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ELIZABETH FERRARS ESPERIMENTO CON LA MORTE (Experiment With Death, 1981) 1 Mancavano pochi minuti alle tre e mezza di un piovigginoso pomeriggio di novembre quando la signora Fallow, che al King's Weltham Institute of Pomology aveva il compito di sovrintendere alle pulizie e ad altre consimili faccende domestiche, entrò con una teiera nella sala dove il personale scientifico era solito riunirsi per prendere il tè. Aiutata da Dawn, una ragazza di diciassette anni della quale nessuno conosceva il cognome, dispose sul tavolo centrale tazze e piattini, tè, latte e biscotti. Benché l'edificio, una bella casa vittoriana dai soffitti altissimi con decorazioni a stucco, fosse stato dotato di un impianto di riscaldamento centralizzato, la signora Fallow si preoccupò di accendere anche la stufa elettrica che era stata sistemata dentro il grande camino incorniciato da architrave e pilastri di mogano riccamente scolpito. Tutt'intorno alla sala erano disposti alcuni tavolini con sedie e in una parete si aprivano tre alte finestre affacciate sul frutteto che circondava l'edificio, dove ora gli alberi spogli luccicavano tristi e neri sotto la pioggia leggera ma insistente. Uscite dalla sala, la signora Fallow e Dawn attraversarono il vestibolo e si avviarono verso il corridoio sulla sinistra lungo il quale si allineavano le stanze di deposito, la camera oscura e la saletta dove prendeva il tè il personale tecnico, una stanza molto più allegra dell'altra, con un tavolo da ping-pong e un bersaglio per il gioco delle freccette. Ma a mezza strada si avvicinò alle due donne il signor Hawse, il portiere, emerso dal suo cubicolo a vetri a fianco del solenne ingresso. — Le tre e mezzo — osservò, guardando l'orologio. — L'ora del tè. Grande, grosso e calvo, vicino alla sessantina, il signor Hawse era un uomo meticoloso e puntualissimo che si concedeva un quarto d'ora esatto per il tè. Anni addietro era stato conducente di autocarri, ma un attacco di cuore lo aveva costretto a lasciare quel lavoro e ora il posto di portiere al King's Weltham gli si addiceva alla perfezione. — Ho sentito le previsioni del tempo a lunga scadenza, ieri sera — riprese. — Non che ci si possa fidare molto di quel che dicono, sono tutte sciocchezze, ma hanno preannunciato un inverno molto brutto.
— Tutti gli inverni sono brutti — ribatté la signora Fallow. — Mai visto un inverno bello in vita mia. Lei e il portiere si fermarono per qualche momento nel vestibolo mentre Dawn si avviava lungo il corridoio. Il vestibolo era uno stanzone quadrato dal soffitto altissimo e il pavimento a piastrelle dal disegno intricato. Sul fondo, un'ampia scala dalle balaustre in legno scolpito portava a un pianerottolo sul quale si apriva l'ufficio del direttore dell'istituto, il dottor Guy Lampard. Oltre il pianerottolo la scala si biforcava salendo al piano superiore, mentre a destra del cubicolo del portiere un altro corridoio portava a un complesso di laboratori e all'ufficio del segretario, Ernest Nixey. — A me personalmente non importa niente del freddo — osservò ancora il signor Hawse. — L'inverno deve essere freddo, altrimenti è malsano. La dottoressa Emma Richtie, che usciva in quel momento dal corridoio dov'era il suo laboratorio, udì quell'osservazione e rifletté che si trattava di una superstizione piuttosto diffusa fra gli inglesi, moltissimi dei quali sembrano addirittura temere il benessere di una stanza ben riscaldata. Se il vento fa ondeggiare le tende di una finestra che chiude male e lascia passare una corrente gelida, essi pensano che quell'aria fresca li protegga contro influenza, bronchite e altri acciacchi del genere. Il signor Hawse, tuttavia, che viveva con la moglie nel seminterrato della casa acquistata qualche anno addietro da Emma Richtie a King's Weltham, era ben contento che la dottoressa vi avesse fatto istallare un ottimo impianto di riscaldamento. Oltre tutto, la pigione che Hawse pagava per quell'alloggio era puramente nominale, anche se gli accordi erano che sua moglie badasse alle pulizie nell'appartamento di Emma al piano terra e lui si occupasse dell'orto, cosa che il brav'uomo faceva con vero entusiasmo, coltivando filari di verdure d'ogni genere cui in estate si frammischiavano variopinte macchie di fiori che il signor Hawse offriva poi orgogliosamente in mazzi enormi alla sua padrona di casa. La quale ora gli sarebbe passata accanto con un semplice cenno del capo, diretta alla sala del tè, se lui non le avesse rivolto la parola. — Salve, signorina Richtie. Avevo in mente di salire da voi, stasera. Ho degli splendidi cavolini di Bruxelles da portarvi. I cavolini di Bruxelles, per i quali Hawse aveva una particolare predilezione, non erano la verdura preferita da Emma che tuttavia ribatté: — Oh, grazie, Arthur, siete molto gentile. Ne avevo proprio voglia. — Non c'è stata ancora la brina — riprese lui — ma non crederete alla storia che i cavolini non sono buoni se non hanno preso la brina, vero?
Tutte sciocchezze. Sono molto meglio senza, vedrete! Emma Richtie conosceva Hawse da sette anni e non aveva ancora scoperto qualcosa in cui egli credesse. Era un uomo estremamente scettico e poiché lavorava in mezzo agli scienziati ci teneva che fosse ben chiaro come nessuna delle loro scoperte avrebbe mai potuto scuotere la sua incrollabile fiducia nei propri incrollabili pregiudizi. Ciò nonostante i suoi rapporti con Emma erano ottimi, anche se lui non la chiamava mai dottoressa Richtie, quasi che dubitasse del suo diritto a quel titolo, che nel suo caso non aveva niente a che vedere con la professione medica. La signorina Richtie, infatti, aveva conseguito «soltanto» la laurea in scienze naturali alla London University. Emma entrò nella sala comune, ancora deserta, si versò una tazza di tè, prese un biscotto e andò a sedere a uno dei tavolini. Era una donna alta e snella di trentotto anni dai capelli già grigio acciaio che portava lunghi, divisi sulla fronte e raccolti in una crocchia sulla nuca. Ma in contrasto con quel precoce segno di vecchiaia, le sue guance erano fresche e rosee e non v'era una ruga sul suo viso lievemente spigoloso dai grandi occhi color ardesia e le labbra risolute. In generale era giudicata una bella donna, almeno da quanti non si sentivano intimiditi davanti a lei. Ma questi non erano molto numerosi, con suo grande stupore perché si riteneva umile, anche se diffidente, senza rendersi conto che la diffidenza può creare l'impressione di un'armatura impenetrabile. Si vestiva badando alla comodità più che all'eleganza e quel giorno portava un abito di jersey rosso scuro con un golf grigio che pendeva malamente sul davanti per la sua deprecabile abitudine di ficcare le mani in tasca. Ma se non le imprigionava così, si lasciava trascinare senza avvedersene ad agitarle nell'aria, tracciando segni scomposti ed esagitati dei quali era lei la prima a irritarsi. Ci teneva tanto ad apparire sempre composta e rilassata! E fu esattamente così che apparve a Ernest Nixey, entrato nella saletta qualche minuto dopo di lei. Non accadeva spesso che il segretario dell'istituto andasse là a prendere il tè con gli altri. Di solito provvedeva la sua segretaria, Mollie Atkinson, a portarglielo in ufficio, che era attiguo al laboratorio di Emma, ma in quei giorni Mollie era a casa con la bronchite. Nixey era un ometto sulla cinquantina, con le spalle curve e mani e piedi enormi che gli davano l'aria di essere stato in origine un omone grande il doppio che si fosse poi rimpicciolito col passare degli anni. Aveva il viso quadrato, con tristi occhi scuri, come erano scuri i pochi capelli che gli erano rimasti. Anche tutti i
suoi vestiti erano marrone scuro, tutti uguali e, chissà come, tutti ugualmente sciupati, così da far pensare che ne avesse uno solo. Che molto probabilmente era la verità, dato che sua moglie era ricoverata da anni in una clinica privata per malattie mentali, il che avrebbe spiegato la sua costante tristezza e la sua palese scarsità di mezzi. Si avvicinò al tavolino di Emma, portandosi la sua tazza. — Ti dispiace se ti faccio compagnia? — domandò. Lei rispose con un sorriso ed Ernest sedette. — È un po' che non ci si vede — osservò. — Che stai facendo di bello? — Oh, sto soltanto cercando di scrivere una relazione, una cosa che detesto. Non sono mai stata brava a mettere sulla carta le mie idee. — Sono certo che sei bravissima, invece. Forse sei soltanto ipercritica con te stessa. Ma è inutile che te ne domandi qualcosa: non capirei una parola! — Penso che qualche volta debba sentirti un po' stufo di tutti noi, sempre così immersi nei nostri argomenti, no? — Be', qualche volta mi sento un perfetto idiota — ammise lui. Era un contabile competentissimo, capace e intelligente e in tutto ciò che riguardava le finanze avrebbe potuto far apparire la maggior parte dei suoi colleghi scienziati come bambini analfabeti, ma pareva quasi che ci tenesse a sottolineare la propria profonda ignoranza in materie tanto più importanti, diceva, di quelle che conosceva lui. — Sai, sei l'unica persona, qui dentro, con la quale posso parlare liberamente senza preoccuparmi del mio complesso d'inferiorità. Tu non mi fai mai sentire come uno sciocco. — Forse è soltanto che non mi prendi molto sul serio perché sono una donna — insinuò lei. — Ma che dici! Ti prendo assolutamente sul serio, invece. Anzi, ti ritengo superiore a tutti gli altri. Lei parve divertita. — Sempre escluso Guy, spero! — Oh, Guy... — Nixey si strinse nelle spalle. — Dimmi una cosa: è vero che non ha fatto più niente di importante da quando è diventato il direttore, qui? Emma fu molto cauta. Non aveva alcun desiderio di lasciarsi invischiare in una vana discussione sui suoi colleghi e men che meno sul direttore. — Ha spinto gli altri a fare — osservò. — Mi sembra molto importante. — Certamente. Lo ammiro moltissimo, lo sai, vero? Per il suo lato umano oltre che per la sua mente. Non erano in molti a pensare che in Guy Lampard ci fosse anche un lato
umano, perciò Emma trovò estremamente confortante quell'elogio. — Però — proseguì Ernest — quando si tratta delle nomine, si comporta in maniera abbastanza strana, a volte. — Hanno già deciso qualcosa, allora? Negli ultimi tempi erano circolate voci diverse circa il probabile successore di Clive Bushell, uno dei dipendenti più anziani giunto ormai alle soglie del pensionamento, ed Emma conosceva almeno una persona che si aspettava di essere la prescelta e che si sarebbe arrabbiata moltissimo se non lo fosse stata, ma Guy Lampard, benché si confidasse spesso con lei che conosceva da anni, quella volta non aveva neppure accennato alle proprie intenzioni al riguardo. Ernest Nixey girò intorno un'occhiata nervosa. Un certo numero di persone era ormai entrato alla spicciolata nella stanza. Sedute qua e là col loro tè e biscotti criticavano il consiglio delle ricerche che controllava il King's Weltham e non concedeva i fondi necessari, i colleghi assenti eccetera. O si scambiavano commenti sulla partita di cricket vista la sera avanti in televisione. Due o tre soltanto parlavano del proprio lavoro e nessuno badava a Emma ed Ernest. Soltanto Roger Challoner, vice direttore dell'istituto, appena entrato, li guardò un momento come se pensasse di unirsi a loro, poi evidentemente cambiò idea perché andò a parlare con Clive Bushell che di lì a una quindicina di giorni avrebbe lasciato l'istituto. I suoi colleghi stavano organizzando per quell'occasione una festa di addio durante la quale gli avrebbero anche offerto un regalo ed era toccato a Emma il compito di indagare con discrezione presso la signora Bushell per sapere che cosa lei e suo marito avrebbero preferito, mentre Roger Challoner aveva avuto l'incarico di raccogliere il denaro per il dono. Lui ed Emma erano stati proprio il giorno avanti a Crandwich, una città vicina, a scegliere il servizio da caffè che i Bushell desideravano. Vicino ai cinquanta, smilzo e pallido, con folti capelli grigi e occhi scuri, Challoner aveva sempre sul viso scarno un'espressione di timida gentilezza. Ernest bevve qualche sorso di tè poi riprese: — Ci risiamo, parlo troppo. Ma è colpa tua, sai? Non lo faccio mai, con gli altri. Ma bisogna pure sfogarsi con qualcuno. E quando in casa si è sempre soli, a un certo punto non se ne può più. Però in realtà non so niente di preciso. Guy sta molto attento a non scoprire le sue carte. — Come sta tua moglie? — domandò Emma. — Va un po' meglio? Ernest alzò una mano in un gesto sconsolato. — Ha qualche giornata buona e allora ricomincio a sperare, poi tornano i momenti brutti. Ma vado
da lei ogni giorno, mi pare che questo debba aiutarla un poco, anche se mi riconosce a malapena. Per fortuna sono tutti tanto buoni con lei, veramente meravigliosi, pazienti da non dire. È una grande consolazione. — Lo credo. — Però vorrei tanto che Guy non avesse ancora deciso... — Ernest s'interruppe, come se fosse statò sul punto di dire qualcosa che sapeva di non dover dire. — Temo proprio che ci aspettino momenti difficili. — Arthur, difatti, diceva che secondo le previsioni meteorologiche avremo un inverno molto rigido — ribatté Emma, fingendo di avere frainteso per evitare che il collega le dicesse qualcosa che sarebbe stato imbarazzante sapere. — Oh, se si trattasse soltanto del tempo... — Ernest finì il suo tè poi posò bruscamente la tazza, girandosi con aria vagamente colpevole mentre si apriva la porta e Guy Lampard entrava nella sala. Poco più che cinquantenne, piccolo e grasso, Guy Lampard aveva tuttavia gambe e braccia sottili e nervose che sembravano in grado di farlo muovere con una rapidità cui il suo pancione e il suo viso molle e gonfio non facevano pensare di certo. Con le guance tonde e lisce, il naso carnoso e la bocca piccola e tumida, contrastavano gli occhietti grigi e penetranti, capaci di mutare espressione da un momento all'altro passando dalla più cordiale amicizia a una sottile malizia o alla più assoluta opacità. Eppure, quando gli conveniva, Guy Lampard sapeva essere assolutamente affascinante. Dietro a lui entrò la sua segretaria, Maureen Kirby, una biondona venticinquenne di una spanna più alta del suo principale e generosamente costruita, col viso roseo e splendente, un sorriso per tutti e grandi occhi azzurri che a tutta prima la facevano sembrare pronta a concedere cordialità e amicizia a chiunque avesse l'aria di desiderarle, mentre in. realtà era una ragazza molto riservata e l'espressione di quei suoi grandi occhi azzurri era stranamente evasiva, come se lei temesse di trovarsi invischiata in qualche indesiderato rapporto. Quel giorno indossava un attillato pullover bianco e una gonna scampanata in sgargiante velluto operato che non contribuivano certo a farla apparire più snella. Nel suo lavoro era bravissima ma per tutto il resto, a sentire Guy Lampard, la sua stupidità era tale che averla dattorno diventava persino riposante. Maureen versò al suo capo una tazza di tè, che lui rifiutò. Lampard difatti (e Maureen avrebbe dovuto saperlo) detestava il tè pomeridiano perché,
diceva, gli avrebbe sciupato il piacere del whisky che era solito bere alle cinque. La presenza del direttore aveva creato un'atmosfera di vago disagio poiché Lampard partecipava molto di rado a quelle riunioni e se lo faceva, era quasi sempre per uno scopo che sarebbe risultato spiacevole. Quel giorno, tuttavia, ogni timore pareva infondato: ritto davanti alle sbarre splendenti della stufa elettrica, con le mani incrociate dietro la schiena, Lampard si dondolava leggermente sui calcagni con l'aria più innocua del mondo. — Mi pare che qui si stia preparando per la settimana prossima una festa in tuo onore, Clive — disse rivolgendosi a Clive Bushell. — E dopo ci lascerai per sempre, purtroppo. Un vero peccato. Non è giusto che un uomo debba andare in pensione soltanto perché ha sessantacinque anni, anche se il suo cervello è più lucido che mai! Come non è giusto che non possa andarsene invece a cinquantacinque, se ormai non riesce più a combinare niente di buono. Io stesso me ne andrei l'anno prossimo, se non fosse per quella maledetta pensione. Perché non si deve avere la possibilità di andarsene finché si è ancora in grado di ricavare qualcosa di buono da quell'ultimo scampolo di vita che ci rimane? Emma sapeva che quella era una bugia sfacciata. Tanto per cominciare, Guy Lampard era il tipo che rimane abbarbicato al proprio posto finché non lo cacciano con la forza e in secondo luogo apparteneva a una famiglia di ricchi banchieri e disponeva di una cospicua rendita personale. La pensione non avrebbe certo significato molto per lui. — Per essere sincero, non vedo l'ora di andarmene in pensione — confessò Clive Bushell. — Ti ho detto, mi pare, che siamo riusciti ad avere quel villino in Cornovaglia e io sono ansioso di dedicarmi al mio hobby preferito, la pittura. Non posseggo alcun talento particolare, ma penso che mi divertirò un mondo. E Martha, che è nata là, ha sempre desiderato tornarvi. — Ma prima ve ne andrete un po' in giro per il mondo, no? — domandò Lampard. — Messico, Isole Figi, Nuova Zelanda, eccetera, hai detto. Ah, sapessi quanto vi invidio! Farebbe un gran bene anche a me starmene per sei mesi lontano da questo clima impossibile. — Sì, certo, è quel che abbiamo intenzione di fare. — Bushell abbozzò un lieve sorriso. — Non potremmo permettercelo ma lo faremo lo stesso. Se non ci andiamo ora, non ci andremo mai più. — Giustissimo — approvò Lampard. — Ma qui sentiremo molto la tua mancanza. Questo posto non sembrerà più lo stesso senza di te. Tuttavia
ho una buona notizia per ciò che riguarda il tuo successore. Il consiglio di amministrazione mi ha appena informato che la mia raccomandazione è stata accettata e che finalmente la questione è risolta. Hanno nominato Sam Partlett. A quelle parole seguì un silenzio di tomba. Ecco perché è venuto qui oggi, pensò Emma. Voleva gettare la sua bomba e vedere che effetto avrebbe fatto. E in realtà Guy Lampard aveva l'aria di divertirsi un mondo, i suoi occhietti brillavano di maligna eccitazione. — È un uomo un po' difficile, povero Sam, certo — riprese il direttore. — Ci vorrà una certa comprensione. Ma una buona metà di quel che si dice sul suo conto è falso. Ha bisogno soltanto di un pochino di tolleranza per poter rimettersi in piedi. Di questo avrà bisogno, lo ammetto. E di un po' di aiuto. Ma ne varrà la pena, perché è una mente eccezionale. Diamogliene la possibilità e ci procurerà un credito enorme. Una sedia raschiò il pavimento, mentre Bill Carver balzava bruscamente in piedi. Era uno dei più giovani membri del personale, arrivato al King's Weltham soltanto da tre anni ma, come Emma ben sapeva, si era fatto la convinzione che quando Clive Bushell fosse andato in pensione, sarebbe stato lui a prendere il suo posto, con il conseguente aumento di stipendio e di prestigio. Che, con moglie e tre bambini, gli avrebbe fatto certamente molto comodo. A peggiorare poi la sua situazione in quel momento, c'era pure il fatto che Bill non aveva nascosto a nessuno di ritenere certa la propria promozione. Quando si alzò, era paonazzo per la collera e l'umiliazione. Era un robusto giovanotto di trentadue anni, non molto alto, con una massa di capelli biondi che portava piuttosto lunghi, arditi occhi verdi e una bocca troppo pronta a incurvarsi in un'espressione di malcontento. Senza guardare nessuno, uscì a gran passi dalla stanza, sbattendosi la porta alle spalle. Guy Lampard parve non notarlo nemmeno. — Bene, ho pensato che avrebbe fatto piacere a tutti sapere come stanno le cose — continuò imperterrito. — Non so quando arriverà Sam, ma non tarderà molto, penso. Questo sarà il suo primo lavoro da quando è tornato dall'America. Potrà sistemarsi nel laboratorio di Clive non appena lui se ne sarà andato. Dio sa quanto vorrei essere anch'io in procinto d'intraprendere un viaggio come il tuo, Clive! È stata certo un'idea di tua moglie. Tu non avresti mai preso un'iniziativa simile. Salutala tanto da parte mia.
Girò lo sguardo dall'uno all'altro, sorridendo, e se ne andò. Maureen emise un profondo sospiro, come se la fine di quella scena fosse per lei un enorme sollievo, e si versò una seconda tazza di tè. Emma si alzò. — Era questo dunque che intendevi quando hai parlato di momenti difficili — osservò, fissando Ernest Nixey che se ne stava lì seduto, più abbattuto del solito, curvo sulla sua tazza vuota. Lui annuì. — E non avrei dovuto dire niente, naturalmente, ma ormai credo che non abbia più molta importanza. Personalmente non so niente sul conto di Partlett, ma le voci corrono. A quanto mi risulta, però, Guy ha un'ottima opinione di Sam e lui non dovrebbe sbagliarsi per quanto riguarda le sue capacità. — No, solamente per quanto riguarda il suo carattere, stai pensando! — Mah, non lo so! In questo momento, quel che mi preoccupa soprattutto è la delusione di Bill. Pensavo che avesse ottime probabilità di ottenere quel posto. Temo di averlo anche incoraggiato in questo senso, cosa che naturalmente non avevo alcun diritto di fare. Non ci si dovrebbe mai immischiare. Certo che lui non la prenderà molto bene, non alzerà un dito per aiutare Partlett e cose di questo genere possono guastare profondamente l'atmosfera generale. Ci sono già fin troppe correnti sotterranee. Né potrebbe essere diversamente, crédo, quando tanta gente lavora a contatto di gomito in un posto piccolo come il King's Weltham, senza avere altre risorse. Io stesso non so che cosa avrei fatto senza il mio circolo degli scacchi. Tu sembri la sola che non sia coinvolta. A volte mi domando se sai anche solo la metà di quel che succede qui dentro. Emma si sentì incline a dargli ragione. Di solito, a meno che qualcuno non fosse apertamente villano con qualcun altro, partiva dal presupposto che tutti andassero perfettamente d'accordo e ben di rado si preoccupava di scavare sotto la superficie dei loro rapporti apparenti. — Credo che sia proprio così — disse e uscì a sua volta dalla sala, attraversò l'atrio facendo un lieve cenno col capo ad Arthur Hawse che era di nuovo nella sua cabina di vetro dopo il breve intervallo per il tè, e si diresse verso il suo laboratorio, in fondo al corridoio lungo il quale si trovavano gli uffici di Ernest e della sua segretaria e i laboratori di Clive Bushell e di Bill Carver. Tutti gli altri uffici e laboratori erano ai piani superiori e nelle ali aggiunte al corpo principale del fabbricato. Il laboratorio di Emma era sempre ordinalissimo, con la sola eccezione della congerie di carte e libri che ingombravano la sua scrivania. Un'ampia
finestra si apriva sulle serre dai vetri che in quel momento lucevano per la lieve pioggia e l'arredamento comprendeva due lavelli, un fornello a gas, un forno elettrico per ridurre ai loro componenti minerali le sostanze organiche, e la solita collezione di becchi Bunsen, bilance, microscopi, bottiglie di alcool, provette, mortai, eccetera. Emma aveva cercato di ravvivare un poco le pareti grigio chiaro con una bella stampa di Monet raffigurante alcuni giaggioli, ma quello era l'unico tratto personale che si fosse permessa nei sette anni che aveva trascorso lì dentro e da molto tempo, ormai, non la guardava nemmeno più. Non era tipo da preoccuparsi molto di ciò che la circondava. Sedette alla scrivania, inforcò gli occhiali da presbite e guardò con espressione insoddisfatta l'ultima pagina che aveva scritto. Il meticoloso lavoro di tre anni per determinare gli effetti delle concentrazioni di biossido di carbonio sulla conservazione delle mele immagazzinate le appariva semplice e stimolante a paragone della fatica di scrivere una relazione su quell'argomento, ma negli ultimi tempi Guy Lampard aveva tanto insistito perché si decidesse a scrivere qualcosa, perché non finisse anche lei nella schiera degli scienziati che non si fidavano a pubblicare un articolo per il timore di essere incorsi inconsciamente in qualche comprensibilissimo errore e alla lunga lei aveva ceduto e si era accinta a trasformare il guazzabuglio dei suoi appunti in una relazione chiara e ordinata da pubblicare sul Journal of Pomology. Ma il guaio era che quel lavoro l'annoiava a morte, senza contare il fatto che certi suoi problemi personali continuavano a intromettersi fra lei e i fogli che aveva davanti. Finì dunque per staccare gli occhi dalla pagina già in parte ricoperta della sua grafia nitida e minuta e rimase a guardare dalla finestra le serre e gli alberi spogli che gli occhiali da presbite riducevano a macchie confuse. Era lì seduta e assorta nei propri pensieri quando entrò Guy Lampard. — Avanti, sfogati — disse appollaiandosi su un alto sgabello. — Di' quello che pensi. Emma si tolse gli occhiali e il viso paffuto del direttore assunse contorni nitidi. — Penso che sia stata una crudeltà inutile verso il povero Bill gettargli in faccia quella notizia a quella maniera. Lo hai fatto apposta, vero? — Se l'è voluta lui. Praticamente andava dicendo a tutti che il posto di Clive Bushell sarebbe stato suo e non aveva assolutamente alcun motivo per dirlo. Povero vecchio Clive, grazie a Dio se ne sta andando, finalmen-
te! È stato un peso morto, da dodici anni a questa parte, ma io non ho mai detto a Bill niente che potesse autorizzarlo a pensare di essere il suo successore. È soltanto un maledetto presuntuoso, crede di essere chissà chi, mentre non possiede un briciolo d'immaginazione né di originalità. Ha soltanto due mani abilissime che però non servono a niente se non c'è qualcuno che gli dica come usarle. Tutto qui. Non ho affatto bisogno di lui. — Né lui di te. — E pensi che dovrei preoccuparmi per questo? — Penso che ci si dovrebbe preoccupare di non provocare inimicizie ingiustificate. Emma e Guy Lampard si conoscevano da moltissimi anni e potevano permettersi di parlare liberamente. Lei era stata allieva di Lampard alla London University, era diventata sua collaboratrice all'università del Sussex orientale e infine si era lasciata convincere a seguirlo quando era stato nominato direttore del King's Weltham, ma il suo atteggiamento nei confronti del suo ex professore era sempre stato ambivalente: la urtavano talune sue caratteristiche, e non esitava a dirglielo, ma questo non le impediva tuttavia di essergli sinceramente affezionata. — Bene, che ne dici della nomina di Sam Partlett? — domandò Lampard. — È stata una buona mossa, no? — Non so assolutamente niente di lui — svicolò Emma. — Oh, andiamo! Avrai certo sentito dire che è un uomo impossibile, che ha sempre litigato con tutti quelli coi quali lavorava, che non è mai riuscito a restare in un posto per più di un anno o due. E negli ultimi tempi ha vagabondato per mezza America senza fermarsi mai in nessun posto quanto bastava per mettere radici, finché non si è stufato di tutto ed è tornato a casa. E ora è qui, senza lavoro e sulla via di diventare un rottame. — E allora che cosa c'è di tanto astuto nell'averlo nominato qui? Romperà ben presto l'anima a tutti, no? — No, non credo. Io so come tenerlo sotto controllo. — Queste potrebbero essere le ultime parole famose. Lampard scosse la testa. — No, vedrai. Siamo vecchi amici, io lo capisco. Ha una mente brillante, sai, nessuno lo ha mai messo in dubbio, ed è di questo che abbiamo bisogno. È fin troppo facile farsi una comoda nicchia in un posto come questo e restarvi. È uno dei motivi per i quali non ho mai nemmeno pensato di affidare a Bill il posto di Clive. Non credo molto nelle nomine interne. — Ma come mai Partlett non va d'accordo con nessuno? Che diavolo ha
in corpo? — domandò Emma. Guy le lanciò un'occhiata indagatrice, come per accertarsi che davvero non conoscesse la risposta, poi si strinse nelle spalle. — Invidia, penso — rispose in tono vago e lei ebbe la certezza che stavolta fosse lui a svicolare. — Ce n'è sempre tanta nei circoli accademici, lo sai. E Sam è forse un pochino irresponsabile, non può soffrire gli sciocchi. Ma con me è sempre andato d'accordo. Parliamo la stessa lingua. E credo che qui potrà trovare le condizioni di cui ha bisogno. Ah, a proposito, volevo chiederti una cosa. — Volevo ben dire! — esclamò Emma. — Lo sospettavo, che la tua non fosse soltanto una visita di cortesia! Lampard parve a disagio. Aveva spesso l'aria di non essere troppo sicuro di sé, quand'era con Emma, ma lei sapeva fin troppo bene che era una finta. — Ma non esitare a rispondermi di no, se non ti va di farlo — rispose lui. — Sentiamo di che si tratta. — Bene, fra un paio di settimane o tre i Bushell lasceranno libero l'appartamento sopra il tuo, no? Mi chiedevo se non vorresti cederlo ai Partlett finché non si saranno trovata una casa. Guy si riferiva all'appartamento sopra a quello di Emma, dove avevano abitato i Bushell fin da quando lei aveva comprato la casa. Clive e sua moglie erano stati inquilini perfetti, riguardosi, tranquilli e servizievoli ma, dopo quanto aveva udito, Emma dubitava che i Partlett potessero reggere al confronto. Tuttavia, come avrebbe potuto rifiutare un favore a Guy? Accadeva così di rado che gliene chiedesse uno! — Non sapevo che Partlett fosse sposato — osservò per guadagnare tempo. — Sì, con una donnina affascinante. Dette da Guy, quelle parole significavano soltanto che non si era mai assolutamente interessato a lei, forse che non l'aveva mai neppure notata. — Ma l'appartamento è arredato soltanto in parte, sai — tergiversò ancora Emma. — Molti mobili sono dei Bushell, che naturalmente se li porteranno via. — Ma ci resterà l'indispensabile perché i Partlett possano sistemarsi alla meglio per qualche tempo, finché non arriveranno i loro mobili? So che li avevano ritirati in un magazzino, prima di partire per l'America. — Sì, penso di sì, e se ne avessero bisogno, qualcosa come biancheria
eccetera potrei prestargliela io. — Splendido! Allora dirò a Sam che potranno sistemarsi da te per un po' di tempo, sarà un grande aiuto per lui. Gli permetterà di dedicarsi immediatamente al suo lavoro, senza dovere preoccuparsi di cercare casa. Sarà un buon inizio. Ti sono immensamente grato, Emma. — Lampard scivolò giù dallo sgabello e si avvicinò a lei per dare un'occhiata a quel che stava scrivendo. — Non vai molto in fretta, eh? — osservò e se ne andò col suo passo rapido e scattante. Un po' contrariata nel rendersi conto che senza volerlo aveva accettato di affittare l'appartamento ai Partlett, Emma inforcò di nuovo gli occhiali, accese la lampada da tavolo perché con quella pioggia si stava facendo buio anzitempo e, con i gomiti sulla scrivania e il viso tra le mani, rimase a fissare senza un'idea in testa la nuova pagina bianca che aveva davanti. All'improvviso qualcosa scattò nel suo cervello e lei capì finalmente qual era stato l'ostacolo che l'aveva bloccata fino a quel momento: non aveva saputo interpretare correttamente un risultato abbastanza semplice che ora le saltava agli occhi con evidenza quasi palmare. Si mise a scrivere rapidamente ma dopo un paio di pagine fu ripresa dai dubbi e si rese conto a un tratto di essere stanchissima. Fuori la luce era ormai scomparsa quasi del tutto e le serre erano diventate semplici sagome geometriche appena visibili. Emma si alzò, infilò il cappotto di tweed appeso a un piolo dietro la porta, si avvolse un foulard intorno al capo e uscì. La sua vecchia Renault era nel parcheggio e mentre si dirigeva da quella parte, Emma vide davanti a sé Guy che, senza cappello né cappotto, nonostante la pioggia, se ne tornava anche lui a casa, un grazioso villino adiacente all'edificio principale e riservato al direttore dell'istituto, dove Lampard viveva con una vecchia governante, Dorothy, che era stata un tempo la sua governante e che ora, grazie a lui, si godeva una serena e ben remunerata vecchiaia, aiutata nelle faccende domestiche da una donna del paese e assistita da Guy con le stesse cure affettuose che lei aveva per lui. Era tipico di Guy quello spiccato senso di lealtà che a volte si manifestava persino nei confronti di persone per le quali non nutriva certo l'affetto che lo legava alla vecchia Dorothy. Emma salì in macchina e si diresse verso il paese, un piccolo centro a pianta più o meno quadrata, con un giardino pubblico, un'antica chiesa dal tozzo campanile quadrangolare, un municipio prefabbricato, due bar, una collezione di villini addossati l'uno all'altro e parecchi ottimi negozi quali non ci si sarebbe aspettati di trovare in un paesino come quello. La casa di
Emma, in stile edoardiano, intonacata di bianco e con persiane verdi che servivano unicamente a scopo decorativo perché non si poteva chiuderle, si trovava sulla strada per Crandwich, lungo la quale era sorta negli ultimi anni una catena di villette che si andava estendendo sempre più e che avrebbe presto finito per inglobare anche King's Weltham riducendolo a un sobborgo della città. Emma mise l'auto nella rimessa, chiuse la porta a chiave e, nel buio ormai totale, si diresse verso l'ingresso principale della casa. Nel piccolo vestibolo si aprivano due porte: da una si accedeva direttamente all'appartamento di Emma, l'altra dava sulla scala che portava a quello dei Bushell, al piano di sopra. L'appartamento al seminterrato, dove abitavano Arthur Hawse e sua moglie, aveva un altro ingresso, su un lato della casa. Quando entrò, Emma vide la luce accesa in salotto e, oltre la porta aperta, due gambe maschili distese attraverso il tappeto davanti al caminetto elettrico. Appena la vide, Roger Challoner si alzò dalla poltrona dov'era seduto e un attimo dopo Emma era fra le sue braccia. — Speravo di trovarti qui — mormorò. — Sono contenta che mi abbia aspettata. 2 — Avevo quasi rinunciato — rispose lui. — Cominciavo a pensare che fossi andata a cena con Guy. — Non mi ero accorta che fosse tanto tardi. — Emma si tolse il foulard e si ravviò i capelli davanti allo specchio appeso sopra il camino. — È venuto da me, sì, ma non per invitarmi a cena. Voleva ben altro e credo di essere stata sciocca ad accettare. Beviamo qualcosa. Roger si avvicinò al tavolino dov'erano illineate alcune bottiglie e versò dello sherry per entrambi, mentre Emma si sfilava il cappotto e andava ad appenderlo all'attaccapanni che si trovava nel piccolo ingresso. Tornata in salotto, si lasciò cadere su un divano davanti al camino e allungò le gambe sul sedile. La stanza, marcatamente rettangolare, con una finestra a ognuno dei lati più corti, era salotto e sala da pranzo insieme: a un capo, un tavolo rotondo, una credenza e alcune sedie; all'altro, il divano, ampie e soffici poltrone, un tavolino, il televisore, un giradischi e alcuni scaffali di libri dove alle opere scientifiche si mescolavano i romanzi polizieschi.
Roger porse a Emma il suo sherry e rimase in piedi davanti a lei. — Sono stanca morta — mormorò Emma tirandosi un cuscino sotto la testa. — Forse perché sono tanto preoccupata. Sono stata sciocca, te l'ho detto. — Che cosa voleva Guy? Sul viso di Roger era apparsa un'espressione di cortese preoccupazione abituale in lui quando discuteva dei guai altrui. Emma ne era sempre commossa, benché ormai sapesse per esperienza che quell'espressione celava spesso un freddo distacco, se non addirittura una totale indifferenza, quando secondo lui i guai in questione non erano stati affrontati dall'interessato con sufficiente intelligenza. Aveva scoperto da tempo che in realtà Roger non era affatto l'essere umano e tollerante che sembrava e questo le dava a volte la sensazione che fosse più difficile trattare con lui che non con Guy, i cui pregiudizi erano se non altro palesi. — Mi ha chiesto di dare ai Partlett l'appartamento dei Bushell e mi sono ritrovata ad accettare prima di rendermene conto. Roger, qual è il guaio con i Partlett? Che cosa c'è in realtà dietro queste chiacchiere? Ho cercato di tirar fuori qualcosa a Guy, ma lui ha svicolato. — Non ne so molto nemmeno io sul loro conto. Ho incontrato Sam un paio di volte e mi è sembrato assolutamente inoffensivo. Incolore, persino. E molto riservato. Ma deve esserci qualcosa, sotto, altrimenti Guy non avrebbe continuato a interessarsi di lui per tutto questo tempo. È stato anche lui allievo di Guy, prima di te, e da allora devono essere rimasti sempre in contatto. Penso che sia assolutamente inoffensivo, quando non ha bevuto. — Ah, è questo il guaio? Starei dunque per affittare il mio appartamento a un ubriacone. Non è molto incoraggiante! — È solamente quel che ho udito. Potrebbe non essere vero. Quando l'ho visto io era perfettamente normale. — E la signora Partlett? — Non la conosco per niente, ma non mi preoccuperei troppo, se fossi in te. Potrai sempre evitare di vederli, se non ne avrai voglia. — Il fatto è che finora è sempre andato tutto così bene! Sentirò molto la mancanza dei Bushell, anche se Guy è ben contento di liberarsi di Clive. — Logico. Fa parte anche lui del vecchio personale, come me. Guy ci ha rilevati insieme con i mobili, quando è venuto qui. — Di te non desidera affatto liberarsi. — No? — Certo che no!
— Se lo dici tu! — Roger vuotò il suo bicchiere, prese quello di Emma e andò a riempirli di nuovo. — Sto ripensando a quel posto ad Adelaide. Lei sentì un brivido scorrerle per le spalle, come accadeva sempre quando Roger toccava quell'argomento. — Sul serio? — Be', non ti pare che sarebbe ora? — Io continuo a non vederne il motivo. — Qui non c'è avvenire, per me. Guy non si preoccuperà mai di farmi avere maggiori fondi per le ricerche, soprattutto ora che viene Partlett. E proprio stamattina ho ricevuto un'altra lettera da Adelaide. Mi offrono condizioni di lavoro che qui non potrei mai ottenere. Sembrano ancora interessati alla mia assunzione, ma devo decidermi, quelli non aspetteranno per sempre. Emma annuì. Roger era stato interpellato circa sei mesi prima da un importante istituto di ricerche di Adelaide che gli aveva offerto migliori condizioni di lavoro e uno stipendio più alto di quello che sarebbe mai riuscito a ottenere al King's Weltham. — Il fatto è che hai voglia di andartene — disse amaramente. — E la venuta di Partlett è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. — Dipende da te, lo sai. — Ne abbiamo già parlato e riparlato. C'è qualcosa di nuovo da dire? — Non ci andrò se proprio non te la senti di venire con me. — Una rivoltella alla tempia? — Sai che non è così. Hai sempre saputo che non partirei mai senza di te. — Ma non ho ancora capito quanto tu desideri andare. Se lo desideri veramente. Ne sei proprio certo? Roger sorrise, esitante. — Stasera lo sono. Domani forse cambierò idea. — La solita storia. È stato così fino dal principio. Ma finché si sa di poter cambiare idea, non si può affrontare seriamente una situazione. E l'indecisione è sempre fatale. Può farti arrivare a un punto in cui pensare ancora a quel probelma ti darà la nausea. Io ho smesso di pensarci da un pezzo. — E non desideri ricominciare. — Ci sono tante cose di cui tener conto. Tanto per cominciare dovremmo sposarci, non credi? Qui ormai sono abituati a noi così come siamo, ma arrivare in un posto nuovo con una moglie che non è una moglie... — Bene, sei tanto contraria al matrimonio? Non è un grosso ostacolo, mi pare.
Roger aveva ragione, naturalmente. Il matrimonio non avrebbe cambiato molto nei loro rapporti. E il fatto che fossero felici così com'erano non significava che non potessero esserlo anche di più adeguandosi alla routine delle coppie coniugate e vivendo regolarmente insieme. In fondo, Emma aveva sempre pensato che prima o poi sarebbe finita così. Il loro rapporto durava ormai da due anni ed era arcinoto a tutti, tanto che non se ne parlava nemmeno più, neanche a livello di semplice pettegolezzo, ma forse non si erano mai sposati soltanto per inerzia, per un'inconscia riluttanza a cambiare abitudini. In quel loro rapporto, così com'era, c'era un'intimità particolare, cara a entrambi. Emma era già stata sposata, molti anni addietro, ma aveva ringraziato il cielo quando aveva riottenuto la libertà, e tornare ora davanti a un ufficiale dello Stato Civile, pronunciare una formula e firmare un documento, significava ben poco per entrambi. Ma tutto ciò, naturalmente, non costituiva un serio ostacolo a un matrimonio. — No, penso di no — ammise Emma. — Ma che cosa farei io, senza un lavoro mio? Sono un po' vecchia per avere figli e in ogni caso non è detto che potremmo averne. E riesci a vedermi oziare nei panni di semplice moglie di uno scienziato? — Con i tuoi titoli puoi trovare un posto ovunque tu vada e anche se da principio non ve ne fosse nessuno vacante, all'istituto, una stanza dove lavorare te la concederanno di certo. — Un po' come puntare alla roulette, non ti pare? — Sì, lo so. E va bene, non parliamone più. — Ma no, vediamo di guadagnare ancora tempo. — Credevo che non potessi soffrire l'indecisione. Ma lasciami dire ancora una cosa, e poi chiudiamo questo discorso. Secondo me, uno dei motivi per i quali non vuoi lasciare il King's Weltham è la tua dipendenza da Guy. Finché c'è lui alle tue spalle, com'è sempre stato, non hai bisogno di imparare a reggerti sulle tue gambe, scientificamente parlando. Sei perfettamente in grado di farlo, ma hai paura. E ora, che si mangia, stasera? C'è qualcosa in casa o dobbiamo andar fuori? — C'è tutto quel che vuoi, ma non ti aspetterai di poter dire cose simili e poi piantarla lì... In quel momento squillò il campanello. Era Arthur Hawse con i cavolini di Bruxelles che aveva promesso a Emma. Questa lo invitò a entrare e lui ne approfittò per chiederle il permesso di farsi una piccola serra nell'orto. Emma naturalmente acconsentì, ma quando Arthur se ne andò, le era ormai passata la voglia di discutere con Roger la questione dei propri rapporti
con Guy. Andò direttamente in cucina a preparare la cena e nessuno dei due parlò più di Adelaide. Roger rimase con lei, quella notte, ma dopo a Emma dispiacque che fosse rimasto. Avevano fatto l'amore con una sorta di ansia disperata, come se entrambi sentissero che un errore commesso in quel momento avrebbe potuto forse provocare una separazione definitiva. Poi erano rimasti a lungo abbracciati, come se si ritraessero insieme, lentamente, dall'orlo di un precipizio. Dopo che Roger si fu addormentato, Emma restò sveglia ancora a lungo, chiedendosi quale fosse stata veramente la causa del timore che l'aveva presa. Timore delle responsabilità? Forse. Roger aveva messo nelle sue mani il proprio avvenire. O almeno aveva voluto indurla a pensare che fosse così. Conoscendo come conosceva la fermezza che si nascondeva dietro i suoi modi riguardosi e gentili, le pareva assai più probabile che Roger avesse ormai preso la sua decisione e che l'unico avvenire in gioco fosse invece quello di lei, Emma. La mattina seguente, Roger uscì molto prima di Emma per andare all'istituto e per qualche giorno non ebbero più la possibilità di restare insieme. Entrambi ebbero impegni vari per diverse sere, poi Roger andò a un convegno scientifico a Birmingham dove avrebbe presentato una sua relazione. Quella di Emma intanto procedeva a sbalzi. A volte quel lavoro le riusciva facile, poi a un tratto insorgevano nuove, impensate difficoltà. Finalmente, una sera tornando a casa Emma incontrò Martha Bushell che rientrava in quel momento. Erano parecchi giorni che non si vedevano ed Emma invitò l'amica a entrare da lei per un drink. — Veramente ne ho già bevuto uno — disse ridendo Martha che difatti pareva più allegra del normale. — Ma suppongo che un altro non ci starà male. E mentre Emma versava lo sherry per entrambe, proseguì: — Sono stata al mio bridge, oggi pomeriggio, e finiamo sempre con qualche whisky. Mi ci diverto tanto! Ne sentirò terribilmente la mancanza, quando ce ne andremo. Non so davvero come avrei potuto fare in tutti questi anni senza le mie partite a bridge. Per te è diverso, naturalmente. Tu fai un lavoro creativo. Non avevo mai pensato che quello degli scienziati fosse un lavoro creativo. L'ho sempre ritenuto un lavoro essenzialmente materiale, esperimenti, dimostrazioni e cose così. Invece Clive dice che anche a uno scienziato occorre fantasia creativa, come a un artista. Ah, a proposito di Clive, è vero quel che mi ha detto? Credo che lo abbia saputo da Guy. Ha detto che
affitterai il nostro appartamento ai Partlett. — Io non li ho nemmeno visti, ancora — rispose Emma. — Ma Guy infatti vorrebbe che lo affittassi a loro. — Oh buon Dio — gemette Martha. — Cerca di non farlo, se puoi, Emma. Quei Partlett sono persone semplicemente orribili! — Tu li conosci bene, dunque! — esclamò Emma che dal canto suo non avrebbe mai osato demolire qualcuno definendolo semplicemente orribile se non avesse avuto la certezza che si trattava di un assassino, di un ricattatore o di un calunniatore incallito e senza scrupoli. — Be', proprio bene no — precisò Martha. — Ho conosciuto lui a un congresso internazionale dov'ero andata con dive e da principio mi era sembrato un uomo simpaticissimo. Ne ero rimasta sorpresa, perché avevo già udito certe voci sul suo conto, ma avevo pensato che si fosse trattato di cattiverie gratuite. Poi, una sera, tutt'a un tratto prese a insultare tutti quanti e mi resi conto che era ubriaco fradicio. Non so quanto avesse bevuto prima che Clive, io e il resto del nostro gruppo ci unissimo a lui, ma il fatto è che Partlett fece di tutto per attaccar lite anche con Clive. Non ci riuscì, naturalmente, perché conosci Clive, sai che non si lascia incastrare tanto facilmente, ma non appena fu possibile, trovammo una scusa e ce ne andammo. — Sicché è questo il punto. Partlett è un ubriacone. Martha inarcò le sopracciglia in un'espressione di incertezza. — Io non lo so per esperienza diretta, ma si dice che quando è ubriaco diventi violento, che fracassi quanto gli capita a tiro e cose del genere. Però, ripeto, io non so se è vero. Quella sera non fu violento, ma soltanto villano. — E la signora Partlett com'è? — Di lei non so niente. Al congresso non c'era. Mi hanno detto che litigano in continuazione. Lei lo ha anche lasciato, più di una volta, ma poi è sempre tornata da lui. Dio solo sa perché. Io non lascerei di certo mio marito se non per un motivo gravissimo, ma quando me ne fossi andata, non tornerei più davvero! Ma quando si è avuto un matrimonio fortunato come il mio, forse non si riescono a capire certe cose. Può darsi che non vi sia niente di vero. Tuttavia posso dirti una cosa che credo sia vera perché l'ho sentita da diverse persone: una volta Partlett ha tentato di uccidersi. Emma sentì scorrerle per le spalle un brivido sgradevole. — Ha tentato, hai detto — osservò. — Perché non ci è riuscito? — Non lo so. Non so neppure come avesse tentato, se col gas, col veleno o tagliandosi i polsi... Potrebbe anche essere stata soltanto una messin-
scena. Certuni lo fanno, per attirare l'attenzione su di sé. Non escluderei che questo fosse stato anche il suo caso, soprattutto se era ubriaco. Emma fece una risatina sforzata. — Oh bene, spero che un giorno o l'altro non mi capiti di vedere sgocciolare sangue da un soffitto! Spero che se tenterà di nuovo, abbia a farlo almeno in una maniera pulita. Però mi domando come mai Guy gli sia tanto attaccato. Ma nel momento stesso in cui lo diceva, si rese conto di saperlo benissimo. Guy Lampard era sempre stato attratto dai falliti, forse perché, anche se aveva avuto un certo successo nella vita, si era sempre sentito uno di loro. Aveva potuto contare unicamente su se stesso per farsi strada e la strada se l'era aperta a calci, con accanimento e senza scrupoli, pronto anche a pugnalare alle spalle chiunque gli fosse stato d'intralcio. Ma era sempre stato generoso con gli spostati. Erano le persone soddisfatte, benvolute, felici nella loro vita privata, come i Bushell, quelle che lo infastidivano. Martha finì il suo sherry e si alzò. — Forse non darai alcun peso alle mie parole — disse. — In fin dei conti potrebbero essere soltanto chiacchiere, ma si dice che di solito chi ha tentato il suicidio ci prova e ci riprova finché non gli riesce, no? Oh cara, scusami, non dovrei dirti queste cose, servono soltanto a turbarti. In fin dei conti potrai sempre evitare di vederli molto, questi Partlett, se non ti vanno. Noi ci siamo visti spesso perché siamo diventati subito amici. Sentiremo tanto la tua mancanza, Emma cara. Ricordati che hai promesso di venire a trovarci in Cornovaglia non appena saremo sistemati. Uscita Martha, Emma ebbe l'impulso di telefonare immediatamente a Guy per dirgli che aveva cambiato idea a proposito dell'appartamento, ma poi rinunciò, ben sapendo che se lui avesse insistito perché tenesse fede a quella mezza promessa, lei si sarebbe arresa una seconda volta. Roger aveva ragione quando le rimproverava di non aver mai saputo liberarsi di quel senso di dipendenza da Guy che oltre tutto la rendeva incapace di far valere le proprie ragioni quando lui, come accadeva talvolta, cercava di estorcerle qualcosa che gli faceva comodo. Passeggiando innanzi e indietro per la stanza, con le mani ficcate nelle tasche del golf, Emma fece del suo meglio per convincersi che in fondo Guy era stato molto buono a preoccuparsi di trovarle immediatamente un altro inquilino per il suo appartamento e che tutto sarebbe andato benissimo. Conobbe finalmente i Partlett due settimane dopo. I Bushell avevano avuto la loro festa d'addio, con i discorsi d'occasione, e il giorno seguente, dopo aver provveduto a sistemare i loro mobili in un magazzino, erano
partiti per la prima tappa del loro viaggio intorno al mondo. La signora Hawse aveva poi provveduto a fare le pulizie nell'appartamento e quando i Partlett erano venuti finalmente a vederlo, esso appariva un po' spoglio ma immacolato, pronto per essere occupato. I Partlett non erano affatto come Emma se li era aspettati. Erano entrambi piccoli, della stessa statura e della stessa età. Sam magro e nervoso, col petto incavato e una tosse roca da fumatore incallito, capelli biondi e molto corti, occhi grigi sotto sopracciglia folte e ispide e lineamenti inespressivi; sua moglie con capelli bruni e ricciuti lunghi fino alle spalle, grandi occhi neri un po' fissi, guance colorite e bocca larga e morbida, così come appariva morbido il suo corpo un po' rotondetto nel completo giacca-pantaloni di velluto verde a coste, troppo attillato. Sembravano entrambi timidi e impacciati, più giovani di quel che in realtà dovevano essere. Quella loro impacciata timidezza disarmò Emma che li fece accomodare nel proprio appartamento e offrì loro un caffè, chiacchierando amabilmente con loro per qualche momento prima di accompagnarli di sopra. Fu quasi soltanto Judith Partlett a parlare per tutti e due. Sam la seguiva a breve distanza mentre passavano da una stanza all'altra e lei ispezionava gli armadi a muro, elogiava le comodità della cucina e la bellezza della stanza da bagno, ammirava la splendida vista che si godeva dalla finestra del soggiorno, ringraziava calorosamente Emma che era stata tanto buona da consentire loro di andare ad abitare lì. Emma espresse la speranza che avessero dei mobili loro da portare perché il poco che c'era, disse, non era certo sufficiente per viverci. — Eh no, non abbiamo niente di nostro, ma quel che c'è va benissimo — ribatté subito Judith Partlett. — Abbiamo venduto tutto quando siamo andati in America. Non pensavamo davvero di tornare. Ma in ogni caso potremo comprarci a poco a poco quel che ci manca quando saremo sistemati qui. Emma interpretò quelle parole come un'indicazione che quei due non pensassero affatto a comprarsi una casa, come aveva detto Guy, ma intendessero stabilirsi lì definitivamente e non fu certa che la cosa le piacesse. Poteva darsi che funzionasse tutto alla perfezione, com'era stato con i Bushell, ma a ogni buon conto, rifletté, sarebbe stato meglio dare disposizioni al suo avvocato perché, nello stipulare il contratto, mettesse le cose in modo da consentirle di riavere l'appartamento libero quando avesse voluto. Nel corso di quelle riflessioni, gli occhi di Emma si incontrarono con quelli di Sam e sul viso di lui apparve un inatteso sorriso. Inatteso e singo-
larmente accattivante, quasi che Sam avesse intuito quel che le passava per la mente e intendesse rassicurarla. O si stava prendendo gioco di lei? Nemmeno più tardi, ripensandoci, Emma riuscì a chiarirlo. I Partlett si trasferirono nell'appartamento il sabato seguente. Arrivarono a bordo di una Volkswagen che, dissero, avevano appena comprata di seconda mano e dalla quale scaricarono un certo numero di valigie, qualche bracciata di indumenti vari, una macchina per scrivere, una radio e ben poco altro. Uscendo per consegnare loro le chiavi, Emma li invitò a cena perché, disse, non avessero a sobbarcarsi il fastidio di cucinare mentre erano appena arrivati, e dopo un incerto tentativo di declinare l'invito, i due accettarono con entusiasmo. Sam guardò Emma con uno dei suoi sorrisi adorabili e stavolta lei fu certa che non vi fosse sotto alcuna malizia: era soltanto un sorriso di una dolcezza incredibile. Forse Guy aveva ragione, dopo tutto: non c'era niente di anormale in Sam, se si sapeva prenderlo alla maniera giusta. E a questo punto, Emma cominciò a schierarsi dalla sua parte, ripromettendosi di fare del proprio meglio per aiutarlo se si fosse trovato in difficoltà all'istituto. Quella sera Sam fu molto tranquillo, bevve pochissimo e lasciò parlare quasi sempre sua moglie, che fece a Emma una quantità di domande su Crandwich, se c'erano bei negozi, una biblioteca pubblica e bravi medici. Era stata infermiera, un tempo, e ora si stava chiedendo, disse, se non fosse il caso di rimettersi a lavorare. Sembrava una donnina semplice e cordiale, un po' a disagio perché suo marito parlava così poco ma pronta a sopperire ai suoi silenzi con la propria loquacità. Alla cena era presente anche Roger, che naturalmente rimase con Emma dopo che i Partlett se ne furono andati. — Bene, come ti pare che te la caverai? — domandò mentre versava un brandy per entrambi. — Benone, penso — dichiarò lei. — Mi sembrano assolutamente inoffensivi. — Li abbiamo conosciuti soltanto superficialmente, finora — obiettò Roger. — Sai che cosa mi preoccupa? — No. Che cosa? — Come mai Guy s'interessa tanto di un tipo così anonimo? Non è da lui. — Forse per via di quel tentato suicidio di cui ti ho parlato. Sai com'è fatto Guy, prova sempre una grande compassione per la gente che non sa lottare.
— Mmm. Sarà. In ogni caso, come mai quel figliolo ha cercato di uccidersi? Non mi sembra il tipo. — Perché, c'è un tipo particolare? — No, forse no. Ho detto una sciocchezza. — Dopo tutto, non è che abbia avuto un gran successo nella vita, ti pare? Dicono che sia tanto bravo, ma in fin dei conti non ha mai combinato niente di buono. E non c'è niente di strano che a un certo punto uno senta di non farcela più. — Bene, speriamo che non ci riprovi qui al piano di sopra. È una cosa di cui puoi fare benissimo a meno, penso. — Detto così sembra piuttosto cinico, ma sono d'accordo con te, naturalmente — ammise Emma. — Sam non ti è piaciuto, vero? Perché? — Forse perché mi è sembrato un'acqua cheta. Credo che non abbiamo visto molto di ciò che è in realtà quell'uomo. E nemmeno quella donna, del resto. — A me è piaciuta. — Bene, hai fatto abbastanza per i signori Partlett. Adesso lascia che se la sbrighino da soli. — Roger sedette sul divano accanto a Emma e le passò un braccio attorno alle spalle. — Dimentichiamoci di quei due, vuoi? Nei giorni che seguirono, Emma non ebbe molte occasioni di vedere i Partlett. Quando Sam prese possesso del laboratorio che era stato per tanti anni di Clive Bushell, andò a trovarlo offrendogli il proprio aiuto per qualsiasi cosa di cui potesse aver bisogno e il giorno seguente Sam le ricambiò la visita per avere alcune informazioni: a che piano era lo studio fotografico, dove si poteva noleggiare un televisore, se a King's Weltham c'era un'autofficina raccomandabile, poi, quello stesso pomeriggio, apparve con aria un po' diffidente nella sala del tè ed Emma lo presentò ai colleghi, ma dopo non vide più per alcuni giorni né lui né Judith. Sam non partecipò alle riunioni per il tè e la sera, benché Emma li sentisse muoversi al piano di sopra, lui e la moglie se ne restarono tranquilli in casa loro. Era chiaro che non volevano riuscire importuni ed Emma ne fu contenta. Forse sarebbero stati anche loro ottimi inquilini, dopo tutto. Poi, un pomeriggio, ebbe una curiosa conversazione con Sam. Era venuto da lei a chiederle che cosa doveva fare per avere certi prodotti chimici di cui aveva bisogno e quando Emma glielo ebbe spiegato, la ringraziò col suo consueto tono dimesso ma dopo, invece di andarsene, buttò là una domanda inaspettata: — Tu e Guy siete amici da tanto tempo, vero?
— Sì, da moltissimo tempo. — Sei mai stata innamorata di lui? Emma fu tanto sbalordita da quella domanda che le ci volle qualche momento per rispondere. — No — disse finalmente. — Hai dovuto studiarci su per decidere qual era la risposta giusta, a quanto pare! — Niente affatto. Ero soltanto sbalordita dalla tua domanda. — Be', non mi sembra tanto strana, in fin dei conti. Ma mi aspetto che tu mi dica di badare ai fatti miei. — Forse è proprio quel che dovresti fare. — Però non sei in collera con me. — Che ne sai, tu? Sam scosse la testa. — Sei perplessa, non in collera. Lo si capisce benissimo quando uno è in collera. — Non mi arrabbio tanto facilmente — ribatté Emma. — In ogni caso è una domanda assurda e non ci si arrabbia per un'assurdità. — È strano che tu la pensi così. Vedi, io conosco Guy da tanti, tanti anni, l'ho conosciuto molto prima di te, ma da questo lato non so quasi niente di lui. Oh sì, so che ci sono state delle donne, ma nessuna ha durato a lungo. Soltanto tu. E tu dici di non essere mai stata innamorata di lui. Non hai mai avuto neppure un accesso di adorazione dell'eroe nei suoi confronti, quand'eri giovane? — Be', questa è tutt'altra cosa. Sì, forse sì, credo. Lo giudicavo un grand'uomo, un uomo eccezionale. — E ora non più? — Mi vuoi dire a che cosa mirano tutte queste domande? — Oh, vorrei soltanto arrivare a conoscerlo meglio di quanto non lo conosco ora. Non ci siamo visti per tanto tempo! Ma ora io sono diventato oggetto della sua carità, capisci? Lui pensa di avermi fatto un favore eccezionale portandomi qui e io non posso fare a meno di chiedermi perché lo ha fatto. — Tu non volevi venirci, forse? Sam rimase a guardarla per un lungo momento, con espressione grave, prima di ribattere sommessamente: — Non avevo molto da scegliere. Bisogna pur vivere, così almeno si dice. — Si allontanò di qualche passo dalla scrivania di Emma. — Scusami se le mie domande ti sono sembrate un po' folli. Desideravo soltanto sentire che cosa ne pensi tu. Pare che tu lo conosca meglio di tutti. Sei molto leale nei suoi confronti, vero?
— Ho moltissimi motivi per essergli grata, se è questo che intendi. — Ah, la gratitudine! È una cosa terribile, pericolosa. Bene, ti ringrazio per non avermi detto di badare ai fatti miei. Sei stata molto gentile. Le fece uno dei suoi sorprendenti sorrisi e se ne andò. Emma lo rivide quella stessa sera. S'incontrarono al White Hart, il più piccolo dei due bar di King's Weltham, un posticino gradevole e tranquillo in una stradetta secondaria del paese, dove facevano ottime bistecche con patatine fritte. Emma e Roger ci andavano spesso a cena, quando avevano avuto una giornata particolarmente impegnativa ed Emma non se la sentiva di cucinare, come accadde appunto quella sera. La conversazione con Sam Partlett l'aveva disturbata molto, tanto che dopo le era riuscito difficile rimettersi a lavorare ed era stata per tutto il resto del pomeriggio irrequieta e a disagio. Così lei e Roger lasciarono le rispettive automobili davanti a casa e andarono a piedi fino al White Hart. Come entrarono, Emma udì una risata che riconobbe immediatamente. Era quella di Guy Lampard, che risuonava sopra il brusìo del locale. Era seduto con Sam a un tavolino d'angolo sul quale c'erano due bicchieri di whisky. Come li vide, Guy li chiamò ad alta voce e insisté perché si unissero a loro, che non era esattamente ciò che Emma e Roger desideravano, e Sam si alzò subito in piedi, chiedendo che cosa volevano bere. Sembrava un po' eccitato ed esuberante, totalmente diverso dall'uomo taciturno e dimesso che Emma conosceva. Quando lei e Roger chiesero rispettivamente uno sherry e una birra, cercò di convincerli a bere invece un buon whisky. — Noi vi precediamo già di parecchie lunghezze — disse — perciò la lealtà impone che cerchiate di raggiungerci. Coraggio, dunque, whisky, e quanto meno martini, lo fanno niente male qui, l'ho già provato... Ma per l'amor del cielo, Emma, lascia perdere lo sherry, è come bere acqua! Aveva la voce impastata e gli occhi lucentissimi e chiazze rosse sul viso solitamente pallido. Era ubriaco, disse a se stessa Emma e pensò con rammarico alla serata tranquilla che lei e Roger avevano progettato di trascorrere lì. Quanto a Guy, se era ubriaco, non ne dava alcun segno. Come sempre, del resto. Guy poteva bere come una spugna per una serata intiera e poi andarsene all'apparenza calmo e controllato come quando aveva cominciato. Emma rimase fedele al suo sherry e Roger alla sua birra. Sam andò al banco a ordinarli e, tornato al tavolo con i bicchieri, sedette di nuovo accanto Guy.
— Voi non volevate restare con noi, vero? — domandò sporgendosi verso Roger, con un tono di voce che fece girare verso di lui parecchie teste. — Se Guy non fosse il capo, avreste finto di non vederci. Che scalogna! Volevi goderti una serata tranquilla con la tua ragazza, vero? Bella ragazza. Mi piace. Hai buon gusto. Si sforza di sopportarmi anche quando pensa che sia insopportabile. Ma non potevate voltare le spalle a Guy, no? Non sarebbe stato diplomatico. Mi dispiace per voi. Non volevo rompervi le uova nel paniere. Ma Guy è una realtà che non si può ignorare. Buon vecchio Guy. Al vostro posto gli avrei sputato in un occhio, ma vedo che voi non avete la stoffa. Leccargli gli stivali... è più il vostro stile, vero, Guy? Non è questo che ti aspetti da tutto il tuo maledetto branco? Guy fece un sorrisetto indulgente, come se le buffonate di Sam lo divertissero, ma parve rendersi conto che la sua voce si era alzata un po' troppo mentre tutte le altre nel bar erano scese di tono. — Non c'è nessun bisogno di gridare — mormorò. — E perché diavolo no? — ribatté Sam, alzando ancora di più la voce. Ora fissava attentamente Roger, come se ci fosse in lui qualcosa che lo infastidiva. — È piscio di cavallo quel che stai bevendo — dichiarò indicando il boccale di birra. — A me sembra che vada benissimo — obiettò Roger. — È piscio di cavallo, ti dico. Dammi retta. L'ho assaggiata. È imbevibile e nessuno venga a dirmi il contrario. — Afferrò fulmineamente la caraffa per il manico, la sollevò in aria e la sbatté con violenza sul tavolo. Il manico gli rimase in mano, la caraffa andò in frantumi e la birra schizzò sul viso e sulla giacca di Roger che balzò in piedi. — Spiacente, Guy, ma ora basta — disse. — Noi ce ne andiamo. — Siediti! — ruggì Sam con voce di una potenza sproporzionata alla sua piccola persona. — Che importanza ha un po' di birra? Non sai stare allo scherzo? È maledettamente stupida la gente che non sa stare a uno scherzo! La sua voce stentorea era ormai la sola che si udisse nel locale. Tutti i presenti, frequentatori abituali calmi e tranquilli, osservavano la scena con imbarazzato interesse. Emma notò un curioso sorriso sul volto di Guy, un sorriso quasi allegro, e si rese conto esterrefatta che lui si stava divertendo. — Calmati, Sam — disse tuttavia Guy. — Qui non sei in una delle tue bettole di Soho. Basta, adesso. — Ma davvero? Dici sul serio? Sam fece scivolare le mani sotto l'orlo del tavolo e lo sollevò. I bicchieri
slittarono e andarono a fracassarsi sul pavimento, mentre Sam lanciava un selvaggio urlo di gioia agitando in aria la mano che stringeva ancora il manico del boccale. Il tavolo si rovesciò del tutto, cadendo su un piede di Emma che si lasciò sfuggire un grido. Roger se ne avvide e rialzò immediatamente il tavolo, ma Sam cercò di rovesciarlo di nuovo. Allora il proprietario del locale, Len Carey, un omone grande e grosso che un tempo aveva fatto il poliziotto, emerse da dietro il banco bar e afferrò per le spalle Sam che parve diventare a un tratto piccolissimo, un raggrinzito straccetto d'uomo. — Credo sia ora che riportiate a casa il vostro amico, dottor Lampard — disse Len. — Possiamo fare a meno di scene simili, qui dentro. — Mi dispiace tanto, Carey — si scusò Guy. — Mandatemi il conto dei bicchieri rotti. Len annuì, come a significare che quello era sottinteso. — Non voglio guai nel mio locale — aggiunse. — Guai! — gridò Sam. — Non hai ancora visto niente! Aspetta che mi sia caricato a dovere! — Qui non siete il benvenuto, signore — ribatté asciutto Len Carey e, tenendo una delle sue manone su una spalla di Sam, lo spinse verso la porta. Sam non oppose alcuna resistenza e Guy, dopo aver rivolto a Emma e Roger un sorriso troppo sardonico per essere di scusa, lo seguì. — Bene, adesso che siamo finalmente in pace, vogliamo pensare alla nostra bistecca con patatine fritte? — domandò Roger a Emma. Lei annuì ed entrambi si trasferirono a un altro tavolo per bere finalmente qualcosa e cenare, mentre nella sala riprendevano a poco a poco le consuete conversazioni. — Come va il piede? — domandò Roger. — Devi avere preso Una bella botta. — Va bene, grazie. È stata più che altro la sorpresa a farmi gridare. — Andrò a prendere l'auto, così non dovrai camminare per tornare a casa. — Non preoccuparti, ce la farò benissimo. Ma finalmente sappiamo com'è che Sam dà sui nervi a tanta gente. Se fa spesso scene come questa! Ci sono rimasta proprio male. — Guy invece ci si è divertito. — Te ne sei accorto anche tu? Roger annuì. — Lui sapeva che cosa sarebbe accaduto, se lo aspettava.
Ho l'impressione che sia stato lui a fare in modo che accadesse. — Ah bene, se sono queste le cose che lo divertono, immagino che ci giudicherà tutti quanti noiosi da morire, al King's Weltham! Chissà se ha riportato Sam sano e salvo a casa. Non dev'essere un piacere per sua moglie se torna spesso in quello stato! — Spero che Guy abbia avuto cura di lui. Ma quando tornarono a casa, l'auto di Guy non c'era. Se aveva riaccompagnato Sam doveva averlo fatto scendere ed essersene andato immediatamente. Emma e Roger entrarono in casa. Nel corridoio che portava al soggiorno, lui le mise un braccio attorno alla cintola e lei piegò leggermente il capo appoggiando la guancia contro la sua. Ma prima che l'uno o l'altra potesse dire una parola, sopra la testa echeggiò un tonfo, come se qualcosa, forse una seggiola o un tavolino, fosse stato rovesciato sul pavimento. Poi si udì un rumore di passi in corsa, quindi un grido e ancora un altro. Infine i passi risuonarono sulle scale, si udì sbattere una porta e qualcuno bussò all'uscio di Emma. Roger non aveva ancora aperto del tutto il battente quando Judith Partlett si precipitò dentro, sbattendosi la porta alle spalle. Aveva il viso rigato di sangue, un livido su una guancia e le labbra gonfie. — Per l'amor di Dio, chiudete, sbarrate la porta! — strillò. — Non lasciatelo entrare! È pericoloso! E scivolò svenuta sul pavimento. 3 Emma e Roger rimasero un momento in ascolto, ma nessun passo risuonò sulle scale. Tuttavia Emma assicurò ugualmente il battente col catenaccio mentre Roger sollevava Judith e la portava sul divano del soggiorno. Dopo un attimo, Judith aprì gli occhi, girò intorno un'occhiata spaurita e subito li richiuse. Ma stavolta li richiuse deliberatamente, come per escludere dalla sua vista qualcosa che non voleva vedere. Dal piano di sopra venne un altro tonfo sordo, poi più niente. — Si direbbe che Sam sia svenuto — osservò Roger. — Sarà meglio che vada su a vedere. Judith si agitò sul divano. — No, lascialo stare! Non andarci! Era in camicia da notte e vestaglia imbottita a fiori, allacciata soltanto a metà, e dalla sua persona emanava un lieve profumo di sapone, come se
avesse appena fatto un bagno. Evidentemente si era anche lavata i capelli perché erano ancora umidi e lisci. — Si rimetterà subito — riprese. — È sempre così. Emma andò in cucina a prendere una ciotola d'acqua e uno strofinaccio e, inginocchiatasi accanto a Judith, prese a tamponarle il viso con l'acqua fresca. — Accadono spesso cose di questo genere? — domandò Roger. — No, non spesso. Anzi, era tanto tempo che non accadeva più. Pensavo che l'avesse finita, ormai. — Avvedendosi che la sua vestaglia era troppo aperta, Judith si affrettò ad abbottonarla con le dita tremanti. — Comunque, penso che dovrei andar su a vedere come sta — insisté Roger. Judith emise un profondo sospiro. — E va bene. Se vuoi proprio andare! Emma intanto continuava a tamponare delicatamente il viso di Judith. — Hai altre ammaccature? Dobbiamo chiamare un medico? — No, no, per l'amor del cielo! Non parlate te a nessuno, per favore. — Judith chiuse per un attimo gli occhi, poi li riaprì e fissò in viso Emma. — Non mi sono nemmeno scusata per esservi piombata addosso così! Mi dispiace, non avrei dovuto farlo. Ma mi fa tanta paura quando è in quello stato! Ho perduto la testa. — Non preoccuparti — la confortò Emma. — Non vedo che cos'altro avresti potuto fare! — Di solito, è sempre così tranquillo, sai! Domani si sentirà così avvilito... se lo ricorderà! A volte perde i sensi e dopo non vuol credere che sia accaduto. Poi, quando scopre di essersi comportato davvero in maniera ignobile, detesta se stesso. Ho sempre tanta paura! Lo sai che una volta ha già tentato di uccidersi? Lo ha fatto proprio per quello. Una crisi di odio per se stesso. Al piano di sopra si udì il rumore dei passi di Roger. — Sì, ho sentito qualcosa — disse Emma. — Quando è accaduto? — Oh, anni fa. Prima che ci sposassimo. È stato così che ci siamo conosciuti. Io ero infermiera nell'ospedale dove venne ricoverato. Pensai di potere aiutarlo e credo che lo pensasse anche lui. — Judith fece un sorrisetto amaro. — E ci provai per circa un anno, poi lo lasciai. Ma lui venne a cercarmi. Non voleva perdermi, diceva, ero la sua unica speranza. Così tornai con lui e ci provai di nuovo. Ma la gente come Sam non desidera veramente essere aiutata. Mi voleva come vittima, nient'altro. Ormai ne sono convinta.
— Come tentò di uccidersi? — domandò Emma. — Sonniferi e una bottiglia di brandy? — No, tentò di impiccarsi — disse Judith in tono quasi indifferente, come se quel pensiero avesse tanto occupato la sua mente da avere ormai perduto ogni tragicità. — In laboratorio. Stava ancora lavorando alla sua tesi di laurea e per caso entrò Guy che lo vide là appeso e riuscì a tirarlo giù prima che fosse troppo tardi. Poi chiamò l'autoambulanza e lo accompagnò lui stesso in ospedale. Venne a trovarlo ogni giorno, finché Sam ci rimase. Nessun altro si preoccupò per lui. I suoi genitori erano morti entrambi, ma del resto non se n'erano mai occupati molto. Suo padre era ufficiale dell'esercito e Sam non era il tipo di figlio che lui avrebbe desiderato. E non aveva nemmeno amici. A volte penso che questo avrebbe dovuto mettermi in guardia, ma allora pensai soltanto che la gente era cattiva e che Guy era un uomo meraviglioso. — Come reagì Sam al fatto di essere stato salvato? Io ho l'impressione che se mai arrivassi al punto di voler togliermi la vita, odierei chiunque me lo impedisse. — Difatti Sam odia Guy — ribatté Judith. — Però gli vuole anche bene, capisci? È piuttosto complicato. La porta d'ingresso si aprì e si richiuse e dopo un momento Roger rientrò in soggiorno. — Tutto a posto — disse. — Ha perso bellamente conoscenza. L'ho messo sul letto e gli ho tolto le scarpe. Domattina gli sarà passato tutto. Avrà un bel mal di testa, immagino, ma niente altro. Judith si rizzò a sedere. — Bene, non voglio disturbarvi oltre. Torno di sopra. Emma osservò il suo viso malconcio e non le sfuggì l'espressione inquieta dei suoi occhi neri. — È meglio che tu rimanga qui, stanotte. Domattina, poi, saliremo insieme a vedere se tutto è a posto. Ho una stanza per gli ospiti. Vado a prepararti il letto. — Ma non posso darti tanto fastidio! — Nessun fastidio. — Che ne diresti di un goccio di brandy, ora? — domandò Roger. — Penso che farebbe bene a tutti e tre. Judith esitò un attimo, come se il pensiero dell'alcool, in quel momento, la disturbasse, poi annuì. Ma quando Roger le portò il brandy, ne bevve cautamente un piccolo sorso, poi rabbrividì visibilmente. — Ti dispiace darmi un asciugamano? — domandò a Emma. — Mi sta-
vo lavando i capelli, quando Sam mi è piombato addosso, e sono ancora bagnati. — Ma certo — rispose Emma e uscì per andare a prenderlo. Judith posò il bicchiere, prese l'asciugamano e si strofinò energicamente la testa, poi vi nascose il viso e dai sussulti del suo corpo apparve chiaro che era scoppiata a piangere. Ma quando sollevò il viso e restituì l'asciugamano a Emma i suoi occhi erano asciutti. — Oh, perdonatemi se sono così isterica! — mormorò. — Non è giusto affliggervi con queste scene! Emma, che si era accoccolata di nuovo accanto al divano, alzò gli occhi a guardare Roger. — Sai, Judith mi stava raccontando come Guy abbia salvato la vita a Sam, quando lui tentò di uccidersi e questo mi ha fatto ripensare a qualcosa che Sam mi ha detto oggi pomeriggio. Ha detto che la gratitudine è un sentimento terribile, pericoloso. Credi che sia questo che pensa di Guy? Che è terribile e pericoloso? — Be', stasera al bar abbiamo avuto entrambi l'impressione che fosse stato Guy a spingerlo a bere, no? — disse Roger. — Abbiamo pensato che si godesse la scenata di Sam. — Ha fatto una scenata al bar? — domandò Judith. Emma annuì. — È stato violento? — Più di quanto non siano abituati a vedere al White Hart — disse ancora Roger. — Ed era con Guy? — Sì. Judith si distese di nuovo sul divano, con un'espressione di estrema stanchezza sul viso. — Allora questo spiega tutto. Oh Dio, perché siamo tornati qui? Io non volevo, ma d'altra parte pensavo che ogni pericolo fosse passato, ormai. Sam era stato normale per tanto tempo! Normale per lui, quanto meno. È sempre stato irrequieto, sempre convinto che le cose sarebbero andate meglio da qualche altra parte, ma episodi come quello di stasera non accadevano più da almeno due anni. E il denaro che avevamo messo da parte in America se n'era andato quasi tutto e nessuno all'infuori di Guy era disposto a dare lavoro a Sam. Si era fatto una cattiva fama, capite? Anche se nessuno sapeva la verità sul suo conto. Non vi ho detto tutto, a proposito del suo tentato suicidio. Era uscito con Guy, quella sera, e si erano ubriacati. Quanto meno, si era ubriacato Sam. Guy, non si capisce mai se è ubria-
co o no, vero? Se ne sta lì a sedere, con l'aria di essere perfettamente padrone di sé, mentre Sam sembra sul punto di fracassare tutto quello che ha intorno. Quella sera, dunque, Guy lo accompagnò a casa, un appartamentino di Soho dove Sam viveva con una ragazza, poi se ne andò e Sam tentò di accoppare quella povera figliola. Gli inquilini del piano di sotto la udirono gridare, si precipitarono di sopra e gliela strapparono dalle mani. Ma la ragazza era terribilmente malconcia, così la portarono all'ospedale e dissero che l'avevano rinvenuta per la strada e che doveva essere stata vittima di un'aggressione. Sapete, era un quartiere dove alla gente non piace avere a che fare con la polizia. Così Sam non ebbe fastidi, ma la mattina dopo andò al laboratorio e cercò d'impiccarsi. — Tu lo sapevi quando lo hai sposato? — domandò Emma. Judith scosse la testa. — Me lo disse Sam dopo avermi picchiata la prima volta. Era straziato dal rimorso, e dalla paura, anche... paura che io lo lasciassi e paura di quel che avrebbe potuto farmi se non lo avessi lasciato. Credo che ci sia sempre in lui questa paura terribile, la paura di poter uccidere qualcuno, un giorno o l'altro. Quella volta mi disse di andarmene ma al tempo stesso mi supplicava di non abbandonarlo. Io ero terribilmente addolorata per lui e gli dissi che non pensavo lontanamente di abbandonarlo, ma gli feci promettere che avrebbe smesso di bere. Mantenne la promessa per tre giorni, poi uscì di nuovo con Guy e fummo daccapo. — Guy sapeva della ragazza che Sam aveva quasi uccisa? — domandò Emma. — Certo. — Per questo dunque fu tanto premuroso con Sam quando era in ospedale. Senso di colpa puro e semplice. — Sì, suppongo che fosse così. Ma poi ci dissero che Guy era completamente cambiato, da quando era diventato direttore dell'istituto, che era diventato più vecchio e saggio. Altrimenti credo che non avrei mai acconsentito a venire qui. Per quanto non sia facile fermare Sam, una volta che ha preso una decisione. Ma Guy non può essere cambiato tanto, vero? — Che hai intenzione di fare, ora? Restare qui o andartene? Judith si passò le dita tra i capelli neri che, asciugandosi, andavano arricciandosi di nuovo. — Non ci ho ancora pensato. Non avrei neanche un posto dove andare. E il guaio è che amo ancora Sam. Soltanto qualche volta ho la sensazione di non riuscire più a tirare avanti così e dico a me stessa che dovrei trovare il coraggio di ricominciare una vita nuova. Sarei felice di poter tornare a
fare l'infermiera, ma poi penso che se me ne andassi potrebbe tentare ancora di uccidersi e avere successo, questa volta. — Ha minacciato di farlo? — Non esplicitamente. So che è una sorta di ricatto e che non dovrei lasciarmi accalappiare, ma con tutto ciò è sempre un pensiero terrificante. Non è facile ignorarlo. — No di certo — convenne Emma alzandosi. — Vado a prepararti il letto, allora. Vuoi un'aspirina? — Eh, magari. — Judith si portò una mano alla guancia ammaccata. — Per adesso è ancora intorpidita, ma fra poco comincerà a farmi male. Vengo ad aiutarti. — No, no, stattene lì tranquilla. Ci vorrà un minuto. Emma preparò il letto, vi mise una borsa di acqua calda, preparò un bicchier d'acqua e un flacone di aspirina sul tavolino da notte poi fece coricare Judith e si preoccupò che fosse totalmente a proprio agio. Per quanto le circostanze lo concedevano, almeno, perché l'espressione dei suoi occhi neri non suggeriva davvero l'idea di una nottata di sonno. Tornata in soggiorno, Emma prese il suo brandy e sedette sul divano. — Forse dovrei aprire una casa per mogli maltrattate — osservò. — Chissà, potrei anche scoprire di avere un'attitudine particolare! Roger, al posto di Judith, tu ci resisteresti? — Io no di certo — fu la pronta risposta. — Ma mi sorprende sempre vedere che cosa sono capaci di sopportare certe donne. — Il problema dei mariti maltrattati e di quello che essi arrivano a sopportare non si presenta spesso, vero? Penso di parlarne con Guy, domattina. Pare che sia proprio lui alla base di tutto il guaio, no? — Pensi che potrebbe servire? — Chissà! Se gli racconto ciò che è accaduto qui stasera, forse ci andrà un po' più cauto prima di rimettere in tentazione Sam. — Intendi dire a Judith che cos'hai in mente di fare? — No, naturalmente. Mi direbbe subito di non farne niente. Probabilmente è già pentita anche di averci detto quel che ha detto. Uno dei guai peggiori nelle persone come lei è che hanno orrore di parlare apertamente con qualcuno di ciò che stanno passando. — E allora non potrebbe essere rischioso intromettersi? — Sarebbe altrettanto rischioso non farlo. — Lei e Sam rifaranno certamente la pace, domattina. — Fino alla prossima volta.
Roger sembrava molto dubbioso ed Emma intuì ciò che pensava. Non credeva che quattro parole con Guy potessero aiutare i Partlett a risolvere il loro problema e non voleva che lei si illudesse di poter fare qualcosa di più efficace che ascoltare con pazienza quando glielo chiedevano. Ma non sollevò altre obiezioni e il discorso finì lì. La mattina dopo Emma si alzò presto, preparò il tè e ne portò una tazza a Judith. Anche lei era già alzata e si stava abbottonando la vestaglia trapuntata. Con un sorriso che risultò un po' storto perché aveva una guancia gonfia ringraziò Emma per il tè ma non volle fermarsi per la colazione né accettò che Emma e Roger salissero con lei. — Sam si sentirebbe tanto a disagio — spiegò. — Sarà profondamente umiliato, se ricorda ciò che ha fatto. E se non lo ricorda, sarebbe un po' difficile spiegare la vostra presenza. — Ma sei certa che andrà tutto bene? — domandò Emma. — Certissima. Ci sarà una gran scena di pentimento e di rimorso, che preferirei non avesse testimoni, e basta. E... — Judith esitò. — Siete così buoni con me, mi dispiace chiedervi dell'altro, ma... — Sì? — l'incoraggiò Emma. — Se lo vedi in laboratorio, non dire niente di ieri sera, fa' come se non fosse accaduto niente. — Pensi davvero che sia meglio? — Sì. — D'accordo — si arrese Emma, riflettendo tuttavia che quella promessa non l'impegnava affatto nei confronti di Guy. Roger uscì prima di lei, quella mattina. Quando, all'istituto, Emma passò davanti ad Arthur e lo salutò con un sorriso, le sembrò che lui la guardasse in una maniera particolare, che fosse sul punto di dire qualcosa e questo la indusse a chiedersi se gli Hawse fossero al corrente di quanto era accaduto la sera avanti. Poteva darsi benissimo che avessero udito il trambusto e gli strilli di Judith, ma lei non aveva certo intenzione di fermarsi a parlarne. Nel corridoio che portava al suo laboratorio, si soffermò un attimo, in ascolto, davanti alla porta di Sam ma non udì alcun rumore. Né si era aspettata di udirne, del resto. Non sapeva quanto tempo ci sarebbe voluto per smaltire una sbornia come quella, ma sperava che gli ci sarebbe voluto almeno un giorno intiero. Del resto, rifletté, un attacco strategico di influenza che tenesse a casa Sam per qualche giorno sarebbe stato un vantaggio per tutti.
Entrò nel suo laboratorio per togliersi il cappotto ma uscì subito e ripercorse il corridoio in senso inverso per salire da Guy e questa volta, notando lo sguardo intenso di Arthur fisso su di lei, ebbe la certezza che lui e sua moglie avessero udito benissimo il trambusto della sera avanti e che prima o poi lei avrebbe dovuto dare loro qualche spiegazione. Ma prima, rifletté, doveva decidere quel che pensava lei stessa. Intendeva continuare a tenere i Partlett? Aveva ancora davanti agli occhi il viso ammaccato e lo sguardo atterrito di Judith e provava una profonda compassione per lei, ma al tempo stesso rabbrividiva al pensiero di udire un'altra volta quelle grida e di poter essere chiamata da un momento all'altro a prestare ben altro soccorso a quei due. Trovò Guy occupata a dettare alcune lettere a Maureen Kirby. L'ufficio del direttore era vastissimo e molto alto, con lampade fluorescenti al soffitto e una grande finestra dalla quale, quella mattina, entrava uno splendido sole che accendeva i capelli biondi di Maureen e illuminava in pieno l'ampia scrivania ingombra di carte dietro la quale sedeva Guy. — Oh scusami! — esclamò Emma. — Tornerò più tardi. — No, no, vieni — ribatté Guy. — Abbiamo finito. Non c'è altro, Maureen. Maureen si alzò, vistosa più che mai nell'attillato pullover bianco e la svolazzante gonna di velluto, rivolse a Emma uno dei suoi lievi sorrisi evasivi e se ne andò. Come la porta si richiuse alle sue spalle. Guy si appoggiò allo schienale della seggiola, intrecciando le mani dietro la nuca. — Vorrei che quella figliola non fosse così smisurata — osservò. — Mi rimpicciolisce. — Con la sua pancia, il faccione florido, le pieghe del collo che debordavano dal colletto del pullover e la sua aria abituale di incrollabile sicurezza di sé, Guy non appariva davvero rimpicciolito. — Vieni, siediti. Che cosa c'è? Guai, vero? Te lo si legge in viso. Accidenti, non ho proprio voglia di guai, stamattina! Emma sedette sulla sedia lasciata libera da Maureen. — Però te li aspettavi, non è così? Guy parve imbarazzato per un attimo, poi disse: — Vuoi alludere all'incidente del White Hart? Mi è dispiaciuto tanto! Spero che non vi abbia rovinato la serata. — Non credo che t'importi molto della nostra serata — ribatté crudamente. — Tu ti sei divertito, no? Guy abbozzò un mezzo sorriso. — Be', Sam è un bel cambiamento, dopo tutte le barbe che ci sono qui. Non si sa mai che cosa farà tra un mo-
mento. Potrebbe mettersi a discutere di filosofia o dare in escandescenze, come ha fatto. È questo che mi ha sempre affascinato, in lui. Vedrai che piacerà anche a te, quando lo conoscerai meglio. — Ti sembra tanto affascinante il fatto che quando è tornato a casa abbia picchiato sua moglie? — Nooo... non è possibile! — È quel che ha fatto. — Ieri sera? — Sì, dopo che tu lo hai fatto ubriacare al White Hart e poi lo hai scaricato sulla soglia di casa. Guy fissò Emma con occhi duri. — Non ti credo. Quella donna ti ha raccontato chissà quali storie sul suo conto e tu le hai bevute. Non era tanto ubriaco da fare una cosa simile, ieri sera. — Altro che! Non so quanto aveste già bevuto prima che arrivassimo noi, ma uno non si mette a rovesciare i tavoli in un locale pubblico se non è completamente partito. — Ed è forse colpa mia? Ero forse ubriaco, io? Eppure avevamo bevuto la stessa quantità di whisky. — Ma tu, lo sai bene, puoi bere per tutta una sera senza risentirne affatto, Sam no. — E allora è colpa sua, non ti pare? Perché rimproveri me? Con quel che tollero da te, Emma! A volte mi fai apparire una sorta di mostro! — A volte penso proprio che tu lo sia, Guy! Sai anche tu che lo stai provocando e che prima o poi questo lo porterà a un'esplosione di violenza. Il sorrisetto tremolò di nuovo sulle labbra piene di Guy. — E tu non ne comprendi il fascino, vero? Non l'hai mai provato, tu. — E nemmeno tu, direi. Non la vera violenza, la violenza in sé. È la violenza per interposta persona che ti dà il brivido. Puoi accettarla attraverso Sam Partlett senza correre alcun rischio. Per questo sei tanto pericoloso per lui. Non arrivo a pensare che tu desiderassi che andasse a casa e picchiasse sua moglie, ma vuoi che sia lui a esprimere la violenza che è racchiusa in te. Per la prima volta da quando era entrata, Emma vide la preoccupazione nei piccoli occhi grigi di Guy. — Le ha fatto molto male? — Abbastanza. — Ha dovuto chiamare il medico? — Non ha voluto.
— Meglio così. Perché un'altra volta, sai... — Guy non terminò la frase. — Lo so, ce lo ha raccontato. Ma non è la prima volta che accade nemmeno a Judith. — Ma era proprio vero? Non è stata lei a inventarselo per farsi compassionare da voi? — Be', l'abbiamo sentita gridare poi si è precipitata da me, col naso che sanguinava e un livido su una guancia e stamattina aveva il viso gonfio e un occhio nero. Ha dormito da me e da quel che ho capito attribuisce tutto all'effetto nefasto che tu eserciti su Sam. Per questo sono venuta a parlarti. — E allora parla — ribatté Guy gelido. — Lo sai da te se Judith ha ragione. Ha ragione? Guy rimase un momento silenzioso, guardando la finestra. — Può darsi — mormorò poi. — Ma soltanto in parte. Non sono responsabile io se Sam è quello che è. — Ma potresti cercare almeno di non incoraggiarlo a bere, no? Non ti costerebbe niente! — Forse più di quel che pensi. Non si può cambiare dalla sera alla mattina un rapporto di anni. Un rapporto che è stato molto importante per tutti e due, così com'è. — Ma se tu cercassi almeno di aiutarlo, invece di contribuire a peggiorare la situazione... Guy girò di scatto la testa a guardare Emma, di nuovo con un sorrisetto sulle labbra, non più di malignità ma quasi di affetto. — Sei veramente ingenua, Emma — disse. — È una delle cose che adoro in te. Tu non te ne rendi conto, ma sai così poco della vita! Non puoi cambiare la gente come Sam, mia cara, nemmeno con tutte le migliori intenzioni del mondo. E allora a che pro tentare? Se quella donna avesse un briciolo di buon senso, lo avrebbe piantato già da un pezzo. Emma si alzò. — Allora non vuoi nemmeno tentare di aiutarlo. — Non ho detto questo. — Ma è ciò che intendi, no? — Vedremo. Proprio non capisci quale tentazione costituisca Sam per me? — No, non lo capisco. Non voglio buttar fuori di casa i Partlett, ma d'altra parte non me la sento neanche di dover trascorrere altre notti come l'ultima. — Bene, ti farò una promessa — dichiarò Guy. — Non mi lascerò indurre in tentazione, ti basta?
— Non è molto davvero — mormorò Emma e se ne andò. Più tardi, quella stessa mattina, andò da lei Bill Carver. Sperava di non disturbare, disse, ma sembrava comunque risoluto a restare, disturbasse o no. Nei tre anni da quando Bill era entrato al King's Weltham, Emma non era mai arrivata a conoscerlo molto bene, nonostante qualche sua occasionale confidenza che per altro si era sempre limitata al campo professionale: non era soddisfatto del proprio lavoro, non gli andava a genio Guy Lampard, si sentiva sottovalutato e via dicendo. Probabilmente, pensava Emma, sperava che lei riportasse quei discorsi a Guy. Bill non ignorava certo quanto fossero confidenziali i suoi rapporti col direttore e, presuntuoso com'era, doveva essere senza dubbio convinto di avere in lei un'alleata. Ma Emma, che spesso simpatizzava davvero con lui, si era sempre guardata bene dal parlarne con Guy. Lei stessa pensava che spesso Guy fosse ingiusto con Bill soltanto perché gli era antipatico, ma sapeva che qualunque intervento da parte sua non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione, perché Guy non tollerava interferenze per quanto riguardava la direzione dell'istituto. Anche da lei poteva accettare una critica personale, com'era accaduto quella mattina, ma in campo professionale si riteneva, anche di fronte a lei, superiore a qualunque critica. Bill si issò su un alto sgabello. — Bene, come va coi tuoi inquilini? — domandò poi. Emma si tolse gli occhiali che s'era messa per scrivere e si strofinò gli occhi. Aveva dormito pochissimo, la notte precedente, e cominciava a rendersi conto di essere molto stanca. — Benone — rispose. — Nessun guaio? — Perché dovrebbero esserci dei guai? — Be', mi sono fermato a fare due chiacchiere col vecchio Hawse, poco fa. Gli era sembrato di udire dei rumori insoliti, mi ha detto, e stava per salire a vedere se ci fosse bisogno di aiuto, ma poi tutto è tornato quieto e lui ha creduto meglio non mettersi di mezzo. Che te ne pare di Partlett? — Lo conosco appena. — Secondo me è un piccolo bastardo. — Sua moglie è una donnina perfettamente a posto, mi piace molto. — Hawse mi ha detto di averla sentita gridare, ieri sera. È vero? Emma si strinse nelle spalle. — Io non baderei molto a quel che dice Ar-
thur. È un vecchio pettegolo. Probabilmente era qualcosa alla televisione. Bill fece un sorrisetto ambiguo. — Ma certo, la televisione! Questo spiega tutto. Ma devono tenerla ben alta, perché Hawse la senta dal seminterrato. Non ti dà fastidio? — Be', sì, un po'. Ma non voglio fare storie per simili sciocchezze già dal principio. — Soprattutto se non era la televisione. Cara Emma, non sei affatto brava a mentire. Che cos'era accaduto, in realtà? — Gli sfacciati occhi verdegrigio di Bill scrutavano attenti il suo viso. — Come posso saperlo? — rispose Emma. — Roger e io siamo stati fuori quasi tutta la sera, ma questo mi fa ricordare... — Questo non le faceva ricordare proprio niente, ma le era venuta a un tratto un'idea che le sembrava ottima. — Dev'essere un po' triste per la signora Partlett trovarsi in un posto come questo, dove non conosce nessuno, così avrei pensato di dare una festicciola per farle conoscere un po' di gente. Magari domani sera, mercoledì. No... — Le era venuto in mente che per la sera seguente i segni sul viso di Judith sarebbero stati ancora visibili. — Facciamo mercoledì della prossima settimana. Soltanto uno spuntino, vino e formaggio. Potrete venire tu e Irene? Mi piacerebbe che Judith facesse amicizia con Irene. — E ti piacerebbe pure che facessimo amicizia Partlett e io — replicò acido Bill. — La nostra Emma che vuol fare opera pacificatrice! Ma non attacca, sai? Il tuo Sam ha un certo modo di farmi intendere che sa di avermi soffiato il posto e ne è ben contento, che proprio non mi va giù! — Comunque, non ci rimetti niente se ti trovi con lui fuori del laboratorio — osservò Emma. — Ma era alle vostre mogli che pensavo, non a voi due. Verrete? — Mercoledì prossimo? Sì, grazie, a meno che Irene non abbia qualche altro programma, ma non credo. — Bene. Alle otto, allora. Bill scivolò giù dallo sgabello. — E ieri sera non ci sono stati strilli, non ci sono stati guai e tu hai inquilini tranquilli e simpatici che saranno un prezioso acquisto per questa nostra piccola, affascinante comunità. D'accordo, mi atterrò a questa versione, se è quello che vuoi. Ma non la darai a intendere a nessuno, sai? A meno che non trovi il modo di tappare la bocca ad Hawse. E se ne andò. Emma rimase a guardare la porta che si era chiusa alle sue spalle. L'infa-
stidiva immensamente l'idea che la storia di quanto era accaduto la sera avanti nella sua casa facesse il giro di tutto l'istituto, probabilmente gonfiandosi lungo il percorso e diventando ancora più drammatica di quanto non fosse stata in realtà. E, ripensandoci con maggior calma, non era più tanto certa che l'idea di dare una festicciola per Judith fosse stata tanto brillante. Forse lei e Sam non avevano fatto pace, forse Judith stava preparando le valigie per andarsene, forse non avrebbe gradito affatto l'invito a una festa dove si sarebbe offerto alcool, fosse pure sotto forma di vino a buon mercato, ma probabilmente un po' di vino non avrebbe avuto più effetto di un'aranciata per Sam e Judith, se aveva fatto pace con lui, non avrebbe avuto niente da obiettare. Il vero problema, in quel momento, era quello di far tacere Arthur prima che combinasse altri guai. Tornando a casa all'ora di pranzo, si fermò a fare due chiacchiere con lui. Di solito, Emma non tornava a casa per il pranzo, si accontentava di un panino che portava con sé la mattina e che consumava in laboratorio accompagnandolo con una tazzina di caffè, ma quel giorno decise di andarci. Oltre all'occasione per fermarsi o parlare con Arthur, avrebbe così avuto modo di accertarsi che Judith stesse bene. — Salve, Arthur — disse fermandosi davanti alla guardiola. — Spero di non avervi disturbato, ieri sera. — Oh, ci chiedevamo appunto che cosa fosse successo e se magari vi servisse aiuto, ma poi non abbiamo sentito più niente e non ci siamo mossi, per timore di darvi fastidio. Abbiamo pensato che se aveste avuto bisogno di qualcosa ci avreste chiamati. Sapete che siamo sempre a vostra disposizione per qualunque necessità. Arthur parlava in tono indifferente ma i suoi occhi non si staccavano dal viso di Emma. — Sì, lo so — rispose lei. — Ed è molto confortante, credetemi. Voi e vostra moglie siete sempre tanto buoni con me e ve ne sono molto grata, lo sapete. Ma per fortuna le cose non erano poi così gravi come erano sembrate al principio. A tutta prima mi ero spaventata, udendo gridare la signora Partlett, non riuscivo a immaginare che cosa potesse essere accaduto, ma poi il dottor Partlett si è precipitato da me a chiedere aiuto. La signora aveva inciampato nell'angolo di un tappeto ed era caduta battendo la testa contro il parafuoco del camino. Era svenuta e il dottore si era spaventato da morire. Non è per niente uno spirito pratico, sapete. Voleva che chiamassi un medico, ma poi la signora si è ripresa e non lo ha voluto. L'ho poi portata a dormire giù da me, nel caso che potessero esserci delle
complicazioni, ma per fortuna stamattina pareva che stesse perfettamente bene. A ogni buon conto, però, faccio un salto a casa per assicurarmi che sia tutto a posto. Una botta in testa può avere conseguenze spiacevoli, a volte. Emma si rendeva conto che stava chiacchierando troppo, ma una volta che aveva cominciato con la sua catena di bugie, non sapeva più come fermarsi. Arthur Hawse annuì con espressione grave. — Certo, avete ragione, non sono cose da prendere alla leggera. Dite alla signora Partlett che chiami pure mia moglie, se ha bisogno di qualcosa. Li volete un po' di porri freschi, stasera? Emma rispose che li avrebbe graditi moltissimo e, consapevole di non essere affatto riuscita a far bere ad Arthur la sua storiella, tornò a casa. Appena entrata, chiamò Judith al telefono, ma dall'altra parte l'apparecchio continuò a squillare a vuoto, tanto che Emma cominciò a pensare che Judith avesse deciso una volta ancora di lasciare Sam e se ne fosse bell'e andata. Che potesse essere semplicemente uscita a fare qualche spesa, col viso in quelle condizioni, non sembrava molto probabile. Finalmente, quando Emma stava ormai per posare il ricevitore, la voce di Judith disse: — Sì? — Sono Emma... volevo sentire come stai. — Bene, grazie — rispose Judith con un tono così freddo e distante che Emma ne fu sbalordita. — Devo comprarti qualcosa... latte, pane o altro? — domandò tuttavia. — Grazie, ma ho tutto. — Il tono gelido e distaccato di Judith pareva voler sottintendere che l'incidente della sera avanti non aveva creato alcuna particolare intimità fra loro due. — Mi dispiace di averti dato tanto disturbo, ieri sera. Non era proprio necessario! — Bene, sono contenta che oggi la pensi così — ribatté Emma, incapace di sopprimere una certa sfumatura ironica nella propria voce e irritata con se stessa per essersi presa il disturbo di telefonare a quella scorbutica. Non pretendeva certo esplosioni di gratitudine, ma almeno un pochino di riconoscenza se la sarebbe aspettata. — A proposito — riprese — se ti capitasse d'incontrare l'uno o l'altra degli Hawse, io ho detto che ieri sera hai inciampato in un tappeto e sei caduta sbattendo la testa contro il parafuoco del camino. — Va bene. Ti ringrazio. — Arthur non ci ha creduto, ma è tutto quel che ho potuto fare.
— Sei stata molto gentile — disse la voce glaciale. Emma posò bruscamente il ricevitore e andò in cucina a farsi un panino. Intanto andava dicendo a se stessa che forse era stato sciocco da parte sua imporsi così a Judith, quel giorno stesso, e che il tentativo di scaricarsi di dosso il peso dei propri considerevoli obblighi era più che naturale da parte di Judith, ma non per questo la contrariava meno la scortesia della sua risposta. In effetti, ne era tanto contrariata che pensò di abbandonare il progetto della festa e si ripromise di non alzare mai più un dito per rendersi utile. Ma quando ebbe finito di mangiare il panino e di bere il caffè, stava già pensando di essere troppo meschina: probabilmente nei panni di Judith avrebbe reagito come lei. Solo che era un po' difficile mettersi nei panni di Judith e addirittura impossibile immaginare, a esempio, che cosa avrebbe fatto lei se mai Roger l'avesse picchiata. Ma tanto per cominciare era impossibile immaginare che il cavalleresco, impeccabile Roger potesse mai fare una cosa del genere. E pensando quanto fosse fortunata lei a paragone di quella poveretta al piano di sopra, Emma fu presa di nuovo dalla compassione e decise di attenersi al suo programma di fare il poco che poteva per aiutarla. Tuttavia lasciò passare tre giorni prima di ritelefonare a Judith per invitare lei e Sam al suo piccolo ricevimento. Lo fece con una certa apprensione, per il timore di essere presa di nuovo a pesci in faccia, ma Judith accettò con entusiasmo: Emma era molto buona a pensare a loro, disse gaiamente, sarebbe stato un immenso piacere conoscere finalmente qualche altra signora. Quell'isolamento cominciava a pesarle davvero, aggiunse, senza eccedere tuttavia nell'autocommiserazione. Ed Emma capì che Judith sperava che lei considerasse la disastrosa serata di qualche giorno avanti semplicemente come se non fosse mai avvenuta. Al ricevimento di Emma parteciparono dodici persone, oltre a Roger. Insieme con i Partlett e i Carver, aveva invitato Ernest Nixey, Maureen Kirby, il medico del paese e sua moglie, un colonnello in pensione con relativa moglie e una coppia arrivata di recente al King's Weltham, biochimico lui e agronoma lei. Emma aveva invitato anche Guy Lampard che però, senza nemmeno prendersi il disturbo d'inventare una scusa, aveva declinato l'invito, come lei si era aspettata. Riunioni di quel genere lo annoiavano a morte e Guy non si preoccupava affatto di nasconderlo. Quando ebbe disposto sul tavolo del soggiorno crackers, panini, for-
maggi, patè, olive e qualche bottiglia di buon vino, Emma andò in camera a cambiarsi. Possedeva un solo vestito per occasioni come quella, una princesse di jersey nero con una sottile cintura d'argento che portava da anni e ogni volta che l'indossava si riprometteva di comprarsene un altro, ma poi non si decideva mai a farlo, o perché non ne trovava il tempo o perché all'ultimo momento preferiva comprare qualcos'altro. La verità era che l'infastidiva enormemente comprarsi dei vestiti perché non si fidava del proprio giudizio e temeva di lasciarsi indurre ad acquistare qualcosa che non le si addiceva, ignara com'era che la sua figura alta e snella e il suo splendido incarnato facevano anche dell'indumento più comune un capo di classe. Aveva appena finito di prepararsi quando udì arrivare la prima auto degli ospiti, il colonnello Branksome e la moglie. La signora Branksome, una donnona robusta ed energica, era il cardine principale di tutte le attività paesane ed Emma quella sera fece tutto il possibile perché simpatizzasse con Judith, nella speranza che potesse trascinarla in qualcuna delle varie associazioni di cui l'anziana signora era l'anima. Ma gli sforzi di Emma non approdarono a niente. La signora Branksome fu irresistibilmente attratta da Roger e gli rimase appiccicata per quasi tutta la serata. Fu invece Ernest Nixey a impossessarsi di Judith, badando a rifornirla di cibo e di vino, ed Emma, trovandosi per qualche momento accanto a loro, udì che le parlava del proprio disgraziatissimo matrimonio. Finiva sempre per farlo, prima o poi, con ogni nuova conoscenza che mostrasse il minimo segno di comprensione, e Judith quella sera aveva un'aria di affascinante timidezza che doveva esercitare un'attrazione particolare sul povero Ernest. I segni sul suo viso erano scomparsi quasi del tutto, i bei capelli bruni e lucenti le ricadevano morbidi sulle spalle e l'abito di un giallo delicato era completato da una catena d'oro cui era appeso un topazio. Judith giocherellava di continuo col ciondolo, quasi volesse attirare sul gioiello l'attenzione di Ernest, che difatti finì col dire: — È bellissima quella collana! Judith sorrise. — Vero? Me l'ha regalata pochi giorni fa mio marito. L'ha trovata da queir antiquario che ha il negozio in piazza a Crandwich. Sam Partlett intanto stava parlando con Bill Carver, o meglio Bill parlava in tono molto vivace con Sam che sembrava chiuso in se stesso e quasi assente. Per la prima volta da che lo conosceva, Emma lo vedeva con un completo quasi elegante, anche se un po' fuori moda, invece che con la solita, logora giacca a scacchi e pantaloni scompagnati.
— Molto bella davvero — ripeté Ernest. — Graziosa cittadina, Crandwich, non vi pare? Per noi è stata una fortuna incredibile aver trovato un istituto per malattie mentali del livello della Manstead House in una città così piccola. Così posso andarci ogni giorno e stare un po' con mia moglie. Sono convinto che questo l'aiuti molto, anche se spesso non mi riconosce nemmeno. Non ho perduto la speranza, sapete. Credo sempre che prima o poi possa ritornare con me. — Sarà terribilmente caro un posto simile, no? — osservò Judith. — Sì, ma ne vale la pena, credetemi. La sua camera è bellissima, molto allegra, e le infermiere sono meravigliose, così pazienti e comprensive! Se si ha la vocazione, dev'essere meraviglioso fare l'infermiera! — Ero infermiera anch'io, un tempo — disse Judith. — Ma non ho mai avuto a che fare con malati di mente. Non credo di possedere le doti necessarie. — Io invece credo di sì — ribatté Ernest fissandola a lungo negli occhi. — Ho l'impressione che siate una delle poche persone che sanno condividere i dispiaceri altrui ed è questa la cosa più importante. Lei scosse la testa ridendo e continuando a giocherellare col suo topazio. — Ne ho già abbastanza dei miei a cui pensare! — Ma lo disse in tono un po' frivolo, come se quelle parole non avessero un significato particolare. — Se mai tornassi a fare l'infermiera, sarebbe soltanto per avere un lavoro. Da quanto tempo è malata vostra moglie, signor Nixey? — Quasi quattro anni, ormai. Ma se ripenso" al passato, mi rendo conto che i primi sintomi erano apparsi già da molto tempo, anche se allora non vi avevo dato importanza. Pensavo che fosse soltanto un po' distratta e che col passare degli anni fosse diventata un pochino eccentrica, forse anche per il fatto di non avere avuto figli. Quando ci siamo sposati, li desiderava moltissimo ed era stata terribilmente delusa e amareggiata quando aveva saputo di non poter averne. — Io sono ben contenta di non avere figli — dichiarò Judith con improvvisa amarezza. — È una delle poche fortune che mi siano capitate. Lui parve stupito, come se non si fosse mai aspettato che una donna potesse dire una cosa simile. — Be', forse si può trovare consolazione in qualcos'altro — osservò, incerto. — È quel che dicevo sempre a mia moglie, cercando di convincerla a occuparsi con impegno di qualche cosa, la musica, per esempio. Ama molto la musica. È una delle poche cose che riescono ancora a destare in lei qualche reazione. Ma come vi dicevo, sono ormai quattro anni che è
completamente partita. Da principio ho temuto di dover lasciare il mio lavoro per badare a lei, non potevo sopportare l'idea di farla ricoverare in uno di quegli orribili ospedali psichiatrici statali. Sì, forse sono meglio di niente, ma c'è troppa promiscuità, i malati non vengono seguiti individualmente. Poi Guy, il dottor Lampard scoprì la Manstead House, che ha risolto il mio problema. Conoscete il dottor Lampard, signora Partlett? — Sì, certo. — Ah sì, dimenticavo! Siete vecchi amici, vero? Un uomo eccezionale, non vi pare? Quando gli dissi che avrei dovuto lasciare il posto non volle saperne. Mi disse di prendermi pure tutto il tempo necessario per sistemare le cose, poi mi trovò questa casa di cura e... Oh, mi aiutò in tutti i modi. Ma non vuole che si sappia che uomo è, buono, generoso, comprensivo. Un uomo davvero straordinario! — Davvero? C'era stata una sfumatura di sarcasmo nella voce di Judith ma Ernest Nixey non la rilevò. — Sì, lo dico e lo penso — ribatté in tono grave. — Non sono molti quelli dei quali si potrebbe dire lo stesso. Un uomo veramente buono. Un po' brusco, a volte, perché non si rende esattamente conto dell'effetto che fa sugli altri. E a volte un po' troppo autoritario. Ma è pur sempre l'uomo migliore che io abbia mai conosciuto. Emma si allontanò e raggiunse Irene Carver e il colonnello Branksome che stavano parlando di vacanze. Il colonnello sosteneva che in nessun posto si stava bene come a casa propria e lui non si sarebbe mai sognato di andar tanto in giro se non ci fosse stata sua moglie a trascinarlo in viaggi orribili e faticosi e Irene ribatteva che il suo desiderio più vivo sarebbe stato quello di viaggiare, ma come avrebbe potuto farlo con tre bambini piccoli? Emma riempì i loro bicchieri e gironzolò per la sala finché non si trovò accanto a Roger che in quel momento era solo e si guardava intorno con espressione un po' preoccupata. — Hai notato una cosa? — le mormorò. — Sam Partlett è sparito. 4 Probabilmente era andato in bagno, suggerì Emma. — In tal caso, ce ne mette di tempo! — Lo hai visto andarsene? — No, ma è un bel po' che non lo vedo.
— Forse si annoiava e se n'è andato. — È possibile. — In ogni caso, Judith sembra contentissima. Se l'intende benone con Ernest. — Pensi che non si sia accorta della scomparsa di Sam? — Se lo ha notato non se ne preoccupa affatto. Può darsi che ci sia abituata. Pensi che dovrei dirle qualcosa? Roger cercò con gli occhi Judith. Si era allontanata da Ernest e ora stava parlando con Irene Carver. Maureen intanto cercava di intavolare una conversazione con Bill. Emma aveva già notato che pareva interessarsi a lui, quasi al punto di corrergli dietro, benché fino a quel momento, per quanto ne sapeva Emma, lui non l'avesse mai minimamente incoraggiata. — Penso che sia meglio aspettare ancora un po' e vedere che cosa succede — disse Roger. — Se Sam non dovesse ricomparire prima che lei decida di andar via, naturalmente sarebbe un po' difficile fingere che non ti sei accorta di niente, ma per il momento non mi sembra che sia il caso di metterla in allarme. — Mi pare che l'abbia notato anche lei — osservò Emma. — Vedo che si guarda intorno. Judith stava ancora chiacchierando con Irene, ma non era più disinvolta e sorridente come pochi minuti prima. Si guardò intorno per qualche momento con la fronte aggrottata poi tornò a guardare Irene, ma era chiaro che non udiva una parola di ciò che questa le diceva. Dopo un poco, con uno sforzo quasi disperato, riprese a parlare ed Emma la udì accettare un invito a colazione per un giorno della settimana seguente. Scambiò ancora qualche parola con la signora Branksome, promettendole che si sarebbe certo iscritta a una delle sue associazioni, poi si congedò. Emma l'accompagnò alla porta, dove Judith si fermò un momento frugando nella borsetta alla ricerca delle chiavi di casa. — È stata una splendida serata, ti ringrazio tanto — disse col tono di una bambina bene educata cui era stato insegnato che è ciò che si deve dire dopo una festa. — Sei stata molto gentile a invitarci. Ma sono un po' preoccupata per Sam. Forse non si sentiva bene ed è sgattaiolato via senza dir nulla per non disturbare, ma è meglio che vada su a vedere. Di nuovo tante grazie. Dovete salire a bere qualcosa con noi, una sera, quando saremo sistemati del tutto. Aprì la porta, uscì e se la richiuse piano alle spalle, ma poi Emma la udì salire di corsa la scala, come se il freno dell'autocontrollo le si fosse im-
provvisamente spezzato. Poco dopo la compagnia si sciolse e uno dopo l'altro se ne andarono tutti. Sorseggiando un ultimo brandy, Emma e Roger sedettero vicini sul divano: lui le passò un braccio attorno alle spalle e lei gli si rannicchiò contro con un sospiro. Era troppo stanca per mettersi a riordinare, disse; ci avrebbe pensato la signora Hawse l'indomani mattina. La casa pareva immersa ora in un silenzio innaturale, come accade sempre dopo una festa. I mobili erano stati spostati e sembravano sperduti così fuori posto, in quella patetica atmosfera da giorno dopo. — Chissà che ne è stato di Sam — mormorò Emma. — L'ultima volta che l'ho visto, pareva che avesse una discussione piuttosto accesa con Bill Carver, tanto che ho pensato se non fosse il caso d'intervenire, poi qualcuno si è messo a parlare con me e mi è uscito di mente. — Non era affar tuo, comunque — osservò Roger. — Hai già fatto fin troppo per loro. Aveva appena finito di parlare quando squillò il campanello dell'ingresso. Imprecando sottovoce, Roger andò ad aprire e un attimo dopo tornò con Judith, di nuovo con la sua vestaglia a fiori e quel vago profumo di buon sapone come se avesse appena fatto un bagno. — Perdonatemi, non avrei voluto disturbarvi — disse in fretta mentre Emma si alzava dal divano — ma non ce la facevo più a restarmene là seduta ad aspettare senza sapere che cosa può essergli accaduto né in quale stato sarà quando tornerà a casa. Mi vergogno terribilmente di venire a disturbarvi ancora, ma che cosa posso fare? — Hai un'idea di dove possa essere andato? — domandò Roger. — Pensi che sia andato al bar? — È molto probabile, non credi? Dove altro sarebbe potuto andare? — Vado io a cercarlo, se vuoi. Non ci vorrà molto. — Oh, non posso davvero chiederti tanto — protestò lei in fretta ma senza troppa convinzione. — Bene, vado, allora. Spero che non abbia preso l'automobile, perché in tal caso chissà dove potrebbe essere ora! — Non credo che sarebbe riuscito a tirarla fuori dalla rimessa, con tutte le altre macchine nel viale — fece notare Judith. — Bene, vedo se l'auto è nella rimessa poi faccio un salto al White Hart e al Dolphin — disse Roger e uscì. Tornò dopo un paio di minuti. L'auto era là, disse, perciò lui sarebbe an-
dato a cercare Sam nei due bar di King's Weltham e se lo avesse trovato, avrebbe fatto il possibile per riportarlo a casa. Judith mormorò ancora qualche scusa poi, mentre Roger usciva di nuovo, si abbandonò su una sedia nascondendo il viso fra le mani. Tanto per fare qualcosa mentre aspettavano, Emma si mise a mettere un po' in ordine la stanza. Dopo un poco Judith abbassò le mani e la guardò. — Non devi preoccuparti, sai — mormorò. — Ce ne andremo via di qui. — E dove? — ribatté Emma. — Non lo so, ma non possiamo continuare a darvi tante seccature. Emma era incline a convenirne con lei, ma non disse nulla. — Abbi soltanto ancora un po' di pazienza, finché non trovo qualcos'altro... — Ma certo, troveremo qualcosa... — Sei molto buona. — Forse ti stai preoccupando senza motivo — riprese Emma. — Probabilmente Sam si annoia a riunioni come quella di stasera e tutto sommato non so dargli torto. — Ha torto marcio, invece. È stato un maleducato. — La festa era per te, volevo farti conoscere un po' di gente. Lui non c'entrava. — Lo so e non ti ringrazierò mai abbastanza. Non so quanti altri avrebbero fatto altrettanto. — Se Sam non se l'è sentita di restare, non importa. Ma ora vedrai che Roger lo riporta presto a casa. Ma importava, e come, bastava vedere l'apprensione che offuscava lo sguardo di Judith. E quando Roger tornò, dopo un quarto d'ora, Sam non era con lui. — Non l'ho trovato né al White Hart né al Dolphin — disse. — Non lo avevano visto in tutta la sera. Si direbbe che sia andato a fare una passeggiata solitaria, anche se il tempo non è dei più invitanti. Viene giù una pioggerella noiosa e si sta levando il vento. Ha l'abitudine di andarsene a spasso da solo? — Qualche volta lo fa. Gli piace moltissimo camminare. Di solito va e torna dal laboratorio a piedi. — Potrebbe essere andato là, allora — suggerì Emma. — Forse ha in corso qualche esperimento e voleva dargli un'occhiata. — Può darsi — mormorò Judith. — Non mi parla mai del suo lavoro. — Si alzò, scostandosi dal viso i capelli ricciuti. — Ma probabilmente non c'è
alcun motivo di preoccuparsi. Mi dispiace di essermi lasciata prendere dal panico ed essermi precipitata giù da voi un'altra volta. Avevo giurato a me stessa che non lo avrei fatto più. Non ho l'abitudine di seccare gli altri con i miei problemi, ma a volte si prova il desiderio irresistibile di sfogarsi con qualcuno. E non sapete quanto vi sono grata per non avermi dato consigli. I consigli servono soltanto a irritarti e confonderti le idee. Bisogna sbrogliarsele da sé, le proprie faccende, anche a costo di continuare a commettere errori spaventosi. — Judith si avviò alla porta. — Buonanotte. Non vi piomberò più addosso in questo modo. — Vieni quando vuoi, invece — disse Emma. — Ti ringrazio, ma non lo farò più davvero. Buonanotte. Roger l'accompagnò alla porta e dopo un momento l'udì salire la scala. Tornato in soggiorno, riprese il suo brandy, che aveva lasciato a metà quando era uscito a cercare Sam, sedette di nuovo sul divano e passò ancora il braccio attorno alle spalle di Emma che si era rannicchiata contro di lui. — Secondo me quella donna è sull'orlo di un collasso — osservò. — E tu, se non ci stai attenta, te la ritroverai sulle braccia. — Un'altra delle mogli sfasate di King's Weltham — commentò lei, posandogli la testa sulla spalla. — Sai che ho udito Ernest raccontarle tutta la storia di sua moglie? Sembrava profondamente attratto da lei. Che sia proprio l'instabilità mentale ad attirarlo, senza che lui se ne renda conto? — È molto probabile. È lui stesso un po' negativo e forse questo lo porta a preferire inconsciamente le persone che lo fanno sentire forte e capace. — Il guaio è che non la finiva più di dirle che uomo meraviglioso è Guy e non credo che questo le sia piaciuto molto. Roger bevve un sorso di brandy. — Emma, ho un appuntamento con Guy domani alle quattro. Gli dirò che ho intenzione di trasferirmi ad Adelaide. Lei si spostò leggermente nel cerchio del suo braccio, ma non sollevò la testa dalla sua spalla. — Sicché hai deciso, dunque — mormorò. — Vieni con me. — Andrai lo stesso se io non vengo? — È probabile. — Pochi giorni fa hai detto che non saresti andato. — Ci ho ripensato. — Come mai?
— Ne abbiamo già discusso tante volte, Emma. Qui sono in un vicolo cieco, ormai. Finirei per fossilizzarmi. E non risolveremmo mai il nostro problema. Tu non arriverai mai a decidere fino a che punto mi ami. Tireremmo avanti così, continuando a rimandare, fino al giorno in cui ci accorgeremo che ormai è troppo tardi e che a nessuno dei due importa più niente dell'altro. — Non vedo perché dovrebbe essere così. Posso continuare ad amarti qui come ad Adelaide. — Chissà! Qui c'è una difficoltà particolare. Stavolta Emma si staccò da lui, spostandosi fino all'estremità del divano. — So che cosa stai per dire — ribatté. — Finiamo sempre lì, prima o poi. Guy, intendi. Roger non rispose subito. — Non te l'ho mai chiesto — mormorò finalmente, senza staccare lo sguardo dal suo bicchiere. — Sei mai stata a letto con lui? — Una volta. — Come mai una volta sola? — Ci rendemmo conto entrambi che non era quel che volevamo. — Però continui a restare aggrappata a lui. Non sei sicura di te stessa senza di lui. Sei convinta che sia stato lui a fare di te quello che sei. — Forse è proprio così. — E allora il miglior complimento che potresti fargli in cambio è dimostrargli che sai camminare con le tue gambe. — Lo so, ma se non ne fossi capace? — Provaci, Emma! — E dopo una lunga pausa, Roger ripeté sottovoce: — Vieni via con me. Emma emise un profondo sospiro, quasi pronta a dargli la risposta che lui desiderava e còlta tuttavia da una fitta di panico di fronte alla gravità del passo che stava per fare e al pensiero che tra un momento avrebbe accettato di mutare completamente il corso della propria vita, ma proprio allora il rumore di un'automobile nel viale le fece girare di scatto la testa. Si udì sbattere la portiera poi qualcuno attraversò con passo malsicuro l'ingresso fino alla porta che dava sulla scala, si udì lo scatto della serratura e infine lo stesso passo pesante risonò sui gradini. L'automobile si allontanò. — Era la macchina di Guy — disse Roger. — Ha riportato a casa Sam. — Ecco dunque dov'era andato... da Guy! — esclamò Emma. — Ma che cosa ci sarà andato a fare? Non aveva finito di parlare quando dal piano di sopra venne un trepestìo
di passi in corsa, un tonfo come se si fosse rovesciata una seggiola poi uno strillo acuto. — Oh maledizione, non ricominceremo! — proruppe Roger infuriato, soprattutto perché si rendeva conto che quell'interruzione gli aveva fatto perdere l'occasione propizia proprio nel momento in cui Emma stava per arrendersi. Lei frattanto era balzata in piedi e stava dirigendosi verso lo scrittoio dove teneva un'altra chiave dell'appartamento di sopra. — Dobbiamo fermarli! — gridò. — Non possiamo permettere che si ripeta quel che è accaduto l'altra volta! — Aspetta un momento! — Anche Roger si era alzato e ora stava in ascolto, gli occhi rivolti al soffitto. Dopo il grido, si era fatto il silenzio assoluto. Non si udiva più nemmeno rumore di passi. Emma e Roger aspettarono, ma il silenzio continuò. Un silenzio che sembrava persino innaturale. Emma si rese conto che stava trattenendo il respiro. Finalmente Roger disse asciutto: — Speriamo che non ricomincino. Io, comunque, torno a casa. Riprenderemo il discorso alla prima occasione. La mattina seguente Emma giunse all'istituto alla sua solita ora, sedette alla scrivania e prese subito a lavorare alla sua relazione. Era andata avanti molto bene negli ultimi giorni e forse, pensò, sarebbe riuscita a finirla prima di sera. Per quanto concerneva la prima stesura, naturalmente. Poi avrebbe dovuto riscriverla da cima a fondo, ma prima voleva mostrarla a Guy e discuterne con lui. Quel pensiero le riportò alla mente ciò che aveva detto Roger la sera avanti ed Emma fu indotta a chiedersi se in quell'osservazione non avesse maggior fondamento di quanto lei non fosse mai stata disposta ad ammettere. Il risultato fu che rimase per una quantità di tempo a fissare come un'ebete il foglio bianco che aveva davanti, senza più riuscire a scrivere una riga. Allora si alzò, infilò di nuovo il cappotto e tornò a casa. Appena arrivata, telefonò al parrucchiere e fissò un appuntamento per il pomeriggio, poi sedette alla scrivania a firmare gli assegni per saldare alcuni conti che le si erano accumulati. Ogni tanto stava ad ascoltare se dal piano superiore venisse qualche rumore, almeno l'eco di un passo, ma di sopra regnava il silenzio più assoluto. Emma ebbe la tentazione di andare a suonare il campanello dei Partlett: se avesse risposto qualcuno, avrebbe potuto dire che stava per andare a
Crandwich e chiedere se avevano bisogno di qualcosa. Non era necessario far capire che era stata in ansia. Ma se non avesse risposto nessuno? Non poteva certo entrare in casa usando la propria chiave. Per quanto ne sapeva, Judith e Sam potevano essere semplicemente usciti per qualche spesa o per andare al ristorante a Crandwich: non poteva certo correre il rischio di farsi sorprendere a curiosare in casa loro! Sforzandosi di ignorare quel silenzio, passò finalmente in cucina a farsi un panino e una tazza di caffè poi se ne andò dal parrucchiere. Non le accadeva spesso di prendersi qualche breve vacanza infrasettimanale, di solito osservava puntigliosamente l'orario d'ufficio, ma quel giorno sentiva il bisogno di riflettere in pace su ciò che le aveva detto Roger la sera avanti. Più o meno consciamente, sapeva che avrebbe finito per dirgli di sì e il pensiero di un mutamento così profondo nella sua esistenza continuava a darle un senso di panico. Forse sarebbe stato molto più facile se lei fosse stata più giovane, ma aveva lavorato per vent'anni, con gioia e soddisfazione, e la prospettiva di ritrovarsi a non avere più niente da fare, l'atterriva. La seduta sotto il casco servì a distenderle i nervi. Le fece piacere guardarsi allo specchio e vedersi con i capelli grigi pettinati con arte e raccolti in una morbida crocchia sulla nuca. Visto che stava per accettare una proposta di matrimonio, pensò con un lieve sorriso alla propria immagine, tanto valeva che lo facesse col suo aspetto migliore. Pagò il conto, lasciando una bella mancia alla ragazza che l'aveva pettinata, e tornò all'istituto. Entrando in laboratorio, diede un'occhiata all'orologio elettrico alla parete e vide che erano le tre e venti, quasi l'ora del tè. Bene, sarebbe andata in sala, pensò Emma, e se avesse trovato Roger gli avrebbe proposto di tornare subito a casa perché aveva qualcosa di molto importante da dirgli. Poi ricordò che Roger aveva un appuntamento alle quattro con Guy per annunciargli la propria intenzione di dimettersi. Così, le loro questioni personali avrebbero dovuto aspettare un altro po'. Peccato, ma non c'era niente da fare. Emma fu presa a un tratto da una strana eccitazione. Si sentiva quasi intimorita all'idea di incontrarsi con Roger nella saletta dove si erano trovati quasi ogni giorno per sette anni e al tempo stesso le riusciva quasi insopportabile l'idea di dover aspettare ancora qualche minuto prima di poter andarvi. Si stava avviando alla porta quando questa si aprì ed entrò nel laboratorio Sam Partlett. Forse le lesse in viso quanto poco gradisse una visita in quel momento
perché si affrettò a dire: — Scusami, Emma, ti disturbo? Volevo soltanto scusarmi con te. Era più pallido del solito, col viso lievemente gonfio come accade spesso dopo una sbornia solenne. — Per ieri sera? — ribatté Emma. — Non preoccuparti! — Mi preoccupo sì, invece, e voglio che tu lo sappia. So di essere stato maleducato, ma ho avuto paura di quel che sarebbe potuto accadere se fossi rimasto. Quel maledetto Carver! Mi detesta con tutta l'anima e ci tiene a farmelo sapere. Non mi dà pace. Ha cercato in tutti i modi di farmi perdere le staffe. E tu sai come finisce quando le perdo. Non volevo correre il rischio di rovinarti la serata. Era il primo, larvato accenno che lui facesse a quanto era accaduto quella sera, quando Judith si era precipitata da Emma a chiedere aiuto. — Sì, capisco, ma non è davvero il caso che ti preoccupi — ripeté Emma che non vedeva l'ora di liberarsi. Ma ora che aveva cominciato, Sam era risoluto a continuare. — Non so come, aveva saputo quel che avevo fatto quella sera, penso che glielo avesse detto Hawse. Non ne ha parlato apertamente, ma ha cominciato a fare commenti su quello che certe donne arrivano a sopportare e intanto mi fissava con quella sua maledetta aria di scherno per accertarsi che capissi l'allusione. A un certo punto mi sono reso conto che stavo per perdere il controllo e me ne sono andato. Da principio pensavo di fare soltanto quattro passi per calmarmi e poi tornare, ma avevo troppi pensieri per la testa, così ho finito per rifugiarmi da Guy. Volevo dirgli che l'idea di venire al King's Weltham non era stata molto brillante e che quanto prima me ne fossi andato, tanto meglio sarebbe stato per tutti. — Vuoi dire che stai pensando sul serio di andartene? — domandò Emma sorpresa. — Di già? — Be', no — mormorò lui imbarazzato. — Lo pensavo quando sono andato da Guy, ma dopo lui mi ha dissuaso. Abbiamo bevuto qualcosa e Guy mi ha convinto a fare un altro tentativo. Ero certo che non sarebbe riuscito a farmi cambiare idea, ma sai quanto sappia essere persuasivo, quando ci si mette. — Poi ti ha riaccompagnato a casa, vero? — Mi hai sentito? E hai sentito quel che è accaduto dopo. Be', lascia che te lo dica, Judith a volte sa rendere pan per focaccia. È forte quanto me e ieri sera era fuori della grazia di Dio perché, diceva, ero stato villano con te.
— Allora sei stato tu a gridare? Mi era sembrata una voce femminile. — Oh, quella strilla per niente, a volte soltanto perché è in collera. — Gli occhi grigi di Sam scrutavano ansiosi il viso di Emma. — Non mi credi? — Non ha molta importanza chi sia stato a gridare — ribatté asciutta Emma. — Mi sembra che facciate entrambi del vostro meglio per rovinarvi l'esistenza. — Non hai molta simpatia per noi, vero? — Sai indicarmi un motivo perché dovrei averne? Lui la guardò con quel suo sorriso improvviso e accattivante che gli trasformava completamente il viso. — Io ho molta simpatia per te... non ti sembra un buon motivo? Non ho legato molto con gli altri, qui dentro, ma tu mi piaci. E Judith ti giudica meravigliosa. — A me invece non piacciono le coppie che si prendono a pugni nel bel mezzo della notte, di chiunque sia la colpa — dichiarò Emma. — Ehi, ma non capita certo tutti i giorni! È stato un caso malaugurato che sia accaduto l'altra settimana. Erano anni che non accadeva niente del genere. — Da quando avevi smesso di vederti con Guy? Sam inarcò le sopracciglia, sorpreso. — Può darsi... non lo ricordo esattamente. Comunque, era moltissimo tempo. — Quante volte è accaduto, in tutto? — Lo sa il cielo. Certo, se Judith avesse un po' di buon senso, mi avrebbe piantato. Lo ha fatto, un paio di volte, ma è sempre ritornata. — Perché tu minacciavi di ucciderti se non fosse tornata, è così? — Ma non lo avrei fatto, naturalmente, e lei lo sa. — Una volta però hai tentato, mi pare. E così che vi siete conosciuti, no? Sam si strinse nelle spalle. — Temo di avere un'eccessiva tendenza al melodramma. In realtà, sapevo che da un momento all'altro sarebbe entrato in quella stanza Guy. Solo che lui è arrivato un po' più tardi del previsto e per poco non è accaduto l'irreparabile. È stata un'esperienza terribile ma molto interessante. Ho imparato che cosa significhi trovarsi tra la vita e la morte. — È stata dunque soltanto una messinscena? — Sì e no. Forse meno di quanto mi fossi indotto a pensare io stesso subito dopo. Emma lo scrutò un momento, assorta, chiedendosi quanto dovesse cre-
dere di quelle parole. — Quale si ritenne che fosse stato il motivo che ti aveva spinto a quel gesto? — domandò poi. — Oh, soltanto Weltschmerz, noia del mondo. — E il motivo vero? Sam esitò un poco prima di rispondere. — Forse quello di fare un esperimento con la morte. Siamo tutti qui, in un posto come questo, indaffaratissimi a fare esperimenti d'ogni genere, ma esiste un problema sul quale nessuno di noi si preoccupa d'indagare: l'interrogativo finale. — Dubito che qualcuno di noi possieda le qualifiche necessarie! — Oh, tutti le possediamo! A tutti è stata assegnata una determinata morte. — Non è che desideravi soltanto far colpo su Guy e sugli altri? — Può darsi. — La sera avanti avevi quasi ucciso una ragazza, mi hanno detto. — Be', sì, anche quello ha avuto la sua parte. Il senso di colpa ti spinge a desiderare la punizione. Hai mai provato un grave senso di colpa? Emma stava per rispondere che sì, certo, lo aveva provato, capita a tutti una volta o l'altra, ma poi si domandò se questo fosse vero nel senso che intendeva Sam. Lei aveva provato rimorso per qualche atto di lieve crudeltà dovuto a leggerezza più che a cattiveria, aveva provato vergogna per errori dovuti a egoismo o a insensibilità, ma niente aveva mai generato in lei il desiderio di mettersi un cappio intorno al collo. — Andiamo a prendere il tè — suggerì. — Il tè avanti tutto — commentò Sam con una lieve smorfia. — E va bene, andiamo. Si spostò di lato, tenendo la porta aperta per far passare Emma poi si avviò con lei lungo il corridoio. Nell'atrio, Arthur Hawse sedeva nel suo cubicolo a vetri leggendo un settimanale, segno evidente che era già stato a prendere il suo tè con la signora Fallow e i tecnici nella saletta tanto più allegra di quella riservata al personale scientifico. Questa era già discretamente affollata, ma Emma scorse subito Roger che proprio in quel momento stava consultando l'orologio e questo la indusse a guardare automaticamente il proprio. Mancavano dieci minuti alle quattro. Emma si domandò se Roger non si fosse ricreduto, se all'ultimo momento non si fosse reso conto che dopo tutto non desiderava affatto dimettersi
e non stesse cercando qualche altro argomento di cui discutere con Guy, a esempio la possibilità di ottenere maggiori fondi per le sue ricerche. Roger aveva il viso lievemente contratto come se riflettesse, ma questo in realtà non significava niente: queir espressione era così abituale in lui che Emma si sarebbe preoccupata soltanto se non gliel'avesse vista. Maureen Kirby le portò una tazza di tè. Indossava come al solito un maglioncino attillatissimo e una gonna voluminosa che accentuavano l'opulenza della sua figura. — È stata una riunione piacevolissima quella di ieri sera, dottoressa Richtie — disse. — Mi sono divertita molto. Emma pensò che probabilmente si era annoiata a morte, invece, tra coppie sposate e persone anziane. E se si era divertita davvero, questo poteva significare soltanto che non aveva amici della propria età e si sentiva molto sola. — Grazie, sei molto gentile — disse. — Devi venire qualche altra volta. Forse riuscirò a trovare altri ospiti giovani come te. — Oh, a me piace la gente di una certa età — ribatté pronta Maureen. — Mi piace la gente che ha esperienza della vita e non ha bisogno di fingere di sapere tutto mentre non sa assolutamente niente! Il colonnello Branksome e sua moglie, a esempio, mi sono piaciuti moltissimo. Sembrava sincera, eppure c'era stato nel suo tono uno zelo un po' eccessivo che Emma trovò persino patetico. Le sembrò di scorgere sul suo viso placido e roseo una tensione che non le aveva mai vista. Forse perché non si era mai presa il disturbo di osservarla bene? O forse perché Guy l'aveva trattata male, in uno dei suoi subitanei accessi di malumore? E se era così, come avrebbe accolto ora Roger? — Vivi sola a Crandwich? — domandò. — Non abiti coi tuoi genitori, vero? — Be', non proprio. Loro abitano a Londra e ci vado quasi sempre per il fine settimana, ma a Crandwich ho la nonna. Il babbo e la mamma viaggiano molto per lavoro. E la nonna è una donna meravigliosa. Non dimostra affatto i suoi settantacinque anni. Ha una villetta piccola ma molto graziosa e per me è una bella fortuna poter stare con lei invece di essere costretta a vivere in una malinconica stanza ammobiliata. Emma annuì con aria comprensiva. Ma tutto sommato, pensava intanto, la realtà era che Maureen non aveva mai avuto una vera vita familiare e questo spiegava forse la sua espressione vagamente infelice, in contrasto con l'impressione di sana e fresca giovinezza che se ne aveva a tutta prima.
E un principale difficile come Guy, con i suoi sbalzi d'umore e la sua costante ironia, non contribuiva certo a migliorare la situazione. Emma vide Roger guardare un'altra volta l'orologio. Evidentemente voleva essere puntuale con Guy, qualunque fosse l'argomento che intendeva trattare con lui. Sam Partlett si era seduto in un angolo, tutto solo, come se non desiderasse parlare con nessuno o fermarsi più a lungo di quanto fosse strettamente necessario per bere la sua tazza di tè. Ma dopo qualche minuto Ernest Nixey gli si avvicinò e prese a chiacchierare affabilmente con lui. Bill Carver osservò per un attimo la scena con espressione sardonica, poi si avvicinò a Emma. — Penso di dovermi scusare con te — disse. — Credo che sia stata colpa mia se il tuo Partlett è scappato dalla festa, ieri sera, ma non l'ho fatto apposta. Mi pareva che andasse tutto per il meglio, chiacchieravamo del più e del meno quando lui mi ha girato a un tratto le spalle, e se n'è andato. Se è stata colpa mia, ti prego di perdonarmi. — Oh Bill, quando la smetterai di fingere? Non so che cosa gli stessi dicendo ieri sera, ma so che lo detesti cordialmente e fai il possibile perché se ne renda conto. Ma non ne ricaverai alcun vantaggio, sai? Sam è stato assunto regolarmente ed è meglio che ti abitui all'idea. — Tu credi che rimarrà qui? — domandò Bill. — Io no. — Che cosa te lo fa pensare? — Qualcosa che sua moglie ha detto a Irene ieri sera. Tra parentesi, Irene l'ha invitata a colazione e questo sarà un po' un problema perché anche se non ha niente contro di lei, non sarà tanto facile essere cordiali con la moglie quando non si vuole avere niente a che fare col marito, ti pare? Ma a Irene piace tanto organizzare colazioni per le mogli. Dice che la vita di società è inesistente, qui, e lei morrebbe letteralmente di noia se ogni tanto non inventasse qualcosa del genere. — Non è il caso che ti preoccupi, penso — ribatté Emma. — Judith non ricambierà l'invito e la cosa finirà lì. — E perché non dovrebbe ricambiare l'invito? — protestò Bill come se un'eventualità simile gli sembrasse un insulto. — Ha una vita privata piuttosto difficile, che probabilmente non l'incoraggia molto a diramare inviti. Ma che cos'ha detto ieri sera a Irene per indurti a pensare che non intendano restare qui? — Be', non molto se vogliamo, soltanto che Sam non riesce a restare a lungo in nessun posto e che lei del resto non va pazza per la vita in campa-
gna. Le piacerebbe tornare a Londra e trovarsi un posto in qualche grande ospedale. Secondo Irene, Judith probabilmente pensa che se lei avesse un lavoro, il suo stipendio potrebbe bastare per entrambi e Sam sarebbe libero di fare ciò che preferisce. — Potrebbe trattarsi soltanto dell'adempimento di un desiderio che Judith ha sempre accarezzato — commentò Emma. — E secondo me è proprio così. — Allora pensi che Sam resterà qui? — Per un certo tempo, almeno. — Forse hai ragione. — Bill guardò verso l'angolo dove Ernest Nixey stava parlando animatamente a Sam, con quella sua irruente cordialità che tradiva il suo disperato bisogno di compagnia, mentre pareva che Sam si stesse chiedendo spazientito come liberarsi di lui. — Comunque, non credo di essere tenuto a incoraggiarlo perché rimanga — riprese. — Ernest fraternizzi pure con lui, se gli fa piacere. Ma Ernest fraternizza con tutti, del resto. Persino con Lampard. E a proposito di Lampard, vorrei chiederti una cosa, Emma. Finché sarà lui il direttore, qui, io non avrò alcuna speranza di avanzamento, me lo ha fatto capire chiaramente lui stesso. Il posto che ha dato a Partlett, praticamente lo aveva promesso a me, quando sono venuto qui. Presto ci sarebbe stato un posto libero perché Bushell stava per andare in pensione, mi disse, e anche se non potrei affermare che lo promise esplicitamente a me, era chiaro che questo era il senso del discorso. Così sono venuto all'istituto, ma dopo i primi due o tre mesi quando tutto sembrava andare a gonfie vele, non ho trovato altro che delusioni. Forse lo avrò urtato in qualche modo, immagino, ma il fatto è che non ci sono mai fondi per le mie ricerche, per me non ci sono prospettive e il posto sul quale contavo è andato invece al suo amico Partlett. Sicché ora sto pensando di cercare lavoro da qualche altra parte, ma il guaio è che per qualsiasi domanda avrò bisogno delle referenze di Lampard. Ed è questo che ti volevo chiedere: pensi che avrà la correttezza di fornirmi referenze favorevoli o che coglierà l'occasione per darmi un bel calcio in faccia? — Vorrei tanto che la gente smettesse di pensare che io sappia leggere nella mente di Guy — sospirò Emma. — Sicché non credi che potrei contare sul suo appoggio? Il guaio era che nemmeno lei avrebbe potuto azzardare previsioni. Non sapeva assolutamente come avrebbe potuto reagire Guy. Non ignorava che Bill Carver gli era antipatico, soprattutto per l'alta opinione che egli aveva di se stesso, ma se poi sarebbe arrivato fino a rovinargli qualsiasi possibili-
tà di avanzamento, se gliene fosse capitata qualcuna, questo Emma non avrebbe potuto dirlo. C'era nel carattere di Guy un lato estremamente capriccioso che poteva indurlo a essere di volta in volta una perfetta carogna o un uomo di generosità rara. — Non credo che arriverebbe a farti del male — rispose dopo un poco. — Quando si tratta di giudicare l'opera di qualcuno, è sempre abbastanza obiettivo. In quel momento Roger si alzò. Scambiò una lunga occhiata con Emma, poi attraversò la sala e uscì. — Naturalmente quello che non può soffrire in me è che non mi sono mai abbassato a leccargli gli stivali — riprese Bill. — Ma forse potrebbe fargli piacere liberarsi di me... Un'improvvisa esplosione di grida acutissime gli impedì di continuare. Erano grida di donna, stridule, laceranti, provenienti dalla scala che portava all'ufficio di Guy Lampard. Per un attimo regnò nella sala un silenzio attonito, poi tutti si precipitarono verso la porta. Qualcuno urtò il braccio di Emma facendo schizzare sul pavimento il tè della sua tazza. Emma la posò con cura poi uscì con gli altri e si fermò ai piedi della scala, guardando in alto. La porta dell'ufficio di Guy era aperta e sulla soglia stava una donnina tutta vestita di nero che Emma non aveva mai vista. Era lei che gridava, ma mentre tutti uscivano dalla sala, si portò le mani alla bocca e ammutolì a un tratto, però rimase ferma dov'era, ondeggiando un poco. Arthur Hawse, che saliva i gradini due alla volta, era già a mezza scala. Qualcuno cercò di trattenere Emma, ma lei si liberò e corse dietro ad Arthur. Se ne pentì subito, perché lo spettacolo che si presentò ai suoi occhi nella stanza di Guy era qualcosa di terrificante. Guy, seduto dietro la scrivania, era piegato su un fianco, con la testa ciondoloni su una spalla, la gola attraversata da un orecchio all'altro da uno squarcio orrendo e il petto inondato dal fiotto di sangue che ancora sgorgava dalla ferita in un lucente rivolo purpureo. Alle sue spalle stava immobile Roger, con le mani sporche di sangue e, stretto nella destra, un rasoio aperto e insanguinato. 5 Arthur Hawse ridiscese a precipizio la scala e corse nel suo sgabuzzino per telefonare alla polizia.
Con lo sguardo fisso su Guy, Roger pareva non rendersi conto del rasoio che stringeva in mano. Finalmente lo posò sulla scrivania e si diresse verso la porta, come un automa, le mani insanguinate tese davanti a sé. La donna in nero si ritrasse inorridita, come se temesse di essere toccata e lui la guardò sconcertato. Forse la vedeva solo in quel momento. Fermandosi sulla soglia, si rivolse poi ai colleghi radunati nell'atrio e sulla scala. — È meglio che torniamo tutti in sala ad aspettare la polizia. Fece un passo avanti ma Ernest Nixey, che era vicino a Emma, si lasciò sfuggire un'esclamazione. — Le tue mani, Roger! — Oh sì! — mormorò lui guardandole. — Aspettate un minuto. Oltrepassò la donna in nero, salì la breve rampa di scale che portava al corridoio dove si trovavano la biblioteca e il suo laboratorio e scomparve. Gli altri si attardarono ancora per qualche momento nell'atrio poi tornarono l'uno dopo l'altro nella sala comune mentre Arthur si piantava sulla porta del suo cubicolo, come a far intendere che era risoluto a tener d'occhio la situazione. Emma sfiorò un braccio della sconosciuta che si girò di scatto trattenendo a stento un altro grido. Sembrava sulla cinquantina ma forse era soltanto il suo viso così emaciato e avvizzito anzitempo a farla apparire più vecchia di quanto non fosse in realtà. Il suo viso appuntito era tutto angoli aguzzi e di un pallore estremo, ma sarebbe stato difficile dire se quello fosse il suo colorito naturale o il risultato di ciò che aveva visto. Aveva gli occhi pesantemente truccati con ombretto verde, le labbra dipinte di rosso scuro e una sciarpa di chiffon nero sui capelli color rame, di una sfumatura troppo intensa per essere naturale. — Vi dispiace dirmi chi siete? — domandò Emma. — Sono la signora Fielding... Annette Fielding. — Aveva una voce profonda, un po' roca. — Era venuta a trovarlo... il dottor Lampard... e me lo sono visto davanti... così! — Lo conoscete... lo conoscevate? — Certo che lo conoscevo! Da anni e molto intimamente. — Vi aspettava? — Certamente. Se era la verità, Guy aveva fissato un appuntamento alla stessa ora con due persone, ma un tipo come lui sarebbe stato capacissimo di farlo. — Bene, sarà meglio che veniate giù con noi — riprese Emma. — Dobbiamo restare qui tutti finché non verrà la polizia. — Ma quell'uomo... l'assassino! — esclamò la donna accennando al cor-
ridoio dov'era sparito Roger. — Non intendete fare niente? — È poco probabile che sia lui l'assassino. È entrato nella stanza soltanto un momento prima di voi. — Non ci vuole molto per tagliare la gola a qualcuno! — La donna lo disse come se lo sapesse per esperienza. — E con tutto quel sangue che sgorgava ancora, il povero Guy doveva essere morto soltanto da qualche minuto. Se non fossi arrivata subito io, quell'uomo avrebbe potuto andarsene indisturbato! — Lasciamo che ci pensi la polizia. — Emma strinse risolutamente un braccio della signora Fielding e la trascinò via. Non riusciva a credere che una donna come quella avesse potuto contare qualcosa per Guy. Sapeva, naturalmente, che c'erano state diverse donne nella sua vita ma chissà perché aveva sempre pensato che si fosse trattato di donne giovani, esuberanti e, soprattutto, occasionali. Che quell'essere scheletrico fosse rimasto dietro le quinte per anni e che Guy non avesse mai accennato, nemmeno con lei, alla sua esistenza, le sembrava inconcepibile. Ma forse i loro rapporti non avevano mai avuto niente a che vedere col sesso, nonostante ciò che la stessa signora Fielding aveva cercato di far intendere. Forse era soltanto una parente, magari acquisita. Emma sapeva ben poco della famiglia di Guy, salvo il fatto che tutti i suoi parenti erano ricchissimi e che lui aveva sempre fatto il possibile per tenersene alla larga. Intanto cominciava a farsi strada in lei lo sgomento. Da principio era stata così intontita dal colpo che le era sembrato di non provare alcun dolore, ma a poco a poco andava rendendosi conto, ora, di ciò che avrebbe significato per lei la morte di Guy. Le era sempre stato vicino, l'aveva sempre aiutata. Aveva un grosso debito di gratitudine verso di lui. E naturalmente Roger aveva ragione quando diceva che lei si era troppo abituata ad appoggiarsi a Guy: non riusciva nemmeno a immaginare che cosa avrebbe fatto della propria vita se non ci fosse stato lui a incoraggiarla, a guidarla, talvolta persino a tiranneggiarla. A volte era stato anche insopportabile ma tutto sommato, in una certa maniera, lei lo aveva amato. Se ne rese conto a un tratto, quasi con sorpresa, e un'angoscia terribile le attanagliò il cuore, ma non era il momento per le lacrime. Nella sala affollata dove si erano formati piccoli gruppi attoniti e silenziosi, Emma dedicò la propria attenzione alla signora Fielding. — Gradite una tazza di tè? Temo che sia freddo, oramai, ma possiamo chiederne dell'altro.
— No, grazie, non disturbatevi. — La sconosciuta sedeva sull'orlo della seggiola, con le mani incrociate strettamente in grembo e lo sguardo fisso davanti a sé. — Dovrò aspettare qui, immagino, ma la polizia potrebbe benissimo venire a cercarmi all'albergo di Crandwich dove sono alloggiata. Mi riesce così... così penoso trovarmi qui in mezzo a tanti estranei e non potermi sfogare in alcun modo! Se potessi andarmene... — Sarà meglio che restiate, penso. La polizia non vi tratterrà oltre quando risulterà che siete salita dopo il dottor Challoner. — Oh, non sarà affatto così, vedrete. Cominceranno a farmi domande su domande e non la finiranno più! — La voce della signora Fielding si era fatta stridula e tremante. — Il portiere vi ha vista quando siete entrata? — Certo. Ci siamo anche salutati. — Gli avete chiesto dove si trovasse l'ufficio del dottor Lampard? — No, non ce n'era alcun bisogno. — Eravate già stata qui altre volte? — Naturale! Molto spesso. Emma era perplessa più che mai. Se la signora Fielding aveva avuto con Guy il genere di rapporto che pareva cercasse di mettere in risalto, come mai alloggiava in albergo a Crandwich e non in casa di Guy? Forse la sua governante, la vecchia Dorothy, non l'avrebbe vista di buon occhio e Guy non voleva contrariarla? Dorothy era sempre stata l'unica persona che potesse trattarlo decisamente male senza esserne ripagata di moneta anche peggiore, ma se la signora Fielding era stata la sua amante per anni, Dorothy doveva certo averlo saputo ed essersi ormai adattata alla situazione. E proprio io invece non ne avevo mai saputo niente, pensò Emma con una punta di amarezza. — Come siete venuta fin qui? — domandò. — In taxi? — In macchina — rispose la signora Fielding. — Sono arrivata a Crandwich da Londra, ho fissato una camera al George poi sono venuta qui. La mia auto è nel parcheggio. Oh mio Dio, ecco di nuovo quell'uomo orribile! Sento che mi rimetterò a gridare se si avvicina! Teneva gli occhi fissi alla porta dalla quale era appena entrato Roger. Si era lavato le mani ma le teneva scostate dalla persona come se il sangue vi avesse lasciato tracce indelèbili. — Penso che qualcuno dovrebbe restare fuori con Arthur — disse — perché la polizia non abbia a tormentarlo per scoprire se si è mai allontanato dal suo posto.
Il suo tono autoritario rammentò a Emma che Roger, quale vice direttore, era diventato ora il capo dell'istituto. — Giusto — convenne Ernest Nixey. — Vado io. Uscì in fretta dalla sala ma rientrò immediatamente. — Sono già arrivati — annunciò. — Roger, è meglio che vada tu a parlare con loro. Per il momento era arrivata soltanto un'automobile con un sergente e un agente. Attraverso la porta rimasta aperta Emma udì le loro voci e quella di Roger nell'atrio, poi le udì allontanarsi mentre i tre salivano la scala. Dopo un momento sopraggiunsero altre macchine e altri poliziotti invasero l'edificio. Emma, che aveva un tremendo mal di testa e si sentiva quasi venir meno, avrebbe desiderato poter bere qualcosa di più energico del tè freddo. Fosse stata nel suo laboratorio, pensò, avrebbe potuto farsi almeno una tazza di caffè, che sarebbe stato sempre meglio di niente, ma un poliziotto era già entrato in sala a chiedere che nessuno si allontanasse finché il sovrintendente Day non avesse deciso quali provvedimenti prendere, cosicché fu giocoforza rinunciare anche a quello. La signora Fielding, che si era finalmente messa comoda sulla sedia, si teneva una mano davanti agli occhi ma Emma vide che si mordeva le labbra come per impedire che tremassero. Maureen era andata a sedersi accanto a lei e le mormorava qualcosa, evidentemente con l'intento di farle coraggio mentre Bill Carver, al centro di un gruppetto, andava dichiarando con voce un po' troppo alta, date le circostanze, che l'omicidio era indiscutibilmente una cosa abominevole, che lui era sconvolto non meno di tutti gli altri ma che Guy Lampard se l'era proprio voluta. Ernest Nixey si era versato una tazza di tè, indifferente al fatto che fosse ormai freddo, e Sam Partlett si era rimesso nell'angolo dov'era seduto prima, con una sigaretta penzoloni fra le labbra contratte e l'espressione assorta come se rincorresse un pensiero che gli sfuggiva. Emma lo vide scuotere leggermente la testa, quasi a respingerne un altro che gli si era presentato alla mente, poi lui si accorse di essere osservato e girò la testa dall'altra parte. Il tempo trascorreva lentissimo. Finalmente il sovrintendente Day si installò nella biblioteca, un immenso salone dove l'austerità delle pareti tappezzate di libri era temperata dalla luce brillante delle lampade fluorescenti e da un profluvio di piante in vaso, e interrogò prima di tutti Roger, poi Arthur e infine mandò a chiamare la signora Fielding. Tornato in sala, Roger sedette accanto a Emma ma nessuno dei due par-
lò. A un'occhiata interrogativa di lei, Roger rispose stringendosi nelle spalle, come a dire che nemmeno lui ci capiva niente. Dopo un momento ritornò la signora Fielding e fu convocato Ernest Nixey. La signora sembrava ancora più pallida, se era possibile. Si abbandonò su una sedia e nascose il viso fra le mani, dondolandosi avanti e indietro con un gemito sommesso che allarmò Emma, facendole temere l'approssimarsi di una crisi isterica. — Non m'importa quel che dice la polizia — esclamò alzandosi. — Io porto quella donna nel mio laboratorio e le faccio bere un caffè. Sta per avere una crisi. — D'accordo — rispose Roger. — Lo spiegherò io, se sarà necessario. Emma si avvicinò alla signora Fielding. — Venite, andiamo nel mio laboratorio. Staremo più tranquille — disse posandole una mano su una spalla. L'altra scostò le mani dal viso. — Come dite? Ah, sì, grazie. Si alzò barcollando un poco ed Emma l'accompagnò fuori, tenendola sottobraccio. Quando passarono davanti ad Arthur, Emma notò che le osservava con profondo interesse e le dispiacque che le circostanze le impedissero in quel momento di fermarsi a chiedergli se aveva già visto la signora Fielding. Ma avrebbe forse potuto farlo quella sera a casa, rifletté mentre raggiungevano il laboratorio. Fece accomodare la signora Fielding su una sedia, richiuse la porta e preparò due tazze di caffè istantaneo ma molto carico. — Mi dispiace di non avere né zucchero né latte — disse scusandosi. — Non importa, grazie. Non ne metto mai. — Tutt'a un tratto la signora Fielding sembrava perfettamente calma e padrona di sé. Emma le mise davanti la tazza poi, mentre si appollaiava su un alto sgabello sorseggiando il caffè, gettò un'occhiata all'orologio. Mancavano venticinque minuti alle sei. Era dùnque trascorsa un'ora e mezza da quando Roger aveva scoperto il delitto, ma sembrava •che fosse trascorso molto più tempo. Fuori era ormai quasi buio e nel laboratorio ci si vedeva appena ma Emma non osava accendere la luce, che avrebbe messo crudamente in risalto la sofferenza sul viso della sua ospite. — Mi prenderete per una sciocca — disse questa con la massima calma dopo avere bevuto qualche sorso di caffè. — Essere andata in pezzi davanti a tante persone... senza il minimo autocontrollo! Ma temo di essere stata sempre troppo emotiva. Basta un niente per sconvolgermi. È stato un pensiero molto gentile da parte vostra portarmi via di là. Mi sentivo tutti gli
occhi puntati addosso, anche se fingevano di non guardarmi. Immagino che lo abbiano capito tutti, di Guy e di me. Voi lo sapevate, naturalmente. — Per la verità non lo sapevo affatto — precisò Emma — ma non è necessario parlarne, adesso. — Non vedo perché non dovrei. Ho detto tutto alla polizia. Guy e io eravamo amanti da anni. Ci siamo conosciuti quando eravamo ancora molto giovani, ma io ero già sposata e mio marito non volle divorziare. Del resto, Guy non era tipo da matrimonio. Benché lo amassi profondamente, non so se avrei resistito a vivergli accanto un giorno dopo l'altro. Voi lo conoscevate bene, sono certa che capite che cosa intendo. — Sì, credo di sì. — Ma ora se n'è andato, in quella maniera orribile, e non so come potrò abituarmici. E sì che ero venuta qui risoluta a troncare tutto, con Guy! Adesso invece mi domando come ho potuto anche solo pensare una cosa simile! — Per quello siete scesa in albergo invece di andare a casa sua? — domandò Emma. — Io avevo pensato che fosse stato per causa di Dorothy. — Dorothy? — Sì, la governante. — Ah, sì, certo! Per un momento mi era uscito di testa il suo nome. No, non è stato per causa sua, anche se cercavamo sempre di essere molto discreti, soprattutto a causa di mio marito. Non ci siamo mai separati, sapete, perché lui è un mezzo invalido... poliomielite. È accaduto poco dopo che avevo conosciuto Guy. Avevo quasi deciso di andare via con lui, ma poi non ne ho avuto il coraggio. Povero Reginald, aveva tanto bisogno di me! Emma provò a un tratto l'impellente desiderio di accendere la luce. Voleva vedere in faccia quella donna. Non riusciva a credere a quella storia. Tanto per cominciare, nessuno che avesse conosciuto Guy avrebbe potuto dimenticare il nome di Dorothy che apparteneva alla sua vita quasi come se fosse stata sua madre. E se la signora Fielding era risoluta a troncare i loro rapporti, come mai era venuta lì all'istituto, in pieno pomeriggio, invece di cercare un posto un po' più riservato? E quel marito handicappato che si inquadrava tanto bene nello sfondo? D'altra parte, se quella storia non era vera, perché mai la signora Fielding veniva a raccontarla proprio a lei? Emma scivolò giù dallo sgabello, andò a girare l'interruttore accanto alla porta e la stanza fu inondata all'improvviso da un fiotto di luce che per un attimo parve accecante. Emma sbatté le palpebre e fu indotta automaticamente a guardare l'orologio che aveva al polso. Segnava le sei meno
cinque. Erano dunque venti minuti che era lì a chiacchierare con la signora Fielding. Ma non le sembrava che fosse già passato tanto tempo. Guardò l'orologio alla parete e fu stupita di vedere che quello segnava le sei meno un quarto. Si fermò di colpo dov'era, osservando il quadrante per accertarsi che le lancette non si fossero fermate. Non era mai accaduto che quell'orologio andasse male, ma anche il suo era sempre esatto e non era molto probabile che si fosse messo a galoppare da un momento all'altro. Intanto poté constatare che la lancetta dei minuti, sull'orologio a parete, si spostava regolarmente. — Sapete che ore sono? — domandò allora alla signora Fielding che la stava osservando perplessa. La donna sporse il polso ossuto e guardò il suo minuscolo orologino d'oro. — Le sei meno cinque. Sicché il suo orologio andava benone, pensò Emma, ed era quello elettrico che era rimasto indietro. Colpa di qualche breve interruzione di corrente, probabilmente. Una sciocchezza senza importanza. — Gradite un'altra tazza di caffè? — domandò alla signora Fielding. — Oh sì, grazie, volentieri. Mi ha fatto molto bene. Emma riattaccò il bollitore elettrico e mise altro caffè nelle tazzine. — Voi siete qui da tanti anni, vero? — domandò la signora Fielding. — Sì, sette. — Guy vi era molto affezionato. Contava molto su di voi. Lo conoscevate già da molto tempo, vero, quando siete venuta qui? Emma fu seccata che quella donna sapesse tante cose sul suo conto mentre lei non aveva mai nemmeno saputo che esistesse. — Ero stata sua allieva all'università, lo conoscevo più o meno da sedici anni. — Quasi quanto me — sospirò la signora Fielding. — Sono certa che sentirete terribilmente la sua mancanza. — Senza dubbio. — Ma non saranno in molti a sentirne la mancanza. Era un uomo un po' difficile. — Eh sì. — Molti non lo potevano soffrire. — Eh sì. — Secondo voi, chi potrebbe avere commesso un atto tanto orribile?
La mente di Emma arretrò di fronte a quella domanda. Era sempre stata lì, relegata in un angolo, fino da quando lei si era trovata davanti al corpo insanguinato di Guy e prima o poi sarebbe stato necessario ragionare su quell'argomento. — A questo ci penserà la polizia — ribatté Emma. — Ma una persona come voi, che era al corrente di tante cose sul conto di Guy, dovrà pure avere qualche idea, no? — La signora Fielding scrutava il viso di Emma con un'attenzione che sarebbe potuta apparire persino eccessiva. L'acqua bolliva. Emma la versò nelle tazzine e ne porse una all'ospite. — Come avete detto voi, molti non la potevano soffrire — disse. — Ma non è un motivo sufficiente per ammazzare una persona. — Non si può mai sapere. A volte certi risentimenti rimangono a covare sotto sotto chissà per quanto tempo e poi esplodono a un tratto... In quel momento si aprì la porta ed entrò Roger. — Il sovrintendente vuole te, Emma. — Bene, vengo subito. Volete restare qui, signora Fielding, o preferite tornare in sala? La signora Fielding posò la tazza e si alzò. — Sarà meglio che torni di là. Restare qui sola in un momento come questo... credo che non sia troppo consigliabile! — Se volete, posso mandare la signorina Kirby a farvi compagnia — disse Emma. — Così potreste rimanere qui. — Oh sì, lo preferirei davvero. Siete molto gentile. — La magra signora si rimise a sedere. Emma e Roger tornarono in sala ed Emma pregò Maureen di andare a tenere compagnia alla signora Fielding, che era naturalmente una maniera velata per chiederle di tenerla d'occhio, poi salì in biblioteca. Il sovrintendente investigativo Day era seduto al tavolo di uno degli scomparti tappezzati di libri. Un altro poliziotto, che Day presentò a Emma come il sergente Peters, sedeva a un capo dello stesso tavolo, con un blocco per appunti davanti a sé. Entrambi si alzarono quando entrò Emma, il sovrintendente le accennò una sedia di fronte a lui poi si rimise a sedere. Day, un uomo alto e smilzo, con corti capelli grigi, malinconici occhi azzurri, il naso a patata e un vestito scuro che gli pendeva addosso, cominciò con le domande di rito: nome, indirizzo, da quanto tempo Emma lavorava al King's Weltham, dove aveva lavorato in precedenza, quali erano
i suoi rapporti col dottor Lampard. Emma gli fece un rapido resoconto, mantenendosi su un tono strettamente impersonale, e quando il sovrintendente le domandò se avesse qualche idea a proposito del delitto, scosse la testa. — Allora è stato un colpo assolutamente inaspettato? — domandò Day. — Assolutamente. — Come ne siete venuta a conoscenza? Con quella voce sommessa e armoniosa il sovrintendente sembrava un uomo troppo mite per essere un poliziotto: Emma si sarebbe vista a parlargli dei propri disturbi ginecologici, piuttosto che di omicidi. — Ero nella sala comune quando ho udito gridare la signora Fielding — spiegò. — Ci siamo precipitati fuori tutti, io sono corsa di sopra, dov'è l'ufficio del dottor Lampard e l'ho visto... Bene, lo sapete che cosa ho visto. — C'era qualcun altro nella stanza? — Sì, il dottor Challoner. — Che cosa faceva? — Era ritto dietro il dottor Lampard e... — Emma s'interruppe. — Ma vi ha già detto tutto lui stesso. — Ditemelo coi con parole vostre — insisté dolcemente Day. — So che dev'essere molto doloroso per voi, ma desidero avere un quadro il più completo possibile. Aveva in mano qualcosa? — Sì — rispose lei con una certa riluttanza. — Un rasoio. — Aperto? — Sì. — Come poteva esserne venuto in possesso? — Suppongo che lo abbia trovato là sulla scrivania e lo abbia preso in mano senza pensarci. Non era quello usato per... uccidere il dottor Lampard? — Può darsi, ma non abbiamo ancora controllato. È un vero peccato che il dottor Challoner lo abbia preso in mano. Può avere confuso le impronte digitali. Ma quando vi ho chiesto come poteva esserne venuto in possesso, intendevo dire da dove quel rasoio poteva essere venuto. Più nessuno usa rasoi di quel tipo, ormai. — Oh, ce ne sono in tutti i laboratori, qui all'istituto, e altri di scorta si trovano in un armadietto in una delle stanze dei tecnici. Io stessa ne ho uno, nel mio laboratorio. Li usiamo per affettare il materiale da esaminare. Il sovrintendente fece un cenno di assenso ed Emma capì che la stessa risposta dovevano già avergliela data anche altri.
— Dov'era la signora Fielding quando siete arrivata voi? — Sulla soglia dell'ufficio. — Ma potevate ugualmente vedere l'interno della stanza? — Sì. — È una vostra amica? — Non l'avevo mai vista prima, ma ho chiacchierato un po' con lei. Pare che sia una vecchia amica del dottor Lampard. Emma credette di scorgere una luce sardonica negli occhi del sovrintendente, come se il suo eufemismo lo avesse divertito. — L'avevate vista entrare? — No, era già sul pianerottolo quando io sono uscita dalla sala comune. — Che ora era? — Le quattro. — Ne siete certa? — Sì. Sapevo che il dottor Challoner aveva appuntamento alle quattro col dottor Lampard e avevo osservato che, in sala, teneva d'occhio l'orologio. È uscito dalla sala alle quattro in punto. — Quando era arrivato in sala? — Non lo so, era già là quando sono entrata io. — E voi a che ora siete entrata? — Penso che fossero le quattro meno dieci. Forse il signor Hawse potrebbe dirvelo con esattezza. Era nella sua cabina quando sono passata. Questo significa che era già tornato dopo essere andato a prendere il tè. Lui è sempre puntualissimo. Lascia il suo posto dalle tre e mezza alle quattro meno un quarto... Ah! — Emma s'interruppe di botto. — Sì? — Il tono del sovrintendente sembrava quello di un medico che le chiedesse quando aveva avvertito i primi sintomi. — Vi è venuto in mente qualcosa? — Probabilmente non ha alcuna importanza — rispose lei. — Non so se può significare qualcosa, ma ho notato che l'orologio elettrico nel mio laboratorio va indietro di dieci minuti, perciò non posso dire con esattezza a che ora sono andata nella sala comune. Forse era un po' più tardi di quel che pensavo. Il sovrintendente rimase in silenzio per qualche momento, fissando Emma con espressione pensierosa, come se stesse valutando le possibili implicazioni di ciò che lei aveva detto. — Quando ve ne siete accorta? — domandò poi. — Poco prima che mi mandaste a chiamare, ma può darsi che fosse in-
dietro già da prima. Il sovrintendente si rivolse al sergente. — Volete andare a controllare, per favore? Il sergente uscì ma rientrò quasi subito. Probabilmente aveva mandato un agente a controllare. Mentre lui si rimetteva a sedere e riprendeva il suo blocco per gli appunti, Day proseguì: — Torniamo un po' indietro, dottoressa Richtie. Eravate rimasta nel vostro laboratorio per tutto il pomeriggio? — No, sono stata dal parrucchiere. «Jennifer», nella High Street, a Crandwich. Sono rientrata in laboratorio verso le tre e venti. Questa almeno era l'ora che segnava l'orologio elettrico. L'avevo guardata perché desideravo bere una tazza di tè prima di rimettermi a lavorare e avevo costatato che mancavano ancora dieci minuti prima che la signora Fallow portasse in sala il tè. — Non avete controllato col vostro orologio? — No. — Ma ora pensate che in realtà potevano essere già le tre e mezzo quando siete tornata in laboratorio? — No, non direi — rispose Emma. — Non avrei impegato tanto per tornare da Crandwich. Non corro mai molto, in auto, ma a quell'ora c'era pochissimo traffico. — Sicché siete propensa a credere che l'orologio abbia cominciato ad andare male più tardi? Emma annuì. — Ma ha importanza? Può avere qualche significato particolare il fatto che l'orologio del mio laboratorio fosse indietro di dieci minuti? — È difficile dirlo. Per ora stiamo soltanto cercando di controllare dove si trovava ognuno di voi quando è stato ucciso il dottor Lampard. A parte quello che potrà risultare dagli esami necroscopici, siamo in grado di precisare con sufficiente esattezza l'ora del delitto sulla base di quanto ci ha detto il signor Hawse, sempre presupponendo che ci abbia detto la verità. Il signor Hawse afferma dunque di avere visto la signorina Kirby uscire dall'ufficio del dottor Lampard pochi minuti prima delle tre e mezzo e scendere nella sala comune. Subito dopo lui è andato a bere il suo tè ed è tornato, puntuale, alle quattro meno un quarto. Nessuno è salito dal dottor Lampard fino alle quattro, quando vi è andato il dottor Challoner, seguito poco dopo dalla signora Fielding. Perciò, supponendo che il dottor Lampard fosse ancora vivo quando lo ha lasciato la signorina Kirby, non l'ab-
biamo ancora interrogata, ma ci dirà certo che lo era, sembra fuori discussione che il dottor Lampard sia stato ucciso fra le tre e mezza e le quattro meno un quarto. Naturalmente c'è stato un notevole andirivieni dentro e fuori della sala comune durante quel quarto d'ora, perciò abbiamo una quantità di persone da interrogare e oltre tutto non è da escludere che il signor Hawse abbia perso di vista per qualche momento la porta del dottor Lampard anche quando era al proprio posto, perciò non possiamo ancora essere certi di niente, ma quei quindici minuti sono quelli che ci interessano di più. Emma annuì di nuovo. — Ora ditemi una cosa, dottoressa Richtie — continuò Day. — Dite di avere osservato che erano le tre e venti quando siete tornata da Crandwich. Dimentichiamo per ora la possibilità che l'orologio non segnasse l'ora esatta. Dite di averlo notato perché desideravate bere una tazza di tè e vi è dispiaciuto di vedere che avreste dovuto aspettare ancora dieci minuti. Però, a quanto mi avete detto, erano le quattro meno dieci quando siete entrata nella sala. Avreste dunque aspettato mezz'ora prima di andare a bere quel tè. Come mai? — Era venuto da me il dottor Partlett. — Ah! Non abbiamo ancora parlato con lui. A che ora è venuto da voi? — Dovevano essere circa le tre e venticinque. — È rimasto molto? — Abbastanza. Siamo poi andati insieme in sala. — Il che fornisce a entrambi un alibi. A meno che... — Il sovrintendente fece una pausa, corrugando la fronte. — Se il vostro orologio era indietro di dieci minuti quando siete tornata da Crandwich non erano le tre e venti ma le tre e mezzo e il dottor Partlett non è venuto da voi alle tre e venticinque ma alle tre e trentacinque, perciò avrebbe avuto un margine di tempo per commettere l'omicidio. Sì? Si era aperta la porta ed era antrato un agente. — Ho controllato gli orologi nella stanza lungo il corridoio, signore — disse. — Sono tutti indietro di dieci minuti, tranne quello nella stanza del signor Nixey. Quello della signorina Atkinson, la sua segretaria, è indietro, ma il suo no e siccome sono tutti sullo stesso circuito, non sembra probabile che ci sia stata un'interruzione di corrente. Tuttavia potrebbe esservi stato un guasto nei collegamenti. Stiamo controllando. Il sovrintendente fece un cenno di assenso e l'agente uscì. — Nelle stanze lungo il corridoio al pianterreno, ha detto — riprese
Walter Day. — Di chi sono? — Del dottor Partlett, del dottor Carver e della signorina Atkinson — spiegò Emma. — Dalla stanza della signorina Atkinson, che ora è assente perché ammalata, si passa in quella del singor Nixey. — Bene, indagheremo. Che cosa sapete dei rapporti tra il signor Nixey e il dottor Lampard? — Erano ottimi, credo. So che il signor Nixey nutriva un profondo rispetto per il dottor Lampard. L'ho udito parlare di lui con la più grande ammirazione. — Capisco. Grazie, dottoressa Richtie. Ora vorrei parlare con il dottor Carver e sentire se ha qualcosa da dire a proposito del suo orologio. Sergente, volete chiamarlo, per favore? Il sergente si alzò, aprì la porta a Emma e uscì dietro a lei per andare a chiamare Bill Carver. Passando davanti alla porta chiusa dell'ufficio di Guy, Emma udì provenire dall'interno alcune voci e rumori di parecchie persone che si muovevano. Evidentemente, pensò, i poliziotti che stavano controllando le impronte digitali e scattando fotografie, forse c'era anche il medico legale e ben presto altri poliziotti sarebbero venuti con una barella a portar via il cadavere. Emma rabbrividì. Le era riuscito più facile di quanto non si aspettasse parlare con calma al sovrintendente, ma ora stava sopraggiungendo la reazione e per quanto niente ne trapelasse all'esterno, Emma tremava. Nell'almo, infilò quasi di corsa il corridoio che portava al suo laboratorio dove sarebbe potuta rimanere sola almeno per un poco, il tempo necessario per riacquistare il dominio di sé che si sentiva sul punto di perdere. Poi rammentò che dovevano esserci la signora Fielding e Maureen Kirby e che di conseguenza nemmeno il laboratorio sarebbe stato un rifugio. Soffermandosi un attimo davanti alla porta, respirò a fondo poi spinse il battente. La stanza era deserta. La sua prima sensazione fu di sollievo. Si abbandonò sulla sedia dietro la scrivania e rimase per qualche momento immobile, cedendo al tremito che la scuoteva. Pensò di farsi una tazza di caffè, ma scoprì che queir idea le ripugnava. Avrebbe bevuto volentieri un bel whisky puro, ma chissà quanto ci sarebbe voluto ancora prima che potesse tornarsene a casa! Ma forse, se avesse trovato la persona giusta cui chiedere il permesso! In ogni caso, doveva intanto parlare con Roger. Si alzò, si ficcò le mani nelle tasche per dominarne il tremito e si avviò verso la sala comune.
Si aspettava di trovarvi anche Maureen insieme con la signora Fielding, ma la ragazza sedeva sola e avvilita in un angolo. Come vide entrare Emma, si alzò immediatamente e le andò incontro. — Ha tagliato la corda — esclamò. — Ero andata un momento in bagno, dicendole che sarei tornata subito, ma quando sono tornata lei non c'era più. L'ho cercata dappertutto, ma era sparita. Ho controllato anche il parcheggio. È sparita anche la sua auto. Quanto meno, non c'è nessuna macchina che non conosco. Pensate che sia grave? Che sia stata colpa mia? Mi dispiace tanto! Be', ormai era andata così, la consolò Emma, e non c'era più niente da fare. D'altra parte nessuno aveva chiesto loro di tenere d'occhio quella donna e semmai la responsabilità era della polizia. O forse il sovrintendente le aveva detto di non avere più bisogno di lei e l'aveva lasciata libera di tornare in albergo. Intanto Emma si guardava in giro cercando Roger, ma lui non era in sala. — Sapete dove sia il dottor Challoner? — domandò. — Nel suo laboratorio — rispose Maureen. — Mi ha pregata di dirvelo, se foste venuta a cercarlo. Emma tornò di sopra. Fu scossa di nuovo da un brivido quando passò davanti all'ufficio di Guy, ma proseguì su per la seconda rampa di scale ed entrò nel laboratorio di Roger. Assomigliava molto al suo, ma con parecchio disordine in più, libri e giornali sparsi dappertutto, storte, provette e un certo numero di matracci messi a scaldare per determinare il contenuto di azoto nella polpa di alcune mele. Roger non era solo. Era con lui il capotecnico, Stanley Rankin, un ometto magro e sparuto che al King's Weltham era già un'istituzione quando vi era approdata Emma. I due parevano impegnati in una conversazione molto seria e confidenziale ed Emma si fermò interdetta sulla soglia. — Oh scusate, tornerò più tardi. — No, no, vieni pure — disse Roger. — Stan mi stava parlando di una questione molto preoccupante. Che cos'altro potesse esserci di preoccupante dopo quanto era già accaduto quel giorno, Emma non riuscita immaginarlo, ma entrò, richiuse la porta e si appollaiò su uno sgabello. — Di che si tratta? — domandò. Stanley Rankin, che non era mai molto loquace, guardò Roger e lasciò che fosse lui a parlare. — Qualche giorno fa Stan si è accorto che era aumentato in maniera in-
solita il consumo di barbiturici. Non sa dire con certezza quando questa storia sia cominciata, ma pensa che probabilmente durasse già da qualche tempo. Lui comunque lo ha rivelato la settimana scorsa, perché si è reso conto che andava firmando buoni di prelievo con una frequenza insolita. Allora ha controllato attentamente e ora è certo che quella roba va scomparendo con un ritmo decisamente sospetto. I barbiturici venivano usati all'istituto nella preparazione di soluzionitampone per stabilizzare gli acidi e si potevano ottenere senza alcuna difficoltà, come qualsiasi altro preparato chimico. — Non sembra cosa da poco — osservò Emma. — Guy lo sapeva? — L'ho detto al dottor Lampard appena ne sono stato certo — spiegò Rankin. — Ma mi ha risposto di lasciar fare a lui. Pensava di sapere chi poteva essere il responsabile e preferiva risolvere la questione in via confidenziale, senza fare chiasso. Così io non ho fatto altro. Ora però ho creduto bene sentire il parere del dottor Challoner, prima di parlarne alla polizia. Perché bisognerà parlargliene, vero? Potrebbe essere importante. — Molto importante — convenne Roger. — Certo che dovete parlarne alla polizia. 6 Erano quasi le otto e mezzo quando Emma arrivò a casa, quella sera. La polizia aveva finalmente permesso a tutti di andarsene, ma Roger era sparito. Probabilmente, aveva pensato Emma, si era fermato a parlare con Rankin di quella faccenda dei barbiturici. Messa l'auto nella rimessa, entrò in casa, si versò quel whisky che desiderava da ore, accese la stufa elettrica e vi si sedette accanto. Non aveva appetito, ma qualcosa avrebbe pur dovuto magiare. Preferì tuttavia aspettare un po', con la speranza che Roger arrivasse in tempo per cenare con lei. Non dubitava che sarebbe venuto, non l'avrebbe certo lasciata sola in una sera come quella. Per il momento, però, un po' di solitudine non le dispiaceva. Il silenzio era così riposante! Cercando di ricordare Guy com'era, come lo aveva conosciuto per tanti anni, e non come la figura intrisa di sangue abbandonata sulla sua poltrona, scoprì di poter pensare a lui soltanto con dolore, ora, e non più con l'inorridito sbalordimento del primo impatto. La sua mente andò errando fra i ricordi di tempi ormai lontani, quando l'irruente vigore di Guy l'aveva intimidita ed elettrizzata a un tempo, finché, con un trasali-
mento così brusco da essere quasi doloroso, che la ripiombò con violenza nella realtà, non si rese conto che qualcuno aveva appena suonato il campanello. Posato il bicchiere vuoto che teneva ancora in mano, Emma si alzò e andò ad aprire. Era Judith, in vestaglia come sempre e come sempre col suo vago profumo di buon sapone e i capelli soffici e lucenti come se li avesse appena lavati. Judith doveva vivere praticamente in vestaglia, pensò Emma, e avere l'abitudine di fare il bagno e lavarsi i capelli quando si sentiva annoiata o molto sola. Ma ora i suoi occhi fissi interrogativamente su Emma erano colmi d'ansia. — È accaduto qualcosa, vero? — domandò. — Qualche disgrazia? — Vuoi dire che non sai niente? Sam non è ancora tornato? Judith scosse la testa, come se quello fosse un particore senza importanza. — Ti ho sentita rientrare molto più tardi del solito — disse. — E Roger non c'è e Sam... be', mi ha telefonato poco fa, raccomandandomi di non preoccuparmi qualunque cosa mi avessero detto e poi ha riagganciato bruscamente come se ci fosse qualcun altro ad ascoltare e lui non volesse far sentire quello che mi diceva. Ma di che cosa pensava che potessi preoccuparmi? Lui sarà andato in qualche bar a bere qualcosa e non tarderà molto, ormai, ma io non riesco a togliermi di dosso la sensazione che sia accaduto qualcosa di grave. Ne sai niente, tu? È qualcosa che ha fatto Sam? Qualcosa di orribile? — È una cosa orribile, sì, ma non credo che Sam c'entri in nessun modo — rispose Emma. — Ma vieni dentro, ti racconterò tutto. Fece accomodare Judith nel soggiorno, le offrì un whisky e ne versò un altro per sé. — Guy è morto — disse bruscamente, ritenendo che non ci fosse bisogno di ricorrere a giri di parole con Judith: ne sarebbe stata inorridita, ma non avrebbe fatto storie. — Lo hanno ucciso. Oggi pomeriggio. Qualcuno è entrato nel suo ufficio e ha tagliato la gola a Guy usando uno dei nostri rasoi. Dovrebbe essere accaduto fra le tre e mezzo e le quattro meno un quarto. Abbiamo chiamato subito la polizia, naturalmente, per questo sono tornata così tardi. Hanno interrogato tutti. Roger dev'essere ancora là, credo. Non so se abbiano scoperto qualcosa, finora, ma forse potrà dircelo lui quando verrà. Emma si era aspettata che Judith la prendesse con calma e invece le vide
a un tratto un'angoscia disperata negli occhi. Judith si premette una mano sulla bocca come a trattenere un grido che poi le sfuggì ugualmente. — Sam! Ecco perché mi ha telefonato! Sospettano di lui! Oh Sam! Emma fu irritata di queir esplosione di isterismo che le toccava subire mentre doveva già faticare tanto per dominare il proprio. — Non credo che ci sia alcun motivo per sospettare di Sam — ribatté. — Anzi, posso fornirgli un alibi io stessa. Se è vero, come pensa la polizia, che Guy è stato ucciso fra le tre e mezzo e le quattro meno un quarto, Sam è assolutamente insospettabile. È venuto da me alle tre e venticinque e siamo rimasti insieme fino alle quattro meno dieci, quando siamo andati in sala. E oltre tutto, che motivo poteva avere per uccidere Guy? — Sam non ha bisogno di nessun motivo per fare ciò che fa. — Judith bevve un sorso di whisky, senza staccare lo sguardo dal viso di Emma. — Ucciso! Con la gola tagliata! Oh, mio Dio... Sam! — Ma te l'ho detto, non può essere stato Sam — esclamò Emma spazientita. Non ritenne necessario accennare alle vaghe perplessità sollevate dall'incidente dell'orologio. — E allora come spieghi quella sua telefonata? — insisté Judith. — Non cercava forse di dirmi che non mi preoccupassi se qualcuno avesse sospettato di lui? — E dunque non preoccuparti! Probabilmente era soltanto sconvolto, come tutti noi. Per lui, poi, dev'essere stata anche più dura che per gli altri e voleva soltanto parlare con te. Non si sarà nemmeno reso conto che tu avresti potuto trovare strana la sua telefonata. E sinceramente, credo che non vi sia proprio alcun motivo perché la polizia abbia a sospettare di lui. Judith emise un profondo sospiro che parve allentare un poco la sua tensione. — Sono la solita sciocca, hai ragione — ammise. — Il fatto è che mi sono abituata ad aspettarmi sempre il peggio, vivendo con Sam. Ma la polizia come può dire con certezza a che ora è stato ucciso Guy? — Arthur ha visto Maureen uscire dall'ufficio di Guy poco prima delle tre e mezzo, quando lui è andato a bere il suo tè, perciò è logico pensare che a quell'ora Guy fosse ancora vivo. Maureen è scesa direttamente in sala e questo significa che non aveva addosso macchie di sangue, come avrebbe certamente avuto se fosse stata lei a ucciderlo. E Arthur è certo che nessuno è salito da Guy fra le quattro meno un quarto, quando lui è tornato al proprio posto, e le quattro quando è salito Roger. — Inoltre, a quell'ora ci saranno pure stati nell'atrio anche altri, che a-
vrebbero visto chi fosse salito — osservò Judith. — Penso di sì. Per questo, probabilmente, la polizia ci ha trattenuti tanto a lungo, interrogando minuziosamente tutti quanti. — Ma Sam, hai detto, non può essere andato là, vero? Pensando al problema dell'orologio, Emma esitò un attimo, ma poi si decise. — Ne sono più che certa. — Grazie per avermelo detto. — Ma ci sono due persone che potrebbero averlo fatto — riprese Emma. — Bill Carver ed Ernest Nixey. Entrambi sono arrivati in sala durante l'assenza di Arthur. — Vuoi dire che uno di quei due potrebbe essere l'assassino? Oh no, non Ernest, è impossibile! È l'uomo più buono del mondo. Pensa a quello che ha fatto e che fa per la sua disgraziatissima moglie. E Bill Carver... be', non è che mi piaccia molto, ma da questo a ritenerlo un assassino! Sai una cosa? Io vedo di più Maureen a farlo, che non Ernest o Bill. Mi fa un'impressione così strana, quella ragazza! C'è in lei qualcosa che non capisco. Ma hai già detto che non può essere stata lei. — Judith si alzò. — E Roger ha un alibi? — Che sappia io, no. — Non potrebbe essere stato lui a... Oh Signore, ma che cosa dico! Non avrei dovuto... — Vai avanti — mormorò Emma. — No, non intendevo davvero... Mi stavo soltanto chiedendo, in via assolutamente ipotetica, se non gli sarebbe stato possibile uccidere Guy appena è entrato nella sua stanza, alle quattro. — Glielo domanderò, in via assolutamente ipotetica, quando verrà. Judith avvampò. — No, per carità! Ho detto che non lo pensavo veramente, no? Ecco, ora sei in collera con me. Oh Signore, perché devo sempre fare le cose sbagliate? Forse a furia di vivere con Sam ho perduto le mie normali facoltà di giudizio. Ma davvero non intendevo dire quello che ho detto. Puoi perdonarmi? — Non ha importanza — disse Emma. — Tutti ci andremo prospettando le ipotesi più irreali, per qualche tempo, finché la polizia non avrà scoperto l'assassino. Judith fece un cenno d'assenso e si avviò verso la porta. — Speriamo che lo scoprano in fretta. Emma l'accompagnò all'ingresso poi tornò in soggiorno, finì il suo whisky e andò in cucina. Aveva deciso di lasciar perdere Roger e di prepa-
rarsi una frittatina per cena. Ma aveva appena cominciato a sbattere le uova quando mollò tutto, andò a infilarsi il cappotto e uscì in giardino. Aggirato l'angolo della casa, scese i gradini che portavano all'appartamento degli Hawse. Fu la signora Hawse ad aprire la porta e ad Emma parve di scorgere sul suo viso un'espressione delusa alla vista della visitatrice. — Oh siete voi, signorina! Pensavo che fosse la polizia. — Certo, una visita della polizia sarebbe stata molto più emozionante! — Hanno interrogato Arthur per tutto il pomeriggio, mi ha detto. Pare che sia stato di grandissimo aiuto, essendo al centro delle cose com'era. Ma che cosa terribile! Chi avrebbe mai pensato che potesse accadere in un posto come il King's Weltham! — Ma a giudicare dalla sua espressione si sarebbe detto che la signora Hawse avesse trovato terribilmente eccitante quella giornata. — Arthur è a casa, dunque? — domandò Emma. — Sì, sta cenando. — Oh, mi dispiace disturbare, ma potrei dirgli due parole? — Sì, certo, accomodatevi. Arthur, c'è la signorina Richtie che vuole parlare con te. Arthur stava cenando nel soggiorno, una bella stanza ampia e ben riscaldata da un grande camino, sovrabbondante di mobili e con una quantità di centrini di pizzo disseminati su tutte le superfici possibili. — Prego, accomodatevi, signorina. Gradite una tazza di tè? — offrì Arthur, alzandosi immediatamente. — No, no, grazie. Mi fermo soltanto un minuto. Continuate a mangiare, vi prego, non lasciate raffreddare la vostra cena. Volevo soltanto farvi una domanda. Voi avete visto il dottor Challoner salire dal dottor Lampard, seguito dopo un momento dalla signora Fielding... — È sparita, lo sapevate? — l'interruppe lui, rimettendosi a sedere e riattaccando le sue salsicce con patatine fritte. — Era strana, quella donna! A quanto pare, conosceva benissimo la strada, eppure io non l'avevo mai vista. — Se è vero quel che dicono di lei e del dottor Lampard — intervenne la signora Hawse — può darsi che andasse da lui la sera, quando tu eri già venuto via. — Bel posto dove trovarsi! — ribatté Arthur, scettico. — Senza la minima comodità! E poi io non credo affatto a quella storia. Emma rifletté che ben difficilmente Arthur credeva a qualche cosa, anche dell'evidenza più palmare, ma per una volta tanto era propensa a con-
dividere il suo parere. — Me lo ha detto la signorina Kirby che se n'era andata — spiegò. — Ed è proprio della signora Fielding che volevo parlarvi. È salita subito dopo il dottor Challoner, vero? — Per l'esattezza, era ai piedi della scala quando il dottor Challoner era appena arrivato al pianerottolo. — Ma lui non le ha chiuso la porta in faccia, vero? Quando è entrato nell'ufficio del dottor Lampard, la porta è rimasta aperta, no? Non è mai stata chiusa, nemmeno per un momento, è così? — Sì. Il dottor Challoner ha aperto la porta poi si è precipitato dentro, lasciando la porta spalancata, e dopo un momento è arrivata là anche la signora Fielding che si è messa subito a gridare. — Arthur osservò Emma con espressione interrogativa. — Non avrete pensato che possa essere stato lui a uccidere il dottor Lampard, vero, signorina Richtie? Non avrebbe avuto il tempo materiale per farlo, quella donna lo avrebbe visto sicuramente. Intendiamoci, non escludo che quella là, anche se avesse visto qualcosa, potrebbe poi avere mentito, magari con l'intento di cavarne qualche utile in seguito, ma sono i fatti stessi che non quadrano. Tanto per cominciare, se avesse avuto in mente di uccidere il dottor Lampard, il dottor Challoner si sarebbe chiusa la porta alle spalle, non vi pare? Al vostro posto, io non mi preoccuperei davvero! — Non è di quello che mi preoccupo — ribatté Emma. — Conosco troppo bene il dottor Challoner. Ma mi sto chiedendo se la polizia non abbia trovato qualcosa. Mi pare che lo trattengano un po' troppo a lungo. Avrebbe dovuto essere qui già da un bel po'. Ma quel che mi avete detto esclude ogni possibilità di sospetto sul suo conto. Oltre tutto, il sovrintendente mi è sembrato un uomo molto intelligente, assai più cortese di quanto mi aspettavo. Non mi sembra tipo da attaccarsi a teorie assurde. — Oh, non lasciatevi ingannare da Walter Day! — esclamò Arthur. — Lo conosco bene, io. Siamo stati compagni di scuola. È un uomo molto in gamba, per questo lui è arrivato dov'è, mentre io sono rimasto un povero portinaio. Ma non lasciatevi fuorviare dalle sue belle maniere. Quando era soltanto un poliziotto di ronda, faceva paura anche ai tipi più coriacei. E se voi vi foste comportata diversamente con lui, lui si sarebbe comportato ben diversamente con voi. All'istituto siete tutti così carini e per bene, parlate con garbo, e lui fa la persona carina e per bene e parla anche lui con garbo, ma è un uomo duro e ambizioso e sta dando la caccia a un assassino. Se fossi un farabutto, non vorrei davvero trovarmi a faccia a faccia con lui!
Emma tornò a casa. Sperava che nel frattempo fosse arrivato Roger, ma l'appartamento era deserto. Pensando che potesse essere andato direttamente a casa, invece di venire da lei, provò a telefonare, ma non ebbe risposta. Allora tornò in cucina e finì di cuocere la sua frittata, poi tagliò una fetta di pane e stava per infilarla nel tostapane quando squillò di nuovo il campanello dell'ingresso. Sapeva che non poteva essere Roger, che aveva la chiave, e si augurò che non fosse di nuovo Judith perché, stanca com'era, non se la sentiva di affrontare altri problemi dei Partlett. Andò ad aprire e, con un certo sgomento, si trovò davanti Sam. — Ti dispiace se entro un momento? Sam si appoggiava con una mano allo stipite come per sostenersi, ma non le sembrò ubriaco. Sembrava piuttosto mortalmente stanco. Era pallidissimo, col viso incavato, gli occhi pesti e la bocca leggermente storta, in una strana smorfia nervosa. Emma gli fece segno di entrare e lui la seguì in soggiorno. — Whisky? — domandò Emma. A giudicare dal suo aspetto, le sembrava che Sam ne avesse un gran bisogno. — No, grazie — rispose invece lui, lasciandosi cadere su una sedia senza aspettare di essere invitato. — Sono rimasto più di un'ora seduto davanti a una birra, al White Hart, cercando di risolvermi a tornare a casa, ma senza trovarne il coraggio, ben sapendo che cosa mi avrebbe detto Judith non appena fossi entrato. Se qualcuno aveva ammazzato Guy, avrebbe detto, era stato lui a meritarselo. E se avessi cominciato col whisky, non sapevo che cosa avrei potuto fare. Judith non è mai arrivata a capire che io gli volevo bene, a Guy! — Anch'io. Per questo sei venuto da me? Sam annuì. — Sì, sentivo il bisogno di parlare con qualcuno che condividesse i miei sentimenti. Guy ha significato per me più di chiunque altro io abbia mai conosciuto... Persino più di Judith, in un certo senso, anche se in modo diverso. Ma non c'è bisogno che te lo spieghi. Ho cercato di farlo capire a Judith, ma non c'è verso. Lei dice che è stato il mio genio malefico e forse non ha torto. Sono sempre stato un essere molto più razionale quand'ero lontano da lui. Ma a te non ha mai fatto alcun male, vero? — A me ha fatto tantissimo bene. — Eh sì, ma tu sei molto più stabile di me. E poi tu sei una donna. Su di te non avrebbe mai esercitato la pressione che ha esercitato su di me. Spesso mi è sembrato persino di odiarlo, ma poi mi sono reso conto che in real-
tà odiavo invece me stesso. Quel tentativo di suicidio del quale ti ho parlato, a esempio. Era domenica e io non sapevo neppure che Guy fosse là. E quando sono tornato in me e mi sono reso conto di avere fallito, l'ho odiato come non lo avevo odiato mai perché dopo ciò che avevo fatto la sera avanti sentivo di non essere degno di vivere. Ma poi ho conosciuto Judith che si è presa cura di me e da allora mi ha sempre aiutato a tirare avanti, bene o male, benché spesso io l'abbia trattata in maniera abominevole. Ne hai visto qualcosa anche tu. Però non riesce a capire che cosa significasse Guy per me. Non è gelosia, sarebbe troppo semplice. Lei pensa che Guy portasse a galla il mio lato peggiore. E adesso sarà felice, quando le dirò che Guy è morto. Per questo sono rimasto tanto tempo al White Hart, continuando a rimandare il momento di tornare a casa. Naturalmente non lo dirà, ma glielo leggerò in viso. — Appoggiandosi allo schienale della sedia, Sam chiuse gli occhi. Aveva sempre la bocca tirata di lato ed Emma si domandò se non stesse facendo uno sforzo per non piangere. — In realtà — riprese Sam riaprendo gli occhi — ero venuto per chiederti di salire con me e aiutarmi a darle la notizia. Mi faresti un po' da cuscinetto. — Se è per questo, non hai da preoccuparti — lo rassicurò Emma. — Lo sa già. Pare che tu le abbia fatto una telefonata un po' strana, oggi pomeriggio, e poco fa Judith è scesa per chiedermi se io ne capivo qualcosa. Sam si passò una mano sulla fronte come per raccogliere le idee. — Ah, sì! È stata una sciocchezza, da parte mia! — Se intendevi rassicurarla, temo proprio che tu abbia ottenuto l'effetto opposto. Naturalmente non riusciva a spiegarsi che cosa avevi inteso dire e quando ha saputo che Guy era stato ucciso, è saltata subito alla conclusione che la polizia sospettasse di te. Sam annuì. — Forse era proprio quello che intendevo dire, solo che al momento non avevo pensato che lei non avrebbe capito niente perché non aveva idea di ciò che era accaduto. È stato lo choc, capisci? Il mio cervello non funzionava come avrebbe dovuto. Poi è entrato qualcuno... ero sgattaiolato nel mio laboratorio, dopo che Roger aveva scoperto il cadavere, e ho riagganciato in fretta perché non volevo farmi sentire. — Chi era entrato? — Non lo so. Penso che fosse Nixey, ma non ho guardato. Ho sentito aprire la porta e ho messo giù il ricevitore, poi sono uscito e mi sono unito agli altri che stavano andando in sala. Ma ho visto Nixey nel corridoio, poco più avanti. — Sai che la polizia non può sospettare di te, vero?
— Perché no? — Perché si dà il caso che io possa offrirti un alibi perfetto. — Tu? Ah sì, perché sono venuto da te e siamo rimasti a chiacchierare finché non siamo usciti per il tè. Ma sei certa dell'ora? — Certissima. La smorfia di Sam si trasformò in una sorta di sorriso. — Bene, questo è molto rassicurante! Tu sei sempre pronta ad aiutarci, poveretta! E dire che non ti siamo nemmeno simpatici. Ma non temere, non dovrai sopportarci ancora a lungo. Senza Guy, questo posto diventa insopportabile per me e Judith non avrebbe nemmeno voluto venirci. — E dove andrete? — Non lo so, ma qualche posto lo troveremo. Ti libererai di noi, sta' tranquilla. — Che cosa farai? — Oh, ci penserò. Potrei anche vivere per un po' alle spalle di mia moglie, finché non avrò superato questo trauma. È un'infermiera meravigliosa, sai? Non le sarà difficile trovare un posto. Ma di una cosa sono certo: darò un addio alla scienza. Lo hai visto anche tu: non riesco ad andare d'accordo con gli altri e in questo campo non si può lavorare per conto proprio. Si è legati alla comunità, non è possibile liberarsene. Doveva essere splendido nei tempi passati, quando uno poteva farsi il suo piccolo laboratorio in fondo al giardino senza doversi preoccupare di problemi come microscopi elettronici, densimetri e tecnici per tenerli in ordine. Fortunati gli scrittori e i pittori che possono chiudere la porta in faccia a tutti e fare il proprio lavoro come meglio credono, non ti pare? — No, per me non andrebbe bene affatto. A me piace lavorare con gli altri. — Be', forse non andrebbe bene nemmeno a me, tutto sommato, ma in questo momento capisco gli eremiti. Non puoi far male a nessuno, vivendo in cima a una colonna o in una grotta nel deserto. — Sam si alzò. — È il posto dove vorrei essere in questo momento, in cima a una colonna con niente altro che chilometri e chilometri di sabbia tutt'intorno. Bene, ti ringrazio per avermi sopportato finora e per aver dato la notizia a Judith. Ora non mi spaventa più tanto l'idea di tornare a casa. Però vorrei farti un'altra domanda. — Sì? — Come puoi essere certa del mio alibi? Io non saprei dire davvero a che ora sono venuto da te.
— Per combinazione avevo guardato l'orologio pochi minuti prima che tu entrassi, perciò so esattamente che ora era. — E la polizia è certa dell'ora in cui è stato ucciso Guy? — Certissima. — Capisco. Tutto a posto, dunque. — Il tono di Sam aveva assunto a un tratto una sfumatura ironica ed Emma si domandò se per caso lui non sapesse che tutti gli orologi dei laboratori al piano terra si erano guastati e non stesse tastando il terreno per sentire che cosa avrebbe detto lei. — Allora buonanotte e ancora tante grazie. Uscito Sam, Emma si domandò perché non gli avesse detto che gli orologi erano rimasti indietro di dieci minuti. Forse perché era tanto stanca e desiderava che lui se ne andasse? Forse. Tornata in cucina, riuscì finalmente a farsi la sospirata frittata e il caffè e aveva appena finito di cenare quando udì Roger aprire la porta d'ingresso. Gli corse incontro e gli gettò le braccia al collo. Lui la strinse forte ma non si baciarono né pronunciarono una parola. Soltanto quando fu tra le sue braccia, Emma si rese conto di quanto avesse desiderato la sua presenza e si sentì invadere da una meravigliosa sensazione di sicurezza, di fiducia che ora tutto sarebbe andato per il meglio. Fu una sensazione passeggera, naturalmente, perché la presenza di Roger non annullava certo ciò che era accaduto quel giorno, tuttavia le sembrò di sentirsi a un tratto più leggera. — Ti preparo qualcosa da mangiare — disse allontanandosi da lui. — Non importa, ho mangiato qualche panino. Ma berrei volentieri qualcosa. Roger si tolse il cappotto, lo appese all'attaccapanni e seguì Emma nel soggiorno. Lei versò un whisky e glielo portò, mentre lui sedeva accanto alla stufa, tendendo le mani verso le sbarre incandescenti. — Tu non bevi? — domandò Roger. — Ne ho già bevuti due mentre ti aspettavo. Penso che bastino, per ora. — Mi dispiace di aver fatto tanto tardi. — Roger sembrava stanchissimo, col viso tirato della persona che ha dovuto sobbarcarsi responsabilità superiori alle sue forze. — Mi è toecato andare alla stazione di polizia. — Lo avevo pensato — disse Emma sedendosi di fronte a lui. — Ti hanno tenuto là finora? Roger annuì. — Ma perché? — Per una quantità di motivi. — Roger bevve un sorso di whisky poi si
abbandonò contro lo schienale. — Fa un freddo cane fuori — osservò dopo un momento. — Sta arrivando l'inverno. — Oh Roger, per favore, dimmi che cos'è accaduto! Ho creduto d'impazzire, mentre ero qui ad aspettarti. — E va bene. Ma è così bello starsene qui per un poco in silenzio. Mi sembra di avere risposto a domande su domande, senza un attimo di sosta, per tutto il pomeriggio. Tu che cos'hai fatto? — Non molto. Ho aspettato te e ho parlato con Judith, con Sam e con Arthur. — Judith? Perché Judith? Ah, voleva sapere che cos'era successo, immagino. — Sì, ho dovuto dirle tutto. Poi sono scesa per chiedere un paio di cose ad Arthur, e infine è venuto Sam. Ma di questo parleremo dopo. Ora dimmi che cosa ti hanno chiesto. — Per la maggior parte mi hanno fatto domande riguardanti l'istituto e il suo funzionamento, chi si trovava là e dove, quando e perché, se era tutto normale o se qualcuno si era comportato in maniera insolita e via dicendo. È più difficile di quanto non si pensi spiegare certe cose a un profano come può esserlo un poliziotto, per quanto quel Day sia molto sveglio. Poi hanno voluto le mie impronte digitali. Le hanno trovate sul rasoio, naturalmente, ma pare che non ve ne siano altre. O il rasoio era stato pulito o l'assassino portava i guanti. E mi hanno fatto capire che aver preso in mano quel rasoio è stata una delle più grosse sciocchezze della mia vita, un'opinione che condivido pienamente. — Ma perché lo hai fatto? — Vorrei saperlo anch'io. Dev'essere stata una sorta di curiosità, penso. Per vedere se era uno dei nostri. — E lo era? — Sì. — Ma non sospetteranno di te, vero? — domandò Emma con un brivido di apprensione. — È difficile dirlo. Sanno che non posso avere ucciso Guy quando sono andato da lui alle quattro. Per fortuna avevo lasciata aperta la porta ed ero entrato a precipizio, appena lo avevo visto, e quella donna che urlava era a due passi da me. Ma Arthur non mi ha visto quando sono andato in sala, era già andato a prendere il tè. Perciò potrei essere salito da Guy alle quattro meno venti, avergli tagliato la gola e poi essere sceso tranquillamente per il tè. Hanno fatto tante di quelle domande sugli spostamenti di tutti, du-
rante l'assenza di Arthur, e pare che ci sia rimasto qualche momento durante il quale non c'era nessuno nell'atrio e io avrei potuto approfittarne per fare il mio lavoretto. — Ma il sangue — obiettò Emma con un lieve tremito nella voce. — Non si può tagliare la gola a qualcuno senza macchiarsi di sangue, no? Roger fece un sorrisino storto. — Be', a questo proposito è accaduto un fatto strano. — Finì il suo whisky poi si alzò e andò a versarsene un altro. — Prima di tutto hanno voluto sapere che cosa ne avessi fatto del mio camice. Un camice è un indumento molto sospetto, naturalmente. Serve appunto per evitare il rischio di macchiarsi gli abiti. Lo hanno cercato nel mio laboratorio e non lo hanno trovato. Ho spiegato che non porto mai il camice e che non ne possiedo uno da anni. Non mi hanno creduto e hanno controllato interrogando Stan che ha confermato le mie parole ma non hanno creduto nemmeno a lui. Hanno capito che eravamo buoni amici e hanno pensato che avrebbe potuto mentire per aiutarmi. Allora hanno calcolato quanto tempo mi ci sarebbe voluto per andare a gettare il camice nell'inceneritore e tornare indietro ed è risultato che con un po' di fortuna avrei potuto farcela. E si dà il caso che nell'inceneritore ci fossero residui di qualcosa che sarebbe potuto essere proprio un camice. Una bella scalogna, no? Ma quello che non gli è andato giù è stato il fatto che io avessi preso il rasoio. Un ottimo motivo per avere le mani sporche di sangue, capisci? Oh certo, avrei potuto lavarmele prima di scendere per il tè, ma devono avere pensato che sapessi come sia difficile far sparire completamente le macchie di sangue. E difatti non sono riuscito a farle sparire del tutto, per quanto mi sia lavato e spazzolato dopo la scena nell'ufficio di Guy. Hanno controllato e si è scoperto che ne avevo ancora qualche traccia intorno alle unghie. — Roger posò il bicchiere sul tavolino che aveva accanto e tese le mani, osservandole attentamente come se cercasse di scoprire quelle tracce invisibili. Emma si prese la testa fra le mani. — Non riesco a crederlo! — Per dire la verità, penso che non ci credano nemmeno loro. Ma devono prendere in considerazione qualsiasi possibilità e io ho cooperato senza riserve. — Ma il movente? È sempre quello che si cerca, no? — Loro pensano che io ne avessi uno. E questa è un'altra delle cose che è difficile spiegare a un profano. Siccome sono vicedirettore, ritengono che io sarei automaticamente il suo successore e che potrei averlo ucciso per questo. Ho cercato di spiegare che la successione non è affatto automatica
e che anzi sussistono ottime probabilità che il nuovo direttore venga addirittura da fuori, e Day ha annuito con condiscendenza, affermando che capiva benissimo, lo diceva in continuazione, ma non sono affatto certo che abbia capito. — Gli hai detto che in ogni caso stai per andartene in Australia? Roger scosse la testa. — No. — Perché? — Non mi è sembrato il momento giusto per parlarne. — Non vedo perché. — Sarebbe sembrata una scusa troppo comoda. Non avrei potuto provarlo. E in ogni caso, ormai avevo capito che era meglio parlare il meno possibile. Tuttavia, non ero stato il solo a parlare. Day stesso mi aveva dato qualche informazione interessante. Quella rossa della quale hai avuto tanta cura è un'imbrogliona. L'indirizzo di Londra che ha dato alla polizia non esiste e al George di Crandwich non l'hanno mai nemmeno vista. È uscita dal nulla e nel nulla è scomparsa. — Mi ha detto di essere stata l'amante di Guy per anni — raccontò Emma — ma di non avere mai avuto il coraggio di lasciare il marito, rimasto invalido dopo avere avuto la poliomielite. Ho avuto subito l'impressione che fosse una frottola, non era per niente il tipo giusto, per Guy. — Non puoi sapere come fosse da giovane — osservò Roger. — E Guy era fedele nei suoi affetti. — Ma lei parlava come se i loro rapporti amorosi durassero tuttora. Anzi, era andata da lui proprio per metter fine a quella relazione, ha detto. E anche quello mi è sembrato molto strano. Se aveva davvero quell'intenzione, come mai era venuta all'istituto? Perché non aveva cercato di vederlo in qualche posto più riservato, a casa di lui o tutt'al più all'albergo? Inoltre, ho capito che non sapeva chi fosse Dorothy e chiunque avesse conosciuto appena un poco Guy, avrebbe saputo di Dorothy. Oh, Roger, mi è venuta un'idea terribile! — Quale idea? — Dorothy è là tutta sola, poveretta! Sarei dovuta andare da lei, invece di venire dritta a casa. Preoccupata com'ero per te, non ho nemmeno pensato a quella povera donna. Che cosa farà, ora? — Be', ormai è troppo tardi per andare a trovarla. Sarà già a letto da un pezzo. Ci andrai domani. Ma tornando alla tua rossa, è strano che conoscesse così bene la strada. È salita difilato all'ufficio di Guy senza chiedere niente ad Arthur e deve essersene andata passando dalla porta laterale oltre
la saletta dei tecnici e girando poi attorno all'edificio per raggiungere il parcheggio. Una via non facile da trovare, se non l'avesse conosciuta in precedenza. Perciò doveva essere già stata qui per incontrarsi con Guy, qualunque sia stato il motivo. — A quale altro motivo stai pensando? — Qualcosa che non voleva far sapere alla polizia, altrimenti perché avrebbe dato un falso indirizzo? Denaro, forse. — Ricatto? — domandò Emma con aria incredula. — No, non credo che Guy avrebbe mai ceduto a un ricatto, ma era molto generoso quando si trattava di denaro, lo sai. Può darsi che, in ricordo dei vecchi tempi, continuasse ad aiutarla e lei non volesse farlo sapere al marito. — Ma in tal caso perché raccontare a me e alla polizia tutte quelle storie sui loro amori? Se una voce simile arrivasse all'orecchio di quel suo disgraziato marito, sai che piacere gli farebbe! — Forse le è sembrata la scusa più semplice per giustificare la sua presenza all'istituto. Non so che dirti, Emma, ne abbiamo parlato e riparlato con la polizia e non siamo approdati a niente. — Non è stato molto lusinghiero per loro lasciarsela scivolare tra le dita a quella maniera, vero? — Se ne rendono conto. Ma non avevano ancora pensato a controllare l'ingresso laterale e non hanno controllato subito se era vero che alloggiava al George. — Come hanno preso quella faccenda dei barbiturici? — domandò Emma. — Bene, quello potrebbe fornire un movente plausibile per l'omicidio, non ti pare? Stan scopre che spariscono i barbiturici, lo dice a Guy, Guy dice che pensa di sapere chi è il responsabile e che se ne occuperà lui stesso e pochi giorni dopo qualcuno gli taglia la gola. — Roger si stiracchiò, sbadigliando. — Signore, se sono stanco! Tra parentesi, la polizia è persuasa che il colpevole sia qualcuno che Guy conosceva bene. — Perché? — Perché Guy era seduto alla scrivania, quando lo abbiamo trovato, e quasi certamente chi lo ha ucciso ha dovuto mettersi dietro di lui. Perciò Day pensa che l'assassino sia entrato, si sia messo a chiacchierare con Guy passeggiando per la stanza, poi gli sia passato dietro e lo abbia sgozzato. Non vi erano segni di lotta e io ho pensato fino dal principio che fosse stato uno di noi. Il rasoio è uno dei nostri, ma chi lo ha usato probabilmente
ha già pensato a sostituirlo con un altro preso dall'armadio, perciò non servirebbe a niente andare a controllare se ne manca uno in qualche laboratorio. — La polizia ti ha parlato degli orologi? — Orologi? No. Perché? Emma gli spiegò come si fosse scoperto che tutti gli orologi al pianterreno erano in ritardo di dieci minuti e Roger rifletté un momento su quel particolare, corrugando la fronte e sorseggiando lentamente il suo whisky. — E tu pensi che qualcuno li abbia manovrati? — domandò finalmente. Lei allargò le mani. — Può darsi che sia stata soltanto una coincidenza, ma certo sarebbe stata una coincidenza ben strana. D'altra parte, non vedo chi avrebbe avuto da guadagnarci. La prima persona cui ho pensato è stato Sam, ma lui aveva tutto da perdere con una manovra come quella. Se il mio orologio era giusto quando sono tornata da Crandwich nel pomeriggio, e penso che in quel momento lo fosse, io sono in grado di fornirgli un alibi perfetto, perché ero appena rientrata quando Sam è venuto da me a scusarsi per essersene andato in quel modo ieri sera. Bill lo aveva fatto arrabbiare, mi ha detto, e lui è scappato per il timore di lasciarsi trascinare a fare una scenata. È andato da Guy per dirgli che intendeva andarsene dal King's Weltham ma Guy gli ha offerto un paio di whisky e lo ha convinto a restare, poi lo ha riaccompagnato a casa e c'è stato quel trambusto tra lui e Judith, ma dopo o Sam ha ritrovato il dominio di sé o ci ha pensato lei a farglielo ritrovare. A ogni modo, oggi pomeriggio è rimasto con me fino a quando non siamo andati insieme in sala. Arthur era già tornato al suo posto e dovrebbe averci visti passare. Ma se il mio orologio fosse già stato indietro fin da allora, non sarebbero state le tre e venticinque come io credevo, quando Sam è venuto da me; sarebbero state le tre e trentacinque e lui avrebbe avuto il tempo per salire da Guy dopo che Arthur era andato a prendere il tè, commettere il delitto e scendere da me. Sarebbe stato ugualmente un margine strozzato, ma sufficiente, anche se rimarrebbe sempre il problema delle macchie di sangue. Roger annuì, riflettendo ancora per qualche momento prima di parlare. — Dunque non è stato Sam a manomettere gli orologi. E allora chi può essere stato? Chi avrebbe avuto da guadagnare? — Ci ho pensato anch'io, ma non sono venuta a capo di nulla — rispose Emma. — Dovrebbe essere stato qualcuno che lavora al pianterreno, ma né Bill né Ernest ne avrebbero tratto alcun vantaggio. Sono andati entrambi in sala durante l'assenza di Arthur, perciò sia l'uno sia l'altro sarebbe potuto
salire da Guy senza essere visto e a che scopo avrebbero dovuto manomettere gli orologi? Non sarebbe certo servito a fornire loro un alibi. No, l'unica possibilità alla quale riesco a pensare, e non mi piace affatto, è che sia stato fatto per incriminare Sam. — Stai pensando a Bill? Emma evitò di rispondere esplicitamente. — Può essere stato chiunque, qualcuno che aveva visto Sam entrare nel mio laboratorio alle tre e venticinque e ha pensato di imbrogliare le carte. — Ma chiunque sia stato, quando è andato in corridoio a correggere l'ora? — Io so di due persone che sono state in corridoio mentre noi eravamo ancora là a gironzolare nell'atrio dopo che tu avevi scoperto il corpo di Guy. Uno era Sam. Mi ha detto lui stesso stasera di essere andato nel suo laboratorio per telefonare a Judith ma di avere poi interrotto la telefonata perché qualcuno aveva aperto la porta e lui è quasi certo che fosse Ernest. — Ernest! Buon Dio, è assolutamente inconcepibile che Ernest possa avere ucciso Guy o cercato di incriminare Sam! — Ma abbiamo appena convenuto che non può essere stato Sam. — Sì, è vero. — Roger sì passò una mano sul mento. — Ma quella telefonata... perché avrebbe dovuto importargli che qualcuno lo ascoltasse se stava semplicemente dicendo a Judith che qualcuno aveva ucciso Guy? — Pare che le stesse dicendo di non preoccuparsi, la polizia non sospettava di lui... come se il fatto che la polizia avesse a sospettare di lui fosse scontato in partenza. Ora però ammette lui stesso di essere stato irrazionale e di essere riuscito unicamente a metterla in agitazione, interrompendosi così a metà come ha fatto. — Forse sarà possibile effettuare un controllo su quella telefonata. Una delle centraliniste potrebbe averla ascoltata. Se non altro, si potrà stabilire l'ora esatta. Ne hai parlato alla polizia? — No, l'ho saputo soltanto stasera. — Penso che dovresti riferirlo. — Ma non stasera! Per l'amor del cielo, non stasera! — Emma aveva un desiderio disperato di restarsene sola con Roger per il resto della serata. — Si potrà aspettare fino a domani, no? — Credo che Day abbia intenzione di proseguire gli interrogatori per buona parte della notte. Deve sentire ancora una quantità di persone. — Faccia pure. Per quanto ci riguarda, credo che abbiamo sopportato tutto il sopportabile, per ora. Tu hai ritenuto che non fosse il momento giu-
sto per parlargli di Adelaide. Bene, io ritengo che non sia il momento giusto per continuare a parlare. — Adelaide! — mormorò Roger come se i suoi pensieri fossero mille miglia lontano, per l'appunto all'altro capo del mondo. — Non ci sarei poi andato, naturalmente. — Come sarebbe a dire? — ribatté Emma sbalordita. — Avevi appuntamento con Guy proprio per annunciargli che intendevi dimetterti! — Ma quando fosse venuto il momento, non lo avrei fatto. Tu non saresti venuta con me e tutto sommato è soltanto questo che conta. — Ma io sarei venuta! Verrò. È questo che vuoi, no? — Credi? Non lo so più nemmeno io, ora. Ne abbiamo parlato troppo. — Sono certa che tu desideri andare. Sei qui da troppo tempo, hai bisogno di un cambiamento. E io verrò con te. Ho deciso, ormai. Lui la guardò con un'espressione sardonica, persino un po' cattiva. — Perché non c'è più niente che ti trattenga ancora qui? Emma capì al volo, ma volle illudersi di avere frainteso. — Non ti capisco. — Bene, Guy se n'è andato — disse Roger. — Hai dovuto lasciarlo perdere, volente o nolente. Così ora sei pronta a venire con me. — La morte di Guy non c'entra per niente, lo sai benissimo. — Credi? Io penso che c'entri moltissimo, invece. — Ti sbagli. Avevo deciso molto prima che tu salissi per il tuo appuntamento con Guy. Ero andata dal parrucchiere ed ero sotto il casco quando a un tratto ho capito chiaramente che cosa desideravo fare. Ero persino contenta di essere andata dal parrucchiere perché, ho pensato, se dovevo accettare una proposta di matrimonio, era giusto che apparissi nel mio aspetto migliore. — In tal caso perché non me lo hai detto prima che andassi da Guy? Emma si rese conto che Roger non le credeva. — Anzitutto perché è venuto da me Sam ed è rimasto a chiacchierare con me per un sacco di tempo. Poi, appena sono entrata in sala, mi ha sequestrata Maureen. E in ogni caso c'era troppa gente, come avremmo potuto parlare di una questione tanto importante? — Se l'avessi ritenuta tanto importante, avresti potuto liberarti di Sam prima e di Maureen dopo. Avresti potuto dirmi almeno qualcosa! — Stiamo litigando! — esclamò Emma in tono quasi incredulo. — Non preoccuparti! Lo fanno tutti, prima o poi. E forse sarebbe stato meglio se anche noi avessimo cominciato prima. — Roger si alzò, prepa-
randosi ad andarsene. — Non potrei sopportare l'idea che vieni con me soltanto perché hai perduto Guy. Non ho mai ignorato che in ciò che conta veramente lui è sempre stato più importante di me e ora la sua morte ha in un certo senso peggiorato la situazione. La morte porta a galla tante cose, vero? Non voglio averti come una sorta di vedova. — Ma Roger! Non c'è una parola di vero in ciò che dici! — Oh, ce n'è molto più di quanto tu non abbia mai voluto ammettere nemmeno con te stessa. — Bene, se è così che la pensi, credo che potrai andare ad Adelaide senza di me. Emma si alzò a sua volta e gli si piantò davanti. Erano entrambi pallidissimi ma entrambi avevano agli zigomi macchie rosso acceso che conferivano loro una vaga somiglianza. — Può essere una soluzione — mormorò Roger e si avviò alla porta. Emma non lo seguì nemmeno quando lo udì infilarsi il cappotto nell'atrio, aprire la porta e richiudersela alle spalle. 7 Pensava che non avrebbe chiuso occhio, quella notte, ma non appena fu sotto le coperte si addormentò come se fosse stata drogata. Si svegliò la mattina dopo alle sette e mezzo con la mente vuota. Di quanto era accaduto il giorno avanti non le restava altro che un irragionevole senso di paura. Poi rammentò a un tratto il litigio con Roger. Paragonato alle liti che scoppiavano al piano di sopra, era stato uno scontro minimo e civilissimo, eppure sarebbe potuto risultare più catastrofico di quelli. Ma c'era qualcos'altro che stava per tornare a galla. Nascondendo il viso nel guanciale, e rendendosi conto di essere cosciente soltanto a metà, ricordò a un tratto che Guy era morto e si svegliò di colpo. Si alzò e, infilata la vestaglia, andò in cucina a farsi il caffè. Ora rammentava che cosa aveva risolto di fare quella mattina: sarebbe andata da Dorothy. Tuttavia erano quasi le dieci quando uscì. Non riusciva a scuotersi di dosso un pesante torpore, una profonda ripugnanza ad affrontare una nuova giornata. Gli avvenimenti della vigilia cominciavano ad assumere un'importanza che non aveva ancora valutato pienamente. Soltanto ora cominciava a capire veramente che cosa avrebbe significato per lei non rivedere più Guy, non incontrare mai più quei suoi piccoli occhi grigi che sapevano mutare con tanta rapidità la propria espressione, passando dalla
più calda cortesia a una sorta di maliziosa ambiguità e addirittura a una vacuità che metteva fra loro due una barriera insormontabile. In fondo, se ne rendeva conto ora, non aveva mai saputo che tipo d'uomo fosse veramente Guy e ormai era tardi, non l'avrebbe saputo mai più. Dorothy probabilmente ne sapeva molto più di lei, ma anche ammesso che fosse disposta a confidarsi con un'estranea, cosa che sembrava oltremodo improbabile, era una povera vecchia ignorante che difficilmente sarebbe stata in grado di tradurre in parole ciò che sapeva. Tuttavia, doveva sentirsi sola e sperduta, ora, e andare a farle una visita sarebbe stato un atto di elementare cortesia. Passando davanti all'istituto, Emma vide alcune macchine della polizia davanti all'ingresso principale, ma davanti alla villetta del direttore non ve n'era nessuna. Come scese dall'auto, le sembrò che la casa avesse un aspetto di desolata solitudine e pensò che fosse uno scherzo della sua immaginazione finché non si rese conto che le tende di tutte le finestre erano tirate, facendo apparire la villetta cieca e abbandonata. Ma Dorothy naturalmente apparteneva a una generazione che accoglieva la morte con le cortine tirate e il lutto stretto. Emma raggiunse la porta d'ingresso e suonò il campanello, poi aspettò pazientemente finché non udì all'interno un lento strascicare di piedi e la porta si aprì. Come si era aspettata, Dorothy era tutta in nero. Ma del resto, a quanto ricordava, l'aveva sempre vista vestita di nero dalla testa ai piedi, e sempre alla stessa maniera, golf, sottana, calze e robuste scarpe che portava in casa e fuori, sempre uguali e sempre un po' sciupati come se li acquistasse di seconda mano. Ed erano stati inutili tutti i tentativi di Guy che più di una volta le aveva comprato qualche camicetta o qualche gonna un po' meno funerea: probabilmente tutti quegli indumenti giacevano ignorati in fondo a un cassetto, ancora incartati come quando erano usciti dal negozio. Tra gli ottanta e i novant'anni, la vecchia aveva un viso grinzoso e incartapecorito, con la pelle che pareva attaccata direttamente alle ossa sporgenti, senza niente sotto, e pallidi occhi acquosi dietro spesse lenti cerchiate di acciaio che non celavano tuttavia la loro espressione interrogativa come se Dorothy si sforzasse costantemente di capire qualcosa che oltrepassava le sue limitate capacità intellettuali. — Ah, siete voi, signorina Richtie — disse la vecchia governante senza mostrare il minimo interesse benché i suoi occhi avessero la consueta espressione interrogativa come se lei si stesse chiedendo se Emma non portasse per caso altre cattive notizie. — Accomodatevi. Sono appena stati qui
a farmi un sacco di domande sul vostro conto. — Chi, la polizia? — Certo. — E chi, se no? pareva sottintendere il suo tono. — «Cosa volete che ne sappia io?» gli ho detto. «Ho ben altro da fare che star dietro ai pettegolezzi.» Ma sapete come sono quelli là, continuano a ripetere le stesse domande e allora io gli ho detto: «Sentite, so che la mia memoria non è più quella, ma questa domanda me l'avete fatta cinque minuti fa e vi ho già detto che non so niente». Volete una tazza di tè, signorina? — No, grazie — rispose Emma avanzando nel piccolo ingresso quadrato che le tende tirate lasciavano in una penombra quasi sepolcrale. — Sono passata solo per sentire come state. — Come volete che stia! — ribatté Dorothy precedendo l'ospite nel salotto buio quanto l'ingresso. — Sto come si può stare date le circostanze. Non posso adattarmi all'idea che lui se ne sia andato prima di me. Ancora così giovane! Pensavo che sarebbe campato ancora trent'anni dopo che io me ne fossi andata. «Che cosa farai quando sarò morta io?» gli dicevo sempre. «Dovresti sposarti» gli dicevo. «Prenderti una moglie che possa avere cura di te. Perché non sposi la signorina Richtie? Lei ti prenderebbe domani» gli dicevo «non gliene importa niente di quel dottor Challoner, si è messa con lui soltanto perché tu non ti pronunci.» Non vi dispiace se dico quel che penso, vero? So che è la verità, ma ormai non si può più cambiare niente! Sedettero nella stanza buia dove già si avvertiva dolorosamente la mancanza di Guy. Dorothy doveva avere riordinato tutto con la massima cura perché non c'era più in giro né un libro né un giornale e anche in quella semioscurità Emma poteva scorgere il luccicare della cera appena passata sui mobili in legno chiaro. — Avete detto tutte queste cose alla polizia? — domandò. — Io dico sempre quel che penso — dichiarò Dorothy, che così magra e curva sembrava ancora più piccola nell'ampia poltrona. — È un'abitudine che viene con l'età. Quando si è vecchi come me non ci si preoccupa più di come ci giudica la gente. — Ma avete detto che io volevo sposare il dottor Lampard? — Può darsi. — Non ve lo ricordate? — Vi ho già detto che la mia memoria non è più quella di un tempo. — Avete anche detto che ricordavate benissimo quel che vi avevano chiesto cinque minuti prima.
— Ed è così, infatti. — Dunque ricorderete anche che cosa avete detto di me e del dottor Lampard. — Bene, che importanza ha? Tanto lo avrebbero saputo da qualcun altro. Emma pensò che forse avrebbe potuto avere moltissima importanza. — Ma sapete benissimo che non è vero! — esclamò. — Be', se lo dite voi! Ma ho gli occhi nella testa, io! Abituatasi ormai alla semioscurità, Emma li vedeva ora, quegli occhi, animati da un'espressione sconcertante, quasi motteggiatrice, e si rendeva conto a un tratto che la vecchia Dorothy non nutriva alcuna simpatia per lei. Probabilmente se l'era goduta un mondo a fare tutte quelle chiacchiere con la polizia, anche se forse sapeva benissimo che non c'era niente di vero. Emma non si era mai soffermata a chiedersi quali potessero essere i sentimenti di Dorothy nei suoi confronti, anzi, neppure a chiedersi se avesse dei sentimenti: era semplicemente un elemento della vita di Guy. Ma, rifletteva ora Emma, con l'affetto possessivo ed esclusivistico che Dorothy nutriva da sempre per Guy, l'attaccamento di lui alla sua ex allieva, che durava anch'esso da tanti anni, doveva averla colmata di amara gelosia. E anche se aveva capito perfettamente che nel loro rapporto non c'entrava per nulla il sesso, parlandone alla polizia non doveva essere stata in grado di descriverlo altrimenti che in termini sessuali. La reciproca interdipendenza che era esistita fra Emma e Guy era una questione troppo complessa perché una donna come Dorothy potesse renderne l'idea a parole, anche se per proprio conto era forse riuscita a intuirla. Ma perché la polizia l'aveva interrogata a quel riguardo? Era questo il problema che turbava Emma. — Che cosa pensate di fare, ora? — domandò. — Dove andrete? — Oh, non ci saranno problemi — rispose pronta Dorothy. — Me lo diceva sempre lui. Lo aveva messo nel suo testamento. Diceva di avere messo le cose in modo da provvedere a me per il resto della mia vita. «Se dovessi morire io» diceva «si faranno vivi con te i miei avvocati, non devi preoccuparti di niente». Ma chi l'avrebbe mai pensato che se ne sarebbe andato prima di me, giovane com'era! — Per Dorothy, la mezza età di Guy era ancora giovinezza. — Glielo avevo anche detto, ma lui aveva risposto che tutti dovrebbero fare testamento, non si può mai sapere, e se non lo fanno è soltanto perché hanno paura o sono egoisti. Non che non fosse egoista anche lui in certe cose. A volte mi faceva impazzire, sempre a chie-
dere questo e quello. Una moglie non avrebbe fatto di certo quel che gli facevo io. Emma pensò che nemmeno Guy avrebbe fatto per una moglie quel che faceva per Dorothy. — Avete parenti o amici presso i quali andare? — domandò. — Non ci ho ancora pensato. Ho dei parenti ma non ci siamo mai visti molto, non sarei certo la benvenuta. E non mi sono mai data molto da fare con gli amici. Avevo tutto quello di cui avevo bisogno, qui. E adesso l'unica cosa che desidero è una bella camera dove starmene comoda e tranquilla. Penso che ci siano case di riposo dove si sta molto bene, se si può permettersene una buona. Ma avrò tempo per pensarci. So che avrò del denaro e questa è la cosa più importante. Emma si alzò. — Bene, se avete bisogno di qualcosa fatemelo sapere. — Grazie, signorina Richtie. Siete molto gentile. Ma, gentile o no, Emma non le piaceva, glielo si leggeva nel lampo vagamente maligno degli occhi incolori dietro le spesse lenti. E a un tratto Emma si rese conto che nemmeno Dorothy piaceva a lei, che non le era mai piaciuta perché l'aveva sempre considerata una vecchia egoista che, alla sua maniera, sfruttava abilmente Guy. — Sono contenta che il dottor Lampard abbia provveduto a voi — disse. — Vado al laboratorio, ora. Non alzatevi. Conosco la strada. Si avviò rapidamente alla porta, poi si fermò. — A proposito, Dorothy, volevo chiedervi una cosa: conoscete una certa signora Fielding? La governante scosse la testa. — Una donna molto magra, di mezz'età, coi capelli rosso fuoco? Altro cenno di diniego. — Non era un'amica del dottor Lampard, che voi sappiate? — Al dottor Lampard non piacevano le donne coi capelli tinti — dichiarò risolutamente Dorothy. — Perché devono essere tinti, se è una donna di mezz'età. — Non l'avete mai vista? Non è mai stata qui? — No. — Capisco... — Emma se l'era aspettata. Quando uscì, respirò di sollievo nel ritrovarsi all'aperto, fosse pure nella grigia mattina di novembre, dopo l'incubo di quella casa buia. Raggiunse in macchina il parcheggio ed entrò nell'istituto dall'ingresso principale davanti al quale era ferma un'auto della polizia.
Quando la vide, Arthur Hawse l'informò che era arrivato sir Peter Walsh, segretario del Consiglio delle Ricerche dal quale dipendeva il King's Weltham, e che in quel momento si trovava in biblioteca insieme con il dottor Challoner e quasi tutti gli altri. Emma si avviò a sua volta verso la biblioteca. Sir Walsh stava dicendo in quel momento che per ora, naturalmente, sarebbe toccato al dottor Challoner dirigere l'istituto ma che era troppo presto, dopo la tragedia del giorno avanti, per pensare a sostituire il dottor Lampard che del resto, non era necessario dirlo, era insostituibile. Non appena la riunione si sciolse, Emma lasciò silenziosamente la stanza e tornò nel proprio laboratorio, benché non si illudesse certo di poter mettersi a lavorare alla sua relazione o anche a dedicarsi a qualsiasi altra occupazione meno impegnativa. Seduta alla scrivania, rimase a fissare la finestra oltre la quale andavano addensandosi nel cielo plumbeo grossi nuvoloni nerastri che sembravano fagotti di biancheria sudicia pronti per essere mandati in lavanderia. Avrebbe voluto andare da Roger per fare la pace, ma probabilmente lui sarebbe stato occupato con sir Peter per tutta la mattinata, se non addirittura per tutto il giorno, e oltre a quello restava il fatto ben più importante che in biblioteca Roger aveva evitato con cura di guardarla. Emma ripensò a Dorothy, alla sua palese antipatia per lei, alla sua convinzione che fosse stata innamorata di Guy e cominciò a chiedersi se lo stesso Roger non avesse nutrito una gelosia ben più accesa di quanto lei avesse mai sospettato. Udì aprirsi la porta e si girò di scatto con la speranza che fosse proprio lui, ma era soltanto Ernest Nixey. Ernest aveva il viso smunto e pesto di chi ha trascorso una notte insonne e agitatissima, con gli occhi scuri che sembravano ingranditi dallo sgomento. La morte di Guy pareva essere stata un colpo durissimo per lui, cosa che del resto non sorprese Emma che non ignorava come Ernest fosse un tipo profondamente emotivo per il quale la morte, di chiunque si trattasse, era sempre un fatto terrificante. Ora però sembrava addirittura disperato e questo era più di quanto Emma potesse aspettarsi. — Ti disturbo? — domandò Ernest dalla soglia. — No, affatto. Non stavo facendo niente. — Io invece avrei una quantità di cose da fare — ribatté stancamente lui. — Durante l'assenza di Mollie sulla mia scrivania si è ammucchiata una pila di lettere alta mezzo metro. Ora penso che potrei chiamare Maureen a darmi una mano, ma ho la mente così annebbiata che non riesco a pensare
a niente. Ti è mai capitato di avere la sensazione che il tuo cervello si stia trasformando in una sorta di pappetta grigia che da un momento all'altro sommergerà ogni cosa? Forse sto per diventare matto anch'io! — Secondo me hai soltanto bisogno di riposo. Sei sottoposto da troppo tempo a uno stress poco meno che intollerabile. Ti va una tazzina del mio orrido caffè? — Grazie, ben volentieri. — Ernest si appollaiò su uno sgabello. — Ma non posso prendermi un periodo di riposo, è assolutamente fuori discussione. Emma mise l'acqua nel bollitore, inserì la spina e prese le tazzine dall'armadio. — È vero, ma se tua moglie non ti riconosce neppure, quando vai a trovarla — osservò, mettendo qualche cucchiaino di caffè liofilizzato nelle tazze — non vedo perché non potresti prenderti una vacanza. Non sarebbe una mancanza nei suoi confronti. Perché è questo che pensi, vero? Vattene alle Canarie o a Madera... in qualche posto dove ci sia il sole. Sono certa che ti farebbe tanto bene! — E qui succederebbe il caos — obiettò lui. — Ora peggio che mai. No, no, non c'è nemmeno da pensarci. — E lascia che avvenga il caos! Non accadrà niente che non possa rimettere a posto quando tornerai riposato e in perfetta forma. Ernest la guardò con un sorrisetto triste. — So che parli per il mio bene, Emma, ma ci vuole denaro per cose del genere. Denaro, Signore! Era già dura prima, ma adesso... non so... non riesco a pensarci... non ce la faccio più. L'incubo è diventato insopportabile. Non so che cosa potrò fare! Il bollitore cominciò a brontolare ed Emma si dedicò alla preparazione del caffè, incapace di decidere se fosse o no il caso di lasciar intendere a Ernest quanto fosse preoccupata per lui: non era da escludere che un'aperta simpatia servisse soltanto a fargli perdere anche quel po' di autocontrollo che gli era rimasto. Non riusciva a immaginare perché, ma si sarebbe detto che la morte di Guy fosse per Ernest un colpo anche più duro di quanto non fosse per lei stessa e questo era strano perché Emma era certa di avergli voluto bene molto più di quanto non potesse avergliene voluto Ernest. — Eccoti il caffè — disse, porgendogli la tazza. Lui la guardò con aria assente. — Non so che cosa potrò fare — mormorò di nuovo. — Riguardo a tua moglie? O al tuo lavoro? O alla morte di Guy? Che cosa c'è, Ernest?
Ernest non rispose. Bevve il caffè mentre il suo viso si faceva sempre più scuro. — Non è che sai qualcosa... qualcosa che non hai detto a nessuno? — insisté Emma. — Oh, per l'amor di Dio... — Improvvisamente infuriato, Ernest inghiottì un gran sorso di caffè e mugolò perché si era scottato. — Scusami, mi dispiace di averti turbato — mormorò Emma. — Non sono turbato affatto — dichiarò lui senza troppa convinzione. — Mi chiedevo soltanto come mai eri qui nel corridoio dopo che Roger aveva scoperto il corpo di Guy. — Oh, non lo so nemmeno io. Credo di avere pensato istintivamente di andare a rifugiarmi nel mio ufficio. Poi mi sono ricordato che Roger ci aveva chiesto di riunirci tutti in sala, in attesa della polizia, e sono tornato indietro. — Hai visto Sam nel suo laboratorio? — Fammi pensare. Sì, mi pare. Sì, la porta era aperta e lui stava telefonando. — Ernest si era un po' calmato, ora. — Perché, ha importanza? — Non lo so. Non so che cosa sia o non sia importante. Non hai visto nessun altro? — Credo che ci fosse qualcuno nel laboratorio di Bill, lui stesso, probabilmente. Ma perché, Emma? Che cosa importa dov'eravamo dopo che Guy era stato ucciso? — Il fatto è che era accaduto qualcosa di strano agli orologi delle stanze lungo il corridoio, prima della morte di Guy o subito dopo. Non nel tuo ufficio, credo, ma non hai notato, per caso, che quello nella stanza di Mollie era indietro di dieci minuti? Oppure era già stato rimesso a posto? — Non lo so, non me ne sono accorto. — Ernest guardò il proprio orologio, poi controllò l'ora su quello elettrico. — Ah, vedo! Vuoi che te lo metta a posto? — No, no, ci penserà la polizia. Non dobbiamo toccare niente. Lascia com'è anche quello di Mollie. — Pensi che abbia qualcosa a che vedere col delitto? — Può darsi che abbia qualcosa a che vedere con l'alibi di qualcuno. Ernest rifletté un momento poi scosse la testa. — Non col mio, comunque. Io non ne ho. Ma non avrei avuto neppure un movente. Se c'è qualcuno per il quale la morte di Guy è un vero disastro... Ah, non riesco nemmeno a pensarci! Che cosa farò, ora! Sono in una situazione terribile. Ma devo tener duro, non posso crollare proprio ora. Hai mai desiderato di ave-
re un bel collasso nervoso, Emma? Io non riesco a impedirmi di pensare che sarebbe un lusso meraviglioso! No, scusami, sto dicendo delle sciocchezze. — Ernest finì il caffè e posò la tazzina. — Non sono venuto per scaricare addosso a te i miei guai. Volevo soltanto fare due chiacchiere perché non riesco a lavorare. Penserò a quella faccenda degli orologi, anche se al momento non vedo quale significato potrebbe avere. Uscito Ernest, Emma rimase seduta dov'era, riflettendo. L'unico suo desiderio sarebbe stato quello di andare a cercare Roger e rifare la pace con lui. Ascoltare i problemi degli altri rinvigoriva in lei la volontà di risolvere il proprio. Probabilmente anche Roger desiderava la stessa cosa e uno dei due avrebbe pure dovuto fare il primo passo. E anche se lui fosse stato tuttora impegnato con sir Peter, chissà che non le riuscisse di trovare il modo per restare sola con lui per qualche minuto. Emma si alzò e si avviò risolutamente alla porta. Ma prima che l'avesse raggiunta, essa si aprì di nuovo. Stavolta Emma fu certa che fosse Roger e provò l'impulso di correre a gettarsi fra le sue braccia, senza una parola di spiegazione per quello stupido contrasto che ormai le sembrava soltanto un lontano ricordo. Ma rimase inchiodata dov'era. Sulla soglia era apparso il sovrintendente Day. Emma rammentò quello che le aveva detto Arthur, a proposito del sovrintendente, della sua violenza quando era un semplice poliziotto di quartiere, dei suoi modi ben altro che affabili con i malviventi, ma osservando la sua figura sparuta nel vestito sformato e il suo sorriso triste e un po' amaro, le riuscì difficile credere che potesse essere davvero un individuo tanto pericoloso. — Mi offrite una tazza di caffè? — domandò Day. — Ne ho sentito l'aroma fin dal corridoio. Sono ore che ho fatto colazione! Emma si avvicinò alla credenza dove teneva le tazzine. — È vero che la signora Fielding è sparita? — domandò. — Temo proprio di sì. Lasciarla andar via così è stato uno degli errori più stupidi della mia vita. — Non avete idea di dove possa essere? — Dove no, ma chi... be', qualche mezza idea l'abbiamo. Voi l'avevate portata qui, vero, e poi l'avevate lasciata con la signorina Kirby? — Esatto. Sembrava sull'orlo di un collasso, così l'ho portata qui e le ho fatto un caffè. Poi, quando voi mi avete fatta chiamare l'ho affidata alla signorina Kirby perché la tenesse d'occhio, ma quando sono tornata la signo-
ra era sparita. — Emma inserì di nuovo la spina del bollitore e preparò una tazza di caffè per il sovrintendente e una seconda per sé. — Ma credete che si sentisse male davvero — domandò Day mentre lei gli porgeva la tazza — o che sia stata una scena per poter andarsene dalla sala comune? — Era senz'altro una scena — dichiarò Emma tornando a sedersi dietro la scrivania. — Perché? — Day si appollaiò su uno sgabello. — Conoscevo molte bene il dottor Lampard da tanti anni, ma non avevo mai visto quella donna né mai lui me ne aveva parlato. E non era davvero reticente su argomenti del genere. Sapevo sempre quando aveva una storia con qualche donna. — E vi dispiaceva? — Day fissò Emma con una sorta di sollecitudine che la fece pensare una volta ancora a un medico unicamente interessato ai suoi sintomi patologici. — No davvero — rispose. — Perché avrebbe dovuto? — Avevo l'impressione... mi ero fatta l'idea... — Day sembrava non trovare l'espressione giusta — ... che il dottor Lampard significasse molto per voi. — È così, difatti. — E allora quelle storie non vi urtavano? Emma sorrise. — Sembra quasi che abbiate parlato con Dorothy. Lei è persuasa che io fossi innamorata del dottor Lampard. In realtà, sono fidanzata col dottor Challoner. — Ma lo era ancora? si domandò. — Tutti sanno — continuò aggrappandosi a un fatto certo — che da anni c'è fra noi quella che voi chiamate una storia. Day annuì in un modo che le fece capire come ne avesse sentito parlare anche lui. — Ho parlato tanto con Dorothy quanto con la signora Hawse — ammise: — L'una e l'altra sono convinte che non abbiate mai sposato il dottor Challoner perché speravate di sposare il dottor Lampard. — Temo che vi abbiano fuorviato, signor Day. Ma posso chiedervi perché mai questo dovrebbe interessarvi? — Bene, se quelle due signore la pensano così, potrebbe pensarla così anche qualcun altro, no? Emma lo fissò per un attimo con occhi vuoti, poi comprese a un tratto che cosa Day avesse inteso dire con quel giro di parole e fu sorpresa di sentirsi così poco in collera, finché non si rese conto che la sua collera era
soffocata dalla paura. — State parlando del dottor Challoner, naturalmente — disse sforzandosi di restare calma. — State insinuando che potrebbe essere stato geloso del dottor Lampard e che questo sarebbe potuto essere un ottimo movente per un omicidio. — Siete molto esplicita. — Negli occhi del sovrintendente brillò un lampo di approvazione. — Io stavo facendo del mio meglio per trattare la questione con un po' di tatto. — Io invece preferisco la chiarezza. — Bene, come volete, allora. Aveva dunque un movente, il dottor Challoner? Avrebbe avuto il tempo di commettere il delitto, capite? E le sue mani erano sporche di sangue. Quello di farsi trovare col rasoio in mano potrebbe essere stato un gesto premeditato. Inoltre, ci sono altre due o tre cosette... Emma aspettò che proseguisse. Si stava abituando alla paura, ormai, perché sentiva di poterla dominare. Ma quando il sovrintendente riprese a parlare, ciò che disse la colse di sorpresa. — Avete pensato alla possibilità che la signora Fielding non fosse diretta all'ufficio del dottor Lampard? — Ma ve lo ha detto lei stessa che stava andando là, no? — Questo è ciò che ha detto lei... — Il sovrintendente si strinse nelle spalle. — Ma consideriamo i fatti. La signora Fielding entra dall'ingresso principale proprio mentre il dottor Challoner sta avviandosi su per la scala, diretto all'ufficio del dottor Lampard che si trova sul primo pianerottolo, perfettamente visibile dalla cabina di Hawse. Questi difatti vede la signora entrare e salire a sua volta subito dopo il dottor Challoner che nel frattempo entra nell'ufficio lasciando aperta la porta. La signora arriva sul pianerottolo, dà un'occhiata nella stanza e si arresta di colpo, mettendosi a urlare. Ma supponiamo che il dottor Challoner avesse invece richiusa la porta e lei non avesse potuto guardare dentro. Da quel pianerottolo si dipartono altre due rampe di scale, sulla destra e sulla sinistra. Quella a destra porta all'ufficio della signorina Kirby, alla biblioteca e al laboratorio del dottor Challoner, quella a sinistra conduce a un altro pianerottolo dove si trovano le toilettes e poi a un'altra rampa che sale ai laboratori dell'ultimo piano. Verso le tre e mezzo da quest'ultima rampa stavano scendendo parecchie persone, alcune delle quali in gruppo e quindi in possesso di un alibi inattaccabile. Altre due o tre invece dichiarano di non essere scese per il tè e di queste stiamo controllando attentamente il passato per scoprire eventuali
episodi di violenza o di anormalità, o un possibile movente, ma sono tutti giovani, assunti da poco, e da questo lato non siamo approdati a niente. Ora, il punto che m'interessa è questo: se la porta del dottor Lampard fosse stata chiusa e niente avesse attirato la sua attenzione, la signora Fielding, ammesso che questo sia realmente il suo nome, cosa che non credo, si sarebbe fermata al primo pianerottolo o sarebbe invece salita all'ultimo piano, per incontrarsi con qualcun altro? Voi che ne pensate? Per la prima volta Emma avvertì, sotto l'amabilità di Day, la durezza della quale le aveva parlato Arthur, ma quando incontrò il suo sguardo fermo e penetrante lo sostenne con pari fermezza. — Non saprei — rispose. — Ma se stava andando dal dottor Challoner, poiché suppongo sia questo che intendete, come mai non lo ha chiamato quando lo ha visto davanti a sé, sulla scala? — Forse non voleva tradirsi davanti ad Hawse. Emma scosse la testa. — Seguire una traccia simile sarebbe soltanto una perdita di tempo, signor Day. — Pure quella donna andava da qualcuno e voi stessa mettete in dubbio che si trattasse del dottor Lampard. — All'istituto lavora una quantità di gente, poteva trattarsi di chiunque. — Emma alzò gli occhi all'orologio elettrico. — A proposito degli orologi, a esempio: non avete pensato che l'unica persona nell'assoluta impossibilità di manometterli è stata proprio il dottor Challoner? Lo abbiamo visto tutti uscire dall'ufficio del dottor Lampard, poi salire nel proprio laboratorio per lavarsi le mani e quindi scendere nella sala comune. A rigore, si potrebbe pensare che quando è sceso abbia fatto una rapida deviazione qui nel corridoio, prima di raggiungere la sala comune, ma Hawse lo avrebbe visto, no? Perciò non può essere stato lui. Il sovrintendente fece il suo solito sorrisetto triste. — Sì, penso che abbiate ragione, non può avere manomesso gli orologi. Ma non siamo certi che la persona che lo ha fatto sia la stessa che ha commesso l'omicidio. L'unica spiegazione che siamo riusciti a trovare è che qualcuno volesse far convergere i sospetti sul dottor Partlett. Il suo è il solo alibi che sia strettamente collegato a quegli orologi. Ma qualcuno che non lo ha in simpatia potrebbe semplicemente avere approfittato dell'occasione per danneggiarlo con un atto che in realtà non ha niente a che vedere col delitto. Lo capite, vero? Sembrava dispiaciuto per lei, come se le stesse dicendo che forse avrebbe dovuto sottoporsi a un'operazione molto dolorosa.
La collera di Emma cominciava a prevalere. — Oh certo, capisco benissimo. Voi state ancora cercando di addossare il delitto al dottor Challoner. Non so perché, ma è una soluzione che vi attrae. Secondo voi, la manomissione degli orologi è una questione di minor conto, ma lo sapete che almeno tre persone si sono trovate in questo corridoio prima che ci riunissimo tutti nella sala comune? Ognuno di quei tre avrebbe potuto manomettere gli orologi. Day inarcò le sopracciglia. — No, non lo sapevo. — Bene, sentite che cos'ha da dire il signor Nixey, allora. Lui era uno di quei tre e ha udito il dottor Partlett parlare al telefono nel suo laboratorio. Parlava con sua moglie, me lo ha poi detto lei stessa. E il signor Nixey ha anche visto qualcuno nel laboratorio del dottor Carver, probabilmente lo stesso dottor Carver. — Molto interessante — mormorò lentamente Day. — Ma questo non modifica la mia opinione che la manovra con gli orologi sia stata compiuta per incriminare il dottor Partlett. Sapreste trovare un altro motivo? — Potrebbe essere stato un tentativo per incriminare me. — Sì, potrebbe. Così siamo al punto di partenza. Ma ora vorrei farvi un'altra domanda. — Il sovrintendente finì il caffè e posò la tazza. — In parole povere, potete spiegarmi che cos'è una soluzione tampone? L'ho già chiesto al dottor Challoner, ma mi ha dato una spiegazione troppo difficile per me. — In effetti è un po' difficile. È una soluzione che serve per stabilizzare l'acidità. — L'acidità di che cosa? — Di un sistema sperimentale. — Ah. Non credo che arriverò molto lontano con voi. Ma si usano i barbiturici per questo scopo? — Si possono usare «anche» i barbiturici. Alcuni lo fanno ancora, ma è un metodo un po' antiquato, ormai. Ora si usano altri prodotti. — Però qui continuate a usare i barbiturici. È normale? — Certo. — Sapete che ne è sparita una certa quantità? — Così mi ha detto il signor Rankin. Il sovrintendente parve riflettere un momento, poi si alzò. — Vi ho detto che non sapevamo niente di certo sul conto della signora Fielding, ma mentre parlavo con lei mi è sembrato di notare che mostrasse qualcuno dei sintomi caratteristici dei drogati e quando sono entrati in sce-
na i barbiturici, abbiamo pensato che fosse qualcuno dell'istituto a rifornirla. È strano che nessuno qui sembri averla mai vista e che nonostante questo lei conoscesse tanto bene l'edificio. Sapeva dove andare quando è entrata e sapeva come uscire quando ha voluto andarsene inosservata. Avete qualche idea in proposito, dottoressa Richtie? A un tratto Emma ebbe voglia di ridergli in faccia. — Ma è ovvio, no? Se, come pensate, era venuta dal dottor Challoner, deve essere stato lui a rubare i barbiturici per rivenderli alla signora traendone un utile considerevole. Ma il dottor Lampard lo ha scoperto sicché si è reso necessario ucciderlo e la signora Fielding ha visto il dottor Challoner compiere il delitto perché avevano concordato che lei salisse appunto in quel momento, per poter mettersi a gridare al segnale convenuto e giurare poi che non poteva essere lui il colpevole. È tutto molto chiaro e assolutamente convincente. Il viso di Day si fece ancora più triste del solito. — Vorrei davvero che fosse soltanto uno scherzo — ribatté. — Purtroppo nel mio lavoro non posso permettermi molti scherzi. Ma quale sbadataggine da parte del dottor Challoner avere tanti possibili motivi per uccidere il dottor Lampard! L'ambizione, tanto per cominciare. Oh, lo so, non è affatto certo che debba essere lui a prendere il suo posto, dice, ma è pur possibile, no? Poi la gelosia. Voi dite che è un argomento inesistente, ma forse lui non è dello stesso parere. E infine il lucro. Le droghe spuntano ottimi prezzi al mercato nero. Ma vi ho già fatto perdere troppo tempo. Grazie per la vostra pazienza e per il caffè. Uscito il sovrintendente, Emma rimase a lungo immobile, chiedendosi da che cosa derivasse la sua sensazione che Day avesse detto qualcosa di molto importante che non aveva niente a che vedere con i suoi sospetti su Roger. Poi la porta si riaprì e stavolta, finalmente, era Roger. — Mi chiedevo se ti piacerebbe andare a far colazione a Crandwich — domandò tranquillamente, come se non rammentasse affatto che la sera avanti si erano lasciati in malo modo dopo la loro prima lite. Emma era certa che se lo ricordava benissimo, come lei, ma che, come lei, aveva deciso che fosse meglio seppellire quell'incidente e non parlarne più. Ne fu contenta. — Non devi portar fuori sir Walsh? — ribatté. — Se n'è già andato. Lo ha accompagnato alla stazione Bill. Desiderava tanto un abboccamento a tu per tu e andava benissimo anche per me. Allora, si va?
Emma si alzò. — Bene, andiamo. Ho appena avuto una lunghissima seduta col sovrintendente — annunciò mentre s'infilava il cappotto. — Mi ha detto che probabilmente la signora Fielding è una drogata, forse immischiata nel furto dei nostri barbiturici. Te ne aveva parlato? — Sì e mi stavo appunto chiedendo... — Roger s'interruppe per aprirle la porta e non riprese il discorso finché non furono fuori dell'istituto, diretti verso il parcheggio. — Se qualcuno ha rubato quella roba per venderla — riprese allora — deve aver fatto una barca di soldi e chi ha mostrato di poter disporre negli ultimi tempi di somme di denaro non facilmente giustificabili? La risposta mi sembra ovvia. Come ha fatto Ernest a mantenere sua moglie in un posto come la Manstead House? Non certo col suo stipendio! 8 Per un bel po', nessuno dei due ebbe voglia di parlare, dopo quella considerazione. Partirono con l'auto di Roger ed erano quasi a Crandwich quando Emma domandò: — Hai detto qualcosa alla polizia? — No, ci arriveranno da soli se trovano qualche indizio. — Quanto pensi che possano valere i barbiturici al mercato nero? — Non ne ho la minima idea. — Ma non tanto quanto la marijuana o l'eroina, vero? — No, penso di no. — E non può esserne sparita una grande quantità, altrimenti Stan se ne sarebbe accorto prima. Roger annuì. — Così, chiunque li abbia presi — continuò Emma — probabilmente ne ha ricavato soltanto pochi spiccioli. — Certo non a sufficienza per mantenere una moglie alla Manstead House, se è questo che intendi. — Sì. — Spero che tu abbia ragione. — Roger s'infilò nel parcheggio del George. — Resta comunque il problema di dove Ernest prenda il denaro. — Forse avrà dei mezzi personali di cui non ha mai parlato. Molta gente pensa che sia cattiva educazione parlare del denaro che possiede. Ed Ernest è un contabile, potrebbe avere investito molto bene il proprio denaro. — Potrebbe avere investito bene quel che ha ricavato dai barbiturici — osservò Roger mentre si avviavano verso l'albergo. — Non dirai sul serio, vero?
— Perché no? — Perché è... oh, è una persona troppo per bene per lasciarsi coinvolgere in una cosa sporca come il racket della droga. — In altre parole tu pensi che un uomo tanto leale nei confronti di una moglie pazza non sarebbe mai capace di un'azione così indegna. Ma potrebbe essere stata proprio quella lealtà che lo ha indotto a rubare. — Ma non stiamo parlando soltanto di furto — precisò Emma. — Stiamo parlando anche di omicidio. Entrarono nel piccolo atrio semibuio del George, un vecchio edificio dai soffitti bassi con grosse travi scure. — Non necessariamente — ribatté Roger. — Non sappiamo se i barbiturici e il delitto siano collegati. Io penso di no. Ho una certa teoria... — S'interruppe perché erano arrivati al bar. — Che cosa prendi? Whisky o gin? Emma chiese un gin con acqua tonica e Roger ordinò lo stesso per sé. — Hai detto che avevi una certa teoria — riprese Emma quando furono seduti davanti alle loro bibite, su un comodo divanetto sotto una finestra. Ma Roger scosse la testa. — Be', non proprio. E in ogni caso non siamo venuti qui per parlare di questo, ti pare? Ciò che volevo dirti è che non pensavo affatto quello che ho detto ieri sera su te e Guy, o se lo pensavo... sono stato uno sciocco, ecco! — Non parliamone più, Roger. Non eravamo in condizioni di spirito normali, ieri sera. Però, ti prego, cerchiamo di non litigare più, non potrei sopportarlo. — Ah, ma se abbiamo davvero intenzione di sposarci, sarà meglio che ti ci abitui — ribatté lui sorridendo. — Pare che tutte le coppie sposate lo facciano. — Se stai pensando ai Partlett... — Al diavolo i Partlett! — l'interruppe Roger. — Non mi sembra che abbiamo molto in comune con quei due. Ma ci sposeremo, vero? — Oh sì! — Allora, dopo colazione bisognerà andare a comprarti un anello. Poi, uno di questi giorni, se vuoi, andremo a Londra a comprarne uno di brillanti, ma voglio che tu ne abbia uno oggi stesso. Sarà magari un anellino modesto, quale potremo trovare nel negozietto di antiquariato in piazza, e non sarai obbligata a portarlo se pensi che non sia il momento adatto, ma desidero tanto che tu venga a sceglierlo oggi pomeriggio. — Non ho una passione particolare per i brillanti — mormorò Emma con voce un po' tremante.
— E non andremo ad Adelaide. — Ma io desidero andare ad Adelaide! — No, noi ci sistemeremo a King's Weltham e ci resteremo per tutto il resto della nostra vita, se vuoi. — Roger, non hai idea di quanto io sia stufa di King's Weltham! Se non ci fossi stato tu, me ne sarei andata da un pezzo. Quando pensi che potremo andarcene? Roger la fissò dubbioso, con un'espressione improvvisamente preoccupata. — Sei certa che sia proprio ciò che vuoi, Emma? Lei annuì, seria. — Sì. E voglio vedere un bel po' di mondo, già che ci siamo. Possiamo farci un lungo viaggio, con calma, senza aspettare fino a quando saremo vecchi, come i Bushell. Il viaggio che si ricorda per tutta la vita. Allora forse potremo cominciare a scordare almeno in parte ciò che è accaduto in questi ultimi giorni. — Non scorderemo mai Guy. — Non lo vorrei neppure. Quel che vorrei dimenticare... — Sì? — la esortò Roger. — Vorrei dimenticare certe cose che non sono ancora accadute. Dovranno accadere ancora cose terribili, vedrai. E io vorrei poter escludere da me, non saperne niente. — Nemmeno chi ha ucciso Guy? — Forse. — Io sì, invece. Perché voglio sapere chi non è stato. Non voglio dover continuare a chiedermi chi dei miei vecchi amici potrebbe essere stato capace di commettere un omicidio. Voglio avere la certezza che sono innocenti. — Tu pensi di sapere chi è stato, vero, Roger? Quella sua teoria... — È soltanto una teoria. Non parliamone più, pensiamo invece all'anello che compreremo. Ho una quantità di denaro, sai, quello che ho guadagnato vendendo barbiturici al mercato nero. Emma rise. — Sicché sai che la polizia ha un mezzo sospetto su di te! — Sì, ma non credo che sospettino veramente. Secondo me, Day sta soltanto creando un po' di confusione per vedere che cosa salta fuori da questo intruglio infernale. E ora vogliamo far colazione? Dopo, andarono al piccolo negozio di antiquariato che esponeva sempre in vetrina una collezione di gioielli modesti ma di gusto squisito. Non appena li ebbe davanti a sé sul banco, Emma seppe qual era l'anello che avrebbe scelto, un'opale dalle meravigliose iridescenze montata su un sottile
cerchietto d'oro. Ne provò tuttavia parecchi, per il caso che Roger avesse posto gli occhi su qualcun altro, ma poiché lui non manifestò alcuna preferenza, alla fine scelse l'opale. Tornati all'istituto, Emma e Roger si separarono, lui per salire al suo laboratorio e lei per tornare al proprio, in fondo al corridoio. Ma vi rimase soltanto pochi minuti. Era in preda a un'emozione molto più violenta e conturbante di quanto si sarebbe aspettata in quella circostanza. Non aveva mai pensato che il matrimonio potesse significare tanto per lei. Lei e Roger sarebbero andati davanti a un ufficiale di Stato Civile, si era detta, avrebbero pronunciato la breve formula di rito e firmato qualche modulo, poi sarebbero tornati alla loro vita abituale. Ora invece scopriva che le cose non erano così semplici. La verità era che stava vivendo un momento di grandissima importanza, non soltanto per la decisione presa di impegnarsi con un matrimonio, ma perché stava per lasciare King's Weltham insieme con Roger e cominciare con lui una vita completamente nuova. E a un tratto sentiva l'irresistibile bisogno di parlarne con qualcuno. Fino a due giorni avanti, sarebbe andata difilato da Guy che si sarebbe congratulato con lei e le avrebbe augurato tanta felicità, anche se con un'espressione riservata e vagamente sardonica che l'avrebbe riportata immediatamente coi piedi per terra, un posto dove tutto sommato lei si trovava assai meglio di quanto non si trovasse fluttuando così tra nuvolette dagli strani colori, iridescenti e punteggiate di scintille dorate come l'opale che aveva al dito. Ma Guy non c'era più ed Emma, con le gote più colorite del solito e le mani ficcate nelle tasche del golf per nascondere l'anello, ripiegò su Ernest Nixey. Che cosa avrebbe detto se lo avesse trovato tranquillamente immerso nel proprio lavoro, rimase per sempre un mistero perché Ernest era invece piegato sulla scrivania, col viso nascosto fra le braccia e le spalle scosse dai singhiozzi. Come udì aprirsi la porta, sollevò la testa. Col viso rigato di lacrime, rimase per un attimo a fissare Emma come se non la vedesse, poi pescò da una tasca un fazzoletto e si asciugò gli occhi. — Oh, scusami! — mormorò. — Che c'è, Ernest? Che cos'è accaduto? — domandò lei, subito in ansia. — Una cosa straordinaria, semplicemente incredibile — fu la risposta. Ernest si soffiò rumorosamente il naso, si asciugò di nuovo gli occhi e rimise in tasca il fazzoletto. — Mi ha sconvolto. Puerile da parte mia! Non avrei dovuto lasciarmi andare a questo modo, ma tante emozioni, una dopo
l'altra... Non parlarne con nessuno, Emma, ti prego! — Ma certo che no, Ernest! Ma non vuoi dirmi qual è il guaio? — Oh, non è affatto un guaio, anzi! Non riesco ancora a crederci! — Gli occhi arrossati di Ernest luccicarono ancora di lacrime che lui si asciugò col dorso della mano. — Entra e chiudi la porta, per favore. Non voglio che qualcun altro mi sorprenda in questo stato. — Si tratta di tua moglie? — domandò Emma sedendosi di fronte a lui. — Be', sì, in un certo senso. Com'è strana la vita! Sono stato sul punto d'impazzire per la preoccupazione e ora capita che... Non ho potuto resistere, sono crollato! — Hai buone notizie, allora? Sta meglio? Ernest scrollò la testa. — No, purtroppo, non è questo. Non ho mai detto niente, ma sapevo da un pezzo che non sarebbe migliorata mai, a meno che non si scoprisse qualche nuovo farmaco miracoloso che probabilmente non si scoprirà mai. No, è stato Guy... quel che ha fatto. Mi raccomandava sempre di non farne parola con nessuno ma ora che lui è morto non vedo perché non dovrei dirlo a un'amica come te. Ho appena saputo dai suoi avvocati... No, no, sto cominciando dalla fine. Come avrei bisogno di bere qualcosa! Hai niente nel tuo laboratorio? — Soltanto alcool puro. Ernest la guardò con un sorrisino smorto. — Bene, me la caverò anche senza, basta coi piagnistei! Quello che Guy mi raccomandava di non dire, Emma, era che da quando mia moglie è ricoverata alla Manstead House i conti li ha sempre pagati lui. Era cominciato tutto quando gli ho detto che intendevo lasciare il posto per restare a casa e badare a mia moglie. Non sopportavo l'idea di farla ricoverare in uno di quegli enormi complessi statali dove sarebbe diventata quasi soltanto un numero fra tanti e, anche se l'avessero trattata bene come so che tanti medici e tante infermiere fanno, nessuno l'avrebbe più trattata come un vero essere umano, una persona particolare che qualcuno poteva ancora amare con tutto il cuore. Così avevo deciso di tenerla a casa, cercando di farle ottenere una pensione di invalidità e trovandomi qualche lavoro indipendente per guadagnare qualcosa. Ma quando lo dissi a Guy, lui non volle saperne. Avrei avuto più che mai bisogno del mio lavoro per non impazzire anch'io, disse, ed era la verità, naturalmente, e aggiunse che l'unica cosa da fare era cercare una buona casa di cura: alla spesa avrebbe provveduto lui. Da principio non riuscii a credere che parlasse sul serio. Sapevo che era molto ricco, ma quanti ricchi avrebbero mai fatto a un amico un'offerta simile? Ma quando tentai di dire
che non potevo assolutamente accettare, mi rispose di non essere sciocco. Sai com'era in certe occasioni, così brusco e imperioso che quella volta per poco non ci litigai. Ma che uomo era, Emma! Non ho mai conosciuto nessuno come lui! Con la gola stretta da un nodo, Emma rammentò come lei e Roger avessero parlato della possibilità che Ernest avesse arrotondato il proprio stipendio trafugando e vendendo barbiturici. Come avrebbero potuto pensare che fosse Guy a finanziarlo? Per qualche momento non riuscì nemmeno a parlare. — Fu lui a scoprire la Manstead House e a prendere tutti gli accordi — continuò Ernest. — Io non ero in condizioni di pensare nemmeno a quello, in quel periodo. Mi costrinse a conservare il mio posto e spesso fu persino estremamente duro con me, ma credo lo facesse di proposito, e così mi ha salvato. — Ernest si appoggiò allo schienale della seggiola ed emise un profondo sospiro. — È un sollievo parlare con te di queste cose. So che a una quantità di gente Guy non piaceva per niente. Aveva un talento particolare per farsi dei nemici, ma a volte, quando udivo gente come Bill Carver dire peste e corna di lui, pensavo: «Se soltanto sapessi che uomo è veramente!» Ma faceva parte del nostro accordo che io non ne facessi parola con nessuno e non ne ho mai parlato. E poi... lui è morto... — E tu hai pensato che non avresti più ricevuto niente — disse Emma. — Per questo eri così disperato e dicevi di non sapere come avresti potuto cavartela. Poi gli avvocati di Guy ti hanno detto che avresti continuato a ricevere quel denaro e tu sei crollato, è così? Ernest annuì, con un altro lunghissimo sospiro. — Credo che abbia lasciato la maggior parte di quanto possedeva ad alcuni nipoti — spiegò. — Ma nel testamento ci sono due disposizioni particolari: una riguarda il mantenimento di Dorothy vita natural durante e l'altra il pagamento delle spese per mia moglie finché avrà bisogno di essere ricoverata in casa di cura. Non è commovente che ci abbia pensato? Ma era sempre così preciso in tutte le sue cose, come in tutto ciò che riguardava l'istituto. Gli piaceva dare l'impressione di essere svagato e indifferente nelle questioni materiali, di lasciar fare tutto a me, ma in realtà stava dietro a tutto ed era sempre lui a prendere le decisioni più importanti. Quella storia dei barbiturici, a esempio. Aveva detto chiaro e tondo di sapere chi era stato e di voler occuparsene personalmente. Per questo, credo, lo hanno ucciso. — Chi lo sa! Vedi, c'erano due lati contrastanti nel carattere di Guy. Sa-
peva essere addirittura crudele con chi non gli andava a genio e credo che a volte ne gioisse persino. — Ma era un uomo tanto buono! — Con te e con me. Per certuni poteva diventare letteralmente distruttivo. Si aprì la porta ed entrò Bill Carver. — Bene, avete finalmente risolto il mistero, fra tutti e due? — domandò. — Sapete, è diventato il gioco di società più in voga all'istituto, in questo momento. Lo fanno tutti. Purtroppo la polizia crede di avere scoperto il colpevole e pare che quanto prima ci sarà un arresto. Ho pensato che la cosa potesse interessarvi e sono venuto per darvi la notizia con una certa delicatezza. Ma non c'era niente di delicato nelle sue maniere. Aveva la voce alterata e il suo tono beffardo non riusciva a nascondere del tutto un'asprezza quasi violenta. Per un attimo, Emma temette che Bill fosse venuto ad annunciarle che la polizia stava per arrestare Roger, che sembrava essere stato fin dal principio il sospettato numero uno del sovrintendente Day, e che provasse un maligno piacere nel farsi latore della lieta novella, ma gli stava facendo un torto. Ritto sulla soglia, con le gambe divaricate e la testa alta, Bill si batté i pugni sul petto. — Vi presento l'assassino! — esclamò in tono teatrale. — Verranno a prendermi fra qualche minuto. Avevo un movente... odiavo Lampard e non ne facevo mistero. Avevo l'arma, rasoi a diecine. E ho avuto l'opportunità. Questo vi sorprende, vero? Bene, è così. Quella maledetta Maureen ha detto alla polizia di avermi visto salire all'ufficio di Lampard intorno alle quattro meno venti, pochi minuti prima che Hawse tornasse dalla saletta del tè, ed è vero. Così penso che dovrò arrendermi. Non ho alcuna possibilità di difesa, non vi pare? — Entra e siediti — lo invitò Emma. Bill entrò e si afflosciò su una sedia ed Emma ebbe un tuffo al cuore nel rendersi conto che sotto quell'atteggiamento di sfida beffarda si nascondeva una terribile paura. — Eri salito da Guy? — domandò stupita. — Sì e Maureen mi ha visto. — Bill aveva la fronte imperlata di sudore e il suo sguardo, di solito aperto e un po' sfrontato, si era fatto sfuggente ed evasivo. — Sai, credo che quella figliola avesse un certo debole per me, forse anche qualcosa di più. I primi tempi, quando è arrivata qui, ho avuto
il mio da fare per convincerla che sono un marito fedele. E per convincere mia moglie che non aveva motivo di essere gelosa. Non ho tempo per cose del genere. E forse lei, Maureen intendo, non me lo ha mai perdonato. Forse è per questo che è andata a raccontare tutto alla polizia. — Ma era la verità, no? — Sì, certo, e io sapevo che Maureen mi aveva visto. Era uscita dalla sala mentre salivo da Lampard ed è rimasta là a guardarmi. Quando sono sceso, sono andato difilato nel mio laboratorio e ho vomitato nel lavandino. Ma lei non aveva detto niente alla polizia, ieri, così ho pensato di poter stare tranquillo. Poi oggi, chissà come, ha spifferato tutto. È venuta da me, poco fa, per avvertirmi. Ha pianto, ha detto che le dispiaceva da morire, ma l'avevano spaventata, non se l'era sentita di mentire. E se ne stava lì seduta davanti a me, quella strega maledetta, come se dovessi essere io a consolare lei! Evidentemente pensava che due lacrime bastassero ad annullare il danno che aveva fatto. L'avrei strozzata! — Ma se è vero che sei salito da Guy, forse non ha potuto fare a meno di dirlo — osservò Emma. — Forse la polizia aveva scoperto qualcosa e l'ha messa alle strette. — Allora perché non lo ha detto subito? Almeno avrei saputo a che punto ero e non avrei raccontato la frottola di essere andato direttamente in sala dal mio laboratorio. Avrei dovuto dare qualche spiegazione, naturalmente, ma non mi sarei trovato nella situazione falsa in cui mi trovo ora. Ernest stava osservando Bill con la fronte aggrottata. — Hai detto di avere vomitato nel lavandino — osservò. — Vuoi dire che Guy era già morto quando sei salito da lui? — Certo che era morto! Era là seduto, con uno squarcio nella gola e tutto inondato di sangue. Non ho mai sopportato la vista del sangue, io! Se mai pensassi a uccidere qualcuno non lo farei mai tagliandogli la gola, gli metterei tutt'al più il veleno nel bicchiere! C'è mancato poco che svenissi là sui due piedi, non so nemmeno io come ce l'ho fatta ad arrivare fino al laboratorio. — Come mai eri salito da Guy? — domandò Emma. — Ti aspettava? — No, avevo pensato di andare a chiedergli se avrei potuto fare il suo nome come referenza per una domanda di lavoro. C era un posto a Bristol al quale stavo pensando ma sapevo che Lampard avrebbe potuto mandare all'aria tutte le mie possibilità di ottenerlo se lo avessi preso in uno dei suoi momenti di carogneria, così ho deciso di parlargli chiaro. Se mi avesse riso in faccia dicendomi che non sarei mai riuscito a ottenere quel posto, avrei
saputo di non poter contare su di lui. Se invece avesse approvato la mia idea, avrei capito che non mi avrebbe contrastato in alcun modo. Ma quando sono entrato nel suo ufficio, l'ho visto là, ridotto in quello stato... — Bill si portò di scatto una mano alla bocca come se si sentisse sul punto di vomitare di nuovo. — Sai, Bill, c'è mancato un pelo che ti scontrassi a faccia a faccia con l'assassino — osservò Ernest. Bill girò intorno un'occhiata impaurita, quasi si aspettasse che l'assassino potesse essere lì acquattato in un angolo. — Hai visto nessun altro nell'atrio, oltre a Maureen? — domandò Emma. — No. — E sei certo di avere visto Maureen uscire dalla sala? Non era già là quando sei salito? — No, l'ho proprio vista uscire. Se stai pensando che sia lei l'assassina e che abbia ucciso Lampard prima di scendere in sala, la tua è un'ipotesi che non regge perché in tal caso l'ultima cosa al mondo che avrebbe fatto sarebbe stata quella di uscire da una stanza dove c'era una quantità di gente che avrebbe potuto testimoniare che non si era mai allontanata di là. — Quel che non capisco, Bill — rispose Ernest — è come mai non hai dato subito l'allarme non appena hai visto Guy morto. Sarebbe stata la cosa più normale, no? Devi ammettere che ti sei comportato proprio come se avessi la coscienza sporca. — Oh, non lo so! — esclamò Bill. — Ma mettiti al mio posto! Tutti sapevano che detestavo Lampard. Da quando ero arrivato qui, non aveva perso occasione di stuzzicarmi, di umiliarmi. Ricorda come ci ha dato la notizia dell'assunzione di Partlett al posto di Bushell. Praticamente quel posto lo aveva promesso a me, e io ero stato tanto sciocco da credergli e parlarne con tutti, perciò non venire a dirmi che non lo ha fatto apposta a dare l'annuncio in quella maniera. «Voleva» farmi fare la figura dello stupido. E il fatto è che quando sono salito da lui, avevo davvero pensieri omicidi. Se mi avesse riso in faccia, come temevo, non so cosa avrei fatto. Perciò quando ho visto che qualcuno lo aveva fatto al posto mio, e in quel modo orribile, sono stato preso dal panico, ho perduto la testa. Mi sono reso conto che potevo essere il sospettato numero uno e ho pensato che l'unica cosa da fare fosse filarmela di corsa, con la speranza che non si scoprisse mai che ero stato là. Mi ero completamente scordato che mi aveva visto quella maledetta Maureen, me ne rammentai soltanto più tardi.
— Mi domando perché mai fosse uscita dalla sala — mormorò Emma soprappensiero. — Era là quando sono entrata io. Ti ha detto niente quando è venuta a piangere sulla tua spalla? — Non gliel'ho chiesto. Non mi è nemmeno venuto in mente. Perché? — Così, mi piacerebbe sapere. — Quel che vorrei sapere io, Bill — disse Ernest — è se sei stato tu a manomettere gli orologi. Pare che qualcuno abbia voluto incriminare Partlett e so che tu ce l'hai a morte con lui, quasi quanto ce l'avevi con Guy. Se soltanto sapessi che uomo era, Bill! — Oh, lo so fin troppo bene, mio caro! Era un porco di prim'ordine. E Partlett è come lui, se non peggio. Ma non li ho toccati io, gli orologi, mi crediate o no. Probabilmente non credete nemmeno a tutto quello che vi ho detto prima. — Bill si alzò e si avviò verso la porta ondeggiando un poco come se fosse ubriaco. — E non ci crederà nemmeno la polizia. Quella strega mi ha consegnato loro mani e piedi legati. Bene, arrivederci al processo. E buon divertimento a voi! Scoppiò in una risata isterica e si precipitò fuori. Ernest scosse la testa, perplesso. — Chi avrebbe mai pensato che Bill potesse andare in pezzi a questo modo! — mormorò. — Lo avevo sempre giudicato un duro. — Pensi che potrebbe essere stato lui? — domandò Emma. Lui la guardò, incerto. — È un vero peccato che giudicasse Guy come lo giudicava. Com'è possibile che non abbia saputo vederlo com'era realmente? — Il guaio è che, io penso, il Guy che conosceva lui non era il vero Guy. come quello che conoscevamo noi — ribatté Emma. — Credo che sia necessario capire questo per poter capire il delitto. — Si alzò. — Sono davvero felice per quel testamento, Ernest. Ora puoi smettere di preoccuparti per tua moglie. È stato un gesto molto bello da parte di Guy. Ma voglio parlare un po' con Maureen. Ho una certa idea su quella figliola. — Pensi che sia stata lei a mettere indietro gli orologi? — No, affatto. Sono convinta che sia tornata in sala insieme con tutti noialtri. Rammento che ha persino offerto una tazza di tè alla signora Fielding. — Allora pensi che sia stato Bill, nonostante quel che dice lui? — Per il momento sembra il più probabile. — Ma Emma non stava pensando agli orologi. Le era venuta un'altra idea che le sembrava ben più importante. Uscì dall'ufficio di Ernest e andò a cercare Maureen.
Era di nuovo l'ora del tè e, come si aspettava, la trovò in sala. Non c'era molta gente, quel giorno, e i pochi presenti erano più taciturni e riservati del solito. Maureen sedeva sola a un tavolino, girando le spalle alla sala come se non desiderasse parlare con nessuno, quando Emma la chiamò, trasalì, trangugiò il tè che le era rimasto e si alzò dicendo che doveva tornare subito in ufficio perché aveva ancora tanto lavoro da sbrigare. Era molto pallida, con lo sguardo assente e gli occhi arrossati. — Il lavoro può aspettare qualche momento — ribatté Emma. — Vieni nel mio laboratorio, Maureen. Ti devo parlare. — Ho una quantità di lettere da scrivere, dottoressa Richtie — protestò la ragazza. — E devo sbrigarmi, il dottor Challoner le vuole al più presto. — Lascia perdere le lettere per il momento. Vieni con me, non possiamo parlare qui, è una questione personale. Quelle parole parvero mettere Maureen ancora più a disagio. — Bene — mormorò finalmente la ragazza. — Se si tratta soltanto di qualche minuto... — E seguì Emma fuori della stanza. Nel suo laboratorio, Emma sedette al suo solito posto dietro la scrivania e fece segno a Maureen di accomodarsi su uno sgabello, ma la ragazza andò alla finestra e rimase con le spalle girate alla stanza. Appariva massiccia eppure vulnerabile, come se il suo florido corpo giovanile si fosse un po' appassito per la tensione di quei due giorni. Emma capì che si era messa in quella posizione per impedire che lei la vedesse in viso e proruppe a un tratto in tono aspro: — Guardami, Maureen! La ragazza non si voltò. — Avete parlato col dottor Carver, immagino — mormorò. — Sì. — Non volevo dirlo che lo avevo visto, sono certa che non ha niente a che vedere col delitto. Ma non ho potuto farne a meno. — Ieri avevi potuto e oggi no? — Ieri non avevo capito certe cose. — E come mai le hai capite oggi? — Be', ho riflettuto. Ho pensato che fosse meglio dire la verità. Non credevo di mettere nei guai il dottor Carver. — Può darsi che lo arrestino, lo sai? — Ma era la verità! In momenti come questi bisogna dire la verità, no? — Soprattutto quando la polizia è in grado di esercitare su una persona la pressione sufficiente per costringerla a farlo — osservò Emma. Maureen si girò lentamente, sogguardandola con espressione guardinga.
— Non capisco che cosa intendete dire. — Bene, cominciamo dal principio, allora. — Emma si domandò come mai non avesse notato fino a quel momento l'astuzia che le si leggeva in viso. — Dunque, tu sei uscita dalla sala e hai visto il dottor Carver che saliva all'ufficio del dottor Lampard. Come mai sei uscita? — Stavo salendo anch'io dal dottor Lampard. Me lo aveva detto lui. Ma mentre uscivo, ho visto salire il dottor Carver e mi sono fermata. Poi, dopo un momento, l'ho vosto scendere di nuovo e mi sono chiesta che cosa fosse accaduto perché aveva il viso stravolto e ho notato che c'era una grande macchia rossa su una manica del suo camice. Ma a tutta prima non mi sono soffermata a pensare che cosa potesse essere. Ho immaginato che si trattasse di qualche sostanza chimica, non mi è neppure passato per la mente che potesse essere sangue: come avrebbe potuto sporcarsi di sangue nell'ufficio del dottor Lampard? Così me n'ero persino dimenticata, fino a stamattina quando me ne sono ricordata a un tratto e, pensando a quel che poteva essere, ho ritenuto che fosse mio dovere parlarne alla polizia. So che è stato sciocco da parte mia non averlo fatto ieri, ma temo di essere un po' lenta a riflettere e poi non volevo creare guai al dottor Carver. — Come mai non sei salita dal dottor Lampard, se ti aspettava, dopo che hai visto discendere il dottor Carver? — Qualcuno mi ha chiamato dalla sala... mi voleva chiedere non so più cosa... — Chi ti ha chiamata? — Non me lo ricordo più. — Oh, Maureen, a che scopo tutte queste bugie? — proruppe Emma. — A che ti serve cercare di nascondermi ciò che la polizia sa già? Un'ondata di rossore salì alle gote di Maureen. — Non vedo quale diritto abbiate di farmi tutte queste domande. — Nessun diritto, hai ragione. Ma perché non ammettere semplicemente che sei uscita dalla sala per trovarti con la signorina Fielding? — Non è vero! — Io credo di sì. — Che cosa ve lo fa pensare? — Nell'espressione imbronciata di Maureen andava facendosi strada un'ombra di sconforto. — Qualcosa che ha detto il signor Day e che a tutta prima non avevo preso nella debita considerazione. Non potevamo sapere con certezza se la signora Fielding fosse diretta davvero all'ufficio del dottor Lampard, mi ha fatto osservare. Forse intendeva andare dal dottor Challoner e si è fermata,
mettendosi a gridare, soltanto perché la porta del dottor Lampard era aperta e lei lo ha visto in quello stato. Ma naturalmente poteva anche essere diretta alla tua stanza e il fatto che tu sia uscita dalla sala pochi momenti prima e sia rimasta là nell'atrio potrebbe significare benissimo che aspettavi proprio lei. Tu stavi per salire nel tuo ufficio quando hai visto il dottor Carver sulla scala e poi, vedendolo scendere a precipizio, palesemente sconvolto, ti sei impaurita e hai deciso di aspettare finché lui non si fosse allontanato. Dovevi avere spiegato alla signora Fielding come arrivare al tuo ufficio e sapevi che sarebbe salita direttamente senza chiedere indicazioni ad Arthur. E dopo, quando ti ho lasciata qui, sola con lei, le hai insegnato come andarsene dalla porta laterale. Avrei dovuto pensarci prima. Quella porta non è facile da trovare se non si conosce la strada. — Emma osservò la sana, robusta figura di Maureen e domandò all'improvviso: — Li usi tu stessa i barbiturici? A guardarti non si direbbe che sei una drogata. Maureen si arrese con una scrollata di spalle. — No, ci ho provato una volta ma mi hanno soltanto intontita. — Sedette su uno sgabello. — Chi ve lo ha detto? — L'ho dedotto mettendo insieme notiziole raccolte qui e là, prima di tutto il fatto che tu fossi nell'atrio quando il dottor Carver è andato di sopra e il modo come è sparita la signora Fielding dopo che io l'avevo affidata a te. Il dottor Lampard lo sapeva, vero? — Sì. Ero venuta qui una domenica, pensando che non avrei trovato nessuno, invece mi ha vista il dottor Lampard. Non sapeva che cosa fossi venuta a fare, ma quando Stan Rankin gli ha parlato della sparizione dei barbiturici ha sommato due più due. Da principio ho tentato di negare ma lui non l'ha bevuta, sicché ho finito per confessare tutto. — Ti aveva licenziata? — No! — Maureen sembrava ancora stupita che il dottor Lampard non lo avesse fatto. — Mi ha detto soltanto di non fare la stupida e di smetterla prima di cacciarmi in qualche grosso guaio. Ma naturalmente ho dovuto dire alla mamma che non potevo più continuare a rifornirla e lei è piombata qui per convincermi a fare qualche altro tentativo. Non voleva capirla che non potevo più fare niente. — La mamma, hai detto. Dunque la signora Fielding è tua madre? — Non si chiama Fielding, ma Kirby, naturalmente... Sì, è mia madre. Fielding è il suo nome di ragazza ed è stato il primo che le è venuto in mente quando le avete chiesto chi era. Prendeva quella roba da anni. Sì, so
bene che per lei è un danno, ma quando non la prende sta ancora peggio e il suo medico ormai rifiutava di prescrivergliela. Poi un amico farmacista che gliela vendeva a prezzi esorbitanti si è messo nei guai con la polizia per spaccio di droga e così lei si è trovata a terra del tutto. — Come ti ha scoperta, la polizia? — Come avete fatto voi, chiedendosi perché fossi uscita dalla sala, restando là ad aspettare nell'atrio. — Ma questo come l'avevano saputo? A me lo ha detto il dottor Carver che però non ne aveva parlato con la polizia. — Qualcuno di quelli che erano in sala ha detto di avermi vista uscire e rientrare dopo un paio di minuti e loro hanno pensato che fossi appunto andata ad aspettare la signora Fielding, anche se non sapevano ancora che era mia madre. Poi c'era il fatto che qualcuno aveva dovuto aiutarla a uscire, così hanno cominciato a mettermi sotto il torchio finché non ho ceduto e ho detto di aver visto il dottor Carver sulla scala perché la smettessero di tormentarmi. — Ma come mai tua madre ha inventato quella storia balorda dei suoi rapporti con il dottor Lampard? — Dev'essere stata la prima cosa che le è venuta in mente per giustificare la sua presenza, immagino. Non voleva immischiare me, naturalmente. Non voleva far sapere che era venuta per parlare con me, caso mai fosse saltato fuori qualche guaio con la faccenda dei barbiturici. — E ora? — Non so. Quando ho parlato con la polizia, stamattina, mi hanno assicurato di non essere tenuti a riferire quel particolare perché erano certi che non avesse niente a che vedere col delitto, ma non so se ci sia da fidarsi. A ogni modo, contando su quella promessa, non volevo parlarne con voi per non dover lasciare il mio posto. Ma ora che sapete tutto, dovrò andarmene, naturalmente. — Capisco ora perché tu preferisca vivere con tua nonna a Crandwich piuttosto che a Londra con i tuoi genitori — osservò Emma. — Eh sì, ma ora mi toccherà tornare a Londra. Mi dispiacerà molto. Mi sono trovata così bene, qui! — Maureen si alzò. — Posso andare? Emma annuì e mentre la ragazza usciva si domandò se non si sarebbe potuto concederle un'altra possibilità. Ma quello sarebbe dipeso dal nuovo direttore, chiunque fosse. Se Maureen non si fosse dimessa spontaneamente, sarebbe stato necessario metterlo al corrente di tutto, anche se la polizia non ne avesse parlato.
Cominciava a far buio ed Emma si alzò per accendere la luce ma mentre le lampade al neon cominciavano a lampeggiare, rifletté che tanto valeva andarsene a casa, ormai. Lì non c'era più bisogno di lei, ora, e se Roger fosse venuto a cercarla, avrebbe capito dov'era andata. Ma si era appena infilato il cappotto quando Roger irruppe nella stanza. — Hanno arrestato Bill! — esclamò. Parve sorpreso che lei non mostrasse di essere sorpresa. — Se lo aspettava — ribatté Emma. — Maureen ha detto alla polizia di averlo visto salire nell'ufficio di Guy e uscirne subito dopo con del sangue su una manica. — Sì. Hanno trovato anche un testimone il quale ha dichiarato di averlo visto gettare il suo camice nell'inceneritore e molti altri hanno riferito quel che diceva sempre sul conto di Guy. — Ma credi che lo abbiano già incriminato per il delitto? — No, non credo. Ma lo hanno portato alla stazione di polizia per interrogarlo. — Ritto in mezzo alla stanza, Roger sbatteva le palpebre come se la luce lo infastidisse. — Emma, non posso credere che sia stato lui! — Perché no? — Perché credo di sapere chi è stato. — Ah, la tua teoria! — Sì, e non so che cosa fare. — Perché non ne parli alla polizia? — Perché potrei sbagliarmi, dopo tutto. Non ho quasi nessuna prova e non voglio peggiorare ancora la situazione. Emma si sbottonò il cappotto e si rimise a sedere, pronta ad ascoltare e sorpresa di vedere una volta tanto Roger così poco sicuro di sé. Sapeva fin troppo bene come sotto la sua abituale scorza di apparente arrendevolezza si nascondesse una fermezza incrollabile. — Chi è, secondo te? — domandò. — Be', chi aveva un valido motivo per detestare Guy? Chi è stato spinto da lui quasi sull'orlo della rovina totale? — Sam Partlett? — domandò Emma dopo un attimo di esitazione. Roger annuì. — Esatto. Sam è violento, ma odia e teme lui stesso la propria violenza e Guy invece l'amava. Penso che fosse anche lui un violento e lo sforzo per reprimere quella sua violenza innata, sforzo indispensabile se voleva far carriera, potrebbe spiegare le contraddizioni del suo carattere. E forse spiega anche perché non ha mai avuto rapporti profondi con una donna: aveva una paura folle di quel che avrebbe potuto desidera-
re di farle. Ma quella sua violenza repressa poteva sfogarla attraverso Sam. Sapeva come manovrarlo per fargli perdere ogni controllo, sfasciare un bar e picchiare la moglie. Ma Sam pensava di avere ormai superato quella fase. Era rimasto lontano da Guy per un certo tempo e si era convinto di poter resistere alle sue tentazioni. Ma aveva forse saputo resistere Faust a Mefistofele, pur sapendo che il prezzo da pagare era la dannazione eterna? E Sam non ha mai saputo resistere a Guy, gli voleva troppo bene. — Ma Roger, non può essere stato Sam! Ha un alibi incrollabile, posso testimoniarlo io stessa. — Dev'esserci qualcosa che non va, in quell'alibi. — Non c'è, non c'è assolutamente. Roger guardò l'orologio alla parete. — Come puoi essere certa che fosse giusto quando sei tornata da Crandwich? Che non fosse già stato manomesso? — No, ne sono certissima. Ricordo di avere guardato l'ora quando sono entrata. Erano le tre e venti. Se fosse già stato messo indietro, avrebbe significato che erano invece le tre e mezzo e che io sarei tornata da Crandwich a una velocità da lumaca, il che non è stato. — E Sam è venuto da te poco dopo? — Sì, più o meno alle tre e venticinque. — Però, se l'orologio fosse già stato indietro, non sarebbero state le tre e venticinque ma le tre e trentacinque, il che gli avrebbe concesso esattamente il tempo necessario per salire a far fuori Guy senza essere visto da Arthur. — Ma l'orologio non era indietro, Roger, te l'assicuro! È stato manomesso, insieme con tutti gli altri, dopo il delitto e non da Sam che non ne avrebbe avuto alcun bisogno. Sapeva che l'alibi potevo fornirglielo io. Secondo me, chi ha messo indietro gli orologi lo ha fatto proprio perché si pensasse che erano indietro già da prima, distruggendo così l'alibi di Sam. Non poteva sapere che io avevo controllato l'ora quando ero entrata in laboratorio. Roger fissò l'orologio corrugando la fronte. — Io contiuo a credere che in quell'alibi dev'esserci qualcosa che non va... Torni a casa, ora? — Sì. — Ti raggiungerò appena possibile. Emma tese la mano a Roger e l'opale splendette nella luce bianchissima. Tenendola per la mano, Roger trascinò in piedi Emma, la strinse fra le braccia e la baciò, poi uscì.
Emma si riabbottonò il cappotto, prese dalla borsetta le chiavi dell'auto e uscì a sua volta. L'esaltazione del pomeriggio, quando lei e Roger erano stati per un poco così felici, era ormai svanita completamente. Pensava a Bill, alla sua famiglia, alla tragedia che incombeva su di loro, ma non sapeva se credere o no alla sua colpevolezza. Si domandò se il sovrintendente stesso ritenesse davvero colpevole Bill o se non stesse giocando d'astuzia per qualche scopo che lei non arrivava a comprendere. Emma si era ormai convinta che nonostante l'estrema cortesia dei suoi modi, Day fosse un individuo tortuoso, estremamente cauto e avveduto, che procedeva sempre con i piedi di piombo. Ma per quanto riflettesse e arzigogolasse, mentre guidava attenta nel buio della sera, non approdò a nulla. Svoltò nel vialetto di casa sua e si stava dirigendo risolutamente verso l'autorimessa quando si rese conto, appena in tempo, che le porte erano chiuse. Se ne stupì perché sia lei sia i Partlett avevano l'abitudine di lasciarle aperte finché entrambe le automobili non fossero nell'autorimessa. Fermò la macchina, scese e spalancò i due battenti così che l'interno fu bruscamente illuminato dalla luce dei fari. A mezz'aria, coi piedi a circa un metro dal pavimento, penzolava il corpo di Sam Partlett, appeso a una corda legata a una delle traverse d'acciaio che sorreggevano il soffitto. Quando, quasi senza rendersi conto di ciò che faceva, Emma si lanciò verso di lui e tentò di sollevarlo, di allentare la tensione di quell'orribile corda, sentì che il corpo conservava ancora un certo calore ma ciò nonostante capì che, diversamente da quanto era accaduto a Guy tanti anni prima, non era arrivata in tempo per riportarlo in vita. 9 E anche se fosse arrivata in tempo, non sarebbe stata in grado di staccarlo di là, da sola. Rimase lì per un attimo, sbigottita, poi si precipitò verso la scala che portava all'appartamento degli Hawse. Non sapeva se Arthur fosse già rientrato, ma se c'era, lui avrebbe potuto aiutarla. Anche se ormai qualunque intervento sarebbe stato inutile, non si poteva lasciare lì quel corpo penzoloni nel vuoto. Allo squillo imperioso del campanello, rispose lo stesso Arthur. — Arthur, venite con me, per favore, presto! In autorimessa. No, non state a prendere il cappotto. Venite, subito!
Quel che le lesse in viso, spinse Arthur a muoversi in gran fretta. Raggiunse di corsa l'autorimessa e l'uomo si bloccò sulla soglia sbarrando gli occhi, ma fu quello il suo unico segno di commozione, mentre Emma ribolliva di furiosa impazienza. — Presto, aiutatemi a tirarlo giù! Ce l'avete una scala, no? Ma Arthur scosse la testa. — Non c'è più niente da fare, ormai, signorina Richtie, e sarà meglio non toccarlo finché non viene la polizia. — Ma forse possiamo ancora salvarlo — insisté Emma, pur senza credere lei stessa a quello che diceva. — Non possiamo lasciarlo lì! — È meglio, credetemi, signorina. — Arthur si guardò in giro. — Guardate come ha fatto. È salito sul cofano della sua macchina per spiccare il salto. Dicono che avesse già tentato di uccidersi così un'altra volta. — Fece qualche passo e accese la luce nell'autorimessa. — Oh, guardate, c'è qualcosa, qui. Infilata sotto il tergicristallo dell'automobile di Partlett c'era una busta. Arthur la prese. — È indirizzata a voi — aggiunse porgendola a Emma. Mentre se l'infilava in tasca, lei si rese conto di avere lasciato acceso il motore e uscì per spegnerlo. — Vado a chiamare il medico — disse poi avviandosi verso casa. — Voi restate qui, intanto. — È tardi per il medico, signorina. Chiamate la polizia, invece. — Ma se ci fosse la minima possibilità... — Non ce n'è nessuna, vi dico, potete credermi. Emma sapeva che Arthur aveva ragione, ma le ripugnava arrendersi. Si doveva tentare qualcosa per riportare in vita Sam, non si poteva rassegnarsi così! L'impossibilità di agire la mandò in collera e la collera si riversò su Arthur, colpevole di ostacolarla col suo buon senso. — E va bene, restate qui mentre io vado a telefonare — ordinò seccamente. Entrata in casa, telefonò al medico poi alla polizia e infine cercò di rintracciare Roger, ma la centralinista dell'istituto se n'era già andata e nessuno rispose alla sua chiamata. Soltanto allora Emma pensò a Judith. Doveva salire a darle quella tremenda notizia, ma prima volle leggere la lettera di Sam. Cara Emma, mi dispiace tanto! So che sarai tu a trovarmi e che ne sarai sconvolta, ma non ce la faccio più. Non merito di vivere. Perciò
ho deciso di fare un altro esperimento con la morte e stavolta spero di poterlo condurre a termine. Vorrei che Guy non mi avesse salvato, la prima volta. Judith si sarebbe risparmiata tanti guai, avrebbe sposato qualcun altro e avuto una vita decente. Ma ora starà meglio di me. Sarà un brutto colpo per lei, ma si riprenderà e probabilmente finirà per esserne contenta. Ho capito che dovevo farlo quando ho saputo che avevano arrestato Carver. Ho commesso cose terribili, come uccidere Guy in una sorta di delirio, ma ora non posso continuare così, come se niente fosse stato. Carver ha moglie e figli, non posso permettere che la loro vita sia rovinata per sempre. La mia è già rovinata comunque. Uccidere Guy è stata, si potrebbe dire, la mia rivincita perché aveva fatto di me un essere spregevole. Pensa al modo come ho trattato Judith. È stata colpa mia, certo, non intendo negarlo, ma a Guy piaceva quel mio filo di pazzia, gli dava il brivido dell'emozione vedere che cos'avrei fatto. Così, alla fine mi sono rivoltato contro di lui. L'ho ucciso io, Emma, il tuo alibi non valeva niente. Avevo manomesso io V orologio del tuo laboratorio prima che tu tornassi da Crandwich. Non so come mai fossi così certa del contrario. Non erano le tre e venticinque quando sono venuto da te, ma le tre e trentacinque e io ero appena stato su nell'ufficio di Guy, subito dopo che Hawse se n'era andato per il tè. Mi ci è voluto un minuto per uccidere Guy, perché naturalmente l'ho colto di sorpresa. Mi sono sporcato di sangue le maniche, così sono andato nel mio laboratorio a lavarle poi sono sceso da te. Avevo messo indietro anche tutti gli altri orologi perché non sapevo a che ora saresti tornata. Avresti anche potuto non tornare affatto. In quel caso, sarei andato da Carver, così sarebbe stato lui a fornirmi l'alibi. Gli orologi li avevo messi indietro nell'ora di colazione, quando non c'era nessuno in giro tranne Nixey che era rimasto a mangiare qualche panino nel suo ufficio. Così non ho potuto sistemare il suo orologio, ma ho messo indietro quello della sua segretaria, con la speranza che questo contribuisse ad aumentare la confusione e far sì che non si potesse dire con certezza quando era accaduto questo o quello. Quando sono uscito dall'ufficio di Guy non c'era nessuno nell'atrio perché non era ancora cominciato l'esodo generale verso la sala del tè. Mi sono precipitato nel mio laboratorio a lavarmi poi sono venuto da te e ho pen-
sato di averla fatta franca. Non potevo immaginare che qualcun altro venisse arrestato per quello che avevo fatto io. Bene, mi pare che non ci sia altro da aggiungere. Puoi consegnare la mia lettera a quel poliziotto. Scrivo a te soltanto perché so che sarai tu a trovarmi e, come ho già detto, mi dispiace tanto. Sei stata molto buona con Judith e con me. Sam. Emma rilesse la lettera due volte poi la rimise nella busta e la posò accanto al telefono. In quel momento udì aprirsi la porta d'ingresso e capì che era Roger. Doveva essere già per strada, diretto al paese, quando lei aveva cercato di telefonargli all'istituto. Capì dal suo viso che aveva già visto che cosa c'era nell'autorimessa. Gli tese la lettera senza parlare e, come lei, anche Roger la lesse due volte poi la rimise nella busta. — Sicché dopo tutto ti sbagliavi col suo alibi — disse. — Sì. — Sapevo che doveva esserci qualcosa che non andava — insisté Roger. Emma annuì senza parlare. — Forse andava indietro l'orologio del tuo parrucchiere — riprese Roger. — O forse quando sei venuta via era più tardi di quanto pensassi. — Forse. — Dev'essere stato così. — Certo. — Emma si alzò con uno sforzo evidente. — Bisogna andar su ad avvertire Judith. Ti dispiace restare qui ad aspettare il medico e la polizia, mentre io salgo? Roger le cinse le spalle con un braccio e la tenne per un momento stretta a sé. — Non prendertela troppo, Emma. Tu hai fatto tutto il possibile per quei due. — Salvo che prevedere il futuro — fu l'amara risposta di lei. — Bene, vado, allora. — Preferisci che vada io? — No, credo che sia meglio se le parlo io. — Le farai leggere la lettera di Sam? — Sì, certo. Alla polizia la daremo più tardi. Emma prese la lettera e, con un'espressione che lasciò perplesso Roger, uscì dalla porta del suo appartamento e suonò il campanello dei Partlett. Udì subito Judith scendere lentamente le scale. Una volta tanto non indossava la solita vestaglia ma l'attillato completo giacca-pantaloni di vellu-
to verde a coste che portava il giorno del suo arrivo e questo rinnovò in Emma la prima sensazione di quel giorno, quando Judith le era sembrata una donnina timida, dall'apparenza un po' troppo giovane e infantile per la sua età. E anche Sam aveva avuto quell'aspetto. Emma si domandò se fosse così anche per molti altri assassini che forse lo erano diventati perché nella prima infanzia, quando ancora non sapevano parlare e un'azione violenta quale strillare, scalciare, frantumare oggetti era l'unico modo per dare sfogo ai loro sentimenti, si erano abituati a quella forma di espressione che aveva poi finito per influenzare e distorcere il loro sviluppo mentale. Judith la fece salire nel soggiorno, dove c'erano ancora soltanto le poche cose che i Partlett avevno portato con loro quand'erano arrivati e dove sembrava regnare un'atmosfera di profonda, irrimediabile infelicità che lo faceva apparire gelido nonostante il riscaldamento centrale. — Devo parlarti di Sam, Judith — esordì Emma. Nessuna delle due si era seduta. Erano rimaste in piedi al centro della stanza come due antagoniste pronte a darsi battaglia. — Non so come dirtelo, ma credo che la maniera più semplice sia la migliore. È morto. Si è impiccato nell'autorimessa. L'ho trovato io e ho già telefonato al medico e alla polizia. Ora sono là con lui Roger e Arthur. Judith rimase a fissare Emma con espressione vacua, senza fare un gesto. — Lo ha fatto, alla fine — mormorò dopo un poco con voce atona. — Me l'aspettavo, prima o poi. — Ha lasciato questa per me — disse Emma porgendole la lettera di Sam. Judith la lesse rapidamente, senza che un muscolo si muovesse sul suo viso. — Così adesso lo sai — osservò restituendo la lettera a Emma. — Sì, lo so. — Io l'ho sempre saputo, naturalmente. Me lo aveva detto. Ma una moglie non è tenuta a testimoniare contro il marito. — Né un marito contro la moglie. In questa lettera non c'è niente di vero, no? I grandi occhi scuri di Judith si fecero un po' più grandi. — Non ti capisco. — Devo proprio spiegartelo io? Il mio orologio non era indietro quando sono tornata da Crandwich. Sam non lo aveva manomesso durante l'ora di colazione, lo ha fatto dopo il delitto. Sapeva che eri stata tu, sapeva benis-
simo di avere un alibi perfetto e sapeva di non essere in grado di proteggerti se fossi stata sospettata. Così ha messo indietro gli orologi, sperando appunto che si pensasse che lo aveva fatto prima, perché se il mio orologio fosse già stato indietro quando io sono entrata in laboratorio, il suo alibi sarebbe saltato. E naturalmente, poiché io ero certa che in quel momento il mio orologio era giusto, da principio abbiamo pensato che quel lavoro lo avesse fatto qualcuno che voleva incriminare proprio lui, visto che era lui il solo a esserne danneggiato. Nessuno ha pensato che fosse lui a voler incriminare se stesso. — Sono soltanto supposizioni — obiettò Judith con la stessa voce atona. — Però tu vuoi sentire il resto, ora, altrimenti ti saresti già precipitata giù nell'autorimessa. La notizia della morte di Sam non sembra averti commossa molto. — Ti ho già detto che me l'aspettavo da tempo. E penso si possa dire che impiccarsi sia stato un gesto simbolico, per lui. La punizione, era a questo che anelava. La freddezza di Judith provocò un senso di repulsione in Emma. — So quello che ti aveva fatto. Ne ho visto io stessa un esempio. Ma alla fine ha cercato di proteggerti come poteva. — È stato soltanto il suo senso di colpa a spingerlo. Sentiva di essere stato lui a uccidere Guy, anche se non era stata la sua mano a impugnare il rasoio. — Mentre lui sapeva che era stata la tua a impugnarlo e che ti aveva spinta lui a farlo. Judith alzò le spalle e sedette. — Va' avanti. Non ci sono testimoni, qui. Anche se ammetto ciò che stai dicendo, posso sempre negarlo in seguito. Emma non volle sedersi. Non voleva che un colloquio come quello si trasformasse in una conversazione da salotto. Rimase in piedi dov'era, sempre con quella strana sensazione di gelo innaturale nella stanza, benché sapesse che il gelo era dentro di lei. — È cominciato non appena siete arrivati qui, vero? — riprese. — Guy riprese a esercitare su Sam la sua nefasta inflenza, forse ancora più forte dopo tanti anni di lontananza. È stato un terribile errore da parte vostra venire qui. — Non dirlo a me! — esclamò Judith. — Sam e io andavamo avanti benissimo da un bel po' di tempo, ormai. Lui sembrava essersi rimesso completamente in sesto e io pensavo che non avremmo corso alcun rischio venendo qui. D'altra parte, non riusciva a trovare lavoro altrove. Come mi
sbagliavo! — E te ne sei accorta quasi subito. Guy portò Sam al White Hart, lo fece ubriacare e rimase a godersi lo spettacolo quando lui cercò di sfasciare il locale, l'ho visto con i miei occhi. Era fatto così, Guy. Poi Sam venne a casa e ti picchiò. E per poco la cosa non si ripeté dopo il mio ricevimento. Sam era andato da Guy per dirgli che intendeva andarsene, ma Guy lo fece bere e lo convinse a cambiare idea, poi Sam tornò a casa e ricominciò a dare in escandescenze. Vi abbiamo sentiti, Roger e io. Ma qualcosa lo fermò all'improvviso e tutto tornò tranquillo. — Finora non mi hai detto niente di nuovo — commentò Judith. — Bene, credo di sapere che cosa lo ha fermato, forse questo sarà qualcosa di nuovo. Penso che tu avessi trovato un rasoio in una tasca della giacca che Sam portava di solito. Forse lo aveva preso senza pensarci in laboratorio, poi a casa si era cambiato per scendere da me, lasciando la giacca da qualche parte, tu l'hai presa, forse per appenderla, e hai trovato il rasoio. Forse non è andata affatto così. Il rasoio lo ha tirato fuori lui stesso, dandosi dello sciocco per averlo portato a casa, e lo ha posato in qualche posto. Ma questo non ha importanza. Quel che conta è che il rasoio lo avevi tu e te ne sei servita per minacciare Sam quando lui ha cercato di colpirti. Questo è bastato per farlo rinsavire di botto ma naturalmente, quando Guy fu ucciso con un rasoio, Sam rammentò quella scena e capì che eri stata tu a ucciderlo. Forse gli avevi detto tu stessa che avevi intenzione di farlo. — Può darsi. Sono cose che si dicono. Ma non significano niente. — Devi essere entrata e uscita dall'istituto come in trance, senza preoccuparti di essere vista — continuò Emma. — Che probabilmente è la miglior condizione mentale per commettere un delitto. Se ti avesse vista qualcuno, non lo avresti commesso. Saresti semplicemente salita da Guy per dirgli di lasciar stare Sam o qualcosa del genere. Ma non ti ha vista nessuno e Guy, naturalmente, non aveva motivo di nutrire sospetti sul tuo conto, perciò ti è stato facile scivolargli alle spalle e ucciderlo. Dopo ti sei affacciata alla porta e, visto che il campo era sgombro, sei filata via. E ti è andata bene, perché se avessi aspettato soltanto un altro minuto o due, Bill Carver ti avrebbe colta con le mani nel sacco. Avevi di certo la macchina perché Sam andava sempre a piedi all'istituto, così hai potuto essere a casa in tempo per ricevere la telefonata di Sam che ti diceva di non preoccuparti, sarebbe andato tutto bene. Dopo hai fatto un bagno per toglierti di dosso il sangue di cui dovevi certo esserti macchiata, ti sei lavata i capelli
e il vestito, hai infilato la vestaglia e sei scesa per riferire a me e a Roger la telefonata di Sam, fingendo, quando ti abbiamo parlato del delitto, che ti avesse detto di non temere che si potesse sospettare di lui. Ma in realtà eri scesa perché non ce la facevi più a restare là da sola, senza sapere che cosa era accaduto all'istituto dopo la scoperta del delitto, e Sam ti aveva chiamata non per raccomandarti di non preoccuparti per lui, ma di non preoccuparti per te stessa, perché lui aveva già provveduto a sistemare gli orologi ed era pronto ad addossarsi tutta la colpa, se fosse stato necessario. Ma Ernest Nixey si affacciò alla porta del suo laboratorio nel bel mezzo di quella telefonata e lui troncò la conversazione. Che cosa hai pensato, Judith? Speravi che venisse sospettato Sam? — Potresti darmi torto? — Forse no — ammise Emma. — So che cos'hai passato. — No, non lo sai. Nessuno può saperlo. Ed è stato quell'uomo malvagio, Guy Lampard, la causa di tutto. Meritava di morire. Non ho rimorsi. — Non era malvagio, anzi! — obiettò Emma. — Sapeva essere molto buono e generoso. — Per me era la personificazione del male. Hai detto che devo avere agito come in trance. Bene, ero in quello stato da giorni e giorni, incapace di pensare ad altro che al modo di distruggerlo prima che lui distruggesse noi. Ma ho aspettato troppo e non ha funzionato. E ora se n'è andato anche Sam e non c'è più niente da fare. È un grande dolore, ma forse per lui è meglio così. Quella lettera dice la verità, in fondo. Guy lo ha ucciso lui, anche se per mano mia, e se avessero arrestato Bill Carver io sarei impazzita dai rimorsi. Mi domando se la polizia non sospettasse di Sam e non tentasse di indurlo a scoprirsi arrestando invece Bill. Emma pensò che non era improbabile. Il sovrintendente Day era capace di quello e d'altro. — Ora invece non impazzirai dai rimorsi? — domandò. — No. Troverò finalmente la pace, dopo tanti anni. Ma questo dipenderà anche da te. Che cos'hai intenzione di fare, ora? — Darò alla polizia la lettera di Sam. — E basta? — Non ho detto questo. Ma come mi hai fatto notare tu, questo nostro colloquio non ha testimoni. Puoi sempre negare di avermi detto quello che hai detto. Tuttavia, se fossi in te... — Sì? — Penso che se tu confessassi, con quello che potrei dire io della tua vi-
ta con Sam e con l'aiuto di un bravo psichiatra, potresti cavartela con una condanna piuttosto mite. Allora sì, troveresti finalmente la pace. Judith chinò il viso fra le mani e rimase così per qualche momento. — Ci devo riflettere — mormorò poi. — Non cambierà niente per Sam, se lascio passare un po' di tempo! Sai, sono sempre rimasta con lui perché pensavo che fosse giusto così, ma forse gli ho fatto più danno di quanto non gliene abbia fatto Guy. Dirai tutto alla polizia? — Non lo so. In ogni caso lo dirò a Roger. Non è rimasto affatto sorpreso della confessione di Sam. È convinto anche lui che Guy gli abbia fatto molto male. Ma io pensavo a te. Sei tu quella che ne ha sofferto più di tutti. — Roger, certo. Sei ben fortunata, tu, ad avere un uomo come Roger. Lo avessi incontrato io, un uomo così, invece di Sam, probabilmente non sarei diventata un'assassina. O credi che lo sarei diventata ugualmente? Forse la violenza era congenita in me, com'era in lui, pronta ad esplodere al momento giusto. Forse per questo gli volevo bene, come gliene voleva Guy... — Non m'intendo molto di queste cose — disse Emma. — Mi sento più a mio agio con elementi concreti che posso misurare col bilancino o con lo spettrofotometro. Bene, torno giù, ora. Non sarebbe meglio che scendessi anche tu con me? Sembrerebbe più logico, no? — Di' alla polizia che sono troppo sconvolta per scendere. Salgano loro a parlare con me. E forse, pensò Emma avviandosi alla porta, Judith era davvero sconvolta, più di quanto non credesse lei stessa. Quel suo glaciale autocontrollo poteva frantumarsi da un momento all'altro e se questo fosse accaduto, il sovrintendente Day, come un premuroso medico di famiglia, la tempra d'acciaio ben celata sotto le maniere gentili, sarebbe stato là, pronto a raccattare i pezzi, senza alcun bisogno di lei. Scese silenziosamente al pianterreno e rientrò nel suo appartamento. Aveva fatto tutto il possibile. Aveva messo in guardia Judith, l'aveva consigliata. In un certo senso, in cuor suo, l'aveva persino perdonata. Ora le restava un unico desiderio che, purtroppo, lo sapeva, aveva scarse probabilità di avverarsi, quello di trascorrere una serata tranquilla, sola con Roger! FINE