JAMES PATTERSON & ANDREW GROSS TERZO GRADO (3rd Debree, 2004) PARTE PRIMA 1 La settimana più brutta della mia vita cominciò in una tranquilla mattina d'aprile. Ero andata a correre con il mio border collie, Martha. Lo faccio spesso, la domenica mattina. Mi alzo presto, faccio salire sulla Ford Explorer la compagna della mia vita e cerco di correre per cinque chilometri, da Fort Mason fino al ponte e ritorno, quanto basta per illudermi di essere «in forma» alla veneranda età di trentasei anni. Quella mattina era venuta con me anche la mia amica Jill, con la scusa di far fare un po' di moto al suo labrador, Otis. In realtà sospetto che volesse semplicemente riscaldarsi i muscoli prima di salire in mountain bike sul monte Tamalpais o dedicarsi a qualche altra impresa ben più impegnativa nel corso della giornata. Non sembrava affatto che fossero passati soltanto cinque mesi da quando aveva perso il bambino. Era tonica e in forma smagliante. «Com'è andata ieri sera, allora?» mi domandò mentre correva al mio fianco. «Mi è giunta voce che avevi in programma una cenetta romantica.» «Se chiami quella di ieri sera una cenetta romantica, puoi definire Bagdad una meta turistica», replicai, guardando Fort Mason, che mi sembrava lontano in maniera preoccupante. Jill si morse la lingua. «Mi dispiace. Andrà meglio la prossima volta.» Da quando avevamo cominciato a correre non facevo che ripensare infastidita a Franklin Fratelli, che si autodefiniva «consulente di remarketing» e in realtà pressava come uno sciacallo le dot-com in difficoltà che non riuscivano più a pagare le cambiali di BMW e Franck Muller. Erano due mesi che, ogni volta che passava alla Corte di Giustizia, veniva a trovarmi in ufficio e alla fine avevo ceduto e l'avevo invitato a cena. Le costolette al porto che gli avevo preparato erano ancora nel frigo, però, perché all'ultimo momento il caro Franklin non si era presentato. «Mi ha tirato un pacco», spiegai, con l'affanno. «Non mi chiedere i particolari, perché tanto non te li dico.»
Ci fermammo in fondo a Marina Green, dove io cercai di riprendere fiato mentre Jill continuava a saltellare come se fosse pronta a fare un altro giro. «Non so come fai», le dissi ansimando, con le mani sui fianchi. «Ho preso da mia nonna», rispose con un'alzata di spalle, mentre faceva un po' di stretching. «A sessant'anni ha cominciato a fare otto chilometri al giorno. Adesso ne ha novanta e non sappiamo dove diavolo sia andata a finire.» Scoppiammo a ridere. Era bello vedere che Jill stava tornando se stessa, allegra e spiritosa. «Ti va un mocaccino?» domandai. «Offre Martha.» «Non posso. Steve arriva fra poco da Chicago e vuole andare subito in bici alla mostra di Dean Friedrich al Legion of Honor. Sai che il cucciolo diventa nervoso, se non fa un po' di esercizio.» Mi accigliai. «Il cucciolo?» Cucciolo mi pareva un soprannome poco adatto per uno come Steve. Jill annuì e si tolse la felpa, alzando le braccia. «Jill! Cosa ti sei fatta lì?» Dalle spalline della canottiera le spuntavano alcuni piccoli lividi violacei, che sembravano lasciati dalle dita di una mano. Jill, colta alla sprovvista, si mise la felpa sulle spalle. «Sono scivolata uscendo dalla doccia», rispose. «La doccia si è ridotta peggio di me, però.» Mi fece l'occhiolino. Annuii, ma quei lividi mi avevano messo in allarme. «Sicura di non volere un caffè?» chiesi di nuovo. «Mi dispiace, ma sai com'è Steve. Se arrivo con cinque minuti di ritardo, si fa strane idee.» Fischiò per richiamare Otis e cominciò a correre verso la macchina. Mi salutò con un cenno della mano. «Ci vediamo al lavoro.» Mi chinai ad accarezzare Martha. «Allora, vecchia mia, lo gradiresti un mocaccino con me?» Le misi il guinzaglio e mi avviai verso lo Starbucks di Chestnut Street. Quel quartiere mi era sempre piaciuto, con le sue strade curve, le case colorate, i gabbiani e l'odore di salmastro diffuso nell'aria. Attraversai Alhambra Street osservando una splendida villetta di tre piani che mi piaceva moltissimo. Aveva le persiane di legno decorate a mano e il tetto di tegole rosse e mi ricordava uno dei palazzi che si affacciano sul Canal Grande a Venezia. Trattenni Martha, perché passava una macchina. È questo che ricordo di quel momento. Il quartiere che si svegliava, un
ragazzino con i capelli rossi e una felpa FUBU che si allenava sullo skate, una ragazza in salopette che girava l'angolo con un fagotto di vestiti sottobraccio. «Forza, Martha», dissi. «Ho proprio voglia di un mocaccino.» E la villa con il tetto di tegole rosse esplose in una gran fiammata. Di colpo, invece che a San Francisco, sembrò di essere a Beirut. 2 «Oh, mio Dio!» esclamai, barcollando. Mi voltai e mi accucciai per riparare Martha dall'improvvisa vampata di calore e dalla pioggia di detriti. Mi rialzai qualche secondo dopo. Per la miseria... non credevo ai miei occhi. La villa che avevo appena ammirato era praticamente distrutta. Dalle finestre del primo piano uscivano grandi fiammate. In quel momento mi venne in mente che poteva esserci qualcuno dentro la casa. Legai Martha a un lampione e corsi verso la villa in fiamme. Al primo piano era bruciato tutto: se gli abitanti della casa erano lì, ormai dovevano essere morti. Presi il cellulare dal marsupio e chiamai il 911. «Sono il tenente Lindsay Boxer del dipartimento di polizia di San Francisco, distintivo numero duesette-due-uno. C'è stata un'esplosione in una villa all'incrocio fra Alhambra e Pierce. Presumibilmente ci sono dei feriti. Mandate ambulanze e vigili del fuoco. Al più presto.» Chiusi la comunicazione. Sapevo che in base al regolamento avrei dovuto aspettare una risposta, ma ero preoccupata per le persone che potevano trovarsi all'interno della villa. Mi tolsi la felpa e me la avvolsi intorno alla testa. «Cristo santo!» mormorai fra me. Presi fiato ed entrai. «C'è nessuno?» urlai. Il fumo spesso e grigio era soffocante e il calore intensissimo mi faceva bruciare gli occhi e la faccia. Il soffitto sopra di me era in fiamme. «Polizia!» urlai. «C'è nessuno?» Il fumo mi bruciava i polmoni. Il rogo crepitava furiosamente, assordante. In quel momento capii perché spesso la gente bloccata ai piani alti di un palazzo in fiamme preferisce gettarsi nel vuoto piuttosto che sopportare quel calore intollerabile. Mi riparai gli occhi con le mani e avanzai nel fumo denso. Urlai di nuo-
vo: «Qualcuno è ancora vivo qui dentro?» Non potevo proseguire. Mi ero già bruciata le sopracciglia. Rischiavo di morire anch'io in quell'inferno. Feci per tornare fuori, quando notai due sagome. Un uomo e una donna. Morti, i vestiti che bruciavano ancora. Mi fermai, sconvolta. Ma ormai per quei due non c'era più niente da fare. Poi sentii un rumore, tanto fievole che mi chiesi se non mi fossi sbagliata. Tesi le orecchie, con il viso ancora rovente. E lo udii di nuovo. No, non me l'ero immaginato. Qualcuno stava piangendo. 3 Inspirai e mi addentrai nella casa, che stava per crollare da un momento all'altro. «Dove sei?» chiesi, camminando sulle macerie fumanti. Avevo paura, e non solo per la persona che stava piangendo. Sentii di nuovo il pianto, debole e lamentoso. Proveniva dal retro della casa. Mi diressi da quella parte. «Arrivo!» gridai. Una trave si abbatté per terra alla mia sinistra. Più avanzavo in quell'inferno, più aumentava il pericolo. Vidi il corridoio da cui mi pareva provenisse la voce e mi accorsi che il soffitto era pericolante. «Sono della polizia!» urlai. «Tu dove sei?» Niente. Sentii piangere di nuovo, e stavolta il suono mi parve più vicino. Feci ancora qualche passo nel corridoio, riparandomi la faccia con la felpa. Forza, Lindsay, ci sei quasi... Varcai una porta in fiamme. Gesù, è la camera di un bambino! Cioè, lo era stata. Il letto era rovesciato su un fianco, contro il muro, coperto di uno spesso strato di polvere. Urlai, poi sentii un suono fievole, attutito. Parevano colpi di tosse. Il telaio del letto scottava, ma riuscii comunque a spostarlo leggermente dalla parete. Mio Dio! Intravidi il volto di un bambino. Doveva avere una decina d'anni. Tossiva e piangeva. Non riusciva quasi a parlare. La stanza era un cumulo di macerie. Bisognava agire in fretta: rischiavamo di morire asfissiati dal fumo.
«Adesso ti porto in salvo», gli promisi. Mi infilai tra il muro e il letto e, spingendo con tutte le mie forze, lo allontanai dalla parete. Poi presi in braccio il bambino, sperando di non fargli male. Mi avventurai tra le fiamme, con il piccolo in braccio. C'era fumo dappertutto, bruciante e soffocante. Mi parve di intravedere una luce: forse era da lì che ero entrata, ma non ne ero sicura. Tossivo, con il bambino che si aggrappava disperatamente a me e chiamava la mamma. Cercai di consolarlo per quanto potevo, di fargli capire che non l'avrei lasciato morire. Urlai, sperando che qualcuno mi sentisse. «C'è qualcuno, là fuori?» «Chi è là?» disse una voce nel buio. Avanzai incespicando fra le macerie, cercando di evitare le fiamme, e vidi l'ingresso. Sirene, voci, l'ombra di un uomo. Un vigile del fuoco mi prese il bambino dalle braccia, un altro soccorse me. Ci ritrovammo fuori. Finalmente all'aperto, caddi in ginocchio e inspirai a pieni polmoni. Uno dei soccorritori mi mise una coperta sulle spalle. Erano tutti molto professionali, molto gentili. Mi appoggiai a un'autocisterna dei vigili del fuoco, in preda alla nausea. E vomitai. Mi misero una maschera di ossigeno sulla bocca e dopo qualche respiro cominciai a sentirmi meglio. Un vigile del fuoco mi si avvicinò. «Era dentro la casa al momento dello scoppio?» «No», risposi. «Sono entrata dopo, per vedere se c'erano dei feriti.» Facevo fatica ad articolare le parole. Presi il distintivo dal marsupio. «Sono il tenente Boxer», dissi, tossendo. «Della Omicidi.» 4 «Sto bene», dissi, allontanandomi dal vigile del fuoco e andando verso il bambino, che era stato steso su una barella e stava per essere caricato in un'ambulanza. Sbatteva appena le palpebre. Per il resto, era immobile. Ma era vivo. Dio mio, gli avevo salvato la vita... La polizia intanto allontanava i curiosi che si erano raccolti lungo la strada. Vidi il ragazzino con i capelli rossi che poco prima si allenava sullo skate e molti volti spaventati, inorriditi. Fu solo allora che sentii abbaiare. Gesù, mi ero dimenticata di Martha! Era ancora legata al lampione. Le corsi incontro e l'abbracciai. Mi leccò la faccia. Nel frattempo mi si avvicinò un vigile del fuoco con lo stemma da capo-
squadra sul casco. «Sono il capitano Ed Noroski. Sta bene?» «Mi sembra di sì», risposi incerta. «Voleva fare l'eroe anche nel tempo libero, tenente?» mi prese in giro. «Avevo appena finito il mio giro di jogging. Ho visto la villa saltare in aria, come se ci fosse stata una fuga di gas. Ho fatto solo il mio dovere.» «Complimenti, tenente Boxer.» Guardò il rogo. «Ma non è stata una fuga di gas.» «Ho visto due morti, là dentro.» Noroski annuì. «Sì. Un uomo e una donna. E c'era un altro adulto in una stanza sul retro, al piano terra. Il bambino è stato fortunato: gli ha salvato la vita, tenente.» «Già.» Rabbrividii. Se non era stata una fuga di gas... Poi vidi Warren Jacobi, il mio collega della Squadra Omicidi, che si faceva largo tra la folla mostrando il distintivo. Quel giorno gli era toccato «il turno delle prime nove buche»: così chiamavamo il turno della domenica mattina, quando inizia la bella stagione e chi non lavora va a giocare a golf. Jacobi aveva una bella faccia tonda come una luna piena, che non sorrideva nemmeno se gli raccontavi una barzelletta, e occhi infossati e piccoli che non mostravano mai la minima sorpresa. Ma quando guardò la villa distrutta al 210 di Alhambra Street e vide me, sporca di cenere, affranta e seduta a cercare di riprendere fiato, assunse un'espressione stupefatta. «Lindsay? Stai bene?» «Abbastanza.» Cercai di tirarmi su. Jacobi guardò la casa, poi di nuovo me. «Un po' malridotta anche per i tuoi standard, a occhio. Ma sono certo che, una volta ristrutturata, sarà bellissima» commentò ironico. Gli spiegai che cosa avevo visto. Non un semplice incendio, ma un'esplosione al primo piano. «Ventisette anni di esperienza nelle forze dell'ordine mi fanno pensare che non si tratti di un guasto alla caldaia», decretò. «Conosci qualcuno che abita in una casa così e ha la caldaia al primo piano?» «Non conosco nessuno che abita in una casa così, punto e basta. Sicura di non volerti far vedere da un medico?» Jacobi si chinò verso di me. Da quando mi avevano sparato nel caso Coombs, era molto protettivo nei miei confronti. Aveva persino smesso di fare battute maschiliste. «Sì, Warren. Mi sento bene.»
Poi, non saprei dire come mai, notai una cosa strana. Ero lì, seduta sul marciapiede con la schiena appoggiata a una macchina, e pensai: Cristo, Lindsay, che cosa ci fa lì quel coso? Dopo tutto quello che era successo... Era uno zainetto rosso, come ce ne sono milioni. Abbandonato in mezzo alla strada. Mi colse il panico. Avevo sentito parlare di esplosioni secondarie a proposito del Medio Oriente. E se a far saltare in aria la villa fosse stata una bomba e quello fosse stato un secondo ordigno? Sbarrai gli occhi e fissai lo zainetto, sgomenta. Presi Jacobi per un braccio. «Warren, fai sgomberare la zona. Subito. Fai allontanare tutti!» 5 Claire Washburn tirò fuori dall'armadio della cantina una vecchia custodia di alluminio che non vedeva da anni. «Oh, mio Dio!» Si era svegliata presto quella mattina e, dopo aver preso il caffè in terrazza, sentendo cinguettare le ghiandaie per la prima volta quell'anno, si era infilata un paio di pantaloni e una camicia di jeans e si era decisa a mettere ordine in cantina. Aveva tirato fuori prima di tutto una serie di giochi da tavolo che nessuno toccava da anni, poi guantoni da baseball e parastinchi che i ragazzi non usavano più dai tempi della scuola e una trapunta piena di polvere, quindi quella vecchia custodia di alluminio, nascosta sotto un plaid che puzzava di muffa. Mio Dio. Il suo violoncello. Claire sorrise. Erano dieci anni che non lo prendeva in mano. Semplicemente vederlo le riportava alla mente un mare di ricordi: ore e ore passate a studiare le scale, a esercitarsi. «Una casa senza musica è una casa senza vita», diceva sempre sua madre. Quando suo marito Edmund aveva compiuto quarant'anni, lei gli aveva suonato il primo movimento del concerto in re maggiore di Haydn. Era stata l'ultima volta che aveva preso in mano il violoncello. Aprì la custodia e lo guardò. Era ancora un bello strumento. Lo aveva ricevuto in dono dal dipartimento di musica di Hampton. Prima di capire che non sarebbe mai diventata Yo-Yo Ma e d'iscriversi a medicina, aveva amato quel violoncello più di ogni altra cosa.
Le venne in mente una melodia, un passaggio difficile del primo movimento del concerto in re maggiore di Haydn che non era mai riuscita a eseguire in modo soddisfacente. Si guardò intorno, con una sensazione di vergogna, ma Edmund dormiva ancora, nessuno l'avrebbe sentita... Tirò fuori dalla custodia foderata di panno il violoncello e prese in mano l'archetto. Che emozione! Accordò lo strumento e sfiorò le corde con l'archetto, provando un brivido da tempo dimenticato. Suonò le prime battute del concerto. Era un po' arrugginita, ma gradualmente riprese confidenza. «So ancora suonare!» esclamò, ridendo. Chiuse gli occhi e si lasciò trasportare. Fu solo dopo un po' che notò Edmund, ancora in pigiama, che la ascoltava in fondo alla scala. «So che non sono a letto, ricordo di essermi messo gli occhiali e persino di essermi lavato i denti. Eppure, evidentemente sto sognando.» Si grattò la testa. Canticchiò il brano che Claire aveva appena suonato. «Ce la fai a continuare? Adesso arriva la parte più difficile.» «È una sfida, Maestro?» Edmund sorrise. Squillò il telefono. Edmund andò a rispondere borbottando: «Ti sei salvata per un pelo». Poi le porse il cordless dicendo: «È il tuo ufficio. È festa, Claire. Non ti lasciano in pace neanche di domenica?» Claire prese il telefono. Era Freddie Rodriguez, un suo assistente dell'Istituto di medicina legale. Claire ascoltò quel che aveva da dirle, quindi chiuse la comunicazione. «Edmund, c'è stata un'esplosione a Marina. Lindsay è rimasta ferita.» 6 Non so che cosa mi prese. Forse fu il pensiero delle tre persone morte nella villa, o forse invece fu la vista di tutti gli agenti e i vigili del fuoco accorsi sul luogo dell'esplosione. Fatto sta che fissavo quello zainetto e non riuscivo a togliermi dalla testa che era nel posto sbagliato, che non avrebbe dovuto essere lì. «Indietro! State indietro!» urlai. Feci per avvicinarmi allo zainetto. Il mio istinto mi diceva che era pericoloso, che bisognava far evacuare la zona. «Non ci pensare neppure, Lindsay.» Jacobi mi trattenne per un braccio. «Non lo toccare.» Mi liberai della sua stretta. «Fai allontanare tutti, Warren.»
«Sarai anche il mio diretto superiore, ma ho quattordici anni di esperienza più di te e ti dico che tu quello zainetto non lo tocchi», sentenziò Jacobi con enfasi. Arrivò di corsa il capitano dei vigili del fuoco. Stava parlando al walkietalkie: «Possibile presenza di ordigno esplosivo. Allontanarsi immediatamente. Dov'è Magitakos, della Squadra Artificieri?» Meno di un minuto dopo arrivò Niko Magitakos con due artificieri in tuta protettiva. Si avvicinarono allo zainetto con uno scanner a raggi X. Intanto una specie di carro armato squadrato che sembrava un enorme frigorifero avanzava minaccioso verso lo zainetto. Uno dei tecnici con lo scanner lo controllò da poco più di un metro di distanza. Ero sicura che quello zainetto contenesse qualcosa di pericoloso, o comunque che fosse importante per le indagini. Pregavo dentro di me che non esplodesse. «Avvicinate il furgone», disse Magitakos con aria preoccupata. «Qui c'è qualcosa che non quadra.» Nel giro di pochi minuti gli artificieri scaricarono dal veicolo varie lastre di acciaio rinforzato ed eressero una barriera protettiva intorno allo zainetto, quindi uno dei tecnici si avvicinò con un braccio meccanico dotato di una pinza. Se in quello zainetto c'era dell'esplosivo, poteva saltare in aria da un momento all'altro. Sudavo, immobile in quella specie di terra di nessuno, senza la forza di spostarmi. Il tecnico prese lo zainetto con la pinza e lo portò verso il furgone. Non successe niente. «Qui non risulta nulla», disse quello con il sensore. «Bisognerà controllare manualmente.» Sollevarono lo zainetto a bordo del furgone e Magitakos vi si inginocchiò davanti. Con mani esperte, aprì la lampo. «Non c'è esplosivo», disse. «Solo una radio a pile.» Tirammo tutti un sospiro di sollievo. Io mi avvicinai e lessi il nome sull'etichetta applicata a una cinghia dello zaino. Per la miseria! Avevo ragione, era un indizio importante. Dentro lo zainetto, accanto a una normalissima radiosveglia, c'era una foto scattata con una macchina digitale e stampata su carta comune. Un ritratto di un bell'uomo sulla quarantina. Uno dei due morti carbonizzati nell'incendio, ci avrei giurato.
MORTON LIGHTOWER, diceva la scritta, NEMICO DEL POPOLO. ASCOLTATE LA VOCE DEL POPOLO. In fondo, c'era un nome: AUGUST SPIES. Gesù, era stata un'esecuzione! Mi venne di nuovo da vomitare. 7 Risalimmo al proprietario della villa senza problemi. Era intestata a Morton Lightower, l'uomo della foto. Jacobi l'aveva già sentito nominare. «Non è l'ex titolare della X/L Systems?» «Non ne ho la minima idea», replicai, scuotendo la testa. «Ma sì, il guru di Internet. Quello che si è intascato qualcosa tipo seicento miHoni di dollari mentre la sua società andava a fondo! Le azioni della X/L Systems, che a un certo punto erano quotate sessanta dollari l'una, adesso valgono sessanta centesimi a dir tanto.» Di colpo mi ricordai di aver letto di Lightower sui giornali, che lo descrivevano come uno degli imprenditori più rampanti e spregiudicati degli Stati Uniti. Comprava squadre di baseball e collezionava case da sogno. Mentre le azioni della sua azienda crollavano e i suoi dipendenti finivano in mezzo alla strada, si vociferava che avesse fatto installare un cancello di sicurezza da cinquantamila dollari nella sua villa di Aspen, nel Colorado. «Capisco che giocare in Borsa è sempre un rischio, ma a tutto c'è un limite», commentò Jacobi scuotendo la testa. Sentii una voce di donna alle mie spalle. Cercava di farsi largo tra la folla, accompagnata dall'ispettore Paul Chin, che sgusciava fra telecamere e furgoni di varie emittenti televisive. Arrivò davanti alla villa sventrata e gridò: «Dio mio!» Poi si mise una mano davanti alla bocca. Chin la accompagnò da me. «La sorella di Lightower», disse. La donna aveva i capelli raccolti e indossava un pullover di cashmere, dei jeans e un paio di scarpe Manolo che pochi giorni prima avevo ammirato per almeno dieci minuti nella vetrina di Neiman's. «Venga», le dissi, accompagnandola verso una vettura della polizia. «Sono il tenente Boxer della Omicidi.» «Dianne Aronoff», si presentò lei, con aria assente. «Ho sentito la notizia alla televisione. Dove sono Mort e Charlotte? E i bambini... Si è salvato qualcuno?»
«Abbiamo tratto in salvo un bambino di dieci o undici anni.» «Eric», disse lei. «Come sta?» «È ricoverato al Centro grandi ustionati del Cal Pacific. Se la caverà.» «Grazie a Dio!» esclamò lei. Poi si coprì il volto con le mani. «Com'è successo?» Mi inginocchiai di fronte a lei e le presi la mano. Gliela strinsi con delicatezza e dissi: «Signora Aronoff, devo farle un paio di domande. Non è stato un incidente. Lei ha idea di chi potesse voler uccidere suo fratello?» «Non è stato un incidente...» ripeté la donna. «Mortie diceva che i media lo trattavano peggio di Bin Laden, che non volevano capire che è normale cercare di fare i soldi, se si è imprenditori...» Jacobi la interruppe. «Signora Aronoff, sembra che l'esplosione sia avvenuta al primo piano. Lei sa chi poteva avere accesso alla casa?» «La domestica», rispose la donna, asciugandosi gli occhi. «Viola.» Jacobi sospirò. «Probabilmente è il terzo cadavere che abbiamo estratto da sotto le macerie.» «Oh...» Dianne Aronoff soffocò un singhiozzo. Le strinsi ancora la mano. «Senta, signora, io ho assistito allo scoppio. L'esplosivo era stato piazzato dentro la casa. Il che significa che qualcuno era entrato, con o senza il permesso di suo fratello. Provi a pensare chi può essere stato, per favore.» «Avevano una baby-sitter», borbottò la donna. «Qualche volta si fermava anche a dormire.» «Allora è stata fortunata», disse Jacobi alzando gli occhi al cielo. «Se fosse stata con suo nipote anche ieri sera...» «Non era per Eric, ma per Caitlin», disse Dianne Aronoff scuotendo la testa. Jacobi e io ci scambiammo un'occhiata. «Come, scusi?» «Caitlin, mia nipote.» Vedendoci perplessi, sbiancò. «Avete detto che l'unico che si è salvato è Eric e io ho dato per scontato che...» Jacobi e io continuavamo a fissarci sbigottiti. In casa non erano stati ritrovati altri corpi. «Oh, mio Dio! Caitlin ha soltanto sei mesi!» 8
Non era finita. Andai dal capitano Noroski, il capo della squadra dei vigili del fuoco, che urlava ordini a destra e a manca agli uomini che perlustravano la casa. «La sorella di Lightower dice che in casa c'era anche una bambina di sei mesi.» «Qui non c'è nessun altro, tenente. Stiamo finendo di controllare l'ultimo piano. Vuole andare a dare un'occhiata lei stessa?» Mi tornò in mente la disposizione delle stanze della villa e ripensai al corridoio su cui si affacciava la camera del bambino. «Forse non era di sopra, capitano, ma al piano terra!» Era possibile che la nursery fosse vicino alla camera di Eric. Noroski, al walkie-talkie, diede istruzioni a uno dei suoi uomini al piano terra. Rimasi lì, di fronte alle rovine fumanti, sgomenta al pensiero che là dentro ci fosse una bimba. Avrei potuto salvare anche lei, se... Aspettammo che i vigili del fuoco avessero finito il loro lavoro. Dopo un po' dalle rovine del pianterreno se ne affacciò uno che disse: «Niente. Abbiamo trovato la nursery. Sotto le macerie c'erano una culla e un passeggino, ma nessuna bambina». Dianne Aronoff emise un grido di gioia: sua nipote non era bruciata nel rogo. Subito dopo, però, assunse un'espressione spaventata. Se Caitlin non era in casa, dov'era? 9 Charles Danko era ai margini della folla a osservare la scena. Era vestito da ciclista e aveva accanto una bici da corsa un po' vecchiotta. Il casco e gli occhiali gli nascondevano la faccia, nel caso la polizia avesse filmato i presenti, come a volte succedeva. Meglio di così non poteva andare, pensava. I Lightower erano morti, smembrati e carbonizzati. Sperava che avessero sofferto molto, sia loro sia i bambini. Aveva realizzato il suo sogno, o forse avrebbe dovuto dire incubo... Era pronto a seminare il panico fra la cittadinanza di San Francisco. C'era voluto tutto il suo coraggio, ma ce l'aveva fatta: era stato lui l'artefice di quel disastro, lui aveva mobilitato tutti quei vigili del fuoco, medici, poliziotti. E la sua opera era appena iniziata. Una donna bionda, chiaramente della polizia, incrociò il suo sguardo. Era una tosta, si vedeva subito. Danko si chiese se era con lei che se la sa-
rebbe dovuta vedere, e se si sarebbe rivelata all'altezza. Chiese informazioni sul suo conto a un agente incaricato di tenere lontani i curiosi. «La donna che è entrata nella casa è l'ispettore Murphy, vero? Mi sembra di conoscerla.» Con la tipica arroganza dei poliziotti, l'agente non lo degnò di uno sguardo. «No, è il tenente Boxer. Della Omicidi. Una con due palle così, a quanto dicono.» 10 L'ufficio della Omicidi, al terzo piano della Corte di Giustizia, era pieno di gente nonostante fosse domenica mattina. Al pronto soccorso mi avevano dimesso senza problemi e, quando finalmente ero arrivata in ufficio, ci avevo trovato la squadra al gran completo. Avevamo già qualche pista da seguire, benché i sopralluoghi non fossero ancora conclusi. Non ricordavo nessun attentato dinamitardo in cui ci fosse stato anche un sequestro di persona. Tutto mi diceva che, se avessi trovato la bambina, avrei trovato anche l'autore di quel massacro. C'era un televisore acceso. Il sindaco Fiske e Tracchio, il capo della polizia, stavano parlando in diretta dal luogo dell'attentato. «Questa tragedia è frutto di una vendetta», stava dicendo il sindaco, accorso sul posto direttamente dal campo da golf dove aveva appena iniziato una partita. «Morton e Charlotte Lightower erano cittadini impegnati e generosi, oltre che miei amici.» «E sostenitori», aggiunse Cappy Thomas, il collega di Jacobi. «Le forze dell'ordine sono già impegnate per trovare il colpevole», continuava intanto il sindaco. «Desidero rassicurare la cittadinanza: si tratta di un atto isolato.» «X/L Systems...» Jacobi si grattava la testa. «Credo di avere anche azioni loro, nel mio fondo pensione.» «Anch'io», replicò Cappy. «Che fondo è?» «Mi pare che si chiami Long-Term Growth, crescita a lungo termine, ma chi gli ha affibbiato quel nome doveva avere un certo senso dell'umorismo. Due anni fa avevo...» «Potete smettere di parlare di alta finanza, voi due?» li interruppi. «È domenica e i mercati azionari sono chiusi. In compenso abbiamo tre morti, una bambina scomparsa e una villa rasa al suolo da un incendio, presumibilmente provocato da una bomba.»
«Non presumibilmente. Che è stato provocato da una bomba è certo», precisò Steve Fiori, l'addetto stampa del dipartimento. In jeans e scarpe da vela, stava cercando di barcamenarsi tra le richieste di centinaia di agenzie stampa ed emittenti radiotelevisive. «Il capo ha appena ricevuto la conferma dagli artificieri: sono stati ritrovati resti di un congegno a orologeria e di esplosivo C-4.» Quella notizia non ci sorprese, ma l'idea che fosse scoppiata una bomba nella nostra città, che ci fosse in giro gente con dell'esplosivo C-4 e fosse sparita una bambina di sei mesi ci angosciava. «Merda», disse Jacobi con un sospiro teatrale. «Ci toccherà lavorare anche 'sto pomeriggio.» 11 «Tenente», gridò qualcuno in fondo alla stanza. «C'è Tracchio al telefono.» «Te l'avevo detto», fece Cappy, sorridendo. Andai a rispondere aspettandomi una lavata di capo. Tracchio era un burocrate e non si occupava di indagini dai tempi in cui studiava all'accademia, venticinque anni prima. Per tipi così, criticare è facile. «Lindsay, ciao. Sono Cindy.» Rimasi sorpresa, visto che mi aspettavo di parlare con il capo. «Non ti arrabbiare: era l'unico modo per riuscire a mettermi in comunicazione con te.» «Non è proprio il momento», dissi. «Credevo fossi quell'imbecille di Tracchio e mi stavo preparando a subire una delle sue solite tirate.» «C'è gente che pensa che anch'io sia un'imbecille capace solo di fare tirate agli altri.» «Sì, ma lui è l'imbecille che mi paga lo stipendio», dissi, concedendomi la prima battuta di quella giornata infernale. Cindy Thomas era una delle mie più care amiche, insieme a Claire e Jill. Lavorava per il Chronicle ed era una delle reporter di nera più quotate di San Francisco. «Ho appena saputo. Sono a un seminario di yoga e mi squilla il cellulare mentre sono nella posizione del cane a testa in giù. Com'è che appena io mi distraggo un attimo, decidi di fare l'eroe? Stai bene? Sei ferita?» «Mi bruciano solo un po' i polmoni, ma a parte questo sto bene», risposi. «Per il momento non posso ancora dirti niente.» «Non ti ho chiamato per questo, Lindsay. Volevo solo sapere come sta-
vi.» «Sto bene, grazie», ripetei. Non ero sicura che fosse vero, però: mi tremavano le mani e avevo ancora in bocca il sapore acre del fumo. «Devo raggiungerti?» «Non ci riusciresti, neanche volendo. Tracchio non vuole giornalisti fra le scatole: niente comunicati finché non avremo le idee un tantino più chiare.» «Scommettiamo?» ribatté Cindy ridacchiando. Scoppiai a ridere. L'avevo conosciuta quando si era intrufolata in una suite del Grand Hyatt dopo un omicidio, nonostante una folla di agenti che piantonavano l'hotel impedendo l'accesso a chiunque. Lo scoop di quella volta aveva dato il via alla sua brillante carriera. «Non voglio scommettere. E comunque sto bene. Davvero, Cindy.» «Okay. Allora, se la mia affettuosa preoccupazione era inutile, parlami un po' dell'attentato. È stato un attentato, vero?» «Diciamo che non è stato il barbecue che ha preso improvvisamente fuoco alle nove della domenica mattina. Sì, puoi citarmi come fonte, riguardo a questo. Credevo che oggi avessi deciso di non lavorare.» Mi stupiva come Cindy riuscisse a essere sempre informata su tutto. «Be', ho cambiato idea», rispose. «A proposito, ho sentito che hai salvato la vita a un bambino. Dovresti tornartene a casa e riposare un po': il tuo dovere per oggi l'hai fatto.» «Non posso andare a casa: abbiamo già alcuni elementi su cui lavorare. Che purtroppo non posso riferirti.» «Ho sentito che dalla villa è scomparso un bambino piccolo. Una strana sorta di rapimento?» «Davvero strana, direi: a chi chiederanno il riscatto, mi domando?» Cappy Thomas fece capolino dalla porta. «Il medico legale ha chiesto di parlarti. Devi raggiungerla in obitorio il più presto possibile.» 12 Fu Claire, direttrice dell'Istituto di medicina legale di San Francisco, e mia amica carissima da oltre dieci anni, a dire l'unica cosa capace di farmi piangere in tutto quel bailamme. «Charlotte Lightower era incinta.» Aveva l'aria tirata e stanca e indossava il camice da chirurgo. «Di due mesi. Forse non lo sapeva nemmeno.» Non so perché quel particolare mi intristisse così: forse rendeva la fami-
glia Lightower più umana. «Speravo di vederti, oggi. Ma non in queste circostanze», disse Claire con un mezzo sorriso. «Già.» Mi asciugai gli occhi. «Ho saputo del tuo exploit di stamattina.» Mi si avvicinò e mi abbracciò. «Sei stata molto coraggiosa, ma anche incosciente, lo sai?» «C'è stato un momento in cui ho creduto di non farcela, Claire. C'era fumo dappertutto, non riuscivo più a respirare. Mi bruciavano i polmoni, gli occhi, non vedevo un accidente. Ho preso in braccio quel bambino e mi sono affidata al Signore.» «Che ti ha rischiarato la via?» Claire sorrise. «Magari. In realtà sono stata lì lì per lasciarci le penne, a un certo punto, ma ho tenuto duro al pensiero di quel che avreste detto di me, se fossi morta bruciata in quella casa.» «Be', ci avresti tolto il gusto di bere Margarita», rispose lei, seria. «Ti ho mai detto che sei molto brava a farmi vedere le cose nella giusta prospettiva?» le domandai con un sorriso. I resti dei Lightower erano stesi vicini. L'obitorio è un luogo solitario anche a Natale, ma quella domenica pomeriggio, con il personale a casa, foto di autopsie e avvisi sui muri e il forte odore di disinfettante e di morte, mi parve ancora più lugubre del solito. Mi avvicinai ai due cadaveri. «Per che cosa mi hai mandato a chiamare?» chiesi. «Che cosa volevi dirmi?» «Pensavo che avessi bisogno dell'abbraccio di un'amica, per la verità.» «Infatti», risposi. «Ma non mi dispiacerebbe se mi dicessi che dall'autopsia hai scoperto chi è stato.» Claire si avvicinò a un tavolo e iniziò a togliersi i guanti. «E come, Lindsay?» Alzò gli occhi al cielo. «Questi tre sono morti in un'esplosione!» 13 Un'ora dopo Tracchio e io tenemmo una conferenza stampa sulla scalinata davanti alla Corte di Giustizia. L'atmosfera era carica di tensione. C'erano anche Cindy e una gran massa di suoi colleglli. Quando tornai in ufficio, Jacobi aveva controllato nei database del California Criminalistics Institute e dell'FBI se risultava il nome August Spies. Zero assoluto. Non era citato da nessuna parte. Cappy stava indagando sul-
la baby-sitter scomparsa. La sorella di Lightower ce l'aveva descritta, ma non aveva la minima idea di dove poterla trovare. Non sapeva nemmeno il cognome. Presi il pesante volume delle Pagine Gialle e lo posai sulla scrivania di Cappy. «Guarda sotto la B di baby-sitter.» Erano quasi le sei di domenica pomeriggio. Avevamo mandato alcuni agenti nella sede della X/L Systems. Erano riusciti a parlare soltanto con un addetto alle relazioni pubbliche, il quale gli aveva dato appuntamento per l'indomani alle otto. La domenica è il giorno peggiore per le indagini. Jacobi e Cappy bussarono alla mia porta. «Perché non vai a casa?» disse Cappy. «Restiamo noi.» «Stavo per chiamare Charlie Clapper, della Scientifica.» I suoi tecnici stavano ancora scandagliando la zona. «Davvero, Lindsay, ci pensiamo noi. Hai l'aria distrutta», disse Jacobi. Di colpo mi resi conto che ero veramente esausta: la villa era saltata in aria nove ore prima e io non mi ero neppure cambiata. Ero ancora in tenuta da corsa, sporca di cenere e puzzolente di fumo. «Tenente, un'ultima cosa», disse Cappy, tornando indietro. «Com'è andata ieri sera la cenetta romantica con Franklin Fratelli?» Lui e Jacobi mi sorridevano maliziosi come due adolescenti. «Lasciamo perdere», tagliai corto. «E poi, osereste farmi simili domande, se fossi un uomo?» «Certamente», disse Cappy. «Comunque, capo, quei fuseaux ti stanno che è una meraviglia. Fratelli è un cretino, te lo dico io.» «Grazie.» Sorrisi. Avevo impiegato parecchio a sentirmi a mio agio con quei due, quando ero diventata il loro capo. Avevano molti più anni di esperienza di me ed erano uomini. Non era facile per loro accettare che la Squadra Omicidi fosse diretta, per la prima volta, da una donna. «Hai qualcosa da aggiungere, Warren?» domandai. «No.» Dondolò sui tacchi. «Solo una cosa: domani dobbiamo metterci in giacca e cravatta o posso venire in calzoncini corti e scarpe da ginnastica?» Passai oltre, scuotendo la testa, senza nemmeno rispondergli. Poi mi sentii chiamare di nuovo. «Tenente?» Mi voltai, piccata. «Cos'altro c'è?» «Sei stata in gamba, oggi. Ce ne siamo accorti tutti.» 14
Per arrivare a Potrero, dove abito in un appartamento con due camere da letto in un caseggiato senza ascensore, bastano dieci minuti di macchina. Appena entrai in casa, Martha mi venne incontro scodinzolando. L'aveva riportata a casa uno degli agenti intervenuti sul luogo dell'incendio. Vidi che in segreteria c'erano dei messaggi. Sentii la voce di Jill che diceva: «Lindsay, ho provato a chiamarti in ufficio. Ho appena saputo...» Poi Fratelli: «Senti, Lindsay, se oggi sei libera, potremmo...» Cancellai il messaggio senza nemmeno finire di ascoltarlo. Andai in camera da letto a togliermi i fuseaux e la felpa. Non volevo parlare con nessuno. Misi un CD di Al Green. Bevvi un sorso di birra, andai nel bagno e mi ficcai sotto la doccia. Mi godetti l'acqua calda e la piacevole sensazione di togliermi finalmente di dosso la cenere e l'odore di fumo. Avevo voglia di piangere. Mi sentivo così sola... Oggi ho rischiato di morire. Avrei voluto farmi coccolare da qualcuno. Claire poteva rifugiarsi fra le braccia di Edmund e farsi consolare da lui, dopo l'autopsia ai tre cadaveri carbonizzati. Jill aveva Steve, per quanto... Persino Martha aveva qualcuno: me. Ripensai a Chris. Mi sarebbe tanto piaciuto se fosse stato lì con me, quella sera. Ormai erano passati diciotto mesi da quando era morto e avevo superato il lutto, ero pronta a una nuova relazione, ma non conoscevo nessuno che mi piacesse. Anche se una vocina dentro di me mi diceva che l'avrei incontrato presto. Poi mi tornò in mente la villa incendiata. Rividi me stessa con Martha al guinzaglio, la mattina tersa e tranquilla, la bella casa sull'angolo, il ragazzino con i capelli rossi che si allenava sullo skate, il lampo di luce arancione. Ripassai mentalmente la scena diverse volte, fermandomi sempre nello stesso punto. C'era qualcosa che mi sfuggiva, qualcosa che avevo dimenticato. La ragazza che girava l'angolo appena prima dello scoppio. L'avevo solo intravista, di schiena. Bionda, coda di cavallo, con qualcosa sottobraccio. Ma no, non era quello a turbarmi. Era piuttosto il fatto che non fosse tornata indietro. Non ci avevo pensato, fino a quel momento. Dopo l'esplosione avevo rivisto il ragazzino con i capelli rossi e molte altre facce, ma non la bionda. Non era stata interrogata, non era mai tornata indietro... Perché? Forse perché stava scappando? Ripensai alla scena, a lei che girava l'angolo. Aveva qualcosa sottobraccio. Scappava.
Doveva essere la baby-sitter. E il fagotto che reggeva fra le mani? Doveva essere la figlioletta dei Lightower! 15 Il pavimento del bagno era cosparso di ciocche bionde. La donna afferrò le forbici e riprese a tagliare. Doveva ricominciare da zero. Wendy non c'era più, se n'era andata per sempre. Nello specchio stava spuntando una nuova faccia. Disse addio alla baby-sitter che era stata da cinque mesi a quella parte. Un taglio netto con il passato. Wendy era un nome da favola, non andava bene nella vita vera. La piccola piangeva nella camera accanto. «Buona, Caitlin. Ti prego, non fare cosi.» Doveva decidere che cosa farne. Sapeva solo che non voleva lasciarla morire. Aveva ascoltato i notiziari alla radio, quel pomeriggio: li stavano cercando. Li avevano definiti spietati assassini, mostri. Ma lei non era un mostro, proprio per niente. Aveva salvato la piccola, no? «Tu non pensi che io sia un mostro, vero, Caitlin?» domandò alla bambina che strillava. Michelle abbassò la testa sul lavabo e si versò una boccetta di Red Sunset L'Oréal sui capelli appena tagliati, massaggiandoli per distribuire la tinta in maniera uniforme. Wendy, la baby-sitter, era scomparsa. Malcolm sarebbe arrivato da un momento all'altro. Avevano deciso di restare separati finché non avessero avuto la certezza di non essere seguiti, nessuno dei due. Michelle, però, aveva bisogno di lui, dopo quella prova. Sentì bussare violentemente alla porta. Le balzò il cuore in gola. Aveva forse commesso qualche sciocchezza? Qualcuno magari l'aveva vista tornare con la piccola? E se adesso avessero abbattuto la porta a calci? Era Malcolm. «Avevi paura che fosse la polizia, vero? Non ti devi preoccupare: sono dei cretini!» le disse. Michelle gli corse incontro e gli gettò le braccia al collo. «Oh, Mal, ce l'abbiamo fatta! Ce l'abbiamo fatta!» Gli coprì la faccia di baci. «Ho agito nel modo giusto, vero?» gli domandò. «Voglio dire, alla TV sostengono che chi ha fatto saltare in aria la casa è un mostro.» «Ti avevo avvertito, Michelle, devi essere forte.» Malcolm le accarezzò i
capelli. «I giornalisti sono pagati per dire quello che dicono, servi dei padroni come tutti gli altri. Guardati... sei irriconoscibile!» Dalla stanza da letto si alzò uno strillo. Malcolm prese in mano la pistola. «Cosa cazzo succede?» Michelle andò con lui in camera. Malcolm vide la bambina e assunse un'espressione inorridita. «Mal, per un po' possiamo tenerla noi. Me ne occupo io. Povera bambina, non ha fatto niente di male.» «Ma sei scema?» esclamò lui spingendola sul letto. «La polizia la sta cercando dappertutto!» Michelle cominciò a boccheggiare, in preda a un attacco di asma, come le succedeva sempre quando Malcolm si arrabbiava con lei. Cercò lo spray nella borsetta. Lo portava sempre con sé, era sicura di avercelo anche la sera prima. Come mai adesso non lo trovava? «Mi ci sono affezionata, Mal», continuò. «Pensavo che avresti capito...» Malcolm le avvicinò la testa alla piccola. «Sì, certo che capisco. Capisco anche che la bambina domani deve sparire dalla circolazione. Falla smettere di piangere, adesso. Dalle la tetta, soffocala con un cuscino, fa' qualcosa. E ricordati che domani deve sparire.» 16 Charles Danko generalmente cercava di non correre rischi inutili, ma sapeva bene che chi combatte in una guerra, come lui, dev'essere sempre pronto a dare la vita. Il suo motto era: la causa troverà sempre altri militanti... Così decise di effettuare la chiamata da una cabina nel Mission District. Se fosse stata scoperta o intercettata, pazienza. Il telefono squillò a lungo, prima che qualcuno rispondesse. Riconobbe la voce di Michelle, la baby-sitter dall'eccezionale sangue freddo. Era stata brava, davvero in gamba. «Sono fiero di te, Michelle. Sei un mito. Ti prego, non dire nulla e passami Malcolm.» Michelìe posò il telefono e a Danko venne quasi da ridere: era bello vedere come ubbidivano ai suoi ordini! Più che bello, impagabile. E la diceva lunga sulla condizione umana. Era così che si spiegava, molto probabilmente, come mai tante persone intelligenti, colte e laureate, avevano seguito Hitler senza porsi domande.
«Eccomi.» Danko sentì la voce di Malcolm, piatta e priva di emozioni. Era un ragazzo in gamba. Un vero assassino, forse vagamente psicopatico. A volte faceva paura persino a lui. «Ascoltami. Non posso stare a lungo al telefono. Volevo solo aggiornarti sul fatto che sta andando tutto a meraviglia. Non poteva andare meglio.» Dopo un attimo, aggiunse: «Passate alla fase due». 17 In cima alla costruzione in mattoni e vetro sul promontorio c'era un enorme logo, con una X e una L intrecciate. Una ragazza molto carina all'ingresso ci accompagnò in una sala dalle pareti rivestite di legno su cui erano appese copertine di riviste con la faccia sorridente di Morton Lightower e articoli di giornale che parlavano di lui. Una copertina di Forbes recava il titolo: CHI RIUSCIRÀ A FERMARE QUEST'UOMO? «Che cosa fa la X/L Systems?» chiesi a Jacobi. «Switch ad alta velocità per spostare dati in Internet, o roba del genere. Questo prima che il mondo si rendesse conto di non avere dati da spostare in Internet.» La porta si aprì ed entrarono due uomini. Uno era brizzolato e indossava un completo elegante. Avvocato, probabilmente. L'altro, grasso e pelato, aveva una camicia scozzese con il colletto aperto. Informatico, probabilmente. «Chuck Zinn», disse quello elegante, porgendo il biglietto da visita a Jacobi. «Sono il CLO della X/L Systems. Lei è il tenente Boxer?» «No, il tenente Boxer sono io.» Guardai il biglietto da visita arricciando il naso. «CLO?» «Chief legal officer, capo dell'ufficio legale.» Fece un inchino come per scusarsi. «Vi presento Gerry Cates, socio fondatore dell'azienda assieme a Mort Lightower. Naturalmente, siamo rimasti sconvolti da quello che è successo.» Ci sedemmo tutti intorno al tavolo. «Molti di noi lo conoscevano da quando fondò l'azienda, alcuni anche da prima. Gerry e Morton avevano studiato insieme a Berkeley. Mi preme dirvi che potete contare sulla collaborazione di tutti noi, in azienda.» «State seguendo qualche pista?» domandò Cates. «È vero che Caitlin è scomparsa?» «La stiamo cercando. Sappiamo che i Lightower avevano una baby-
sitter, anche lei sparita dalla circolazione. Voi sapreste aiutarci a rintracciarla?» «Forse Helene sa qualcosa. La segretaria di Mort.» Cates guardò l'avvocato. «Direi che è fattibile.» Zinn prese un appunto. Cominciammo con le solite domande. Lightower aveva mai ricevuto minacce? Sapevano se c'era qualcuno che ce l'aveva con lui? «No», rispose Gerry Cates scuotendo la testa e lanciando un'occhiata all'avvocato. «Naturalmente la sua situazione finanziaria era su tutti i giornali», continuò. «Alle assemblee degli azionisti c'è sempre qualche rompiscatole che protesta, gente che, se ti fai rifare la cucina, pensa che tu stia sottraendo risorse preziose all'azienda.» Jacobi tirò su con il naso. «A me sembra normale che la gente si risenta, se il valore delle azioni scende di colpo a dieci dollari perché uno il giorno prima ne ha vendute per seicento milioni.» «Non siamo noi a fissare la quotazione delle nostre azioni», replicò Cates, stizzito. Seguì un silenzio imbarazzato. «Abbiamo bisogno di un elenco di tutti i vostri clienti», dissi. «Fattibile.» L'avvocato prese un altro appunto. Poi sparai a zero. «E di accedere al computer di Lightower, alla sua casella e-mail e alla sua corrispondenza.» Stavolta Zinn non prese appunti. «Prima devo controllare se è legalmente possibile, tenente. Si tratta di file privati.» «Credevo che il legale fosse lei», replicò Jacobi con un sorrisetto. «Il suo principale è stato assassinato, avvocato Zinn. Temo che preoccuparsi per la sua privacy sia inutile, ormai. Abbiamo trovato un messaggio sul luogo dell'esplosione», dissi porgendogli una copia della foto. «Definisce Morton Lightower un 'nemico del popolo'. C'è anche un nome, in fondo. August Spies. Vi dice qualcosa?» Zinn sbatté le palpebre. Cates trasse un gran sospiro e assunse di colpo un'espressione imperturbabile. «Non ho bisogno di ricordarvi che questa è un'indagine per omicidio», dissi. «Se siete a conoscenza di qualcosa, è il momento di...» «Non siamo a conoscenza di nulla», m'interruppe Gerry Cates, nervoso. «Vuole parlare con Helene, allora?» L'avvocato chiuse il blocco degli appunti, come a dire che il colloquio era terminato. «Voglio mettere i sigilli all'ufficio di Lightower, prima. E controllare la sua corrispondenza e il suo computer. E-mail comprese.»
Chuck Zinn alzò la testa, impettito. «Non sono sicuro che sia fattibile, tenente.» «Sta a me decidere che cosa è fattibile e che cosa no, avvocato.» Lo guardai negli occhi. «Possiamo tornare qui con un mandato e perseguire chiunque abbia eliminato file o altre prove nelle ultime ventiquattr'ore. Questo è fattibilissimo. È fattibile anche passare alla procura tutto ciò che troveremo non perfettamente in regola nella gestione di questa azienda. Che cosa dice, avvocato?» Gerry Cates si voltò verso Zinn. «Chuck, forse un accordo si può trovare.» «Certamente», assentì Zinn. «Purtroppo però oggi non abbiamo tempo. Immagino siate alquanto impegnati anche voi. Quindi, se per ora è tutto...» Si alzò e sorrise. «Possiamo andare da Helene.» 18 Impiegai circa sei secondi per chiamare Jill, subito dopo essere uscita dalla X/L Systems. Le raccontai il colloquio frustrante da cui ero reduce. «Mi stai chiedendo un mandato per accedere ai file di Lightower?» mi interruppe lei. «Al più presto, Jill. Prima che questi chiamino la Arthur Andersen a fare le pulizie.» «Hai le prove che nel computer di Lightower c'è qualcosa di importante?» «Sarò malfidente, Jill, ma quando interrogo uno che cerca di sgusciare via come un'anguilla, tendo a insospettirmi.» «Capisco.» «Jill, sono certa che c'è qualcosa in quel computer.» «Ma la tua certezza non ha fondamenti, a parte il tuo straordinario sesto senso.» Stavo incominciando a innervosirmi. «Me lo vuoi concedere questo mandato, sì o no?» «Non posso, Lindsay. Su queste basi non è possibile. Anche se tu trovassi qualcosa, non verrebbe accettato come prova all'udienza preliminare. Ti conviene cercare un compromesso.» «Jill. Ci sono stati tre morti!» «Insisti, allora. Ma per altre vie.» «Ovvero?»
Jill sbuffò. «Credevo che avessi delle conoscenze nel mondo dei mass media...» «Stai dicendo che si ammorbidirebbero un po', se la loro azienda finisse sulla prima pagina del Chronicle?» «L'hai detto tu, Lindsay, non io.» Sentii che rideva mentre chiudevo la comunicazione. Il cellulare squillò immediatamente. Era Cappy Thomas, dall'ufficio. «Lindsay, devi venire subito qui. Abbiamo rintracciato la baby-sitter.» 19 Quando tornai in sede, c'erano due donne nella saletta degli interrogatori. Erano le titolari di un'agenzia di baby-sitter, mi spiegò Cappy. «Abbiamo chiamato non appena abbiamo saputo», disse Linda Cliborne, che indossava una maglia di cashmere rosa. «È stata la nostra agenzia a collocare Wendy Raymore presso i signori Lightower.» «Ci sembrava la persona più adatta», intervenne la socia, Judith Hertan. Ci porse una cartellina gialla, che conteneva un modulo compilato, alcune lettere di referenze e la fotocopia di un tesserino della University of California a Berkeley con tanto di foto. «I signori Lightower erano molto contenti di lei», spiegò Linda Cliborne. Osservai la foto di Wendy Raymore. Bionda, zigomi alti, bel sorriso. Cercai di ricordare la donna che avevo visto girare l'angolo appena prima dell'esplosione, con la salopette e la coda di cavallo. Sì, poteva benissimo essere la stessa persona. «Controlliamo con cura le referenze delle nostre ragazze. Wendy sembrava a posto... Carina, allegra, molto simpatica.» «E i Lightower dicevano che la bambina si trovava molto bene con lei», aggiunse la socia. «In genere, verifichiamo che i nostri clienti siano soddisfatti.» «E le referenze? Le avete controllate?» Judith Hertan ebbe un attimo di esitazione. «Forse non tutte. Sono sicura che telefonai alla segreteria dell'università. Avevamo il tesserino...» Guardai l'indirizzo: 17 Pelican Drive. A Berkeley, dall'altra parte della baia. «Non abitava nel campus», spiegò Linda Cliborne. «Ci diede una casella
postale a cui spedirle la lettera d'incarico.» Accompagnai Cappy e Jacobi fuori. «Avvertiamo la polizia di Berkeley. E Tracchio.» «Come ci muoviamo?» domandò Cappy, guardandomi. Il significato della sua domanda era: dobbiamo andarci con i piedi di piombo o ci dai la massima libertà? Guardai la foto. «L'importante è che la becchiate», risposi. 20 Quaranta minuti dopo eravamo davanti al 17 di Pelican Drive, a Berkeley. Era una casa vittoriana di un azzurro sbiadito in una strada costeggiata da villette tutte uguali, non distante dal campus. Due macchine della polizia ne bloccavano l'accesso alle due estremità. C'era anche una squadra SWAT con il suo furgone. Non sapevamo che cosa aspettarci, ma non volevamo correre rischi e avevamo tutti il giubbotto antiproiettile sotto la giacca. Erano le 11:45. La polizia di Berkeley aveva messo sotto controllo la casa e ci aveva assicurato che, da quando erano arrivati, non era uscito nessuno, ma una mezz'oretta prima era entrata una ragazza nera con una sacca della University of California. «Andiamo a cercare Caitlin Lightower», dissi ai ragazzi. Jacobi, Cappy e io ci avvicinammo alla casa tenendoci nascosti dietro le macchine posteggiate. Non avevamo notato alcun movimento all'interno della casa, ma potevano esserci esplosivi nascosti da qualche parte. Accanto al portone erano appostati due ispettori e un agente della squadra SWAT aspettava da una parte con un ariete, nel caso avessimo avuto bisogno di abbattere la porta. Regnava un silenzio inquietante. Diedi il via con un cenno. «Aprite! Polizia di San Francisco!» disse Cappy, bussando alla porta. Tenevo gli occhi fissi sulle finestre: quella gente aveva già fatto saltare in aria una casa e di certo non avrebbe esitato ad aprire il fuoco. Ma non vidi nulla. Poi sentimmo dei passi avvicinarsi alla porta, un rumore di serratura e la porta si aprì. Puntammo le armi. Sulla soglia c'era la ragazza nera con la felpa della University of California che era stata vista entrare in casa mezz'ora prima. Appena ci vide,
lanciò un urlo, spaventata. «Wendy Raymore?» gridò Cappy, spingendola da una parte. La ragazza era talmente scioccata che non riusciva a parlare. Cappy la spinse fra le braccia di uno degli agenti speciali. Tremante, la ragazza indicò la scala. «Forse è di sopra.» Salimmo in tre. Al primo piano c'erano due camere da letto, con la porta aperta, vuote. In fondo al corridoio c'era un'altra porta, che invece era chiusa. Cappy bussò. «Wendy Raymore? Polizia di San Francisco!» Nessuna risposta. Avevo l'adrenalina alle stelle. Cappy mi lanciò un'occhiata e controllò di aver tolto la sicura alla pistola. Anche Jacobi si preparò a entrare in azione. A un mio cenno, Cappy spalancò la porta. Entrammo con le armi spianate. Sul letto c'era una ragazza, che saltò su a sedere sbigottita. Stava dormendo. Gridò: «Oh, mio Dio! Che cosa succede?» «Wendy Raymore?» Cappy le puntò contro la pistola. La ragazza era pallidissima, terrorizzata. «Dov'è la bambina?» urlò Cappy. Abbiamo sbagliato tutto! pensai. La ragazza aveva i capelli lunghi, scuri e la pelle olivastra: era completamente diversa da quella che ci aveva descritto Dianne Aronoff e dalla foto sul tesserino universitario consegnatoci dall'agenzia. E anche dalla persona che avevo visto svoltare l'angolo un attimo prima che la villa saltasse in aria. Credevo di aver capito che cosa era successo. La ragazza doveva aver perso il tesserino, o forse le era stato rubato. Ma da chi? In mano a chi era finito? Abbassai la pistola. La ragazza che avevamo di fronte non c'entrava niente. «Non è lei la baby-sitter», dissi. 21 A Lucilie Cleamons restavano diciassette minuti esatti prima di tornare al lavoro dopo la pausa pranzo e doveva togliere le macchie di ketchup dalle guance di Marcus, portarlo all'asilo insieme alla sorella gemella e prendere l'autobus numero 27. Se fosse arrivata in ritardo, il signor Darmon le avrebbe detratto 7,85 dollari l'ora (o 13 centesimi al minuto).
«Su, Marcus», disse sospirando al figlio di cinque anni, che la guardava con il faccino sporco di ketchup. «Non ho tempo.» Gli passò un fazzoletto sulla camicia bianca, che ormai sembrava un quadro astratto, ma si rese conto che le macchie non venivano via. Cherisse, dalla sua sedia, chiese: «Mi compri un gelato, mammina?» «No, cara. Oggi non abbiamo tempo.» Guardò l'ora e le venne male. Oddio! «Su, da bravi.» Lucilie radunò le scatole degli Happy Meal sul vassoio. «Dobbiamo andare, e in fretta.» «Ti prego, mammina, mi piace tanto!» piagnucolò Cherisse. «Un'altra volta, tesoro. Adesso datevi una pulita: dobbiamo andare.» «Io sono pulita», protestò Cherisse. Lucilie li fece scendere dalle sedie per portarli nel bagno. «Tu sì, ma tuo fratello sembra un ferito di guerra.» Accompagnò i bambini nel corridoio che portava alle toilette e aprì la porta del bagno delle donne. Erano da McDonald's, nessuno avrebbe detto niente. Mise Marcus a sedere sul piano dei lavandini, bagnò un asciugamano di carta e cominciò a fregarglielo sul colletto della camicia. Il bambino protestò. «Su, per favore! Se ti sporchi così, poi devi lasciarti pulire. Cherisse, ti scappa la pipì?» «Sì, mammina.» Era più matura di suo fratello. Avevano tutti e due cinque anni, ma Marcus riusciva a stento a tirarsi giù la zip dei pantaloni. Le macchie di ketchup stavano cominciando a venire via. «Cherisse, vuoi fare la pipì? Cosa aspetti?» urlò Lucilie. «Non posso», rispose la bambina. «Non puoi? Senti, non ho tempo. Forza, tirati giù la calzamaglia e fai 'sta benedetta pipì.» «Non posso, mammina. Vieni a vedere.» Lucilie sospirò. Chi sosteneva che c'è tempo per tutto non sapeva che cosa volesse dire avere due gemelli, di questo era certa. Si guardò rapidamente allo specchio, sospirò un'altra volta e pensò che lei non riusciva ad avere mai neppure un secondo per sé. Aiutò Marcus a scendere e raggiunse Cherisse. Aprì la porta del gabinetto e chiese, spazientita: «Che cosa c'è?» La bambina guardava la tazza. «Oh, mio Dio!» Lucilie rimase senza fiato.
Sul coperchio del gabinetto, dentro un porte-enfant, c'era una bambina. 22 Ci sono momenti in questo lavoro in cui sembra che tutto fili per il verso giusto. Per esempio quando trovammo Caitlin Lightower in un McDonald's. Tirammo un sospiro di sollievo generale. Chiamai Cindy per chiederle un favore. Mi disse che sarebbe stata più che felice di rompere un po' le scatole alla X/L Systems. Riattaccai, sentendo bussare alla porta. Charlie Clapper fece capolino e disse: «Grande, Boxer». «È un complimento?» domandai con un sorriso. «Potrei fartene altri», replicò facendomi segno di seguirlo. «Per esempio, dirti che hai gli occhi molto più belli di Tracchio.» «Non per altro ho fatto carriera», ribattei mostrandogli il distintivo dorato. Clapper rise, ma aveva l'aria distrutta: i tecnici della Scientifica avevano passato un giorno e mezzo a setacciare palmo a palmo il luogo dell'esplosione. «Vieni che ti faccio vedere una cosa», disse. Mi accompagnò nel suo ufficio. C'era Niko Magitakos, il capo della Squadra Artificieri, seduto sulla poltroncina di Charlie Clapper a mangiare un piatto cinese. «Siamo risaliti al tipo di ordigno.» Clapper mi fece accomodare su una sedia. Sulla lavagna bianca era disegnata una pianta di casa Lightower. «C'erano tracce di C-4 dappertutto. Se ne bastano duecentocinquanta grammi per abbattere un jet, a occhio e croce direi che qui ne hanno usato cinque volte tanto. Nascosto in qualcosa di simile a questa», spiegò, tirando fuori una sacca nera della Nike. «In una delle camere.» «Come avete fatto a stabilirlo?» domandai. «Be', abbiamo trovato questo appiccicato a una parete», rispose, mostrandomi un frammento di nylon nero con il logo della Nike. «Non ci sono impronte digitali, suppongo», dissi, poco speranzosa. «Mi dispiace», disse Clapper. «Questo è tutto ciò che resta di quella sacca.» «Doveva essere un congegno piuttosto sofisticato», intervenne Niko Magitakos. «Detonatore comandato a distanza, tramite cellulare.» «Potremmo controllare il mercato del C-4, vedere se ci sono stari furti in qualche cantiere edile o in un arsenale militare», propose Charlie Clapper.
«Ci sai fare con le bambine, Charlie?» gli chiesi. «Purché siano maggiorenni», mi rispose con un sorriso malizioso. «Perché? Sei pronta a una nuova relazione?» Se Clapper fosse stato venti centimetri più alto, avesse pesato venti chili di meno e non fosse stato sposato da trent'anni, magari mi sarei lasciata corteggiare. «Mi spiace, ma questa è minorenne.» «Avete ritrovato la figlia dei Lightower?» chiese Clapper stupefatto. Annuii. «Vorrei che cercassi le impronte sulla bambina, sulla copertina, sul porte-enfant e su tutto il resto.» «Sono trent'anni che non cambio un pannolino», replicò Clapper con una smorfia. «Oh, a momenti mi dimenticavo...» Prese una bustina da sotto una pila di carte sulla sua scrivania. «Vicino alla nursery c'era una stanza. Ci ha dormito qualcuno. Che non abbiamo ancora trovato.» La baby-sitter, pensai. «Non farti illusioni», disse Clapper con un'alzata di spalle. «Era tutto bruciato. Ma abbiamo ritrovato questo vicino al letto.» Mi gettò la bustina di plastica. Conteneva un oggetto che doveva essere stato cilindrico, lungo sette o otto centimetri. Lo guardai bene, ma non avevo idea di che cosa potesse essere. «È praticamente fuso.» Clapper alzò le spalle. Frugò nelle tasche della giacca, appesa allo schienale della sedia, e ne estrasse un oggetto molto simile. «Proventil», dichiarò. Tolse il tappo dello spray e lo posizionò sull'oggetto nella bustina. Combaaava perfettamente. Premette due volte il boccaglio, producendo due sbuffi. «La persona che ha dormito in quella camera soffre di asma.» 23 Jill Bernhardt rimase nel suo ufficio avvolto nella penombra anche quando tutti ormai se n'erano già andati. Aveva sotto gli occhi un documento e di colpo si rese conto che stava leggendo la stessa pagina da almeno dieci minuti. Aveva preso l'abitudine di fermarsi in ufficio fino a tardi, le sere in cui Steve non era fuori città per lavoro. Faceva di tutto per evitarlo, anche se non aveva processi da preparare. Jill Meyer Bernhardt, la stimata professionista, la donna affermata e sicura di sé, aveva paura di tornare a casa.
Si massaggiò il livido sulla spina dorsale, il più recente. Com'era potuto succedere? Lei, abituata a difendere in tribunale donne nella sua stessa situazione, nascondeva un simile segreto... Le scese una lacrima sulla guancia. È cominciato tutto quando ho perso il bambino, pensò. Ma no, sapeva benissimo che i problemi con Steve erano iniziati molto prima. Si era appena laureata, lui stava finendo il master in economia. Le prime volte era successo per via delle sue scelte in fatto di abbigliamento, abiti che lui non gradiva, o che lasciavano intravedere i segni, oppure in occasione di cene a cui le opinioni di Steve in fatto di politica, di lavoro o di qualsiasi altra cosa dovevano sembrare più forti e interessanti delle sue, o a cui lui fingeva di aver pagato di tasca propria la casa e la BMW. Non puoi continuare così, Jill. Se lo ripeteva da quando l'aveva conosciuto. Si asciugò gli occhi con il dorso della mano. Era sostituto procuratore, che cosa doveva dimostrare? Squillò il telefono, facendola sussultare. Che fosse Steve? Il solo suono della sua voce le metteva ansia. Quel suo tono viscido, fintamente preoccupato, premuroso: «Cara, che cosa stai facendo? Dài, torna a casa. Facciamo qualcosa insieme». Sollevata, riconobbe sul display il numero di un sostituto procuratore di Sacramento, che la richiamava per la scarcerazione di un teste. Jill lasciò scattare la segreteria. Chiuse il documento che stava leggendo, ripromettendosi di non lasciarsi maltrattare mai più. Ne avrebbe parlato con Lindsay. Le dispiaceva non essere stata sincera con lei. Lindsay non aveva una buona opinione di Steve: non era una stupida. Mentre riponeva le sue carte nella ventiquattrore, il telefono suonò di nuovo. Questa volta lo squillo le parve diverso, particolarmente penetrante. Non rispondere! Era già quasi sulla porta, ma qualcosa la convinse a controllare il display. Nel vedere quel numero conosciuto si sentì mancare. Prese la cornetta. «Bernhardt», rispose a voce bassissima, chiudendo gli occhi. «Sei ancora in ufficio, tesoro?» Era Steve. «Potrei quasi pensare che hai paura di tornare a casa», le disse in tono quasi offeso. 24 Quella sera, George Bengosian era stato fortunato.
Era basso e quasi calvo, con il naso grosso e schiacciato, e durante il periodo di tirocinio in ospedale aveva capito di non essere tagliato per l'urologia e aveva deciso di rilevare una serie di piccole compagnie di assicurazione sanitaria in crisi, che dopo la fusione erano diventate uno dei colossi del settore. Aveva capito anche di non essere il tipo che fa innamorare le belle donne. Perciò non immaginava certo che l'analista sexy conosciuta al convegno nazionale della Bank of America Health Care potesse sentirsi attratta da lui. Invece Mimi sembrava trovarlo irresistibile e aveva accettato di andare con lui nella sua suite al Clift. «È all'ultimo piano: vedrai che panorama!» Aprendo la porta della suite, le sfiorò con un dito le spalline del reggiseno sotto la camicetta trasparente, immaginando già il suo seno procace e il suo sguardo languido. Presiedere una compagnia di assicurazioni faceva un certo effetto sulle donne... «Mi aspetti solo un istante?» chiese Mimi, pizzicandogli un braccio e dirigendosi verso la toilette. «Purché sia uno solo», ribatté Bengosian, facendo il broncio. Tolse il cellofan alla bottiglia di Roederer, cortese omaggio dell'hotel, e riempì due bicchieri. Aveva cinquantaquattro anni e sperava di riuscire a soddisfare quella donna tanto più giovane di lui. La mattina dopo doveva prendere l'aereo e andare a una riunione della commissione sanità del Senato dell'IUinois, che era stata opportunamente convinta a chiudere un occhio mentre lui escludeva dal piano sanitario le fasce di reddito più basse e i soggetti a più alto rischio: una manovra che gli avrebbe permesso di negare i rimborsi per le spese sanitarie a centoquarantamila famiglie e d'intascare un sacco di soldi. Mimi uscì dal bagno, più bella che mai. Bengosian le porse un bicchiere. «Alla tua», disse. «Anzi, alla nostra. A stasera.» «Ai tuoi successi.» Mimi sorrise, facendo tintinnare i bicchieri. «Ehi, vuoi provare una cosa fantastica?» gli disse poi posandogli una mano sul braccio. «Con questa, il successo è assicurato.» Gli mostrò una fialetta. «Tira fuori la lingua.» Bengosian ubbidì e la ragazza gli fece cadere due gocce di liquido in bocca. Era amaro, e Bengosian fece una smorfia. «Non potrebbero farlo aromatizzato alla ciliegia?» «Ancora una goccia, dai», lo incoraggiò lei con un sorriso malizioso. «Così siamo sicuri che sarà una serata meravigliosa.»
Bengosian tirò di nuovo fuori la lingua. Aveva il cuore che batteva all'impazzata. Mimi gli diede un'altra goccia di liquido e cambiò faccia: assunse un'espressione gelida, dopodiché gli versò il resto della fiala direttamente in gola. Bengosian cercò di sputare, ma lei lo costrinse a piegare la testa all'indietro e a deglutire. L'uomo aveva gli occhi fuori delle orbite. «Ma che...?» «È veleno», disse Mimi, rimettendo la fiala vuota nella borsa. «Un veleno speciale, per un uomo speciale. La prima goccia ti avrebbe ucciso comunque nel giro di qualche ora. La quantità che hai in corpo basterebbe a far fuori mezza San Francisco.» Tossendo e sputacchiando, George Bengosian lasciò cadere per terra la coppa di champagne, che andò in mille pezzi. Quella donna doveva essere pazza. Lo prendeva in giro. Poi però sentì una fitta violentissima all'addome. «Per tutta la povera gente che hai rovinato, Bengosian. Non li conoscevi nemmeno, vero? Ma quei poveretti contavano su di te, sulla tua compagnia di assicurazioni. Ti ricordi Felicia Brown? È morta di un melanoma curabile. E Thomas Ortiz? Sono certa che il reparto gestione rischi se lo ricorda. Si sparò perché non poteva pagare le cure mediche al figlio, che aveva un tumore al cervello. Sei stato sordo alle loro implorazioni e ora hai diversi morti sulla coscienza, Bengosian.» Bengosian sentì una fitta insopportabile allo stomaco e cominciò a sbavare. Sputò, si sporcò tutta la camicia, ma il dolore allo stomaco e al ventre continuava, bruciante, intollerabile. Sapeva che cosa gli stava succedendo. Edema polmonare, lesioni immediate e irreparabili di tutti gli organi interni. Chiedi aiuto! si disse. Corri fuori e chiama qualcuno! Ma gli stavano già cedendo le gambe. Mimi restò a guardarlo con un sorriso maligno dipinto sul volto. Bengosian protese una mano verso di lei per colpirla, strozzarla, ucciderla. Ma era ormai senza forze... «Ti prego...» Non era uno scherzo, questo era chiaro. La donna gli si inginocchiò accanto. «Che effetto fa implorare invano, Bengosian? Su, apri bene la bocca. Forza!» Bengosian cercava di respirare, ma non gli entrava più aria nei polmoni. Aveva la lingua mostruosamente gonfia. Mimi gli mise davanti agli occhi un foglio azzurrino. O, perlomeno, a lui parve azzurrino, ma aveva la vista annebbiata, non distingueva più quasi nulla. Riconobbe, sfuocato, il logo
della Hopewell, la sua compagnia di assicurazioni. Mimi appallottolò il foglio e glielo ficcò in bocca. «La ringraziamo di essersi rivolto alla nostra compagnia, ma purtroppo non possiamo accordarle alcuna copertura assicurativa.» 25 Mi stava squillando il cellulare. Era notte fonda. Mi tirai su a sedere di scatto e guardai la sveglia. Cazzo, le quattro del mattino! Assonnata, presi il telefono e cercai di vedere chi mi stava chiamando. Paul Chin. «Che cosa è successo?» domandai. «Scusa, capo. Sono al Clift Hotel. Penso che dovresti raggiungermi al più presto.» «Hai scoperto qualcosa?» Non era una domanda da fare, a quell'ora. Se uno ti chiama alle quattro del mattino, un motivo ci dev'essere. «Sì. Il caso Lightower si sta complicando.» Otto minuti dopo, in jeans e maglietta, capelli ravviati alla bell'e meglio, salii sulla mia Explorer e mi diressi lungo Vermont verso la 7th con le luci di emergenza che brillavano nella notte deserta. Davanti all'hotel c'erano tre auto della polizia e un'ambulanza. Il Clift era uno degli alberghi storici della città ed era stato ristrutturato di recente. Mostrai il distintivo agli agenti di guardia all'entrata, che ammiravano stupiti i divani in pelle e i trofei alle pareti. A parte gli agenti, nella hall c'erano soltanto alcuni dipendenti dell'albergo che si guardavano intorno esterrefatti, senza sapere che cosa fare. Presi l'ascensore e salii all'ultimo piano, dove mi aspettava Chin. «La vittima è George Bengosian, presidente di una compagnia di assicurazioni sulla salute», mi spiegò, facendomi strada verso la suite. «Preparati: non è un bello spettacolo.» Guardai il morto, che era appoggiato alla gamba di un tavolo in un salottino di gran lusso. Aveva un colorito fra il giallo e il verde, la pelle flaccida e gli occhi sbarrati. Dal naso gli colava un liquido arancione, vischioso, che gli si era raggrumato orribilmente sul mento. «Che cosa gli è successo?» chiesi al medico legale che gli si era accovacciato accanto. «Ha avuto una colluttazione con un alieno?» Il medico sembrava confuso. «Non saprei. Non riesco a capire.»
«Siete sicuri che sia stato un omicidio?» chiesi a Chin. «Il concierge ha ricevuto una chiamata alle due e quarantacinque», mi spiegò con un'alzata di spalle. «Esterna. Diceva di salire nell'attico, che c'era della spazzatura da portare via.» «Okay, mi basta.» «Non è tutto, comunque», aggiunse Chin, mostrandomi un foglietto appallottolato che teneva tra le mani protette da guanti di lattice. «Aveva questo in bocca.» Sembrava un modulo. In cima c'era il logo di una compagnia di assicurazioni: Hopewell Health Care. Era una sorta di estratto conto, cui erano state aggiunte alcune righe di testo. Cominciai a leggere, e mi sentii accapponare la pelle. Abbiamo dichiarato guerra ai rappresentanti dell'avidità e della corruzione nella nostra società. Non possiamo più stare a guardare l'arroganza con cui i potenti si arricchiscono alle spalle dei poveri, dei deboli e degli oppressi. L'era dell'apartheid economico è al tramonto. Vi troveremo, per quanto grandi siano le vostre dimore e potenti i vostri avvocati. Ci siamo infiltrati nelle vostre case e nelle vostre aziende. La rivoluzione non è un miraggio, è qui alle porte. Oh, cazzo! Guardai Chin. Non era un omicidio, ma un'esecuzione. Una dichiarazione di guerra. Chin aveva ragione: il caso Lightower si era complicato. Il foglio era firmato August Spies. PARTE SECONDA 26 La prima persona che chiamai fu Claire. Nel giro di un'ora quell'omicidio raccapricciante e, a quanto pareva, casuale sarebbe finito sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo come il secondo di una spirale di terrore. Dovevo accertare in che modo era morto Bengosian, e al più presto. La seconda persona a cui telefonai fu Tracchio. Non erano ancora le cinque del mattino. Il centralinista del turno di notte me lo passò.
«Sono Lindsay Boxer», dissi. «Mi avevi chiesto di avvertirti subito, se fosse successo qualcosa.» «Sì», borbottò lui, armeggiando con il telefono. «Sono al Clift Hotel. Abbiamo appena scoperto il movente dell'attentato, credo.» Immaginai che si fosse tirato su a sedere di scatto nel letto, lasciando cadere gli occhiali per terra. «Quelli della X/L Systems hanno finalmente sputato il rospo? Non era una questione di soldi, vero?» «No», risposi, scuotendo la testa. «È una guerra.» Dopo la telefonata a Tracchio, perlustrai la suite di Bengosian. Non c'erano macchie di sangue o altre tracce di colluttazione. Sul tavolo c'era una coppa di champagne e ai piedi del cadavere i cocci di un'altra. La giacca del morto era sul divano. C'era una bottiglia di Roederer aperta. «Fatti descrivere la persona con cui è salito in camera», ordinai a Lorraine Stafford, una delle detective della mia squadra. «Se siamo fortunati, le telecamere a circuito chiuso l'hanno ripresa. E cerca di scoprire dove ha passato la prima parte della serata.» «Abbiamo dichiarato guerra ai rappresentanti dell'avidità e della corruzione», diceva il foglio. Mi vennero i brividi. Non era finita lì. Dovevo cercare di scoprire tutto il possibile a proposito di Bengosian e della sua compagnia di assicurazioni: che cosa poteva aver fatto per essere ucciso in un modo tanto orribile? Presi in mano il foglio che gli era stato ficcato in bocca. Vi troveremo, per quanto grandi siano le vostre dimore e potenti i vostri avvocati. Ci siamo infiltrati nelle vostre case e nelle vostre aziende. La rivoluzione non è un miraggio, è qui alle porte. Chi diavolo sei, August Spies? 27 Quando la gente sentì i primi notiziari del mattino, avevamo un identikit della «bella mora in tailleur» (definizione del portiere di notte dell'albergo) che sembrava «affascinata dal suo accompagnatore» (commento del cameriere che li aveva serviti da Masa's) ed era salita in camera con lui. Doveva essere l'assassina o la complice che aveva aperto la porta al
killer. E non corrispondeva affatto alla descrizione della baby-sitter dei Lightower. Alzai gli occhi dai giornali aperti sulla mia scrivania e vidi Claire. «Hai un momento, Lindsay?» Claire manteneva sempre l'ottimismo, anche nei casi più terribili, ma vidi subito che quel che aveva scoperto non le piaceva affatto. «Mi dispiace averti tirato giù dal letto a un'ora così assurda», dissi. Per tutta risposta, mi rivolse uno sguardo preoccupato. «Faccio questo lavoro da dieci anni», mormorò, sedendosi di fronte alla mia scrivania e scuotendo la testa. «Non ho mai visto un corpo ridotto in quello stato.» «Raccontami tutto», replicai. «Non so da che parte cominciare. Collasso vascolare e polmonare, organi interni praticamente liquefatti, emorragie diffuse in tutto il tratto gastrointestinale, necrosi massiva della milza e dei reni... Una devastazione totale, Lindsay», concluse, vedendo che stentavo a seguirla. Alzai le spalle: «Causata da un veleno?» «Sì, ma di una tossicità mai vista. Ho controllato la letteratura in merito. Una volta eseguii l'autopsia su un ragazzino con un collasso vascolare e un edema diffuso di proporzioni analoghe. Pensa un po', era stata una reazione molto rara all'olio di ricino. Ma qui non ho trovato tracce di semi di ricino. Perciò credo che sia stato ucciso con la ricina. Una proteina estratta dai semi di ricino, relativamente facile da produrre in grandi quantità.» «Ovviamente tossica, dico bene?» «Estremamente tossica. Seimila volte più potente del cianuro», specificò Claire. «Ne basta una goccia di dimensioni infinitesimali per uccidere un uomo. Si può anche diffondere nell'aria, ma da sola non può ridurre così un essere umano a meno che...» «A meno che non...» «A meno che non sia stata somministrata in quantità massicce e tali da accelerare di dieci, o addirittura cinquanta volte, il ciclo distruttivo. Bengosian è morto prima ancora che gli cadesse di mano la coppa, ma la ricina in genere uccide nel giro di diverse ore. Produce sintomi simili a quelli dell'influenza, dolori gastrointestinali, liquido nei polmoni. Invece Bengosian è rientrato in albergo alle undici e mezzo e alle tre meno un quarto hanno avvertito il concierge. Capisci?» «Abbiamo mandato i frammenti della coppa al laboratorio. Che cosa può risultare dalle analisi?»
«Non mi interessano le analisi, Lindsay. Mi chiedo perché ucciderlo a questo modo, quando un decimo di quella dose di veleno l'avrebbe mandato al Creatore comunque.» Capivo dove voleva andare a parare. Entrambi gli omicidi erano stati accuratamente preparati e pianificati: l'assassino aveva studiato le sue vittime e aveva a disposizione armi spaventose. «Ci siamo infiltrati nelle vostre case e nelle vostre aziende...» Ci stavano dicendo che potevano fare una strage, che disponevano di quantità di veleno sufficienti per far fuori migliaia di persone. «Questo è un avvertimento, Claire! Una dichiarazione di guerra.» 28 Chiamammo tutti a raccolta. Autorità sanitarie, pubblica sicurezza, FBI: non ci stavamo più occupando di due omicidi, ma di un'azione terroristica. La baby-sitter sembrava sparita dalla faccia della terra. Jacobi e Cappy avevano fatto circolare la sua foto nei bar intorno al campus senza cavare un ragno dal buco. Per fortuna Cindy aveva scritto un bell'articolo sulla X/L Systems e Chuck Zinn, con la sede della ditta assediata dai giornalisti e la prospettiva di vedermi tornare con un mandato, mi fece sapere che era disposto a trattare. Un'ora dopo, arrivò nel mio ufficio. «Abbiamo deciso di metterle a disposizione computer e archivi, tenente. Anzi, se vuole risparmiarsi la fatica, le dirò che Morton aveva ricevuto una serie di e-mail sospette, nelle ultime settimane. Sono arrivate a tutto il consiglio di amministrazione, non solo a lui. Nessuno le aveva prese sul serio, ma avevamo chiesto alla sicurezza interna di indagare.» Aprì la ventiquattrore di pelle e mi posò una cartellina arancione sulla scrivania. «Gliele ho stampate, tenente. In ordine cronologico.» Aprii la cartellina e mi vennero i brividi. Al consiglio di amministrazione della X/L Systems. Il 15 febbraio Morton Lightower, amministratore delegato della vostra azienda, ha venduto 762.000 azioni della ditta per un totale di 3.175.000 dollari. Lo stesso giorno, circa 256.000 vostri azionisti hanno registrato una perdita che ha portato a un -87% netto la resa del loro investimento nell'ultimo anno. 35.341 bambini sono morti di fame, in tutto il mondo.
11.174 persone negli Stati Uniti sono morte di malattie che sarebbero state curabili, se adeguatamente trattate. Lo stesso mercoledì, 4.233.768 madri hanno messo al mondo bambini in condizioni di estrema miseria e vulnerabilità. Negli ultimi ventiquattro mesi voi avete venduto azioni della vostra azienda per un valore di 600.000.000 dollari per acquistare case nel Colorado o in Francia, senza dare nulla al mondo. Vogliamo che, per ogni vostra speculazione in Borsa, contribuiate in pari misura alla lotta contro la fame nel mondo e al sostegno dei sistemi sanitari dei paesi poveri. Vogliamo che i consigli di amministrazione della X/L Systems e di tutte le altre aziende degli Stati Uniti guardino al di là delle miopi strategie espansionistiche che li contraddistinguono e prendano coscienza che il mondo soffre dell'attuale gravissimo apartheid economico. La nostra non è una proposta, ma una precisa richiesta. Si goda la sua ricchezza, Lightower. La piccola Caitlin conta su di lei. August Spies Scorsi le altre e-mail, tutte dello stesso tenore aggressivo. L'elenco delle porcherie del mondo si allungava. Lei ci ignora, Lightower. Il consiglio di amministrazione non ha ottemperato alle nostre richieste, quindi passeremo all'azione. La piccola Caitlin conta su di lei. Guardai Zinn allibita. «Come avete potuto tenerci nascosta questa roba? Avremmo potuto impedire il massacro.» «Con il senno di poi, capisco che il nostro possa sembrare un errore.» L'avvocato abbassò la testa. «Ma le aziende ricevono continuamente minacce.» «Questa non è una semplice minaccia.» Buttai i fogli sul tavolo. «È un tentativo di estorsione, un ricatto. Lei è un avvocato, non può esserle sfuggito il riferimento alla figlia di Lightower. È venuto qui per trattare? Bene, questa roba non uscirà di qui. La firma su queste e-mail resta fra noi. Ma una nostra squadra verrà da voi a cercare di risalire a chi le ha inviate.» «Capisco.» Annuì, umile, con la mano sulla cartellina. Controllai gli indirizzi delle e-mail.
[email protected].
[email protected]. Stessa firma, August Spies. Mi voltai verso Jacobi. «Che cosa ne pensi, Warren? Secondo te riusciremo a risalire al mittente?» «Vi faremo parlare con la nostra sicurezza interna», propose Zinn. «Siete riusciti a capire chi ha inviato queste e-mail?» Lo guardai scioccata. «Ci occupiamo di sicurezza elettronica, no? Si tratta di provider gratuiti, senza utenti paganti registrati. Per aprire questi account non ci vuole nulla. Si va in una biblioteca, in un aeroporto, ovunque ci sia un terminale collegato accessibile a tutti, e se ne apre uno. Questa, per esempio, è stata inviata da un terminale dell'aeroporto di Oakland, questa da un Kinko's vicino a Berkeley, queste due da una biblioteca. Informazioni inutili.» Immaginavo che Zinn si intendesse di queste cose e avesse ragione. Mi colpì il riferimento a Berkeley e alla biblioteca. «Forse non ci dicono chi le ha inviate, ma da dove sì.» «La repubblica popolare di Berkeley», disse Jacobi, sbuffando. «Sai che sorpresa.» 29 Mi allontanai dall'ufficio solo il tempo necessario per mangiare un boccone con Cindy Thomas. Prendemmo qualcosa al take-away Long Life Noodle Company e ci sedemmo nel parco di Yerba Buena. «Hai letto il Chronicle di stamattina?» mi chiese, prendendo con le bacchette un pezzetto di maiale. «Abbiamo messo sotto tiro la X/L Systems.» «Grazie», dissi. «Non credo ci sarà bisogno di un secondo articolo.» «Adesso però tocca a te dirmi qualcosa.» «Cindy, temo che non continuerò a indagare ancora per molto su questa vicenda, specie se trapelerà qualcosa alla stampa.» «Almeno dimmi se è giusta la mia sensazione che ci sia una relazione fra i due casi», replicò, guardandomi dritta in faccia. «Che cosa te lo fa pensare?» «Per la miseria!» ridacchiò. «Due imprenditori uccisi a due giorni di distanza nella stessa città, entrambi in aziende che negli ultimi tempi sono state molto chiacchierate...» «Le modalità dell'omicidio sono completamente diverse.» Cercavo di tenere duro. «Davvero? Be', da una parte abbiamo un avido riccastro che si mette in tasca decine di milioni di dollari mentre le azioni della sua società scendo-
no in picchiata, dall'altra un assicuratore che si nasconde dietro un gruppo di lobbisti iperpagati per arricchirsi ai danni di poveracci. Muoiono tutti e due ammazzati. Qual era la domanda, Lindsay? Perché penso che ci sia una relazione fra i due casi?» «Okay.» Sospirai. «A una condizione, però: che nulla esca sui giornali senza la mia autorizzazione.» «C'è qualcuno che ce l'ha con questa gente, vero?» Non si riferiva ai due morti, ma a future minacce. Posai la vaschetta di spaghettini cinesi. «Cindy, tu ti tieni aggiornata su quel che succede dall'altra parte della baia, vero?» «A Berkeley? Un po'. Ogni tanto vado a qualche conferenza di giornalisti famosi.» «Intendevo dire se sei aggiornata su quel che succede al di fuori del mondo dei media. In particolare su gente capace di far scoppiare dei casini.» La guardai preoccupata. «Questo genere di casini.» «Capisco», replicò. Dopo un attimo di silenzio, fece spallucce. «Malcontento tra la gente ce n'è. Siamo tutti talmente abituati a fare parte del sistema che ci scordiamo che cosa vuol dire stare dall'altra parte. C'è gente che non ne può più, non so come dire. Gente che non riesce a diffondere il proprio messaggio.» «Che genere di messaggio?» chiesi. «Quello che a te non arriverebbe mai. Perdio, sei della polizia! Sei a mille miglia di distanza da queste cose. Non dico che non hai una coscienza sociale, Lindsay, ma che cosa fai quando leggi che il venti per cento della popolazione in questo paese non ha un'assicurazione sanitaria o che in Indonesia bambine di dieci anni passano le giornate a cucire palloni per la Nike a un dollaro al giorno? Giri pagina, come faccio io. Insomma, se vuoi che ti dia una mano, ti devi fidare di me.» «Ti do un nome», le dissi. «Che per il momento non può assolutamente comparire sui giornali. Ne parlerai a suo tempo. Indaga un po' e riferisci a me direttamente. Non voglio sentire storie tipo 'non intendo rivelare le mie fonti'. Prima di tutto, devi parlarne con me. Capito? Ci stai?» «Ci sto», disse Cindy. «Dammi il nome.» 30 «Bellissima», sussurrò Malcolm socchiudendo gli occhi dietro le lenti d'ingrandimento per ammirare la bomba sul tavolo della cucina.
Con mano salda, spostò i cavetti rossi e verdi che collegavano l'esplosivo al detonatore a innesco e modellò il C-4, morbido come stacco, in maniera che entrasse nella ventiquattrore. «Peccato doverla distruggere», aggiunse, orgoglioso del proprio lavoro. Michelle era entrata nella stanza in punta di piedi e gli aveva posato una mano tremante sulla spalla. Malcolm sapeva che aveva paura di quegli ordigni. «Rilassati, tesoro. Non ti preoccupare: così com'è adesso questa roba è la più stabile del mondo.» Julia era seduta per terra a guardare la TV. Si era tolta la parrucca, dopo il lavoro della sera prima. Il programma che stava seguendo fu interrotto per un aggiornamento sull'omicidio al Clift Hotel. «Sentiamo», disse, alzando il volume. «Se la polizia non mette ancora in relazione la morte di Bengosian con l'attentato dinamitardo di domenica al guru dell'informatica, fonti attendibili sostengono che esisterebbe un legame fra i due episodi, confermato da alcuni indizi. Una donna mora di bell'aspetto sui venti o trent'anni sarebbe stata vista entrare in albergo assieme a George Bengosian ieri sera.» Julia alzò ulteriormente il volume. «Di bell'aspetto?» sorrise. «Peccato che non lo posso scrivere nel mio book. Che ne dite?» Si mise in testa la parrucca e assunse una posa da modella. Michelle finse di ridere, ma era preoccupata: aveva perso il suo spray. E poi lei non era come Julia che la sera prima aveva ucciso un uomo guardandolo in faccia, e adesso ci rideva sopra. «Amore, sii gentile», disse Malcolm, voltandosi dalla sua parte. «Metti due dita qui, per favore.» Collegò il detonatore al C-4 e sistemò il cellulare nell'apposito incavo modellato nell'esplosivo. «Questa è la parte più delicata. Tienimi i cavetti rossi e verdi, per favore, in modo che non si incrocino... Perché se si incrociano succede un casino, lo sai, vero?» Malcolm la prendeva sempre in giro. «Sei una vera oca del Wisconsin», le diceva ridendo. Ma adesso lei aveva dimostrato di che cosa era capace. Mise un dito sul cavetto, cercando di far vedere che era coraggiosa, che non era una stupida contadina. «Non ti preoccupare», le disse Malcolm strizzandole l'occhio. «Questa storia dei cavetti che si incrociano e salta in aria tutto è roba da film. Il difficile è collegare i due cavetti alla suoneria e non alla batteria del cellulare, altrimenti ci trovano sparsi a pezzetti fino a Eau St. Claire.» Dov'era nata lei.
Le tremava il dito: non sapeva se Malcolm stava scherzando oppure no. «Fatto.» Malcolm sospirò e si tolse gli occhiali, poi spinse all'indietro la poltroncina girevole. «È pronto. Basterebbe a far saltare in aria la cupola del municipio. Anzi, ora che ci penso: non sarebbe neppure una cattiva idea!» Poi chiese a Michelle: «Facciamo una piccola prova, cosa dici?» La ragazza era titubante. «E dài! Hai una faccia... Sembra che hai visto un fantasma!» le disse in tono beffardo. Poi le porse un secondo cellulare. «Il numero è già impostato. Fino al quarto squillo non succede niente. Voglio dire: il quarto squillo non lo devi sentire proprio. Avanti, cara, falla scoppiare.» Michelle scosse la testa e gli restituì il cellulare. Malcolm sorrise. «Non ti preoccupare, senza collegamento non scoppia. È tutto calcolato.» Michelle trasse un respiro profondo e premette il tasto INVIO, per vedere se ne era capace. Un secondo dopo, il telefono sistemato nella valigetta suonò. «Contatto.» Malcolm le strizzò l'occhio. Michelle si sentì mancare. Malcolm era troppo sicuro di sé: è vero che aveva calcolato tutto, ma qualcosa poteva sempre andare storto. In Medio Oriente, un sacco di palestinesi saltavano in aria mentre preparavano le loro bombe. Bip. Guardò la ventiquattrore. Secondo squillo. Cercò di darsi un contegno, ma le tremava la mano. «Ti prego, Malcolm.» Tentò di restituirgli il cellulare. «Guarda un po' tu. Io non...» «Ti prego cosa, Michelle?» Malcolm le strinse un polso. «Non ti fidi di me?» Il telefono nella bomba squillò di nuovo. Per la terza volta. Michelle era terrorizzata. «Piantala, Mal.» Cercò il tasto di fine chiamata. Il quarto squillo avrebbe voluto dire la fine. «Ti prego, Malcolm, mi fai paura.» Invece di ascoltarla, Malcolm le prese la mano, immobilizzandogliela. Michelle non sapeva più che cosa aspettarsi. «Gesù, Mal, sta per...» Bip. Quarto squillo. Un rumore acuto e stridulo fendette l'aria. Michelle fissò il telefono, poi la bomba. La quale cominciò a vibrare. Oh, merda! Michelle guardò Malcolm negli occhi.
Suonò un timer. Nessun lampo, solo un clic. Malcolm rideva. Sollevò il detonatore ancora scollegato. «Te l'ho detto, tesoro: senza collegamento, non scoppia. Che cosa ne pensi, allora? A me sembra che funzioni bene.» Michelle si rilassò, ma dentro di sé era furibonda. Avrebbe voluto prendere Malcolm a pugni, ma era troppo stanca. E aveva la T-shirt bagnata di sudore. Malcolm si avvicinò di nuovo alla bomba, con il detonatore in mano. «Pensavi che volessi farla scoppiare?» Scosse la testa. «Non me lo sogno nemmeno. Ha una missione importante da compiere, questa qui. Deve far saltare in aria San Francisco.» 31 Verso le sette, ero di nuovo alla mia scrivania. Gli uomini della mia squadra erano in giro a seguire le varie piste che avevamo. Cindy mi aveva portato una copia di un libro intitolato Capitalismo vampiro, dicendo che mi avrebbe dato un'idea degli umori che si stavano diffondendo tra i nuovi radicali. Scorsi i capitoli intitolati «Il fallimento del capitalismo», «Apartheid economico», «Economia dello sfruttamento» e «L'apocalisse dell'avidità». Non mi ero accorta che sulla porta c'era Jill. Bussò, facendomi fare un salto sulla sedia. «Ti vedesse John Ashcroft... L'anima delle forze dell'ordine della città che legge Capitalismo vampiro?» «Per lavoro.» Sorrisi, imbarazzata. «Mi serve per il serial killer bombarolo.» Indossava un tailleur pantaloni rosso e un Burberry e aveva una cartella di pelle piena di documenti. «Ti andrebbe un aperitivo?» «Molto volentieri, ma prima devo finire di leggere questo», dissi battendo il libro sulla scrivania. E le porsi un sacchetto di noccioline. «Che cosa fai? Dirigi il reparto 'Autori sovversivi'?» «Molto spiritosa», replicai. «Ti dirò una cosa che sicuramente non sapevi. Bill Gates, Paul Alien e Warren Buffy l'anno scorso hanno guadagnato più di trenta dei Paesi più poveri del mondo messi insieme, che costituiscono un quarto della popolazione mondiale.» Jill sorrise. «È bene che sviluppi la tua coscienza sociale, dato il lavoro che fai.» «C'è una cosa che mi turba, Jill. Il messaggio nello zainetto fuori della
casa di Lightower, il foglietto appallottolato nella bocca di Bengosian... Gli assassini hanno dichiarato chiaramente il movente dei loro omicidi, però ci stanno provocando. Perché questo gioco?» Jill posò una scarpa rossa sul bordo della mia scrivania. «Non saprei proprio. È il tuo lavoro, mica il mio. Io li sbatto dentro e stop.» Ci fu un attimo di silenzio carico di tensione. «Ti spiace se cambio argomento?» «Parliamo delle tue noccioline», disse con un'alzata di spalle, mettendosene una in bocca. «Non so se è una scemenza o no. Mi sono un po' preoccupata, domenica, quando siamo andate a correre. Quei lividi che hai sulle braccia, Jill... Mi hanno fatto venire dei pensieri...» «Di che tipo?» La guardai negli occhi. «È ovvio che non te li sei procurata scivolando nella doccia, Jill. Capisco che per te sia difficile ammettere di essere umana come tutti noi. So che volevi quel bambino, poi è morto tuo padre... Okay, in apparenza hai tutto sotto controllo, ma forse non è proprio così. Però non vuoi parlarne con nessuno, nemmeno con noi. Insomma, Jill, io non so niente di quei lividi, ma vorrei che mi spiegassi da dove vengono.» La luce caparbia nei suoi occhi per un attimo tentennò, come se fosse sul punto di arrendersi. Forse avevo esagerato, ma ero sicura che Jill fosse mia amica. E che avevo fatto bene a sollevare l'argomento. «Su una cosa forse hai ragione», replicò dopo un po'. «Quei lividi non me li sono fatti scivolando nella doccia.» 32 Certi delitti sono brutali, ingiustificabili e disgustosi, ma il loro movente è chiaro. In determinati casi, riesco persino a capirli. Esistono poi le crudeltà nascoste, fatte per non essere mai scoperte, che non intaccano la superficie ma distruggono l'interiorità della persona, annientando quel che di umano c'è in ognuno di noi. Sono proprio queste a mettermi più in crisi, a spingermi a chiedermi perché faccio questo mestiere. Dopo che Jill mi ebbe confidato come stavano le cose fra lei e Steve, dopo averla consolata e aver pianto con lei come una sorella, tornai a casa confusa. Jill era sconvolta, oppressa da una vergogna che non avrei mai più potuto dimenticare. Oh, Jill, povera Jill!
Il mio primo istinto fu di andare a casa loro con una bella denuncia per Steve, quello stronzo pieno di arie che maltrattava la mia amica. Non riuscivo a togliermi di mente Jill, la sua faccia, il suo sguardo spaurito. Sembrava una bambina, non la donna di successo che tutti conoscevamo, laureata a Stanford con il massimo dei voti, il sostituto procuratore che mandava in galera gli assassini. Quella notte, non riuscii a dormire. La mattina dopo cercai di concentrarmi sul caso. Gli esami di laboratorio confermavano le ipotesi di Claire. George Bengosian era morto avvelenato dopo aver ingerito una forte dose di ricina. Alla Corte di Giustizia la tensione era alle stelle e c'erano un sacco di agenti federali e di rappresentanti dei media. Mi sembrava di dovermi nascondere, per telefonare a Cindy e Claire. «Ho bisogno di vedervi», dissi loro. «È importante. Facciamo da Susie's a mezzogiorno?» Quando arrivai nel tranquillo caffè di Bryant Street, trovai Cindy e Claire già sedute in un séparé. Avevano l'aria preoccupata. «Dov'è Jill?» mi chiese Cindy. «Pensavamo venisse anche lei.» «Non l'ho invitata», risposi. Mi sedetti di fronte a loro. «È di lei che dobbiamo parlare.» «Okay...» Claire annuì, confusa. Raccontai loro dei lividi che le avevo visto sulle braccia quando eravamo andate a correre e dei miei sospetti. Spiegai che non mi erano affatto piaciuti e avevo temuto che, magari sconvolta dopo aver perso il bambino, se li fosse procurata da sola. «Ma il bambino l'ha perso un sacco di tempo fa!» protestò Cindy. «Ormai dovrebbe aver superato la cosa...» «Le hai chiesto spiegazioni?» domandò Claire, serissima. Annuii, guardandola negli occhi. «E cosa ti ha detto?» «Che non se li era fatta da sola.» Guardai Claire che mi scrutava, cercando di leggermi nel pensiero. Cindy sbatteva le palpebre: stava cominciando a capire. «Oh, Gesù!» esclamò Claire. «Non mi dirai che Steve...» Annuii. Rimanemmo in silenzio per un po', a disagio. Arrivò la cameriera a prendere le ordinazioni. Quando se ne fu andata, guardai le mie amiche. «Che stronzo!» Cindy scosse la testa. «Gli taglierei le palle.»
«Anch'io», esclamai. «Da quanto va avanti questa storia?» chiese Claire. «Non lo so. Jill dice che è per via del bambino, che Mister Tatto ha dato la colpa a lei dell'aborto. Pare l'abbia accusata di non valere niente come donna. Tanto brava nel lavoro, ma incapace di fare un figlio.» «Dobbiamo aiutarla», dichiarò Cindy. Sospirai. «E come?» «Deve mollarlo», disse Claire. «Può venire a stare da una di noi. Lei che cosa dice?» Dubitavo che Jill fosse d'accordo. «Non so se è pronta. Io credo che per adesso stia gestendo la vergogna che prova. Si sente inadeguata. Nei nostri confronti, forse anche in quelli di Steve. Ho l'impressione che una parte di lei voglia ancora dimostrargli che è in grado di essere anche una buona moglie e una buona madre.» Claire annuì. «Dobbiamo parlarle. Quando?» «Stasera», risposi. Guardai Claire. «Va bene.» La cameriera ci servì, ma a noi era passato l'appetito. Non mi chiesero neppure delle indagini. A un certo punto Claire scosse la testa e disse: «Come se non avessi già abbastanza problemi, tu». «A proposito», intervenne Cindy, prendendo in mano la borsa. «Ho una cosa per te.» Prese un blocco e strappò una pagina. Roger Lemouz, Dwinelle Hall, 555-0124. «Insegna a Berkeley. Dipartimento di linguistica. Esperto di globalizzazione. Preparati, perché la sua visione del mondo potrebbe non coincidere esattamente con la tua.» «Grazie. Dove te lo sei procurato?» Piegai il foglio e lo misi nella borsa. «Te l'ho detto, a mille miglia di distanza da te», rispose Cindy. 33 Cercai di non pensare a Jill e telefonai a Roger Lemouz. Era in ufficio. Parlammo brevemente e riuscii a fissare un appuntamento. Uscire mi fece piacere. In quel periodo andavo raramente in quella parte della baia. Parcheggiai vicino allo stadio, in una traversa di Telegraph Avenue, e mi avviai fra spacciatori e venditori ambulanti. Sproul Plaza era
piena di sole e di studenti con sandali e zainetti che leggevano sulle scale dell'università. L'ufficio di Lemouz era nella Dwinelle Hall, una costruzione di cemento dall'aria imponente al centro del campus. «Avanti», mi rispose una voce potente dall'accento europeo, quando bussai alla porta. Aveva un che di molto formale e colto, e mi chiesi se fosse inglese. Il professor Lemouz era seduto a una scrivania disordinatissima, in un ufficio piccolo, pieno di carte e di libri. Aveva la pelle olivastra e le spalle larghe, capelli ricci scuri che gli ricadevano sulla fronte e la barba di un giorno o due. «Tenente Boxer», mi disse. «Prego, si accomodi. Scusi il disordine.» Nella stanza c'era odore di chiuso e di fumo. Sulla scrivania c'erano un posacenere e un pacchetto di Rothmans senza filtro. Mi sedetti di fronte a lui e tirai fuori il blocco per gli appunti, poi gli porsi il mio biglietto da visita. «Squadra Omicidi», lesse Lemouz con una smorfia ammirata. «Ne deduco che non sia venuta da me per chiarire l'etimologia di qualche termine oscuro.» «Infatti», risposi. «Volevo parlare di un altro argomento che credo sia di suo interesse. Lei è al corrente di quello che sta succedendo a San Francisco?» Il professore sospirò. «Sì, anche noi topi di biblioteca ogni tanto mettiamo il naso fuori. Una tragedia. Del tutto controproducente, peraltro. Come diceva Fanon, la violenza è giudice e giuria di se stessa. Tuttavia, non mi ha sorpreso.» L'atteggiamento fintamente comprensivo di Lemouz mi risultò molesto quanto il trapano di un dentista. «Può spiegarsi meglio, professore?» «Ma certo, signorina. Se lei prima mi spiega come mai è qui.» «Tenente, prego», lo corressi. «Sono il responsabile della Squadra Omicidi. Ho saputo che lei potrebbe avere notizie di prima mano su ciò che sta succedendo da queste parti. Che potrebbe conoscere il background ideologico degli autori dei recenti attentati. Che mi potrebbe spiegare come mai far saltare in aria una villa uccidendo tre persone nel sonno e ammazzare un uomo con un veleno potentissimo è considerato da alcuni un'accettabile forma di protesta.» «Quando dice 'da queste parti', immagino si riferisca a Berkeley», disse Lemouz. «Non in particolare, signor Lemouz. Ovunque ci sia gente capace di
concepire delitti del genere.» «Professore», mi corresse. «Sono il coordinatore delle cattedre di lingue romanze.» Sorrise. «Questi omicidi non la sorprendono, ha detto.» «Perché dovrebbero?» chiese, stringendosi nelle spalle. «Un malato dovrebbe sorprendersi se si scopre delle ulcere sul corpo? La nostra è una società malata, tenente, e chi è maggiormente responsabile dei suoi malanni si rifiuta di ammettere le proprie colpe. Sa che le multinazionali attualmente hanno bilanci superiori al prodotto interno lordo del novanta per cento dei paesi del mondo? Hanno più potere a livello sociale dei governi che li reggono. Siamo tutti pronti a deprecare l'immoralità dell'apartheid quando si tratta di soprusi razziali, ma in campo economico chiudiamo gli occhi, perché non riusciamo a vedere le cose dalla parte degli emarginati. Le viviamo dal punto di vista dei potenti, delle multinazionali, dei network televisivi.» «Mi scusi, ma sono qui perché sto indagando su quattro omicidi. Sono morte delle persone.» «Lo so benissimo, tenente. La gente muore.» Avrei voluto prenderlo per il bavero della giacca e dargli una scrollata, ma mi limitai a tirare fuori la foto della baby-sitter e un identikit della donna ripresa in compagnia di George Bengosian dalle telecamere a circuito chiuso del Clift Hotel. «Ha mai visto queste due donne, professore?» Lemouz quasi scoppiò a ridere. «Perché dovrei aiutarla, mi scusi? È lo Stato il responsabile di queste ingiustizie, non queste due donne. Mi dica, secondo lei chi ha commesso il sopruso più grave? Queste due indagate o questi brillanti esempi di come funziona il sistema?» E mi sbatté sotto il naso la prima pagina del Chronicle. Guardai le foto di Lightower e di Bengosian. «Se sta per scoppiare una guerra, che scoppi», disse Lemouz ridendo. «Si ricorda le ultime parole registrate dalla scatola nera dell'aereo che si ribellò ai kamikaze l'11 settembre, diventate poi simbolo della riscossa americana contro il terrorismo?» Sorrise. «Let's roll, tenente.» Ripresi le foto, chiusi il blocco, riposi tutto nella borsa e mi alzai, stanca e disgustata. Uscii dall'ufficio del coordinatore delle cattedre di lingue romanze prima di cedere alla tentazione di mettergli le mani addosso. 34
Le affermazioni deliranti di Lemouz mi avevano innervosita oltremisura. Tornai in ufficio furente, anche perché mi pareva di non aver fatto alcun passo avanti verso la risoluzione dei delitti. Erano le sei passate. In preda a una cocente frustrazione, chiamai Cindy e le diedi appuntamento da Susie's, nella speranza di riuscire a concludere qualcosa almeno con le mie amiche, davanti a un piatto di quesadillas all'aragosta. Avevo appena messo giù il telefono quando arrivò Warren Jacobi. «Yank Sing», decretò. «Yank Sing?» «I ristoranti cinesi sono più adatti alle confidenze. E il deem sum è molto meglio delle quesadillas. Dovresti saperlo, tenente. Dicono che il pollo allo zenzero è stato la vera causa della caduta della dinastia Qin. Dove sei stata, a proposito?» Si sedette. Capii dal suo sorrisetto che aveva scoperto qualcosa. «A perdere del tempo nella repubblica popolare di Berkeley. Hai da dirmi qualcosa, a parte consigliarmi ristoranti?» «Forse abbiamo scoperto dove si nasconde la baby-sitter», mi rivelò con un gran sorriso. Mi balzò il cuore in gola. «È arrivata una telefonata da un Safeway dall'altra parte della baia. Il ragazzo che faceva il turno di notte dice di averla riconosciuta. Ci sono delle riprese, ce le stanno mandando. Pare che adesso abbia i capelli rossi e vada in giro con gli occhiali scuri, ma quando se li è tolti per contare i soldi alla cassa, il cassiere l'ha vista in faccia. Giura che è lei.» «Dove, esattamente?» «Harmon Avenue, Oakland.» Feci mente locale. Arrivammo tutti e due alla stessa conclusione. «Vicino al McDonald's in cui è stata ritrovata la piccola Caitlin.» Dal punto di vista geografico, le cose stavano cominciando ad assumere un senso. «Fai il giro dei negozi della zona con quella foto e vedi se la riconosce qualcun altro.» «Già fatto, Lindsay.» Gli vidi una luce birichina negli occhi: mi stava nascondendo qualcosa. «Abbiamo ricevuto un sacco di segnalazioni. Che cosa ti ha fatto pensare che questa avesse un senso?» gK chiesi in tono provocatorio, inclinando la testa da un lato. Warren mi strizzò l'occhio. «Ha comprato un inalatore per l'asma.»
35 Cindy, Claire e io avevamo quasi finito le nostre Corona e un piatto di ali di pollo, quando arrivò Jill. Si tolse il cappotto e venne a sedersi con aria stanca e nervosa. Ci rivolse un sorriso tirato, posò la ventiquattrore e si mise vicino a Claire. «Allora, chi comincia?» «Rilassati», le dissi io. «Vuoi una di queste? Un sorso di birra?» Le versai nel bicchiere il fondo della mia bottiglia. Brindammo. Jill era titubante. Ci fu un momento di silenzio in cui ognuna di noi cercò di trovare le parole giuste. Quante volte eravamo andate a cena fuori tutte insieme? Avevamo cominciato a frequentarci per risolvere un caso particolarmente spinoso e ci conoscevamo ormai da parecchio tempo. «All'amicizia», disse Claire. «Alle amiche su cui si può contare quando si è in difficoltà. Sempre e comunque, Jill.» «Sarà meglio che finisca di bere, prima di mettermi a piangere», disse Jill con gli occhi lucidi. Scolò un terzo di quel che aveva nel bicchiere in un sorso solo, poi prese fiato. «Okay, non voglio nascondermi dietro a qualche stupida scusa. Siete tutte al corrente, dico bene?» Annuimmo. «Telefono, telegrafo, tele-Boxer.» Mi fece l'occhiolino. «Se una di noi è in crisi, siamo in crisi tutte», disse Claire. «Sarebbe lo stesso, se invece che a te fosse capitato a un'altra di noi, no?» «Lo so.» Jill annuì. «Immagino che adesso mi direte che non corrispondo esattamente al genere di donna che si fa maltrattare dal marito.» «Penso che dovresti dirci come stai, piuttosto», replicai io. «Già.» Jill trasse un profondo respiro. «Prima di tutto, non è che mio marito mi picchi. Litighiamo furiosamente e Steve è fisicamente molto forte, però non mi ha mai mollato pugni o sberle.» Cindy stava per ribattere, ma Claire la trattenne. «So che questo non lo discolpa né lo giustifica. Comunque, ci tenevo a precisarlo.» Si morse un labbro. «Non so dirvi come mi sento. Ho avuto a che fare con un sacco di donne maltrattate, per lavoro, e so che le emozioni che si provano sono contrastanti. La prima è la vergogna. Mi vergogno ad ammettere che succede proprio a me.» «Da quanto tempo va avanti?» chiese Claire.
Jill si appoggiò allo schienale e sorrise. «Vuoi la cruda verità o quella che mi sono raccontata per un po', da qualche mese a questa parte? La cruda verità è che succede da prima che ci sposassimo.» Strinsi i denti. «Per stupidaggini, tipo una mise particolarmente sexy o qualcosa che compravo per la casa e a lui non piaceva. Steve prova gusto a farmi sentire una cretina.» «Una cretina?» esclamò Claire sbigottita. «Sei molto più in gamba di lui!» «Steve non è un idiota. Solo che a volte è un po' limitato», disse Jill. «All'inizio mi prendeva per le spalle, mi stringeva sulle braccia. Diceva che non lo faceva apposta, che non si accorgeva di stringere tanto. Poi qualche volta mi ha tirato addosso degli oggetti, quando si arrabbiava. La mia borsa, per esempio. Una volta addirittura...» S'interruppe, ridendo di quel ricordo. «... un pezzo di Asiago.» «Ma perché?» Cindy scuoteva la testa, incredula. «Perché fa così?» «Nel caso specifico, avevo pagato una bolletta in ritardo. Ma poteva essere anche perché mi ero comprata un paio di scarpe quando avevamo pochi soldi sul conto.» Fece spallucce. «Il vero motivo è che io glielo lasciavo fare.» «E questo da quando vi conoscete?.» domandai stupefatta. Jill deglutì. «Non ve l'ho mai detto...» La cameriera portò le quesadillas. La musica in sottofondo era di Shania Twain. «Così non vale», disse intingendo una quesadilla nella purea di avocado e rise. «Dovrebbero interrogarli così, i testimoni chiave. 'Sì, so dove si nasconde Osama Bin Laden, ma ve lo dirò soltanto se mi darete un altro di quegli stuzzichini al formaggio.'» Scoppiammo tutte a ridere. Jill sapeva farci divertire in qualsiasi circostanza. «Litighiamo sempre per delle scemate», riprese. «Quando c'è un problema grosso, siamo solidali, veri compagni di vita. Abbiamo superato un sacco di momenti difficili, assieme. Nelle piccole cose, però, non ci capiamo. Se io accetto un invito a cena da qualcuno che a lui è antipatico, o se mi dimentico di dire alla domestica di ritirare le sue camicie in lavanderia, mi strapazza, mi fa sentire una cretina.» «Sei tutto fuorché cretina», ribadì Claire. Jill si asciugò gli occhi e sorrise. «Le mie fan... So che, se gli sparassi, voi mi dareste un premio.»
«Abbiamo già preso in considerazione questa ipotesi», disse Cindy. «Voi ci scherzate, ma io ci ho pensato sul serio. Mi sono chiesta persino quale dei miei colleghi si sarebbe occupato del caso», disse Jill scuotendo la testa. «Va be', cerchiamo di non scivolare nel melodramma!» Domandai: «Che cosa consiglieresti a una donna nelle tue condizioni, se venisse da te in procura? Cerca di affrontare il problema da professionista, non da parte in causa. Che soluzione proporresti?» «Fargli causa immediatamente, in maniera da togliergli la voglia per il resto della sua vita», disse. E rise. Una per una, ci unimmo alla sua risata. «Okay, dici di aver bisogno di tempo», replicai, guardando Jill. «Non voghamo sconvolgerti l'esistenza dall'oggi al domani. Ma, conoscendoti, mi viene il dubbio che tu resti con Steve perché prendi troppo sul serio le tue responsabilità e vuoi a tutti i costi che il tuo matrimonio funzioni. Devi promettermi che non lascerai che succeda un'altra volta, però. Se accadrà di nuovo, ti avverto che verrò personalmente a casa tua a farti le valigie. Puoi venire a stare da me, o a casa di Claire, o da Cindy. No, lascia perdere Cindy: casa sua è un porcile. Insomma, puoi scegliere. E devi prometterci solennemente che la prossima volta che Steve fa anche solo il gesto di picchiarti, lo pianti.» Negli occhi azzurri di Jill brillò una luce strana, che mi fece pensare che non l'avevo mai vista così bella. «Prometto», disse arrossendo. «Solennemente», la imbeccò Cindy. Jill alzò una mano. «Parola di giovane marmotta.» «Ah, be', se ci dai la tua parola di giovane marmotta...» disse Claire. Incrociammo le mani in mezzo al tavolo. «Vi voglio bene, sorelline.» «Anche noi ti vogliamo bene, Jill.» «Okay, adesso ordiniamo?» fece lei. «Mi sento come se avessi appena dato l'esame da procuratore. Ho una fame da lupi.» 36 Forse fu perché non avevo dormito e mi ero rigirata nel letto tutta la notte a pensare e ripensare a quello stronzo che picchiava la mia amica, che la lasciava sola appena c'era da andare a giocare a golf e poi in pubblico faceva il marito adorante. Non so perché, ma il pensiero di Steve mi tormentò tutta la mattina, tan-
to che a un certo punto non riuscii più a restarmene lì fingendo di occuparmi delle indagini e negandomi al telefono. Presi la borsa. «Se Tracchio mi cerca, ditegli che torno fra un'ora.» Dieci minuti dopo, parcheggiai davanti al 160 di Beale Street, un grattacielo di cristallo pieno di studi legali e di consulenza aziendale. Steve lavorava lì. Salii furibonda al trentaduesimo piano. Ero quasi in iperventilazione, quando aprii la porta della Northstar Partnerships e la bella ragazza alla reception mi sorrise. «Cerco Steve Bernhardt», le dissi, mostrandole il distintivo. Senza aspettare che me lo chiamasse, entrai nel suo ufficio, dov'ero già stata una volta con Jill. Steve si dondolava sulla sedia in Lacoste verde mela e calzoni beige e intanto parlava al telefono. Senza cambiare tono, mi fece l'occhiolino e mi indicò una sedia. Ma va' a quel paese, tu e il tuo occhiolino! Aspettai che concludesse la conversazione, irritata nel sentirgli usare una serie di cliché da grande manager. Finalmente chiuse la comunicazione e si voltò verso di me. «Lindsay!» Mi squadrò, facendo finta di non capire il motivo della mia visita. «Lascia perdere, Steve. Sai benissimo perché sono qui.» «Veramente non ne ho idea.» Scosse la testa, quindi cambiò leggermente espressione. «Non sarà successo qualcosa a Jill, vero?» «Sto cercando di trattenermi dal venire lì e ficcarti il telefono in gola. Jill ci ha detto tutto, Steve.» Lui fece spallucce e incrociò i piedi sulla scrivania. «Che cosa vi ha detto?» «Ho visto i lividi. Jill mi ha spiegato come se li è procurati.» «Già.» Inarcò le sopracciglia. «Mi ha detto che usciva insieme a voi ragazze, ieri sera.» Guardò l'ora. «Senti, muoio dalla voglia di parlare con te dei nostri problemi coniugali, ma purtroppo sono impegnato e...» Mi protesi verso di lui. «Sentimi tu, Steve. Sono venuta a dirti che questa cosa deve finire. E subito. Se alzi un'altra volta le mani su Jill, se la vedo con un'unghia rotta su cui non mi vuole dare spiegazioni o anche soltanto con la faccia triste, apro un'inchiesta a tuo carico per atti di violenza. Hai capito?» Steve non cambiò espressione. Giocherellò con un ricciolo e ridacchiò. «Però! Sapevo che eri una rompicoglioni, ma non credevo arrivassi a tanto. Jill non aveva nessun diritto di parlarti dei fatti nostri. So che voi donne
in carriera che vivete circondate da cani non date molto peso alla cosa, ma io e Jill siamo sposati. E quando si è sposati bisognerebbe risolvere i problemi in due.» «Fino a un certo punto.» Lo fulminai con lo sguardo. «Gli atti di violenza sono perseguibili per legge, Steve. Non faccio altro che mandare in galera mariti che picchiano la moglie.» «Jill non mi denuncerà mai», dichiarò. Quindi aggrottò le sopracciglia. «Oddio, si è fatto tardi... Se non ti dispiace, Lindsay, avrei un appuntamento.» Mi alzai in piedi. Non capivo come facesse a comportarsi con tanta leggerezza quando stavamo parlando di Jill. «Cercherò di spiegarmi meglio», dissi. «Se alzerai ancora una volta le mani su di lei, non aspetterò che Jill ti denunci. Non vorrei che una sera, quando metti la macchina in garage molto tardi, sentissi dei rumori sospetti e dovessi dartela a gambe... Sta' attento, Steve.» Andai verso la porta, sempre guardandolo in faccia. Steve rimase lì seduto, senza parole, furioso. «Spero che ci siamo intesi.» 37 Cindy Thomas era seduta alla sua scrivania nella redazione del Chronicle, agitata. Stappò una bottiglietta di succo di albicocca biologico e ne bevve un sorso, poi aprì il giornale e lesse la prima pagina. C'era un suo articolo nella colonna di destra, intitolato «Due imprenditori uccisi in pochi giorni. La polizia indaga». Accese il computer per controllare la posta elettronica. La foto del modello iperpalestrato in canottiera che aveva come screen-saver riempì lo schermo. Aprì Internet Explorer e la casella di posta. Aveva dodici nuovi messaggi. Ne vide uno di Aaron, il pastore protestante con cui aveva troncato la relazione quattro mesi prima. «Il 22 maggio alle 20.00 si esibirà nella nostra chiesa Pumpkinseed Smith. Vuoi venire?» Pumpkinseed Smith era uno dei migliori cornisti del momento. «Certo che ci verrò!» rispose Cindy. «A costo di sorbirmi uno dei tuoi sermoni.» Lesse velocemente gli altri messaggi. La risposta di un collaboratore del giornale che aveva incaricato di svolgere ricerche su Lightower e Bengosian. Sembrava che quest'ultimo fosse stato denunciato ben quarantasei volte da gente che si era vista rifiutare il rinnovo della polizza sanitaria.
Stava per eliminare l'ultimo messaggio perché non ne conosceva il mittente -
[email protected]. - ma l'oggetto la colpì. Diceva: «Che cosa succederà adesso?» Lo aprì, preparandosi a buttarlo nel cestino. Bevve un sorso di succo di albicocca. Non chiedere come abbiamo avuto il tuo nome o perché ti stiamo contattando. Se vuoi collaborare, fa' la cosa giusta. Cindy si avvicinò allo schermo. I «tragici» avvenimenti della settimana scorsa sono solo la punta dell'iceberg. I ministri delle Finanze delle grandi potenze del mondo si incontreranno la settimana prossima per spartirsi le ultime fette della «libera economia mondiale» dopo Bretton Woods, quel poco che ancora si è salvato dal loro sfruttamento selvaggio. Cindy aveva il cuore in gola. Continuò a leggere. Siamo pronti a uccidere una sanguisuga ogni tre giorni e lo faremo, finché qualcuno non capirà che il libero mercato è un virus globale che tiene le nazioni prive di risorse prigioniere della Grande Menzogna per cui il commercio le renderà libere, che ha ridotto le nostre sorelle in schiavitù negli sweatshop delle multinazionali, che ha mangiato i risparmi dei lavoratori americani, stritolati dalla corruzione di Wall Street. Non siamo più voci isolate. Siamo un esercito, feroce e letale quanto le superpotenze mondiali. Cindy sbatté le palpebre, sbigottita. Doveva crederci o era una delle tante bufale che giravano su Internet? Qualcuno forse la trovava divertente? Premette il tasto STAMPA e continuò a leggere, riordinando la scrivania con la cornetta sulla spalla. Il motivo per cui ti abbiamo scelto è che i normali canali dei media sono corrotti ed egoisti come le multinazionali globali che
li controllano. Fai parte anche tu di questo sistema corrotto? Presto lo vedremo. Chiediamo ai politici che si riuniranno a San Francisco la settimana prossima per il G8 di compiere un'azione storica e sciogliere le catene, cancellare il debito dei Paesi poveri, lavorare per la libertà e non per il profitto, fermare la macchina della colonizzazione e aprire l'economia al mondo. Finché non sentiremo questa voce, voi sentirete la nostra. Ogni tre giorni un porco bastardo morirà. Sai che cosa devi fare, Thomas. Non perdere tempo a cercare di scoprire chi siamo, altrimenti non ci faremo mai più vivi con te. Cindy aveva la bocca improvvisamente secca.
[email protected]. Esisteva veramente o era uno scherzo? Scorse il messaggio fino in fondo alla pagina e, per qualche secondo, rimase impietrita. La firma era August Spies. 38 Quando mi risedetti alla mia scrivania, vidi che mi avevano lasciato un messaggio sia Traccino sia Jill. «E il Chronicle ti sta aspettando», mi avvertì Brenda, la mia segretaria. «Il Chronicle?» Alzai gli occhi e scorsi Cindy, seduta su una pila di pratiche fuori del mio ufficio. Si alzò in piedi appena mi vide. Purtroppo non avevo tempo per lei. «Cindy, scusami, ma in questo momento non posso. Abbiamo una riunione alle...» «No», mi interruppe lei, decisa. «Devo farti vedere una cosa. Ti assicuro che è una priorità assoluta, Lindsay.» «È successo qualcosa?» «Temo di sì.» Ci chiudemmo nel mio ufficio e Cindy tirò fuori un foglio dal suo zainetto. Sembrava la stampa di una e-mail. «Siediti», mi ordinò. Posò il foglio sulla scrivania e si sedette vicino a me. «Leggi qua.» La guardai negli occhi e capii che era una cosa grave.
«Mi è arrivata stamattina», spiegò. «Il mio indirizzo è sul sito del Chronicle. Non so chi me l'abbia mandata, né perché. Ma mi fa venire i brividi.» Cominciai a leggere. «Non chiedere come abbiamo avuto il tuo nome o perché ti stiamo contattando...» Più leggevo, più mi veniva la pelle d'oca. «Siamo pronti a uccidere una sanguisuga ogni tre giorni e lo faremo...» Alzai gli occhi. «Vai avanti», mi consigliò Cindy. Abbassai gli occhi e finii il messaggio, cercando di capire se era vero oppure no. Arrivata in fondo alla pagina, capii che non era una bufala. August Spies. Avevo il cuore in gola: improvvisamente mi era chiaro dove volesse andare a parare quella gente. Volevano tenere in scacco la città seminando il terrore. L'obiettivo era il G8, in programma di lì a dieci giorni. Anzi, nove. I ministri delle Finanze dei Paesi più industrializzati del mondo si sarebbero riuniti a San Francisco... «Chi ne è al corrente?» domandai a Cindy. «Tu, io e loro», mi rispose lei. «Vogliono che tu pubblichi le loro richieste», osservai. «Vogliono parlare al mondo attraverso il Chronicle.» Stavo prendendo in considerazione tutte le opzioni possibili. «A Tracchio verrà un colpo.» Il conto alla rovescia era già cominciato. Ogni tre giorni. Era giovedì. Sapevo che quella e-mail doveva essere resa pubblica. E sapevo anche che, da quel momento, il caso non sarebbe stato più mio. Prima, però, dovevo fare ancora una cosa. «Proviamo a risalire all'indirizzo di posta elettronica», propose Cindy. «Conosco un hacker che...» «Lascia perdere, non scopriremo niente», tagliai corto io. «Piuttosto, cerchiamo di capire come mai hanno contattato proprio te. Il Chronicle è pieno di reporter. Dev'esserci un motivo...» «Be', potrebbe essere perché ho scritto un articolo sul caso. O perché ho i miei agganci a Berkeley, non so. Anche se sono dieci anni che ho finito l'università...» «Potrebbe essere qualcuno che conosci? Che frequentavi ai tempi dell'università? Quel coglione di Lemouz?» Ci guardammo negli occhi. «Che cosa vuoi che faccia?» mi domandò alla fine Cindy. «Non so...» Avevano stabilito un contatto. Era evidente che cercavano
un dialogo e che noi, pur di evitare un altro tragico assassinio, avremmo parlato con loro. 39 Tutto sembrava puntare verso Berkeley. La fonte degli account di posta elettronica. Il luogo in cui era stata ritrovata Caitlin Lightower. Lemouz. Il tesserino rubato a Wendy Raymore. Una nuova vittima entro tre giorni. Il conto alla rovescia era già cominciato... Ero stufa di aspettare che succedesse qualcosa. I nostri uffici erano pieni di agenti dell'FBI che studiavano il messaggio ricevuto da Cindy, cercando di risalire a chi lo aveva mandato e di estrapolarne tutti i possibili significati. Era ora di prendere in mano la situazione, di reagire. Jacobi e io andammo da Joe Santos e Phil Martelli, due colleghi di Berkeley che adesso svolgevano soprattutto lavoro d'intelligence. Santos era nella polizia dagli anni '60; si era occupato di furti, rapine, omicidi... Insomma, ne aveva viste di tutti i colori. Martelli era leggermente più giovane e veniva dalla Narcotici. «Qui nella repubblica popolare di Berkeley si trova di tutto», commentò Santos con un'alzata di spalle, mettendosi in bocca una mentina. «Eserciti di liberazione, irlandesi, arabi, libertà di parola, libero mercato... Scontenti di tutti i tipi, insomma.» «Gira voce che il popolo di Seattle stia arrivando qui in sordina per fare casino al G8», aggiunse Martelli. Tirai fuori le foto della casa di Lightower dopo l'esplosione e del cadavere di Bengosian. «Secondo me, chi ha fatto questo è ben più spietato del popolo di Seattle.» Martelli sorrise a Santos, che lo capì al volo. «C'è uno dei nostri che lavora sotto copertura e tiene d'occhio un tizio che ce l'ha con la Pacific Gas and Electric», cominciò. «Sono dei ladri, veramente, e non c'è nessuno in California che non si sia sentito derubato da loro almeno una volta nella vita, dal caso Enron in poi.» «È vero, stanno sulle palle a tutti quanti», intervenne Jacobi. «Me compreso.» «Comunque, questo tizio rompe i coglioni più del normale al servizio clienti, organizza picchetti intorno alla sede della società, distribuisce volantini in cui esorta la cittadinanza a non pagare le bollette della luce. Il movimento si chiama Free People's Power Initiative e il suo motto è 'ener-
gia gratis per il popolo'», continuò Santos. «Ma abbiamo la sensazione che sia un'iniziativa isolata di un tizio molto arrabbiato e basta.» Proseguì Martelli. «Questo psicopatico va sempre in giro con un tascapane e noi pensavamo ci tenesse dentro i volantini. Un giorno un nostro collega lo ferma e glielo fa aprire. Dentro c'era un lanciarazzi M49. Gli perquisiamo la casa e troviamo granate, C-4, detonatori. Capito la Free People's Power Iniziative? Volevano far saltare in aria la società elettrica!» «Dicevi che si sta muovendo gente per il G8, Joe», ripresi io. «Potremmo cominciare da lì.» «Oppure...» Santos si mise in bocca un'altra mentina. «Sappiamo che oggi è in programma una specie di manifestazione davanti alla filiale della Bank of America in Shattuck Avenue. Perché non andate a dare un'occhiata? Così vi rendete conto con che gente abbiamo a che fare.» 40 Venti minuti dopo, fermammo la macchina priva di contrassegni di Santos e Martelli a due isolati dalla Bank of America. Intorno alla filiale della banca si erano radunati un centinaio di manifestanti, alcuni dei quali reggevano cartelli con scritte del tipo: UN POPOLO È LIBERO SOLO SE È LIBERO IL SUO SISTEMA BANCARIO e MORTE AL WTO. Un manifestante in jeans e maglietta era in piedi sul tettuccio di una jeep nera e gridava al megafono: «La Bank of America schiavizza le bambine del Terzo Mondo. La Bank of America succhia il sangue al popolo!» «Ma contro che cosa protesta questa gente?» domandò Jacobi. «I tassi dei mutui?» «Chi lo sa», replicò Santos. «Lo sfruttamento della manodopera minorile in Guatemala, il WTO, le multinazionali, il buco nell'ozono. La maggior parte probabilmente non ha uno straccio di lavoro, piglia il sussidio di disoccupazione ed è disposto a vendersi per un pacchetto di sigarette. A me interessano solo i leader.» Prese una macchina fotografica e cominciò a scattare foto di gente nella folla. Fra la banca e i manifestanti c'era un cordone di agenti di polizia armati di manganello. Mi tornarono in mente alcune delle cose che mi aveva detto Cindy, che cominciavano ad assumere un significato. Per esempio il fatto che molti di noi vivono la loro vita tranquilli e sereni e voltano la pagina tutte le volte che leggono di gente sotto la soglia della povertà e senza assicurazione sa-
nitaria o dei Paesi in via di sviluppo strozzati dal debito. Ma che c'è anche gente che non volta pagina, che non ci riesce. Mi aveva detto che ero a mille miglia di distanza da quella realtà. Be', non era più così. Sul tetto della jeep sali un altro oratore. Rimasi sbigottita: era Lemouz. Guarda guarda... Il professore prese il megafono e cominciò a gridare: «Chi fa parte della Banca Mondiale? Sedici istituti di ogni parte del mondo. Uno di essi è la Bank of America. Chi prestava denaro a Morton Lightower? Chi si occupava dei collocamenti azionari della X/L Systems? La Bank of America!» L'umore della folla improvvisamente cambiò. «Questi bastardi devono morire!» gridò una donna. Uno studente intonò uno slogan: «Banchieri assassini, sfruttatori di bambini». I manifestanti si stavano agitando. Un ragazzo gettò una bottiglia contro una vetrina della banca. Temetti fosse una Molotov, ma per fortuna non esplose. «Vedete con chi abbiamo a che fare?» disse Santos. «Il guaio è che per certi versi hanno anche ragione.» «Infatti», concordò Jacobi. Due agenti cercarono di fermare il ragazzo che aveva lanciato la bottiglia, ma i manifestanti serrarono le fila per non lasciarli passare e permettere al ragazzo di scappare in una via laterale. Improvvisamente si alzarono delle grida, qualcuno finì a terra. Non sapevo come fosse cominciato il parapiglia. «Cazzo!» Santos posò la macchina fotografica. «Non vorrei che la situazione ci sfuggisse di mano.» Un agente colpì con il manganello un ragazzo dai capelli lunghi, in ginocchio per terra. Cominciarono a volare bottiglie, pietre, oggetti contundenti. Due agitatori lottavano con i poliziotti, che li gettarono a terra immobilizzandoli. Lemouz continuava ad arringare la folla. «Vedete a che cosa ricorrono le istituzioni? Ai manganelli. Spaccano la testa a donne e bambini.» Non potevo più restare lì ferma ad ascoltare. «Vado a dargli una mano», dissi, facendo per aprire la portiera. Martelli mi trattenne. «Se ci facciamo vedere, siamo fregati.» «Io sono già fregata», protestai, prendendo la pistola dalla fondina alla caviglia. Attraversai la strada, seguita da Martelli. I manifestanti stavano lanciando una grandine di pietre contro i poliziot-
ti. «Porci! Fascisti!» Mi feci largo tra la folla. Una donna si tamponava una ferita alla testa con una sciarpa. Un'altra teneva in braccio un bambino urlante, cercando di allontanarsi dai disordini: mi rallegrai che ci fosse ancora qualcuno con la testa sul collo. Lemouz mi vide e mi guardò negli occhi. «Guardate come la polizia affronta chi osa alzare la propria voce per protestare contro le ingiustizie! Ad armi spianate!» Poi aggiunse, sorridendo: «Signorina Boxer, vedo che continua a interessarsi a certi argomenti. Mi dica, che cosa ha imparato di nuovo oggi?» «È colpa sua!» gridai, meditando se arrestare quel sobillatore per istigazione a delinquere. «Questa gente era tranquilla, prima che arrivasse lei a fomentare i disordini!» «Che vergogna! Purtroppo, però, delle dimostrazioni pacifiche sui giornali non si parla. Invece, guardi qua!» Mi indicò il furgone di un'emittente televisiva che aveva appena raggiunto il luogo della manifestazione. Un giornalista e un cameraman scesero e cominciarono a riprendere. «La tengo d'occhio, Lemouz.» «Ne sono lusingato, tenente. In fondo sono solo un povero professore di materie non più molto in voga, ahimè. Sa, dovremmo andare a bere qualcosa insieme, io e lei. Mi piacerebbe, davvero. Purtroppo però adesso devo lasciarla. Non posso trascurare l'ennesimo episodio di sopruso da parte della polizia.» S'inchinò e mi guardò con un'arroganza che mi fece accapponare la pelle, poi si rivolse ai manifestanti e cominciò ad agitare le braccia scandendo slogan. 41 Charles Danko entrò nell'atrio anonimo del grande edificio pubblico. A sinistra c'era un gabbiotto con due agenti di guardia che controllavano borse e valigette. Strinse con maggior forza il manico della ventiquattrore. Naturalmente in quel momento non si chiamava Danko, ma Jeffrey Stanzer. In precedenza era stato anche Michael O'Hara e Daniel Browne. Cambiare nome era facile come procurarsi una patente falsa e lui ne aveva cambiati tanti negli ultimi anni, assumendo un'identità diversa ogni volta che rischiava di essere scoperto. L'unica costante nella sua vita era l'ideale che lo animava, la convinzione di avere una missione, la consapevolezza di
fare una cosa importante, il senso del dovere nei confronti del popolo, di tutti quelli che erano morti per le loro idee. Ma la cosa spaventosa era che non era vero niente. Charles Danko non credeva in nulla ed era animato soltanto dall'odio. Controllò le guardie nel gabbiotto: facevano il loro lavoro, come al solito. Li aveva osservati spesso. Si avviò verso il metal detector e si svuotò le tasche. Lo aveva fatto talmente tante volte, in quelle ultime settimane, che sarebbe potuto passare per uno che lavorava lì. Sapeva già che cosa stavano per dirgli: Posi la borsa qua, per favore. E infatti: «Posi la borsa qua, per favore», disse la guardia, liberando un po' di posto sul tavolo. Mentre l'apriva e ne radiografava il contenuto, gli chiese: «Si è messo a piovere?» Danko scosse la testa, trattenendo appena il fiato. Malcolm questa volta aveva fatto un capolavoro, modellando perfettamente l'esplosivo nella valigetta, e comunque quei due cretini non avrebbero riconosciuto un ordigno esplosivo neppure se glielo avessero messo sotto il naso. Danko passò sotto il metal detector, facendo scattare un allarme. Si tastò la giacca e parve sorpreso di trovarsi il cellulare in una tasca. «Mi scusi», disse alla guardia con un sorriso. «Mi ricordo di averlo solo quando squilla.» «A me telefonano soltanto i miei figli», replicò la guardia, cordiale. Era proprio facile. La gente dormiva a occhi aperti, nonostante lo stato di allerta. Un'altra guardia spinse la sua valigetta in fondo al nastro trasportatore. Danko era entrato nella Corte di Giustizia. E avrebbe potuto farla saltare in aria uccidendo tutti quelli che c'erano dentro. Senza il minimo rimorso, senza il minimo rimpianto. Per un attimo restò lì a guardare la gente che andava avanti e indietro indaffarata, ripensando alla vita monotona e banale che aveva condotto per anni. Gli cominciarono a sudare le mani. Nel giro di qualche minuto avrebbero saputo che lui poteva colpire ovunque, anche al cuore dei palazzi del potere, nel centro nevralgico delle indagini. Vi troveremo, per quanto grandi siano le vostre dimore e potenti i vostri avvocati... Con quello che aveva in mano, poteva far saltare un intero piano della Corte di Giustizia. Entrò in un ascensore pieno di gente e premette il pulsante numero tre. Molti dipendenti stavano rientrando dopo la pausa per il pranzo. C'erano poliziotti, investigatori della procura, pedine del sistema. Quando erano as-
sieme alle loro famiglie, ai loro cani e gatti, quando guardavano le partite dei Giants forse non si sentivano responsabili. Ma lo erano. Tutti, anche quello che spazzava le scale. Era anche colpa loro, in fondo. E, se non lo era, chi se ne frega. «Mi scusi», disse Danko uscendo dall'ascensore insieme ad altre due o tre persone. Vide passare due agenti in divisa, ma non si scompose. Anzi, sorrise. Era così facile... In quel palazzo c'erano il procuratore, il capo della polizia e gli ispettori che indagavano su di lui. E lui era lì, a pochi passi da loro! Lo avevano lasciato arrivare fin lì! Imbecilli! Credevano di avere la situazione sotto controllo, ma lui avrebbe dimostrato al mondo che erano una massa di incompetenti. Trasse un lungo respiro e si fermò davanti alla stanza 305. SQUADRA OMICIDI, diceva la targa. Rimase lì un momento a guardarla senza mostrare il minimo segno di titubanza, poi si voltò e tornò verso l'ascensore. La prova generale è andata benissimo, si disse, premendo il tasto per tornare al pianterreno. L'addestramento è tutto Ma la prossima volta Bum! Con tanti auguri da August Spies. PARTE TERZA 42 Quando me ne andai da Berkeley per tornare in ufficio erano le quattro. Incrociai la mia segretaria, Brenda, nel corridoio. «Ti ha cercato due volte il sostituto procuratore Bernhardt, ma prima devi andare dal capo. Ti aspetta di sopra.» Quando bussai alla porta di Traccino, la task force si era già riunita. Non rimasi sorpresa nel vedere Tom Roach, dell'FBI della California. I federali si stavano occupando del caso da quando Cindy aveva ricevuto quella email. C'erano anche Gabe Carr, il vicesindaco, responsabile dei rapporti con le forze dell'ordine, e Steve Fiori, il nostro addetto stampa. Nel gruppo c'era anche una persona che non avevo mai visto. Un uomo robusto, con i capelli folti e scuri. Aveva scritto in faccia che era lì in avanscoperta per controllare le misure di sicurezza previste per il G8. Vedrai che questo mi fa venire l'ulcera, pensai.
Rivolsi un cenno di saluto alle persone che conoscevo e lanciai una rapida occhiata a Mister G8. «Il tenente adesso ci aggiornerà sulla situazione», disse il capo. «Certo», risposi. Avevo lo stomaco in subbuglio. Non sapevo di dover tenere una presentazione ufficiale. Tracchio mi aveva messo in mezzo all'ultimo momento, come suo solito. «Molti elementi indicano un legame con Berkeley», cominciai. Spiegai quali piste stavamo seguendo. Parlai della baby-sitter, della manifestazione di quel giorno, di Lemouz. «Ritieni che il professore sia coinvolto?» mi chiese Traccino. «Ho controllato se ha precedenti e non ho trovato nulla, a parte un paio di denunce per manifestazioni non autorizzate e resistenza a pubblico ufficiale», dissi. «Ma in entrambi i casi non c'è stato processo. Non sembra un criminale. O, se lo è, è molto in gamba.» «Sono stati identificati taggants nell'esplosivo?» domandò Tracchio. Pensai che volesse fare bella figura con lo sconosciuto vestito di marrone. Mi chiesi chi fosse esattamente. «L'ATF ci sta lavorando», risposi. «Queste persone comunicano con noi da Internet point e ci minacciano», disse. «Non si possono controllare tutti gli Internet point della Bay Area», replicai. «Avete presente quanti sono?» «Duemilacentosettantanove», rispose l'uomo vestito di marrone, sbandierando un foglietto. «Nella Bay Area ci sono per l'esattezza duemilacentosettantanove pubblici accessi a Internet fra università, biblioteche, caffè e aeroporti. Il numero comprende anche due terminali nei centri di reclutamento di San Jose, che non credo valga la pena di controllare.» «Ah be'», commentai. «Questo ci facilita parecchio il compito.» «Scusate, ma sono arrivato da Madrid venti minuti fa. Pensavo di dover valutare le misure di sicurezza per il G8 della prossima settimana, e invece mi ritrovo nel bel mezzo di una terza guerra mondiale.» «Lindsay Boxer», mi presentai. «So chi è», replicò il federale. «L'anno scorso si è occupata della sparatoria alla chiesa di La Salle Heights, giusto? Al dipartimento di Giustizia se ne è parlato. Pensa che riusciremo a contenere i facinorosi, la prossima settimana?» «Contenere i facinorosi?» Ma come parlava? «Non c'è da scherzare, tenente. I ministri delle Finanze dei Paesi più industrializzati del mondo s'incontreranno qui a San Francisco. Abbiamo una
minaccia alla sicurezza pubblica e, come ha detto il signor Traccino, pochissimo tempo per gestirla.» I suoi modi diretti mi piacquero subito. Non sembrava il solito burocrate washingtoniano. «Non si rimanda il vertice, dunque», disse Gabe Carr, il vicesindaco. «Come?» l'uomo di Washington si guardò intorno. «I luoghi in cui si terranno gli incontri sono sicuri, giusto? Abbiamo abbastanza uomini, signor Tracchio?» «Tutti quelli in forze alla polizia saranno a sua disposizione la prossima settimana», replicò Tracchio. Mi schiarii la voce. «E la e-mail che abbiamo ricevuto? Che cosa ne facciamo?» «Lei che cosa ne farebbe, ispettore?» domandò l'uomo in marrone. Avevo la bocca asciutta. «Io risponderei», dissi. «Aprirei il dialogo. 'Mapperei' i terminali da cui comunicano, vedrei che cosa dicono. Più gli parliamo, più possibilità abbiamo di scoprirli...» Seguì un silenzio teso e lunghissimo, in cui mi chiesi se stavo per essere esonerata dalle indagini. «Va bene, risponda», mi disse l'agente federale, strizzandomi l'occhio. «Non c'era bisogno di tanti melodrammi, volevo solo vedere con chi ho a che fare. Piacere, Joe Molinari», concluse sorridendo e porgendomi il suo biglietto da visita. Mentre lo leggevo, cercando di non cambiare espressione, mi venne il batticuore. DIPARTIMENTO DELLA SICUREZZA NAZIONALE, diceva il biglietto. JOSEPH P. MOLINARI, VICEDIRETTORE. Cazzo, se veniva dalle alte sfere! «Apriamo pure un dialogo con questi bastardi», dichiarò. 43 Dopo l'incontro con Molinari la testa mi girava ancora. Prima di tornare in ufficio, feci un salto da Jill. Una donna stava passando l'aspirapolvere nel corridoio, ma la luce nel suo ufficio era ancora accesa. Sentii una canzone di Eva Cassidy in sottofondo e Jill che dettava un testo. «È permesso?» bussai alla porta con discrezione. «Ho saputo che mi hai
cercato, ma ho avuto una giornata pesantissima. Sapessi...» «So», replicò Jill, gelida. «So che cosa hai fatto stamattina.» Forse meritavo il suo tono brusco. «Senti, capisco che tu ti sia arrabbiata un pochino, ma...» Entrai e andai a fermarmi di fronte a lei, posando le mani sulla spalliera della sedia. «Sì, lì per lì mi sono arrabbiata un pochino», rispose Jill. «E poi?» «E poi mi sono incazzata da morire, Lindsay.» Non stava scherzando. Aveva la faccia serissima. Jill sapeva essere molto dura, a volte. «Calmati, per favore», dissi, sedendomi. «So di aver esagerato, ma lascia che ti spieghi.» Jill rise. «Effettivamente minacciare di mandare un sicario a mio marito mi è sembrato un tantino sopra le righe.» «Mai parlato di sicari», precisai. «Volevo mettergli solo un po' di paura, ma non ha importanza, adesso. Purtroppo tuo marito è un grandissimo stronzo.» Avvicinai la sedia al lato della scrivania. «Senti, Jill, ho sbagliato, lo so. Non ero andata da lui per minacciarlo, ma mi ha provocato. È stato così indisponente...» «Forse gli ha dato fastidio vedersi sbandierare sotto il naso i nostri panni sporchi. Io ti ho parlato in confidenza, Lindsay.» «Hai ragione», replicai. «Scusami.» Jill gradualmente si ammorbidì e a un certo punto si girò sulla poltroncina e mi si avvicinò. «Senti Lindsay, sono una donna adulta. Lascia che combatta da sola le mie battaglie. Mi sono confidata con te in quanto amica, non in quanto tenente di polizia.» «Okay.» «Ho bisogno della tua amicizia, non della tua protezione.» Mi prese le mani e me le strinse. «Di solito fra amiche ci si ascolta, ci si invita a pranzo, ci si presentano i colleghi più carini. Piombare nell'ufficio di mio marito per minacciarlo, di morte o quant'altro, non è propriamente un comportamento da amica, Lindsay.» Risi e vidi che anche a lei scappava da ridere. La sua corazza di ghiaccio si stava incrinando. «Okay, da amica: come vanno le cose fra te e quello stronzo, adesso?» chiesi con un sorriso. Jill sorrise a sua volta e si strinse nelle spalle. «Non malissimo... Abbia-
mo preso in considerazione l'idea di andare da un consulente.» «Legale o matrimoniale?» «Ti prego, Lindsay, cerca di capire. E poi abbiamo cose più importanti di cui parlare. Che cosa sta succedendo a San Francisco?» Le dissi del messaggio di posta elettronica che Cindy aveva ricevuto quella mattina e di come le indagini avessero preso un'altra piega, da quel momento. «Hai mai sentito nominare un certo Joe Molinari, dell'antiterrorismo?» Jill ci pensò un momento su. «Ricordo un Joe Molinari procuratore, a New York. Ottimo professionista, si occupò anche dell'attentato al World Trade Center. Non male, peraltro. Poi si trasferì a Washington, credo.» «Si. Adesso lavora nella Sicurezza Nazionale. E si occupa del mio caso.» «Be', poteva andarti peggio», replicò Jill. «Come ho detto, è belloccio.» «Non mi interessa», tagliai corto, arrossendo. Jill piegò la testa di lato. «Di solito i federali non ti piacciono.» «Perché di solito sono burocrati incapaci che sfruttano il nostro lavoro per far carriera. Invece questo Molinari sembra in gamba. Potresti farmi un controllino?» «Che genere di controllino? Vuoi il suo curriculum vitae o il suo stato civile? Lindsay, non mi dire che sei già così presa da questo agente speciale!» «Vicedirettore del Dipartimento della Sicurezza Nazionale», precisai, arricciando il naso. «Un uomo con una posizione, quindi.» Annuì, con aria di approvazione. «Gran bell'uomo, dico bene?» Sorrise. Scoppiammo a ridere tutte e due. Dopo un po', le presi la mano. «Mi dispiace di essere andata da Steve stamattina, Jill. Come se non tu avessi già abbastanza problemi... Scusa. Non posso prometterti di restarne fuori, però. Sei mia amica, Jill, e sono preoccupata per te. Lo siamo tutte. Ti do la mia parola, comunque, che non gli manderò nessuno né a ucciderlo né a gambizzarlo. Perlomeno non senza averti chiesto il permesso.» «Okay.» Jill annuì e mi strinse la mano. «So che sei preoccupata per me, Lindsay, e te ne sono grata. È solo che voglio sbrigarmela da sola, capisci? E lascia a casa le manette, la prossima volta.» «Okay», risposi. E le sorrisi. 44
Per essere svizzero, Gerdhard Propp aveva acquisito gusti e abitudini molto americani, per esempio la pesca al salmone. Posò sul letto della sua camera al Governor Hotel di Portland il giubbotto da pescatore che aveva appena comprato, assieme a un raffio e ad alcune esche di silicone. Il suo lavoro di economista all'ocSE, a Ginevra, poteva sembrare piuttosto noioso, ma lo portava negli Stati Uniti diverse volte l'anno e gli aveva fatto fare amicizia con alcuni appassionati di pesca al salmone. L'indomani aveva in programma di andare a pescare e quindi dare gli ultimi ritocchi all'intervento che avrebbe letto al G8 di San Francisco la settimana successiva. S'infilò il giubbotto nuovo e si guardò allo specchio. Sembro proprio un professionista! Si sistemò il cappello e gonfiò i pettorali, sentendosi energico e virile come un divo hollywoodiano. Bussarono. Pensò che fosse il cameriere, visto che aveva chiesto che gli stirassero un vestito. Quando aprì, rimase sorpreso nel vedere un individuo che non indossava una divisa da cameriere, ma un passamontagna sul volto. «Herr Propp?» chiese il ragazzo. «Sì?» fece Propp, aggiustandosi gli occhiali. «Chi è lei?» Prima che potesse aggiungere altro, vide il giovane tendere una mano e si sentì stringere il collo. Poi cadde malamente per terra. Cercò di capire che cosa stava succedendo. Aveva perso gli occhiali e gli usciva il sangue dal naso. «Mio Dio, che cosa...?» Il ragazzo entrò nella stanza e chiuse la porta. Di colpo gli apparve nella mano un oggetto metallico. Propp rimase di stucco. Era miope, ma non aveva dubbi: il giovane impugnava una pistola «Lei è Gerhard Propp?» chiese di nuovo lo sconosciuto. «Economista all'OCSE di Ginevra? Non cerchi di negare.» «Sono io», rispose Propp. «Con che diritto mi piomba in camera in questo...» «Il diritto di centinaia di migliaia di bambini che muoiono in Etiopia ogni anno», lo interruppe il giovane. «Per malattie che si potrebbero curare, se il debito estero del loro Paese non fosse sei volte superiore agli stanziamenti statali per la sanità.» «Che cosa?» balbettò Propp. «Il diritto dei malati di AIDS in Tanzania», continuò il giovane. «Che il governo lascia morire perché è troppo occupato a ripagare il debito che lei
e gli altri sciacalli come lei gli imponete.» «Sono soltanto un economista», si difese Propp. Ma per chi lo aveva preso quell'uomo? «Lei è Gerhard Propp, economista capo dell'OCSE, che si adopera affinché le nazioni economicamente avvantaggiate esproprino sempre più risorse ai Paesi più deboli, riducendoli a discariche per l'Occidente.» Prese un guanciale. «Lei è fra coloro che hanno messo a punto il MAI.» «Si sbaglia», replicò Propp, ormai nel panico. «Gli accordi che abbiamo concluso hanno permesso ad alcuni Paesi in via di sviluppo di entrare nel mondo moderno, creando posti di lavoro e dando la possibilità di esportare a nazioni che altrimenti non avrebbero potuto competere.» «È lei che si sbaglia!» gridò il giovane. Andò ad accendere la TV. «I vostri accordi hanno portato soltanto avidità, miseria e sfruttamento. E queste stronzate in televisione.» La CNN stava trasmettendo alcune notizie sull'economia internazionale. Propp guardò con occhi sbarrati il giovanotto inginocchiarsi accanto a lui, mentre il giornalista in televisione parlava della crisi in Brasile. «Che cos'ha intenzione di fare?» chiese Propp con un filo di voce, strabuzzando gli occhi. «Quello che vorrebbero farle migliaia di donne incinte e malate di AIDS, Herr Doktor.» «La prego», implorò Propp. «Lei sta commettendo un grosso errore...» Il giovanotto sorrise, guardando gli attrezzi da pesca allineati sul letto. «Vedo che è appassionato di pesca. Anch'io me ne intendo un po'.» 45 Arrivai in ufficio alle sette e mezzo, il mattino seguente, e rimasi stupefatta di fronte a Molinari seduto alla mia scrivania, intento a parlare al telefono. Doveva essere successo qualcosa. Mi fece segno di chiudere la porta. A quanto capii, stava parlando con la sede di Washington, per farsi dare delle informazioni. Aveva in grembo una serie di scartoffie, su cui ogni tanto prendeva appunti. Lessi soltanto: «9mm» e «itinerario». «Che cosa è successo?» gli domandai, appena ebbe concluso la telefonata. Mi fece cenno di sedermi. «C'è stato un omicidio a Portland. Un cittadino svizzero è stato assassinato nella sua camera d'albergo. Era un econo-
mista e stava per andare a Vancouver per una battuta di pesca.» Non volevo suonare blasé ma, dal momento che stavamo indagando su due casi della massima importanza e avevamo addosso gli occhi di tutti i leader del mondo, non potei fare a meno di chiedere: «Mi dispiace per lui. Perché ci riguarda?» Molinari voltò verso di me una cartellina contenente alcune foto del morto che si era fatto spedire via fax. La vittima indossava un giubbotto da pesca su cui si vedevano chiaramente i fori provocati da due colpi di pistola. Aveva la camicia strappata e una scritta incisa sul petto: MAI. «La vittima era un economista, tenente», ripeté Molinari. «Lavorava all'OCSE.» Mi guardò e fece un sorriso tirato. «Le è chiaro, adesso?» Mi sedetti, con lo stomaco sottosopra. Sì, mi era chiaro. Era stato commesso il terzo omicidio. Osservai le foto con più attenzione. L'assassino gli aveva sparato al petto e alla fronte. In una busta di plastica per la raccolta di prove c'era un raffio, un lungo amo da pesca con il quale era stata incisa sul petto del morto la sigla MAI. «Che cosa vuol dire, secondo lei?» «Glielo spiego in aereo», rispose Molinari, alzandosi in piedi. 46 L'aereo che Molinari aveva predisposto per il nostro viaggio era un Gulfstream G3 con uno stemma bianco, rosso e blu e la scritta GOVERNO DEGLI STATI UNITI sulla fusoliera. Quell'uomo era decisamente un pezzo grosso. Era la prima volta che salivo su un jet nel terminal del San Francisco International Airport riservato ai voli privati. Quando i portelloni si chiusero e i motori si misero in moto, un attimo dopo che ci fummo seduti, mi sentii emozionata. «Ci metterei la firma a viaggiare sempre così», dissi a Molinari. Lui non mi contraddisse. Il volo fino a Portland durò poco più di un'ora. Molinari passò al telefono i primi minuti del viaggio. Quando chiuse la comunicazione, attaccai discorso. Guardai le foto della scena del delitto. «Deve ancora spiegarmi che cosa vuol dire questa sigla, MAI.» «È un accordo commerciale segreto», mi disse. «Sottoscritto alcuni anni fa dai Paesi più ricchi del WTO, estendeva ad alcune multinazionali diritti che in certi casi andavano oltre quelli dei governi. Secondo molti, dava loro carta bianca nello sfruttamento delle economie più deboli. Venne aboli-
to nel 1998 in seguito a una campagna di protesta mondiale, ma a quanto mi risulta l'OCSE, per cui lavorava Propp, ne stava preparando una versione riveduta e corretta per riproporlo. Indovini in quale sede.» «Il G8 della prossima settimana?» «Precisamente. A proposito...» Aprì la ventiquattrore. «Forse farebbe bene a guardare questi.» Mi porse un fascio di fogli: erano le informazioni che avevo richiesto su alcuni esponenti del cosiddetto «popolo di Seattle». Ogni fascicolo recava il timbro TOP SECRET, PROPRIETÀ DELL'FBI. «Non le perda, per favore», mi disse, strizzandomi l'occhio. «Se venisse fuori che le ho fatte vedere in giro, potrei finire nei guai.» Cominciai a leggere. Alcuni avevano precedenti penali per istigazione alla rivolta, resistenza a pubblico ufficiale e porto d'armi illegale.. Altri sembravano semplici studenti impegnati politicamente. La scheda su Robert Alan Rich aveva un'annotazione dell'Interpol che ne segnalava il ruolo di fomentatore dei disordini al World Economic Forum di Gstaad. C'erano anche una Terri Ann Gates, con un precedente per incendio doloso, e un ex studente del Reed College con i capelli scuri legati in una coda di cavallo, di nome Stephen Hardaway, che aveva commesso una rapina a Spokane. «Bombe telecomandate, ricina... Tecnologie abbastanza sofisticate», dissi, pensando ad alta voce. «Qualcuno di questi personaggi sarebbe stato in grado di compiere questi atti terroristici, secondo lei?» Molinari si strinse nelle spalle. «Con i contatti giusti, si La tecnologia si può comprare. Ma potremmo anche avere a che fare con un coniglio bianco.» «Un coniglio bianco?» «Chiamiamo così chi resta in clandestinità per lunghi periodi di tempo. Prenda i Weathermen, attivi negli anni '60: la maggior parte di loro ormai si è integrata nella società. Hanno famiglia, un lavoro. Ma alcuni non hanno rinunciato ai loro ideali.» Si aprì la porta della cabina e il secondo pilota ci annunciò che stavamo iniziando la discesa. Misi le carte nella mia valigetta, favorevolmente impressionata dalla velocità con cui Molinari aveva soddisfatto le mie richieste. «Ha altre domande?» mi chiese, allacciandosi la cintura. «In genere quando atterro trovo un manipolo di funzionari dell'FBI ad aspettarmi.» «L'ultima», dissi. «Come vuole che la chiami? Vicedirettore suona un po' stalinista, a mio parere.» Molinari scoppiò a ridere. «In genere, i miei subordinati mi chiamano
'signore'. Ma per i collaboratori sono semplicemente 'Joe'.» Mi sorrise. «Vogliamo darci del tu, Lindsay?» «Sissignore.» 47 Fummo scortati dal terminal riservato fuori Portland al Governor Hotel, nel centro della città, da un gruppo di agenti di polizia. Era un albergo ristrutturato da poco e non vi era mai accaduto nulla di drammatico. Mentre Molinari parlava con il capo della sede locale dell'FBI, io presi appuntamento con Hannah Wood, ispettore della Omicidi di Portland, e con il suo collega Rob Stone. Molinari mi diede il tempo di controllare la camera in cui si era consumato il delitto, decisamente brutale. Propp doveva aver aperto la porta al suo assassino, che gli aveva sparato tre colpi di pistola, due al petto e uno alla testa. Uno dei proiettili era stato ritrovato conficcato nel pavimento dove aveva terminato la sua corsa. Ma Propp era stato anche torturato con una lama seghettata. Il coltello era ancora sul pavimento. «Abbiamo ritrovato questi», mi disse Hannah Wood, mostrandomi una bustina contenente un proiettile da 9mm appiattito e un raffio. «Impronte?» domandai. «Una, parziale, sulla maniglia interna. Probabilmente di Propp. Il consolato svizzero ha contattato la famiglia», mi spiegò la Wood. «Sarebbe dovuto andare a cena con un amico ieri sera e stamattina partire per Vancouver con il volo delle sette. A parte questo, non aveva altri impegni o appuntamenti.» M'infilai un paio di guanti, aprii la ventiquattrore sul letto di Propp e guardai i suoi appunti. Aveva qualche libro, prevalentemente di argomenti tecnici. Entrai nel bagno. Il necessaire era aperto vicino al lavabo. Nulla di strano. «Sarebbe meglio se ci dicesse che cosa cerca, tenente», mi suggerì Stone. Non potevo. Il nome August Spies non era stato ancora reso noto. Mi concentrai sulle foto del morto. La scena era raccapricciante, sangue dappertutto e la sigla incisa nella carne del cadavere: MAI. Gli assassini stavano mettendo in atto il loro piano per farsi conoscere: ma qual era il messaggio che volevano diffondere?
«Senta, tenente, non è difficile capire come mai siete venuti qui, lei e il vicedirettore», disse Hannah Wood. «Gli omicidi di San Francisco sono collegati alla morte di quest'uomo, vero?» Prima che potessi rispondere, ci raggiunsero Molinari e l'agente federale Thompson. «Ha visto tutto?» mi chiese Molinari. Thompson aveva in mano il cellulare. «Se non avete obiezioni, avverto l'antiterrorismo di Quantico che l'assassino ha colpito ancora.» «Tenente?» Molinari mi guardò. Scossi la testa. «Meglio di no.» L'agente dell'FBI mi squadrò sbigottito. «Come ha detto, tenente?» «Ho detto che, a mio parere, ci conviene aspettare», dissi, scandendo bene le parole. «Io non credo che questo omicidio sia opera della stessa mano. Ne sono quasi certa.» 48 A giudicare dallo sguardo dell'agente federale Thompson, sembrava che gli fosse appena crollato il soffitto sulla testa. Molinari, invece, non ebbe reazioni di sorta e mi guardò, aspettando che io mi spiegassi. «Lei sa che mestiere faceva Gerhard Propp? E perché si trovava negli Stati Uniti?» domandò l'agente Thompson. «Sì», risposi. «Sa dove sarebbe dovuto andare la settimana prossima?» «Sì, sono stata informata dei progetti della vittima», risposi. «Come lei.» Thompson sorrise a Molinari. «Dunque questo sarebbe un altro maniaco assassino che ce l'ha con il G8?» «Sì», risposi. «È esattamente quello che penso.» Thompson scoppiò a ridere e aprì il cellulare. Cominciò a cercare un numero sulla rubrica, ma Molinari lo fermò. «Prima sentiamo che cosa ha da dire il tenente.» «Okay», cominciai. «In primo luogo, il delitto presenta caratteristiche molto diverse rispetto agli altri. Tanto per cominciare, l'assassino è di sesso maschile, come si evince dalla forza con cui ha sbattuto per terra la vittima. E poi le condizioni del corpo sono totalmente differenti. I primi due omicidi sono stati freddi e calcolati, mentre questo presenta chiari aspetti emotivi, un movente più personale. L'assassino ha mutilato il corpo, ha usato una pistola e un coltello...» «Sta dicendo che c'è differenza fra mettere una bomba in una casa e av-
velenare uno oppure fargli questo?» chiese Thompson. «Lei ha mai sparato nell'esercizio delle sue funzioni, agente?» Thompson si strinse nelle spalle, ma arrossì. «No. Ma cosa c'entra?» Presi una delle foto del morto. «Sarebbe in grado di ridurre una persona in questo stato?» L'agente era titubante. «Diversi assassini, diversi temperamenti», intervenne Molinari. «Questo potrebbe essere un sadico.» «Va bene. Ma consideriamo la tempistica. Il messaggio di ieri diceva che ci sarebbe stata una vittima ogni tre giorni. Che la prossima, cioè, sarebbe stata domenica. Siamo in anticipo.» «Probabilmente gli conveniva farlo fuori adesso», obiettò Thompson. «Non possiamo aspettarci che un terrorista tenga fede alla propria parola, giusto?» «Non sono d'accordo», ribattei. «Ho indagato su abbastanza omicidi seriali per sapere che l'assassino costruisce un legame con noi e vuole che noi gli crediamo. Per i terroristi è lo stesso: anche loro hanno bisogno di dimostrare la massima credibilità. Altrimenti, come faremmo a essere sicuri che dietro questi omicidi ci sia sempre lo stesso gruppo?» Thompson guardò Molinari in cerca di aiuto, ma Molinari guardava me. «Continui, per favore.» «L'elemento più importante, in ogni caso, è che questo delitto non è stato firmato, al contrario dei due commessi a San Francisco», feci notare. «L'assassino di San Francisco vuole farsi riconoscere, e anche in maniera eclatante. Pensateci: davanti alla villa dei Lightower ha lasciato uno zainetto con una rivendicazione. A Bengosian ha infilato un foglio in bocca.» Feci spallucce e guardai Molinari. «Potete pure far venire i vostri esperti criminologi dell'FBI o del Consiglio di Sicurezza Nazionale, per quanto mi riguarda... Ma io vi dico che, a mio avviso, non si tratta dello stesso assassino.» 49 «Io chiamo», annunciò Thompson guardando Molinari e ignorando completamente quello che avevo appena detto. La cosa mi offese e non cercai di nasconderlo. «Fammi capire», disse Molinari guardandomi in faccia. «Secondo te chi ha ammazzato Propp non fa parte della stessa organizzazione che sta dietro
i due omicidi di San Francisco? Secondo te si tratta di un emulatore?» «Potrebbe trattarsi di un emulatore, oppure di una cellula impazzita della stessa organizzazione. La cosa di cui sono certa è che questo non è il terzo omicidio di una serie. Benché, se lo fosse, sarebbe tutto molto più facile.» «Non capisco», disse Molinari, sbattendo le palpebre. «Se non si tratta della stessa organizzazione, vuol dire che abbiamo a che fare con più gruppi terroristici.» Molinari annuì lentamente. «Dirò al Bureau di trattare questi omicidi come casi separati, agente Thompson. Almeno per ora.» Thompson sospirò. «Nel frattempo, occupiamoci di Propp. Cerchiamo di capire chi lo ha ammazzato», disse Molinari. «Siamo tutti d'accordo?» «Certamente», disse Thompson, rimettendo il cellulare nella tasca della giacca. Rimasi di stucco: Molinari aveva preso le mie parti. Mi accorsi che anche Hannah Wood era sorpresa. Passammo il resto della giornata nell'ufficio dell'FBI di Portland. Interrogammo la persona con cui Propp aveva appuntamento a Vancouver e il suo collega della Portland State University. Molinari mi coinvolse anche in due telefonate con la sede di Washington, in cui appoggiò la mia teoria secondo cui Propp era stato ucciso da un terrorista diverso dai primi. Verso le cinque, mi resi conto che non potevo trattenermi oltre. Dovevo occuparmi di altri casi importanti a San Francisco. Brenda mi disse che c'era un volo alle 18.30. Bussai alla porta della stanza che Molinari stava usando come ufficio. «Se non avete più bisogno di me, io tornerei a casa. Comunque mi è piaciuto giocare a fare l'agente federale per un giorno.» Molinari sorrise. «Peccato, speravo ti fermassi. Avremmo potuto cenare assieme.» Cercai di fare finta di niente e di rimanere impassibile. Nonostante i miei preconcetti riguardo i federali ero incuriosita. E chi non lo sarebbe stato, peraltro? Dovevo evitare, però, e lo sapevo benissimo. Avevo un sacco di lavoro da sbrigare, prima di tutto. In secondo luogo, Molinari era un vero pezzo grosso, uno degli uomini più importanti del Paese. E poi sentivo che la mia corazza si stava incrinando e non mi pareva il caso di cedere nel bel mezzo di un'indagine della massima priorità. «C'è un volo alle 23», insistette Molinari. «Giuro che non te lo faccio
perdere. Dai, fermati, Lindsay.» Vedendo la mia esitazione, si alzò in piedi. «Se non ti fidi della Sicurezza Nazionale, di chi ti fidi?» «A due condizioni, però», replicai. «Sentiamo», fece lui. «Mangiamo frutti di mare», dissi. Molinari accennò un sorriso. «Conosco il posto giusto...» «E niente agenti dell'FBI.» Molinari scoppiò a ridere. «E chi li vuole?» 50 «Il posto giusto» si rivelò essere un locale che si chiamava Catch, in Vine Street, una strada molto simile a Union Street a San Francisco, piena di ristoranti di tendenza e di boutique. Il maitre ci accompagnò a un tavolo in fondo alla sala. Molinari mi chiese il permesso di scegliere il vino e ordinò un pinot nero dell'Oregon. Mi confidò di essere un «cuoco mancato» e di sentire la mancanza di una vita normale in cui dedicarsi alla preparazione di pietanze prelibate. «E io dovrei crederci?» Sorrisi. Molinari scoppiò a ridere. «Be', almeno ci ho provato.» Quando arrivò il vino, alzai il bicchiere. «Grazie di aver preso le mie parti, oggi.» «Non mi devi ringraziare», rispose. «L'ho fatto perché sono convinto che tu abbia ragione.» Ordinammo e parlammo di tutto fuorché di lavoro. Joe amava lo sport, ma anche la musica, la storia e i classici del cinema. Mi resi conto che mi piaceva chiacchierare con lui, che la serata stava andando bene e che mi stavo dimenticando le brutture del lavoro. A un certo punto, Joe parlò della sua ex moglie e della figlia, che stavano a New York. «Credevo che i pezzi grossi della Sicurezza Nazionale avessero tutti famiglia», dissi. «Siamo stati sposati quindici anni e siamo divorziati da quattro. Isabel è rimasta a New York, quando io mi sono trasferito a Washington. All'inizio doveva essere una cosa temporanea, ma poi...» Mi fece un sorriso amaro. «Tornassi indietro, mi comporterei in maniera diversa. E tu, Lindsay?»
«Anch'io sono divorziata», risposi. E mi ritrovai a parlargli della mia vita, del mio matrimonio appena finiti gli studi, del divorzio tre anni dopo. Colpa mia? Colpa sua? Che differenza faceva? «Ho avuto un'altra relazione importante due anni fa, che poi è finita.» «A volte è meglio così», disse con un sospiro. «No», replicai. «È morto. In servizio.» «Oh.» L'avevo messo a disagio. Ma fece una cosa stupenda: mi posò una mano sul braccio. Non era un'avance, ma un gesto di conforto. Ritirò la mano quasi subito. «Negli ultimi tempi mi sono un po' chiusa», dissi, alzando gli occhi. Poi, per alleggerire l'atmosfera, risi. «Era parecchio che non accettavo un invito a cena.» «Anch'io era parecchio che non ne facevo.» Sorrise. In quel momento gli squillò il cellulare. Molinari si mise una mano in tasca. «Scusa...» Rimase in ascolto per un po'. «Certamente. D'accordo», ripeteva. Anche i pezzi grossi hanno un capo, pensai. A un certo punto disse: «Capisco. La informerò appena avrò delle novità. Senz'altro. Grazie mille». Chiuse la comunicazione e si rimise il cellulare in tasca. «Washington...» si scusò. «Il direttore della Sicurezza Nazionale?» Mi faceva piacere vedere che anche Molinari doveva rispondere a qualcuno. «No.» Scosse la testa e riprese a mangiare il pesce. «La Casa Bianca. Era il vicepresidente degli Stati Uniti. Interverrà al G8.» 51 Anch'io mi impressiono, a volte. «Se non fossi un tenente della Omicidi, ci crederei», dissi. «Hai appena parlato con il vicepresidente degli Stati Uniti?» «Vuoi che faccia *69 per dimostrartelo?» disse Molinari. «Anche se preferirei che cercassimo di stabilire un rapporto di fiducia.» «È questo che stiamo facendo stasera? Stabiliamo un rapporto di fiducia?» domandai con un sorriso. Avevo il batticuore e la fronte sudata. La maglia mi prudeva sulla pelle. Molinari mi faceva tornare in mente Chris. «Vorrei che ci fidassimo l'uno dell'altra», disse dopo un po'. «Per ora, mi basterebbe questo.»
«Come vuole lei, signore.» Joe pagò il conto e mi aiutò a rimettere la giacca. Quando mi sfiorò, provai un brivido. Guardai l'ora. Erano le nove e mezzo. Per arrivare all'aeroporto ci volevano quaranta minuti. Facemmo un paio di isolati a piedi lungo Vine Street, ma io guardai le vetrine solo distrattamente. Era una serata fresca, ma piacevole. Che cosa stavo facendo? Che cosa stavamo facendo? «Lindsay», mi disse a un certo punto Joe, fermandosi per guardarmi in faccia. «Non vorrei dire qualcosa di sbagliato, ma...» Non ero sicura di che cosa sperassi che dicesse. «Il mio autista è qui vicino, se vuoi. Ma c'è un volo anche domani mattina alle sei.» «Senti...» Avrei voluto posargli la mano sul braccio, ma mi trattenni, non so neppure io perché. «Dimmi», fece. Sorrisi. «Era questo che avevi in mente, quando mi hai portato qui?» Joe prese la mia borsa e disse: «No, è che mi dispiace che tu ti sia portata un cambio di vestiti per niente». Mi fido di lui, pensai. Joe Molinari mi ispirava fiducia. E mi piaceva un sacco. Ma non ero sicura che fosse una buona idea e questo mi bastò per prendere una decisione. «Ti sembrerò più dura di quello che sono, ma penso che prenderò il volo delle undici», replicai, mordendomi un labbro. «Capisco...» Annuì. «Non te la senti.» «No, non è questo...» Gli accarezzai una mano. «Il fatto è che non ho votato per questo presidente...» Molinari scoppiò a ridere. «Comunque stai tranquillo, non hai detto niente di sbagliato.» Anche questo lo fece sorridere. «È tardi», disse. «Io devo rimettermi a lavorare. Ci vediamo presto.» Fece un cenno alla Lincoln nera che lo stava aspettando. L'autista si avvicinò, scese dall'auto e mi aprì la portiera. Non ero ancora sicura di stare facendo la cosa giusta, ma salii. Di colpo mi venne in mente una cosa. Abbassai il finestrino. «Senti, non so nemmeno il numero del volo.» «È tutto a posto, non ti preoccupare», disse Molinari. Mi salutò agitando la mano e fece segno all'autista di partire. Appena fummo sulla superstrada, chiusi gli occhi e ripensai a quella giornata, e specialmente alla cena con Molinari. Dopo un po' l'autista mi disse: «Siamo arrivati, signora».
Guardai fuori e vidi che eravamo in un terminal deserto. Sì, anch'io mi impressiono, a volte. Ad aspettarmi c'era il Gulfstream G3 con cui eravamo arrivati quella mattina. 52 Jill aveva stabilito un piano che le pareva perfetto. Nella sua testa, andava tutto bene. Era tornata a casa presto e aveva preparato uno dei piatti preferiti di Steve, il coq au vin. In realtà, era anche uno dei pochi piatti che le riuscivano quasi sempre bene. Voleva parlare con lui del futuro. Aveva il nome di un consulente matrimoniale e sperava che Steve finalmente decidesse di andarci sul serio. Il soffritto era pronto. Stava per aggiungere il vino quando arrivò Steve. Le rivolse uno sguardo penetrante. «Sembriamo la coppia perfetta della pubblicità», disse. «Be', quantomeno ci proviamo», replicò Jill. Si era messa un paio di jeans con una maglietta rosa scollata a V e si era lasciata i capelli sciolti, come piacevano a lui. «Peccato però che io stia per uscire.» Steve gettò il giornale da una parte. Jill ebbe un tuffo al cuore. «Perché? Steve, guarda: ho cucinato!» «Frank mi deve parlare di un affare promettente.» Prese una pesca dal cestino della frutta. Sembrava quasi contento di quella situazione, come se provasse gusto a rovinare la serata. «Non potete discuterne domani mattina? Te l'avevo detto, che volevo parlare con te, e avevi risposto che andava bene. Sono tornata prima apposta per cucinare...» Steve diede un morso alla pesca e rise. «Una sera che decidi di uscire dall'ufficio prima delle otto e ti metti in testa di interpretare il ruolo della brava mogliettina, accusi me di rovinare la sceneggiata?» «Non è una sceneggiata, Steve.» «Vuoi parlare?» Diede un altro morso alla pesca. «Parla. Se te lo sei dimenticata, ti ricordo che è con i miei soldi che ti compri le tue Manolo. Il mercato non è dei migliori, sai? Gli affari promettenti sono più rari delle frigide con le voglie, di questi tempi. È per questo che, tra una cena con te e una di lavoro, scelgo l'affare promettente.» «Questa te le potevi risparmiare», ribatté Jill, fulminandolo con un'oc-
chiata. Tuttavia era decisa a non perdere le staffe. «Volevo passare una bella serata con te.» «Grazie del pensiero.» Steve alzò le spalle e continuò a mangiare la pesca. «E comunque fai ancora in tempo a chiamare una delle tue amichette. Vedrai che passerai comunque una bella serata.» Jill si guardò riflessa nel vetro e si sentì di colpo ridicola. «Sei uno stronzo, Steve.» Lui alzò le spalle. Jill buttò la spatola sul bancone della cucina, spruzzando sugo da tutte le parti. «Stai sporcando dappertutto, Jill. La nostra cucina extralusso...» «Ma va' al diavolo!» gridò Jill, con gli occhi improvvisamente pieni di lacrime. «Se penso a quanto mi impegno per andare d'accordo con te...» Era finita. Non aveva senso continuare ad attaccarcisi con le unghie e con i denti... «Mi umili, mi sminuisci, mi fai sentire una merda. Volevi uscire? Vai, hai la mia benedizione. Anzi, già che ci sei, esci dalla mia vita definitivamente. Me lo dicono tutti che sono matta a cercare di salvare questo matrimonio di schifo.» «Tutti o tutte?» Jill vide il suo sguardo velenoso, lo scatto d'ira irrefrenabile. Steve la prese per un braccio e glielo strinse con forza, facendola cadere per terra. «Ti fai dire dalle tue amiche come vivere la tua vita! Stai a sentire loro, invece che me. Jill!» Jill cercò di non singhiozzare. «È finita, Steve. Io e te non...» «Lo dico io, quando è finita!» gridò lui. «Ti rendo la vita impossibile e vuoi che me ne vada, Jill? Me ne andrò. Ma deciderò io quando. E, fino ad allora, tu te ne stai brava e zitta. Capito?» «Vattene subito», disse Jill rialzandosi. Steve le mostrò il pugno, ma Jill non si scompose. Questa volta no, non batté ciglio. Steve fece per colpirla e Jill tenne duro. «Vattene, Steve.» Steve sembrò impallidire di colpo. «Volentieri», replicò, indietreggiando. Prese un'altra pesca dalla fruttiera e se la pulì sulla camicia. Poi lanciò un'occhiata sdegnosa verso i fornelli. «Lasciami qualcosa, mi raccomando.» Appena sentì chiudersi la porta al piano di sotto, Jill scoppiò in singhiozzi. Era finita! Non sapeva se chiamare Claire o Lindsay. Ma prima doveva fare un'altra cosa. Prese le Pagine Gialle e cercò un numero, agitata.
Le tremavano le mani, ma questa volta era decisa a non tornare più indietro. Ti prego, ti prego, rispondi! «Grazie a Dio!» esclamò, sentendo una voce che diceva «Serrature di sicurezza, buonasera.» «Fate servizio emergenze?» domandò Jill, in lacrime. «Ho bisogno di cambiare una serratura. Adesso.» 53 La spia della mia segreteria telefonica lampeggiava. Era l'una del mattino, quando tornai a casa. Gettai la giacca del tailleur sulla sedia e mi tolsi la maglia, quindi premetti il pulsante per ascoltare i messaggi. 17.28 Jamie, il veterinario, mi diceva che potevo passare a prendere Martha l'indomani mattina. 19.05 Jacobi che voleva solo vedere se c'ero. 19.16 Jill, con voce tesa. «Ti devo parlare, Lindsay. Ho provato anche sul cellulare, ma era staccato. Chiamami appena arrivi.» 23.15 Di nuovo Jill. «Lindsay? Chiamami appena torni. Sono ancora alzata.» Doveva essere successo qualcosa. Feci il numero e lei mi rispose al secondo squillo. «Ciao, sono Lindsay. Ero a Pordand. Tutto bene?» «Non lo so», rispose. Pausa. «Ho sbattuto Steve fuori di casa.» A momenti lasciavo cadere per terra la cornetta. «Sul serio?» «Stavolta sono decisa. È finita, Lindsay.» «Oh, Jill...» Pensai che doveva stare malissimo, se mi aveva chiesto di chiamarla a qualsiasi ora. «Che cosa ti ha fatto?» «Non voglio parlartene adesso, ma ti assicuro che non succederà più», mi rispose. «L'ho sbattuto fuori, Lindsay. Ho cambiato la serratura.» «L'hai chiuso fuori? Per la miseria! E adesso dov'è?» Jill fece un verso a metà fra la risata e il colpo di tosse. «Non ne ho la più pallida idea. È uscito verso le sette e, quando è tornato alle undici e mezzo, ho sentito che bussava e strepitava. Avrei voluto vedere la faccia
che ha fatto quando si è accorto che la sua chiave non funzionava più. Passerà domani a prendere le sue cose.» «Sei sola? Hai chiamato qualcuno?» «No», mi rispose. «Ho aspettato te, amica mia.» «Ti raggiungo subito», le dissi. «No», mi rispose. «Ho appena preso qualcosa per dormire, adesso vado a letto. Domani mattina devo essere in tribunale.» «Sono fiera di te, Jilly.» «Anch'io sono fiera di me. Ciò non toglie che avrò bisogno che tu mi tenga la manina per un po', temo.» «Conta su di me, Jill. Ti abbraccio forte. Adesso vai a letto, cerca di dormire. E segui il consiglio della tua amica poliziotta: tieni ben chiusa quella porta.» Riattaccai. Erano quasi le due del mattino, ma non mi importava. Volevo chiamare Claire o Cindy per dare loro la notizia. Jill aveva finalmente cacciato di casa quello stronzo di suo marito! 54 «Tenente!» Appena entrai in ufficio, il mattino dopo, mi sentii chiamare. Era Cappy Thomas. «Ho in linea Leeza Gibbons di Entertainment Tonight. Dice se andate a pranzo insieme.» Avevo fatto lo sbaglio di chiamare Jacobi dall'aereo, la sera prima, e forse gli avevo raccontato un po' troppe cose su quel che era successo durante la giornata, perché sentii varie risatine alle mie spalle. Mi riempii una tazza di acqua calda. C'era una lucina che lampeggiava sul mio telefono. Risposi. «Tenente?» Era Jacobi. «Io e mia moglie pensavamo di andare alla Hawaii, a luglio. Ci presteresti il G3?» Chiusi la comunicazione e infilai nella tazza una bustina di tè verde. «Tenente, al telefono!» Era di nuovo Cappy. Risposi: «Senti, non ci sono andata a letto e non gli ho chiesto io di prestarmi il jet. Sono andata a lavorare, perdio, mentre voi stavate qui a grattarvi le palle!» «Oh oh. Mi sa che sono rimasta indietro. Che cosa è successo?» chiese Cindy ridacchiando. «Dio mio!» Abbassai la testa, sperando che nessuno mi avesse visto arrossire.
«Che tu ci creda o no, non ti ho chiamato per romperti le scatole, ma per darti una notizia super.» «Anch'io ho da darti una notizia super», replicai, pensando a Jill. Cindy sembrava allarmata, e quindi diedi per scontato che non volesse parlarmi di Jill. «Comincia tu.» «Ti ho mandato un fax.» In quel momento, arrivò Brenda con il fax di Cindy. Un'altra e-mail. «Era nella mia casella di posta quando ho acceso il computer, stamattina», mi comunicò. Sobbalzai sulla sedia. Questa volta avevano usato l'indirizzo
[email protected]. Il messaggio era di una riga soltanto. Diceva: «Non siamo stati noi a Portland». Firmato August Spies. 55 «Dobbiamo portarlo di sopra», dissi, balzando in piedi con tale foga che rischiai di staccare il telefono dal muro. Ero già quasi davanti all'ufficio di Tracchio, quando mi resi conto che mi ero dimenticata di dire a Cindy di Jill. Le cose si stavano muovendo troppo in fretta. «È in riunione», mi avvisò la segretaria. «Sarà meglio che aspetti che abbia finito.» «Questa cosa non può aspettare», dissi, e aprii la porta. Tracchio era abituato alle mie improvvisate. Era seduto al tavolo delle riunioni, rivolto dalla mia parte, e stava parlando con due persone che mi davano la schiena. Una era Tom Roach dell'FBI. Quando mi resi conto che l'altro era Molinari, a momenti svenivo. Mi sentivo come un personaggio dei cartoni animati che è appena andato a sbattere di faccia contro un muro. «Sapevo che ci saremmo rivisti molto presto, tenente», disse, alzandosi in piedi. «Veramente io credevo che si trattenesse a Portland ancora per un po'», ribattei. «Mi sono trattenuto a sufficienza. Adesso se la sbrigheranno loro. Ab-
biamo abbastanza da fare qui, dico bene?» Intervenne Tracchio: «Stavamo per chiamarti, Lindsay. Il vicedirettore mi ha informato che ieri a Portland sei stata magnifica». «In che senso?» E lanciai a Joe un'occhiata d'intesa. «Be', pare che tu abbia capito al volo che la morte dello svizzero non c'entrava niente con i nostri omicidi.» Mi fece cenno di sedermi. «Hai elaborato una tua teoria, a quanto ho capito.» «Sì.» Porsi a Tracchio la e-mail di Cindy. «Supportata da questa.» Tracchio lesse velocemente e passò il foglio a Molinari. «Spedita alla stessa giornalista del Chronicle?» domandò. «Pare corrispondano con una certa regolarità, ormai. Potrebbe tornarci utile», osservò Molinari leggendo. Poi fece una smorfia. «Stavo chiedendo al signor Tracchio se la autorizza a lavorare direttamente con noi. Ci serve una mano e io ho bisogno di un ufficio in cui lavorare. Voglio avere il polso della situazione in ogni istante. A questo scopo, piazzarmi nella sala operativa mi sarebbe molto utile.» Ci guardammo negli occhi. Non era una schermaglia amorosa, lo sapevo, ma una questione di sicurezza nazionale. «Le troveremo un ufficio, vicedirettore. Dove possa avere il polso della situazione in ogni istante.» 56 Molinari mi aspettava nel corridoio. Attesi che Roach entrasse nell'ascensore e lo guardai corrucciata. «Parlavo sul serio, poco fa, quando ho detto che non credevo di rivederti così presto.» Prendemmo le scale per scendere di sotto. «Ho dovuto calmare quelli della sede locale dell'FBI. Anche le pubbliche relazioni sono importanti, lo sai.» «In ogni caso, mi fa piacere che tu sia qui», dissi aprendogli la porta delle scale. La richiusi e aggiunsi: «Non ti ho ancora ringraziato per il passaggio. Lo faccio ora: grazie». Gli liberai una scrivania nella sala operativa, visto che aveva declinato l'offerta di uno spazio più adeguato e con più privacy al quinto piano, accanto all'ufficio del capo. Il fatto di collaborare da vicino con il Dipartimento della Sicurezza Nazionale si rivelò tutt'altro che negativo, ma Jacobi e Cappy mi guardavano come se fossi passata al nemico. Nel giro di due ore Molinari risalì al ter-
minale da cui era stato inviato l'ultimo messaggio e-mail: era in un Internet café di Hayward che si chiamava KGB Bar, molto frequentato dagli studenti dell'altro lato della baia. E scoprì anche chi era Marion Delgado, il nome che figurava nell'indirizzo hotmail dell'ultimo messaggio. Posò sulla mia scrivania un lungo fax di informazioni provenienti dagli archivi dell'FBI. Un vecchio articolo con una foto un po' sfuocata di un ragazzo sorridente, con i denti radi, una camicia senza colletto e un mattone in mano. «Marion Delgado. Nel 1967, ragazzino, fece deragliare un treno merci mettendo un mattone sui binari.» «Pensi che sia importante ai fini delle indagini?» chiesi. «Delgado è diventato un simbolo per molti rivoluzionari negli anni '60», spiegò Molinari. «Un ragazzino che da solo riuscì a fermare un treno... Il suo nome veniva usato come nome in codice dai Weathermen, gli estremisti pacifisti degli anni '60, per sfuggire ai controlli dei servizi segreti. Quando l'FBI iniziò a controllare le loro telefonate nel tentativo d'infiltrarsi nell'organizzazione, il nome che ricorreva più spesso era 'Marion Delgado'.» «Cosa stai cercando di dirmi? Che dietro a questi attentati ci sono i vecchi Weathermen?» «Vorrei avere i nomi di chi ne ha fatto parte e non è finito in galera.» «Buona idea. Nel frattempo, vuoi venire con me a dare un'occhiata al KGB Bar?» domandai aprendo il cassetto della mia scrivania e tirando fuori la pistola. 57 Il KGB Bar era il tipico locale della controcultura, dove i poliziotti erano salutati con lo stesso entusiasmo con cui verrebbe accolto un professore universitario a un raduno di skinhead. C'erano alcuni rifiuti della società seduti davanti a computer su varie file di tavolacci di legno, più un'accozzaglia di tipi loschi che fumavano al bancone del bar. Sulle prime, fu tutto quello che notai. «Sicuro di voler entrare?» chiesi a Molinari. «Non saprei come giustificarmi, se qualcuno ti prendesse a pugni in faccia.» «Ho fatto il penalista», rispose, varcando la soglia. «Mi piacciono i postacci.» Andai verso il barista, che era magro, con la faccia da topo, le braccia
coperte di tatuaggi e la coda di cavallo. Mi ignorò. Dopo una quindicina di secondi, mi sporsi sul bancone e fu costretto a guardarmi in faccia. «Siamo di passaggio. Vorremmo sapere se qualcuno è interessato ad appoggiare la nostra missione di solidarietà con il Chad.» Senza l'ombra di un sorriso, il barista servì una birra a un uomo di colore con un berrettino africano in testa, seduto due sgabelli più in là. «Okay, siamo della polizia», ammisi. «Hai visto giusto.» «Mi dispiace, ma questo è un club privato. Avete la tessera?» rispose il barista. «Ehi, allora è come da Costco», commentai lanciando un'occhiata a Molinari. «Già», fece il barista. Molinari si sporse, mise un braccio su una spalla a Coda di Cavallo, che si accingeva a riempire un altro boccale di birra, e gli mostrò il distintivo d'argento con la scritta DIPARTIMENTO SICUREZZA NAZIONALE. «Stanami bene a sentire. Basta che faccia una telefonata e tra dieci secondi arriva una squadra di agenti federali che ti smontano il locale. A occhio direi che ci sono computer per quindici o ventimila dollari. Hai presente quanto sono maldestri i poliziotti, quando cercano prove importanti? Forse preferisci rispondere a qualche domanda, prima che li mandi a chiamare.» Coda di Cavallo lo guardò con gli occhi sbarrati. «Senti, barista», intervenne il nero con il berretto africano. «Date le circostanze, credo che possiamo fare un'eccezione alla regola e lasciarli rimanere anche senza la tessera.» Si voltò verso di noi con un sorriso allegro e si presentò. Aveva un forte accento britannico: «Piacere, Amir Kamor. Il barista si preoccupava semplicemente di mantenere la clientela ai nostri standard abituali. Non è il caso di ricorrere alle minacce. Venite, accomodatevi nel mio ufficio». Guardai il barista e alzai gli occhi al cielo. Nel retro del locale c'era una stanzetta angusta, quasi interamente occupata da una scrivania. Le pareti erano tappezzate di poster e volantini che annunciavano manifestazioni di vario tipo: raduni politici, aiuti umanitari, dimostrazioni per la liberazione di Timor Est, campagne per curare l'AIDS in Africa. Porsi ad Amir Kamor il mio biglietto da visita. Il nero annuì, apparentemente impressionato dal fatto che ero della Squadra Omicidi. «Volevate farmi qualche domanda?» «Ieri sera intorno alle ventidue era qui, signor Kamor?» cominciai.
«Ci sono tutte le sere, tenente. Sa com'è in questo lavoro: tutto dipende da chi custodisce le chiavi della cassa.» «Ieri sera alle ventidue e tre minuti è stato inviato un messaggio e-mail da uno dei suoi terminali.» «Non solo uno, immagino. La gente viene qui apposta. Vogliamo essere un punto di riferimento per chi ha qualcosa da comunicare al mondo.» «Può dirci chi si trovava nel locale ieri sera? Ha notato qualcuno fuori del comune?» «Tutti quelli che frequentano il mio bar sono fuori del comune», replicò Kamor, ma nessuno rise della sua battuta. «Ieri sera alle dieci, ha detto... Il locale era pieno. Forse potrei esservi più utile se mi diceste chi state cercando, o che cosa ha fatto.» Tirai fuori la foto della baby-sitter e l'identikit della donna che era stata vista in compagnia di George Bengosian. Kamor li osservò con la fronte corrucciata e fece un gran sospiro. «Potrei averle viste come no. I nostri clienti vanno e vengono.» «Okay. E questi?» incalzai estraendo le foto degli agitatori di Seattle mandate dall'FBI. Kamor le studiò una per una, scuotendo appena la testa. A un certo punto notai che guardava due volte la stessa e sbatteva gli occhi. «Ha riconosciuto qualcuno...» «È solo un'impressione», disse scuotendo di nuovo il capo. «Ma no, mi sbaglio. No, davvero.» «Secondo me, invece, ha riconosciuto qualcuno. Chi?» Sparsi le foto sulla scrivania. «Mi scusi tanto, signorina, ma perché io dovrei voler aiutare la polizia?» disse alzando la testa. «Difendete uno Stato fondato sulla corruzione e sull'avidità e, difendendolo, ne siete complici.» «Glielo dico io, perché», intervenne Molinan avvicinandosi minacciosamente a Kamor, che lo guardò perplesso. «Non mi interessa per chi volete essere un punto di riferimento, ma le ricordo che ai sensi delle nuove leggi sulla sicurezza nazionale lei rischia di essere accusato non di semplice reticenza, ma anche di favoreggiamento e di associazione a delinquere a scopo terroristico. Guardi ancora una volta queste foto, la prego.» «Dia retta a noi, signor Kamor», aggiunsi io. «Non le conviene finire coinvolto in questa faccenda.» Al nero cominciavano a gonfiarsi le vene del collo. Abbassò gli occhi e sfogliò di nuovo le fotografie mormorando: «Forse... Non so...»
Con una lieve esitazione, ne scelse una di un uomo. «Ora è diverso. Ha i capelli più corti, è un po' meno hippy, ha la barba. L'ho visto nel mio bar.» Stephen Hardaway. Alias Morgan Bloom. Alias Malcolm Caldwell. «Ci viene spesso? Dove lo possiamo trovare? È importante.» Kamor scosse la testa. «Non lo so, davvero. Ricordo di averlo visto un paio di volte, qualche tempo fa. Credo che venisse dal Nord.» «Una cosa...» Kamor deglutì. «Spero ve ne ricorderete, la prossima volta che verrete qui a fare i prepotenti.» Indicò un'altra foto. Un'altra faccia nota. «Questa l'ho vista ieri sera.» Era la baby-sitter dei Lightower. 58 Appena risalimmo in auto, battei il cinque a Molinari per complimentarmi con lui. Era stato davvero in gamba. «Bravo, Joe. Mi sei piaciuto soprattutto quando gli hai detto: 'Hai presente quanto sono maldestri i poliziotti, quando cercano prove importanti...'» Trattenevo a stento l'entusiasmo. Ci guardammo negli occhi e all'improvviso mi sentii di nuovo terribilmente attratta da lui. Ingranai la marcia. «Lungi da me insegnarti il mestiere, ma non dovremmo segnalare i due riconoscimenti?» Molinari telefonò in sede e comunicò il nome e gli pseudonimi di Hardaway. Ci richiamarono quasi subito. Schedato a Seattle, il nostro uomo aveva numerosi precedenti penali: detenzione e furto di armi, rapine in banca. Entro l'indomani mattina avremmo avuto il fascicolo su di lui. Di colpo mi resi conto che Jill non si era più fatta sentire. «Devo fare una telefonata», dissi. La chiamai sul cellulare. Mi rispose la sua voce registrata. «Salve, parla il sostituto procuratore Jill Bernhardt...» Strano, di solito Jill teneva il cellulare acceso. Poi mi ricordai che aveva detto che l'aspettava una lunga giornata in tribunale. «Sono Lindsay. Sono le due. Dove sei?» Stavo per aggiungere qualcosa di più personale, ma non volli farlo davanti a Molinari. «Chiamami. Voglio sapere come stai.» «C'è qualcosa che non va?» mi chiese lui appena ebbi chiuso la conversazione. Scossi la testa. «È un'amica... Dovevamo sentirci. Ieri sera ha cacciato di casa il marito. Un vero bastardo.» «È fortunata ad avere un'amica tenente di polizia», commentò lui.
L'idea che Jill fosse fortunata ad avere per amica un tenente di polizia mi parve divertente. Pensai di chiamarla in ufficio, ma ero sicura che mi avrebbe richiamato non appena avesse acceso il cellulare e lasciai perdere. «Tranquillo, sa difendersi benissimo anche da sola.» Imboccammo la rampa per il Bay Bridge. Non ci fu bisogno di accendere il lampeggiatore sul tetto, perché non c'era traffico. «Finalmente qualcosa che va liscio», esclamai. «Senti, Lindsay...» Molinari si voltò verso di me. Aveva cambiato tono. «Che ne diresti di andare a cena assieme stasera?» «A cena?» Riflettei per un attimo e mi voltai a guardarlo a mia volta. «Direi che non mi sembra il caso. Lo sappiamo tutti e due.» Molinari annuì rassegnato, come se lo avessi convinto. «Però dobbiamo pur mangiare...» disse poi con un sorriso. Sentii che cominciavano a sudarmi le mani sul volante. Porca miseria, c'erano mille motivi per non andare a cena con Molinari, eppure... Non esiste solo il lavoro, in fondo. O no? Lo guardai e gli sorrisi. «Già. Dobbiamo pur mangiare.» 59 L'ultima e-mail lasciò Cindy sbalordita. Una volta tanto, anziché limitarsi a scrivere su una vicenda, ne era protagonista. E questo le faceva un po' paura. Chi poteva biasimarla, dopo gli avvenimenti degli ultimi giorni? Per la prima volta in tutta la sua carriera, però, aveva anche la sensazione di fare qualcosa di utile, di giusto, e questo la elettrizzava. Prese fiato e guardò di nuovo lo schermo. «Non siamo stati noi a Portland», diceva il messaggio. Perché negare la paternità dell'omicidio? Perché una smentita cosi laconica? Per prendere le distanze, per distinguere la propria crociata dal gesto di un emulatore, era ovvio. Il nodo che sentiva allo stomaco, tuttavia, le suggeriva che poteva esserci dietro qualcosa di più. Forse stava esagerando, ma non poteva fare a meno di pensare che forse non si trattava di una smentita, ma di qualcos'altro. Uno scrupolo di coscienza. No. È una follia, rifletté. Quella gente aveva fatto saltare in aria la casa di Morton Lightower, con tutta la famiglia dentro, e aveva avvelenato
Bengosian. Ma aveva anche tratto in salvo la piccola Caitlin. Non solo... Cindy aveva il sospetto che la persona che le aveva scritto fosse una donna, perché aveva parlato delle proprie «sorelle in schiavitù». E perché aveva deciso di rivolgersi a lei, quando c'erano tanti altri giornalisti a San Francisco. Perché proprio a lei? Se veramente la persona che le scriveva aveva un briciolo di umanità, forse Cindy sarebbe riuscita a far leva su di esso e a indurla a rivelarle qualcosa. Un nome, un luogo. Forse a scriverle era la baby-sitter, che aveva dimostrato di non essere del tutto senza cuore. Fece scrocchiare le nocche delle dita e si chinò sulla tastiera. Ci siamo... Scrisse: Dimmi, perché fate queste cose? Ho l'impressione che tu sia una donna: è vero? Ci sono modi migliori per raggiungere i vostri scopi che non uccidere persone da tutti considerate innocenti. Puoi usarmi come tramite. Farò circolare il tuo messaggio. Ti prego... Ti ho detto che ero pronta ad ascoltarti, e infatti sono qui... Approfittane, per favore... Smetti di uccidere. Rilesse. Tentar non nuoce, ma quello era un tentativo veramente disperato. Aveva la sensazione che, se avesse inviato quel messaggio, sarebbe davvero entrata a far parte della vicenda da protagonista e la sua vita sarebbe cambiata per sempre. «Sayonara», mormorò rivolta alla propria vecchia vita, quella in cui non faceva altro che osservare passivamente e scrivere. E premette INVIO. 60 Mi fu difficile continuare a lavorare, quel pomeriggio. Ebbi una riunione di un'ora con Tracchio e mandai Jacobi e Cappy a rifare il giro dei bar di Berkeley con la foto di Hardaway. Ma avevo la testa altrove e il batticuore al pensiero di quella sera. Peraltro, come aveva detto giustamente Joe Molinari, bisogna pur mangiare. A casa, sotto la doccia, mentre mi lavavo via di dosso le tensioni della giornata con un bagnoschiuma alla lavanda, mi dissi, sentendomi leggermente in colpa: Eccomi qua, emozionata come una ragazzina al primo appuntamento. Poi misi un po' in ordine, sistemai meglio i libri nella libreria, controllai
il pollo che cuoceva nel forno, diedi da mangiare a Martha, mi versai un bicchiere di Sancerre e apparecchiai la tavola. A quel punto mi resi conto che Jill non si era ancora fatta viva. Era molto strano. Ancora avvolta nell'asciugamano, con i capelli bagnati, le lasciai un altro messaggio. «Che scherzi sono questi? Su, richiamami. Voglio sapere come stai...» Stavo per telefonare a Claire e chiederle se aveva notizie di Jill quando sentii suonare alla porta. Merda, sono solo le otto meno un quarto. Molinari era in anticipo. Mi avvolsi un altro asciugamano sulla testa e saltellando freneticamente per casa abbassai le luci e tirai fuori un altro bicchiere. Poi andai ad aprire. «Chi è?» «Avanguardia del Dipartimento della Sicurezza Nazionale», rispose ad alta voce Molinari. «Be', siete in anticipo, cari signori. Nessuno vi ha mai detto che prima di presentarsi alla porta si suona il citofono?» «Generalmente non badiamo a simili formalità.» «Okay. Potete entrare, ma senza guardare.» Non riuscivo a credere di essere lì con un asciugamano indosso e basta. «Ora apro.» «Ho gli occhi chiusi.» «Buon per te.» Martha mi si avvicinò. «Ho un cane sempre pronto a proteggermi...» Girai la maniglia e aprii lentamente la porta. Molinari, con la giacca del completo su una spalla e un mazzo di giunchiglie in mano, aveva gli occhi spalancati. «Mi avevi promesso di non guardare!» Indietreggiai arrossendo. «Non arrossire. Sei bellissima», disse lui con un gran sorriso. «Ti presento Martha», replicai. «Fai la brava, Martha, altrimenti Joe ti sbatte in un canile a Guantanamo. Lo conosco.» «Ciao, Martha.» Molinari si accucciò e le accarezzò la testa finché Martha non chiuse gli occhi. «Anche tu sei bellissima.» Si rialzò in piedi e io mi strinsi nell'asciugamano. «Pensi che Martha si scandalizzerebbe se dicessi che muoio dalla voglia di vedere che cosa c'è sotto quell'asciugamano?» disse con un sorrisetto. Scossi la testa e lasciai cadere l'asciugamano che avevo sui capelli. «Accontentato.» «Non è esattamente questo che intendevo.» «Mentre voi due fate quattro chiacchiere, io vado a vestirmi», dissi al-
lontanandomi. «C'è del vino nel frigo, oppure vodka e scotch sul bancone in cucina. E c'è un pollo nel forno, se hai voglia di dargli un'occhiata.» «Lindsay», disse Molinari. Mi fermai. «Sì?» Fece un passo nella mia direzione e rimasi paralizzata (a parte il cuore, che mi batteva fortissimo). Quando mi mise le mani sulle spalle rabbrividii. Mi girava la testa. Joe mi si avvicinò e mi chiese: «Quanto ci vuole perché il pollo sia pronto?» «Quaranta minuti.» Avevo la pelle d'oca. «All'incirca.» «Peccato...» disse lui con un sorriso. «Dovremo sbrigarci.» E, così su due piedi, mi baciò. Appena le sue labbra sfiorarono le mie, mi sentii invadere da una deliziosa sensazione di calore. Risposi al suo bacio. Joe mi accarezzò la schiena e mi strinse più forte a sé. Anche le sue carezze mi piacevano. Che diavolo, mi piaceva lui. L'asciugamano cadde a terra. «Ti avverto», sussurrai. «Martha diventa una belva, se uno fa qualcosa che non va.» Lui la guardò, accoccolata sul pavimento, e disse: «Evidentemente pensa che non ci sia niente che non va». 61 Joe Molinari era sdraiato accanto a me fra le lenzuola stropicciate. Notai che, da vicino, era ancora più bello: aveva gli occhi di un azzurro intenso e lo sguardo vivace. Non avevo parole per spiegare quanto stavo bene. Mi sembrava tutto naturale, giusto. I piccoh brividi che mi correvano lungo la schiena erano inaspettati, ma decisamente piacevoli. Erano due anni che non mi capitava di sentirmi così ed era - come dire? - una bella riscoperta. Non sapevo molto di Joe Molinari. Che tipo di uomo era, fuori dall'ambiente di lavoro? Aveva qualcuno che lo aspettava a casa? Per la verità, in quel momento non m'importava. Stavo bene e questo mi bastava. «Ti sembrerà un momento poco adatto per una domanda del genere, ma come sei messo sentimentalmente, a Washington?» dissi. Molinari prese fiato. «Niente di complicato. Di solito mi accompagno con stagiste e subordinate conosciute durante le indagini di cui mi occupo.» Sorrise. «Su, dai.» Mi misi a sedere. «È una domanda legittima, visto che siamo
stati a letto assieme.» «Sono divorziato, Lindsay. Ho qualche relazione occasionale, tempo permettendo.» Mi accarezzò la testa. «Vuoi sapere se faccio spesso queste cose?» «Queste cose? Quali cose?» «Hai capito benissimo. Queste cose, noi due, durante una trasferta di lavoro.» Si voltò a guardarmi in faccia. «Affinché non ti resti alcun dubbio, se sono qui a casa tua è perché dal primo momento che ti ho vista... Appena sei entrata a quella riunione, ho sentito squilli di tromba e rulli di tamburo. E da quel momento in poi l'unica cosa che mi ha colpito più della tua bravura e professionalità è stata la tua bellezza, quando ti è caduto l'asciugamano.» Presi fiato e lo guardai fisso in quegli occhi di un azzurro così intenso. «Giurami che non sei uno stronzo, Joe Molinari.» Di colpo balzai su per alzarmi dal letto. «Oddio, il pollo!» «Lascia perdere il pollo.» Sorridendo, mi attirò a sé. «Non dobbiamo per forza mangiare.» In quel momento squillò il telefono. Ci mancava solo quello! Decisi di lasciarlo suonare e aspettai che scattasse la segreteria. Era Claire e, a giudicare dal tono, si trattava di un'emergenza. «Lindsay, sono preoccupata. Se ci sei, rispondi. Per favore, Lindsay.» Sbattei gli occhi, mi rotolai verso il comodino e tirai su il telefono. «Claire, che cosa c'è?» «Grazie a Dio sei in casa.» Aveva la voce tesa, e non era da lei. «Si tratta di Jill. Sono a casa sua, Lindsay, e lei non c'è.» «Aveva un processo. Hai provato a cercarla in ufficio? Sarà ancora a lavorare.» «Certo che ho provato in ufficio», ribatté Claire. «Oggi non si è presentata al lavoro.» 62 Saltai su a sedere, confusa e spaventata. Era assurdo. «Aveva un processo, Claire. Sono sicura.» «Lo so. Solo che non si è presentata in tribunale. È tutto il giorno che la cercano.» Appoggiai la schiena alla testiera del letto. Jill non era un'assenteista,
una che non si presentava in ufficio senza avvertire. «Non è da lei», dissi. «Infatti. Non è per niente da lei», concordò Claire. Fui assalita dalla preoccupazione. «Claire, sei al corrente della situazione? Sai che cosa è successo con Steve?» «No. Perché, che cosa è successo?» rispose. «Resta dove sei», le dissi. Riattaccai e rimasi seduta sul letto un secondo. «Mi dispiace, Joe, ma devo andare.» Pochi minuti dopo sfrecciavo in 23rd Street in direzione di Castro e nel frattempo esaminavo tutte le possibilità. Jill era depressa. Aveva bisogno di stare un po' sola. Era andata dai suoi. Erano tutte ipotesi plausibili, ma era impossibile, assolutamente impossibile, che Jill non si fosse presentata in tribunale. Mi fermai davanti alla sua casa in Buena Vista Park e la prima cosa che notai fu la BMW 535 azzurra nel vialetto. Claire mi aspettava davanti al portone. Mentre ci abbracciavamo mi disse: «Non risponde. Ho suonato, ho bussato... Non risponde!» Mi guardai intorno: non c'era nessuno. «Mi dispiace, ma devo farlo», dissi. Ruppi uno dei pannelli del portone e infilai un braccio all'interno. Anche Steve poteva essere entrato allo stesso modo. L'allarme scattò immediatamente. Conoscevo il codice - 63442 - e lo composi chiedendomi se il fatto che l'allarme fosse inserito era un buon segno oppure no. Accesi la luce e chiamai: «Jill?» Poi sentii abbaiare: Otis, il labrador marrone, arrivò trotterellando dalla cucina. «Ciao, bello», lo salutai, accarezzandogli la testa. Sembrava contento di vedere un viso noto. «Dov'è la mamma?» Di una cosa ero certa: Jill non avrebbe mai abbandonato il suo cane. Steve forse sì, ma Otis no di sicuro. «Jill? Steve?» chiamai ancora. «Sono Lindsay. E c'è anche Claire.» Jill aveva ristrutturato la casa da poco: divani colorati, pareti color melone, uno sgabello basso con il piano di pelle imbottito al posto del tavolino. La casa era buia, silenziosa. Controllammo in tutte le stanze. Nessuna risposta. Jill non c'era. Claire sospirò e disse: «Comincio ad avere veramente paura». Le misi una mano sulla spalla e annuii. «Anch'io. Vieni, andiamo a controllare di sopra.»
Salendo le scale, non potei fare a meno di immaginare Steve impazzito che sbucava da una delle stanze come succede nei film dell'orrore. «Jill? Steve?» chiamai di nuovo. Tenevo la mano sul calcio della pistola: non si sa mai. Nessuno rispose, nemmeno al piano di sopra. Le luci della camera da letto erano spente, il letto a baldacchino era fatto e il nécessaire del trucco di Jill era nel bagno. L'ultima volta che le avevo parlato, Jill mi aveva detto che voleva andare a dormire. Stavo per tornare nel corridoio quando la vidi. La ventiquattrore. Jill non si separava mai dal suo «ufficio itinerante», oggetto di costanti battute tra noi: non andava nemmeno in spiaggia senza portarsi dietro il lavoro! Presi un asciugamano e afferrai la valigetta per la tracolla, senza stringere troppo. Nel corridoio trovai Claire ad aspettarmi. Aveva controllato nelle altre camere. «Niente...» «Questa storia non mi piace, Claire. La macchina davanti a casa, la valigetta... Ha dormito qui, ma non è uscita per andare a lavorare», dissi indicando la valigetta. 63 Non avevo idea di come fare per contattare Steve. Era tardi e non sapevo dove diavolo fosse andato a stare. Oltre tutto Jill era scomparsa da un giorno soltanto. Poteva tornare da un momento all'altro e irritarsi per il nostro allarmismo. Non ci restava che aspettare mangiandoci le unghie per la preoccupazione e, nel mio caso, per i sensi di colpa. Telefonai a Cindy, che arrivò nel giro di un quarto d'ora. Claire chiamò Edmund per avvertirlo che si sarebbe fermata ad aspettare con noi ancora un po', se non addirittura tutta la notte. Ci sedemmo sui divani del salotto. In fondo, poteva darsi che Jill avesse cambiato idea e avesse raggiunto Steve chissà dove. Verso le undici squillò il mio cellulare, ma era solo Jacobi che voleva riferirmi che aveva fatto il giro di tutti i bar di Berkeley senza trovare nessuno che ammettesse di conoscere Hardaway. Continuammo ad aspettare in silenzio. Non ricordo nemmeno che ora fosse quando ci addormentammo. Mi svegliai un paio di volte durante la notte, credendo di aver sentito
qualcosa. «Jill?» Ma non era lei. L'indomani mattina per prima cosa andai a casa mia. Joe aveva rifatto il letto e lasciato l'appartamento in ordine. Feci la doccia e avvisai al lavoro che sarei arrivata in ritardo. Un'ora dopo ero davanti all'ufficio di Steve nel Financial Center. Lasciai la mia Ford Explorer praticamente in mezzo alla strada e corsi dentro. Quando aprii la porta, ero ormai in preda al panico. Steve era alla reception che beveva il caffè con la segretaria, tranquillo e disinvolto, con le gambe appoggiate su una sedia. «Dov'è?» dissi facendolo sobbalzare, tanto che si macchiò di caffè la Lacoste rosa. «Cosa ti prende, Lindsay?» Steve alzò le mani. «Andiamo nel tuo ufficio», ribattei con aria truce. «Signor Bernhardt?» intervenne la segretaria. «Non ti preoccupare, Stacy. È una mia amica», la rassicurò lui. Già, un'amica. Appena fummo nella sua stanza, sbattei la porta. «Sei impazzita, Lindsay?» mi apostrofò Steve. Lo spinsi a sedere su una sedia. «Voglio sapere dov'è Jill.» «Jill?» Mi mostrò le mani aperte con aria sinceramente confusa. «Non mi prendere in giro, stronzo. Jill è scomparsa. Ieri non si è presentata in ufficio. Voglio sapere dov'è.» «Non ne ho la più pallida idea. Come sarebbe a dire che è 'scomparsa'?» «Ieri aveva un processo, Steve», risposi esasperata. «E non si è presentata in tribunale. Ti sembra da lei? Ieri sera non è rientrata a casa. La macchina è davanti al portone e la ventiquattrore è in camera sua. Qualcuno dev'essere entrato in casa.» «Secondo me, lei ha una visione un tantino distorta della situazione, tenente», disse Steve con una risata di scherno. «Jill mi ha cacciato di casa l'altra sera e ha cambiato la serratura.» «Non prendermi per il culo, Steve. Voglio sapere che cos'hai fatto. Quand'è l'ultima volta che hai visto Jill?» «Alle undici di due sere fa, attraverso la finestra del soggiorno, quando bussavo ai vetri per cercare di rientrare in casa mia.» «Jill mi ha detto che dovevi passare ieri mattina a prendere le tue cose.» Negli occhi di Steve passò un lampo di collera. «Cos'è? Un interrogatorio?» «Voglio sapere dove hai passato la notte di venerdì e che cosa hai fatto
sabato mattina prima di venire a lavorare», risposi guardandolo fisso. «Che cosa succede? Devo chiamare il mio avvocato, Lindsay?» Invece di rispondere, mi voltai e uscii dalla stanza sperando con tutto il cuore che Steve non dovesse chiamare l'avvocato. 64 Non era rabbia quella che mi tormentava mentre tornavo verso la Corte, era qualcosa di più. Ogni volta che guardavo nello specchietto retrovisore e incrociavo il mio stesso sguardo pensavo: è uno sguardo che ho già visto. Sul lavoro. Sui volti di amici e parenti di persone scomparse. Era lo sguardo di indicibile panico di chi teme che sia successo il peggio, ma non ne ha ancora la certezza. «State calmi», diciamo loro. «Tutto è possibile. C'è ancora tempo.» Erano le stesse cose che mi ripetevo tornando in ufficio in macchina. Stai calma, Lindsay. Jill tornerà da un momento all'altro... Guardandomi nello specchietto retrovisore, però, non potevo fare a meno di pensare che avevo lo stesso sguardo. Appena arrivata, telefonai a Ingrid Barros, la donna delle pulizie di Jill, che però era a una riunione di genitori a scuola. Mandai Lorraine Stafford e Paul Chin a vedere se nella strada dove abitava Jill a Buena Vista Park qualcuno aveva notato qualcosa di sospetto. Ordinai addirittura un controllo sulle ultime chiamate fatte al cellulare di Jill. Qualcuno doveva averle telefonato, qualcuno doveva averla vista. Non era possibile che fosse improvvisamente sparita dalla faccia della terra: non era il tipo. Mi sforzai di concentrarmi sulle indagini e su Stephen Hardaway. Stavano arrivando informazioni sul suo conto. L'FBI lo stava cercando da un paio di anni e, pur non essendo nell'elenco dei Most Wanted, aveva precedenti tali da renderlo altamente sospetto. Era cresciuto a Lansing, nel Michigan, e dopo la maturità si era trasferito sulla West Coast per frequentare il Reed College di Portland, nell'Oregon. Lì aveva avuto i primi guai con la giustizia ed era stato arrestato per aggressione aggravata durante una manifestazione contro il WTO alla University of Oregon. Era inoltre sospettato per alcune rapine in banca a Eugene e Seattle. Nel 1999 era stato fermato in Arizona mentre cercava di comprare dei detonatori da un agente dell'ATF in incognito. Ottenuta la libertà provvisoria, Stephen Hardaway era scomparso. Correva voce che
fosse coinvolto in una serie di rapine a mano armata messe a segno nell'Oregon e nello Stato di Washington. Sapevamo perciò che era un sovversivo, armato e pericoloso. Da due anni non si avevano notizie di lui. Verso le cinque del pomeriggio Claire bussò alla mia porta. «Mi sembra d'impazzire, Lindsay. Vieni, andiamo a berci un caffè insieme.» «Anch'io non ce la faccio più», risposi prendendo la borsa. «Chiamiamo Cindy?» «Non ce n'è bisogno», rispose Claire indicandomi il fondo del corridoio. «È già qui.» Andammo insieme nella caffetteria al secondo piano e per un po' rimanemmo sedute davanti alle rispettive tazze in silenzio. Alla fine presi fiato e dissi: «Credo che siamo tutte d'accordo sul fatto che Jill non è da qualche parte a piangere sulle sue disgrazie, ma che le è accaduto qualcosa. Prima lo ammettiamo, prima riusciremo a scoprire che cosa le è successo». «Dev'esserci una spiegazione», intervenne Claire. «Voglio dire, sappiamo tutte com'è fatto Steve. Non è il mio ideale di uomo, ma non posso credere che sia capace di tanto.» «Lo so, ma sono già passati due giorni», obiettò Cindy con aria corrucciata. Claire guardò me. «Ti ricordi la volta che Jill doveva passare per Salt Lake City di ritorno da Atlanta e, mentre aspettavano all'aeroporto, ha guardato la neve sulle montagne e ha detto: 'Al diavolo tutti, vado a sciare'? È scesa dall'aereo, ha affittato una macchina e ha passato la giornata sulle piste di Snowbird.» «Sì, me lo ricordo», dissi sorridendo al pensiero. «Steve voleva trascinarla a una cena con un cliente, l'ufficio la cercava dappertutto e dov'era Jill? A tremila metri, con tuta e sci a noleggio, nel paradiso della neve fresca. La giornata più bella della sua vita.» Tutte e tre sorridemmo, anche se con gli occhi lucidi. «Io penso che sia così anche questa volta», concluse Claire asciugandosi le lacrime con il tovagliolo. «Penso che sia andata a sciare. Voglio che sia andata a sciare.» 65 Cindy rimase al giornale fino a tardi, quella sera, insieme con i pochi
cronisti free-lance che ancora setacciavano i comunicati della polizia. La verità era che non sapeva dove altro andare. Il fatto che Jill fosse sparita dalla circolazione la preoccupava. E non solo lei. Si era sparsa la voce: la scomparsa di un sostituto procuratore faceva notizia. Il suo capo, sapendo che Jill era sua amica, le aveva chiesto se voleva occuparsi lei del caso. «Non è ancora 'un caso'», aveva ribattuto secca Cindy. Se ci avesse scritto un articolo, lo sarebbe diventato. Sarebbe diventato una realtà. Che la riguardava in prima persona. Osservò una foto che teneva appesa accanto alla scrivania, scattata al tavolo d'angolo di Susie's, il loro locale preferito, quando avevano brindato alla cattura del killer degli sposini. Jill le sembrava imbattibile, all'epoca: aveva un lavoro importante, un marito di tutto rispetto... Non si era fatta mai sfuggire la minima lamentela, nemmeno con le sue amiche. «Su, Jill», mormorò Cindy con una gran voglia di piangere. Fai la brava, entra da quella porta. Voglio vederti qui, sorridente. Ti prego, Jill. Su, entra da quella porta, cazzo! Erano le undici passate e non stava succedendo niente. Rimanere al lavoro era solo un modo per vegliare, per non perdere la speranza. Torna a casa, Cindy. Ter oggi basta. Non puoi fare niente adesso. Uno degli addetti alle pulizie che passava l'aspirapolvere le strizzò l'occhio. «Ancora al lavoro, signora Thomas?» «Sì, faccio le ore piccole», sospirò. Alla fine Cindy raccolse le sue cose e controllò un'ultima volta il computer prima di spegnerlo. Pensò di chiamare Lindsay per parlare un po'. Sullo schermo lampeggiava l'icona di un nuovo messaggio di posta elettronica. Non ebbe bisogno di aprirlo per indovinare di chi era.
[email protected]. C'era da aspettarselo: l'avevano avvertita che ci sarebbe stata una nuova vittima ogni tre giorni, ed era domenica. August Spies era puntuale. «Vi abbiamo avvertiti, ma siete stati arroganti e non ci avete dato ascolto», cominciava il messaggio. Mio Dio! A Cindy sfuggì un gemito. Scorse velocemente lo schermo leggendo il messaggio e la firma agghiacciante alla fine. August Spies aveva colpito ancora.
66 Quella sera arrivai a casa alle undici, esausta e a mani vuote, e per un attimo mi fermai a pensare in fondo alle scale. L'indomani mattina Jill sarebbe stata dichiarata ufficialmente «scomparsa» e io mi sarei ritrovata a dirigere le indagini sulla sparizione di una delle mie più care amiche. «Ho pensato che ti facesse piacere saperlo», disse una voce dall'alto, cogliendomi alla sprovvista. «Ho avuto notizie da Portland.» Guardai su e vidi Molinari seduto davanti alla mia porta. «Una segretaria della Portland State University ha rivelato a un suo amico, un attivista locale, dove alloggiava Propp. La pistola risulta di sua proprietà. Ma immagino che questa notizia non basti a tirarti su, stasera.» «Credevo che fossi un pezzo grosso, Joe», dissi, troppo stanca e svuotata per mostrargli quanto ero felice di vederlo. «Come mai finisci sempre a fare da baby-sitter a me?» Lui si alzò. «Non volevo che ti sentissi sola in questo momento.» Tutto a un tratto cedetti e scoppiai a piangere. Molinari scese le scale e venne ad abbracciarmi. Mi strinse a sé mentre io continuavo a singhiozzare. Mi vergognavo a farmi vedere così, volevo sembrare forte a tutti i costi, ma non riuscivo a smettere. «Mi dispiace», dissi cercando di darmi un contegno. «Non è il caso di fingere, con me», rispose lui accarezzandomi la testa. «Puoi lasciarti andare. Non c'è niente di cui vergognarsi.» È successo qualcosa a Jill! Avrei voluto gridare, ma non osavo neppure alzare la testa. «Dispiace anche a me.» Joe continuò a tenermi stretta, poi mi prese delicatamente per le spalle e mi guardò negli occhi. «Lavoravo al ministero della Giustizia, l'11 settembre 2001», mi disse asciugandomi le lacrime. «Conoscevo alcune delle vittime: vari vigili del fuoco e John O'Neill, il responsabile della sicurezza al World Trade Center. Ero uno dei coordinatori della squadra di emergenza, ma quando sono cominciati ad arrivare i nomi delle vittime, gente che conoscevo e con cui lavoravo, non ho retto. Sono andato nel bagno. Sapevo che la situazione era gravissima, ma mi sono chiuso in un gabinetto e ho pianto. Non c'è niente di cui vergognarsi.» Aprii la porta ed entrammo in casa. Joe mi preparò una tazza di tè mentre io mi sdraiai sul divano con il muso di Martha sulle gambe. Non so che cosa avrei fatto, se fossi stata sola. Joe venne a sedersi accanto a me, mi
versò il tè e mi circondò le spalle con un braccio Rimanemmo seduti vicini a lungo. Aveva ragione: non c'era niente di cui vergognarsi. «Grazie», mormorai, nascondendogli il viso sul petto. «Di cosa? Del tè?» «Di tutto. Di non essere uno stronzo come tutti gli altri.» Chiusi gli occhi e per un attimo il male rimase fuori, lontano dal soggiorno di casa mia. Squillò il telefono. Non volevo rispondere perché per un momento mi era parso di essere a migliaia di chilometri da lì e, per quanto sapessi che era un atteggiamento egoista, ci sarei voluta rimanere. Poi però pensai che poteva essere Jill. Risposi. Era Cindy. «Lindsay, grazie a Dio sei in casa. È successa una cosa terribile.» Trasalii e mi strinsi a Joe. «Jill?» «No. August Spies.» 67 Ascoltai con il cuore in gola Cindy che mi leggeva l'ultimo messaggio. «'Vi abbiamo avvertiti, ma siete stati arroganti e non ci avete dato ascolto' dice. 'Non ci sorprende. Non ci avete mai dato ascolto. Così abbiamo colpito ancora.' Lindsay, è firmato August Spies.» «C'è stato un altro omicidio», spiegai a Molinari, per poi tornare ad ascoltare Cindy. Il succo del messaggio era che avremmo trovato quel che cercavamo al 333 di Harrison Street a Oakland, nella zona portuale. Erano passati esattamente tre giorni da quanto Cindy aveva ricevuto la prima e-mail. August Spies era di parola. Finita la conversazione con Cindy, chiamai l'unità di crisi, mandai una squadra sul posto e feci chiudere al traffico tutte le strade di accesso al porto di Oakland. Non sapendo di che tipo di situazione si trattasse, né quante fossero le persone coinvolte, chiamai anche Claire e le chiesi di raggiungermi là. Molinari si era infilato la giacca e parlava al telefono. In un attimo fui pronta anch'io. «Vieni, tanto vale andare con una macchina sola», dissi quando fummo sulla porta. Imboccai 3rd Street a sirene spiegate e mi diressi a tutta velocità verso il Bay Bridge. A quell'ora di sera le strade erano semideserte. Intanto alla radio i messaggi della polizia di Oakland si alternavano a
quelli del 911. Molinari e io ascoltammo cercando di capire che cosa era successo. Un incendio? Un'esplosione? C'erano dei feriti? Uscendo dal ponte imboccai la 880 fino all'uscita per il porto. La polizia aveva già allestito un posto di blocco. Rallentai all'altezza di due autopattuglie con le luci lampeggianti e vidi che avevano fermato la Volkswagen viola di Cindy, la quale stava discutendo animatamente con uno degli agenti. «Sali in macchina!» le gridai. Molinari mostrò il distintivo al poliziotto dicendo: «È con noi». Il giovane, impressionato, la lasciò passare. Dallo svincolo al porto il tratto era breve. Harrison Street era vicinissima ai moli. Cindy ci mostrò la stampa del messaggio e-mail. Molinari la lesse. In prossimità dei moli c'erano luci verdi e rosse che lampeggiavano ovunque. Sembrava che tutti i poliziotti di Oakland fossero accorsi lì. «Okay, scendiamo.» Ci precipitammo fuori dalla macchina e ci dirigemmo di corsa verso il vecchio magazzino di mattoni contrassegnato con il numero 333. C'erano tralicci altissimi che si perdevano nella notte ed enormi cataste di container ovunque. Il porto di Oakland movimenta la maggior parte delle merci destinate alla Bay Area. Mi sentii chiamare: era Claire che ci correva incontro, appena scesa dalla sua Nissan Pathfinder. «Che cosa è successo?» «Non lo so ancora», risposi. Poi vidi uscire dall'edificio un capitano del distretto di Oakland che conoscevo. «Gene!» Mi precipitai verso di lui. Non ebbi bisogno di chiedergli nulla. «La vittima è al primo piano. Un solo colpo alla nuca.» Rabbrividii e nello stesso tempo provai un certo sollievo: se non altro, c'era un morto soltanto. Ci avviammo su per le scale, seguiti da Claire e Cindy. Un agente della polizia di Oakland cercò di fermarci, ma gli mostrai il distintivo e tirai dritto. Il cadavere, steso per terra, era in parte coperto da un telo insanguinato. «Maledetti bastardi!» esclamai. C'erano due poliziotti e una squadra di soccorritori chini a osservarlo. Al telo era attaccato con un legaccio di metallo un foglio: una polizza di carico. «'Vi abbiamo avvertiti'», lessi ad alta voce. «'Lo Stato criminale non è immune ai suoi stessi crimini. Rappresentanti del G8, ravvedetevi! Rinunciate alle vostre politiche imperialiste. Avete ancora tre giorni. Possiamo
colpire ovunque, in qualsiasi momento. August Spies.'» In fondo al foglio c'era una riga in grassetto tutto maiuscolo: DA RESTITUIRE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA. Mi fermai di colpo, in preda al panico, e per un attimo rimasi come paralizzata. Guardai Claire. Le si leggeva in faccia lo shock. Spinsi da una parte uno degli operatori sanitari e mi inginocchiai. La prima cosa che vidi fu il polso, con il braccialetto di acquamarina di David Yurman che conoscevo così bene. «Oh no! No, no, no...» mormorai. Sollevai il telo. Era Jill. PARTE QUARTA 68 Ripensandoci, ricordo solo frammenti di quello che successe da quel momento in poi. So che rimasi lì a guardare senza riuscire a capacitarmi di quel che vedevo: il viso bellissimo di Jill ormai senza vita, gli occhi fissi, limpidi e sereni. «Oh no, no...» continuavo a ripetere. So che mi cedettero le gambe, che qualcuno mi sorresse. Ricordo la voce rotta di Claire che diceva: «O mio Dio, Lindsay...» Non riuscivo a staccare gli occhi dalla faccia di Jill. Da un angolo della bocca le usciva un rivolo di sangue. Le toccai la mano: aveva ancora la fede al dito. Sentii Cindy che scoppiava a piangere e vidi Claire che l'abbracciava, mentre io continuavo a ripetere dentro di me: Non può essere. Che cosa c'entra Jill con August Spies? Stordita dal dolore, mi sforzavo di ricordare che ero lì in veste professionale, in quanto tenente della Squadra Omicidi, e che dovevo essere forte per Claire e Cindy e per tutti gli agenti lì in giro. Chiesi: «Com'è arrivata qui?» Mi guardai intorno. «Perlustrate la zona. Qualcuno deve aver visto un veicolo.» Molinari cercò di portarmi via, ma io lo respinsi. Dovevo cercare, trovare un indizio: resta sempre qualcosa, una traccia, commettono sempre un errore. Maledetto August Spies... Schifoso bastardo! Tutto a un tratto mi trovai a fianco Jacobi, Cappy e anche Tracchio: la mia Squadra Omicidi al completo. «Lascia fare a noi», disse Cappy. Alla
fine mi arresi e lasciai che si occupassero loro di tutto. Cominciavo lentamente a rendermi conto che purtroppo era vero. Tutte quelle sirene e quelle luci lampeggianti non erano frutto della mia fantasia. Jill era morta. Era stata ammazzata. Non da Steve, ma da August Spies. La vidi portare via: Jill, la mia amica... Claire aiutò a sistemarla nell'ambulanza, che partì a sirene spiegate. Joe Molinari mi consolò come poteva, ma a un certo punto fu costretto a tornare alla Corte di Giustizia. Quando la confusione fu un po' scemata, Claire, Cindy e io ci sedemmo sui gradini dell'edificio accanto. Piovigginava. Nessuna parlava. In testa mi riecheggiavano mille domande a cui non sapevo dare risposta: Perché? Qual è il nesso con gli altri casi? Ma no, questo è diverso! Jill non c'entra! Non so fino a che ora rimanemmo sedute su quei gradini, tra echi di voci allarmate e lampi di luce. Cindy piangeva, Claire mi abbracciava e io, talmente sconvolta che non riuscivo nemmeno a parlare, con i pugni stretti, continuavo a ripetermi sempre la stessa domanda. Perché? Un pensiero ricorrente mi tormentava. Se quella sera fossi andata da Jill, forse tutto questo non sarebbe successo... All'improvviso il silenzio fu rotto dallo squillo del cellulare di Cindy. Con voce tremante, rispose: «Pronto?» Prese fiato e aggiunse: «Sono sul posto». Era la redazione del Chronicle. Sospirando, Cindy riferì i fatti. «Sì, sembra che anche questo faccia parte della campagna terroristica. La terza vittima...» Descrisse il posto, spiegò il messaggio di posta elettronica che aveva ricevuto al giornale, la tempistica. Poi si interruppe. Vidi che aveva gli occhi lucidi e si mordeva le labbra come se avesse paura di continuare. «Sì, la vittima è stata identificata. Si chiama Bernhardt... Jill.» Fece lo spelling. Cercò di dire ancora qualcosa, ma le si spezzò la voce. Claire le prese la mano. Cindy tirò su con il naso, si asciugò gli occhi e, facendo di sì con la testa, riprese: «La dottoressa Bernhardt lavorava alla procura di San Francisco...» Con un filo di voce aggiunse: «Ed era mia amica». 69 Sapevo che non sarei riuscita a dormire quella notte e decisi di non andare neppure a casa.
Rimasi sulla scena del delitto finché non se ne furono andati persino i tecnici della Scientifica, poi per circa un'ora girai per le strade deserte del porto in cerca di qualcuno - un operaio del turno di notte o magari un vagabondo - che potesse aver visto scaricare da un mezzo il cadavere di Jill. Presi la macchina e feci un lungo giro: avevo paura di tornare sia in ufficio sia a casa, non volevo rivivere il momento raccapricciante in cui, tra le lacrime, avevo sollevato il telo e avevo visto Jill. Vagai a caso finché la macchina parve aver capito dov'ero diretta. Dove altro potevo andare? Alle tre del mattino, mi ritrovai davanti all'obitorio. Ero sicura che Claire fosse lì, nonostante l'ora. E infatti la trovai in camice azzurro, a fare il suo lavoro nella sala settoria, perché era l'unica cosa capace di tenerla insieme in un momento come quello. Jill era stesa sulla barella, sotto le stesse luci spietate in cui avevo visto tante altre vittime di omicidio prima di lei. Jill... La mia carissima Jill... Stetti a guardare da dietro il vetro, con le guance rigate di lacrime, e intanto pensavo che in qualche modo l'avevo abbandonata. Alla fine spinsi la porta a vetri. Claire era a metà dell'autopsia: faceva quel che facevo anch'io, lavorava. «È meglio che tu non veda, Lindsay», disse coprendo il corpo con un telo, non appena si accorse di me. «No, preferisco restare, Claire.» E rimasi dov'ero. Non avevo intenzione di andarmene, volevo vedere. Claire mi guardò in faccia: avevo gli occhi rossi, gonfi. Accennò un sorriso e annuì. «Allora renditi utile. Passami lo specillo, quello lì sul vassoio, per favore.» Le passai lo strumento e con il dorso della mano accarezzai la guancia fredda e rigida di Jill. Adesso mi sveglio e capisco che è stato soltanto un brutto sogno, pensavo intanto. «Estese lesioni al lobo occipitale destro», dettò Claire al microfono che portava appuntato sul bavero del camice. «Compatibili con trauma da arma da fuoco. Un unico colpo alla nuca, nessun foro d'uscita. Il proiettile è ancora alloggiato nel ventricolo laterale sinistro. Perdita ematica minima nell'area colpita. Strano...» Con gli occhi fissi su Jill, quasi non ascoltavo. «La presenza di lievi ustioni da polvere da sparo sul collo e tra i capelli fa pensare a un'arma di piccolo calibro, utilizzata a distanza ravvicinata», continuò Claire.
Poi spostò il cadavere e sul monitor apparve la parte posteriore, squarciata, del cranio di Jill. Questa volta dovetti distogliere lo sguardo. «Adesso prelevo un frammento di proiettile, a prima vista di piccolo calibro, dal ventricolo sinistro», proseguì. «Segni di lacerazioni profonde, tipiche di questo genere di trauma, ma... pochissimo edema.» Osservai Claire mentre esplorava la ferita e ne estraeva una pallottola appiattita calibro 22, che depositava poi su un piattino. Alla vista di quel proiettile coperto di sangue rappreso, fui assalita da un impeto di rabbia. «C'è qualcosa che non quadra», disse Claire, perplessa, e alzò la testa per guardarmi negli occhi. «Quest'area dovrebbe essere piena di liquido cerebrospinale, invece non c'è edema del tessuto cerebrale e c'è pochissimo sangue.» In tono estremamente professionale, Claire entrò in azione. Disse al microfono: «Adesso procedo all'apertura della cavità toracica. Lindsay, non guardare». «Che cosa c'è che non va, Claire? Che cosa succede?» «C'è qualcosa che non mi torna.» Claire girò il cadavere sul dorso, prese un bisturi e praticò una lunga incisione al centro del torace. Questa volta seguii il suo consiglio e guardai dall'altra parte: non volevo vedere Jill in quelle condizioni. «Sternotomia standard», dettò Claire. «Apertura della loggia polmonare. La pleura è morbida, il tessuto... deteriorato, spappolato... Adesso procedo all'esposizione del pericardio...» Sentii che Claire prendeva fiato. «Merda!» Avevo gli occhi incollati allo schermo e il cuore che mi batteva più forte. «Claire, che cosa succede? Che cosa vedi?» «Resta dove sei», mi ordinò alzando una mano. Doveva aver scoperto qualcosa di terribile. Ma che cosa? «Oh, Lindsay. Jill non è morta per il colpo di pistola», mormorò poi, alzando finalmente gli occhi e guardandomi. «Cosa?» «L'assenza di edema e la scarsa emorragia...» Scosse la testa. «Il colpo è stato sparato quando era già morta.» «Che cosa stai dicendo, Claire?» «Non sono sicura, ma ho l'impressione che sia... ricina», rispose.
70 Era sempre emozionante vedere Charles Danko di persona. Anche in un posto elegante come lo Huntington Hotel di San Francisco, Danko faceva sempre la sua figura. Quel giorno indossava giacca di tweed, camicia a righine e cravatta di reps. Si presentò in compagnia di una rossa con una gran testa di capelli. Gli piaceva spiazzare il prossimo. Chi sarà la ragazza? A Malcolm era stato detto di mettersi giacca e cravatta, se possibile, e lui era andato a ripescarne una che però gli pareva un po' ridicola: rossa con tante trombette blu. Danko gli strinse la mano in modo formale, con il suo solito atteggiamento scostante, poi indicò la sala. «Quale posto più sicuro di questo per incontrarsi?» esclamò, «L'Huntington!» Guardò la ragazza e risero tutti insieme, ma non gliela presentò. «Ricina. Geniale!» disse Malcom. «Che meraviglia, la morte di Bengosian! Pensa che cosa non potremmo fare in un posto come questo. Diavolo, saremmo in grado di far saltare questo covo di capitalisti in meno di un minuto, poi andare al Mark e ammazzare un altro centinaio di sanguisughe. Prendere il tram e seminare morte per la città.» «Sì, soprattutto ora che ho trovato il modo per produrla in forma così concentrata.» Malcom approvò con la testa, ma sembrava preoccupato. «Pensavo che fosse per il G8», disse, con aria interrogativa. Danko scambiò con la ragazza un'occhiata piena di condiscendenza. Chi diavolo è quella? Che cosa sa? «Hai una visione troppo ristretta delle cose, Mal. Ne abbiamo già parlato. Più che altro, il nostro scopo è seminare terrore. E ti assicuro che lo faremo, metteremo paura alla gente. L'antrace è roba da far ridere i polli, in confronto alla ricina.» Guardò Malcolm con aria severa. «Tu come la useresti? Hai delle idee?» Malcolm aveva smesso di guardarlo negli occhi. «Sì.» «Esplosivo ne hai ancora?» «Quanto basta per radere al suolo questo hotel. E il Mark.» Poi, con un sorriso impacciato, chiese: «Allora, mi presenti la tua amica?» Danko rovesciò la testa all'indietro e rise. «È una tipa in gamba, come te. Un'arma segreta. Non ti dirò altro. È una militante anche lei.» Guardò negli occhi la ragazza e aggiunse: «La causa troverà sempre nuovi militanti,
Malcolm. È per questo che dovrebbero tremare tutti fin d'ora». 71 Michelle udì delle voci nella stanza accanto. Malcolm era tornato dall'appuntamento e Julia esultava come se avesse vinto alla lotteria. Lei invece stava malissimo. Si sentiva in colpa per le cose terribili che avevano fatto. Non era d'accordo sull'ultimo omicidio: il sostituto procuratore era una brava persona e non aveva fatto nulla di male. Cercava di non pensare a Charlotte Lightower e alla povera domestica morte carbonizzate e si diceva che, in fondo, almeno i bambini si erano salvati. Lightower e Bengosian erano due esseri avidi, immondi e meritavano di morire. Ma che cosa aveva fatto di male la povera Jill Bernhardt per finire sulla lista nera? Era perché lavorava per lo Stato? Che cosa aveva detto Malcolm? Questa l'ammazziamo per il gusto di farlo, per dimostrare che ne siamo capaci. Ma Michelle non ci credeva: Malcolm aveva sempre un secondo fine. Jill Bernhardt aveva capito che sarebbe morta fin dal momento in cui l'avevano costretta a salire sul furgone, ma non si era arresa, non aveva mai ceduto. Michelle l'aveva trovata molto coraggiosa. Peccato che non avesse capito perché stava per morire! Non le avevano voluto dire nemmeno quello. La porta si aprì cigolando ed entrò Malcolm con un'espressione di trionfo che la fece rabbrividire. Le si sdraiò accanto. Odorava di alcol e di tabacco. «Non mi concedi neanche un sorriso?» «Stasera no», rispose Michelle, con il fiato corto. «Stasera no?» Michelle si mise a sedere sul letto. «Non capisco perché l'hai ammazzata. Che cos'aveva fatto di male?» Malcolm le accarezzò la testa. «E gli altri? Che cos'avevano fatto di male gli altri? Lavorava per le persone sbagliate, ecco che cosa. Rappresentava lo Stato padrone che legittima il saccheggio illegale delle risorse del pianeta. Ecco che cos'ha fatto di male, Michelle. Rappresentava i carri armati in Iraq, la Northrop Grumman e la Dow Chemical e il WTO messi insieme. Non lasciarti ingannare dal fatto che era bella.» «Al telegiornale hanno detto che aveva mandato in galera alcuni spietati assassini e diversi amministratori di aziende corrotte.»
«Non devi dare retta a quello che dicono al telegiornale, Michelle. Quante volte te lo devo ripetere? E comunque anche chi fa cose giuste prima o poi muore, ricordatelo.» Michelle gli scoccò uno sguardo scandalizzato, con il fiato sempre più corto. Fece per cercare il nuovo inalatore tra le lenzuola, ma Malcolm la trattenne. «Che cosa credevi, Michelle? Che ci interessasse soltanto far fuori qualche miliardario? Il nostro vero avversario è lo Stato. E lo Stato è potente e non si arrenderà tanto facilmente.» Michelle si sforzò di prendere un bel respiro e in quel momento si rese conto di essere molto diversa da Malcolm e dagli altri. Malcolm la trattava come una bambinetta, ma si sbagliava. Solo una donna poteva fare le cose terribili che aveva fatto lei. Con il respiro sempre più affannoso, disse: «Ho bisogno del mio spray, Mal. Per favore». «E io ho bisogno di sapere se mi posso fidare di te, tesoruccio.» Prese l'inalatore e ci giocherellò un po', facendolo ruotare tra le dita. Michelle ansimava e Malcolm peggiorava la situazione mettendole paura. Spaventata, mormorò: «Certo che ti puoi fidare di me, Mal. Lo sai». «Lo so, Michelle, ma non è di me che mi preoccupo. Voglio dire, lavoriamo per qualcuno, no? Charles Danko è molto meno tollerante di me. E molto più duro di loro. È un genio.» Michelle gli prese di mano la pompetta e premette due volte, spruzzandosi il medicinale nei polmoni. «Sai qual è il bello della ricina?» chiese Malcolm sorridendo. «Può entrare in circolo in mille modi diversi.» Abbassò il dito indice due volte come per premere un inalatore immaginario e sorrise nuovamente. Aveva una luce negli occhi che Michelle non gli aveva mai visto. «Wow, quella sì che ti sistemerebbe i polmoni, eh, tesoro?» 72 Quella mattina alla Corte di Giustizia regnava il caos più totale. Non avevo mai visto nulla di più spaventoso da quando mi ero arruolata nella polizia. August Spies aveva fatto la sua terza vittima. Un sostituto procuratore. Alle sei del mattino la Corte brulicava di agenti dell'FBI, addetti del ministero della Giustizia e dell'ATF e di giornalisti, assiepati nella sala stampa al quinto piano. L'Examiner titolava a caratteri cubitali, in prima pagina: CHI SARÀ IL PROSSIMO?
Stavo rileggendo uno dei verbali relativi alla scena dell'ultimo delitto quando sentii bussare alla porta. Erano Joe Santos e Phil Martelli. «Abbiamo saputo di Jill Bernhardt. Condoglianze», esordì Santos entrando. Misi da parte i fogli che stavo leggendo e ringraziai con un cenno del capo. «Grazie di essere venuti.» Martelli si strinse nelle spalle. «Veramente non siamo qui per questo, Lindsay.» «Siamo andati a vedere se in archivio c'era qualcosa su questo Hardaway», disse Santos mettendosi a sedere e tirando fuori una busta. «Abbiamo pensato che, se è stato qui, con quel che faceva non poteva non essersi beccato almeno una segnalazione.» Estrasse da una busta una serie di foto in bianco e nero. «Queste risalgono a sei mesi fa. Sono state scattate il 22 ottobre.» Erano foto dei partecipanti a una manifestazione, generiche scene di folla. Intorno a una faccia era stato tracciato un cerchietto a pennarello. Capelli biondi, mento appuntito, barbetta sottile, eskimo, jeans, sciarpa lunga fino alle ginocchia. Il cuore cominciò a battermi più forte. Andai alla mia bacheca e confrontai la foto con quelle scattate dall'FBI a Seattle cinque anni prima. Stephen Hardaway. Sei mesi prima lo stronzo era a San Francisco. «Ma il bello deve ancora venire», disse Phil Martelli strizzando l'occhio. E tirò fuori un'altra serie di foto. Altra manifestazione, ancora Hardaway. E questa volta era accanto a una persona che conoscevo. Roger Lemouz. Hardaway gli teneva un braccio sulle spalle. 73 Mezz'ora dopo fermai la macchina in Durant Avenue, davanti all'ingresso sud dell'università, ed entrai di corsa nella Dwinelle Hall, dove si trovava l'ufficio di Lemouz. Il professore era seduto alla scrivania in giacca di tweed e camicia di lino bianca. Parlava con una studentessa dai lunghi capelli rossi. «La festa è finita», dissi. «Oh, tenente.» Un sorriso e quell'accento snob, di Oxford o Eton o chissà diavolo dove. «Stavo proprio spiegando ad Annette che, secondo Fou-
cault, le forze che storicamente hanno emarginato i poveri, le donne e i gay sono le stesse.» «Be', la spiegazione è finita, Annette», tagliai corto, fulminando la rossa con un'occhiata che diceva a chiare lettere: Togliti dai piedi, grazie. La ragazza raccolse precipitosamente i libri e se ne andò. Sulla porta, però, mi fece un gestaccio, che io prontamente ricambiai. Lemouz si assestò sulla poltrona con aria indifferente e disse: «Che piacere rivederla! Viste le brutte notizie di stamattina, temo che sia venuta qui per parlare di politica e non di emancipazione femminile». «Credo di averla sottovalutata, professor Lemouz», ribattei, ancora in piedi, guardandolo dall'alto in basso. «Pensavo che fosse un mero teorico della lotta di classe, ma ho scoperto che invece è un terrorista.» Lemouz accavallò le gambe e sorrise con condiscendenza. «Non sono sicuro di aver capito a che cosa allude, tenente.» Tirai fuori la busta con le foto di Santos. «La cosa più ridicola, Lemouz, è che sono io a pararle il culo. Basta che trasmetta il suo nome e qualcuna delle sue dichiarazioni pubbliche alla Sicurezza Nazionale e la prossima volta che ci vediamo lei sarà dietro le sbarre.» Lemouz si appoggiò allo schienale con aria divertita e sorrise. «Perché questo avvertimento, tenente?» «Chi ha detto che è un avvertimento?» Il professore cambiò espressione: non capiva dove volessi andare a parare. Bene. Scosse la testa e replicò: «La cosa che a me sembra ridicola, invece, è che la legge ignori completamente chi porta il chador o ha l'accento straniero e si preoccupi tanto per la scomparsa di un paio di avidi imprenditori e di un sostituto procuratore». Feci finta di non aver sentito. «Ho qui una cosa da mostrarle, Lemouz.» Aprii la busta e sparsi sulla scrivania le foto di Stephen Hardaway fornitemi dall'FBI. Lemouz alzò le spalle. «Non so. Potrei averlo visto... Non ricordo dove, però. È uno studente di questa università?» «Evidentemente non mi ha ascoltato, Lemouz.» Gli misi sotto il naso un'altra foto, poi un'altra e un'altra ancora. Quelle scattate da Santos e Martelli dove Hardaway era insieme a lui e gli teneva un braccio sulle spalle. «Dove posso trovarlo? Mi dica come fare a rintracciarlo.» Il professore scosse la testa. «Non lo so. Sono foto di parecchio tempo
fa. Forse è quel docente che fu fermato dopo l'11 settembre... L'autunno scorso ha partecipato a un paio delle nostre manifestazioni, ma da allora non l'ho più visto. Non lo conosco personalmente.» «Non mi basta», insistetti. «Non so altro. È la verità, tenente. Veniva dal Nord, se ben ricordo, ma non so esattamente da dove. Eugene, forse? O Seattle. È stato qui per un po', poi si è stufato...» Per una volta gli credetti. «Come si faceva chiamare?» «Non Hardaway. Malcolm... Malcolm Dennis, credo. Non so dove sia adesso, non ne ho idea.» Vedere la facciata di superiorità e di arroganza di Lemouz incrinarsi sotto i miei occhi mi diede una certa soddisfazione. «Voglio sapere ancora una cosa, che resterà tra di noi. Chiaro?» Lemouz annuì «Certo.» «Il nome August Spies le dice qualcosa?» Lemouz sbatté gli occhi e riprese colore. «E così che si fanno chiamare? Gli August Spies?» Mi sedetti e mi avvicinai. Era la prima volta che facevo quel nome a qualcuno. E lui lo sapeva: glielo lessi in faccia. «Mi dica, Lemouz. Chi sono gli August Spies?» 74 «Ha mai sentito parlare della strage di Haymarket Square?» mi chiese a sua volta, come se fossi una studentessa. «A Chicago?» Lemouz approvò con un cenno del capo. «Complimenti, tenente. C'è una statua che la ricorda ancora oggi. Il 1° maggio 1886 a Chicago, in Michigan Avenue, ci fu una grande manifestazione di lavoratori, la più grande che si fosse mai tenuta negli Stati Uniti fino al quel momento. Vi parteciparono ottantamila persone, compresi donne e bambini. Da allora il 1° maggio in tutto il mondo si celebra la festa dei lavoratori.» Fece una pausa e concluse con un sorrisetto sarcastico: «In tutto il mondo, ma non negli Stati Uniti, naturalmente». «Veniamo al sodo. Non mi interessa la politica.» «La manifestazione si svolse pacificamente e il giorno successivo scese in sciopero un numero ancora maggiore di lavoratori», continuò Lemouz. «Il terzo giorno, però, la polizia aprì il fuoco sulla folla e due dimostranti
rimasero uccisi. Fu indetto un altro corteo per l'indomani, in Haymarket Square, Randolph Street e Des Plaines Street. Furono pronunciati discorsi molto duri contro il governo e il sindaco diede ordine alla polizia di disperdere la folla. Centosettantasei uomini della polizia di Chicago entrarono nella piazza in assetto antisommossa, armati di manganello, e picchiarono i manifestanti, dopodiché aprirono il fuoco. Morirono sette poliziotti e quattro dimostranti. La polizia aveva bisogno di un capro espiatorio e arrestò otto leader sindacali, alcuni dei quali non erano neppure presenti il giorno della strage.» «Dove vuole arrivare?» «Uno degli otto era un insegnante che si chiamava August Spies. Furono processati e impiccati. In seguito emerse che Spies non si trovava neppure in Haymarket Square, quel giorno. Al patibolo, prima dell'impiccagione, disse: 'Se credete che, impiccando noi, riuscirete a fermare il movimento operaio, impiccateci. Ma la terra vi brucerà sotto i piedi. Ascoltate la voce del popolo'.» Lemouz mi fissava. «È un episodio semidimenticato, ma significativo della storia del suo Paese, tenente. Qualcuno vi si sarà ispirato.» 75 Presto in quel posto sarebbe morta della gente. Tanta gente. Charles Danko era seduto nell'atrio tutto vetri del Rincon Center, nei pressi di Market Street, non lontano dal Bay Bridge, e fingeva di leggere l'Examiner. Era vicino all'enorme fontana, uno spettacolare getto d'acqua alto venticinque metri. Agli americani piacciono le emozioni forti, pensava tra sé. Lo si vede dai film, dall'arte, persino dai centri commerciali. E io li accontenterò. Quale spettacolo più emozionante della morte? Danko sapeva che, come sempre a quell'ora, il Rincon Center si preparava ad accogliere la folla di mezzogiorno: circa un migliaio di persone che dagli studi legali, dalle società immobiliari e di consulenza finanziaria del Financial District si sarebbero riversate nei ristoranti e nei bar del centro commerciale. Ormai ci siamo e quasi mi dispiace, pensò Charles Danko sospirando. Si preparava da tempo a quel momento e il Rincon Center aveva finito per diventare uno dei posti che preferiva a San Francisco. Non salutò il nero ben vestito che venne a sederglisi di fronte, davanti
alla fontana. Era un veterano della guerra del Golfo che, da quando era rimpatriato, soffriva di depressione. Affidabile, ma forse un po' troppo nervoso. «Mal ha detto di chiamarti 'professore'», disse il nero a denti stretti. «Tu sei Robert?» chiese Danko. Il nero annuì. «Robert.» Una donna si mise al pianoforte a coda che si trovava al centro dell'atrio e, come ogni giorno alle dodici meno dieci, cominciò a suonare: nell'ampio salone si levarono le note di un brano del Fantasma dell'Opera. «Sai chi cercare?» domandò Danko. «Sì», rispose deciso il nero. «Farò quello che devo. Non preoccuparti per me. Sono un buon soldato.» «Mi raccomando, non sbagliare persona», replicò Danko. «Lo vedrai arrivare verso le dodici e venti. Attraverserà l'atrio, forse darà qualche spicciolo alla pianista e poi entrerà allo Yank Sing.» «Sembri proprio sicuro che venga.» Danko guardò in faccia il nero e sorrise. «Vedi quel getto d'acqua, Robert? Raggiunge un'altezza di venticinque virgola cinque metri. Lo so perché sono stato qui seduto talmente a lungo che ho avuto tutto il tempo di calcolarne altezza e portata. Sai quanti giorni sono stato qui a guardare quella fontana, Robert? Non temere, verrà.» Charles Danko si alzò senza prendere la valigetta. «Grazie, Robert. Stai per fare un gesto di grande coraggio. Un gesto che solo pochi approveranno. Buona fortuna, amico mio. Sei un eroe.» E fai anche il mio gioco. 76 Un pomeriggio umido e piovoso, a Highland Park, nel Texas, porgemmo l'estremo saluto a Jill. Mi era già successo di dover dire addio a persone a cui volevo bene, ma non mi ero mai sentita così svuotata, così disperata e soprattutto così presa in giro. Il tempio era un edificio moderno in mattoni e vetro, con un altare geometrico inondato di luce. Il rabbino era una donna, cosa che a Jill sarebbe senz'altro piaciuta. C'eravamo tutti: il capo della polizia Tracchio, il procuratore distrettuale Sinclair, vari colleglli, Claire, Cindy e io. C'erano un gruppo di compagne di liceo con cui Jill era rimasta in contatto negli anni e, naturalmente, c'era Steve, ma io non ebbi il coraggio di parlargli. Ci sedemmo e il coro intonò un'aria della Turandot che a Jill piaceva
molto. Bennett Sinclair tenne un breve discorso tessendo le lodi di Jill, che definì il sostituto procuratore più impegnato di tutto il suo staff. «La gente diceva che era una dura, ed era vero. Ma mai al punto di sacrificare rispetto e senso di umanità nell'esercizio delle sue funzioni. Con lei la maggior parte di noi ha perso un'amica, ma la città di San Francisco ha perso una professionista di valore.» Una compagna di università mostrò una foto di Jill a Stanford, quando giocava nella squadra di calcio femminile che era arrivata in finale nel campionato nazionale, e fece ridere tutti raccontando episodi di vita universitaria. Anch'io mi alzai e presi la parola. «Tutti conoscevano Jill Meyer Bernhardt nelle vesti di donna vincente e sicura di sé. Si era laureata con il massimo dei voti, come sostituto procuratore vantava il più alto tasso di condanne tra tutti i suoi colleghi, aveva scalato la Sultan's Spire nel deserto del Moab. Anch'io la conoscevo per tutte queste cose, ma soprattutto come amica. Un'amica il cui desiderio più profondo non era mandare in galera i delinquenti o vincere cause importanti, ma semplicemente dare alla luce un figlio. Ed era questa la Jill a cui volevo più bene, la vera Jill.» Claire salì lentamente sul podio e suonò il violoncello, prima da sola e poi con il coro, che intonò sommessamente una versione bellissima di Loving Arms, una delle canzoni preferite di Jill. Quante volte l'avevamo cantata, quando ci incontravamo dopo il lavoro da Susie's, a bere Margaritas insieme! Vidi che Claire chiudeva gli occhi. Le note tremule del violoncello e le voci delicate del coro in sottofondo rendevano un tributo perfetto a Jill. All'inizio dell'ultima strofa, i portatori sollevarono la bara e i parenti di Jill si alzarono, a malincuore, per accompagnarla. Qualcuno cominciò a battere le mani e a poco a poco tutti si unirono all'applauso. Sulla soglia della sinagoga i portatori si fermarono per qualche secondo, quasi volessero essere sicuri che Jill udisse distintamente l'applauso. Guardai Claire tra le lacrime, sicura che non sarei mai riuscita a smettere di piangere. Avrei voluto gridare: Forza, Jill... Claire mi prese la mano e me la strinse, mentre Cindy mi stringeva l'altra. E pensai: Ti giuro che troverò quel bastardo, Jill. Riposa in pace. 77
Era mezzanotte passata quando Cindy rientrò a San Francisco con gli occhi che bruciavano e le membra indolenzite, chiedendosi se si sarebbe mai ripresa da quella terribile perdita. Sapeva già che non sarebbe riuscita a dormire. La spia della segreteria telefonica lampeggiava. Essendo stata fuori casa e irraggiungibile tutto il giorno, pensò di dare un'occhiata alla posta elettronica, anche solo per distrarsi dal pensiero di Jill. Accese il computer e controllò la prima pagina del Chronicle. L'argomento del giorno era la ricina: l'avvelenamento di Jill era stato reso noto e, dopo quello di Bengosian, aveva gettato nel panico l'intera città. Era facile procurarsela? Quali sintomi provocava? Che cosa sarebbe successo se fosse finita nell'acquedotto? Esistevano antidoti? Quante persone rischiavano di morire a San Francisco? Cindy stava per controllare la sua casella di posta, quando vide comparire la finestra di un Instant Message. Hotwax 1199. «Non sprecare tempo a cercare di risalire alla provenienza di questo messaggio», diceva. Cindy restò come paralizzata. «Risparmiati la fatica di copiare l'indirizzo: è di un ragazzino di prima media di Dublin, Ohio, che non sa neppure che il messaggio è partito dal suo computer. Si chiama Marion Delgado. Hai capito chi sono io?» «Sì», rispose Cindy. «So chi sei. Sei il bastardo che ha ucciso la mia amica Jill. Perché mi hai contattato?» «Stiamo per colpire di nuovo», fu la risposta. «Domani. Non come prima. Questa volta moriranno un sacco di persone innocenti. Completamente innocenti.» «Dove?» scrisse Cindy. Poi rimase in ansiosa attesa. «Me lo puoi dire? Ti prego!» «Il vertice del G8 deve essere annullato», rispose Hotwax 1199. «Avevi detto che volevi aiutarci. Allora aiutaci, per la miseria! I governi devono riconoscere le loro colpe. Uccidono centinaia di innocenti per accaparrarsi pozzi di petrolio. Le multinazionali saccheggiano senza ritegno i Paesi poveri. Hai detto che avresti trasmesso il nostro messaggio. È la tua occasione. Ferma questi ladri e assassini. Ora!» Seguì un silenzio. Cindy non era sicura che il suo interlocutore ci fosse ancora e non sapeva che cosa fare. Poi sullo schermo del suo computer apparve un'altra frase.
«Costringili ad ammettere le loro colpe. È l'unico modo per impedire che ci siano nuove vittime.» Cindy pensò che il suo interlocutore stava cercando di intavolare un vero dialogo. Forse si sentiva vagamente in colpa, o forse gli era rimasto un minimo di buon senso. «Posso dire che vuoi fermare questa follia», rispose. «Ti prego, dimmi che cosa state per fare. Basta morti!» Nulla. Non ci fu altra risposta. «Merda!» Cindy batté il pugno sulla scrivania. La stavano usando, volevano strumentalizzarla perché lei diffondesse il loro messaggio. Scrisse: «Perché avete ucciso Jill Bernhardt? Che colpa aveva? Saccheggiava senza ritegno i Paesi poveri? Era responsabile della globalizzazione? Che cos'aveva fatto di male?» Passarono almeno trenta secondi, poi un intero minuto. Cindy era certa di aver perso il contatto e si pentì di essersi lasciata trascinare dall'ira. Quel dialogo era troppo importante: non doveva dare spazio alla collera o al dolore. Posò la fronte sullo schermo. Quando lo guardò di nuovo, stentò a credere a quello che vedeva. Era comparsa un'altra frase. «Jill Bernhardt non c'entrava niente con il G8. Questo omicidio non era come gli altri. Questo era personale», diceva il messaggio. 78 Stava per succedere qualcosa di terribile. La e-mail ricevuta da Cindy lo confermava. Fino a quel momento il suo misterioso corrispondente elettronico non aveva mai dato informazioni errate, false o inventate. Fu con uno spaventoso senso d'impotenza che guardai sorgere l'alba pensando che, nonostante tutte le risorse del governo degli Stati Uniti, il suo apparato di vigilanza, gli avvertimenti, le forze di polizia che stavamo per dispiegare, nonostante la mia esperienza nel risolvere omicidi, gli August Spies stavano per colpire ancora. E noi non potevamo fare nulla per fermare gli assassini. Mi trovavo nella sede «segreta» dell'unità di crisi di San Francisco, nascosta in un edificio anonimo in una zona isolata del cantiere navale di Hunter's Point. Si trattava di uno stanzone pieno di monitor e di sofisticate attrezzature di telecomunicazione. Tutti erano sulle spine: che brutta sorpresa ci avrebbero preparato gli August Spies questa volta?
Al «consiglio di guerra» partecipavano, oltre a me, Joe Molinari, il sindaco, Tracchio, il comandante dei vigili del fuoco e il direttore della task force per le emergenze sanitarie. C'era anche Claire. Dopo quell'ultimo avvertimento, temevamo tutti un attentato di massa con la ricina. Molinari aveva messo in stato di allerta un tossicologo. Durante la notte avevamo deciso di comunicare ai giornali il nome e la descrizione di Hardaway. Per il momento non eravamo riusciti a localizzarlo e la situazione era peggiorata in misura esponenziale: dall'allarme per omicidio eravamo passati a quello per la sicurezza pubblica. Eravamo certi che Hardaway fosse in qualche modo coinvolto nella vicenda e che fosse estremamente pericoloso. Il telegiornale del mattino si aprì sulle tre reti principali con la sua foto. Sembrava il conto alla rovescia di un film catastrofico, ma purtroppo questa volta era vero: la nostra città poteva diventare il bersaglio di attacchi dinamitardi o chimici. Alle sette cominciarono ad arrivare le prime, inevitabili, segnalazioni. Un commesso era sicuro di aver visto Hardaway in un supermercato aperto ventiquattr'ore su ventiquattro a Oakland due settimane prima. Altre telefonate arrivarono da Spokane, Albuquerque e addirittura dal New Hampshire. Chi poteva sapere se erano fondate? Nel dubbio, bisognava controllarle tutte. Molinari era al telefono con un certo Ronald Kull del WTO. «Penso che sarebbe utile rilasciare un comunicato», insisteva. «Senza ammettere nulla, ma dicendo che la vostra organizzazione rifletterà sulle istanze da loro sollevate a condizione che cessi la violenza. In questo modo prenderemo tempo e forse eviteremo che muoiano degli innocenti. Forse molti.» Evidentemente dall'altra parte gli dissero di sì, perché sentii che Molinari s'impegnava a preparare una bozza, da sottoporre poi all'approvazione di Washington e del WTO. Le procedure andavano rispettate. Anche se i minuti passavano e poteva succedere un disastro da un momento all'altro. Come puntualmente avvenne, a conferma di quanto minacciato nel messaggio e-mail. Alle 8.42. Credo che non lo dimenticherò mai. 79
Alla scuola elementare di Redwood City alcuni bambini si sono sentiti male dopo aver bevuto acqua dalla fontanella... Fu con queste parole agghiaccianti che venne diramata la notizia. Tutti nello stanzone si fermarono nello stesso momento con il cuore in gola. Erano le 8.42. In pochi secondi Molinari si mise in contatto con il direttore della scuola e ne ordinò l'evacuazione immediata. Claire cercò di parlare con l'autoambulanza che stava portando i bambini in ospedale. Non mi era mai successo di vedere le persone più in gamba della città in preda al panico Molinari impartì istruzioni al direttore della scuola: «Che nessuno tocchi l'acqua fino al nostro arrivo. La scuola deve essere sgomberata immediatamente». Ordinò a una squadra dell'FBI di recarsi a Redwood City in elicottero. Il tossicologo, in contatto radio con l'unità di crisi, spiegò: «Se si tratta di ricina, avremo forti convulsioni, broncocostrizione e gravi sintomi di tipo influenzale». Claire intanto si era messa in contatto con l'assistente sanitaria della scuola, a cui chiese di descriverle i sintomi dei bambini colti da malore. «Non capisco», rispose affranta la donna. «I bambini si sono sentiti male all'improvviso, con debolezza, forte nausea, febbre alta - fino a quaranta dolori addominali e vomito.» Un elicottero sorvolava la scuola, trasmettendo immagini di bambini che uscivano di corsa dai cancelli, guidati dagli insegnanti, mentre i genitori accorrevano spaventati. Tutto a un tratto giunse via radio la notizia di un secondo grave episodio in un cantiere edile di San Leandro, dall'altra parte della baia: un operaio aveva avuto un malore. Non era stato ancora accertato se si trattasse di un attacco cardiaco o se l'uomo avesse ingerito qualcosa di tossico. Mentre cercavamo di farci dire qualcosa di più, su uno degli schermi comparve un aggiornamento del telegiornale: «Ultima ora... A Redwood City la scuola elementare è stata evacuata dopo che alcuni bambini si sono sentiti male, forse a causa di un'intossicazione. Gli scolari sono stati ricoverati d'urgenza nel vicino ospedale. Le cause del malore sono per il momento sconosciute ma, dato l'alto grado di allerta per possibili atti terroristici diramato per oggi...» «Altri casi di malore fra gli scolari?» chiese Molinari al telefono. «Per il momento no», rispose il direttore. L'istituto era ormai completamente evacuato, mentre l'elicottero continuava a sorvolare la zona.
All'improvviso un medico del pronto soccorso ci diede un aggiornamento. «La temperatura corporea dei bambini ricoverati oscilla fra trentanove e quaranta gradi. Presentano nausea e dispnea. Non riesco a stabilire una diagnosi precisa. Non ho mai visto una sintomatologia del genere.» «Prelevi immediatamente dei tamponi orali e nasali», gli consigliò il tossicologo. «E gli faccia una radiografia al torace. Controlli se ci sono infiltrati bilaterali.» Claire intervenne chiedendo: «Come sono la funzionalità polmonare e la respirazione?» Tutti aspettavano ansiosamente. «Sembrano normali», rispose il medico. Claire prese Molinari per un braccio. «Senta, non so che cosa stia succedendo, ma secondo me non è ricina», disse. «Come fa a esserne così sicura?» Tutti pendevano dalle labbra di Claire. «La ricina provoca una necrosi delle cellule vascolari. Ne ho visto gli effetti con i miei occhi. Se fosse ricina, a quest'ora ci sarebbero lesioni polmonari gravi. Inoltre la ricina ha un periodo di incubazione di quattro-otto ore. È d'accordo con me, dottor Traub?» chiese al tossicologo in teleconferenza. Il dottor Traub approvò con un grugnito. «Il che significa che il contatto con la sostanza sarebbe dovuto avvenire durante la notte. Se non ci sono sintomi a livello polmonare, non credo che la causa sia da ricercarsi nell'acqua che hanno bevuto. Potrebbe essere uno stafilococco, oppure stricnina... Non credo che sia ricina.» I minuti scorrevano lenti, mentre i medici di Redwood City eseguivano la prima serie di test diagnostici. A San Leandro intanto erano arrivati i primi soccorsi. A quanto pareva il muratore aveva avuto un attacco cardiaco e le sue condizioni erano stabili. «È stato un infarto», ripeterono i soccorritori. Qualche minuto dopo ricevemmo la risposta dall'ospedale di Redwood City. Le radiografie non mostravano lesioni polmonari in nessuno dei piccoli ricoverati. «Nel sangue abbiamo trovato tracce di enterotossina stafilococcica B.» Osservai l'espressione di Claire. «Potete spiegare anche a noi?» chiese il sindaco Fiske. «I bambini hanno un'infezione da stafilococco», rispose Claire tirando un sospiro di sollievo. «È grave e contagiosa, ma non è ricina.»
80 A mezzogiorno il Rincon Center era pieno. Centinaia di persone in pausa pranzo chiacchieravano, discutevano di sport e si affannavano, cariche di sacchetti di Gap o Office Max, oppure si rilassavano ai piedi dell'enorme cascata che scendeva scintillante dal tetto di vetro. Il pianista suonava una canzone di Mariah Carey, Hero, ma nessuno sembrava notare né la musica né il pianista. Scarsissimo, peraltro. Robert leggeva il giornale con il cuore che batteva all'impazzata. Non c'era più tempo per parlare o discutere, ripeteva tra sé, era inutile sperare in un cambiamento, ormai. Sarebbe stato lui a cambiare le cose, quel giorno, lui che era un emarginato. Era rimasto traumatizzato in guerra e, dopo una serie di ricoveri in vari ospedali militari, era stato abbandonato a se stesso. Per questo era diventato un attivista, un rivoluzionario. Mentre toccava con la punta delle scarpe la valigetta di pelle per assicurarsi che fosse ancora lì, gli venne in mente un episodio di uno sceneggiato televisivo sulla Guerra Civile. Uno schiavo sfuggito al suo padrone e ormai emancipato si era arruolato nelle file dell'esercito nordista e aveva partecipato ad alcune delle battaglie più sanguinose del conflitto. Alla fine di una di queste aveva visto che il suo ex padrone, ferito e terrorizzato, era stato fatto prigioniero. «Salve, padrone», gli aveva detto. «I ruoli si sono rovesciati, eh?» Ed era esattamente quello a cui stava pensando Robert mentre guardava gli avvocati e i bancari che consumavano ignari il loro pranzo. I ruoli si sono rovesciati... Entrò nel salone l'uomo che Robert stava aspettando, quello con i capelli brizzolati. Robert si alzò di scatto, stringendo il manico della valigetta tra le dita, gli occhi fissi sul suo bersaglio di quel giorno. Ci siamo, disse tra sé. È venuto il momento in cui tanti bei discorsi, giuramenti e prediche si trasformano in azioni. Posò il giornale. La zona intorno alla fontana era gremita di gente. Si diresse verso il pianoforte. Hai paura di passare ai fatti? Hai paura di fare il primo passo? No, sono pronto. Sono pronto da anni, rispose in cuor suo. Vicino al pianoforte, si fermò ad aspettare. Il pianista cominciò una nuova canzone, Something dei Beatles. L'ennesima schifezza dei bianchi. Robert sorrise al giovane con i capelli rossi al pianoforte, estrasse dal portafogli una banconota e la depositò nella ciotola. Il pianista lo ringraziò con un cenno del capo.
Robert rispose al cenno e per poco con scoppiò a ridere per l'ipocrisia di quella finta cordialità. Quindi appoggiò la valigetta alla gamba del pianoforte. Controllò la posizione del bersaglio: era a una decina di metri di distanza. Con il piede spinse la valigetta sotto il pianoforte. Beccatevi questa, stronzi! Si avviò lentamente verso l'ingresso nord. Ci siamo, baby. Era arrivato il momento che aspettava da tanto tempo. Si frugò nella tasca in cerca del cellulare rubato. Il bersaglio era a circa cinque metri di distanza adesso. Giunto all'uscita, Robert si voltò a osservare la scena. L'uomo con i capelli brizzolati si fermò accanto al pianoforte, esattamente come aveva previsto il professore, e tirò fuori un biglietto da un dollaro. Dietro di lui scendeva dal soffitto l'imponente colonna d'acqua della fontana. Robert spinse la porta e uscì. Mentre si allontanava premette i due tasti prestabiliti sul cellulare: G8. Di colpo fu l'inferno. Robert provò la soddisfazione più incredibile di tutta la sua vita. Quella sì che era una guerra in cui voleva combattere. Non vide il lampo di luce, sentì solo il palazzo tremare, il frastuono di un crollo e vetri in frantumi alle sue spalle. Facciamo la rivoluzione, baby... Robert sorrise tra sé. I ruoli si sono rovesciati... 81 Nell'unità di crisi si levò un grido. Uno dei tecnici sintonizzati sulle frequenze della polizia si tolse le cuffie dalla testa. «È esplosa una bomba al Rincon Center!» Mi voltai verso Claire in preda allo sgomento. Il Rincon Center era uno dei posti più frequentati della città, nel cuore del Financial District, dove si trovavano enti pubblici, uffici e centinaia di abitazioni. A quell'ora del giorno sarà stato affollatissimo. Chissà quante persone erano morte! Non avevo intenzione di aspettare i comunicati della polizia con il bilancio dei danni e delle vittime. Uscii di corsa, seguita a ruota da Claire. Saltammo sul suo furgone e in un quarto d'ora arrivammo in centro, dove il traffico sembrava impazzito: camion dei vigili del fuoco, mezzi di soccorso e centinaia di passanti facevano ressa intorno alla zona del disastro. La radio diceva che l'ordigno era esploso nell'atrio, che all'ora di pranzo era pieno di gente.
Lasciammo il furgone all'angolo di Beale Street e Folsom Street e cominciammo a correre. Si vedeva del fumo che si alzava dal Rincon Center, un paio di isolati più avanti. Dovevamo passare dall'entrata di Steuart Street, oltre il Red Herring, l'Harbor Court Hotel, lo YMCA. «È terribile, Lindsay, terribile!» gemeva Claire. La prima cosa che notai fu il forte odore di cordite. Le porte esterne di vetro erano completamente distrutte. C'era gente seduta sul marciapiede che sputava e tossiva a causa del fumo, sanguinando per le ferite causate dai frammenti di vetro. Era in corso l'evacuazione dei superstiti, il che significava che i feriti più gravi erano ancora dentro. Presi fiato. «Andiamo. Sii prudente, Claire.» Ovunque c'era uno spesso strato di fuliggine nera. Il fumo faceva bruciare gli occhi e i polmoni. La polizia stava cercando di sgomberare un'area, mentre i pompieri spegnevano con gli idranti alcuni focolai sparsi. Claire s'inginocchiò vicino a una donna con il viso ustionato, la quale urlava che non vedeva più nulla. Proseguii, facendomi largo tra la folla. C'erano due persone accasciate vicino alla fontana. Che intenzioni hanno questi pazzi? Credono di essere in guerra? I poliziotti più esperti davano e ricevevano ordini alla radio, ma ne vidi alcuni giovani lì impalati, sconvolti, che cercavano di ricacciare indietro le lacrime. Al centro dell'atrio mi cadde l'occhio su un groviglio di fili e legni spezzati: erano i resti di un pianoforte. Riconobbi Niko Magitakos della Squadra Artificieri accovacciato a osservarli con un'espressione che non dimenticherò mai. Era uno di quegli spettacoli che uno si augura di non dover vedere mai nella vita. Mi avvicinai. Magitakos spostò un pezzo di legno bruciacchiato e mi disse: «La bomba è esplosa qui. Che bastardi! Proprio mentre la gente era a pranzo». Non sono un'esperta in materia di esplosioni, ma era chiaro che il centro della devastazione era quello: c'erano panchine rovesciate, piante divelte, corpi senza vita. «Due testimoni dicono di aver visto un nero ben vestito lasciare una valigetta sotto il pianoforte e sparire. Secondo me è lo stesso esplosivo che hanno usato per far saltare in aria la villa di Lightower, il C-4. Hanno fatto detonare l'ordigno a distanza, probabilmente con una telefonata.» Arrivò di corsa una donna con il giubbotto della Squadra Artificieri. Aveva in mano un frammento di cuoio che poteva essere un pezzo di vali-
getta. «Numeralo», le ordinò Niko. «Se riusciamo a trovare il manico, potrebbero esserci delle impronte.» «Aspetti un momento», intervenni, prima che se ne andasse. Il pezzo di cuoio sembrava una cinghia, forse la chiusura di una borsa, quella che s'infila nella fibbia. Recava due iniziali dorate: AS. Ebbi un moto di angoscia: ci stavano prendendo in giro, ci provocavano. Sapevo a che cosa corrispondevano quelle due iniziali. August Spies. In quel momento mi squillò il cellulare. Era Cindy. «Ci sei, Lindsay? Stai bene?» mi chiese. «Sì, sono qui. Cosa c'è?» «L'attentato è stato rivendicato con una telefonata al giornale. Una voce di uomo che ha detto di essere August Spies. 'Altri tre giorni, poi state attenti!', ha detto. E ha aggiunto che questa era soltanto 'un'esercitazione'.» 82 Nel tardo pomeriggio mi resi conto che da tre giorni a quella parte non avevo dormito neppure un'ora. Cominciai inoltre ad avere la sensazione, anzi, la certezza, che mi stesse sfuggendo qualcosa d'importante nelle indagini. Telefonai a Cindy e Claire. Mi ero talmente concentrata nelle ricerche di Hardaway che dovevo aver trascurato qualche altro elemento importante. Claire aveva passato la giornata all'obitorio, impegnata nel macabro compito di identificare le vittime dell'attentato al Rincon Center. Fino a quel momento se ne contavano sedici, ma il numero purtroppo era destinato a salire. Decidemmo d'incontrarci brevemente da Susie's, al nostro solito posto. Quando uscii per andare all'appuntamento, percepii l'angoscia della gente per strada. Claire e Cindy mi aspettavano nel locale. «La chiave è il messaggio su Jill», dissi. Mentre bevevamo una tazza di tè illustrai loro la mia ultima teoria. «Il messaggio diceva che anche lei rappresentava lo Stato», mormorò Claire con aria perplessa. «No, mi riferivo alla e-mail ricevuta da Cindy, che dice che non è stato un omicidio come gli altri...» «... ma personale», concluse per me Cindy.
«Pensi che Jill avesse un rapporto diretto con questi delinquenti? E di che genere?» Claire sbatteva gli occhi. «Non so che cosa penso, ma so che tutte le vittime sono state scelte con cura. Non si è trattato di omicidi casuali. Perciò mi domando che cosa li ha portati a Jill. L'hanno seguita, hanno sorvegliato la sua casa, l'hanno sequestrata. Lightower, Bengosian... Ci dev'essere qualcosa che legava Jill a quei due.» «Un processo, forse?» Cindy scrollò le spalle. Claire pareva poco convinta. Seguì una pausa di silenzio durante la quale ci guardammo intorno e tutte finimmo per posare lo sguardo nello stesso punto: il posto vuoto lasciato da Jill al nostro tavolo. «Fa uno strano effetto essere qui a parlare di Jill senza di lei», disse alla fine Claire, con un sospiro. «Ci aiuterà lo stesso, vedrete», mormorai. Le guardai. Sia Claire sia Cindy avevano una luce nuova negli occhi. «E come?» domandò Claire. «Controlliamo i casi di cui si è occupata, i suoi vecchi processi», proposi. «Cerchiamo di farci aiutare da qualcuno della procura.» «Che cosa dobbiamo cercare, esattamente?» Cindy strizzò gli occhi. «Hai letto la e-mail. Qualcosa di personale», risposi. «Del resto, è una vicenda che ci tocca personalmente. Se ti guardi intorno, lo leggi in faccia alla gente per strada. Qualcuno deve fermarli, questi bastardi assassini...» 83 Bennet Sinclair mi mise a disposizione Wendy Hong, una giovane impiegata della procura, e Aprii, la segretaria di Jill. Cercammo tutte le pratiche seguite da Jill da otto anni a quella parte, una vera e propria montagna di carte che trasferimmo dagli archivi della Corte di Giustizia all'ufficio di Jill con l'aiuto di grossi carrelli. Impilammo i faldoni e ci mettemmo al lavoro. Di giorno continuavo a dirigere le indagini e a cercare di localizzare Hardaway, ma di notte e in tutti i momenti liberi che avevo scendevo a spulciare tra le carte di Jill. Claire e Cindy mi diedero una mano. Nel cuore della notte l'unica luce che restava accesa in tutto il palazzo sembrava essere la nostra. Questo era personale. Quella frase continuava a tormentarci.
Non trovammo niente. Fu un enorme spreco di tempo da parte di tutti. Se Jill aveva avuto a che fare con August Spies, in quelle pratiche non risultava. Dove cercare, allora? Da qualche parte doveva pur esserci qualcosa. Alla fine caricammo anche l'ultimo faldone su un carrello e riportammo tutto quanto in archivio. «Vai a casa e cerca di dormire un po'», mi disse Claire, esausta anche lei. Si alzò stancamente e s'infilò l'impermeabile, mi posò una mano sulla spalla e me la strinse. «Troveremo un altro sistema, Lindsay, vedrai.» Aveva ragione. Mi ci volevano un bagno caldo e una bella dormita. Avevo sperato così tanto di scoprire qualcosa fra le carte di Jill... Chiamai ancora una volta il mio ufficio per sentire se c'erano novità e poi mi preparai ad andare a casa a dormire, per la prima volta da giorni. Salii in macchina e imboccai Brannan Street diretta a Potrero. Mi fermai a un semaforo. Mi sentivo completamente svuotata. Scattò il verde e io rimasi dov'ero. Sapevo, dentro di me, che non sarei andata a casa. Svoltai di colpo a destra e percorsi 16th Street verso Buena Vista Park. Non perché mi fosse venuta qualche idea brillante, ma perché non sapevo che cos'altro fare. Ero convinta che ci fosse un legame fra August Spies e Jill. Doveva per forza esserci, solo che purtroppo non ero riuscita a trovarlo. Davanti alla porta della casa di Jill c'era un solo agente di guardia. L'accesso alle scale era impedito da un nastro: la polizia aveva messo sotto sequestro la casa. Mi feci riconoscere dall'agente, che probabilmente fu contento del diversivo, a quell'ora di notte, ed entrai in casa di Jill. 84 Avevo il cupo presentimento che tornare in quella casa in cui ero stata tante volte non fosse la cosa migliore da fare. Ora che Jill era morta, rivedere le sue cose - un ombrello di Burberry, la ciotola di Otis, una pila di giornali recenti - mi mise addosso una tristezza terribile. Fui sopraffatta dal senso di solitudine e sentii più forte che mai la sua mancanza. Andai in cucina e sfogliai alcune carte su un tavolino di legno di pino. Tutto era esattamente come Jill l'aveva lasciato: alcune bollette, un biglietto per Ingrid, la donna delle pulizie, la sua scrittura a me così familiare...
Sembrava quasi che fosse ancora lì. Salii di sopra e andai nello studio in fondo al corridoio dove Jill lavorava e passava gran parte del suo tempo. Mi sedetti alla sua scrivania e mi sembrò di sentire il suo profumo. Accesi la sua vecchia lampada di ottone e vidi alcune lettere sparse sul piano del tavolo, tra cui una di sua sorella Beth. C'erano anche varie foto di lei e Steve con Otis nel deserto del Moab. Che cosa sei venuta a fare, Lindsay? mi chiesi nuovamente. Che cosa speri di trovare? Un messaggio firmato August Spies? Svegliati, non è possibile! Aprii uno dei cassetti: cartelline di documenti relativi alla casa, ai viaggi. Mi alzai e andai verso la libreria. Il viaggio del Narwhal, Le correzioni, racconti di Eudora Welty. Le letture di Jill erano sempre state interessanti. Non so quando trovasse il tempo di leggere, ma evidentemente ci riusciva. Mi chinai, aprii un mobiletto e trovai scatole di vecchie foto: viaggi, il matrimonio di sua sorella, alcune che risalivano all'epoca in cui si era laureata. Guardala, pensai: capelli mossi, magra, ma tonica. Quelle foto mi fecero sorridere. Mi sedetti sul parquet e le sfogliai. Dio, quanto mi manchi. Poi notai un vecchio raccoglitore a fisarmonica, tenuto insieme da un grosso elastico. Lo aprii e vi trovai un mucchio di vecchie carte: lettere, foto, ritagli di giornale, alcune pagelle dei tempi del liceo, la partecipazione di nozze dei suoi genitori. E una cartellina piena di ritagli di giornale. Li sfogliai. Riguardavano quasi tutti suo padre. Il padre di Jill era stato procuratore a San Francisco e poi nel Texas. Jill diceva che la chiamava «la mia piccola sostituta». Era morto da pochi mesi ed era chiaro che Jill sentiva molto la sua mancanza. La maggior parte degli articoli riguardavano casi che aveva seguito o nomine e promozioni ricevute. Mi soffermai su un ritaglio ingiallito la cui fonte mi aveva sorpreso. San Francisco Examiner, 17 settembre 1970. Il titolo diceva: NOMINATO IL PROCURATORE PER LE BOMBE DEL BNA. Il BNA, o Black National Army, era un gruppo radicale divenuto noto negli anni '60 per rapine a mano armata e aggressioni. Scorsi l'articolo e il nome del procuratore mi fece rabbrividire. Robert Meyer.
Il padre di Jill. 85 Un'ora dopo mi attaccai al campanello di casa di Cindy. Erano le due e mezzo del mattino. Sentii girare la chiave nella serratura. La porta si aprì lentamente. Cindy mi fissò stranita, con una lunga maglietta dei Niners indosso e gli occhi gonfi: dovevo averla interrotta nella prima notte di sonno filato che le toccava da tre giorni. «Spero che tu abbia un motivo valido», mi disse, spalancando la porta. «Validissimo.» Le misi sotto il naso il vecchio articolo dell'Examiner. «Credo di aver scoperto il nesso tra Jill e August Spies, Cindy.» Un quarto d'ora più tardi, a bordo della mia Ford Explorer, sfrecciavamo per le strade deserte in direzione della sede del Chronicle, all'angolo tra 5th Street e Mission Street. «Non sapevo nemmeno che il padre di Jill avesse lavorato qui a San Francisco», mormorò Cindy sbadigliando. «Cominciò qui, appena laureato, e poi tornò nel Texas dopo la nascita di Jill.» Arrivammo in redazione verso le tre. Le luci nello stanzone erano abbassate e di turno a controllare le agenzie stampa c'erano due neoassunti che giocavano al computer. «Ispezione notturna. Sono qui per verificare la vostra efficienza», annunciò Cindy con la faccia seria. «Vi ho colto in flagrante.» Si sedette davanti al terminale, lo accese e digitò alcune parole da cercare nel database del Chronicle: Robert Meyer BNA. Poi premette INVIO. Sullo schermo apparvero immediatamente le prime risposte. Scorremmo una serie di articoli sulle attività del BNA contro la guerra negli anni '60, poi trovammo qualcosa di interessante. NOMINATO IL PROCURATORE PER LA STRAGE NEL COVO BNA. Una serie di articoli del settembre 1970. Risalendo indietro nel tempo a partire da quella data, trovammo un articolo che spiegava che cos'era avvenuto: AGENTI FEDERALI E POLIZIA IRROMPONO IN UN COVO DEL BNA. CINQUE LE VITTIME. Era l'epoca delle proteste: manifestazioni contro la guerra, raduni degli Students for a Democratic Society nella Sproul Plaza di Berkeley. C'erano vari articoli. Il BNA aveva messo a segno alcune rapine in banca e una ai
danni di un furgone portavalori, nella quale erano morti una guardia, un ostaggio e due poliziotti. Due membri del BNA figuravano tra i primi dieci ricercati dall'FBI. Leggemmo tutto quello che riuscimmo a trovare nella banca dati del Chronicle. La notte del 6 dicembre 1969 i federali avevano fatto irruzione in un covo del BNA. Avevano circondato una casa in una strada tranquilla di Berkeley in seguito a una soffiata e avevano aperto il fuoco. Cinque degli occupanti della casa erano rimasti uccisi. Tra di essi c'erano Fred Whitehouse, il leader del movimento, e due donne. Nella sparatoria era morto anche uno studente di Berkeley, proveniente da una famiglia bianca benestante della zona di Sacramento. Amici e parenti sostenevano che non sapeva neppure tenere in mano una pistola, che era un idealista colpevole soltanto di aver protestato contro una guerra immorale. Nessuno sapeva o voleva dire che cosa facesse in quella casa. Si chiamava William Danko, detto «Billy». 86 Per far luce sulla sparatoria nel covo del BNA era stato convocato un gran giurì. Le accuse, da una parte e dall'altra, erano pesantissime e il caso era stato affidato a un giovane procuratore, Robert Meyer. Il padre di Jill. Al processo la giuria aveva ritenuto non ci fossero prove sufficienti per condannare gli autori della retata. La polizia aveva sostenuto che nel covo si nascondevano alcuni ricercati pericolosi, benché Billy Danko non fosse fra questi. Gli agenti federali avevano mostrato in aula le armi confiscate durante l'irruzione: mitragliette Uzi, lanciagranate, munizioni in quantità. In mano a Fred Whitehouse era stata rinvenuta una pistola (ma i simpatizzanti sostenevano che ce l'avesse messa la polizia). «Okay. E adesso che cosa facciamo?» chiese Cindy stancamente, una volta finito di leggere. Il database rimandava a un articolo pubblicato l'anno successivo, nel 1971, sul supplemento domenicale del Chronicle. «Avete un archivio, giusto?» «Sì. Nei sotterranei.» Erano quasi le quattro del mattino. Accendemmo la luce nell'archivio e ci trovammo davanti a file e file di scaffali carichi di contenitori metallici. Scoraggiata, aggrottai la fronte. «Sai come funziona, Cindy?» «Certo che so come funziona», mi rispose. «Si viene qui nel normale orario di lavoro e si chiede all'archivista che sta seduto a quella scrivania
laggiù.» Ci dividemmo e cominciammo a percorrere gli stretti corridoi bui. Cindy non era sicura che in archivio fosse conservato materiale cartaceo così vecchio e temeva che quel che cercavamo fosse stato trasferito su microfilm. Dopo un po' la sentii gridare: «Ho trovato qualcosa!» Orientandomi con il suono della sua voce andai verso di lei e la trovai intenta a tirar giù da uno scaffale alcuni scatoloni di plastica che contenevano fasci di supplementi domenicali raggruppati anno per anno. Ci sedemmo una vicino all'altra sul pavimento di cemento e, malgrado ci fosse a malapena luce sufficiente per leggere, trovammo quasi subito l'articolo che cercavamo. Era un reportage intitolato: «Tutta la verità sulla strage nel covo di Hope Street». Secondo il giornalista, il raid era stato una messinscena della polizia per sbarazzarsi dei contestatori. Era stato un massacro deliberato, non un arresto. Le vittime, tradite da un informatore, erano state sorprese nel sonno. L'articolo parlava diffusamente dello studente bianco ucciso nella strage, Billy Danko. L'FBI sosteneva che facesse parte dell'organizzazione dei Weathermen e che avesse partecipato a un attentato a una filiale della Raytheon, una nota fabbrica di armi. L'articolo, tuttavia, smentiva quasi tutte le accuse dell'FBI e presentava Danko come una vittima innocente. A quell'ora di notte fui colta da un forte senso di frustrazione e cominciai ad arrabbiarmi. Poi Cindy e io, contemporaneamente, notammo la stessa cosa. Al processo era emerso che i membri del BNA e gli Weathermen usavano nomi in codice per parlarsi. Fred Whitehouse si faceva chiamare Bobby Z, come uno dei leader del Black Panther Party. Leon Mickens era Vlad, come Vladimir Ilič Ul'janov, detto Lenin. Joanne Crow era soprannominata Sasha, in onore di una donna che si era fatta esplodere nella lotta contro la dittatura cilena. «Hai visto, Cindy?» La guardai nella penombra. Il nome di battaglia scelto da Billy Danko era August Spies. Jill ci aveva portato sulla strada giusta. 87 Sulla scrivania di Molinari, unica di tutta la Corte alle sei del mattino, c'era la luce accesa.
Quando entrai, era al telefono. Vedendomi, s'illuminò nonostante la stanchezza. Nessuno di noi dormiva un granché, in quel periodo. «Stavo cercando di tranquillizzare il capo dello staff del presidente», mi disse mettendo giù il telefono. Sorrise. «Non vorrei che pensasse che la situazione qui è come quella in Cecenia. Dimmi che hai scoperto qualcosa, ti prego.» Gli misi sulla scrivania il ritaglio di giornale ingiallito che avevo trovato nello studio di Jill. Molinari lo prese e lo lesse velocemente. «Com'è che hai chiamato i radicali degli anni '60 che si sono apparentemente integrati nella società, ma non hanno rinunciato ai loro ideali?» «Conigli bianchi?» «E se il movente non fosse politico? O comunque non solo politico?» «Il movente di cosa, Lindsay?» Gli porsi l'ultimo articolo, quello del supplemento domenicale del Chronicle, aperto alla pagina dove figurava il nome in codice di Billy Danko, evidenziato con un cerchio rosso: August Spies. «Il movente di questi attentati. Dietro i recenti omicidi potrebbe esserci un desiderio di vendetta. Non so, ma scommetto che è così.» Dopodiché riferii brevemente a Molinari le nostre scoperte, compreso il ruolo di Robert Meyer, il padre di Jill. Molinari mi guardava fisso, sbattendo ogni tanto le palpebre, come se fossi pazza. In effetti quello che gli stavo dicendo era roba da pazzi e contrastava con quanto era emerso fino allora dalle indagini, con le rivendicazioni degli assassini e con l'opinione di tutte le agenzie governative coinvolte. «Che cosa vorresti fare, Lindsay?» mi chiese alla fine Molinari. «Indagare sulle persone che si trovavano nel covo al momento dell'irruzione. A cominciare da Billy Danko. La sua famiglia era di Sacramento. Negli archivi dell'FBI ci sarà sicuramente qualcosa, no? Oppure al ministero della Giustizia, non so. Ho bisogno di tutte le informazioni che avete in archivio.» Molinari scosse lentamente la testa. Sapevo che gli stavo chiedendo molto. Si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi per un attimo. Quando li riaprì, vi lessi l'ombra di un sorriso. «Mi piaci molto, Lindsay.» Lo interpretai come un sì. Lui fece per alzarsi e continuò: «Peccato che, se ti do retta, rischio il posto. E tu anche». «Anche tu mi piaci molto, Joe», risposi.
88 A San Francisco regnava un panico senza precedenti. I media erano scatenati. E noi, purtroppo, eravamo ben lungi dall'aver risolto il caso Per confermare la mia teoria avrei dovuto trovare un nesso anche tra gli autori di quei gesti efferati e le altre vittime. Ero sicurissima che ci fosse. Bengosian era di Chicago. Un po' lontano. Però sapevo che Lightower aveva studiato a Berkeley: ce lo aveva detto il legale della X/L Systems quando eravamo andati nella sede della società dopo l'omicidio. Telefonai a Dianne Aronoff, la sorella di Morton Lightower, ed ebbi la fortuna di trovarla in casa. Parlammo un po' e venni a sapere che suo fratello era stato iscritto agli Students for a Democratic Society e che nel 1969, al terzo anno di università, aveva interrotto gli studi per un periodo. Il 1969 era l'anno dell'irruzione in Hope Street. Che significasse qualcosa? Era possibile. Verso l'una Jacobi bussò alla mia porta a vetri. «Abbiamo trovato il padre del tuo amico Danko, credo.» Insieme a Cappy, aveva preso l'elenco del telefono di Sacramento e aveva controllato tutti i Danko finché non ne aveva trovato uno allo stesso indirizzo a cui vivevano i genitori di Billy nel 1969. Cappy aveva chiamato e si era sentito rispondere da un uomo che aveva riattaccato non appena gli aveva fatto il nome di Billy. «C'è un ufficio dell'FBI da quelle parti o dobbiamo andarci di persona?» disse Jacobi alzando le spalle. «Tieni», esclamai, scattando in piedi e lanciandogli le chiavi della mia macchina. «Guida tu.» 89 Ci volevano circa due ore sulla Highway 80 per arrivare a Sacramento. Attraversammo il Bay Bridge a centoventi chilometri orari e, mantenendo una velocità costante, un'ora e cinquanta minuti più tardi ci fermammo davanti a un ranch in stile anni '50, decisi a scoprire qualcosa a ogni costo. La casa era grande, ma un po' malandata. Sul retro c'erano un prato in discesa e un recinto. Ricordavo che il padre di Danko faceva il medico. Probabilmente trent'anni prima quella era una delle abitazioni più belle della zona.
Mi tolsi gli occhiali da sole e bussai alla porta. Ci misero un sacco a venire ad aprire. Dire che ero impaziente è dir poco. Alla fine comparve un vecchio signore che ci guardò insospettito. Il naso e il mento appuntito avevano una certa somiglianza con la foto di Billy Danko che avevo visto sul supplemento del Chronicle. «Siete voi gli imbecilli che mi hanno telefonato?» Fermo sulla soglia, ci squadrò diffidente. «Certo che siete voi! Chi altri?» «Tenente Lindsay Boxer», mi presentai. «E questo è l'ispettore Warren Jacobi, della Squadra Omicidi. Le dispiace se entriamo un momento?» «Sì, mi dispiace», ribatté l'uomo. Ma ci lasciò entrare. «Se si tratta di mio figlio, non ho nulla da dire alla polizia, a meno che non siate qui per scusarvi di averlo ammazzato.» Ci fece strada in un corridoio dalle pareti scrostate in cui aleggiava un vago odore di muffa e ci fece accomodare in un salottino. Sembrava che vivesse solo. «Volevamo chiederle alcune cose su suo figlio», disse Jacobi. «Chiedete, anche se avreste dovuto farlo trent'anni fa.» Danko si sedette su un divano rivestito di tessuto patchwork. «Billy era un bravo ragazzo, molto in gamba. Gli avevamo insegnato a pensare con la sua testa e a fare le sue scelte in piena coscienza. E fece le scelte giuste, come si è visto in seguito. Insieme a lui ho perso tutto, mia moglie...» Accennò con il capo in direzione della foto in bianco e nero di una donna di mezz'età. «... tutto quanto.» «Siamo desolati per quello che successe e non vogliamo causarle ulteriori sofferenze», dissi, sedendomi sull'orlo di una poltrona lurida. «Immagino che lei sia al corrente di quel che è successo a San Francisco in questi ultimi tempi. Sono morte molte persone.» Danko scosse la testa. «Sono passati trent'anni e ancora non lo lasciate riposare in pace.» Lanciai un'occhiata a Jacobi. L'impresa si annunciava difficile. Cominciai spiegandogli di Jill, del fatto che il pubblico ministero al processo per la strage di Hope Street era suo padre, quindi raccontai che anche un'altra delle vittime, Lightower, era in qualche modo legata a Berkeley e al movimento studentesco. «Non pretendo di insegnarvi il vostro mestiere, ma la vostra teoria mi sembra un po' campata per aria», commentò Carl Danko con un sorriso. «Suo figlio aveva un nome in codice: August Spies», ribattei. «Lo stesso usato da chi ha rivendicato gli attentati.»
Carl Danko sbuffò sprezzante e prese la pipa, apparentemente molto divertito dalla situazione. «Conosce qualcuno che potrebbe essere coinvolto in questa vicenda?» insistetti. «Magari un amico di Billy... Qualcuno l'ha contattata recentemente?» «Chiunque sia, gli faccio i miei auguri», replicò Carl Danko nettandosi la pipa. «Avete sprecato il vostro tempo a venire fin qui. Non posso aiutarvi. E, anche potessi, non vorrei comunque. Andatevene, per favore.» Jacobi e io ci alzammo. Mi avviai verso la porta sperando con tutto il cuore di avere una sorta di rivelazione in extremis. Mi fermai davanti alla foto della moglie e ne notai un'altra lì accanto. Una foto di famiglia. Qualcosa mi spinse a osservarla meglio. C'era un altro figlio nella foto. Più giovane di Billy, sui quindici o sedici anni. Mostrava una impressionante somiglianza con la madre. Tutti e quattro sorridevano sereni in una giornata d'estate di tanto tempo prima. «Ha un altro figlio», dissi voltandomi a guardare Danko. «Charles...» Si strinse nelle spalle. Presi in mano la foto. «Possiamo parlare anche con lui? Può darsi che sappia qualcosa.» «Ne dubito.» Danko mi fissò. «È morto.» 90 Appena fummo in macchina, telefonai a Cappy. «Fai un controllo su un certo Charles Danko, nato a Sacramento nel 1953-54. Forse deceduto. Non so altro. Trovami tutto quello che puoi. Se è morto, voglio vedere il certificato che lo attesta.» «Mi ci metto subito», rispose Cappy. «Nel frattempo ho una notizia per te. Avevi ragione: George Bengosian ha studiato medicina all'università di Chicago, sì, ma prima era iscritto a Berkeley. Nel '69 stava qui.» «Grazie, Cappy. Ottimo lavoro. Continua così.» Allora la mia intuizione era giusta: Jill, Lightower e Bengosian avevano avuto tutti qualcosa a che fare con la sanguinosa irruzione della polizia nel covo di Hope Street. E il nome in codice August Spies era legato a Billy Danko. Non sapevo ancora che cosa fare di quelle informazioni. Come mi aveva
fatto notare Carl Danko, la mia teoria era abbastanza campata per aria. Tornando in città, mentre Jacobi guidava mi addormentai. Erano tre giorni e tre notti che non chiudevo occhio. Verso le sei arrivammo alla Corte di Giustizia. «Se vuoi saperlo, russi», mi comunicò Jacobi. «No, faccio le fusa», lo corressi. Siccome prima di tutto volevo parlare con Molinari, corsi al piano di sopra ed entrai nella sua stanza. Era piena di gente. C'era una riunione. E che riunione! Il capo della polizia Tracchio era seduto alla scrivania a fianco di Tom Roach dell'FBI. E c'era anche Strickland, il responsabile della sicurezza per il G8. «Lightower ha studiato a Berkeley!» annunciai, trattenendo a stento l'eccitazione. «All'epoca della strage di Hope Street. E anche George Bengosian. Stavano tutti qui.» «Lo so», disse Molinari. 91 Mi bastò un secondo per capire. «Hai trovato il dossier dell'FBI sul BNA?» «Meglio ancora», mi rispose Molinari. «Abbiamo trovato gli agenti dell'FBI che diressero l'operazione di Hope Street. Billy Danko faceva parte dei Weathermen, è accertato. Fu visto aggirarsi nei pressi della sede regionale della Northrop Grumman, che fu bersaglio di un attentato dinamitardo nel settembre 1969. Il suo nome di battaglia, August Spies, risulta dalle intercettazioni telefoniche tra membri dell'organizzazione. Non era innocente come sembrava. Faceva parte di un'organizzazione eversiva.» Mi porse un blocco di fogli gialli scritti di suo pugno. «L'FBI aveva cominciato a pedinarlo circa tre mesi prima dell'irruzione nel covo. Della cellula di Berkeley facevano parte altre persone e l'FBI riuscì a convincerne una a collaborare. È incredibile come la prospettiva di passare venticinque anni in un carcere federale possa trasformare un medico promettente in un informatore.» «Bengosian!» esclamai con foga di fronte a quella conferma della mia teoria. Molinari annui. «L'informatore era proprio Bengosian. Fu grazie a lui che la polizia riuscì a entrare nel covo di Hope Street quella notte. Bengosian tradì i suoi amici. Avevi ragione. E non finisce qui.»
«Lightower?» «Era il compagno di stanza di Danko», spiegò Molinari. «L'università punì severamente i membri degli Students for a Democratic Society e probabilmente Lightower decise che gli conveniva andare a fare un semestre all'estero. Uno degli agenti che parteciparono all'irruzione nel covo di Hope Street ricevette una promozione. È andato in pensione qui a San Francisco dopo vent'anni di servizio nell'FBI. Si chiamava Frank T. Seymour. Mai sentito nominare?» Sì, l'avevo sentito nominare, e questo non mi rallegrava affatto. Anzi, mi metteva l'angoscia. Frank T. Seymour era una delle vittime del Rincon Center. 92 Era sera ormai e a Michelle la sera piaceva: poteva guardare i Simpson o le repliche di Friends e farsi due risate come un tempo, prima che tutto cominciasse, quando lei era ancora una ragazzina e viveva a Eau Claire. Avevano dovuto abbandonare l'appartamento di Oakland dove avevano vissuto negli ultimi sei mesi e si erano trasferiti a casa di Julia, a Berkeley. E non potevano più uscire: la situazione era troppo tesa. Lo chiamavano Stephen Hardaway, ma in televisione la foto di Malcolm appariva spesso. Anche Robert era andato a vivere con loro, e così adesso erano in quattro. Forse entro breve sarebbe venuto anche Charles Danko con il piano definitivo, il progetto finale che secondo Malcolm avrebbe lasciato tutti a bocca aperta, perché era colossale. Michelle spense il televisore e scese al piano di sotto. Malcolm lavorava al suo ultimo ordigno, che sapevano già dove piazzare. A Michelle faceva paura anche solo stare nella stessa stanza in cui si trovava quel maledetto aggeggio. Si avvicinò in punta di piedi. «Mal, vuoi mangiare? Ti preparo qualcosa, se hai fame.» «Non vedi che sto lavorando, Michelle?» rispose lui secco, saldando un filo rosso dentro una gamba di tavolo in cui aveva nascosto il detonatore. Michelle gli posò una mano su una spalla. «Devo parlarti, Mal. Pensavo di andarmene.» Malcolm s'irrigidì e alzò la testa. Si tolse gli occhiali e si scostò dal viso i capelli sudati. «Andartene?» ripeté. La guardò in faccia scuotendo la testa, come se la
cosa gli sembrasse divertente. «E come? Vuoi salire su un pullman e tornartene nel Wisconsin? Credi di poter venire qui, far fuori un po' di gente e poi iscriverti in un'università di provincia e finire gli studi come se niente fosse?» A Michelle si riempirono gli occhi di lacrime. Era un inequivocabile segno di debolezza: lei detestava il sentimentalismo. «Smettila, per favore.» «Sei ricercata per omicidio, tesoruccio. Sei la baby-sitter che ha fatto saltare per aria la casa dei bambini che accudiva, te ne sei scordata?» All'improvviso Michelle vide tutto con estrema chiarezza. Capì che, anche se avessero fatto quell'ultimo colpo insieme, Malcolm non sarebbe mai andato a vivere con lei. Quando chiudeva gli occhi alla sera, Michelle vedeva Caitlin ed Eric che facevano colazione e si preparavano per andare a scuola e si rendeva conto di aver fatto una cosa terribile. Era inutile, Malcolm aveva ragione: ormai non poteva più andare da nessuna parte. Era la baby-sitter assassina e lo sarebbe rimasta per sempre. «Su, dài», le sussurrò Mal in tono più gentile. «Se resti qui, mi puoi aiutare, amore. Sai che ho bisogno delle tue ditina. Mettile su questo filo qui, da brava. E stai tranquilla, mi raccomando.» Le mostrò il telefono. «Finché non ho effettuato il collegamento, non può succedere niente, ricordatelo. Diventeremo famosi, Michelle. Siamo degli eroi: salveremo il mondo dai cattivi. Tutti si ricorderanno di noi.» 93 Era l'una del mattino, ma dormire era impensabile. Molinari entrò nella sala operativa mentre leggevo gli ultimi comunicati con Paul Chin. Mi guardò e disse con un gran sospiro: «Charles Danko». Lasciò cadere sulla scrivania una cartellina verde con la scritta: INFORMAZIONI RISERVATE, FBI. «L'hanno trovato fra i casi chiusi.» Fremevo di curiosità. Voleva dire che stavamo per beccarlo? «Ha studiato alla University of Michigan», cominciò Molinari. «Arrestato due volte per disturbo alla quiete pubblica e istigazione alla rivolta. Indagato nel 1973 a New York per possesso illegale di armi da fuoco. Un pomeriggio la casa in cui abitava saltò in aria, così, da un momento all'altro.» «Potrebbe proprio essere il nostro uomo.» «Era ricercato in relazione a un attentato contro il Pentagono nel 1972.
Pare sia un esperto di esplosivi. Dopo l'esplosione nella casa di New York, fece perdere le proprie tracce. Non si sa neppure se sia ancora negli Stati Uniti o se sia fuggito all'estero: è scomparso da trent'anni. E nessuno gli ha mai più dato la caccia.» «Un coniglio bianco», dissi. Molinari mi mostrò una fedina penale datata 1974 e un fax con una foto segnaletica dell'FBI che ritraeva una versione leggermente invecchiata della faccia del ragazzino che avevo visto nella foto di famiglia a casa di Carl Danko. «È il nostro uomo», disse Molinari. «Il problema è: come facciamo a trovarlo?» 94 «Tenente!» Qualcuno bussava energicamente alla porta a vetri del mio ufficio. Sussultai. Il mio orologio segnava le 6.30 del mattino. Dovevo essermi appisolata aspettando che Molinari mi desse altre notizie su Danko. Sulla porta c'era Paul Chin. «Tenente, sulla tre. Rispondi subito!» «Danko?» chiesi sfregandomi gli occhi. «Meglio. C'è una donna del Wisconsin che dice che sua figlia sta con Stephen Hardaway. E forse sa anche dove si trova!» Nei pochi secondi che mi occorsero per svegliarmi completamente, Chin tornò alla sua scrivania e avviò il registratore. Presi il telefono, mi schiarii la voce e dissi: «Sono il tenente Lindsay Boxer». La donna, agitatissima, riprese a parlare da dove doveva essersi interrotta con Chin. Aveva un forte accento del Midwest e un eloquio non particolarmente colto. «Gliel'ho sempre detto, io, che quello non me la contava giusta. Lei diceva che era tanto intelligente. Intelligente un corno! Michelle, mia figlia, è una con un cuore così, sa. E gli altri se ne approfittano. Io glielo dicevo: 'Iscriviti all'università qui, che puoi diventare quello che vuoi'.» «Sua figlia si chiama Michelle?» Presi una penna. «Michelle e poi?» «Fontieul. Michelle Fontieul.» Presi nota e chiesi: «Signora, mi dica tutto quello che sa». «L'ho riconosciuto», riprese lei. «L'ho visto alla TV. Il ricercato, ha presente? Be', Michelle ci sta insieme. Non si chiama Stephen, però. Mi pare che Michelle lo chiamava in un altro modo, al telefono. Malcolm, forse?
Sì, mi pare di sì: Malcolm, o Mal. Sono passati di qui mentre andavano sulla West Coast. Mi pare che lui è di Portland, o dello Stato di Washington. L'ha trascinata nelle sue 'proteste'. Io non ci capisco niente, ma a Michelle gliel'ho detto, di stare attenta.» «È sicura che sia lo stesso uomo che ha visto alla TV?» «Sì, sì, sicurissima. Solo che adesso ha i capelli diversi. E prima non aveva la barba. Lo dicevo io...» La interruppi. «Quando ha parlato con sua figlia per l'ultima volta, signora Fontieul?» «Non so, sarà stato tre mesi fa. Chiama sempre lei. Non mi ha mai dato il suo numero. L'ultima volta però mi è sembrata stranissima, sa? Mi ha detto che finalmente stava facendo qualcosa di buono. E poi che sono stata una brava madre, che mi vuole tanto bene. Ho pensato che magari era rimasta incinta, ecco che cosa ho pensato.» Quadrava con quel che sapevamo di Hardaway e con le informazioni che ci aveva dato il proprietario del KGB Bar. «Ha modo di contattare sua figlia? Ha il suo indirizzo?» «Un indirizzo ce l'ho, ma credo sia di una sua amica. Ho un numero di casella postale. Michelle diceva che potevo usare quello, se ne avevo bisogno. Casella tre-tre-tre-otto, MailBoxes Etc, Broad Street, Oakland, California.» Lanciai un'occhiata a Chin e vidi che tutti e due stavamo prendendo appunti. A quell'ora il negozio MailBoxes era ancora chiuso. Un agente dell'FBI sarebbe andato dalla signora Fontieul nel Wisconsin per farsi dare una foto della figlia Michelle. Ma, nel frattempo, le chiesi di descrivermela. «Bionda, con gli occhi azzurri.» La donna esitò. «È sempre stata carina, devo dire. Non so se ho fatto bene a telefonarvi, però. Michelle è ancora tanto giovane...» La ringraziai di essersi fatta avanti e le assicurai che avremmo trattato sua figlia in maniera equa anche se fosse risultata coinvolta in qualche losco traffico. «Adesso le passo un collega», le spiegai. «Prima però volevo chiederle ancora una cosa.» Mi era tornato in mente un dettaglio. «Sua figlia ha mai avuto disturbi respiratori?» «Eccome!» mi rispose. Dopo un attimo di silenzio, precisò: «Ha sempre sofferto di asma. Gira con la pompetta da quando aveva dieci anni». Guardai Chin attraverso il vetro. «Credo che abbiamo trovato la baby-
sitter.» 95 Come tutte le mattine, Cindy Thomas prese l'autobus in Market Street per andare a lavorare. Quel giorno, però, aveva il presentimento che stesse per succedere qualcosa, che si preparasse una svolta in un senso o nell'altro. August Spies lo aveva promesso. L'autobus era pieno e Cindy riuscì a trovare un posto a sedere solo dopo due fermate. Come tutte le mattine, aprì il Chronicle e scorse le notizie in prima pagina. C'era una foto del sindaco Fiske tra Molinari e Tracchio. La notizia principale era ancora il G8. Il suo articolo su Billy Danko era nella colonna in alto a destra. Una ragazza con i capelli corti tinti di rosso, una salopette di jeans e un maglione fatto all'uncinetto le si avvicinò. Cindy alzò la testa ed ebbe l'impressione di conoscerla. Era carina, portava tre orecchini al lobo sinistro e in testa un fermaglio con il simbolo della pace. Aveva un'aria indifesa. Cindy teneva d'occhio i negozi lungo Market Street per non perdere la sua fermata. Il signore seduto accanto a lei scese all'altezza di Van Ness Avenue. La ragazza con la salopette si sedette al suo posto. Cindy le sorrise e voltò pagina: altri articoli sul G8. La giovane allungò il collo per leggere da dietro la sua spalla. Poi guardò Cindy negli occhi e disse: «Non smetteranno, sa?» Cindy rispose con un sorrisetto poco convinto: non aveva voglia di attaccare discorso con una sconosciuta a quell'ora del mattino. L'altra però continuava a fissarla. «Non smetteranno, signorina Thomas. Io ci ho provato. Ho fatto come mi ha detto lei e ci ho provato, glielo giuro.» Cindy rimase di sasso. Senza parole, guardò in faccia la sconosciuta. Era più grande di quanto le fosse sembrata in un primo momento: doveva avere almeno venticinque anni. Stava per chiederle come faceva a sapere come si chiamava, quando all'improvviso capì. Era la persona con cui aveva chattato su Internet. La ragazza che aveva partecipato all'uccisione di Jill. La baby-sitter? «Mi ascolti. Sono uscita di nascosto, loro non sanno che sono qui. Al G8 succederà qualcosa di terribile», le confidò la ragazza. «Faranno scoppiare
un'altra bomba, se non peggio. Non so esattamente dove, ma sarà una tragedia. La più devastante di tutte. Morirà un sacco di gente. Provi lei a fermarli.» Cindy, tesissima, non sapeva che cosa fare. Poteva prendere la ragazza, mettersi a gridare e far fermare l'autobus: in fondo la polizia la stava cercando. Ma qualcosa la trattenne e chiese invece: «Perché mi dici queste cose?» «Perché mi dispiace, signorina Thomas.» La ragazza sfiorò il braccio di Cindy. «Mi dispiace per tutti quanti, per Eric, Caitlin, per la sua amica della procura. Abbiamo fatto delle cose terribili, lo so... Vorrei poter tornare indietro, ma non è possibile.» «Devi costituirti», le disse Cindy fissandola. Poi si guardò intorno, terrorizzata al pensiero che qualcuno dei passeggeri sentisse quello che stava dicendo. «È finita. Sanno chi siete.» «Volevo darle una cosa», replicò l'altra ignorando le sue suppliche e mettendole in mano un foglietto di carta ripiegato più volte. «Non so come altro fare a fermarli, ormai. È meglio se rimango con loro. In caso cambiassero i piani.» L'autobus si fermò davanti al Metro Civic Center. Cindy aprì il foglietto e lesse: 722 7th Street Berkeley. «Oh, mio Dio!» esclamò Cindy boccheggiando. Le aveva dato l'indirizzo del loro covo. La vide alzarsi e dirigersi verso la porta posteriore, che si stava aprendo. «Non puoi tornare da loro!» gridò Cindy. La ragazza si voltò, ma non si fermò. «Aspetta!» gridò Cindy. «Non tornare da loro!» La ragazza parve sorpresa, confusa. Esitò per un attimo, poi disse pianissimo, scandendo bene le parole per farsi capire anche da lontano: «Mi dispiace, ma non ho scelta». E scese di corsa. Cindy balzò in piedi, ma le porte dell'autobus ormai si erano richiuse. Suonò e gridò al conducente che doveva scendere, che era un'emergenza, ma quando finalmente fu sul marciapiede, Michelle Fontieul era già scomparsa tra la folla. Cindy telefonò immediatamente a Lindsay. «So dove si nascondono. Ho l'indirizzo del loro covo!» PARTE QUINTA
96 Intorno al civico 722 di 7th Street a Berkeley, una casa bianca piuttosto malconcia, si stava radunando il più grande spiegamento di forze della storia di San Francisco, composto da agenti speciali della polizia metropolitana, di Berkeley e Oakland e agenti federali dell'FBI e del Dipartimento della Sicurezza Nazionale. La zona era stata chiusa al traffico e le case vicine erano state fatte sgomberare una per una. C'erano anche gli artificieri e diverse ambulanze dislocate in posizioni strategiche. Una ventina di minuti prima davanti alla porta si era fermato un furgone Chevy grigio: m casa c'era qualcuno. Riuscii a piazzarmi accanto a Molinari, che era in costante contatto telefonico con Washington. A coordinare l'azione era un capitano delle Operazioni Speciali, tale Joe Szerbjak. «Procederemo così», annunciò Molinari inginocchiandosi al riparo di un'autopattuglia nera a una trentina di metri dalla casa. «Facciamo una telefonata e gli diamo la possibilità di arrendersi. Se rifiutano, parti con i lacrimogeni», concluse rivolto a Szerbjak. L'intenzione era costringerli a uscire. Se si fossero consegnati spontaneamente, li avremmo fatti sdraiare a terra e ammanettati. «E se escono sparando?» chiese Joe Szerbjak infilandosi il giubbotto antiproiettile. Molinari si strinse nelle spalle. «Se escono sparando, dovremo sparare anche noi.» Il problema era quanto esplosivo nascondessero in quella casa. Sapevamo che ne possedevano e avevamo ben presente quel che era successo al Rincon Center solo due giorni prima. La squadra era pronta. I cecchini erano appostati e gli agenti scelti che sarebbero dovuti entrare nella casa erano riuniti a bordo di un furgone blindato, pronti a entrare in azione. Con noi c'era anche Cindy Thomas: a quanto pareva fra i terroristi c'era una ragazza che si fidava di lei, Michelle, che molto probabilmente era la baby-sitter. Ero nervosa, agitata. Non vedevo l'ora che fosse finita. Non volevo altri spargimenti di sangue, volevo solo vedere la fine di quella vicenda. «Secondo voi, si sono accorti che siamo qui?» domandò Tracchio osservando la casa da dietro una macchina. «Se non se ne sono accorti, se ne accorgeranno presto», rispose Molinari
guardando Szerbjak. «Capitano, faccia quella telefonata», ordinò poi. 97 Dentro la malconcia casa bianca al 722 di 7th Street regnava il caos più totale. Robert, il veterinario, aveva preso un fucile automatico e si era accucciato vicino a una delle finestre, per controllare la situazione. «Sono un esercito! Ci sono poliziotti da tutte le parti!» Julia gridava come una pazza. «Ve l'avevo detto di andarvene da casa mia, per la miseria!» Guardò Malcolm. «Che cosa facciamo adesso? Che cosa possiamo fare?» Malcolm sembrava tranquillo. Andò alla finestra e sbirciò tra le tende, quindi passò nell'altra stanza e tornò trascinando una valigia nera con il trolley. «Morire, probabilmente», rispose. Michelle aveva il cuore a mille. Da un momento all'altro sarebbero entrati gli sbirri. Era combattuta tra la paura e la vergogna. Aveva tradito i suoi compagni e messo fine a tutto ciò per cui si erano battuti fino a quel momento, ma anche - sperava - a un massacro di uomini, donne e bambini cui aveva partecipato anche lei. All'improvviso squillò il telefono e per un attimo tutti si voltarono a guardarlo con gli occhi sbarrati. Ogni trillo sembrava un campanello d'allarme. «Rispondi», ordinò Robert a Malcolm. «Ci tieni tanto a essere il capo. Rispondi tu.» Malcolm andò al telefono. Quattro, cinque squilli. Sollevò la cornetta e rimase un momento in ascolto. Il suo viso non tradiva né paura né sorpresa. Disse addirittura il proprio nome. «Stephen Hardaway.» In tono molto fiero. Poi stette di nuovo a sentire il suo interlocutore, questa volta più a lungo, e alla fine disse: «Sì, ho capito». Mise giù, deglutì e si guardò intorno. «Dicono che ci danno una sola possibilità. Chi vuole costituirsi, esca subito.» Nella stanza regnava un silenzio di tomba. Robert era immobile alla finestra, Julia aveva la schiena appoggiata al muro e anche Malcolm taceva, sconvolto e senza parole. Michelle aveva la tentazione di gridare che era stata lei, che aveva causato lei quel pasticcio. «Be', a me non mi beccano», dichiarò Robert. Con le spalle alla porta
della cucina, imbracciò il fucile e guardò il furgone parcheggiato davanti alla casa. Strizzò un occhio in una sorta di silenzioso addio, quindi spalancò la porta e corse fuori. Arrivato a meno di due metri dal furgone, sollevò il fucile e sparò una raffica di colpi verso la polizia. Si sentirono due colpi secchi, solo due, e Robert smise di correre. Si voltò con un'espressione sorpresa in faccia, mentre due grosse chiazze rosse gli si allargavano sul petto. «Robert!» gridò Julia. Sfondò il vetro della finestra con la canna del fucile e cominciò a sparare alla cieca. Un attimo dopo venne scaraventata all'indietro e stramazzò a terra. Dalla finestra sfondata entrò al volo un cilindro nero da cui cominciò a uscire del gas. Poi ne arrivò un altro e nella stanza si sprigionò una nuvola di fumo soffocante. Michelle chiamò Malcolm e lo vide in piedi al centro della stanza, impassibile, per nulla spaventato. Aveva in mano un cellulare. «Io non esco», disse. «Nemmeno io», dichiarò Michelle. «Sei una ragazza coraggiosa.» Malcolm sorrise. Michelle vide che componeva un numero di quattro cifre. Un attimo dopo udì uno squillo proveniente dalla valigia. Poi un altro, e un altro ancora. «Ti ricordi, Michelle?» disse Malcolm. Prese fiato e concluse: «Se non c'è il collegamento, non succede niente». 98 Al momento dell'esplosione, eravamo accucciati al riparo di una macchina della polizia a meno di trenta metri di distanza. Dalle finestre uscirono enormi vampate arancioni, poi la casa parve sollevarsi dalle fondamenta e il tetto fu proiettato verso l'alto e andò in pezzi. «Giù!» gridò Molinari. «State giù!» L'onda d'urto ci scaraventò all'indietro. Afferrai Cindy, che era in piedi accanto a me, e la spinsi a terra, cercando di ripararla dall'impatto e dalla pioggia di detriti. Rimanemmo sdraiati per terra mentre un'ondata di calore fortissimo ci passava sopra la testa. Si sentirono imprecazioni e voci che gridavano:
«Tutto bene?» Poi, lentamente, ci rialzammo. «Oh, mio Dio...» gemette Cindy. Dove un attimo prima c'era una casa di legno bianca, adesso c'erano solo fumo, fiamme e un cumulo di macerie. «Michelle», mormorò Cindy. «Oddio, Michelle!» Guardammo l'incendio che ardeva, alimentato dal vento. Dalla casa non era uscito nessuno. Nessuno poteva essere sopravvissuto a una simile esplosione. Le sirene cominciarono a ululare e nell'aria riecheggiarono frenetiche conversazioni via radio. I poliziotti urlavano nei walkie-talkie: «Violenta esplosione al civico 772 di 7th Street...» «Forse Michelle non era in casa», dissi. Ma Cindy scuoteva la testa, guardando l'incendio che divampava furioso. Le misi un braccio sulle spalle. «Erano gli assassini di Jill, Cindy.» Più tardi, quando i vigili del fuoco ebbero spento le fiamme, i soccorritori andarono a cercare i resti carbonizzati delle vittime e io mi recai con loro a frugare tra i detriti. Era finita? Il pericolo era scongiurato? Quante persone si trovavano nella casa al momento dell'esplosione? Non lo sapevo. Quattro o cinque, sembrava. Probabilmente Hardaway era morto. E Charles Danko? E August Spies? Nel frattempo era arrivata Claire. Si avvicinò ai cadaveri, che erano stati coperti da un telo. Avevano ustioni talmente gravi e diffuse che erano irriconoscibili. «C'è un maschio bianco di circa cinquant'anni?» le domandai. «Posso solo dirti che i morti sono quattro», rispose. «Uno è il nero a cui hanno sparato davanti alla casa, gli altri tre erano dentro. Due sono donne, Lindsay.» Joe Molinari si avvicinò. Aveva appena finito di aggiornare Washington sugli ultimi sviluppi. «Tutto bene?» mi chiese. «Temo che non sia finita qui», dissi, indicando i cadaveri. «Hai paura che Danko sia fuggito?» Si strinse nelle spalle. «Bisognerà aspettare l'autopsia per saperlo. In ogni caso, se è ancora vivo, è rimasto solo: la sua cellula non esiste più. E neanche l'esplosivo. Che cosa può fare a questo punto?» Notai qualcosa in mezzo alle macerie: sembrava un fermaglio per capelli. Mi chinai e lo raccolsi. «Ascoltate la voce del popolo», dissi, mostrandolo a Molinari.
Era a forma di simbolo della pace. 99 Charles Danko vagava senza meta per le strade di San Francisco pensando a quel che era appena successo a Berkeley, dove i suoi amici si erano immolati per la causa. Martiri, come Billy tanti anni prima. Potrei fare una strage in questo momento. Proprio qui. Non sarebbero riusciti a catturarlo comunque, se avesse pianificato bene le sue mosse e fosse stato molto prudente. Morirai viscido businessman vestito di nero. E anche tu, bionda firmata dalla testa ai piedi. E anche tu. E tu. E tu. Tutti quanti, stronzi egoisti e presuntuosi! Dio, quanto sarebbe stato facile dare libero sfogo alla sua rabbia in quel momento! La polizia e l'FBI erano patetici, nel loro tentativo di «proteggere» i cittadini. Non capivano niente. Non vedevano che giustizia e vendetta erano due concetti assolutamente compatibili e che, anzi, andavano di pari passo. Lui stava seguendo le orme di suo fratello Billy, rendeva onore al suo ideale e nello stesso tempo ne vendicava la morte. Due cause sono meglio di una: doppia motivazione, doppia rabbia. Le facce dei passanti, i loro vestiti eleganti, i negozi assurdi lungo le strade cominciavano a confondersi nella sua mente, a sembrargli altrettanto colpevoli. Tutti erano colpevoli. Lo Stato era colpevole. Nessuno capiva. Non ancora. Nelle loro belle strade piene di negozi era scoppiata una guerra destinata a non finire mai più. Ormai, nessuno poteva più fermarla. La causa avrebbe trovato sempre nuovi militanti. In fondo, anche lui non era che un militante. Si fermò in una cabina e fece due telefonate. La prima a un compagno. La seconda al suo mentore, la persona che aveva ideato tutto il piano e gli aveva affidato quel compito. Aveva deciso: l'indomani sarebbe entrato in azione comunque. Non era cambiato nulla. 100 Il mattino dopo, il vertice del G8 doveva cominciare come previsto. I
falchi, a Washington, avevano deciso così e così sarebbe stato. La cerimonia inaugurale era in programma per quella sera con un ricevimento nella sala dei Rodin al California Palace of the Legion of Honor, il famoso museo affacciato sul Golden Gate Bridge. A fare gli onori di casa sarebbe stato il vicepresidente degli Stati Uniti in persona, Eldridge Neal, uno degli afroamericani più stimati e ammirati del Paese. Tutti gli agenti disponibili erano stati dispiegati lungo il percorso e nella sede degli incontri. I documenti degli invitati sarebbero stati esaminati tre volte, tutti i cassonetti della zona ispezionati e tutte le prese d'aria controllate da cani addestrati a fiutare esplosivi. Ma Charles Danko era ancora a piede libero. E l'unica possibilità che avevo di rintracciarlo era attraverso il padre, Carl Danko. Mentre il resto del dipartimento si preparava per l'inaugurazione del G8, tornai a Sacramento. Carl Danko parve sorpreso di vedermi di nuovo. «Credevo che si preparasse a ricevere qualche medaglia, oggi. A quanto pare, avete il vizio di ammazzare giovani innocenti. Mi dica, che cosa è venuta a fare?» «Sono qui per suo figlio», risposi. «Mio figlio è morto», disse, ma fece un sospiro e mi lasciò entrare. Lo seguii nel salottino, dove c'era il caminetto acceso. S'inginocchiò, riattizzò il fuoco e si sedette in poltrona. «Come le ho detto l'altra volta, di Billy si sarebbe dovuto parlare trent'anni fa.» «Non mi riferivo a Billy, ma a Charles», replicai. Danko parve esitare. «Ho detto ai federali...» «Sappiamo tutto», lo interruppi. «Sappiamo quali sono i precedenti di suo figlio Charles, signor Danko, e sappiamo che non è morto.» L'anziano signore rispose acido: «Non la volete proprio smettere, eh? Prima Billy e adesso Charlie. Vada a ritirare le sue medaglie, tenente. Ha trovato gli assassini. Che cosa le fa pensare di poter venire qui a dirmi che Charlie è vivo?» «George Bengosian», risposi. «Chi?» «George Bengosian, la vittima del secondo attentato. Conosceva Billy ai tempi di Berkeley. Non solo: fu lui a tradirlo.» Danko si sistemò meglio sulla poltrona. «Che cosa vuole dire?» «E Frank Seymour, morto nella strage al Rincon Center l'altro giorno.
Era il capo della squadra che fece irruzione nel covo di Hope Street, quando morì suo figlio. Charles è vivo e sta uccidendo degli innocenti, dottor Danko. Io credo che sia impazzito, e secondo me lo pensa anche lei.» Carl Danko trasse un respiro profondo, guardò il fuoco nel camino e poi andò verso la scrivania. Aprì l'ultimo cassetto, prese un fascio di lettere e me le posò davanti. «Non ho mentito, quando ho detto che mio figlio era morto. Per me è come se lo fosse. L'ho visto una volta sola negli ultimi trent'anni, e per cinque minuti. Eravamo a un angolo di strada, a Seattle. Qualche anno fa hanno cominciato ad arrivare queste. Una all'anno, intorno al giorno del mio compleanno.» Gesù, allora avevo ragione! Charles Danko era vivo... Presi le lettere e cominciai a sfogliarle. L'anziano signore si strinse nelle spalle. «Credo che insegni in un college o qualcosa del genere.» Esaminai le buste: non c'era l'indirizzo del mittente, ma le ultime quattro venivano da Portland, nell'Oregon. Una, datata 7 gennaio, era arrivata solo quattro mesi prima. Portland. Non poteva essere una coincidenza. Stephen Hardaway aveva studiato a Pordand. Al Reed College. Guardai Carl Danko. «Ha detto che insegna? Dove?» «Non lo so», rispose scuotendo la testa. Ma io lo sapevo. All'improvviso vidi tutto con estrema chiarezza. Charles Danko insegnava al Reed. Per tutto quel tempo si era nascosto in un college. E lì aveva conosciuto Stephen Hardaway. 101 Mi feci passare Molinari al Palace of the Legion of Honor. Mancavano meno di due ore al ricevimento del vicepresidente. Il G8 era cominciato. «Credo di aver scoperto dov'è Danko», gridai al telefono della macchina. «Insegna al Reed College, a Portland. E anche Stephen Hardaway ha studiato lì. Tutto quadra.» Molinari mi disse che avrebbe mandato immediatamente una squadra dell'FBI al college, mentre io tornavo a San Francisco a sirene spiegate. A sud di Vallejo, non stavo più nella pelle e mi feci dare il numero del cen-
tralino del Reed College. Spiegai chi ero al centralinista, che mi passò il rettore, un certo Michael Picotte. Quando mi rispose, gli agenti della sede dell'ufficio FBI di Portland si stavano recando al college. «Dobbiamo assolutamente rintracciare uno dei vostri docenti. Si tratta di un'emergenza», gli dissi. «Non so come si chiama né che faccia ha, ma il suo vero nome è Charles Danko. Dovrebbe avere una cinquantina d'anni.» «D-danko?» balbettò Picotte. «Non c'è nessun Danko qui al college. In compenso ci sono diversi docenti sulla cinquantina, fra cui il sottoscritto.» Sempre più esasperata e impaziente, chiesi: «Ha un fax? Può darmi il numero?» Mi misi in contatto radio con il mio ufficio e mi feci passare Lorraine. Le dissi di cercare le foto segnaletiche di Charles Danko negli anni '70. Forse una certa somiglianza c'era ancora. Il rettore mi mise in attesa e andò a controllare il fax. Ero ormai nei pressi del Bay Bridge, a soli venti minuti dal San Francisco International Airport. Meditai se prendere un aereo per Portland e presentarmi di persona al college. «Il fax è arrivato. L'ho qui con me», mi disse il rettore tornando in linea. «È una foto segnaletica...» «La osservi bene, la prego», dissi. «Riconosce quell'uomo?» «O mio Dio...» Il rettore rimase senza fiato. «Chi è? Mi dica come si chiama!» gridai. Avevo la sensazione che Picotte esitasse a darmi il nome di un collega, forse addirittura di un amico. Scesi dal ponte, entrai in città e imboccai Harrison Street. «Dottor Picotte, la prego... Mi dica come si chiama quell'uomo! È questione di vita o di morte.» «Stanzer. Potrebbe essere Jeffrey Stanzer. Sì, gli assomiglia», disse finalmente. Presi la penna e mi appuntai velocemente il nome. Jeffrey Stanzer. Danko era Jeffrey Stanzer! Ed era anche August Spies. «Dove posso trovarlo?» chiesi. «Alcuni agenti dell'FBI stanno venendo lì al college. Ci serve l'indirizzo di Stanzer, rettore.» Picotte esitò nuovamente. «È uno dei professori più stimati del college...» Accostai al marciapiede. «Deve darci indicazioni precise su dove trovarlo, rettore. Questa è un'indagine per omicidio! Stanzer è un assassino e sta
per uccidere ancora.» Picotte sospirò. «Ha detto che chiama da San Francisco?» «Sì.» Ci fu una pausa. «Stanzer è lì. Deve parlare all'inaugurazione del G8. Credo che il suo intervento sia in programma stasera.» Mio Dio, Danko era invitato al G8! 102 Charles Danko era davanti al Palace of the Legion of Honor e fremeva per l'emozione. Era la sua serata. Stava per diventare famoso, e con lui lo sarebbe diventato anche suo fratello Billy. Tutti coloro che pensavano di conoscerlo sarebbero rimasti sorpresi nel sentirlo parlare, quella sera: per anni aveva vissuto nell'ombra, dedicandosi ai suoi studi ed evitando con cura qualsiasi forma di pubblicità. E soprattutto nascondendosi alla polizia. Ma quella sera stava per compiere un gesto assai più coraggioso che non tenere l'ennesimo noiosissimo discorso. Tutte le sue teorie e analisi non contavano più nulla. Quella sera avrebbe cambiato il corso della storia. Gli scappava da ridere al pensiero che tutti i poliziotti di San Francisco, sulle tracce di August Spies, stessero per lasciarlo entrare al museo con tutti gli onori. August Spies sarebbe passato dalla porta principale! Rabbrividì e strinse la ventiquattrore che conteneva il suo discorso, che riguardava gli effetti degli investimenti stranieri sul mercato del lavoro nel Terzo Mondo. Il risultato di una vita di studio, avrebbe potuto dire qualcuno. Ma che cosa sapeva veramente la gente di lui? Nulla. Nemmeno il suo vero nome. All'ingresso agenti in smoking e vestito da sera perquisivano tasche e borsette di economisti e mogli di ambasciatori e di tutti gli arrivisti che sgomitavano per partecipare a quel genere di eventi. Potrei ucciderli tutti, pensò. Perché no? Erano venuti fin lì per spartirsi il mondo, per imporre la propria volontà economica ai popoli che non sono in grado di competere né di difendersi. Sanguisughe. Esseri immondi e disgustosi. Meritate tutti di morire. Come Lightower e Bengosian. La fila degli invitati arrivava fino alla riproduzione del Pensatore di Rodin. Danko rabbrividì, quando dovette presentare l'invito riservato ai VIP a una bella donna con un vestito da sera nero. Probabilmente era dell'FBI e di sicuro aveva una Glock nascosta sotto il vestito. «Buonasera», gli disse la poliziotta, spuntando il suo nome su un elenco.
«Ci scusiamo per il disturbo, professor Stanzer, ma le dispiacerebbe aprire la valigetta, in maniera che il mio collega possa controllarne il contenuto?» «Figuriamoci. Contiene solo il mio discorso, comunque», rispose Danko. Le porse la ventiquattrore un po' preoccupato, come avrebbe fatto qualsiasi studioso, e intanto allargò le braccia per permettere a una guardia di passargli il metal detector sul corpo. L'uomo gli tastò le tasche e chiese: «Che cos'è questo?» Danko tirò fuori un flaconcino di plastica con l'etichetta di una farmacia che specificava il suo nome. L'ultimo capolavoro di Stephen Hardaway. Povero Stephen, che brutta morte! E poveretti anche Julia, Robert e Michelle! Militanti, come lui. «È per l'asma», spiegò Danko. Diede un colpetto di tosse e si indicò il petto. «Proventil. Lo prendo sempre, prima di parlare in pubblico. Ne ho addirittura uno di riserva.» La guardia osservò un momento il flacone. Che spasso! Stephen era un genio. Che bisogno c'era ormai di pistole e bombe, quando l'arma più terrificante del mondo si poteva tenere in una mano? Billy sarebbe fiero di me! «Si accomodi, professore. Buona serata.» La guardia lo autorizzò a passare. «Grazie mille», rispose Charles Danko. 103 Premetti l'acceleratore e passai con il rosso in Van Ness Avenue, diretta verso Geary Street. Anche senza traffico, ci volevano dieci minuti per arrivare al Palace of the Legion of Honor, a Lands End. Feci il numero di Molinari, ma il suo cellulare era spento o irraggiungibile. Allora cercai di farmi passare il capo della polizia, ma mi rispose uno dei suoi assistenti e mi disse che Tracchio era in mezzo alla folla. «Il vicepresidente sta entrando in sala in questo momento. Lo vedo arrivare!» «Ascolta!» gridai mentre sterzavo a sirene spiegate, per evitare una macchina. «Devi trovarmi assolutamente o Tracchio o Molinari e mettergli il telefono all'orecchio! È un'emergenza! Non m'interessa con chi stanno parlando! Sbrigati!» Controllai l'ora sul cruscotto. C'era il rischio che il museo saltasse in aria da un momento all'altro e per identificare Charles Danko avevamo una fo-
to vecchia di trent'anni. Nemmeno io sarei stata sicura di riconoscerlo. Passò un minuto che mi parve lunghissimo, poi sentii una voce al cellulare. Era Molinari, finalmente. «Ascoltami, Joe», dissi. «Charles Danko è lì! In questo preciso momento! Si è presentato con il nome di Jeffrey Stanzer ed è fra gli oratori di stasera. Io arrivo fra tre minuti. Cerca di fermarlo, Joe!» Prendemmo velocemente in esame un'evacuazione di emergenza del museo o un annuncio all'altoparlante specificando il nome di Stanzer, ma Molinari decise che non era il caso. Il rischio era che, al minimo allarme, Danko decidesse di passare all'azione. Entrai sgommando in 34th Avenue, attraversai il parco e arrivai in cima alla salita dove si trovava il Palace of the Legion of Honor. Il parco era presidiato da dimostranti e la polizia aveva istituito dei posti di blocco per superare i quali bisognava lasciare un documento. Abbassai il finestrino e mostrai il distintivo, suonando il clacson come una pazza. Finalmente imboccai il viale, costeggiato da limousine e auto della polizia, che portava al piazzale antistante il museo. Mollai la Ford Explorer davanti al colonnato e mi misi a correre. Vari agenti dell'FBI con la ricetrasmittente in mano cercarono di fermarmi, ma io mostravo il distintivo e gridavo: «Lasciatemi passare!» Quando entrai nel museo, le sale erano gremite di uomini di Stato e dignitari. Scorsi Molinari che dava ordini via radio e mi precipitai verso di lui. «È qui!» mi comunicò. «Sull'elenco degli invitati risulta arrivato. È già dentro.» 104 C'erano ambasciatori, ministri, imprenditori ovunque, che chiacchieravano raccolti a piccoli gruppi e bevevano champagne. Potevano saltare in aria da un momento all'altro. Gli uomini dei servizi di sicurezza stavano trasferendo altrove il vicepresidente, ma Charles Danko poteva essere ovunque. Dio solo sapeva che intenzioni avesse. Noi non sapevamo neppure come era fatto. Molinari mi porse un walkie-talkie sintonizzato sulla sua stessa frequenza. «Ho la foto segnaletica. Io vado a sinistra. Teniamoci in stretto contatto, Lindsay. Niente eroismi, stasera.» Cominciai a girare tra la folla confrontando la mia immagine mentale di
Charles Danko di trent'anni prima con le facce di tutti quelli che vedevo. Mi rammaricai di non aver chiesto al rettore del Reed College di descrivermi Jeffrey Stanzer, ma purtroppo non c'era più tempo per farlo. Dov'era quel folle assassino? «Sto perlustrando il salone, ma non lo vedo», dissi al walkie-talkie. «Io sono nell'ala», mi rispose Molinari. «Per ora non l'ho visto, ma dev'essere qui.» Scrutavo attentamente tutte le facce. Il nostro unico vantaggio era che Danko non sapeva che l'avevamo scoperto. Alcuni agenti federali scortavano fuori gli invitati con la massima discrezione: non potevamo tradirci provocando scene di panico... Non vedevo Danko da nessuna parte. Dov'era finito? Che cosa aveva intenzione di fare? Doveva trattarsi di qualcosa di grosso, se era venuto di persona. «Vado verso i Rodin», comunicai a Molinari. Tra i bronzi c'erano diverse persone che bevevano champagne. Mi avvicinai a un gruppetto radunato intorno a una delle statue. «Che cosa succede?» chiesi a una signora in abito da sera nero. «Sta per arrivare il vicepresidente», mi rispose. Il vicepresidente era stato avvertito del pericolo e accompagnato fuori, ma nessuno lo sapeva e molti aspettavano l'occasione per fare la sua conoscenza. Che tra loro ci fosse anche Danko? Scrutai tutti i visi uno per uno. Vidi un uomo alto e magro, con la fronte alta e un inizio di calvizie. Occhi piccoli, vicini. Una mano nella tasca della giacca. Mi sentii raggelare. La somiglianza con la foto di trent'anni prima era evidente. Lo persi di vista nel viavai di folla, ma ero sicura che fosse Charles Danko: era il ritratto di suo padre. Mi voltai dall'altra parte e dissi al walkie-talkie: «L'ho trovato, Joe. È qui!» Danko era in fila in attesa di essere presentato al vicepresidente. Con il cuore in gola, vidi che aveva ancora la mano sinistra nella tasca della giacca. Che avesse in mano un detonatore? Com'era riuscito a sfuggire ai controlli dei poliziotti e a introdurlo nel museo? «Sono nella sala dei Rodin, Joe. Lo vedo.» Molinari disse: «Resta dove sei. Arrivo. Non fare mosse azzardate». All'improvviso, Danko posò lo sguardo su di me. Non so se mi avesse visto alla TV, in qualche servizio sugli attentati, o se avessi «polizia» scrit-
to in fronte. Fatto sta che ebbi l'impressione che mi avesse riconosciuto. Ci fissammo. Lo vidi uscire dalla fila, senza staccarmi gli occhi di dosso. Feci un passo nella sua direzione e aprii la giacca per prendere la pistola. C'erano almeno una decina di persone tra noi. Dovevo superarle. Persi di vista Danko per non più di un secondo, ma bastò perché mi sfuggisse. Il coniglio bianco era scomparso di nuovo. 105 Mi feci largo tra la gente e arrivai nel punto in cui avevo visto Charles Danko solo pochi secondi prima, ma non c'era più. Mi guardai intorno e sibilai al walkie-talkie: «L'ho perso! Lo stronzo mi è sfuggito!» La colpa non era mia, ma ero furiosa con me stessa. Charles Danko era sparito. Gli uomini, invariabilmente in smoking, si assomigliavano tutti. Eravamo in grave pericolo. Mostrai il distintivo a un gruppo di agenti e imboccai il lungo corridoio che portava alla parte del museo che era stata chiusa al pubblico. Di Danko, però, non c'era traccia. Tornai nel salone principale, dove mi imbattei in Molinari. «È qui. Sono sicura, Joe. Sta per colpire.» Molinari annuì e ordinò via radio che non autorizzassero nessuno a lasciare l'edificio, per nessuna ragione. Pensai che, se ci fosse stata un'esplosione in sala, con tutta quella gente, sarebbe stato un disastro. Peggio del Rincon Center. Saremmo morti anche io e Molinari. Dove sei, Danko? In quel momento lo intravidi di nuovo, o almeno così mi parve. Indicai un uomo alto, con una calvizie incipiente, che si allontanava da noi girando intorno alla sala, in mezzo alla gente. «È lui!» «Danko!» gridai estraendo la Glock dalla fondina da spalla. «Danko! Altolà!» La gente si spostò verso i lati della sala e io vidi che Danko stava tirando fuori la mano dalla tasca della giacca. Di nuovo i nostri sguardi si incrociarono e lui mi sorrise. Che cosa diavolo aveva in mano? «Polizia! Tutti a terra!» gridò Molinari. Charles Danko stringeva tra le dita qualcosa, ma non riuscii a capire se era una pistola o un detonatore. Poi lo vidi: era un flaconcino di plastica. Ma che cosa...? Danko sollevò
la mano e io mi avventai su di lui: che cos'altro potevo fare? Lo investii e lo afferrai per un braccio, sperando che mollasse il flacone, ma lui tenne duro e non ci fu verso di strappargli l'oggetto dalle dita. Lo sentii gemere di dolore e vidi che rivolgeva il flacone verso di me, puntandomelo in faccia. Molinari accorse in mio aiuto, afferrò Danko e cercò di immobilizzarlo. «Scappa!» mi gridò. Danko girò di nuovo il flacone, questa volta verso Molinari. Fu questione di un attimo, davvero pochi secondi. Continuavo a stringere il braccio di Danko, cercando di spezzarglielo, quando lui si voltò verso di me e mi guardò. Nei suoi occhi lessi un odio e una freddezza mai visti. «Bastardo!» gli urlai in faccia. «Hai ammazzato anche la mia amica Jill!» Premetti il flacone. Lo spruzzo lo colpì in pieno, vicinissimo. Danko tossì, boccheggiò e il viso gli si contorse in una smorfia di terrore. Intanto erano accorsi altri agenti, che lo immobilizzarono e lo allontanarono. Danko respirava affannosamente, tossiva e sputava, cercando di espellere il veleno che gli era entrato nei polmoni. «È finita», ansimai. «Ti abbiamo fregato. Hai perso, cretino.» Sorrise con gli occhi vitrei e mi fece cenno di avvicinarmi. «Non finirà mai, povera illusa! La causa troverà sempre nuovi militanti.» In quel momento udii degli spari e mi resi conto che ero davvero una povera illusa. 106 Joe Molinari e io ci precipitammo nel piazzale, da dove erano venute le detonazioni, facendoci largo tra la folla. Dappertutto la gente boccheggiava, alcuni lacrimavano. Non capivo che cosa fosse successo, ma poi vidi, capii e sperai di aver visto male. Eldridge Neal era supino, con una chiazza rossa che si allargava sul petto. Qualcuno aveva sparato al vicepresidente degli Stati Uniti! Le sue guardie del corpo avevano immobilizzato una ragazza di diciotto o diciannove anni, con i capelli rossi crespi, che inveiva a gran voce contro il vicepresidente parlando di bambini schiavizzati in Sudan, dei milioni di africani vittime dell'AIDS, delle nefandezze compiute dalle multinazionali in Iraq e in Siria. Immaginai che avesse aspettato Neal al varco, all'uscita
dal salone. Improvvisamente la riconobbi: l'avevo già vista nello studio di Roger Lemouz. Era la ragazza che mi aveva fatto un gestaccio quando le avevo detto di lasciarci soli. Joe Molinari mi lasciò andare il braccio e si precipitò ad aiutare il vicepresidente. Mentre la ragazza urlante veniva trascinata via, nel piazzale arrivò un'ambulanza. I soccorritori scesero e accorsero verso il vicepresidente. Anche l'attentato ai danni di Neal faceva parte del piano di Danko? Aveva capito che sapevamo della sua nuova identità come professor Stanzer? Lo aveva fatto apposta, per seminare il panico anche se lo avessimo fermato? Che cosa mi aveva detto? La causa troverà sempre nuovi militanti... Era la cosa che mi faceva più paura, perché sapevo che era la verità. 107 Sarei dovuta andare in ospedale a farmi visitare, ma non volevo. Non ancora. Tornai alla Corte di Giustizia con Molinari e la ragazza dai capelli rossi. Si chiamava Annette Breiling. La interrogammo per varie ore, finché anche lei - rivoluzionaria, terrorista, donna capace di sparare a sangue freddo al vicepresidente degli Stati Uniti - cedette. E ci raccontò tutto quello che volevamo sapere sull'attentato al California Palace of the Legion of Honor. Erano le quattro del mattino, quando arrivammo in un quartiere elegante di Kensington, una cittadina poco lontano da Berkeley. C'erano almeno cinque o sei autopattuglie di agenti armati fino ai denti. La strada era in salita, con vista sul San Pablo Reservoir. Molto bella, sorprendentemente di lusso. Uno di quei posti dove sembra che non possa succedere nulla di brutto. «Si tratta bene», osservò Molinari. Ma i convenevoli finirono lì. «Vieni, andiamo.» Ad aprirci fu Roger Lemouz in persona, il coordinatore delle cattedre di lingue romanze. Era in vestaglia, spettinato, e aveva gli occhi rossi e lucidi, tanto che mi chiesi se aveva bevuto, magari per festeggiare. «Cara signorina, lei sta cominciando a diventare un po' troppo invadente. Sono le quattro del mattino e questa è una casa privata.» Non rimasi a polemizzare. Nemmeno Molinari era in vena di chiacchie-
re. «Lei è in arresto per associazione a delinquere e istigazione all'omicidio», dichiarò prima di entrare di prepotenza nella casa. Alle spalle di Lemouz comparvero, nel salotto, la moglie e i due figli. Il maschio avrà avuto al massimo dodici anni, la femmina era ancora più piccola. Molinari e io dovemmo riporre le pistole. «Charles Danko è morto», annunciai a Lemouz. «Una ragazza che lei ben conosce, Annette Breiling, l'ha accusata di avere preso parte all'omicidio di Jill Bernhardt. E non solo quello, professore. Stando alla Breiling, è stato lei a organizzare la cellula di Stephen Hardaway, Julia Marr e Robert Green. E a controllare Charles Danko, strumentalizzando la sua rabbia. Danko covava rancore da trent'anni, ma solo lei è riuscito a spingerlo ad agire. Pendeva dalle sue labbra, vero, professore?» Lemouz mi rise in faccia. «Non conosco nessuna delle persone che ha nominato. A parte Annette Breiling, che è stata una mia studentessa, ma ha abbandonato gli studi. State commettendo un grosso errore e, se non ve ne andate subito, chiamerò il mio avvocato.» «Lei è in arresto», ripeté Molinari. «Vuole sapere quali sono i suoi diritti, professore? Aspetti che glieli leggo.» Lemouz fece un sorriso strano, sinistro. «Continuate a non capire, eh? Nessuno dei due. Per questo siete destinati a fare una brutta fine. Un giorno questo Paese andrà in rovina. Sta già cadendo a pezzi.» «Che cos'è che non capiamo? Perché non ce lo spiega, professore?» esclamai con disprezzo. Lemouz annuì e si voltò verso la moglie e i figli. «Ecco cosa vi sfugge», disse. Il figlio impugnava una pistola ed era chiaro che sapeva sparare. Il suo sguardo era freddo quanto quello del padre. «Vi ucciderò tutti e due. E con immenso piacere», disse. «L'esercito che vi distruggerà è enorme e si sta preparando a combattere in nome di una causa sacrosanta. Donne, bambini, militanti. Riflettete: la terza guerra mondiale è già cominciata.» Lemouz si avvicinò con calma ai suoi, prese la pistola al figlio e la puntò verso di noi. Poi baciò la moglie e i due bambini con grande affetto. La moglie aveva gli occhi lucidi. Lemouz sussurrò qualcosa a ciascuno. Indietreggiò fino a uscire dal salotto. Udimmo dei passi di corsa e una porta che sbatteva. Come poteva sperare di cavarsela? Nella casa riecheggiò uno sparo. Molinari e io corremmo nella direzione da cui era venuto il rumore e lo trovammo nella camera da letto: si era suicidato con un colpo alla tempia
destra. La moglie e i figli, nell'altra stanza, si misero a piangere e urlare. Un esercito enorme, pensai. Non finirà qui. La terza guerra mondiale. 108 La ricina di Charles Danko non mi aveva raggiunto, dissero i medici dopo avermi visitato al reparto tossicologia del Moffit. E il vicepresidente se la sarebbe cavata. Era ricoverato due piani sotto di me e aveva già parlato al telefono con la Casa Bianca. Passai varie ore attaccata a fili e tubicini, con monitor da tutte le parti che mostravano i risultati di analisi del sangue e radiografie al torace. Il flacone di Danko conteneva ricina in quantità sufficiente a uccidere centinaia di persone. Ma per fortuna l'avevamo fermato in tempo: la dose che gli era entrata nei polmoni gli era stata fatale. Confesso che quel pensiero non mi turbava affatto. Verso mezzogiorno ricevetti una chiamata del presidente. Sì, il presidente degli Stati Uniti. Mi avvicinarono un telefono all'orecchio. Ero in stato confusionale, ma ricordo che ripeté almeno sei volte la parola eroe. Disse che sperava di potermi ringraziare di persona, al che risposi, scherzando, che sarebbe stato meglio aspettare che la nube tossica da cui ero avvolta si dissipasse. Poi mi appisolai e, quando riaprii gli occhi, vidi che sul bordo del letto era seduto Joe Molinari. Mi sorrise. «Ehi, non avevo detto 'niente atti eroici, stasera'?» Sbattei gli occhi e sorrisi anch'io, un po' stordita. In verità, mi vergognavo un po' di farmi vedere in quello stato. Molinari mi strizzò l'occhio e annunciò: «La bella notizia è che i medici dicono che sei in perfetta salute. Ti terranno in osservazione ancora per qualche ora. Fuori c'è un esercito di giornalisti che ti aspetta». «E la brutta notizia qual è?» chiesi con la voce roca. «Qualcuno dovrà consigliarti come vestirti per le foto.» «Lancerò una nuova moda.» Mi sforzai di sorridere. Notai che aveva l'impermeabile sul braccio e portava il completo marrone con cui l'avevo visto la prima volta. Era un gran bel completo e gli donava. «Il vicepresidente sta meglio. Torno a Washington stasera.» L'unica cosa che riuscii a dire fu: «Va bene...»
«No, non va bene per niente», mi contraddisse, avvicinandosi. «Non è quello che voglio.» «Lo sapevamo fin dall'inizio che prima o poi saresti dovuto tornare alla tua casa, al tuo lavoro, alle tue stagiste...» dissi, cercando di fare la dura. Molinari si rabbuiò. «Hai il coraggio di affrontare un uomo con un flacone di veleno mortale in mano, ma non di batterti per ciò che desideri veramente.» Sentii una lacrima che mi scendeva sulla guancia. «In questo momento non so che cosa voglio.» Molinari posò l'impermeabile, si avvicinò e mi asciugò la lacrima con una carezza. «Secondo me, devi prenderti un po' di tempo per riflettere e, quando si saranno calmate le acque, decidere se sei pronta a lasciar entrare qualcuno nella tua vita, a impegnarti in una relazione.» Mi prese la mano. «Una relazione con me. E, per piacere, non cercare di svicolare con la scusa che hai sofferto troppo in passato, o hai appena perso una cara amica. Non ci crederai, ma anche tu hai diritto a essere felice. Sì, Lindsay, hai capito benissimo. Di' pure che sono all'antica, se vuoi...» Sorrise. «Oh, mio cavaliere...» ribattei facendo esattamente ciò di cui mi accusava, cioè svicolare, buttarla in ridere. Mi sentivo un groppo alla gola, come mi succedeva ogni volta che cercavo di aprire il mio cuore. «Capiti spesso da queste parti?» «Conferenze, riunioni sulla sicurezza... Più un paio di emergenze all'anno...» Risi. «Anche tu cerchi di buttarla in ridere.» Molinari sospirò. «Ormai dovresti averlo capito, Lindsay. Non sono uno dei soliti stronzi. Proviamoci. La prossima mossa tocca a te. Dammi un'opportunità.» Si alzò e mi accarezzò la testa. «Ho chiesto il permesso ai medici, i quali me l'hanno concesso», disse con un sorriso. E mi baciò sulla bocca. Aveva le labbra morbide. Le mie, invece, erano riarse, screpolate. Cercai comunque di dimostrargli che cosa provavo per lui. Sapevo che sarebbe stata una follia non dire nulla e lasciarlo andare via. Poi Joe si alzò e si mise l'impermeabile sul braccio. «Onorato di averla conosciuta, tenente Boxer.» «Joe», dissi, un po' spaventata all'idea che stesse per andarsene. «Sai dove trovarmi.» Lo guardai dirigersi verso la porta. «Non si sa mai. Potrei trovarmi in una situazione di emergenza...»
Si voltò e sorrise. «Le emergenze sono la mia specialità...» 109 Subito dopo pranzo passò il medico e mi disse che non avevo" nulla che non potesse guarire con un bel bicchiere di vino. «Qui c'è già qualcuno che vuole accompagnarla a casa», aggiunse. Claire e Cindy fecero capolino nella stanza. Mi portarono a casa giusto il tempo necessario per fare la doccia, cambiarmi e coccolare un po' Martha. Dovevo andare alla Corte di Giustizia. Tutti mi cercavano, tutti mi volevano. Rimasi d'accordo con Cindy e Claire che ci saremmo riviste più tardi da Susie's: era importante stare vicine in un momento come quello. Risposi alle domande dei giornalisti assiepati sulle scale della Corte. Tom Brokaw mi intervistò per il telegiornale. Nel raccontare come avevamo scoperto Danko e Hardaway, mi venne la pelle d'oca e capii che dovevo cercare di prendere le distanze dalla vicenda. Jill era morta, Molinari se n'era andato e io non mi sentivo particolarmente eroica. Presto sarebbe arrivata una telefonata che annunciava un altro omicidio e la vita sarebbe ripresa come al solito. Ma per me non sarebbe mai più stato come prima. Le ragazze vennero a prendermi intorno alle quattro e mezzo. Stavo scrivendo dei verbali e, nonostante Jacobi e Cappy continuassero a ripetere che il loro capo era il tenente più in gamba di tutta la polizia di San Francisco, ero un po' depressa. Mi sentivo sola, svuotata. Perlomeno finché non arrivarono le ragazze. «Ehi, andiamo a farci un Margarita?» propose Cindy ruotando fra le dita una bandierina messicana su uno stecchino da cocktail. Mi portarono da Susie's, l'ultimo posto dove eravamo state con Jill, nonché quello dove, due anni prima, l'avevamo accolta nel nostro gruppo nascente, il Women's Murder Club. Ci sedemmo al solito tavolo, in un angolo e ordinammo un giro di Margaritas. Raccontai loro della spaventosa colluttazione della sera prima con Charles Danko al Palace of the Legion of Honor, della telefonata del presidente e dell'intervista di Brokaw per il telegiornale. Era triste, però, essere solo in tre. Era difficile far finta di non notare il posto vuoto accanto a Claire. Arrivarono i cocktail. «Offre la casa, naturalmente», disse la cameriera
Joanie. Alzammo i bicchieri, sforzandoci di sorridere, ma tutte e tre faticavamo a trattenere le lacrime. «A Jill», brindò Claire. «Forse adesso riuscirà a riposare in pace.» «Non riposerà mai in pace», obiettò Cindy ridendo tra le lacrime. «Non sarebbe da lei.» «Sono sicura che in questo momento è lassù che ci apre la strada. Me la vedo già che dice: 'Tranquille, ragazze, ho capito come funziona...'.» «E sorride», aggiunse Claire. «A Jill», dicemmo tutte insieme, facendo tintinnare i bicchieri. Era difficile rassegnarsi all'idea che d'ora in avanti sarebbe stato sempre così. Jill mi mancava in maniera terribile. Poi, schiarendosi la voce e guardandomi fisso, Claire disse: «E adesso che cosa hai intenzione di fare?» «Di ordinare da mangiare. E di prendere un altro Margarita. Magari anche più di uno», risposi. «Credo che Claire si riferisse al bel tipo di Washington con l'abito marrone», precisò Cindy, facendomi l'occhiolino. «Lui torna a casa stasera», risposi. «Per sempre?» chiese Claire, sorpresa. «Be', è a Washington che ci sono i centri per le intercettazioni e tutte le diavolerie del potere.» Rimescolai il mio Margarita. «Già.» Claire fece di sì con la testa, poi lanciò un'occhiata a Cindy e mi domandò: «Ti piace, vero, Lindsay?» «Sì», risposi, facendo cenno a Joanie che ci portasse un altro giro di cocktail. «Tanto, così così, o tantissimo?» insistette Claire. «Che cosa volete che faccia? Che mi strappi i capelli perché se n'è andato?» «No», rispose Claire guardando prima Cindy e poi me. «Quello che vogliamo, Lindsay, è che tu superi quel qualcosa che ti impedisce di fare la cosa giusta prima che il tuo principe azzurro salga in aereo e voli via per sempre.» Mi appoggiai allo schienale e deglutii, a disagio. «È per via di Jill...» «Jill?» Presi fiato per ricacciare indietro le lacrime che mi facevano bruciare gli occhi. «Quando ha avuto bisogno di me, la notte che ha buttato fuori Steve, io non c'ero.»
«Ma che discorsi fai?» protestò Claire. «Eri a Portland.» «Ero con lui», confessai. «Sono tornata dopo l'una. Jill era agitata, confusa. Mi sono offerta di andare a casa sua, ma non ho insistito. E sapete perché? Perché non riuscivo a pensare ad altro che a Joe. Mentre lei, poveretta, aveva appena cacciato di casa Steve.» «Ti aveva assicurato che stava bene, però. Ce l'hai detto tu stessa», mi ricordò Cindy. «Jill era fatta così: non chiedeva mai aiuto. Fatto sta che non l'ho aiutata. E, giusto o sbagliato che sia, adesso non posso guardare Joe senza vedere lei. Magari sarebbe ancora qui con noi se io non...» Claire e Cindy rimasero in silenzio, senza parole. Non riuscii a finire la frase. Cercai disperatamente di non scoppiare in singhiozzi. «Vuoi sapere che cosa penso?» disse dopo un po' Claire prendendomi la mano. «Penso che sei troppo intelligente, tesoro, per credere veramente che Jill sia morta perché tu sei uscita una sera a divertirti. Sai benissimo che lei sarebbe la prima a desiderare che tu sia felice.» «Razionalmente lo so, Claire. È che non riesco a non sentirmi in colpa.» «Be', almeno provaci», disse Claire stringendomi la mano. «Perché in questo modo non fai altro che sabotarti con le tue stesse mani. Tutti hanno diritto a essere felici, Lindsay. Anche tu.» Mi asciugai gli occhi con il tovagliolo. «Questa l'ho già sentita, oggi», dissi senza riuscire a trattenere un sorriso. «Bene, allora brindiamo a Lindsay Boxer», propose Claire alzando il bicchiere. «E speriamo che capisca, per una volta nella vita.» Fummo interrotte dalle grida provenienti dal bar. Tutti indicavano il televisore dove, invece della solita partita, si vedeva la mia faccia che riempiva lo schermo. Tom Brokaw mi intervistava. Tutti nel bar applaudivano e fischiavano entusiasti. Ero al telegiornale della sera. 110 Joe Molinari bevve un sorso della vodka che gli era stata servita dall'assistente di volo e si mise comodo sulla poltrona a bordo del jet dell'FBI. Sperava di riuscire a dormire fino a Washington. Era abbastanza sicuro di poterlo fare, dopo giorni e giorni che non chiudeva occhio. L'indomani mattina, fresco e riposato, si sarebbe presentato a rapporto dal direttore del Dipartimento della Sicurezza Nazionale. Il caso era chiu-
so, poteva affermarlo con certezza. Eldridge Neal sarebbe guarito, lui avrebbe scritto il regolamentare rapporto e avrebbe presenziato a qualche sottocommissione del Congresso. Rimanevano sacche di malcontento, di rancore, che andavano tenute d'occhio: questa volta il terrorismo era venuto dall'interno. Reclinò lo schienale. Cominciava a comprendere con chiarezza la portata degli eventi cui aveva partecipato, dalla domenica in cui era stato informato del primo attentato a San Francisco a quando, la sera prima, era riuscito a bloccare Charles Danko nella colluttazione con Lindsay Boxer all'inaugurazione del G8. Sapeva già che cosa scrivere: nomi e dati, sequenza degli eventi, esito. Gli sembrava di avere una spiegazione per tutto. Tranne per una cosa. Lei. Molinari chiuse gli occhi e provò un'incredibile tristezza. Come spiegare l'elettricità che gli pareva di sentire ogni volta che le loro braccia si sfioravano o la sensazione che provava quando guardava i suoi occhi verdi? Lindsay Boxer era una donna forte, una dura, ma al tempo stesso delicata e vulnerabile. Proprio come lui. E poi era spiritosa. Gli sarebbe piaciuto poter fare un gran gesto romantico come al cinema, imbarcarla su un aereo, portarla da qualche parte. Telefonare in ufficio e dire: «Mi dispiace, ma l'udienza della sottocommissione va rimandata.» Gli venne da ridere. «Decolleremo tra circa cinque minuti, signore», lo informò l'assistente di volo. «Grazie», rispose, facendo un cenno di approvazione con il capo. Cerca di rilassarti. Calmati, dormi un po'. Si sforzò di pensare alla propria casa. Era in giro da due settimane ormai e, anche se non era quello il finale che avrebbe desiderato, sarebbe stato comunque bello tornare a casa. Chiuse di nuovo gli occhi. «Signore», lo chiamò di nuovo l'assistente di volo. Un agente della polizia aeroportuale era salito a bordo e andava verso di lui. «Chiedo scusa, c'è un messaggio urgente per lei», gli disse. «Mi è stato chiesto di trattenere l'aereo e di riaccompagnarla in aeroporto. Dovrebbe chiamare al più presto questo numero di telefono.» Molinari si preoccupò. Che cosa poteva essere successo? Guardò il foglietto, prese il cellulare e compose subito il numero. Poi afferrò la valigetta, disse al pilota di aspettare e seguì l'agente nel terminal. Mentre camminava, avvicinò il cellulare all'orecchio.
111 Il mio cellulare cominciò a squillare nel momento in cui Molinari comparve vicino all'uscita. Rimasi dov'ero. Appena mi vide con il telefono in mano capì e fece un sorriso. Un gran sorriso. Non ero mai stata così emozionata in vita mia. Lui si fermò a qualche metro di distanza da me. «L'emergenza sono io», dissi al telefono. «Ho bisogno del tuo aiuto.» Molinari sorrise di nuovo, ma poi si trattenne e riprese l'espressione severa da vicedirettore. «Sei fortunata. Le emergenze sono la mia specialità.» «La mia vita non è vita», spiegai. «Ho un bellissimo cane, delle amiche, un lavoro che mi piace, ma mi manca qualcosa.» «Che cosa?» chiese lui avvicinandosi. Mi guardò con una luce strana negli occhi. Credetti di riconoscervi la stessa gioia che provavo io. «Tu», risposi. «E il tuo jet, naturalmente.» Lui rise, poi mi si parò davanti. Scossi la testa. «Non è vero, voglio solo te. Non potevo lasciarti salire su quell'aereo senza dirtelo. Anche se stiamo a migliaia di chilometri di distanza, possiamo farcela, se vogliamo. Hai detto che vieni sulla West Coast ogni tanto per conferenze e occasionali emergenze... Anche a me ogni tanto capita di dover venire sulla East Coast. E poi ho appena ricevuto un invito alla Casa Bianca. Tu che ci sei già stato, Joe, potresti...» «Sst.» Mi posò un dito sulle labbra, poi si chinò e mi baciò, lì in mezzo al terminal. Per una volta che mi ero fatta forza e gli stavo aprendo il mio cuore... Ma era bellissimo stare fra le sue braccia. Quando ci staccammo, Molinari sorrideva divertito. «Così sei stata invitata alla Casa Bianca, eh? Ho sempre desiderato dormire nella Lincoln Bedroom.» «Scordatelo», ribattei ridendo. Poi lo presi a braccetto e lo riaccompagnai verso il terminal. «Parlami del tuo ufficio, piuttosto. Com'è la tua scrivania in Campidoglio? Mi sembra più eccitante...» RINGRAZIAMENTI Desideriamo ringraziare l'ispettore della Squadra Omicidi Holly Pera e il suo collega Joe Toomey del Dipartimento di Polizia di San Francisco, che ogni giorno si occupano di problemi dei quali noi scriviamo soltanto. Gra-
zie anche di averci presentato Dino Zografos dello Special Weapons and Tactics Group, che ha dato credibilità agli ordigni esplosivi della nostra fantasia. Un ringraziamento al sergente Joe Sanchez e all'ispettore Steve Engler del Dipartimento di Polizia di Berkeley, che vissero in prima persona le proteste degli anni '60 e ci hanno riportato per qualche ora in quel periodo carico di sogni, ma anche di violenza. Un pensiero va inoltre a Chuck Zion, persona eccezionale, che morì nell'attentato alle Torri Gemelle l'11 settembre 2001. FINE