Bruno Vespa.
IL CAMBIO. Uomini e retroscena della nuova Repubblica.
ARNOLDO MONDADORI EDITORE.
Il cambio.
A mio padr...
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Bruno Vespa.
IL CAMBIO. Uomini e retroscena della nuova Repubblica.
ARNOLDO MONDADORI EDITORE.
Il cambio.
A mio padre. Forse si sarebbe divertito. I protagonisti. Tutti gli uomini del Presidente. Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio dei ministri già presidente Fininvest. Gianni Letta, sottosegretario alla Presidenza, già vicepresidente Fininvest Comunicazioni. Cesare Previti, ministro della Difesa. Giuliano Ferrara, ministro per i Rapporti con il Parlamento e portavoce del governo. Giuliano Urbani, ministro per la riforma della Pubblica Amministrazione. Niccolò Querci, assistente personale del presidente del Consiglio. Antonio Tajani, parlamentare europeo e portavoce di Forza Italia. Già capo ufficio stampa della Presidenza del Consiglio. Gianni Pilo, deputato di Forza Italia e amministratore delegato Diakron. Miti Simonetto, responsabile per l'immagine del presidente del Consiglio.
Casa, dolce casa. Fedele Confalonieri, presidente Fininvest. Franco Tatò, amrninistratore delegato Fininvest. Marcello Dell'Utri, presidente Publitalia.
Parenti/serpenti Umberto Bossi, segretario Lega Nord. Roberto Maroni, ministro dell'Interno e vicepresidente del Consiglio dei ministri. Francesco Speroni, ministro per le Riforme Istituzionali. Giancarlo Pagliarini, ministro del Bilancio. Vito Gnutti, ministro dell'Industria.
Donna, giovane, cattolica, leghista. Irene Pivetti, presidente della Camera dei deputati.
Alleati di ferro, o no? Gianfranco Fini, segretario del Msi, coordinatore di Alleanza nazionale. Giuseppe Tatarella, vicepresidente del Consiglio dei ministri e ministro delle Poste e Telecomunicazioni.
I Gli alleati dubbiosi. Pier Ferdinando Casini, segretario del Centro cristiano democratico. Clemente Mastella, ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale. Francesco D'Onofrio, ministro della Pubblica Istruzione.
Comunisti, postcomunisti. Enrico Berlinguer, segretario del Pci (1972-1984). Achille Occhetto, segretario del Pci (1987-1990) e del Pds (1990-1994). Massimo D'Alema, segretario del Pds. Walter Veltroni, direttore dell'Unità. Massimo Cacciari, sindaco di Venezia.
Democristiani, pattisti, popolari. Mino Martinazzoli, segretario della Dc (1992-1994) e del Partito popolare italiano (gennaio-giugno 1994). Rocco Buttiglione, segretario del Partito popolare.
Ciriaco De Mita, segretario della Dc (1982-1989) e presidente del Consiglio dei ministri (1988-1989). Mario Segni, già deputato della Dc, leader del Patto Segni.
Procuratori di Giustizia. Ovvero: Di Pietro vs. Berlusconi Alfredo Biondi, ministro di Grazia e Giustizia. Francesco Saverio Borrelli, procuratore capo della Repubblica in Milano. Gerardo D'Ambrosio, procuratore aggiunto. Antonio Di Pietro, sostituto procuratore. Piercamillo Davigo, sostituto procuratore. Gherardo Colombo, sostituto procuratore. Tiziana Parenti, presidente della Commissione parlamentare antimafia, già sostituto procuratore in Milano. Luciano Violante, vicepresidente della Camera dei deputati, già giudice istruttore in Torino, responsabile per il Pci dei problemi della Giustizia e presidente della Commissione parlamentare antimafia (1992-1994).
Il Quirinale. Oscar Luigi Scalfaro, presidente della Repubblica. Marianna Scalfaro, sua figlia. Gaetano Gifuni, segretario generale della Presidenza della Repubblica. Gaetano Scelba, capo del servizio stampa della Presidenza.
Sisde e dintorni. Maurizio Broccoletti, già direttore amministrativo del Sisde. Michele Finocchi, già capo di gabinetto del Sisde. Gerardo Di Pasquale, già capo del reparto logistico del Sisde. Antonio Galati, responsabile dei fondi riservati del Sisde. Rosa Maria Sorrentino, già funzionaria dell'ufficio logistico del Sisde. Riccardo Malpica, già direttore del Sisde. Matilde Martucci, sua segretaria al Sisde.
Nicola Mancino, ministro dell'Interno (1992-1994). Raffaele Lauro, suo capo di gabinetto. Angelo Finocchiaro, già direttore del Sisde. Alessandro Voci, già direttore del Sisde. Adolfo Salabé, architetto, consulente del Quirinale e del Sisde. Vittorio Mele, direttore degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia. Già procuratore capo della Repubblica in Roma. Michele Coiro, procuratore capo della Repubblica in Roma.
Gli assenti. Giulio Andreotti, cinque volte presidente del Consiglio dei ministri tra il 1972 e il 1992. Bettino Craxi, presidente del Consiglio dei ministri (1983-1987) e segretario del Psi (1976-1993). Arnaldo Forlani, presidente del Consiglio dei ministri (1980-1981) e segretario della Dc (1969-1973 e 1989-1992). Francesco De Lorenzo, già ministro della Sanità. Paolo Cirino Pomicino, già ministro del Bilancio. Severino Citaristi, segretario amministrativo della Dc (1986-1993).
Una notte d'estate il cavaliere... Un sorriso. Sto guardando il suo sorriso. Ambiguo? No, direi di no. Accattivante? Abbastanza, ma senza esagerare. Cordiale, contenuto, educato? Sì, qualcosa del genere.
Va bene, sorrido anch'io. Non passano mai i secondi che separano il «silenzio!» dell'assistente di studio dall'«orologio!» seguito subito dal «nero!» e dalla sigla della trasmissione. Sorrido disteso, per guadagnare un'altra manciata di secondi... Ma dove guarda il Cavaliere? Non sta guardando me. Mi volto. Non sta guardando neanche Paolo Vasile, il direttore del Centro di produzione Fininvest di Roma che non
lo molla un momento durante le apparizioni televisive. E non guarda nemmeno la telecamera alle mie spalle, quella giusta per i suoi primi piani. Ragazzi, questa è grossa. Il Cavaliere non sta guardando nessuno. Pensa al suo pubblico, ai milioni di persone che lo vedranno tra poco e prova il sorriso. Sì, prova il sorriso. In tanti anni di mestiere credevo di aver catalogato al completo la tipologia dell'attesa televisiva: gente sicura di sé e gente che se la fa addosso per l'emozione, gente che si stira i nervi della faccia e che si rischiara la voce. Ma uno che ha studiato l'intervista al punto di provare il sorriso d'apertura, be' no: giuro che è la prima volta.
E il pomeriggio di martedì 15 marzo 1994. Mancano dodici giorni alle elezioni e Berlusconi ha accettato il mio invito ad illustrare il programma di Forza Italia nella rubrica «Oltre le parole». Al mattino, aprendogli le finestre di casa su piazza Navona, il silenzioso Alfredo gli ha portato in camera, con la colazione, il profumo della precoce primavera romana di
16 17 quest'anno e il numero appena uscito della rivista americana «Newsweek» che esibisce in copertina una sua foto. Soprabito blu sportivo, maglione girocollo dello stesso colore, camicia aperta a quadrettini biancocelesti. Svettante, verso il titolo del giornale, il sorriso.
Lo stesso che avrebbe provato nel pomeriggio davanti alle telecamere e che invano avrei cercato di ricambiare, illudendomi che il Cavaliere stesse sorridendo a me e non alla Storia.
Trovare una bella foto da copertina non è facile. Non è facile, per la verità, nemmeno trovarne una brutta. Lo sanno bene all'«Espresso», dove hanno dovuto impegnarsi molto per pubblicare nell'arco di tutta la campagna elettorale soltanto foto in cui Berlusconi assomiglia all'orco di buona memoria.
«Newsweek», come tutti i grandi giornali, intendeva inviare un proprio fotografo. Ma Berlusconi non aveva tempo per sottoporsi a una lunga seduta. E forse non ne aveva nemmeno voglia. E magari non si fidava nemmeno troppo. Il Cavaliere è un professionista del settore. Miti Simonetto, che lavora con lui da tredici anni, lo ha assistito durante tutta la campagna elettorale e, quando Berlusconi diventerà presidente del Consiglio, non esiterà a dimettersi dalla Fininvest per seguirlo come consulente a Palazzo Chigi.
La ferrea Miti dunque non abbocca. Offre le «sue» foto di Berlusconi. Ma stavolta è «Newsweek» a non starci: decide allora di rivolgersi a una importante agenzia e - quel che più conta - pubblica una foto che, seppure non fornita da Berlusconi, dà un'immagine molto gratificante e positiva del Cavaliere. Intrigante anche il titolo di «Newsweek»: Il Principe Mercante. Secco il sommario: «Il miliardario Silvio Berlusconi può diventare il prossimo primo ministro italiano». All'interno, sei pagine d'inchiesta, una d'intervista e tante foto di Berlusconi con qualche spruzzo di Occhetto, Fini, Segni e Bossi. La chiave dell'articolo è in un'affermazione e in una domanda: Berlusconi sta cavalcando il rifiuto montante contro il vecchio sistema di fare politica. Ma cambierà realmente qualcosa?
Nessuno lo sa, in questo profumato pomeriggio di primavera negli studi Rai al Nomentano: la vecchia e gloriosa Dear Film, piccola Cinecittà di Roma Est dove nacque e prosperò la Settimana Incom, il cinegiornale degli anni Cinquanta stroncato dalla nascente televisione.
Nessuno sa come andranno le elezioni. Ma Berlusconi ormai fa notizia anche se si soffia il naso. Quando arrivo nel cortile che introduce agli studi, vedo che il Gran Circo delle Occasioni Speciali è al completo. Niente giornalisti perché in sciopero. Ma i fotografi ci sono tutti: gli specialisti di politica e quelli dello spettacolo, le grandi agenzie e i piccoli freelance. Poi c'è la polizia. E i carabinieri. I funzionari Rai addetti al ricevimento degli ospiti importanti sono schierati a fare gli onori di casa.
I fotografi vengono dall'altra cittadella Rai di Saxa Rubra dove il Cavaliere è andato a registrare una tribuna elettorale approfittando per fare campagna anche lì, in casa del Servizio Pubblico, il Nemico Istituzionale. Gli sfilano sotto il naso gruppi di kamikaze aziendali con la maglietta «Forza Rai»: il Cavallo di viale Mazzini schiaccia il Biscione di Arcore. Lui sorride (sempre quel sorriso) e si vendica tuffandosi su una scolaresca in visita, provocando gridolini e svenimenti di gruppo e firmando tanti autografi da fare invidia a Baggio. E i fotografi lì, a macinare rullini su rullini.
«Non avete fatto indigestione?» chiedo al gruppo schierato. Nemmeno per idea. E quando arriva la Thema del Cavaliere, preceduta e seguita dalle due vetture della scorta priva-
ta, ecco i flash che lo massacrano di nuovo.
Berlusconi indossa la divisa elettorale: doppiopetto grigio, camicia celeste con il collo a punte in giù, cravatta classicissima fumo di Londra a piccoli pois bianchi. Quasi un abito da cerimonia.
Lo accompagnano il capo ufficio stampa, Antonio Tajani, già redattore del «Giornale» di Montanelli, e l'assistente personale Niccolò Querci.
Sulla porta si unisce al gruppo Paolo Vasile. Vecchia volpe del cinema e ottimo professionista della tivù, lui è il Gran Visir di Berlusconi. n sapore del Mulino Bianco
Gli studi della Dear sono per Vasile una specie di Mulino Bianco. C'è dappertutto sapore di casa, cioè di cinema, il cinema romano dei bei tempi. Che donne, ragazzi, per il giovane direttore di produzione dei film di Steno e di Festa Campanile, di Sergio Corbucci di Marco Vicario. Che bel giro con Tognazzi e Monica Vitti, con Ornella Muti e Renato Pozzetto. Ma il grande cinema è già al tramonto quando nell'83 a Vasile telefona Sergio Parenzo, che nella Fininvest ancora in fasce si occupa dell'acquisto di filrn. Canale 5 è nato da tre anni, produce poco e quasi tutto a Milano. A Roma l'emittente ha solo un piccolo studio in piazza Adriana e produce soltanto «n pranzo è servito» con Corrado al teatro Palace. Chiede dunque Parenzo a Vasile: «Perché non ci metti su un centro di produzione tv? Il cinema è il cinema, ma la Tv è il futuro». Vasile accetta e comincia a guardarsi intorno. La Rai è concentrata in via Teulada e si concede qualche usci-
ta il sabato sera al Teatro delle Vittorie. Vasile comincia a produrre qualcosa alla Dear Film, poi nei teatri della Safa Palatino. La Dear non sarebbe male, ma la Rai ci è arrivata prima e comincia ad allargarsi. Resta la Safa, dove Alberto Sordi ha girato quasi tutti i suoi film. Il Palatino è bello, gli studi pure: Vasile convince Berlusconi a farci il quartier generale romano delle sue Tv. Ma quando, il 14 marzo, torna dopo tanto tempo alla Dear Film, Vasile sente di nuovo il profumo del Mulino Bianco.
A proposito: perché Vasile va alla Dear il 14 marzo quando l'intervista con Berlusconi è fissata per il 15 pomeriggio? «Per restituire al Cavaliere un po' dell'umanità persa negli spot elettorali» risponde a chi lo incrocia nei larghi corridoi del Centro di produzione Rai Nomentano, tra le diavolesse di «Tunnel» e le ragazzine che sperano in un'inquadratura a «Domenica In».
Vasile ha studiato a lungo come «vendere» alle telecamere il prodotto Berlusconi in campagna elettorale ed è arrivato alle seguenti conclusioni.
Un uomo politico è tecnicamente diverso dall'attore che fa ridere o fa innamorare. L'uomo politico deve dare una sensa-
zione di realtà, di immediatezza, deve spezzare il diaframma che si crea tra il pubblico e la rappresentazione televisiva del personaggio. «Se Berlusconi è stanco,» dice Vasile «bisogna far capire agli spettatori che è stanco. E un uomo come loro, che ha lavorato tutto il giorno e la sera, quando entra nelle case attraverso la Tv, è stanco morto come la gran parte di
quelli che stanno ad ascoltarlo.»
Il pubblico è convinto che, se un'inquadratura viene bene o viene male, merito o demerito sono del cameraman e della telecamera. Questo è vero solo in parte. Il vero taglio dell'inquadratura viene dato dalle luci. Ai tecnici Rai della Dear, Vasile chiede la cortesia di fare molta attenzione alle luci su Berlusconi: devono avere un taglio estremamente realistico, ma al tempo stesso con qualche concessione alla morbidezza. Perché? «Ma perché se non dai alle luci un minimo di morbidezza, un brufolo in televisione ti diventa un vulcano» dice Vasile, girando il coltello nell'antica piaga del vostro autore che, avendo più di un brufolo, si è prodotto negli anni in innumerevoli quanto spettacolari eruzioni.
Allora si bada a un controluce meno impietoso, si evitano i primissimi piani, magari si monta un cross-screen, un filtro per la telecamera che ammorbidisce i lineamenti senza alterarli. Molti accorgimenti, insomma, per restituire al personaggio Berlusconi la sua piena naturalezza. Per questo occorre evitare qualunque appesantimento di trucco. Ma, al tempo stesso, un minimo di trucco serve perché anche la pelle più levigata, secca e luminosa e la luce più morbida possono sortire effetti devastanti.
Per evitare problemi Berlusconi arriva già pronto e alla truccatrice della Rai concede soltanto qualche minuto per i ritocchi.
Eccolo, dunque, il Cavaliere alla sua prima apparizione televisiva, che in attesa del «silenzio!» dell'assistente di studio ha un sorriso per tutti e uno particolare per la telecamera
(quella con il cross-screen?) che tra un momento l'inquadrerà. «Oltre le parole» è una trasmissione molto semplice. In una cornice spartana, il padre della scienza politica italiana, Giovanni Sartori, spiega in un centinaio di secondi che cosa si-
20 21 gnifica Polo delle Libertà (nel caso di Berlusconi) o Centro, Destra, Sinistra (per gli altri ospiti).
All'intervistato restano poi circa nove minuti per rispondere a una decina di domande molto secche sul suo programma elettorale. Berlusconi risponde come un treno. Conosce benissimo la parte, sorride, ammicca, ammonisce, rassicura, promette. Parla del famoso milione di posti di lavoro, del rilancio della scuola pubblica e di nuove opportunità per quella privata, della riduzione delle tasse e di una gestione privata degli ospedali E quando gli parli del famoso impiccio delle troppe Tv, lul dice che è pronto a vendere, ma non a svendere. Finito? Finito. Nuovo sorriso, stretta di mano a tutti gli uomini dello studio e poi di nuovo via verso le elezioni. Anzi, verso la vittoria, perché, mentre tutti i candidati vanno dalla cartomante a chiedere come andrà il 27 marzo, a lui i sondaggi di Gianni Pilo hanno già assicurato la vittoria.
Noi della strada restiamo un po' frastornati dinanzi a queste certezze, ma quando l'accento toscano di Luigi Ricci, implacabile analista di indici di ascolto e flussi di pubblico, mi fornisce i dati minuto per minuto del breve show di Berlusconi, a Gianni Pilo comincio a crederci un po' anch'io: solo
nel caso Moro, forse, era capitato che il pubblico in ascolto quadruplicasse in dieci minuti.
Arriva ad Arcore il Diavolo Tentatore
Berlusconi in Tv, dunque. Le ultime volte c'era andato per parlare del Milan. Anche qui col sorriso, visti i tre scudetti consecutivi. Molto tempo prima, forse, per parlare del sistema televisivo. Ma se ne è persa la memoria. Mai aveva parlato di politica. Gli imprenditori non lo fanno d'abitudine. I taccuini dei cronisti non hanno mai raccolto da Giovanni Agnelli più di una battuta, di un segnale. Oualcosa di più da Carlo De Benedetti, con tutte le conseguenze del caso. Ma scendere in campo personalmente come leader politico per ogni grande imprenditore è stato semplicemente inconcepibile da quando esiste l'Italia unita. Perché, dunque, Silvio Berlusconi s'è deciso a giocarsi alla roulette di Montecitorio il proprio futuro e quello delle sue aziende?
Il Diavolo Tentatore è stato, suo malgrado, un elegante studioso di 58 anni. Giuliano Urbani, professore di Scienza della politica alla Bocconi di Milano, mi riceve nell'estate del '94 nel suo studio di ministro per le Regioni e la Riforma della Pubblica Amministrazione. Palazzo Vidoni porta i segni di due mani inconfondibili: quella di Raffaello, che forse ne ha progettato una facciata e vi ha lasciato alcuni affreschi, e quella di Starace, che ha commissionato altri affreschi, con aquile e fasci, nelle sue stanze di segretario del Pnf, oggi occupate dal placido professore al quale si deve l'ingresso in politica di Berlusconi.
Urbani sorride volentieri e non ha l'aria di uno a caccia di
rivalse. Ma la vita gli ha riservato qualche buona soddisfazione. Negli anni Settanta, quando al Tgl facevamo dibattiti ideologici su comunismo e sistema capitalistico (Il Pci è un partito democratico? Esiste la Terza Via di Berlinguer?) ed eravamo attentissimi a coprire tutte le aree politico-culturali del paese (a noi sembrava pluralismo. O era lottizzazione delle idee?), il giovane professor Urbani veniva invitato tra gli ultimi quando ci si accorgeva che dinanzi alle falangi bianche (Augusto Del Noce o De Rosa o Scoppola) e rosse (Spriano o Vacca o Boffa), accanto agli ex marxisti critici (Colletti), mancava l'area liberaldemocratica. E Urbani veniva volentieri, diceva cose molto sensate, ma non se lo filava nessuno perché fin da allora il problema centrale era non solo e non tanto dove dovesse andare il Pci, ma dove dovessero andare i cattolici: restare al centro, incoraggiare le prime timide scelte riformiste di quel Craxi che aveva appena soppiantato De Martino, allearsi col Pci nello storico compromesso invocato da Berlinguer dopo la tragedia del Cile del '73, oppure, come avrebbe detto Bossi vent'anni dopo, prendere i voti a destra e gestirli a sinistra?
Contava poco, allora, il giovane professor Urbani e certo non avrebbe sospettato che un paio di decenni più tardi la crisi dei giganti lo avrebbe proiettato al centro della politica italiana accanto a un suo coetaneo che, ai tempi del dibattito sulla Terza Via del Pci, quando pensava in grande aveva in mente Milano Due.
«Siamo nel giugno del '93» racconta Urbani «tra le due tornate elettorali che avrebbero portato come sindaci Formentini a Milano e Castellani a Torino. La nuova legge elettorale
per il Parlamento è ormai pronta, anche se non si conoscono ancora alcuni aspetti come lo scorporo dei voti e altri tecnicismi inventati da Mattarella. Faccio un giro di conferenze presso molti Rotary e molte associazioni imprenditoriali: l'Assolombarda a Milano, l'Unione Industriale di Torino, le strutture omologhe di Bergamo, Brescia e altre città. Dico che la nuova legge elettorale costituisce a rnio giudizio una jattura, ma presenta anche un'opportunità. La jattura è questa: la sinistra è la sola ad aver capito che, unita, col 30 per cento dei voti, cioè meno di un terzo, può conquistare 440 seggi alla Camera, cioè più di due terzi. Il nuovo sistema elettorale nasce per far confrontare due contendenti, ma qui il contendente è uno solo. E le gare con un solo concorrente», sorride Urbani attingendo alla sua formazione anglosassone, «sono unfair, ineleganti. Ma accanto alla jattura, c'è un'opportunità. Che è questa. Per costruire un polo concorrente a quello di sinistra centrato sul Pds non c'è bisogno di un grande partito, con un forte apparato, una mastodontica struttura propagandistica. E sufficiente presentare nei diversi collegi uninominali persone molto rispettabili con forte radicamento locale. Nel sistema proporzionale, per quasi cinquant'anni sono scesi in competizione i partiti. Nel sistema maggioritario, competono le persone. Tutto sta a verificare se il mondo che non si riconosce nella sinistra sia in grado di schierare persone adeguate collegio per collegio. In questo caso si potrà competere.»
Nelle elezioni del '94 questo risulterà solo parzialmente esatto. E vero che né Forza Italia né il Polo delle Libertà hanno potuto mettere in piedi un apparato nemmeno lontanamente comparabile con quello del Pds. Ma è anche vero che moltissimi elettori hanno votato «Berlusconi» senza
nemmeno conoscere il signor Rossi del proprio collegio. Lasciamo continuare il professor Urbani nel suo racconto del giugno '93.
~
«E Agnelli mí disse: "Ne ha parlato con Berlusconi?"»
«Il 22 giugno espongo le mie tesi allo stato maggiore della Fiat. Anche lì vengo ascoltato con interesse, ma non tira certo aria di coinvolgimento operativo. Fino a quando l'awocato Agnelli non mi chiede: "Ne ha parlato con Berlusconi?".»
L'avvocato Agnelli è un interlocutore assai piacevole. E sempre molto documentato su tutto, come dimostra la pila di libri pazientemente rinnovata ogni giorno dalle signore che custodiscono l'anticamera del suo studio, all'ultimo piano di corso Marconi, 10. E chiede a tutti di tutto. Domande secche e mirate, alle quali talvolta lascia seguire un giudizio breve, ma ben piantato. Che cosa può averlo indotto a chiedere a Urbani: «Ne ha parlato con Berlusconi?». I rapporti tra i due sono stati sempre buoni, ma non è un segreto che l'Avvocato abbia mantenuto una certa distanza con B-~rlusconi,
come del resto con la ristretta rosa del gruppetto di testa dell'imprenditoria italiana (De Benedetti, per esempio, e a suo tempo Gardini). L'Impresa Privata in Italia è lui, senza discussione, da trent'anni. E, prima di lui, era Vittorio Valletta. La Fiat, insomma. Il resto è Intendenza. E l'Intendenza, come si sa, è destinata a seguire. Quando, subito dopo la «marcia dei quarantamila» dell'80, chiedo all'Avvocato se sia disposto a un confronto televisivo a due per «Ping-pong» con un leader dell'industria pubblica, lui mi risponde: «Lei pensa naturalmente al presidente dell'Iri». Non gli è venuto nemmeno in mente che il suo interlocutore potesse essere, che so, il presidente dell'Alfa Romeo. E a ragione. Che cosa può aver dunque indotto Agnelli a suggerire Berlusconi come interlocutore di Urbani? La conoscenza del carattere avventuroso del Cavaliere? La consapevolezza che, se le sinistre andassero al potere, Berlusconi e le sue aziende di comunicazione sarebbero spazzate via in ventiquattr'ore? O la valutazione un po' ironica che soltanto chi si è affacciato da poco sul proscenio della Grande Impresa può scottarsi le mani con una follia del genere?
Fatto sta che il 22 giugno alla domanda di Agnelli: «Ne ha parlato con Berlusconi?» Giuliano Urbani risponde inaspettatamente: «Non lo conosco».
Non è stato Agnelli a informare Berlusconi dell'iniziativa di Urbani. Ne ha fatto invece cenno a Fedele Confalonieri, amico da sempre e braccio destro del Cavaliere, qualcuno dei molti imprenditori piccoli e medi awicinati dal professore a Milano e nella ricca e inquieta provincia lombarda. Così la mattina del 29 giugno 1993, giorno dedicato dalla Chiesa al ricordo del martirio degli apostoli Pietro e Paolo, è Silvio
Berlusconi a chiamare al telefono Urbani: «Viene a prendere un aperitivo da me stasera ad Arcore? Bene, facciamo alle sette».
Urbani esce alle sei e mezzo dalla sua casa di via Canonica, ai margini del Parco Sempione, e avverte la moglie che rientrerà per cena. Tornerà, invece, alle due del mattino.
Berlusconi riceve Urbani nella sala da pranzo di Villa San Martino, la stessa che usa per fare le riunioni del suo staff al completo. L'ospite viene invitato a cena e Urbani accetta di buon grado, visto che il Cavaliere è l'unica personalità di rilievo che non si limita a salutare le sue affermazioni con sterili sorrisi di compiacimento. Michele, il cuoco di casa che sarà sfidato ai fornelli dalla signora Maroni dopo la vittoria elettorale, va sul sicuro con i piatti classici che piacciono al Cavaliere: risotto, roast-beef con ricca guarnizione di verdure e la sua famosa panna cotta. Prima di cena e dopo cena, sei ore di discussione fittissima, alle quali partecipa parzialmente il solo Niccolò Querci, assistente personale di Berlusconi, che conosce Urbani per aver conseguito proprio con lui alla Bocconi uno dei master in comunicazione d'impresa promossi dalla Publitalia del Cavaliere d'accordo con le cinque università milanesi.
Berlusconi sottopone l'ospite a un interrogatoriO fittissimo, secondo il costume dell'avvocato Agnelli. Ma aggiunge molte affermazioni proprie.
«Col Cavaliere ho sfondato porte aperte» racconta Urbani. «Gli dicevo le cose che lui pensava.»
«Già prima della visita di Urbani» mi conferma Berlusconi «avevo capito che soltanto un'aggregazione delle forze moderate avrebbe potuto contrastare la sinistra. Ma i primi contatti con gli uomini politici dell'area di centro erano stati deludenti.»
E il timore per il suo futuro personale a rendere Berlusconi così sensibile alle tematiche prospettategli da Urbani o un'angoscia reale per le sorti di un paese che lascia una democrazia imperfetta e consociativa per sposarne ancora una più imperfetta, perché guidata da una sola forza priva di avversari e senza alcun bisogno di consociarsi con qualcuno?
«All'inizio» dice Urbani «trovo in Berlusconi un cocktail di sentimenti in cui l'allarme individuale è una componente dominante all'80 per cento.
Un allarme non per se stesso o per la propria famiglia: un imprenditore di questo livello può andarsene a vivere splendidamente dove vuole in qualunque momento. Un allarme fortissimo per il futuro delle sue aziende e delle migliaia di persone che vi lavorano. Non dimentichiamo che nell'estate del '93 la guerra contro la Fininvest è molto forte e la tentazione di cancellarla, che è sempre stata presente in certe aree del Pds e della sinistra democristiana, comincia a materializzarsi sui giornali. Ma l'elemento più forte nell'animare Berlusconi è stato il rapporto con i suoi. Nessun imprenditore del suo livello ha con i collaboratori il rapporto che ha lui. Con loro ride, scherza, sono amici sul serio. Quando parla di gioco di squadra, mutuando dal linguaggio sportivo, dice la verità.»
Urbani sta dicendo che Berlusconi ama circondarsi di una platea che lo ama incondizionatamente? «No, Berlusconi sa ascoltare. E quando parla lui, fa il verbale anche di quello che hanno detto gli altri.»
26 27 Questo ritratto del Cavaliere mi viene confermato da Gianni Pilo, l'uomo le cui indagini demoscopiche hanno avuto un peso sempre più rilevante nelle decisioni di Berlusconi all'inizio della sua awentura politica e durante il mandato di presidente del Consiglio. «Tutti conoscono la grande determinazione di Berlusconi nel portare avanti i piani di cui è convinto. Ma è meno noto l'aspetto per così dire scientifico del suo carattere. Non ho mai visto nessuno analizzare un problema da tutti i punti di vista possibili, con una totale apertura ad accettare qualunque soluzione gli venga prospettata in base ai dati disponibili.»
«Muoviti, Pilo:ui sifa un partito...»
Nato e cresciuto in Sardegna, alto, calvizie precoce, fisico atletico e lealtà assoluta, Pilo nel giugno del '93 ha 39 anni e dirige il marketing editoriale della Fininvest. Fa parte del suo lavoro monitorare i programmi delle tre reti di Berlusconi, analizzare i palinsesti in chiave commerciale e, soprattutto, tenere costantemente sotto controllo l'ambiente sociale italiano al quale si rivolgono i programmi televisivi.
E quest'ultimo aspetto a convincere Berlusconi che Pilo è
l'uomo giusto per sondare il nuovo mercato al quale intende guardare: quello degli italiani che votano. La mattina del 30 giugno convoca Pilo nei suoi uffici di Arcore. Il giovanotto non sta bene, è convalescente dopo un lieve intervento chirurgico, ha un aspetto sofferente. «Gianni, rimettiti in sesto al più presto» gli dice ridendo. «Qui rischio di dover mettere in piedi un partito. Bisogna lavorare sodo.» Berlusconi racconta a Pilo il colloquio con Urbani e gli mette sul tavolo lo scenario «neutro» sul quale operare. Primo. Il 18 aprile del '93, approvando a larghissima maggioranza il referendum proposto da Mario Segni, gli italiani hanno introdotto il sistema maggioritario nelle elezioni politiche, anche se non esiste ancora una legge di attuazione. Secondo. Esiste invece una legge maggioritaria per eleggere i sindaci, e i risultati di giugno sono un assaggio di quello che può accadere alle prossime elezioni politiche. La sinistra è minoritaria, ma ha vinto quasi dovunque perché ha sperimentato una capacità di aggregazione che negli altri schieramenti non esiste. Occorre dunque verificare se la costruzione di un'alternativa è davvero impossibile.
«La prima cosa che bisogna accertare» dice Berlusconi a Pilo «è quanta gente sia realmente informata di come stanno le cose. Quanti sanno che la prossima legge elettorale sarà maggioritaria? Che cosa è cambiato con il referendum di Segni? Che cosa ha capito del maggioritario l'opinione pubblica dall'elezione dei primi sindaci?» Berlusconi chiede a Pilo di ordinare un sondaggio più allargato che chiarisca anche la notorietà dei personaggi politici più importanti e il gradimento elettorale dei partiti e degli uomini che li guidano.
Vengono chieste due distinte indagini demoscopiche ad
altrettanti istituti specializzati, il francese Sofres e l'italiano Abacus.
«Il sondaggio Sofres» racconta Urbani «rivela due elementi fondamentali. La grande maggioranza dell'elettorato è disposta ad appoggiare un'iniziativa politica moderata. La stessa iniziativa non può avere le sue fondamenta nella Democrazia cristiana. Moderati nei contenuti» è la conclusione del professore «gli italiani sono radicali nella richiesta di cambiamento.»
Complementare all'indagine Sofres è quella dell'Abacus.
Racconta Pilo: «Emergono con chiarezza quattro punti: 1. Sfiducia nel quadro politico. 2. Voglia di voto anticipato. 3. Voglia di cambiamento con persone prevalentemente non coinvolte prima d'ora con la politica. 4. Assenza sostanziale di informazioni sulle conseguenze del sistema maggioritario sul prossimo Parlamento».
Dalle risposte sull'indice di gradimento degli uomini politici emerge una grandissima potenzialità di Mario Segni e una buona solidità di Umberto Bossi. «Ma Bossi» spiega Pilo «incontra un argine geografico insuperabile. Non passa sotto il Po e non supera un certo sbarramento culturale.» Berlusconi guarda questi risultati con enorme interesse e alla legittima difesa che ha animato solo pochi giorni fa il suo accostamento alla politica, comincia ad affiancare un'attenzione più profonda.
28
l
29 Col passare dei giorni, conferma Giuliano Urbani, gli ingredienti del cocktail cambiano e cresce la componente meno personale.
«Berlusconi comincia a immedesimarsi sul serio nel problema centrale: un paese occidentale come l'Italia per uscire definitivamente dalle proprie crisi strutturali non può non emanciparsi da quel tanto di socialismo reale in cui sta irnpantanato. Si convince che questo progetto va portato avanti, sostenuto da intellettuali e da imprenditori come lui. L'uomo designato è Segni, il partito è la Lega di Bossi. La Dc? No, Berlusconi non pensa alla Dc. E convinto che la gente percepisca ormai proprio questo partito come simbolo del vecchio. Craxi è la vittima sacrificale come persona, l'intera Dc lo è come partito.»
«La preoccupazione per l'awenire del mio gruppo, il secondo gruppo privato italiano» mi conferma Berlusconi «è stata presto sostituita da una preoccupazione più generale. Nessuna impresa può andare bene se il paese in cui opera va male. Se mi sono assunto il rischio enorme di scendere in campo, se ho fatto quel che ho fatto, è stato soprattutto per non consegnare il mio paese a un regime illiberale. E così che nell'estate del '93 il dieci per cento del mio tempo dedicato all'esame della situazione politica è diventato il venti il trenta, il cinquanta.»
I mesi di luglio e di agosto del '93 trascorrono in quello che Urbani chiama il «progetto di fattibilità». Nella sala da pranzo di Villa San Martino ad Arcore, mentre l'instancabile Michele sforna risotti, roast-beef, verdure e panne cotte in
quantità industriali, Berlusconi consulta a ritmi frenetici tutti i collaboratori e gli esterni che gli paiono più sensibili al problema.
Letta e Confalonieri, Dell'Utri e Del Debbio, Urbani e Martino, Previti e Pannella, Saverio Vertone e Carlo Scognamiglio. Naturalmente incontra spesso e a quattr'occhi anche i protagonisti designati del film, Mario Segni e Umberto Bossi. Letta e Confalonieri lo scongiurano subito di desistere, dimostrandogli che i rischi personali e aziendali sono assolutamente sproporzionati rispetto alle opportunità. Ma, vista l'insistenza del Cavaliere, concordano con lui di ritirarsi tre giorni in Sardegna per prendere una decisione.
Berlusconi è uno dei tanti imprenditori che non conosce la parola vacanza. Ha una quantità rilevante di ville in Sardegna, a Porto Cervo e a Porto Rotondo, che usa per sé, mette a disposizione degli ospiti, divide con il fratello Paolo, la sorella Maria Antonietta, la madre Rosella. Ha una bella villa perfino alle Bermuda, vicino a quella di Ross Perot. Ma, più che di case di vacanza, si tratta di residenze estive di lavoro. Tante Camp David, insomma.
Ospite fisso delle vacanze di lavoro del Cavaliere è Gianni Letta, vicepresidente della Fininvest Comunicazioni e ascoltato consigliere politico del Cavaliere. Letta ha una mostruosa capacità di lavoro: sia che faccia il direttore del «Tempo» (e lo ha fatto per quattordici anni, dal '73 all'87) sia che lavori alla Fininvest Comunicazione, sia che assuma l'incarico di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio (significa partecipare a tutte le decisioni del presidente e percorrere in larga
parte da solo il calvario che le precede), qualunque mestiere faccia, Letta lavora venti ore al giorno. S'alza al mattino presto e quando alle tre di notte torna a letto, sveglia la pazientissima moglie Maddalena con il fruscio dei quotidiani freschi di stampa. Invitato da più di vent'anni in tutti i salotti romani che contano, Letta non riesce mai ad arrivare puntualmente, ma, a dimostrazione della sua buona volontà, manda in pegno Maddalena. Quando arriva la signora Letta, i padroni di casa sanno che prima o poi arriverà anche Gianni. Il quale si presenta quando è stato servito il primo, se arriva presto, e quando si è al secondo, se arriva tardi. Gli amici ne apprezzano la buona volontà e non si dolgono. I camerieri sanno che il coperto del dottor Letta resterà vuoto a lungo e non si preoccupano.
Per risarcire la famiglia di questo superlavoro, da almeno venticinque anni Gianni Letta non prende ferie. Ouando raggiunge la casa estiva di Punta Ala per i giorni a cavallo di Ferragosto, ogni anno bisestile, in famiglia si viene colti da viva preoccupazione. «Forse Gianni non sta bene e non vuole dircelo.»
Ma la virtù principale di Letta non è lo stacanovismo. E una straordinaria capacità di mediazione e di intervento politico nel senso più ampio del termine. Quando nel '73 muore Renato Angiolillo, fondatore, direttore e padre-padrone del «Tempo», il giornale è in forti difficoltà e deve a Letta la sua salvezza. E agli instancabili negoziati di Letta, Berlusconi deve l'approvazione della legge Mammì, nell'estate del '90, che lo mette sullo stesso piano della Rai. Anche nel sanguinoso duello con De Benedetti e Scalfari per il controllo della Mondadori e del gruppo L'Espresso-Repubblica, Letta è l'artefice
di quel po' di mediazione che si può fare in un campo di battaglia dove cadono bombe di ogni calibro. Tanto è vero che a guerra finita, nonostante la pace non sia mai stata firmata, Letta è rimasto a lungo a titolo personale nel consiglio d'amministrazione dell'Editoriale L'Espresso.
In Sardegna tra jogging e politica
E evidente, dunque, che quando nell'agosto del '93 Letta va a trascorrere qualche giorno di lavoro all'aperto nella villa di Berlusconi in Sardegna, il nuovo progetto politico del Cavaliere è l'argomento di ogni conversazione. Berlusconi porta il suo amico a visitare la splendida residenza di Punta Volpe, a Porto Rotondo. Fino a qualche anno fa, sulla bellissima baia che guarda quella di Cala di Volpe si affacciava una piccola palude presidiata da una grossa stamberga. Il Cavaliere la compra, l'affida alla cura, alla tenacia, alla passione botanica della moglie Veronica e - a giudizio unanime dei conoscitori della zona - awiene il miracolo. Oggi questa residenza, frequentata prevalentemente dalla vecchia madre, che Berlusconi viene a salutare quasi ogni fine settimana di luglio e di agosto, ha otto splendide camere da letto e alcuni saloni con mobili inglesi, un pianoforte bianco a mezza coda, i divani trapunti a mano con i colori del grandissimo parco che, grazie a Veronica, è diventato quello sul quale il principe azzurro porta a spasso Biancaneve dopo la felice conclusione della complessa vicenda. Lì, dove il terreno era umiliato dalla palude, sono nati perfetti prati all'inglese bordati da siepi fiorite di ogni specie e colore, con rigogliosa prevalenza, nella stagione estiva, di oleandri e ortensie giganti.
Gli ultimi fiori arrivano fin quasi dentro il mare, al confine della spiaggia libera dove i nipotini del Cavaliere fanno il bagno insieme con i bambini di censo più modesto, «perché il Dottore» ricordano i custodi «a queste cose ci tiene e ci bada e non ha mai cercato di prendersi un pezzo di spiaggia per sé».
Gianni Letta è prodigo di complimenti per l'acume del Cavaliere e la sensibilità di Veronica, ma non si lascia incantare. E meno che mai si lascia incantare il braccio destro da sempre di Berlusconi, Fedele Confalonieri.
Il Cavaliere sequestra i suoi due amici per quattro giomi dal 16 al 20 agosto. Secondo le abitudini di Bill Clinton, impone ogni mattina a Confalonieri e Letta estenuanti corse in tuta lungo il percorso golfistico del Pevero e i due gli danno anche in questo una sovrumana prova di amicizia, avendo praticato entrambi sport per l'ultima volta agli esami di educazione fisica della terza liceo. Alcuni golfisti restano con la mazza ferma a mezz'aria al passaggio del trio che riesce a discutere animatamente nonostante il fiato grosso. Alla fine dei quattro giomi, Letta torna a Roma e Confalonieri a Milano. Li unisce uno spettacolare peso forma, li divide la previsione sul futuro politico del Cavaliere. Letta è convinto che Berlusconi alla fine deciderà di non correre. Confalonieri, che lo conosce dalla prima giovinezza, è scettico. «Vedrai che non l'abbiamo convinto» dice a Gianni Letta mentre sale sul Mystère con le insegne del Biscione.
In Sardegna c'è naturalmente anche Gianni Pilo, sia per affetto verso la sua terra, sia perché dal 30 giugno Berlusconi non lo molla un momento.
Quando la tensione con Letta e Confalonieri diventa particolarmente alta, il Cavaliere chiama il giovane consulente e si sfoga con accenti profetici: «Vedrai,» gli dice «offriremo il nostro appoggio alle forze moderate e loro lo rifiuteranno». Al di là del parere dei suoi più stretti collaboratori che lo invitano a desistere, Berlusconi va dritto per la sua strada.
«Sbaglia chi mi accusa di averlo spinto verso l'awentura politica» dice Urbani. «Non avevo alcun titolo per chiedergli di correre. Mi sembrava immorale scherzare con il destino di
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33 una persona e delle sue aziende. La decisione l'ha presa da solo, davanti allo specchio.»
Ma andiamo con ordine. A luglio nasce anche il nome della «cosa»: Forza Italia. «L'ha inventato lui» dice Urbani.
Pilo in estate sospende i sondaggi, che gli istituti demoscopici non fanno mai né in luglio né in agosto, né nel periodo natalizio perché cambiano le abitudini della gente e «il campione è alterato». Ma raccoglie tutte le analisi demoscopiche e sociologiche esistenti e le analizza una per una. Il giovanotto sardo fa qualcosa di più. Tra luglio e l'inizio di settembre, mentre Berlusconi comincia i suoi incontri con i leader politici, Pilo comincia a cercare le sedi per la «cosa» Forza Italia. Visita due tipi di uffici, da seicento e da tremila metri quadrati. Per come si stanno mettendo le cose fin dall'estate, prenota quelli da tremila.
Poiché nelle sedi di Forza Italia bisogna metterci qualcuno, Berlusconi si rivolge per tempo alla persona che più di ogni altra ha il mercato italiano sotto controllo: MarceUo Dell'Utri, bibliofilo raffinatissimo e presidente di Publitalia, la cassaforte pubblicitaria della Fininvest. Racconta Dell'Utri a Giorgio Bocca nel Sottosopra: «Publitalia era l'unica squadra esistente, anzi l'unica possibile, pronta a scattare immediatamente. Publitalia è sempre stata la task-force della Fininvest, i marines pronti all'impiego immediato. . Ora occorrevano ventisei responsabili per le ventisei circoscrizioni elettorali, e ogni responsabile doveva rispondere per il suo territorio, aprire i primi club, selezionare i candidati... Solo Publitalia poteva compiere il miracolo, conoscevamo migliaia di inserzionisti con cui avevamo da anni rapporti di conoscenza e magari di amicizia...».
Col passare delle settimane e col ripetersi degli incontri con Segni e con Bossi, Berlusconi s'accorge che l'accoppiata non funziona. Ritiene che Segni non si staccherà mai da Martinazzoli, che Bossi resterà prigioniero dello schematismo ideologico della Lega e che i due, in buona sostanza, tendano a fregarsi a vicenda. Berlusconi consulta anche Martinazzoli, che traghetta il partito cattolico dalla Dc al Ppi. «Ma il segretario dei Popolari» annota Urbani «non capisce che al suo partito non basta cambiare nome. Nell'estate del '93 Martinazzoli è ancora convinto di poter tenere al Sud e sopravvivere al Nord. Non può immaginare che il 47 per cento dei romani in novembre possa votare per Fini e il 42 per cento dei napoletani possa scegliere Alessandra Mussolini. Su un piano strettamente politico può avere delle ragioni ma non capisce che la coscienza degli italiani ha superato l'antitesi fascismo-antifascismo. Non lo capisce un politico navigato
come Martinazzoli, lo capisce invece un imprenditore come Berlusconi che non ha mai fatto politica, ma ha il senso del mercato. Anche culturale.»
Nel mese di settembre Urbani stacca: va a far lezione a Berkeley, negli Stati Uniti, mentre la squadra di Arcore comincia a cercare gli uomini, a mettere in piedi le strutture, a studiare le modalità per acquisire consenso. Nascono i primi Club Forza Italia. Ma in silenzio. Rivela Urbani: «Avevamo il timore che il Parlamento morente con qualche colpo di coda inventasse una leggina per strozzare la Fininvest e Berlusconi, facendo abortire il nostro progetto sul nascere».
aSilvio, non farlo. 1una folle avvenfura»
Questo timore, vivo nel professor Urbani, toglie il sonno a Fedele Confalonieri e Gianni Letta. Essi prospettano ripetutamente e con toni sempre più allarmati a Berlusconi due tipi di rischio: il suicidio aziendale e il fallimento politico. Il loro discorso è più o meno il seguente. Ammettiamo che tu riesca a far nascere Forza Italia: noi siamo sicuri che i partiti al potere ti faranno abortire prima delle elezioni. Possono spazzarci via su due piedi con una legge sulla televisione. Possono dire alle banche di chiuderci il credito. Possono istigarci contro qualche magistrato che non ci ama. E tu, caro Silvio, sai che se un giudice ti prende di punta, anche il giusto pecca sette volte. Poi c'è il discorso più strettamente politico. Come fai a costituire in così poco tempo un movimento credibile che convinca la gente a votare per qualche cosa di completamente inedito? Come fai a convincere i candidati a gettarsi allo sbaraglio senza garanzia alcuna? E, soprattutto, come fai a mettere insieme
forze politiche che si detestano tra loro e non mancano occasione per distinguersi l'una dall'altra?
Questo dicono a Berlusconi i suoi amici Letta e Confalonieri. E Letta, stremato, aggiunge: «Per l'affetto che ti porto, per lealtà e senso di responsabilità, cercherò di impedirti fino all'ultimo di imbarcarti in questa awentura folle, a costo di usare ancora i toni aspri che ho usato in Sardegna. Per le stesse ragioni, sappi che il giorno in cui tu sciaguratamente dovessi decidere di scendere in campo, smetterei la mia opposizione e ti resterei a fianco come sempre».
Berlusconi apprezza la lealtà e la franchezza dell'amico e va avanti per la sua strada: una strada che comincia a piacergli sempre di più.
Il 15 settembre nasce la Diakron, la società demoscopica di cui Berlusconi affida la guida a Gianni Pilo. «Faccio il contratto ad alcuni giovani neolaureati per non utilizzare il personale Fininvest. Ce ne andiamo anche fisicamente dagli uffici dove lavoravo prima.» Racconta Urbani: «Avevamo bisogno di tastare il polso ogni giorno al paese, raccogliere dati quantitativi e soprattutto fare ricerche sulla qualità delle aspettative politiche del pubblico. Non avevamo, d'altra parte, il denaro sufficiente per commissionare questa enorme quantità di sondaggi alle società esistenti sul mercato».
Pilo debutta subito con una ricerca in proprio che vuole verificare e ampliare i dati raccolti da Sofres e Abacus. Berlusconi gli chiede qual è la propensione dell'elettorato a votare per i partiti esistenti e di stabilire il livello di fiducia sul quale possono contare i leader politici. Viene confermata una di-
saffezione di fondo per il sistema nel suo complesso e comincia a delinearsi con una certa chiarezza la griglia di partenza dei diversi leader in caso di elezioni anticipate.
Mario Segni resta in «pole position», ma i suoi ultimi giri sono meno veloci dei precedenti. Bossi mantiene una posizione solida, ma gli applausi per la sua corsa cominciano a farsi meno rumorosi. Occhetto è sempre debole: gli intervistati non gli riconoscono la marcia in più che chiedono al mercato politico. Va bene il giudice Giuseppe Ayala, parlamentare repubblicano, ma qui la forza d'immagine viene resa problematica da un retroterra politico incerto. C'è attennui arresti di Di Pietro e delle altre procure italiane, mantengono ancora forte il loro potenziale di fuoco.
Quando Urbani rientra in ottobre a Milano, lo stato delle trattative tra Berlusconi, Bossi e Segni è avanzatissimo. «Ci riuniamo per venticinque giorni di seguito nell'albergo Four Seasons di via Gesù. La Lega è rappresentata da Maroni, Formentini e Valditara. Poi ci siamo io e Scognamiglio, che in questa fase è vicino alle posizioni di Segni. C'è Vertone e c'è Tremonti, anche lui pattista. L'idea del federalismo fiscale nasce in questi incontri. Spesso intervengono i radicali con Vito.»
«Cavaliere, non si fa politica con il pallottoliere»
Gianni Letta, appoggiato da Confalonieri, continua a far di tutto perché Berlusconi non si comprometta più di tanto. «Con la Fininvest e le nostre aziende di comunicazione» gli dice «siamo troppo esposti sul fianco politico per poter scon-
finare.» E, visto che il Cavaliere non ci sente, cerca almeno di ancorarlo al centro favorendo i suoi incontri con Martinazzoli e con Segni. Vengono a questo proposito awiati contatti a tutto campo con le forze moderate, laiche e cattoliche e con personalità di primissimo piano della stessa gerarchia ecclesiastica. Berlusconi offre il suo consiglio, il suo apparato, i suoi mezzi per costruire una forza alternativa alla sinistra. E convinto dall'inizio di poter tirare dentro Bossi, ha la segreta speranza di fare altrettanto con Fini, anche se il fronte del centro è già troppo conflittuale per aprirne un altro a destra.
Martinazzoli ha visto che il progetto di Berlusconi comincia a prendere piede, si spaventa, incontra il Cavaliere due volte nel giro di pochi giorni, gli offre una candidatura parlamentare e la scelta di altri candidati in Lombardia. Racconta ancora Urbani: «Il discorso di Martinazzoli a Berlusconi è più o meno questo. Voi dovete essere presenti in questa nuova stagione politica, ma non da protagonisti. Lasciate Bossi, venite con noi, ma state in seconda fila. Martinazzoli vuole che la presenza degli uomini di Berlusconi nelle liste della nuova Dc favorisca il cambio di pelle del suo partito, coniu-
gando queste forze mai affacciatesi alla politica con le tradizioni migliori del mondo cattolico Ma non ha tenuto conto della volontà degli italiani. All'inizio dell'autunno del '93 lui non la conosce, Berlusconi sì». E sappiamo che Berlusconi è convinto fin dal mese di luglio, grazie alle indagini demoscopiche, che la maggioranza degli italiani di estrazione moderata vuole il cambiamento, ma non accetta che a guidarlo sia la Democrazia cristiana.
Per questo, cerca di portare Martinazzoli sulle sue posizio-
ni. Lo fa con passione in un pranzo a casa di Gianni Letta, in via della Camilluccia. Tira fuori gli studi di Urbani, ammonisce Martinazzoli che, se non si mette in piedi una aggregazione moderata, le sinistre possono conquistare più di quattrocento seggi, suscitando reazioni incredule nel segretario dei Popolari e nello stesso Letta, che non considera la sinistra, pur aggregata in una possibile alleanza progressista, capace di sbancare Montecitorio.
Il pranzo si conclude con una gelida frase di Martinazzoli che liquida i sondaggi di Urbani e Berlusconi: «Cavaliere, non si fa politica con il pallottoliere».
Diverso, naturalmente, il punto di vista di Martinazzoli. «Con Berlusconi ci vediamo una volta ad Arcore, alla presenza di Confalonieri, e una volta a Brescia, nel mio studio a quattr'occhi. Poi a Roma. Mi parla di sondaggi, dice che bisogna stare tutti insieme per battere la sinistra. Pongo il problema Fini. Noi non possiamo allearci con lui. Berlusconi mi mostra dei sondaggi che escludono la presenza di Fini. Ma quando gli chiedo se è disposto a fare a meno del Msi, lui si mantiene sulle generali.
Dico che gli alleati del mio partito sono Segni, Amato, La Malfa. Fini no, il partito non ci seguirebbe su quella strada. C'è poi il problema della Lega. Maroni mi dice che la Lega presenterà i suoi candidati in tutti i collegi del Piemonte, della Lombardia, del Veneto. E noi? A parte la questione più rilevante dei collegi, come facciamo ad allearci con si dichiara l'awersario mortale della Dc?»
I sondaggi di Pilo, d'altra parte, restano riservatissimi. E lo restano anche le iniziative politiche di Berlusconi per quasi quattro mesi. Il 5 ottobre, con una mossa a sorpresa, il Cava-
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39 liere nomina Franco Tatò amministratore delegato della Fininvest, con il preciso compito di risanarne i bilanci. I debiti della holding sono arrivati, al 30 giugno del '93, a 3500 miliardi e, nonostante Berlusconi si affanni a ricordare che essi rappresentano soltanto il 40 per cento del valore che le maggiori istituzioni finanziarie internazionali riconoscono al gruppo di Arcore (e il 10 per cento dei debiti del gruppo Ferruzzi), hanno convinto il Cavaliere a prescrivere alle proprie aziende una cura da cavallo.
Tatò, 61 anni, laurea in filosofia, viene unanimemente indicato come la persona giusta per l'operazione. «Il solo fatto che esista, fa risparmiare» dice un suo collaboratore. E lui aggiunge semplicemente: «Sto seduto sulla cassa». Il «Financial rlmes» descrive Tatò come «un manager duro con una vasta esperienza». Questa esperienza Tatò l'ha maturata risanando aziende su aziende. Molte in Germania (di qui l'appellativo di Kaiser Franz), alcune in Italia tra cui la Olivetti e la Mondadori, dove torna nel '91 dopo uno scontro con Carlo De Benedetti. Si può immaginare con quanto gusto Kaiser Franz combatta alla testa delle truppe di Arcore la sua rivincita contro l'Ingegnere di Ivrea. E infatti la sua nomina fa molto scalpore sui giornali, mentre le notizie sulla strategia di risa`namento della Fininvest si accavallano a quelle, ancora molto confuse, sugli interessi politici di Berlusconi. Il Cavaliere finisce in copertina su tutti i settimanali politici.
«Il Mondo» punta su Tatò e titola Un llomo in pegno. Più ambiguo «L'Europeo»: La resR dei conti. Ma il primo a capire che Berlusconi ha intenzione di affiancare un fronte politico al risanamento aziendale è «L'Espresso». Il Cavaliere viene ritratto in un disegno col bavero dell'impermeabile rialzato sul collo, la barba di due giorni e lo sguardo sinistro e allusivo di un mediocre gangster marsigliese. La sua faccia è incorniciata da due titoli. A sinistra, A me i soldi; a destra, A me i voti. Questa copertina è la prima di una serie che, criminalizzando di settimana in settirnana il Cavaliere per cinque mesi, sarà un elemento non irrilevante del suo successo.
Berlusconi risponde con una intervista a «Epoca», uno dei settimanali di cui è editore. Parla a lungo del risanamento aziendale, spiega la scelta di Tatò e fornisce una chiave di lettura della sua visione politica dell'Italia: «in corso un grande cambiamento: gli scandali di Mani pulite hanno coinvolto gran parte della classe politica. Una specie di furore giacobino induce la gente a fare di ogni erba un fascio estendendo la condanna anche a coloro che tra i professionisti della politica non hanno demeritato. I sondaggi indicano in 82 su cento i cittadini che chiedono di affidare la cosa pubblica a forze e a nomi nuovi. Se questo è vero - ed è vero - occorre chiamare alla politica nuovi protagonisti».
«Fonderà un partito?» gli chiede l'intervistatore Ugo Magri. «Ho sempre dichiarato il contrario e questa sarà la ventesima volta che lo ripeto. Cerco di dare un contributo per aiutare il paese e le forze politiche a individuare uomini nuovi. E in questa direzione ho aderito all'idea di promuovere una
ricerca, provincia per provincia, che tendesse a orientare verso l'impegno politico persone perbene, di buonsenso, capaci, che abbiano già dato gli esami nelle imprese, nel lavoro, nelle professioni, nell'università. E in questa direzione collaboro ad alcune iniziative che sono già in corso, animate da miei amici. Quali iniziative? Il professor Giuliano Urbani ha fondato l'associazione intitolata "Alla ricerca del Buongoverno", che ha l'ambizione di aprire un grande dibattito tra gli intellettuali italiani. Poi c'è Forza Italia, un'associazione nazionale di club nelle varie città italiane, che tende a suscitare nella gente una partecipazione all'impegno civile e politico. Offre la possibilità, a chi lo desideri, di interessarsi, magari per la prima volta, ai problemi della polis.» «Lei si impegnerà direttamente in queste attività?» chiede ancora Magri. Berlusconi risponde: «Prima di tutto come cittadino e poi come imprenditore con quarantamila collaboratori (e con un indotto che impegna oltre centomila occupati) ritengo di avere non solo il diritto, ma anche il dovere di dare il mio contributo affinché il cambiamento in corso vada in una direzione conforme a quelli che a me paiono gli interessi del paese». Accanto all'intervista, «Epoca» pubblica per la prima volta il simbolo dei Club Forza Italia, «rivolti» dice la didascalia «a tutti i cittadini di orientamento liberaldemocratico».
I giornali, soprattutto quelli del gruppo Caracciolo, ormai dipingono Berlusconi come il tessitore di una oscura tela politica. n 17 ottobre «la Repubblica» annuncia l'intenzione del Cavaliere di candidare alle politiche Gianfranco Funari e Mike Bongiorno. L'indomani, Giorgio Dell'Arti raccoglie per «La Stampa» le ironiche smentite degli interessati. «Allora me candidavo a sindaco de Roma» ribatte Funari. E Vittorio Sgarbi, che conosce bene il Cavaliere, a chiarirne ancora una
volta i propositi: «Lui vuole solo che si formi una forza di centro che prenda il posto dei vecchi partiti ormai disintegrati. Io riassumo il suo ragionamento con l'esempio della CocaCola. Mettiamo che la Coca-Cola scompaia dal mercato. I bevitori, disperati, si rivolgono solo alle bevande di sinistra dal sapore molto dolce o ai superalcolici che potremmo qualificare di destra. Ouesto non significa che non resti una domanda di Coca-Cola. Il problema dei produttori sarà allora quello di preparare qualcosa di simile, che possa soddisfare la domanda, e di immetterla sul mercato».
Secondo il professor Urbani, a metà ottobre, quando escono questi articoli, Berlusconi non ha ancora deciso di scendere in campo personalmente e spera di mettere d'accordo Segni e Bossi. Ma i due non sono fatti per intendersi. Se ne accorge lo stesso Berlusconi nei ripetuti incontri che ha con entrambi. Glielo dicono gli infallibili sondaggi ai quali ormai il Cavaliere si affida costantemente.
«Dalle indagini di Pilo,» rivela Urbani «viene fuori la progressiva disaffezione del pubblico verso l'accoppiata SegniBossi. Nei primi sondaggi la coppia funziona, poi i due vengono percepiti come persone troppo diverse per trovare un punto d'accordo. Berlusconi giorno dopo giorno si convince che l'ipotesi di accordo da lui così a lungo maturata è un'elaborazione intellettuale senza credibili basi politiche.»
«Chi sceglierebbe tra Fini e Rutelli?»
Lo sviluppo della situazione politica, intanto, sembra dare progressivamente ragione al Cavaliere. Il 21 novembre, al
primo turno delle elezioni amministrative, a Genova, Venezia, Trieste, Roma, Napoli e Palermo le sinistre vanno fortissimo e piazzano i loro candidati in pole position nei ballottaggi per la carica di sindaco. A Palermo il leader della Rete, Leoluca Orlando, conquista Palazzo delle Aquile al primo turno con due terzi dei voti. E la sorte vuole che sia proprio il Tg5 di Berlusconi a dare per primo la notizia. I candidati dei Popolari dimostrano una drammatica debolezza. Due giorni dopo, il Cavaliere è in un ipermercato a Casalecchio di Reno. Gli chiedono per chi voterebbe nel ballottaggio romano tra Rutelli e Fini e lui dice di preferire il segretario del Msi. Per questo Berlusconi viene letteralmente linciato dalla stampa. «L'Espresso» lo mette in copertina con il fez e larga parte del mondo politico lo dipinge come un pericolo per la democrazia. (Nella campagna elettorale del '94, Berlusconi resterà un pericolo pubblico e invece Fini sarà clamorosamente riabilitato come interlocutore democratico.) Letta e Confalonieri fanno riservatamente le più fosche previsioni sulla sorte del Cavaliere, della Fininvest e anche sulla propria.
Pochi giorni prima, tra l'altro, il pubblico ministero Maria Cordova aveva chiesto contemporaneamente l'arresto di Carlo De Benedetti, di Gianni Letta e del braccio destro «tecnico» di Berlusconi, Adriano Galliani, per due diverse inchieste legate l'una a forniture di materiali elettronici al ministero delle Poste, l'altra all'attribuzione delle frequenze televisive alle diverse reti, pubbliche e private, nel quadro della legge Mammì. Il giudice per le indagini preliminari arresta De Benedetti, restituisce il fascicolo su Letta e Galliani per l'assegnazione ad altro giudice, in quanto legato a Letta da antica amicizia personale, e il giudice al quale il processo viene automaticamente assegnato, Raffaele De Luca Coman-
dini, rigetta la richiesta della Cordova (il rigetto sarà confermato in Cassazione).
Si comprende, dunque, come in queste settimane il sentimento prevalente in Gianni Letta non sia l'ottimismo. Ma Berlusconi non se la sente di starsene zitto e il 26 novembre, a tre giorni dalla dichiarazione di Casalecchio, va nella sede della Stampa Estera, si sente ripetere del fascista da alcuni giornalisti stranieri, perde la pazienza e urla: «Vergogna!». Da questo scontro nascerà una polemica con i principali giornali stranieri (primo tra tutti «The Economist») destinata a durare fin dopo l'arrivo di Berlusconi a Palazzo Chigi. n 24 novembre, intanto, viene stampato l'opuscolo Alla ricerca del Buongoverno. Appello per la costituzione di un'Italia vincente. Lo firmano Giuliano Urbani, che come abbiamo visto ne è il padre, l'economista Antonio Martino, l'ex segretario generale della Camera Gianni Marongiu, il generale in congedo Luigi Caligaris e Felice Mortillaro, che fu temutissimo segretario generale della Federmeccanica ai tempi dei più duri scontri con i sindacati dei metalmeccanici. Le trentacinque pagine del documento sono la «summa» delle tesi anticipate fin da ottobre da Berlusconi a «Epoca». Ma il libretto non suggerisce particolari emozioni ai grandi giornali, ormai eccitatissimi nel conto alla rovescia per l'annunciata, emorragica vittoria delle sinistre al ballottaggio del 5 dicembre. E infatti il fronte progressista conquista i sindaci di Roma, Napoli, Genova, Venezia e Trieste. Il 47 per cento di Fini a Roma e il 42 per cento di Alessandra Mussolini a Napoli non suggeriscono, per lo più, riflessioni approfondite sul carattere dell'elettorato nazionale, mutato radicalmente. «Lira e Borsa promuovono la svolta. Dopo il trionfo di Pds e alleati recu-
pero su marco e dollaro.» Questo è il titolo, a piena pagina, del «Corriere della Sera». Nell'editoriale del direttore, Paolo Mieli, si parla di «effetto obiettivamente stabilizzatore del voto», nella certezza che Occhetto farà una politica «assai prossima al centro». E mentre sulla «Stampa» Ezio Mauro avverte di non confondere «un voto democratico» con un «voto di sinistra», sulla «Repubblica» Eugenio Scalfari celebra lo storico avvenimento esaltando «la Grande Alleanza stipulata tra la società civile e la sinistra riformatrice e riformata, tra la borghesia progressista e il lavoro dipendente produttivo». Il trionfo dei sindaci di sinistra rafforza naturalmente le tesi di Berlusconi che comincia a individuare i candidati del Buongoverno.
Nel ponte di Sant'Ambrogio, mentre i giornali commentano ancora la vittoria dei sindaci di sinistra, l'awocato Raffaele Della Valle viene invitato a Villa San Martino. Della Valle (destinato a diventare per sei mesi presidente dei deputati di Forza Italia) ha 54 anni, fa l'awocato da trentuno, ha difeso imputati illustri, dalla modella Terry Bloome al costruttore Salvatore Ligresti, e ha raggiunto la celebrità assistendo Enzo Tortora. Ha fatto un po' di attività politica nel Partito liberale, arrivando a essere il primo dei non eletti dopo Egidio Sterpa alle politiche del '92. Sentiamo il suo racconto: «Non ero mai andato a casa di Berlusconi. Mi ha telefonato Gorla, che si occupa di Tv, o forse il generale Caligaris. Arrivo ad Arcore e trovo Urbani, Martino, Balducci, Codignoni. Berlusconi mi impressiona subito con discorsi politici aweniristici. Non ha ancora deciso definitivamente di scendere in campo. Ma dice che, se lo costringeranno a farlo e il nostro Polo vincesse le elezioni, lui diventerebbe presidente del Consiglio. Noi ci guardiamo increduli, in silenzio».
Il Cavaliere sa di poter essere preso per matto, ma è una sirena alla quale pochi riescono a resistere. Giusto Letta e Confalonieri, sempre più rassegnati al peggio. Gli altri no. E ingrossano le file degli aspiranti deputati. Le riunioni diventano sempre più frequenti tra Sant'Ambrogio e Natale. Si arriva ad Arcore alla fine della giornata di lavoro, verso le otto di sera. Si scende nei sotterranei della villa, dove Berlusconi ha fatto costruire un auditorium. C'è un buffet freddo, si chiacchiera un pochino mangiando qualcosa, poi il Cavaliere comincia a spiegare la sua strategia. Viene gente da Genova, da Torino, da Bologna, da Firenze. Si è sempre tra i quaranta e i cinquanta. All'inizio sono tutti un po' freddi. Alla fine qualcuno resta scettico, ma i più si convincono.
Berlusconi parla di politica, naturalmente. Ma si parla anche di «immagine», di credibilità televisiva. E il Cavaliere prega quasi tutti di sottoporsi a un provino davanti alle telecamere.
«Abbiamo fatto i provini» mi dirà Berlusconi «perché la politica è fatta anche di comunicazione. Tutti i candidati provenivano dalla trincea del lavoro. Li abbiamo visti e ascoltati nei provini per vederne la capacità comunicativa, ma anche per verificarne la personalità.
Gran parte di tutto questo lavoro organizzativo è stato fatto da ragazzi che prendevano ferie o si collocavano in aspettativa non retribuita.»
Agli incontri di Arcore Berlusconi alterna missioni fuorica-
sa. Il 15 dicembre, incontrando un gruppo di industriali al Savini di Milano, dice una frase più impegnativa del solito: «L'amaro calice è pronto».
Il Cavaliere ha una gran voglia di misurarsi personalmente con i propri avversari politici, ma, anche dietro suggerimento dei Grandi Frenatori, cerca di fare il possibile perché sia la sorte a trascinarlo lì dove lui vuole andare. Così il 18 dicembre, incontrando Mino Martinazzoli, gli dice di essere ancora pronto a farsi da parte, ma viene di nuovo scoraggiato sulle prospettive e le caratteristiche di un'alleanza elettorale.
«Ritordi la promessa? Quel giorno è arrivato»
Il Cavaliere ha ormai deciso di scendere in campo e lo confida il 21 dicembre a Gianfranco Fini, con il quale sonda la possibilità di un'intesa elettorale a tre con Bossi ricevendo conferma che i due sono divisi da una profonda diffidenza reciproca.
Arriva la vigilia di Natale e, come ogni anno, Silvio Berlusconi veste i panni del grande pater familias: riunisce lo stato maggiore del suo Gruppo nella grande sala da pranzo di Villa San Martino ad Arcore, dominata da un pianoforte e da importanti quadri d'epoca. Intorno al tavolo natalizio che Veronica Berlusconi ha curato con particolare attenzione siedono, alternati con le signore, Fedele Confalonieri e Franco Tatò, Gianni Letta e Marcello Dell'Utri, Adriano Galliani Ennio Doris e Carlo Bernasconi.
Al brindisi, il Cavaliere si avvicina perfidamente a Gianni
Letta e gli dice: «Ti ricordi della promessa? Quel giorno è arrivato». «Va bene,» gli sorride Letta incrociando la coppa di champagne «smetto di fare opposizione.»
Quella sera stessa Confalonieri e Letta confermano che si occuperanno esclusivamente della Fininvest e non assisteranno il Cavaliere nel suo ormai certo ingresso in politica, né nell'ormai più che probabile campagna elettorale. Il Capo seguirà la sua strada, i due gregari penseranno all'azienda, naturalmente insieme con Tatò e con gli altri manager che si terranno fuori dalla mischia.
Berlusconi non si concede nemmeno una tregua per Capodanno, e il 2 gennaio '94 incontra riservatamente Umberto Bossi in vista di un accordo elettorale. Il tempo a disposizione è ormai pochissimo, visto che Oscar Luigi Scalfaro sembra pronto a cedere alle pressioni che vengono soprattutto da sinistra (ma anche dalla Lega e dal Msi) per un sollecito scioglimento delle Camere.
«La Lega» mi dice Saverio Vertone «è entrata in crisi in novembre quando ha visto che non riusciva a conquistare la Padania. A metà giugno aveva perso il sindaco di Torino, a novembre non ha avuto quello di Genova. Il movimento restava arroccato in Lombardia, indebolendo molto le idee secessioniste. Bossi ha dovuto porsi, quindi, il problema di una strategia nuova, awiando contatti in più direzioni, con Segni ma anche con Berlusconi, per mantenere sotto controllo i movimenti politici che stanno formandosi.»
Vertone è un testimone privilegiato di queste settimane.
Germanista e collaboratore del «Corriere della Sera», come presidente dell'associazione Fratelli Rosselli di Torino, per ricerche scientifiche di carattere sociologico, ha cercato per tempo di formare un polo liberale da opporre alla sinistra. Ci ha provato fin dal giugno del '93 con Giuliano Amato, ha insistito in settembre con Mario Segni, prima che questi rompesse con Alleanza democratica. Poi ha firmato il documento del Buongoverno, base politica del Polo delle Libertà.
Tra il 6 e il 15 di gennaio Berlusconi deve risolvere un'altra grana: le dimissioni di Indro Montanelli dalla direzione del «Giornale». Proprietario del quotidiano è, per la verità, il fratello del Cavaliere, Paolo. Lo è dal '90, quando la legge Mammì stabilì che chi possiede tre reti televisive non può avere quotidiani. Ma poiché tra Montanelli e Silvio Berlusconi è esistito un lungo rapporto di amicizia e poiché all'origine della controversia c'è proprio la discesa in campo del Cavaliere, è fatale che il temporale delle polemiche vada a bagnare soprattutto la testa di quest'ultimo. Montanelli è il più geniale e illustre dei giornalisti italiani. Ha vissuto tutta la sua gloriosa e inimitabile vita professionale al «Corriere della Sera», finché nel '74 non viene messo alla porta da Piero Ottone. Brillante giornalista a sua volta e di formazione anglosassone, Ottone è per il «Corriere» quel che vent'anni dopo i Professori saranno per la Rai: dotati dalla natura di due occhi, quando debbono sistemare gli assetti redazionali usano soltanto quello sinistro. L'ambiente del «Corriere» diventa irrespirabile: il vecchio giornalista non può accettare che il capo del comitato di redazione, Raffaele Fiengo, conti più di lui grazie all'appoggio di Ottone, e non sopporta soprattutto che Giulia Maria Crespi, l'ultima esponente della grande fa-
miglia proprietaria del giornale, avalli incondizionatamente l'operato di entrambi. Eppure non si dimette, né s'aspetta che sia Ottone a licenziarlo. Ma questo avviene.
A 65 anni, Montanelli, che non ha mai svolto nella professione alcun compito organizzativo, inventa su due piedi «il Giornale», porta con sé decine di giornalisti del «Corriere» e s'accorge subito che il problema finanziario è quello più importante. Glielo risolve presto un giovane costruttore, Silvio Berlusconi, che, secondo quanto testimonierà lo stesso Montanelli, non cercherà mai di influenzare la linea del giornale.
Ma negli ultimi mesi del '93 l'incantesimo si rompe. Le scuole di pensiero, a questo punto, si divaricano. Montanelli attribuisce la colpa a Berlusconi. Berlusconi la scarica su Montanelli. Si dice che il direttore aspetti la prima occasione per andarsene e l'editore la prima per liberarsene. Si dice anche che Montanelli pensi da tempo a fondare, nonostante i suoi 85 anni splendidamente portati, un nuovo giornale che stavolta non abbia nemmeno un editore, anche se amico.
E certo che Berlusconi ha confidato da tempo i suoi progetti politici a Montanelli, ricevendone un dissenso ancora più robusto, se possibile, di quelli già manifestati da Letta e Confalonieri. Per Montanelli e, soprattutto, per Federico Orlando, suo condirettore ed editorialista principe, è Segni l'uomo della Prowidenza. Il «Giornale» ne ha condiviso tutte le battaglie e ora punta su di lui per regolare da par suo i difficili equilibri della nascente Seconda Repubblica. Anche Berlusconi ha puntato su Segni, ma, come abbiamo visto, comincia a dubitare seriamente della sua capacità di aggregazione.
Una cosa è, comunque, chiara: se il Cavaliere scendesse in campo, non avrebbe Montanelli tra i suoi sostenitori.
«Quello si prepara al grande tuffo, l'altro gli toglie l'acqua dalla piscina» scrivono tre giornalisti della «Stampa» (Corrias, Gramellini e Maltese) in un micidiale pamphlet pubblicato nell'estate del '94.
Come in ogni guerra annunciata, occorre quella che i libri di testo chiamano «causa occasionale».
Montanelli se ne va. E sbatte la porta
Lo «sparo di Sarajevo» awiene il giorno dell'Epifania del '94. Ernilio Fede, direttore del Tg4 e fedelissimo del Cavaliere, accusa Montanelli di sostenere sfacciatamente Segni invece di dare una mano ai progetti di Berlusconi, e ne chiede le dimissioni.
«Montanelli continua ad appoggiare Segni contro Berlusconi» dice nella sostanza Fede. «Ma la famiglia Berlusconi continua a pagare i debiti del suo giornale. Allora scelga: o si faccia pagare da Segni i suoi debiti oppure se ne vada.»
Montanelli la prende malissimo. Ma l'occasione per andarsene gliela porta a domicilio, su un piatto d'argento, lo stesso Silvio Berlusconi presentandosi di persona 1'8 gennaio alla sede del «Giornale».
Rinnova a Montanelli la sua stima e il suo affetto, assicura che Fede non ha parlato da ventriloquo del suo editore, denuncia le interpretazioni distorte che sono state date all'epi-
sodio.
Ma ai giornalisti riuniti in assemblea dice che non si può usare il fioretto se la sinistra usa la clava. I redattori capiscono che il potenziamento del giornale è condizionato dall'adozione di una linea più dura.
Lo capisce anche Montanelli, che non prende parte ai lavori e se ne va sbattendo la porta. «Non voglio fare il megafono di Berlusconi» dice. Viene sostituito da Vittorio Feltri che alla guida dell'«Indipendente» ha fatto una formidabile campagna di sostegno alla Lega.
(Due mesi dopo, alla vigilia delle elezioni, nascerà «la Voce». Il quotidiano farà un'opposizione costante al candidato Berlusconi e, dopo le elezioni, al suo governo, anche se nell'agosto del '94 Montanelli dirà che «alla fine, quando lo faranno a pezzi, l'unico che difenderà Berlusconi sarò io».)
Il 16 gennaio Scalfaro scioglie le Camere e il governo fissa la data delle elezioni per il 27 marzo: è la data più vicina possibile, e questo mette in grossa difficoltà Martinazzoli, che soltanto il 18 gennaio scioglie la Dc per fondare il Partito popolare (scontando la scissione di Casini, D'Onofrio e Mastella, che fondano il Centro cristiano democratico). Ma taglia l'erba anche sotto i piedi del Cavaliere, che ancora non annuncia la sua discesa in campo, e anzi il 19 awerte Mario Segni e Martinazzoli che, se non nasce una forte coalizione di centro-destra, lui sarà costretto a candidarsi con una propria formazione politica. «A parte gli altri problemi,» mi confesserà Martinazzoli «capisco che non c'è niente da fare quando
Berlusconi mi dice: "Sto qui con uno dei tuoi." "Chi è?" "D'Onofrio".»
«Mario Segni» dice Saverio Vertone «si è lasciato accalappiare da Martinazzoli nello psicodramma dell'identità democristiana. Ma l'identità di un partito è la sua politica. Fermare la politica per cercare l'identità è teatro. E Martinazzoli, che è uomo colto, ha fatto buon teatro. Segni non ha avuto il coraggio di tirare l'affondo e ha compiuto un errore mortale. Ho puntato molto su di lui. Ma Segni ha una mentalità da Prima Repubblica, non ha capito il suo compito. E Martinazzoli è stata la sua pietra al collo.»
Due giorni prima, il 17 gennaio, Roberto Maroni incontra Mino Martinazzoli e Roberto Formigoni a Brescia nello studio legale del segretario democristiano che l'indomani a Roma avrebbe annunciato lo scioglimento del suo partito e la nascita del Ppi. «C'è fumo dappertutto» ricorda Maroni. «Martinazzoli mi chiede se siamo disposti a presentarci con un simbolo unico, quello del Patto di Segni, rinunciando alle insegne della Lega Nord. Gli rispondo che per noi significa tagliarci le palle. Rilancio provocatoriamente: noi leghisti rinunciamo al simbolo, voi democristiani non vi presentate al Nord. Nonostante i tentativi di Formigoni di trovare un accordo, non se ne fa niente.» Contatti tra la Lega e Segni ancora non ce ne sono. «Quattro o cinque giorni prima, Segni aveva mandato un giovane repubblicano, Bicocchi, a una riunione che abbiamo avuto ad Assago con Pannella, una delle tante in cui si cercava di costruire la casa liberaldemocratica. Bicocchi era timidissimo e terrorizzato all'idea che qualcuno lo riconoscesse: "Che diranno i giornalisti?" ripeteva ogni tanto. Lo rivedo il 19 gennaio in un'altra riunione con la Maiolo e Sacconi, ma di Segni
ancora nessuna traccia. Domenica 23 vado ad Arcore da Berlusconi: si comincia a parlare di collegi perché è già molto tardi. Che emozione, ragazzi, per un milanista come me entrare nella Casa Madre. Berlusconi l'ha capito subito e mi ha fatto tenere in mano la Coppa dei Campioni. Be', era come toccare il Santo Graal.»
Lunedì 24 awiene il grande incontro. Alle 11, nella sede di Largo del Nazareno, nel portone a fianco del quartier generale romano della Fininvest, Mario Segni riceve la delegazione leghista formata da Maroni, Vito Gnutti e dal deputato torinese Giuseppe Valditara.
«Va tutto molto più liscio del previsto» mi racconta Maroni. «Quando Segni ci presenta il suo progetto di documento, Gnutti lo legge d'un fiato e rni dice: "Per me va bene così". Lo legge Valditara e aggiunge: "Per me, possiamo firmare anche subito". A quel punto sono io a dover fare un minimo di pretattica: "Sì, in linea di massima va bene, adesso sento Bossi, ci vediamo nel pomeriggio".»
«"Perderete la Bindi?" "Pazienza c'è la Pivetti..."»
Maroni chiama Bossi, e Bossi, sentendo che il documento si apre con la frase «La Repubblica italiana è una e indivisibile», sia pure col massimo di autonomie locali, chiede una sola integrazione: la legislatura dovrà essere costituente. Segni accetta senza battere ciglio e alle 18 il documento è firmato dalle due parti, facendo infuriare immediatamente il Pds e la sinistra, che accusano Segni di tradimento. «Perderete Rosy Bindi?» chiede a Segni un cronista impertinente, visto che
l'accordo impegna il Patto e che il Ppi ne fa parte. «Pazienza. C'è la Pivetti...» risponde Maroni. E Segni: «Non perderemo nessuno». E Berlusconi? «Dopo quello che è successo oggi, non c'è più bisogno che intervenga» dice Segni. Berlusconi, in effetti, chiama al telefono Maroni: «Non è più necessaria la mia discesa in campo?». E Maroni, che già sente puzzo di bruciato: «Aspetta un paio di giorni...».
Il futuro ministro dell'Interno ci vede giusto. Firmando l'accordo, Segni ha messo parecchie castagne sul fuoco di Martinazzoli, ma è Umberto Bossi che prowede a toglierle. L'indomani è inquieto, irritato più del solito. Ripete che la Lega ha molte anime, ha paura di una reazione negativa del suo elettorato.
Dice a Maroni che lui ha sottoscritto un certo accordo di programma e non altro: un conto è Segni, un altro sono i democristiani. Adesso, conclude Bossi la Lega non può allearsi con i Popolari. E a Milano, vede in un corridoio una troupe di Rete 4, la chiama e grida: «Mai con la Dc». Maroni fa finta di niente, Martinazzoli tira un sospiro di sollievo, Segni è affranto: «Bossi si è assunto una responsabilità gigantesca».
Spiega Saverio Vertone: «Bossi è quel cannibale che conosciamo. Ha avuto una libertà di movimento che in questo secolo è stata consentita soltanto a Hitler. Ha intravisto nel rapporto tra Segni e Martinazzoli un ancoraggio pericoloso e da questo punto di vista non ha avuto torto. D'altra parte, il linguaggio con cui ha strappato l'accordo tra Maroni e Segni fa parte del costume politico più recente. Segni è rimasto così una bandiera senza alfiere né asta. Maroni aveva fatto l'accordo con lui comprendendo che poteva dotare questa ban-
diera di asta e di alfiere. Contava sull'immagine di Segni dotandola della forza organizzativa della Lega e della spinta di Berlusconi. E andata come è andata. Ma il vento moderato continuava a spirare fortissimo. Segni ha alzato la vela, l'ha orientata, ma ha perso la rotta. Berlusconi l'ha alzata più tardi, imbroccando però la direzione giusta. Il suo successo non sarà legato ad Ambra e a Beaut~ful. Il Cavaliere approfitterà delle sue tre reti televisive non per influenzare l'elettorato, ma per informarlo della sua esistenza. Io ho questa vela, dirà, sta a voi gonfiarla».
Il 24 gennaio Berlusconi capisce già dalla telefonata con Maroni che non è il caso rinunciare al suo impegno politico e l'indomani compie il passo decisivo verso la candidatura. Convoca la responsabile della sua immagine, Miti Simonet-
to, chiedendole di predisporre la troupe per la registrazione del messaggio con cui annuncerà agli italiani la sua decisione di scendere in campo.
La Simonetto chiama Massimo Fusi, un bravo regista esterno al gruppo Fininvest, il direttore della fotografia Aldo Solbiati, il cameraman Roberto Gasparotti, un tecnico del suono, un elettricista. Bisogna trovare un angolo che si adatti alle necessità di una ripresa comunque delicatissima. Uno degli elementi basilari della fortuna politica di Berlusconi è il suo assoluto disinteresse per i giudizi dei grandi quotidiani d'informazione. Vincerà infatti a mani basse le elezioni politiche del marzo '94 e quelle europee del giugno successivo, nonostante l'atteggiamento nettamente contrario dei quattro maggiori quotidiani italiani («Corriere della Sera», «la Re-
pubblica», «La Stampa» e «Il Messaggero») e nonostante l'ossessiva campagna scatenatagli contro dall'«Espresso», che della sconfitta elettorale di Berlusconi ha fatto il proprio obiettivo editoriale dell'anno. I suoi collaboratori danno quindi per scontato che i giudizi dei giornali sul messaggio televisivo di Berlusconi saranno perfidi al massimo. Per questo non possono perdere la battaglia sull'unico fronte che interessa al Cavaliere: l'enorme pubblico dei telespettatorielettori.
Berlusconi ha sempre giocato con successo la carta dell'uomo qualunque che si è fatto da solo. La gente sa che è miliardario, ma lo considera psicologicamente il signore della por-
~ata accanto. Dunque l'angolo di casa dal quale Berlusconi
¨-' deve parlare alla nazione (perché in fondo di questo si tratta) non deve marcare con il pubblico una distanza che venga percepita come incolmabile, ma deve salvare l'immagine di una famiglia che certamente non compra i mobili a rate.
Miti Simonetto concorda dunque con il Cavaliere di registrare in casa, nella Villa Belvedere di Macherio. Nel suo studio c'è una scrivania troppo grande che viene sostituita con una più piccola, dello stesso legno chiaro della libreria. Molti libri, ma non troppi. Qualche cornice con le foto di famiglia, qualche soprammobile, un tagliacarte sulla scrivania. Viene
. tolta una lampada che rende squilibrata l'inquadratura, il ca-
: meraman fatica un po' a piazzare lo strumento di ripresa perché il campo dell'inquadratura dev'essere ampio e lo spa-
zio disponibile è poco. Una pianta viene portata sul set e poi tolta.
Berlusconi rientra dall'ufficio nella tardissima serata. Chiede alla Simonetto se è possibile rinviare la registrazione all'indomani, ma gli si risponde di no. Poiché la diffusione del messaggio è stata fissata per il primo pomeriggio del 26 gennaio, i tecnici vogliono un minimo margine di sicurezza.
Il trucco al quale si sottopone il Cavaliere non riesce a cancellarne la stanchezza, e allora dalla troupe viene il suggerimento di ricorrere a uno degli accorgimenti più vecchi e riusciti del cinema e della pubblicità: la calza. L'obiettivo della telecamera viene awolto in una calza da donna color carne che ammorbidisce ancor più le luci (per Berlusconi sono sempre morbidissime) e attenua i segni di stanchezza sul volto del Cavaliere. Su questo aspetto si aprirà una polemica tecnico-filosofica tra i «milanesi» e i «romani» della Fininvest. Paolo Vasile, direttore degli studi di Roma, dice che non avrebbe usato la calza perché se un uomo politico è stanco deve sembrare stanco. «Non si tratta di uno spot pubblicitario, ma di un messaggio politico. Tv verità, dunque, anche se l'immagine di Berlusconi è meno brillante.» I milanesi hanno agito invece seguendo alla lettera la tecnica della pubblicità vincente e gratificante. Berlusconi, a loro giudizio, doveva parlare dal Mulino Bianco e promettere agli italiani che li avrebbe condotti tutti per mano dentro il Mulino Bianco.
Probabilmente hanno ragione sia Vasile che i milanesi. Mettendoci dalla parte dei destinatari del messaggio, i soli che contano, è vero, come sostiene Vasile, che il politico deve
apparire per quello che è. Ma, a parte il fatto che Berlusconi non si è mai presentato in pubblico in maniera men che ordinata (e invece che cosa c'è di più naturale di un capello fuori posto o di una piega sulla giacca?), la stanchezza del leader è accettata in campagna elettorale. Berlusconi è impegnato come gli altri leader per l'intera giornata e sarebbe quasi paradossale se si presentasse sui teleschermi sempre fresco come una rosa. Diverso è il discorso di apertura, che vuole unire la forza del messaggio politico e le lusinghe dello spot pubblicitario.
Non a caso il breve discorso viene diffuso in coincidenza con l'apertura della campagna elettorale. Non a caso la stessa sera, con la stessa telecamera e la stessa calza, vengono registrati anche i primi spot elettorali del Cavaliere.
Berlusconi dunque si rassegna a prolungare la sua serata e comincia a provare la registrazione. E presente solo Niccolò Querci, l'assistente personale che ha seguito l'awentura politica del Cavaliere fin dalla prima cena con Giuliano Urbani. La moglie di Berlusconi, Veronica, esce ed entra dalla stanza con Eleonora, la figlia più piccola. Berlusconi usa il «gobbo elettronico», legge cioè il suo intervento in uno schermo sistemato all'interno della telecamera. Come i più navigati conduttori televisivi, peraltro, guarda di tanto in tanto i fogli che trattiene in mano per non dare l'immagine di chi abbia imparato a memoria la lezione. L'uomo del sorriso stasera sorride pochissimo. Un sorriso all'inizio, uno verso la fine. Per il resto (il discorso dura nove minuti) Berlusconi mantiene un tono grave, in sintonia con il messaggio che sta leggendo. Registra tre versioni del discorso. Come capita spesso, la prima è quella che viene approvata all'unanimità.
«L'Italia è il paese che amo»
Che cosa dice, Berlusconi? Comincia parlando dell'Italia: «E il paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato da mio padre e dalla vita il mio mestiere d'imprenditore. Qui ho appreso la passione per la libertà. Ho scelto di scendere in campo e di occuparmi della cosa pubblica perché non voglio vivere in un paese illiberale, governato da forze immature e da uomini legati a un passato fallimentare». Annuncia le dimissioni da tutti gli incarichi societari, ricorda l'affondamento dei vecchi partiti e la necessità di rinnovare la Repubblica. «Ma affinché il nuovo sistema funzioni, è indispensabile che alla sinistra si opponga un Polo deUe Libertà capace di attrarre a sé il meglio di un paese pulito, ragionevole, moderno. L'importante è proporre anche agli italiani gli stessi valori che hanno consentito lo sviluppo di tutte le grandi democrazie occidentali e che invece non hanno mai trovato cittadinanza nei paesi comunisti.»
E qui parte l'affondo: «Gli orfani e i nostalgici del comunismo non sono soltanto impreparati al governo del paese. Portano con sé anche un retaggio ideologico che stride con le esigenze di un'amministrazione pubblica liberale in politica e liberista in economia. Le nostre sinistre dicono di essere diventate liberaldemocratiche. Ma non è vero. I loro uomini sono sempre gli stessi, la loro cultura, i loro comportamenti sono gli stessi. Non credono nel mercato, nell'iniziativa privata, nel profitto, nell'individuo. Non credono che il mondo possa migliorare attraverso l'apporto libero di tante persone tutte diverse l'una dall'altra. Ascoltateli parlare, guar-
date i loro telegiornali pagati dallo Stato, leggete la loro stampa. Non credono più in niente. Vorrebbero trasformare il paese in una piazza urlante, che grida, che inveisce, che condanna. Per questo siamo costretti a contrapporci a loro. Perché noi crediamo nell'individuo, nella famiglia, nell'impresa, nella competizione, nello sviluppo, nell'efficienza, nel mercato, nella solidarietà. In una società libera di donne e di uomini, dove non ci sia la paura, dove al posto dell'invidia sociale e dell'odio di classe stiano la generosità, la dedizione, la solidarietà, l'amore per il lavoro, la tolleranza e il rispetto per la vita.
Forza Italia non è dunque l'ennesimo partito nato per dividere, ma una forza che nasce invece con l'obiettivo di unire, per dare all'Italia una maggioranza e un governo con un programma fatto di impegni concreti e comprensibili, vicino alla gente.» Berlusconi anticipa anche il programma di governo. «Un governo che sappia dare adeguata dignità alla famiglia, che sappia rispettare ogni fede e che susciti ragionevoli speranze per chi è più debole, per chi cerca lavoro, per chi ha bisogno di cure, per chi, dopo una vita operosa, ha diritto di vivere in serenità. Un governo che porti più attenzione e rispetto all'ambiente, che sappia opporsi con la massima determinazione alla criminalità, alla corruzione, alla droga. Che sappia garantire più ordine e più efficienza.»
Poi l'appello finale, in cui Berlusconi sorride per la seconda volta: «E possibile farla finita con una politica di chiacchiere incomprensibili, di stupide baruffe e di politicanti senza mestiere. Vi dico che possiamo, vi dico che dobbiamo costruire insieme, per noi e per i nostri figli, un nuovo miracolo italiano».
Ho trascritto quasi per intero il messaggio di Berlusconi perché su queste basi, a torto o a ragione, si muoverà per alcuni anni l'intera politica italiana.
Rileggiamolo insieme.
1. «Il paese che amo.» Gli italiani parlano spesso malissimo dell'Italia, ma quando ne sentono parlar bene, ne sono gratificati.
2. «Ho qui le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti.» Ricco come sono, potrei mandare tutti al diavolo a andarmi a godere i miei quattrini in capo al mondo. E invece ho deciso di combattere qui con voi perché sono uno come voi.
3. «Ho scelto di scendere in campo perché non voglio vivere in un paese illiberale... Rinuncio al mio ruolo di editore e di imprenditore per mettere il mio impegno a disposizione e offrire un'alternativa credibile alle sinistre e ai comunisti.» Come sopra, ma con la motivazione politica. Potrei offrire i miei servizi ai nuovi vincitori, come si preparano a fare molti miei colleghi, ma ho deciso di combattere per un ideale condiviso dalla gran parte di voi: l'anticomunismo. Molti analisti, soprattutto a sinistra, hanno sottovalutato la persistenza della pregiudiziale anticomunista in una parte consistente dell'elettorato italiano. Paradossalmente, come dimostra l'enorme quantità di voti riversatasi su Fini e la Mussolini nelle elezioni per i sindaci di Roma e Napoli alla fine del '93, la pregiudiziale antifascista è caduta assai prima della pregiudiziale anticomunista, nonostante la caduta del Muro e il
cambiamento di nome del Pds. Ancora una volta Berlusconi dimostra di conoscere il mercato elettorale meglio dei suoi awersari.
4. Nel momento in cui cade il vecchio sistema dei partiti e si passa alla Seconda Repubblica, fidatevi di chi «ha la testa sulle spalle». Anche qui gli awersari di Berlusconi ne hanno sottovalutato la capacità di impatto presso il grande pubblico. Il Cavaliere rappresenta il prototipo dell'uomo che si è fatto da solo e ha tutti i requisiti del buon padre di famiglia. Non ha ereditato per nascita (Agnelli, Pirelli), né per matrimonio (Gardini). Non ha acquisito aziende esistenti (De Benedetti). Ha fatto tutto da solo, sia pure con il beneficio di condizioni politiche e di mercato irripetibili. E dunque uno che ha saputo costruire e come tale si presenta all'elettorato. Sul punto forte della credibilità che nasce dalla propria esperienza imprenditoriale, Berlusconi tornerà alla fine del messaggio ammonendo gli elettori a non fidarsi «dei politicanti senza mestiere». Nonostante sia sempre più evidente che la politica richiede una dedizione totale (si guardi ai sindaci, anche di piccole città, che debbono di fatto abbandonare qualunque altro impegno), ancora una volta Berlusconi dimostra di conoscere il mercato elettorale puntando sulla diffidenza delle grandi masse nei confronti del politico professionale. Per la gente, professionismo politico significa arricchimento illecito. Alla larga, dunque.
5. Il Polo delle Libertà è garante dei valori che hanno favorito lo sviluppo delle grandi società occidentali rispetto ai paesi comunisti. Berlusconi torna sull'anomalia italiana che la quasi totalità degli analisti politici considera superata dopo la caduta del Muro di Berlino e la svolta di Occhetto alla
Bolognina. Berlusconi insiste sul continuismo dell'esperienza comunista («I loro uomini sono sempre gli stessi», mentre Tangentopoli ha fatto cadere tutti gli altri leader, e persistono nel non credere «nel mercato, nell'iniziativa privata, nel profitto, nell'individuo, nell'apporto libero di tante persone tutte diverse l'una dall'altra»). Il Cavaliere si dimostra più smaliziato di molti sociologi, puntando seccamente sul sogno individualista degli italiani e abbinando con molta abilità due valori molto diversi e potenzialmente perfino antitetici: l'individualismo dell'imprenditore che vuole essere libero di produrre senza vincoli e il rispetto dell'individuo, dell'uomo come tale, fondamento della dottrina cattolica costantemente rilanciato dal papa.
6. Ai cattolici Berlusconi fornisce garanzie in tutto l'arco del messaggio, insistendo su valori di base come «la generosità, la dedizione, la solidarietà, l'amore per il lavoro, la tolleranza e il rispetto per la vita» opposti alla «invidia sociale e all'odio di classe». Se l'odio di classe sembra una forzatura abbastanza estranea ai tempi, con il richiamo all'invidia sociale Berlusconi, invece, sa di condividere timori e disagi largamente diffusi anche presso la piccola borghesia.
7. Il punto in cui il Cavaliere si espone di più è l'attacco all'uso che «i comunisti» farebbero dei mezzi di comunicazione di massa, con una verosimile allusione alla Terza Rete della Rai («i loro telegiornali pagati dallo Stato»), probabilmente estensibile al nemico storico, il gruppo L'Espresso-Repubblica («leggete la loro stampa»). Oui Berlusconi tocca due corde molto sensibili dell'elettore moderato: la caduta degli ideali («non credono più in niente») e la sopraffazione verba-
le-culturale («vorrebbero trasformare il paese in una piazza urlante, che grida, che inveisce, che condanna»).
8. Dopo un ritratto critico della situazione italiana e la messa in guardia contro «i comunisti», Berlusconi lancia le reti della speranza e dell'ottimismo. Illustra le virtù di Forza Italia, che vanno in direzione esattamente opposta ai punti critici della sinistra sui valori di base (famiglia, lavoro, vita libera e serena) e rassicurano l'elettore moderato su alcuni punti chiave (criminalità, corruzione, droga, ordine, efficienza).
9. «Basta con la politica delle chiacchiere incomprensibili...» Berlusconi sa di andare a nozze con larga parte dei telespettatori, poiché tra le virtù dei politici della Prima Repubblica la chiarezza non era la più diffusa. «Basta con le stupide baruffe.» Ricordate le eterne liti nella maggioranza? «Con i politicanti senza mestiere.» Che vi aspettavate da gente senza retroterra professionale? «Vi dico che possiamo, dobbiamo...» L'isola felice è a poche bracciate da terra, abbiamo il dovere di buttarci in acqua per costruire tutti insieme, per noi e per i nostri figli, il nuovo miracolo italiano. Tre suggestioni vincenti insieme. La costruzione è un elemento attivo e stimolante. Il richiamo ai figli fa sempre molta presa sugli italiani, che sono da decenni i maggiori risparmiatori del mondo perché pensano più degli altri alla generazione successiva. Infine, la prospettiva del nuovo miracolo italiano. Che cosa abbiamo noi, sembra dire Berlusconi, in meno dei nostri padri che hanno costruito il primo miracolo economico lavorando sodo quarant'anni fa? Niente. Basta ricostruire le condizioni politiche e psicologiche per partire di nuovo. Io scendo in campo per questo. Forza Italia è nata per questo.
«Scende in campo il ragazzo coccodè»
La mattina del 26 gennaio viene impiegata dal gruppo della Simonetto nel lavoro di ripulitura e di edizione. Vengono doppiate le cassette, stabiliti i contatti con la Rai e la Fininvest, stabiliti i collegamenti. L'embargo viene fissato alle 17. Alle 17.30 Emilio Fede fornisce le prime anticipazioni nel suo telegiornale del pomeriggio ed è il primo a trasmetterlo integralmente nel telegiornale principale delle 19, imitato mezz'ora dopo da «Studio aperto» di Paolo Liguori. I due vengono immediatamente accusati di servilismo, ma se si guarda all'iniziativa con una certa freddezza non si può non riconoscere all'avvenimento una forte caratura giornalistica. Il Tg3 dedica al messaggio la sua copertina («Il dado è tratto») e trasmette una sintesi, come tutti gli altri Tg. Su Telemontecarlo Sandro Curzi strapazza subito Berlusconi in un editoriale, Tgl e Tg5 dedicano al messaggio approfondimenti più o meno ampi.
I principali quotidiani sbeffeggiano il Cavaliere. «La Stampa» affida il ruolo di killer a Curzio Maltese, la sua penna più brillante, saccente e velenosa in fatto di televisione. Lo studio: «In stile simil-Scalfaro... tragicamente ricorda da vicino il salottino di rappresentanza di Guido Angeli, il profeta di Aiazzone... Non un centimetro è lasciato al caso o al buongusto. Ovunque, la luccicanza del vuoto». Il discorso: «I toni sono da tema scolastico da quarta elementare... La banalità al potere». Maltese scrive peraltro che la Rai ha trasmesso brani del messaggio in un «Palinsesto da Minculpop»: «Il Tg della Terza Rete tronca e sopisce, attaccando a un breve passaggio
del discorso di Berlusconi un fluviale e caustico commento di Mauro Paissan («Mi ha fatto ridere... Per le sinistre Berlusconi in politica è un vantaggio»). Il Tg2 ha invece intervallato ampi brani del Berlusconi-pensiero con una maliziosa biografia per immagini del «grande amico di Bettino Craxi. Infine, il monumentale Tgl ha allestito un piccolo taLk-show. Tra gli ospiti, il nemico morale del Cavaliere, il beffardo Achille Occhetto». Occhetto definisce «risibile» il messaggio di Berlusconi, Eugenio Scalfari titola Scende in campo il ragazzo coccodè il suo editoriale su «Repubblica». Molto fredda l~accoglienza presso la Confindustria e i principali imprenditori.
Al di là del giudizio su Berlusconi, come capita spesso nel nostro paese, la classe dirigente (e i giornalisti in prima linea) dimostra di conoscere poco gli umori e le aspettative della gente. Vince l'Italia con partita Iva
«Passeggia, il microfono nella destra e la mano sinistra in tasca, chiude gli occhi e ti aspetti di sentire "... and more, much more than this, I did it my way".»Sembra Frank Sinatra, scrive sul «Corriere» Francesco Merlo per awertire i suoi lettori che no, l'ingresso in politica del Berlusca non è una cosa seria.
Lo scrive nel numero di lunedì 7 febbraio. E lo scrive raccontando il debutto in società di Forza Italia avvenuto il giorno precedente, domenica, a Roma alla presenza di una folla enorme. Tanto che Barbara Palombelli di «Repubblica» chiama i pompieri col cellulare e vengono evacuate, come si dice, un migliaio di persone, che sarebbe come togliere un
tappo di bagnoschiuma dalla vasca da bagno piena.
Chi sono questi sfigati che perdono la domenica mattina per andare a sentire Berlusconi o peggio per annunciare in pubblico il martirio della loro candidatura?, deve chiedersi Merlo. E va a fargli l'autopsia. All'inizio gli va bene («Pensi che non c'è niente di più facile da capire dei modelli smontabili»). Poi ne fa un ritratto più realistico: «Riconosci tanti tuoi fratelli, l'humus di un'Italia importante, vigoroso terriccio vegetale di commercianti, di professori, di industriali, viaggiatori di commercio, awocati, ufficiali, magistrati. Sono lettori di libri, uomini che passano un mese al mare, prenotano la settimana bianca, rispettano il matrimonio, arrossiscono quando li scoprono con l'amante... Riconosci ogni loro minimo gesto anche se portano i colori del reggimento della Fininvest come medaglie (la cravatta, le nacchere, la coccarda...). Non c'è verso che questi uomini si perdano facendo il giro del mondo... sono italiani che parlano l'inglese, è un'Italia in preda a chimere di liberismo».
Ritratto di fratelli, dunque, ma di quei fratelli che escono un po' male, niente di grave, ce ne sono in ogni famiglia, basta stare attenti a che non facciano troppi danni da piccoli e c`he non insidino l'eredità da grandi. Preoccupazione eccessiva, quest'ultima, perché in fondo sono pure un po' fessacchiotti.
Questo ritratto dei supporter di Forza Italia come di una comunità di alieni sarà per l'intera campagna elettorale una costante dei tanti Merlo che scrivono sui grandi quotidiani.
Giuseppe Tatarella, nella sua polemica del Ferragosto '94 sui «poteri forti» che tramerebbero contro il governo, mette nel mucchio anche i giornali più importanti. Ma lasciando perdere la dietrologia, c'è in molti giornalisti - durante la campagna elettorale per le politiche del '94 - una certa prevenzione antropologica unita a una forte miopia sociale e professionale. La simpatia per i progressisti, la certezza della loro affermazione, porta molti osservatori a non capire che l'Italia non è quella che ci si racconta in alcune terrazze romane, in qualche salotto buono di Milano e in qualche villa della collina torinese. Che la Lega va ben al di là di alcune impresentabili uscite di Bossi, che Alleanza nazionale non è un covo di nostalgici in doppiopetto e che Forza Italia è qualcosa di più complesso di Berlusconi che passeggia sul palcoscenico come Frank Sinatra.
Gli stessi cronisti che sbeffeggiano la discesa in campo del Cavaliere hanno perseguitato per anni i democristiani imprudentemente collocati a destra di Sergio Mattarella e di Rosy Bindi. Buttiglione, liquidato a lungo come un curioso reperto di sacrestia, verrà salutato come un nuovo Churchill solo quando Veltroni e D'Alema diranno (giustamente) a una voce che senza i moderati non si governa l'Italia di fine secolo.
Ma a febbraio è troppo presto per capirlo, Occhetto viene accolto nella City di Londra e alla Nato di Bruxelles come il vincitore delle imminenti elezioni, e Berlusconi serve soltanto per arricc~ire di folclore una campagna elettorale dall'esito scontato, a sinistra.
L'ha scrittO anche Giampaolo Pansa, a suo tempo scrupo-
loso biografo di Bisaglia e ora Gran Guru della sinistra. L'ha scritto sull'«~spresso» a fine gennaio: «Cipolla Rosa trionferà. Vincerà l'Alleanza progressista... Berlusconi può anche combattere per un pugno di parlamentari che tutelino gli interessi Finin~est e il missino Fini non è così pazzo da immaginarsi allaconquista del governo...».
La prima convention di Forza Italia è certo qualcosa di completamel~te inedito nel panorama politico italiano. C'è innanzitutto la presentazione in società di candidati che non hanno maifatto politica. Il dirigente milanese. Il chirurgo che viene daorino. L'imprenditore agricolo umbro. La vignaiuola abr~lzzese. E poi l'awocato, il piccolo industriale, la moglie del calciatore Scirea, il magistrato anonimo e la superstar Titti l~arenti («Violante e i suoi stanno percorrendo la via giudizia~ia al socialismo»). C'è l'economista Antonio Martino («Esenzione dagli oneri per le aziende che assumono, esenzione fiscale per i profitti reinvestiti, riduzione della fiscalità...»). c'è l'ideologo della prima ora, Giuliano Urbani («Altro cheaf. Nella Prima Repubblica c'era la Foca, perché accanto a Craxi, Forlani e Andreotti manca la O di Occhetto...»).
Berlusconi rilancia i temi già toccati nel primo messaggio televisivo ( ostruiremo un nuovo miracolo italiano»), spiega perché ha deciso di scendere in campo («Non farlo sarebbe stata una omissione di soccorso»), annuncia accordi con Fini e con Bossi («Ma l'Italia rimarrà una»).
Emilio Fede trasmette in diretta i quaranta minuti di discorso del Cavaliere e si ripete la sollevazione del 26 gen-
naio, quando Berlusconi annunciò la sua «discesa in campo».
Ma paradossalmente non è Berlusconi a far notizia in campagna eletto~ale, quanto la gente che va a spellarsi le mani a ogni sua b~ttuta.
Una seta al Piper di Roma
Per vederla da vicino vado una sera al Piper di Roma, luogo rnitico d'incontro della gioventù nei mitici anni Sessanta.
Nel biglietto d'invito, gli organizzatori del Movimento giovanile di Forza Italia ti danno del tu. E una roba da ragazzi. E infatti dentro questo enorme catino che vide i trionfi di Patty Pravo c'è qualche rnigliaio di giovani. Mai visti tanti ragazzi in giacca e cravatta dai tempi delle feste di terza liceo della mia generazione (che è appunto quella che ballava con Patty Pravo). Un esercito di blazer e cravatte regimental, di chiome ben pettinate, di ragazze ben vestite. Un'aria di buona famiglia. Un'aria che non s'era mai sentita in politica, dove i giovani di destra s'erano chiusi per decenni nel loro serraglio e al massimo sbeffeggiavano con un saluto romano i passanti che gli tiravano noccioline. Dove i giovani di centro, che sarebbero poi in larga parte i democristiani, compivano sporadici e memorabili atti di eroismo aggregandosi nei congressi di partito e srotolavano le loro bandiere soltanto in occasioni come i funerali di Aldo Moro. E dove la scena era dominata dai giovani di sinistra, i soli legittimati a occuparla, a non sentirsi protagonisti abusivi dello spettacolo politico italiano.
Così, entrando al Piper in una fredda sera di fine inverno,
scopri un altro miracolo del Diabolico Comunicatore di Arcore: aver aggregato il centro-destra senza farlo vergognare di essere centro-destra, cioè di riconoscersi in una parolaccia. L'invito nella discoteca storica dei giovani romani è finalizzato alla presentazione dell'ultimo prodotto del Grande Venditore: l'enorme forno a microonde della politica maggioritaria (sognata da Segni, costruita da Mattarella, benedetta da Occhetto: tutto a beneficio di Berlusconi) per scongelare come d'incanto il 10 per cento, solo in parte emerso, dei voti storici della destra italiana erede della Buonanima e farlo lievitare fino al 40-45 per cento dei voti moderati che in nessun caso vorrebbero il Pds al potere e in parte avrebbero accettato Segni, ma alla fine non si sono fidati più. Temevano infatti che la fragile virtù dell'eterno ragazzo di Sassari e anche quella più solida dell'avvocato Martinazzoli da Brescia al momento giusto sarebbero crollate davanti alla danza del ventre della Grande Odalisca dell'Alleanza di sinistra che sarebbe poi la Rosy Bindi.
Ecco perché nel catino del Piper c'è un «Grazie Silvio» enorme e intermittente. E fontane tricolori. E trenta televisori che in attesa del discorso mandano in onda il marchio di Forza Italia. C'è pure, tra i giovani di buona famiglia in giacca e cravatta che mai avevano osato accostarsi alla politica, anche una discreta fetta di quella Dc romana che non è mai stata un faro di trasparenza e che tenta disperatamente di mimetizzarsi nel Mitico Nuovo. Ma al Cavaliere (e a Gianfranco Fini) hanno spiegato che con Michelini che va ad acchiappare voti per conventi e lo snobissimo Spaventa che partendo dalla residenza dei Parioli ha rispolverato il suo vecchio accento romanesco per fare breccia tra i vecchi artigiani del rione Mon-
ti, è meglio turarsi il naso e non buttare via niente.
Berlusconi passeggia davvero sul palcoscenico come Frank Sinatra ed è la sirena che conoscono tutti. Promette tanti miracoli da far scappare Sant'Antonio, ma poiché ha una vita di miracoli alle spalle e dice cose largamente condivise, perché non credergli? E infatti dice che gli ospedali vanno amministrati come aziende e ognuno deve potersi scegliere il luogo di cura (buoni salute). La scuola va riformata, ma lo Stato deve permettere a ciascuno una scelta paritaria (buoni scuola). Eppoi un fisco più leggero, assunzioni più semplici, incentivi agli investimenti. Ma quel che colpisce di più i giovani incravattati che si spellano le mani è il carisma che Berlusconi butta sapientemente sul piatto, mentre la musica va in crescendo: «Vi prometto che darò tutto me stesso per non deludervi mai». Per cui votarlo è il minimo, ma proprio il minimo, con cui uno possa ricambiare.
I sondaggi (non solo quelli di Pilo) danno infatti in forte crescita il partito del Cavaliere. Secondo il Cirm di Nicola Piepoli (un istituto che lavora molto per le aziende e anche per la sinistra), il 10 gennaio solo il 6 per cento degli italiani è disposto a seguire Forza Italia, mentre il 23 per cento voterebbe Centro (stessa percentuale al Pds), il 16 la Lega di Bossi e il 10 Alleanza nazionale. Ma già il 28 gennaio, due giorni dopo il proclama televisivo del Cavaliere, Forza Italia schizza al 13 per cento, a tutto svantaggio della sinistra, del centro e soprattutto di Bossi che perde quattro punti. Il 17 febbraio, dieci giorni dopo la prima convention di Roma, Berlusconi è accreditato del 25 per cento dei voti, Bossi è precipitato al 10, il Centro al 16, An resta ferma al suo 10. I progressisti sono scesi al 33 per cento, mentre l'aUeanza Berlusconi-Bossi-Fini
è accreditata del 45 per cento (due punti in più di quelli che avrà il 27 marzo). In meno di un mese Berlusconi ha stravolto la geografia politica del paese.
«Forza Italia? Italiani con la partita Iva...»
Anche i giornali che non lo amano affatto, come «Repubblica», debbono chiedersi seriamente, al di là delle battute di Scalfari sul ragazzo coccodè, che cosa sia dawero l'Italia di Berlusconi. Del servizio viene incaricato un giornalista prestigioso e intelligente della vecchia guardia, Sandro Viola.
Solo recentemente Viola ha cominciato a guardare l'Italia dopo una vita trascorsa come inviato all'estero. Più di vent'anni fa, quando «Repubblica» non esisteva, Viola era uno dei maggiori inviati della «Stampa». Bernardo Valli stava al «Corriere» e i due andavano sempre a braccetto, sia che dovessero evocare i fasti di Hemingway al bar del Palace di Madrid sia che dovessero cantare le gesta del maggiore rivoluzionario Otelo de Carvalho al bar del Tivoli di Lisbona. Nelle grandi occasioni (morte di Franco, rivoluzione portoghese) ai due si univa l'intera colonia degli inviati italiani. Ma subito dopo pranzo, Viola e Valli andavano a sedersi in disparte, a scambiarsi notizie e valutazioni, ristabilendo il primato dei loro due grandi giornali e facendo impazzire di gelosia Franco Pierini, inviato del «Giorno» che si considerava il numero tre e soffriva molto per l'esclusione.
Incuriosito dalle gesta del Cavaliere, a fine febbraio Viola se ne va a spasso per l'Oltrepò, in pieno territorio leghista, e scopre quanto segue: «Dietro le bandiere di Forza Italia si
muove un esercito con connotazioni marcatamente popolari. Non solo "nani e ballerine", non solo "yuppies" di provincia, non solo calciatori e funzionari Fininvest. Sono gli stessi italiani che votavano per la Dc, per il Psi per il Psdi, per il Pli e che sul finire degli anni Ottanta hanno cominciato a votare per la Lega. Malgrado l'ignoranza, malgrado le tante pecche (l'insulto facile per l'ambulante di colore, l'evasione fiscale, la convinzione che i napoletani siano tutti ladri e i siciliani tutti mafiosi), brava gente. Italiani. E in più, italiani molto spesso con la partita Iva: quelli che hanno lavorato, prodotto, risparmiato, consentendo al paese di soprawivere nonostante la gestione disastrosa della cosa pubblica condotta dai vecchi partiti».
Ma Viola fa di più. Vuole capire l'umore dell'elettorato leghista. Sente che elettori leghisti piantano l'Umberto quando vedono che a Pavia il Cavaliere candida «Giampiero Beccaria, l'amministratore delegato della Necchi, un vero manager. E Giacomo Ghislanzoni, un agricoltore che sa il fatto suo. Con persone come queste si possono fare i programmi, mandare in galera i ladri, risolvere i problemi...». Gli spiega Lorenzo Rampa, candidato del Pds sulle ceneri di un partito travolto dagli scandali: «L'impressione è che la Lega avesse fornito una carica di protesta ma non un modello e che Berlusconi funzioni adesso proprio in questo senso, il modello da ammirare e imitare...».
In conclusione, fin dal 23 febbraio, Viola - che certo non voterà Forza Italia - consiglia ai «veri democratici»: «Niente polemiche sulla vittoria degli awersari. Solo una disamina coraggiosa, il più possibile lucida e sincera, dei propri errori».
Questo scrive Viola su «la Repubblica». Gli elettori dell'Oltrepò pavese (e anche gli altri elettori italiani) non si son lasciati evidentemente impressionare dalla discesa in campo di un protagonista inatteso della campagna elettorale: la magistratura.
Scende in campo la magistratura
Il pomeriggio dell'11 febbraio, mentre all'inizio del viale del le Belle Arti in Roma i più bei nomi della politica e della diplomazia partecipano al ricevimento dell'ambasciata italiana presso la Santa Sede per i sessantacinque anni dei Patti Lateranensia Milano nella caserma della Guardia di Finanza di via Fabio Filzi a Paolo Berlusconi viene consegnato un mandato di arresto per corruzione firmato dal giudice Italo Ghitti su richiesta di Antonio Di Pietro. L'accusa è di aver versato una tangente di 900 milioni per la vendita al Fondo Pensioni della Cariplo di tre palazzi di Milano 3 tra il 1983 e il 1986. Paolo Berlusconi replica di aver pagato una normale mediazione di affari a Giuseppe Clerici, un ex dipendente della banca che ha lasciato il servizio per fare il consulente del servizio immobiliare. Gli vengono concessi gli arresti domiciliari. Ma il Cavaliere, che sta preparando la conferenza stampa per annunciare l'accordo elettorale con Bossi, capisce che la sua campagna elettorale sarà più complessa del previsto, se i giudici vanno a indagare su suo fratello per episodi awenuti dieci anni prima.
In verità stavolta la rete dei giudici di Milano è più larga e quando viene tirata su, oltre alla balena Berlusconi, ci sono anche due capodogli: il dirigente Fiat Antonio Mosconi è ac-
cusato di un versamento di 200 milioni all'eurodeputato Cesare De Piccoli per «la campagna elettorale dell'onorevole D'Alema». D'Alema parla di calunnie e i telegiornali vanno dove li porta il cuore, così da far scrivere a Curzio Maltese sulla «Stampa» che anche le disgrazie vogliono il loro Manuale Cencelli, cioè il loro dosaggio politico. Per un Emilio Fede che si stringe affettuosamente alla famiglia Berlusconi «colpita negli affetti più cari», c'è un Tg3 quasi monografico in difesa di D'Alema che «prova schifo».
Passano cinque giorni e, mentre Paolo Berlusconi torna in libertà, quello che per il Pds sembrava un piccolo e giocoso capodoglio incappato per caso nella rete di Di Pietro, diventa la balena di Pinocchio. Accade che Renato Morandina, maestro in pensione e responsabile dell'organizzazione del partito in Veneto, ammetta di avere due conti cifrati nelle banche di Lugano dove sono stati versati i 200 milioni della Fiat per prowedere alla campagna elettorale del partito nelle elezior~i politiche del '92. Viene di nuovo chiamato in causa D'Alema che si difende con vigore. Occhetto impazzisce di rabbia, urla contro Craxi che ha mandato un dossier alla magistratura sui finanziamenti del Pci, awerte che la campagna elettorale rischia di trasformarsi in una guerra di dossier, insiste nella richiesta di una tregua giudiziaria in vista delle elezioni correndo a protestare al Quirinale da Scalfaro che ha una buona parola per tutti.
La vicenda offre spunto allo storico Piero Melograni per scrivere sul «Corriere»: «Tutti i partiti hanno contribuito alla gigantesca diffusione della corruzione politica, anche il Pci: non soltanto con il consociativismo, non soltanto chiedendo e ottenendo soldi dall'Unione Sovietica, ma anche organiz-
zando una rete di amministratori straordinari composti da funzionari di secondo piano, proprio allo scopo di proteggere la segreteria nazionale, gli amministratori ordinari e quindi il partito stesso dagli scandali e dalle eventuali indagini della magistratura».
Melograni cita un brano delle memorie di Gianni Cervetti, già membro della segreteria del Pci, nel libro fresco di stampa L'oro di Mosca. Rivela Cervetti che dopo uno scandalo che aveva coinvolto nel 1975 i dirigenti del Pci di Parma, Berlinguer disse durante una riunione della segreteria nazionale: «Occorre ammettere che ci distinguiamo dagli altri non perché non siamo ricorsi a finanziamenti deprecabili, ma perché nel ricorrervi il disinteresse dei nostri è stato assoluto».
(Ho chiesto a Occhetto di commentare questa testimonianza nell'estate '94 e la sua risposta è stata questa: «Quando vennero fuori le prime vicende che coinvolgevano i nostri compagni di Milano, io chiesi pubblicamente scusa. Dissi che non poteva esistere nel Pds una doppia morale, una morale da esibire in pubblico e una morale interna al partito. Quello che è immorale per lo Stato, lo è anche per il partito. Se io venissi a conoscenza di finanziamenti illeciti al Pds, andrei subito dal magistrato senza aspettare il giudizio interno al partito. Anche da noi, comunque, momenti di finanziamento illecito ci sono stati. Ma abbiamo negato di essere nel cuore di quella grande macchina che si chiama Tangentopoli».)
Mentre la pace stenta a tornare nelle file del Pds, a due settimane dalle elezioni è di nuovo Berlusconi nel mirino della Procura di Milano. Mercoledì 9 marzo alle 13 il Tg5 di Enrico
Mentana trasmette la notizia che i giudici di Mani pulite hanno chiesto di arrestare Marcello Dell'Utri amministratore delegato di Publitalia (la cassaforte pubblicitaria della Fininvest) e altre cinque persone per falso in bilancio. La notizia è vera, i giudici si arrabbiano e aprono un'inchiesta giudiziaria. (Non si ha invece notizia di provvedimenti per la fuga di interi verbali di interrogatorio a imputati di Mani pulite pubblicati regolarmente dai principali settimanali fin dalla primavera del '92.) Nel pomeriggio dello stesso giorno, mentre Dell'Utri si difende durante un lungo interrogatorio, la Guardia di Finanza compie accurate perquisizioni negli uffici della Fininvest.
n Cavaliere furioso a Palazzo Pallav*ini
La notizia raggiunge Silvio Berlusconi mentre sta per varcare la soglia di Palazzo Pallavicini Rospigliosi, a metà strada tra il Ouirinale, la sede della Consulta e la residenza romana di Giovanni Agnelli in viale XXIV Maggio. Lo ha invitato la principessa Ninì Pallavicini, che molti anni fa mi dette udienza a palazzo quando il suo sostegno al vescovo tradizionalista Lefèbvre era diventato imbarazzante perché il prelato si era messo a ordinare sacerdoti e la Santa Sede aveva fischiato il fuori gioco. Il Cavaliere è nero e non in omaggio all'aristocrazia che lo ospita. Bacia la mano a Liù Borghese, la bella principessa che ordina all'autista Ambrogio i cioccolatini Rocher nella pubblicità della Ferrero. Ammira Barbara Massimo, saluta i Ruspoli, gli Orsini, i Ruffo di Calabria, gli Odescalchi, i Lancellotti. Non s'awede nemmeno che mancano i Colonna per una vecchia storia di assistenza al Soglio Pontificio. Poi va accanto a Gianfranco Fini e sbotta: «Mi vergogno di quello che sta succedendo. Mi sembra che la vo-
lontà di intervenire in un momento delicato come questo per cambiare i risultati elettorali sia una cosa indegna di un paese civile». L'indomani va da Scalfaro a presentare un esposto contro il giudice Gherardo Colombo, titolare dell'inchiesta. Protesta il procuratore Borrelli: «E un'infamia».
Il pubblico ama molto i giudici di Milano, ma i sondaggi Cirm portano il Cavaliere dal 26 al 28 per cento.
Il 18 marzo Berlusconi si presenta improwisamente a palazzo di giustizia per stringere la mano a Borrelli, ma tappata una falla, gli se ne apre subito un'altra. Domenica 20 marzo (manca una settimana alle elezioni) cominciano a girare voci che vedono coinvolto Marcello Dell'Utri (sempre lui) in affari di mafia. L'interessato naturalmente smentisce, i magistrati siciliani pure, ma la cosa finisce sui giornali (titola «la Repubblica» del 21 marzo: «Berlusconi ai raggi X. Ordinate indagini sui rapporti con nove boss»). Il Cavaliere è proprio a Palermo, per la convention siciliana di Forza Italia. Parla di «golpe bianco», dice che se si continua di questo passo si rischia di perdere la libertà. «Chi sono i registi degli attacchi a Berlusconi?» si chiede su «La Stampa» Augusto Minzolini. E a Palermo raccoglie questa risposta di Domenico Mennitti, uno dei consiglieri politici del Cavaliere: «Faccio un esempio. Io sono sicuro che Andreotti è tutt'altro che uno stinco di santo, ma al bacio di Riina proprio non ci credo. Però per dimostrarlo bastano tre pentiti. E anche qui per Berlusconi, come al solito, escono tre pentiti. E allora? C'è qualcuno che vuole fare qualche operazione... Chi? Solo dei coglioni come i dc potevano dare la presidenza dell'Antimafia a uno come Violante. Ormai quelli hanno conquistato le procure. Per dir-
la tutta, anche Occhetto e D'Alema sono tenuti a bagnomaria.... Perché noi non ci rivolgiamo a Scalfaro? Ma che volete che faccia Scalfaro, anche lui è sotto schiaffo. Il vero potere è quello: sono stati i magistrati in questi ultimi due anni a prendere le decisioni politiche più importanti. Ecco perché l'unica cosa che possiamo fare è alzare la voce. Anche perché dall'altra parte non tutti hanno coraggio».
Minzolini torna a Roma e il pomeriggio dell'indomani, lunedì 21 marzo, incontra proprio Violante a Montecitorio. I due si appartano e qui le versioni divergono. Secondo Minzolini, Violante gli dice: «La verità è che Dell'Utri è iscritto sul registro degli indagati della Procura di Catania, non di quella di Caltanissetta. E non si tratta di pentiti, questa volta. C'è un Pm di lì, si chiama Marino, che sta conducendo un'indagine di mafia su un traffico d'armi e stupefacenti. E l'inchiesta si basa non su dichiarazioni di pentiti, ma a quanto pare su intercettazioni ambientali. La cosa poteva venire fuori già in queste settimane, ma il capo della Procura ha preferito che tutto fosse rinviato a dopo le elezioni». Violante smentiscedice di essere caduto nella trappola di Minzoli~i e lo querela per diffamazione (il giornalista e il suo giornale confermano la loro posizione).
Berlusconi chiede di sospendere Violante da presidente dell'Antimafia (nell'intervista con Minzolini appare come uno spregiudicato divulgatore di segreti d'ufficio: di qui la querela). Violante aspetta invano la solidarietà del suo partito e poi si dimette.
Ma non è finita. Mentre si preparano i seggi elettorali, la giudice Omboni, applicata alla Procura di Palmi ed erede
della famosa inchiesta di Cordova sulle logge segrete della massoneria, per sapere se tra gli iscritti a Forza Italia ci sono dei massoni, invece di richiedere gli elenchi al partito che non avrebbe potuto negarli, manda contestualmente la polizia nelle sedi di Roma e di Milano. Stavolta la sollevazione è generale: anche le sinistre hanno capito che quattro clamorose iniziative giudiziarie contro la Fininvest in quaranta giorni dopo decenni di silenzio assoluto possono soltanto portare acqua al mulino elettorale di Berlusconi.
Occhetto e Berlusconi si incontrano in Tv
Come Dio vuole, si arriva al giorno delle elezioni. I veri contendenti sono due: Occhetto e Berlusconi. Il Bene e il Male. Il Male e il Bene, secondo i punti di vista. Il meccanismo infernale del maggioritario rende debolissimo il centro. Martinazzoli e Segni dicono cose molto ragionevoli, ma l'esperienza delle comunali di novembre ha insegnato all'elettore che nelle urne non c'è posto per mediazioni. La partita si combatte a schiaffi. O di qua o di là. Vengono i crampi allo stomaco a chi ha creduto per una vita nelle mediazioni, nel centro che guarda a sinistra, nelle convergenze parallele, nel progresso senza awenture, nella moderazione dinamica, nelle soluzioni articolate. Bossi per tutta la campagna elettorale ha coerentemente annunciato gli sfracelli che accadranno nei sei mesi successivi. («All'interno del Polo delle Libertà deve vincere la Lega.» «Se non vince il Nord, secessione.» «Siamo un Winchester con due pallottole: una per i nemici, una per i fal si amici.» «Votare Forza Italia? Sì turandosi il naso.») Ma la grande scommessa, abbiamo detto, è tra Occhetto e Berlusconi. S incontrano una volta alla radio e una a Canale 5. Il con-
fronto televisivo awiene mercoledì 23 marzo, quattro giorni prima delle elezioni. Raccontano gli uomini di studio della Fininvest: «Il Pds manda in avanscoperta un regista televisivo di cui si fida. E Sergio Spina, responsabile di "Mixer". Spina guarda la scenografia, controlla le luci, chiede un bilanciamento delle inquadrature, si informa sul punto massimo in cui lo zoom stringerà sui protagonisti e in particolare su Occhetto».
A Berlusconi i suoi raccomandano di dividere il discorso per non fare marmellate troppo vaste e confuse. Gli ricordano di guardare sempre l'avversario e di non commettere l'imprudenza di guardare in camera (cioè lo spettatore) per rispondere a una domanda di Occhetto. Sarebbe un errore di civetteria. Miti Simonetto cura con particolare attenzione l'abbigliamento di Berlusconi (solo dopo le elezioni riuscirà a fargli indossare cravatte più allegre). Per lui il trucco è morbido come sempre. Occhetto arriva con una pettinatura leggermente diversa. La sua sola preoccupazione è di non peggiorare.
Il dibattito viene seguito da dieci milioni di spettatori e va bene a entrambi, non ci sono picchi di spettacolo, gli esperti votano un sostanziale pareggio. Diverso il risultato di un sondaggio riservato del Cirm: «Si è indebolita l'immagine di Occhetto e dei Progressisti, anche se non si è consolidata quella di Berlusconi. Gli elettori propensi al pareggio danno un giudizio negativo di entrambi i contendenti per cui, paradossalmente e marginalmente, si sono rafforzati Lega Nord e Popolari. A questi ultimi, in particolare, tornerebbero molti consensi di donne e anziani che hanno sempre votato Dc. Si consolida comunque una intenzione di voto che porta il Polo
delle Libertà a essere maggiormente favorito in termini di maggioranza assoluta di seggi».
Si vota per due giorni, uno è stato aggiunto per riguardo alla Pasqua ebraica. Il ministero dell'Interno diffida tutti dal comunicare in anticipo i risultati, ma gli exit poll riservati dicono ai diretti interessati fin dalla domenica sera più o meno come stanno andando le cose.
«Cambia gusto chi mangia Nutella?»
Le urne si chiudono alle 22 del lunedì. Nel primo pomeriggio chiamo al telefono Nicola Piepoli capo del Cirm, l'istituto al quale la Rai ha affidato le proiezioni elettorali. Lo avevo incontrato un mese prima in aereo e mi aveva detto: «Ha già vinto Berlusconi, a meno che la sinistra non abbia un colpo di fantasia». Piepoli mi risponde con aria assorta, sta elaborando i suoi dati. Non voglio metterlo in imbarazzo chiedendogli una informazione proibita. Allora giro così la domanda: secondo lei, cambierà qualcosa rispetto a un mese fa? Piepoli lavora anche per la Ferrero e rni risponde: «Secondo lei, chi ha mangiato Nutella fino al venerdì perché dovrebbe cambiare gusti alla domenica?».
Berlusconi dunque vince. Vince con larghezza, ma non nella misura stratosferica che gli viene suggerita dal suo carattere, dai sondaggi di Pilo (che gli accreditano un 30 per cento), ma anche da quelli del Cirm (28 per cento). Così quando prima della chiusura delle urne Enrico Mentana lo chiama per comunicargli che gli ultimi dati gli accreditano un 25 per cento, facendo di Forza Italia il primo partito, il Ca-
valiere invece di saltare risponde con un laconico, delusissimo: «Ah...». In realtà, pianificando la ricerca su base nazionale, gli autori dei sondaggi non hanno tenuto conto dell'assenza di Forza Italia in alcuni collegi della Puglia e della Calabria e di alcune situazioni anomale nelle Marche e in Abruzzo.
Berlusconi aspetta comunque le 22 in via dell'Anima con la sola compagnia di Gianni Letta, mentre in cucina il cuoco Michele prepara in gran segreto una enorme torta tricolore che sarà sfornata a notte fonda a beneficio di Gigi Vesigna e del fotografo di «Tv Sorrisi e Canzoni».
Poco prima delle ventitré lascio lo studio del «Rosso e Nero» dove si sta celebrando il funerale della sinistra (il mio vicino di sedia Giampaolo Pansa è letteralmente a pezzi) e vado nel quartier generale di Forza Italia al Jolly Hotel dove il Cavaliere mi ha dato appuntamento per le ventitré. Avevo chiesto di poterne seguire la giornata per il Tgl, ma lui scaramanticamente aveva rifiutato. Voleva starsene ad Arcore e solo l'insistenza dei suoi («La politica si fa a Roma, devi venire a Roma») lo ha trascinato in serata nell'attico di via dell'Anima dove gli exit poll lo hanno deluso e dove aspetta le prime proiezioni sui dati reali per decidere se festeggiare o no. Le conferme tardano. Così aspetto due ore in una saletta guardando la televisione accanto a Tiziana Parenti che credo preferirebbe cento processi Greganti alla bolgia e alla tensione di queste ore. Poco prima dell'una la porta si apre, si sentono delle grida, si capisce che gli uomini della sicurezza vogliono far passare qualcuno che la folla dei fotografi e dei cronisti non vuole far passare. Entra, affaticato e spettinato, Silvio Berlusconi. Si mette in ordine il doppiopetto, gli faccio
la prima domanda al microfono in diretta e lui s'accorge che sta per commettere uno sgarbo nei confronti della stampa e delle televisioni di tutto il mondo che lo aspettano nella sala grande. Si scusa, fa dietrofront, va da loro, inneggia alla vittoria, torna da me per la prima intervista in diretta e si lascia andare mettendo al presente tutto quello che in campagna elettorale aveva messo al futuro. E il vincitore, vuole governare. «Abbiamo rafforzato la libertà, ora prepariamo il buongoverno che il paese chiede.»
Forza Italia, primo partito
Con il 21 per cento dei voti, Forza Italia è il primo partito ed è la cosa che brucia di più a Occhetto staccato di sei frazioni di punto. Il Polo delle Libertà va oltre ogni attesa per numero di seggi alla Camera: 366 su 630 con il 43 per cento dei voti. Esplodono gli scissionisti democristiani: il Ccd di Pier Ferdinando Casini guadagna trenta deputati, grazie a sapienti accordi con Forza Italia che premiano molto, peraltro, anche Bossi e Fini: entrambi raccolgono in seggi molto più di quanto abbiano mietuto in voti. n Centro (Segni più Popolari) ottiene meno del 16 per cento e le perversioni del maggioritario gli portano soltanto 46 seggi: la sola Dc «perdente» del '92 ne aveva avuti 206. I progressisti ottengono il 34.4 per cento e 213 seggi. Rete, Verdi, Alleanza democratica e Psi non superano lo sbarramento del 4 per cento.
Il martedì pomeriggio intervisto Occhetto, Martinazzoli e Fini. Occhetto si dice pronto alle dimissioni se il partito gliele chiederà (in realtà, come vedremo nel capitolo dedicato al Pds, si aspetta una conferma congressuale) e sostiene che
Scalfaro deve dare l'incarico a Berlusconi. Lancia un'esca a Martinazzoli per una grande alleanza di opposizione, ma l'awocato di Brescia non ci pensa nemmeno: si è già dimesso senza nemmeno passare da Roma. Fini è naturalmente il più sereno di tutti. Ha fatto un pieno di seggi da non crederci. Va a trovare Berlusconi e da via dell'Anima parte un messaggio in direzione di Bossi: attento, non ci tradire. Alle nove di sera vado anch'io nella bella casa affacciata su piazza Navona per completare il ciclo d'interviste. Nel salotto più spazioso, due divani bianchi e un camino sovrastato dalla creazione in ferro di uno scultore americano incorniciano un grande tavolo ordinatamente ingombro di libri, cioccolatini, programmi di Forza Italia. Alle pareti, scene di caccia secentesche. Berlusconi è in gran forma. Viene in tuta blu che lascia trasparire al giro collo una camicia biancoceleste. Ha le scarpe da ginnastica bianche e durante l'intervista agita il pacco di fogli che ha in mano. «Sto già stendendo il programma di governo,» mi dice «ho trascorso la giornata in riunioni operative.» E conferma le promesse fatte prima delle elezioni, a cominciare dal milione di posti di lavoro. «Glielo ricorderò sempre» gli dico. E lui non si scompone affatto. Chiaro il messaggio agli italiani in ascolto. Ragazzi, qui non si perde tempo. Per la prima volta in cinquant'anni sapete da subito dopo le elezioni chi comanda. E non ve ne pentirete.
In realtà il Cavaliere impara subito a sue spese quanto sia complicato il mondo della politica italiana. Lo rivedo due volte a metà aprile e l'aria è già più pesante. Gli ricordo il 13 aprile: Bossi la accetterà come primo ministro soltanto se lei si presenterà spoglio di forti interessi.
(Avevo visto Bossi il giorno prima e lui, quasi parlando tra
sé e sfoderando un gran ghigno alla Forattini, mormorava in maniera quasi ossessiva: «Nudo, lo voglio nudo».)
«Bossi mi vuole far prendere un brutto raffreddore» risponde Berlusconi. «Agli elettori mi sono presentato con i miei vestiti, altro che nudo, e loro mi hanno dato fiducia. Comunque il problema esiste e verrà affrontato in tempi brevi, compatibilmente con i problemi di un gruppo che dà lavoro a quarantamila persone.» Ma non pare preoccupato più di tanto. Scalfari dice che non può fare il presidente del Consiglio? Gli manca una «o» finale per sostenerlo. Dicono che ha una squadra inadeguata? Garantisce che si può fare meglio del passato. Quanto durerà il suo governo? Cinque anni.
Due giorni dopo, il 15 aprile, si aprono le Camere. E Montecitorio vale dawero il viaggio. Sulla piazza deserta, mentre un centinaio di fotografi e cineoperatori vengono trattenuti a stento dietro le transenne, incontro Tiziana Parenti. E sola, vestita quasi dimessamente, emozionatissima. Entriamo e la rivoluzione ci viene incontro appena messo piede in Transatlantico. Quante facce nuove. E quante facce giovani. Dopo decenni non s'incontrano più Forlani, Craxi, Cariglia, La Malfa, Altissimo, De Mita, Giuliano Amato, Scotti, Rognoni, Bodrato, Fracanzani, Citaristi, Prandini, Vitalone, Gaspari, Sbardella, Cirino Pomicino, De Lorenzo, De Michelis, Di Donato, Martelli, Formica, Tognoli, La Ganga, Intini, Fabbri, Acquaviva, Pillitteri, Andò, Capria, Reichlin, Tortorella, Stefanini, Lama, Boldrini, Pecchioli, Chiarante... Per quasi tutti i nuovi non è bastato il solito «buongiorno onorevole» dei navigati commessi. A quasi tutti viene chiesto un documento di riconoscimento, prima dell'accredito formale. Ma quel che
impressiona di più, in questa grigia mattinata di aprile, sono i distintivi. I deputati della Lega portano all'occhiello l'Alberto da Giussano d'oro, quelli di Forza Italia e quelli di Alleanza nazionale il tricolore rettangolare e la Fiamma.
Nasce l'orgoglio di appartenere alla destra. Di appartenervi senza vergognarsi e anzi ostentando la militanza. Per i cronisti, che non conoscono nessuno e vagano alla ricerca di spunti di colore, quei distintivi sono una bussola infallibile. Sfilano davanti ai taccuini professori e commercianti, awocati e industriali. Quelli che vengono dal Nord hanno paura di perder tempo, hanno il terrore dei tempi e dei riti della politica romana. Come il Cavaliere («Basta una telefonata di Cossiga e parte mezz'ora»).
Cade Mirafiori, cade Sesto San Giovanni
Ma che cosa rappresentano questi uomini con il distintivo, soprattutto quelli che vengono dal Nord e hanno creduto nell'awentura di Berlusconi? «Gli italiani hanno votato una favola» scrive Massimo Fini sull'«Europeo». Il problema della sinistra è che la favola è nata lì dove alle fiabe non ha mai creduto nessuno. A Torino Mirafiori, per esempio. «Un rompicapo» lo definisce Paolo Griseri sul «Manifesto». Mentre la ricca collina torinese elegge il progressista Franco De Benedetti fratello dell'Ingegnere, «le decine di migliaia di abitanti delle periferie intorno alla fabbrica dell'Awocato hanno bocciato due candidati di grido della sinistra torinese preferendo due psichiatri di Forza Italia trasferiti di peso dai reparti ospedalieri a Montecitorio. Dopo questo risultato, la sinistra cittadina rischia di finire sul lettino dello psicanalista».
Che è successo? A Massimo Gramellini della «Stampa» uno dei due psichiatri trasferiti di peso, Alessandro Meluzzi, fornisce una spiegazione clinica: «Hanno perso perché sono depressi e generano depressione. La sinistra dei Rossi Antichi prometteva il paradiso in terra. La sinistra degli Uomini Grigi promette solo di razionalizzare la miseria».
Stessa storia in quella che fu la Stalingrado d'Italia, Sesto San Giovanni, alle porte di Milano. «Hanno vinto i Brambilla» constata Fabrizio Ravelli di «Repubblica» e fornisce la seguente spiegazione di uno dei vincitori, il signor Giuseppe Pasini, piccolo imprenditore di 64 anni: «Vede quei capannoni giganteschi, lì sotto? Sono della Breda. In quel deserto ci lavorano trentacinque operai. Quando qui a Sesto San Giovanni dicevamo che bisognava smetterla di pensare alla città-fabbrica, che bisognava occuparsi della piccola industria, ci ridevano in faccia. "Zitti voi, che esistete solo perché c'è la grande impresa." E i partiti? Lontani, una cosa separata: pensavano solo alle grandi aziende e a chi ci stava intorno... Lo Stato, a noi, non ci ha mai dato una mano. Doveva farsi promotore ed era solo controllore, ma un controllore per giunta confusionario, farraginoso, capace solo di mettere in mezzo una burocrazia mostruosa e inefficiente...». Le conclusioni le tira Riccardo Chiaberge sul «Corriere»: «Mentre Occhetto sfoggiava i Bobbio e i Foa e volava a Londra per captare la benevolenza della City, Berlusconi chiamava a raccolta i ghepensimì della Brianza, del Friuli, della dorsale adriatica. E ne ha avuto in cambio un consenso plebiscitario».
Eppure Berlusconi non dorme in un letto di rose. Se ne accorge proprio il 15 aprile, il primo giorno in cui mette piede
in Parlamento. Bisogna eleggere i presidenti delle Camere. Il Polo va tranquillo alla Camera, ma non ha la maggioranza al Senato. Berlusconi, per tendere la mano all'opposizione, sarebbe favorevole alla conferma di Spadolini, che da parte sua se la cerca voto su voto con l'adorabile perseveranza che gli era abituale. Ma gli alleati gli dicono che Spadolini è uno dei simboli della Prima Repubblica e quindi non se ne parla Le trattative con i Popolari vanno male e Berlusconi divide con Gianni Letta una delle tante colazioni amare dei suoi primi mesi di vita politica.
«Non farò più il governo. E finita.. .»
Vado a casa sua alle tre e mezzo del pomeriggio per un'intervista. Le luci ormai fisse degli uomini che gli curano l'immagine sono già accese. L'inquadratura del divano bianco diventa più profonda e accoglie in secondo piano un bel bronzetto del Cinquecento e un tronco di donna d'origine romana. Ma Berlusconi non viene. Anzi, viene ma mi dice che non può dare l'intervista: «Tra poco, forse in Senato eleggeranno Spadolini senza il nostro voto. E allora potrà accadere di tutto. Io non farò più il governo. E finita, è finita...».
Chiedo a Letta se hanno chiesto a Mancino i voti dei Popolari per Carlo Scognamiglio, il candidato della maggioranza. «Berlusconi gli ha parlato un momento fa, ma è andata male» mi dice.
Il Cavaliere esce, va alla Camera con l'orecchio al Senato.
~padolini non passa. Irene Pivetti, «donna, giovane, cattoli~a» secondo la definizione del suo sponsor Gianfranco Fini,
onquista con una passeggiata la presidenza della Camera.
gnarniglio ce la fa per un voto al Senato dopo un grotte-
~co errore di conteggio che porta Occhetto a festeggiare e
~procura una tragica delusione a Spadolini, già affetto dal cancro che lo ucciderà in agosto.
Berlusconi guarda ormai al governo. Fin dal momento della discesa in campo è stato l'unico a credere fermamente che
i Palazzo Chigi sarebbe stato suo. Adesso l'obiettivo è a portata di mano, ma sembra allontanarsi ogni volta che il Cavaliere sta per acciuffarlo.
Il primo a capire che non può negargli l'incarico, ma il primo infastidito da questa necessità è Scalfaro. Anche il presidente della Repubblica non è ancora abituato alle nuove regole del gioco, tanto invocate e adesso dure da mandar giù: chi vince le elezioni va a Palazzo Chigi. Se è vero che nella
` Prima Repubblica il presidente del Consiglio nasceva negli i nterminabili conciliaboli tra i partiti, era pur vero che tutti i presidenti della Repubblica si divertivano come matti: consultazioni interminabili, conciliaboli segreti mediazioni defatiganti. Adesso c'è poco da consultare. Fin dall'indomani delle elezioni le opposizioni per prime hanno detto: vediamo di che cosa è capace il Cavaliere a Palazzo Chigi. L'unico a far le bizze è il solito Umberto. Ma lo fa solo per alzare il prezzo e per far soffrire un po' l'odiato Berlusconi. E invece
Scalfaro pensa a un garante e il 24 aprile fa filtrare un identikit nel quale i giornali leggono il ritratto di Giovanni Spadolini. Fini e Bossi protestano e due giorni dopo Scalfaro proclama se stesso garante, oltre che della Costituzione e dell'unità nazionale, com'è doveroso, anche della politica estera, della solidarietà e di tante altre cose che mandano in bestia, di nuovo, la maggioranza.
Tre scogli: Mastella, Previti, Maroni
Il 28 aprile Berlusconi riceve l'incarico, il 10 maggio porta al Quirinale la lista dei ministri. Dodici giorni di passione con tre piaghe che rischiano di rivelarsi mortali. La prima si chiama Clemente Mastella, la seconda Cesare Previti, la terza R~ berto Maroni.
Berlusconi non vuole Mastella al governo. Considera l'ex portavoce di De Mita espressione del «vecchio». Pier Ferdinando Casini, leader del Ccd, non molla. Deve a Mastella molto del successo dei suoi candidati nel Mezzogiorno e si è impegnato a premiarlo. Berlusconi offre il Commercio con l'Estero. Casini vuole Pubblica Istruzione e Lavoro. Il primo ministero per consolidare i rapporti con il mondo ecclesiale che tiene moltissimo al «pluralismo educativo», il secondo per garantire un minimo di solidarismo cattolico alla politica thatcheriana del nuovo governo. Berlusconi accetta di cedere la Pubblica Istruzione, ma continua a rifiutare Mastella. Offre a Casini di entrare nel governo con un ministero di grande prestigio come la Difesa. Ma Casini non molla e alla fine la spunta.
Più complicato il discorso per Cesare Previti. Previti è un
importante awocato civilista romano al quale Berlusconi deve la soluzione di affari delicatissimi. I due sono amici da vent'anni, Previti ha partecipato a tutte le fasi più delicate della campagna elettorale e alle riunioni più complesse in casa Berlusconi. Ma quel che più conta è che Berlusconi e Previti hanno in comune alcune idee di base su come riformare la giustizia: separare le carriere del pubblico ministero da quelle dei giudici, introdurre il sistema maggioritario nell'elezione del Consiglio superiore, trovare una via d'uscita per non rendere perpetua Tangentopoli, cercare il sistema per rendere meno politicizzate le principali Procure della Repubblica italiane dove entrambi vedono l'ombra di Luciano Violante. Dice il ministro Previti a Bocca per il suo libro n sottosopra: «Violante aveva un uomo fidato in ogni ufficio per controllare tutto, per sapere tutto... Eravamo già in uno stato di polizia con una magistratura che infieriva sui non comunisti e proteggeva i comunisti».
I magistrati vedono Previti come il fumo negli occhi e approfittano di alcune uscite postelettorali del senatore per mandare a Berlusconi, direttamente o attraverso il Quirinale, messaggi di rivolta. Molti, inoltre, giudicano inopportuno che l'awocato che ha seguito le transazioni più importanti del presidente del Consiglio diventi ministro della Giustizia. Ma Berlusconi ha un senso elevatissimo dell'amicizia e non molla. Anzi, molla soltanto quando ormai la lista dei ministri è pronta (Previti alla Giustizia, Biondi alla Difesa) e Scalfaro gli fa sapere che se non c'è lo scambio non firma il decreto.
Terza piaga, il ministero dell'Interno. Qui Scalfaro sanguina perfino più di Berlusconi. Il capo dello Stato fa sapere che
mai un leghista dovrà andare al Viminale. La motivazione ufficiale è l'unità nazionale che un leghista metterebbe in pericolo. Su questo delicato problema Scalfaro ha dalla sua Fini e anche Berlusconi. Contro la candidatura di un leghista si muovono i prefetti (di questo sono casuale testimone proprio durante una breve visita al Quirinale); si teme che se nel Nord ci fossero mai rivolte secessioniste, il ministro leghista non autorizzerebbe la necessaria repressione. Ma ai problemi istituzionali Scalfaro ne aggiunge uno privato. La vicenda del Sisde lo ha reso ipersensibile e non è un mistero che il capo dello Stato vorrebbe al Viminale un ministro amico: Raffaele Costa, per esempio. O Giuliano Urbani. L'ideale sarebbe, anzi, Vincenzo Parisi, il capo della polizia, al tempo stesso protetto dal capo dello Stato e protettore discreto egli stesso.
La carta Di Pietro
Per venir fuori dall'impasse, Berlusconi pensa ad Antonio Di Pietro. Per il presidente del Consiglio sarebbe un formidabile colpo d'irnmagine, il timbro Doc più ambito che qualunque governo vorrebbe stamparsi sulla fronte. Ma anche Di Pietro forse avrebbe i suoi vantaggi. Come tutti i pugili imbattuti Di Pietro può avere la tentazione di uscire in bellezza da Mani pulite. Sa inoltre che un giorno l'inchiesta finirà. Ve lo vedete voi Di Pietro che fa di nuovo il turno degli arrestati? D'altra parte è questa la carriera dei magistrati, Di Pietro deve aspettare una decina d'anni per diventare procuratore capo della Repubblica di una media città. Certo, il Csm potrebbe stracciare i criteri d'anzianità e mandarlo domani per esempio a Palermo. Ma ricordate le difficoltà e le sofferenze di Falcone? Del doman non c'è certezza, anche se il giudice
decidesse di far politica in grande, come si dirà in autunno.
Dall'altra parte c'è il Cavaliere. Un imprenditore milanese è un po' ingombrante per il giudice che gli ha incarcerato il fratello, sia pure solo per qualche giorno e a domicilio. Però la tentazione di fare il superministro dell'Interno è forte. Camicia slacciata, pistola alla fondina e via a ridare speranza alle vecchiette che non escono per paura degli scippi e ai siciliani che pagano per paura della lupara. Oppure passare alla guida della polizia o della direzione antimafia o dei servizi segreti...
Di Pietro sostiene di non aver mai pensato di lasciare la magistratura. Eppure venerdì 6 maggio Berlusconi è convinto di poterlo convincere. Fini è d'accordo, ma Bossi fa una sparata terribile contro il giudice milanese. In cuor suo non gli perdona di averlo associato a Tangentopoli per la storia dei 200 milioni presi dall'amministratore della Lega. Ma ai suoi alleati dice che Di Pietro è convinto di aver fatto la rivoluzione, mentre il vecchio sistema politico, la partitocrazia, è caduta sotto i colpi di maglio suoi, dell'Umberto. Bossi anche in questa circostanza è abilissimo. Ostacola in ogni modo la candidatura di Di Pietro, ma riesce a non far filtrare la notizia.
La sua opposizione non sarebbe peraltro sufficiente a fermare Berlusconi se contro la candidatura Di Pietro non ci fosse l'opposizione di due personaggi di peso maggiore, Oscar Luigi Scalfaro e Francesco Saverio Borrelli.
«Come tutti quelli che hanno indossato la toga per pochis-
simo tempo, Oscar se la sente cucita ancora addosso» dice un arnico del presidente. Quando parla con gli alti magistrati, Scalfaro li tratta con la benevola autorità del collega più anziano. Così quando il «Corriere della Sera» pubblica un'intervista con il procuratore Borrelli che lancia un primo siluro a Di Pietro («Andiamo al governo solo se ci chiama Scalfaro», che come è noto non è presidente del Consiglio incaricato), secondo «Panorama», il capo dello Stato gli telefona per rallegrarsi.
A noi risulta che, nonostante queste difficoltà (manifestategli sabato 7 da Scalfaro in un incontro al Quirinale), Berlusconi non perde la speranza di avere Di Pietro al govemo. Lo stesso sabato il giudice, che pure non ha il problema del tempo libero, va a Roma per consegnare personalmente in Procura i vestiti del marito di Alberica Filo della Torre, vittima del «giallo dell'Olgiata». Berlusconi alle undici lo chiama sul cellulare. Di Pietro è a piazzale Clodio. «Possiamo vederci nello studio dell'avvocato Previti?» «Va bene, a che ora?» «Facciamo le tredici. Via Cicerone, 60.»
All'appuntamento Berlusconi e Di Pietro arrivano insieme. Si incontrano anzi per le scale perché Di Pietro ha sbagliato piano. Lo studio di Previti rivela la quotazione professionale del proprietario e la sua antica passione per il mare. E completamente foderato di cuoio e di legno pregiato secondo la tradizione dei prestigiosi velieri alla quale Previti peraltro si ispira con la sua grande barca ormeggiata a Cala Galera. Previti e Gianni Letta, che accompagna Berlusconi, escono dalla stanza e lasciano soli Di Pietro e il Cavaliere. Questi non ha nemmeno bisogno di fare formalmente l'offerta perché Di Pietro, che vede il presidente un po' incerto do-
po il colloquio con Scalfaro, gli dice subito che non ha intenzione di lasciare Mani pulite.
E stata una decisione completamente autonoma quella di Di Pietro oppure hanno avuto un peso decisivo le telefonate a tre che tra le undici e le tredici del primo sabato di maggio si sono scambiati Di Pietro, Borrelli e Scalfaro? III Di Pietro vs. Berlusconi. Un derby
Eccolo qua, il primo della lista. Camillo Benso, conte di Cavour. Ha lavorato tanto per unire l'Italia e s'è goduto la prima presidenza del Consiglio del nuovo Stato soltanto per due mesi e mezzo, dal 23 marzo al 6 giugno 1861. Un passo a destra e trovi Bettino Ricasoli, il secondo presidente. Poi Urbano Rattazzi, il terzo. Il primo Andreotti, nel senso della longevità politica, è Depretis: sei anni di governo nell'arco di undici. Quattro anni di governo per Giovanni Lanza: non lo ricorderebbe nessuno se non gli avessero intitolato la strada dove ha sede il Sisde. Sette anni (quattro più tre) per Francesco Crispi.
E chi osa parlare di vecchio riciclato per Giovanni Giolitti che macina undici anni e mezzo di presidenza in cinque governi nell'arco di trent'anni (1892-1921)? A parte il Cavaliere (l'altro), che resta in sella per vent'anni e nove mesi, la presidenza più lunga è quella di De Gasperi: otto anni ininterrotti dal '45 al '53. In fondo, Andreotti ha governato solo per cinque anni e mezzo nell'arco di venti. Meno di Moro (sette anni), più di Fanfani (cinque in cinque governi).
Guarda com'è giovane Forlani, sembra un playboy con quel ciuffo. Com'è formale, Spadolini, padre della patria da quando aveva i calzoni corti. Craxi è l'unico che ride. Sorridono De Mita e il povero Goria. Amato ha lo sguardo da dottor Sottile, l'unico che tenga la mano sul mento.
In bianco e nero i ritratti, in bianco e nero le foto. Manca Ciampi, devono aprire una nuova fila, ma questa galleria al piano nobile di Palazzo Chigi non piace a nessuno, forse Berlusconi la trasferirà nel suo grande appartamento al terzo piano, ma solo per mandare in cantina un'altra galleria di ritratti ancora più tetra.
Davanti ai ritratti, protetta da una vetrinetta, la copia originale della Costituzione. La firma ottocentesca di Umberto Terracini, quella rattrappita e indecifrabile di Alcide De Gasperi e quella da prim'attore di Enrico De Nicola, che spinge la coda della E a sottolineare il nome per intero.
Sarà tetra, questa stanza, attraversata da commessi in marsina silenziosi e rassegnati («Il primo di noi monta alle sei e mezzo del mattino, l'ultimo va via tardi la notte. Sa, il dottor Letta sta sempre qui. Poi lui era giornalista, abituato a far tardi...»).
Sarà tetra. Ma che emozione abbracciare con uno sguardo centotrent'anni di storia patria. Il Risorgimento e le guerre mondiali, il fascismo e la ricostruzione, le crisi e i miracoli economici, il terrorismo e il cavaliere del lavoro dottor Silvio Berlusconi che vuole fermarsi qui per almeno cinque anni.
Chi l'avrebbe detto? Lui. Lo incontro in casa sua - i divani
bianchi, le luci morbide, il camino, il bronzetto - la sera del giuramento al Quirinale. E stanco. Gli hanno procurato più grane quattro mesi di politica che trent'anni di edilizia e di televisione. Eppure, quando gli dico che mi fa una certa impressione immaginare che mentre noi parliamo sul suo mezzobusto compare la scritta «Silvio Berlusconi. Presidente del Consiglio dei ministri», lui risponde: perché? Ci aveva puntato fin dal momento della «discesa in campo». E forse, chissà, fin dall'ormai lontana sera di prima estate, nel giugno del '93, quando il professor Urbani gli aveva detto che...
Bisogna prenderne atto tutti. Anche De Benedetti. Anche Scalfari. Anche Claudio Rinaldi che gli ha dedicato più copertine (perfide) sull'«Espresso», fino a mettergli alla ripresa autunnale le orecchie d'asino, di quante (regali) ne abbia dedicate «Oggi» alla famiglia Savoia negli anni Cinquanta.
Silvio Berlusconi è il cinquantesimo presidente del Consiglio dell'Italia unita.
E ha gran voglia di governare. Dice nella nostra intervista, la sera del giuramento: «Pochi pensavano che ce l'avrei fatta, ma ho una buona squadra di governo». E alla domanda che lo inseguirà sempre, risponde: «Prometto un milione di posti di lavoro in due anni».
Passano cinque giorni e Berlusconi si presenta all'esame più difficile, la fiducia al Senato. «Ho fatto un sogno...» dice cercando di coinvolgere i senatori nella leggenda di Martin Luther King. Poi nella replica, quando vede che c'è il rischio della bocciatura, awerte: «Non esiste la possibilità di un Ber-
lusconi-bis. O la fiducia o si torna subito a votare. Altrimenti andremmo contro il voto della gente».
Scalfaro consulta freneticamente maggioranza e opposizione. L'opposizione sa che Berlusconi vuole andare alle elezioni anticipate per scaricare Bossi e governare in pace. Sa che il centro, colto ancora una volta in mezzo al guado, sarebbe semidistrutto e la sinistra ridimensionata. Dunque, ha interesse a che Berlusconi governi. Ma non fa niente per aiutarlo e il Cavaliere viene promosso per due voti: sono decisivi quattro popolari assenti che vengono sospesi dal partito. Il loro capo, Luigi Grillo, lascerà il partito e a metà settembre diventerà sottosegretario.
La maggioranza fa man bassa delle presidenze delle commissioni alla Camera, l'opposizione gliela fa pagare prendendosene più della metà al Senato.
Prima delle elezioni europee, mette a segno due colpi. Il G7 a Napoli va come meglio non potrebbe e il 9 giugno il Consiglio dei ministri adotta una prima serie di provvedimenti economici e fiscali che vengono accolti con molto favore dalle organizzazioni degli imprenditori.
Il trionfo delle Europee
Il Cavaliere, dunque, si presenta alle urne del 12 giugno col vento in poppa. I sondaggi gli danno il massimo di popolarità, ma forse nemmeno lui si aspetta il trionfo che gli decretano le urne. Rispetto alle politiche, Forza Italia passa dal 21 al 30.6 per cento, il Pds scende dal 20 al 19, la Lega dall'8.5 al 7, Alleanza nazionale dal 13.5 al 12.5, i Popolari dall'11 al 10.
Il Polo sfiora il 50 per cento, i Progressisti sono al 30, il Centro (compreso Segni) è al 13.
La nemica «Repubblica» titola: «Berlusconi in trionfo». La sera stessa il Cavaliere dichiara: «O l'opposizione ci lascia governare o andremo a un nuovo voto. Se queste elezioni fossero state politiche, Forza Italia sarebbe vicina al 40 per cento. Anzi, penso a un obiettivo ancora superiore». La Doxa, rivelando i risultati di un sondaggio fatto immediatamente prima delle elezioni, dichiara che il 66 per cento degli italiani ha fiducia nel presidente del Consiglio. L'osservatorio della facoltà di sociologia di Roma rivela che il Cavaliere ha sbaragliato il campo soprattutto nelle aree affollate o depresse del Sud: Napoli, Bari, Palermo, Catania, Taranto e Messina, lì dove il Pds subisce un tracollo rispetto alle politiche, mentre la Lega riesce a toccare il 14 per cento soltanto in poche aree dell'Italia Felix (Bergamo, Mantova, Vicenza).
La tentazione delle elezioni anticipate diventa a questo punto irresistibile.
1. Il Ppi resta senza guida e senza una politica chiara.
2. Il Pds ha perso Occhetto e si presenta spaccato sulla successione.
3. La Lega perde in favore di Forza Italia.
4. Alleanza nazionale tiene a fatica e Fini non può permettersi in nessun caso di abbandonare il Cavaliere.
Alla Camera, Berlusconi ha 138 deputati contro i 228 di Fini e Bossi con i quali il Cavaliere è stato molto generoso al momento delle candidature. Guardando al Senato, i risultati delle Europee consentirebbero a Forza Italia di guadagnare da sola 187 seggi, cioè una larghissima maggioranza assoluta. Infine, Forza Italia è prima in 14 regioni su 20 (nelle altre è seconda) e in 72 province su 94, contro le 37 delle politiche.
Dichiara Renato Mannheimer, il più attento analista di flussi elettorali: «A dispetto dei luoghi comuni, Forza Italia è votata da tutti i generi di persone, di tutte le età e le condizioni sociali».
Eppure, proprio nel momento del trionfo, Berlusconi comincia a diventare più debole. L'atteggiamento di Bossi (che alle piccole amministrative del 26 giugno, dove le opposizioni prendono fiato, flirta con Ppi e Pds) trasforma una corposa maggiOranza elettorale in una sostanziale minoranza politica, mentre Scalfaro chiude definitivamente la porta in faccia alle elezioni politiche anticipate, minacciando il ricorso a un non meglio precisato «governo istituzionale».
A questo si aggiungono alcuni formidabili errori come il decreto Biondi sulla carcerazione preventiva.
Da almeno un anno la maggioranza delle forze politiche (anche di opposizione) ritiene che la magistratura faccia un uso troppo disinvolto della carcerazione preventiva. Le Pr~ cure di Napoli e di Palmi hanno calcato la mano oltre il necessario con Vito Gamberale, amministratore delegato della Sip, e con Franco Viezzoli, presidente dell'Enel. Al primo è
stato negato perfino un colloquio con il confessore, il secondo ha pagato pesantemente la decisione di non dimettersi dall'incarico. Ma il problema, che viene seguito con apprensione anche al Quirinale, trascende largamente i singoli casi Gli awocati, anche senza assumere per quieto vivere specifiche iniziative di denunzia, awertono da tempo che la carcerazione preventiva, prevista dal codice in casi eccezionali è diventata un ordinario mezzo istruttorio: ti metto in prigione e ti ci trattengo fino a quando non parli.
E vero che l'enormità degli scandali ha indignato l'opinione pubblica al punto da motivare un'ondata di giustizialismo che travolge ogni garanzia. Ma la prospettiva di una Tangentopoli perpetua («Siamo a metà dell'opera» dirà a mezz'agosto il sostituto procuratore di Milano Gherardo Colombo) e l'apertura di un filone teoricamente illimitato con le indagini sulla Guardia di Finanza richiedono una approfondita riflessione sulle regole d'indagine.
Anche perché la magistratura, dopo aver demolito un sistema politico inquinato, ha cominciato suo malgrado a ridisegnare gli organigrammi di quasi tutte le aziende pubbliche e private.
Al ministero della Giustizia siede Alfredo Biondi, un avvocato liberale stimato da tutte le forze politiche. Dice Biondi: «So bene, nella mia esperienza d'awocato, che se arresti un funzionario del catasto e gli dici che lo tieni in prigione fino a quando non ti avrà detto che la mappa incriminata l'ha vista anche il suo direttore, questi alla fine finirà per dirlo. Ma allora, per piacere, non facciamo più i convegni sulle ga-
ranzie della difesa...».
Un prowedimento di legge sulla riforma di alcune norme del codice di procedura penale è dunque previsto da tempo. I temi principali da affrontare sono due: l'allargamento del patteggiamento della pena, oggi limitato a due anni, e una riforma della custodia cautelare. Come sempre in questi casi, il ministro fornisce agli uffici la linea politica e poi materialmente le bozze di prowedimento vengono concordate dalle direzioni generali: in questo caso, tra la fine di giugno e i primi di luglio, le direzioni generali della Giustizia e degli Interni, con il raccordo della Presidenza del Consiglio. Ci sono naturalmente anche alcune riunioni politiche. Avvengono in genere dopo cena a casa Berlusconi in via dell'Anima. Nessuna formalità, nessuna riunione collegiale. Vanno e vengono Maroni e Tatarella, Letta e Previti (quest'ultimo è particolarmente attivo, vigile e presente). E naturalmente Biondi. Il ministro degli Interni non chiede mai a quello della Giustizia chiarimenti formali. Lo fanno - e con molta cura - i suoi uffici. Tanto che uno degli scogli più grossi è rappresentato dalle obiezioni del capo della polizia, Parisi, che suggerisce, attraverso uno scambio ufficiale dei documenti, di valutare l'impatto che il prowedimento può avere sulle scarcerazioni di delinquenti comuni. Quante saranno? Si parla di diecimila persone, la polizia teme addirittura che ne escano ventitremila. Due intere serate vengono dedicate in via dell'Anima a discutere di questo problema e a trovare soluzioni più equilibrate.
«Sta' tranquillo, Maroni è d'accordo»
La bozza di prowedimento è pronta per il Consiglio dei mi-
nistri del 6 luglio. Ma Berlusconi non c'è, se la porta a Napoli dove va a preparare il G7; si decide di rinviarne la discussione a mercoledì 13. Tra lunedì e martedì Biondi lima il testo e verifica che non siano cambiate le condizioni politiche. Telefona a Fini. Il leader di Alleanza nazionale gli chiede di rinviare la proposta di patteggiamento allargato, perché vuole approfondirne la portata e alcune conseguenze tecniche. Biondi non parla con la Lega, che non ha mai sollevato questioni nella fase preparatoria. Si accerta con Berlusconi che anche da quella parte non ci siano sorprese. «Sta' tranquillo. Maroni è d'accordo» gli risponde il presidente del Consiglio.
Biondi non vuole ripercorrere il calvario del decreto Conso, conosciuto da tutti, approvato da tutti e poi miseramente affondato dall'opposizione del procuratore Borrelli. Col Quirinale è tranquillo. E salito più di una volta da Scalfaro che ha analizzato con molta cura il prowedimento. Si vuole anzi che un paio di articoli severi (quelli sulla decadenza di amministratori pubblici infedeli) siano stati caldeggiati proprio dal Quirinale.
Mercoledì 13 luglio l'attenzione degli italiani è lontanissima da Palazzo Chigi. La Nazionale affronta a New York la Bulgaria per giocarsi la finale.
(A Di Pietro il condirettore della «Voce», Federico Orlando, attribuirà questa micidiale battuta: «Hanno approfittato di una partita di pallone per fare il decreto».)
Quando i ministri prendono posto intorno al grande tavolo nella sala del Consiglio, Biondi fa distribuire a tutti una
cartellina grigia con tre documenti: la proposta di decreto, la relazione tecnica preparata dagli uffici del ministero e un riassunto scritto personalmente da Biondi in linguaggio comune. «La questione è delicata e mi son permesso di allegarvi un Bignami» dice Biondi. Il ministro dei Lavori Pubblici Radice, prega Biondi di risparmiare al Consiglio il supplizio di una spiegazione dettagliata («Alfredo, ci fidiamo...»). Ma il Guardasigilli insiste per farla.
Giustifica la proposta di ricorrere al decreto-legge con il fatto che in tema di libertà personale ogni governo si è regolato in questo modo. Legge il prowedimento articolo per articolo e illustra per un'ora il «Bignami» per esser sicuro che tutti capiscano bene. Chiarisce che la decisione di mantenere la detenzione in carcere per i reati associativi e per tutti quelli connessi deriva dall'allarme che questi provocano nell'ordine pubblico. Fa l'esempio dell'estorsione e della concussione. Perché la detenzione in carcere è prevista per il primo reato, mentre per il secondo vengono giudicati sufficienti gli arresti domiciliari? Perché, risponde Biondi, l'estorsione è un reato tipico di mafia e camorra ed è quindi imparentato con i l~associazione per delinquere e con quella mafiosa, mentre la concussionesebbene grave, è un reato interpersonale. Il ministro dell'Ambiente, Matteoli, esprime perplessità. Perché la polizia può arrestare subito il responsabile di maltrattamenti in famiglia e non un ladrone di Stato? Perché, risponde Biondi una moglie maltrattata non denuncerà mai il marito (accade già raramente) se non è certa che la polizia andrà subito a toglierglielo di casa. Il ladrone di Stato, aggiunge il ministro, può essere messo in condizione di non nuocere anche - con gli arresti domiciliari.
Raffaele Costa, ministro della Sanità e liberale come Biondi mormora ai suoi vicini di poltrona Matteoli e Poli Bortone che per una normativa così delicata sarebbe più prudente un disegno di legge. Biondi sente e si arrabbia perché la sola obiezione di fondo («Una pugnalata») gli viene dal suo unico collega di partito. Poi dice: <~Se non c'è unanimità, ritiro il decreto e propongo un disegno di legge». Ribadisce Berlusconi: «Biondi ha ragione. C'è qualcuno contrario all'adozione del decreto legge?». Sono tutti favorevoli, il decreto viene votato all'unanimità.
La mattina successiva, 14 luglio, alle ore 8, Oscar Luigi Scalfaro firma il decreto. Il capo del suo servizio stampa, Gaetano Scelba, gli ha già letto i titoli dei giornali. La precedenza va alla doppietta di Baggio che ha trafitto la Bulgaria. Al posto d'onore ci sono il condono fiscale e la proposta di eliminare gli esami di riparazione nelle medie superiori. Il decreto Biondi è solo terzo. Ci sono perplessità e proteste, le opposizioni annunciano battaglia in Parlamento. Ma nessuna rivoluzione è alle viste.
Alfredo Biondi riceve qualche telefonata di complimenti dai colleghi. Meno gradita, intorno alle 13.30, quella di Damiano Nocilla, segretario generale del Senato. Gli annuncia che i capigruppo hanno chiesto che il ministro vada a riferire in aula sulle conseguenze del decreto. Vecchio conoscitore dei regolamenti parlamentari, Biondi gli risponde di no. La procedura non è rituale, i chiarimenti verranno dati al momentO del dibattito sulla conversione del decreto. Nocilla prende atto della risposta e la riferisce a Carlo Scognamiglio. Stavolta è il presidente del Senato a chiamare Biondi. Eletto
con un solo voto di scarto su Spadolini, Scognamiglio passa la giornata a evitare che ci siano tensioni tra maggioranza e opposizione. Insiste e Biondi accetta di presentarsi nel pomeriggio in Senato.
Dal mondo della magistratura, nessuna reazione. n procuratore della Repubblica di Milano, Francesco Saverio Borrelli, ai margini di un convegno, è caustico: «E singolare che nell'anniversario della Bastiglia si aprano questi squarci nei muri di San Vittore e di Opera». Ma non va più in là. Sa probabilmente che i suoi sostituti stanno preparando una sorpresa. A metà pomeriggio, infatti, Colombo, Davigo, Greco e Di Pietro si riuniscono in gran segreto in una stanza della Procura. Niente sa il procuratore generale Catelani. Niente sa il ministro della Giustizia Biondi che ha saltato il pranzo per prepararsi con il suo capo di gabinetto Gianfranco Tatozzi le risposte da dare ai senatori. La seduta pomeridiana al Senato è strana. Biondi s'aspetta che le opposizioni facciano subito la critica al decreto e invece fanno parlare prima il ministro. Che sia una partita di poker in cui si aspetta una mossa da un giocatore che il ministro non conosce e non s'aspetta d'incontrare?
Alle sette della sera, il poker di Di Pietro
Alle sette della sera, il giocatore misterioso compare e butta sul tavolo un poker d'assi. E Antonio Di Pietro, inviato dai suoi colleghi a leggere davanti alle telecamere un comunicato in cui i giudici di Milano annunciano le loro dimissioni.
Prima di offrirsi al cespuglio ondeggiante dei microfoni, probabilmente Di Pietro non è passato nemmeno dalla toilet-
te. Eppure, sembra uscito da ore di seduta in camerino sotto le mani sapienti che harmo trasformato la faccia eternamente fanciullesca di Marlon Brando nella maschera tragica del Padrino. Pallidissimo, le occhiaie così profonde da sembrare cicatrici, la camicia slacciata senza cravatta, la giacca aperta e stazzonata, i fogli tenuti in mano come carboni ardenti Antonio Di Pietro lancia agli italiani il suo grido di dolore. Berlusconi è un grande comunicatore? Ama parlare direttamente al pubblico senza mediazioni? E che ci azzecca?, deve essersi detto Di Pietro. Adesso gli faccio vedere io... Parte con una battuta magistrale: «Scusate, sono emozionato...». E continua: «...L'odierno decreto-legge a nostro giudizio non consente più di affrontare efficacemente i delitti su cui abbiamo finora investigato. Infatti persone raggiunte da schiaccianti prove in ordine a gravi fatti di corruzione non potranno essere associate al carcere neppure per evitare che continuino a delinquere o a tramare per impedire la scoperta dei precedenti misfatti, talora persino comprando gli uomini a cui avevamo affidato indagini nei loro confronti... Abbiamo pertanto informato il procuratore della Repubblica della nostra determinazione a chiedere al più presto l'assegnazione ad altro e diverso incarico nel cui espletamento non sia stridente il contrasto tra ciò che la coscienza awerte e ciò che la legge impone. Firmato Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Francesco Greco, Gherardo Colombo».
E una bomba. Ma non di quelle ordinarie che scoppiano, fanno qualche morto e pace. No, la bomba sganciata da Milano è di quelle che si usavano in Libano durante la guerra civile. Esplode e si disintegra in mille schegge che raggiungono tutte le direzioni e procurano piaghe mortali a chiunque
si trovi nel loro raggio d'azione. Quando il capogruppo Pds al Senato, Cesare Salvi, entra neU'aula gridando e brandendo sotto il naso dell'ignaro ministro Biondi i primi dispacci d'agenzia, il Guardasigilli gli urla in faccia: «Se ogni volta che prendiamo una decisione dovessimo attendere il gradimento dei magistrati, saremmo un governo e un parlamento a sovranità limitata». Tiene duro, il ministro, e, senza consultarsi, nelle varie ali del Palazzo lo sostengono tutti gli alleati.
Mentre Silvio Berlusconi annuncia ai suoi che sul decreto è pronto a verificare la maggioranza («O passa o si va a casa»), il portavoce del governo, Giuliano Ferrara, alza le mastodontiche spalle: «Facciáno come credono. Non abbiamo bisogno di eroi». Augusto Minzolini della «Stampa» vede nel Transatlantico di Montecitorio un Fini «chiuso in disciplinato silenzio che si fa scudo della firma del capo dello Stato» e sente Maroni dire: «Il decreto è ingiusto, ma necessario». Il governo tira comunque un sospiro di sollievo solo quando dopo un lungo silenzio anche Bossi dice, riferito ai giudici: «Se ne vadano pure».
La notte di giovedì 14 luglio Silvio Berlusconi si offre esausto alla panna cotta del cuoco Michele convinto che il decreto Biondi passerà. Ma ignora che le schegge della bomba libanese hanno frantumato i vetri di milioni di case. Nella maggior parte delle abitazioni italiane, infatti, la santa irrlmaginetta di Antonio Di Pietro ha sostituito da un paio d'anni quella un po' ingiallita di Papa Giovanni. La «ggente», come la chiama Sandro Curzi, ritiene infatti che per gli inquisiti di Mani pulite la carcerazione preventiva, seppure non prevista dal codice con la larghezza usata dai giudici, è il castigo minimo che la culla del diritto (sarebbe l'Italia) riserva benevol-
mente a persone alle quali, ben prima del giudizio di primo grado, la furia popolare troverebbe equo tagliare ambo le mani nelle piazze del mercato delle diverse città. E vorrebbe, come gratificazione estrema, che almeno a Milano Di Pietro in persona provvedesse alla bisogna, imbracciando l'ascia con lo stesso energico orgoglio con cui la sua vecchia madre Annina imbraccerà fino alla morte, in settembre, il forcone nell'aia di Montenero di Bisaccia.
I centralini dei giornali vengono intasati dalle telefonate di protesta, le opposizioni - parlamentari e non - capiscono che Sl profila una ghiotta occasione per fare secco il Cavaliere e nella maggioranza la notte stessa viene studiata a tavolino (da Bossi e meno vistosamente da Fini) la più spettacolare retromarcia che abbia caratterizzato il gabinetto Berlusconi.
Venerdì 15, stimolato dai giornali che linciano il governo e soprattutto dai fax di protesta che hanno inondato la sua segreteria, Gianfranco Fini annuncia che chiederà modifiche al decreto, soprattutto per reintrodurre la detenzione preventiva in carcere per i reati di corruzione e concussione. (Mi aveva detto pochi giorni prima: «E vero, le Procure stanno esagerando. Ma a noi di Alleanza nazionale, che non abbiamo scheletri nell'armadio, chi ce lo fa fare a prendere provvedimenti impopolari?».) Sulla stessa linea Umberto Bossi. E quando Berlusconi annuncia che sul decreto chiederà la fiducia, il Senatùr lo gela: «Se insiste sulla fiducia, resta solo».
«Assassino a me. Capisce? A me, Antonio Di Pietro...»
~lle dieci di sera di questo angoscioso venerdl, chiamo al te-
lefono Antonio Di Pietro. E stata per lui una giornata difficile. E vero che l'opinione pubblica lo ha acclamato ancora una volta eroe nazionale. Ma Di Pietro sa che Scalfaro, per esempio, si è lamentato del suo appello televisivo: lo considera una grave forzatura della separazione dei poteri dello Stato. Il giudice, poi, non manda giù che Vittorio Sgarbi lo abbia chiamato pubblicamente «assassino».
«Assassino a me, capisce?, a me» si sfoga dal cellulare. «Questo non posso accettarlo. Non accetto di sentirmi sotto tiro, stiamo lavorando come bestie da due anni e mezzo. Finora è andata bene e non perché io sia stato bravo, ma perché sono stato fortunato. Fino a quando mi andrà bene? E se sbaglio che succede? Per ora continuo il mio lavoro, ho sessanta interrogatori da smaltire in pochi giorni. Poi non so. E certo che mi sento in conflitto con me stesso.»
Di Pietro sa comunque che la gente è con lui e che le istituzioni italiane - meno che mai il governo - non hanno la forza di reggere su un provvedimento così impopolare.
Se è vero infatti, come dice Biondi, che un marito violento deve esser portato via di casa la sera stessa della denuncia della moglie, è altrettanto vera la sensazione di un trattamento di favore nei confronti di responsabili di reati contro la pubblica amministrazione. Pochi si commuovono dinanzi ai trentadue chili di peso di Lady Poggiolini, che uscendo dal carcere di Pozzuoli parla di otto mesi di barbarie. E vero che in nessun paese occidentale l'avrebbero trattenuta così a lungo senza processo. Ma la gente ha fotografato nella propria mente i miliardi cuciti nei cuscini del salotto e il tesoro di Alì Babà nel forziere di casa, e allora boia chi molla. E vero che
se il decreto Biondi fosse stato approvato dieci giorni dopo, la Poggiolini, De Lorenzo e Di Donato se ne sarebbero andati a casa sulle proprie gambe in virtù di sentenze o di scadenza di termini.. Ma la loro uscita simultanea dà al popolo sgomento l'idea di un'amnistia ingiusta decisa dal governo per ragioni inconfessabili.
Quando vede arrestare (e subito rilasciare in virtù del decreto) imprenditori come Alberto Falk e Giuseppe Tramonta na (e altre quarantasette persone), Berlusconi si sfoga con i SUOl. «Mi chiedono un nuovo miracolo economico. Ma come faccio se arrestano tutti gli imprenditori che hanno dato una mazzetta alla Finanza? Qui si mette in ginocchio l'economia italiana...».
L'umore della gente sta da un'altra parte. Se ne fa buon interprete, con il solito fiuto, Enzo Biagi che sul «Corriere» di sabato 16 scrive: «Per Hammamet è partito un fax: Bettino, alzati e cammina. n prodigio, ancora una volta, si è compiuto. D'ora in poi corruzione e concussione sono reati minori. Va dentro, come sempre, il povero ladro di biciclette. Sta bene e vi saluta il caro dottor Poggiolini».
Inutilmente nella colonna a fianco osserva Angelo Panebianco: «...Che la carcerazione preventiva sia stata usata in questo paese in molti casi per estorcere la confessione all'indagato è un fatto certo e una ennesima violazione dei principi elementari della civiltà giuridica liberale... Il problema sta nel fatto, come ha dichiarato al "Manifesto" il magistrato Bruti Liberati, che in un sistema di giustizia penale fallimentare e barbaro come il nostro il carcere preventivo è la sola
certezza di pena. Ma ciò configura una doppia barbarie perché fa conoscere il carcere a tanti cittadini... che poi ai processi, come dicono le statistiche, risulteranno innocenti... e non fa scontare in molti casi la pena a coloro che risulteranno effettivamente colpevoli». Panebianco mette il dito su un'altra piaga: il potere discrezionale dei procuratori in Francia è regolato dalla subordinazione al governo, negli Stati Uniti dall'elezione dei giudici, in altri paesi da un forte controllo gerarchico. Il sistema italiano produce invece due conseguenze: «Un potere immenso e sostanzialmente insindacabile sulla libertà dei cittadini nelle mani di persone che hanno semplicemente vinto un concorso; una capacità di pressione sul potere politico legittimo quale non la possiede alcun'altra corporazione o categoria del paese».
Ma il bello deve ancora arrivare. E arriva la sera di questo stesso sabato 16 luglio. Roberto Maroni si presenta in diretta al Tg3 e dice candidamente di essere stato imbrogliato. «Il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto diverso da quello concordato e che non prevedeva la scarcerazione di De Lorenzo e soci.» Per fare penitenza, rimette il mandato nelle mani della Lega. A nome di Berlusconi, un furibondo Ferrara lo smentisce dandogli dell'infantile e del dilettante. ~Ia quando la Lega s'impunta, qualunque sia la sua pOSlZlOne, non c'è niente da fare. Così a Berlusconi che dice al suo ministro dell'Interno: smentisci o te ne vai, Bossi risponde: «Se il Cavaliere vuole le elezioni, si dimetta lui». Ancora una volta Berlusconi deve cedere. Può fare le elezioni contro Bossi, contro Fini e soprattutto contro Di Pietro? Gianni Pilo gli ha detto che dopo il decreto Biondi la sua popolarità è crollata, mentre la Lega, ridotta dai sondaggi ormai al bocchettone dell'ossigeno, ha ripreso a respirare a pieni polmoni, e Fini è
Iì, signorilmente rassegnato a incamerare voti da ogni infortunio del Cavaliere.
Si arriva così a quella che Giuliano Ferrara chiama «la Caporetto del governo», accompagnata dal giallo di un mancato messaggio a reh unificate.
«Berlusconi si dimette? No, non è vero...»
Quest'ultima vicenda, secondo fonti dirette, sarebbe diversa da come la riferiscono i giornali, nel senso che Berlusconi non avrebbe mai minacciato le dimissioni in diretta e meno che mai sarebbe stata una telefonata di Bossi da Strasburgo a bloccarlo. E certo che la mattina di martedì 19 Berlusconi è furibondo, come ormai gli capita sempre più spesso quando si sente tradito dagli alleati e non capito dai giornali.
Vuole parlare agli italiani. Vuole dire che i giudici mentono quando sostengono che il decreto gli impedisce di fare le indagini. I suoi gli consigliano una conferenza stampa. A Berlusconi la conferenza stampa non piace. Dice che rispondendo alle domande dei giornalisti non riuscirebbe a fare un ragionamento filato. Allora, gli dicono i suoi, fa' prima il ragionamento e poi rispondi alle domande. Va bene, replica Berlusconi, ma tutto deve awenire in diretta e a reti unificate. Una decisione, peraltro, non viene presa, ma intanto alle 11 e 30 - Berlusconi è ancora in casa sua a via dell'Anima per vie formali, attraverso la direzione generale per l'informazione e l'editoria di Stefano Rolando, viene messa in preallarme la Rai per le 13 e 15. Mancano dieci minuti alle 13 quando Letta riceve una telefonata del direttore del Tg2,
Paolo Garimberti, che gli chiede conferma. Letta casca dalle nuvole e chiama Berlusconi. Il presidente è appena uscito di casa e ai cronisti di guardia ha detto: «Vado a fare un discorso in televisione».
«Hai intenzione di dimetterti?» gli chiede Letta. «No» risponde il Cavaliere. «E allora è opportuno un messaggio a reti unificate?» incalza Letta. Berlusconi guarda l'orologio, mancherebbero ormai pochi minuti alla presentazione nella sala stampa di Palazzo Chigi. «Ma no, certo, hai ragione. Tra l'altro non ho avuto nemmeno modo di prepararmi a fondo.»
Letta richiama Garimberti, dice che la Rai è stata awertita un po' frettolosamente da funzionari zelanti, il direttore del Tg2 si precipita in studio e annuncia che il messaggio a reti unificate non ci sarà più.
I contatti telefonici con Strasburgo - dove si trovano Boss Fini e Casini - awerranno solo nel pomeriggio.
E nel pomeriggio, alle 17, Giuliano Ferrara annuncia che il governo ritira il decreto facendolo bocciare («Una Caporetto»). Sarà sostituito da un disegno di legge in cui corruttori e concussori tornano in carcere. Soltanto una minima parte delle duemila persone rimesse in libertà (e tra queste De Lorenzo) rientreranno nelle Case circondariali.
La successiva riunione del Consiglio dei ministri, quella si meriterebbe la diretta. Nell'ultima settimana, a parte Biondi e Berlusconi, nessun ministro e nessun leader della maggioranza ha detto di riconoscersi nel decreto che era stato votato
all'unanimità. E adesso quando i ministri si trovano di nuovo faccia a faccia nell'occasione più solenne, non c'è nessuno che dica a Biondi: avevamo capito male o, peggio, ci hai imbrogliato. Tutti ascoltano in silenzio l'appassionata, commossa, sgomenta ricostruzione dei fatti compiuta dal ministro della Giustizia che ricorda a tutti di aver spiegato il decreto, anche con l'aiuto del «Bignami», ricorda che l'unica obiezione era venuta dal suo compagno di partito Costa e che Costa /aveva ritirata quando Biondi e Berlusconi avevano detto che se non ci fosse stata unanimità il governo non avrebbe pprovato il decreto. «Se qualcuno di voi» conclude Biondi «mi dice ora che il provvedimento non è stato adottato in piena legittimità con decisione unanime e collegiale del governo, rimetto il mio mandato nelle mani del presidente del Consiglio » Berlusconi mette ai voti un documento di solidarietà con il ministro della Giustizia. Viene approvato all'unanimità. Anche da Maroni.
«Berlusconi-Di Pietro? Come Milan-Inter»
L'indomani mattina vado a trovare al Viminale il ministro dell'Interno. Gli chiedo una spiegazione e lui non ha gran voglia di darla. Mi dice soltanto che il decreto non doveva essere così semplice e lineare «se i miei collaboratori, che sono degli specialisti, hanno impiegato quattro, cinque, sei ore per capirlo». Poi, da vecchio milanista, mi spiega che nel momento in cui Di Pietro è comparso in televisione, la questione del decreto era chiusa.
«Berlusconi è sceso in campo? E Di Pietro è andato a sfidarlo. Ormai era un derby, un Milan-Inter. E la gente ha scel-
to di tifare per Di Pietro.»
Gli chiedo se questo ruolo della magistratura, questo derby tra il giudice più popolare e il presidente del Consiglio, sia raccomandabile per la solidità delle istituzioni.
«In un altro paese sarebbe scandaloso. In un paese dalle condizioni politiche e sociali del nostro non lo è. Il problema è di creare le condizioni per cui la magistratura possa limitarsi a esercitare il suo ruolo.»
Questa interpretazione trova il netto dissenso di Pier Camillo Davigo, uno dei quattro giudici che hanno firmato il documento letto da Di Pietro. Poiché Davigo è il dottor Sottile del gruppo, quello che scrive i ricorsi più delicati e solleva i conflitti di competenza più insidiosi, è possibile che la base del documento dei giudici di Milano sia uscita dalla sua penna.
«Distinguiamo intanto paese da paese. Negli Stati Uniti i giudici sono di nomina politica e nei processi il compito del la giuria, che si pronuncia attraverso un verdetto e non attraverso una sentenza del magistrato, tende a seguire le aspettative dell'opinione pubblica. Nella tradizione europea il sistema giudiziario è radicalmente diverso. Il giudice, intanto, non è di nomina politica, ma viene assunto per concorso e non assume mai responsabilità politiche. Da noi la volontà politica si esprime nella legge e il giudice deve razionalizzarne l'applicazione. La stessa cosa che deve fare la burocrazia. Con una differenza. La magistratura è autonoma, la burocrazia è tenuta a eseguire gli ordini del potere politico. Ma attenzione: se gli ordini che mi vengono dati attraverso una
legge e che io debbo eseguire sono irrazionali e mandano in fallo il sistema, che faccio? Oppure, se al di là degli aspetti tecnici vengono toccati i fondamenti etici del mio mestiere, si pone come in altri settori il problema dell'obiezione di coscienza. Fino a che punto il potere politico è legittimato quando impartisce ordini che creano crisi di coscienza a coloro che li debbono eseguire? Come vede, l'anomalia non sta nella giustizia, ma nel potere politico.»
Già, ma chi è autorizzato a stabilire se il potere politico sbaglia?
«In Italia l'unico organismo che può dire al Parlamento: tu queste cose non puoi farle è la Corte Costituzionale.»
E allora perché non avete sollevato il conflitto davanti alla Corte?
«Ci siamo posti il problema. Ci siamo anche chiesti che cosa sarebbe successo se non avessimo eseguito le scarcerazioni. Lei pensi che cosa sarebbe capitato se avessimo detto: noi non scarceriamo perché il decreto contrasta con la Costituzione. Gli indagati avrebbero dovuto aspettare in carcere la decisione della Corte...»
Non avreste potuto ubbidire, scarcerare e sollevare il conflitto? «No. Avremmo dovuto chiedere al tribunale di scarcerare e poi avremmo dovuto impugnare una nostra decisione. Potevamo fare tutto questo sulla pelle della gente? Ci sarebbe stato anche uno strappo terribile all'equilibrio dei poteri...»
Secondo lei il messaggio televisivo di un gruppo di magistrati al paese è un mezzo proprio di comunicazione?
«Se capita che il potere politico abbia votato una certa legge per la quale io non me la sento più di fare questo lavoro e nessuno al mondo può impedirmi di andarmene, perché come cittadino non ho il diritto di annunciarlo alla gente? Io non me la sento di eseguire questi ordini. Non me la sento di arrossire quando vado in aula e vedo dietro le sbarre un signore che ha portato via venticinquemila lire a una signora, mentre debbo scarcerare persone che hanno portato via miliardi in una bancarotta fraudolenta. Il signore che può essere punito con la reclusione fino a tre anni sta in carcere e quello per cui è prevista la reclusione fino a ventidue anni e mezzo sta fuori.»
Lei sa che l'obiezione di fondo che è stata mossa a molti magistrati è questa: voi arrestate una persona per il reato A e non la tirate fuori se non parla di B, C, D. Questa è l'accusa contenuta nel testamento di Gabriele Cagliari e che viene sostenuta da parecchia altra gente. Non trova che se fosse vera sarebbe un'accusa inquietante?
«Intanto è opinabile che sia vera. Ma anche se fosse vera, contesto che sia inquietante. Riflettiamo un momento. Lei ritiene che nell'Italia di tre-quattro anni fa o in qualunque altro paese del mondo un signore accusato di reati di questa gravità per cui la legge prevede anni e anni di carcere, un signore che sta al centro di complessi sistemi di potere per cui può continuare a delinquere anche per interposta persona, lei crede dawero che sarebbe stato scarcerato? Sarebbe stato giudi-
cato, condannato e lasciato in carcere. Qui il vero problema è che certe persone vengono scarcerate perché ci siamo assuefatti. Ancora quattro anni fa, Mario Chiesa non sarebbe mai uscito dal carcere. Torno alla sua domanda. Se l'ordinamento dice che tu sei pericoloso perché sei in grado di impedire il corso ordinario della giustizia, perché si ha da ridire se vieni scarcerato quando queste condizioni vengono meno? Se Buscetta si pente e smette di essere mafioso, non sono gli altri che lo hanno tenuto in carcere per farlo confessare, è lui che esce perché si è pentito. Quando abbiamo arrestato questa estate alcuni imprenditori per la vicenda della Guardia di Finanza e ci hanno detto di essere stati costretti a pagare, noi abbiamo obiettato che avrebbero potuto venire a dircelo prima. E sa che cosa ci hanno risposto? Adesso loro sono in carcere e non abbiamo più paura. Questo vale a maggior ragione per i politici. Liberi fanno ancora paura. Il potere non deriva dalle cariche che si ricoprono. Le cariche sono il segno esteriore del potere che si detiene. E il potere deriva da una serie di relazioni personali e soprattutto dalla capacità di ricatto che il potente ha nei confronti delle persone che hanno commesso reati insieme con lui. Immaginiamo che la Procura di Milano sia composta di cinquanta ladri e che io venga arrestato. Se l'unico delinquente fossi io, basterebbe sospendermi e non sarei più in condizione di nuocere. Ma se io sono in grado di condizionare i miei quarantanove colleghi o magari anche soltanto dieci di questi perché ho diviso il bottino con loro, la mia sospensione non serve. Faccio paura esattamente come se fossi in servizio.»
Con questo criterio nessun corrotto dovrebbe uscire più dal carcere...
«Queste persone vengono scarcerate quando rompono i vincoli di omertà esattamente come accade nel crimine organizzato. Perché anche questo è crimine organizzato, non si tratta di delitti commessi da singole persone occasionalmente nella vita. Qui non siamo in presenza di quello che ha dato una coltellata al rivale in amore. Non siamo cioè dinanzi a una situazione irripetibile. Lei mi chiede se tutto questo sia previsto dal codice di procedura penale. Certo che è previsto. Il codice dice che si può tenere una persona in carcere per evitare che ripeta il reato. Noi per molto tempo, sbagliando, abbiamo considerato questi delitti di corruzione eccezionali, cioè occasionali e individuali. Soltanto dopo abbiamo capito che si tratta di reati concorsuali (cioè di reati che coinvolgono un gran numero di persone) e tendenzialmente abituali (se uno decide di lasciarsi corrompere, è corrotto per sempre). Allora abbiamo cominciato a trattare queste persone come si tratta una banda di rapinatori e i risultati sono venuti. La Cassazione ha confermato 83 prowedimenti su 87. D'altra parte l'Italia è il paese che ha meno detenuti rispetto alla popolazione.»
Ma forse ne ha di più in attesa di giudizio.
«13.818 detenuti in attesa di giudízio...»
«Su questo bisogna intendersi. Noi chiamiamo detenuti in attesa di giudizio quelli che gli altri chiamano in esecuzione della pena. Perché da noi si è in attesa di giudizio dopo il primo grado, dopo l'appello, certe volte dopo la Cassazione.. Comunque al 18 luglio noi avevamo in attesa del giudizio dl primo grado 13.818 detenuti, pari al 25.72 per cento del totale. Cioè la media fisiologica europea, con due awertenze. La
prima è che da noi spesso si è riarrestati perché si compie un nuovo delitto subito dopo l'uscita dal carcere. La seconda è che noi abbiamo una enorme popolazione clandestina di stranieri che viene tenuta in carcere perché non può essere espulsa, perché alle frontiere queste persone non se le prendono, perché non hanno documenti, negano di avere la nazionalità del paese verso cui li si rimpatria. In Francia e in Germania gli stranieri sono enormemente più numerosi che da noi. La differenza è che sono lecitamente presenti nel territorio. Noi abbiamo ottomila detenuti stranieri su cinquantatremila. Sappia, comunque, che negli Stati Uniti, paese rigorosamente garantista, ci sono settecentoventimila detenuti con una popolazione che è soltanto quadrupla della nostra.»
Perché non facciamo come negli Stati Uniti: inquisiti liberi fino alla sentenza di primo grado e poi in prigione?
«Perché se lei vede un signore che esce dalla banca con il rnitra e il bottino non può dirgli: guardi, lei fra tre anni andrà in carcere. Il problema è che prima di tutto occorrerebbe rendere più rapidi i processi. Ma non esistono in Italia le condizioni sociali per farlo. Lei mi chiede perché. Sa quanti awocati c'erano nel '46 a Milano? Novecento. Sa quanti ce ne sono oggi? Cinquemilatrecento. In tutta l'Inghilterra ce ne sono seimila. Ci sono più avvocati a Roma che in tutta la Francia. Noi dovremmo tagliare drasticamente il contenzioso. Ma questo la potentissima lobby degli avvocati non lo permetterà mai. Come si potrebbe fare? Diciamo che chi riconosce il proprio torto e patteggia può avere una riduzione di pena fino ai due terzi. Negli Stati Uniti se sei innocente, hai tutto il diritto di andare in dibattimento e chiedere di essere
assolto. Ma se i giudici si accorgono che stai facendo perdere tempo alla giustizia, ti distruggono. E infatti loro fanno il 5 per cento dei processi rispetto alle notizie di reato e patteg giano il 95 per cento. Da noi la percentuale è esattamente inversa.»
Non le pare, dottor Davigo, che da noi il potere dei pubblici ministeri sia eccessivo?
«Se lei si riferisce all'enorme conoscenza di fatti che il singolo magistrato acquisisce, se questo è molto stimato dai suoi colleghi, allora sì, il Pm ha influenza sui giudici. Ma si tratta di fattori extraprocessuali. Altrimenti, al contrario di quanto si dice, è il Pm che si appiattisce sul giudice delle indagini preliminari. Io sono costretto a limitare le mie richi~ ste agli orientamenti del Gip...»
Andiamo, dottor Davigo, tutti sanno che riuscite a scegliervi il Gip più omogeneo al vostro modo di pensare...
«Guardi, anche gli avvocati fanno le loro manovre. Comunque, Italo Ghitti, che è fatto a modo suo, ci ha fatto venire autentici travasi di bile perché a volte ha preso decisioni a noi totalmente sgradite.»
Lei crede che un organismo collegiale che decida sulla libertà personale possa dare maggiori garanzie del singolo
«Sono assolutamente favorevole per una ragione semplicissima. Tenere in galera una persona non è facile nemmeno quando è necessario. Il tribunale è un organo collegiale e quindi distribuisce meglio il peso della responsabilità. A mio
giudizio, l'organo collegiale sarebbe più severo del Gip. Il vero problema del carcere sono le condizioni in cui vivono i detenuti. Il nostro sistema penitenziario è schifoso. Non ha senso mettere nelle Case circondariali i detenuti in attesa di giudizio e nelle Case di reclusione quelli in espiazione di pena. La distinzione andrebbe fatta come all'estero sulla base della pericolosità del detenuto. Se ritengo che uno possa sgozzare le guardie è un discorso. Ma se tengo uno in carcere soltanto per impedirgli di comunicare con l'esterno è un altro. Allora non c'è bisogno delle sbarre, dei mitra, dei cani lupo. La sofferenza che c'è nelle carceri italiane deriva dalla mancanza di ordine: solo da noi c'è lo scandalo di cucinarsi per conto proprio in cella. Dal disordine nasce la sopraffazione dei più violenti nei confronti dei più deboli. La privazione della libertà personale è molto dolorosa, ma non ha niente a che vedere con il sopruso, la promiscuitàla violenza fisica.»
Son passati quasi tre anni dall'inizio di Mani pulite. C'è qualche riflessione da fare?
«A ripensarci, abbiamo corso il rischio di diventare ostaggio di chi ci voleva portare a colpire dove gli faceva comodo. Prenda Silvano Larini. Rientra in Italia e affonda Craxi perché Craxi è già sotto inchiesta. Ma Larini affonda anche Martelli. Lo affonda gratis, senza che nessuno glielo chieda. E forse risparrnia altri. Ecco dunque che Larini è uno che decide chi debba essere salvato e chi debba essere affondato. Per fortuna, alla fine gli indagati sono diventati così numerosi che si sono sopraffatti l'un l'altro portandoci a essere imparziali. Il fenomeno però resta preoccupante. Ed è preoccupante anche un altro aspetto. La scoperta recente che le ricostru-
zioni patrimoniali e documentali, cioè un altro pilastro fondamentale delle indagini, sono state gravemente viziate da corruzione. Capisce che se delego un finanziere a fare degli accertamenti e questo si fa dare cinquanta milioni per ogni verbale allo scopo di far risultare il contrario della realtà... Qualcuno ci ha detto di aver smesso di rubare nel '92 quando ha visto che facevamo sul serio, qualche altro ci ha detto: sfortuna ha voluto che venissi arrestato proprio quando avevo deciso di diventare onesto. Però ci sono anche episodi recentissimi. Io so che il 2 luglio 1994 persone ignote, ma verosimilmente appartenenti alla Guardia di Finanza, hanno ancora intimidito gli imprenditori andando in giro a dire: i nostri non parlano, quindi state zitti anche voi. Questa è cultura mafiosa. Quando lei vede che ci sono persone complici, ma ancora non individuate, che vanno in giro a intimidire gli altri, può rinunciare alla carcerazione?»
C'è poi il problema dei fondi neri delle imprese.
«Gli imprenditori non possono continuare a tenere fondi neri per pagare tangenti. Viene uno, dice che è stato costretto a pagare. Altra inchiesta, torna e dice che è stato costretto a pagare un'altra volta. Ma perché non ce le racconta tutte insieme, queste costrizioni? C'è un indagato che io avrò interrogato sette-otto volte e ogni volta ha giurato che era concusso, che aveva pagato solo in quell'occasione e in nessun'altra. E ogni volta è tornato a dirmi che era l'ultima. Allora questo ha un cassetto pieno di soldi e ogni volta che va un pubblico ufficiale gli dà una mazzetta. Adesso gli accertamenti vado a farglieli io e vediamo se riesce a darla anche a me. Insomma, questi signori devono smetterla, devono capire che non è consentito a nessuno tenere i soldi da parte per
le tangenti. A meno che non vogliamo diventare una repubblica delle banane.»
C'è il rischio che Mani pulite non finisca più?
«Vede, il problema è proprio questo. In un paese serio la preoccupazione del governo dovrebbe essere che tutto questo non accada mai più. Qui invece la preoccupazione del governo è che la gente non vada in carcere. Il governo rawisa dunque la straordinaria necessità e urgenza di impedire che la gente vada in carcere, ma non rawisa la straordinaria necessità e urgenza che questi reati non vengano più commessi.»
La ricetta di Davigo: «Norme chiare e severe. Poi una soluzione che chiuda il passato»
Che cosa potrebbe fare il governo per risolvere il problema?
«Può fare migliaia di cose che non ha fatto. Un esempio. Vuole fare il condono fiscale? Cosa ci vuole a ridisegnare le norme sul falso in bilancio unificandole con quelle della normativa fiscale penale, ragguagliandola a quella fallimentare? Il governo può dire: signori, adesso basta, finora avete scherzato. Da domani le scritture contabili debbono essere credibili, io vi faccio un sistema agevolato di rientro, anche a fini fiscali. Voi fate rientrare il nero, magari non vi faccio pagare nemmeno le tasse oppure vi faccio pagare una cifra simbolica, vi faccio un bel condono. Ma da domani si riga diritti. Sul serio. Poi bisognerebbe rendere meno dissennata la normativa sulla pubblica amministrazione. Oggi c'è una selva ine-
stricabile. Tutti gli indagati hanno ammesso di aver preso i soldi. Ma era un atto contrario ai doveri d'ufficio, era concusone o cos'altro? Allora, se iI governo vuole fare sul serio, dice: signori, basta. Da domani qualunque pubblico funzionario incaricato di qualsivoglia pubblico servizio che a qual6iasi titolo, nello svolgimento delle sue funzioni, accetta denaro da persone con cui è in rapporti d'ufficio, va in carcere. E basta. I casi vanno previsti per bene, chiaramente, rigorosamente- Dopodiché si possono fare anche le amnistie perché, vede, personalmente non ho mai ritenuto che la nostra funzione sia quella di punire per ragioni etiche. Sarebbe un'idiozia. Il nostro scopo è di far sì che questi non delinquano più. Se non delinquono più senza bisogno della punizione, perché mancano le condizioni per cui possono delinquere, tanto meglio.»
Lei crede che si sia creata in Italia una repubblica dei giudici?
«No, assolutamente no. C'è carenza di potere politico, che è altra cosa. Ma scusi, nei primi due anni e mezzo di questa indagine, quante commissioni d'inchiesta amministrative ha visto? Quanti alti burocrati ha visto rimuovere per gli atti arnministrativi compiuti? I giudici vanno a vedere se c'è il dolo in certi comportamenti illeciti. Ma chi va a vedere se questo o quel funzionario si è comportato in modo diligente? Adesso, dopo la bufera della Guardia di Finanza, è stata norninata una commissione d'inchiesta su Milano. Ma scherziamo? Tutti i malvagi della Guardia di Finanza si son dati convegno a Milano? Se noi fossimo il braccio secolare a cui vengono consegnati quelli già epurati dalle loro categorie. . Ogni tanto qualcuno si alza e dice: mi assumo la responsabl-
lità politica. Allora vada a casa. Perché la responsabilità politica è ben più alta di quella penale.»
Lei nella sostanza dice: Mani pulite può finire anche dornani mattina, facendo un'amnistia o prendendo comunque prowedimenti che cancellino in qualche modo il passato, ma stabilendo norme diverse, più chiare, più rigorose, per il futuro...
ffStabilendo norme che impediscano di continuare a rubare. Le faccio il caso di un direttore generale del ministero delle Finanze. Lo arrestiamo noi di Milano, lo arres~a Roma. Il funzionario viene sospeso cautelativamente dalle funzioni a causa del provvedimento restrittivo. Successivamente lo scarceriamo sia noi che i colleghi di Roma, perché c'è stata la confessione e perché riteniamo che, trattandosi di un funzionario, una volta sospeso non sia più necessario tenerlo in carcere per impedirgli di continuare a delinquere.
A questo punto il ministero trasforma il prowedimento di sospensione da obbligatorio in facoltativo. Questo signore fa ricorso al Tar, il Tar sospende la sospensione per cui questo viene rimesso a fare il direttore generale, nello stesso posto in cui rubava. L'awocatura dello Stato, interessata dal ministero, dice che ha ragione lui, il direttore generale, perché per attuare la sospensione facoltativa ci vuole un procedimento disciplinare. Per avviare il procedimento c'è bisogno degli atti e siccome non è chiaro quali atti si possono avere e quali no, si rischia che il procedimento disciplinare finisca con un'assoluzione. Quindi è meglio non cominciarlo nemmeno... Allora capisce che cosa voglio dire quando anche per
l'amministrazione parlo di regole minimali, ma certe e chiare? Il passato è passato e lo possiamo chiudere nella maniera più indolore possibile. Ma d'ora in avanti le regole siano poche e ferree. Detesto vivere in un paese in cui si scrive "severamente vietato" perché se si scrive soltanto "vietato" non gliene importa niente a nessuno. Debbono esserci pochi divieti, ma quei pochi debbono essere fatti rispettare sul serio.»
Dicono che Berlusconi faccia questo discorso: «Come posso ripetere il miracolo economico se mi sbattono in galera tutti gli imprenditori?~>.
«Il presidente del Consiglio, se permette, dovrebbe fare un altro discorso. Come si può immaginare un miracolo economico nelle condizioni in cui operano oggi le imprese? Creiamo un mercato trasparente: ci vogliono dieci minuti.»
Come finirà?
«Non ne ho idea perché, vede, certi fenomeni trascendono le indagini. Ho sempre sostenuto che le nostre indagini hanno avuto successo perché il sistema è crollato. Non sono le indagini che lo hanno fatto crollare, è stato il crollo del sistema che ha determinato l'esito positivo delle indagini perché si è allentato il potere di ricatto e di intimidazione. Ma il sistema è crollato perché sono finiti i quattrini e poiché i quattrini continuano a non esserci, credo che non potrebbe rimanere in piedi nessun sistema fondato sullo sperpero del pubblico denaro. Questo è il problema politico di fondo. Ma mi pare che nessuno se lo ponga.»
Al mattino, in fila davanti al Santuario di Antonio Di Pietro
Per completare la lunga riflessione awiata con Pier Camillo Davigo, martedì 26 luglio vado a trovare il procuratore capo di Milano, Francesco Saverio Borrelli. Ma prima rendo omaggio al Santuario: l'ufficio di Antonio Di Pietro. Non fosse per la transenna di legno guardata da un carabiniere che impedisce l'accesso ai non addetti ai lavori, il corridoio che introduce al Santuario da solo varrebbe il viaggio. Certo, ho il privilegio di capitare in una mattinata speciale, quella in cui Di Pietro firma la nuova richiesta d'arresto per Paolo Berlusconi, fratello di quel presidente del Consiglio che all'atto di formare il governo gli aveva chiesto di fargli da superministro dell'Interno. Ma il mio collega Maurizio Losa, che vive qui dal giorno dell'arresto di Mario Chiesa, il remoto 17 febbraio 1992, mi dice che il tran tran è sempre lo stesso.
Di Pietro dispone di cinque stanze: al momento dell'arresto di Chiesa ne aveva una, come tutti i sostituti. Poi gli inquisiti del processo n. 8655 (Mani pulite) sono arrivati a 1800 (350 arrestati) e il giudice non sa più dove mettere le carte, nonostante i ripetuti traslochi e l'ampliamento dei locali. Sono cresciuti anche i collaboratori. Un pubblico ministero abitualmente ne ha un paio, i più potenti e fortunati arrivano a cinque o sei. Di Pietro ne ha un numero variabile, a seconda dei momenti, fra trenta e trentacinque. Dieci sottufficiali della Guardia di Finanza, una quindicina tra carabinieri e poliziotti, un paio di vigili urbani, cinque o sei tra segretarie e cancellieri. In più una struttura di computer che non s'è mai vista in un palazzo di giustizia, messa in piedi da Di Pietro in persona e che gli consente in tempo reale di ricostruire la posizione processuale e lo stato delle indagini relativi a mi-
gliaia di persone.
«Venga a vedere come lavoro» mi aveva detto allegro una volta. «La saluto volentieri» m'ha ripetuto l'altro ieri. Ma non è la giornata adatta. Arriva presto, come ogni mattina, il maggiore Paolo La Forgia, comandante del Nucleo operativo dei carabinieri, un bell'uomo giovane e allegro in abito blu estivo e la borsa da manager. Entra, prende il menu della giornata, saluta e scompare.
Si presenta presto, con l'abito chiaro e la borsa da manager, anche un altro signore. E il colonnello Ugo Marchetti, comandante del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza. Per lui, arrivato a Milano l'anno scorso per sistemare un po' di cose, salire ogni mattina nell'ufficio di Di Pietro (e degli altri sostituti, ai quali ha ceduto complessivamente quaranta investigatori per le sole indagini sulla corruzione) è un calvario durissimo.
Marchetti comanda ottocento uomini. Centottanta si occupano di sole verifiche tributarie nell'area economica largamente più ricca del paese. Uno dei sei gruppi che formano il nucleo di Marchetti, il sesto, si occupa delle verifiche più delicate, quelle sulle grandi imprese. Per questo nel suo organico (cinquanta-sessanta persone) ci sono molti ufficiali. Ora il Sesto gruppo non esiste più: quasi tutti i suoi uomini sono in prigione o agli arresti domiciliari o comunque inquisiti. Sono accusati di episodi accaduti in anni in cui Marchetti prestava servizio al Comando generale di Roma. Ma lui porta addosso quegli ordini di carcerazione come piaghe aperte.
«Mi sento come se stessi in fondo a un pozzo molto profon-
do e molto buio. Ogni tanto mi pare di vedere lassù filtrare un po di luce. Ma poi con la notte torna l'angoscia. Mi creda, la Guardia di Finanza non è corrotta. Sono poche decine di persone che si sono lasciate comprare. Anzi, che si sono associate per farsi comprare. Adesso loro sono quasi tutti agli arresti domiciliari ma hanno messo in prigione noi, gli innocenti, le decine di migliaia di finanzieri che fanno onestamente il proprio lavoro. Lei mi chiede che accadrebbe se i giudici di tutta Italia si mettessero a fare le indagini su di noi. Magari le facessero. Certo, forse qualche corrotto da qualche parte verrebbe ancora fuori. Ma si dimostrerebbe che il nostro tessuto è sano. La maledizione ci è piovuta addosso qui a Milano perché qui il desiderio di denaro e di benessere si fa più forte, i freni morali si allentano-.- Un ufficiale, come fa un ufficiale a farsi comprare? Come è possibile che ci sia capitata addosso una tragedia del genere a quasi quindici anni dallo scandalo dei petroli che coinvolse i nostri vertici? Ma noi andiamo avanti. Dobbiamo farlo. Io sto ricostituendo il Sesto gruppo. Tutta gente nuova, per ricominciare da capo. E intanto le altre verifiche, quelle più piccole, queUe quotidiane, debbono procedere. Ma sapesse con che animo...»
Questo mi dice il colonnello Marchetti con l'angoscia e l'orgoglio che gli si leggono dietro gli occhiali da sole. E mi ha accompagnato, intanto, davanti alla porta del procuratore capo, Francesco Saverio Borrelli. Nell'estate del '94, Borrelli è ancora una volta l'uomo più potente d'Italia. I sondaggi, com'è giusto, parlano sempre di Di Pietro. Di Pietro è il prim'attore, uno di quei primi attori grandissimi, alla Ruggeri, alla Randone, senza i quali la compagnia non sarebbe stata nemmeno messa in piedi e che rendono grande un testo
teatrale, consentendosi anche qualche licenza che a loro - e solo a loro - è consentita. Ma in un ufficio ordinato gerarchicamente come le Procure italiane, Borrelli è il regista. E lui che firma lo spettacolo, ne imposta la filosofia, impone una certa lettura critica del testo. Qualcuno dice che si è stancato, che vuole andarsene dalla poltrona che scotta prima di bruciarsi e che ha rinunciato a malincuore, molto a malincuore alla presidenza della Corte d'appello dopo le dimissioni di Piero Pajardi, costretto ad allontanarsi per le polemiche sul caso Curtò nonostante gli ispettori del ministero lo avessero completamente scagionato (e in ottobre morirà di infarto). Altri dicono che comunque Borrelli non ce l'avrebbe fatta, perché osteggiato da Magistratura democratica che gli avrebbe fatto preferire dal vecchio Consiglio superiore un magistrato a essa più vicino.
Stanco o no, deluso o no, Borrelli tiene tuttora la scena con elegante fermezza, anche se in molti giurano che le fila di Mani pulite le tiene il suo aggiunto Gerardo D'Ambrosio, geniale nel lavoro subacqueo che emerse solo per litigare con Tiziana Parenti a proposito dell'inchiesta sul Pds e non se ne è mai pentito abbastanza.
In ogni caso, se Borrelli lo avesse incoraggiato, forse Di Pietro sarebbe ministro dell'Interno del governo presieduto da Silvio Berlusconi. Ma non lo ha incoraggiato. Anzi. E la sorte vuole che proprio nella torrida mattinata del 26 luglio, il magistrato molisano presenti al giudice per le indagini preliminari richiesta d'arresto per il dottor Paolo Berlusconi, fratello minore e devoto del primo ministro, e partecipe delle sue imprese.
Borrelli: «Se a forza di lavarlo il panno si strappa? Pazienza»
Sulla parete di fondo dell'ufficio di Borrelli, una dolce signora ottocentesca posa nel tramonto di montagna di un quadro prestato dalla sovrintendenza. Nel bel salotto verde in tinta con gli abiti estivi del procuratore e appena consunto dalle visite frequenti, il dottor Borrelli sorride quando gli giro il timore di Saverio Vertone che un uso eccessivo di detersivi, invece di fare il panno sempre più bianco, finisca per strapparlo. Sorride, ma dissente.
«Questo paese aveva bisogno di uno shock. Non si può addebitare alle nostre inchieste il fermo degli appalti o il minore afflusso di clienti nei ristoranti, quando la crisi economica ha tutt'altra origine. Il trauma sarà lungo e doloroso, ma non si può accettare alcuna forma di corruzione. Lei rni chiede che cosa accadrebbe se dopo la nostra inchiesta sulla Guardia di Finanza ne partissero altre cento da altrettante Procure italiane e se si indagasse su tutti gli uffici delle imposte, tutti gli uffici edilizi, tutti i comandi dei vigili urbani, su chiunque abbia il potere d'interdizione e possa in astratto farlo valere. Non lo so che cosa accadrebbe. Ma così non si poteva andare avanti. Alcuni dei finanzieri che abbiamo arrestato facevano più o meno questo discorso: ho fatto un accertamento di mezzo miliardo, faccio pagare alla ditta duecentocinquanta milioni allo Stato, ne chiedo cento per me, mi pare un'equa transazione. Ha capito? Così nessuno si sentiva in colpa...»
Parliamo della carcerazione preventiva e per Borrelli va bene com'era prevista prima del decreto Biondi e come lo è
prima della nuova legge proposta dal governo.
«Qualche parola in più o in meno, ma la sostanza funziona. Ha ragione Davigo quando dice che è il potere reale di una persona che porta alla carica e non viceversa e che soltanto la carcerazione può interrompere la rete di rapporti che rendono potente l'inquisito. Lei dice che spesso la carcerazione preventiva finisce con l'essere una anticipazione della pena. Guardi, con l'eccezione di Greganti, le nostre carcerazioni in genere sono tutte molto brevi...»
Molto brevi? S'avanza il fantasma di Gabriele Cagliari, che dopo centotrentatré giorni di carcerazione non accettò un nuovo ordine di cattura e mise la testa nel sacchetto di plastica. («Lo avevano dimenticato in carcere» disse un uomo fin troppo cauto come il ministro della Giustizia, Giovanni Conso.) E Nobili, presidente dell'Iri. E Ligresti, detenuto per quattro mesi e mezzo. Ed Enzo Carra, condotto in ceppi in aula e condannato per essersi rifiutato di confermare di aver sentito una certa frase pronunciata da una certa persona... («Carra non sa niente di tangenti» mi dirà Severino Citaristi. «Di quelle cose non parlavo nemmeno con lo specchio.») «A morte, a morte...» gridavano sotto la ghigliottina le vecchie tr*oteuses senza alzare gli occhi dall'uncinetto. Meglio dieci colpevoli liberi che un innocente in prigione, intimavano in altri tempi i garantisti. Oggi è un'altra stagione: l'entità del bottino e la qualità dei ladri sono tali che se nel mucchio capita qualcuno che non c'entra e se la pena viene scontata in parte prima della sentenza, pazienza.
Ripeto al procuratore capo la domanda già rivolta al suo sostituto Davigo: vi si rimprovera di mettere in prigione un
signore per il reato A e di tenercelo fino a quando egli non avrà parlato di B, C, D...
«Se c'è una rete di rapporti interconnessi,» dice il dottor Borrelli «soltanto facendo chiarezza su tutto essa si può spezzare. Lei mi chiede come si fa a sostenere il pericolo d'inquinamento delle prove quando si arresta una persona dopo tanti anni dal fatto. Lei non può immaginare il livello di impunità al quale ci si era abituati. Eppoi le prove possono inquinarsi per un periodo molto lungo. Solo la carcerazione può interrompere certe connivenze. Anche se è brevissima. Solo la confessione rende inaffidabile il soggetto. Finora ci siamo attenuti a questa lirlea ed è risultata una linea vincente.»
Ricordo al procuratore Borrelli una osservazione che raccolsi nel '93 da Giovanni Agnelli: «Gli americani non ci capiscono» disse l'Awocato. «Da noi si va in prigione prima del processo e spesso non ci si va dopo. Da loro anche i mafiosi più potenti restano liberi fino al momento del giudizio, ma pOi il carcere è una cosa seria.»
Borrelli auspica che anche l'Italia possa avere in futuro un sistema simile. Ma obietta: «Alla base di tutto debbono esserci rigidi controlli amministrativi da parte delle autorità dello Stato che debbono far funzionare sul serio un apparato con procedure molto semplificate, ma anche molto rigorose. Accurati controlli prima, grande durezza nella repressione dopo. In questa ottica, cioè nell'ottica di un radicale cambiamento di sistema, è ipotizzabile perfino un'amnistia. Da noi le amnistie sono state varate periodicamente soltanto per
vuotare le carceri. E invece le amnistie vanno fatte eccezionalmente, quando si vuole marcare una distinzione netta tra un passato da chiudere e un futuro da costruire. I re facevano le amnistie quando nasceva l'erede al trono: anche questo era un avvenimento che segnava un passaggio epocale».
In attesa di una radicale riforma dello Stato che consenta ai governanti di arrivare al famoso «colpo di spugna», il procuratore capo di Milano non lascia trasparire le preoccupazioni gestionali su Mani pulite (l'enorme numero di processi da celebrare, per esempio) di cui nell'estate del '93 mi parlò apertamente Antonio Di Pietro. «Abbiamo già fatto centinaia di processi,» dice Borrelli «faremo anche gli altri.»
Bussano alla porta. «Entra, Antonio~> dice il procuratore. E Di Pietro, vestito da Di Pietro. Espressione sorridente e indecifrabile, maniche di camicia, colletto slacciato. Assiste agli ultimi dieci minuti della nostra conversazione senza aprire bocca. Resta poi da solo una mezz'ora dal procuratore. I tempi della giornata lasciano immaginare che lo stia inforrnando della richiesta d'arresto per Paolo Berlusconi.
Quando esce, Losa e io lo accompagnamo alla sua stanza fendendo due ali di cronisti. Di Pietro saluta quelli che conosce meglio, s'accorge di aver saltato Andrea Pamparana di Canale 5 che ha seguito l'intera vicenda di Mani pulite. Allora si ferma, torna indietro di qualche passo, tende la mano al cronista: «Ciao, Pamparana». L'arresto di Paolo Berlusconi è una cosa, i rapporti con Canale 5 un'altra.
Mandato anche stavolta agli arresti domiciliari, il fratello del presidente del Consiglio (inquisito per tangenti per circa
300 milioni pagati dal gruppo Fininvest alla Guardia di Finanza), Di Pietro se ne va in vacanza in Molise.
Al ritorno, sabato 3 settembre, si presenta a Cernobbio, dove ogni anno lo studio Ambrosetti riunisce il Gotha dell'imprenditoria italiana. Si siede accanto a molti industriali che ha messo sotto inchiesta per Tangentopoli, schiva i giornalisti, va alla tribuna e legge un discorso in cui dice che così non si può andare avanti, che «la trasparenza senza l'efficienza non produce alcuna economia in democrazia». In breve, propone una sanatoria per Tangentopoli: chiunque, corruttore o corrotto, denuncia tangenti sulle quali non è stata ancora aperta un'inchiesta, restituisce la somma indebitamente percepita ed esce dal giro degli incarichi pubblici, evita la galera.
Gli imprenditori, che davanti a Di Pietro son disposti anche a fare la danza dei sette veli, si spellano le mani. Potrebbero fare diversamente con l'uomo che dispone del diritto di vita e di morte su loro e sulle loro aziende? La sera stessa, però, quando il «giudice più amato d'Italia» compare sui televisori di casa, più d'uno spettatore storce il muso. A parte le riserve di merito (incitamento alla delazione con tutto quello che ne deriva), ci si chiede se sia giusto che le leggi le propongano i giudici che devono applicarle. Davanti a quella platea, poi, l'indornani i mormorii si fanno più forti quando ci si accorge che quella di Di Pietro non era una proposta astratta, ma più che concreta: due quotidiani pubblicano infatti il testo completo di una proposta di legge, articolo per articolo. Di più: si scopre che al progetto hanno lavorato insieme per l'intera estate alcuni giudici di Mani pulite (soprat-
tutto Davigo) e alcuni awocati difensori di industriali sotto processO. Infine, se il ministro della Giustizia non ne sapeva rlienteIgnazio La Russa, awocato milanese e vicepresidente della Camera per conto di Alleanza nazionale, annuncia di essere informato del progetto fin da luglio e di averne discusso con Fini da un lato e con Davigo dall'altro. Sollecitato da Biondi e da Ferrara, Berlusconi dopo due giorni di silenzio arnmonisce i giudici «a fare il loro mestiere, solo il loro mestiere senza interferenze». Qualcuno scrive che, dinanzi alla sfiducia dei cittadini verso i politici (vecchi e nuovi), i soli che possano dettare le condizioni per l'uscita da Tangentopoli sono i giudici. Ma questo vorrebbe dire strappare la Costituzione dello Stato.
Non è finita. Il 14 settembre Di Pietro presenta il suo progetto all'Università Statale di Milano. Nell'arco di dieci anni sono in molti a essersi raffreddati, anche parecchi imprenditori che non sanno come andrà a finire la questione. Il giudice lancia un appello alla nazione e paragona l'Italia a Sagunto: sarà espugnata dai barbari se i politici non la smettono con le chiacchiere. L'ultima volta che la caduta di Sagunto era stata evocata, fu il 7 gennaio del 1980. Il cardinale di Palermo, Pappalardo, lanciò un grido di dolore davanti alla salma di Piersanti Mattarella, assassinato dalla mafia. Le circostanze erano diverse, diverso il ruolo di chi lanciava l'appello. Le parole di Di Pietro vengono accolte con freddezza.
A fine settembre, il giudice fa, suo malgrado (credo ancora una volta in buonafede), il passo più sbagliato. Esce presso Larus, un piccolo editore di Bergamo, un commentario alla Costituzione curato dal giudice. Non si tratta solo di un contributo tecnico, ma anche qui di un messaggio di forte cara-
tura politica. Invoca per l'Italia nuovi padri fondatori (un'autocandidatura?), censura il governo e soprattutto Berlusconi: «Il governo non può pretendere che l'informazione pubblica Si uniformi alla sua politica senza diritto di critica (un'amara esperienza in tal senso l'abbiamo avuta ai tempi del Minculpop)». (Presente nell'ultima bozza, la frase è scomparsa nella versione definitiva.) A parte il riferimento un po' ardito, il problema della libera informazione è cruciale per qualunque paese democratico. Ma può essere sollevato in questi termini dal giudice più potente d'Italia che sta indagando sulla Fininvest? E infatti stavolta Di Pietro resta solo. La sinistra l'ha già mollato perché ne teme un avvicinamento ad Alleanza nazionale. Ma adesso anche Fini prende le distanze.
Violante: «Sì, i pubblici ministeri sono troppo potenti...»
Concludo questo breve viaggio nei rapporti tra magistratura e politica a Montecitorio, nell'ufficio di Luciano Violante, vicepresidente della Camera.
Anche se ha lasciato la magistratura nel '79 per entrare nei ruoli parlamentari del Pci, Violante ha la fama di giudice più potente d'Italia. Si favoleggia che dalla poltrona di presidente della Commissione parlamentare antimafia che ha occupato fino all'incidente Minzolini-Dell'Utri del marzo '94 abbia esercitato un controllo indiretto ma formidabile, sulle Procure italiane più importanti e in particolare su quella di Palermo, per il suo vecchio rapporto di amicizia e di intesa professionale con Giancarlo Caselli, suo antico collega a Torino negli anni bui del terrorismo.
Quando subito dopo le elezioni politiche di marzo ho detto ad Achille Occhetto che tra le ragioni della sconfitta dei progressisti potevano annotarsi il timore di una omologazione a sinistra dell'inforrnazione (anche quella della Rai dei Professori) e della magistratura, vista l'influenza di Violante sulle Procure, la reazione istintiva del segretario del Pds fu «ma non sulla Procura di Milano...», lasciando involontariamente intendere che altrove Violante contasse più di qualcosa.
Il giorno delle sue dimissioni da presidente dell'Antimafia, uno dei leader dello schieramento progressista mi disse: «Meglio così. Dovessimo vincere noi ci risparmieremmo un pericoloso ministro dell'Interno...».
Quando giro a Violante questo giudizio allarmato e allarmante, se non altro perché in arrivo da sinistra, il vicepresidente della Camera resta un po' perplesso e poi commenta: «Quando mi sono dimesso, ho ricevuto ventiduemila messaggi di solidarietà da cittadini comuni. Forse faccio paura perché so fare il mio lavoro».
La visita a Violante nasce da un quesito: i procuratori della Repubblica e i loro sostituti sono troppo potenti, tanto da costituire il Potere per eccellenza in questo paese? La risposta del vicepresidente della Camera sembra condividere un certo allarme: «Quando la politica sposa un processo, la gente ha paura. Guai se il magistrato cerca il consenso dei cittadini. Guai se si crea un asse diretto tra consenso popolare e iniziativa giudiziaria. Lei mi chiede se la gente ha avuto paura prima del voto e per questo non ha scelto la sinistra. Credo che la grande massa dei cittadini non ne abbia avuta. Ma non c'è
dubbio che negli strati medio-alti dell'opinione pubblica del nostro paese ci sia stata una forte preoccupazione».
Violante suggerisce tre correttivi ai poteri del pubblico ministero.
«Innanzitutto bisogna rendere più incisive le norme sulla responsabilità dei magistrati. Adesso, delegata di fatto all'iniziativa del ministro della Giustizia, non è una cosa seria, anche se quella dei magistrati è la categoria più sottoposta a prowedimenti disciplinari. Il secondo problema è che i giudici delle indagini preliminari sono troppo pochi rispetto ai pubblici ministeri. A Palermo su quaranta Pm ci sono soltanto otto Gip. Il giudice quindi ha poco tempo per studiare le richieste della Procura e quasi sempre finisce con l'avallarle. Occorre dunque una riforma giudiziaria che affidando molti processi minori al giudice di pace, consenta di recuperare milleduecento magistrati a compiti più delicati. Il terzo e più grave problema è quello di restituire una forte autorevolezza alla politica. Alcune iniziative del governo Berlusconi (per esempio, la restituzione dell'indennità giudiziaria a magistrati distaccati a compiti diversi da quelli giudicanti) fanno apparire tuttora di fatto la classe politica subordinata alla magistratura. E questo non va bene.»
Anche Violante vuole frenare dunque i pubblici ministeri? Quando al telefono gli ho detto che il potere dei giudici sarebbe stato il tema principale della nostra conversazione, Violante mi hmandato per fax un suo articolo uscito alla fine del '93 su «Micromega». C'era già scritto il progetto per tagliare le unghie ai magistrati, anche in caso di vittoria delle
sinistre.
«Questo potere ha ormai assunto una dimensione patologica... Il centro di gravità del processo, invece, di fermarsi sul dibattimento come luogo di verifica delle opposte ragioni dell'accusa e della difesa, è costituito dalle indagini preliminari, che rappresentano, per necessità, la fase più autoritaria del processo penale. Si aggiunga la sostanziale discrezionalità dell~azione penale per definire un quadro di preoccupante concentrazione di poteri su una fase processuale nella quale i valori propri della giurisdizione sono meno presenti.»
L'avevo detto a Di Pietro il 20 luglio del '93, giorno del suicidio di Gabriele Cagliari: chiunque vincerà le elezioni, sinistra, centro, destra (ma allora alla destra non ci pensava nessuno), ridurrà il vostro potere. Lui non ci credeva. Forse era incerto sul fatto che ci avrebbero provato. Ma era sicuro del fatto che non ci sarebbero riusciti.
Bossi, il terremoto quotidiano
Prende il caffè dolcissimo, Umberto Bossi. «Quanti cucchiaini?» «Due.» Siamo nel bar del Centro Rai Nomentano, il lunedì di San Benedetto che precede le elezioni. Le produzioni oggi tirano il fiato. Fanno festa le belle arpie di «Tunnel» e i più sani e più belli di Rosanna Lambertucci, gli occhialini colorati di Luca Giurato e il sorriso di Mara Venier. Riposano la sempre verde Catherine Spaak e il sempre giovine in boccio Cecchi Paone. Insomma il convento passa soltanto Bossi e Bertinotti che si alternano nel francescano salotto di «Oltre le parole», ammoniti dallo spettro lontano di Giovanni Sartori, padre della scienza politica italiana, che vuol sapere che dia-
volo significhino per i suddetti e gli altri pregiati leader invitati alla trasmissione parole-contenitore come destra, sinistra, centro, federalismo, progressismo, liberaldemocrazia, polo delle libertà...
Beve dunque il caffè dolce l'Umberto e non s'awede che due manovaloni quiriti lo misurano con lo sguardo domandandosi con l'antica preveggenza romana se un domani il gran capo leghista non tornerà con l'ufficiale giudiziario a metterli all'asta tutti insieme con le palme finte di Cecchi Paone, i divani rosa della Lambertucci, le ballerine di «Domenica In», gli ospiti misteriosi della Spaak, i tunnel rossoOcchetto della banda di «Avanzi» e tutto il resto, compreso il Vespa che, goloso com'è, guarda ammirato i due cucchiaini colmi di zucchero con cui ha appena condito il caffè di Bossi.
Il quale Bossi il caffè se l'è guadagnato fino all'ultima goccia, abbandonando gli amati comizi nella protettiva terra
lumbard e schivando perfino un dirottamento in corso a Fiut micino pur di arrivare puntuale al modesto appuntamento di «Oltre le parole». Sorpresa.
Quando due settimane prima avevo chiamato Simonetta Faverio, sua addetta stampa per l'invito di rito, la risposta era stata cortese ma negativa: «Grazie, ma l'Umberto ha detto che non farà più televisione. No, nemmeno Tribuna elettorale. Farà soltanto l'appello agli elettori, i tre minuti finali. Va bene Maroni?».
Bossi è Bossi, certo, ma come si fa a rifiutare Maroni, il nu-
mero due delegato non solo alle pubbliche relazioni, ma addirittura candidato dall'Umberto a fare il presidente del Consiglio al posto dell'odioso alleato Berlusconi?
Naturalmente è fatale un po' di dietrologia. Immagino dunque che Bossi non abbia deciso di ignorare la televisione per dedicarsi agli amati comizi, ma perché i suoi - Maroni in testa - lo hanno chiuso a tripla mandata in Lombardia per arginarne i danni. Da molto tempo, infatti, gli esperti di comunicazione suggeriscono maliziosamente agli avversari del leader leghista: «Vi preoccupate di Bossi? Allora fatelo parlare». In televisione, naturalmente. In Tv il celodurismo rende sempre meno.
Le immagini truculente care all'Umberto, il tagliare la gola agli awersari, l'ostentare proiettili per i giudici, sono oro, incenso e mirra portato al presepe dei suoi oppositori. «Che vada in Tv, l'Umberto. Che vada. Peggio per lui.» Questo insinuano gli esperti maliziosi. E invece eccolo, Bossi, entrare tranquillo, col sorriso un po' intimidito, nel bar semideserto del Nomentano. Mi sembra perfino bello. Oddio, bello il Bossi? Carino. Forse nemmeno carino. Insomma, meno brutto di come appare in Tv, certo meno brutto di come lo ritrae Giorgio Forattini, con i dentoni da Dracula e lo spadone leghista alla cintura.
Lo ricordavo diverso, Bossi. Un solo incontro, casuale, in un corridoio di Montecitorio, poco dopo le elezioni del '92. Ero direttore del Tgl e avevo sottovalutato il fenomeno leghista. Mi sembrava impossibile che la borghesia lombardoveneta, la più avanzata d'Italia, avesse abbandonato la culla protettiva del sistema, che aveva garantito sicurezza per
quarantacinque anni, per tuffarsi tra le braccia di uno che prometteva di tagliare l'Italia, di abbandonare il Sud al suo destino, che gridava a Pontida: «I soldi del Nord restino al Nord e il resto d'Italia s'arrangi». Non avevo capito a che livello di non ritorno fosse arrivata l'incazzatura degli italiani. Bossi attraversava gli odiati corridoi del potere a grandi falcate, protetto da una piccola corte di pretoriani guidata da Francesco Speroni, che fin da allora portava la giacca rossa come rossa era la mantella di Liborio, il più celebre prefetto del Pretorio, negli anni di «Carosello».
Dissi a Bossi: «Le porto il rispetto che merita la grande quantità di persone che la votano». Bossi fu garbato, ma mi sembrò abbastanza ostile e grintoso, assomigliava a quello di Forattini. Quale atteggiamento d'altra parte avrebbe potuto avere dinanzi al direttore di uno degli odiati giornali di Stato, incarnazione dell'orrido potere romano? Eppure la mia frase parve rassicurarlo, e Bossi si chetò.
Penso a quel gelido incontro adesso che bevo il caffè con un uomo tutt'affatto diverso. Bossi è assai più potente di allora e il suo linguaggio è diventato più duro, perfino sanguinario («Abbiamo tagliato la gola alla Dc da orecchio a orecchio»).
Ma nel pomeriggio di San Benedetto ha l'aria mite, sorridente e un po' velata d'imbarazzo, del titolare di una piccola impresa brianzola che abbia vinto la gara d'appalto per i condizionatori d'aria della Rai e sia venuto a vedere se il lavoro non sia per caso troppo impegnativo. L'unico segno di riconoscimento che gli trovi addosso è il distintivo d'oro del
la Lega. Per il resto, il tono è dimesso, da borghese piccolo piccolo quasi proletario che dovrebbe fare invidia non dico all'aristocratico Occhetto da Capalbio, ma almeno al raffinato Bertinotti da Torino Mirafiori.
Giacchettina a quadretti azzurro-celesti, camicia celeste Upim slacciata alla Bossi, cravattina rosso cupo che porta i segni di estenuanti e malriuscite annodature, pantaloni scuri stazzonati calzini grigi slavati a righine strette e infine scarpe nere a punta quadra di design albanese.
Fa tenerezza, l'Umberto pronto per lo show della Tv romana. E il personale di studio, che ne ha viste tante e ha l'animo buonolo adotta subito. La guardarobiera che non conosce il Bossi-pensiero gli dice di allacciarsi la camicia e di tirar su la cravatta- Lui lo farebbe pure per non dire di no e compiacere la signora Lo fermo io, quasi d'autorità. «Lascia stare tutto com'è, altrimenti non ti riconoscono più.»
La guardarobiera non capisce e insiste perché almeno il bordo inferiore della cravatta non gli spunti dalla giacca. Bossi stavolta l'accontenta: tira su, tira giù e lascia tutto peggio di prima. La truccatrice gli spolvera il viso con un po' di cipria e lui si toglie gli occhiali a goccia e lascia fare.
L'unico gesto di difesa netta lo compie quando la parrucchiera fa per rawiargli i capelli. «No» la ferma Bossi. Chiede lo specchio, si tocca compiaciuto il caschetto grigio a riga centrale e la congeda con un sorriso: «Va bene così».
Ma lo studio è ormai conquistato e Fabio, l'assistente, apre il coro delle indiscrezioni più gradite: quelle sul trucco di
Berlusconi.
«Sapesse, onorè... Sò venuti a fà le prove, sò venuti... Sì, il giorno prima: abbassa 'sta luce, smorza il controluce, sposta la telecammera. Sa onorè: ci aveva paura che gli sbagliassimo le luci apposta pe' fallo venì male...»
«Eppoi il trucco» dice un'altra. «E venuto già pronto, ha accettato da noi un tocco di cipria e una passatina di pettine. Ma prima, in camerino, ci aveva la sua assistente personale...»
Bossi si diverte, ma sembra soprattutto stordito dalla potenza di fuoco mass-mediologica del suo alleato-rivale.
«Per forza,» dice alla fine, quasi per consolare se stesso e il personale di Nomentano Due, «col mestiere che fa...»
Le «rluvolette» del Cavaliere
n «mestiere» di Berlusconi è l'incubo di Bossi dal 26 gennaio, da quando il Cavaliere è entrato in politica con un messaggio televisivo. Bossi è convinto che Berlusconi ricavi il suo potere esclusivamente dalle reti della Fininvest, ritiene che possa usarle secondo i suoi capricci, non si commuove quando vede che il cuore di Costanzo e quello di Mentana battono per i progressisti: è convinto che il giorno in cui fosse costretto a vendere Canale 5 il Cavaliere sarebbe politicamente finito.
Per questo vuole ossessivamente un giornale per la Lega e soprattutto una rete televisiva (pubblica?, privata?) che fac-
cia i suoi interessi. Per questo a fine settembre minaccerà sfracelli dopo l'esclusione di uomini della Lega (primo fra tutti il suo biografo Daniele Vimercati) dai nuovi assetti che guideranno l'informazione della Rai. Sul tema dell'informazione Umberto Bossi è tornato con impressionante costanza in ciascuno dei cinque incontri che abbiamo avuto tra marzo e luglio del '94. Mi dice il 22 aprile, mentre è aspro il confronto postelettorale con Berlusconi: «Bisogna stare attenti alle manipolazioni, alle nuvolette d'incenso che escono dal televisore. E facile manipolare la gente, promettendo certezza in quello che viene abitualmente considerato il bene primario cioè la governabilità. Bisogna badare a che non si ripetano lé esperienze delle settimane scorse. E la democrazia correrà minori pericoli».
Bossi non nomina mai Berlusconi, a meno che non vi sia costretto da un intervistatore. Ma ogni accenno polemico si riferisce a lui. Berlusconi non viene mai difeso da Bossi. Spesso è attaccato con una asprezza inedita nei rapporti tra alleati nella Prima Repubblica, la cui debolezza di fondo è stata proprio la conflittualità delle coalizioni. La definizione più gentile che nell'arco del '94 Bossi ha dato di Forza Italia è stata «il male minore». In ciascuno dei nostri colloqui e delle nostre interviste l'atteggiamento di Bossi nei confronti del Cavaliere è sprezzante. Ma quando gli dico, come naturale conclusione, «Quindi l'alleanza non si fa», oppure «Quindi non farete il governo insieme» o ancora, dopo le elezioni europee di giugno '94, «Quindi farete la crisi», la risposta di Bossi è invariabilmente di segno opposto a tutto il ragionamento precedente. «L'alleanza è necessaria», «Il governo si deve fare presto», «La crisi è impensabile e ancor più lo sarebbero nuove elezioni anticipate».
In realtà l'atteggiamento negativo di Bossi nei confronti di Berlusconi non è mosso tanto da un giudizio politico, quanto da un umanissimo eppure inconfessabile risentimento personale. Come vedremo, Bossi comincia a far politica nel '79 quando s'innamora dell'ideale autonomistico incontrando il leader dell'Union Valdotaine, Bruno Salvadori, davanti a un manifesto nell'Università di Pavia. Quindici anni non sono i cinquanta di Andreotti, ma non sono nemmeno i tre mesi di Berlusconi- E comprensibile, quindi, che quando prima delle elezioni Bossi sente il suo prestigioso alleato parlare tranquillamente di candidatura alla presidenza del Consiglio avverta una nausea da partoriente e quando dopo le elezioni lo vede comparire in televisione con la scritta sul mezzobusto: «Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio dei ministri» o, peggio, lo sente chiamare «Dear Silvio» da Clinton e lo vede a braccetto con Kohl e con Eltsin come se fossero Sacchi e Baresi, subisca tutti gli effetti negativi della «sindrome da Maratona»: quella dell'atleta che nella «classica» inventata suo malgrado da Filippide è stato in testa dal primo momento al quarantaduesimo chilometro e poi si vede sorpassare alla grande negli ultimi centonovantacinque metri da uno sconosciuto Speedy Gonzales iscrittosi alla gara poco prima della chiusura dei termini.
«Berlusconi? Ma sì, gli concederemo di fare il ministro dello Sport e dello Spettacolo. Credo che gli si addica come ruolo.» Così dichiara Bossi a Flavia Baldi del «Giorno» il 25 marzo, due giorni prima delle elezioni, mentre mangia con la consueta parsimonia un piatto di spaghetti offertogli in una bella casa di largo Quinto Alpini, a Milano, da una settanten-
ne signora Carla innamorata di lui e incontrata poco prima al mercato rionale dove il Senatùr sta concludendo la sua campagna elettorale.
«La Lega sarà un rombo di tuono» urla qualche ora dopo in piazza Duomo a seimila scatenati che gridano ritmando: «Chi non salta / comunista è». E orgoglioso dei ventiduemila chilometri fatti in campagna elettorale («Noi non avevamo le Tv» dice a Massimo Arcidiacono dell'«Indipendente») e si allarga a estendere i veti anche agli alleati meridionali di Berlusconi: «Chi, Fini? Sarebbe come tornare al passato remoto. No, cari miei, con un fascista non faremo il governo». E ancora, a chi gli ricorda che Fini è alleato di Berlusconi: «Berlusconi si preoccupi di far votare il suo di partito, perché il nostro è già così grande e così forte che non ha bisogno di altri voti. E lui che nonostante le luci azzurrate e le ciprie, ha qualche difficoltà».
Bossi sa che non è vero. Sa che appena tre mesi prima, a fine '93, i sondaggi accreditano la Lega del 19 per cento, ridotto immediatamente al 12 quando a fine gennaio scende in campo Berlusconi. Sa che sotto elezioni le cose vanno perfino peggio, non tanto perché sente awicinarsi 1'8.4 che gli daranno le urne, quanto perché vede crescere il suo amico alleato.
Eppure, a gennaio, è proprio il suo atteggiamento (insieme con quello di Segni e di Martinazzoli) a convincere il Cavaliere alla grande sfida, mentre Maroni, che forse avverte di più il pericolo, scongiura Berlusconi di aspettare il veto formale del leader popolare per ritardare un impegno diretto ormai già deciso.
L'accordo del 24 gennaio tra Segni e Maroni per una intesa tra leghisti e pattisti procura grande sconcerto tra i popolari e terribili accuse di tradimento da parte della sinistra referendaria. Ma a ben guardare potrebbe rappresentare l'ultima possibilità per portare Segni a Palazzo Chigi con la benedizione del Cavaliere, e con Bossi vero nume tutelare.
«Segni all'ultima svolta» titola ironica «la Repubblica» che chiarisce subito: «Patto d'azione con i leghisti per arrivare a Palazzo Chigi». Al cronista che gli chiede se è ormai tramontata l'ipotesi di andare solo alle elezioni con Martinazzoli, Segni risponde: «Voglio marciare insieme a tanti. Anche Martinazzoli sa che non deve marciare da solo. Siamo nel maggioritario, ora».
In realtà sia Martinazzoli che Bossi pensano di essere assai più forti di quel che sono: il primo è convinto di poter rappresentare l'ago della bilancia di qualunque governo e di determinare il presidente del Consiglio (più Prodi che Segni, se i progressisti saranno più forti della destra); il secondo pensa che insistere sulla pregiudiziale federalista gli porterà il Nord in dote e che può, anzi deve, fare a meno dei vecchi democristiani così poco amati dal popolo leghista.
Così Bossi in quarantotto ore smentisce Maroni, Martinazzoli tira un sospiro di sollievo e ritiene che l'acquisizione esclusiva di Segni possa consegnargli le chiavi del governo. gerlusconi (grazie ai sondaggi quotidiani di Pilo) è il solo a capire che l'uno e l'altro gli stanno regalando Palazzo Chigi.
ffIn fondo, I'ho fregato»
Per tutta la campagna elettorale, Bossi insiste sul federalismo per consolidare le simpatie dello zoccolo duro della Lega e quando un mese dopo la rottura con Segni, venerdì 25 febbraio a Brescia, l'inviato del «Corriere» Gianluigi da Rold gli fa notare che l'ultimo sondaggio Cirm colloca la Lega al 9.5 per cento contro il 25 di Berlusconi, Bossi risponde: «Dopo il voto, quello che conterà sarà la forza parlamentare. Io sono certo che la Lega diventerà il gruppo più forte e più compatto. Mettiamo subito tutti sull'avviso: per governare, questa volta, bisognerà fare i conti con noi. E vedrete che ci saranno delle sorprese».
Fino alla vigilia elettorale, Bossi gioca due carte: la forza parlamentare della Lega e la grande delega che si aspetta dal Nord. Sul primo punto, quando a una settimana dal voto lo accompagno alla porta dopo l'intervista sui programmi elettorali e il caffè molto ben zuccherato, lui mi confida: «In fondo, Berlusconi l'ho fregato perché il settanta per cento dei parlamentari del Polo delle Libertà eletti al Nord sono i miei. Anche a Fini andrà bene perché metà degli eletti nel Sud sono suoi».
Così per larghe linee avverrà. Ma è il messaggio politico dell'elettorato che sarà diverso da quello sperato da Bossi. Il leader della Lega conta fino all'ultimo di avere almeno sulla proporzionale (cioè nel voto «ideologico») un piazzamento migliore di Forza Italia. E così non sarà. E spera di poter essere il vero punto di riferimento del Nord, per dettare le condizioni istituzionali al nuovo governo. Ma nemmeno questo secondo desiderio verrà soddisfatto, se le sue quarantunomila preferenze personali nel primo collegio di Milano saranno
attribuite per due terzi all'elettorato di Forza Italia e solo per un terzo a quello della Lega.
Così gli ultimi giorni di campagna elettorale vengono condotti da Bossi con la consueta, straordinaria generosità personale, ma in un clima di grande nervosismo.
Il 22 marzo il «Corriere della Sera~, da sempre organo del la borghesia lombarda, annuncia che «imprenditori e Lega sono sempre più divisi mentre cresce la protesta di una categoria produttiva che non si sente rappresentata nelle candidature». Nella stessa pagina, Gianni Riotta raccoglie le ultime confessioni dell'Umberto, spesso mattatore di «Milano, Italia».
S~amo a cinque giorni dalle elezioni e non si può dire che tra Bossi e Berlusconi sia scoppiato l'idillio. Dice il Senatùr: «Fronteggio la carica del nemico, anche tra le mie file». E chi è il nemico? Lo conferma a Riotta un consigliere di Bossi: «Umberto sa di essere alleato con un nemico. Siamo alle corde, ma non ci arrendiamo». Poco più in là c'è il generale: in queste ore Bossi si identifica sempre di più con un suo eroe, il generale russo Mikhail Ilarionovic Kutuzov, che aspetta la battaglia della Beresina. Per dare la carica alle truppe, demonizza il nemico. Che è anche suo alleato. Infila nel registratore di casa un vecchio film del grande Kurosawa, Kagemusha, I'ombra del guerriero, e ne riassume la storia a Riotta «con una voce che di colpo si fa soffice, come se raccontasse una fiaba»: «E la storia di un re che, attratto da una musica sotto le mura della città assediata, finisce ucciso da una freccia. Gli ufficiali, temendo che senza il re l'esercito venga sgominato,
arruolano un sosia, la sua copia carbone, e lo portano in giro. Ma il vecchio re era saggio, il nuovo è finto. Il potere l'ottieni solo se parli con te stesso e sai capire cosa dici. Nessuno può cambiare la natura delle cose. Il ferro non diventa oro, un sosia non è il re. Quando arrivi alla prova sei solo: muore il nuovo re, l'esercito è sconfitto». E chi è il re finto? n Cavaliere, naturalmente. Anzi, dice Bossi per marcare la differenza: «Io sono un fante. Combatto nella palude. La mia tattica è pericolosissima».
Prima delle elezioni, Bossi assomiglia ai guerrieri terribili, eroici e tristi delle leggende omeriche. Al «Corriere» fa avere per il paginone che gli viene dedicato una foto in cui suona con dolcezza il violoncello con la testa appoggiata sulla guancia di sua moglie Emanuela. A Riotta racconta che «il potere non conta. Conta tornare a casa a trovare i figli, la cosa migliore che ho. Arriverò a notte fonda, mi infilerò sotto le lenzuola con loro. Così sentono che ci sono».
«Berluskaiser? Mai a Palazzo Chigi...»
Le elezioni del 27 marzo portano a Bossi meno della metà dei voti di Berlusconi e soprattutto gli procurano un imbarazzante confronto al Nord con l'alleato-nemico. Nell'Italia settentrionale la Lega tocca il 17 per cento dei voti, contro il 23.5 di Forza Italia. Nella Milano di Formentini la forbice si allarga: 16 contro 28.6. Stesso rapporto, più o meno, in Lombardia e in Piemonte. Dieci punti a favore di Forza Italia in Trentino e in Emilia. Ironia vuole che solo nel Veneto lo scarto sia di un paio di punti. Perché ironia? Ma perché nel Veneto comanda Franco Rocchetta, presidente della Lega Nord e massimo awersario interno di Bossi al quale, subito dopo le ele-
zioni, manda a dire dalle colonne di «Panorama»: «I miei maestri sono stati gli agricoltori e i muratori, non i giocatori d'azzardo». E chi è il giocatore awentato se non l'Umberto? Che già il 31 marzo, alla prima riunione degli eletti della Lega, prende da parte Rocchetta e lo diffida a mettersi in pista per diventare ministro. (In autunno Rocchetta romperà definitivamente col senatùr.)
Nella settimana successiva alle elezioni, Bossi alza il tiro contro Berlusconi.
Manda intanto due awertimenti a Scalfaro: 1. «Sono io, è la Lega che rivendica il diritto alla guida delle trattative di governo». 2. «Il presidente non si azzardi a fare di testa sua. Se designa Berlusconi, stavolta il Nord s'incazza davvero» (Giovanni Cerutti, «La Stampa», 30 marzo). E poi ancora, sullo stesso giornale: «Non dimenticherò mai che Forza Italia è nata per battere la Lega. Non dimenticherò mai che volevano farci fare la fine della Rete o dei Verdi, poverelli». «Bossi vivente, Berlusconi non andrà mai a Palazzo Chigi.» «Dietro Fini c'è un passato che non si cancella con una visitina alle Fosse Ardeatine. Li ho visti bene i saluti al Duce in Tv!»
Per l'intera Settimana Santa, Bossi cosparge di spine il calvario di Berlusconi.
Intanto, s'infuria col Cavaliere perché il primo incontro politico avviene a casa di Fedele Confalonieri, presidente della Fininvest, alla presenza del vicepresidente Gianni Letta. E il sernplice odore di Fininvest fa su Bossi lo stesso effetto di un drappo rosso su un toro.
Poi continua a dire che Berlusconi non sarà mai premier (2 aprile, Sabato Santo) e chiede l'incarico per formare un governo istituzionale, affermando che «con Berlusconi la democrazia è a rischio» (4 aprile, lunedì dell'Angelo).
Lo stesso giorno Bossi confida a Daniele Vimercati del «Giornale»: «Berlusconi politico io l'ho già misurato. Nel senso che, quando l'ho incontrato (dopo le elezioni) m'ha detto: "Dai, mettiamoci d'accordo, che così dividiamo il potere, io e te, per vent'anni". Capito? Un altro ventennio, mi proponeva». Ribatte Berlusconi: «Non ho mai promesso un ventennio di potere: ho soltanto proposto a Bossi dieci anni di sviluppo e di benessere per il popolo italiano».
Il 5 aprile, con la Pasqua andata di traverso, Berlusconi perde la pazienza e interrompe le trattative. Non può accettare che un suo alleato di rango lo chiami pubblicamente «Berluscone», «Berluscaz» e infine «Berluskaiser». E intanto il fiore all'occhiello della sua Mondadori, «Panorama», pubblica un sondaggio commissionato alla Swg di Trieste secondo il quale oltre un terzo degli elettori della Lega mostra insofferenza per le posizioni del suo leader e il quaranta per cento degli elettori del Carroccio non confermerebbe il suo voto per le bizze di Bossi, pur restando nel campo moderato (un passaggio a Forza Italia?). Infine, secondo Swg e «Panorama», «la Lega dovrebbe partecipare a un governo che i più vogliono guidato da Silvio Berlusconi».
Quando Bossi rientra da Ponte di Legno dove ha passato in serenità la sua Pasqua accontentandosi di rovinare quella del Cavaliere, vado a intervistarlo nel suo ufficio a Monteci-
torio.
La segreteria di Bossi suggerisce, al primo impatto, la stessa improvvisa sensazione di extraterritorialità che si prova entrando negli uffici dell'ambasciata americana. Lì è il distri-
tore d'acqua gelata in corridoio, il modo di scrivere sulle agnedi archiviare i fogli negli uffici che ti fa pensare di essere entrato in un pianeta diverso, dietro l'uscio che si apre sul traffico di via Veneto. Qui sono i poster leghisti appesi dovunque che rivendicano la diversità nordista, il diritto alla scuola che è cosa diversa da quello invocato nei paesi della Sicilia: in quanto non diritto nazionale all'alfabetizzazione e alla parità delle condizioni di partenza per i giovani, ma diritto locale ad avere insegnanti che parlino il dialetto dei ragazzi, che siano sangue del loro sangue, ben consapevoli della diversità nordista della quale la Lega ha fatto fin dalla sua nascita la base di ogni progetto e di ogni rivendicazione.
L'unico elemento di piena territorialità romana in questa stanza è la bella segretaria di Bossi, Gabriella Pulcini, la sola persona abilitata a gestirne gli incontri, gli appuntamenti, a regolare il traffico d'entrata e uscita dalla sua stanza e anche a organizzargli quel po' di vita romana che Bossi si concede. Lo segue dal Senato, quando Bossi più che un parlamentare era una stravaganza politica. «Quando ho l'influenza, Gabriella viene perfino a farmi la minestrina» dice Bossi. «Ma basta, eh?, perché con le segretarie non bisogna fare altro» aggiunge mentre la ferrea collaboratrice diventa paonazza e cerca di scivolare sotto la scrivania.
Facciamo con Bossi l'intervista per il Tgl e lui digrigna i denti contro Berlusconi, ma butta anche qualche goccia d'acqua sul fuoco, preparandosi alla grande convention di Pontida in cui non potrà teorizzare la rottura col Cavaliere. Poi, a rnicrofoni spenti, mi dice che il governo bisogna farlo e presto, entro aprile. E mi fa capire, anche, quali sentimenti contrastanti si nascondono dietro la richiesta leghista del ministero dell'Interno («L'unico per il quale potrei sacrificare Maroni»). Bossi è combattuto tra il desiderio (e anche dalla curiosità) di entrare nel sancta sanctorum del Viminale che la Dc non ha mollato mai in quarantacinque anni e il timore di dover gestire difficili situazioni riguardanti la sicurezza del paese e l'ordine pubblico. Da questi timori nasce la richiesta di sdoppiare gli Interni e di assegnare alla Lega un ministero delle Autonomie che prenda dal Viminale la rosa delle prefetture e del controllo politico del paese, lasciando a qualcun altro le spine dell'ordine pubblico. Richiesta destinata a cadere per le resistenze a creare un ministero di sola polizia da parte di Berlusconi e dello stesso Scalfaro, che pure al Viminale non vorrebbe in alcun modo un leghista e fa il tifo per una personalità più tranquilla.
«Stavamo per prendere le armi, noi della Lega»
Ma nel nostro colloquio Bossi va oltre. E la prima volta che possiamo affrontare una discussione politica a tutto campo e lui colloca tra 1'86 e 1'87 un momento di altissima crisi di cui non avevamo avuto notizia. «Stavamo per prendere le armi, noi della Lega» mi dice. «Le armi?» chiedo. «Sì, le armi» conferma Bossi. Lo dice con grande tranquillità, come se stesse parlando di un fatto storico ormai lontano e consolidato, come se stesse parlando di Garibaldi. Fa una pausa, aspira la
sigaretta con un gesto largo e disteso del braccio e riprende: «Stavamo andando alle armi perché non c'era altro da fare. Il regime sembrava incrollabile».
Sarebbe nato, dunque, un terrorismo leghista? Forse al momento di entrare in azione le convinzioni democratiche di Bossi l'avrebbero fermato. E certo però che la tentazione di una iniziativa disperata contro un sistema che gli appariva corrotto, impresentabile eppure apparentemente solido, BosSl deve averla avuta se Roberta Filippini, una brava collega dell'Ansa di Torino mi dice una sera, per caso, di averlo sentito affermare la stessa cosa in un discorso elettorale in Piemonte. Siamo a cena il 6 maggio in una trattoria del Lingotto. Claudio Abbado ha appena inaugurato con la Nona di Mahler la splendida sala da concerto realizzata da Renzo Piano. Parliamo di musica, dei Berliner, delle occasioni perdute da Roma che aspetta dal dopoguerra la costruzione di una struttura modulare come il Lingotto che sia al tempo stesso sede di congressi, di grandi mostre e di concerti Poi il discorso scivola sulla politica, racconto i miei incontri con Bossi e dico alla collega che mi ha impressionato quella frase: «Stavamo per prendere le armi». Lei mi guarda stupita e mi dice: «Sai che l'ho sentita anch'io in un comizio a Novara? Bossi disse: "Migliaia di giovani del Nord, nelle valli, nelle pianure, nelle montagne, erano pronti a fare la rivoluzione. ~Ia io li convinsi a scegliere la via democratica al cambiamento". Era il 22 marzo. Alla fine del comizio mi awicinai per chiedergli conferma e lui mi trattò bruscamente. Chiamai la sede centrale dell'Ansa a Roma. In assenza di una registrazione e in assenza di una conferma da parte di Bossi, decidemmo di non trasmettere questo passaggio del discorso».
(Il 29 agosto Bossi ripeterà la cosa durante le sue vacanze in Sardegna a Porto Cervo. Il cronista dell'Ansa stavolta è in compagnia di altri colleghi e giura di aver sentito il leader della Lega dire di aver fermato trecentomila bergamaschi in armi pronti per la rivoluzione. La notizia fa il giro del del mondo e imbarazza sia il governo che la Lega. Bossi smentisce di aver mai parlato di trecentomila armati, ma conferma il fermento rivoluzionario. La Procura di Bergamo apre un'inchiesta.)
Ma torniamo nella stanza di Bossi che seduto sotto la finestra continua placidamente a divorare sigarette come se fossero di cioccolata. Parla degli anni d'oro di Craxi, quelli che hanno alimentato di più l'odio della Lega verso il sistema dei partiti. «Era una dittatura. Una dittatura subdola, che ti scivola sotto senza che tu te ne accorga. Una dittatura fondata sulla commistione tra politica e affari, sulle verità nascoste, sull'equilibrio nella ripartizione delle tangenti. Se non fosse arrivata la Lega, la gente non si sarebbe accorta di quanto può essere asfissiante il regime partitocratico.»
La Lega comincia a picconare e ottiene qui e là la caduta di qualche calcinaccio. Di Pietro fa il resto e il cambiamento politico è superiore a ogni ragionevole previsione.
Poche ore dopo il nostro colloquio Bossi s'incontra con l'odiatissimo Fini e la domenica in Albis, 10 aprile, a una settimana dalle cannonate di Ponte di Legno, va ad annunciare a quarantamila leghisti raccolti sul prato di Pontida che il governo si farà. Titola «il Giornale» di Feltri che ormai segue la Lega con la stessa attenzione che il direttore le dedicava all'«Indipendente»: «Sarà un governo a orologeria. Bossi
scioglie le riserve e awerte: riforme entro sei mesi o faremo la Repubblica del Nord». Il consueto cocktail di annunci rassicuranti e di minacce celoduriste offre grande conforto al popolo leghista. Racconta Renato Farina, sempre sul «Giornale»: «Il miracolo c'è stato. Il popolo che nei vapori di un'al ba rugiadosa scendeva nello spiazzone verde con i figli ir spalla e una certa confusione nella zucca, adesso risale baldanzoso e quieto verso le automobili bloccate nel più colossale ingorgo pedemontano della storia. L'unico ingorgo felice, senza un colpo di clacson, dell'umana avventura... Gianfranco Miglio ha profetizzato: "Baceranno la terra dove i leghisti hanno posato i piedi, perché verrà un tempo di prosperità che nessuno può immaginare adesso". Cinque ore pnma questi quarantamila non sapevano più chi erano e dove soffiava la storia. Adesso l'universo si è risistemato e sono come i cavalieri del Santo Sepolcro che hanno ritrovato il calice divino e vogliono starci intorno, silenziosi e danzanti».
«Giovane, cattolica, leghista»
Ancora sei giorni e Bossi mette a segno il colpo più grosso: il 16 aprile, appena insediato il nuovo Parlamento, Irene Pivetti diventa a trentuno anni presidente della Camera. Ecco il suo racconto: «Il giorno dopo Pontida, l'11 aprile, mi chiama Maroni e rni annuncia che Bossi proporrà al Consiglio federale la mia candidatura a vicepresidente della Camera. Resto molto sorpresa. Dopo le elezioni pensavo di potermi occupare a tempo pieno della consulta cattolica. Un ministero? No, semmai perlsavo a un eventuale incarico di sottosegretario... Quando Maroni mi parla dell'orientamento di Bossi, dico che se la cosa andasse in porto, avrei bisogno di tutto il soste-
gno della Lega. Maroni mi rassicura e poi scompare per un paio di giorni. Bossi si fa vivo il 13. Sto all'Università Cattolica e mi cerca sul cellulare. Irene, mi dice, guarda che Speroni non passa al Senato e credo che ti toccherà fare il presidente della Camera».
La ragazza ha un carattere forte e controlla bene l'emozione. Le fa piacere ricevere questa notizia dal capo perché i rapporti con lui hanno sempre girato a corrente alternata. Non è stato lui a toglierla poco prima delle elezioni dal suo ~llegio naturale di Milano per mandarla tra la Bovisa e 2uarto Oggiaro?
«Non c'ero mai stata in vita mia» confessa la Pivetti. «Una ~ona rossa che più rossa non si pub. La Lega aveva una se~ione, Rifondazione comunista ne aveva sei. Tra emarginati li ogni genere ho fatto la mia campagna elettorale solo con i nilitanti- Campagna elettorale? Era un'ordalia. Quattro canlidati e tutti cattolici. I progressisti mi avevano messo contro m cristiano sociale. Cattolico il Popolare, cattolico quello di Alleanza nazionale. E andata bene. Ho vinto con quasi il 53 per cento.»
Tomiamo al 14 aprile, vigilia dell'apertura del Parlamento. "è un vertice di maggioranza. Bossi, com'è giusto, incassa la vittoria politica. Fini fa filtrare la notizia che è stato lui a proporre la Pivetti.
«Arrivo a Montecitorio mentre il vertice è in corso, vado a ifugiarmi nella sala dove i deputati leggono i giornali. Vado ì perché è uno dei pochissimi posti in cui i giornalisti non ~ossono entrare. Mezz'ora dopo escono Bossi e Tatarella per
mnunciare le candidature in conferenza stampa. Con la naggioranza che abbiamo alla Camera, l'elezione è certa. Come ho reagito? Stringendo i denti.»
Alla giovane presidente i sostenitori politici riconoscono tre qualità ideali per l'incarico: «E giovane, cattolica e leghista». Ma di avversari la ragazza non ne ha pochi.
Una sera, in campagna elettorale, sono tra il pubblico del «Maurizio Costanzo Show» quando sento che un brusio accompagna l'ingresso in platea di una giovane donna che va ad occupare una poltrona centrale di prima fila. Chiedo a un collega: «Chi è quella lì?». E lui mi guarda come un marziano: «Ma come, non conosci la Pivetti?». Al «Costanzo Show» l'assegnazione dei posti segue un cerimoniale che fa impallidire il protocollo delle visite di Stato. In prima fila vanno gli ospiti di riguardo, in fatto di popolarità, e soprattutto quelli dai quali ci si aspettano le domande più autorevoli e micidiali. La Pivetti, in questo senso, è la persona ideale. Attaccata sempre e da tutte le parti, rispedisce i siluri al mittente aumentandOne il potenziale esplosivo.
«L'Espresso» le dà il benservito immediatamente dopo la nomina. Il titolo del ritratto di Roberto De Caro è «Giovinezza, giovinezza... ». Il sommario è meno ambiguo, ma micidiale: «Politicamente è nata ieri. Ideologicamente è una cattolica khomeinista. Umanarnente è timida, sprezzante. Questa sarebbe la rottura col passato?». Le vengono rinfacciati il suo integralismo cattolico («C'è una vera religione che è la religione cattolica e le altre che non lo sono»), la sua antipatia per il cardinale di Milano, Martini, che non ha mai vo-
luto riceverla, la sua supposta debolezza per gli scismatici tradizionalisti di monsignor Lefèbvre («Non è vero, seguo soltanto la dottrina del cardinale Ratzinger»), il suo supposto antisemitismo che nascerebbe dal rancore per il deicidio («E una vergogna, mai detto niente del genere»), la sua intraprendenza che la porta a prendere la parola senza invito nel '91 alle Settimane sociali della Chiesa come esponente della consulta cattolica della Lega. Vengono sottovalutati o trattati con sufficienza la sua solidità culturale, le sue ricerche sui manoscritti del Cinquecento, la sua attività di completamento e di revisione, appena laureata, del Grande dizionario illustrato della lingua italiana di suo nonno, Aldo Gabrielli.
Viene infine enfatizzata e condita di mistero la sua separazione coniugale dal coetaneo Paolo Taranta, conosciuto all'Università Cattolica, sposato a venticinque anni e legalmente abbandonato a trenta, oggi banchiere d'affari a Londra.
Lei non ha il corpo fragile di San Sebastiano, le frecce le fanno il solletico, rende onore al vecchio soprannome di Ercolina e tira dritto per la sua strada.
Il giorno dell'apertura del Parlamento la inseguo in una toilette del gruppo leghista dove è andata a nascondersi per sottrarsi alla caccia dei giornalisti. E gentile e paziente, non sorride ma dalla fessura di una porta mi dice che sì, mi concederà la prima intervista televisiva da presidente della Camera. Mantiene la promessa, ma dovranno passare molti giorni perché dal momento in cui Alfredo Biondi ne proclama l'elezione, cade su di lei una rete protettiva implacabile. Mi dice Umberto Bossi: «Povera ragazza, le peserà fare la ca-
stellana, chiusa nel palazzo. Ci sono tanti bei quadri, d'accordo, ma a trentun anni...».
E invece, quando la incontro, vedo che la castellana s'è ambientata benissimo e ha già le idee molto chiare su come procedere, anche nei dettagli. Quando m'accorgo che sopra il divano sul quale siedo c'è un grande quadro di Sironi (Composizione, 1938), un poco angosciante, è vero, ma di grande qualità, lei mi dice subito che ha intenzione di farlo rimuovere per sostituirlo con uno artisticamente modesto, ma di grande significato politico, che ritrae l'insediamento del primo Parlamento castigliano. «Il problema» ammette «è di come farlo entrare dalla porta, visto che è enorme.»
Cerco di farmi carico della sua solitudine, le dico che in fondo, abitando alla Camera, può infilare la porta come vuole per andare dove vuole, perché la scorta la sera se ne è andata tranquilla dopo averla deposta in un palazzo superprotetto.
Lei mi guarda stupita e un po' incredula. Allora entro nei dettagli del piano di fuga. «Guardi, presidente. Le pattuglie di polizia addette alla protezione di obiettivi fissi una abitazione o un palazzo, hanno l'ordine di non muoversi per nessuna ragione. Ma se lei abitasse a casa sua, vedendola uscire all'improwiso, probabilmente per un riflesso condizionato qualcuno la seguirebbe o la pregherebbe di dargli il tempo di awertire la Centrale e lei si troverebbe in difficoltà. Al contrario, le pattuglie che stazionano intorno alla Camera proteggono il Parlamento, non la sua persona, alla quale è addetta invece una scorta mobile che lei ha già mandato a casa.
Quindi, se lei esce all'improwiso, i poliziotti restano di sale, ma non possono seguirla. Non possono abbandonare un obiettivo fisso come la Camera. E prima che facciano in tempo ad awertire la Centrale, lei è già scomparsa. Proviamo?»
La Pivetti ride e scuote la testa. «Sono sicura che farebbero passare ugualmente un guaio agli uomini della mia scorta. Certo, so bene che li ho mandati io a casa. Ma se la prenderebbero ugualmente con loro. Io li adoro. Non voglio, non posso procurare grattacapi a questi ragazzi.»
E rassegnata, la Castellana.
Ha l'unico problema di non ingrassare visto che non si muove più e per risolverlo va a fare jogging in un posto protetto indossando una tuta della polizia.
Dunque, la vita di castellana non le pesa e non le pesa limitare le follie delle sue solitarie serate a un po' di televisione, qualche videocassetta e libri come n nuovo Machiavelli l'arte di sopravvivere in politica, secondo quanto accerta Ant~ nio Padellaro dell'«Espresso» che seppellisce il presidente con questa anonima quartina raccolta in transatlantico: «La Camera vuota è un triste mortorio. / A quest'ora Tatarella è già al Gilda. / E Irene? E qui dove visse Leonilde / rinchiusa nell'urna di Montecitorio».
Prima di andarsene in vacanza a Ferragosto, la Pivetti ha già consolidato la sua immagine di guastafeste dalla mira lunga, tanto da costringere «L'Espresso» ad aggiornare in estate il poco lusinghiero ritratto primaverile. Sotto il titolo Irene dei miracoli viene pubblicato il seguente sommario:
«Convoca ambasciatori, dice la sua sulla guerra in Ruanda. Bolla l'aborto e affonda il femminismo. Si sgancia da Bossi e mette a soqquadro Montecitorio. Così il presidente della Camera si candida a vero uomo forte della Repubblica».
Quando in maggio fa riaprire per la messa quotidiana la chiesetta di Montecitorio intitolata a San Gregorio di Nazianzo, un giornale laico come «La Stampa» si inginocchia: «Da quella giovane donna, il busto eretto, le mani giunte, le ginocchia sugli antichi mattoni, proveniva una forza di grande intensità e mistero».
Quando in luglio concorre con il presidente del Senato Carlo Scognamiglio a nominare i nuovi amministratori della Rai senza concordarne i nomi né con Bossi né tanto meno con Berlusconi, la sinistra va in brodo di giuggiole, salvo a pentirsene in ottobre.
(Ma alla fine di agosto, la sua pubblica, durissima presa di posizione antiabortista al Meeting di Rimini promosso da Comunione e Liberazione, provocherà a sinistra reazioni adeguate e una presa di distanze dallo stesso Buttiglione, nonostante il tema gli sia molto caro.)
Vado di nuovo a trovarla a fine luglio per parlare dei suoi primi cento giorni di regno e la trovo ormai padrona assoluta del campo. Le sigarette e i sigari per gli ospiti son sempre lì sul tavolino come la prima volta (marca diversa dalle sue che stavolta sono Royal). Ma quando cerco con lo sguardo il Sironi del '38 vedo che lo sfratto è stato eseguito, come promesso, e al posto del Parlamento castigliano che evidentemente
non è entrato dalla porta c'è un quadretto di anonimo italiano del Settecento che raffigura un ridotto di teatro.
Di scappare una sera dalla Camera senza scorta per farsi una pizza in pace, nemmeno a parlarne. La ragazza Pivetti arriva a Roma il lunedì con l'aereo militare («Usavo quelli di linea, ma gli uomini della sicurezza mi hanno detto che gli complicavo la vita»), si mura in 580 metri quadrati di appartamento presidenziale, dove il rumore più forte è il passo felpato dei camerieri, non riceve nessuno, né va a casa di qualcuno perché a Roma non ha amici, finché a Dio piacendo arriva il venerdì pomeriggio quando con la gioia del medio manager lombardo trasferito d'ufficio a Roma torna di corsa a Milano, lavora un po' (ma tra le sue mura, vuoi mettere) il sabato mattina, mentre gli amici fanno la spesa per passare la sera insieme o andare tutti nella casa dei genitori sul Lago Maggiore.
«Quando mi hanno eletto» racconta «temevo le difficoltà di conduzione del dibattito in aula. Ho scoperto con sorpresa di essere il capo di una azienda con duemila dipendenti e mille miliardi di budget. Ma non immaginavo che questo lavoro fosse così costoso in termini personali. D'altra parte...»
La guardo pensando ai suoi trentun anni. Alla sua età qualcuna cerca marito, molte cercano lavoro, altre decidono se lasciare la casa dei genitori per prendersi un paio di stanze da sola o magari con un'amica per spendere meno e dare meno nell'occhio. Irene vive su un altro pianeta. Il matrimonio con Paolo Taranta è ormai archiviato, chissà se ne verrà un altro dopo un eventuale annullamento della Sacra Rota. Vive sola senza che nessuno possa arricciare il naso in 580
metri quadrati. Un lavoro ce l'ha. Eppure mi viene di chiederle quello che chiederei a qualunque giovane: come vede il futuro della sua generazione.
«Meglio di qualche mese fa» mi risponde la Pivetti. «Stiamo rimontando i guasti di una lunga crisi politica, morale, istituzionale. Credo dawero che l'economia sarà rilanciata, che aumenteranno i posti di lavoro, che le istituzioni diventeranno più forti. Vede, il danno più grosso che ci ha procurato Tangentopoli è stato la caduta verticale di fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Il mio impegno principale sta proprio nell'invertire questa tendenza. L'apertura domenicale della Camera una volta al mese, permanente dall'autunno del '94, tende proprio ad awicinarci ai cittadini, a far capire che la sovranità popolare è qualcosa di diverso e superiore rispetto alla volontà dei partiti. Sono i partiti ad essere strumento della volontà popolare.»
Irene Pivetti non ha rinunciato alla sua femminilità. Se le cito una frase di giornale, in cui lei dice di avere «gli occhi (grigioazzurri) del color di Atena», ride protestando che la frase è di un giornalista e l'hanno attribuita a lei per un incidente tipografico. Se le chiedo qualcosa sulla somiglianza con Ornella Muti («Si è tagliata i capelli per questo?») o sulla sua bellezza, si scherrnisce fino a un certo punto: disseppellisce finalmente la trentenne murata dentro il presidente della Camera.
Porta il foulard in tinta con il tailleur acquamarina. E una divisa, ormai. So che sotto il foulard c'è il Sacro Cuore di Vandea, simbolo dei martiri cattolici che nel 1793 resistettero alla Rivoluzione francese e furono massacrati.
Quando le dico che nei discorsi di fantapolitica da salotto di cui è stato pieno il '94, qualcuno la vede in un futuro di medio-lungo periodo come una Giovanna d'Arco emergente sulle rovine e/o scissioni della Lega alla guida di un nuovo partito con forte radicamento cattolico, lei scuote la testa: «I cattolici stanno vivendo in Italia una salutare stagione di ripensamento. Sono convinta che il tradizionale legame del loro mondo con un solo partito come la Dc abbia privato i cattolici come tali di una forte visibilità politica. Adesso che la Dc non c'è più e i cattolici votano per partiti diversi, è indispensabile che si mantengano uniti su alcuni valori di fondo legati alle loro convinzioni. I cattolici debbono portare avanti le loro istanze senza complessi, riaffermando coraggiosamente la loro identità. Per questo porto al collo la Croce di Vandea, simbolo della santità popolare».
Riflette un momento e mormora: «Si parla sempre della Rivoluzione francese, si è parlato sempre dell'Inquisizione. E mai una parola sullo sterminio di Vandea...» che, puntualmente, va a ricordare sul posto a fine estate.
Lei non rappresenta più la Lega, ripete ogni momento. Lei è il presidente di tutta l'assemblea. Ma il giorno che Bossi e Maroni volessero fare l'alleanza - istituzionale o no - con il Pds, qualche conto con la terribile Irene dovrebbero farlo.
Un occhio a Occhetfo, uno al governo
La conquista con la Pivetti della terza carica dello Stato non tranquillizza affatto Umberto Bossi. Per un mese intero, dalle rassicurazioni di Pontida (10 aprile) alla nascita del governo
Berlusconi, cinque settimane più tardi, Bossi continua a giocare a tutto campo sconcertando gli alleati. Spiega a Valeria Gandus di «Panorama» che nella stretta finale per il governo gli chiede come mai flirti con Occhetto e faccia entrare il Pds nella giunta di Varese: «Noi siamo popolani e populisti, non certo conservatori di destra. E chi è popolano rappresenta, all'interno del Polo delle Libertà, l'area progressista. Siamo nati nelle strade, noi, non nei salotti buoni. Il voto ce lo danno la piccola e media impresa, gli artigiani, i lavoratori che mantengono il paese, mica Mediobanca. Dunque tocca a noi chiedere garanzie anche per l'opposizione, perché non siamo affatto d'accordo con l'idea che chi vince si prende tutto».
Se con l'occhio sinistro Bossi guarda a Occhetto, con il destro fa il pieno di ministeri. E che ministeri. Gli Interni a Maroni è il più grosso successo politico. Ma il Bilancio a Pagliarini gli consente di ficcare il naso in tutti i conti pubblici, l'Industria per Gnutti gli permette di rafforzare i rapporti con le categorie produttive che guardano alla Lega con simpatia e le Riforme Istituzionali per Speroni sono la spada del federalismo sospesa sulle sorti del governo. A questo ministero aspirava legittimamente il grande ideologo del federalismo leghista, Gianfranco Miglio. Ma Miglio resta fuori. E stato un veto del Quirinale, spiega Bossi. E stato un veto di Bossi, dicono sottovoce Forza Italia e Alleanza nazionale. Miglio accredita il veto del Quirinale come vendetta per le sue continue richieste di processare Scalfaro per i fondi del Sisde («Panorama», 28 maggio). Ma se ne va ugualmente dalla Lega sbattendo la porta e insultando Bossi. Dice a Maurizio Tortorella di «Panorama»: «Bossi non è in grado di governare niente, nemmeno di fare l'assessore in un comunello». E in
autunno completa la sua rivincita scrivendo nel libro Io, Bossi e la Lega: «Dal punto di vista culturale, Bossi è vicino allo zero... Nella scelta dei collaboratori, tra una persona integra ma scomoda e un'altra più maneggevele perché dotata di una buona coda di paglia, ha quasi sempre optato per la seconda. Il clima delle riunioni della Lega è dominato dalla paura...». Aggiunge, in un'intervista a «Panorama», di mettere la mano sul fuoco circa la personale onestà di Bossi, ma di aver saputo da lui che i Ferruzzi avrebbero aiutato la Lega nelle elezioni del '92.
Bossi non è tipo da incassare con eleganza. Dice a Guido Quaranta dell'«Espresso»: «Miglio è proprio un poveraccio perché appena si è vista sfuggire la poltrona di ministro, ha dato fuori di testa. Che figura, elemosinare un ministero alla sua età... E stato consigliere di Ciriaco De Mita nonché amico di Bettino Craxi. E salito sul Carroccio quando ha visto che nessuno gli dava retta».
Ma questa è arte varia. Il problema politico di Bossi, come rileva Giorgio Galli, è tutt'altro. Bossi ha il 18 per cento della presenza parlamentare con poco più dell'8 per cento dei voti alle elezioni politiche di marzo. La Lega è bloccata sul Po con percentuali largamente inferiori al 30 per cento immaginato nel '93. Lo sfondamento in Emilia Romagna non è riuscito, le prospettive sono incerte. Secondo Galli, Bossi ha pochi mesi per utilizzare un potere contrattuale largamente superiore ai numeri di cui dispone.
E che fa l'Umberto nella campagna elettorale per le Europee?
Attacca tutti i giorni, in tutte le sedi, il suo nemico-alleato Silvio Berlusconi. Lo attacca nelle piazze, lo attacca alla televisione. Racconta Giampaolo Pansa sull'«Espresso» dopo averlo visto a «Milano, Italia»: «Dovevate sentirlo, il Bossi, come ce l'aveva col Berlusconi e la sua Forza Italia: gente senza valori, raccattata qua e là, da quel Berlusca che viene dal passato e che è sceso in campo soltanto perché così hanno voluto i poteri forti allo scopo di tenere in piedi, attraverso il Berlusca medesimo, la partitocrazia della Prima Repubblica. Sì, il Bossi diceva questo e subito dopo spiegava che lui era l'alleato numero uno del Berlusca perché doveva assicurare la governabilità all'Italia. E continuava spiegando che, per lo stesso motivo, aveva stretto un patto di ferro con quelli [parole sue] della porcilaia fascista».
Bossi tiene questo atteggiamento per ribadire l'identità della Lega, alla quale pensa in modo ossessivo. Ma i suoi elettori sono moderati, non lo capiscono e i risultati delle elezioni europee e delle amministrative che si svolgono in simultanea sono per Bossi un castigo durissimo. Nella Milano di Marco Formentini in un anno la Lega scende dal 40 al 12 per cento, nella Torino di Gipo Farassino tra le politiche del '92 e le Europee del '94 la caduta è dal 23 al 9 per cento, nel Veneto di Franco Rocchetta - la regione in cui la Lega aveva ridotto più che in ogni altra il distacco da Forza Italia alle politiche del 27 marzo - in due mesi e mezzo è scesa dal 21.7 al 15.6. Ma Bossi non fa autocritica. Il martedì 15 giugno successivo alle elezioni, viene al Tgl in un dibattito dedicato ai riflessi del voto sul governo e si pronuncia su Berlusconi in maniera tale da suscitare la clamorosa, pubblica protesta di Raffaele Della Valle, invitato come capogruppo di Forza Ita-
lia alla Camera.
A sei mesi dal patto di Assago nel quale Bossi stabilì l'alleanza elettorale con Berlusconi, dopo due consultazioni estremamente favorevoli al Cavaliere e dopo la formazione di un governo presieduto dal medesimo, gli uomini della maggioranza si chiedono quanto possa andare avanti un rapporto così conflittuale.
A cena da Maria
In una sera caldissima di metà giugno, Maria Angiolillo riceve per festeggiare il nuovo ministro del Tesoro, Lamberto Dini. Il salotto di Maria, affacciato su Trinità dei Monti, è da decenni il più raffinato ed esclusivo punto di ritrovo degli uomini del Palazzo. La padrona di casa, vedova del fondatore del «Tempo» Renato Angiolillo, riceve solo amici. Ma i suoi amici son quelli che contano nella politica, nella finanza, nella magistratura, con qualche moderato spruzzo di gioma lismo.
Nella serata in onore di Dini, che ha traslocato da via Nazionale (Banca d'Italia) alla vicina via XX Settembre (Ministero del Tesoro), si parla molto del rafforzamento di Berlusconi dopo la vistosa affermazione alle Europee. Ma gli ospiti che abitano a Palazzo Chigi, o che lo frequentano, sono molto preoccupati. Temono la rivincita della sinistra? Ma no, il Pds è in panne dopo le dimissioni di Occhetto. L'eterna indecisione dei Popolari che non sanno da che parte andare? Meno che mai. La risicatissima maggioranza al Senato che complica la governabilità? Un sospiro per l'eccessivo aplomb di Carlo Scognamiglio e va giù anche questa. No, in casa Berlusco-
ni si teme solo e soltanto Umberto Bossi. Ma sì, l'alleato del Polo delle Libertà, quello che Donata Righetti ha definito sulla «Voce» di Montanelli «sfinge lombarda, sibilla padana». Tacerà la Sfinge? Parlerà la Sibilla?
Mentre gli impeccabili camerieri di Maria accendono con una bugia d'argento il mezzo toscano di Gianni Letta, il discorso che rimbalza da un tavolo all'altro è più o meno il seguente: d'accordo, Berlusconi è forte oltre le previsioni; e gli awersari, con la crisi dell'intera sinistra, sono deboli oltre le previsioni. Ma la valanga di voti che s'è riversata su Forza Italia rende molto più pesante la cambiale che il presidente del Consiglio ha presentato all'incasso. Le aspettative nei suoi confronti sono enormi e lui s'è impegnato a mantenere ogni promessa fatta in campagna elettorale. Sa che da questo dipende molto più il futuro del suo governo. Dipende il suo futuro di leader politico. Quanto tempo durerà la luna di miele con gli italiani?
Forse un po' più dei cento giorni chiesti da Berlusconi per varare il primo, corposo pacco di provvedimenti. Ma non più di centocinquanta, fino all'autunno. Cinque mesi passano in fretta. Dunque bisogna governare correndo a testa bassa. Berlusconi non aspetta altro. Ma Bossi lo frena. I ministri della Lega si comportano correttamente, ma nelle commissioni parlamentari c'è il rischio dell'imboscata continua, mentre Walter Veltroni dice apertamente che intende dialogare con Bossi almeno per quanto riguarda la riforma elettorale e quella bomba a orologeria che è l'informazione, cioè il futuro della Rai e della Fininvest.
Bossi vuole logorare Berlusconi, temono alcuni commensali di Maria Angiolillo, vuole portarlo stremato e quasi impotente alla fine della luna di miele con gli italiani. Se continua a parlare del presidente del Consiglio nei termini usati durante l'intera campagna elettorale per le Europee e nelle trasmissioni postelettorali, Berlusconi dovrà salire al Quirinale e chiedere a Scalfaro un nuovo scioglimento delle Camere. Un trauma, certo, e per questo Scalfaro non vuole saperne. Ma se la Sfinge continua a far la sfinge, se la Sibilla continua a dire oggi una cosa e domani un'altra, quella delle elezioni potrebbe essere dawero una strada obbligata.
In verità gli amici di Maria Angiolillo sono persone di grande equilibrio e quindi le elezioni anticipate sono più un fantasma che si presenta spontaneamente che una minaccia pur larvatamente evocata. Però...
Ecco dunque che mi vien voglia di conoscere più da vicino la Sibilla padana. Gli ho parlato diverse volte nel suo ufficio a Montecitorio e negli studi televisivi. Ma lì Bossi manda la sua controfigura: che se la cava niente male, in verità. («Io sono uomo di piazza» mi disse una volta. «Quando la Lega avrà la sua televisione e i suoi giornali, potrò anche andare a casa.») Ma è pur sempre una controfigura rispetto al Bossi da piazza.
Andiamo dunque a vederlo in piazza. Anzi, nella Piazza leghista per eccellenza, sul Gran Prato di Pontida.
E qui scopro un primo mistero che è anche uno degli elementi del carisma dell'Umberto presso i suoi. Gemonio, il paese di Bossi, non è molto lontano da Pontida.
Ci si aspetta, dunque, che la domenica mattina il capo leghista prenda il caffelatte con moglie e figli e parta per la scampagnata. «E invece no. Bossi va in ritiro» mi dice solenne Gabriella Poli, un gran bel tocco di bresciana mora che dopo un paio d'anni di attività in terra di missione dalle parti dell'infedele Rocchetta e della Liga Veneta è venuta in Lombardia a sostituire come capo ufficio stampa Simonetta Faverio, diventata onorevole.
«In ritiro? E dove?» «Non posso dirtelo.» «Dai, Gabriella, non lo dico a nessuno. Debbo vederlo, il ritiro di Bossi. Debbo raccontarlo nel libro.» Niente da fare. Occhioni e capelli neri sul lungo vestito in tinta, la Gabriella è dura come il suo principale. «Ci vediamo a Pontida.»
A Pontida con Irene
E invece la fortuna vuole che a tre chilometri dal luogo fatale, attratto da un movimento sospetto di auto di scorta, io faccia marcia indietro. Magari incontro Maroni. Nel bar di un alberghetto a due stelle trovo invece una spremuta d'arancia ghiacciata e accanto alla spremuta il foulard di Irene Pivetti e stretto dal foulard, al maschile come vuole l'interessata, il presidente della Camera in persona. Begli occhi verdemare, l'onorevole presidente. E belle gambe un po' intristite dal tailleur d'ordinanza. Due mesi di servizio ed è già capitano di lungo corso.
Come va? «Bene, ma sembra un secolo.» Anche lei a Pontida? «Non mi piacciono i presidenti delle Camere che fanno
attività di partito. Ma io sono nata qui, politicamente. E allora ho fatto un salutino e via, prima che cominci la manifestazione di partito.» E in crisi la Lega? «Sa, bisogna intendersi. La Lega è in una situazione critica, ma in senso etimologico. E in una crisi di crescita. Non vuole mettere in conto tutta la strada che la Lega ha fatto in poco tempo? E un partito giovane, nato e cresciuto da solo per combattere il sistema politico precedente. Un partito con una sua fisionomia precisa, con i suoi ideali. Il primo trauma è stato allearsi con partiti diversi, con origini e storie diverse. Il secondo trauma è stato dover fare con questi partiti così diversi addirittura un governo...» A proposito, sta aspettando Maroni? «No. Sto aspettando Bossi.»
Eccola, dunque, la tana della Sfinge. Ed ecco la Sfinge in persona che scende dalla camera con i foglietti del discorso in mano, abbraccia la sua creatura Pivetti e la sequestra per un'ora. Bossi mi guarda con l'aria da cucciolone buono che fa davanti alle sorprese.
«Posso venire a Pontida in macchina con te?» chiedo al Senaturche resta Senatùr anche da deputato. E il Senatùr mi dice che sì, posso andare, e fa un cenno al Babbini.
Gran personaggio Pino Babbini, consigliere comunale in
ilano e autista-segretario-guardia del corpo del Senatùr. ~Ii accompagna alla Thema blindata e chiarisce subito: «L'abbiamo comprata noi, mica è del ministero, anche se è targata Roma». Gli sta stretta, la Thema al Babbini. Per una decina d'anni, nei favolosi Sessanta, è stato pilota di Formula Junior «C'era anche il Regazzoni, ma allora non si becca-
va una lira.»
La Thema del Babbini è la casa di Bossi. «In campagna elettorale abbiamo fatto mille chilometri al giorno e guarda cosa mangia, gli strudel della Pavesi. Non mangia e non dorme per correre da un capo all'altro dei territori della Lega. Anche la storia di Clinton, quando Bossi non è andato alla cena di Berlusconi, è diversa da come l'hanno raccontata i giornali. Stavamo a Cortina per un comizio quando arriva un fax del Berlusconi, un giorno prima della cena. Bossi a Roma non ha nemmeno un guardaroba: appena può corre a casa. Ma stavamo a Cortina ed eravamo attesi l'indomani per altri due comizi nel Veneto, a Cittadella e a Verona. Umberto avrebbe dovuto comprarsi un vestito e correre a Roma. Ci siam guardati: vestito e cena o i due comizi? Abbiamo scelto i due comizi, ma l'Umberto si è dispiaciuto: qui debbo aspettare quarant'anni per rivedere un presidente americano. Non poteva invitarlo prima, Berlusconi?»
Babbini entra nel bar, vede che Bossi sta ancora tubando con la Pivetti. E allora torna fuori e nell'attesa mi dà una lezione di educazione civica.
«Non puoi dire viva il popolo e poi fregartene. Non puoi guadagnare un milionetrecentomila lire al mese e pagare un milione d'affitto. Alla gente devi garantire aria e acqua pulita, una casa e un lavoro. Poi nessuno ti impedisce di guadagnare un miliardo al mese. Comunque un conto è dire queste cose e un altro è amministrare. La burocrazia è infernale, riesce a paralizzare tutto. Ti faccio un esempio. Un giorno andiamo con Umberto da Niguarda a Meda. C'è coda per un
incidente. Ci awiciniamo e vediamo che stanno tirando fuori tre cadaveri da una macchina con la fiamma ossidrica. E una famiglia venuta a Milano per fare spese che è stata schiacciata da un'altra auto che veniva da Meda e ha fatto il salto di corsia. Dico a Umberto che è una vergogna, che sono anni che si chiede di mettere un guardrail e non ci si riesce Bossi s'infuria, prende il telefono e urla a Formentini che bi sogna prowedere subito. Il povero sindaco di Milano urla a sua volta ai burocrati di sbrigarsi, perché è tutto pronto per cominciare i lavori e invece son passati altri sei mesi e altri sei morti prima di sentirci dire che adesso cominceranno Pensa, per un guardrail...»
Bossi finalmente bacia di nuovo la Pivetti e scende. Ha dormito meno di un'ora. Fa sempre così quando viene a Pontida. E arrivato a mezzanotte, è rimasto due ore a chiacchierare con dei leghisti venuti da Roma, è salito in camera a scrivere il discorso, ha finito alle sette, è sceso a prendere un caffè, è risalito, ha dormito meno di un'ora, ha lavorato di nuovo fino all'arrivo della Pivetti.
Tiene in mano una cartellina trasparente con i bordi rossi Dentro la cartellina, un pacco di fogli grandi a quadretti. E sopra la carteUina, il discorso notturno scritto con una calligrafia grande e chiara, quasi elementare, là dove uno che guarda la pettinatura di Bossi, le sue giacche a quadretti che fanno a cazzotti con le cravatte annodate su se stesse e comunque lontane dal collo, là dove uno si sarebbe aspettato una calligrafia irruenta, aggressiva e un po' pasticciata. Comunque fa una certa impressione vedere il discorso di un leader (anzi, un discorso di svolta) scritto a mano su fogli a quadretti. Né riletture, né eleganti battiture al computer,
nernmeno il vezzo della carta intestata Camera dei Deputati che perfino uno come Andreotti, che si scrive tutto da solo dai discorsi parlamentari ai biglietti d'auguri - non manca di portarsi dietro. Una calligrafia grande e chiara, senza i ghirigori che nell'88 colpiscono il vecchio giornalista parlamentare Luigi Rossi, già capo ufficio stampa dei senatori Dc e destinato a diventare parlamentare leghista a 82 anni e a vedersi confermato a 84.
«Quando traccia una linea disegnando uno scarabocchio,» scrive Rossi nel suo Tempo di Bossi «significa che Bossi sta individuando le varie tattiche da seguire al momento dell'attacco. Quando disegna delle frecce, a mio parere e secondo gli algoritmi di Freud, significa che le soluzioni politiche nella sua testa sono più di una e che egli si sforza di scegliere quella che ha maggiori probabilità di vittoria. Quando disegna un cerchio al principio e alla fine di una retta, vuol dire che la soluzione è pronta e ha già stabilito il piano di attacco.»
«Or si fa avanti Alberto da Giussano...»
Come ti sei svegliato, chiedo a Bossi quando sale in macchina, partito di lotta o di governo? L'Umberto grugnisce un non so che con il sorriso, ma il Babbini ha già rallentato perché s'intravedono le due ali di folla che accolgono la Sfinge a Pontida.
Pontida, la mitica Pontida della Lega Lombarda, del Giuramento, di Alberto da Giussano, del riscatto italico contro il Barbarossa. Qui i venti comuni lombardi s'allearono nel do-
dicesimo secolo con veneti, piemontesi ed emiliani «per cacciare l'imperatore Federico Barbarossa, portabandiera del centralismo medievale», come dice Umberto Bossi nell'autobiografia scritta con Daniele Vimercati. E poiché la parola centralismo fa sull'Umberto lo stesso effetto dell'aglio e del crocifisso sui vampiri, ecco l'amore perduto del nostro per Alberto da Giussano, il condottiero della Lega Lombarda conosciuto da ragazzo sul libro di Massimo d'Azeglio ed evocato dall'amatissima nonna Celesta che sull'aia di Cassano Magnago cantava col Carducci: «Or si fa avanti Alberto da Giussano / di ben tutta la spalla egli soverchia...». Ecco allora che quando nell'82 lo studente fuoricorso in medicina Bossi Umberto lascia il sogno di diventare condotto di campagna per perdersi nell'ideale autonomista, si chiede quale simbolo ci sia per la sua Lega «più adatto dell'Albertùn, la grande statua di Alberto da Giussano che campeggia nella piazza centrale di Legnano». E corre a fotografarla in cento modi fino a quando, dopo mezza giornata di prove, non riesce a eliminare con un grandangolo qualsiasi goffaggine della statua tozza e pesante per farne un cavaliere come deve essere, slanciato verso i suoi ideali e l'immancabile vittoria Ecco dunque il prato di Pontida risorgere dopo otto secoli a simbolo storico per la prima adunata postalbertina e umbertiana della primavera del '90 in cui sotto le bandiere biancorosse della Lega Nord si raccolgono solo in cinquecento per diventare cinquemila un anno dopo, trentamila a cavallo delle politiche del '92 che portano a Roma ottanta parlamentari leghisti e altrettanti dopo le politiche del '94 quando i parlamentari di Bossi sia pure eletti col «paghi due e prendi tre» di Berlusconi, diventano centoventi.
Stavolta sono meno di diecimila, che fanno anfiteatro in-
torno al palco dal quale il sindaco di Milano Formentini per esorcizzare le divisioni esistenti grida con quanto fiato ha in corpo che «la Lega è unaaaa!».
«Abbiamo organizzato la manifestazione all'ultimo momento,» si scusa Bossi in macchina «ma son venuti ugualmente da mezza Italia.» Sarà l'organizzazione frettolosa, sarà la botta delle Europee, sarà il primo fine settimana di sole dopo tanti di pioggia: i bagni di folla di qualche settimana fa sono lontani. Eppure a me che vengo per la prima volta il colpo d'occhio dell'anfiteatro pieno di celoduristi urlanti con mogli, figli e qualche suocera al seguito fa un certo effetto. Mi complimento con l'Umberto per tenerlo su: «Una mobilitazione simile riusciva soltanto ai comunisti». «Attento a parlare di mobilitazione,» mi rimprovera lui «questi son venuti spontaneamente, senza che nessuno li abbia inquadrati.»
«Dai, Babbini, che qui facciamo notte» dice all'autista-segretario-guardia del corpo. Ma Pino la sa lunga, sa che l'Umberto se non stringe qualche centinaio di mani prima di salire sul palco non carbura e infatti ha già abbassato il finestrino antiproiettile della Thema per farsi toccare dalla sua gente che vede vacillare la propria fede solo quando mi vede seduto sul sedile posteriore della macchina. Sarà mica impazzito l'Umberto a presentarsi con quello là proprio a Pontida. Che diavolo gli avranno fatto a Roma? La sconfitta alle Europee gli ha fatto perdere la testa? Ma ancora una volta la fede prevale sul dubbio. Annoterà l'indomani un cronista della «Stampa»: «La stessa persona, dico la stessa persona, quando -~ossi arriva gli grida: Umberto, che diavolo ci fai con quel fo-
runcolo? E quando Vespa dopo la manifestazione sta risalendo in macchina con Bossi, si avvicina al giornalista: Signor ~espa, arrivederci alla prossima volta».
Salito finalmente sul palco di Pontida, in un clima agreste che consente al ministro Pagliarini di addentare un panino alla mortadella sotto il tendone della stampa, Bossi risponde alla mia domanda sul partito di lotta e di governo e annuncia: siamo al governo, restiamo noi stessi, ma assicuriamo fedeltà al governo. L'obiettivo sono le regionali del '95 e fin da adesso vi prometto che lascerò i miei ministri a Roma e tornerò nei vostri paesi, nei vostri bar, nelle vostre case a fare la politica del porta-a-porta. Punto e a capo.
Firma per un'ora buona quaderni, magliette e bandiere, stringe callose mani popolane, bacia varesotte gagliarde e pupi inebriati. Poi risale in macchina e spiega: «Per tutta la campagna elettorale mi dicevano di lasciar perdere quello là. Ma sì, il Berlusconi. Devi andarci d'accordo, è il tuo alleato. Ma io non potevo farmi schiacciare da Forza Italia. La Lega ha una sua storia, ha i suoi ideali, la sua dignità politica. E popolana e popolare. Quelli là sono nati ieri, dobbiamo impedire che riciclino l'intera Dc. Dobbiamo impedire soprattutto che la gente ci consideri la stessa cosa. Con Berlusconi dobbiamo percorrere la stessa strada, ma dobbiamo restare distinti e distinguibili. E invece si è fatta alla televisione e sui giornali una grandissima confusione. Siamo stati presentati come una armata Brancaleone in disfacimento, per delegittimarci nei confronti del nostro elettorato hanno montato la storia del laburismo. Con le elezioni politiche ho messo in cascina 180 parlamentari, ma prima delle Europee dovevo difendere la nostra diversità. E allora ho fatto deliberatamente
quel che ho fatto. Quegli attacchi duri erano premeditati. Sapevo che una parte del nostro elettorato non avrebbe capito, sapevo che avrei perso qualcosa alle Europee. Ma non m'importa. Adesso basta. Adesso che la nostra diversità è chiara, possiamo restare lealmente al governo e garantire la governabilità invocata dal nostro elettorato».
«Anche perché» lo interrompo «Berlusconi ha perso la pazienza e se tu tiri troppo la corda, lui va da Scalfaro e gli chiede lo scioglimento delle Camere e le elezioni anticipate un'altra volta.»
Bossi si gira, mi fa un ghigno alla Forattini, sfodera la spada di Alberto da Giussano che aveva appena sepolto a Pontida e mi ringhia: «Se Berlusconi dice che non ce la fa a governare, Scalfaro l'incarico deve darlo a me».
Fossimo in un film, il regista farebbe udire un tuono. Ma siamo tornati da Ginetto, a Gramlongo di Palazzago. La grande tavolata leghista è apparecchiata, l'intero stato maggiore lumbard Sl stringe intorno al capo per testimoniare al popolo di Pontida (e all'unico giornalista intervenuto al pranzo) che la Lega è una ed è forte.
A tavola da Ginetto
Nel tavolo centrale, che costruisce un ferro di cavallo con gli altri due, Bossi ha Speroni alla destra e Maroni alla sinistra. Chi scrive gli siede di fronte, accanto a Gipo Farassino, che s'è presa sul prato di Pontida una bella bacchettata perché i suoi piemontesi non accettano la totale egemonia lombarda
sulla Lega. Niente, peraltro, a confronto delle legnate piovute sulla schiena di Rocchetta e della Liga Veneta, che hanno spinto troppo la critica all'Umberto e non si son fatti vedere non dico al pranzo, ma nemmeno nel circondario di Pontida. Maroni è invece venuto prima sul palco e poi qui a tavola accanto al capo per attestare che lui all'Umberto le scarpe non le farà mai.
«Da quando ci conosciamo, io e Umberto? Dal '79, dalla Rne del '79. Mi ero laureato in legge il 5 dicembre e non avevo niente, ma proprio niente da fare. Sì, forse volevo diventare giornalista, ma non c'era niente in giro.
L'incontro con Bossi avvenne per colpa del comune di Varese. C'era un'area verde sopra il mio paese, Lozza, e il comune voleva farci una lottizzazione.
Noi protestammo, Umberto lesse la cosa sui giornali e rni invitò a casa sua.
Cominciò a parlarmi di autonomismo, l'indomani andammo a dipingere su un cavalcavia della Milano-Laghi all'al-
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tezza di Castronno la prima scritta "Lega Autonomista Lombarda".»
«Ti ricordi come la prese male tua madre?» interviene Bossi mordicchiando un pezzo di pane.
«Certo, tu per me eri la cattiva compagnia da evitare» ri-
sponde Maroni. «Ma quella volta mia madre aveva ragione. Le prendemmo la macchina per andare a scrivere sul cavalcavia, poi l'agitazione era tanta che combinammo un casino e le macchiammo tutta l'auto di vernice verde. Quando tornai a casa alle cinque del mattino provai a lavarla alla bell'e meglio, ma certe macchie non andarono via e mia madre s'infuriò. E s'infuriò ancor di più quando le confessai quello che avevo fatto con Umberto...»
«Bei pirla a fare le cose da carbonari di notte» commenta il rninistro per le Riforme istituzionali Francesco Speroni. «Ormai si stuprano le donne in pieno giorno senza che nessuno intervenga. Chi se ne fotte se uno va a scrivere una cosa sul cavalcavia dell'autostrada!»
Il '79 è un anno importante per la vita di Bossi. In febbraio, dieci mesi prima della scappatella politica con Maroni, incontra Bruno Salvadori davanti all'Università di Pavia. Bossi ha 38 anni e sta finalmente per laurearsi in medicina, Salvadori è il primo vero leader autonomista italiano e gli propone di fare l'attivista per l'Union Valdotaine. Bossi è indeciso. Ha sposato da tre anni la prima moglie, Gigliola Guidali, «una bella donna borghese, molto diversa da me». E arrivato anche il primo figlio, Riccardo, che oggi ha diciassette anni. Deve mantenere una famiglia e ha la prospettiva di poter essere economicamente autosufficiente entro un anno. Ma la faccia di Salvadori e l'idea federalista gli entrano nell'anima. I due cominciano a lavorare insieme per l'Union Valdotaine, l'unica struttura politica federalista d'Italia. Ma nell'estate dell'80 Salvadori muore in un incidente stradale, lasciando Bossi privo di un amico, di una guida politica e di soldi. Anzi, con
un discreto debito accumulato per finanziare quel po' di politica che si faceva.
Interrompo il racconto di Bossi per chiedere a lui e ai compagni di partito e di tavola: per chi votavate allora?
«Votavo per la Dc o per il Psi» risponde l'Umberto. «La formazione cattolica veniva dalla famiglia di mio padre. Le idee socialiste da quella di mia madre, soprattutto da mia nonna. Che tipo franco, gagliardo, che era nonna Celesta.» E negli occhi di Bossi ripassano le ragazzate estive, le grida della nonna socialista con la madonnina appesa in capo al letto, il rimpianto per l'aia e per il vecchio cedro che sta ancora lì, in modo che lui possa vederlo a distanza di trentacinque anni quando passa per l'autostrada. La nostalgia per una vita povera «in cui si badava a risparmiare e non a consumare come adesso».
«I miei genitori» s'inserisce beffardo Maroni «avevano invece tre tessere. Quella della Dc, quella del Pli e quella del Pri. Ognuna serviva ad introdurli in ambienti diversi. Io ho votato una volta per il Psiup, sì il Partito Scomparso In Un Pomeriggio. Poi ho votato due volte Pci, prima del compromesso storico. Poi ho votato Democrazia proletaria. Mi sarebbe piaciuto votare anche per il Partito comunista marxista-leninista d'Italia. Perché non l'ho fatto? Non era presente nella mia circoscrizione...»
«Io invece» sussurra mesto Gipo Farassino «ho sempre votato Pci.»
«Insomma» riprende Bossi, mentre invano cerco di riem-
pirgli il bicchiere di vino, «ho impiegato tre anni a togliermi i venti milioni di debiti per l'attività politica fatta per l'Union Valdataine.»
Nell'82 Umberto incontra la nuova donna della sua vita. Emanuela Marrone sta qui a tavola con noi. Ha fatto scalare Maroni di una sedia per sedersi accanto al marito. Vorrei che Forattini guardasse le tenerezze di Bossi: non potrebbe disegnarlo più così com'è. Roba da far impallidire la Bella e la Bestia. Carezze, coccole, un isolamento sentimentale perfetto nonostante ci siano nella sala di Ginetto un centinaio di persone urlanti tra involtini alla bergamasca e spaghetti al ragù e nonostante intorno alla coppia gravitino Speroni e Maroni, Farassino e chi scrive: oggettivamente non è il massimo per due che farebbero invidia a Peynet. La Bella a quanto pare s'è innamorata a prima vista.
«Ci siamo incontrati alla Famiglia Bosina di Varese,» mi racconta lei «in un convegno sui dialetti.» Ha scritto lui nel libro di Vimercati: «Mi colpì quella ragazza dolcissima e sorddente, il suo corpo sottile e flessuoso, i suoi occhi chiari, molto espressivi e sinceri». Aggiunge adesso, facendola arrossire appena: «Non aveva il ragazzo, giocava con le ceramiche. Teneva tutta per sé una carica di femminilità enorme». Lei lo ricambia tracciando il ritratto del padre esemplare: «Sa perché Umberto si ritira qui prima di andare a Pontida? Perché a casa i bambini non lo lascerebbero lavorare. Renzo ha sei anni, Roberto Libertà ne ha quattro. Lui li vede poco, ma ha con loro un rapporto molto intenso. Giocano sul letto, giocano a palla in cucina. Insomma non lo lasciano in pace un momento. E invece prima di Pontida Umberto
non mangia, non dorme, ha bisogno di stare in pace. Che dicono i bambini quando lo vedono in televisione? Niente, credono che tutti i papà vadano in Tv allo stesso modo...».
«Ricordi, Manuela, nel tuo monolocale...»
Interviene perfido il Maroni: «Manuela, perché ti ostini a considerarlo un santo, quando santo non è? Ricordi i primi tempi, nel monolocale che affittasti per renderti indipendente dai tuoi? Facevi la maestra, dovevi alzarti alle sei e alle due di notte Umberto e io giravamo ancora per la stanza a fabbricare colla per manifesti. I tuoi occhi imploranti guardavano me, mica lui». Sorride, Manuela e si crogiola quando il suo uomo ne esalta la militanza protoleghista: «Ricordi quanti volantini sei andata a distribuire? Sei stata la prima a Bergamo, la prima a Sondrio. E nell'84 fosti la prima a essere fermata dalla polizia».
Grande annata, 1'84 per lo studente fuoricorso in medicina che ormai ha puntato tutto sulla politica. Da un anno ha portato Emanuela dal monolocale a un bilocale in via Quarnero, una strada bruttissima alla periferia di Varese. Daniele Vimercati, cronista del «Giornale», descrive così questa casa in cui Bossi e la sua nuova famiglia son rimasti fino al '92: «Il primo locale è una cucina che funge pure da soggiorno. Un vecchio acquaio, un tavolo di legno, un armadio a muro su cui campeggia, tra una paccottiglia di soprammobili senza valore, il Telegatto consegnato da Canale 5 al padrone di casa. L'altra stanza è occupata quasi interamente da un letto matrimoniale, trovano spazio a malapena un altro lettino e una culla...», perché intanto sono nati i due figli di Emanuela. Questo ritratto è del '91, quando il Senatùr era già il Se-
natùr e girava quasi tutto il suo stipendio alla Lega. Figuriamoci che cosa doveva essere nell'84. Ma Umberto ed Emanuela sono ugualmente felici perché il 12 aprile nasce la Lega. La Lega Autonomista Lombarda.
Ricorda a tavola Bossi: «Alle elezioni europee dell'84 ci presentiamo con la Liga Veneta, ma non becchiamo nessun seggio. L'anno dopo, alle amministrative, prendiamo un consigliere comunale a Gallarate, uno comunale e uno provinciale a Varese. Nell'87 entriamo finalmente in Parlamento a Roma. Io al senato, Leoni alla Camera, mentre Speroni diventa consigliere comunale ad Albizzate...».
E tu dove stavi?, chiedo al ministro dell'Interno.
«Io mi ero sposato e avevo cambiato cinque lavori in due anni. Io ho arato il terreno, Umberto e gli altri hanno seminato e io onestamente ho partecipato al raccolto.»
Il raccolto continua ancora modesto nell'89 con Francesco Speroni e Luigi Moretti che guadagnano un seggio a Strasburgo, ed esplode nel '90 quando il Senatùr conquista il 20 per cento dei seggi in Lombardia e quindici seggi in Consiglio regionale.
«Nel '90 facciamo il pieno anche noi in Piemonte» s'inserisce Farassino. «Avevamo seminato fin dall'86 con Piemonte Autonomista, abbiamo avviato nell'87 i primi rapporti con Bossi, fondato nell'89 la prima Alleanza Nord. Nel '90, finalmente, sono arrivati tre consiglieri alla regione e 127 consiglieri comunali.»
L'opinione pubblica nazionale che abita sotto il Po scopre il fenomeno leghista soltanto nel '90. E lo scopre anche la gran parte dei giornalisti, me compreso. Ho condotto per il Tgl tutte le maratone elettorali dal '76 al '92. Ricordo con qualche imbarazzo, a ripensarci, soltanto quella del '90 perché nei collegamenti fui insolitamente aggressivo proprio con i leghisti. Non li conoscevo affatto, l'immagine pubblicistica di Bossi era sgradevole e comunque di basso profilo; mi sembrava impossibile che la parte economicamente più attiva del paese fosse sensibile a un leader che parlava un linguaggio così ruvido, minacciava di dividere l'Italia in tre e soprattutto rifiutava ogni forma di solidarietà con il Mezzogiorno.
Non posso dire che oggi le posizioni di Bossi mi abbiano convinto. Ma debbo ammettere di aver capito solo molto tardi, dopo le elezioni politiche del 5 aprile '92, quanto fosse profondo il risentimento dell'intera Italia del Nord verso il centralismo romano e come fosse insopportabile per la piccola borghesia imprenditoriale l'occupazione del territorio compiuta troppo spesso dai partiti storici.
«Sai che ha faffo Craxi?»
Secondo Bossi, è stato proprio l'odiato Craxi a favorire lo sviluppo della Lega e la conoscenza dei suoi programmi. «Ha capito già nell'88 che potevamo dargli noia e sai che ha fatto? E venuto qui a Pontida a parlare di regionalismo. E così ha fatto diventare problema nazionale, senza volerlo, quello che fino ad allora era una istanza che noi non eravamo riusciti a far uscire da un ambito strettamente locale. La gente da anni
era incavolata sul fisco, sulle difficoltà burocratiche per fare qualunque cosa, sui pasticci dei partiti nazionali. Craxi è caduto in pieno nella trappola federalista. Nel '90-91 ha commesso un altro errore clamoroso. I socialisti hanno cercato di agguantare il nostro capogruppo al Consiglio regionale lombardo. Io ho cercato di awertirlo, il Franco Castellazzi [Bossi in verità non lo nomina, mai, tanto è il risentimento che gli è rimasto in corpo]. Attento, gli ho detto, se ci avviciniamo troppo ai socialisti quelli ci assorbono. Lui non è stato a sentire, nel '91 è uscito dalla Lega per fare un gruppo autonomo. Il partito delle poltrone. Noi li abbiamo espulsi, abbiamo piantato un gran casino dentro il Psi, insomma abbiamo fatto abortire il tentativo di indebolire la Lega.
L'ultimo autogol Craxi l'ha fatto dopo le elezioni del '92, quando si doveva eleggere il presidente della Repubblica. Lui voleva Forlani al Quirinale, noi abbiamo pregato Luigi Rossi di far credere ad Andreotti che avremmo votato per lui. Povero Rossi, lui era in imbarazzo. Ma alla fine ha rispet tato gli interessi del partito. Al momento giusto, naturalmen te, abbiamo fatto mancare i nostri voti anche ad Andreotti, ma quando se ne sono accorti era ormai tardi.»
Siamo ormai alla fine del pranzo e Bossi continua a corteggiare la moglie e scherza con Farassino. «Gipo, che cavolo di pendola a orologeria ci hai regalato? Il suono è buono, ma scambia le mezze ore con quelle intere.» Gipo gli risponde serio: «Guarda, Umberto, devi caricarla al contrario, così se metti le mezze ore suonerà allLe ore intere». Poi aggiunge sottovoce: «Dove cavolo vado a prenderla un'altra pendola dellL'Ottocento?». Bossi se ne accorge e lo provoca: «Ma quale
comprare. Dicci piuttosto in quale villa l'hai rubata...».
Ma non basta. Umberto, gran donnaiolo al di là dellLe apparenze, affonda il vecchio Gipo proprio sul campo sexy. «Una volta andiamo a Roma e Gipo dice: ti porto a cena in un locale di lusso con due signore dell'alta società romana. Umberto, per favore, comportati bene, non farmi fare cattive figure. Guardo queste due gran signore, una si è seduta a tavola con un cappello enorme e comincio ad avere qualche dubbio. A metà cena i dubbi crescono, perché una delle due m'infila una gamba tra le mie. A fine cena i dubbi sono ormai certezza: l'altra gran signora apre la borsa e tira fuori una bottiglia di champagne che s'era portata da casa. Gipo, vergognati di frequentare certa gente...»
Luigi Rossi freme, aspetta che Manuela tagli la torta con fragole e zabaione per i suoi 84 anni. Bossi ormai va a ruota ]Libera. Gli chiedo giudizi personali su alleati e awersari ma lui, che non ha toccato una goccia di vino, non si lascia fregare e riacquista la piena lucidità politica: «Berlusconi? E abile, senza di lui non avremmo combinato niente, il Polo delle Libertà non sarebbe nato. Ma poi... Non capisco quando mi prendono in giro per i miei riferimenti storici. I Guelfi, per esempio. Vinsero, ma poi si divisero al loro interno. Fini? Lo facevo di minore spessore politico. Gli son piovuti addosso voti come grandine, ma lui li ha ben sistemati sullLa scena politica. Diciamo che comincia a beccare giusto... Il Pds lo vedo in caduta, mentre crescerà il Polo dellLe Li-
Prtà e si ridurrà drasticamente il numero dei partiti veri e
pri. I Popolari? Gravitano nella nostra stessa area. Ma lo-
. sono popolari, noi siamo popolani...»
Quando parla di popolanità Bossi si compiace come alla ~na boccata di un Montecristo umidificato al punto glusto al primo sorso di un Bas Armagnac degli anni Venti. Mi uardo intorno. Emanuela Bossi allLunga le fette di dolce a ,uigi Rossi che le distribuisce alle tre tavolate del ferro di caa~Lo. Popolani? Sì, popolani. AllLegri, rumorosi, vincenti anhe se le Europee sono andate male. Innamorati persi del loD capo. Perfino le Istituzioni hanno disertato il pranzo di 'ontida. Il ministro del Bilancio, Pagliarini, s'era messo al ento divorando il panino alla mortadella durante il discorso Li Bossi. Ma non è venuto Gnutti, ministro dell'Industria; è ipartita per Milano la Pivetti, presidente della Camera. Sì, ci ono un paio di ministri anche qui. Ma son quelli guasconi e canzonati della prima ora. Lo Speroni che abita a dieci mi-
ti dalla Malpensa, torna in aereo da Roma a casa ogni sera
al mattino rientra al ministero dopo aver accompagnato i igli a scuola. E il Maroni, che non sta nellLa pellLe al pensiero he alla sera metterà gli occhia]Li scuri, un cappellino da mato e un paperino luminoso sulla giacca jeans per raggiungere a sua band allLa festa della birra di Varese.
Esco per salutare Ginetto e non c'è nemmeno una Thema lei pranzi politici tradizionali. Anzi, c'è quellLa del paziente ~abbini che aspetta di riportare il Bossi a giocare a pallLa con ~enzo e Roberto Libertà. C'è la scorta di Maroni. E c'è la Pas,at del ministro, che se ne va a spasso sullLa sua macchina fani]Liare e si fa seguire dai poliziotti sulla blindata. Che tipo è
uesto ministro dell'Interno che votava per Democrazia proetaria e rimpiange di non aver potuto mettere la croce sul simbolo del Partito comunista d'Italia (marxista-leninista)? E l'anti-Bossi? E il post-Bossi? E l'altra metà di Bossi? E quello che Terence Hill era per Bud Spencer? Andiamo a conoscerlo neglio, al palazzo del Viminale, il palazzo dei palazzi romani, sfuggito alla Dc dopo quarantasette anni.
Maroni, organo Hammond e scrivania di De Gasperi
Entro, mi fermo sulla porta. Lui non se ne accorge. Dietro la scrivania di De Gasperi, saltella in maniche di camicia sulla poltrona di Tambroni giocando con la tastiera del computer come se fosse l'amato organo Hammond. Su una parete alla sua destra, qualche padre della patria è stato sloggiato per far posto a uno storico manifesto: il 23 luglio 1994 al festival di Porretta Terme, (unico in Europa per la musica soul) il Distretto 51 and the Capric Horns with the Sweet Soul Sisters si esibisce con la sezione fiati dei Memphis Horns, che ha accompagnato i più famosi artisti neri. Merito del tastierista del gruppo, onorevole dottor Roberto Maroni, deputato della Lega Nord e ministro dell'Interno della Repubblica italiana.
«Lo sai che Porretta Terme è l'unica città che ha dedicato una strada a Otis Redding?» L'amata nonna di Bossi direbbe che si è rivoltato il mondo. Quando sono entrato per la prima volta in questa stanza? Il 15 agosto 1969. Dietro la scrivania di De Gasperi c'era il doppiopetto grigio del senatore professor Paolo Emilio Taviani. Consueta intervista di Ferragosto a passeggio per via Nazionale. Taviani era allegro, mancavano ancora quattro mesi alla prima bomba postbellica, quella di
piazza Fontana...
E l'ultima volta? Ah sì, è stato con Mancino. Ricordate il sequestro in Sardegna del piccolo Farouk? Era l'estate del '92, il Tg5 era nato da poco e avrebbe dato chissà che per battere noi del Tgl sulla liberazione del ragazzo.
Noi non potevamo spendere, né promettere. Dovevamo vincere sul campo. Facemmo una riunione operativa ad Olbia, con Pino Scaccia e un bravissimo reporter locale Antonello Zappadu che lavorava per noi. Il nostro uomo era Graziano Mesina che aveva accettato di collaborare gratis, da quando era stato coinvolto in qualche modo nelle trattative sul ragazzo. E quando Farouk fu liberato (con un giorno di ritardo sul previsto, ci disse Mesina) noi, grazie a Mesina, demmo la notizia per primi. Prima della polizia. E questo non Cl fu perdonato.
Taviani, Mancino. E in mezzo tutti i fantasmi della Prima
Repubblica. Gente mediocre talvolta, e talvolta invece gente che meriterebbe gratitudine, ma che è rimasta a vario titolo sepolta sotto le macerie di un sistema crollato.
Adesso lì c'è il Bobo Maroni da Varese. Che ha fatto ripristinare il computer collegato con l'Ansa per avere le notizie in tempo reale (prima ci pensavano gli addetti stampa, «Signor Ministro, scusi se disturbo, ma le agenzie dicono che...»). E per sovrannumero gli allega due agende elettroniche personali. Una grande, che tra una consultazione e l'altra manda in onda gli allegri fantasmi elettronici dei videogiochi
per ragazzi e appena il ministro sfiora un tasto gli mostra un'agenda vera e propria, con le ore, le righe e le spirali finte che la fanno sembrare un autentico libro. C'è poi quella piccola da tasca: le regalano a ciascuno di noi a Natale e in gran parte finiscono a un figlio o in un cassetto. Maroni no: tiene lì dentro il suo archivio personale. «Vuoi sapere quando ho incontrato Formigoni e Martinazzoli?» Due colpi delle dita a salsicciotto, come dicono quelli della sua Band, e vien fuori il 17 gennaio. E Berlusconi, nei giorni caldi della trattativa per scendere in campo? «Vediamo un po'... L'ho visto ad Arcore, non ad Arese come sta scritto qui... aspetta che correggo... L'ho visto domenica 23 gennaio. Segni? Largo del Nazareno, lunedì 24 alle 11...»
E allegro, Bobo Maroni, perché ha vinto la battaglia sul decreto Biondi contro Berlusconi, di cui dovrebbe essere il braccio destro, anzi il braccio armato, e contro il governo di cui è vicepresidente. Quando incontro Maroni è passato un mese e mezzo dalle elezioni Europee e dalla cena in casa di Maria Angiolillo in cui, mentre i camerieri accendevano il mezzo toscano a Gianr~i Letta, tutti gli chiedevano come avrebbero fatto a governare con Bossi. Giro la domanda a Maroni e lui mi risponde con un sorriso raggelante: «Deve governare così perché non ci sono alternative».
D'accordo, però ammetterai che questo livello di scontro nella Prima Repubblica era rarissimo tra alleati di governo. Se Craxi un giorno era incavolato ordinava una stilettata a Ghino di Tacco. Un altro giorno era De Mita a restituirgliela, magari facendo una telefonata a Eugenio Scalfari. Ma poi alla bell'e meglio, tutto si sistemava. «Sta' attento a questi paragoni» risponde Maroni. «Nella
Prima Repubblica si litigava sugli interessi. E alla fine su quelli ci si metteva d'accordo: una presidenza a me, una a te All'interno della nuova maggioranza di governo, noi discu tiamo di principi di valori. E su questi se l'accordo è più difficile, la litigiosità è più nobile. Dunque, non bisogna scandalizzarsi più di tanto per le nostre discussioni con Berlusconi e con gli altri alleati di governo.»
E vero che se Berlusconi dovesse mai dimettersi, la Lega sarebbe pronta ad allearsi con i Popolari e con il Pds?
«Qualcuno di noi ci pensa. L'elettorato vuole essere governato e lasciato in pace. La gente vuole che venga completata l'opera di pulizia e vuole che l'economia riparta. Queste aspirazioni sono di destra, di centro o di sinistra? Non lo so. Io stesso, d'altra parte, non ho mai nascosto le mie simpatie di sinistra. Bossi mi ha chiesto di occupare, nella scacchiera della Lega, il posto della torre a sinistra. E nessuno dei miei elettori mi ha mai guardato con diffidenza per questo. Nella mia attività di ministro finora ho ricevuto apprezzamenti da gente di destra e da gente di sinistra. In Consiglio dei ministri qualche volta mi riconosco più facilmente nelle posizioni di Forza Italia che in quelle della Lega. In altri momenti, mi sento più vicino a Rifondazione Comunista. Questo non vuol dire essere ambigui o tenere i piedi in due scarpe. Significa essere coerenti con se stessi.»
Maroni torna spesso sull'accordo strategico, sull'«accordo di progetto».
«Qui all'Interno ho tre sottosegretari. Due sono di Forza
Italia, uno è di Alleanza nazionale. Il primo giorno li ho chiamati tutti e ho detto: vogliamo fare un progetto insieme? Ci siamo messi d'accordo e da allora non ho problemi.»
E qual è il progetto della Lega? «La rivoluzione.» Maroni è in maniche di camicia, stamattina non ha fatto la barba, non vede l'ora di rimettersi il giubbetto jeans, il cappelluccio nero dell'hockey club, gli occhiali scuri e la spilla luminosa al bavero e di raggiungere con l'organo Hammond il Distretto 51. Ma è pur sempre un ministro dell'Interno. E sentirsi rispondere che il suo progetto è la rivoluzione fa un certo effetto.
«Sì, il mio progetto è la rivoluzione,» insiste lui «la rivoluzione federalista. Il federalismo economico, culturale. Qualche cosa che sta ben oltre il cambiamento di alcune regole. E la valorizzazione della multiformità culturale di questo paese. Vedi, finora si è sempre parlato di localismo. Localismo è un termine negativo. Multiformità culturale dell'Italia è invece una espressione positiva. Prima che arrivassi tu, ho incontrato una delegazione di sindaci pugliesi i quali mi hanno dimostrato perché storicamente, economicamente, culturalmente, socialmente deve nascere la provincia di Barletta. In quell'area c'è una identità di valori che deve trovare sbocco in una provincia. Ecco da dove bisogna partire per riscoprire e valorizzare le identità di tante zone italiane. Ecco perché bisogna ridisegnare i confini delle regioni. E sai chi sta portando avanti questo disegno? I sindaci. Non importa che siano di centro, di destra o di sinistra. Quando sentono proporsi la valorizzazione delle decisioni locali rispetto a quelle centrali abbattono ogni confine ideologico e politico. Il Pds di fatto è favorevole a questo progetto perché i sindaci ce li ha. E adesso che anche Forza Italia e Alleanza nazionale cominciano ad
avere i loro, si uniranno al gruppo. Al ministro dell'Interno leghista i sindaci di ogni colore chiedono soltanto autonomia.»
Prende fiato, il Bobo Maroni, risponde sulla linea direttissima del ministro a una signora che non chiama evidentemente da qualche anno e cerca Cossiga. «No, signora, il senatore non lavora più qui.» Poi spara l'annuncio: «All'inizio del '95 il governo proporrà al Parlamento una legge delega per riordinare le autonomie locali. E per far questo, per far nascere il federalismo, non bisogna nemmeno modificare la Costituzione. Aspetta... Dov'è la Costituzione?... Sul tavolo del ministro dell'Interno non c'è una copia della Costituzione?... Ah, eccola. Dunque, vediamo un po'... Ecco, guarda l'articolo 5: "La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali... adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento". Capito? Non dice nemmeno: La Repubblica è una e indivisibile. Punto. No, dice: La Repubblica virgola una e indivisibile virgola riconosce e promuove le autonomie locali... Finora abbiamo parlato di enti locali, quasi per tenerli in soggezione. Vuoi mettere com'è più nobile parlare di autonornie locali? D'ora in avanti saranno proprio queste le cellule, il mattone su cui si fonda lo Stato. Io sto facendo il giro d'Italia perché il mio potere nasce dalla periferia. Finora abbiamo fatto credere ai sindaci e ai prefetti che era il ministro dell'Interno, era l'autorità centrale, a delegare i poteri alla periferia. E invece, guarda un po', è proprio dai prefetti e dai sindaci che nasce la mia autorità».
Il deputato Boso, leghista e trentino, che assiste al collo-
quio, muove nell'assenso tutta la sua mole massiccia. Ma mi par di udire un cigolio nella scrivania di un altro trentino che abitò in questa stanza, Alcide De Gasperi, che già deve subire il poster dei Capric Horn e delle Sweet Soul Sisters e dopo questo discorso del Maroni non ci capisce più niente: non varcherà quella soglia un prefetto di terza classe o il presidente della nascitura provincia di Barletta a dare ordini all'eccellenza più eccellente di tutti, il signor Ministro dell'Interno?
Ma Bobo Maroni è ormai inarrestabile e parla del progetto federalista con la stessa tenerezza che gli procura la musica del defunto ma immortale Otis Redding: «I principi sui quali sarà chiamato a discutere il Parlamento sono i seguenti. 1. L'organizzazione comunale (come si fa il city manager? quante fasce di dirigenti debbono esserci? chi si può chiamare con un contratto a termine?). 2. Finanza locale (quali imposte vanno cedute dal centro alla periferia?). 3. Sistemi di controllo (chi ha il diritto di controllare un sindaco eletto dalla popolazione? Certo non i burocrati ai quali la legge delega ancora questa funzione). Su questo sta lavorando una commissione di ventisette persone, divisa in tre sottocommissioni di nove che analizzano ciascuna uno dei tre punti chiave. Ci sono sindaci di città enormi e sindaci di comuni con cento abitanti. Ci sono prefetti e presidenti di comunità montane. Dovranno costruire il primo gradino del federalismo italiano. Il resto sarà fatto con un cambiamento culturale che richiede più tempo».
Il ministro ha finito. Boso è compiaciutissimo («rl serve un quarto sottosegretario?»), il capo ufficio stampa Giuseppe Montebelli è ammirato. Chiedo a Maroni che impressione gli
abbia fatto entrare per la prima volta in questa stanza testimone di tanta parte della storia italiana moderna.
«Be', un po' di soggezione l'ho avuta. Sai, uno che viene da Varese entra qua, gli dicono di sedersi alla scrivania di De Gasperi, si guarda intorno, vede quadri che stanno qui da decenni, tocca una bottoniera che lo collega con tutti... Hai la sensazione fisica di un grande potere. E awerti subito il rischio di cedere alle lusinghe. E allora lo sai perché vado a suonare con i miei amici del Distretto 51? Per toccare la gente qualunque, rientrare nel mondo vero. E così faccio anche con il mio lavoro di ministro. Ero appena arrivato qui e stavo scorrendo le agenzie con il computer, come hai visto quando sei entrato. A un certo punto ho letto che i sindaci di Piana degli Albanesi volevano incontrare il ministro dell'Interno perché subivano attentati intimidatori. In genere i ministri rispondono con una lettera e soprattutto rispondono con calma. Io ho chiamato il mio capo di gabinetto, prefetto Gelati e gli ho detto: domani andiamo a Piana degli Albanesi. Ho sentito prima un po' di silenzio, poi lo schianto del povero prefetto.»
Maroni si alza, indossa una delle sue giacche di colore non ministeriale (ne indossavo purtroppo una simile il giorno dell'assassinio di Moro e Sergio Saviane, con la consueta finezza, la definì «giallo merdetta»). Parliamo di servizi segreti. «Vuoi vedere dove conservo i famosi fascicoli del Sisde, quelli sulla Lega, su Cossiga, su Scalfaro e compagnia bella?» Una tenda, una porta, una cassaforte ed eccoli lì, i raccoglitori grigi.
«Posso guardare?» azzardo. E perfino il dissacrante Bobo Maroni, tastierista del «Distretto 51.The Capric Horns with the Sweet Soul Sisters» è costretto, con una risata, a sbattermi la porta della cassaforte in faccia. Fini, il postfascismo al potere
«Era il '69 o il '70, non ricordo, le date non sono il mio forte. Avevo dunque 17 o18 anni. A Bologna, dove viveva la mia famiglia, davano un film, Berretti verdi, l'unico che gli americani avessero fatto per sostenere la guerra del Vietnam. Ma in Italia la sinistra lo giudicava un film imperialista e organizzò una serie di picchettaggi fuori del cinema. Con alcuni amici decidemmo di infischiarcene dei gruppettari: non ritenevamo, infatti, che vedere il film significasse commettere un crimine contro il glorioso popolo vietnamita. Entrammo dunque nel cinema dopo qualche tafferuglio e il giorno dopo trovai in classe un tazebao con la scritta "Fini / fascista / sei il primo della lista".
Mi awicinai così ai ragazzi della Giovane Italia che esistevano anche nella mia scuola e diventai "fascista" per amore della libertà, perché non potevo accettare che qualcuno mi impedisse di andare a cinema o mi imponesse di leggere i libretti rossi di Mao durante le ore di scuola o mi costringesse a partecipare a cortei per non so quale strampalata iniziativa antifascista.
Alla fine degli anni Sessanta, nessuno si opponeva a queste forme di illiberalità manifestate dall'ultrasinistra. C'era, anzi, un'acquiescenza totale da parte di quelle che per noi ragazzi erano le istituzioni più vicine. I professori, per esempio. Ricordo con grandissima amarezza gli insegnanti che al-
la fine delle superiori mi spiegavano perché bisognava andare a certi cortei. Se non la pensavi come loro, eri un reietto. Così si sviluppò in me una sorta di ribellione anticonformista. Mi schierai dall'altra parte, perché solo lì si aveva il coraggio di dissentire nelle assemblee scolastiche. Il &scismo rappresentava un modello per noi giovani? No. Io allora non sapevo assolutamente nulla di che cosa fosse il fascismo, se non quello che avevo letto sui libri di scuola. Cioè niente, perché sui libri di scuola il fascismo non c'è. Avvicinandomi ai ragazzi della Giovane Italia, entrando poi nel Msi mi resi conto che quel che teneva unito questo mondo non era l'opposizione di un regime alla Costituzione repubblicana, perché nessuno di noi pensava che si potesse restaurare la dittatura o sopprimere in qualunque modo la libertà. Il vincolo che ci univa era il desiderio di sentirci liberi, di pensarla in modo diverso rispetto alla massa. Certo, tu mi chiedi perché, se il fascismo non c'entrava, molti di noi salutavano romanamente, come fanno ancora oggi alcuni dei nostri giovani. Me lo son chiesto anch'io e mi sono convinto che era quello il modo più semplice, più diretto e in fondo perfino meno impegnativo per esprimere un'identità. Ma, a pensarci bene, era anche il più stupido.
La mia attività di partito è cominciata nel '71, quando avevo 19 anni e la mia famiglia si era trasferita a Roma. Mio padre era funzionario di una compagnia petrolifera, la Gulf, che nell'estate del '71 lo mandò a dirigere la filiale di Roma. Poi la compagnia fu travolta dalla crisi petrolifera del '73, mio padre fu licenziato e si mise in proprio gestendo stazioni di servizio. Nel '71 avevo appena finito le superiori e, arrivato a Roma, m'iscrissi a Pedagogia. Sono momenti di svolta
nella vita di un uomo e io a Roma non conoscevo nessuno. Com'era diversa Roma dalla mia Bologna. Mi sembrò all'inizio una specie di rnostro, paragonata alla mia città più allegra, più ordinata, con i portici, il passeggio. Abitavamo a Monteverde e la prima cosa che feci per non sentirmi completamente isolato fu di contattare la sezione del Movimento sociale del mio quartiere. Andiamo a vedere, pensai, se c'è lo stesso ambiente che ho lasciato nelle sezioni bolognesi. E devo dire che, più o meno, l'ambiente era lo stesso. Si awertiva la stessa sensazione di essere emarginati e la stessa volontà di non rassegnarvici. Ma a Roma trovai una, come chiamarla?, maggiore agibilità che a Bologna, perché il consenso che qui incontrava la destra non era certo quello, assai modesto~ che avevo lasciato alle mie spalle. Mi feci così i primi amici romani. I dirigenti che conobbi all'inizio furono Massimo Anderson, che dirigeva il Fronte della gioventù a livello nazionale, e Teodoro Bontempo, sì, quello che adesso chiamano Er Pecora, che dirigeva il Fronte nella provincia di Roma.
Almirante? Almirante lo conoscevo già, per come può dire di conoscerlo un ragazzino che lo guarda mentre parla sul palco. Io l'avevo visto a Bologna, nel '69. Era un leader carismatico, una figura mitica per noi ragazzi. Un uomo di grande coraggio. Sul palco era il Capo. Dopo, standogli a fianco per tanti anni, ho scoperto in lui tratti di profonda umanità che non emergevano affatto dalla sua figura retorico-gonfiata, ma anzi vi contrastavano profondamente. Se dovessi indicare una cosa che non ho mai visto in Almirante, è la superbia. Sapeva comandare, ma arrivava al risultato convincendo gli altri assai più che imponendosi. Era tutto fuorché autoritario. Noi ragazzi, guardandolo lì sul palco, restavamo affascinati dalla sua straordinaria capacità di comunicare. Lo co-
nobbi quando a Roma fui nominato dirigente del Fronte della gioventù. Ma furono contatti formali, non avrei mai immaginato che cosa sarebbe accaduto in seguito.
Ma torniamo agli anni dell'università. Mi sono laureato nel '76 senza mai frequentare. Perché? Ma perché farlo era impossibile per me e per quelli che la pensavano come me. Erano gli anni di Autonomia, gli anni in cui "uccidere un fascista / non è reato". Quando andavo a fare gli esami, bastava che uno del collettivo comunista di Monteverde, il mio quartiere, mi riconoscesse per essere cacciato via a calci nel sedere, nella migliore delle ipotesi, e a bastonate, nella peggiore. Ricordo quegli anni come un incubo, non per la difficoltà degli esami ma per il clima in cui si svolgevano. Intendiamoci: se io facevo gli esami con la fifa blu addosso, non è perché fossi una mosca bianca. Tutti i missini avevano la stessa sensazione. Ricordi il '74, quando Almirante si fermò al Cantagallo sull'autostrada del Sole e i camerieri entrarono in sciopero perché a un fascista non si dà da mangiare? Nessuno insorgeva, nessuno protestava. Basta andarsi a rileggere i quotidiani dei giorni successivi a quell'episodio. D'altra parte non era fascista anche Montanelli quando le Brigate rosse che si stavano organizzando gli spararono nel '77? Nel ~73 i terroristi dell'ultrasinistra andarono a incendiare di notte la casa del povero Mattei, il segretario della sezione Msi di Primavalle e gli ammazzarono due figli. Nel '75 Daniela Di Sotto, che dieci anni dopo sarebbe diventata mia moglie, rischiò di morire insieme a un amico nella sezione QuadraroCinecittà, che fu assalita a colpi di molotov. Ma i terroristi fecero di più: dopo aver buttato le bombe incendiarie nella sezione che era ricavata in una specie di garage, chiusero la
saracinesca dell'ingresso con un lucchetto perché Daniela e l'altro ragazzo morissero bruciati. Per fortuna lì vicino lavorava un carrozziere che corse con gli attrezzi e arrivò appena in tempo per aprire la saracinesca. Daniela uscì senza capelli. Li aveva belli, lunghi e il fuoco glieli aveva divorati. L'altro ragazzo era moribondo, irriconoscibile: se la cavò portandosi dietro le cicatrici per quindici anni.
Noi avevamo l'impressione nettissima di essere come i neri in Sud Africa. Nei nostri confronti c'era l'apartheid e questo naturalmente accentuava il senso di appartenenza alla comunità. Il nostro cameratismo non si chiamava così tanto per evocare il camerata di memoria fascista, quanto per significare la nostra costrizione a stare insieme tra noi e solo tra noi, a vivere in un cerchio forzatamente ristretto di amicizie e di contatti, perché noi ci sentivamo oggettivamente diversi e tutto ci induceva a pensare che questa fosse la verità.
Quello è stato, a mio giudizio, il periodo più doloroso che la società italiana abbia vissuto in democrazia. Il periodo più odioso per le discriminazioni ai nostri danni. Perché alle discriminazioni morali è seguita la fase del terrorismo, e noi abbiamo avuto ventitré morti nel giro di qualche anno e dieci anni di guerra dichiarata, tra il '73 e 1'83, senza sapere chi la combatteva e perché.»
«Quel giorno, ad Acca Larentia, io c'ero»
«Certo, tu mi ricordi che c'è stato anche il terrorismo nero. Ma il terrorismo nero è nato più tardi, nel '77. Ed è nato dopo la strage di Acca Larentia. Quel giorno terribile, il 7 gennaio 1977, io c'ero. Le Brigate rosse fecero l'agguato. Aspettarono
che due ragazzi uscissero dalla nostra sede, spararono con una mitraglietta, li ammazzarono tutti e due. Arrivò la notizia e corremmo tutti là. Ricordo quella pozza di sangue fresco, grande, enorme, perché quando ti ammazzano con una mitraglietta ti sventrano. Arrivò la troupe di non so bene quale televisione, il cameraman aveva la sigaretta accesa e in modo del tutto involontario la buttò lì dove avevano ucciso i nostri ragazzi. La sigaretta si spense nel sangue. Ci fu tra i nostri una sorta di esplosione. Esplosero il dolore, il rancore, l'odio fino a quel momento soffocati nel silenzio. Intervennero i carabinieri. L'ufficialetto che comandava la pattuglia fu preso dal panico, ordinò agli uomini di puntare le armi, partirono diversi colpi. Uno ammazzò Stefano Recchioni, lì, sul colpo. Io ero accanto a lui. Lui a destra, io a sinistra. Se ci fossimo invertiti di posto, sarei morto io. E invece io fui colpito a una gamba e lui alla fronte.
Il terrorismo nero nacque allora. Nacque, anzi, quello che fu definito successivamente «spontaneismo armato». Alcuni ragazzi, quelli più deboli ed esaltati, decisero di reagire occhio per occhio, dente per dente. Ma, mentre a sinistra c'era una strategia politica, seppure folle, perché le Br teorizzavano la rivoluzione, dando sfogo a un lucido bisogno eversivo e criminale, a destra c'era lo spontaneismo. A destra, il ragazzotto si metteva la pistola in tasca e poi si vendicava se qualcuno gli faceva uno sgarbo, vero o presunto che fosse. Non c'è mai stata una strategia in tutto questo, come emerge dagli atti delle inchieste giudiziarie. Tanto è vero che il terrorismo nero finì nel momento in cui arrestarono quei quattro o cinque che ne erano i capi.
Adesso non venirmi a parlare di bombe e di stragi fasciste. Noi abbiamo sempre considerato lo stragismo la cosa più infame che potesse essere orchestrata. Piazzare una bomba e poi chi c'è c'è. Noi, a un certo punto, cominciammo a scrivere sui muri: "Tutte le bombe fanno Rumor". Rumor era il ministro dell'Interno dell'epoca. Poi hai visto che recentemente Piero Buscaroli ha rivelato certe vecchie ammissioni di Taviani, anche lui ministro dell'Interno. Taviani ha smentito... E allora quando la sinistra cominciò a parlare di stragi di Stato, noi del Fronte della gioventù non eravamo poi mica tanto in disaccordo. Tieni conto, comunque, che noi del Fronte, noi giovani missini, eravamo in fortissima rotta di collisione con Avanguardia nazionale, con Ordine nero, con tutte le organizzazioni extraparlamentari di destra. E comunque, sulla base dei processi celebrati finora, debbo escludere anche una loro responsabilità. °ggi poi, mi sento dire che quelle strag invece di destabilizzare il potere, lo hanno stabilizzato...
Comunque, per tornare a quegli anni, il potere politico aveva una verità precostituita: le stragi sono fasciste. Dove nasce la mia grande stima per Cossiga e la nostra successiva amicizia? Nasce dal fatto che lui è stato l'unico uomo politico che per rispondere alla sua coscienza ha chiesto scusa alla destra. Ricordi quando disse: "Io ero ministro dell'Interno quando awenne la strage di Bologna e dissi che era una strage fascista perché così mi avevano riferito gli investigatori. Oggi mi rendo conto che era una verità preconcetta, una verità di regime".
Ora si fa strada perfino la pista internazionale, perché la bomba scoppiò il giorno in cui veniva firmato l'accordo tra l'Italia e Malta. Malta era sull'orlo della guerra con la Libia, e
Gheddafi non voleva quell'accordo. Comunque, allora la bomba era fascista e noi eravamo il comodissimo capro espiatorio di tante porcherie e di tante stragi. Certo, a ripensarci, se qualcuno allora mi avesse detto che l'evoluzione della vita politica italiana ci avrebbe portato al governo, lo avrei fatto ricoverare in manicomio. Noi rispondevamo alla nostra criminalizzazione con un fortissimo desiderio di non mollare. Il nostro "Boia chi molla" non era l'apologia delle barricate di Reggio Calabria. Rappresentava il nostro dovere morale di non mollare, di tenere duro anche nei momenti più difficili.
Tu mi chiedi se quando arrivava la notizia di una strage abbiamo mai pensato che potesse essere stata organizzata da uno dei nostri. Dei nostri del partito, no, mai. Poteva essere stato qualcuno di quella che noi chiamavamo manovalanza? Il fascista che aveva in casa non so quante svastiche e magari il busto di Mussolini, ma non aveva niente a che spartire con la nostra organizzazione giovanile e meno che mai con il partito? Questo era il cruccio di Almirante. E io per questo l'ho visto soffrire in modo inimmaginabile. Lui chiedeva "doppia pena di morte" per quelli che dichiarandosi fascisti commettevano dei crimini. Tutta la politica di Almirante, al contrario, era una politica di affermazione dell'ordine. Ricordo interminabili discussioni in cui ci invitava a rispettare i carabinieri e i poliziotti perché rappresentavano lo Stato. Noi giovani, per la verità, restavamo un po' perplessi perché vedevamo nei poliziotti e nei carabinieri quelli che ci bastonavano a ogni manifestazione. Naturalmente, aveva ragione lui.
In quegli anni abbiamo mai guardato al fascismo come modello di uno Stato nuovo da costruire? No. Non eravamo così ingenui da pensare che si potessero cancellare le conquiste successive alla fine della guerra. Noi la libertà l'abbiamo amata perché qualcuno ce la voleva togliere; figurati se, a nostra volta, potevamo immaginare di togliere a qualcuno la libertà. Siamo nati in una società in cui c'erano i partiti, la democrazia, la televisione, la stampa libera. Nessuno ha mai pensato di poter riproporre uno Stato totalitario. Quello che non capivamo allora - e francamente non lo capisco nemmeno oggi - è per quale motivo ci fosse la demonizzazione assoluta di tutto quanto è stato realizzato dal '22 al '39 o al '45. Ci sarà pure qualcosa da preservare per la memoria storica del nostro popolo? Non era, per esempio, indecente negare che Gentile sia stato un grande filosofo solo perché si è schierato con Mussolini anche dopo il '43 e considerarlo un criminale anche dopo che è stato ucciso da teppisti? Che cosa c'entra riconoscere questo col desiderio di rivedere qualcuno affacciarsi di nuovo da un balcone? Saremmo morti dal ridere al solo pensarlo. Ci limitavamo ad avvertire le incongruenze di un antifascismo che a mio awiso non era l'apologia della libertà e della democrazia, ma il cavallo di Troia che i comunisti usavano per arrivare al potere. Perché non si poteva essere antifascisti e avere come modello Ho Chi Minh o Stalin. In tanti anni di militanza nel mio partito, io non ho mai trovato qualcuno che non riconoscesse che le leggi razziali erano un crimine. Una volta, in un campo scuola, un ragazzino chiese ad Almirante perché aveva scritto un libro sulla difesa della razza e lui gli rispose con grandissima umanità che quella era l'unica pagina deUa sua vita per cui provasse vergogna.
E allora ti ripeto che per noi essere fascisti voleva dire esprimere il nostro anticonfo~mismo, il nostro desiderio di libertà. Libertà di pensarla come pareva a noi.»
«E Almirante mi disse: ti affido il Msi»
«Almirante nel '72 dette vita alla Destra nazionale, l'ipotesi della grande destra italiana. Ma i tempi non erano maturi e nel '76 ci fu la scissione perché la Dc si comprò metà del partito. Andreotti ti ha detto di aver letto la notizia sul giornale? Non era lui il regista dell'operazione. Tra l'altro, l'unico punto che si realizzò nel "piano di rinascita nazionale" di Licio Gelli fu proprio la spaccatura del Msi e la nascita di una destra che lui chiamava costituzionale. Comunque, Democrazia nazionale morì nelle elezioni del '79. Si ritrovò decapitato anche il Fronte della gioventù, facemmo un'assemblea per indicare ad Almirante una rosa di nomi fra cui scegliere il nuovo segretario e Almirante scelse me. Era il '77. Sono rimasto segretario del Fronte per dieci anni, mentre nell'83 approdavo in Parlamento.
Se c'è una data in cui Almirante mi ha nominato suo erede politico, è un giorno del settembre 1987. In un discorso a Mirabello, in provincia di Ferrara, lui propose di fare un congresso per l'elezione del suo successore. Almirante era già ammalato, il congresso si fece nel gennaio dell'88 e lui morì nel maggio successivo. Decise di passare la mano dopo le elezioni politiche dell'87. Si era stancato molto e pensò a me per la successione, con il salto di una generazione, che era quella dei Rauti, dei Valensise, i colonnelli del Msi.
Quando me lo disse? Qualche giorno prima del discorso di Mirabello. Me lo disse proprio nella stanza in cui tu e io adesso stiamo parlando, qui nella sede del partito. Era la sua stanza. Mi chiamò, mi disse che le forze lo stavano abbandonando, non si sentiva più all'altezza del compito, avrebbe voluto un congresso in cui non si sarebbe ricandidato. Mi assicurò che non era una mossa di tattica politica, non si sarebbe ricandidato sul serio. "Ti starò vicino," mi disse Almirante "non ti preoccupare." L'idea di fare il segretario del partito non mi era mai saltata in testa. E allora gli chiesi perché aveva scelto me. Mi rispose che bisognava guardare avanti e sal tare una generazione come la sua, che era stata fascista, aveva fatto la guerra e aveva scritto nel bene e nel male le pagine del dopoguerra. Ricordo che aggiunse testualmente: "Il Msi ha un futuro soltanto se si rinnova e si rinnova sul serio. Sol tanto se voi giovani riuscirete a proiettarlo nel futuro".
La scelta di Almirante creò qualche problema nel partito. Al congresso furono presentate quattro candidature. Contro di me c'erano Rauti e Servello e non ho difficoltà ad ammettere che se potetti candidarmi e vincere, fu solo perché Almirante aveva deciso così. Il suo carisma era talmente forte che molti si dissero: se Almirante ha deciso così, ci sarà pure una ragione.
Rauti arrivò secondo nelle votazioni e mi sostituì due anni dopo, al congresso di Rimini. I miei due anni di segreteria non erano stati un granché: una gestione incolore, senza infamia e soprattutto senza lode. Il Msi era all'angolo, i consensi cominciavano ad assottigliarsi, la morte di Almirante aveva prodotto una forte crisi di leadership. Con i due eterni litiganti, Fini e Rauti, il partito si stava lacerando. Così, nel di-
cembre dell'89 i colonnelli si misero d'accordo con Rauti in una riunione all'Hotel Bernini di Roma. Nacque il "cartello del Bernini" che era accreditato del 70 per cento dei voti congressuali. E invece a Rimini Rauti fu eletto al mio posto soltanto col 52 per cento. Pinuccio Tatarella, l'attuale vicepresidente del Consiglio, disse allora: "Il Msi ha perso un segretario, la destra ha trovato un leader".
A Rimini accadde, in effetti, una cosa curiosa: contrariamente alle aspettative dei militanti e dei giornalisti, recuperai sedici punti. Ai congressi dei partiti ci va la classe dirigente, non gli iscritti. Eppure a Rimini accadde il miracolo. Il delfino aveva cominciato a nuotare da solo.
Tu ti chiedi giustamente come mai, visto che io stesso mi dico reduce da una gestione incolore della segreteria. Forse ha ragione mia moglie quando sostiene che, dopo il tradimento dei "colonnelli", o dimostravi di avere un po' di palle o era finita. E allora diciamo che in quel congresso riuscii a esprimere quello che prima mi era mancato, togliendomi di dosso tutti i complessi che mi erano venuti per la difficoltà di trovarmi a dirigere a 35 anni un partito carico di storia, insieme con personaggi che hanno scritto una parte di quella storia e una classe dirigente che aveva un'età doppia della mia.
Alle regionali del '91 eravamo scesi a una media nazionale del 3.9 per cento, il minimo storico.
Quando il comitato centrale mi rielesse nel luglio del '91, il dramma si era già consumato. Se ne erano andati Pisanò, Mennitti, Staiti e non c'era nessuno che giurasse sul fatto che
il partito sarebbe arrivato alla fine dell'anno, anche perché io ero un cavallo di ritorno. Insomma, mi ritrovai solo, se ne era andato anche il portavoce, chiamai Francesco Storace e gli chiesi di darmi una mano. Feci a tutti questo discorso: "Poiché stiamo morendo, non ho interesse a che ci venga celebrato un bel funerale così poi, a salma tumulata, tutti dicano, be', in fondo erano delle brave persone. No, non ci sto. Perché non cerchiamo invece di dimostrare a tutti che siamo dei figli di puttana?".
Fu all'insegna di questa illuminazione politica che cominciammo a tirare fendenti a destra e a sinistra, senza grandi strategie, puntando sull'orgoglio, rimettendo cioè in piazza una destra che da anni prendeva soltanto batoste. Cominciammo con grande fatica e altrettanta costanza a organizza~e rnanifestazioni dappertutto. Ricordo che a Ferragosto del '91 stavo in Sardegna e da lì partì l'iniziativa che tutti i militanti, gli iscritti, i giovani portassero la loro solidarietà agli anziani abbandonati negli ospizi. Sai, il giorno di Ferragosto, qualunque cosa accada fa notizia. E Storace, che in questo è bravo, riuscì a far passare la notizia in tutti i telegiornali e i giornali radio, anche perché le sparavamo proprio grosse. Poi Cossiga cominciò a esternare. E alle prime picconate del presidente capii al volo che dovevamo sostenerlo, perché lui poteva essere il detonatore della situazione. Appena Cossiga fu attaccato, noi ci precipitammo a difenderlo, organizzando manifestazioni di solidarietà per il presidente. Nacque cosi la favola che io ero il suo megafono.
Cossiga mi chiamava spessissimo. Anzi, mi svegliava~ spessissimo. "Pronto? Sono Cossiga." Guardavo l'orologio
massimo le sei. Sì, l'ho anche incontrato spesso, una decina i di volte in un anno, molto meno di quanto non si sia scritto. Cossiga era indignato da un lato per gli attacchi ai quali veniva sottoposto, dall'altro perché la Dc e gli altri partiti di governo non capivano che il sistema si stava sgretolando e che la vera sovranità non stava più nel Parlamento, ma nella volontà popolare. Cossiga diventava così il punto di riferimento istituzionale per i nostri primi progetti di democrazia diretta e di presidenzialismo.
n nostro attivismo era servito intanto a rianimare un po' il partito, così che alle elezioni politiche del '92, contro ogni previsione, non perdemmo nemmeno un deputato rispetto alle elezioni dell'87, quando c'era Almirante. Allora i nostri capirono che il problema della leadership non si poneva più, che il dopo Almirante era finito. Tra la primavera del '92 e quella del '93, noi abbiamo continuato ad avere buoni risultati. Dove eravamo al 3 per cento passavamo al 4, dove eravamo all'8 passavamo al 9. Nessuno pensava più che saremmo morti. Senonché c'era il referendum Segni, che voleva introdurre il maggioritario. Col nuovo sistema rischiavamo di scomparire noi e, a maggior ragione, le forze inferiori alla nostra. Per questo contro il referendum Segni feci una battaglia durissima, in totale solitudine, insieme soltanto a Orlando e a Bertinotti. E prendemmo tutti una gran batosta. Ero molto preoccupato: con il tasso d'ideologismo del Msi e la pregiudiziale antifascista ancora così forte in Italia, pensavo, il sistema maggioritario ci porterà fuori delle istituzioni. Se ci andrà bene, ci consentiranno di ritirarci in una riserva indiana.»
«Onorevole Fini, ci sarebbero cinquanta milioni per lei...»
«Dopo il 18 aprile del '93 facemmo una riunione di comitato centrale in cui tutto il dibattito girò intorno a questo problema: come poter esercitare ancora un ruolo politico nella società italiana in assenza quasi totale di rappresentanza parlamentare. Avevamo infatti calcolato di avere non più di cinque deputati, se ci fosse stato il recupero proporzionale. Vedemmo giusto, tuttavia, a non fare alcuna forma di ostruzionismo in Parlamento quando si discusse la nuova legge elettorale. Noi eravamo sostenitori della democrazia diretta e non ce la sentimmo di fare barricate per impedire che passasse la legge maggioritaria voluta dalla grande maggioranza dei cittadini.
Intanto continuavamo a prendere iniziative largamente popolari, come il grande sostegno alla magistratura milanese. Perché prima ho dimenticato di dirti che nel '92, mentre Cossiga picconava, Di Pietro arrestava. Noi eravamo fuori dal giro e così, nell'ottobre di quell'anno, potetti portare centomila persone in piazza a Roma che indossavano i guanti bianchi, galvanizzate dall'idea di poter dire: noi non abbiamo preso soldi. A me ne hanno mai offerti? Una volta sola, parecchi anni fa. Ero consigliere comunale di San Felice Circeo, era in discussione una variante al piano regolatore e un tizio venne a dirmi: se vota a favore, ci sono cinquanta milioni per lei. Risposi no, grazie, e da allora non mi è più capitato niente del genere. In compenso il partito ha un formidabile indebitamento bancario...
La legge elettorale di Mattarella passava intanto in Parlamento. Noi votammo contro, ma senza fare tragedie. Quan-
do nella primavera del '93 si sperimentò il maggioritario con l'elezione diretta dei sindaci, nacque in me e in Pinuccio Tatarella l'idea di formare un'aggregazione più vasta che avremmo chiamato Alleanza nazionale. Le prime elezioni dirette dei sindaci ci sorpresero. Noi restammo tagliati fuori dalle grandi città, ma andammo al ballottaggio in otto comuni minori di una certa consistenza: Altamura, Corato, Colleferro, San Vito dei Normanni, ecc. In tutti e otto fummo opposti alla sinistra e in tutti e otto vincemmo. Capitava per la prima volta che dei missini doc andassero a guidare una città. Ne venne una prima conclusione: vincevano solo persone credibili; dinanzi a queste la pregiudiziale antifascista era superata; nel Mezzogiorno arrivavano ai nostri candidati voti a valanga di ex democristiani disorientati dalla frantumazione del partito per il quale avevano sempre votato.
Venne l'estate e me ne andai in vacanza negli Stati Uniti con il pensiero alle elezioni autunnali per i sindaci di Roma e di Napoli. E qui mi venne una fifa blu perché la destra di popolo, l'aggregazione dei valori cristiani era andata bene a Corato e ad Altamura. Ma Roma e Napoli erano un'altra cosa: qui ci giocavamo il futuro del Msi.
Rientrato dalle vacanze, cercai di verificare la possibilità di un accordo di centro concordato in qualche modo con la Dc. La nascita di Alleanza nazionale era stata salutata con favore da tutta quella parte della società civile (una fetta di mondo cattolico, il mondo del commercio, una buona parte di quello imprenditoriale) che temeva una vittoria della sinistra dove, per quanto riguarda Roma, Rutelli era lanciatissimo ormai da mesi. A Roma il solo Msi poteva contare sul 12 per cento
dei voti, che non erano una forza trascurabile. La Dc era divisa: dobbiamo guardare anche a loro, insisteva Buttiglione, ma Martinazzoli negava ogni apertura. Si avvicinava a noi gente tradizionalmente vicina alla Dc come Fisichella e Rebecchini. Un incontro con Mancino mi convinse che l'accordo con la Dc era impensabile e che, dovendo scegliere, loro avrebbero guardato dall'altra parte. Solo dopo aver constatato che non era realistica nessun'altra candidatura che coinvolgesse un fronte più ampio e aggregante, decisi di giocare la carta della mia candidatura. E il 21 novembre avvenne il miracolo: Rutelli era al 36 per cento, io ero riuscito a toccare il 31 per cento.
Che giorni indimenticabili queUi che divisero il primo turno dal secondo. Andavamo tutte le sere in televisione e l'Italia intera scoprì che esisteva un tipo che si chiamava Gianfranco Fini. Che città straordinaria si è dimostrata Roma, generosa e infingarda al tempo stesso. Sembrava di essere tornati alla Firenze dei Guelfi e dei Ghibellini.Te ne accorgevi entrando al bar per il primo dei tanti caffè della giornata. C'era quello che ti diceva: "Onoré, me raccomando...". E l'altro che vuotava di fretta e in silenzio la sua tazza per uscire subito facendo finta di non averti riconosciuto. E che corse, da un capo all'altro della città, dal salotto della principessa Pallavicini ai baraccati di Ponte Galeria.
Che mi chiedeva la gente? Difficilmente raccomandazioni personali. Mi chiedeva una migliore qualità della vita. Mi chiedeva di risolvere il problema del traffico, dei trasporti, della sanità. Da Prati a Tor Tre Teste, awertii una straordinaria sensibilità ai problemi della sicurezza personale, la richiesta del vigile di quartiere. Vidi serpeggiare un sentimento
razzista nei confronti dei nomadi, considerati, da chi abitava vicino a un loro campo, nemici a tutti gli effetti. E capii che lo stesso sentimento di ostilità cominciava a maturare nei confronti degli extracomunitari. Un giorno incontrai un poveraccio, disoccupato e con tre figli, che mi disse: "Onoré, me so' alzato alle cinque, so' andato ai mercati generali, ho comprato un po' de fiori, me so' messo a venderli pe' strada. E arrivato il vigile e me l'ha sequestrati". Gli risposi che il vigile aveva fatto bene, visto che lui non aveva la licenza. "Hai raggione, onoré," mi rispose quello "ma perché ar marocchino che stava vicino a me nun gliel'ha sequestrati?" Capii che il razzismo può nascere da queste cose.
Il 5 dicembre Rutelli vinse con il 53 per cento, io arrivai a un incredibile 47 per cento. E a Napoli anche Alessandra Mussolini ottenne contro Bassolino un risultato sorprendente. Sono molti a dirmi, come fai tu adesso, che la mia fortuna politica nasce dalla sconfitta di misura nel dicembre '93 perché come sindaco di Roma mi avrebbero massacrato. E possibile. All'inizio del '94 restava comunque il problema di come utilizzare il successo di Roma e di Napoli in una nuova strategia del partito.
Già l'11 dicembre, sei giorni dopo il ballottaggio, avevo annunciato in comitato centrale la volontà di dar vita - così dissi - a "una grande alleanza nazionale non ideologica, priva di qualsiasi nostalgia restauratrice, aperta alla società civile, in sintonia con i grandi valori della cultura occidentale".
Nacque così l'idea di una destra di governo, perché ormai - dopo il 47 per cento conquistato a Roma - non aveva più
senso parlare soltanto di Msi. E fu il momento dell'alleanza con Silvio Berlusconi.
Con Berlusconi non avevamo mai avuto rapporti. Ma era l'unico grande imprenditore che avesse manifestato rispett nei confronti del Movimento sociale fin dai tempi di Alm i rante. Quando io ero candidato a fare il sindaco di Rorna Berlusconi disse, inaugurando un supermercato a Casalecchio, che dovendo scegliere tra me e Rutelli avrebbe scelto me. Successe quel che successe e io gli telefonai per ringraziarlo, mai pensando che tra noi avrebbe potuto svilupparsi un'alleanza politica.
Si rifece vivo lui all'inizio del '94 per parteciparmi le sue preoccupazioni per una fin troppo probabile vittoria elettorale della sinistra e le sue idee circa possibili aggregazioni moderate. Noi ci stavamo ponendo lo stesso problema, perché Alleanza nazionale da sola, pur confortata dai risultati di Roma e di Napoli, non sarebbe andata oltre un certo punto. I nostri del Nord temevano la meridionalizzazione del partito. Erano i mesi in cui si pronosticava un Nord leghista, un Centro pidiessino e un Sud democristiano, con crescenti probabilità, dopo i risultati nelle amministrative d'autunno, che la sinistra finisse per vincere dappertutto.
Incontrai Berlusconi ad Arcore e nacque l'ipotesi di un cartello nazionale con Forza Italia, Alleanza nazionale e Lega Nord in tutta Italia. Ma Bossi si oppose. Non voleva avere rapporti con noi, non voleva saperne di accordi che impegnassero la Lega insieme con Alleanza nazionale. I suoi attacchi nei nostri confronti erano così duri che un giorno (non c'eravamo mai incontrati direttamente) andai a trovarlo per
chiedergliene ragione. Sul veto a un'alleanza generale Bossi fu irremovibile e lì si manifestò la grande capacità di Berlusconi di fare da cerniera tra due movimenti - An e Lega Nord - che si trovavano molto lontani tra loro.
Il rifiuto di ogni colloquio da parte di Segni e di Martinazzoli, convinti di potercela fare da soli, ha fatto il resto. La notte delle elezioni, mentre i miei collaboratori entravano nella stanza con i foglietti delle preferenze e mi dicevano che a Roma avevamo conquistato 22 seggi su 24, 4 seggi a Ragusa su 4 e così via, dicevo: è incredibile, è incredibile. Oggi guido un movimento che ha in Parlamento 109 deputati e 49 senatori. Nel '92 i deputati del Msi erano 33.»
Questa è la storia di Gianfranco Fini raccontata da lui medesimo
Questa è la storia di Gianfranco Fini raccontata da lui medesimo. Raccontata in una mattina dell'estate 1994 nel suo ufflcio di via della Scrofa («Fu Almirante a comprare la sede. Meno male, altrimenti saremmo stati strozzati dagli affitti...») durante una conversazione di due ore e mezzo. Fini ha fatto in modo che non fosse mai interrotta nemmeno da uno squillo di telefono.
Ero già stato in questa stanza la mattina del 25 aprile. Avevo chiesto a Fini di vedere la festa della Liberazione «dall'altra parte» e mi aveva colpito nel suo ufficio l'assenza totale di passato remoto, che molti s'aspetterebbero tuttora presente nella sede ufficiale del Msi. E invece Fini si mantiene coerente con quello che ha sibilato al federale di Firenze: per far-
gli piacere in campagna elettorale, questi lo aveva accolto sul palco con l'inno a Roma («Sole che sorgi / libero e giocondo»), in testa all'hit parade del fascismo: «Abbiamo cambiato musica» gli disse Fini. «Cerca di cambiare disco.»
Nella stanza di Fini in via della Scrofa ho cercato a lungo qualche elemento di contraddizione, qualche legame imbarazzante. Niente. Assenza di passato remoto. Presenza di passato prossimo con una doverosa immagine di Almirante, al quale Fini deve molto. Poi un medaglione del Papa, cimeli dei carabinieri e di un sindacato di polizia, la storica prima pagina del «Secolo» del 29 marzo con il gran titolo Vittoria e una vignetta con dedica di Giorgio Forattini: Fini dal balcone di piazza Venezia saluta romanamente Occhetto e Rutelli che se ne vanno in motorino.
Anche con Rutelli, dopo le elezioni e la provvidenziale sconfitta, Fini s'è preso una fortuita e micidiale rivincita. Era l'alba del 31 marzo, tre giorni dopo le elezioni, e nel quartiere Prati il silenzio avvolgeva il palazzo dell'Ina in via Ennio Quirino Visconti in cui abitano Francesco Cossiga, Angela Buttiglione e - al pianoterra - il sindaco Francesco Rutelli con la bella moglie, Barbara Palombelli.
Le sei erano passate da venti minuti quando una decina di attivisti del Msi guidati da due freschi deputati, Giovanni Alemanno ed Enzo Savarese, arrivarono con rapidità, silenzio e ardimento degni di una rinata X Mas, sotto le finestre del sindaco. Solo allora cantarono a squarciagola: «Rutelli, Rutelli / Cambia lavoro! Rutelli, Rutelli / Cambia lavoro!». E che cosa fece qualche minuto più tardi il giovane sindaco di Roma, al quale per età e passione scooteristica la goliardia
non dovrebbe far difetto? Svegliò Gianfranco Fini dicendogli più o meno: «Gianfranco, non mandarmi più i tuoi sotto casa a fare questi scherzi».
Fini trasformò l'autorevole lagnanza in un boomerang micidiale: «Francesco, ma ti pare che io possa fare di queste cose? Tu, piuttosto, impara a perdere e non svegliarmi più a quest ora...».
Tatarella, il Richelieu di Cerignola
Ma se Fini è il padre di Alleanza nazionale e dei suoi imprevedibili successi, Giuseppe Tatarella ne è il nonno. Scrisse infatti sul suo periodico «Repubblica presidenziale» fin dal maggio del '93, come rivela un anno più tardi Bianca Stancanelli su «Panorama»: «L'alleanza nazionale deve essere l'alternativa per tutti gli italiani che considerano superate e inascoltabili le sirene della Dc e della sinistra, vecchie e nuove». E Gianfranco Fini gliene riconosce perfettamente il merito. La prima volta che parlammo di Tatarella mi raccontò due cose.
Una era la raccomandazione di Almirante: «Litiga con tutti, ma mai con Tatarella». L'altra che Tatarella, capo del partito in Puglia («Voglio farne la nostra Emilia rossa» mi disse Fini già prima delle elezioni del marzo '94), aveva caratterizzato il partito nella sua regione sulla linea postfascista molto prima di quando Fini l'abbia fatto a Roma.
Questo pugliese sessantenne, sposato e senza figli, appassionato di tressette almeno quanto Ciriaco De Mita e grande
animatore dei conciliaboli di Montecitorio, è il numero due del partito e del governo, dove unisce alla carica istituzionale di vicepresidente del Consiglio quella politica delicatissima di ministro delle Poste, owero di sovrintendente potentissimo di quel mondo della comunicazione via etere che affianca, tra le altre, le tre reti della Rai, sulle quali il governo Berlusconi ha manifestato subito grande interesse, e le tre reti Fininvestpossedute dal presidente del Consiglio.
Acquisendo un potere così autorevole (vicepresidenza) e così sostanziale (Poste), Tatarella ha realizzato un'altra parte del disegno strategico di Fini: conquistare il Palazzo senza
r fretta, senza spintoni, lasciando la precedenza agli altri se si tratta di un atto di cortesia e di lungimiranza politica, ma assicurandosi alcune posizioni strategiche per dimostrare alla pubblica opinione, e soprattutto agli increduli militanti, che a cinquant'anni dalla fine della guerra il Msi è andato sul serio al potere. (Magistrale è stata, in questo senso, l'elezione al Consiglio superiore della magistratura ottenuta da Fini per due stimati missini della vecchia guardia come Franchi e Pazzaglia.)
Quando lo incontrai poche ore dopo l'accordo con Berlusconi e Bossi per portare la Pivetti e Scognamiglio alla presidenza delle Camere, Fini era contento come se entrambi i presidenti fossero suoi. «Noi non abbiamo chiesto niente,» spiegò «ma vedrai che Alleanza nazionale al governo sarà visibile, molto visibile.» E così è stato. Visibilissimo Tatarella (non c'è decisione politica significativa che non lo veda protagonista). Visibile un'altra missina doc come Adriana Poli Bortone, ministro dell'Agricoltura. Visibili due «alleati na-
zionali» come Publio Fiori (Trasporti) e Domenico Fisichella (Università e Ricerca, posto - quest'ultimo - appannaggio tradizionale di accademici laico-socialisti). Per quanto riguarda le massime istituzioni, Fini era contento perché non gli interessava vincere la partita (sapeva benissimo di non avere ancora le carte giuste), ma sedersi al tavolo da gioco nella sala più esclusiva del Casinò, blandito e ossequiato dai più famosi frequentatori.
P Se il Richelieu di Cerignola, come chiamano Tatarella, tira Fini per il bordo sinistro della giacca, invano Pino Rauti tenta di spostarlo di un millimetro a destra tirandogli la giacca dall'altra parte.
Rauti, la Rifondazione fascista mancata.
Abbiamo visto che Rauti è stato segretario del Msi per un anno tra il '90 e il '91, tra un Fini e l'altro. L'arrivo alla segreteria era per lui il coronamento di un'intera esistenza politica Rauti era infatti un giornalista colto e professionalmente molto bravo. Ma già nel '60, quando dirigeva la redazione province del «Tempo» di Angiolillo (l'avrebbe poi sostituito Gianni Letta), la sua testa era altrove: nella politica e nei durissimi scontri dell'epoca. A noi adolescenti di bottega arrivavano sul suo conto le notizie più avventurose. Come una volta, quando ci fu un'esplosione dimostrativa e senza danni in una sede romana della Cgil e si favoleggiava che Rauti avesse l'articolo già pronto. Se la notizia non era vera, direbbe Montanelli, assomigliava molto al carattere del protagonista.
E chiaro che, quando Rauti vede Fini inchinarsi davanti al sacrario delle Fosse Ardeatine o, peggio, lo sente parlare di antifascismo, si chiede se il mondo (soprattutto il «suo» mondo) abbia il diritto di cambiare così in fretta.
«E un suicidio» dice la sera del 30 settembre quando Gianfranco Fini annuncia in direzione che proporrà al congresso del '95 lo scioglimento del Msi e la confluenza in Alleanza nazionale. «E un suicidio. Ma io combatto e resisto. Io non esco, non faccio Rifondazione fascista.»
Rauti oggi è un rispettabile deputato europeo eletto sotto le insegne di Alleanza nazionale. Non solo non pensa a una Rifondazione fascista, ma dice che Fini e i suoi tirano troppo la corda, son loro a doversene andare. Ipotesi, con rispetto parlando, di modesto realismo.
Il capolavoro di Fini è stato proprio questo. Raggiungere il 12-13 per cento dei voti con i consensi di tanti ex centristi delusi e sbandati ma anche con quelli che non saltano un anniversario del 28 ottobre.
Quanto durerà? Fini non ha fretta e, nonostante la giovane età, ragiona come quei principi della Chiesa che lavorano per la storia. Anche se poi lui è attentissimo al raccolto stagionale.
Quando inciampa in una domanda postagli quasi casualmente da Alberto Statera per «La Stampa» tre giorni dopo le elezioni di marzo e dice che «Mussolini è stato il più grande statista del secolo», Fini dimostra che il suo istinto, se non proprio il suo cuore, stanno ancora da quella parte.
Ma quando, la mattina del 25 aprile, gli chiedo di commentare l'episodio di Genova in cui la straordinaria testimonianza sull'olocausto trasmessa dal film La lista di Schindler è stata accolta da inni nazisti, afferma tranquillamente che questa «è la dimostrazione che ai giovani bisogna insegnare la storia». E aggiunge che «non bisogna fare in modo che la storia appaia come propaganda e men che meno che diventi argomento di lotta politica quotidiana». E chiarisce: «Il fascismo è nato e morto col Duce. Noi siamo una destra democratica, non una nuova forma di fascismo morbido».
Così, giocando sul reale «desiderio degli italiani di arrivare alla conciliazione nazionale», pur senza abiure formali che gli creerebbero più di un problema nella vecchia casa, Gianfranco Fini prima ha inaspettatamente scongelato in chiave democratica e governativa (senza pagare il pedaggio che a Occhetto costò la Bolognina) qualche milione di voti rimasto inutilizzato in freezer per decenni.
Poi ha spalancato le porte di un appartamento nuovo e più grande, dove nel salotto buono il ritratto di Chirac, patron della destra democratica francese, troneggia lì dove fino a ieri forse sarebbe comparso quello del neofascista JeanMarie Le Pen.
I seicento partecipanti alla crociera estiva sull'Achille Lauro erano un campione perfettamente rappresentativo della nuova destra di Alleanza nazionale. Se non mancava la signora col medaglione di Mussolini al collo, erano certamente più numerose le persone che avevano sempre votato al
centro e che vedono in Fini (da loro considerato un bene più durevole di Berlusconi) la sponda più solida per proteggersi da un governo delle sinistre.
Esaltato dai sondaggi d'opinione dell'autunno '94, spinto da Tatarella e invano trattenuto da Rauti, Fini cercherà lo sfondamento al centro, verso Forza Italia e i Popolari, per assumere la leadership definitiva dello schieramento conservatore. Come vedremo nel capitolo finale, dovrà regolare una volta per tutte i conti col fascismo. Ma poiché la politica di Bossi rischia di diventare indefinibile, sta a Berlusconi e a Buttiglione riportare al centro o far scivolare verso la nuova destra il polo moderato della politica italiana.
Fine prima parte.
D'Alema ha un sogno: Buttiglione...
L'11 giugno del '94 «l'Unità» regala ai suoi lettori una videocassetta, «Caro Enrico». E il decimo anniversario della morte improvvisa di Enrico Berlinguer e come allora si è all'immediata vigilia di una consultazione europea. Commozione, rimpianto e orgoglio di partito s'intrecciano con un ultimo tentativo di mobilitazione per arginare una nuova affermazione del Cavaliere-Presidente che si annuncia robusta.
«Caro Enrico», firmata dai nomi più autorevoli del cinema italiano, è un bellissimo documento giornalistico e insieme una straordinaria testimonianza di archeologia politica. I dieci anni che ci separano dagli awenimenti raccontati sembrano infatti quaranta o forse ottanta o persino cento: è difficile contare quanto tempo separa un'epoca dall'altra.
Com'è giovane, Berlinguer, la sera del 7 giugno 1984 quando tiene il suo ultimo comizio elettorale in piazza dei Frutti a Padova. Giovane e affascinante. I suoi 62 anni anagrafici sono spazzati via dai capelli nerissimi che Berlinguer ha lasciato crescere appena, rispetto al taglio a spazzola di qualche anno prima e che ora, sul palco di Padova, gli fanno cadere perfino un ricciolo sulla fronte. C'è tutto l'uomo in questa immagine rawicinata che la cassetta dell'«Unità» ripropone dal videoregistratore. n SuO sguardo penetrante che buca gli occhiali rettangolari con la montatura robusta, il suo volto scavato di intellettuale sofferente che piace tanto alle donne, il suo distacco aristocratico da ogni cura nell'abbigliamento, che non è burocratico come quello di un Ingrao o di un Cossutta, ma non concede niente al garbato sinistrese dei più giovani Occhetto e Petruccioli. Giacchetta chiara a quadreffl, camicia rigorosamente bianca, cravatta abbandonata lì in mezzo, a testimoniare da sola una giornata di fatica.
Sul palco Berlinguer veste a pieno titolo i panni del grande leader, che porta naturalmente anche in tutte le riunioni politiche, ma che smette appena sceso dalla tribuna o uscito dal suo ufficio alle Botteghe Oscure per indossare quelli dell'uomo timido e schivo che darebbe molto per rendersi invisibile.
Ogni intervista è per lui un supplizio al quale lo sottopone con ineguagliata maestrìa il suo segretario e portavoce Tonino Tatò. Tatò ha capito da tempo che i bagni di folla nelle piazze rigurgitanti di bandiere rosse servono a motivare lo zoccolo duro del partito. Ma poiché il Pci gioca ormai a tutto campo e punta dritto alla conquista del potere, servono an-
che i grandi giornali borghesi e la televisione di Stato (quelle private di fatto ancora non esistono).
Ecco dunque Tatò preparare le memorabili interviste al «Corriere» e alla «Repubblica» con scrupolo e astuzia impareggiabili: concorda le domande, o almeno vuole esserne informato, assiste all'intervista e poi chiede di rileggere ogni risposta, calibra ogni sfumatura, si assicura che l'immagine del leader sia gratificante al punto giusto. Nessun assistente dei leader democristiani che si sono alternati al potere per quasi cinquant'anni ha saputo mai fare niente di paragonabile. C'è anche da dire che la grande stampa e la televisione italiana hanno sempre avuto per Berlinguer un particolarissimo riguardo e che nella nostra categoria bastò la grande vittoria elettorale del Pci alle amministrative del 15 giugno 1975 per procurare repentine crisi di coscienza in favore della sinistra. Niente di nuovo, peraltro. Accadde nel '43 per Badoglio, si ripeterà in modo assai più massiccio tra la fine del '93 e l'inizio del '94 in favore di un fronte progressista già accreditato di vittoria elettorale e di governo. Con imbarazzanti frenate dopo il 28 marzo, che hanno lasciato i segni sull'asfalto. E nuove sgornmate verso la direzione opposta.
La frittata di Berlinguer
Con la televisione le cose sono più complicate. Se fai una frittata, è difficile reintegrare le uova. Berlinguer in televisione è molto bravo. Ha un controllo linguistico perfetto. Non gli scappa una sillaba che non voglia dire. In questo (ma non solo in questo) va d'accordo con Andreotti. Lontanissimo dal fascino tribunizio di un Almirante o di un Pannella, conquista una parte cospicua del pubblico maschile con i suoi ra-
gionamenti serrati e una parte ancor più rilevante di quello fernminile con la sua timida corteccia che nasconde un carattere di ferro. Eppure non va mai in diretta. «Non mi gioco quarant'anni di vita politica per un aggettivo sbagliato» risponde a Villy De Luca.Né accetta incontri faccia a faccia con alleati o awersari. Né Craxi, né Andreotti, né Zaccagnini: che da parte loro la pensano allo stesso modo. Chi glielo fa fare di mettere in pericolo un'alleanza reale o possibile, di far vedere al pubblico che non ci si aggredisce come i più scatenati vorrebbero, di dimostrarsi meno brillanti di un avversario in buona giornata? In America lo fanno? L'Italia è altra cosa. Così, all'inizio degli anni Ottanta, interi cicli di «Ping pong» passano senza che mi sia possibile far indossare i guantoni a due segretari insieme.
Ma anche per le semplici interviste Berlinguer gioca con cautela. Durante le elezioni del presidente della Repubblica che porteranno Pertini al Quirinale, nell'estate del '78, per una intera mattinata lo aspetto nel Transatlantico di Montecitorio all'uscita dell'aula. Berlinguer entra e~l esce. Ogni volta mi avvicino, lo saluto, gli chiedo una breve intervista. Lui sorride, vorrebbe ritirarsi dentro il guscio come una testuggine di fronte al pericolo, gli dispiace dire di no, ma non ha alcuna intenzione di accettare, prende tempo, saluta e rientra in aula. E la cosa va avanti fino a quando, pur di evitare l'incontro, Berlinguer decide di non muoversi più dall'emiciclo. Quando, l'anno dopo, viene rieletto in congresso, l'intervista al Tgl è rituale.
Il Pci ha il cuore al terzo piano di via Teulada, dove Andrea Barbato, diventato direttore del Tg2 con il gradimento
di Francesco De Martino, ha spostato immediatamente le artiglierie a copertura di Botteghe Oscure. Ma gli ascolti sono quattro a uno in favore del Tgl e l'intervista televisiva d'obbligo va concessa alla testata di Emilio Rossi, che segue con grande attenzione ma con altrettanta autonomia la lenta evoluzione in corso nel Pci.
«Che gli chiedi?» mi ammonisce dunque Tonino Tatò nell'ufficetto ricavato per Berlinguer in uno dei recessi del Palasport di Roma. «Un po' di prospettive politiche e un po' di questioni ideologiche» rispondo fissando un saggio di Lenin sulla scuola che il segretario ha lasciato sul suo tavolo di lavoro. Tatò si rabbuia, ma non obietta. D'altra parte, Berlinguer è in grado di rispondere a qualunque domanda. Un col po al cerchio e uno alla botte, una rassicurazione alla base tradizionale e un segnale accattivante alla crescente borghesia progressista. Un doroteismo di alto livello che di elezione in elezione porta il Pci a governare il paese in condominio con la Dc di Aldo Moro e Giulio Andreotti.
In un'era geologica diversa come l'attuale, fa sorridere il pensiero che un'intervista televisiva (destinata cioè a un pubblico di massa) possa solo fermarsi su questioni ideologiche. Ma sono queste a tenere banco alla fine degli anni Settanta. «L'autonomia di azione politica e di ricerca teorica, la nostra indipendenza organizzativa e la fine di ogni partitoguida e di ogni Stato-guida, i rapporti costruttivi con i socialisti, non significa né che noi vogliamo diventare socialdemocratici, né che cessiamo di essere internazionalisti, anche se il Pci non appartiene ad alcuna internazionale.» Così Berlinguer risponde a Carlo Casalegno, che all'inizio del '76 gli chiede per «La Stampa» come mai il Pci abbia deciso di par-
tecipare sia al XXV congresso del Pcus a Mosca, sia alla successiva conferenza comunista paneuropea voluta dai russi per riaffermare la propria autonomia.
Sono gli anni dell'eurocomunismo e della «terza via» tra socialismo reale e socialdemocrazia. Adesso sembrano questioni senza senso, ma alla fine degli anni Settanta giornali e televisioni parlano solo di questo. Si combattono dispute serissime a colpi di Voltaire e Robespierre e di tutta la letteratura politica che li separa da Marx ed Engels, da Lenin e Trockij. I comunisti sparano salve di Gramsci e aggiungono E;obeKi, in sovrannumero; i socialisti rispondono rispolverando i premarxisti Fourier e Proudhon. Norberto Bobbio e
gusto Del Noce, Paolo Spriano e Domenico Settembrini, ~Lucio Colletti ed Enzo Bettiza appaiono in televisione più di Pippo Baudo e Mike Bongiorno con indici di ascolto da gran ; varietà.
Il Pci viene sottoposto a spietati esami di democrazia. La questione non è di poco conto se un sondaggio Doxa realizzato alla fine del '77 (quando il Pci ha già il fiato sul collo della Dc per rubarle il primato) accerta che il 94 per cento dei militanti comunisti ritiene che i servizi forniti dallo Stato ai cittadini siano migliori in Urss che in Italia, 1'82 per cento pensa che in Unione Sovietica i cittadini abbiano maggiori possibilità di fare un lavoro adatto alle proprie capacità e ai propri meriti, il 72 per cento ritiene che in Urss vengano garantite migliori prospettive per il futuro dei figli e solo il 48 per cento ritiene che in Italia la libertà di pensiero e i diritti individuali siano garantiti meglio che a Mosca.
Rispondendo ad alcune mie domande nel novembre del '77, sessantesimo anniversario della Rivoluzione d'ottobre, Paolo Bufalini afferma, a nome della segreteria comunista, che l'economia italiana deve andare ben oltre l'esperienza svedese, «dove non è mai stata intaccata la logica capitalistica», e deve arrivare al socialismo «attraverso una programmazione democratica che abbia determinati strumenti pubblici, che lasci uno spazio all'iniziativa privata, come del resto è accaduto in alcune società socialiste perché, per esempio, nella Repubblica democratica tedesca per lunghi anni e ancora oggi in parte - è coesistita una iniziativa privata sia nell'industria che nell'agricoltura».
A Padova treiorni prima della mor~e
Tutto questo retroterra, il tormentato awicinamento del Pci verso una democrazia di tipo completamente occidentale e le difficoltà derivanti da una lunga militanza di segno diverso, rni tornano alla mente mentre rivedo le immagini dell'ultimo comizio di Berlinguer a Padova, tre giorni prima della morte.
«L'Italia democratica non può fare a meno del Pci, che rappresenta un terzo deU'elettorato e le forze più vive della società.» Sembra il Berlinguer dei giorni migliori (e invece ha già più di una difficoltà politica) quello che ricorda ai militanti padovani la vittoriosa mobilitazione contro il terrori smo proprio nell'ateneo in cui gli ideali di Curiel e di Concetto Marchesi hanno sconfitto quelli di Toni Negri.
Ma quattro minuti più tardi, quando parla di «rinnovamento e risanamento della società con salde garanzie di de-
mocrazia e libertà», lo sguardo si appanna all'improvviso. Parla di P2 e di lotta contro quelli che vogliono abolire la scala mobile e si ferma. La mano corre sulla bocca, gli occhiali diventano pesanti. Berlinguer se li sfila, cerca di riprendere, dice ancora qualche parola, si ferma di nuovo. La telecamera allarga l'inquadratura all'intero palco e alle spalle di Berlinguer compare la maschera tragica di Tatò che ha intuito il dramma, ma non se la sente di intervenire. Anche il pubblico ha ormai capito che Berlinguer sta male e lo applaude, grida «Enrico, Enrico!». Applaude senza sosta anche Tatò, come per esorcizzare la tragedia che già gli si legge sul volto.
Ma Berlinguer vuole finire a tutti costi il discorso. «Vi invito a impegnarvi tutti nei pochi giorni che ci separano dal voto...» Lo sguardo è ormai stravolto, gli occhiali non bastano più a proteggerlo. «...con lo slancio che avete sempre dimostrato nei momenti cruciali della nostra vita...»
Gli applausi lo sommergono di nuovo, ma forse Berlinguer non li ascolta più. Arriva in coma all'ospedale, muore tre giorni dopo.
Va a prenderselo il vecchio Pertini con l'aereo presidenziale e mai nei tempi moderni si era assistito a una manifestazione così imponente di lutto. Non ai funerali di Togliatti, né a quelli di Moro, che pure era morto in circostanze ben più drammatiche per lui e per la nazione. Forse bisogna tornare indietro al primo anno del secolo, alla morte di Umberto I per mano di Bresci. Ma si tratta di un'altra epoca.
Albino Longhi, direttore del Tgl, mi affida la cronaca di-
retta dei funerali. Ne ho fatte molte, purtroppo. Dai funerali della scorta di Moro a quelli di Moro stesso, da Mattarella a Bachelet, da Nenni a Ugo La Malfa. So in partenza che questi sono diversi, perché la morte di Berlinguer ha prodotto nei giornali e in televisione quello che i sociologi chiamano subito un «processo di omogeneizzazione etico-politica». Ricorderò l'anno successivo in un libro-documento dell'«Unità»: «Questi funerali nascono in un clima diverso. Non mi spingerei a dire, come scrive "il Manifesto" che "persino gli avverSari e i nemici gli affidano una delega, una rappresentazione di sé". Ma certo il coinvolgimento emotivo, anche all'esterno del popolo comunista, è molto alto e in qualche modo sorprendente. I mezzi di comunicazione di massa hanno avuto in questo senso un ruolo determinante. Per quattro giorni quasi tutti i giornali italiani hanno titolato a piena pagina sull'agonia del leader comunista e dedicato molte pagine a una commemorazione in crescendo che, di fatto, ha preceduto il momento della morte. La stessa televisione, nei servizi dall'ospedale di Padova, è uscita talvolta dalla sua abituale sobrietà».
Viene deciso l'impiego di un numero straordinario di telecamere, sei. Una settima viene montata sull'elicottero. Su questa decisione di Longhi non siamo tutti concordi. Io stesso, confermerò qualche mese più tardi alla festa dell'Unità, sono perplesso perché mai nella sua storia trentennale la televisione ha utilizzato l'elicottero per manifestazioni di massa che avessero una qualche connotazione politica. Sono tuttora convinto che, se la domenica successiva, alle elezioni europee, si verificherà il «minisorpasso» del Pci sulla Dc, una parte cospicua del merito sarà dell'«effetto Berlinguer» e della televisione. Ma sull'uso dell'elicottero credo di aver sba-
gliato. Rivisti a dieci anni di distanza, questi funerali sono uno straordinario evento giornalistico. Rinunciare alle spettacolari immagini dall'alto di piazza San Giovanni sarebbe stato un errore. Come è stato un errore, frutto della prudenza e delle convenienze politiche, non mostrare per decenni la folla dei comizi o non far vedere l'aula di Montecitorio semivuota perché altrimenti avrebbe protestato la presidenza della Camera. I fatti sono fatti. Nasconderne o ridimensionarne alcuni aspetti non dovrebbe far parte del nostro mestiere di cronisti.
Chi si fida di Achille?
Ripenso agli anni di Berlinguer, mentre nella casa romana di Achille Occhetto la governante Rossana serve il caffè. E una caldissima giornata di fine luglio e il governo sta entrando nella tempesta con l'arresto di Salvatore Sciascia, capo dei servizi finanziari della Fininvest. Ma nella penombra dello studio di Occhetto, affacciato sulla cupola della Sinagoga, il tempo sembra essersi fermato. L'ex segretario del Pds è appena arrivato dalla Maremma e sta per tornarci, per trascorrere la fine dell'estate '94 all'Uliveto di Manciano, un posto di campagna vicino Grosseto per il quale ha lasciato dopo molti anni la mitica Capalbio. E per completare con la giornalista Teresa Bartoli la stesura del suo libro, n sentimento e la ragione, che in settembre manderà di traverso a Massimo D'Alema la Festa dell'Unità a Modena. Gli anni di Berlinguer, la successione a Natta, la svolta della Bolognina, il trionfo autunnale nelle elezioni dei sindaci sembrano lontanissimi.
Occhetto è ancora schiacciato dal peso dell'ingratitudine che ha caratterizzato gli ultimi mesi della sua direzione alle Botteghe Oscure e guarda in termini cupi al proprio futuro politico.
Ripenso a due copertine gemelle pubblicate da «Panorama» a quasi vent'anni di distanza. La prima porta la data del 20 marzo 1975. Mancano tre mesi alle elezioni amministrative che consegneranno al Pci la guida delle grandi città italiane e il settimanale titola, accanto a una grande foto di Berlinguer, Possiamo fidarci dei comunisti? Scrive all'interno il giornale: «Soggezione a Mosca? Nemmeno a parlarne. Patto Atlantico? Accettato in attesa che la distensione lo svuoti. Economia? Garantire equi margini di profitto allo scopo di evitare fughe di capitali. Perfino nello stile i dirigenti del Partito comunista italiano si comportano ormai come ministri di un governo-ombra». E invece sappiamo com'è andata.
Passano diciannove anni, il Pci ottiene alle amministrative di fine '93 il maggior successo locale dalle elezioni del '75. Quasi tutti gli osservatori gli infiorano archi di trionfo verso Palazzo Chigi nelle politiche di primavera. E «Panorama» nel
numero del 19 dicembre si chiede: «Chi si fida di Achille?». La opertina è un capolavoro di Giorgio Forattini. Il grande disegnatore satirico aggiorna la famosa vignetta pubblicata dalla «Repubblica» nel '77 quando Berlinguer, in pieno compromesso storico, awolto in una preziosa veste da camera, sorbisce un tè, infastidito per la rumorosa manifestazione dei metalmeccanici che passa sotto le sue finestre e di cui dà notizia «l'Unità» che stringe tra le mani.
Nella nuova edizione, la preziosa veste da camera awolge Achille Occhetto che nella tazza da tè ereditata da Berlinguer versa un generoso quantitativo di champagne: Cordon Rouge, naturalmente, che Forattini etichetta con falce e martello. Rosse sono le preziose tende di casa, rosse le bandiere che si intravedono oltre la finestra. Occhetto non ha lo sguardo infastidito di Berlinguer. Gongola invece perché «l'Unità» titola Vittoria, mentre sulle pareti di casa il vecchio ritratto di Marx che Berlinguer aveva alle spalle è sostituito da un doveroso ritrattino del vecchio Enrico, mentre la stanza è illuminata da un quadro con l'effigie principesca di Giovanni Agnelli, che Forattini vede evidentemente alleato del nuovo Barone Rosso, ormai lanciatissimo verso il governo.
E invece Occhetto è qui, a chiedersi ancora una volta perché la sinistra ha perso elezioni che aveva vinto. «I motivi sono tanti» risponde. «E vero, avevamo vinto a novembre. Ma la scelta del governo di una città è cosa diversa dalla scelta del governo nazionale. Evidentemente una parte consistente dell'elettorato non è pronta alla naturale alternanza tra destra e sinistra. Poi è cambiato il terreno di gioco. Dopo le elezioni dell'autunno Berlusconi ha detto: i progressisti si sono organizzati, ci hanno battuto, a questo punto debbo entrare in campo. Ma ha giocato su un campo diverso. Le elezioni dei sindaci erano una partita a due tempi. Nel primo turno ciascuno poteva manifestare tranquillamente la propria preferenza per il singolo partito, per poi scegliere tra destra e sinistra al momento del ballottaggio. Con il sistema maggioritario a turno unico, abbiamo constatato che la mentalità dell'elettore resta quella del vecchio sistema proporzionale: difende la propria bandiera e guarda meno alla squadra.
Questo vale per la destra e per la sinistra. Berlusconi ha studiato bene la legge e ha collocato una parte del centro nel cuore della destra rendendola fruibile.
Ha ragione Veltroni quando dice che noi abbiamo perso perché la gente ha visto la sinistra come un'alleanza che si muoveva "contro", e noi abbiamo cercato di surrogare, senza riuscirci, questo deficit d'iniziativa che si notava nel tavolo progressista. O l'elettore medio di centro veniva con noi oppure avremmo perso. Credo di aver fatto il possibile per conquistarlo: sono andato a presentare il nostro programma economico (il migliore, secondo un giornale come il "Sole-24 Ore") ai maggiori importatori di Londra e sono andato al quartier generale della Nato tirandomi dietro le critiche di Bertinotti. Non ero così pazzo da credere che avremmo avuto la maggioranza assoluta. Si poteva immaginare una maggioranza relativa della sinistra o della destra, con l'ago della bilancia collocato al centro.»
Forse per questo, tra gennaio e febbraio, Romano Prodi era pronto a lasciare l'Iri per Palazzo Chigi, dove nel '93 non lo mandò, al posto di Amato e prima di Ciampi, un fatale errore di calcolo di Mario Segni che non si rassegnava a fargli da vicepresidente. E se Prodi fosse andato a Palazzo Chigi dopo le elezioni di marzo, i progressisti avrebbero premiato Ciampi con il Quirinale, se la posizione di Scalfaro si fosse fatta più difficile.
Tutto questo, come sappiamo, non è awenuto. Ma Occhetto non si rassegna a farsi allontanare, con il gesto secco e ultimativo della mano che scaccia una mollica ingombrante, dal tavolo che ritiene di aver costruito più di ogni altro. E
nella penombra di questa stanza, mentre un bellissimo Pulcinella ci guarda sfinito da una sedia a dondolo, tomano gli anni della grande svolta dell'89. Torna il momento della Bolognina.
Quel giorno alla Bolognina
«Tre giomi dopo la caduta del Muro di Berlino, il 12 novembre dell'89, vado in Emilia su invito di un vecchio partigiano che mi ha chiamato per i quarantacinque anni della battaglia di Portalame contro i tedeschi. La discussione sul futuro del nostro partito è ormai vecchia di mesi, di anni. Dopo la tragedia di Tien An Men ho detto che il comunismo intemazionale è finito, staccando nettamente il Pci dai comunisti francesi che rimangono legati a vecchie concezioni. Poi c'era stata la vicenda rumena di Ceausescu. Ma se scelgo la Bolognina per annunciare il cambiamento con rapidità assoluta e senza consultare nessuno non è per riparare qualche atto disdicevole accaduto all'estero. La caduta del Muro non è solo l'esemplificazione della crisi dell'Est, ma è anche il simbolo della crisi della guerra fredda e della necessità di un nuovo modo di vivere a Est come a Ovest. Chi capisce immediatamente in Italia che la fine dei muri porta con sé la fine delle politiche consociative e della centralità democristiana che si nascondevano dietro i muri è Francesco Cossiga, che pure andrà in una direzione opposta alla mia. Ma torniamo alla Bolognina, dove decido di fare ai nostri partigiani lo stesso discorso che Gorbaciov fece ai veterani sovietici: "Voi avete vinto la seconda guerra mondiale, ma se non cambiamo tutto finirete per perderne i frutti". Ai piedi del palco si avvicina un cronista e mi chiede: "Le sue parole lasciano presagire
tutto?". Gli dico di sì e poco dopo le agenzie annunciano: forse il Pci cambia nome. Debbo ricordare che nel XVIII congresso del febbraio '89 ho detto tra gli applausi che non avremmo mai cambiato nome sotto la pressione di Craxi e che solo una nuova costituente delle forze della sinistra ci avrebbe fatto muovere. Quando escono le agenzie sul cambio di nome è già tardi, e sono in volo verso Roma. I giomalisti mi cercano invano al telefono. Così l'indomani "l'Unità", che in questo periodo è diretto da D'Alema, pubblica la notizia del possibile cambio di nome col punto interrogativo.»
In realtà, l'atteggiamento del giomale comunista è ancora più prudente. Occhetto non ha awertito nessuno del suo discorso e il giornale di D'Alema non gli manda nemmeno un inviato al seguito. Pubblica dunque il servizio del corrispondente bolognese Walter Dondi, ma soprattutto lo pubblica in modo sorprendentemente riduttivo. L'apertura di lunedì 13 novembre è infatti dedicata all'annuncio che Hans Modrow diventerà primo ministro della Repubblica democratica tedesca. Al discorso del segretario del Pci viene assegnato un titolo assai meno vistoso a centro pagina: «Occhetto ai veterani della Resistenza: dobbiamo inventare strade nuove. A chi gli chiede se il Pci cambierà nome risponde: tutto è possibile». E nemmeno due giorni dopo, quando dopo l'ulteriore prudenza del martedì, tutti i giornali annunciano il cambiamento di nome, «l'Unità» non vorrà sbilanciarsi. Parla di «nuovo partito per la sinistra», ma awerte che «il segretario parla di cambiamenti radicali (anche nel nome), mentre si registrano consensi, riserve, dissensi ed è in vista un congresso straordinario».
Ma torniamo al racconto di Occhetto. Quando rientra in
casa, la domenica notte, il segretario del Pci si chiude nello studio per scrivere l'intervento per la segreteria dell'indomani e per la direzione che si riunirà il mercoledì. Gli tengono compagnia le ventisette pipe ordinate in tre piani di rastrelliera sulla sinistra del tavolo di legno scuro.
«Il lunedì» racconta «arrivo in segreteria quasi in stato di allucinazione. Nel fine settimana ero stato a Bruxelles per incontrare i laburisti inglesi, poi a Mantova per la mostra di Giulio Romano. Infine alla Bolognina. Alla riunione partecipano Fassino, Bassolino, Mussi, Livia Turco, Veltroni, Petruccioli. Intervengono anche Ariemma e D'Alema, come direttore dell'"Unità". Tutti accolgono le mie proposte con entusiasmo, tanto che sono io a un certo punto a dire: fermiamoci un momento, ditemi subito con franchezza se debbo andare avanti. Per non creare equivoci, interpello tutti i presenti, uno per uno. E tutti mi rispondono sì, siamo d'accordo. Due giorni dopo, le mie tesi vengono approvate anche in direzione, ma qui i contrari sono parecchi: Ingrao, Tortorella, Natta, Chiarante. La base invece si dimostra sorprendentemente a favore. Immaginavo di dover formare una corrente minoritaria del partito e invece mi danno ragione sette iscritti su dieci. Nel marzo del '90 il dibattito si sposta in congresso, nell'autunno dello stesso anno nasce il simbolo.»
.bella la quercia, è solida...»
Me la ricordo bene, quella sera. Sono da poco direttore del Tgl e chiedo a Walter Veltroni, che guida il settore informativo del partito, di mostrare per primi il nuovo simbolo sulla nostra rete. «E vero che c'è una quercia?» chiedo. Ma poi,
quando Occhetto viene in studio e Veltroni sfodera il simbolo, vediamo che lo strappo finale non è stato compiuto (né forse poteva compiersi) e una falce e un martello, piccoli ma ben visibili, fanno «capoccella» ai piedi dell'albero.
Occhetto è gasatissimo: «E bella la quercia, è solida. E anche segretario della Quercia suona bene, è imponente».
Oualche mese dopo, nel febbraio del '91, awiene a Rimini la scissione di Rifondazione comunista. «Mi chiedi» dice Occhetto «se poteva essere evitata. Dopo Bologna avemmo un anno intero per evitarla e ci si fece credere che si poteva impedire. Ma a ripensarci, era nel conto.»
Il congresso di Rimini è amaro anche per un'altra ragione. Si svolge durante la guerra del Golfo che divide profondamente i comunisti. Ma al di là delle divisioni, come annota Gianfranco Piazzesi sul «Corriere della Sera», «una volta sopraggiunto il momento di eleggere a capo del partito nuovo il suo padre fondatore e unico candidato, Occhetto aveva il diritto di pretendere una votazione plebiscitaria».
E invece no, il sorgere delle correnti seppellisce il segretario che le ha autorizzate, seppellendo a sua volta dopo settant'anni il centralismo democratico del Pci. Il segretario del Pds non viene rieletto per dieci voti, si contano trentasette franchi tiratori fuori dell'opposizione. L'elezione awerrà dopo qualche giorno in consiglio nazionale, ma la base scarica sconcerto e frustrazioni dalle onde di Italia Radio e D'Alema deve difendersi dai sospetti sul «Corriere della Sera»: «Pub darsi, come scrive Giuliano Ferrara, che io sia un surgelato, ma sono un surgelato leale. Il giorno che dovessi pensare di
sedermi su quella poltrona, lo direi chiaro e forte».
Torniamo al racconto di Occhetto: «Nelle prime elezioni successive, il 5 aprile del '92, il Pds prende il 16 per cento dei voti e Rifondazione quasi il 7: la somma fa il vecchio Pci. Ma dall~analisi del voto scopriamo che il rimescolamento è stato
200 201 più forte, che il Pds ha avuto molti voti in entrata. Passano da allora due anni terribili in cui sono scomparsi interi partiti che venivano dalla Prima Repubblica e noi stessi siamo stati sotto tiro per Tangentopoli. E alle elezioni di marzo, mentre va a picco quasi tutto quello che arriva dal passato, il Pds arriva al 20.4 per cento, guadagnando quattro punti e mezzo sul '92, mentre Rifondazione non si muove. Un risultato importante, mi pare, se si pensa che Craxi parlava di onda lunga socialista quando passava dal 9.5 al 9.7 per cento e che il nostro risultato di marzo si è consolidato in giugno in Sardegna e in molte città».
Fa una pausa, Occhetto. Lo sguardo gli sale alla grande foto dell'abbraccio con Arafat che domina la scrivania. Poi trasmette il risultato di quella che deve essere stata una lunga e dolorosa riflessione: «Non accetto che mi si dica: è cambiato il mondo, te ne devi andare».
Poi mormora: «Pago paradossalmente il fatto che il Centro non ha avuto il 2 per cento di voti in più e che Orlando ha retto in Sicilia meno del previsto. Se avessimo vinto, avremmo trasferito al governo una soluzione di sinistra-centro co-
me quella che a Torino ha portato all'elezione del sindaco Castellani».
Tra le elezioni di marzo e quelle di giugno Achille Occhetto percorre tutto il suo calvario: «Se a metà giugno non mi fossi dimesso, sarei ancora il segretario del Pds. Ma la situazione diventa inaccettabile già in aprile. Il totodimissioni di Occhetto diventa lo sport nazionale. Appena scendo da un palco in qualunque città italiana, trovo subito un cronista che mi chiede quando mi dimetto. Il fatto è che non trovo nel partito l'accordo totale su un'ipotesi che attutirebbe la campagna esterna. E cioè un sollecito congresso di linea che mi confermi segretario con l'incarico di traghettare il partito verso una nuova leadership da eleggere in un successivo, vicino congresso di svolta».
Ma il vento tira da un'altra parte. La base rumoreggia, Giampaolo Pansa - l'opinionista più vicino al Pds - scrive sull'«Espresso» del 3 giugno, sotto il titolo Achílle e la frittata, il seguente benservito: «Ha avuto coraggio. Ma ha concluso il suo ciclo. Ha portato più voti al Pds. Ma ha condotto la sinistra alla sconfitta. E deve farsi da parte».
Occhetto non ama affatto Pansa, ma è costretto a dargli retta.
«Così le dimissioni maturano nel momento stesso in cui mi comunicano le proiezioni del risultato europeo. Mi fisso nella testa alcune frasi che scriverò nella lettera di congedo. Spiego ai dirigenti del partito che non scendo davanti alle telecamere per commentare il risultato perché se i giornalisti mi facessero una domanda sulle dimissioni non potrei ri-
spondere negativamente, poi me ne vado a casa.»
Quando Occhetto sale al secondo piano di via Tribuna Campitelli 23, ai confini del Ghetto, è l'una del mattino di lunedì 14 giugno. Lo aspetta la moglie Aureliana, mezz'ora più tardi il segretario dorme.
Al mattino legge i giornali in compagnia della moglie, mentre Rossana serve la colazione. Dalla terrazza la Sinagoga è bellissima, vien voglia di toccarla. Ma Occhetto ha altro per la testa.
Arriva alle 10 al suo ufficio al sesto piano delle Botteghe Oscure, si chiude nella stanza e comincia a scrivere a mano la lettera di dimissioni («Ho usato soltanto una volta la macchina, scrivendo lentamente da solo il discorso della Bolognina: non volevo che nessuno lo conoscesse prima del tempo»): «Cari compagni, la situazione politica è dominata da una inquietante vittoria della destra... Sarebbero dannose esitazioni e incertezze per quel che riguarda la direzione del partito. Come sapete, già all'indomani delle politiche, è stato posto da alcune parti, a dire il vero esterne al partito, il problema delle mie dimissioni. Debbo dire con franchezza che non ho condiviso le ragioni in base alle quali si argomentava per questa ipotesi, anche perché giudico che il Pds in questi anni abbia conosciuto un significativo rafforzamento... Pur ritenendo che sia stato un grave errore politico cercare in ogni modo di indebolire l'immagine, proprio nel momento più vivo dello scontro, del segretario del Pds, oggi sento che il mio dovere è un altro... Ricordo con particolare intensità quanti nel corso di questa campagna elettorale mi gridavano: Achil-
le, non mollare! Voglio rassicurarli. Questa mia decisione non è un cedimento, ma un atto di orgoglio e di lotta in nome del Pds e della sinistra. Sono e sarò, comunque, al loro fian-
co...».
Occhetto passa i suoi fogli alla segretaria Stefania Fredda per la battitura. Poi il testo finisce tra le mani di Massimo De Angelis, il dirigente alto, elegante e silenzioso che guida l'ufficio stampa del partito: lo distribuisce ai giornalisti nella conferenza stampa convocata per le tre del pomeriggio. L'ex segretario, intanto, è tornato a casa, non uscirà più fino all'indomani, deludendo l'attesa di decine di cronisti che si accalcano nella strettissima Tribuna Campitelli. Fa gli straordinari anche Rossana, la governante. Il suo orario finirebbe alle 12.30, ma stasera esce alle 19, dice che Occhetto sta benissimo e quando un cameraman della Fininvest fa troppo l'invadente lo manda romanescamente a quel paese.
«Tutta la sinistra europea resta esterrefatta» commenta Occhetto. «Gli osservatori erano abituati ai riti della Prima Repubblica, quando vinceva sempre il centro e se uno guadagnava lo 0.1 per cento faceva suonare la banda. Non capiscono come mai il Pds migliori di quatko punti e mezzo e caccino via il segretario.»
Oggi Occhetto si sente «come un altoforno»: «Negli ultimi cinque anni ho vissuto la fine del comunismo, il crollo dell'Unione Sovietica, la nascita del Pds, la scomparsa della Dc e del Psi, la riforma elettorale, la vittoria di Berlusconi... Ho dovuto prendere decisioni furibonde ora dopo ora. E sempre senza spegnere l'altoforno. Come gli operai della
Breda, che durante gli scioperi lo lasciavano sempre acceso, pena la rovina della fabbrica e del lavoro...».
E come in un altoforno ribollono i suoi risentimenti: «No, non ho ancora superato quel che è successo. Non accetto le critiche di D'Alema e un certo tipo di votazioni. Se il Pds confermerà questo atteggiamento al congresso, dovrò riconsiderare la mia partecipazione alla vita politica...».
Oueste ultime parole cadono come pietre nella penombra del Ghetto. Pulcinella, Arafat e le pipe son sempre là. Al piano di sopra Rossana ha ormai preparato il pranzo, e Achille Occhetto, appena appoggiato allo schienale del divano, mi sta dicendo che il suo è un futuro a tutto campo. L'aveva detto una sola volta prima di adesso, in una Iunga intervista all~«unità» del 15 luglio, rispondendo così alla dGmanda finale di Alberto Leiss: «Come vedi il tuo futuro imp~gno politico?»: «Dipende anche dalle reazioni che susciterà questo mio intervento. Se stimolerà una riflessione nel partito. O se sarà percepito come un nuovo strappo da parte di quel rompicoglioni che ci ha fatto già tanto soffrire. In fondo, con la politica, si può anche smettere». Ma non prima, par di capire, di aver dato di nuovo battaglia.
Scriverà nel suo libro: «Io non mi sento più uomo che torna in una caserma. La mia vita è ormai nella carovana... Se la carovana riprendesse per davvero il cammino (utilizzando tutti gli spezzoni della sinistra, ma in un contesto che guarda ben oltre), io non potrei che essere là, con gli altri».
«D'Alema segretario? A Occhetto vengono le infantigliole»
La mattina di martedì 14 giugno i giornali portano in casa di Massimo D'Alema, fra Trastevere e il Portuense, due notizie: una è buona, l'altra è cattiva. La notizia buona sono le dimissioni di Occhetto, che gli consentono finalmente di puntare alla segreteria del partito. La notizia cattiva è che Occhetto, considerandolo il responsabile principe della sua caduta, farà di tutto per impedirne l'elezione. Lo annuncia a tutta pagina «La Stampa», pubblicando la seguente, esemplare confidenza di Piero Salvagni che la penna omicida di Augusto Minzolini presenta come funzionario di lungo corso del partito: «A Occhetto ogni volta che gli parlano di una possibile segreteria D'Alema gli vengono le infantigliole (tradotto dal romanesco: fibrillazioni al cuore...). In realtà, fin dal momento in cui ha consegnato a Massimo De Angelis la sua lettera di dimissioni perché fosse illustrata alla stampa, il pomeriggio del 13 giugno, Occhetto ha pensato di opporre a Massimo D'Alema il giovane direttore dell"'Unità" Walter Veltroni».
All'inizio, Veltroni sembra incerto, ma il bombardamento di telefonate che arrivano dalla casa di Occhetto in Maremma direttamente a Veltroni e soprattutto attraverso il collabo-
204 205 ratore più stretto dell'ex segretario, Claudio Petruccioli, fanno breccia lentamente nella sua resistenza.
Il 16 giugno, secondo quanto accerta Francesco De Vito per «L'Espresso», Petruccioli e Piero Fassino, leader dei comunisti torinesi e anche lui occhettiano di ferro, dicono a
Veltroni che la sua candidatura è nei fatti, indipendentemente dalla sua volontà. Sulla stessa posizione sta Fabio Mussi e così viene lanciata l'idea del referendum fra tutti gli iscritti promossa dal sindaco di Bologna Walter Vitali.
D'Alema a questo punto sa di correre un grosso pericolo. Teme che la consultazione possa essere condizionata dalla stampa, in genere più favorevole a Veltroni, e dice che niente è più inaccettabile che essere eterodiretti. «Il rischio più grave di un referendum sul segretario è proprio questo. Io non ci sto. Allora è meglio un congresso.»
Anche in un colloquio awenuto a fine luglio nel suo studio di segretario a Botteghe Oscure, D'Alema mi conferma che il congresso sarebbe stata la soluzione migliore: «Io ero persino contrario alle dimissioni immediate di Occhetto. Dopo le elezioni politiche di marzo, gli dissi che avrebbe dovuto annunciare per l'autunno un congresso di cambiamento e fare come fece nella Dc Moro nel '68: è finita una stagione politica, mi metto da parte, mi faccio garante del cambiamento. Perché Occhetto non ha accettato? Per orgoglio personale, credo. Lui s'aspettava di essere confermato al congresso immaginando di andare via dopo. E ha condotto la campagna elettorale per le Europee in una condizione di isolamento e pagando un forte prezzo personale. Questo mi è dispiaciuto. Ma alla fine ha detto: visto che non volete confermarmi al congresso, è inutile che mi faccia logorare. Preferisco andarmene subito. Abbiamo trascorso insieme in questo ufficio la serata delle elezioni europee. Occhetto non deve tirarsi in disparte. E non credo che rinuncerà alla vita politica».
D'Alema occupa con piena disinvoltura l'ampia stanza del segretario al sesto piano di Botteghe Oscure. Nel grande scaffale alle spalle della scrivania sta sostituendo i libri di Occhetto con i suoi, e il primo quadro che s'è portato dall'ufficio che occupava alla Camera è un curioso, duplice ritratto di Berlinguer. Il deputato di Gallipoli, come aveva il vezzo di chiamarsi, è uomo di mondo e sa che nei primi mesi della sua segreteria il fantasma di Occhetto è seduto sulla poltrona d'angolo, come il Pulcinella sfinito che assiste muto a quel che avviene nello studio privato di Occhetto dalla sedia a dondolo.
«Perché si sono guastati i rapporti tra noi? C'è qualche cosa che non ho capito, che sto ancora cercando di afferrare. Quella di Occhetto è stata una direzione fortemente personalizzata ed è apprezzabile che si sia assunto molte responsabilità in prima persona. Caratterialmente, Occhetto ha uno stile isolato.
Questo lo ha portato a vivere con difficoltà un rapporto paritario all'interno del nostro gruppo dirigente. Tra lui e me c'è una diversità di cultura politica, più che di linea. Lui ha un senso molto forte della leadership che si manifesta in forti gesti personali. Io sono più tagliato per avviare processi di costruzione, per far avanzare un progetto in modo collegiale. E naturalmente posso incontrare qualche difficoltà quando le esigenze di immagine prevalgono sulla sostanza. Occhetto credeva che io fossi il punto di riferimento di un'area occulta del partito. E invece io sono soltanto il punto di riferimento di un giovane gruppo dirigente che si è formato nella seconda metà degli anni Settanta, quando io ero il segretario della Federazione giovanile comunista. Per questo, forse, ho rap-
presentato un contrappeso ingombrante all'interno del gruppo dirigente.»
Tra D'Alema e Veltroni, la «guerra deifax»
Torniamo ai venti giorni intercorsi tra le dimissioni di Occhetto e l'elezione di D'Alema. «Baffino», come qualcuno lo chiama non si sa bene se con affetto o malizia, si rende conto che la familiarità con l'apparato che lo porterà alla vittoria rischia di essere la causa più temibile della sua sconfitta.
Dice il 22 giugno all'«Unità»: «Mi rendo conto che in questo momento, di fronte a un elettorato vicino a noi ma ancora incerto, possa rappresentare un handicap l'essere espressione più marcata della tradizione comunista italiana».
206 207 Per questo due giorni prima, quando lunedì 20 giugno si riunisce il nuovo coordinamento politico chiamato a scegliere tra referendum e congresso, D'Alema boccia la prima ipotesi senza esitazione. «L'idea di procedere subito,» racconta «già mi lascia perplesso. Perché non andare a una forma di reggenza in attesa del congresso? Prevale l'altra tesi, sostenuta da quasi tutti. Il sindaco di Bologna ha proposto un referendum tra gli iscritti. Ma non è previsto dallo statuto. E poi chi lo toglie di mezzo un segretario eletto da tutti?»
Fassino, uomo di Occhetto, propone che il segretario venga eletto da un consiglio nazionale allargato a tutti i dirigenti nel partito presenti nelle istituzioni più importanti. Ma alla
fine prevale la soluzione dell'elezione in consiglio nazionale, che sarà preceduta da una consultazione di circa diecimila dirigenti.
«Mi lascia perplesso anche questa soluzione» mi dice D'Alema. «A che serve, visto che poi comunque il segretario deve eleggerlo il consiglio nazionale? Queste consultazioni sanno di antico, vengono fatte nei conciliaboli nei confessionali...»
Comunque va così. E tra D'Alema e Veltroni scoppia la «guerra dei fax».
Riviviamola nel racconto di Walter Veltroni: «La consultazione finisce lunedì 28 giugno, il consiglio nazionale è convocato per il giovedì 30 e il venerdì 1° luglio. Alle 19.30 del lunedì D'Alema e io veniamo chiamati dal presidente del consiglio nazionale, Giglia Tedesco, e dal presidente della commissione di garanzia, Giuseppe Chiarante. Ci vediamo al secondo piano di Botteghe Oscure. Ci comunicano i risultati della consultazione: il 42 per cento ha votato per me, il 37 per D'Alema. E ci dicono che l'indomani, in direzione, dovremo pronunciare i discorsi per formalizzare le candidature. Torno a casa e ho la conferma che mia moglie e le bambine non vedono con nessun favore l'ipotesi che io diventi segretario. Flavia è addirittura terrorizzata all'idea di comparire sui giornali. Martina, la rnia bambina più grande che ha sette anni, sta guardando la televisione, sente parlare delle nostre candidature e mi fa: "Papà, quella cosa che dicono in Tv non la devi fare. Tu devi rimanere al giornale"».
Martina ha sei mesi meno di Giulia, la primogenita di
D~Alema- Vittoria, la piccola di Veltroni, ha sei mesi in meno di Francesco, il piccolo di D'Alema che ha quattro anni. Le due famiglie si frequentano spesso, i bambini sono amici.
Per questo, mentre Martina dice al papà che non deve fare «quella cosa», in casa di D'Alema Giulia è ancora più preoccupata: «Non è che se tu e zio Walter litigate io non potrò più vedere Martina?».
Nella casa di piazza Fiume, al quartiere Salario, Veltroni ha la scrivania completamente ingombrata da un computer, peraltro incompatibile con la rete telematica dell'«Unità», il giornale che dirige. Quando Walter deve scrivere, si sistema quindi in sala da pranzo, sotto le grandi librerie cariche di libri, naturalmente, ma anche delle amate videocassette con i grandi film.
La sera di lunedì 27 luglio aspetta, dunque, che moglie e figlie siano andate a letto e comincia a scrivere alle 23. Finisce alle due e mezzo del mattino e impiega tanto tempo perché il discorso è molto impegnativo e perché ogni tanto Walter accende la Tv per vedere le partite dei mondiali di calcio, anche se l'Italia non è impegnata.
D'Alema, invece, dorme sonni tranquilli. Il suo discorso l'ha scritto addirittura il giorno prima. Domenica mattina ha mandato moglie e figli al mare al Circeo e s'è goduta la pace domestica alla scrivania. Un discorso, per il consiglio nazionale, avrebbe dovuto farlo. E allora se l'è trovato pronto per la direzione.
Mercoledì 29 luglio dinanzi alla direzione del Pds, dove vengono ratificate le due candidature da proporre al consiglio nazionale, si presentano due uomini uniti dall'amicizia delle mogli e dei figli e separati, più che da sette anni di età, da cultura, carattere, esperienze e visione del partito e della società.
Entrambi sono nati e cresciuti nel partito e spesso si sono sviluppati in modo parallelo. («Quando io ero segretario nazionale della Federazione giovanile comunista, Walter dirigeva la gioventù comunista romana» racconta D'Alema. «Quando io ero responsabile della propaganda, Walter dirigeva il settore della stampa.») Eppure, mentre D'Alema
208 209 guardava alla società con gli occhi del partito, Veltroni si sforzava di guardare al partito con gli occhi della società.
Al partito D'Alema si presenta sugli attenti a 13 anni, il 2 dicembre 1962, al congresso: non porta i baffi per ragioni d'età, ma colpiscono i suoi riccioli bruni sopra la divisa da «pioniere», mentre reca ai compagni il saluto della sua organizzazione e Togliatti lo applaude «come Leopoldo II d'Asburgo-Lorena applaudiva il piccolo Mozart», secondo il felice parallelo tracciato su «Panorama» da Fiamma Nirenstein. Alla Normale di Pisa la formazione marxista gli viene affinata da un «comunista pensoso» come Nicola Badaloni. («E l'unica vittoria della mia vita» gli dirà con gli occhi lucidi il vecchio filosofo subito dopo l'elezione del 1° luglio '94.) Ma il contatto con l'apparato awiene tra il '76 e 1'80 quando D'Alema dirige la Federazione giovanile comunista. Sono
anni intensi e talvolta terribili per l'Italia e per il Pci di Enrico Berlinguer. Dentro c'è di tutto: la nascita e la morte del compromesso storico, la contestazione di Lama all'Università di Roma a opera degli autonomi, l'occupazione militar-goliardica che gli stessi autonomi fanno dell'inviolabile Bologna, la denuncia drammatica del terrorismo da parte del Pci dopo l'assassinio di Guido Rossa, il sequestro e la morte di Moro, l'ascesa di Craxi e la rottura del patto tra De Martino e Berlinguer...
E dunque già un dirigente navigato quello che va a dirigere per alcuni anni la difficile federazione pugliese: qui trova il suo collegio elettorale e qui nasce il vezzo del «deputato di Gallipoli» (terra del futuro segretario dei Popolari, Rocco Buttiglione). Al congresso di Firenze dell'86, D'Alema si presenta con la fama di dirigente «duro e puro» che conosce bene l'acqua in cui nuota: tanto bene da saper alternare lo stile libero, nei momenti in cui serve lo scatto, alla rana, lo stile in cui il risultato è legato anche a una certa capacità di nuotare sott'acqua. Qui D'Alema si dice sottoposto alla «supervisione del superbaffo occhettista», come scrive Giampaolo Pansa, che del giovane responsabile dell'organizzazione del partito (il ruolo che consacra D'Alema come uomo d'apparato) scrive questo edificante ritratto: «Gerarchetto intelligente, intollerante, saccente, supponente, gelido, attento a non scomporsi mai, un giovane sughero ben piazzato nelle acque morte del centro del partito».
Ma della tutela di Occhetto, D'Alema deve imparare presto a fare a meno se nell'87 «Panorama» lo saluta con questo titolo: «D'Alema: sarò io il Massimo? E il giovane, potente
capo dell'apparato comunista, nemico di miglioristi e socialisti. Emancipatosi da Occhetto, ha già in mente il Pci del Duemila: la fotocopia di quello di Berlinguer». Il giornale insiste sulle similitudini tra il leader carismatico e il giovanissimo delfino. Aspetti caratteriali come la vita schiva, il modo di vestire sobrio, il sorriso non frequente (ma diventerà frequentissimo nella nuova strategia d'immagine successiva alla elezione alla segreteria). E al tempo stesso l'insistenza un po' ossessiva sulla «diversità comunista» - scrive «Panorama» nell'87 - «il disprezzo per chi non è d'accordo con lui, l'aria di chi ne sa di più e mette soggezione».
In realtà, dall'estate del '94, D'Alema sembra assai migliore della sua immagine. E se non esiste dirigente che dalla morte di Berlinguer in poi non se ne sia dichiarato emulo, c'è da aspettarsi, come ci dirà lui stesso, che D'Alema si giocherà la sua leadership proprio nella costruzione di un nuovo rapporto con i cattolici. Non nel condizionamento egemonico e consociativo che fu il frutto degli anni di Berlinguer, largamente sopravvissuto al compromesso storico, ma in una condizione reale di parità e, paradossalmente, con un occhio preferenziale proprio verso quell'area moderata del partito che negli ultimi giorni del luglio '94 ha portato Rocco Buttiglione alla guida del Partito popolare.
Walter? Si iscrisse giovanissimo alla direzione del Pci
Nonostante D'Alema, come abbiamo visto, ami presentare politicamente Veltroni come il fratello minore, le differenze tra i due cominciano proprio nell'approccio iniziale con la politica. Figlio del grande Vittorio, che mise in piedi negli anni Cinquanta la prima redazione radiocronache della Rai per
diventare il primo direttore del Tg alla nascita della televisione nel '54, Walter da ragazzo vuole fare il regista. E lascia
210
111
211 l'Istituto sperimentale di cinematografia per awicinarsi alla politica solo dopo una terribile nottata di incubi e mal di testa.
Fosse vivo, Giancarlo Pajetta ripeterebbe per lui la micidiale battuta inventata per Berlinguer: «Si iscrisse giovanissimo alla direzione del partito». Perché Walter è come quei giovani generali dalla carriera fulminante che hanno maturato i gradi senza muoversi dallo stato maggiore. La natura del giovanotto sta proprio in questo: il partito è un terminale della società e non viceversa. E che cosa produce di nuovo la società negli anni Ottanta quando il giovane Veltroni si occupa di stampa per il Bottegone? Produce la Fininvest e la lotta all'ultimo sangue tra il Biscione di Arcore e il Cavallo di viale Mazzini. Il giovane dirigente comunista capisce subito la posta in gioco. E merito suo se nell'87 il Pci entra a vele spiegate nella Rai conquistando Tg3, Rai Tre e una serie di posizioni di controllo e di potere molto ramificate e assai meno espugnabili di quelle conquistate nei decenni dai partiti di maggioranza. Ed è merito suo, soprattutto, aver capito prima degli altri quale influenza hanno esercitato certi programmi sui valori degli italiani. «I miei compagni» ama dire Veltroni «Sl affannano a cronometrare quanti secondi ci danno i Tg della Fininvest. Bisogna chiedersi invece come Dallas e Beautiful abbiano cambiato gli italiani.»
Se in uno scenario di fantapolitica Berlusconi piantasse tutto per tornare alla Fininvest e Veltroni piantasse tutto per mettersi sul mercato come cervello televisivo, il primo potrebbe affidargli tranquillamente la direzione di una delle sue reti. E se l'assunzione fosse invece compiuta dalla Rai, c'è da giurare che la prograrnmazione diretta da Veltroni sarebbe certamente più aperta di quella proposta negli ultimi anni da una rete, pur innovativa, come Rai Tre.
Nella sua piccola stanza di direttore dell'«Unità», Veltroni conserva manifesti di Bob Kennedy e di Anna Magnani. E attentissimo a tutte le oscillazioni sociali percepibili attraverso i sismografi del cinema americano, mentre i suoi compagni trascorrono intere giornate a discutere gli ordini del giorno di Francesco Maselli. Indossa le camicie Brooks Brothers, mentre non sarà certo con l'ortodosso D'Alema che lo stile di sartoria di Botteghe Oscure farun decollo irresistibile. E se Susanna Tamaro nell'estate del '94 sfonda le cinquecentomila copie con Va' dove ti porta il cuore, Veltroni tiene il libro sul comodino anche nelle inquiete notti del consiglio nazionale, laddove un uomo che pure guardava al futuro come Enrico Berlinguer teneva sorprendentemente sul suo tavolo di lavoro al congresso di Roma del '79 una copia ben gualcita e assimilata del saggio di Lenin sulla scuola.
Si arriva così al Consiglio nazionale che si tiene in una sede inedita, l'auditorium della Fiera di Roma, alle porte dell'Eur. Nel suo discorso, Veltroni awerte i compagni: «Noi vinceremo solo se saremo più moderni della destra». E per rintuzzare le accuse di «clintonismo», dice: «A me interessa la sinistra occidentale che cerca la difficile via del cambiamento». Lui riesce a mettere insieme a Clinton e a un presi-
dente assai meno controverso come Roosevelt, la sinistra di Palme e di Brandt, quella inglese di Blair e quella sudafricana di Mandela e, sopra tutti, «l'innovazione straordinaria con la quale Berlinguer cambiò il partito».
Così Veltroni si copre da tutte le parti. «Eppure ho parlato per dire quello che penso, non per convincere la platea» mi dirà più tardi. «Conosco bene i riti della comunità, le parole chiave del cerimoniale. Ma deliberatamente non ne ho fatto uso.» D'Alema sa che il punto debole dell'amico-awersario è proprio l'identità da dare al partito, identità nella quale la base si rannicchia proprio nei momenti difficili come questo. E dice con crudezza: «Io temo il prevalere di una concezione che ci spinge verso un appannamento della nostra identità, mossa dall'illusione che se si appanna questa identità sarà più facile convergere al centro. Temo il prevalere di una sorta di sinistra elettorale, d'opinione, non costruita nella società e negli interessi. Una sinistra che rischierebbe di lasciare senza rappresentanza le forze sociali, del lavoro, spingendo il nostro mondo nel settarismo e nella subalternità».
Queste parole, probabilmente, suoneranno decisive. La notte tra il giovedì e il venerdì del voto trascorre tranquilla ai due capi di Roma dove abitano Veltroni e D'Alema. Flavia Veltroni partecipa all'attesa del marito con affettuosa premura, ma senza esagerare. «Non dovrei essere più teso, più coinvolto?» si chiede Veltroni. «Non è che un giorno rni verrà una brutta malattia e mi spiegheranno che è dovuta a forti tensioni non scaricate al momento giusto?» Dettosi questo, il direttore dell'«Unità» se ne va in sala da pranzo a scrivere il discorso di replica, convinto di non avere nulla da rimprove-
rarsi. «Comunque andrà, andrà bene.»
Fra Trastevere e il Portuense, dove abita D'Alema, l'atmosfera è più o meno la stessa. Mentre Massimo scrive la sua replica («Stavolta deve essere concisa, non basta una scaletta»), la moglie, che insegna all'università, prepara la relazione per un convegno di storici.
L'indomani, primo giorno di luglio, «l'Unità», che ha fatto sforzi ammirevoli per non tradire la doverosa simpatia per il proprio direttore, dà l'apertura alla crisi della Rai. «Si dimettono i professori. Il governo occupa la Rai.» Il titolo sul consiglio nazionale è nella parte bassa della pagina (Veltroni o D'Alerna? Oggi si vota), arricchito da una foto in cui zio Walter e zio Massimo, per dirla con le loro figlie, si stringono la mano sorridendo.
In un paio d'ore si consuma il rito. Le repliche, il voto, una maggioranza per D'Alema superiore a ogni attesa.
Veltroni siede pallidissimo in prima fila. Cerca di sorridere, ma sul momento la botta è forte. «Che cosa c'è di più bello che dirigere un giornale?» gli dico cercando d'incoraggiarlo. Poi accompagno D'Alema alle Botteghe Oscure perché alla Fiera di Roma è impossibile fare due chiacchiere in pace. («Guarda che casino. Questo è il Pds, non il vecchio Partito comunista italiano» mi dice il nuovo segretario con una battuta che nasconde convinzioni profonde.)
«La vittoria di Massimo? Sta in questa borsa...»
Al Bottegone saliamo in terrazza. Il panorama di Roma è
straordinario, ma il luogo mi pare poco utilizzato. «Vedi questi mattoni?» dice D'Alema. «Stanno qui dal '56. Li utilizzarono i nostri compagni quando il palazzo fu attaccato dai fascisti dopo i fatti d'Ungheria. Durante la grande nevicata di quell'anno, queste pile di mattoni furono sommerse e ogni tanto qualcuno andava a batterci.»
D'Alema si china: «Guarda, ci sono nate delle piantine, intorno».
Si rialza e mormora, quasi a dare con una battuta il senso di una svolta annunciata: «Li faremo rimuovere, questi mattoni».
Poco fa, uscendo dalla Fiera di Roma, uno dei funzionari della segreteria del partito, dalemiano di ferro, mi ha detto mostrandomi una borsa nera: «La vedi questa? Sta tutto qui dentro. Tutto che? La vittoria di Massimo. Tutta la strategia d'attacco per la conquista della segreteria. Voto dopo voto. Hai sentito la replica? Massimo ha fatto un discorso da statista. Hai capito? Da statista. Veltroni? Parla troppo di America, di televisione... Sai in quanti l'hanno lasciato al momento del voto? Una settantina...».
Eppure D'Alema nega di essere stato eletto dall'apparato: «Che garanzie vuoi che dia il segretario ai funzionari del partito, oltre allo stipendio? No, nel nostro consiglio nazionale ci sono più professori universitari che segretari di federazione. Non è stato un voto dell'apparato, ma di un organismo dirigente. E un concetto molto più complesso». (Diverso è il parere di Veltroni: «Sapevo che in consiglio nazionale
avrei perso. E un organismo formatosi nel '91 sulla base delle vecchie mozioni: Ingrao e Tortorella da una parte con i comunisti democratici, Napolitano e Macaluso dall'altra con i riformisti. Bassolino per conto suo... Il voto è stato frutto di questi schieramenti e di questa logica. Un voto di autoprotezione dell'apparato? Non credo. Eleggendo D'Alema, il consiglio nazionale ha voluto garantire una strutturazione del partito maggiore di quella che avrei potuto offrire io. Ma è difficile immaginare che il Pds possa arroccarsi su se stes-
so».)
Osserva D'Alema: «Nei miei confronti c'era prevenzione, una sensazione di chiusura. Qualcuno diceva, anche tra i compagni, che sono un trinariciuto. Poi hanno ascoltato i miei discorsi e si sono ricreduti in molti. Hanno visto che insistevo sulla volontà di cambiare, di innovare. Molti sono venuti da me e mi hanno detto: mi hai convinto. Uno dei rniei invece, mi ha detto che non mi avrebbe votato: non gli è piaciuta la mia posizione sulla scuola, là dove dico che bisogna pensare a un sistema pubblico del quale possano far parte anche le scuole religiose».
Parla di due amministratori delegati per il partito e mi dice che, se Veltroni vuole, può fargli da vicesegretario anche conservando la direzione dell'«Unità».
Veltroni sente la notizia al Tgl delle 20, mentre ha un dito intinto in un enorme barattolo di Nutella regalatogli come premio di consolazione dai suoi compagni di lavoro all'«Unità». E arrivato al giornale nel primo pomeriggio dopo aver pranzato a casa con le bambine per tranquillizzarle
sulle vacanze: «Zio Massimo ci consente di andare al mare».
Poi si trasferisce nella galleria di via Due Macelli. «Convoco tutti nella stanza delle riunioni. Assumo un aspetto molto grave e tirato. I miei colleghi mi guardano preoccupati. Qualcuno pensa che la botta per me sia stata più forte del previsto. Quando ci son tutti, comincio a parlare: debbo comunicarvi una decisione molto grave... tiro fuori di tasca un tovagliolo e me lo annodo al collo. Avevo scommesso con la redazione una cena per ciascun redattore sul fatto che non sarei stato eletto. E adesso avevo la ferma intenzione di farmela pagare.»
Nel fine settimana, D'Alema corre al mare nel suo collegio pugliese di Gallipoli, mentre Veltroni si accontenta della piscina del Circolo dei deputati.
Il lunedì nella sede dell'«Unità» si presenta D'Alema. Si chiude per un'ora nella stanza del direttore e propone a Veltroni la vicesegreteria o qualunque altra cosa voglia fare. Mentre Simonetta, che divide con Patrizia la cura della segreteria di Veltroni, porta due caffè, il giovane direttore ringrazia e dice che «l'Unità» gli basta e gli avanza per costruire la coalizione dei democratici, una sorta di centro-sinistra radicalmente rinnovato a cui pensa da tempo. D'Alema accetta la decisione di Veltroni e dice di condividere la linea politica che il direttore vuole dare al giornale. I due si promettono rinnovata lealtà, affermano che nessuno dei due farà a meno dell'altro e passano nella stanza della redazione politica per un brindisi generale.
Lo sforzo che si propone Massimo D'Alema è gigantesco: andare incontro al centro moderato con l'orgoglio del passato comunista e la piena rivendicazione delle scelte compiute dal Pds.
«Che cosa è cambiato nel passaggio dal Pci al Pds? E cambiata la forma-partito, anche con effetti negativi. La nostra vita interna è mutata radicalmente col passaggio dal centralismo democratico alla divisione in correnti. La scissione non è stata cosa da poco: ci ha portato via uno zoccolo duro che aveva una sua forza morale e l'orgoglio della militanza, ma rappresentava anche un freno all'innovazione politica. Per queStO Occhetto non si è fermato. C'è stato poi un cambiamento di cultura politica su un punto centrale. Il Pci era un partito proporzionalista e centralista. Il Pds è stato uno dei motori del referendum e - attraverso il referendum - del sistema politico italiano. Abbiamo fatto da supporto a Segni che senza di noi non avrebbe vinto.»
«Venne Segni a dirmi: non ce la facciamo»
«Tra l'autunno dell'89 e l'inizio del '90,» testimonia Occhetto nel nostro incontro «mentre nel Pci infuria la battaglia sul nome e sulla identità della formazione politica che avrebbe dovuto prenderne il posto, incontro Mario Segni per vedere se possiamo dargli una mano nella raccolta delle firme per il referendum. Gli dico: "Mario, la nostra è una tradizione proporzionalista, ma qui sta awenendo un terremoto politico; non so che cosa succederà, ma noi ti daremo una mano perché non ha senso cambiare la struttura del nostro partito, senza cambiare il sistema politico italiano".
Un anno dopo, quando la raccolta di firme ristagna, Segni torna da me con Scoppola e Ciccardini e mi dice: "Non ce la facciamo". Lo incoraggio, gli dico che il nostro impegno sarà rafforzato. Per questa continua azione comune, credo che rimarrà storica l'immagine del giorno della vittoria, quando un uomo moderato e di destra come Segni esce dalla sede del movimento referendario di largo del Nazareno sottobraccio a un uomo di sinistra come me, per awiarci insieme a fare la conferenza stampa sotto lo sguardo delle televisioni di tutto il mondo.»
«Siamo stati, dunque, il primo grande partito popolare che si è avviato decisamente verso il cambiamento» riprende D'Alema. «Era matura la base per questa svolta? Sì, dopo lo shock iniziale, il cambiamento è stato largamente compreso.»
D'Alema spiega così le sconfitte elettorali della primavera '94: «Non ci siamo resi conto del fatto che il crollo del vecchio sistema non eliminava il peso determinante del centro politico e sociale del paese. E invece, sia pur presentandosi in forme diverse, il centro è ancora l'ago della bilancia del sistema politico italiano. Ci siamo illusi dopo le elezioni dei sindaci nell'autunno del '93 che il centro fosse ormai definitivamente fuori gioco e che la partita fosse ormai ridotta a un confronto tra la destra e la sinistra. La novità dell'ingresso in politica di Berlusconi non sta solo nel suo ruolo di imprenditore televisivo e nell'uso che ha fatto delle Tv in campagna elettorale. Sta soprattutto nel fatto che ha colto al volo la disponibilità di una parte del vecchio centro di rendersi disponibile a una alleanza con la destra. Quando Berlusconi ha fatto questa operazione, l'alleanza dei progressisti avrebbe dovuto ri-
spondere aprendosi al centro democratico. Ma dinanzi alla profondità della crisi italiana, la nostra risposta è stata insufficiente. La nostra sconfitta riflette in modo speculare quella di Segni e Martinazzoli: hanno perso perché riproporre semplicemente la centralità del moderatismo cattolico è ormai insufficiente. Dobbiamo riconoscerlo con franchezza: l'unico elemento dawero innovativo della politica italiana negli ultimi tempi è stata l'intuizione di Berlusconi di far nascere intorno a Forza Italia una grande rappresentanza di destra di tipo europeo. Noi, eredi della vecchia sinistra politica, di fatto non proponevamo novità».
«E vero,» ammette Veltroni «abbiamo sottovalutato la possibilità che il centro si ricomponesse sotto le bandiere di Berlusconi e potesse allearsi con la destra. Nell'euforia della vittoria autunnale nelle grandi città, non abbiamo capito le dimensioni di quello che fin da allora si manifestava come un enorme fatto nuovo: i moderati erano pronti a votare per Fini e Alessandra Mussolini pur di non votare per noi. L'altra ragione per cui abbiamo perso nelle elezioni primaverili del ~94 è che siamo apparsi uno schieramento "contro". Berlusconi parlava di prospettive in positivo, noi di prospettive in negativo. Il Cavaliere è stato molto abile su due fronti. Da un lato, ha saputo tenere insieme due cavalli, come Lega e Alleanza nazionale, che marciavano in direzioni opposte. Dall'altro, tastando il polso al paese, ha capito che, dopo due anni di recessione, di Tangentopoli, di terremoto politico-istituzionale, la gente aveva una gran voglia di venirne fuori. E lui ha costruito un ponte di promesse e di illusioni per portare l'elettore moderato lontano dal fiume in piena. Il nostro errore? Tentare di abbattere il ponte di Berlusconi invece di costruirne noi uno più solido e più credibile. Il suo capolavo-
ro? Far passare la destra per innovatrice e la sinistra per conservatrice. E presentarsi, lui che viene dal vecchio, come il campione del nuovo.»
E, adesso, quale partito intendono costruire il «comunista» D'Alema e l'«americano» Veltroni? Entrambi convengono che non si possono vincere elezioni senza i voti del centro moderato di Buttiglione e degli scontenti dell'attuale maggioranza di governo.
«La sinistra» dice Veltroni «è chiamata a fare scelte strategiche senza le ambiguità che hanno caratterizzato la campagna elettorale. Nuove alleanze con Rifondazione comunista? Le nostre alleanze avranno tante anime, ma con Rifondazione mi pare che siamo arrivati a una tale differenza... A mio giudizio dovremo muoverci su tre dimensioni. 1. Il Pds deve diventare un partito dinamico, aperto, consapevole di non essere tutta la sinistra italiana. 2. Il Polo progressista deve avere una sua caratura autonoma: basta con i cespugli all'ombra della Quercia. 3. E indispensabile guardare a un centro che parta da Ciampi per arrivare fino ai cattolici. Quali cattolici? Tu mi chiedi se Prodi e Mattarella, Rosy Bindi e Tina Anselmi siano sufficienti per vincere le elezioni. Con questi l'alleanza è più facile, ma dobbiamo andare a cercare altri voti a destra. Perché a destra non c'è andata soltanto gente di destra. Ci sono andati tanti moderati che si son sentiti costretti a compiere questa scelta...»
Sia Veltroni che D'Alema contano di giocare la carta moderata fin dal primo appuntamento elettorale. Ed entrambi ritengono che la coalizione dei democratici «destinata a pren-
dere immediatamente il posto della vecchia alleanza dei progressisti» non debba essere guidata dal segretario del Pds.
Su questo dissente Occhetto per orgoglio di appartenenza: «Non è detto che il leader della nuova alleanza debba essere il segretario del Pds. Ma perché escluderlo pregiudizialmente?».
Sui rapporti con Rifondazione, D'Alema è più sfumato di Veltroni, ma ugualmente chiaro se si va appena oltre le parole: «E evidente che la coalizione dei democratici debba andare ben al di là dell'alleanza dei progressisti. E leader non deve esserne il segretario del Pds, né il segretario di qualunque altro partito. La scelta del leader, che alle prossime elezioni politiche intendiamo proporre come primo ministro, va fatta attraverso elezioni primarie. Con lo stesso criterio dovrà avvenire la selezione dei candidati, senza le lottizzazioni che si sono avute anche da noi».
«Cacciari? E chi è, Pico della Mirandola?»
La linea dell'apertura a tutto campo è sposata in pieno da Massimo Cacciari, sindaco di Venezia e professore di Estetica all'università, che una parte molto consistente dell'elettorato di sinistra vede come l'uomo nuovo capace di abbattere i vecchi steccati. Cacciari nasconde benissimo i suoi cinquant'anni nella fluente cornice di lunga capigliatura e barba nerissima, centrata da intensi occhi grigi. Per questo piace alle donne, ma è riuscito a restare celibe, e nessuno ormai si scandalizza più se lo vede preferire una conferenza ai domenicani di Firenze il venerdì sera in cui dovrebbe chiudere la campagna elettorale a Venezia o salire in ritiro sul monte
Athos a scrivere in cella un capitolo delle Icone della legge sotto lo sguardo diffidente dei monaci. E stato deputato del Pci per due legislature tra il '76 e 1'83, in tempo per occuparsi di chimica procurandosi l'arnmirata attenzione degli economisti ufficiali di Botteghe Oscure e la dispettosa ironia di Napoleone Colajanni che nel maggio del '94 ha dichiarato
«Espresso»: «Come si fa a sapere di chimica, scrivere di filosofia, comporre libretti d'opera e capire di politica? E chi è, Pico della Mirandola?». Ignaro che il paragone può sembrare perfino riduttivo all'onnisciente sindaco di Venezia. In gioventù Cacciari ha avuto Toni Negri come compagno d'avventura politica, ha militato in Potere operaio e deliziato gli operai del Petrolchimico di Marghera con tazebao zeppi di citazioni di Marx in tedesco. Oggi prova a gestire la città più bella-e-impossibile del mondo con un certo realismo, ma è evidente che i suoi interessi vanno assai oltre la Laguna. Tanto è vero che nel grande studio di Ca' Farsetti dove mi riceve il pomeriggio del 16 luglio in cui Venezia festeggia il Redentore, vedo molte copie della «Repubblica» ma non c'è ombra del «Gazzettino».
Cacciari parla con passione dei problemi di Venezia («Porto Marghera ne ha tre volte quelli di Bagnoli») e guida la rivolta dei sindaci contro i lacci e i lacciuoli della burocrazia. («Perché debbo sottoporre i fanghi dei canali da dragare a cento analisi diverse, quando sappiamo benissimo che a Venezia non troveremo l'uranio arricchito?»)
Ma, mentre in anticamera il presidente delle Ferrovie Lorenzo Necci lo aspetta per proporgli lo spostamento della
stazione di Santa Lucia alla stazione marittima, Cacciari s'illumina quando gli chiedi lumi sul futuro politico della sinistra: «D'Alema è un uomo intelligente. O cambia tutto o si rassegna a gestire una rendita di soprawivenza. Il Pds deve far germogliare una nuova e più vasta alleanza, mantenendo ben distinta la forma partito dalla coalizione e dismettendo ogni pretesa egemonica. La sinistra ha vinto nei comuni importanti come Venezia perché qui abbiamo impiegato tre mesi per spiegare alla gente il nostro programma, mentre al centro non s'è fatto niente del genere e le candidature sono state scelte seguendo le peggiori tradizioni del centralismo democratico. La sinistra ha confuso questioni numeriche e questioni politiche. La partecipazione dei cattolici democratici alla costruzione di un programma è fondamentale per ragioni ideali e politiche indipendenti dal loro peso numerico. E invece siamo tornati alle alleanze di togliattiana memoria, strumentali e senza alcun fermento culturale che le giustificasse.
220 221 La sinistra non è stata finora capace di fare un discorso approfondito su questo papato, sul cattolicesimo di oggi, sulla Chiesa di oggi. Tutto si vede in termini di rapporti tra partiti politici. Nessuno di noi si chiede che cosa voglia dire essere cattolico oggi. Chi si interroga, qui nel Veneto, sulle ragioni per cui si è passati, nella città di Padova, dal 55 per cento di voti alla Dc al 55 per cento di voti a Forza Italia che ha fatto eleggere deputato Emma Bonino? La Bonino, ha capito? La protagonista delle battaglie più clamorose in favore del divorzio e dell'aborto. Che diavolo sta succedendo? O si mette mano subito alla situazione pensando a un leader di coalizione che non sia il leader di un partito, oppure Berlusconi
resterà al potere per tutta la vita».
Si accendono gli occhi grigi di Massimo Cacciari. Dal Canal Grande salgono le note strazianti di O sole mío... da quattro gondole affiancate e gremite di giapponesi immobili che hanno ormai perso conoscenza cotti dal sole a quaranta gradi e dalle stonature del gondoliere. Cacciari mi accompagna alla porta e, mentre faccio staffetta con Necci, il sindaco mormora: «Dubito che D'Alema possa accettare un ruolo residuale. Sulla sua elezione hanno pesato le preoccupazioni dell'apparato. Ma anche Gorbaciov fu eletto per ragioni di continuità e poi ha fatto quel che ha fatto. Nella storia ci sono destini ai quali non si può sfuggire...».
VII
Un filosofo tra i Popolari
«Il capofamiglia è morto, la vedova vuole che tutto rimanga come l'ha lasciato la buonanima. Non si pagano debiti, non si fanno acquisti, non si spostano mobili. Qualcuno pensa che per far nascere il nuovo Partito popolare sia stato sufficiente che la sinistra abbia espulso una parte del vecchio. E invece se vogliamo rinnovarci dawero, tutti quanti - sinistra compresa - dobbiamo cambiare pelle. E per cambiare pelle il partito ha bisogno di una guida. Chi? Io, per esempio.»
E una mattina di maggio e al telefono Rocco Buttiglione parla, si diceva una volta, come un libro stampato. Da uno che di mestiere fa il filosofo, ci si aspetta di tutto. E invece il fratello minore di Angela (per anni si è sentito additare così)
si esprime con sorprendente chiarezza e con una velocità di esposizione che farebbe impallidire Sandro Ciotti. Tanto che la penna corre sul taccuino in rassegnato ritardo sulla lucida esposizione del professore.
L'avevo incontrato una sola volta, nei camerini di Maurizio Costanzo. Era venuto per fare un «Uno contro tutti» preelettorale.
«Come va?» gli avevo chiesto. «Siamo in recupero» aveva risposto. «Ben per voi. Perché tutti parlano bene del Ppi, ma sento poca gente disposta a votarlo. Non c'è il rischio che finiate come il Partito d'Azione, fatto di gente molto per bene, ma così piccolo da non avere nessun rilievo politico?»
Buttiglione aveva scosso la testa con un sorriso ottimista, guadagnando la scena di Costanzo. Ma in cuor suo sapeva che sarebbe andata come è andata. E adesso, già prima delle elezioni europee, espone con micidiale chiarezza il suo piano di battaglia.
«Sarà già molto se riusciremo a introdurre le elezioni a doppio turno, ma in ogni caso il centro statico non può esistere. Il Partito popolare è molto più grande dei suoi deputati. Se Ppi e Patto per l'Italia si fossero presentati dall'una o dall'altra parte, avrebbero avuto 120/130 deputati decisivi per il destino di questo paese. Con sei milioni di voti e 46 deputati, ogni deputato c'è costato 120/130 mila voti. La Lega ha avuto tre milioni di voti, la metà dei nostri, e centoventidue deputati. Sbaglia chi dice che si sacrifica l'identità del partito appoggiandosi ad una aggregazione. E la cultura del partito, la sua storia a garantirne l'identità.»
E così il professore ha liquidato il primo dei tre pregiudizi che a suo awiso frenano il nuovo partito popolare: la cultura della proporzionale, «la cultura per la quale si era abituati prima a prendere voti e solo dopo a decidere cosa farne».
Ne restano altri due. «C'è la cultura del keinesismo italiano» dice Buttiglione. «L'idea che al deficit di offerta di lavoro si faccia fronte con una offerta aggiuntiva dello Stato e che al deficit di solidarietà del sistema e della società più civile si faccia fronte allo stesso modo.
E invece lo Stato che deve stimolare le imprese a dare lavoro a tutti stabilendo un circuito virtuoso tra Stato, sistema del le famiglie della società civile e individui per creare solidarietà. La scenetta classica è quella dell'elettore che dice al deputato: "Ho votato sempre per lei, non le ho mai chiesto niente, trovi un lavoro a mio figlio". Si costringe il deputato a gestire il problema socialmente (creare un nuovo posto di lavoro) e in maniera clientelare (salvare il proprio posto in Parlamento). Invece il discorso dovrebbe essere il seguente: "Caro onorevole, molti giovani, tra cui mio figlio, non trovano lavoro. Che cosa fa il sistema delle imprese per produrre nuovi posti?". Berlusconi sostiene le stesse cose? Io non ho mai detto che non possa dirle, ma non è vero queste cose le abbia dette tutte lui e non è vero che le abbia dette per primo.»
Il terzo complesso che secondo Buttiglione i Popolari dovrebbero scrollarsi di dosso è la cultura dell'unità antifascista.
«Il fascismo» dice il professore, senza nemmeno conceder-
si una boccata al toscano che deve pur avere da qualche parte, «è stato a lungo dipinto come il male metafisico. L'antifascismo era il bene metafisico. Il comunismo è antifascista ed è quindi buono in quanto tale. L'orizzonte politico italiano è stato dominato a lungo dalla sintesi di tutte le forze antifasciste. Il comunismo superato dialetticamente, ma non rinnegato, è un concetto della cultura azionista che ha molto influenzato la cultura democristiana. I partiti del Cln, come detentori della legittimità antifascista, hanno esercitato una tutela sulla società italiana perché questa ha accettato o comunque ha subìto il fascismo. Al contrario, il comunismo non si lascia assorbire in nessuna sintesi ulteriore, ma si dissolve davanti a una resistenza. Oggi la società civile non accetta più la tutela e il fascismo va rifiutato con motivazioni diverse. L'antifascismo dei cattolici è diventato l'antifascismo della Costituzione come rifiuto del mito della violenza e della forza e come affermazione del primato della persona, dei diritti naturali e delle società naturali che precedono lo Stato. Questo non è solo antifascismo. E antitotalitarismo e quindi anche anticomunismo, pur se è vero che in Italia la forma totalitaria riuscita ad affermarsi è stata il fascismo. Noi dobbiamo dunque portare Alleanza nazionale e fare i conti con il proprio passato e a rompere con il fascismo. Dobbiamo impedire che Alleanza nazionale finisca per trasformare il mito antifascista in un rilancio oggettivo del fascismo. Il fascismo non è un male metafisico, ma è un male storico.»
«Berlusconi? Portiamolo al centro~
Rocco Buttiglione adesso fa una pausa, sento attraverso la cornetta che finalmente dà soddisfazione al suo frustratissimo mezzo toscano e passa alle conclusioni politiche.
«Noi dobbiamo organizzare un'area moderata. A chi ci accusa di volerci spostare a destra, rispondo che noi siamo il centro e che se facciamo una aggregazione moderata, la fondiamo sui contenuti del centro. E vero, siamo divisi sul giudizio su Forza Italia. Alcuni di noi dicono che Berlusconi rappresenta una destra pericolosa. Io invece considero il movimento di Berlusconi una aggregazione di centro che è andata a destra. Sbagliando. Lui ha avuto una vittoria numerica, ma gli sarà molto difficile ottenere una vittoria politica. Noi dobbiamo lavorare per permettergli di ritornare al centro.»
Poi assesta una botta alla sinistra del suo partito: «Gramsci diceva che esiste il cadornismo politico: si verifica quando i capi portano i loro soldati a fare battaglie che sono perse in partenza. E invece i capi debbono essere consapevoli della fatica e dei sacrifici che chiedono a quelli che seguono. E debbono stare attenti a non rompere il vincolo di disciplina. No, la rnia non è una minaccia di scissione. Sono nato in una famiglia di militari che hanno servito per disciplina anche nelle guerre che non condividevano. Si deve seguire anche Cadorna? I miei mi hanno insegnato a seguire la bandiera. Io rispetterei chi tra noi dicesse che bisogna schierarsi con la sinistra. Ma finora non l'ha fatto nessuno e comunque sarebbe sbagliato. Le ragioni? Il nostro è un elettorato moderato e difficilmente ci seguirebbe. Per andare a sinistra dovremmo avere una maggioranza molto forte, molto unita e compiere una scelta unitaria: noi siamo l'esatto contrario. Eppoi non faremmo gli interessi del paese. In futuro dovranno nascere due poli, uno fondato su una sinistra moderata, l'altro sul
centro. Se noi siamo il centro, non possiamo andare a sinistra. Dobbiamo invece aiutare Alleanza democratica e una parte del Pds a costruire una sinistra di governo».
E intanto propone di allearsi con Fini e Berlusconi per combattere il federalismo della Lega, con Bossi e Berlusconi per favorire una definitiva revisione del fascismo da parte di Fini e infine con Fini e Bossi per togliere un po' di potere televisivo al presidente del Consiglio.
Questo mi dice Rocco Buttiglione, professore di filosofia nell'ateneo di Teramo e prorettore dell'Università del Lichtenstein, in una bella mattinata di maggio. Rosetta Jervolino regge il Ppi con Mancino, Andreatta e la sinistra del partito. Occhetto è ancora segretario del Pds.
Mancano ancora due mesi all'elezione di D'Alema, tre a quella di Buttiglione e poco più al famoso «vertice del limoncello» tenuto in agosto dai due capi dell'opposizione sulla spiaggia di Gallipoli e replicato in settembre alla festa di «Cuore» con tanta intensità da far ingelosire Bertinotti.
Ma prima di scrivere le puntate successive, dobbiamo ricordare rapidamente quelle precedenti.
«Cavaliere, la politica non si fa con il pallottoliere.» Così nell'autunno del '93 Mino Martinazzoli si congeda da Silvio Berlusconi dopo il dessert fatto servire da Gianni Letta nella sua casa della Camilluccia.
Come abbiamo visto nel primo capitolo, Martinazzoli non ha mai realmente considerato Berlusconi un possibile part-
ner politico. Li divide tutto: la formazione culturale e le regole di vita, il modo di pensare e quello di esprimersi. Li divide soprattutto, alla fine del '93, la valutazione sullo scenario politico che si aprirà con le elezioni politiche di primavera. Berlusconi, come sappiamo, parla a tutti in modo ossessivo del «modello Urbani»: se i moderati d'ogni confessione non lavorano insieme, le sinistre con un terzo dei voti prenderanno due terzi dei seggi nel nuovo Parlamento.
Martinazzoli è per vocazione un uomo di centro che guarda (volentieri) a sinistra. E convinto che le sinistre vinceranno. Ma è convintissimo che senza l'appoggio suo e di Mariotto Segni nessun governo sarà mai possibile. Il recuperato rapporto con Segni lo fa ben sperare. D'altra parte, come abbiamo visto nel capitolo iniziale, non ha portato avanti il discorso sulle alleanze perché giudica improponibile un patto con Fini e non realistico quello con un Bossi che ha fatto della crociata anti-Dc le fondamenta politiche della Lega. Dunque, alleanza obbligata con Segni e solo con Segni.
L'aeroplanino di Segni lascia la Dc
Paragoniamo per un momento il Patto Segni a uno di quegli aerei-giocattolo telecomandati da terra dall'irrequieto deputato di Sassari. La sua spettacolare esibizione sui tetti di Roma è durata esattamente sei mesi ed è stata seguita col fiato in gola da tutto il mondo politico. Mariotto ha fatto decollare il suo aeroplanino all'improwiso il 29 marzo 1993 da piazza del Gesù, sede centrale della Dc, dove era rimasto parcheg-
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227 giato - seppure con qualche inquietudine - per diciassette anni. «Il drammatico accelerarsi della crisi, soprattutto in questi ultimi giorni, mi ha definitivamente convinto che il tentativo di riformare dall'interno questo partito è senza alcuna speranza... Non posso lasciare il dubbio che una vittoria del Sì possa contribuire in qualche modo a rafforzare i vecchi apparati.»
Il congedo viene vissuto da Martinazzoli come una pugnalata, proprio nei giorni in cui la Dc vive il momento più difficile della sua storia: alla legione degli inquisiti, s'è infatti da poche ore aggiunto uno degli uomini simbolo del partito, Giulio Andreotti, accusato dai giudici di Palermo di collusioni con la mafia.
Il decollo da piazza del Gesù viene salutato con il gelo dai partiti di governo («Ha propagandato sotto l'etichetta del modernismo vecchia merce già venduta dal padre» annota perfido il socialista Ugo Intini) e con entusiasmo da sinistra («E il fenomeno politico più rilevante degli ultimi anniscrive «l'Unità»).
Pochi giorni dopo, il 18 aprile, Segni polverizza i risultati già eccellenti conquistati il 9 giugno del '91 quando passò a grande maggioranza la proposta di preferenza unica contro il parere di Craxi che aveva invitato (incautamente) gli italiani ad andarsene al mare. I risultati del referendum per l'introduzione al Senato del sistema maggioritario sono trionfali. Segni è l'eroe nazionale. Cossiga va negli Stati Uniti a spiegare che in Italia dovrà nascere sulle ceneri della Dc una grande coalizione moderata, mentre a piazza del Gesù quasi
nessuno crede alla possibilità di un accordo con Lega e Msi e Occhetto, impazzito di gioia, grida alla folla progressista: «Clintoniani d'Italia, unitevi!».
Il segretario del Pds segue l'evoluzione dell'aeroplanino di Segni, convinto che prima o poi verrà ad atterrare nei pressi del Bottegone. Alleanza democratica, infatti, il raggruppamento politico pieno d'ideali ma anche di ambiguità nel quale Mariotto si trova con il pidiessino referendario Augusto Barbera e con Ferdinando Adornato, cucciolo diletto di Eugenio Scalfari, pende infatti più a sinistra che al centro. Ma il 28 settembre arriva un nuovo colpo d'ala: proprio quando sta planando verso il Bottegone, l'aeroplanino di Mariotto vi-
~ra bruscamente all'altezza del tappezziere Paganini e torna indietro. Occhetto poggia irritato il binocolo e dichiara: «Segni è la copertura di un Centro assai poco edificabile».
~a Mariotto non si perde d'animo: lasciato Occhetto, trova sulla sua strada Montanelli che gli mette a disposizione «il Giornale» e soprattutto la sua indiscutibile autorità sui rnoderati italiani per farne un vero leader aiutandolo a raccogliere il milione di firme che a Segni serve per dimostrare che le sue legioni non sono fatte, come quelle del Papa, di solo spirito.
Così, quando Martinazzoli rifiuta le offerte di Berlusconi, gli italiani moderati che ignorano i disegni del Cavaliere sognano Mariotto presidente del Consiglio.
Tra il novembre e il dicembre del '93, nel giro di presenta-
zioni di Telecamera con vista, incontro soprattutto nel Veneto ex democristiano molti imprenditori e professionisti che hanno votato Lega, ma si dichiarano pronti ad abbandonare Bossi se al Centro Segni riuscirà a costruire qualcosa di solido. (Come è noto, voteranno per Berlusconi.)
A Martinazzoli, intanto, il simbolo della Dc comincia a pesare. Subito dopo il referendum di aprile, il segretario ha annunciato l'intenzione di rifondare in tempi brevi il Partito popolare di Sturzo. Ma i mesi passano e diventa sempre più difficile portare nella nuova formazione politica, pure depurata delle facce giudicate impresentabili, tutte le «componenti ideali» della vecchia Dc.
«Martinazzoli lavora per un governo Prodi»
All'inizio di dicembre, Martinazzoli riceve a piazza del Gesù quattro dirigenti dell'ala moderata del partito: Pier Ferdinando Casini, Clemente Mastella, Francesco d'Onofrio, Ombretta Fumagalli Carulli.
«Siamo preoccupati per la linea politica della segreteria» racconta Casini. «Manifestiamo a Martinazzoli il nostro timore che il futuro Partito popolare e il governo Ciampi si facciano mallevadori di un governo delle sinistre. Il segretario cerca di tranquillizzarci, ma noi restiamo convinti che si lavori per un governo Prodi o un Ciampibis aperti a sinistra.»
Casini afferma che le preoccupazioni del suo gruppo sono soltanto di tipo politico. «Il bipolarismo è ormai indispensabile. Eppoi Martinazzoli s'era impegnato a cedere il posto a Buttiglione e non l'ha fatto.»
Racconta Martinazzoli: «Quell'incontro awiene in un clima turbato da awenimenti maturati nelle due settimane precedenti. Casini e i suoi avevano presentato ai gruppi parlamentari un documento in disaccordo con la linea della segreteria. Gerardo Bianco, capogruppo alla Camera, scrisse allora un suo documento per fissare la rotta politica da seguire fino alle elezioni. Il documento di Bianco fu approvato a larga maggioranza. Il gruppo di Casini votò contro e nei giorni successivi ignorò la linea dettata da Bianco. Incontrarono anche altre forze politiche discutendo del loro documento, tant'è vero che telefonai a D'Onofrio per lamentarmi. Quando lo ricevo a piazza del Gesù, Casini e gli altri mi invitano a correggere la linea stabilita dal partito nella costituente del luglio precedente e ad allearci con la Lega e Forza Italia. Rispondo di no. Casini mi abbraccia e vanno via».
Il segretario non si rassegna e fa scendere in campo tre autorevoli capi storici della Dc: Forlani cerca di convincere Casini a restare nella casa madre, De Mita esercita pressioni su Mastella, Cossiga awicina il suo pupillo D'Onofrio.
Racconta ancora Casini: «Preghiamo Cossiga di fare da testimone del nostro travaglio, di verificare che andiamo verso la scissione non per le solite bizze interne di partito, ma per ragioni politiche. Cossiga va a trovare Martinazzoli a Brescia per proporgli di fare il leader di uno schieramento moderato da contrapporre al cartello dei progressisti. Al ritorno, ci dice di aver ascoltato molte belle parole, ma di aver constatato che la differenza che ci separa è incolmabile».
«Cossiga parla anche a me del suo tentativo,» testimonia Ciriaco De Mita «ma non ho mai capito se si è mosso per evitare la scissione o per accelerarla. Nel tardo autunno del '93, nei gruppi parlamentari democristiani c'è molta angoscia per le condizioni del partito e si sviluppa un forte risentimento contro Martinazzoli la cui direzione peraltro è assolutamente disastrosa. C'è una frustrazione diffusa. Molti parlamentari non si sentono rappresentati e diventa fortissima la tentazione di dar vita a un corpo distinto. In novembre, d'accordo col segretario, cerco di ridurre il numero di firme che stanno raccogliendosi nella fronda e cerco di alleggerire la formidabile pressione degli scontenti sui Gruppi. Ma la maggior parte dei deputati e dei senatori non si rasserena: non si sente rassicurata sulle ragioni della sua stessa presenza nel partito. Un malessere profondo nasce dalla constatazione che la ricerca del "nuovo" non mira a recuperare le vere ragioni della presenza politica dei democratici cristiani. La gran parte dei nostri si sente bollata come "vecchia", mentre vede esaltato come "nuovo" tutto ciò che ci è estraneo. Così i gruppi parlamentari vengono colti dal panico. Molti deputati hanno ormai deciso di non continuare l'attività politica, ma s'aspetterebbero un maggiore coinvolgimento. Le promesse s'alternano alle minacce e questo dilata lo spazio del disagio. Quando Martinazzoli mi chiede di intervenire per evitare l'uscita di Casini e degli altri dal partito, cerco di convincerli rassicurandoli sulle candidature. Mi obietta Mastella: come fai a rassicurare me se è in forse anche la tua candidatura? Così la rottura si consuma più per la forza degli eventi che per una decisione meditata con serenità e fermezza.»
Dice Casini: «Non è un problema di candidature. Martinazzoli in questo senso ci aveva rassicurato». Dice Martinaz-
zoli: «Anch'io credo che il problema sia eminentemente politico. Certo, tutti ormai hanno paura dello scontro diretto imposto dal maggioritario e cercano salvezza nel recupero proporzionale. Forse, se avessi proposto a tutti di fare i capilista... In ogni caso è Berlusconi il demiurgo della scissione. Non ci fosse la sua zattera pronta a raccogliere i profughi, nessuno si butterebbe dalla nave».
La Chiesa: «Evitate la scissione»
La Chiesa, da sempre favorevole all'unità politica dei cattolici, interviene in ogni modo per impedire che Casini e i suoi escano dal partito. Ci sono consultazioni continue, dirette e
230 231 indirette, con tutti i prelati che contano, dal segretario di Stato Angelo Sodano al presidente della Cei Camillo Ruini al segretario Dionigi Tettamanzi.
Il cardinal Ruini si chiude nel riserbo dopo la clamorosa sconfitta di tutti i candidati democristiani nei centri più importanti dove si vota a novembre (che schiaffo il ballottaggio a Roma di Fini e Rutelli). La sua posizione favorevole all'unità politica dei cattolici (e quindi alla Dc) viene da tempo contestata da parecchi vescovi all'interno della Cei. Ma la posizione di Ruini diventa inattaccabile il 10 gennaio quando il papa scrive una lettera ai vescovi italiani che gli osservatori più maliziosi giudicano ispirata dal vicario di Roma. Mai Giovanni Paolo II si era awicinato tanto alla politica italiana. Chi conosce il papa, sa peraltro che la sua formazione cultu-
rale e spirituale lo porta agli antipodi di qualunque controversia politica, anche se questa riguarda la sua amatissima Italia. Qualunque suo messaggio vola dunque più in alto di dove vorrebbero i lettori maliziosi. Certo, nella lettera del 10 gennaio parla di solidarietà in termini che fanno riflettere la Lega; parla di moralità pubblica e privata con parole che mettono a disagio più di un politico «cattolico» che magari ruba fino al sabato e la domenica va puntualissimo a messa; parla di diritti individuali in termini opposti ai valori tradizionali della sinistra. E se parla di «necessità» della presenza politica dei cattolici, pensa innanzitutto alla sua esperienza polacca. Mi disse nel novembre del '77 quando andai a trovarlo giovane cardinale nella sua Cracovia: «Qui i cattolici debbono lottare per ottenere ogni cosa: la carta per stampare i loro giornali e il permesso per costruire le loro chiese. Sono larghissima maggioranza nel paese e non hanno accesso in televisione. Nessuno di loro in ogni caso diventerà "direttore": ai cattolici sono negati fin dalla nascita posti di responsabilità». E dunque evidente che papa Wojt,vla consideri la presenza politica dei cattolici lo strumento indispensabile per la realizzazione dei valori in cui credono. E altrettanto evidente che quando scrive che «i laici cristiani devono testimoniare attraverso una presenza unita e coerente nel campo sociale e politico» lanci alla Dc un monito a non dividersi. I valori in cui credono i cattolici - dice in sostanza il papa - sono già così difflcili da realizzarsi quando si è uniti che la divisione, in qualunque paese, indebolirebbe la lotta.
Osserva subito Pier Ferdinando Casini (e la stessa cosa farà Irene Pivetti) che è importante restare uniti sui valori, anche se si milita in forze politiche diverse. Così quando la decisione di uscire dalla casa madre è presa, Casini dà per
scontata l'opposizione dell'«Awenire», il giornale dei vescovi italiani (che difatti arriva, fortissima), trema al pensiero di una scomunica vaticana, ma alla fine vede con sollievo che dall'«Osservatore Romano» non partono anatemi, né diretti, né indiretti. Il giornale del Vaticano dà infatti notizia della nascita del nuovo «soggetto politico~> pubblicando senza commenti tre righe a fondo pagina.
Muore la vecchia Dc e nasco~o due gemelli
La scissione avviene il 18 gennaio 1994, doloroso anniversario del messaggio «ai liberi e forti» lanciato da Luigi Sturzo per la fondazione del primo Partito popolare. Casini riunisce una trentina di parlamentari dissidenti nel rinnovato albergo della Minerva, a due passi dall'indisponibile albergo Santa Chiara dove la sera del 18 gennaio 1919 Sturzo «licenziò» la costituzione del partito. Dinanzi ai promotori regionali, Ombretta Fumagalli Carulli legge il documento di fondazione del Centro cristiano democratico.
Casini non parla di scissione, ma di parto gemellare della vecchia Dc. Il pomeriggio dello stesso giorno, infatti, negli austeri saloni di Palazzo Baldassini in via delle Coppelle presso la fondazione Sturzo nasce il nuovo Partito popolare italiano.
Fa da padrone di casa lo storico Gabriele De Rosa, presidente della fondazione e capo dei senatori dc. La cerimonia è sobria, la nascita formale del nuovo partito è rinviata all'assemblea costituente.
Mancano ormai quaranta giorni alle elezioni, Segni subordina il gemellaggio del Patto con il nuovo Ppi di Martinazzoli all'assenza di candidature discusse. Ottiene che De Mita non venga messo in lista. Mancino e Mattarella vengono iscritti nelle liste proporzionali del Ppi e non in quelle comuni col Patto. Quasi tutti i capi storici della Dc, travolti dal ciclone di Tangentopoli, lasciano il campo.
«Al Nord partiamo battuti» racconta De Mita, comunque attivissimo in campagna elettorale. «Ma il partito sbaglia la sua strategia nel Centro-Sud. Invece di proporre un ricambio equilibrato tra vecchio e nuovo, produce una discriminazione astratta, stabilendo chi è buono e chi è cattivo e facendo venir meno il raccordo politico con larghissime fasce di elettorato. Vengono inventate candidature spesso di buona qualità personale, ma senza riscontro sul territorio, dando così al nostro elettorato la sensazione che il Partito popolare combattesse per perdere invece che per vincere le elezioni.»
Martinazzoli conduce una campagna centrista, esaltando De Gasperi e bacchettando Occhetto per rintuzzare chi, all'esterno ma anche all'interno del partito, dice che è pronto a fare un governo col Pds. Accusa Rai e Fininvest di aver polarizzato lo scontro tra destra e sinistra emarginando il centro. Ma il suo bersaglio preferito, quello che gli procura un singolare godimento quando ne parla male, è indiscutibilmente Silvio Berlusconi.
Lunedì 21 marzo a «Mixer» dice che ha «una naturale affltudine alla bugia, un'idea della politica come pallottoliere» (ricordate?). Alla fine si lascia andare: «Ha un pensiero imbecille». Per un politico colto e raffinato come l'awocato Marti-
nazzoli quest'ultima è una caduta di stile. Rivelatrice della consapevolezza che l'odiato Cavaliere, insieme con gli alieni Fini e Bossi, rischia di prendere la maggioranza assoluta.
Testimone di questa angoscia nella vigilia pre-elettorale è Massimo Franco, l'inviato di «Panorama» che segue gli ultimi comizi di Martinazzoli. Al di là della sua apparenza funerea, il segretario del Ppi è un uomo simpatico e perfino divertente. Quando viaggia in macchina canta romanze d'opera (come Giuseppe De Rita) o addirittura le canzoni di Gianna Nannini. E invece negli ultimi giorni di marzo sta zitto, è turbato dal mutamento improvviso del suo elettorato, dalla sua volatilità: «Pensiamo a Segni» dice. «Sei mesi fa aveva in mano l'Italia. Ora, certo anche per i suoi errori, è attaccato da ogni parte.»
Grida ai contadini della Padania: «Se vince Berlusconi, la Tv ve la mette anche nei campi». E si concede i soli momenti di sinistro divertimento quando accarezza ostentamente un corno regalatogli - dice - da un napoletano pazzo.
Martinazzoli se ne va. «Ma al congresso avrei vinto»
Le elezioni vanno male. La Dc lascia il Parlamento con con 203 deputati e 112 senatori, il Ppi vi rientra con 33 deputati e 31 senatori. Il «Mattarellum», come Sartori chiama il maggioritario, ha colpito duro. «Me l'aspettavo» dice Martinazzoli nella sua casa bresciana. «Noi comunque siamo vivi.» A Roma non scende («Nella settimana di Pasqua dalle mie parti si resta in casa per le grandi pulizie»). Martedì sera mi collego con il suo studio bresciano per un commento postelettorale.
Non minimizza la sconfitta, offre un commento dignitoso: «Ha vinto la destra, governi». Annuncia le dimissioni, le formalizza il mattino successivo con una lettera a Rosa Russo Jervolino. Mi dirà sei mesi più tardi: «Non è stato un gesto di paura. Nel giro di qualche ora capii che gli uomini del rnio partito stavano vivendo le elezioni non come una sconfitta, ma come una disfatta. Non avrei guidato un gruppo più ridotto di Popolari, ma un manipolo di soldati che si sentivano superstiti. In casi come questi, il generale può solo andarsene. D'altra parte non mi ero ricandidato e avevo detto che sarei andato via dopo il congresso. A quelli che mi hanno rimproverato ho detto: avrei dovuto fare come Occhetto? Passare qualche mese a mediare nella guerra della Bindi contro Formigoni? No, meglio così. Certo, se avessi partecipato al congresso, l'avrei vinto...».
Al congresso di fine luglio, Martinazzoli non partecipa nemmeno da spettatore.
Riprende invece la toga e in autunno difende Michelangelo Agrusti, suo amico e compagno di partito, che durante quel congresso viene arrestato per una storia di corruzione alla quale si dice estraneo. («Tornando all'awocatura» mi dice in settembre Martinazzoli «capisco che nella fase dell'inchiesta la difesa dell'imputato non esiste più. Il tema della
234 235 divisione delle carriere tra pubblico ministero e giudice sta diventando decisivo...») Poi si candida a sindaco di Brescia con il sostegno di Buttiglione e D'Alema.
Perché il Ppi esce così male dalle elezioni? «Il problema» dice Martinazzoli «è che i voti della Dc non ci sono più. Li ha mangiati Tangentopoli. Il nostro vecchio interclassismo non funziona più, il mondo cattolico è frantumato, abbiamo perso molte schegge a sinistra. Eppoi la destra ha reinventato un partito comunista che non c'era più giocando come nel '48 sulla paura della gente. Se sommi la perdurante fobia comunista e la nostra insignificanza, ecco i risultati. Aggiungi che Occhetto è stato l'apprendista stregone di questa destra sostenendo che il centro non esisteva e che bisognava schierarsi. Aggiungi ancora che noi siamo stati dipinti come il caval lo di Troia della sinistra... La mia idea era che bisognasse resistere sia ai modelli proposti dalla destra che a quelli consolidati a sinistra. Sono convinto di essere nel giusto, ma evidentemente gli elettori erano di diverso avviso. Il vero demiurgo di questa nuova fase politica è stato comunque certamente Berlusconi. Senza di lui né la Lega sarebbe andata mai al potere né Fini avrebbe potuto accreditare il Msi come destra di governo. E un merito? E un demerito? Chissà...»
Perché nel 1993 la Democrazia cristiana ha accettato di patrocinare una legge elettorale suicida? Questa è la risposta di De Mita: «Nessuno ha avuto il coraggio di assumere una iniziativa adeguata che modificasse il sistema elettorale prima del referendum del '93. Quando presiedevo la commissione Bicamerale, cominciammo ad assumere qualche iniziativa e ogni volta che Dc e Pds erano sulla stessa lunghezza d'onda, almeno sulla necessità di decidere, si arrivava subito a larghissimi accordi. Poi tutti quanti cominciarono a cavalcare il passaggio referendario, temendo di essere spiazzati dalla pubblica opinione. Non ho capito se ha cominciato Occhetto
o Martinazzoli. Ma chi è partito per secondo, lo ha fatto un istante dopo il primo. Affondarono il lavoro della commissione e corsero a sponsorizzare il referendum. L'errore fatto da molti, quando si arrivò alle elezioni, fu di ritenere che il quando arrivarci fosse molto più importante del come arrivarci. E poi di credere che il fatto stesso di semplificare gli gchieramenti politici portasse alla semplificazione dei problerni A mio giudizio avremmo dovuto dire agli elettori che il problema principale non era di scegliere chi avrebbe governato, ma chi avrebbe provveduto meglio a rimettere in ordine le istituzioni. Se la Dc avesse spiegato le ragioni della crisi e qualche proposta per superarla, anche in minoranza sarebbe stato un punto di riferimento politico preciso. Adesso tutti corrono verso il centro. Ma quello che manca alla destra e alla sinistra non sono poche decine di deputati o di senatori in più. Manca la capacità di far politica. E noi avremmo potuto occupare questo spazio».
Buttiglione segretario senza De Mita
Debbono passare quattro mesi e l'ulteriore sconfitta alle Europee di giugno perché finalmente il Partito popolare celebri il suo congresso. I candidati alla segreteria sono due persone accomunate da una indiscutibile dignità personale e divise da visioni politiche molto diverse. Giovanni Bianchi, già presidente delle Acli, milanese di Sesto San Giovanni, oppositore feroce della guerra del Golfo, viene candidato dalla sinistra del partito. Rocco Buttiglione, il filosofo amico del Papa e allievo di Augusto Del Noce, è il leader dei moderati e ha avuto grosse soddisfazioni nei precongressi regionali.
Quando il 27 luglio nella sauna dell'Ergife a Roma si apro-
no i lavori, i vecchi cronisti parlamentari sono smarriti. Non ci sono ministri, non c'è la coda di auto blu fuori dell'albergo, il vecchio gioco delle correnti non è scomparso ma appare molto semplificato. C'è una destra e una sinistra. Rosy Bindi preferirebbe perdere la virtù piuttosto che votare per Buttiglione, Formigoni farebbe lo stesso sacrificio piuttosto che votare per Bianchi. E un gioco democratico trasparente, ma durissimo e combattuto senza esclusione di colpi. A ricordare il passato interviene soltanto il vecchio e commosso Fanfani. E l'unico in grado di unire la platea in un applauso struggente. L'unico a ricordare con la sua sola presenza alla destra e alla sinistra del partito che cinquant'anni di Dc non sono tutti da buttare e che se il paese gode da quarant'anni di
236 237 una prosperità inimmaginabile del dopoguerra, un po' di merito è anche del partito di Sturzo e di De Gasperi, di Moro e di Fanfani e perché no? forse anche di qualche dirigente di anni più vicini, proprio quelli che al solo nominarli si scatena la piazza.
Al centro del congresso c'è Ciriaco De Mita, non amato in fondo né a sinistra e né a destra, ma temuto da entrambi gli schieramenti.
Dopo tre giorni, salta la candidatura di Bianchi, non prima che il professore abbia bollato la maggioranza di governo: «E lontana dalla cultura della legalità, vede lo Stato come bottino da spartire tra i vincitori». La sinistra ha capito che Bianchi è battuto e cerca di conquistare i voti di De Mita candi-
dando il suo vecchio amico Nicola Mancino, ministro dell'Interno fino alle elezioni di marzo. Lo scontro, che già era acceso, diventa incandescente. I moderati accusano la sinistra di giocare sul vecchio (parola ormai in grado di atterrare un toro) e alludono pesantemente alla storia del Sisde, anche se Mancino è stato scagionato. La sinistra alza le barricate per non far passare Buttiglione, accusandolo apertamente di essere pronto a prostrarsi davanti a Berlusconi. Tra urla, lacrime e spintoni, come titola «Il Messaggero» del 30 luglio, alla fine la spunta Buttiglione (55 per cento contro il 45). E la spunta senza De Mita, con il quale pure aveva awiato una concreta trattativa: «Perché alla fine non l'ho sostenuto? Perché altro è Buttiglione, altro sono le forze che gli ruotano intorno. Non mi interessava far parte di uno schieramento, ma concorrere a una soluzione che non c'è stata. L'elezione di Buttiglione non è comunque un fatto negativo. Ma non è sufficiente. Bisogna creare dunque le condizioni politiche che al momento del congresso non esistevano. Io, per esempio, avrei fatto lui segretario, ma con una direzione composta di persone del tutto diverse da lui. In ogni caso, con Buttiglione la sinistra interna sta sbagliando. Lo ha etichettato come clerico-moderato che è una categoria politica che non esiste. Molti, nella sinistra del Ppi, vivono nella contemplazione di ciò che è stata la sinistra democristiana e hanno la pretesa di identificarsi con quanto di buono essa ha fatto. Ma certe cose non possono ripetersi storicamente. Non si può vivere nel ricordo con una superbia intellettuale che di fatto portaall'impotenza. Insomma, tra Rosy Bindi e Buttiglione, il mo~erno è Buttiglione».
Dall'indomani della sua elezione, Buttiglione (46anni, moglie e tre figlie, un cane - Teo - e un continuo app~rovvi-
gionamento di sigari toscani) diventa l'uomo più corte~ggiato della scena politica italiana.
Il Pds era partito in anticipo, dichiarando fin dal 12 luglio con un «fondo» di Walter Veltroni sull'«Unità» che «c'bisogno di un centro forte» e che a gestirlo è meglio uno come Buttiglione che un elemento debole della sinistra in terna. D'Alema apre subito un dialogo, Berlusconi fa caloros e congratulazioni, Segni vede la rinascita di un Centro co~nune. Perfino Leoluca Orlando ha impegnative parole di app rezzamento («Può essere un nuovo De Gasperi...» ). Il prof~essore sorride, ma si chiude a riccio. Sa di vendere merce che può rivelarsi molto pregiata nel medio periodo e non ha fretta né di awiare trattative, né di fare subito il prezzo.
A mezz'agosto, Buttiglione e D'Alema raggiungono Gallipoli con le rispettive famiglie. Il primo ci è nato, il se~condo ne ha fatto il proprio collegio elettorale.
«D'Alema mi ha telefonato subito dopo l'elezione» raccOnta Buttiglione. «Tra noi c'è simpatia, abbiamo amici in comune. Promettiamo di vederci. Quando arrivo a Gallipoli, già so che D'Alema vuole vedermi. Andiamo a pranzo al "Bastione", un ristorante legato in qualche modo alla mia farniglia perché il locale sta in un edificio che fu del pittore Agesilao Flora, imparentato con mio padre. A tavola non ci diciamo niente di nuovo. Verifichiamo invece posizioni già note. Punto primo. Tra noi c'è bisogno e volontà di dialogo. Punto secondo. Decidiamo di non chiuderci a priori sulle rispettive posizioni quando si discute di temi enormi come la farniglia, lo Stato sociale, la scuola, la bioetica. Queste aperture sono
possibili perché ha vinto D'Alema. Se avesse vinto il partito scalfariano con Veltroni, non sarebbe stata la stessa cosa. D'Alema insiste nel dirmi che Veltroni è diverso da come lo giudico io, non merita questo sospetto. Può darsi, lo conOsco poco. Il pranzo con D'Alema, comunque, è stato un pranzo.
238 239 E ridicolo immaginare che i problerni della sinistra, del centro e della destra possano risolversi a tavola.»
In settembre Buttiglione, schivato un altro pranzo a Gallipoli con D'Alema, incontra di nuovo il segretario del Pds alla festa di «Cuore». I due si scambiano nuovi messaggi di attenzione che fanno ingelosire il leader di Rifondazione, Bertinotti, e preoccupano Casini. («Non apprezzo affatto tutto questo» mi dice. «Ho paura che Rocco si faccia condizionare.»)
Il leader del Ccd lavora per una nuova aggregazione che veda collaborare col suo partito i Popolari di Buttiglione, Forza Italia di Berlusconi e un Fini alleggerito della zavorra che lo sbilancia troppo a destra. Prevede la scomparsa in tempi brevi dei partiti ideologici e vede il centro «non più come collocazione politica, ma come riferimento culturale di governo per i due poli, come denominatore comune di entrambi i competitori».
Dove bafte il cuore di Rocco?
Come abbiamo visto all'inizio di questo capitolo, il cuore di Buttiglione batte più in direzione di Berlusconi che in quella
di D'Alema. Ma nei primissimi mesi del suo mandato, il segretario dei Popolari vuole chiarire bene le regole del gioco. Per esempio, vuole il doppio turno elettorale alla francese «che obbliga le forze politiche ad aggregarsi e non distrugge il pluralismo». Su questo è più vicino a D'Alema che a Berlusconi.
«Come si fa» mi dice Buttiglione «a pensare di costruire con il turno unico senza recupero proporzionale, come vuole il referendum di Pannella, una aggregazione che vada da me a Bertinotti oppure da me a Rauti? Sarebbe il caos. Negli Stati Uniti lo fanno? Lì il Parlamento può essere conflittuale perché governa il presidente. Lo fanno in Inghilterra? Lì il bipartitismo si delinea fin dal 1689... No, qui da noi non si può eleggere un deputato con il 35/40 per cento dei voti. I moderati non debbono essere ricattati dagli estremisti. Il problema centrale è di convincere Berlusconi e D'Alema a convergere verso il centro. Una strada opposta a quella che ha percorso Occhetto che, alleandosi con Rifondazione, legittimò il Ppi come antagonista di sistema. Comunque, non ha sbagliato solo Occhetto- E stata la sagra degli errori...» A metà settembre, almeno sulla legge elettorale, Fini gli manifesta qualche apertura.
Buttiglione non ha alcun interesse a far cadere il governo Berlusconi (come d'altra parte non ce l'ha D'Alema). Poiché non vuole fargli da sgabello, dice che se la situazione fosse insostenibile, il governo istituzionale dovrebbe servire solo a modificare la legge elettorale. I Popolari, insomma, cercano di ritardare il voto al massimo, soprattutto se dovesse restare il turno unico o dovesse passare l'idea di Pannella di togliere
anche quel 25 per cento di recupero proporzionale che c'è adesso.
Buttiglione vuole dare anche a Berlusconi il tempo di allentare i suoi legami a destra, senza che questo provochi traumi. «Berlusconi è per sua natura un uomo di centro. Ha capito benissimo cosa deve fare. Bisogna dargliene la possibilità in un clima sereno. Personalmente, ho molte critiche da fare a questo governo. Ma non condivido gli esasperati attacchi personali al presidente del Consiglio. Dobbiamo risolvere un problema politico e l'awersione viscerale a una persona non aiuta. Tra l'altro Berlusconi mi è pure simpatico... Nulla vieta che mentre si governa si parli anche delle fasi successive. Noi Popolari dobbiamo stabilire un asse diretto con Forza Italia. Senza la Lega? Questo poi lo vedremo. Intanto, dobbiamo aiutare i processi interni di trasformazione dei partiti. La destra per esempio deve emarginare i fascisti. Fini deve insistere nell'opera di scioglimento dei fasci, deve portare Alleanza nazionale a un congedo sereno dall'epoca fascista. Quando dico che il fascismo non era il male assoluto, ma un male storico non intendo dire che fascismo e antifascismo erano la stessa cosa. Dico più semplicemente che la cultura antifascista ha emarginato alcuni valori positivi che il fascismo aveva fatto propri. Prendiamo il valore di nazione. Il fascismo se ne impossessò, ma è un errore sostenere - come si è fatto per decenni - che chi crede nel valore di nazione sia fascista o amico dei fascisti. Una ri-
240 241 flessione su questo tema aiuta anche a capire il dramma di quanti hanno combattuto perché credevano nella loro nazio-
ne e si son sentiti bollare automaticamente come fascisti. Capire questo significa uscire morbidamente dal nostro passato e recuperare alla democrazia anche molta gente che è rimasta imprigionata lì dentro.»
Buttiglione estende a Rifondazione lo stesso discorso che fa per la destra.
«D'Alema deve rendersi autonomo per sciogliere il nodo culturale e politico che blocca Rifondazione. Ripeto: sia a destra che a sinistra occorre rendersi autonomi dal ricatto degli estremismi.»
Il problema di Buttiglione è portare unito il suo partito a questo appuntamento. Il gioco a tutto campo ha tenuto tranquilla la sinistra interna nei primi mesi del suo mandato: «Se faccio un'alleanza a sinistra, non incontro alcun ostacolo. La sinistra del partito favorisce il dialogo. Il problema nasce quando si guarda dall'altra parte. La nostra sinistra interna deve uscire dall'ideologia azionista. Noi dobbiamo puntare alla giustizia sociale in condizioni di mercato. Noi non aderiremo mai all'ideologia del mercato senza solidarietà. Ma non possiamo sottrarci se tra mercato e solidarietà si stabilisce una forte alleanza. Il difetto della vecchia sinistra democristiana, più che cattolica, era di privilegiare gli schieramenti rispetto ai contenuti. Adesso i democristiani non ci sono più, i comunisti nemmeno...».
Cauto nell'iniziativa politica, Buttiglione manifesta prudenza anche nei grandi temi morali di forte rilevanza sociale come l'aborto. Quando a fine estate del '94, nel Meeting di
Comunione e liberazione a Rimini, Irene Pivetti infiamma la platea con la sua crociata antiabortista, Buttiglione resta freddo, ma non perché il presidente della Camera gli ha tolto la battuta. «Noi cattolici dobbiamo avere nei confronti dell'aborto» dice «lo stesso atteggiamento che il governo francese ebbe tra il 1870 e il 1914 sul tema dell'Alsazia-Lorena: pensarci sempre, non parlarne mai. Non si può parlare di una questione così delicata in termini dirompenti se non si dispone delle forze sufficienti a risolverlo. Ma anche se avessimo le forze per risolverlo, non potremmo parlare dell'aborto in termini di maggioranze. E una questione che va affrontata con il contributo di tutti. Non potrà mai essere questione di governo.»
Questo mi dice il filosofo Rocco Buttiglione all'inizio dell'autunno '94. Negli stessi giorni, due ex segretari della Dc come Ciriaco De Mita e Mino Martinazzoli esprimono corpose riserve sullo scenario politico dominante.
«L'Italia» mi dice De Mita «ha bisogno di una politica, non di un accordo di potere. Berlusconi ha vinto sull'onda di una emozione. Per costruire una politica ci serve tempo. n fenomeno della Lega non va sottovalutato. E l'espressione più vistosa del disagio del ceto medio ignorato dalle politiche tradizionali. La Lega ha un elettorato moderato che ha contestato in modo moderno la politica dominante. Ma attenzione: si tratta di una protesta più radicale di quella del '68. Non commettiamo l'errore di credere che il declino della Lega equivalga alla caduta della protesta. Sarebbe come mettere il belletto sulle macchie di morbillo illudendoci di aver dato al paziente la cura giusta. Più politiche sono le motivazioni alla base del successo della destra tradizionale, con la
quale occorre fare i conti. Fini si sta muovendo, ma l'evoluzione della destra mette in gioco il sistema democratico tradizionale, anche per superarne i limiti. Occorre vedere come Alleanza Nazionale intende passare dai valori ai quali dice di ispirarsi alle scelte politiche quotidiane. Il problema centrale è che queste forze rischiano di essere tenute insieme da un progetto non democratico. E il progetto della democrazia plebiscitaria. La delega a una sola volontà segna la fine della democrazia pluralista. Sarebbe un grosso passo indietro. Certe volte amputare le gambe a qualcuno gli consente di sopravvivere. E una necessità, non una scelta gratificante. E dopo l'intervento il corpo ne porterà sempre il segno. La politica è diversa. Non può arrendersi dinanzi a nessuna difficoltà. Se le difficoltà prevalgono sulla capacità di rispondere, la democrazia non c'è più.»
Anche Martinazzoli vede molti rischi nella democrazia plebiscitaria e comunque la considera incompatibile con gli ideali del Ppi: «Berlusconi predica una democrazia del messaggio, della leadership carismatica, della semplificazione. E un'idea di democrazia diversa da quella di un movimento popolare. E inutile che Buttiglione cerchi di recuperare Berlusconi al centro. Lui è la destra. L'idea di redimerlo non mi convince. Al posto suo guarderei con maggiore attenzione alla Lega. Bossi almeno ha un progetto. Un progetto discutibile, intendiamoci, che in nessun caso può essere un punto di arrivo. Ha tempo fino alle prossime politiche per realizzarlo, ma non è detto che ci riesca. E un acrobata, si esibisce senza rete, può anche rompersi l'osso del collo...». Eppure, nell'autunno dell'incredibile '94, Martinazzoli accetta dai Popolari e dal Pds la candidatura a sindaco di Brescia, strizzando l'oc-
chio - in spregio a Forza Italia - proprio all'acrobata Bossi.
Bossi, Berlusconi, D'Alema, Fini, Buttiglione.
Postfascismo. Postcomunismo. Postdc. Post tutto. E complicato essere moderati. E complicato essere progressisti. Un fatto è certo. In Parlamento Buttiglione conta un quarto di Bossi e un terzo di Fini. I suoi voti sono largamente insufficienti a ribaltare qualunque maggioranza. Eppure tutti lo corteggiano come se il Partito popolare fosse l'unico crocevia della politica italiana. Come la Dc...
VIII
Le spine del Quirinale
«Per me tortellini di pesce. Mia moglie assaggia la sfoglia di ostriche e tartufi di mare.» E la sera di domenica 27 febbraio 1994. La tramontana ha ripulito il cielo romano e la luna piena occhieggia sul Colosseo dietro una nuvoletta superstite.
Tra l'anfiteatro e la basilica di San Giovanni, ancora dolente per l'attentato dell'estate scorsa, c'è in via dei Santi Quattro un ristorante piccolissimo e raffinato, «Ai tre Scalini» di Rossana e Matteo. Stasera Rossana non è in servizio e l'onere intero dell'ospitalità ricade sul marito Matteo e sul giovane e geniale Davide, che non fanno rimpiangere l'assenza, forzata da qualche tempo, di una delle grandi signore della cucina romana.
Arrivano dunque i tortellini di pesce sul tavolo di Giovanni Maria Flick, docente di fama, awocato di grido e raffinato
gourmet, che ha deciso di riscattare una durissima settimana di lavoro con una confortevole cena in compagnia della paziente consorte. Ma il prestigioso piatto fatto preparare con devozione dal buon Matteo si raffredda, mentre sale la temperatura del Greco di Tufo servito a dieci gradi dall'inappuntabile Davide.
Il professore è infatti autorevolmente indaffarato con importanti interlocutori: tanto importanti che più importanti non si può.
Mentre i tortellini si trasformano melanconicamente in un piatto di rosticceria col fomo guasto, Giovanni Maria Flick fa la spola tra il telefono di Matteo e il cellulare prontamente sguainato da un commensale per la prestigiosa occorrenza.
244 245 (Il professor Flick fa un punto d'onore del fatto di non possedere un cellulare. Se ne pentì il giorno dell'arresto di Carlo De Benedetti, ma, superata quell'emergenza, ritenne di poterne fare a meno per qualunque altra.)
«Buonasera, signorina. Come sta? Posso parlare con suo padre? Grazie... Buonasera, presidente... No, non ho parlato con il procuratore. E fuori per il fine settimana... Il cellulare? Mi dice la Batteria del Ministero dell'Interno che il telefonino del procuratore risulta spento... Ho parlato con l'aggiunto e mi pare di capire...»
Flick si accorge di poter essere ascoltato e opportunamente
si allontana nascondendosi dietro una colonna da cui ogni tanto arriva l'eco di frasi come: «...certo, è molto spiacevole... un chiarimento è necessario... non c'è dubbio, presidente...».
Di tanto in tanto, da dietro la colonna, spunta la barba sale e pepe di Flick, e un osservatore attento leggerebbe nei suoi occhiali sguardi di grande afflizione alla vista dei tortellini ormai surgelati e del Greco di Tufo la cui temperatura è inevitabilmente salita a quella di un Barolo.
D'altra parte, quando la patria chiama...
Se Tangentopoli ha reso Di Pietro e i suoi colleghi più popolari di Pippo Baudo e Mike Bongiorno, ha fatto al tempo stesso esplodere le denunce dei redditi degli awocati penalisti più bravi che hanno recuperato nel giro di due anni il gap finanziario e lo status professionale che tradizionalmente li divideva dagli schizzinosi colleghi civilisti.
Ouando, molti anni fa, abbandonò la toga di giudice per la cattedra universitaria alla Luiss e la libera professione forense, Flick non immaginava che le inevitabili frustrazioni del momento sarebbero state compensate con il sollecito raggiungimento dei vertici della carriera e la prestigiosa assistenza professionale di clienti importantissimi (come Raul Gardini, Carlo De Benedetti, Sergio Cragnotti e di «non clienti» ancora più importanti come il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro).
Flick, per la verità, si è occupato di sua figlia Marianna. Marianna? Un prestigioso awocato penalista alla sobria e riservata corte di Marianna Scalfaro? E a far che?
Marianna Scalfaro viene lambita suo malgrado dalla vicenda Sisde alla fine di ottobre del 1993. n settimanale «Epoca» pubblica una foto in cui la figlia del presidente della Repubblica viene ritratta accanto a un signore alto, elegante, con la folta capigliatura appena brizzolata, una vistosa fede nuziale all'anulare sinistro e un gran pacco in mano.
Marianna Scalfaro, che indossa un abito fucsia a maniche corte, e l'anonimo accompagnatore sorridono: l'atteggiamento della coppia non lascia immaginare nulla se non l'innocentissimo shopping di due amici legati da vecchia e rispettosa consuetudine.
«Lo shopping misterioso di Marianna» titola «Epoca», e scrive nel sommario: «Ottobre 1993. Roma, via del Babuino. Anche la più schiva delle first lady si è finalmente concessa una distrazione: un semplice giro per antiquari e boutique del centro. Pochi minuti in tutto che però rivelano i suoi gusti. Ecco in quali negozi è entrata e che cosa voleva comprare. Mentre fuori l'aspettava un architetto quarantenne».
E la prima volta che Marianna Scalfaro viene ritratta al di fuori di cerimonie ufficiali da quando il padre è diventato presidente della Repubblica.
E il servizio di «Epoca» nasce in circostanze curiose. A ogni settimanale vengono continuamente offerte foto da decine di agenzie, alcune grandi e di consolidata reputazione, altre piccole e costrette a sgomitare per soprawivere in un mercato saturo oltre l'immaginabile.
A metà ottobre nella redazione del giornale si presenta il signor Giansiracusa, titolare di una piccola agenzia, e offre del materiale senza chiarire subito - ricorda il direttore di «Epoca» Riccardo Briglia - che tra le foto in vendita c'è quella di Marianna. Se ne accorge l'occhio fino del condirettore Massimo Donelli, che annusa il colpo e ne parla con Briglia. I due sanno che Marianna non è mai stata fotografata in privato, comprano le foto e stabiliscono di mandarne una copia al Quirinale prima di deciderne la pubblicazione. Dal Quirinale non arriva nessuna reazione. Briglia insiste, e solo dopo qualche giorno arriva la risposta: fatene quel che volete.
Briglia si sente sollevato e affida ad Antonietta Garzia un pezzo leggero sul pomeriggio di shopping di Marianna Scalfaro. Visto che il Quirinale non ha nulla da obiettare, di-
246 247 cono al giornale, si può forzare sul titolo e giocare un pochino sul misterioso architetto.
Entra in scena l'architetto Salabé
Quando il giornale va in edicola, scoppia il caso.
Si scopre, infatti, che il sorridente signore con la fede al dito e il pacco in mano è l'architetto Adolfo Salabé, 64 anni portati benissimo, titolare di una rete di società che fatturano decine di miliardi all'anno ai servizi segreti, prevalentemente per ristrutturazioni di immobili riservati e che svolge stabilmente la stessa opera di consulenza al Quirinale.
La frequentazione di Salabé da parte di Marianna non deve sorprendere.
Scalfaro è stato ministro dell'Interno dal 1983 al 1987 e ha abitato anche nello stabile di via Giovanni Lanza dove ha sede il Sisde, abituale committente di Salabé. Marianna ha quindi conosciuto e frequentato, se non altro per circostanze condominiali, molti dirigenti e impiegati del Servizio, tra cui quella Rosa Maria Sorrentino, funzionaria dell'ufficio programmazione del Servizio, che le faceva spesso compagnia e che sarà anch'essa pesantemente coinvolta nello scandalo dei fondi riservati del Sisde.
Tutto normale, dunque? In apparenza. Perché è uscita su «Epoca» la foto di Marianna Scalfaro e di Adolfo Salabé? L'ha scattata uno dei tanti paparazzi che presidiano il centro di Roma in attesa dell'incontro fortunato o qualcuno che andava a colpo sicuro e ha usato l'inconsapevole settimanale per mandare un segnale al colle più alto? E quale segnale? E perché? Il direttore di «Epoca» si insospettisce e teme di essersi fatto involontario strumento di qualche sotterranea lotta di potere. Convoca Giansiracusa, titolare dell'agenzia che gli ha venduto le foto, e ne riceve la più ampia assicurazione che Riccardo Dotti autore dello «scoop», l'ha fatto dawero per caso.
Dall'ingrandimento di una foto risulterebbe peraltro la presenza in via del Babuino di un altro fotoreporter: significa
che Marianna è rimasta vittima di paparazzi che non sapeva-
I no quel che facevano?
«Un sospetto m'è rimasto» dice oggi Briglia, poco incoraggiato peraltro ad approfondire il caso, vista l'apparente indifferenza del Quirinale circa la pubblicazione delle foto. In realtà al Quirinale non debbono aver gradito molto l'iniziativa. Ma intelligentemente non l'hanno bloccata, sapendo che una foto non pubblicata crea problemi e imbarazzi cento volte maggiori di una foto pubblicata. Un po' di mistero, dunque, resta.
Per capire quale fosse il clima nei palazzi romani della politica nel mese di ottobre del '93, dobbiamo tornare indietro di quasi un anno.
Nel dicembre del '92, il pubblico ministero romano Antonino Vinci, indagando sui palazzi venduti agli enti pubblici a prezzi superiori a quelli di mercato per produrre tangenti, scopre in un'agenzia della Carimonte 14 miliardi depositati sui conti correnti personali di cinque dirigenti e funzionari del Sisde: Maurizio Broccoletti, di anni 50 da Rieti, direttore amministrativo del Servizio; Gerardo Di Pasquale, di anni 50 da Agropoli, capo del reparto logistico; Michele Finocchi, di anni 57 da Roma, capo di gabinetto; Antonio Galati, di anni 50, da Monterosso Calabro, responsabile dei fondi riservati; Rosa Maria Sorrentino, di anni 46 da Sant'Andrea di Conza, funzionaria dell'ufficio programmazione. Vinci chiede chiarimenti e i cinque gli dicono in coro che quei soldi non sono loro (cambieranrlo versione nei mesi successivi), ma appartengono al Servizio e si trovano sui loro conti correnti per ragioni di copertura. La tesi viene confermata dal prefetto Ric-
cardo Malpica, ex direttore del Sisde, e dal direttore in carica, prefetto Angelo Finocchiaro, il quale peraltro dirà successivamente che mai Malpica gli aveva parlato di questo genere
Vinci non riscontra nella vicenda estremi di reato, ordina alla Carimonte di trasferire quei 14 miliardi sui conti del Sisde e chiude il capitolo.
Lo riapre, nella primavera del '93, un altro pubblico ministero romano, Leonardo Frisani. Indagando sulla bancarotta di un'agenzia di viaggi, la Miura, Frisani scopre che i veri proprietari ne sono due alti funzionari del Sisde, Michele Pinocchi e Gerardo Di Pasquale. Frisani arriva anche ai conti miliardari della Carimonte, sospetta che qualche funzionario del Sisde non abbia fatto transitare quelle cifre sul proprio conto corrente per ragioni di servizio e ordina l'arresto di Maurizio Broccoletti, ex direttore amministrativo del Servizio, che ha perso il suo incarico nel '91 in seguito a un'ispezione interna, come altri dirigenti che risulteranno poi coinvolti nella gestione impropria dei fondi riservati del Servizio.
Il procuratore della Repubblica Mele viene a sapere dell'iniziativa di Frisani quando Broccoletti si trova già nel carcere militare di Forte Boccea.
Si arrabbia, toglie l'inchiesta al suo sostituto che ricorre al Csm, riottenendola, affiancato tuttavia dal procuratore aggiunto, Ettore Torri.
Sui giornali esplode intanto la polemica sulla gestione dei fondi riservati dei Servizi. Nel '93, su 724 rniliardi assegnati
complessivamente ai tre Servizi (Sismi per il controspionaggio, Sisde per la sicurezza interna e Cesis per il vano coordinamento tra gli altri due), il Sisde ne ha avuti 130, di cui 75 «riservati», cioè svincolati da ogni rendiconto.
Tutto questo di per sé non sarebbe scandaloso: se i servizi segreti dovessero esibire la ricevuta fiscale per ogni spesa sostenuta, sarebbero tutt'altra cosa da quella per cui sono stati inventati. L'opinione pubblica resta peraltro sconcertata perché, mentre non si leva nessun ministro dell'Interno a garantire sulla legittimità dell'operato del Sisde, nel Servizio si scopre un'intera classe dirigente assai più preoccupata di garantire la tranquillità economica ai propri discendenti che non la sicurezza del paese.
All'inizio di luglio, l'ex direttore Riccardo Malpica conferma la tesi che i conti Carimonte sono «coperture» alle effettive necessità del Sisde, mentre si scopre che le doverose spese per rendere adeguatamente protetti gli appartamenti di alcune personalità politiche particolarmente esposte si sono generosamente estese alla tappezzeria e alle piante tropicali.
Nella seconda metà del mese vengono arrestati altri quattro funzionari: Galati, Finocchi, Sorrentino e Di Pasquale. Smentendo le versioni precedenti, i quattro sostengono che i soldi della Carimonte sono di loro proprietà, frutto di prerni particolarmente generosi, anche perché intanto la magistratura scopre un altro pozzo di San Patrizio a San Marino, che porta a una cinquantina di miliardi che sarebbero stati sottratti al Sisde.
«Si è spontaneamente presentato il signor
Broccolet~i Maurizio»
Ma il peggio deve ancora arrivare. E arriva «l'anno '93 addì 28 del mese di ottobre», quando «avanti al Pm dr. Ettore Torri si è spontaneamente presentato il signor Broccoletti Maurizio, il quale è assistito dall'awocato Nino Marazzita. Il predetto intende dichiarare...».
Broccoletti lo ricordiamo, è l'ex direttore amministrativo del Sisde, rimesso in libertà dopo 37 giorni passati, durante l'estate, nel carcere militare di Forte Boccea dopo la prima, accurata ispezione del giudice Frisani sui conti correnti della Carimonte. Più che una dichiarazione, la deposizione del «predetto» è una bomba che lesiona vistosamente i palazzi romani della politica e delle istituzioni.
Leggiamo la prima pagina della deposizione di Broccoletti: «Nel dicembre '92 sono stati rinvenuti presso la Carimonte libretti e titoli vari collegati a dipendenti del Sisde. In relazione ad accordi intercorsi a livello di vertice (prefetti Malpica e Finocchiaro) nonché altre personalità politiche (ministro dell'Interno Nicola Mancino, presidente del Consiglio Giuliano Amato, presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, nonché capo della polizia Parisi e il suo capo di gabinetto Lauro), secondo quanto mi ha riferito Malpica, presente la sua segretaria Matilde Martucci, previa formale promessa di chiusura della vicenda e successiva restituzione delle somme, i funzionari interessati dichiararono all'epoca che le somme rinvenute erano di pertinenza del Sisde e che i relativi depositi erano stati costituiti su incarico del direttore, prefetto Malpica. Poiché a seguito di ulteriori indagini è ri-
sultato che taluni depositi erano stati utilizzati per personali
250 251 esigenze, è scattata per tutti l'accusa di peculato. A questo punto le persone interessate, cioè noi indagati, abbiamo d~ vuto rivelare che le somme non erano di pertinenza del Sisde, ma personali, provenienti in buona parte da premi e riconoscimenti per particolari prestazioni avuti dal prefetto Malpica e dai suoi successori o predecessori. La versione sostenuta da Malpica non corrisponde a verità».
Dinanzi alla gravità di queste accuse, passa fatalmente in secondo piano la seconda parte della deposizione di Broccoletti, lì dove il «predetto» racconta come i fondi riservati fossero distribuiti con disinvolta larghezza a funzionari del Sisde e di altre amministrazioni, a politici e a militari mescolando in un'avvilente marmellata affari di Stato e vicende assai meno nobili. Dal racconto dell'ex direttore amministrativo del Sisde emerge anche l'assoluta autonomia di spesa del direttore Malpica e della sua segretaria Matilde Martucci, detta non a caso la «zarina», che nel giro di qualche anno avrebbe acquistato cinque appartamenti e regalato al figlio Alberto l'agenzia di viaggi «Scilla Travel».
Broccoletti firma il verbale che gli sottopone il giudice Torri e scompare (verrà arrestato trentacinque giorni dopo a Montecarlo, protetto da baffi e parrucca). Così, quando poche ore dopo l'interrogatorio, il 29 ottobre, il giudice Vincenzo Terranova accoglie le richieste di Torri e Frisani per sei ordini di cattura contro Riccardo Malpica e i cinque componenti della «banda del Sisde», soltando l'ex direttore
si consegna docilmente al generale dei carabinieri Subrani e al colonnello Mori del Raggruppamento operazioni speciali.
Il 29 ottobre, giorno in cui la chiesa onora San Ferruccio, è per Oscar Luigi Scalfaro un venerdì di passione.
Il Quirinale è inondato di messaggi di solidarietà. Scrivono Leo Valiani e Norberto Bobbio, Vittorio Foa e Antonio Giolitti. Ciampi, Spadolini e Napolitano sono vicini a Scalfaro come sempre. Da Modena, dov'è riunita a convegno, si associa la Dc di Martinazzoli, mentre dal Vaticano si fanno sentire i cardinali che contano, Angelo Sodano e Camillo Ruini. Ma a Scalfaro non basta. Il presidente aspetta un solo documento di solidarietà: dal procuratore della Repubblica di Roma, Vittorio Mele. Ma Mele, il venerdì di San Ferruccio, sembra non aver fretta. Vuole riguardarsi le carte, si muove come sempre con grande cautela.
Il Quirinale sbotta, come si dice a Roma, e fa trasmettere dal Grl delle 19 questa irritata comunicazione: «La Presidenza della Repubblica attende fino a tarda sera una forte precisazione da parte della magistratura sulla vicenda». I giornalisti corrono da Mele e gli sollecitano un commento. A Daniele Mastrogiacomo della «Repubblica» alla fine dichiara: «I miei collaboratori e io siamo in perfetta sintonia con il Quirinale. Sappiamo che nell'interrogatorio si è fatto riferimento al presidente. Nella nostra autonomia svolgeremo i dovuti e opportuni accertamenti. Domani diffonderemo un documento sulla vicenda».
Ma a Scalfaro il «domani» del procuratore non basta. Nelle
quattro pagine di verbale riempite da Broccoletti davanti al giudice Torri, accanto al micidiale accenno alla riunione fatta al Quirinale alla fine del '92 per mettere a tacere la vicenda (episodio che sarà sempre smentito), c'è un altro elemento che turba profondamente il presidente della Repubblica. Racconta infatti Broccoletti: «Timpano e Locci, responsabili della gestione dei fondi riservati prima di Galati, a me e al Galati stesso hanno riferito che mensilmente predisponevano una busta contenente 100 milioni intestata "signor Ministro" e che loro consegnavano al direttore Malpica. Producono una cassetta magnetica registrata dal Galati e relativa a un colloquio tra lui e il Locci nel corso del quale si parla appunto di quella busta». Elencando i beneficiari di «stipendi riservati» Broccoletti attribuisce un cospicuo mensile al prefetto Lattarulo, capo di gabinetto di Scalfaro quando questi era ministro dell'Interno, e afferma che il sistema era in voga da una decina d'anni, coinvolgendo in pieno anche la gestione rninisteriale del presidente della Repubblica.
Scalfaro è furibondo. Il capo dello Stato non può entrare in polemica con un funzionario dei servizi segreti ricercato per associazione a delinquere. E s'aspetta che la Procura di Roma lo faccia per lui. Quando vede che, anche dopo l'arresto di Malpica awenuto nel pomeriggio, tutto tace, affida prima al Grl delle 19 un pubblico monito alla Procura perché proweda, e poi esplode poco prima delle 20.30 con un comunicato ufficiale stilato in tempo perché il Tgl lo trasmetta prima del la chiusura.
I più stretti collaboratori del presidente lo invitano alla cautela. Il capo dello Stato non ha molte possibilità d'intervento e sia il segretario generale Gifuni che il capo del servi-
zio stampa Scelba temono che con un comunicato ufficiale emesso mentre tutto è ancora in movimento si percorra una strada di non ritorno.
Ma il presidente, che del suo rigore morale ha fatto una bandiera, non sente ragioni.
Così alle 20.28 Fabrizio Ferragni, il giornalista parlamentare del Tgl accreditato presso il Quirinale, irrompe in trasmissione con un drammatico servizio telefonico.
Nella sua storia quarantennale, il telegiornale della sera è stato innumerevoli volte uno spartiacque della vita pubblica italiana. Il «bello della diretta» è stato scoperto in anni remoti. Se la riunione politica di un partito doveva trasmettere un importante messaggio trasversale a partiti alleati o awersari, c'era da giurare che finisse prima delle otto di sera. La stessa accortezza avevano i presidenti del Consiglio quando volevano far conoscere subito i prowedimenti urgenti del governo. Quando stava a Palazzo Chigi, Craxi aveva il Tgl delle 20 come punto di riferimento fisso e un po' ne approfittava, costringendo il suo capo ufficio stampa Antonio Ghirelli a chiamare due minuti prima della sigla di apertura, suscitando reazioni irriferibili nel conduttore di turno. Nei congressi di partito, che si aprivano sempre nel tardo pomeriggio per la disperazione dei cronisti, invariabilmente il segretario politico trascinava la sua relazione fin oltre le 20 per prendersi gli applausi conclusivi in diretta tv.
Quando il capo dello Stato voleva usare una cortesia al presidente del Consiglio incaricato, lo tratteneva a colloquio
fino all'ora fatidica per consentirgli di leggere la lista dei ministri in diretta e nell'ora di massimo ascolto. Tutto questo richiedeva una certa accortezza di cerimoniale. Nei primi anni Settanta, ricordo di aver fatto da regista ai movimenti del segretario generale del Quirinale durante la presidenza Leone, l'awocato Nicola Picella, dandogli il là per l'ingresso in campo una volta partita la sigla di apertura del Tg.
A dire il vero, non solo i politici sono tradizionalmente sensibili al fascino della diretta e della massima audience. Nei primi anni Settanta, al processo d'appello per la strage del Vajont, mi permisi di dire al presidente della Corte che fatti salvi naturalmente i tempi, il rigore e l'autonomia della giustizia - se per caso la sentenza fosse stata pronta tra le 20 e le 20.30, la lettura sarebbe andata in onda in diretta del Tg. Il caso volle che la giustizia concludesse il suo corso travagliato alle 20.15. La stessa cosa era accaduta nel processo di primo grado: la sentenza fu trasmessa in diretta alle 13.30.
«Falsità e intrighi contro il capo dello Stato»
E fatale, quindi, che la sera di venerdì 29 ottobre Scalfaro, visto l'inutile segnale trasmesso dal Grl delle 19, approfitti degli ultimi minuti del Tgl delle 20 per esternare la sua indignazione: «E almeno la terza volta» dice il comunicato del Quirinale «che si deve registrare il tentativo di porre in essere, con falsità e intrighi, insinuazioni che vorrebbero toccare il capo dello Stato, al chiaro fine di destabilizzare le istituzioni della nostra democrazia, che vive un tempo non certo facile. Il presidente della Repubblica - nella assoluta serenità e consapevolezza di avere, in ogni responsabilità istituzionale, di governo e politica, applicato col massimo scrupolo sempre
e soltanto la legge - condanna con fermezza tale ignobile sistema che arreca grave danno alla civile convivenza e allo Stato democratico».
Scrivendo di suo pugno questa durissima nota, Scalfaro smorza sul nascere una polemica politica montante. Poco prima infatti, alle generiche seppur gravi preoccupazioni di Occhetto, s'erano affiancate le pesanti richieste della Lega, mai tenera con Scalfaro («Smentisca subito e nettamente») e le più insidiose considerazioni del missino Servello: «O Broccoletti è un Di Rosa in pantaloni (l'accenno è alla bella e inaffidabile Mata Hari veneta Donatella Di Rosa), manovrato da qualche centrale occulta di potere, oppure per il Quirinale si awicina l'impeachment».
Impeachment, la parola proibita. La parola fatale a Nixon e a Leone. La parola temuta da Cossiga al punto di trasformarlo irl un martellatore implacabile dei suoi avversari per impedire che si saldasse il temuto asse tra Andreotti, la sinistra dc e i comunisti che fu fatale a Leone. La parola esorcizzata da Scalfaro con il comunicato letto con studiata solennità da Paolo Frajese in coda al Tgl delle 20.
Scalfaro parla di un terzo tentativo di screditarlo. Per trovare gli altri due bisogna tornare indietro di dieci mesi, all'inverno del '93, quando per due volte nel giro di quaranta giorni, 1'8 febbraio e il 18 marzo, il procuratore capo di Milano Francesco Saverio Borrelli dovette chiarire pubblicamente che il presidente non era coinvolto in alcun episodio di corruzione.
Vittorio Mele aspetta le due e mezzo del pomeriggio dell'indomani, sabato 31 ottobre, per scagionare il presidente della Repubblica: «Da accertamenti disposti di cui soltanto stamattina si è avuto il risultato, le circostanze riferite da un funzionario del Sisde, delle quali si è occupata la stampa, al di là del significato difensivo che esse esprimono, riguardano un periodo successivo a quello in cui il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, è stato ministro dell'Interno. E pertanto da escludere ogni forma di coinvolgimento del presidente anche nella gestione dei fondi riservati, essendo stato peraltro acquisito il regolare rendiconto degli stessi all'atto del passaggio delle consegne dal prefetto Parisi al prefetto Malpica. Si precisa inoltre che l'attuale ministro dell'Interno Nicola Mancino non risulta menzionato tra coloro che avrebbero utilizzato o consentito l'uso distorto dei fondi segreti del Servizio».
Respira di sollievo Scalfaro, che ha trascorso questo sabato di passione lontano dal Ouirinale, in compagnia di Napolitano e di Ciampi che lo hanno confortato.
Mele ha aspettato il primo pomeriggio per stilare il comunicato perché al mattino ha interrogato Malpica e ha voluto rassicurarsi circa l'assenza di nuovi colpi di mano. In realtà Malpica si limita a portare avanti il gioco concordato con i suoi ex collaboratori del Sisde. A proposito dei 14 miliardi, trovati l'anno precedente dal giudice Vinci sui conti dei funzionari del Sisde alla banca Carimonte, cambia versione e dice di essere stato costretto a mentire al pubblico ministero: quei soldi, in realtà, sarebbero fondi personali dei funzionari, e la tesi che fossero invece del Sisde (al quale furono restituiti da Vinci) sarebbe stata concordata in sede politica col mini-
stro Mancino per sgonfiare l'azione giudiziaria, con la promessa di una futura restituzione.
I giudici Torri e Frisani sono insoddisfatti dei primi interrogatori di Malpica, che parla a rate e non convince. Della vicenda comincia a interessarsi anche il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti perché si parla di una loro ennesima riforma. Ma il suo presidente Pecchioli, riferendosi alla deposizione di Malpica, parla di chiamata in causa di ministri dell'Interno senza far capire con chiarezza se il periodo di Scalfaro sia escluso o no.
Lega e Msi continuano a martellare il Quirinale. Bossi dice che il presidente della Repubblica deve andarsene dopo le elezioni («Si ritiri in convento» incalza il presidente della Lega, Rocchetta). Fini aggiunge che, come ex ministro dell'Interno, Scalfaro deve essere ascoltato dal Comitato dei servizi.
Parla Galati, bomba a Montecitorio
A dare la spallata finale interviene il 3 novembre Michele Galati, cassiere del Sisde fino al dicembre del '92, quando fu scoperto il famoso conto Carimonte. Tra Carimonte e Credito Industriale Sammarinese (l'altra banca-salvadanaio dei benestanti funzionari del Sisde), Galati risulta intestatario di circa 6 miliardi. Agli stupefatti giudici Torri e Frisani, l'ex cassiere dice che quei soldi sono suoi, frutto dei 50 milioni di premi mensili ricevuti dal Servizio. E per dimostrare che le borse del Sisde erano generose con tutti afferma che almeno dal 1982 tutti i ministri dell'Interno ricevevano un appannaggio di 100 milioni mensili. Anche Scalfaro? Anche Scalfa-
ro, risponde Galati. Anche Gava, Scotti e Mancino? Anche loro. Anche Fanfani? Fanfani no, dice Galati. Awicinato per «La Stampa» da Guido Tiberga, il senatore conferma: «L'opinione pubblica dovrebbe essere contenta che ci sia gente che quei soldi non li ha voluti. Dovrebbe essere stato così per
256 257 tutti. Ma non so che cosa è successo e non tocca a me esprimere giudizi».
Ma la stilettata di Galati al capo dello Stato non si ferma ai 100 milioni. Il funzionario aggiunge perfidamente che i Servizi «aiutavano un amico di Marianna Scalfaro». Si tratta dell'architetto Salabé che per il Sisde ha fatto cospicui lavori. Dai documenti acquisiti dalla magistratura durante gli interrogatori, risulterà anche che Salabé aveva un trattamento privilegiato: il 12 marzo 1992 il ministro dell'Interno Vincenzo Scotti firma un decreto per l'urgente acquisizione di un immobile in via Poli 12, necessario agli uffici del Sisde. Il prezzo dichiarato è di 15 miliardi e mezzo. Ma il nuovo direttore del Servizio, Alessandro Voci autorizza una spesa complessiva di 25 miliardi. La differenza viene versata in nero, si giustifica Voci, per non aggravare di 2 miliardi di Iva i costi per l'ufficio e per non far lievitare ulteriormente il prezzo dell'immobile, vista l'incidenza fiscale che sarebbe maggiore.
L'architetto Salabé è anche proprietario di due lussuosi e discreti complessi alberghieri (il Borgo Paraelios, a Poggio Catino, cinquanta chilometri da Roma, e la Baja Paraelios a Tropea, in Calabria) frequentati da personaggi al massimo livello politico. E consulente del Quirinale per le più delicate
ristrutturazioni edilizie. Ma è su piazza da almeno dieci anni e presentarlo semplicemente come «amico di Marianna» significa mirare al cuore del presidente.
Come avevano fatto Broccoletti e Malpica, anche Galati parla di una riunione al massimo livello tenuta nel dicembre del '92 alla presenza di Scalfaro, per concordare una versione da dare alla magistratura dopo lo scandalo Carimonte e mettere tutto a tacere. A differenza dei suoi colleghi, Galati porta apparenti pezze d'appoggio: foglietti, numeri, sigle che il procuratore Mele definisce «pretesa documentazione costituita da appunti informali recanti firme o sigle attribuibili agli stessi indagati o a persone dello stesso ambiente». Carte che per legge andrebbero distrutte ogni tre mesi, ma che gli uomini del Sisde hanno scrupolosamente conservato per garantirsi una serena vecchiaia. Galati viene interrogato il 2 novembre, Mele passa tutta la giornata del 3 con i suoi collaboratori per decidere se trattenere l'inchiesta o trasferirla al Tribunale dei ministri (deciderà di trattenerla) e solo alle sei del pomeriggio gli stralci più esplosivi emergono dai computer delle agenzie di stampa e arrivano naturalmente anche sui terminali dei giornalisti parlamentari a Montecitorio. «In aula si vota la riforma dell'articolo 138 della Costituzione» racconta su «la Repubblica» Barbara Palombelli «ed è una votazione importante: le luci arancione lampeggiano per richiamare all'ordine tutti i deputati. Nel Transatlantico che sembrava deserto, improvvisamente, come formiche impazzite, tutti i cronisti parlamentari iniziano ad agitare foglietti. Su quelle pagine strappate dalle telescriventi, l'assalto al Quirinale, l'accusa al capo dello Stato, le insinuazioni verso il ministro degli Interni...»
I parlamentari votano in gran fretta per correre in Transatlantico e riempire i taccuini dei cronisti. Gerardo Bianco dichiara alla «Repubblica»: «Conosciamo Scalfaro da trent'anni, il suo rigore, la sua intransigenza...». Meno generosa Irene Pivetti della Lega, che certo non immaginava quanti contatti avrebbe dovuto avere in futuro col presidente: «Tutto previsto. La Lega aveva denunciato la corruzione del sistema...», mentre Diego Novelli della Rete parla di «carte false».
Su tutte le dichiarazioni pesa la prospettiva delle elezioni anticipate. Tranne la Dc e il vecchio pentapartito, tutti vogliono che Scalfaro sciolga al più presto le Camere. Nella bagarre di Montecitorio, la sera del 3 novembre, molti nella sinistra, nella Lega e nel Msi vedono dietro le carte scottanti degli «spioni» o «barbe finte», come vengono chiamati in gergo gli agenti dei Servizi, una manovra per evitare il ricorso anticipato alle urne o comunque per ritardarlo il più possibile. Alla sincera solidarietà di alcuni parlamentari deve pertanto sommarsi il sostegno strumentale di altri, che temono oltre l'immaginabile le dimissioni del capo dello Stato, sufficienti a provocare un lunghissimo rinvio della consultazione. Fanno eccezione i leader del Msi e della Dc. Fini vuole le elezioni presto, anche se non può prevedere l'exploit del 28 marzo: nonostante questo, insiste nel ventilare l'impeachment di Scalfaro. Martinazzoli vuole le elezioni il più tardi possibile, anche se non arriva a prevedere i disastrosi risultati di primavera: ma la lealtà nei confronti del capo dello Sta-
258 259 to, del ministro dell'Interno Mancino e dei ministri dell'In-
terno, tutti democristiani, che si sono alternati al Viminale dalla prima legislatura in poi, gli impone un'immediata e pubblica condanna delle deposizioni di Galati e dell'uso strumentale che comincia a farsene.
La signora Garofalo veste il marito
D'accordo con Occhetto, Martinazzoli rifiuta l'immediato dibattito in aula richiesto da altre forze politiche.
Al Quirinale si trascorrono intanto ore molto difficili. Il capo dello Stato e i suoi collaboratori hanno conosciuto, ovviamente, in anticipo sulle agenzie di stampa il contenuto esplosivo della deposizione di Galati. E sanno qualcosa di molto più grave, che i giornali conosceranno dopo un paio di giorni: subito dopo l'arresto, l'ex direttore del Sisde, Riccardo Malpica, ha confermato la deposizione di Galati («Preparavo ogni mese una busta con 100 milioni e l'intestazione: signor Ministro») aggiungendo di aver consegnato personalmente la somma a Scalfaro. Il Quirinale apre dunque fin dal pomeriggio una serie di consultazioni riservate con i presidenti delle Camere e con il presidente del Consiglio, da cui Scalfaro riceve rinnovata solidarietà. Ma non basta. Il presidente sta pensando di parlare alla nazione. Viene preparata una bozza di messaggio televisivo e Scalfaro - che tiene alla sua onestà più che a ogni altra cosa - scrive esplicitamente che ha sempre fatto un uso rigorosamente istituzionale dei fondi assegnatigli come ministro dell'Interno, ma la frase non sarà mai pronunciata davanti alle telecamere.
La diffusione dei verbali di Galati attraverso le agenzie di
stampa e il pandemonio che ne nasce a Montecitorio convincono il Quirinale a rompere gli indugi e alle 20.30 il presidente decide di rivolgersi al paese nella stessa serata. Cinque minuti più tardi (il telegiornale è appena finito) il redattore del Tgl Fabrizio Ferragni chiama dal Quirinale il suo direttore, Demetrio Volcic, e gli annuncia una telefonata formale della direzione generale della Rai alla quale in quegli stessi minuti il Quirinale sta chiedendo ufficialmente uno spazio a reti unificate. Destinatario della richiesta Giovanni Garofalo, responsabile della struttura tecnico-informativa della Rai presso il Quirinale.
A conferma del fatto che Scalfaro ha deciso soltanto nella tarda serata di rivolgersi al paese, il centralino del Quirinale trova Garofalo a casa, vicino a piazza Navona. Ci è arrivato da poco, si è messo in pantofole e veste da camera, e la signora Dina ha appena portato la pasta in tavola, quando squilla il telefono. «Dottore, un momento: le passiamo il segretario generale della Presidenza della Repubblica». Garofalo guarda con un po' di malinconia gli spaghetti che si raggrumano quando attraverso la cornetta, invece della voce sommessa di Gaetano Gifuni, gli arriva quella squillante di Gaetano Scelba, per gli amici Tanino, capo del servizio stampa del Quirinale. «Scusarni, Giovanni. Il presidente ha deciso di rivolgersi al paese con un messaggio...» «...televisivo?» sussurra Garofalo nella fervida speranza che Scalfaro abbia scelto una forma di esternazione più cauta e, soprattutto, che possa fare a meno della sua presenza fisica al Quirinale. «Televisivo» ribatte implacabile Tanino. E aggiunge, fatalmente: «Pensi tu a tutto, naturalmente?».
Garofalo risponde di sì perché non può fare altrimenti, e
comunque senza quasi avvedersene. Il bravo giornalista ha infatti assunto il suo incarico al Quirinale soltanto da quattro mesi. Viene dalla radio, dove è stato chiamato nel '91 dal direttore Marco Conti, che lo convinse a lasciare Bari e la vicedirezione della «Gazzetta del Mezzogiorno» per assumere la guida della redazione politica del Gr2. Garofalo non ha mai fatto televisione, non ha avuto tempo di maturare esperienze tecniche in questo campo e ha appena cominciato a studiare il rinnovo degli apparati per trasmettere dal Quirinale.
Quando Scelba gli annuncia che di lì a poco il presidente vuole parlare agli italiani in diretta tv e che lui, Garofalo, «deve pensare a tutto», il nostro deve richiamare tutta la forza della propria fibra per sostenersi. «Arrivo subito» dice.
A questo punto la famiglia Garofalo dà prova di una formidabile organizzazione logistica. La signora Dina toglie dalle spalle del marito la vestaglia e la sostituisce con una carnicia, abbottona collo e polsini, getta via le pantofole e recupera un paio di scarpe di riguardo. Tutto questo mentre Giovanni, mantenendo appoggiata con la guancia sinistra la cornetta del telefono sulla spalla, cerca di mettersi in contatto attraverso la Batteria, l'efficientissimo centralino riservato del governo, con il direttore generale Gianni Locatelli e con il suo assistente Sergio Borsi. Locatelli corre a viale Mazzini, mentre Garofalo, al quale ormai la moglie deve soltanto allacciare le scarpe, chiama i tecnici dell'emergenza nella cittadella Rai di Saxa Rubra per ordinare l'immediato invio di un pullman leggero da riprese esterne al palazzo del Quirinale.
Lui stesso si presenta ai corazzieri di guardia all'ingresso
di via del Quirinale (la «palazzina» dove sta lo studio privato del presidente) alle 21 precise, appena mezz'ora dopo la telefonata di Scelba. Ma i corazzieri non lo fanno passare. «Dove vuole andare a quest'ora?» chiedono a Garofalo, e quando lui di soprannumero annuncia addirittura l'arrivo di un pullman per le riprese esterne, poco manca che i corazzieri lo prendano per matto. Ma il responsabile della struttura tecnico-informativa della Rai presso il Quirinale, che ha saltato la cena, si è fatto vestire dalla moglie e ha costretto il direttore generale a tornare in plancia di comando a viale Mazzini, tutto può sentirsi dire, tranne che di essere matto. Ordina dunque ai corazzieri di cercare il dottor Scelba e la Rai può occupare finalrnente il Palazzo, anche per conto di Fininvest e Telemontecarlo che, per evitare nuove emergenze e un inutile spiegamento di telecamere aggiuntive, hanno chiesto il segnale audiovideo di trasmissione alla televisione di Stato.
M Cagliari e Perry Mason scompaiono dal video
Alle 22 Rai Uno sta trasmettendo una partita del Cagliari in Coppa Uefa e Rai Due un bel film della serie Perry Mason quando sulla parte bassa del teleschermo compare quello che in gergo si chiama «serpentone»: una striscia ripetuta in cui si annuncia che alle «22.15 il presidente della Repubblica rivolgerà un messaggio agli italiani». Alle 22.15 in effetti i programmi vengono interrotti. Viene interrotto Perry Mason, e pazienza. Ma viene interrotta anche la partita del Cagliari, ed è bene a questo punto che il lettore sappia che le partite di calcio in diretta sono la cosa più sacra per i telespettatori italiani. Se il 23 maggio del '92 si decise sciaguratamente di non interrompere «Scommettiamo che...?» per dare spazio alla
morte di Falcone, l'interruzione di una partita di calcio in diretta, sia pure di una «provinciale» come il Cagliari, richiede un'assoluta emergenza. Un «messaggio agli italiani» del presidente della Repubblica in effetti lo è. Solo che, quando viene interrotta la trasmissione della partita di Coppa Uefa, sugli schermi non compare il volto paterno e accigliato di Oscar Luigi Scalfaro, ma una bella signora che dice che il sederino di suo figlio con quei pannolini in offerta speciale è così asciutto che più non si potrebbe. Dopo i pannolini, il caffè. Dopo il caffè, l'auto economica e sicura che siccome c'è la crisi viene quasi regalata, ma solo fino al 15 novembre. Insomma, nove interminabili minuti di pubblicità, mentre Onofrio Pirrotta ricompare imbarazzatissimo su Rai Due, Paolo Liguori debutta come direttore-anchorman di Italia Uno nelle condizioni più difficili e nemmeno una vecchia volpe come Emilio Fede sul Tg4 sa come cavarsela.
Che succede? Succede che nei cavi che portano dalle telecamere piazzate nello studio di Scalfaro ai trasmettitori della Rai (che a loro volta debbono passare a Fininvest e Telemontecarlo immagini e sonoro del messaggio) transitano le immagini, ma non la voce di Scalfaro. La tensione è altissima, Giovanni Garofalo non sa che pesci prendere, mentre il presidente riesce perfino a scherzare («Ce la faremo prima di Natale?») e il paese, rimasto senza messaggio, ma anche senza partita, senza Perry Mason e senza tutto il resto, comincia a innervosirsi e a intasare i centralini della Rai e dei giornali per chiedere spiegazioni.
Ma il problema è tecnicamente irrisolvibile in tempi brevi e la Rai è costretta a mandare di gran carriera al Quirinale
una stazione satellite mobile («ITA 17») che consente alle 22.30 al capo deUo Stato di fare finalmente «capoccella», come dicevano amabilmente i vecchi tecnici di studio di una generazione ormai scomparsa.
«Un saluto a tutti» attacca Scalfaro e va subito giù duro: «Una constatazione: prima si e tentato con le bombe, ora con il più vergognoso e ignobile degli scandali. Occorre rimanere saldi, sereni. Penso sia giunto il momento di fare un esame chiaro dell'attuale realtà italiana per trame conclusioni forti ed efficaci». Dice parole gravi e accorate, il presidente della Repubblica. Parla di «tentativo di lenta distruzione dello Stato». E aggiunge: «A questo gioco al massacro io non ci sto. Io sento il dovere di non starci e di dare l'allarme. Non ci sto, non per difendere la mia persona, che può uscire di scena in ogni momento, ma per tutelare con tutti gli organi dello Stato l'istituto costituzionale della Presidenza della Repubblica».
Scalfaro arriva poi al punto cruciale, le elezioni anticipate: «Il tempo che manca per le elezioni non può consumarsi nel cuocere a fuoco lento, con le persone che le rappresentano, le istituzioni dello Stato. Questa mia presa di posizione non ha alcuna recondita intenzione di allontanare le elezioni politiche. Il mio pensiero fu chiaramente espresso il 4 ottobre a Bologna, ed è di assoluto, doveroso, sostanziale rispetto del risultato referendario che ha voluto una nuova legge elettorale perché sia attuata. Tale volontà non muta, e sono vane le pressioni che si manifestano da più parti, con varia arroganza e con diversi, anche se opposti intendimenti, e troppe volte con forme rozze e volgari, fino al punto di configurare reato.
Per questo, pur nell'asprezza disgustosa della sleale battaglia, mio dovere primario è di non darla vinta a chi lavora allo sfascio.»
La chiusura è una chiamata morale alle armi: «Siamo a un passaggio difficile per l'Italia e per il popolo italiano. Non si affronta che con la responsabilità e il sacrificio, con l'amore per la patria. A questo siamo chiamati. A questo occorre rispondere».
Scalfaro ha parlato per sette minuti. E ne passano appena una decina per raccogliere le prime, contrastanti reazioni. «Ouello del presidente Scalfaro è un messaggio responsabile, doverosamente preoccupato degli interessi della nazione» dice Achille Occhetto. «Ha parlato poco e non s'è capito niente» ribatte Francesco Speroni, capogruppo della Lega al Senato. «Bastava dire: non mi dimetto e sciolgo le Camere.» Gelida la replica del dc Mattarella: «Di fronte alla nobiltà del messaggio del presidente Scalfaro e alla gravità dell'attacco alle istituzioni, la Lega non sa uscire dalla volgarità e non rinuncia all irresponsabile sciacallaggio politico».
Resta da chiedersi perché Scalfaro abbia depennato dal suo messaggio la frase sull'uso sempre rigorosamente istituzionale dei fondi assegnatigli. Quando l'abbia depennata, non sappiamo. E certo che, mentre i tecnici della Rai impazzivano per stabilire il collegamento con il Quirinale, Scalfaro ha riletto ininterrottamente il messaggio cancellando e aggiungendo frasi di suo pugno e facendo, come spesso gli accade, completamente di testa sua.
Un ministro dell'Interno (e Scalfaro lo è stato per quattro anni) ha il diritto-dovere di disporre di fondi riservati e di amministrarli discrezionalmente con l'unico vincolo di rispettare la legge. La vicenda Sisde ci ha dimostrato che molte persone hanno largamente abusato di questa discrezionalità. Ma dell'onestà di Scalfaro nessuno ha dubitato. La sua attività politica dalla Costituente a oggi è specchiata. La sua casa di periferia in città e la sua villetta a Santa Severa dimostrano un'assoluta sobrietà di costumi. Scalfaro è stato sempre il prototipo del politico onesto. Pur conoscendomi pochissimo, alla fine del '91 aveva accettato la proposta di un'importante casa editrice torinese di scrivere con me un libro-intervista su morale e politica; l'iniziativa, rilanciata dagli inizi di Tangentopoli, cadde per la sua chiamata al Quirinale.
Perché, dunque, non giocare a carte scoperte puntando sul carisma che lo lega agli italiani? A chi glielo chiede, il presidente risponde di non aver voluto, quel 3 novembre, dare l'impressione di essere sceso in campo per una difesa personale. Voleva salvare la rispettabilità delle istituzioni. Ma più d'uno, nel mondo politico, non ha apprezzato il gesto.
«Il presidente è alle corde»
«Presidente alle corde»: così «Panorama» titola il servizio di Stefano Brusadelli e Massimo Franco la settimana successiva al messaggio. Dice il giornale: «Ostaggio della Lega e del Pds
264 265 che vogliono elezioni al più presto, accusano molti parlamentari della Dc. Che scalpitano».
L'articolo comincia con l'amara confessione di Gerardo Bianco, capo dei deputati dc: «Ormai mi pare chiaro. Dopo le elezioni anticipate, faranno la festa al capo dello Stato...». E aggiunge, dopo aver riferito le diverse posizioni politiche sul caso: «Il vero dramma di Scalfaro è questo miscuglio di solidarietà e di veleni. Nessuno lo vuole cacciare, per ora. Al contrario. Molti lo vogliono così: al Quirinale, ma indebolito da voci infamanti. Diventa ogni giorno più palpabile la sensazione che un capo dello Stato azzoppato faccia comodo a tanti giocatori del potere. La Lega può continuare a ricattarlo, minacciando secessioni parlamentari e governi prowisori se non ci saranno elezioni entro primavera... Anche Occhetto ha puntato tutto sul voto. E uno Scalfaro debole significa una Dc debole. Forse può significare persino l'incarico a un esponente del Pds per guidare il primo esecutivo della prossima legislatura. Sotto voce, alle Botteghe Oscure già si fanno piani per rintuzzare l'offensiva anti-Scalfaro prevedibile dopo il voto anticipato; almeno fino alla formazione del nuovo governo».
Con la sola eccezione dell'«Indipendente», che lo martella ogni giorno con titoli scandalistici, il presidente della Repubblica viene difeso da tutta la grande stampa.
Questa generale solidarietà insospettisce Lanfranco Vaccari che lamenta come «i giornali si dedichino al ridimensionamento dello scandalo».
Scrive Vaccari: «La coincidenza fra la reazione dei politici e quella della stampa è curiosa. La prima è del tutto compren-
sibile: i maggiori partiti oggi vogliono andare alle elezioni e l'impeachment del presidente le ritarderebbe. Per questo, tendono a bollare la vicenda del Sisde come manovra organizzata dagli irriducibili dell'ancien régime. Danno un'interpretazione politica dei fatti, li piegano alle loro convenienze. Fanno il loro mestiere. E lecito però chiedersi se fanno il loro mestiere i media quando si lanciano in una difesa preconcetta di Scalfaro, assoggettandosi alla prevalenza della ragion politica. Per giornali votati all'informazione e non alla politica, il problema è solo stabilire se il presidente ha preso i soldi del Sisde e come li ha usati. L'alternativa non è fra giustizia e democrazia. Ma fra verità e bugie. Nient'altro».
«Altro fango da Malpica: Scalfaro lo pagavo io» titola «la Repubblica» venerdì 5 novembre. I giornali sono appena arrivati sulla scrivania del procuratore capo di Roma, Vittorio Mele, che da piazzale Clodio parte nei confronti di Malpica e dei suoi un siluro imprevedibile: l'ex direttore e gli altri due dirigenti che più si sono esposti contro Scalfaro, il direttore amministrativo Broccoletti e l'ex cassiere Galati, vengono imputati di «attentato agli organi della Costituzione»: l'articolo 289 del codice penale prevede per questo reato una pena minima di dieci anni. Motivazioni giuridiche o ragion di Stato?, chiede il cronista giudiziario della «Repubblica», Raimondo Bultrini, al procuratore aggiunto Ettore Torri. La risposta: «E abbastanza intuibile, non c'è bisogno che ve lo dica io. Certamente c'è una base giuridica, però hanno pesato fortemente elementi di opportunità generale».
Nelle settimane successive, mentre si dibatte sulla data delle elezioni anticipate, il dramma assume talvolta tinte grottesche. «In coda per un bacetto della Zarina» titola a pie-
na pagina il «Corriere della Sera» del 14 novembre.
La Zarina, ve la ricordate? E Matilde Martucci segretaria di Malpica. Arrestata alcuni giorni dopo il suo principale, accusata di aver messo su una fortuna in pochi anni, la Martucci viene ritratta come l'autentica Circe del Sisde.
Titola ancora il <(Corriere»: «Gli americani non capivano se a comandare fosse lei o Malpica». E il bacetto? «La Zarina si piazzava nell'ingresso all'ora di uscita, tutto il Sisde le sfilava davanti. A chi non contava, neppure un saluto. Agli altri, un bacetto sulle guance».
Questo e molto d'altro sulla Zarina riserva il «Corriere» ai suoi lettori domenicali, citando la confessione di un alto funzionario dei Servizi.
Ma occorre aspettare il giorno dell'Epifania del '94 perché la temperatura salga di nuovo a livelli esplosivi. Ancora una volta il merito è di Maurizio Broccoletti. Scomparso dopo il suo interrogatorio romano e inseguito da un mandato di cattura internazionale, l'ex direttore amministrativo del Sisde viene arrestato il 1° dicembre a Montecarlo. Seguendo l'Abc
266 267 del perfetto investigatore, i carabinieri del Ros hanno pedinato per una decina di giorni la sua amica più cara. E questa, senza saperlo, li ha portati a Broccoletti, invano protetto da un vistoso parrucchino e da documenti falsi.
La procedura di estradizione dura poco più di un mese e il 5 gennaio il «detenuto eccellente», come amano dire i cronisti giudiziari, viene accompagnato su una motovedetta da Montecarlo a Sanremo, di qui a Genova e poi a Regina Coeli.
Alle 10 di giovedì 6 gennaio, giorno dell'Epifania di Nostro Signore, i procuratori aggiunti Ettore Torri e Michele Coiro, accompagnati dal sostituto Aurelio Galasso, varcano il portone e poi il cancello del carcere giudiziario di Regina Coeli. A Roma l'Epifania è più Epifania che altrove e forte è il richiamo di piazza Navona, delle sue bancarelle, del suo circo di ambulanti, di bambini festanti e rumorosi, dei gerani rossi che s'affacciano dai balconi chiusi di gente troppo snob per mischiarsi alla folla un po' paesana delle feste natalizie.
Quando Torri, Coiro e Galasso hanno vinto il concorso per diventare giudici, la magistratura romana era un placido e autorevole osservatorio delle umane debolezze in cui non c'era gran fretta, non esistevano emergenze e soprattutto erano garantite le vacanze dal 15 luglio al 15 settembre e nessuno si sarebbe permesso di disturbare un importante procuratore il giorno dell'Epifania.
Epifania con Broccoletti
E solo l'alto senso dello Stato che impedisce ai tre autorevoli magistrati di temere per il felice svolgimento del pranzo festivo, mentre un sottufficiale della polizia penitenziaria li introduce rispettosamente in una delle nude stanzette che la burocrazia carceraria chiama pomposamente «sale magistrati».
Si tratta, in realtà, di celle un po' più grandi delle altre, con
le finestre protette da inferriate che si affacciano su un giardino interno. I tavoli disponibili sono tre: per il pubblico ministero, per l'imputato e i suoi difensori per il giudice delle indagini preliminari. Stavolta il giudice non c'è e le parti possono sistemarsi più comodamente. Broccoletti è in buona forma e accoglie i procuratori con baffl alla tartara e pizzetto, che facevano parte del suo mascheramento monegasco insieme a una fluente e ormai inutile parrucca. L'imputato è assistito dall'avvocato Nino Marazzita. Le parti s'impegnano a rispettare il segreto. L'interrogatorio dura dalle 10 alle 17. Alle 18.43 le agenzie di stampa cominciano a inondare computer e telescriventi con la sintesi dell'interrogatorio.
Broccoletti va giù pesante. Conferma le accuse precedenti, sottoscrive quelle di Malpica e di Galati e non risparmia nessuno. Alla supposta riunione organizzata dai vertici dello Stato per insabbiare l'inchiesta nel dicembre del '92, Broccoletti ne aggiunge altre awenute al Quirinale nella primavera del '93 con Scalfaro, il presidente del Consiglio Amato, il ministro dell'Interno Mancino, il suo capo di gabinetto Lauro, il capo della polizia Parisi, il direttore del Sisde Finocchiaro e l'ex direttore Malpica. Secondo Broccoletti, queste riunioni, motivate dall'allarme per l'inchiesta del giudice Frisani, sarebbero avvenute per tranquillizzare i funzionari del Sisde sotto tiro sul buon esito finale dell'inchiesta. Ma le cose sono andate in modo assai diverso dal previsto e Malpica, Broccoletti e soci hanno deciso di parlare.
Dieci minuti dopo l'uscita delle prime notizie, Mancino annuncia una querela per calunnia. Segue Giuliano Amato: «La notizia è inventata di sana pianta».
Infine, poco prima del telegiornale delle 20, la secca smentita del Quirinale: «La notizia di riunioni al Quirinale, di cui fa cenno la nota Ansa delle 18.43, è destituita di qualsiasi fondamento».
L'indomani, venerdì 7 gennaio, mentre la Borsa saluta le nuove rivelazioni lasciando sul terreno quasi il 3 per cento, il procuratore Mele fa una mezza smentita che salva il Quirinale, ma non smentisce le dichiarazioni di Broccoletti. Lamenta infatti Mele che la stampa abbia mal riferito dell'interrogatorio: il segreto istruttorio gli impedisce di dire di più; si sappia, comunque, che Broccoletti non ha parlato di riunioni al Quirinale, ma di «consultazioni» awenute altrove. Dove, come, quando? Ha mentito Broccoletti ancora una volta? Le sue vittime dicono di sì, i giudici dovranno indagare.
Ma il problema, come si dice, è ormai politico. Il Palazzo con un orecchio ascolta i vari Broccoletti, con l'altro ausculta il Quirinale cercando di capire quando Scalfaro vuole sciogliere le Camere.
Giuliano Ferrara e Vittorio Sgarbi, tremendi panzer della Fininvest, dicono senza mezzi termini che Scalfaro deve dimettersi. «Leone lo fece per molto meno» tuona Ferrara da «Radio Londra», inconsapevole che il destino lo avrebbe portato a discrete e costituzionalissime consultazioni con il Quirinale nella sua veste di ministro per i Rapporti con il Parlamento del governo Berlusconi. Ma all'ipotesi di un governo Berlusconi, il 7 gennaio '94, pensa riservatamente solo l'interessato. Gli altri litigano a favore o contro l'immediato scioglimento delle Camere come mosche impazzite dentro un
bicchiere capovolto.
«Scalfaro vuole solo aiutare il Pds» tuonano tra i giornalisti di Montecitorio i democristiani Agrusti e Biasutti. Castagnetti e la Jervolino corrono in soccorso del capo dello Stato, assicurando che le Camere saranno sciolte seguendo «gli esclusivi interessi del paese». Ma Francesco Verderami comincia così il suo articolo sul «Corriere della Sera»: «Caro Mino, bisogna rendersi conto che non si può tenere il paese in queste condizioni. Clic. E finita così la telefonata tra Scalfaro e Martinazzoli, ieri [7 gennaio]. E ieri è forse finita così anche la legislatura». L'attento cronista riferisce anche la soffiata di un misterioso informatore dal Colle: «Lui scioglie perché si vada a votare il 20 marzo, massimo il 27». Profetico.
Mentre le pressioni sul Quirinale perché sciolga le Camere si fanno sempre più forti («Scalfaro, non si può tardare ancora...» si spazientisce Eugenio Scalfari nell'omelia domenicale del 9 gennaio su «la Repubblica»), lo «Stato dei veleni» - come opportunamente lo chiama lo stesso giornale - riserva nuovi colpi: Parisi, indagato, si dimette, ma Mancino lo invita a restare; Mele, che aveva detto di non conoscere la notizia, viene contestato ma riceve la solidarietà di tutti i suoi sostituti; Mancino, interrogato anche lui sul caso Sisde, si dimette, ma viene trattenuto da Ciampi.
Il nome di Mancino, insieme con quello di Scalfaro e di altri politici, tra cui Gava e Scotti, compare in alcune bobine registrate nell'agosto del '93 da Broccoletti, la Martucci e un altro funzionario del Sisde, Gerardo Di Pasquale, responsabile dell'ufficio logistico. I tre, agitatissimi per l'andamento
dell'inchiesta, confermano nelle registrazioni la loro versione dei fatti, parlando delle autorizzazioni ricevute e coinvolgendo ancora una volta nell'operazione i vertici dello Stato. «Bobine troppo perfette» scrive «La Stampa» interpretando perplessità molto generalizzate. Il settimanale «Panorama» e il Tgl sono venuti in possesso delle bobine e il direttore del telegiornale, Demetrio Volcic, ha autorizzato la trasmissione delle voci registrate nell'edizione delle 20 del 14 gennaio, ma pochi minuti prima della messa in onda la polizia si presenta in redazione e sequestra il servizio.
Domenica 16 Scalfaro firma il decreto di scioglimento delle Camere, annunciando il voto per il 27 e il 28 marzo (il secondo giorno è stato aggiunto per arginare la legittima protesta degli ebrei, visto che il 27 cade la loro Pasqua). Ma il fiume di veleni non si placa, toccando anche sponde inattese.
Il 18 gennaio, Scalfaro va a inaugurare l'anno accademico della Terza Università di Roma. Si tratta di un impegno assolutamente tranquillo, sulla carta. Ma una studentessa di Lettere, incaricata di porgergli il saluto degli studenti, accantona il discorso ufficiale e dice chiaro e tondo al presidente (davanti all'allibito corpo accademico e alle implacabili telecamere) che deve dimettersi per lo scandalo Sisde. Scalfaro non la manda giù. Va al microfono e, fremente d'indignazione, le risponde: «Sarebbe stato più facile e più consono al mio carattere sbattere la porta al primo stormir di fronde e di andarmene da un compito che non ho chiesto a nessuno».
Scalfaro, come è noto, arrota la erre. Quando dice «al primo stormir di fronde», pronunciando quattro erre in due secondi, l'arrotatura della consonante, che sarebbe già rumorosa di per
sé, diventa una valanga di furore che s'abbatte in un'aula magna del tutto impreparata a una mattinata del genere.
Terza bobina su Scalfaro
Passa un mese. «Terza bobina. Su Scalfaro» titola il 17 febbraio «il Giornale», che nei servizi sul Quirinale già risente della nuova direzione dilttorio Feltri, che ha appena sostituito Indro Montanelli. E spuntata fuori una franca e colorita conversazione (registrata) tra Broccoletti e la Martucci che chiama di nuovo in causa Scalfaro e Amato. Lo stesso giorno «La Stampa» relega tra le notizie di minore statura questa rivelazione e dedica il titolo a piena pagina a questioni più confortanti per il capo dello Stato: «Sisde, Scalfaro non c'entra. I giudici considerano legittima la disponibilità di fondi riservati ai Servizi per fini istituzionali».
Passano nove giorni e i quotidiani hanno un nuovo scoop: l'avvocato Fabrizio Lemme, grande esperto d'arte e famoso collezionista di quadri secenteschi, smentisce che Malpica abbia mai detto di aver consegnato 100 milioni al mese a Scalfaro. Lemme difende Malpica da alcune settimane e nell'udienza preliminare davanti al Gip Vincenzo Terranova, che deve decidere sul rinvio a giudizio degli uomini del Sisde, afferma quanto segue: «Malpica non ha assolutamente mai parlato di dazioni di denaro dirette a Scalfaro o di avere previamente informato il presidente della Repubblica di una versione di comodo che si voleva dare su questo denaro». A Bultrini di «Repubblica» che gli fa osservare quanto spettacolare sia la ritrattazione, Lemme dice: «Sì, il prefetto ha detto cose diverse nel primo interrogatorio. Ma era stato appena
arrestato ed era confuso. Poi ha meglio chiarito i suoi ricordi. Malpica non ha mai avuto scienza diretta di soldi a Scalfaro. Qualcuno gli chiedeva denaro per Scalfaro, ma poi chi può sapere a chi realmente è andato quel pacco?».
L'iniziativa di Lemme non piace alla famiglia di Malpica. Sabato 26 febbraio, l'indomani della dichiarazione di Lemme, Corrado Ruggeri del «Corriere della Sera» va ad Anzio nella villetta dei Malpica. Il padrone di casa non può parlare con nessuno e scrive freneticamente a macchina preparandosi ai confronti con i ministri che ha chiamato in causa. Parla la moglie Letizia, rammaricata di trascurare da qualche tempo i trenta gatti che le pascolano in giardino. E quando Ruggeri le chiede notizie di quei famosi 100 milioni per Scalfaro, la signora risponde: «Domandai a Riccardo quale fosse la verità e lui rispose che era tutto vero, che anche Scalfaro riceveva quei fondi e che ora avrebbero cercato di mettere tutto a tacere».
L'avvocato Lemme rinuncia alla difesa, ma Scalfaro è di nuovo in imbarazzo. Anche perché, mentre Ruggeri va dai Malpica ad Anzio, l'avvocato Marazzita, legale di Broccoletti, chiede che al processo contro i capi del Sisde vengano ammessi 128 testimoni, tra cui il presidente della Repubblica.
Siamo a domenica 27 febbraio, alla cena del professor Giovanni Maria Flick e della moglie Simonella «Ai tre scalini» di Rosanna e Matteo e alle lunghe telefonate di quella sera, che dall'ottimo ristorante del quartiere San Giovanni partono verso la modesta abitazione di periferia in cui si ostina a restare il presidente della Repubblica.
L'indomani mattina Flick si presenta al palazzo di giustizia. Incontra Mele, passa da Coiro, va a salutare Torri. Flick chiede un nuovo chiarimento. Mele e Torri sembrano freddi («Non ce n'è ragione»), Coiro appare più disponibile, ma è evidente che debba essere il procuratore capo a decidere.
Passano quattro giorni e venerdì 4 marzo «la Repubblica» può titolare: «Niente prove contro Scalfaro. La Procura spegne i sospetti, ma nel pool si spargono nuovi veleni. Un comunicato di Vittorio Mele afferma che non sussiste alcun elemento di fatto dal quale emerga un uso non istituzionale dei fondi Sisde. Ma il consigliere aggiunto Ettore Torri avanza un sospetto: pressioni dal Quirinale per ottenere quel chiarimento?».
Mele afferma di «essersi sentito in dovere» di fare quella precisazione «di fronte al ripetersi di insinuazioni e accuse». Torri rivela la visita di Flick che «in qualche modo rappresenta il presidente Scalfaro e sua figlia Marianna, per sollecitare una presa di posizione, un chiarimento, sul ruolo del capo dello Stato». E aggiunge: «Comunque, il caso Scalfaro non esiste nel momento in cui ogni azione penale per questi fatti contro il capo dello Stato è improcedibile». Poco dopo Flick, da gentiluomo, smentisce di rappresentare il Quirinale.
Una mano gliela dà il procuratore Mele che, intervistato da Marco Nese per il «Corriere», svicola dicendo che «Flick viene da me ogni giorno, ma per parlarmi di problemi diversi». Mele aggiunge che il comunicato è stato steso materialmente dal suo aggiunto Coiro e da lui approvato. La sua dif-
fusione, osserva il procuratore, si è resa necessaria «perché si sono accavallate molte notizie contraddittorie. Prima viene fuori il figlio di Malpica che accusa Scalfaro, poi parla l'awocato di Malpica e smentisce ciò che aveva detto il figlio. Poi l'avvocato rinuncia alla difesa. Un caos. Davanti a questa gran confusione, abbiamo ritenuto che era necessario dire a un'opinione pubblica disorientata come stanno esattamente le cose. E abbiamo spiegato che Scalfaro non c'entra. Con questo io non voglio assolvere nessuno. Nel comunicato dico testualmente che nessun elemento di fatto è emerso sull'uso non istituzionale dei fondi riservati del Sisde e sul coinvolgimento del presidente della Repubblica nell'attività diretta a coprire gli illeciti attribuiti ai funzionari del Sisde».
Ultima domanda di Nese: «Lei dice che è escluso l'uso non istituzionale dei fondi. Significa che Scalfaro ha però fatto uso istituzionale dei fondi Sisde?».
Questa è la risposta di Mele: «La lettura corretta del comunicato è questa: non vengono espressi giudizi. Ci limitiamo a una pura e semplice constatazione. Di che cosa era accusato Scalfaro? Di aver utilizzato i fondi del Sisde in modo non istituzionale. E noi ci limitiamo alla constatazione obiettiva che questo non ci risulta».
Il 6 marzo Riccardo Malpica si confronta faccia a faccia con Mancino, il capo di gabinetto degli Interni Lauro e Parisi. Con Mancino e Lauro il confronto è durissimo; Malpica conferma incontri, telefonate e accuse, e le urla raggiungono i cronisti in corridoio. Con Parisi il clima cambia: «Il capo della polizia non ha avuto alcun ruolo in quelle vicende».
Il 12 marzo il Gip Vincenzo Terranova firma la sentenza di rinvio a giudizio (associazione a delinquere e peculato) per Malpica, Galati, Sorrentino, Martucci, Finocchi, Broccoletti e Di Pasquale.
Domenica 27 marzo, giorno delle elezioni, il quotidiano di Indro Montanelli, «la Voce», riassume così la condizione politica del capo dello Stato: «Se vince la sinistra. Il feeling con Scalfaro è ormai soltanto un ricordo. Occhetto non ha gradito la decisione di ricevere due volte Berlusconi al Quirinale. Un'ipotesi va prendendo sempre più piede. Ciampi. Che Occhetto guardi a Ciampi non è un segreto per nessuno. Nei salotti romani della politica già da un paio di mesi si gioca sull'accoppiata che vede Prodi a Palazzo Chigi e Ciampi al Quirinale».
Scrive ancora «la Voce»: «Se vince la destra. Divisi quasi su tutto, anche il Quirinale non fa eccezione. Berlusconi, dopo essere stato rassicurato nel momento più difficile della sua campagna elettorale, adesso vorrebbe quasi Scalfaro presidente a vita... Bossi è di nuovo andato all'attacco proprio in chiusura della campagna per il voto. Maroni dice che da questo presidente non ci sentiamo garantiti. E Francesco Storace, portavoce di Fini, ripete: "E assurdo che l'ultimo presidente della prima Repubblica sia anche il primo della seconda". Se non vince nessuno. E l'ipotesi che a Scalfaro conviene di più... Dicono Segni e Martinazzoli: "Piena fiducia al presidente. Scalfaro non si tocca"».
La vittoria a valanga di Berlusconi, la maggioranza di centro-destra alla Camera, le stesse dichiarazioni degli awersa-
ri che dicono a caldo: «Berlusconi ha vinto, adesso governi per mantenere le promesse», rendono al Quirinale semplice la strada verso l'assegnazione dell'incarico al Cavaliere di Arcore.
Questo è il clima politico postelettorale quando il 26 aprile comincia il processo ai sette dirigenti del Sisde. In aula non si presenta nessuno degli imputati. Né Broccoletti, l'unico ancora agli arresti, né Malpica, né Finocchi, all'epoca ancora latitante e che nel frattempo ha goduto degli onori della cronaca per la sua misteriosa frequentazione della villa dell'Olgiata dove è stata uccisa la bella contessa Alberica Filo della Torre. Finocchi è anzi sospettato di aver utilizzato i conti svizzeri della contessa per nascondere i soldi del Sisde.
Malpica e Broccoletti sono i personaggi chiave del processo. Al primo non è stata trovata una lira, ma i magistrati lo hanno coinvolto nell'intera operazione. Il secondo ha invece molti miliardi di sudati risparmi e durante l'interrogatorio dibattimentale del 5 maggio li giustifica con la pesantezza dell'orario di lavoro e la modestia delle ferie godute. «Da applicato di segreteria stava per diventare prefetto. E come se un geometra si ritrovasse ingegnere» lo bollerà in un'udienza di fine maggio, con aristocratico disprezzo, l'ambasciatore Fulci, segretario del Cesis, il centro di coordinamento (si fa per dire) di Sismi e Sisde. Ma Broccoletti va diritto per la sua strada, e davanti alla Corte ripete le sue accuse per Scalfaro, Mancino, Amato, Gava, Scotti e così via. Peraltro, lo stesso 5 maggio, deludendo le attese della difesa di Broccoletti, la Corte rigetta la richiesta di far deporre il presidente della Repubblica e i ministri.
Decisione, come vedremo, ribaltata il 20 luglio, quando la stessa Corte, pur tenendo ancora fuori dal processo il capo dello Stato, deciderà di ascoltare in autunno gli ex ministri dell'Interno Gava, Scotti e Fanfani.
«Te lo ricordi Umberto Federico D'Amato?»
Mentre il processo avanza verso la prevedibile condanna, conviene chiedersi da quanto tempo esistono i fondi riservati dei Servizi e quale uso ne sia stato fatto negli anni.
«Te lo ricordi Umberto Federico D'Amato?» dice Umberto Improta, prefetto, ma che dico?, viceré di Napoli col sorriso che gli si stampa in faccia quando ripensa ai bei tempi andati. «Certo che me lo ricordo.» Come si fa a dimenticare uno dei più intelligenti e affascinanti poliziotti italiani, che alla passione per le indagini ha saputo legare a livelli straordinari quella per la grande cucina, tanto da diventare, con lo pseudonimo di Gault e Millot, il titolare della rubrica gastronomica dell'«Espresso» e poi, negli ultimi quindici anni, il responsabile delle sue celebri guide alla ristorazione?
«Bene. Allora sappi che nel '60, quando io ero un funzionarietto all'ufficio politico della questura di Genova, D'Amato - che dirigeva gli Affari riservati del ministero - venne di persona a portarmi ventisettemila lire. E sai a che mi servivano quelle ventisettemila lire? A pagare un informatore. Non erano poche ventisettemila lire: io ne prendevo settantottomila di stipendio.
Quei soldi mi servivano per un informatore. E furono ben
spesi. Perché questo signore ci mise sulle tracce di un altro signore che tenemmo d'occhio per anni e arrestammO tanto tempo dopo durante le indagini sulla colonna genovese delle Brigate rosse. Senza informatori non si fanno indagini. Quando ero questore di Roma, abbiamo fatto 1016 operazioni di buon livello. E con che cosa credi che le abbiamo fatte, con la palla di vetro? Adesso, con questo casino del Sisde, tutti gli informatori più importanti, quelli insospettabili, si tirano indietro. Vuoi l'ultimo esempio? Qui a Napoli una signora era molto utile per orientarci sui naziskin. L'altro giorno mi ha dato un'informazione molto importante. Volevo, dovevo darle dei soldi per legarla a noi, convincerla ad avvertirci quando sa qualcosa. Mi ha risposto: "Siete pazzi, con quello che sta succedendo". Alla fine ho rimediato con un fascio di rose...»
S'affaccia alla finestra del suo studio su piazza Plebiscito, Umberto Improta, e guarda compiaciuto il Palazzo reale, dove in luglio sono venuti i Grandi della Terra per il G7. Awenimento memorabile, il G7 a Napoli. Per mesi, qualunque cosa vi capitasse di dover fare a Napoli, i tassisti vi salutavano così: «Dottò, siete venuto pe' 'o Ggisette, è 'o vero?». E a lui, il signor prefetto Improta, il governo ha affidato i miliardi per le opere essenziali. Perché lui, anche se in prefettura lo chiamano Eccellenza, è un operativo purosangue. Quando nell'82 i Nocs liberarono il generale Dozier arrestando i suoi carcerieri delle Brigate rosse senza sparare un colpo, invitammo in televisione il capo delle squadre speciali. In studio arrivò Improta. «Tu?» «Io.» Lo inquadrammo di spalle per non farlo riconoscere. Ma la sua mole è il più fedele degli identikit. Passa qualche anno. Mario Tuti si barrica nel carcere di Porto Azzurro. Chi si incontra al bar dell'Hermitage
della Biodola, confuso tra i turisti? «Tu?» «Io.»
Ecco perché vale la pena di scendere fino a Napoli se si vuole trovare un filo d'Arianna nel labirinto dei fondi riservati del Sisde.
«Il caso Moro è del '78. Il Sisde nacque un anno prima. Noi poliziotti avevamo paura che si perdesse il coordinamento tra le questure e inventamrno l'Ucigos, il coordinamento tra le Digos, che sostituì l'ufficio Affari riservati del ministero. Ma il salto di qualità nelle indagini lo facemmo proprio gra-
276 277 zie ai fondi riservati del Sisde. Prima pagavamo gli informatori a cottimo. Tanto a notizia. Ma questo ci creava forti problemi di continuità. Noi abbiamo bisogno di tenere sotto controllo certe situazioni in permanenza. Con i fondi riservati del Sisde il problema fu risolto. Riuscivamo a pagare stabilmente informatori collocati in punti strategici. Quelli ai quali non pensa nessuno. Ma riuscivamo a risolvere anche banali problemi organizzativi.
Ti faccio un esempio. Quando ero questore di Roma, durante i Mondiali di Italia '90, dovevo mandare degli agenti in borghese a guardare da vicino il presidente del Consiglio, il ministro dell'Interno, insomma le personalità per le quali è abitualmente richiesto un particolare servizio di vigilanza. Il Coni non ci dette i biglietti omaggio. Lo sai che un giorno dovetti tirare fuori 6.800.000 lire di biglietti? E chi me li dava quei soldi, se non i fondi riservati? Il direttore del Sisde ha
una bella lista con i rendiconti che periodicamente mostra al ministro. Se il presidente del Cesis, il comitato di coordinamento tra i servizi, chiede chiarimenti, il direttore del Sisde riferisce anche a lui. E lui riferisce al presidente del Consiglio.
Tu mi chiedi delle "buste" con i soldi per il signor ministro. Certo che i ministri ricevevano dei soldi. Ma li utilizzavano ora per il prefetto Tizio, ora per il questore Caio, altre volte per operazioni riservate di cui si assumevano la responsabilità. Questo non c'entra niente con le ruberie di al cuni funzionari infedeli che hanno rovinato il lavoro e la reputazione di tanta gente onesta...»
Ecco perché nella torrida estate romana, alla condanna del tribunale e della pubblica opinione gli uomini infedeli del Sisde debbono aggiungere quella degli ex colleghi.
Ma torniamo un po' indietro per seguire il tormento di Oscar Luigi Scalfaro.
Scalfaro vs. Scalfari
Domenica 29 maggio il presidente della Repubblica va in visita al santuario di Oropa, nel Biellese. Ci torna come capo dello Stato a distanza di oltre quarantacinque anni da una memorabile campagna elettorale, in cui il giovane magistrato democristiano andò per un comizio in un clima assai acceso. Temeva che lo buttassero giù dal balcone e invece se ne andò senza un fischio.
In questa mattina festiva di tarda primavera, Scalfaro non
riesce peraltro a trovare la serenità del vecchio reduce che torna vincitore sul campo di una grande battaglia democratica. Viene da Brescia, dove sabato 28 è andato a commemorare il ventesimo anniversario di una delle tante stragi impunite dell'Italia contemporanea: gli otto morti e i cento feriti di piazza deUa Loggia. Ma in piazza, tra le bandiere di Rifondazione comunista, si nasconde un gruppo di autonomi che non promette una giornata tranquilla. Davanti al capo dello Stato, che s'awia verso il palco, s'affaccia una scritta: «Né servi, né padroni / No al regime Berlusconi».
La cerimonia inizia con commozione, e mentre parla il sindacalista Franco Castrezzati che vent'anni fa era sul palco quando esplose la bomba, tra la folla si aprono cinque ombrelli rossi. Su ciascuno è cucita una parola. Tutti insieme, gli ombrelli formano il seguente awertimento: «Via il garante dei fascisti».
L'oltraggio è diretto a lui, Scalfaro, accusato dalla sinistra estrema di aver dato via libera a un governo che comprende per la prima volta nella storia repubblicana ministri del Msi. Scalfaro reagisce immediatamente. Prende il microfono e grida: «La verità è un diritto sacrosanto che deve essere difeso a ogni costo. Deve essere difesa anche di fronte a quelli che, anche in questa piazza, non la vogliono. Il fascismo è stato la negazione della libertà e della verità e ci sono ancora quelli che seguono questa strada».
Le parole del capo dello Stato vengono sommerse dagli applausi. Ma anche dai fischi. E su questi titolano i giornali l'indomani. Nel suo sermone domenicale, Eugenio Scalfari fa
di più. Scrive infatti il direttore della «Repubblica»: «Il capo dello Stato viene ripetutamente nominato in un'aula di giustizia dove si celebra il processo contro i peculatori del Sisde. I giornali che fiancheggiano la nuova maggioranza di destra conducono contro di lui una violenta campagna che dura da sei mesi e che l'ascesa della destra al governo non ha affatto placato. Come stupirsi dunque se un centinaio di facinorosi di estrema sinistra accolgono Scalfaro con salve di fischi in una piazza legata a tristissimi ricordi, quando il medesimo Scalfaro viene sospinto a dare le dimissioni dai giornali che sostengono il presidente del Consiglio?».
Quest'articolo Scalfaro non riesce a mandarlo giù. Ci ripensa per tutta la mattinata, mentre nel santuario di Oropa il suo vecchio amico don Giovanni Saino celebra la messa. Poi, poco prima di pranzo, fa chiamare i giornalisti nella biblioteca del rettore. «Dopodiché» riferisce l'inviato della «Repubblica», Vera Schivazzi, «parla per ventitré minuti di fila, senza interruzioni, né domande, davanti alle telecamere e allo sguardo esterrefatto del suo addetto stampa Tanino Scelba: "Ha ragione il direttore di 'Repubblica' quando scrive che non c'è da stupirsi se vengo fischiato quando ogni giorno il mio nome è ripetutamente citato in un'aula di giustizia e i giornali lo riportano in un certo modo. Vale più uno che accusa delle ripetute smentite dei magistrati? Evidentemente sì, vale di più quell'uno. Ma io sfido chiunque a dimostrare che chi è stato ministro dell'Interno, e non solo io, ha speso una lira fuori dai fini istituzionali".»
Così dicendo, il presidente della Repubblica si toglie dalle scarpe «i sassolini di Brescia». Ma li trasferisce, moltiplicati, nelle scarpe della classe politica. Di destra e di sinistra. Tuo-
na da Bruxelles il vicepresidente del Consiglio Tatarella (An): «Non ci sono solo i politici e i giornali a voler conoscere la verità. E il cittadino comune che chiede a Scalfaro di spiegare come ha speso i soldi». Sulla stessa linea il Pds, mentre il vicepresidente dei deputati di Forza Italia, Pietro Di Muccio, confida a Francesco Verderami del «Corriere della Sera»: «Prima nega semper, poi concede parum, infine distingue. Ecco, sui soldi dei Servizi Scalfaro ha prima negato e poi concesso in parte. Il terzo atto verrà, non si sa quando...».
Negare a novembre, ammettere a maggZo
Perché Scalfaro ha detto a fine maggio a Oropa quel che di fatto ha negato in novembre nel discorso televisivo alla nazione? Se lo chiede con inquietudine Saverio Vertone: «Non si può né capire né condividere la reticenza con la quale Scalfaro ha affrontato le rivelazioni di alcuni agenti del Sisde sul le somme di denaro sottratte alla contabilità ufficiale (i famosi 100 milioni al mese) e versate ai ministri degli Interni. Non è escluso che quei versamenti appartenessero, per ragioni che dovranno essere spiegate, alla zona opaca del potere; che servissero a compiti istituzionali non sottoposti e non sottoponibili alla trasparenza. Ma si può certamente escludere che Scalfaro abbia scelto una linea di difesa efficace. Se quei versamenti ci sono stati ed erano legittimi (sia pure nella misteriosa accezione degli arcana imperii) perché il presidente ha negato così a lungo e così cocciutamente la verità? E se non erano legittimi, che cosa significa la mezza ammissione di Oropa?... Perché Scalfaro non ha detto quattro mesi fa ciò che si è deciso a dire ieri? E perché non ha detto ieri ciò che con
ogni probabilità si deciderà a dire domani o dopodomani?».
La «mezza ammissione di Oropa», come la chiama Vertone, rilancia la campagna anti-Scalfaro condotta da Vittorio Feltri, prima sull'«Indipendente» e ora sul «Giornale», proprietà della famiglia Berlusconi. Il 31 maggio, con un titolo a piena pagina, «il Giornale» annuncia: «Una cucina d'oro per Scalfaro. Mezzo miliardo di fondi riservati per arredare l'appartamento di Oscar. Agli acquisti provvedeva l'architettofactotum del Quirinale: Salabé».
L'articolo procura tristezza e costernazione al Quirinale. «Ma come,» dicono gli uomini di Scalfaro «il presidente della Repubblica si ostina a vivere in una casa di cooperativa costruita trent'anni fa a Forte Bravetta, in una zona alla periferia di Roma, e trascorre le sue vacanze in un'altra residenza modesta a Santa Severa, e qui si parla di cucine miliardarie per il sollazzo di Oscar? Perché non si scrive che l'alloggio al sesto piano di via Lanza, dove stanno gli uffici del Sisde, era già stato occupato dal direttore del Servizio e fu ceduto in gran fretta a Scalfaro quando era ministro dell'Interno perché si temeva un attentato imminente? E perché non si scrive che Scalfaro e sua figlia ci rimasero soltanto quattro mesi?»
Passa qualche giorno e il 4 giugno lo stesso «Giornale» rilancia con un nuovo titolo a piena pagina un sondaggio d'opinione commissionato dall'«Espresso» e i cui risultati non sono affatto lusinghieri per il capo dello Stato. «Al presidente l'Oscar della sfiducia» titola il quotidiano di Feltri, comunicando che il 50 per cento degli italiani non crede all'affermazione del capo dello Stato che i soldi del Sisde sono stati destinati solo a fini istituzionali. Soltanto il 19 per
cento ci crede, mentre il 31 per cento non ha un'opinione in proposito.
In realtà, secondo i legali che hanno esaminato la questione per conto di Scalfaro, il presidente deve essere tenuto completamente fuori dalla vicenda Sisde per due ragioni.
La prima. La Procura di Roma si è chiesta se Scalfaro, come ex ministro dell'Interno, dovesse essere indagato per il solo fatto di aver ricevuto fondi riservati del Sisde e ha risposto di no. Aver ricevuto questi fondi non è affatto un reato. Lo sarebbe averli spesi impropriamente, ma nessuno ha accusato Scalfaro di questo. Se il presidente avesse commesso qualche imprudenza in questo senso, la «banda del Sisde» avrebbe usato immediatamente quest'arma di ricatto. Se non lo ha fatto, vuol dire che non ha alcun elemento. E allora ha cercato di intorbidare le acque «rivestendo di panni piccanti la dazione»: cioè, in un linguaggio meno tecnico-burocratico, parlando della consegna di questi soldi in modo da farla sembrare illecita.
La seconda ragione per cui Scalfaro, a giudizio dei suoi consiglieri legali, deve esser tenuto fuori dalla vicenda è che non può esistere a suo carico alcuna ipotesi di favoreggiamento. Questo reato, gravissimo per la più alta autorità istituzionale, si sarebbe consumato se Scalfaro avesse dawero partecipato a riunioni al Quirinale per depistare le indagini o comunque per tranquillizzare la «banda del Sisde» che le cose si sarebbero in qualche modo sistemate. Ma nemmeno questa ipotesi, dopo il polverone iniziale, viene sostenuta più da nessuno. Nemmeno da Broccoletti, il quale si limita a
dire di aver saputo dal suo capo, il prefetto Malpica, che Scalfaro avrebbe avallato la linea di copertura. Malpica nega di averglielo mai detto e l'accusa perde quindi qualsiasi fondamento. Poiché nessuno può sollevare obiezioni sul fatto che un ministro dell'Interno riceva fondi riservati, le ripetute richieste di chiarimento sollecitate dal presidente della Repubblica alla Procura di Roma sono state motivate esclusivamente dallo stillicidio di notizie che venivano fuori dai verbali d'interrogatorio dei funzionari del Sisde in modo «alterato».
Ottenuti questi chiarimenti, secondo i consiglieri legali di Scalfaro, il discorso si è chiuso.
Su questa linea è proseguito il processo davanti alla nona sezione del Tribunale di Roma per l'intero mese di luglio '94, mese conclusosi con la cattura dell'unico latitante della «banda del Sisde», Michele Finocchi, arrestato a Losanna dopo quasi un anno di latitanza trascorso in Austria, Romania e Tunisia. I carabinieri che vanno ad arrestarlo trovano scritti sul suo diario due profetici versi di Orazio: «Come le formiche fuggono dai granai vuoti / così gli amici quando uno è in disgrazia».
Interrogato in aula il 19 luglio, il prefetto Malpica conferma la consegna ogni mese del denaro a Scalfaro, nega che il presidente abbia mai cercato di ostacolare le indagini e muove accuse durissime contro il ministro Mancino, il suo capo di gabinetto Raffaele Lauro e il nuovo direttore dei Servizi Finocchiaro, accusandoli di avergli fatto mettere «la testa nella tagliola della ragion di Stato», costringendolo a sostenere nella prima fase delle indagini una tesi bugiarda di co-
pertura. Parallelamente, la Procura di Roma giudica estraneo Mancino alla vicenda e chiede invece, per il tentativo d'insabbiamento, il rinvio a giudizio di Lauro, Finocchiaro e del successivo direttore del Sisde, il prefetto Voci.
Il tribunale decide, intanto, una serie di laboriose perizie tecniche anche su una società di Salabé per accertare se, in forniture pagate dal Sisde con i fondi ordinari (e quindi trasparenti), vi sia stata una doppia fatturazione (più bassa per i registri della ditta, più alta per quelli del Sisde) per creare ulteriori fondi neri. Come il nuoto del delfino
Chiusa prevedibilmente per Scalfaro una vicenda giudiziaria che tecnicamente non aveva mai potuto aprirsi per la sua qualifica di capo dello Stato, resta aperta la vicenda politica che fin dall'inizio di questa storia va avanti secondo lo stile di nuoto del delfino, che riemerge con tutta la sua allegra potenza proprio nel momento in cui lo si dava per definitivamente scomparso sott'acqua.
Nei primi mesi del '94, Umberto Bossi e Gianfranco Fini hanno chiesto ripetutamente le dimissioni di Scalfaro, mentre è noto che il Pds, nel caso avesse vinto le elezioni, si preparava a giocare la carta Prodi per Palazzo Chigi, d'accordo con la segreteria del Ppi, tenendo in panchina Carlo Azeglio Ciampi per il Quirinale. Berlusconi non si era mai pronunciato in modo impegnativo fino al giorno del suo ingresso al Quirinale prima delle elezioni che avevano segnato ufficialmente la fine di ogni diffidenza tra Scalfaro e il Cavaliere.
Nei mesi successivi alle elezioni, mentre gli aspetti giuridico-legali della vicenda Sisde sembrano chiariti, un sottile strato di nebbia pare sollevarsi sulle poche decine di metri di dislivello che separano il colle del Quirinale dalle sedi dei partiti politici.
Alla fine di maggio, dopo il discorso di Oropa e l'implicita ammissione di Scalfaro di aver ricevuto fondi riservati, Umberto Bossi afferma: «Noi abbiamo sempre detto che con il cambiamento delle regole elettorali, doveva cambiare anche il presidente della Repubblica. Certo, non si può destabilizzare tutto di colpo, ma il cambiamento awerrà con sollecitudine».
Quando a metà aprile chiedo a Gianfranco Fini se a suo giudizio Scalfaro potrà concludere il settennato, la risposta è: «Non si può escludere», motivata dall'ammonimento del capo dello Stato alla sinistra a non considerare il 25 aprile come un'occasione di rivincita dopo la sconfitta elettorale. All'inizio di luglio, Fini mi ha chiarito meglio la sua posizione in una sosta della crociera di Alleanza nazionale sull'Achille Lauro: «Dopo le elezioni di marzo, avevamo bisogno di fare subito un governo. Non potevamo porre il problema del ca-
po dello Stato, con il rischio di far impazzire la maionese. Finora Scalfaro si è dimostrato neutrale. Il problema si riproporrebbe se smettesse di esserlo». Fini è tornato a prendere le distanze dal Quirinale a proposito del decreto Biondi sulla custodia cautelare, sostenendo che il capo dello Stato avrebbe dovuto negargli la firma come fece nel '93 per il decreto Conso.
Berlusconi è invece seccato con Scalfaro per la ragione opposta: ha firmato il decreto e poi ne ha preso le distanze. Lo stesso atteggiamento ondeggiante gli viene rimproverato quando Berlusconi propone che siano le più alte cariche dello Stato a nominare i garanti del blind trust che dovrà vigilare sulle sue aziende. Un giornale scrive maliziosamente che il capo dello Stato esprime un'opinione pronto a raffreddarla al primo stormir di fronde.
Si sa che Scalfaro e Berlusconi si sono scontrati per il rifiuto del primo di prendere in esame qualunque prospettiva di elezioni anticipate ventilata dal secondo. E di nuovo - stavolta pubblicamente - in ottobre per l'accusa di Scalfaro al governo di avergli sottoposto troppo tardi la legge finanziaria, costringendolo a firmarla quasi senza leggerla. Obiezione alla quale il governo ha risposto seccamente.
La freddezza tra i due fa piacere ai Popolari e soprattutto al Pds, tanto è vero che un alleato del Cavaliere, il radicale Giuseppe Calderisi, può dichiarare con preveggenza fin dalla tarda primavera: «Se si votasse per un nuovo presidente della Repubblica con queste Camere, la maggioranza verrebbe battuta dal duo Lega-Pds».
Il tentativo di ogni parte di mantenere Scalfaro al Quirinale, a patto che si pieghi alle esigenze di ciascuno, è destinato a durare. E così la stabilità della prima magistratura dello Stato seguirà lo stile di nuoto praticato dai delfini... v~
Andreotti e Forlani, gli assenti
«Lo sa, presidente, come rispondo quando mi chiedono cosa penso di lei?» Giulio Andreotti mi guarda fisso, dietro gli occhiali rettangolari che Forattini rende ancora più rettangolari. Non sorride, non è allarmato, non è nemmeno infastidito. Me lo dicono le sue labbra, che non si serrano come quando (raramente) nelle interviste Andreotti non gradisce la domanda, né si inarcano a mezzaluna come quando sta per sparare una delle sue micidiali battute.
Mi guarda fisso, incuriosito. «Rispondo che spero che lei sia colpevole.» Gli occhi si spalancano, la bocca resta garbatamente chiusa senza rinserrarsi nella stupita protesta. Ma lui, che pure ama il paradosso, pensa che stavolta io stia esagerando. Come posso pensare che lui abbia baciato Riina, abbia partecipato a un vertice mafioso, sia il punto di riferimento romano (e che punto di riferimento) della Cupola siciliana? Come posso pensarlo? E soprattutto, come posso dirglielo in faccia?
«Rispondo che spero che lei sia colpevole perché diononvoglia che sia innocente, dopo averla distrutta temo che dovrebbero darle il Colosseo come risarcimento...»
Si distende Andreotti, ma non sorride. Per tutta la vita ha stemperato con battute all'arsenico anche le situazioni più difficili, ma stavolta gliel'hanno fatta troppo grossa.
E martedì 22 marzo, mancano cinque giorni alle elezioni e sono andato a vedere come sta il Protagonista Assoluto di tutte le elezioni dell'Italia repubblicana, costretto per la prima volta all'immobilità politica non dal laticlavio di senatore
a vita che, volendo, lo esonera dalla campagna elettorale, né da due operazioni chirurgiche da cui si è appena ripreso benissimo. Ma dal procuratore di Palermo, Giancarlo Caselli, che da un anno lo accusa di essere protettore organico di Totò Riina, con una relazione - come si dice - al bacio.
Me ne dà l'occasione l'incontro a un semaforo di viale Mazzini con il genero suo e collega mio Marco Ravaglioli. E in motorino. «Anche tu come Rutelli?» «Lascia perdere, è l'unico modo per correre per conventi.» Marco è uno scrupoloso «peone» democristiano del Parlamento uscente. Avendo fatto il giornalista, non si lascia cogliere dalla sindrome del candidato-sempre-vincente. Sa che l'aria è pessima e che i conventi rincorsi in motorino poco possono contro le brigate corazzate di Alleanza nazionale guidate dal panzer Francesco Storace.
«L'aspettativa parlamentare finisce tra qualche settimana. Ci vediamo presto in Rai» mi saluta mesto Ravaglioli che appena scatta il semaforo verde corre al più vicino convento per dovere più che per convinzione. «Se vedi Andreotti, non dirgli che ti ho dato io il numero di casa» mi grida con la voce già sommersa dal traffico.
L'ultima volta avevo chiamato Andreotti alle sei del pomeriggio della vigilia di Natale del '93. Il mio senso delle pubbliche relazioni Sl è sempre bloccato al momento di fare gli auguri ai politici. Perché chiamare a Natale una persona con la quale non si hanno rapporti di confidenza? Andreotti, per esempio, è stato per me sempre un eccellente e disponibile protagonista di interviste e dibattiti televisivi. Credo che non abbia digerito nel '91 la mia decisione di mandare in onda l'in-
tervista a Saddam Hussein contro il parere del governo. Ma non ha mai interferito nel mio lavoro. Con quello che s'è detto sulla lottizzazione della Rai, uno s'aspetta che Andreotti abbia preso carta e penna e dettato gli organigrammi. E invece soltanto una volta con molto garbo mi chiese se potevo affidare un certo incarico a una collega che peraltro ne aveva il grado. Gli spiegai che non era opportuno, e lui non insistette.
Cordialità, dunque, ma niente di più. Eppure, la sera di Natale del '93 decido di fare gli auguri ad Andreotti. Me ne pentirò se tra qualche anno i tribunali l'avranno condannato a trascorrere il resto della sua vita in prigione come capomafia. Ma adesso l'idea che abbia baciato Riina mi pare inverosimile e il processo awiato contro di lui, sulla base delle dichiarazioni dei pentiti, abbastanza inquietante. Sotto Natale, i telefoni dei politici bollono e gli uomini della Batteria, che debbono inseguirli per tutta Italia, hanno il fiatone. Ma questo è un Natale diverso. E il telefono del Presidente è subito libero. Andreotti risponde come se fosse Andreotti. L'Andreotti di sempre: garbato, efficiente, rapido, inossidabile. La vicenda Riina è stata un colpo durissimo, ma la voce è quella di un uomo che assorbe tutto.
Durata della conversazione: quindici secondi. Il tempo degli auguri, appunto.
E a Nusco arrivò un camion d i gelati
Vuoi vedere che anche i telefoni di De Mita e Forlani sono liberi? Provare per credere.
De Mita è a Nusco, come ogni Natale. Ancora l'anno scor-
so era sommerso da gente che avrebbe dato un braccio per giocare a tressette con lui. Certo, niente dinanzi al giorno di San Ciriaco, in cui amici e clienti rinviavano la partenza per le vacanze pur di correre in Irpinia a festeggiarlo. L'8 agosto casa De Mita a Nusco vale il viaggio. Gli ospiti si dividono in due parti: gli intimi (che sono comunque tanti) e gli altri. Un mio amico capì di essere passato dal gruppo degli altri a quello degli intimi quando De Mita al telefono gli disse: «Arriva puntuale». Era il segnale che era invitato al pranzo. Come possono testimoniare gli inviati della «Repubblica» che frequentavano Nusco durante l'infatuazione che Scalfari ebbe per De Mita, il rituale degli omaggi e degli atti di devozione per San Ciriaco ebbe momenti spettacolari. Come quando un deputato siciliano, in segno di gratitudine per la sua fresca nomina a sottosegretario di Stato, mandò a Nusco un camion con sessanta chili di gelato preparato per la felice occasione dalla premiata pasticceria Bellè di Messina. De Mita gradì molto l'omaggio. Un po' meno la moglie che dovette comprare all'istante un freezer capiente non sapendo dove conservare l'ingombrante pensierino.
A Natale le visite erano più diluite. Ma a Nusco arrivava pur sempre una bella folla. Il telefono poi bolliva. Adesso, invece, è libero. De Mita ha un carattere molto diverso da quello di Andreotti. Gli piace parlare, chiedere, raccontare, conversare. Sappiamo tutti e due che questa è una telefonata inconsueta tra due persone che non si chiamano mai. Ma il discorso fila liscio e cordiale come se ci fossimo lasciati un minuto prima.
Libero è anche il numero di Forlani. E nella sua casa
dell'Eur a Roma. Ne conosco solo il giardino, dove andai a intervistarlo il giorno delle sue dimissioni da segretario della Dc. Durante la registrazione, visto che Passeggiavamo, Forlani mi prese sottobraccio. Apriti cielo. E il segno della sudditanza del giornalista televisivo al politico, la prova della lottizzazione.
Va' a spiegare che nel Transatlantico di Montecitorio tutti prendono sottobraccio tutti. Peccato, imperdonabile peccato. Lo rifarebbe?, mi ha chiesto qualcuno in qualche dibattito o qualche intervista per darmi una generosa possibilità di ripudio. Ma il peccatore, per colmo di sacrilegio, non si pente.
Certo che lo rifarei: perché offendere quella che tuttora considero una persona perbene dicendogli scusi, debbo dare lo stoP all'oPeratoreerché il suo contatto fisico Per me può essere in~ombrante?
Eccolo al telefono, dunque, il «Coniglio Mannaro». «Che coincidenza, stavo leggendo il tuo libro...» Buon Natale. Anche a te.
Questo capitolo nasce in quella piovosa serata del 24 dicembre '93.Gli assenti.» Debbo scrivere un capitolo sui potenti che non lo sono più. Sui corteggiatissimi padroni d'Italia che la Batteria a Natale doveva proteggere dalle valanghe d'auguri e che invece adesso hanno sempre il telefono libero.
E da chi cominciare se non dal Potente di più lungo corso?
«Ho letto metà del libro di Messori. Sì, scriverò una recensione per "Trenta Giorni". Sì, ho letto la stroncatura di "Fa-
miglia Cristiana"...»
Chiude il telefono, Giulio Andreotti, e torna a sedersi. Quando gli ho telefonato per l'appuntamento, mi ha dato l'indirizzo di casa, in corso Vittorio. Davanti alla porta d'in-
288 289 gresso, c'è un vecchio tavolo con giornali, calendario ministeriale e telefono. E il punto d'appoggio della scorta, ridotta ormai all'osso.
«Dottò, sto col presidente da ventisei anni» mi dice un sottufficiale che ha visto tempi migliori. Mi introduce in un piccolo studio con molti bei libri e un arredamento elegante senza alcuno sfarzo e senza alcuna caratterizzazione italiana: potrebbe essere l'angolo di studio di una Thatcher o di un Trudeau. Quel che colpisce è che mentre il nuovo direttore dell'«Europeo» al quale il senatore ha collaborato per molti anni appena arrivato gli ha tolto la rubrica, i grandi della Terra che hanno lasciato il servizio continuano a telefonargli per chiedergli pareri e scambiare consigli.
Andreotti indossa una giacca da camera bordeaux sulla camicia e la cravatta; è l'unico segno di una convalescenza superata benissimo.
Gli chiedo della campagna elettorale, e lui dice: «Il rinnovamento della Dc deve essere stato fortissimo. Se io, che sto su piazza da un po' di tempo, non conosco quasi nessuno...». Gli chiedo di Segni e lui risponde: «Aveva detto che avrebbe
distrutto i partiti. Debbo dire che con la Dc c'è riuscito benissimo».
Gli chiedo dei pentiti e lui celia: «Tre pentiti non si negano a nessuno...».
Gli dico che scriverò un libro anche su di lui e mi rinvia a un nuovo incontro dopo qualche mese.
Con Berlinguer a casa di Tatò
Lo rivedo a metà giugno, a Palazzo Giustiniani, l'edificio alle spalle del Senato dove hanno l'ufficio i senatori a vita. Il prestigioso stabile deve avere avuto una vita più tranquilla, se nel 1846 Gregorio XVI fece murare in cima allo scalone d'onore due targhe, una in latino e una addirittura in caratteri cirillici, per ricordare l'ospitalità di quattro giorni data allo zar Nicola I di Russia dal 13 al 17 dicembre dell'anno prima.
Andreotti è ormai perfettamente ristabilito, indossa un cardigan blu da lavoro, ha la piccola scrivania ingombra di libri. Su una pila l'occhio malizioso del cronista nota due recentissimi testi sulla mafia: suo malgrado, il senatore deve mantenersi aggiomato. I giornali son pieni delle polemiche sulle dimissioni di Occhetto, e viene spontaneo chiedere di Berlinguer e dei rapporti tra cattolici e comunisti a chi, insieme con Aldo Moro, fu l'artefice del «compromesso storico» per parte democristiana. Nel decennale della morte di Berlinguer si è ricordato che gli incontri tra Aldo Moro e il leader comunista furono tre, tutti riservati e tutti in casa del consigliere di Stato Tullio Ancora, grande amico di Moro. E Andreotti dove lo vedeva Berlinguer?
«Lo vedevo in casa del suo segretario, Tonino Tatò, che conoscevo da tanti anni. Ma l'ho incontrato anche a Palazzo Chigi. Il mio rapporto con Berlinguer è stato facile. Ouando nel '76 il Pci decise di astenersi nella votazione sul mio governo e anche due anni più tardi quando decise di votare a favore, iO presi un impegno: non avremmo mai cambiato maggioranza di governo. Per cambiare maggioranza di governo, ci sarebbe stata una crisi. L'accordo andò avanti per tre anni quando nel '79 da una costola del Msi nacque Democrazia nazionale. Molti ci videro una nostra manovra e invece io lessi la notizia sul giomale. Guidavo un govemo votato anche dal Pci: quale interesse avrei avuto a prestarmi a una manovra del genere? La coalizione ebbe comunque un contraccolpo pesante e si andò a un voto di fiducia. I comunisti non votarono ed era invece prevedibile un voto favorevole di Democrazia nazionale. Il mio governo rischiava di avere la fiducia per due voti, ma con un'alleanza diversa da quella che io avevo concordato con Berlinguer e che era garantita da Sandro Pertini. Chiesi allora a due deputati democristiani di uscire dall'aula, il governo fu battuto per due voti e si andò alle elezioni anticipate. Al mio govemo subentrò quello di Francesco Cossiga.»
Sono passati quindici anni, non esistono più né la vecchia Dc né il vecchio Pci. Ma Andreotti non rinnega niente di quella esperienza.
«C'erano molte riserve sulla collocazione intemazionale del Pci. Ma nel '77 votammo insieme un documento nel quale si riconosceva che la Nato e la Comunità europea costituivano
290 291 il punto fondamentale della politica estera italiana. Eppure, quando all'inizio del '78 si trattò di impegnare il Pci in maniera più diretta, con un voto favorevole al governo invece dell'astensione, Moro incontrò nella Dc fortissime difficoltà, tanto è vero che le trattative con gli altri partiti le facevo io e non la Democrazia cristiana. Donat Cattin era contrarissimo: disse che si sarebbero moltiplicati i disoccupati e che avremmo avuto il dollaro a mille lire. Accadde invece il contrario.»
Nello studio di Palazzo Giustiniani entra l'ombra di Moro. «Lei mi chiede perché non fece lui il govemo con i comunisti pur essendone l'artefice. Volle che lo facessi io perché diceva che ero più conosciuto all'estero, avrei meglio garantito l'alleanza sul piano internazionale. Quando il Pci votò il governo nel '78 la formula era già stata digerita.»
Andreotti fa una pausa. «Chissà, avesse fatto lui il governo, forse si sarebbero potuti evitare la strage di via Fani e il sequestro... E certo che le Brigate rosse vollero compiere quel gesto proprio per contrastare la formula dell'alleanza di governo col Pci di cui Moro era stato l'artefice. Per buttarla all'aria...»
Andreotti ne parla con la freddezza di un episodio ormai consegnato alla storia. Sono passati quasi vent'anni, orrnai forse è così. Eppure, mentre lo ascolto, mi trovo a spogliarlo del cardigan blu da lavoro, a fargli indossare il doppio petto ministeriale fumo di Londra col quale si presenta alla Camera per chiedere la fiducia tre ore dopo il sequestro di Moro e il
massacro della sua scorta. Me lo rivedo in diretta nel telegiornale della sera, mentre parlando a braccio con straordinaria lucidità davanti alla telecamera che lo inchioda quasi raggelata nell'inquadratura fissa a busto intero, dice fin dal 16 marzo che lo Stato non cederà a chi ha ucciso cinque innocenti e s'appella alle famiglie dei terroristi perché dicano loro «in un momento ancora non irreparabile una parola che li faccia ripensare alla triste aggregazione nella quale si vanno coinvolgendo». Lo rivedo nelle ultime, tremende lettere di Moro. Quella a Paolo VI in cui Moro prega il papa di intercedere presso Andreotti, l'ultima a Zaccagnini in cui il presidente della Dc prega il suo figlioccio politico di superare «la ragion di Stato che qualcuno lividamente vi suggerisce». E dopo l'arresto Mario Moretti, il capo delle Br, identificherà proprio in Andreotti il «livido» sostenitore della ragion di Stato.
Ora Mario Moretti ha avuto il permesso di vedersi il Rigoletto alla Scala, e Andreotti commenta gelido: «I tempi si accelerano oltre quello che vorrebbe una certa logica politica e morale».
n bacío di Riina
Ma il tema centrale del mio colloquio con Andreotti è naturalmente l'accusa di pesantissime collusioni con la mafia, il suo incontro con Riina, il famoso bacio al capo della Cupola. «Non riesco a seguire i fili dell'accusa» dice il senatore.
Vogliamo riepilogare brevemente la storia? Il 27 marzo del '93 il nuovo procuratore capo di Palermo, Giancarlo Caselli, inoltra al Senato una richiesta di autorizzazione a procedere a
carico di Andreotti per concorso in associazione mafiosa. L'autorizzazione viene concessa due mesi dopo. I parlamentari sono convinti che l'onorevole Salvo Lima, capo della corrente andreottiana in Sicilia, sia stato a lungo l'intermediario tra Cosa Nostra e il mondo politico romano, soprattutto per «aggiustare» processi che si mettevano male per la mafia. Alcuni pentiti hanno convinto la Procura di Palermo che il cardine di questi «aggiustamenti» era Andreotti. A un certo punto, dicono i magistrati, questo circolo virtuoso si sarebbe interrotto e Salvo Lima è stato ucciso il 12 marzo 1992 (come lo è stato il suo complice Ignazio Salvo) perché non era in grado di garantire più niente, tanto è vero - sta scritto nell'autorizzazione a procedere - «che il 30 gennaio 1992 la Corte di Cassazione, contrariamente alle aspettative dell'associazione mafiosa, aveva confermato la maggior parte delle condanne pronunciate in secondo grado nel cosiddetto maxiprocesso».
Andreotti viene interrogato due volte, il 14 dicembre '93 (sette mesi dopo la concessione dell'autorizzazione a procedere) e il 6 febbraio del '94. E ai giudici risponde negli stessi termini che ripete a me, nel suo studio di Palazzo Giustiniani: «Io la mafia l'ho sempre combattuta con severi prowedimenti di legge. In ogni caso, citatemi un solo episodio con-
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E
293 creto in cui io sarei intervenuto per favorire un mafioso». E aggiunge: «Non hanno potuto citarmi niente»
Difensore di Andreotti in questo processo è Odoardo Ascari, un awocato di Modena che ha assistito i parenti di vittime della mafia (tra cui il capitano Emanuele Basile, ucci-
so nell'80) e che nel '91 chiese ad Andreotti presidente del Consiglio (e ottenne) urgenti provvedimenti antimafia che evitassero la scarcerazione in massa dei boss.
Racconta Ascari: «Il complice di Andreotti per aggiustare i processi in Cassazione sarebbe il giudice Corrado Carnevale. Rivediamo un momento il processo Basile. Vincenzo Puccio Giuseppe Madonia e Armando Bonanno, accusati di esseré gli assassini del capitano, vengono assolti in primo grado per insufficienza di prove e vengono condannati all'ergastolo in appello. Vanno in Cassazione nell'87 e Carnevale annulla la sentenza di condanna per un vizio di forma (mancato avviso ai difensori) che non può influenzare nel merito i giudici ai quali il processo viene rinviato. E infatti la Corte d'assise d'appello di Palermo, presieduta dal giudice Saetta, conferma i tre ergastoli. Per questo il povero Saetta sarà ucciso insieme con il figlio. Il processo torna in Cassazione. Carnevale non può presiedere perché ha già presieduto l'altro processo. Presiede Roberto Modigliani e relatore è Umberto Toscani, che fu pubblico ministero al processo di Bari in cui Valpreda fu assolto per la strage di piazza Fontana. I giudici ritengono che non Cl siano prove sufficienti per condannare i tre imputati dell'assassinio Basile e li assolvono con una sentenza ben più impegnativa per i giudici di rinvio di quella firmata da Carnevale. Ma nel procedimento contro Andreotti la Procura di Palermo si riferisce sempre alla cassazione formale di Carnevale e mai alla cassazione sostanziale di Modigliani
Siamo intanto arrivati al '90 e il processo Basile confluisce nel maxiprocesso d'appello a Cosa Nostra in cui, accanto agli esecutori materiali di alcuni delitti, vengono processati an-
che i mandanti, cioè i membri della Cupola: Pippo Calò, Michele Greco, Provenzano e altri. Il processo si svolge a Palermo e quindi fuori della supposta sfera d'influenza di Andreotti, accusato di aggiustare i processi a Roma. La Cupola viene assolta. Intanto, tra il febbraio e il marzo del '91, scoppia il caso Carnevale. La prima sezione della Cassazione da lui presieduta ordina la scarcerazione dei boss per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva. Il governo Andreotti emette immediatamente un prowedimento (il decreto Martelli) che blocca le scarcerazioni. Carnevale s'arrabbia per la campagna di stampa che lo attacca e scrive al primo presidente della Corte dicendo che non presiederà, per evitare polemiche, il giudizio sul maxiprocesso. Carnevale designa comunque il presidente del collegio, il giudice Valente. E Valente condanna tutti. Dei tre assassini di Basile, al processo arriva soltanto Giuseppe Madonia perché Puccio e Bonanno vengono ammazzati in carcere. E tra i mandanti degli omicidi di mafia, oltre agli uomini più noti della Cupola, viene condannato anche il padre di Madonia.
La mia opinione è che realmente i mafiosi speravano di cavarsela. Lo diceva Puccio prima di morire. Lo diceva Gaspare Mutolo, sostenendo che alla fine tutto si sarebbe risolto in una "cazzata". E anche possibile che Lima abbia dato qualche assicurazione "drarnmaticamente necessitata", come ha scritto Giovanni Pellegrino, presidente della Commissione per le autorizzazioni a procedere. Ma Andreotti non c'entra. Non c'è mai entrato.»
Gli antichi romani avevano la radio
Il 23 giugno del '94, quando il procuratore Caselli deposita la
richiesta di rinvio a giudizio per Andreotti, lo accusa di rafforzare «la potenzialità criminale dell'organizzazione, in quanto tra l'altro determinava nei capi di Cosa Nostra e in altri suoi aderenti la consapevolezza della disponibilità di esso Andreotti a porre in essere (in varie forme e modi, anche mediati) condotte volte ad influenzare, a vantaggio dell'associazione mafiosa, individui operanti in istituzioni giudiziarie e in altri settori dello Stato». Nessuna circostanza concreta viene indicata.
«La Procura di Palermo» dice l'awocato Ascari «sostiene che la mafia è convinta del tradimento di Andreotti dopo 1'87. Quindi, se Andreotti ha tradito la mafia, prima di tradi-
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j*
295 re, doveva essere mafioso. Con lo stesso ragionamento, Petrolini diceva che i romani dovevano avere la radio perché negli scavi non s'è trovata traccia di fili telefonici.»
Se nello sviluppo dell'inchiesta la contestazione giudiziaria sembra essersi indebolita, dalla lettura degli interrogatori di Andreotti e dai nostri colloqui romani par di capire che, nelle quarantamila pagine dell'inchiesta, quelle sulle quali i giudici fanno maggior conto si riferiscono ai due vertici mafiosi ai quali il senatore avrebbe partecipato di persona. Due pentiti di mafia avrebbero visto con i loro occhi Andreotti nei luoghi incriminati.
Il primo episodio risale alla primavera-estate del '79. Il pentito è Francesco Marino Mannoia. Mannoia sostiene che dopo
l'assassinio di Michele Reina, segretario provinciale della Dc di Palermo, il presidente della Regione, Piersanti Mattarella, decide un'opera di rinnovamento del partito «rompendo con la mafia». Lima informa della cosa Andreotti e questi si precipita in Sicilia, segretamente, su un aereo privato affittato dai cugini Salvo. Va in una modesta villetta della famiglia del capomafia Salvatore Inzerillo, all'interno di una riserva di caccia, accompagnato dai due Salvo. E chi vi trova? Due pezzi da novanta della mafia come Inzerillo e Stefano Bontate, l'immancabile onorevole Lima e altri picciotti di mezzo calibro. Bontate diffida Andreotti dall'assumere prowedimenti antimafia. Qualche mese dopo, il giorno dell'Epifania del 1980, la mafia ammazza Piersanti Mattarella.
Il secondo episodio è del 1980. Il pentito è Baldassarre Di Maggio. Il boss dei boss, Salvatore Riina, fa sapere a Di Maggio di farsi trovare «un certo giorno che non ricordo» in un certo posto, vestito elegantemente. Riina accompagna Di Maggio in casa di Ignazio Salvo, che è agli arresti domiciliari, in piazza Vittorio Veneto al centro Palermo. E chi trovano i mafiosi nella casa di Salvo? Lima e Andreotti. Salvatore Riina bacia Salvo, bacia Lima e bacia anche Andreotti. Di Maggio discretamente se ne va in un'altra stanza e non assiste al vertice mafioso tra Andreotti e Riina, né Riina gliene parla durante il viaggio di ritorno. Fine della testimonianza.
Andreotti naturalmente nega tutto con energia e per la storia del bacio di Riina minaccia denunce per calunnia. Ritiene che dietro i pentiti ci sia un «SUggeritoree riesce perfino a ironizzare. Detta infatti a verbale: «In quanto al suggeritore mi ha colpito l'affermazione di un altro pentito che lo stesso vostro ufficio non ha ritenuto valida quando ha detto che io
ero punciutu [iniziato alla mafia con la puntura di un dito, in modo che scorra il sangue rituale, nda]. Probabilmente era andato al di là di quanto gli aveva suggerito».
Il «mafíoso» Andreotti rischia vent'anni
Andreotti dice anche di essere seguito da scorte ininterrottamente dal 1974 e di non aver mai fatto un passo uscendo dal loro sguardo.
«La Procura di Palermo fa rintracciare tutti i carabinieri che hanno scortato Andreotti negli ultimi vent'anni» mi dice il professor Franco Coppi, che segue anche lui il processo. «Non trova una sola persona che confermi di aver perso di vista Andreotti una sola volta. E quando un caposcorta riferisce che certe volte per star tranquillo in albergo chiudeva a chiave dall'esterno la camera del senatore, si è sentito chiedere che cosa avrebbe fatto se qualcuno fosse entrato dalla finestra.»
«A quanto pare, avrei incontrato Riina trovandomi a Palermo per la Festa dell'Amicizia della Dc» mi dice Andreotti. «Intanto è un po' avventato pensare che io vada a incontrare un superlatitante come Riina in casa di uno agli arresti domiciliari come Salvo. E poi si pensi se è immaginabile che, quando uno di noi si muove in occasioni politiche come quella per cui ero andato a Palermo, riesca a dire alla scorta: adesso lasciatemi in pace. E impensabile che mi lasci la mia scorta, figuriamoci quella aggiuntiva della questura.»
(«Noi non lasciamo mai sole, nemmeno per un momento, le persone protette» mi conferma il prefetto di Napoli Um-
berto Improta. «A me è capitato di farle seguire a loro insaputa persino quando avevano appuntamenti galanti, tranquillizzando con una scusa al telefono le mogli che ne avevano perso le tracce, sapendo comunque che noi non avremmo mollato i loro mariti nemmeno per un momento.»)
Davanti a Caselli, Andreotti accetta perfino il confronto
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I
297 con Di Maggio. Dura pochi minuti, non porta ad alcuna novità, ma il senatore fa mettere a verbale di sentirsi urniliato«Anche se pentito, Di Maggio è pur sempre un mafioso».
Chiedo ad Andreotti come è possibile che non conoscesse i Salvo, influentissimi esattori siciliani. E lui mi risponde che appunto perché avrebbe potuto benissimo conoscerli, dice la verità se sostiene di non averli conosciuti.
«Mi hanno detto che siamo insieme in una fotografia. Io ero con Mattarella, Ruffini e altri dirigenti democristiani in una pubblica riunione di partito, con un pranzo per centinaia di persone. Il proprietario dell'albergo ci è venuto incontro per farci da guida. Ho saputo poi che era uno dei Salvo. L'altra vicenda incredibile è quella che riguarda Don Baldassarre Pernice. Conosco da molti anni questo parroco che era prete operaio e dirigente sindacale a Mazara del Vallo. Viene trasferito a Roma, costruisce una chiesa nella borgata di Morena Sud, mi chiama per la posa della prima pietra e poi per l'inaugurazione che awiene il 28 ottobre 1987. Scopro adesso dalle contestazioni della Procura di essere stato fotografato con un mafioso, un certo Vincenzo Sinacori, colpito da ordi-
ne di custodia cautelare nel '93. Cado dalle nuvole, parlo con don Pernice e lui, poveretto, mi dice che questo è un suo nipote. Poi trova un filmato sulla cerimonia e documenta che questo Sinacori non era affatto seduto accanto a me, ma come molta altra gente si era fatto fotografare con me e con il vescovo alla fine della messa. Eppure la parrocchia di Don Pernice è stata tenuta sotto controllo per mesi...»
«Perché tutto questo?» chiedo ad Andreotti.
«Credo che sia una vendetta a freddo della mafia, anche per i nostri accordi con gli Stati Uniti che hanno colpito il traffico internazionale di droga. Per la verità, volevo affidare delle indagini a un investigatore negli Stati Uniti, ma costa troppo. Poi temo che la mafia abbia interesse a screditare i pentiti. E non c'è dubbio che questi pentiti cerchino di depistare i magistrati. Tutto questo mi preoccupa molto. Vedo che i giudici non badano molto ad avere le prove necessarie. Non vorrei diventare un simbolo invece di un caso giudiziario.»
Alla fine di giugno '94, con la deposizione della richiesta di rinvio a giudizio, c'è una grossa sorpresa. Mentre l'autorizzazione a procedere era stata richiesta e concessa perché Andreotti sarebbe stato un collaboratore romano della mafia, nella richiesta finale della Procura al Gip, Andreotti diventa un mafioso a tutti gli effetti e si chiede di processarlo per associazione mafiosa. Una imputazione che, con le aggravanti che un Andreotti colpevole meriterebbe per intero, potrebbe portare a una condanna superiore ai vent'anni.
Qualcuno ritiene che questa clamorosa virata sia motivata
da due recentissime pronunce della Cassazione per la quale la collaborazione esterna alla mafia non esiste: o si è mafiosi a pieno titolo o non lo si è affatto. E dal timore della Procura di Palermo di perdere il processo, perché con un Andreotti, referente romano della mafia, la competenza sarebbe del Tribunale dei ministri di Roma.
In giugno chiedo un incontro al procuratore capo di Palermo, Giancarlo Caselli. Vorrei sottoporgli alcune delle questioni che abbiamo visto, chiedergli chiarimenti. Caselli è sempre molto disponibile con i giornalisti, ma stavolta il contatto è faticoso. Finalmente, con grande cortesia, mi prega di mandargli le domande per fax. Gliene mando quattro. Gli chiedo se considera credibili i pentiti che accusano Andreotti; se è d'accordo con la vecchia tesi di Falcone che i pentiti non si ascoltano, ma si pesano; se ha riscontri sufficienti per ritenere che Andreotti, eludendo per cinque ore la vigilanza della scorta, si sia incontrato con il superlatitante Riina e l'abbia baciato. Gli chiedo infine se la richiesta di processare Andreotti per associazione mafiosa è un espediente tecnico per aggirare la Cassazione o se dawero è da riscrivere la storia del politico italiano più conosciuto.
E il 23 luglio. Poco prima della metà di settembre il procuratore mi chiama e con la consueta cortesia dice che non può rispondere. Ma lascia intuire tre cose. La prima è che crede ai pentiti: Di Maggio è gestito in Italia dalla Direzione antimafia e dal Ros dei carabinieri, Mannoia è gestito dagli americani. Sono dunque canali indipendenti. La seconda: contrariamente a quel che sembra emergere dalle quarantamila pagine dell'inchiesta, ritiene di avere i riscontri sufficienti. La terza: non è il bacio di Riina che conta, ma l'incontro. La Pro-
cura di Palermo ritiene che sia awenuto. Questa storia non finirà presto. Ma i casi sono due: o dovremo riscrivere un pezzo di storia italiana o dovremo venderci il Colosseo per risarcire un uomo che è stato cinque volte presidente del Consiglio dei ministri.
Un discorso in qualche modo analogo (in una situazione del tutto diversa) può essere fatto a proposito di Antonio Gava, arrestato il 21 settembre per associazione camorristica. Se i processi dimostrassero che ha avuto collusioni organiche e costanti con la peggiore malavita uno degli uomini più potenti della Dc, che è stato anche ministro dell'Interno, dawero andrebbe riscritta la storia italiana degli ultimi decenni.
De Mita: «Tangentopoli ha mascherato la crisi politica»
«E questo è il corso» dice compiaciuto Ciriaco De Mita mostrandomi una strada larga quanto una calle veneziana. «Oui ho trascorso passeggiando gli anni della mia prima giovinezza.» Siamo a Nusco, naturalmente, e De Mita è uscito come stava in casa, con le scarpe da riposo, la polo celeste e i pantaloncini che mostrano fin quasi all'attaccatura della coscia le gambe glabre e abbronzate.
«Vedi quanto è bello il centro storico?» E bello. «Vedi quanto è pulito il paese?E pulito. «Ti piace il mio giardino?» Mi piace. «E chissà perché non piace a Saverio Vertone, che dice di averlo visto da fuori.» E invece è bello il giardino nuschese di De Mita, col grande prato all'inglese delimitato dagli alberi e i fiori di montagna, e sulla sinistra dagli alberelli augurali, dono del primo ministro giapponese, quasi ap-
poggiati alla siepe che nasconde l'orto di casa. Siamo alla fine dell'estate '94 e De Mita quest'anno s'è fermato più a lungo. Lo schiaffo della mancata ricandidatura è ancora forte e l'uomo freme al pensiero di non partecipare ai grandi giochi di Montecitorio, «anche se quando ho qualche cosa da dire, i giornalisti sono sempre disponibili». E sereno e si diverte al pensiero che uno psichiatra famoso abbia preso la sua serenità per follia: «Dice che non ho avuto la crisi depressiva da mancanza improvvisa di potere perché credo ancora di contare parecchio».
E serena anche la signora Annamaria. Anche lei prolunga
~le vacanze, tenendo i contatti con i figli al lavoro o in giro per il mondo, sovrintendendo alla preparazione di pranzi che da soli valgono il viaggio e animando grandi dibattiti con Ciriaco sul tema: i gelati di Nusco sono migliori di quelli di Avellino?
Se Andreotti è stato una costante simbolica del potere democristiano, De Mita è insieme con Craxi il politico italiano che ha contato di più in tutto il decennio scorso: i famigerati, impronunciabili anni Ottanta. De Mita è il meno assente dei grandi assenti: bene o male, il congresso dei Popolari di fine luglio ha ruotato intorno alla sua posizione. Con Buttiglione o contro? Alla fine Buttiglione ha vinto senza di lui, ma De Mita è tutt'altro che fuori dal giro.
Oltre che per il pranzo e per il gelato, il viaggio a Nusco meritava di esser compiuto per tre ragioni. Vedere finalmente quello che per dieci anni è stato uno dei santuari della politica italiana. Ricostruire con De Mita le fasi del passaggio
dalla Dc al Ppi. Chiedergli una riflessione sugli effetti di Tangentopoli sulla politica italiana. Della Dc-Ppi abbiamo detto nel capitolo dedicato a questo partito. E per parlare di Tangentopoli, De Mita parte proprio dalla crisi democristiana.
«In realtà, più che della Dc, la crisi era dell'intero sistema politico. Non è stata vissuta dalla gente come una difficoltà generale, ma come la contrapposizione tra qualche cosa che resisteva e una forza indistinta che si muoveva per risolvere le difficoltà. Tangentopoli è la conseguenza della crisi, ma non l'ha generata. Tangentopoli, anzi, rischia di essere una deviazione rispetto alla possibilità di risolvere la crisi, perché ha finito per trasmettere alla pubblica opinione la falsa convinzione che la crisi non era un fatto generale di sistema, ma un fatto legato alla incapacità di un certo gruppo di persone. Il guaio è che la gente ha maturato l'esistenza di queste difficoltà attraverso i prowedimenti giudiziari e non attraverso il dibattito politico. Così non discute su come risolvere i problemi, ma si chiede di chi sia la colpa. Eppure, stabilire chi siano i responsabili non aiuta a risolvere i problemi e si rischia la paralisi generale.»
Da questo ragionamento nasce la conclusione controcor-
300 301 rente di De Mita: «Se non si rifanno i partiti, non si esce dalla crisi. In democrazia, il potere senza mediazioni non esiste. E i partiti sono uno strumento indispensabile di mediazione tra interessi. Se ci si illude di risolvere tutto con la democrazia plebiscitaria, si corrono dei rischi. Ogni delega troppo ampia
in democrazia indica difficoltà di sistema».
Forlani: «In tribunale ti impiccano a una virgola»
Ciriaco De Mita è un uomo fortunato. Lascia suo malgrado la segreteria della Dc nella primavera dell'89 dopo sette anni ai quali ha abbinato negli ultimi due la guida del governo. Lì per lì 1'89 sembra un anno qualsiasi. Si scoprirà invece che è uno spartiacque della vita politica (e giudiziaria) del paese. Il finanziamento ai partiti politici diventa infatti reato dopo lo scandalo dei petroli del '74, ma una prowidenziale amnistia cancella ogni imbarazzo per i quindici anni successivi. Fino all'89, per l'appunto, quando l'onore della guida del primo partito italiano passa ad Arnaldo Forlani che sarà chiamato dai giudici a rispondere, in solido con il segretario amministrativo Citaristi, del finanziamento alla Dc fino alle dimissioni maturate nel settembre del '92, quando erano già awenuti l'arresto di Mario Chiesa e i primi fuochi d'artificio di Tangentopoli.
Rivedo Forlani nell'estate del '94, a un anno esatto dal colloquio precedente per Telecamera con vista. Tra il primo incontro e il secondo ci sono il processo Cusani e la drammatica, indimenticabile deposizione di Forlani awenuta la mattina del 17 dicembre 1993. Cito dal libro di Andrea Pamparana dedicato al processo: «Forlani è tesissimo, Di Pietro particolarmente aggressivo, il pubblico assetato di vendetta, al punto che in diverse occasioni il presidente Tarantola sarà costretto a intervenire. Nelle immagini del processo Cusani il volto terreo di quell'uomo un tempo potente, la bava alla bocca e lo sguardo impaurito sono tra i ricordi più nitidi. Di Pietro vuole dimostrare che il segretario politico di un parti-
to non poteva non sapere quanto denaro occorreva per la gestione della mastodontica macchina politica, né poteva ignorare che i finanziamenti che giungevano alla segreteria amministrativa erano prevalentemente illeciti».
Le domande di Di Pietro sono incalzanti, rivolte spesso in tono offensivo. Ma la folla stipata in tribunale e quella incollata ai televisori sta in blocco dalla parte dell'accusa. Le risposte di Forlani sono spesso disarmanti («Non so..., non ricordo...») e l'irritazione crescente del pubblico ministero scatena l'ira del pubblico. L'awocato Antonio Fiorella, difensore di Forlani, gli aveva suggerito di non rispondere alle domande di Di Pietro. La legge glielo consentiva.
«Ma sotto il profilo politico un atteggiamento del genere non sarebbe stato accettabile» mi dice ora Forlani, nella penombra del suo studio ormai deserto agli Uffici del Vicario. «Storicamente, chi ha dato contributi ai partiti ha sempre chiesto di non essere conosciuto, citato o registrato come prevedeva l'ultima legge. Al partito la trasparenza sarebbe convenuta, non aveva niente da rimetterci. Agli imprenditori no. Il problema di distinguere la responsabilità politica del segretario da quella degli amministratori del partito si è posta fin dalla nascita della Dc. Già De Gasperi, Gonella, Piccioni separarono nettamente i due ruoli. Mi ricordo da giovane De Gasperi. Quando andava qualcuno che diceva di voler aiutare il partito, il segretario lo indirizzava a Restagno, l'amministratore. Si pensi a quanto erano forti i flussi finanziari che arrivavano al Pci, che doveva tenere in piedi una organizzazione ben più poderosa della nostra. Se non ci fossimo mantenuti e avessero vinto i comunisti, gli storici avrebbero par-
lato di insipienza di una classe politica che, pur disponendo di un grande potere, non aveva saputo contrapporsi al Pci. Ci sono stati sempre imprenditori che volevano aiutare i partiti, volevano accreditarsi presso di loro. Ed è incredibile sentir dire oggi che i segretari politici e quelli amministrativi erano dediti ad attività iugulatorie tese a strappare questi aiuti. C'è stata in tutti i paesi occidentali una tolleranza consenziente al finanziamento del sistema politico. Anche al processo volevo far capire la complessità di questo quadro, volevo dimensionare la verità. Ma in quelle aule si attaccano a una virgola per impiccarti, mentre gli awocati tacciono paralizzati dal timore reverenziale verso i giudici. Certo, per me sarebbe stato più conveniente non rispondere. Ma un politico non può farlo.»
Chiedo a Forlani se abbia avuto notizia delle ruberie personali che molti politici hanno mascherato dietro il finanziamento ai partiti. Anche qui la risposta è generosa: «Certo, qualcuno avrà approfittato. Ma era comunque costoso un sistema politico fondato sulle preferenze, sulla organizzazione per correnti, sulla competizione esasperata all'interno dei partiti e tra i partiti. E c'era quindi l'affannosa ricerca di supporti da ogni parte».
Cerco di portare Forlani a fare un po' di autocritica, a proposito dell'occupazione dello Stato da parte dei partiti.
«Anche qui si è esagerato» risponde. «Se nei cinquant'anni in cui noi siamo stati al governo avessero vinto gli altri, la sinistra o la destra, avrebbero occupato lo Stato in maniera certo più opprimente della nostra e avrebbero inciso profondamente sulle istituzioni. In ogni sistema democratico c'è
peraltro una certa omologazione dei partiti vincenti con le istituzioni e le strutture di potere. Ma la differenza rispetto ai sistemi totalitari è che in democrazia questa omologazione mantiene inalterata la possibilità di confronto e di alternativa. E se in Italia l'alternativa è arrivata soltanto adesso è perché la maggioranza degli elettori non l'ha voluta scegliendo liberamente che governasse soltanto una parte.»
Dove avete sbagliato sul piano politico? «Nelle elezioni del '92, a tre anni dalla caduta del Muro di Berlino, è venuta meno la paura. La Dc ha avuto comunque il 30 per cento dei voti, il Pds è sceso al 16 per cento. Non c'era mai stata tra i due partiti una differenza così forte. Votava per noi quasi un italiano su tre. Eppure parlammo di sconfitta. Tangentopoli produsse poi una campagna di delegittimazione fortissima e dilagò una psicosi da cambiamento che è difficile spiegare in termini razionali. Non capisco tuttora perché la Dc abbia completamente ceduto sulla nuova legge elettorale che enfatizza le estreme e sacrifica il centro. Si è detto che questa legge avrebbe favorito una più attenta scelta delle persone. E invece se c'è una legge che la penalizza è proprio questa.»
Parla lentamente, come sempre, Forlani. E, come sempre, porta il vestito azzurrino e la camicia azzurrina e la cravatta in tinta- Nel silenzio della stanza s'ode un sospiro: «Eppure il rinnovamento avevamo cominciato a farlo noi. Nel '91 ad Assago stabilimmo che i deputati e i senatori non potevano diventare ministri. Volevamo portare la riforma a tutti i-livelli periferici. Sarebbe una tragedia se la Seconda Repubblica non rinnovasse niente e accentuasse i difetti della Prima. Abbiamo votato per avere una maggioranza stabile e non ne ri-
cordo una più divisa di questa. Gran parte dell'elettorato di Forza Italia e un po' di quello di Alleanza nazionale viene dal serbatoio della Dc. E allora i Popolari cerchino di portare Berlusconi al centro, aiutando un po' anche il governo...».
Lasciamo Forlani a parlare mestamente di politica e saliamo in Lombardia a sentire Severino Citaristi, l'altra faccia della «Tangentopoli degli onesti».
Cítaristi: «n terrore di sentire il mio nome in Tv»
«Prima scrivevo. Ogni domenica c'era il mio articolo sull'"Eco di Bergamo". Adesso avrei tanto da scrivere, ma non ci riesco. Ho il magone. Mangio, passeggio, prego e il mio pensiero è sempre lì. La sera non riesco a guardare i telegiornali. Ho il terrore di sentire il mio nome.»
A Severino Citaristi si inumidiscono finalmente gli occhi. E riuscito a mantenere il ciglio asciutto per le intere due ore della nostra conversazione, ma quando constata, ascoltando le sue stesse parole, che nulla riesce a restituirgli un briciolo di serenità e di prospettiva, si concede un momento di impercettibile commozione.
Sono salito al Passo della Presolana, nelle Prealpi Orobiche sopra Bergamo, per sentirgli raccontare la sua storia. La storia di un galantuomo che ha 73 anni e 74 procedimenti giudiziari a carico. Il suo certificato dei carichi pendenti è enormemente più lungo di quello che ebbe Salvatore Giuliano (la sua banda aveva ucciso 149 persone) e che ha Graziano Mesina. E chiamato a subire più processi di Mario Moretti, capo delle Brigate rosse e di Licio Gelli, Venerabile Maestro della
onnipresente Loggia Massonica Propaganda 2.
A leggere le ipotesi di reato, ho davanti a me, a mangiare
304 305 foiade nel quieto ristorante della Presolana, il ladro più straordinario che mai abbia prodotto la nostra madre patria. Eppure, Severino Citaristi non ha intascato in proprio una lira. E quel che è più straordinario, glielo riconoscono tutti. Ma amministrando la Dc dall'86 al '93 ha avuto per il partito molti contributi non iscritti a bilancio: finanziamento illecito, dunque, ma anche corruzione, concussione...
«Finora ho subito un solo processo. Due anni di reclusione con la condizionale, per una storia dell'ospedale di Asti di cui non so nulla.
Aspetto gli altri. Su una sessantina di vicende ho ammesso subito di aver avuto i contributi. Dell'altra quindicina che mi viene addebitata non so niente. Sai, può capitare che un imprenditore faccia una raccolta di fondi, dica di averli dati a me e poi magari non l'ha fatto. E la stessa cosa può essere capitata a qualche amministratore, qualche funzionario. Se poi abbia girato i soldi a qualche corrente o li abbia tenuti per sé, questo non lo so.»
Citaristi è benestante, grazie al suo lavoro di editore cominciato nel '50, l'anno del matrimonio con Rosa Mazza, quando con due amici fonda la Minerva Italica, destinata a diventare una delle maggiori case editrici italiane specializ-
zate in libri scolastici («Hanno scritto per noi De Rosa, Zavoli, Folco Quilici...»). Mantiene la partecipazione fino all'89 quando la morte di uno dei soci porta anche gli altri due alla vendita dell'azienda. Una vendita di prestigio, alla Mondadori, che chiede a Citaristi di fare per un anno da presidente della Elemond Scuola. Ha tre figli: il maschio si occupa di una azienda agricola a hIonsummano Terme, una femmina è sposata con un italiano che vive in Ecuador, l'altra vive in India da dodici anni ed è l'unica occidentale che insegni danza Odissi. («Questa estate è venuta con sette ballerini e ha dato spettacoli a Roma, Milano, Firenze...»). I figli sono venuti spesso a trovarlo tra il '93 ed il '94, quando ai crucci delle 74 inchieste s'è aggiunto quello di una delicata operazione allo stomaco («Da allora ho perso diciotto chili»).
Non sembra avere rancori, Citaristi. Non attacca nessuno. Porta cristianamente la sua croce e racconta il suo calvario. Cominciando dall'inizio.
«Nell'85 De Mita m'incrocia in Transatlantico, a Montecitorio, e mi dice: Lusetti, il segretario dei giovani dc, sta organizzando un convegno nazionale. Vogliono andare a Bergamo, ma non hanno una lira. Puoi dargli una mano? Io mi do un po' da fare, organizzo al castello di Brignano un pranzo con centoventi imprenditori che sottoscrivono un milione a testa. Poi faccio un concerto allo stadio con Baglioni, raccolgo altri soldi. Insomma alla fine tiro su un miliardo che paga tutte le spese del "Gio Uno" organizzato da Lusetti. Restano venticinque milioni che verso nella cassa del partito a Bergamo.
Nell'86 De Mita mi chiama di nuovo. Senti, Citaristi: quest'anno c'è il congresso, a Bergamo hai fatto bene, perché non
vieni a dirigere l'amministrazione del partito? Io provo a dire di no, dico che mi piace continuare il mio lavoro alla Commissione Industria della Camera. Lui insiste, io cedo e da allora sono cominciati tutti i miei guai.»
«La Dc costava 60-70 miliardi l'anno»
«La Dc costava dai 60 ai 70 miliardi l'anno. Il Pci? Non so con esattezza. Ma molto più di noi. Lo Stato dava alla Dc 24 miliardi. Altri 13 o14 venivano dal tesseramento (avevamo un milione e ottocentomila iscritti) e qualcosa dovevamo lasciare alle sezioni e ai comitati periferici. Altri soldi venivano dalle manifestazioni. Due o tre miliardi erano il frutto di contributi che gli imprenditori accettavano di iscrivere a bilancio e che noi denunciavamo ai presidenti delle Camere. Il resto, 18-20 miliardi all'anno, venivano da contributi irregolari. Noi naturalmente avremmo preferito contributi alla luce del sole: non dovevamo pagarci le tasse e saremmo stati tranquilli. Ma gli imprenditori ci dicevano: capiteci, dobbiamo mantenere buoni rapporti con tutti...
I partiti sono associazioni volontarie e il segretario amministrativo è il responsabile legale del finanziamento. In teoria ha pieni poteri. Dico in teoria perché in pratica i responsabili dei vari movimenti (i giovani, le donne, gli anziani) e dei vari dipartimenti (scuola, sanità, giustizia e così via) prendono iniziative autonome e mandano il conto al segretario ammi-
306 307 nistrativo. Cercai subito di risparmiare. Vendetti ad Abete la
tipografia dove si stampava praticamente solo "Il Popolo" e che aveva 100 dipendenti, ho affittato a un gruppo di librai la Libreria Paesi Nuovi che perdeva 200 milioni l'anno, ho tolto macchine e autisti a 32 dirigenti sostituendole con un pool al quale potevano attingere tutti in caso di necessità. Arrivando nell'86 ho trovato 850 dipendenti e andando via ne ho lasciati 420 senza la cassa integrazione e i prepensionamenti che lo Stato ha concesso adesso. Ma le spese restavano comunque enormi. Pensa che dall'81 al '92 l'indice Istat del costo della vita è aumentato del 250 per cento. Il contributo dello Stato ai partiti è rimasto identico: 81 miliardi da dividere tra tutti. Se fosse stato indicizzato, non avrei avuto bisogno di chiedere niente a nessuno.
Ho lavorato con tre segretari politici: De Mita dall'86 all'89, Forlani dall'89 al '92, Martinazzoli fino al '93, quando sono andato via. Prima che scoppiasse Tangentopoli, nel '92, loro prendevano dei contatti e poi mi dicevano: Citaristi, verrà da te Tizio. Oppure, Citaristi, va' a trovare Caio. Io mi sono mosso soltanto per tre persone. Sono andato a trovare De Benedetti nei suoi uffici romani di piazza di Spagna, Sama nella sede Montedison all'Aracoeli e Gardini al Grand Hotel. Sama mi ha consegnato i contributi: una volta tre miliardi, un'altra uno. De Benedetti e Gardini ce li hanno accreditati su conti esteri. Il primo poco più di un miliardo, il secondo due.
Di che parlavamo in questi incontri? Loro mi dicevano di aver visto il segretario, di sapere che il partito aveva delle necessità: ci avrebbero dato volentieri una mano. Poi parlavamo di politica... (La Fiat non aveva bisogno di esporsi direttamente: aveva le sue società come la Cogefar Impresit...) Io
tornavo a piazza del Gesù e riferivo al segretario. La legge prevedeva che entro la fine di marzo si mandasse il rendiconto ai presidenti delle Camere. Allora dicevo ai segretari: abbiamo avuto tanto dallo Stato, tanto dal tesseramento e dalle manifestazioni e tanto da contributi non regolari. Dovevo avvertirli perché la dichiarazione alle Camere doveva portare anche la loro firma. Loro non entravano in dettagli, non mi chiedevano di conoscere i nomi di chi avesse dato i contributi.
Come si comportavano gli imprenditori? Tutti quelli che ho conosciuto, a parte i tre che ho citato, son venuti a piazza del Gesù. Erano loro che chiedevano di essere ricevuti, io non li conoscevo. Erano abituati a dare contributi, continuavano a darli. Per loro il vantaggio era duplice. Avevano interesse a mantenere in piedi un sistema politico che gli consentiva di sopravvivere. Sapevano che il sistema poggiava su tutti i partiti, si regolavano di conseguenza. Avevano poi bisogno di segnalazioni per vedersi pagare stati di avanzamento dei loro lavori. Erano cifre grosse. Un conto è vedersi saldare una fattura da 20 miliardi dopo un mese, un conto è incassarla dopo un anno. Chiedevano poi raccomandazioni per poter partecipare a gare d'appalto.
Tu mi chiedi se c'erano imprenditori che condizionavano l'erogazione del contributo all'aggiudicazione di un appalto. Io non ho mai fatto concussioni, non ho mai detto a nessuno: se non paghi, non vinci. Non era nei miei poteri, non è nel mio temperamento. Sì, uno o due imprenditori hanno detto di essere stati minacciati, ma non hanno potuto fornire, non dico prove, ma nemmeno indicazioni convincenti. Hanno in-
vece detto la verità imprenditori come Lodigiani, Gavio, Simontacchi della Torno: noi versavamo un tanto all'anno ai partiti indipendentemente dai lavori che facevamo per tenere in piedi quel sistema politico.»
«Ho sbagliato, ma non ho rubato»
«Ho ricevuto il primo awiso di garanzia nella primavera del '92, non ricordo se fosse maggio o giugno. Tu mi facesti rintracciare a Bergamo dalla troupe del Tgl e io potetti dimostrare che il contributo era regolarmente registrato: me lo aveva dato Pizzarotti, partecipava ai lavori di Malpensa 2000... Poi sono stati awiati a mio carico altri 73 procedimenti giudiziari: in tutti mi si accusa di aver avuto contributi "per conto della Dc".
Ho violato la legge, ho sbagliato. Ma per favore non venite
309 a dirmi che ho rubato. Ruba chi ti porta via il portafogli con la frode o con la violenza. Io non l'ho fatto. Se gli imprenditori che davano i soldi al partito avessero messo la firma sotto la dichiarazione di legge, io sarei stato l'uomo più felice di questo mondo. E invece eccomi qua, a vivere questa esperienza che è terribile per uno come me che è nella vita pubblica dal '47, quando diventai sindaco di Villongo, il mio paese, e da allora sono stato sempre stimato, rispettato, passato di elezione in elezione con consensi crescenti. Certo, gli amici mi conoscono, continuano a stimarmi, ma per me è stato ugualmente un cruccio tremendo, la causa di questa malattia che mi ha tolto diciotto chili. Nessuno mi ha mai contestato niente di personale, ma trovarmi così, in mezzo alla
mischia...
Quando mi hanno dato gli arresti domiciliari, arrivava in casa una telefonata dietro l'altra, perfino dal Pds, perfino da Rifondazione. Non da De Mita e da Forlani. E stata bellissima quella di Scalfaro. No, non posso raccontarti quello che mi ha detto. Posso dirti che era molto turbato, se ha fatto deliberatamente un gesto vistoso... Perché mi hanno arrestato? Leonardo Caltagirone aveva dichiarato di averci dato prima delle elezioni del '92 un contributo di 1600 milioni. Lo aveva detto a Di Pietro. Poi Di Pietro è andato negli Stati Uniti e ha passato l'inchiesta a Colombo. Colombo era convinto che quei soldi fossero il corrispettivo per certe operazioni immobiliari su un'area che la Vianini aveva acquistato nell'89 a Milano. Ma la Vianini è di Franco Caltagirone e non di Leonardo. Leonardo ci ha dato quei soldi in libretti al portatore. E verosimile che abbia tenuto immobilizzata una cifra così forte dall'89 al '92? Ma Colombo è stato irremovibile, ha dato gli arresti domiciliari a me per via dell'età e della malattia e ha mandato a San Vittore Franco e Leonardo Caltagirone. Ma anche lì loro gli hanno spiegato che la cosa non stava in piedi e la questione si è risolta in quattro-cinque giorni. Per me sono stati arresti per modo di dire, potevo ricevere gente, telefonare. Poi i giudici son venuti qui a interrogarmi. Però l'umiliazione c'è stata.
Tu mi chiedi se i giudici di Milano facciano differenza tra chi ha preso contributi per il partito e chi si è messo i soldi in tasca. Di Pietro si gli altri no. Ho mai sospettato che qualcuno nella Dc agisse in proprio? Vedendo le sedi delle correnti, capivo che qualcuno doveva pure finanziarle. Ogni tanto
qualche imprenditore mi diceva: "Scusi se non posso dare di più al partito, perché debbo prowedere anche ad altri amici...". Ho anche immaginato che qualcuno facesse gli affari suoi. Ma io badavo soltanto a mantenermi coerente con me stesso: non ho mai avuto una segreteria a Roma, a Bergamo utilizzavo per la corrispondenza la mia segretaria della casa editrice. Mi sono comprato a Roma nel '76 un appartamentino di 48 metri quadrati con un mutuo ventennale. Ho una casa a Bergamo, la villetta che hai visto qui alla Presolana l'ho costruita più di trent'anni fa...
Mi chiedi dove ho sbagliato. Nella certezza che i partiti avrebbero potuto continuare sulla loro strada - la strada vecchia - indipendentemente dal cambiamento della società. Dopo la caduta del Muro di Berlino, abbiamo continuato con i vecchi sistemi (i privilegi, le lottizzazioni, il mantenimento di grossi apparati), anche se ne mancava ormai il fondamento politico. Eppure ancora non mi rendo ben conto del perché Tangentopoli sia scoppiata solo nel '92. Anche gli uscieri sapevano che i partiti vivevano di contributi irregolari, come tutti sapevano che alla Guardia di Finanza c'era qualcosa che non funzionava. E allora? Motivazioni politiche? Francamente non lo so.
Per quanto mi riguarda, certo mi conforta la comprensione di tanta gente. Quando vado al Senato, la prima a venirmi incontro è la capogruppo di Rifondazione. Anche qui nella mia zona è tutto come prima; se vado a una manifestazione, nessuno mi contesta, la gente mi saluta, è gentile.
Quel che mi angustia è la scarsa solidarietà che ho avuto dal mio partito. Certo, tutti dicono che Citaristi è un galan-
tuomo. Ma non vanno oltre. Ed io, che in tutta la mia vita sono vissuto solo del mio lavoro e non ero mai entrato in un tribunale, trascorrerò gli anni che mi restano passando da un'aula all'altra. E ogni volta che sento il mio nome alla televisione, è come se sentissi una pugnalata...» Craxi e De Lorenzo, i «Mostri»
«Hanno voluto il mostro. Ed eccolo qua, il mostro, davanti a te. Ma bada bene: quando questa storia sarà chiarita, io avrò la gratitudine di cinquantasette milioni di italiani. Perché la riforma sanitaria che ho fatto io, non l'avrebbe fatta nessuno.»
Quando il comandante delle guardie del carcere di Poggioreale, dopo tre sorrisi di garbato avvertimento, apre la porta della sala colloqui per marcare la fine dell'incontro, il volto di Francesco De Lorenzo è velato da migliaia di perline di sudore. Sono le tre del pomeriggio di giovedì 11 agosto e sto parlando con De Lorenzo da un'ora e mezzo. A qualche centinaio di metri da qui - nel palazzo di giustizia di Castelcapuano - il Tribunale dei ministri, dopo sedici ore di camera di consiglio, sta decidendo che la seconda carcerazione di De Lorenzo deve durare ancora a lungo: secondo i giudici, l'uomo è socialmente pericoloso e può ancora inquinare le prove a suo carico. (Una decisione analoga, con motivazioni ancora più pesanti, prenderà successivamente il Tribunale del riesame.)
Fuori, oltre il grande portone verde che introduce nella Casa circondariale di Napoli, l'asfalto stradale compie lo sforzo estremo per non sciogliersi, tentato com'è di fare corpo unico con le rotaie del tram.
Dentro, gli uffici sono perfettamente condizionati. Ma oltre il quinto cancello, si entra in un regno senza privilegi. E nella piccola sala colloqui, quella che divide i liberi dai sepolti, è senza storia la lotta tra un volenteroso ventilatore e i quaranta gradi di temperatura.
«Vanno bene così i tavoli? Magari li awiciniamo un po'...» dice, premuroso e bonario, il comandante della polizia penitenziaria, capo di un esercito di ottocentocinquanta guardie che vigilano su più di duemila detenuti. («La capienza regolamentare sarebbe di ottocento» osserva la vicedirettrice Abate. «Vivrebbero decentemente anche milleduecento persone. Ma ne abbiamo avute fino a tremila.»)
«Lui è pronto.» Lui. Già, come lo chiamano in carcere De Lorenzo? Signor ministro, come usa anche con gli ex? Sarebbe paradossale. Onorevole? Inopportuno. Chissà se lo chiamano professore, come fa Marco Occhiofino, garbatissimo presidente del Tribunale dei ministri di Napoli, che mi concede senza difficoltà, per riferirne in questo libro, il primo permesso di colloquio accordato a una persona diversa dai familiari. E unico in carcere.
«Ciao, Franco. Come stai?» «Come un detenuto...» Gira l'angolo del braccio proibito agli estranei ed entra nella sala colloqui. Nel vederlo così, con un fascicolo voluminoso sotto il braccio e due guardie di scorta, mi viene istintivo vestirlo di grisaglia e riportarlo indietro di appena un anno e mezzo, all'inizio del '93, nel cortile di Palazzo Chigi, quando i ministri entrano sorridenti in consiglio sotto l'occhio benevolo delle telecamere, con un paio di persone che li scortano, co-
me adesso, e un fascicolo di pratiche sotto il braccio. Come adesso.
E invece De Lorenzo non indossa una grisaglia, lo scortano due secondini e nel fascicolo che porta con sé sta scritta la sua vita processuale. La vita di un ministro ricco e potente della Prima Repubblica accusato di aver intascato otto miliardi di tangenti per beneficio proprio e del Partito liberale italiano.
E dimagrito, ma non da impressionare. Indossa una camicia verde a righe sottili blu, sotto s'intravede una canottiera marinara a giro collo. Verdi i pantaloni, neri i mocassini. Unico segno di distinzione, le cifre FdL cucite sul taschino della camicia. Ci stringiamo la mano, poi il regolamento vuole che ciascuno di noi prenda posto su un tavolo diverso. Il comandante delle guardie li ha avvicinati, il colloquio è più facile, De Lorenzo talvolta può spingere il suo braccio fino a conse-
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313 gnarmi copie d'interrogatori e altri atti processuali senza alzarsi. Le guardie ci lasciano soli, si limitano a passeggiare nel corridoio dando di tanto in tanto uno sguardo discreto all'interno attraverso i grandi squarci di vetro che si aprono nella porta.
Un ministro ricco, preparato, disponibile...
E un colloquio difficile. Per lui, immagino, ma anche per me. Intanto mi sento quasi un intruso nella vita di un altro uomo.
I giudici della Procura di Napoli e il giudice delle indagini preliminari, tutti odiatissimi da De Lorenzo che li considera i suoi persecutori, sono stati assai avari nei permessi di colloquio, anche con i familiari.
E un colloquio difficile anche perché ero professionalmente tra i tanti, tantissimi estimatori di De Lorenzo. Un ministro ricco di suo e quindi presumibilmente disinteressato. Un ministro che per la politica ha lasciato una carriera universitaria che lo aveva portato a trentatré anni, nel '71, alla cattedra di professore ordinario di biochimica all'Università di Napoli. Un ministro molto preparato e molto disponibile a dare chiarimenti di ogni natura in ogni circostanza, anche in quelle in cui i ministri preferiscono defilarsi.
De Lorenzo era un principe della televisione. Invitato dappertutto, intervistato dappertutto. Grande familiarità con i giornalisti, punto d'appoggio obbligato di ogni trasmissione sulla sanità. (Perché meravigliarsi? Quanti ministri d'ogni colore, ogni volta che parlavamo di farmaci, ci hanno detto per una quindicina d'anni che Poggiolini era una autorità indiscussa?)
E adesso, mentre sento nel corridoio di Poggioreale i passi dei suoi carcerieri, come posso dire all'uomo smagrito e ferito che ho davanti che mi sento tradito ancor più della gente anonima e furibonda che lo vorrebbe all'ergastolo perché cento volte gli ho aperto e fatto aprire un microfono e una telecamera?
De Lorenzo freme, tocca le sue carte, vorrebbe farmi partecipe subito della sua autodifesa. Accetta di malavoglia di
parlare della sua vita in carcere. Poi comincia: «Mi hanno arrestato la prima volta il 12 maggio del '94. Mi hanno arrestato giudici non abilitati a indagare su di me e che per questo mi hanno trasformato in un prigioniero politico. I sostituti Fraiasso, D'Avino, Miller e Damato hanno adottato nei miei confronti un atteggiamento discriminatorio. Se l'industriale farmaceutico Zambeletti, amico vecchissimo della mia famiglia, ha detto di aver dato dei soldi a me e a Pomicino, perché gli atti su Pomicino sono stati trasmessi subito al Tribunale dei ministri, mentre contro di me si è proceduto con l'arresto? Sono stato arrestato dopo quattordici interrogatori, dopo aver chiesto scusa agli italiani nel mio discorso alla Camera dei deputati per aver dovuto richiedere ed accettare finanziamenti per il mio partito. L'ho fatto perché era l'unico modo di operare in un sistema politico che funzionava così da cinquant'anni. Ma di questo parleremo dopo. Sono stato arrestato un mese dopo la scadenza dell'immunità parlamentare e dopo che dal 23 settembre del '93 i giudici della Procura di Napoli avevano avuto dalla Camera il permesso di fare in casa mia tutte le perquisizioni che volevano, fatta salva la mia libertà personale. Sono stato arrestato dopo essermi messo a disposizione dei giudici. Uno dei miei awocati mi disse: nei tuoi confronti c'è a palazzo di giustizia un clima di comprensione. Per questo, la sera del 12 maggio 1994 sono arrivato qui a Poggioreale in stato di shock. I carabinieri mi hanno accompagnato con molta discrezione, risparmiandomi il linciaggio delle televisioni e dei giornali, il giustizialismo del telegiornale campano, del "Mattino" e della "Repubblica". La trafila che subisce chi entra in un carcere è umiliante. Le foto, le impronte digitali, il passaggio all'ufficio matricola, la consegna di tutto quello che hai con te, an-
che le medicine, anche l'orologio. Vedo che guardi il mio swatch: stavolta sono stati più comprensivi, non me l'hanno tolto. Ma la prima volta, a maggio, per riaverlo ho impiegato quindici giorni. Come ho impiegato una settimana per riavere i miei libri, otto giorni per poter comprare i giornali. No, i detenuti non possono scambiarseli. Ognuno deve comprarsi i suoi e ci vogliono parecchi giorni per le autorizzazioni e le prenotazioni.
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315 La sera stessa della prima carcerazione mi hanno accompagnato in cella al padiglione Torino, quello in cui stavano politici e amministratori. Tra gli altri l'ex segretario socialista Giulio Di Donato, l'ex sindaco di Napoli Nello Polese, uomo di prim'ordine e anche lui socialista, i parlamentari socialisti Salvatore Abruzzese e Francesco Curci poi Raffaele Russo, democristiano... Il mio compagno di cella era Angelo Ciarliello, capo di gabinetto del proweditore agli studi. Uno di quei napoletani geniali che sanno arrangiarsi, che non si arrendono davanti a nessuna difficoltà. Adesso, nella seconda detenzione, il mio compagno di cella è Antonio Fantini, ex presidente democristiano della regione. Era agli arresti domiciliari anche lui ed è rientrato in carcere con me. Al padiglione Torino siamo rimasti in cinque, ma ci sono stati momenti in cui a Poggioreale, tra politici e amministratori, stavano insieme anche trenta persone.
Torniamo alla sera del mio primo arresto. Non avevo cenato, naturalmente, e Ciarliello cucinò per me. Fu molto premuroso anche nei giorni successivi. Mentre io scrivevo le risposte ad alcune domande che un paio di giornali mi
avevano rivolto attraverso gli avvocati, Ciarliello prowedeva a tutto. Poi mi sono adattato. Ci siamo comprati la macchinetta per il caffè perché quello che ci passano qua la mattina col latte è imbevibile. Mentre Ciarliello cucinava, io pulivo la stanza. Nella sistemazione, siamo stati fortunati. Nel senso che avevamo il gabinetto chiuso, con una porta che lo divideva dalla cella. Altre celle ce l'hanno aperto e non deve essere una vita allegra. Certo, anche così qualche problema igienico restava. Accanto al water devevamo tenere l'armadietto per gli alimenti. E il lavandino serviva a tutto, a lavarci la faccia, a fare il bidet, a lavare i piatti...
Le giornate naturalmente sono tutte uguali. Basta un'occasione come questa, un semplice colloquio straordinario concesso in via eccezionale, a cambiarmi la giornata, a farmela sembrare enormemente più breve. Mi sveglio presto, verso le sei, le sei e mezzo. Mi preparo la colazione, faccio tre quarti d'ora di ginnastica per mantenermi in forma. Ricordi quando un fotografo riuscì a beccare Tortora in carcere durante l'ora d'aria? Be', l'ha fatto un settimanale anche con me dal grattacielo che sta in questa zona. Quando c'era Di Donato, facevo ginnastica con lui. Poi sistemo il letto, pulisco la stanza, leggo, scrivo. Abbiamo la televisione, ma non si può guardarla sempre. Alle undici di sera ci isolano. La nostra cella ha un cancello a sbarre. Ma alle undici di sera le guardie chiudono anche una porta esterna al cancello. La nostra cella diventa una specie di cassaforte. E noi restiamo murati dentro. Allora cerco di addormentarmi subito. Prendo un sonnifero e finalmente, nel sonno, torno libero. Il cervello non incontra più le sbarre, esce dalla cassaforte in cui siamo murati e per sette, otto ore vive finalmente la sua vita. Nessuno può
carcerarlo.»
«Di notte, il mio cervello torna libero»
Non entravo in un carcere da molti anni. In tempi lontani ho incontrato gli ergastolani di Porto Azzurro. Ho raccolto le disperate confidenze di Giovanni Fenaroli: alla fine degli anni Cinquanta fece uccidere sua moglie, il processo divise l'Italia, lui si è sempre proclamato innocente, mi mostrò le carte per la revisione del processo, morì prima che la battaglia si chiudesse. Ho visto servir messa Pietro Cavallero: la sua banda terrorizzò Milano dopo un sanguinoso inseguimento con la polizia. Ho parlato con l'ultimo superstite della banda Giuliano che usciva dopo ventotto anni di buona condotta. «E più pericoloso di prima» mi disse il direttore del penitenzlario.
Quando incontri qualcuno dietro le sbarre, è difficile che tu possa dire: è giusto che paghi così e andartene con l'animo sollevato. Certo, a vedere Mario Moretti, capo delle Brigate rosse, seduto alla Scala mentre ascolta il Rigoletto, rni tornano in mente i corpi dei cinque uomini di Moro straziati sull'asfalto di via Mario Fani. Ma adesso, mentre Francesco De Lorenzo parla del suo cervello che vola nella notte finalmente libero da sbarre, non riesco a pensare che la grandissima maggioranza degli italiani lo vorrebbe sepolto qui per la vita. Magari anche senza la formalità di un pubblico processo. Penso invece, non so quanto a torto, che un solo giorno di
316 317 carcere è un'umiliazione che segna irreparabilmente il resto
dell'esistenza. Si tratti di un ex ministro famoso e potente o dell'ultimo piccolo spacciatore di droga.
«E particolarmente pesante perdere la libertà per un liberale come me» riprende De Lorenzo con un sorriso. «Mi son chiesto all'inizio perché avrei dovuto resistere. E ho capito che l'ho fatto per i pianti di mia figlia Alessandra, per allontanare il suo timore che io non potessi sopportare il carcere. Mi sono allora imposto un principio: cercare dentro di me qualcosa a cui ancorarmi. Ho imparato ad amare me stesso e la mia vita per far vivere meglio i miei figli che sono stati violentati ogni giorno sulla stampa da gente che non fa il giornalista, ma il boia.»
La voce di De Lorenzo è cambiata. Alzo gli occhi dal taccuino: è rivolto alla sua destra con lo sguardo carico di lacrime. Forse sono entrati per un momento in questa stanza i fantasmi di Gabriele Cagliari, di Raul Gardini, del professor Antonio Vittoria di Napoli delle tante persone che non hanno sopportato la lunga umiliazione del carcere o la semplice prospettiva di affrontarla.
«Per incoraggiarmi,» mormora De Lorenzo «negli interi due mesi della mia prima carcerazione, Alessandra è andata ogni mattina all'ufficio postale, unica sede abilitata a comunicare con il carcere, e mi ha spedito un fax. Un fax al giorno per due mesi.»
Sarà questo l'unico momento di abbandono in novanta minuti di colloquio.
De Lorenzo ritrova subito la sua grinta. «Il trattamento delle guardie in genere è corretto. Ma qualche volta son dovuto intervenire per impedire qualunque sforamento da parte loro delle regole di correttezza. Ogni tanto vengo perquisito. Bene, per perquisirmi sotto le braccia basta seguire con la mano la cavità delle ascelle. Un giorno una guardia me le stava martellando con violenza. Dovetti protestare, intervenire. Come un'altra volta che mi dettero del tu senza alcun rispetto. Questo non posso accettarlo.»
Ma la cosa che gli preme di più è abbandonarsi a una lunga autodifesa, disperata e appassionata.
«Io resterò nella storia di questo paese per aver realizzato dopo dieci anni di discussioni e di polemiche la riforma sanitaria. L'attuale ministro della Sanità, Raffaele Costa, si sta lirnitando ad applicare una legge che ho fatto io. Se in Campania le Usl sono state ridotte da sessantatré a undici, il merito è mio. Perché c'è voluta la mia perseveranza in Parlamento per far passare una legge come questa contro tutto e contro tutti. Mia è la legge per razionalizzare la spesa sanitaria, mia la legge contro l'Aids che è stata definita la migliore del mondo, mia l'organizzazione per l'emergenza sanitaria: ne feci firmare il decreto presidenziale da Cossiga sul treno per Napoli. Mia la legge per le vaccinazioni. Mia la legge a favore degli anziani. Mia la legge per combattere l'epatite virale. Mia, con l'aiuto di Andreotti, la battaglia in sede comunitaria per ottenere una sola politica europea sulla sanità...»
«Franco, sei sicuro di non aver trattenuto dei soldi per te?»
Debbo interromperlo con la domanda più difficile: «Franco,
sei sicuro di non aver trattenuto per te niente, ma proprio niente, di tutto il denaro che ti è arrivato?».
Gli occhi di De Lorenzo si fanno più piccoli e più fissi.
«Niente. Ma la mia vicenda sotto questo aspetto è un libro aperto. Sono l'unico politico ad aver consegnato una documentazione di spesa, con assegni e fatture, di due miliardi e mezzo spesi esclusivamente per il partito. Il Partito liberale a Napoli mi costava sessanta milioni al mese. Dovevo tenere in piedi le sezioni, pagare le campagne elettorali dei candidati, finanziare l'elezione dei consiglieri comunali... Tutto sulle mie spalle. Ho documentato la spesa di altri tre miliardi per spese del partito a Roma e di un altro miliardo e mezzo per il partito a Napoli. Quanto fa? Sei miliardi e mezzo. In tutto sono accusato di aver ricevuto poco più di otto miliardi (non nove, hanno contato due volte un versamento). Manca infatti un miliardo e settecento milioni che stava in Svizzera e che ho restituito alla magistratura...»
«Franco, non l'hai restituito tu. L'ha scoperto Di Pietro...»
«Ma nemmeno per idea. Il mio segretario, Marone, ha detto nell'estate del '93 a Di Pietro che esisteva presso una fidu-
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:
319 ciaria svizzera un conto nella mia disponibilità amministrato dal finanziere Enzo Montello. Lo sai chi è Montello? E una persona di fiducia della mia famiglia dal 1978. In quell'anno la mia famiglia ha versato a Montello quattrocento milioni.
Montello li ha investiti bene e l'anno scorso quei quattrocento milioni erano diventati due miliardi e trecento milioni. Miei. A questi si aggiunge il miliardo e settecento milioni di contributi al Partito liberale fatti versare da Marone in Svizzera da parte di industriali che preferivano pagare estero su estero. Leggi qua. E la mia deposizione resa a Di Pietro il 15 novembre 1993. C'è scritto che lascio l'attività politica per tornare all'insegnamento universitario. Poiché tenevo a disposizione quei soldi per finanziare le mie prossime campagne elettorali, li mettevo a disposizione di Di Pietro. E lo facevo non solo col miliardo e settecento milioni che avevo ricevuto illegalmente, ma anche con i due miliardi e trecento milioni di mia proprietà. In tutto ho restituito quattro miliardi. Tu dici che Di Pietro se li sarebbe presi comunque. Nemmeno per idea. Guarda qua, questa è la nomina del più famoso avvocato svizzero che ha curato per mio conto e con la mia autorizzazione il trasferimento di quei soldi in Italia. Si fosse mosso Di Pietro da solo, quel denaro starebbe ancora dentro le banche svizzere...»
«A sentir te, è tutto chiaro, tutto trasparente. Eppure ci sono episodi che hanno sconvolto l'opinione pubblica. Tu, in casa tua, a bruciare documenti in un pentolone da cucina. Tutti sono convinti che fossero prove di tangenti, di situazioni inconfessabili...»
«E invece no. Dentro quel pentolone bruciavano le indicazioni sul voto di scambio. Non avevo sindaci in Campania e dovevo darmi da fare. Nel giugno del '92 arrivai ad avere a Napoli cinque consiglieri comunali. Novelli mi accusò di essere un ministro con una grande rete clientelare. Da quei successi e da quelle polemiche sono nati tutti i miei guai. E allo-
ra dentro quelle pentole bruciai certi documenti riservati e certe segnalazioni che coinvolgevano le massime cariche dello Stato. L'ho fatto per salvare loro. Marone, il mio segretario, aveva una valigetta con le sue carte e bruciammo tutto insieme. Ma io avevo l'irmnunità parlamentare, avrei potuto fare tutto con la massima calma...»
E questo uno degli aspetti più deboli dell'autodifesa di De Lorenzo. Chi può credere che il suo segretario, trovandosi in casa del ministro mentre lui bruciava lettere di raccomandazione e documentazione relativa a mercati elettorali, abbia detto: visto che hai la pentola sul fuoco, posso cuocere anche la mia minestra?
«Se al posto di Marone ci fosse stato Greganti...»
«Franco, chi può credere che tu non sapevi che cosa facesse la tua mano destra, il tuo potentissimo segretario, quello al quale tutti si rivolgevano sapendo che era come rivolgersi a te? E perché il fedelissimo Marone ti ha tradito dicendo che agiva solo per tuo conto?»
«Marone mi ha tradito per paura della galera. Lo hanno interrogato, lo hanno mandato agli arresti domiciliari e lui ha capito, o gli hanno fatto capire, che o parlava di me o lo sbattevano in galera. E lui ha parlato. Se al posto di Marone, che ho comunque sostituito con un'altra persona nel luglio del '92, avessi avuto come segretario un Greganti, le cose sarebbero andate diversamente. Ma se a fianco di ogni ministro e di ogni segretario di partito, ci fosse stato un Marone, si sarebbero scoperti tanti finanziamenti in più ai partiti. A que-
sto proposito, il presidente della Farmindustria, Claudio Cavazza, ha parlato ai giudici della "opportunità awertita da Farmindustria di provvedere al finanziamento del sistema dei partiti politici, sia di maggioranza, sia di opposizione, al fine di garantirsene un atteggiamento non sfavorevole".
Perché i giudici di Napoli non sono andati fino in fondo? Di Pietro l'avrebbe fatto... Se guardi i verbali, comunque, nessun imprenditore ha detto di aver avuto da me richieste di denaro o di aver versato a me del denaro. Marone era il punto di riferimento per tutti quelli che volevano sostenere il mio partito. Se avessi voluto fare delle operazioni riservate, non gli avrei indirizzato anche un mio parente, Borselli, per un versamento. Ma è anche vero che Marone si faceva gli affari suoi. Leggi qua. E la deposizione rilasciata il 5 luglio del '93 da Gironda, un imprenditore interessato alla campagna contro l'Aids. Lui testimonia della lavata di capo che feci a Marone quando mi accorsi che a mia insaputa lui aveva fatto arrivare a una sua azienda una commessa di 570 milioni per fabbricare sacchetti di carta per le farmacie...»
«Resta il fatto che la gente dice: tutti questi soldi di tangenti li abbiamo pagati noi poveracci comprando le medicine.»
De Lorenzo scatta. E l'accusa che lo ferisce di più: «Non è vero. Io ho fatto una politica di contenimento della spesa farmaceutica. Quando ho preso il ministero nell'89 la spesa farmaceutica era il 17.5 per cento della spesa sanitaria. Quando mi sono dimesso all'inizio del '93 l'avevo portata al 13 per cento. Nel '92 è stata per la prima volta al di sotto della media europea.
Nell'89 ho trovato più di ottomila specialità nel prontuario farmaceutico nazionale, quattro anni dopo ne avevo tolte mille suscitando la protesta degli industriali. Durante i miei quattro anni di ministero, su ottomila specialità, sai quante hanno avuto aumenti di prezzo? Ottantanove. E sai perché? Perché il Parlamento aveva raccomandato l'adeguamento del prezzo dei farmaci più vecchi per non farli uscire dal mercato. In ogni caso- e questo è l'aspetto più importantel'aumento dei prezzi non dipendeva da me, ma dal ministro dell'Industria che prowedeva attraverso il Comitato interministeriale dei prezzi.
E chi la norninava la Commissione farmaci del Cip? n ministro dell'Industria. Io conservo le lettere di una polemica durissima con Adolfo Battaglia, il ministro repubblicano dell'Industria, perché mi ribadì per iscritto che la designazione dei componenti era affare suo. Tanto è vero che quando insistetti perché della Commissione facesse parte, come accadeva da molti anni, Duilio Poggiolini, direttore generale del servizio farmaceutico del mio ministero, Battaglia mi rispose picche. Bene, quando Di Pietro mi contestò che quattro degli ottantanove imprenditori, che avevano beneficiato dell'aumento del prezzo dei vecchi farmaci, hanno versato soldi al mio partito attraverso Marone, io gli ho detto: perché non andate a vedere che cosa hanno fatto gli altri ottantacinque imprenditori? In realtà, questa storia era completamente nelle mani del ministro dell'Industria che poteva prowedere per le ragioni più diverse. U ministro Bodrato, per esempio, fece aumentare il prezzo del Fluimicil per arginare la crisi aziendale dell'industria che lo produceva. Sia Cavazza che Aleotti, i due presidenti di Farmindustria, hanno ammesso
che l'industria farmaceutica pagava i componenti della Commissione Cip dall'83-84. Il professor Vittoria, che si è ucciso nel '93, era in commissione certo non su mia designazione. [Da alcuni verbali risultano peraltro strettissimi i rapporti tra Vittoria e De Lorenzo, nda.] E poi io non sono nemmeno indagato per l'aumento del prezzo dei farmaci. Andato via Battaglia, il ministro Bodrato fece ridurre il prezzo di 205 farmaci. D'altra parte, fin dal 20 ottobre del '90, si era deciso che il compito della commissione fosse di riallineare i prezzi di farmaci uguali in modo che gradualmente essi potessero costare tutti quanto quello del prezzo più basso. Ma di fatto 13attaglia ignorò sempre questa metodologia.»
Diversa naturalmente l'opinione di Adolfo Battaglia, ministro dell'Industria dal 1987 al 1991: «I nuovi farmaci vengono registrati dalla direzione generale del Ministero della Sanità [quella diretta per molti anni dal professor Poggiolini, nda]. E quello il momento cruciale perché senza la registrazione il farmaco non può andare in commercio. Poi viene fissato il prezzo dalla Commissione farmaci del Cip, che dipende dal ministro dell'Industria. Io ho cercato di introdurre criteri nuGvi per arginare le pressioni. Per esempio ho stabilito che le domande fossero esaminate secondo l'ordine di arrivo entro tre mesi. Ho resistito alla richiesta di De Lorenzo di inserire Poggiolini. Ho cercato persone nuove, anche se non sempre ho azzeccato, visto che il presidente della commissione, il professor Brenna, è stato arrestato...».
Battaglia è stato trascinato nella vicenda delle tangenti farmaceutiche da un suo stretto collaboratore, il professor Piercarlo Muzzio. Arrestato dai giudici di Napoli, Muzzio ha detto di aver preso soldi per sé e di aver girato 350 milioni di
tangenti farmaceutiche al segretario del Pri La Malfa e 150 al ministro Battaglia. Battaglia nega e all'ottobre del '94 aspettava da oltre un anno di essere interrogato.
322 323 Muzzio ha anche detto che Brenna e Vittoria gli sottoponevano elenchi di ditte farmaceutiche alle quali era interessato De Lorenzo. Muzzio ne prendeva atto pregando i due di non fare storie quando fossero arrivate ditte che interessavano Battaglia.
«Perché, in fondo, mi hanno rovinato i bollini»
Torniamo al colloquio in carcere con De Lorenzo. Gli chiedo: «Sarebbe dunque solo frutto di cattiva informazione il risentimento, perfino l'odio, che l'opinione nutre nei tuoi confronti?».
«La gente ce l'ha con me per tre ragioni. La prima è l'istituzione dei bollini nel settembre del '92. Le regioni li amministrarono malissimo, ma il pubblico, soprattutto gli anziani, li ritennero insufficienti. La verità è che il 70 per cento della popolazione risultava esente in quanto indigente. Ci credi tu? Il fatto, come sapevano tutti, era che gli esenti andavano a farsi prescrivere le medicine anche per i non esenti.
Il secondo prowedimento che mi mise contro la gente fu l'aumento dei ticket. Il terzo - il più impopolare di tutti - fu l'istituzione della tassa sulla salute, le ottantacinquemila lire per avere il medico di famiglia. Pur di non farla approvare
mi volevo dimettere. Ma Amato, presidente del Consiglio, e Barucci, ministro del Tesoro, mi dissero: guarda che non riusciamo a collocare i Bot, qui rischiamo di non dare lo stipendio agli agenti di polizia. Allora andai da Mancino e da Martelli, che guidavano i ministri democristiani e socialisti. Il vostro elettorato, dissi, non digerirà questa tassa. E loro mi risposero che stavano con Amato. Allora chiamai il segretario del mio partito, Altissimo, che stava in Argentina. E lui mi disse: "Ma come ti viene in mente di fare una crisi di governo per la tassa sulla salute?".
Eppure, posso assicurarti che il risentimento della gente nei miei confronti è inferiore a quanto scrivono i giornali. In pubblico, ho avuto un solo episodio di forte contestazione. Fu quando alla funicolare di Capri una donna mi aggredì per la questione dei bollini e mi sputò. Perché, in fondo, a me m'hanno rovinato i bollini. Il Tg3 ci montò sopra una campagna incredibile. Ma anche adesso, tra le tante lettere che mi arrivano in carcere, quasi la metà è di gente che mi dice porco, ladro, maiale. Ma più della metà sono lettere di conforto. Molta gente mi scrive che prega per me. Una vecchia donna, che ricorda i miei prowedimenti a favore degli anziani, mi ha mandato un quadrifoglio, sicura che mi porterà fortuna...»
«Dove hai sbagliato?» gli chiedo. «Le leggi che ho fatto io non le avrebbe mai fatte nessuno. Un giorno avrò la gratitudine di tutti gli italiani...» «Franco, dove hai sbagliato?» gli ripeto. «Ho sbagliato a non pensare a me stesso. Ho sbagliato a darmi da fare per il partito, a correre in tutta Italia per dare una mano a candidati in difficoltà, ad aprire quaranta sezioni del Pli a Napoli, a sostenere consiglieri comunali e regionali.
Se nell'83 mi fossi detto: con i soldi tuoi, potrai farti eleggere parlamentare sempre, tutto questo non sarebbe accaduto.»
«Non ti rimproveri nemmeno qualche peccatuccio di ostentazione? Quelle feste per i tuoi figli a Capri con centinaia di persone. Molta gente si è detta: adesso abbiamo capito chi pagava...» «No, questo la gente non può dirlo. Se i miei figli hanno continuato a frequentare tranquillamente il loro ambiente, se il loro tenore di vita non ha avuto la minima caduta, la ragione è una sola: io sono benestante da sempre e non ho mai avuto bisogno di niente. La casa di Napoli, le case di Anacapri sono nostre da prima che io cominciassi a far politica. Lo sai di chi erano cento ettari di agrumeti espropriati nel '65 per costruire il centro siderurgico di Gioia Tauro? Della mia famiglia. E sai quanto ci dettero per l'esproprio? Quindici miliardi. Quindici miliardi del '65 che certo abbiamo provveduto a investire.»
«Franco, quanti anni hai?» «Cinquantasei.» «Come vedi il tuo futuro?» «Prima che mi capitasse addosso questa tegola di Poggioreale, pensavo di tornare all'università. Mi sarei preso un paio di anni sabbatici negli Stati Uniti e avrei ricominciato. Adesso debbo affrontare il problema di un processo di piazza senza diritto alla difesa. Sono diventato il capro espiatorio di un sistema che andava avanti da cinquant'anni. Non ho il potere di ricatto di certi democristiani che tratten-
324 325 gono decenni di segreti condivisi con i comunisti e vengo dato in pasto all'opinione pubblica.»
Entra il comandante delle guardie. Il colloquio è finito. «Posso avere il tuo numero di telefono di casa? Vorrei parlare con tua moglie.»
«Non me lo ricordo, l'hanno appena cambiato...»
Mi dirà il suo awocato: «La famiglia De Lorenzo non ha più telefono. Hanno staccato quelli di casa durante gli arresti domiciliari di Franco e hanno sequestrato i telefoni cellulari».
Pomicir~o: «Soldi? Ma se ho solo due case...»
«Desidera conferire con lei l'ex onorevole Cirino Pomicino...» Quanta enfasi, quanto distacco in quell'ex pronunciato dal centralinista che ti rintraccia. Uno dei tanti che si sentono traditi da Tangentopoli e che adesso forse prova disagio a contattare in condizioni tanto diverse quello che fino a ieri era un uomo tra i più potenti della Repubblica. «Comandi, eccellenza... Un momento in linea, signor ministro... Prego, presidente...»
Ecco la voce inconfondibile: «Ho visto la tua trasmissione sull'occupazione. Ma guarda che quando c'ero io al governo i disoccupati erano un milione in meno. E il disavanzo pubblico era inferiore. Come? Tu dici che adesso è cresciuto perché prima del governo Amato andavamo a briglie sciolte? Questa è una sciocchezza...».
E in gran forma, il dottor Paolo Cirino Pomicino, già potentissimo ministro del Bilancio della Prima Repubblica, ac-
comunato a De Lorenzo dall'origine napoletana e dalla professione medica (Pomicino è psichiatra). Intelligentissimo. Simpaticissimo. Adorabile faccia da schiaffi. L'unico, con Gianni De Michelis, in grado di stordirti con balletti di cifre mai inferiori alle migliaia di miliardi. Togli qua, metti là. E un uomo del calibro di Guido Carli che ne avallava i discorsi con autorevole, senile benevolenza.
«Sto in ospedale, faccio il tagliando al cuore. Sì, sono stato precoce in tutto, anche nell'infarto. Avuto a quarant'anni. Avrei bisogno di fare dei controlli all'estero... Perché non ci vado? Ma sei pazzo? Con l'aria che tira vai a convincere i giudici che me ne sono andato per i controlli al cuore...»
Nello studio di via Sardegna la scrivania è ingombra di libri (ne sta scrivendo uno anche lui), e la segretaria porta una bottiglia di vino bianco che l'amico Andrea, grande oste del vicino ristorante un tempo crocevia dei potenti, non gli fa mancare in memoria di antiche frequentazioni.
«Scusa, Paolo, l'ho chiesto a tutti: quanti soldi hai preso?» «Per me niente. Va' a vedere le mie proprietà: la casa in cui abito a Napoli e un appartamento in montagna a Roccaraso. Non a caso Di Pietro ha chiesto il mio rinvio a giudizio solo per finanziamento illecito al partito. E niente di diverso ha scoperto la Guardia di Finanza dopo un'indagine sul mio conto.»
«Ma come? Eri il padrone di Napoli... Il famoso asse Pomicino-De Lorenzo-Di Donato...»
«Tutte palle [sinonimo meridionale di balle, nda]. Non ci vuole la zingara per sapere che ci contendevamo il consenso elettorale. Eppoi non è stato Di Donato a impedire al sindaco Nello Polese la conclusione di Neonapoli? No, guarda: come facevo io ad avere tutto questo potere nella regione di De Mita e di Gava, di Bassolino e di Napolitano? Perché allora s'è scatenata la magistratura? Napoli quando scoppia è sempre pirotecnica. Non c'è dubbio che ci fossero sospetti di ruberie dietro il paravento del finanziamento pubblico ai partiti, ma c'è stata anche una gestione politica dell'intera vicenda. Io sono amico da tanti anni dell'industriale farmaceutico Zambeletti. Mi ha fatto bei regali in occasione di ricorrenze diverse. Poi scopro che li mette in carico all'azienda e li fa passare per tangenti... Comunque, negli ultimi tempi una campagna elettorale per andare alla Camera era arrivata a costare un miliardo e mezzo. E questa cifra, se valeva per me, valeva anche per gli altri. D'altra parte con quali mezzi potevi battere il territorio? A meno di non avere una televisione. Perché chi passa in televisione ha vinto.»
«Non c'è stata da parte vostra una forte arroganza del potere?»
«Direi di no. Prendi Romiti e De Benedetti. Io non ho mai
326 327 chiesto una lira, loro non me l'hanno mai offerta. Eppure ho fatto prendere al governo prowedimenti che li interessavano molto da vicino.
Il problema è che dopo l'amnistia dell'89 si sarebbe dovuto
liberalizzare il finanziamento ai partiti stabilendo tra imprese e mondo politico i rapporti tipici delle democrazie occidentali e consentendo agli imprenditori di finanziare la campagna elettorale di questo o quel politico. Comunque, la delegittimazione di un'intera classe politica è stata una gran cazzata. Berlinguer non l'avrebbe fatta di certo.»
Ma Pomicino, com'è nel suo carattere, non si adatta a parlare soltanto di tangenti. Vuole parlare di politica, spiegare perché Berlusconi ha vinto e perché, a suo giudizio, la Dc del Nord ha portato alla disfatta la Dc del Sud. «Occhetto ha sbagliato tutto. Berlusconi è stato costretto a scendere in campo. Le forze imprenditoriali più importanti già s'erano venduta l'anima ai progressisti e avrebbero mutato a Berlusconi le condizioni stesse per agire in Italia come imprenditore. Sarebbe bastato che Occhetto dicesse: la Fininvest non deve scomparire e Berlusconi sarebbe rimasto ad Arcore. Ma non l'ha fatto. A questo aggiungi che Martinazzoli dava per scontata un'alleanza di governo con la sinistra. L'operazione era pilotata da Andreatta, con il supporto della grande finanza italiana e internazionale. La scelta a sinistra per Martinazzoli era obbligata. Lui sapeva che la Dc al Nord sarebbe stata distrutta e sapeva anche che la sua segreteria non avrebbe retto con una Dc forte soltanto al Sud. Allora ha giocato su una sconfitta subita tatticamente nell'illusione di poterla gestire politicamente dopo le elezioni. Ma gli è andata male.»
E qui il sudista Pomicino affonda le armi della vendetta politica e di un orgoglio territoriale mai sopito: «Il problema è che la Dc del Nord aveva smesso da tempo di fare politica. Come mai nella Campania di Pomicino e di Gava la Dc
ha sempre aumentato i consensi mentre la Brescia di due ministri come Martinazzoli e Prandini è stata consegnata alla Lega?».
«Perché voi eravate più bravi con le clientele» provo a dire.
«Ma quali clientele, queste sono palle» dice Pomicino tirandosi gli occhiali sulla fronte e bevendo il vino gelato dell'amico Andrea. «Palle, amico mio. n problema è che i democristiani del Nord s'erano addormentati in braccio ai Lucchini, ai Nocivelli, ai signori Brambilla del Veneto, della Lombardia e del Piemonte e avevano rinunciato all'azione di guida della politica. Lo sai che mi ha detto Di Pietro? Che i miei colleghi del Nord avevano smesso di fare la campagna elettorale. S'illudevano di galleggiare sul benessere perpetuo. Quando il processo di crescita economica s'è rallentato per l'inadeguatezza delle infrastrutture e l'inefficienza dell'amministrazione pubblica, si sono rivolti ai nostri politici del Nord che non sono stati in grado di garantire alcun processo di ammodernamento. Di qui le batoste.
E invece noi al Sud che il benessere l'abbiamo conosciuto assai meno e abbiamo dovuto sempre confrontarci con la disperazione della gente, la disoccupazione giovanile, il degrado delle strutture urbane, bene o male, siamo riusciti a essere il riferimento politico della popolazione. Tu mi rimproveri il voto di scambio. E io ti dico che se avessi dovuto condizionare la mia elezione ai posti di lavoro che ho trovato, da quel dì che sarei stato trombato... Il problema riguarda un diverso rapporto con la politica.
Nel Veneto la gente sta meglio e le bastava votare al 50 per
cento per la Dc con basse preferenze. Al Sud la gente vuole dai politici la garanzia del soddisfacimento di certi bisogni. Se per questo intendi voto di scambio, allora va bene. La Dc ha perso nel Nord perché i nuovi politici si sono cullati sul benessere e non hanno badato più ai bisogni della gente, anche se si trattava di bisogni nuovi, adeguati ai tempi. Lì gli ultimi dei nostri a far politica sono stati Marcora, Bisaglia, Rumor, Piccoli...»
«Chiedo anche a te: dove avete sbagliato?»
«Abbiamo fatto parecchi errori. Innanzitutto, nel non saper separare con grande forza e determinazione il finanziamento illecito ai partiti dalla corruzione. Prima, nell'aver scambiato per una sconfitta il 30 per cento dei voti che ci è stato dato nelle elezioni del 5 aprile '92. Ci siamo awitati in una serie di errori progressivi. Il partito si divideva tra chi era già stato impallinato dalla magistratura e chi aveva il terrore di esserlo da un momento all'altro. E così siamo arrivati
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329 alla paralisi. E anche nella paralisi abbiamo commesso nuovi errori politici. Come quelli di De Mita che manifestava il massimo del disprezzo verso Martinazzoli dicendo che non aveva un disegno politico in testa. E invece ce lo aveva... E così siamo arrivati alla democrazia plebiscitaria di Berlusconi. Perché Silvio non è il leader di Forza Italia: è il padrone...»
«A proposito, quanti miliardi avresti preso? Quattordici, quindici...»
«Palle, palle, palle.» Pomicino ride amaro: «A Milano mi hanno contestato solo il finanziamento al partito, come ti ho detto, e ho ammesso di aver ricevuto più soldi di quelli che conosceva Di Pietro». E a Napoli? «A Napoli mi hanno accusato di tutto. Sai, i napoletani sono sempre splendidi.»
Squilla il cellulare. «Po-ron-to?» scandisce Pomicino. E sempre il solito. Con un pericolo in più: forse farà il giornalista.
Craxi, trofeo da caccia grossa
«O mi batto o crepo.» Craxi l'aveva detto all'inizio di luglio ad Augusto Minzolini della «Stampa» che gli aveva telefonato ad Hammamet in Tunisia, dopo che Di Pietro aveva ironizzato sul suo stato di salute. E ancora non gli cadeva sulla testa la tegola della sentenza sul crac dell'Ambrosiano per il famoso «conto Protezione»: otto anni e sei mesi.
Quando lo cerco all'inizio dell'autunno '94 per chiudere i capitoli sugli «assenti» con l'assente per eccellenza, Craxi sta maleè stato appena operato. Il suo diabete storico e trascurato («E un incosciente» mi disse anni fa il suo medico Guido Pozza) gli ha procurato, par di capire, le insufficienze arteriose e le neuropatie classiche dei diabetici gravi, che gli hanno ulcerato un piede con rischi di cancrena e amputazioni progressive. «Siamo intervenuti appena in tempo» mi dice all'inizio di ottobre, quando esce il suo libro, Il caso C. Non credo che possa definirsi malato intrasportabile. Ma è difficile che gli venga la voglia di tornare: potrebbe passare anni conteso tra le infermerie di San Vittore e di Regina Coeli. («Resto qui» mi
conferma in ottobre con la voce placida al telefono.) In Tunisia
Craxi si divide dunque tra cliniche, ospedali e la sua villa dove nani e ballerine strisciavano in pellegrinaggio, salvo a dire ai giornali - caduto in disgrazia il padrone - che Bettino è un satrapo insopportabile e un ospite sgradevole.
«Quest'estate ho sofferto il caldo come non era mai capitato prima» dice Craxi. Un giorno a Tunisi si sono toccati i 54 °C. Per il resto, quando sono libero dalle cure, lavoro e leggo libri come non riuscivo a fare da un pezzo. Scrivo precisazioni, smentite, lettere a non finire, articoli firmati conlno pseudonimo e in qualche caso bloccati un minuto prima della pubblicazione da provvidenziali prowedimenti censori. Ho scritto anche due libri. Uno è di documentazione e di ricostruzione del "caso Craxi". L'altro è un romanzo sullaita e le avventure di Ghino di Tacco. Ne ho in cantiere altri, ci metterò mano quando avrò meglio definito il senso generale e fissata l'intelaiatura. Ho anche messo a punto le mie ultime cartelle litografiche - sono lavori concettuali. Una riguarda le mie missioni nel Terzo Mondo per incarico dell'Onu. Un~altra è dedicata alla Tunisia, la terza ai "bugiardi e agli extraterrestri", e cioè ad alcuni personaggi di grido che si sono comportati e si comportano come se negli ultimi venti anni fossero vissuti sulla Luna. Ho incontrato molti amici italiani e stranieri, politici e non. Infine, mi occupo della mia famiglia più di quanto non abbia mai fatto.»
Chiedo di andare a trovarlo ad Hammamet, ma dopo tante fregature Craxi preferisce dettare a verbale. Domande scritte, risposte scritte. E molti messaggi trasversali in Ogni
direzione.
«Sono un perseguitato politico»
«Sono un perseguitato politico. Non c'è alcun dubbio che nei miei confronti si sia mossa una giustizia politica. Forse fa comodo non vederlo, ma a guardar bene, si vede. Tutto è stato fatto in modo organizzato e preordinato, spesso con grande determinazione e grande spregiudicatezza. E come si è visto è stato raggiunto facilmente l'obiettivo, tutto politico, di togliermi dalla scena nel modo più brutale e infamante.» Chiedo a Craxi se trovi qualche diversità di atteggiamento nei suoi confronti tra i giudici di Milano e quelli di Roma che per primi hanno chiesto il suo arresto.
«Proprio nessuna. Sono state commesse nei miei confronti una serie di illegalità anche a Milano. La richiesta di arresto formulata dal pubblico ministero di Roma non aveva alcuna giustificazione e alcun fondamento legale. Un colpo di teatro per titoli a otto colonne e per prime pagine televisive.»
Craxi ritiene tutte infondate le accuse dei magistrati: «Dalla prima all'ultima. Ricorrendo a una iperbolica trasformazione del reato mi è stata mossa tutta una serie di accuse completamente infondate, per fatti che non ho compiuto, per concorso con persone che non conosco, per vicende alle quali sono totalmente estraneo. Io non ho mai corrotto nessuno e non sono mai stato corrotto da nessuno.
Per quanto riguarda il finanziamento illegale del partito, mi sono assunto invece subito le mie responsabilità politiche e morali, non ho fatto come altri che hanno mentito e conti-
nuano a mentire. Ma nel mio caso è stato fatto valere un "teorema" che non è stato fatto valere per altri. Sono stato chiamato automaticamente in causa per ogni versamento, vero o presunto, provato o non provato, che nell'arco di un quindicennio è stato fatto al partito di cui ero segretario, una discriminazione sistematica e una persecuzione in piena regola.»
In che cosa la posizione di Craxi è diversa da quella degli altri imputati di Tangentopoli?
«Ci sono tante posizioni e responsabilità diverse. Io sono un trofeo da caccia grossa, e quindi mi è stato riservato un trattamento speciale lungo i binari di un circuito mediaticogiudiziario che mi ha aggredito facendolo talvolta con una violenza inaudita.
In certi momenti, difendersi era diventato praticamente impossibile. Io ero l'uomo politico italiano forse più noto al mondo e contro di me si è realizzata una concentrazione di sforzi e di attacchi quali mai si era vista in precedenza contro nessuno. E del resto, l'aggressione continua da par suo. All'inizio, quando mi permettevo di aprire bocca, per protestare, precisare, smentire, subito dopo ricevevo un avviso di garanzia. Me ne sono stati inviati a grappoli. Ora, se parlo, ricevo rinvii a giudizio in serie e si predispongono processi con la velocità del suono. E persino tutti insieme, mettendomi nella pratica impossibilità di difendermi. Sono successe cose che non hanno precedenti nella storia giudiziaria del nostro paese. Il primo processo, nel quale ho subito la prima condanna [conto Protezione, nda], è stato un processo farsa, carico di illegalità e di motivi di nullità e nel quale si è fatto
un uso prepotente del potere giudiziario.
Sono stato condannato a una pena gravissima per quello che era un finanziamento illegale risalente a quattordici anni addietro, interamente prescritto e amnistiato, ma proprio per questo sono stato accusato in modo del tutto assurdo e fantasioso del reato di concorso di bancarotta fraudolenta. E poiché anche questo reato era ormai in via di prescrizione, per evitarlo mi sono state inflitte delle aggravanti, benché io sia un cittadino del tutto incensurato dopo quarant'anni di attività di lavoro e di responsabilità politiche; mi domando solo fino a quando questo modo di agire potrà durare.»
«Perché Borrelli non si è mosso prima?»
Nel discorso alla Camera del 4 agosto del 1993 lei ha detto che il mantenimento del Psi è costato tra il 1987 e il 1991 cinquanta miliardi all'anno. Quando la incontrai nell'aprile dello stesso anno, lei mi disse che a proposito della prima inchiesta sulla Metropolitana Milanese negli anni scorsi di fatto il Parlamento aveva considerato le~ittimi i finanziamenti politici di questo genere di aziende. E così?
«Non è esatto, le spese erano superiori. Allora io mi riferivo alle risorse aggiuntive provenienti da enti pubblici, società private e soggetti vari, così come risultava da un appunto riservato e manoscritto dell'amministratore consegnatomi dopo la sua morte. Per quanto riguarda la MM è vero che il Senato della Repubblica ne discusse nel '90 respingendo una richiesta di autorizzazione a procedere per concussione avanzata contro il senatore Antonio Natali. Il Senato accettò invece la tesi del relatore che definiva la società MM una società per
azioni privata. In quella occasione, dalla relazione del procu-
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333 ratore Borrelli, il Senato apprese senza possibilità di equivoco che a Milano esisteva un sistema "notorio e costante" di contribuzioni dirette ai partiti Dc-Psi-Pci in primo luogo. Ouindi non ero solo io a saperlo ma lo sapevano tutti.
Resta semmai da chiarire per quale ragione il procuratore Borrelli non ha poi esercitato l'azione penale per violazione della legge sul finanziamento dei partiti così come era suo dovere di fare essendo in possesso di "notitia criminis". Passarono invece due anni fino a quando la questione dei contributi che le società che lavoravano alla Metropolitana Milanese versavano ai partiti, e per la verità non solo ai partiti ma anche a entità civili e religiose cittadine, si è nuovamente aperta quasi per caso.
Si trattava di una sorta di "rito ambrosiano" che era "notorio e costante" da decenni e che quindi a rigore di legge non avrebbe dovuto passare inosservato e lasciare indisturbati.»
Craxi ritiene che «la Dc spendeva più di noi e di certo il Pci-Pds spendeva di gran lunga più di noi e della Dc».
Secondo l'ex segretario del Psi, «il coinvolgimento del PciPds nei finanziamenti illeciti è rimasto piuttosto largamente all'oscuro, ben coperto e in molti casi protetto illegalmente. E un capitolo questo, che deve essere ancora scritto in modo veritiero, per mettere in chiaro aspetti essenziali della vicen-
da politica italiana dal dopoguerra in poi».
Dice Craxi: «Certo, per trovare, bisogna cercare. Si è agito in modo pianificato e spasmodico, in alcune direzioni ma non in altre. Non si è quasi mai andati con serietà al fondo delle cose. Tanto in campo intemo che in campo intemazionale. Penso tuttavia che chi ritiene che in questo modo si sia ormai riusciti a seppellire tutto si sbaglia di grosso. Presto o tardi tante verità verranno a galla».
A proposito del modesto coinvolgimento dei comunisti in Tangentopoli e della successione Occhetto-D'Alema, numeri uno e due del partito già nel Pci, è questa l'opinione di Craxi che ha inoltrato un robusto dossier alla Procura di Roma contro il partito delle Botteghe Oscure:
«Per quello che mi dicono - e come era logico - la segreteria politica esercitava un controllo sulle attività finanziarie del partito. Il nome è ricorso in diversi episodi ultra eloquenti. E un caso, come altri, che non è stato affatto chiarito come si sarebbe dovuto fare e che nessuno si è peritato di fare con serietà. Ma non è detto che un giomo o l'altro non si giunga a farlo.»
Nelle sue memorie, Gianni Cervetti ricorda che secondo Berlinguer la cosa che distingueva dawero il Pci dagli altri partiti dinanzi ai finanziamenti illeciti era la personale onestà dei dirigenti. Craxi è d'accordo?
«Una differenza c'era» dice. «Nel Pci non si scatenava tra i candidati la lotta per le preferenze, una lotta costosa che spingeva il candidato alla ricerca di fondi illegali o irregolari.
Nel Pci la disciplina di partito aveva, almeno fino a un certo periodo, una forza che mancava ad altre formazioni politiche. Per il resto, onesti e disonesti se ne incontrano in tutte le famiglie. Berlinguer, in ogni caso, da un lato "strappava" con l'Urss e dall'altro riceveva regolarmente finanziamenti da Mosca con una disinvoltura morale che si commenta da sola.»
Lei ha detto che tutti nel Psi sapevano da dove arrivavano i soldi. Ha notato tra i suoi ex compagni di partito qualche ipocrisia al momento delle indagini giudiziarie?
«Una montagna» dice Craxi. «C'era chi pensava di farla franca e non l'ha fatta. C'era chi pensava di approfittarne scaricando su altri le responsabilità e non ne ha tratto grande profitto. C'è ancora chi ha mentito e chi ha qualcosa da nascondere. In privato sono tanti che mi hanno ripetuto che nei miei discorsi parlamentari avevo usato nel modo migliore il linguaggio della verità, ma in pubblico sono pochi a ripeterlo e sono pochi a battersi perché tutta questa vicenda sia affrontata secondo una regola di giustizia e di verità. La paura e la viltà in molti casi hanno fatto il resto.»
Quei soldi che arrivavano in piazza Duomo
Sono stati più numerosi i suoi vecchi collaboratori rimasti fedeli o quelli che le hanno girato le spalle?
«I più hanno voltato le spalle, chi per una ragione chi per
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un'altra. Uno spettacolo da manuale che può aver lasciato indignato solo chi non conosce la storia.»
L'opinione pubblica è rimasta colpita dalla gestione diretta da parte di Craxi di una parte dei finanziamenti destinati al Psi. Molti soldi arrivavano direttamente nel suo ufficio di piazza del Duomo a Milano. Gli chiedo che cosa risponde a chi sospetta di un suo personale profitto.
«Io agivo nell'ambito dei miei poteri statutari e delle mie responsabilità che erano diverse da quelle dell'amministrazione che prowedeva per le entrate e per le spese utilizzando varie strutture interne ed estere. Davo delle autorizzazioni politiche quando si trattava di materia che rivestiva o poteva rivestire un rilievo politico. In piazza del Duomo io avevo l'ufficio con tanto di targa che portava il mio nome. Nello stesso grande appartamento avevano uffici di recapito anche gli amministratori del partito, compreso lo scomparso Vincenzo Balzamo che quando era a Milano vi svolgeva una parte del suo lavoro. Io ho disposto per l'utilizzazione di fondi del partito per tante operazioni interne e internazionali, per contributi a persone, a enti e organizzazioni, gruppi, partiti e movimenti vicini e amici, iniziative e pubblicazioni per le campagne elettorali. Oltre che per le spese dei miei uffici, i mezzi servivano e servono per il lavoro, e cioè per la lotta politica con tutte le sue molteplici incombenze. Ricevevo inoltre un compenso annuale che mettevo nella dichiarazione dei redditi.»
Aggiunge Craxi: «Né io né la mia famiglia abbiamo mai condotto una vita di tenore superiore ai mezzi di cui disponevo e che dichiaravo regolarmente al fisco. Ormai ho ses-
sant'anni e la mia vita è abbastanza nota. Per il resto sono state raccontate un'infinità di storie frutto di un provincialismo meschino e di cattiveria a poco prezzo».
Può parlare del suo rapporto con Di Pietro? Al processo Cusani si è avuto quasi una sensazione di una intesa fra voi due. «Al processo Cusani, il dottor Di Pietro si è comportato con me con grande scorrettezza. Di fronte a me si è comportato in modo diverso da come aveva fatto con altri. Poi ha fatto testimoniare una serie di persone che con il processo non avevano niente a che vedere, ponendo loro domande su di me senza alcun rapporto con il processo a Sergio Cusani. Avrebbe dovuto porle a me. Avrei saputo rispondergli nel modo più proprio ed esauriente. Ma non l'ha fatto.» (Dopo il nostro colloquio, in ottobre al processo Enimont vengono fuori altri due conti svizzeri con una trentina di miliardi nella disponibilità di Craxi. «Erano del partito» si difende lui. Ma dal partito rispondono: «A lui i soldi, a noi i debiti».)
Senza Di Pietro lei sarebbe ancora al potere con i massimi dirigenti della Dc?
«I massimi dirigenti della Dc, all'indomani delle elezioni del 1992, liquidarono subito, in poche ma significative battute, la possibilità che si ricostituissero la precedente coalizione e il precedente equilibrio. Ne seguì un governo che ebbe poco respiro, poca vita e nessuna capacità di governare la situazione italiana. Il problema Di Pietro, delle sue alleanze, dei suoi sostenitori e delle sue amicizie, è un problema confuso fin dalle origini ed è in un certo senso un problema ancora aperto.»
idifficile parlare con Craxi e non chiedergli un giudizio sugli anni Ottanta, periodo tra i più controversi del dopoguerra. Dice: «Risalire all'Italia del 1983 significa ricostruire un quadro che, nei suoi aspetti più negativi, era costituito dall'alta inflazione e dalla stagnazione economica, dall'instabilità politica, dal perdurante fenomeno terroristico, dalla conseguente perdita di peso internazionale dell'Italia. I governi che ho guidato in quegli anni hanno vinto l'inflazione e portato l'economia italiana al più alto tasso di sviluppo in Europa. In quegli anni si pone fine al capitolo del terrorismo, nasce il ruolo internazionale dell'Italia che entra nel G7, mentre è in Italia che si mettono le basi per i nuovi trattati europei.
L'Italia era risalita in serie A. Dopo il 1987, segue un nuovo periodo di instabilità e si succedono in tre anni tre governi a guida diversa. La storia ricostruirà tutte le vicende di anni che furono importanti per il progresso italiano.»
Perché avete sottovalutato così a lungo il fenomeno della Lega?
«E vero, c'è stata sottovalutazione anche da parte mia. Ma in realtà i primi contraccolpi al Nord prendono corpo come conseguenza di una eccessiva meridionalizzazione del maggior partito, e cioè della Dc. Il fenomeno si sviluppa in zone considerate storicamente "bianche". Che ruolo abbiano giocato poi sulla fase di crescita delle leghe, come qualcuno sostiene, delle spinte internazionali è ancora un aspetto da approfondire e da accertare.
L'awio delle esplosioni scandalistiche è stata poi benzina gettata su un fuoco già acceso. Il sistema dei partiti era da
tempo entrato in una fase di cristallizzazione, di degenerazione. Chiuso in se stesso, aveva perso molte delle sue capacità di percezione e di reazione. Io lo avevo awertito, ma tutti i discorsi sulle "grandi riforme" che venivo avanzando, e che erano ormai necessarie, o erano equivocati o cadevano nel vuoto.»
Obietto a Craxi che ai partiti di govemo della Prima Repubblica ha nuociuto una progressiva occupazione dello Stato.
«Non c'è dubbio» risponde Craxi. «Nella partitocrazia, così come awiene nella burocrazia, aveva agito una specie di legge Parkison che tendeva ad aumentare le funzioni, le aree di influenza e quindi il potere della nomenklatura in carica e di un certo sottobosco di gestionari.
Questo era peraltro il frutto e la conseguenza delle mancate alternative. Considerazione che ci porta al problema che è stato per tanto tempo un tema essenziale nella democrazia italiana, e cioè quello della presenza del più forte partito comunista dell'Occidente, da un lato portato alle politiche striscianti del compromesso, dall'altro incapace e impossibilitato a concorrere alle condizioni necessarie per una vera alternativa. Anche dopo il crollo dell'impero comunista non venne neppure presa in considerazione la prospettiva di una unità socialista, proposta in una forma flessibile e graduata che avrebbe tuttavia potuto sfociare in una federazione di forze. Con pretesti vari e con polemiche tutt'altro che convincenti, la proposta che noi avanzavamo invece, lealmente e con convinzione, fu brutalmente respinta. Per la verità erano anche già cominciate manovre all'interno del Psi in cui si fa-
ceva del resto ormai strada il calcolo di utilizzare demagogicamente, e ipocritamente, lo scoperchiamento scandalistico del sistema illegale di finanziamento dei partiti e della politica, nella convinzione che finalmente si era presentata l'opportunità storica di un cavallo vincente.
I fatti hanno poi messo in luce tutta la miopia, e tutta la falsità di questo calcolo che, naturalmentenon fu fatto solo dai comunisti, ma anche da tanti altri.
Negli altri paesi a democrazia occidentale, sia pure con una difficoltà e una vischiosità maggiore negli ultimi anni, il principio dell'alternanza si era potuto sempre concretamente realizzare, con risultati in linea generale certamente più salutari. Ma né l'Inghilterra né la Germania, né la Francia né altri paesi europei ed extraeuropei, avevano il problema comunista almeno nei termini eccezionali con cui si presentava in Italia.»
«Sempre che la violenza non mi sopraffagga definitivamente»
Come vede l'awio della nuova Repubblica?
«La Seconda Repubblica è di là da venire. Questa non è la Seconda Repubblica. Occorrerebbe invece che si uscisse da una fase traumatica e violenta, viziata da tanti elementi falsi e inconsistenti, e si mettesse realmente mano a una costruzione nuova. Si è già perso del gran tempo e se ne continua a perdere. Non credo che potrà nascere nessuna vera e salda nuova Repubblica partendo da una demonizzazione falsa e ipocrita della prima. Ripeto: la prima, con il bene e con il male che ne hanno accompagnato il cammino, sta ormai alle
spalle. Siamo ora in una specie di limbo e potremmo finire all'inferno. Mi auguro di no, anche se tanti discorsi che sento fare, alimentando una vera e propria babilonia politica di basso profilo, non promettono proprio niente di buono. Mentre prendono corpo altre ambizioni nel più clamoroso stravolgimento dei poteri e delle funzioni costituzionali.»
E trasparente, nelle ultime parole, il riferimento alle iniziative autunnali di Di Pietro e dei giudici di Milano. Ancora una domanda politica: c'è spazio per una aggregazione di sinistra intorno al Pds?
«A sinistra c'è un problema degli ex socialisti che non può essere considerato risolto con il massacro e la pratica eliminazione del vecchio partito. Allo stato delle cose non vedo
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339 però ancora l'elemento, l'idea, la generosità e il coraggio che potrebbero fungere da coagulo. Senza di questo il Pds non farà che avvitarsi in vecchi schemi, vecchie formule e litanie che non apriranno nessuna prospettiva e nessuna vera e convincente ricomposizione della sinistra.»
Qual è stato il ruolo della stampa e della televisione nella vicenda di Tangentopoli?
«Nefasto perché si è spesso perso il senso della misura, dell'obiettività, della serenità e della critica. C'è stata una vera e propria rincorsa demagogica e scandalistica che ha travolto princìpi e valori essenziali che dovrebbero invece rego-
lare un potere così grande, così essenziale e determinante. Lo squilibrio nell'esercizio dei poteri forti provoca inevitabilmente effetti traumatici, e così è stato. Vi hanno giocato molti fattori e molti calcoli diversi e contrastanti tra loro ma tutti diretti nella medesima direzione. Hanno fatto la loro comparizione la censura, la discriminazione, la manipolazione delle notizie e un rapporto perverso e illegale con esponenti del potere giudiziario. Tutto questo ha inquinato fortemente la vita democratica e non ha reso un buon servizio all'opera di verità di moralizzazione e di giustizia che era invece necessario.»
In coscienza, onorevole Craxi, dove ha sbagliato?
«Ai miei errori potrò dedicare un libro intero quando sarò più libero di riflettere, di documentarmi, di scrivere. Mi hanno posto in una condizione nella quale è già tanto se riesco a organizzare una mia difesa quotidiana.»
Come vede il suo futuro?
«Mi consenta di rispondere con le parole con le quali Garibaldi conclude la prefazione alle sue memorie. Amanti della pace, del diritto e della giustizia, è forza concludere con l'assioma di un generale americano: "la guerra es la verdadera vida del hombren. Sostituisco la parola "guerra" con la parola "lotta" per poter dire che è quello che penso. Sempre che la violenza, in tante forme possibili, non mi sopraffagga definitivamente.»
A giudicare da queste ultime parole, sembra che Craxi, più che essere arrestato, tema di essere ucciso.
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Un giorno di settembre, il Cavaliere...
Rumore di fondo con voci infantili incrociate.
Voce maschile ferma, affettuosa e moderatamente autoritaria: «Bambini, volete fare un po' di silenzio che debbo prendere una telefonata?... Pronto? Come sta?... Sì, ho visto l'ultima di Bossi... Aveva detto anche a lei la storia delle armi? Bah... So che lei vuole incontrarmi per scrivere l'ultimo capitolo del libro. Senta, io mi sono rintanato in Sardegna per lavorare a tempo pieno sulla Finanziaria. Vuole fare un salto qui? Anche domani, va bene...».
Com'è bello il golfo di Marinella con i colori di settembre. Il sole con puntualità millenaria ha cambiato filtro. Il cielo ha perso l'ambiguità slavata dei colori estivi per mettere tinte nette, giottesche. Il mare fa un po' di schiuma per vanità: i ciuffi bianchi fanno risaltare meglio il blu intenso, ancora allegro del primo autunno. Ma arrivano appena a lambire le rocce grigio-rosa che fanno di questa costa uno degli angoli, come si dice?, più esclusivi del mondo. Sullo sfondo, l'isola di Tavolara sembra un irreale rettangolo di ghiaccio che un effetto elettronico di postproduzione può far cadere da un momento all'altro dentro un bicchiere di Martini, sollevando e riversando sulla pelle levigata di una modella onde irreali e telegeniche di vermouth e gioia di vivere.
«La Certosa», la villa più bella delle sei che Silvio Berlu-
sconi possiede in Costa Smeralda tra Porto Rotondo e Porto Cervo, rende a Tavolara una specie di saluto militare piantandole di fronte una splendida scultura di Andrea Cascella, che forma una piccola vasca d'acqua verde chiaro prendendo spunto forse dal Biscione di Arcore.
«La Certosa» prende nome da due chiostri: uno awolge la villa, l'altro ne disegna il perimetro interno. La costruzione è ampia (quattro camere per la famiglia, due per gli ospiti, uno studio, un vasto salone-pranzo, alcuni ambienti per il personale di servizio e le scorte), disegnata e arredata con buon gusto, senza cadute hollywoodiane. «L'unica stravaganza che mi sono consentito» dice il padrone di casa «è questa Jacuzzi gigante interrata dinanzi alla piscina.»
Affacciata sulla fetta di parco che guarda Tavolara e coperta al tempo stesso dalla villa, la piscina di medie dimensioni lascia galleggiare un materassino di gomma lasciato dai bambini del Cavaliere. Silvio Berlusconi lo tira fuori dall'acqua, esercitando con instancabile zelo il ruolo di «ufficiale al dettaglio» di casa sua, che lo porta, nelle sette ore della nostra conversazione, a raccogliere un kleenex lasciato cadere da qualcuno nell'angolo del salotto, a sistemare il risvolto impertinente di una tenda, a far spegnere una luce dimenticata da qualche giorno in un angolo della facciata della villa. A ristabilire insomma l'ordine formale che gli consente di guardare alle sue creature - siano esse un giardino o un palazzo, una piscina o una rete televisiva - come a dei modelli di perfezione organizzativa da esportare nello Stato per garantirne il difficilissimo rinnovamento.
Il presidente del Consiglio indossa un completo bianco
(polo rigorosamente senza stemmi, pantaloni lunghi di cotone leggerissimo, scarpe da ginnastica) che fanno ripensare ai più raffinati tennisti degli anni Cinquanta: per loro attaccarsi sul petto il coccodrillo Lacoste (l'unico marchio accettato allora sui campi insieme con il serto d'alloro di Fred Perry) era impensabile almeno quanto sarebbe stato oltraggioso mostrare al pubblico le proprie pallide gambe.
Guardando la cura con cui ha ripiegato sull'avambraccio i risvolti delle mezze maniche, la piegatura perfetta dei pantaloni («Posso stirare un momento i suoi?» chiede il maggiordomo all'ospite nei dieci minuti in cui prende una doccia), il candore assoluto dell'insieme che supera ogni immaginabile «lava più bianco» dei migliori detersivi, non si può non pensare al trauma - intimo, lancinante, tragicamente inconfessabile - che Silvio Berlusconi deve provare ogni volta che incontra Umberto Bossi. Il primo politico italiano che ha osato spingere la sua irridente popolanità al punto irreversibile di presentarsi ai convegni in canottiera e in televisione perfino a torso nudo, lì dove il compagno Togliatti sarebbe entrato in un forno crematorio in doppiopetto senza battere ciglio.
«Pacta servanda sunt. Gli accordi con gli alleati vanno rispettati fino in fondo» dice il presidente. «Vuol dire che mi farò concavo per accogliere le loro asperità e convesso per integrare le loro manchevolezze. Ma non fino al punto di rinunciare alla mia azione di governo o di accettare un continuo degrado d'immagine del governo. Non vorrei che la mia pazienza e il mio senso di responsabilità fossero scambiati per debolezza.»
In questa frase pronunciata mentre passeggia tra i divani celesti del salone che s'affaccia sul patio, c'è tutta la prudenza, la disponibilità e l'irritata determinazione di un uomo abituato a circondarsi di amici fedeli che si sente ostaggio di un alleato di governo che gli deve molto.
«Bossi ha ragione quando dice che la Lega, con 180 parlamentari, ha i gruppi più forti alla Camera e al Senato. Ma chi li ha eletti? Quei parlamentari sanno bene di essere stati eletti con i voti di Forza Italia, come documenta il raffronto tra le scelte di lista nel recupero proporzionale. E lo sanno bene anche i loro elettori, che non sono affatto disposti a sopportare che gli uomini da loro eletti nel Polo delle Libertà cambino di campo stringendo un'alleanza con il fronte nemico, tradendo così i loro elettori, il loro mandato elettorale.»
Prudentissimo a distillare ogni giudizio su Bossi, Berlusconi non ama parlare dell'ipotesi lungamente meditata di chiedere le elezioni anticipate. Ma si sa che, sia dopo le elezioni politiche di fine marzo che dopo le Europee di metà giugno, il presidente del Consiglio avrebbe gradito misurare il proprio gradimento politico senza pagare agli alleati un pedaggio terribilmente penalizzante in termini numerici per Forza Italia, tanto da far dire sarcasticamente a Bossi, nella ripresa autunnale, che Berlusconi deve tenere sempre a mente l'uso del pallottoliere: i numeri sono numeri, i seggi sono seggi. Bossi d'altra parte, fin dalla campagna elettorale, s'è vantato di aver «fregato» Berlusconi sui seggi. E questo ricorda al presidente del Consiglio un vecchio episodio capitatogli all'inizio della sua attività imprenditoriale.
«Venne da me un amico in difficoltà e mi pregò di regalar-
gli una somma di danaro di cui aveva assoluto bisogno. Il sacrificio era grande ma vinse l'amicizia e io acconsentii alla richiesta. Uscito dal mio ufficio, il mio amico raccontò l'episodio a un altro amico comune. Non disse: "Egli generosamente donò", bensì "Io furbescamente ottenni". Anche Bossi aveva assoluta necessità di allearsi con Forza Italia. Chiese molti più collegi di quelli corrispondenti alla sua forza elettorale. Abbandonammo l'egoismo "di parte", gli concedemmo un numero elevato di candidati, convinti che l'interesse della maggioranza moderata, e quindi del paese, doveva prevalere sugli interessi, appunto, di parte. Ci comportammo così anche con Alleanza nazionale che non aveva certo l'immagine che ha ora. Ricorda quel che successe quando prima del ballottaggio per le elezioni del sindaco di Roma dissi che avrei preferito votare per Fini piuttosto che per Rutelli? Fini riconobbe e riconosce quell'atto di generosità e di coraggio. Quando facemmo le liste, i sondaggi ci davano oltre il 30 per cento, mentre Alleanza e Lega erano al 10-12 per cento. Perciò spiace sentirsi dire che chi generosamente donò fu furbescamente fregato.»
Miglio dice (e scrive nel suo libro contro Bossi uscito a fine settembre '94 ) che scopo esistenziale del Senatùr è la distruzione politica di Berlusconi. Il Cavaliere sa che tutto quest'odio nasce dal suo potere televisivo... «E invece io sostengo che in campagna elettorale la televisione non mi ha aiutato, anzi» dice il presidente. «Le elezioni politiche ci sono state a fine marzo. La legge elettorale vieta di fare pubblicità nell'ultimo mese; dunque avevamo avuto a disposizione per la promozione soltanto il mese di febbraio. Forza Italia utilizzò le televisioni Fininvest pagando gli stessi prezzi che
l'azienda praticava a tutti i clienti e quindi anche ai partiti che ne avessero fatto richiesta. Noi facemmo calcoli più "scientifici" degli altri e investimmo nella campagna promozionale le somme che prevedevamo di recuperare dal finanziamento pubblico, in base ai voti che avrebbe ricevuto la nostra lista. Come avevamo previsto, Forza Italia ottenne 14,8 miliardi di rimborso per le elezioni politiche, 12,8 miliardi di rimborso per le Europee e 6,8 miliardi di offerte private regolarmente registrate e denunciate alla Presidenza della Camere. In tutto 34,4 miliardi. Con questi fondi è stato raggiunto il pareggio di gestione di Forza Italia al 30 giugno 1994. I problemi sono cominciati dopo, per noi e per gli altri partiti, perché l'assenza di un finanziamento pubblico mette tutti in forte difficoltà. E non è previsto alcun rimborso per le elezioni regionali e comunali. Noi vogliamo costruire un partito leggero, con gli apparati ridotti all'osso. Ma bisogna finanziarlo. Questo, comunque, è un problema del futuro.
Programmiamo quindi una campagna in Tv per tutto il mese di febbraio. Gli altri partiti non capiscono o sono diffidenti o non amano i mezzi Fininvest. Questa, d'altra parte, non è una novità. Negli anni passati, Fininvest offriva pubblicità elettorale a tutti i partiti con un forte sconto sul prezzo di listino. E sa chi ne ha approfittato in larga misura? Soltanto il Psi: insistevamo con gli altri partiti affinché facessero altrettanto ma invano.
Torniamo all'ultima campagna elettorale. Quando arriva il mese di marzo, cadiamo nella tagliola dell'equal time, del tempo uguale per tutti i partiti, grandi e piccoli. I partiti sono sedici. Forza Italia, anche sulle televisioni Fininvest, dispone nelle trasmissioni elettorali di un sedicesimo del tempo glo-
bale. Ma chi non ci attacca degli altri quindici partiti? Soltanto Alleanza nazionale e i cristiano-democratici. Gli altri tredici, Lega compresa, non fanno altro che sparare a zero contro di noi. A questo si aggiunga che la Rai e la grande stampa sono schierati compatti contro Forza Italia. La nostra quota percentuale di presenza, la nostra share of voice, annega nella quantità abissale di propaganda che ci è contraria. Il 1° marzo i nostri sondaggi attribuiscono a Forza Italia il 36 per cento dei voti, il 28 marzo alle elezioni prendiamo quindici punti in meno, il 21 per cento.
E sa perché? C'è una regola di base nel mercato pubblicitario: se io controllo il 36 per cento del mercato, poniamo, dei biscotti, debbo coprire il 36 per cento dello spazio pubblicitario globalmente destinato alla promozione dei biscotti. Se voglio aumentare la mia quota di mercato di un punto, debbo aumentare la mia quota pubblicitaria di tre punti. Se riduco improvvisamente la campagna pubblicitaria, perdo immediatamente quote di mercato. Ogni tre punti di quota di voce in meno fa diminuire di un punto la mia quota di mercato. In più, se tutte le aziende che mi fanno concorrenza, invece di limitarsi a dire che i loro biscotti sono buoni, dicono tutte insieme che i miei biscotti sono cattivi, la mia quota di mercato crolla.
Così è accaduto alle elezioni di marzo. Calunniate, calunniate, qualche cosa resterà. Forza Italia, ridotta al 6 per cento di quota di voce, ha perso, in ossequio a una regola quasi "scientifica", mezzo punto al giorno per un mese. Sono i quindici punti che vanno dal 36 dell'inizio di marzo al 21 ottenuto alle elezioni di fine mese. Per la verità, tre punti furo-
no persi perché Forza Italia non era presente in Puglia. Tenga conto anche dei voti che non ci furono dati per il fatto che al Nord stavamo con la Lega (e il Sud ce lo rimproverava, perché vedeva nella Lega una forza antimeridionalista) e al Sud con Alleanza nazionale (e il Nord ci accusava di stare con l'estrema destra).»
E possibile, come ha ripetuto in settembre Saverio Vertone, che a Berlusconi abbiano finito col giovare complessivamente più l'aggressività dei Minoli e delle Gruber, dei Santoro e dei Deaglio che non i violini messi in campo ogni sera da Emilio Fede che chiamava idealmente come direttori ospiti ora Ambra, ora Bongiorno, ora Vianello. L'ostilità complessiva della Rai e della grande stampa d'informazione ha peraltro fatto sottovalutare al Cavaliere l'importanza di poter disporre di una potenza di fuoco che, seppure ridotta a sparare a salve per l'atteggiamento talvolta freddo di Costanzo e di Mentana, gli garantiva certamente una copertura indiretta per il solo fatto di non aggredirlo. Ma nel fondo ha ragione Veltroni quando dice che Beautíful e Dallas hanno mutato negli anni attese e desideri degli italiani ben più profondamente del minuto di telegiornale concesso o negato. E al tempo stesso ha ragione Vertone che invece giudica assai più efficace di Ambra o dei teleromanzi il fatto che Berlusconi abbia capito qual era la direzione giusta e che abbia approfittato delle sue tre reti televisive non tanto per influenzare l'elettorato, quanto per informarlo della sua esistenza. «Io ho questa vela, sta a voi gonfiarla.»
«D'accordo. Sul decreto Biondi ho sbagliato...»
Andiamo a tavola. La villa di Porto Rotondo sul piano del
servizio è extraterritoriale. Vi si alternano Alfredo, il maggiordomo di Roma, e Sandro, il suo collega di Arcore. Col dessert (sorbetto di limone guarnito di lamponi naturali) arriva il discorso sulle promesse.
«Io intendo mantenerle tutte» dice il presidente. «Intendiamoci: con la sua stessa vittoria elettorale il Polo delle Libertà e del Buongoverno ha risposto all'80 per cento delle attese e dei suoi obiettivi. La gente ci ha votato perché non voleva il governo di una sinistra che considerava illiberale...»
Vi ha votato anche per una serie di promesse concrete...
«Certo, ci ha votato anche perché vuole un buongoverno. E fare un buongoverno significa innanzitutto lavorare con buonsenso ogni giorno, anche neU'ordinaria amministrazione. L'ho imparato nelle mie aziende. I risultati non si conquistano tanto con i colpi di genio, quanto con la gestione quotidiana. Stiamo facendo le nomine indicando le persone con criteri di professionalità e di probità. Per la prima volta la legge finanziaria non prevede nuove tasse, ma soprattutto tagli alla spesa. E sa perché non introduciamo nuove imposte? Per non togliere soldi allo sviluppo. Lo Stato deve dimagrire, i privati debbono crescere. Lo Stato deve limitarsi sempre più a fare quello che solo lui può fare e lasciare invece il campo a chi può fornire un servizio migliore a costi più bassi.»
Il Cavaliere chiede un altro po' di gelato. Alfredo resiste, vorrebbe tenerlo a dieta. Rapida trattativa, modesto cedimento.
«Lei insiste sul mio impegno per il milione di posti di lavoro da creare nel giro di due anni e mezzo. Vedrà che ce la faremo. Intanto s'è fermata l'emorragia. Sa quanti posti si sono persi tra la primavera del '93 e quella del '94? Ottocentomila.
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347 In pochi mesi ne abbiamo già riguadagnati duecentomila. Gli altri verranno. Il governo Berlusconi, al posto del paventato governo Occhetto-D'Alema, ha ridato fiducia e slancio a chi investe, a chi intraprende, agli imprenditori italiani. La ripresa economica consentirà di aumentare le entrate fiscali, di ridurre gli interessi sul debito, di intaccare lo stesso disavanzo. E di finanziare anche gli interventi di solidarietà.
Abbiamo incentivato le aziende a investire, le abbiamo incentivate ad assumere, abbiamo cercato di rilanciare l'edilizia pubblica e quella privata. Continueremo sulla strada delle privatizzazioni. Ma a patto che privatizzare non significhi svendere quanto di buono ha lo Stato ai soliti gruppi finanziari che in Italia già controllano tutto.
Il problema principale resta comunque la riforma dello Stato. Ed è un lavoro straordinario di medio e lungo periodo. Dobbiamo ribaltare criteri e situazioni maturati in vent'anni di consociativismo. Cercheremo comunque di trasferire nel settore pubblico le regole della buona gestione. Faremo progetti di ristrutturazione per ogni comparto, cercheremo gli uomini giusti per gestire la trasformazione, stabiliremo i modi e i tempi per farla, cominceremo magari con dei test limitati, come si fa in qualunque ristrutturazione di qualunque grande azienda. E soprattutto cercheremo di delegificare
pervenendo a testi unici nei diversi settori.»
Il problema, presidente, è che i suoi avversari dicono che lei non sa governare.
«Io non sono certo un esperto nell'arte del governo, ma ho fatto bene in tutti gli altri settori nei quali mi sono misurato e ho ragione di credere che imparerò in fretta. I miei collaboratori e io veniamo dalla trincea del lavoro. Non capisco come possano darmi lezioni quelli che si propongono come alternativa e che nella maggior parte dei casi non hanno combinato nulla fuori delle segreterie dei partiti di appartenenza. D'altra parte, se uno acquista un'azienda nuova, quanto tempo impiega per conoscerne tutti i meccanismi e tutti i dirigenti? "Antonio [si rivolge ad Antonio Tajani, il suo capo ufficio stampa che assiste all'incontro, nda], fagli avere il consuntivo di lavoro dei primi quattro mesi di governo." Vedrà che ho incontrato decine di funzionari pubblici, per conoscerli, per valutarli, per stabilire con loro un proficuo rapporto di collaborazione. Ho incontrato anche centinaia di persone di ogni categoria sociale e produttiva per conoscerne orientamenti, esigenze e per raccoglierne i suggerimenti. Se non siamo competenti, le nostre porte sono aperte a tutti coloro che, essendo esperti in qualsiasi settore, vogliano darci una mano. Ma non a quelli che mi mettono le orecchie d'asino in copertina [allude all"'Espresso", nda]. Che hanno saputo fare loro di buono? Queste campagne di stampa contro il governo sono curiose. Un paio di giornali italiani ci attaccano, la stampa straniera fa rimbalzare all'estero le accuse e l'indomani i giornali italiani scrivono che all'estero hanno di noi una pessima immagine.»
Ammetterà però che qualche errore l'avete fatto. Il decreto Biondi, per esempio...
«Il decreto Biondi rappresenta un caso limite di malainformazione. Noi non abbiamo mai avuto intenzione né di fare amnistie, né indulti, né di tirare fuori questo piuttosto che quello. Per effetto del decreto sono uscite di prigione duemilasettecento persone. Caduto il decreto, ne sono state riarrestate cinquantatré, segno che per tutte le altre non c'erano ragioni così inderogabili da giustificare il loro arresto in carcere. Qui i problemi gravi sono tre.
Il primo, mi dispiace dirlo, è che i giudici di Milano hanno fatto credere al paese, col loro blitz in televisione, che il decreto avrebbe reso impossibile il proseguimento delle loro indagini. Non è vero. Le indagini potevano proseguire benissimo, come avviene in tutti i paesi veramente civili e democratici, con l'inquisito agli arresti domiciliari invece che in carcere. Capisco che è più facile condurre un'inchiesta esercitando su una persona la pressione fisica e psicologica del carcere. Ma questo riguarda semmai un problema professionale dei giudici. In ogni caso non s'era mai vista un'analoga sollevazione del potere giudiziario contro quello esecutivo. Il secondo problema è che la televisione pubblica ha cavalcato alcune scarcerazioni assurte a simbolo negativo, come quelle della signora Poggiolini, di De Lorenzo e di Di Donato che, tra l'altro, anche senza decreto, avrebbero già dovuto lasciare il carcere alcuni giorni dopo. Ma intanto si fa credere alla gente che il decreto avesse come fine quello di salvare dalla galera i colpevoli di Tangentopoli. Il terzo problema è la retromarcia degli alleati di governo. La Lega, innanzitutto. Ma anche Alleanza nazio-
nale, mi dispiace dirlo. Ciò detto, col senno di poi il decreto Biondi è stato un errore. Non abbiamo tenuto conto del fatto che l'opinione pubblica non era pronta ad accettare un provvedimento del genere- Un governo deve saper sfidare anche l'impopolarità, e io ritengo tuttora che i contenuti di quel decreto fossero giusti. l~a forse avremmo dovuto aspettare tempi più maturi.»
I giudici di Milano mi hanno detto che quando saranno state riformate le regole di base che riguardano il rapporto tra la pubblica amministrazione e il mondo delle forniture si potrebbe pensare anche a un'amnistia che segni il distacco dal passato.
«Non voglio sentir parlare di amnistie. Solo quando il ricambio della classe dirigente di questo paese si sarà completato, magari attravers° un nuovo turno elettorale, si potrà immaginare di tagliare con qualche prowedimento del genere i ponti col passatO-»
Usciamo a passeggiO nel parco. I grandi prati all'inglese si fermano dinanzi ai cespugli curatissimi tipici della macchia mediterranea. «Ci sono centocinquanta specie di piante e di fiori in questo giardinO» dice con orgoglio Berlusconi, che lo considera una sua personale creatura.
Dai cespugli spuntano due signori in tenuta da spiaggia che hanno il walkie-talkie in mano e nascondono verosimilmente armi nei marsupi che hanno infestato quest'anno le spiagge italiane. Uno ci precede, l'altro ci segue. La villa è fuori dal circuito turistico della Costa Smeralda, ma è molto
esposta a visitatori professionali indesiderati. Per questo alla guardia privata del Cavaliere (tutti uomini che hanno lavorato nei reparti speciali dei paracadutisti e dei carabinieri) si sono aggiunti uomini molto addestrati dell'Arma che il visitatore si trova improvvisamente alle spalle ogni volta che sfiora i confini del parc°, a mare o verso terra.
Per Berlusconi sta nascendo il problema delle vacanze in Italia. «Mi sono murato qui dentro, non sono andato nella casa di
Porto Cervo per star lontano da una zona battuta dai turisti. Sono uscito soltanto una volta per necessità e si è scritto che impazzo in Costa Smeralda a bordo di aerei militari. E invece uso solo il mio aereo privato. Ho girato il mio stipendio a una fondazione benefica, pago di tasca mia i regali ai capi di Stato estero perché le nostre leggi vincolano ancora queste spese al limite massimo di un milione. A me piace invece che si abbia un ricordo pregevole dell'arte italiana. Ma ai miei awersari non ne va bene una.»
Scoraggiati dalle scorte a riprendere da terra e dal mare gli ospiti della villa, i fotografi arrivano sugli elicotteri. Alla signora Berlusconi è capitato di doversi nascondere per parecchi minuti dietro i cespugli per non essere fotografata in costume da bagno.
Quanto contano le reti Fininvest?
L'arrivo di un uomo ricco e potente come Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi ha sconvolto tutti gli equilibri del Palazzo. Quello che per l'elettore comune è l'esempio da sognare, se
non verosimilmente da poter imitare, per l'establishment politico e giornalistico è in larga parte un incidente della storia del quale disfarsi al più presto, possibilmente dopo averlo spogliato del suo formidabile potere nel campo dei media.
Berlusconi controlla la fetta maggiore del mercato pubblicitario italiano, metà della maggiore casa editrice (Mondadori) e soprattutto quasi metà dell'ascolto televisivo con le reti Fininvest. Se a questo si aggiunge la richiesta del governo di non avere pregiudizialmente contro le reti pubbliche della Rai (le nomine del settembre '94 gli garantiscono complessivamente un atteggiamento favorevole), non c'è dubbio che il potere di Berlusconi sulla comunicazione non ha riscontro nella storia delle moderne democrazie.
Gli esperti sanno bene, peraltro, che i punti reali di appoggio del Cavaliere sono più scarsi. Nelle reti Fininvest Enrico Mentana e Maurizio Costanzo, che in campagna elettorale non hanno nascosto una garbata simpatia per i progressisti, sono in genere più ascoltati di Emilio Fede e Paolo Liguori
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351 vicinissimi al Cavaliere. Dopo la cessione in Borsa della maggioranza del capitale, la Mondadori ha accentuato la sua autonomia e «Panorama» più di una volta ha preso le distanze dal governo.
«Il Giornale» di Vittorio Feltri non è un punto d'appoggio costante per il presidente del Consiglio, e non lo è «L'Indipendente», nemmeno durante la parentesi gestionale di
Gianfranco Funari che pure lavora da anni (e con grande successo) per la Fininvest.
Durante la trattativa per la formazione del governo, quando posi a Gianfranco Fini il problema delle garanzie richieste a Berlusconi, la risposta fu: «E il governo che garantisce».
L'assicurazione non fu giudicata affatto sufficiente dalle opposizioni (e meno che mai da Bossi), ma ora il presidente del Consiglio ribadisce: «Come è pensabile che io possa approfittare della mia posizione per favorire in qualsiasi modo le mie aziende? Un qualunque atto favorevole dovrebbe trovare l'accordo preventivo degli alleati, essere approvato dal Consiglio dei ministri, firmato dal capo dello Stato, ratificato dal Parlamento, firmato di nuovo al Quirinale... Certo, lei mi ricorda che è la stessa proprietà delle televisioni che l'opposizione considera incompatibile con la mia carica. Lei sa anche che i sondaggi hanno ripetutamente dimostrato che per la stragrande maggioranza dei cittadini questo problema non esiste. Molti anzi mi hanno votato proprio perché sono un imprenditore di successo. Mi sottoporrò in ogni caso al giudizio del Parlamento. Spero al momento opportuno di avere con me anche degli alleati, non solo dei nemici. E alla fine deciderò se accettare le condizioni che mi saranno poste».
Berlusconi non aggiunge altro. Ma si sa che egli giudica improponibile da un punto di vista tecnico lo smantellamento del gruppo Fininvest. Dice il suo braccio destro Fedele Confalonieri che sarebbe assurdo smembrare un gruppo così omogeneo, mentre nel mondo si è a caccia di concentrazioni. Gli uomini Fininvest ritengono che la sopravvivenza del loro gruppo dopo una cura dimagrante sia possibile soltanto se
alla stessa cura fosse sottoposta la Rai. Ritengono anche che sarebbe aleatoria la sorte di nuovi poli, mentre la guerra satellitare consentirà entro pochissimo tempo a ciascuno di noi di scegliersi i programmi che vuole sul televisore di casa, con la costruzione - giorno dopo giorno - di palinsesti personalizzati. Resta peraltro fortissima l'opposizione della Lega e della sinistra alla situazione attuale.
La mutata situazione politica e la posizione assunta dal governo con le nomine Rai, che hanno ribaltato l'egemonia garantita dai Professori alla sinistra nel '93, creano al Pds qualche problema di revisione delle posizioni storiche. Walter Veltroni, l'esperto più autorevole del settore tra i politici della sinistra, dice ancora che «alla Rai deve essere garantita la centralità del sistema televisivo italiano», ma si chiede probabilmente quanto giovi al Pds il sostegno di una Rai dove la sinistra in una prospettiva di medio termine si trova ridimensionata, almeno nella gran parte delle posizioni di vertice. Sotto il profilo tecnico, Veltroni vede alla fine del secolo il sistema diviso in due grandi settori: l'informazione e i grandi eventi appannaggio della televisione via etere (quella che attualmente monopolizza il mercato nazionale); i film, gli sceneggiati, le telenovele e lo sport disponibili per un'offerta individuale che ciascuno di noi potrà comporsi ogni giorno in casa sua. Da un punto di vista politico, il Pds vuole l'abbattimento del potere di Berlusconi consentendo a ciascun editore, sia esso o no televisivo, di controllare non più di un quarto del mercato pubblicitario nazionale. Al tempo stesso, nessun editore (nemmeno la Rai) dovrebbe possedere più di una rete nazionale e di una rete a pagamento. A beneficio di un terzo polo più vicino alla sinistra? «Di un terzo, di
un quarto, di un quinto» mi risponde Veltroni, convinto - al contrario di Confalonieri (e di Berlusconi) - che una sola rete possa reggersi benissimo da sola come in Francia e come negli Usa, anche se lì le condizioni di mercato sono assai differenti. Questo, a giudizio del direttore dell'«Unità», è comunque un punto di arrivo. Per ora gli preme tagliare le gambe alla Fininvest arginandone la potenza di fuoco pubblicitaria. Anche se non sottovaluta il fatto che all'estero da tempo si avverte un gran bisogno di concentrazioni e di aziende sempre più robuste per reggere all'urto delle grandi multinazionali dell'informazione.
Secondo Giuliano Ferrara, braccio sinistro di Berlusconi al
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353 governo (il destro è Letta), il Cavaliere deve compiere il sacrificio di una marcata separazione personale dalla proprietà della Fininvest, «anche se nessuno potrà mai sostenere che la proprietà di qualunque cosa può costituire impedimento alla vita politica». Ferrara non vede male l'allargarsi del numero di poli televisivi forti, ma ammette che il discorso sulla distribuzione delle risorse pubblicitarie è molto complesso.
L'autunno del '94 vede comunque la Fininvest resistere ferma sulle sue posizioni agli attacchi infittitisi (in una gara spettacolare tra Bossi e D'Alema) dopo le nomine Rai che hanno indebolito la sinistra e indispettito la Lega.
Autodifesa strumentale o scelta resa ineluttabile dal progresso tecnologico? E vero, come ha ripetuto Cossiga in settembre, che il Cavaliere, più che non accettare smantella-
menti, non ne capisce le ragioni? E certo che a Berlusconi resta l'amarezza di non aver potuto costruire un grande network europeo, perché «la precaria situazione italiana mi ha costretto a combattere qui per esistere e per resistere come editore televisivo».
Quando gli chiedo se la politica può essere una parentesi nella sua vita di imprenditore, il Cavaliere scuote la testa: «Dopo essersi appassionati alla cosa pubblica credo sia difficile ritornare all'attività privata. Non sono stato contagiato dal virus della politica. Ne sono ancora immune. Ma questo non significa che io possa tornare a dirigere aziende. Scendere in campo mi è costato molto in termini personali, familiari, aziendali. Mia madre, i miei figli, mia moglie, i miei più cari amici, i miei collaboratori più vicini, tutti erano contrari. Ho deciso, contro il parere di tutti, da solo e sono convinto che fosse indispensabile per il bene del mio paese. Lei mi chiede come vedo il mio futuro. Non lo so. Quando questa esperienza sarà finita, farò qualcosa d'altro. Forse scriverò. Indietro non si torna».
Squilla il telefono. E Palazzo Chigi. «Bossi dice che ho telefonato a Scalfaro per chiedergli le elezioni anticipate? Non è vero, ho passato tutto il giorno a fare una conversazione per un libro... Bisognerà mettere una tassa sulle sciocchezze...»
Non s'arrabbia nemmeno, il Cavaliere.
Veronica: «Ma io so difendermi...»
Arrivano i bambini, il Cavaliere li avrebbe voluti a pranzo
con noi, ma era stato stabilito un programma diverso. Arrivano allegri, compiti, carichi di gelati. Luigi ha cinque anni, Elisabetta otto, Barbara dieci. Le due bambine sono biondissime, hanno i colori della mamma. Elisabetta sembra la più portata verso le pubbliche relazioni. Ieri notte è andata a dormire nel letto del papà. Era il suo turno.
Berlusconi racconta l'ultimo tema di Barbara: «Quest'anno ci sono stati grandi cambiamenti nella mia famiglia. Luigi ha cambiato i denti, Eli ha cambiato pettinatura, papà è diventato presidente del Consiglio e io sono diventata una povera orfanella».
«Siamo tutti un po' orfani. Lui riempie la casa con la sua presenza. Ci manca molto» dice la signora Berlusconi. Bella come mostrano e dicono i rotocalchi; pronta, prudente e riflessiva come appare nelle uniche due interviste rilasciate finora.
«Non vedo l'ora che questo sacrificio finisca» dice. E conferma di non essersi pentita a suo tempo di aver cercato di dissuadere il marito. «Mi difendo cercando di non cambiare la vita dei miei bambini e la mia. La nostra casa, a Macherio, è bella, tranquilla, debbo ancora finire di sistemarla. Ci alziamo alle sei e un quarto del mattino. I bambini alle otto debbono essere a scuola a Milano e ci vogliono quaranta minuti. Quest'anno i problemi di sicurezza si sono ingigantiti. No, non abbiamo intenzione di trasferirci a Roma, anch'io non ci vengo mai. Mi hanno detto che dopo i restauri la Cappella Sistina e bellissima. Mi sento molto legata a Milano: mi ha dato un marito speciale, dei figli bellissimi, una bella casa... Quante volte esco? Pochissime. Le spese vere le
faccio soltanto due volte all'anno. Che succede se ho voglia di comprarmi una borsetta? Be', sì, allora faccio un'uscita fuori ordinanza. Lettere? Ne ricevo molte. Tanta gente chiede un aiuto economico o un lavoro per il figlio. Non posso rispondere a tutti. Ma se ci sono situazioni disperate mi impegno a dare una mano...»
«Anch'io ho il problema di rispondere a tutte le lettere che ricevo» interviene il presidente. «Quante sono? Più di mille al giorno.»
La conversazione col presidente del Consiglio, salvo due pause di pochi minuti, è durata sette ore. Mentre i signori Berlusconi, entrambi vestiti di bianco, vengono alla porta della villa per salutare, resta da chiedersi ancora una volta: come finirà?
Come finirà?
Proviamo a tentare un'analisi conclusiva dalla quale ciascun lettore potrà trovare autonome possibilità di risposta.
Mi dice un osservatore attento come Saverio Vertone: «Berlusconi presiede un governo di coalizione con tutta l'ambiguità e la conflittualità delle coalizioni che abbiamo conosciuto. In questo senso, il suo è un governo da Prima Repubblica che si è assunto i compiti di rispondere alle attese enormi che vengono dalla Seconda. Il pericolo sta tutto in questa differenza. Se Berlusconi fallisce, non si può certo tornare a Ciampi. E la situazione politica potrebbe spingersi verso una deriva suscettibile di ogni imprevisto. Per trasfor-
mare la Prima Repubblica in Seconda, occorre al più presto un unico contenitore politico in cui ci sia gran parte della Lega, parte di Alleanza nazionale, parte dei Popolari e naturalmente Forza Italia, che però non deve essere il contenitore, ma parte del contenuto».
Alla luce di quanto è accaduto nel secondo semestre del '94, l'ipotesi del contenitore unico sembra rinviata a tempi imprevedibili. Se le posizioni della Lega nei confronti di Berlusconi restano quelle manifestate da Bossi, non c'è alcuna possibilità di intesa se non la mediocre sopravvivenza determinata dal comprensibile terrore del Senatùr di vedersi fortemente ridimensionato da elezioni politiche anticipate alle quali la Lega con ogni probabilità si presenterebbe da sola. I sondaggi autunnali del '94 la danno infatti sotto il 4 per cento, mentre l'accordo con Berlusconi le aveva garantito a marzo 180 parlamentari, pari al 18 per cento del totale.
Deputati e senatori della Lega conoscono benissimo il rischio che corrono. Resteranno legati al carro del loro fondatore con esemplare fedeltà, come hanno fatto nella piccola crisi di settembre, seguiranno i Miglio e i Rocchetta o cercheranno di aggregarsi a forze più rassicuranti?
Il presidente del Consiglio, d'altra parte, non ha alcuna convenienza a passare la mano. Un uomo di successo, convinto che la maggioranza degli italiani abbia chiamato lui, più che Forza Italia, a governare con criteri nuovi, difficilmente può accettare di essere sostituito anche da un uomo della sua parte politica prima di essersi confrontato per un periodo congruo con i problemi più aspri che il paese ha di fronte. Quando gli ho chiesto se abbia mai pensato alle di-
missioni, Berlusconi ha risposto: «Quando ci si accorge che al momento della battaglia un terzo dell'esercito alleato sta dalla parte del nemico, la voglia di piantare tutto verrebbe. Ma alla fine prevale il senso di responsabilità. Per amor di patria, nell'interesse del paese, si mandano giù anche rospi che altrimenti sarebbero inaccettabili. Il discorso si fa più serio quando certe intemperanze gettano discredito non solo sul presidente del Consiglio e sul governo, ma anche sull'Italia, creando danni agli interessi del paese».
Su questo punto Berlusconi mette a segno punti molto importanti a suo favore proprio mentre la polemica con Bossi a fine settembre tocca momenti di particolare asperità. Un primo segnale di inversione di rotta viene dal «Times» di Londra («Berlusconi è l'unica speranza»). Poi con peso maggiore Henry Kissinger awerte i suoi amici e le grandi compagnie di tutto il mondo che il governo italiano merita fiducia e che bisogna sostenerlo. Gianni Agnelli è da molti anni amico intimo di Kissinger. (La grande mostra sul Rinascimento a Palazzo Grassi a Venezia è nata dalla comune ammirazione dei due per lo straordinario modello in legno della cupola di San Pietro di Antonio da Sangallo che stava marcendo in un deposito del Vaticano). Parlano a lungo della situazione italiana e si convincono che Berlusconi va sostenuto. Agnelli, sempre molto cauto nei suoi movimenti, si espone due volte. Parla favorevolmente della situazione italiana nella City di Londra (la stessa che pochi mesi prima aveva ricevuto Occhetto come vincitore annunciato delle elezioni di marzo). Poi, la sera del 23 settembre, con un gesto vistoso e impegnativo, invita Berlusconi a cena nella sua bella casa di viale XXIV Maggio a Roma, di fronte al palazzo del Quirinale. A
tavola sono riuniti, intorno alla crema di fagioli del celebrato cuoco dell'Avvocato, gli imprenditori italiani più importanti e rappresentativi. A cominciare da Carlo De Benedetti, nemico storico di Berlusconi, che arriva tardi e si apparta a fine cena col Cavaliere in terrazza come per festeggiare l'incontro con un vecchio amico.
Nei giorni successivi Agnelli riassume ai suoi amici la situazione più o meno in questi termini: non posso dire di condividere tutto quello che fa Berlusconi, ma questo governo non ha alternative nel medio periodo e dunque va messo in condizione di lavorare al meglio perché possa sfruttare in pieno la possibilità di ripresa. L'Avvocato ama ricorrere al suo vecchio paragone con Platini: ormai a Berlusconi abbiamo passato la palla vincente, sta a lui segnare il gol.
Se Di Pietro entra in politica
L'altro timore periodicamente invocato è che la stabilità del governo possa essere compromessa da iniziative della magistratura. Tra la primavera del '93 e l'inizio dell'autunno '94, le aziende del gruppo Berlusconi hanno ricevuto centoventisei ispezioni della Guardia di Finanza. Nella tarda estate del '94 i finanzieri sono andati in Fininvest a controllare se la società avesse rastrellato in Borsa azioni del gruppo Ina, privatizzato in giugno, per stabilire eventuali rapporti di incompatibilità tra l'operazione finanziaria e il ruolo del presidente del Consiglio. L'ispezione è stata negativa, ma più d'uno si è chiesto se qualche giudice non lavori a tempo pieno per incastrare in qualche modo Silvio Berlusconi. Il 1° settembre Indro Montanelli rivolge questa domanda ad Antonio Di Pietro e la risposta è che la Fininvest è soltanto una delle
trentanove aziende sui cui bilanci la magistratura di Milano indaga per verificare l'esistenza di scritture irregolari finalizzate a costituire fondi neri. Montanelli, recente nemico di Berlusconi, dice che un avviso di garanzia lo riporterebbe immediatamente al suo fianco. («Berlusconi non è uomo da codice penale. Va punito facendolo governare.») Due giorni dopo Piercamillo Davigo mi conferma che le aziende sotto esame sono decine, gli amministratori potrebbero rispondere di falso in bilancio o di semplici reati fiscali se non hanno condonato eventuali irregolarità. Congiure per incastrare Berlusconi? Il giudice ride: con duemila indagati, non ne avremmo il tempo.
Il presidente del Consiglio, peraltro, non ha alcun dubbio al riguardo: se mai gli arrivasse da qualunque parte una informazione di garanzia, non si dimetterebbe. Sabato 3 settembre, mentre a Cernobbio Antonio Di Pietro fornisce la sua ricetta per uscire da Tangentopoli, Berlusconi mi dice: «Su questo punto sono molto sereno. Sono assolutamente certo di non aver mai fatto alcunché di moralmente condannabile. Una iniziativa giudiziaria nei miei confronti sarebbe quindi infondata e costituirebbe soltanto un attacco politico, un espediente per cercare di sowertire, con un uso improprio del potere giudiziario, la scelta democratica degli italiani scaturita dalle urne elettorali».
Berlusconi ha mantenuto la stessa posizione anche dopo la drammatica bufera del 5 ottobre, quando di fatto il procuratore capo di Milano, Borrelli, gli ha comunicato un «preawiso di garanzia» (smentito poche ore dopo) in una intervista al «Corriere della Sera» molto pesante anche nei confronti
del ministro della Giustizia Biondi, accusato implicitamente di un uso scorretto di documenti nella difesa di Marco Ceruti al processo per la bancarotta dell'Ambrosiano.
Biondi si è dimesso e ha accettato di tornare al suo posto solo dopo l'unanime solidarietà del Consiglio dei ministri e del capo dello Stato. L'indomani lo stesso presidente del Consiglio è stato autorizzato dal Consiglio dei ministri a presentare al Consiglio superiore della magistratura, attraverso Scalfaro, un esposto contro il procuratore della Repubblica di Milano, accusato di rivestire un ruolo politico pericolosamente estraneo alle sue funzioni.
E infatti, al di là del problema Berlusconi, pure rilevante per i suoi risvolti istituzionali, la questione centrale è il ruolo che i giudici vanno assumendo nella costruzione della nuOva Repubblica. Durante le trattative per la formazione del governo Berlusconi, il procuratore capo di Milano Borrelli ha detto che gli uomini del suo ufficio accetterebbero incarichi politici solo se chiamati dal capo dello Stato. Poiché questi non può nominare ministri, ma solo incaricare qualche personalità di formare il governo, è pensabile che i giudici di Milano vogliano candidarsi alla guida del paese? Personalità molto autorevoli sono convinte che questa sia l'aspirazione di Di Pietro e dei suoi colleghi. Non c'è dubbio che il giorno in cui fosse approvata l'elezione diretta del capo dello Stato o del presidente del Consiglio, starebbe solo alla personale discrezione di Antonio Di Pietro decidere se assumere o no uno di questi incarichi.
A fine settembre un settimanale come «Epoca» dà per scontata la sua scelta. Di Pietro entra in politica è il titolo di co-
pertina. Sommario: «Prima il comizio agli imprenditori, poi la legge contro la corruzione. Ora addirittura un libro sulla Costituzione che spiega da capo come rifare lo Stato. E un vero programma politico...». In ottobre fonti dirette riferiscono anche a me che Di Pietro sarebbe pronto a lasciare la magistratura, magari dopo aver mandato un avviso di garanzia a Berlusconi. Per ritirarsi come Cincinnato, che in campagna, com'è noto, restò poco, essendo stato richiamato per acclamazione per salvare la patria.
A chi scrive, pur nel più assoluto apprezzamento per l'attività del giudice pubblicamente manifestato fin dall'arresto dei primi politici corrotti, l'ipotesi pare inverosimile e comunque per niente auspicabile se il cammino della Seconda Repubblica dovrà prevedere la progressiva eliminazione delle anomalie italiane, senza aggiungerne altre. E certo che, al di là delle loro lodevoli intenzioni, i magistrati di punta sono entrati in un campo minato.
Commentando il giudizio di Borrelli che abbiamo appena citato, nel maggio '94 Sergio Romano scrisse su «Epoca»: «In una democrazia nessuna associazione di categoria può diventare interlocutore del governo al tavolo di una discussione che investe l'esercizio di una funzione istituzionale. Nemmeno quella dei giudici». In settembre, a Cernobbio, molti industriali apparvero sollevati dopo l'intervento di Antonio Di Pietro. Ma è Di Pietro l'interlocutore del Parlamento? Sta a lui e ai suoi colleghi preparare proposte di legge che per settimane sono state studiate con avvocati che assistono associazioni imprenditoriali e difendono inquisiti importanti e che sono state anticipate anche a uornini politici?
Annota, sempre su «Epoca» del 25 settembre, Sergio Romano: «Il magistrato non è un cittadino qualsiasi. E depositario di poteri istituzionali che rivestono agli occhi del paese, nel momento in cui egli li esercita, carattere sacro. Quanto più parla, tanto più diventa uomo qualunque, discutibile e confutabile. Tanto più si avvale del diritto di parlare, tanto più rischia di perdere quello di giudicare... La logica dell'esposizione e del confronto ne ha fatto degli uomini pubblici. Ora debbono assumere dinanzi al paese la responsabilità delle loro posizioni. Debbono in altre parole lasciare la toga, rimboccandosi le maniche e fare politica».
La delega dell'iniziativa legislativa è demandata a chi le leggi, invece di farle, dovrebbe applicarle in silenzio, assumendosi la responsabilità di ogni atto? Il terrore del carcere collettivo per l'imprenditoria italiana può portare la classe dirigente ad auspicare questo rivolgimento istituzionale, in modo da essere garantita sull'interpretazione autentica delle norme e vivere tranquilla?
E normale che il ministro della Giustizia sappia di queste proposte dai giornali? Se è utilissimo il contributo dei giudici non sarebbe stato meglio se i procuratori di Milano fossero passati attraverso il Consiglio superiore della magistratura o l'ufficio legislativo del ministero?
Le iniziative autunnali dei giudici di Milano hanno comunque raffreddato il loro consenso politico. La sinistra ha preso le distanze da Di Pietro temendo tra l'altro una manovra di awicinamento al magistrato da parte di Alleanza nazionale. Tatarella continua a parlarne come dell'uomo dei suoi sogni («Vie-
ni al governo...»), ma Fini ha frenato. «Noi non intendiamo strumentalizzare Di Pietro,» mi ha detto in autunno «e Di Pietro non si fa certo strumentalizzare da noi.»
Questo non ha impedito a Rocco Buttiglione di miscelare in ottobre le voci sull'avviso di garanzia a Berlusconi, sulle aspirazioni politiche di Di Pietro e sull'astuzia di Fini, affermando
l u che il leader di Alleanza nazionale approfitterebbe di una eventuale crisi giudiziaria a Palazzo Chigi per insediare il giudice molisanO alla guida del governo.
Solito pandemonio sulle prime pagine dei giornali e doverosa smentita di Fini e Di Pietro.
Il clima autunnale nei confronti dei magistrati di Milano è cambiato per la prima volta scopertamente anche nei palazzi di giustizia. Italo Ghitti, il giudice che ha avallato con la sua firma i provvedimenti più clamorosi di Mani pulite, appena approdato al Csm, ha manifestato pubblicamente riserve sulle condizioni in cui i pubblici ministeri costringono i giudici per le indagini preliminari ad assumere i loro prowedimenti.
Il 28 setternbre il procuratore generale presso la Cassazione, Vittorio Sgroi, titolare insieme con il ministro della Giustizia dell'azione disciplinare nei confronti dei magistrati, denuncia pubblicamente le difficoltà ad agire contro giudici protetti dall~immunità popolare. Il riferimento esplicito è a Mani pulite. Queste perplessità vengono rafforzate da Giulio Catelani,
procuratore generale di Milano e superiore diretto di Borrelli, in una intervista pubblicata da «Panorama» nel numero del 15 ottobre. Dice Catelani a Marcella Andreoli: «Non credo all'esistenza di santuari e umilmente sostengo che si può sbagliare». Catelani riconosce il «successo favoloso» di Mani pulite, ma conferma di aver proceduto a segnalare agli organi competenti quanto era necessario sul lavoro dei giudici di Milano. Ripetendo: «Per rne non esistono santuari di nessun genere».
Un futuro con Buttiglione?
Il problema politico centrale resta comunque quello delle prospettive politiche di medio e lungo periodo. Abbiamo visto come le differenze all'interno del Polo al governo non consentano di immaginare in tempi brevi la costruzione di un unico movimento liberaldemocratico, come quello auspicato da Vertone. Nonostante il generoso tentativo autunnale di Casini di arrivare almeno a una federazione dei quattro alleati di governo.
Questa ipotesi sarebbe stata più realistica se avesse vinto la sinistra al congresso del Partito popolare di fine luglio. L'affermazione di Rocco Buttiglione ha invece riaperto tutti i giochi.
Al di là della prudenza doverosa in un segretario che deve cercare il massimo di unità intema del partito, in Buttiglione batte un cuore moderato. La sua aspirazione prevalente è dunque quella di costruire al centro dello schieramento politico, insieme con Silvio Berlusconi, la vera alternativa al raggruppamento progressista. D'Alema ha chiesto a Buttiglione di accordargli la stessa opportunità: partecipare, dal centro,
alla costruzione di quel raggruppamento di centro-sinistra che paghi un certo pedaggio elettorale all'isolamento di Rifondazione, ma costituisca una credibile alternativa di governo a Berlusconi, Bossi e Fini.
Buttiglione potrebbe prendere in esame un'offerta del genere soltanto se Berlusconi gli facesse proposte insoddisfacenti. Ma il Cavaliere coltiva un disegno sostanzialmente identico al segretario del Ppi e ha tutto l'interesse a non farselo scappare.
Buttiglione ha chiesto quattro cose al presidente del Consiglio. Una politica di sostegno alla famiglia. La reale parità tra scuola pubblica e privata. Nuove regole sull'informazione che portino a una caduta del suo peso sulla Fininvest. Una riforma elettorale che preveda il doppio turno, in modo da non schiacciare fin dall'inizio i Popolari su Forza Italia.
Berlusconi si è trovato immediatamente d'accordo sui primi due punti e ha avviato una riflessione sugli altri due. Sul problema dell'informazione, Buttiglione porta avanti la legittima richiesta che un soggetto di altissimo peso politico non sia proprietario della massima concentrazione televisiva privata, ma si chiede al tempo stesso quale sarà l'assetto televisivo del futuro. I Popolari infatti non contano quasi niente alla Rai da quando i Professori hanno costruito organigrammi molto graditi a sinistra e hanno bisogno di tempo per vedere come si muoveranno i dirigenti nominati dai nuovi amministratori. Buttiglione ha dunque tutto l'interesse a capire in quali mani finirebbero le emittenti che lui, la sinistra e la Lega vogliono togliere al Cavaliere.
Il leader del Ppi peraltro, ha una libertà di manovra meno
363 ampia di quanto appaia, nonostante abbia chiamato a fine settembre Bianchi al suo fianco come presidente. Berlusconi gli ha mostrato una ricerca dalla quale risulta che due terzi dell'elettorato «popolare» sono moderati, mentre due terzi degli eletti in Parlamento si riconoscerebbero nella sinistra del partito. «Se Buttiglione va con D'Alema,» mi ha detto il presidente del Consiglio «due terzi dell'elettorato del Partito popolare voterebbero per il Polo delle Libertà.»
Quando ho chiesto a Berlusconi se è disposto a spostarsi al centro, la sua risposta è stata: «Ma io sono già al centro, io sono un uomo di centro, anche se credo che parole come centro, destra, sinistra siano molto approssimative. Mi pare peraltro più corretto dire che sia il partito del 10 per cento, cioè il Partito popolare, a guardare a Forza Italia, cioè a un movimento che ha più del 30 per cento, piuttosto che viceversa».
Per una scelta a destra o a sinistra dei Popolari preme anche Giuliano Ferrara: «Personalmente, resto fedele allo schema originario che ha dato vita a questo governo: il federalismo popolano di Bossi unito alla spinta del maggioritario e alla grande ventata del liberismo. Questa coalizione può naturalmente ampliarsi con Buttiglione se e in quanto i Popolari ammettono di non voler ricostituire un grande partito del centro cattolico. La loro presenza al centro si giustifica soltanto se al momento delle elezioni compiono una scelta a destra o a sinistra».
Dopo il successo delle Europee e del G7 che lo hanno portato all'inizio di luglio a una popolarità elevatissima, dopo la forte caduta determinata dal decreto Biondi e il recupero di fine estate, in ottobre il Cavaliere ritiene infatti di essere sostenuto da circa un terzo dell'elettorato italiano, nonostante la severa riforma delle pensioni.
Resta il problema del doppio turno. Nel marzo del '94 si è votato per la prima volta a turno unico, con sistema maggioritario e recupero proporzionale del 25 per cento. Questo ha favorito le aggregazioni secche che avrebbero dovuto portare alla vittoria della sinistra, dare al centro un peso modesto ma strategico e sbaragliare la destra. Come è noto, è accaduto l'esatto contrario. Oggi i Popolari e il Pds vogliono il doppio turno per lasciarsi un'ampia libertà di manovra (i Popolari vorrebbero anche un ampliamento del recupero proporzionale), la Lega è incerta, Berlusconi osserva che nessuna forza politica cambia il sistema con cui ha vinto, ma sembra disposto a trattare. E in questo senso può essere favorito dalla conversione autunnale di Fini che, fermissimo a lungo sul turno unico, ha detto a metà settembre a Buttiglione che può accettare il doppio turno, alle regionali e alle politiche, a patto che vengano indicati direttamente dagli elettori il presidente della regione e il presidente del Consiglio.
I tempi per una decisione sono stretti perché nella primavera del '95 è programmato il referendum richiesto da Pannella che vuole l'uninominale secco senza recupero proporzionale. E ci sono le elezioni regionali in attesa anch'esse di una legge.
E evidente che ciascuno parla di turno unico o di doppio turno sulla base delle proprie convenienze, anche se esiste l'illuminante precedente della Dc che ha votato il modello Mattarella compiendo scientificamente il proprio suicidio.
Anche per Fíni il tempo delle scelte
La forte crescita di popolarità di Gianfranco Fini e al tempo stesso le forti riserve che sulla nuova destra mantengono i Popolari (anche moderati come Buttiglione) impongono a Berlusconi un chiarimento nel medio termine con il leader di Alleanza nazionale anche su fronti meno specifici della riforma elettorale.
Il presidente del Consiglio ha ragione quando dice che Fini gli deve moltissimo e che solo l'alleanza con Forza Italia ha legittimato politicamente una destra congelata da cinquant'anni. Ma al tempo stesso è vero che Fini si è giocato la partita con una grandissima abilità politica, rispettando con molto scrupolo l'alleanza di governo e facendo la sola pesante retromarcia sul decreto Biondi.
Questa abilità ha portato in autunno Alessandro Meluzzi, psichiatra a Mirafiori e deputato di Forza Italia, a paragonare Fini a una cernia: «La cernia se ne sta sui fondali, rintanata. Ogni tanto esce, apre la bocca e aspetta di papparsi i brandel-
364 365 li di carne che arrivano dall'alto, senza fare nessuno sforzo». E che mangia la cernia Fini? Risponde Meluzzi: «Mangia pezzetti del nostro Silvio Berlusconi spolpato dallo squalo
Umberto Bossi». Negli stessi giorni, Marcello Pera dice di aver sognato un'antilope (Berlusconi) innamorata di un pitone (Fini) che si accorge appena in tempo della corte interessata e awolgente del suo amico e si sottrae alla presa.
Non c'è dubbio che Fini abbia approfittato senza muoversi - la cernia, appunto - di ogni errore di Berlusconi. Ed è probabile che la campagna autunnale di sostegno della grande industria al governo sia data da un awertimento del Cavaliere: attenti dopo di me arriva Fini.
Il leader di An sa peraltro che non può trascorrere molto tempo a crogiolarsi sui risultati raggiunti. Nel mese di agosto '94, durante la sua vacanza americana, molti esponenti del Msi sono dilagati sui giornali awenturandosi spesso in polemiche improvvide e in genere di basso profilo politico.
Al rientro, senza scomporsi, Fini li ha bacchettati a uno a uno, in pubblico e in privato, con la contenuta severità dei genitori che partendo per il week-end sanno già che i figli faranno un po' di chiasso con gli amici e al ritorno qualche divano risulterà macchiato di whisky e Coca-Cola e una tenda porterà una bruciatura di sigarette.
Da gelido osservatore politico, Fini sa peraltro che alcuni di questi suoi figli non sono i migliori possibili e che se vuole far crescere l'azienda di famiglia dovrà adottarne qualcuno o portare comunque gente da fuori. Ecco perché l'unico a salvarsi dalle critiche del capo è stato Pinuccio Tatarella con la sua pesante polemica sui «poteri forti» che condizionano lo Stato (Banca d'Italia, Mediobanca, Consiglio superiore della
magistratura, grandi giornali, grandi famiglie industriali...). Tatarella ha avuto pochissimi alleati in questa vicenda, ma Fini gli è stato totalmente solidale per due ragioni. La prima perché Almirante gli ha raccomandato di non litigare mai con Tatarella, per nessuna ragione. La seconda perché il segretario condivide la circolare partita dal Msi con quella polemica: ci siamo, vogliamo contare. Senza awentarci sulle vivande come qualcuno dei nostri ha fatto con malagrazia durante l'estate, ma esigendo il giusto posto a tavola. Non solo nel governo, dove com'era giusto l'abbiamo avuto. Ma anche nella tavola allargata del potere reale del paese dove la destra non s'è mai seduta. L'esperienza insegna che quando una forza politica decide di occupare il potere e ha la forza per farlo, la campagna acquisti è molto più facile. Tanto è vero che la segreteria del Msi ha ricevuto più chiamate negli ultimi sei mesi che nei precedenti quarant'anni.
Molte di queste chiamate sono awenute da politici, manager pubblici e anche giornalisti, che hanno gravitato a lungo nell'area democristiana. Fini, che in questo campo è più corteggiato dello stesso Berlusconi, farà bene a distinguere chi merita sostegno, indipendentemente dalle sue idee e dal suo passato, dai molti navigatori di professione che hanno toccato più fermate di quante ne facciano i vaporetti che a Venezia seguono la linea del Canal Grande
Con la sua indiscussa lucidità politica, Fini ha però capito un'altra cosa. A quella tavola non può sedersi portandosi dietro tutti i parenti. Se nel suo studio di via della Scrofa non c'è ombra di simboli fascisti, la stessa cosa non può dirsi per l'animo di tutti i suoi compagni di strada.
Fini vuole diventare lo Chirac italiano e ha i numeri per riuscirci. Ma Chirac è figlio di De Gaulle. E De Gaulle, come ha ricordato in autunno giustamente D'Alema, ha costruito la destra democratica francese essendo stato il capo della Resistenza. A Fini dunque non basta sciogliere il Msi e «consegnare alla storia il giudizio sul fascismo». Un giudizio definitivo sul fascismo, prima o poi, dovrà darlo lui. Anche se presso larga parte del pubblico la pregiudiziale antifascista è caduta. Anche se questo dovesse costargli una piccola scissione di irriducibili a destra.
Solo tagliando l'ultimo filo del cordone ombelicale che lo lega al passato, Fini potrà dawero navigare in mare aperto. Allora si giocherà dawero la partita decisiva. Allora - soltanto allora - Fini potrà tendere la mano ai Popolari per discutere le condizioni dell'allargamento del campo moderato, e Berlusconi, persa anche lui per strada un po' di zavorra, potrà dawero pensare a governi di legislatura senza la guerriglia che gli manda di traverso il caffelatte ogni mattina alla lettura dei giornali.
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367 Ha voglia Fini di marciare in questa direzione? Il 30 settembre Fini ha riunito alla presenza dei giornalisti la direzione del partito ricevendone l'approvazione a sciogliere il Msi nel congresso del '95, facendolo confluire in Alleanza nazionale, nonostante le pubbliche proteste di donna Assunta Almirante che ha accusato il tradimento del figlioccio politico di suo marito. La confluenza in An è un passo in avanti, ma può anche lasciare del tutto irrisolto il confronto dei missini
con il fascimo e la storia. I più fedeli sostenitori della Fiamma hanno cominciato subito un fuoco di sbarramento. Ma Fini ha in testa un percorso e lo porterà avanti annunciando i mutamenti all'ultimo momento. Un giorno mi disse: «Non aspettatevi da me un svolta come quella di Occhetto alla Bolognina». Ma senza Bolognina, non potrà mai aspirare a Palazzo Chigi.
Resta il problema della sinistra di governo, irrisolto dal giorno del 1947 in cui De Gasperi licenziò Togliatti e cominciò a navigare da solo, preparando il suo partito alle battaglie navali dei successivi cinquant'anni. Nel suo libro n se~timento e la ragione, Achille Occhetto rigetta con sdegno l'ipotesi che qualcuno dei suoi abbia votato a favore di Craxi nella drammatica seduta delle autorizzazioni a procedere (29 aprile '93) per far saltare in aria la presenza di ministri comunisti nel governo Ciampi. Ma il dubbio resta. Da allora sembra passato un secolo e pur di mandare a casa Berlusconi il Pds accetterebbe perfino di candidare Buttiglione a Palazzo Chigi.
Per ottenere questo risultato, D'Alema (sostenuto in questo da Veltroni e da Cacciari) sarebbe pronto a perdere Rifondazione comunista, anche al rischio di far crescere fino al 10 per cento il partito di Bertinotti. Ma la somma di un Pds «centrista» e dei Popolari non arriva al 30 per cento. Vogliamo aggiungere Segni, e uno spruzzo di Psi e Alleanza democratica, una fetta di Verdi e di Rete? Non basta. Bisogna convincere Bossi a saltare il fosso. Ma i leghisti lo seguirebbero? E se avesse ragione Berlusconi a proposito dell'elettorato moderato di Buttiglione? La partita, come si vede, è ancora lunga.
In un passaggio della nostra conversazione, Berlusconi ha detto che «salvando l'Italia dal governo di una sinistra illiberale, il Polo delle Libertà ha raggiunto l'ottanta per cento dei suoi obiettivi». Sbaglierebbe il Cavaliere a considerare questo risultato un punto di arrivo. La gente attende da lui il famoso milione di posti di lavoro, ma anche questo aspetto diventa marginale, se visto in una prospettiva storica.
L'Italia ha avuto nel dopoguerra fasi politiche diverse: il centrismo, il centrosinistra, il compromesso storico, che ha partorito come figlio illegittimo il cosiddetto consociativismo, cioè l'apparentamento di fatto di maggioranza e opposizione di sinistra nella gestione del potere reale. Per la maggioranza moderata del paese, la sconfitta delle sinistre nelle elezioni del '94 è stata un successo. Ma è un successo di tappa. Se Berlusconi e i moderati vogliono vincere il Giro debbono aggiudicarsi ancora molte tappe. Debbono da un lato stabilizzare un sistema costituzionale che garantisca la possibilità di un'alternanza di governo senza che questo comporti sconvolgimenti nella vita pubblica. Debbono dall'altro riformare lo Stato: dotarlo di una burocrazia ben pagata e di una scuola efficiente, entrambe all'altezza dei tempi; ridurne i campi d'intervento, a patto che i servizi privati sostitutivi siano davvero migliori di quelli pubblici; lasciarvi il segno della «grande ventata liberista» senza ghettizzare i più deboli.
La strada è molto lunga, ma Berlusconi deve cominciare a percorrerla, se vuole dare un senso allo sconvolgimento politico del '94. Al «cambio». E presto comunque per parlare di Seconda Repubblica.
Forse stiamo giocando ancora i tempi supplementari della Prima. Forse ci aspetta l'eccitante sequenza dei rigori. Forse la Seconda Repubblica, quella vera, è ancora lontana.
FINE.