb...» Si appoggiò contro la ringhiera. «Ti spiegherà. L'angelo...» Si fermò per prendere fiato. «L'angelo cosa? Cosa gli è successo?» «È... tornato.» «Di già?» Rachel strinse la presa sulla spada di Dill. «È ferito?» Il messaggero riuscì in qualche modo a fare cenno di no. Senza aspettare di sentire altro, Rachel si precipitò giù per la scala e corse lungo i corridoi del tempio. Aveva la tentazione di baciare la spada di Dill: forse non era poi così inutile come sembrava. Di fatto, l'assenza di quella spada dal fodero di Dill aveva appena salvato la vita del giovane angelo. Quando raggiunse il Sanctum, Dill e Fogwill la stavano aspettando, però non c'era segno di Carnival. Fogwill era in agitazione, e Dill teneva la testa bassa. Quando l'angelo sollevò lo sguardo, Rachel vide che i suoi occhi erano verdi. Che aveva fatto per vergognarsi a quel modo? «Si rifiuta di andarsene», disse Fogwill. «Sta disobbedendo all'ordine diretto di un superiore! Non ha intenzione di muoversi. Ora che sei arrivata, forse riuscirai a fargli usare un po' di buon senso. Non voglio essere costretto a farlo portare via a forza.» «Dov'è Carnival?» chiese Rachel. «Sarà qui da un momento all'altro.» Fogwill scoccò un'occhiataccia a Dill, che chinò ancor più la testa. «Nel frattempo abbiamo un piccolo problema.» *** L'alba si riversava nella conca della città, come se inseguisse Carnival lungo le strade. Lei volava famelica, quasi spericolata tra le catene, scansava le case pendolo, passava sopra e sotto i ponti e sfrecciava nei vicoli appena più larghi della sua apertura alare. Le foglie morte turbinavano al suo 288
passaggio. Si aprì una finestra, per poi chiudersi di colpo, ma Carnival non la degnò d'una occhiata. Pensava a quella cagna della Spina e a cosa le avrebbe fatto. Naturalmente era una trappola. Ma non se ne curava. C'erano già state altre trappole prima di quella del planetario, altri luoghi dove erano riusciti a farle del male. Qualche oscuro recesso della sua mente ne recava traccia: ricordi che aveva sepolto in profondità perché solo a ripensarci le veniva voglia di urlare. Adesso però non aveva importanza. Per quanto male potessero farle, lei avrebbe colpito cento volte più forte, mille volte. Avrebbe trascinato Iril fino alla loro soglia, dannandoli tutti quanti nei suoi corridoi. La cagna sarebbe stata la prima. La nebbia aveva trasformato il Dedalo in un soffice intrico di catene, attraverso le quali Carnival si slanciò assaporando la freschezza dell'aria umida. Diverse persone si muovevano sotto di lei, ma Carnival non ci badava. Potevano aspettare fino alla Notte dello Sfregio. Solo la cagna della Spina non avrebbe dovuto aspettare; aveva fatto una promessa a quella donna. E adesso, quel giorno, negli oscuri recessi del tempio, aveva tutte le intenzioni di mantenerla. Quando raggiunse il Ponte della Porta si fermò. La nebbia si stava diradando, attraversata da un pallido sole che avvolgeva il grande edificio in un alone dorato. Per raggiungere il Sanctum avrebbe dovuto passare da sotto. Esitò, battendo le ali per tenersi sospesa, e scrutò nell'abisso. La cicatrice attorno al suo collo sembrò contrarsi fino a soffocarla. Di che aveva paura? Carnival non riusciva a ricordarselo. Del loro dio? Non credeva agli dèi. Gli dèi erano un'invenzione degli uomini, che li plasmavano per scaricare su di loro il fardello delle proprie colpe. Gli uomini uccidevano perché avevano paura, e la possibilità del perdono rendeva più facile uccidere. Senza assoluzione, soffrivano. Su tutto il suo corpo le vecchie ferite ardevano come appena inferte. Sapeva tutto della sofferenza. Strinse i denti, deglutì a fatica, e si tuffò. Spuntoni e costole di metallo scuro s'infittivano alla base del tempio. Enormi ganci di ferro, grandi quanto un isolato, tenevano assieme le catene di ancoraggio. C'erano innumerevoli spiragli che davano accesso all'enorme edificio, tutti collegati da un intrico caotico di catene di congiunzione e di cavi. Di solito le Spine se ne servivano per entrare e uscire dal tempio inosservate. Ma ormai era giorno, e non si vedeva nessuno. La rugiada co289
priva il metallo, scorrendo via in uno stillicidio rugginoso. Carnival proseguì il proprio volo sotterraneo, ringhiando mentre il segno della corda attorno al suo collo bruciava come il morso di una garrota. Una lanterna pendeva da un'apertura più ampia delle altre, al centro del tempio. Quando la raggiunse si sforzò di aspettare. Riusciva appena a respirare, ma aspettò e rimase in ascolto fiutando l'aria. Per un po' non ci fu altro che il rumore dello sgocciolio e l'odore della ruggine, e poi sentì le voci. Rachel non ce l'aveva con lui. Se era necessaria la sua presenza per attirare Carnival e farle ascoltare il ridicolo piano di quel ciccione, allora bene. Dopotutto, era il suo lavoro: ma come si faceva a cacciare quel messaggio nella testaccia di legno di Dill? Aveva riavuto la sua stupida spada, e ora se ne stava lì, con gli occhi splendenti di verde come la primavera senza la minima intenzione di andarsene dal Sanctum. Non voleva allontanarsi da lei. Quella sua ostinazione avrebbe probabilmente finito col farlo ammazzare. «Sarò costretto a chiamare Clay e farti trascinare fuori per la collottola», lo avvertì Fogwill. «Che effetto farebbe, Dill? Un arconte della Chiesa buttato fuori come un ubriaco da una taverna.» Dill seguitava a non rispondere. Rachel avvertì un movimento nell'aria e guardò l'apertura che conduceva nell'abisso. Niente in vista, ma continuò a tenerla d'occhio mentre parlava con Dill. «Fogwill ha ragione. È una questione fra lei e me. Tu hai fatto ciò che dovevi, e non devi dimostrare nulla.» Dill non disse niente. Fogwill continuava a passeggiare davanti a un migliaio di candele profondamente incassate nella parete; i suoi passi echeggiavano contro il soffitto a volta. Si avvicinò al leggio, alzò le braccia e fece dietrofront. «Non puoi restare qui, Dill. Rovinerai tutto. Te lo dico per l'ultima volta: vattene!» Dill non si mosse. Rachel stava ora osservando l'apertura con grande attenzione, a nervi tesi, l'istinto che quasi urlava. Non udiva il minimo suono, ma percepiva qualcosa. Attraverso quell'apertura il freddo penetrava nel Sanctum. Le fiammelle di alcune candele sulle pareti ondeggiarono. La sua mano scivolò verso uno dei tubi di bambù che portava alla cintura. 290
«Devi proprio giocherellare con quei cosi?» scattò Fogwill. «Mi rendono nervoso.» Rachel tenne la mano dov'era. Fogwill riprese a camminare avanti e indietro. Un'altra corrente d'aria si levò dall'apertura. Le candele sgocciolarono cera; metà di esse si spense. Carnival sorse dall'abisso con un poderoso slancio delle ali. Rimase sospesa a mezz'aria per una dozzina di secondi, guardandosi attorno, prima che il suo sguardo cadesse su Rachel. «Ti ho fatto una promessa.» Il suo sorriso era rapace, pareva la cicatrice più recente sul suo viso. Rachel scrollò le spalle. Con la massima delicatezza, cominciò ad allentare la chiusura del tubo di bambù. Ma si fermò non appena Dill cominciò ad arretrare verso di lei, la mano sull'elsa della spada. Dill! Non avrebbe mai dovuto restituirgliela. Ma sembrava così terribilmente infelice senza di essa, e lei aveva creduto che si sarebbe limitato a prenderla e ad andare via quando gli avesse chiesto di farlo. Ovviamente, tutto ciò prima che il coadiutore Crumb le spiegasse cos'aveva fatto. Appoggiò la mano sopra il braccio di Dill, impedendogli di estrarre la spada. Fogwill si era immobilizzato a metà di un passo, ed era rimasto a bocca aperta. Per amor di dio, dille qualcosa. Carnival si posò con leggerezza sul bordo della voragine, ripiegando prima le ali e poi le braccia. Tutta la sua attenzione era fissa su Rachel, che notò con stupore la forca da giardiniere alla sua cintura. Per quanto inoffensiva potesse sembrare quell'arma, Rachel si guardò bene dal trascurarla. L'ultima volta che avevano lottato, Carnival era disarmata e incapace di vedere. «Io...» Fogwill stava sudando. «Noi... abbiamo una proposta da farti.» Carnival lo ignorò, gli occhi scuri sempre fissi su Rachel. «Un baratto.» Il coadiutore si avvicinò al leggio, alla valvola del gas. Non provarci nemmeno. Non mentre Dill è ancora qui. Ma Rachel non poteva muoversi per fermarlo. Avrebbe potuto mettere in guardia Carnival. O peggio. L'atmosfera all'interno del Sanctum era fragile come vetro, che il minimo movimento di Rachel avrebbe potuto infrangere. «Sei certo al corrente delle virtù curative del vino d'angelo», attaccò Fogwill. «Il vino d'angelo, l'elisir che Callis per primo aveva utilizzato per 291
conferire longevità e forza illimitate ai suoi guerrieri.» Deglutì. «Immagino che tu sappia pure che è adesso disponibile un distillato di quell'elisir.» Carnival grugnì, ma l'affermazione del coadiutore gli aveva guadagnato quantomeno un'occhiata. È tentata. Ma a Rachel non era sfuggita l'attenta scelta delle parole da parte del prete. È un gioco assai pericoloso quello che stai giocando, Fogwill. A che pro? Qui c'è sotto qualcosa di più di quanto balza all'occhio. Con aria indifferente, il grasso prete si appoggiò al leggio, in una posizione così innaturale da far stringere i denti a Rachel. «Una pozione blasfema, secondo le nostre leggi», continuò Fogwill. «Non avrebbe mai dovuto essere distillata. Ma nonostante tutto esiste, per quanto sia stata sottratta dalle mani di Devon... e per te potrebbe rappresentare un incommensurabile beneficio. Allora, uno scambio? Il vino d'angelo in cambio del tuo aiuto in una faccenduola di poco conto.» Carnival si limitò a scoccargli un'occhiata torva. Fogwill quasi si rovesciò. L'ampia fronte era imperlata di sudore. Con un'occhiata nervosa verso Rachel e Dill, allungò una mano sotto il leggio, poi deglutì. «Vorremmo che uccidessi qualcuno per noi.» Qualcuno? Fogwill, perché continui a girarci attorno? Carnival reagì con amarezza. «Vi aspettate che uccida qualcuno per voi?» sibilò. «Credete forse che sia un maledetto sicario come questa cagna, per potermi comprare?» Si voltò verso Rachel, le cicatrici corrugate sulla fronte, gli occhi ridotti a due fessure assassine. Aprì di colpo le ali in tutta la loro ampiezza e le sbatté più volte, fino a crearsi attorno una bufera. Tutte le candele si spensero. «Sta diventando buio, Spina.» Fogwill aveva alzato le mani. «Aspetta, ascoltami.» Rachel strappò dalla cintura il contenitore di bambù e spinse col pollice contro il coperchio. Carnival avanzò, tirandosi dietro la tempesta. «Lasciala stare!» Di colpo Dill era fra loro, la spada che gli tremava in mano. «Dill !» Rachel lo scagliò da una parte. Carnival attaccò. Arrivò così in fretta che Rachel praticamente non la vide muoversi. L'attimo primo l'assassina era ritta in piedi, l'attimo dopo si ritrovò scagliata 292
attraverso il Sanctum da una forza brutale. Scivolò per cinque o sei metri sulla schiena, per fermarsi a pochi centimetri dalla parete. Il tubo di bambù rotolò via fra le ombre. «Ti ho detto di lasciarla stare!» Dill sferrò un colpo verso l'angelo sfregiato. Carnival deviò il colpo senza staccare gli occhi da Rachel. Strinse nella propria morsa la lama smussata e gliela strappò di mano, per poi colpire Dill con un pugno in faccia. Il ragazzo cadde come una marionetta alla quale avessero tagliato i fili. Agitando le ali, Carnival si scagliò di nuovo sull'assassina. Rachel balzò in piedi e sguainò la spada. Doveva agire subito, finché c'era ancora un barlume di luce nel Sanctum. Corse incontro all'avversaria, sollevò la spada e simulò un fendente... Carnival si mosse per intercettare la lama. A mani nude... ? Crede di essere così veloce? Merda, lo è davvero! Ma Rachel per ora non aveva ancora intenzione di attaccarla con la spada. All'ultimo momento si lasciò cadere sulla schiena a gambe unite, trasformando la propria carica in una scivolata inarrestabile sul marmo lucido. Carnival cercò di arrestare il proprio movimento, ma troppo tardi. L'assassina travolse Carnival, spazzandole via le gambe di sotto. Come tattica era poco ortodossa, ma efficace. Carnival cadde a capofitto, trascinandosi appresso le ali, mentre Rachel andava a fermarsi due metri più avanti. Ottimo, ma di sicuro non me lo lascerà fare di nuovo L'assassina rotolò sullo stomaco ed estrasse dalla cintura la cerbottana già carica. Ancora distesa sul pavimento, si portò l'arma alle labbra e soffiò. In qualche modo la sua avversaria era riuscita ad atterrare in piedi. Ruotò su se stessa, afferrando il dardo a mezz'aria con terrificante facilità. Poi si infilò la parte ottusa del dardo in bocca e sogghignò. Tornò ad avanzare battendo le ali, e masticando il dardo come fosse uno stuzzicadenti. «Credi davvero di poter avvelenare me, Spina?» ringhiò. «Che altro hai in serbo? Coltelli da lancio? Polveri acide? Hai troppa paura di usare la spada?» Dill stava strisciando a quattro zampe accanto a Carnival, cercando di sollevarsi verso di lei, il respiro affannoso. «Il vino d'angelo... ti dirò... dov'è. Non ce l'ha più la Chiesa... lasciala stare... ti prego.» Di colpo la tempesta che infuriava nel Sanctum svanì. Carnival sputò il dardo, afferrò Dill alla gola e lo sollevò verso di sé. «Dimmelo!» sibilò. Dill annaspò. «È andato... perduto.» 293
«Dove?» «L'abisso... Devon... caduta la siringa...» Lo mollò di colpo. Dill rovinò a terra. Solo una manciata di candele era ancora accesa. Una ragnatela di ombre proiettate dalle pareti irte di ferri danzava attorno a Carnival. Rachel ripose la cerbottana nella cintura e si alzò vacillando. Il coadiutore Crumb era ancora accanto al leggio, cinereo. L'angelo sfregiato spiegò le ali e si levò in aria. Le ombre torreggiavano alle sue spalle, oscure e smisurate come nuvole di tempesta. Per un lungo momento rimase a fissare l'abisso, le fiammelle delle candele riflesse negli occhi. Con un ringhio, chiuse le ali. «No!» gridò Fogwill. «Ascoltami!» Carnival si tuffò nel vuoto. «Dèi!» Fogwill si precipitò verso la porta e si appese al campanello. «Un disastro, un vero disastro. Se trova quella siringa, restiamo con un pugno di mosche in mano. Dill, perché gliel'hai detto? Perché?» Rachel si massaggiò una spalla e sussultò. «Che diavolo importa, ormai? Lascia che si prenda la sua maledetta pozione.» In quel momento il capitano Clay e Mark Hael irruppero nel Sanctum. Il fratello di Rachel osservò la scena che gli si presentava. «Cos'è successo? Lei dov'è?» Fogwill gli raccontò tutto. «Allora non la rivedremo mai più», disse Clay. «Bella liberazione!» Il coadiutore continuò a camminare avanti e indietro, in cerchi nervosi. Si passò ripetutamente la mano sulla testa, nemmeno avesse ancora i capelli. «No», protestò. «Dobbiamo trovare quella siringa prima che la trovi lei. Non ci rimane altro!» Smise di camminare. «Dill, devi andare. Devi fermarla, subito, prima che sia troppo tardi.» «Lui non va da nessuna parte», disse Rachel. Ma il grasso prete non le badò. Riprese a camminare, agitando le mani nell'aria davanti a sé come farfalle ingioiellate e borbottando: «Lei non lo ucciderà. Finora non gli ha mai fatto del male. Finché è disarmato sarà al sicuro». «Lo vorresti mandare laggiù disarmato?» chiese Rachel sconvolta. 294
«Gli servirà della luce», disse Fogwill. «Una lanterna antivento.» Si voltò verso Clay. «Trovagli una lanterna.» Clay esitò. «Una lanterna! Gli serve una lanterna.» Il capitano della guardia del tempio annuì e lasciò il Sanctum. Rachel appoggiò una mano sulla spalla di Dill. «Non sei obbligato a farlo.» E poi, rivolta a Fogwill: «Non puoi obbligarlo. Lo manderesti a morte certa!» Il coadiutore perse il passo. «Non ho altra scelta!» ribatté. Mentre la guardava, Rachel lesse la sincerità delle sue parole nel pallore mortale, nello sguardo supplichevole e addolorato: l'amarezza e il peso schiacciante delle decisioni che doveva prendere si manifestavano in ogni dettaglio del suo viso. Dio, Fogwill, stai soffrendo davvero. Ma perché? Perché non ce lo puoi dire? Però era bastato quello sguardo a convincerla. «Va bene.» Si avviò verso il bordo dell'abisso. «Se proprio deve andarci, allora andrò con lui.» Mark Hael sbuffò. «Hai imparato a volare, sorellina?» «Può portarmi lui.» Sbirciò nell'oscurità, poi si voltò a fronteggiare Dill. «Sei abbastanza forte da poterlo fare.» Dill abbassò la spada fino a toccare il pavimento con la punta. Il guardamano dorato risplendette debolmente alla luce delle candele. C'era una tacca. «Rachel, io non so... non credo...» «Puoi farlo», disse lei. «Può fare cosa?» Il capitano Clay, rientrato in quel momento con una lanterna antivento, aggrottò le sopracciglia brizzolate. «La mia sorellina insiste che vuole andare con lui», spiegò Mark Hael. «Tieni, ragazzo.» L'espressione di Clay rimase severa, mentre metteva la lanterna nella mano libera di Dill e gli faceva stringere le dita attorno alla maniglia. «È ben piena d'olio, del migliore che abbiamo. Brucia bene e fa parecchia luce. Nella base ci sono anche stoppino e pietra focaia di scorta, casomai ti servissero.» Le ali di Dill si afflosciarono. Fissò per un momento la lanterna, poi sollevò lo sguardo a incontrare quello di Rachel. I suoi occhi erano più bianchi di quanto Rachel li avesse mai visti prima di allora. «Ti proteggerò io, Dill», gli sussurrò. «Te lo prometto.» 295
«Rachel, è pura follia.» Il fratello le si avvicinò a grandi passi. «Non abbiamo tempo per queste sciocchezze.» Gli occhi di Rachel restarono fissi in quelli di Dill. «Mi fido di te. Prendimi.» «Rachel!» Mark Hael si allungò verso di lei, troppo tardi. Aveva fatto un passo indietro, piombando nell'abisso. *** Un fragile silenzio. Per un attimo il cuore di Dill smise di battere. Il coadiutore Crumb rimase basito. Mark Hael e il capitano Clay pure. Nessuno si mosse. Poi un urlo di gioia si levò dalla voragine: «Quella cagna mi è quasi caduta addosso». La risata di Carnival echeggiò nella sala. D'un tratto Dill si sentì trascinato in avanti. Il comandante degli aeronauti l'aveva afferrato per la cotta di maglia e lo stava spingendo verso il bordo. «Aiutala, vai!» Dill lottò contro la stretta dell'uomo, i talloni che scivolavano sul pavimento lucido. «No, io...» Mark Hael continuò a spingerlo quasi senza sforzo. «Devi!» L'oscurità senza fine si fece sempre più vicina, terribilmente fredda, terribilmente morta. «Ti prego.» Ora gli occhi dell'angelo divampavano bianchi. Avrebbe voluto urlare, ma non aveva abbastanza aria nei polmoni. Le ali gli penzolavano inutili, troppo deboli per frenare l'avanzata verso quella terribile oscurità. Agitava le mani, facendo ondeggiare selvaggiamente sia la spada sia la lanterna. Ormai avevano raggiunto il bordo. L'abisso si alzò verso di lui, un pozzo dal quale si levavano tutti gli incubi di Dill. Prosciugò quel che rimaneva della sua forza, come se gli risucchiasse via la vita. Gli cedettero le ginocchia, aveva lo stomaco sottosopra. «Non posso», protestò debolmente. «Salvala!» gli urlò Mark Hael, scrollandolo forte. Dill fissò l'abisso. Lei era ormai perduta, e la odiò per quello. La odiò perché non c'era niente che potesse fare per aiutarla. Sapeva che se avesse fatto un passo nell'abisso sarebbe morto. Il vuoto sotto i suoi piedi era tutto e nulla: un niente che inglobava la sua intera esistenza e che l'avrebbe consumato fino in fondo. A che profondità era già arrivata Rachel? Aveva importanza? Non aveva speranza di salvarla. Era debole, incapace e stupido, 296
un bugiardo, traditore e codardo... l'antitesi di ciò che un arconte avrebbe dovuto essere. Non era niente. Eppure lei si era fidata. Dill fece un passo nel buio.
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PARTE TERZA GUERRA
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23 L'ABISSO
Trononero si ergeva in strati sovrapposti di scarpate frastagliate e gole accidentate, arroventato e tumescente sotto il sole a picco. Vene verdi e giallastre scorrevano attorno a barbagli di cristalli. La miniera alla base del pendio meridionale aveva affondato i propri denti nella montagna, lasciando una mezzaluna spalancata di scogliere metalliche. Massi grandi quanto una casa e montagne di detriti si infrangevano contro la base di quella roccia ghignante, insignificanti come ciottoli o monticelli di sabbia all'ombra del Dente. Il Dente torreggiava sopra la miniera, la calotta liscia e bianca striata di giallo. Cumuli di sabbia alti una trentina di metri ne coprivano le pendici da un lato, nascondendo in parte le tracce larghe quanto un fiume che solcavano il terreno di riporto. Una benna polverosa sporgeva anteriormente come un'enorme mandibola, sovrastata da file di lame taglienti sulla mascella ritratta. In alto, sopra le lame, una fila di finestre mandava violenti bagliori, e ancora più in alto fumaioli anneriti sporgevano dalla copertura, avvolti in incastellature metalliche e scalette. Devon fece ruotare il timone. «Eccolo. È proprio un gran bel Dente.» Il presbitero Sypes aprì gli occhi per un attimo, ammiccando, poi li richiuse subito e riattaccò a russare. In basso si scorgevano evidenti segni di vita: sembrava che avessero sgomberato dalla sabbia una zona attorno all'enorme macchina, per dare accesso alla parte in ombra sotto la calotta. Alcuni solchi risalivano fino ai cumuli di sabbia circostanti e scomparivano in una striscia di buche coperte da lastre di pietra, a un quarto dell'altezza. Scale di corda penzolavano da altre buche ancora più in alto, ma degli Heshette in carne e ossa non si vedeva traccia. Devon certo non si illudeva che non si fossero accorti della presenza della nave. Parlò dentro uno dei tubi di comunicazione del pannello di controllo: «Sfiata le nervature, Angus, lentamente. Scendiamo». Dopo un attimo un sibilo si levò dall'involucro sopra la sua testa, e la Birkita cominciò a scendere. Devon fece ruotare il timone, in modo da far compiere alla nave un giro 299
sopra la miniera. Comparve un'accozzaglia di capanne di pelli tese sui pali, che gremivano la parte in ombra fra l'estremità più lontana del Dente e la parete di roccia. Il terreno fangoso attorno alle capanne era butterato di orme di animali. Una sorgente? Naturale: Trononero attira e raccoglie la pioggia. Ma non cresceva ancora nulla sul terreno avvelenato. Il macchinario era solo un rifugio temporaneo per gli Heshette e le loro bestie, un'oasi di fortuna tra le pianure che circondavano Dalamoor e i villaggi dei banditi a ovest del Coyle. La nave da guerra perse quota, e Devon la fece ruotare lontano dalle rocce per farla di nuovo girare attorno alla sommità del Dente. «Falla salire, Angus», disse nel comunicatore. Un altro sibilo, e la nave scese di tre o quattro metri. «Falla salire, ho detto, non sfiatare. Più gas.» La voce di Devon era ferma, ma le vibrazioni provenienti dai motori gli facevano tremare la mano sulla ruota del timone. La miniera che si era dispiegata sotto di loro sembrò salirgli incontro velocemente. Le rocce si stagliarono più vicine. Devon aprì la valvola di dritta del carburante e poggiò bruscamente a sinistra col timone. La nave rollò leggermente e cominciò ad allontanarsi dalle rocce. I cavi schioccarono sulla sua testa. «Angus, falla salire.» La voce di Angus arrivò da un altro tubo di comunicazione: «Crepa». «Improbabile», rispose Devon. «Mi rialzerei sano e salvo dopo qualunque schianto. In questo modo non farai altro che ammazzare te stesso e il prete.» Una salva di oscenità metalliche si riversò dal comunicatore della sala macchine. Un altro sibilo, e di colpo cominciarono a scendere ancor più velocemente. L'inferno lo inghiotta! Il suolo saliva verso di loro. Devon tenne lontano dalle rocce la prua dell'involucro. Dalla vetrata di sinistra vide scorrere via enormi comignoli. Si trovavano ora fra il Dente e la parete di roccia, e la caduta era troppo veloce perché si potesse manovrare oltre l'enorme macchinario. «Falla salire, Angus, o non vedrai mai più una goccia di siero.» Angus non rispose. Devon ruotò il timone tutto a dritta. Tirò indietro 300
tutta entrambe le leve di sollevamento e diede piena velocità alle eliche. I motori ruggirono e poi rombarono, il ponte vibrò. A sinistra, la calotta in ombra del Dente parve sollevarsi e le rocce si avvicinarono a dritta. Nuvole di polvere penetrarono dalle prese d'aria frontali. Devon tossì e sbatté freneticamente le palpebre cercando di distinguere qualcosa attraverso le vetrate del ponte. Il suolo era sempre più vicino, ancora di più. Sentì che il ponte si inclinava. «Angus, ultima possibilità!» gridò. Avrebbe anche potuto essere il comunicatore sbagliato, non aveva guardato e non gliene importava nulla. Stavano per schiantarsi e doveva stabilizzare la nave a ogni costo. Spense le eliche, spinse in avanti le leve di controllo dei timoni verticali. La polvere gli impediva la visuale, una specie di tempesta racchiusa fra due pareti incombenti, bianca e liscia da una parte, roccia tagliente e frastagliata dall'altra. Uno stridio assordante alle sue spalle. Un forte schianto. Cavi che si sfilacciavano vibrando. Legno che si spezzava, scheggiava, finché non colpirono il terreno con un tonfo da rompere le ossa. Il mento di Devon andò a sbattere contro la ruota del timone, le vetrate del ponte esplosero in una nuvola di vetri e polvere. La nave si assestò con una serie di lunghi gemiti e scricchiolii. La gondola sbandò di lato, per poi arrestarsi con un lungo sibilo. Devon spense i motori e si voltò a controllare il presbitero. La sedia di Sypes era scivolata attraverso il ponte ed era finita contro una parete, ma il vecchio era rimasto ben saldo e continuava a russare leggermente. «Incredibile», borbottò Devon. Alcuni belati attirarono la sua attenzione verso l'esterno. Attraverso la polvere che si stava depositando vide delle capre che sgroppavano e scalciavano in mezzo a legni rotti e pelli lacerate. I polli svolazzavano e starnazzavano, sparpagliando piume in tutte le direzioni. La Birkita era atterrata in mezzo ai recinti degli animali degli Heshette. Un galletto entrò dalla finestra del ponte e saltò sul pannello di controllo, piegando la testa verso di lui. «Al diavolo!» disse Devon. Scrollò Sypes per svegliarlo. Il presbitero ammiccò e si strofinò gli occhi, poi guardò il galletto di traverso. «Buon atterraggio?» «Siamo a terra, no?» 301
«Non mi pare il migliore degli inizi per la tua proposta d'alleanza», disse Sypes. «Ti consiglio di ripensarci alla svelta. Gli Heshette ci ammazzeranno non appena ci vedono, per questo.» Devon grugnì, raccolse la propria borsa dei veleni e se ne andò per controllare i danni. Angus, sempre che se la fosse cavata, poteva restare a marcire dov'era. Districarsi dal relitto si rivelò un procedimento lungo e complicato. Devon si aprì un passaggio tra le rovine dei recinti, spostando le assi sbiancate dal sole per farsi strada. Capre spaventate si ammucchiavano l'una sull'altra nel tentativo di fuggire, senza smettere di belare. La Birkita era ridotta male. La gondola era inclinata di lato. Schegge di teak formavano una linea frastagliata dove il ponte di poppa aveva ceduto. L'elica di dritta penzolava da una parte, e quella di sinistra era spezzata, entrambe le pale accorciate di una spanna dalla roccia contro cui era andata a sbattere. Tre dei quattro fari a etere principali erano in frantumi. Per quanto incredibile, l'involucro era rimasto intatto: appoggiato contro la calotta del Dente, raggiungeva a stento un ottavo dell'altezza di quella macchina colossale. Il Dente si ergeva come una pallida cittadella, le pareti affusolate che si assottigliavano fino a comignoli bruciacchiati lassù in alto. Ai suoi piedi, file e file di enormi ruote poggiavano sui binari in ombra, fra i mucchi di roccia frantumata. Linee sottili erano incise sulla superficie del Dente, riccioli e spirali apparentemente senza fine. Una specie di ceramica? Tremila anni ed è quasi intatto. E dev'essere anche leggero, oppure sarebbe ormai sprofondato nel deserto. Il relitto di una civiltà tanto più avanzata di noi, abbandonato qui come una scavatrice rotta. Devon percorse l'intera lunghezza della macchina, cercando di dare un senso ai ghirigori della sua superficie, di capire in che modo l'avevano assemblata. Era così preso dalle sue osservazioni che quando raggiunse la benna anteriore si stupì nel trovarvi gli Heshette che lo aspettavano. Sembravano figure scolpite nella sabbia, drappeggiate in informi spolverini stinti dal sole, la testa avvolta in sciarpe color sabbia. Erano una dozzina di uomini raccolti sotto il sole, oltre l'ombra del Dente, armati più che altro di balestre e lance, ma c'era anche qualche altra arma: mazze, scuri con la lama d'osso, coltellacci, spade incurvate, stocchi da bandito; tutte armi razziate nel corso di un centinaio di scontri diversi. 302
Soltanto lo sciamano spiccava sul resto del gruppo. La lunga barba sporgeva sotto il lembo della sciarpa come una corda lacera e piena di nodi, adorna di piume e feticci d'osso. Nel pugno nodoso stringeva un bastone di legno sbiancato alto quanto lui. Quello è l'uomo che plasma le menti della tribù, che alimenta il loro odio. È lui che devo riuscire a convincere. Gli uomini della tribù si stavano avvicinando. Devon fletté le spalle, indurì la mascella e si preparò a incontrarli. Non sarebbe stato facile. E aveva il sospetto che sarebbe stato anche doloroso. Bastò una dozzina di passi per rendersene conto. Non ci fu nessuna trattativa, nessuna negoziazione, nessuno scambio di insulti. Solo dolore. Una scure gli si piantò nel petto. Devon cadde all'indietro. L'uomo che aveva scagliato la scure non urlò né si mise a correre. Non cambiò neppure il ritmo del passo. La sciarpa che portava attorno alla testa nascondeva ogni possibile espressione di odio o di trionfo. Devon si portò le dita al petto, e si coprirono di sangue. Strappò via la scure e rimase a fissare con sgomento il sangue che brillava sulla lama d'osso affilata. Lottò per mettersi in ginocchio. «E adesso guardate.» Gli Heshette non emisero una parola, ma le armi arrivarono veloci e letali. Una pietra gli rimbalzò sulla tempia. Una seconda scure gli si infilò in una spalla, aprendogli metà del collo. Sibilarono le frecce. Gliene si piantò una nella coscia, un'altra gli strappò via una striscia di carne dalla guancia, un'altra ancora gli colpì lo stomaco, una gli trapassò un orecchio, una gli graffiò il cuoio capelluto, un'altra gli perforò un polmone. Qualcosa di pesante lo colpì sulla testa, e il mondo si mise a girare. Devon era confuso. Avrebbe voluto gridare «Basta!», ma una seconda pietra lo colpì in piena fronte. Mentre si afflosciava, l'enorme scafo del Dente gli attraversò la visuale come un sudicio cielo color osso. I colpi continuavano a tempestarlo. Lo colpirono con pietre e ferro, lo lacerarono, lo rigettarono nella sabbia. Continuava a sentire il rumore dei colpi. Una lancia gli affondò nell'inguine. L'afferrò rimettendosi in piedi e se la strappò di dosso. I coltelli gli affondarono nelle spalle, nel petto, nel ventre, nel collo, e si ritrovò di nuovo a fissare il cielo. Qualcosa gli ruppe una costola: sentì l'osso che si spezzava, chiaro e netto nel silenzio del deserto. Cercò di alzarsi, ma qualcosa di molto pesante gli colpì il braccio e 303
lo fece ruotare su se stesso. Devon si voltò. Gli Heshette stavano ricaricando le balestre, raccoglievano le pietre. Guardò il proprio corpo massacrato. La pelle pendeva a strisce dalle ferite sanguinanti. Una scheggia d'osso biancheggiava nella carne sulla parte posteriore del braccio. Il sangue aveva annerito la sabbia ai suoi piedi e il respiro gli usciva rantolante. Aprì le labbra gonfie e spaccate e si passò la lingua su un dente traballante. Fluidi gli gorgogliarono in gola quando cercò di parlare. Un colpo in testa gli confuse la vista dall'occhio destro. Sollevò la mano e vi trovò una freccia che sporgeva dall'orbita. Spezzò l'asta. Dietro la testa individuò la punta che sporgeva e sfilò la freccia da lì. Sull'asta rimasero attaccati piccoli frammenti di cervello. Il dolore lo invase quasi con tenerezza, come un prurito che avrebbe voluto grattare. Gli avvolse la punta delle dita e fremette sulla pelle. Trasse un respiro e il dolore lo trovò, e lo lacerò. Gli urlò nel sangue e nel cervello e nella lingua e nei denti. Strepitò artigliandogli gli occhi da dietro e gli strillò nelle orecchie. Devon si mise a ridere. *** Buio. Dill non riusciva a vedere niente. Non vedeva neppure la propria mano protesa o la cotta di maglia che gli tintinnava sul petto mentre precipitava sempre più in basso. Scendeva in picchiata, le ali strette contro la schiena e un urlo soffocato nella gola. L'aria gelida lo inghiottiva, gli scorreva fra le dita e gli strappava lacrime dagli occhi. Li chiuse e li tenne stretti, ma non faceva nessuna differenza. Era tutto nero. A ogni pulsazione sprofondava sempre più nella morte. Riaprì gli occhi e lasciò scorrere liberamente le lacrime. «Rachel!» gridò. Il vuoto inghiottì la sua voce prima ancora che gli arrivasse alle orecchie. Il terrore lo implorava di fermarsi. L'abisso non poteva protendersi all'infinito; prima o poi avrebbe colpito il fondo. Ma non aveva scelta. Se si fosse fermato, sarebbe rimasto solo nel buio e Rachel sarebbe stata definitivamente perduta. E non poteva tornare indietro... non senza di lei. Mi fido di te. Nella mente gli si delineò il viso di lei. L'immagine gli suscitò un odio disperato: odio per se stesso, odio per gli arconti da battaglia che l'avevano preceduto, odio per tutto ciò che loro erano stati e lui non era. Chiuse di 304
nuovo gli occhi. Precipitò e precipitò ancora, continuando a urlare: «Rachel ! Rachel!» L'abisso lo risucchiò come catrame; gli riempì i polmoni, gli penetrò nella carne e nella mente finché non ci fu nient'altro. Il terrore di Dill era assoluto. Prendimi. Come poteva riuscire a prenderla? Stava cadendo da qualche parte sotto di lui, o sopra, o una spanna più a destra o più a sinistra. Come faceva a trovarla là dentro? Era cieco. E lei era morta. Era morta fin da quando si era gettata nell'abisso. Mi fido di te. Quelle parole gli avviluppavano il cuore e non lo avrebbero lasciato andare. Sarebbero state ancora là quando fosse morto. Dill aprì gli occhi, le lacrime che scorrevano agli angoli, e fissò il nulla. L'aria gli fece aprire le labbra e gridò di nuovo. Un esercito di spettri lo attendeva laggiù. Lo spirito di Rachel sarebbe già stato fra loro? Sarebbe riuscito a vederli prima di schiantarsi su una roccia che avrebbe messo fine alla sua esistenza? E poi? Che sarebbe successo? Non ci sarebbero stati preti a benedire il suo cadavere. Ulcis non gli avrebbe offerto salvezza, non gli avrebbe dato un posto nel suo esercito. Sarebbe finito preda del Labirinto? Poteva raggiungerlo fin nella città di Deep? O sarebbe rimasto per sempre nel buio, spezzato e dimenticato? Non avrebbe mai più rivisto suo padre. Quel pensiero lo colpì come un pugno. Dill strinse ancor più le ali alla schiena e allungò le dita quanto più possibile, precipitando sempre più giù. «Rachel!» Al di sopra del turbinio dell'aria, gli sembrò di sentire una voce lontana. «Rachel!» Davvero aveva sentito qualcosa? Quanto era vicino al fondo? O forse era solo il lamento dei fantasmi che lo avvertivano? Che gli dicevano di interrompere la sua discesa? «Rachel!» Una voce chiamò dal basso. Avrebbe potuto essere il suo nome - ma non era sicuro - da qualche parte sulla sinistra. Controllò la propria discesa e deviò verso quel punto. Una mano andò alla lanterna che portava alla cintura, l'altra strinse l'elsa della spada fino a farsi male. 305
«Rachel!» «Dill!» La voce sembrò echeggiare attraverso l'eternità. L'angelo ruotò verso l'origine del suono, senza osare sperarci, la testa che rimbombava delle sue stesse pulsazioni e di beffarda oscurità. «Dill, sono qui, sotto di te!» Dill fletté le ali per facilitare la discesa. Sentì la forza dell'aria sulle ali. Non capiva: non era possibile che stesse ancora cadendo; e non era possibile che lo vedesse per poterlo chiamare. Eppure sembrava proprio lei. O era il suo fantasma? Sono già morto? Ho già colpito il fondo? «Dill, sulla sinistra, appena sopra di te, una trentina di metri.» Sopra? Spalancò le ali di colpo e si lasciò frenare dalla spinta dell'aria. «Rachel?» «Sopra di te, a sinistra.» «Dove sei?» implorò. La sua voce scomparve nel buio. «Accendi la lanterna.» Ci volle un'eternità per trovare la lanterna appesa alla cintura. Poi armeggiò con la rotella d'accensione, battendo le ali per mantenersi alla stessa altezza, senza neppure rendersi conto se i suoi occhi fossero aperti o chiusi. Dopo tre tentativi, la lanterna si accese, illuminandogli le mani, la cintura e i pantaloni. L'elsa della spada brillò dorata e le maglie arrugginite della sua cotta gli scintillarono sul petto. Ma non si vedeva altro. Attorno a lui si estendeva la più totale oscurità del vuoto, immune dalla luce, e pareva addirittura più fitta di prima. Avvertiva un'oppressione al petto, aveva il respiro accelerato. «Rachel?» chiamò. «Ti vedo!» gridò lei. «Sono appena sopra di te, vicina. Sono qui.» Confuso, Dill seguì il suono della voce. Rachel teneva un braccio attorno alle spalle di Carnival, che la sosteneva sotto l'incavo delle ginocchia col braccio sfregiato. Le ali di Carnival battevano pigramente. Galleggiava muovendosi appena, sorreggendo Rachel come se non pesasse nulla. «Spegni la lanterna», sibilò. Per un attimo rimase troppo sconvolto per obbedire, e si limitò a fissarla. Carnival contrasse le mascelle e scoprì i denti. Dill spense la luce. 306
«Mi ha salvata», disse Rachel. «Ha visto che ti tuffavi dietro di me, ed è stata lei a dirmi dov'eri.» Il viso di Carnival era di un bianco stupefacente: sembravano impallidite persino le cicatrici. Ma gli occhi restavano freddi e vuoti. «Buio, vero?» gracchiò. Dalla voce sembrava sul punto di soffocare. Gli fece un cenno con la testa. «C'è una sporgenza, laggiù, dove puoi riposarti.» Volarono in silenzio. Alla luce della lanterna, Dill vide che Rachel lo guardava da sopra la spalla di Carnival, e gli sorrise. Il suo cuore perse un colpo. La sporgenza, una stretta cornice di metallo, si protendeva dalla roccia liscia come vetro. Nervature verticali dello stesso materiale, a un braccio di distanza l'una dall'altra, si allungavano a entrambi i lati. Dill atterrò a pochi passi di distanza dagli altri due, e la sua spada urtò la sporgenza con un rintocco metallico. «Credo che l'abisso si restringa con la profondità», disse Rachel con una voce che risuonava stranamente cupa e metallica. Guardò in basso, poi sollevò lo sguardo in alto. «Ho l'impressione che le pareti siano inclinate verso l'interno.» Per la prima volta Dill guardò in alto. Deepgate brillava debolmente in lontananza, vaghe scintille e perle di luce, come il sole che filtra attraverso un mucchio di pietre preziose. «Di quanto siamo scesi?» chiese. «Quasi tremila metri, direi», disse Rachel. «Forse anche di più.» Poggiò una mano contro la parete dell'abisso. «Questa superficie è... fusa.» Il riflesso della lanterna risplendeva in profondità nella roccia. Il riflesso di Dill pareva ricambiare il suo sguardo, come un altro angelo intrappolato in un ghiaccio nero e scintillante. Pallido e derelitto, gli ricordava uno degli arconti negli arazzi del tempio. Carnival li lasciò per andare ad appollaiarsi silenziosamente a una certa distanza, lontana dalla luce della lanterna. Non appena soli, Dill si sedette accanto a Rachel e le sussurrò: «E lei? Che hai intenzione di fare?» «Poteva lasciarmi morire.» «Perché non l'ha fatto?» «Non lo so, Dill. Non parla con me. C'è qualcosa di diverso in lei qualcosa di... terribilmente sbagliato. Non l'avevo mai vista in questo stato.» Abbassò la voce. «Credo che sia terrorizzata.» 307
«Puoi fermarla prima che raggiunga Deep?» Le mani di Rachel si strinsero attorno al bordo della sporgenza su cui sedevano e il suo sguardo si fece improvvisamente opaco. Disse seccamente: «Non posso battermi con lei in queste condizioni. È qui. Dovremo aspettare». «Fino a quando?» «Finché non raggiungiamo il fondo.» «E se Ulcis ci trova?» Lei alzò le spalle. «Non c'è altro che posso fare.» Dill si appoggiò all'indietro, le penne delle ali che sfioravano la parete dell'abisso. Mille tonnellate di oscurità sembravano schiacciarlo. Un silenzio assordante. Chiuse gli occhi, cercando di escludere tutto il resto, ma rese solo le cose peggiori. Potrei riportarti indietro; dovrei riportarti indietro. Lei non avrebbe neppure dovuto essere lì. Era Dill che aveva ricevuto l'ordine di recuperare il vino d'angelo, non Rachel. Se lui fosse stato più forte e più coraggioso, lei non sarebbe stata lì. Era saltata perché sapeva che Dill non sarebbe riuscito ad affrontare l'abisso da solo. Era saltata perché lui era un vigliacco. E adesso la sua vigliaccheria la stava mettendo di nuovo in pericolo. «Grazie per essermi venuto dietro», disse Rachel. Dill non riuscì a ritrovare la voce. «Tutto bene?» «Io... mi dispiace di non essere riuscito a prenderti.» «No», disse Rachel appoggiandogli una mano sul braccio. «Sono io che dovrei scusarmi. Ero così furiosa con Mark e con Fogwill da non fermarmi a pensare. Come avresti potuto trovarmi in quest'oscurità? Me ne sono resa conto nell'istante stesso in cui mi sono buttata.» Gettò un'occhiata a Carnival. «Credevo di essere morta.» Dill distolse lo sguardo, per non farle vedere la luce di vergogna che aveva negli occhi. «Mi sono buttata e d'un tratto mi sono accorta di quello che avevo fatto. Ho chiamato e chiamato ancora, fino a restare senza voce. Lei mi ha afferrato. Un attimo prima stavo precipitando, l'attimo dopo ero fra le sue braccia. Per un attimo ho creduto che fossi tu.» Dill divincolò il braccio dalla sua presa. Lei si avvicinò, ma senza cerca308
re di toccarlo. «Almeno ci hai provato.» Rimasero seduti in silenzio per un'eternità. La mente di Dill ripercorreva senza sosta gli avvenimenti nel Sanctum. Vedeva Rachel che scivolava via. Prendimi. Quel fragile istante in cui nessuno aveva fiatato, poi suo fratello che l'agguantava e lo trascinava verso morte certa. Dill aveva esitato. Nemmeno il peso dell'oscurità riusciva a soffocare quel ricordo. Rachel sussurrò: «Sei stato così coraggioso». Dill non riusciva a guardarla. Non sentì Carnival che si avvicinava, ma accolse con gratitudine la voce aspra che interruppe il corso di quei pensieri. «Non si vede il fondo.» Con l'espressione tesa e sofferente, Carnival si artigliava la grossa cicatrice attorno al collo, come se ci fosse ancora la corda che gliel'aveva lasciata. «Puoi portarla tu, adesso, o devo farlo io?» «Credo di farcela da solo», rispose Dill. «Allora fallo.» Si alzarono, e l'assassina gli allacciò le braccia attorno al collo. A quel tocco fu percorso da un brivido. Carnival li stava osservando, gli occhi scuri imperscrutabili, le cicatrici simili a una mappa di odio e istinto omicida. Una cicatrice per ogni vita. Ha fatto di sé una maschera. Ma forse c'è ancora un angelo nascosto da qualche parte sotto quegli sfregi. Sapeva che non avrei mai raggiunto Rachel in tempo, e avrebbe potuto lasciarla cadere tranquillamente. Però non l'ha fatto. «Grazie per averla salvata», le disse Dill. Carnival parlò con voce priva di emozioni: «Non ringraziarmi, angelo. Non so cosa ci sia laggiù o quanto tempo mi occorrerà per trovare il vino d'angelo dell'Avvelenatore. Ma c'è una cosa che so». Guardò Rachel con un lampo di fame nello sguardo. «Le vene di questa cagna sono piene di sangue.» Sorrise. «E la Notte dello Sfregio è vicina.»
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24 ALLEANZE DIFFICILI
Lo sciamano degli Heshette parlò da dietro la sciarpa: «Se ti stacchiamo la testa dal collo, ti tagliamo gambe e braccia, dividiamo ciò che resta in brandelli così piccoli da darli in pasto alle capre... allora dovresti morire, non credi?» Il suo accento era quello di Dalamoor, la parlata smozzicata dei cammellieri. I pezzi d'osso intrecciati nella sua barba tintinnarono mentre si chinava in avanti. Devon era seduto sulla sabbia, e con la mano sinistra stava cercando di raggiungere una freccia infilata nella scapola. Aveva già estratto le altre, e aveva sentito male. Le scuri erano meno dolorose da sfilare, ma gli avevano lasciato tagli profondi nel collo e nel petto. Aveva dovuto riunire con le mani i lembi delle ferite perché potessero cominciare a rinsaldarsi, e in effetti guarivano. Non sanguinava più. Il dolore alla testa si era calmato e stava anche recuperando la vista dall'occhio precedentemente offeso. Sollevò lo sguardo verso la sciarpa e disse: «Non ci giurerei». Lo sciamano lo colpì forte alla gola col proprio bastone. Devon ricadde indietro, soffocando. Sputò sangue e sabbia e si contorse per rimettersi in ginocchio, puntellandosi col moncherino. Gli altri uomini della tribù li circondavano, i volti nascosti dietro le sciarpe e le armi pronte a colpire. «Questa... linea d'azione... non è buona... per nessuno... di noi», disse Devon cercando di riprendere fiato. «Direi che per te è decisamente peggio», ribatté lo sciamano. Uno della tribù sghignazzò. Devon riuscì finalmente ad agguantare la freccia e la strappò. Venne via causandogli una fitta di dolore che gli fece stringere i denti. «Non sei neppure curioso di sapere perché sono qui?» Lasciò cadere la freccia sulla catasta insanguinata e incrostata di sabbia che aveva davanti. Ce n'era già una dozzina, con la punta d'osso e l'impennatura di penne di avvoltoio. Lo sciamano si tirò la barba. «Ci vorrebbe una sega per fare le cose per bene.» «Sono venuto a offrirvi qualcosa», disse Devon. 310
«Gambe e braccia per prime, direi», continuò lo sciamano. «Avete intenzione di trattare?» «E poi la testa. Se continua a sopravvivere, possiamo sistemarla in modo che riesca a seguire le incisioni più delicate.» Lo sciamano si voltò verso uno dei suoi uomini. «Tu, trova una sega.» «Sì, Bataba.» L'uomo sparì sotto la calotta del Dente, verso la parte posteriore della macchina. «Affilata o no, come ti pare», gli gridò dietro Bataba. L'uomo si voltò con un ghigno. Devon sentì prudere la spalla mentre la ferita si chiudeva e guariva. Un altro dei selvaggi aveva rovesciato la sua borsa dei veleni e stava frugando tra le bottiglie colorate, annusandone i tappi di vetro. «Ti raccomando quella rossa», disse Devon. «Sì, quella piccola.» Si voltò a fronteggiare Bataba. «Non hai nessun interesse per la mia costituzione così fuori dalla norma?» «Per me rappresenta una sfida», concesse Bataba. Una dozzina di uomini aveva già circondato la gondola della Birkita e, dopo essersi assicurati che non dovevano temere attacchi dall'interno, si stavano avvicinando. Da lì a poco avrebbero trovato Sypes. «Posso offrirti qualcosa che vale assai più della mia morte», disse Devon. «La tua morte sarà sufficiente, Avvelenatore.» «Mi conosci?» «Credi forse che non abbiamo più spie a Deepgate? Abbiamo saputo giorni fa della caccia all'uomo della Chiesa. E adesso le navi volanti ti stanno inseguendo. Ma sei stato un pazzo a venire da noi.» «Abbiamo un nemico in comune.» Bataba sbuffò. «Dopo trent'anni di veleni e malattie vieni a cercare alleanza?» A quel punto gli Heshette si erano introdotti nell'aeronave, e gridavano distruggendo tutto ciò che gli capitava a tiro. Uno di loro lanciò un acuto ululato, e nel giro di pochi secondi Sypes veniva trascinato fuori dal portello sinistro di poppa e gettato sul ponte. Quando il vecchio prete atterrò a faccia in avanti sul legno deformato, Devon sussultò. «Dovreste avere più cura di lui. È fragile proprio come sembra, e vale anche una bella somma di riscatto. Quel prete è il presbitero di Deepgate.» 311
Bataba guardò il presbitero che si rimetteva in piedi. «Un pegno della tua buona volontà? Oppure sei tu un pegno della sua?» «Uccidilo, se vuoi.» «Credi forse che mi serva il tuo permesso, Avvelenatore?» Devon non rispose. Intanto l'uomo della tribù era tornato con una sega arrugginita, e dolorosamente poco affilata. Avvertì un moto di nausea. Ora dipendeva tutto dalla sua offerta. «Ascoltami. Sono venuto per mettere fine a questa guerra, ai decenni di spargimenti di sangue. Sono venuto a offrirti la vittoria. Posso darti Deepgate.» Bataba si voltò lentamente, il volto tuttora celato dalla sciarpa. Il sangue macchiava gli amuleti intrecciati nella sua barba. «Sei un bugiardo e un assassino. Ogni parola che pronunci è veleno. Chiederemo un riscatto per il prete, ma non per te.» Devon sputò altro sangue nella sabbia. «Allora sei un pazzo. Credi forse che la mia scienza finisca con me? Ci sono altri pronti a prendere il mio posto. E quanto credi di ottenere per lui? Guardalo, è quasi morto: sarà difficile anche solo mantenerlo in vita. La Chiesa riuscirà a prevalere anche senza un vecchio prete malandato. Sto chiedendo il tuo aiuto per porre fine a questa guerra.» Bataba soppesò la sega, studiò la lama dai denti smussati. «Questa ti farà parecchio male», disse inespressivo. Devon sbuffò. «Fatica sprecata. Come hai potuto vedere, per me il dolore significa ben poco.» Lo sciamano sollevò la testa. Lentamente, cominciò a sciogliere la sciarpa che gli copriva il capo. Devon trattenne il fiato. Metà del viso dello sciamano era liscia e molto abbronzata; l'altra metà era un disastro. L'occhio sinistro era grigio e offuscato, del destro non restava che una piaga arrossata. Ustioni simili a scaglie di rettile gli risalivano dal collo fino alle guance incavate. Gli mancava l'orecchio destro. Tatuaggi neri serpeggiavano a spirale tra le bruciature, attraversavano l'ammasso rugoso dell'orbita vuota e si assottigliavano in lingue appuntite sul cranio screpolato e coperto di vesciche. Qualche ciuffo di capelli spuntava ancora nella parte non ustionata. «Già, ben poco per te», disse lo sciamano. *** «Dovremmo spegnere la lampada», disse Rachel superando il rumore delle ali di Dill. Si reggeva al suo collo con un braccio, e gli aveva passato 312
le gambe attorno alla vita. «No», rispose Dill, che teneva la lampada stretta a sé come una madre il figlio. «Dobbiamo risparmiare l'olio.» «Io...» Non trovò nulla per giustificare il proprio bisogno di luce, se non la verità. «Ha paura del buio», grugnì Carnival affiancandoli. Rachel lo studiò per un momento, poi gli appoggiò il capo sulla spalla. «Allora possiamo tenerla accesa ancora un po'.» «No.» D'un tratto la luce gli sembrò una nemica più che un'alleata, che metteva in mostra le paure che avrebbe dovuto alleviare. «Hai ragione. Non dobbiamo sprecare l'olio.» Con le dita tremanti, la spense. L'oscurità gli piombò addosso. Volavano sempre più in profondità nell'abisso. Il buio sembrava un solido muro tutto attorno, appena interrotto dal flebile corpuscolo di luce sopra di loro. Deepgate era sempre più piccola, più lontana ogni volta che Dill sollevava lo sguardo. Sentiva il respiro di Rachel sul suo collo, il petto della ragazza che si alzava e abbassava contro il suo, e su quello cercò di regolare il proprio respiro. Ma, per quanto si sforzasse, faceva due respiri per ognuno di Rachel. Solo Carnival era in grado di vedere in quell'oscurità. Di tanto in tanto sentiva il battito della sua ala, o percepiva lo spostamento d'aria quando girava loro attorno. Il suo piano era di restare vicini alla parete che scendeva inclinata, ma senza luce Dill non riusciva a farsi un'idea di dove fosse. A ogni movimento, temeva di ferirsi un'ala contro la roccia. Aguzzava gli occhi, cercando di distinguere qualche forma nel buio, finché non furono troppo stanchi. L'aria si fece più calda, più densa. Il sudore gli imperlò la fronte e gli inzuppò i capelli, il respiro si fece faticoso. La cotta di maglia gli strusciava addosso, lo soffocava e gli bloccava il sudore sulla schiena. Un dolore sordo gli si insediò nella nuca, poi raggiunse i tendini fino alle spalle e gli serpeggiò lungo la spina dorsale. Invisibile, Carnival svolazzava attorno a loro senza sforzo apparente. Dopo un po', Rachel gli chiese: «Hai bisogno di riposarti?» «Sto bene», borbottò. I suoi pensieri erano altrove. 313
La città di Deep giaceva da qualche parte là sotto, legioni di fantasmi ne percorrevano le strade gelide. Chissà se in quel momento stavano levando gli sguardi nell'oscurità: bramavano ancora la luce di Ayen? L'oblio sembrava una sorte più benigna dei millenni senza luce. Rachel si mosse contro il suo petto. Il fodero sulla schiena della ragazza gli feriva il braccio che la reggeva. Un movimento dell'aria gli fece capire che Carnival l'aveva superato un'altra volta. Aspettò qualche istante prima di sussurrare all'orecchio di Rachel: «Credi che intendesse davvero quello che ha detto? Sul motivo per cui ti ha salvata?» Sentì che Rachel si irrigidiva. «Forse è per questo che è tanto terrorizzata», rispose lei. «Quando arriverà la Notte dello Sfregio avrà bisogno di un'anima vivente, se vuole sopravvivere.» «Ce la farai a tenerle testa?» Rachel si limitò ad alzare le spalle. Mentre si inabissavano ancora, Rachel sembrava farsi sempre più pesante fra le sue braccia stanche. Il suo peso lo costringeva a battere le ali in continuazione per rallentare la discesa, e i crampi gli mordevano le spalle sotto sforzo. La camicia gli si era appiccicata alla schiena come una vescica, la cotta di maglia gli irritava la pelle in almeno un centinaio di punti. La pesante spada gli torceva la cintura e l'elsa gli penetrava in un fianco. Respiravano ognuno il fiato umido dell'altro, e il cuore di Rachel premeva contro il suo. Giù, sempre più giù, per quelle che sembrarono ore. Non c'era nulla in quell'interminabile oscurità che permettesse di giudicare i loro progressi, se non l'aria più densa, il dolore crescente e il calore sempre più intenso. Dill stava per suggerire una breve sosta quando se ne rese conto improvvisamente. Si raddrizzò, frenando la discesa fino a fermarsi. «Cosa c'è?» chiese Rachel. «Carnival. Ci ha lasciati?» Rimasero in ascolto, senza sentire altro che il proprio respiro e il battito delle ali di Dill. «Riaccendo la lanterna», disse Rachel. «Ma così ci vedrà», ribatté Dill. E tu vedrai me. «Lei può vederci anche senza lanterna. Dobbiamo renderci conto se 314
siamo vicini al fondo.» Dill tenne la lanterna mentre Rachel faceva girare la rotella d'accensione. Anche se tenuta al minimo, la luce fu accecante. «Riesci a vedere qualcosa?» chiese Dill. «Niente.» L'oscurità inghiottiva completamente la luce. Galleggiarono per un po' nel vasto silenzio. «Sembri esausto», disse Rachel. «Cerchiamo di raggiungere la parete.» «Da che parte è?» «Non lo so. Se per tutto il tempo che siamo scesi l'abisso ha continuato a restringersi non dovrebbe essere troppo lontana.» Dill annuì. «Vai piano», lo ammonì lei. Dopo un breve volo, la parete dell'abisso comparve davanti ai loro occhi, splendente nel buio. O Dill aveva scelto d'istinto la direzione giusta, oppure l'abisso era diventato assai più stretto. Rachel sganciò la lanterna e la tenne sollevata. La parete era contorta e piena di bolle, come vetro nero fuso. Il loro riflesso danzava sulla superficie irregolare, i volti allungati e contorti in pallide forme spettrali. Dill rabbrividì. Siamo diventati spettri? È infine questo il regno dei morti? «Là sotto c'è un'altra sporgenza», disse Rachel. Il supporto metallico era bagnato: dell'acqua trasudava da una fessura della roccia e scorreva lungo minuscoli canali, così che le gocce colpivano la sporgenza metallica con un rintocco misterioso. Con la mano a coppa, Rachel raccolse un po' d'acqua e l'assaggiò. «È buona. Fresca.» Dopo essersi dissetati trovarono un posto poco più avanti lungo la sporgenza, relativamente asciutto. Dill lasciò penzolare le gambe nel vuoto e si stirò il collo, sussultando per il dolore. «A che punto credi che siamo arrivati?» Rachel alzò lo sguardo. «Non riesco a distinguere bene Deepgate, ma sembra più chiaro, lassù. Dev'essere mattina avanzata, ormai.» Lontano, molto lontano, deboli volute e linee di luce segnavano la sommità, incredibilmente distante. La ragazza riportò lo sguardo verso l'abisso. Niente. «Forse l'abisso prosegue all'infinito.» Rachel sollevò la lanterna e proseguì per qualche altro passo lungo la 315
sporgenza. Si fermò e si abbassò. «Dill, questa cornice non è piatta. Qui si solleva.» Scrutò lungo il bordo di metallo. «La prima volta che ci siamo fermati non ne ero sicura, ma adesso sì. Quaggiù è più ripida, credo che sia una specie di spirale che segue la parete dell'abisso.» «Un passaggio per scendere?» Lei sollevò la testa. «Oppure per salire. La spirale dovrebbe andare a finire in qualche punto nascosto sotto l'orlo dell'abisso.» «Perché?» Rachel scosse il capo. «Non lo so, però non dovrebbe esserci.» Passò una mano sul bordo della sporgenza. «Qui il metallo è arrugginito, ma più su non lo era. Questa parte del passaggio è più vecchia, forse di decenni.» «Possiamo seguirlo per scendere?» L'assassina guardò giù. «Non vedo nessun segno di Deep. Se la città esiste, è completamente buia, oppure potrebbe essere chissà quanto più in basso. Ci potrebbero volere giorni di cammino.» Un'intera città mantenuta nel buio perenne. Il cuore di Dill si contrasse al solo pensiero. Tutta l'oscurità del mondo raccolta laggiù, intrappolata laggiù. Si avvicinò alla lanterna strascicando i piedi. E l'olio finirà presto. Di colpo gli sembrò di affogare, di affondare sempre più in un oceano privo di luce. Fu sopraffatto dal desiderio di schizzare in superficie. Si alzò tremando, annaspando in cerca d'aria. «Dill?» Rachel era al suo fianco. «Guardami!» Lo afferrò e fece voltare fino a guardarla. «Non lascerò che ti succeda niente di male.» Dill non riusciva a respirare. «Guardami! Non ti lascerò solo. Sei al sicuro.» Sollevò la lanterna fra loro. Gli occhi le brillavano, colmi di preoccupazione. «C'è ancora un sacco d'olio, tutta la luce che vuoi.» Un po' alla volta Dill sentì allentarsi l'oppressione al petto, il tremito diminuì. «Scusami. Mi vergogno tanto.» Cercò di voltarsi, di divincolarsi dalla sua stretta. Lei lo trattenne. «Non devi vergognarti. Tutti hanno paura di qualcosa. Guarda Carnival, perché credi che sfugga la luce del giorno?» «Io sono un arconte della Chiesa.» La sua voce si spezzò. «Eppure non sono capace di fare nulla. Non so usare una spada, riesco appena a volare.» Chiuse gli occhi cercando disperatamente di nascondere la propria vergogna. «Non riesco neppure a dominare i cavalli della gabbia delle anime. E 316
questo buio... mi terrorizza! Sono un vigliacco. Un buono a nulla.» Che penserebbe mio padre di me? E tu, Rachel, cosa penseresti se sapessi quanto ho esitato? La vergogna non gli dava scampo. Incontrò lo sguardo della ragazza, e la propria miseria lo sommerse. «Dill, tu stai affrontando il buio. Guarda fin dove sei già arrivato. Dèi degli inferi, sei più coraggioso di me.» «Ma tu sai combattere.» «E credi che ci voglia coraggio per questo?» Un sorriso dolente. «Non c'è niente di onorevole negli assassini santificati dalla Chiesa. Un infedele Heshette resta sempre un essere umano. Un traditore è anche lui un essere umano.» Dill rimase colpito dal dolore che leggeva nei suoi occhi. «Prima che la Spina mi assegnasse ai tetti, davo la caccia alle spie Heshette e ai loro informatori, a volte a mercenari e pellegrini fuggiti dalla città, fino a Collecavo e al Porto di Sabbia e alla Foresta di Scisto. Non so neppure io quanti, il solo pensiero mi spaventa. Ma li ho uccisi perché avevo paura a non farlo. Una volta che entri nella Spina devi obbedire, oppure anche tu diventi una minaccia.» Per un lungo istante rimasero in silenzio, miglia di oscurità vuota sulle loro teste, incommensurabili e sconosciute profondità sotto di loro, e a Dill sembrò che fossero le ultime due persone rimaste al mondo. Un angelo e un'assassina, completamente soli se non per il loro riflesso contorto e spettrale nella pietra nera. È così che ci vede l'abisso? Parodie grottesche di coloro che un tempo speravamo di diventare? Il suo stesso riflesso lo irrideva con crudele onestà. Nello specchio di pietra vide un angelo che a stento riconosceva: più vecchio dei suoi sedici anni, eppure deforme, roso dal desiderio solo per farsi devastare dalla durezza della realtà, svilito dalla paura. Distolse lo sguardo. È solo questo che sono? Ulcis, dammi la forza di cambiare. Dammi il coraggio, per amore di Rachel. Lei ha più bisogno di me di qualcuno in grado di proteggerla. Ripensò a Carnival. Fino a che punto era stata plasmata da verità brutali? Eppure Carnival non si faceva illusioni su chi fosse o cosa sarebbe potuta diventare. Di colpo Dill la comprese. Le sue ferite erano autoinflitte. Lei si odia, si fa del male per mantenere intatto il suo nucleo più profondo. Gli si strinse il cuore per quella scoperta. L'anima di Carnival non era orrenda e sfregiata: era pura. E lei la difendeva fieramente. 317
I suoi sfregi erano un'armatura. Carnival e Rachel... acerrime nemiche. Eppure così simili. La cercò nell'oscurità. Dov'è andata? Quando arriverà la Notte dello Sfregio, chi ucciderà chi? Rachel sembrò leggere i suoi pensieri. Lo lasciò andare, lo sguardo velato. «Forse Carnival ha deciso che in fondo non aveva bisogno di noi.» Non ne sembrava convinta. L'acqua continuava a sgocciolare, col suo ritmo leggero sul metallo: un sottile sentiero da Deep fino a Deepgate. Per chi era stato costruito? Era un sentiero percorso dai morti? Dill annusò l'aria: aveva un odore familiare ma che non riusciva a definire, per qualche ragione gli ricordò i sogni che faceva, sogni di battaglia. «Senti qualche odore?» chiese. «Di che genere?» «Non saprei: un odore strano.» «Fa caldo quaggiù: è l'aria stantia.» Forse era solo quello. Aspirò a fondo, e si accigliò. No. C'era qualcos'altro, qualcosa che gli faceva pensare alla guerra. Nei suoi sogni volava, brandendo la spada sguainata, o una picca, o una lancia, l'armatura splendente, uno scudo decorato appeso a un braccio. Più ci pensava, più l'odore gli faceva venire in mente... Armi? Il metallo forgiato aveva un suo odore caratteristico? Dill scosse il capo. Che altro poteva essere? Qualcosa che la sua mente associava alle armi, alle armature e alla guerra... Un movimento nell'oscurità sottostante catturò la sua attenzione: uno spostamento d'aria. Carnival emerse dal vuoto, con un sorriso selvaggio e gli occhi neri splendenti. «Ho visto il fondo. Questa la dovete proprio vedere.»
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25 IL DENTE
All'interno del Dente, Bataba faceva strada, il lungo bastone tenuto orizzontale. Devon lo seguiva, affiancato da due Heshette. Entrambi si erano tolti la sciarpa, rivelando le espressioni arcigne dei volti larghi e scuriti dalle intemperie. Il bastone del presbitero Sypes ticchettava alle loro spalle. Il resto della tribù era rimasto fuori a saccheggiare la nave e a picchiare Angus. A Devon non importava: la guardia ormai non gli serviva più. Il corridoio che stavano percorrendo sembrava scavato nell'osso o nell'avorio. Colonne simili a zanne sostenevano la calotta, da dove lame di luce solare che penetravano attraverso le prese d'aria andavano a colpire la parete opposta in roventi strisce bianche. La sabbia scricchiolava sotto i piedi, sulle piastrelle del pavimento. Un ammasso contorto di tubi si allungava verso l'alto, lisci e pallidi come vipere della sabbia. Ovunque Devon guardasse, scorgeva gli stessi ghirigori indistinti che percorrevano anche l'esterno del Dente. Gli Heshette avevano trasformato l'enorme macchina in una città. Aleggiava un fumo pesante, puzzolente di sudore, fuochi di sterco e spezie. Donne dalla pelle scura sbirciavano da dietro cortine di pelle d'animale che nascondevano i passaggi interni. Devon riuscì a scorgere orci di terracotta, tappeti tessuti a mano, finiture da cavallo e artigli d'avvoltoio. Branchi di bambini cenciosi scorrazzavano in giro di corsa strillando e sbatacchiando pezzi d'osso contro le pareti. In fondo al corridoio Bataba accese una candela e imboccarono una scala che scendeva in una fredda oscurità. Una foresta di pallidi pistoni color osso si innalzava attorno a una fila di motori simili a mostruose vertebre. Panelli fitti di quadranti risplendevano sulla parete opposta, sotto enormi vasi di vetro colmi di un liquido rosso scuro. Non era sangue? Ma quell'odore penetrante... ferro? Devon cercò di dargli un'occhiata più da vicino, ma gli Heshette lo spinsero avanti. Dietro la sala macchine venne introdotto in un nuovo corridoio lungo e stretto. Altre colonne a forma di zanne si rastremavano innalzando319
si verso il soffitto che si restringeva. Su entrambi i lati, le porte recavano delle targhette di ceramica. Recupero, Semina, Separazione, Accensione primaria, Accensione secondaria, Equipaggio uno, Equipaggio due, Punizione. Sotto ogni parola erano stampati dei geroglifici, strani simboli contorti che somigliavano a nodi, o serpenti. Il corridoio proseguiva sinuoso verso il cuore del Dente, superando paratie rigonfie e grosse aperture che soffiavano aria umida su di loro. Tutto questo macchinario è stato costruito in modo da somigliare a qualcosa di organico. A che scopo? Per incutere timore a quelli che l'avrebbero visto... per nascondere i meccanismi. Il fumo che si levava dalla candela di Bataba saliva a volute verso il soffitto, lasciando una patina di sudiciume sulle pareti che già ne erano ricoperte. Alla fine raggiunsero l'estremità del corridoio, e salirono per una stretta scala dall'inclinazione insolita, fino a una botola che si apriva in un vasto spazio illuminato. Il ponte sembrava l'interno di una conchiglia. Pareti lisce, percorse da nervature d'osso in rilievo, si innalzavano senza soluzione di continuità dal pavimento per andare poi a fondersi con un soffitto basso e ondulato. Il cielo del deserto biancheggiava attraverso una fila di finestre che si apriva sul lato opposto. Il vetro aveva uno strano aspetto gelatinoso, che tingeva la luce di spirali rosee e giallastre. Sotto le finestre c'era uno strano congegno, che sembrava una scultura fatta di ossa di migliaia di minuscole creature, all'interno della quale risplendevano venature di vetro piene di fluido rosso. Il fluido si muoveva, pulsava. Devon si avvicinò per vedere. C'era qualcosa là dentro, che si contraeva ed espandeva con regolarità. Inspirazione ed espirazione d'aria. Una corrente da umidi sfiatatoi calciferi. Sembrava che la macchina respirasse. Il Dente è vivo? Un cuore meccanico, con sangue e polmoni? Cervello? No, no, è un progetto deliberato. Una tecnologia che replica e imita la vita. Queste pareti non sono d'osso. Ceramica? Le vene... anzi no, le condutture, sono piene d'olio, non di sangue. Pura idraulica. Il respiro? Un sistema di raffreddamento. Che ancora funziona dopo tremila anni? Perché no? Persino il corpo umano può essere modificato in modo da sopravvivere a tempo indefinito. Perché non può farlo una macchina? Finché c'è carburante... 320
Lo sciamano degli Heshette si rivolse a uno dei suoi uomini: «Raduna il consiglio». L'uomo annuì e si voltò per andarsene. «Tranne Drosi», aggiunse lo sciamano. «Lascialo tranquillo. Venire fin qui dalla sua stanza servirebbe solo a stancarlo.» Il presbitero Sypes colpì col suo bastone la scultura che respirava. «Questa cosa, perché sembra che respiri?» chiese. «La montagna d'osso dorme», grugnì lo sciamano. «Non fare altre domande, prete.» «In altri termini, non lo sai», disse Devon. «Silenzio», ringhiò Bataba. «Oppure farò tagliare la lingua a tutti e due.» «Ma cos'è questa fissa di tagliare tutto?» chiese Devon. «Un costume tribale? O una tua perversione personale?» Bataba lo incenerì con lo sguardo. Uno per uno, arrivarono i consiglieri degli Heshette. Alla fine c'erano sette uomini riuniti: quattro con la barba grigia e tre più giovani, che si comportavano con l'arroganza dei guerrieri. Avevano la pelle scura e portavano spolverini e sciarpe attorno al collo. Tutti quanti erano sfigurati, in un modo o nell'altro. Ustioni chimiche e cure tribali inefficaci avevano trasformato i loro visi in pantani di carne. Il più anziano sbatteva di continuo gli occhi cisposi. Uno dei guerrieri, dalla barba forcuta e con braccia scarne sbiancate dalle cicatrici, lanciò a Devon un'occhiata velenosa e fece per sollevare la mano verso l'impugnatura del coltello a lama curva che portava alla cintura. «Dopo», disse Bataba. Il guerriero sorrise. Devon fece scorrere lo sguardo da un selvaggio all'altro e arrivò a concludere che sarebbe stato assai meglio se i suoi veleni avessero sterilizzato del tutto le Sabbiemorte. Infine tornò anche l'uomo che era uscito per convocare il consiglio, sostenendo un vecchio storpio che brandiva una gruccia di legno. Lo storpio si serviva della gruccia per colpire il braccio dell'uomo che lo stava aiutando. «Lasciami, caprone. Ce la faccio da me.» Si guardò attorno con occhi lacrimosi del colore del fumo di legna. «Dov'è Bataba? Per le palle bollite di Ayen, che diavolo vuole stavolta quello shoka d'un guer321
cio?» Lo sciamano si raddrizzò. «Ho convocato il consiglio, Drosi.» «Bastardo che non sei altro! Sono stufo delle tue riunioni. Trascinarmi qui come la miserabile serva d'un incantatore di serpenti, buona solo per cercare kathalla e acqua di condotta? E con questo caldo, poi!» Bataba si rivolse all'uomo che sosteneva Drosi: «Adi, non c'era bisogno che disturbassi il consigliere». Adi gli scoccò un'occhiata perplessa. «Vorresti lasciarmi fuori da questa storia?» disse Drosi. «Mellifluo bastardo! Sarò anche vecchio, ma non sono stupido. Credi di poter fare questa riunione senza di me, adesso? Credi che non sappia quello che sta succedendo? Presiedevo questo consiglio quando tu poppavi ancora al seno di tua madre.». Gli altri consiglieri si agitarono a disagio, e Devon fece del suo meglio per nascondere un sorriso. «Drosi», grugnì Bataba. «Abbiamo dei prigionieri.» Il vecchio agitò la gruccia in direzione di Bataba. «Non usare quel tono di voce con me, brutto sacco grinzoso di palle di harsha. Mi ricordo che quando...» «Adoratori delle tenebre. Nemici di Ayen.» «Non me ne importa un accidente di cosa...» «Consigliere!» Bataba batté il bastone in terra. «Quest'uomo è l'Avvelenatore di Deepgate. L'altro è Sypes, il capo del tempio nero, l'allevatore di angeli mangiacarogne, colui che nutre il dio esiliato.» Drosi smise di agitare la gruccia e si morse il labbro. «Mai sentiti nominare.» Bataba abbassò la voce. «È da tanti anni che siamo in guerra con loro.» «Guerra? Che guerra?» «La guerra con la gente delle catene, i figli dell'esiliato.» «E quando è stato?» «Hai combattuto anche tu.» Lo sciamano fece una pausa. «Per dieci anni.» Drosi strizzò gli occhi e tentennò il capo. «Quella l'abbiamo vinta. Abbiamo vinto quella guerra, me lo ricordo. Non cercare di prenderti gioco di un vecchio.» Sputò ai piedi dello sciamano. Bataba parlò con cautela. «La guerra che si è presa entrambi i nostri figli, dodici anni fa.» 322
Drosi si appoggiò pesantemente alla sua gruccia. Borbottò qualcosa sottovoce, poi si voltò verso Adi che stava al suo fianco. «Bran, va' a chiamare tuo fratello, figliolo. Ne ho avuto abbastanza di queste stupidaggini.» Adi esitò. «Consigliere, io non sono tuo figlio.» «Non essere ridicolo.» «Consigliere, io sono Adi, il figlio di Holden. Il cugino della tua terza moglie Deniz.» Drosi scosse la testa e sollevò di nuovo lo sguardo, mentre le sue labbra formavano parole senza suono. Diede un'occhiata ad Adi, poi percorse con uno sguardo torvo i consiglieri allineati attorno alla sala. Fu il guerriero dalla barba forcuta a parlare. «Vattene a casa, vecchio, torna al tuo hamaruk. Abbiamo del lavoro da fare, qui.» Aveva un accento più arrotondato rispetto allo sciamano, più simile a quello dei mercanti delle città fluviali. Devon osservò meglio il coltello dell'uomo. La lama era leggermente ricurva, l'acciaio inciso con disegni che ricordavano quelli del Dente. Una dozzina di tacche segnava l'impugnatura. Un'abitudine dei banditi, quella delle tacche sull'impugnatura, una per ogni gola tagliata, con tutta probabilità. «Domina la tua arroganza, Mochet», disse uno dei consiglieri anziani. «Lo sciamano non ti ha dato licenza di parlare.» Il guerriero chiamato Mochet si accigliò. «Massa di coglioni: non avete un grammo di cervello in testa, fra tutti», disse Drosi, e assestò un altro colpo di gruccia ad Adi. «Andiamocene, Bran, non ho intenzione di restare qui.» Mentre continuava a borbottare fra sé, Adi lo aiutò a lasciare la sala. Quando furono usciti, lo sciamano si schiarì la gola e si rivolse al consiglio: «Ora, voi tutti...» Si sentì grattare alla porta. «Avanti», disse Bataba. La porta si aprì e apparve una faccia, un giovane dalla pelle infiammata e piena di piaghe in suppurazione. «Sciamano», ansimò con voce rauca e catarrosa. Questo ha i polmoni rovinati. Conosco il veleno. E le piaghe? Vaiolo del gabbiano: fra un mese sarà morto. Il giovane dal viso piagato proseguì: «La guardia dell'esiliato che c'era nella nave ha perso il senno». 323
«Spiegati.» «Non la smette di urlare. Si agita come un pazzo. Ha la schiuma alla bocca e si strappa la carne a brandelli da solo.» «Siete stati troppo duri con lui?» «No, sciamano, benedice i nostri colpi e supplica per averne ancora. L'abbiamo immobilizzato.» Bataba guardò Devon con aria interrogativa. «Morirà presto», disse l'Avvelenatore. Sypes aggrottò la fronte. «Non puoi abbandonarlo così.» «Non mi serve più, ormai.» «Questo è...» Bataba lo interruppe. «Cos'ha che non va?» «Lui l'ha avvelenato», disse Sypes puntando il bastone su Devon. «Fagli dare un'occhiata dai guaritori», ordinò Bataba al giovane sulla porta. «Sarebbe più semplice finirlo», ribatté Devon. Gli occhi dello sciamano si ridussero a due fessure. «Ai miei uomini piace divertirsi un po', come ti accorgerai presto tu stesso.» Appoggiato al suo bastone, Sypes era furibondo. «Per l'amor di dio, dagli almeno qualcosa per alleviargli il dolore!» disse a Devon. «Un coltello avrebbe lo stesso effetto.» Mochet sputò. «L'Avvelenatore tratta i suoi allo stesso modo della Stirpe. Ci hai convocati per decidere il modo in cui morirà, Bataba?» La sua barba forcuta riluceva d'olio. «Gli uomini dicono che è stato colpito da una dozzina di frecce, se le è strappate di dosso e ci ha riso in faccia.» Devon guardò negli occhi il giovane guerriero e fece un lieve cenno di conferma. «Allora tagliamolo a pezzi», disse un consigliere anziano dalla pelle d'onice e dagli occhi appannati. «Questa gente crede che il sangue versato evochi l'inferno, quindi facciamogli guardare il suo stesso sangue che inzuppa la sabbia.» «Un migliaio di ferite», disse un altro giovane guerriero tarchiato, «e facciamoli combattere fra loro.» «Guarda il prete», sbuffò Mochet. «Sarebbe un ben misero divertimento, temo. A meno che non tagliamo anche l'altra mano all'Avvelenatore, o 324
un braccio, oppure gli caviamo gli occhi.» «Morirà presto, Mochet, ma non è questa la ragione per cui ho riunito il consiglio», replicò Bataba. «Prima dobbiamo decidere se possiamo servirci di lui.» «Per quanto mi riguarda, userei le sue costole per farci una rastrelliera per le lance», grugnì Mochet. «Con i suoi occhi farei esche per le trappole da lucertole, e un piede lo darei da rosicchiare ai miei cani. Ecco il miglior uso che si può fare di lui, sciamano.» Devon cominciava a credere che gli Heshette dovessero nascondere interi magazzini di arti amputati ai loro nemici. Sorrise con aria paziente, riflettendo sugli usi che lui stesso avrebbe potuto escogitare per le varie parti del guerriero. «Vuole proporci un accordo», disse Bataba. Un momento di silenzio. «Ce l'ho io una proposta per lui.» Mochet alzò un pugno. «E, nel caso non gli piacesse, ne ho qui una anche migliore.» Estrasse il coltello. «Metti via quel coltello», disse Bataba. «Ascolteremo quel che ha da dirci.» Mochet abbassò il coltello, ma senza rinfoderarlo. «Non vorrai trattare con questo verme?» Ci furono mormorii di protesta nella sala. «Hai forse dimenticato quel che ci ha fatto?» Dalla barba di Mochet l'olio colava come fosse sudore. «Hai dimenticato così in fretta i veleni e le ustioni? Non hai visto come sono morti i nostri guerrieri? Le malattie? Cosa credi di guadagnarci, da lui? Magari un occhio nuovo? Io dico di farlo fuori. Qui. Adesso.» Fece un passo verso Devon, i muscoli tesi dietro il coltello puntato. «Fermo», ordinò Bataba. Mochet si fermò. «Non ho dimenticato il passato», continuò Bataba. «Ma non ho intenzione di trascurare il futuro. L'Avvelenatore è fuggito da Deepgate, e le navi volanti gli stanno dando la caccia. È venuto a cercare la nostra alleanza.» «La sua nave è precipitata», disse Mochet. «L'abbiamo vista tutti.» Devon lo guardò freddamente. «L'aeronave è atterrata. Al meglio delle possibilità del mio incompetente compagno.» Mochet manifestò il proprio scetticismo. Bataba guardò uno per uno i componenti del consiglio. «Sostiene di poterci consegnare la città.» «È una menzogna», disse Mochet. 325
Lo sciamano intrecciò le dita fra i molteplici amuleti nella sua barba. «Prima ascoltiamolo, poi prenderemo una decisione. Se le sue spiegazioni per l'aiuto che intende offrirci sono deboli, tu avrai il tuo divertimento oggi stesso, Mochet.» Di colpo Devon ebbe tutta l'attenzione dei consiglieri. Estrasse gli occhiali dal taschino del panciotto e li pulì, mentre considerava le parole da usare. Il vino d'angelo gli aveva restituito una vista perfetta, ma era una vecchia abitudine. Da un certo punto di vista, sentiva la mancanza degli occhiali. C'era in gioco più della sua stessa vita, lì. Se non fosse riuscito a convincere quegli uomini, avrebbe dovuto sopportare i loro tormenti per l'eternità. Rimise gli occhiali nel taschino e trasse un profondo sospiro. «Non me ne importa un accidente di nessuno di voi. Non me ne importa un accidente di ciò in cui credete, della vostra cultura, né della vostra piccola guerra.» Il cerchio degli Heshette aggrottò la fronte. «Per me, non siete che selvaggi ignoranti, appena un po' meglio degli animali. Per quanto mi riguarda, potete vivere per l'eternità in questa montagna d'osso o cadere morti stecchiti per il vaiolo. Non mi interessa.» Mochet aveva la mascella contratta. I tatuaggi sul viso di Bataba si contorsero in nuove forme. Sypes stava osservando con attenzione le loro espressioni, proprio come faceva l'Avvelenatore. Apparentemente, gli credevano. «Gli unici esseri che odio più dei selvaggi come voi sono quei cadaveri che camminano per Deepgate e i loro burattinai della Chiesa.» Fissò Sypes. «Gli Heshette adorano Ayen, la dea della Luce e della Vita, e così hanno almeno una vaga idea di cosa significhi essere vivi. A Deepgate vengono privati della vita fin dalla nascita; tutta una cultura che aspetta di morire, per farsi consumare dall'oscurità che hanno sotto i piedi.» Sbuffò. «Almeno in teoria. In realtà quelle larve si aggrappano alla vita con selvaggia intensità, divorando chiunque e qualunque cosa nel disperato sforzo di guadagnarsi un solo miserabile giorno in più in attesa della morte.» Spinse fuori le parole tra i denti serrati. «La loro ipocrisia è stupefacente. Mia moglie è morta per soddisfare la loro insaziabile fame di vita. Le Cucine dei Veleni l'hanno reclamata, come hanno quasi reclamato me. Tutti e due volevamo qualcosa di più di quella specie di non-vita che perseguono, non ci bastava diventare cibo per il loro dio, destinati solo a essere usati e poi gettati via da quella massa senza cervello che brama l'abisso.» A quel punto Devon avvertì l'impulso di colpire il vecchio prete. L'elisir 326
pulsava dentro di lui; gli sussurrava, annebbiava i margini della sua visuale. I consiglieri sembrarono impallidire, finché non rimase solo Sypes: un vecchio macilento curvo sul suo bastone, più morto che vivo. «Farò precipitare la tua città marcia nell'abisso, se non altro per dare alla tua gente quello che vuole. Credi che scapperanno, prete? Quando l'abisso si solleverà per ghermirli, gli volteranno le spalle?» Il presbitero Sypes lo guardò negli occhi. «Ci sono degli innocenti a Deepgate, i bambini...» «Ci pensino i loro genitori a farli evacuare», ringhiò Devon. «Se non lo fanno, la colpa ricadrà su di loro... su di te. È la Chiesa che ha alimentato la loro assurda fede, non io.» Dall'espressione addolorata, comprese che il presbitero se ne rendeva conto. Però Sypes non aveva perso la fede: credeva ancora in Ulcis. Devon seppe allora, con piena certezza, che i suoi sospetti erano giusti. Il prete aveva paura del suo dio. Di colpo capì perché Sypes aveva osato concepire il piano di dare a Carnival il vino d'angelo. L'idea era talmente ridicola che prima non l'aveva nemmeno presa in considerazione. Il prete aveva davvero sperato di poter convincere Carnival ad affrontare il suo dio. Ciò che era in attesa nell'abisso, qualunque cosa fosse, era diventato evidentemente una minaccia. «Moriranno a decine di migliaia», disse Sypes. «Moriranno felici», sibilò Devon. «Gli darò quello che vogliono, quello che si meritano.» Ma cosa sorgerà dall'abisso? Devon non vedeva l'ora di scoprirlo. Si intromise lo sciamano: «E come pensi di ottenere tutto questo, Avvelenatore?» La furia che illividiva la vista di Devon pulsò e svanì, e per un lungo istante rimase a fissare l'uomo alto che aveva davanti, cercando di ricordarsi chi fosse. Alla fine, la mente gli si schiarì. «Risveglierò questa macchina - questa montagna d'osso, come la chiamate voi - e la porterò fino all'abisso per recidere le catene della città.» Uno dei consiglieri borbottò: «Il dio esiliato verrà schiacciato, i suoi custodi distrutti. Sciamano, come ci ripagherà Ulcis?» Bataba aggrottò la fronte riflettendoci sopra. «Ayen ci proteggerà.» Annuì. «Lei lo approverà.» «L'Avvelenatore è un bugiardo», sibilò Mochet. «È un trucco.» «Ha tradito la sua gente», aggiunse Sypes. «Tradirà anche voi.» 327
«Non è mai stata la mia gente, Sypes.» La voce di Devon suonò strana persino alle sue stesse orecchie, come se avesse parlato in un coro di sussurri. «E non sono nemmeno mai stati gente. Sono sempre stati dei morti.» Bataba batté il bastone sul pavimento. «Consiglieri, l'avete sentito. Qual è la vostra decisione? Rimandiamo il nostro divertimento e ci alleiamo con quest'uomo? Oppure la finiamo subito? Le navi di Deepgate si stanno avvicinando.» «Uccidiamolo», ingiunse Mochet. Ma gli altri sei erano incerti. Mormoravano fra loro. Alla fine uno dei consiglieri anziani si avvicinò allo sciamano. «Rimanderemo il divertimento. Per ora.» Devon respirò a fondo. «Bene. Ma, prima di cominciare, c'è una cosa importante che devo fare per voi.» «Che cosa?» chiese Bataba. «Salvarvi la vita.» *** Vista dalle finestre sul ponte dell'Adraki, la flotta si allungava sopra le Sabbiemorte fino a Trononero, come un lungo banco curvo di nuvole d'acciaio. Il sole si rifletteva sui grandi palloni argentati e splendeva sugli ottoni delle gondole sottostanti. Fogwill avrebbe giudicato quella vista impressionante, anche stimolante, se solo fosse riuscito a sollevare la testa dal secchio che aveva tra le ginocchia. Il ponte beccheggiò, un fremito percorse il tappeto sotto i suoi piedi, e lui vomitò di nuovo. Si udì un fischio, e il comandante Hael appoggiò l'orecchio a una cornetta che sporgeva dalla parete di sinistra. Dopo un attimo, rispose attraverso un altro interfono: «Affermativo, segnalate la notizia indietro alla Kora e alla Bokemni». Si voltò verso il capitano. «Quattordici gradi a dritta. Allunghiamo la formazione fino ad avere le estremità a una giornata di distanza fra loro. Voglio che Clay riceva rapporto di ogni nuovo sviluppo.» «Sissignore.» Il capitano fece un cenno col capo all'aeronauta seduto alla sua sinistra, che tramite un terzo interfono riferì il messaggio al segnalatore sul ponte di poppa. Il comandante degli aeronauti si voltò a fronteggiare Fogwill. «Hanno segnalato dei movimenti attorno alla nave dell'Avvelenatore. Pare che gli infedeli si stiano dando da fare.» «Cannibalismo... o riparazioni?» chiese Fogwill tra un conato e l'altro. «Difficile a dirsi», rispose Hael. «L'avanguardia della flotta sta incro328
ciando ad alta quota, oltre la portata delle frecce.» Come avevano fatto per la maggior parte della giornata. Il resto della flotta si distendeva fra Trononero e Deepgate, formando una linea continua attraverso la quale le informazioni venivano trasmesse avanti e indietro con le bandierine di segnalazione, dalla nave da guerra che sorvolava la Birkita naufragata fino a quella che stazionava sopra Deepgate, dove il capitano Clay era impegnato a organizzare le truppe regolari per una marcia attraverso il deserto. La notizia dell'improvvisa caduta della Birkita aveva raggiunto la città appena dopo l'alba, e Mark Hael aveva allora ordinato che la flotta rimanesse in formazione e in attesa, mentre la sua stessa nave, l'Adraki, si preparava al decollo. La Birkita così vicina al Dente di dio poteva significare soltanto una cosa: era danneggiata. Devon non sarebbe più scappato da nessuna parte, almeno per il momento. Ora che il vento aveva girato a loro favore, Hael sarebbe riuscito a raggiungere il luogo dello schianto in sei, otto ore al massimo. Aveva deciso di comandare personalmente l'attacco. Ma Hael non era certo famoso per la sua temperanza quando dava fuoco alle polveri e Fogwill, nel disperato tentativo di veder tornare Sypes sano e salvo, aveva insistito per accompagnarlo. Carnival era a caccia del vino d'angelo e Dill era sparito, forse morto: la breve esperienza di comando di Fogwill aveva messo la città più in pericolo che mai. Il coadiutore voleva che il suo maestro tornasse il più presto possibile e riprendesse la sua carica. Clay, che non si fidava troppo delle aeronavi, aveva ovviamente cercato di tenerlo fuori dalla spedizione, ma Fogwill era stato irremovibile. Dopotutto sarebbero stati al sicuro, fuori dalla portata delle frecce: che altro rischio poteva mai correre? Il contenuto del secchio sciaguattava tra le ginocchia tremanti di Fogwill. Lo stomaco gli si rovesciò di nuovo quando la nave vibrò, facendo risuonare una nota discordante lungo i nervi del prete. «Abbiamo vento favorevole, coadiutore», sorrise Mark Hael. «Forse ce l'ha mandato Ulcis in persona per aiutarci.» Fogwill gemette. Quel vento stava soffiando a tutta forza fin da quando erano partiti da Deepgate tre ore prima. La nave di Devon aveva dovuto lottare tutta la notte contro un forte vento da nord, ma con l'arrivo dell'alba il vento era girato e veniva ora da sud, dando modo all'Adraki di risalire rombando la fila delle bandiere di segnalazione al triplo della velocità di Devon. Si stavano avvicinando alla svelta. 329
Sempre che l'Adraki non finisse in pezzi prima di arrivare. Mark Hael non sembrava badarci. Aveva ordinato di dare piena potenza ai motori e pareva godersi l'ululato del vento, il beccheggio e le pulsazioni del ponte, il gemito dei cavi sotto sforzo. E meno male che Devon non avrebbe potuto scappare da nessuna parte. Fogwill avrebbe voluto soltanto scendere da lì. Si pulì la bocca col dorso della mano. Ormai il talco si era sparpagliato ovunque, rivelando a tutti il suo pallore malsano. «Sembra che non ti senta bene», commentò Hael con un sorriso ancora più largo. Sembrava che il malessere di Fogwill lo divertisse un mondo. «Perché deve ballare tutto quanto in questo modo?» «Correnti d'aria. Stiamo spingendo l'Adraki al massimo. Ti sentiresti meglio se provassi a tenere lo sguardo fisso all'orizzonte.» Ma il coadiutore continuò a fissare il secchio. «Stare in piedi mi fa sentire anche peggio. Quanto ancora dovrò sopportare tutto questo?» Il comandante tamburellò sul pannello di controllo. «Altre cinque ore. I vascelli di testa della flotta si stanno raggruppando. Non appena arrivati incroceremo sulla zona per trovare tracce di Devon e di Sypes. Se abbiamo fortuna, gli Heshette ci toglieranno il pensiero di liberarci dell'Avvelenatore.» «Bisogna proteggere Sypes», disse Fogwill. Poi si prese la testa fra le mani e vomitò di nuovo. Il puzzo che saliva dal secchio gli fece venire le lacrime agli occhi. «Se è caduto nelle mani di quei selvaggi, è già troppo tardi per lui», disse Hael per nulla turbato. «Li conosco. Non lo terranno in vita per il riscatto.» Fogwill sollevò lo sguardo. Gli bruciava la gola, la saliva gli colava sul mento. «Dobbiamo... riportare a casa il presbitero», riuscì a dire. Hael grugnì: «Non posso garantirlo. Non ho abbastanza uomini per tirarci fuori dal fango, quindi un atterraggio è fuori discussione». «Cosa suggerisci di fare, allora?» «Quello che facciamo di solito.» Hael fissò il deserto, i bottoni della divisa che splendevano al sole. «Li gassiamo. Con tante navi contro un solo insediamento Heshette dovremmo riuscire a farne fuori la maggior parte. Poi i regolari di Clay potranno avvicinarsi a piedi e fare le pulizie.» «Ma Devon potrebbe sopravvivere.» 330
«Per andare dove?» *** Dopo qualche discussione, Dill e Rachel avevano deciso di abbandonare il sentiero a spirale, un percorso troppo lento e pericoloso per poter tenere dietro a Carnival. Tenendola fra le braccia, Dill volava con cautela, per timore di raggiungere il fondo dell'abisso troppo bruscamente. Tennero bassa la lanterna durante la discesa, e cercarono di scrutare attraverso l'oscurità umida, alla ricerca di qualche traccia di Deep o dei fantasmi laggiù in fondo. Ma, qualunque cosa li attendesse, restava ancora nascosta. Carnival non aveva fornito il minimo indizio su cosa avesse visto durante la sua precedente ricognizione. Volava attorno a loro impaziente ma si manteneva a distanza, per evitare la luce della lanterna. Ogni volta che Dill riusciva a intravederla, nei suoi occhi non scorgeva altro che un lampo di divertimento selvaggio, come se stesse assaporando uno scherzo crudele. Aveva abbastanza buon senso da non insistere per avere una risposta. Non che fosse così ansioso di ascoltare quel che poteva avere da raccontare. La premura maligna con cui cercava di spingerli a raggiungere il fondo lo innervosiva. Nel silenzio totale, Dill sentiva il sangue che gli rombava nelle orecchie. Le braccia di Rachel erano pesanti attorno al suo collo, il fiato di lei era caldo contro la sua guancia. Il vetusto acciaio della sua cotta di maglia cominciò a sembrargli un ferro sempre più pesante, finché non ebbe la sensazione di reggere il peso di un'intera città sulle spalle. E dappertutto, adesso, c'era quell'odore. Di guerra. Di armi. Scosse piano la testa. Non riusciva a collocarlo, eppure una parte di lui sapeva cos'era, quell'odore pungente ululava per farsi riconoscere. Guerra. Armi. Qualcosa... ? Rachel interruppe i suoi pensieri. «Ascolta... Lo senti?» Dill ascoltò con attenzione. Un suono ritmico, metallico, molto debole. «Cos'è?» chiese. «Non lo so», mormorò lei. 331
Scendendo ancora nell'abisso lo strano rumore si fece gradualmente più forte. Gli ricordava le Cucine dei Veleni, il familiare rumore lontano delle industrie, delle fabbriche e delle forge. Anche l'odore si era intensificato, ma la sua origine continuava ancora a sfuggirgli. Là. Per un attimo gli era sembrato di vedere una sagoma grigia nel vuoto sotto di loro. Frenò bruscamente. So cos'è. Un brivido di terrore gli percorse la schiena. Rachel annusò, si accigliò. «Quest'odore... che diavolo è?» Dill sbirciò in basso. «Credo di aver visto...» Si interruppe. «Ma forse non era niente.» Però mentre continuavano a scendere l'oscurità sottostante sembrava attenuarsi. Comparvero altre sagome indistinte, per poi svanire. In basso, da una parte, ne vide una leggera e indefinita, come una coltre di fumo quasi invisibile. Cercò di metterla a fuoco, ma non riuscì a definirne la forma. Era solo un'altra sporgenza di roccia? Aveva visto davvero qualcosa? «Dill, guarda lassù», sibilò Rachel. «Sulle Sabbiemorte sta infuriando una tempesta.» Sollevò la testa e trattenne il fiato. Da laggiù Deepgate non sembrava più grande del suo pugno, eppure la città lontana ribolliva. Nuvole lampeggianti di sabbia e ruggine cadevano dalle catene scosse dal vento e dalle case così lontane sopra di loro, traforate dai raggi del sole. Una corona rabbiosa circondava il profilo della città, e proprio nel centro un anello più brillante fiammeggiava attorno a una macchia nera. La Chiesa di Ulcis. «È più chiaro, adesso», mormorò Rachel. «Il sole è alto, dev'essere quasi mezzogiorno.» «Sembra così lontana», disse Dill. Deepgate sembrava lontana quanto il sole, e altrettanto irraggiungibile. Concentrato in alto, non si accorse del terreno che si avvicinava finché non ci furono quasi sopra. Quando abbassò lo sguardo vide quello che sembrava un ripido pendio gessoso che si innalzava verso di loro. Oltre la luce della lanterna il pendio sprofondava indistinto nel buio. «Dill!» «Lo vedo!» Batté le ali per rallentare la discesa, e il vento improvviso frustò i capelli di Rachel. «Mio dio, Dill, guarda!» Dill non riusciva a capire cos'era quello che stava vedendo. Dov'era la città di Deep? I suoi palazzi, le strade, i giardini? Dov'erano le luci delle 332
anime? L'esercito degli spettri? Dov'era Ulcis? Quello cos'era? Atterrò bruscamente. La superficie del terreno cedette sotto di lui, spezzandosi e frantumandosi. Perse l'equilibrio e ruzzolò a capofitto, scagliando Rachel nel buio. Centinaia di spigoli duri lo colpirono, spremendogli l'aria dal petto indolenzito. L'elsa della spada gli si infilò dolorosamente fra le costole. La lanterna gettava cerchi vertiginosi di luce. Allargò disperatamente le braccia per rallentare la caduta, ma le sue mani affondarono in qualcosa di friabile e scivolò ancora in avanti. Una polvere fitta e acre lo soffocò. Armi? Guerra? Dill finalmente si fermò, a faccia in giù, in una nuvola di polvere. Gemendo, sollevò la testa. Ossa. Era disteso su un mucchio di ossa. Femori, dita, clavicole, costole, spine dorsali, fino a dove riusciva a vedere, un impossibile pendio di scheletri secchi e spezzati. Mani prive di carne si allungavano da avvallamenti e cumuli di resti friabili. Frammenti di teschi e di denti si muovevano, scorrevano e ciottolavano in basso nell'oscurità. Dill era affondato fino al gomito fra le ossa spezzate. Tossi, sbatté gli occhi. Quell'odore. Non di armi o di guerra, ma il corridoio del Sanctum, i Novantanove: gli arconti da lungo tempo defunti che ispiravano i suoi sogni di battaglia. Si alzò malfermo, spazzolandosi la polvere d'ossa dagli abiti. Però quelle non erano ossa di angeli, ma di persone. Migliaia di persone. Milioni. Scaricate nell'abisso, ammucchiate come la pira per un eterno banchetto. Rachel annaspò verso il basso per raggiungerlo, facendo franare un altro rivolo di frammenti. Dill non riusciva a parlare. Fissava a bocca aperta quella montagna in disfacimento, cercando di respirare nell'aria polverosa, ancora alla vana ricerca di una traccia della città di Deep. Ma non c'era niente laggiù: solo ossa. Tremila anni di ossa. E, dall'oscurità che li circondava, il suono incessante di martelli che colpivano il metallo. Di industria. 333
Di forge? «Dill?» Rachel lo scrollò dolcemente. «Stai bene?» «Non capisco.» La guardò. «Dove sono le luci delle anime? Gli spettri?» Mentre Rachel spostava il peso da un piede all'altro, qualcosa si ruppe. «Queste sono le ossa più vecchie. Antiche. Più in alto ci sono quelle più recenti. Ma non c'è carne, nessun sudario.» Raccolse un ossicino che avrebbe potuto essere un dito e lo esaminò. «Ci sono dei segni sopra, dei graffi. La carne è stata raschiata via, le hanno ripulite.» Guardò in alto. «Il sole sta avanzando. Presto tornerà l'oscurità. Dobbiamo oltrepassare questo...» Lasciò che la frase finisse nel nulla. «Dobbiamo raggiungere il fondo.» Una serie di rumori secchi venne dal pendio sopra di loro. Carnival era seduta su una pila di teschi, le ali di corvo allargate. In ognuna delle mani sfregiate brandiva un lungo osso, e li usava come bacchette per battere sul teschio che teneva fra le ginocchia. «Non è stata una grande idea», disse con voce strascicata, gli occhi accesi di gioia maligna. «Ecco da dove vengono.» Dill ruotò su se stesso. Dapprima non vide altro che oscurità, poi cominciò a distinguere le luci. I morti stavano arrivando.
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26 L'ATTACCO
Stracci, si era raccomandato, e stracci cercarono. In quel buco dimenticato da dio non mancavano gli stracci. Strapparono brandelli dalle coperte e strisce dagli spolverini, li inzupparono nel fango e li usarono per riempire ogni fessura nell'enorme calotta del Dente. Avrebbe ridotto gli effetti del gas che la flotta di certo si preparava a usare contro di loro. Raccolsero anche le sciarpe e le tennero da parte, pronte per essere immerse nell'urina e usate per coprirsi la faccia. Le donne Heshette stavano raccogliendo urina a secchi. Devon aveva spiegato che avrebbe aiutato a contrastare l'effetto dei residui di gas che avessero comunque respirato. Ovviamente non era vero, ma l'occasione di costringere quei selvaggi a respirare la loro stessa urina era troppo golosa per lasciarsela scappare. Bataba sorvegliava le operazioni con severa efficienza, mentre una dozzina di Heshette dall'espressione acida scortava fuori Devon. Tutti portavano delle vanghe. Devon afferrò una lanterna, un martello, un chiodo e un mozzicone di candela nell'unica mano. «Solo dodici di voi», disse mentre usciva nel sole accecante del deserto. «Non vorrai andartene prima che cominci il divertimento», ringhiò Mochet. Si avvolse la testa nella sciarpa. Devon sbuffò. «Come se fosse possibile manovrare i motori e navigare allo stesso tempo! Non si può pilotare un'aeronave con una mano sola.» Rabbrividì all'infelicità della sua stessa battuta. «E mi ferisce che tu possa anche solo pensare che voglia fuggire da una così bella compagnia.» «Vorrei che chiudessi il becco.» Devon ammiccò attraverso la sciarpa che avvolgeva anche la sua testa, presumibilmente piena di pidocchi. Lo spolverino macchiato che gli aveva dato Bataba puzzava di fumo e di sterco. L'avanguardia della flotta di Deepgate si era messa in posizione poco più a sud, circa cinque ore prima. Da allora avevano continuato ad ammassarsi, a estendere la loro linea di comunicazione, a far avanzare altre navi per un assalto concentrato. In quel momento ce n'erano diciassette, e altre 335
in arrivo. Quando era stato evidente che non avevano fretta di attaccare, Devon aveva deciso di sfruttare a proprio favore il tempo che restava. Dai ponti delle navi lampeggiavano i cannocchiali, ma a quella distanza gli osservatori degli aeronauti non sarebbero riusciti a distinguere molti dettagli. A ogni modo, Devon si preoccupò di tenere nascosto il moncherino all'interno della manica. Credono che ci siamo semplicemente schiantati. Non appena le loro forze avanzate saranno pronte lanceranno le bombe a gas e le incendiarie tutto attorno al Dente, affumicheranno più selvaggi che possono e lasceranno il resto ai balestrieri. L'Avvelenatore annuì fra sé, soddisfatto. Credono di avere tutto il tempo del mondo. Quindi sono convinti che Sypes sia già morto. Scortato dagli Heshette, Devon scivolò e si trascinò nella tempesta di sabbia prima di infilarsi nell'ombra sotto la calotta del Dente. Enormi cingoli incrostati di fango secco incombevano su di loro, grandi abbastanza perché potessero arrampicarsi fra le ruote dentate per raggiungere i resti dei recinti degli animali e la nave ferita dalla parte opposta. Le capre erano state radunate in un recinto di fortuna dove belavano e si accalcavano l'una sull'altra, facendo tintinnare le campane. La gondola della Birkita era stata completamente razziata. I saccheggiatori avevano strappato via le tavole di teak del ponte di poppa e le avevano impilate da una parte. Rotoli di cime e cavi erano appoggiati vicino a cataste di pentole e padelle e attrezzi da cucina. I mobili erano sparpagliati ovunque. Poltrone di velluto, armadietti riccamente impiallacciati, tavoli e librerie giacevano nella sabbia. Quattro guerrieri Heshette avevano trovato la riserva di liquori del capitano ed erano ora accoccolati nella sabbia, a far scempio di vini pregiati nelle loro gole barbute. All'interno Devon quasi perse l'equilibrio quando cercò di aggrapparsi allo stipite della porta col moncherino. Imprecando si fece strada lungo il corridoio fino alla sala macchine. La sabbia ingombrava i ponti e - per quanto ridicola fosse l'idea stessa - a Devon sarebbe piaciuto che Fogwill fosse lì con lui per commentare quel macello. Sarebbe stata l'ultima lamentela di quello stupido ciccione. Trovarono le taniche di gas ascensionale immagazzinate in uno stanzino della sala macchine. Da due di esse si dipartivano delle tubature che le collegavano alle valvole di immissione all'involucro sopra le loro teste. Due semiassi gemelli sporgevano dalla parte posteriore dei motori attraverso 336
una scatola del cambio, per raggiungere le eliche del ponte di poppa. L'olio riluceva come sudore, i condotti idraulici venavano le pareti. Una rete di tubature si diramava dagli sfiati dei motori per sparire nei condotti ai due lati della sala che convogliavano l'aria calda nelle nervature dell'involucro. Devon posò la sua attrezzatura e trasse un sospiro di sollievo: sembrava non ci fossero danni. «Trova delle tubature», disse a Mochet. «Quante più possibile. Puoi prendere queste, e queste. Svuotale dal fluido e usale per collegare quei serbatoi alle condutture dell'aria calda. Qui, qui e qui, più collegamenti che riesci. Basta che tagli i tubi e leghi bene le giunture. Non importa che sia perfetto.» Ispezionò la stanza. «Ci serviranno dei brandelli di stoffa, molti. E tanta zavorra quanta riesci a caricarne. Sabbia e rocce andranno benissimo; qualunque cosa pesante.» Squadrò Mochet. «Quanto credi di pesare?» Denti scoloriti separarono la barba di Mochet, che gettò una vanga ai piedi di Devon. «Scava, Avvelenatore.» Così Devon si mise a spalare sabbia nel corridoio di sinistra con altri otto Heshette, mentre Mochet e gli altri lavoravano all'interno. Con una mano sola, il lavoro era complicato per Devon, che spesso finiva col gettare la sabbia in faccia ai compagni. Di tanto in tanto, agitava verso di loro il moncherino, come scusa. Non vedevano che era uno storpio? Il sole splendeva alto, a picco tra il Dente e il muro della miniera, divorando senza pietà ogni traccia d'ombra e arroventando la sabbia sotto i suoi scomodi mocassini. Attraverso il velo della sciarpa sbirciò il cielo bianco di calore, aspettandosi che la flotta apparisse oltre la sommità del Dente da un momento all'altro. Ma fino a quel momento non erano giunti avvertimenti da parte delle vedette degli Heshette. Riluttante, Devon si rimise al lavoro. Quando ebbe caricato a bordo tanta zavorra quanta era in grado di reggerne, saltò a bordo della gondola per verificare come procedevano i preparativi all'interno. Due degli spalatori Heshette si scambiarono un'occhiata, gettarono via le vanghe e lo seguirono. «Non preoccupatevi», disse ai due che si erano piazzati a forza al suo fianco. «Sono certo che Mochet sappia badare a se stesso.» Lo seguirono comunque. All'interno gli uomini avevano quasi finito di collegare le tubature ai condotti dell'aria calda. Mochet era appoggiato a una trave di sostegno e giocherellava col proprio coltello, mentre osservava i loro progressi con gli 337
occhi socchiusi. «Indaffarato?» Mochet grugnì: «Dammi ancora fastidio, Avvelenatore, e il mio coltello verificherà fino a che punto il tuo sangue può resistere. La tua stessa esistenza è un insulto ad Ayen». «Allora sei tu che parli per la tua dea? Il tuo sciamano lo sa?» Il guerriero scoprì i denti, ma non rispose. Devon radunò il materiale che aveva portato dal Dente e dalla sala macchine entrò nel corridoio di mediana, con Mochet che lo tallonava. «Tieni questo contro la superficie del ponte mentre io martello», disse porgendo il chiodo a Mochet. «A questa angolazione, ecco, così.» Mochet obbedì. «Prova a mancare il bersaglio, Avvelenatore, e quel martello lo userò su di te.» Devon piantò il chiodo nel legno fino a un certo punto, poi ci infilò sopra il mozzicone di candela, in modo che sporgesse dal ponte ad angolo acuto. Aprì quindi la lanterna e fece colare l'olio sopra la cera, fino a un paio di centimetri dallo stoppino. Prese le strisce di stoffa che gli Heshette gli avevano procurato, le inzuppò nell'olio della lampada e ne ricavò una lunga miccia che fece arrivare fino alla sala macchine. Sparpagliò l'olio rimasto sul ponte e sulle pareti attorno alla miccia. Completata l'opera, si voltò verso gli uomini di Mochet. «Adesso dobbiamo aprire le valvole, molto dolcemente. Riempite le nervature di gas. Aprite tutti i serbatoi, ma non troppo: giusto qualche giro, fino a quando non sentite il sibilo.» Tutti gli Heshette lo avevano udito chiaramente, ma Mochet ripete comunque le istruzioni. Aprirono le valvole dei serbatoi di gas ascensionale e si ritirarono nel corridoio. «Ora accendete la candela», disse l'Avvelenatore. Porse a Mochet un sacchetto di pietre focaie. «Io aspetto fuori.» Il guerriero lo afferrò per un braccio. «No, Avvelenatore. Tu resterai qui finché non è finita.» Cinque minuti dopo Devon dava un ultimo sguardo alla Birkita dall'ombra sotto la calotta del Dente. Le sue nervature si stavano gonfiando lentamente: sperò che facesse in fretta. Bataba venne a incontrarli all'interno. Aveva il volto coperto da una sciarpa bagnata, e offrì un altro cencio umido a Devon. 338
L'Avvelenatore lo annusò. «Ce ne sono a sufficienza per tutti?» «Sì, ce ne sono abbastanza.» «Anche per Sypes?» Bataba annuì. «Ottimo.» L'Avvelenatore si fregò le mani e poi le batté. «Questo puoi tenerlo: rischierò il gas.» *** Pallido come gesso, Fogwill si aggrappò al pannello di controllo sul ponte dell'Adraki, puntò lo sguardo verso l'orizzonte beccheggiante e cercò di concentrarsi sulla necessità di far restare nello stomaco quel poco che c'era ancora rimasto. Gli bruciava la gola. Come poteva esserci ancora qualcosa? Aveva già vomitato tutto quello che poteva aver mangiato e ancora di più, e persino certe cose che aveva seri dubbi di aver mai mangiato. Di colpo, gli si torsero i visceri, e qualcosa rumoreggiò, ma più in basso. Gli arrivò un'occhiataccia del capitano dell'aeronave, un veterano che non aveva nessuna simpatia per le delicate condizioni del coadiutore. Fogwill cercò di sorridergli. Non lo entusiasmava l'idea di usare il gabinetto della nave, a meno che proprio non ci fosse alternativa. Mark Hael si era premurato di fargli sapere come funzionava. Il sole arroventava Trononero. Diciotto navi da guerra si erano ormai radunate sopra il Dente e si disponevano lentamente in direzione ovest al girare del vento. Dalle prese d'aria sopra le finestre del ponte entrava un'aria calda e metallica che non riusciva ad asciugare il sudore sulla fronte di Fogwill. I motori ronzavano ovunque, come mosche ostinate. Al richiamo di un fischio improvviso, Hael avvicinò l'orecchio a una delle cornette che sporgevano dalla parete del ponte. Dopo un momento, disse: «Stiamo per avvicinarci alla Birkita. È stata saccheggiata. Hanno avvistato un gruppo di Heshette che si rifugiava di corsa all'interno del Dente». «Il presbitero?» azzardò Fogwill. Il comandante trasmise la richiesta e attese la risposta. «Troppo lontani per dirlo.» Si rivolse poi al capitano: «Segnala alla flotta di rimanere sopravvento sopra la Birkita a quota centotrenta metri e mantenere la formazione, e tienici a distanza di segnalazione da loro. Voglio due terzi delle cariche di gas esplosivo completi di miccia e pronti a essere sganciati al mio ordine. Metti in posizione tutti gli effettivi dei balestrieri e le bombe incen339
diarie innescate per cucinarsi quei bastardi non appena provano a sparpagliarsi. Tienimi informato di ogni cambiamento di velocità e direzione del vento». Fogwill deglutì. «Quel gas è... letale?» «Dipende da quanto se ne respira», disse Hael. «Allora temo di non poterne autorizzare l'uso.» Il comandante alzò le spalle. «È il sistema migliore per stanarli. Quella cosa laggiù ha l'aria di essere troppo robusta per le incendiarie.» Il Dente sembrava impenetrabile. Fogwill aveva sentito parlare della macchina, ma non l'aveva mai vista prima. In effetti, erano ben pochi ad averla vista. Torreggiava oltre i dirupi della miniera che aveva alle spalle e risplendeva nella luce violenta. Alcune macchie scure chiazzavano la calotta di un bianco abbagliante; la base, nella parte rivolta verso di loro, era coperta da cumuli di sabbia; comignoli anneriti dal fumo ne coronavano la sommità appuntita. Sul davanti, bracci scheletrici sorreggevano colonne massicce di lame rotanti, sopra l'enorme benna polverosa. Fogwill la esaminò intimorito. Quell'enorme macchina era in effetti una sacra reliquia, abbandonata da Callis quasi tremila anni prima, dopo la costruzione delle catene di ancoraggio. Era stato l'Araldo di Ulcis in persona a guidarla per l'ultima volta. Ripensò all'angelo storpio rinchiuso nei sotterranei del tempio e deglutì a fatica. Tremila anni: e quante anime, da allora? I missionari che avevano visto la macchina avevano sparso la voce che conservava vestigia di consapevolezza divina. Guardandola in quel momento, a Fogwill sembrò difficile dar credito a quelle voci. Il Dente era impressionante, d'accordo. Ma addirittura senziente? Improbabile. Eppure la macchina sembrava possedere una potenza latente, come se fosse in attesa, come se li osservasse attraverso quelle fessure che si aprivano nella sua calotta. È solo la mia immaginazione. Sono gli Heshette quelli che ci stanno osservando. Il coadiutore scrollò le spalle, ma non riuscì a liberarsi di quella sensazione di disagio. Qualcos'altro lo turbava. Il Dente sembrava nel complesso troppo... integro. Privo di segni. Troppo pronto. «Perché Devon è venuto qui?» Senza volerlo, aveva dato voce ai propri pensieri. 340
«Acqua. È una delle pochissime oasi della regione che non abbiamo avvelenato.» Hael sogghignò. «È un luogo sacro.» «Ma avrebbe potuto raggiungere facilmente il Coyle e procurarsi una barca per discendere il fiume. Perché affrontare quel lungo volo col vento contrario per finire dritto in bocca agli infedeli?» «Per evitare le guarnigioni del Coyle. Porto di Sabbia, Racha, Clune sono approdi poco amichevoli per un fuggitivo. Senza dubbio si aspettava che il Dente fosse disabitato. Gli Heshette sono nomadi, e non capitano spesso qui a Trononero.» Fogwill scosse la testa. Devon non era uno stupido, ci doveva essere un'altra ragione. Abbassò lo sguardo verso il Dente, verso le enormi lame che tanto tempo prima avevano scavato dalla montagna il veleno dei minatori. Migliaia di tonnellate strappate dalla montagna, lavorate, e forgiate in catene. D'un tratto il suo disagio diventò paura. «I tuoi gas e le tue bombe potrebbero fermare quell'affare se si mettesse in movimento?» Il comandante degli aeronauti si voltò lentamente. Per un attimo sembrò prendere in considerazione l'idea, poi scosse la testa. «Non saprebbe come farlo funzionare.» «È di Devon che stiamo parlando, non scordartelo.» Hael grugnì: «L'Avvelenatore ha perso l'unica occasione che aveva per fuggire. È un idiota, o forse già impazzito». «Un idiota che è riuscito a sfuggire a una caccia all'uomo in tutta la città, ha rapito il presbitero e ha rubato un'aeronave sotto il tuo naso.» «Però adesso è in mano nostra», ruggì. Era evidente che al comandante non faceva piacere che glielo si ricordasse davanti ai suoi uomini. Fogwill non riusciva a distogliere lo sguardo dalle lame della macchina, ruote dentate così affilate da tagliare quel minerale. E le catene? Mi colgano le tenebre, ho capito cosa stai macchinando, Devon. Sypes... perdonami, tu certo capiresti quello che devo fare. Si rivolse al capitano della nave: «Date il via all'attacco, subito». «Ordine sospeso», intervenne Hael. «Coadiutore, non osar dare ordini sulla mia nave.» Fogwill si raddrizzò di scatto sullo sgabello. «Sono un tuo superiore nella gerarchia della Chiesa, comandante.» «Non su questa nave.» 341
Fogwill abbassò allora la voce. «In tal caso, ti chiedo umilmente di far trasmettere un mio messaggio a Deepgate. Ritengo che questo rientri fra i miei diritti a bordo di questa nave.» Non attese una conferma di Hael. «Di' a Clay di dare la sveglia ai regolari e di far passare la sbornia ai riservisti. Voglio che anche l'ultimo di loro venga trascinato nudo fuori dai bordelli, se necessario, e tutti i volontari e i coscritti che riesce a trovare. Devono essere armati e pronti ad affrontare un attacco da terra alla città. Deve rimettere assieme le divisioni di cavalleria, tutte le bestie una volta dell'esercito e finite a trasportare carbone vanno trovate e requisite. Poi voglio che passi al setaccio le Cucine dei Veleni e raccolga tutto quello che i chimici hanno raccolto, e faccia trasportare tutto quanto lungo il perimetro dell'abisso, suddiviso in lotti e pronto per essere utilizzato. Voglio che ripeschi tutti i veterani del genio - paghi quei bastardi quanto necessario - e voglio che faccia minare le Sabbiemorte in direzione di Trononero come se dovessero aprire un altro abisso. E poi mi aspetto che i fabbri e i carpentieri della città mollino tutto il resto e sottoscrivano nuovi contratti con la Chiesa: ci serve artiglieria pesante, mangani, baliste, macchine da assedio, tutto quello che riescono a fabbricare. Di' loro che mi servono armi abbastanza potenti da sconfiggere un dio.» «Macchine da assedio? Mangani? Baliste?» Il tono di Hael era diventato beffardo. «Parole uscite dalle favole dei vecchi, come credi che possano costruire macchine del genere?» «È la nostra storia. Abbiamo combattuto, in passato. Cent'anni fa, duecento. Contro le città fluviali, roccaforti dei banditi, al limite delle Sabbiemorte.» «Storia?» ribatté Hael. «Deepgate non ha storia. Sypes l'ha messa sottochiave nei suoi maledetti libri.» «Allora per una volta useranno il cervello. Riflettici solo un momento. Sarà necessario fare breccia come in una cittadella. Istruisci Clay di mettere tutti al lavoro subito, giorno e notte. Non importa quanto verrà a costare. Abbiamo una guerra per le mani.» Riluttante, Hael riferì il messaggio al segnalatore attraverso uno dei tubi di comunicazione. Un dolore sordo si era insediato nel petto di Fogwill. Il presbitero certo avrebbe compreso e approvato, eppure... Sypes, mi dispiace. «Allora, comandante Hael, quando suggeriresti di attaccare?» Ma il comandante non ebbe la possibilità di rispondere. 342
«Signore!» disse il capitano. «La Birkita si sta alzando, scappa.» Fogwill si sporse oltre il pannello di controllo per vedere la nave da guerra che si sollevava da dietro il Dente. «Viene su in fretta», disse Hael. «Deve aver riempito di gas le nervature. Stalle addosso. Ordina agli uomini di preparare i rampini, e segnala alle altre navi di aumentare la velocità e di allinearsi in modo da essere pronte a colpire, se noi dovessimo fallire.» Si precipitò verso la porta del corridoio di sinistra, poi si voltò un attimo per sibilare: «E questo è quanto, per la tua guerra». La Birkita aveva superato i comignoli del Dente e stava salendo sotto di loro, sempre più vicina. Rivoli di sabbia da zavorra colavano dalla gondola. Girava su se stessa come se fosse priva di controllo. C'è qualcosa che non va. Fogwill lanciò un'occhiata interrogativa al capitano e al navigatore, ma entrambi erano troppo indaffarati per badare a lui. Allora incespicò all'inseguimento di Hael, continuando a reggersi la pancia che non smetteva di rumoreggiare. C'era qualcosa di peggio che poteva ancora succedere? Fuori, il vento sembrò strappargli di dosso la tonaca. I motori della Adraki rombavano. Gli aeronauti di Hael stavano mettendo in tensione le molle dei cannoncini di lancio dei rampini, piazzati a ogni angolo del ponte di poppa, infilavano nella canna aste di ferro appuntite, regolavano mirini e oliavano spolette di cavo. Le eliche fendevano l'aria e gli enormi timoni si spostarono di schianto mentre la Adraki virava per intercettare la nave dell'Avvelenatore. L'aria penetrò nelle nervature dell'aeronave, e all'improvviso il ponte si inclinò. Colto di sorpresa, Fogwill incespicò in direzione della battagliola di sinistra, agitando le braccia. Perse una pantofola. La battagliola si avvicinava velocissima, e dietro c'era solo il vuoto abbagliante. Hael lo agguantò per il collo della tonaca. «Vai dentro, altrimenti finirai per ammazzarti.» A Fogwill tremavano le ginocchia. «Lascia andare la nave», gridò. «Devon non è a bordo: è una trappola!» Poi ebbe un capogiro, e vomitò. Mark Hael fece una smorfia e arretrò, lasciandolo andare. Fogwill si afflosciò sul ponte mentre il comandante si dirigeva a grandi passi verso la 343
battagliola. Due aeronauti dal viso di pietra lo guardarono storto dalla loro postazione al cannoncino d'arrembaggio. «Rampini di sinistra, pronti», gridò Hael. «Cannone di prua, mira al loro ponte di poppa. Cerca di tendere un cavo obliquo, se ce la fai. A poppa, pronti nel caso che fallisca: mirate all'involucro. Al mio ordine.» Fogwill vide che la Birkita si stava sollevando oltre la battagliola, a un centinaio di metri di distanza. «Fuoco.» Con uno schianto, il rampino di prua schizzò dal cannoncino e si innalzò a parabola nello spazio che separava le due navi. Il cavo sibilò svolgendosi sulla spoletta. Il rampino colpì il ponte di poppa della Birkita e si piantò nel legno. «Contatto!» «Alare!» Due aeronauti si misero all'opera alla manovella montata dietro il cannoncino, i volti arrossati, i muscoli gonfi. Il cavo cominciò a tendersi. Mark Hael approvava con aria severa. «Cannone di prua, pronto! Mira alla parte bassa dell'involucro. Leviamole un po' di fiato. E... fuoco!» Un secondo schianto spedì in aria il rampino di prua, che mancò il bersaglio e andò a infilarsi in una finestra della gondola della Birkita. «Contatto. Bersaglio troppo basso.» «Alare.» Gli aeronauti azionarono la manovella del secondo argano. Entrambi i cavi si tesero. Hael afferrò uno dei tubi di comunicazione che sporgevano dalla parete di fondo della gondola. «Fateci affiancare. Ruotare il braccio di stabilizzazione a dritta, scaricare zavorra e aprire le valvole delle nervature sotto sforzo. Stiamo per impennarci. Preparatevi a ballare.» Si rivolse ai propri uomini sul ponte: «Tirate quei cavi e fatela accostare». I serventi dell'argano di dritta si precipitarono sulla fiancata opposta e staccarono delle aste dalle rastrelliere del ponte. Erano lunghe una decina di metri, con un gancio in cima. Agganciarono entrambi i cavi e spinsero in basso: i cavi gemettero. «Molla!» urlò una voce. Gli uomini allentarono la tensione sul cavo. Quando le aste furono orizzontali, le bloccarono sugli appositi supporti montati sul ponte. 344
«Ala!» I cavi si tesero di nuovo. La Birkita si avvicinò beccheggiando. Mark Hael abbassò lo sguardo su Fogwill, ancora seduto sul ponte, e spiegò: «Per evitare che i cavi possano tranciarci l'involucro quando la Birkita si solleverà sopra di noi». Sorrise. «L'abbiamo presa.» La Birkita esplose. Fogwill vide il comandante degli aeronauti che si voltava lentamente, sullo sfondo di un cielo in fiamme. Qualcosa scaraventò Fogwill da una parte e tutto divenne buio. *** Qualcuno stava urlando in sottofondo, oltre lo scampanio che riempiva le orecchie di Fogwill: «Giù! Giù! Giù!» Del ferro gli premeva contro la guancia. Una ringhiera? Dietro c'era della sabbia. Qualcosa gli schiacciava una spalla. Le Sabbiemorte turbinavano sotto di lui. Voci lontane. «È squarciato!» «Non me ne importa niente, non mi importa.» «Il cavo!» «A dritta.» «Dove?» «La sua gamba: fermate il sangue.» «Non lo so.» «A prua.» «Dove?» «Lascia stare!» «No. Non c'è niente da fare. È andato.» Fogwill si aggrappò alla ringhiera. Sabbia e rocce e ottoni e cielo bianco gli rotearono attorno. Il ponte vibrava e gemeva. «Taglia! Taglia subito!» Si guardò la mano: il sangue imbrattava la pelle incipriata. Come sembrava bianca la sua pelle in contrasto col sangue. Non andava bene. Quel sogno non gli piaceva. Il sangue aveva imbrattato anche gli anelli, oro e gemme erano tutti incrostati. Non appena si fosse alzato avrebbe dovuto 345
lavarli. Mosse la testa, e una fitta di dolore gli saettò nel collo. Le tavole di teak erano sollevate e inclinate e lo spingevano contro la ringhiera. Altro sangue scorreva sul legno in minuscoli rivoli che gli si stavano avvicinando, si avvicinavano all'orlo della sua veste. Cercò di muoversi, ma le mani gli facevano male. I muscoli si arresero: era troppo pesante. Il sangue si avvicinava sempre più, stava per inzuppargli la veste, per rovinarla. Un'elica urlava poco lontano. Era frustato dal vento. «Tutti e due. Ora.» Fogwill cercò l'origine della voce. Mark Hael era disteso supino, aggrappato al portello di sinistra, lo sguardo sconvolto. Anche lì c'era sangue. Inzuppava completamente l'uniforme bianca del comandante degli aeronauti. Un comandante non avrebbe certo dovuto farsi vedere in quelle condizioni. Che avrebbe detto la madre di Fogwill? E che c'era che non andava nello stomaco di Hael? Una punta metallica sporgeva dal tessuto bagnato. Un rampino? Non avrebbe dovuto stare lì, pensò Fogwill con distaccata curiosità. Avrebbe dovuto parlare al comandante, dirgli del rampino. Cercò di parlare ma l'ululato del vento si impadronì delle sue parole. Riesaminò gli anelli: acquamarina e rubini risplendevano sotto il sangue. Strofinò l'oro. Sarebbe tornato pulito: bastava un po' d'acqua e sapone. Di certo il capitano ne aveva, dentro. Ma il portello era molto più in alto lungo il ponte inclinato. Avrebbe dovuto strisciare su tutto quel sangue per arrivarci. «Non riesco a fermarlo. L'elica di sinistra è andata.» Fogwill avrebbe voluto che gli aeronauti la piantassero di gridare. Tra i loro urli e il rumore del vento e il ronzio delle eliche, gli stava venendo un terribile mal di testa. Bloccato dal rampino, Mark Hael stava cercando di gettare un'occhiata oltre il portello. Le punte di ferro gli sporgevano incongruenti dal ventre. «Tagliate il tubo dell'elica», gracchiò. «Tirate via quei maledetti tubi!» Ma non erano tubi. Solo un rampino. Come mai il comandante non se ne accorgeva? Però non si stava guardando la pancia. Era ancora voltato da una parte, guardava all'interno della nave. La sabbia gli si infilò negli occhi, e Fogwill sbatté le palpebre. Si girò a guardare oltre la battagliola. Le dune si stavano sollevando velocemente verso di loro. Troppo veloci. Dovevano rallentare. «Rallentate», sussurrò Fogwill. Nessuno lo sentì. L'attenzione di Mark Hael era altrove. Avrebbero proprio dovuto rallentare. Doveva dirlo al ca346
pitano. Cercò di staccarsi dalla ringhiera su cui era schiacciato ma fu inutile. Era troppo stanco. La spalla gli pulsava e le mani gli si erano molto gonfiate. Sbatté di nuovo le palpebre, cercando di liberarsi gli occhi dalla sabbia. Lacrime pungenti gli scorsero sul viso. Le sue pantofole. Dov'erano finite le pantofole? Le cercò tutto attorno, frenetico. Il deserto si avvicinava a tutta velocità. Sabbia e rocce gli vennero incontro. Non riuscì a scorgere le pantofole da nessuna parte. *** I morti emersero dall'oscurità e cominciarono a risalire la montagna di ossa. Le luci che Dill aveva dapprima scambiato per anime erano invece lingue di fiamme che si levavano dalle torce tenute dai pugni ossuti. Quelli non erano spettri: erano uomini e donne. Alcuni scarni come gli scheletri che avevano sotto i piedi; altri sembravano gonfi, la pelle di varie sfumature di grigio e azzurro. Tutti coperti di stracci. Tutti con l'aria affamata. Un esercito. Dill abbassò la luce della lanterna. «Troppo tardi», sibilò Carnival. «Ormai ti hanno visto.» Ne arrivavano ancora. Sciamavano lungo la montagna d'ossa dietro quelli comparsi per primi e, quando gli occhi di Dill si furono abituati all'oscurità, capì da dove venivano. La città di Deep era stata intagliata nella parete dell'abisso, dove torrenti di sculture nere si levavano ad altezze impressionanti, facciate di figure contorte e volti tormentati. Il terzo inferiore della città risplendeva di luci lontane. Le fiamme si muovevano dietro i muscoli e i tendini scolpiti; attraversavano ponti ad arco di spine dorsali, scendevano scalinate di ossa nere, fino ai pendii di resti umani. Muri di teschi gridavano silenziosi dalla parete di roccia. Le fiaccole risplendevano attraverso le orbite vuote e le porte incorniciate di denti, oltre le quali scivolavano le figure in movimento. Colonne scanalate sorreggevano grandi sfere di pietra intagliate in scene di impossibili orge di carne, ali, denti e ossa, rappresentazione di innumerevoli angeli a banchetto. Deep rabbrividì al suono di un martellare metallico. Rachel era al suo fianco. «Là», indicò col dito. «Il rumore viene da laggiù.» Le fiamme risplendevano in profondità nella città oscura. Si scorgevano sagome al lavoro. Metalli arroventati e scintille d'acciaio. 347
«Forge», disse Rachel. «Fabbricano armi.» Una marea di torce si riversò dalla città e cominciò a risalire la montagna di ossa. Si muovevano leggeri, smuovendo poco il terreno, gli occhi che nell'ombra erano puntati sui tre intrusi. Dardeggiavano la lingua fra le labbra esangui come per sentire l'aria. Carni bianche, grigie e azzurrognole si intravedevano attraverso gli stracci macchiati di grasso, e coltelli e spade scintillavano nella semioscurità. L'orda si avvicinava sempre più, in un silenzio terrificante. «Cosa sono?» ansimò Dill. «Credo che siano morti», rispose Rachel. «O lo sono stati.» «Dobbiamo andarcene.» «Non ancora.» Sembrava stranamente lontana. «Ricorda per cosa siamo venuti quaggiù.» Carnival raccolse un teschio, lo esaminò e poi lo gettò via con un grugnito indifferente. Il teschio rimbalzò e rotolò lungo il pendio, fino a fermarsi a pochi passi dall'avanguardia dell'esercito che avanzava. Le file di uomini e donne si fermarono, poi ripresero a salire, i volti ora contorti in un ringhio. «Fantastico, li hai fatti arrabbiare», disse Rachel. «E allora?» «E allora loro sono un esercito, e noi siamo in tre.» Carnival scrollò le spalle. «Per essere un esercito, non è dei più numerosi.» Una decina di metri più in basso uno degli uomini alzò un braccio e quelli più vicino a lui, una trentina di figure cenciose, si fermarono alle sue spalle. Con lenta deliberazione infilarono le torce nel terreno di ossa frantumate, senza mai distogliere lo sguardo dagli intrusi. Tutti brandivano spade col manico d'osso. Altre centinaia di morti si erano inerpicate sul pendio alle loro spalle e si disposero a ventaglio ai loro fianchi come una linea di marea di fuoco e acciaio. Dill percepì l'odore di grasso bruciato. Con la coda dell'occhio vide che Rachel si era irrigidita. L'uomo che aveva sollevato la mano puntò lo sguardo lattiginoso su Dill e gli chiese con rabbia: «Cosa cercate qui?» La sua voce era un sibilo rauco, come se gli avessero trafitto la gola. I denti erano stati limati fino a diventare appuntiti. 348
«Chi siete?» chiese Rachel. L'uomo le diede un'occhiata superficiale, poi riportò la propria attenzione sull'angelo. «Cosa cercate qui?» Alle sue spalle, gli altri continuavano ad allargarsi, silenziosi e senza fretta, ricoprendo il pendio fino a dove lo sguardo di Dill riusciva ad arrivare. Gli tremavano le ginocchia. Sapeva che i suoi occhi dovevano essere pallidi almeno quanto quelli dell'uomo che l'aveva interpellato. Se anche gli fosse venuta in mente una risposta, non sarebbe riuscito a farla uscire dalla gola contratta. «Non sono affari tuoi», disse Carnival. Rachel sussultò. L'uomo scoprì i denti acuminati. Aveva le gengive gonfie e sanguinanti, ma il sangue sembrava vecchio, annerito. Sollevò il coltello che aveva in mano, e per un attimo Dill credette che fosse sul punto di lanciarlo. Si sarebbe levato in volo in tutta fretta, se solo avesse avuto il controllo dei muscoli, però si sforzò di muovere le gambe pesanti come il piombo per piazzarsi fra l'uomo dai denti acuminati e Rachel. Lei lo fermò con una mano e un lievissimo cenno del capo, mentre un muscolo le vibrava all'angolo dell'occhio. Il coltello non venne lanciato. Carnival fece scorrere le mani sui pantaloni di pelle. «Non è certo pece quella che stanno bruciando.» Lo sguardo lattiginoso di Denti Acuminati scivolò su di lei. Si voltò ad abbaiare un ordine ai suoi, in una lingua che Dill non riuscì a comprendere. L'esercito si agitò alle sue spalle, e una serie di richiami rimbalzò attraverso la massa, svanendo come un'eco lontana. «L'esiliata, la cagna sfregiata», disse l'uomo a Carnival. «Lui sa chi sei, e ti vuole viva.» Carnival sorrise pericolosamente. «Ti devo ricordare che siamo in minoranza?» mormorò Rachel. «Tu, forse», le disse Carnival. Dill cercò di infilarsi davanti a Rachel, e di nuovo lei lo fermò. Un osso cedette sotto i suoi piedi, e per un attimo vacillò, prima di recuperare l'equilibrio. Più in basso sul pendio ci fu un movimento, qualcosa che veniva passato di mano in mano. Reti? Denti Acuminati sogghignò rivolto a Carnival: «Mostro». Le cicatrici di Carnival si incupirono. Allargò le ali, veloce come il 349
lampo. Estrasse la forca che portava alla cintura... ... e attaccò l'esercito. Dill non vide la rete finché non le fu praticamente addosso, ma Carnival fu più veloce. Virò con stupefacente rapidità e si gettò in picchiata. Denti Acuminati fu scaraventato all'indietro, col sangue nero che gli sprizzava dalla gola adesso squarciata davvero. Cadde addosso a tre dei suoi seguaci con la forza di un montone alla carica, e tutti e quattro travolsero le file dietro di loro. Rovinò a terra una ventina di uomini. Intanto la rete era atterrata sulle ossa, ad almeno una sessantina di metri dietro Carnival, che si acquattò con un sibilo. Rachel stava tenendo d'occhio il corpo di Denti Acuminati. «Non si rialza», sussurrò a Dill. «È appena stato ucciso di nuovo.» Carnival fece un balzo. E ci fu un uragano di sangue. Dill non aveva mai visto nessuno, umano o angelo, muoversi a quella velocità. Carnival saltava, roteava. Le ali completamente distese sopra di sé e le gambe che mulinavano, il sangue schizzò da altre tre gole squarciate prima che toccasse terra. Si accovacciò di nuovo e rimase immobile per una frazione di secondo, poi con un balzo arcuato si gettò sul gruppo più vicino di nemici. Lampeggiarono i coltelli. Carnival si chinò passando sotto uno, due, tre fendenti... strisciò in mezzo al vortice di gambe, la forca che guizzava... e di colpo attorno a lei ci fu il vuoto. Un anello di cadaveri freschi accartocciato sulle ossa. «Merda», disse Rachel. «Sta appena cominciando a scaldarsi.» Le sagome continuarono ad ammassarsi attorno a Carnival, ma lei si era già rimessa in movimento. Volteggiava sul pendio friabile come se non pesasse nulla. Saltò di nuovo e sollevando il braccio infilzò la forca tra le costole, dritta nel cuore di una donna dallo sguardo spiritato, poi la estrasse velocissima, in tempo per bloccare tra i rebbi il selvaggio fendente di un uomo alla sua sinistra. Con un gomito gli frantumò la faccia, poi la forca guizzò ancora e l'uomo si ritrasse urlando. L'orda ruggiva per la sete di sangue. Dozzine di uomini e donne posseduti premevano per farsi avanti, si facevano strada calpestando i corpi dei loro caduti, ringhiando per la fame. Carnival passava fra loro come un oscuro sussurro, e uccideva con una rapidità che non smetteva di lasciare Dill stupefatto. L'acciaio risuonava contro il ferro, e ancora, ancora, ancora. Carni squarciate, schizzi di sangue e urla che riempivano l'abisso. 350
Eppure continuavano a venire avanti, instancabili, in ondate selvagge. Si gettavano contro la furia di Carnival solo per farsi falciare. Carnival non esitava né rallentava. Mulinava e roteava come un incubo febbrile. La sua forca si lasciava dietro rivoli di sangue, e i capelli si agitavano selvaggi attorno al viso sfregiato. Le lame balenavano e cozzavano. La sua danza era controllata, precisa; un massacro metodico di fronte al quale Dill si sentiva rivoltare. Carnival non si preoccupava nemmeno di volare: non ne aveva bisogno. Nessuno riusciva a tenerle testa quanto a forza e velocità. I cadaveri si riversavano sui cadaveri, e presto la montagna d'ossa fu sepolta sotto i morti e i moribondi. Finalmente l'orda cominciò ad arretrare, incerta, mentre Carnival si ergeva su una pila di corpi che ancora sussultavano. Di colpo distese le ali con uno scoppio di tuono, e gli occhi color della notte si strinsero. Si leccò un po' di sangue sul braccio e sputò. «Morto!» ruggì. «Niente anime!» A Dill non era mai capitato di veder indietreggiare un intero esercito. Carnival fece loro segno di avvicinarsi: esitarono. «Dobbiamo andarcene da qui», disse Dill. «Adesso.» «No», replicò Rachel. «Guarda questo posto, Dill! Le ossa, le fucine, il sentiero che conduce in superficie. E guarda loro! Fogwill ha rischiato il tutto per tutto per assicurarsi l'aiuto di Carnival, e adesso ho capito perché. Non vedi? Questi non sono gli spettri delle storie del tuo Codice. Queste cose non hanno anima. C'è qualcosa di sbagliato, di malvagio. Non dovrebbe essere così. Questo è l'inferno.» «Non puoi metterti contro di lei. Nessuno può mettersi contro quella.» «Non in un combattimento leale.» Un richiamo gutturale venne da qualche punto più in basso. E in un attimo l'aria attorno a Carnival fu piena di coltelli. L'angelo sfregiato sembrò piegarsi, scartare di lato, contorcersi. La sua forca si muoveva a una velocità tale che Dill non riusciva a vederla. Le scintille le piovevano attorno, frutto di un centinaio di rapidissimi cozzi di metallo contro metallo. L'assalto la fece cadere in ginocchio, ma la forca balenava ancora respingendo i coltelli, indistinta per la velocità. Di colpo, il silenzio. Carnival si alzò. Era ferita. Due coltelli avevano trovato il bersaglio. Uno era infilato nella coscia, l'altro sotto l'ascella. Il sangue sgorgava e le scorreva lungo il 351
fianco, fino alle ossa ai suoi piedi. Sorrise. L'esercito attaccò, trionfante. Un urlo viscerale e si lanciarono come un sol uomo. Dill fece per andare ad aiutarla. «No.» Rachel lo afferrò per la spalla. «Non ti avvicinare quando è in quello stato. Ucciderebbe chiunque le si avvicinasse.» Ancora una volta Carnival balzò avanti per scontrarsi con l'orda in arrivo. Un colpo maligno fece vacillare i due guerrieri più vicini, sventrati. Il pugno di Carnival si abbatté sulla faccia di un terzo. La testa gli schizzò all'indietro e si afflosciò ai suoi piedi. Altri accorsero per circondarla. Carnival si tuffò sotto un'altra rete che le avevano lanciato contro. Un uomo disseccato, la pelle grigiastra, rimase col piede bloccato in una gabbia toracica. Carnival lo superò senza nemmeno fermarsi, dopo averlo aperto in due dall'inguine al collo. Si girò, afferrò un teschio e lo fracassò sulla testa di un altro aggressore. Una dozzina di coltelli lampeggiò nell'aria e si udì uno strepitio di metallo quando Carnival li deviò con la propria forca. Tutti tranne uno, che le si piantò a fondo nella nuca. Arretrò, ruggendo di dolore. E poi le furono tutti addosso, avanzando senza sosta come animali selvaggi, a pugni, calci, artigliandosi a vicenda per arrivare fino a lei. Eppure continuava ad abbatterli. Vorticava fra loro colpendo e tagliando. I corpi cadevano riversi, oppure scappavano urlando e stringendosi le arterie recise. Ma altri ancora arrivavano, un'ondata dietro l'altra, una folla frenetica e urlante che incespicava sui morti e sui feriti. Carnival stava per essere sopraffatta dalla semplice forza numerica, quando si levò in aria e scalciò per risalire. Ma una rete le intrappolò l'ala. Urlò di rabbia, si dimenò per liberarsi, perse quota. Un'altra rete la avvolse. Una corda venne tesa e la rete si richiuse su di lei. Intrappolata, piombò a terra fra le ossa. Sbatteva le ali dentro la rete. Attaccò la grossa corda con la sua forca, ma quella non cedeva sotto il metallo smussato. Un guerriero dai capelli bianchi cercò di infilare il coltello nella rete per colpirla. La forca di Carnival lo deviò e avanzò lungo la lama fino a trapassargli le dita. L'uomo urlò e ritrasse il coltello. Cercò di tirarle un pugno, ma quello di Carnival colpì di rimando e l'uomo cadde riverso, gorgogliante, con la mascella spaccata. 352
Poi circondarono la rete tirando calci e colpi all'impazzata. Adesso erano troppi. Quelli più indietro agguantarono delle ossa dalla pila e si mossero in avanti. Continuarono a picchiare anche quando lei aveva smesso di muoversi da un pezzo. Dill gettò uno sguardo al cumulo di cadaveri freschi. La montagna d'ossa aveva acquisito una nuova cima, col sangue che copriva ogni cosa. «Puoi ancora volare?» mormorò Rachel. «Non possiamo lasciarla qui», disse Dill. Al suono della sua voce gli uomini si voltarono: pieni di lividi e insanguinati e con i denti che ballavano. Le lame si risollevarono nei pugni stretti. Muscoli vigorosi si tesero sotto gli stracci. Ghignando, cominciarono a risalire il pendio verso di lui. Rachel lo scrollò. «Dill! Dobbiamo andarcene! Subito!» Per un attimo rimase a fissarla, confuso: Carnival era ancora distesa laggiù, inerme. Non meritava di morire così. Si sentiva debole e terrorizzato, ma era ancora un arconte della Chiesa: doveva fare qualcosa. La sua mano si chiuse sull'elsa della spada. «Dill!» «Io...» Qualcosa lo colpì forte al petto. Annaspò all'indietro, ruotò su se stesso e cadde. «Cosa... ? Rachel?» Rachel era impallidita e lo fissava a occhi spalancati. «Oh, mio dio. Dill? Oh, mio dio.» Dill abbassò lo sguardo, per accorgersi che la sua vecchia cotta di maglia si era aperta in due come un foglio di carta. Un coltello gli affondava nel petto fino all'impugnatura. Fece per afferrarlo. «No!» gridò Rachel. Ma il sangue gli stava già sgorgando dal cuore, scuro come la morte. Fu l'ultima cosa che vide prima di morire.
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27 PRIGIONIA E SABOTAGGIO
Momenti sconnessi di lucidità. Catene che stridevano. Dolore continuo. L'aria inalata sembrava vetro macinato. Martellio metallico. Barlumi di barre di ferro, fiamme ruggenti, roccia arroventata, roccia fusa. Manette. Lividi gialli e neri, molli come la putrefazione. Frecce scoccate. Chiavi che tintinnavano. Calderoni di grasso ribollente che schiumava, gorgogliava e puzzava. Sangue e carne. Ganci arrugginiti carichi di tagli di carne macellata. Lampi di luce sull'acciaio che tagliava, tagliava. Buio. Poi degli occhi gelidi e duri. Denti. Sfregi. E urli, urli terribili. A un certo punto Rachel si rese conto che gli urli venivano dalla sua stessa gola. Qualcuno le cullava dolcemente la testa. «Bevi.» Acqua disgustosa che le inondava le labbra riarse. Dolore. Tossiva, sputava. Affogava... *** ... luce proveniente da un punto indefinito. «Non morirmi addosso, cagna.» Stai lontana da me, cagna. Un incollatore dai lunghi capelli unti raggomitolato nell'ombra, intento a mangiare. La Notte dello Sfregio è la sua notte... La luna nera... Un'anima. «Chi?» Una pressione intollerabile sul petto. «Lasciami stare!» «Bevi.» «Dill?» Sorrideva agitando la lanterna, occhi arcobaleno e penne che risplende354
vano dolcemente nel tramonto dorato. Spense la luce. Il giorno scattò nella notte. Prendimi. «Il dolore!» Le cicatrici risplendettero nel buio, poi si ritrassero, lasciandola sola col dolore. *** Rachel si svegliò senza fiato, annaspando in cerca d'aria. Un fiume di chiodi le strusciò contro la pelle. Sangue secco le incrostava gli angoli della bocca come ruggine. Aveva la lingua riarsa, gonfia. «Dill?» Sollevò la testa dalla pietra scabra e restò senza fiato. Una nuova ondata di dolore le saettò nel collo, lungo la schiena, nello stomaco. Costole rotte? Qualcosa le artigliava una caviglia. Allungò una mano e trovò altro sangue. Manette. «Accendo la lanterna.» Una voce femminile, una voce che conosceva. Sentì scattare la rotella di un accendino. Le ciocche di scuri capelli arruffati non riuscivano a nascondere le piaghe sul viso di Carnival. Sembravano cicatrici fresche e piene di sangue. L'angelo socchiuse gli occhi alla luce della lampada. Erano in una cella di pietra, con una grata di ferro che faceva da porta. «Ci hanno gettato dentro anche questo», disse Carnival mentre sollevava la lanterna e si avvicinava a Rachel strascicando i piedi. Nella sua scia un tratto di catena sferragliò sul pavimento. Teneva una delle sue ali piegata a una strana angolazione. «E anche acqua. E cibo.» Parlava a scatti, rabbiosa. «Non hai voluto mangiare.» Rachel cercò di parlare, ma aveva la gola coperta di vesciche. Le uscì soltanto un verso debole e gutturale. «Ma guardati», disse Carnival a denti stretti. «Sei carina quasi quanto me.» «Cosa... ?» Rachel deglutì. «Cos'è successo?» Carnival si limitò a grugnire. Rachel cercò di ricordare il combattimento. Immagini di sangue e facce simili a teschi si affollarono nella sua memoria, indistinte e sfocate. Subito i colpi che aveva ricevuto sembrarono farsi sentire di nuovo come appena inferti, ravvivati dal ricordo. Sussultò. Ne aveva uccisi... quanti? Evidentemente, non abbastanza. 355
Carnival si stava strofinando la caviglia martoriata dai ferri. Rachel la fissò per un momento inebetita, prima di rendersi conto che la manetta di Carnival era collegata alla sua da un tratto di catena. Una sensazione di nauseante terrore si impadronì di lei. «Dill?» Improvvisamente le tornò in mente il suo volto pallido e terrorizzato, gli occhi bianchi come neve illuminata dal sole. «Oh, mio dio, cos'è successo a Dill?» Le era sembrato così solo. Ma in quel momento l'esercito l'aveva raggiunta, ed era stata obbligata a voltarsi per combattere. «Nella cella di fronte», disse Carnival. Qualcosa nel suo tono, una traccia di soddisfazione, la mise in ansia. Con un gemito Rachel si mise in piedi, le gambe che tremavano protestando per lo sforzo. Raccolse la lanterna e barcollò fino alla grata di ferro, trascinandosi dietro la catena. La lanterna illuminò lastre di pietra spezzate oltre la cella e sbarre dalla parte opposta che sembravano il riflesso delle loro. Le due celle erano separate da un corridoio che si perdeva nell'oscurità ai due lati. «Dill?» chiamò. Nessuna risposta. «Dill, ti prego, sei lì?» Carnival parlò dal limite dell'alone di luce della lanterna. Il suo volto era immerso nell'oscurità, ma dalla voce sembrava che sorridesse. «C'era un sacco di sangue.» «Dill!» Gli echi della voce di Rachel rimbombarono nel corridoio. Unica risposta il ploc, ploc, ploc di acqua che gocciolava. L'angoscia le lievitò nello stomaco, la inghiottì. Le sembrò di affogarci dentro. Cadde sulle ginocchia e si aggrappò alle sbarre di ferro come se potessero aiutarla a restare a galla. Dio, ti prego, fa' che sia ancora vivo. Di colpo Rachel si rese conto che non sapeva a chi fosse rivolta la sua preghiera. Ulcis? Sembrava non ci fosse speranza di salvezza, in quel posto. «Presto lo sbudelleranno», sentenziò Carnival. «Come puoi dire una cosa del genere?» scattò Rachel. «Potrebbe essere ancora vivo.» «Lui non guarisce», disse Carnival. «Non è come me.» Le sue ultime parole grondavano veleno. Mio povero Dill. Rachel lo rivide che volava ridendo attorno alle guglie del tempio, con quella sua stupida spada giocattolo che gli batteva sul fian356
co. Pensò alla stupida e inutile cotta di maglia che gli avevano dato. Al suo stupido secchio di lumache. Le lacrime le pungevano l'angolo degli occhi e si abbracciò le gambe, le ginocchia contro il mento, tirandosi la catena più vicino. «Avrei dovuto proteggerlo.» «Da quelle cose?» «Da te.» Carnival sibilò una risata. «Adesso è al sicuro da me.» «Voleva aiutarti, dopo che ti avevano ferito. Ha cercato di venire a mettersi al tuo fianco, ma io l'ho fermato.» Carnival non disse nulla. Fra loro cadde il silenzio. Rachel studiava Carnival, e Carnival ricambiava lo sguardo dall'intrico di sfregi. La catena che le legava giaceva immobile e pesante sul pavimento della cella. L'espressione dell'angelo era impassibile, poco più di un arabesco di antiche ferite: c'era forse anche un lampo di rapacità nei suoi occhi? Alla fine, Rachel chiese: «Come mai siamo ancora vive?» «A qualcuno che sta quaggiù non piaci», disse Carnival con tono piatto. «Quanto manca alla Notte dello Sfregio?» «Poco.» Il tono inespressivo di Carnival innervosiva Rachel più della sua rabbia. La rabbia la si poteva manovrare, avversione e malvagità erano malleabili. Un barlume di emozione poteva offrire un varco, non importava quanto angusto, per penetrare fra quelle cicatrici. Invece quel distacco pareva assoluto, come se il suo scopo fosse tenere separata Carnival dalla sua fame. Per proteggerla. Rachel avvertì un moto di pietà. L'angelo aveva passato millenni a erigere le proprie difese, che però non erano sufficienti. Fin troppe volte l'aveva vista abbandonarsi alla furia. Non riesce a mantenersi completamente distaccata. Mi colgano le tenebre, ci sta provando anche adesso. Ma non ce la farà a resistere. E allora... la rabbia, le cicatrici. Quanto mancava alla Notte dello Sfregio? Sette giorni? Sei? Carnival sembrò leggerle nella mente. «Tre giorni.» Lo sguardo di Rachel corse alla propria cintura. «Hanno preso le tue armi», disse Carnival. A Rachel sembrò di scorgere della sofferenza negli occhi di Carnival. *** 357
C'era un problema col Dente. Non funzionava. Callis, quel pennuto bellimbusto pseudomitologico, aveva pensato bene di sabotarlo e, se mai Devon avesse rimesso piede nel corridoio del Sanctum, aveva tutte le intenzioni di tirare giù quello stramaledetto scheletro e mostrargli una volta per tutte cosa si poteva fare con un mortaio e un pestello. Stava cominciando a detestare l'isolamento del ponte del Dente. Tre giorni sotto il sole, e la puzza di morte saturava tutto ciò che aveva attorno. Dalla base del pannello di controllo ridotto all'osso, una dozzina di cavi tesi spariva attraverso una finestra aperta. Dopo lo schianto, gli Heshette avevano avuto un bel po' di sopravvissuti dell'Adraki da impiccare. Per un popolo del deserto quel metodo poteva anche sembrare originale, ma a Devon non era sfuggita l'imitazione del patibolo dell'Avulsore. Gli Heshette non sembravano darsi troppa pena per l'odore, ma certo non dovevano restare lassù a tutte le ore di tutti i giorni. Aprì la valvola primaria, un aggeggio che somigliava a una zanna di cinghiale, e tirò indietro la leva di accensione principale, un coso stretto e lungo che ricordava una costola. Il sangue - anzi no, l'olio - si riversò nei controlli. Il pavimento vibrò leggermente, poi si fermò. «Le tenebre mi colgano!» Devon tirò un pugno al pannello di controllo, solo per darsi una botta sulla coscia quando il moncherino privo di pugno mancò il bersaglio. Riportò di schianto la leva al suo posto e si strinse l'attaccatura del naso. Se quell'albero di trasmissione era rotto, ci sarebbe voluta una giornata intera per ripararlo. Ebbe la tentazione di sputare. Non avevano molto tempo prima che la flotta ritornasse con nuovi armamenti e pronta a un nuovo attacco. Non che avrebbero avuto maggiori possibilità che col primo. Il Dente era ben sigillato contro il gas, impenetrabile alle frecce di balestra, e impermeabile alle incendiarie almeno quanto una roccia. Ma l'Avvelenatore non ce la faceva più a sopportare gli Heshette e le loro facce avvolte nelle sciarpe fradicie. Lo scherzo stava andando a male proprio come l'aria che lo circondava. Ma quel che più contava era che il grosso dell'esercito cittadino ben presto sarebbe stato radunato e pronto a marciare su di loro. Gli esploratori 358
Heshette avevano riferito di consistenti lavori sotto la superficie delle Sabbiemorte, lungo il perimetro settentrionale di Deepgate. Stavano costruendo armi: baliste, mangani, arieti e torri d'assedio, e per ottenere lo scopo avevano praticamente demolito metà della Lega dei Cordai. Se non si sbrigava, non gli sarebbe più rimasto molto della città, da poter distruggere. Doveva anche considerare la Notte dello Sfregio. Se fosse riuscito a sferrare l'attacco quando la popolazione aveva paura di avventurarsi fuori, tanto meglio. La luna nera portava con sé disagio e dissenso - quando non diserzione di massa - fra i riservisti. Devon lasciò il ponte e affrontò la lunga scarpinata in discesa verso la sala macchine, dove un centinaio di torce che ardevano tra alberi dei pistoni e muraglie di ingranaggi gli mostrò l'orrenda verità. L'albero dell'elica che avevano preso dall'Adraki era uscito dalla sua sede. Barba Lunga e Barba Lunghissima erano alle prese con i supporti d'acciaio che avevano modificato per adattarli all'incavo osseo del motore a combustione, nel tentativo di rimettere l'albero dell'elica al suo posto. Bataba gli aveva assegnato quei due uomini, che avevano nomi scioccanti e impronunciabili da cammellieri che a Devon non interessava imparare. Barba Lunga e Barba Lunghissima erano più che sufficienti a riassumere i loro talenti. Li interpellò stancamente: «Cos'è successo?» Barba Lunga gli gettò un'occhiata da sopra la spalla. «È venuto via.» «Quello lo vedo anch'io. Il meccanismo si è deformato?» Barba Lunga lo guardò inespressivo. «I pistoni, amico. Si sono mossi?» Devon sospirò. «Questi... pilastri, questi qui.» Li indicò col moncherino. «No.» Devon ispezionò il danno. I bulloni di bloccaggio si erano spezzati. Non era facile assicurare l'acciaio a quello strano materiale ceramico e, alla velocità richiesta perché il motore d'avviamento garantisse l'accensione del primario, il loro assemblaggio di fortuna aveva difficoltà a reggere. Niente di disastroso, sempre che riuscissero a trovare altri bulloni nei relitti delle due aeronavi. Mandò le Barbe a cercarli. Nonostante la battuta d'arresto stava per farcela. Tranne che per quell'albero che Callis aveva rimosso come la chiave da una serratura, il motore sembrava intatto. Enormi contenitori di cristallo racchiudevano tanto combustibile, riteneva, da essere sufficiente per il giro del mondo. Le 359
luci esterne, apparentemente una tecnologia simile all'etere, funzionavano alla perfezione, anche se la maggior parte di quelle interne aveva dovuto soccombere ai rigori dell'infestazione Heshette. Ma senza l'energia principale, e con tutte le prese d'aria tappate con stracci e fango, stare all'interno del Dente era come ritrovarsi nel calzino di un operaio. Devon prese una torcia e si addentrò più a fondo nella macchina, seguito dall'eco dei suoi stivali. Ultimamente aveva riflettuto molto sul rifiuto di Sypes di parlare: il vecchio non solo era terrorizzato dal suo dio, ma temeva pure che chiunque altro potesse scoprire il suo segreto. Adesso Devon aveva scoperto perché. Secchi rovesciati e brandelli di stoffa ingombravano i passaggi, che puzzavano di urina. La sala mensa era in rovina, la cucina una cava di lavabi e rubinetti arrugginiti. Un'unica bottiglia piena di liquido marrone resisteva ancora su uno scaffale, come qualcosa di temuto o riverito, ma pentole, padelle e posate erano da tempo sparite nelle tane degli Heshette. Raggiunse finalmente gli alloggi dell'equipaggio, un labirinto di corridoi che si intersecavano, traforati da una serie di piccole porte assolutamente identiche, ognuna marcata con un geroglifico. Un'atmosfera satura di decomposizione invadeva l'ambiente, come se dopo tutti quei secoli l'equipaggio fosse ancora rinchiuso là dentro. Trovò la guardia di Bataba che dormiva davanti alla cella di fortuna e russava come una nave da guerra. Devon le assestò un calcio, e il ciccione si svegliò con un sussulto e si asciugò la bava che gli colava dalle labbra barbute. «Dovresti fargli la guardia», disse Devon. «Bara Sahbel!» gridò l'uomo. «Io non prendo ordini da te.» Si rimise faticosamente in piedi, ansimando come un mantice. «Non puoi vedere il prigioniero se non alla presenza dello sciamano.» «Benissimo. Allora va' a chiamarlo.» L'uomo lo guardò come se fosse sul punto di mettersi a discutere, poi borbottò qualcosa in un dialetto che Devon non comprese e si avviò pesantemente, ancora mezzo addormentato ma a quanto pareva disponibile ad accettare ordini da chiunque. Nel frattempo, Devon si chinò per entrare nella cella. L'odore gli fece lacrimare gli occhi. Un bugliolo giaceva rovesciato in un angolo. Sypes, nudo e raggomitolato, si trovava nell'angolo opposto, con gli occhi chiusi e i frantumi del suo bastone da passeggio sparpagliati attorno a lui. La pelle sembrava svuotata di muscoli e carne e ricadeva co360
me stoffa sopra un mucchio d'ossa, annerita dai lividi in ogni punto visibile. Gli occorse un attimo prima di riuscire a distinguere il lieve movimento del petto del vecchio e il tremito delle dita macchiate d'inchiostro, prova che era ancora vivo. «Saremo presto sulla via del ritorno», disse Devon raddrizzando il bugliolo, per poi accovacciarsi accanto al prete. Il presbitero non aprì gli occhi. «Sypes, non hai più speranza che ti vengano a salvare. Il tuo silenzio non è più necessario.» Fece una pausa, per poi riprendere in un sussurro: «Il tuo dio sta per sorgere, vero? Però Ulcis non è quello che la Chiesa ci aveva fatto credere. Ecco perché hai tanta paura.» «Volevo proteggerli.» Il vecchio deglutì. «Volevo liberare Deepgate dalle sue catene.» «L'unico modo per farlo è spezzarle.» «No», disse Sypes. «Sei in errore. Persino incatenata la città freme di vita. Perché non riesci a vederlo?» Devon sospirò. «Una volta ho detto di essere l'unico vivo in tutta Deepgate. Quel che intendevo è che tutti gli altri prendono e consumano per nessun'altra ragione che nutrire il sangue che a sua volta nutre l'abisso. Questa non è vita, è fame, irragionevole quanto un veleno o una malattia. Ma avevo torto nel proclamare vita soltanto la mia. Tu e io siamo ognuno all'apice di due piramidi gemelle, Sypes. Religione e scienza. A separarci, nient'altro che bocche che si aprono a vuoto. Ma anche in te c'è vita, vecchio.» «Non posso prenderlo come un complimento: sei troppo arrogante. E oltretutto sei pazzo.» Devon sorrise. «Posso portarti qualcosa per alleviare il dolore?» «No. Il dolore è il minimo che merito dopo ciò che ho fatto a tutti loro. Se muoio, mi sarà di conforto.» «Questo puzza di martirio, Sypes, e non ti si addice.» «Se sono un martire, lo sono per la mia coscienza, non per il mio dio.» «Non vedo la differenza.» Fra loro cadde il silenzio. Alla fine, Devon disse: «Raccontami di Ulcis. Chi è davvero?» «È il figlio di Ayen! Un dio!» La passione gli provocò un accesso di tosse. 361
«Va bene», disse Devon alzando la mano. «Ma cerchiamo di non ammazzarci per una questione semantica. A volte mi sembra che stiamo osservando la stessa cosa dagli estremi opposti di un cannocchiale. La nostra percezione è diversa, ma ciò che cerchiamo di vedere non cambia.» Sypes trasse un lungo respiro sibilante. «Ulcis consuma le anime dei morti e li lascia vuoti. Quelli più fortunati diventano recipienti della sua volontà. Fino a che lui è in vita, loro esisteranno come... gusci che camminano. Altri invece patiscono una sorte anche peggiore.» Fece una smorfia. «Meglio vagare nel Labirinto piuttosto che essere usati a quel modo, essere privati di tutto ciò che li rende umani.» «Questo dipende da chi è il dio cui l'anima è chiamata a dare potere», disse Devon con un sorriso. Sypes sbuffò. «Persino Ulcis in persona farebbe fatica a tener testa alla tua arroganza. Credi forse che tredici anime ti rendano suo eguale?» «Trovo invece che il paragone sia riduttivo. Fino a prova contraria, lui è un parassita.» «Dopo la prima guerra santa il suo esercito è diventato troppo numeroso per essere autosufficiente. Senza aiuto i morti marciscono. Non poteva continuare ad allargare i loro ranghi e allo stesso tempo... nutrirli tutti. E per questo, da allora, ha permesso a tutti di banchettare per un lungo, lungo periodo. Per tre millenni il dio delle catene ha atteso, accrescendo il suo potere grazie alle anime rubate, mentre i suoi schiavi si nutrivano degli avanzi.» Il vecchio scosse il capo. «Adesso stanno per venire, e mieteranno tutto il nostro mondo per il loro padrone. L'oblio ci aspetta. E, se reciderai le catene per far precipitare la città, non farai altro che aiutarlo.» All'improvviso il prete fu preso dalle convulsioni. Il suo corpo si chiuse come un pugno. Gli occhi serrati e le dita contratte, mentre la tosse squassava quella carcassa emaciata. Devon si chinò e tenne fermo il presbitero per le spalle, fino a quando il peggio della crisi non fu superato e i tremori si calmarono. Poi trasse di tasca un fazzoletto e, non avendo acqua pulita in cui inzupparlo, lo spinse nella mano del vecchio. Sypes lo afferrò come se fosse un'ancora di salvezza. Devon si sentì improvvisamente dispiaciuto per il presbitero. Come per gli altri preti, la sua fede era ancorata in quell'abisso. Si augurava che potesse sopravvivere per assistere alla caduta della città. Sarebbe stato un bene per lui, perché solo allora avrebbe visto la verità. I morti non cammina362
vano, non c'era nessun esercito nell'oscurità sotto le catene di Deepgate. «Ti porterò fuori da qui.» «No», ansimò Sypes. «Non m'importa più. Aiuta piuttosto la guardia del tempio, allevia il suo dolore.» Devon si era completamente scordato di Angus. «È ancora vivo?» Sypes annuì. «Ho sentito dire che è impazzito, come un cane rabbioso, si morde e si graffia da solo: hanno dovuto immobilizzarlo.» «Tu!» Devon si voltò per vedere Bataba ritto sulla soglia. «Che stai facendo?» «Interrogo il prigioniero», rispose Devon. «Sei un prigioniero anche tu.» Gli amuleti intrecciati nella barba di Bataba sembravano formare una scala contorta fino al mento, sotto l'ispessimento che gli attraversava l'occhio rovinato. «Di che stavate parlando?» «Questioni di fede, argomenti sui quali non la vediamo allo stesso modo.» Lo sciamano si inalberò. «Lascia stare il prete e vieni con me.» *** La botola si aprì sulla piena furia del cielo pallido. Una scala di un bianco abbagliante si srotolava verso il sole. In basso, le Sabbiemorte sibilavano e rilucevano. «Sali!» disse lo sciamano. Devon si arrampicò. Sulla copertura dell'enorme macchina era anche peggio. Comignoli anneriti dal fumo tagliavano in due la luce del sole, suddividendola in lastre roventi di un bianco così dolorosamente accecante da lasciare la propria impronta negli occhi. Trononero fiammeggiava, le guglie dentate un ammasso di rame splendente, filoni di metallo surriscaldato e cristalli incandescenti. Bataba lo condusse sul margine a picco del Dente. Nel deserto sottostante sembrava svolgersi un qualche tipo di gara. Alcuni cavalli si urtavano e correvano rumorosamente tra nuvole di polvere, mentre i loro cavalieri brandivano e roteavano lunghe aste uncinate. Di tanto in tanto uno di loro vibrava un colpo verso il terreno, scagliando poi in aria un viluppo di stracci grande quanto un pugno. 363
«Kabarah», spiegò lo sciamano. «Si stanno sfidando per i gioielli del prete grasso.» Un gruppo di uomini spronò i propri cavalli dietro la palla di fortuna, urlando forte. «Un esercito si sta radunando contro di noi», continuò lo sciamano. «Presto resterà ben poco tempo per i giochi.» Dietro il campo improvvisato i relitti delle due navi si stagliavano sul deserto. Alcune vecchie razzolavano ancora attorno a una gondola fracassata, litigando per il bottino. Da quell'altezza Devon non riusciva a distinguere di quale nave si trattasse. Brandelli argentati di involucro sventolavano sulla sabbia come decorazioni di una festa. Lo sguardo di Bataba non si staccò dalla partita. «Loro non si fidano di te. Io non mi fido di te.» «Non capisco perché», disse Devon. «Non hai rispetto per la vita.» Devon sbuffò. «Sei ansioso quanto me di andare in guerra.» «Per motivi diversi, Avvelenatore. Noi cerchiamo di eliminare una spina dal fianco di Ayen, di schiacciare il suo figlio reietto e coloro che lo sostengono nel mondo. Tu invece...» Nuove urla provennero dai cavalieri giù in basso. Qualcuno era riuscito a spedire la palla di stracci in un'area marcata del campo. Un ragazzino andò a raccoglierla e la riportò di corsa verso il centro. «Tu non batti ciglio nell'uccidere migliaia di persone per vendicare qualche ingiustizia che credi di aver subito», continuò lo sciamano. «Non dirmi che tu non vuoi giustizia per il tuo popolo, per i decenni di guerra che hanno decimato le tue tribù.» «Non negherò che ci sentiamo oltraggiati. Ma il nostro scopo è più alto. Combattiamo perché questo è il volere di Ayen.» «E se Ayen non esistesse, non fosse mai esistita, allora che differenza ci sarebbe fra me e voi? Almeno le mie ragioni si fondano su una convinzione, anziché sulla pura e semplice fede.» «È un altro dei motivi per cui non ci fidiamo di te», grugni lo sciamano. Devon l'avrebbe volentieri buttato di sotto, ma respirò a fondo ingoiando la rabbia. Si stava abituando alle violente reazioni provocate dal vino d'angelo. Sembrava che la sua coscienza si fosse deliberatamente serrata attorno al nodo ribollente che c'era dentro di lui. La rabbia continuava a divampare quando meno se l'aspettava, ma stava cominciando ad assumerne 364
il controllo. Un cavaliere colpi la palla di stracci e la sollevò in una parabola arcuata verso il bordo del campo. Gli altri giocatori le si avventarono dietro, i cavalli che alzavano nuovi pennacchi di polvere. «I sopravvissuti della nave volante ci hanno riferito che il ciccione sta sollevando contro di noi la città delle catene», disse Bataba. «Un esercito capace di rivaleggiare col più grande della storia, hanno detto. È giusto. Eppure, quando ho visto il suo cadavere profumato avvolto nella seta, mi è sembrato più una donna che un uomo.» Riportò lo sguardo sul gioco. «Non ci aspettavamo che avesse le palle.» Un acuto ululato si levò dal basso: a quanto pareva, un altro cavaliere aveva segnato. Devon provò un vago senso di nausea. In quell'istante il Dente tremò. La copertura vibrò, per poi assestarsi in un ritmico rombo regolare. Cortine di sabbia che vi si era accumulata scivolarono sibilando dai comignoli. «E ora di andare in guerra», disse lo sciamano.
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28 ULCIS
Nell'oscurità della cella Rachel non aveva modo di misurare il trascorrere del tempo tranne che per lo sgocciolio dell'acqua nel corridoio oltre le sbarre e per il crescente odore che proveniva dalla cella di fronte. Aveva smesso di chiamare Dill. Si acquattò contro le pietre bagnate, l'angolo degli occhi che sussultava a ogni flebile martellio della goccia, e cercò di non pensare ad altro che a restare immobile. Ogni volta che si muoveva i ferri le mordevano la caviglia e le contusioni che aveva sul viso e sul petto pulsavano rabbiose. Aveva la gola riarsa, e lo stomaco contratto come un pugno. Aveva gettato via le ciotole di carne che i carcerieri le avevano lasciato, e gli aveva lanciato dietro maledizioni mentre si allontanavano nel corridoio. Nessuno era comparso a ritirare le ciotole. C'era stata pure una brocca d'acqua, ma ormai era finita. Era assetata, ma lo era anche Carnival. E Carnival avrebbe bevuto per prima. Per un po' Rachel cercò di focalizzare, di distaccare la propria mente e mandarla lontano, verso la fumosa Foresta di Scisto, la Collina a Spirale di Clune con le sue case imbiancate a calce e i giardini a terrazza colorati come disegni infantili, tutti i posti che sognava da ragazzina. Tentò disperatamente, tuffandosi in quei sogni forzati. Ma le immagini restavano elusive e, inesorabilmente, la catena alla caviglia la trascinava indietro. Aveva spento la lanterna per risparmiare olio. Nell'oscurità era convinta di scorgere la sagoma della sua compagna di cella, ma poteva anche essere stato un semplice scherzo dei suoi occhi. Carnival era rimasta immersa per ore in un silenzio malevolo. Solo il rumore del suo respiro riempiva lo spazio fra loro. Respiri brevi, leggeri, e affamati. «Carnival?» Nessuna risposta. «Quanto manca adesso?» La risposta le arrivò attraverso i denti serrati. «Perché dovrei preavvisarti?» 366
Il distacco di Carnival dalla propria fame si era incrinato, e la rabbia ribolliva attraverso le crepe. Era diventata irritabile, introversa, ripiegata su se stessa come una molla pronta a scattare. «Un giorno?» «Meno.» Una corrente d'aria schiaffeggiò Rachel mentre Carnival allargava e ripiegava le ali. L'angelo trasse un brusco respiro e gracchiò: «Prova di nuovo con le sbarre». La sua voce era piena di tensione. «E provaci... con tutte le tue forze.» Rachel si alzò vacillando, tutti i dolori che reclamavano attenzione, e avanzò lungo il muro fino alla grata di ferro tirandosi dietro la catena sul pavimento di pietra. La sua mano si chiuse su una delle sbarre, poi schiacciò la spalla contro la cornice metallica e spinse, con tutte le sue forze, fino a piangere per il dolore. Il ferro non cedette. Senza fiato, si lasciò cadere sul pavimento. «È inutile.» Sbatté il pugno contro le sbarre. Il respiro di Carnival accelerò sensibilmente. «Perché?» disse Rachel. «Perché lasciarci qui dentro così? Se vogliono vederti mentre mi uccidi, allora dove sono?» «Non loro», sibilò Carnival. «Lui.» «Ulcis?» «Non lo so!» scattò Carnival. «Smettila di parlare, sta' zitta!» Rachel si tirò in piedi. Si aggrappò di nuovo alle sbarre incuneando entrambi i piedi contro quella orizzontale, e ci mise tutta la sua forza. Niente. Ansimando, si allontanò. «Se ci proviamo assieme...» Carnival ruggì. «Aiutami!» Rachel percepì un movimento. Uno scalpiccio, un tintinnare di catene. All'improvviso una mano le afferrò il braccio. Come aveva fatto a... «Non darmi ordini», le sibilò Carnival all'orecchio. «Mi fai male.» «Sì.» Il respiro di Rachel le si fece pesante nel petto, l'oscurità era impenetra367
bile e ribolliva di malvagità. Allungò la mano verso la spada, poi si fermò. Le avevano preso la spada, ovviamente, e anche i coltelli, i dardi e i veleni. Persino i tubi di bambù con gli orrori che contenevano. Si sentiva nuda senza le sue armi. Finalmente la morsa sul suo polso si allentò. Sentì Carnival che si allontanava, tirandosi appresso la sua estremità della catena fino all'angolo più lontano della cella. «Posso farti una domanda?» chiese Rachel. «No.» «Hai mai dato un topo a un mendicante?» «Cosa?» «Lascia perdere.» Rachel si strofinò la caviglia gonfia, poi proseguì. «Una volta ho incontrato quel cieco, un incollatore, e mi ha detto che gli avevi regalato quel topo dicendogli che era un coscio d'agnello.» «Gli hai creduto?» «No... non lo so.» «Perché no?» ringhiò Carnival. «Ho fatto di peggio. Ho ucciso mendicanti e ubriachi e puttane, nobili, soldati e bambini.» Emise un basso sibilo. «E anche Spine.» «Devi sentirti sola.» Silenzio. «Parlami.» «Credi che questo ti salverà? Non è così.» «Bene.» Rachel annaspò alla ricerca della lanterna e fece scattare l'acciarino. «Se stai per uccidermi, voglio almeno vederti in faccia.» La cella si illuminò. Lame di luce si allungarono nel corridoio oltre le sbarre. Carnival distolse il viso, riparandosi dalla luce. «Se non parli tu, lo farò io», disse Rachel. «Non me ne importa un accidente.» «Purché sanguini quando verrà il momento?» Carnival sussultò. Rachel rimpianse quello sfogo. Si era impantanata, e cercò un modo per ricominciare. Alla fine disse: «Mio padre era un brav'uomo. Niente lacrime. Mia madre è morta quando avevo otto anni, non sappiamo perché. Si è ammalata. Imprevisti della vita». «Sta' zitta!» ringhiò Carnival. «Credi che abbia voglia di starti a sentire?» 368
«Non mi interessa.» Carnival sprofondò in un silenzio furibondo. «La nostra famiglia possiede una casa ai Chiostri, con un giardino e un albero scheletrito e uno stagno pieno di erbacce. Niente di grandioso. Giocavo con i figli degli altri ufficiali: rubacchiavamo le mele, mettevamo paura alle formiche, facevamo mangiare le lucertole d'acqua ai bambini più piccoli. Le solite cose, insomma.» Carnival si era raggomitolata a palla, il viso affondato fra le ginocchia e le braccia strette attorno. «Papà era sempre in giro con la flotta, sempre impegnato in qualche pericolosa campagna per conto della Chiesa, per conto di dio. A te gli aeronauti non piacciono molto, vero?» Carnival non sollevò neppure lo sguardo. «Ci portava regali quando tornava: bambole per me, talco delle città fluviali per la mamma, e soldatini dipinti per Mark. Mi sedevo sulle sue ginocchia e ascoltavo i racconti di posti esotici. I suk di Dalamoor, i banditi scimmia, i mercanti di gemme di Racha con i sorrisi da tagliagole, i taumaturghi di terre lontane, se ci credi. Uomini le cui labbra erano perforate con schegge di legno di patibolo, uomini che conoscevano Deep con un altro nome.» Afflosciò le spalle. «Più di ogni altra cosa, avrei voluto andare con lui quando fosse ripartito, volevo far parte di quelle storie.» Carnival sembrò rilassarsi leggermente, e Rachel capì che la stava ascoltando. «Quando fui ammessa nella Spina non esitai: mi arruolai perché volevo che fosse fiero di me, e anche perché volevo vivere le mie storie e condividere con lui quella parte della vita.» Guardò i ferri come da una grande distanza. «Ecco perché ho cominciato a odiarlo.» «Perché non era fiero di te?» Per una volta Carnival aveva parlato senza amarezza. «No, perché non mi aveva mai detto cosa si prova a uccidere. Lui lo sapeva, e non me l'aveva mai detto. Quando ritornai dalle Terrebasse c'era qualcosa a dividerci: lo sapevamo entrambi, ma nessuno ne voleva parlare. Da allora in poi non ci parlammo praticamente più.» Carnival restò ancora in silenzio. Poi sollevò la testa e parlò con rabbia. «Io invece mi ricordo questa.» Si passò un dito sulla cicatrice di corda che aveva attorno al collo. «È il mio primo ricordo.» «Quanti anni avevi?» 369
«Non lo so!» L'angelo fece un sospiro tremulo. «Penzolavo da una corda appesa a una delle catene d'ancoraggio, con un sacco pieno di rocce attaccato ai piedi.» Rachel sussultò. «Chi ti aveva fatto una cosa del genere?» L'angelo scrollò le spalle. «Non ti ricordi nulla? Niente di ciò che era accaduto prima?» «Il mio nome.» «Come hai fatto a liberarti?» Carnival aveva recuperato il suo freddo distacco. «Ho rosicchiato la corda.» Rosicchiato? Oddio... ma come? «Mi ci sono voluti quattro giorni.» Rachel non sapeva che dire, e un pesante silenzio cadde fra loro. Fuori dalla cella l'acqua sgocciolava feroce, note senz'anima. Rachel rimase a lungo seduta ad ascoltarle. Pensò di riprovare con le sbarre, ma ormai era così stanca. Se ne sarebbe accorta quando fosse giunta la fine? Avrebbe visto quando le difese di Carnival avessero ceduto e la fame avesse preso il sopravvento? E voleva rendersi conto di tutto ciò? Forse sarebbe stato meglio addormentarsi, e finirla subito. Rachel ricordò la voce di un sogno che aveva fatto. Non morirmi addosso, cagna. Ma non riusciva a ricordarsi di chi fosse la voce. Le palpebre fremettero. Un esercito di angeli riempì il cielo dell'alba, le armature e l'acciaio brillanti che li facevano sembrare una pioggia splendente che cadeva dal cielo. Turbini di sabbia ribollivano sul deserto, sollevati dal potente movimento delle loro ali. Ritta sulla cresta di una duna, Rachel guardava l'esercito convergere su qualcosa che si trovava circa due miglia a est, una minuscola figura scura, una sagoma alata che si muoveva attraverso le Sabbiemorte. Arrancava a quattro zampe, piegata sotto il peso di ciò che si trascinava dietro. Catene. Centinaia e migliaia di catene. Rachel. Alzò gli occhi. La spada di Dill risplendeva dorata, ma aveva gli occhi bianchi quanto le ali. Si stava allontanando da lei, trascinato via da una corrente invisibile. Aspetta, gli gridò. Torna indietro. 370
Ma l'angelo stava già rimpicciolendo in distanza, si fondeva con le file dei suoi antenati. Si ammassarono attorno a lui, tutti muscoli bronzei e pesanti armature, sogghignando, beffandosi di lui. Dill gridò, stava cercando di dirle qualcosa. Cos'è? Cosa? Era quasi riuscita a sentirlo. *** Rachel si svegliò di soprassalto, in preda all'improvvisa convinzione che Dill fosse ancora vivo, e che avesse bisogno di lei. Strisce d'ombra si allungavano sul pavimento scabro e sulle spire delle catene: la cella era illuminata. Dall'esterno. «Chi sei?» Carnival si era acquattata al centro della cella e guardava oltre le sue spalle, furibonda. «Dio», rispose una voce profonda. Rachel si voltò. Il dio delle catene era un ammasso di carne smorta, che ricadeva in grosse pieghe sovrapposte, dalla pelle tesa sul cranio fino alle gambe arcuate. Era nudo, apparentemente maschio. L'unica prova del suo sesso era la voce, dato che le pieghe di grasso nascondevano ogni altra più ovvia evidenza. E aveva le ali. Ali enormi, come eruzioni di arenaria che gli germogliavano dalle sporgenze delle spalle. Per quanto grandi, Rachel dubitava che quella creatura avesse mai volato da molti anni. «Patetico», sibilò Carnival. «Mi sembra giusto che il vostro dio abbia quest'aspetto. Non mi meraviglia che Ayen l'abbia cacciato a pedate.» Il dio la ignorò. Sollevò la lanterna e si chinò più vicino alle sbarre, le mammelle che si spostavano come continenti, e piantò gli occhi color sangue vecchio su Rachel. «Tu sei una Spina», rimbombò. «Ma non sei temprata: perché?» «Alla faccia dell'onniscienza», ghignò Carnival, evidentemente ansiosa di incanalare la propria rabbia verso quel nuovo sbocco. «Sei Ulcis?» chiese Rachel. «Rispondi alla mia domanda.» «Rispondi tu alla mia.» La montagna che era il viso del dio si raggrinzì in centinaia di pieghe. 371
«Io sono Ulcis.» «Non sono stata temprata perché mio fratello non l'ha permesso», disse Rachel. «Questo non ha importanza», replicò Ulcis. «Ma il presbitero me l'ha tenuto nascosto. Perché?» Sypes? Il vecchio era in contatto col suo dio? E gli teneva nascoste delle cose? Un allarme le risuonò in testa e di colpo non ebbe più voglia di parlare con quel dio. «Chiediglielo tu stesso.» Ulcis la studiò per un po' con gli occhi socchiusi e indagatori, come se ne stesse sbucciando i vari strati. Quando alla fine parlò, la sua voce fu come un terremoto. «Non sei certo la prima che viene a cercare risposte, mortale. Vita e morte, la domanda eterna...» «Io non sono in cerca di risposte», lo interruppe Rachel. «Cerco una siringa.» «L'hai vista?» chiese Carnival. Il dio si infuriò; la grande massa sembrò raccogliersi, rotoli di carne ondeggiarono mentre si raddrizzava. Aggrottando le ciglia fin quasi a nascondere gli occhi si voltò a fronteggiare Carnival, puntò un dito grasso verso di lei e disse: «E tu, sgorbio, che ci fai tu qui?» Carnival avanzò fino alle sbarre e gli sputò in faccia. Un fremito lo percorse. «Tu non ti ricordi di me», tuonò. Lei gli sputò in faccia di nuovo. «Non ti ricordi niente», disse il dio mentre si ripuliva la saliva dalle guance cascanti, gli occhi che brillavano. «Vero, Rebecca?» Le cicatrici di Carnival diventarono rosso vivo. Il bagliore negli occhi di Ulcis sembrò diventare più profondo e allo stesso tempo più luminoso. L'oscurità si infittì attorno a lui e si compresse a formare catene che gli spuntavano dalle spalle e dalle ali, catene che si allungarono nella cella e si avvolsero attorno a Carnival. Dei suoni si levavano da quelle catene: le voci di diecimila anime. Rachel sentì che l'aria si era fatta mortalmente gelida. «Ti ricordi?» chiese a Carnival il dio delle catene. «Ti ricordi di tua madre, quella puttana mortale? Una strisciaossa come tutti gli altri, ma così carina, persino da morta quando cominciava a marcire. Le ho restituito l'anima, affinché potesse godersi di più la sofferenza.» Sogghignò. «Ma tu l'hai portata con te quando ti abbiamo strappato dal suo ventre. Me l'hai ru372
bata. Ora te ne ricordi, vero, piccola... del tuo primo assassinio?» Carnival ansimò, cercò di allontanarsi, ma quelle spettrali catene la tenevano stretta. «E adesso» - la voce di Ulcis era un tuono - «ricordati della mia corda.» Carnival si avventò su di lui. Rachel sentì un rumore d'ossa spezzate quando l'angelo colpì la grata di ferro. Il dio si ritrasse. In preda a una furia spaventosa, Carnival artigliò l'aria davanti a luì. «Ora te ne ricordi, vero, figliola?» disse Ulcis. «Della corda? Il mio regalo per te, mia piccola selvaggia Rebecca. Mio piccolo fenomeno da carnevale.» *** A Devon pareva di essere sulle spalle di un dio. Appollaiato sulla poltrona di comando davanti al pannello di controllo fece scattare una leva all'indietro, e il ponte reagì con un brivido potente. Un rombo profondo fece vibrare le pareti e il pavimento. Il Dente traballò in avanti sulle Sabbiemorte, i motori pulsanti, sollevando ondate di sabbia ai lati della benna anteriore. Gli enormi cingoli schiacciavano e macinavano tutto ciò che trovavano sulla loro strada. «Una formazione di roccia», lo avvertì Bataba indicandola col dito. «Guarda! Devi deviare a ovest.» «Sciocchezze!» gridò Devon per superare il rombo del motore. «Quest'aggeggio potrebbe spianare una montagna.» «Dimostramelo. Usa i bracci di scavo.» Con un sogghigno, Devon aprì una valvola. I fluidi pulsarono facendo vibrare il pannello di controllo. L'aria sibilò dagli sfiatatoi. Agguantò una sporgenza d'osso e la tirò indietro. Dal basso venne un forte stridio, e un enorme getto di roccia polverizzata volò verso il cielo. Il ponte tremò di nuovo e le lame del Dente si sollevarono nel loro campo visivo, facendo lampeggiare i denti in movimento. Ma lo sciamano si era voltato. Stava osservando una sacca che Devon aveva posato in un angolo del ponte. Macchie scure che filtravano dal contenuto avevano inzuppato la tela. «Dove sono finiti i tuoi uomini?» chiese Devon. «Credevo che sarebbero stati qui a vedere tutto questo.» «Sulla calotta.» 373
«Vedo.» Devon fece scorrere la leva di una tacca. Il Dente ruggì e le lame affondarono di più nelle dune, fino a sollevare spruzzi di sabbia che superarono e oscurarono le finestre del ponte. I raggi del sole al tramonto filtravano attraverso la sabbia tingendola di sangue. «Ah», disse Devon. «Le mie scuse, sciamano. Devo aver mosso la leva al contrario.» «Attento, Avvelenatore.» Lo sguardo di Bataba era ancora puntato sulla sacca. Devon fece scivolare di nuovo la leva al suo posto, poi fece un cenno in direzione dell'oggetto al centro dell'attenzione dello sciamano. «Ho fatto una promessa a Sypes», spiegò. «Dovevo alleviare le sofferenze della guardia del tempio.» Aveva trovato Angus in uno stato terribile. Il veleno che gli scorreva nelle vene l'aveva spinto al limite della sopportazione, sull'orlo della follia. Ma ancora si aggrappava alla vita con una tenacia che Devon trovava allo stesso tempo affascinante e disgustosa. I guaritori Heshette si erano arresi, e avevano legato il disgraziato in modo che non si riducesse a brandelli da solo. Devon era incuriosito: avrebbe voluto vedere quanto Angus riusciva a sopportare. Però aveva promesso a Sypes di aiutarlo, quindi aveva trovato un compromesso. «Ti era proibito l'accesso ai tuoi veleni», disse Bataba. «La chimica non era necessaria: è bastata una sega.» Lo sciamano guardò di nuovo la sacca e il suo contenuto bitorzoluto e umidiccio. «Cos'hai fatto?» «Gli ho impedito di continuare a grattarsi a sangue.» Il Dente si inerpicò su una lieve altura con una serie di sobbalzi che fecero stridere i denti a Devon, per poi tornare al rombo regolare del motore mentre prendeva velocità per discendere lungo il pendio opposto. Il crepuscolo si infittì. Il Dente continuava ad arare le Sabbiemorte ondeggiando dolcemente. Avanzava sulla cresta delle dune e divorava la roccia sotto i suoi cingoli. Le stelle ammiccavano. La luna nera della Notte dello Sfregio sarebbe presto sorta, non vista: la sua stessa invisibilità presagio di sventura per il sangue che sarebbe stato sparso prima dell'alba. Dopo un po' Bataba uscì per andare a raggiungere gli altri consiglieri sulla calotta. Devon si sentiva rinvigorito. Si chinò sul pannello di controllo, avvertendo il ritmo e le pulsazioni della grande macchina in ogni muscolo, e controllò la distesa davanti a sé. Verso sud, alcune luci all'etere ammiccavano nel cielo notturno. 374
Diversivi. Devon tirò una leva, e la ragnatela di una rete metallica scese a coprire la finestra. Il primo attacco sarebbe arrivato molto prima che la flotta li raggiungesse. Deepgate possedeva una sola nave da guerra nera, la Malalingua. Una sua idea. Di notte le aeronavi argentate costituivano un facile bersaglio per gli arcieri. La Malalingua era un vascello veloce da combattimento, rapida e sottile; la gondola era stata spogliata di alloggi per l'equipaggio, rampini e pontili d'attracco e di ogni altro elemento non essenziale, in modo da lasciare spazio ai motori più massicci e agli armamenti extra. Fuori contatto-etere con la flotta principale, doveva essere nelle vicinanze, da qualche parte sopra di loro, a seguire le correnti di alta quota in una parabola d'intercettazione. E, se il nuovo sostituto di Hael al comando della flotta, il suo secondo, era prevedibile quanto il suo predecessore, c'era da aspettarsi un attacco da un momento all'altro. Come in risposta, un'esplosione lontana risuonò sopra la sua testa. Uno sfrigolio, mentre le scintille piovvero per un attimo sul terreno attorno al Dente, gettando ombre scure attraverso le dune. Incendiarie. Un'altra esplosione, seguita da altri sfrigolii, e il deserto si accese di rosso e d'arancio. Il Dente seguitò a rombare in avanti, impassibile. Due bidoni colpirono la sabbia poco più avanti, sputando gas di calce. Devon abbassò le lame dentate. Il primo bidone esplose con uno schianto nella notte; l'altro si frantumò in mille schegge. Frammenti di metalli si infransero contro le griglie abbassate e il fumo aleggiò contro le finestre. Altri due bidoni di gas atterrarono qualche metro sulla sinistra, sopravvento rispetto al Dente. L'Avvelenatore deviò sopravvento e li frantumò come foglie secche. Una salva di missili rimbalzò contro la calotta del Dente, seguita dai colpi di altre incendiarie. Tutto attorno, il deserto era in fiamme. Devon fischiettava, tamburellando a tempo sul pannello di controllo, quando la porta del ponte si spalancò di colpo e Bataba fece irruzione. «Una nave nera», ringhiò. Devon lo squadrò con disprezzo. «Non puoi aspettarti che preveda tutto.» «Abbiamo perso quattro uomini.» 375
«Non gliel'ho detto io di piazzarsi lassù.» «Quattro uomini, Avvelenatore, e una dozzina di ustionati.» Devon scrollò le spalle. «Tu non sapevi niente di quella nave nera?» «Non lo sapevo.» «Tu menti.» «Non ti ho già salvato una volta da un attacco con i gas? Non ho portato qui l'Adraki e poi condotto questa macchina in battaglia? E non sto forse per schiacciare le forze di terra di Deepgate? Tutto questo per te, sciamano, quindi perché dovrei mentire?» Bataba lo incenerì con lo sguardo. «C'è altro che dovremmo sapere? La tua utilità sembra quasi esaurita.» «Se mi viene in mente qualcosa, te lo farò sapere.» La tensione lasciò spazio a uno sgradevole silenzio, mentre il Dente superava un'altra ripida duna. Il resto della flotta era infine arrivato. Involucri argentei convergevano sopra di loro e risplendevano debolmente nel rincorrersi di segnali all'etere. Raggiunto il massimo, Devon allentò la pressione sulla valvola. Un'ampia distesa di luci splendeva nel deserto davanti a loro. «Le truppe di Deepgate», mormorò Devon. «Quante?» «Tutte quelle che hanno.» *** Alla luce della lanterna rotta, Rachel vide che Carnival aveva pianto. Si avvicinò, facendo attenzione a non gettare la luce diretta sul viso dell'angelo. Carnival si nascose fra le mani il volto sfregiato. «Lasciami stare.» «Non ti ricordavi di lui?» chiese Rachel. «Lasciami in pace!» Rachel si tirò indietro. «Scusami.» «Non voglio la tua compassione! Risparmia il fiato, cagna, non ti salverà. Niente potrà salvarti.» Rachel doveva sperare altrimenti. Obbligando Carnival a ricordare, il dio delle catene aveva cercato solo di far del male a sua figlia. Le era bastato guardarlo per mandare all'aria tremila anni di difese e riaprire le cica376
trici più profonde. L'aveva resa vulnerabile, però, sospettava Rachel, aveva anche rivelato che Carnival aveva un cuore. L'angelo si strinse le ginocchia. Un reticolo di tagli le percorreva le braccia. Un'ala pendeva storta dalla spalla rotta, le penne flosce e incrostate di sudiciume. Rachel si accoccolò sul pavimento accanto a lei, raccolse una manciata di anelli della catena e la lasciò ricadere. «La Notte dello Sfregio è arrivata, vero?» «Sì.» «Stai per uccidermi.» Una pausa e poi: «Sì». «Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace che lui sia tuo padre. Mi dispiace per tutto quanto.» E le dispiaceva davvero. Le dispiaceva che la sua vita finisse così. Che Dill fosse morto, che suo padre fosse morto. Quando pensava a suo padre, l'immagine che le si presentava alla mente era sempre la stessa: lui che tornava a casa da qualche campagna. Un omone solido e tarchiato con addosso la giubba bianca dell'uniforme, i bottoni che risplendevano argentei nella luce liquida del caminetto. Si ricordava il cipiglio quasi comico mentre sua madre gli si affannava attorno cianciando dei libri che aveva letto, dei pettegolezzi delle altre mogli al circolo ufficiali, degli scontri di Mark con l'autorità all'accademia. E si ricordava l'espressione sul volto di suo padre quando gli aveva detto che si era arruolata nella Spina: la linea severa della bocca, lo sguardo ferito negli occhi. Avresti potuto fermarmi. Perché non mi hai fermata? Rachel abbassò lo sguardo su Carnival, i lunghi capelli neri afflosciati attorno al viso rovinato, le penne spezzate delle sue ali, gli abiti di pelle in disfacimento, rappezzati migliaia di volte e chiazzati di muffe antiche. Carnival era acciambellata su se stessa, quasi rimpicciolita, infantile, le scarne braccia sfregiate strette attorno alle ginocchia, come bende. «Parla con me», le disse piano Rachel. Carnival stava di nuovo piangendo. «Lasciami in pace! Stai solo cercando di salvare la tua inutile vita.» Carnival sollevò la testa, i denti serrati, gli occhi neri ridotti a fessure inondate di lacrime. «Credi che mi importi qualcosa di te? Per me non sei niente. Solo carne. Carne!» «Puoi resistere.» «Resistere?» Una risata dolorosa. «Resistere!» L'angelo sembrò sputare 377
le parole. «Tu, stupida cagna!» «La tua vita non è cominciata con quella corda, e non finirà con essa.» «Avrebbe dovuto essere una catena!» «Piantala di compiangerti!» Di colpo ogni tensione sembrò abbandonare il viso di Carnival. Le lacrime le scorrevano ora liberamente sulle cicatrici. Lasciò di nuovo cadere il mento sulle ginocchia e trasse un profondo respiro tremante. «Lo detesto.» L'angoscia le assottigliava la voce. «Li odio, odio te. Li ucciderò. Anche te. Tutti quanti voi. Chiunque!» Gemette. «Stai lontana da me! Vattene subito lontano da me!» Rachel le toccò una spalla. «Rebecca.» Carnival l'allontanò con una manata, violenta. «Mi chiamo Carnival!» urlò. «Mi dispiace. Io...» Una chiave girò nella serratura della porta della cella. Rachel si voltò. Dietro le sbarre c'era un gigante, coperto di abiti sudici, la sua sagoma riempiva l'intera larghezza della porta. Dapprima pensò che Ulcis fosse tornato, ma si rese conto che quell'uomo era più solido del dio, era una massa di muscoli gonfi. Barba lunga e lividi gli ombreggiavano il volto. Ossa umane assicurate alla gamba sinistra formavano una specie di stecca, mentre altre ossa, più lunghe, erano state unite e legate assieme a formare una gruccia sulla quale si appoggiava. Le sue mani massicce armeggiarono con le chiavi e la porta si aprì. «Abigail?» chiamò.
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29 IL RAZZIATORE
Il cuore di Mr. Nettle si sollevò nel vedere sua figlia che si rialzava dal pavimento della cella. Lei si avvicinò con cautela, il viso tenuto in ombra dal coperchio della lampada che portava alla cintura. Ebbe la tentazione di correrle incontro, sollevarla tra le braccia e stringerla forte. «Ti riporto a casa», le disse. «Col cavolo.» Di colpo tutta la sua esaltazione si afflosciò: quella ragazza era troppo bassa, troppo magra e troppo bionda. Si muoveva con leggerezza, con una grazia che Abigail non aveva mai posseduto. E portava la corazza di cuoio degli assassini della Spina. L'assassina sollevò la lanterna e lo guardò con stupefacenti occhi verdi. Il suo viso era scarno, attraversato da lividi che le andavano dal collo alla tempia. «E tu chi diavolo sei?» gli chiese. «Sei una Spina», disse Mr. Nettle. Lei lo studiò, con espressione dura. «Sono Rachel Hael.» Mr. Nettle si grattò le croste sotto la barba lunga. «Sei morta anche tu?» Un'occhiata strana: forse la Spina non sapeva di essere morta. Aveva sentito parlare di fantasmi così, quelli che non riuscivano ad adattarsi a Deep, quelli che opponevano resistenza. Spesso non si rendevano conto di essere morti. I rinnegatori, così diceva la gente della Lega... ma che volevano poi saperne, quei bastardi? «L'hai vista?» grugnì. «Chi?» «Mia figlia.» Avvicinò la grossa testa. «Lei non è con loro.» Abigail sarebbe fuggita non appena avesse visto quei divoratori di carogne sulla montagna d'ossa. Pensava che potesse nascondersi laggiù, nei tunnel sotto Deep, tra gli angeli morti e il ribollire del loro brodo. A quella povera ritardata piacevano gli angeli. Rachel Hael abbassò lo sguardo sulla sua stecca, sulle ossa che aveva raccolto e aveva usato per immobilizzarsi la gamba ferita. Mr. Nettle sentì 379
una fitta di dolore, come se lei l'avesse toccata. Spostò il peso sull'altra gamba e la gruccia scricchiolò. Lei gli chiese di nuovo: «Chi sei?» «Nettle. Lei è qui?» La ragazza sembrava perplessa. «Sei uno dei servitori di Ulcis?» Lui sussultò a quel nome. Il grasso dio era laggiù da qualche parte, che scivolava per i corridoi come una muraglia di fango e osservava tutto. Affamato. E Mr. Nettle aveva perso la sua scure. «No», sputò. «Allora che ci fai qui?» Era per caso stupida? «Abigail», spiegò. «La sto cercando.» «Non so chi sia. Vieni da sopra? Da Deepgate?» «Già.» Ormai la città era soltanto un sogno. Gli sembrava di essere caduto per giorni, o forse per anni. Doveva aver dormito mentre cadeva, o forse era stato allora che era morto, non ne era sicuro. Si era svegliato quando l'angelo l'aveva morso. Ridotto pelle e ossa, orribile nella sua armatura ammaccata, doveva averlo preso quando era arrivato quasi in fondo. Ma l'aveva lasciato subito cadere quando lui aveva urlato e gli aveva tirato un pugno in faccia. Poi era rimasto disteso in un cratere di ossa, morto come i morti, con un grosso morso sanguinante sulla gamba. Da allora Abigail non gli aveva più parlato, non gli aveva detto dove si nascondeva. Forse aveva paura che loro la sentissero. O forse era arrabbiata. Le costole erano acciaccate dopo la caduta, e la gamba gli faceva male come se ci avesse lavorato sopra un cavadenti con le sue pinze. Forse si era infettata: non lo sapeva e non gliene importava granché. Così l'aveva sistemata con quella stecca di fortuna e se ne era andato in cerca di sua figlia. Era da qualche parte laggiù, proprio come la siringa che tratteneva la sua anima. Le avrebbe trovate tutte e due: vivo o morto, era comunque un ottimo razziatore. «Come sei arrivato quaggiù?» chiese la ragazza. «Sono caduto.» Lo guardò come se non gli credesse. «Dove hai preso le chiavi?» «Razziate.» Rubate. In testa adesso gli risuonava solo la sua voce, ed era grato per quello. Se l'avesse saputo, Abigail sarebbe stata furiosa con lui, proprio come sua madre. Non le avrebbe raccontato di aver rubato le 380
chiavi, e nemmeno le cose che aveva fatto da quando era morto. Gli omicidi. «Piano», mormorò fra sé. «Non si possono uccidere i morti.» Qualcuno annusò, e poi dalle tenebre uscì un'altra voce: «È umano?» Quello aveva le ali. Cicatrici. Mr. Nettle si ritrasse. Cercò qualcosa da usare come arma, non trovò nulla e sollevò allora la gruccia. Priva di sostegno, la sua gamba urlò in segno di protesta. La ignorò e si gettò in avanti. «Aspetta.» La Spina lo respinse: era forte, per essere così piccola. «Non ti farà del male.» «Non contarci», borbottò Carnival. Lui grugnì. «Adesso lo riconosco», disse l'angelo sfregiato mettendosi in piedi. «Il mio assassino ubriaco. Hai perso la tua scure, accattone?» Mr. Nettle fece per avventarsi contro di lei. Un dolore lacerante alla gamba lo fermò: l'assassina gli stava premendo un piede contro la coscia ferita. Cercò di assestarle un pugno... ... e si ritrovò lungo e disteso, senza fiato. «Ora basta!» Questa volta Rachel Hael lo teneva bloccato a terra, il calcagno puntato contro il tendine del suo collo. Cercò di afferrarla ma lei affondò di più il piede. «Basta, ho detto! Mi colgano le tenebre: ci sono abbastanza cose quaggiù con cui prendersela, senza attaccar briga fra di voi.» Mr. Nettle notò che la sua caviglia era assicurata a una catena. Girò la testa per seguirne il percorso e il suo grugnito diventò quasi una risata: una cagna incatenata all'altra. La Spina lo aiutò a rialzarsi e gli restituì la gruccia. «Cos'è successo a tua figlia?» «Uccisa», rispose lui continuando a tener d'occhio Carnival. «L'Avvelenatore l'ha dissanguata. Devo trovarla, prima che finisca in guai peggiori.» L'assassina e l'angelo si scambiarono un'occhiata. «Gli angeli morti che ci sono qui sono anche peggiori di te», disse Mr. Nettle puntando gli occhi socchiusi su Carnival. L'angelo incrociò le braccia. Rachel Hael sembrava a disagio. «Le tue chiavi aprono anche le altre 381
celle?» Quando aprì la cella di fronte, dentro era buia, fredda e puzzava di violenza. Là dentro era stato versato del sangue, e anche parecchio. Mr. Nettle avanzò con la sua stampella per vedere meglio. «Abigail?» Dietro di lui, l'assassina sollevò la lanterna. Il pavimento era coperto di piume bianche imbrattate di sangue. Mr. Nettle si chinò e cominciò a cacciarsele in tasca: le piume si vendono bene. La gente le usava per farci i cuscini e imbottirci le giacche. E lì ce n'erano un bel po', per quanto inzaccherate. Avrebbe dovuto prima ripulirle dal sudiciume e dal sangue, ma non aveva importanza: valeva comunque la pena di raccoglierle. Poi vide il cadavere nell'angolo. L'angelo giaceva scomposto su un giaciglio di paglia, come se ce l'avessero scaraventato sopra, la pelle nera e gonfia, occhi e bocca spalancati in una smorfia di terrore. Le sue ali erano a brandelli, come se un branco di cani le avesse sbranate. Però c'era una spada. Mr. Nettle si mosse per prenderla: quella valeva più di tutte le piume. La Spina lo fermò. «Non farlo», disse con una voce stranamente rauca. Si chinò sull'angelo e gli appoggiò una mano sulla fronte. «Dill?» Con un grugnito, Mr. Nettle continuò a raccogliere le piume. Sbirciandosi sopra la spalla vide che l'assassina liberava l'arma dalla stretta dell'angelo. «Non gli hanno preso la spada.» E poi, con rabbia: «Non gli hanno neppure preso la spada!» Quindi appoggiò l'arma sul petto dell'angelo. Non si voltò mai. Le piume erano più di quante Mr. Nettle potesse raccogliere. Quando si fu riempito le tasche si raddrizzò aiutandosi con la gruccia. «Non ci sono altre celle oltre a questa.» Carnival stava fissando le sue tasche gonfie, le labbra contratte a scoprire i denti come se fosse sul punto di lacerargli la gola. Mr. Nettle strinse la presa sulle ossa della stampella, ma l'assassina si intromise di nuovo fra loro. Aveva gli occhi umidi. «Andiamocene da qui.» «La spada vale un sacco di soldi», disse Mr. Nettle. «Prova a toccarla, sciacallo, e ti rompo il collo.» Mr. Nettle diede alla spada un'ultima occhiata colma di rimpianto, prima di trascinarsi pesantemente verso la porta. A 382
ogni modo una spada gli sarebbe servita a ben poco, almeno laggiù e contro tutte quelle cose morte. Contro gli angeli, poi, non gli sarebbe servita proprio a niente. «Devo trovare Abigail.» «È andata», ringhiò Carnival. «Dimenticala.» «No.» Mr. Nettle torreggiò sull'angelo sfregiato. Era due volte più grosso di lei. «Lei è qui. È qui tutta sola.» Rachel Hael lo prese per un braccio. «Ti aiuterò a cercarla.» Diede una breve occhiata a Carnival, distogliendo subito lo sguardo. «Ma dobbiamo prima trovare un modo per tagliare questa catena. E ci servono delle armi.» Mr. Nettle si voltò verso la spada. «Non quella», disse Rachel. «Quella non ci appartiene.» «Donne...» borbottò il razziatore. Non c'era verso di arrivare a capirle. «I magazzini sono più avanti, può darsi che ci troviamo qualcosa.» Si lasciarono la prigione alle spalle e si affrettarono lungo un corridoio scavato approssimativamente nella nuda roccia. La lanterna proiettava ombre irregolari davanti a loro, come spettri volanti. Carnival era schizzata avanti, trascinandosi sempre appresso la catena. Un'ala le penzolava dalla spalla rotta. Dietro di lei, Mr. Nettle barcollava sulla sua gruccia, lasciandosi dietro una scia di piume. Rachel veniva per ultima, ancora persa nei suoi pensieri. La sua rabbia si coagulava attorno all'immagine di Dill che giaceva solo e massacrato in quella cella. Perché chi l'aveva catturato non gli aveva preso la spada? Le sembrava una cosa terribilmente crudele. Ignorando la sua arma l'avevano umiliato. Eppure, anche adesso che era morto, non era riuscita a prendere per sé la spada, che per quanto smussata sarebbe stata sempre meglio di niente. Ma liberarla dalla stretta della sua mano morta l'aveva fatta sentire crudele quanto coloro che l'avevano umiliato davvero. Maledisse le proprie fantasie: per un attimo aveva creduto davvero di poterlo salvare. Si chiese a che stesse pensando Carnival. L'angelo - o semidio, a quanto pareva - si era precipitato davanti a loro come se volesse distruggere l'intera Deep a mani nude. Dopo la battaglia sulla montagna d'ossa, Rachel non dubitava che ne sarebbe stata capace. C'era voluto un intero esercito per fermarla. Ma adesso era la Notte dello Sfregio. E il razziatore? Gli augurava per il suo bene di non trovare la figlia scomparsa. 383
La lanterna si affievolì: era rimasto appena un goccio d'olio. Se non avessero raggiunto alla svelta qualche tunnel un po' più illuminato, solo Carnival sarebbe riuscita a vederci qualcosa. La catena fra loro sferragliò come un rantolo di morte. Il passaggio si inerpicava sinuoso in un formicaio di tunnel minori e anguste gallerie. Correnti d'aria umida mormoravano attorno a loro, recando suoni così flebili che Rachel non era sicura di averli sentiti davvero. Una volta le sembrò di udire qualcuno che singhiozzava, un'altra volta un rumore di lame che tagliavano. Ma sempre, in sottofondo, come una pulsazione, c'era il martellare metallico delle fucine. Arrivavano anche tracce di odori, sgradevolmente familiari, ma si sforzò di ignorarli concentrandosi invece sul mantenere il ritmo dei passi sopra la roccia bagnata. Dopo un tratto, il pavimento della galleria si fece piano, per poi aprirsi di colpo in uno spazio cavernoso. Era una specie di magazzino, pieno di cataste di detriti: mobili, letti, stoffe, casse e bauli zeppi degli oggetti più disparati, lastre di pietra e lavabi, stoviglie rotte, cesti piene di bottiglie e bottiglie che contenevano di tutto, dalle perle ai denti. «Cerca qualche attrezzo», disse Rachel a Mr. Nettle. «E armi.» «Alla svelta», grugnì Carnival. Si misero all'opera razzolando fra i rottami, per la maggior parte inutili o inservibili. Anni di offerte per le cerimonie dell'Avulsore su in alto, suppose Rachel; pagamenti per l'onore di assistere alla redenzione dei pellegrini. C'erano esempi di artigianato da ogni quartiere di Deepgate: indumenti un tempo eleganti, ferro battuto, ceramiche, giocattoli per bambini, sculture di legno, tutto accatastato e lasciato a marcire. Mr. Nettle ritrovò il baule di legno rossastro. Rachel sarebbe riuscita a stento ad alzare la pesante balestra, figuriamoci a usarla efficacemente, ma il razziatore la sollevò con apparente facilità con un solo braccio massiccio, e le sorrise. «È di Smith», spiegò. «Era di un tuo amico?» chiese lei. Il suo sorriso svanì. «Già.» Assieme all'arma c'erano tre dardi: una lama da caccia, un'incendiaria e una punta avvelenata, avvolta in uno straccio unto e senza nessuna indicazione sul tipo di veleno. «Peste dell'ingluvie», disse Mr. Nettle. 384
L'assassina notò il modo in cui lui osservava Carnival con la coda dell'occhio mentre parlava. Rachel gli lasciò la punta da caccia, e si infilò con attenzione le altre due alla cintura. Era possibile che la punta avvelenata fosse ormai secca, per quanto in grado di penetrare, ma l'incendiaria valeva più di un tesoro. «Ci dovrebbero essere anche dei martelli da queste parti... Smith ci teneva anche dei martelli, qui dentro», disse Mr. Nettle sbirciando nel baule. «Li hanno presi. Immagino che per gente che vive sottoterra i martelli siano più utili di una grossa arma ingombrante come quella.» Dopotutto, a che avrebbero mai potuto tirare, laggiù? Rachel avrebbe anche potuto continuare per ore a frugare in quel magazzino alla ricerca di altre armi, ma le bastò un'occhiata all'espressione di Carnival per metterle fretta. Dopo aver trovato e montato la corda sulla balestra di Mr. Nettle, caricato il martinetto e sistemato il dardo con la punta da caccia, si rimisero in marcia. Le gallerie si ramificavano, e poi si ramificavano ancora, e sembrava loro di percorrere le radici cave di un albero. Carnival sceglieva sempre il passaggio più ampio, la punta delle ali che strisciava sulle pareti di roccia. Cominciò a fare più caldo e sembrava ci fosse più luce, finché Rachel non scorse dei fuochi che ardevano in uno slargo davanti a loro. «Spegni la lanterna», sibilò Carnival. «Non senti l'odore?» Rachel annusò. Qualcuno cuoceva della carne. Si rese conto allora che quello stesso odore aleggiava da un po', e si accorse di avere l'acquolina in bocca. Alla sola idea la bile le invase lo stomaco. Lanciò un'occhiata a Mr. Nettle: se n'era accorto anche lui? Si rendeva conto di che significasse quell'odore, o la sua mente si rifiutava di prendere anche solo in considerazione l'idea? Che effetto gli potrebbe fare la verità? Carnival avanzò a grandi passi. «Aspetta», sussurrò Rachel. Carnival la ignorò, e la catena fra loro si tese. Imprecando, l'assassina fu costretta a seguirla. Liquidi gorgogliavano e ribollivano in enormi calderoni fumanti sistemati lungo il perimetro della caverna. Le pareti di roccia trasudavano, tinte di rosso sangue dalle braci che ardevano sotto gigantesche grate. Un pesante banco da macellaio occupava gran parte dello spazio disponibile in mez385
zo al cerchio dei calderoni, la superficie di legno macchiata e intaccata Per fortuna, non c'era nessun segno di carne. Carnival si fermò a sbirciare dentro uno dei calderoni. «Razziatore», chiamò stringendo gli occhi per difenderli dalla luce. «Non farlo», disse Rachel afferrandola per un braccio. L'angelo grugnì. Mr. Nettle le raggiunse. Si accigliò nell'osservare i calderoni, ma non sembrò interessato al loro contenuto. Non riesce ad affrontare la verità: la sua mente non è in grado di accettarla. Oppure è solo maledettamente ottuso. Si chiese da quando l'uomo fosse laggiù, e di che si fosse cibato per mantenersi in vita. Due grosse porte conducevano all'estremità opposta della caverna. Una di esse doveva essere la cella frigorifera. Rachel studiò il terreno, e vide dei solchi nella polvere che facevano pensare a diversi oggetti pesanti trascinati attraverso la più piccola delle due porte. Anche Carnival si avvicinò a quella stessa porta. «Aspetta!» Ma, proprio mentre Rachel si stava muovendo per fermarla, la porta più grande si aprì, e ne uscì qualcosa. Dovette chinarsi per strizzare le proprie ali attraverso la soglia, piegando la sagoma apparentemente priva di ossa in una serie di intricate contorsioni. Quando li vide, mollò l'osso che stava rosicchiando, raddrizzò in qualche modo il proprio corpo deforme e aguzzò i sulfurei occhi gialli. Un angolo della bocca si afflosciò, rivelando un unico dente aguzzo. Tra le labbra biancastre comparve una lingua penzolante e sinuosa come una sanguisuga. Persino in quell'atmosfera già fetida, il puzzo della creatura era intollerabile. Qualunque cosa fosse, stava marcendo. Solo allora Rachel si rese conto che era un angelo. O almeno lo era stato.
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30 IL PALAZZO DELLE CATENE
Un migliaio di fuochi da campo risplendeva sotto la luna nera della Notte dello Sfregio. Davanti a essi si allungavano le onde pietrificate delle dune, finché a Devon non parve di osservare una città costruita sulla riva lontana di un mare. Lasciò andare la leva del Dente e la macchina rombò fino a fermarsi. Della sabbia piovve oltre le finestre del ponte. Quanti fuochi. Ogni legione dei regolari di Deepgate e dei riservisti si stava scaldando in attesa dell'assalto. Fuori vista, si rese conto, dovevano esserci anche la settima e la nona divisione di cavalleria, che si muovevano lungo i fianchi per l'attacco laterale. E, sopra di loro, le navi da guerra. Devon ne contò più di trenta, che ardevano come comete fra le stelle. La Malalingua aveva già scaricato la sua zavorra e di certo si stava dirigendo verso Deepgate per riarmarsi. Bataba continuava a guardare attraverso la finestra anteriore, grattandosi la cicatrice che aveva al posto dell'occhio destro e tastando gli amuleti intrecciati nella sua barba. «Siamo il pugno d'Ayen», borbottò. «Questa guerra andrebbe combattuta sotto la sua luce.» «Non ci possiamo fare granché», disse Devon. «A meno che la tua dea decida di anticipare il sorgere del sole.» Lo sciamano grugnì. «Come intendi procedere?» chiese l'Avvelenatore. «Falciali tutti e basta.» Devon finse di essere sorpreso. «Credevo che gli Heshette guardassero in faccia i loro nemici quando li uccidono.» «Alla luce del giorno, sì. Ma questo combattimento si svolge alle condizioni dell'esiliato.» «Manderanno qualcuno a parlamentare.» Bataba continuò a scrutare l'orizzonte. Devon soffocò uno sbadiglio. «Come desideri.» Spostò una leva e il Dente si mosse in avanti, verso l'esercito riunito. Bataba voltò le spalle alla notte mentre il Dente superava una duna. 387
«Cosa dobbiamo aspettarci?» chiese. «Un percorso accidentato.» «Nient'altro che dovremmo sapere?» «Le divisioni dalla terza alla quinta, i genieri, avranno sicuramente minato il terreno. Tunnel, trincee piene di pece, cose del genere. Aspettati pure delle esplosioni, ma dubito che abbiano avuto il tempo per qualche scavo più serio. Non dovrebbero esserci problemi. Avranno messo assieme qualche torre da assedio, baliste pesanti, ma niente di abbastanza potente da fermarci. Finché continuiamo a muoverci avranno grosse difficoltà a penetrare la nostra calotta in maniera significativa. Dovremmo essere al sicuro fino a quando non raggiungeremo l'abisso. I riservisti, con tutta la buona volontà del mondo, da almeno dieci anni non hanno ricevuto nessun addestramento e non hanno combattuto.» Fece una pausa. «A preoccuparmi di più sono i sabotatori della Spina. Ichin Tell avrà di sicuro mimetizzato i suoi assassini qua e là fra la sabbia, con l'incarico di penetrare qui dentro mentre la nostra attenzione è concentrata altrove. Fate attenzione ai rampini dal basso.» «Metterò delle vedette.» «Meglio tendere loro un'imboscata: lasciagli un varco e permettigli di entrare. Però stai pronto a richiuderglielo subito addosso.» «Non insegnarmi come combattere, Avvelenatore. Ne abbiamo già sconfitti altri come loro.» «In scaramucce nel deserto», concordò Devon. «Ma non li avete mai affrontati in forze come ora. Praticamente ogni uomo in grado di reggere una spada per Deepgate adesso è qui fuori.» Bataba sembrò non averlo sentito. Si voltò mentre il Dente cominciava a risalire la depressione. «Radunerò il consiglio», disse, e lasciò il ponte. Quando raggiunsero la cresta della duna successiva, Devon vide un gruppo di cavalieri che si staccava per venire loro incontro, il vessillo della Chiesa che sventolava nero e oro alla luce di una dozzina di torce. Una tromba squillò argentina penetrando il rombo dei motori del Dente. Devon mantenne la rotta e diede potenza alle lame anteriori. I denti fatti dello strano metallo cominciarono a girare e cantare, sollevando parabole di sabbia. I cavalieri in avvicinamento ruppero la formazione e si dispersero per evitare l'enorme macchina. Quando la tromba squillò di nuovo, Devon per tutta risposta spinse avanti la leva. Deepgate era ancora nascosta oltre l'orizzonte, ma grosse colonne di 388
fumo si levavano dalla città, come se ogni singola fucina fosse in fiamme per produrre armi. Il cielo era striato di sfumature d'olio e di carbone e di fuoco. Le navi della Chiesa punteggiavano le volute di fumo come vesciche rosse. Forse un'ultima linea di difesa? Che Clay avesse dispiegato anche la flotta della Chiesa? L'Avvelenatore non se ne preoccupò più di tanto: prima che le navi del tempio arrivassero ad attaccarlo, la città stessa sarebbe stata perduta. Dopo un paio di miglia, i cavalieri si riunirono nuovamente e tornarono verso l'esercito in attesa. Nel frattempo il consiglio aveva raggiunto il ponte: non erano di umore migliore di Bataba, almeno quella metà di loro che aveva rimediato ustioni fresche dall'attacco della Malalingua. Nessuno celava il proprio disprezzo per l'Avvelenatore. Gli si radunarono attorno impugnando apertamente i coltelli tribali, finché i loro sguardi corrucciati non furono attratti dalle luci lontane. «Abbiamo disposto gli arcieri alle feritoie su entrambi i lati», spiegò Bataba. «I barili di catrame recuperati dai relitti delle due navi sono pronti nei corridoi volti a oriente e occidente. Quei sabotatori scopriranno che scalare le nostre mura non è un'impresa facile.» Devon non ne era convinto, ma non diede voce ai suoi dubbi. «Non scordarti di tenere d'occhio anche il cielo», si limitò a rammentargli. Bataba ignorò la frecciata. Stava studiando il terreno davanti a loro, e l'Avvelenatore si voltò per seguire il suo sguardo. Adesso erano abbastanza vicini, tanto da poter distinguere le unità dell'esercito raggruppate attorno ai fuochi da campo e le truppe a cavallo che caracollavano alle loro spalle. Scudi e armature mandavano lampi. Sui terreni più elevati, a sud-est e sudovest, si stagliavano le sagome scheletriche delle torri di legno, dei mangani e delle catapulte in attesa davanti all'abisso. «I battistrada sono rientrati», disse Bataba. I cavalieri avevano superato la fanteria, per fermarsi poi davanti al gruppo delle tende di comando che si trovavano alle spalle del grosso dell'esercito. «Perlomeno sappiamo dov'è Clay, o almeno dove vuole farci credere che sia», osservò Devon. Non dovettero aspettare molto prima che i battistrada riferissero il loro rapporto. I comandi trasmessi dai trombettieri echeggiarono attraverso l'in389
tero schieramento, e l'esercito di Deepgate si mise in movimento. Si staccarono centinaia di stendardi, sciamando a est o a ovest. Le unità di cavalleria di retroguardia si spostarono in posizione di fiancheggiamento. La fanteria dei riservisti si raccolse in blocchi irti di lance e picche. Schieramenti di tiratori scelti avanzavano veloci nella sabbia, precedendo le file di arcieri e balestrieri. Sopra di loro, alte nel cielo divamparono all'unisono le segnalazioni luminose all'etere, e le navi da guerra di Deepgate cominciarono a convergere e mettersi in posizione per un attacco concentrato. Il terreno era diventato ora più piatto. Le rocce esplodevano e si sbriciolavano sotto i cingoli del Dente, ridotte in polvere davanti all'enorme macchina. I motori rombavano. Ma a Devon tutti quei rumori giungevano come da lontano, attutiti dal pesante silenzio che regnava nella sua mente. Attese. Il Dente vibrava e oscillava, prendeva lentamente velocità e schiacciava qualunque cosa ostacolasse il suo passaggio. I solchi lasciati dalle carovane incidevano il terreno desolato davanti a loro come vecchie ferite. Le stelle sembravano ammiccare in segno d'approvazione. Le colonne di fumo alimentate dai fuochi di Deepgate si avvicinavano. Attese ancora. Presto arrivarono le navi da guerra, e la battaglia ebbe inizio. Un'esplosione colossale, come lo schianto di un tuono, risuonò sopra di loro, seguita da un crepitio prolungato. Il deserto lampeggiò di rosso e di arancio. Lingue di fiamma sibilarono al di là delle finestre del ponte e annerirono il vetro, fumi di fosforo ribollirono nella loro scia. Ma il Dente si scrollò di dosso quell'attacco come una pioggerella estiva. Esplosioni, crepitii, sfrigolii. Duecento metri più avanti una nuova pioggia di fuoco cadde dal cielo notturno. «Ci hanno mancati», disse lo sciamano. «No.» Devon sapeva cosa li attendeva. All'improvviso le Sabbiemorte presero fuoco. Per un miglio in tutte le direzioni non c'era altro che un mare di fuoco. «Il terreno è in fiamme!» gridò Bataba. «Gira! Gira!» Afferrò le leve di controllo. Devon lo allontanò con una gomitata e mantenne la rotta, dirigendo il Dente dritto contro le fiamme. «Calmati. Vogliono farci esitare e costrin390
gerci a deviare. E poi la Spina cercherà di penetrare a bordo.» Lo sciamano era impallidito. Il sudore gli imperlava la fronte aggrottata e gli scorreva sui tatuaggi del viso. Si passò la mano sulla cicatrice attorno all'orbita vuota come se fosse una ferita fresca. «Hai paura del fuoco, sciamano?» gridò Devon per sovrastare il colossale frastuono dei cingoli e il ruggito delle fiamme sempre più vicine. «Bruceremo vivi!» «Solo se ci fermiamo.» Il Dente avanzò in mezzo a quell'inferno. Il fumo si levò in volute roventi oltre le vetrate frontali del ponte, e le scintille sciamarono verso l'alto in torrenti a spirale. Ci fu uno schianto, e uno dei vetri della finestra si incrinò per l'intera larghezza. «È una follia», sibilò lo sciamano. «Sta' calmo!» Ma ora il fumo penetrava attraverso la finestra rotta e saliva verso il soffitto. Di fianco a Devon, Bataba si piegò e si mise a respirare a ritmo serrato attraverso la sciarpa che portava attorno al capo, lacrimando copiosamente dall'occhio superstite. I consiglieri Heshette si ritrassero tossendo verso il fondo del ponte. «Sigillate quella fessura!» urlò Devon. «Se sganciano i gas adesso...» Bataba ripeté il comando a un portaordini in attesa accanto alla porta, e pochi istanti più tardi uno degli uomini arrivò con un tubo di spessa colla d'ossa grigiastra. Cercando di sottrarsi al calore, si mise al lavoro per sigillare la finestra danneggiata. Il Dente continuava a procedere, inoltrandosi sempre più fra le fiamme. Devon cominciò a sudare nel calore crescente, e la leva gli si fece viscida nella mano. I suoi polmoni rigettarono l'aria venefica e vomitò, ripulendosi poi la bocca nella manica. Nei corridoi gli uomini abbaiavano ordini alle loro spalle. L'uomo che aveva riparato la finestra barcollò via, con lo spolverino fumante. Apparve un portaordini, mormorò velocemente qualcosa all'orecchio dello sciamano, e scomparve. «Un'unità di Spine ci è atterrata sulla calotta e ha tentato di penetrare dalla scala posteriore», riferì lo sciamano. «Sono state respinte.» Dalle loro spalle venne un crepitio di colpi frenetici, poi un grido: «Balestre!» I dardi d'acciaio tempestarono la griglia frontale come una cortina di grandine. Altre esplosioni fecero vibrare il ponte mentre le aeronavi ri391
prendevano il loro bombardamento. Esplosioni, crepitii, sfrigolii. Il fumo nascondeva completamente alla vista le Sabbiemorte. Lingue di fiamma lambivano il vetro annerito, e il calore si fece intollerabile. Devon continuò a tenere la leva avanti tutta, spremendo dai motori sotto sforzo del Dente tutta la potenza possibile. Bataba era in ginocchio, respirava a fatica. «Stiamo bruciando.» «Sta bruciando il catrame che ci hanno rovesciato addosso», replicò Devon. «Presto si esaurirà da solo.» Ma lo sciamano aveva una luce febbrile nell'unico occhio. «Dobbiamo tornare indietro», gridò. «Trovare un'altra strada.» «No», disse Devon. «Non ci fermeremo. Ce l'abbiamo quasi fatta.» «Torna indietro!» «Controllati! Guarda!» Attraverso uno squarcio nella coltre di fumo riuscirono a scorgere l'esercito di Deepgate in marcia. Una foresta di lance. Scudi e armature che fluivano verso di loro come una marea di metallo fuso. Le strutture annerite di mangani e catapulte si stagliavano sul fumo illuminato dalle fiamme alle spalle dell'esercito. Proprio in quel momento gli addetti alle macchine stavano incendiando le cariche dei mangani e mettevano in tensione gli enormi flettenti delle baliste. Più vicino, i cavalieri avanzarono sui fianchi e li bersagliarono con colpi di balestra che centrarono e frantumarono le griglie a protezione delle vetrate. E poi furono fuori dalle fiamme, tra la sabbia fresca e buia. I tamburi cominciarono a rullare con un ritmo basso e regolare. Bum. Bum. Bum. Risuonò un corno. Le baliste scagliarono i loro dardi, e un istante dopo le pesanti punte d'acciaio colpirono la calotta. La leva vibrò nella mano di Devon. «Portaordini!» urlò Bataba. «Breccia a oriente», fu l'affannosa risposta. «Il portello è andato.» «Riparatelo!» «Non toccate quei dardi», urlò Devon al di sopra del frastuono. «Se non sono in fiamme, saranno senz'altro saturi di veleno.» Lo sciamano urlò l'ordine ma una seconda salva dalle baliste impedì di 392
sentire se fosse stato raccolto. I tamburi rullavano più cupi e più veloci. Bum. Bum. Bum. Il catrame rovesciato sulla calotta si era quasi consumato del tutto, e attraverso i vetri anneriti Devon vide un oceano ribollente di armature, di elmi puntuti dalla celata abbassata, di scudi e spade splendenti. Le lance si increspavano in lontananza, fino all'orizzonte, gli stendardi neri e oro garrivano nel vento, e le navi incendiavano il cielo col lampeggiare frenetico delle luci all'etere. Bum. Bum. Bum. A un nuovo squillo di corno, i bracci di una batteria di mangani scattarono all'unisono. Barili in fiamme e grosse pignatte di coccio si innalzarono a parabola, lasciandosi dietro una scia di fumo e di lingue di fiamma e riempiendo l'aria con una specie di sospiro. Con la coda dell'occhio Devon vide che Bataba arretrava. «Reggiti da qualche parte», lo avvisò. Non si voltò per vedere se lo sciamano avesse obbedito: all'improvviso pece e fosforo esplosero sopra le loro teste e sbiancarono la finestra anteriore. Il ponte sussultò. Devon sentì che il motore perdeva un colpo. Allentò per un momento la leva e poi la spinse di nuovo avanti tutta. Bataba gli lanciò un'occhiataccia, che Devon ricambiò con cautela. Il Dente fremette e ondeggiò, poi riprese la sua avanzata rumorosa e costante. Ma c'era qualcosa che non andava: il rumore del motore era più aspro, sputacchiava. Squadre di serventi si affannavano sugli argani per ricaricare le baliste e i mangani, regolavano l'alzo, accendevano pesanti fusti con le torce gocciolanti. Un migliaio di figure si stagliava sulla cresta antistante la città, scure contro lo sfondo in fiamme. Dietro la fanteria in marcia, le file di arcieri inzupparono le loro frecce in una trincea piena di pece in fiamme e le scagliarono verso l'alto. Innumerevoli archi gialli solcarono il cielo e ricaddero fischiando per poi esplodere contro la calotta del Dente. I motori tossirono di nuovo, sembrarono fermarsi, poi si attestarono a un ritmo inferiore alla piena potenza. «Che c'è che non va?» chiese Bataba. «Il motore si sta surriscaldando.» «Puoi sistemarlo?» «Non c'è tempo.» 393
Un crepitio. Le baliste avevano scaricato un'altra salva di dardi, e pochi istanti più tardi le pesanti aste raggiunsero l'enorme macchina. Devon sussultò a quella scarica di colpi. Grida terrorizzate si levarono dai corridoi dietro di loro, urla di dolore... Gli Heshette avevano trovato e toccato i dardi dentellati. «Te l'avevo detto di tenerli lontani da quelle cose», ruggì Devon. «Sono penetrate attraverso le pareti interne: i corridoi erano bloccati!» «Allora copritele prima di cercare di rimuoverle!» Ssssss. Una seconda salva di dardi fiammeggianti si innalzò a parabola e ricadde come una pioggia di stelle. Poi gli arcieri arretrarono, ripiegando a est e a ovest. Centinaia di soldati di fanteria si riversarono dalle retrovie, spingendo le torri d'assedio. Ai lati, la cavalleria pesante procedette per raggiungere quella avanzata. Da entrambe le unità si levò una barriera di frecce da balestra. Devon ormai riusciva a sentire la fanteria, lo strepito degli stivali chiodati, il rombo delle ruote massicce delle torri d'assedio. «Siamo a portata di tiro», gridò, «ora le truppe attaccheranno.» Bum. Bum. Bum. I tamburi accelerarono. «Arcieri sul tetto!» gridò Bataba. «Preparatevi a respingere gli abbordaggi!» Il Dente sussultò, sprofondò in avanti, gemette e rallentò. «Trincee», disse Devon. Spinse la leva a piena potenza. I motori stridettero. Dardi e frecce si frantumavano contro le grate alle finestre. Il Dente si rimise in piano, si piegò all'indietro, e poi oscillò di lato. Cortine di sabbia sommersero la fanteria che avanzava. Ma la macchina cominciò a risalire, i tamburi di guerra pulsavano in sottofondo come il battito del suo cuore. Una marea di scudi e lance si allargò davanti a loro, i rampini volavano da ogni direzione. Il Dente riuscì a liberarsi dalla trincea. Devon sbatté le palpebre per cacciare il sudore dagli occhi, e col moncherino abbassò una leva. I bracci a lame dentate calarono con un sibilo furibondo. «Falciarli tutti, dicevi?» «Per Ayen!» gridò lo sciamano. Devon sogghignò e attivò le lame. I motori tossirono una volta, due volte, e si spensero. 394
Il Dente si fermò con un sussulto. Un silenzio improvviso riempì il ponte, come se tutti gli uomini all'interno del Dente e tutto l'esercito che c'era fuori fossero in attesa. Devon si voltò verso Bataba, il volto esangue. «L'albero di trasmissione. Manda subito i tuoi uomini ad aggiustarlo, o siamo morti.» «Quanto ci vuole per ripararlo?» «Sempre troppo.» Devon si alzò dalla sua postazione. «Prendi il prete.» Sotto di loro, l'esercito di Deepgate si lanciò alla carica. *** Carnival arretrò davanti a quell'abominio. Le sue mani corsero alla cicatrice della corda che aveva sulla gola, come attirate da un oscuro ricordo. «Devo ucciderlo?» sussurrò. «Qualcuno l'ha già fatto», disse Rachel. «Molto, molto tempo fa.» Le risultava difficile anche solo credere che quella cosa si reggesse in piedi. La maggior parte dell'angelo c'era ancora, ma pendeva a una strana inclinazione, poggiando il peso su una gamba sola. L'altra era disseccata e rachitica, più ossa che carne. A una mano gli erano rimaste tre dita, uno solo nell'altra mano. Strisce di intestino gli penzolavano dal ventre, dove brandelli di carne simile a cuoio - o forse era cuoio davvero - sembravano esplosi. Gli occhi gialli erano privi di palpebre e piuttosto sporgenti, e davano alla creatura un'espressione quasi comica. Aspirava l'aria attraverso lo squarcio che aveva al posto del naso. Sulle sue ali non era rimasta nemmeno una piuma, solo la pelle chiazzata e butterata. Era la cosa più misera e pietosa che Rachel avesse mai visto, eppure aveva il forte sospetto che Carnival ne avesse paura. Devo ucciderlo? Era come se avesse chiesto la sua approvazione, ma quando mai Carnival aveva avvertito il bisogno di chiedere nulla a nessuno? «Gli farei un favore», fece Carnival con un tremito nella voce. «No», disse Rachel. L'angelo morto osservò Carnival per qualche tempo, senza muoversi. Poi all'improvviso fece oscillare il testone avanti e indietro, agitò il pugno e disse: «Shing». Carnival sussultò. 395
«Shing!» «Non comprendiamo», disse Rachel. Mr. Nettle era arretrato di qualche passo e osservava l'angelo con circospezione. Evidentemente era arrivato alla conclusione che non era Abigail. «Shing!» L'angelo morto agitò di nuovo la mano stretta a pugno verso Carnival. «Credo che voglia darti qualcosa», disse Rachel. «Shing!» Carnival allungò la mano, e l'angelo vi fece cadere qualcosa. «Cos'è?» Rachel allungò il collo per vedere. Carnival sollevò l'oggetto: un orrendo anello d'osso, tutto rosicchiato. L'angelo morto sollevò il mento. «Shing!» ripeté, quindi contorse la bocca in qualcosa che avrebbe potuto essere un sorriso, prima di voltarsi e infilarsi di nuovo a fatica attraverso il passaggio. «Vuoi ancora ucciderlo?» chiese Rachel. Carnival era impallidita. Per un attimo ebbe un'aria sperduta, confusa. Poi la sua espressione si incupì e, con grande orrore di Rachel, la fame tornò nei suoi occhi. «E perché diavolo non dovrei?» disse, e si chinò per seguire l'altro angelo oltre la porta. Rachel fece per trattenerla, ma esitò. Si era accorta che Carnival si era fatta scivolare l'anello al dito. «Vieni», sibilò a Mr. Nettle. Oltre la porta un corridoio di roccia rossa che trasudava umidità affondava verso il basso, per poi risollevarsi poco più avanti. L'angelo morto si fermò nel punto più basso e fece loro segno di seguirlo. «Ghio. Ussis.» Poi si girò e si avviò lungo il passaggio. «Ha detto davvero quello che credo d'aver sentito?» si accigliò Rachel. Carnival continuò a guardare quella mostruosità che si allontanava, con aria cupa e senza rispondere. «Suggerisco di andare nella direzione opposta.» L'angelo sfregiato contrasse i pugni. Fletté la spalla rotta facendo scricchiolare le ossa, e l'ala sbilenca si raddrizzò. Con un grugnito, si mise in marcia dietro Shing. Rachel si affrettò a seguirla imprecando, e in qualche punto alle sue spalle sentì crocchiare la gruccia di Mr. Nettle. Da alcune torce il grasso colava sul pavimento in forme ormai solidificate e pozze lattiginose. Rachel cercò di scansarle, ma la catena che la uni396
va a Carnival ci sciaguattava dentro, e fu ben presto inzaccherata e luccicante d'unto. Mentre procedeva velocemente, la mano di Rachel continuava a correre al fodero della spada. C'era sempre meno tempo. Il passaggio rossastro finiva davanti a una porta massiccia. Shing si fermò, tentennando di nuovo la testa, e si esibì in un altro sorriso sinistro prima di dare uno strattone alla maniglia. La porta si aprì verso l'interno con un rumore di risucchio. Ne uscì un soffio d'aria gelida, e oltrepassarono la soglia. Sui lati scrosciavano due muri d'acqua spumeggiante, a formare un alto corridoio nebbioso privo di pavimento o soffitto. Sembrava che fossero sospesi su una sporgenza che correva alta lungo la parete di un'ampia caverna. Oppure sull'orlo di un altro abisso? Un vetusto ponte di catene zigzagava tra le cascate e svaniva una trentina di metri più avanti, dove una debole luce rossastra rischiarava la nebbia. Dalla loro posizione, le campate metalliche del ponte avevano un'aria decisamente fragile; in lontananza sembravano delicate come pizzi. Rachel guardò in basso e non vide altro che acque ribollenti. Se questo è l'inferno, che altro ci può essere sotto? «Ghio», disse Shing, e proseguì senza esitare. Si mossero con cautela, il ponte era insidiosamente scivoloso. Le travi marce si spezzavano e si riducevano in poltiglia sotto i loro piedi, seminando frammenti che precipitavano nel buio. Le catene fumavano e sgocciolavano, e i calzoni di Rachel furono ben presto inzuppati. Davanti a loro, la luce rossa diventava man mano più luminosa, e il diluvio d'acqua si ridusse gradualmente, prima a un velo, poi a rivoli simili a funi d'argento; infine poche gocce. La nebbia si divise, e si ritrovarono davanti al palazzo delle catene di Ulcis. Privo di qualunque sostegno visibile, il palazzo di ferro risplendeva come un rabbioso sole rosso nell'oscurità, al centro di un intrico di passerelle, scale, balconate e piattaforme collegate fra loro da una miriade di catene. Enormi bracieri ardevano all'interno. Non c'erano mura, ma non c'erano dubbi che il palazzo di Ulcis fosse una prigione. Alcune gabbie erano state ricavate nella struttura stessa, altre penzolavano da ganci e catene a vari livelli, ed erano piene zeppe di gente. Il Raccoglitore d'Anime era stravaccato su un trono massiccio al centro del suo palazzo, a osservarli mentre si avvicinavano. «Ghio», disse Shing. 397
«Intende 'dio'.» La voce di Ulcis rimbombò nel vuoto. «Le sue corde vocali sono marcite secoli fa.» C'era del rimpianto nelle sue parole. «Assieme alle ali e al cervello. Cerco di rappezzare tutto come posso, ma, quando la carne è piena di vermi, come si fa? Questo qui è sicuramente il peggiore: non c'è mai stata la fame a sostenerlo.» Rachel, Carnival e Mr. Nettle lasciarono il ponte e si chinarono per entrare fra le catene che segnavano i confini del palazzo. Il trono del dio si ergeva sul piedistallo al centro di una vasta piattaforma circondata da gabbie sospese. Il pavimento circostante era coperto da un tappeto di ossa. Rachel allentò le stringhe di cuoio attorno alla freccia incendiaria e a quella avvelenata che aveva alla cintura. In alto le gabbie cigolarono, e occhi freddi e famelici si voltarono per seguire la loro avanzata. «Sono agitati», disse Ulcis. «Fiutano la carne.» «Ghio», disse Shing. Ulcis allungò una mano, pescò un osso dal pavimento e lo lanciò a Shing. Lo mancò, ruzzolò giù dalla piattaforma e scivolò in mezzo alle catene e quindi nell'oscurità che le circondava. Shing era partito all'inseguimento ma si fermò subito prima del baratro, le spalle afflosciate. «Ghio?» «Un giorno o l'altro il suo istinto di conservazione non funzionerà», sibilò Ulcis. «Così me lo toglierò dai piedi una volta per tutte. Le cose che si aggirano sotto questo palazzo lo farebbero a pezzi in un baleno.» «Altri tuoi schiavi?» chiese Rachel. «Laggiù ci sono i cancelli di Iril», rispose il dio. «E Iril cos'è, di preciso?» Ulcis sorrise. «Ti piacerebbe saperlo?» «Ghio?» «Vattene!» La creatura esitò, poi si piegò in un inchino contorto e arretrò verso il ponte. Il dio delle catene osservò con espressione indignata la balestra di Mr. Nettle. «Suppongo che quest'altro sia umano. O almeno ci provi.» La sua voce sembrava roccia frantumata. «Continueranno sempre a scendere fin quaggiù, per qualche insopprimibile desiderio di trovarsi di fronte a un dio. Grandi palloni, o macchine volanti con vele, pinne ed eliche: ho visto di tutto. Persino un uomo su una sedia assicurata a centinaia di passeri, che si 398
lasciavano dietro una scia di piume.» Allontanò l'immagine con un gesto. «Ho fatto poi riparare la sedia.» «Questo è Mr. Nettle», disse Rachel. «E non è venuto per stare di fronte a nessuno. Sta cercando sua figlia.» «L'hai vista?» chiese Carnival. Il viso di Ulcis si contorse per la rabbia. «Hai per caso fame, figlia?» disse. «Siamo in quel periodo del mese?» Si abbandonò sullo schienale, distendendo le labbra in un fiacco sorriso. «Quanti ne hai uccisi finora? Oppure te li sei scordati tutti? Te la ricordi la tua ultima cicatrice? No? Però adesso almeno ti ricordi la prima.» «Mi ricorderò la prossima», disse lei. Rachel le afferrò una spalla. La catena. Non dimenticarti che siamo incatenate assieme. Ma Carnival non si mosse. Stava guardando qualcosa dietro il trono di Ulcis: c'era del movimento nel buio. Attraverso le catene comparvero altri angeli, dapprima una manciata, poi a dozzine. Erano in vari stadi di decomposizione, per quanto nessuno nelle condizioni di Shing. Ali lacere del colore della polvere. Brandelli di armature - acciaio corroso e piastre d'osso - che penzolavano da muscolosi busti grigiastri; spade ricurve, lance, mazze e archi. «I miei luogotenenti», annunciò Ulcis. «Loro si ricordano di te, figlia mia. Una volta eri così carina.» La sua voce era piena di implicazioni maligne. «Avevi fiori e nastri fra i capelli, eri così carina. Tutti loro si ricordano di te.» Gli arconti di Ulcis osservavano Carnival con una tale lascivia beffarda che Rachel avvertì un moto di disperazione, quasi di panico. Aveva già visto altre volte quegli sguardi, sulle facce dei soldati dopo che avevano spazzato via gli Heshette da Collecavo; dopo che erano rimasti soli con le donne. Rachel aveva massacrato di botte quattro uomini fino a renderli incoscienti quando si era resa conto di quello che avevano fatto. Li aveva picchiati fino a ridurre le loro facce a carne viva, prima di essere trascinata via urlante dalla Spina. La mano di Rachel si strinse sulla spalla di Carnival. Sentiva che l'angelo sfregiato aveva i muscoli tesi come acciaio, i pugni serrati fino a far sbiancare le nocche. La cicatrice della corda sulla sua gola pulsava a ogni rapido respiro. No! Avrebbe voluto gridare Rachel al dio. Non costringerla a ricordare! Carnival parlò con calma. «Cosa mi hai fatto?» Il dio delle catene si alzò, un ammasso di pieghe di carne che si srotola399
vano, e allargò le ampie ali. Catene d'ombra si agitarono alle sue spalle. «Vuoi che ti restituisca i tuoi ricordi, figlia? Quando avranno finito con te non ci sarà motivo per prendere la tua anima. Non ci sarà rimasto più nulla da prendere.» Ma Rachel sapeva che stava mentendo. Ulcis aveva tentato di distruggere l'anima di sua figlia, di distruggerne l'umanità che tanto vituperava. Eppure non ci era riuscito. Carnival aveva sepolto quella parte di sé in un punto ancora più profondo dell'abisso. Possedeva la rabbia e la fame di suo padre, ma aveva comunque conservato l'anima di sua madre. Carnival si sfilò l'anello che le aveva dato Shing e lo lasciò cadere a terra. Quel piccolo gesto straziò Rachel. «La siringa», ordinò Ulcis. «Portatela qui.» Si avvicinò uno degli angeli, una creatura alta più di due metri. Si scorgeva un biancheggiare d'osso dove le ferite delle battaglie gli avevano squarciato la carne del viso, e le costole sporgevano dagli squarci dell'armatura. Rachel studiò la spada che gli cingeva il fianco e il tubo di bambù assicurato accanto a essa, e aggrottò la fronte. Quel bastardo aveva addosso le sue armi. Porse a Ulcis la siringa dell'Avvelenatore, ancora stretta nella mano recisa di Devon. «È per questo che sei venuta?» chiese Ulcis. La mano sussultò e strinse ancor più la presa. Il dio la guardò senza apparente interesse. «È mia», sibilò Carnival acquattandosi, le cicatrici sul suo volto ancor più contratte. Rachel senti uno scricchiolio d'ossa, e si voltò a guardare Mr. Nettle che si trascinava avanti con la sua stampella. Spianò la balestra verso il dio e fissò avidamente la siringa. Merda, che interesse può avere nel vino d'angelo? Poi capì: L'anima di sua figlia. La faccenda comincia a farsi complicata. Nessuno si mosse. Il vino d'angelo risplendeva: un distillato d'anime che poteva risanare un angelo. Ora Rachel comprendeva perché Carnival avesse combattuto così duramente per trovarlo. Avrebbe finalmente curato la sua fame? Messo fine ai suoi tormenti? Poteva anche far sparire le sue cicatrici? Non solo quelle che portava impresse sulla carne, ma quelle che la segnavano dentro? Quella roba ha riportato indietro Devon dalla soglia della morte. E di colpo comprese anche perché non avrebbero mai permesso a Car400
nival di averlo. Ulcis liberò la siringa dalla stretta delle dita morte dell'Avvelenatore e gettò la mano recisa alla figlia. «Questa puoi tenerla, è un mio regalo.» Carnival non mosse un muscolo quando la mano cadde sul pavimento ai suoi piedi e poi sgattaiolò via come un granchio di carne. Ma le sue cicatrici si illuminarono e gli occhi le si incupirono fino a un colore di morte. Uno stridio d'acciaio, e attorno a loro gli angeli defunti sguainarono le spade. Rachel sentì uno scatto. La testa di Ulcis schizzò indietro, la punta da caccia sepolta nel sopracciglio destro. Mr. Nettle lasciò cadere la balestra e caricò. La gruccia improvvisata andò in pezzi, ma lo slancio lo mandò a sbattere contro il dio con una forza tale da abbattere una casa. Il trono si rovesciò, e Ulcis rovinò a terra sotto il razziatore. L'intera piattaforma vibrò e sussultò; in alto, le gabbie dondolarono e gemettero; un centinaio di catene si agitò sferragliando. Ulcis ruggì di rabbia. Mr. Nettle tirò una testata in faccia al dio. Gli arconti si gettarono all'attacco. Carnival balzò. Ma Rachel era pronta; afferrò la catena assicurata alla sua caviglia e diede uno strattone. La catena tesa bloccò a metà il balzo di Carnival, tirandole indietro la gamba. Cadde sul pavimento a faccia avanti, ringhiando. Con una mano Mr. Nettle cercava di strappare la siringa a Ulcis, mentre con l'altra stretta a pugno stava riducendo il volto del dio a una poltiglia sanguinolenta. L'arconte più vicino sollevò la spada per tagliarlo in due. Rachel gli tirò addosso la punta incendiaria, che colpì l'angelo dritto in fronte ed esplose. Una palla di fuoco avvolse la creatura mandandola a barcollare urlante fra gli altri arconti alle sue spalle, in una nube di penne in fiamme. Mr. Nettle era riuscito a rotolare via: aveva gli abiti in fiamme, ma si sollevò sulle mani e sulle ginocchia stringendo la siringa nell'enorme pugno. «Mia!» Carnival balzò in piedi, il viso contorto per la rabbia e il dolore. 401
L'angelo sfregiato volò addosso al razziatore e gli calò una gomitata sulla testa, che arrivò sul bersaglio con una potenza da spaccare le ossa. Mr. Nettle grugnì, scrollò la testa una volta, e poi schizzò in piedi in un'esplosione di stracci e muscoli. Con un braccio attorno alla sua gola e l'altro a serrarle le spalle, lottò per allontanarla da sé. Immobilizzata in quello strano abbraccio, Carnival annaspò per afferrare la siringa, la raggiunse, cercò di strappargliela. Il cilindro di vetro di vino d'angelo cadde a terra e si allontanò rotolando. Rachel lo afferrò al volo, chinandosi immediatamente per evitare una lama che fendette l'aria sopra la sua testa. Gli arconti di Ulcis avevano serrato i ranghi, e quello alto e sfregiato dalle battaglie aveva appena cercato di colpirla. Con la sua spada, quel bastardo. «Dammela, cagna!» strillò Carnival. Era riuscita a liberarsi dalla presa del razziatore, ed era a pochi passi dietro di lui. «Appartiene a me!» Ancora con gli abiti in fiamme, Mr. Nettle si voltò e corse verso Rachel. L'assassina lo scansò facilmente e allungò una gamba. L'uomo inciampò e cadde a testa in avanti addosso all'arconte che l'aveva attaccata. Rovinarono a terra entrambi, in uno schianto di costole e armature che si fracassavano sotto il peso del razziatore. Bloccato a terra, l'arconte grugnì e cercò di usare la spada. La sua spada. Rachel gliela strappò di mano, e gli strappò anche il tubo di bambù dalla cintura. Corse poi verso Carnival. «Seguimi! La catena! Siamo ancora legate!» Ma il volto di Carnival era ridotto a una maschera ringhiosa, gli occhi neri di fame insaziabile. Merda, non adesso! Mentre Carnival le si avventava contro, Rachel scartò all'improvviso, riuscendo a stento a infilarsi sotto le braccia tese dell'angelo. Colpì la sua assalitrice due volte, la prima nel collo, il secondo colpo lo sferrò alla spalla. Carnival si afflosciò sibilando e soffiando come un gatto. C'è troppa luce per te, qui dentro? «Alzati!» gridò Rachel. «La catena.» Una spada calò al suo fianco. L'assassina volteggiò via, e la lama affettò l'aria a un paio di centimetri dalla sua pancia. Un'altra arma puntò verso il 402
suo viso. Col dorso della mano bloccò il piatto della lama deviandola verso l'alto, e affondò intanto la propria spada sotto l'ascella dell'arconte. Uno strattone e la lama fu di nuovo libera di abbassarsi per intercettare il primo colpo dal basso verso l'alto di un nuovo aggressore. L'acciaio cozzò e stridette. Rachel ruotò su se stessa assestando un calcio in pieno viso all'arconte. Quel colpo avrebbe dovuto spezzargli il collo, ma quello sorrise e le si avventò di nuovo contro. Merda! Dietro di lui, stavano avanzando anche gli altri. Rachel afferrò una manciata di capelli di Carnival e se la trascinò appresso mentre passava. Gettò un'occhiata dietro di sé, in tempo per vedere Ulcis che si rialzava e si strappava la freccia di balestra dal sopracciglio. Il sangue sgorgò dalla ferita e dal naso rotto, mentre attorno a lui si agitavano catene indistinte di oscurità. Mr. Nettle stava ancora lottando con l'arconte segnato dalle battaglie. Gli assestò un pugno sul viso da spaccare la roccia, ma quello lo colpì selvaggiamente a una tempia riuscendo finalmente a scrollarselo di dosso. Mr. Nettle scivolò sul pavimento, svenuto oppure morto. Carnival si liberò di Rachel, furiosa e apparentemente incurante della catena che ancora le legava o degli arconti alle loro spalle, incurante di tutto ciò che non avesse a che fare col ridurre a brandelli l'assassina. «La catena!» «Dammi la siringa!» Rachel scivolò in mezzo alle catene che circondavano la piattaforma e raggiunse il ponte, il vino d'angelo sempre stretto in mano. I prigionieri ululavano scuotendo le sbarre nelle loro gabbie. L'intero palazzo vibrò quando la voce di Ulcis esplose dietro di lei. «Uccideteli.» Di colpo Rachel fu costretta a fermarsi. Carnival aveva trovato un passaggio alternativo fra i meandri del palazzo di Ulcis: la catena che le univa si era impigliata, avvolta attorno a una catena più grossa che sosteneva il palazzo. Né l'angelo né l'assassina potevano avanzare oltre. Carnival fece per afferrarla, ma non ci arrivava. Dietro di lei, gli arconti di Ulcis guadagnavano terreno. L'enorme dio in persona si era unito alla caccia, e il palazzo tremava sotto i suoi passi, mentre le gabbie cigolavano e dondolavano attorno a lui. 403
«Indietro», gridò Rachel. «Ci sono addosso!» Per la prima volta Carnival sembrò accorgersi della catena alla caviglia. Il suo sguardo percorse un anello dietro l'altro fino al punto in cui si era impigliata. «Ti ho presa, cagna.» «Ci ammazzeranno tutte e due.» «Non prima che ti abbia strappato il cuore. La siringa! Dammela!» «Dietro di te!» Carnival si voltò proprio mentre un enorme arconte dalla mascella ridotta a un teschio ghignante si allungava per afferrarla. Le piastre d'osso dell'armatura si mossero mentre il luogotenente di Ulcis vibrava un colpo di mazza con tutte le proprie forze, diretto alla sua testa. Carnival si abbassò e penetrò nella difesa dell'angelo. La mazza roteò attorno a una delle catene di sostegno del palazzo. Il pugno di Carnival scattò, e l'arconte fu scaraventato indietro, con un buco frastagliato al posto dei denti. Gli altri arconti stavano attraversando l'intrico di catene per buttarsi nella mischia. Imprecando, Rachel tornò sui suoi passi per andare ad aiutarla. Avevano ormai circondato Carnival: le lance si avventavano su di lei da ogni lato, le spade lampeggiavano e sollevavano scintille abbattendosi sulle catene. Gli arconti erano enormi e pesavano almeno il doppio di lei, ma la figlia di Ulcis era la più veloce di tutti. Le sue cicatrici ribollivano di rosso acceso, e gli occhi erano più neri dell'abisso stesso. Disarmata, si scagliò su di loro con i pugni e i calci e i denti, e con la furia di una dozzina di Notti dello Sfregio. E li stava respingendo. Incapaci di trovare lo spazio necessario per utilizzare le loro armi fra le catene, gli arconti di Ulcis si stavano ritirando. Rachel si insinuò per unirsi a lei, e mentre passava liberò la catena impigliata. «Muoviti, adesso», le urlò rinfoderando la spada sulla schiena. Ansante come un animale, Carnival si fermò un attimo e si guardò attorno apparentemente confusa, prima di accorgersi della presenza di Rachel e partire al suo inseguimento urlando: «Mia! È mia!» Senza ulteriori impacci, Rachel superò di corsa il corridoio a cascata, precipitandosi verso l'estremità opposta. La porta si aprì, e Rachel superò la soglia di slancio. Carnival era alle sue calcagna, e continuava a ringhiare e sputacchiare. «Ci stanno inseguendo, stupida bestia rabbiosa», disse Rachel striscian404
do via. «Scordati quella siringa e muoviti!» Si ritrovarono in un corridoio di roccia, che si biforcava in due tunnel scivolosi che andavano in direzioni opposte. Da che parte? Rachel non aveva tempo per fermarsi a pensare: Carnival era vicina, e dietro di lei risuonavano le armature dei luogotenenti di Ulcis. Si buttò avanti, confidando nella buona sorte e tenendo stretta la siringa come fosse una gemma rubata. Ora Rachel sapeva che farne. Si ritrovò di colpo nella sala dove avevano incontrato Shing, con i calderoni che ribollivano attorno e il bancone da macellaio che le si parò davanti di colpo. Correva troppo forte per riuscire a fermarsi, e cercò allora di saltarlo. Ma urtò il bordo di legno con uno stinco, e cadde mentre una fitta di dolore le saettava nella gamba. «Mia», fece Carnival avventandosi su di lei. Rachel le affondò un calcagno nel collo, scaraventandola all'indietro e addosso al primo dei luogotenenti di Ulcis che stava irrompendo nella sala. «Alzati!» strillò Rachel, e diede uno strattone alla catena, trascinandosi dietro Carnival ancora distesa. L'angelo sbatté le ali, e una lancia si abbatté sul pavimento nel punto esatto dove un secondo prima c'era stata la sua testa. Erano di nuovo in piedi e correvano. Nel buio. Rachel aveva ancora la lanterna appesa alla cintura, assieme alla cantaveleno e al tubo di bambù, ma non poteva accenderla senza rallentare. Sempre ammesso che ci fosse ancora olio. Non aveva modo di vedere dove andava ma continuò a correre comunque, le braccia tese davanti a sé e i piedi che slittavano sulla roccia bagnata. La voce di Carnival era molto vicina. «È buio, Spina.» Senza rallentare, l'assassina chiuse gli occhi e focalizzò. Le correnti d'aria si dipanarono e si cristallizzarono, piene di rumori e di odori sotterranei: il battito di lame lontane, il ruggito delle fucine e dell'acciaio martellato; l'odore dell'acqua gelida e quello più consistente di argilla e minerali. Si concentrò fluttuando fra tutti quegli odori, alla ricerca di quello che le interessava. «Eccolo!» Decomposizione. 405
Rachel spremette ogni forza rimasta dai muscoli esausti e accelerò la corsa. Le bruciavano i polmoni. L'odore che stava seguendo si rafforzò, attirandola più vicina alla meta. La sua mano destra tesa nel buio incontrò delle sbarre di ferro, e si catapultò nella sua cella. «No!» urlò Carnival. La catena attorno alla sua caviglia si tese di colpo strappandole il piede di sotto. Cadde a terra e rimase senza fiato. Allora cominciò a strisciare, lottando contro quella maledetta catena. Alle sue spalle si sentivano rumori di battaglia, cozzare di armi. Gli arconti di Ulcis avevano raggiunto Carnival, che, a giudicare dai rumori della sua reazione, non li aveva accolti bene. Non appena la catena attorno alla sua gamba si allentò leggermente, Rachel si trascinò più avanti all'interno della cella, annaspando con le mani sul pavimento. Piume. Pietra. Metallo? La cotta di maglia di Dill era fredda e sottile, e la sua pelle, sotto, viscida come sego. Prendimi. Rachel gli infilò la siringa nel petto e spinse lo stantuffo fino in fondo, poi si afflosciò a terra, esausta. «È morto», ululò Carnival. «È morto, stupida cagna! Non puoi salvarlo!» La luce delle torce invase la stanza, mentre gli arconti di Ulcis si ammassavano fuori dalla cella. «È morto!» gemette Carnival. «È già morto!» Si avvicinò, prese il polso di Dill e se lo portò alla bocca. Lo morse in profondità e succhiò, poi lo lasciò cadere. «Non capisci cos'hai fatto?» Si lasciò cadere in ginocchio. «Stupida, egoista...» Sembrava che la disperazione le impedisse di trovare le parole. Rachel ansimava, le braccia abbandonate e pesanti. Si voltò sentendo una confusione improvvisa fra gli arconti radunati davanti alla cella. Si stavano ritraendo dalle sbarre. Il loro padrone era arrivato. 406
Il dio aveva il viso inondato di sangue, e il petto enorme si alzava e abbassava per lo sforzo. «Figlia mia, stavolta mi hai proprio fatto arrabbiare.» Rachel sollevò lo sguardo su di lui, sui rotoli di carne, sul petto, sui molteplici menti sovrapposti. I suoi occhi ardevano come braci. Reggeva in mano un'enorme spada di ferro, graffiata e dentellata per l'uso. Le venne voglia di ridere. Alle sue spalle sentì una specie di colpo di tosse. Spostò gli occhi da quel dio osceno a Carnival, colse la sua espressione sbalordita e si voltò per seguirne lo sguardo. Dill si stava sollevando a sedere.
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31 SULL'ORLO
Devon spalancò la porta della cella. «Alzati.» Sypes sussultò. Il vecchio prete non si era più mosso dall'ultima volta che l'Avvelenatore l'aveva visto. Giaceva ancora nudo e tremante accanto ai pezzi del suo bastone. «Mettiti questa.» Devon gli lanciò la sua tonaca. Sypes continuava a rimanere immobile. Devon lo tirò in piedi con uno strattone e gettò la tonaca fra le braccia del vecchio. «Mettitela. Devono riconoscerti.» Privo del suo bastone, Sypes dovette appoggiarsi alla parete per tenersi in piedi. Le braccia e le gambe sottili tremavano mentre si infilava la tonaca dalla testa e se la lasciava cadere fino ai piedi. «Ecco», disse Devon. «Ora sei tornato a sembrare quasi umano.» Ma era una bugia: era rimasto ben poco di umano nel vecchio prete. Era pelle e ossa, coperto di lividi viola e gialli, più cadavere che uomo. La tonaca lo inghiottiva e sembrava trascinare la sua sagoma curva ancor più verso il terreno. Le palpebre grigiastre si afflosciavano sugli occhi appannati, che non si sollevarono neppure per guardare Devon. L'Avvelenatore lo aiutò a uscire dalla cella, e dovette portarlo quasi di peso verso il corridoio che dagli alloggi dell'equipaggio si inoltrava all'interno del Dente. Sypes tremava e tossiva e le gambe gli cedevano di continuo, nonostante il sostegno di Devon. Il prete non pesava quasi nulla. Prima di raggiungere il corridoio che conduceva ai portelli che si aprivano sull'esterno, Sypes vagava al limite della coscienza, e Devon doveva scuoterlo non appena sentiva che stava per svenire. «Mancano pochi passi, vecchio. Ci siamo quasi.» Il presbitero borbottò qualcosa di incoerente e agitò le mani come se stesse congedando servi invisibili. Il corridoio surriscaldato era ingombro di arcieri Heshette intenti a scagliare le loro frecce attraverso gli squarci che i dardi delle baliste avevano aperto nella calotta. Le aste dentellate erano state strappate via e trascinate da una parte per fare posto, e giacevano ora accatastate contro la parete in408
terna, i barbigli avvelenati coperti con stracci e coperte pesanti. Fuori, i tamburi di guerra rullavano un costante lamento funebre che superava il clangore dell'acciaio e gli urli e le grida dell'esercito all'attacco. «Di qua», disse Devon trascinando Sypes per gli ultimi metri. «Da questo boccaporto.» Il portello era stato scardinato, e volute di fumo nero penetravano attraverso il varco spalancato. Due arcieri erano accoccolati al riparo sui due lati e si sporgevano alternativamente per scagliare le loro frecce lungo la calotta del Dente. Fuori, il legno in fiamme gemeva, fischiava e crepitava. Frecce e dardi frusciavano e sibilavano, strappando urla ai loro bersagli. Le enormi ruote di legno brontolavano, gli stivali strepitavano e gli zoccoli tuonavano. Sopra tutto il resto, i tamburi di guerra segnavano incessantemente il ritmo della battaglia. Bataba era in attesa a un lato del boccaporto, metà dei lineamenti tatuati illuminata dalle fiamme. «La maggior parte delle scale è stata respinta», gli riferì lo sciamano. «Ma le torri d'assedio stanno prendendo posizione e noi non abbiamo più pece. Non riusciremo a tenerli indietro ancora per molto, Avvelenatore, perciò questa è la tua ultima possibilità.» Devon sbirciò fuori, poi schizzò indietro mentre una freccia si fracassava sulla parete alle sue spalle. Ne arrivarono altre due in rapida successione. Si accigliò, poi agguantò Sypes per la tonaca e lo spinse davanti a sé, mettendolo in mostra sulla soglia del boccaporto. Per un attimo la luce delle fiamme illuminò il volto del prete, prima che Devon lo tirasse da una parte. Un'altra freccia si infilò nel boccaporto e sibilò oltre l'orecchio di Sypes, che non sembrò neppure accorgersene e continuò invece a borbottare qualcosa sugli scalpellini. «Uno c'è sempre», borbottò fra sé Devon. Attese un momento, poi scaraventò Sypes di nuovo davanti al varco, come una marionetta. Questa volta non ci furono frecce. Si levò invece un coro di urla: «Cessate il fuoco. Cessate il fuoco!» Come un'eco, Bataba impartì lo stesso ordine ai suoi uomini. I rumori della battaglia scemarono e i tamburi smisero di rullare. Devon si sporse da dietro il prete e sbirciò oltre la sua spalla. Una buona metà della calotta del Dente era già in preda alle fiamme. Fuochi e armature lampeggianti sembravano estendersi fino all'orizzonte. Dalla massa di scudi si levarono verso di lui le celate degli elmi. Cadaveri irti di frecce ingombravano il campo di battaglia. Dalle pozze di catrame 409
incendiato si levavano ribollenti colonne di fumo. Quattro torri d'assedio ancora intatte si stagliavano contro il cielo rosso sangue. Altre due, più vicine, erano in fiamme, e dai loro scheletri carbonizzati le scintille salivano verso il cielo come minuscole anime. Squillarono le trombe, e le unità di cavalleria sparpagliatesi durante la battaglia si riunirono di nuovo dietro il grosso della fanteria. Tre cavalieri si staccarono dall'unità più vicina e spinsero avanti le loro cavalcature, fra i soldati che si divisero per lasciarli passare. Devon mormorò a Bataba: «Di' ai tuoi uomini di allentare i loro archi. Se colpiscono uno di quegli uomini è finita. Ci serve tempo». I tre cavalieri fendettero l'esercito. Devon riconobbe il blasone sul pettorale dell'armatura di uno dei tre: era Gullan, comandante della guardia cittadina regolare, un uomo alto dalle spalle larghe, in sella a un focoso destriero che tirò un morso a un fante avvicinatosi troppo. Immaginò che gli altri due rappresentassero la fanteria dei riservisti e la cavalleria. Quello alla sinistra di Gullan portava una corazza ammaccata e un elmo puntuto con i guanciali alati. Brandiva una daga e al suo braccio sinistro era assicurato un piccolo scudo rotondo di legno. L'uomo alla sua destra portava una cotta di maglia sopra gambali di cuoio bollito e teneva una balestra appoggiata al pomo della sella. Fra di loro, Gullan montava con disinvoltura il suo corsiero, senza badare alle intemperanze dell'animale, lo sguardo fisso su Devon. Devon gridò: «Ho una proposta per Clay». Urli e grida di scherno si levarono dalle prime file della fanteria. Gullan sollevò una mano e il vocio si interruppe. «La ascolterò.» «Parlerò con Clay», disse Devon. «Non col suo tirapiedi.» «Il capitano Clay mi ha conferito l'autorità di parlamentare.» «Il tuo capo ha forse paura di farsi avanti?» Le sue parole fecero sollevare una dozzina di balestre. Per tutta risposta Devon spinse avanti il presbitero, in modo che il vecchio prete si trovasse in precario equilibrio proprio sul bordo. «Fermi», ordinò Gullan con la mano tesa a palmo in giù. La maggior parte delle armi si abbassò. «Ti scorterò da lui, Avvelenatore.» «Può darsi. Ritira il tuo esercito, e forse prenderò in considerazione l'idea.» Ciò provocò reazioni indignate da parte delle schiere di fanti più vicine, 410
che cominciarono a battere le spade sui loro scudi. «Di' quello che devi dire, Devon», intimò Gullan. «Non è questione di quel che devo o non devo dire: è una questione di vantaggio reciproco. Altrimenti perché avrei fermato questa macchina proprio ai margini di Deepgate?» «Il Dente di dio è finito», disse Gullan. «Potrà soltanto diventare la tua tomba.» «Vuoi che rimetta in funzione i motori prima di discutere oltre? Quanti altri dei tuoi uomini devo schiacciare prima che possiamo discutere da pari a pari?» Il riservista dall'elmo puntuto si rivolse a Gullan con insistenza. Ci fu uno scambio accalorato fra loro, e poi il comandante disse: «Rilascia il presbitero e poi discuteremo». Devon percepì la traccia di un rombo attraverso il pavimento. Spinse Sypes qualche centimetro più avanti: sotto di lui si apriva un baratro di quasi trecento metri. Il presbitero non fece il minimo gesto di difesa, e rimase inarticolato come una marionetta nella presa di Devon. «Vuoi che lo lasci andare?» chiese Devon, e sussurrò a Sypes: «E tu che ne pensi? Devo lasciarti?» Un altro rombo risuonò all'interno del Dente, questa volta più forte. Sypes abbassò uno sguardo accigliato sull'esercito ai suoi piedi, apparentemente confuso. «Svegliati, vecchio», sibilò Devon scrollandolo. «Meglio per tutti noi se sembri cosciente.» I lineamenti del presbitero si tesero, guardò i volti degli uomini rivolti verso di lui e sbatté le palpebre. Poi si voltò di scatto, afferrò a due mani la camicia di Devon e tirò forte. Devon slanciò il braccio libero per agguantarsi all'architrave del portello, ma il suo moncherino non poteva afferrare niente e così cadde in avanti, ancora aggrappato a Sypes con la mano buona. Il mondo sembrò roteargli attorno. Ma, anziché precipitare sulla massa di soldati, andò a sbattere contro la calotta, appena sotto il boccaporto, e rimase là a dondolare. La tonaca del presbitero si era impigliata da qualche parte, e adesso penzolavano tutti e due poco sotto il boccaporto. Devon avvolse il braccio monco attorno al collo del prete, lottando per assicurarsi una presa migliore, mentre il vec411
chio prete soffocava e annaspava in cerca di fiato. Bataba e i due arcieri tiravano la tonaca di Sypes, cercando di riportare lui e Devon all'interno del Dente. Devon ruotò su se stesso, andò a sbattere contro la calotta, e si mise a girare nell'altra direzione. Lampi d'acciaio e fiamme e cielo gli passarono davanti. La tonaca si tese stringendo il collo di Sypes finché gli occhi del vecchio non strabuzzarono. Era paonazzo in volto, ma le sue mani continuavano a stringere spasmodicamente la camicia di Devon. Di colpo schizzarono in alto, quando gli Heshette li issarono attraverso il boccaporto e di nuovo dentro il Dente. Sypes giacque boccheggiante sul pavimento. Quando Devon si tirò in piedi malfermo, tre dardi da balestra gli si piantarono nel petto e lo fecero stramazzare riverso con la forza di una martellata. Un quarto dardo lo colpì alla gola anche mentre cadeva, e sentì spezzarsi la mascella. La punta d'acciaio penetrò nel palato, e il sangue gli inondò la bocca. Devon rotolò di lato, mentre un'altra salva di dardi e frecce si frantumava contro la parete dietro di lui. Gli arcieri nel corridoio risposero al fuoco. «Ghh», gracchiò Devon disteso supino addosso al presbitero. Avvertiva l'asta di legno infilata nel collo, l'estremità inferiore che gli premeva contro il petto, dov'erano infilzate le altre frecce. L'aria gli gorgogliava nei polmoni. Con una smorfia, si strappò la freccia dalla gola e la gettò via. Il dolore gli sbocciò nella mascella. «Ghhh...» Una per una, strappò via anche le altre. «Le tene...bre ti colgano.» Devon sputò una boccata di sangue e si rimise in piedi. «Accidenti a te, Sypes, questa fa davvero male.» Il presbitero Sypes giaceva immobile ai suoi piedi. Nessuna delle frecce lo aveva colpito. «Meglio per te se sei morto», grugnì Devon. «L'hai combinata davvero...» Il corridoio sussultò mentre, nelle profondità del Dente, i motori riprendevano vita rombando. Dagli uomini schierati nel passaggio si levò un ruggito, subito echeggiato dalle urla belluine dell'esercito sottostante. Corni e trombe squillarono per trasmettere nuovi ordini, e i tamburi di guerra ripresero a rullare. «Ci stiamo muovendo!» urlò Bataba. 412
Se n'era accorto anche Devon: il Dente aveva ripreso la sua avanzata, e i suoi cingoli si stavano già aprendo un largo passaggio attraverso le file dell'esercito di Deepgate. Un ghigno selvaggio si aprì sul suo viso pieno di sangue. Sentiva che l'elisir rispondeva alle esigenze del suo corpo martoriato, lo sentiva scorrere attorno al cuore e ai polmoni per riparare e rinforzare, e per un attimo gli sembrò addirittura di avvertire il lamento delle tredici anime. Afferrò Sypes per la pelle floscia della collottola e lo tirò in piedi. «Lo senti, vecchio? Te lo senti vibrare in quelle tue vecchie ossa fragili? È la fine. Tutto quello che hai fatto ha condotto a questo.» La testa di Sypes tentennava come quella di un ubriaco. «Queste morti sono opera tua, Sypes.» «Ti prego», ansimò Sypes. «Alexander...» Devon gli sbatté la testa contro la parete del Dente, una, due, tre volte, finché quella non si coprì di frammento d'osso e di cervello. Poi lo gettò fuori dal boccaporto. «Quella maledetta riparazione farà meglio a tener duro», ruggì. Bataba lo fissava sconvolto. «Cosa c'è?» scattò Devon. «Ci stiamo muovendo, no?» *** «È vivo, vero? Bene, così possiamo ucciderlo di nuovo.» Il dio delle catene era tuttora furibondo. Di tanto in tanto si pizzicava il naso ed esaminava il sangue che aveva sulle dita, con un miscuglio di orrore e di incredulità. Rachel non riusciva a distogliere lo sguardo da Dill, che cercava di sollevarsi ma ricadde sul pavimento, dove rimase seduto tremante a strofinarsi le braccia. Il suo viso era bianco come il gesso da un lato, e nero sul lato opposto, dove il sangue si era coagulato. E aveva cominciato a decomporsi. Il tanfo che emanava era rivoltante. Dill allungò il braccio per raccogliere la spada e si accigliò, aprì e chiuse la bocca come se cercasse di ricordarsi il nome di quell'oggetto. Una lingua nera e gonfia gli scivolò fuori dalle labbra. «... pada... ia.» «Dill?» Nessuna risposta. Quando la guardò, Rachel si accorse che i suoi occhi erano privi di colore, ma non il bianco accecante della paura, solo una gelida tonalità nebbiosa. «Dill, ti ricordi qualcosa?» 413
Dill si strinse le braccia attorno al corpo, e il suo sguardo si posò sulla siringa vuota che ancora gli sporgeva dal petto. La strappò via e la lasciò rotolare a terra. Poi distese le ali... e trasalì. Sia Carnival sia Ulcis lo stavano fissando: lei con un'espressione di speranza delusa, lui con ira crescente. Due luogotenenti del dio, le spade sguainate, bloccavano l'uscita della cella. Dill stava guarendo alla svelta. Mentre Rachel lo osservava, i lividi sul suo volto impallidirono e le penne mancanti ricrebbero a stupefacente velocità. Gli occhi sembravano più limpidi di pochi attimi prima. Si infilò un dito in bocca e abbassò il labbro inferiore, rivelando la mancanza di diversi denti. Il dito uscì di bocca insanguinato. «Freddo...» Ulcis annusò l'aria, sprezzante, e si voltò per andarsene, «Chiudeteli nella cella, e lasciate pure che quel mostro divori...» cominciò a dire. Con un rumore di ferraglia, Carnival gli lanciò improvvisamente un cappio di catena attorno al collo e tirò forte. Gli anelli si tesero e fecero rovinare a terra il dio, che atterrò di schiena sulle lastre di pietra. Lei gli fu addosso in un attimo, stringendo ancora più forte la catena. Ulcis annaspò in cerca d'aria, e i due arconti sulla porta si mossero verso di lei. Ma il dio sollevò una mano e quelli si fermarono, incerti. «Voglio che tu ricordi questo dolore», sibilò Carnival. Il volto del dio era contorto per la rabbia. Cercò di dire qualcosa, ma Carnival tirò ancora di più la catena e dalla gola non gli uscì altro che un ringhio. «Mandali via.» Allentò la presa, e Ulcis inalò una boccata d'aria. Rosso in viso, cercò di allungare un braccio verso di lei, agitando le grandi ali per sollevarsi dal pavimento. «Che cosa...» cominciò. «Taci!» Carnival ruotò di nuovo il polso e si chinò più vicina a lui, i denti a pochi centimetri dalla sua gola. «Liberati subito di quei bastardi o ti stacco la testa. E poi vedremo se riesci a fartene crescere un'altra.» Ulcis si accasciò, sollevando le braccia. «Aspetta», ansimò. «Rebecca...» La catena gli affondò ancor più nella carne. «Mi chiamo Carnival!» Del sangue affiorò agli angoli della bocca di Ulcis, le vene gli si gonfiarono sul collo e gli occhi strabuzzarono. Gli arconti si avvicinarono, e Rachel spazzò l'aria davanti a loro con la propria spada. 414
«Ultima possibilità», lo avvertì Carnival. «Vuoi vedere un'altra era? Un altro giorno?» Dill era finalmente riuscito a rimettersi in piedi. Le ferite sul suo volto erano quasi scomparse, e gli occhi avevano cambiato colore. Per un attimo fissò Carnival con uno sguardo giallo chiaro, poi si voltò verso Rachel aggrottando la fronte. «Questioni di famiglia», spiegò lei. Terrorizzato, Ulcis fece cenno agli arconti di allontanarsi, e loro arretrarono. «Nella cella di fronte», ringhiò Carnival. La catena era lunga appena quel tanto che bastava da permettere a Rachel di raccogliere le chiavi di Mr. Nettle e chiudere la grata. «Ora vattene», rantolò Ulcis. «Lasciami.» Carnival ghignò. «Non vorrai che ti lasci così, padre.» Gli afferrò un polso e se lo portò a forza alla bocca. «Stanotte è la Notte dello Sfregio... o te ne eri scordato?» L'angelo affondò i denti. *** L'Avvelenatore si fece largo a spallate fra gli arcieri e si infilò per le scale superando portaordini, guerrieri e feriti, e attraversò la cacofonia di rulli di tamburi, clangori di metallo, rombo di motori e urla. Quando raggiunse il ponte, il suo umore non era migliorato. Guardò storto i consiglieri Heshette ancora radunati e allontanò le loro domande con un gesto del moncherino, poi si lasciò cadere pesantemente sulla sua poltrona al pannello di controllo e guardò attraverso i vetri incrinati e anneriti delle finestre anteriori. L'alba aveva trasformato in un inferno il panorama sotto di loro. Un gruppetto di aeronavi della Chiesa si librava in mezzo al fumo, come piaghe rabbiose in un cielo rosso e venefico. I soldati di Deepgate si frangevano in ondate successive contro le lame da taglio ormai inattive, travolgendosi a vicenda nel tentativo di sottrarsi al Dente che continuava ad avanzare. In mezzo a loro, manipoli di Spine continuavano a scagliare dardi dalle loro balestre, in un attacco concentrato sulle vetrate del ponte. Dozzine di uomini alla volta sparivano sotto la grande macchina. Qualcuno riusciva ad arrampicarsi sui bracci dentati e restava appeso lassù; altri ci provavano senza riuscirci. 415
«Falciali tutti, avevi detto», ringhiò Devon. Bataba non rispose. Lo sciamano si era ritirato verso l'estremità posteriore del ponte, il volto pallido e tormentato. Devon spinse avanti una leva e i denti affilati cominciarono a girare. Quasi tutti gli uomini appesi ai bracci caddero subito nella benna, o finirono schiacciati sotto i cingoli in movimento del Dente. Qualcuno riuscì a rimanere appeso un po' più a lungo, ma non appena le ruote dentate accelerarono furono anch'essi scagliati contro la calotta del Dente, oppure caddero in mezzo ai soldati in fuga disperata. Il Dente li travolse tutti senza pietà. Devon fece deviare a sinistra la grande macchina, per intercettare una torre d'assedio abbandonata. Le ruote dentate raggiunsero la struttura e la ridussero a una nuvola di schegge di legno. Gli uomini si lanciarono fuori o finirono fatti a pezzi e una pioggia di sangue cadde sulla calca della fanteria. Devon riprese a dirigersi a sud, spingendo la macchina verso il margine rialzato che circondava l'abisso. Barriere artificiali di ferro si frantumarono con uno schianto sordo sotto i cingoli del Dente, e di colpo Deepgate apparve davanti ai loro occhi. La città si presentava proprio come Devon l'aveva vista innumerevoli altre mattine prima d'allora: le strutture dinoccolate e polverose di legno e lamiera della Lega; la ricurva ombra scura del terrapieno orientale; la nuvola di smog che sovrastava la Falce, trafitta dalle ciminiere, dalle gru e dai piloni d'ormeggio; i palazzi accalcati l'uno sull'altro e intersecati dall'intrico infinito dei vicoli serpeggianti. E al di sopra di tutto, circonfuso di nebbia, si ergeva il tempio. Le luci a gas risplendevano ancora debolmente fra le catene. A nessuno era venuto in mente di far evacuare la città? Devon ne dubitava: Deepgate era sempre stata un posto in cui morire. Le lame erano un ribollire confuso sotto di lui, i denti ronzavano e ticchettavano trasmettendo una vibrazione nervosa al ponte. Devon fece fermare il Dente a pochi metri dal bordo, gli occhi puntati sulla città ai suoi piedi. Fece scattare indietro una leva più piccola. Bataba si avvicinò. «È questo che vuoi?» gli chiese Devon. «Per Ayen», rispose lo sciamano in un sussurro. I bracci con le ruote dentate si allungarono. Devon rilasciò un'altra leva. Le lame rotanti si abbassarono, facendo a pezzi un gruppetto di baracche. Le casette esplosero in una miriade di schegge di legno e lamiera. Il lieve rumore di uno strappo, e le lame affondarono in una catena d'ancoraggio 416
con uno stridio metallico. Volarono le scintille, che schizzarono fino ai tetti della Lega a duecento metri di distanza. La catena si ruppe con uno schianto colossale. Affondò e si inabissò fra le strade tortuose e le passerelle, e subito dopo la Lega dei Cordai cedette come un pezzo di legno secco. Catene minori si schiantarono per la tensione eccessiva, i cavi si spezzarono e frustarono l'aria, mentre la grande catena stessa apriva uno squarcio attraverso la città. Ai due lati, le fiamme si levarono dalle tubature di gas lacerate. Almeno cinquecento edifici si rovesciarono e scivolarono nell'abisso. Nel cuore di Deepgate, il tempio vibrò e vacillò. Devon manovrò il Dente lungo il bordo, dirigendosi verso la catena d'ancoraggio successiva. «Uomo o dio che sia, questo dovrebbe attirare l'attenzione di Ulcis.» *** Lasciarono la cella di Dill e per qualche tempo seguirono una serie di passaggi in penombra, fino a riemergere vicino alla montagna d'ossa sul fondo dell'abisso. La fame aveva abbandonato lo sguardo di Carnival, in cui risplendeva ora qualcosa che Rachel non aveva ancora mai scorto negli occhi dell'angelo. Non proprio la pace, ma forse... qualcosa che si avvicina alla calma. Carnival era inzuppata di sangue, ma non aveva ferite fresche. Sembrava che la morte di suo padre non l'avesse addolorata. Del razziatore non c'era traccia. Rachel si augurò che l'omone fosse ancora vivo, e che fosse riuscito a fuggire in un modo o nell'altro dal palazzo delle catene. Dill era in disparte, a osservare tranquillamente la città di Deep. Le fucine adesso tacevano. L'esercito di Ulcis aveva smesso di fabbricare armi e si aggirava ora perplesso e confuso attraverso le grotte e i passaggi di Deep. Migliaia di candele ammiccavano nell'oscurità e gettavano lunghe ombre sui pendii di ossa. Dill si voltò all'avvicinarsi di Rachel, ma la sua espressione rimase immutata. Lei sollevò la lanterna. «Ti senti abbastanza forte per volare?» Fisicamente sembrava a posto, ma aveva negli occhi uno sguardo distante. Teneva una mano leggermente appoggiata all'elsa della spada al suo fianco. «Dove sono?» chiese. «Non ti ricordi niente?» 417
«Qualcosa.» Guardò la catena che ancora legava Rachel a Carnival, e che giaceva fra loro avvolta in spire insanguinate. «Perché siete incatenate assieme?» «Tradizione.» Rachel alzò le spalle. «Ti ricordi come mi chiamo?» Nessuna risposta. «Rachel», disse lei. «E questa è Carnival.» Se anche le avesse riconosciute, non lo diede a vedere. Carnival aveva lo sguardo fisso davanti a sé, la testa piegata di lato. Un sibilo, uno spostamento d'aria e una trentina di metri più avanti qualcosa di enorme cadde nelle tenebre e si schiantò sulla montagna d'ossa con un tonfo colossale, sollevando frammenti in tutte le direzioni. Rachel fece un balzo e agguantò la manica di Dill. Ispezionò l'oscurità sopra di loro. Aveva la spada in mano, anche se non si ricordava di averla sguainata. Strisce di lamiera per tetti fluttuarono in basso come enormi foglie. «Era una casa?» chiese senza fiato. Carnival annuì. «Ne stanno arrivando altre.» Si pulì la bocca dal sangue. «Molte altre.»
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32 LA CADUTA DI DEEPGATE
Dill sollevò in alto Rachel, al di sopra della montagna d'ossa, mentre attorno a loro un'intera città cadeva dal cielo. Pietre e travi e macerie piovevano ovunque. Cadevano case intere, seminando lastre di pietra dei tetti per poi aprire enormi crateri quando colpivano i pendii d'ossa del fondo. Tratti di catene e cavi precipitavano roteando come ragnatele mortali. Ponti e ponticelli di catene e passerelle volanti finivano in pezzi sotto sezioni di strade lastricate. La maggior parte delle rovine era in fiamme. Grovigli di legno e corda lasciavano dietro di sé scie di fumo e di braci. Piogge di scintille e di carboni ardenti sibilavano e sfrigolavano colpendo le pareti dell'abisso e sparpagliandosi nell'aria. Lottarono per risalire attraverso quel macello, Rachel si teneva forte alle spalle di Dill, mentre Carnival li seguiva alla distanza massima permessa dalla catena che le univa. Dill osservava tutto con timore reverenziale. Ricordi gli balenavano nella mente quando qualche oggetto familiare gli passava accanto, immagini sconnesse da cui non riusciva a ricavare nessun senso. Si ricordava di corridoi di pietra, scalini consumati, vetrate polverose; il crepuscolo che si allungava su un deserto di sabbia rosata. Aveva già osservato quella città da un diverso punto di vista? Distesa come una grande coppa ai suoi piedi, strade pallide e giardini cinti di mura, ammassi di tetti e camini? Gli sembrava di trovarsi in un punto elevato, sentiva l'aria fresca del mattino sul viso. Nelle ossa gli risuonava il rintocco sonoro di una campana. La chiesa di Ulcis? La catena alla caviglia di Rachel si tese di colpo quando Carnival scartò di lato per scansare una vecchia cisterna che li superò rimbombando vuota e sfiorandole pericolosamente un'ala. «L'intera città sta crollando», sibilò. «Sta' attenta», disse Rachel. «Non voglio ritrovarmi con un ciondolo pennuto appeso alla caviglia.» Carnival grugnì. 419
Le scariche di detriti si fecero più fitte. Una torre di pietra cadde ruggendo, le luci che ancora risplendevano attraverso le finestre come se fosse tuttora abitata. Lampade a gas e verricelli saettarono oltre come lance. Un ponte arrugginito, che si trascinava appresso le sue catene, ruzzolò nell'abisso ruotando su se stesso come un enorme giocattolo gettato via. Colonne, archi, brandelli di muri, alcuni completi di finestre e camini intatti. Un cavallo ancora aggiogato al carro di un mercante, che nitriva e scalciava mentre precipitava. Contrastando quell'attacco furioso, accelerarono l'ascesa verso la luce, attraverso nuvole di polvere e cortine d'acqua in cui risplendeva l'arcobaleno. Sabbia e polvere coprivano la testa e le spalle di Dill e gli facevano lacrimare gli occhi. Mentre Rachel affondava il viso nella sua spalla, lui continuava a tenere lo sguardo puntato in alto, attento a evitare tutto ciò che poteva travolgerli. Era quasi impossibile evitare gli oggetti più piccoli. I frammenti di vetro che scendevano come una pioggia risplendente laceravano abiti e pelle, ed erano bersagliati da pezzi di tegole e schegge di legno. Dill ruotava e scartava, rallentava e accelerava attraverso quel diluvio cercando di evitarne la parte peggiore. Carnival li seguiva, la catena che danzava fra lei e l'assassina. Deepgate? I ricordi di Dill affiorarono assieme al nome. Le catene di sostegno; la Lega; il Dedalo. Si vide su una balconata in cima a una torre, si ricordò della sua cella appena sotto la guglia. Il pavimento di mattonelle spezzate. Il sole che illuminava l'angelo sulla vetrata. Casa sua? Stava tornando a casa. «Questa polvere», disse Rachel soffocando la tosse nella sua spalla. «Non riesco a vedere niente se non quando ci è quasi addosso. Sarà rimasto più nulla della città?» Dill strizzò gli occhi nella nuvola di polvere. Le catene penzolavano come ragnatele strappate da almeno un quarto della città, lasciando libero un varco in cui si scorgeva il cielo azzurro. Le fiamme lambivano i bordi in rovina e, persino mentre stava guardando, un altro ammasso di palazzi si afflosciò verso di loro e cominciò a precipitare. Si voltò per gridare a Carnival: «Da quella parte! Spostati da quella parte! È meno pericoloso: i palazzi di quel quartiere sono già crollati». Poi sussurrò all'orecchio di Rachel: «Una parte delle catene di sostegno è andata. Tutto quello che c'era dal margine esterno fino al centro della città è perduto». 420
«Il tempio?» «Riesco a vederlo.» Proprio lassù, al centro, un alone fiammeggiante circondava la chiesa di Ulcis. «Se fosse precipitato l'avremmo sentito, con tutti quei preti che piagnucolavano», ruggì Carnival. La città si avvicinò gradualmente. Di tanto in tanto nuove scariche d'acqua li inzuppavano, ripulendo almeno temporaneamente la polvere e il fumo, finché non sembrò loro di volare attraverso le nubi di un temporale. L'aria pareva crepitare, percorsa da violente scariche di energia. La pelle si accapponò sulle braccia di Dill e sulla nuca. Un ruggito, e a un centinaio di metri di distanza un'intera strada si staccò, le case in fiamme, e si disintegrò in sbuffi di detriti. Un vecchio albero di pietra la seguì, i rami contorti che si allungavano fra le catene che frustavano l'aria. Carnival osservò la sua caduta. Sul suo viso fugacemente illuminato dalle fiamme, Dill scorse un'espressione di severo distacco. «Dobbiamo muoverci più in fretta», disse Carnival. «Gli arconti di Ulcis adesso sono liberi.» «Quanti sono?» sussurrò Rachel. Dill diede un'occhiata verso il basso. «Almeno una cinquantina, e stanno guadagnando terreno alla svelta.» Prese a battere le ali con tutte le sue forze. Carnival emise un gemito di protesta e si slanciò dietro di loro. Rachel estrasse dalla cintura il tubo di bambù e fece saltare il coperchio; ne uscì un odore muschiato, accompagnato da uno strano rumore raspante. Lo richiuse subito. «Avvertimi quando saranno più vicini», urlò. «Io non ci vedo abbastanza.» Si cominciavano a scorgere anche delle persone fra i detriti: uomini, donne e bambini laceri che precipitavano roteando con gli abiti a brandelli. Urla e pianti riempivano l'abisso. Una donna stringeva un neonato fra le braccia, e i suoi vagiti si dissolsero nel nulla. Sotto di loro gli arconti avevano sguainato le spade, e cominciarono a salire in cerchio, passando fra i detriti come grandi falchi grigi. «Quanto sono vicini adesso?» chiese Rachel. «Abbastanza vicini», rispose Dill. «Allora prendi questo», disse porgendogli il tubo. «Aprilo e gettalo in faccia al primo che arriva.» Poi strinse Dill fra le gambe e si sporse all'e421
sterno, sguainando la spada. Dill esaminò il tubo. «Che c'è dentro?» «Pulci uncinate.» Dagli arconti si levò un grido di battaglia, mentre il più vicino si lanciava all'attacco. «Sopra di te!» gridò di colpo Carnival. Dill alzò lo sguardo appena in tempo, e si tuffò di lato per scansare una punta di ferro grande quanto una guglia del tempio. «La Falce!» gridò Rachel. «Stanno crollando anche i cantieri navali.» Enormi strutture metalliche ruggirono superandoli. Piloni d'attracco, pontoni e gru, enormi argani e carrucole e ganci arrugginiti, reti di cavi anneriti e catene. Un fumaiolo di ferro che ancora buttava fumo andò a sbattere contro il tetto di un magazzino con un potente boato che scosse l'abisso da una parete all'altra. «Non possiamo...» Rachel si interruppe con un grido di dolore quando la catena alla sua caviglia si tese di colpo e le strattonò selvaggiamente la gamba. Carnival aveva dovuto tuffarsi per evitare una fornace ancora accesa. Persero quota considerevolmente, e subito si trovarono in mezzo ai loro inseguitori. Un arconte dal ghigno cadaverico afferrò Dill per la caviglia e gli affondò profondamente le unghie nella carne. La spada di Rachel calò, mirando al braccio dell'attaccante. Ma la creatura alata scansò il colpo senza fatica. Scivolò via con un'occhiata maligna e sollevò la scimitarra per colpire. Dill gli vuotò in faccia il tubo di bambù. Le pulci uncinate sciamarono dal tubo con una specie di cinguettio. L'arconte urlò, lasciò cadere la spada e prese ad artigliarsi la faccia. Le pulci gli erano già penetrate nella carne e ribollivano sotto la pelle grigiastra. L'osso chiazzato di sangue comparve tra le lacerazioni che gli si aprivano sulla fronte e sulle guance. «Arriveranno fino al cervello e si annideranno là dentro», gridò Rachel. «Ci metterà parecchio a morire, sempre se si ricorderà come si fa a volare.» Un secondo arconte si gettò verso la schiena di Carnival, la spada che mirava a un punto fra le sue scapole. L'angelo sfregiato ruotò su se stesso e sollevò la catena per parare il colpo. L'acciaio colpì il ferro e ne scaturirono scintille. Rachel urlò un avvertimento. 422
Carnival si ritrasse mentre un muro di mattoni precipitava fra lei e il suo avversario. Quando le passarono davanti le finestre, menò una dozzina di colpi velocissimi attraverso il vetro, frantumandolo a ogni colpo. Poi il muro passò oltre, lasciando l'arconte a galleggiare accecato e senza denti. Carnival sferrò un calcio in faccia alla creatura e si allontanò ringhiando. Ma gli altri continuavano ad avvicinarsi, ce n'erano ormai più di quaranta. Battendo le enormi ali, zigzagavano in mezzo al diluvio di detriti. Quelli più vicini si tuffarono verso Rachel e Dill, e anche Dill sguainò la spada. L'aveva mai saputa usare? Se la sentiva così strana, in mano. Scagliò il tubo vuoto contro l'arconte, ma lo mancò. La creatura sogghignò, trionfante, e sparì subito dopo travolta da un gancio da nave da carico che precipitava dall'alto, lasciandosi dietro solo qualche piuma che scese volteggiando. «Questo è troppo», gridò Rachel a Carnival. «Resta più vicino a noi. La catena... se qualcosa dovesse colpirla...» Dill scartò di nuovo, mentre l'angolo di un palazzo in fiamme sfrecciava loro accanto. Furono avvolti dal fumo e di colpo si trovarono a girare vorticosamente, volteggiando alla cieca nell'aria turbolenta e soffocante. «Quello era un magazzino!» urlò Rachel. Il che significava che adesso stavano crollando i grossi edifici industriali che un tempo costeggiavano la Falce: fabbriche e depositi, fonderie e stabilimenti che bruciavano, esplodevano, si disintegravano. Catene di dimensioni mostruose precipitavano tuonando nell'abisso, attraverso fitte nubi di fumo e di polvere. Un ammasso di baracche di operai andò a sbattere contro una gru ed esplose in una miriade di tavole e rotoli di corda. Un arconte sfregiato, con addosso una mezza corazza arrugginita, impegnò brevemente Carnival, la lancia che saettava come la lingua di un serpente. Altrettanto sfregiata, Carnival rispose con un sogghigno. Combatteva usando un tratto di catena lungo quanto un braccio: lo tendeva per deviare i colpi, poi lo allentava per colpire in faccia l'avversario. Tre colpi per ognuno degli affondi del suo attaccante gli ridussero ben presto il viso a brandelli. Carnival afferrò la lancia e tirò un calcio alla spalla dell'arconte, facendolo girare su se stesso. Quindi capovolse la lancia, e gliela affondò profondamente in mezzo alle ali. Una freccia sibilò accanto all'orecchio di Dill. «Arcieri!» gridò come avvertimento, indicando il punto da cui la freccia era arrivata. Carnival si lanciò in quella direzione. «Aspetta!» gridò Rachel, ma Carnival era troppo immersa nella frenesia 423
della battaglia per ricordarsi della catena. Prima che Dill potesse reagire, Rachel gli fu strappata dalle braccia. Di colpo si ritrovò privo di peso. E solo. Carnival stridette quando il peso di Rachel fermò il suo slancio e la trascinò in basso per una ventina di metri prima che riuscisse a compensare lo sforzo e recuperare un po' di quota. I luogotenenti di Ulcis attaccarono tutti assieme. Quelli che già si trovavano all'altezza di Dill, una dozzina o poco più, si tuffarono verso Carnival. Un'altra dozzina, rimasta più in basso, risalì verso la posizione dove Rachel era rimasta a dondolare come un pendolo. Spade, lance, coltellacci e sciabole si avvicinarono pronti ad azzannare. «Spina», urlò Carnival. «Renditi utile!» Agguantò la catena alla propria caviglia e spostò il peso all'indietro, sbattendo le ali. Poi cominciò a tracciare lenti cerchi, trascinandosi anche Rachel più in basso. Rachel agganciò la gamba libera attorno alla catena e tese la spada. Carnival aumentò la velocità, sorvolando l'assassina, poi si lasciò cadere più in basso e frenò con le ali. I muscoli del collo le si tesero come corde, mentre lottava contro il peso della catena. «Più veloce!» gridò Rachel dal basso. Sbattendo le ali e accelerando le rotazioni, Carnival tirò ancora più forte la catena. Rachel acquistò velocità, si stabilizzò, e prese a roteare orizzontalmente come una mazza ferrata vivente. Qualche metro sopra di loro, Dill li osservava senza fiato. La spada dell'assassina disegnò un cerchio splendente nell'oscurità, poi furono due, tre, attorno a Carnival, e finalmente trovò il primo degli arconti di Ulcis. Quando la lama di Rachel lo attraversò, la grigia creatura non ebbe neppure il tempo di urlare. Una nuvola di sangue e penne seguì le due metà del suo corpo verso il fondo dell'abisso. Con i denti scoperti in un ghigno, Carnival sfruttò lo slancio di Rachel per aumentare ancora la loro velocità. L'assassina ruotava sempre più veloce, finché la catena tesa fra loro non sembrò cantare e la sua spada diventò un anello d'acciaio. Rachel squarciò un altro angelo dalle spalle allo stomaco e recise l'ala di un terzo. Ruotava più in alto, più in basso, attorno, la sua spada tracciava archi di sangue. E intanto non smetteva di parare, di deviare i colpi con stupefacente velocità. L'acciaio cozzava e mandava scintille e lampeggiava 424
attorno a lei. Ma non era sufficiente. I suoi avversari erano più veloci, si avventavano da ogni direzione cercando un varco per penetrare la difesa di spada e catena vorticanti. Un corpulento angelo color della polvere scagliò la propria lancia e colse Rachel alla spalla. Carnival frenò di colpo la rotazione e fece volare Rachel oltre la propria testa, per poi scaraventarla di nuovo in basso e addosso allo stesso arconte con forza brutale. L'assassina lo impalò sulla sua spada, e fu di nuovo libera. Dill osservava rapito. In fondo alla catena, Rachel girava così veloce che faticava a distinguerla. Come faceva a non perdere conoscenza? Il sangue schizzava in cerchio dalla sua spada, scintille e braci vorticavano in una spirale rabbiosa dietro di lei. Gli angeli di Ulcis erano ovunque, trenta o quaranta, scartavano, deviavano, giravano in cerchio. Paravano i colpi di Rachel e a volte riuscivano a ferirla, e presto l'avrebbero fatta a pezzi. E, nel frattempo, la città continuava a crollare attorno a loro. Crociere di ferro e grandi travi fumanti, catene, contrafforti, guglie, impalcature, passerelle e scalinate, gronde e camini. Case che eruttavano fumo, ruggivano e si disintegravano fra torrenti crepitanti di vetri infranti, pietre e tegole. L'oscurità si infittì e Dill guardò in alto. Una casa pendolo grande quanto una nave da guerra riempì il cielo, tre piani di pietra e piastre d'acciaio avviluppati dalle catene. Li avrebbe travolti tutti. «Carnival!» urlò. La vide anche lei. Carnival fece ruotare Rachel un'ultima volta, e poi appiattì le ali contro il dorso. Lo slancio dell'assassina la scaraventò oltre il cerchio degli arconti, trascinando con sé Carnival. Appena uscite dalla traiettoria, a pochi centimetri da loro, la casa pendolo travolse gli arconti di Ulcis, e sparirono tutti nell'abisso. *** Sopra di lui, la città di Deepgate era piegata da una parte, completamente sventrata. Alcuni palazzi penzolavano sotto il tempio da una dozzina di catene di sostegno, ancora avvolti in un intrico di cavi e catene secondarie. Il fuoco divampava a coprire metà del cielo, e particelle di fuliggine e braci cadevano come neve rovente, ma si riusciva ancora a scorgere il sole attraverso lo squarcio velato di polvere. 425
Non si vedeva più traccia degli angeli di Ulcis. In un modo o nell'altro, erano tornati nel loro abisso. Carnival lo stava aspettando, con Rachel fra le braccia. Il corpo dell'assassina era coperto di ferite e risplendeva rosso del sangue delle innumerevoli lacerazioni che sfregiavano i polverosi abiti di pelle. Teneva il capo appoggiato contro la spalla dell'angelo sfregiato e il braccio che reggeva la spada penzolava inerte, sgocciolando sangue. Non dava segno di muoversi. Ma all'avvicinarsi di Dill, che col battito delle sue ali le smosse la polvere attorno al viso, sollevò su di lui uno sguardo stanco e gli sorrise. «Come ti senti?» le chiese. «Mi gira la testa», sussurrò lei. Le sorrise anche lui, e poi guardò Carnival. Aveva il volto e le braccia coperte di polvere che le nascondevano le cicatrici. Sembrava esausta, ma i suoi occhi gli sembrarono di una sfumatura appena più chiara di quanto ricordasse. Lo colpi lo strano pensiero che era bella. Aprì la bocca per parlare. «Risparmia il fiato», disse l'altro angelo. Volarono verso l'alto, attraverso la città distrutta e nella luce del sole. Come se una diga si fosse aperta nella mente di Dill, i ricordi della sua vita precedente lo inondarono. Si ricordò di essere rimasto aggrappato a una banderuola, a girare nel vento sotto un cielo al crepuscolo. Si ricordò di aver girato per la sua cella a disporre candele lungo il muro. Possibile che avesse avuto tanta paura del buio? Ora come ora, non riusciva a capacitarsene. Si ricordò dei preti in tonaca nera che frusciavano in luoghi poco illuminati; un corridoio col soffitto a volta e con alte colonne da cui le ossa dei suoi predecessori lo osservavano; e il presbitero Sypes che borbottava e brontolava di continuo, ma era sempre gentile con lui; e anche la frusta di Borelock, e il profumo del coadiutore Crumb. Che fine avevano fatto tutti quanti? Quello che conosceva stava per essere distrutto. Deepgate era in rovina. Un quarto della città era già precipitato, e catene, cavi e corde pendevano dai bordi da cui le strutture erano state strappate via. Strade intere penzolavano pericolosamente sull'abisso spalancato sotto di loro. Proprio in quell'istante ci fu un boato spaventoso e una parte di Lilley si sbriciolò e cadde. Il fuoco divampò nelle strade del quartiere, e le catene annerite si 426
intrecciarono al fumo. Il tempio stesso ondeggiò minacciosamente, simile a una figura sottile dalla lunga veste china a sbirciare in una buca ai propri piedi. Sul bordo orientale dell'abisso si ergeva un'enorme macchina: Dill non aveva mai visto niente di simile. Sembrava in fiamme, e i comignoli eruttavano un fumo rabbioso dalla sommità della sua calotta striata giallonerastra. Alla sua base lunghi bracci articolati sostenevano ruote dentate che stavano tagliando una delle catene di sostegno, sollevando scintille sull'intera città. L'esercito di Deepgate sciamava attorno a quell'enorme mostro, cercando di accostargli torri d'assedio e lunghe scale, un passo alla volta. Le navi da guerra lo attaccavano dall'alto con torrenti di pece bollente e piogge di dardi. «Devon», disse Rachel. Carnival osservò la devastazione. «Quel bastardo ha abbattuto il mio albero.» Le nuvole di fumo che aleggiavano sopra Deepgate li sollevarono all'altezza della flotta delle navi della Chiesa. I missionari erano schierati sui ponti e osservavano la battaglia, ma le loro navi non sembravano avere la minima intenzione di attaccare il Dente: si limitavano a ronzare in mezzo al fumo senza scopo apparente. Lo sguardo di Rachel si spostò dalle navi alle strade sottostanti. «Quei vigliacchi potrebbero almeno aiutarli a evacuare. Non stanno facendo niente.» I profughi lasciavano Deepgate a mandrie. La folla riempiva le strade di moltitudini che strisciavano e trascinavano i piedi. Molte persone portavano con sé i propri averi, o conducevano asini carichi di mobili, casse e barili. A migliaia erano già scesi verso l'accampamento dell'esercito, dove un frenetico luogotenente urlava ordini e cercava di incanalare i profughi verso la zona in cui le ultime file delle tende da campo si inoltravano nel deserto. Ma altre migliaia si stavano muovendo nella direzione opposta, convergendo verso il tempio al centro della città ferita. Fiumi di persone cercavano di filtrare attraverso la corrente contraria, finché le strade non furono completamente congestionate e cominciarono a scoppiare risse ovunque. Quattro corpulenti operai cercavano di farsi strada verso il tempio superando un'intera famiglia diretta invece nel senso opposto. La moglie stava gridando sul corpo esanime del marito caduto. Altre vittime bloccavano la 427
strada alle loro spalle, dove un cavallo sgroppava e scalciava in mezzo alla folla che spingeva per allontanarsi. «Qualcuno dovrebbe dire a quella gente cosa c'è nell'abisso», disse Rachel. «Così non sarebbero tanto ansiosi di raggiungere il tempio.» «Se anche glielo dicessi, otterresti solo di farti odiare», grugnì Carnival. Sorvolarono le strade intasate del Dedalo e la Lega dei Cordai, dove le fiamme divampavano ben oltre i bordi dell'abisso. Si fermarono quando raggiunsero quella macchina grande come una montagna. Sotto di loro infuriava la battaglia. I genieri stavano attaccando i cingoli della macchina con lance e arieti, e trascinavano le travi recuperate dalle torri d'assedio spezzate. Intanto i soldati avanzavano con gli scudi sollevati sopra la testa, per cercare di raggiungere le scale appoggiate contro la calotta. Dozzine di uomini cadevano sotto le salve di frecce. Si vedevano volare dei rampini, che però scivolavano via senza riuscire a fare presa sulla superficie liscia. Dill e le sue due compagne atterrarono sulla sommità della macchina, da dove una scala li condusse fino a un boccaporto. All'interno la resistenza fu strenua, eppure l'angelo sfregiato e l'assassina si liberarono con spaventosa efficienza degli uomini che cercarono di contrastarle. La catena che ancora le univa e la spada di Rachel rilucevano di sangue fresco quando alla fine raggiunsero il ponte. Devon era chino su un pannello di controllo ridotto all'essenziale e manovrava alcune leve concentrando la propria attenzione su ciò che accadeva all'esterno. Un uomo barbuto e coperto di tatuaggi era in piedi al suo fianco. Quando li vide, il suo unico occhio strabuzzò per la sorpresa e mormorò un avvertimento all'Avvelenatore. «Entrate, vi prego», disse Devon senza voltarsi. «Sarò da voi fra un momento.» Spinse e tirò qualche altra leva, prima di girarsi a fronteggiarli. Fuori lo stridio di metallo era cessato, e le ruote dentate si sollevarono, ora visibili attraverso la vetrata anteriore. «Questo è Bataba», disse Devon indicando l'uomo barbuto. «Sciamano degli Heshette e comandante di quelli che avete sterminato per arrivare fin qui.» Diede un'occhiata al sangue fresco sulla lama di Rachel. «Ho cercato di avvisarlo quando vi ho visto arrivare: sarebbe stato più semplice farvi scortare fin qui.» Scrollò appena le spalle. «Adesso naturalmente si è arrabbiato, e di sicuro sta dando la colpa a me.» Scacciò la questione con un gesto. «Il giorno della caduta di Deepgate, ecco un angelo, una sanguisuga 428
e un'assassina che emergono dall'abisso.» Fece scorrere lo sguardo dall'uno all'altro, prima di fermarsi a osservare la catena che univa Rachel e Carnival. «La Notte dello Sfregio dev'essere stata interessante.» «Perché stai facendo tutto questo?» Rachel abbassò la punta della spada, mentre con l'altra mano allentava la cantaveleno che aveva alla cintura. Devon sbuffò. «È quello che vogliono. Guarda.» Puntò il moncherino verso la finestra. «I fedeli convergono verso il tempio. Più veloce taglio, più loro diventano zelanti.» «Mezza città sta cercando di scappare.» «E se ce la fanno non li inseguirò. Non sono irragionevole.» «Ulcis è morto», disse Rachel. «I suoi arconti sono morti, Non c'è rimasto più niente laggiù.» Devon inarcò un sopracciglio. «Ne hai la prova?» Sembrava poco convinto. «Hai trovato una tomba?» «Me lo sono bevuto», disse Carnival. Devon aggrottò la fronte e si strofinò il mento. I suoi occhi saettarono da Carnival al pavimento e ritorno. Sollevò lo sguardo, divertito. «L'hai bevuto?» C'era adesso un'ombra di incertezza nella sua voce. «Ti sei bevuta un dio?» «Potrei berne anche un altro», disse lei. Dill sentì il sangue nell'aria, la pressione della violenza, come acqua che premeva su una diga sul punto di crollare. E come in risposta sentì qualcosa che cresceva dentro di lui, una forza che la respingeva. Non era già stato versato abbastanza sangue? Non erano già andate perdute troppe vite? Ne aveva abbastanza. «No», disse con fermezza. «Basta uccidere.» Fronteggiò Carnival: «Lascialo andare. Lasciali andare tutti». «Temo che non sia più possibile, ormai», disse Devon non senza dolcezza. «Basta», ringhiò Bataba. Afferrò Devon per la spalla e lo fece voltare. «La città: finiscila!» Intervenne Rachel: «Sciamano, non c'è niente sotto la città. Soltanto ossa». «Ossa!» rise Devon. «Che dovrei farci, con le ossa?» Poi il suo sguardo si fermò sulle ferite appena rimarginate sul petto di Dill. «Il vino d'angelo, l'hai trovato?» «Dill è morto», spiegò Rachel. «L'ho resuscitato.» 429
«Morto?» «Temo di essermi scordata della tua mano.» Dill era stupefatto. Ero morto? I suoi ricordi cominciarono a cristallizzarsi. Gli tornò in mente la battaglia sulla montagna d'ossa, e il dolore al petto prima che tutto si oscurasse. E poi si ricordò di essersi svegliato nella cella buia. Cos'era successo nel mezzo? Qualcosa... Un vuoto, l'oscurità. Ma aveva la sensazione che quell'oscurità celasse altri ricordi, che indugiavano appena fuori portata. «Per quanto tempo sono rimasto morto?» chiese. «Giorni», disse Rachel. «Forse una settimana, non so.» «Cosa ti ricordi?» chiese Devon. «Buio.» «E nient'altro?» Dill cercò di scacciare la nebbia dalla sua mente. C'era altro. Un sogno di figure in movimento. Forse anche un lampo di luce? Voci? Devon si accigliò. «Non basta.» Alle sue spalle Bataba si chinò improvvisamente sui controlli e afferrò una leva. «Nessuno di voi ha fede!» gridò. L'Avvelenatore si voltò. «Cosa? No...» Fece per afferrare la manica dello sciamano per fermarlo, ma il suo moncherino non poteva far presa. Bataba spinse la leva fino in fondo. I motori ruggirono. Devon e lo sciamano stavano lottando, entrambi combattevano per raggiungere i controlli. Il Dente oscillò, si inclinò in avanti, e d'un tratto si trovarono sull'orlo dell'abisso e precipitarono.
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33 CANTAVELENO
Ci fu una certa confusione quando Rachel si ritrovò spiaccicata contro la finestra del ponte, per poi essere scaraventata violentemente indietro quando la catena alla sua caviglia si tese. Andò a sbattere contro la parete di fondo e tutto il fiato le schizzò fuori dai polmoni. Un vibrante lamento venne dall'esterno. Il Dente rotolò, scivolò e si fermò sottosopra. L'enorme macchina era rimasta intrappolata, per un pelo, in ciò che restava della ragnatela di catene di Deepgate. Attraverso le finestre in frantumi sulla parete opposta, Rachel riuscì a distinguere nel groviglio gli anelli poderosi di una delle catene principali, e l'oscurità nera come la pece che c'era dietro. Uno degli anelli era stato quasi reciso dalle lame della macchina. E quell'anello si stava aprendo, si allargava. Carnival e Dill erano stati scaraventati agli angoli opposti del ponte e stavano cercando di rimettersi in piedi, storditi. Lo sciamano degli Heshette giaceva immobile fra loro, mentre Devon penzolava ancora aggrappato al pannello di controllo fissato a quello che era adesso diventato il soffitto. Rachel sentì il rumore di cavi e catene che si spezzavano, e il Dente si inclinò e scivolò di un paio di metri. La grande catena di sostegno gemette, e l'anello tagliato si aprì ancora di più. Alcuni calcinacci piovvero davanti alle finestre. Devon dondolava sopra la sua testa, imprecando, mentre lei si rimetteva in piedi e barcollava in direzione della finestra, chiamando Carnival. «Aiutami a spaccare il vetro.» Carnival e Dill la raggiunsero mentre Rachel picchiava sul vetro annerito con l'elsa della propria spada. Vedendo che non si rompeva picchiò più forte, con tutte le sue forze. Niente. «Ma di che diavolo è fatto?» urlò. «Fammi provare.» Carnival prese la spada e colpì con cattiveria. Una nuova crepa si aggiunse alle altre, ma il vetro non si ruppe. «Così non funziona», disse Rachel. «Proviamo dai corridoi: dobbiamo trovare un'altra via d'uscita.» 431
Proprio allora il Dente sussultò di nuovo. Altre catene secondarie si schiantarono, i cavi gemettero. Uno schianto, uno stridore di metallo, e scivolarono per altri due metri. «Non c'è tempo», disse Carnival. «Stiamo per precipitare.» I muscoli delle sue braccia si tesero mentre vibrava l'elsa d'acciaio contro il vetro, ancora e ancora. Una delle crepe si allargò. Ringhiando, Carnival si mise a battere furiosamente sul vetro, così veloce che Rachel non riusciva più a seguirne i movimenti. Poi si afflosciò, ansimando. «Sta cedendo», disse l'assassina. «Non abbastanza alla svelta.» «Fatemi provare.» Dill era venuto ad acquattarsi vicino a Carnival, la grande spada spuntata in mano. «Levati di torno, idiota», grugnì Carnival. Ma questa volta Dill la ignorò. Sollevò la pesante spada con entrambe le mani e la calò verso il vetro, punta in avanti. Il ponte vibrò per il fracasso quando la finestra esplose verso l'esterno. Carnival restò a fissarlo a bocca aperta. «Fuori!» Rachel agguantò Dill per la vecchia cotta di maglia e lo scaraventò fuori dalla finestra. «Ora tu», disse a Carnival. «Sbrigati, prima che...» Fu interrotta dallo schianto delle catene che si spezzavano. Il Dente cadde così d'improvviso che Rachel fu scagliata in alto. Urtò il gomito contro qualcosa di duro; il ginocchio le andò a sbattere contro il mento. La stanza roteò e lei rimbalzò contro una parete, o il pavimento, o il soffitto, non riusciva più a distinguerli. Poi qualcosa torse ferocemente la catena che aveva alla caviglia. Ancora aggrappata alla finestra, Carnival tirava la catena verso di sé, col vento che le turbinava attorno attraverso il vetro rotto. Per un assurdo momento a Rachel venne voglia di urlarle: Vattene, lasciami qui! Ma ovviamente Carnival non poteva andarsene senza di lei: erano ancora incatenate assieme. In realtà Carnival stava cercando di salvare se stessa. La mano dell'Avvelenatore afferrò Rachel per i capelli e la tirò indietro. «Resta con me un altro po', Spina.» Devon aveva incuneato il moncherino nel pannello di controllo. Il suo sguardo gelido si puntò su Rachel. Lei cercò di raggiungere la spada, ma 432
era caduta chissà dove, come pure il tubo di bambù. E poi si ricordò della cantaveleno alla sua cintura. La liberò dalle stringhe. Devon sogghignò. «Credi che farà qualche differenza?» Rachel affondò il dardo dietro di sé, ma mancò il bersaglio. Il ponte sussultava e si scuoteva, sbatacchiandola contro il pannello, ma Devon non la mollava. «Lasciami andare, tu...» Carnival diede uno strattone alla catena, trascinando via sia Rachel sia Devon. Per un attimo Rachel si trovò priva di peso, poi andò di nuovo a sbattere contro la finestra, vicino a Carnival. Devon le cadde addosso. Avvertì una fitta dolorosa al fianco e sentì che Devon tratteneva il fiato. Un'estremità della cantaveleno le si era infilata profondamente fra due costole, di lato, l'altra era penetrata nel petto di Devon, appena sotto il cuore. Sanguinavano entrambi, separati appena da dieci centimetri di asta insanguinata. No! Da che parte è la punta? La peste? Da che parte? Il viso di Devon si contrasse e spruzzi di saliva gli volarono dalla bocca. Cercò di sferrarle un pugno con tutte le sue forze, ma il moncherino le passò a un centimetro dal naso. «Accidenti!» ruggì. Poi Carnival la trascinò fuori dalla finestra, all'aria aperta. *** Dill si tuffò all'inseguimento dell'enorme macchina, le ali serrate e la punta della spada tesa davanti a sé a fendere l'aria. Lame da taglio, cingoli coperti di polvere e l'enorme massa della malconcia calotta del Dente roteavano sotto di lui. Quell'affare era grande quanto il tempio e ruotava su se stesso mentre precipitava. Scartò per evitare un enorme comignolo, poi si tuffò di nuovo. Per un attimo riuscì a scorgere le finestre del ponte. «Dill!» Carnival volteggiò sopra di lui, chiamandolo. «L'ho presa.» Allargò le ali di scatto e rallentò, lasciando che la macchina proseguisse la sua caduta nel buio. L'angelo sfregiato teneva stretto fra le braccia il corpo martoriato della ragazza. «Rachel?» Dill rimase senza fiato vedendo il sangue che le colava dalla 433
ferita al fianco. Non si mosse né aprì gli occhi, e l'angelo non riusciva a capire se respirasse ancora. «Rachel!» «L'accampamento della riserva», disse Carnival. «Là troveremo un dottore.» «Ma sei ancora incatenata a lei. L'esercito ti ucciderà.» Carnival grugnì e si slanciò verso il cielo, le ali che battevano come tamburi di guerra. Dill la seguì. Immaginava che, per essere un esercito, non fosse poi così grosso. *** Il Dente continuava a precipitare rotolando, vorticando e sussultando, ma l'Avvelenatore sapeva che sarebbe sopravvissuto alla caduta. Avrebbe sentito male, e si sarebbe spaccato tutte le ossa, ma alla fine sarebbe guarito. Ormai era diventato più di un essere umano, e le ossa rotte non significavano più nulla, perché dentro di lui ribolliva il vino d'angelo. Poteva sentire chiaramente le anime, rabbiose e furibonde, ognuna con la sua voce distinta. Erano parte di lui, e si rese conto che lo erano sempre state. Avrebbe trovato il modo per risalire in superficie, ci fossero anche voluti cent'anni. Se anche avesse dovuto risalire l'intero abisso a forza di corda e rampini, l'avrebbe fatto. E poi avrebbe finito ciò che aveva cominciato. Se Ulcis era morto, allora il resto dei suoi seguaci l'avrebbe seguito nell'oblio, avrebbe dato la caccia a Rachel Hael e l'avrebbe fatta soffrire per i suoi crimini. E Carnival: avrebbe rinchiuso quella sanguisuga in una cella e avrebbe guardato la sua fame che la distruggeva. La caduta non era altro che un inconveniente. Aveva distrutto la città. Li aveva sconfitti. Così si aggrappò alla finestra rotta e attese. Il Dente si rovesciò sottosopra, colpì la parete dell'abisso con uno schianto che mandò in pezzi ciò che restava della finestra del ponte. Devon era ancora aggrappato. L'aria penetrava fischiando attraverso i vetri in frantumi, lo frustava e gli strappava le lacrime dagli occhi. E lui restò ancora aggrappato. Doveva mancare poco, ormai. Certo l'abisso non sprofondava all'infinito. Si sentiva la testa leggera, la nausea, il sangue gli sgorgava dalla ferita al petto. Strinse i lembi dello squarcio e osservò la carne che cominciava a 434
richiudersi, la pelle che guariva. Sogghignò: le ferite mortali erano poco più che graffi, per lui. Qualunque culmine di sofferenza era sopportabile, per un certo periodo. Devon lo sapeva, era stato il suo lavoro per una vita. Un lavoro che poteva approfondire a suo piacere, adesso che aveva molto tempo davanti a sé. C'erano tante cose al mondo che poteva ancora imparare. Una strana sensazione, un brivido, gli percorse il petto. Come se i nervi si sfilacciassero. D'un tratto una seconda ferita si aprì un paio di centimetri sotto l'altra, e ne sgorgò un nuovo rivolo di sangue. Strano. Devon strinse la ferita con la mano, e sentì che cominciava a guarire di nuovo. Così va meglio. Solo un'aberrazione momentanea, niente di più. Il dardo doveva essere avvelenato. Che tipo di veleno? Frugò nella memoria. Non aveva importanza. La nuova ferita si stava cicatrizzando, e tutte le ferite sarebbero guarite allo stesso modo. Strinse i denti in attesa di uno schianto che doveva essere vicino. Una terribile sensazione di prurito gli invase il torace, le braccia, come se tutta la parte superiore del suo corpo pullulasse di pulci. Si aprirono altre cinque ferite: tre sul petto e due nella parte superiore del braccio. Sentì la pelle che si lacerava e i fluidi che gli inzuppavano la camicia. Il veleno si stava diffondendo. Oppure era una malattia? Devon si inumidì le labbra, il sudore gli imperlò la fronte. Scosse la testa, confuso. Anche le nuove lesioni si stavano richiudendo. Il Dente sprofondò ancora nell'abisso, rimbombando ogni volta che colpiva le pareti laterali. Devon continuava ad aggrapparsi, fradicio di sudore e in preda a un incontrollabile prurito. Si stavano aprendo dozzine di ferite, adesso: sul petto, sulla schiena, sulle braccia, sulle gambe e sulla faccia. Sarebbero guarite presto, lo sapeva. Le sue ferite guarivano sempre. Mr. Nettle si unì agli altri morti in fondo all'abisso. La sua gruccia rappezzata affondava tra ossa frantumate e detriti, mentre risaliva a fatica il pendio. In alcuni punti precipitavano ancora pezzi di calcinaccio, ma sembrava ci fosse una tregua, quindi forse il peggio era passato. Deepgate risplendeva in alto sopra di lui, piena di promesse. Per il momento gli avevano rubato l'anima di Abigail, anche se da un certo punto di vista era contento che avesse trovato temporaneamente rifugio in un angelo. La povera ragazza amava gli angeli. Ma avrebbe ritrovato 435
quell'anima dopo aver recuperato il corpo. Avrebbe riavuto indietro sua figlia. Era un razziatore: poteva ritrovare qualunque cosa. I frugaossa lo ignorarono. Erano troppo impegnati a razzolare tra i tesori appena caduti, a recuperare dall'ammasso di ossa e cenere i fogli di lamiera, i mobili rotti, le catene e i pezzi di legno. Alcuni gridavano e litigavano per il bottino, altri si limitavano a singhiozzare o a levare il viso verso Deepgate per pregare. Ulcis era morto, ma molti avevano scoperto un nuovo dio nella sua scia. Dopotutto, era la città che aveva dato loro tutto quello che avevano. In alto, molto in alto, una grande ombra riempiva il cerchio di cielo. Qualcosa si muoveva nell'aria, una flebile vibrazione che si propagava nell'abisso. Anche i frugaossa la sentirono, e in breve tutti gli sguardi furono rivolti in alto. L'ombra si ingigantì, fino a coprire tutta la luce che pioveva dall'alto. Gli scavatori la osservavano timorosi, sollevando le braccia in adorazione mentre l'oscurità si infittiva. Mr. Nettle tornò a concentrarsi sulla sua ricerca, arrancando su per il pendio mentre la gamba gli tremava per il dolore e la gruccia slittava e affondava. Doveva ancora trovare Abigail, da qualche parte. Sapeva che doveva essere da qualche parte. Ed era vicina. Lo sapeva. Se lo sentiva nelle ossa.
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EPILOGO
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Stavano camminando sotto le stelle e sotto una sottile luna gelida, seguendo l'ampia traccia che i cingoli del Dente avevano lasciato durante il percorso da Trononero. «Mi dispiace», disse Dill. Rachel sbuffò. «Smettila di chiedere scusa.» Il respiro le si condensava davanti mentre parlava. «Sono io che dovrei scusarmi, per amor di dio. Avrei dovuto proteggerti, e invece ti ho lasciato morire.» Quell'intervallo di tempo per Dill restava tuttora avvolto nelle tenebre, però sapeva che i suoi ricordi c'erano ancora, e sarebbero tornati a tempo debito. «Solo per un po'.» La luce delle stelle proiettava l'ombra delle sue ali sulle dune. Le Sabbiemorte si increspavano fino all'orizzonte, e risplendevano debolmente come vecchio argento ondulato. «Credi che l'Avvelenatore sia sopravvissuto alla caduta?» «Probabile.» «E alla peste?» Rachel appoggiò una mano sulle costole fasciate. «La cantaveleno era molto vecchia. Non so nemmeno se la malattia che conteneva fosse ancora attiva.» «Ma se lo era?» «Allora credo che ce l'avrebbe con me.» Sussultò e si strinse il fianco. «Ti senti bene?» «Quel maledetto dottore: mi avesse messo un punto diritto!» «Colpa di Carnival», spiegò Dill, e alzò lo sguardo per guardarla volteggiare alta sopra di loro, una sagoma scura sullo sfondo delle stelle. «Nella tenda del dottore, ce l'aveva appena a distanza di catena. Non c'è da meravigliarsi che gli tremassero le mani.» «La Notte dello Sfregio tornerà di nuovo», disse Rachel.
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Dill non rispose. Le avvolse attorno una delle sue ali per scaldarla. «Dove andremo?» chiese. Lei alzò le spalle. «Le città fluviali? Di là dal mare?» «E se non finisce mai? Se mi stanco? Non so nuotare.» «Ti insegnerò io.» «E se non ce la faccio a imparare?» Lei sospirò. «Tieni alta la testa, Dill. Stai sempre troppo curvo.» Continuarono a camminare in silenzio. «Dill?» «Sì.» «Sei stato via per tanto tempo.» Esitò. «Quando eri morto, intendo.» I suoi occhi cercarono quelli di Dill. «Non ti ricordi niente?» Lui ci rifletté, e si fermò a metà di un passo. Di colpo gli era tornato in mente tutto. «Che c'è? Cos'hai visto?» «Iril...» cominciò.
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RINGRAZIAMENTI Ringrazio sinceramente Simon Kavanagh, Peter Lavery e Juliet Ulman, tre persone che possiedono una così formidabile ricchezza di talento da farmi chiedere come possa restarne ancora per il resto di noi nella banca genetica comune. Grazie a Susi Quinn per le esaurienti critiche e per i fantastilioni di cartucce che ha usato (te le ricompro, giuro), a Justin Chisholm, Barnaby Dellar e Jocelyn Ramsay, altri tre buoni amici che hanno dedicato un sacco di tempo e di inchiostro per offrirmi buoni consigli. Un grazie enorme al mio gruppo di scrittura: Gavin Inglis, che mi ha aiutato ad agguantare l'inizio della storia, Martin Page per la sua conoscenza di armi antiche e per quei verbi che gli ho rubato; grazie anche a Stefan Pearson, Andrew J. Wilson, Hannu Rajaniemi, Charlie Stross, Andrew C. Ferguson, Jack Deighton, Jane McKie e Guthrie Stewart, per il loro incoraggiamento e per i loro feedback. La mia gratitudine a tutti quelli della Macmillan per il loro duro lavoro: Rebecca Saunders, Liz Cowen e Jon Mitchell e molti altri. E, se non vi ho menzionato, è solo perché ero troppo euforico quando ci siamo incontrati. Grazie a Oliver Cheetham e Dagmar Tatarczyk per il fantastico video, e a Bret, il proprietario del pub Welsh Nun di Koh Chang, per le chiacchierate. E tutto il mio amore a Caragh: senza il tuo sostegno questa pagina e tutte le precedenti sarebbero probabilmente bianche.
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