CORNELL WOOLRICH LA MORTE DANZA CON ME (Death Is My Dancing Partner, 1959) A Chuca PARTE PRIMA La danzatrice e l'uomo 1 ...
18 downloads
1028 Views
576KB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
CORNELL WOOLRICH LA MORTE DANZA CON ME (Death Is My Dancing Partner, 1959) A Chuca PARTE PRIMA La danzatrice e l'uomo 1 Accovacciata al riparo dell'ombra che tagliava in diagonale la soglia del tempio come la lama bluastra di una ghigliottina, attendeva che giungesse il suo turno per scendere gli scalini ed esibirsi. Si chiamava Mari e faceva la Danza della Morte. Nessun'altra avrebbe mai potuto fare una cosa simile. E nessun'altra si sarebbe mai azzardata a farla, tenendo conto di quello che poteva accadere. Avevano cominciato ad addestrarla dall'età di nove anni. Adesso ne aveva diciannove. Di tanto in tanto, allungava un po' la testa e guardava in giù. Non verso le altre ragazze che si agitavano sulla piattaforma, in fondo ai gradini, nelle curiose movenze di una danza stilizzata. Le aveva già viste migliaia di volte. E nemmeno verso il gruppetto di crocieristi che stavano più sotto, nel cortile. Aveva visto gruppi simili dozzine di volte. No, Mari guardava solo lui. Non riusciva a togliergli gli occhi di dosso. Lo aveva notato quando aveva fatto il suo ingresso con gli altri; si erano tolti tutti scrupolosamente le scarpe, prima di entrare, proprio secondo le regole. Prima si era semplicemente limitata a guardarlo. Poi gli aveva lanciato occhiate furtive ma intense, che tendevano a farsi sempre più insistenti. Era come se il cuore le fosse diventato più soffice e più caldo. Non era mai stata innamorata, prima. Si chiese adesso se quella sensazione fosse amore, o almeno l'inizio di un amore. Se lo era, aveva cominciato a manifestarsi con una rapidità sorprendente. Era bastato uno sguardo. Poteva iniziare così in fretta? provò a domandarsi. Non insegnavano quel genere di cose, al tempio. Insegnavano tutto, ma non dicevano niente sull'amore. Ciascuno deve scoprirlo da solo. Ormai lui l'aveva vista. Mari l'aveva guardato una volta di troppo. L'uomo sollevò la testa e guardò in direzione della ragazza. I loro occhi s'in-
contrarono. Lei azzardò un sorrisino, sperando che lui, da quella distanza, potesse accorgersene. Infatti ricambiò il sorriso. Dio, quel sorriso sembrava un'aurora marina. Poi lei tirò indietro la testa e scomparve nella penombra, in modo che nessuno potesse accorgersi di quello che era accaduto. Il primo amore. Tutta la vita in un tempio, circondata solo da ragazze; eppure, l'amore era finalmente arrivato anche per lei e l'aveva trovata. Senza volgere il capo, fece un cenno con il dorso della mano e una signora anziana, che stava in un gruppetto di donne della stessa età in fondo al corridoio, venne avanti. Erano tutte ex danzatrici, e adesso venivano impiegate più o meno come domestiche. — Sì, mia cara? — Vorrei le ciglia più scure. La vecchia raccolse un pezzetto di carboncino e si avvicinò tenendolo in mano. La ragazza glielo prese. — Lo faccio da me. Ora dammi una di quelle cartine che ti ho visto arrotolare e fumare. Uno sguardo di costernazione si dipinse sulla faccia avvizzita. — Non negarlo. Ti ho notata quando pensavi che non ci fosse nessuno. La vecchia si frugò nei vestiti con aria riluttante e le porse qualcosa. — Ma se ti vede qualcuno... — Non voglio fumare. — La ragazza la spinse via. — Ora vattene. Devo scendere tra poco. Mari attese finché la vecchia non sparì del tutto, poi, voltandosi in modo da coprire quello che faceva, spiegò la piccola e sottile foglia di carta di riso contro la parete e, con la punta del carboncino, scrisse a fatica quattro parole. Non nella sua lingua nativa, ma in inglese. TORNA PIÙ TARDI. DA SOLO Un attimo dopo, forse pentendosi di quello che aveva appena fatto, o forse cambiando idea, appallottolò il foglietto e lo nascose nell'incavo della mano. La danza terminò all'improvviso e le ragazze del tempio risalirono i gradini l'una dopo l'altra, passando in mezzo ai sacerdoti che avevano assistito all'esibizione. Poi sparirono all'interno del tenebroso edificio. Nel silenzio che seguì, uno degli spettatori si voltò e cominciò a rivolgersi agli altri membri della compagnia. Alzò appena la voce in modo che tutti potessero sentire senza difficoltà, compresa la ragazza che stava al riparo della penombra. Aveva già ascoltato quel genere di discorsi molte
volte, in precedenza. Quell'uomo era la guida della nave, e tutti i gruppi turistici che sbarcavano, quando la nave approdava all'isola, venivano accompagnati da lui o da qualche suo collega. — Ho persuaso i nostri amici a mostrarci qualcosa che solo raramente è possibile vedere. È una danza simbolica in onore di Kalì la Distruttrice, la divinità della morte. Vorrei anche informarvi in anticipo del fatto che questa danza ha una nomea non molto piacevole. C'è una superstizione secondo cui Kalì colpirà gli spettatori, se la danza viene eseguita troppo spesso. In altre parole, la morte potrebbe manifestarsi nelle immediate vicinanze della rappresentazione. Se vi guardate in giro, noterete che i nativi tengono gli occhi ben chiusi durante tutta la danza, come d'altra parte fanno i suonatori di tamburo. Comunque, voltare le spalle alla scena o tentare di squagliarsela sarebbe considerato sacrilego: nessuno qui oserebbe mai fare una cosa del genere. Il numero verrà eseguito da una sola danzatrice, e si divide in due parti. Se seguite con attenzione, non dovrebbero sfuggirvi i riferimenti simbolici. La ragazza rappresenta sia Kalì in forma di cobra sia la vittima di Kalì, che la divinità annienta al termine della danza e che cade a faccia in giù lungo gli scalini. Appena la guida si interruppe, i tamburi cominciarono di nuovo a pulsare, ma si percepiva adesso una nota funerea in quel ritmo, una nota che prima non c'era. La vecchia si accostò alla ragazza in punta di piedi e le gettò un velo grigio e sottile sopra la testa e le spalle. Poi sparì di nuovo in fretta. La ragazza apparve di fronte al pubblico e cominciò a scendere gli scalini con statica lentezza. All'inizio teneva il corpo rigido; poi, a poco a poco, le sue mani cominciarono ad agitarsi, guizzando tra le pieghe del velo. Infine anche le braccia si sollevarono, quasi a mimare un cobra pronto all'attacco, e si attorcigliarono in volute sinuose sopra la testa. Il velo venne tirato indietro all'improvviso e da quel gesto si diffuse nell'aria una nota di tensione, quasi un'esplosione di terrore. La figura sulla piattaforma si muoveva appena. Solo le mani continuavano a lambire pigramente la nuca, dando la terribile suggestione di un serpente che stesse per colpire dall'alto. Sopra le teste degli spettatori, qualcosa si agitò nell'aria stagnante. Un avvoltoio si posò su uno dei grotteschi frontoni del tempio. Un altro prese a volteggiare nel cielo per un attimo, poi si decise a scendere e a unirsi al primo. Le loro teste erano disgustosamente piegate verso il basso, in direzione dello spettacolo, come se riuscissero a capirne il significato con una
specie di funesta intelligenza. Gli avvoltoi sono gli uccelli della morte. I movimenti sinuosi della ragazza avevano smesso di interessare solo le mani, e adesso si erano trasmessi alle braccia, alle spalle e al torso. I fianchi ondeggiavano in una terribile e realistica simulazione delle spire di un serpente. All'improvviso, la ragazza fece un balzo in avanti e cominciò la pantomima della vittima sacrificale, inerme, impossibilitata a fuggire, scossa da brividi ininterrotti dalla testa ai piedi. Poi, mentre il battito dei tamburi cresceva di tono, il cobra scattò rabbiosamente e colpì la sua preda. Ci fu una pausa totale, un arresto istantaneo di qualsiasi movimento. Le membra della ragazza si irrigidirono improvvisamente nella posa che avevano assunto, per caso, dopo la caduta. Come se sapessero che la morte stava per ghermirle: il veleno si trovava dentro di loro, adesso, ed era troppo tardi. Non c'era più modo di sfuggire alla morte. A poco a poco, un barlume di movimento prese possesso di quel corpo. Degli spasmi orribili lo squassarono, come tante onde che increspassero la superficie di un mare tranquillo. La ragazza si inarcò, poi precipitò a capofitto lungo gli scalini di pietra, con un braccio ripiegato sotto il viso. Mentre anche l'ultimo rullo di tamburo si estingueva, il silenzio si abbatté sui presenti come una randellata. La ragazza giaceva esausta sulla piattaforma, ma non era stata colpita. Con la coda dell'occhio, vide l'uomo curvarsi e prendere qualcosa da terra, qualcosa che si trovava proprio davanti a lui. Quando lui si rialzò, il foglietto appallottolato che lei aveva fatto rotolare fin laggiù era sparito. Vide l'uomo guardarsi intorno per controllare se qualcuno lo stesse osservando. I sacerdoti e le ancelle sollevarono la ragazza nella stessa posizione in cui era caduta e la trasportarono di peso su per gli scalini, facendo passare prima i piedi e poi la testa. Lei era sempre inerte. La lama d'ombra che oscurava la soglia calò di nuovo, rendendo impossibile la vista. Si levò un improvviso brusio tra i nativi che si erano accalcati ai piedi della scala, lontano dal gruppo turistico. Adesso erano tutti in piedi, tranne uno. Quest'ultimo si era accasciato al suolo come un ammasso di gelatina, a faccia in giù. Gli altri, borbottando, avavano fatto capannello intorno a lui. Uno provò a toccarlo con la punta del piede e il corpo dello sconosciuto si spostò su un lato e giacque inerte, privo di vita. I suoi compagni lo sollevarono in fretta e lo portarono fuori, vicino all'ingresso del tempio. Il cortile si svuotò subito, come per magia. La folla si diradò a poco a poco; tutti gettavano occhiate spaurite da sopra le spalle. Anche i bianchi
cominciavano a diventare nervosi. In alto, gli avvoltoi scuotevano le ali con impazienza, come se fossero ansiosi di piombare giù e di iniziare la loro opera sotto la protezione dell'oscurità incombente. 2 La luna spuntò presto, perché era periodo di plenilunio. Mentre la sua luce indorava il tetto del tempio e sembrava spruzzare il cortile di polvere di zolfo, Mari e la vecchia cominciarono a scendere furtivamente i gradini, coperte interamente da due lunghi veli. — Ma se dovessero mai scoprirlo, sarei io l'unica a venir punita! — Calma. Non sei mai stata giovane? — Ma non ho mai fatto una cosa del genere... — Allora mi dispiace per te. Non aver mai amato vuol dire non aver mai vissuto. La vecchia si mise ad armeggiare con la sbarra di legno che chiudeva il cancello del cortile. — Non ce la faccio ad aprirlo, se non mi dai una mano. — Ora ti aiuto. Tu fai forza da questa estremità, io dall'altra. — In due riuscirono a estrarre la sbarra e a posarla sul terreno, attente a non fare il minimo rumore. La ragazza tirò verso di sé un'anta del pesante cancello e quest'ultimo cominciò a cigolare. Mari smise di muoverlo quando ci fu abbastanza spazio perché una persona potesse sgusciare fuori. — Adesso tu aspetta qui, nel caso che qualcuno venga a chiuderlo e io non possa più rientrare. — Ahi — gemette la vecchia, alzando lo sguardo. — Perché quell'uomo doveva arrivare proprio oggi? Perché la luna piena doveva sorgere proprio stanotte? — Vecchia fifona — disse la ragazza con aria di scherno, ma in tono gentile. Poi sgattaiolò fuori da sola. — Io non sono come te. A me l'amore non fa paura. Una sigaretta tagliò l'aria come una lucciola rossa e lui emerse dall'ombra di un albero, dove la stava aspettando. Mari gli corse incontro, per quanto la distanza fosse breve. Anche quello faceva parte del gioco. Poi restò a guardarlo senza fiato. — Salve — disse lui alla fine. — Salve — sussurrò lei. — Non sapevo se facevi sul serio oppure no, così ho cercato di scoprir-
lo. — Be', non scherzavo. — Ehi! — esclamò lui con meraviglia. — Ma tu parli inglese! Anche di questo non ero sicuro. Lei scrollò le spalle. — Qui direbbero che sono europea, anche se non ho mai visto l'Europa. Sono nata su quest'isola, ma entrambi i miei genitori erano olandesi di razza pura. Questa era una colonia olandese, un tempo, anche se adesso è diventata indipendente. Mio padre possedeva una piantagione. Poi sono venuti i giapponesi e mia madre è scomparsa. Dopo la guerra, lui non ce l'ha più fatta a badare a me, così mi ha consegnata a quelli del tempio. — Si accorse dello sguardo che lui le aveva lanciato. — Non è una cosa immorale, sai? È una specie di scuola... di scuola religiosa. Loro ci danno da mangiare, si prendono cura di noi e ci addestrano alla danza. Noi non siamo... — Abbassò gli occhi per un attimo — ...quello che credi tu. — Quella danza... — cominciò lui. Lei sorrise con aria di disapprovazione. — Non eri dentro quando è finita la rappresentazione, altrimenti lo avresti visto tirarsi su, darsi una ripulita e accettare l'elemosina dei sacerdoti per il suo aiuto, — E tu — fece lui con una certa enfasi — non eri fuori del cancello quando stavamo tutti per andarcene. Uno dei nativi è crollato al suolo ed è morto seduta stante. Lei si strinse leggermente nelle spalle. — O ci credi o non ci credi. — E tu? — Io preferirei parlare di te e di me. Per tutte le notti della mia vita non ho fatto altro che danzare. Ma stanotte ho incontrato te. — Come ti chiami? — Mari. — Non è un nome insolito. Assomiglia molto a Mary, solo che tu lo pronunci in modo molto più esotico. — Già. Il mio vero nome è Maria, che in olandese corrisponderebbe a Mary. Solo che qui tutti mi chiamano Mari. E tu? Come ti chiami tu? — Maxwell Jones. Sono il leader del mio complesso. Lei parve non capire. — Un complesso musicale, naturalmente. Sai cos'è un complesso musicale, no? — Certo che lo so. Un insieme di musicisti. — E io sono Maxie Jones, il re del sassofono. Eccomi presentato. Hai
mai visto un sassofono? — Credo di no. — È fatto più o meno così — le spiegò facendo dei gesti. — E ha dei tasti lungo la superficie. — Tasti? E a che servono i tasti? Lui sorrise. — Ci scommetto che non sai nemmeno cos'è un telefono. — Sì che lo so, invece. Non ne ho mai usato uno, perché loro qui non ne tengono. Ma so come sono fatti. — Gesù — disse lui con una certa animazione. — Come mi piacerebbe portarti con me e farti vedere un mucchio di belle cose. Tutto quello che non hai mai visto prima. Televisori, frigoriferi, abiti da sera... Sarebbe stupendo, sia per te che per me. Pensa che impressione potrebbe farti una città come Parigi. E che impressione potresti fare tu, a una città del genere. Lei gli si avvicinò talmente che persino un pezzo di carta velina avrebbe avuto difficoltà a introdursi tra le loro labbra. — Portami con te. Mostrami Parigi, mostrami Londra, mostrami New York. Ma, soprattutto, mostrami il tuo amore. — In quale ordine? — Fammi vedere sassofoni e telefoni, ma prima di tutto l'amore. Lui sogghignò, un po' perplesso. — Sempre l'amore, eh? — Non ti piace essere innamorato? — Certo che mi piace. Ma l'amore è come la carta moschicida. Lo sfiori anche solo una volta, con la punta delle dita, e ne rimani invischiato per sempre. — Cos'è la carta moschicida? — E cos'è l'amore, già che ci siamo? — Lui appoggiò due dita sul mento della ragazza. — Perché ti sei innamorata proprio di me, comunque? — Non lo so. — Perché io? C'erano tipi più carini di me in quel gruppo. — Io credo di no. — C'erano giovanotti più interessanti. — Non per me. — C'erano persone più intelligenti. — Io non ti voglio più intelligente. Ti voglio per quello che sei. — Avrei dovuto fermarmi mentre ero ancora in tempo — disse lui con ostinazione. — Portami con te. — Meglio che tu non me lo chieda di nuovo, altrimenti lo farò sul serio.
Non sei così pesante da portare, sai? — Se scoprono quello che ho fatto, mi faranno abbandonare il tempio in ogni caso. Così morirò di fame. E tu sarai costretto a portarmi via. Lui si mise a ridere. — Allora, perché insisti? — Ho chiesto al mio cuore, ma non mi ha risposto. — Facciamo due passi — suggerì lui. — Non mi piace restare nei paraggi di questo posto. Le cinse la vita e lei appoggiò la testa sulla sua spalla. Passeggiarono per un po' sotto il chiarore lunare, che disegnava strisce di luce lungo le loro schiene mentre si muovevano. Lui guardò in alto socchiudendo gli occhi. — Ragazzi, che luna! — È buona o cattiva? — Buona per te. Ma per me è cattiva. Mi costringe a fare cose che non vorrei. Come questa. — La strinse a sé. — E questa. — La baciò. Dopo alcuni baci, le chiese: — Non eri mai stata baciata prima? — Non da un uomo. E tu? — Non da una danzatrice. Così adesso siamo pari. Ma sta' attenta alle curve, tesoro. Sarebbe un peccato che ti succedesse qualcosa. — Quali curve? — Le curve pericolose che stanno proprio davanti a noi. — Le farò con te. — Io sono in una Jaguar e tu in un vecchio macinino. Lei rabbrividì all'improvviso e si voltò. — Cosa c'è? — le chiese lui. — Non senti? Stavolta lui sentì, e non era una cosa rassicurante. Si era levato un improvviso trambusto nella zona del cancello parzialmente aperto. La vecchia si lasciò sfuggire un gemito d'angoscia. Un uomo gridò qualcosa con voce strozzata. In risposta, si levarono altre urla. Piedi nudi cominciarono a correre in mezzo al cortile lastricato. Poi si sentì un colpo di gong, evidentemente un segnale d'allarme. Alcune luci si accesero qua e là. L'intero tempio prese vita come un alveare impazzito. — Devono essere in parecchi — disse Jones in tono rabbioso. Cominciarono a scappare, e lui le cingeva sempre la vita. — Ho lasciato un risciò in qualche punto della strada, poco fa. Lo trovarono. Il conducente stava seduto per terra e fumava una sigaretta. Jones si cacciò una mano in tasca e ne estrasse delle banconote, che gli agitò davanti. — Cinquanta di questi, qualunque cosa siano, se ci porti in
città prima di quella specie di orda famelica che ci insegue — gli promise. Una volta a bordo, l'andatura del veicolo sembrava paurosamente lenta. Ma non era così. In realtà stavano letteralmente volando, e il risciò descriveva ampi archi in aria prima di ricadere pesantemente sul terreno. — Ho lasciato il mio pianista in un bar portoghese — borbottò Jones, cercando di impedire che gli saltassero tutti i denti. Lei tradusse la frase al loro otto cilindri umano. Dietro di loro il trambusto aveva cominciato a scemare, e questo voleva dire che li avevano distanziati. Ma era solo un vantaggio temporaneo; prima o poi li avrebbero riacciuffati, non foss'altro perché sapevano che quella direzione era l'unica che i fuggitivi potessero prendere. Giunsero in città e si diressero di corsa verso la strada principale, mentre della polvere finissima roteava da sotto le ruote come un'immensa nuvola di fumo dal tubo di scarico di una potente macchina. Una figura camminava tutta impettita in mezzo alla strada, nel rettangolo di luce bronzea proiettata dalla soglia aperta di un bar. — Eccolo; è lui, Fingers — le disse Jones. Ma non ce n'era alcun bisogno, perché lei aveva già capito. Il risciò si fermò di colpo e loro furono quasi sbalzati fuori, sopra la schiena curva del guidatore. — Ottimo — disse Fingers in tono caustico. — Cosa vuoi, svegliare l'intera città? Hai fatto partire il cronometro dopo aver lasciato il tempio? Fingers aveva con sé una donna del posto, con cui era stato insieme mentre aspettava. Lei portava un cappello la cui tesa aveva più o meno il diametro di una ruota da bicicletta, e sul cocuzzolo spuntava un intero giardino fiorito. Era un po' portoghese e un po' indigena: un miscuglio, insomma. Anzi, un'insalata di frutta. Ma come insalata di frutta era rimasta per troppo tempo fuori del frigorifero. Parlava una specie di inglese maccheronico, probabilmente preso a prestito dal gergo dei marinai. — Salta dentro, sbrigati! — ordinò Jones a Fingers. — Potrebbero esserci addosso da un momento all'altro! — Tre di noi in quel macinino? Troppo peso; non ce la farebbe mai a portarci. Non vedi che sta scoppiando? Ho un'idea migliore. Scendete tutti e due. Forza, sbrigatevi! Jones toccò terra con un saltello, poi prese Mari di peso e la fece scendere. — Adesso dammi quel velo che hai addosso, presto! — abbaiò Fingers. — Spogliati, bella signora, abbiamo il nemico alle spalle e non possiamo
perdere tempo. — Poi si rivolse alla sua accompagnatrice. — Ti piacerebbe guadagnarti dieci dollari? — Per dieci dollari puoi anche buttare via il calendario, bello mio. Mi hai prenotata per il resto della stagione — rispose lei, come se dovesse concludere un affare. — Ecco. Ora dammi quel cappello. Prendi il velo e avvolgiti dalla testa ai piedi. Sì, copriti anche la testa. Bene, adesso gambe in spalla. Fatti un giretto per la città e poi torna indietro. Avventurati anche lontano dalla costa, se ne hai voglia. — Si tolse il cappello e glielo appoggiò sulle spalle. — Tienilo accanto a te e stai seduta bassa nel risciò. Vedrai che non si accorgeranno della differenza. Il risciò ripartì in fretta. Fingers mise il cappello floreale in testa a Mari. Le cadeva fin quasi sulle spalle. Entrarono tutti e tre nel bar. Un paio di minuti dopo, quando delle facce stravolte dalla rabbia fecero capolino sulla soglia del locale per fare qualche domanda, la radiolina del barista portoghese andava a tutto volume e Fingers ballava pigramente con una donnina dall'aria alquanto depressa, che teneva in mano una bottiglia di birra. Qualcuno sputò dalla soglia con decisione, per mostrare cosa pensava di quel tipo di relazioni. — Impura! Figlia del demonio! Di notte ti fai tutte le strade in cerca di qualche spicciolo, eh? — Mai sentito che esistono anche sputacchiere, suppongo — osservò Fingers. Ma con prudenza, tenendo la voce bassa. Le persone sulla soglia si ritrassero e ripresero la loro caccia per la strada. — Va bene, fine della partita — disse Fingers, lasciando andare la donna. Fischiò debolmente e Jones uscì da una porta sul retro, dietro la quale si era nascosto. — Quello di cui ha bisogno questo locale — osservò in tono sostenuto — è una nuova toilette. Fingers stava perlustrando la strada dalla porta del bar. — Tutto a posto — riferì. — Andiamo. Devono essersi di nuovo diretti dall'altra parte, come speravo. La strada che conduceva al porto era sgombra. Quando la raggiunsero, aiutarono la ragazza a calarsi in una piccola scialuppa in attesa di imbarcarsi tutti sulla nave, le cui luci ammiccavano tranquillamente verso di loro da lontano, nella rada. Sedendosi nell'imbarcazione e mettendosi a lanciare imprecazioni contro l'acqua illuminata dalle stelle, Fingers chiese all'improvviso: — Ora che
l'hai acchiappata, cosa pensi di farne? — Voglio che il mio complesso diventi il più importante dell'intero paese — rispose Jones in tono confidenziale. — E ci riuscirò, con la sua danza. Fingers gli scoccò una lunga e penetrante occhiata. Un'occhiata che pareva un cartellino col prezzo. Ma un prezzo ridotto. — Così, tutto si riduce a questo — disse. — Il complesso. E cosa ne sarà della ragazza? — Lo sai com'è: il complesso è più importante di ogni altra cosa — rispose Jones. — E sarà sempre così. Sempre, capisci? L'ho avvertita, prima di portarla qui. Le ho parlato con molta franchezza. Le ho detto che intenzioni avevo. Se lei vuole correre questo rischio... La ragazza si strinse contro Jones e gli appoggiò la testa sulla spalla. Poi, all'improvviso, alzò lo sguardo e gli diede un caloroso bacio sulla guancia. Un bacio che lui non ricambiò. — Mi pare già di vederla esibirsi, mentre la mia musica scandisce il ritmo... Fingers mormorò qualcosa, quasi impercettibilmente. La ragazza si voltò all'improvviso verso di lui. — Come sarebbe a dire "mascalzone"? Perché hai detto una cosa del genere? — Mi dispiace, tesoro — le disse in tono quasi triste. — Ma c'è qualcosa che dovrai imparare nei prossimi due anni. Qualcosa che dovrai sperimentare tu stessa. 3 J. Mortimer Rubin, l'agente, sedeva alla scrivania tutto occupato a non fare nulla, quando gli giunse una telefonata più o meno alle due e mezzo di quel venerdì pomeriggio. Goldie, la sua centralinista, annunciò: — C'è Maxie Jones in linea. J. Mortimer sussultò. — Ah, sono già di ritorno? Ora sì che ricominciano i guai. — Ma lo disse con un sorriso indulgente. Si sporse all'indietro con un'angolazione impossibile e appoggiò una gamba sul bordo della scrivania. Si accese un sigaro. Si accendeva sempre un sigaro, quando parlava al telefono; lo aiutava ad avere le idee più chiare. ("Dovresti smetterla di fumare" lo aveva ammonito il suo medico. "Allora dovrò farmi staccare il telefono" aveva replicato lui con un'alzata di spalle). — Com'è andato il viaggio? Come stanno i ragazzi? — chiese in tono
affabile, tutto d'un fiato. Poi aggiunse: — E tu? Dove siete? — Pausa. — Dovevi andare proprio in quell'albergo? Non potevi scegliere qualcosa di più economico? Chi pagherà il conto? — Poi, in risposta alla risposta di Jones, osservò seccamente: — Me lo immaginavo. Il sigaro si spostò lungo le labbra e rotolò all'angolo opposto della bocca. — Ho qui dei soldi che ti spettano. Ti aspetti ancora che te li dia, quando farai un salto dal sottoscritto? — Pausa. — Cosa? Fai delle prove? — J. Mortimer assunse un'aria paterna. — Bene. Così mi piace. Un complesso che si rispetti non deve mai aver paura di esagerare con le prove. Un diluvio d'entusiasmo sembrava adesso affluire alle sue orecchie. Per alcuni secondi non ebbe la minima possibilità di replicare, anche se continuava ad agitarsi nervosamente sulla poltrona. Finalmente, trovò l'opportunità di inserirsi; anche Maxwell Jones doveva respirare, di tanto in tanto. — Ti sei portato dietro una ballerina? Sei andato a fare shopping? Qui te le tirano dietro come e quando vuoi e tu sei andato a prenderla fin laggiù! Perché non hai portato qualcosa di veramente raro? Qualcosa come... come... — Non riuscì a farsi venire in mente qualcosa di veramente raro. — Non crederò ai miei occhi, quando assisterò al suo spettacolo? E allora perché mai dovrei venire fin laggiù, se tanto non crederò a quello che vedrò? Meglio che me ne stia tranquillo, me la prenda comoda e non creda a quello che vedo da dove mi trovo, invece di spostarmi. Seguirono accese proteste. Alla fine, l'agente capitolò. — D'accordo, Maxie, d'accordo. Tanto avevo intenzione di fare due passi; così, già che ci sono, allungherò un po' il tragitto e farò un salto da te. Dov'è che fai le prove? Ah, Ryan Hall, terzo piano. E senti, Maxie, non fare troppo baccano. La buona musica non ha bisogno di essere eccessivamente rumorosa. Mi busco sempre dei terribili mal di testa quando assisto alle vostre prove, lo sai. Riappese. Ora che la conversazione era finita, si tolse il sigaro di bocca. Poi s'infilò il cappello. Non c'era nessuno che portasse cappelli più eleganti di J. Mortimer Rubin. Infine diede un'occhiata al cassetto della sua scrivania, alla ricerca di qualcosa che non riuscì a trovare. Uscì dallo studio e si rivolse a Goldie. — Hai un'aspirina? — chiese. — È tornato Maxwell Jones. Alla ragazza quei tipi erano simpatici, almeno in apparenza. — Quella banda di scalmanati? — osservò con una punta di umorismo. Poi gli porse l'aspirina.
— Non è che suonino male — spiegò lui. — È solo che fanno troppo fracasso. — Lo so — ammise la ragazza, che ora aveva uno sguardo pensoso. — Anch'io preferisco i valzer viennesi. Lui si avvicinò alla porta, poi aggiunse: — Ricordami che devo chiamare quel tizio che gestisce un locale a Perth Amboy. — Vuole che glielo chiami subito, signor Rubin? Lui increspò le labbra e ci appoggiò un dito sopra. — Uhm. Forse farei meglio a sentire Maxie, prima di fare quella telefonata. Sai che si sono portati dietro una ballerina? E poi non posso permettermi di avere nemici a Perth Amboy. Per quanto la distanza non fosse eccessiva, prese un taxi. Era più un fatto di prestigio professionale che non di avversione agli esercizi fisici. Non importa dove sia diretto: un agente deve sempre arrivare in taxi. Comunque lui la pensava così. Allungò al conducente un dieci per cento di mancia, quando scese. Questo non aveva niente a che vedere con una politica del risparmio, ma era difficile convincere i tassisti che non era una questione di spilorceria. Il conducente guardò gli spiccioli di mancia un attimo in più dello stretto necessario. — Be', grazie! — esclamò. Ma non sembrava molto entusiasta. — Ascolti — disse J. Mortimer con fermezza. — Quando mi daranno più del dieci per cento, ne beneficerà anche lei. Ryan Hall era un edificio alto, stretto e piuttosto vecchiotto. Dava su un piccolo spiazzo quadrato e senza alberi, frequentato più dai piccioni e dai derelitti di ogni specie che dalle persone normali. Era quasi un ostacolo, nel cuore di quella città dove tutti erano perennemente affaccendati. L'edificio, invece, veniva usato da tempo immemorabile per tutte le specie di rappresentazioni o audizioni teatrali. Sulla strada pioveva un'accozzaglia di suoni, tutti un po' sfumati, dalle finestre dell'edificio: dal secondo piano proveniva una specie di tip-tap, che risuonava come una grandinata sotto l'accompagnamento di una pianola dalle sonorità metalliche, mentre dal quarto un soprano solista si esibiva in una canzone popolare. Ma il suono in assoluto più fragoroso usciva dalle finestre del terzo piano: erano accordi di ottoni, che a intermittenza, quando proprio si facevano incontenibili, riuscivano a sommergere ogni altro rumore. J. Mortimer conosceva il personale dell'edificio. C'erano Eddie, il ragazzo dell'ascensore e Sam, l'uomo della rivendita di sigari e giornali nel
foyer. Ma soprattutto c'era Luke, il lustrascarpe di colore, che teneva le sue due poltroncine appoggiate a una piattaforma proprio su un lato della porta d'ingresso. — Ciao, Sam. Ciao, Eddie — disse l'agente. Mentre passava, diede un'affettuosa pacca sulla spalla a Luke. — Fai un salto alla sala prove del terzo piano, Luke. Non metterci molto. Intanto che ascolto, ne approfitterò per una lucidatina. Luke sorrise raggiante. Quando si faceva lucidare le scarpe, J. Mortimer non mutava mai atteggiamento. Per quanto si sentissero gli spiccioli tintinnargli in tasca, pareva che non riuscisse mai a tirar fuori meno di un dollaro. E non voleva assolutamente il resto. "D'accordo, la prossima volta mi darai una lucidatina gratis" era la sua risposta di rito. Ma la prossima volta non veniva mai. La differenza, probabilmente, consisteva nel fatto che, in questo caso, Luke operava in proprio. A differenza dei tassisti, non doveva pagare nessuna commissione. Era il padrone dei propri affari. Il frastuono era terribile, quando l'agente uscì dall'ascensore e spinse le porte a molla della sala d'audizione. Esitò per un istante. Come aveva già più volte notato, quello non era il suo genere di musica. "La vendo, certo, ma quanto ad apprezzarla è un altro paio di maniche". Non appena lo videro, la musica s'interruppe. Scesero tutti dal palco buttando quasi per aria gli strumenti, tanto erano ansiosi di salutarlo. L'unico strumento a non essere scagliato via fu il pianoforte, naturalmente, che venne abbandonato dove stava. Persino Bee Bradley, la cantante, buttò per aria l'arrangiamento che stava studiando mentre camminava avanti e indietro vicino alle finestre. I fogli si sparpagliarono sul pavimento. Una seconda figura femminile - "lei", si disse l'agente con una certa apprensione - se ne stava seduta senza dare nell'occhio in una poltrona dallo schienale alto e rigido che era posata contro il muro. Teneva le gambe unite e le mani appoggiate alle ginocchia, con un'aria contegnosa. L'agente non fece in tempo a guardarla meglio, perché si scatenò un pandemonio incredibile intorno a lui. — Morty! — Ehi, ragazzone! — Ciao, paparino! — Potrei anche darti un bacio, sai! L'ultima frase era venuta da uno degli uomini del complesso. Ma Bee, in effetti, si avvicinò all'agente e lo baciò diverse volte in successione, con un accompagnamento vocale. — Smack! Smack! Smack! Vecchio rubacuo-
ri... Ti siamo mancati? — Puoi dirlo — rispose lui con uno sguardo mesto. — Era tutto così tranquillo qui intorno. Chiedilo a Goldie. Non riuscivo più nemmeno a riconoscere il mio ufficio. Si levò un generale boato di approvazione. — Hai ricevuto la mia cartolina da Marsiglia? — cinguettò Bee. — Ti ho mandato una cartolina da Marsiglia, sai? Oh, se sapessi com'è fantastica Marsiglia... Lui annuì con aria di rimprovero. — Ti sei sprecata, eh? Una cartolina in tutto il viaggio. — Volevo spedirtene una da... Come si chiamava quell'altro posto? — chiese, un po' risentita. — È che non siamo riusciti a trovarne nemmeno una. Le uniche che avevano erano quelle di un genere un po' particolare, non so se mi spiego. E non mi pareva il caso di mandarti una di quelle. A te, poi! J. Mortimer le diede un pizzicotto sul mento, come per prenderla un po' in giro. — Non importa, ti conosco. Sei sempre la solita avaraccia. Jones fece un cenno col capo in direzione della ragazza dall'aria sconsolata che stava sullo sfondo. — Vieni qui, tesoro. Fatti vedere un attimo. Lei si alzò e si diresse timidamente verso di loro. Jones le mise un braccio intorno ai fianchi, per farle coraggio. Per un attimo, sulla faccia di J. Mortimer apparve uno sguardo estremamente circospetto. — Parla inglese? — chiese dubbiosamente a Jones. — Certo che sì. È cresciuta laggiù ed è stata educata in uno dei loro templi. Lezioni regolari e tutto il resto. L'hanno allevata proprio in un tempio. J. Mortimer era ancora estremamente dubbioso. — Viene da un tempio? Non me l'avevi detto, prima. — Stavo appunto per farlo — disse Jones, per prendere tempo. Poi esplose. — Ma se vedessi come le hanno insegnato a ballare... Dovresti vederla: è la fine del mondo! — Perché, di solito si balla, nei templi? — Adesso, J. Mortimer era proprio imbarazzato. — Dovrei chiedere spiegazioni al mio rabbino, il dottor Meyer. — Non è mica una sinagoga, Morty — s'interpose in fretta uno degli altri. — Assomiglia di più a un convitto studentesco. E la loro religione non è certo la tua.
— Su questo non c'è il minimo dubbio — disse energicamente J. Mortimer, esaminando la ragazza dalla testa ai piedi. — Saluta Morty, tesoro — disse Jones in tono invitante. — Noi la chiamiamo Mari per fare prima. Ma il suo vero nome è Gertrud Maria Ruyter. Cosa può fare una ballerina con un nome del genere? È olandese al cento per cento, sai? Suo padre l'ha affidata a quelli del tempio perché la allevassero, dopo la morte della moglie. Lui... ehm, vagabonda per la spiaggia la maggior parte del tempo, se capisci quello che voglio dire. Forza, di' ciao al signor Rubin, tesoro. — Ciao al signor Rubin, tesoro — ripeté lei. — Lui l'ha sposata — disse qualcuno in tono pettegolo. — E questo cosa c'entra, adesso? — protestò subito Jones. — Qui dobbiamo parlare di affari. Dovevo sposarla, altrimenti non le avrebbero permesso di sbarcare. Durante la traversata, ha diviso la cabina con Bee, mentre io mi sono sistemato con Fingers e Bradley. — Si rivolse alla ragazza per avere una conferma. — Giusto, tesoro? Dillo al signor Rubin. — Giusto — rispose lei con aria assorta. J. Mortimer scosse la testa. — Un bel matrimonio, non c'è che dire. Stai attento a non lasciarci le penne... — Qualcuno porti una sedia per Mort — ordinò Jones, tornando agli affari. — Voglio che si gusti lo spettacolo. — Spettacolo? — disse Rubin, come se quella parola non gli andasse a genio. Sedette con una certa circospezione. Si tolse gli occhiali, cominciò a strofinarli e li inforcò nuovamente. Mise a fuoco. — E allora? — chiese. — Tutti al loro posto — sbottò Jones. — Fuori dai piedi, Bee. Vai alla finestra. — Scusa se esisto. — Bee si appollaiò accanto al davanzale. — Ti riassumerò brevemente lo spettacolo — proseguì Jones. — Così capirai di cosa si tratta. Vedi, è una danza della morte. Lei interpreta due parti... — Già. C'è un prima e c'è un dopo — disse piano una voce dalla finestra. — Bee! — la riprese con severità Jones. — Portala fuori di qui, Brad. Falla stare nel corridoio. Torniamo a noi, Mort. Devi immaginarti un serpente. — Dovrei immaginarmi un serpente? — disse l'agente un po' a disagio, con lo sguardo di un uomo che cerchi di mostrare una mente sgombra dai pregiudizi.
— Lei lotta con il serpente. Anzi, prima rappresenta il serpente, poi se stessa. E il serpente la morde. — Brrr... — fece J. Mortimer, rabbrividendo involontariamente. — Lei cade a terra e muore. Ecco la storia della danza. L'agente dava l'impressione di uno che avesse perso il filo del discorso. Cominciò a parlare con una certa cautela, badando a non irritare Jones. — Prima lei fa il serpente e poi non più. Quando non fa più il serpente, quest'ultimo la morde. Lei cade a terra e... — Rimase perplesso. — Cade a terra lei o il serpente? — Lei. E poi muore. J. Mortimer non sapeva più che pesci pigliare. — E chi ha avuto questa bella idea? — domandò quasi con indignazione, come se fosse intenzionato a inoltrare un reclamo all'Associazione autori non appena gli si fosse presentata l'opportunità. — È un'idea vecchia come il mondo. Dev'essere una specie di rituale, sai? — disse Jones, che sapeva il fatto suo. — Viene direttamente dalla storia. — Per me, poteva anche restarci — sbottò l'altro. Voltò bruscamente la testa e si asciugò le labbra. — Pfui — disse. — Dopo una cena pesante, guarda un po' cosa mi tocca sorbirmi. L'espressione di Jones era una piccola morte in se stessa. — Va bene, va bene — disse l'agente, mostrandosi improvvisamente conciliante. — Fammelo vedere. Starò attentissimo. — Il Numero Uno di tutti gli spettacoli, ragazzi! — gridò Jones con aria trionfale. La porta si aprì e si richiuse. Luke si avvicinò a J. Mortimer con una certa diffidenza, tenendo in mano gli attrezzi da lavoro. — Quella lucidatina gliela do adesso, signor Rubin? — Certo — rispose l'altro quasi con sollievo. — Questo, almeno, mi terrà la mente un po' occupata. — Si rincalzò meticolosamente i pantaloni. — Stammi bene a sentire, Luke — lo ammonì in tono indulgente. — Ho dei calzini bianchi, vedi? Cerca di non macchiarmeli con il lucido. Non alzare mai la spazzola sopra la tomaia, capito? — Sarò attentissimo, signor Rubin — promise Luke. — Guarderò, guarderò, non ti preoccupare — disse l'agente rivolgendosi a Jones, in risposta a un'occhiataccia di quest'ultimo. — Ora lei fa il serpente, giusto? — Si corresse subito: — No, fa la vittima. Luke voltò la testa per un attimo, incuriosito da quelle parole.
— Meglio guardare le mie scarpe che doversi sorbire questa roba — commentò Rubin a bassa voce. — Stai tranquillo, non ti perdi nulla. — Molto interessante — osservò pubblicamente; più per buon cuore, forse, che non per un vero e proprio entusiasmo. — Molto bene, mia cara. Sei proprio brava. Mi ricordi com'era Gilda Gray diversi anni fa, solo che tu sei più sciolta nei movimenti. Qualcosa attirò la sua attenzione da sotto. — I miei calzini, Luke. Finirai per macchiarmeli con la spazzola. Come fai a vedere, se tieni la faccia attaccata alle mie ginocchia? — Mi dispiace, signor Rubin — disse debolmente Luke, cercando di assumere una posizione più eretta. Gli occhi gli roteavano nelle orbite. — Luke! — gridò bruscamente Rubin. — Non ti senti bene? Che c'è? Vuoi riposarti un minuto, figliolo? Luke tentò di spruzzare dell'altro lucido su una delle mascherine, ma la mancò completamente e la sua mano ricadde a terra. Un attimo dopo il corpo del lustrascarpe la seguì, finendo sopra la mano; Luke rimase piegato in due per qualche secondo, a faccia in giù, poi si allungò lentamente e le sue membra si afflosciarono. Rubin balzò in piedi, si portò sopra il corpo inerte, si curvò e cercò di sollevargli la testa e le spalle. — Luke! Luke! — Provò a scuoterlo, schiaffeggiandolo freneticamente sulle guance. Alle sue spalle, la danzatrice di Jones giaceva sul pavimento, altrettanto immobile e inanimata. Non del tutto, però, perché i suoi occhi ammiccarono quando alzò lo sguardo per vedere cos'era successo. Quelli di Luke, invece, non ammiccavano più. — Portate un po' di whisky! — ordinò Rubin terrorizzato. — Piantatela con quei tamburi, sto cercando di sentirgli il cuore. Portate un'altra sedia e sistematela accanto a questa. Ora datemi una mano ad allungarlo qui sopra. Attento con quel lucido, lo stai calpestando. Venne portato del whisky, scozzese o no che fosse, con una tale rapidità da far pensare che qualcuno lo tenesse a portata di mano. Rubin lo versò tra le labbra inerti e socchiuse di Luke. — Niente da fare — sussurrò Rubin, con la voce arrochita per la paura. Smisero di versare il whisky. Qualcuno pulì con un fazzoletto il collo di Luke, dove il liquore era colato. — Chiamate un'ambulanza — disse ansiosamente Rubin. — Non vedete che ha bisogno d'aiuto?
Ma qualcuno ci aveva già pensato. Brad tornò indietro dal corridoio d'ingresso. Ci vollero pochi minuti. Come sempre succede in cose del genere. Pochi minuti che, però, parvero un'eternità. Tutti stavano intorno al lustrascarpe, guardandolo con aria impotente. Tutti eccetto una. La ragazza. Si era tirata in piedi tempo prima, senza essere aiutata o notata da nessuno. Stava dalla parte opposta della stanza, lontana da tutti. Era acquattata contro la parete, le mani dietro la schiena, come se avesse commesso qualche colpa e stesse cercando di nascondersi. Nessuno si ricordava di lei, nessuno la guardava. Alla fine, l'urlo straziante della sirena li raggiunse dalla strada, poi si interruppe di colpo precipitando in un improvviso silenzio. Un medico e due barellieri entrarono nella stanza. — Avreste dovuto lasciarlo sul pavimento — li rimproverò il medico prima ancora di aver varcato la soglia. — Non bisogna mai muoverli, in casi del genere. Ci mise solo un attimo a fare la sua diagnosi, dopo essersi chinato su quella figura immobile. Si raddrizzò di nuovo. — Non c'è più niente da fare — disse. — È morto. Nessuno disse nulla. Nessuno. E che cosa ci sarebbe stato da dire? Cos'altro si può aggiungere, una volta che la morte ha avuto l'ultima parola? Lo guardavano tutti in silenzio e pensavano a lui, ciascuno in privato, per conto proprio. Poi distolsero lo sguardo ma continuarono ancora a pensare a lui. Sempre senza parlare. C'era chi guardava fuori della finestra e chi era intento a fissare il sassofono, rivoltandolo fra le mani con aria assorta. C'era chi scrutava tutto assorto una parte di pavimento dove non c'era niente e chi fissava un biglietto delle corse dei cavalli, sebbene l'avesse già visto prima e lo conoscesse a memoria. Uno, Rubin, aveva abbassato lo sguardo verso i suoi calzini bianchi su cui spiccavano delle righe nere di lucido. Li guardava con tenerezza, come se adesso li ritenesse un bene inestimabile. Poi il corpo sparì. Lo avevano portato via. Di Luke non era rimasto che un tubetto di lucido nero sul pavimento. Alla fine, Rubin si decise a raccoglierlo, poi strappò un foglio di giornale e avvolse il tubetto lì dentro. Quindi si cacciò il tutto in una delle tasche esterne della giacca. Non sapeva perché l'avesse fatto, né a che cosa gli sarebbe servito quel lucido; solo che sembrava bello portarlo con sé, non lasciarlo abbandonato su quel pavimento.
Il poliziotto che era arrivato immediatamente, subito dopo il medico, si attardò a chiedere qualcosa sottovoce a Rubin. Scribacchiava in fretta su un taccuino mentre faceva le sue domande. Poi anche lui se ne andò. Rimasero solo loro, loro e gli strumenti. Non suonavano più, adesso. Non danzavano più, non cantavano più. Come potevano pensare ancora alla musica? Si congedarono. Parlarono ancora un po' prima di separarsi. Poche parole, dette con aria sommessa. Un uomo era morto proprio in mezzo a loro. — Dove ti dirigi, Fingers? — A lunedì, ragazzi. — Cerca di farti dare un'altra sala, capo, eh? — Già. So cosa vuoi dire. — Sono queste le tue canzoni, Bee? Meglio portarle via, — Sono importantissime per me. Buffo mestiere che faccio: cantare parole scritte su un pezzo di carta per vivere. — S'incamminò verso la porta, cantando sottovoce: — Se c'è un modo di tirarti un po' su... — Ma pensava alla morte. — Curioso che sia accaduto — osservò qualcuno — proprio mentre la ragazza faceva la danza della morte. Calò un improvviso silenzio. Come se quella voce avesse magicamente parlato per tutti e sei. 4 Il giorno successivo, Rubin e Jones si trovavano nell'ufficio dell'agente quando il telefono squillò. — Frank Palmieri delle Palme a Perth Amboy — annunciò Goldie. — Le Palme! — sbottò J. Mortimer con aria di scherno. — Non ha nemmeno una palma in quel locale. Non ne troveresti una in tutta Perth Amboy. E neppure nell'intero stato del New Jersey. Capisci perché lo ha chiamato Le Palme? Passamelo, Goldie. Aveva un tono estremamente arrogante, come se volesse mettere in difficoltà il suo interlocutore. — Scordatene, Frank. Il mio cliente non è più interessato. Una pausa. — Lo so, ma ho parlato troppo presto. Stavo giusto discutendone con lui, prima che tu ti facessi vivo. Ora la situazione è completamente diversa. E anche se lui volesse, non lo lascerei io.
Ascoltò per qualche secondo e sogghignò. — Tremila? Uhm. Tieniti in contatto. Ti troverò un complesso un po' più piccolo. Ce ne sono un mucchio, in giro. — Ehi, parlavate di noi? — piagnucolò Jones dopo che Rubin aveva riattaccato. — Cos'era, un'offerta per una settimana? Sei pazzo a non accettare? — Sentimi bene. Sono io qui che dirigo la danza, non tu. Vuoi mettere le mani su una vera torta? E allora non ti arrabbiare se ti tengo lontano dalle briciole. Spostò delle carte sulla scrivania con aria sdegnata. — Ci dev'essere un telegramma, da qualche parte. Il Roxy ti vuole per uno show. Ho rifiutato anche questa offerta. — Oh, no! — gemette Jones, inclinando la testa. — Non sarà mica il Roxy della Cinquantasettesima... — È il Roxy di Plainfield, Ohio — rispose Rubin con un sorriso adamantino. Il telefono squillò di nuovo. — Il signor Smart chiede di vederla. — Mandamelo qui. È un pubblicitario di alta classe — spiegò a Jones. — Vorrei che si occupasse un po' di te. Vedrai, è un tipo davvero in gamba. Smart fece il suo ingresso nell'ufficio in pompa magna. Non perse la sua aria solenne nemmeno dopo essersi tolto una giacca di vigogna alquanto pesante. Nel suo portamento, energia e autorevolezza si mescolavano in parti eguali. Aveva un paio di baffetti ben curati che ricordavano una matita a cui fosse stata fatta la punta a entrambe le estremità. Le donne dovevano trovarli irresistibili. Sfoggiava anche un orologio sul cui quadrante c'era di tutto fuorché le previsioni del tempo. Gli abiti che indossava erano costosi e la dicevano lunga sulle sue possibilità economiche. Doveva stare dall'altra parte della barricata, quel tipo. Proprio il perfetto uomo d'affari. Si accomodò. — Bill — esordì Rubin — ti presento Maxwell Jones. È il leader del suo complesso. — Stammi bene a sentire, Morty — protestò Smart seccato — te l'avevo già detto di non insistere su questo tasto. — Sembrava quasi sul punto di alzarsi e andarsene, almeno a giudicare dai cigolii prodotti dalla sedia. — Bill — disse Rubin in tono arrendevole — non sei venuto nel mio ufficio tre anni fa, proprio come adesso, per incontrare quattro sorelle che ti
avevo presentato io? Erano brutte, dicevi, avevano i denti da pescecane, non erano più molto giovani... — Le sorelle Anderson, il Quartetto delle Vecchie Zitelle — terminò Smart. — E le abbiamo rese anche più brutte e più vecchie; come dire?... le abbiamo aggiustate alla rovescia. — Diede un'occhiata al suo favoloso orologio senza controllare l'ora, come se l'oggetto che portava al polso avesse qualcosa a che fare con quell'episodio. — E adesso si sono imposte stabilmente. Te le ritrovi da tutte le parti, ormai. — Be' — fece Smart con aria modesta — me ne sono occupato io. — Già che ci sei, non potresti occuparti anche di lui? Cos'è, il mondo è finito con le sorelle Anderson? Non c'è più spazio per nessuno dopo di loro? — Volo basso ora. Non mi piacciono più le arrampicate. — Con lui non dovresti arrampicarti. Basta una piccola spinta e poi potresti lavartene le mani. Lascia che ti racconti la storia di questo ragazzo. Smart allungò stancamente una mano. — Non m'importa se suona come un angelo. Non m'importa se non sa distinguere una nota dall'altra. In un locale notturno, la musica sembra sempre la stessa. Il solito ia-ta-ta. Ma tanto, chi l'ascolta? Io chiedo una cosa sola. Ha un numero particolare? Qualcosa su cui possa fare affidamento? — Giudica tu — rispose all'istante Rubin. Poi abbassò la voce in tono confidenziale. — Si è portato dietro una ballerina da... Come diavolo si chiama quel posto? Non riesco a ricordarlo. Ha un nome che è lungo più o meno come l'intero alfabeto. Be', comunque si trova a est. Sai a quale Est mi riferisco, no? Non il nostro Est, come a dire Long Island, ma l'Estremo Oriente. Questa ballerina fa una danza... — Perché, la maggior parte delle ballerine non danza? — lo interruppe Smart con voce languida. — In questo modo, no — ribatté Rubin con enfasi. — C'è una superstizione collegata a questa danza. Secondo le loro credenze, qualche divinità celeste potrebbe scendere sulla Terra. E allora è probabile che accada qualcosa, qualcosa di rischioso. Non chiedermi esattamente cosa. Non sono un esperto. Proprio ieri, qui a New York... Anzi, guarda tu stesso. Leggi qui. — Gli porse un giornale. — Ti riferisci all'ingorgo stradale che è durato venti minuti? — No, no, no. Guarda quel trafiletto. Due righe sotto la faccenda dell'ingorgo. Leggi con attenzione, perché la notizia è stata stampata in caratteri
molto piccoli. — Quando Smart ebbe terminato di leggere il breve resoconto del decesso di Luke, Rubin aggiunse: — Hai delle buone entrature con la stampa? Hai dei contatti? Smart posò il giornale sulla scrivania. Rimase seduto in silenzio per alcuni secondi, come se fosse in trance. Teneva l'indice puntato davanti a sé, quasi a voler indicare un misterioso oggetto sulla parete che solo lui poteva vedere. — "La morte arriva dall'Est" — disse a bassa voce. — "La danza che può ucciderti, se guardi troppo da vicino". — All'improvviso, balzò in piedi di scatto, come se fosse riuscito a spaventarsi da solo. Ma, in realtà, non era paura la sua, ma entusiasmo allo stato puro. Prese a darsi dei colpi sulle ginocchia con entrambe le mani, con un tale vigore che parve volesse fratturarsele. Rispose lui stesso alla domanda che aveva rivolto poco prima a Rubin. — Questo sì che è un numero sensazionale! Lui non ha bisogno di essere lanciato; è già in orbita per conto suo. Gli basta solo una spintarella, poi si aggiusterà con le sue forze. Posso far inserire il suo nome in ogni articolo sui night club e sulla vita notturna che sarà stampato oggi. Anzi, posso fare anche meglio. Con questa storia in mano, posso andare dai principali quotidiani e farla pubblicare tra le notizie di cronaca, e magari anche in prima pagina. Per quanto riguarda le riviste, sarà un gioco da ragazzi. Posso farne un mito in tre settimane, pronto per affermarsi a livello nazionale... Ma che cosa ci faccio ancora seduto qui? Si alzò e uscì di corsa, pieno d'entusiasmo. Poi tornò indietro per riprendersi la giacca, sempre sulle ali dell'entusiasmo. — Non si aspetteranno mica un morto tutte le volte che danza, eh? — lo mise in guardia Rubin. — Nessuno può garantire una cosa del genere. Potrebbe capitare solo di tanto in tanto. Forse stavolta, forse la prossima; chi può dirlo? — Ci penso io. — Poi si rivolse a Jones e, in tono affabile, gli disse: — Preparati a diventare qualcuno, giovanotto. Bill Smart punta su di te. Cambia casa, cambia sarto, cambia ragazza, cambiati i calzini. Una volta che il successo arriva, fa le cose maledettamente in fretta. Tu devi cercare di restare sempre sulla cresta dell'onda. — Quanto crede che potremo valere una volta che avrà sistemato tutto, signor Smart? — chiese Jones, quasi intimorito dalle parole del pubblicitario. — La stessa quotazione di adesso. Nemmeno uno spicciolo in più. Ma
nessuno è pagato per quello che vale. Chi ha mai sentito una sciocchezza del genere? Tu sarai pagato per quello che loro pensano che vali. E per averti dovranno spendere. Useremo un'altra tattica rispetto a quella solita: chiederemo quindici, e poi terremo duro finché non saranno saliti a venti. — Quindici bigliettoni da cento? — balbettò Jones. — Quindicimila — sbottò Smart. — A settimana. Poi se ne andò all'istante, questa volta insieme alla giacca. Due cose rimasero aperte alle sue spalle: la porta e la bocca di Maxwell Jones. 5 Dopo qualche settimana dall'inizio della campagna strategica orchestrata da Smart, finalmente arrivarono le convocazioni. Rubin telefonò a Jones. — Forza, preparate le valigie, mettete gli strumenti nella custodia e fatevi trovare nel mio ufficio tra mezz'ora. Tutti, nessuno escluso. Quando finalmente si erano radunati e avevano fatto il loro ingresso nell'ufficio, Rubin salutò Jones tenendosi puntata allo sterno l'estremità di una penna stilografica. — Firma qui. E qui. E qui. Non occorre che tu legga. Ho già passato tutto al microscopio. Jones diede un'occhiata incuriosita ai contratti, dopo che ebbe terminato di firmarli. — Perché quell'altro ha firmato in rosso? — Perché è un tipo spiritoso — intervenne Bill Smart, anche lui della partita. — Ma forse non stava scherzando affatto. Mi ha spiegato che c'erano due motivi per cui doveva firmare in rosso. Uno è che questo contratto gli ha spremuto un bel po' di sangue, così la firma doveva recarne in qualche modo traccia. L'altro è che quella era la condizione in cui sarebbe rimasto alla fine dell'impegno contrattuale: in rosso, appunto. — È così alto il compenso? — Alto? Sai cos'ha suggerito alla fine, quando la trattativa era ormai lì lì per concludersi? Ci ha proposto di rilevare il suo locale e di assumerlo alle nostre dipendenze, offrendosi di badare al complesso. Ci avrebbe guadagnato di più, in quel modo. — È il sogno di tutti gli agenti — osservò Rubin. — Temo solo di svegliarmi troppo presto. Va bene, continuiamo a sognare. Ora devi prendere il treno. Dalle tasche di Jones sembrò fuoruscire all'improvviso una marea di bi-
gliettini rettangolari. Piovvero tutti sulla scrivania, proprio davanti a Rubin, come una cascata di foglie autunnali. — Paga questi conti per me, Morty. Così non penseranno che me la sia squagliata alla chetichella. — Mi sono svegliato — disse Rubin, scuro in viso. — Calzini, venticinque dollari... — Mi aveva detto di cambiarli — disse Jones, scrollando le spalle. — Sei vestiti fatti su misura... — Mi aveva detto di cambiare sarto. Rubin si diede un colpetto alle guance con aria affranta, dopo aver guardato la voce successiva nella lista. — Dovevi proprio trasferirti in un grattacielo? Non potevi scegliere una casa meno costosa? Cosa ti è saltato in testa, di imitare le aquile? — Mi aveva detto di cambiare casa. Quando raggiunse l'ultima voce, Rubin scosse lugubremente la testa. — Sei sicuro di non aver dimenticato niente? È tutto qui? Pensaci bene. Non vorrei che fossi costretto a privarti di qualcosa. — Be' — osservò blandamente Jones — non ho potuto cambiare ragazza. Anche perché non ce l'avevo. Un sospiro struggente risuonò accanto alla parete in fondo alla stanza, dove Mari sedeva tranquilla, con il resto dei bagagli. Gli rivolse uno sguardo appassionato, ma lui non lo notò nemmeno. — Puoi sempre provvedere una volta arrivato là — lo rassicurò Smart in tono scherzoso. — Ne trovi dovunque. E tutta roba di prima qualità. Le migliori donnine d'importazione. E in quel modo non dovrai nemmeno pagare le tasse. — Forza, non abbiamo tempo per queste sciocchezze, adesso — intervenne Rubin, spingendoli fuori con le sue braccia tentacolari. — State attenti a non dimenticarvi niente. Tira su quel trombone. E quel... Oh, scusami cara, non credevo che fossi tu. Qualcuno accompagni la nostra piccola ballerina. Il treno parte tra venti minuti. Arrivati sotto la scorta di Smart e di Rubin al binario sette del Grand Central Terminal, si infilarono tutti, l'uno dopo l'altro, in uno degli scompartimenti riservati, anche se, a rigore, avrebbero dovuto usufruirne solo Bee e Mari. Gli altri avevano biglietti per posti normali. Rubin levò le mani in segno di saluto, diede un leggero colpetto in testa a Mari, come se la ragazza fosse stata una specie di mascotte, e rivolse ai musicisti alcuni consigli un po' paterni dalla soglia dello scompartimento, prima di scendere nuovamente a terra. — Be', buona fortuna a tutti. Non
saprei cos'altro aggiungere. Che Dio vi benedica. E suonate bene, mi raccomando. Non vi chiederò di comportarvi come dei santarellini. Ma se dovete fare i mascalzoni, fatelo con classe. Ricordate velo bene: ora siete nel grande giro, siete diventati delle stelle. Fate in modo che possa sempre dire con orgoglio: "Io sono il loro agente". E tornate alla grande. La porta si chiuse e alcuni accordi risuonarono alla rinfusa dagli strumenti. Erano l'espressione di una vitalità incontenibile. — Metti via quella bottiglia. Morty ti sta guardando dal finestrino. — La metto via — rispose stancamente la ragazza, raddrizzando la testa. — Hai paura, tesoro? — la canzonò Bee, fingendo di preoccuparsi. — Abbassate un po' il volume, ragazzi; è il primo viaggio che fa. — Non è il caso — disse Mari con un debole sorriso. — Basta che possa sedere accanto a Max. Bee tirò la manica di qualcuno, poi gli urlò di alzarsi e far posto alla ragazza. — Forza, poltrone, tirati in piedi. Mari si accoccolò contro Jones e lui le cinse le spalle con un braccio possessivo ma del tutto indifferente. — Sai cosa sei tu? Un piccolo giacimento. La piccola miniera d'oro di papà. — Ma guardava dall'altra parte, fuori del finestrino, verso Rubin. — Tu sì che sei un tenerone — borbottò Bee, accigliata. — Le dici sempre che si comporta come i musi gialli e altre sudicerie del genere. Il treno mandò un ululato sepolcrale sotto la galleria. All'improvviso, come se avesse avuto un'ispirazione, qualcuno si preoccupò di una faccenda che fino a quel momento era stata trascurata. — Ehi, c'è qualcuno che sappia dov'è diretto questo treno? Ormai siamo partiti, ma per quale destinazione? Jones tirò su il finestrino e gridò in faccia a Rubin: — Ehi, dove siamo diretti? Hai dimenticato di dircelo. Dove dobbiamo andare? — Dettagli, dettagli — rispose calmo Rubin, mostrandogli il palmo della mano. — Il macchinista del treno sa la strada: state tranquilli, non vi perderete. Domani notte sarete al Club Perroquet di Montreal, in Canada. E prenderete il cachet più alto che sia mai stato pagato a un complesso in tutto il Nordamerica. PARTE SECONDA Montreal: Le Perroquet 1
La notte dell'esordio. La sua prima esibizione al Club Perroquet, un locale molto piccolo ma anche molto esclusivo. Era di rigore il frac. Se si tentava di entrare con uno smoking, si era immediatamente accompagnati alla porta d'ingresso. Se si indossava qualcosa di meno elegante, non si poteva nemmeno entrare. Lei sedeva là, rannicchiata in un angolino di fronte allo specchio circondato da luci, mentre Bee le dava una mano a truccarsi. Erano arrivati al decimo dei numeri musicali in programma, così a Mari restavano ancora quindici minuti di ansietà da far passare. Un intervallo terribilmente lungo, se lo si vive con paura. — Sei nervosa, tesoro? — Mi sento come se dovessi morire da un momento all'altro. Magari fossi già morta! Ma temo che non accadrà. Non così presto, perlomeno. — È questo lo spirito giusto — approvò Bee. — Non potevi avere reazione migliore. Se mi avessi detto che eri calma e non provavi niente, mi sarei preoccupata e avrei fatto chiamare un dottore. La paziente cominciò a nutrire un più spiccato interesse per le operazioni di Bee. — Perché mi trucchi in quel modo? — Il tuo visino si accorda poco con la tua specialità, tesoro. Hai l'aria di una studentella appena iscritta all'università. Hai un musetto che è distante anni luce da quello che fai sul palcoscenico con i tuoi muscoli. — Cominciò a studiare i risultati. — Hmm... Ora sembri una matricola che ha passato tutta la notte a studiare. Aspetta un attimo. Fammi cercare una cosa. Bee si mise a rovistare nella borsetta. — Eccolo qui! Questo ti toglierà quell'aria lattiginosa che hai in faccia... La paziente cominciò ad agitarsi, terrorizzata. — Oh, la musica si è fermata! — Tentò di alzarsi dalla sedia, nonostante avesse ancora la cuffia in testa e un asciugamano sulle spalle. Bee la spinse nuovamente a sedere. — Ehi, stai calma. C'è ancora un mucchio di tempo. Ora faranno dieci minuti di intervallo prima di attaccare con il tuo numero. Vennero i musicisti ad augurarle buona fortuna. Le si strinsero tutti intorno, e all'improvviso la stanza fu satura di uomini. — Un attimo, cos'è questa invasione? — urlò Bee, ormai perfettamente calata nei panni della dama di compagnia. — Avete scambiato questo posto per un bagno turco? — Lei è la nostra sorellina e noi siamo i suoi fratelli maggiori — osservò qualcuno.
— Be', ora che le avete letto i vostri certificati di nascita, suppongo che potreste anche andare a quel paese. — Lasciali stare — disse Mari con voce tremante. — Non mi dà fastidio averli con me. — Già, un pezzetto di formaggio in mezzo a un battaglione di topi e lei non si sente a disagio — commentò Bee. — Mi sbaglio, o qualcuno ci ha chiamati topi? — chiese uno di loro. — E chi? — Quell'enorme topo laggiù. — Non darle troppi colpetti sulle spalle — ordinò Bee, scansando la mano di qualcuno. — Deve fare un bel po' di ginnastica, tra poco. Jones entrò all'improvviso nella stanza già sovraffollata, tenendo una bottiglia di champagne leggermente inclinata nell'incavo del braccio. Era seguito da un cameriere che portava un vassoio con dei bicchieri. — Ma ti ha dato di volta il cervello? — sbraitò Bee. — Questo poi no! Non sai che deve esibirsi tra poco? Un tappo di sughero, che lasciò dietro di sé una scia schiumosa come una cometa sfuocata, si infranse contro il soffitto. Jones si versò un po' di champagne sul palmo della mano, poi lo tenne sospeso sopra la testa di Mari, le tolse la cuffia e, deliberatamente, le spruzzò i capelli. — Cosa credi che sia, una nave? — protestò Bee. — Fama e successo, tesoro. E felicità — le augurò Jones. — Per te e tutti noi. — Poi attaccarono a bere. — Quella roba ti fa sempre appannare gli occhi — mentì Bee. — Perlomeno, questo è l'effetto che fa a me. — Si sporse con vigore in avanti e baciò la sua protetta sulla fronte. Poi le tolse l'asciugamano che aveva ancora sulle spalle. — Che te ne pare, capo? Sono stata io a farle il trucco. — Ge-e-sù — fece lui, strascicando le parole in segno di ammirazione. — Sei stata bravissima. Era proprio così che la volevo. La ragazza rabbrividì e si aggrappò a Bee. — È una paurosa, non c'è niente da fare — sussurrò confidenzialmente quest'ultima a Jones. — Tienila qui finché non le daranno il via, Bee. Poi portala fuori con la velocità di un fulmine. Non lasciarla andare sola. — Lo so, lo so — disse Bee. — L'ultima parte del percorso è sempre la più difficile, no? Lui si diresse verso la porta. — Max! — urlò all'improvviso Mari, quasi con disperazione. Lui si voltò.
— Ti dispiacerebbe... ti dispiacerebbe darmi un bacio? Sono certa che mi porterà fortuna. — Bisogna anche chiederglielo, guarda un po' tu — commentò seccamente Bee, ma senza farsi sentire. Lui tornò indietro e la baciò. Aveva mirato alla fronte, ma lei alzò la testa di colpo e le labbra di Jones, fallendo il bersaglio, atterrarono morbidamente su quelle di Mari. Poi uscì nuovamente. Le due ragazze rimasero sole in quel piccolo camerino e Bee passò un braccio intorno alle spalle di Mari, che la guardò sorridendo. — È buffo, ma non ho più paura. Chissà perché, poi. Bee si strinse nelle spalle. — Di certo, non può essere quel bacino striminzito che ti ha dato prima di andarsene. Be', mettiamoci in marcia, tesoro, altrimenti arriveremo tardi. Camminava accanto a Bee, che le aveva appoggiato una mano sui fianchi. Diretta verso la fama, il successo, forse anche la felicità. In ogni caso, verso la fama e il successo. 2 La prima notte era già passata. Aveva finito di esibirsi, ormai. Sedeva da sola nel camerino, di fianco allo specchio, in attesa. Avvolta in una giacca che le donava tanto quanto il mantello protettivo di una statua prima dell'inaugurazione. In testa portava un cappello che le ricadeva ben sotto le orecchie. Fuori si sentiva un certo trambusto, con un mucchio di gente che andava avanti e indietro. Ma la musica era cessata. Non restava che andarsene a casa. Lei sedeva lì, in attesa, dimenticata da tutti. All'improvviso, Bee entrò in tutta fretta, alla ricerca di qualcosa che aveva dimenticato; la vide e di colpo si ricordò di lei. — Sei ancora... — Tornò indietro sulla soglia e domandò, con un tono da annunciatore ferroviario: — Chi riporta la ragazza a casa? La testa nel cappello rimase voltata verso il basso, senza muoversi. — Non importa. Posso farcela da me. La voce di Jones rispose all'improvviso da qualche punto imprecisato del corridoio. — È tutto a posto, Bee. Ci penso io a lei. Bee riferì il messaggio con aperto umorismo. — Il tuo aperte virgolette
maritino chiuse virgolette ha detto che ci pensa lui a riportarti a casa, tesoro. La testa nel cappello assunse una posizione eretta. Sembrò accorgersi di colpo della presenza di Bee. — Questa giacca mi sta come una tenda. Perché dev'essere così grande? Si voltò malinconicamente verso lo specchio. — Perché dovevo comprarmi proprio un cappello? Tutte le ragazze di New York stanno magnificamente in cappello. Ma io sembro uno spaventapasseri. — A me sembri perfetta, tesoro. In ogni caso, devi solo andare a casa per metterti a nanna, non è vero? Max vuole che ti riposi per bene; è per questo che non puoi venire al party con il resto della compagnia. — Già, ma se quel party si tiene per celebrare il mio successo, perché devo restarne fuori proprio io? Lui non è mio padre. Non è il mio fratello maggiore. E non è neppure il mio medico personale. — Lui è il tuo capo, tesoro — le ricordò Bee in tono gentile. — Comunque, non ti farebbe piacere venire con noi. So bene come vanno questi party, sono tutti uguali. Gli uomini vanno avanti fino a tardi a fare battutacce e a raccontare barzellette oscene. — Anche lui? — chiese a bruciapelo la ragazza. — Anche lui — rispose Bee. — Be', allora perché non posso sentirne una anch'io? Credono che non sia capace di ridere? — D'accordo, ricordami di raccontartene una la prossima volta. — Non la voglio sentire da te. — E da chi la vorresti sentire? — domandò Bee con assoluta indifferenza. Nessuna risposta. — Devo andare, tesoro. Brad mi aspetta. Fatti una buona dormita e non pensarci più. Jones entrò sulla scia di Bee. — Ah, sei qui? Tutto a posto? Le passò un braccio intorno alle spalle e lei gli si rannicchiò addosso, come un crostaceo dentro il guscio. Jones diede un'occhiata in giro. — Hai preso tutto? Mari gli strinse forte il braccio, che pareva inanimato. — Tutto — mormorò timidamente. Lui spense la luce del camerino. — Sono stata brava? — chiese lei, trottando docilmente giù per il corri-
doio. — Vuoi dire che non l'hai ancora capito? — Be', c'era un tale silenzio... — Ed è stata questa la risposta del pubblico, il suo modo di applaudire. Di solito la gente batte le mani. Tu, invece; hai ricevuto il più grande tributo che un pubblico possa mai dare: il perfetto silenzio. C'è voluto un quarto d'ora buono, prima che la gente riprendesse a parlare. Lei non pareva completamente soddisfatta. — Ma ti sono piaciuta? — insistette. — Piaciuta? — ripeté lui. — Mi pare una parola impropria da usare. Non so da dove vieni e non so nemmeno dove andrai. Non so come sei venuta con me. So solo... — Cosa? — chiese lei con uno sguardo implorante. — Cosa? Lui scrollò le spalle con un sorriso. — Che sei la mia magia. Il mio talismano. Buona notte, Mari. "Non potrei essere qualcosa di più?" si chiese mestamente la ragazza. Poi incontrarono il portiere che stava dietro le quinte, e bastò questo a spezzare l'illusione. Si affrettarono a risalire il vicolo. — Chissà come sarà il party — disse la ragazza con una evidente allusione. — Sono solo le due, non è vero? Ma, d'altra parte, Mari non aveva nessuna possibilità di scoprire come sarebbe andato il party. C'era una donna sola che aspettava di fronte all'ingresso principale del night club, un po' più in giù rispetto al punto da cui erano sbucati loro. Non aveva certo l'aria di una donnina a buon mercato. Era elegante e vestiva abiti costosi, con la gonna che sfiorava il marciapiede. Scandiva i secondi con la punta del piede. Era quella specie di donna che di solito non aspetta mai molto a lungo. Né davanti all'entrata di un night club né da qualsiasi altra parte. Prima o poi, trova sempre qualcuno che la rimorchia. Si voltò e li vide dirigersi verso il marciapiede. Diede l'impressione di riconoscere Jones. Una voce vellutata, da contralto, li raggiunse all'improvviso. Era una domanda, ma una domanda che sembrava un ordine. — Allora, Max? Che facciamo? Lui la salutò con un cenno della mano e un sorriso cordiale. — Vengo subito, cara. Accompagnò Mari fino al taxi, poi porse al conducente una banconota. — Porta questa ragazza al Mount Royal. Fai in modo che arrivi fin lì sa-
na e salva. Mi raccomando, abbine cura. Lei è qualcosa di speciale. Chiuse la portiera. Si toccò il cappello con la mano. E rimase lì. Il tassista si chinò pochi secondi dopo la partenza, un po' preoccupato, per fare qualche indagine nella zona dei pedali. — Non si tratta del motore — disse lei dal sedile posteriore, come se stesse per scoppiare a piangere. — È che stavo battendo i piedi sul pavimento. 3 Bill Smart li raggiunse alla terza esibizione, insieme a una cartella piena di avvisi pubblicitari e ritagli vari. Li estrasse tutti, li scaraventò sul tavolo del camerino e domandò con entusiasmo: — Dov'è il capo? — Non siamo una tribù indiana — osservò seccamente Bee, alzando lo sguardo. Stava controllando un paio di calze di nylon. — E se poi intendi riferirti a quella cosa che abbiamo sempre sopra il groppone, be', guardati allo specchio e lo troverai subito. — Va bene, va bene, mi arrendo. Dov'è il tizio per cui lavori? Va meglio? — Senti, fai bene attenzione a dove metti quella cartaccia, capito? La ragazza deve ancora truccarsi, e non vorrei che si mettesse dei ritagli di giornale sulle ciglia, invece del mascara. Ma era difficile intimidire Smart. — Guarda questo. Andrà su tutte le edizioni di domani. Bee diede una scorsa all'avviso pubblicitario che Smart le aveva passato. Mari sbirciò da sopra le spalle. "Accadrà anche qui?", era il titolo in grassetto. Poi, in caratteri più piccoli: "Tutti i posti in cui lei danza...". Smart coprì il primo avviso con un secondo. — Dai un'occhiata anche a questo. Bee lo lesse ad alta voce: — "Vi siete ricordati di pagare l'ultima rata della vostra assicurazione sulla vita? In caso contrario, non andate al Perroquet stanotte...". — Ah, questo mi fa venire in mente una cosa. — Smart si rivolse a Mari. — Ti ho preso un appuntamento con il fotografo per domani pomeriggio. Voglio farti scattare qualche altra foto. Per esempio, in questa posi-
zione. Si stese supino a terra, davanti a due ragazze terrorizzate. Si appoggiò sui gomiti, mise le mani a coppa e ci infilò il mento. Poi si mise a fissare con gli occhi sbarrati dall'emozione quello che, almeno a quanto potevano giudicare loro, aveva tutta l'aria di essere un asciugamano appallottolato che qualcuno aveva gettato a terra, proprio accanto al battiscopa. — Cos'è questa sconcezza? — disse in tono di scherno uno dei musicisti, appena comparso sulla soglia. — Che ci fa un uomo disteso qui dentro? Smart lo ignorò. — Davanti alla tua faccia ci sarà un cobra. Tutto arrotolato, sai, come stanno di solito. Tu lo fisserai intensamente negli occhi e lui fisserà te. A questo punto, Mari se ne uscì con un'esclamazione di allarme, e si strinse a Bee come in cerca di protezione. — Non un cobra vivo — precisò lui, seccato. — Ho trovato un tipo, qui in giro, che sa fare di tutto. Me ne fabbricherà uno lui, naturalmente di gomma. Lo collegheremo a un filo invisibile che lo farà muovere verso l'alto... — Allora fissalo tu negli occhi! — esplose la sempre più agitata Bee. — E sputaci pure, negli occhi, se ti fa piacere. E se quel serpente desse retta a me, gli direi di sputare anche nei tuoi. Cosa stai cercando di fare? Di trasformare lo spettacolo in una specie di attrazione da circo? Quante volte l'hai vista fare questa danza? Avrai pure capito che è tutta un'allegoria; non ci sono serpenti, né veri né di gomma. Sono solo i movimenti della ragazza a creare l'illusione scenica. — Non ho mai visto uno di quegli animali nemmeno nel posto dove stavo prima — protestò energicamente Mari. — La prima volta che ho visto un serpente in vita mia è stato quando i genitori del signor Bradley mi hanno portato allo zoo del Bronx, poche settimane fa. Credevano che mi piacessero! Sono corsa via così velocemente che hanno dovuto sudare per raggiungermi. Odio quel genere di animali anche più di quanto non li odiate voi negli Stati Uniti. — Non importa, tesoro. — Bee le diede una pacca sulle spalle per consolarla. — Non dovrai fare gli occhi dolci a nessun serpente. Né per terra né da qualsiasi altra parte. — Ah, così la mia idea non vi garba — disse Smart con una certa indignazione. La risposta che ottenne fu assolutamente franca. — Io ho uno stomaco
piuttosto forte — proclamò Bee. — Ma se qualcuno mi passasse gentilmente quel vecchio cappello di Brad che è attaccato lassù e poi si togliesse di torno... Nel frattempo, Jones era entrato e si era messo a esaminare gli avvisi pubblicitari. — Perfetto — disse con aria di approvazione. — Hai fatto proprio un buon lavoro, Bill. — Gli si avvicinò e gli diede un colpetto amichevole sulle spalle. — Ma è meglio lasciar perdere quell'idea delle fotografie col cobra, non ti pare? — D'accordo — rispose Smart. — D'accordo. Se non vi piacciono i serpenti, allora niente serpenti. Hai un ottimo complesso, Max — aggiunse ad alta voce, come se Jones non si trovasse proprio lì. — Ma c'è una cosa che non va. Ci sono troppe bionde. — Passami il lucido per le scarpe, allora — mormorò Bee, sorridendo con falso candore. — Be', comunque io procedo a modo mio — disse Smart, non appena le risate cessarono. — Questo è solo l'inizio. Anzi, il vero inizio deve ancora venire. Volerai come un aeroplano, ragazza mia. Salirai in alto come un missile, appena darò fuoco alla miccia. — Cominciò a fregarsi le mani con aria soddisfatta. — Oggi è mercoledì, giusto? Be', faremo passare altri tre giorni. Ma aspettate fino a sabato. Sabato sarà la grande serata. Ripeto: aspettate fino a sabato. — Che significa? — chiese qualcuno. — Non lo indovini? — disse Bee con una certa preveggenza. — Ti do tre possibilità. 4 Bee e Mari sedevano nel camerino la notte successiva, dopo lo spettacolo. La porta che dava sul corridoio era stata lasciata aperta e uno strano odore entrava a fiotti e volteggiava sopra le loro teste, sommergendole. Quella specie di odore che fanno le macchinette dei pop-corn negli ingressi dei cinema, anche perché vengono fatte funzionare al massimo senza un adeguato ricambio dell'olio. Piegandosi un po' in avanti, Bee cominciò a fiutare intorno a sé con aria sospettosa. — Qualcuno sta friggendo dei popcorn, qui fuori — disse. Poi si voltò e si mise a guardare. Mari la imitò subito. Una donna piuttosto prosperosa, di notevole avvenenza ed eleganza an-
che se leggermente sciupata, si era fermata di colpo per guardare le due donne sedute nel camerino. Accorgendosi che aveva attratto la loro attenzione, riprese subito a camminare con un'aria indolente, quasi a volerle rassicurare. I suoi occhi parvero dire: "Nessuna paura, ragazze, faccio solo due passi in giro". Poi si eclissò. — L'hai vista? — domandò Bee. — Camminerà così per qualche preciso scopo o è il suo atteggiamento naturale? Aspetta un attimo. Qui non fanno spettacolini di quel tipo. Dev'essere in giro per lavoro. Una di quelle donnine che, di notte, se ne stanno appoggiate contro i lampioni, sai? Mari ridacchiò. — Ho capito a chi alludi. — Hai notato come tiene bassa la borsetta, quasi al livello della caviglia? E quella camicetta, poi! Tutto un gioco di "ti vedo e non ti vedo". — Oh, quel profumo! — si lamentò Mari in tono scherzoso, sventolandosi una mano davanti al viso. — Cosa sarà? — Gigli di spazzatura e piume arrostite, più una spruzzatina di un liquido giallino. — Si avvicinò alla soglia sventolando un asciugamano. — Vediamo se riesco a buttarlo fuori di qui. Qualcosa attrasse la sua attenzióne. Fece una pausa e sbirciò con discrezione al di là della soglia. — Si è messa in fondo al corridoio — riferì — proprio sul retro del palco dove sta l'orchestra. Si esibiscono le ballerine, adesso, e lei si sta godendo lo spettacolo senza pagare il biglietto. In quel momento, la musica cessò. — Ecco che escono i ragazzi — disse. Poi ritornò accanto a Mari. — Cerca di contarli. guardando nello specchio — la istruì. — Devono oltrepassare quella donna, in fondo al corridoio. E poi saranno costretti a passare da qui. Vediamo se manca qualcuno. Passò la tromba. Poi la batteria. Poi il pianoforte. Non in senso letterale, si capisce; lo spazio non sarebbe stato sufficiente. Fumavano tutti come delle ciminiere. E ognuno apparve nel riflesso dello specchio. Passò il clarinetto. Poi la chitarra elettrica. Alla fine passò anche Jones, tenendo in equilibrio sul palmo della mano un bicchiere di carta pieno fino all'orlo di Coca-Cola (volendogli concedere il beneficio del dubbio).
Si voltò e diede un'occhiata all'interno del camerino, senza fermarsi. — Salve, ragazze — salutò alzando il bicchiere. Riuscì miracolosamente a evitare che il liquido si rovesciasse, Coca-Cola o beneficio del dubbio che fosse. Le lunghe dita affusolate di Bee cominciarono a tamburellare sul bordo del tavolo da toletta. — Quanti ne hai contati? — Sei — rispose Mari. — Anch'io. Qualcuno è stato depistato. E non occorre che me lo dica tu, ci sono già arrivata da sola. Si diresse a grandi falcate verso la porta e guardò all'esterno. Intrecciò le braccia in segno di conferma, poi annuì con vigore a beneficio di Mari. Alla fine, ritornò all'interno della stanza. — Sicuro — disse. — Sicuro. Tutti i ragazzi, nessuno escluso, avevano una sigaretta in mano. Li hai visti anche tu. Ma chi è stato fermato? A chi hanno chiesto da accendere? Chi si diverte a starsene là come se dovesse fare la danza del fuoco? Tutte le volte è sempre la stessa musica. — Si diede un colpo su una coscia per sottolineare le sue parole. Mari abbozzò un sorriso, con aria caritatevole. — È duro rifiutare, quando qualcuno ti chiede un favore. Specie se è una donna. Bee tornò a piazzarsi sulla soglia per fare un'altra panoramica. — Vorrei che potessi vederlo. Se ne sta là a premere la sua sigaretta contro quella di lei. Guardali, tutti e due curvi su quelle sigarette come se stessero cantando in coppia. Non poteva tirare fuori un fiammifero, no! Doveva per forza mettersi a fare il cretino... Continuò a contemplare l'ameno quadretto con un'esasperazione a stento repressa. — In vita mia, non ho mai visto una sigaretta metterci così tanto per accendersi — osservò. — Magari lui inspira mentre lei espira. — O magari la sigaretta di quella donna sarà umida — disse Mari. — Le sigarette sono normalissime — ribatté Bee, guardandola di traverso. — Di umido, come dici tu, c'è solo il cervello di quell'individuo. — Come farà a resistere così vicino a quel terribile profumo? — si chiese Mari. — Oh, ti preoccupi per questo? — disse Bee con aria sprezzante. — A qualcuno probabilmente piace, quel profumo. Fece un'ulteriore ricognizione. — Guarda un po' se doveva piegarsi in quel modo verso di lei. Sembra la torre di Pisa! — riferì sempre più amareggiata. — E con quale eleganza si sporge...
Tornò di nuovo vicino al tavolo da toletta. Questa volta pareva aver preso una decisione esplosiva. — Si è messo in una posizione tale, con la testa completamente voltata, che è un'occasione troppo buona perché me la lasci sfuggire. Raccolse una spazzola per capelli di Mari, dal manico lungo, e sparì dalla vista inoltrandosi lungo il corridoio. Prima di uscire, aveva soppesato più volte la spazzola. Per alcuni attimi il corridoio rimase in silenzio. Poi si sentì il rumore di un colpo e l'urlo sbigottito di una donna. Subito dopo, una figura passò di corsa davanti al camerino, con i lustrini dell'abito che luccicavano. Bee riapparve di lì a poco, a un'andatura molto più normale. Aveva un ghigno di soddisfazione dipinto sul viso. Lanciò la spazzola, che adesso era spezzata a metà e sembrava piuttosto malconcia, là dove l'aveva presa. — E così siamo a posto — disse. — Avresti dovuto vedere la pioggia di scintille che si è sprigionata dalle sigarette. Sembrava il ritorno di fiamma di un motore. Ho persino visto una sigaretta volare per aria. Credo che la sua se la sia inghiottita, quel lestofante! Bradley entrò nel camerino con estrema lentezza. Aveva un'aria sconcertata, era rosso in faccia e si stava massaggiando con particolare cautela. — Perché l'hai fatto? — domandò con voce lagnosa. — Piombarmi improvvisamente alle spalle e menare colpi a destra e a manca. Un mucchio di scintille mi sono finite sul collo e mi hanno provocato un bel po' di scottature. — Si toccò il colletto della camicia e lo scosse leggermente. Bee si rivolse all'uomo in tono ammonitorio. — Quante volte devo dirtelo? Stai lontano da quel genere di donne, quando sei con me! — tuonò. — Non riusciva a trovare l'uscita e mi ha chiesto da che parte si trovava il vicolo, ecco tutto — protestò lui. Bee abbozzò un acido sorriso. — Lei non ha bisogno di chiedere informazioni a nessuno sui vicoli; ci passa l'intera giornata. Scommetto che potrebbe mostrarti dei vicoli di cui nessuno è a conoscenza. — Non ho mai visto nessuno come te — si lamentò lui debolmente, spalmandosi un po' di crema sul collo con la punta dell'indice. — Mi aveva chiesto se, per favore, potevo accenderle la sigaretta. Perché mai avrei dovuto rifiutare? — Va' là che hai capito benissimo — disse Bee a voce bassa. Poi si girò verso Mari e allargò le braccia. — Io non ho niente contro le competizioni. Ma quello che proprio non mi va giù è quel genere di competizioni. Le altre donne devono preoccuparsi dei soliti piccoli tranelli; sai, quei faccini
graziosi e intelligenti che sfoggiano vestiti da mille dollari. E questa è una competizione d'alto bordo. Ma io, io di chi devo preoccuparmi? Delle donne di lusso? No, io devo lottare contro il sindacato delle donnine compiacenti. Basta che qualche sudiciona che batte il marciapiede gli passi davanti, magari con una specie di lampada da minatore al braccio, e lui si mette a strabuzzare gli occhi e non capisce più niente, tanto è incantato a guardarla. Anche se sa che io sono nei paraggi. Una volta, l'ho persino innaffiato con un idrante, tanto mi ero arrabbiata. — No, non capisci — disse lui, tentando di convincerla. — Non sono interessato personalmente a quelle donne. È che cerco di studiarle da un punto di vista... be', diciamo da un punto di vista scientifico. Non riesco mai a distinguerle a prima vista, come certa gente sa fare, e rimango sempre nel dubbio. Così, continuo a chiedermi: lo saranno o non lo saranno? La maggior parte delle volte, quando mi guardo in giro in quel modo, è solo per farmi questa elementare domanda, chiaro? — Se le guardi così, fratello, è solo perché lo sono, e tu lo sai benissimo! — ribatté Bee senza la minima incertezza. Lui scosse la testa come una persona che si renda conto di essere stata completamente fraintesa, poi uscì e si chiuse la porta alle spalle. Bee attese un po' di tempo, prima di parlare. Voleva essere sicura che Bradley si fosse allontanato. Poi abbassò leggermente la voce. — Non riesco mai ad arrabbiarmi troppo con lui. O a tenergli il broncio. È come un gioco che ci divertiamo continuamente a ripetere. Credo che sia un po' il nostro modo di farci la corte. Vedi, io sono innamorata pazza di lui. O tanto varrebbe dire semplicemente pazza, punto e basta. 5 A St. Antoine Street, Bill Smart trascorreva le serate giocando a campana lungo i bar. Una versione di quel gioco da ragazzi che era tutta sua. Si serviva di un bicchiere di birra chiara e scura mescolate insieme come segnapunti. Poi appoggiava il fondo del bicchiere sul primo spazio libero disponibile, se ne portava l'orlo alle labbra, una volta per ciascuna posizione, e la cosa finiva lì. La cosa buffa era che il livello del liquido non scendeva mai. Smart non saltellava su un piede come fanno i ragazzini, e sul pavimento non c'erano riquadri tracciati col gesso a guidarlo. Eppure giocava proprio a campana. Su questo non c'era il minimo dubbio. Cominciava dal fondo di ciascun bar (se n'era già fatti tre, contando que-
sto, ed erano appena le undici), poi, a turno, "saltellava" da lì ai vari spazi liberi che si presentavano lungo il percorso, fino a incontrare il primo competitore disponibile. Anche se quei competitori non sapevano affatto di essere in gioco. Lui non saliva sopra le loro teste, ma si limitava a starsene dietro, negli spazi vuoti alle loro spalle. Quando non c'era nessuno spazio libero, si apriva un varco a forza, insinuandosi di peso con un ghigno disarmante e alcune parole di scusa mormorate in tutta fretta allo scopo di evitare guai. Cercava solo avventori singoli; rifuggiva come la peste dai tavolini occupati da più persone. Due parole buttate lì, talvolta anche una sola, e poi ripartiva all'attacco. Mentre avanzava, delle teste si voltavano verso di lui e alcune dita prendevano a tamburellare in modo suggestivo sulla fronte degli avventori più disinvolti. Comunque, dato che non disturbava la tranquillità del locale, né offendeva nessuno, era riuscito a continuare indisturbato nella sua marcia. Inoltre, l'espressione "amico", pronunciata con una caratteristica inflessione, aveva rivelato subito alle persone del posto che lui era un americano. E, come tutti sanno, gli americani sono un po' picchiati. Al punto di mettersi a giocare a campana da soli nei bar. Le battute di dialogo non variavano mai. Prima battuta: "Ce l'hai un lavoro, amico?". Se la risposta era affermativa, il discorso finiva lì. A quel punto, Smart riprendeva a saltellare fino alla casella successiva. Se invece la risposta era negativa, allora seguiva la seconda battuta: "Ti piacerebbe per caso averne uno?". Talvolta lo battevano sul tempo e lui non aveva la possibilità di pronunciare la seconda battuta. Le risposte erano di questo tipo: "No, e non me ne frega niente". "E tu chi diavolo saresti per offrirmelo? Babbo Natale?". "Credi che mi sia bevuto il cervello o cosa? Che ne sarebbe, in quel caso, del mio dannato sussidio di disoccupazione?". Per mezzanotte, si era fatto una visuale piuttosto deprimente, almeno dal suo punto di vista, della situazione economica canadese. Tutta la gente per bene sembrava avesse un lavoro, mentre solo quelli con la faccia losca parevano essere disoccupati. Verso l'una, aveva già manifestato i primi segni di disgusto (un disgusto permanente, pensava) per tutti i tipi di birra, chiara, scura o mescolata che fosse. Disgusto rivolto in maniera equanime anche alle sigarette Buckingham e ai pezzi da cinquanta cent con sopra l'effigie di Elisabetta II. Per le due il gioco era terminato e Smart si apprestava
a ritornarsene a piedi nella sua stanza. Restavano ancora un mucchio di altre strade e un mucchio di altri bar, ma le notti disponibili ormai cominciavano a scarseggiare. Si sentì sfiorare il braccio, e una figura sbucò davanti a lui trascinandosi a fatica. Doveva essersi materializzata dall'oscurità di un portone che Smart aveva appena oltrepassato. — Ha qualche spicciolo per un caffè, capo? Smart si fermò di scatto, girò la testa e cominciò a fissare lo. sconosciuto con grande intensità, cercando di penetrare le tenebre. Il postulante, fraintendendo completamente l'acutezza quasi sciabolante di quello sguardo, sporse le mani e si preparò a fare marcia indietro. — Be', se la cosa le dà così fastidio, capo, non parliamone più. — Tieni. — Smart si frugò in tasca, lanciò per aria una moneta da cinquanta cent nell'oscurità e la fece atterrare sul palmo della mano. — Fatti vedere alla luce — ordinò. — Vieni qui. Adesso voltati. Prova a fare due passi. Così. Ora voltati di nuovo. Torna indietro. — Devo fare una sfilata per guadagnarmi una tazza di caffè? Io voglio solo bere, non mi vanno gli esercizi militari. — Togliti quella cosa che hai in testa. — L'ho già ringraziata, capo. Cosa vuole che altro faccia? Devo inchinarmi, forse? — Mi sembri un po' pallido. Bene. — Sono pallido, sì. Ma che c'è di buono in tutto questo? Smart non rispose. — Quanti anni hai? Non credo di metterti in imbarazzo se te lo chiedo, no? — Bello da parte sua nutrire tutto questo interessamento, capo — fu la risposta sarcastica dell'uomo. — Comunque, ne ho sessantacinque. — Oh, andiamo, stai ancora cercando di intenerirmi per strapparmi qualche altro spicciolo, eh? Sii onesto. — Cinquantacinque? — Non voglio un tipo troppo vecchio. — Be', allora perché non me l'ha detto subito? Ne ho quarantasette, e non potrei scendere sotto quella cifra nemmeno per mio fratello. — Vuoi lavorare? — No, se si tratta di sollevare qualcosa di pesante. — Tutto quello che dovrai sollevare sarà un bicchiere di champagne. Ti pesa anche quello? — Vuol dire che dovrò impacchettare i bicchieri? Sono allergico al poli-
stirolo, non posso toccarlo. — No, qui si tratta di un solo bicchiere. Lo stesso bicchiere, che dovrai tenere in mano per circa una mezz'ora. Su e giù in continuazione, hai capito? — C'è qualcosa dentro? — Dello champagne. — E lei sarebbe disposto a pagarmi per questo? — Be', ci sarebbe qualcosina di più. Oh, niente di cui preoccuparsi. Hai mai recitato in vita tua? — Ho fatto un po' di tutto, quando ero ancora in gamba. Ho fatto la comparsa un paio di volte per alcune compagnie itineranti. — Bene. In un certo senso, dovrai fare la comparsa anche in questo caso. Farai la tua apparizione e poi dovrai lasciarti portar via di peso. Senti, adesso è un po' tardi. Domani mattina ti dirò tutto il resto. Fai un salto al mio albergo, il Ford Hotel, alle dieci in punto. Non entrare nel vestibolo, altrimenti chissà cosa potrebbero pensare, male in arnese come sei. Ci vedremo fuori, proprio all'angolo. Mi raccomando, puntualità assoluta. — Stia tranquillo, capo. — E non chiamarmi sempre capo. Non comando mica uno stato, io. Guarda che ci sono un bel po' di quattrini in questa faccenda. Saresti uno sciocco a non farti vivo. — Oh, ci sarò, ca... Volevo dire che può contare su di me. — Non credo che ci sarai, invece. Ma io conosco un modo per costringerti a venire. — Aprì il portafoglio, ne esaminò il contenuto e alla fine tirò fuori una banconota canadese da dieci dollari. Stirò il biglietto per là lunghezza, pigiandolo tra le mani. — Lo vedi questo? — Se lo vedo? Non sente il ticchettio delle goccioline che mi rotolano giù dal mento? — E così fai anche lo spiritoso. Be', la cosa mi fa piacere. No, tieni giù le mani... D'accordo, giusto per asciugarti la bava, se proprio ci tieni. Ma ricordati che, se ti fai vedere, guadagnerai dieci dollari solo per sostare qualche minuto all'angolo di una strada. — E pensare a tutte le volte che l'ho fatto gratis! — esclamò tristemente il barbone. Nella vivida luce del sole mattutino, l'individuo che aspettava Smart all'angolo della strada non sembrava in condizioni tanto buone. La notte prima, l'oscurità gli aveva reso un buon servigio. Se avesse avuto intorno
ai piedi alcuni covoni di grano, avrebbe fatto passare ai corvi un brutto quarto d'ora. In effetti, Smart gli girò intorno per tre volte di seguito, descrivendo tanti piccoli cerchi, prima di arrivare a una decisione. — Questo lavoretto ti frutterà cento dollari, lo immaginavi? — No, ma di certo mi fa piacere scoprirlo. Qualunque cosa sia, quanti mesi possono darmi se mi beccano? — Non c'è nessuna legge che lo proibisca. Per quanto ne so io, non c'è il minimo impedimento. Non ti sbatteranno mai in galera per un lavoretto del genere. Ma prima faremo un'operazione di pronto intervento per darti un'aggiustatina. Così almeno potrai entrare nel locale senza che ti caccino via. Lo accompagnò in fondo alla strada da un barbiere, entrò nel negozio con lui e passò al gestore una banconota. — Quest'uomo deve radersi, tagliarsi i capelli e, soprattutto, farsi un bello shampoo. Io aspetto fuori. — Lei è sempre molto franco — disse il barbone, lasciandosi cadere su una delle poltrone. — A volte anche un po' brutale. Poi lo portò a un bagno turco. — Adesso entra dentro. Niente di speciale, solo una buona strigliatina. — Gli passò un pacco avvolto in carta marrone. — Mettiti questi dopo che avrai finito. Non conosco le tue misure, ma la cosa non ha molta importanza. — Per cinque dollari mi sentirei insultato — disse l'uomo senza lagnarsi troppo. — Ma per cento è un'altra musica. — Ora credo che ci siamo — disse Smart dopo che l'uomo venne fuori dalla sauna. — Vieni su con me, adesso. Voglio farti fare una specie di prova generale. I due entrarono e Smart si chiuse la porta alle spalle. — Togliti la giacca. Voglio che tu ti muova a tuo agio e abbia il maggiore spazio possibile. Prima di dare inizio al gioco, sarebbe meglio che mi dicessi una cosa. Hai qualche problema al cuore? — È sano come quello di un bambino — disse l'uomo con vanteria, gonfiando il torace e dandosi dei colpetti. — Dev'essere la vita all'aria aperta, sa? Smart andò a prendere una sedia dallo schienale alto e rigido. — Siediti qui. Poi abbassò la lampada e fece il giro di un tavolino che stava lì davanti. — Adesso immagina di essere seduto davanti al tavoli di un night club. Posò un bicchiere sul tavolo. — E questo è champagne.
L'uomo diede un'occhiata al fondo del bicchiere, completamente asciutto, e poi alzò mestamente lo sguardo. — Come può farmi una cosa del genere? Smart si prese le ginocchia con le mani e si sporse in avanti. — Bene. Ora fammi vedere come cadi da quella sedia. L'uomo si buttò di lato, una gamba per aria e un braccio appoggiato a terra. — Non ti ho detto di tuffarti per afferrare al volo una bottiglia. Prova un'altra volta. L'uomo provò di nuovo. — Tieni giù quella gamba. Hai l'agilità di un sacco di patate. Sentimi bene: devi fare il morto, capito? — Lo faccia lei il morto — ribatté l'uomo con un'apprensione non del tutto ingiustificata. — No, no, guarda che non stavo esprimendo un augurio. Sto solo cercando di farti recitare una parte per me. Devi essere più fluido, capisci? Più sciolto. Come un liquido che si rovesciasse dalla sedia. O una specie di onda discendente. Pensa a una cascata. Ecco, devi imitare proprio una cascata, chiaro? Splash, splash, splash! — Com'è andata stavolta? — chiese poco dopo l'uomo, guardando Smart da sotto il tavolo. — Non dimenare i fianchi. E, soprattutto, non muoverti a spirale. Non sei mica un cavatappi. — Per piacere — disse l'uomo in tono implorante, umettandosi le labbra — non potremmo fare una pausa? — Vediamolo un'altra volta — rispose Smart, inesorabile. — Aggiustati un po' i vestiti. Tu non ti aspetti che ti possa capitare una cosa del genere, capito? "Ora sì, però" imprecò tra sé lo sventurato. — Rilassati, prendi una sigaretta, fingi noncuranza. Ecco, bene. Così. L'uomo guardò in alto senza parlare, puntando un gomito contro il pavimento. L'impresario annuì. — Be', non è una cosa sensazionale ma non è nemmeno un fiasco completo. Comunque, nessuno ti guarderà durante questa fase. Il difficile è quello che viene dopo. — Cosa dovrò fare in seguito? — Da quel momento in avanti non dovrai più muoverti. Dozzine di occhi saranno puntati su di te, e se fai anche la più piccola mossa rovinerai
l'intera faccenda. Non importa quello che vedrai intorno a te: tu non devi nemmeno battere ciglio. Magari sentirai che qualcuno ti apre la camicia o ti solleva una palpebra. Non preoccuparti, quello è il dottore. O, perlomeno, tutti penseranno che sia un dottore, perché avrà la valigetta medica con sé. Poi ti porteranno fuori e ti sistemeranno su un'ambulanza, un'ambulanza privata. Ma non sarà un viaggio molto lungo. Appena svoltato l'angolo, potrai saltare giù, squagliartela e goderti in santa pace i tuoi cento dollari. Ora mettiti di nuovo a sedere e cerca di cadere come si deve. Smart cominciò a battere il tempo con una mano, come un direttore d'orchestra. — Cadi a terra. Resta giù. Fai il morto. Torna a sedere. Daccapo: cadi a terra. Resta giù. Fai il morto. Torna a sedere. L'uomo cominciò a sventolarsi con le mani. Aveva la lingua penzoloni. — Per favore, capo — ansimò. — Mi faccia tirare un attimo il fiato, eh? Non sono mai morto così spesso in vita mia. 6 Gli assegnarono un tavolo da uno, proprio sul bordo del palcoscenico. Era in frac e cravatta bianca. Portava persino il monocolo. Aveva l'aria di un aristocratico anteguerra e si muoveva come i russi quando facevano regolarmente la spola tra Pietroburgo e i cabaret parigini. C'era dello champagne sul suo tavolo, quando qualcuno lanciò un'occhiata all'uomo in frac la volta successiva. Non che lo guardassero apposta, ma quelli che lo facevano restavano immancabilmente colpiti dalla bottiglia. L'uomo però non beveva, nonostante il cameriere fosse sempre al suo fianco. Dava l'idea di un tipo piuttosto eccentrico. Mentre si allontanava da lui, la sigaraia aveva un'espressione quasi beata dipinta in viso. Armeggiò con la scollatura dell'abito e nascose la mancia che aveva appena ricevuto. L'uomo si tolse il monocolo, iniziò a strofinarlo e se lo rimise all'occhio. Non restava tempo per fare nient'altro. All'improvviso, Mari emerse sul palco in uno sfavillio di colori, sbucando da chissà dove. Poi piombò a terra e rimase rigida come un sasso. Allora, e solo allora, un lento rullio di tamburi, cominciato alcuni attimi prima, si impose all'attenzione generale. Allora, e solo allora, le luci cominciarono a spegnersi. L'uomo venne improvvisamente cancellato dalla memoria delle persone. Ora tutti fissavano Mari. E lo spettacolo era così ipnotico che s'insinuava
persino nei cervelli degli spettatori. La danzatrice sembrava dipinta in verde e in oro; ondeggiava e si contorceva come un serpente. L'uomo scivolò dalla sedia in modo davvero artistico. Cadde senza movimenti bruschi né scossoni improvvisi. Proprio come voleva Bill Smart. Nella caduta si afferrò un attimo alla tovaglia, poi la lasciò andare, in modo che la bottiglia di champagne non si rovesciasse. Infatti si limitò a ondeggiare un po' sul fondo e poi tornò in posizione stabile. L'uomo finì lungo e disteso sul pavimento. Del tutto rilassato, come se... be', come se fosse stanco. La cosa gli piaceva immensamente e aveva deciso di starsene immobile là, adesso che era caduto a terra. E così fece, giacendo sulla schiena con gli occhi rivolti al soffitto. Incredibile a dirsi, ma il monocolo era ancora al suo posto. La luce ne trasse dei riflessi vitrei, dando l'illusione che l'uomo fosse cieco da un occhio. Aveva fatto solo un minimo di rumore. Proprio una morte educata, se mai ce n'era stata una. Anzi, a pensarci bene rumore non ne aveva fatto per nulla. A parte quello, quasi impercettibile, della caduta. Solo le persone che sedevano vicino al suo tavolo si accorsero subito di quello che era successo. Per alcuni momenti, gli altri non parvero notarlo. Il capocameriere si fece avanti in fretta e si chinò sparendo dalla vista. Poi venne raggiunto da un secondo cameriere. I due lo sollevarono di peso e lo trasportarono fuori. Mari continuava a giacere prostrata sul pavimento. Il rullo dei tamburi si era interrotto, finalmente. Trasferirono il corpo nell'ufficio del direttore e lo depositarono su un divano. Il direttore gli tolse il monocolo dall'occhio e fu una cosa curiosa vedere come le profonde increspature della pelle a poco a poco si rilassarono. — Chiamate un dottore, svelti! — ordinò risolutamente, parlando sottovoce. Detestava che inconvenienti simili potessero verificarsi nel suo locale. Un medico, o almeno un tipo che si spacciava come tale, venne introdotto nell'ufficio con una tale rapidità che parve stesse aspettando fuori della porta. Si diresse senza esitazioni verso il paziente e si curvò sopra di lui. Il resto andò esattamente come Smart aveva previsto. Il medico gli sollevò una palpebra e la lasciò cadere nuovamente. Poi gli aprì in fretta lo sparato della camicia, gli tastò il cuore e desistette subito. E questo fu tutto. Il medico si alzò e si allontanò un po' dal paziente. Scosse la testa ma non si fermò. Continuava a passeggiare per la stanza. Forse aveva fretta di tornare al suo
tavolo e alla festa che lo aspettava là fuori, certo più divertente di questa. — Non posso farci niente — disse, voltandosi verso di loro dalla soglia. — Nessuno può farci niente. È morto stecchito. Ho un'aragosta che mi aspetta al tavolino. Sarebbe davvero un peccato abbandonarla. Ah, meglio avvertire la polizia. Aprì la porta e uscì. Dietro le quinte, Jones aveva sollevato Mari e stava adesso per posarla a terra. La baciò sulla fronte ma in modo professionale, strettamente professionale. — Oh, ma questo è un miracolo! — sussurrò con devozione. — È davvero un sogno. Lo senti questo silenzio? Li senti sospirare e tornare a poco a poco in se stessi? Lei gli afferrò il braccio e insieme cominciarono ad avviarsi verso il camerino. — Hai visto cos'è successo là fuori proprio in questo momento? — sussurrò lei. — Quella era una delle classiche pensate di Bill Smart. Un lavoro da dilettanti, se dai retta a me. L'uomo è caduto troppo morbidamente. — Dov'è Smart? — chiese Jones a Bee mentre entrava nel camerino. — Suppongo che dovremmo fargli le nostre congratulazioni. — Sarà a pagare il cadavere, probabilmente — rispose lei in tono sarcastico. — Chissà quanti soldi gli ha sganciato per quel lavoretto. Non credo che per questo genere di cose esista una tariffa sindacale. Comunque, io stavo osservando lo spettacolo da dietro le quinte e ti dirò una cosa: quel tipo è un vero salame, se mai ne è esistito uno. — Io credo che si sia comportato bene, invece — disse Bradley, entrando con il resto dei musicisti. — Cosa ti aspettavi, che dovessero assegnargli l'Oscar? — È stato bravo — disse qualcun altro, corroborando l'opinione di Bradley. — Ha del talento quello lì. — Già, ma voi avevate la luce negli occhi — osservò Bee. — Io no, invece. E non mi ha ingannata neppure per un attimo. Si voltarono tutti all'improvviso. Bill Smart era apparso sulla soglia e stava contando una manciata di banconote. I presenti gli si avvicinarono e fecero capannello intorno a lui, cercando di parlare uno alla volta. — Bel colpo, Bill! Hai calcolato il tempo al millesimo di secondo. — È stato tutto molto naturale. Proprio come la vita vera. — Quanto gli hai sganciato per fargli fare una cosa del genere?
— Dieci dollari — rispose Smart a denti stretti. — E solo per tenere la bocca chiusa. Ehi, tu! — gridò da sopra le spalle. Una figura in frac e cravatta bianca apparve sulla soglia del camerino. Smart gli passò una delle banconote e intascò il resto. — Prendi questa e vattene da qui. Fa' che non ti veda mai più. I vestiti li puoi tenere. — Dieci dollari! — esclamò Bee, incredula. Bill Smart inghiottì, come se cercasse di mandare giù un rospo. Poi chiuse la porta in faccia al cadavere preso a nolo, che ci rimase malissimo. — Vedete — spiegò ansimando — il tizio che è caduto a terra là fuori ed è morto, proprio adesso, non è quello che avevo fatto venire qui. Non era l'uomo che ho appena finito di pagare, ma una persona completamente diversa. Qualcuno che si è accasciato al suolo ed è morto sul serio. PARTE TERZA Milano: Excelsior 1 L'espresso che proveniva da Parigi entrò in stazione alle quattro del pomeriggio. Lei era nello scompartimento e osservava i filari di pioppi scorrere all'esterno come se si muovessero su una rotativa. Venivano incontro a loro dalla città, poi scomparvero a poco a poco mentre il treno faceva il suo ingresso nella stazione. Lui bussò alla porta. Era sicura che fosse stato proprio lui a bussare, e non l'inserviente. Conosceva già un mucchio di cose sul suo conto: il suo passo, il suo caratteristico fischio, il suo modo di bussare alla porta. Le conosceva benissimo; il suo cuore le aveva ascoltate molto spesso, ormai. Sapeva tutto quello che c'era da sapere su di lui, eccezion fatta per come baciava e per come stringeva le braccia intorno alla schiena della donna amata, sussurrandole all'orecchio parole dolci e delicate. Non aveva ancora avuto modo di fare pratica, quanto a quello. Aprì immediatamente. Lui era già pronto a scendere. Il cuore le batté più velocemente nel petto, come sempre le accadeva quando aveva modo di vederlo. Sembrava così americano... Aveva sempre l'aria di un americano verace, non importa dove si trovassero o dove dovessero andare. Sempre così
schietto, allegro, disponibile. (Ma disponibile nei confronti di tutti; quindi, cosa ne veniva a lei?) Pareva la foto pubblicitaria di una crema da barba o di una sigaretta per giovani. Così americano. Così giovanile. Così energico. Mai che si stancasse o si annoiasse un attimo. Una folata di vento che spirava dal corridoio gli sollevò la sciarpa da sotto la giacca e gliela spinse dietro le spalle. I pallini sulla seta sembravano riempire l'aria, come tanti dischetti roteanti. — Tutto a posto? — chiese lui. — Sono pronta. — Vuoi che ti dia una mano a portare giù i bagagli? — Il facchino sarà qui a momenti. — Milano — disse lui. E lo disse in italiano, come per assuefarsi meglio al posto. Lui si sentiva a meraviglia, Mari ne era certa. Si sentiva sempre così, quando si apprestavano a cominciare un nuovo giro di spettacoli. — Milano, tieniti forte; stai per sentire una musica che non hai mai ascoltato prima. — Ammiccò alla ragazza. Poi le porse il braccio, in modo che lei ci infilasse il suo. Mari lo prese, ma avrebbe voluto ben di più. Le sembrava quasi di sentire il suo cuore che diceva: "È questo tutto ciò che ho?". Percorse il corridoio in quel modo, attaccata al braccio di Jones. Poi il treno si fermò e loro scesero. Rimasero per un attimo nei pressi del convoglio. Nuvole di fumo, rumori che echeggiavano, bagagli che venivano trascinati sulle rotelline. E in alto, sopra le loro teste, una grande volta di vetro che cominciava a oscurarsi. Un uomo in uniforme da autista si sporse in avanti e si toccò la visiera del berretto. — Il signor Jones? Ossequi da parte del signor Sertuchi, dell'Excelsior. — Li accompagnò fuori, dove due limousine li stavano aspettando. Furono condotti in albergo, il Principe e Savoia. Durante il tragitto, lui le aveva acceso una sigaretta, dandole un paio di colpetti sul dorso della mano. Mentre lo faceva, però, stava guardando da un'altra parte. "Be', almeno sarò nel suo stesso albergo" si consolò Mari amaramente mentre salivano in ascensore. Quando uscirono, a lui fu indicata una porta, a lei un'altra. "Be', almeno starò al suo stesso piano...". Lei chiuse la porta. "È stato bello essere insieme dalla stazione all'albergo" rifletté lei me-
stamente. Si guardò il dorso della mano, dove lui le aveva dato due colpetti. "Cosa ti aspettavi di più? Hai avuto il tuo contentino, per oggi". Si avvicinò alle finestre. A media distanza, le immense guglie del Duomo. Sotto, piccole Fiat e ancora più minuscole Topolino che scorrazzavano per le strade come se ne andasse della vita di qualcuno. Di tanto in tanto, qualche fastosa Alfa Romeo. Milano. Si voltò di nuovo, scrollando le spalle. Sempre uguale. Sempre la stessa solitudine. 2 Jones bussò alla porta. — Noi andiamo tutti all'Excelsior a vedere Sertuchi. Vieni anche tu? — No. Preferisco restare qui. Fai tu gli onori di casa per me. Non credo che si arrabbierà per questo, no? — Penso di no. Comunque, con tutta probabilità è una buona tecnica. Lui si aspetta già che tu sia un po' riservata e scostante. Darò un'occhiata al camerino e verificherò che tutto sia a posto. Poi sarò di ritorno per portarti a cena — promise. Bussò di nuovo. Aveva solo quaranta minuti di ritardo. Ma si trovavano in Italia, dopotutto, e il ritmo di vita era più tranquillo, suppose lei. Era la quinta volta che Mari apriva la porta, ma le prime quattro volte non aveva bussato nessuno. Lui era in smoking. Lei si era messa l'abito di merletto nero che aveva acquistato da Dior la settimana precedente. Le aveva portato un mazzo di rose e gardenie. E le aveva persino sorriso. — Oh, Max... — sussurrò vinta dall'emozione, mentre prendeva i fiori. — Con gli omaggi del tuo nuovo impresario, il signor Raffaele Sertuchi. — Ah... capisco — sospirò lugubrmente lei. Adesso il viso le si era rabbuiato. — Ti bacia le mani. Le baciava le mani. Non poteva essere lui a baciargliele? — Avresti dovuto esserci anche tu. Abbiamo bevuto champagne nel suo ufficio privato. E l'arredamento! Non immagini l'arredamento. Quell'uomo vive come un pascià. Tappeti pregiati sul pavimento, soprammobili d'oro, lampadari di cristallo. Gli impresari qui intorno devono proprio andare a mille. Chissà come faranno...
Lei si strinse nelle spalle. Non c'era cosa che potesse importarle di meno. Jones le porse il braccio perché lei lo prendesse. — Che ne diresti se ce ne andassimo giù a mettere qualcosa sotto i denti? — Non le fece il minimo complimento. Non le disse... Per una volta, Mari non gli prese il braccio. Lasciò che Jones lo tenesse sospeso in aria. — Se me lo chiedi così, non ci penso proprio. Lui sorrise. Le fece un breve inchino, la mano appoggiata allo stomaco come di prammatica. — Signorina? — Quello potrebbe farmelo anche il portiere dell'albergo. — Cosa vuoi che faccia, un provino per la cena? — È così semplice. Solo che hai già quasi rovinato tutto, perché l'iniziativa doveva partire da te, tanto per cominciare. Ma proverò lo stesso a darti qualche istruzione per la prossima volta. — Gli prese la mano e se l'appoggiò intorno alla vita. — Ecco come devi portarmi a cena. Così. Non pretendo molto, come vedi. Poi prendimi la mano e tienila stretta tra le tue. E fammi qualche moina. Non dico tante, solo due o tre. Mi basta poco, sai? È bello pensare che se io non venissi, la tua serata non sarebbe più la stessa. Se io non fossi là con te, non ci sarebbe nessuna luce al tuo tavolo... Jones trattenne il respiro, come se stesse escogitando qualcosa. — Come vado? — Mi basta poco — gli rammentò lei in modo quasi impercettibile. All'improvviso, lui la baciò. Sul viso di Mari il sole fece un'altra delle sue false partenze. — In segno di buona fortuna — disse lui. "Dovevi rovinare anche questo?" si chiese Mari. Scesero a cenare. Be', dovevano pur mangiare. Erano nello stesso albergo, dopotutto. E il tavolo era abbondantemente illuminato. Ma lei era sempre sola. Gli si era avvicinato un fattorino, che evidentemente aspettava di attirare la sua attenzione. — Al telefono, signore. — Sei certo che sia per me? — Non sembrava tanto sorpreso, comunque, pensò Mari. — Sì. Lei è il signor Massa-uell Gio-ness, no? — Più o meno — rispose lui. — Ti dispiace scusarmi? — Si alzò e la lasciò sola.
Lei bevve un sorso di champagne, ma era diventato insipido. Tirò una boccata dalla sigaretta, ma il fumo aveva un sapore rancido. Sapeva già che se avesse provato a mordicchiare una di quelle mandorle glassate che stavano sul tavolo l'avrebbe trovata immancabilmente amara. Così non lo fece. Quando lui fu di ritorno, sembrava un po' più rosso in viso di prima. Ma forse la cabina telefonica era surriscaldata. "Non devo chiederglielo" si ripromise. "Non devo chiederglielo". — Cosa voleva Sertuchi? — disse alla fine. — Quando? — domandò lui; poi fece un gesto con la mano come a voler cancellare quello che aveva appena detto. — Ah... Voleva solo accertarsi che stessimo tutti bene e che la situazione fosse sotto controllo. Dunque, non era Sertuchi. Doveva aver già incontrato qualche donna a Milano. Questo spiegava i quaranta minuti di ritardo. Probabilmente, una festicciola in qualcuno degli uffici privati di Sertuchi, a cui erano state invitate alcune professioniste scelte con cura per dare il benvenuto a Jones e al suo complesso. Quando si alzarono da tavola, lui chiese, in tono volutamente casuale: — Cosa fai, stasera? — Niente. — Ma non intendeva dire che rifiutava di fare qualsiasi cosa. Voleva solo dire che avrebbe fatto quello che lui suggeriva. Jones, invece, rigirò le cose in modo da accettare il significato a lui più conveniente. — Buona idea. Nemmeno io. Meglio starsene tranquilli, la prima sera. Credo che andrò a fare un po' di nanna. — Adesso? Ma sono appena le dieci. Lui non rispose. L'aveva già accompagnata all'ascensore, e siccome l'ascensore da lì andava in una sola direzione, e cioè all'insù, salirono insieme. Lui la scortò fino alla porta. — Be', buona notte. Ci vediamo a pranzo. In Europa, le colazioni venivano servite privatamente nelle camere d'albergo; si erano già abituati a quell'usanza. Lei chiuse la porta senza rispondere al saluto. In ogni caso, lui non aspettò di sapere se aveva risposto o no. Mari sentì la porta di lui chiudersi in fondo al corridoio. Ma le porte erano sprecate, comunque. Lei poteva guardare anche al di là di quegli sbarramenti fittizi. "Prima il portafoglio" gli suggerì mentalmente. "Accertati di avere abbastanza soldi. Poi riempi il portasigarette.
Vai allo specchio e datti un paio di spazzolate supplementari, non si sa mai. Ora raddrizzati il nodo della cravatta. Sì che lo farai, ne sono certa. Lo avresti fatto anche per me, prima. Ma questo è qualcosa di nuovo, qualcosa di speciale. Spero che ti prenda l'asiatica da quella donna! Spero che ti inciampi sui lacci delle scarpe e ti venga un bel livido sul mento; quello che vorrei farti io, se potessi! Spero..." e qui appoggiò lentamente la fronte allo stipite della porta "caro, spero che tu trascorra una meravigliosa serata dall'inizio alla fine, e non ti senta mai come mi sento io in questo momento". Più tardi, lo sentì di nuovo passare accanto alla porta. Stava fischiettando un motivetto. La sua musica propiziatoria per la meravigliosa serata che lo attendeva. Era uno di quei vecchi pezzi degli anni Venti, Tonight's My Night with Baby. Mari andò alla finestra che si affacciava sull'ingresso dell'albergo. Lo vide uscire proprio sotto di lei. C'era una donna al suo braccio. Doveva averlo aspettato dabbasso. Una donna che indossava un abito di velluto nero con lo strascico e uno scialle di pizzo dorato sulla testa. Salirono insieme su una macchina e si allontanarono. Sempre la stessa solitudine. 3 Il loro numero fece sensazione. Era la cosa più straordinaria che Milano avesse mai conosciuto da molti anni a quella parte. Nemmeno le incursioni aeree durante la guerra avevano scosso la città in quel modo. "La danza della morte", si leggeva su ogni cartellone pubblicitario, su ogni edicola, su ogni parete disponibile. E qualcuno, con molta furbizia, aveva aggiunto ai manifesti uno scheletro. La gente si drizzava sulle sedie. Sventolava selvaggiamente fazzoletti, tovaglioli, in qualche caso persino intere tovaglie. Per la fine della rappresentazione, quella sera, il locale era stato quasi distrutto. Non era più un night club; adesso sembrava una specie di saloon. Una donna venne spinta e andò a sbattere contro uno specchio; dovettero portarla in ospedale e lei ci andò in abito da sera, tenendo ancora saldamente in pugno una bottiglia di champagne. Non ebbe bisogno di nessun anestetico quando le diedero i punti; era già abbastanza stordita. Stava ancora applaudendo mentre le ricucivano la spalla, e i medici pensavano che quegli applausi fossero rivolti
a loro (non erano stati all'Excelsior). Così si inchinarono e la ringraziarono. Mari dovette aprirsi un varco a forza per uscire. Fortunatamente, Sertuchi aveva chiamato la polizia per tenere sgombra la strada, altrimenti la danza della morte l'avrebbero fatta lì sul posto. E sarebbe stata autentica, questa volta. Le ci vollero quindici minuti buoni per percorrere in macchina i pochi metri dall'ingresso laterale del night all'angolo successivo, e anche dopo che la strada aveva cominciato a sgombrarsi dovettero respingere ancora qualche ammiratore che si era arrampicato sul tettuccio della vettura. Mari era emersa dall'ingresso laterale tenendo in mano due dozzine di rose completamente sbocciate. Quando era salita in macchina, in mano aveva solo due dozzine di gambi, senza la minima traccia di foglie o petali. E nemmeno di spine. Era una di quelle scene che gli artisti sognano spesso, ma che raramente accadono. Dopo, andarono tutti a celebrare. O quasi tutti. Perché lui non venne. Aveva detto che sarebbe stato di ritorno entro cinque minuti. Ma non fu così. E i minuti si moltiplicarono. Lei si voltava troppo spesso. Era sbagliato, e turbava i festeggiamenti. Non faceva altro che chiedere l'ora. Vide Dixon sorridere a Clark, e poi Clark ricambiare il sorriso a Dixon. Non aveva nemmeno bisogno di chiedere dove si trovasse Jones; lo sapeva già. Lui non si presentò. Lei tornò a casa presto. Troppo presto per un party che doveva festeggiare la sua prima esibizione a Milano. Quando fu di ritorno, provò a bussare alla porta di lui, ma non si aspettava nessuna risposta. E non ne ottenne nessuna. Sempre la stessa solitudine. 4 Non cenarono insieme, la sera seguente. Lui si fece vedere solo pochi minuti prima dell'esibizione, acceso in viso come una lampadina da cento watt. E non per alcool: non era quella specie di accensione che trasmette il liquore. Le lanciò un "Come va la nostra stellina?" dalla soglia del camerino.
La stellina era sola. Poi entrò, la baciò e uscì nuovamente. Un bacio professionale, niente di più. Lui era raggiante. Persino troppo. Mari dovette chiudere gli occhi per un attimo, dopo che lui se n'era andato, perché quella luce li abbagliava. Non cenarono insieme, la sera seguente. Non cenarono insieme nemmeno quella dopo. Non cenarono insieme... Non... Camminava lungo via Sant'Andrea, in quel radioso pomeriggio di sole, quando lo vide seduto a un tavolino, all'aperto. Lui le voltava le spalle, così non se ne accorse. Poi il cameriere, che era sporto in avanti, se ne andò e lei si rese conto che non era solo. C'erano due persone sedute a quel tavolino. Due bicchieri di Cinzano. Due sigarette che fumavano fianco a fianco in un portacenere. Due di tutto. Persino il sole risplendeva solo per loro. Un piccolo mondo fatto apposta per due. C'erano due mani sul tavolino, una per ciascuno. Non era difficile indovinare dove fossero le altre due. Di sicuro, non erano in vista. Lei era molto carina. Un'italiana bionda! Doveva essere una rarità. Comunque, ce n'era qualcuna al nord. O almeno così credeva. Ma sempre una di troppo. Sì, sempre una di troppo. Mari avrebbe fatto volentieri dietrofront e se ne sarebbe andata, ma ormai era troppo tardi. Era circondata dai tavolini, dai bicchieri di Cinzano, dalle sedie. All'improvviso, lui si voltò e la vide. — Ciao, Mari. — Ciao, Max. Lui si alzò. Non era arrossito e non sembrava confuso. Aveva solo un atteggiamento un po' annoiato, come a dire: "Non ti tratterrai a lungo, spero". — La signorina Ruyter. La signorina Malatesta. "Che cosa faresti, se correggessi quel 'signorina' che mi hai attribuito?" pensò lei. Ma lui sapeva di essere al sicuro. E lo sapeva anche lei. — La signorina fa del cinema qui in Italia — aggiunse lui. E lo disse con orgoglio, come se non avesse messo le grinfie solo su di lei, ma su tutto il cinema italiano in generale. A Mari non sarebbe dispiaciuto se lui si fosse limitato a concupire solo il cinema italiano.
— Lei danza meravigliosamente, signorina Ruyter. — Grazie. C'era anche lei? — Ci vado tutte le sere, quando sono a Milano. — Per vedermi ballare? — Be', in parte anche per questo. — Distolse lo sguardo da Mari e sorrise a Jones. — Ah, capisco — disse Mari. Non era difficile. Lui si sporse per prenderle una sedia. Ma lei non voleva sedersi. Lui tentò di offrirle qualcosa da bere. Ma lei non glielo permise. L'italiana cercò di essere generosa, o gentile, o qualcosa di simile. Ma forse non capiva. — Dovremmo trovare un... come dire...? un cavaliere per la signorina Ruyter. Un gentiluomo che sia disposto ad accompagnarla e a farle vedere Milano. Io ti ho portato in giro per Milano, Max, ed è giusto che qualcuno ci porti anche la signorina Ruyter. — Posso vedere la città anche dalla finestra del mio albergo — disse Mari — e a forza di guardare mi pare già di conoscerla a memoria. — Devi scappare, Mari? Era stato lui a parlare. Non voleva correre rischi. — Deve esibirsi, stasera. Sai come vanno queste cose. "E lo sai anche tu, bello mio" pensò lei amaramente. "E lo sa anche lei, se è per quello. Tutti e tre lo sappiamo". Non cenarono insieme, quella sera. 5 Quando la lancetta delle ore raggiunse finalmente quella dei minuti, e sembrava che ce ne fosse soltanto una nell'orologio, lei si alzò, si accostò alla finestra e guardò fuori. Erano le tre e un quarto del mattino. Il cielo era pieno di stelle, come se qualcuno avesse spruzzato in alto una pioggia di scintille. Ma quelle stelle non le appartenevano. — Sparite solo per cinque minuti, ve ne prego — disse con aria mesta. — Stai sprecando il tuo tempo, maledetta finestra! La richiuse di scatto e quelle immagini estranee non la perseguitarono più. Aprì la porta e uscì dalla stanza, così com'era. Aveva indosso una veste
da camera sopra la camicia da notte. Si diresse in fondo al corridoio, verso la camera di lui. Non bussò. Sapeva che non lo avrebbe trovato. Aprì la porta ed entrò. Poi la richiuse e accese la luce. C'era ancora traccia della sua presenza. E lei era venuta lì proprio per quello. L'aroma della sua sigaretta, che stagnava ancora nell'aria. Un rimasuglio di crema da barba, traccia di una rasatura. Una cravatta sul pavimento, come la pelle di un serpente dopo la muta. Lei la raccolse, la accarezzò con le dita e, una sola volta, anche con le labbra. Londra, il Natale scorso. "Grazie, tesoro; penserò a te tutte le volte che l'avrò addosso". — Traditrice — disse rivolgendosi alla cravatta. — Bell'aiuto mi hai dato. Sulla scrivania c'erano alcuni messaggi telefonici per lui. Secchi e perentori. La signorina Malatesta ha chiamato alle 17.40 La signorina Malatesta ha chiamato alle 18.00 La signorina Malatesta ha chiamato alle 18.20 Si avvicinò all'anta dell'armadio e si rannicchiò contro una delle giacche appese all'interno. Si avvolse le maniche intorno ai fianchi e poi le lasciò andare, convinta che avrebbero continuato a cingerla. "Lei me lo ha strappato" pensò Mari, "ma almeno mi resta la sua vecchia giacca. Solo che questo maledetto affare non ti stringe abbastanza. Perché sei tu che lo sorreggi. E quell'abbraccio è vuoto; non c'è un muscolo che vibri". La porta della stanza si aprì senza alcun preavviso. Lui stava sulla soglia, e la fissava. Era un po' sbronzo. — Mari, non dovresti entrare nella camera di un uomo. Non sta bene. — Mi dispiace, non volevo macchiare la tua reputazione, Max. — Non si tratta di questo. È la tua, piuttosto. Le tracce del rossetto della Malatesta erano ancora visibili sulla guancia sinistra. E su quella destra. E, di sghembo, all'estremità di un labbro. E sul mento. Delicatamente, Mari gli asciugò una guancia, cancellando due di quei fregi rossi.
— Ti preoccupi tanto della mia reputazione e sei stato tutto questo tempo con lei? Lui parve ricordare solo allora dov'era stato fino a quel momento. I suoi occhi s'infiammarono. Ma non certo per Mari. — Però! — esplose. Questo le diede un quadro esatto della situazione. Non c'erano stati freni inibitori nei rapporti tra quei due. Lei si diresse alla porta. — Buona notte, Max — disse in tono vellutato. Abbassò lo sguardo verso la maniglia. Poi si voltò per dargli un'ultima occhiata. — È così bella, Max? Non aveva bisogno di chiederglielo; l'aveva già vista. Ma voleva che lo dicesse lui. E lui l'accontentò. — Mi fa uscire gli occhi fuori dalle orbite, tanto è bella. In un certo senso, è come essere ciechi. — E le sue braccia sono molto morbide quando si stringono sui tuoi fianchi, Max? Ritornò verso di lui per esemplificare la cosa, a titolo di comparazione. — Non è solo quello. Lei è anche molto raffinata. Le braccia di Mari ricaddero inerti sui fianchi, come se fossero state colpite da una frusta. Lui l'osservò dirigersi di nuovo verso la porta e aprirla. Qualcosa era finalmente riuscito a penetrare nel suo cervello annebbiato dallo champagne. Qualcosa di molto piccolo, comunque. Un'inezia. — Ehi, sai una cosa? Credo che tu sia troppo sola. Forse hai bisogno di qualcuno da amare. — No, grazie, Max — rispose lei sbiancando in viso. Poi aggiunse, con un filo di voce: — Ce l'ho già. Uscì e si chiuse la porta alle spalle. 6 Un lungo, tenebroso accordo. Poi le luci cominciarono a scemare. All'improvviso, comparve il cerchio di luce bianca di un riflettore, come se un sacco di farina fosse stato aperto e rovesciato di peso sul palcoscenico. Lei era là in attesa; guardava fisso davanti a sé. Centinaia di volti, appena imbiancati dal riflettore. Centinaia di respiri
trattenuti. Riusciva a vederlo, adesso. La Malatesta era con lui, le dita ricoperte di anelli di brillanti. Si erano seduti a uno dei tavoli di prima fila. Sertuchi era illuminato dalla luce di proscenio, adesso, e stava presentando lo spettacolo. Avevano scomodato persino il direttore del locale per una cosa come quella. Ma lei non capiva molto, perché Sertuchi parlava in italiano. Poi la voce del presentatore salì di tono, come sempre accadeva alla fine del discorso. — ...e adesso, la danza della morte! Sertuchi le fece un cenno con la mano e lei uscì rapidamente dall'oscurità. In un baleno, fu sul palcoscenico. La Malatesta non stava guardando lei (aveva visto quella danza tante volte, ormai). Guardava lui, invece. Mari si accorse che la testa piatta del serpente simbolico guizzava con sempre maggiore convinzione verso il tavolo a cui sedeva la donna, invece di volteggiare all'ingiù sopra la testa della danzatrice. Era come se lei stessa non riuscisse a controllare quel movimento. Si era avvicinata a quel tavolo più di quanto si fosse mai accostata agli altri tavoli nelle serate precedenti. Era persino fuori centro rispetto al palcoscenico. Ma i suoi piedi non sembravano volerla riportare indietro. Sentiva crescere dentro il proprio corpo un rancore al calor bianco, non meno micidiale del veleno di un serpente. Continuava a pensare alla morte di quella donna, a volerla, a desiderarla. Voleva ucciderla. Voleva vederla cadere. "Colpisci! Colpisci là!" Il cerchio di luce del riflettore lambì il tavolo della Malatesta, e all'improvviso lei apparve in tutta la sua devastante bellezza. La donna stava fissandola con occhi vitrei. Non guardava più Jones, adesso. Aveva spalancato gli occhi dal terrore e si era portata una mano al petto. Mari la vide sollevare l'altra e farsi il segno della croce. Mari stava preparandosi alla caduta. Non c'erano gradini lì, e l'esercizio risultava quindi più difficile. La mano della Malatesta era ancora stretta intorno al seno. La donna tremava violentemente. I gioielli che sfoggiava lo mostravano senza la minima possibilità di dubbio. Erano percorsi da onde invisibili, trasmesse dalle vibrazioni del corpo. Mari cadde a terra e rimase immobile, la mano puntata davanti a sé verso il tavolo della rivale.
Ci furono le solite urla e i soliti respiri affannosi. Li sentiva ogni sera. Lo schienale di una sedia si rovesciò e qualcosa di pesante cadde rumorosamente al suolo. Lei non voleva aprire gli occhi. "La maledizione l'ha raggiunta" esultò in cuor suo. "L'ha colpita. E lei ne è rimasta uccisa. È morta". Nel locale si stava scatenando un vero parapiglia, adesso. Lei sentiva che gli avventori stavano muovendosi in tutte le direzioni; era il rumore dei loro passi a rivelarglielo. Era quasi certa che non stessero più guardandola, ormai. Qualcos'altro doveva aver attratto la loro attenzione. Alzò la testa e si mise a guardare. La Malatesta e Jones erano avvinti in un palpitante abbraccio. La testa bionda della donna tremava convulsamente sulla spalla di lui. Quelle onde invisibili vibravano ancora sui suoi gioielli, perché lei continuava a essere scossa da violenti sussulti. Alle loro spalle, in una linea retta che passava per il palcoscenico e il tavolo dove sedevano, il corpo di un uomo giaceva sul pavimento. Aveva la bocca aperta, come per protestare contro la rapidità della sua stessa morte. 7 Verso le tre di quella stessa mattina, qualcuno bussò alla porta della sua stanza. — Sì? — gridò lei. — Posso entrare? — Era la voce di un uomo. E il tono sembrava piuttosto autoritario. — Un momento — rispose Mari con voce lamentosa. Quando raggiunse la porta e la aprì, si trovò davanti due uomini. In un paese dove tutti sorridevano sempre (tutti tranne lei), quei due non avevano un'aria particolarmente allegra. I loro occhi, liquidi e neri, erano duri e impersonali come due pezzetti di carbone. Uno vestiva l'uniforme della polizia. L'altro tirò fuori qualcosa dalla tasca della giacca, ma lei non ci badò nemmeno. — Mi chiamo Russo, della polizia di stato. Non le chiese chi fosse. — Deve venire con noi in commissariato, signorina.
— Per quello che è successo stanotte? — Esatto. Non aveva mai visto prima un investigatore italiano. E non ci aveva neppure mai pensato. Ma se lo avesse fatto, molto probabilmente, se lo sarebbe immaginato in modo del tutto diverso da come adesso le appariva. Nessun nervosismo, nessun gesto fuori posto. Perché i poliziotti dovevano sempre comportarsi così? Che appartenessero tutti alla stessa razza? Questo era impassibile. Freddo come il ghiaccio. Inflessibile come l'acciaio. Persino meno umano, o più automa, degli investigatori in borghese che popolavano Londra o New York. Parlava inglese. Forse aveva fatto studi lunghi e severi, in qualche vecchio liceo. Indossava un vestito di flanella grigio chiaro e un cappello grigio. Dava l'impressione di essere un giovane estremamente competente, uno di quei tipi con cui era meglio non mettersi a fare i furbi. Cercare lo scontro non sarebbe servito a niente. Anzi, avrebbe solo peggiorato la situazione. — Sono... sono agli arresti? — balbettò Mari. — Certo che no — rispose laconicamente l'uomo in borghese. — L'avrei informata, in questo caso. Il suo tono dimostrava che quella domanda gli aveva dato fastidio. Era come se la gente gliela rivolgesse in ogni circostanza e lui si fosse stancato di rispondere. Il poliziotto in uniforme non dava il minimo segno di vita. Si limitava semplicemente a starsene lì. — Posso prendere la borsetta e mettermi qualcosa in testa? Fa freddo a quest'ora. — Faccia tutto quello che deve fare. Purché lasci aperta la porta. — Certo, non avevo intenzione di chiuderla — disse lei docilmente. Intrecciò una sciarpa, fino a ricavarne una specie di turbante, e se la infilò in testa. Poi si unì a loro. Mentre percorrevano il corridoio, lei chiese: — Ho fatto male a tornare in albergo? Nessuno mi aveva detto di restarmene là. — Non importa, signorina — disse seccamente l'investigatore. Il termine "signorina" l'aveva aggiunto in italiano. — Adesso pensi solo a seguirci. L'ascensore li stava aspettando. Era la prima volta, da quando risiedeva in quell'albergo, che trovava l'ascensore libero, immediatamente disponibile. Mentre scendevano, lei continuava a ripetersi: "Non voglio chiederlo a
lui. Non voglio chiederlo a lui". — Ci... ci sarà anche il signor Jones? — È già là — rispose laconicamente l'investigatore. — Da parecchie ore, ormai. Attraversarono l'atrio e uscirono sulla strada. Lei non cercò di ignorare gli sguardi dell'addetto alla reception e del portiere di notte. Sui gradini dell'ingresso si fermò di colpo, piena di costernazione. — Non in quello, spero! Era un cellulare. Era fermo sul marciapiede con le porte posteriori aperte, come in un immenso sbadiglio. — Non possiamo far venire una macchina personale per tutti, signorina — rispose l'investigatore, sempre in modo sbrigativo. — Non ne abbiamo a sufficienza. Lei si diede un'occhiata intorno con aria imbarazzata, prima di scendere gli ultimi gradini e salire all'interno del furgone. — Meno male che è tardi. Non c'è nessuno in giro a quest'ora. Lui l'aiutò a salire reggendole il braccio, la fece passare davanti a sé e la invitò a sedersi. Poi si accomodò di fronte a lei. Il poliziotto in uniforme chiuse le porte, poi si piazzò sul predellino posteriore. — Non ero mai stata in un furgone della polizia, prima — disse Mari con voce molto esile. — In fondo è una vettura come tutte le altre, signorina. — C'è troppo buio qui dentro. Non si può nemmeno guardare fuori. — I furgoni non sono costruiti perché la gente possa guardare fuori, signorina — disse lui senza troppa simpatia. — Non sono pullman per turisti. Lei stava rovistando nella borsetta. Fece una leggera esclamazione di disappunto. — Ho dimenticato le sigarette nella stanza. Credo di non essere così calma come mi sforzo di apparire. — Prego, signorina — disse lui immediatamente, ma sempre nel suo caratteristico tono freddo e impersonale. Le porse il proprio pacchetto. Lei distingueva a malapena il colore bianco del pacchetto. Aiutandosi con quella traccia, riuscì alla fine a estrarre una sigaretta. La fiammella dell'accendino guizzò per un attimo in modo irregolare. Lui non ne accese una anche per sé. Forse perché era in servizio. I suoi occhi neri, che brillavano alla luce della fiammella, sparirono subito appena
si spense. — Grazie — disse Mari in italiano, cercando di sgelare un po' l'atmosfera. Ma lui non voleva saperne di smettere di parlare inglese. Bisognava gestire la situazione nel modo più distaccato possibile, ne era convinto. L'aveva fatta salire sul cellulare parlandole in inglese e l'avrebbe portata al commissariato continuando a parlarle in inglese. — Di niente, signorina — disse col solito tono scostante. Lei tirò qualche boccata dalla sigaretta. — Perché continua a chiamarmi "signorina" in italiano? — Si chiese se Jones avesse già fatto presente la situazione. Se avesse rivelato alla polizia che erano sposati. — È che ci sono abituato — rispose lui. — Mi viene più spontaneo dei corrispettivi termini inglesi, che sarebbero "miss" e "mistress". Quando devo pronunciarli, mi si blocca la lingua e non so mai qual è la parola giusta da pronunciare nella circostanza. Non certo "mistress", pensò lei. Ma in fondo non le dispiaceva, quella parola. — Ha portato molte donne in carcere? — Lei non è agli arresti, signo... Mari sorrise. — Ora abbiamo fatto un errore tutti e due, così siamo pari. Lui non si unì alla sua risata. Lo avrebbe sentito, se si fosse messo a ridere. Ma immaginava che il viso di quell'uomo non si fosse neppure mosso. Lasciò cadere la sigaretta e la calpestò ài buio. — Lei non mi pare molto gentile, signor Russo — sospirò in preda allo sconforto. — Sono un po' spaventata all'idea di viaggiare su questo trabiccolo e di dover essere portata al commissariato. Cerco vivamente di non pensarci, ma non è che lei mi sia molto d'aiuto. — Non sono una governante — disse lui, gelido come il ghiaccio. — Sono un agente di polizia in borghese. — Che il cielo assista la ragazza di cui è innamorato, se le succederà di averne una — mormorò Mari cercando di non farsi sentire. — Mi succede — fece lui, che evidentemente aveva sentito. — Ma non c'è niente in comune tra voi due. E su quell'amabile commento, il viaggio terminò. L'edificio della questura milanese era vecchio di secoli e grigiastro. Aveva le pareti spesse e, come tutti gli edifici pubblici in Italia, era freddo e cavernoso all'interno. Sarebbe stato triste e deprimente anche in pieno giorno, ma a quell'ora avanzata della notte entrare là dentro era come pe-
netrare in una tomba. Lei rabbrividì e si strinse nelle spalle, mentre varcavano il portone d'ingresso. — Avrei dovuto portare qualcosa di più caldo. Nessuna risposta. Percorsero alcuni corridoi, debolmente illuminati e pieni di spifferi taglienti come lamette. — Da questa parte, signorina — indicò Russo. Questa volta aveva usato il termine inglese. "Ci scommetto che sta facendo le prove sulla parola giusta da usare fin da quando siamo usciti dal furgone" pensò Mari. La Malatesta era nella prima stanza in cui entrarono, e stava aspettando Max. Si voltò e vide Mari e la sua scorta. — Questa è proprio una stupidaggine, signorina Ruyter! Non è d'accordo anche lei? Hanno tenuto qui il mio povero Max per quasi tutta la notte. E sì che proprio stasera avevamo l'invito per un party dato appositamente per noi. Che cosa penserà quella gente? Che cosa diremo per scusarci? A volte mi vergogno davvero di essere italiana... Nemmeno una parola di simpatia per Mari. Entrarono in un'altra stanza e la porta si chiuse alle loro spalle. C'era un uomo seduto davanti alla scrivania. — Si accomodi, signorina Ruyter. Saremo da lei fra un attimo. Jones era lì, seduto su una sedia appoggiata alla parete. Se ne stava rannicchiato in avanti in una specie di fissità assente, gli avambracci che pendevano dalle ginocchia e il soprabito infagottato sul grembo. Giocherellava con il costoso orologio svizzero che si era comprato poco dopo il loro arrivo. Quel modo di fare rivelava, se non altro, come l'idea del tempo gli avesse occupato la mente. Sul quadrante dell'orologio c'era di tutto: la lancetta dei minuti, quella dei secondi, la data, il giorno della settimana... Tutto fuorché una cosa: l'ora in cui sarebbe uscito di lì per andare a quel party con lei. Per la prima volta da quando Russo aveva bussato alla porta, lei si rese conto che, in fondo, il fatto che la trattenessero lì dentro non le importava poi più di tanto. Almeno finché lui restava a farle compagnia. Trattenuto con lei. E perciò impossibilitato ad andare a quel party. Appena la vide arrivare, lui corrugò la fronte in segno di rassegnazione e le rivolse un cupo cenno d'assenso col capo. Quasi a dirle: "Che ne pensi di questo? Non è grandioso?".
Lei si diresse verso di lui e si accomodò nella sedia accanto. L'uomo che stava alla scrivania non alzò mai lo sguardo. — Si sieda da questa parte della stanza, signorina Ruyter — disse all'improvviso, facendo sporgere una mano. Lei dovette di nuovo attraversare la stanza e sedersi accanto alla parete più lontana. Jones la guardò da dove si trovava e lei ricambiò lo sguardo. Mari tirò fuori uno specchietto dalla borsetta per controllare che aspetto aveva. Chissà come si erano ridotte, adesso, le sue probabilità di fare colpo su di lui. Ma di colpo, senza alcun preavviso, senza che l'uomo alla scrivania alzasse la testa o guardasse dalla parte di lei, le domande iniziarono a partire a raffica. — Le era mai accaduto prima? Nessuna risposta. — Dicevo, le era mai accaduto prima? — Oh, mi scusi. Non sapevo che stesse parlando a... È che non capisco bene l'italiano. Intervenne Russo. — La domanda è piuttosto semplice, signorina. L'ispettore Gentile vuole sapere se qualche persona era mai morta in precedenza, durante uno dei suoi spettacoli. Lei non sapeva se fosse il caso di parlare. A meno che Jones... Certo, se lui aveva spifferato tutto, allora non c'era più scelta. Ma se non aveva detto niente, e loro brancolavano ancora nel buio, forse... — Non vuole rispondere, signorina Ruyter? — domandò di nuovo Gentile. La situazione stava cominciando a diventare difficile. — Oh, ma certo. Certo. — Benissimo, allora. Coraggio. — Era successo una volta a Montreal, al Club Perroquet, in St. Catherine Street, più o meno due stagioni fa. Annuirono. Erano proprio dei poliziotti, pensò. Sapevano già tutto prima che lei parlasse. E, con la sua esitazione, aveva peggiorato le cose. — E poi? — A New York, circa... circa un mese prima. Si trattava solo di una prova. No, nemmeno una prova. Stavo solo facendo vedere il numero al nostro... al nostro agente. Annuirono di nuovo.
Proprio come fanno i poliziotti. Lei si sentiva in colpa per qualcosa, ma non riusciva a capire di cosa si trattasse. Abbassò lo sguardo sul pavimento. Molto in colpa. Quasi una criminale. — Aveva mai visto prima quell'uomo? Lei dovette farsi ancora forza per non perdere il filo del discorso. Si chiese se non stessero cominciando a sospettare di lei. — L'uomo che sedeva al tavolo? — Di quale altro uomo crede che stiamo parlando? — Non solo non l'avevo mai visto prima; non l'ho neanche visto quando si è accomodato al tavolo. — Era vero. Non aveva fatto altro che guardare la Malatesta per tutto il tempo. — La prima volta che l'ho visto era già sul pavimento. — Lei è sposata? Ora cosa poteva rispondere? Con un guizzo astuto, i suoi occhi puntarono su Jones. Ma non si soffermarono a lungo; si limitarono a sfiorare gli occhi di lui come un fuggevole bacio. Lui ammiccò a Mari come se fosse un moribondo. Mai una palpebra si era mossa più lentamente. Perché quella donna era là fuori, nella stanza attigua, e avrebbero potuto informarla, in seguito. Mari abbassò di nuovo lo sguardo sul pavimento. Poi lo sollevò di scatto e fissò l'ispettore. — No. Non sono sposata. E, da un certo punto di vista, era la verità. — Si è arrabbiata per qualcosa, signorina Ruyter? — Dovevano averlo capito dalla sua espressione. — Mi sono arrabbiata per un attimo — ammise lei, con disarmante candore — al pensiero che non sono sposata. È come se mi fosse venuto in mente per la prima volta. Tutte le donne si sposano, prima o poi... La porta si aprì all'improvviso e una giovane donna entrò nella stanza, scortata da un agente. Per un terribile attimo, mentre stava per voltarsi, Mari pensò che si trattasse della Malatesta. Ma non era lei. Quell'ingresso così repentino doveva essere stato studiato in precedenza. Nessun colpo alla porta. Nessun segno o richiesta di convocazione da parte dell'ispettore Gentile. La donna era pesantemente velata e vestiva abiti neri, come se fosse in lutto. Forse aveva già impiegato quegli abiti in una precedente occasione, vista la rapidità con la quale li aveva trovati. Le piccole grinze che il velo
faceva accanto alla bocca rivelavano che stava ancora piangendo, sia pure in silenzio. Non rivolse neppure un'occhiata agli uomini presenti nella stanza. Guardò subito Mari, e con molta durezza. Era uno sguardo implacabile, anche se muto, e sembrava non finire mai. Poi, alla fine, si toccò con la mano guantata il cappellino. — Si tolga la sciarpa che porta in testa, signorina Ruyter — disse Gentile. Lei si sciolse quella specie di turbante con il quale era entrata in commissariato. Il velo si mosse debolmente. La donna aveva sibilato qualcosa all'agente di scorta. L'agente si diresse verso Gentile e quest'ultimo fece un cenno a Mari, porgendole il telefono che stava sulla scrivania. — Dica qualcosa, signorina Ruyter. La prima cosa che le viene in mente. Ma parli dentro questo ricevitore. — Cosa devo dire? — Lei prese il telefono e se lo portò all'orecchio. — Pronto? Chi parla? — disse in inglese. Gentile le toccò la mano. — No, no. Deve parlare in italiano. — Ma io non conosco l'italiano. Sono stata solo a Milano... Il velo si agitò di nuovo, lanciando una specie di messaggio oracolare. L'agente di scorta andò a riferirlo a Gentile. Quest'ultimo prese a scarabocchiare qualcosa su un foglietto di carta, poi lo passò a Mari. — Dica queste parole — le ordinò. — Le ripeta tre volte. Lentamente. E con chiarezza. Lei prese il foglietto di carta e lo lesse parlando al telefono. — Pronto? La casa del signor Cortese? Chi parla? Lo ripeté tre volte. Poi riagganciò. Si diede un'occhiata intorno e si accorse che la donna velata non c'era più. — Senta, ispettore... — protestò Jones con voce stridula, come se ormai non ne potesse più. — Silenzio — gli intimò l'ispettore. Poi si rivolse a Mari. — Non era la sua voce, quella della donna che telefonava insistentemente a casa del morto. La signora che ha visto era una delle figlie, la più anziana, ed è stata lei a fare il confronto. — Lei pensava seriamente che io... Lui allargò le palme delle mani. — Bisognava pure provarlo, no? Altrimenti, cosa ci staremmo a fare noi? — Diede un'occhiata a una carta. — Il
defunto si chiamava Giulio Cortese e faceva l'industriale. Età: cinquantadue anni. Era vedovo e aveva due figlie grandi. Da qualche tempo era entrata nella sua vita una specie di avventuriera, una donna misteriosa, almeno a dar retta alle figlie. Loro l'hanno vista col padre solo una volta, e per di più a distanza. Fortunatamente, pare che non assomigli a lei. Telefonava a casa del signor Cortese parecchie volte, e le figlie hanno potuto sentirne la voce. Ancora fortunatamente, devo aggiungere, la voce non corrisponde alla sua. Loro cercavano di convincere il padre a non sposare quella donna, allo scopo di proteggere... come dire...? l'eredità, i beni che prima o poi entreranno in loro possesso. Ed erano riuscite a dissuaderlo. Lui si era convinto a interrompere quella relazione. Ma quella donna riuscì a scoprire tutto. E scrisse al signor Cortese una lettera minatoria, che le figlie hanno visto con i propri occhi. In privato, hanno ammesso che intercettavano buona parte della corrispondenza del padre con quella donna, sempre al fine di accelerare i tempi della separazione. Due settimane fa, si sono viste recapitare in casa una scatola di gelatine alla frutta, senza alcun biglietto. Hanno pensato a un errore. Poi, per prudenza, hanno dato una gelatina al loro barboncino nano. E il cane è morto nel giro di due ore. Mari rimase senza parole. Si sentiva come ci si sente quando un'ascia affilatissima, o qualche altra lama letale, si abbatte sopra la nostra testa e manca il bersaglio di una frazione di centimetro. Era una sensazione agghiacciante, da far venire i brividi. — C'è ancora una piccola formalità da espletare, e poi... — Mentre l'ispettore parlava, il telefono usato per la dimostrazione cominciò a squillare. Gentile sollevò il ricevitore, ascoltò attentamente e disse un paio di parole, poi annuì e riagganciò. — Può andare, adesso — disse. — Hanno appena terminato di fare l'autopsia. Cortese è stato ucciso da un infarto fulminante. — La fissò duramente. — Di cui lei è moralmente, se non legalmente, responsabile. La sua danza lo ha spaventato a morte. Lei e Jones balzarono in piedi all'unisono. — Se lei non avesse danzato davanti al tavolo di quest'uomo, stanotte, lui sarebbe ancora vivo. Abbatté la mano sulla scrivania. — Questo numero è troppo pericoloso, e io non intendo lasciarlo ripetere. Il suo permesso di soggiorno sarà revocato, signorina, e lo stesso vale per tutti i componenti del gruppo. Farò i passi necessari perché siate costretti a lasciare l'Italia alla prima opportunità.
— Vuole per caso espellerci? — chiese Jones, guardandolo in cagnesco. Pareva sul punto di balzare addosso all'ispettore. Mari tentò subito di trattenerlo e si girò verso la porta. — Non farlo. Riusciresti solo a peggiorare la situazione. — Non si preoccupi, non dovrà farci mandar via! — gridò Jones. — Prenderemo il primo treno disponibile e poi la prima nave. Non resteremmo in questo paese nemmeno se... — Bene — disse seccamente Gentile. — Mi pare la cosa più giusta. Fate così e ci risparmieremo tutti un bel po' di telegrammi e di cartacce da riempire. Jones la spinse rudemente fuori della stanza come se lei fosse una bambola, poi si chiuse la porta alle spalle facendola sbattere. Ma, nella stanza attigua, si dimenticò subito della sua esistenza. Adesso era impegnato in un abbraccio appassionato con la Malatesta. Le raccontava tutti i suoi guai, mentre lei, a sua volta, gli accarezzava i capelli, gli tormentava i risvolti della giacca, lo consolava e soffriva insieme a lui. A un tratto si voltarono e la videro. Solo in quel momento parvero ricordarsi della sua presenza. — Vuoi che ti dia un passaggio fino all'albergo, Mari? — si informò Jones. — No, grazie — rispose lei. — Faccio da sola. — E uscì. 8 Era nella sua stanza, adesso. Si sedette davanti allo specchio del tavolo da toletta per truccarsi, come se dovesse uscire. E, in un certo senso, era proprio così. Si diede un po' di cipria. "Tutto questo è per qualcun altro" pensò, rivolgendosi a lui. "Ho un altro appuntamento, adesso. Non sono mai riuscita ad averne uno con te. E ho dovuto chiederlo a qualcun altro. Qualcuno che non fa tante storie, se lo si invita. Ma tu non hai motivo di essere geloso. I suoi baci sono gelidi. I suoi occhi sono vuoti. Ma almeno non ti abbandona, una volta che l'hai invitato a restare con te". Si spruzzò del profumo. Un profumo che aveva uno strano nome: Je semi libre ce soir. Aprì il cassetto del comodino e ne estrasse una boccetta. Poi prese un
bicchiere e ci versò dentro dell'acqua da una brocca posata sul ripiano. Svitò il tappo della boccetta e ne tolse il cotone sottostante. Non ci sarebbe stata più nessuna notte per lei. Posto che ne avesse mai avuta una, comunque. Si mise in bocca due piccole compresse e inghiottì un sorso d'acqua. Attese qualche secondo. Poi si accese una sigaretta e la posò su un piccolo portacenere di vetro che teneva a portata di mano. Mandò giù altre due compresse e bevve un secondo sorso d'acqua. Poi, per qualche secondo, si mise nuovamente a fumare. Altre due compresse e un nuovo sorso d'acqua. Di colpo, svuotò la boccetta e depositò le restanti compresse nell'incavo della mano. Si portò la mano alla bocca e inghiottì convulsamente alcune volte. Bevve diversi sorsi d'acqua in successione e fu tutto finito. Era stato semplice. Spense la sigaretta schiacciandola sul fondo del portacenere. Poi gettò la boccetta vuota nel cestino delle immondizie. Aveva fatto tutto quello che doveva fare. Non le restava più nient'altro, ormai. Il mondo sgusciò via in punta di piedi, come se cercasse di non svegliarla. — Continui a farla camminare, continui a farla camminare; non si fermi neppure per un istante — stava raccomandando il medico. — Anche solo un attimo potrebbe esserle... — e qui fece un eloquente gesto con la mano — ...fatale. — Stringimi più forte, Max — sussurrò lei in modo quasi impercettibile. — Non troppo forte, mi raccomando. Deve respirare — lo avvertì il medico. — Lei badi ai fatti suoi — tentò di rimbeccarlo Mari. Ma il ringhio che voleva emettere fu solo un debole mormorio. — Dove andiamo. Max? — A fare una passeggiata. Lui la baciò. — Non lo faccia più! — gli gridò bruscamente il medico. — I baci la rilassano. La invitano a chiudere gli occhi. Lei tentò di volgere la faccia verso Max, in fiduciosa attesa, ma non ci furono altri baci. Gli ordini del medico andavano rispettati.
— Può anche fermarsi, adesso — disse il medico dopo aver preso nota delle pulsazioni cardiache di Mari. — Ormai è fuori pericolo. Vivrà. "Ma chi ne ha voglia?" protestò lei tra sé. Una mattina a letto. L'infermiera sedeva su una sedia, ma lui non c'era. — Dov'è? L'infermiera era un po' ottusa. — Il signore di ieri sera? — Sì — rispose lei amaramente. — Il signore di ieri sera. — Ha dato l'anima per salvarla. — L'infermiera la guardò in modo curioso. — Lo conosce? — Sì — rispose lei. — Ma lo conosco per modo di dire. Più che altro di vista. L'ho notato qualche volta nei dintorni. — Voltò con disgusto la faccia dall'altra parte del cuscino. Il medico arrivò a mezzogiorno e le tastò il polso. Ora poteva anche alzarsi, disse. L'infermiera se ne andò. Il medico fece un inchino e si preparò ad andarsene a sua volta. — Un attimo. La mia borsetta dev'essere là sopra... Il medico sollevò una mano, come a volerle far segno di lasciar perdere. — È già stato sistemato tutto. Il conto sarà pagato da quel giovanotto. Pagherà tutto lui. Gli occhi di Mari divennero due fessure. — Ah, stia certo che sarà proprio così, dottore — lo rassicurò. — Può dirlo di nuovo. Pagherà tutto lui, tutto. Non poteva esprimersi meglio. E non certo da qui... — e si toccò nel punto dove dovrebbe trovarsi il portafoglio nei pantaloni maschili — ... ma più in su, qui. — Si portò per un attimo la mano sul cuore. — E saranno le banconote più rosse che siano mai esistite. Il medico si strinse nelle spalle. — Mi spiace, ma non capisco molto bene l'inglese. — Non importa. Comunque, pagherà tutto lui. E le ripeto: pagherà profumatamente. — Mi pare che si sia ripresa molto bene, a quanto vedo — disse il medico. — Ha gli occhi che fanno scintille. — Per riprendersi bisogna provare sensazioni, dottore. E questa è la cosa buffa. Io ho perso per sempre quella parte di me che poteva farmi provare qualcosa. Lei mi ha salvato, dottore. Ma c'è una parte di me che nemmeno lei poteva salvare. Il mio cuore. Ed è come se non ce l'avessi più, ormai.
"Lo ferirò così come lui ha ferito me — promise Mari con un sordo rancore che le illuminava il viso. — E quando saremo pari, quando avrà pagato tutto, fino all'ultimo spicciolo, allora ritornerò al punto di partenza e comincerò di nuovo a ferirlo, a fargli male, a rendergli per intero la pariglia. Voglio vederlo soffrire, contorcersi dagli spasimi; voglio piantargli un piede in mezzo al cuore e schiacciarglielo senza pietà, così come si schiaccia un verme. Il medico la guardò con aria dubbiosa. Mari era come un vulcano alla vigilia di un'eruzione. La porta dello scompartimento si aprì. Tutto sembrava ripetersi. I pallini sulla sciarpa di Jones soffiavano adesso in un'altra direzione, sopra la spalla sinistra. Lui entrò e si chiuse la porta alle spalle. — Come va? — chiese. — Va — rispose lei. Proprio due battute casuali in uno scompartimento ferroviario, come quelle tra due viaggiatori qualunque. — Posso sedermi un attimo? — Non manca certo lo spazio. Lui diede un'ultima occhiata ai pioppi che scorrevano su un immaginario nastro trasportatore. La guglia di una chiesa si era mescolata a quella processione, e adesso anch'essa veniva portata via dal nastro. — Be', non mi dispiace andarmene da questo posto. — Io ci ho lasciato il mio cuore. Jones la guardò. Mari non gli spiegò cosa voleva dire. Si limitò semplicemente a ripetere quella frase una seconda volta, in modo ancora più sinistro e inflessibile. — Io ci ho lasciato il mio cuore. PARTE QUARTA Buenos Aires: Ta-Ba-Ris 1 Poi si scatenò l'applauso, fragoroso come un bombardamento d'artiglieria. Urla e ovazioni; spettatori che battevano i piedi e davano colpi forsennati sui tavoli, altri che salivano sulle sedie e brindavano estasiati in suo onore. Talvolta, dei fiori cadevano nel cerchio di luce abbagliante del
riflettore e restavano lì, scossi appena da una brezza invisibile come se emergessero da uno specchio d'acqua. Gardenie, rose bianche, orchidee, persino garofani strappati dagli occhielli delle giacche maschili. Tutti lanciavano qualcosa. Fiori che i vivi indirizzavano a una morta. In quel night club, la gente non si limitava solo ad applaudire. Era isterica. Dietro le quinte, lei aprì finalmente gli occhi. Ma lui la trasportò ancora più in là, fino al corridoio del camerino. Poi le fece appoggiare i piedi a terra ma la sostenne ancora per un attimo, finché non fu del tutto sicuro che si fosse rimessa in equilibrio. Se ne restò con le mani sui fianchi e lei abbassò lo sguardo come a dire: "Be', ne hai ancora per molto?". Lui prese il fazzoletto e, con delicatezza, le sfiorò il viso. Lei volse la faccia dall'altra parte, per fargli capire senza possibilità d'equivoco che non ne voleva sapere. Allora, lui si mise in ginocchio e, con lo stesso fazzoletto, tentò di spazzolarle i vestiti, che avevano raccolto un po' di polvere quando si era buttata a terra sul palcoscenico. Lei gli diede una leggera spinta, un buffetto sdegnoso col dorso della mano. — Ho una cameriera per queste cose, sai? Lascia che ci pensi lei. Lui si alzò lentamente, a testa bassa. Lei si voltò e lo lasciò lì. — Buona notte — disse, congedandolo freddamente. Si diresse verso la porta del camerino - il suo, non più il loro - e appoggiò la mano sulla maniglia. Lui restò immobile in fondo al corridoio. La chiamò e si mise subito a seguirla, poi le fu nuovamente accanto. — Mari. — Non sapeva cos'altro aggiungere. — Volevi dirmi qualcosa? — gli chiese in tono cortese ma freddo. — Mi chiedevo se stasera... — cominciò lui. — Se stasera cosa? — Mi chiedevo se stasera verresti in una piccola confitería con me. Potremmo prendere una tazza di caffè... — Prese a gesticolare, in preda all'emozione. — Tu e io. Solo noi due, insieme. — È da quando siamo arrivati a Buenos Aires che me lo chiedi. Tutte le sere, immancabilmente. E io ti ho sempre risposto di no. Siamo qui da quattro settimane e mezzo. Se non mi sbaglio, questo vuol dire trentun sere. Trentun sere che ti rispondo di no. Cosa ti fa pensare che adesso potrei cambiare idea?
Lui non disse nulla. — Sei davvero noioso, signor Jones. E sei anche un po' stupido, suppongo. Trentun volte no vuol dire no. — Ma tutti, di tanto in tanto, fanno qualche errore nei conteggi — disse lui in tono sconsolato. — Persino i cassieri. Persino i contabili. Perché non potresti farne qualcuno anche tu? — Non sopporto il caffè... Gli occhi di Mari erano come due pugnali per lui. — Non sopporto le confiterías... Pugnali che affondavano nella sua carne. — E non sopporto nemmeno... Lo stavano tagliando a fettine. Lui era ormai solo un ammasso di carne sanguinolenta. — Nemmeno me, suppongo — disse, completando la frase con un brivido. — ...di venir tormentata tutte le sere nel mio camerino perché qualcuno ha bisogno di un po' di carità. Tutte le sere, regolarmente, tu mi fai passare cinque minuti che mi rovinano l'intera giornata. E poi devo faticare per riacquistare il mio buonumore. — Toccato — disse lui con un leggero sussulto. Poi aggiunse: — Ma è possibile che tu non mi presti più la minima attenzione? Non ricordi che ci siamo sposati, proprio a due passi dal porto di New York? — Io ho firmato molti contratti. E me li ricordo tutti. In effetti, sono custoditi in banca, in questo momento, nella mia cassetta di sicurezza. Ho firmato un contratto con Sertuchi, all'Excelsior di Milano, ma questo non mi ha obbligata a uscire con lui. Ho firmato un contratto con... come si chiamava più, quel tipo?... a Montreal, ma lui non si aspettava certo di portarmi fuori, la sera. In fondo, ho firmato un contratto anche con te. — Scrollò le spalle in un gesto molto esplicito. — Ma è una cosa un po' diversa, no? — Certo, perché vale molto meno degli altri. Nessuna paga, nessun limite agli impegni, nessuna clausola di salvezza. — "Clausola di salvezza"? Questo sì che è un modo curioso di parlare del matrimonio. — Che cos'altro è il matrimonio se non un continuo e stressante impegno a ballare sempre? Solo che balli per un solo uomo. E lui non ti batte neppure le mani per mostrarti un po' di apprezzamento. — Basta con le discussioni — supplicò lui. — Io avrò anche sbagliato,
lo ammetto. D'accordo, se vuoi non faccio più il marito. Sarò solo un... un ammiratore sposato, una specie di innamorato che ha qualche diritto in più. Non vuoi concedermi una serata? Ci deve pur essere una serata in cui non hai impegni. Lei annuì con fare prosaico. — Hai ragione, c'è. Sono libera venerdì tredici. Jorge è tanto superstizioso, sai. Quella sera non oserà nemmeno avvicinarsi a me. — Ma mancano ancora tre settimane! — Non ho mai detto che sarei stata libera domani. Sei tu che hai capito così. Tu mi hai chiesto semplicemente se avevo una serata libera e io ti ho risposto di. sì. Ma concederla a te... be', questo è un altro paio di maniche. Le mie serate sono troppo divertenti. Perché dovrei sciuparne una con te? — Oh, Cristo — imprecò lui, quasi piangendo. — Potresti almeno smetterla di rigirare il coltello nella piaga. Non c'è più nessun punto del mio corpo che non mi faccia male. — Io non rigiro nessun coltello in nessuna piaga — ribatté lei con suprema indifferenza. — Non sono un macellaio, io! — Poi aggiunse, malignamente: — Anche se tu potresti essere benissimo un animale. — Insomma, cosa devo fare perché tu non mi tratti più così? Lei considerò per un attimo la faccenda, con estrema serietà. — Non saprei. Stai all'altra estremità della città quando io mi trovo a quella opposta. — Hai dato i miei cioccolatini al portiere. — Non sarei dovuta essere così sbadata. Ora ricordo, è stato assente dal suo posto di lavoro per due notti consecutive, dopo che gli avevo dato quei cioccolatini. Lui è un povero vecchio, non avrei voluto nuocergli per nulla al mondo. — Hai dato i miei fiori all'ospedale. — Potere di suggestione, puramente e semplicemente. Quei fiori mi ricordavano una qualche malattia. Forse perché mi hanno dato un leggero voltastomaco. — Hai regalato il mio profumo alla tua cameriera. — Lei ha dei gusti così dozzinali, per quanto riguarda i profumi. Mi pareva la cosa migliore da farsi. — Hai rispedito l'orologio col braccialetto di diamanti al gioielliere da cui l'avevo ordinato. Ma in che modo! E con quale biglietto! Insomma, per farla breve l'intero negozio ha riso alle mie spalle, quando sono tornato per chiedere cos'era successo. E la storia ha fatto il giro della città. — Be', in quel biglietto io ho solo fatto presente di dirti che sapevo già
l'ora. E dato che tu non dovevi uscire con me, né d'altra parte io con te, non c'era alcun bisogno di stare lì col cronometro in mano. — Senti — supplicò lui umiliandosi, allargando entrambe le braccia. — Cosa vuoi? — Entrare qui dentro e struccarmi. Non mi piace litigare con un estraneo davanti alla porta del mio camerino. — Ma ci deve pur essere qualcosa che vorresti. Ci deve pur essere un modo per arrivare a te. Cosa devo fare per starti un po' più vicino? Comprarti tutta Buenos Aires? Lei lo squadrò dalla testa ai piedi, poi ripeté l'operazione. — Ce l'ho già. Non lo sapevi? Chiedilo a Jorge... voglio dire al señor Carralda. Jones cominciò a strofinarsi una spalla, come se gli facesse male. — Ti diverte proprio così tanto vedere qualcuno che striscia ai tuoi piedi? Credo che dentro di te ci sia davvero qualcosa di sadico. Avevi per caso l'abitudine di strappare le ali alle farfalle, quando eri bambina? O di passare sui vermi e schiacciarli? — Comunque, mi accorgo di averne mancato uno. No, adesso non cominciare a stringermi le braccia. Devo andare. Ti ho concesso anche troppo tempo, stasera. Non so perché; sarà che mi sento compassionevole o qualcosa del genere. Già, ora che mi viene in mente ho dato un passaggio persino a un ragazzetto cencioso che vendeva giornali vicino al mio residence. L'ho portato fin qui al night club, pensando che forse avrebbe fatto più affari. Si vede che è proprio uno di quei giorni in cui mi sento buona verso il prossimo. Cosa vuoi, capita anche a me, di tanto in tanto. — Fai conto che sia anch'io uno strillone — mormorò lui. — Aiutami a vendere i miei giornali. — Spiacente. I tuoi li ho letti tutti anni fa. Ti sono rimasti in mano solo numeri arretrati. — Tentò di varcare la soglia del camerino, per quanto Jones si trovasse proprio davanti alla porta. Lui la guardò. — Buona notte, signor Jones. Grazie della sua prestazione. Ci vediamo domani sera alle undici; qui, come al solito. Sembrò quasi che la porta gli sbattesse in piena faccia. Non fu così, in realtà, ma teneva gli occhi così vicini al battente che per poco non venne colpito. Ci fu una breve pausa; poi, all'esterno, cominciò a scatenarsi all'improvviso un fragore assordante. Era come una gragnuola di colpi. Non sulla porta, comunque.
— Ay, que barbaridád! — gridò bruscamente la piccola cameriera, che si trovava nel camerino con lei. — Cosa sarà? Che qualcuno abbia lasciato cadere un baule? Guardi come tremano tutte le luci! Questo mi terrorizza sempre. Sa, io provengo da un paese dove il terremoto è la regola. La sua signora, completamente immobile, si avvolse un'asciugamani intorno ai capelli. La ragazza aprì la porta, la richiuse e tornò indietro più stravolta che mai. — Non c'è nessuno là fuori. Ma sull'intonaco, lungo tutta la parete, c'è una crepa che non finisce più. Come se qualcuno si fosse divertito a dare colpi sul muro con tutta la forza che aveva in corpo. Lei cosa pensa che sia successo? — Forse c'è qualcuno qui in giro che odia i muri — suggerì Mari con un'alzata di spalle. — Comincia a prepararmi, adesso. Il señor sarà qui tra pochi minuti. 2 Una chiave frusciò all'esterno della porta del suo appartamento. Entrarono due silhouette, insieme a una debolissima scia di Chanel Numero Cinque e a una zaffata di champagne. Una delle due silhouette si voltò un istante e chiuse la porta. Non accadde nulla. Si levò un rimprovero pieno di tatto. — No, Jorge. Non accadde ancora niente. Risuonò un altro rimprovero. — Basta, Jorge. Poi le luci si accesero all'improvviso e illuminarono la stanza. Le due silhouette divennero rispettivamente una figura sgusciante in fuga rapida, che indossava un abito da sera, e un'altra dall'aria frustrata, che portava il frac e seguiva la prima più lentamente e senza molta allegria. Jorge scrollò le spalle. — Ma non eri stata tu a chiedermi di salire con te? — Per un bicchierino. E questo me lo chiami un bicchierino? Un bicchierino non si mordicchia, si sorseggia. Jorge era giù di corda, ma sembrava conscio della lezione. Lei rallentò il passo, si avvicinò nuovamente a lui e lo accompagnò lentamente, in diagonale, verso una poltrona. — Ecco, così. La vedi quella poltrona? Ora dovresti sederti qui e restartene buono e tranquillo per pochi minuti. Posso contarci? Voglio farmi passare questa sbronza, sta co-
minciando a darmi sui nervi. Qui, da questa parte, troverai le sigarette. Qui, invece, ci sono tutti gli ingredienti per prepararti un buon cocktail. Se vuoi suonare qualcosa, intanto che aspetti, c'è anche il pianoforte. Oppure la radio, se preferisci. Accendila e, sulle onde corte, troverai i programmi di New York. Lo so perché ci ho provato anch'io, ieri notte. — Gli diede tre colpetti affettuosi: uno su un ginocchio, uno sulle spalle e uno sulla testa. L'ultima volta, riuscì a ritirare la mano giusto in tempo. — Ora comportati bene. Stattene calmo e tranquillo. Ah-ah! Giù, da bravo; non muoverti. Estate quieto. — Ma... — Tra pochi minuti vedrai una Mari completamente diversa. Saluta quella vecchia, finché sei ancora in tempo. Non la vedrai più, stanotte. — Buona notte, Mari — disse lui docilmente. — Mandami quella nuova il più presto possibile. Lei chiuse la porta. Il battente si riaprì, ma non così presto. Dovettero passare almeno venti minuti prima che lei ricomparisse. Ma, a giudicare dallo stato dei nervi di Jorge, sembrava che ne fossero trascorsi non meno di quaranta. Aveva svuotato il suo bicchiere come minimo due volte, se non tre, e sul portacenere c'erano sei mozziconi. Dopo aver fatto tutto quello che era possibile fare in quella stanza (perlomeno da solo), si era seduto davanti al pianoforte e aveva cominciato a strimpellare sulla tastiera con una mano, canticchiando sottovoce, e con aria speranzosa, alcuni motivetti locali. Y todo a media luz, crepúsculo interior, Cual suave terciopelo, la media luz de amor. E tutto questo in una stanza che sembrava esplodere di luci, come una fabbrica di fuochi d'artificio che avesse preso fuoco. Lui abbandonò il pianoforte così in fretta che i tasti sui quali aveva pigiato non fecero nemmeno in tempo a riallinearsi con gli altri. Ma chiunque si sarebbe comportato così. Perché, nel frattempo, lei era riapparsa. La nuova Mari era incredibilmente intima, provocante. Non si sarebbe meravigliato se le avesse sentito emettere qualche gridolino. Ma lei non lo fece; si limitò a sorridergli in modo ospitale.
Indossava una camicia da notte che sembrava cadere in due pezzi separati. Ci voleva un bel po' per capire che le due metà facevano parte di un unico insieme. Sopra questa, si era messa un incredibile négligé, che pareva starle addosso solo finché non ci si soffiava sopra. Si era sciolta quasi per intero i capelli. Ormai le carte erano in tavola. Cominciò a girargli intorno, sfiorandolo, e lui rimase a fissarla, in estasi, per diversi secondi. Non poteva far altro che volgere lentamente la testa da dove si trovava, lo sguardo sempre inchiodato a lei. Ma era ormai sul punto di scattare e di balzarle addosso. Lo si vedeva dal nervosismo con cui muoveva i piedi e il resto del corpo. — C'è troppa luce nella stanza, non credi anche tu? Lo credeva anche Jorge, certo. Si ruppe quasi il collo, per la violenza con cui annuì. — Non mi piacciono le stanze piene di luce. Nemmeno a Jorge piacevano; la sua testa ciondolò un'altra volta in segno di assenso. Velocità presunta: centoventi rivoluzioni al minuto. Lei premette un interruttore collocato in un posto strategico e alcune luci sparirono. Jorge si offrì di darle una mano, lanciandosi verso una lampada da tavolo che sembrava la peggiore di tutte. — No, quella lasciala accesa — disse lei imprevedibilmente. Poi colpì il paralume della lampada, che si inclinò su un lato. Invece di diffondersi con discrezione all'ingiù, la luce si proiettava adesso verso le finestre, come se qualcuno ci avesse spruzzato sopra un'enorme quantità di candeggiante. Pareva che avessero montato uno schermo cinematografico in quella parte della stanza. Per il momento, comunque, Jorge non era interessato agli effetti cinematografici. Allungò le braccia verso di lei, sussurrando parole affettuose in spagnolo. Lei non sembrò nemmeno accorgersene. Attraversò a passo lento la stanza, finché la sua silhouette non si profilò nitidamente nel riquadro della finestra centrale, che era la più grande delle tre. Si fermò lì. Poi si voltò verso di lui e gli sorrise. E questo fu tutto. Ma fu anche abbastanza. In un attimo, la sagoma di Jorge si mescolò freneticamente con quella di Mari, come se fossero appiccicate l'una all'altra. Lui prese un istante di tempo per respirare. Gli venne in mente, come in un lampo, la posizione in cui si trovavano.
— Perché non ci sediamo sul divano? Non è meglio che starcene qui in piedi? — Io preferisco restare qui. Diede un'occhiata da sopra la spalla di Jorge verso la finestra, come se dovesse accertarsi che il suo profilo fosse nella giusta posizione, proprio di fronte a quello di lui. Poi reclinò il capo con uno sguardo languido. La testa di Jorge seguiva immancabilmente quella di Mari che si spostava in continuazione, finché non si trovarono allo stesso livello, entrambe inclinate. Quando raddrizzarono nuovamente la testa, Jorge dovette concedersi un po' di respiro. Non poteva proprio farne a meno. Lei si sciolse delicatamente dall'abbraccio. Poi mormorò qualcosa in inglese, una lingua che non era molto familiare a Jorge. — Rischierò. — Cosa, amada? — Solo un attimo. Questi capelli mi danno fastidio. Voglio mettermi più a mio agio... — Gli fece una chiara promessa con gli occhi. — ...per te — concluse in tono vellutato. Lo respinse con una leggera pressione del palmo. Ma ora teneva la mano bassa, così bassa che non si rifletteva più sullo schermo della finestra. Si portò le mani alla testa, tolse un paio di fermagli e i capelli le discesero sulle spalle come un'onda. Alla finestra la cosa risultò ancora più melodrammatica, se possibile, della scena precedente. Poi si appoggiò le mani prima su una spalla e poi sull'altra, imprimendo a entrambe un movimento verso il basso, come se si accarezzasse. O come se si stesse togliendo qualcosa. Non cadde niente per terra (il movimento delle mani non era così deciso) ma l'effetto fu praticamente lo stesso: quello di una persona che si stesse denudando le spalle. Anche l'effetto su Jorge fu lo stesso. Era come accostare un fiammifero a un candelotto di dinamite. Protese selvaggiamente le braccia a forbice verso di lei, come un giardiniere che cercasse di potare una siepe con un paio di cesoie ingovernabili. Lei riuscì a evitare quell'abbraccio e si ritrasse un po' di più verso l'interno della stanza, facendo uscire temporaneamente la sua ombra dal riquadro della finestra. Lui la seguì. Ora la finestra era persino più eloquente di quanto non fosse stata prima. Non è che Jorge le desse la caccia, né che lei tentasse di fuggire; si limitavano semplicemente a muoversi all'interno della stanza. Mari fece una svolta verso un tavolino da caffè piuttosto basso e la sua immagine finì di nuovo per proiettarsi sulla finestra, nello stesso punto di prima. Jorge la
raggiunse precipitosamente per la via più breve: pensava solo a restarle vicino. Le due silhouette si ricongiunsero di nuovo. Lei sollevò una mano e si ravviò i capelli, notando che l'ombra della sua mano ripeteva la stessa cosa alla finestra, con un curioso effetto di sensualità. — Bruja — sussurrò Jorge con voce roca, premendo con la testa contro la curva della spalla di Mari. Poi cominciò a farsi strada più in giù, sinuosamente. Lei abbassò lo sguardo con discrezione, ma non per quello che faceva Jorge. Senza che lui potesse vederla, Mari girò appena il polso. Aveva un orologio lì, l'unica nota stonata in tutto il suo provocante abbigliamento. Le tre e diciotto. Erano arrivati da ormai un quarto d'ora. E quindici minuti non sono pochi se vengono concessi a un argentino. Gli aveva dato spago e adesso doveva stare attenta a non finire strangolata. Sospirò. Ma non era chiaro se il sospiro andava riferito alle parole di Jorge o a quello che le aveva detto l'orologio. I baci di Jorge stavano cominciando a dirigersi verso il basso, ormai. E lo sguardo di Mari diventava sempre più preoccupato. Diede una piccola scossa al polso, del tipo di quelle che si danno a un orologio per metterlo in movimento. Ci fu un tale colpo che parve quasi, per un attimo, che un'automobile fosse andata a schiantarsi contro un pilastro. Invece, la porta d'ingresso sbatté violentemente contro la parete e uscì quasi fuori dai cardini. Una figura che indossava un soprabito spiegazzato e un cappello a cencio stava avanzando nella stanza, le spalle protese in avanti come se si preparasse a un affondo. Sembrava puntare verso il pianoforte, ma, prima di arrivarci, si lanciò nel mezzo di un lussuoso tappeto che stava nel salotto, mettendosi poi a strisciare sulle mani e sulle ginocchia. Nell'operazione, il cappello gli era scivolato via, rotolando per un po' sul tappeto. Lei lanciò un piccolo urlo, bene educato. Tanto piccolo e tanto bene educato che non fece quasi rumore. La testa di Jorge riemerse lentamente. Anche l'altro si tirò su dal tappeto, e apparve la faccia livida, stravolta da un ghigno maniacale, di Jones. Ogni linea del suo corpo rivelava che il musicista moriva dalla voglia di menar le mani. — Fuori! — gridò a Jorge. — E presto, anche. Ti conviene, finché sei ancora in tempo.
Jorge si diresse verso di lui; forse voleva solo chiedergli qualche chiarimento, ma era comunque la mossa sbagliata da fare. Jones cercò di balzargli addosso aggirandolo, ma mancò il bersaglio. Un attimo dopo, i due erano avvinghiati in un furibondo corpo a corpo. — Vi prego! — gemette lei sullo sfondo, senza che nessuno la notasse. — Non nella mia suite! I due caddero insieme. Si rialzarono insieme. Poi uscirono insieme. Jorge davanti, una mano (non la sua) stretta in cima al bavero della giacca, e un ginocchio sollevato (di nuovo non il suo) proprio in corrispondenza del fondoschiena. Uscirono insieme, in una millimetrica linea retta tra il battente spalancato verso l'interno e la soglia, e poi sparirono, lasciando a turbinare per diversi istanti sulla loro scia una notevole corrente d'aria. Fuori, nel corridoio dal pavimento di marmo, ci fu un breve ma intenso strascichio di passi a cui seguirono diversi tonfi, del tipo di quelli che fanno due corpi avvinghiati quando ruzzolano per terra. Alla fine, si sentì lo schianto metallico della porta dell'ascensore che veniva sbattuta. Poi il lento ronzio della cabina che cominciava a scendere; se l'avesse messa in funzione il suo occupante, di propria spontanea volontà, oppure se venisse comandata dal pulsante esterno, era impossibile stabilirlo. Si udirono varie imprecazioni in due lingue, spagnolo e inglese, che facevano a gara per superarsi, ma quelle in spagnolo si affievolivano sempre di più a mano a mano che l'ascensore scendeva. E mentre scemavano quelle in spagnolo, quelle in inglese si facevano sempre più pepate. Era molto improbabile che fossero mai risuonate prima all'interno di quell'esclusivo residence argentino. Lei cercò di distrarsi, nel frattempo, prendendo uno specchietto ed esaminandosi attentamente il viso. Con un gesto affrettato, si tirò su i capelli, se li pettinò un po' all'indietro e rimise lo specchietto dove l'aveva trovato. Jones entrò di nuovo, la giacca strappata intorno al giro della manica, proprio sotto l'ascella. Chiuse la porta semidistrutta, girò la chiave nella toppa, la estrasse e si avvicinò alla finestra. Aprì e scaraventò la chiave nelle profondità di avenida Santa Fé, sfregandosi le mani con ostentazione. — Non ne avrai più bisogno — disse, scuro in viso. Nel frattempo, Mari si era diretta verso il telefono e stava sollevando il ricevitore. — Oh, no, non lo farai! — Jones corse fin lì e le strappò il ricevitore di
mano. — Questo appartamento è anche mio e non mi muoverò da qui! Lei si strinse nelle spalle con una certa freddezza. — Ho detto forse qualcosa? Gli occhi di Jones si spalancarono dallo stupore e la sua bocca fece altrettanto. Aveva una faccia che sembrava un concentrato di punti interrogativi. — Eh? — chiese in tono quasi ebete. — Ora ti spiego tutto — disse lei. Gli tolse il telefono dalla mano. Lui era troppo stupefatto per tentare di resistere. — Puoi spegnere quella lampada, adesso — aggiunse con indifferenza. — Ormai non serve più. Lui era tanto sconcertato che non riusciva nemmeno a eseguire un'operazione del genere. Si limitò a fissare la lampada, come se non ne avesse mai vista una in precedenza. Lei stava già parlando al telefono, nel frattempo. — Qui parla Mari Ruyter. Non passatemi nessuna telefonata per tutta la mattina e per tutto il pomeriggio. Non voglio essere disturbata fino... diciamo fino alle sette di domani sera. — Diede un'occhiata a Jones per controllare in che condizioni si trovasse. Lui sembrava finalmente aver capito cosa fosse una lampada e come si dovesse fare per spegnerne una. — No, aspetti — aggiunse lei dopo un ripensamento. — Facciamo fino alle otto, invece. Un'ora è sempre un'ora. E quando viene Lupita, le dica pure che la autorizzo a prendersi un giorno di libertà. Se si mette a discutere, le dica che è un mio ordine. Ebbe qualche difficoltà ad appoggiare il ricevitore sulla forcella. Aveva perso l'uso delle braccia fino all'altezza delle spalle. Non riusciva più a muoverle, tanto le stringevano sui fianchi, come se fosse stata avvolta nelle spire di un gigantesco boa. — Lasciami solo rimettere a posto il telefono — sospirò col fiato corto. — Potrebbero sentirci, giù di sotto. — Riuscì ad aprirsi un piccolo spiraglio nella morsa e a liberare un avambraccio. Abbastanza per lanciare il ricevitore e tentare di cogliere il bersaglio a un'altezza di più di mezzo metro. Il ricevitore atterrò con precisione sulla forcella e la comunicazione si interruppe. La lampada era spenta, adesso, e non c'erano più ombre alla finestra. Jorge non si era portato via solo la propria silhouette, ma anche quella di lei. Meglio così, comunque: non è che le due silhouette facessero molta giustizia ai loro originali. Davano l'impressione di un sandwich messo in posizione verticale, dopo essere stato schiacciato da un tronco d'albero di una ventina di tonnellate.
— Ce ne hai messo del tempo a venire... — riuscì finalmente a dire lei con voce soffocata, non appena ebbe recuperato un po' di fiato. — Eh? — fece lui non molto brillantemente. Nell'oscurità, la sua faccia era probabilmente una sequenza di espressioni meravigliate. — Non ti è mai venuto in mente che potessi sapere anch'io che te ne stavi tutte le notti a guardare le mie finestre? Per quindici notti di fila ho dovuto esibirmi in questo numero, e tu non hai mai avuto iniziativa sufficiente per salire fin qui ed entrare in casa. Lupita ha già dovuto cambiare per ben due volte quella lampadina, tanto l'abbiamo usata. Prima l'abbiamo sostituita con una da settantacinque watt, poi, per tutta questa settimana, ne abbiamo usata un'altra da cento. E, notte dopo notte, l'esibizione si faceva sempre più lunga e più rischiosa. Non so cos'altro avrei potuto aggiungere ...ma forse sarebbe meglio dire togliere, al mio numero dopo stanotte. Ormai il gioco era arrivato alla fine e Jorge non voleva che una sola cosa. "Proprio un bel lavoro! Ci sono volute migliaia di dollari per affittare questo posticino, ma ne valeva la pena. A Morty verrebbe un colpo, se sapesse che investo gratis il mio talento esibendomi davanti alla finestra di un quinto piano. Con tutti i soldi che potrei ricavarne, se mi facessi pagare il biglietto. E tu? Tu cosa fai, nel frattempo? Non fai altro che scalciare contro i lampioni giù di sotto... — Come lo sai? — Ce li ho anch'io gli occhi per vedere, no? Cosa credi, che non mi fossi accorta di quella leggera zoppia che ti si era sviluppata in un piede negli ultimi giorni? Di sera in sera, ti facevi vedere al night club sempre più claudicante. Ci avrei scommesso che ti faceva male la punta del piede. E l'altra sera, mentre passavo, ti ho guardato dallo spiraglio della porta aperta del tuo camerino. Stavi infilando del cotone nella punta di un calzino. E avevi la faccia stravolta dal dolore. — Non ti è dispiaciuto almeno un po' vedermi soffrire in quel modo? — mormorò lui. — Dispiaciuto! Se non avessi avuto un appuntamento con Jorge, penso che mi sarei fatta prestare il ferro da stiro dalla mia cameriera, sarei entrata con quello in mano, avrei mirato e avrei fatto in modo che atterrasse nel punto che più ti doleva. Lui taceva, sempre più sbalordito, Mari scosse la testa. — Te l'ho già detto una volta, signor Jones, e devo ripeterlo adesso. Sei proprio uno stupido. — Mi avevi dato anche del noioso, se non sbaglio.
— Questo bisogna ancora provarlo. — Sono solo una pila di giornali arretrati, ricordi? — I titoli di testa che stai stampando proprio adesso non potrebbero essere più freschi e più aggiornati. — Eccone uno che è arrivato giusto all'ultimo momento. Lei appoggiò all'improvviso il collo nell'incavo della spalla di Jones. — Oh, caro — disse in tono supplicante — smettiamola di giocare a rimpiattino. Recitiamo la commedia sul serio, adesso. Non c'è nessuno, qui dentro, che possa mettersi a ridere. Ci siamo solo noi due. — Sì, sul serio — dissero le labbra di Jones dopo aver trovato quelle di lei. — Sul serio... così. Per sempre... Niente più platee, niente più camerini, niente più finzioni. — Ti ho amato fin da quando sono caduta per te giù dai gradini del tempio. Ed era il primo giorno che ti vedevo. È così che ho cominciato ad amarti, e da allora quella sensazione non mi ha più abbandonato. Sono passati quattro anni da allora, e io li ho sentiti trascorrere a uno a uno. Ogni anno, c'era sempre qualcuna sulla mia strada. Le vedevo venire e andarsene. Josette a Parigi, la Malatesta a Milano... — Non ricordo quei nomi; non li ho mai sentiti... — Quattro anni se ne sono andati. E dove, poi? Ma sono veramente passati? Non è trascorso solo un attimo, da quando ti ho visto? Quell'attimo che era destinato a venire, che sapevo sarebbe prima o poi arrivato. Non si è appena chiusa la porta? Non siamo ancora nella cabina di Bradley? E le luci, le luci del porto, non sono scese proprio adesso sotto il livello dell'acqua? E l'enorme cappellino della passeggiatrice, quel cappellino coperto di fiori e di penne che Fingers si è fatto dare per aiutarmi a fuggire, non è ancora in quell'angolo dove l'ho buttato poco fa? Le tue braccia non sono strette intorno a me come pensavo, o speravo, che lo fossero solo un attimo fa? Quell'attimo di quattro anni fa... Non ti prendo il viso tra le mani, non imprimo le mie labbra sulle tue, così, per mostrarti tutto il mio amore e la mia devozione, proprio come ho fatto un istante fa? — Perché non me l'hai mai detto prima? — chiese lui. — Non volevo essere io la sola a dirti il mio amore. Non è così che mi piace. Doveva venire da te, dovevi essere tu a dichiararlo a me. — E non lo senti? Non lo senti tutt'intorno a te? Non lo senti urlare dal mio cuore? — Dovevo solo aspettare un istante per averlo. Ma cos'è un istante, dopotutto?
— E quell'istante non lo perderemo mai più. Anzi, ce ne saranno molti altri, infiniti altri, per il nostro amore. 3 Si svegliò in una città diversa. Non solo in una città diversa, ma in una stanza diversa di una diversa suite. Un sole diverso, nuovo di zecca, splendeva nel cielo e illuminava luoghi su cui, in precedenza, non aveva mai battuto. Tutto era diverso. Lei era diversa. I suoi occhi erano diversi, perché vedevano cose che prima non avevano mai visto. Quelli vecchi, ormai, li aveva gettati via. Persino il suo nome era diverso. Adesso era la signora Maxwell Jones, non più Mari Ruyter. Si alzò dal letto e scoprì che anche il suo peso era diverso: non più di una manciata di piume. Si avvicinò subito alle finestre e le aprì. La nuova città, la città che non aveva mai visto prima, le apparve come un lampo davanti agli occhi, magicamente. Era tutta un cielo azzurro e una luce dorata, splendida come non mai. Persino i clacson delle automobili e dei taxi sembravano musica celestiale. Chitarre e xilofoni a ogni angolo della strada. Fino alla sera prima, la chiamavano Buenos Aires. Non era sicura di come avrebbero dovuto chiamarla oggi. Fosse dipeso da lei, probabilmente Paradiso. Se si ascoltava attentamente, si riusciva a sentire persino le ali degli angeli che fluttuavano morbidamente nell'aria. Insieme al ronzio dell'aeroplano delle linee argentine che da Santiago tornava in patria, naturalmente. "Sempre la stessa solitudine" aveva detto una volta. Ma adesso avrebbe dovuto piuttosto dire: "Sempre la stessa felicità". Volse la testa sul balcone e vide Lupita proprio alle sue spalle. La ragazza aveva spiegato una veste da camera e la teneva pronta per la sua signora. Mari le sorrise, come a volerla perdonare. — Sei venuta lo stesso. — So che mi aveva ordinato di non entrare. Ma il cuore mi batteva così forte che non ho potuto farne a meno. — Al cuore non si comanda, eh? — Entri dentro, altrimenti prenderà freddo. — Freddo? Cos'è il freddo? È la prima volta che sento una parola del genere. — Lo so. Lei ha dimenticato cosa sia il freddo. Ma il problema è un al-
tro: il freddo ha dimenticato lei? Si sieda, così le aggiusto i capelli. Glieli pettino come sempre o vuole una nuova acconciatura? — Non voglio cose vecchie. Pettinami in modo nuovo. Tutto è nuovo intorno a me, e anche i miei capelli devono esserlo. Vediamo se sai il mio nuovo nome. — Oh, è facile. Lei è la signora Maxwell Jones. Mari si agitò sulla sedia. — Come diavolo fai... — È stato lui a insegnarmelo. Mi ha fatto lezione per dieci minuti nell'altra stanza, prima che venissi qui. Oh, suo marito, il signor Jones, è proprio meraviglioso! Guardi, mi ha dato queste perché imparassi bene e senza errori il suo nome. — Mostrò a Mari una manciata di banconote. — Ah, è stato capace di questo? — Lei aprì il cassetto della scrivania e ne estrasse un altro rotolo di banconote. — Be', due lezioni fanno meglio di una sola. Fammi sentire come ripeti "signor Maxwell Jones" e questi soldini saranno tutti tuoi. — Signor Maxwell Jones — disse Lupita scrupolosamente, alzando lo sguardo come se stesse leggendo in cima al rivestimento in legno della parete. La sua signora le ficcò le banconote tra le mani. Poi le prese tra le sue e gliele strinse forte. — Signor Maxwell Jones, signor Maxwell Jones, signor Maxwell Jones — ripeté Lupita, sempre più entusiasta. Sembrava una mitragliatrice in azione. La sua signora si portò una mano sul cuore. — È questa la mia musica, è questa la mia canzone! Quel profumo che sta là è tuo, puoi prenderlo. Basta che ripeti con me: "Il signor Maxwell Jones è il marito della signora Jones". Oh, dillo, te ne prego. Fammelo sentire. — Il signor Maxwell Jones è il marito della signora Jones — recitò la scolaretta. — Brava — approvò la sua signora. Poi sì portò le mani al viso come se fosse in estasi. — Oh, come suonano dolci queste parole alle mie orecchie. Quelle scarpette d'argento laggiù, quelle con i tacchi... prendile, prendile, sono tue. È un piacere per me. Ora prova a ripetere questo: "Il signor Maxwell Jones è il padrone della signora Jones''. — Il signor Maxwell Jones è il padrone della signora Jones — eseguì la ragazza, stando al gioco. — Quel vestito con i lustrini che ti è sempre piaciuto, là in fondo all'armadio... prendilo pure e portatelo via.
— Il signor Maxwell Jones è il marito della signora Jones. Il signor Maxwell Jones è il padrone della signora Jones — ripeté Lupita tutto d'un fiato. Poi tirò un forte sospiro, come se avesse compiuto un'azione eroica. — Oh, basta, basta! — supplicò Mari. — Se continui di questo passo, finirà che dovrò darti anche i miei gioielli. — Non le costerà niente — si offrì generosamente Lupita. — Le si illumina il viso, quando ripeto quelle parole. — E io le ripeterò con te. Devo farlo, altrimenti scoppio. E alla fine, tre urrà. Forza, adesso. Uno... due... — Que viva El! — Vieni qui. Abbassa il viso. — Mari scoccò un sonoro bacio proprio in mezzo alla fronte di Lupita. Poi la spinse via. — Adesso fila. E per un po' non farti più vedere. Striscia fino alla porta sulle mani e sulle ginocchia, se ti fa piacere, ma sparisci. — Non vuole che la aspetti al tavolo? — Sai cosa vuol dire essere uniti a qualcuno? Mari si guardò allo specchio, si avvicinò alla porta della camera da letto e rimase per un attimo lì accanto, una mano sulla maniglia. — Cosa c'è, señora? Ha dimenticato qualcosa? — Volevo solo far durare un po' di più quest'attimo, questo meraviglioso attimo in cui apro la mia camera da letto per la prima volta, stamattina. Vedi, dall'altra parte, nella stanza accanto a questa, ho un marito che mi aspetta al tavolo della colazione. Una cosa che non ho mai avuto, prima. Da adesso in avanti, ogni mattina della mia vita è la mattina di Natale. — Sospirò, girò la maniglia e aprì la porta. — Ecco. Ecco tutti i miei regali. Avvolti in un'unica confezione. Lui volse il capo e sorrise; di colpo, le pareti sembravano essere state dipinte con una vernice luminosa. — Buon giorno. Gesù, è meraviglioso averti qui con me e poterti dire buon giorno. — Che stupenda espressione! La più bella che ci sia. Ripetila per me. Dimmela di nuovo. — Buon giorno. Buon giorno. — Qui, siediti — disse lei, dopo che erano andati avanti con quel gioco per un bel pezzo. — Così ti servirò. — Perché non lasci che sia io a servire te? — obiettò lui. — Quella stanza è per la vita notturna, e lì è il marito a servire la moglie. Ma questa è per la vita domestica, e qui dev'essere la moglie a servire il
marito. Versò il caffè, poi dispose le loro tazze tanto vicine che sembravano un'unica, enorme tazza con una figura a forma di otto al centro. — Sai cos'è questa? La nostra prima colazione insieme. Eppure sono quattro anni che siamo sposati. — Abbiamo scelto la via più lunga, ma alla fine siamo arrivati lo stesso. Oh, se mi sembravi bella di notte dovresti vedere cosa sei adesso alla luce del giorno. Battuta numero otto... — Tu sei la crema del mio caffè. — Numero quattordici... — Metti le mani sul tavolo. — Gesù, hai gli occhi che ti brillano. — Certo. Ora ho tutto. Ce l'ho fatta, finalmente. Ho un tavolo da colazione. Ho una caffettiera. Ho un marito. Cos'altro al mondo potrei desiderare? Sospirò. Chiuse gli occhi, deliziata. — Lasciamelo sentire ancora una volta. Dimmelo come se volessi farmi capire che è questa la casa dove trascorri le notti. — Buon giorno. — Buon giorno. Fecero cincin con le tazze. Emersero insieme dal portico del loro caseggiato. La notte era un impasto di velluto nero e di lustrini d'oro. Mari gettò la testa all'indietro e inalò l'aria notturna con voluttà. — Ma è champagne! — esclamò. — Lo champagne dei poveri. L'aria fresca. È un balsamo. Non ti sembra di sentire il profumo dei fiori a primavera? — Una primavera in ottobre — disse lui con un sorriso. — E poi dicono che ce n'è solo una a maggio. — Ehi, quel tipo laggiù, che ti fa segno accanto al marciapiede, non è il tuo autista? — Lo so, anche se faccio finta di non vederlo. — Fece un gesto eloquente. — Fila, Alberto. Non mi seccare. Non stasera. — Si rannicchiò contro Jones, le mani strette intorno al braccio di lui. — Camminiamo un po', stasera. Mi sento come una ragazza che vuol giocare col suo ragazzo. O una moglie fresca di matrimonio che vuol farsi coccolare da suo marito. Facciamo due passi e diamo un'occhiata alla città. Voglio conoscerla bene, questa città, perché mi ha portato una felicità immensa. È come... Be',
quando qualcuno ti manda un regalo ti pare giusto ringraziarlo, no? E allora vai a fargli una visita. Lui si guardò rapidamente intorno. — Dovrai fare qualcosa, riguardo ad Alberto. Ti sta ancora seguendo con la macchina. — Giusto — disse lei. — Poniamo fine alle sofferenze di uno sventurato. — Aprì la borsetta, ne estrasse una banconota, lasciò il marito per un momento e si avvicinò alla macchina. Poi tornò indietro e le sue mani si avvinghiarono nuovamente al suo braccio. — Me ne sono liberata, finalmente. Be', comunque mi pare che sia rimasto qualcuno con me. E che qualcuno! — Anch'io non me la passo male — disse lui, sorridendo. — Anzi, dovresti chiedere alla gente chi dei due ha fatto il miglior affare. — Tutto qui? — fece lei, come travolta da un'improvvisa ondata di allegra follia. Prima che potesse fermarla, Mari si era già allontanata e aveva accostato un'elegante matrona che passava di lì proprio in quel momento. — Permette un attimo? Vorrei chiederle una cosa. Preferirebbe essere quell'uomo, e trovarsi in mia compagnia, oppure essere me, e trovarsi in sua compagnia? — Mari! — esclamò lui, inorridito. La matrona scrollò le spalle, tentando di mantenere una certa eleganza anche in quel gesto, sorrise con aria spaesata e, alla fine, puntò l'indice a media distanza, verso un punto tre isolati più in là. — Por alla, creo — disse improvvisando alla bell'e meglio. "Per di là, credo". Lui si toccò nervosamente il cappello e trascinò via Mari. Scoppiarono a ridere, senza più potersi trattenere. — Dov'è che ci stava mandando? — chiese lui. — Giochiamo a un bel gioco — suggerì lei. — Facciamo finta di essere ancora quelli che eravamo, o potevamo essere, quattro anni fa. Ridotti al verde e sempre in bolletta. Anzi, supponiamo di non aver nemmeno i soldi per pagare il biglietto dell'autobus. Tu sei... tu sei il batterista del complesso, va bene? — Non potrei fare almeno il clarinettista? — Taci. E io sono la voce solista del medesimo complesso. Oh, siamo pieni di ambizioni, certo, ma per adesso dobbiamo ancora rammendarci calze e calzini. Ma tu devi lo stesso comprarmi qualcosa strada facendo — concluse lei. — Persino nelle nostre condizioni economiche. Mentre erano in attesa di attraversare al successivo incrocio, vennero avvicinati da una vecchia con un cesto. — Claveles? Garofani rosa per la
signora? — Lui li avrebbe comprati per lei? — chiese Jones. Lei gli mise una mano sul braccio, come a volerlo trattenere. — Non più di un quarto di dollaro. — Quanto costano? — domandò Jones alla vecchia. — Quattro per mezzo peso, señorita. — Ho solo venticinque cent da spendere. Dammene due. — Si voltò verso Mari e glieli porse. — Ecco, appuntali sulla giacca. — E qui — disse all'improvviso la vecchia — ce n'è un terzo. Siete così innamorati, voi due. Ed è per gente come voi che questi fiori crescono. — Diamole ancora qualcosa — disse rapidamente lui a bassa voce. Lei scosse la testa con fermezza. — Non rovinare tutto. Non capisci che quello che conta per lei è la bellezza del gesto? È il regalo che ci fa. Ricordi? Tu sei solo un povero batterista. E io solo una cantante. — Clarinettista — la corresse lui. — Quel quarto di dollaro è tutto quello che abbiamo. Eppure, siamo ricchissimi. Tutti ci vogliono bene stasera, e noi vogliamo bene a tutti. Attraversarono insieme la strada quasi correndo. — Quello però, quel tassista laggiù, non ci ama — osservò lui. — Cosa vuol dire cabrón? Le tappò la bocca con la mano. — Guarda, un bazar! — disse Mari. — Ecco il posto dove loro due andrebbero di volata. Portami dentro e comprami qualcosa. — Di cosa hai bisogno? — Di niente. È un regalo. — Che ne dici di questo? — domandò alla fine Jones. Esaminò l'etichetta che stava su una boccetta di vetro grande come la corolla di un garofano. In trasparenza, si scorgeva del liquido verde. — Flores de mi Alma. — Svitò il tappo, ne annusò il contenuto e scostò bruscamente la faccia. — Dio, no! Benzina e meloni marci. Dev'essere un po' passatello. Si accostarono a un altro banco. — Guarda che meraviglia! — gridò lui. — Ora sì che ci siamo. Anelli di granato. O, almeno, riproduzioni ragionevoli. Al modico prezzo di un peso e venticinque. — La stai buttando un po' troppo in burla — lo ammonì lei gentilmente. — Lui non si sarebbe comportato così. — Allora, spiegami tu cosa devo fare. — D'accordo. — Mari si sfilò in fretta dal dito un solitario che valeva almeno diciottomila dollari e lo lasciò cadere nella borsetta. — Max —
disse con uno sguardo malinconico — non ho mai avuto un anello da te. Persino quando ci siamo sposati ho dovuto chiedere a Bee di prestarmi il suo, ricordi? So che adesso non potresti permettertelo, se stiamo al gioco, ma in attesa che arrivi l'originale... — Guardò gli anelli con desiderio. — Sarebbe sempre un tuo regalo, qualcosa che viene da te. E basterebbe questo a trasformare l'ottone in oro, e un pezzo di vetro in un meraviglioso rubino. Tutte le volte che non sarai con me, potrò portarmelo alle labbra e sussurrargli qualcosa. Lui ne scelse uno e glielo infilò al dito. Una commessa con gli occhi scuri e i capelli tagliati alla maschietta continuava a guardarli. Lei sollevò il dito su cui adesso si trovava un nuovo anello e lo sfiorarono con le labbra, furtivamente. Prima lui e poi lei. — Questi sono gioielli che non vendono neppure da Woolsworth, pupa — mormorò lui. Lei lo baciò — Grazie per il regalo, caro. — È curioso quello che è in grado di fare una mano. Sembra che quell'anello sia vero solo perché lo porti tu. Se te lo togliessi subito, però, tornerebbe a essere paccottiglia. Ma quando ce l'hai al dito è come se valesse un milione di dollari. Indugiarono ancora qualche attimo, curvi sul bancone. La commessa rimase con loro, sorridendo con aria indulgente e comprensiva. All'improvviso, Mari si rivolse a lei. — Ti piace lui? Cosa ne pensi? Be', tanto non puoi averlo. L'ho preso io per prima. — Ce l'ho anch'io il ragazzo, cosa crede? — rispose la commessa in tono impertinente. — E nemmeno lei può avere il mio. — E questo sistema le cose e ci rende tutti felici. Pari e patta, no? Uscirono di corsa dal bazar, aprendo la porta a molla con un tale impeto che, per l'urto, il cliente dietro di loro rischiò di far cadere a terra il pacchetto che teneva in mano. — Credi che sia pazza, vero? E forse lo sono sul serio. Ma pazza di felicità. — E adesso all'opera. — Improvvisarono insieme qualche passo di danza, per rifarsi del tempo perduto. — Oh, questa meravigliosa città... — disse lei con aria esultante, continuando a danzare accanto a lui. — Max, sistemiamoci qui. Sono sicura che potremmo essere felici. Quando finiscono i nostri impegni di lavoro, restiamocene qui in santa pace. Non torniamo indietro. Abbiamo trovato la nostra felicità in questo posto, non abbandoniamolo.
— Adesso parli di noi o di loro? Sai, sono un po' confuso. — Di noi, di noi. Anche se adesso siamo in quattro. Ma che differenza fa? Noi due siamo sempre loro. E loro due sono diventati noi. — Già — disse lui, pensoso. — Perché no? Perché non dovremmo? Niente più treni, niente più alberghi. Fare solo la vita di una felice coppia di sposini. Ci compreremo una casa tutta per noi. E io posso sempre dire alla mia banca che mi trasferiscano il conto qui. Sai, c'è una filiale della National City in città. Butteremo all'aria tutte le nostre valigie e penseremo solo a mettere su un po' di pancia, che ne dici? — Dico che è un'ottima idea — concordò lei con entusiasmo. — Io, poi, ho una ragione tutta mia per voler mettere su un po' di pancia... — Vivremo come fanno tutti gli altri e lavoreremo per mantenerci. — E non penseremo mai più a quella cosa. Ce la lasceremo completamente alle spalle. Per sempre. È stata solo una trovata pubblicitaria, in fondo, anche se persino noi ci abbiamo creduto. Lui cominciò a fischiettare. — La conosci? Cosa ti ricorda? — Fammi sentire ancora un pezzo del ritornello. Forse mi viene in mente qualcosa. Fatti l'uno per l'altro, il tuo cuore e il mio Legati insieme, in un unico destino... — Ti fanno male i piedi? Devi ancora danzare stasera, lo sai. — E cosa credi che stia facendo adesso? Girarono un angolo, sulle ali dell'entusiasmo. — Ora ci aspetta il lavoro. — Stasera non è un lavoro. È... Siamo sempre insieme, no? Oh, devo scuoterli per davvero, stasera. — Non dire così — la ammonì lui con gentilezza. Scoppiarono a ridere. E sapevano, ormai, che la maledizione era stata sconfitta. Quando possiamo ridere di una cosa, è perché ce la siamo lasciata alle spalle. — Entriamo dall'ingresso laterale, come fa il personale di servizio — suggerì lei. — Al diavolo i loro atri raffinati, i loro preziosissimi tappeti e tutti gli inchini che ti fanno quando passi. E, soprattutto, al diavolo le mie
fotografie con quelle ombre sinistre che fanno venire in mente idee terribili. Non voglio vedermele davanti, stasera. — Sono un po' macabre, lo ammetto — concordò lui. — Ma è un modo come un altro per vendere un prodotto. Dopo essere entrati, sempre mano nella mano, oltrepassarono il camerino di Jones e puntarono direttamente su quello di Mari. — Ti dispiace? — Chi ha mai visto di una coppia di coniugi che adopera più di un camerino? — Che cosa dirà la tua cameriera? Entrarono e lei si chiuse la porta alle spalle. Quella porta che lui non oltrepassava da tempo immemorabile. Jones si voltò e assunse un'espressione perplessa, come a dire: "E adesso?". La cameriera, che stava trafficando con qualcosa in un angolo della stanza, avanzò verso Mari e le porse una veste da camera. Mari volse la testa verso di lei dal tavolo della toletta. — Non puoi restare qui, stasera. Ormai sono una donna sposata. — Ma... ma chi la aiuterà a vestirsi, señorita? — Mio marito, chi altri? Tu puoi venire in seguito e mettere un po' in ordine la stanza. — Le fece segno di andarsene. Ora doveva rivolgersi a lui per farsi aiutare. — Se continui così, non finiremo mai più. Tutte le volte che ti chiedo di passarmi qualche arnese per il trucco, tu continui a riempirlo di baci. Guarda che, se vai avanti su questa strada, rischi un avvelenamento acuto da cosmetici prima che la serata sia finita. — Mi comporterò bene — promise Jones. — Cercherò di girarti alla larga. — Lupita deve aver appeso il mio vestito nell'armadio. No, più in fondo... non puoi sbagliare. Qualcuno bussò alla porta. — Avanti — disse lei. Robles, il direttore del night club, fece capolino sulla soglia. — Señorita Ruyter, l'orchestra è pronta e la sta aspettando. Solo che non si riesce a trovare da nessuna parte il sehor Jones. Nel suo camerino non c'è. Ho persino telefonato al suo albergo, ma nessuno l'ha più visto da ieri pomer... — E questo allora chi sarebbe? — si inserì all'improvviso Jones, balzando fuori da un paravento dietro il quale si era momentaneamente nascosto. — Xavier Cugat, forse?
Robles abbassò lo sguardo sul pavimento. Era estremamente sconcertato, quasi scandalizzato. — Lei è qui? — È un tipo un po' vecchio stampo, non ti pare? — mormorò Jones, rivolgendosi a Mari in inglese. — Señor, mi pare che lei abbia bisogno di una spruzzata di colore sulle guance. Su, non si abbatta così. La señorita e io abbiamo cominciato a uscire insieme, perciò ci serviamo di un unico camerino. Coraggio, dica ai ragazzi di tenersi pronti. La seguo tra un attimo. Il direttore fece dietrofront e se ne andò, sempre più sconcertato. — Pero que locura — lo sentirono borbottare mentre usciva. — Bel tipo, quello lì — disse Jones. — Temo che finirò per rovinarti la reputazione in tutta la città. — Oh, rovinamela pure — implorò lei. — Fammela diventare nera come il lucido per le scarpe. Non lasciarne nemmeno una piccola parte immacolata. Lui le premette le labbra sulla fronte. — Detesto doverti lasciare. Anche solo per tre numeri veloci. Vieni presto, cara. Ci vediamo sul palcoscenico. — E non dimenticare — disse lei. — Questa volta recitiamo sul serio... per davvero. Lui la baciò di nuovo. — Per sempre. La cameriera strisciò timorosamente all'interno sulla scia di Jones. — Lascia la porta aperta. Voglio sentirlo suonare. Sollevò l'indice, in attesa. — Ecco! È lui! Lo senti? E questo è per me. — No, non ancora, señorita. Ormai la conosco a memoria la musica del suo spettacolo... — Non hai capito. Lo so che non è la musica del mio spettacolo. Ma è come se lui mi parlasse da laggiù. E questa musica è per me. Mi sta mandando un messaggio, perché sa che sono in ascolto. Spalancò le braccia verso la soglia, come se dovesse abbracciare qualcuno. — Fatti l'uno per l'altro, il tuo cuore e il mio... La cameriera cominciò a canticchiare con la sua signora, eseguendo una versione spagnola del pezzo. — Di que me quieres, así así... Poi si fermò un attimo e chiese: — La señorita esce stasera? Che vestito...? — La señorita rimane a casa stasera. A casa, con suo marito. E indosserà semplicemente il vestito di una moglie. — Non riesco a trovarlo qui nell'armadio. Com'è fatto?
Mari non era più lì a sentirla. Aveva disceso il corridoio dietro le quinte finché non era riuscita a scorgere il viso del marito, proprio davanti a lei. Lui si era voltato a guardarla. Gli lanciò un bacio. Jones non poteva restituirglielo troppo scopertamente, dato che si trovava sul palco, ma riuscì lo stesso a mandargliene uno alzando la mano, toccandosi le labbra e puntando l'indice verso di lei. Mari si portò una mano al cuore, come se quel bacio l'avesse colpita proprio lì. Ed era così, in effetti. Di lì a poco, sarebbe giunto il suo turno di entrare in palcoscenico. Avrebbe potuto recitare il suo numero a occhi chiusi. Ma li tenne aperti, invece, perché voleva guardare lui. Lasciò che i muscoli del suo corpo la guidassero a memoria. Di tanto in tanto doveva voltarsi, o doveva rivolgersi al pubblico, e questo spezzava per un attimo l'incanto che si era creato tra i loro sguardi. Per un attimo: mai di più. Mari danzava nel vuoto. Danzava in un nulla deserto. Non c'era nessun'altro, lì intorno, all'infuori di lui. Il serpente non era molto cattivo, quella sera. E la vittima non era molto spaventata. Era un serpente pigro. E la vittima era immersa nelle proprie fantasticherie. Avrebbero comprato una casa nei sobborghi. Poi avrebbero avuto un figlio. Forse anche due, un maschio e una femmina. Lui avrebbe potuto continuare a suonare, se lo desiderava. Ma in città, lì vicino. Niente più tournée, ormai. E lei non avrebbe mai più rimesso piede in un night club; anche se fosse andata a prenderlo qualche volta in macchina, avrebbe aspettato fuori finché lui non fosse uscito. Basta con quella vita. Basta con i lamé, basta con i palcoscenici, basta con i camerini. Un minuto, disse tra sé. Un minuto da adesso, si ripromise. Un sogno dura solo un minuto. Ma quando ci si risveglia, non si chiude più occhio per tutta la giornata. E adesso si stava risvegliando. Stava cominciando un nuovo giorno, per lei. Un giorno lungo, lunghissimo... Si buttò a terra. Il serpente assassino guizzava ancora sopra la testa della danzatrice, ma alla fine cadde e giacque immobile accanto a lei, di traverso. Qualcuno, molto in lontananza, gridò. Da un altro mondo. Una casa nei sobborghi. Una stanzetta per fare colazione, tutta per noi... Ci fu un po' di rumore, come sempre succedeva alla fine dei suoi spettacoli.
Ma forse, stavolta, quel rumore non era così innocente come le altre volte. Aveva qualcosa di sinistro. Qualcuno continuava a gridare, senza sosta. — Accendete le luci! Accendete le luci! Il grido si levò di nuovo, questa volta più vicino. Era una voce maschile. Di solito urlavano le donne, ma quella sera evidentemente, c'era stato un avvicendamento. Un grido straziante di protesta, prolungato fin quasi ai limiti della sopportazione. — No-o-o-o! Poi si sentì un'altra voce, non più la stessa di prima. Di colpo, se ne aggiunsero altre due o tre. — Accendete le luci! Per l'amor del cielo, qualcuno accenda quelle luci! Presto, è successo qualcosa! All'improvviso, Mari si sentì circondata da una marea luminosa, incandescente. Non riusciva nemmeno ad aprire gli occhi, tanto era abbagliata. Questo non era previsto; le luci non dovevano accendersi durante il suo numero, almeno finché Max non l'avesse sollevata e non fosse uscito dal palco con lei. Si sentì una specie di calpestio, come se la gente avesse cominciato a darsele di santa ragione. Un bicchiere cadde all'improvviso, andando a schiantarsi sul pavimento del palco, proprio a due passi dal capo reclino di Mari. Un pezzetto di vetro la colpì alla fronte. Ne sentì distintamente la trafittura. La voce che urlava era tornata di nuovo a farsi sentire. — Mia moglie è morta! Ed è stata lei a ucciderla! Eccola, è là. La vedete? Assassina! Criminale! Lasciatemi! Lasciatemi, vi dico! La ucciderò! La riempirò di botte fino a farla morire! Il volto di Max apparve all'improvviso sul pavimento del palcoscenico accanto a quello di Mari. — Forza, sbrigati! Alzati e lascia perdere lo spettacolo. Quelli sono diventati tutti isterici. Sembrano delle belve inferocite. Dobbiamo squagliarcela da questo posto in tutta fretta! Mari balzò in piedi, mentre Jones l'aiutava a sollevarsi. Poi lui cominciò a spingerla verso le quinte. — Fate qualcosa! — lo sentì dire a uno dei suoi musicisti. — Cercate di tenerli indietro finché non riesco a portarla fuori da questo edificio. Quei camerieri, da soli, non ce la fanno. Mentre Jones la spingeva davanti a sé, lei ebbe come l'impressione, guardandosi con orrore alle spalle, di trovarsi su una spiaggia sovraffollata. La gente formava una specie di muraglia umana tutt'intorno al palcoscenico. I camerieri cercavano disperatamente di respingere gli esagitati con una
catena di braccia. Era una folla tumultuante, ormai. Una folla che gridava al linciaggio. — Uccidetela! Ha causato la morte di questa donna! È una strega, un demonio! Uccidetela, prima che la polizia possa proteggerla! Uccideteli tutti e due! Due o tre scalmanati riuscirono a infrangere lo schermo dei camerieri e si sentì qualche scarica di pugni mentre i musicisti cercavano lealmente di respingerli. Sullo sfondo, ancora più sinistro delle urla che la volevano morta, si levò un grido improvviso: — Dietro le quinte, svelti! La stanno portando lì! Cerchiamo di prenderli alle spalle! — Non ce la faremo mai a uscire vivi da questo edificio... — ansimò lei. Il direttore sbucò fuori all'improvviso mentre stavano percorrendo rapidamente il corridoio dietro le quinte. Lei si era rannicchiata contro Jones. Jones protese un pugno in direzione dell'uomo. — Fuori dai piedi, altrimenti... Il direttore era così pallido che sembrava avesse la leucemia. — No, fermo, sto cercando di aiutarvi! È troppo tardi per passare di là. Vi stanno già aspettando fuori. Abbiamo chiuso la porta, comunque. Per di qui, andiamo nel mio ufficio. È la sola via di scampo che ci è rimasta. Jones si fermò all'improvviso, titubante, sulla soglia. — Non starà per caso tentando di giocarci un tiro mancino, eh? Come faremo a uscire da qui? — Dalla finestra. Potete calarvi dalla finestra. C'è un vicoletto tra i due palazzi. Sa quei vicoletti tutti coperti di spazzatura? È stretto e molto buio, e sbuca sulla strada. Potete starvene un po' di tempo lì, aspettare l'occasione propizia e scivolare fuori appena possibile. Il direttore entrò nell'ufficio con loro, scostò una tenda e la finestra si materializzò. Era molto piccola, più o meno la metà di una finestra ordinaria. Si incastrò, quando cercò di aprirla a viva forza. — Valgame Dios! — piagnucolò Robles, terrorizzato. — Lasci fare a me — disse Jones. — Mi dia quel portacenere di onice che sta sulla scrivania. — Lo scagliò contro il vetro e lo ruppe, poi, velocemente, tolse tutti i frammenti che erano rimasti incollati all'intelaiatura. — Chiudi la porta, presto, chiudi la porta! — disse il direttore a qualcuno dietro di loro. Poi si avvicinò al telefono e sollevò il ricevitore. — Passatemi la polizia! — esclamò, agitato. — Presto, señorita, presto! C'è una rissa al Ta-Ba-Ris; dica che mandino subito qui qualche agente!
Stavano già cominciando a tempestare di colpi la porta. — Presto, presto! — ansimò il direttore. — Non sapete quello che sono abituati a fare da queste parti, quando perdono la testa. Non si limiteranno a fare a pezzi voi, ma faranno a pezzi anche il mio ufficio! — Ed è questo ciò che conta, no? — disse freddamente Jones. — Non spinga, voglio vedere bene cosa c'è qui sotto. — Si lasciò cadere all'esterno, aggrappato al davanzale, e distese il corpo per tutta la sua lunghezza, tastando con i piedi sotto di sé. Non era un'altezza proibitiva; c'era poco più di mezzo metro per arrivare al terreno. — Lasciati cadere — disse a Mari. — Ti prendo io. Dall'altro lato della porta, avevano già cominciato a lavorare con una scure antincendio. Degli squarci si aprirono sul battente e la lama della scure fece capolino. Lui la prese tra le braccia e la aiutò a toccare suolo. — Niente spettacolo, domani sera! — urlò il direttore dalla finestra, in tono minaccioso. — No, niente spettacolo domani sera, può scommetterci! — disse Jones. Il direttore tirò indietro la testa e oscurò il rettangolo di luce richiudendo la tenda sulla finestra. Appena i piedi di Mari toccarono terra proprio davanti a lui, che ormai l'aveva sciolta dal suo abbraccio, si sentì al buio un rumore di qualcosa, forse un vetro, che veniva schiacciato. — Cos'è stato? — chiese Jones. — Stai attenta. Questo posto è pieno di frammenti di vetri e di bottiglie. — Non sono vetri, Max — mormorò lei. — Sparsi qui intorno ci sono i miei sogni. Calpestati e ridotti in frantumi. Non aspettano altro che arrivi lo spazzino e se li porti via. 4 Erano tornati a New York. Non potevano fare altro. Avevano preso alloggio in una camera d'albergo così alta che faceva sembrare il Central Park un tappetino da bagno verde collocato sotto le loro finestre. Stavano svuotando i bagagli. O, piuttosto, li stava svuotando lei. Lui stava rischiando una crisi isterica al telefono. — Non riesco a trovarlo — disse, e riagganciò. — Perché non provi a casa sua? — chiese lei. — A quest'ora se ne sarà già andato dall'ufficio. È da un pezzo che sono passate le sei. — Posso sempre chiamarlo più tardi. Ora andiamo giù a mettere sotto i
denti qualcosa. Ho una fame nera. Mentre passavano lungo il corridoio, lui si diresse all'improvviso verso una delle altre porte e bussò. — Ragazzi, vorrei lasciarvi qualche istruzione sulle prove, nel caso non vi riveda più dopo cena. Erano tutti lì. Stranamente tranquilli, per qualche misteriosa ragione. Se ne stavano seduti in vari punti della stanza. Senza aprire bocca. — Venerdì pomeriggio alla Ryan Hall, chiaro? — annunciò Jones. — Ho noleggiato la stessa sala di cui ci siamo sempre serviti. Lei entrò e si avvicinò al marito, come se presentisse qualcosa. — Max — disse all'improvviso Dixon. Poi s'interruppe. — Che c'è? — Io non ci sarò. Me ne vado. Jones si chiuse la porta alle spalle e fece qualche passo all'interno della stanza, con lei sempre al suo fianco. Era sbiancato in viso, e anche Mari non poté fare a meno di accorgersene. Ma appariva calmo, indifferente. — Vuoi abbandonare il complesso? Dixon fu molto franco. — Sì — disse. — Sì. — Fissava Jones negli occhi. — Qualche... qualche ragione particolare? — Sì. Mi sposo. Con Helen, sai? L'hai conosciuta anche tu. — Be', anch'io mi sono sposato. Anche Brad e Bee erano sposati, quando sono venuti a suonare con noi. Dixon continuava a tenere lo sguardo fisso su di lui. Non sbatteva nemmeno le palpebre. Ma si capiva che la cosa non gli piaceva affatto. E se ne accorse anche Mari. — Me lo ha chiesto lei — disse. Jones non replicò. — Le ho parlato al telefono proprio adesso. Anche stavolta Jones non replicò. — Ha detto che non mi avrebbe sposato, se fossi rimasto nel complesso. — Poi aggiunse: — In questo complesso. Jones continuava a rimanere in silenzio. Dixon terminò il suo discorso, fino all'ultima, amara frase. Come una specie di medicina. — Ha detto che non voleva essere perseguitata dalla malasorte. Si trattava di scegliere: o lei o il complesso. — Abbassò lo sguardo per la prima volta, poi lo alzò di nuovo. — Lo faccio per lei. Alla fine, Jones si decise a parlare. — Congratulazioni — disse, e si avvicinò a Dixon tendendogli la mano.
Dixon si alzò e si strinsero la mano. Con vigore. Non aggiunsero nient'altro, nessuno dei due. Cos'altro restava da dire? Dixon si accostò alla finestra e guardò fuori. Jones si voltò per andarsene, con lei. — Bene, ci vediamo alle prove, allora... Fingers tirò fuori dalla tasca un telegramma, con una tale foga che Jones ne restò colpito. — Non posso piantarti proprio adesso che se ne va anche Dix — disse, spiegandolo davanti a sé. — Certo che puoi. Perché no? Cos'è quel telegramma che hai in mano? — È un'offerta di lavoro da parte di Tommy Everback. Anche Russ ne ha ricevuta una. Per la prima volta, Jones mostrò qualche segno di agitazione. Arrossì appena in viso. — Cosa sta cercando di fare, di rubar... — Si interruppe di colpo. — Che intenzioni hai? — Di accettare — rispose Fingers con decisione. — Ti voglio bene, Max, e preferisco dirtelo chiaro e tondo, senza mezze misure. È così che si fa quando si vuol bene a una persona. Meglio parlarle francamente. Inutile mettersi a tergiversare. Russell, il batterista, non disse nulla. Evidentemente era d'accordo anche lui. Mari parlò per la prima volta, in tono sconsolato. — È per causa mia, Max. — Lo so. — Non è colpa di nessuno — intervenne Dixon. — È solo che c'è qualcosa intorno a Mari che mi fa paura. E non voglio più averci niente a che fare. Non voglio più sentirmela vicina, quella maledizione. Non voglio più viverci insieme. Bee e Brad se ne sono andati parecchio tempo fa, e avevano ragione. — Noi le vogliamo bene — disse Fingers. — Proprio come vogliamo bene a te. Non credere che non sia così. — Resti solo tu, Parr — disse Jones. Gli lesse lo sguardo. — Anche tu, suppongo. — Io ho intenzione di farla finita con la musica, Max — disse gentilmente Parr. — Sono diventato comproprietario di un negozio che vende articoli sportivi. — Era il successore di Bradley come sax tenore. Jones aveva dimenticato perfino di muoversi. Se ne stava lì impalato con uno sguardo da capitano coraggioso. Ma in cuor suo soffriva le pene dell'inferno.
Ma tutti soffrivano terribilmente, senza che nessuno sapesse come mettere fine a quella penosa situazione. Dixon non voleva continuare a guardare da un'altra parte, verso il Central Park. Russell non voleva continuare a fissare il sigaro che non fumava più ma che stava ancora tra le sue dita. Fingers non voleva continuare a guardare il bicchiere da cui qualcuno aveva bevuto un drink, poco prima. E Jones non voleva continuare a restarsene immobile al centro della stanza, come un professore che voglia mettere soggezione a un gruppo di scolaretti solo perché hanno marinato la scuola. Anche Mari era ben conscia della situazione. Ma nessuno sapeva come uscirne. Alla fine, Mari lo prese per mano, senza naturalmente dare troppo nell'occhio, e lo condusse fuori della stanza. E fu proprio lei a trovare la formula di congedo più idonea. Un addio lieve, che non facesse troppo male. — Be', noi scendiamo a mangiare. Ci vediamo dopo cena, ragazzi. Una volta usciti, Jones la guardò e sorrise. — Sembra che non abbia più un complesso. Lei non poteva consolarlo; non ci provò nemmeno. — Dove andiamo? Scendiamo per cena o ce ne torniamo nelle nostre stanze? — Non so se ho ancora fame — ammise Jones, voltandosi nella direzione in cui stava andando lei. Era uno di quegli appartamenti ammobiliati, categoria lusso, che si affacciavano lungo lo Eastern Parkway, sulla Quinta Avenue di Brooklyn. Il reddito degli inquilini che occupavano appartamenti del genere doveva oscillare dai dieci ai quindicimila dollari l'anno. Jones non chiese al portiere di annunciarli. Andarono dritti fino alla porta, al piano superiore. Lei nutriva qualche apprensione. — Potrebbe non essere a casa, Max. Avremmo dovuto telefonargli. — In questo caso aspetteremo. Vedrai che sarà felice di rivederci. A qualsiasi ora del giorno o della notte. È Morty, tesoro. Te ne sei dimenticata? — Be', però non capisco... — Suppongo che fosse fuori città, non credi anche tu? — disse, sorvolando allegramente sul problema. — Magari sarà stato uno di quei disguidi che a volte... La porta si aprì. Anzi, venne del tutto spalancata. Era una di quelle case
in cui la gente spalanca sempre la porta al primo venuto, senza fare troppe cerimonie o mostrare eccessive reticenze. Lo si sarebbe potuto dire al primo sguardo. Rubin stava sull'ingresso; si era allentato il nodo della cravatta e teneva un paio di occhiali da lettura in mano. Alle sue spalle, alcune lampade gettavano sul pavimento cerchi di luce che si intersecavano. Una ragazzina, con dei lucidi capelli neri e una frangia che le ricadeva sulla fronte come nelle bambole giapponesi, era stesa per terra sulla pancia, con le gambe all'aria, e leggeva un giornale a fumetti. La moquette era grigioverde e da un'altra stanza filtrava il suono di un televisore. "E adesso, per tremila...". Un bull terrier nero, che aveva una chiazza di pelo bianco proprio al centro della fronte, monopolizzava il sedile di una poltrona, ma con uno sguardo colpevole nei suoi occhi profondi. — Bene! — esplose Jones con entusiasmo. — Ciao, Mort — disse lei con voce più composta. — Mari e Max — fu tutto quello che disse Rubin. Sembrava avesse qualche peso sul groppone. — Di' un po', che diavolo sta succedendo al tuo ufficio? È da una settimana che cerco... — Ho una nuova segretaria, sai com'è — lo interruppe Rubin, un po' impacciato. — Goldie se n'è andata, finalmente; è riuscita a farsi sposare. — Eppure, credo che abbia capito bene il mio nome. Gliel'ho fatto ripetere un mucchio di volte. — Ma forse Morty era fuori città — suggerì Mari con discrezione. Rubin si limitò a guardarla; non disse se si era effettivamente assentato o no. — Senti, è tutta la settimana che cerco di parlarti. I ragazzi del complesso mi hanno piantato. Sembrava che Rubin avesse già appreso la notizia da altre fonti, perché rimase impassibile. — Anch'io pensavo quasi di ritirarmi dagli affari — disse alla fine, con una certa reticenza. Mentre parlavano, erano rimasti fermi sulla soglia. A un certo punto Rubin parve accorgersene, più o meno contemporaneamente a Jones. Lei l'aveva già notato da un pezzo. — Entrate — disse Rubin con un po' di ritardo. Ma prima si diede un'occhiata alle spalle. Un'occhiata dubbiosa, carica d'incertezza. O forse un'occhiata furtiva, del tipo di quelle che uno si dà in giro quando vuole vedere se il terreno è sgombro.
Chiuse la porta. — Non ti ho mai presentato la mia piccola, no? Shirley, tesoro, stai su; non è bello salutare la gente con la pancia per terra. — Stavo giusto per alzarmi — protestò la ragazza, punta sul vivo. — Ma non posso alzarmi tutto d'un colpo; prima devo tirare su una metà, poi l'altra. E stavo già cominciando a sollevare la prima metà. Se mi dai un po' di tempo, provvedo anche all'altra. — Oh, vedo, cara — disse lui con affettuosa serietà. — Saluta gli amici di papà. Lei strinse la mano di Mari. — Non è carina? — disse estasiata, rivolgendosi al padre. — Anche tu lo sei — rispose Mari. — Lo so — ammise la ragazza. — Ma non posso dirlo fino a quando non sarò più grande, altrimenti rischierei di diventare una presuntuosa. — E tu — disse bruscamente Rubin, rivolgendosi al terrier — scendi subito. Possibile che non possa nemmeno andare fino alla porta? Basta che giri un attimo la schiena e... — Ma alla seconda parola, la poltrona era già vuota. Un agile balzo e il cane era scomparso. — Devo dire a mamma di venire? — chiese la ragazzina. — Non ancora, magari un po' più tardi — rispose Rubin, in tono evasivo. All'improvviso, sembrò che Shirley avesse fatto qualche arcana scoperta, carica di conseguenze stupefacenti. Spalancò gli occhi e la bocca. — Ma non è lei quella tipa che danza, papà? — domandò boccheggiando. Fece un passo indietro e si mise a fianco del padre stringendoglisi contro, il più lontano possibile da Mari. — Ssst, zitta! — la ammonì lui. Poi la prese per le spalle, delicatamente, la guidò davanti a sé verso una porta e la introdusse dentro. — Entra, adesso. E restatene in cucina. Dai una mano alla mamma a rigovernare. — Lei ubbidì, continuando a girarsi. — Sigaretta, Mari? — disse non appena fu di ritorno, come a voler fare ammenda. — No, grazie — rispose lei avvilita, chinando la testa. — Non dite niente... Ma Rubin non ebbe mai la possibilità di raccomandare a quei due che cosa non dovevano dire. Una donna di mezza età, dall'aspetto amabile, fece il suo ingresso nella stanza. — Amici, Mort? — chiese in tono cordiale. — Perché non me l'hai detto prima? — Questa è mia moglie Rachel, meglio conosciuta come Ray — inter-
venne Rubin con affetto, appoggiandole una mano sui fianchi. Ma non le disse i loro nomi. C'era qualcosa di strano nel suo modo di fare. Sembrava rigido, insicuro. — Perché non prepari del caffè ai miei amici, Ray? — suggerì Rubin. — Con piacere — rispose lei. — E credo che, per l'occasione, sarà il caso di servire un caffè davvero speciale, che ne dite? — domandò ammiccando cordialmente a tutti e tre. — Oh, non s'incomodi, la prego — implorò Mari, lo sguardo sempre più afflitto. — Gli amici di Mort non possono bere una tazza di caffè in casa sua? — insistette lei con gentilezza. — Sarà un piacere prepararlo. Uscì di nuovo. — Scusatemi un attimo — disse Rubin dopo un breve indugio. Poi la seguì, scuro in viso. — Mi pare che Mort abbia in testa qualcosa — osservò Jones dopo che erano rimasti soli, tanto per rompere il silenzio. — Te ne sei accorta anche tu? In cucina, una tazza di porcellana cadde a terra e andò in mille pezzi. — Dev'essere caduto qualcosa — disse lui con un sorriso ottuso. Ma gli occhi di Mari non gli restituirono il sorriso. — Deve aver appena scoperto chi siamo. O meglio, chi sono. — Non ti seguo — disse lui con uno sguardo interrogativo. — Di che cosa stai parlando? — Max, andiamocene di qui. Per il nostro bene e anche per il loro. Non prolunghiamo questa situazione. È crudele. — Ma che diavolo ti salta in mente? Uno non può andarsene così su due piedi, senza nemmeno una parola di spiegazione. Lei si coprì gli occhi con una mano. — Oh, è davvero terribile. Lo sapevo che non saremmo dovuti venire. Me lo sentivo già da un pezzo che le cose non sarebbero andate bene. Tutti i guai che hai passato per parlargli in ufficio avevano un significato ben preciso, e io lo sapevo. Non volevo dirtelo, ma lo sapevo. — Mi sa che stai vaneggiando — replicò lui. — Dovresti piantarla di fare discorsi che non stanno né in cielo né in terra... — Allora, senti tu stesso. Ascolta solo un attimo. Si sentivano due voci provenire da un punto al di là della porta, due voci che si confondevano, impegnate in un battibecco aspro anche se volutamente smorzato nel tono; una protestava, l'altra cercava di rassicurarla. Per
lo più i discorsi arrivavano confusi, ma le parole occasionali che di tanto in tanto filtravano dalla porta erano di una chiarezza impietosa. — Io sto parlando della bambina! Non voglio che quella donna la avvicini! E se le facesse qualcosa? — Che ne sapevo io che venivano qui? — Falli andar via, falli andar via! Non posso farmi vedere di nuovo, sono troppo nervosa. Guarda, sto tremando come una foglia. Poi un ordine improvviso, quasi terrorizzato: — Shirley, torna subito qui! Stai lontana da quella porta! — Ci stava spiando dalla fessura della porta — disse tristemente Mari. — Come fanno i ragazzi quando vedono qualcosa di mostruoso. Rubin ricomparve all'improvviso. Aveva il cappello in mano. — Sentite, che ne direste di uscire e andarci a prendere un bel caffè nel ristorante all'angolo? — domandò in tono cauto. — Ci siamo appena accorti di essere rimasti senza neppure un chicco di caffè in tutta la casa. — Inghiottì. — Ray si vergogna troppo per farsi vedere di nuovo. Torneremo tra un attimo e finiremo la nostra conversazione qui. — Sei stato in gamba, Morty — sussurrò Mari, come a volerlo perdonare. Si alzò e lo precedette alla porta. — Non vogliamo nessun caffè. Vogliamo solo andarcene. Jones non riusciva ad aprire bocca. Era sbiancato in viso. Come quando uno ha ricevuto un forte calcio allo stomaco e gli manca il fiato per respirare. — Non ti scomodare ad accompagnarci — disse lei sulla porta dell'ascensore, tentando di dissuaderlo. — La strada la sappiamo. — Ma mi fa piacere accompagnarvi... Devo — disse Rubin, sfoderando un patetico sorriso. — Non posso lasciarvi andare via così. Scesero insieme. Lui li accompagnò fino all'esterno del palazzo. Poi fino all'angolo della strada. Una lampada ad arco illuminava debolmente la zona. Il sottopassaggio della metropolitana era lì a due passi, dall'altra parte della strada. Andava di moda la metropolitana, in quei giorni. Jones parlò per la prima volta. — Sappiamo — disse in tono afflitto. — Certo che dovete sapere — fece Rubin. — È meglio che sappiate. Chi vuole dirvi bugie? — È tutto finito? — chiese bruscamente Jones. — Tra me e te, voglio dire. Rubin, sempre così pronto, sembrava in difficoltà. Non riusciva a mette-
re insieme le parole necessarie per formulare uno straccio di risposta. — Io sto... io sto sfoltendo la mia lista, di questi tempi. Le cinque sorelle Di Martino, l'orchestra di Hal Weston... tutto qui. E con le Di Martino si tratta più che altro di un obbligo personale. Io e il loro padre... Insomma, per farla breve non prendo più nuovi clienti. In effetti, sto pensando sul serio di ritirarmi completamente dagli affari. Che siano i giovani a prendersi i loro bravi grattacapi, io ormai... — Allora, è tutto finito — osservò Jones. — Ce l'hai appena detto, se non ho capito male. — Non c'è niente che possa fare per voi, credimi, anche se volessi. Sarebbe come andare a sbattere contro un muro di pietra. Forse è accaduto una volta di troppo. Bisognava smettere mentre si era ancora in tempo. Non so di preciso cosa sia successo. Il fatto è che prima vi cercavano tutti, adesso hanno paura persino di venirvi vicino. Come se ci fosse un'oscura maledizione che pesa su di voi. Non crediate che non mi sia dato da fare, che non abbia insistito. Anche prima del vostro ritorno. L'ultima volta ne hanno parlato tutti i giornali, sapete. E questa è un'altra cosa buffa. Quando le morti si verificavano sotto il loro naso, nessuno ci credeva. Pensavano che fosse una specie di trucco, una montatura messa in piedi con la complicità della polizia e di qualche medico compiacente. Poi accade qualcosa molto lontano, in Italia, in Sudamerica, e subito i giornali ne parlano. E chissà poi perché, la distanza rende la notizia ancora più verosimile. Non chiedere spiegazioni a me, io non ci capisco niente. È apparso persino un editoriale sul Times, l'ho visto con i miei occhi, e la cosa è diventata all'improvviso serissima. Solo l'altro giorno, Willy Robbins, il proprietario del Ferro di Cavallo, sai, mi ha fermato al telefono prima ancora che potessi aprire bocca. "Mort" mi fa' "se hai chiamato per parlare di qualcun altro, ti ascolterò. Ma se hai chiamato per quei due, guarda che riattacco subito. Mi innervosisce anche solo il parlarne per telefono. Io gestisco un ristorante cabaret, non un obitorio." — Questo sì che si chiama parlar franco — commentò mestamente Jones. — Se vuoi provare con William Morris, forse lui può fare per te più di quanto possa fare io. — O tu o nessuno — disse Jones, sempre più abbattuto. — Temo che tu non possa più contare su di me, Max. Non è solo una questione di affari, ma si tratta anche dei miei sentimenti personali. Comunque, preferirei mettere la parola fine ai nostri rapporti.
— Mort vuol dire che ha promesso alla moglie di liberarsi di noi — tradusse Mari. Lui non la contraddisse. — È una madre anche lei... E voi sapete come sono le madri, pensano sempre ai figli... — Si può capire — approvò Mari. — Sì — disse pesantemente Rubin. — Sentite, io... — Cominciava ad avere qualche problema, a forza di infilarsi le mani in tasca per prendere o rimettere dentro qualcosa. Era diventato un turbinio di braccia. Ma forse era solo che provava un certo imbarazzo al pensiero di quello che doveva fare. — Qui ci sono dei soldi che vi dovevo. Credo... Non so quanti siano di preciso; non ho fatto in tempo a controllare... Jones appoggiò una mano sulle braccia mulinanti di Rubin e gli fece segno che non poteva accettare. Gentilmente, ma con fermezza. — No, non devi pagarci proprio niente. Non abbiamo potuto finire la tournée sudamericana e quindi i soldi delle esibizioni che non abbiamo effettuato non ci spettano. Ne avevamo già parlato in ufficio prima che partissimo, non ricordi? E con il denaro che ci avevi anticipato ci siamo abbondantemente ripagati. Non voglio prestiti, Mort. E soprattutto non voglio regali. Quello che voglio è guadagnarmi di che vivere con il mio lavoro. — Mi fai sentire quasi a posto — mormorò amaramente Rubin. — Anche noi ci sentiamo bene — disse Jones. — Terribilmente bene. Andiamocene — aggiunse, rivolgendosi a Mari. — È come se ci fosse un morto, qui intorno. — Il morto c'è — disse pensosamente Rubin. — E sono i vecchi tempi. Proprio così, sono i vecchi tempi. Si diede qualche altro colpetto alle tasche. Con aria assente, questa volta, come se lì ci fosse qualcosa che gli facesse male. — C'è una lettera sulla mia scrivania. È arrivata l'altro giorno. Credo che sia rimasta ancora là. Non ci ho fatto molta attenzione, ma ricordo che veniva da un tizio di Panama, che ha una specie di night laggiù. Mi chiedeva se conoscevo qualcuno... Non so se faccio bene a suggerirvelo... — Ci andiamo di corsa! — esclamò Jones con decisione. — Accettiamo tutto, senza nessun problema. — Gli scriverò. — Sembrava che Rubin avesse qualche difficoltà a parlare. — Cercherò di saperne qualcosa di più. Giusto in segno di amicizia, non accetto nessuna commissione. Se non ci saranno difficoltà, vi farò trovare i vostri due biglietti nel mio ufficio. Fateci un salto tra una settimana o dieci giorni...
— No — disse fermamente Jones. — Mandaceli per posta in albergo, non appena sono pronti. Basta con questi continui addii. Ti faranno venire un attacco di appendicite. Guarda che faccia hai. — Devono essere gli spifferi — protestò Rubin con aria innocente. — Odio questo maledetto angolo. Tutte le volte che scendo quaggiù, la corrente mi fa lacrimare gli occhi. In tutta Brooklyn non esiste un angolo più ventoso di questo. — Addio, Mort — disse bruscamente Jones, incamminandosi. Rubin stava ancora blaterando qualcosa a proposito delle correnti d'aria. Sbatteva le palpebre e scuoteva la testa in segno di disapprovazione. — Non riesco proprio a capire da dove vengano questi spifferi. — Dal cuore — disse Mari con estrema semplicità. Poi accostò il viso verso Rubin. — Dammi un bacio sulla guancia e dimmi addio. E pensami, qualche volta. Poi gli girò le spalle e si mise a correre per raggiungere suo marito, che andava di passo veloce, senza più voltarsi. PARTE QUINTA Panama: La Perla Café 1 Quando Mari aprì gli occhi, lui era in piedi davanti all'oblò e guardava fuori, girandole le spalle. Nella cabina filtrava un leggero chiarore. Il fatto che Jones se ne stesse immobile, profilato contro l'oblò, rendeva la cabina ancora più buia. A Mari sembrava di essersi risvegliata in un bagno turco, quasi avessero lasciato l'ultima brezza all'estremità atlantica del Canale, dov'erano arrivati la sera prima. "Ma dove ci hanno sistemati?" gli aveva chiesto Mari durante la notte. "Questa cabina sembra un forno crematorio". — Ci siamo? — mormorò lei non appena fu sveglia. — Abbiamo attraccato quasi mezz'ora fa. — Come ti sembra il posto? — Non saprei. — Allora cos'è che guardi là fuori? — Quello che guardo non è là fuori — rispose lui. Voltò appena le spalle e parte del chiarore si diffuse subito nella cabina. Poi si spostò del tutto e lasciò entrare la luce restante. Era così intensa che
penetrò nel locale quasi schiumando, come se fosse del seltz. — Resta là — lo supplicò lei. — Almeno fai un po' d'ombra. Poi cominciò a infilarsi una calza. — Oh, Dio. Persino il nylon fa scaldare la pelle. Lui aveva cominciato a farsi il nodo alla cravatta. Poi cambiò idea, se la tolse e se la infilò in tasca. — Pesa una tonnellata. — Sollevò una caraffa. — Beviamo un po' d'acqua. Ne vuoi anche tu? — No, mi ricordo ancora che gusto ha dall'ultima volta. Devono averla usata per lavarci qualche ingranaggio della nave. — Si strofinò le labbra asciutte, al ricordo. Lui osservò un'increspatura di bianco formarsi sulla testa di Mari e poi allungarsi fino a formare un abitino sportivo del tutto immacolato. — Una donna sembra sempre fresca, persino in questa calura insopportabile. — Davvero? Se credi a me, però, le cose vanno un po' diversamente. Le donne possono dare l'impressione di non sentire il caldo, ma dentro di loro sbuffano come una ciminiera. Sono proprio come voi uomini, fratello. In tutto. — In tutto? — chiese lui. — Siamo anche noi così carini? Scoppiarono a ridere entrambi. Un'ora dopo, ciascuno con una valigia terribilmente pesante, uscirono dall'ombra del cubicolo in cemento della dogana, col suo tetto di lamiera, ed entrarono nella calura soffocante di Panama City. Appena si muovevano, a ogni svolta notavano qualche palma sullo sfondo. Palme che bordavano le piazze o si allineavano lungo le strade. Ma anche queste sembravano avvizzite e riarse dal sole. — Per l'amor del cielo, mettiamoci qualcosa in testa! — boccheggiò lei. Un taxi ne superò un altro che si era fermato proprio davanti a loro. La pelle dei sedili li scottò al primo tocco; entrambi si rialzarono per un attimo, poi tornarono gradualmente a sedersi. — Sa per caso dove si trova il caffè La Perla? — Sì, signore. Vi ci porto io — promise il tassista in un inglese molto essenziale. Era un po' fuori del centro. Il taxi deviò di colpo verso la strada principale e si fermò. — Sapete, è una bettola dove vanno spesso soldati e marinai. Ci scommetto che hanno anche delle stanze al piano superiore dove... Lei lo guardò e lui le restituì lo sguardo. Poi lui abbassò gli occhi al suolo. Sorrise mentre lo faceva, ma si capiva che era un sorriso forzato.
— Si può arrivare più in basso? — mormorò quasi impercettibilmente. Lei fece appello a tutte le sue energie e drizzò la testa in aria di sfida. — Va bene — disse. — In questo caso io non salirò. E tu stai bene attento a non farti pescare mentre tenti di sgusciare al piano di sopra dietro le mie spalle. Entriamo. Più stiamo a guardare questo posto da fuori, più ci sembrerà brutto. Entrarono, con una pretesa di disinvoltura che non ingannò nessuno. All'interno, regnava quell'aspetto di squallore che un locale notturno assume solitamente di giorno. C'erano file interminabili di tavolini rotondi coperti da un panno bianco, su cui erano appoggiate, capovolte, le relative sedie. E un'infinità di specchi disseminati per tutto il locale, che non riflettevano nulla se non gli altri specchi che avevano di fronte. Le pale dei ventilatori erano immobili, come irrigidite, e avevano un aspetto in qualche modo scheletrico. Sudice strisce di carta colorata pendevano più o meno al centro di ciascuna pala. Un'insegna piazzata sopra il bar diceva: "Vermouth Cinzano". Una donna dall'aria comatosa sedeva in fondo al bar con la testa appoggiata sopra il bancone. Un cesto che conteneva un residuo di gardenie avvizzite, ormai di un color quasi ruggine, stava sul pavimento accanto a lei. Un gatto, che aveva sporto pigramente una delle zampe anteriori e si stava massaggiando la testa con quella, si era raggomitolato un po' più in là, ai piedi del bar. Un uomo grasso e dall'aspetto untuoso si era seduto a uno dei tavolini in fondo al locale e beveva una tazza di caffè. Appena li vide, si alzò e si diresse verso di loro, coprendo con la schiena la luce che filtrava da una finestra. La penombra calò subito come una mannaia, assorbendo il chiarore che veniva dall'esterno. — Dov'è il direttore? — chiese Jones. — Noi siamo i nuovi talenti. L'uomo non capì. — Dobbiamo vedere un tizio che si chiama Almagorda. C'è un certo Almagorda qui? — Piso arriba. — Si voltò e indicò una rampa di scale alle sue spalle. Jones prese una sedia per Mari, poi le fece segno di accomodarsi. Ne afferrò un'altra per sé e si unì a lei. — No, con questo caldo non saliamo — borbottò. — Ce ne staremo qui ad aspettarlo. L'uomo cominciò a salire le scale e farfugliò qualcosa in spagnolo. Qualcun altro gli rispose sempre nella stessa lingua. Poi l'uomo blaterò qualche altra cosa, come risposta alla risposta. Scese e tornò a bersi il suo caffè.
Ci fu una considerevole attesa, come se dovessero aspettare una primadonna che tardava a esibirsi. Alla fine, un passo pesante e indolente cominciò a risuonare giù per le scale. Si alzarono tutti e due e si diressero da quella parte. L'uomo sui gradini portava un abito di seta, una camicia di un terribile color albicocca e due vistosi brillanti: uno al dito e l'altro sulla cravatta. Seguirono le presentazioni. Lui abbozzò un sorriso e si grattò la testa. I brillanti mandavano riflessi dappertutto e contribuivano a irritare ancora di più gli occhi di Mari e Jones, già affaticati dalla luminosità. Alla fine, l'uomo si sedette in loro compagnia. I suoi capelli odoravano di brillantina rancida. Si accese un sigaro. Questo, perlomeno, servì a eliminare un po' di quel cattivo odore. — Che ne dite del mio locale? Vi ha deluso? — Anche un cieco avrebbe potuto decifrare l'espressione sui visi di Mari e di Jones. — No — rispose stoicamente Jones. — Ci aspettavamo... — Non siamo delusi — interloquì rapidamente Mari, cercando di esprimere lo stesso pensiero del marito, ma con maggiore tatto. — È un buon locale e si possono fare un mucchio di soldi — disse l'uomo, guardandosi intorno con aria compiaciuta. — Vi ci abituerete — promise. Poi aggiunse: — Volete per caso farmi vedere qualcosa, adesso che non c'è nessuno? Jones scosse la testa con energia. — Non pensavamo di dover fare delle prove. Il contratto è già stato firmato, ricorda? Sei settimane e un'opzione per il rinnovo. Almagorda si strinse filosoficamente nelle spalle. — Già, ormai vi ho pagato il biglietto in nave per venire fin qui, è vero. — Che lei potrà dedurre dalle prime tre settimane di paga — gli rammentò Jones. — E se ora non vi faccio suonare, quei soldi non li recupererò mai più. — Si strinse un'altra volta nelle spalle, quasi a dire: "Bene o male, devo tenervi con me almeno finché non mi rimborserete quei biglietti". — Non stia a rodersi il fegato — disse con sarcasmo Jones. — Non deve preoccuparsi per il suo anticipo. Siamo talmente bravi che ci hanno richiesto persino da un noto locale di Parigi, Les Ambassadeurs... — Lo so — disse seccamente Almagorda. — È per questo che siete qui. Lei vide che Jones inghiottiva un boccone amaro, alla frecciatina di Almagorda. Allungò rapidamente la mano e la appoggiò a quella di lui, stringendola forte per consolarlo. Poi, fece per alzarsi. — Facciamo sentire al
señor una battuta o due, se ne ha proprio tanta voglia. Jones si rifiutò testardamente di muoversi. — No, adesso è diventata una questione d'onore. Se quel tipo lì crede di darci una fregatura... Almagorda si portò entrambe le mani al viso. — No, no, no! Va tutto bene. Dimentichiamoci l'accaduto. Se ne stia pure tranquillamente seduto, se preferisce. Comunque, devo dire che la signora è davvero graziosa... — E piena di talento, anche — disse ruvidamente Jones. La mano di Mari sfiorò di nuovo quella di lui, dolcemente, sotto il tavolo. — Quando vuole che cominciamo? — Stasera. Altrimenti, avrò solo il pavimento vuoto da mostrare al pubblico. Ieri sera ho terminato di pagare i musicisti che avevo e li ho licenziati. — Si riaccese il sigaro. — Sapete come vanno le cose qui, no? — Che vuol dire "come vanno le cose qui"? — I clienti gettano i soldi per terra. Credevo che fosse meglio dirvelo, prima che lo vedeste con i vostri occhi. Spero che non prendiate la cosa come un insulto personale, eh? Dovete raccoglierli da terra, i soldi. Se non lo fate, i clienti andranno su tutte le furie. Jones inghiottì di nuovo, questa volta anche più duramente di prima. — Stia tranquillo, non ci riteniamo offesi. — Sorrise con sarcasmo. — È da un pezzo che abbiamo smesso di fare gli offesi. — Bueno! Entendido, allora. — Almagorda si preparò ad alzarsi. — Avete trovato un posto dove sistemarvi? — Siamo appena sbarcati dalla nave. — Forse posso darvi una mano. Andate da una mia amica. È una donna che conosco bene, e gestisce una discreta pensione. Ditele che lavorate per Almagorda e vedrete che vi farà un prezzo speciale. — Scarabocchiò un indirizzo su un foglietto e lo porse a Jones. — È stato molto gentile con noi — disse seccamente Jones. — Quando dobbiamo presentarci? — Venite presto, è meglio. Col passare del tempo la gente diventa sempre più rumorosa e alla fine nessuno presta più la minima attenzione. — Capisco — disse Jones. — Dobbiamo fare in modo che ci ascoltino finché sono ancora sobri. Benone — commentò sottovoce a beneficio di Mari. — Venite verso le dieci o le dieci e mezzo — disse Almagorda. — Poi, minuto più o minuto meno... Non è mica una stazione ferroviaria questa, no? — Basta venire prima che siano tutti sbronzi, se non ho capito male —
osservò Jones. — Ha qualche stanza libera da usare come camerino? — Oh, certo. Di sopra, al secondo piano. È una camera senza finestre, ma ci ho fatto sistemare un ventilatore appositamente per voi. Volete darci un'occhiata? Mari batté sul tempo Jones. — Meglio di no, adesso. Farà sicuramente molto caldo. Si alzarono per andarsene. — A stanotte, allora. — Almagorda porse la mano. Jones gliela strinse risolutamente. — A stanotte. Per l'ultimo verdetto. Quello senza appello. — L'ultimo verdetto? Come sarebbe a dire? — domandò Almagorda, sconcertato. — Oh, non ci badi — intervenne Mari con tatto. — Lui ama sempre scherzare. — Bene, allora. Vi auguro buona fortuna. E speriamo che possiate fermarvi a lungo in questo locale. Mari e Jones uscirono insieme. Ma non avevano una faccia molto allegra. La pensione a cui li aveva indirizzati Almagorda non era così male come si aspettavano. Ma forse niente poteva peggiorare le loro aspettative. Perlomeno, era un po' più pulita del locale. In fondo, però, la cosa non era poi molto difficile. La padrona di casa cercava di essere amichevole. Parlava quell'inglese ispanizzato che da quando avevano aperto il Canale si era scaricato su tutto il paese come un barile di chiodi arrugginiti. Diede un'occhiata al biglietto che lui le aveva mostrato. — Se vi manda lui, allora vi darò una bella stanza. È stato sempre un grande amico di mio marito. Come si dice, quando due persone stanno insieme negli affari? — Soci — le venne in aiuto Jones. — Poi mio marito si è preso la febbre gialla. Lo aveva pizzicato una zanzara. — Batté le mani come se volesse schiacciarla. — E così è morto. Li guidò fin verso la stanza e gliela mostrò. Be', almeno era una stanza. Questo era il massimo che si potesse dire. Era una stanza. — Meglio non aprire la finestra — li avvisò la donna. — Fa caldo. Però ha un tetto di lamiera che la notte rinfresca molto. Mas fresco. Li guardava con una sorta di curiosità infantile. — Siete artistas, no? — chiese. Mari si avvicinò improvvisamente alla donna, le prese una mano e gliela
strinse. — Grazie — disse con trasporto. Aveva un nodo in gola. — Grazie per averci chiamati così. Jones ammiccò a Mari e spinse gentilmente la donna fuori della stanza, poi chiuse la porta. Si voltò e si scambiarono un sorriso. Un sorriso debole, incerto, ma di sicuro coraggioso. — Ultima fermata! Tutti a terra! — disse lui, sciogliendosi il nodo della cravatta. — Bevi qualcosa? — le domandò lui. Lei scosse la testa. — Non ancora. Non voglio cominciare troppo presto. Ho idea che avrei bisogno di una distilleria privata, se mi mettessi a bere come dico io. Poi aprì le imposte, nonostante l'avvertimento della padrona di casa, ma le richiuse subito, strofinandosi il mento. — Perbacco! — esclamò in tono eloquente. — Che tu ci creda o no, picchia ancora forte. Mari cominciò a ridere. Fin dal primo momento, a lui la cosa non piacque. Non era una risata allegra. Le scuoteva tutto il corpo. Lei continuava a ridere, incessantemente. — Basta. Smettila. — La prese per le spalle e tentò di tenerla ferma. Inaspettatamente, in mezzo a tutta quell'allegria forzata, lei se ne uscì con una frase significativa. — Non ci riesco, Max. Aiutami. Non ce la faccio a smettere. — Stai diventando isterica. Cosa faccio, adesso? — Tentò di tapparle la bocca con le mani, ma la cosa non funzionò. — Ecco, tienimi stretta. Curvati su di me. Le accarezzò i capelli. Ma lei continuava a ridere, senza fermarsi un attimo. — Lo so. Lo so che è brutto. Lo so che è disgustoso. Poi vennero le lacrime. Era come se Jones avesse girato una chiave in lei. Lui lasciò che le lacrime lavassero quella risata, ne disperdessero ogni traccia. — Perché piangi? — le domandò alla fine, con profonda tenerezza. — Perché tu sei tu e perché io sono io. E perché la vita è... quello che è. Era una buona ragione per piangere. Una buona ragione per chiunque. 2
Il locale era pieno, adesso, ma aveva un aspetto anche peggiore di quando era vuoto. I profili della gente erano tranquilli e il fumo saliva fino al soffitto. I ventilatori andavano di gran carriera, solo che prendevano il fumo da un posto e lo depositavano in un altro, invece di disperderlo completamente. Era proprio una bettola, e quelle forme di vita squallide e ripugnanti che la infestavano appartenevano davvero al sottosuolo. Non avrebbero mai dovuto uscire da lì. Larve umane col rossetto alle labbra e dei buchi neri per occhi, che si trascinavano a passo di danza con abiti fucsia, verdi e arancione. E insieme a loro, traballanti al ritmo della musica, altre larve umane che avevano dei vermi al posto degli occhi, dei vermi che tentavano di uscire dalle loro cavità e di farsi largo dietro gli occhiali. Non si riusciva nemmeno a capire quando quelle larve ballassero e quando no. Lei si sporse sulla ringhiera. — Fa un caldo da serra qui dentro. E l'aria, poi... — Non ce l'ha prescritto il medico, sai. Basta che tu mi dica una sola parola e... — Noi ci esibiremo qui, stasera. Se quei tipi non presteranno attenzione, tanto peggio per loro. Noi andremo fino in fondo, a dispetto del fumo e del chiasso. — D'accordo. Sarò io a darti il via. — Si fermò tre gradini più in giù, si diede un'occhiata intorno e poi alzò lo sguardo verso di lei. — Non avvicinarti troppo ai tavoli di prima fila, se puoi farne a meno — le disse come avvertimento. — Quei tipi hanno un'aria poco raccomandabile. — Cercherò di stare a metà della sala. Se c'è una metà. Tu scendi e dammi il via quando sei pronto. Io partirò da qui. Jones scese i restanti gradini e si diresse verso quella che sembrava una pista da ballo. Almagorda era già lì e aspettava di poterli annunciare. — Non può tenerli un po' buoni? — gli chiese Jones a denti stretti. — Si calmeranno dopo l'inizio. Fanno sempre così. Non serve stuzzicarli prima. Almagorda annunciò lo spettacolo in due lingue. — Señores y señoritas. Signore e signori. — Mentre il direttore parlava, Jones fece partire un accompagnamento piuttosto delicato, che poi esplose in un crescendo al termine dell'annuncio. Lei stava scendendo le scale, adesso. Non c'era nessun riflettore a illuminare la scena. Jones le diede un'occhiata di profilo, poi tornò alla propria
musica. Il rumore stava cominciando a scemare. Le note del pianoforte, che erano salite di tono, ormai lo sovrastavano. "Ce l'abbiamo fatta" si disse Jones. La sentiva muoversi proprio alle sue spalle, a due passi dal punto in cui stava lui. Sentiva l'aria spostarsi intorno e, una volta, fu persino colpito da un lustrino del costume di Mari, che gli cadde su un braccio e volò subito via. Il pubblico se ne stava tranquillo, adesso, così tranquillo e composto da non sfigurare rispetto a quelli più blasonati che Jones e Mari avevano avuto altrove. Persino i derelitti capiscono la morte. Anzi, forse la capiscono meglio di chiunque altro, dato che passano la maggior parte del tempo in sua compagnia. Mari tornò indietro verso le scale, preparandosi a terminare la sua esibizione. Avevano escluso la possibilità di lasciarsi cadere a terra lunga e distesa; il pavimento era incredibilmente sudicio e le assi scheggiate in più punti. Si lasciò invece cadere sulla scala, fermandosi contro la ringhiera. Note che non provenivano dal pianoforte cominciarono a risuonare sul pavimento. Note stonate. — Raccolga i soldi! Raccolga i soldi! — incalzò Almagorda, coprendosi la bocca con una mano. — Si arrabbieranno, altrimenti. Crederanno... Jones balzò in piedi dallo sgabello. — Ci penso io a raccogliere quei soldi — disse accigliato. — Mari non deve muovere nemmeno un dito. Almagorda lo guardò per qualche secondo. — Non mi pare che lei lo faccia nel modo giusto. Deve sorridere mentre li tira su. Invece sembra che abbia un diavolo per capello. — Sorridere? Sapesse come mi piacerebbe sbatterglieli sul muso, a quei tipi! — dichiarò a denti stretti. Poi si arrampicò agilmente su per le scale, dando le spalle al pubblico e senza nemmeno preoccuparsi di fare un inchino di ringraziamento. Quando irruppe nel camerino, che aveva un'aria piuttosto spoglia, scagliò le monete contro il muro. Sembravano tanti lustrini con le ali. La stanza non era poi così male, anche se non pareva particolarmente pulita. — Cosa siamo, un paio di barboni della Bowery che si tuffano nella segatura per darsi qualche cornata? — Loro fanno come gli antichi romani. Cerca di abituartici anche tu. — Non ci riesco, Mari. E non posso permettere che lo faccia tu. — Vieni qui e dammi un bacio. — Incollò le labbra contro quelle di lei.
Fu un bacio rabbioso, al calor bianco, ma lei non parve sentire nessun dolore. — Dobbiamo onorare questo contratto. Le cose possono essere facili o difficili, importanti o meno importanti. Dipende solo ed esclusivamente da noi. Se facessi cadere per terra i guanti o il fazzoletto, tu li raccoglieresti subito per me. Be', fai conto di raccogliere... di raccogliere i miei guadagni, ecco tutto. — Già — disse lui, aggrottando torvamente le sopracciglia. E, per la seconda volta nella serata cominciò a tirare su gli spiccioli dal pavimento. Ti sei messa una veste da camera di cotone blu, che è stata fatta in Giappone e che è decorata con gru e crisantemi. Lui se n'è andato e la stanza odora di cipria rancida, di fumo di sigarette stantio e di tetto di lamiera esposto al sole. Tu tieni in mano un bicchiere e sei pronta a cominciare. La padrona di casa bussa alla porta e ti chiede se vuoi che rifaccia il letto. Tu le rispondi di no. No, meglio lasciar perdere. Stasera, mentre starai lavorando, potrà entrare e rifarlo con tutta calma. Lei prende il secchio e se ne va subito. Tu non la senti nemmeno perché porta delle pantofole di feltro, ma senti il rumore del secchio. E ti pare che si stia muovendo per conto suo, come sospinto da una forza misteriosa. Un secchio fantasma. Ding, ding, dong. Dopo, ritorna il silenzio. Un silenzio assoluto. Metti un disco sul fonografo e ti siedi lì accanto, tu e il tuo bicchiere. Puoi sognare, adesso. Puoi sognare a occhi aperti. E la musica ti induce a fantasticare, perché proviene dal passato. Ti dice cose che solo tu puoi capire. Ti sussurra piano, in modo che nessun altro possa sentire. Di' un po', cos'hai da guardarmi con quegli occhi? Una sigaretta tagliò l'aria come una lucciola rossa e lui emerse dall'ombra di un albero, dove la stava aspettando. "Salve." Lui sorrise. "Ci scommetto che non sai nemmeno cos'è un telefono." "Gesù" fece lui con una certa animazione. "Come mi piacerebbe portarti con me e farti vedere un mucchio di belle cose. Televisori, frigoriferi, abiti da sera... Pensa che impressione potrebbe farti una città come Parigi. E che impressione potresti fare tu, a una città del genere." Lei gli si avvicinò. "Ma, soprattutto, mostrami il tuo amore." "Perché ti sei innamorata proprio di me, comunque?" "Io non ti voglio più intelligente. Ti voglio per quello che sei." "Avrei dovuto smettere mentre ero ancora in tempo."
Le mise un braccio sui fianchi e lei appoggiò la testa sulla spalla dell'uomo. Passeggiarono un po' sotto il chiarore lunare, che disegnava strisce di luce lungo le loro schiene mentre si muovevano. "Ragazzi, che luna! Mi costringe a fare cose che non vorrei, come questa. E questa." "Ma sta' attenta alle curve, tesoro. Ci sono curve pericolose davanti a noi." "Le svolterò con te." "Io sono in una Jaguar e tu in un vecchio macinino. È un peccato farti questo." Di' un po', cos'hai da guardarmi con quegli occhi? Lo so che se mi guardano mentono Mi rendono triste, mi rendono felice Mi fanno desiderare cose che non ho mai avuto Cosa vuoi per fare l'amore con me? Un altro drink. Un altro disco. Un'altra trasmissione dal passato. Ma mossa, animata, intensa... Proprio come se fosse reale. Ho bisogno di qualcuno che badi a me. "Ecco che escono i ragazzi" disse Bee. "Cerca di contarli guardando nello specchio." Passò la tromba. Poi il clarinetto. Poi la chitarra elettrica. Alla fine passò anche Jones, tenendo in mano un bicchiere di carta pieno di Coca-Cola. "Quanti ne hai contati?" le domandò Bee. "Sei" rispose Mari. "Non occorre che tu mi dica chi manca. Lo so già. È tua questa spazzola? Posso prenderla un attimo? Si è chinato per accenderle la sigaretta. Ora se ne stanno tutti e due curvi come se dovessero cantare in coppia." "Ti rimborserò la spazzola che ho rotto" promise Bee. "Non riesco mai a distinguerle a prima vista, come certa gente sa fare, e rimango sempre nel dubbio." Bradley cercava di spiegarsi, massaggiandosi il collo. "Così, continuo a chiedermi: lo saranno o non lo saranno? La maggior parte delle volte, quando mi guardo in giro in quel modo, è solo per farmi questa elementare domanda, chiaro?" "Se le guardi così, fratello, è solo perché lo sono, e tu lo sai benissimo!" ribatté Bee.
"Sono innamorata di lui" sussurrò Bee a Mari. "Innamorata pazza di lui." Lui ha le chiavi che aprono il mio cuore... Spero che le giri nel verso giusto Perché voglio che sia lui quello che bada a me. Ti ricordi di me? "Puoi anche tirarti su" gli disse con sdegno. "Ho una cameriera per queste cose, sai? Lascia che ci pensi lei." "Hai dato i miei cioccolatini al portiere." "Non sarei dovuta essere così sbadata. Spero che non gli abbiano fatto troppo male." "Hai dato i miei fiori all'ospedale." "Mi davano il voltastomaco." "Hai regalato il mio profumo alla tua cameriera." "Ha dei gusti così dozzinali..." "Hai rispedito l'orologio col braccialetto di diamanti al gioielliere da cui l'avevo ordinato." "Sapevo già l'ora. E dato che tu non dovevi uscire con me, né d'altra parte io con te, non c'era alcun bisogno di stare lì col cronometro in mano." "Potresti almeno smetterla di rigirare il coltello nella piaga. Non c'è più nessun punto del mio corpo che non mi faccia male." "Io non rigiro nessun coltello in nessuna piaga. Non sono mica un macellaio! Anche se tu potresti essere benissimo un animale." "Cosa sarà?" gridò la cameriera, terrorizzata. "Guardi come tremano tutte le luci!" "Forse c'è qualcuno qui in giro che odia i muri" disse Mari con un'alzata di spalle. Perché io sono quello che ha le chiavi della tua porta Io sono quello che va a comprare per te Sì, sono l'uomo che tu baci a mezzanotte Ti ricordi di me? Mi va di fare l'amoreee... Una volta, lui e i ragazzi avevano tratto un disco da quella canzone. Lo stesso disco che adesso lei teneva in mano, pronta per appoggiarlo sul piatto del fonografo. Avrebbe sentito ancora una volta quei suoni, quella musi-
ca... Tra un attimo, sarebbe emersa la voce di Bee a intonare le parole. Ti ricordi di Bee? Chissà cosa le sarà successo. Dove si troverà, adesso? Questo ti riporta a una notte passata a New York, proprio all'inizio. Prima che esplodesse il successo, quando lui stava ancora cercando di imporsi. Una notte in cui l'hai avuto tutto per te. O quasi. Il campanello dell'appartamento di Bee e Bradley squillò. L'avevano segregata là, ormai. Erano tutti usciti e lei se ne stava sola nella sua camera. Si alzò, si mise qualcosa addosso e andò a vedere chi c'era. Lui stava in piedi sulla soglia, calmo ma un po' stranito, con una faccia che faceva paura. Si era preso una bella sbornia. Niente di eccessivo, comunque, e poi quella sera non dovevano esibirsi. Ci sono uomini che, quando bevono, diventano rissosi, brutali; lui, al contrario, era docile come un cagnolino. Teneva sottobraccio proprio quel disco, il disco che adesso lei stava suonando. Era uscito da pochissimo. Lei non riuscì mai a scoprire, né allora né in seguito, per quale misteriosa ragione fosse capitato lì, che cosa l'avesse spinto a presentarsi da lei proprio quella notte. C'era un giradischi in quell'appartamento, e forse lui voleva provare il suo nuovo disco. Di una cosa, però, poteva essere certa: non era venuto per lei. L'aveva a stento riconosciuta, ricordandosi chi fosse dopo una breve pausa e non senza un piccolo sforzo di concentrazione. — Oh, già, sei la nostra bambina. La nostra piccola mascotte. Sai che sembri tutta un'altra persona con quella vestaglia? Jones cominciò a vacillare e allora Mari lo trasportò di peso su una poltrona, dove lui rimase per un po' con la testa ciondoloni. Era così amichevole e confidenziale... Non come quando era sobrio. La fece sentire uguale a lui e le aprì il cuore, rivelandole tutte le sue confidenze. Come aveva vinto ventisètte dollari a poker, giocando con i ragazzi due notti prima, e come gli era venuta l'idea di incidere nuovamente quella vecchia canzone. Pensava di fare un mucchio di soldi con quel disco. Lei lo mise subito sul piatto del giradischi e da quel momento in poi, per tutta la serata, lui non le permise più di toglierlo. Le disse che lei gli ricordava Marie; anzi, che lei e Marie erano proprio come due gocce d'acqua. Questo le fece passare un gran brutto momento, ma poi saltò fuori che Marie era il suo primo amore. Viveva a Elkhart, adesso, e aveva due bambini. A un certo punto, le parve persino di poterlo dominare. Approfondì un attimo la cosa, con tenerezza, e si accorse che funzionava. Lui le obbediva! Questo la fece inebriare dalla felicità. Era proprio come essere sua moglie. — Resta su quella poltrona — gli disse. — Devi startene buono e tran-
quillo, adesso. — Il comando era serio, ma il tono che aveva usato sembrava piuttosto canzonatorio. Andò in cucina a preparargli un po' di caffè. Poi riapparve sulla soglia e gli disse: — Cosa fai? Ti avevo detto di non muoverti, no? — Batté le mani verso di lui per due volte e Jones si rimise a sedere docilmente. Lei portò una tazza e si inginocchiò sul pavimento accanto a lui, poi gli fece bere il caffè cucchiaino dopo cucchiaino. — Apri la bocca. Ora manda giù. Chiudila. — Era proprio una scena d'amore. La prima che avesse mai vissuto. — Da grande, sarai davvero fantastica — disse lui. — Sono già grande — rispose lei, rimproverandolo affettuosamente. Ma lui non ci badò nemmeno. — Posso restare qui? — le chiese. — Si sta così bene, qui. Ti dispiace se mi trattengo ancora un po'? Non preoccuparti; sono un gentiluomo, sai? Lei rispose in tono così basso e con un'aria di tale pudore che forse lui non la sentì affatto. — Be', dopotutto dal punto di vista legale siamo marito e moglie. E io potrei... potrei... insomma, Bee ha un grande divano in sala. Lei e Bradley potrebbero... Lo aiutò persino a mettersi a letto. Si chinò e gli tolse le scarpe, poi si diresse verso la porta e da lì gli disse, con aria minacciosa: — Bada che torno tra cinque minuti e voglio trovarti sotto quelle coperte, capito? — Sissign... — rispose lui, senza neppure riuscire a terminare la frase. Lei dovette aggrapparsi alla maniglia con entrambe le mani, per resistere alla tentazione di tornare indietro e di dargli un bacio. Alla fine, anche lei aveva trovato qualcuno che gli apparteneva; qualcuno che poteva amare e a cui poteva ordinare qualsiasi cosa. Che differenza faceva se era stato il liquore a permetterle di realizzare il suo sogno? Se avesse potuto, lo avrebbe ingozzato di alcool per un anno intero. Ma poi, quando i cinque minuti stavano per scadere, il campanello squillò di nuovo. Lei pensava che fossero Bee e Brad e corse alla porta per metterli subito al corrente. Sapeva che avrebbero preso volentieri parte alla sua felicità. Ma non erano loro. Era una strana ragazza. E fu lei a mostrare a Mari come si fa a comandare davvero un uomo. — È qui? — domandò la ragazza. Poi tirò avanti dritta, entrò in camera da letto e si chiuse la porta alle spalle, facendola sbattere. Mari non aveva il coraggio di aprirla e di introdursi in camera dopo di lei. In un paio di minuti, la porta venne spalancata e la ragazza uscì dalla
camera in compagnia di Jones, che si era rimesso le scarpe. — Se hai tanto bisogno di riposo — ringhiò lei — potrai sdraiarti a letto anche da me. Non hai nessun bisogno di andare in giro a suonare i campanelli altrui! Passandole accanto, Jones prese da parte Mari e le disse: — Non togliere il disco. Tornerò presto. E ce lo ascolteremo in santa pace, tu e io. — Poi le strizzò l'occhio. — Già, tornerà presto — disse la ragazza in tono sarcastico. — Quando mi spunteranno i primi capelli grigi. Allora te lo porterò qui su una sedia a rotelle e te lo lascerò davanti alla porta. — Lo spinse fuori, come si fa con un cucciolo che ha troppa cqnfidenza con gli estranei per obbedire al suo padrone. Il disco continuò a suonare, mentre le lacrime le scendevano dagli occhi nota dopo nota. E lei giaceva lì, sul pavimento, la guancia premuta amaramente contro il mobiletto del giradischi. Non voleva toglierlo, perché lui le aveva detto che sarebbe tornato. E quel disco le sembrava magico. Le sue parole erano l'incantesimo che lo avrebbe riportato a lei. Doveva funzionare! Doveva! Solo perché sei vicino a me... È buffo, ma quando sei vicino a me... Poi arrivò l'alba. Le braccia di Bee si sporsero sopra di lei e la costrinsero a voltare la testa. Bee l'aiutò a rimettersi in piedi e la strinse forte a sé, dandole dei colpetti sulle spalle. Lui non era tornato, dopotutto. La magia del disco aveva fatto fiasco. Mi va di fare l'amoreee... La bottiglia era vuota, adesso, così come il bicchiere. Il disco era terminato e la puntina, che aveva ormai raggiunto la zona non incisa, stava cominciando a gracchiare. Ma il piatto continuava sempre a girare, senza sosta. Come la vita. Una musica per fantasticare. Melodie spettrali. Che escono dal passato e ti sussurrano qualcosa alle orecchie. Per te, solo per te. Spezzando sempre di più il tuo cuore già infranto. 3 Poi, all'improvviso, una sera piovve sul pavimento un rotolo di banconote, ben impacchettate. Di solito, non gettavano le banconote. Non c'è gusto a lanciare carta. Non fa rumore.
Per una volta, lui infranse la regola e diede un'occhiata al pacchettino prima di raggiungere le scale. Erano proprio banconote. Un elastico era stato infilato nel rotolo e teneva i biglietti ben fermi. Per quanto li avesse guardati di sfuggita, si accorse subito che erano dollari americani. Dalle scale, i suoi occhi esplorarono la sala. Chi poteva permettersi un gesto simile in un posto come quello? Li scoprì subito. Non era difficile. Si differenziavano nettamente dal resto della folla, miserevole e cenciosa. Avevano un tavolino tutto per loro. In un locale del genere, quello era già un evento sensazionale. Erano in due. Entrambi uomini ed entrambi giovani. Ma, strano a dirsi, erano tutti e due soli; non avevano nessuna donna al loro fianco. E questo era un altro evento sensazionale. Forse erano stati loro a volere così. Magari, quando erano entrati, avevano spruzzato un po' d'insetticida intorno al loro tavolo. Uno dei due indossava una camicia a strisce, piuttosto attillata, con le maniche corte e un berretto da yachtman inclinato sulle ventitré. Ma non aveva certo l'aria del marinaio che si fosse messo in ghingheri. L'orologio con braccialetto d'oro che portava al polso, e che doveva essergli costato un patrimonio, parlava da solo. Sopra il tavolo, proprio davanti a sé, teneva un portasigarette d'oro. Quest'ultimo era aperto, e le due metà che lo componevano erano così sottili che facevano venire in mente la lama di un'ascia. Il bicchiere accanto a lui era pieno di champagne, ma l'uomo non lo beveva; era semplicemente incluso nel prezzo del tavolo. L'uomo aveva un'aria informale. Sembrava un benefattore capitato lì per visitare i quartieri poveri. Il suo compagno indossava i pantaloni scuri e la giacchetta chiara che formano il classico abito da sera in uso nelle zone tropicali. Ma un po' adattato, stile musical di Broadway. Portava persino la tradizionale fascia di seta intorno alla vita. Poteva avere trent'anni, ma la faccia di quell'uomo diceva chiaro e tondo che lui, i suoi trent'anni, li aveva vissuti fino in fondo. Sollevò il bicchiere verso di lei e tentò di salutarla. Ma riuscì solo a salutare i tacchi perché Mari si tirò in piedi proprio allora dal gradino più alto e sparì di vista. Jones apprezzò particolarmente la cosa; era come se lei gli avesse sferrato un calcione nel bicchiere. Si chiuse la porta del camerino alle spalle e le mostrò il pacchettino. — Hanno buttato anche questo — le disse. Tolse l'elastico alle banconote, le srotolò e cominciò a contarle. Erano cinque biglietti da cinque dollari. Venticinque dollari di valuta americana. — Vengono da quei due tipi vestiti elegantemente. Li hai visti?
— Non ho visto nessuno — rispose lei. La cosa non lo rassicurò affatto. Perché loro l'avevano vista. — Se la passano bene quei due, mentre noi... Certo che hanno avuto proprio un gran cattivo gusto. Volevano farci vedere che loro sono ricchi sfondati e noi siamo dei morti di fame. — Non siamo morti di fame — ribatté lei gentilmente. — Abbiamo duecentosessantacinque dollari, al netto delle spese, risparmiati in tante settimane di lavoro, e tra due settimane potremo andarcene. — Ora ti manderanno un biglietto chiedendoti di scendere e di unirti al loro tavolo. — E io declinerò l'invito, così... Avevano già cominciato a bussare alla porta prima che lei potesse terminare la frase. Persino Jones si mise a ridacchiare. Si diresse verso la porta e la aprì. — Dispense, señor. Los dos caballeros... — Lo sappiamo, li abbiamo visti — tagliò corto lui, interrompendo il cameriere. Sul biglietto da visita c'era scritto Hugh Fontaine, in rilievo. Sotto si leggeva un'aggiunta a penna: "Le farebbe piacere essere mia ospite?." — Quel tipaccio — osservò lui con indignazione. — Ne ho già sentito parlare. Trasuda alcool e olio abbronzante da tutti i pori. Ha un codazzo di fanciulle che lo seguono dappertutto con la carta assorbente e fanno del loro meglio per asciugarlo. — Fece per strappare il biglietto. — Aspetta un attimo — disse lei. — Voglio rispondere. Afferrò il biglietto, si fece dare una penna dal cameriere e scrisse sei parole, due delle quali sottolineate: "Con le scuse della signora Jones." — Che ne dici di restituirgli il denaro? — chiese lei. — No, non faremmo che aggiungere cattivo gusto a cattivo gusto. — Porse i venticinque dollari al cameriere. — Di' ai signori che hai già ricevuto una buona mancia. Non accettare più nient'altro da loro, Ramón. — Questa sì che è vita — gli disse Mari con gratitudine, dopo che lui aveva chiuso la porta e si era voltato nuovamente verso di lei. — Questa sì che è vita. E dobbiamo sempre fare così. Viva i grandi gesti. Non importa se riguardano un estremo oppure l'altro. L'importante è non starsene in mezzo al guado, rassegnati, senza avere più la forza di muoversi. Gli si avvicinò e gli diede un bacio. — E io ti amo perché non ti fermi mai in mezzo al guado. Resta sempre
così. Riduciti pure in miseria, se proprio devi, ma non rinunciare mai al grande gesto. — Hai finito di toglierti il trucco? Ce ne possiamo andare? — Sì — rispose lei. — Andiamo a casa e cerchiamo di dormire. Siamo due lavoratori, in fondo, e per stasera abbiamo finito. Non era stata la tecnica più giusta. Quei due riapparvero puntualmente la sera successiva: stesso tavolino, stesso portasigarette d'oro, stesso champagne. Non gettarono soldi, stavolta; almeno quello l'avevano capito. A lui la cosa piaceva anche meno. Con i soldi si può sempre fare qualcosa; li si può restituire, li si può strappare, li si può buttare via. In quel momento, loro badavano ai fatti propri. Il guaio è che i fatti propri erano lei. Una delle monetine rotolò troppo vicino al loro tavolo e lui la lasciò andare deliberatamente. Non si sarebbe mai abbassato a raccogliere qualcosa dal pavimento a pochi centimetri dai loro piedi. Sperava tanto che uno di quei due la raccogliesse per lui, così almeno avrebbe avuto una ragione per tirargliela in faccia. Un piede cominciò a sporgersi verso la monetina e a spingerla più vicino a sé. Poi l'altro calò pesantemente sulla monetina e la inchiodò al pavimento. La faccia che ammiccava, dopo che il suo proprietario aveva alzato lo sguardo, era quella del tizio che portava la camicia attillata. Doveva essere di sicuro Fontaine. L'altro era solo un tirapiedi. Applaudirono tutti e due fino a spellarsi le mani. Lui chiuse la porta. — Sono ritornati. — Non li avevo visti la prima volta; come vuoi che possa averli riconosciuti adesso? — Stava solo cercando di tranquillizzarlo. E lo sapeva anche lui. Qualcuno bussò alla porta ancora più rapidamente della sera prima; erano passati solo tre minuti e mezzo dalla fine dell'esibizione. — Ci risiamo — commentò lui amaramente. Nell'aprire la porta, girò la maniglia come se dovesse torcerle il collo. Questa volta, si trattava di Almagorda in persona. Si presentò con gli occhi spalancati dallo stupore per l'importanza della notizia che stava per riferire. — Ho un invito speciale per la señorita; e anche per lei, señor. C'è una festicciola privata giù di sotto. — Si mise a gesticolare all'impazzata, entu-
siasta. — È una cosa speciale, solo per voi due. Non è stato invitato nessun altro. — Proprio carino — mormorò lei sullo sfondo, continuando a togliersi il trucco. — Niente da fare per stasera, amico — disse Jones, mortalmente calmo. — La nostra risposta è la seguente: "Sarà per qualche altra sera, adesso non possiamo". Forse lei non capisce, ma stia sicuro che loro capiranno. Ora fuori dai piedi. — Ma è lei che non capisce — ribatté l'altro. Si mise a scartabellare un fascio di biglietti verdi. — Quello lì ha affittato il mio locale per il resto della notte. E dobbiamo chiuderlo, adesso. Dovrò scendere e mandare via tutti i clienti, spiegando che è stato affittato per una festa privata. Per tutta risposta, Jones si mise a impartirgli istruzioni sul modo migliore in cui muovere i piedi, come se stesse dirigendo un cavallo. — Il sinistro un po' indietro. Bene, così. Adesso l'altro. Forza, aria! — Chiuse la porta di scatto alle spalle di Almagorda. La discussione era terminata. — È una cosa fritta e rifritta, non trovi? — disse lui. — Lo facevano ai tempi dei gangster, se non mi sbaglio. Affittavano l'intero locale per la serata e... — Oh, fossi in te non ci penserei più di tanto — disse lei in tono scherzoso. — Forse quel tipo sta facendo qualche ricerca sulle proprietà immobiliari. Poi, per la seconda volta, qualcuno bussò alla porta. Con discrezione, in modo impeccabile. Se un toc-toc può essere definito suadente, be', quello lo era. Come se dicesse: "So che è la tua porta, e tu non sei obbligata ad aprire. Ma ti sarei molto grato se lo facessi". — Cos'è? — le chiese lui. — Una farfalla con le manine di velluto? — Sembra proprio che il signor Fontaine non si rassegni di fronte alle risposte negative. Jones si diresse verso la porta e l'aprì, senza più nessun altro commento. — "Il bel mondo dietro le quinte del La Perla Café", ovvero "Il grande momento della nostra eroina". — Ben poche porte avrebbero resistito davanti a una mano che bussava in modo così persuasivo. Il giovane con la camicia attillata era in piedi sulla soglia. A breve distanza, la sua faccia sembrava più avvizzita di quanto non fosse sembrato durante lo spettacolo. Doveva essere nato con le rughe, pensò Jones. Si era tolto con deferenza il berretto da yachtman e se l'era appoggiato allo stomaco.
— Permette che mi presenti? — disse. Si era rivolto a Jones, come se lei non ci fosse, per tentare di rabbonirlo. Com'è possibile impedire a un uomo di declinare le proprie generalità? Sarebbe una reazione assolutamente irriguardosa. — Mi chiamo Hugh Fontaine, signor Jones, e sono venuto a dirvi, a lei e alla sua signora, quanto mi sia divertito ad assistere al vostro spettacolo. La annoio? Erano artisti, dopotutto. E, con quei complimenti, lui li aveva in pugno. Forse loro sapevano che lui li aveva in pugno, ma il risultato non cambiava di una virgola. Niente schiaffi in faccia. Niente calci negli stinchi. Jones non rispose. — Grazie — si limitò a dire lei, a denti stretti. Lui non accennava a spostarsi dalla soglia. E, d'altra parte, non aveva fatto niente perché potessero sbattergli la porta sul muso. — Stavamo per andarcene a casa — disse Jones. Poi aggiunse, laconicamente: — Mia moglie, la signora Jones. — Buona sera — disse l'altro, in modo così untuoso che sarebbe persino riuscito a lubrificare il collo di Jones, completamente rigido. — Buona sera. Adesso non potevano più chiudergli la porta in faccia; avevano fatto le presentazioni, ormai. Comunque, non lo invitarono a entrare, anche perché c'era solo una sedia e la occupava lei. — Possibile che non riesca a persuadervi a raggiungerci al piano di sotto? Lei rispose anche per Jones. — Mi dispiace, signor Fontaine, ma noi ci siamo già esibiti. Non diamo mai più di uno spettacolo per sera, dato il caldo che fa. Fontaine sembrava sconcertato. — Oh, ma non avete capito. Cosa vi ha riferito quel grassone del direttore? Io vi sto chiedendo di unirvi a noi come miei ospiti. Né Jones né Mari trovarono una risposta immediata. Lui continuò senza aspettare. — Be', voglio mettere le carte in tavola. Ho una proposta da farvi. Una proposta d'affari, si capisce. Vorrei solo avere la possibilità di discuterla con voi. — Una proposta d'affari? — domandò stancamente Jones. Lei era pronta ad andarsene, adesso. Si avvicinò alla porta e rimase in piedi sulla soglia, in loro compagnia. — Vedete, il mio yachy, il Myrmidon, è ancorato a poche centinaia di metri da questo locale. Sono venuto qui in crociera, con una compagnia di
amici, e vorrei dare un gran party a bordo per il prossimo venerdì. Sapete, una cosa davvero esclusiva. Credete che potrei persuadervi... — Lasciò la frase volutamente incompleta, cercando di sondare il terreno. — A fare il nostro numero? — concluse lei debolmente. — Credo che la cosa non ci interessi — disse Jones. — Sì, però qui quel numero lo eseguite, no? — Non è proprio lo stesso. Voglio dire che non eseguiamo la versione originale. Tanto, col tipo di pubblico che ci ritroviamo qui, non c'è pericolo che si accorgano di niente. Non capiscono neppure quello che vedono. Per loro è solo un numero di cabaret come un altro, punto e basta. Fontaine era evidentemente abituato a ottenere tutto quello che voleva. — Sentite, non c'è nessun problema sul vostro compenso. Voglio che il party sia un tale successo... — Non sarebbe un'eccezione, signor Fontaine — disse candidamente lei. — Abbiamo letto spesso sui giornali notizie dei suoi party... Lui rifiutò di interpretare la cosa in modo offensivo. — Ma spesso non sono veritiere. Tanto per cominciare, la maggior parte delle cose che si scrivono su di me sono esagerate. I giornalisti non sanno mai cosa scrivere. Così, per vendere qualche copia in più, finiscono sempre per parlare di me. "Vecchio satiro", mi dicono. Mi creda, ho ricevuto più offese io dai giornalisti che chiunque altro. E questa è la pura verità. — Comunque — disse lei con un sorriso, voltandosi e preparandosi a scendere le scale — si racconta che nei suoi party avvengano cose un po' piccanti, se non sono male informata. Jones la seguì, biascicando un veloce "Nottefontaine" che trasformò le due parole in un unico vocabolo. L'effetto fu quello di uno sputo in faccia. Fontaine si affrettò a rincorrerli, con l'aria di uno che ha subito una sconfitta temporanea ma non è per nulla intenzionato a ritirarsi dalla competizione. Lei si era fermata un attimo sulle scale, inavvertitamente, con la bocca spalancata dalla sorpresa, guardando il locale silenzioso. — Oh, ecco che aspetto ha quando non c'è nessuno. L'altro si avvantaggiò della circostanza per unirsi nuovamente a loro e ricostituire il gruppetto. Nonostante tutti i loro sforzi, non riuscivano proprio a liberarsene. Il suo compagno di tavolo, l'unica persona rimasta nel locale, si era alzato piazzandosi dietro una delle sedie, pronto a porgerla a Mari. Sembrava un cameriere in perfetta regola.
Fontaine scosse la testa guardandolo e abbozzò un sorriso. — Evidentemente, non sono simpatico alla signora Jones — disse. — Le ho concesso tutte le opportunità di formarsi un'idea obiettiva su di me. Le ho parlato per un minuto, un minuto e mezzo. Ma non ci sono riuscito. Metti pure via la sedia, Steve. Dovremo berci il nostro bicchierino alla salute della signora Jones da soli. Brinderemo augurandole i migliori successi, ma dovremo farlo senza di lei, purtroppo. Mari rivolse a Jones uno sguardo espressivo, come a dire: "Dimmelo tu come uscire da questa situazione, se conosci una strada!". — Lei ne sa una più del diavolo sull'arte di agguantare le persone, non è vero? — disse poi guardando Fontaine. Lo disse con una specie di divertita freddezza. — Da chi è andato ad allenarsi, da un campione di lotta libera? Non le importa come ci riesce, a condizione che inchiodi chi dice lei con le spalle al muro. Non è così? — Via, sono un gentiluomo — protestò lui con una smorfia di finta indignazione, per sdrammatizzare. — Non mi sognerei mai di costringerla a... — E io sono una gentildonna — lo interruppe bruscamente Mari. — E le dico che lei mi sta proprio costringendo, se la mette in questi termini. — Si avvicinò al tavolo e accettò la sedia. — Ma io non sono un gentiluomo — disse rudemente Jones — perciò mi accomoderò lo stesso per accertarmi che lei si comporti da gentiluomo. A questa battuta, Fontaine e il suo galoppino scoppiarono a ridere. Ma la risata non sembrava troppo spontanea. "Quando della gente che non conosci si mette a ridere alla tue battute" si disse Jones, "allora è meglio stare con gli occhi bene aperti". — Signor Jones, questo è il capitano Randall, il mio skipper. — Aveva fatto schioccare le dita mentre faceva le presentazioni, e prima ancora che avesse finito il cameriere arrivò con lo champagne. Proprio un bel tipo, niente da dire. — Un gentile omaggio a una signora molto graziosa — disse Fontaine, sollevando il bicchiere pieno. — Farebbe meglio a precisare — suggerì lei. — Credo che ne conoscerà talmente tante, signor Fontaine... — Ne conosco solo una, stasera — replicò lui con galanteria. — È una grossa bugia o ha la memoria corta? — chiese Mari spietatamente. — Abbiamo apprezzato tutti e due la sua esibizione, enormemente... —
cominciò a dire Randall, cercando di cambiare discorso. Ma fallì miseramente. — No — protestò all'improvviso lei. — Aspetti un attimo, signor Fontaine. Cos'è che sta scrivendo? Fontaine stava scribacchiando qualcosa con la sua penna stilografica su un rettangolo di carta celeste appoggiato al tavolo, proprio davanti a sé. Lo aveva estratto dal suo libretto di assegni. — Non è per lei — mentì con garbo. — Senta, ne faccio sempre scivolare uno sotto il bicchiere quando me ne vado, proprio come adesso. E poi non l'ho mica messo sotto il suo bicchiere, no? Mi diverte compilare assegni mentre sto seduto a un tavolo. Pare che le due cose si sposino meravigliosamente. — E ha l'abitudine di strizzare sempre l'occhio al signor Randall quando lo fa? Ah, diecimila dollari — lesse lei alla rovescia. — Il prezzo del coperto qui al La Perla, senza dubbio. Appena furono di nuovo nella loro stanza, Jones le disse: — L'hai capito cosa vuole, no? — Qualcosa di più di un semplice numero di danza? — Della danza in se stessa a lui non importa niente. Lui è uno che ama scommettere. È famoso in tutto il mondo per le sue folli scommesse. Scommette su quale nuvola si avvicinerà al sole per prima. Su quale goccia cadrà a terra battendo sul tempo l'altra. Su quale fiammifero brucerà per primo fino in fondo. Tutta la sua vita non è altro che una lunga scommessa. — E adesso si è messo a scommettere sulla possibilità che qualcuno muoia — disse lei con un sorriso cupo. — Il suo assegno si trova nella mia borsetta, adesso. Dovevo portarlo a casa senza accorgermi di niente. Ma l'ho visto, mentre lo faceva scivolare dentro. Quell'altro ha cercato di stornare la mia attenzione proprio in quel preciso momento. Ma la sua mano si è riflessa nel vetro del mio bicchiere, e così mi sono accorta di tutto. Una mano molto svelta, ma io sono riuscita lo stesso ad accorgermi delle sue mosse. — Porse la borsetta a Jones. — Aprila e controlla se ho visto giusto. Lui la aprì. Tirò fuori l'assegno e lo guardò. — Diecimila — disse. — Perché non hai detto niente? — Lui avrebbe solo continuato a insistere e io non ne potevo più. E poi il fatto che l'assegno si trovasse nella mia borsetta non era certo una risposta definitiva. Possiamo tenercelo o farlo in mille pezzi. Lui lo gettò sul tavolo e lo lasciò lì. — Cosa facciamo? Lo strappiamo?
O mandiamo giù il nostro orgoglio? — Ce la faremo a inghiottirlo tutto? — Sei tu che danzi, e quindi sei tu quella che decide. — Si voltò, si allentò il nodo della cravatta, se la tolse e la lanciò, a mo' di lazo, verso un gancio che si trovava sull'anta interna dell'armadio. Poi si girò ancora verso di lei. L'assegno era sparito. — Dov'è? — chiese lui. — Nel sacco — rispose Mari, sorridendo alla propria battuta. 4 La motolancia di Fontaine li aspettava all'imbarco, quando Mari e Jones scesero dal taxi sulla banchina. C'era persino un ufficiale di tolda a salutarli. — Ci ha fatto venire a prendere in pompa magna — mormorò Jones. — Dobbiamo rispondere al saluto? Non sono molto pratico dei regolamenti che vigono sugli yacht. Non ne ho mai posseduto uno. Non appena si accomodarono a poppa, lei disse: — E chi lo vuole uno yacht? Salparono accompagnati da un rumore che ricordava quello di un getto di seltz che fuoriesce da un sifone. All'inizio, ballarono un po', poi l'imbarcazione si raddrizzò e a loro parve quasi di essere immobili. Il mare era disseminato di edifici illusori che galleggiavano sul pelo dell'acqua, con le loro mattonelle multicolori formate dalle luci dei natanti ancorati nella baia. Rosse e scarlatte, verdi, gialle, bianche... La motolancia sembrava farsi strada tagliandole a metà; ma, in questo caso, lasciava una scia nera invece che una bianca. Poi, non appena la scia si chiudeva, il mosaico fantasma si ricomponeva subito, tornando a risplendere con le sue tonalità di rosso, verde, giallo e bianco. Come se qualcuno si fosse divertito a spruzzare dei coriandoli nell'acqua. Il suo yacht era uno dei più lontani dalla riva e dava l'idea di un'aurora appena accennata, quasi una macchia di colore luminescente che sorgesse dalle acque nere. Pulsava e vibrava, e quando si fecero più vicini, con un'ampia virata circolare, quel pulsare si trasformò in musica da ballo. Un'orchestra stava suonando "Divertiti, è più tardi di quanto pensi", e dalla motolancia si potevano scorgere le ombre in movimento dei ballerini mulinare sotto una specie di porticato bianco che sporgeva a poppa. — La canzone del signor Fontaine — osservò lei con sarcasmo.
Fontaine venne a dar loro il benvenuto di persona, in cima alla biscaglina. Prese la mano di Mari tra le sue, stringendogliela con energia. Con Jones, invece, si limitò ad un frettoloso cenno del capo. — Ora che siete arrivati, la serata può cominciare sul serio. — Doveva aver ripetuto quella frase migliaia di volte in precedenza, suppose lei. In migliaia di altre sere. In migliaia di altri party. Era la cosa più facile da dirsi. — Da questa parte. Mi segua. — La guidò cingendole i fianchi con un braccio. Non lo lasciava sempre appoggiato alla vita di Mari; all'inizio, lo aveva messo lì per invitarla a venirgli dietro, poi lo aveva tolto. Il braccio era riapparso sui fianchi di Mari un altro paio di volte, per indicarle sempre la giusta direzione, poi era nuovamente sparito. Jones li seguiva a breve distanza, osservando i movimenti del braccio con occhio poco benevolo. — Ho fatto sgomberare il ponte di poppa per la sua esibizione. Lo vede quel punto dove adesso stanno ballando? Si esibirà lì. Faremo portare le sedie in un attimo, così nel frattempo gli invitati si accomoderanno. Pensavo anche di far tirare indietro il porticato, in modo che la luce del riflettore le arrivi direttamente da sopra il tetto del ponte. Le va bene così? Non le dispiace danzare a cielo aperto? — Anzi, credo che sarà anche più emozionante. Non si possono fissare le stelle a un tetto o a un soffitto, qualunque somma si intenda pagare. — Le ho preso un piano inclinato dello stesso colore che lei aveva specificato. Non sono riuscito a trovarlo, in zona, così ho dovuto farlo venire dagli Stati Uniti. L'ho preso a nolo; dovrà essere riconsegnato lunedì. Li aveva portati di sotto, in una cabina di lusso. Jones continuava a stare in retroguardia. Fontaine prese una bottiglia di champagne da un secchiello dorato e la accostò con aria interrogativa ad alcune coppe preparate per l'occasione. — Non bevo mai prima di danzare — disse lei, rifiutando l'offerta con un sorriso. Con Jones, Fontaine si limitò a un impercettibile movimento della testa, come se quel dettaglio supplementare lo annoiasse. — No — disse Jones, con un tono di voce altrettanto annoiato. Fontaine ne versò un po' per sé, poi brindò in onore di Mari. — A una donna eccezionale — disse. — Grazie. Cercherò di non deluderla. Lui si guardò intorno. — Credo che sia tutto a posto. Ha bisogno di una
cameriera? Ne ho una per le signore. — Posso sbrigarmela da sola. E in meno tempo. Lui si avvicinò alla porta. Poi si voltò di nuovo e fece un passo verso di loro. Sembrava che volesse aggiungere qualche altra cosa. — Lei farà proprio... sì, insomma, farà proprio il suo numero di sempre, no? — Il mio numero di sempre? — domandò lei, fingendo di non capire. — Voglio dire, farà quello vero, quello esplosivo, no? Senza edulcorarlo in qualche modo... — È un po' pericoloso per una simpatica festicciola a bordo — replicò lei. — Ma è questa la ragione per cui l'ho invitata! — Invitata? Dica piuttosto "comprata". — Invitata a pagamento — intervenne Jones con un sardonico compromesso. — Be', sta a lei decidere, signor Fontaine. In fin dei conti, il party è suo. Lui strinse i pugni. — Voglio la versione originale. Quella forte. Forza, al lavoro! Sono sicuro che ci divertiremo sul serio. — Non teme che possa capitare qualcosa? — domandò Mari sorridendo. Gli occhi di Fontaine luccicarono per un attimo, in un bagliore che aveva quasi del febbrile. — Temo che non possa capitare qualcosa — rispose con voce pacata ma nitida. Dopo che se ne fu andato, lei fissò Jones. — Hai sentito? — Te l'avevo detto che ci avrebbe fatto una scommessa sopra — disse lui. — Scommette su tutto quello che gli capita a tiro, non è una cosa nuova. Cavalli, pugili, cani... e adesso questo. Se vuoi il mio parere, credo che quel tizio sia completamente fuori di testa. Non è solo eccentrico; è matto da legare. — Cosa stava cercando di fare, di influenzarmi prima dello spettacolo? — Tentava solo di proteggere le sue scommesse, suppongo. Voleva accertarsi che avresti danzato nel modo solito. Mentre si preparava, lei si fece uno strappo al vestito intorno alla cucitura della spalla. — Ti ha fatto arrabbiare? — No — rispose lei piena di risentimento. — Ma mi ha fatto un po' sentire come se fossi il suo cagnolino privato. Cosa crede, di poter dare gli zuccherini anche a me?
Si sentì bussare alla porta. Jones andò ad aprire. Una bionda statuaria, vestita tutta di bianco, lo oltrepassò di scatto e si chiuse la porta alle spalle. Si abbassò la veletta di tulle sul viso e disse: — Buona sera. Sono Constance Ryan. Lei è la giovane danzatrice che... che fa morire la gente, suppongo. — Non è che lo faccia apposta — disse Mari con indifferenza. — Potrei parlarle un attimo da sola? — I suoi occhi lampeggiarono verso Jones, poi si abbassarono nuovamente. — Lui è mio marito. La donna li trattava con una certa aria di condiscendenza. Come se fosse scesa a visitare il ponte di terza classe, o qualcosa del genere. — Oh, non sapevo che foste sposati. — Sì. Abbiamo visto altri che lo facevano e così abbiamo pensato bene di imitarli. La signorina Ryan era troppo intenta a concentrarsi sul proprio scopo per accorgersi della punzecchiatura. — È in grado di tenere tutto sotto controllo? Non c'è pericolo che qualcosa le sfugga e... — chiese lei con apprensione, ma lasciando la frase intenzionalmente sospesa. Nel frattempo, Jones si era appartato vicino all'oblò della cabina per non essere di troppo, e aveva cominciato a fumare. — Allude per caso alla fedeltà di mio marito? — domandò a sua volta Mari fingendo di non capire. — Lei si prende gioco di me — disse la bionda con impazienza. — Ah, si riferiva alla danza... — si corresse Mari. — Non lo so. In tutta sincerità non lo so, perché non ne sono sicura io stessa. È questo che voleva sapere, signorina Ryan? — Può dirlo! — sbottò la bionda. — È stato molto gentile da parte sua mostrarsi così interessata — disse Mari piena di gratitudine. — Un interesse senza alcun secondo fine, ne sono certa. La bionda sporse il braccio verso di lei. — Le piace il mio braccialetto? — domandò all'improvviso. — Non lo avevo notato fino a ora. — Be', lo noti adesso. — Fatto — disse Mari, tagliando corto con un veloce movimento degli occhi. — Può tenerlo come pegno — disse la bionda, cominciando a toglierselo. — Dopo la sua esibizione, ci saranno cinquemila dollari per lei.
— Cinquemila dollari per cosa? La signorina Ryan fece schioccare la lingua in segno di esasperazione. — Basta con tutti questi preliminari da asilo infantile. Lei non è più una bambina. E ha girato il mondo in lungo e in largo, credo. Non ha senso mettersi a fare dei misteri su una cosa del genere. Ho fatto una scommessa da venticinquemila dollari sulla danza. Perché non succeda niente. Gliene darò cinquemila, e gli altri venti resteranno a me. — Non mi piacciono questi traffici — le disse Mari, quasi sgarbatamente. La bionda tirò un breve sospiro. — Lei è una persona molto difficile, non è vero? — Molto. Perché non la smette di insistere, visto che se n'è accorta anche lei? La cosa mi farebbe un immenso piacere. La bionda si rimise a posto il braccialetto con un gesto nervoso. — C'è qualcos'altro che le piacerebbe avere? — domandò con disperata insistenza. — La sua bella faccia tosta. — Meglio che se ne vada, signorina — intervenne all'improvviso Jones, tenendole la porta aperta. Era un pubblico difficile di fronte a cui esibirsi. Qualcuno si era accomodato sulle sedie del ponte e su quelle del salone, portate fuori per la circostanza. Altri si erano seduti per terra; altri ancora, in realtà la maggior parte, stavano in piedi. Tra questi ultimi si notavano soprattutto uomini. Quelli che non erano illuminati da qualche luce particolare continuavano a muoversi sul ponte con assoluta libertà. Si vedevano in continuazione mani portarsi verso le tasche interne della giacca o tastare quelle posteriori dei calzoni; in ogni angolo della nave, era tutto un fiorire di scommesse. Davanti a uno degli ufficiali si era formata una fila di tre o quattro persone, che aspettavano pazientemente il loro turno in fila indiana come se dovessero fare una prenotazione. Mari si trovava dietro quell'assembramento e cercava di farsi notare il meno possibile in attesa che lo spettacolo cominciasse. Due ragazze vennero avanti con qualche titubanza, probabilmente non più tanto sobrie. Una aveva una ciocca di capelli che le ricadeva su un occhio, e continuava a tirarsela su. Prima fissarono Mari, poi si guardarono l'un l'altra con aria interrogativa. — E quella sarebbe lei? — domandò una di loro con voce arrochita dalle
troppe bevute. — Per forza — rispose l'altra. — Mi sa che farei meglio a raddoppiare la puntata. Credo che quella tipa ce la possa fare. — E dove li prendi i soldi? — Da quello di prima — fu la sua esplicita risposta. — Mi accompagni? — No, ho anch'io degli uomini. Andrò a battere cassa da loro. Si allontanarono in direzione del punto da cui erano venute lasciando una scia luminosa nell'aria, come se una lampada si fosse messa a camminare con loro e poi fosse stata spenta all'improvviso sul ponte. Fontaine stava avanzando per presentarla. L'orchestra staccò una fanfara per sollecitare l'attenzione. La signorina Ryan non si vedeva da nessuna parte. Il numero doveva essere replicato ancora una volta. Lei guardò Max negli occhi e annuì. Lui fece lo stesso col direttore d'orchestra e annuì verso Mari. Il batterista suonò un accordo di apertura. Lei avanzò. Era un modo ridicolo di entrare. Uscì alla ribalta accennando a una corsetta, tanto per passar sopra ai soliti tediosi preliminari, poi descrisse un piccolo cerchio per portarsi davanti agli spettatori e rimase immobile. Loro si calmarono un po', magari solo per la momentanea curiosità. Poi lo spettacolo cominciò. La Ryan era riapparsa tra il pubblico. Si era seduta vicino a Fontaine e reggeva in grembo una coppa di champagne piena fino all'orlo. Fontaine teneva le mani all'altezza del torace e stava stringendo un minuscolo oggetto come se cercasse di aprirlo o di forzarlo. Mari non riusciva a vedere bene di cosa si trattasse. Forse un portasigarette o un accendino difettoso, ma sarebbe potuto essere qualsiasi altra cosa. I volti degli spettatori, i fari e i pilastrini bianchi del ponte, che si allineavano come tante righe di gesso contro un cielo scuro come la liquirizia, cominciarono all'improvviso a vacillare, a scuotersi, a diventare sempre più incerti nei contorni, come immagini riflesse da uno specchio deformante. Ma la cosa era dovuta al fatto che anche lei si muoveva, naturalmente. Poi i profili delle cose si ricomposero, come tante macchie di colore che finalmente si fondessero, e tutto tornò di colpo nitido, preciso come un'incisione. La Ryan stava portandosi alle labbra la sua coppa di champagne. Le mani di Fontaine non erano più in vista, adesso; le aveva infilate in tasca.
Mari puntò all'improvviso verso di lei, le prese il bicchiere di mano e lo scagliò via. La Ryan restò con la mano tesa, ma dove prima c'era una coppa adesso non c'era più niente. Il pavimento del ponte era tutto cosparso di macchioline. La bionda prese atto della cosa senza dar segno di capire, poi cominciò a guardare Mari in cagnesco. La danza doveva interrompersi. La musica si affievolì e poi cessò del tutto. — Lui le aveva messo qualcosa in quel bicchiere! — gridò Mari. — L'ho visto. La Ryan lo guardò come se non potesse credere ai proprio occhi, poi si concentrò nuovamente su Mari. — Pazza! — esclamò Mari. — Se non vuol credermi, sono affari suoi. Ma perché avrei dovuto mentirle? — La scommessa — sussurrò la bionda, come se parlasse tra sé. All'improvviso, volse la testa verso Fontaine. — È così che vinci le scommesse, Hugh? Senza rispondere, lui si diresse a grandi falcate verso il parapetto e gettò qualcosa in acqua. Qualcosa che, per un attimo, mandò un riflesso metallico, come avrebbero potuto fare una scatola di caramelle o una boccetta di pillole. Fontaine lo fece con la massima indifferenza, come se quel gesto fosse per lui la cosa più naturale del mondo. — Ti pare che abbia un così disperato bisogno di soldi? — disse, rivolgendosi alla Ryan. — Non si tratta di soldi — osservò lei amaramente. — È l'idea di perdere una scommessa. Ti conosco, non ti fermeresti di fronte a niente. Ma c'è dell'altro, a parte la scommessa che hai fatto con me. Quasi tutti a bordo di questa nave si sono messi a puntare qualcosa sulla danza, perché erano convinti che non sarebbe successo niente. Ma tu sei stato l'unico a scommettere nell'altro senso. E cioè che qualcuno sarebbe morto. Lui scrollò le spalle. — Era solo uno scherzo, comunque. Non c'era niente che potesse farti male in quel bicchiere. Solo qualcosina per metterti un po' a nanna. — Grazie lo stesso — mormorò lei, portandosi le mani al viso e cominciando a piangere. — Questo è qualcosa di cui non sarò mai certa, da adesso in avanti. Mari distolse lo sguardo dalla bionda e riprese a camminare, cercando di fendere la folla e di portarsi nel punto in cui si trovava Max. Fontaine le
tagliò di colpo la strada. Aveva due occhi che sembravano due pozze di veleno. Mentre lei li fissava, quasi ipnotizzata, sapeva per certo che quell'uomo era completamente impazzito. Le spalle di Fontaine si mossero e ci fu un impatto pungente sulla guancia di Mari. — Non ti impicciare di cose che non ti riguardano! Tu, ballerina da quattro soldi! Le ci vollero un paio di secondi prima di capire che era stata schiaffeggiata. In quel frattempo, Max si era fatto strada e li aveva raggiunti. Tirò Fontaine verso di sé, afferrandolo per il bavero della giacca, e lo colpì da sotto in su, con un devastante uppercut. Fontaine storse la faccia con una smorfia orribile, poi cadde all'indietro e finì a terra scivolando per un po' lungo il ponte, come se qualcuno lo stesse trascinando. Poi giacque immobile, privo di sensi. — Max — lo supplicò lei. — Max. Per l'amor del cielo, portami via di qui. Lui le passò un braccio intorno alle spalle, come a volerla proteggere, e si avviò in fretta verso la biscaglina mentre la folla, ammirata dal coraggio che Jones aveva dimostrato, si scostava per farlo passare. Lei stessa non si sarebbe mai aspettata che lui potesse colpire tanto forte; era sempre tranquillo, la maggior parte del tempo. L'ufficiale non fece il minimo tentativo di fermarli, quando arrivarono a due passi da lui. Forse quello era un colpo che anche lui doveva aver sognato di tirare, magari da molti anni. Alle loro spalle, come se lo spettacolo dovesse ricominciare, l'orchestra aveva attaccato all'improvviso "Toot Toot Tootsie, Good Bye". Quelle note, suonate a tutto volume, sommersero in un attimo lo strepito e l'agitazione che sembravano ormai regnare a bordo della nave. 5 Restarono tutti soli sulla piccola banchina di pietra dove la motolancia li aveva depositati. La scia lasciata dall'imbarcazione, che adesso tornava verso lo yacht, faceva un rumore come quello della sabbia versata in un secchio; le minuscole luci di poppa sobbalzavano come una pallina da golf luminosa che incespicasse attraverso un terreno accidentato e nero come il carbone. Poi si infilarono in una buca invisibile piazzata lungo il percorso. Lei non tentò nemmeno di muoversi, così lui non la spinse, ma si limitò
a osservarla. Se ne stava lì al suo fianco, con il braccio che le cingeva la vita. La brezza umida che precedeva l'alba, e che soffiava dal mare, giocava con il vestito di Mari. Lo rendeva simile a quello di un manichino, anche se sotto pulsava una vita umana. — Siamo arrivati alla fine della strada, Max. Non possiamo proseguire oltre. — Non abbiamo fatto niente — replicò testardamente lui. — Di che cosa possono accusarci? Lei si limitò a ripetere quanto aveva detto prima. — Siamo arrivati alla fine della strada, Max. — Torniamo alla pensione? Lei annuì lentamente. — Si suppone che una donna dorma al coperto, di notte. E io non ho nessun altro posto dove andare. Notò che lui si guardava intorno alla ricerca di un taxi. — Facciamo due passi — gli disse. — Non è poi tanto lontano. Passeggiarono lentamente, l'uno di fianco all'altra. Visti da dietro, sembravano due innamorati. Lui le cingeva i fianchi e lei gli aveva appoggiato la testa sulla spalla. Ma di fronte sembravano due esseri smarriti, che fissavano la strada senza vedere nulla. — Non danzerai mai più al La Perla. — No — disse lei, abbattuta. — Non danzerò mai più al La Perla. Sapevi che stavo pensando proprio a questo, non è vero? — Sì, ne ero certo. — Siamo così vicini — mormorò lei — che adesso possiamo leggere l'uno nei pensieri dell'altra senza bisogno di scambiarci una parola. — È un matrimonio anche questo. In effetti, noi siamo sposati in tutti i sensi. E ciò non ha niente a che vedere con qualche anello o con le parole imparate a memoria da un libro. — Ecco perché puoi capire le mie paure. Vedi, sono certa che c'è qualcosa che non va. — C'è — confermò lui in tono riluttante. Lei gli afferrò il braccio e lo serrò con entrambe le mani contemporaneamente, come se volesse in qualche modo strapparglielo. — Ammettiamolo. Cerchiamo di fronteggiare questa sensazione. Siamo soli. È notte. Non c'è nessuno in giro che possa sentirci. Diciamolo, finalmente. Non è il La Perla. E non c'entra niente nemmeno quel party da ubriaconi a cui abbiamo presenziato stasera. Lo sai quanto me di cosa si tratta. Dobbiamo avere il coraggio di dirla, quella parola. Di gridarla forte
l'uno all'altra. Lei tirò un profondo sospiro. Poi gli disse quella parola in faccia, voltandosi verso di lui perché potesse sentirla bene. — È la danza. Lui chinò il capo. Era d'accordo. — È sempre stata la danza. Lui chinò di nuovo il capo. — Ha rovinato le nostre esistenze. Prima ci ha sospinto in alto. Poi ci ha trascinato in basso. Nel silenzio della notte, il rumore dei loro passi era come una sottolineatura a quel monologo di disperazione. Solo lei parlava. Lui se ne stava zitto; tanto, lei parlava per tutti e due. Trovava le parole che erano anche nel cuore di lui. Arrivarono alla pensione. Accesero la luce nella stanza e chiusero le imposte, per impedire che entrassero animaletti notturni. Lei non guardava quello che faceva Jones, e nemmeno lui si interessava alle attività di Mari. Eppure, non erano mai stati così consapevoli della propria reciproca presenza. Tutto quello che faceva uno lo aveva già pensato l'altro. Alla fine, lui diede un'occhiata e si accorse che Mari era a letto. Non si era ancora tolta il vestito. Giaceva di lato, in atteggiamento un po' indolente, un braccio ripiegato sotto il corpo; eppure, in quella indolenza si indovinava una grande tensione nervosa. Appena la guardò, gli occhi di Mari si volsero subito verso lui. Non li aveva mai visti così penetranti, prima. Si posarono sui suoi e rimasero fissi, immobili. Si sentì stringere il cuore come se quegli occhi fossero stati due morsetti bordati di ciglia. — C'è qualcosa di cui voglio discutere con te. Ma credo che tu già lo sappia, anche senza bisogno di sentirlo da me. Guarda come ti si è irrigidito il collo; non riesci più neanche a muoverlo. Guarda come hai dilatato gli occhi; sembri uno spiritato. E ti sei persino bloccato in mezzo alla stanza, così, all'improvviso. — Certo, perché tu mi devi parlare. — No. È perché il tuo cuore ha già capito cosa ti devo dire. Prima ancora di sentire la prima parola. — Mi dirai tutto domani. — No, devo parlarti adesso. Adesso. Bisogna farlo subito. Qui. Nel cuo-
re della notte. — Coraggio, parla — disse lui, capitolando. Lei scosse la testa. — Non è una cosa di cui si possa discutere mettendosi a fumare. Butta via quella sigaretta. Scelse la strada più lunga per dirglielo. Se ne stava sempre comodamente sdraiata, con gli occhi che scrutavano qualche imprecisato punto in lontananza. — In quella storia, ci può essere qualcosa di vero come no. Sai a cosa alludo, vero? — Alla maledizione che grava sulla danza, suppongo — rispose lui con aria afflitta. — Devo sapere, prima di farla finita con quel numero una volta per tutte. Così, di qualunque cosa si tratti, non potrà mai più colpirci. Vuoi correre questo rischio con me? Lui stava impallidendo sempre di più. Ma con lentezza, in modo estremamente graduale. Era un terrore vero, devastante, di quelli che si insinuano in profondità nel cuore degli uomini; non una paura passeggera, rapida e superficiale. — Per il nostro amore, per la nostra felicità, per il futuro che abbiamo ancora da vivere: te la senti di rischiare insieme a me? Lui aveva la lingua impastata dal terrore. Non riusciva nemmeno a rispondere. — Tutte le volte che quella cosa si è verificata, c'era sempre tanta gente intorno a me. Così è riuscita a camuffarsi, capisci? "Sarà stata una maledizione oppure no?", continuavamo a chiederci. Non ho bisogno di ricordartelo; oltre tutto, sarebbe troppo triste ripercorrere la nostra piccola lista di necrologi. Piccola ma terribile. Quell'uomo di colore che lucidava le scarpe di Mort, ricordi? Be', era debole di cuore sin dall'infanzia, perché aveva abitato in un palazzo fatiscente di Harlem. O quel tipo di Milano... Lui aveva la pressione alta e si era ingozzato di cibo, quella sera; per di più, erano settimane che litigava violentemente con le figlie durante i pasti. Quell'altro di Montreal, invece, era stato in un campo di prigionia giapponese per oltre due anni. "Forse sarebbero morti egualmente, in quegli stessi istanti, in quelle stesse sere, anche se fossero rimasti a casa a leggersi un libro. O se fossero andati a dormire. "Quella maledizione ha sempre avuto il suo alibi. Ha potuto costantemente operare davanti a decine o centinaia di persone, e questo le ha
assicurato una meravigliosa copertura. Ma adesso basta; adesso non voglio più concederle questo alibi. "Non l'ho mai saggiata veramente, senza darle la possibilità di giustificarsi. Non ho mai danzato quando non c'era nessun altro nei pressi all'infuori di me. Tutta sola in una stanza chiusa a chiave. Senza nessuno vicino che potesse venir colpito." — Mari, no! — Ecco cosa farò adesso. E tu dovrai lasciarmelo fare. — No! Per l'amor del cielo, no! Lascia in pace quella maledizione. Non ci ha fatto già abbastanza danno? — Ogni parola che pronunci rivela solo che, in cuor tuo, credi davvero che la maledizione esista, e ne sei terrorizzato. Puoi anche non rendertene conto, Max, ma la tua reazione non ammette possibilità di dubbio. E noi saremo costretti a vivere, tutti e due, in compagnia di quella paura nascosta. È un serpente vero, dopotutto, non solo un mito; un serpente che si è avvinghiato ai nostri cuori e sta per morderli coi suoi denti avvelenati. Ma io ho intenzione di strapparglieli, quei denti. Cominciò ad alzarsi lentamente dal letto. Appena lo fece, lui arretrò cautamente di un passo o due, senza nemmeno accorgersene. Non aveva paura di lei, ma del proposito che l'animava. — Ora tu te ne andrai buono buono da questa stanza. Mi lascerai sola; nessuno deve disturbarmi. Io chiuderò la porta a chiave e poi toglierò la chiave dalla toppa. Qui dentro non dovrà restare nessuno all'infuori di me, casomai la maledizione colpisse. Le cavità nere che lui aveva al centro degli occhi crebbero fino al punto di inghiottire l'intera pupilla. Era l'unico segnale della tensione che provava, anche se sembrava non accorgersene. — Adesso metterò un disco su quel piccolo grammofono che teniamo all'angolo della stanza. E danzerò come non ho mai danzato prima in vita mia. Tu non mi hai mai visto esibirmi come mi esibirò adesso. Ballerò senza nessuna interruzione. Come mi hanno insegnato al tempio, quando la danza non era ancora diventata un numero di intrattenimento, ma era una specie di preghiera. E farò tutte le mosse che ho sempre escluso da quando ho cominciato a danzarla qui. Lui continuava a dire no: non con la voce, ma con la testa. Anche le labbra si muovevano pronunciando quella parola, ma non ne usciva nessun suono. — E quando avrò finito, se sarò ancora viva, andrò a infilare nuovamen-
te la chiave nella toppa, aprirò la porta e verrò da te. E da quel momento in avanti non avremo mai più paura, tu e io. L'ombra che ci minacciava sarà sparita per sempre. La maledizione dissolta in una bolla di sapone. Diventeremo come tutti gli altri. Potremo essere poveri o ricchi, buoni o cattivi, felici o infelici; ma non saremo mai più diversi dal resto della gente. — Neanche adesso lo siamo. Respiriamo, parliamo, mangiamo, facciamo l'amore, siamo insieme... Ti prego, lasciamo che le cose restino così. Non sciupiamo quello che abbiamo. Non cerchiamo di giocare col destino. — Lo vedi? Ci credi. Ci credi persino tu. Più protesti e più la cosa è evidente, anche se tu pretendi di negarla. — No, non ci credo, davvero. E poi, in cosa dovrei credere? Non c'è niente, proprio niente... — Quelle gocce di sudore che hai sulla fronte: loro ci credono, comunque. Perché si sarebbero messe a gocciolare se non ci fosse davvero niente? Cos'è che le avrebbe spinte a manifestarsi? Ah, Max, tu puoi anche non crederci, ma la tua pelle ci crede, e i tuoi pori sono un libro stampato. Ma dentro quella pelle ci sei tu; così, come la mettiamo? — Ma perché sfidarla? Perché non lasciarla in pace? Perché invitare... — Jones si interruppe all'improvviso, pensoso. — Tutto quello che devi fare è non danzare più, tenerti lontano da quella maledizione, ammesso che esista, e vedrai che non accadrà più niente. Ci lascerà tranquilli. Perché ti ostini a volerti trasformare in una specie di parafulmine? — Ma non c'è nessun fulmine nelle vicinanze, no? Perciò cosa dovrei temere? Basta, voglio fare questa prova una volta per tutte. Aprì la porta, afferrò la mano di Jones e lo condusse fino allo soglia. Poi gli fece segno di uscire. — In fondo, che cosa ci vuole? Ci metterò solo dieci minuti. E poi non avrai più paura. Non vedrò mai più i tuoi occhi come sono adesso, con quello sguardo agghiacciante... No, non cercare di assumere un altro sguardo. Gli occhi non mentono mai. — Lasciami la mia paura, allora. Preferisco tenermela. Ma tu non farlo, ti prego. È tardi, sei stanca e siamo tutti e due un po' depressi. Sdraiati nuovamente e cerca di dormire. Io mi metterò seduto accanto a te e ti veglierò. Farò in modo che la malinconia ti abbandoni. Domani ti porterò via di qui. — No. Stanotte devo fare un esperimento — insistette lei. — Per la vita o... o per la morte. Lo aveva spinto oltre la soglia, adesso. Gli portò le braccia al collo, con
un gesto pieno di affetto. — Baciami e vattene. Non dovrai star via per molto; solo per dieci minuti. Vai giù e fumati una sigaretta sugli scalini, come farebbe un innamorato che aspetta la sua ragazza. Oppure fai un salto in quel bar all'angolo e prenditi qualcosa da bere. Solo un bicchiere, però, non di più. E poi torna indietro. Le loro labbra si incontrarono come se si trovassero per la prima volta. O come se avessero scoperto solo allora cosa fosse un bacio, dopo averlo desiderato ardentemente per tutta la vita. Lei si tirò lentamente indietro e cominciò a chiudere la porta. Era rimasto aperto solo uno spiraglio. — Dammene un altro — disse lui, come ossessionato. — Ancora uno, ti prego. — Tra poco — promise lei — quando aprirò di nuovo questa porta. Non aver paura, caro, non ti agitare. Vedrai che andrà tutto bene. — Lo spiraglio si chiuse e l'ombra piombò sul viso di Jones, offuscandolo. Come fa il tempo. O la morte. L'ultima nota, il battito di un tamburo, si prolungò per qualche secondo e poi cominciò ad affievolirsi, come una goccia abbarbicata alla bocca di un alambicco che non volesse decidersi a cadere. Poi la nota svanì e la musica cessò del tutto. La puntina del grammofono continuava a seguire la rotazione del disco, intrappolata in quella zona non incisa che si trovava all'estremità. Il suono che ne usciva ricordava quello che fanno le foglie secche quando, in autunno, si staccano dagli alberi e cadono a terra ammassandosi l'una sopra l'altra. Come un sospiro, il sospiro che annuncia la morte. Lei giaceva inerte sul pavimento, a faccia in giù. Il polso, che fino a poco prima guizzava instancabile, le era appena caduto sopra la testa. Non si muoveva niente intorno a lei. La danza era terminata. L'aveva eseguita per l'ultima volta. Il braccio del grammofono cominciava a essere stanco, adesso. Lottava contro il disco che stava finendo lentamente di ruotare sul piatto. All'improvviso, si sentì uno scatto. Il disco si era fermato. Un'altra specie di morte, anche se più piccola, si era celebrata sul piatto del giradischi. Silenzio e immobilità. I battiti del cuore non possono spostarsi da un luogo all'altro. E i pensieri non possono essere ascoltati. Ma ogni battito del suo cuore diceva: "Vivo, vivo, vivo!". E i suoi pen-
sieri dicevano, timidamente, come se non osassero: "Ho vinto. Era una menzogna. Non c'era niente di vero. Non mi ha fatto nessun male. Anzi, non c'era niente che potesse farmi male. Ora sento la paura che se ne va lentamente, fuoruscendo poco per volta dai pori della mia pelle come fa l'umidità notturna. E la felicità torna a insinuarsi nel mio cuore, strisciando furtiva, come se l'alba sorgesse qui, sul pavimento. Ma pazienta ancora un po', non fare mosse premature, aspetta che la gioia abbia tempo di soppiantare completamente il terrore". Ci fu un movimento improvviso. L'antitesi della morte. Lei volteggiò in modo trionfale sul pavimento. Si era messa sulle ginocchia, adesso, e continuava a restare sola nella stanza. Poi levò la testa al soffitto, in un gesto esultante, estatico. Aveva gli occhi lucidi. "Ah, grazie, grazie, per la mia vita e per la sua". La maniglia della porta aveva cominciato a ruotare, poi era tornata nuovamente nella posizione iniziale, senza alcun rumore. Era come se esprimesse una domanda trepidante. Lui doveva trovarsi vicino alla porta, con la guancia attaccata al battente. Troppo spaventato per mettersi a bussare. Troppo insicuro per chiamarla. Temeva che, se l'avesse fatto, non gli sarebbe giunta alcuna risposta. Quel movimento della maniglia, che veniva maneggiata con tanta esitazione, era la muta supplica che lui le rivolgeva. Lei puntò verso la porta mettendosi a camminare sulle ginocchia. Non è che non potesse alzarsi, ma aveva troppa fretta per farlo. Procedeva gattoni, sporgendo trionfalmente le braccia verso la porta e verso Jones, che l'aspettava dall'altra parte. — Vengo, vengo. Puoi sentirmi, caro? Vengo, sono subito da te. Eccomi, arrivo! Si tirò completamente in piedi davanti alla porta e vi appoggiò l'orecchio sopra. Poteva sentirlo respirare, dall'altra parte del battente. Era un respiro supplicante, terrorizzato. Ma lo sentiva così vicino a sé che le parve per un attimo che lui potesse baciarla anche da lì. — Max, Max, mi senti? Sono qui, dall'altro lato della porta. È tutto finito. Adesso ti apro. Rispondimi, Max. Dimmi che mi senti. Ci vuole un'infinità di tempo per girare questa maledetta chiave... — Stai bene? — Benissimo. Mi senti? Era tutta una menzogna. Quella maledizione non esisteva affatto. Tieniti pronto, caro, sto per aprire. La porta si scostò leggermente dallo stipite e, dallo stretto spiraglio, i loro sguardi si incrociarono. Gli occhi, lo specchio dell'anima.
Lui sporse le braccia verso Mari, per stringerla. Lei spalancò del tutto la porta, mandandola a sbattere contro la parete come se fosse stata qualcosa di inutile, di ingombrante. Adesso la soglia era completamente libera, senza più nessun ostacolo. Talmente libera che poteva passarci anche la vita, tornando a prendere possesso di quella stanza, o la morte, a cui non restava più altra scelta se non fuggire da un posto dov'era stata sconfitta. Lei si gettò tra le braccia di Jones, che la sostenne stringendola a sé. I loro baci erano come un tentativo futile e balbettante di esprimere la pura fiamma del desiderio nelle incerte parole delle labbra. Di trascrivere l'estasi dei sensi in un freddo geroglifico. — Abbiamo vinto. Abbiamo vinto. Ora ricominceremo tutto daccapo. Sarà l'inizio della felicità... Le braccia di Jones non riuscirono più a mantenere la loro posizione, come se le spalle e i fianchi di Mari fossero stati cosparsi di un unguento. Scivolarono all'ingiù, tracciando come un nodo scorsoio intorno al corpo di Mari. Il cappio dell'amore. E, insieme alle braccia, anche la testa cominciò a ricadere. Era scesa troppo perché, da lì, lui potesse baciarla o lei restituirgli il bacio. Prima le giunse al petto, quasi in un gesto di profonda devozione. O di dolore. O in cerca di conforto. Poi ai fianchi, come fanno i penitenti. Qualcosa si afflosciò pigramente sul pavimento e rimase lì, immobile. Giaceva supino, adesso, disteso davanti ai piedi di Mari. I suoi occhi erano ancora aperti, ma non la vedevano più. Il suo viso era rivolto a lei, ma non la riconosceva più. E prima ancora di muoversi e di inginocchiarsi accanto al suo uomo, lei sapeva già che era morto. FINE