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CLIVE CUSSLER L'ORO DELL'INCA (Inca Gold, 1994) In memoria del dottor Harold Edgerton, di Bob Hesse, di Erick Schonstedt e di Peter Throckmorton, amati e rispettati da chiunque li abbia incontrati nella vita. I MISTERIOSI INTRUSI 1533 d.C. Un mare dimenticato Vennero dal sud con il sole del mattino, baluginanti come fantasmi in un miraggio del deserto, mentre avanzavano sull'acqua accesa dai riflessi del sole. Le vele rettangolari di cotone delle imbarcazioni erano afflosciate, inerti, sotto il placido cielo azzurro. Non echeggiava neppure un comando mentre, in uno strano silenzio, gli uomini affondavano e spingevano i remi. In alto, un falco scendeva e risaliva come se guidasse i timonieri verso un'isola brulla che s'innalzava al centro del mare interno. Le imbarcazioni erano costruite con fasci di canne, legati e rialzati alle due estremità. Sei fasci formavano uno scafo, che aveva chiglia e travatura di bambù. La prua e la poppa rialzate erano a forma di serpenti con testa di cane che levavano al cielo le fauci come se abbaiassero alla luna. Il comandante della flotta era seduto su una specie di trono installato sulla prua appuntita dell'imbarcazione di testa. Indossava una tunica di cotone ornata di piastrine di turchese e un mantello di lana a ricami multicolori. La testa era coperta da un elmo piumato e il viso coperto da una maschera d'oro. Gli ornamenti delle orecchie, una collana massiccia e i bracciali mandavano bagliori gialli sotto il sole. Persino le calzature erano d'oro. Lo spettacolo era reso ancora più sorprendente dal fatto che i membri dell'equipaggio erano abbigliati in modo non meno sontuoso. Lungo la costa di terra fertile che circondava il mare, gli indigeni assistevano con un misto di paura e di meraviglia all'avanzata della flotta straniera sulle loro acque. Nessuno tentava di difendere il territorio contro gli invasori. Erano semplici cacciatori e raccoglitori che tendevano trappole ai conigli, catturavano i pesci e sfruttavano le piante da seme e da noce. La loro era una cultura arcaica, stranamente diversa da quella dei loro vicini
dell'est e del sud che avevano creato grandi imperi. Vivevano e morivano senza costruire templi imponenti a una stirpe di dei, e adesso osservavano affascinati quella esibizione di ricchezza e di potenza che procedeva sull'acqua. La flotta era per tutti loro l'apparizione miracolosa di una schiera di divinità guerriere venute dal mondo degli spiriti. Gli stranieri misteriosi non prestavano attenzione alla gente che si affollava sulla riva e continuavano a remare verso la loro meta. Erano impegnati in una missione sacra e ogni motivo di distrazione doveva essere ignorato. Remavano impassibili, e nessuno girava la testa per osservare gli spettatori sbalorditi. Puntavano direttamente verso le ripide pendici rocciose di una piccola montagna che, sorgendo dal mare, formava un'isola alta duecento metri. Era disabitata e quasi priva di vegetazione. Coloro che vivevano sulle sponde la chiamavano «la gigantessa morta» perché la cresta del colle lungo e basso somigliava al corpo di una donna abbandonata a un sonno senza risveglio. Il sole enfatizzava quell'illusione perché le conferiva uno splendore ultraterreno. Poco dopo i rematori sontuosamente abbigliati fecero arenare le imbarcazioni su una spiaggetta sassosa che si apriva in uno stretto canyon. Abbassarono le vele, ornate da grandi figure di animali soprannaturali, simboli che accrescevano la paura muta e la reverenza degli spettatori indigeni, e cominciarono a scaricare grandi ceste di canna e recipienti di ceramica. Durante l'intera giornata, il carico venne ordinatamente accatastato e formò un enorme cumulo. La sera, mentre il sole calava a occidente, divenne impossibile vedere l'isola dalla riva. Nella tenebra si scorgeva soltanto un vago palpitare di luci. Ma all'alba del nuovo giorno la flotta era ancora tirata in secco sulla spiaggia e il grande ammasso del carico non era stato spostato. In cima alla montagnola dell'isola, i tagliapietre incominciarono ad attaccare con impegno una roccia colossale. Per sei giorni e sei notti, usando sbarre e scalpelli di bronzo, scavarono la pietra finché essa, a poco a poco, non prese l'aspetto di un minaccioso giaguaro alato dalla testa di serpente. Quando l'opera fu terminata, quel grottesco animale sembrava sul punto di slanciarsi dalla grande roccia su cui era scolpito. Durante il lavoro, il carico di ceste e di recipienti di ceramica era stato gradualmente rimosso e ora non ne restava più alcuna traccia. Una mattina, infine, gli abitanti della costa guardarono l'isola e si accorsero che era priva di vita. Gli enigmatici stranieri venuti dal sud erano
scomparsi con la loro flotta; erano ripartiti con il favore delle tenebre. L'unico segno del loro passaggio era l'imponente giaguaro-serpente, con i denti curvi e snudati e gli occhi socchiusi che scrutavano la sterminata distesa di colline al di là del piccolo mare. In breve tempo la curiosità vinse il timore. Il pomeriggio seguente, quattro uomini del villaggio principale della costa, resi arditi da una potente bevanda locale, partirono a bordo di una canoa monossila e raggiunsero l'isola per indagare. Sbarcarono sulla spiaggetta e, dalla riva, li videro addentrarsi nello stretto canyon che penetrava nella montagna. Per tutto il giorno e per quello seguente, amici e parenti attesero con ansia il loro ritorno. Ma nessuno rivide più gli uomini. Persino la canoa era sparita. La paura primitiva degli indigeni ingigantì quando, all'improvviso, una tempesta si abbatté sul piccolo mare. Il sole scomparve e il cielo divenne più nero di quanto fosse mai stato a memoria d'uomo. L'oscurità spaventosa era accompagnata da un vento terribile che urlava, agitava il mare e devastava i villaggi costieri. Sembrava che fosse scoppiata la guerra dei cieli. La violenza degli elementi sferzava la riva con furore incredibile. Gli indigeni erano certi che gli dei del cielo e delle tenebre fossero guidati dal giaguaro-serpente, deciso a punirli per l'intrusione. Poi, improvvisamente com'era scoppiata, la tempesta superò l'orizzonte e il vento calò, lasciando il posto a una calma sconcertante. Il sole brillò su un mare calmo quanto prima. I gabbiani volteggiarono su un oggetto che era stato spinto sulla spiaggia sabbiosa della riva orientale. Quando gli indigeni videro la forma immobile che giaceva sulla battigia, si avvicinarono cautamente, si fermarono, poi avanzarono di nuovo e guardarono meglio. Proruppero in esclamazioni di stupore nell'accorgersi che era il cadavere di uno degli stranieri venuti dal sud. Aveva indosso soltanto una tunica ricamata. La maschera d'oro, l'elmo e i bracciali erano scomparsi. Chi assistette alla macabra scoperta rimase sconvolto nel vedere quel corpo. Diversamente dagli indigeni dalla carnagione scura e dai capelli neri, il morto aveva la pelle bianca e i capelli biondi. Gli occhi sbarrati erano azzurri. In piedi, sarebbe stato più alto di almeno mezza testa rispetto agli uomini che l'osservavano sbalorditi. Tremando di paura, gli indigeni lo portarono a una canoa e ve lo caricarono. Due dei più coraggiosi furono scelti per trasportarlo all'isola. Non appena ebbero raggiunto la spiaggia, si affrettarono a deporlo sulla sabbia per poi tornare precipitosamente a terra. Per molti anni, e anche dopo la morte di coloro che avevano assistito all'evento straordinario, lo scheletro
sbiancato rimase visibile, semisepolto nella sabbia, come un sinistro monito a tenersi lontani dall'isola. Si sussurrava che il giaguaro-serpente alato, guardiano del guerriero tutto d'oro, avesse sbranato gli uomini troppo curiosi penetrati nel sacrario; e nessuno osò più sfidare la sua collera mettendo piede sull'isola. Era un posto circondato da un alone strano, quasi spettrale. E divenne un luogo sacro, che veniva ricordato soltanto sottovoce e che nessuno visitava mai. Chi erano i guerrieri ornati d'oro e da dove erano venuti? Perché erano avanzati nel mare interno e avevano fatto ciò che avevano fatto? I testimoni dovevano accettare ciò che avevano visto; nessuna spiegazione era possibile. L'ignoranza fece proliferare i miti. Nacquero leggende che si amplificarono quando il territorio circostante fu sconvolto da un rovinoso terremoto che distrusse i villaggi della costa. Quando, dopo cinque giorni, i sussulti sismici cessarono, il grande mare interno era scomparso, lasciando soltanto un fitto cerchio di conchiglie su quella che un tempo era la sua riva. Gli intrusi misteriosi entrarono molto presto nella tradizione religiosa e vennero considerati divinità. Con il passare del tempo, le storie sulla loro apparizione improvvisa e sulla loro scomparsa ingigantirono e alla fine si persero, fino a quando rimase soltanto un vago folklore sovrannaturale tramandato di generazione in generazione a opera di un popolo che viveva in una terra stregata dove i fenomeni inspiegabili aleggiavano come fumo intorno al fuoco d'un bivacco. CATACLISMA 1 marzo 1578 Costa occidentale del Perù Il comandante Juan de Anton, un uomo pensieroso dagli occhi verdi tipici dei castigliani e la barba nera meticolosamente curata, scrutò con il cannocchiale la nave sconosciuta che lo seguiva e inarcò le sopracciglia con un'espressione di blanda sorpresa. Era un incontro casuale? si chiese. Oppure era stato premeditato? Nell'ultima tratta di un viaggio per mare da Callao de Lima, de Anton non aveva previsto d'incontrare altri galeoni che portassero le ricchezze del re a Panamá, dove venivano caricate sui muli per attraversare l'istmo e quindi spedite oltre l'Atlantico per essere custodite nei forzieri di Siviglia.
C'era una traccia francese nello scafo e nel sartiame della nave sconosciuta che lo seguiva a una lega e mezzo di distanza. Se si fosse trovato a navigare sulle rotte commerciali dei Caraibi alla volta della Spagna, avrebbe evitato i contatti con le altre navi. Ma i suoi sospetti si placarono un po' quando vide l'enorme bandiera che sventolava a poppa. Come la sua insegna che garriva al vento, era bianca con la croce rossa della Spagna. Comunque, era un po' inquieto. De Anton si rivolse al suo comandante in seconda, Luís Torres: «Che ne pensate, Luís?» Torres, un galiziano alto dalla faccia rasata, scrollò le spalle. «È troppo piccola per essere un galeone carico di lingotti. Potrebbe essere un mercantile che trasporta vino, partito da Valparaíso e diretto come noi al porto di Panamá.» «Non pensate che potrebbe essere nemica della Spagna?» «Impossibile. Nessuna nave nemica ha mai tentato di passare per il pericoloso labirinto dello stretto di Magellano per aggirare la punta estrema dell'America del Sud.» Rassicurato, de Anton annuì. «Se non dobbiamo temere che siano inglesi o francesi, torniamo indietro a salutarli.» Torres passò l'ordine al timoniere, che modificò la rotta regolandola sul ponte dei cannoni. Spostò la barra imperniata su un lungo asse verticale che muoveva il timone. Il Nuestra Señora de la Concepción, il più grande e maestoso dei galeoni del tesoro dell'armada del Pacifico, virò a dritta, invertì la rotta e puntò verso sud-ovest. Le nove vele si gonfiarono nella brezza che soffiava dalla costa e spingeva la sua massa di cinquecentosettanta tonnellate sulle onde lunghe a una velocità di cinque nodi orari. Nonostante le linee regali, le sculture e i fregi dipinti sulle fiancate della poppa e del castello di prua, il galeone era un cliente scomodo. Solido ed efficiente, tra le navi che in quell'epoca percorrevano le rotte oceaniche aveva la funzione di un cavallo da tiro. Ma in caso di necessità era in grado di tener testa ai più esperti corsari che una nazione marinara poteva scagliargli contro, e di difendere i tesori preziosi delle sue stive. A un occhio distratto, il galeone del tesoro poteva sembrare una minacciosa nave da guerra irta di pezzi d'artiglieria; ma se lo si osservava dall'interno era impossibile non comprendere la sua vera funzione di mercantile. C'erano portelli per una cinquantina di cannoni da quattro libbre. Ma, in base alla convinzione che i mari del sud fossero acque private spagnole, e alla certezza che nessuna delle loro navi era mai stata attaccata o catturata
da aggressori stranieri, il Concepción era armato in modo molto leggero e cioè con due soli cannoni. Ridotto in tal modo il tonnellaggio, poteva trasportare carichi assai pesanti. Sicuro di non correre pericolo, de Anton sedette su uno sgabello e riprese a guardare con il cannocchiale la nave che si andava avvicinando rapidamente. Non pensò neanche per un momento di dare ordine all'equipaggio, per prudenza, di tenersi pronto alla battaglia. Non immaginava neppure lontanamente che il galeone cui stava andando incontro era il Golden Hind, l'ammiraglia di Francis Drake, l'instancabile lupo di mare inglese che, in quel momento, stava osservando con calma de Anton per mezzo di un cannocchiale. Nei suoi occhi c'era la stessa freddezza di uno squalo che segue una scia di sangue. «È molto gentile a venirci incontro», borbottò Drake. Era un uomo dagli occhi vitrei, i capelli rossoscuri, una barba biondiccia appuntita e lunghi baffi spioventi. «Era il minimo che potesse fare, dopo che lo abbiamo seguito per due settimane», rispose Thomas Cuttill, comandante del Golden Hind. «Sì, ma vale la pena dargli la caccia.» Da quando, prima fra le navi inglesi, era entrato nel Pacifico, il Golden Hind (già chiamato Pelican) aveva catturato e saccheggiato una ventina di navi spagnole ed era carico di lingotti d'oro e d'argento, di un forziere di pietre preziose nonché di magnifici lini e sete. E adesso avanzava sulle onde come un segugio all'inseguimento di una volpe. Era un galeone solido e robusto per una lunghezza complessiva di ventisei metri e una stazza di cento tonnellate. Era un'ottima nave che rispondeva bene al timone. Sebbene lo scafo e gli alberi non fossero nuovi, dopo un lungo periodo di riattamento a Plymouth la nave era stata comunque pronta per un viaggio di oltre cinquantaquattromila chilometri intorno al mondo nel corso di trentacinque mesi: una delle più grandi imprese marinare mai tentate. «Volete tagliargli la strada a prua e attaccare gli sciacalli spagnoli?» chiese Cuttill. Drake abbassò il cannocchiale, scosse la testa e sorrise. «Sarebbe più cortese correggere l'assetto delle vele e salutarli, come usa fra gentiluomini.» Cuttill lo fissò senza capire. «E se avessero intenzione di attaccare battaglia?» «È alquanto improbabile che il comandante abbia capito chi siamo.» «Ma quel galeone è grande il doppio della nostra nave», insistette Cut-
till. «Secondo i marinai che abbiamo catturato a Callao de Lima, il Concepción ha due soli cannoni. L'Hind ne ha diciotto.» «Gli Spagnoli!» sibilò Cuttill. «Sono più bugiardi degli Irlandesi.» Drake indicò il galeone che continuava ad avvicinarsi. «I comandanti delle navi spagnole preferiscono la fuga al combattimento», rammentò al subordinato. «Allora perché non ci teniamo a distanza e li costringiamo ad arrendersi?» «Non è il caso di sparare e correre il rischio di affondare la nave con tutto il bottino.» Drake batté una mano sulla spalla di Cuttill. «Non abbiate timore, Thomas. Se il piano che metterò in atto sarà astuto, risparmieremo la polvere e conteremo sui nostri inglesi che sognano un bello scontro.» Cuttill annuì. «Pensate a un arrembaggio, quindi?» Drake annuì di rimando. «Saremo sui quei ponti prima che l'equipaggio possa armare un moschetto. Ancora non lo sanno, ma stanno per finire in una trappola che loro stessi hanno costruito.» Poco dopo le tre del pomeriggio, il Nuestra Señora de la Concepción si portò su una rotta parallela a nord-ovest e avanzò verso il lato di dritta del Golden Hind. Torres salì la scaletta del castello di prua e chiamò a gran voce. «Chi siete?» Numa de Silva, un pilota portoghese che Drake aveva preso al suo servizio dopo averne catturato la nave al largo del Brasile, rispose in spagnolo: «San Pedro de Paula, e veniamo da Valparaíso». Era il nome di un galeone che Drake aveva assalito tre settimane prima. A parte alcuni membri dell'equipaggio travestiti da marinai spagnoli, Drake aveva nascosto la maggior parte dei suoi uomini sottocoperta e li aveva armati di giachi di maglia e di un arsenale di picche, pistole, moschetti e sciabole corte. I grappini per l'abbordaggio, fissati a corde robuste, erano stipati lungo i parapetti del ponte superiore. I balestrieri erano piazzati sulle coffe. Drake vietava l'uso delle armi da fuoco dalle coffe perché le scintille dei moschetti potevano facilmente incendiare le vele. Le vele maestre erano ammainate in modo da offrire una visuale senza ostacoli ai balestrieri. Solo quando tutto fu sistemato, si mise tranquillo e attese con pazienza il momento dell'attacco. Il fatto che i suoi inglesi fossero appena ottantotto contro i circa duecento uomini dell'equipaggio spagnolo
non lo preoccupava affatto. Non era la prima volta che agiva in circostanze a lui avverse, e non sarebbe stata l'ultima. Il suo celebre scontro nella Manica con l'Invencible Armada spagnola era ancora lontano. In quanto a de Anton, non vedeva nessuna attività sospetta sui ponti della nave che aveva di fronte. Gli uomini svolgevano le loro mansioni senza mostrare un'eccessiva curiosità nei confronti del Concepción. Scorse il comandante che se ne stava appoggiato con noncuranza al parapetto del castello di prua e gli rivolgeva un saluto. La nuova arrivata aveva un'aria del tutto innocente mentre avanzava tranquilla verso il grosso galeone del tesoro. Quando la distanza fra le due navi si fu ridotta a un centinaio di piedi, Drake fece un cenno quasi impercettibile e il suo tiratore più abile, che stava nascosto sul ponte dei cannoni, sparò con il moschetto e colpì al petto il timoniere del Concepción, Nel contempo i balestrieri appostati sulle coffe cominciarono a tirare contro i marinai spagnoli che manovravano le vele. Poi, quando il galeone perse il controllo, Drake ordinò al suo timoniere di affiancare il Golden Hind allo scafo del galeone più grande. Le navi si toccarono e il fasciame cigolò come per protestare. Drake ruggì: «Avanti, per la buona regina Elisabetta e l'Inghilterra, miei valorosi!» I grappini d'abbordaggio volarono oltre i parapetti e piovvero sul Concepción agganciandosi alle murate e alle sartie, e unirono i due vascelli in una stretta mortale. Gli uomini di Drake si avventarono sul ponte del galeone urlando come spettri forieri di morte. I suonatori accrebbero il panico battendo sui tamburi e soffiando nelle trombe. Le palle di moschetto e i dardi piovvero sugli uomini allibiti che non riuscivano neppure a muoversi. Lo scontro si concluse in pochi minuti. Un terzo degli uomini del galeone caddero morti o feriti senza neppure avere il tempo di difendersi. Sopraffatti dalla confusione e dalla paura, si gettarono in ginocchio in segno di sottomissione, mentre i marinai di Drake li scostavano bruscamente e scendevano correndo sottocoperta. Drake si avvicinò al comandante de Anton brandendo con una mano una pistola e con l'altra una corta sciabola. «Arrendetevi, in nome di sua maestà la regina Elisabetta d'Inghilterra», urlò, sovrastando il fragore. Stordito e incredulo, de Anton consegnò la nave. «Mi arrendo», gridò a sua volta. «Abbiate pietà del mio equipaggio.» «Io non sono incline alle atrocità», ribatté Drake.
Gli inglesi presero il controllo del galeone; i morti furono gettati in mare, mentre i superstiti e i feriti furono confinati in una stiva. Il comandante de Anton e i suoi ufficiali vennero scortati attraverso una passerella che univa le due navi e condotti sul ponte del Golden Hind. Poi, con la tipica cortesia che dimostrava sempre nei confronti dei prigionieri, Drake fece visitare la sua nave a de Anton. Più tardi invitò tutti gli ufficiali del galeone a un pranzo di gala, allietato da musici che suonavano strumenti a corda, da vasellame d'argento, e dai migliori vini confiscati di recente agli spagnoli. Durante il pranzo, gli uomini di Drake fecero virare le navi verso occidente, superando le abituali rotte degli Spagnoli. La mattina seguente regolarono le vele; la velocità diminuì, tuttavia le navi continuarono a volgere la prua al mare. Nei quattro giorni successivi, il favoloso tesoro del Concepción fu trasferito nelle stive del Golden Hind. Il bottino comprendeva tredici casse di vasellame e di monete d'argento, ottanta libbre d'oro, ventisei tonnellate di lingotti d'argento, centinaia di cofanetti contenenti perle e gemme, soprattutto smeraldi, e una grande quantità di viveri come frutta e zucchero. Era il bottino più ricco fatto da un corsaro negli ultimi decenni. C'era anche una stiva piena di manufatti incaici, preziosi ed esotici, che dovevano essere portati a Madrid per il piacere personale di sua maestà cattolica Filippo II, re di Spagna. Drake esaminò gli oggetti e ne rimase assai sbalordito. Non aveva mai visto niente di simile. Una quantità di tessuti andini ricamati in modo elaborato riempiva una sezione della stiva dal ponte al soffitto. Centinaia di casse contenevano figure scolpite di pietra e di ceramica, miste a squisiti capolavori di giada lavorata, magnifici mosaici di turchesi e conchiglie: e tutto era stato rubato dai templi sacri delle civiltà andine travolte da Francisco Pizzarro e dalle successive armate dei conquistadores assetati d'oro. Per Drake, che non ne aveva mai immaginato l'esistenza, quella era la scoperta di un'arte straordinaria. Stranamente, però, l'oggetto che più aveva catturato il suo interesse non era un capolavoro intarsiato di gemme, bensì un semplice cofanetto di giada che aveva per coperchio una maschera dalle fattezze umane. Il coperchio chiudeva così perfettamente che l'interno era quasi a tenuta stagna: all'interno dello scrigno c'era un groviglio multicolore di lunghe cordicelle dallo spessore diverso con più di cento nodi. Drake portò la cassetta nella sua cabina e per circa un giorno studiò l'insieme di cordicelle legate ad altre più piccole dai colori vibranti, annodate a intervalli strategici. Era un navigatore abilissimo e un artista dilettante, e si rendeva conto che quello che aveva in mano doveva essere uno strumen-
to di calcolo, oppure un metodo per registrare le date, una sorta di calendario. Affascinato dall'enigma, tentò inutilmente di scoprire il significato delle funicelle colorate e della diversa disposizione dei nodi. Quell'intreccio gli appariva oscuro e misterioso, come per un indigeno lo sarebbero state la longitudine e la latitudine di una carta nautica. Alla fine desistette e avvolse in un drappo il cofanetto di giada. Poi fece chiamare Cuttill. «La nave spagnola naviga più alta sull'acqua, ora che è stata alleggerita di gran parte delle sue ricchezze», annunciò allegramente Cuttill mentre entrava nella cabina. «Non avete toccato le opere d'arte?» chiese Drake. «Sono rimaste nella stiva del galeone, come avete ordinato.» Drake si alzò dal tavolo e si accostò alla grande finestra per guardare il Concepción. Le fiancate del galeone erano ancora bagnate per diversi piedi al di sopra della linea di galleggiamento. «I tesori artistici erano destinati al re Filippo», disse. «È meglio che vengano portati in Inghilterra e offerti alla nostra regina.» «Il Golden Hind è già pericolosamente sovraccarico», protestò Cuttill. «Quando verranno portate a bordo altre cinque tonnellate, il mare lambirà i portelli più bassi dei cannoni, e la nave non obbedirà al timone. Andrà a fondo, sicuro come l'inferno, se la faremo passare di nuovo attraverso le tempeste dello stretto di Magellano.» «Non intendo tornare per lo stretto», disse Drake. «Voglio proseguire verso nord in cerca di un passaggio a nord-ovest che ci porti in Inghilterra. Se non ci riuscirò, seguirò il percorso di Magellano attraverso il Pacifico e poi intorno all'Africa.» «Ma l'Hind non arriverà mai in Inghilterra, con le stive che stanno per scoppiare», protestò Cuttill. «Abbandoneremo la maggior parte dell'argento sull'isola di Cano al largo dell'Ecuador, dove potremo recuperarlo in un viaggio successivo. Gli oggetti artistici resteranno a bordo del Concepción.» «Non avevate deciso di offrirli alla regina?» «Questa parte del piano è ancora valida», assicurò Drake. «Thomas, voi prenderete dieci uomini del Golden Hind e porterete il galeone fino a Plymouth.» Cuttill allargò le braccia. «Non posso far navigare un galeone di quelle dimensioni con dieci uomini soltanto, soprattutto se incontrerò mare grosso», disse in tono preoccupato.
Drake tornò al tavolo e batté un compasso di bronzo su un cerchio tracciato su una carta. «Nelle carte che ho trovato nella cabina del comandante de Anton ho indicato una piccola baia sulla costa a nord di qui, dove non dovrebbero esserci spagnoli. Andrete là e scaricherete gli ufficiali spagnoli e i marinai feriti. Poi convincerete venti degli uomini abili rimasti a prestare servizio sul galeone. Vi fornirò di armi più che sufficienti per conservare il comando e prevenire ogni tentativo di strapparvi la nave.» Cuttill sapeva che era inutile obiettare. Tentare di discutere con un individuo ostinato come Drake era tempo perso. Accettò l'ordine con un'alzata di spalle. «Naturalmente farò quel che comandate.» Il viso di Drake era acceso di fiducia, gli occhi brillavano. «Se c'è qualcuno capace di portare un galeone spagnolo fino all'attracco a Plymouth, Thomas, quello siete voi. Immagino che la regina sgranerà gli occhi quando le offrirete il vostro carico.» «Preferirei lasciare questo compito a voi.» Drake gli batté la mano sulla spalla in un gesto cordiale. «Non abbiate timore, vecchio mio. Vi ordino di attendermi al porto con due belle donne al braccio, in attesa di darmi il benvenuto quando il Golden Hind tornerà in patria.» L'indomani mattina, al sorgere del sole, Cuttill ordinò ai marinai di togliere gli ormeggi che univano le due navi. Sotto un braccio teneva il cofanetto avvolto in un drappo: Drake gli aveva ordinato di consegnarlo personalmente alla regina. Lo portò nella sua nuova cabina e lo chiuse in uno stipo. Quindi tornò sul ponte e prese il comando del Nuestra Señora de la Concepción che si stava già allontanando dal Golden Hind. Le vele furono spiegate sotto un abbagliante sole cremisi che i superstiziosi marinai delle due navi definirono rosso come un cuore sanguinante. Per la loro mentalità primitiva, era di cattivo auspicio. Drake e Cuttill si scambiarono gli ultimi gesti di saluto mentre il Golden Hind faceva rotta verso nord-est. Cuttill seguì con lo sguardo la nave più piccola fino a quando non sparì oltre l'orizzonte. Non condivideva affatto l'ottimismo di Drake. Anzi, uno sgradevole presentimento gli stringeva lo stomaco. Qualche giorno più tardi, dopo aver scaricato tonnellate di lingotti e monete d'argento al largo dell'isola di Cano per alleggerire il carico e ridurre il pescaggio, il solido Hind e l'intrepido Drake puntarono verso nord (dirigendosi verso quella che due secoli più tardi sarebbe stata conosciuta come
l'isola di Vancouver), prima di virare verso ovest e intraprendere l'epica traversata del Pacifico. Molto più a sud, il Concepción puntò direttamente verso est, e, la sera seguente, raggiunse la baia segnata da Drake sulla carta nautica degli spagnoli. Fu calata l'ancora e si accesero le luci di guardia. Il sole del nuovo giorno illuminò le Ande. In quel momento, Cuttill e i suoi scoprirono un grande villaggio indigeno che contava oltre mille abitanti ed era circondato da un'ampia baia. Senza perdere tempo, Cuttill ordinò d'incominciare a trasferire a terra gli ufficiali spagnoli e i feriti. Venti dei migliori marinai superstiti si videro offrire il decuplo della paga spagnola purché collaborassero per portare il galeone fino in Inghilterra, dove sarebbero stati liberati. Tutti e venti accettarono di buon grado. Cuttill stava sul ponte dei cannoni e sorvegliava le operazioni di sbarco, quando, poco dopo mezzogiorno, la nave incominciò a vibrare come se fosse squassata dalla mano di un gigante. Tutti alzarono lo sguardo ai vessilli in cima agli alberi, ma soltanto le estremità delle fiamme garrivano sotto una brezza lievissima. Poi tutti gli occhi si volsero alla riva e scorsero una nube gigantesca salire dai piedi delle Ande per dirigersi verso il mare. Un rombo spaventoso assunse proporzioni assordanti e la terra fu agitata da una tremenda convulsione. Mentre gli uomini assistevano sbalorditi, le colline a oriente del villaggio parvero sollevarsi e ricadere come frangenti che rotolano su una spiaggia poco profonda. La nube di polvere scese sul villaggio e lo inghiottì. Nel fragore si levarono le urla e le grida degli abitanti e gli schianti delle case di pietra e di adobe che si sgretolavano. Nessuno dei membri dell'equipaggio aveva mai assistito a un terremoto, e pochissimi conoscevano l'esistenza del fenomeno. Molti degli inglesi protestanti e tutti gli spagnoli cattolici a bordo del galeone si gettarono in ginocchio, invocando con fervore l'aiuto di Dio. In pochi minuti la nube passò sopra la nave e si disperse sul mare. Tutti fissarono sgomenti quello che era stato un villaggio prospero e ricco di attività e che adesso era ridotto a un cumulo di rovine. Dovunque si levavano le grida di coloro che erano rimasti intrappolati sotto le macerie. Più tardi, una stima avrebbe rivelato che oltre mille abitanti del posto erano morti. Gli spagnoli scesi a terra correvano avanti e indietro sulla spiaggia in preda al panico, gridando e implorando di essere ripresi a bordo. Cuttill si scosse, ignorò le loro suppliche, corse al parapetto e scrutò il mare circostante. C'erano onde leggere, ma l'acqua sembrava indifferente alla tragedia che aveva investito il villaggio.
Ansioso di sottrarsi al cataclisma esploso sulla riva, Cuttill incominciò a dare ordini per ripartire. Gli spagnoli prigionieri collaborarono con grande zelo e si prodigarono a fianco degli inglesi per spiegare le vele e salpare l'ancora. Intanto i superstiti del villaggio si affollavano sulla spiaggia e supplicavano l'equipaggio del galeone perché tornasse indietro e li aiutasse a salvare i parenti sepolti dalle macerie per caricarli poi sulla nave. I marinai non ascoltarono: pensavano soltanto a se stessi. All'improvviso un'altra scossa sismica squassò la terra, accompagnata da un rombo ancora più terribile. Il suolo cominciò a ondeggiare, simile a un enorme tappeto agitato da mani mostruose. Questa volta il mare arretrò lentamente, lasciò arenato il Concepción e scoperto il fondale. I marinai, che non sapevano nuotare, erano dominati dalla paura di ciò che c'era sott'acqua. Guardavano sbalorditi le migliaia di pesci che, lasciati a secco dal ritirarsi delle acque, guizzavano come uccelli privi d'ali fra le rocce e i coralli. Non c'era differenza tra squali, calamari e pesci tropicali d'ogni colore: tutti erano uguali nei sussulti della morte. Una continua serie di onde scuoteva la terra, mentre il terremoto sottomarino causava la frattura del suolo, faceva crollare il fondale e creava un'immensa depressione. Poi il mare incominciò a impazzire e si avventò da ogni direzione per colmare la conca. L'acqua salì in una gigantesca controonda a una velocità incredibile. Milioni di tonnellate di pura rovina s'innalzarono sempre di più fino a quando la cresta non raggiunse una quarantina di metri: un fenomeno che molto più tardi gli scienziati avrebbero chiamato tsunami. Gli uomini indifesi non ebbero il tempo per sostenersi aggrappandosi a un oggetto solido e i devoti non ebbero il tempo di pregare. Paralizzati, ammutoliti dal terrore di fronte alla montagna verde spumeggiante di bianco che s'innalzava davanti ai loro occhi, non poterono far altro che restare a guardarla mentre si avventava contro di loro con l'empio fragore di mille inferni. Soltanto Cuttill ebbe la presenza di spirito di correre verso poppa e di avvinghiarsi alla lunga barra di legno che manovrava il timone. Con la prua rivolta verso la colossale muraglia d'acqua, il Concepción s'inarcò e salì verticalmente la cresta. Dopo pochi istanti fu sommerso da una turbolenza vorticosa mentre la natura impazziva. Il torrente inarrestabile s'impadronì del Concepción, scagliandolo ad altissima velocità in direzione della riva sconvolta. Quasi tutti gli uomini dell'equipaggio che si trovavano sui ponti scoperti vennero strappati via e nessuno li rivide più. Gli sventurati che stavano sulla spiaggia e coloro che
lottavano per liberarsi dalle macerie del villaggio furono sommersi come se un inatteso getto d'acqua fosse piombato su un formicaio. Sparirono in un istante, frammenti di macerie sfracellate e scagliate in direzione delle Ande. Sepolto sotto la massa immane d'acqua per quello che gli parve un tempo interminabile, Cuttill trattenne il respiro finché non sentì bruciare i polmoni, e continuò a stringersi alla barra del timone come se ne facesse parte. Poi, mentre tutte le travature scricchiolavano e ululavano, la vecchia, solida nave risalì verso la superficie. Cuttill non era in grado di ricordare per quanto tempo fu trascinato nel vortice. La violenza degli elementi cancellò totalmente ciò che restava del villaggio. I pochi uomini infradiciati rimasti vivi a bordo del Concepción erano ancor più atterriti dalla vista delle mummie degli antichi inca che salivano alla superficie e circondavano la nave. Strappati dall'ondata alle loro tombe in un cimitero dimenticato, i cadaveri straordinariamente ben conservati fissavano con occhi ciechi gli inorriditi marinai, ormai certi di essere vittime di creature demoniache. Cuttill tentò di muovere la barra per governare la nave. Ma fu un gesto inutile, perché il timone era stato fracassato dall'onda gigantesca. All'uomo non restò che aggrapparsi alla speranza di sopravvivere, cercando di superare la paura che le mummie intorno al galeone avevano ormai spinto a livelli indicibili. Ma il peggio non era ancora passato. Il vortice folle della corrente diede origine a un gorgo che fece roteare la nave con tale violenza che gli alberi si schiantarono e caddero in acqua, mentre i due cannoni, dopo aver spezzato gli agganci, rotolarono sul ponte in una pazzesca danza di distruzione. A uno a uno i marinai, folli di paura, furono trascinati via dalla valanga turbinante. Rimase soltanto Cuttill. La violenza dell'acqua continuò il suo scempio per otto chilometri nell'entroterra, sradicando e schiantando alberi su un'area di oltre cento chilometri quadrati. Grandi macigni furono spostati dalla forza dell'ondata come ciottoli scagliati dalla fionda di un bambino. Finalmente il leviatano della morte incontrò le colline ai piedi delle Ande e incominciò a perdere slancio. Esaurita la sua furia, lambì i contrafforti delle montagne e prese a recedere con un immenso risucchio, lasciandosi alle spalle una devastazione di tale portata che mai la storia ne aveva descritta una simile. Cuttill si accorse che il galeone non si muoveva più. Guardò oltre il ponte dei cannoni coperto di sartiame e di fasciame distrutto, e non riuscì a
scorgere anima viva. Per quasi un'ora rimase rannicchiato sotto il timone, paventando il ritorno dell'ondata assassina; eppure la nave restò immobile e silenziosa. Allora a poco a poco e con movimenti rigidi, raggiunse la sommità del casseretto e da lì guardò quel panorama di morte. Sorprendentemente il Concepción stava diritto e all'asciutto in mezzo a una giungla spianata. Doveva trovarsi a circa tre leghe dall'acqua più vicina. Era sopravvissuto grazie alla solidità della costruzione e al fatto che stava navigando in direzione dell'onda quando questa l'aveva colpito. Diversamente, la forza dell'acqua avrebbe sfondato il castello di poppa e l'avrebbe fatto a pezzi. Il Concepción era sopravvissuto, sì, ma non era altro che un relitto, e non avrebbe mai più sentito il mare sotto la chiglia. In lontananza, il villaggio era scomparso. Restava soltanto un'ampia lingua di sabbia ingombra di rottami e macerie. Era come se mille persone e le loro case non fossero mai esistite. I cadaveri costellavano la giungla infradiciata. Cuttill aveva l'impressione che fossero sparsi dovunque, in certi punti addirittura in mucchi alti dieci piedi. Molti pendevano grottescamente dai rami contorti degli alberi. Moltissimi erano straziati al punto di non avere una forma riconoscibile. Cuttill non poteva credere di essere l'unico essere umano sopravvissuto al cataclisma; tuttavia non riusciva a scorgere altre creature viventi. Ringraziò Dio e invocò un consiglio. Poi valutò la situazione. Arenato a quattordicimila miglia nautiche dall'Inghilterra, in una parte del mondo dominata dagli Spagnoli che sarebbero stati felici di torturare e giustiziare un odiato corsaro inglese se l'avessero catturato, non aveva molte probabilità di vivere a lungo. Le speranze di tornare in patria per mare erano pressoché nulle. Optò per l'unica scelta possibile, anche se con scarse probabilità di riuscita: attraversare le Ande e spingersi verso est. Se avesse raggiunto la costa brasiliana, forse avrebbe incontrato una nave corsara inglese che assaliva i mercantili portoghesi. L'indomani mattina preparò una specie di lettiga per la sua cassa, la riempì di acqua e di viveri prelevati dalla cambusa della nave, coperte, due pistole, una libbra di polvere da sparo, una scorta di proiettili, acciarini e pietre focaie, una borsa di tabacco, un coltello e una Bibbia spagnola. Quindi si avviò con la sua lettiga in direzione delle nebbie che avvolgevano le vette delle Ande. Si fermò solo per dare un'ultima occhiata al Concepción e si chiese se forse gli dei degli Inca erano in un certo senso i responsabili di una tale sciagura. Ma ormai si erano ripresi le loro sacre reliquie, rifletté, e potevano anche tenersele. Pensò poi all'antico cofanetto di
giada dallo strano coperchio, e non invidiò il primo uomo che l'avrebbe rubato. Drake ritornò trionfalmente in Inghilterra e attraccò a Plymouth il 26 settembre 1580, con le stive del Golden Hind stracariche di bottino. Ma non trovò traccia di Thomas Cuttill e del Nuestra Señora de la Concepción. I suoi finanziatori ricavarono un profitto del quattromilasettecento per cento dai loro investimenti, e la parte spettante alla regina costituì le fondamenta della futura espansione britannica. Durante una sontuosa festa a bordo del Golden Hind, a Greenwich, la regina Elisabetta I nominò Drake cavaliere. Il galeone che per secondo aveva circumnavigato il globo diventò un'attrazione turistica. Rimase in mostra per tre generazioni, fino a che non marcì o forse bruciò. La storia non riporta con certezza che cosa accadde, ma il Golden Hind scomparve nelle acque del Tamigi. Sir Francis Drake continuò le sue imprese per altri sedici anni. Nel corso di un viaggio successivo, s'impadronì delle città portuali di Santo Domingo e Cartagena e diventò ammiraglio. Inoltre, fu sindaco di Plymouth e membro del Parlamento. Venne poi l'audace attacco contro l'Invencible Armada spagnola, nel 1588. Drake finì i suoi giorni nel 1596, durante una spedizione per saccheggiare porti e mercantili nei Caraibi. Morì di dissenteria, e il suo corpo, sigillato in una bara di piombo, fu gettato in mare nei pressi di Portobelo, Panamá. Prima della sua morte, non passò giorno senza che Drake non pensasse con stupore alla scomparsa del Concepción e all'enigma del misterioso cofanetto di giada e delle cordicelle annodate. PARTE PRIMA OSSA E TRONI 1. 10 ottobre 1998 Ande peruviane Lo scheletro era adagiato nei sedimenti del pozzo profondo come se stesse riposando su un soffice materasso. Le orbite vuote e fredde del teschio fissavano attraverso l'oscurità liquida la superficie, lontana trentasei metri. I denti erano atteggiati in un orribile ghigno vendicativo, mentre un
serpentello acquatico sporgeva la testa sotto la cassa toracica e poi guizzava via, lasciando una minuscola nube di sedimento che nascondeva il suo passaggio. Un braccio era sostenuto in posizione eretta da un gomito affondato nella fanghiglia e le dita ossute erano piegate come se intendessero fare un cenno di richiamo agli stolti. Dal fondo del pozzo sino alla luce del sole l'acqua si schiariva gradualmente da un tetro grigiobruno al verde pisello della schiuma vegetale che prosperava nel caldo dei tropici. L'orlo circolare aveva un diametro di trenta metri e le pareti ripide scendevano per una quindicina di metri fino all'acqua. Una volta entrato, né un essere umano né un animale poteva fuggirne senza un aiuto dall'alto. Era una sensazione inquietante, quella che s'irradiava dal profondo pozzo calcareo (cenote, come veniva chiamato in termini tecnici), una ripugnanza minacciosa che gli animali intuivano, tanto che si rifiutavano di avvicinarsi a meno di cinquanta metri. Su quel luogo aleggiava un'atmosfera di morte, ed era comprensibile. Quello era qualcosa di più di un pozzo sacro nelle cui acque scure uomini, donne e bambini erano stati gettati ancora vivi, come vittime sacrificali nei periodi di siccità e di tempeste. Le leggende e i miti antichi lo definivano una residenza di divinità malefiche, dove accadevano eventi strani e irriferibili. C'erano anche storie di manufatti rari, lavorati a mano, di gemme, di oro e di giade che sarebbero stati gettati nel cenote per placare gli dei malvagi quando scatenavano il maltempo. Nel 1964 due sommozzatori vi erano discesi e non avevano fatto ritorno. Nessuno aveva cercato di recuperarne i corpi. La storia del cenote aveva avuto inizio nel Cambriano, quando la regione era sommersa da un antico mare. Durante le successive ere geologiche, migliaia di generazioni di molluschi e di coralli erano vissute ed erano morte, e le loro carcasse scheletriche avevano formato un'enorme massa di limo e sabbia che si era compressa in uno strato di calcare e di dolomite dello spessore di due chilometri. Poi, a partire da sessantacinque milioni di anni fa, un intenso sollevamento della terra aveva portato le Ande all'altezza attuale. L'acqua piovana, scendendo dalle montagne, aveva formato un'enorme falda acquifera sotterranea che, seppure con estrema lentezza, aveva incominciato a sciogliere il calcare. Dove l'acqua si era raccolta e aveva formato pozze, era poi salita e aveva eroso la terra finché la superficie non era crollata, creando così il cenote. Nell'aria umida sopra la giungla che circondava il pozzo, un condor virava in grandi cerchi pigri con lo sguardo imperscrutabile fisso su un grup-
po di persone al lavoro intorno al bordo del cenote. Le ali ampie tre metri s'inarcavano rigide per catturare le correnti d'aria. L'enorme rapace nero, con la gorgiera bianca e la testa calva e rosea, si librava agilmente, studiando il movimento sottostante. Alla fine, convinto che non c'era speranza d'un pasto, salì a un'altezza maggiore per poter osservare più lontano e si spostò verso est in cerca di qualche carogna. Molte controversie irrisolte avevano circondato il pozzo sacro, e finalmente gli archeologi avevano deciso d'immergersi e di recuperare i manufatti da quelle misteriose profondità. L'antico sito si trovava su un pendio occidentale sotto un'alta cresta delle Ande peruviane, presso una grande città in rovina. Le vicine strutture di pietra avevano fatto parte di una vasta confederazione di città-Stato, abitata dal popolo dei Chachapuyas, conquistata dal famoso impero incaico intorno al 1480 dopo Cristo. La confederazione dei Chachapuyas copriva quasi quattrocento chilometri quadrati. Oggigiorno i suoi templi, le fattorie e le fortezze giacciono su montagne boscose in maggioranza inesplorate. Le rovine di questa grande civiltà indicano un'incredibile mescolanza di culture e di origini, le quali tuttavia sono ancora avvolte dal mistero. I re e i consigli degli anziani, gli architetti, i sacerdoti, i soldati e i comuni lavoratori delle città e delle fattorie non hanno in pratica lasciato traccia della loro vita. E gli archeologi devono ancora comprendere la loro burocrazia, il sistema giudiziario e le pratiche religiose. Mentre guardava l'acqua stagnante con i grandi occhi nocciola sotto le sopracciglia scure, la dottoressa Shannon Kelsey era troppo emozionata per sentire il tocco gelido della paura. Molto attraente quando era vestita e truccata, aveva un atteggiamento di fredda autosufficienza che molti uomini trovavano irritante, soprattutto perché lo sguardo di Shannon era diretto e carico di un'audacia impudente. I capelli biondi e lisci erano raccolti in una coda di cavallo da un fazzoletto rosso, e la pelle del volto, delle braccia e delle gambe era abbronzata. Il costume da bagno di lycra nero modellava una figura a clessidra... con un'aggiunta di venti minuti per buona misura; e, quando si muoveva, lo faceva con la grazia e la scioltezza di una danzatrice balinese. Ormai più vicina ai quaranta che ai trenta, la dottoressa Kelsey si occupava da dieci anni di cultura dei Chachapuyas, un soggetto che l'affascinava profondamente. Aveva esplorato e studiato importanti siti archeologici nel corso di cinque spedizioni, liberando inoltre dalla onnipresente vegetazione un buon numero di edifici principali e di templi delle antiche città
della zona. La dottoressa Kelsey era un'archeologa molto stimata nell'ambito delle culture andine, e la sua grande passione era quella di seguire le tracce d'un passato glorioso. Lavorare dove era fiorita e scomparsa una popolazione enigmatica e oscura era un sogno reso possibile da uno stanziamento della facoltà di Archeologia dell'università statale dell'Arizona. «È inutile portare una telecamera a meno che la visibilità migliori al di sotto dei primi metri», disse Miles Rodgers, l'operatore della spedizione. «E allora scatta fotografie», rispose Shannon con fermezza. «Voglio che ogni immersione sia documentata, anche se non riusciremo a vedere niente a una spanna dal naso.» Caratterizzato da una fluente chioma, nera come la barba, Rodgers era un veterano della fotografia subacquea sebbene avesse solo trentanove anni. Era richiestissimo da tutte le principali riviste scientifiche e di viaggi: le sue immagini sottomarine di pesci e di scogliere coralline erano straordinarie. Ma erano soprattutto le eccezionali fotografie delle navi affondate nel Pacifico meridionale durante la seconda guerra mondiale e degli antichi porti sommersi del Mediterraneo ad avergli fatto guadagnare numerosi premi e il rispetto dei colleghi. Un uomo alto e snello sulla sessantina, con una barba argentea che gli copriva metà del viso, sorresse la bombola di Shannon per permetterle d'infilare le braccia nelle cinghie. «Vorrei che aspettassi fino a che non avremo terminato di costruire la zattera per le immersioni.» «Ci vorranno ancora due giorni. Con una ricognizione preliminare ci assicureremo un certo vantaggio.» «Allora aspetta almeno che il resto della squadra dei sub arrivi dall'università. Se tu e Miles vi caccerete in qualche guaio, non avremo nessuno per aiutarvi.» «Non temere», rispose tranquillamente Shannon. «Io e Miles faremo solo un'immersione di prova per controllare la profondità e le condizioni dell'acqua. Non staremo sotto per più di mezz'ora.» «E non scendete per più di quindici metri», raccomandò l'uomo dalla barba argentea. Shannon sorrise al collega, il dottor Steve «Doc» Miller dell'università di Pennsylvania. «E se a quindici metri non avremo toccato il fondo?» «Abbiamo a disposizione cinque settimane. Non c'è bisogno di agitarsi e di rischiare un incidente.» La voce di Miller era bassa e profonda, e aveva una sfumatura di preoccupazione. Era uno degli antropologi più famosi del mondo e aveva dedicato gli ultimi trent'anni a districare i misteri delle cul-
ture che si erano evolute nelle regioni più alte delle Ande per diffondersi poi nelle giungle dell'Amazzonia. «Andate sul sicuro. Studiate le condizioni dell'acqua e la geologia delle pareti del pozzo, poi risalite in superficie.» Shannon annuì, sputò nella maschera, e sparse la saliva all'interno del vetro perché non si appannasse. Poi sciacquò la maschera con l'acqua di una borraccia. Regolò il giubbetto equilibratore e fissò la cintura zavorrata; quindi lei e Rodgers fecero un controllo reciproco dell'equipaggiamento. Convinta che fosse tutto a posto e che i computer digitali fossero programmati nel modo dovuto, Shannon sorrise a Miller. «A fra poco, Doc. Tieni in ghiaccio un martini.» L'antropologo avvolse sotto le loro braccia un'ampia cinghia fissata a una lunga corda di nylon tenuta saldamente da un gruppo di dieci studenti peruviani che, dopo la laurea, avevano aderito al programma archeologico dell'università e si erano offerti volontari per quella spedizione. «Calate, figlioli», ordinò Miller ai sei giovani e alle quattro ragazze. Le corde furono fatte scorrere lentamente, e i due sub incominciarono a scendere nel pozzo tetro. Shannon e Rodgers allungarono le gambe e usarono le spatole delle pinne come paraurti per non sbattere contro le ruvide pareti di calcare. Vedevano chiaramente il velo viscido che copriva la superficie dell'acqua. Sembrava denso e invitante quanto una vasca di muco verde. L'odore della putredine e della stagnazione era quasi soffocante. Per Shannon l'emozione dell'ignoto lasciò bruscamente il posto a un senso di profonda inquietudine. Quando furono a circa un metro dalla superficie, i due strinsero fra i denti i boccagli e fecero un segnale agli altri, che li seguivano dall'alto con occhi ansiosi. Poi Shannon e Miles si liberarono dalle imbracature e sparirono nella mucillagine ripugnante. Miles camminava nervosamente avanti e indietro lungo l'orlo del pozzo e continuava a guardare l'orologio mentre gli studenti, affascinati, fissavano l'acqua verde. Trascorsero quindici minuti senza che si scorgesse traccia dei sub. All'improvviso le bollicine degli erogatori sparirono. In preda all'angoscia, Miller corse ad affacciarsi. Avevano forse trovato una grotta e vi erano entrati? Attese per dieci minuti, quindi si precipitò in una delle tende. Prese una radio portatile e cominciò febbrilmente a chiamare la base del progetto, situata nella cittadina di Chachapoyas, una novantina di chilometri più a sud. Gli rispose quasi subito la voce di Juan Chaco, ispettore
generale dell'archeologia peruviana e direttore del Museo de la Nación di Lima. «Qui Juan. Sei tu, Doc? Hai bisogno di qualcosa?» «La dottoressa Kelsey e Miles Rodgers hanno voluto fare un'immersione preliminare nel pozzo sacrificale», spiegò Miller. «Credo che si trovino in una situazione d'emergenza.» «Si sono calati in quella latrina senza aspettare la squadra subacquea dell'università?» chiese Chaco con uno strano tono indifferente. «Ho cercato di dissuaderli.» «Quando sono entrati in acqua?» Miller controllò di nuovo l'orologio. «Ventisette minuti fa.» «Per quanto tempo contavano di restare laggiù?» «Hanno deciso di risalire dopo mezz'ora.» «È ancora presto.» Chaco sospirò. «Quindi, dove sta il problema?» «Da dieci minuti non vediamo più tracce di bollicine d'aria.» Chaco trattenne il respiro e chiuse gli occhi per un istante. «Non va, Doc. Non è quello che avevamo stabilito.» «Puoi mandare la squadra dei sub con un elicottero?» chiese Miller. «Non è possibile», rispose amareggiato Chaco. «Sono ancora in viaggio da Miami. Il loro aereo non atterrerà a Lima prima di quattro ore.» «Non possiamo permetterci d'immischiare il governo. Soprattutto in questo momento. Puoi mandare in fretta al pozzo una squadra di soccorso?» «La base navale più vicina è a Trujillo. Avvertirò il comandante e lui procederà.» «Buona fortuna, Juan. Resterò accanto alla radio.» «Tienimi informato dei nuovi sviluppi.» «Stai tranquillo», promise cupamente Miller. «Doc?» «Sì?» «Se la caveranno», disse Chaco in tono non troppo sicuro. «Rodgers è un esperto d'immersioni. Non commette sbagli.» Miller non disse nulla. Non c'era nulla da dire. Interruppe il contatto con Chaco e si affrettò a raggiungere il gruppo degli studenti, che fissavano il pozzo in un silenzio impaurito. A Chachapoyas, Chaco prese un fazzoletto e si asciugò la faccia. Era un uomo d'ordine. Gli ostacoli e i problemi imprevisti lo irritavano. Se quei due stupidi americani fossero annegati ci sarebbe stata un'inchiesta gover-
nativa. Nonostante la sua influenza, i media peruviani avrebbero montato un caso intorno all'incidente. Le conseguenze potevano risultare disastrose. «Ci mancherebbe soltanto questa», borbottò. «Due archeologi morti nel pozzo!» Con le mani che tremavano prese la radio ricetrasmittente e cominciò a inviare una richiesta urgente d'aiuto. 2. Erano passati un'ora e quarantacinque minuti da quando Shannon e Miles si erano immersi nel pozzo sacrificale. Un tentativo di salvataggio, adesso, appariva come un gesto inutile. Ormai niente poteva salvare quei due. Dovevano essere morti, dopo aver consumato da tempo l'aria delle bombole. Altre due vittime che si aggiungevano a tutti coloro che, nei secoli, erano spariti in quelle acque torbide. Con voce resa frenetica dalla disperazione, Chaco gli aveva comunicato che la Marina peruviana era impreparata per un'emergenza del genere. La squadra di soccorso subacquea era in missione d'addestramento nel sud del Paese, presso il confine cileno. Era impossibile portare per via aerea la squadra e il relativo equipaggiamento fino al pozzo prima del tramonto. Chaco condivideva l'ansia di Miller per il tempo eccessivo di reazione. Ma quello era il Sudamerica, e raramente la fretta era considerata una priorità. Una delle studentesse fu la prima a sentirlo. Si portò le mani alle orecchie e girò la testa come un'antenna radar. «Un elicottero!» esclamò, e indicò verso occidente, al di sopra delle cime degli alberi. Intorno al pozzo tutti tacquero e rimasero in ascolto. Il tonfo smorzato delle pale di un rotore che battevano l'aria si avvicinò a loro e si rafforzò con il passare dei secondi. Dopo un minuto un elicottero color turchese con la scritta NUMA dipinta sui fianchi apparve nel cielo. Da dove è sbucato? si chiese Miller, ritrovando un po' di ottimismo. Si vedeva subito che non portava i contrassegni della Marina peruviana. Doveva essere un mezzo civile. Le cime degli alberi circostanti si agitarono con furia quando l'elicottero incominciò a scendere in una piccola radura accanto al pozzo. I pattini erano ancora in aria quando il portello si aprì e un uomo alto, dai capelli neri ondulati, balzò agilmente a terra. Indossava una tuta leggera e corta per le immersioni in acque calde. Non badò ai giovani e andò incontro all'antropologo.
«Il dottor Miller?» «Sì, sono io.» Lo sconosciuto, con un gran sorriso, tese la mano callosa. «Mi spiace di non essere arrivato prima.» «Lei chi è?» «Mi chiamo Dirk Pitt.» «È americano», esclamò Miller, fissando quel volto deciso e gli occhi che sembravano sorridere. «Sono il direttore dei Progetti Speciali della National Underwater & Marine Agency degli Stati Uniti. A quanto ho capito, due dei suoi sub sono spariti in una caverna sommersa.» «In un pozzo», lo corresse Miller. «La dottoressa Shannon Kelsey e Miles Rodgers sono entrati in acqua quasi due ore fa e non sono risaliti.» Pitt si avvicinò al bordo del cenote, guardò l'acqua stagnante e concluse che le condizioni per un'immersione erano le peggiori. Il pozzo andava dal verde viscido dei bordi al nero pece del centro, e dava l'impressione di essere molto profondo. Niente indicava che l'operazione sarebbe risultata qualcosa di diverso dal recupero di due cadaveri. «Non è molto invitante», commentò a voce bassa. «Da dove siete arrivati?» chiese Miller. «La NUMA sta svolgendo una ricognizione geologica subacquea al largo della costa, direttamente a ovest di qui. Il comando della Marina peruviana ha inviato per radio la richiesta di mandare sommozzatori in una missione di salvataggio, e noi abbiamo risposto. A quanto sembra, siamo stati anche i primi ad arrivare.» «Com'è possibile che un gruppo di oceanografi compia un'operazione di salvataggio e recupero in un pozzo?» scattò Miller, irritato. «La nostra nave trasporta tutto l'equipaggiamento necessario per le immersioni», spiegò impassibile Pitt. «E io non sono un oceanografo, ma un ingegnere marino. Non ho un grande addestramento in fatto di salvataggi subacquei, ma sono un sub piuttosto efficiente.» Prima che lo scoraggiato Miller potesse rispondere, il motore dell'elicottero si spense: le pale rallentarono e si fermarono. Un uomo basso, con le spalle ampie e il torace robusto di uno scaricatore di porto, uscì dal portello e si avvicinò. Sembrava l'esatto contrario di Pitt, che era alto e snello. «Il mio amico e collaboratore Al Giordino», lo presentò Pitt. Giordino scrollò la testa carica di riccioli scuri e disse semplicemente: «Salve».
Miller guardò il parabrezza dell'elicottero e quando vide che a bordo non c'erano altri passeggeri, gemette disperato. «Siete due, due soltanto! Mio Dio, ci vorranno almeno dodici uomini per portarli fuori.» Pitt non s'irritò per l'esclamazione di Miller. Continuò a fissare l'antropologo con un'espressione tollerante negli occhi verdi che sembravano possedere doti ipnotiche. «Si fidi di me, Doc», disse in un tono che stroncava ogni discussione. «Io e Al possiamo farcela da soli.» In pochi minuti, dopo un breve esame della situazione, Pitt fu pronto per calarsi nel pozzo. Portava una maschera EXO-26 della Diving Systems International, con un erogatore d'aria esotermico, utile per l'immersione in acque inquinate. La cuffia era collegata a una radio MKI-DC Ocean Technology Systems. Portava sulla schiena due bombole da cento piedi cubici e aveva un equilibratore dotato di una serie di strumenti che indicavano la profondità, la pressione dell'aria e l'orientamento. Mentre Pitt si preparava, Giordino collegò alla cuffia un robusto cavo Kermantle per le comunicazioni di sicurezza e fissò alla cintura dell'amico una fibbia sganciabile in caso di emergenza. Il resto del cavo era avvolto intorno a una grossa bobina montata all'interno dell'elicottero e collegata a un amplificatore esterno. Dopo un'ultima controllata all'attrezzatura di Pitt, Giordino gli diede una leggera pacca sulla testa e parlò nel microfono del sistema di comunicazione. «Mi pare che vada bene. Mi senti?» «Come se ti avessi dentro la testa», rispose Pitt. Attraverso l'amplificatore, tutti poterono sentire la sua voce. «E io?» «Forte e chiaro», disse Giordino. «Seguirò da qui il tuo programma di decompressione e la durata dell'immersione.» «Intesi.» «E conto su di te perché mi comunichi ininterrottamente la tua situazione e la profondità.» Pitt si avvolse intorno a un braccio il cavo di sicurezza e lo strinse con entrambe le mani. Strizzò un occhio a Giordino dietro il vetro della maschera. «Bene, allora via con lo spettacolo.» Giordino fece un segnale, e quattro degli studenti di Miller incominciarono a srotolare la bobina. Diversamente da Shannon e Miles che erano discesi rimbalzando lungo le pareti del cenote, Giordino aveva fatto passare il cavo di nylon sopra l'estremità di un tronco morto che sporgeva per due metri dal bordo del pozzo verticale, e in questo modo aveva permesso a Pitt di calarsi senza urtare contro il calcare.
Per un uomo che probabilmente stava mandando l'amico incontro a una morte precoce, pensò Miller, Giordino sembrava molto calmo ed efficiente. Non conosceva Pitt e Giordino e non aveva mai sentito parlare di quel duo leggendario. Non poteva sapere che erano uomini straordinari, che in una ventina d'anni di avventure sottomarine avevano acquisito la capacità infallibile d'intuire le probabilità di sopravvivenza. Rimase ad assistere, in preda alla frustrazione, a quello che secondo lui era un tentativo inutile. Si affacciò dal bordo e osservò attento mentre Pitt si avvicinava alla mucillagine verde che copriva la superficie dell'acqua. «Come ti sembra?» chiese Giordino. «Somiglia alla zuppa di piselli che preparava mia nonna», rispose Pitt. «Non ti consiglio di assaggiarla.» «Non mi è certo passato per la mente.» Poi tacquero, e i piedi di Pitt entrarono nel viscidume verde. Quando questi si chiuse sopra la sua testa, Giordino allentò il cavo di sicurezza per lasciargli una maggiore libertà di movimento. Là sotto, la temperatura era inferiore di appena una decina di gradi a quella dell'acqua di una normale vasca da bagno. Pitt incominciò a respirare attraverso l'erogatore, si girò su se stesso, scalciò con le pinne e discese nel tenebroso mondo di morte. La pressione crescente dell'acqua gli gravava sui timpani; sbuffò all'interno della maschera per compensare. Accese una torcia Birns Oceanographics Snooper, ma il raggio luminoso riusciva a stento a penetrare l'oscurità. Bruscamente, passò dal buio denso a un abisso di acqua trasparente come cristallo. Il raggio luminoso, anziché riflettersi sulle alghe e investirgli il volto, penetrava in distanza. La trasformazione repentina al di sotto dello strato di viscidume lo sconcertò per un momento. Aveva la sensazione di nuotare nell'aria. «Ho un'ottima visibilità alla profondità di quattro metri», riferì. «C'è traccia degli altri sub?» Pitt nuotò lentamente, tracciando un cerchio completo. «No, niente.» «Riesci a scorgere i particolari del fondo?» «Sì, piuttosto bene», rispose Pitt. «L'acqua è trasparente come il vetro ma molto buia. La mucillagine in superficie scherma la luce del sole per un settanta per cento. Intorno alle pareti è scuro, e dovrò nuotare secondo uno schema preciso per non farmi sfuggire i corpi.» «Il cavo di sicurezza è abbastanza lento?» «Mantienilo leggermente in tensione, in modo che non mi ostacoli i movimenti quando scenderò ancora.»
Per dodici minuti Pitt nuotò intorno alle pareti ripide del pozzo, esaminò ogni cavità, e scese come se ruotasse intorno a un gigantesco cavatappi. Il calcare, formatosi centinaia di milioni di anni prima, era maculato di strane immagini minerali astratte. Pitt planò orizzontalmente e nuotò in modo calmo e quasi languido, facendo scorrere davanti a sé il raggio luminoso. L'illusione di aleggiare su un abisso senza fondo era incancellabile. Alla fine si portò in assetto orizzontale sul fondo del pozzo. Non c'erano né sabbia solida né vegetazione, ma soltanto un tratto irregolare di disgustosi sedimenti marrone interrotti da gruppi di roccia grigiastra. «Sono arrivato al fondo, un po' oltre i trentasei metri. Nessun segno della Kelsey e di Rodgers.» Miller lanciò un'occhiata sgomenta a Giordino. «Devono essere là sotto. È impossibile che siano scomparsi.» Molto più in basso, Pitt si mosse lentamente di traverso sul fondo, con la precauzione di tenersi almeno un metro al di sopra delle rocce e soprattutto dei sedimenti, che potevano sollevarsi, formare una nube accecante e ridurre a zero la visibilità in pochi secondi. Una volta smossi, i sedimenti restavano magari in sospensione per diverse ore prima di ricadere. Pitt rabbrividì. L'acqua era diventata spiacevolmente fredda quando era entrato nello strato al di sotto di quello prossimo alla superficie. Rallentò, si lasciò andare alla deriva, azionando l'equilibratore per aumentare leggermente la galleggiabilità e si portò in posizione con la testa un po' abbassata e le pinne sollevate. A quel punto abbassò con cautela le mani e le affondò adagio nella poltiglia bruniccia. Le due dita toccarono il fondo roccioso prima che il sedimento gli arrivasse ai polsi. Gli sembrava strano che il sedimento avesse uno spessore così limitato. Dopo innumerevoli secoli di erosione delle pareti e di precipitazioni dal terreno sovrastante, la superficie rocciosa avrebbe dovuto essere coperta da uno strato di circa due metri. Pitt rimase immobile, al di sopra di quella che sembrava una distesa di rami d'albero sbiancati affioranti dal fango. Ne afferrò uno che presentava piccole protrusioni e lo estrasse. E si trovò a fissare la colonna vertebrale di un'antica vittima. Attraverso la cuffia gli giunse la voce di Giordino. «Dimmi qualcosa.» «Sono a una profondità di trentasette metri», rispose Pitt gettando via la spina dorsale. «Il fondo del pozzo è un ossario. Devono esserci almeno duecento scheletri sparsi qui intorno.» «Nessun segno di cadaveri recenti?»
«Per ora no.» Pitt incominciò a sentire un brivido diaccio che gli scorreva sulla nuca quando vide uno scheletro con una mano ossuta protesa nel buio. Accanto alla cassa toracica c'era una corazza arrugginita, e il teschio era ancora coperto da qualcosa che sembrava un elmo spagnolo del sedicesimo secolo. «Di' a Doc Miller che ho trovato uno spagnolo completo di elmo e corazza», riferì Pitt a Giordino. Poi, come se fossero attratti da una forza invisibile, i suoi occhi seguirono la direzione indicata dal dito. C'era un altro corpo, il corpo di qualcuno morto più di recente. Sembrava un maschio, con le gambe ripiegate e la testa inclinata all'indietro. La decomposizione non aveva avuto il tempo d'intaccare completamente i tessuti. Era ancora in uno stato di saponificazione, e le parti carnose e gli organi si erano trasformati in una sostanza solida, simile appunto al sapone. I lussuosi stivali da equitazione, una sciarpa di seta rossa annodata intorno al collo e una cintura navajo d'argento ornata di turchesi fugavano ogni dubbio: non si trattava d'un contadino del posto. Chiunque fosse, non era giovane. Le ciocche dei lunghi capelli argentei e della barba ondeggiavano nella corrente provocata dai movimenti di Pitt. Un ampio squarcio al collo rivelava la causa della morte. Un grosso anello d'oro con una pietra gialla scintillò sotto il raggio della torcia. Pitt pensò che l'anello poteva essere utile per identificare il corpo. Lottò con il fiotto di bile che gli saliva alla gola e sfilò l'anello dal dito del morto; quasi si aspettava di veder apparire una forma incorporea che lo accusasse di comportarsi da profanatore di cadaveri. Per quanto fosse un compito disgustoso, passò l'anello nei sedimenti per ripulirlo dai tessuti del proprietario, quindi l'infilò al dito per non perderlo. «Ne ho trovato un altro», comunicò a Giordino. «Uno dei sub o un vecchio spagnolo?» «Nessuno dei due. Questo dev'essere qui da pochi mesi, un anno al massimo.» «Vuoi recuperarlo?» chiese Giordino. «Per ora no. Aspetteremo di aver trovato i colleghi di Doc Miller...» Pitt s'interruppe all'improvviso, investito da una enorme massa d'acqua che affluì nel pozzo da un passaggio invisibile nella parete di fronte, agitando i sedimenti come polvere sollevata da un tornado. L'energia inaspettata della turbolenza lo avrebbe trascinato via come una foglia al vento se non ci fosse stato il cavo di sicurezza. Ma anche così, Pitt riuscì appena a trattenere la torcia.
«Che razza di scossone», commentò preoccupato Giordino. «Che succede?» «Sono stato investito da una corrente foltissima arrivata dal nulla», rispose Pitt, mentre si rilassava, lasciandosi trasportare dal flusso. «Questo spiega perché lo strato di sedimenti è così basso: viene periodicamente spazzato via dalla turbolenza.» «Con ogni probabilità è alimentata da un sistema sotterraneo che aumenta la pressione e poi la scarica sul fondo del pozzo», osservò Giordino. «Dobbiamo tirarti su?» «No, lasciatemi qui. La visibilità è zero, ma non sembra che ci siano pericoli immediati. Lascia andare lentamente il cavo di sicurezza, e vediamo dove mi porta la corrente. Deve esserci un'apertura da qualche parte.» «Troppo pericoloso. Potresti rimanere bloccato e intrappolato.» «No, se evito d'impigliarmi nel cavo di sicurezza», rispose Pitt in tono sicuro. In superficie, Giordino consultò l'orologio. «Sei là sotto da sedici minuti. Come stai ad aria?» Pitt accostò il manometro della pressione al vetro della maschera e riuscì a stento a vedere l'ago in mezzo al turbine di sedimenti. «Ne ho ancora per venti minuti.» «Te ne concedo dieci. E poi, alla profondità attuale, dovrai cominciare a pensare alle soste per la decompressione.» «Il capo sei tu», rispose docilmente Pitt. «Com'è la tua situazione?» «È come se venissi trascinato in uno stretto tunnel con i piedi in avanti. Riesco a toccare le pareti che mi circondano. Per fortuna ho il cavo di sicurezza. È impossibile nuotare controcorrente.» Giordino si rivolse a Miller. «A quanto sembra, comincia ad avere un'idea di quello che è successo ai suoi sub.» Miller scosse la testa con un gesto rabbioso. «Li avevo avvertiti. Questa tragedia si poteva evitare se loro si fossero limitati a immergersi a profondità minori.» Pitt aveva la sensazione di venire risucchiato nell'angusto anfratto da più di un'ora, ma in realtà erano passati appena venti secondi. La nube dei sedimenti si era un po' diradata; era rimasta quasi tutta nel pozzo. Incominciò a scorgere più chiaramente ciò che lo circondava. La bussola gli rivelava che veniva trasportato verso sud-est. Poi le pareti si aprirono all'improvviso in un'enorme caverna. Sulla destra e sotto di lui scorse fuggevolmente
qualcosa che luccicava nell'oscurità: era qualcosa di metallico che rifletteva in modo vago il raggio della torcia, attenuato dai sedimenti. Una bombola abbandonata. E vicino ce n'era un'altra. Si avvicinò a nuoto e controllò i manometri della pressione. Gli aghi segnavano «vuoto». Girò intorno a sé la torcia, immaginando di scorgere due cadaveri che fluttuavano nell'oscurità come fantasmi demoniaci. L'acqua fredda del fondo gli aveva intaccato le forze; sentiva che i suoi movimenti diventavano più torpidi. Sebbene la voce di Giordino giungesse ancora nitida attraverso la cuffia, le parole sembravano meno chiare. Pitt si scosse e ordinò alla propria mente di valutare i manometri, il cavo di sicurezza e l'equilibratore come se ci fosse un altro se stesso dentro la sua testa. Acuì mentalmente i sensi e s'impose di stare in guardia. Se i corpi erano stati trascinati in una galleria laterale, pensò, era facile passare oltre senza notarli. Ma una rapida ricerca non ebbe altro risultato che un paio di pinne abbandonate. Puntò verso l'alto il fascio luminoso e vide lo scintillio della superficie. La volta della camera, quindi, conteneva una sacca d'aria. E vide anche due piedi bianchi. 3. Intrappolati lontano dal mondo esterno in una prigione di silenzi perpetui, costretti a respirare in una piccola sacca d'aria vecchia di milioni di anni, soffocando nell'oscurità totale delle viscere della terra, è qualcosa di troppo assurdo e tremendo da. immaginare. L'orrore di morire in circostanze così spaventose può generare incubi simili a quello di venire rinchiusi in uno stanzino pieno di serpenti. Superato il panico iniziale e riguadagnato un minimo di razionalità, Shannon e Rodgers avevano visto dissolversi le loro speranze quando l'aria delle bombole si era esaurita e le batterie delle lampade subacquee avevano finito la carica. Ben presto l'aria della sacca era stata inquinata dal loro stesso respiro. Storditi ed ebbri per la mancanza di ossigeno, sapevano quindi che le loro sofferenze avrebbero avuto fine solo quando la camera fosse diventata la loro tomba. La corrente li aveva risucchiati nella caverna dopo che Shannon si era immersa sino al fondo del pozzo, nel momento in cui aveva intravisto la distesa d'ossa. Rodgers l'aveva seguita, bruciando le forze nell'affannoso tentativo di resistere alla pressione. Avevano usato l'ultima aria rimasta
nelle bombole nella ricerca di un altro passaggio che conducesse fuori della camera. Ma non c'era un'uscita, non c'erano vie di scampo. Potevano solo lasciarsi andare nell'oscurità, sostenuti dai giubbetti equilibratori, e attendere la morte. Nonostante il suo coraggio, Rodgers era in pessime condizioni, e la vita di Shannon era appesa a un filo quando la donna notò all'improvviso un guizzo di luce nell'acqua sottostante. La luce divenne un fulgido fascio giallo che fendeva la tenebra nella sua direzione. Era uno scherzo della mente annebbiata? Poteva permettersi di sperare? «Ci hanno trovati», ansimò alla fine quando la luce si mosse verso di lei. Rodgers, con la faccia ingrigita dalla stanchezza e dalla disperazione, fissò senza reagire il fascio luminoso che si avvicinava. L'assenza d'aria respirabile e la tenebra schiacciante l'avevano ridotto in uno stato semicomatoso. Aveva gli occhi aperti e respirava ancora, e incredibilmente teneva stretta la macchina fotografica. Aveva la vaga sensazione di entrare nel tunnel luminoso descritto da coloro che ritornano dalla morte. Shannon sentì una mano che le afferrava il piede. Poi una testa emerse dall'acqua a meno d'un braccio di distanza. La torcia puntò contro i suoi occhi e l'accecò per un momento, poi si spostò sulla faccia di Rodgers. Pitt comprese subito chi stava peggio: si passò una mano sotto il braccio e afferrò l'erogatore ausiliario collegato alla doppia valvola delle sue bombole. Infilò velocemente il boccaglio tra le labbra di Rodgers, quindi passò a Shannon una bomboletta di riserva e l'erogatore che portava agganciati alla cintura. Dopo qualche respiro profondo, il cambiamento dello stato d'animo e delle condizioni fisiche apparve miracoloso. Shannon abbracciò energicamente Pitt, mentre Rodgers, rianimato, gli stringeva la mano con tanto vigore da minacciare di slogargli il polso. Vi furono momenti di gioia muta, mentre tutti e tre si abbandonavano all'euforia del sollievo e dell'eccitazione. Solo quando si accorse che Giordino gli urlava nella cuffia per chiedere un rapporto sulla situazione, Pitt annunciò: «Di' a Miller che ho trovato i suoi agnellini sperduti. Sono vivi. Ripeto, sono vivi e stanno bene». «Sono lì con te?» gridò la voce di Giordino. «Non sono morti?» «Sono un po' palliducci, ma in quanto al resto sono in ottima forma.» «Com'è possibile?» mormorò incredulo Miller. Giordino annuì. «Doc vuole sapere come hanno fatto a restare in vita.» «La corrente li ha trascinati in una camera con una sacca d'aria nella vol-
ta. Per fortuna sono arrivato in tempo. Stavano per esaurire l'ossigeno.» La folla raccolta intorno all'amplificatore rimase sbalordita dall'annuncio. Ma poi il sollievo apparve su tutte le facce, e l'antica città di pietra echeggiò di evviva e di applausi. Miller si girò dall'altra parte per asciugarsi le lacrime mentre Giordino continuava a sorridere. Nella camera subacquea, Pitt spiegò a cenni che non poteva togliersi la maschera per parlare. Indicò che avrebbero dovuto comunicare a mezzo di segni. Shannon e Rodgers annuirono; poi Pitt cominciò a descrivere a gesti la procedura che avrebbero dovuto seguire per andarsene. Dato che i sub sperduti avevano abbandonato tutta l'attrezzatura inutile, escluse le maschere e i giubbetti equilibratori, Pitt era sicuro che sarebbe stato possibile, nonostante la corrente, trascinarli per mezzo del cavo di sicurezza attraverso la stessa galleria fino al cenote vero e proprio. Secondo le indicazioni della fabbrica, il cavo di nylon e quello telefonico potevano sostenere quasi duemilasettecento chili. Indicò a Shannon di avvolgere un braccio e una gamba intorno al cavo e di avviarsi per prima respirando con la bombola piccola. Rodgers doveva imitarla e seguirla, mentre Pitt sarebbe venuto in retroguardia, abbastanza vicino perché l'erogatore di riserva gli arrivasse alla bocca. Quando fu sicuro che fossero ben saldi e che respirassero senza difficoltà, avvertì Giordino. «Siamo in posizione e pronti per la partenza.» Giordino tacque un momento e guardò i giovani studenti di archeologia che stringevano il cavo di sicurezza, come se si preparassero al tiro alla fune. Osservò le loro espressioni impazienti e comprese che avrebbe dovuto frenare il loro entusiasmo, altrimenti avrebbero trascinato i sub nel passaggio come pezzi di carne in un tubo intasato. «Tenetevi pronti. E tu, Dirk, dammi la profondità.» «Indica poco più di diciassette metri. Molto più alto del fondo del pozzo. Siamo stati trascinati per venti metri in un passaggio in salita.» «Sei al limite», lo informò Giordino. «Ma gli altri hanno superato i limiti di tempo e di pressione. Farò il calcolo e ti comunicherò le soste per la decompressione.» «Non farle troppo lunghe. Quando la bomboletta sarà vuota, non impiegheremo molto tempo per esaurire quel po' d'aria rimasto nelle mie bombole gemelle.» «Il cielo non voglia. Se non terrò a guinzaglio questi ragazzi, vi tireranno fuori così in fretta che avrete l'impressione di essere sparati da un can-
none.» «Cerca di farli comportare da persone civili.» Giordino alzò una mano per segnalare agli studenti di cominciare a tirare. «Si va.» «Fa' entrare i giocolieri e i pagliacci», rispose allegramente Pitt. Il cavo di sicurezza si tese e incominciò la lunga, lenta operazione di traino. Il suono della corrente nella galleria era uguagliato dal gorgogliare delle bollicine d'aria degli erogatori. Pitt, che non aveva nulla da fare se non tenersi stretto al cavo, si abbandonò e si lasciò trainare contro la corrente che passava nella fenditura come l'aria attraverso un tubo Venturi. L'acqua più chiara e intorbidata dai sedimenti, all'estremità del passaggio, sembrava lontana chilometri. Il tempo non aveva più significato; a Pitt sembrava di essere immerso da un'eternità. Soltanto la voce decisa di Giordino lo aiutava a non perdere il contatto con la realtà. «Grida se tiriamo troppo forte», ordinò Giordino. «Così va bene», rispose Pitt, mentre sentiva le sue bombole che strusciavano contro la volta del passaggio. «Come stimi la velocità della corrente?» «Circa otto nodi.» «Non mi sorprende che le vostre masse corporee causino una forte resistenza. Quassù ho dieci ragazzi che stanno sputando sangue.» «Ancora sei metri e saremo fuori», comunicò Pitt. Per un minuto, forse un minuto e mezzo, lottarono per tenersi aggrappati al cavo di sicurezza, sbatacchiati dalla forza un po' ridotta della corrente; e alla fine uscirono dal passaggio e piombarono nella nube di sedimenti che vorticava sul fondo del pozzo sacrificale. Ancora un minuto e furono trascinati verso l'alto, lontani dal risucchio della corrente e nell'acqua limpida. Pitt alzò gli occhi, vide la luce che filtrava attraverso la mucillagine verdastra e provò un meraviglioso senso di sollievo. Giordino si accorse che erano liberi dal risucchio quando la tensione sul cavo di sicurezza diminuì all'improvviso. Ordinò d'interrompere l'operazione di risalita mentre controllava di nuovo sul computer portatile i dati della decompressione. Una sosta di otto minuti avrebbe sottratto Pitt al pericolo di un'embolia, ma gli altri due avevano bisogno di fermate molto più lunghe. Erano rimasti immersi per oltre due ore a profondità che andavano dai diciassette ai trentasette metri. Due soste della durata superiore a un'ora erano il minimo, per loro. Quanta aria restava nelle bombole di Pitt per tenerli in vita? Quello era il dilemma. Abbastanza per dieci minuti. Per
quindici? O per venti? Al livello del mare e alla pressione di un'atmosfera, un corpo umano normale contiene all'incirca un litro di azoto sciolto. Un sub, però, respira maggiori quantità d'aria sotto la pressione dell'acqua, e quindi la profondità fa aumentare l'assorbimento dell'azoto fino a due litri a due atmosfere (a una profondità di circa dieci metri), tre litri a tre atmosfere (trenta metri), e così via. Durante l'immersione, l'azoto in eccesso si scioglie rapidamente nel sangue, viene trasportato nell'organismo e immagazzinato nei tessuti. Quando il sub inizia la risalita, la situazione s'inverte, ma in modo assai più lento. A mano a mano che la pressione dell'acqua diminuisce, l'azoto si riversa nei polmoni e viene eliminato per mezzo della respirazione. Se però la risalita è troppo rapida, la respirazione normale non è sufficiente per eliminarlo: nel sangue, nei tessuti e nelle giunture si formano quindi bollicine di azoto che causano l'embolia da decompressione, un fenomeno che nel corso dell'ultimo secolo ha menomato o ucciso migliaia di sub. Alla fine Giordino posò il computer e chiamò Pitt. «Dirk?» «Ti sento.» «Brutte notizie. Nelle tue bombole non c'è aria sufficiente perché la signora e il suo collega possano fare le soste necessarie per la decompressione.» «Prova a dirmi qualcosa che non so», rispose Pitt. «Le bombole di scorta a bordo dell'elicottero...» «Niente da fare», gemette Giordino. «Siamo partiti dalla nave così in fretta che l'equipaggio ha caricato un compressore d'aria, ma neppure una bombola di riserva.» Pitt fissò Rodgers, che continuava a stringere la macchina fotografica e a scattare. Rodgers alzò i pollici in segno di vittoria come se avessero appena vinto al biliardo in un saloon. Pitt guardò Shannon. Gli occhi nocciola ricambiarono lo sguardo attraverso la maschera, sgranati e soddisfatti come se l'incubo fosse finito e l'eroe stesse per condurla al suo castello. Non si rendeva conto che il peggio non era ancora passato. Per la prima volta Pitt notò che aveva i capelli biondi, e si chiese che aspetto doveva avere, con addosso soltanto il costume da bagno senza l'attrezzatura per le immersioni. La fantasticheria svanì quasi nello stesso momento in cui era incominciata. Si scosse e parlò nella ricetrasmittente. «Al, hai detto che il compressore è a bordo dell'elicottero?» «Sì.»
«Manda giù la cassetta degli attrezzi. La trovi nell'armadietto.» «Non capisco», borbottò Giordino. «Le valvole multiple delle mie bombole», spiegò in fretta Pitt. «Sono i nuovi prototipi che la NUMA sta collaudando. Posso chiuderne una indipendentemente dalle altre e staccarla dal complesso senza che esca aria dalla bombola corrispondente.» «Ho capito, amico», disse Giordino, un po' tranquillizzato. «Stacchi una delle tue bombole e respiri con l'altra. Io tiro in superficie quella vuota e la riempio con il compressore. Poi ripetiamo il procedimento fino a quando non abbiamo portato a termine il programma di decompressione.» «Un'idea geniale, non ti sembra?» chiese Pitt in tono sarcastico. «Inebriante, direi», ribatté Giordino, che cercava di nascondere l'euforia. «Rimani a sei virgola cinque metri per diciassette minuti. Ti manderò la cassetta degli attrezzi con il cavo di sicurezza. Spero soltanto che il tuo piano funzioni.» «Non dubitare.» La certezza di Pitt sembrava autentica. «Quando rimetterò piede sul terreno, voglio una banda Dixieland che suoni Waiting for the Robert E. Lee.» «Pietà!» gemette Giordino. Stava correndo verso l'elicottero quando Miller gli si parò davanti. «Perché si è fermato?» chiese l'antropologo. «Santo Dio, che cosa aspetta? Li tiri su!» Giordino lo fissò con occhi gelidi. «Se li tiro in superficie adesso, moriranno.» Miller aveva l'aria di non capire. «Moriranno?» «Embolia gassosa, Doc. Ne ha mai sentito parlare?» Miller cambiò di colpo espressione e annuì lentamente. «Mi scusi. Perdoni questo vecchio irascibile. Non la disturberò più.» Giordino sorrise. Raggiunse l'elicottero e salì a bordo, senza sospettare che le parole di Miller fossero profetiche. La cassetta degli attrezzi che conteneva varie chiavi inglesi, un paio di pinze, due cacciavite e un martello da geologo con una punta da piccone a un'estremità fu legata al cavo di sicurezza con un nodo scorsoio e calata per mezzo di una sagola. Quando Pitt ebbe gli utensili nelle mani, strinse fra le ginocchia il complesso delle bombole. Chiuse una valvola e la svitò con una chiave inglese. Dopo aver staccato una bombola, la legò subito alla sagola.
«Tira su», ordinò. In meno di quattro minuti la bombola fu sollevata dalle mani volenterose che azionavano il cavo secondario, collegata al compressore e incominciò a riempirsi d'aria purificata. Giordino insultava, vezzeggiava e implorava il compressore di pompare tremilacinquecento libbre d'aria per pollice quadrato nella bombola d'acciaio da cento piedi cubici a tempo di record. L'ago della pressione sfiorava le milleottocento libbre quando Pitt gli comunicò che la bomboletta di Shannon era esaurita e che nella sua erano rimaste appena quattrocento libbre. Dato che erano in tre a servirsene per respirare, non c'era un gran margine di sicurezza. Giordino fermò il compressore quando la pressione arrivò a duemilacinquecento, e si affrettò a rimandare la bombola nel pozzo. Il processo si ripeté per tre altre volte, dopo che Pitt e gli altri due si furono portati alla successiva tappa di decompressione a tre metri, e questo significò una sosta di svariati minuti nel viscidume. Ma la procedura continuò senza intoppi. Giordino calcolò un ampio margine di sicurezza. Lasciò passare una quarantina di minuti prima di sentenziare che Shannon e Rodgers potevano raggiungere la superficie e venire issati sul bordo del cenote. Pitt, che aveva una fiducia assoluta nell'amico, non mise in discussione l'esattezza dei suoi calcoli. Diede la precedenza alla signora: fissò intorno alla vita di Shannon la cinghia collegata al cavo di sicurezza. Diede un segnale a quelli che si affacciavano al pozzo, e per Shannon incominciò la risalita. Poi toccò a Rodgers. Aveva dimenticato lo sfinimento per l'incontro ravvicinato con la morte, ed era felice di uscire dal pozzo maledetto dove, giurò, non sarebbe ritornato mai più. Aveva fame e sete. Ricordò la bottiglia di vodka che teneva nella tenda e gli venne voglia di correre a prenderla come se fosse il santo Graal. Ormai era abbastanza in alto per vedere le facce del dottor Miller e degli studenti peruviani. In vita sua non era mai stato tanto felice di vedere qualcuno. Era troppo eccitato per notare che nessuno di loro sorrideva. Mentre veniva issato oltre il bordo del pozzo, vide con orrore e sbalordimento qualcosa di completamente inaspettato. Il dottor Miller, Shannon e gli studenti peruviani indietreggiarono quando Rodgers toccò il terreno. Non appena ebbe sganciato il cavo di sicurezza notò che tutti avevano l'aria cupa e tenevano le mani intrecciate dietro la testa. C'erano sei fucili d'assalto tipo 56-1 di fabbricazione cinese, stretti minacciosamente in sei paia di mani salde. I sei uomini erano disposti in se-
micerchio intorno agli archeologi; erano piccoli, taciturni, impassibili, e indossavano poncho di lana, sandali e cappelli di feltro. Gli occhi scuri e furtivi dardeggiavano dai prigionieri a Rodgers. Per Shannon, quegli individui non erano semplici banditi di montagna che integravano il magro reddito rapinando i visitatori di viveri e oggetti che si potevano vendere al mercato. Dovevano essere gli assassini incalliti di Sendero Luminoso, il movimento rivoluzionario maoista che dal 1981 terrorizzava il Perù massacrando migliaia d'innocenti, dirigenti politici, agenti di polizia e soldati. All'improvviso fu assalita dalla paura. Gli assassini di Sendero Luminoso avevano l'abitudine di fissare esplosivi alle vittime per farle a pezzi. Dopo che il loro capo e fondatore, Abimael Guzmán, era stato catturato nel settembre del 1992, il letale movimento guerrigliero si era spaccato in schegge disorganizzate che compivano attentati con autobombe ed efferati omicidi. Queste squadre della morte, assetate di sangue, procuravano al popolo peruviano soltanto tragedie e lacrime. E adesso un gruppo di quegli individui spietati stava intorno agli archeologi, attentissimo, con gli occhi pieni di sadiche aspettative. Un uomo piuttosto anziano dai baffi enormi fece cenno a Rodgers di raggiungere gli altri prigionieri. «C'è qualcun altro là sotto?» domandò in inglese, con una lievissima traccia d'accento spagnolo. Miller esitò e lanciò un'occhiata a Giordino. Giordino indicò Rodgers con un cenno. «Quello è l'ultimo», rispose in tono di sfida. «Lui e la signora sono i soli che si erano immersi.» Il guerrigliero fissò Giordino con gli occhi opachi e neri come il carbone. Poi si avvicinò al bordo del cenote e guardò giù. Vide una testa che galleggiava nel viscidume verdastro. «Bene», disse in tono sinistro. Afferrò il cavo di sicurezza che scendeva in acqua, prese dalla cintura un machete e lo tranciò. Poi la faccia inespressiva sfoggiò un agghiacciante sorriso. L'uomo tese con disinvoltura il cavo al di sopra del bordo per un momento e poi lo lasciò ricadere nel pozzo. 4. Pitt si sentiva come quel personaggio d'un film di Stanlio e Ollio che è finito in acqua, invoca aiuto e si vede lanciare i due capi della corda. Afferrò l'estremità recisa dal cavo e la fissò con occhi increduli. Oltre al fatto che il suo mezzo di salvezza gli era piombato intorno alla testa, aveva an-
che perso ogni contatto con Giordino. Galleggiava nel viscidume ignorando completamente i terribili avvenimenti che si stavano svolgendo intorno al bordo del pozzo. Sganciò le cinghiette che trattenevano la maschera, la tolse e alzò lo sguardo, in attesa, verso l'alto. Non c'era nessuno. Pitt stava per chiedere aiuto a gran voce quando una raffica echeggiò intorno alle pareti di calcare del cenote per sessanta secondi consecutivi. L'acustica della pietra amplificò il suono, rendendolo assordante. Poi il crepitio cessò bruscamente com'era iniziato. La giungla ripiombò nel silenzio, anche se quella calma aveva qualcosa di strano. I pensieri di Pitt turbinavano. Dire che era sbigottito era poco. Cosa stava succedendo lassù? Chi sparava e contro chi? L'apprensione crebbe con il passare dei minuti e lo serrò in una morsa di paura. Doveva uscire da quel pozzo di morte. Ma come? Non aveva bisogno di un manuale d'alpinismo per capire che era impossibile scalare le pareti perpendicolari senza un equipaggiamento adeguato o un aiuto dall'alto. Giordino non l'avrebbe mai abbandonato, pensò cupamente. Mai... A meno che non fosse ferito o privo di conoscenza. Non voleva neppure considerare la possibilità che fosse morto. Afflitto e disperato, gridò verso il cielo aperto e la sua voce echeggiò nel vano profondo. L'unica risposta fu un silenzio di morte. Non riusciva a immaginare cosa stava succedendo. Era sempre più evidente che avrebbe dovuto arrangiarsi da solo. Guardò il cielo. Restavano meno di due ore di luce. Se voleva salvarsi, doveva fare subito qualcosa. Ma che avrebbero fatto gli intrusi invisibili armati di fucili? Un interrogativo lo tormentava: avrebbero aspettato che si esponesse come una mosca su un vetro prima di eliminarlo? O ritenevano che fosse già morto? Decise che era meglio non aspettare di scoprirlo. Solo la minaccia di finire gettato nella lava fusa avrebbe potuto trattenerlo per tutta la notte in quell'acqua calda e viscida. Si girò sul dorso ed esaminò le pareti che sembravano toccare una nube di passaggio, e cercò di ricordare ciò che aveva letto a proposito del calcare in un corso di geologia al college, un corso che sembrava lontano secoli. «Calcare: roccia sedimentaria composta da carbonato di calcio, una specie di miscuglio di calcite cristallina e di fango a base di carbonato, prodotto da organismi che secernevano sostanze calcaree nelle antiche scogliere coralline. I calcari hanno consistenza e colori diversi.» Non male per uno che in quel corso se l'era cavata appena discretamente, pensò Pitt. Il suo vecchio insegnante sarebbe stato fiero di lui. Per fortuna non aveva a che fare con granito o basalto. Il calcare era cri-
vellato da piccole cavità e da minuscole creste. Girò intorno alle pareti fino a quando non arrivò sotto una piccola sporgenza che spuntava a circa metà strada dalla sommità. Si tolse le bombole e il resto dell'equipaggiamento, eccettuata la cintura degli accessori, e lasciò cadere il tutto sul fondo del pozzo. Tenne soltanto le pinze e il martello-piccozza da geologo presi dalla cassetta degli attrezzi. Se per qualche ragione ignota il suo migliore amico e gli archeologi erano stati uccisi o feriti, e se era stato abbandonato a morire nel cenote in compagnia dei fantasmi delle precedenti vittime, avrebbe trovato il modo di uscirne. Per prima cosa estrasse il coltello da sub che portava legato a una gamba e tagliò due pezzi del cavo di sicurezza. Ne legò strettamente un tratto alla parte stretta del manico del martello-piccozza, vicino alla testa, in modo che non scivolasse via. Poi, all'estremità libera del cavo, fece un cappio abbastanza ampio per infilarvi un piede. Ricavò un gancio dalla fibbia della cintura degli accessori, piegandola con le pinze fino a darle una forma a C. Quindi fissò al gancio il secondo tratto del cavo con un altro cappio. Quando ebbe terminato, si trovò a disporre di attrezzi da scalata abbastanza efficienti anche se rudimentali. Ora veniva la parte più difficile. La tecnica di Pitt non era esattamente quella di uno scalatore provetto. Purtroppo non aveva mai scalato montagne; al massimo aveva percorso a piedi una pista battuta. Quel poco che aveva visto in fatto di arrampicate su pareti rocciose verticali lo aveva appreso dalla televisione o dagli articoli delle riviste. Il suo elemento era l'acqua. Il suo unico contatto con le montagne si riduceva a qualche soggiorno sciistico a Breckenridge nel Colorado. Non sapeva distinguere un chiodo da roccia (un attrezzo metallico con un anello a un'estremità) da un moschettone (un ovale metallico con una chiusura a molla che fissa la corda al chiodo da roccia). Ricordava vagamente che aveva qualcosa a che fare con la discesa lungo una corda che si avvolgeva sotto una coscia, attraverso il corpo e sopra l'altra spalla. Non ci sarebbe stato uno scalatore esperto disposto ad accettare la scommessa per cinquecento a uno che Pitt ce l'avrebbe fatta ad arrivare in cima. Ma il problema, in fatto di probabilità, era che Pitt era troppo ostinato per prenderle in considerazione. Entrò in scena il vecchio, inossidabile Dirk Pitt. Aveva la mente lucida e acuta come un ago. Sapeva che la sua vita, e forse anche le vite di altri, erano appese a un filo. La fredda decisione ebbe la meglio come era accaduto tante altre volte in passato. Con un impegno nato dalla disperazione, alzò la mano e incastrò il gan-
cio ricavato dalla fibbia in un piccolo bordo sporgente di calcare. Infilò il piede nel cappio, afferrò l'estremità superiore della corda e si issò fuori dell'acqua. Alzò il martello per quanto era possibile, un po' a lato, e affondò la punta della piccozza in un'incrinatura del calcare. Poi inserì il piede libero nel cappio e si sollevò portandosi più in alto sulla parete. A un professionista sarebbe sembrato un sistema rozzo, pensò Pitt: ma funzionava. Ripeté il procedimento, prima con il gancio a C, quindi con il martello, e si arrampicò sulla parete ripida con le gambe e le braccia che si muovevano come le zampe di un ragno. Era uno sforzo massacrante anche per un uomo in buone condizioni fisiche. Il sole era sparito sotto le cime degli alberi, come se uno spago lo strattonasse verso ovest, quando finalmente Pitt arrivò alla piccola sporgenza a metà della parete. In alto, a quanto pareva, non c'era nessuno. Rimase aggrappato a riposare, anche se la sporgenza non gli consentiva di appoggiare più di una natica. Respirò pesantemente, fino a quando i muscoli doloranti non smisero di protestare. Non riusciva a credere che la scalata gli avesse sottratto tante energie. Un esperto che conosceva tutti i trucchi, pensò, probabilmente sarebbe stato fresco come una rosa. Restò appoggiato alla parete a strapiombo del pozzo per quasi dieci minuti. Avrebbe voluto restare fermo per un'altra ora, ma il tempo passava. Dopo la scomparsa del sole, la giungla stava rapidamente scomparendo nel buio. Esaminò il rozzo attrezzo che l'aveva portato fin lì. Il martello era come nuovo, ma il gancio a C cominciava a raddrizzarsi per lo sforzo continuo di sostenere il peso morto di un corpo umano. Impiegò un minuto per piegare di nuovo il gancio battendolo con il martello contro il calcare. Aveva previsto che l'oscurità gli velasse la vista e lo costringesse a continuare a tentoni la scalata. Tuttavia, sotto di lui, si andava formando una luce strana. Si voltò a guardare l'acqua. Il cenote emetteva una bizzarra luce verde, fosforescente. Pitt non era un chimico, e poteva soltanto presumere che la strana emissione fosse causata da una reazione della mucillagine putrefatta. Grato per quell'illuminazione, anche se fioca, continuò la sfibrante arrampicata. Gli ultimi tre metri furono i peggiori. Era così vicino, eppure così lontano. L'orlo del pozzo sembrava abbastanza vicino da poterlo toccare con la punta delle dita protese. Tre metri, non di più. Tre metri soltanto. Ma era come se fosse la vetta dell'Everest. Un buon atleta delle superiori ce l'a-
vrebbe fatta anche dormendo. Ma Pitt no. Anche se non aveva ancora quarant'anni, si sentiva vecchio e stanco. Era snello e solido, stava attento alla dieta e faceva ginnastica quanto bastava per mantenere un peso costante. Aveva addosso le cicatrici di numerose ferite, incluse alcune d'armi da fuoco, ma le giunture funzionavano ancora in modo piuttosto soddisfacente. Anni prima aveva rinunciato al fumo, ma ogni tanto si concedeva un bicchiere di buon vino o una tequila on the rocks con lime. Nel corso degli anni i suoi gusti erano passati dallo scotch Cutty Sark fino al gin Bombay e alla tequila Sauza Commemorativo. Se qualcuno gli chiedeva il perché, non sapeva rispondere. Affrontava ogni giornata come se la vita fosse un gioco e i giochi fossero la vita, e le ragioni per cui faceva certe cose erano rinchiuse e sepolte ermeticamente nella sua testa. Quando arrivò alla portata del bordo del pozzo, lasciò cadere il cappio fissato al gancio a C. Per un momento le dita irrigidite tirarono per staccarlo dal calcare; un attimo dopo cadde in acqua e penetrò nello strato d'alghe fosforescenti senza sollevare spruzzi. Oltre al martello-piccozza, Pitt incominciò a usare le crepe nel calcare per puntellarsi con le mani e i piedi. Vicino alla sommità, alzò il martello sopra la testa e lo piantò al di là dell'orlo per cercare di affondarne la punta nel terreno soffice. Ci vollero quattro tentativi prima che la punta aguzza penetrasse e restasse salda. Pitt attinse alle ultime riserve d'energia, afferrò il cavo con entrambe le mani e si issò fino a che non riuscì a vedere davanti a sé il terreno piatto nell'oscurità crescente. Rimase immobile e si guardò intorno. La foresta pluviale sembrava stringersi intorno a lui. Ormai era buio, e l'unico chiarore era dato dalle poche stelle e dalla falce di luna che spuntava dalle nubi sparse e dai rami intrecciati degli alberi. Quella luce fioca illuminava le rovine antiche e conferiva loro una qualità spettrale uguagliata dall'effetto sinistro e claustrofobico della muraglia della foresta. Il silenzio pressoché assoluto amplificava l'effetto della strana scena. Pitt quasi si aspettava di vedere strani movimenti e di udire fruscii minacciosi nelle tenebre, ma non scorgeva luci né ombre in movimento e non sentiva voci. L'unico suono era il picchiettio di un'improvvisa pioggia leggera che batteva sul fogliame. Smettila di poltrire, si disse. Dai, muoviti, scopri cos'è successo a Giordino e agli altri. Il tempo vola. Hai superato soltanto la prima prova: quella era puramente fisica, ma adesso devi usare il cervello. Si allontanò dal pozzo con l'agilità di un fantasma.
Il campo era deserto. Le tende che aveva notato prima che lo calassero nel cenote erano intatte e disabitate. Non c'erano segni di carneficina o di morte. Si avvicinò alla radura dove Giordino era atterrato con l'elicottero della NUMA. Il mezzo era crivellato di proiettili dal muso alla coda. Era inutile sperare di usarlo per andare in cerca di aiuto. Nessun lavoro di riparazione sarebbe stato sufficiente per farlo volare di nuovo. Le pale spezzate pendevano come braccia distorte al gomito. Neppure una colonia di termiti sarebbe riuscita a fare un lavoro più completo su un tronco d'albero putrefatto. Pitt fiutò l'odore del carburante; gli sembrava incredibile che i serbatoi non fossero esplosi. Era fin troppo evidente che un gruppo di banditi o di guerriglieri aveva attaccato il campo e reso inservibile l'elicottero. I suoi timori si placarono un poco quando si rese conto che gli spari uditi dal pozzo erano diretti contro l'elicottero e non contro esseri umani. Il suo superiore, l'ammiraglio James Sandecker, al quartier generale nazionale della NUMA a Washington non avrebbe preso molto bene la distruzione di uno dei mezzi aerei dell'agenzia; ma Pitt aveva sfidato molte volte, senza danni, la collera dell'energico lupo di mare. Comunque, adesso non aveva importanza quello che avrebbe detto Sandecker. Giordino e i membri del progetto archeologico erano spariti, fatti prigionieri da qualche banda sconosciuta. Scostò il portello che penzolava da un cardine ed entrò nella cabina di pilotaggio. Frugò tentoni sotto il sedile del pilota fino a quando non trovò una custodia da cui estrasse una torcia elettrica. La batteria sembrava indenne. Trattenendo il respiro, fece scattare l'interruttore. Il raggio scaturì e illuminò la cabina. «Un punto per la squadra di casa», mormorò. Entrò cautamente nel vano di carico. L'uragano dei proiettili l'aveva trasformato in un caos, ma sembrava che niente fosse stato rovinato o sottratto. Trovò la sua borsa da viaggio e tirò fuori il contenuto. La camicia e i mocassini erano illesi, ma un proiettile aveva trapassato il ginocchio dei pantaloni e causato danni irreparabili ai boxer. Si tolse la tuta da sub, trovò un asciugamano e si massaggiò con vigore per togliersi dalla pelle la mucillagine del pozzo. Indossò gli abiti e i mocassini, e cercò fino a quando non trovò i cestini con il pranzo che erano stati preparati dal cuoco della nave. Il suo cestino era finito spiaccicato contro una paratia, ma quello di Giordino era rimasto intero. Pitt divorò un sandwich al burro d'arachidi, vari sottaceti e vuotò una lattina di birra. Adesso si sentiva ridiventato qua-
si umano. Tornò nella cabina di pilotaggio, aprì lo sportello di un piccolo compartimento e prese una fondina di cuoio che conteneva una vecchia Colt 45 automatica. Suo padre, il senatore George Pitt, l'aveva portata dalla Normandia all'Elba durante la seconda guerra mondiale, poi l'aveva regalata a Dirk quando si era diplomato all'Accademia aeronautica; durante i diciassette anni successivi, l'arma aveva salvato la vita a Pitt almeno due volte. Sebbene la brunitura azzurrognola fosse quasi scomparsa, l'arma era curata con ogni premura e funzionava ancor meglio di quando era nuova. Pitt notò con irritazione che un proiettile aveva perforato la fondina e scalfito il metallo. Passò la cintura negli occhielli della fondina e se la strinse intorno alla vita insieme al fodero del coltello da sub. Confezionò un piccolo paralume per contenere il fascio luminoso della torcia e perquisì il campo. Diversamente dall'elicottero, lì non c'erano tracce di sparatoria, oltre ai bossoli sparsi al suolo; le tende comunque erano state saccheggiate: le provviste asportabili e tutto il materiale utile erano stati rubati. Una rapida esplorazione del terreno soffice rivelò la direzione in cui i banditi s'erano allontanati. Un passaggio aperto a colpi di machete si addentrava obliquamente nella vegetazione prima di scomparire nell'oscurità. La foresta appariva minacciosa e impenetrabile. Era una spedizione che non avrebbe mai pensato d'intraprendere neppure in pieno giorno, tanto meno di notte. Era in balia degli insetti e dei carnivori della foresta pluviale che consideravano gli umani alla stregua di selvaggina. Poi pensò con preoccupazione anche ai serpenti. Aveva sentito parlare di boa constrictor e di anaconda che in quelle zone, si diceva, arrivavano fino a ventiquattro metri di lunghezza. Ma a causare la sua trepidazione più viva erano i serpenti velenosi come il crotalo nero, il cascabel o il terribile fer-de-lance. I mocassini bassi e i pantaloni di stoffa leggera non costituivano certo una protezione adeguata contro una vipera di pessimo umore. Sotto lo sguardo minaccioso delle grandi facce di pietra che lo fissavano dalle mura della città in rovina, Pitt si avviò a passo sostenuto, seguendo le orme sotto il raggio ristretto della torcia elettrica. Gli sarebbe piaciuto poter contare su un piano, ma brancolava nel buio. Attraversare una giungla pericolosissima e salvare gli ostaggi da un gruppo di banditi o di rivoluzionari erano imprese quasi suicide. Il fallimento sembrava inevitabile. Ma il pensiero di rassegnarsi a non far nulla o di cercare di salvare soltanto se stesso non lo sfiorava neppure.
Pitt sorrise alle facce di pietra degli dei dimenticati che a loro volta parevano contemplare il raggio della torcia. Si voltò e rivolse un'ultima occhiata al bizzarro chiarore verdognolo che saliva dal fondo del pozzo. Poi entrò nella giungla. Dopo quattro passi il fitto fogliame lo inghiottì come se non fosse mai esistito. 5. Infradiciati dalla pioggerella insistente, i prigionieri furono condotti nella foresta ammantata di muschio fino a quando la pista non terminò davanti a un profondo burrone. I sequestratori li fecero passare su un tronco caduto che serviva da ponte e raggiunsero così l'altra parte, dove seguirono i resti di un'antica strada di pietra che si snodava sulle montagne. Il capo dei terroristi procedeva a un'andatura serrata, e Miller, più degli altri, stentava a stargli dietro. Le guardie lo pungolavano senza pietà con le canne dei fucili ogni volta che restava indietro. Giordino si avvicinò, si passò un braccio di Miller sopra la spalla e lo aiutò, ignorando i colpi sferratigli dalle guardie contro le spalle e la schiena. «Tieni lontano da lui quel maledetto fucile», intimò in spagnolo Shannon al bandito. Prese l'altro braccio di Miller e se lo passò intorno al collo, per sostenere il vecchio insieme a Giordino. Il terrorista reagì sferrandole un calcio rabbioso. Shannon barcollò, cinerea in viso, e strinse le labbra per il dolore, ma ritrovò l'equilibrio e rivolse al guerrigliero un'occhiata durissima. Giordino le sorrise. Ammirava il suo spirito, la sua decisione e la forza d'animo. L'archeologa portava ancora il costume sotto la camicia di cotone senza maniche che i banditi le avevano permesso di prendere dalla tenda insieme a un paio di scarponi. Ma Giordino era anche tormentato da un senso d'inettitudine, perché non aveva modo di sottrarla ai maltrattamenti e alle umiliazioni; e si vergognava come un vigliacco perché aveva abbandonato l'amico senza tentare di battersi. Da quando l'avevano costretto ad allontanarsi dal pozzo aveva pensato almeno venti volte d'impadronirsi del fucile di una guardia. Ma così sarebbe riuscito soltanto a farsi uccidere senza risolvere nulla. Finché qualcuno restava in vita, c'era una possibilità. Giordino malediceva ogni passo che lo conduceva sempre più lontano dalla speranza di salvare Pitt. Per ore respirarono a fatica l'aria rarefatta delle Ande mentre salivano a
un'altitudine di tremilaquattrocento metri. Tutti soffrivano per il freddo. Anche se durante il giorno, con il sole fortissimo, la temperatura si alzava, nelle prime ore del mattino precipitava fin quasi allo zero. L'alba li sorprese mentre continuavano la salita lungo un'antica strada fiancheggiata da costruzioni di calcare bianco ormai in rovina, alti muri e colline terrazzate di cui Shannon non aveva mai immaginato l'esistenza. Nessuna delle strutture sembrava costruita secondo le stesse regole delle altre. Alcune erano ovali, altre rotonde, pochissime rettangolari. Sembravano bizzarramente diverse da tutte le altre costruzioni antiche che aveva studiato. Avevano fatto parte della confederazione dei Chachapuyas, si chiese, o appartenevano a un altro regno, a un'altra società? Mentre la strada di pietra proseguiva fra i muri che quasi si confondevano con la nebbia scesa dalle vette montane, Shannon osservava sbalordita le migliaia di sculture in pietra intorno a lei. Erano molto diverse da tutte quelle che le era capitato di vedere nel corso delle sue ricerche. Grandi uccelli simili a draghi e pesci a forma di serpente si mescolavano a pantere e scimmie stilizzate. I rilievi sembravano stranamente simili ai geroglifici egizi, ma erano più astratti. Era una sorpresa emozionante vedere con i suoi occhi che antichi popoli sconosciuti avevano abitato il grande altipiano e le creste delle Ande peruviane e lì avevano costruito città immense. Non aveva mai pensato di trovare una cultura così avanzata dal punto di vista architettonico, in grado di erigere sulle cime delle montagne strutture più vaste ed elaborate di quelle del mondo antico conosciuto. Avrebbe dato volentieri la Dodge Viper acquistata con l'eredità del nonno per poter indugiare abbastanza a lungo e studiare quelle rovine straordinarie. Ma ogni volta che si fermava veniva spintonata brutalmente. Il sole stava spuntando quando il gruppo uscì da uno stretto valico e passò in una piccola valle circondata da montagne. Anche se la pioggia era cessata, sembravano tutti ratti semiannegati. Davanti a loro videro un maestoso edificio di pietra che si ergeva per una dozzina di piani. Diversamente dalle piramidi dei Maya messicani, aveva una forma più arrotondata e conica, troncata in cima. Le pareti erano ornate da teste di mammiferi e uccelli. Shannon lo riconobbe: era un tempio cerimoniale dei morti. La parte posteriore della struttura s'inseriva in un dirupo scosceso di arenaria, crivellato da migliaia di grotte sepolcrali, tutte con elaborati ingressi esterni affacciati sul precipizio. Identificò con qualche incertezza come palazzo degli dei della morte una costruzione alla sommità dell'edificio, fiancheggiata da due grandi sculture di giaguari alati e piumati. Dominava una pic-
cola città che contava più di cento palazzi meticolosamente costruiti e riccamente decorati. Le varietà dell'architettura erano sorprendenti. Alcune strutture erano costruite in cima ad alte torri circondate da balconate eleganti; molte erano rotonde mentre altre, invece, sorgevano sopra basi rettangolari. Shannon rimase ammutolita. Per qualche istante l'immensità dello spettacolo la sopraffece. L'identità del grande complesso di strutture era evidente. Se doveva credere a ciò che vedeva con i suoi occhi, i terroristi di Sendero Luminoso avevano scoperto un'impensabile città perduta, una città che gli archeologi, lei compresa, dubitavano esistesse, e che i cacciatori di tesori avevano cercato per quattro secoli senza riuscire a trovarla... la perduta Città dei Morti le cui ricchezze mitiche superavano di molto quelle della Valle dei Re dell'antico Egitto. Shannon strinse convulsamente un braccio di Rodgers. «Il Pueblo de los Muertos», mormorò. «Che cosa?» chiese Rodgers senza capire. «Silenzio», intimò uno dei terroristi, piantando il calcio del fucile nel fianco di Rodgers, appena al di sopra dei reni. Rodgers soffocò un grido. Barcollò e per poco non cadde; ma Shannon lo sostenne coraggiosamente, preparandosi a un colpo che per fortuna non arrivò. Dopo un breve transito lungo un'ampia strada di pietra, si avvicinarono alla struttura circolare che torreggiava sul tempio dei morti come una cattedrale gotica su una città del Medioevo. Salirono diverse rampe di una scala straordinaria, decorata con mosaici di uomini alati: Shannon non aveva mai visto raffigurazioni simili. In alto, dopo aver oltrepassato un grande portale ad arco, entrarono in una camera con le pareti ornate da motivi geometrici intagliati. Il centro era stipato da sculture di pietra di ogni forma e tipo. Orci di ceramica e vasi dipinti erano ammonticchiati nelle camere che si aprivano su quella principale; una era piena di tessuti ottimamente conservati di tutti i disegni e i colori immaginabili. Gli archeologi erano sbalorditi nel vedere un tesoro così ricco. Per loro era come entrare nella tomba di Tutankhamon prima che i reperti venissero asportati dal famoso egittologo Howard Carter ed esposti nel Museo Nazionale del Cairo. Ma ci fu poco tempo per studiare i manufatti. I terroristi condussero gli studenti peruviani giù per una scala interna e li imprigionarono in una cella sotto il tempio superiore. Giordino e gli altri furono buttati in una camera
laterale e sorvegliati da due banditi che li guardavano come derattizzatoli che contemplano la tana di un topo. Tutti, tranne Giordino, si lasciarono cadere con un senso di sollievo sul pavimento duro e freddo; le loro facce provate tradivano lo sfinimento. In uno scatto di frustrazione, Giordino batté il pugno contro il muro di pietra. Durante la marcia forzata, aveva atteso l'occasione di dileguarsi nella giungla e tornare al cenote. Ma la possibilità di fuggire non s'era mai presentata; c'erano almeno tre guardie che a turno lo tenevano sotto mira. Era evidente che si trattava di uomini esperti nel catturare ostaggi e nel trascinarli per lunghi tratti accidentati. Ormai ogni speranza di raggiungere Pitt era svanita. Durante la marcia aveva soffocato il suo istinto e s'era comportato con docilità. A parte la doverosa premura per il dottor Miller, non aveva fatto niente per attirarsi una raffica nello stomaco. Doveva restare in vita. Se lui fosse morto, pensava, sarebbe morto anche Pitt. Se Giordino avesse immaginato che Pitt era uscito dal cenote e stava avanzando lungo l'antica strada di pietra a meno di mezz'ora di distanza, avrebbe fatto voto di correre in chiesa a pregare non appena ne avesse avuto l'occasione. O almeno avrebbe preso in considerazione quella possibilità. Pitt avanzava nella foresta pluviale con la torcia elettrica prudentemente schermata per non farsi vedere dai terroristi: il fascio luminoso era rivolto verso il basso, verso le orme nella terra soffice che si perdevano nell'oscurità. Non badava alla pioggia e si muoveva con la determinazione di chi è fuori di sé. Era indifferente al tempo che scorreva e non degnava di uno sguardo il quadrante fluorescente dell'orologio. Nella sua mente, la marcia notturna nella foresta pluviale divenne un pensiero confuso eppure assolutamente centrale. Solo quando il cielo incominciò a schiarirsi e lui poté spegnere la torcia elettrica, il suo stato d'animo migliorò. Quando aveva iniziato l'inseguimento i terroristi avevano un vantaggio di oltre tre ore. Ma aveva ridotto le distanze camminando con un'andatura costante nei punti in cui la pista saliva e corricchiando nei rari tratti pianeggianti. Non cambiava mai il passo e non si fermava per riposare. Il suo cuore cominciava a martellare per lo sforzo, ma le gambe si muovevano senza dolori o contrazioni muscolari. Dopo che ebbe raggiunto l'antica strada di pietra, il percorso diventò più facile, e lui accelerò l'andatura. Non pensava più agli orrori invisibili della giungla e, in quell'apparente notte perpetua, paure e apprensioni divennero stranamente remote. Non prestava grande attenzione alle immense strutture di pietra sgranate
lungo la strada. Continuava a procedere, in pieno giorno e sul terreno scoperto, senza tentare di nascondersi. Rallentò solo in prossimità del valico che conduceva nella valle. Lì si fermò per osservare ciò che gli stava davanti. Scorse l'immenso tempio contro lo strapiombo, lontano circa mezzo chilometro. Una figura minuscola stava in cima alla lunga scalinata, con la schiena appoggiata a un arco di pietra. Pitt non aveva dubbi: era là che i terroristi avevano portato gli ostaggi. Lo stretto valico era l'unico passaggio per entrare e uscire dalla valle scoscesa. Il timore d'imbattersi nei cadaveri di Giordino e degli archeologi fu cancellato da un'ondata di sollievo. La caccia era terminata; ora, se le prede non sapevano ancora di essere tali, dovevano venire eliminate in silenzio a una a una finché i rapporti di forza non fossero diventati accettabili. Si avvicinò, usando come riparo i muri crollati delle antiche abitazioni intorno al tempio. Si acquattò e corse senza far rumore da una rovina all'altra. Giunse così dietro una grande statua di pietra che mostrava un disegno fallico. Allora alzò lo sguardo verso l'entrata del tempio. La lunga scalinata che conduceva all'ingresso rappresentava un ostacolo formidabile. A meno che possedesse il dono dell'invisibilità, sarebbe stato falciato prima di aver salito un quarto dei gradini. Un tentativo alla luce del giorno sarebbe stato un suicidio. Era impossibile entrare, pensò rabbiosamente, impossibile evitare la scalinata. Le pareti laterali del tempio erano troppo ripide e lisce. Le pietre erano state posate con tanta precisione che neppure la lama di un coltello poteva inserirsi nelle fenditure. Poi la provvidenza gli posò una mano benevola sulla spalla. Il problema di salire la scala senza farsi vedere sparì quando Pitt si accorse che il terrorista di guardia all'entrata del tempio si era addormentato, vinto dalla stanchezza della marcia attraverso le montagne ammantate di fitta vegetazione. Pitt aspirò ed espirò profondamente, e si mosse a passi furtivi verso la scala. Tupac Amaru era un personaggio pericoloso, e ne aveva l'aria. Aveva assunto il nome dell'ultimo re inca torturato e ucciso dagli Spagnoli, ed era basso, con le spalle strette e la faccia bruna e vacua priva d'espressione. Sembrava che non avesse mai imparato a mostrare la minima pietà. Diversamente da molti montanari che avevano volti larghi, lisci e glabri, Amaru ostentava baffi enormi e lunghe basette che scendevano dalla folta massa di capelli lisci, neri quanto gli occhi vuoti. Quando le labbra sottili ed esangui s'inarcavano in un lieve sorriso, e succedeva di rado, scoprivano
una chiostra di denti che sarebbero stati l'orgoglio di un dentista. I suoi uomini, invece, sogghignavano spesso diabolicamente e rivelavano denti spezzati e irregolari, macchiati dalla coca. Amaru si era lasciato alle spalle una scia di morte e di distruzione nella zona montuosa di Amazonas, un dipartimento del Perù nord-orientale afflitto dalla miseria, dal terrorismo, dalle malattie e dalla corruzione dei burocrati. La sua banda di tagliagole era responsabile della scomparsa di numerosi esploratori, archeologi governativi e pattuglie militari che erano entrati nella regione e che nessuno aveva più rivisto. Non era il rivoluzionario che sembrava. Amaru non si curava della rivoluzione e non pensava a migliorare la sorte dei poverissimi Indios dell'entroterra peruviano, molti dei quali lavoravano poderi minuscoli per sopravvivere. Amaru aveva altre ragioni per dominare la zona e tenere sotto il suo dominio gli indigeni superstiziosi. Si fermò sulla soglia della camera e fissò impassibile i tre uomini e la donna che gli stavano davanti, notando l'espressione sconfitta nei loro occhi, la debolezza dei loro corpi. Erano nello stato in cui li voleva. «Mi scuso per il disturbo», disse. Era la prima volta che parlava dopo il sequestro. «È stato meglio che non abbiate opposto resistenza, o sareste stati uccisi.» «Parla l'inglese piuttosto bene per un guerrigliero di montagna», commentò Rodgers. «Signor...?» «Tupac Amaru. Ho frequentato l'università del Texas ad Austin.» «Belle cose fa il Texas», borbottò Giordino. «Perché ci avete sequestrati?» mormorò Shannon con voce smorzata dalla paura e dallo sfinimento. «Per ottenere un riscatto. Perché, se no?» rispose Amaru. «Il governo americano pagherà bene per la restituzione dei suoi stimati archeologi, per non parlare dei bravi studenti di archeologia, molti dei quali hanno genitori ricchi e rispettati. Il denaro aiuterà la nostra battaglia contro la repressione delle masse.» «Parla come un comunista che munge una vacca morta», commentò Giordino. «La vecchia versione russa può essere uscita dalla storia, ma la filosofia di Mao Tsetung continua a vivere», spiegò Amaru in tono paziente. «Certo che continua a vivere», ringhiò il dottor Miller. «Miliardi di dollari di danni economici. Ventiseimila peruviani morti, quasi tutti contadini di cui sostenete di dover difendere i diritti...» Le sue parole furono interrot-
te da un colpo sferrato con il calcio di un fucile alla schiena, vicino ai reni. Miller si accasciò sul pavimento come un sacco di patate, con la faccia contratta in una smorfia di sofferenza. «Non siete certo in condizioni di discutere la mia dedizione alla causa», disse freddamente Amaru. Giordino s'inginocchiò accanto al vecchio e gli sollevò la testa, poi guardò con disprezzo il capo terrorista. «Non le piacciono le critiche, eh?» Giordino si teneva pronto a parare un colpo mirato alla sua testa ma, prima che la guardia potesse alzare di nuovo il fucile, Shannon si mise in mezzo. Fissò Amaru. Nel suo viso il pallore della paura aveva lasciato il posto al rossore della collera. «È un impostore», dichiarò con fermezza. Amaru la guardò con espressione assorta. «E cosa la porta a questa bizzarra conclusione, dottoressa Kelsey?» «Sa chi sono?» «Il mio agente negli Stati Uniti mi ha segnalato la sua intenzione di esplorare le montagne prima ancora che lei e i suoi amici partiste dall'aeroporto di Phoenix in Arizona.» «Vuol dire la sua spia.» Amaru scrollò le spalle. «La semantica non conta molto.» «Un impostore e un ciarlatano», continuò Shannon. «Lei e i suoi non siete rivoluzionari di Sendero Luminoso. Tutt'altro. Non siete altro che huaqueros, ladri di tombe.» «È vero», intervenne Rodgers. «Non potete aggirarvi per le campagne facendo saltare le linee elettriche e le stazioni di polizia e accumulare al contempo l'immensa quantità di manufatti raccolta in questo tempio. È evidente: gestite un giro molto complesso di furti di manufatti che deve costituire un'attività a tempo pieno.» Amaru studiò i prigionieri con aria ironica. «Dato che ve ne siete accorti tutti, non sarò io a negarlo.» Trascorse in silenzio qualche secondo, poi il dottor Miller si alzò barcollando e guardò Amaru negli occhi. «Lurido tombarolo», gracchiò. «Saccheggiatore di antichità. Se potessi, farei eliminare te e la tua banda di predoni...» Miller s'interruppe di colpo quando Amaru, con la faccia impassibile e gli occhi pieni di cattiveria, estrasse dalla fondina un'automatica Heckler & Koch da 9 mm. Con un gesto che aveva tutta l'inevitabilità paralizzante di un sogno, sparò al petto del dottor Miller. L'eco dello sparo echeggiò nel
tempio e assordò tutti. Bastò un colpo solo. Il dottor Miller piombò riverso contro il muro per un attimo, poi crollò bocconi mentre una pozza di sangue si allargava sul pavimento. I prigionieri reagirono in modo diverso. Rodgers sembrava una statua, con gli occhi sbarrati per lo shock e l'incredulità. Shannon urlò, istintivamente. Giordino, che aveva assistito a parecchie morti violente, strinse i pugni contro i fianchi. La gelida indifferenza dell'assassinio lo riempì di una rabbia cieca, frenata dall'esasperazione dell'impotenza. Non aveva dubbi, come non ne avevano gli altri, che Amaru intendeva ucciderli tutti. Poiché non aveva niente da perdere, si tese per avventarsi sull'assassino e afferrarlo alla gola prima che quello avesse il tempo di sparargli alla testa. «Non ci provi», disse Amaru, come se gli leggesse nel pensiero, e puntò la canna dell'automatica fra gli occhi che ardevano d'odio. Inclinò la testa verso le guardie, che stavano con i fucili imbracciati, e diede un ordine in spagnolo. Poi si spostò mentre uno dei terroristi afferrava Miller per le caviglie e trascinava il corpo nella camera principale del tempio, lasciando una traccia di sangue sul pavimento di pietra. L'urlo di Shannon aveva lasciato il posto a singhiozzi irrefrenabili. Fissava a occhi sbarrati la striscia rossa sul pavimento. Crollò in ginocchio e si nascose il viso tra le mani. «Non poteva farle niente di male. Con che coraggio ha ucciso un vecchio innocuo?» Giordino fissò Amaru. «Per lui è stato facile.» Gli occhi freddi di Amaru cercarono la faccia di Giordino. «È meglio che impari a tenere la bocca chiusa, amico. Il buon dottore doveva essere una lezione che a quanto pare non hai capito.» Nessuno badò al ritorno della guardia che aveva trascinato via il corpo di Miller... nessuno tranne Giordino. Notò il cappello calcato sugli occhi, le mani nascoste sotto il poncho. Lanciò un'occhiata alla seconda guardia che stava appoggiata con noncuranza contro lo stipite, con il fucile che pendeva da una spalla. Solo due metri li separavano. Giordino calcolò che avrebbe potuto balzare addosso al terrorista prima che quello si rendesse conto di ciò che stava accadendo. Ma c'era ancora l'Heckler & Koch stretta nel pugno di Amaru. Quando Giordino parlò, la sua voce aveva un tono tagliente. «Morirai, Amaru. Morirai di morte violenta come tutti gli innocenti che hai assassinato a sangue freddo.» Amaru non notò che Giordino aveva contratto lievemente le labbra e socchiuso gli occhi. Assunse un'espressione curiosa. Poi mostrò i denti in
una risata. «Davvero? Credi che morirò, eh? Sarai tu ad ammazzarmi? Oppure sarà la signora a farmi questo onore?» Si chinò e strattonò bruscamente Shannon per farla alzare, l'afferrò per la coda di cavallo e le tirò la testa all'indietro fino a che lei non lo fissò con gli occhi sgranati e pieni di terrore. «Ti assicuro che dopo qualche ora nel mio letto striscerai per obbedire ai miei ordini.» «Oh, Dio, no!» gemette Shannon. «Mi diverte moltissimo stuprare le donne, sentirle gridare e supplicare.» Un braccio robusto passò intorno alla gola di Amaru e gli stroncò le parole sulle labbra. «Questo per tutte le donne che hai fatto soffrire», disse Pitt, con un'espressione feroce negli occhi verdi. Si liberò del poncho, puntò la canna della Colt 45 contro i pantaloni di Amaru e premette il grilletto. 6. Per la seconda volta lo spazio limitato della camera echeggiò d'uno sparo assordante. Giordino si avventò, colpì con la testa e una spalla la guardia sbalordita e la scagliò contro il muro strappandole un gemito di dolore. Vide l'espressione di orrore e di sofferenza di Amaru, gli occhi strabuzzati, la bocca spalancata in un urlo muto, l'Heckler & Koch che volava nell'aria mentre stringeva le mani sulla macchia che si allargava all'altezza dell'inguine. Poi Giordino colpì la bocca della guardia con un pugno e, quasi con lo stesso movimento, le strappò il fucile automatico. Si voltò di scatto, chinandosi nella posizione di sparo, con la canna puntata verso l'ingresso. Questa volta Shannon non urlò. Si trascinò in un angolo e sedette, immobile come una statua di cera, guardando il sangue di Amaru che le aveva macchiato le braccia e le gambe nude. Se prima era atterrita, adesso era in preda allo shock. Poi alzò gli occhi verso Pitt, pallida in viso. C'era qualche spruzzo di sangue nei suoi capelli biondi. Anche Rodgers fissava Pitt con un'espressione sbalordita. Aveva la sensazione di riconoscere gli occhi, i movimenti animaleschi. «È il sub che ci ha tirati fuori dalla grotta», esclamò, stordito. Pitt annuì. «Proprio io.» «Credevo che fosse rimasto nel cenote», mormorò Shannon con voce tremante. «Ma io sono uno scalatore alquanto abile», ribatté Pitt con un sorriso malizioso. «Mi arrampico sulle pareti dei pozzi sacri come un ragno umano.» Spinse sul pavimento Amaru come se fòsse un ubriaco caduto per
strada e posò una mano sulla spalla di Giordino. «Stai tranquillo, Al. Le altre guardie hanno visto la luce della decenza e della virtù.» Con un sorriso largo come un ponte levatoio aperto, Giordino posò il fucile automatico e lo abbracciò. «Dio, non pensavo di rivedere la tua brutta faccia.» «Me ne hai fatte passare tante! Vergognati. Non posso allontanarmi per mezz'ora senza che tu mi coinvolga in un'ondata di criminalità locale.» «Perché hai tardato tanto?» lo rimbeccò Giordino. «Ti aspettavamo parecchie ore fa.» «Ho perso l'autobus. A proposito, dov'è la mia orchestra Dixieland?» «Non le andava di suonare nei pozzi. No, sul serio, come diavolo hai fatto a risalire una parete perpendicolare e a seguirci attraverso la giungla?» «Non è stata l'impresa più divertente del mondo, credimi. Te lo racconto un'altra volta, mentre beviamo una birra.» «E le guardie? Che fine hanno fatto le altre quattro guardie?» Pitt alzò le spalle con indifferenza. «Si sono distratti e hanno avuto incidenti spiacevoli, commozioni cerebrali o fratture al cranio.» Poi si oscurò in viso. «Ho incontrato uno che trascinava il corpo di Miller fuori dell'entrata principale. Chi è stato a ucciderlo?» Giordino indicò Amaru. «Il nostro amico gli ha sparato al cuore senza una sola ragione al mondo. Ed è stato lui a buttarti sulla testa il cavo di sicurezza.» «Allora non starò a tormentarmi per il rimorso», concluse Pitt, e scrutò il viso di Amaru che, per quanto si stringesse l'inguine gemendo per il dolore, non osava abbassare lo sguardo per rendersi conto dell'entità della lesione. «È una grossa soddisfazione sapere che la sua vita sessuale è sistemata. Ha un nome?» «Si fa chiamare Tupac Amaru», rispose Shannon. «Il nome dell'ultimo imperatore inca. Probabilmente l'ha adottato per far colpo sui montanari.» «Gli studenti peruviani!» esclamò Giordino. «Li hanno portati giù per una scala, sotto il tempio.» «Li ho già liberati. Sono ragazzi coraggiosi. A quest'ora dovrebbero aver legato e impacchettato i guerriglieri in attesa dell'arrivo dei governativi.» «Non sono guerriglieri e neppure rivoluzionari. Sono tombaroli di professione che si spacciano per terroristi di Sendero Luminoso. Rubano le antichità preziose per venderle tramite i canali del commercio clandestino internazionale.» «Amaru è solo la base di un totem», aggiunse Rodgers. «I suoi clienti
sono i distributori che ricavano i profitti più cospicui.» «Hanno buon gusto», commentò Pitt. «A giudicare da quel poco che ho intravisto, qui ci deve essere merce di prima scelta, sufficiente per accontentare metà dei musei e dei collezionisti privati del mondo.» Shannon esitò un momento, poi si avvicinò a Pitt, gli passò le mani intorno al collo, gli abbassò la testa e lo baciò leggermente sulle labbra. «Ci ha salvato la vita. Grazie.» «E non una volta sola, ma due», disse Rodgers e strinse energicamente la mano di Pitt mentre Shannon gli stava ancora aggrappata. «È stato merito soprattutto della fortuna», dichiarò Pitt, con un imbarazzo che non era da lui. Nonostante i capelli bagnati, l'assenza del trucco, la camicetta sporca e lacera infilata sopra il costume da bagno e gli assurdi scarponi, sentiva in Shannon una forte carica sessuale. «Grazie a Dio è arrivato al momento giusto», disse Shannon con un brivido. «Mi dispiace di essere comparso troppo tardi per salvare Miller.» «Dove l'hanno portato?» chiese Rodgers. «Ho fermato il delinquente che lo trascinava appena fuori dell'ingresso del tempio. Doc è sulla terrazza, in cima alla scalinata.» Giordino squadrò l'amico dalla testa ai piedi, e notò la quantità di tagli e di scalfitture sulle braccia e sul viso, causati dalla corsa al buio nel cuore della notte. Gli sembrava sul punto di crollare. «Hai l'aria di qualcuno che ha appena finito di disputare un triathlon ed è caduto su un rotolo di filo spinato. Come capo sciamano, ti consiglio qualche ora di riposo prima che ci mettiamo in marcia per tornare al campo.» «Sembro più malconcio di quello che sono», dichiarò allegramente Pitt. «Avrò tempo per dormire più tardi. Prima le cose più importanti. Non ho nessuna voglia di fare di nuovo il Tarzan. Me ne andrò da qui con il primo volo.» «Che vergogna», borbottò Giordino. «Poche ore nella giungla e vai a pezzi.» «Crede davvero che possiamo andarcene da qui in volo?» chiese Shannon con aria scettica. «Assolutamente», disse Pitt. «Anzi, lo garantisco.» Rodgers lo fissò. «Solo un elicottero potrebbe entrare e uscire dalla valle.» Pitt sorrise. «E io non accetterei niente altro. Come pensate che faccia Amaru, o comunque si chiami, a trasportare la refurtiva fino a un porto per
spedirla fuori del Paese? Deve avere un sistema di comunicazioni, e quindi deve esserci una radio. Potremmo appropriarcene e usarla per lanciare una richiesta d'aiuto.» Giordino annuì. «Mi sembra sensato. Purché troviamo la radio. Una portatile potrebbe essere nascosta chissà dove, nelle rovine qui intorno. Rischiamo d'impiegare giorni e giorni per cercarla.» Pitt fissò Amaru con aria impassibile. «Lui sa dov'è.» Amaru, lottando contro il dolore, ricambiò lo sguardo con occhi maligni. «Non abbiamo radio», sibilò stringendo i denti. «Scusami tanto, ma non ti credo. Dove la tieni?» «Non dirò niente.» Amaru storse la bocca. «Preferisci morire?» chiese Pitt in tono asciutto. «Se mi uccidessi mi faresti un favore.» Gli occhi verdi di Pitt erano gelidi come un lago d'alta montagna. «Quante donne hai violentato e assassinato?» L'espressione di Amaru era sprezzante. «Sono tante che ho perso il conto.» «Vuoi che mi arrabbi e ti faccia fuori, è così?» «Perché non mi domandi quanti bambini ho assassinato?» «Ti illudi.» Pitt prese la Colt 45 e puntò la canna contro una guancia di Amaru. «Ucciderti? Non ci guadagnerei niente. Sarebbe più appropriato un colpo attraverso gli occhi. Resteresti in vita, ma oltre all'altra recente menomazione, saresti anche cieco.» Amaru ostentò un'aria arrogante, ma c'era una paura inequivocabile negli occhi opachi, e le labbra gli tremavano. «Stai bluffando.» «Dopo gli occhi, le ginocchia», continuò Pitt, in tono discorsivo. «Poi le orecchie, o meglio ancora il naso. Se fossi in te, mi ritirerei, finché sono in vantaggio.» Amaru si rese conto che Pitt faceva sul serio e che non c'erano vie di scampo. Cedette. «Troverai quello che cerchi in una costruzione rotonda, cinquanta metri a ovest del tempio. C'è una scimmia scolpita sopra la porta.» Pitt si rivolse a Giordino. «Prendi con te uno degli studenti perché faccia da interprete. Mettiti in contatto con le autorità peruviane più vicine. Comunica la nostra posizione e la situazione in cui ci troviamo. Chiedi che mandino un'unità dell'Esercito. Potrebbero esserci altri banditi nascosti fra le rovine.» Giordino guardò Amaru con aria pensierosa. «Se trasmetto una richiesta
di soccorso su una frequenza aperta, gli amici di questo maniaco omicida che stanno a Lima potrebbero captarla e far piombare qui un'armata di delinquenti prima dell'arrivo dei militari.» «Può essere rischioso fidarsi dell'Esercito», intervenne Shannon. «È possibile che sia implicato qualcuno dei loro alti ufficiali.» «Sono le tangenti a far girare il mondo», commentò Pitt in tono filosofico. Rodgers annuì. «Shannon ha ragione. Qui si tratta di un saccheggio di tombe su vasta scala. I profitti potrebbero facilmente uguagliare quelli di un grosso giro di contrabbando di droga. Chiunque sia il cervello, non può svolgere la sua attività senza pagare vari funzionali del governo.» «Possiamo usare la nostra frequenza per chiamare Juan», suggerì Shannon. «Juan?» «Juan Chaco, il coordinatore del governo peruviano per il nostro progetto. È responsabile del nostro centro rifornimenti nella città più vicina.» «È fidato?» «Credo di sì», rispose Shannon senza esitare. «Juan è uno degli archeologi più rispettati del Sudamerica, un illustre studioso delle culture andine. È anche il cane da guardia del governo per quanto riguarda gli scavi illegali e il contrabbando di oggetti antichi.» «Mi sembra che possa andare», disse Pitt a Giordino. «Trova la radio, chiamalo, e chiedigli di mandare un elicottero che ci riporti subito alla nave.» «Andrò anch'io, per dare a Juan la notizia dell'assassinio di Doc», propose Shannon. «E vorrei dare un'occhiata alle strutture intorno al tempio.» «Non dimenticate di portare con voi un'arma e tenete gli occhi bene aperti», raccomandò Pitt. «E il corpo di Doc?» chiese Rodgers. «Non possiamo lasciarlo così.» «Sono d'accordo», ammise Pitt. «Portatelo nel tempio, al riparo dal sole, e avvolgetelo nelle coperte fino a quando non sarà possibile caricarlo su un elicottero e consegnarlo al medico legale più vicino.» «Ci penso io», disse rabbiosamente Rodgers. «È il meno che posso fare per lui.» Amaru sogghignò odiosamente, nonostante la sofferenza. «Siete pazzi, tutti pazzi», ringhiò. «Non lascerete vivi il Pueblo de los Muertos.» «Pueblo de los Muertos, in spagnolo, significa 'Città dei Morti'», spiegò Shannon.
Gli altri guardarono Amaru, disgustati. Ai loro occhi era un serpente a sonagli ridotto all'impotenza, incapace di avvolgersi nelle sue spire e di attaccare. Ma Pitt lo considerava ancora pericoloso e non intendeva commettere l'errore fatale di sottovalutarlo. Non gli piaceva la strana espressione di sicurezza negli occhi del criminale. Non appena gli altri furono usciti, s'inginocchiò davanti ad Amaru. «Mi sembri molto sicuro, per un uomo nella tua situazione.» «Sarò io l'ultimo a ridere.» La faccia di Amaru si contrasse in una smorfia improvvisa di dolore. «Hai tagliato la strada a uomini molto potenti. La loro collera sarà terribile.» Pitt sorrise con indifferenza. «Mi sono scontrato altre volte con uomini potenti.» «Hai sollevato un lembo della cortina e hai messo in pericolo il Solpemachaco. Loro faranno quanto è necessario per non essere smascherati, anche se ciò dovesse significare l'eliminazione di un'intera provincia.» «I tuoi amici non hanno certo un buon carattere. Come li hai chiamati?» Amaru tacque. Lo shock e l'emorragia lo rendevano sempre più debole. Lentamente e con grande fatica sollevò una mano e puntò l'indice verso Pitt. «Sei maledetto. Le tue ossa riposeranno per sempre con i Chachapuyas.» Poi i suoi occhi si appannarono, si chiusero. Svenne. Pitt si girò verso Shannon. «Chi sono i Chachapuyas?» «Erano conosciuti come il Popolo delle Nuvole», spiegò lei. «Appartenevano a una cultura preincaica fiorita sulle Ande dall'800 al 1480 dopo Cristo, quando furono sottomessi dagli Inca. Furono i Chachapuyas a costruire questa complessa necropoli per i loro morti.» Pitt si alzò, si tolse il cappello della guardia e lo buttò sul petto di Amaru. Poi si voltò, entrò nella camera principale del tempio e per qualche minuto esaminò l'incredibile tesoro dei manufatti dei Chachapuyas. Stava ammirando un grosso sarcofago di argilla quando arrivò correndo Rodgers. Aveva l'aria preoccupata. «Dove ha detto che ha lasciato Doc Miller?» chiese ansimando. «Sulla terrazza, in cima alla scalinata esterna.» «Sarà meglio che me lo mostri.» Pitt lo seguì oltre l'arcata. Si fermò, fissò una macchia di sangue sulla pietra, poi rialzò la testa con aria interrogativa. «Chi ha spostato il corpo?» «Se non lo sa lei», ribatté Rodgers, altrettanto sconcertato, «io non lo so di certo.» «Ha guardato intorno alla base del tempio? Forse è caduto.»
«Ho mandato giù quattro studenti a cercare, e non hanno trovato tracce di Doc.» «È possibile che sia stato qualcuno degli studenti a portarlo via?» «Mi sono informato. Sono sbalorditi quanto noi.» «I cadaveri non si alzano e non vanno a spasso», commentò seccamente Pitt. Rodgers si guardò intorno e scrollò le spalle. «Be', sembra che questo l'abbia fatto.» 7. Il condizionatore ronzava e faceva circolare l'aria secca e fresca all'interno della grossa motor home che serviva come base per il progetto archeologico a Chachapoyas. E l'uomo sdraiato sul divano di cuoio era molto meno stanco degli uomini e delle donne che si trovavano nella valle di Viracocha. Juan Chaco riposava languido e teneva ben stretto il bicchiere di gin and tonic ghiacciato. Ma si sollevò a sedere, attentissimo, quando una voce giunse attraverso l'altoparlante montato sul divisorio dietro il compartimento di guida. «San Giovanni chiama san Pietro», disse la voce secca e chiara. «San Giovanni chiama san Pietro. Ci sei?» Chaco si spostò in fretta all'interno della comoda motor home e premette il pulsante della trasmissione. «Sono qui in ascolto.» «Metti in funzione il registratore. Non ho il tempo di ripetere o di spiegare la situazione in modo dettagliato.» Chaco diede il ricevuto e attivò il registratore. «Tutto pronto.» «Amaru e i suoi seguaci sono stati sopraffatti e catturati. In questo momento gli archeologi li tengono prigionieri. Amaru è stato colpito, forse in modo grave.» Chaco si oscurò. «Com'è possibile?» «Uno degli uomini della NUMA che hanno risposto alla tua richiesta di soccorso è riuscito a fuggire dal cenote e ha inseguito Amaru e i suoi prigionieri fino al tempio della valle, dove è riuscito a sopraffare uno dopo l'altro i nostri tagliagole troppo pagati.» «E chi può aver fatto una cosa simile?» «Un diavolo molto pericoloso e ricco di risorse.» «Sei sano e salvo?» «Per il momento.»
«Allora il piano per spaventare gli archeologi in modo che se ne stessero lontani dai nostri terreni di raccolta sarebbe fallito.» «Disastrosamente», rispose l'interlocutore. «Quando la dottoressa Kelsey ha visto i manufatti in attesa di spedizione, ha intuito la verità.» «E Miller?» «Non sospettano di niente.» «Qualcosa, almeno, è andato per il verso giusto», disse Chaco. «Se mandi un contingente prima che lascino la valle», spiegò la voce, «potremo ancora salvare l'operazione.» «Non avevamo intenzione di far male ai nostri studenti peruviani», disse Chaco. «Le ripercussioni da parte dei miei compatrioti segnerebbero la fine di ogni affare fra di noi.» «Troppo tardi, amico mio. Ormai hanno capito di essere stati sequestrati da un'organizzazione di saccheggiatori anziché da terroristi di Sendero Luminoso; e non possiamo permettere che rivelino quanto hanno visto. Non abbiamo altra scelta: dobbiamo eliminarli.» «Tutto questo non sarebbe successo se avessi impedito alla dottoressa Kelsey e a Miles Rodgers d'immergersi nel pozzo sacro.» «A meno di commettere un omicidio davanti agli studenti, era impossibile fermarli.» «Lanciare la richiesta di soccorso è stato un errore.» «No, se vogliamo evitare un'inchiesta seria da parte delle nostre autorità. Gli annegamenti sarebbero sembrati sospetti se non si fosse fatto qualcosa per cercare di salvare i due. Non possiamo permettere che il Solpemachaco venga smascherato agli occhi dell'opinione pubblica. E poi, come potevamo immaginare che sarebbe stata la NUMA a rispondere?» «È vero. In quel momento era impensabile.» Mentre parlava, Chaco girò gli occhi sulla statuetta d'un giaguaro alato che era stato dissepolto nella valle dei morti. Dopo un po' disse, a voce bassa: «Farò in modo che i nostri mercenari dell'Esercito peruviano scendano nel Pueblo de los Muertos con l'elicottero entro due ore». «Ti fidi dell'ufficiale che li comanderà?» Chaco sorrise. «Se non mi fido di mio fratello, di chi posso fidarmi?» «Io non ho mai creduto alla resurrezione dei mortali.» Pitt osservava la pozza cremisi sulla terrazza al culmine della scalinata semiverticale che scendeva verso il fondo della valle. «Ma questo è l'esempio più convincente che abbia mai visto.»
«Era morto», disse Rodgers, in tono sicuro. «Gli stavo vicino come adesso sono vicino a lei, quando Amaru gli ha sparato al cuore. C'era sangue dappertutto. L'ha visto anche lei, steso a terra. Non può dubitare che Doc fosse morto.» «Non ho avuto il tempo di fargli l'autopsia.» «D'accordo, ma come spiega la scia di sangue dalla camera interna dove Amaru gli ha sparato? Devono essercene quattro litri sparsi da qui a là.» «Diciamo mezzo litro», rettificò Pitt in tono pensieroso. «Sta esagerando.» «Per quanto tempo calcola che il corpo sia rimasto qui da quando ha messo fuori combattimento la guardia e ha liberato gli studenti che sono accorsi per legarla?» chiese Rodgers. «Quattro minuti. Al massimo cinque.» «E in cinque minuti un morto quasi settantenne ha disceso duecento scalini strettissimi disposti in un angolo di settantacinque gradi. Scalini che non possono essere affrontati più di uno alla volta, se non si vuole cadere. E poi è sparito senza spargere un'altra goccia di sangue...» Rodgers scosse la testa. «Houdini sarebbe morto d'invidia.» «È proprio sicuro che fosse Doc Miller?» chiese pensosamente Pitt. «Certo, era Doc», ribatté subito Rodgers. «Chi altri poteva essere?» «Lo conosceva da molto tempo?» «Di fama, almeno da quindici anni. Personalmente l'avevo incontrato appena cinque giorni fa.» Rodgers fissò Pitt come se avesse di fronte un pazzo. «Mi ascolti: sta cercando pesci in un deserto. Doc è uno dei maggiori antropologi del mondo. Per le antiche culture americane lui era come Leakey per la preistoria africana. La sua faccia figurava su cento articoli pubblicati da dozzine di riviste, dallo Smithsonian al National Geographic. Aveva commentato innumerevoli documentari televisivi sull'uomo primitivo. Non era un eremita: amava la pubblicità. Era facilmente riconoscibile.» «Era solo un tentativo», disse Pitt in tono paziente. «Non c'è niente di meglio di una trama assurda per stuzzicare la mente...» S'interruppe quando Shannon e Giordino apparvero correndo intorno alla base circolare del tempio. Persino da quella distanza si vedeva che erano agitati. Attese che Giordino fosse arrivato a metà scalinata, poi gridò: «Non me lo dire. Qualcuno è arrivato alla radio prima di te e l'ha sfasciata». Giordino si fermò, appoggiandosi alla scala ripida. «Sbagliato», gridò di
rimando. «È scomparsa. Sottratta da una o più persone rimaste sconosciute.» Quando Shannon e Giordino arrivarono alla sommità della scala, ansimavano entrambi per lo sforzo ed erano coperti di sudore. Shannon si asciugò delicatamente la faccia con uno dei fazzolettini di carta che le donne hanno sempre a portata di mano nei momenti cruciali. Giordino si accontentò di passarsi sulla fronte una manica già fradicia. «Chi ha costruito questo coso», borbottò fra un respiro e l'altro, «avrebbe dovuto installare un ascensore.» «Avete trovato la tomba con la radio?» chiese Pitt. Giordino annuì. «Certo, l'abbiamo trovata. È gente che non bada a spese. La tomba era arredata che manco alla Casa Bianca... I più bei mobili da giardino che si possano trovare in commercio. C'era persino un generatore portatile per alimentare un frigorifero.» «Vuoto?» chiese Pitt. Giordino annuì di nuovo. «Il mascalzone che si era portato via la radio aveva trovato anche il tempo di distruggere quattro confezioni da sei di ottima birra Coors.» «La Coors in Perù?» chiese Rodgers in tono dubbioso. «Posso mostrare le etichette sulle bottiglie rotte», gemette Giordino. «Qualcuno ha voluto farci soffrire la sete.» «Non c'è pericolo, con una giungla subito al di là del valico», commentò Pitt con un sorriso appena accennato. Giordino lo fissò ma non ricambiò il sorriso. «Allora come facciamo a chiamare i Marine?» Pitt alzò le spalle. «Ora che la radio dei saccheggiatori di tombe è sparita, e quella del nostro elicottero sembra un pezzo di groviera...» S'interruppe e si rivolse a Rodgers. «E il vostro sistema di comunicazioni, sul sito del cenote?» Il fotografo scosse la testa. «Uno degli uomini di Amaru ha sparato alla nostra radio e l'ha ridotta nelle stesse condizioni della vostra.» «Non ditemi», mormorò Shannon in tono rassegnato, «che dovremo marciare per trenta chilometri attraverso la foresta primordiale e raggiungere il cenote e per altri novanta chilometri fino a Chachapoyas.» «Forse Chaco comincerà a preoccuparsi quando si accorgerà che ha perso il contatto con noi e manderà qualcuno a indagare», disse speranzoso Rodgers. «Anche se riuscissero a seguirci fino alla Città dei Morti», mormorò Pitt,
«arriverebbero troppo tardi. Troverebbero soltanto cadaveri sparsi fra le rovine.» Tutti lo guardarono incuriositi. «Amaru ha detto che abbiamo disturbato i piani di uomini potenti», spiegò Pitt, «e non ci permetteranno di lasciare vivi la valle per timore che smascheriamo il traffico di antichità.» «Ma se avevano intenzione di ucciderci», osservò Shannon in tono incerto, «perché ci hanno portati qui? Tanto valeva che sparassero a tutti e gettassero i nostri resti nel pozzo.» «Per fare in modo che sembrasse un attacco di Sendero Luminoso, probabilmente avevano deciso di prendere ostaggi e chiedere un riscatto. Se il governo peruviano, i dirigenti delle università americane o le famiglie degli studenti di archeologia avessero pagato somme enormi per la nostra liberazione, tanto meglio. Avrebbero considerato il denaro del riscatto come un'aggiunta ai profitti del contrabbando, e vi avrebbero assassinati comunque.» «Ma chi sono?» chiese bruscamente Shannon. «Amaru ha parlato del Solpemachaco, qualunque cosa possa significare.» «Solpemachaco...» ripeté Shannon. «È un mito su una specie di idra. Una leggenda popolare tramandata nei secoli descriveva il Solpemachaco come un serpente malefico con sette teste che risiede in una grotta. Uno dei miti afferma che vive qui, nel Pueblo de los Muertos.» Giordino sbadigliò con fare indifferente. «Mi sembra una brutta sceneggiatura imperniata sull'ennesimo mostro uscito dalle viscere della terra.» «Probabilmente è un abile gioco di parole», disse Pitt. «Una metafora usata come nome in codice per un'organizzazione criminosa internazionale con grosse ramificazioni nel mercato clandestino delle antichità.» «Le sette teste del serpente potrebbero rappresentare i capi dell'organizzazione», suggerì Shannon. «Oppure sette basi diverse», aggiunse Rodgers. «Ora che abbiamo chiarito il mistero», intervenne ironicamente Giordino, «perché non togliamo le tende e non facciamo ritorno al pozzo sacro prima che Sioux e Cheyenne arrivino alla carica dal valico?» «Perché ci staranno aspettando sul posto», disse Pitt. «Secondo me, non dovremmo muoverci.» «Crede davvero che manderanno qualcuno a ucciderci?» chiese Shannon con un'espressione più di collera che di paura.
Pitt annuì. «Sono pronto a scommetterci la pensione. Chi ha portato via la radio ha parlato certamente di noi. Prevedo che i suoi amici piomberanno nella valle come calabroni infuriati tra...» Diede un'occhiata all'orologio prima di continuare. «Fra un'ora e mezzo circa. E spareranno a chiunque somigli lontanamente a un archeologo.» «Non mi sembra una prospettiva piacevole», mormorò Shannon. «Abbiamo sei fucili automatici più la pistola di Dirk, e credo che potremmo scoraggiare per dieci minuti una banda di due dozzine di tagliagole», borbottò Giordino. «Non possiamo restare a batterci contro criminali armati», protestò Rodgers. «Ci massacrerebbero.» «E dobbiamo tenere conto anche degli studenti», disse Shannon, che era impallidita. «Prima di abbandonarci a un'orgia di pessimismo», disse Pitt come se non avesse una sola preoccupazione al mondo, «propongo di radunare tutti e abbandonare il tempio.» «E poi cosa faremo?» chiese Rodgers. «Anzitutto, cercheremo la pista d'atterraggio usata da Amaru.» «A che scopo?» Giordino alzò gli occhi al cielo. «Conosco quell'espressione. Pitt sta meditando un altro piano machiavellico.» «Non è troppo complicato», spiegò con pazienza Pitt. «Dopo che i mascalzoni saranno atterrati e cominceranno a darci la caccia fra le rovine, prenderemo a prestito il loro elicottero e partiremo in cerca del più vicino albergo a quattro stelle e di un bagno ristoratore.» Vi fu un momento di silenzio incredulo. Tutti guardavano Pitt come se fosse appena uscito da un'astronave marziana. Giordino fu il primo a parlare. «Visto?» commentò con un gran sorriso. «Che vi avevo detto?» 8. Pitt aveva previsto un intervallo di un'ora e mezzo; e la stima risultò sbagliata di dieci minuti appena. Il silenzio della valle venne infranto dalle pale che sferzavano l'aria mentre due grossi elicotteri militari peruviani superavano una sella fra due vette e giravano in cerchio sopra gli antichi edifici. Effettuarono una rapida ricognizione della zona, quindi scesero in una radura fra le rovine a meno di cento metri dalla parte anteriore del tempio
conico. I soldati uscirono in fretta dai portelloni posteriori e si schierarono sull'attenti, come in attesa di un'ispezione. Non erano soldati normali, impegnati a preservare la pace della loro nazione, bensì mercenari, pronti a lavorare per il miglior offerente. Agli ordini del comandante, un capitano assurdamente vestito in alta uniforme, i due plotoni di trenta uomini ciascuno si schierarono in formazione serrata affiancata da due tenenti. Quando fu certo che la linea era ben diritta, il capitano alzò il frustino sopra la testa e accennò agli ufficiali di sferrare l'attacco contro il tempio. Poi salì su un muretto per dirigere la battaglia unilaterale da quella che gli sembrava una posizione sicura. Il capitano urlò parole d'incoraggiamento ai suoi, esortandoli a salire alla carica la scalinata del tempio. La voce echeggiava in virtù dell'acustica particolare delle rovine. Ma poi s'interruppe ed emise un suono strano che parve segnalare un attacco di nausea dolorosa. S'irrigidì per un istante, con una smorfia d'incomprensione sul volto, s'inclinò in avanti e cadde dal muro. Atterrò battendo la nuca. Un tenente basso e grasso in uniforme da combattimento accorse e s'inginocchiò accanto a lui, alzò gli occhi verso il palazzo funebre, aprì la bocca per gridare un ordine, poi si accasciò sul corpo del suo superiore. Il crepitio secco di un fucile 56-1 fu l'ultima cosa che sentì prima di morire. Dalla terrazza alla sommità del tempio, sdraiato bocconi dietro una piccola barricata di pietre, Pitt guardò la fila dei soldati confusi attraverso il mirino del fucile e sparò altri quattro colpi, eliminando l'ultimo ufficiale rimasto. Non c'erano né sorpresa né paura sul suo volto mentre scrutava quel gruppo di mercenari: negli occhi verdi brillava uno sguardo deciso. La sua resistenza era in effetti una diversione che aveva lo scopo di salvare la vita di tredici innocenti. Era inutile sparare al di sopra delle teste dei soldati per rallentare l'assalto. Erano venuti per uccidere tutti i testimoni di un'attività criminale. Uccidere o essere uccisi... era una frase fatta ma vera. I mercenari non avrebbero avuto pietà. Pitt non era spietato. I suoi occhi non erano mai duri come l'acciaio o freddi come il ghiaccio. Non lo divertiva uccidere uno sconosciuto. Il suo rammarico più grande stava nel fatto di non poter sparare agli uomini senza volto che erano i veri responsabili dei crimini. Cautamente, ritirò il fucile dalla stretta feritoia fra le pietre ed esaminò il terreno sottostante. I mercenari peruviani si erano sparsi dietro le rovine. Qualcuno sparò verso il tempio, e i proiettili scalfirono le sculture prima di rimbalzare e di perdersi sibilando nella parete di roccia piena di tombe.
Non erano combattenti ben addestrati e disciplinati, capaci di riprendersi in fretta se colti alla sprovvista. L'uccisione degli ufficiali li aveva sconcertati, ma non era bastata a fermarli. I sergenti avevano preso il comando e adesso cercavano di eliminare la resistenza imprevista. Pitt si riparò dietro la barricata di pietre mentre i proiettili delle armi automatiche piombavano contro le colonne esterne e facevano volare schegge di pietra in tutte le direzioni. Non era una sorpresa. I peruviani stavano creando un fuoco di copertura mentre correvano da un rudere all'altro, avvicinandosi sempre di più alla base della scala che portava all'entrata del tempio. Muovendosi come un granchio, Pitt si spostò lateralmente e s'infilò al riparo nel palazzo dei morti prima di alzarsi in piedi e di correre verso il muro posteriore. Poi si affacciò con circospezione da una finestra ad arco. I soldati sapevano che i muri rotondi del tempio erano troppo lisci per poterli attaccare scalandoli, e troppo ripidi perché i difensori potessero fuggire, e quindi non si erano spinti verso la parete posteriore. Pitt prevedeva che avrebbero scommesso il tutto per tutto su un attacco frontale della scalinata. Ma non aveva immaginato che avessero intenzione di ridurre in macerie gran parte del palazzo dei morti in cima al tempio prima di salire. Tornò in fretta alla barricata e sparò una lunga raffica con il fucile automatico cinese fino a quando l'ultimo proiettile non sibilò attraverso il pavimento di pietra. Rotolò su un fianco. Stava per inserire un altro caricatore quando sentì un uoosh e un proiettile a carica cava, sparato da un lanciarazzi tipo 69 della Repubblica Popolare Cinese, salì verso l'alto e scoppiò contro un fianco del tempio, otto metri dietro di lui. Ci fu un'esplosione tonante che scagliò all'intorno i frammenti di pietra e aprì un grande squarcio nel muro. In pochi secondi l'antico sacrario degli dei della morte fu invaso da macerie e dal lezzo sgradevole degli esplosivi ad alto potenziale. Le orecchie di Pitt rimbombavano per il fragore della detonazione e per i battiti del suo cuore. Per un momento non vide nulla, e la polvere gli invase il naso e la gola. Si fregò convulsamente gli occhi e guardò le rovine circostanti. Ebbe appena il tempo di vedere la nube di fumo nero e il lampo vivido del lanciarazzi. Si acquattò con le mani sopra la testa mentre un altro razzo investiva le antiche pietre, esplodendo con un rombo assordante. Il colpo gli fece piovere addosso schegge e frammenti, e gli mozzò il respiro. Per un momento restò immobile, semisvenuto. Poi si sollevò faticosa-
mente sulle mani e sulle ginocchia, tossì, afferrò il fucile e si trascinò di nuovo all'interno del palazzo. Diede un'ultima occhiata alla montagna di manufatti preziosi e fece un'altra visita ad Amaru. Il saccheggiatore di tombe aveva ripreso conoscenza. Guardò con odio Pitt e si strinse le mani sull'inguine incrostato di sangue. C'era in lui, adesso, una strana freddezza, un'indifferenza totale al dolore. Irradiava malvagità. «I tuoi amici hanno istinti distruttivi», disse Pitt mentre un altro razzo colpiva il tempio. «Sei in trappola», gracchiò sottovoce Amaru. «Grazie al finto omicidio dell'impostore che impersonava il dottor Miller. Ha portato via la radio e ha chiamato i rinforzi.» «È venuto il tuo momento per morire, porco yankee.» «Porco yankee?» ripeté Pitt. «Erano secoli che nessuno mi chiamava così.» «Adesso soffrirai come hai fatto soffrire me.» «Spiacente, ma ho altri progetti.» Amaru tentò di sollevarsi su un gomito e di dire qualcosa, ma Pitt si era già allontanato. Corse di nuovo all'apertura sul retro. Accanto alla finestra c'erano un materasso e un paio di coltelli che aveva sottratto all'alloggio scoperto in una tomba da Giordino e Shannon. Appoggiò il materasso sul davanzale, sollevò le gambe verso l'esterno e si sedette. Poi buttò via il fucile, strinse i coltelli e guardò con apprensione il terreno venti metri più sotto. Ricordava un'occasione in cui aveva effettuato un lancio con la corda elastica in un canyon sull'isola di Vancouver nella Columbia Britannica. Lanciarsi nel vuoto, pensò, era contrario alla natura umana. Ma ogni esitazione e ogni dubbio svanirono di colpo quando un quarto razzo piombò nel tempio. Piantò i tacchi sul pendio ripido e incastrò le lame dei coltelli nei blocchi di pietra per usarli come freni. Si guardò alle spalle, poi si lanciò oltre il davanzale e scivolò giù per il muro, usando il materasso come uno slittino. Giordino, seguito da Shannon, dagli studenti e da Rodgers che veniva in retroguardia, salì cautamente la scala della tomba sotterranea in cui si erano nascosti poco prima dell'atterraggio degli elicotteri. Si fermò, si sporse da dietro un muro crollato e si guardò intorno. Gli elicotteri erano appena a cinquanta metri, con i motori al minimo; gli equipaggi, formati ognuno da due uomini, attendevano tranquilli negli abitacoli e assistevano all'assalto
contro il tempio. Shannon si affiancò a Giordino e sbirciò oltre il muro giusto in tempo per vedere un razzo che abbatteva l'arcata d'ingresso del palazzo. «Distruggeranno i manufatti», disse in tono di rammarico. «Non è preoccupata per Dirk?» Giordino le lanciò una rapida occhiata. «Sta rischiando la vita per noi, e tiene a bada un esercito di mercenari perché possiamo rubare un elicottero.» Shannon sospirò. «Per un archeologo è sempre doloroso vedere antichità preziose che vanno perdute per sempre.» «Meglio quel vecchiume che noi.» «Mi scusi. Anch'io voglio che Pitt si salvi. Ma sembra impossibile.» «Lo conosco da quando eravamo ragazzini.» Giordino sorrise. «Mi creda, non s'è mai lasciato sfuggire l'occasione di fare la parte di Orazio Coclite sul ponte.» Poi studiò i due elicotteri posati sulla radura. Vide che uno era un po' arretrato rispetto all'altro e gli parve che quello più indietro fosse il più adatto. Era a pochi metri da una stretta gola dove potevano entrare senza essere visti e, cosa ancora più importante, non era perfettamente visibile dall'equipaggio del primo apparecchio. «Passi parola», ordinò in mezzo al fragore del combattimento. «Ci impadroniremo del secondo elicottero della fila.» Incontrollabile come una valanga, Pitt sfrecciava lungo il fianco del tempio su un percorso che si snodava fra le teste degli animali di pietra che sporgevano dalle mura a pochi centimetri da lui. Le sue mani stringevano come morse le impugnature dei coltelli, e spingevano con tutte le forze mentre le lame eruttavano scintille nell'attrito dell'acciaio contro la pietra dura. Gli orli posteriori dei tacchi di gomma dei mocassini erano ormai levigati dal contatto con la superficie ruvida del muro. Tuttavia continuava ad accelerare a velocità terrificante. Due erano le sue paure peggiori: cadere in avanti e piombare a terra come una palla da cannone, oppure urtare il suolo con tanta violenza da fratturarsi una gamba. Nell'uno o nell'altro caso, per lui sarebbe stata la fine: i peruviani non gli avrebbero perdonato di aver ucciso i loro ufficiali. Continuò a lottare rabbiosamente per ridurre la velocità, ma invano. Tuttavia, una frazione di secondo prima di colpire il terreno con forza spaventosa, riuscì a flettere le gambe e, mentre i suoi piedi affondavano nel terriccio molle e fradicio di pioggia, lasciò andare i coltelli. Sfruttando la forza d'inerzia, si rotolò su una spalla e ruzzolò due volte su se stesso come in
un difficile atterraggio con il paracadute. Rimase disteso nel fango per qualche istante e ringraziò il cielo di non essere finito contro una roccia. Poi provò ad alzarsi in piedi per controllare se aveva subito qualche danno. Una caviglia leggermente storta ma ancora funzionante, qualche escoriazione alle mani e una spalla ammaccata, e niente di più. La terra bagnata gli aveva risparmiato lesioni più gravi. Il materasso era a brandelli. Respirò profondamente, felice d'essere ancora intero. Non c'era tempo da perdere. Cominciò a correre, tenendo per quanto era possibile le rovine fra sé e i soldati che si stavano radunando per attaccare la scalinata del tempio. Giordino poteva solo augurarsi che Pitt avesse evitato i razzi e fosse riuscito a scendere il muro del tempio senza essere scoperto e ucciso. Sembrava un'impresa folle, pensò. Pitt appariva indistruttibile, ma la vecchia con la falce prima o poi acchiappa tutti. Eppure Giordino non accettava l'idea che potesse portar via Pitt proprio in quel momento. Pitt, secondo lui, doveva morire in un letto con una bella donna o in una casa di riposo per vecchi sub, e non in quel luogo sperduto. Si chinò e corse dietro l'ultimo degli elicotteri mentre una squadra di soldati cominciava a lanciarsi alla carica sulla ripida scalinata del tempio. La squadra di riserva rimase in basso e continuò a sparare con i fucili: una tempesta di fuoco che frantumava il palazzo dei morti. Tutti i peruviani seguivano con attenzione l'attacco. Nessuno vide Giordino che, stringendo un fucile automatico, girava furtivamente intorno alla coda dell'elicottero ed entrava dai portelloni posteriori. Avanzò in fretta e si buttò sul pavimento, studiando prima il compartimento vuoto per il trasporto delle truppe e del carico e poi i due piloti che, nell'abitacolo, gli voltavano le spalle e osservavano la battaglia unilaterale. Si mosse con una rapidità incredibile per un uomo dalla costituzione simile a quella di un piccolo bulldozer. I piloti non lo udirono né intuirono la sua presenza quando giunse dietro i loro sedili. Giordino afferrò il fucile per la canna e sferrò una mazzata alla testa del secondo pilota. L'altro sentì il tonfo e si girò. Per un attimo fissò Giordino, più incuriosito che spaventato. Ma prima che avesse il tempo di batter ciglio, Giordino lo colpì alla fronte con il calcio pieghevole d'acciaio. Trascinò i due piloti privi di sensi verso i portelloni e li buttò al suolo. Poi fece cenni affannosi a Shannon, a Rodgers e agli studenti che erano nascosti nella gola. «Presto!» gridò. «In nome di Dio, presto!» Le sue parole risuonarono chiare nonostante il chiasso della battaglia.
Gli archeologi non attesero altre esortazioni. Uscirono allo scoperto, e in pochi secondi balzarono a bordo. Giordino era già tornato nell'abitacolo e studiava gli strumenti per familiarizzarsi con i comandi. «Ci siamo tutti?» chiese a Shannon che prendeva posto sul sedile del secondo pilota. «Tutti tranne Pitt.» Giordino non rispose. Guardò all'esterno. I soldati sulla scalinata, rassicurati dal fatto che nessuno sparava loro contro, arrivarono sulla terrazza ed entrarono nel palazzo dei morti. Fra pochi secondi si sarebbero accorti di essere stati ingannati. Giordino concentrò di nuovo l'attenzione sui comandi. L'elicottero era un vecchio mezzo da trasporto russo Mi-8, designato Hip-C dalla NATO durante gli anni della guerra fredda. Era un mezzo vecchio e goffo, pensò Giordino, con due motori da millecinquecento cavalli, in grado di trasportare quattro membri d'equipaggio e trenta passeggeri. Dato che i motori erano già accesi, Giordino inserì i rotori. «Mi ha sentito?» chiese nervosamente Shannon. «Il suo amico non è con noi.» «Ho sentito.» Impassibile, Giordino aumentò la potenza. Pitt si acquattò dietro una costruzione di pietra e sbirciò oltre l'angolo: sentì il ronzio crescente dei motori e vide il rotore principale a cinque pale che aumentava i giri. Un'ora prima aveva dovuto insistere molto per convincere Giordino a decollare anche se lui non fosse arrivato in tempo. La vita di un uomo non valeva la morte di altri tredici. Anche se appena trenta metri di terreno scoperto, sgombro da cespugli, lo separavano dall'elicottero, Pitt aveva la sensazione che fossero chilometri e chilometri. Non c'era più bisogno d'essere prudente. Doveva correre. Si chinò e massaggiò in fretta la caviglia dolorante per alleviare la tensione. Il dolore non era intenso, ma i muscoli già si contraevano. Non aveva molto tempo, se voleva salvarsi. Si lanciò allo scoperto con lo sprint di un velocista. Le pale stavano riducendo in polvere il terreno quando Giordino fece alzare il vecchio Hip-C e lo tenne fermo in volo a punto fisso. Diede una rapida occhiata al quadro degli strumenti per accertare che non fossero accese le spie rosse, e cercò di percepire rumori strani o vibrazioni impreviste. Sembrava tutto a posto: quel mezzo avrebbe avuto bisogno di una bella revisione, eppure i motori facevano ancora il loro dovere. Giordino inclinò il muso dell'elicottero e aumentò ulteriormente la potenza.
Nel vano di carico, gli studenti e Rodgers videro Pitt che correva verso i portelloni spalancati. Incominciarono a gridargli frasi d'incoraggiamento; poi le loro grida diventarono incalzanti quando un sergente distolse lo sguardo dalla scena della battaglia e vide Pitt che inseguiva l'elicottero in fase di decollo. Subito gridò qualcosa agli uomini della squadra di riserva che stavano ancora aspettando l'ordine di avanzare sulla scalinata. Le urla del sergente giunsero fra gli echi degli ultimi spari alla sommità del tempio. «Scappano! Sparate! In nome di Gesù, sparate!» I soldati non reagirono all'ordine. Pitt era su una linea di fuoco diretta con l'elicottero. Se avessero sparato contro di lui, avrebbero crivellato anche il loro apparecchio. Esitarono, senza decidersi a seguire i comandi frenetici del sergente. Soltanto un uomo alzò il fucile e sparò. Pitt non badò al proiettile che gli scalfì la coscia destra. Aveva cose più urgenti da fare che dar retta al dolore. Poi arrivò sotto la coda dell'apparecchio, all'altezza dei portelloni; Rodgers e i giovani peruviani, sdraiati sullo stomaco, si sporsero e gli tesero le braccia. Pitt tese le braccia a sua volta e spiccò un salto. Con una manovra brusca, Giordino fece virare l'elicottero e le pale turbinarono pericolosamente vicine a un boschetto. Un proiettile fracassò un finestrino laterale e sparse nell'abitacolo una pioggia di frammenti argentei. Uno gli ferì di striscio il naso. Un altro colpo si piantò nella spalliera del sedile e mancò di una frazione di centimetro la sua colonna vertebrale. L'elicottero fu colpito altre volte prima che superasse il boschetto e si abbassasse sul lato opposto, al di fuori della linea di fuoco dei soldati peruviani. Ben presto il mezzo si portò fuori tiro e salì virando verso sinistra fino a che non raggiunse una quota sufficiente per passare sopra le montagne. Giunto a circa quattromila metri, Giordino aveva previsto di trovare pendii brulli e rocciosi al di sopra della linea degli alberi; invece rimase sorpreso nel vedere che le vette erano boscose. Appena uscito dalla valle, stabilì una rotta verso ovest. E soltanto allora si girò verso Shannon: «Tutto a posto?» «Hanno cercato di eliminarci», disse lei, meccanicamente. «Non devono avere nessuna simpatia per i gringos», rispose Giordino, e studiò Shannon per vedere se era illesa. Poiché non scorse ferite o tracce di sangue, si concentrò di nuovo sulla guida e azionò la leva che chiudeva i portelloni. Solo in quel momento girò la testa verso il vano di carico. «C'è qualcuno ferito, là dietro?»
«Soltanto io.» Giordino e Shannon si voltarono all'unisono nel riconoscere la voce. Pitt. Era sfinito e incrostato di fango, certo, con una gamba che perdeva sangue attraverso un fazzoletto che serviva da rudimentale fasciatura. Ma era irriducibile come sempre. Si affacciò con un sogghigno diabolico. Giordino, sopraffatto dal sollievo, sorrise. «Anche stavolta hai rischiato di perdere l'autobus.» «E tu dovevi farmi accogliere da un'orchestrina Dixieland.» Shannon sorrise, s'inginocchiò sul sedile e abbracciò Pitt di slancio. «Avevo paura che non ce la facesse.» «C'è mancato poco.» Shannon lo guardò e smise di sorridere. «Sta sanguinando.» «Un colpo dei soldati mentre Rodgers e gli studenti mi tiravano a bordo, benedetti loro.» «Dobbiamo portarla in ospedale. Sembra una ferita piuttosto seria.» «No, se non hanno usato proiettili intinti nella cicuta», ribatté scherzosamente Pitt. «Non si appoggi sulla gamba. Sieda al mio posto.» Pitt le mise le mani sulle spalle per trattenerla. «Resti dov'è. Viaggerò in terza classe con gli altri contadini.» S'interruppe e girò lo sguardo sugli strumenti e gli apparati della cabina di pilotaggio. «È un vero pezzo d'antiquariato.» «Trema, sussulta e ondeggia», confermò Giordino. «Però resta in aria.» Pitt si sporse sopra la spalla dell'amico ed esaminò il pannello comandi. Fissò lo sguardo sugli indicatori di livello del carburante, allungò la mano e batté sul vetro. I due aghi tremolavano appena al di sotto del segno «tre quarti». «Fin dove credi che potrà portarci?» «I serbatoi dovrebbero contenere carburante per trecentocinquanta chilometri, più o meno. Se un proiettile non ne ha perforato uno, questa carretta potrebbe funzionare per circa duecentottanta.» «Deve esserci da qualche parte una carta della zona e un compasso.» Shannon trovò il kit in una tasca accanto al suo sedile e lo passò a Pitt, che estrasse una mappa, l'apri e gliel'appoggiò contro la schiena. Quindi, prestando attenzione a non perforare la carta con le punte del compasso, tracciò una rotta fino alla costa. «Dovrebbero esserci circa trecento chilometri per arrivare alla Deep Fathom.» «Cos'è la Deep Fathom?» chiese Shannon.
«La nostra nave da ricerca.» «Non avrete intenzione di scendere in mare quando una delle maggiori città peruviane è molto più vicina?» «Sta parlando dell'aeroporto internazionale a Trujillo», spiegò Giordino. «Il Solpemachaco ha troppi amici, per i miei gusti», disse Pitt. «Amici abbastanza potenti per mandare un reggimento di mercenari contro di noi con un minuto di preavviso. Appena spargeranno la voce che abbiamo rubato un elicottero e fatto finire in una tomba i loro soldati più valorosi, le nostre vite non varranno neppure una ruota di scorta nel portabagagli di una Edsel. Saremo più al sicuro su una nave americana, fuori del limite delle acque territoriali, fino a quando non riusciremo a fare in modo che l'ambasciata degli Stati Uniti presenti un rapporto completo ai funzionari onesti del governo peruviano.» «Capisco il suo punto di vista», ammise Shannon. «Ma non dimentichi gli studenti di archeologia. Loro sanno tutto. I loro genitori hanno molta influenza e si daranno da fare perché un resoconto veritiero del sequestro e del saccheggio dei tesori nazionali arrivi ai media.» «Naturalmente», disse Giordino in tono sbrigativo, «voi due siete convinti che un branco d'inseguitori peruviani non ci bloccherà la strada in uno dei venti e più passi fra qui e il mare.» «Al contrario», rispose Pitt, «io ci conto. Saresti disposto a scommettere che l'altro elicottero non ci sta inseguendo in questo preciso momento?» «Allora voliamo a bassa quota e schiviamo pecore e vacche fino a quando non arriveremo sull'acqua», concluse Giordino. «Precisamente. E non sarebbe male neppure tenerci fra le nuvole basse.» «State dimenticando qualcosa, no?» osservò stancamente Shannon, come se rimproverasse un marito che non aveva portato fuori la spazzatura. «Se i miei calcoli sono esatti, i nostri serbatoi resteranno a secco a venti chilometri dalla nave. Spero che non avrete intenzione di coprire a nuoto il resto della distanza.» «Risolveremo questo problema insignificante chiamando la nave perché ci venga incontro alla massima velocità», ribatté con calma Pitt. «Be' certo, tutto serve», disse Giordino. «Ma non avremo comunque un gran margine.» «La sopravvivenza è garantita», dichiarò Pitt in tono sicuro. «Questo elicottero ha a bordo giubbotti salvagente per tutti, più due gommoni. Lo so, ho controllato quando sono passato attraverso il vano di carico.» S'interruppe e si voltò a guardare indietro. Rodgers stava controllando che tutti
gli studenti prelevassero i giubbotti. «Gli inseguitori ci piomberanno addosso nel momento in cui vi metterete in contatto con la vostra nave», insistette Shannon. «Sapranno esattamente dove intercettarci e abbatterci.» «No, se giocherò bene le mie carte», rispose Pitt con aria di sufficienza. Il tecnico delle comunicazioni Jim Stucky inclinò la poltroncina all'indietro, si sistemò, e cominciò a leggere un giallo di Wick Downing. Si era finalmente abituato al tonfo che si propagava nello scafo della Deep Fathom, la nave oceanografica della NUMA, ogni volta che l'unità sonar faceva rimbalzare un segnale dal fondo del bacino peruviano. La noia imperava da quando la nave aveva preso a incrociare avanti e indietro per effettuare i rilevamenti geologici a una profondità di duemilacinquecento braccia sotto la chiglia. Stucky era arrivato a metà del capitolo in cui il cadavere di una donna viene scoperto all'interno di un letto ad acqua quando la voce di Pitt crepitò attraverso l'altoparlante. «NUMA chiama Deep Fathom. Sei sveglio, Stucky?» Stucky si scosse e premette il pulsante della trasmissione. «Qui Deep Fathom. Ti sento, NUMA. Un momento, prego.» Mentre Pitt attendeva, Stucky avvertì il comandante attraverso il sistema degli altoparlanti. Il comandante Frank Stewart lasciò la plancia e si precipitò in cabina comunicazioni. «Ho sentito bene? Sei in contatto con Pitt e Giordino?» Stucky annuì. «Pitt sta aspettando.» Stewart prese il microfono. «Dirk, sono Frank Stewart.» «È un piacere sentire di nuovo la tua voce zuppa di birra, Frank.» «Cosa avete combinato, voi due? Da ventiquattr'ore l'ammiraglio Sandecker sembra un vulcano in ebollizione. Vuole sapere dove vi eravate cacciati.» «Credimi, Frank, non è stata una bella giornata.» «Qual è la vostra posizione attuale?» «Da qualche parte sopra le Ande, a bordo di un elicottero militare, una perla dell'antiquariato peruviano.» «Che fine ha fatto quello della NUMA?» chiese Stewart. «L'ha abbattuto il Barone Rosso», rispose Pitt. «Ma questo non è importante. Ascoltami attentamente, Frank. Qualche proiettile ha colpito i nostri serbatoi. Non possiamo restare in aria per più di mezz'ora. Per favore, veniteci incontro per prelevarci sulla piazza principale della città di Chiclayo. La troverai sulle carte del Perù. Usate l'elicottero NUMA di riserva.»
Stewart guardò Stucky. Si scambiarono un'occhiata perplessa. Poi Stewart premette di nuovo il pulsante della trasmissione. «Ripeti, per favore. Non ho capito bene.» «Dobbiamo atterrare a Chiclayo perché abbiamo perso carburante. Venite a prenderci con l'elicottero da ricognizione e portateci alla nave. Oltre a me e a Giordino, abbiamo dodici passeggeri.» Stewart era allibito. «Che diavolo succede? Pitt e Giordino sono decollati dalla nave con il nostro unico elicottero. E adesso volano con un apparecchio militare che porta a bordo dodici persone ed è stato crivellato di colpi. Cos'è questa balla dell'elicottero di riserva?» Stewart disse a Pitt di aspettare, poi prese il telefono della nave e chiamò la plancia. «Trovatemi una mappa del Perù in sala nautica e portatela subito in cabina comunicazioni.» «Credi che Pitt stia dando i numeri?» chiese Stucky. «Neppure per idea», rispose Stewart. «Sono in difficoltà, e Pitt sta cercando di depistare gli inseguitori.» Un marinaio portò la mappa, e Stewart l'aprì su una scrivania. «La loro missione di soccorso li ha portati quasi direttamente a est. Chiclayo è settantacinque chilometri più a sud della loro rotta.» «Adesso che sappiamo che sta barando», chiese Stucky, «che piano avrà Pitt?» «Lo scopriremo presto.» Stewart prese il microfono e trasmise. «NUMA, sei ancora in ascolto?» «Sono sempre qui, amico», risuonò la voce imperturbabile di Pitt. «Porterò l'elicottero di riserva a Chiclayo personalmente, per prendere a bordo te e i tuoi passeggeri. Ricevuto?» «Mille grazie, comandante. Mi fa sempre piacere vedere che non fai mai le cose a metà. Tienimi pronta una birra per quando arriverò.» «D'accordo», rispose Stewart. «E vai piuttosto veloce, per favore», disse Pitt. «Ho bisogno di fare un bel bagno. A presto.» Stucky fissò Stewart e rise: «Da quando hai imparato a pilotare un elicottero?» Anche Stewart rise. «Soltanto nei sogni.» «Ti spiace spiegarmi quello che mi è sfuggito?» «Fra un attimo.» Stewart riprese il telefono di bordo e cominciò a impartire ordini. «Ritirate il sensore del sonar e tracciate una nuova rotta, zeronove-zero gradi. Appena il sensore sarà agganciato, voglio la velocità mas-
sima. E non voglio che l'ufficiale di macchina mi racconti che i suoi preziosi motori vanno trattati con dolcezza. Voglio che girino al massimo.» Posò il telefono con aria pensierosa. «Dov'eravamo rimasti? Oh, sì, non hai capito come stanno le cose.» «È una specie d'indovinello?» borbottò Stucky. «No, no. Per me è evidente. Pitt e Giordino non hanno carburante sufficiente per raggiungere la nave, quindi dovremo andargli incontro a tutta velocità circa a metà strada fra qui e la costa, augurandoci di arrivare prima che siano costretti a scendere in acque infestate dagli squali.» 9. Giordino sfrecciava appena dieci metri al di sopra delle cime degli alberi, a centoquarantaquattro chilometri orari. L'elicottero, vecchio di vent'anni, era in grado di raggiungere una velocità superiore di cento chilometri, ma Giordino l'aveva ridotta per conservare quel poco carburante che gli era rimasto dopo aver superato le montagne. Solo un'altra catena di colline e una stretta piana costiera separavano l'apparecchio dal mare. Ogni tre minuti dava un'occhiata agli indicatori del carburante. Gli aghi si avvicinavano minacciosamente al rosso. Tornò a guardare il fogliame verde che scorreva sotto di lui. La foresta era fitta e le radure erano cosparse di grossi macigni. Non era il posto più adatto per tentare un atterraggio di fortuna. Pitt era tornato zoppicando nel vano di carico e aveva cominciato a distribuire i giubbotti salvagente. Shannon lo seguì, glieli prese dalle mani e li consegnò a Rodgers. «No», disse con fermezza, e spinse Pitt su un sedile di tela montato lungo la paratia della fusoliera. Indicò con un cenno il fazzoletto intriso di sangue che gli fasciava la gamba. «Sieda e stia tranquillo.» Trovò una cassetta del pronto soccorso in un armadietto metallico e s'inginocchiò davanti a lui. Con molta calma tagliò la gamba del pantalone, pulì la ferita, la disinfettò e applicò otto punti di sutura prima di avvolgerla con una benda. «Ottimo lavoro», commentò Pitt in tono d'ammirazione. «La sua vera vocazione doveva essere quella di angelo della misericordia.» «È stato fortunato.» Shannon richiuse la cassettina. «Il proiettile ha attraversato l'epidermide.» «Perché ho l'impressione che lei abbia recitato in General Hospital?» Shannon sorrise. «Sono cresciuta in una fattoria insieme a cinque fratelli
che inventavano sistemi sempre nuovi per ferirsi.» «Come mai si è convertita all'archeologia?» «C'era un vecchio tumulo sepolcrale indiano in un angolo del nostro campo di mais. Andavo là a scavare in cerca di punte di freccia. Poi, quando dovetti fare una ricerca alle superiori, trovai un testo sugli scavi dei tumuli sepolcrali degli indiani Hopewell nell'Ohio meridionale. Fu un'ispirazione. Cominciai a scavare sul sito nella nostra fattoria. Trovai diversi vasi e quattro scheletri. Ormai ero affascinata. Non fu uno scavo professionale, sia chiaro. Imparai a scavare nel modo giusto più tardi, al college, e cominciai a interessarmi all'evoluzione della cultura nelle Ande centrali. Così decisi di specializzarmi in questo campo.» Per un momento Pitt la guardò in silenzio. «Quando ha conosciuto Doc Miller?» «L'ho incontrato di sfuggita circa sei anni fa, quando lavoravo per conseguire il dottorato di ricerca. Assistetti a una sua lezione sulla rete delle strade incaiche che si estendeva dall'attuale confine fra Colombia ed Ecuador per circa cinquemila chilometri fino al Cile centrale. Fu il suo lavoro a indurmi a concentrare i miei studi sulla cultura andina. E da allora sono sempre tornata qui.» «Allora in realtà non lo conosceva molto bene?» insistette Pitt. Shannon scosse la testa. «Come quasi tutti gli archeologi, ci concentravamo sui nostri progetti preferiti. Ogni tanto ci scrivevamo per scambiarci dati. Circa sei mesi fa lo invitai a partecipare alla spedizione: doveva fungere da supervisore degli universitari peruviani. Era momentaneamente libero e accettò. Poi si offrì di arrivare in aereo dagli Stati Uniti con cinque settimane d'anticipo per avviare i preparativi, ottenere i permessi dalle autorità, occuparsi della parte logistica, dell'equipaggiamento e delle provviste, cose del genere. Fra Doc Miller e Juan Chaco c'era una stretta collaborazione.» «E, quando è arrivata qui, ha notato in Miller qualcosa di diverso?» Sul viso di Shannon apparve un'espressione incuriosita. «È una domanda strana.» «Parlo del suo aspetto, delle sue azioni», precisò Pitt. Lei rifletté per un momento. «Da quando l'avevo conosciuto a Phoenix, s'era fatto crescere la barba ed era dimagrito di circa sette chili. Ma, adesso che ci penso, si toglieva raramente gli occhiali da sole.» «La voce era cambiata?» Shannon alzò le spalle. «Forse era un po' più profonda. Credevo avesse
il raffreddore.» «Ha notato se portava un anello? Un anello con un grosso castone d'ambra?» Lei socchiuse le palpebre. «Un pezzo di ambra gialla, vecchio di sessanta milioni di anni, con al centro una specie di formica fossile? Doc era molto orgoglioso di quell'anello. Ricordo che l'aveva durante l'esplorazione della strada incaica, ma non lo portava più mentre stavamo lavorando intorno al pozzo sacro. Gli ho domandato perché; ha risposto che l'anello era diventato troppo largo da quando era dimagrito e l'aveva lasciato a casa per farlo mettere a misura. Come fa a sapere dell'anello di Doc?» Pitt aveva portato l'anello tolto al cadavere in fondo al cenote con il castone girato sotto il dito perché non si vedesse. Lo sfilò e lo porse a Shannon senza pronunciare una parola. Lei l'accostò alla luce che entrava da un finestrino rotondo e fissò sbalordita la minuscola formica racchiusa nell'ambra. «Dove...?» chiese, e s'interruppe. «Chi si è spacciato per Doc lo ha assassinato e ha preso il suo posto. Lei ha accettato l'impostore perché non aveva motivo di non farlo. Non ha mai sospettato che ci fosse di mezzo un delitto. L'assassino aveva commesso un unico errore: aveva dimenticato di togliere l'anello quando aveva gettato il cadavere di Doc Miller nel pozzo sacro.» «Vuole dire che Doc fu ucciso prima che io lasciassi gli Stati Uniti?» chiese Shannon, sorpresa e confusa. «Un giorno o due dopo essere arrivato al campo», spiegò Pitt. «A giudicare dalle condizioni del corpo, deve essere rimasto sott'acqua per più di un mese.» «È strano che io e Miles non l'abbiamo visto.» «Non è strano per niente. Siete scesi proprio davanti al passaggio che porta nella caverna adiacente, e siete stati risucchiati quasi subito. Io ho raggiunto il fondo sul lato opposto e ho nuotato seguendo una specie di griglia per effettuare le ricerche di quelli che immaginavo fossero due cadaveri molto recenti. Invece ho trovato il corpo di Doc e le ossa di un soldato spagnolo del sedicesimo secolo.» «Quindi Doc fu assassinato veramente», mormorò Shannon con un'espressione d'orrore. «Juan Chaco doveva saperlo, perché teneva i collegamenti per il nostro progetto e collaborava con Doc prima del nostro arrivo. È possibile che sia coinvolto?» Pitt annuì. «C'è dentro fino agli occhi. Se lei contrabbandasse tesori an-
tichi, dove potrebbe trovare un informatore e un complice più adatto di un illustre esperto di archeologia, per giunta funzionario governativo?» «Allora chi era l'impostore?» «Un altro agente del Solpemachaco. Un individuo molto abile che ha recitato in modo magistrale la scena della sua morte, con l'aiuto di Amaru. Può essere addirittura uno degli uomini al vertice dell'organizzazione, uno che non esita a sporcarsi le mani. Forse non riusciremo mai a saperlo.» «Se ha assassinato Doc, merita di finire impiccato», disse Shannon lanciando lampi di collera dagli occhi nocciola. «Almeno potremo inchiodare Juan Chaco alla porta di un tribunale peruviano...» All'improvviso, Pitt si tese e si girò di scatto verso l'abitacolo mentre Giordino lanciava l'elicottero in una ripida virata. «Che succede?» «Una sensazione viscerale», rispose Giordino. «Ho deciso di fare un giro di trecentosessanta gradi per guardarci in coda. È un'ottima cosa essere sensibili alle vibrazioni. Abbiamo compagnia.» Pitt si alzò, tornò nella cabina di pilotaggio, ed evitando di appoggiarsi sulla gamba ferita, prese posto sul sedile del copilota. «Sono banditi o sono buoni?» chiese. «I nostri amici che ci sono piombati addosso nel tempio non sono cascati nella tua trappola di Chiclayo.» Senza staccare le mani dai comandi, Giordino indicò con la testa, sulla sinistra, un elicottero che stava superando una bassa catena montuosa più a est. «Devono aver indovinato la nostra rotta, e ci hanno raggiunti dopo che hai ridotto la velocità per risparmiare il carburante», commentò Pitt. «Non hanno razzi aria-aria», rifletté Giordino. «Dovranno spararci con i fucili...» Uno sbuffo di fiamma e una nuvoletta di fumo eruppero dal portello laterale dell'inseguitore e un razzo saettò nel cielo e passò così vicino al muso dell'elicottero da dare a Pitt e Giordino la sensazione che, se avessero teso le mani, avrebbero potuto toccarlo. «Mi correggo», disse Pitt. «Hanno un lanciarazzi da 40 mm. Lo stesso che hanno usato durante l'attacco contro il tempio.» Giordino iniziò una brusca manovra ascendente e spinse i motori al massimo, nel tentativo di sbilanciare la mira dei nemici. «Prendi il fucile e tienili impegnati fino a che non riesco ad arrivare a quelle nubi basse lungo la costa.» «Niente da fare!» gridò Pitt per farsi sentire nel fragore dei motori. «L'ho buttato via, e la Colt è scarica. Qualcuno di voi ha portato un'arma a
bordo?» Giordino annuì impercettibilmente e lanciò l'elicottero in un'altra brusca manovra. «Non posso parlare per gli altri, ma troverai la mia incuneata in un angolo dietro la paratia della cabina.» Pitt prese una cuffia radio che pendeva dal bracciolo del suo sedile e se la calcò sulle orecchie. Poi si alzò a fatica e si afferrò con le mani ai lati della porta della cabina di pilotaggio per reggersi durante una brusca virata. Inserì la spina della cuffia nell'apparato radio e chiamò Giordino. «Metti la cuffia, così potremo coordinare la difesa.» Giordino non rispose, ma effettuò una virata piatta. Bilanciò i suoi movimenti sui comandi mentre afferrava la cuffia. Trasalì e si chinò d'istinto quando un altro razzo lacerò l'aria meno d'un metro sotto il ventre dell'elicottero ed esplose in un lampo di luce color arancio contro la barriera di una montagna bassa. Pitt si attaccò a tutti gli appigli a portata di mano, si accostò al portello laterale del vano di carico, sbloccò la serratura e lo fece scorrere fino a spalancarlo. Shannon, più preoccupata che impaurita, lo raggiunse tenendo in mano una fune e ne avvolse un capo intorno alla vita di Pitt mentre questi prendeva il fucile automatico che Giordino aveva usato per mettere fuori combattimento i piloti peruviani. Poi legò l'altra estremità a una travatura longitudinale. «Così non cadrà nel vuoto», esclamò. Pitt sorrise. «Non merito tante attenzioni.» Si stese bocconi e puntò il fucile. «Sono pronto, Al. Dammi la possibilità di colpire il bersaglio.» Giordino manovrò per girare l'elicottero in modo che Pitt si trovasse di fronte al lato cieco degli aggressori. Dato che i portelli dei vani di carico erano situati sullo stesso lato in entrambi i mezzi aerei, il pilota peruviano era alle prese con lo stesso dilemma. Avrebbe potuto correre il rischio di aprire i portelloni posteriori per permettere a un tiratore di sparare in una linea di fuoco diretta, ma così avrebbe ridotto la velocità e reso difficoltoso il controllo dell'apparecchio. Come i vecchi aerei a elica impegnati in un duello, ognuno dei piloti manovrava per assicurarsi una posizione di vantaggio, lanciando il suo elicottero in una serie di acrobazie mai previste dai progettisti. L'avversario sapeva il fatto suo, pensò Giordino con il rispetto di un professionista per un altro professionista. In condizioni d'inferiorità per quanto riguardava le armi, si sentiva come un topo che il gatto tormenta prima di farne un sol boccone. Girò lo sguardo dagli strumenti al nemico, poi verso
il basso per non andare a sbattere contro un dosso o un albero. L'elicottero sfrecciò verso l'alto in una manovra subito ripetuta dal pilota nemico. Ma Giordino inclinò verso il basso il muso dell'apparecchio, accelerò e si lanciò sul fianco al di sotto dell'aggressore, in modo che Pitt potesse sparare. «Via!» gridò nel microfono. Pitt non mirò ai piloti nell'abitacolo, bensì ai motori posizionati sotto il rotore e premette il grilletto. Il fucile crepitò due volte, poi tacque. «Che cosa è successo?» chiese Giordino. «Perché non hai sparato? Io ti sgombro la strada verso la linea di porta e tu pasticci con il pallone.» «C'erano soltanto due proiettili», rispose Pitt. «Quando l'ho preso a uno degli uomini di Amaru non sono stato a contarli.» Stizzito e frustrato, Pitt estrasse il caricatore e vide che era vuoto. «Qualcuno di voi ha portato a bordo un fucile?» gridò a Rodgers e agli studenti inorriditi. Rodgers, che si era legato a un sedile con le gambe puntellate contro una paratia per non farsi sbatacchiare di qua e di là dalle manovre violente di Giordino, allargò le braccia. «Li abbiamo abbandonati quando siamo corsi all'elicottero.» In quell'istante un proiettile a carica cava sfondò un finestrino di destra, attraversò fiammeggiando la fusoliera e uscì dal lato opposto senza scoppiare e senza ferire nessuno. Costruito per esplodere dopo aver colpito bersagli quali veicoli blindati o bunker, non deflagrò all'urto contro alluminio e plastica. Se uno di quelli colpisce una turbina è la fine, pensò angosciato Pitt. Si guardò intorno disperatamente, vide che tutti i passeggeri avevano sganciato le imbracature e stavano rannicchiati sotto i sedili come se la tela e i piccoli supporti tubolari potessero fermare un razzo da 40 mm in grado di annientare un carro armato. Poi imprecò quando l'ondeggiamento brusco dell'elicottero lo scagliò contro l'intelaiatura della porta. Shannon notò l'espressione furibonda di Pitt e comprese la sua disperazione quando scagliò nel vuoto il fucile scarico. Eppure continuò a guardarlo con una fiducia assoluta negli occhi. In quelle ultime ventiquattr'ore aveva imparato a conoscerlo quanto bastava per sapere che non era un uomo disposto a darsi per vinto. Pitt notò il suo sguardo e s'irritò. «Cosa pretende che faccia?» chiese. «Che salti a bordo di quell'elicottero e li ammazzi tutti con una mascella d'asino? O forse se ne andranno se li prendo a sassate...» S'interruppe mentre il suo sguardo si posava su di uno dei gommoni. Sorrise. «Al, mi sen-
ti?» «Sono troppo occupato per rispondere alle telefonate», ribatté Giordino. «Gira questa anticaglia sul lato destro e sorvola il nemico.» «Qualunque cosa tu abbia in mente, cerca di sbrigarti prima che ci tirino un razzo sul muso o che restiamo senza carburante.» «A grande richiesta del pubblico», annunciò Pitt, che aveva ritrovato il suo abituale ottimismo, «Mandrake Pitt e il suo numero magico di sfida alla morte.» Fece scattare i ganci delle cinghie che tenevano fissati i gommoni al pavimento. Il gommone color arancio fluorescente portava un'etichetta in inglese, Twenty-Man Flotation Unit, e pesava più di quarantacinque chili. Pitt si sporse dal portello laterale affidandosi alla corda che Shannon gli aveva legato intorno alla vita, allargò le gambe, piantò saldamente i piedi, sollevò sulla spalla il gommone gonfiato e rimase in attesa. Giordino incominciava a sentirsi stanco. Gli elicotteri richiedono una concentrazione continua anche semplicemente per restare in aria, perché sono in balia di mille forze contrapposte che non vogliono aver nulla a che fare l'una con le altre. Di norma, la maggior parte dei piloti vola tenendo i comandi per un'ora appena; poi passano il compito al secondo. Giordino era in azione da un'ora e mezzo, e lo sforzo di manovrare l'apparecchio di qua e di là nel cielo stava rapidamente consumando le sue energie di riserva. Per circa sei minuti, un'eternità in un duello aereo, aveva impedito all'avversario di centrare un colpo con il lanciarazzi. L'altro apparecchio passò sotto l'abitacolo di Giordino. Per un istante scorse chiaramente il pilota peruviano. La faccia sotto il casco sfoggiò un gran sorriso. «Quel bastardo ride di me», sibilò Giordino, in preda al furore. «Cos'hai detto?» chiese Pitt. «Quei fottuti babbuini lo trovano divertente», rispose Giordino. Sapeva cosa doveva fare. La tecnica di volo del pilota nemico aveva una caratteristica. Quando virava a sinistra non esitava, ma tardava d'una frazione di secondo nelle virate a destra. Era un'esitazione quasi impercettibile, ma non era sfuggita a Giordino che, dopo aver eseguito una finta verso sinistra, alzò bruscamente il muso verso il cielo e s'inclinò sulla destra. L'altro pilota notò la finta e si spostò subito a sinistra, ma reagì troppo lentamente alla folle impennata e al movimento nella direzione opposta. Prima che potesse rimediare, Giordino girò il suo elicottero e si portò sopra l'avversario. Era un'occasione del tutto inattesa per Pitt, che tuttavia agì con tempismo perfetto. Sollevò sopra la testa il gommone con entrambe le mani co-
me se fosse un cuscino, e lo spinse fuori del portello aperto mentre l'elicottero dei peruviani passava sotto di lui. La mole color arancio cadde con l'impeto di una palla da bowling e s'infilò attraverso una delle pale rotanti, a due metri dall'estremità. La pala volò in frammenti metallici che saettarono a spirale verso l'esterno, spinti dalla forza centrifuga. Sbilanciate, le altre quattro pale turbinarono con una vibrazione crescente fino a quando non si staccarono dal mozzo del rotore in una pioggia di schegge. Per un momento il grosso elicottero restò immobile, poi sbandò in cerchio e puntò il muso verso il terreno alla velocità di quasi duecento chilometri orari. Pitt si sporse dal vano di carico e rimase affascinato mentre l'apparecchio dei peruviani affondava fra gli alberi e si schiantava su una collinetta pochi metri al di sotto della cima. Vide i brandelli luccicanti di metallo che schizzavano via e sparivano fra i rami degli alberi. L'elicottero si fermò sul fianco sinistro, ridotto a un ammasso contorto di metallo. Poi sparì in un'immensa sfera di fuoco che avvolse i resti in lingue di fiamma e fumo nero. Giordino diminuì la velocità e sorvolò lentamente in cerchio la colonna di fumo. Ma né lui né Pitt scorsero tracce di vita. «Dev'essere stata la prima volta nella storia che un mezzo aereo è stato buttato giù dal cielo da un gommone di salvataggio», commentò. «Improvvisazione.» Pitt rise sommessamente e s'inchinò a Shannon, a Rodgers e agli studenti che applaudivano con ritrovata energia. «Improvvisazione!» ripeté. Poi soggiunse: «Una magnifica impresa, Al. Se non ci fossi stato tu, saremmo morti tutti». «Verissimo, verissimo», ammise Giordino, mentre puntava verso ovest e riduceva la velocità per risparmiare il carburante. Pitt richiuse il portello laterale, bloccò le serrature, si slegò dalla vita la corda e tornò in cabina di pilotaggio. «Come stiamo a carburante?» chiese. «Che cos'è il carburante?» Pitt guardò gli indicatori al di sopra della spalla di Giordino. Le due spie rosse lampeggiavano. Notò anche l'espressione esausta dell'amico. «Riposa un po'. Ti sostituisco ai comandi.» «Sono arrivato fin qui e intendo proseguire per quel poco che ci resta prima che i serbatoi restino a secco.» Pitt non perse tempo a discutere. Non finiva mai di meravigliarsi della calma intrepida, della glaciale forza d'animo di Giordino. Anche se avesse cercato in tutto il mondo, non avrebbe trovato un amico come quel duro, robusto italiano. «D'accordo, continua tu. Io starò a vedere e pregherò per-
ché arrivi un po' di vento in coda.» Pochi minuti più tardi superarono la costa e puntarono verso il largo. Una località di villeggiatura, con prati ben curati e una grande piscina, cingeva una baia con la spiaggia di sabbia candida. I turisti che prendevano il sole guardarono l'elicottero che passava sopra le loro teste e lo salutarono a gesti. Pitt, che non aveva niente di meglio da fare, rispose al saluto. Poi tornò nel vano di carico e si avvicinò a Rodgers. «Dobbiamo gettare in mare tutto, a parte il materiale indispensabile per sopravvivere, come i giubbotti salvagente e l'altro gommone. Bisogna lanciare tutto il resto, indumenti di troppo, attrezzi, oggetti metallici, sedili, tutto quello che non è saldato o imbullonato.» Tutti si misero al lavoro e passarono a Pitt quel che trovavano. Pitt scagliava tutto dal portello laterale. Quando la cabina rimase spoglia, l'elicottero era più leggero di circa centotrentasei chili. Prima di richiudere il portello, Pitt guardò verso poppa. Per fortuna non c'erano mezzi aerei che li inseguivano. Era certo che il pilota peruviano avesse segnalato l'avvistamento e il proposito di attaccarli, facendo saltare così la cortina fumogena di Chiclayo. Ma dubitava che il Solpemachaco avrebbe sospettato di aver perduto i mercenari e l'elicottero prima che passassero altri dieci minuti. E se si fossero resi conto della situazione e avessero chiamato un caccia dell'Aeronautica militare peruviana perché li intercettasse, sarebbe stato troppo tardi. Un attacco contro una nave da ricerca americana disarmata avrebbe causato gravi complicazioni diplomatiche fra il governo statunitense e il Perù; una situazione che la nazione sudamericana, già alle prese con serie difficoltà, non poteva permettersi. Pitt era convinto che nessun burocrate o ufficiale locale sarebbe stato disposto a rischiare un disastro politico, indipendentemente da quello che poteva passargli sottobanco il Solpemachaco. Tornò zoppicando nella cabina di pilotaggio, si lasciò cadere sul sedile del copilota e prese il microfono della radio. Premette il tasto della trasmissione e abbandonò ogni prudenza. Al diavolo i servitori del Solpemachaco che potevano intercettare la comunicazione, pensò. «NUMA chiama Deep Fathom. Dimmi qualcosa, Stucky.» «Parla pure, NUMA. Qui la Deep Fathom. Qual è la vostra posizione?» «Oh, che occhi grandi hai, e che voce diversa, nonna.» «Ripeti un po', NUMA.» «Neppure uno sforzo credibile», rise Pitt. «Non sei il vero Stucky.» Si rivolse a Giordino. «Siamo in linea con un imitatore.»
«È meglio che gli dai la nostra posizione», disse Giordino con una sfumatura di cinismo nella voce. «Giusto!» Pitt annuì. «Deep Fathom, qui NUMA. La nostra posizione è appena a sud del Castello Incantato fra Giunglonia e l'Isola del Tesoro.» «Per favore, ripetete la posizione», disse la voce agitata dell'interlocutore. «Cos'è, la pubblicità di Disneyland?» Dall'altoparlante giunse la voce riconoscibile di Stucky. «Bene, bene, ecco quello vero. Perché ci hai messo tanto a rispondere?» «Stavo ascoltando quello che aveva da dire il mio alter ego. Siete atterrati a Chiclayo?» «Siamo finiti fuori strada e abbiamo deciso di tornare a casa», disse Pitt. «Il comandante è a portata di mano?» «È in plancia a recitare la parte del capitano Bligh: crede di essere sul Bounty e di poter prendere a frustate l'equipaggio perché stabilisca un nuovo primato di velocità. Ancora un nodo e i nostri rivetti cominceranno a schizzar via.» «Noi non vi vediamo. Ci avete inquadrati sul radar?» «Affermativo», rispose Stucky. «Cambiate la direzione, due-sette-due magnetico. Così saremo su una rotta convergente.» «Modifico la rotta a due-sette-due», rispose Giordino. «Manca molto al rendez-vous?» chiese Pitt a Stucky. «Secondo il comandante, una sessantina di chilometri.» «Dovremmo avvistarli presto.» Pitt guardò Giordino. «Che ne pensi?» Giordino fissò sconsolato gli indicatori di livello del carburante, poi l'orologio del quadro degli strumenti. Segnava le 10.47 del mattino. Non riusciva a credere che fossero accadute tante cose dal momento in cui lui e Pitt avevano risposto alla richiesta di soccorso lanciata dal falso dottor Miller. Era pronto a giurare che quegli avvenimenti gli avessero rubato tre anni di vita. «Sto sfruttando al massimo ogni litro di carburante», disse finalmente. «Un leggero vento in coda che soffia da terra ci aiuta, ma credo che ci restino appena quindici o venti minuti di volo. La tua stima vale la mia.» «Speriamo che gli indicatori di livello segnino un po' meno di quello che c'è», disse Pitt. «Salve, Stucky.» «Eccomi.» «È meglio che vi prepariate a recuperarci in acqua. Tutte le previsioni indicano un atterraggio bagnato.»
«Riferirò al comandante. Avvertitemi quando finite nell'oceano.» «Sarai il primo a saperlo.» «Buona fortuna.» L'elicottero continuò a volare sopra le onde. Pitt e Giordino parlavano pochissimo. Ascoltavano il suono delle turbine, quasi temessero che, da un momento all'altro, potesse interrompersi. Si tesero istintivamente quando nell'abitacolo echeggiò l'allarme che segnalava l'esaurimento del carburante. «Con tanti saluti alle riserve», disse Pitt. «Adesso voliamo sfruttando i fumi.» Guardò l'azzurro cobalto dell'acqua dieci metri sotto il ventre dell'elicottero. Il mare sembrava abbastanza tranquillo. Secondo i suoi calcoli, l'altezza delle onde doveva essere inferiore al metro, e l'acqua sembrava tiepida e invitante. Un ammarraggio a motori spenti non avrebbe dovuto essere troppo brusco, e il vecchio Mi-8 sarebbe rimasto a galla per una sessantina di secondi, se Giordino non avesse fatto saltare le saldature al momento dell'impatto. Pitt chiamò Shannon nella cabina di pilotaggio. Lei apparve sulla soglia e lo guardò con un lieve sorriso. «La nave è in vista?» «Direi che è appena oltre l'orizzonte. Ma non abbastanza vicina per raggiungerla con il poco carburante che ci rimane. Dica a tutti di prepararsi a un atterraggio bagnato.» «Allora dovremo farci a nuoto l'ultimo tratto», commentò cinicamente lei. «Un trascurabile dettaglio tecnico», ribatté Pitt. «Dica a Rodgers di spostare il gommone vicino al portello laterale e di tenersi pronto a buttarsi in acqua non appena toccheremo. E gli spieghi che è importante tirare il cordino per gonfiarlo dopo che lo avrà spinto all'esterno. Non voglio bagnarmi i piedi.» Giordino tese il braccio e indicò. «La Deep Fathom.» Pitt annuì, socchiuse gli occhi e scrutò il minuscolo punto scuro all'orizzonte. Parlò nel microfono della radio. «Vi vediamo, Stucky.» «Benvenuti alla festa», rispose Stucky. «Apriremo il bar in anticipo apposta per voi.» «Il cielo non voglia», osservò Pitt in tono sarcastico. «Non credo che l'ammiraglio vedrebbe con favore una proposta del genere.» Il direttore capo della National Underwater & Marine Agency, l'ammiraglio James Sandecker, aveva imposto una regola ferrea che vietava gli
alcolici a bordo dei mezzi della NUMA. Vegetariano e maniaco della buona forma e dell'efficienza, era convinto di allungare in tal modo la vita dei suoi subordinati. Però, come era successo ai tempi del proibizionismo, gli uomini che bevevano anche solo di rado avevano incominciato a caricare clandestinamente a bordo le casse di birra o a comprarle nei porti stranieri. «Preferiresti un bel bicchiere di Ovomaltina?» rimbeccò Stucky. «Solo se la condisci con succo di carota e germogli di alfalfa...» «Si è appena fermato un motore», annunciò Giordino come se stesse conversando. Pitt girò gli occhi sugli strumenti. Gli aghi degli indicatori della turbina di destra stavano scendendo verso gli stop. Si voltò verso Shannon. «Avverta tutti che l'impatto con l'acqua avverrà sul lato di sinistra dell'apparecchio.» Shannon lo guardò, confusa. «Perché non atterriamo in verticale?» «Se scendiamo sul ventre, le pale del rotore si abbassano, colpiscono l'acqua e vanno in frantumi al livello della fusoliera. I frammenti possono penetrare facilmente, soprattutto in cabina di pilotaggio, e tranciare la testa del nostro intrepido pilota. Se invece scendiamo sul fianco, le pale spezzate schizzano lontano da noi.» «Perché sul lato sinistro?» «Non ho a disposizione il gesso e la lavagna», ribatté esasperato Pitt. «Tanto per farla contenta, la scelta ha a che fare con la rotazione direzionale delle pale e il fatto che il portello per uscire si trova sul lato sinistro.» Convinta, Shannon annuì. «Capito.» «Subito dopo l'impatto», continuò Pitt, «faccia uscire gli studenti prima che l'elicottero affondi. Adesso vada a sedersi e agganci la cintura.» Poi batté la mano sulla spalla di Giordino. «Fallo scendere finché hai ancora un po' di potenza», disse mentre fissava l'imbracatura di sicurezza. Giordino non ebbe bisogno di sollecitazioni. Prima di perdere anche l'altro motore, manovrò il comando del passo collettivo e quello del passo ciclico. Mentre l'elicottero perdeva velocità a un'altezza di tre metri sull'oceano, lo fece inclinare dolcemente sul lato sinistro. Le pale colpirono l'acqua e si spezzarono in una nube di frammenti e di spruzzi e l'apparecchio si posò sulle piccole onde inquiete con il movimento goffo di una femmina d'albatro gravida. L'impatto avvenne con lo scossone di una macchina in corsa che incoccia in una cunetta. Giordino spense l'unico motore rimasto in funzione e provò un piacevole senso di stupore quando il vecchio Mi-8 Hip-C galleggiò barcollando sul mare come se quello fosse il suo posto.
«Siamo al capolinea!» tuonò Pitt. «Tutti fuori!» Lo sciacquio dolce delle onde contro la fusoliera formava un contrasto gradevole con il ronzio morente del motore e i tonfi delle pale. L'aria salmastra era pungente, portata da una brezza che penetrava nell'interno soffocante del vano di carico. Rodgers aprì il portello laterale e lanciò in acqua il gommone a venti posti. Stette attento a non tirare la cordicella troppo presto e provò sollievo quando sentì il sibilo dell'aria compressa e vide il gommone che si gonfiava. Dopo pochi attimi, il natante ondeggiò a fianco dell'elicottero, trattenuto saldamente dal cavo d'ormeggio stretto nella mano del fotografo. «Fuori!» urlò Rodgers, e cominciò a far uscire i giovani studenti peruviani che salirono a bordo. Pitt sganciò l'imbracatura di sicurezza e si spostò nel vano di carico. Shannon e Rodgers stavano organizzando l'evacuazione senza problemi. Tutti gli studenti, tranne tre, s'erano calati nel gommone. Un esame frettoloso dell'elicottero rivelò che non sarebbe rimasto a galla ancora per molto. I portelloni di coda erano stati distorti dall'impatto quanto bastava perché l'acqua riuscisse a penetrare. Già il pavimento cominciava a inclinarsi all'indietro, e le onde lambivano la soglia del portello laterale. «Non abbiamo molto tempo», disse Pitt mentre aiutava Shannon a passare sul gommone. Poi toccò a Rodgers. Infine si rivolse a Giordino. «Avanti, Al.» Giordino non volle saperne. «Secondo la tradizione marinara, ora tocca ai feriti in grado di camminare.» Prima che Pitt potesse protestare, Giordino gli diede una spinta, quindi lo seguì mentre l'acqua gli arrivava alle caviglie. Afferrarono i remi del gommone e si scostarono dall'elicottero mentre la lunga coda affondava nelle onde. Poi l'acqua penetrò dal portello aperto, e l'apparecchio scivolò all'indietro nel mare indifferente. Scomparve con un gorgoglio smorzato e poche increspature. Le pale frantumate furono le ultime a sprofondare con i tronconi che ruotavano lentamente per la forza della corrente, come se il Mi-8 discendesse verso il fondo del mare mosso dalle proprie forze. Nessuno parlò. Sembravano tristi di veder sparire l'apparecchio, come se avessero subito la perdita di una persona cara. Pitt e Giordino erano a loro agio sull'acqua. Gli altri, che all'improvviso si trovavano a galleggiare su un mare immenso, provavano uno spaventoso senso di vuoto unito al timore dell'impotenza. Quest'ultima sensazione si accentuò quando la pinna di uno squalo fendette l'acqua e incominciò a girare minacciosamente intorno
al gommone. «È colpa tua», disse Giordino a Pitt in tono di finta esasperazione. «È attratto dall'odore del sangue della tua ferita alla gamba.» Pitt scrutò l'acqua trasparente e studiò la sagoma affusolata che passava sotto di lui. Riconobbe la testa a forma di stabilizzatore orizzontale, con gli occhi montati ai lati come le luci sulle estremità alari di un aereo. «Un martello. Sarà lungo due metri e mezzo al massimo. Farò finta di non vederlo.» Shannon rabbrividì, si avvicinò a Pitt e gli strinse il braccio. «E se decidesse di addentare il gommone per farci affondare?» Pitt scrollò le spalle. «È difficile che uno squalo trovi appetitoso un gommone.» «Ha invitato a pranzo gli amici», disse Giordino e indicò altre due pinne che tagliavano l'acqua. Pitt notò il panico che cominciava a spuntare sulle facce degli studenti. Si rannicchiò comodamente sul fondo, appoggiò i piedi sul bordo e chiuse gli occhi. «Non c'è niente di meglio di un sonnellino sotto il sole caldo e su un mare tranquillo. Svegliatemi quando arriva la nave.» Shannon lo fissò incredula. «Deve essere matto.» Giordino, che aveva compreso subito le intenzioni dell'amico, si stese a sua volta. «Allora siamo in due.» Nessuno sapeva come reagire. Tutti girarono lo sguardo dai due della NUMA che sembravano addormentati agli squali che gli nuotavano intorno. A poco a poco il panico lasciò il posto a un'apprensione inquieta, mentre i minuti scorrevano lentamente come se fossero ore. Arrivarono altri squali, ma i cuori si riempirono di speranza quando la Deep Fathom apparve, con la prua che fendeva l'acqua fra due baffi di schiuma. Nessuno, a bordo, sapeva che il vecchio cavallo da tiro della flotta oceanografica della NUMA potesse andare tanto veloce. Nella sala macchine August Burley, un uomo imponente dallo stomaco maestoso, si aggirava sulla passerella fra i grossi motori diesel, osservava gli aghi dei contagiri fissi sul rosso, e stava in ascolto, pronto a captare ogni eventuale segnale di stanchezza del metallo da parte dei motori sotto sforzo. In plancia, il comandante Frank Stewart osservava con il binocolo la minuscola macchia color arancio sullo sfondo azzurro del mare. «Ci avvicineremo a mezza velocità prima d'invertire i motori», disse al timoniere. «Non vuole che ci fermiamo e ci accostiamo andando alla deriva?» chie-
se il timoniere, un uomo biondo con la coda di cavallo. «Sono circondati da branchi di squali», rispose Stewart. «Non possiamo perdere tempo per eccesso di prudenza.» Andò a parlare al circuito radio di bordo. «Ci avvicineremo ai superstiti sul lato di dritta. Tutti gli uomini disponibili si preparino per portarli sulla Deep Fathom.» Fu una bella dimostrazione d'efficienza marinara. Stewart fermò la nave a due metri dal gommone sollevando solo una piccola ondata. Molti uomini dell'equipaggio si sporsero dai parapetti sbracciandosi e gridando saluti. La scaletta era già stata calata, e un marinaio stava sulla piattaforma inferiore imbracciando una gaffa. La tese e, quando Giordino l'afferrò, tirò il gommone a fianco della piattaforma. Tutti dimenticarono gli squali e cominciarono a sorridere e a ridere, felici di essere scampati senza gravi danni alla morte per almeno quattro volte dopo essere stati presi in ostaggio. Shannon alzò lo sguardo verso la mole imponente della nave oceanografica, notò la sovrastruttura sgraziata e le gru, e si girò verso Pitt con una luce maliziosa negli occhi. «Ci aveva promesso un albergo a quattro stelle e un bagno ristoratore, non una vecchia barca arrugginita.» «Una rosa, anche con un altro nome, è sempre una rosa», rispose allegramente Pitt. «E qualunque porto è gradito in una tempesta. Quindi dividerà la mia cabina, graziosa ma modesta. Da vero gentiluomo, le lascerò la cuccetta più bassa e subirò l'umiliazione di stare in quella di sopra.» Shannon lo squadrò con aria divertita. «Sta dando per scontato un mucchio di cose, no?» Pitt si rilassò, continuando a tenere d'occhio i passeggeri del gommone che salivano la scaletta, uno dopo l'altro. Poi rivolse a Shannon un sorriso diabolico e mormorò: «D'accordo, non mireremo troppo in su. Lei può prendersi la cuccetta in alto, io quella in basso». 10. A Juan Chaco il mondo era crollato addosso. Il disastro della valle di Viracocha era molto più grave di quanto avrebbe potuto immaginare. Suo fratello era stato il primo a venire ucciso, il contrabbando delle antichità era diventato impossibile, e non appena l'archeologa americana Shannon Kelsey e gli studenti universitari avessero raccontato la loro avventura ai media e alle autorità di pubblica sicurezza del governo, lui sarebbe stato arrestato, processato per aver messo in vendita il patrimonio storico della
nazione e condannato a una lunga pena detentiva. Era attanagliato dall'ansia mentre stava accanto alla motor home di Chachapoyas e guardava l'apparecchio che quasi si arrestava nell'aria, con i rotori posti alle estremità delle ali spostati dalla posizione per il volo orizzontale a quello per il volo verticale. Il velivolo nero privo di contrassegni rimase librato per qualche minuto prima che il pilota facesse posare dolcemente al suolo le ruote del carrello. Un uomo dalla barba folta, i calzoni corti e gualciti e una camicia color kaki vistosamente macchiata di sangue al petto uscì dalla cabina per i passeggeri e scese a terra. Non guardò né a destra né a sinistra; aveva un'espressione torva e cupa. Senza una parola di saluto passò accanto a Chaco ed entrò nella motor home. Chaco lo seguì, avvilito come un cane rimbrottato. Cyrus Sarason, l'uomo che aveva impersonato il dottor Steven Miller, sedette alla scrivania di Chaco e chiese in tono gelido: «Hai saputo?» Chaco annuì senza chiedere cosa significava la macchia di sangue sulla camicia di Sarason. Sapeva che rappresentava una finta ferita d'arma da fuoco. «Ho ricevuto un rapporto completo da un collega di mio fratello.» «Allora sai che la dottoressa Kelsey e gli universitari ci sono scappati dalle mani e sono stati salvati da una nave oceanografica americana.» «Sì, sono al corrente del nostro fallimento.» «Mi rincresce per tuo fratello», disse Sarason senza la minima emozione. «Non posso credere che sia morto», mormorò Chaco che sembrava stranamente calmo. «Non mi sembra possibile. L'eliminazione degli archeologi doveva essere una cosa molto semplice.» «Affermare che i tuoi hanno sbagliato è dir poco», continuò Sarason. «Ti avevo avvertito che i due sub della NUMA erano pericolosi.» «Mio fratello non si aspettava una resistenza organizzata da parte di un esercito.» «Un esercito formato da un uomo solo», ribatté Sarason, in tono acido. «Ho assistito all'azione da una tomba. Un cecchino appostato in cima al tempio ha ucciso gli ufficiali e tenuto a bada due squadre dei nostri intrepidi mercenari, mentre il suo compagno sopraffaceva i piloti e s'impadroniva del loro elicottero. Tuo fratello ha pagato a caro prezzo la stupidità e l'eccesso di sicurezza.» «Com'è possibile che due sub e un gruppo di studenti abbiano battuto un plotone ben addestrato?» chiese Chaco, sbalordito.
«Se conoscessimo la risposta a questo interrogativo, forse scopriremmo anche come hanno fatto a togliere di mezzo l'elicottero che li inseguiva.» Chaco lo fissò. «È ancora possibile fermarli.» «Scordatelo. Non ho intenzione di aggravare il disastro distruggendo una nave del governo americano e tutti quelli che stanno a bordo. Ormai il danno è fatto. Secondo le mie fonti di Lima, la dottoressa Kelsey, subito dopo essere salita a bordo della nave, ha comunicato tutto all'ufficio del presidente Fujimori, incluso l'assassinio del vero Miller. Prima di sera, la notizia sarà trasmessa in tutto il Paese. La nostra attività a Chachapoyas è un capitolo chiuso.» «Possiamo comunque portar via i manufatti dalla valle.» La morte recentissima del fratello non aveva cancellato la cupidigia dalla mente di Chaco. Sarason annuì. «Ti ho già preceduto. Una squadra sta andando a prelevare i pezzi sopravvissuti all'attacco con i razzi sferrato da quegli imbecilli agli ordini di tuo fratello. È un miracolo se sarà rimasto qualcosa.» «Secondo me, è ancora possibile trovare nella Città dei Morti qualche indicazione che possa portare al ritrovamento del quipu di Drake. «Il quipu di Drake», Sarason ripeté le parole con un'espressione assorta negli occhi. Poi scrollò le spalle. «La nostra organizzazione sta già lavorando su un altro aspetto della faccenda, per quanto riguarda il tesoro.» «E Amaru? È ancora vivo?» «Sì, purtroppo. E passerà il resto dei suoi giorni ridotto a eunuco.» «Peccato. Era un seguace fedele.» Sarason sbuffò. «Fedele a chi lo pagava meglio. Tupac Amaru è un assassino e uno psicopatico della peggior specie. Quando gli ho ordinato di sequestrare Miller e di tenerlo prigioniero fino al termine dell'operazione, gli ha sparato alla testa e lo ha buttato in quel maledetto pozzo sacro. Ha la mentalità di un cane idrofobo.» «Potrebbe ancora essere utile», mormorò Chaco. «E come?» «Se conosco il suo modo di ragionare, giurerà vendetta ai responsabili della sua mutilazione. Potrebbe essere opportuno scatenarlo contro la dottoressa Kelsey e quel sub, Pitt, per impedire che vengano usati come informatori dagli inquirenti internazionali.» «Sarebbe troppo rischioso lasciare mano libera a un pazzo come lui. Ma terrò presente il tuo suggerimento.» Chaco continuò: «Che piani ha per me il Solpemachaco? Qui sono finito. Ormai i miei compatrioti sapranno che tradivo la loro fiducia per quan-
to riguarda il nostro patrimonio storico, e corro il rischio di passare il resto della vita in una delle nostre luride prigioni». «È una conclusione scontata.» Sarason alzò le spalle. «Le mie fonti mi hanno comunicato che la polizia locale ha ricevuto l'ordine di arrestarti. Dovrebbero arrivare tra meno di un'ora.» Chaco lo fissò a lungo, poi disse: «Sono uno studioso, uno scienziato, non un criminale incallito. È impossibile sapere cosa potrei rivelare se mi interrogassero o mi torturassero». Sarason represse un sorriso di fronte alla minaccia velata. «Sei un collaboratore utile e non possiamo permetterci di perderti. La tua conoscenza in fatto di culture andine non è seconda a quella di nessun altro. Già in questo momento ci stiamo organizzando perché ti trasferisca a Panamá. Là dirigerai l'identificazione, la catalogazione e i lavori di restauro di tutti i manufatti che acquistiamo dagli huaqueros del posto o che ci procuriamo con la copertura di programmi di ricerca archeologica in tutta l'America meridionale.» Chaco assunse all'improvviso l'espressione di un lupo. «Sono lusingato. E accetto, naturalmente. Un incarico tanto importante deve rendere bene.» «Riceverai il due per cento del prezzo che gli oggetti frutteranno nelle nostre case d'aste a New York e in Europa» disse Sarason. Chaco si trovava troppo in basso sulla scala organizzativa per essere al corrente dei segreti del Solpemachaco; tuttavia conosceva bene la rete e l'entità dei profitti. «Ho bisogno di aiuto per espatriare.» «Non preoccuparti», rispose Sarason. «Mi accompagnerai.» Indicò da uno dei finestrini il minaccioso apparecchio nero fermo davanti alla motor home, un convertiplano con i grandi rotori a tre pale che sferzavano lentamente l'aria. «Con quello possiamo arrivare a Bogotá, in Colombia, in meno di quattro ore.» Chaco non riusciva a credere di avere tanta fortuna. Un attimo prima era a un passo dal disonore e dal carcere per aver defraudato il governo; adesso era sul punto di diventare un uomo immensamente ricco. Il ricordo del fratello svanì rapidamente; d'altronde erano soltanto fratellastri e fra loro non c'era mai stato un grande affetto. Mentre Sarason attendeva paziente, Chaco raccolse in fretta qualche oggetto personale e lo mise in una valigetta. Si avviarono insieme verso l'aereo. Juan Chaco non arrivò vivo a Bogotá. Alcuni contadini che aravano un campo di patate dolci nei pressi di un villaggio isolato dell'Ecuador interruppero il lavoro per guardare il cielo quando sentirono lo strano rombo
dell'apparecchio che passava a una quota di cinquecento metri. All'improvviso, come in una scena da film dell'orrore, videro il corpo di un uomo che precipitava. I contadini notarono che lo sventurato era vivo. Scalciava freneticamente e cercava di aggrapparsi all'aria come se sperasse di rallentare la caduta. Chaco piombò al suolo nel centro di un piccolo recinto occupato da una mucca scarna: mancò l'animale per un paio di metri. I contadini accorsero e si fermarono intorno al corpo sfracellato che era penetrato nel terreno per mezzo metro. Da quei semplici campagnoli che erano, non mandarono nessuno a informare la stazione di polizia più vicina, situata sessanta chilometri più a ovest. Recuperarono pietosamente i resti dell'uomo misterioso caduto dal cielo e li seppellirono nel piccolo cimitero accanto alle rovine di una vecchia chiesa. Chaco non fu pianto da nessuno e rimase sconosciuto, ma il suo mito era destinato ad affascinare le generazioni a venire. 11. Shannon aveva la testa avvolta in un asciugamano che copriva come un turbante i capelli ancora umidi. Il bagno caldo nella cabina del comandante era stato una vera meraviglia. Aveva dato la precedenza alle studentesse peruviane, prima d'immergersi nell'acqua fumante sorseggiando un po' di vino e mangiando un sandwich di pollo che Pitt le aveva portato dalla cambusa. Aveva la pelle lustra e profumata di lavanda, dopo che si era tolta dai pori il sudore e la sporcizia, e il fango della giungla dalle unghie. Uno dei marinai più bassi, che aveva più o meno la sua taglia, le aveva prestato una tuta; l'unica donna che faceva parte dell'equipaggio, una specialista di biologia marina, aveva quasi dato fondo al suo guardaroba per rivestire le peruviane. Non appena fu pronta, Shannon buttò il costume da bagno e la camicetta lurida in un bidone dei rifiuti: erano legati a eventi che preferiva dimenticare. Dopo aver asciugato e spazzolato i capelli, si diede un poco del dopobarba del comandante Stewart. Perché, si chiese, gli uomini non usavano mai il talco dopo la doccia? Stava intrecciando i capelli quando Pitt bussò alla porta. Rimasero a guardarsi per un momento prima di scoppiare in una risata. «Quasi non la riconoscevo», disse lei, squadrando Pitt che, pulito e ben rasato, indossava una camicia hawaiana a fiorami e pantaloni nocciola. Non era esattamente uno di quegli uomini dotati di una bellezza diabolica,
pensò Shannon, ma i difetti del viso ossuto erano controbilanciati da un magnetismo virile cui era difficile resistere. Era addirittura più abbronzato di lei, e i capelli neri e ondulati si armonizzavano perfettamente con gli occhi d'un verde indescrivibile. «Non sembriamo più gli stessi», commentò lui con un sorriso accattivante. «Le andrebbe di visitare la nave prima di cena?» «Con piacere.» Shannon lo scrutò. «Pensavo di dover dormire nella sua cabina. Invece il comandante mi ha offerto questa.» Pitt scrollò le spalle. «Abbiamo tirato a sorte.» «È un impostore, Dirk Pitt. Non è affatto il dongiovanni che pretende di essere.» «Ho sempre pensato che sia giusto arrivare all'intimità un po' per volta.» Shannon si sentì improvvisamente a disagio. Le sembrava che i penetranti occhi verdi le leggessero nella mente, come se Pitt intuisse che c'era qualcun altro. Fece uno sforzo per sorridergli e lo prese sottobraccio. «Dove vogliamo incominciare?» «Sta parlando della visita alla nave, ovviamente.» «E di cosa, se no?» La Deep Fathom era una nave oceanografica ultimo modello, e si vedeva. La sua designazione ufficiale era Super-Seismic Vessel. Era stata progettata soprattutto per le ricerche geofisiche nelle profondità oceaniche, ma poteva intraprendere anche una quantità di altre attività subacquee. Le gru giganti di poppa e di lato, con gli argani enormi, potevano essere adattate per svolgere in pratica qualsiasi funzione, dagli scavi minerari ai ripescaggi in acque profonde fino al lancio e al recupero di sottomarini guidati o automatici. Lo scafo era dipinto del tradizionale color turchese della NUMA con la sovrastruttura bianca, mentre le gru erano azzurre. Da prua a poppa la nave era lunga quanto un campo da football, e poteva ospitare fino a trentacinque scienziati e venti uomini d'equipaggio. Anche se, dall'esterno, l'impressione era assai diversa, gli alloggi erano comodi quanto quelli di molte navi da crociera. L'ammiraglio James Sandecker, con un intuito raro per un burocrate, sapeva che i suoi rendevano di più se venivano trattati bene e la Deep Fathom rispecchiava questa convinzione. La sala da pranzo sembrava un buon ristorante, e in cambusa c'era uno chef di prim'ordine. Pitt condusse Shannon in plancia. «Il nostro cervello», spiegò, indicando un vasto ambiente pieno di display digitali, computer e monitor video montati su una lunga console corrispondente all'ampiezza del ponte e posta
sotto una lunga serie di vetrate. «Quasi tutto ciò che c'è a bordo viene controllato da qui, eccettuata l'attrezzatura di profondità; per questo ci sono compartimenti che contengono gli impianti elettronici creati per i progetti speciali di quel tipo.» Shannon girò lo sguardo sulle cromature scintillanti, sulle immagini colorate dei monitor e sulla veduta panoramica del mare intorno alla prua. Era davvero impressionante: pareva di essere in un salotto video del futuro. «Dov'è il timone?» chiese. «La vecchia ruota è passata di moda con il Queen Mary», rispose Pitt. Le mostrò la console per il controllo automatico della nave, un pannello dotato di leve e un telecomando mobile. «Ormai sono i computer che si occupano della navigazione. Il comandante può addirittura dare ordini a voce.» «Io non ho mai fatto altro che dissotterrare vecchi cocci e non immaginavo che le navi fossero tanto progredite.» «Dopo essere state trascurate per quarant'anni, la scienza e la tecnologia del mare sono state finalmente riconosciute dal governo e dall'industria privata come il campo emergente del futuro.» «Non mi ha ancora spiegato con precisione cosa state facendo nelle acque del Perù.» «Sondiamo i mari alla ricerca di nuovi farmaci», rispose Pitt. «Come a dire: prenda due plancton e mi ritelefoni domattina?» Pitt sorrise e annuì. «È possibile che un giorno il suo medico le prescriva uno di questi rimedi.» «E così la caccia ai nuovi farmaci è finita sott'acqua.» «Era un passo inevitabile. Abbiamo scoperto ed elaborato più del novanta per cento di tutti gli organismi terrestri che costituiscono fonti di medicinali. L'aspirina e il chinino derivano dalla corteccia di certi alberi. Vengono utilizzate le sostanze chimiche contenute in tutto, dal veleno dei serpenti alle secrezioni delle rane e delle ghiandole dei maiali. Ma le creature marine e i microrganismi che vivono a grande profondità sono ancora una fonte pochissimo sfruttata, e potrebbero offrire la speranza di guarire tutte le malattie, incluso il comune raffreddore, il cancro e l'AIDS.» «Ma è possibile caricare su una nave una quantità di microbi da trattare in laboratorio per distribuirli poi alle farmacie sotto casa?» «È meno assurdo di quanto possa sembrare», disse Pitt. «Ognuno dei cento organismi che vivono in una goccia d'acqua può essere coltivato, utilizzato e trasformato in medicinale. In questo momento sono allo studio
degli specialisti alcune meduse, un invertebrato chiamato briozoo, certe spugne e numerosi coralli: potrebbero diventare medicine contro il cancro, antinfiammatori per i dolori artritici o rivelarsi utili per prevenire il rigetto degli organi dopo un trapianto. Una sostanza chimica isolata dalle alghe ha dato risultati particolarmente incoraggianti: attraverso di essa si potrà forse sconfiggere una forma di tubercolosi resistente alle comuni terapie.» «E in quale parte dell'oceano state cercando queste medicine miracolose?» chiese Shannon. «La nostra spedizione si occupa in particolare di una catena di sfiatatoi, dove il magma caldo fuoriuscito dal mantello terrestre entra in contatto con l'acqua fredda del mare ed erutta attraverso una serie di crepe prima di spargersi sul fondo. Si potrebbe parlare di una sorgente calda oceanica. Vari minerali vengono depositati su un'area molto vasta: rame, zinco, ferro, per non parlare poi dell'acqua satura di acido solfidrico. E, per quanto possa sembrare incredibile, colonie di vongole giganti, di mitili, di vermi tubiformi e di batteri che utilizzano i composti dello zolfo per sintetizzare gli zuccheri prosperano in quell'ambiente buio e tossico. Sono queste varietà straordinarie di forme viventi che noi raccogliamo con i sottomarini per poi inviarle negli Stati Uniti in modo che vengano sottoposte a test clinici e di laboratorio.» «Ci sono molti scienziati che si occupano di questi rimedi miracolosi?» Pitt scosse la testa. «Cinquanta o sessanta in tutto il mondo. La ricerca medica marina sta solo muovendo i primi passi.» «Quanto tempo ci vorrà prima che questi farmaci siano immessi sul mercato?» «Gli ostacoli normativi sono enormi. I dottori non prescriveranno molti di questi medicinali almeno per dieci anni.» Shannon si avvicinò a una serie di monitor che occupava un intero pannello d'una paratia. «È impressionante.» «La nostra missione secondaria consiste nell'effettuare i rilevamenti del fondo marino dovunque navighi la nave.» «E i monitor che cosa mostrano?» «Quello che vede è il mondo marino in una miriade di forme e immagini», spiegò Pitt. «Il nostro sistema sonar sidescan a lunga distanza e a bassa risoluzione può registrare una fascia tridimensionale a colori fino a un'ampiezza di cinquanta chilometri.» Shannon osservò lo spettacolo incredibile di burroni e montagne che si trovavano migliaia di metri sotto la nave. «Non avevo mai immaginato di
poter vedere così chiaramente il fondale. È come guardare dal finestrino di un aereo in volo sulle Montagne Rocciose.» «Con l'ingrandimento per mezzo del computer le immagini diventano ancora più nitide.» «Il fascino dei sette mari», commentò Shannon in tono filosofico. «Siete come i primi esploratori che tracciarono le mappe di nuovi mondi.» Pitt rise. «L'alta tecnologia cancella completamente il fascino.» Lasciarono il ponte, e Pitt condusse Shannon nel laboratorio di bordo, dove un team di chimici e di biologi marini lavorava intorno a una dozzina di vasche di vetro brulicanti di cento diversi abitanti degli abissi; gli scienziati studiavano i dati dei computer ed esaminavano i microrganismi al microscopio. «Dopo che qualcosa è stato prelevato dal fondo», disse Pitt, «qui si fa il primo passo nella ricerca sui nuovi medicinali.» «E in tutto questo qual è la sua parte?» chiese Shannon. «Al Giordino e io facciamo funzionare i veicoli robot che frugano il fondo alla ricerca di posti in cui si trovano organismi promettenti. Quando pensiamo di aver individuato qualcosa di buono, scendiamo con un sottomarino per prelevare i campioni.» Shannon sospirò. «Il suo campo è molto più esotico del mio.» Pitt scosse la testa. «Non sono d'accordo. Studiare le origini dei nostri antenati può essere molto esotico, a modo suo. Se non proviamo alcuna attrazione per il passato, perché milioni di persone visitano ogni anno l'antico Egitto, Roma e Atene? Perché ci aggiriamo sui campi di battaglia di Gettysburg e di Waterloo e contempliamo dall'alto le spiagge della Normandia? Perché dobbiamo guardare la storia per vedere noi stessi.» Shannon tacque. Si era aspettata una certa freddezza da parte di un uomo che lei aveva visto uccidere implacabilmente i nemici. Era sorpresa dalla profondità delle sue parole, dalla facilità con cui esprimeva le idee. Pitt parlò del mare, di naufragi e di tesori perduti. Shannon gli descrisse i grandi misteri archeologici che attendevano una soluzione. Era un dialogo piacevole; tuttavia fra loro c'era un vuoto indefinibile. Nessuno dei due si sentiva fortemente attratto dall'altro. Erano saliti sulla tolda e stavano appoggiati al parapetto a guardare gli spruzzi sollevati dalla prua della Deep Fathom scivolare lungo le fiancate e mescolarsi alla spuma della scia, quando sopraggiunse il comandante Frank Stewart. «È una cosa ufficiale», annunciò con il tipico accento dell'Alabama. «È
arrivato l'ordine di portare a Callao i giovani peruviani e la dottoressa Kelsey.» «Hai parlato con l'ammiraglio Sandecker?» chiese Pitt. Stewart scosse il capo. «No, con il suo direttore operativo, Rudi Gunn.» «E quando avremo fatto scendere tutti, immagino che torneremo indietro e proseguiremo la missione.» «Io e l'equipaggio, sì. Tu e Al avete l'ordine di tornare al pozzo sacro e di recuperare il corpo del dottor Miller.» Pitt guardò Stewart come se fosse ammattito. «Perché proprio noi e non la polizia peruviana?» Stewart alzò le spalle. «Quando ho obiettato che siete indispensabili per la raccolta degli esemplari, Gunn ha risposto che avrebbe mandato rimpiazzi dal laboratorio della NUMA a Key West. Non ha voluto dire altro.» Pitt indicò con un gesto lo spazio vuoto riservato all'elicottero. «Hai comunicato a Rudi che Al e io non siamo esattamente i beniamini degli indigeni e che abbiamo appena perso il nostro mezzo volante?» «La risposta è no alla prima domanda, sì alla seconda», rispose Stewart con un sorriso maligno. «L'ambasciata americana vi ha noleggiato un elicottero commerciale a Lima.» «Tutto questo ha senso come ordinare un sandwich al burro d'arachide in un ristorante francese.» «Se hai qualche protesta da fare, ti consiglio di rivolgerti a Gunn. Ci aspetta al porto di Callao.» Pitt socchiuse le palpebre. «Il braccio destro di Sandecker si fa un volo di seimilacinquecento chilometri da Washington per assistere al recupero di un cadavere? Cosa significa?» «Più di quanto salti agli occhi, è ovvio», rispose Stewart. Si rivolse a Shannon. «Gunn ha trasmesso un messaggio per lei da parte di un certo David Gaskill. Ha detto che lei avrebbe ricordato il nome.» Per un momento, Shannon fissò la tolda. «Sì, ricordo. È un agente della dogana degli Stati Uniti, specializzato nella caccia ai contrabbandieri di antichità.» Stewart continuò: «Gaskill ha chiesto di riferirle che crede di aver scoperto l'armatura d'oro di Tiapollo in una collezione privata di Chicago». Shannon si sentì battere il cuore. Strinse le mani sulla ringhiera fino a sbiancarsi le nocche. «Buone notizie?» chiese Pitt. Lei aprì la bocca ma non disse nulla. Sembrava stordita.
Pitt le passò un braccio intorno alla vita per sostenerla. «Si sente bene?» «L'armatura d'oro di Tiapollo», mormorò Shannon in tono reverente, «andò perduta nel corso di un audace furto nel Museo Arqueológico di Siviglia nel 1922. Non c'è archeologo al mondo che non rinuncerebbe alla pensione pur di poterla studiare.» «Che cosa la rende tanto eccezionale?» chiese Stewart. «È considerato il manufatto più prezioso mai uscito dal Sudamerica, per la sua importanza storica», spiegò Shannon come se fosse in trance. «È tutta d'oro e copriva la mummia di un grande generale chachapuyano conosciuto come Naymlap. La copriva dalla punta dei piedi alla sommità della testa. I conquistatori spagnoli scoprirono la tomba di Naymlap nel 1547, in una città chiamata Tiapollo, fra le montagne. L'avvenimento fu registrato in due antichi documenti, ma oggi s'ignora quale fosse l'esatta ubicazione di Tiapollo. Ho visto soltanto alcune foto in bianco e nero dell'armatura, ma si capiva che la lavorazione del metallo era sensazionale. L'iconografia, le immagini tradizionali e i fregi esterni erano molto sofisticati e narravano un avvenimento leggendario.» «Era una pittografia come i geroglifici egizi?» domandò Pitt. «Qualcosa di molto simile.» «Una specie di fumetto illustrato», soggiunse Giordino. Shannon sorrise. «Ma senza i fumetti, che non sono mai stati decifrati completamente. Le allusioni piuttosto oscure sembrano indicare un lungo viaggio per mare verso un luogo situato al di là dell'impero azteco.» «A che scopo?» chiese Stewart. «Per nascondere un immenso tesoro reale appartenente a Huascar, un re inca che fu catturato in battaglia e assassinato dal fratello Atahualpa, poi giustiziato dal conquistatore spagnolo Francisco Pizarro. Huascar possedeva una catena d'oro sacra lunga duecentoquattordici metri. Secondo quanto riferirono gli inca agli spagnoli, duecento uomini bastavano appena per sollevarla.» «Se calcoliamo approssimativamente che ognuno degli uomini sollevasse il sessanta per cento del proprio peso», mormorò Giordino, «stiamo parlando di più di novemila chili d'oro.» Poi cambiò espressione di colpo, sbalordito. «Oh, mio Dio! Al mercato dell'oro attuale varrebbe più di cento milioni di dollari.» «Non è possibile», sbuffò Stewart. «Rifai pure il calcolo», mormorò Giordino, ancora stupefatto. Stewart lo fece, e assunse la stessa espressione di Giordino. «Madonna
santissima, ha ragione lui.» Shannon annuì. «E quello è soltanto il valore commerciale dell'oro. Come manufatto, non ha prezzo.» «Gli spagnoli non riuscirono a impadronirsene?» chiese Pitt a Shannon. «No, la catena sparì con altre ricchezze reali. Probabilmente saprete tutti che Atahualpa, il fratello di Huascar, cercò di comprarsi la libertà offrendo a Pizarro di riempire d'oro una camera di sette metri per cinque. Atahualpa si sollevò in punta di piedi, tese il braccio e tracciò sulle pareti una linea a circa tre metri dal pavimento, per indicare l'altezza che avrebbe raggiunto l'oro. Un'altra stanza adiacente, più piccola, sarebbe stata riempita d'argento per ben due volte.» «Deve essere il primato mondiale in fatto di riscatto», mormorò Stewart. «Secondo la leggenda», continuò Shannon, «Atahualpa prelevò una quantità di oggetti d'oro da palazzi, templi ed edifici pubblici. Dato che non bastava, cercò d'impadronirsi dei tesori del fratello. Ma gli agenti fedeli avvertirono Huascar, che si organizzò per far sparire i suoi tesori prima che Atahualpa e Pizarro se ne impadronissero. Sorvegliati da fidi guerrieri chachapuyani al comando del generale Naymlap, innumerevoli tonnellate di oggetti d'oro e d'argento, compresa la catena, furono trasportate da una carovana umana fino alla costa, dove vennero caricate su una flotta d'imbarcazioni di canne e balsa, e portate verso una destinazione sconosciuta, molto lontana, al nord.» «Questa storia ha una base concreta?» chiese Pitt. «Fra il 1546 e il 1568 uno storico e traduttore, il gesuita Juan de Ávila, annotò molti racconti mitici delle antiche culture peruviane. Mentre cercava di convertire al cristianesimo i Chachapuyas, venne a conoscenza di quattro diverse versioni a proposito di un grande tesoro del regno incaico, che i loro antenati avevano contribuito a trasportare oltre il mare fino a un'isola, molto al di là delle terre degli Aztechi, dove venne sepolto. A quanto pare, è vigilato da un giaguaro alato in attesa del giorno in cui gli Inca ritorneranno e si riprenderanno il regno peruviano.» «Ci saranno almeno cento isole lungo la costa, da qui alla California», commentò Stewart. Shannon seguì lo sguardo di Pitt in direzione del mare inquieto. «La leggenda ha un'altra fonte... o meglio, dovrei dire che l'aveva.» «Bene», disse Pitt. «Sentiamo.» «Quando de Ávila interrogò il Popolo delle Nubi, com'erano chiamati i Chachapuyas, apprese una leggenda imperniata su un cofanetto di giada
che conteneva una cronaca dettagliata del viaggio.» «Una pelle d'animale coperta di pittografie simboliche?» «No, un quipu», rispose Shannon a voce bassa. Stewart inclinò la testa con aria interrogativa. «Che cosa?» «Il quipu era un sistema usato dagli Inca per risolvere problemi matematici e registrare i fatti. Un sistema molto ingegnoso: una specie di antico computer che usava fili colorati di spago o di canapa, con i nodi collocati a intervalli diversi. I fili di vario colore indicavano cose differenti: l'azzurro per la religione, il rosso per il re, il grigio per i luoghi e le città, il verde per la gente, e così via. Un filo giallo poteva indicare l'oro, uno bianco l'argento. La collocazione dei nodi esprimeva i numeri, come il passare del tempo. Nelle mani di un quipumayoc, un segretario o uno scrivano, c'era la possibilità infinita di creare tutto, dalla cronaca degli eventi fino agli inventari di magazzino. Purtroppo quasi tutti i quipu, una delle documentazioni statistiche più dettagliate della storia d'un popolo che siano mai esistite, furono distrutti durante la conquista spagnola e la successiva repressione.» Pitt disse: «E questo strumento a corde, se mi si passa l'espressione, fu usato per fare un resoconto del viaggio, inclusi i tempi, la distanza e l'ubicazione?» «L'idea era quella», ammise Shannon. «Si sa dove finì il cofanetto di giada?» «Secondo una versione gli spagnoli trovarono lo scrigno con il quipu e, siccome non ne conoscevano il valore, lo mandarono in Spagna. Tuttavia, mentre viaggiava a bordo di un galeone del tesoro diretto a Panamá, il cofanetto, insieme a un carico di manufatti preziosi e a una quantità d'oro e d'argento, fu catturato dal corsaro inglese sir Francis Drake.» Pitt si voltò e la guardò come se Shannon fosse un'auto d'epoca che non aveva mai visto prima. «La mappa del tesoro dei Chachapuyas finì in Inghilterra?» La donna alzò le spalle. «Drake non parlò mai del cofanetto di giada o del suo contenuto quando tornò in Inghilterra dopo l'epico viaggio intorno al mondo. Da allora, la mappa viene chiamata 'il quipu di Drake', ma nessuno l'ha mai vista.» «È una storia stranissima», borbottò Pitt. Nei suoi occhi c'era un'espressione sognante, mentre la sua mente visualizzava qualcosa al di là dell'orizzonte. «Ma il più bello deve ancora venire.» Shannon e Stewart lo fissarono. Pitt alzò lo sguardo al cielo mentre un
gabbiano volava in cerchio sopra la nave e proseguiva verso la terraferma. C'era un'espressione di certezza assoluta nei suoi occhi quando si girò di nuovo verso di loro, con un sorriso storto che gli incurvava le labbra, i capelli color dell'ebano agitati dalla brezza. «Perché dice così?» chiese Shannon, un po' esitante. «Perché troverò il cofanetto di giada.» «Vuoi prenderci in giro?» rise Stewart. «Neppure per sbaglio.» L'espressione distaccata sul volto di Pitt s'era trasformata in una decisione incrollabile. Per un momento Shannon rimase sbigottita. La transizione dallo scetticismo beffardo di poco prima era del tutto inaspettata. «Parla come se fosse un po' matto.» Pitt inclinò la testa all'indietro e rise di cuore. «È questo il bello della pazzia. Vedi certe cose che sfuggono a tutti gli altri.» 12. St. Julien Perlmutter era il tipico gourmet e bon vivant. Innamorato della miglior cucina e delle bevande più squisite, possedeva un incredibile archivio di ricette fornitegli dagli chef più famosi del mondo e una cantina con più di quattrocento bottiglie di vini d'annata. Aveva la reputazione ammirevole di offrire pranzi raffinati nei ristoranti alla moda, ma pagava un duro prezzo per queste soddisfazioni. St. Julien Perlmutter pesava quasi centottanta chili. Rideva dei programmi di ginnastica e delle diete, e il suo desiderio più ardente era di lasciare questa terra assaporando un cognac centenario dopo un pasto sontuoso. Oltre alla buona cucina, la sua grande passione era costituita dalle navi e dai naufragi. Aveva accumulato quella che gli esperti giudicavano la collezione più completa del mondo in fatto di letteratura e di documenti sulle navi storiche. I musei marittimi contavano i giorni in attesa che gli stravizi gastronomici lo uccidessero, per potersi lanciare come avvoltoi per annettere la collezione alle loro biblioteche. C'era una ragione precisa per cui Perlmutter invitava sempre gli amici nei ristoranti anziché nella sua casa spaziosa, ricavata da una vecchia rimessa per carrozze, che si trovava a Georgetown, un sobborgo della capitale. Una massa gigantesca di libri era ammonticchiata sul pavimento, sugli scaffali traballanti, e in ogni angolo della sua camera da letto, in soggiorno, in sala da pranzo e persino in cucina. Erano accatastati fino all'al-
tezza della testa anche nel bagno, e sparsi come pula sul gigantesco letto ad acqua. Gli esperti avrebbero avuto bisogno di un anno intero per suddividere e catalogare quelle migliaia di volumi. Ma Perlmutter non aveva problemi. Sapeva esattamente dove si trovava ogni testo e riusciva a recuperarlo in pochi secondi. Indossava la sua «uniforme» da giorno, un pigiama violaceo sotto una vestaglia rossa e oro a disegni minutissimi, e stava davanti a uno specchio recuperato da una cabina del Lusitania per spuntarsi la lussureggiante barba grigia, quando il telefono emise uno squillo simile a quello della campana di una nave. «Qui St. Julien Perlmutter, spieghi cosa vuole e sia breve.» «Salve, vecchio relitto.» «Dirk!» tuonò Perlmutter riconoscendo la voce. Gli occhi celesti brillarono nella faccia tonda e rossa. «Dov'è la ricetta degli scampi all'albicocca che mi avevi promesso?» «In una busta sulla mia scrivania. Ho dimenticato di spedirla prima di lasciare gli Stati Uniti. Scusami.» «Da dove mi stai chiamando?» «Da una nave al largo della costa del Perù.» «Non oso chiedere cosa stai facendo.» «È una storia lunga.» «Come al solito.» «Ho bisogno di un favore.» Perlmutter sospirò. «Di che nave si tratta, questa volta?» «Il Golden Hind.» «Il Golden Hind? Il galeone di Francis Drake?» «Appunto.» «Sic parvis magna», disse Perlmutter. «Le cose grandi hanno piccoli inizi. Era il motto di Drake. Lo sapevi?» «No, mi era sfuggito», ammise Pitt. «Dunque, Drake catturò un galeone spagnolo...» «Il Nuestra Señora de la Concepción», l'interruppe Perlmutter. «Comandata da Juan de Anton, diretta a Panamá da Callao de Lima con un carico di lingotti e preziosi manufatti incaici. Se non ricordo male, era il mese di marzo del 1578.» Vi fu un momento di silenzio. «Perché quando parlo con te, Julien, ho sempre l'impressione che tu mi abbia rubato la bicicletta?» «Credevo che un granello di conoscenza ti avrebbe rallegrato», rise Per-
lmutter. «Cosa vuoi sapere, esattamente?» «Quando Drake catturò il Concepción, che cosa fece del carico?» «L'avvenimento è ben documentato. Drake stivò i lingotti d'oro e d'argento, più una quarantina di gemme e di perle, a bordo del Golden Hind. Un bottino enorme. Il galeone era così sovraccarico che gettò svariate tonnellate d'argento in acqua nei pressi dell'isola di Cano, al largo della costa dell'Ecuador, prima di proseguire il viaggio intorno al mondo.» «E i tesori incaici?» «Rimasero nelle stive del Concepción. E Drake assegnò un equipaggio al galeone perché tornasse indietro passando dallo stretto di Magellano, attraversasse l'Atlantico e raggiungesse l'Inghilterra.» «Il galeone arrivò in porto?» «No», rispose pensosamente Perlmutter. «Scomparve e fu dato per disperso con l'intero equipaggio.» «Mi dispiace moltissimo», disse Pitt in tono deluso. «Speravo che fosse sopravvissuto.» «Ora che ci penso», mormorò Perlmutter, «la sparizione del Concepción diede origine a un mito.» «Quale?» «Una storia fantasiosa, poco più di una diceria, affermava che il galeone era stato investito da un maremoto che l'aveva portato nell'entroterra. Naturalmente, è una storia che non è mai stata verificata o documentata.» «Conosci la fonte di questa diceria?» «Ci vorranno altre ricerche per controllare i particolari; tuttavia, se la memoria non mi tradisce, la storia fu raccontata da un inglese pazzo che i portoghesi trovarono in un villaggio lungo il Rio delle Amazzoni. Mi dispiace, ma per il momento non sono in grado di dirti altro.» «Ti sarei grato se scavassi un po' più a fondo», disse Pitt. «Posso darti le dimensioni e il tonnellaggio del Concepción, la velatura, e quando e dove era stato costruito. Ma un pazzo che si aggira in una foresta pluviale richiede una fonte che esorbita dalla mia collezione.» «Se c'è qualcuno capace di scoprire un enigma del mare, quello sei tu.» «Mi manca completamente la voglia di rovistare fra i tuoi enigmi, soprattutto da quando abbiamo trovato il vecchio Abe Lincoln a bordo di una corazzata dei Confederati in mezzo al Sahara.» «Lascio fare a te, Julien.» «Corazzate in un deserto, l'Arca di Noè su una montagna, galeoni spagnoli in una giungla. Perché le navi non stanno in mare? È il loro posto.»
«È per questo che io e te siamo inguaribili cacciatori di relitti perduti», dichiarò allegramente Pitt. «In questo caso, che cosa ti interessa?» domandò Perlmutter in tono diffidente. «Un cofanetto di giada contenente una corda annodata che fornisce le indicazioni per scoprire un immenso tesoro incaico.» Perlmutter rifletté per qualche secondo sulla risposta, e infine disse con un grande sospiro: «Be', credo che sia una ragione valida quanto un'altra». Hiram Yaeger aveva l'aria di chi spinge un carrello pieno di stracci lungo un vicolo. Indossava giubbotto e pantaloni Levi's, i capelli biondi erano legati in una coda di cavallo e la faccia giovanile era seminascosta da una barba rada. Ma l'unico carrello che Yaeger avesse mai spinto in vita sua era quello del reparto gastronomia d'un supermercato. Un estraneo avrebbe faticato a immaginare che viveva in un'elegante zona residenziale del Maryland con una bella moglie artista e due graziose figlie adolescenti iscritte a ottime scuole private, e che guidasse una BMW di lusso. E chi non lo conosceva non avrebbe mai intuito che fosse il capo della Rete Comunicazioni e Informazioni della NUMA. L'ammiraglio Sandecker lo aveva portato via a un'azienda produttrice di computer di Silicon Valley perché creasse un'immensa biblioteca di dati contenente tutti i libri, le tesi, gli articoli scientifici e storici, i fatti e le teorie scritte sul mare. Ciò che l'archivio di St. Julien Perlmutter era per le navi, quello di Yaeger era per l'oceanografia e il campo sempre più vasto delle scienze sottomarine. Quando il telefono squillò, Yaeger era seduto al suo terminale privato in un piccolo ufficio del complesso dati che occupava tutto il decimo piano della sede della NUMA. Sollevò il ricevitore senza staccare gli occhi dal monitor che mostrava le modifiche del clima australiano causate dalle correnti oceaniche. «Qui il pool dei cervelli», rispose con noncuranza. «Tu sapresti riconoscere la materia grigia solo se ti sporcasse le scarpe», dichiarò la voce d'un vecchio amico. «Lieto di sentirti, signor direttore dei Progetti Speciali. Secondo le chiacchiere d'ufficio, ti stai godendo un'allegra vacanza in Sudamerica.» «Ti hanno informato male, amico.» «Chiami dalla Deep Fathom?» «Sì. Al e io siamo tornati a bordo dopo una piccola escursione nella giungla.»
«Che posso fare per te?» «Fruga nella tua banca dati e vedi se trovi traccia di un maremoto che investì la costa fra Lima, in Perù, e la città di Panamá nel marzo 1578.» Yaeger sospirò. «Perché non mi chiedi anche di trovare la temperatura e il tasso di umidità del giorno della Creazione?» «Mi basta sapere l'area generale dove si abbatté il maremoto, grazie.» «Le eventuali notizie di un avvenimento del genere dovrebbero figurare nella documentazione meteorologica e marittima che ho raccolto negli archivi spagnoli di Siviglia. Un'altra possibilità, molto remota, sarebbe rappresentata dagli abitanti del posto, che forse hanno tramandato qualche leggenda sul fatto. Gli Inca erano abili nel registrare le occasioni sociali e religiose su tessuti e vasellame.» «Non mi sembra una pista molto utile», ribatté in tono dubbioso Pitt. «L'impero incaico era stato annientato dalla conquista spagnola una quarantina d'anni prima. Se anche avevano registrato l'avvenimento, la documentazione sarà andata dispersa e perduta.» «Molte tsunami che penetrano nell'entroterra sono causate da movimenti del fondo marino. Forse riuscirò a mettere insieme gli eventi geologici conosciuti di quel periodo.» «Fai tutto il possibile.» «Fra quanto ti serve?» «A meno che l'ammiraglio ti abbia incaricato di un progetto con priorità assoluta, lascia perdere tutto e datti da fare.» «D'accordo», rispose Yaeger, smanioso di dimostrarsi all'altezza della sfida. «Vedrò cos'altro potrò scovare.» «Grazie, Hiram. Ho un debito con te.» «No, ne hai un centinaio.» «E non dire niente a Sandecker», aggiunse Pitt. «Avevo già l'impressione che si trattasse di uno dei tuoi piani più subdoli. Ti dispiace se chiedo di che si tratta?» «Sto cercando un galeone spagnolo perduto nella giungla.» «Ma è naturale. Che altro, se no?» sospirò Yaeger in tono rassegnato. Aveva imparato da molto tempo che con Pitt era inutile insistere. «Spero che il campo di ricerca che tu scoprirai non sia più grande d'uno stadio.» «Per la verità, grazie a una vita morigerata e a retti pensieri, posso già restringere notevolmente l'area delle ricerche.» «Che cosa sai che io non so?»
Yaeger sorrise fra sé. «I bassipiani fra il versante occidentale delle Ande e la costa del Perù hanno una temperatura media di diciotto gradi centigradi, e precipitazioni annue che riempirebbero a stento un bicchierino. Quindi è uno dei deserti più freddi e secchi a bassa altitudine del mondo. Non c'è nessuna giungla, lì, dove si può perdere una nave.» «Quindi, qual è il tuo posto preferito?» chiese Pitt. «L'Ecuador. La regione costiera è tropicale fino a Panamá.» «Un magnifico esempio di ragionamento deduttivo. Sei straordinario, Hiram, qualunque cosa dicano di te le tue ex mogli.» «Sciocchezze. Avrò qualcosa da comunicarti entro ventiquattr'ore.» «Mi terrò in contatto.» Appena posò il telefono, Yaeger incominciò a riordinare i suoi pensieri. Le ricerche sui naufragi lo avevano sempre incuriosito. Le aree che intendeva controllare erano schedate in perfetto ordine nel computer della sua mente. Negli anni passati alle dipendenze della NUMA aveva scoperto che Dirk Pitt non viveva la sua esistenza come gli altri uomini. Il semplice fatto di lavorare con lui e di fornirgli le informazioni era stata una lunga avventura ricca d'intrighi e vissuta per interposta persona. E Yaeger era orgoglioso di non aver mai mancato la palla che gli veniva lanciata. 13. Mentre Pitt faceva i suoi piani per trovare un galeone spagnolo arenato nell'entroterra, Adolphus Rummel, famoso collezionista di antichità sudamericane, usciva dall'ascensore del suo lussuoso attico che, dall'alto di venti piani, dominava Lake Shore Drive a Chicago. Rummel era un uomo basso e magro con la testa rasata e un paio di enormi baffi da tricheco. Aveva settantacinque anni e somigliava più a uno dei cattivi delle avventure di Sherlock Holmes che al proprietario di sei enormi impianti di rottamazione di automobili. Come molti suoi colleghi straricchi che ammassavano ossessivamente inestimabili collezioni di oggetti antichi provenienti dal mercato nero senza fare domande, Rummel non era sposato e viveva come un eremita. Nessuno veniva mai autorizzato a vedere i suoi manufatti precolombiani. Soltanto il suo commercialista e il suo legale ne conoscevano l'esistenza, ma non immaginavano quale fosse l'ampiezza del suo inventario. Negli anni '50 Rummel, che era tedesco di nascita, aveva contrabbandato un carico di oggetti nazisti oltre il confine messicano. Tra gli altri figura-
vano pugnali da parata e Croci di Ferro donati ai maggiori eroi tedeschi della seconda guerra mondiale, oltre a un gran numero di documenti storici firmati da Adolf Hider e dai suoi fedelissimi. Rummel aveva venduto il suo tesoro ai collezionisti a prezzi altissimi; poi aveva reinvestito i profitti allestendo un centro di sfasciacarrozze che si era trasformato in un vero impero dei rottami metallici, un impero che gli aveva reso un utile netto di circa duecentocinquanta milioni di dollari nel giro di quarant'anni. Nel 1974, dopo un viaggio d'affari in Perù, si era appassionato all'antica arte americana e aveva cominciato a comprare manufatti da venditori onesti e disonesti. La provenienza non gli interessava. Fra i cercatori e i venditori di manufatti dell'America centrale e meridionale la corruzione era comune come la pioggia nella giungla. Rummel non si domandava se i pezzi da lui acquistati erano stati portati alla luce legalmente e venduti di nascosto, oppure rubati in un museo. Esistevano per la sua soddisfazione e il suo piacere: erano suoi e di nessun altro. Attraversò l'atrio marmoreo e si avvicinò a un grande specchio dalla cornice dorata coperta di amorini nudi allacciati intorno a tralci di vite. Girò la testa di un amorino d'angolo e fece scattare la molla che sbloccava lo specchio, rivelando una porta nascosta. Scese quindi una scala e giunse nella prima di otto stanze spaziose, piene di scaffali e di tavoli che sostenevano almeno trenta bacheche di vetro contenenti più di duemila manufatti precolombiani. Con reverenza, come se percorresse la navata di una chiesa per avvicinarsi all'altare, si aggirò nella galleria gustando la bellezza e la perfezione del suo tesoro privato. Era un rito che ripeteva ogni sera prima di andare a letto, come un padre che va a dare un'occhiata ai figli addormentati. Il pellegrinaggio di Rummel si concluse a fianco di una grande vetrina che costituiva il pezzo centrale della galleria e conteneva la gemma suprema della collezione. Sotto i riflettori alogeni, l'armatura d'oro di Tiapollo splendeva con le braccia e le gambe protese, e gli smeraldi incastonati nella maschera al posto degli occhi. La magnificenza artistica di quell'oggetto lo commuoveva sempre. Sebbene sapesse che era stata rubata settantasei anni prima in un museo di Siviglia, Rummel non aveva esitato a pagare un milione e duecentomila dollari in contanti quando era stato contattato da un gruppo di uomini che si dichiaravano legati alla mafia, ma che, in realtà, facevano parte di un associazione malavitosa clandestina specializzata nei furti di preziosi oggetti d'arte. Non immaginava dove si fossero procurati l'armatura d'oro: poteva
solo presumere che l'avessero rubata o l'avessero comprata dal collezionista che l'aveva avuta dai ladri. Dopo la visita notturna, Rummel spense le luci e risali nell'atrio. Chiuse lo specchio. Girò dietro un bar ricavato da un sarcofago romano vecchio di due millenni, riempì a mezzo un bicchiere di cognac e si ritirò in camera sua per leggere qualcosa prima di addormentarsi. In un altro appartamento sul lato opposto della strada, allo stesso piano, l'agente della Dogana degli Stati Uniti David Gaskill osservava, con un potente binocolo montato su un treppiede, il collezionista che si preparava ad andare a letto. Un altro agente si sarebbe annoiato dopo una settimana di appostamento, ma Gaskill no. Lavorava nella Dogana da diciotto anni, e sembrava un allenatore di football piuttosto che un agente speciale del governo: al suo aspetto Gaskill riservava, per motivi di lavoro, la massima cura. I capelli grigi e ricci erano pettinati all'indietro. Era un afroamericano dalla carnagione color camoscio anziché caffè; e i suoi occhi erano uno strano miscuglio di mogano e verde. La testa massiccia da mastino sembrava spuntare direttamente dalle spalle, tanto il collo era corto e tozzo. Grazie alla sua stazza, Gaskill aveva giocato come linebacker della squadra dell'università del South California. Aveva lavorato con impegno per liberarsi dell'accento strascicato del South Carolina e parlava con una buona dizione; a volte veniva scambiato per un ex cittadino inglese delle Bahamas. Dopo un viaggio nello Yucatán, ai tempi della scuola, Gaskill aveva sviluppato un grande interesse per l'arte precolombiana. Quando l'avevano assegnato a Washington, si era occupato di dozzine d'indagini legate a manufatti rubati appartenenti alle culture Anasazi e Hohokam del deserto sudoccidentale americano. Stava lavorando a un caso che riguardava il contrabbando di pannelli di pietra maya quando aveva ricevuto una soffiata dalla polizia di Chicago. Una donna delle pulizie aveva scoperto per caso certe foto che sporgevano da un cassetto nell'attico di Rummel e che, secondo lei, mostravano un cadavere umano coperto d'oro. La donna, sospettando un assassinio, aveva sottratto una foto e l'aveva consegnata alla polizia. Un detective che si era occupato di vari casi di frodi artistiche aveva capito che si trattava d'un oggetto antico e aveva chiamato Gaskill. Il nome di Rummel era sempre stato ai primi posti nell'elenco in cui la Dogana segnalava individui dediti all'acquisto «incauto» di opere d'antiquariato. Tuttavia non erano mai emerse prove di traffici illegali, e Gaskill
non immaginava dove Rummel custodisse il suo tesoro. L'agente speciale, che in fatto di antichità aveva una competenza non indegna di un professore universitario, aveva riconosciuto subito, nella foto consegnata dalla donna delle pulizie, la famosa armatura d'oro di Tiapollo perduta da tanti decenni. Aveva subito incominciato a sorvegliare l'attico di Rummel e aveva fatto pedinare il vecchio dal momento in cui usciva fino a quando rientrava. Ma sei giorni di controlli rigorosi non avevano indicato dove fosse nascosta la collezione. L'individuo sospetto non cambiava mai abitudini. Usciva per andare in ufficio nella parte bassa di Michigan Avenue, dove passava quattro ore occupandosi dei suoi investimenti; poi pranzava in un modesto caffè dove ordinava invariabilmente zuppa di fagioli e un'insalata. Passava il resto del pomeriggio frequentando negozi di antiquariato e gallerie d'arte. Cenava in un tranquillo ristorante tedesco, quindi andava al cinema o a teatro. Di solito rincasava alle undici e mezzo. La routine restava invariata. «Non si stanca mai di bere lo stesso torcibudella a letto?» mormorò l'agente speciale Winfried Pottle. «Io preferirei le braccia accoglienti di una bella donna elegante, con addosso qualcosa di nero e trasparente.» Gaskill si staccò dal binocolo e fece una smorfia. Diversamente da Gaskill, che indossava i Levi's e un giubbotto da football dell'USC, Pottle era un bell'uomo snello dai lineamenti affilati e dai capelli rossi, vestito di un impeccabile completo con tanto di orologio da taschino. «Dopo aver visto qualcuna delle donne che frequenti, direi che il tuo è un pio desiderio.» Pottle indicò l'attico di Rummel. «Io, almeno, non vivo un'esistenza così irreggimentata.» «Mi vengono i brividi se penso come ti comporteresti se avessi tutti i suoi soldi.» «Se avessi investito un patrimonio in opere d'arte rubate, non credo che saprei nasconderle come fa lui.» «Eppure Rummel deve tenerle da qualche parte», disse Gaskill in tono scoraggiato. «La sua reputazione di acquirente di merce che scotta è confermata da troppe fonti per non essere autentica. Non ha senso che un uomo metta insieme una collezione di livello mondiale come quella e non ci si avvicini mai. Devo ancora sentir parlare di un collezionista, sia appassionato di francobolli, di monete o di figurine del baseball, che non studi e non coccoli le sue cianfrusaglie non appena ne ha l'occasione. I ricchi maniaci che pagano somme enormi per i Rembrandt e i Van Gogh rubati li contemplano per ore e ore, tutti soli nei sotterranei blindati. Ne conosco
qualcuno che ha cominciato dal niente, è diventato milionario e poi si è dato alla caccia di oggetti che lui solo può avere. Molti hanno abbandonato le famiglie o hanno divorziato perché la loro passione è diventata ossessiva. Ecco perché un adoratore dell'arte precolombiana come Rummel non può ignorare un tesoro che probabilmente vale molto più di quelli custoditi in qualunque museo del mondo.» «Hai mai preso in considerazione la possibilità che le nostre fonti abbiano sbagliato o almeno esagerato di parecchio?» chiese tristemente Pottle. «La donna delle pulizie che ha sostenuto di aver trovato la foto dell'armatura d'oro è un'alcolizzata.» Gaskill scosse la testa. «Rummel tiene l'armatura nascosta da qualche parte. Ne sono convinto.» Pottle guardò le finestre dell'appartamento di fronte mentre le luci si spegnevano. «Se hai ragione, e se io fossi Rummel, la porterei a letto con me.» «Sicuro...» Gaskill s'interruppe di colpo, come se la battuta di Pottle avesse fatto scattare un'idea. «La tua mente depravata mi ha appena dato un suggerimento valido.» «Davvero?» mormorò confuso Pottle. «Quali stanze dell'attico non hanno finestre? Quali sono quelle che non possiamo tenere sotto osservazione?» Pottle guardò il tappeto con aria assorta. «Secondo la planimetria, due bagni, una dispensa, il corridoietto fra la camera padronale e quelle degli ospiti e i ripostigli.» «C'è qualcosa che ci sfugge.» «Che cosa? Rummel dimentica quasi sempre di chiudere le tende. Possiamo seguire il novanta per cento dei suoi movimenti dall'istante in cui esce dall'ascensore. È impossibile che nasconda una tonnellata di tesori d'arte in un paio di vasche da bagno e in uno stanzino.» «È vero, ma dove passa i trenta o quaranta minuti dal momento in cui esce dall'atrio ed entra nell'ascensore fino a quando mette piede in soggiorno? Di certo non resta nel vestibolo.» «Forse va al cesso.» «Nessuno è così regolare.» Gaskill si alzò, si avvicinò a un tavolino e vi aprì sopra una serie di disegni dell'attico di Rummel, forniti dal costruttore dell'edificio. Li studiò per la cinquantesima volta. «Gli oggetti d'arte devono essere là dentro.» «Abbiamo controllato tutti gli appartamenti dal piano terreno al tetto»,
obiettò Pottle. «Sono affittati, e gli inquilini ci abitano.» «E quello direttamente sotto l'appartamento di Rummel?» chiese Gaskill. Pottle esaminò un fascio di fogli di computer. «Sidney Kammer e la moglie Candy. Lui è uno di quei grandi avvocati specializzati in diritto societario che fanno risparmiare ai clienti una valanga di tasse.» Gaskill si girò verso di lui. «Quand'è stata l'ultima volta che si sono visti, Kammer e la moglie?» Pottle consultò il registro dove erano annotati gli inquilini che entravano e uscivano dall'inizio del periodo di sorveglianza. «Di loro non c'è traccia. Non si sono mai visti.» «Scommetto che se controllassimo scopriremmo che i Kammer vivono in un'elegante casa dei sobborghi e non hanno mai messo piede nel loro appartamento.» «Potrebbero essere in vacanza.» La voce dell'agente Beverly Swain uscì all'improvviso dalla radio portatile di Gaskill. «Qui c'è un grosso camion dei traslochi che scende a marcia indietro nel seminterrato del palazzo.» «Sei al banco della sicurezza nell'ingresso principale, o stai controllando il sotterraneo?» chiese Gaskill. «Sono ancora nell'atrio e svolgo il mio compito con vero stile militare», rispose maliziosamente la Swain. Era una biondina graziosa: era stata una beach girl californiana prima di cominciare a lavorare per la Dogana, ed era il miglior agente della squadra di Gaskill, l'unica all'interno dell'edificio dove viveva Rummel. «Se credi che mi annoi a guardare i monitor che mostrano seminterrati, ascensori e corridoi e che abbia una gran voglia di scappare a Tahiti, ci hai quasi azzeccato.» «Risparmiati la spesa», consigliò Pottle. «A Tahiti non ci sono altro che palme e spiagge esotiche. Puoi trovarle anche in Florida.» «Inserisci la registrazione per l'ingresso principale», ordinò Gaskill, «poi scendi nel seminterrato e interroga i traslocatori. Scopri se si tratta di qualcuno che viene a stabilirsi nel palazzo o che se ne va, chiedi che appartamento è e perché lavorano a quest'ora assurda.» «Vado», rispose la Swain con uno sbadiglio. «Mi auguro che non si trovi di fronte un mostro», commentò Pottle. «Quale mostro?» chiese Gaskill inarcando le sopracciglia. «Sai, in tutti i film dell'orrore una donna sola in casa sente uno strano rumore in cantina. Scende a vedere cosa succede, ma non accende la luce e
non si arma di un coltello da cucina per difendersi.» «La tipica regia schifosa.» Gaskill alzò le spalle. «Non preoccuparti per Bev. Il sotterraneo è illuminato come il Las Vegas Boulevard e lei ha una Colt Combat Commander da 9 min. Compiango il mostro che si azzardasse ad avvicinarla.» Ora che l'attico di Rummel era buio, Gaskill si staccò dal binocolo per qualche minuto per mangiare mezza dozzina di ciambelle glassate e bere un thermos di latte freddo. Stava contemplando tristemente la scatola vuota delle ciambelle quando la Swain fece il suo rapporto. «I traslocatori scaricano mobili per un appartamento del diciannovesimo piano. Sono scocciati di dover lavorare a quest'ora, ma gli pagano bene gli straordinari. Non sanno perché il cliente ha tanta fretta; dicono che deve essere un tipico trasloco all'ultimo minuto ordinato da un'azienda.» «C'è la possibilità che portino oggetti nell'appartamento di Kummel?» «Hanno aperto il camion per mostrarmi quel che c'è dentro. È pieno di mobili art déco.» «Bene, sorveglia i loro movimenti a intervalli di pochi minuti.» Pottle scribacchiò qualcosa su un blocco e riappese il telefono della cucina. Quando tornò accanto alla finestra, sorrideva maliziosamente. «M'inchino al tuo intuito. L'indirizzo di casa di Sidney Kammer è a Lake Forest.» «Scommetto che il suo cliente più importante è Adolphus Kummel», disse Gaskill. «E adesso, se vuoi avere in premio i tamburi bongo e una fornitura per un anno di sabbia per i gatti, dimmi chi ha preso in affitto l'appartamento di Kammer.» «Adolphus Kummel, suppongo.» Pottle aveva un'aria molto soddisfatta. «Credo che possiamo gridare Eureka.» Gaskill guardò il soggiorno di Rummel attraverso le tende aperte. Adesso conosceva il segreto. Un'espressione intensa apparve nei suoi occhi scuri. «Una scala nascosta che scende dal vestibolo», disse, scegliendo con cura le parole come se dovesse spiegare una sceneggiatura che si accingeva a scrivere. «Rummel esce dall'ascensore, apre una porta nascosta, scende una scala e arriva nell'appartamento sotto il suo attico, dove passa quarantacinque minuti contemplando i suoi tesori. Poi risale, si versa il cognac e dorme d'un sonno beato. È strano, ma non posso fare a meno d'invidiarlo.»
Pottle gli batté una mano sulla spalla. «Congratulazioni, Dave. Adesso non resta altro che ottenere un mandato di perquisizione e piombare in massa nell'attico di Rummel.» Gaskill scosse la testa. «Un mandato, sì. Ma niente incursioni con un esercito di agenti. Rummel ha amici potenti a Chicago. Non possiamo permetterci una chiassata che porterebbe alle critiche dei media o a una spiacevole causa legale. Soprattutto se andasse male qualcosa. Una piccola, discreta perquisizione compiuta da me, da te e da Bev Swain sarebbe più che sufficiente per scovare la collezione.» Potile indossò l'impermeabile che gli attirava i commenti ironici dei colleghi e si avviò verso la porta. «Il giudice Aldrich ha il sonno leggero. Lo tirerò giù dal letto e tornerò con i documenti necessari prima che sorga il sole.» «Cerca di sbrigarti prima», disse Gaskill con un sorriso ironico. «Io sto già fremendo.» Quando Pottle uscì, Gaskill chiamò Beverly Swain. «Riferiscimi cosa fanno i traslocatori.» Nell'atrio del palazzo dove abitava Gaskill, Bev Swain, seduta al banco della sicurezza, alzò gli occhi verso una fila di quattro monitor, e vide i traslocatori che uscivano di campo. Premette il pulsante di un telecomando in punti strategici all'interno dell'edificio. E scorse i traslocatori che uscivano dal montacarichi al diciannovesimo piano. «Finora hanno portato un divano, due poltrone e tavolinetti, e casse che sembrano piene di cose come piatti, accessori da cucina e da bagno, telerie, eccetera.» «Portano niente al camion?» «Soltanto le casse vuote.» «Crediamo di aver capito dove Rummel nasconde i suoi tesori. Pottle è andato a farsi rilasciare un mandato di perquisizione. Agiremo non appena tornerà.» «È una bella notizia», disse la Swain con un sospiro. «Ho quasi dimenticato com'è fatto il mondo al di fuori di questo maledétto atrio.» Gaskill rise. «Non è migliorato. Tu resta lì a far riposare il tuo bel sederino per qualche altra ora.» «Devo interpretare queste parole come molestie sessuali?» indagò Bev Swain. «No, sono semplici parole di lode, agente Swain», rispose stancamente Gaskill. «Parole di lode.»
Spiantò una bella giornata fresca. Una lieve brezza soffiava dal lago Michigan. L'Almanacco degli Agricoltori aveva predetto una gradevole estate indiana per la regione dei Grandi Laghi, e Gaskill si augurava che ci avesse azzeccato. Un autunno più caldo della media significava per lui qualche giornata di pesca in più sul lago del Wisconsin dove sorgeva la sua baita. Faceva una vita solitaria da quando, dopo vent'anni di matrimonio, sua moglie era stata uccisa da un attacco di cuore causato da una malattia chiamata emocromatosi. S'era dedicato interamente al lavoro e, durante il tempo libero, si era sistemato comodamente a bordo di una barca Boston Whaler. Da lì pianificava indagini, analizzava dati e lanciava l'amo per catturare lucci e persici. Mentre saliva verso l'attico di Rummel con l'ascensore, in compagnia di Pottle e Swain, Gaskill diede un'occhiata per la terza volta al testo del mandato. Il giudice aveva autorizzato una perquisizione dell'attico di Rummel, ma non dell'appartamento di Kammer al piano di sotto, perché riteneva che non vi fosse una motivazione sufficiente. Era un ostacolo superabile. Invece di entrare direttamente nelle stanze in cui Gaskill era certo che fossero custoditi gli oggetti d'arte, avrebbero dovuto trovare l'accesso nascosto e scendervi. All'improvviso fu colpito da uno strano pensiero: e se a Rummel fossero stati rifilati oggetti falsi? Non sarebbe stato il primo collezionista avido che aveva fatto acquisti alla cieca nella smania incontrollata di procurarsi opere d'arte da qualunque fonte, legale o illegale. Scacciò il dubbio e si crogiolò nella prospettiva di coronare le lunghe ore d'impegno incrollabile. La Swain aveva digitato il codice di sicurezza che permetteva all'ascensore di salire oltre gli appartamenti degli inquilini e di aprirsi nell'attico di Rummel. Per abitudine, Gaskill accarezzò l'automatica da 9 mm che portava nella fondina sotto l'ascella. Pottle trovò la pulsantiera di un altoparlante e premette un tasto. Nell'attico risuonò uno squillo. Dopo un breve silenzio, rispose una voce annebbiata dal sonno. «Chi è?» «Signor Rummel», disse Pottle nel microfono, «le dispiace venire all'ascensore?» «Andate via. Sto chiamando la sicurezza.» «Non si disturbi, siamo agenti federali. Venga e le spiegheremo il motivo della nostra presenza.» Bev Swain vide le luci che indicavano i piani lampeggiare una dopo l'al-
tra mentre l'ascensore ridiscendeva. «Ecco perché non affitterò mai un attico», disse ironicamente. «Un intruso può manomettere il tuo ascensore privato con la stessa facilità con cui può rubarti la Mercedes-Benz.» Rummel si presentò in pigiama, pantofole e un'antiquata veste da camera di ciniglia: quella stoffa ricordava a Gaskill la coperta di un letto dove aveva dormito da bambino in casa della nonna. «Mi chiamo David Gaskill. Sono agente speciale della Dogana degli Stati Uniti e ho un mandato della corte federale che mi autorizza a perquisire l'appartamento.» Con aria indifferente, Rummel inforcò un paio di occhiali dalla montatura a vista e cominciò a leggere il mandato come se fosse il giornale del mattino. Visto da vicino dimostrava dieci anni meno dei suoi settantasei. E anche se si era appena alzato dal letto, appariva attento, meticoloso. Spazientito, Gaskill gli girò intorno. «Mi scusi.» Rummel alzò la testa. «Guardi pure quanto vuole. Non ho niente da nascondere.» Non si comportava in modo sgarbato o stizzito. Sembrava che accettasse l'intrusione con un certo spirito di collaborazione. Gaskill sapeva che era una commedia. «A noi interessa soltanto il vestibolo.» Aveva dato istruzioni a Bev Swain e a Pottle su ciò che dovevano cercare, e i due si misero subito al lavoro. Esaminarono con attenzione ogni fenditura e ogni giuntura. Ma la curiosità della Swain era calamitata dallo specchio: come donna, ne era attratta istintivamente. Guardò il fondo e vide che non aveva neppure la minima imperfezione. Il vetro era molato ai bordi e ornato di fregi incisi a forma di fiori negli angoli. Probabilmente era del diciottesimo secolo. Non poteva fare a meno di pensare a tutti quelli che si erano fermati davanti allo specchio negli ultimi trecento anni per osservare la propria immagine. Quelle immagini erano ancora presenti. Le sentiva. Poi studiò la cornice scolpita, affollata di amorini dorati. Osservò attentamente e notò la sottilissima fessura intorno al collo di un amorino. La doratura dei bordi sembrava consumata dall'attrito. Bev Swain afferrò con delicatezza la testa e cercò di girarla in senso orario, ma non riuscì a smuoverla. Provò nella direzione opposta e la testa ruotò di centottanta gradi. Si sentì un netto clic, e un lato dello specchio si socchiuse, fermandosi a pochi centimetri dal muro. Bev Swain sbirciò nel varco che dava sulla scala nascosta e annunciò: «Ci siamo, capo».
Rummel impallidì, mentre Gaskill, senza una parola, apriva completamente lo specchio e sorrideva, soddisfatto. Era l'aspetto del suo lavoro che preferiva, il gioco che culminava nel trionfo supremo sull'antagonista. «Le dispiace precederci, signor Rummel?» «L'appartamento qui sotto è del mio avvocato, Sidney Kammer», disse Rummel con un lampo d'astuzia negli occhi. «Il mandato l'autorizza soltanto a perquisire il mio attico.» Gaskill si frugò nella tasca per un momento e prese una scatoletta che conteneva un'esca per i pesci persici acquistata il giorno prima. Tese la mano e lasciò cadere la scatoletta sui gradini. «Perdoni la mia goffaggine. Spero che al signor Kammer non dispiacerà se riprendo ciò che è mio.» «È una violazione di domicilio!» urlò Rummel. Gaskill non rispose. Seguito da Pottle, stava già scendendo la scala. Si soffermò solo per recuperare la scatoletta con l'esca. Ciò che vide quando arrivò al piano sottostante lo lasciò senza fiato. Magnifiche opere d'arte precolombiane riempivano le stanze dell'appartamento. Dal soffitto pendevano tessuti incaici chiusi in custodie di vetro. Un'intera sala era riservata esclusivamente alle maschere cerimoniali. Un'altra conteneva altari e urne sepolcrali. Altre ancora erano piene di copricapi ornatissimi, ceramiche dipinte, sculture esotiche. Tutte le porte di comunicazione erano state tolte per facilitarne l'accesso, la cucina e i bagni erano stati privati di lavabi, armadietti e accessori per lasciare più spazio all'immensa collezione. Gaskill e Pottle erano sopraffatti da quello spettacolo incredibile. Gli oggetti preziosi erano molto più numerosi di quanto si aspettassero. Quando ebbe superato lo sbalordimento iniziale, Gaskill corse da una stanza all'altra, in cerca del pezzo più prezioso della raccolta. Quando trovò una vetrina sfondata e vuota al centro della sala, fu sopraffatto dalla delusione. «Signor Rummel!» gridò. «Venga qui!» Scortato da Bev Swain, Rummel entrò lentamente nella sala con aria disfatta e angosciata. Rimase immobile per l'orrore come se una delle lance incaiche appese alle pareti gli avesse trapassato lo stomaco. «È sparita!» ansimò. «L'armatura d'oro di Tiapollo è sparita!» Gaskill si oscurò. Il pavimento intorno alla vetrina sfondata era occupato da un gruppo di mobili: un divano, alcuni tavolini e due poltrone. Girò lo sguardo da Pottle alla Swain. «I traslocatori», sibilò. «Hanno rubato l'armatura sotto il nostro naso».
«E se ne sono andati più di un'ora fa», disse Bev Swain con voce atona. Pottle era stordito. «È troppo tardi per cercarli. Chissà dove avranno nascosto l'armatura, ormai.» Poi soggiunse: «A meno che in questo momento non sia a bordo di un aereo diretto all'estero». Gaskill si lasciò cadere su una delle poltrone. «Ci eravamo arrivati così vicini», mormorò, depresso. «Dio non voglia che l'armatura sparisca per altri settantasei anni.» PARTE SECONDA ALLA RICERCA DEL »CONCEPCIÓN« 14. 15 ottobre 1998 Callao, Perù Il porto principale del Perù, Callao, fu fondato da Francisco Pizarro nel 1537 e divenne in breve tempo il maggiore punto di partenza per i carichi d'oro e d'argento sottratti all'impero incaico. Per una specie di giustizia poetica, il porto fu saccheggiato da Francis Drake quarantun anni più tardi. La conquista spagnola del Perù terminò quasi nel luogo in cui era incominciata. Adesso Callao era unita a Lima in un'unica, grande area metropolitana, e le due città contavano una popolazione totale di circa sei milioni e mezzo di persone. Situate sul versante occidentale delle Ande, lungo i bassipiani, Callao e Lima hanno quarantuno millimetri di precipitazioni ogni anno, e la zona circostante è uno dei deserti più freddi e secchi che esistano sulla terra alle basse altitudini. La nebbia invernale alimenta un po' d'erba, i mezquites e poco più. A parte l'eccesso di umidità, l'unica acqua è quella che scorre in diversi fiumi (soprattutto nel Rimac), che scendono tutti dalle Ande. Dopo aver doppiato la punta settentrionale di San Lorenzo, la grande isola che protegge il porto naturale di Callao, il comandante Stewart ordinò di procedere alla velocità minima mentre una lancia si affiancava alla Deep Fathom e il pilota saliva la scaletta. Quando il pilota ebbe guidato la nave nel canale principale, Stewart riprese il comando e la fece fermare accanto al molo del terminale passeggeri. Sotto il suo sguardo vigile, le cime d'ormeggio furono affrancate alle grosse bitte arrugginite. Poi spense il sistema automatico, chiamò l'ufficiale di macchina e gli disse che aveva finito
con i motori. Tutti coloro che si affollavano lungo il parapetto della nave rimasero sorpresi nel vedere più di mille persone assiepate sul molo. In mezzo a un contingente militare armato e uno altrettanto consistente formato di poliziotti, le telecamere e i fotografi incominciarono a disputarsi i posti migliori mentre veniva calata la passerella. Dietro i media c'era un gruppo sorridente di autorità governative e, alle spalle di queste, i genitori felici degli studenti. «Però non c'è l'orchestrina Dixieland che suona Waiting for the Robert E. Lee», disse Pitt con aria fintamente delusa. «Non c'è niente di meglio di una folla plaudente per scacciare la depressione», sentenziò Giordino mentre contemplava la scena imprevista. «Non mi aspettavo che ci fosse tanta gente», mormorò Shannon in tono di soggezione. «Non riesco a credere che la voce si sia sparsa così in fretta.» Miles Rodgers alzò una delle tre macchine fotografiche che portava appese al collo e incominciò a scattare. «Mi sembra che ci sia anche mezzo governo peruviano», commentò. Sul molo regnava un'atmosfera di eccitazione. I bambini sventolavano bandierine peruviane e americane. La folla cominciò a urlare quando gli studenti apparvero sul ponte e si sbracciarono e gridarono riconoscendo i genitori. Stewart era l'unico che sembrava a disagio. «Mio Dio, spero che non pretendano d'invadere la mia nave.» «Sono troppi per poterli respingere», disse Giordino alzando le spalle. «È meglio ammainare la bandiera e invocare pietà.» «Ve l'avevo detto che i miei studenti appartengono a famiglie influenti», intervenne allegramente Shannon. Ignorato dalla folla, un ometto occhialuto e armato di una borsa si fece largo e aggirò il cordone delle guardie. Balzò sulla passerella appena abbassata prima che qualcuno potesse trattenerlo e salì sul ponte con l'espressione euforica di un calciatore che ha appena fatto goal. Si avvicinò a Pitt e a Giordino e sorrise. «Perché non siete capaci di dar prova di prudenza e discrezione?» «Cerchiamo sempre di non inimicarci il pubblico», disse Pitt, poi sorrise e abbracciò l'ometto. «È un piacere vederti, Rudi.» «A quanto pare non riusciremo a liberarci di te», soggiunse calorosamente Giordino. Rudi Gunn, vicedirettore della NUMA, strinse la mano a Stewart e fu
presentato a Shannon e a Rodgers. «Perdonatemi, ma vorrei rubarvi per un po' questi due bricconi prima che comincino le cerimonie di benvenuto», disse garbatamente. Non attese la risposta e si avviò con disinvoltura in un corridoio. Aveva collaborato alla progettazione della Deep Fathom e conosceva bene la planimetria del ponte. Si fermò davanti alla porta della sala riunioni, l'aprì ed entrò. Andò direttamente in fondo al lungo tavolo e frugò nella borsa per prendere un blocco pieno di appunti, mentre Pitt e Giordino sedevano su due poltroncine di cuoio. Accomunati da una statura non elevatissima, Giordino e Gunn erano però diversi tra loro come un gibbone e un mastino. Mentre Gunn era esile, Giordino era una massa ambulante di muscoli. Inoltre, da un punto di vista intellettuale, se Giordino era astuto e pratico, Gunn lo si poteva definire in un modo solo: geniale. Primo nel suo corso all'Accademia Navale, era diventato ufficiale di Marina e avrebbe potuto facilmente raggiungere un posto importante nello stato maggiore, ma aveva preferito la scienza sottomarina della NUMA alla scienza della guerra. Era molto miope ed era costretto a usare grossi occhiali dalla montatura d'osso, ma non si lasciava mai sfuggire il minimo movimento nel raggio di duecento metri. Pitt fu il primo a parlare. «Cos'è tutta questa fretta di spedire Al e me in quel pozzo schifoso per recuperare un cadavere?» «La richiesta è arrivata dalla Dogana degli Stati Uniti. Hanno rivolto un appello urgente all'ammiraglio Sandecker per avere in prestito i suoi uomini migliori.» «Te incluso.» «Avrei potuto chiamarmi fuori, sostenendo che i miei progetti attuali non possono andare avanti in mia assenza. L'ammiraglio non avrebbe esitato a mandare qualcun altro. Ma un uccellino mi ha parlato della tua piccola missione non autorizzata per andare in cerca di un galeone perduto nelle giungle dell'Ecuador.» «Hiram Yaeger», commentò Pitt. «Avrei dovuto ricordare che voi due andate più d'accordo di Frank e Jesse James.» «Non ho saputo resistere alla tentazione di abbandonare la routine di Washington per godermi un pizzico d'avventura, e così mi sono offerto volontario per l'ingrato compito di ragguagliarvi e di collaborare con voi nel progetto della Dogana.» «Vuoi dire che hai raccontato una frottola a Sandecker e te la sei filata?» chiese Pitt.
«Per fortuna di tutti gli interessati, l'ammiraglio non sa niente della caccia al galeone. Almeno per ora.» «Non è facile imbrogliarlo», disse Giordino con aria molto seria. «Be', non è facile imbrogliarlo a lungo», soggiunse Pitt. «Probabilmente a quest'ora ha già capito tutto.» Gunn agitò una mano con aria indifferente. «Voi due siete su un terreno sicuro. Meglio il sottoscritto piuttosto che qualche povero sciocco che non conosce i vostri scherzetti. Tutti gli altri burocrati della NUMA potrebbero sottovalutare le vostre capacità.» Giordino fece una smorfia. «E questo sarebbe un amico?» «Cosa può fare la NUMA di tanto speciale per la Dogana?» Gunn sparse sul tavolo un fascio di carte. «È una faccenda complessa: riguarda il saccheggio delle antiche opere d'arte.» «Non è un po' fuori della nostra competenza? Noi siamo specializzati in esplorazioni e ricerche sottomarine.» «Ma è competenza nostra la distruzione operata allo scopo di saccheggiare siti archeologici subacquei», ribatté Gunn con fermezza. «E cosa c'entra il recupero del corpo del dottor Miller?» «È solo il primo passo nel quadro della nostra collaborazione con la Dogana. La loro indagine prende le mosse dall'assassinio di un antropologo di fama mondiale. Sospettano che l'omicida sia un membro importante di un gruppo internazionale di trafficanti clandestini, e hanno bisogno di prove per incriminarlo. Inoltre contano di usare l'assassino come chiave per aprire la porta che dovrebbe condurre al cervello dell'intero giro di furti e contrabbando. In quanto al pozzo sacro, la nostra Dogana e le autorità peruviane ritengono che dal fondo sia stata prelevata una grande quantità di manufatti, già dispersi sul mercato nero in tutto il mondo. Miller aveva scoperto il traffico ed è stato ucciso perché non parlasse. La Dogana vuole che noi, soprattutto tu e Al, esploriamo il fondo del pozzo alla ricerca delle prove.» «E il nostro piano per rintracciare il galeone perduto?» «Voi completate il lavoretto nel pozzo, e io autorizzerò uno stanziamento della NUMA per finanziare la vostra ricerca. È il massimo che vi posso promettere.» «E se l'ammiraglio ti spara?» chiese Giordino. Gunn alzò le spalle. «È il mio superiore, come è il vostro. Io sono un veterano della Marina ed eseguo gli ordini.» «E io sono un veterano dell'Aeronautica», rispose Pitt. «E gli ordini li
discuto.» «Ci penseremo quando verrà il momento», tagliò corto Giordino. «Adesso sbrighiamo la faccenda del pozzo.» Pitt respirò profondamente e si rilassò sulla poltroncina. «Tanto vale che facciamo qualcosa di utile mentre Yaeger e Perlmutter svolgono le loro ricerche. Prima che noi usciamo dalla giungla dovrebbero aver trovato qualche pista concreta.» «Gli agenti della Dogana hanno anche un'altra richiesta», disse Gunn. «Cos'altro diavolo vogliono da noi?» chiese bruscamente Pitt. «Che ci immergiamo per recuperare i souvenir buttati dalle navi da crociera da quei turisti che hanno paura degli ispettori doganali?» «No, niente del genere», spiegò Gunn in tono paziente. «Vogliono che torniate al Pueblo de los Muertos.» «Devono essere convinti che i manufatti giacenti sotto la pioggia rientrino nella categoria delle merci rubate sott'acqua», osservò Giordino in tono acido. «La Dogana ha un bisogno disperato di un inventario.» «Un inventario di manufatti custoditi nel tempio?» chiese incredulo Pitt. «Pretendono un catalogo in ordine alfabetico? Ci saranno almeno mille oggetti ammucchiati in quel che è rimasto del tempio dopo che i mercenari hanno finito di farlo a pezzi. Per esaminare il tesoro hanno bisogno di archeologi, non d'ingegneri marini.» «La polizia peruviana ha fatto indagini e ha riferito che molti manufatti sono stati asportati dal tempio dopo la vostra fuga», li informò Gunn. «Gli agenti della Dogana Internazionale hanno bisogno di descrizioni per poter identificare gli oggetti in caso cominciassero ad apparire nelle aste, nelle collezioni private o nelle gallerie e nei musei dei Paesi ricchi. E sperano che il ritorno sulla scena del delitto serva a rinfrescarvi la memoria.» «Gli avvenimenti si sono svolti troppo rapidamente; non eravamo certo in condizioni tali da metterci a fare un elenco.» Gunn annuì. «Ma è possibile che certe cose vi siano rimaste impresse, soprattutto i pezzi più notevoli. Tu hai niente da dire, Al?» «Io stavo frugando tra le rovine alla ricerca di una radio», rispose Giordino. «Non ho avuto il tempo di esaminare un bel niente.» Pitt si portò le mani alla testa e si massaggiò le tempie. «Forse sono in grado di ricordare quindici o venti pezzi che spiccavano in mezzo agli altri.» «Potresti disegnarli?»
«Sono un pessimo artista, ma credo che riuscirò a fare qualche schizzo abbastanza preciso. Non è necessario che torniamo sul posto. Posso illustrare quel che ricordo anche mentre sto a poltrire sul bordo della piscina di un albergo di una località turistica.» «Mi sembra ragionevole», confermò speranzoso Giordino. «No», obiettò Gunn. «Non è ragionevole. Il vostro compito non è così superficiale. Anche se l'idea mi rivolta lo stomaco, voi due siete diventati eroi nazionali del Perù. Non soltanto siete corteggiati dalla Dogana, ma anche il Dipartimento di Stato s'interessa a voi.» Giordino girò la testa verso Pitt. «Un'altra dimostrazione della validità della Legge di Giordino. Chi si offre volontario per una missione di soccorso diventa una vittima.» «Cosa c'entra il Dipartimento di Stato con la nostra visita al tempio?» chiese Pitt. «In seguito al Trattato Commerciale Sudamericano, le industrie petrolifere e minerarie sono state sottratte al controllo dello Stato. Diverse società americane stanno concludendo negoziati con il Perù per aiutarlo a sfruttare meglio le sue risorse naturali. Il Paese ha un bisogno disperato d'investimenti stranieri e il denaro sta per affluire. Ma c'è un inconveniente. I soliti sindacati e i partiti d'opposizione osteggiano in modo feroce gli investimenti stranieri. Salvando la vita a diversi figli di VIP locali, tu e Al avete influenzato indirettamente un gran numero di voti.» «E va bene. Allora terremo un discorso al Club dell'Alpaca e accetteremo un diploma d'onore.» «Fin qui tutto bene», disse Gunn. «Ma gli esperti del Dipartimento di Stato e la Commissione per gli Affari Latinoamericani del Congresso pensano che dovreste restare sul posto e far fare bella figura agli sporchi yankee, contribuendo a fermare il saccheggio dell'eredità culturale del Perù.» «In altre parole, il nostro amato governo ha intenzione di sfruttare fino all'osso la nostra immagine positiva», replicò Pitt, impassibile. «Qualcosa del genere.» «E Sandecker è d'accordo?» chiese Giordino. «Mi sembra ovvio», assicurò Pitt. «L'ammiraglio non si lascia mai sfuggire l'occasione d'ingraziarsi il Congresso se questo può portare stanziamenti più abbondanti per le future attività della NUMA.» «Chi verrà con noi?» «Il dottor Alberto Ortiz dell'Istituto nazionale di cultura di Chiclayo di-
rigerà il team archeologico, e sarà assistito dalla dottoressa Kelsey.» «Se non avremo una protezione adeguata, finiremo in mezzo ai guai.» «I peruviani ci hanno assicurato che manderanno un reparto ben addestrato delle loro forze di sicurezza per controllare la valle.» «Ma sono fidati? Non vorrei fare il bis di delinquenti mercenari.» «La penso nello stesso modo», dichiarò Giordino. Gunn fece un gesto rassegnato. «Posso soltanto riferire quel che mi hanno detto.» «Avremo bisogno di un equipaggiamento molto migliore di quello che avevamo nel viaggio precedente.» «Fatemi un elenco e io mi occuperò della parte logistica.» Pitt si rivolse a Giordino. «Hai anche tu la netta impressione che ci abbiano fregati?» «Secondo i miei calcoli», commentò l'italiano, «deve essere la quattrocentotrentasettesima volta.» Pitt non era entusiasta all'idea d'immergersi di nuovo nel pozzo: nelle sue profondità c'era un'atmosfera angosciante, una presenza malefica. Nei suoi ricordi, la cavità si spalancava come le fauci del diavolo. Era un'immagine così irrazionale che cercò di scacciarla dalla mente, ma la visione non si dissolse: rimase in lui come il ricordo vago di un incubo ripugnante. 15. Due giorni dopo, verso le otto del mattino, furono ultimati i preparativi per l'immersione che aveva lo scopo di recuperare il corpo del dottor Miller dal pozzo sacro. Mentre Pitt guardava dall'alto la superficie mucillaginosa del cenote, l'apprensione incominciò a dileguarsi. La cavità ripugnante appariva ancora minacciosa come la prima volta che l'aveva sfidata; eppure lui era sopravvissuto al risucchio terribile, aveva scalato le pareti perpendicolari. Non gli faceva più paura, ora che ne conosceva i segreti. Aveva dimenticato la prima operazione di soccorso pianificata sul momento. Questa era un'azione programmata con il ricorso ai mezzi più aggiornati ed efficienti. Fedele alla parola data, Gunn aveva noleggiato due elicotteri e preparato l'attrezzatura per l'impresa. Una giornata intera fu impiegata per trasferire la dottoressa Kelsey e Miles Rodgers, la squadra addetta alle immersioni e il relativo equipaggiamento e per ricostruire il campo distrutto. E Gunn non faceva mai le cose con sciatteria. Non c'erano scadenze rigide; perciò
si prendeva tutto il tempo necessario per pianificare ogni fase, senza lasciare nulla al caso. Un contingente di cinquanta uomini dell'Unità Speciale di sicurezza peruviana era già sul posto quando atterrò il primo degli elicotteri forniti da Gunn. Agli occhi dei nordamericani, i peruviani sembravano piccoli di statura. Avevano espressioni gentili, ma erano tipi duri, collaudati dagli anni passati a combattere i guerriglieri di Sendero Luminoso nelle foreste montane e nei deserti costieri. Disposero rapidamente le difese intorno al campo e inviarono pattuglie nella giungla circostante. «Vorrei tanto venire con lei», disse Shannon, che stava alle spalle di Pitt. Lui si voltò e sorrise. «Non riesco a capirne il motivo. Non è molto divertente recuperare un corpo umano che si è decomposto in un brodo caldo tropicale.» «Mi scusi. Non volevo sembrare senza cuore.» Negli occhi di Shannon non c'era un'espressione di cordoglio. «Ammiravo moltissimo Doc. Ma sono un'archeologa, e desidero ardentemente esplorare il fondo del pozzo sacro.» «Non speri di trovare un tesoro di oggetti antichi», la consolò Pitt. «Resterebbe delusa. Io non ho visto altro che mezzo ettaro di sedimenti dai quali spuntava un antico spagnolo.» «Permetta almeno a Miles d'immergersi con lei per fare le fotografie...» «Perché tanta fretta?» «Durante il recupero del corpo, lei e Al potreste smuovere il fondo e spostare i manufatti dalla loro posizione originale.» Pitt la guardò, incredulo. «Lo considera più importante del rispetto dovuto al dottor Miller?» chiese. «Doc è morto», rispose Shannon in tono sbrigativo. «L'archeologia è una scienza che si occupa di cose morte. Doc lo insegnava meglio di chiunque altro. Il minimo spostamento potrebbe modificare le informazioni ottenibili da un ritrovamento importante.» Pitt incominciava a vedere l'aspetto fortemente pratico di Shannon. «Dopo che Al e io avremo riportato in superficie i resti di Miller, lei e Miles potrete immergervi e recuperare tutti i manufatti che volete. Ma stia attenta a non farsi risucchiare di nuovo nella caverna secondaria.» «Una volta mi è bastata», disse lei con un sorriso un po' forzato. Poi aggiunse, in tono preoccupato: «Sia prudente e non corra rischi». Gli diede un bacio sulla guancia, quindi si avviò verso la sua tenda.
L'immersione avvenne senza intoppi grazie a una piccola gru e a un argano a motore che funzionavano sotto l'occhio vigile di Rudi Gunn. Quando Pitt arrivò a un metro dall'acqua, sganciò il moschettone di sicurezza che lo tratteneva all'estremità del cavo dell'argano. Lo strato superiore mucillaginoso dell'acqua era tiepido come previsto, ma Pitt non ricordava che avesse un odore tanto pungente. Restò a galleggiare sul dorso, in attesa che il cavo risalisse per calare Giordino. La maschera di Pitt era collegata a un cavo di sicurezza, attrezzato con una linea per le comunicazioni, mentre Giordino si sarebbe immerso libero e senza ingombri: le istruzioni le avrebbe avute da Pitt, a gesti. Non appena l'amico scivolò nel viscidume, Pitt indicò in basso; si girarono e discesero nelle profondità del cenote. Rimasero vicini per non correre il rischio di perdersi di vista nella mucillagine prima di raggiungere lo strato incredibilmente limpido quattro metri sotto la superficie. Il grigiobruno del sedimento del fondo e delle rocce si materializzò all'improvviso e salì verso di loro. Si portarono in assetto orizzontale quando arrivarono a due metri, e Pitt segnalò d'interrompere il movimento. Con molta prudenza, per non sollevare una nube di sedimenti, estrasse un'asta di acciaio inossidabile fissata a un rotolo di corda di nylon e la piantò sul fondo. «Come va?» La voce di Gunn gli giunse attraverso la cuffia. «Abbiamo raggiunto il fondo e incominciamo a spostarci in cerchio per cercare il corpo», rispose Pitt mentre svolgeva la corda. Effettuò i rilevamenti con la bussola e cominciò a girare intorno all'asta che spuntava dai sedimenti, allargando il percorso mentre srotolava la corda come se seguisse la spirale di una girandola. Nuotava lentamente, scrutando da una parte e dall'altra; Giordino lo seguiva tenendosi un po' discosto. Nel liquido trasparente avvistarono molto presto il corpo saponificato del dottor Miller. Nei pochi giorni trascorsi da quando l'aveva visto per la prima volta, il cadavere era cambiato in peggio. Dalle aree scoperte dell'epidermide mancavano minuscoli frammenti. Pitt non riuscì a capirne il motivo finché non scorse uno strano pesce dalle chiazze vivaci e dalle squame luminose che si avvicinava guizzando e incominciava a mangiucchiare uno degli occhi di Miller. Scacciò il pesce carnivoro, che aveva le dimensioni di una trota, e si chiese come diavolo fosse arrivato in un cenote in mezzo alla giungla. Fece un segnale a Giordino; questi prese un sacco rivestito di gomma dallo zainetto che portava legato al petto sopra la cintura zavorrata. Sott'acqua, il lezzo di un cadavere in decomposizione non si può sentire. O
almeno così dicono. Forse era uno scherzo dell'immaginazione, ma l'odore della morte sembrava penetrare attraverso gli erogatori come se le bombole dell'aria compressa ne fossero contaminate. Era impossibile, certo. Ma andate a raccontarlo a una squadra di soccorritori che hanno visto lo spettacolo orribile dei morti rimasti immersi a lungo. Non persero tempo a esaminare il corpo. Si mossero più in fretta che poterono e lo infilarono nel sacco cercando di non sollevare una nube di residui. Ma i sedimenti non collaborarono e si alzarono turbinando dal fondo sino a togliere completamente la visibilità. I due continuarono a lavorare alla cieca; chiusero la lampo del sacco e si assicurarono che non ne sporgesse nulla. Quando ebbero completato il macabro compito, Pitt riferì a Gunn: «Abbiamo messo il cadavere nel sacco e stiamo per risalire». «Ricevuto», rispose Gunn. «Adesso caliamo una barella.» Pitt afferrò il braccio di Giordino attraverso la nube di sedimenti per segnalare all'amico che era arrivato il momento di risalire. Incominciarono quindi a sollevare i resti del dottor Miller verso la luce del sole. Quando raggiunsero la superficie, adagiarono il sacco sulla barella e lo fissarono con alcune cinghie. Pitt avvertì Gunn: «Pronti a tirarlo su». Mentre guardava la barella che saliva verso l'orlo del pozzo, Pitt si augurava di aver conosciuto il vero Steve Miller anziché l'impostore. L'illustre antropologo era stato assassinato senza sapere il perché. Il delinquente che gli aveva tagliato la gola non aveva lasciato tracce. Miller non s'era neppure reso conto che il suo omicidio era stato un atto inutile da parte di un assassino psicopatico, il quale lo aveva considerato come una pedina scartata nel redditizio gioco del traffico delle opere d'arte. Non c'era altro da fare. Avevano completato l'operazione di recupero del cadavere. A Pitt e Giordino non rimaneva che stare a galla ad attendere che l'argano calasse di nuovo il cavo. Giordino guardò Pitt con aria d'attesa e si tolse il boccaglio. «Abbiamo ancora aria in abbondanza», scrisse sulla lavagnetta per le comunicazioni. «Perché non curiosiamo un po' in giro mentre aspettiamo il prossimo ascensore?» A Pitt il suggerimento giunse gradito. Non poteva togliere la maschera per parlare, e rispose scrivendo sulla sua lavagnetta: «Stammi vicino e abbrancati a me se vieni risucchiato». Poi indicò verso il basso. Giordino annuì e gli nuotò a fianco mentre si tuffavano di nuovo verso il fondo del pozzo.
L'enigma, agli occhi di Pitt, consisteva nella mancanza di manufatti nei sedimenti. C'era un'eccezionale abbondanza d'ossa, questo sì. Ma, dopo aver sondato il fondo per mezz'ora, non trovarono tracce di oggetti antichi. Non c'era niente, eccettuata la corazza dello scheletro intatto che aveva scoperto durante la prima immersione e l'attrezzatura da sub che aveva gettato via prima di arrampicarsi per uscire dal pozzo. Gli bastarono due minuti per ritrovare quel punto. La mano ossuta era ancora sollevata e un indice puntava nella direzione in cui, fino a poco prima, c'era il corpo di Miller. Lentamente, Pitt girò intorno allo spagnolo ed esaminò ogni particolare. Ogni tanto alzava lo sguardo e scrutava il pozzo per scoprire l'eventuale moto dei sedimenti che avrebbe segnalato l'avvicinarsi del risucchio misterioso. Aveva la sensazione che ogni suo movimento fosse seguito dalle occhiaie vuote del teschio. I denti sembravano stretti in un ghigno beffardo che lo ossessionava e al contempo lo sfidava. La luce del sole, filtrata dalla mucillagine, colorava le ossa d'una sfumatura spettrale di verde. Giordino gli stava accanto e l'osservava con distaccata curiosità. Non riusciva a capire che cosa affascinasse tanto l'amico. Per lui, le vecchie ossa rivestivano un interesse assai limitato. I resti di uno spagnolo morto da cinquecento anni non evocavano nulla nella sua immaginazione, se non la sfuriata che sarebbe immancabilmente giunta allorché Shannon Kelsey avesse scoperto che il suo prezioso sito archeologico era stato manomesso prima che lei potesse esplorarlo. Pitt, invece, non pensava a queste cose. Cominciava ad avere la sensazione che lo scheletro non avrebbe dovuto essere lì. Passò leggermente un dito sulla corazza, e un velo sottile di ruggine si staccò, rivelando il metallo levigato e non corroso che stava sotto. Le cinghie di cuoio che trattenevano la corazza sul petto erano straordinariamente ben conservate, e anche i fermagli. Sembravano le fibbie metalliche di un paio di vecchie scarpe rimaste dentro un baule in soffitta per una o due generazioni. Si allontanò dallo scheletro di qualche metro ed estrasse dai sedimenti un osso che sembrava una tibia. Tornò indietro e l'accostò all'avambraccio e alla mano dello spagnolo. L'osso prelevato dai sedimenti era molto più ruvido e scalfito, nonché macchiato dalle sostanze minerali in soluzione nell'acqua. La struttura ossea dello scheletro, invece, era molto più liscia. Poi studiò i denti: erano in ottime condizioni. Due dei molari erano coperti da capsule: non d'oro bensì d'argento. Pitt non s'intendeva di odontotecnica del sedicesimo secolo, ma sapeva che gli europei non avevano incomincia-
to a fare otturazioni e a incapsulare denti fino alla seconda metà dell'Ottocento. «Rudi?» «Ti ascolto», rispose Gunn. «Fai calare un cavo. Voglio provare a tirar su qualcosa.» «Sta per arrivare un cavo con un piccolo peso fissato all'estremità.» «Cerca di farlo scendere dove vedi le nostre bollicine.» «D'accordo.» Vi fu un breve silenzio, poi la voce di Gunn risuonò di nuovo nella cuffia di Pitt. Questa volta aveva un tono un po' seccato. «La tua archeologa sta scatenando il finimondo. Dice che non potete toccare niente di quello che c'è là sotto.» «E tu fa' finta che lei sia a un migliaio di chilometri da qui e cala il cavo.» Gunn insistette, nervosamente. «Sta facendo una scenata terribile.» «O cali il cavo o butti lei nel pozzo», ribatté Pitt. «Aspetta.» Dopo qualche istante un piccolo gancio d'acciaio fissato a una corda di nylon si materializzò nel vuoto verde e finì nei sedimenti a due metri di distanza. Giordino lo raggiunse a nuoto, afferrò il cavo con una mano e tornò indietro. Con la delicatezza di un borsaiolo che sfila un portafoglio, Pitt avvolse l'estremità del cavo intorno a una cinghia della corazza dello scheletro e la fissò con il gancio. Guardò Giordino e alzò i pollici. Giordino annuì, ma rimase un po' sorpreso quando Pitt mollò il cavo lasciando lo scheletro dove si trovava. Uno dopo l'altro vennero fatti uscire dal pozzo. Quando la gru lo sollevò, Pitt guardò in basso e giurò che non sarebbe più entrato in quel viscidume schifoso. Sul bordo del cenote, Gunn era pronto per aiutarlo a portarsi sul terreno solido e a togliersi la maschera. «Grazie a Dio, sei tornato», disse. «Quella pazza ha minacciato di spararmi ai testicoli». Giordino rise. «Ha imparato da Pitt. Ringrazia il cielo perché non ti chiami Amaru.» «Come... come sarebbe?» «È un'altra storia», rispose Pitt mentre aspirava soddisfatto l'aria umida di montagna. Si stava togliendo la muta quando Shannon piombò verso di lui come una mamma grizzly cui sono stati rapiti i cuccioli. «L'avevo avvertito di non toccare i manufatti!» disse in tono deciso.
Pitt la guardò per un lungo istante. Gli occhi verdi avevano un'espressione stranamente gentile e comprensiva. «Non è rimasto niente da toccare», rispose. «Qualcuno l'ha preceduta. Gli oggetti che un mese fa erano nel pozzo sacro sono spariti. Sul fondo restano solo le ossa degli animali e degli esseri umani sacrificati.» Shannon assunse un'aria incredula e spalancò gli occhi nocciola. «È sicuro?» «Vuole la prova?» «Abbiamo il nostro equipaggiamento. Mi immergerò nel pozzo e controllerò con i miei occhi.» «Non è necessario», disse Pitt. Lei si voltò verso Miles Rodgers. «Mettiamo le mute.» «Se incomincia a frugare nei sedimenti morirà di certo», disse Pitt, impassibile come un professore di fisica che tiene lezione. Forse Shannon non lo ascoltava, ma Rodgers sì. «Credo sia meglio sentire che cosa ha da dire Dirk.» «Non la prenda come un insulto, signor Pitt, ma lei non ha le credenziali necessarie per essere attendibile», scattò Shannon. «E se avesse ragione?» chiese Rodgers con aria innocente. «Abbiamo aspettato tanto tempo per esplorare il fondo del cenote. Tu e io abbiamo rischiato la morte nel tentativo di scoprirne i segreti. Non posso credere che laggiù non ci sia una capsula del tempo piena di antichità preziose.» Pitt afferrò il cavo che scendeva nell'acqua e lo tenne nella mano. «Ecco la prova. Tiri il cavo e le garantisco che cambierà idea.» «Ha legato l'altra estremità?» chiese Shannon in tono di sfida. «A che cosa?» «A un mucchio di ossa truccato da conquistador spagnolo.» «È proprio incredibile», commentò lei. Era molto tempo che una donna non lo guardava in quel modo. «Crede che sia pazzo? Pensa che mi diverta? Non mi piace passare il tempo a salvarle la pelle. D'accordo, se vuol morire e venire sepolta in mille pezzi, si accomodi.» L'incertezza s'insinuò nell'espressione di Shannon. «Quel che dice non ha senso.» «Forse è opportuna una piccola dimostrazione.» Pitt tirò delicatamente il cavo fino a tenderlo. Poi gli diede un energico strattone. Per un momento non accadde nulla. Poi un rombo salì dal fondo del
pozzo, crebbe di volume e fece tremare le pareti di calcare. La violenza dell'esplosione fu sconvolgente. Lo scoppio subacqueo arrivò come la deflagrazione di un'enorme carica di profondità, mentre una colonna ribollente di schiuma bianca e di mucillagine verde erompeva dal pozzo e spruzzava tutto e tutti nel raggio di una ventina di metri. Il rombo dell'esplosione dilagò sopra la giungla mentre gli spruzzi ricadevano nel pozzo e lasciavano una fitta nebbia che turbinava nel cielo e nascondeva momentaneamente il sole. 16. Bagnata fradicia, Shannon guardava nelle profondità del pozzo sacro come se non sapesse decidere se vomitare o no. Tutti gli altri erano immobili come statue, paralizzati dallo shock. Soltanto Pitt aveva l'aria di chi ha assistito a un avvenimento normalissimo. Negli occhi di Shannon spuntò una prima luce di comprensione. «In nome di Dio, come poteva saperlo...?» «Che era una trappola?» concluse Pitt. «Non occorrevano grandi capacità deduttive. Chiunque abbia sepolto almeno quarantacinque chili di esplosivo potentissimo sotto lo scheletro ha commesso due gravi errori. Uno: perché portare via tutti gli oggetti antichi, esclusi quelli più ovvi? Due: lo scheletro non poteva avere più di cinquant'anni e la corazza non era abbastanza arrugginita per essere rimasta quattro secoli sott'acqua.» «E chi può aver fatto una cosa simile?» chiese Rodgers, allibito. «L'impostore?» «È più probabile che fosse Amaru. L'uomo che aveva preso il posto di Miller non voleva correre il rischio di essere smascherato dalle autorità peruviane prima di aver terminato il saccheggio della Città dei Morti. Il Solpemachaco aveva derubato il pozzo sacro di tutti i manufatti molto tempo prima che voi arrivaste. Ecco perché l'impostore ha lanciato una richiesta di aiuto quando lei e Shannon siete spariti nel cenote. Faceva parte di un piano per far sembrare accidentale la vostra morte. Anche se era abbastanza sicuro che sareste stati risucchiati nella caverna secondaria dal flusso subacqueo prima di poter esplorare il fondo e scoprire che tutti i manufatti erano stati sottratti, per prudenza aveva piazzato il falso conquistador come esca per farvi a pezzi nell'eventualità che il risucchio non vi portasse via.» Negli occhi di Shannon apparve un'espressione rattristata e disillusa.
«Dunque tutti gli oggetti antichi che erano nel pozzo sacro sono spariti.» «Cerchi di consolarsi pensando che sono stati rubati e non distrutti», disse Pitt. «Ricompariranno», disse Giordino per rasserenarla. «Non possono restare nascosti in eterno nella collezione di qualche miliardario.» «Voi non capite la disciplina dell'archeologia», insistette Shannon. «Nessuno specialista può studiare i manufatti, classificarne o ricostruirne la provenienza senza conoscerne l'origine esatta. Ora non potremo sapere nulla del popolo che un tempo viveva qui e che ha costruito la città. Un archivio immenso, una messe d'informazioni scientifiche, è andato irrimediabilmente perduto.» «Mi dispiace che le sue speranze e i suoi sforzi siano finiti così», disse Pitt in tono sincero. «Già», ribatté Shannon, sconfitta. «È una vera tragedia.» Rudi Gunn tornò dall'elicottero che stava decollando per trasportare il corpo del dottor Miller all'obitorio di Lima. «Scusa se ti interrompo», disse a Pitt. «Ma qui abbiamo finito. Carichiamo l'elicottero, partiamo e andiamo a raggiungere il dottor Ortiz nella Città dei Morti.» Pitt annuì e si rivolse a Shannon. «Dunque, vogliamo buttarci nel prossimo disastro che ci hanno preparato i saccheggiatori di antichità?» Il dottor Alberto Ortiz stava in attesa nei pressi del luogo in cui doveva atterrare l'elicottero. Era un uomo sulla settantina, magro ma solido, vestito con camicia e pantaloni bianchi. I lunghi baffi candidi e penzolanti lo facevano somigliare a uno di quei manifesti che offrono una taglia per la cattura di un anziano bandito messicano. Se l'incoerenza era la sua caratteristica, era confermata da un panama a tesa larga con una fascia colorata, un paio di lussuosi sandali firmati e il drink ghiacciato che teneva in mano. Un regista di Hollywood in cerca di qualcuno cui affidare la parte di un vagabondo in un film d'avventura ambientato nei mari del sud lo avrebbe scelto all'istante. Il dottor Ortiz non aveva quindi neanche lontanamente l'aspetto che gli uomini della NUMA avrebbero attribuito al più famoso esperto peruviano di culture antiche. Andò incontro sorridendo ai nuovi arrivati, con il bicchiere nella mano sinistra e la destra protesa. «Siete in anticipo», disse calorosamente in un inglese quasi perfetto. «Non vi aspettavo prima di due o tre giorni.» «Il programma della dottoressa Kelsey è stato interrotto in modo alquanto brusco», spiegò Pitt mentre gli stringeva la grossa mano callosa.
«È venuta con voi?» chiese Ortiz, e sbirciò alle spalle di Pitt. «Arriverà domattina presto. Vuole impiegare il pomeriggio per fotografare i rilievi di una pietra d'altare vicina al pozzo.» Pitt si voltò e fece le presentazioni. «Io sono Dirk Pitt e questi sono Rudi Gunn e Al Giordino. Siamo della National Underwater & Marine Agency.» «Lieto di conoscervi, signori. Sono felice di poter cogliere quest'occasione per ringraziarvi personalmente di aver salvato la vita ai nostri giovani.» «È una vera gioia tornare nel palazzo», disse Giordino, alzando gli occhi verso il tempio semidemolito. Ortiz rise di quello scarso entusiasmo. «Immagino che l'ultima visita non le sia piaciuta.» «Il pubblico non lanciava rose, questo è certo.» «Dove vuole che piazziamo le tende, dottore?» chiese Gunn. «No, no.» I denti di Ortiz lampeggiarono sotto i baffi. «I miei uomini hanno pulito una tomba che apparteneva a un ricco mercante. Lo spazio non manca, e se piove si sta all'asciutto. Non è un albergo a quattro stelle, ma dovrebbe essere comodo.» «Mi auguro che il primo proprietario non sia ancora lì», commentò Pitt in tono diffidente. «No, certo», rispose Ortiz, che l'aveva preso sul serio. «I saccheggiatori hanno portato via le ossa e il resto nella ricerca affannosa dei manufatti.» «Potremmo dormire nella struttura che i saccheggiatori usavano come quartier generale», suggerì Giordino che mirava a una sistemazione più lussuosa. «Mi dispiace, ma io e i miei collaboratori l'abbiamo già requisita come base per le operazioni.» Giordino si rivolse a Gunn con aria seccata. «Te l'avevo detto che dovevi telefonare per prenotare.» «Venite, signori», disse allegramente Ortiz. «Mentre andiamo al vostro alloggio, vi farò da guida nel Pueblo de los Muertos.» «Gli abitanti dovevano prendere esempio dagli elefanti», osservò Giordino. Ortiz rise. «No, i Chachapuyas non venivano qui a morire. Era un cimitero sacro, e loro credevano che fosse una tappa del viaggio verso un'altra vita.» «Non ci stava nessuno?» chiese Gunn. «Soltanto i sacerdoti e gli operai che costruivano le case funerarie. A tut-
ti gli altri l'accesso era vietato.» «Doveva essere un'attività fiorente e redditizia», commentò Pitt, scrutando il labirinto di cripte sparse nella valle e le tombe che si aprivano nelle pareti rocciose. «La cultura dei Chachapuyas era molto stratificata, ma non contemplava un'élite reale, come invece era tipico degli Inca», spiegò Ortiz. «Le città della confederazione erano governate dagli anziani e dai comandanti militari. Erano loro, oltre ai ricchi mercanti, che potevano permettersi di erigere mausolei complessi per riposare fra una vita e l'altra. I poveri venivano chiusi in statue funebri antropomorfe di adobe.» Gunn guardò l'archeologo con aria incuriosita. «I morti venivano chiusi nelle statue?» «Sì, il corpo del defunto era sistemato in posizione accovacciata, con le ginocchia sotto il mento. Poi una serie di rametti veniva disposta a cono intorno al cadavere, con l'ausilio di un supporto a forma di gabbia; l'adobe bagnato veniva spalmato sul supporto e formava un involucro intorno al corpo. L'ultima fase consisteva nello scolpire una faccia e una testa vagamente simili a quella del morto. Quando il ricettacolo funebre era asciutto, i dolenti lo collocavano in una nicchia scavata in precedenza o in un anfratto del dirupo.» «L'addetto alle pompe funebri doveva essere un personaggio molto popolare», osservò Giordino. «In attesa di studiare in modo più particolareggiato la città», riprese Ortiz, «posso dire che fu in continua espansione come cimitero fra il 1200 e il 1500 dopo Cristo, prima di venire abbandonata, probabilmente qualche tempo dopo la conquista spagnola.» «Gli Inca seppellivano qui i loro morti dopo aver sottomesso i Chachapuyas?» chiese Gunn. «Non molto spesso. Ho trovato poche tombe caratterizzate dall'architettura incaica più tarda.» Ortiz li condusse lungo un'antica strada pavimentata da pietre levigate dal tempo. Entrò in un monumento funebre a forma di bottiglia costruito con pietre piatte e decorato da fregi romboidali alternati con un motivo a zig-zag. Il decoro era curato fin nei minimi particolari e l'architettura era magnifica. Il monumento era sovrastato da una stretta cupola alta dieci metri. Anche l'entrata aveva una forma a bottiglia ed era piuttosto angusta: permetteva il passaggio di un uomo solo per volta. Nella camera funeraria interna ristagnava un intenso odore d'umido e di muffa, un odore che col-
piva con la violenza di un pugno sul naso. Per Pitt quella camera era quasi il simbolo di una grandiosa ossessione: avvertiva nettamente la presenza spettrale di coloro che avevano eseguito l'estremo rito e avevano chiuso la cripta nella convinzione che sarebbe rimasta inviolata per l'eternità, senza prevedere che sarebbe diventata un riparo per uomini vivi, nati mezzo millennio più tardi. Il pavimento di pietra e le nicchie sepolcrali erano privi di oggetti funerali, e spazzati con cura. Strane facce sorridenti di pietra scolpita, grandi come piatti da portata, spiccavano intorno al soffitto. Appese alle teste di serpente (con occhi spalancati e fauci aperte) che spuntavano dalla parte bassa del muro, c'erano diverse amache. Gli operai di Ortiz avevano sistemato sul pavimento stuoie di paglia. C'era persino uno specchietto sostenuto da un chiodo piantato in una stretta fessura tra le pietre. «Penso che sia stata costruita intorno al 1380», spiegò Ortiz. «Uno splendido esempio di architettura chachapuyana. Tutte le comodità di una casa, tranne il bagno. Comunque c'è un ruscello che scorre una cinquantina di metri più a sud. In quanto alle altre esigenze personali, sono sicuro che vi arrangerete.» «Grazie, dottor Ortiz», disse Gunn. «È molto gentile.» «Prego, mi chiami Alberto», rispose Ortiz inarcando un irsuto sopracciglio candido. «Si cena alle diciotto in punto, da me.» Guardò Giordino con aria benevola. «Immagino che sia in grado di muoversi nella città.» «Sì, ho già fatto il giro», rispose Giordino. Un bagno tonificante nell'acqua del ruscello per togliersi di dosso il sudore, una rasatura, la scelta d'indumenti più pesanti per difendersi dal freddo dell'aria notturna delle Ande, e gli uomini della NUMA furono pronti ad attraversare la Città dei Morti per raggiungere il quartier generale dei peruviani. Ortiz li accolse all'entrata e presentò quattro dei suoi assistenti all'Istituto nazionale di cultura di Chiclayo. Nessuno di loro parlava inglese. «Un drink prima di cena, signori? Ho gin, vodka, scotch e pisco, un'acquavite bianca locale.» «È attrezzato bene», commentò Gunn. Ortiz rise. «Anche se lavoriamo in zone disagiate del Paese, non significa che dobbiamo rinunciare a qualche piccola comodità.» «Assaggerò l'acquavite locale», disse Pitt. Giordino e Gunn, meno temerari, optarono per lo scotch on the rocks.
Dopo averli serviti, Ortiz li invitò ad accomodarsi su vecchie sedie da giardino di tela. «I manufatti sono stati molto danneggiati durante l'attacco con i razzi?» chiese Pitt per attaccare discorso. «I pochi oggetti abbandonati dai saccheggiatori sono stati schiacciati dalla caduta dei muri. Purtroppo quasi tutti sono in condizioni tali che sarebbe impossibile restaurarli.» «Ha trovato qualcosa che valesse la pena di salvare?» «Avevano fatto un lavoro meticoloso.» Ortiz scosse mestamente la testa. «È sorprendente la rapidità con cui hanno scavato le rovine del tempio, hanno portato via gli oggetti recuperabili e indenni e sono fuggiti con quattro tonnellate di materiale prima che potessimo arrivare e coglierli sul fatto. Quello che i cacciatori spagnoli di tesori e i loro santimoniosi missionari non rubarono nelle città incaiche per mandarlo in Spagna, i maledetti huaqueros l'hanno trovato e venduto. Rubano le antichità più in fretta di quanto un esercito di formiche possa spogliare una foresta.» «Huaqueros?» chiese Gunn. «È il nome locale dei tombaroli», spiegò Giordino. Pitt lo guardò incuriosito. «Dove l'hai imparato?» Giordino alzò le spalle. «Quando frequenti gli archeologi finisci per assimilare il loro gergo.» «È difficile attribuire tutta la colpa agli huaqueros», riprese Ortiz. «I contadini poveri della montagna soffrono a causa del terrorismo, della miseria, dell'inflazione e della corruzione che li deruba di quel po' che riescono a strappare alla terra. Perciò saccheggiano i siti archeologici e vendono i manufatti: così possono pagarsi qualche piccolo lusso che allevia le loro condizioni tremende.» «Quindi non tutto il male viene per nuocere», osservò Gunn. «Purtroppo lasciano soltanto pochi frammenti d'osso e cocci di vasellame per gli scienziati che, come me, vogliono studiare i manufatti. Edifici interi, templi e palazzi, finiscono sventrati e demoliti per asportare gli ornamenti architettonici. Le sculture vengono vendute a prezzi vergognosamente bassi. Non risparmiano niente. Asportano le pietre dei muri e le usano come materiale da costruzione. Gran parte delle bellezze architettoniche di queste antiche culture è stata distrutta ed è perduta per sempre.» «Immagino che sia un'attività di famiglia», disse Pitt. «Sì, la ricerca delle tombe sotterranee è stata tramandata di generazione in generazione. Padri, fratelli, zii e cugini... lavorano insieme. È diventata
un'usanza. Intere comunità si organizzano per scavare e riesumare gli antichi tesori.» «E gli obiettivi principali sono le tombe», concluse Gunn. «È appunto lì che sono nascosti quasi tutti gli oggetti più preziosi. Le ricchezze di molti imperi antichi furono sepolte con i sovrani e i potenti.» «I quali evidentemente credevano che fosse possibile portare con loro le ricchezze», commentò Giordino. «Dagli uomini di Neandertal agli Egizi e agli Inca», continuò Ortiz, «tutti credevano nella continuazione della vita dopo la morte. Non nella reincarnazione, sia chiaro, bensì nella vita come la vivevano sulla terra. Perciò facevano mettere nella tomba quanto avevano di più prezioso. Molti re e imperatori portavano con loro anche le mogli preferite, i funzionari, i soldati, i servitori e gli animali, oltre ai tesori. Il furto nelle tombe è antico quanto la prostituzione.» «È un peccato che negli Stati Uniti non seguano il loro esempio», dichiarò Giordino in tono sardonico. «Pensate! Quando muore un presidente, potrebbe ordinare di essere sepolto con tutto il Congresso e metà dei burocrati.» Pitt rise. «La maggioranza dei cittadini americani approverebbe un rituale del genere.» «Anche molti dei miei compatrioti la pensano nello stesso modo sul conto del nostro governo», ammise Ortiz. «Come fanno a individuare le tombe?» chiese Gunn. «Gli huaqueros più poveri usano picconi, vanghe e lunghe aste metalliche per sondare il terreno. Le organizzazioni che dispongono di mezzi, invece, usano moderni metal detector e strumenti radar.» «In passato ha avuto occasione d'incontrare il Solpemachaco?» chiese Pitt. «In altri quattro siti storici.» Ortiz sputò per terra. «Ma sono arrivato sempre troppo tardi. Il Solpemachaco è una sorta di lezzo nauseante che proviene da una sorgente sconosciuta. L'organizzazione esiste, questo è certo. Ho visto i risultati tragici del saccheggio. Ma devo ancora trovare prove concrete che portino a quei bastardi che pagano due soldi agli huaqueros e disperdono la nostra eredità culturale sul mercato internazionale clandestino.» «La polizia e le forze di sicurezza non possono fermare l'esodo dei tesori rubati?» chiese Gunn. «Fermare gli huaqueros è come cercare di afferrare il mercurio con le
mani», rispose Ortiz. «I profitti sono enormi, e loro sono troppi. Inoltre, come avete avuto modo di constatare, molti militari e funzionari governativi si possono corrompere.» «Ha un lavoro difficile da fare, Alberto», disse Pitt in tono comprensivo. «Non la invidio.» «È anche un lavoro ingrato», affermò Ortiz in tono solenne. «Per la povera gente delle montagne, io sono il nemico. E le famiglie ricche mi evitano come la peste perché fanno collezione di oggetti preziosi.» «Mi sembra che lei sia in una posizione senza vie d'uscita.» «È vero. I miei colleghi di altri istituti culturali e dei musei del Paese sono in corsa per scoprire i grandi siti pieni di tesori, ma a vincere sono sempre gli huaqueros.» «Il suo governo non l'aiuta?» chiese Giordino. «Ottenere stanziamenti dal governo o da fonti private per progetti archeologici è una battaglia tutta in salita. È un peccato, ma a quanto sembra nessuno ha voglia di fare investimenti in favore della storia.» La conversazione passò ad altri argomenti finché uno degli assistenti di Ortiz non annunciò che la cena era pronta. C'erano due portate: uno stufato piccante di carne bovina, e mais e fagioli di produzione locale. Gli unici tocchi di una certa raffinatezza erano rappresentati da un ottimo vino rosso peruviano e da una macedonia di frutta. Il dessert consisteva in mango allo sciroppo. Sedettero intorno al fuoco, e Pitt chiese a Ortiz: «Crede che Tupac Amaru e i suoi abbiano spogliato completamente la Città dei Morti, oppure ci sono tombe e costruzioni non ancora scoperte?» Ortiz s'illuminò di colpo come una luce stroboscopica. «Gli huaqueros e i loro padroni del Solpemachaco sono rimasti qui il tempo necessario per portar via il materiale più in vista, i manufatti che si trovavano in superficie. Ci vorranno anni interi per effettuare uno scavo archeologico serio nel Pueblo de los Muertos. Sono convinto che la maggior parte dei tesori debba ancora essere trovata.» Dato che Ortiz aveva riacquistato il buon umore ed era riscaldato da numerosi bicchierini di acquavite, Pitt provò a sondarlo abilmente. «Mi dica, Alberto, lei è un esperto delle leggende che parlano dei tesori perduti dagli Inca dopo l'arrivo degli Spagnoli?» Ortiz accese un sigaro lungo e sottile e aspirò e sbuffò fino a quando l'estremità non diventò rossa. Il fumo si arricciolò nell'aria umida e fredda della notte. «Ne conosco qualcuna. Le storie sui tesori perduti degli Inca
forse non sarebbero tanto abbondanti se le culture ancestrali del mio Paese avessero lasciato resoconti dettagliati sulla loro esistenza quotidiana. Tuttavia, diversamente dai Maya e dagli Aztechi del Messico, le culture del Perù non hanno lasciato un patrimonio di simboli geroglifici. Non inventarono mai un alfabeto o un sistema ideografico di comunicazione. A parte poche immagini sui muri degli edifici, sui vasi e sui tessuti, la documentazione sulla loro vita e sulle loro leggende è molto scarsa.» «Io pensavo al tesoro perduto di Huascar», disse Pitt. «Ne ha sentito parlare?» «Me l'ha raccontato la dottoressa Kelsey. Ha descritto un'immensa catena d'oro che, francamente, mi sembra un'esagerazione», spiegò Pitt. Ortiz annuì. «Si dà il caso che quella parte della leggenda sia vera. Un grande re degli Inca, Huayna Capac, ordinò di fabbricare una gigantesca catena d'oro per onorare la nascita del figlio Huascar. Molti anni più tardi Huascar salì al trono e ordinò che il tesoro reale, custodito a Cuzco, la capitale, venisse prelevato in segreto e nascosto, in modo da sottrarlo al fratellastro Atahualpa, che in seguito usurpò il regno dopo una lunga guerra civile. Il tesoro, oltre alla famosa catena d'oro, includeva statue a grandezza naturale, troni, dischi solari e tutti gli animali e gli insetti noti agli Inca, tutti scolpiti in oro e argento e tempestati di pietre preziose.» «Non avevo mai sentito parlare di un tesoro tanto grandioso», mormorò Gunn. «Gli Inca possedevano tanto oro da non riuscire a comprendere perché gli Spagnoli ne fossero avidi. Questa passione alimentò la leggenda di El Dorado. Migliaia di spagnoli morirono nella ricerca del tesoro. I tedeschi e gli inglesi, compreso sir Walter Raleigh, batterono le montagne e le giungle, ma nessuno lo trovò.» «A quanto ho capito», disse Pitt, «la catena e gli altri tesori d'arte furono trasportati in una terra al di là del regno azteco, e sepolti.» Ortiz annuì. «Così afferma la leggenda. Non si è mai appurato se fu davvero portato al nord da una flotta di navi. Tuttavia sembra ormai certo che il tesoro fosse protetto da guerrieri chachapuyani, i quali, a partire dal 1480, anno in cui Huayna Capac aveva sottomesso la loro confederazione, formavano la guardia reale degli Inca.» «Qual è la storia dei Chachapuyas?» chiese Gunn. «Il nome significa 'Popolo delle Nubi'», rispose Ortiz. «E la loro storia deve ancora essere scritta. Le città - come avete potuto vedere grazie alle vostre recenti esperienze - sono sepolte in una delle giungle più impene-
trabili del mondo. A tutt'oggi, gli archeologi non dispongono né di finanziamenti né di mezzi per svolgere esplorazioni e scavi adeguati fra le rovine chachapuyane.» «Perciò rimangono un enigma», concluse Pitt. «Sì, e sotto più di un aspetto. I Chachapuyas, secondo gli Inca, avevano la pelle chiara e gli occhi azzurri o verdi. Si diceva che le donne fossero bellissime, molto apprezzate dagli Inca e dagli Spagnoli. Erano anche molto alti. Un esploratore italiano ha trovato in una tomba chachapuyana uno scheletro che superava i due metri.» Pitt era perplesso. «Più di due metri?» «Sicuro», rispose Ortiz. «C'è qualche possibilità che discendessero da antichi esploratori venuti dal Vecchio Continente, forse dai vichinghi che potrebbero avere traversato l'Atlantico e poi risalito il Rio delle Amazzoni per stabilirsi nelle Ande?» «Ci sono state sempre molte teorie su certe remotissime migrazioni transoceaniche nel Sudamerica attraverso l'Atlantico e il Pacifico», spiegò Ortiz. «La corrente storica che studia i viaggi precolombiani da e per altri continenti parla di diffusionismo. Un concetto interessante: non ha molti seguaci, ma non viene neppure del tutto ignorato.» «Ci sono prove?» chiese Giordino. «Sono quasi tutti indizi circostanziali. Antichi vasi trovati in Ecuador che presentano gli stessi motivi della cultura Ainu del Giappone settentrionale. Gli spagnoli e lo stesso Colombo riferirono di aver visto uomini bianchi che navigavano a bordo di grosse navi al largo del Venezuela. I portoghesi trovarono in Bolivia una tribù i cui uomini avevano barbe più lussureggianti di quelle degli Europei, sebbene quasi tutti gli Indios siano piuttosto glabri. E molto spesso si hanno notizie di sub e di pescatori che trovano anfore romane o greche nelle acque costiere del Brasile.» «Le gigantesche teste di pietra della cultura Olmeca, in Messico, hanno i connotati tipici dei neri africani», disse Pitt. «Mentre in generale i volti di pietra comuni alle culture mesoamericane hanno caratteristiche orientali.» Ortiz annuì. «Le teste di serpente che ornano molti dei templi e delle piramidi dei Maya sembrano copie delle teste di drago scolpite in Giappone e in Cina.» «Ma ci sono prove più certe?» insistette Gunn. «Finora non sono stati rinvenuti oggetti per i quali sia stato possibile dimostrare una provenienza europea.»
«Gli scettici puntano sull'assenza dei torni da vasaio e dei veicoli a ruote», soggiunse Gunn. «È vero», ammise Ortiz. «I Maya usavano la ruota per i giocattoli dei bambini, ma non per fini pratici. Non è sorprendente, se si tiene conto che non avevano animali da tiro fino a che gli Spagnoli non introdussero i cavalli e i buoi.» «Ci sarebbe comunque da pensare che avrebbero potuto trovare una funzione per la ruota... Per esempio, per trainare il materiale da costruzione», ipotizzò Gunn. «La storia ci dice che i Cinesi realizzarono la carriola seicento anni prima che arrivasse in Europa», replicò Ortiz. Pitt finì l'acquavite. «Mi sembra impossibile che una civiltà così evoluta si sia sviluppata in una regione tanto remota senza nessuna influenza esterna.» «La gente che oggi vive sulle montagne e discende dai Chachapuyas spesso ha carnagione chiara e occhi azzurri o verdi. E parla di un sant'uomo, giunto da oriente molti secoli fa, che le insegnò i princìpi della costruzione, la scienza delle stelle e le usanze religiose.» «Ma dimenticò d'insegnarle a scrivere», esclamò Giordino. «Un altro chiodo nella bara del contatto precolombiano», osservò Gunn. «Il sant'uomo aveva folti capelli bianchi e una barba fluente», proseguì Ortiz. «Era altissimo, indossava una lunga veste bianca e predicava la bontà e la carità. Il resto della storia è troppo simile a quella di Gesù perché sia possibile prenderlo alla lettera: di certo gli indigeni, dopo la loro conversione al cristianesimo, introdussero episodi della vita di Cristo nell'antica storia. L'uomo viaggiava, guariva gli ammalati, rendeva la vista ai ciechi, compiva miracoli di ogni genere. Camminava addirittura sull'acqua. Il popolo innalzava templi in suo onore e scolpiva la sua immagine nel legno e nella pietra. Posso aggiungere che nessuno di questi ritratti è mai stato ritrovato. Lo stesso mito, quasi parola per parola, è stato tramandato nei secoli dalle antiche culture messicane nella forma di Quetzalcoatl, il dio di tutto il Messico.» «Lei crede a qualche aspetto della leggenda?» domandò Pitt. Ortiz scosse la testa. «Non ci crederò fino a che non avrò scavato qualcosa di concreto che potrò autenticare con certezza. Ma forse troveremo presto qualche risposta. Una delle vostre università americane sta effettuando analisi del DNA sui resti di chachapuyas trovati nelle tombe. Se la ricerca darà buon esito, potranno confermare se i Chachapuyas erano venu-
ti dall'Europa o si erano evoluti indipendentemente.» «E il tesoro di Huascar?» chiese Pitt per riportare la conversazione sul binario che gli interessava. «Sarebbe una scoperta sbalorditiva», rispose Ortiz. «Mi piace pensare che il tesoro esista ancora in qualche grotta messicana dimenticata.» Poi lanciò in aria una nuvoletta di fumo di sigaro e guardò le stelle. «La catena sarebbe una scoperta favolosa. Ma per me, come archeologo, gli oggetti più importanti sarebbero l'enorme disco solare d'oro massiccio e le reali mummie dorate che scomparvero contemporaneamente alla catena.» «Mummie dorate?» ripeté Gunn. «Gli Inca conservavano i loro defunti come gli Egizi?» «Il processo di conservazione non era complesso come quello egiziano», spiegò Ortiz. «Ma i corpi dei sovrani, o Sapa Inca, come erano chiamati, venivano chiusi nell'oro e diventavano oggetti di culto nelle pratiche religiose del popolo. Le mummie dei re morti abitavano nei loro palazzi, cambiavano spesso abbigliamento, ricevevano offerte di pranzi sontuosi e avevano harem formati dalle donne più belle... che erano scelte come inservienti, devo precisare, e non perché si dedicassero alla necrofilia.» Giordino girò lo sguardo sulle ombre della città. «A me sembra uno spreco di soldi dei contribuenti.» «C'erano schiere di sacerdoti che si occupavano di tutto», continuò Ortiz. «E avevano interesse a fare in modo che i re morti fossero soddisfatti. Spesso le mummie venivano portate in giro per il Paese, e questi viaggi erano organizzati senza badare a spese, come se quei cadaveri fossero ancora i capi dello Stato. È superfluo aggiungere che questo assurdo amore per i morti dissanguò le risorse economiche degli Inca, e contribuì in misura notevolissima al crollo dell'impero durante l'invasione spagnola.» Pitt chiuse la lampo del giubbotto di pelle per proteggersi dal freddo e disse: «Mentre era sulla nostra nave, la dottoressa Kelsey ha ricevuto un messaggio riguardante un'armatura d'oro rubata e finita nelle mani di un collezionista di Chicago». Con aria pensierosa, Ortiz annuì. «Sì, l'armatura d'oro di Tiapollo. Copriva la mummia di un grande generale chiamato Naymlap, consigliere e braccio destro di un antico re inca. Prima di partire da Lima ho saputo che gli agenti della Dogana americana l'avevano rintracciata, ma l'hanno subito persa.» «L'hanno persa?» Inspiegabilmente, Pitt non si sentiva troppo sorpreso. «Il direttore del nostro ministero della Cultura stava per prendere l'aereo
per andare negli Stati Uniti a rivendicare la proprietà della mummia e dell'armatura quando è stato informato che gli agenti della vostra Dogana erano arrivati tardi. I ladri l'avevano portata via mentre il possessore era tenuto sotto sorveglianza.» «La dottoressa Kelsey ha detto che le immagini impresse sull'armatura raffigurano il viaggio della flotta che trasportò il tesoro in Messico.» «Soltanto poche immagini erano state decifrate. Gli studiosi moderni non ebbero mai l'occasione di studiare l'armatura in modo dettagliato prima che venisse rubata dal museo di Siviglia.» «Si può supporre», disse pensosamente Pitt, «che chi si è impadronito questa volta dell'armatura sia sulle tracce della catena d'oro?» «Sì, è una conclusione credibile», ammise Ortiz. «Allora i ladri possono contare su un informatore», commentò Giordino. «E quindi hanno un percorso privilegiato.» «A meno che qualcuno non scopra il quipu di Drake», disse Pitt, «e arrivi prima di loro.» «Ah, sì, il famigerato cofanetto di giada.» Ortiz sospirò, non molto convinto. «Una storia fantastica che continua a rispuntare... Dunque anche voi sapete del leggendario intrico di funicelle che fornirebbe tutte le indicazioni per arrivare alla catena d'oro?» «Mi sembra che lei ne dubiti», osservò Pitt. «Non ci sono prove concrete. Tutte le notizie sono troppo inconsistenti per prenderle sul serio.» «Si potrebbe scrivere un grosso volume sulle superstizioni e sulle leggende che sono risultate vere.» «Io sono uno scienziato e quindi ho un atteggiamento pragmatico», rispose Ortiz. «Se il quipu esiste, dovrei tenerlo nelle mani per convincermi della sua autenticità... e anche in questo caso avrei qualche dubbio.» «Mi giudicherebbe pazzo se le dicessi che ho intenzione di dargli la caccia?» chiese Pitt. «Non più pazzo dei mille e mille uomini che nel corso della storia hanno inseguito un sogno nebuloso oltre l'orizzonte.» Ortiz s'interruppe, scosse la cenere dal sigaro e fissò a lungo Pitt con un'espressione cupa negli occhi. «Comunque l'avverto. Chi troverà il quipu, ammesso che esista, sarà ricompensato dal successo, ma poi sarà destinato al fallimento.» Pitt ricambiò lo sguardo. «Perché?» «Non potrà farsi aiutare da un amauta, un inca istruito capace di comprendere il testo, e da un quipucamayoc, un funzionario in grado di com-
porlo.» «Che vuol dire?» «Mi spiego, signor Pitt. Gli ultimi che avrebbero potuto leggere e interpretare per lei il quipu di Drake sono morti da più di quattrocento anni.» 17. In una parte remota e desolata del deserto del sud-ovest, pochi chilometri a est di Douglas, in Arizona, a soli settantacinque metri dal confine fra gli Stati Uniti e il Messico, l'hacienda «La princesa» torreggiava come un castello moresco in un'oasi. Il primo proprietario, don Antonio Diaz, l'aveva chiamata così in onore della moglie Sophia Magdalena, che era morta di parto ed era sepolta in una sontuosa cripta barocca circondata da un giardino cinto da un alto muro. Un tempo, Diaz era stato un peone; diventato poi minatore, aveva avuto un incredibile colpo di fortuna: aveva ritrovato ed estratto enormi quantità d'argento dalle vicine montagne di Huachuca. La grande proprietà feudale si trovava sulle terre che erano state assegnate a Diaz dal generale Antonio López de Santa Anna, più tardi presidente del Messico, perché aveva contribuito a finanziare le sue campagne per sottomettere il Texas e più tardi la guerra contro gli Stati Uniti. L'esito fu un disastro che Santa Anna aggravò vendendo la Mesilla Valley dell'Arizona meridionale agli Stati Uniti, una transazione conosciuta come «la cessione Gadsden». Lo spostamento del confine lasciò l'hacienda di Diaz in una nuova nazione, a un tiro di sasso dalla vecchia. L'hacienda era stata tramandata da una generazione di Diaz a un'altra fino al 1978 quando l'ultima superstite, Maria Estala, l'aveva venduta a un ricco finanziere poco prima di morire alla bella età di novantaquattro anni. Il nuovo proprietario, Joseph Zolar, non nascondeva di aver acquistato la proprietà per invitarvi personaggi celebri, alti funzionari governativi e ricchi uomini d'affari. In poco tempo, l'hacienda di Zolar fu soprannominata la San Simeon dell'Arizona. I suoi ospiti importanti venivano portati nella tenuta per mezzo di aerei, elicotteri o autobus speciali, e le sue feste figuravano nelle cronache mondane e venivano fotografate per le riviste patinate di tutto il Paese. Zolar, appassionato collezionista di antichità e di opere d'arte, aveva accumulato una quantità impressionante di oggetti preziosi, di provenienza non sempre lecita. Ma ogni pezzo era munito di certificati di esperti e di agenti del governo, dai quali risultava che era stato venduto legalmente dal
Paese d'origine e importato con una documentazione regolare. Zolar pagava le tasse, faceva affari alla luce del sole e non permetteva ai suoi ospiti di portare droghe in casa sua. Nessuno scandalo aveva mai sfiorato Joseph Zolar. In quel momento si trovava sulla terrazza del tetto in mezzo a una foresta di piante in vaso e guardava un jet privato che scendeva sulla pista nel deserto. Il jet era dipinto d'un nocciola dorato con una vivace striscia violacea lungo la fusoliera. Le lettere gialle che spiccavano sulla striscia dicevano: ZOLAR INTERNATIONAL. Un uomo che indossava una camicia a fiorami e un paio di calzoncini kaki scese dall'aereo e prese posto su un cart da golf che lo stava aspettando. Sotto le palpebre, stirate da un intervento chirurgico, gli occhi di Zolar brillavano come cristalli grigi. La faccia arrossata aveva quasi lo stesso colore dei capelli radi, spazzolati all'indietro, e del rosso cupo delle piastrelle saltillo messicane. Era più vicino ai sessant'anni che ai cinquanta, e aveva un volto enigmatico, un volto che raramente era stato visto fuori di un ufficio dirigenziale o della sala di un consiglio d'amministrazione, un volto temprato dalle decisioni dure e dalle condanne a morte emanate quando pensava che la situazione lo giustificasse. Era piccolo di statura e curvo come un avvoltoio che sta per spiccare il volo. Vestito d'una tuta di seta nera, aveva l'aria indifferente di un ufficiale d'un campo di concentramento nazista che considera la morte interessante più o meno quanto la pioggia. Zolar attendeva in cima alla scala mentre l'ospite saliva verso il terrazzo. Si salutarono con un abbraccio caloroso. «È un piacere vederti tutto intero, Cyrus.» Sarason sogghignò. «Tu non lo sai, ma hai rischiato di perdere un fratello.» «Vieni, ho fatto ritardare il pranzo apposta per te.» Zolar condusse Sarason attraverso il labirinto delle piante in vaso fino a una tavola apparecchiata lussuosamente sotto una palapa di fronde di palma. «Ho scelto un ottimo Chardonnay e il mio chef ha preparato una deliziosa arista di maiale.» «Un giorno o l'altro te lo porterò via», disse Sarason. «Impossibile.» Zolar rise. «L'ho viziato. Gode di troppi privilegi per pensare di abbandonarmi.» «Invidio il tuo stile di vita.» «E io invidio il tuo. Non hai mai perso lo spirito d'avventura. Rischi sempre di morire o di essere catturato dalla polizia in un deserto o in una
giungla, quando potresti dirigere gli affari da un ufficio lussuoso e delegare agli altri il lavoro sporco.» «Non mi è mai piaciuta l'esistenza del burocrate», spiegò Sarason. «È una sfida esaltante sguazzare negli affari sporchi. Una volta o l'altra dovresti venire con me.» «No, grazie. Preferisco gli agi della civiltà.» Sarason notò un tavolo su cui stavano quattro rami d'albero erosi dalle intemperie e lunghi circa un metro. Incuriosito, si avvicinò per studiarli più attentamente. Li riconobbe: erano radici sbiancate dal sole di una specie di pioppo, cresciute naturalmente in grottesche forme antropomorfe, complete di busti, braccia, gambe e teste arrotondate. Sulle teste erano intagliate facce rudimentali, dipinte con lineamenti infantili. «Nuovi acquisti?» chiese. «Sono rarissimi idoli cerimoniali appartenenti a un'oscura tribù di Indiani», rispose Zolar. «Come te li sei procurati?» «Due cacciatori clandestini di manufatti antichi li hanno trovati in una vecchissima abitazione di pietra che avevano scoperto sotto la sporgenza di una rupe.» «Sono autentici?» «Sì.» Zolar prese uno degli idoli e lo mise in piedi. «Per gli indiani Montolo, che vivono nel deserto di Sonora presso il fiume Colorado, gli idoli rappresentano gli dei del sole, della luna, della terra e dell'acqua datrice di vita. Furono scolpiti secoli fa e usati in cerimonie speciali per celebrare il passaggio dei giovani alla condizione di adulti. È un rito mistico che si ripete ogni due anni. Gli idoli sono il cuore della religione dei Montolo.» «Quanto pensi che valgano?» «Anche duecentomila dollari, per il collezionista giusto.» «Così tanto?» Zolar annuì. «Purché l'acquirente non sappia della maledizione che perseguita chi li possiede.» Sarason rise. «C'è sempre una maledizione.» Zolar alzò le spalle. «Chi può dirlo? So per certo che i due ladri hanno avuto molta sfortuna. Uno è morto in un incidente d'auto, l'altro è stato colpito da una malattia incurabile.» «Tu credi a queste fesserie?» «Io credo solo alle cose belle della vita», disse Zolar, prendendolo a braccetto. «Vieni, il pranzo ci aspetta.»
La cameriera versò il vino, i due brindarono e Zolar fece un cenno a Sarason. «Dunque, fratello, parlami del Perù.» Sarason giudicava divertente il fatto che il loro padre avesse voluto che i figli e le figlie adottassero legalmente cognomi diversi. Soltanto Zolar, che era il maggiore, portava il cognome di famiglia. Il vastissimo impero commerciale che il vecchio Zolar aveva creato prima di morire era stato diviso in parti eguali fra i cinque figli e le due figlie. Ognuno di loro era diventato il dirigente di una galleria d'arte e antichità, di una casa d'aste o di una ditta d'import-export. Le attività della famiglia, in apparenza separate, in realtà erano un'unica entità, una conglomerata di proprietà congiunta, chiamata segretamente Solpemachaco. Era sconosciuta a tutte le agenzie finanziarie e a tutte le Borse del mondo; l'amministratore delegato era Joseph Zolar, nella sua qualità di membro più anziano della famiglia. «È stato un miracolo se sono riuscito a salvare quasi tutti i manufatti e a portarli fuori del Paese dopo gli errori commessi dalla nostra marmaglia ignorante. Per non parlare delle intromissioni da parte di membri del nostro governo.» «La Dogana degli Stati Uniti oppure l'Antidroga?» chiese Zolar. «Né l'una né l'altra. Due ingegneri della National Underwater & Marine Agency. Sono comparsi dal nulla quando Juan Chaco ha lanciato una richiesta di soccorso dopo che la dottoressa Kelsey e il fotografo erano rimasti intrappolati nel pozzo sacro.» «Che problemi hanno causato?» Sarason raccontò tutta la storia: dall'uccisione del vero dottor Miller da parte di Amaru sino alla fuga di Pitt e degli altri dalla valle di Viracocha e alla morte di Juan Chaco. Concluse con un elenco approssimativo dei manufatti che aveva recuperato nella valle, trasportato a Callao, e quindi esportato clandestinamente dal Perù in un compartimento segreto di una petroliera di proprietà di una sussidiaria della Zolar International. Era una delle due navi di questo tipo che venivano usate allo scopo di far entrare e uscire opere d'arte rubate dai Paesi stranieri trasportando nel contempo modesti quantitativi di greggio. Zolar guardava il deserto senza vederlo. «L'Aztec Star. Deve arrivare a San Francisco fra quattro giorni.» «Quindi rientra nella sfera di attività di nostro fratello Charles.» «Sì, Charles ha dato disposizioni per trasportare la merce nel nostro centro di distribuzione di Galveston, dove si provvederà al restauro dei manufatti.» Zolar alzò il bicchiere per farlo riempire. «Com'è il vino?»
«Un classico», rispose Sarason. «Ma un po' secco per i miei gusti.» «Forse preferiresti un Sauvignon blanc della Turenna. Ha un piacevole gusto fruttato e un delizioso bouquet.» «Non ho mai acquisito la tua passione per i grandi vini, fratello. Vorrei una birra.» Zolar non ebbe bisogno di dare istruzioni alla cameriera, che si allontanò e dopo qualche minuto tornò con un bicchiere e una bottiglia di Coors. «Mi dispiace per Chaco», disse Zolar. «Era un collaboratore fedele.» «Non avevo scelta. Si era spaventato dopo il fiasco della valle di Viracocha e minacciava velatamente di smascherare il Solpemachaco. Sarebbe stata un'imprudenza lasciare che cadesse nelle mani della polizia investigativa peruviana.» «Mi fido delle tue decisioni, come sempre. Però c'è ancora Tupac Amaru. Com'è la sua situazione?» «Avrebbe dovuto morire», rispose Sarason. «Ma quando sono tornato al tempio dopo l'attacco dei nostri mercenari troppo zelanti, l'ho trovato sepolto sotto un mucchio di macerie. Respirava ancora. Dopo aver caricato i manufatti su altri tre elicotteri militari - i cui equipaggi sono stati profumatamente compensati da me -, ho pagato anche gli huaqueros del posto perché lo portassero al loro villaggio e lo curassero. Dovrebbe essere di nuovo in piedi fra pochi giorni.» «Sarebbe stato opportuno togliere di mezzo anche Amaru.» «Ci avevo pensato. Ma non sa niente che possa mettere gli investigatori internazionali sulle nostre tracce.» «Vuoi un'altra porzione di arista?» «Sì, grazie.» «Comunque non mi piace avere un cane idrofobo che circola libero per la casa.» «Non preoccuparti. È strano, ma è stato Chaco a darmi l'idea di continuare a tenere Amaru sul libro paga.» «Perché? Perché possa assassinare le vecchiette quando gliene viene la voglia?» «No, assolutamente.» Sarason sorrise. «Quell'uomo potrebbe rivelarsi prezioso.» «Come assassino prezzolato, vuoi dire?» «Preferisco considerarlo come qualcuno che elimina ostacoli. Diciamoci la verità, fratello. Non posso continuare a liquidare personalmente i nostri nemici, con il rischio di essere scoperto e catturato. La famiglia dovrebbe
considerarsi fortunata, perché sono l'unico che ha la capacità di uccidere quando è necessario. Amaru è un carnefice ideale. Gli piace.» «Sì, ma stai attento a tenerlo saldamente al guinzaglio quando lo fai uscire dalla gabbia.» «Non preoccuparti», lo rassicurò Sarason in tono deciso. Poi cambiò argomento. «Hai in mente qualche compratore per la merce chachapuyana?» «Un trafficante di droga, un certo Pedro Vincente», rispose Zolar. «Va matto per tutto ciò che è precolombiano. E paga di più perché per lui questo è un sistema per riciclare i profitti della droga.» «E tu prendi il denaro e lo usi per finanziare le nostre attività clandestine nel campo delle antichità.» «È una soluzione conveniente per tutti gli interessati.» «Fra quanto concluderai la vendita?» «Fisserò un incontro con Vincente non appena Marta avrà sistemato il nostro carico in modo che sia possibile mostrarlo. Dovresti ricevere entro dieci giorni la tua parte di profitti.» Sarason annuì e fissò le bollicine della birra. «Ho l'impressione che tu mi legga nel pensiero, Joseph. Sto pensando seriamente di ritirarmi dall'attività finché sono ancora in buone condizioni.» Zolar lo guardò con un sorriso subdolo. «Se lo farai, butterai via duecento milioni di dollari.» «Di che stai parlando?» «Della tua parte del tesoro.» Sarason si fermò di colpo mentre si stava portando alla bocca un pezzetto di arista. «Quale tesoro?» «Sei l'ultimo della famiglia a sapere che la preda suprema è a portata di mano.» «Non ti seguo.» «L'oggetto che ci condurrà al tesoro di Huascar.» Zolar lo guardò ironicamente per un attimo, poi sorrise. «Abbiamo l'armatura d'oro di Tiapollo.» Sarason lasciò cadere la forchetta sul piatto e sgranò gli occhi, incredulo. «Hai trovato la mummia di Naymlap chiusa nell'armatura d'oro? È nelle tue mani?» «Nelle nostre mani, fratello. Una sera, mentre frugavo fra i vecchi documenti di nostro padre, ho trovato un registro che elencava le sue transazioni clandestine. Fu lui a organizzare il furto della mummia dal museo spagnolo.»
«E quel vecchio volpone non ne aveva mai parlato.» «La considerava il culmine della sua carriera, ma anche una cosa troppo scottante per rivelarla alla famiglia.» «E come l'hai rintracciata?» «Nostro padre aveva registrato la vendita a un ricco mafioso siciliano. Ho mandato Charles a indagare, anche se non mi aspettavo che potesse scoprire qualcosa, dato che la pista era vecchia di settant'anni e più. Nostro fratello ha scovato la villa del mafioso defunto e ha parlato con il figlio; e quello ha ammesso che il vecchio aveva tenuto nascoste mummia e armatura fino a quando non era morto nel 1984 alla bella età di novantasette anni. Il figlio aveva venduto la mummia al mercato nero tramite i suoi parenti di New York. L'acquirente è un ricchissimo rottamatore di Chicago che si chiama Rummel.» «Mi sorprende che il figlio del mafioso abbia parlato con Charles. Quella gente non ama raccontare in giro di essere coinvolta nel traffico di preziosi rubati.» «Non soltanto ha parlato», precisò Zolar, «ma ha accolto nostro fratello come un parente perduto da molto tempo, e non ha esitato a fornirgli il nome del compratore di Chicago.» «Avevo sottovalutato Charles», commentò Sarason mentre finiva l'arista. «Non sapevo che fosse tanto abile nell'ottenere informazioni.» «Un pagamento di tre milioni di dollari in contanti è stato di grande aiuto.» Sarason aggrottò la fronte. «Non siamo un po' troppo generosi? L'armatura non può valere più della metà per un collezionista che deve tenerla nascosta.» «Oh, no. Anzi, è stato un investimento modesto, se le immagini incise sull'armatura ci possono portare alla catena d'oro di Huascar.» «La preda suprema.» Sarason ripeté la frase usata poco prima dal fratello. «In tutta la storia del mondo non esiste un tesoro che ne uguagli il valore.» «Vuoi il dessert?» chiese Zolar. «Una fetta di Sacher?» «Una fettina piccolissima e un caffè forte», rispose Sarason. «E quanto è costato ricomprare l'armatura dal rottamatore?» Zolar fece un cenno, e la cameriera obbedì in silenzio. «Neppure un centesimo. L'abbiamo rubata. Per un caso fortunato, nostro fratello Samuel, a New York, aveva venduto a Rummel gran parte della sua collezione di antichità precolombiane di contrabbando, e sapeva dove si trovava la galleria
nascosta che custodiva l'armatura. Lui e Charles hanno compiuto il furto.» «Non riesco ancora a credere che sia nelle nostre mani.» «E siamo stati fortunati. Charles e Sam l'avevano appena portata via dall'attico di Rummel quando hanno fatto irruzione gli agenti della Dogana.» «Credi che avessero avuto una soffiata?» Zolar scosse la testa. «Non da qualcuno dei nostri. Sam e Charles si sono allontanati senza problemi.» «Dove l'hanno portata?» chiese Sarason. Zolar sorrise, ma i suoi occhi rimasero freddi. «In nessun posto. La mummia è ancora nel palazzo. Hanno preso in affitto un appartamento sei piani più sotto a quello di Rummel e l'hanno nascosta lì in attesa di trasportarla senza rischi a Galveston per un esame adeguato. Rummel e gli agenti della Dogana sono convinti che sia stata portata via a bordo di un furgone per i traslochi.» «Un tocco intelligente. Ma adesso cosa succederà? Le immagini incise sull'armatura d'oro dovranno essere decifrate, e non sarà un'impresa facile.» «Ho assunto le massime autorità in fatto di arte incaica perché decifrino e interpretino i glifi. Sono marito e moglie. Lui è antropologo, e lei è un'archeologa specializzata nelle decifrazioni a mezzo computer.» «Dovevo prevedere che avresti pensato a tutto», disse Sarason mentre rimescolava il caffè. «Ma auguriamoci che la loro versione del testo sia esatta, altrimenti sprecheremo una quantità di tempo e di denaro inseguendo fantasmi in tutto il Messico.» «Il tempo è dalla nostra parte», gli assicurò Zolar in tono deciso. «Chi, se non noi, potrebbe trovare la chiave del luogo dov'è sepolto il tesoro?» 18. Dopo un'inutile escursione negli archivi della Biblioteca del Congresso, dove aveva sperato di trovare qualche documento che portasse alla scoperta del destino del Concepción, Julien Perlmutter era nell'immensa sala di lettura. Chiuse una copia del diario, tenuto da Francis Drake e offerto più tardi alla regina Elisabetta, con la descrizione dell'epico viaggio. Il diario, rimasto irreperibile per secoli, era stato riscoperto di recente nelle cantine polverose degli archivi reali, in Inghilterra. Si assestò sulla sedia e sospirò. Il diario aggiungeva ben poco a quello che già sapeva. Drake aveva mandato il Concepción in Inghilterra alla gui-
da del comandante del Golden Hind Thomas Cuttill. Nessuno aveva più rivisto il galeone e si presumeva che fosse andato perduto con l'intero equipaggio. A parte questo, l'unica menzione del destino del Concepción non era confermata. Proveniva da un libro sul Rio delle Amazzoni che Perlmutter ricordava di aver letto e che era stato pubblicato nel 1939 dal giornalistaesploratore Nicholas Bender, il quale aveva seguito i percorsi degli antichi cercatori di El Dorado. Perlmutter chiese in consultazione il volume e lo riesaminò. Nelle note c'era un breve riferimento a una spedizione portoghese del 1594 che si era imbattuta in un inglese: questi viveva in riva al fiume presso una tribù locale. L'inglese affermava di aver prestato servizio agli ordini del famoso Francis Drake, che gli aveva affidato il comando di un galeone spagnolo catturato; poi il galeone era stato trascinato nella giungla da un tremendo maremoto. I portoghesi l'avevano ritenuto pazzo, e avevano proseguito la missione lasciandolo nel villaggio dove l'avevano trovato. Perlmutter annotò il nome dell'editore, restituì il diario di Drake e il libro di Bender, prese un taxi e tornò a casa. Era scoraggiato, ma non era la prima volta che non riusciva a trovare tracce di un enigma storico in mezzo ai venticinque milioni di libri e ai quaranta milioni di manoscritti della biblioteca. La chiave del mistero del Concepción, se esisteva, doveva essere sepolta altrove. A bordo del taxi, Perlmutter guardava le automobili e gli edifici senza vederli. Sapeva per esperienza che ogni progetto di ricerca procede con un ritmo tutto suo. Qualcuno lanciava le risposte in una girandola di fuochi d'artificio. L'enigma del Concepción era diverso. Sembrava un'ombra che sfuggiva alla sua stretta. Nicholas Bender aveva citato una fonte autentica, oppure aveva abbellito un mito, come fanno spesso gli autori delle opere di saggistica? L'interrogativo continuava ad assillarlo quando entrò nel caos del suo ufficio. Sulla mensola del camino, l'orologio segnava le tre e trentacinque del pomeriggio. Aveva ancora il tempo di fare qualche telefonata prima che gli uffici chiudessero. Si assestò nella poltroncina girevole dietro la scrivania e chiamò il servizio informazioni di New York City. L'operatore gli diede il numero della casa editrice di Bender. Poi Perlmutter si versò un bicchiere di cognac Napoléon e attese che gli passassero la chiamata. Senza dubbio era un'altra fatica sprecata. Con ogni probabilità Bender era morto, ed era morto anche l'editor che si era occupato del volume.
«Falkner e Massey», rispose una voce femminile che aveva il tipico accento newyorkese. «Potrei parlare con chi ha curato l'opera di Nicholas Bender, per favore?» «Nicholas Bender?» «È uno dei vostri autori.» «Mi dispiace, ma non conosco questo nome.» «Scriveva libri di avventure molto tempo fa. Forse qualcuno che lavora in casa editrice da molti anni si ricorda di lui.» «Le passo il signor Adams, il redattore capo. È quello che lavora da più tempo in casa editrice.» «Grazie.» Vi fu un silenzio che durò una trentina di secondi, poi rispose un uomo. «Qui Frank Adams.» «Signor Adams, sono Julien Perlmutter.» «È un piacere, signor Perlmutter. Ho sentito parlare di lei. Sta a Washington, se non sbaglio.» «Sì, vivo nella capitale.» «Ci tenga presenti se dovesse decidere di pubblicare un libro sulla storia della navigazione.» «Non ho mai terminato i libri che ho incominciato a scrivere», rise Perlmutter. «Diventeremo vecchi tutti e due se aspetteremo che io finisca un manoscritto.» «A settantaquattro anni io sono già vecchio», rispose giovialmente Adams. «Le ho telefonato appunto per questo», disse Perlmutter. «Ricorda un certo Nicholas Bender?» «Ma certo. In gioventù era una specie di soldato di ventura. Pubblicammo diversi libri in cui descriveva i suoi viaggi, all'epoca in cui i borghesi non erano ancora diventati tutti globetrotters.» «Sto cercando di rintracciare la fonte di una notizia inclusa nel volume Sulla pista di El Dorado.» «È una cosa di molto tempo fa. Credo che la pubblicazione di quel libro risalga all'inizio degli anni '40.» «Al 1939, per la precisione.» «In che posso aiutarla?» «Speravo che Bender avesse donato i suoi appunti e i manoscritti all'archivio di qualche università. Vorrei studiarli.»
«Non so cosa facesse del suo materiale», rispose Adams. «Dovrò chiederlo a lui.» «È ancora vivo?» esclamò sorpreso Perlmutter. «Oh, sì, certo. Ho cenato con lui non più tardi di tre mesi fa.» «Deve aver passato la novantina.» «Nicholas ha ottantaquattro anni. Mi pare che ne avesse venticinque quando scrisse Sulla pista di El Dorado, il secondo dei ventisei libri che gli pubblicammo. L'ultimo uscì nel 1978, e raccontava la traversata a piedi dello Yukon.» «Il signor Bender è ancora in pieno possesso delle sue facoltà mentali?» «Naturalmente. È assolutamente lucido, nonostante le condizioni di salute piuttosto precarie.» «Può darmi il suo numero di telefono?» «Non credo che accetterà di rispondere a un estraneo. Dopo la morte della moglie è diventato una specie di eremita. Sta in una piccola fattoria nel Vermont e attende di morire.» «Non vorrei sembrarle un individuo senza cuore», disse Perlmutter, «ma devo parlare con lui al più presto.» «Dato che lei è un'autorità in fatto di storia della Marina e un famoso buongustaio, credo che a Bender non dispiacerà parlare con lei. Ma prima, per sicurezza, sarà meglio che le spiani la strada. Mi dà il suo numero, nel caso che Bender voglia chiamarla direttamente?» Perlmutter diede il numero della linea che usava solo per gli amici intimi. «La ringrazio, signor Adams. Se mai scriverò un libro sui naufragi, lei sarà il primo a leggere il manoscritto.» Riattaccò, andò in cucina, spalancò il frigorifero, aprì con abilità una dozzina di ostriche, vi versò sopra qualche goccia di Tabasco e di aceto di sherry e le trangugiò accompagnandole con una bottiglia di birra Anchor Steam. Finì con un tempismo perfetto. Aveva appena terminato le ostriche e gettato la bottiglia vuota nella spazzatura quando squillò il telefono. «Qui Julien Perlmutter.» «Pronto», disse una voce profonda. «Sono Nicholas Bender. Frank Adams mi ha detto che voleva parlare con me.» «Sì, e la ringrazio. Non immaginavo che mi chiamasse così presto.» «È sempre un piacere parlare con qualcuno che ha letto i miei libri», rispose allegramente Bender. «Non siete rimasti in molti.» «Il libro che mi interessa è Sulla pista di El Dorado.» «Sì, sì. Rischiai almeno dieci volte di morire durante quella marcia at-
traverso l'inferno.» «Nel libro ha parlato di una missione esplorativa portoghese che aveva trovato un marinaio di sir Francis Drake in un villaggio indigeno lungo il Rio delle Amazzoni.» «Thomas Cuttill», precisò Bender senza la minima esitazione. «Ricordo che inclusi nel libro questo avvenimento, sì.» «Potrebbe indicarmi la fonte dell'informazione?» chiese Perlmutter, rincuorato dalla prontezza con cui funzionava la memoria di Bender. «Signor Perlmutter, posso sapere che cosa cerca esattamente?» «Sto facendo una ricerca sulla storia di un galeone spagnolo catturato da Drake. Secondo numerose cronache, la nave andò perduta in mare mentre era in viaggio per l'Inghilterra. Tuttavia, secondo ciò che lei scrisse a proposito di Thomas Cuttill, il galeone fu trascinato in una foresta pluviale sulla cresta di un'ondata gigantesca sollevata da un maremoto.» «È verissimo», rispose Bender. «Sarei andato io stesso a cercarlo se avessi pensato che c'era una possibilità di scoprire qualcosa. Ma la giungla dove scomparve è così fitta che per trovare il relitto bisognerebbe andare a sbatterci contro.» «È sicuro che i portoghesi avevano trovato veramente Cuttill? Non era un'invenzione o un mito?» «È un fatto storico. Non c'è il minimo dubbio.» «Come fa a esserne sicuro?» «Ho la fonte.» Perlmutter rimase confuso per un momento. «Mi scusi, signor Bender, ma non riesco a seguirla.» «Il fatto è, signor Perlmutter, che ho nelle mani il diario di Thomas Cuttill.» «Che cosa?» tuonò Perlmutter. «Proprio così», rispose trionfalmente Bender. «Cuttill lo consegnò al capo della missione portoghese e lo pregò di farlo arrivare a Londra. Ma il portoghese lo consegnò al viceré, a Macapa, e il viceré lo spedì con altri dispacci a Lisbona, dove passò per molte mani prima di finire in una libreria antiquaria. Io lo acquistai per l'equivalente di trentasei dollari. Nel 1937 era una grossa somma, almeno per un giovane di ventitré anni che girava il mondo e doveva stare attento alle spese.» «Oggi quel diario deve valere ben più di trentasei dollari.» «Ne sono sicuro. Una volta un antiquario me ne ha offerti diecimila.» «E lei ha rifiutato?»
«Non ho mai venduto i souvenir dei miei viaggi perché qualcun altro potesse ricavarne un profitto.» «Posso venire nel Vermont per leggere il diario?» chiese guardingo Perlmutter. «No, purtroppo.» Perlmutter tacque e cercò un modo per convincere lo scrittore a lasciargli esaminare il diario di Cuttill. «Posso chiedere perché?» «Sono un vecchio ammalato», rispose Bender. «Anche se il mio cuore si rifiuta di fermarsi.» «A sentirla parlare, nessuno penserebbe che è malato.» «Dovrebbe vedermi. Le malattie che ho contratto nei miei viaggi stanno devastando quello che resta di me. Non sono uno spettacolo gradevole, perciò ricevo molto raramente visite. Ma le dirò cosa intendo fare, signor Perlmutter. Le manderò il volume in regalo.» «Mio Dio! Non deve...» «No, insisto. Frank Adams mi ha parlato della sua magnifica collezione di testi sulle navi. Preferisco dare il diario a lei, che saprà apprezzarlo, anziché a un collezionista che lo metterebbe su uno scaffale soltanto per far colpo sugli amici.» «È molto gentile», esclamò Perlmutter. «Le sono grato per la sua generosità.» «Accetti e si diverta», disse Bender. «Immagino che vorrà studiare il diario al più presto possibile.» «Non voglio causarle disturbo.» «No, no. Lo manderò per mezzo della Federal Express, così lo riceverà domattina presto.» «Grazie, signor Bender. Grazie, tratterò il diario con tutto il rispetto che merita.» «Bene. Le auguro di trovare quello che cerca.» «Me lo auguro anch'io», replicò Perlmutter, reso ottimista da quell'inatteso colpo di fortuna. «Mi creda, me lo auguro anch'io.» L'indomani mattina, alle dieci e venti, Perlmutter spalancò la porta prima ancora che il corriere della Federal Express avesse il tempo di suonare il campanello. «Allora lo stava aspettando, signor Perlmutter», disse il giovane bruno con gli occhiali e il sorriso cordiale. «Come un bambino che aspetta Babbo Natale», rise Perlmutter mentre firmava la ricevuta.
Si precipitò nello studio e aprì la busta imbottita. Sedette alla scrivania, inforcò gli occhiali e tenne fra le mani il diario di Thomas Cuttill come se fosse il Santo Graal. La rilegatura era di pelle d'un animale non identificabile e le pagine erano di pergamena ingiallita ma ottimamente conservata. L'inchiostro era marrone; probabilmente Cuttill l'aveva ricavato dalla radice di qualche pianta. Le pagine erano una ventina, non di più, e le annotazioni erano scritte nella tipica prosa elisabettiana. La grafia sembrava faticosa, con diversi errori d'ortografia, e questo indicava un uomo discretamente istruito per i suoi tempi. La prima annotazione portava la data del marzo 1578, anche se era stata fatta molto più tardi. LA MIA STRANA STORIA DEI PASSATI SEDICI ANNI, DI THOMAS CUTTILL, GIÀ DEL DEVONSHIRE. Era il racconto di un marinaio che aveva fatto naufragio ed era sopravvissuto alla furia violenta del mare per affrontare traversie incredibili in una terra selvaggia nel vano tentativo di tornare in patria. Mentre leggeva le annotazioni, che iniziavano dalla partenza di Cuttill dall'Inghilterra con la spedizione di Drake, Perlmutter si accorse che erano scritte in uno stile più sincero delle narrazioni dei secoli successivi, farcite di sermoni, esagerazioni romantiche e frasi fatte. La tenacia di Cuttill, la sua volontà di sopravvivere e la sua ingegnosità nel superare ostacoli tremendi senza invocare neppure una volta l'aiuto di Dio colpirono profondamente Perlmutter. Cuttill era un uomo che gli sarebbe piaciuto conoscere. Unico superstite del galeone dopo che l'ondata gigantesca l'aveva trascinato nell'entroterra, Cuttill aveva preferito gli orrori sconosciuti delle montagne e della giungla al rischio di essere catturato e torturato dai vendicativi spagnoli, infuriati per la cattura del loro galeone del tesoro da parte dell'odiatissimo Drake. Cuttill sapeva soltanto che l'oceano Atlantico era situato lontano, a est. Non era in grado d'immaginare quanto fosse distante. La speranza di arrivare al mare e poi d'imbattersi in una nave amica che lo portasse in Inghilterra aveva la stessa probabilità di realizzarsi di un miracolo. Ma quell'uomo non aveva altra scelta. Sulle pendici occidentali delle Ande gli Spagnoli avevano già creato colonie di grandi proprietà terriere: lì lavoravano gli Inca, considerati alla stregua di schiavi e fortemente ridotti di numero dal trattamento inumano e da malattie quali il morbillo e il vaiolo. Cuttill si muoveva furtivamente fra le tenute, sfruttando la copertura delle tenebre, e rubava viveri a ogni pos-
sibile occasione. Per due mesi aveva camminato ogni notte per pochi chilometri: doveva sfuggire agli spagnoli e non farsi vedere dagli Indios che avrebbero potuto tradirlo. In tal modo aveva superato lo spartiacque continentale delle Ande, passando per le valli isolate, ed era disceso nell'inferno verde del bacino amazzonico. Da quel momento la vita di Cuttill era diventata ancora più simile a un incubo. Avanzava nelle paludi interminabili, immerso nell'acqua fino alla cintola, lottava per aprirsi un varco nelle foreste così fitte che a ogni metro doveva tagliare la vegetazione con il coltello. Sciami d'insetti, innumerevoli serpenti e alligatori costituivano un pericolo costante; i serpenti attaccavano spesso senza preavviso. Era tormentato dalla dissenteria e dalla febbre, ma continuava a muoversi; a volte riusciva a coprire soltanto cento metri in una giornata. Dopo diversi mesi era capitato in un villaggio d'indigeni ostili che l'avevano legato e l'avevano tenuto come schiavo per cinque anni. Alla fine Cuttill era fuggito rubando una canoa monossila e aveva disceso il Rio delle Amazzoni di notte, sotto la luna calante. Si era ammalato di malaria e per poco non era morto; tuttavia, mentre veniva trasportato dalla corrente a bordo della canoa, era stato trovato da una tribù di donne dai capelli lunghi che l'avevano curato e guarito. Era la stessa tribù che l'esploratore spagnolo Francisco de Orellana aveva scoperto durante l'inutile ricerca di El Dorado; anzi, aveva dato al fiume il nome di Rio delle Amazzoni, in ricordo delle mitiche guerriere greche, proprio perché le donne indigene sapevano maneggiare gli archi con la stessa abilità degli uomini. Cuttill aveva fatto conoscere diversi utensili alle donne e ai pochi uomini che vivevano con loro. Aveva costruito un tornio da vasaio, spiegato come realizzare grandi bacili e recipienti per l'acqua, fabbricato carriole e ruote ad acqua per l'irrigazione e mostrato come si usavano le pulegge per sollevare grossi pesi. In breve, la gente cominciò a venerarlo quasi come un dio. La vita di Cuttill presso la tribù era assai piacevole. Aveva preso in moglie tre delle donne più attraenti e da loro aveva avuto diversi figli. A poco a poco il desiderio di tornare in patria si era affievolito. Quando era partito dall'Inghilterra era scapolo, ed era certo che ormai non ci sarebbero stati parenti o vecchi compagni di navigazione ad accoglierlo al suo ritorno. E c'era la possibilità che il severissimo Drake volesse punirlo per aver perduto il Concepción. Cuttill non era più in grado di sopportare le privazioni e le traversie di un lungo viaggio, e perciò s'era rassegnato a trascorrere i restanti anni della
sua vita sulle rive del Rio delle Amazzoni. Quando la missione esplorativa portoghese era passata di là, le aveva affidato il diario, chiedendo che venisse inviato in Inghilterra e consegnato nelle mani di Francis Drake. Quando Perlmutter ebbe finito di leggere il diario si appoggiò alla spalliera della poltroncina girevole, si tolse gli occhiali e si soffregò gli occhi. Se aveva avuto qualche dubbio circa l'autenticità del documento, ormai era svanito. La grafia era decisa ed energica e non poteva essere l'opera di un pazzo malato e morente. Le descrizioni di Cuttill non sembravano inventate né abbellite. Perlmutter era certo che l'ex ufficiale di Drake aveva avuto veramente quelle esperienze, e che il resoconto era stato fatto in tutta sincerità da qualcuno che aveva vissuto ciò che descriveva. Perlmutter tornò a concentrarsi sul punto focale della ricerca, il breve cenno fatto da Cuttill ai tesori lasciati da Drake a bordo del Concepción. Rimise gli occhiali in bilico sull'imponente naso rosso e rilesse l'ultima annotazione del diario: La mente mia è decisa come una solida nave davanti al vento del nord. Non farò ritorno alla mia patria. Pavento il capitano Drake e il suo sdegno verso di me perché ho mancato di portare in Inghilterra i tesori e lo scrigno di giada con le cordicelle annodate affinché potesse essere offerto alla nostra buona Regina. Lo lasciai con la nave naufragata. Qui sarò sepolto fra il popolo che è divenuto la famiglia mia. Scritto di mano di Thomas Cuttill, uffiziale del Golden Hind, in questo giorno sconosciuto dell'anno 1594. Perlmutter alzò la testa lentamente e fissò un quadro spagnolo del diciassettesimo secolo appeso alla parete di fronte: raffigurava una flotta di galeoni spagnoli in navigazione sul mare sotto il fulgore color arancio del sole al tramonto. L'aveva trovato in un bazar di Segovia e l'aveva acquistato per un decimo del suo valore effettivo. Richiuse con delicatezza il diario, si alzò dalla poltroncina e incominciò ad aggirarsi per lo studio con le mani strette dietro la schiena. Un marinaio di Francis Drake era davvero vissuto ed era morto lungo il Rio delle Amazzoni. Un galeone spagnolo era stato veramente scagliato nella giungla costiera dall'ondata immensa di un maremoto. E un cofanetto di giada contenente un intrico di funicelle annodate era veramente esistito. Era possibile che si trovasse ancora in mezzo al fasciame imputridito del galeone, sepolto nel cuore di una foresta pluviale? Un mistero vecchio di
quattrocento anni era emerso all'improvviso dalle ombre del tempo e aveva rivelato una traccia interessante. Perlmutter era soddisfatto del risultato dei suoi sforzi investigativi, ma sapeva che la conferma del mito era solo il primo passo in una caccia al tesoro. La prossima mossa, forse la più impegnativa, sarebbe consistita nel restringere il più possibile il campo delle ricerche. 19. Hiram Yaeger adorava il suo grosso supercomputer come amava la moglie e le sue creature. Anzi, forse lo amava un tantino di più. Riusciva raramente a staccarsi dalle immagini del monitor gigante per tornare a casa dalla famiglia. I computer erano la sua vita fin dalla prima volta che aveva guardato un monitor e aveva battuto un comando sulla tastiera. L'amore non si era mai affievolito. Se mai, era diventato più appassionato con il trascorrere degli anni, soprattutto da quando Yaeger aveva progettato e costruito una specie di mostro informatico per l'immenso centro dati oceanici della NUMA. Il patrimonio incredibile d'informazioni a sua disposizione non finiva mai di sbalordirlo. Accarezzava la tastiera come se fosse un'entità vivente, e la sua emozione sgorgava ogni volta che i vari frammenti di dati incominciavano a comporsi per formare una soluzione. Yaeger era collegato a una rete in grado di attingere a una quantità sconfinata di informazioni provenienti da biblioteche, archivi di giornali, laboratori di ricerca, università e istituti storici di tutto il mondo e di farlo a una velocità incredibile. La «superstrada dei dati», come veniva chiamata, poteva trasmettere gigabyte d'informazioni nel lampeggiare di un cursore. Yaeger entrò nel network e cominciò a recuperare e a riordinare dati sufficienti per permettergli di stabilire una griglia di ricerca che aveva sessanta probabilità su cento d'includere il galeone arenato da quattro secoli. Era così assorto nella ricerca del Nuestra Señora de la Concepción che non sentì l'ammiraglio Sandecker entrare nel sancta sanctorum e sedere dietro di lui. Il fondatore e primo direttore della NUMA era piccolo di statura, ma aveva una carica di testosterone sufficiente per alimentare un'intera squadra di rugby. A cinquantotto anni, ancora snello e maniaco della forma, ogni mattina faceva otto chilometri di corsa dal suo appartamento all'imponente palazzo di vetro dove lavoravano due dei cinquemila ingegneri, scienziati e altri dipendenti della NUMA, l'equivalente sottomarino della NASA. I ca-
pelli lisci erano di un rosso fiammante, un po' grigi alle tempie e divisi da una scriminatura centrale; il viso ostentava una magnifica barbetta a punta. Nonostante la passione per la salute e per le diete, nessuno l'aveva mai visto senza un grosso sigaro confezionato con foglie di tabacco scelte e arrotolate apposta per lui dal proprietario di una piantagione della Giamaica. Sotto la sua direzione, la NUMA si era dedicata a esplorare il campo dell'oceanografia e l'aveva reso popolare quanto la scienza spaziale. Le sue convincenti richieste di stanziamenti rivolte al Congresso e sostenute da venti università (tutte celeberrime e tutte dotate della facoltà di Scienze marine) nonché da un esercito di grandi aziende che avevano scelto d'investire nei progetti subacquei avevano permesso alla NUMA di compiere grandi passi avanti nella geologia, nella mineralogia e nell'archeologia marina, negli studi biologici delle forme di vita marine, e negli effetti degli oceani sul clima terrestre. Uno dei suoi contributi maggiori andava comunque ascritto all'immensa rete di computer creata da Hiram Yaeger e che, nel suo insieme, formava il più completo archivio di scienze oceanografiche esistente al mondo. Non tutta la burocrazia di Washington amava Sandecker; ma era rispettato come un uomo onesto e laborioso, convinto di ciò che faceva, e anche ottimo amico dell'uomo insediato nella Sala Ovale della Casa Bianca. «Sta facendo qualche progresso?» chiese a Yaeger. «Mi scusi, ammiraglio.» Yaeger parlò senza voltarsi. «Non l'ho sentita entrare. Stavo raccogliendo i dati sulle correnti al largo dell'Ecuador.» «Non cominci a sviolinare, Yaeger», disse Sandecker, con l'aria del furetto in caccia. «So benissimo che cosa sta combinando.» «Prego?» «Sta cercando il tratto di costa che fu investito dall'ondata anomala d'un maremoto nel 1578.» «Un maremoto?» «Già. Sa che cosa intendo, vero? Un'enorme muraglia d'acqua che, con tutta la violenza di cui è capace il mare, trascinò un galeone spagnolo oltre la spiaggia fino all'interno di una giungla.» L'ammiraglio lanciò una nuvola di fumo e continuò: «Non ricordavo di aver autorizzato una caccia al tesoro a spese della NUMA». Yaeger si fermò e girò sulla poltroncina. «Lo sa?» «Diciamo che sapevo. Fin dall'inizio.» «Sa che cos'è lei, ammiraglio?» «Un vecchio bastardo capace di leggere nel pensiero altrui», rispose
Sandecker con aria soddisfatta. «E il suo oracolo le ha detto anche che l'onda anomala e il galeone sono poco più di una leggenda popolare?» «Se c'è qualcuno al mondo che sa distinguere al fiuto la realtà dalla fantasia, è il nostro amico Dirk Pitt», ribatté Sandecker in tono inflessibile. «Dunque, che cosa ha scoperto?» Yaeger accennò un sorriso prima di rispondere. «Ho cominciato ad attingere a vari sistemi d'informazione geografica per accertare la posizione logica in cui una nave potrebbe essere rimasta nascosta nella giungla per oltre quattro secoli, fra Lima e la città di Panamá. Grazie ai satelliti di posizionamento globale, possiamo esaminare fin nei minimi particolari alcune zone dell'America centrale e meridionale di cui in precedenza non esistevano mappe. Per prima cosa ho studiato le mappe delle foreste fluviali tropicali lungo la costa. Ho scartato quasi subito il Perù perché le sue regioni costiere sono desertiche e hanno una vegetazione ridotta o assente del tutto. Restavano comunque mille chilometri di costa boscosa lungo l'Ecuador settentrionale e quasi tutta la Colombia. Ho potuto escludere circa il quaranta per cento della costa caratterizzata da una geologia troppo scoscesa o sfavorevole per un'onda dotata di massa e forza d'inerzia sufficienti a trasportare nell'entroterra una nave da cinquecentosettanta tonnellate. Quindi ho eliminato un altro venti per cento di praterie senza alberi fitti che potrebbero nascondere i resti di un galeone.» «E a Pitt resta comunque da esplorare un'area della lunghezza di quattrocento chilometri.» «In cinquecento anni, la natura può modificare l'ambiente in modo drastico», disse Yaeger. «Sono partito dalle carte disegnate dagli antichi Spagnoli, ho esaminato la documentazione dei mutamenti intervenuti nella geologia e nel paesaggio, e ho potuto ridurre di altri centocinquanta chilometri la lunghezza della griglia per le ricerche.» «In che modo ha comparato il terreno odierno con quello antico?» «Per mezzo di sovrapposizioni tridimensionali», rispose Yaeger. «Riducendo o ampliando la scala delle vecchie carte per farla corrispondere alle mappe satellitari più recenti, e poi sovrapponendo le une alle altre. Così sono apparse evidenti le variazioni nelle giungle costiere dopo la scomparsa del galeone. Ho scoperto che gran parte delle giungle fitte della costa era stata abbattuta nel corso dei secoli allo scopo di coltivare la terra.» «Non basta», dichiarò Sandecker in tono irritato. «Non basta ancora. Deve ridurre la griglia a non più di venti chilometri se vuole assicurare a
Pitt una remota possibilità di trovare il relitto.» «Mi lasci parlare, ammiraglio», sospirò Yaeger. «Il passo successivo è stato effettuare una ricerca negli archivi storici per scoprire le onde prodotte dai maremoti che hanno colpito la costa sudamericana del Pacifico nel sedicesimo secolo. Per fortuna i vari casi sono stati ben documentati dagli Spagnoli nel corso della conquista. Ne ho trovati quattro. Due in Cile nel 1562 e nel 1575. Il Perù fu investito nel 1570 e poi di nuovo nel 1578, l'anno in cui Francis Drake catturò il galeone.» «E quell'ultima ondata dove si abbatté?» chiese Sandecker. «L'unico resoconto proviene dal giornale di bordo di una nave spagnola che portava rifornimenti a Callao. Passò in mezzo al 'mare impazzito' che si avventava nell'entroterra verso Bahía de Caraquez in Ecuador. Bahía, come è ovvio, significa appunto 'baia'.» «'Mare impazzito' è una descrizione calzante del comportamento dell'acqua quando sul fondo marino si verifica un terremoto. Senza dubbio fu un'onda sismica generata da un movimento della faglia parallela alla costa occidentale dell'intero continente sudamericano.» «Il capitano annotò poi, durante il viaggio di ritorno, che era sparito un villaggio situato alla foce del fiume che si gettava nella baia.» «Non ci sono dubbi sulla data?» «Assolutamente no. La foresta pluviale tropicale a est sembra impenetrabile.» «Benissimo, siamo arrivati a ridurre ulteriormente il campo delle ricerche. Ma ecco un'altra domanda: qual era la lunghezza dell'onda?» «Un'onda causata da un maremoto, o tsunami, può avere una lunghezza di duecento chilometri o anche di più», rispose Yaeger. Sandecker rifletté. «Quanto è ampia la baia di Caraquez?» Yaeger fece apparire una mappa sul monitor. «L'imboccatura è piuttosto stretta. Non supera i quattro o cinque chilometri.» «E il capitano della nave dei rifornimenti prese nota della scomparsa di un villaggio in riva a un fiume?» «Sì, signore. Questa fu la sua descrizione.» «Il contorno attuale della baia è molto diverso da quello che era allora?» «La baia esterna è cambiata pochissimo», rispose Yaeger, dopo aver esaminato un programma che mostrava le vecchie carte spagnole e le mappe satellitari in colori diversi mentre le sovrapponeva sullo schermo. «La baia interna si è spostata verso il mare per circa un chilometro a causa dei sedimenti portati dal fiume Chone.»
Sandecker fissò lo schermo per un lungo istante, poi chiese: «Il suo aggeggio elettronico può dare una simulazione della tsunami che trascinò a riva il galeone?» Yaeger annuì. «Sì, certo. Tuttavia ci sono altri fattori da prendere in esame.» «Per esempio?» «L'altezza dell'onda e la sua velocità.» «Doveva essere alta almeno trenta metri e muoversi a più di centocinquanta chilometri orari, per trasportare una nave da cinquecentosettanta tonnellate così all'interno della giungla che finora non è stata trovata.» «Bene, vediamo che cosa posso fare con le immagini digitali.» Yaeger batté una serie di comandi sulla tastiera e attese fissando il monitor per alcuni secondi, esaminando l'immagine apparsa sullo schermo. Quindi usò un comando speciale per affinare la grafica fino a generare una simulazione alquanto impressionante di una tsunami che attraversava una costa immaginaria. «Ecco qui», annunciò. «Una configurazione virtuale.» «Adesso generi una nave», ordinò Sandecker. Yaeger non conosceva bene le strutture dei galeoni del sedicesimo secolo; tuttavia produsse un'immagine abbastanza convincente, simile a quella di un proiettore che mostrasse un grafico a sessanta fotogrammi al secondo. Il galeone era così realistico che, se un estraneo fosse entrato in quel momento, avrebbe pensato che i due stessero guardando un film. «Come le sembra, ammiraglio?» «È difficile credere che una macchina possa creare immagini tanto... vere», mormorò Sandecker, visibilmente impressionato. «Dovrebbe vedere gli ultimi film digitalizzati», ribatté Yaeger. «I vecchi divi recitano insieme ai nuovi. Mi sono guardato almeno una dozzina di volte Tramonto in Arizona.» «Chi sono i protagonisti?» «Humphrey Bogart, Lionel Barrymore, Marilyn Monroe, Julia Roberts e Tom Cruise. È così realistico da dare l'impressione che fossero tutti insieme sul set.» Sandecker posò la mano sulla spalla di Yaeger. «Vediamo se riesce a creare un documentario accettabile.» Yaeger operò la sua magia al computer. Rimasero a guardare, affascinati, mentre sul monitor appariva un mare così azzurro e nitido che sembrava di guardarlo da un oblò. Lentamente l'acqua incominciò ad agitarsi, a formare un'onda che si allontanava dalla terra e lasciava il galeone sul fondale
marino, in secca come se fosse una barchetta giocattolo sulla coperta del letto di un bambino. Poi il computer visualizzò l'onda che tornava con violenza verso la riva, s'innalzava sempre di più, formava una cresta e inabissava la nave sotto una massa di spuma, sabbia e acqua, e la scagliava verso terra a una velocità incredibile, fino a che non si arrestava e si posava, mentre l'onda si appianava e cessava di esistere. «Cinque chilometri», mormorò Yaeger. «Sembra che sia approssimativamente a cinque chilometri dalla costa.» «Non mi meraviglia che sia stata perduta e dimenticata», commentò Sandecker. «Le consiglio di mettersi in contatto con Pitt e di accordarsi per trasmettergli via fax le coordinate della griglia fornite dal computer.» Yaeger gli lanciò un'occhiata strana. «Allora autorizza la ricerca, ammiraglio?» Sandecker simulò un'espressione di sorpresa. Si alzò, avviandosi verso la porta. Un attimo prima di uscire, si voltò e sorrise maliziosamente. «Non posso autorizzare qualcosa che magari si rivelerà una caccia a un serpente di mare, le sembra?» «Crede che si tratti proprio di questo? Una caccia a un serpente di mare?» Sandecker scrollò le spalle. «Lei ha operato le sue magie. Se la nave è veramente finita in mezzo a una giungla e non sul fondo del mare, allora a Pitt e a Giordino spetta il compito di addentrarsi in quell'inferno in terra e di trovarla.» 20. Giordino contemplava la macchia rossa sul pavimento di pietra del tempio. «Non c'è traccia di Amaru sotto le macerie», disse senza particolare emozione. «Chissà fin dove sarà arrivato?» chiese Miles Rodgers senza rivolgersi a qualcuno in particolare. Era giunto dal pozzo sacro in compagnia di Shannon un'ora prima di mezzogiorno con un elicottero pilotato da Giordino. «L'avranno portato via i suoi amici mercenari», ipotizzò Pitt. «Sapere che un sadico come Amaru potrebbe essere ancora vivo è più che sufficiente per farmi venire gli incubi», mormorò Rodgers. Giordino scrollò le spalle con un gesto meccanico. «Anche se è sopravvissuto all'attacco con i razzi, dovrebbe essere morto dissanguato.» Pitt si voltò a guardare Shannon che dirigeva una squadra di archeologi e
un piccolo esercito di operai. Stavano numerando i blocchi di pietra del tempio, in vista di un futuro restauro. Sembrava che la donna avesse scoperto qualcosa fra le macerie: si stava infatti chinando per esaminarlo meglio. «Un uomo come Amaru non crepa facilmente. Credo che sentiremo ancora parlare di lui», profetizzò Pitt. «È una prospettiva spiacevole», disse Rodgers. «Aggravata dalle ultime notizie arrivate da Lima.» Pitt inarcò un sopracciglio. «Non sapevo che ricevessimo le trasmissioni della CNN in questa zona delle Ande.» «E invece sì. L'elicottero atterrato circa un'ora fa è di proprietà del News Bureau peruviano. Ha portato una squadra di cronisti televisivi e una montagna di apparecchiature. La Città dei Morti è diventata una notizia d'interesse internazionale.» «E che cos'hanno riferito?» chiese Giordino. «I militari e la polizia hanno ammesso di non essere riusciti a catturare i mercenari che erano arrivati in elicottero nella valle per tagliarci la gola e portar via i manufatti antichi. E gli investigatori non hanno rintracciato neppure uno dei tombaroli di Amaru.» Pitt sorrise a Rodgers. «Non è esattamente il tipo di rapporto che permetterà loro di fare bella figura.» «Il governo ha cercato di salvare la faccia raccontando che i ladri hanno scaricato i manufatti sulle montagne e adesso si nascondono nelle foreste amazzoniche del Brasile.» «Mai successo», sbottò Pitt. «Altrimenti, perché la Dogana degli Stati Uniti vuole che le forniamo un inventario degli oggetti? Sanno bene come stanno le cose. No, il bottino non è affatto sparso sulle montagne. Se ho capito come funzionano le menti del Solpemachaco, quelli non sono tipi che si fanno prendere dal panico e scappano. Gli informatori che hanno tra i militari li hanno tenuti al corrente di tutto dal momento in cui è stato radunato un reparto per catturarli. Dovevano conoscere anche il piano di volo dei trasporti per l'assalto; e quindi li hanno evitati. Hanno caricato in fretta i manufatti, si sono presentati al rendez-vous in un campo d'atterraggio o in un porto dove i preziosi manufatti rubati sono stati trasferiti a bordo di un jet di linea o di una nave mercantile. Temo che il Perù non rivedrà mai i suoi tesori storici.» «È una sceneggiatura convincente», commentò Rodgers in tono pensieroso. «Ma non trascura il fatto che i cattivi erano rimasti con un solo elicottero dopo che gli abbiamo rubato l'altro?»
«E quello lo abbiamo mandato a sbattere contro una montagna», precisò Giordino. «Secondo me, la banda di assassini di mezza tacca chiamati dal boss che si spacciava per il dottor Miller è stata seguita più tardi da un paio di grossi elicotteri da trasporto, probabilmente i Boeing Chinook vecchio modello che sono stati venduti in tutto il mondo. Sono in grado di trasportare una cinquantina di soldati o una decina di tonnellate di carico. A terra era rimasto un numero di mercenari sufficiente per portare a bordo i manufatti. Se ne sono andati con un buon margine di tempo dopo la nostra fuga e prima che avvertissimo il governo peruviano, il quale ci ha messo parecchio prima di riuscire a organizzare una caccia aerea.» Rodgers guardò Pitt con crescente ammirazione. Soltanto Giordino non sembrava impressionato. Sapeva, dopo tanti anni d'esperienza, che Pitt era uno di quei rari individui capaci di analizzare con distacco gli eventi via via che accadevano. Era una dote innata, un privilegio riservato a pochi esseri umani. Come i grandi fisici e i geni matematici che sanno maneggiare formule incredibilmente complicate su un piano inarrivabile a chi non ha il bernoccolo dei numeri, Pitt operava su un livello deduttivo incomprensibile a tutti, eccettuati alcuni dei maggiori investigatori del mondo. Se Giordino doveva spiegare qualcosa a Pitt, non era raro il caso in cui gli occhi verdi di quest'ultimo, prima attenti, si fissassero d'un tratto su un oggetto lontano e assolutamente invisibile. Allora Giordino capiva che l'amico era ormai andato oltre la logica comune e si stava concentrando su un obiettivo tanto preciso quanto inafferrabile per gli altri. Mentre Rodgers rifletteva sulla ricostruzione degli avvenimenti proposta da Pitt, questi si voltò a guardare Shannon. L'archeologa stava carponi sul pavimento del tempio e, con un pennello morbido, asportava delicatamente la polvere e i frammenti di macerie da un indumento funebre. Era un tessuto di lana, ornato d'un ricamo multicolore che mostrava una scimmia ridente dai denti minacciosi, che aveva serpenti al posto delle braccia e delle gambe. «È questo che portavano i chachapuyas che volevano essere alla moda?» chiese Pitt. «No, è un indumento inca.» Shannon non si voltò a guardarlo. Era assorta nel lavoro. «Facevano tessuti splendidi», commentò Pitt. «Gli Inca e i loro antenati erano i tintori e i tessitori più abili del mondo. Le tecniche della tessitura sono troppo complicate e richiedono troppo
tempo perché sia possibile copiarle al giorno d'oggi. Non hanno rivali nella realizzazione degli arazzi. I migliori tessitori d'arazzi dell'Europa rinascimentale usavano ottantacinque fili per pollice. Gli antichi Peruviani usavano fino a cinquecento fili. Non c'è da sorprendersi se gli Spagnoli credettero erroneamente che le stoffe incaiche più fini fossero di seta.» «Forse non è il momento più adatto per parlare d'arte, ma dovrebbe farle piacere sapere che Al e io abbiamo finito di disegnare gli oggetti che avevamo visto prima che crollasse il tetto del tempio.» «Dia i disegni al dottor Ortiz. È lui che si occupa del materiale rubato.» Shannon riprese il suo lavoro con aria assorta. Un'ora dopo Gunn trovò Pitt a fianco di Ortiz. Quest'ultimo stava dirigendo un gruppo di operai impegnati a rimuovere la vegetazione da una grande scultura: un giaguaro alato dalla testa di serpente. Le fauci erano spalancate minacciosamente e rivelavano le zanne curve. Il corpo e le ali erano scolpiti sull'ingresso di una grande casa funeraria. L'unico ingresso era la bocca aperta, abbastanza grande perché un uomo potesse entrare strisciando. Dalle zampe alla punta delle ali spiegate, l'animale di pietra misurava più di sei metri. «Non deve essere piacevole incontrarlo di notte in un vicolo buio», commentò Gunn. Il dottor Ortiz si voltò e accennò un saluto. «È la scultura chachapuyana più grande scoperta finora. Credo che si possa datare fra il 1200 e il 1300 dopo Cristo.» «Ha un nome?» «Demonio de los Muertos», rispose Ortiz. «Il 'demonio dei morti', un dio chachapuyano oggetto di un rito protettivo connesso al culto degli inferi. In parte giaguaro, in parte condor, in parte serpente, azzannava chiunque disturbasse i morti e lo trascinava nelle viscere tenebrose della terra.» «È molto bello», disse Gunn. «Il demone non doveva esserlo. Le sue immagini andavano, per dimensioni, da questa alle statuette non più grandi di una mano, secondo la ricchezza e la posizione sociale del defunto. Credo che li troveremo in quasi tutte le tombe della valle.» «Il dio degli antichi Messicani non era una specie di serpente?» chiese Gunn. «Sì, Quetzalcoatl, il serpente piumato, la divinità più importante dell'area mesoamericana, a partire dagli Olmechi nel 900 avanti Cristo per finire
con gli Aztechi durante la conquista spagnola. Anche gli Inca avevano sculture di serpenti, ma non si è ancora accertata l'esistenza di un nesso diretto.» Ortiz si voltò quando un operaio lo chiamò con un cenno per mostrargli una statuetta che aveva estratto accanto alla scultura. Gunn prese Pitt per il braccio e lo condusse a sedere su un muretto di pietra. «Un corriere dell'ambasciata americana è arrivato da Lima con l'ultimo elicottero dei rifornimenti», disse, ed estrasse una cartelletta dalla borsa. «Ha consegnato un pacchetto trasmesso via fax da Washington.» «L'ha inviato Yaeger?» chiese ansiosamente Pitt. «Yaeger e il tuo amico Perlmutter.» «Hanno trovato qualcosa?» «Leggi», disse Gunn. «Julien Perlmutter ha trovato il diario di un superstite del galeone trascinato nella giungla dall'ondata anomala.» «Benissimo.» «C'è di meglio. Il diario parla di un cofanetto di giada che conteneva funicelle annodate. Sembra che debba trovarsi ancora in mezzo al fasciame marcio del galeone.» Gli occhi di Pitt s'illuminarono come fari. «Il quipu di Drake.» «Sembra che il mito abbia una base storica», disse Gunn con un sorriso. «E Yaeger?» chiese Pitt, cominciando a sfogliare le carte. «Il suo computer ha esaminato i dati esistenti e ha fornito le coordinate della griglia che collocano il galeone entro un'area limitata di dieci chilometri quadrati.» «Ancora più piccola di quanto mi aspettassi.» «Direi che le possibilità di trovare il galeone e il cofanetto di giada sono aumentate del cinquanta per cento.» «Diciamo del trenta», lo corresse Pitt. Poi prese uno dei fogli trasmessi da Perlmutter sul quale erano riportati i dati conosciuti sulla costruzione, l'attrezzatura e il carico del Nuestra Señora de la Concepción. «A parte quattro ancore che probabilmente furono strappate via dall'impatto dell'onda anomala, la presenza del ferro a bordo deve essere troppo scarsa perché sia possibile scoprirlo con un magnetometro a una distanza superiore a un tiro di sasso.» «Un EG&G Geometrics G-813G potrebbe individuare una piccola massa di ferro da una distanza discreta.» «Mi hai letto nel pensiero. Frank Stewart ne ha uno a bordo della Deep Fathom.»
«Avremo bisogno di un elicottero per rimorchiare il sensore sopra la foresta pluviale», disse Gunn. «Questo è il tuo campo», rispose Pitt. «Chi conosci in Ecuador?» Gunn rifletté un momento, poi accennò un sorriso. «Si dà il caso che il direttore generale della Corporación Estatale Petrolera Ecuadoriana, la compagnia petrolifera di Stato, abbia un debito di riconoscenza con la NUMA che gli ha segnalato importanti giacimenti di gas naturale nel golfo di Guayaquil.» «Allora è un grosso debito. Dovranno proprio prestarci un elicottero.» «Puoi ben dirlo.» «Quanto tempo ti occorre per prenderli al laccio?» Gunn alzò il polso e sbirciò il quadrante del vecchio e fido Timex. «Dammi venti minuti per chiamare e mettermi d'accordo. Poi informerò Stewart che andremo a prelevare il magnetometro; contatterò Yaeger e riconfermerò i suoi dati.» Pitt lo fissò, sbalordito. «Washington non è dietro l'angolo. Hai intenzione di comunicare con i segnali di fumo o gli specchi?» Gunn si frugò nella tasca e mostrò quello che sembrava un telefonino portatile. «L'Iridium, prodotto dalla Motorola. È digitale e senza fili, e con questo si può telefonare in ogni parte del mondo.» «Conosco il sistema», disse Pitt.«Funziona grazie a una rete di satelliti ad amplificazione del segnale. Dove hai rubato quell'unità?» Gunn si guardò intorno con aria furtiva. «Tieni la lingua a freno. Si tratta della semplice requisizione temporanea di un telefonino della squadra televisiva peruviana.» Pitt guardò con simpatia e ammirazione l'amico occhialuto. Succedeva raramente che il timido Gunn uscisse dal suo guscio accademico per compiere un'azione subdola. «Sei in gamba, Rudi, e non m'interessa quello che raccontano di te le rubriche dei pettegolezzi sulle celebrità.» Per quanto riguardava i manufatti e i tesori, i ladri avevano appena scalfito la superficie della Città dei Morti. Avevano dato la preferenza alle tombe reali presso il tempio ma, grazie all'intervento di Pitt, non avevano avuto la possibilità di effettuare scavi estensivi nella maggior parte dei sepolcri circostanti. Molti contenevano i resti di alti dignitari della confederazione dei Chachapuyas. Ortiz e i suoi archeologi avevano trovato anche le case funerarie di otto nobili. Ortiz si era rallegrato moltissimo quando aveva scoperto che i sarcofagi reali erano in condizioni perfette e non era-
no mai stati aperti. «Avremo bisogno di dieci anni, forse venti, per svolgere uno scavo completo nella valle», annunciò Ortiz durante l'abituale conversazione del dopocena. «Nessuna scoperta nelle due Americhe è paragonabile a questa: basta già il numero di oggetti individuati a renderla straordinaria. Dovremo procedere lentamente. Non possiamo trascurare neppure il seme di un fiore o la perlina di una collana. Non dobbiamo farci sfuggire nulla: la nostra è un'occasione senza precedenti per capire meglio la cultura chachapuyana.» «Avrà parecchio da fare», commentò Pitt. «In quanto a me, mi auguro che nessuno dei tesori chachapuyani venga rubato durante la spedizione al museo nazionale.» «Quel che può andare perduto fra qui e Lima è l'ultimo dei miei pensieri», rispose Ortiz. «Il numero degli oggetti rubati nei nostri musei non è molto inferiore a quello degli oggetti sottratti dalle tombe.» «Non avete un servizio di sicurezza per proteggere i tesori del vostro Paese?» chiese Rodgers. «Naturalmente. Ma i professionisti dei furti d'arte sono molto astuti. Spesso sostituiscono un manufatto autentico con una copia perfetta. E possono trascorrere mesi o magari anni prima che il furto venga scoperto.» «Appena tre settimane fa», disse Shannon, «il Museo dell'Eredità Nazionale del Guatemala ha segnalato il furto di oggetti d'arte precolombiana per un valore stimato intorno agli otto milioni di dollari. I ladri s'erano travestiti da guardiani e avevano portato via i tesori durante l'orario di visita, come se li stessero spostando da un'ala all'altra. E nessuno aveva pensato di chiedere loro spiegazioni.» «L'episodio che preferisco», disse Ortiz senza sorridere, «è stato il furto di quarantacinque coppe della dinastia Shang del dodicesimo secolo in un museo di Pechino. I ladri smontarono con cura le vetrine e ridisposero i pezzi rimasti in modo da creare l'illusione che non mancasse niente. Passarono tre mesi prima che il curatore del museo notasse la scomparsa dei pezzi e capisse che erano stati rubati.» Gunn alzò gli occhiali e li esaminò come se volesse capire se erano appannati. «Non immaginavo che il furto fosse un'attività tanto diffusa.» Ortiz annuì. «In Perù le grandi collezioni d'arte e di oggetti antichi vengono saccheggiate con la stessa frequenza con cui vengono rapinate le banche. E il peggio è che i ladri diventano sempre più audaci. Non esitano, per esempio, a sequestrare un collezionista per ottenere il riscatto che, naturalmente, è costituito dai suoi oggetti d'arte. Ma in molti casi ammazzano
il collezionista prima di svaligiargli la casa.» «È stata una fortuna che solo una minima parte dei tesori d'arte sia stata sottratta alla Città dei Morti prima che venissero fermati i saccheggiatori», disse Pitt. «Sì, una vera fortuna. Purtroppo i pezzi più importanti sono già usciti dal Paese.» «È strano che la città non fosse stata scoperta dagli huaqueros già molto tempo fa», osservò Shannon, che evitava di guardare Pitt. «Il Pueblo de los Muertos si trova in una valle isolata, a novanta chilometri dal villaggio più vicino», rispose Ortiz. «Arrivare fin qui è un'impresa, soprattutto a piedi. Gli indigeni non avevano motivo di marciare per sette od otto giorni attraverso la giungla in cerca di qualcosa che, secondo loro, esisteva soltanto nella leggenda. Quando Hiram Bingham scoprì Machu Picchu in cima a una montagna, gli abitanti locali non vi si erano mai avventurati. E anche se questo non basterebbe a fermare un huaquero incallito, i discendenti dei Chachapuyas credono ancora che tutte le rovine oltre le montagne, nelle grandi foreste a est, siano protette da un diodemone come quello che abbiamo trovato nel pomeriggio. Hanno paura di avvicinarsi.» Shannon annuì. «Molti sono pronti a giurare che chi entra nella Città dei Morti verrà trasformato in pietra.» «Ah, sì», mormorò Giordino. «La solita storia: maledetto colui che osa disturbare le mie ossa.» «Dato che nessuno di noi si sente irrigidire», disse Ortiz in tono gioviale, «devo presumere che gli spiriti malefici di queste rovine abbiano perso il loro potere.» «È un peccato che la maledizione non sia servita a niente contro Amaru e i suoi saccheggiatori», disse Pitt. Rodgers si portò dietro a Shannon e le posò la mano sulla nuca in un gesto possessivo. «Ho saputo che domattina ci lascerete.» Sorpresa, Shannon non cercò di sottrarsi al tocco di Rodgers. «È vero?» chiese rivolgendosi a Pitt. «Ve ne andate?» Fu Gunn a rispondere. «Sì, torneremo alla nostra nave e poi raggiungeremo l'Ecuador.» «Non andrete a cercare il galeone di cui abbiamo parlato a bordo della Deep Fathom?» chiese Shannon. «Le viene in mente un posto migliore?» «Perché proprio l'Ecuador?» insistette l'archeologa.
«Ad Al piace il clima», disse Pitt battendo la mano sulla spalla di Giordino. Giordino annuì. «Ho sentito dire che le ragazze sono belle e molto disponibili.» Shannon fissò Pitt con aria interessata. «E lei?» «Io?» mormorò Pitt in tono innocente. «Io vado a pescare.» 21. «Certo che sai scegliere», disse il capo del settore Opere d'Arte Rubate dell'FBI, Francis Ragsdale, mentre sedeva su una poltroncina in un ristorante stile anni '50. Studiò la selezione del juke-box Wurlitzer. «Stan Kenton, Charlie Barnet, Stan Getz. Chi ne ha mai sentito parlare?» «Solo chi apprezza la buona musica», rispose Gaskill in tono acido. Sedette e occupò due terzi del sedile, nel suo lato del séparé. Ragsdale alzò le spalle. «Io non c'ero ancora.» A trentaquattro anni, considerava i grandi musicisti del passato come nomi vaghi citati ogni tanto dai suoi genitori. «Vieni qui spesso?» Gaskill annuì. «Il cibo qui ti va tutto in ciccia.» «Non è una raccomandazione degna di un epicureo.» Rasato di fresco, con i capelli neri ondulati e in discreta forma fisica, Ragsdale aveva i lineamenti regolari, gli occhi grigi e la scarsa espressività di un attore di soap opera che reagisce automaticamente alle battute del suo interlocutore. Era un investigatore efficiente, prendeva sul serio il suo lavoro e teneva alta l'immagine dell'FBI con un abito scuro che gli dava l'aria di un agente di cambio di Wall Street. Osservò con occhio professionale il pavimento di linoleum, gli sgabelli rotondi lungo il banco, i portatovaglioli, la pepiera e la saliera art déco parcheggiati accanto a una bottiglia di ketchup Heinz e a un vasetto di senape francese. La sua espressione rispecchiava un educato disgusto. Senza il minimo dubbio avrebbe preferito un ristorante più alla moda nel centro di Chicago. «È un posto strano. Racchiuso ermeticamente in un episodio de Ai confini della realtà.» «L'atmosfera è metà del divertimento», disse Gaskill in tono rassegnato. «Perché quando sono io che pago andiamo in un locale di classe ma quando tocca a te finiamo sempre in una specie di gerontocomio?» «Perché così mi assicuro sempre un buon tavolo.» «E la cucina?»
Gaskill sorrise. «Questo è il posto ideale per mangiare ottimi piatti di pollo.» Ragsdale gli lanciò uno sguardo da cui traspariva un certo disgusto e ignorò il menu ciclostilato e chiuso fra due fogli di plastica. «Abbandonerò la prudenza e rischierò un attacco di botulismo con una scodella di zuppa e una tazza di caffè.» «Rallegramenti per aver risolto il furto al Fairchild Museum di Scarsdale. Ho saputo che hai recuperato venti statuette di giada della dinastia Sung.» «Ventidue. Devo ammettere che avevo escluso il sospetto meno ovvio finché non ho fatto fiasco con tutti i possibili colpevoli. Il direttore della sicurezza, un vecchio di settantadue anni. Chi avrebbe pensato a lui? Lavorava nel museo da trentadue anni, e aveva precedenti immacolati come le mani appena lavate d'un chirurgo. Il curatore non voleva crederci... poi il vecchio è crollato e ha confessato. Aveva portato via le statuine una alla volta nel corso di quattro anni. Tornava dopo la chiusura, disattivava il sistema d'allarme, scassinava le serrature delle vetrine e calava la refurtiva nei cespugli dietro il museo attraverso la finestra di un bagno. Sostituiva le statuette rubate nelle vetrine con altre meno preziose, custodite in un deposito sotterraneo. E modificava anche le etichette del catalogo. Rimetteva i supporti rialzati nelle posizioni esatte senza lasciare sul fondo delle vetrine zone prive di polvere. I dirigenti del museo erano molto impressionati dalla sua tecnica.» La cameriera era l'archetipo di tutte quelle che servono al banco e ai tavoli nelle caffetterie delle piccole città o nei ristoranti per camionisti, con la matita infilata nella cuffietta, le mascelle che masticavano furiosamente una gomma e calze elastiche che nascondevano le vene varicose. Si avvicinò con il mozzicone di matita puntato su un blocco verde. «Posso chiedere qual è la zuppa del giorno?» chiese in tono altero Ragsdale. «Lenticchie al curry con prosciutto e mele.» Ragsdale restò senza fiato per un momento. «Ho sentito bene?» «Vuole che lo ripeta?» «No, no, la zuppa di lenticchie al curry va bene.» La cameriera puntò la matita verso Gaskill. «So già cosa vuole lei.» Gridò l'ordine al cuoco con una voce che sembrava un misto di vetro macinato e di ghiaia. «Che cosa, dopo trentadue anni», chiese Gaskill riprendendo la conver-
sazione, «aveva spinto il capo della sicurezza del museo a una tale orgia di furti?» «La passione per l'arte esotica», rispose Ragsdale. «Gli piaceva toccare e accarezzare le statuine quando non c'era nessuno. Ma poi il nuovo curatore, spinto dalla necessità di fare dei tagli, gli aveva ridotto lo stipendio, mentre lui si aspettava un aumento. La cosa lo ha fatto infuriare e ha scatenato il suo desiderio d'impadronirsi delle giade. È apparso evidente fin da subito che il furto poteva essere stato compiuto soltanto da una squadra di professionisti di prim'ordine o da qualcuno che agiva dall'interno. Ho puntato sul direttore della sicurezza e ho ottenuto un mandato per perquisire la sua casa. I pezzi scomparsi erano tutti sulla mensola del caminetto, come se fossero trofei vinti al bowling.» «Adesso stai lavorando a un caso nuovo?» chiese Gaskill. «Me ne hanno appena affibbiato un altro.» «Un altro furto in un museo?» Ragsdale scosse la testa. «Una collezione privata. Il proprietario è andato in Europa per nove mesi. Quando è tornato a casa, gli avevano ripulito le pareti. Otto acquerelli di Diego Rivera, un pittore messicano.» «Ho visto i murales che ha dipinto per l'Istituto d'arte di Detroit.» «Quelli dell'assicurazione hanno la bava alla bocca. Sembra che gli acquerelli siano assicurati per quaranta milioni di dollari.» «Può darsi che in questo caso dobbiamo scambiarci qualche informazione.» Ragsdale lo fissò. «Credi che potrebbe interessare la Dogana?» «C'è la remota possibilità che abbiamo un caso collegato al tuo.» «Un aiuto è sempre gradito.» «Ho visto fotografie di quelli che potrebbero essere gli acquerelli di Rivera in un mucchio di vecchi Stolen Art Bulletin: mia sorella li ha rinvenuti nella vecchia casa che ha comprato. Lo saprò con certezza quando li confronterò con il tuo elenco. Se esiste un nesso, la scomparsa di quattro dei tuoi acquerelli fu denunciata dall'università del Messico nel 1923. Se, come penso, furono introdotti di contrabbando negli Stati Uniti, allora la cosa riguarda la Dogana.» «Ma ormai è storia antica.» «No, per quanto riguarda le opere d'arte rubate», replicò Gaskill. «Otto mesi dopo, sei Renoir e quattro Gauguin sparirono dal Louvre durante una mostra.» «Stai alludendo a quel vecchio maestro dei furti d'opere d'arte? Come si
chiamava...?» «Lo Spettro», rispose Gaskill. «I nostri illustri predecessori del Dipartimento della Giustizia non riuscirono mai a prenderlo, vero?» «Non riuscirono neppure a identificarlo.» «Credi che fosse coinvolto nel primo furto dei Rivera?» «Perché no? Lo Spettro stava al furto delle opere d'arte come Raffles stava ai furti di diamanti. Ed era altrettanto teatrale. Realizzò almeno dieci dei colpi più grossi della storia, nel suo campo. Un tipo vanitoso. Lasciava sempre il suo biglietto da visita.» «Mi sembra di ricordare che era un guanto bianco», disse Ragsdale. «No, quello era Raffles. Lo Spettro lasciava un calendario sulla scena del crimine, e circolettava la data del furto successivo.» «Bisogna riconoscerlo: aveva un bel coraggio.» La cameriera portò un grosso piatto ovale e mise davanti a Gaskill anche un'insalata appetitosa. Ragsdale esaminò con aria depressa il contenuto della sua scodella, poi alzò gli occhi verso la donna. «Immagino che in questo posto non ci sia altro che birra in lattina.» La cameriera lo guardò e sorrise come una vecchia prostituta. «Tesoro, abbiamo birra in bottiglia e abbiamo anche vini. Cosa prende?» «Una bottiglia del vostro miglior Borgogna.» «Sentirò il sommelier.» La cameriera strizzò un occhio truccatissimo prima di tornare in cucina. «Avevo dimenticato di magnificare la qualità del servizio», disse Gaskill con un sorriso. Ragsdale immerse cautamente il cucchiaio nella zuppa con aria sospettosa. Poi sorbì adagio il contenuto del cucchiaio come se dovesse giudicare un vino pregiato. Alla fine guardò Gaskill e spalancò gli occhi. «Santo cielo. Sherry e cipolline, aglio, chiodi di garofano, rosmarino e tre tipi diversi di funghi. È deliziosa.» Poi sbirciò il piatto di Gaskill. «Tu cos'hai ordinato? Pollo?» Gaskill inclinò il piatto perché Ragsdale potesse vedere. «Ci sei andato vicino. È la specialità della casa. Quaglia marinata alla griglia su un letto di frumento tritato e tostato con ribes, scalogni, purè di carote e porri allo zenzero.» Ragsdale aveva l'aria di chi ha appena saputo che la moglie l'ha reso padre di tre gemelli. «Mi hai imbrogliato.» Gaskill lo guardò, un po' offeso. «Pensavo che cercassi un buon posto
per mangiare.» «Questo è fantastico. Ma dov'è la gente? Ci dovrebbe essere la fila sul marciapiede.» «Il padrone e cuoco, che fra parentesi lavorava al Ritz di Londra, il lunedì chiude la cucina.» «E ha aperto apposta per noi?» chiese sbalordito Ragsdale. «Ho recuperato la sua collezione di utensili da cucina medievali, rubati nella casa che aveva in Inghilterra e portati di contrabbando a Miami.» La cameriera tornò e mise davanti agli occhi di Ragsdale una bottiglia per mostrare l'etichetta. «Ecco qui, tesoro, Château Chantilly 1878. Ha buon gusto, ma se la sente di pagare ottomila dollari?» Ragsdale fissò la bottiglia impolverata e l'etichetta stinta e rimase senza fiato. «No, no, andrà benissimo un buon Cabernet californiano», balbettò. «Sa cosa le consiglio, tesoro? Un buon Bordeaux del 1988. Costa sui trenta dollari.» Ragsdale annuì, sempre più stordito. «Non posso crederlo.» «Penso che sia proprio ciò che mi piace in questo posto», disse Gaskill; poi s'interruppe per assaggiare la quaglia. «La sua incongruenza. Chi si aspetterebbe di trovare piatti e vini da buongustai in un locale del genere?» «È proprio un mondo a sé.» «Per tornare a quel che stavamo dicendo», continuò Gaskill mentre rimuoveva un ossicino della quaglia, «stavo per mettere le mani su un'altra delle acquisizioni dello Spettro.» «Sì, ho sentito parlare dell'incursione fallita», borbottò Ragsdale, che faticava a riportare in carreggiata i suoi pensieri. «Una mummia peruviana rivestita d'oro, no?» «L'armatura d'oro di Tiapollo.» «E cos'è andato storto?» «La scelta del momento, soprattutto. Mentre noi tenevamo d'occhio l'attico del proprietario, una banda di ladri che si spacciavano per traslocatori ha portato via la mummia dall'appartamento al piano di sotto dove era nascosta con un enorme tesoro di opere d'arte e manufatti, tutti di provenienza molto dubbia.» «Questa zuppa è eccezionale», disse Ragsdale, e cercò di attirare l'attenzione della cameriera. «Sarà meglio che dia un'altra occhiata al menu e ordini anche un secondo. Avete già preparato un inventario?» «Entro la fine della settimana. Sospetto che ci siano fra i trenta e i quaranta oggetti ricercati dall'FBI che figurano nella collezione clandestina del
mio individuo sospetto.» La cameriera portò il vino e Ragsdale ordinò salmone arrostito con granturco dolce, funghi e spinaci. «Ottima scelta, tesoro», disse la donna con voce strascicata, mentre apriva la bottiglia. Ragsdale scosse la testa, meravigliato, prima di concentrare di nuovo l'attenzione su Gaskill. «Come si chiama il collezionista che nascondeva le opere incriminate?» «Adolphus Rummel, un ricco rottamatore di Chicago. Il nome ti dice qualcosa?» «No, ma non ho mai conosciuto un grosso acquirente e collezionista clandestino di opere d'arte che spalancasse le porte di casa un po' a tutti. C'è qualche speranza che Rummel sia disposto a parlare?» «No, assolutamente», rispose Gaskill in tono di rammarico. «Ha già nominato Jacob Morganthaler come difensore e ha chiesto la restituzione degli oggetti d'arte confiscati.» «Jake il Compragiurie», commentò Ragsdale in tono disgustato. «Amico e difensore dei trafficanti e dei collezionisti di opere d'arte vendute al mercato nero.» «Con tutte le assoluzioni che ha ottenuto, possiamo ritenerci fortunati che non difenda assassini e trafficanti di droga.» «Avete qualche idea sugli autori del furto dell'armatura d'oro?» «No. Un lavoro pulito. Se non sapessi che è impossibile, direi che è opera dello Spettro.» «Non può essere stato lui, a meno che non sia risuscitato. Dovrebbe avere più di novant'anni.» Gaskill tese il bicchiere e Ragsdale versò il vino. «Supponiamo che avesse avuto un figlio o avesse fondato una dinastia per continuare la tradizione di famiglia.» «È un'idea. Però da più di cinquant'anni, nei luoghi dove avvengono furti di opere d'arte, non vengono trovati calendari con date circolettate.» «Potrebbero essersi dedicati al contrabbando e ai falsi e aver abbandonato gli effetti teatrali. I professionisti, oggi, sanno che la tecnologia investigativa moderna potrebbe facilmente trarre da quei calendari indizi sufficienti per arrivare fino a loro.» «Può darsi.» Ragsdale s'interruppe mentre la cameriera gli portava il salmone. Aspirò il profumo e ammirò estasiato la presentazione. «Spero che sia buono quanto sembra appetitoso.» «Garantisco, tesoro», sghignazzò la vecchia cameriera. «Altrimenti la
rimborsiamo.» Ragsdale finì il vino e ne versò un altro bicchiere. «Mi sembra di sentire gli ingranaggi della tua mente in piena attività. A che stai pensando?» «Chi ha commesso il furto non l'ha fatto per ottenere un prezzo superiore da un altro collezionista clandestino», rispose Gaskill. «Ho fatto qualche ricerca sull'armatura dorata della mummia. A quanto risulta era coperta di glifi che illustravano un lungo viaggio compiuto da una flotta di navi incaiche che trasportava un tesoro incomparabile, inclusa un'enorme catena d'oro. Secondo me, i ladri l'hanno presa per trovare la strada che porta al filone principale.» «L'armatura rivela che ne è stato del tesoro?» «La leggenda afferma che fu sepolto su un'isola in un mare interno. Com'è il salmone?» «Il migliore che abbia mangiato in vita mia», disse Ragsdale. «E, credimi, è un complimento. Dunque, come intendi procedere?» «È necessario tradurre le incisioni sull'armatura. Gli Inca, a differenza dei Maya, non conoscevano metodi per scrivere o illustrare gli avvenimenti, tuttavia le foto dell'armatura fatte prima del furto nel museo spagnolo confermano la presenza di un sistema pittografico. I ladri avranno bisogno della collaborazione di un esperto per decifrare i glifi, e l'interpretazione delle antiche pittografie non è un campo in cui abbondano gli specialisti.» «Hai intenzione di scovare chi sarà incaricato di questo lavoro?» «Non ci vorrà molto. Gli specialisti importanti sono cinque. E due di loro sono i Moore, marito e moglie. Sono considerati i migliori.» «Vedo che ti sei documentato a dovere.» Gaskill alzò le spalle. «La mia unica pista è l'avidità dei ladri.» «Se hai bisogno della collaborazione dell'FBI», disse Ragsdale, «devi solo farmi un fischio.» «Grazie, Francis.» «Un'altra cosa.» «Sì?» «Puoi prestarmi lo chef? Vorrei assicurarmi un tavolo per sabato sera.» 22. Dopo una breve sosta all'aeroporto di Lima per caricare il magnetometro EG&G arrivato dalla Deep Fathom a bordo di un elicottero dall'ambasciata degli Stati Uniti, Pitt, Giordino e Gunn presero un volo commerciale per
Quito, la capitale dell'Ecuador. Erano già passate le due del mattino quando atterrarono sotto un temporale. Non appena ebbero varcato i cancelli d'uscita, trovarono ad attenderli un funzionario della compagnia petrolifera statale, in rappresentanza del direttore generale al quale Gunn aveva chiesto in prestito un elicottero. Il funzionario li fece salire su una berlina che li portò sul lato opposto del campo, seguita da un furgone che trasportava i bagagli e l'attrezzatura elettronica. I due veicoli si fermarono davanti a un elicottero McDonnell Douglas Notar Explorer pronto per la partenza. Quando scesero dalla berlina, Rudi Gunn si voltò per ringraziare, ma il funzionario aveva già rialzato il vetro e ordinato all'autista di ripartire. «Fa venir voglia di condurre un'esistenza pulita», borbottò Giordino di fronte a tanta efficienza. «Avevano con noi un debito di riconoscenza ancora più grande di quanto pensassi», disse Pitt che, senza badare all'acquazzone, contemplava beato il grosso elicottero rosso bimotore senza rotore di coda. «È un buon mezzo?» chiese ingenuamente Gunn. «Uno dei migliori oggi in attività», rispose Pitt. «Solido, affidabile ed efficiente. Costa più di due milioni di dollari. Non avremmo potuto chiedere un apparecchio migliore per svolgere un programma di ricerca e rilevamento.» «La baia di Caraquez è molto lontana?» «Più o meno duecentodieci chilometri. Con questo possiamo arrivarci in meno di un'ora.» «Mi auguro che non abbiate intenzione di sorvolare un territorio sconosciuto al buio e durante una tempesta tropicale», disse preoccupato Gunn che cercava di ripararsi dalla pioggia con un giornale. Pitt scosse la testa. «No, aspetteremo le prime luci.» Giordino indicò l'elicottero. «Non mi sembra il caso di fare la doccia con i vestiti addosso. Vi consiglio di caricare a bordo il bagaglio e l'attrezzatura elettronica e di dormire qualche ora.» «È il suggerimento migliore che ho sentito in tutta la giornata», approvò Pitt. Dopo aver caricato il materiale, Giordino e Gunn inclinarono all'indietro gli schienali di due dei sedili per i passeggeri, e si addormentarono quasi subito. Pitt prese posto sul sedile del pilota sotto una piccola lampada e studiò i dati forniti da Perlmutter e Yaeger. Era troppo emozionato per sentire la stanchezza, soprattutto alla vigilia della ricerca di un antico relitto. Molti uomini si trasformano da Jeckyll in Hyde ogni volta che pensano a
una caccia al tesoro. Ma lo stimolo di Pitt non era l'avidità; era la sfida d'inoltrarsi nell'ignoto seguendo una pista tracciata da uomini audaci quanto lui, vissuti e morti in un'altra epoca, uomini che avevano lasciato in eredità alle generazioni successive un mistero da svelare. Chi erano gli uomini a bordo delle navi del sedicesimo secolo? si chiedeva. Oltre al fascino dell'avventura e alla remota prospettiva di arricchirsi, cosa li spingeva a intraprendere viaggi che a volte duravano tre anni o più, a bordo di navi non molto più grandi di una modesta casetta suburbana a due piani? Lontani dalla terraferma per mesi interi, con i denti che cadevano a causa dello scorbuto, venivano decimati dalla sottoalimentazione e dalle malattie. Molti viaggi erano portati a termine dai soli ufficiali, sopravvissuti grazie a razioni di cibo più abbondanti di quelle riservate ai comuni marinai. Degli ottantotto uomini che erano a bordo del Golden Hind quando Drake aveva affrontato lo stretto di Magellano per raggiungere il Pacifico, ne rimanevano appena cinquantasei quando era entrato nel porto di Plymouth. Pitt pensò al Nuestra Señora de la Concepción. Perlmutter gli aveva inviato illustrazioni e planimetrie di un tipico galeone del tesoro usato dagli Spagnoli nel sedicesimo e nel diciassettesimo secolo. A Pitt interessava soprattutto la quantità di ferro che c'era a bordo e che il magnetometro avrebbe potuto segnalare. Perlmutter era certo che i due cannoni del Concepción fossero di bronzo e quindi non sarebbero stati rilevati da uno strumento che misurava l'intensità del campo magnetico prodotto da una massa di ferro. Il galeone aveva quattro ancore. Fusi, marre e patte erano di ferro ma i ceppi erano di legno, e le ancore erano assicurate da gomene di canapa, non da catene. Se il galeone ne aveva usate due, era probabile che la violenza dell'onda anomala che l'aveva investito e scagliato sulla terraferma avesse spezzato i cavi. Restava la remota possibilità che le due ancore di scorta fossero rimaste intatte e si trovassero ancora nel relitto. Pitt fece il calcolo del resto del ferro che poteva trovarsi a bordo. Le attrezzature degli alberi, le femminelle e gli agugliotti che tenevano il timone e gli permettevano di girare. Le trozze che contribuivano a sostenere i pennoni, i maniglioni e i grappini. Il paiolo della cambusa, gli attrezzi del carpentiere, un barile di chiodi, piccole armi da fuoco, spade e picche. Palle per i cannoni. Era un tentativo alla cieca. Pitt non era un'autorità in fatto di velieri cinquecenteschi. Poteva solo affidarsi alla stima di Perlmutter per quanto ri-
guardava la massa totale del ferro a bordo del Concepción. L'ipotesi più credibile oscillava fra una e tre tonnellate. Pitt si augurava che bastasse perché il magnetometro individuasse l'anomalia rappresentata dal galeone da una quota fra i cinquanta e i settantacinque metri. Se la quantità era minore, le probabilità di trovare il galeone sarebbero state identiche a quelle di trovare una bottiglia con un messaggio nel mezzo del Pacifico meridionale. Erano quasi le cinque del mattino e il cielo azzurrino si colorava di arancio sopra le montagne a est quando Pitt portò il McDonnell Douglas Notar Explorer sopra le acque della baia di Caraquez. I pescherecci stavano uscendo dalla baia per avventurarsi al largo. Gli uomini che preparavano le reti si fermavano, alzavano gli occhi verso l'elicottero che passava a bassa quota e facevano cenni con le mani. Pitt rispose ai saluti mentre l'ombra dell'Explorer sfrecciava sulla piccola flotta da pesca e si dirigeva verso la costa. L'azzurro cupo e radioso dell'acqua profonda si mutò in un verde turchese, striato dalle lunghe linee dei frangenti che si materializzavano là dove il fondale saliva verso la spiaggia sabbiosa. I lunghi bracci della baia si arrestavano a poca distanza l'uno dall'altro alla foce del fiume Chone. Giordino, seduto al posto del copilota, indicò sulla destra una cittadina dalle viuzze strette e dalle barche colorate tirate in secco. Era circondata da numerose fattorie con poderi di un ettaro o poco più, casette di adobe intonacate di bianco, recinti che ospitavano capre e qualche mucca. Pitt seguì il fiume verso monte per due chilometri, fino al punto in cui spumeggiava fra le rapide. All'improvviso, la fitta foresta pluviale si erse come un muro impenetrabile e si estese a perdita d'occhio verso est. Oltre al fiume, non si scorgevano altre aperture in mezzo agli alberi. «Ci stiamo avvicinando alla metà inferiore della nostra griglia», disse Pitt girando la testa verso Gunn che stava curvo sul magnetometro a protoni. «Vola in cerchio per un paio di minuti mentre regolo il sistema», rispose Gunn. «Al, puoi calare il sensore?» «Come vuoi», replicò Giordino. Si alzò e andò in fondo alla cabina. Pitt annunciò: «Mi dirigo verso il punto di partenza del nostro primo passaggio. Aspetterò che tu sia pronto». Giordino sollevò il sensore che aveva la forma di un missile aria-aria. Lo calò attraverso una botola, quindi fece scorrere il cavo. «Ho filato circa trenta metri», annunciò.
«Registro le interferenze dell'elicottero», disse Gunn. «Dammi altri venti metri.» Giordino obbedì. «Adesso come va?» «Bene. Aspetta un momento mentre attivo il registratore digitale e l'analogico.» «E la telecamera e i sistemi di acquisizione dati?» «Anche quelli.» «Non abbiamo nessuna fretta», disse Pitt. «Sto ancora programmando i dati della mia griglia nel computer per la navigazione satellitare.» «È la prima volta che usi un Geometrics G-813G?» chiese Giordino a Gunn. Gunn annuì. «Ho usato il modello G-801 per i rilevamenti marini e oceanici, ma è la prima volta che mi trovo alle prese con l'unità aerea.» «Io e Dirk abbiamo usato un G-813G per localizzare un aereo di linea cinese precipitato l'anno scorso al largo del Giappone. Funzionava a meraviglia: sensibile, affidabile, senza bisogno di aggiustamenti di calibratura. Era veramente la mia donna ideale.» Gunn gli lanciò un'occhiata. «Hai gusti un po' strani in fatto di donne.» «Ha una passione per i robot», commentò scherzosamente Pitt. «Non dire altro.» Giordino scrollò le spalle. «Non dire altro.» «Pare che questo modello sia in grado di fornire dati precisi sulle piccole anomalie», disse Gunn ridiventando serio. «Se non ci porterà al Concepción, nient'altro al mondo potrà riuscirci.» Giordino tornò a sedere al posto del copilota e abbassò lo sguardo sull'ininterrotta coltre verde duecento metri sotto di lui. Non si vedeva un solo tratto di terreno scoperto. «Non credo che mi piacerebbe passare qui le vacanze.» «Non piace quasi a nessuno», ridacchiò Pitt. «Secondo Julien Perlmutter, uno studio negli archivi storici locali ha confermato che gli agricoltori locali evitano la zona. Julien riferisce che il diario di Cuttill parla delle mummie degli inca strappate ai cimiteri dall'onda anomala e trascinate nella giungla. Gli indigeni sono molto superstiziosi e credono che gli spiriti dei loro antenati si aggirino ancora oggi nella giungla in cerca delle antiche tombe.» «Puoi incominciare il primo passaggio», annunciò Gunn. «Tutti i sistemi sono in funzione.» «A che distanza dalla costa dobbiamo cominciare a falciare il prato?» chiese Giordino, alludendo alle fasce di settantacinque metri della griglia
che intendevano coprire. «Cominceremo al segno dei tre chilometri e procederemo paralleli alla costa», rispose Pitt. «Effettueremo i percorsi a nord e a sud via via che ci addentriamo verso l'interno.» «Lunghezza dei percorsi?» chiese Gunn mentre guardava il pennino che scorreva sulla carta millimetrata e i numeri che lampeggiavano sul display digitale. «Due chilometri alla velocità di venti nodi.» «Possiamo andare molto più veloci», disse Gunn. «Il sistema magnetico ha un ciclo molto rapido. Può scoprire facilmente una anomalia anche a cento nodi.» «Sì, ma ce la prenderemo con calma», sentenziò Pitt. «Se non sorvoleremo direttamente l'obiettivo, il campo magnetico che speriamo di trovare non lascerà un'impressione degna di nota sulle letture gamma.» «E se non riscontreremo nessuna anomalia, allargheremo i perimetri della griglia.» «Giusto. Faremo una ricerca da manuale. L'abbiamo già fatto tante volte che ho perso il conto.» Poi Pitt lanciò un'occhiata a Giordino. «Al, bada tu alla nostra altitudine mentre mi concentro sulle coordinate dei percorsi.» Giordino annuì. «Terrò l'elicottero basso per quanto è possibile senza andare a sbattere contro i rami di un albero.» Intanto il sole era sorto e nel cielo c'erano soltanto poche nuvolette sfilacciate. Pitt diede un'ultima occhiata agli strumenti e annuì. «Bene, amici, vediamo un po' se riusciamo a trovare un bel relitto.» Volarono avanti e indietro sopra la giungla fittissima. L'impianto di condizionamento teneva all'esterno l'aria calda e umida. Le ore passavano. A mezzogiorno non avevano ancora concluso nulla. Il magnetometro non dava segnali. Per chi non avesse mai cercato un oggetto invisibile, la situazione sarebbe parsa scoraggiante, ma Pitt, Giordino e Gunn non erano granché afflitti. Avevano preso parte a ricerche di navi o aerei perduti durate fino a sei settimane senza la minima indicazione di successo. Inoltre, Pitt teneva a seguire con rigore il piano. Sapeva per esperienza personale che l'impazienza e le deviazioni dai percorsi di ricerca precalcolati di solito finivano in un disastro. Anziché incominciare dal centro della griglia per poi procedere verso l'esterno, preferiva partire dall'orlo estremo e muoversi verso il centro. Troppe volte un obiettivo era stato scoperto proprio là dove si era stati convinti che non ci fosse. Inoltre, per praticità,
tendeva a eliminare i tratti aridi e scoperti in modo da non perdere tempo a rifare i percorsi già battuti. «Che area abbiamo coperto?» chiese Gunn, per la prima volta da quando era incominciata la ricerca. «Ci siamo addentrati di due chilometri nella griglia», rispose Pitt. «Solo adesso stiamo arrivando all'area indicata da Yaeger come obiettivo primario.» «Allora stiamo per seguire linee parallele a cinque chilometri dalla costa del 1578.» «Sì, la distanza alla quale la tsunami portò il galeone, secondo il computer di Yaeger.» «Abbiamo carburante ancora per tre ore», annunciò Giordino, battendo le dita sugli indicatori. Non sembrava stanco o annoiato; anzi, aveva l'aria di divertirsi. Pitt prese da una tasca laterale del sedile una tabella con una carta e la studiò per qualche secondo. «Il porto di Manta è appena a cinquantacinque chilometri da qui. C'è un aeroporto dove potremo fare rifornimento.» «A proposito di rifornimenti», dichiarò Gunn, «io ho fame.» Dato che era il solo ad avere le mani libere, distribuì i sandwich e il caffè forniti premurosamente dalla squadra manutenzione della compagnia petrolifera. «Il formaggio ha un sapore strano», borbottò Giordino, esaminando con aria cinica l'interno del suo sandwich. Gunn sogghignò. «Non siamo in condizioni di fare gli schizzinosi.» Dopo due ore e quindici minuti avevano terminato i ventotto percorsi necessari per coprire i chilometri cinque e sei. E adesso sì che avevano un problema: il sito indicato da Yaeger era stato infatti superato. Nessuno di loro credeva che una tsunami potesse trasportare una nave da cinquecentosettanta tonnellate per più di cinque chilometri nell'entroterra. Non poteva certo averlo fatto un'onda con un'altezza inferiore ai trenta metri. La loro sicurezza incominciò ad affievolirsi via via che si allontanavano dall'area indicata come più probabile. «Incomincio il primo percorso partendo dal segno dei sette chilometri», annunciò Pitt. «Troppo lontano, troppo lontano», borbottò Giordino. «Sono d'accordo», disse Gunn. «O ci siamo fatti sfuggire la nave, oppure si trova oltre il perimetro nord o sud della griglia. È inutile perdere altro tempo qui.» «Finiremo il chilometro sette», disse Pitt, con lo sguardo fisso sullo
strumento che mostrava le coordinate. Gunn e Giordino sapevano che non era il caso di discutere. Quando Pitt decideva qualcosa era impossibile smuoverlo. Nutriva un'assoluta convinzione che il ritrovamento della vecchia nave spagnola fosse ancora possibile, nonostante la densità della vegetazione e i quattro secoli trascorsi. Giordino continuava a tenere l'elicottero all'altitudine giusta perché il sensore sfiorasse le cime degli alberi, mentre Gunn non perdeva d'occhio la carta millimetrata e i dati digitali. Cominciavano ad avere la sensazione di non aver ricevuto le carte migliori e si preparavano a una partita lunga e ardua. Per fortuna le condizioni meteorologiche erano favorevoli. Il cielo era sempre sereno, e solo ogni tanto una nuvola passava sopra di loro; il vento si manteneva costante da ovest, a cinque nodi. La monotonia era immutabile come il tempo. Sotto di loro la foresta scorreva come un mare pieno d'alghe. Là sotto non viveva neppure un essere umano. Le giornate prive di sole non finivano mai. Il clima caldo e umido faceva sbocciare i fiori, cadere le foglie e maturare i frutti durante tutto l'anno. Era raro scorgere un punto dove il sole filtrava fra i rami degli alberi e toccava il suolo. «Segna!» esclamò all'improvviso Gunn. Pitt reagì trascrivendo le coordinate. «Hai trovato qualcosa?» «Ho registrato un piccolo sobbalzo sui miei strumenti. Non è molto, ma senza dubbio è un'anomalia.» «Dobbiamo tornare indietro?» chiese Giordino. Pitt scosse la testa. «Terminiamo il percorso e vediamo se al prossimo passaggio riceveremo un segnale più forte.» Nessuno disse una parola mentre completavano il percorso, viravano di centottanta gradi e tornavano indietro settantacinque metri più a est. Pitt e Giordino non resistettero alla tentazione di lanciare un'occhiata alla foresta pluviale nella speranza di scorgere una traccia del relitto; ma sapevano che era quasi impossibile vedere qualcosa attraverso la vegetazione fittissima. Quella giungla era davvero terribile nella sua monotona bellezza. «Stiamo arrivando di fronte al segno», annunciò Pitt. «Adesso lo stiamo superando.» Il sensore, che in quel momento descriveva un arco dietro l'elicottero, ritardò leggermente prima di sorvolare il punto dove Gunn aveva riscontrato l'anomalia. «Ecco!» esclamò quest'ultimo, emozionato. «Promette bene. I numeri salgono. Su, bellezza, sotto con le lettere gamma.» Pitt e Giordino si accostarono ai finestrini e guardarono in basso, ma vi-
dero solo una fitta coltre di alberi altissimi che si ergevano in gallerie a ripiani. Non occorreva molta immaginazione per capire che la foresta pluviale era pericolosa. Appariva silenziosa e letale. Potevano soltanto cercare d'indovinare i pericoli che stavano in agguato in quelle ombre minacciose. «Abbiamo un bersaglio», disse Gunn. «Non è una massa solida, ma dati sparsi... come mi aspetterei da vari pezzi di ferro sparpagliati in una nave naufragata.» Con un gran sorriso, Pitt si tese e batté leggermente un pugno sulle spalle di Giordino. «Mai avuto dubbi.» Giordino sorrise a sua volta. «Doveva essere un'onda straordinaria per trascinare la nave nell'entroterra per sette chilometri.» «Probabilmente era alta poco meno di cinquanta metri», calcolò Pitt. «Puoi portarci su una rotta est-ovest, in modo che possiamo bisecare l'anomalia?» chiese Pitt. «Agli ordini.» Pitt portò l'Explorer verso ovest in una stretta virata che sconvolse lo stomaco di Gunn. Dopo mezzo chilometro, si spostò a lato e regolò le coordinate per passare sopra il bersaglio dalla nuova direzione. Questa volta le letture mostrarono un leggero aumento e si protrassero un po' più a lungo. «Credo che l'abbiamo sorvolato da prua a poppa», disse Gunn. «Il posto dev'essere questo.» «Sicuro», confermò allegramente Giordino. Pitt posizionò l'elicottero in volo a punto fisso mentre Gunn forniva indicazioni per cercare le letture più intense del magnetometro che avrebbero indicato come l'Explorer si trovasse direttamente sopra il relitto. «Spostati di venti metri a dritta. Adesso trenta metri indietro. No, troppo. Dieci metri avanti. Fermo. Così. Ci siamo. Adesso potremmo tirargli un sasso.» Giordino strappò l'anello di un candelotto fumogeno e lo lanciò con noncuranza dal finestrino. L'ordigno cadde in mezzo al fogliame e scomparve. Qualche secondo più tardi una nube di fumo color arancio incominciò a levarsi sopra gli alberi. «Il posto è segnalato», disse allegramente. «Non posso dire di essere entusiasta dell'idea di una scarpinata.» Pitt lo guardò. «E chi ha parlato di camminare per sette chilometri in quell'incubo botanico?» Giordino gli lanciò un'occhiata interrogativa. «E come pensi di arrivare al relitto?» «Questo prodigio della tecnologia aeronautica ha un verricello. Puoi calarmi fra gli alberi.»
Giordino sbirciò il fitto manto della foresta pluviale. «Finirai impigliato nei rami e non riusciremo a tirarti su.» «Non preoccuparti. Ho controllato il ripostiglio degli attrezzi prima di partire da Quito. Qualcuno è stato così previdente da fornirci un machete. Posso restare appeso a un'imbracatura e aprirmi un varco per scendere e per risalire.» «Non funzionerà», borbottò Giordino con una sfumatura di preoccupazione nella voce. «Non abbiamo carburante sufficiente per aspettarti mentre giochi a fare Tarzan e per raggiungere poi l'aeroporto di Manta.» «Non pretendo che mi aspettiate sul marciapiede. Quando sarò arrivato a terra, proseguite per Manta, fate rifornimento e tornate a prelevarmi.» «Può darsi che debba girare un po' prima di trovare il relitto. E sarà impossibile scorgerti dall'alto. Come faremo a sapere dove dovremo calare l'imbracatura?» «Porterò con me un paio di fumogeni e li userò quando vi sentirò tornare.» L'espressione di Giordino era tutt'altro che allegra. «Immagino che sia impossibile convincerti a rinunciare a questa pazzia.» «Già, è impossibile.» Dieci minuti più tardi, Pitt aveva indossato un'imbracatura di sicurezza agganciata a un cavo avvolto sul verricello montato sul tettuccio della cabina dell'elicottero. Mentre Giordino scendeva appena al di sopra delle cime degli alberi, Gunn azionava i comandi del verricello. «Non dimenticate di portare una bottiglia di champagne per festeggiare», gridò Pitt mentre usciva dal portello e restava sospeso nel vuoto. «Dovremmo essere di ritorno fra due ore», gridò Gunn fra il rombo dei motori. Premette il pulsante della discesa, e Pitt passò al di sotto dei pattini dell'elicottero e poco dopo sparì nella vegetazione fittissima come se si fosse tuffato in un oceano verde. 23. Mentre stava appeso all'imbracatura di sicurezza, con il machete stretto nella destra e una radio portatile nella sinistra, Pitt aveva quasi la sensazione di calarsi ancora una volta nella mucillagine verde del pozzo sacrificale. Non sapeva bene a quale altezza dal suolo si trovava, ma stimava che la distanza dal tetto della foresta alla base fosse almeno una cinquantina di metri.
Vista dall'alto, la foresta pluviale sembrava una massa caotica di vegetazione. I tronchi degli alberi più alti erano assediati da fitti strati di piante più basse che cercavano un po' di luce solare. I ramoscelli e le foglie più vicini al sole ondeggiavano nel flusso d'aria causato dal rotore dell'elicottero e assumevano l'aspetto di un oceano inquieto. Pitt si coprì gli occhi con un braccio mentre scendeva lentamente attraverso il primo strato della coltre verde, sfiorando i rami di un mogano altissimo carico di fiorellini bianchi. Usava i piedi per respingere agilmente le fronde più fitte. Un'ondata di vapore ascendente, causata dal calore solare, saliva dal terreno ancora invisibile. Dopo l'aria condizionata a bordo dell'elicottero, Pitt cominciò quasi subito a sudare. Mentre scostava affannosamente un ramo che stava per incunearsi fra le sue gambe, spaventò un paio di scimmie-ragno che schizzarono ciangottando verso la parte opposta dell'albero. «Hai detto qualcosa?» chiese Gunn attraverso la radio. «Ho disturbato due scimmie che facevano la siesta», rispose Pitt. «Vuoi che rallenti la discesa?» «No, va bene così. Ho attraversato il primo strato di alberi. Adesso, a quanto sembra, sto scendendo in mezzo agli allori.» «Avvertimi se vuoi che ti sposti», disse Giordino. «No, mantieni la posizione», ribatté Pitt. «Se mi spostassi potresti ingarbugliare il cavo e lasciarmi appeso quassù fino alla fine dei miei giorni.» Pitt si addentrò in un labirinto ancora più fitto di rami e riuscì a tagliare rapidamente un passaggio con il machete senza essere costretto a ordinare a Gunn di ridurre la velocità della discesa. Stava invadendo un mondo visto da pochi uomini, un mondo ricco di bellezza e di pericoli. Immense piante rampicanti, nella ricerca affannosa della luce, si avvolgevano agli alberi più alti; alcune avvinghiavano gli ospiti con ventose e uncini, mentre altre si attorcigliavano come cavatappi. Il muschio drappeggiava i rami come le ragnatele nella cripta d'un film dell'orrore. Ma la bellezza non mancava. Enormi ghirlande di orchidee salivano verso il cielo come file di lampadine su un albero di Natale. «Vedi il terreno?» chiese Gunn. «Non ancora. Prima dovrò attraversare un alberello che sembra una specie di palma carica di pesche selvatiche. Poi dovrò schivare un intrico di tralci pendenti.» «Mi pare che si chiamino liane.» «La botanica non è mai stata la mia materia preferita.»
«Potresti abbrancarne una e fare Tarzan», commentò Gunn per introdurre un po' d'ironia in una situazione potenzialmente pericolosa. «Solo se vedessi Jane...» Gunn si tese quando Pitt s'interruppe all'improvviso. «Cos'è successo? Tutto bene?» Quando Pitt rispose, la sua voce era un bisbiglio. «Stavo per afferrare qualcosa che mi sembrava una liana robusta. Invece era un serpente grosso come un tubo di scarico e con una bocca degna di un alligatore.» «Di che colore?» «Nero a macchie giallobrune.» «Un boa constrictor», spiegò Gunn. «Potrebbe abbracciarti stretto, ma non è velenoso. Accarezzagli la testa da parte mia.» «Un corno», sbuffò Pitt. «Se si azzarda a guardarmi di traverso, farà la conoscenza con Madame LaFarge.» «Con chi?» «Il mio machete.» «Cos'altro vedi?» «Diverse farfalle meravigliose, una quantità d'insetti che sembrano di un altro pianeta, e un pappagallo troppo timido per chiedere un biscotto. I fiori che crescono nelle crepe della corteccia degli alberi sono così grossi da non credere. Ci sono violette grandi come la mia testa.» La conversazione s'interruppe mentre Pitt si apriva un varco attraverso un albero basso con i rami molto fitti. Sudava come un pugile all'ultimo round di un incontro per il titolo mondiale, e i suoi indumenti erano fradici a causa dall'umidità che aderiva al fogliame. Alzando il machete, sfiorò con il braccio una liana spinosa che lacerò la manica della camicia e gli ferì l'avambraccio come le unghie d'un gatto. Per fortuna i tagli non erano profondi né dolorosi, e lui non vi fece gran caso. «Ferma l'argano», disse quando sentì il terreno sotto i piedi. «Sono arrivato.» «C'è qualche traccia del galeone?» chiese Gunn in tono ansioso. Pitt non rispose subito. Mise il machete sotto il braccio e girò su se stesso, guardandosi intorno mentre sganciava l'imbracatura di sicurezza. Era come trovarsi sul fondo di un oceano frondoso. C'era pochissima luce, ed era molto simile a quella che un sub poteva incontrare a sessanta metri di profondità. La vegetazione fittissima escludeva quasi tutto lo spettro dei colori dalla poca luce che arrivava fino a lui, e lasciava soltanto il verde e l'azzurro mescolati al grigio.
Pitt rimase piacevolmente sorpreso nel vedere che, al livello del suolo, la foresta pluviale non era intransitabile. A parte un tappeto soffice di foglie e rametti decomposti, il terreno era relativamente libero; non c'erano i mucchi di vegetazione muffiti che si aspettava. Adesso che si trovava in quell'abisso senza sole capiva perché erano assai rare le piante che crescevano vicino a terra. «Non vedo niente che somigli allo scafo di una nave», disse. «Niente centine, niente travature, niente chiglia.» «Un fiasco», sbottò Gunn con una sfumatura di disappunto nella voce. «Il magnetometro deve aver individuato un deposito naturale di ferro.» «No», rispose Pitt, sforzandosi di mantenere un tono calmo. «Questo non posso dirlo.» «E cosa puoi dire?» «I funghi, gli insetti e i batteri che popolano questo posto hanno banchettato con tutte le componenti organiche della nave. Non è sorprendente, se pensate che hanno avuto a disposizione quattro secoli per divorarla fino alla chiglia.» Gunn tacque senza capire. Poi gli sembrò di essere colpito da un fulmine. «Oh, mio Dio!» esclamò. «L'abbiamo trovata. Sei esattamente sul relitto del galeone.» «Esattamente al centro.» «E tutte le tracce dello scafo sono scomparse?» chiese Giordino. «Quello che resta è coperto da muschio e humus, ma credo di scorgere qualche vaso di ceramica, qualche palla da cannone, un'ancora e un piccolo mucchio di pietre usate come zavorra. Sembra un vecchio accampamento con gli alberi che crescono nel mezzo.» «Dobbiamo restare?» chiese Giordino. «No, correte a Manta e fate rifornimento. Io cercherò il cofanetto di giada in attesa del vostro ritorno.» «Possiamo lanciarti qualcosa?» «Non dovrei aver bisogno di niente, a parte il machete.» «Hai ancora i fumogeni?» chiese Giordino. «Due, agganciati alla cintura.» «Usane uno non appena ci senti.» «Non temere», lo tranquillizzò Pitt. «Non ho nessuna intenzione di cercare di uscire a piedi da questo posto.» «Ci vediamo fra due ore», disse Gunn, euforico.
«Cercate di essere puntuali.» In un momento diverso e in circostanze diverse Pitt si sarebbe sentito un po' depresso mentre il rumore del McDonnell Douglas Notar Explorer svaniva in lontananza e lo lasciava nell'atmosfera pesante della foresta pluviale. Ma lo rincuorava sapere che, a poca distanza dal punto dove si trovava, sepolta in un antico mucchio di rottami, c'era la chiave di un tesoro immenso. Tuttavia non si mise a scavare freneticamente. Invece passò fra i resti sparsi del Concepción e studiò la loro posizione. Era quasi in grado di ricostruire i contorni originali dalla forma dei mucchi dei rottami. L'asta e una patta di un'ancora che spuntavano dall'humus sotto le foglie cadute più di recente indicavano l'ubicazione della prua. Non pensava che Thomas Cuttill avesse riposto il cofanetto di giada nella stiva. Drake l'aveva destinato alla regina, quindi era lecito pensare che Cuttill lo avesse tenuto vicino, probabilmente nella grande cabina di poppa occupata dal comandante della nave. Mentre passava fra i rottami e liberava con il machete qualche piccolo tratto, Pitt trovò alcuni oggetti appartenuti ai marinai, ma neppure un osso. Quasi tutti gli uomini erano stati strappati alla nave dall'onda del maremoto. Scorse qualche paio di scarpe di cuoio ammuffite, manici d'osso di coltelli le cui lame erano state distrutte dalla ruggine, ciotole di ceramica, un paiolo di ferro annerito. Incominciò a preoccuparsi quando si rese conto della scarsità delle reliquie. Era possibile che il relitto fosse già stato trovato e saccheggiato. Prese dall'interno della camicia un sacchetto di plastica, ne aprì un'estremità e tirò fuori le illustrazioni e le planimetrie di un tipico galeone del tesoro che Perlmutter aveva trasmesso via fax. Le utilizzò come guida e, misurando con cura i passi, giunse a quella che doveva essere la parte della stiva in cui era stato riposto il carico di maggior valore. Si mise quindi al lavoro per rimuovere quello che immaginava fosse uno spesso strato di humus. In realtà non superava i dieci centimetri. Gli bastò scostare con le mani le foglie decomposte per scoprire diverse teste di pietra e statue intere di varia grandezza. Dovevano essere divinità animali. Un sospiro di sollievo gli sfuggì dalle labbra quando si accorse che il carico del galeone era rimasto intatto. Scostò un tratto di liana marcia caduta dagli alberi e scoprì altre dodici sculture: tre erano a grandezza naturale. Nella luce spettrale, la muffa verde che le ricopriva le faceva sembrare cadaveri risorti dalla tomba. Un mucchio di vasi e di effigi d'argilla non aveva resistito altrettanto bene a quattro secoli di umidità: quelli che erano relativamente intatti si sgretola-
vano quando Pitt li toccava. I tessuti che avevano fatto parte del tesoro erano marciti, ridotti in pochi ammassi di muffa nera. Pitt scavò a profondità maggiore, spezzandosi le unghie e incrostandosi le mani di viscidume. Trovò un mucchio di giade scolpite con cura ed eleganza: i pezzi erano così numerosi che ne perse il conto. C'erano anche mosaici di madreperla e turchese. Pitt si fermò e si asciugò il sudore con l'avambraccio. Quella ricchezza avrebbe scatenato un putiferio, pensò. Immaginava le battaglie legali e le macchinazioni diplomatiche che sarebbero scoppiate fra gli archeologi e i funzionali del governo ecuadoriano. Questi ultimi avrebbero sostenuto che i manufatti appartenevano all'Ecuador per diritto di possesso, mentre i loro colleghi peruviani avrebbero preteso la restituzione di tutto. E comunque si risolvessero le cose, c'era un'unica certezza: nessuno di quei capolavori dell'arte incaica sarebbe finito su uno scaffale in casa di Pitt. Diede un'occhiata all'orologio. Era passata più di un'ora da quando si era calato in mezzo agli alberi. Lasciò la massa caotica di oggetti antichi e continuò a procedere verso quella che un tempo era stata la cabina del comandante, nella poppa del galeone. Mentre sferrava colpi con il machete per scostare la vegetazione morta da un mucchio di rottami, la lama urtò all'improvviso un oggetto metallico. Pitt scostò le foglie con i piedi e si accorse di aver inciampato su uno dei due cannoni della nave. La canna di bronzo s'era ricoperta da molto tempo di una spessa patina verde e la bocca era piena di humus accumulatosi nei secoli. Ormai Pitt non sapeva più dove finiva il sudore e dove incominciava l'umidità della foresta. Era come lavorare in un bagno a vapore, senza contare il tormento dei minuscoli insetti che sciamavano intorno alla testa e alla faccia. Le liane cadute gli si avvolgevano intorno alle caviglie, e per due volte scivolò sulle piante bagnate e cadde. Uno strato di terriccio argilloso e di foglie marce gli aderì al corpo e gli conferì l'aspetto di un mostro uscito da una palude stregata. L'atmosfera fumante gli minava le forze, e doveva lottare contro la tentazione fortissima di sdraiarsi su un mucchio soffice di foglie e di addormentarsi, una tentazione che sparì di colpo quando vide un ripugnante crotalo nero che serpeggiava su un mucchio di pietre da zavorra. Il crotalo nero è il più grosso dei serpenti velenosi delle Americhe: lungo tre metri, rosa e nocciola con grandi chiazze romboidali, è letale. Pitt gli girò al largo e si guardò intorno per evitare gli eventuali parenti al seguito del rettile. Comprese di essere nell'area giusta quando scoprì i grossi agugliotti e le
femminelle, ormai completamente arrugginiti, che un tempo servivano a reggere e a far girare il timone. Urtò con il piede qualcosa sepolto nella terra, una banda circolare di ferro lavorato non meglio identificabile. Quando si chinò per vedere meglio scorse le schegge di vetro. Controllò le illustrazioni di Perlmutter e riconobbe l'oggetto... Era la lanterna di poppa. I pezzi del timone e la lampada gli rivelavano che si trovava su quella che era stata la cabina del comandante. Incominciò ansiosamente la ricerca del cofanetto di giada. Dopo aver cercato carponi per quaranta minuti trovò un calamaio, due calici e i resti di alcune lampade a olio. Senza fermarsi per riposare, scostò meticolosamente un mucchietto di foglie e si trovò a fissare un occhio verde che pareva guardarlo attraverso il terriccio umido. Si asciugò le mani sui pantaloni, prese un fazzolettone dalla tasca e pulì delicatamente i contorni dell'occhio. Una faccia umana scolpita con arte in un blocco di giada divenne visibile. Pitt trattenne il respiro. Dominò l'entusiasmo e scavò intorno al volto impassibile quattro piccole trincee abbastanza profonde. Allora non ci furono più dubbi. Era un cofanetto, grande all'incirca quanto una batteria da dodici volt per automobile. Quando lo ebbe portato completamente alla luce, lo estrasse dalla terra umida in cui era rimasto dal 1578 e se lo mise fra le gambe. Rimase a contemplarlo per una decina di minuti. Aveva paura di sollevare il coperchio e di trovare all'interno soltanto marciume. Con grande trepidazione prese da una tasca un coltello svizzero, aprì la lama più sottile e cominciò a forzare il coperchio. Il cofanetto era chiuso così saldamente che Pitt si vide costretto a spostare di continuo la lama, sollevando ogni lato d'una frazione di millimetro prima di proseguire. Dovette fermarsi due volte per asciugarsi il sudore che gli colava negli occhi. Alla fine il coperchio si disincastrò. Pitt afferrò la faccia per il naso, la sollevò e sbirciò all'interno. L'interno era rivestito di cedro e conteneva qualcosa che gli sembrava una massa piegata di funicelle multicolori annodate. Molte erano sbiadite, tuttavia erano rimaste intatte e i colori si distinguevano ancora. Non riusciva a credere che fossero così ben conservate. Però, dopo averle studiate più attentamente, si accorse che non erano di cotone o di lana, bensì di metallo colorato. «Ci siamo!» gridò, mettendo in fuga una quantità di ara macao che s'involarono nella foresta con un coro di strida. «Il quipu di Drake.» Strinse a sé il cofanetto con la tenacia irriducibile di uno Scrooge che ri-
fiuta un'offerta benefica in occasione del Natale, e andò a sedere su un albero caduto abbastanza asciutto. Guardò la faccia di giada e si chiese se era possibile risolvere l'enigma del quipu. Secondo il dottor Ortiz, l'ultima persona capace di leggere i fili annodati era morta quattrocento anni prima. Si augurava fervidamente che il formidabile computer di Yaeger potesse sfidare il tempo e chiarire il mistero. Era ancora seduto in mezzo agli spettri dei marinai inglesi e spagnoli, dimentico di uno sciame d'insetti implacabili, del dolore al braccio ferito e dell'umidità viscida, quando sentì nel cielo invisibile il rombo dell'elicottero che ritornava. 24. Un furgoncino che portava sulla fiancata il nome di un famoso corriere salì una rampa e si fermò all'ingresso di un grosso edificio di cemento a un solo piano. La struttura copriva un intero isolato d'un enorme complesso di magazzini nei pressi di Galveston, nel Texas. Sul tetto e sui muri non c'erano scritte con il nome dell'azienda. L'unica prova del fatto che era occupato era una piccola targa di ottone accanto alla porta: LOGAN STORAGE COMPANY. Erano passate da poco le sei della sera. Era troppo tardi perché ci fossero dipendenti al lavoro, ma abbastanza presto per non destare i sospetti del servizio di sicurezza. L'autista non scese dal furgone. Compose un numero su un telecomando che disattivava il sistema d'allarme e sollevava al contempo la grande saracinesca. All'alzarsi di quest'ultima, comparve l'interno di un capannone enorme, pieno fino al tetto di cataste di mobili e di casalinghi. Non c'era anima viva. Ormai sicuro che tutti i dipendenti fossero andati a casa, l'autista entrò con il furgone e attese che la saracinesca si chiudesse. Poi salì su una pesa abbastanza grande per accogliere un camion a diciotto ruote con rimorchio. Scese dal furgone, raggiunse un piccolo quadro di strumenti montato su un piedistallo e fece scattare un interruttore con la scritta «pesatura». La piattaforma vibrò e cominciò a sprofondare: in realtà era un colossale montacarichi. Quando si posò sul pavimento del sotterraneo, l'autista guidò il furgone in un ampio tunnel mentre, alle sue spalle, il montacarichi risaliva automaticamente. Il tunnel si estendeva per quasi un chilometro e finiva sotto il piano terreno di un altro magazzino immenso. Lì, in un complesso sotterraneo, la
famiglia Zolar gestiva le sue attività criminali mentre al piano terreno gestiva un'azienda perfettamente in regola. I dipendenti dell'azienda passavano da una porta a vetri ed entravano negli uffici amministrativi, allineati lungo un intero lato della costruzione. Il resto dello spazio ospitava migliaia di quadri e di sculture di valore e un grande assortimento di oggetti antichi. Tutti avevano provenienze lecite e venivano acquistati e venduti legalmente sul mercato. Un dipartimento separato, in fondo, ospitava il settore restauro e conservazione: lì, un piccolo gruppo di abili artigiani riportava allo splendore originale le opere d'arte e i manufatti antichi danneggiati. Nessuno dei dipendenti della Zolar International o della Logan Storage Company, inclusi quelli con venti o più anni di servizio, sospettava l'attività clandestina che si svolgeva sotto i loro piedi. L'autista lasciò il tunnel ed entrò in un sotterraneo ancora più grande del piano terreno, venti metri più in basso. Due terzi dell'area erano destinati all'immagazzinaggio e alla vendita delle opere d'arte rubate e contrabbandate. Il terzo rimanente era riservato al fiorente programma di falsificazione della famiglia Zolar. Il sotterraneo era conosciuto soltanto dai membri della famiglia, da pochi soci fedelissimi, e dagli operai che l'avevano costruito e che erano stati chiamati dalla Russia, dove erano tornati al termine dei lavori, in modo che nessun estraneo potesse fare rivelazioni indiscrete. L'autista lasciò il volante, girò intorno al furgone e tirò fuori un lungo, enorme cilindro metallico fissato a un carrello le cui ruote si abbassavano automaticamente quando veniva staccato, come una barella a rotelle di un'ambulanza. Poi spinse il carrello e il cilindro attraverso il sotterraneo sconfinato, in direzione d'una stanza chiusa. L'uomo guardava la propria immagine riflessa nel metallo levigato del cilindro. Era un individuo di media statura, con la pancia piuttosto prominente, e sembrava ancora più massiccio perché indossava una tuta bianca attillata. I capelli bruni avevano un taglio militare, le guance e il mento erano rasati con cura. Gli sembrava divertente che gli occhi verdi come il trifoglio prendessero una sfumatura argentea dal contenitore di alluminio. Anche se in quel momento avevano un'espressione sognante, potevano diventare duri come selci quando l'uomo era teso o incollerito. Un detective della polizia esperto nel fornire descrizioni precise avrebbe detto che Charles Zolar (nome legale Charles Oxley) pareva un truffatore senza avere l'aspetto del truffatore.
I suoi fratelli, Joseph Zolar e Cyrus Sarason, aprirono la porta e uscirono dalla stanza per abbracciarlo affettuosamente. «Congratulazioni», disse Sarason. «È stato un vero trionfo del sotterfugio.» Zolar annuì. «Neppure nostro padre avrebbe saputo pianificare un furto così ingegnoso. La famiglia è fiera di te.» «È davvero un grande elogio», rispose Oxley con un sorriso. «Non immaginate quanto sono felice di poter finalmente consegnare la mummia in un posto sicuro.» «Sei certo che nessuno ti abbia visto mentre la portavi via dal palazzo dove abita Rummel o ti abbia seguito durante il viaggio?» chiese Sarason. Oxley lo fissò. «Adesso m'insulti, fratello. Ho preso le precauzioni necessarie e ho raggiunto Galveston viaggiando di giorno su strade secondarie. Sono stato molto attento a non incorrere in infrazioni del codice della strada. Se vi dico che nessuno mi ha seguito potete fidarvi di me.» «Non badare a Cyrus», lo blandì Zolar con un sorriso. «Quando si tratta di coprire le nostre tracce, diventa piuttosto paranoico.» «Ci siamo spinti troppo in là per commettere errori proprio adesso», mormorò Sarason. Oxley guardò l'immenso magazzino alle spalle dei fratelli. «Gli esperti dei glifi sono qui?» Sarason annuì. «Un professore d'antropologia di Harvard, che si occupa dei simboli ideografici precolombiani, e la moglie, che s'incarica della parte del programma di decifrazione a mezzo computer. Henry e Micki Moore.» «Sanno dove sono?» Zolar scosse la testa. «Sono rimasti bendati e hanno continuato ad ascoltare cassette dal momento in cui i nostri agenti li hanno prelevati dal loro condominio di Boston. Quando sono saliti su un jet preso a nolo, il pilota ha ricevuto l'ordine di volare in cerchio per due ore prima di dirigersi verso Galveston. Sono stati condotti qui dall'aeroporto a bordo di un camion insonorizzato. Possiamo affermare che non hanno visto né sentito niente.» «Quindi, per ciò che ne sanno, si trovano in un laboratorio di ricerca in qualche posto della California o dell'Oregon?» «È l'impressione che gli è stata data durante il volo», rispose Sarason. «Hanno fatto qualche domanda?» «All'inizio sì», spiegò Zolar. «Ma quando i nostri agenti li hanno informati che avrebbero ricevuto duecentocinquantamila dollari in contanti per
decifrare i glifi, i Moore hanno promesso la massima collaborazione. E hanno promesso anche di tenere la bocca chiusa.» «E voi vi fidate?» chiese Oxley in tono dubbioso. Sarason sorrise malignamente. «Certo che no.» Oxley non aveva bisogno di saper leggere nel pensiero per capire che molto presto Henry e Micki Moore sarebbero diventati due nomi su una pietra tombale. «È inutile sprecare altro tempo, fratelli», disse. «Dove volete che metta la mummia del generale Naymlap?» Sarason indicò uno dei settori dell'impianto sotterraneo. «Abbiamo creato una stanza speciale. Ti mostrerò la strada mentre Joseph scorta i nostri esperti.» Esitò, prese dalla tasca tre passamontagna neri e ne lanciò uno a Oxley. «Mettilo. Non vogliamo che ci vedano in faccia.» «Perché prendersi tanto disturbo? Non vivranno abbastanza per identificarci, vero?» «È per intimidirli.» «Mi sembra un po' eccessivo, ma forse non hai tutti i torti.» Mentre Zolar guidava i Moore verso la stanza isolata, Oxley e Sarason rimossero cautamente dal container la mummia dorata e la deposero su un tavolo coperto da diversi strati di velluto imbottito. La stanza era stata attrezzata con un cucinino, letti e un bagno. C'era una grande scrivania con blocchi per appunti e lenti d'ingrandimento di potenza diversa. C'era anche un computer, su cui era stato caricato il software necessario, e una stampante laser. Una fila di riflettori sospesi era disposta in modo da mettere in risalto le immagini incise sull'armatura d'oro. Quando i Moore entrarono nella stanza, furono liberati dalle cuffie e dalle bende. «Spero che non sia stato un grande fastidio», esordì cerimoniosamente Zolar. I Moore batterono le palpebre sotto le luci vive e si fregarono gli occhi. Henry Moore aveva l'aspetto e il comportamento del professore di una grande, antica università. Invecchiava con eleganza, era snello, aveva una massa di capelli grigi scomposti e la carnagione di un adolescente. Indossava la tipica giacca degli accademici, di tweed con le toppe di cuoio ai gomiti, e portava la cravatta della scuola sotto il colletto d'una camicia di cotone verdescuro. Il tocco finale era rappresentato da un piccolo garofano bianco all'occhiello. Micki Moore aveva almeno quindici anni meno del marito. Come lui era snella, quasi quanto la modella che era stata negli anni '70. La pelle piutto-
sto scura e gli zigomi alti e sporgenti indicavano che poteva annoverare qualche indiano fra i suoi antenati. Era una bella donna con un portamento elegante e maestoso che la faceva notare ai cocktail e ai pranzi dell'università. Gli occhi grigi girarono da un fratello mascherato all'altro prima di fissare l'armatura d'oro di Tiapollo. «Un'opera davvero magnifica», bisbigliò. «Non ci avevate descritto che cosa avremmo dovuto decifrare io e mio marito.» «Ci scusiamo per queste precauzioni melodrammatiche», disse Zolar in tono sincero. «Ma come potete vedere, questo manufatto incaico ha un valore inestimabile: fino a che non sarà stato esaminato in modo completo da esperti come voi, non vogliamo che la notizia della sua esistenza arrivi a certe persone che potrebbero tentare di rubarlo.» Henry Moore non badò più ai tre fratelli e si accostò al tavolo. Prese un paio di occhiali da lettura dall'astuccio che teneva nel taschino, li inforcò ed osservò da vicino i glifi su un braccio dell'armatura. «È straordinariamente particolareggiato», esclamò in tono d'ammirazione. «A parte certi tessuti e certi pezzi di vasellame, è il più ampio esempio d'iconografia che abbia visto su un oggetto dell'epoca del Tardo Orizzonte.» «Pensa che ci saranno problemi nella decifrazione delle immagini?» chiese Zolar. «Sarà un lavoro entusiasmante», rispose Moore senza staccare gli occhi dall'armatura d'oro. «Ma Roma non fu costruita in un giorno. La procedura sarà piuttosto lenta.» Sarason era spazientito. «Abbiamo bisogno di una risposta al più presto possibile.» «Non potete mettermi fretta», ribatté Moore in tono indignato. «Sempre che vogliate un'interpretazione accurata di ciò che dicono le immagini.» «Ha ragione», disse Oxley. «Non possiamo permetterci di affidarci a dati imperfetti.» «I Moore sono ben pagati per le loro fatiche», intervenne Sarason in tono severo. «Le interpretazioni errate porterebbero all'annullamento del compenso.» Irritato, Moore scattò: «Interpretazioni errate? Potete considerarvi fortunati perché mia moglie e io abbiamo accettato la vostra proposta. È bastata un'occhiata a ciò che sta su questo tavolo per capire le ragioni dei vostri giochetti infantili. Portate i passamontagna come se doveste rapinare una banca. Un'assurdità.» «Che sta dicendo?» chiese Sarason.
«Qualunque storico degno di questo nome sa che l'armatura d'oro di Tiapollo fu rubata in un museo spagnolo negli anni '20 e non fu mai recuperata.» «Come fa a sapere che questa non è un'altra, scoperta di recente?» Moore indicò la prima immagine di un pannello che andava dalla spalla alla mano sinistra. «Il simbolo di un grande guerriero, un generale chachapuyano chiamato Naymlap che fu al servizio del sovrano inca, Huascar. La leggenda afferma che era alto come un giocatore di basket dei nostri tempi e aveva capelli biondi, occhi azzurri e carnagione chiara. In base alle dimensioni dell'armatura d'oro e a ciò che so della sua storia, non ci sono dubbi: è la mummia di Naymlap.» Sarason si avvicinò all'antropologo. «Fate il vostro lavoro, voi due. Niente errori e niente conferenze.» Zolar si affrettò a intervenire per smussare quello che stava diventando uno scontro spiacevole. «La prego di perdonare il mio socio, dottor Moore. Mi scuso per il suo comportamento scorretto; ma come può capire siamo tutti un po' emozionati per la scoperta dell'armatura d'oro. Ha ragione. È la mummia di Naymlap.» «Come ne siete entrati in possesso?» chiese Moore. «Non posso dirlo. Ma le assicuro che tornerà in Spagna non appena sarà stata studiata da esperti come lei e sua moglie.» Un sorriso astuto apparve sulle labbra di Moore. «Un gesto scrupoloso da parte sua, rimandarla ai legittimi proprietari... ma non prima che io e mia moglie abbiamo decifrato le istruzioni per arrivare al tesoro di Huascar.» Oxley mormorò qualcosa d'incomprensibile mentre Sarason si avvicinava a Moore. Ma Zolar tese un braccio e lo trattenne. «Ha capito, quindi.» «Già.» «Devo presumere che vuole avanzare una controproposta, dottor Moore?» Moore diede un'occhiata alla moglie che sembrava stranamente chiusa in se stessa. Poi si rivolse a Zolar. «Se la nostra collaborazione vi porterà al tesoro, credo che non sarebbe eccessivo un compenso del venti per cento.» I tre fratelli si guardarono per qualche istante e rifletterono. Oxley e Zolar non potevano scorgere la faccia di Sarason dietro il passamontagna, ma ne vedevano gli occhi sfolgoranti d'ira. Zolar annuì. «Considerando la possibilità di recuperare ricchezze incredibili, credo che la proposta del dottor Moore sia molto generosa.»
«Sono d'accordo», disse Oxley. «Tenuto conto di tutto, l'offerta del buon professore non è esagerata.» Tese una mano. «Sta bene. Se troveremo il tesoro, la vostra parte sarà del venti per cento.» Moore strinse la mano che gli veniva tesa. Si rivolse alla moglie e le sorrise, come se ignorasse che su di loro pendeva una condanna a morte. «Dunque, mia cara, vogliamo metterci al lavoro?» PARTE TERZA IL DEMONE DELLA MORTE 25. 22 ottobre 1998 Washington, D.C. Attendeva sul marciapiede davanti al terminal, con gli incredibili occhi violetti spalancati, i capelli color cannella agitati dal vento sotto il sole del mattino, quando Pitt uscì dall'area ritiro bagagli dell'aeroporto Dulles. La deputata Loren Smith sollevò gli occhiali da sole e si alzò a mezzo dal sedile della macchina. Agitò le mani calzate da morbidi guanti di pelle. Alta e squisitamente proporzionata, con una figura alla Sharon Stone, indossava pantaloni e giacca di pelle rossa con un maglione dolcevita nero. In un raggio di venti metri tutti, uomini e donne, la fissavano mentre sedeva sulla fiammante Allard J2X rossofuoco del 1953. Lei e la macchina erano due classici capolavori di eleganza, e formavano un abbinamento perfetto. Lanciò a Pitt un'occhiata seducente e chiese: «Ehi, marinaio, vuoi un passaggio?» Pitt posò sul marciapiede la borsa e la grossa cassetta di metallo che conteneva il cofanetto di giada, si curvò sull'Allard e baciò Loren sulla bocca. «Hai rubato una delle mie macchine.» «Bel ringraziamento. E pensare che ho marinato un'udienza della commissione per venire a prenderti all'aeroporto!» Pitt abbassò lo sguardo sul veicolo spartano che aveva vinto otto delle nove gare per macchine sportive cui aveva partecipato quarantacinque anni prima. Non c'era abbastanza spazio per entrambi e per il bagaglio sui due sedili, e non c'era il baule. «Dove dovrei mettere la mia roba?» Loren tese la mano sul sedile libero e gli porse un paio di corde elasti-
che. «Mi sono attrezzata. Puoi legare le borse sul portapacchi.» Pitt scosse la testa, meravigliato. Loren era intelligente e perspicace. Rieletta per la quinta volta alla Camera dei Rappresentanti per lo Stato del Colorado, era rispettata dai colleghi per la capacità con cui districava i problemi difficili e trovava soluzioni concrete. Vivace ed espansiva al Congresso, Loren teneva molto alla privacy e partecipava raramente ai pranzi e alle manifestazioni di carattere politico; preferiva restare nella sua casa di Alexandria a studiare le indicazioni dei suoi collaboratori per i progetti di legge da votare e a rispondere alle lettere dei suoi elettori. Il suo unico interesse sociale, al di fuori del lavoro, era la sua relazione con Pitt. «Dove sono Al e Rudi?» chiese, guardando con tenera premura la faccia esausta di Pitt e la barba ispida. «Arriveranno con il prossimo volo. Dovevano sbrigare un affare e restituire il materiale che avevano preso a prestito.» Finì di legare le borse al portapacchi cromato nella parte posteriore dell'Allard, aprì la portiera, infilò le gambe sotto il cruscotto e le allungò. «Posso essere sicuro che mi porterai a casa?» Loren gli rivolse un sorriso subdolo, fece un cenno d'assenso al poliziotto che le faceva segno di procedere, innestò la prima e premette l'acceleratore. Il grosso motore Cadillac V-8 rispose con un rombo poderoso e la macchina balzò via mentre le gomme posteriori stridevano e fumavano sull'asfalto. Pitt alzò le spalle rassegnato quando sfrecciarono accanto al poliziotto, e cercò affannosamente di allacciarsi la cintura di sicurezza. «Non è un comportamento degno di una rappresentante del popolo», gridò nel fragore. «E chi può saperlo?» rise Loren. «La macchina è registrata a nome tuo.» Diverse volte, durante la corsa spericolata sull'autostrada che andava dal Dulles alla città, Loren spinse sul rosso l'ago del tachimetro. Pitt adottò un punto di vista fatalistico. Se proprio doveva morire a causa di quella pazza, allora non gli restava altro da fare se non starsene tranquillo e godersi la corsa. In realtà aveva una fiducia assoluta nella sua abilità di guidatrice. Tutti e due avevano guidato l'Allard in diverse corse per auto d'epoca; lui nelle gare riservate agli uomini, lei in quelle per le signore. Si rilassò, chiuse la lampo della giacca a vento e aspirò la pungente aria autunnale che turbinava intorno ai piccoli parabrezza gemelli. Loren faceva guizzare l'Allard in mezzo al traffico con l'agilità di una goccia di mercurio che scende un labirinto in pendenza. Dopo qualche
tempo si fermò davanti a un vecchio hangar in fondo all'Aeroporto Internazionale di Washington, l'hangar in cui abitava Pitt. Era stato costruito verso la fine degli anni '30 per la manutenzione dei primi aerei commerciali di linea. Nel 1980 era stato destinato alla demolizione; ma Pitt aveva avuto pietà della struttura abbandonata e l'aveva acquistata. Poi aveva convinto la commissione locale per la conservazione dei luoghi d'interesse storico a iscrivere l'hangar nell'apposito registro nazionale. In seguito, aveva trasformato in un appartamento i vecchi uffici del piano superiore, restaurando poi l'intero hangar in modo da riportarlo alle condizioni originarie. Pitt non aveva mai sentito l'impulso d'investire in azioni, buoni del tesoro e proprietà immobiliari i suoi risparmi e la ragguardevole eredità lasciatagli dal nonno. Preferiva le automobili d'epoca, e i souvenir grandi e piccoli raccolti nel corso delle sue avventure in tutto il mondo come direttore dei Progetti Speciali della NUMA. Il piano terreno del vecchio hangar era occupato da una trentina di vecchie auto, da una Stutz del 1932 a una berlina francese Avions Voisin fino a una gigantesca Daimler decappottabile del 1951, la più giovane della collezione. In un angolo c'era un vecchio trimotore Ford, e la sua ala di lamiera ondulata riparava un caccia a reazione Messerschmitt ME 262 della seconda guerra mondiale. Lungo la parete di fondo una delle prime carrozze Pullman, con la scritta MANHATTAN LIMITED sulle fiancate, riposava su un breve tratto di binario d'acciaio. Ma l'oggetto più strano era una vasca da bagno vittoriana con i piedi a zampa di leone e un motore fuoribordo fissato alla parte posteriore. Ovviamente anche la vasca, come gli altri oggetti dell'hangar, aveva una sua storia. Lpren si fermò davanti a una piccola ricevente montata su un supporto. Pitt fischiettò le prime battute di Yankee Doodle e il software registrò il suono, disattivò elettronicamente il sistema d'allarme e aprì una grande porta. Loren entrò e spense il motore. «Eccoti qui», annunciò con orgoglio. «Sei arrivato a casa tutto intero.» «Con un nuovo primato di velocità sul tratto Dulles-Washington che resisterà per decenni», ribatté Pitt in tono asciutto. «Non fare il vecchio brontolone. Sei fortunato perché sono venuta a prenderti.» «Perché sei così buona con me?» chiese affettuosamente Pitt. «Davvero non lo so, tenendo conto di tutti i maltrattamenti che mi infliggi.»
«Quali maltrattamenti? Voglio vedere i lividi.» «Per la precisione...» Loren abbassò i pantaloni di pelle e mostrò un grosso livido su una coscia. «Non guardare me», disse Pitt. Sapeva bene di non essere il responsabile. «È colpa tua.» «Devo ricordarti che non ho più picchiato una femmina da quando Gretchen Snodgrass, all'asilo, impiastricciò di colla la mia sedia.» «È stata una collisione con il paraurti di una delle tue anticaglie.» Pitt rise. «Dovresti essere più prudente.» «Vieni di sopra», ordinò Loren mentre rimetteva a posto i pantaloni. «Ho preparato un brunch da buongustai in onore del tuo ritorno.» Pitt sganciò le corde elastiche dei bagagli e seguì Loren sulla scala, apprezzando il movimento fluido del contenuto dei pantaloni di pelle. Lei aveva effettivamente apparecchiato con eleganza il tavolo della sala da pranzo. Pitt era affamato, e il suo appetito era aguzzato dai profumi deliziosi che uscivano dalla cucina. «Ci vorrà molto?» chiese. «Il tempo sufficiente perché tu faccia la doccia», rispose Loren. Pitt non ebbe bisogno di altro incoraggiamento. Si spogliò in fretta, entrò nella doccia e si stese sul pavimento piastrellato con i piedi appoggiati a una parete mentre il getto di acqua calda lo investiva. Stava quasi per addormentarsi; ma dopo dieci minuti si scòsse, s'insaponò e si sciacquò. Si fece la barba, si asciugò i capelli e indossò la vestaglia di seta a disegni minuti che Loren gli aveva regalato per Natale. Quando entrò in cucina, lei gli andò incontro e gli diede un lungo bacio. «Hmmm, hai un buon profumo. E ti sei fatto la barba.» Pitt notò che la cassetta metallica contenente il cofanetto di giada era stata aperta. «E tu hai curiosato.» «Come membro del Congresso ho certi diritti inalienabili», dichiarò lei porgendogli un bicchiere di champagne. «È un'opera d'arte magnifica. Cos'è?» «È un antico oggetto precolombiano con le istruzioni per arrivare a tesori nascosti d'un valore così enorme che tu e i tuoi colleghi del Congresso impieghereste ben due giorni per spenderli.» Loren lo fissò insospettita. «Vorrai scherzare. Dovrebbe essere più di un miliardo di dollari.» «Non scherzo mai quando parlo di tesori perduti.»
Loren si voltò, prese dal forno due piatti di huevos rancheros con fagioli rifritti in salsa e li mise sulla tavola. «Raccontami tutto mentre mangiamo.» Fra un boccone e l'altro, mentre divorava il brunch messicano di Loren, Pitt narrò l'intera vicenda: dall'arrivo al pozzo sacrificale alla scoperta del cofanetto di giada e del quipu nella foresta pluviale ecuadoriana. Arricchì il racconto con i miti, i pochi fatti noti e concluse con le ipotesi. Loren lo ascoltò senza interromperlo fino a che non ebbe finito, poi disse: «Pensi che sia nel Messico settentrionale?» «È soltanto una supposizione, in attesa che venga decifrato il quipu.» «Com'è possibile che il suo mistero venga chiarito se, come dici tu, la conoscenza del linguaggio dei nodi è andata perduta con gli ultimi inca?» «Spero che il computer di Hiram Yaeger riesca a fornirci la chiave.» «Nel migliore dei casi è un colpo alla cieca», commentò Loren e bevve un sorso di champagne. «È la nostra unica possibilità, ma è valida.» Pitt si alzò, aprì le tende della sala da pranzo, guardò un aereo di linea che stava decollando in fondo a una pista, poi tornò a sedere. «Il nostro vero problema è rappresentato dal tempo. I ladri che hanno rubato l'armatura d'oro di Tiapollo prima che arrivassero gli agenti della Dogana hanno un certo vantaggio.» «Ma non subiranno un ritardo anche loro?» chiese Loren. «Perché devono tradurre i glifi incisi sull'armatura? Un buon esperto di motivi dei tessuti incaici e dei simboli ideografici incisi sul vasellame dovrebbe essere in grado di farlo.» Loren girò intorno al tavolo e si sedette sulle ginocchia di Pitt. «Quindi sta diventando una corsa al tesoro.» Lui le passò le braccia intorno alla vita e la strinse a sé. «A quanto pare.» «Sii prudente», disse lei, mentre gli insinuava le mani sotto la vestaglia. «Ho la sensazione che i tuoi concorrenti non siano brave persone.» 26. L'indomani mattina presto, mezz'ora prima che incominciasse l'ora di punta del traffico, Pitt lasciò Loren davanti casa e proseguì per la sede centrale della NUMA. Per non correre il rischio che qualche automobilista pazzo della capitale danneggiasse l'Allard, Pitt guidava una Jeep Grand Wagoner, vecchia ma in ottime condizioni, che aveva modificato instal-
lando un motore Rodeck V-8 da cinquecento cavalli prelevato da un dragster che aveva avuto un incidente in una gara nazionale. Il guidatore di una Ferrari o di una Lamborghini che si fosse fermato accanto a lui a un semaforo non avrebbe mai sospettato che Pitt fosse in grado di sfrecciar via passando da zero a centosessanta chilometri orari prima che la superiorità dei rapporti e l'aerodinamica gli dessero un vantaggio. Sistemò la jeep nel suo posto macchina ai piedi della grande torre di vetro verde che ospitava gli uffici della NUMA e prese l'ascensore per salire al piano di Yaeger. Stringeva nella destra la maniglia della cassetta metallica che racchiudeva il cofanetto di giada. Quando entrò nella sala conferenze trovò l'ammiraglio Sandecker, Giordino e Gunn che lo aspettavano. Posò la custodia sul pavimento e strinse le mani a tutti. «Chiedo scusa per il ritardo.» «Non è in ritardo.» L'ammiraglio James Sandecker aveva un tono tagliente che avrebbe potuto affettare un arrosto di maiale surgelato. «Siamo tutti in anticipo, e smaniosi di vedere la mappa, o come diavolo l'ha chiamata.» «È un quipu», spiegò paziente Pitt. «Un sistema di notazione usato dagli Inca.» «Mi è stato detto che dovrebbe guidare a un immenso tesoro. È vero?» «Non sapevo che le interessasse tanto», ribatté Pitt accennando un sorriso. «Quando lei si fa carico di una situazione a spese del tempo e del denaro dell'agenzia, e tutto questo a mia insaputa, comincio a pensare seriamente di pubblicare sui giornali un annuncio per cercare un altro direttore dei Progetti Speciali.» «È stata una semplice dimenticanza, signore», dichiarò Pitt, compiendo un notevole sforzo per restare impassibile. «Avevo tutte le intenzioni d'inviarle un rapporto completo.» «Se fossi disposto a crederle», sbuffò Sandecker, «farei incetta di azioni di una fabbrica di fruste per calesse.» Bussarono alla porta, ed entrò un uomo calvo e cadaverico con un paio di baffoni alla Wyatt Earp e un lindo camice da laboratorio. Sandecker lo accolse con un cenno del capo e si rivolse agli altri. «Credo che conosciate tutti il dottor Bill Straight», disse. Pitt tese la mano. «Certo. Bill dirige il dipartimento Conservazione Manufatti Marini. Abbiamo lavorato insieme in diversi progetti.» «I miei collaboratori sono ancora sepolti sotto i due camion di antichità
provenienti dal mercantile bizantino che tu e Al avete trovato sepolto nel ghiaccio in Groenlandia un paio di anni fa.» «L'unica cosa che ricordo di quel progetto», commentò Giordino, «è che non riuscii a scongelarmi per tre mesi.» «Perché non ci mostra ciò che ha trovato?» chiese Sandecker che non riusciva a dominare l'impazienza. «Sì, sì», lo incitò Yaeger mentre puliva una lente degli occhiali. «Vediamo, vediamo.» Pitt aprì la cassetta, estrasse con delicatezza il cofanetto di giada e lo posò sul tavolo. Giordino e Gunn avevano già avuto modo di osservarlo durante il volo dalla foresta pluviale a Quito e dunque rimasero in disparte, mentre Sandecker, Yaeger e Straight si avvicinavano per vedere meglio. «È intagliato in modo magistrale», commentò Sandecker ammirando i lineamenti complessi della faccia incisa sul coperchio. «È un motivo riconoscibile», osservò Straight. «L'espressione serena, il taglio degli occhi hanno senza dubbio un carattere asiatico. C'è quasi un legame diretto con le statue della dinastia Cahola dell'India meridionale.» «Adesso che ne parli», rifletté Yaeger, «la faccia presenta una rassomiglianza straordinaria con molte statue del Buddha.» «Com'è possibile che due culture prive di relazioni fra loro abbiano scolpito sembianze tanto simili sullo stesso tipo di pietra?» chiese Sandecker. «Potrebbe esserci stato un contatto precolombiano in seguito a una traversata del Pacifico?» suggerì Pitt. Straight scosse la testa. «Fino a che non si scoprirà in questo emisfero un manufatto antico di cui sia assolutamente provato che proviene dall'Asia o dall'Europa, tutte le rassomiglianze dovranno essere classificate come semplici coincidenze e niente di più.» «E, del resto, nessuna opera d'arte maya o andina è mai stata trovata negli scavi delle antiche città intorno al Mediterraneo e in Estremo Oriente», disse Gunn. Straight sfiorò con le dita la giada verde. «Questo volto, comunque, costituisce un enigma. Diversamente dai Maya e dagli antichi Cinesi, gli Inca non apprezzavano la giada. Preferivano l'oro per adornare i re e gli dei, vivi o morti, perché per loro rappresentava il sole che donava la fertilità alla terra e il calore agli esseri viventi.» «Apriamo e vediamo quel che c'è dentro», ordinò l'ammiraglio. Straight fece un cenno a Pitt. «Lascio a te l'onore.»
Senza una parola, Pitt inserì una sottile lama metallica sotto il coperchio del cofanetto e lo sollevò cautamente. Il quipu era lì, nel cofanetto foderato di cedro dove era rimasto per secoli. Lo fissarono incuriositi per quasi un minuto. Tutti si stavano chiedendo se fosse possibile risolverne l'enigma. Straight aprì la lampo di una busta di cuoio. All'interno c'erano una serie di utensili, pinze di diverse grandezze, piccoli calibri, e una fila di raschietti simili agli specilli dei dentisti. Prese un paio di guanti bianchi morbidi, e scelse un paio di pinzette e un raschietto. Quindi incominciò a maneggiare con delicatezza il quipu per scoprire se i fili potevano essere separati senza che si rompessero. Poi, come un chirurgo che tiene lezione a un gruppo d'interni davanti a un cadavere, incominciò a descrivere i risultati del suo esame. «Non è fragile come mi aspettavo. Il quipu è formato da diversi metalli, in prevalenza rame, oltre a qualche filo d'argento e uno o due d'oro. Sembra che i metalli siano stati filati a mano e quindi attorti in minuscole funicelle, alcune più spesse delle altre, con numeri diversi di fili e diversi colori. Le funicelle conservano ancora una certa tensione e un notevole grado di resistenza. Sembra che ci siano in totale trentuno funicelle di varie lunghezze, ognuna con una serie di nodi piccolissimi a intervalli irregolari. Quasi tutte sono state tinte individualmente, ma poche sono identiche per colore. Le funicelle più lunghe sono collegate ad altre subordinate che costituiscono le modifiche, un po' come nel diagramma di una frase in un corso di grammatica. È indiscutibilmente un messaggio complesso che invoca di essere decifrato.» «Amen», mormorò Giordino. Straight s'interruppe e si rivolse all'ammiraglio. «Con il suo permesso, signore, ora toglierò il quipu dal cofanetto.» «In pratica vuol dire che sono responsabile io, se per caso lei rompe quel coso della malora», precisò Sandecker facendo una smorfia. «Be', signore...» «Proceda, proceda. Non posso star qui tutto il giorno a guardare una vecchia reliquia puzzolente.» «Non c'è niente che innervosisca di più dell'odore del terriccio marcio», commentò ironicamente Pitt. Sandecker lo fulminò con un'occhiata acida. «Ci risparmi le sue spiritosaggini.» «Prima districhiamo quel coso», intervenne Yaeger in tono ansioso, «e
prima potrò preparare un programma per la decifrazione.» Straight fletté le dita inguantate come un pianista che si accinge ad aggredire la Rapsodia ungherese n. 2 di Liszt. Trasse un respiro profondo e infilò le mani nel cofanetto. Con la massima cautela insinuò una sonda ricurva sotto alcune funicelle del quipu e le sollevò d'una frazione di centimetro. «Un punto per noi», sospirò soddisfatto. «Dopo essere rimasti per secoli qui dentro, gli avvolgimenti non si sono saldati fra loro e non si sono attaccati al legno. Si sollevano senza la minima difficoltà.» «Direi che hanno resistito molto bene alle devastazioni del tempo», osservò Pitt. Dopo aver esaminato il quipu da ogni angolo, Straight inserì due grosse pinzette da due lati opposti. Esitò come per riprendere fiducia e cominciò a sollevare il quipu. Nessuno parlava. Trattennero il respiro fino a quando Straight non posò le funicelle multicolori su una lastra di vetro. Allora posò le pinze, prese il raschietto e districò meticolosamente le funicelle a una a una fino a disporre il quipu come un ventaglio aperto. «Ecco qui, signori», sospirò sollevato. «Ora dobbiamo immergere le funicelle in una soluzione detergente molto blanda per eliminare macchie e corrosione. Questo processo sarà seguito da un trattamento chimico conservativo nel nostro laboratorio.» «Fra quanto tempo potrà restituirlo a Yaeger perché lo studi?» chiese Sandecker. Straight scrollò le spalle. «Fra sei mesi. Forse un anno.» «Le do due ore», dichiarò Sandecker senza batter ciglio. «Impossibile. Gli avvolgimenti metallici hanno resistito tanto a lungo perché erano chiusi in un contenitore praticamente stagno. Adesso che sono stati esposti all'aria cominceranno a disintegrarsi con grande rapidità.» «Non certo quelli d'oro», disse Pitt. «No, l'oro è praticamente indistruttibile, ma non conosciamo l'esatto contenuto minerale delle altre funicelle colorate. Il rame, per esempio, può essere un elemento di una lega che si sbriciola con l'ossidazione. Senza adeguate tecniche di conservazione le leghe potrebbero decomporsi e sbiadire i colori al punto da renderli illeggibili.» «Determinare la chiave dei colori è indispensabile per decifrare il quipu», soggiunse Gunn. L'atmosfera nella stanza si era incupita di colpo. Soltanto Yaeger sembrava tranquillo. Guardò Straight con un sorriso sulle labbra. «Dammi venti minuti perché i miei apparecchi misurino le distanze fra i
nodi e registrino integralmente la configurazione, e poi potrai tenere quel coso in laboratorio fino a che non avrai i capelli grigi.» «È tutto il tempo che le occorre?» chiese Sandecker con aria incredula. «I miei computer possono generare immagini digitali tridimensionali in modo da rivelare com'erano esattamente le funicelle nel momento in cui vennero create, quattrocento anni fa.» «Ah, vivere in un mondo moderno serve davvero a placare la bestia selvaggia», commentò poeticamente Giordino. L'esame del quipu di Drake da parte di Yaeger richiese quasi un'ora e mezzo; ma, quando fu terminato, l'immagine grafica lo faceva apparire ancora più perfetto di quando era nuovo. Quattro ore più tardi, Yaeger fece il primo passo avanti nella decifrazione del messaggio. «È incredibile come una cosa tanto semplice possa essere tanto complessa», disse, guardando la simulazione multicolore delle funicelle disposte a ventaglio sul grande monitor. «È un po' come un abaco», commentò Giordino, che stava a cavalcioni di una sedia nel sacrario computeristico di Yaeger e si appoggiava con le braccia alla spalliera. Soltanto lui e Pitt erano rimasti con Yaeger. Straight era tornato nel suo laboratorio con il quipu, mentre Sandecker e Gunn erano andati all'udienza di una commissione senatoriale per discutere un nuovo progetto minerario sottomarino. «È molto più complicato.» Pitt si tendeva sopra la spalla di Yaeger e studiava l'immagine sul monitor. «L'abaco è sostanzialmente uno strumento matematico. Il quipu, invece, è molto più sottile. Ogni colore, lo spessore delle funicelle, la collocazione e il tipo dei nodi e delle estremità a ciuffo, hanno tutti un significato. Per fortuna il sistema numerico degli Inca era basato sul dieci come il nostro.» «E bravo il nostro primo della classe.» Yaeger annuì. «Questo, oltre a registrare numericamente quantità e distanze, documentava anche un evento storico. Sto ancora brancolando nel buio, ma per esempio...» S'interruppe per battere sulla tastiera una serie d'istruzioni. Tre delle funicelle del quipu parvero staccarsi dal collare principale e s'ingrandirono sullo schermo. «La mia analisi prova in modo pressoché inattaccabile che le funicelle marrone, azzurre e gialle indicano il passaggio del tempo rispetto alla distanza. I numerosi nodi più piccoli color arancio, spaziati regolarmente sulle tre funicelle, simboleggiano il sole o la lunghezza della giornata.» «Cosa ti ha portato a questa conclusione?»
«La chiave è stata la spaziatura fra i grossi nodi bianchi.» «In mezzo a quelli color arancio?» «Appunto. Il computer e io abbiamo scoperto che coincidono perfettamente con le fasi lunari. Non appena potrò calcolare i cicli astronomici della luna durante il sedicesimo secolo, potrò formulare alcune date... approssimative, s'intende.» «Ottima idea», disse Pitt con ottimismo crescente. «Sei sulla pista giusta.» «Il passo successivo consiste nel determinare che cosa doveva illustrare la funicella. È noto che gli Inca erano anche maestri in fatto di semplicità. Secondo l'analisi del computer, gli avvolgimenti verdi rappresentano la terraferma e quelli azzurri il mare. Per quelli gialli c'è incertezza.» «Tu come l'interpreti?» chiese Giordino. Yaeger batté due tasti e si appoggiò alla spalliera. «Ventiquattro giorni di marcia per via di terra, e ottantasei per mare. E dodici giorni nel giallo, qualunque cosa rappresenti.» «Il tempo trascorso dopo l'arrivo a destinazione», suggerì Pitt. Yaeger annuì in segno di assenso. «Mi sembra sensato. La funicella gialla potrebbe indicare una terra brulla.» «Oppure un deserto», disse Giordino. «Oppure un deserto», ripeté Pitt. «Potrebbe trattarsi proprio di questo, se guardiamo la costa del Messico settentrionale.» «Nella parte opposta del quipu», continuò Yaeger, «troviamo funicelle che corrispondono agli stessi colori azzurro e verde, ma con un numero diverso di nodi. Secondo il computer, questo fa pensare al tempo impiegato nel viaggio di ritorno. A giudicare dalle aggiunte e dalle spaziature più brevi fra i nodi, direi che il viaggio che li riportò in patria fu difficile e tempestoso.» «Non mi sembra che tu stia brancolando nel buio», disse Pitt. «Anzi, direi che è un'idea piuttosto logica.» Yaeger sorrise. «Accetto sempre con piacere i complimenti. Mi auguro solo di non cadere nell'errore di sbrigliare troppo la fantasia via via che procedo nell'analisi.» L'idea non era molto entusiasmante agli occhi di Pitt. «Niente fantasie, Hiram. Resta con i piedi per terra.» «Ho capito. Tu vuoi un neonato sano con dieci dita alle mani e dieci ai piedi.» «Meglio ancora se stringesse un cartello con la scritta: 'Scavate qui»,
disse Pitt in un tono freddo e inespressivo che fece venire i brividi a Yaeger. «Altrimenti ci troveremo a guardare in un pozzo asciutto.» 27. Sulla vetta a forma d'imbuto di un monte che si erge solitario come un monumento funebre in mezzo a un deserto sabbioso sta un enorme demone di pietra. Giganteggia con le gambe protese come se si accingesse a spiccare un balzo fin dai tempi preistorici, con gli artigli affondati nella massiccia roccia basaltica in cui è stato scolpito. Nel deserto che si estende ai suoi piedi gli spettri degli antichi si mescolano ai fantasmi del presente. In alto volteggiano gli avvoltoi, i conigli selvatici saltellano fra le sue gambe, le lucertole guizzano sulle zampe gigantesche. Dall'alto del piedistallo, sulla sommità, gli occhi serpentini del mostro dominano un panorama di dune di sabbia, colline e monti rocciosi, e lo scintillante fiume Colorado che si divide in vari bracci nel delta intasato dai sedimenti prima di gettarsi nel mare di Cortés. Esposta alle intemperie sulla cima della montagna definita misteriosa e incantata, gli anni hanno logorato gran parte dei complessi dettagli della statua. Il corpo sembra quello di un giaguaro o di un enorme felino con le ali e con la testa di serpente. Un'ala si protende ancora sopra una spalla, ma l'altra è caduta da molto tempo sulla superficie rocciosa accanto al mostro e si è frantumata. Anche i vandali hanno fatto la loro parte; hanno divelto le zanne dalle fauci spalancate e hanno inciso nomi e iniziali sui fianchi e sul petto. Il giaguaro alato, che pesa svariate tonnellate ed è alto come un elefante maschio, è una delle quattro sculture conosciute che siano state realizzate da culture ignote prima dell'apparizione dei missionari spagnoli all'inizio del sedicesimo secolo. Le altre tre sono felini accucciati in un parco nazionale del New Mexico, e lavorati in modo molto più primitivo. Gli archeologi che hanno scavato i dirupi scoscesi erano molto incerti riguardo all'origine dell'enorme scultura. Non avevano modo d'individuarne l'epoca di esecuzione o d'identificare coloro che avevano scolpito la bestia in un immenso affioramento di roccia. Lo stile e la realizzazione erano molto differenti da quelli di tutti i manufatti conosciuti delle culture preistoriche del sud-ovest americano. Molte teorie erano state proposte, molte opinioni erano state avanzate, ma l'enigma del significato della statua era
sempre rimasto avvolto nelle nebbie del passato. Si diceva che gli antichi temessero la spaventosa bestia di pietra e la credessero un guardiano dell'oltretomba; ma oggi gli anziani dei Cahuilla, dei Quechan e dei Montolo che vivono nella zona non ricordano tradizioni religiose significative o rituali precisi che riguardino il monumento. Non è stata tramandata nessuna notizia orale, e perciò tali tribù hanno creato un loro mito sulle ceneri di un passato dimenticato, inventando un mostro sovrannaturale che tutti i morti devono superare nel corso del viaggio per l'Aldilà. Se l'esistenza del defunto era stata biasimevole, la bestia di pietra prendeva vita, lo afferrava fra le fauci, lo dilaniava con le zanne e lo risputava, riducendolo così a uno spettro storpio e sfigurato, la cui condanna era quella di aggirarsi per sempre sulla terra come spirito maligno. Soltanto i buoni potevano procedere indisturbati e raggiungere l'altro mondo. Molti affrontavano la difficile scalata sulle pareti ripide della montagna per deporre ai piedi della statua bambole di argilla modellate a mano o antiche conchiglie marine incise con figure di animali, come tributo allo scopo di spianarsi la strada per il futuro. Coloro che avevano perduto qualche persona cara spesso sostavano nel deserto sotto la scultura minacciosa, e mandavano sulla cima un emissario mentre pregavano la bestia di facilitare il passaggio ai loro defunti. Billy Yuma non aveva paura del demone di pietra mentre sedeva a bordo del furgoncino all'ombra della montagna e guardava la statua minacciosa che torreggiava sopra di lui. Si augurava che gli amici e parenti morti potessero passare tranquillamente oltre il guardiano. Ma temeva che suo fratello, la pecora nera della famiglia che aveva picchiato la moglie e i figli ed era morto alcolizzato, fosse diventato uno spirito maligno. Come molti indigeni americani del deserto, Billy si sentiva continuamente circondato da orribili spiriti deformi che vagavano senza pace e commettevano azioni perfide. Sapeva che lo spirito di suo fratello poteva apparire da un momento all'altro, scagliargli addosso manciate di terriccio o strappargli gli abiti, oppure infestare i suoi sogni con agghiaccianti visioni di morti senza pace. Ma la paura più grossa di Billy era che suo fratello causasse malattie o lesioni a sua moglie e ai suoi figli. Aveva visto tre volte il fratello. Una volta come un vortice di vento che si lasciava dietro una scia di polvere opprimente, poi come una luce tremolante che girava intorno a un mezquite, e infine come un fulmine che aveva colpito il suo furgone. Erano presagi infausti. Billy e l'uomo della medici-
na della sua tribù si erano seduti accanto al fuoco e avevano discusso il modo per combattere lo spettro. Se l'apparizione non fosse stata fermata, avrebbe potuto costituire una minaccia eterna per la famiglia di Billy e per i suoi discendenti. Avevano tentato di tutto, ma invano. Il vecchio sciamano gli aveva ordinato di rimanere in assoluto isolamento nel deserto per dieci giorni, durante i quali doveva digiunare e assumere soltanto, a scopo protettivo, piccole porzioni di un miscuglio di gemme di cactus ed erbe. Il rimedio si era rivelato un fallimento. L'inedia aveva fatto sì che Billy vedesse regolarmente il fantasma del fratello e sentisse gemiti spaventosi durante le notti solitarie. Avevano tentato con rituali più potenti, come i canti cerimoniali, ma nulla era valso a placare lo spirito maligno; anzi, le manifestazioni erano diventate ancora più violente. Billy non era l'unico della sua tribù ad avere problemi. Da quando gli oggetti religiosi più sacri e segreti erano spariti dal loro nascondiglio, una rovina isolata appartenuta agli antenati, molti villaggi erano stati colpiti dalla sfortuna. Raccolti scarsi, malattie infantili contagiose, clima torrido e secco fuori stagione. Se gli uomini si ubriacavano scoppiavano risse, e qualcuno ci lasciava la pelle. Ma la calamità peggiore era l'aumento improvviso dei fantasmi. Molte persone che non avevano mai visto o sentito uno spirito maligno incominciavano a descrivere apparizioni terribili. Gli spettri degli antichi Montolo si rivelavano nei sogni, e spesso si materializzavano anche in pieno giorno. Quasi tutti, compresi i bambini, affermavano di aver assistito a fenomeni sovrannaturali. Il furto degli idoli lignei che rappresentavano il sole, la luna, la terra e l'acqua era stato un colpo durissimo per la tribù dei Montolo, assai ligia alla sua religione. L'idea che gli idoli non fossero presenti alla cerimonia d'iniziazione all'età adulta straziava i giovani della tribù, maschi e femmine. Senza le divinità scolpite i rituali secolari non si potevano compiere, e i giovani restavano nel limbo dell'adolescenza. Senza i sacri oggetti religiosi, tutti i culti venivano a cessare. Se una mattina i cristiani, i mussulmani e gli ebrei del mondo si fossero svegliati e avessero scoperto che la città di Gerusalemme era stata divelta dalla terra e trasportata nello spazio, l'angoscia che avrebbero provato non sarebbe stata molto diversa da quella che attanagliava la tribù. Per chi non era indiano si trattava di un semplice furto, ma per un montolo era una bestemmia che sconfinava nell'atrocità. Intorno ai fuochi delle strutture cerimoniali sotterranee i sacerdoti dell'antica religione dichiaravano sottovoce di sentire nei venti notturni le im-
plorazioni dolorose degli idoli: chiedevano di essere riportati al sicuro nel loro nascondiglio. Billy Yuma era disperato. Lo sciamano gli aveva impartito le istruzioni leggendo nelle braci di un fuoco agonizzante. Per rimandare agli inferi lo spettro di suo fratello e salvare la propria famiglia da altri disastri, Billy doveva ritrovare gli idoli perduti e riportarli al loro posto, fra le rovine ancestrali. Nel tentativo disperato di mettere fine alle visite degli spettri e di evitare altre sventure, Billy aveva deciso di combattere il male con il male. Avrebbe scalato la montagna, affrontato il demone e chiesto il suo aiuto per ritrovare gli idoli preziosi. Non era più giovane e la scalata sarebbe stata pericolosa senza l'attrezzatura usata dagli specialisti moderni. Ma si era imposto quel compito e non intendeva tirarsi indietro. Troppa gente contava su di lui. Quando arrivò a circa un terzo della salita lungo la parete sud il cuore gli martellava contro le costole e i polmoni gli dolevano per lo sforzo immane. Avrebbe potuto fermarsi per riposare e riprendere fiato; invece proseguì, deciso a raggiungere la vetta senza fare soste. Si voltò e guardò in basso ancora una volta, per dare un'occhiata al furgoncino Ford parcheggiato alla base della montagna. Pareva un giocattolo... Gli sembrava di poter tendere la mano e afferrarlo. Poi Billy fissò di nuovo la parete di roccia che cambiava colore sotto il sole al tramonto e passava dall'ambra al rosso mattone. Billy era pentito di non essere partito prima, ma aveva dovuto finire vari lavori, e il sole era alto quando aveva raggiunto la montagna. Ora il globo color arancio scendeva lentamente oltre la catena della Sierra da Juarez, a ovest. Era una scalata più difficile di quanto avesse immaginato, e richiedeva più tempo. Inclinò la testa, si schermò gli occhi per ripararli dal fulgore del cielo, socchiuse le palpebre e guardò la cima conica della montagna. Gli restavano ancora un'ottantina di metri: entro mezz'ora sarebbe disceso il buio totale. La prospettiva di passare la notte accanto alla grande bestia di pietra lo colmava di spiacevoli presentimenti; eppure scendere nell'oscurità sarebbe stato un suicidio. Billy era un ometto e aveva cinquantacinque anni. Ma tutta una vita passata a coltivare la terra nel clima spietato del deserto di Sonora lo aveva reso duro e solido come una vecchia padella di ferro. Forse le sue giunture non erano più flessibili come al tempo in cui aveva vinto una corsa di broncos a Tucson, non si muoveva con l'agilità del ragazzo che un tempo era il più veloce della tribù nelle gare campestri, e non aveva più la stessa
energia; ma era ancora duro come un vecchio caprone di montagna. Il bianco degli occhi era ingiallito, le palpebre erano arrossate perché, per tutta la vita, non aveva mai portato gli occhiali scuri. Aveva la faccia tonda e scura, la mascella energica e le sopracciglia grigie e ispide: un volto che sembrava poco espressivo ma che in realtà rivelava un carattere forte e una comprensione della natura quasi impossibile da raggiungere per chi non fosse un indigeno americano. Un'ombra e una brezza fredda passarono all'improvviso su di lui. Rabbrividì per quel gelo inatteso. Era uno spirito? Si chiese da dove provenisse. Era possibile che suo fratello cercasse di farlo precipitare sulle rocce sottostanti? Forse la grande bestia di pietra sapeva che lui si stava avvicinando e gli lanciava un monito. Attanagliato dai presentimenti, Billy continuò ad arrampicarsi a denti stretti, e guardò soltanto la roccia verticale che aveva davanti. Per fortuna, altri che lo avevano preceduto avevano scalpellato appigli per i piedi e le mani nella parete più ripida, quella più vicina alla vetta. Era chiaro che quei segni erano molto vecchi, lisci e smussati ai bordi com'erano. Quando Billy arrivò a cinquanta metri dalla sommità, entrò in una sorta di camino che si apriva nella roccia, lasciando una scia di pietre frantumate all'interno di un'ampia spaccatura dall'inclinazione più abbordabile e meno massacrante. Finalmente, proprio quando i muscoli delle braccia cominciavano a cedere e le gambe a perdere sensibilità, la parete di roccia lasciò il posto a un declivio agevole, e Billy raggiunse strisciando la superficie scoperta della vetta. Negli ultimi bagliori del giorno, l'uomo si alzò in piedi e aspirò profondamente l'aria pura e fredda del deserto. Si fregò le mani sui pantaloni per rimuovere il terriccio e la ghiaia e guardò l'ombra del demone che torreggiava nell'oscurità crescente. Sebbene fosse scolpito nella roccia della montagna, Billy avrebbe giurato di vederlo splendere. Era stanco e dolorante, ma non provava paura di fronte alla statua logorata dal tempo, nonostante le leggende che parlavano degli spiriti inquieti che si aggiravano sulla montagna dopo essere stati respinti sul limitare dell'Aldilà. Non vide segno di esseri spaventosi in agguato nell'oscurità. A parte il grosso felino dalla testa di serpente, la montagna era deserta. Billy parlò. «Eccomi.» Non ebbe risposta. Gli unici suoni erano il vento e il frullo delle ali di un falco. Le anime tormentate degli inferi tacevano. «Ho scalato la montagna incantata per pregarti», disse Billy.
Anche questa volta non ebbe un segnale o una risposta, ma un brivido gli corse lungo la spina dorsale quando percepì una presenza. Sentì voci che parlavano in una lingua sconosciuta. Nessuna delle parole che udiva gli era familiare. Poi vide prendere forma alcune figure indistinte. Erano visibili ma trasparenti. Sembrava che si muovessero sulla mesa senza badare a Billy; gli camminavano intorno e lo attraversavano come se fosse lui quello che non esisteva. Gli indumenti gli erano sconosciuti: non erano i perizomi di cotone o i mantelli di pelli di coniglio dei suoi antenati. Vestivano come gli dei. Elmi d'oro ornati di piume coloratissime coprivano le teste di molti dei fantasmi; quelli a capo scoperto portavano i capelli acconciati in modo strano. Indossavano vesti di stoffe che Billy non aveva mai visto. I mantelli erano drappeggiati sulle spalle e le tuniche erano abbellite da splendidi fregi. Dopo un lungo istante gli strani esseri parvero dissolversi e le voci tacquero. Billy rimase immobile e silenzioso come la roccia che aveva sotto i piedi. Chi era la strana gente che aveva sfilato davanti ai suoi occhi? Si era forse aperta una porta sul mondo degli spiriti? L'uomo si avvicinò al mostro di pietra, allungò una mano tremante e gli toccò il fianco. La roccia antica sembrava più tiepida di quanto avrebbe dovuto esserlo per il residuo del calore del giorno. Poi, incredibilmente, un occhio parve aprirsi sul muso di serpente, un occhio dietro il quale brillava una luce ultraterrena. Il terrore assalì la mente di Billy; ma era deciso a non esitare. Più tardi gli avrebbero rimproverato di possedere un'immaginazione sfrenata. Ma prima di morire, molti anni più tardi, ebbe a giurare mille volte di aver visto il demone che lo fissava con un occhio scintillante. Chiamò a raccolta tutto il suo coraggio, si lasciò cadere in ginocchio e allargò le mani. Incominciò a pregare. Pregò la statua di pietra per gran parte della notte prima di piombare in un sonno simile a una trance. La mattina, quando il sole sorse e dipinse d'oro le nubi, Billy Yuma si svegliò e si guardò intorno. Era sdraiato sul sedile anteriore del furgoncino Ford, nel deserto, molto più in basso della bestia silenziosa che, dall'alto della montagna, guardava con occhi ciechi la distesa arida. 28. Joseph Zolar stava accanto alla testa dell'armatura d'oro e guardava Henry e Micki Moore che erano chini sul computer e sulla stampante laser.
Dopo quattro giorni di studio ininterrotto, avevano tradotto le immagini simboliche in parole descrittive e frasi concise. Era affascinante vederli afferrare i fogli che cadevano dalla stampante per analizzare con aria eccitata le loro conclusioni, mentre un orologio a muro scandiva i minuti che li separavano dalla morte. Continuavano il loro lavoro come se gli uomini dai passamontagna non esistessero. Henry s'impegnava con la massima dedizione. Il suo mondo esisteva in uno spazio ristretto, accademico. Come molti professori universitari di antropologia e di archeologia lavorava per il prestigio, perché la ricchezza economica gli sfuggiva. Aveva rimesso insieme frammenti di vasi e scritto un numero incredibile di libri che pochi leggevano e pochissimi acquistavano. Pubblicate in tirature modeste, tutte le sue opere finivano per raccogliere polvere nelle cantine delle biblioteche dei college. La notorietà e gli onori che immaginava gli sarebbero toccati quale interprete e forse come scopritore del tesoro di Huascar erano per lui più importanti dell'utile finanziario. All'inizio gli Zolar avevano giudicato Micki Moore attraente. Ma molto presto la sua indifferenza nei loro confronti era diventata irritante. Era evidente che amava il marito e che gli altri non l'interessavano. Vivevano e lavoravano insieme in un mondo tutto loro. Joseph Zolar avrebbe provato ben pochi rimorsi per la loro eliminazione. Nel corso degli anni aveva avuto a che fare con venditori e collezionisti spregevoli e con criminali incalliti; ma per lui quei due erano un enigma. Non si curava più del tipo di esecuzione che i suoi fratelli progettavano: l'unica cosa che contava era che i Moore fornissero istruzioni concise ed esatte per arrivare alla catena d'oro di Huascar. Era inutile portare i passamontagna, ma lo facevano quando si trovavano in presenza dei Moore. Era però chiaro che la coppia non si lasciava intimidire facilmente. Zolar guardò Henry Moore e si sforzò di sorridere, ma senza grande successo. «Avete finito di decifrare i simboli?» chiese speranzoso. Moore strizzò l'occhio alla moglie e le rivolse un sorriso soddisfatto prima di rispondere a Zolar. «Abbiamo finito. La storia che abbiamo ricavato è una drammatica testimonianza di resistenza umana. L'interpretazione delle immagini e la loro traduzione ampliano di molto l'attuale conoscenza per quanto riguarda i Chachapuyas. E obbligherà a riscrivere tutti i testi esistenti sugli Inca.» «Quanta modestia», commentò Sarason in tono sarcastico.
«Sapete esattamente dove è sepolto il tesoro?» chiese Charles Oxley. Henry Moore alzò le spalle. «Non saprei dirlo con precisione.» Sarason si avvicinò, incollerito, a labbra strette. «Vorrei chiedere se i nostri illustri decifratori hanno una vaga idea di ciò che stanno facendo.» «E che cosa pretende? Una freccia che indica una x per segnalare il punto esatto?» ribatté freddamente Moore. «Maledizione! È appunto questo che vogliamo!» Zolar sorrise con aria condiscendente. «Veniamo ai fatti, dottor Moore. Che cosa ci potete dire?» «Sarete felici di sapere», rispose Micki Moore, «che, per quanto sembri incredibile, la catena d'oro è soltanto una piccola parte del tesoro. L'inventario decifrato da me e da mio marito registra almeno altre quaranta o più tonnellate di ornamenti e vasellame cerimoniale, acconciature, corazze, collane, e oggetti d'oro e d'argento massiccio, ognuno dei quali dovette essere trasportato da dieci uomini. C'erano anche quantità ingenti di tessuti sacri, almeno venti mummie rivestite d'oro, e più di cinquanta vasi di ceramica pieni di pietre preziose. Se avremo un po' più di tempo saremo in grado di fornirvi un elenco completo.» Zolar, Sarason e Oxley la fissarono attraverso i passamontagna, nascondendo la loro avidità insaziabile. Per lunghi istanti non vi fu altro suono che il loro respiro e il ronzio della stampante. Sebbene fossero abituati a fare affari per milioni di dollari, l'enormità della ricchezza di Huascar trascendeva la loro capacità d'immaginazione. «È un quadro interessante», disse finalmente Zolar. «Ma i glifi sull'armatura della mummia indicano dove è sepolto il tesoro?» «'Sepolto' non è il termine esatto», ribatté Henry Moore. Fissò Zolar e attese che reagisse a quell'affermazione. Zolar rimase impassibile. «Secondo il racconto inciso sull'armatura», spiegò Moore, «il tesoro fu nascosto in una caverna su un fiume...» Negli occhi di Sarason passò un lampo di disappunto. «Se fosse una caverna lungo un fiume piuttosto frequentato, sarebbe stata scoperta ormai da moltissimo tempo. E il tesoro sarebbe stato portato via.» Oxley scosse la testa. «Non è probabile che sia sparita per la seconda volta una catena d'oro che doveva essere trasportata da duecento uomini.» «E neppure un inventario immenso come quello descritto dai Moore», soggiunse Zolar. «Io sono un esperto nel campo delle antichità incaiche e sarei informato se qualche oggetto identificato come appartenente a Hua-
scar fosse comparso sul mercato. Se qualcuno avesse scoperto un tesoro simile non avrebbe potuto conservare il segreto.» «Forse ci siamo fidati troppo del dottore e di sua moglie», rifletté Sarason. «Come possiamo sapere che non ci stiano prendendo in giro?» «Come potete parlare di fiducia?» ribatté Moore senza alzare la voce. «Avete rinchiuso me e mia moglie in questa segreta di cemento priva di finestre, ci tenete qui da quattro giorni, e non vi fidate di noi? È evidente che vi piacciono i giochetti infantili.» «Non avete motivo di lamentarvi», disse Oxley. «Dato che venite pagati molto bene.» Moore rivolse a Oxley un'occhiata gelida. «Come stavo per dire, dopo che gli inca e le loro guardie chachapuyane ebbero depositato nella caverna il tesoro di Huascar, coprirono l'entrata di una lunga galleria che la raggiungeva. Poi mischiarono terriccio e pietre per darle un'aria naturale e piantarono piante indigene nella zona per fare in modo che l'ingresso non venisse più trovato.» «C'è una descrizione del terreno intorno all'imboccatura della caverna?» chiese Zolar. «Dice soltanto che si trova in una cima tondeggiante di un'isola scoscesa, in un mare interno.» «Un momento», l'interruppe Oxley. «Poco fa ha detto che la caverna era vicina a un fiume.» Moore scosse la testa. «Se mi avesse ascoltato avrebbe sentito che cosa ho detto; la caverna era su un fiume.» Sarason lo fissò, furioso. «Che mito ridicolo ci sta raccontando? Una caverna su un fiume, in un'isola in un mare interno? Ha sbagliato la traduzione, vero, dottore?» «Non c'è nessun errore», rispose Moore con fermezza. «La nostra analisi è esatta.» «L'uso della parola 'fiume' potrebbe essere puramente simbolico», suggerì Micki Moore. «E anche l'isola», replicò Sarason. «Forse avreste un'idea più precisa se vi degnaste di ascoltare la nostra interpretazione completa», propose Henry Moore. «Risparmiateci i particolari», sbottò Zolar. «Sappiamo già che Huascar portò via il tesoro sotto il naso del fratello Atahualpa e di Francisco Pizarro. Le uniche cose che ci interessano è la direzione in cui il generale Naymlap guidò la flotta del tesoro e la posizione esatta in cui nascose il cari-
co.» I Moore si scambiarono un'occhiata. Micki annuì e Henry si rivolse a Zolar. «E va bene, visto che siamo soci.» S'interruppe per esaminare un foglio uscito dalla stampante. «I glifi dell'armatura ci rivelano che il tesoro fu trasportato sulla costa e caricato su un grande nùmero di navi. Il viaggio a nord durò in tutto ottantasei giorni. Gli ultimi dodici giorni furono trascorsi navigando attraverso un mare interno, fino a quando non giunsero a un'isoletta dalle balze alte e ripide che si ergeva dall'acqua come un grande tempio di pietra. Là gli inca tirarono in secco le navi, scaricarono il tesoro e lo portarono lungo una galleria fino a una caverna all'interno dell'isola. A questo punto, comunque s'interpreti il racconto, i glifi affermano che il tesoro fu nascosto su un fiume.» Oxley srotolò una carta dell'emisfero occidentale e tracciò la rotta che partiva dal Perù, passava accanto all'America centrale e alla costa occidentale del Messico. «Il mare interno deve essere il golfo di California.» «Meglio conosciuto come il mare di Cortés», soggiunse Moore. Anche Sarason studiò la mappa. «Sono d'accordo. Dalla punta della Baja California fino al Perù è tutta acqua.» «E le isole?» chiese Zolar. «Ce ne sono almeno due dozzine, forse di più», rispose Oxley. «Ci vorrebbero anni per esplorarle tutte.» Sarason prese l'ultima pagina della traduzione dei glifi. Poi fissò freddamente Henry Moore. «Lei ci nasconde qualcosa, amico. Le immagini sull'armatura d'oro devono fornire indicazioni esatte per trovare il tesoro. Nessuna mappa che valga la carta su cui è stampata trascura di esporre le istruzioni conclusive, passo per passo.» Zolar studiò attentamente l'espressione di Moore. «È vero, dottore, che lei e sua moglie non ci avete fornito la soluzione completa dell'enigma?» «Io e Micki abbiamo decifrato tutto quel che c'è da decifrare. Non c'è altro.» «È una menzogna», disse freddamente Zolar. «Ma certo», scattò Sarason. «Anche un idiota capirebbe che lui e la moglie hanno nascosto le indicazioni più importanti.» «Non è un comportamento ragionevole, dottore. Lei e sua moglie fareste bene a rispettare il nostro accordo.» Moore alzò le spalle. «Non sono stupido come pensate», disse. «Il fatto che continuiate a rifiutare d'identificarvi mi conferma il fatto che voi tre non avete intenzione di mantenere l'impegno preso. Che garanzia ho che vi
atterrete alle promesse? Nessuno, neppure i nostri amici e parenti, sa dove ci avete portati. Condurci qui bendati e tenerci virtualmente prigionieri equivale a un sequestro. Cosa farete quando avrete nelle mani le istruzioni complete per trovare il tesoro di Huascar? Ci benderete di nuovo e ci riporterete a casa? Non credo. Secondo me, Micki e io siamo destinati a sparire senza chiasso e a diventare un fascicolo dell'archivio persone scomparse. Ora mi dica se ho torto.» Se Moore non fosse stato un uomo così intelligente, Zolar sarebbe scoppiato a ridere. Ma l'antropologo aveva capito il loro piano e adesso stava chiamando il bluff. «Bene, dottore, cosa vuole per riferirci i dati?» «Il cinquanta per cento del tesoro quando lo avremo trovato.» Sarason perse la calma. «Questo bastardo ci vuole rapinare!» Si avvicinò a Moore, lo sollevò di peso e lo sbatté contro il muro. «Basta con le pretese!» urlò. «Non tollereremo altre fesserie. Ci dica quel che vogliamo sapere o la costringerò a parlare con le brutte. E mi creda, sarà un grande piacere vederla sanguinare.» Micki Moore era calmissima, come se stesse ai fornelli di una cucina. Quella strana freddezza non sembrava molto logica a Zolar. Un'altra moglie avrebbe manifestato paura di fronte a una minaccia violenta contro il marito. Incredibilmente, Moore sorrise. «Avanti! Mi spacchi le gambe, mi ammazzi. E non troverà la catena di Huascar neppure in mille anni.» «Ha ragione, sai», mormorò Zolar guardando Micki. «Quando avrò finito di sistemarlo, non sarà adatto neppure come cibo per cani», grugnì Sarason, e alzò il pugno. «Fermo!» La voce di Oxley lo fermò. «In nome dell'efficienza, è meglio che sfoghi la tua collera sulla signora Moore. Nessun uomo si diverte nel veder violentare la moglie.» Sarason lasciò andare Moore e si girò verso Micki. La sua faccia aveva l'espressione di un unno impegnato in un saccheggio. «Sarà un piacere convincere la signora Moore a collaborare.» «È tempo perso», disse Moore. «Non ho permesso a mia moglie di partecipare alla traduzione finale. Non ha idea dell'ubicazione del tesoro.» «Cosa diavolo dice?» «Dice la verità», rispose imperturbabile Micki. «Henry non mi ha permesso di vedere i risultati conclusivi.» «Comunque, le carte vincenti le abbiamo in mano noi», concluse freddamente Sarason.
«Capito», disse Oxley. «Tu ti lavori la signora Moore come hai deciso fino a che lui non si deciderà a collaborare.» «In un modo o nell'altro otterremo le risposte che ci interessano.» Zolar fissò lo scienziato. «Bene, dottore, sta a lei decidere.» Moore li squadrò con aria gelida. «Fatele quel che volete. Non cambierà nulla.» I tre fratelli Zolar ammutolirono. Sarason rimase a bocca aperta, incredulo. Com'era possibile che un uomo gettasse la moglie ai lupi senza dar segno di vergogna o di paura? «Ha intenzione di stare a vedere mentre sua moglie viene picchiata, violentata e assassinata, e di non dire una parola per impedirlo?» chiese Zolar studiando la reazione di Moore. Lo scienziato non cambiò espressione. «La stupidità e la barbarie non vi serviranno a niente.» «Sta bluffando.» Sarason gli rivolse un'occhiata sprezzante. «Crollerà appena la sentirà urlare.» Zolar scosse la testa. «Non credo.» «Sono d'accordo», ammise Oxley. «Abbiamo sottovalutato la sua avidità e la sua smania di diventare un astro del mondo accademico. Ho ragione, dottore?» Moore non si scompose. Poi disse: «Il cinquanta per cento di qualcosa è meglio del cento per cento di nulla, signori». Zolar guardò i fratelli. Oxley annuì quasi impercettibilmente. Sarason strinse i pugni fino a sbiancarli. Girò la testa, ma dalla sua espressione si capiva che aveva voglia di strappare i polmoni a Moore. «Credo che possiamo evitare altre minacce e risolvere tutto in modo ordinato», annunciò Zolar. «Prima di acconsentire alle sue nuove richieste, devo avere la certezza assoluta che potrà guidarci fino al tesoro.» «Ho decifrato la descrizione del punto di riferimento che conduce all'entrata della caverna», disse Moore, lentamente e con voce chiara. «Non c'è possibilità di errore. Ne conosco le dimensioni e la forma. Sono in grado di riconoscerlo dall'alto.» L'affermazione fu accolta in silenzio. Zolar si avvicinò alla mummia dorata e guardò i glifi incisi nell'oro. «Il trenta per cento. Dovrà accontentarsi.» «Il quaranta o niente», rispose risolutamente Moore. «Vuole che lo mettiamo per iscritto?» «Sarebbe un impegno valido davanti a un tribunale?»
«Probabilmente no.» «Allora dovremo fidarci.» Moore si rivolse alla moglie. «Scusa, mia cara, spero che non troverai troppo sconvolgente tutto questo. Ma devi capire: certe cose sono più importanti degli impegni matrimoniali.» Che donna strana, pensò Zolar. Avrebbe dovuto apparire spaventata e umiliata, invece era rimasta imperturbabile. «Allora siamo d'accordo», disse. «Dato che ormai siamo soci non vedo la ragione di continuare a portare i passamontagna.» Si sfilò il suo e si passò le mani fra i capelli. «Cerchiamo di fare una bella dormita, tutti quanti. Domattina presto andrete a Guaymas, in Messico, con il jet della nostra società.» «Perché Guaymas?» chiese Micki Moore. «Per due ragioni. Ha una posizione centrale sul golfo di California, e un buon amico e cliente mi ha messo a disposizione la sua hacienda a nord del porto. La tenuta ha una pista d'atterraggio privata; quindi è la base ideale per svolgere le ricerche.» «Tu non vieni?» chiese Oxley. «Vi raggiungerò fra due giorni. Ho una riunione d'affari a Wichita, nel Kansas.» Zolar si rivolse a Sarason temendo che il fratello si scagliasse di nuovo contro Moore. Ma non aveva motivo di preoccuparsi. Sulle labbra di Sarason era spuntato un sogghigno diabolico. I suoi fratelli non potevano leggergli nella mente e non sapevano che stava immaginando ciò che Tupac Amaru avrebbe fatto a Henry Moore dopo il ritrovamento del tesoro. 29. «Brunhilda ha fatto tutto il possibile», disse Yaeger, alludendo al suo amato terminale. «Abbiamo ricostruito insieme circa il novanta per cento dei codici delle funicelle. Ma ci sono alcune permutazioni che non abbiamo risolto...» «Permutazioni?» borbottò Pitt, che stava seduto di fronte a Yaeger nella sala conferenze. «Le disposizioni diverse nell'ordine delle linee e dei colori dei fili metallici del quipu.» Pitt scrollò le spalle e si guardò intorno. Oltre a lui c'erano quattro uomini: l'ammiraglio Sandecker, Al Giordino, Rudi Gunn e Hiram Yaeger. L'attenzione di tutti era rivolta a Yaeger, che aveva l'aspetto di un coyote che
ha abbaiato per tutta la notte alla luna piena. «Devo perfezionare il mio vocabolario», mormorò Pitt. Si sistemò più comodamente e guardò il genio del computer che stava dietro un leggio sotto un grande schermo. «Come stavo per spiegare», continuò Yaeger, «alcuni dei nodi e degli avvolgimenti sono indecifrabili. Dopo aver applicato le informazioni e le tecniche per l'analisi dei dati più sofisticate note all'uomo, il massimo che posso offrire è un riassunto approssimativo della storia.» «Eppure possiedi una mente magistrale», commentò Gunn con un sorriso. «Non riuscirebbe a fare di più neppure Einstein. Se avesse dissotterrato una stele di Rosetta incaica, o un manuale seicentesco sull'arte di fare i quipu, anche lui avrebbe lavorato nel vuoto.» «Se quello che stai per dirci non è sensazionale», disse Giordino, «io vado a pranzo.» «Il quipu di Drake è una rappresentazione complessa di dati numerici», continuò Yaeger, per nulla turbato dal sarcasmo di Giordino. «Ma non è molto preciso nelle descrizioni particolareggiate degli eventi. Non è possibile narrare azioni ed episodi drammatici per mezzo di nodi piazzati strategicamente su alcuni avvolgimenti di fili metallici colorati. Il quipu può dare soltanto indicazioni succinte sulle persone che agirono su questo particolare contesto storico.» «Si è spiegato chiaramente», disse Sandecker, agitando uno dei suoi sigari enormi. «E adesso perché non ci racconta cosa ha setacciato da quel labirinto?» Yaeger annuì e abbassò le luci. Mise in funzione un proiettore e fece apparire sul grande schermo un'antica mappa spagnola della costa dell'America del Nord e del Sud. Prese una bacchetta metallica, telescopica come l'antenna di un'autoradio, e l'agitò in direzione della mappa. «Per non tenervi una lunga lezione di storia mi limiterò a dire che quando Huascar, il legittimo erede al trono incaico, fu sconfitto e spodestato dal fratello bastardo Atahualpa, nel 1533, ordinò che il tesoro del regno e altre ricchezze reali venissero nascosti nelle Ande. Fu una mossa intelligente. Durante la prigionia, Huascar subì umiliazioni e sofferenze tremende. I suoi amici e parenti furono uccisi, le mogli e i figli impiccati. E in quel momento gli Spagnoli decisero d'invadere l'impero degli Inca. In una situazione simile a quella che aveva incontrato Cortés in Messico, Francisco Pizarro non avrebbe potuto scegliere un momento più opportuno. Le arma-
te incaiche erano divise in fazioni e decimate dalla guerra fratricida e il disordine fu per lui un utile alleato. Dopo che il piccolo contingente di soldati e di avventurieri di Pizarro ebbe ucciso qualche migliaia di seguaci e burocrati di Atahualpa sulla piazza dell'antica città di Caxanarca, s'impadronì dell'impero con facilità irrisoria.» «È strano che gli Inca non attaccassero e sopraffacessero gli spagnoli», commentò Gunn. «Dovevano essere cento volte più numerosi delle truppe di Pizarro.» «Quasi mille volte più numerosi», precisò Yaeger. «Ma come era successo con Cortés e gli Aztechi, la vista di quei temibili uomini barbuti dagli indumenti di ferro che le frecce e le pietre non potevano penetrare, montati su animali fino a quel momento sconosciuti agli Inca - i cavalli -, armati di spade, di archibugi e di cannoni, era veramente troppo. Demoralizzati, i generali di Atahualpa non furono in grado di prendere l'iniziativa e di ordinare attacchi in massa.» «E le armate di Huascar?» chiese Pitt. «Senza dubbio erano ancora in campo.» «Sì, ma non avevano un comandante.» Yaeger annuì. «La storia può solo prendere in esame una situazione ipotetica. Cosa sarebbe accaduto se i due sovrani inca avessero sepolto l'ascia di guerra e unito i loro due eserciti in una campagna senza esclusione di colpi per cacciare dall'impero i temuti stranieri? È un'ipotesi interessante. Con la sconfitta degli Spagnoli, solo Dio sa quali potrebbero essere oggi i confini e i governi del Sudamerica.» «Di sicuro non parlerebbero lo spagnolo», commentò Giordino. «Dov'era Huascar durante lo scontro fra Atahualpa e Pizarro?» chiese Sandecker, che si era finalmente deciso ad accendere il sigaro. «Era prigioniero a Cuzco, la capitale dell'impero, milleduecento chilometri a sud di Caxanarca.» Pitt non alzò gli occhi dal blocco dove annotava gli appunti, e chiese: «Poi cosa successe?» «Per pagarsi la libertà, Atahualpa promise a Pizarro di riempire d'oro una stanza fino all'altezza che poteva raggiungere», rispose Yaeger. «Una stanza un po' più grande di questa.» «E mantenne l'impegno?» «Sì. Ma aveva paura che Huascar potesse offrire a Pizarro più oro, argento e gemme di lui. Perciò diede l'ordine di assassinare Huascar, che fu annegato.»
Sandecker fissò Yaeger attraverso una nuvola di fumo azzurrognolo. «Dopo la morte del re, chi assunse la responsabilità del tesoro nascosto?» «Un generale che si chiamava Naymlap», rispose Yaeger. S'interruppe e usò la bacchetta per indicare una linea rossa che, sulla mappa, andava dalle Ande alla costa. «Non apparteneva alla famiglia reale incaica; era un guerriero chachapuyano che aveva fatto carriera ed era diventato il più fidato consigliere di Huascar. Fu lui a organizzare il trasferimento del tesoro dalle montagne al mare, dove aveva radunato una flotta di cinquantacinque navi. Secondo il quipu, dopo un viaggio di ventiquattro giorni, ne furono impiegati altri diciotto solo per caricare a bordo il tesoro.» «Non sapevo che gli Inca fossero navigatori», commentò Gunn. «Lo erano anche i Maya. E come i Fenici, i Greci e i Romani prima di loro, gli Inca non si allontanavano troppo dalla costa. Non avevano paura del mare aperto, ma per prudenza tiravano a riva le imbarcazioni nelle notti senza luna e quando c'era tempesta. Navigavano regolandosi con il sole e le stelle; si affidavano ai venti prevalenti e alle correnti lungo la costa, e commerciavano con i mesoamericani a Panamá, forse anche più oltre. Una leggenda incaica parla di un antico re che aveva avuto notizia di un'isola ricca d'oro e popolata da gente intelligente, situata molto al di là dell'orizzonte. Deciso a conquistare bottino e schiavi, costruì una flotta di navi e partì con una compagnia di soldati. Raggiunsero quelle che, si pensa, dovevano essere le isole Galapàgos. Nove mesi più tardi tornò con decine di prigionieri negri e molto oro.» «Le Galapágos?» chiese Pitt. «È un'ipotesi come un'altra.» «Abbiamo qualche documento sulla costruzione delle loro navi?» chiese Sandecker. «Bartolomeo Ruiz, il pilota di Pizarro, vide grandi zattere munite di alberi e grandi vele quadrate di cotone. Altri marinai spagnoli narrarono di aver incontrato imbarcazioni con scafi di legno di balsa, bambù e canne, che trasportavano sessanta persone e quaranta o più casse di merci. Oltre ad avere le vele, le imbarcazioni erano mosse dai remi. Alcuni disegni trovati sul vasellame precolombiano mostrano navi a due ponti con la prua e la poppa rialzate, ornate da teste di serpente simili ai draghi delle navi vichinghe.» «Perciò non ci sono dubbi? Erano in grado di trasportare tonnellate d'oro e d'argento per lunghe distanze attraverso il mare?» «Nessun dubbio, ammiraglio.» Yaeger batté la bacchetta su un'altra linea
che indicava il percorso della flotta di Naymlap. «Dal punto di partenza, navigando verso nord fino a destinazione, il viaggio portò via ottantasei giorni. Non era un'impresa da poco per navi primitive.» «C'è la possibilità che si fossero diretti a sud?» chiese Giordino. Yaeger scosse la testa. «Il mio computer ha scoperto che un gruppo di nodi rappresenta i quattro punti cardinali, con il nodo che indica il nord in alto, e quello che indica il sud in basso. Est e ovest sono rappresentati da funicelle subordinate.» «E lo sbarco finale?» chiese Pitt. «È la parte più difficile. Dato che non ho mai avuto occasione di cronometrare la velocità di un'imbarcazione di balsa a vele spiegate su un miglio nautico, ho dovuto tirare a indovinare per stimare la velocità della flotta sull'acqua. Non mi addentro nei particolari: più tardi potrete leggere il mio rapporto completo. Ma Brunhilda, nel calcolare la lunghezza del viaggio, ha fatto un lavoro magistrale proiettando le correnti e il vento durante il 1533.» Pitt intrecciò le mani dietro la testa e inclinò la sedia all'indietro. «Lasciami indovinare. Sono arrivati a terra nella parte più settentrionale del mare di Cortés, chiamato anche golfo di California, un'immensa lingua d'acqua che separa il Messico continentale dalla Baja California.» «Su un'isola, come abbiamo già detto», soggiunse Yaeger. «Gli equipaggi delle navi impiegarono dodici giorni per trasferire il tesoro in una caverna, molto grande secondo le dimensioni annotate sul quipu. Un'apertura, che io ho tradotto come 'galleria', scende dal punto più alto dell'isola alla grotta del tesoro.» «Ed è riuscito a dedurre tutto questo da una serie di nodi?» chiese incredulo Sandecker. Yaeger annuì. «Ho dedotto questo e molto di più. Una funicella cremisi rappresentava Huascar, un nodo nero il giorno della sua esecuzione per ordine di Atahualpa, la cui funicella è violacea. Quella del generale Naymlap è turchese carico. Io e Brunhilda siamo in grado di darvi anche un inventario completo del tesoro. E potete credermi quando vi dico che il totale complessivo è di gran lunga più grande di quelli che sono stati recuperati negli ultimi cent'anni dalle navi affondate.» Sandecker rimase scettico. «Spero che avrà incluso anche l'Atocha, l'Edinburgh e la Central America.» «E molte altre», ribatté Yaeger con un sorriso fiducioso. Gunn era perplesso. «Hai parlato di un'isola situata nel mare di Cortés?»
«Quindi, dov'è esattamente il tesoro?» chiese Giordino mirando al dato più importante. «Oltre al fatto di trovarsi in una grotta su un'isola del mare di Cortés», disse Sandecker. «Il tutto cantato sull'aria di My Darlin' Clementine», osservò scherzosamente Pitt. «Ho l'impressione», sospirò Giordino, «che abbiamo una spaventosa quantità di isole da prendere in considerazione. Il golfo di California ne è strapieno.» «Non dobbiamo occuparci delle isole situate al di sotto del ventottesimo parallelo.» Yaeger tracciò con la bacchetta un cerchio intorno a una parte della mappa. «Come ha immaginato Dirk, secondo i miei calcoli la flotta di Naymlap raggiunse la parte più settentrionale del golfo di California.» Giordino era pragmatico come sempre. «Non ci hai ancora detto dove dovremo scavare.» «Su un'isola che si erge dall'acqua come una guglia, come suggerisce la traduzione fatta da Brunhilda, come il tempio del Sole di Cuzco.» Yaeger proiettò sullo schermo una diapositiva ingrandita che mostrava il mare fra la Baja California e la parte continentale del Messico. «È un fattore che restringe in modo considerevole la zona della ricerca.» Pitt si tese in avanti e studiò la mappa apparsa sullo schermo. «Le isole centrali di Angel de la Guarda e Tiburon si estendono fra i quaranta e i sessanta chilometri. E ognuna ha diverse vette a guglia. Dovresti essere ancora più preciso, Hiram.» «C'è la possibilità che a Brunhilda sia sfuggito qualcosa?» chiese Gunn. «O che abbia dedotto dai nodi un significato sbagliato?» disse Giordino mentre, con aria noncurante, prendeva dal taschino uno dei sigari speciali di Sandecker e lo accendeva. L'ammiraglio gli lanciò un'occhiataccia, ma non disse nulla. Da molto tempo aveva rinunciato a cercare di capire come se li procurava Giordino. Di certo non li prelevava dalla sua scorta personale, dato che Sandecker teneva scrupolosamente l'inventario dei sigari nel suo umidificatore. «Ammetto che c'è una lacuna nelle nostre conoscenze», riconobbe Yaeger. «Come ho detto prima, io e il computer abbiamo decifrato il novanta per cento degli avvolgimenti e dei nodi del quipu. L'altro dieci per cento non ha un significato chiaro. Due avvolgimenti ci hanno portato fuori strada. Uno fa un vago riferimento a quello che Brunhilda interpreta come una specie di dio o di demone scolpito nella pietra. Il secondo non ha senso dal
punto di vista geologico. Parla di un fiume che attraversa la grotta del tesoro.» Gunn batté la biro sul tavolo. «Non ho mai sentito parlare di un fiume che scorre sotto un'isola.» «Neppure io», dichiarò Yaeger. «Per questo esitavo a parlarne.» «Dovrebbe essere acqua filtrata dal golfo», disse Pitt. Gunn annuì. «È l'unica spiegazione logica.» Pitt girò la testa verso Yaeger. «Non hai trovato nessuna indicazione di punti di riferimento?» «Scusa, avevo dimenticato. Per un po' ho sperato che il dio o demone fornisse la chiave dell'ubicazione della caverna», rispose Yaeger. «I nodi di quel particolare avvolgimento sembravano indicare una misura di distanza. Ho l'impressione che indichi il numero di passi entro una galleria che conduce dal demone alla grotta. Ma i fili di rame sono intaccati e Brunhilda non è riuscita a ricostruire un senso coerente.» «Che specie di demone?» chiese Sandecker. «Non ne ho la più pallida idea.» «Forse un segnale che conduce al tesoro?» mormorò Gunn. «Oppure una divinità sinistra per spaventare i ladri», suggerì Pitt. Sandecker batté il sigaro sul bordo di una coppa di vetro e fece cadere la cenere. «Può essere una teoria valida se le intemperie e i vandali non hanno causato danni nel corso di quattro secoli e più, lasciando una statua che ormai non si distingue dalla roccia naturale.» «Per riassumere», intervenne Pitt, «stiamo cercando un affioramento scosceso, oppure una guglia, su un'isola del mare di Cortés sovrastata dalla statua di un demone.» «È una generalizzazione», disse Yaeger, e sedette al tavolo. «Ma riassume abbastanza bene quello che sono riuscito a ricavare dal quipu.» Gunn si tolse gli occhiali e li sollevò verso la luce in cerca di qualche macchia. «C'è qualche speranza che Bill Straight possa restaurare le funicelle deteriorate?» «Gli chiederò di mettersi subito al lavoro», rispose Yaeger. «Sì, e comincerà con la massima diligenza entro un'ora», gli assicurò Sandecker. «Se gli esperti di Straight possono ricostruire un numero sufficiente di nodi e di fili che Brunhilda analizzerà, credo di poter aggiungere presto abbastanza dati per portarvi a un tiro di sputo dalla galleria che conduce alla caverna del tesoro.»
«Sarà meglio per te», commentò Pitt. «Perché ho ben altre ambizioni che passare il resto della mia vita in Messico a scavare buche.» Gunn si rivolse a Sandecker. «Allora cosa ne dice, ammiraglio? Si va?» Il direttore della NUMA fissò la mappa sullo schermo, sospirò e borbottò: «Voglio una proposta particolareggiata che spieghi il progetto per la ricerca e il suo costo, e la voglio trovare sulla mia scrivania domani mattina. Consideratevi in vacanza pagata per le prossime tre settimane. E da questa sala non deve uscire neppure una parola. Se i media fiutano che la NUMA si è lanciata in una caccia al tesoro, il Congresso me ne dirà di tutti i colori.» «E se troveremo il tesoro di Huascar?» chiese Pitt. «Allora saremo tutti eroi squattrinati.» Yaeger non aveva capito. «Squattrinati?» «L'ammiraglio», spiegò Pitt, «vuol dire che chi troverà il tesoro non potrà tenerselo.» Sandecker annuì. «Potete spargere fiumi di lacrime, signori; ma se riuscirete a trovare il tesoro, probabilmente dovrà essere consegnato al governo peruviano, fino all'ultima oncia.» Pitt e Giordino si scambiarono sorrisi d'intesa, ma fu Giordino quello che parlò per primo. «Comincio a pensare che tutta questa faccenda contenga una lezione.» Sandecker lo guardò, impacciato. «Quale lezione?» Giordino studiò il suo sigaro prima di rispondere. «Probabilmente sarebbe meglio se il tesoro restasse dov'è.» 30. Gaskill era sdraiato sul letto. Accanto, sul comodino, c'erano una tazza di caffè ormai freddo e un piatto con un sandwich alla mortadella lasciato a metà. La coperta che riscaldava Gaskill era cosparsa di pagine manoscritte. Prese la tazza e bevve un sorso prima di leggere un altro foglio di un manoscritto dal titolo: Il ladro che non fu mai catturato. Era il resoconto della caccia allo Spettro, opera di un ispettore di Scotland Yard in pensione che si chiamava Nathan Pembroke. L'ispettore aveva speso quasi cinque decenni frugando negli archivi internazionali della polizia, seguendo ogni possibile pista indipendentemente dalla sua attendibilità, impegnato in una ricerca senza tregua. Quando aveva saputo che Gaskill s'interessava all'inafferrabile ladro di
opere d'arte degli anni '20 e '30, gli aveva inviato le pagine ingiallite e gualcite del manoscritto che aveva compilato meticolosamente e che era stato rifiutato da una trentina di editori in altrettanti anni. Gaskill non riusciva a smettere di leggerlo. Era completamente assorbito dal magistrale lavoro investigativo di Pembroke, un uomo che ormai si avvicinava alla novantina. L'inglese era stato incaricato di occuparsi dell'ultimo furto dello Spettro, avvenuto a Londra nel 1939. Le opere rubate erano un Joshua Reynolds, un paio di Constable e tre Turner. Come tutti gli altri furti geniali dello Spettro, il caso non era mai stato risolto e nessuna delle opere era stata recuperata. Pembroke, tenace assertore della teoria secondo la quale «non esiste il delitto perfetto», era ossessionato dall'idea di scoprire l'identità dello Spettro. Per mezzo secolo questa ossessione non l'aveva abbandonato. Pembroke non si era voluto arrendere. Qualche mese prima che la sua salute subisse un brusco declino e lo costringesse a ricoverarsi in clinica, aveva ottenuto un risultato decisivo che gli aveva permesso di scrivere la parola «fine» al suo resoconto. Era un vero peccato, pensò Gaskill, che nessun editore ritenesse l'opera meritevole di pubblicazione. Era certo che almeno dieci famosi furti d'arte si sarebbero potuti risolvere se il libro fosse stato pubblicato e distribuito nelle librerie. Gaskill finì l'ultima pagina un'ora prima dell'alba. Si assestò sul cuscino e guardò il soffitto mentre inseriva al loro posto i pezzi del rompicapo. Mentre i raggi del sole entravano dalla finestra della sua camera a Cicero, alla periferia di Chicago, l'uomo ebbe un'improvvisa illuminazione: l'ammasso di tronchi che ostruiva un fiume si era finalmente sbloccato e ora lui era libero di procedere sull'acqua. Mentre prendeva il telefono, Gaskill sorrideva come se avesse vinto alla lotteria. Compose un numero a memoria e sprimacciò i cuscini per mettersi a sedere nell'attesa della risposta. Una voce molto assonnata gracchiò: «Qui Francis Ragsdale». «Sono Gaskill.» «Gesù, Dave, perché mi hai chiamato a quest'ora?» «Chi è?» risuonò nel ricevitore la voce confusa della moglie di Ragsdale. «Dave Gaskill.» «Non sai che è domenica?» «Scusa se ti ho svegliato», disse Gaskill. «Ma ho una buona notizia che
non può aspettare.» «E va bene», borbottò sbadigliando Ragsdale. «Sentiamo.» «Posso dirti il nome dello Spettro.» «Chi?» «Il nostro ladro di opere d'arte.» Ragsdale si svegliò di colpo. «Lo Spettro? Vuoi dire che lo hai identificato?» «Non sono stato io, ma un ispettore in pensione di Scotland Yard.» «Un inglese?» «Ha impiegato una vita per scrivere un libro sullo Spettro. In parte sono congetture, però ha messo insieme indizi e prove piuttosto convincenti.» «Che cosa ha scoperto?» Gaskill si schiarì la gola. «Il nome del più grande ladro di opere d'arte della storia era Mansfield Zolar.» «Ripeti un po'.» «Mansfield Zolar. Ti dice niente?» «Mi prendi in giro?» «Te lo giuro sul mio distintivo.» «Non ho il coraggio di chiedere...» «Non disturbarti», l'interruppe Gaskill. «So che cosa stai pensando. Era il padre.» «Mio Dio, la Zolar International. È come trovare l'ultimo pezzo di un rompicapo. Gli Zolar, o comunque si facciano chiamare. Tutto comincia a corrispondere.» «Come le molliche di Pollicino che conducono alla soglia di casa.» «Avevi ragione, quando siamo stati a pranzo insieme l'altro giorno. Lo Spettro era davvero il patriarca di una dinastia di mele marce che hanno continuato a perpetuare la tradizione.» «A quanto posso ricordare, abbiamo tenuto la Zolar International sotto sorveglianza almeno in quattro occasioni, ma ogni volta non abbiamo scoperto niente. Non avevo mai intuito che esistesse un legame con il leggendario Spettro.» «È stata la stessa cosa anche per l'FBI», ammise Ragsdale. «Abbiamo sempre sospettato che fossero i responsabili di tutte le vendite illegali di opere d'arte di gran valore, ma non abbiamo mai trovato indizi sufficienti per incriminare qualcuno di loro.» «Hai tutta la mia comprensione. Nessuna traccia della merce rubata, nessun mandato di perquisizione o di arresto.»
«È quasi un miracolo che un'attività clandestina come quella degli Zolar possa svolgersi su una scala tanto ampia senza sollevare sospetti.» «Quelli non commettono errori», commentò Gaskill. «Avete cercato d'infiltrare qualcuno nell'organizzazione?» chiese Ragsdale. «Due volte. Hanno mangiato la foglia quasi immediatamente. Se non fossi sicuro che i miei sono tutti tipi a posto, avrei giurato che gli Zolar avevano ricevuto una soffiata.» «Anche noi non siamo riusciti a infiltrarci. E i collezionisti che acquistano opere rubate sono altrettanto impenetrabili e diffidenti.» «Eppure sappiamo bene che gli Zolar riciclano opere d'arte rubate come i trafficanti di droga riciclano il denaro sporco.» Ragsdale rimase in silenzio per qualche istante, poi disse: «Credo che sia ora che smettiamo di vederci a pranzo per scambiarci informazioni: dobbiamo collaborare a tempo pieno». «Mi piace la tua idea», esclamò Gaskill. «Comincerò a smuovere le acque dalle mie parti presentando al mio superiore la proposta di costituire una task force congiunta. Glielo comunicherò oggi stesso, non appena arrivo in ufficio.» «E io farò altrettanto.» «Perché non combiniamo un incontro fra i nostri team... diciamo giovedì mattina?» «Mi sembra un'ottima idea», approvò Ragsdale. «Così avremo il tempo necessario per gettare le fondamenta.» «A proposito dello Spettro, hai rintracciato i Diego Rivera rubati? A pranzo hai accennato al fatto di avere una traccia...» «Sto ancora lavorando sul caso», rispose Gaskill. «Ma comincio a sospettare che i Rivera siano stati esportati in Giappone e siano finiti in una collezione privata.» «Vuoi scommettere che sono stati gli Zolar a organizzare la vendita?» «Se è così, non avranno lasciato tracce. Sono vere superstar del crimine, quelli. Dal tempo in cui il vecchio Mansfield Zolar realizzò il suo primo furto rimanendo impunito, nessun membro della famiglia è stato toccato da te, da me o da qualunque altro membro delle forze dell'ordine di questo mondo. Gli Zolar non sono mai finiti in tribunale. Sono candidi come gigli. È disgustoso.» «Questa volta li prenderemo», esclamò Ragsdale in tono incoraggiante. «Non commettono mai errori che possiamo sfruttare a nostro vantag-
gio», gli fece notare Gaskill. «Forse sì e forse no. Ma ho sempre avuto la sensazione che un estraneo, qualcuno che non ha niente a che fare direttamente con te, con me o con gli Zolar, comparirà all'improvviso e manderà in cortocircuito il loro sistema.» «Chiunque sia, spero che compaia presto. Mi dispiacerebbe vedere gli Zolar ritirarsi tranquillamente in Brasile prima che possiamo metter loro la corda al collo.» «Ora sappiamo che papà Zolar è il fondatore dell'organizzazione e conosciamo il suo modus operandi; quindi abbiamo un'idea più precisa di quello che dobbiamo cercare.» «Prima di salutarci», disse Ragsdale, «vorrei chiederti una cosa: sei riuscito a collegare un traduttore esperto all'armatura d'oro che ti è scappata dalle mani?» Gaskill rabbrividì. Avrebbe preferito che Ragsdale non gli ricordasse quel particolare. «Tutti gli esperti conosciuti di quella specialità sono stati rintracciati, tranne due. Due antropologi di Harvard, il dottor Henry Moore e la moglie. Sono spariti. I colleghi e i vicini non sanno dove siano andati.» Ragsdale rise. «Sarebbe simpatico sorprenderli mentre collaborano con uno degli Zolar.» «Ci sto lavorando.» «Buona fortuna.» «Ci sentiamo presto», lo salutò Gaskill. «Ti richiamerò stamattina più tardi.» «Chiamami nel pomeriggio. Ho un interrogatorio che comincia alle nove.» «Facciamo così», disse Ragsdale. «Chiamami tu quando avrai combinato qualcosa riguardo alla nostra collaborazione.» «D'accordo.» Gaskill riattaccò con un sorriso. Quella mattina non aveva intenzione di andare in ufficio. Ottenere l'approvazione per la costituzione di una task force congiunta con l'FBI sarebbe stato più complicato per Ragsdale che per lui. Dopo aver letto tutta la notte, aveva deciso di farsi una bella dormita. Era sempre felice quando un caso ormai sul punto di essere accantonato per mancanza di prove riprendeva improvvisamente vita. Le cose erano più chiare, adesso. Era una sensazione piacevole. Se la motivazione viene raf-
forzata da un incentivo l'effetto globale è assai positivo... E questa dove l'aveva sentita? Durante un corso alla Dale Carnegie? Da un istruttore della Dogana? Prima che riuscisse a ricordarlo s'era già addormentato. 31. Pedro Vincente atterrò con il vecchio DC-3 magnificamente restaurato sulla pista dell'aeroporto di Harlingen, nel Texas. Fece rullare l'aereo cinquantacinquenne fino all'hangar della Dogana degli Stati Uniti e spense i due motori Pratt & Whitney da milleduecento cavalli. Due agenti della Dogana erano in attesa quando Vincente aprì il portello dei passeggeri e scese a terra. Il più alto dei due, con i capelli rossi scomposti dalla brezza e la faccia lentigginosa, teneva sopra gli occhi una tabella metallica per ripararli dal sole texano. L'altro aveva un segugio al guinzaglio. «Il signor Vincente?» chiese il primo dei due. «Pedro Vincente?» «Sì, sono io.» «La ringraziamo per averci avvisati del suo arrivo negli Stati Uniti.» «È sempre un piacere collaborare con il vostro governo», disse Vincente. Avrebbe teso la mano, ma le esperienze precedenti gli avevano insegnato che gli agenti evitavano i contatti fisici. Porse una copia del piano di volo. L'agente mise il foglio sulla tabella metallica ed esaminò le annotazioni, mentre il suo compagno issava il segugio a bordo dell'aereo perché cercasse un eventuale carico di droga. «È partito da Nicoya, nel Costa Rica?» «Esatto.» «E la sua destinazione è Wichita, nel Kansas?» «È là che abitano la mia ex moglie e i miei figli.» «Scopo della visita?» Vincente alzò le spalle. «Vado una volta al mese a trovare i figli; tornerò a casa dopodomani.» «È agricoltore?» «Sì. Coltivo caffè.» «Mi auguro che non coltivi niente altro», disse l'agente con un sorriso a labbra strette. «Mi basta il caffè per vivere nell'agiatezza», ribatté Vincente in tono irritato. «Posso vedere il passaporto, signore?»
La routine non cambiava mai. Anche se Vincente vedeva spesso quei due uomini, si comportavano sempre come se fosse un turista alla sua prima visita negli Stati Uniti. L'agente diede un'occhiata alla foto e confrontò i capelli neri e lisci pettinati all'indietro, gli occhi castani, la carnagione olivastra e il naso aguzzo. La statura e il peso mostravano un uomo basso e piuttosto magro di quarantaquattro anni. Vincente teneva all'eleganza. I suoi abiti sembravano usciti dalle pagine di Gentlmen's Quarterly: camicia firmata, pantaloni e giacca sportiva di alpaca verde con un fazzoletto di seta intorno al collo. L'agente della Dogana pensò che quell'uomo somigliava a un ballerino di mambo. Alla fine l'agente terminò l'esame del passaporto e sorrise con aria ufficiale. «Le dispiace attendere nel nostro ufficio, signor Vincente, mentre perquisiamo il suo aereo? Credo che conosca già la procedura.» «Certo.» Vincente mostrò un paio di riviste in spagnolo. «Quando vengo qui sono sempre preparato a perdere un po' di tempo.» L'agente guardava con ammirazione il DC-3. «È un piacere esaminare un aereo così splendido. Scommetto che il suo volo è degno del suo aspetto.» «All'inizio, poco prima della guerra, era un aereo commerciale della TWA. Quando l'ho trovato, trasportava carichi per una società mineraria in Guatemala. L'ho comprato subito e ho speso parecchio per farlo restaurare.» Era quasi arrivato all'ufficio quando si voltò e chiamò l'agente. «Posso fare una telefonata per chiamare l'autocisterna? Nei serbatoi non ho abbastanza carburante per arrivare a Wichita.» «Sicuro. Lo dica all'agente che troverà al banco.» Un'ora più tardi Vincente sorvolava il Texas diretto a Wichita. Accanto a lui, sul sedile del copilota, c'erano quattro borse con sei milioni di dollari, portate a bordo di nascosto, poco prima del decollo, da uno dei due uomini arrivati con l'autocisterna. Dopo aver perquisito minuziosamente l'aereo senza trovare tracce di droga o di altra merce di contrabbando, gli agenti della Dogana avevano concluso che Vincente era «pulito». Avevano indagato su di lui anni prima ed erano convinti che fosse un rispettabile uomo d'affari costaricano che guadagnava un mare di soldi coltivando caffè. Era vero che Pedro Vincente era il proprietario della seconda piantagione di caffè del Costa Rica in ordine di grandezza. Ma era anche vero che guadagnava dieci volte di più
con la sua attività illegale, perché era l'organizzatore di una solida rete di traffico di droghe, ed era conosciuto come Julio Juan Carlos. Come facevano gli Zolar con il loro impero criminale, Vincente dirigeva i suoi traffici da lontano. Le attività quotidiane venivano seguite dai suoi luogotenenti, nessuno dei quali conosceva la sua vera identità. Vincente aveva effettivamente un'ex moglie che viveva con i quattro figli in una grande fattoria nei pressi di Wichita. La fattoria era il regalo che le aveva fatto dopo che lei aveva chiesto il divorzio. Nella fattoria c'era una pista per aerei, in modo che Vincente potesse andare e tornare dal Costa Rica per far visita ai figli mentre acquistava opere d'arte rubate dalla famiglia Zolar. Gli agenti della Dogana e dell'Antidroga si preoccupavano di quel che entrava negli Stati Uniti assai più di quel che ne usciva. Nel tardo pomeriggio Vincente scese sulla pista in mezzo a un campo di mais. Un aereo color nocciola dorato con una vivace striscia violacea lungo la fusoliera era parcheggiato in fondo: accanto al jet era stata montata una grande tenda blu con una pensilina. Un uomo vestito di lino bianco era seduto sotto la pensilina accanto a un tavolo apparecchiato per il pranzo. Vincente salutò dall'abitacolo, sbrigò in fretta i controlli in cabina di pilotaggio e scese dal DC-3. Portò con sé tre borse; una la lasciò a bordo. L'uomo seduto al tavolo si alzò, gli andò incontro e lo abbracciò. «Pedro, è sempre una gioia vederti.» «Joseph, vecchio mio, non sai quanto tengo ai nostri incontri.» «Puoi credermi quando dico che preferisco trattare con un uomo d'onore come te, piuttosto che con tutti gli altri clienti messi insieme.» Vincente sogghignò. «Ingrassi l'agnello con i complimenti prima di macellarlo?» Zolar rise, disinvolto. «No, no, non prima di bere qualche bicchiere di ottimo champagne per addolcirti.» Vincente seguì Joseph Zolar sotto la pensilina e sedette mentre una giovane cameriera latinoamericana versava lo champagne e offriva gli hors d'oeuvre. «Mi hai portato mercanzia di prima scelta?» «A un felice accordo che soddisfi due buoni amici», declamò Zolar mentre brindavano. Poi annuì. «Ho scelto personalmente i più rari fra i manufatti rari degli Inca peruviani. E ho portato anche preziosissimi oggetti di culto degli Indiani del sud-ovest americano. Te lo garantisco: gli oggetti appena arrivati dalle Ande metteranno la tua già impareggiabile collezione d'arte precolombiana al di sopra di tutti i musei del mondo.» «Sono ansioso di vederli.»
«I miei dipendenti li hanno sistemati nella tenda perché tu possa esaminarli», spiegò Zolar. Gli individui che incominciano a raccogliere oggetti rari diventano ben presto maniaci, schiavi della necessità di acquisire e accumulare ciò che nessun altro può possedere. Pedro Vincente apparteneva alla confraternita di coloro che erano sempre smaniosi di ampliare la loro collezione, una collezione di cui ben pochi conoscevano l'esistenza. Ed era anche uno dei fortunati che disponevano di fondi segreti esentasse da riciclare per soddisfare la propria passione. In vent'anni, Vincente aveva acquistato da Zolar il settanta per cento dei suoi oggetti amatissimi. Non lo infastidiva il fatto che spesso doveva pagare gli oggetti quattro o cinque volte di più del loro vero valore, soprattutto perché erano quasi tutti rubati. Era un rapporto vantaggioso per entrambi. Vincente riciclava il denaro della droga, e Zolar si serviva dei contanti per ampliare in segreto il suo inventario sempre più ricco di opere d'arte di provenienza illecita. «Perché i manufatti andini sono così preziosi?» chiese Vincente mentre finivano il secondo bicchiere di champagne. «Sono chachapuyani.» «Non ho mai visto opere d'arte chachapuyane.» «Pochissimi ne hanno viste», rispose Zolar. «Quelle che stai per ammirare sono state estratte di recente in una Città dei Morti in mezzo alle Ande.» «Spero che non mi mostrerai qualche coccio e qualche urna», osservò Vincente, che incominciava a raffreddarsi un po'. «Nessun manufatto chachapuyano autentico è mai arrivato sul mercato.» Zolar scostò il telo della tenda con un gesto melodrammatico. «Puoi lustrarti gli occhi con la più grande collezione d'arte chachapuyana mai esistita.» In preda a una forte emozione, Vincente non notò la piccola teca di vetro posta su un supporto in un angolo della tenda. Si avvicinò ai tre grandi tavoli coperti di velluto nero disposti a ferro di cavallo. Su uno di quelli laterali erano disposti vari tessuti, sull'altro ceramiche. Il tavolo centrale sembrava la vetrina di una gioielleria della Quinta Strada. Vincente rimase sbalordito. Non aveva mai visto tante magnifiche antichità precolombiane messe in mostra in un unico luogo. «È incredibile!» esclamò. «Hai veramente superato te stesso.» «Nessun mercante al mondo ha mai messo le mani su capolavori come
questi.» Vincente passò da un pezzo all'altro, li toccò e li esaminò con occhio critico. Il solo fatto di accarezzare i tessuti ricamati e gli ornamenti d'oro e di gemme gli mozzava il respiro. Gli sembrava assurdo che un simile tesoro fosse lì, in un campo di grano del Kansas. Finalmente mormorò, in tono stupefatto: «Dunque questa è l'arte chachapuyana». «Ogni pezzo è originale e autenticato.» «Provengono tutti da tombe?» «Sì, da sepolcri di reali e di potentati.» «Magnifici.» «Hai visto qualcosa che ti piace?» domandò scherzosamente Zolar. «C'è altro?» chiese Vincente mentre l'eccitazione si placava. Incominciò a pensare agli acquisti. «Quel che vedi è tutto ciò che ho a disposizione in fatto di arte chachapuyana.» «Non mi nascondi qualche pezzo importante?» «Assolutamente no», ribatté Zolar con aria di virtuoso risentimento. «Sei il primo ad avere la possibilità di acquistare la collezione completa. Non intendo disperderla. È superfluo aggiungere, amico mio, che ci sono altri cinque collezionisti in attesa di questa grande occasione.» «Ti darò cinque milioni di dollari per tutto questo.» «Apprezzo la generosità dell'offerta iniziale. Ma mi conosci bene e sai che non mercanteggio mai. Il prezzo è fisso.» «E qual è?» «Sei milioni.» Vincente spostò diversi oggetti su uno dei tavoli per fare spazio. Aprì le borse una dopo l'altra. Erano tutte piene di mazzette di banconote di grosso taglio. «Ho portato soltanto cinque milioni.» Zolar non si lasciò ingannare neppure per un attimo. «È un vero peccato, ma devo rifiutare. Certo, avrei preferito vendere a te la collezione, però...» «Ma sono il tuo cliente migliore», protestò Vincente. «Non posso negarlo», ammise Zolar. «Siamo come fratelli. Io sono il solo che conosca le tue attività segrete, e tu sei l'unico, al di fuori della mia famiglia, che conosce le mie. Perché fai sempre la stessa storia tutte le volte che discutiamo un affare? Ormai dovresti aver capito che non è il caso.» Vincente rise e scrollò le spalle. «A che serve? Sai bene che ho più soldi di quanti posso spenderne. Possedere quegli oggetti mi rende felice. Perdona il mio vizio di mercanteggiare. Pagare in contanti non è mai stata una
tradizione della mia famiglia.» «Naturalmente hai il resto della somma a bordo dell'aereo, vero?» Senza dire una parola, Vincente uscì dalla tenda. Dopo pochi minuti tornò con la quarta borsa. La mise accanto alle altre e l'aprì. «Sei milioni e cinquecentomila. Hai detto di avere anche alcuni rari oggetti religiosi del sud-ovest americano. Sono inclusi anche quelli?» «Puoi averli per i cinquecentomila dollari in più», rispose Zolar. «Troverai gli idoli indiani nella bacheca di vetro in quell'angolo.» Vincente andò a togliere il vetro e osservò le strane figure nodose e contorte. Non erano comuni idoli cerimoniali. Benché sembrassero scolpiti e dipinti da un bambino, ne conosceva il significato perché aveva una lunga esperienza in fatto di collezioni del sud-ovest americano. «Hopi?» chiese. «No, montolo. Sono vecchissimi, e molto importanti per i rituali religiosi.» Vincente tese la mano per prenderne uno ed esaminarlo meglio. Il suo cuore mancò tre battiti, mentre un sudario di ghiaccio lo avvolgeva. Aveva la sensazione che le sue dita non fossero entrate in contatto con la radice indurita di un pioppo morto da molto tempo. Sembrava piuttosto il braccio morbido di una donna. Vincente era pronto a giurare di averlo udito emettere un gemito. «Hai sentito?» chiese, rimettendo l'idolo nella bacheca come se gli avesse scottato la mano. Zolar lo squadrò con aria interrogativa. «Io non ho sentito niente.» Vincente sembrava in preda a un incubo. «Per favore, amico mio, concludiamo l'affare, e poi vattene. Non voglio questi idoli nella mia proprietà.» «Allora non intendi comprarli?» chiese Zolar, sorpreso. «No, no. In quegli idoli vivono gli spiriti. Sento la loro presenza.» «Sciocchezze. Superstizioni.» Vincente strinse le spalle di Zolar e lo guardò con aria implorante. «Distruggili», supplicò. «Distruggili, o loro distruggeranno te.» 32. Sotto un sole stranamente caldo, duecento preziosi esempi dell'arte di costruire automobili spiccavano sull'erba verde dell'East Potomac Park e brillavano come lustrini sotto i riflettori di un teatro.
Organizzato per gli amanti della bellezza senza tempo e della perfezione artigianale delle auto d'epoca ma anche per coloro che ne erano semplicemente innamorati, il Capital Concours des Beaux Moteurcars, che si svolgeva ogni anno, aveva principalmente lo scopo di raccogliere fondi per i centri d'assistenza ai bambini maltrattati della zona di Washington. Durante il fine settimana in cui si svolgeva il concorso, cinquantamila appassionati di auto d'epoca sciamavano nel parco per contemplare le Duesenberg, le Auburn, le Cord, le Bugatti e le Packard prodotte da fabbriche ormai scomparse. L'atmosfera era carica di nostalgia. Gli spettatori che visitavano la mostra e ammiravano le linee immacolate e i dettagli perfetti non potevano evitare di pensare a un'epoca e a un modo di vivere in cui i ricchi ordinavano uno chassis e un motore a una fabbrica e poi facevano costruire la carrozzeria secondo i loro gusti personali. I più giovani sognavano di possedere un giorno una macchina come quelle, mentre gli ultrasessantacinquenni ricordavano di averle viste circolare molti anni prima. Le macchine erano catalogate secondo l'anno di fabbricazione, lo stile della carrozzeria e il Paese d'origine. Venivano assegnati trofei alle migliori delle rispettive categorie e targhe alle altre classificate. Il Best of show era il premio più ambito. Alcuni proprietari più ricchi spendevano centinaia di migliaia di dollari per restaurare i loro gioielli e portarli a un livello di perfezione addirittura superiore a quello dello stato delle macchine il giorno in cui erano uscite dalla fabbrica. Diversamente dai proprietari di altre macchine, abbigliati in modo più dignitoso, Dirk Pitt ostentava una camicia hawaiana a fiorami, calzoncini bianchi e sandali. Se ne stava seduto su una sedia di tela da giardino e dietro di lui troneggiava una splendida berlina Pierce Arrow blu del 1936 con vetro divisorio, alla quale era agganciata una roulotte Pierce Arrow Travelodge del 1936, con la verniciatura in tinta. Quando non doveva rispondere alle domande dei visitatori che chiedevano notizie sulla macchina e sulla roulotte, teneva il naso affondato in una grossa guida marittima del mare di Cortés. Ogni tanto prendeva appunti su un blocco giallo a righe blu. Nessuna delle isole elencate e illustrate dalla guida corrispondeva alle balze scoscese dell'affioramento monolitico che Yaeger aveva scoperto nel quipu di Drake. Pochissime avevano pareti a picco. Alcune presentavano pendici fortemente angolate, ma anziché avere la forma di un cappello cinese o di un sombrero messicano, in alto erano piatte e diventavano mesas.
Giordino, che portava un paio di calzoncini color kaki e una maglietta con la pubblicità dell'Alkali Sam's Tequila, si avvicinò alla Pierce Arrow. Era accompagnato da Loren, fasciata in una tuta turchese che la rendeva ancora più bella del solito. La donna portava un cesto da picnic, mentre Giordino reggeva su una spalla una borsa termica. «Spero che tu abbia fame», disse Loren a Pitt. «Abbiamo mezzo svuotato una gastronomia.» «Per la precisione», dichiarò Giordino con un sospiro mentre posava sull'erba la borsa, «abbiamo caricato viveri sufficienti per sfamare una squadra di taglialegna.» Pitt si sporse sulla sedia da giardino e cercò di leggere la frase stampata sulla maglietta dell'amico. «Cosa dice dell'Alkali Sam's Tequila?» «Se hai ancora gli occhi aperti», recitò Giordino, «non è Alkali Sam's.» Pitt rise e indicò la portiera aperta della vecchia roulotte. «Perché non entriamo nel mio palazzo mobile per ripararci dal sole?» Giordino riprese la borsa, la portò a bordo e la mise su un banco da cucina. Loren lo seguì e cominciò a disporre il contenuto del cesto da picnic sul tavolo di un séparé che si poteva trasformare in letto. «Per essere stata costruita durante la Depressione», commentò girando lo sguardo sull'interno di legno con le credenze a vetri, «è sorprendentemente moderna.» «Alla Pierce Arrow erano in anticipo sui tempi», spiegò Pitt. «Costruivano roulotte per integrare gli utili in calo dalle vendite delle macchine. Rinunciarono dopo due anni. Vittime della Depressione. Producevano tre modelli, uno più lungo e uno più corto di questo. Ho ammodernato il fornello e il frigo, ma il resto l'ho restaurato per riportarlo alla condizione originale.» «Ho qui Corona, Coors e Cheurlin», annunciò Giordino. «Scegliete.» «Che birra è la Cheurlin?» chiese Loren. «Domaine Cheurlin Extra Dry è la marca di uno spumante. L'ho comprato all'Elephant Butte.» «E da dove viene questo spumante?» «Dal New Mexico», rispose Pitt. «Un ottimo spumante. Al e io, durante una discesa in canoa lungo il Rio Grande, abbiamo scoperto l'azienda che lo produce.» «Bene.» Loren sorrise e porse una flûte. «Versa.» Pitt sorrise e indicò il bicchiere. «Hai barato. Sei venuta già preparata.» «Ti conosco abbastanza per sapere il tuo segreto.» Loren prese un secondo bicchiere e glielo passò. «Dietro adeguato compenso, non racconte-
rò al mondo che l'intrepido Dirk Pitt degli abissi preferisce lo spumante alla birra.» «Li bevo tutti e due», protestò Pitt. «Se va a raccontarlo ai ragazzi del saloon locale», disse Giordino in tono molto serio, «rideranno tanto di te che non oserai più farti vedere in città.» «Quanto mi costerà?» domandò Pitt con aria sottomessa. Loren gli lanciò un'occhiata molto sexy. «Ne discuteremo questa notte.» Giordino indicò la guida del mare di Cortés. «Hai trovato qualcosa d'interessante?» «Su circa cento isole situate nel golfo che s'innalzano per cinquanta metri almeno dal mare, ho ristretto la rosa a due probabili e quattro possibili. Le altre non corrispondono ai dati geologici.» «E sono tutte nella parte settentrionale?» Pitt annuì. «Non ho preso in considerazione quelle al di sotto del ventottesimo parallelo.» «Posso vedere dove avete intenzione di andare a cercare?» chiese Loren, mentre disponeva sul tavolo un assortimento di affettati, formaggi, pesce affumicato, pane, crauti e insalata di patate. Pitt andò a un armadietto, prese una foto arrotolata e la spiegò sul banco della cucina. «È un ingrandimento del golfo. Ho segnato con un cerchietto le isole che si avvicinano di più alla descrizione ricavata dal quipu.» Loren e Giordino posarono i bicchieri ed esaminarono la fotografia, scattata da un satellite geofisico che mostrava nei particolari la zona superiore del mare di Cortés. Pitt porse a Loren una grossa lente d'ingrandimento. «La definizione è incredibile», esclamò lei mentre esaminava le isolette. «Vedi qualcosa che somigli a una roccia e non abbia l'aspetto naturale?» chiese Giordino. «L'ingrandimento è buono, ma non fino a questo punto», rispose Pitt. Loren osservò le isole segnate da Pitt, poi alzò gli occhi verso di lui. «Immagino che avrai intenzione di fare una ricognizione aerea di quelle più... promettenti.» «È la prossima fase nel processo di eliminazione.» «Con un aereo?» «No, con un elicottero.» «Mi pare un'area molto vasta per coprirla con un elicottero», disse Loren. «Cosa userai come base?» «Un vecchio traghetto.» «Un traghetto?» chiese Loren, sorpresa.
«Sì, un traghetto per persone e macchine in servizio nella baia di San Francisco fino al 1957. Più tardi fu venduto e usato dai messicani: andava da Guaymas a Santa Rosalia, attraverso il golfo di California. Nel 1962 è stato tolto dal servizio. Rudi Gunn l'ha preso a nolo per due soldi.» «Dobbiamo ringraziare l'ammiraglio», borbottò Giordino. «È maledettamente tirchio.» «1962?» mormorò Loren scuotendo la testa. «Sono passati trentasei anni. A quest'ora sarà un rottame; oppure è finito in un museo.» «Secondo Rudi viene ancora usato come mezzo da lavoro», spiegò Pitt. «E il ponte superiore è abbastanza grande per ospitare un elicottero. Mi ha assicurato che sarà un'ottima piattaforma per i voli di ricognizione.» «E quando le operazioni di ricerca finiranno, la sera», concluse Giordino, «il traghetto si trasferirà a un altro gruppo di isole che figura nell'elenco di Dirk. In questo modo risparmieremo parecchio tempo.» Loren porse a Pitt un piatto e le posate. «Mi pare che vi siate organizzati a dovere. Cosa succederà quando troverete un sito promettente?» «Penseremo a preparare una campagna di scavi dopo aver studiato la geologia dell'isola», rispose Pitt. «Serviti», disse Loren. Giordino non perse tempo. Cominciò a costruire un sandwich di proporzioni monumentali. «Vedo che ha fatto ottimi acquisti, cara signora.» «Sempre meglio che sgobbare sui fornelli», rise Loren. «E i permessi? In Messico non si può andare in giro a scavare in cerca di tesori senza il permesso delle autorità.» Pitt mise una porzione abbondante di mortadella su una fetta di pane. «L'ammiraglio Sandecker pensa che sia meglio aspettare. Non vogliamo rivelare troppo presto il nostro obiettivo. Se si spargesse la voce che abbiamo una pista per arrivare al più colossale bottino della storia, mille cacciatori di tesori ci piomberebbero addosso come locuste. I funzionari messicani ci butterebbero fuori del Paese nella speranza di tenere il tesoro per il loro governo. E il Congresso sbranerebbe la NUMA per aver speso i dollari dei contribuenti americani in una caccia al tesoro in un Paese straniero. No, è meglio fare le cose con la massima discrezione.» «Non possiamo permetterci di essere abbattuti prima di avere una remota possibilità di trovare quel che cerchiamo», disse Giordino, in un tono serio alquanto insolito per lui. Loren rimase in silenzio mentre si metteva sul piatto un po' d'insalata di patate; quindi chiese: «Perché non portate con voi qualcuno che possa co-
stituire una specie di assicurazione nell'eventualità che le autorità locali messicane s'insospettiscano e comincino a fare troppe domande?» Pitt la fissò. «Ti riferisci a un esperto di pubbliche relazioni?» «No, a un autentico membro del Congresso degli Stati Uniti.» Pitt continuò a fissare i sensuali occhi violetti. «Tu?» «Perché no? Il presidente della Camera dei Rappresentanti ha annunciato una pausa dei lavori per la settimana prossima. I miei collaboratori potranno sbrigare il mio lavoro. Mi farebbe piacere lasciare Washington per qualche giorno e vedere un po' il Messico.» «Per essere sincero», commentò Giordino, «mi sembra un'idea da sballo.» Strizzò l'occhio a Loren e le rivolse un sorriso a trentadue denti. «Dirk è sempre più sopportabile quando ci sei anche tu.» Pitt cinse Loren con un braccio. «Se dovesse andar male qualcosa, se la faccenda ci scoppiasse tra le mani mentre siamo in territorio straniero e tu fossi in nostra compagnia, lo scandalo potrebbe rovinare la tua carriera politica.» Lei lo guardò con aria impertinente. «Gli elettori mi butterebbero in mezzo a una strada. Allora non potrei far altro che sposarti.» «Sarebbe addirittura peggio che dover ascoltare un discorso del presidente», commentò Giordino. «Comunque, mi sembra una buona idea.» «Non so, ma non riesco a vedere noi due che camminiamo lungo la navata della cattedrale di Washington», dichiarò pensosamente Pitt, «e poi andiamo a stabilirci in una casetta di Georgetown.» Loren aveva sperato in una reazione diversa, ma sapeva che Pitt non era un uomo come gli altri. Ricordava il loro primo incontro, durante un garden party di quasi dieci anni prima offerto da un ex segretario per l'Ambiente. Era stata attratta dal suo magnetismo. Pitt non era bello come un divo del cinema, ma aveva un'aria pratica e mascolina che aveva suscitato in lei un desiderio mai provato per altri uomini. Era alto e magro... e anche questi particolari avevano il loro peso. Nel suo ruolo di deputata, Loren aveva conosciuto molti uomini ricchi e potenti, molti dei quali erano anche di bell'aspetto. Ma Pitt era un individuo che portava con disinvoltura la sua fama di avventuriero e se ne infischiava del potere e della fama. Giustamente. Era del tutto autentico. La loro relazione, che durava a intermittenza da dieci anni, non comportava troppi obblighi. Lui aveva conosciuto altre donne, lei aveva conosciuto altri uomini; tuttavia il loro legame era ancora solido. L'idea del matrimonio aveva un nonsoché di remoto. Entrambi erano già sposati con il
proprio lavoro. Ma gli anni avevano addolcito il rapporto; e, come donna, Loren sapeva che l'orologio biologico non le concedeva ancora molto tempo se voleva avere figli. «Non è necessario che vada proprio così», disse infine. Pitt intuì ciò che pensava. «No», replicò in tono affettuoso. «È possibile introdurre alcuni miglioramenti significativi.» Loren gli lanciò un'occhiata strana. «È una proposta di matrimonio?» Gli occhi verdi di Pitt divennero più seri. «Diciamo che si tratta di un suggerimento per il futuro.» 33. «Puoi portarci più vicini alla vetta più alta?» chiese Sarason al fratello Charles Oxley che era ai comandi del piccolo idrovolante. «La cresta di quella più bassa è troppo aguzza per le nostre esigenze.» «Vedi qualcosa?» Sarason scrutò con il binocolo da un finestrino laterale. «L'isola presenta notevoli possibilità, ma sarebbe meglio se sapessi quale punto di riferimento dovrei cercare.» Oxley fece virare l'aereo per vedere meglio l'Isla Danzante, una formazione rocciosa scoscesa di cinque chilometri quadrati che affiorava per quattrocento metri dal mare di Cortés, immediatamente a sud di una famosa località di villeggiatura, Loreto. «Ha l'aspetto giusto», commentò guardando in basso. «Due spiaggette per tirare in secco le barche. Le pendici sono piene di piccole grotte. Che ne dici, fratello?» Sarason si voltò a guardare l'uomo sul sedile posteriore. «Dico che l'illustre professor Moore continua a nasconderci qualcosa.» «Vi indicherò il posto giusto quando lo vedrò», ribatté seccamente Moore. «Buttiamo giù quel piccolo bastardo e stiamo a guardare mentre cerca di volare», scattò Sarason. Moore incrociò le braccia con aria baldanzosa. «Fatelo pure, e non troverete mai il tesoro.» «Comincio a essere stufo di sentirmelo ripetere.» «E l'Isla Danzante?» chiese Oxley. «Ha le caratteristiche giuste?» Moore prese il binocolo dalle mani di Sarason senza chiedergli il permesso e scrutò il terreno accidentato lungo il dorso dell'isola. Dopo qualche istante, restituì il binocolo e si assestò al suo posto stringendo lo sha-
ker con cui si stava preparando un martini. «Non è quella che cerchiamo», annunciò in tono solenne. Sarason contrasse le mani per resistere alla tentazione di strozzarlo. Dopo qualche istante, ritrovò un minimo di compostezza e girò la pagina della stessa guida che aveva consultato anche Pitt. «Il prossimo posto è l'Isla Carmen. Centocinquanta chilometri quadrati. Lunghezza, trenta chilometri. Ci sono diverse cime che superano i trecento metri.» «Lasciamo perdere», sentenziò Moore. «È troppo grande.» «Ho preso nota della sua sollecita risposta», borbottò sarcasticamente Sarason. «Poi abbiamo l'Isla Cholla, un piccolo scoglio piatto con un faro e qualche capanna di pescatori.» «Possiamo saltare anche quella», dichiarò Moore. «C'è l'Isla San Ildefonso, una decina di chilometri a est di San Sebastián.» «Grandezza?» «Circa due chilometri quadrati e mezzo. Non ci sono spiagge.» «Ci deve essere una spiaggia», disse Moore, mentre beveva un altro sorso di martini dallo shaker. Poi assunse un'aria di rammarico. «Gli inca non avrebbero potuto sbarcare e scaricare se non ci fosse stata una spiaggia.» «Dopo San Ildefonso arriviamo a Bahía Coyote», proseguì Sarason. «Lì potremo scegliere fra sei isole che sono poco più di grossi scogli.» Oxley fece salire lentamente il bimotore fino a settecento metri. Poi stabilì una rotta per il nord. Venticinque minuti più tardi apparvero la baia e la lunga penisola che la separava dal golfo di California. Oxley si abbassò e cominciò a volare in cerchio sulle isolette rocciose sparse intorno all'imboccatura. «L'Isla Guapa e l'Isla Bargo potrebbero essere interessanti», osservò Sarason. «Tutte e due s'innalzano bruscamente dall'acqua e hanno vette piccole ma esposte.» Moore si girò sul sedile e guardò in basso. «Non mi sembrano promettenti...» S'interruppe e prese di nuovo il binocolo di Sarason. «Quell'isola laggiù.» «Quale?» chiese irritato Sarason. «Ce ne sono sei.» «Quella che sembra un'anitra con la testa girata all'indietro.» «L'Isla Bargo. Il profilo corrisponde. Fianchi ripidi su tre lati, cresta arrotondata. E c'è anche una spiaggetta nell'incavo del collo.» «Ci siamo», esclamò Moore, emozionato. «Deve essere quella.» Oxley non era convinto. «Come fa a esserne sicuro?»
Per un attimo, una strana espressione passò negli occhi dell'antropologo. «È una sensazione, niente di più.» Sarason riprese bruscamente il binocolo e studiò l'isola. «Là, sulla cima. Sembra che ci sia qualcosa scolpito nella roccia.» «Lasci perdere», lo zittì Moore mentre si asciugava un rivolo di sudore dalla fronte. «Non significa niente.» Sarason non era uno sciocco. Si chiese se poteva essere un segnale scolpito dagli inca per indicare il percorso che portava al tesoro. Moore si lasciò ricadere sul sedile e rimase in silenzio. «Adesso ammarrerò e raggiungerò quella spiaggetta», disse Oxley. «Dall'alto, almeno, sembra che la scalata fino alla vetta sia relativamente agevole.» Sarason annuì. «Andiamo.» Oxley compì due passaggi sull'acqua davanti alla spiaggia dell'isola: voleva essere sicuro che non ci fossero scogli pericolosi per l'incolumità dello scafo. Si portò controvento e fece posare l'idrovolante sul mare azzurro. Toccò le onde leggere e procedette come un motoscafo su un lago un po' mosso. Le eliche lampeggiavano nel sole e sollevavano spruzzi sopra le ali. L'aereo rallentò rapidamente a causa dell'attrito con l'acqua, mentre Oxley tirava all'ìndietro le manette e manteneva una potenza appena sufficiente per continuare a procedere verso la spiaggia. Due pescatori uscirono da una baracca e guardarono sbalorditi, mentre Oxley spegneva i motori e le eliche rallentavano e si arrestavano. Il portello si aprì e Sarason scese sulla sabbia candida, seguito da Moore e poi da Oxley, che chiuse a chiave anche il portello del vano di carico. Come ulteriore misura precauzionale, Sarason pagò generosamente i pescatori perché tenessero d'occhio l'aereo. Poi i tre si avviarono lungo un sentiero appena visibile che conduceva al punto più alto dell'isola. All'inizio il percorso fu agevole, ma poi divenne più erto via via che si avvicinavano alla cima. I gabbiani volteggiavano sopra di loro, stridevano e guardavano gli umani sudati con occhi vitrei e indifferenti. Volavano maestosamente timonando con le penne della coda, e tenevano le ali protese e immobili per approfittare delle calde correnti ascensionali. Un gabbiano più curioso degli altri passò in picchiata sopra Moore e gli sporcò la spalla. L'antropologo, che sembrava risentire gli effetti dell'alcool e della fatica, guardò in silenzio la camicia macchiata: era troppo stanco per imprecare.
Sarason, con un gran sogghigno sulle labbra, rivolse un saluto ironico al gabbiano e si arrampicò su un macigno che sbarrava il percorso. Vide il mare azzurro; guardò al di là del canale, in direzione della spiaggia bianca di Playa el Coyote e, più oltre, scorse i monti della Sierra el Cardonal. Moore, boccheggiante e madido di sudore, si era fermato. Sembrava sull'orlo di uno svenimento quando Oxley lo afferrò per una mano e lo issò sulla cima piatta dell'isola. «Nessuno le ha mai detto che l'alcool e le scalate non vanno d'accordo?» Moore lo ignorò. All'improvviso lo sfinimento si dissolse. L'antropologo s'irrigidì e socchiuse le palpebre con la tipica concentrazione degli ubriachi. Scostò Oxley e avanzò barcollando verso una roccia grande quanto un'utilitaria, rozzamente scolpita in forma di animale. Come un ubriaco che ha avuto una visione, girò intorno alla figura e passò le mani sulla superficie ruvida e irregolare. «Un cane», ansimò tra un respiro affannoso e l'altro. «È solo uno stupido cane.» «Sbagliato», disse Sarason. «È un coyote. Ha dato il nome alla baia. I pescatori superstiziosi lo hanno scolpito perché proteggesse loro e le barche.» «Perché le interessa una vecchia roccia scolpita?» chiese Oxley. «Sono antropologo e le sculture primitive possono essere preziose fonti di conoscenza.» Sarason osservava Moore. Per una volta i suoi occhi non esprimevano disgusto. Non aveva più dubbi: il professore ubriaco aveva rivelato la chiave per raggiungere il nascondiglio del tesoro. Poteva ucciderlo subito, pensò freddamente. Poteva buttarlo dalle rocce nella risacca che s'infrangeva sugli scogli sottostanti. Chi mai se ne sarebbe preoccupato? Probabilmente la marea avrebbe portato via il cadavere e gli squali avrebbero fatto il resto. Era molto difficile che le autorità messicane aprissero un'inchiesta. «Si rende conto, naturalmente, che non abbiamo più bisogno di lei. Ha capito, Henry?» Era la prima volta che Sarason chiamava Moore per nome e quella familiarità era minacciosa. L'antropologo scosse la testa e rispose con una compostezza gelida che sembrava innaturale in quelle circostanze. «Senza di me non ce la farete mai.» «È un bluff patetico», ribatté Sarason in tono sarcastico. «Ormai sappiamo che dobbiamo cercare un'isola con una scultura, una scultura antica,
presumo. Quale altro contributo potrebbe dare lei alla ricerca?» L'ubriachezza di Moore si era dileguata. Era ridiventato sobrio di colpo. «Una statua è soltanto la prima di diversi segnali lasciati dagli inca, e devono essere tutti interpretati.» Sarason sorrise, un sorriso freddo e maligno. «Non mi racconta palle, vero, Henry? Non sta cercando di farmi credere che l'Isla Bargo non sia il nascondiglio del tesoro per poter tornare più tardi a disseppellirlo? Mi auguro sinceramente che non le passi per la testa un'idea del genere.» Moore lo fissò. Aveva un'espressione di antipatia, non di paura. «Faccia saltare la vetta dell'isola», disse alzando le spalle. «E vedrà che cosa riuscirà a fare. La spianerà fino al livello del mare. Non troverà un'oncia del tesoro di Huascar neppure in mille anni. Ha bisogno di qualcuno che conosca i segreti dei segnali.» «Forse ha ragione», disse Oxley a voce bassa. «E, se mente, potremo tornare a scavare per conto nostro. Avremo la meglio in ogni caso.» Sarason sorrise. Riusciva a leggere nei pensieri di Henry Moore. L'antropologo cercava di guadagnare tempo e si proponeva di sfruttare le fasi conclusive della ricerca in modo da impadronirsi di tutto il tesoro. Ma anche Sarason era esperto d'intrighi e aveva preso in considerazione ogni possibilità. Per il momento non gli sembrava che Moore potesse mettere in atto una fuga miracolosa con tonnellate e tonnellate d'oro. A meno che non disponesse di un piano impensabile. Calma e pazienza: per il momento, quelle erano le parole d'ordine. Batté la mano sulla spalla di Moore. «Scusi la mia esasperazione. Torniamo all'aereo e per oggi chiudiamo. Credo che gradiremmo tutti un bagno freddo, un margarita e una buona cena.» «Amen», concluse Oxley. «Domani riprenderemo dal punto dove ci siamo interrotti.» «Sapevo che avreste capito», annuì Moore. «Vi faccio strada. Non perdete la fede.» Raggiunsero l'aereo e Sarason salì a bordo per primo. Colpito da un'idea improvvisa, prese lo shaker che l'antropologo aveva abbandonato e si versò qualche goccia sulla lingua. Era acqua, non gin. Sarason imprecò fra sé. Moore era più pericoloso di quanto avesse intuito. Perché aveva recitato la parte dell'ubriaco se non per convincerli che era inoffensivo? Adesso incominciava a capire che Henry Moore non era affatto quel che sembrava. Il famoso e rispettato antropologo nascondeva ben altro.
E Sarason, capace di uccidere senza il minimo scrupolo, avrebbe dovuto riconoscere a prima vista un altro killer. Micki Moore uscì dalla piscina piastrellata di azzurro dell'hacienda e si stese su una sdraio. Indossava un bikini rosso che nascondeva ben poco della sua figura snella. Il sole era caldo, e quindi non si asciugò; lasciò che le gocce d'acqua le restassero sulla pelle. Alzò gli occhi verso la casa e indicò a una delle cameriere di portarle un altro rum collins. Si comportava da padrona e ignorava le guardie armate che sorvegliavano la tenuta. Il suo non era l'atteggiamento di chi è tenuto in ostaggio. L'hacienda era costruita intorno alla piscina e a un grande giardino pieno di fiori tropicali. Tutte le stanze principali avevano balconi che offrivano splendide vedute del mare e della città di Guaymas. Era piacevole, per Micki Moore, riposare accanto alla piscina o nella camera da letto illuminata da un lucernario e dotata di un patio e di una vasca per l'idromassaggio, mentre gli uomini volavano avanti e indietro nel golfo in cerca del tesoro. Prese l'orologio da un tavolino. Le cinque. I tre fratelli e suo marito sarebbero tornati presto. Sospirò di soddisfazione al pensiero di un'altra cena favolosa a base di specialità locali. Quando la cameriera le portò il rum collins, lo bevve lasciando solo i cubetti di ghiaccio e si assestò sulla sdraio per fare un sonnellino. Poco prima di assopirsi ebbe l'impressione di sentire una macchina che percorreva la strada e si fermava davanti al cancello dell'hacienda. Quando si svegliò, un po' più tardi, aveva freddo. Pensò che il sole si fosse nascosto dietro una nube. Ma, aprendo gli occhi, trasalì: in piedi accanto a lei c'era un uomo che le faceva ombra. Gli occhi che la fissavano sembravano due stagni neri, privi di vita. Anche la faccia pareva senza espressione. Lo sconosciuto era emaciato, come se fosse stato ammalato per lungo tempo. Micki rabbrividì come se una brezza gelida l'avesse investita all'improvviso. Era strano che l'uomo non guardasse il suo corpo scoperto: la fissava direttamente negli occhi, come se scrutasse dentro di lei. «Chi è lei?» chiese Micki Moore. «Lavora per il signor Zolar?» L'uomo rimase in silenzio per lunghi secondi. Quando parlò, lo fece con una voce strana, priva di qualunque inflessione. «Mi chiamo Tupac Amaru.» Poi si voltò e si allontanò.
34. L'ammiraglio Sandecker era in piedi davanti alla scrivania. Tese la mano quando Gaskill e Ragsdale entrarono nel suo ufficio e sorrise cordialmente. «Prego, signori, accomodatevi.» Gaskill abbassò lo sguardo sull'ometto che non gli arrivava neppure alla spalla. «Grazie per averci ricevuti». «In passato la NUMA ha collaborato varie volte con la Dogana e l'FBI. I nostri rapporti sono sempre stati improntati alla cooperazione». «Mi auguro che non si sia preoccupato quando abbiamo chiesto d'incontrarci con lei», s'informò Ragsdale. «No, ma mi sono incuriosito. Un caffè?» Gaskill annuì. «Per me senza panna e senza zucchero, grazie.» «Per me, con un dolcificante artificiale», disse Ragsdale. Sandecker parlò all'interfono, poi alzò gli occhi e chiese: «Dunque, signori, che posso fare per voi?» Ragsdale venne subito al punto. «Vorremmo che la NUMA ci aiutasse a risolvere un problema spinoso legato a certi oggetti rubati.» «È un po' fuori del nostro campo», disse Sandecker. «Siamo specializzati in scienza e ingegneria oceaniche.» Gaskill annuì. «Lo sappiamo; tuttavia la Dogana è stata informata che qualcuno della NUMA ha introdotto illegalmente nel Paese un manufatto molto prezioso.» «Quel qualcuno sono io», replicò prontamente Sandecker senza batter ciglio. Ragsdale e Gaskill si scambiarono un'occhiata e si agitarono sulle rispettive sedie. Non avevano previsto che gli avvenimenti assumessero quella piega. «Lei sa, ammiraglio, che gli Stati Uniti vietano l'importazione di oggetti di provenienza illecita in base a una convenzione dell'ONU che cerca di proteggere le antichità in tutto il mondo?» «Sì, lo so.» «E sa anche, signore, che l'ambasciata ecuadoriana ha presentato una protesta?» «Per la precisione, sono stato io a ispirarla.» Gaskill sospirò e si calmò visibilmente. «Lo sentivo nelle ossa che non era una semplice faccenda di contrabbando.» «Io e il signor Gaskill apprezzeremmo molto una spiegazione», disse
Ragsdale. Sandecker tacque mentre Julie Wolff, la sua segretaria privata, entrava con un vassoio e posava le tazze di caffè sulla scrivania. «Mi scusi, ammiraglio, ma Rudi Gunn ha chiamato da San Felipe. Ha detto che lui e Al Giordino sono atterrati e stanno facendo gli ultimi preparativi per il progetto.» «E Dirk?» «Sta viaggiando in macchina. A quest'ora dovrebbe essere nel Texas.» Sandecker si rivolse di nuovo ai due agenti federali dopo che Julie ebbe chiuso la porta. «Scusate l'interruzione. Dove eravamo?» «Stava per dirci perché ha introdotto negli Stati Uniti un antico oggetto rubato», gli ricordò Ragsdale con aria molto seria. L'ammiraglio aprì una scatola di sigari e li offrì. Quando gli agenti scossero la testa, si appoggiò alla spalliera della poltroncina, accese un sigaro e soffiò una nuvoletta di fumo azzurro in direzione di una finestra aperta. Poi raccontò la storia del quipu di Drake incominciando dalla guerra fra i principi incaici e concludendo con la traduzione degli avvolgimenti e dei nodi realizzata da Hiram Yaeger. «Ma, ammiraglio», obiettò Ragsdale, «non avrà intenzione di coinvolgere la NUMA in una caccia al tesoro!» «Certamente.» Sandecker sorrise. «Vorrei che ci spiegasse la faccenda della protesta ecuadoriana», intervenne Gaskill. «È una specie di assicurazione. L'Ecuador è in pieno conflitto con un esercito di contadini ribelli, attivi fra le montagne. Le autorità non ci avrebbero permesso di cercare il quipu e di portarlo negli Stati Uniti per decifrarlo e conservarlo. Hanno affermato che l'abbiamo rubato, e così si sono tolti d'impaccio. In realtà, hanno accettato di prestare il quipu alla NUMA per un anno. Quando noi lo restituiremo con le dovute cerimonie, saranno acclamati come eroi nazionali.» «Ma perché proprio la NUMA?» insistette Ragsdale. «Perché non lo Smithsonian o il National Geographic?» «Perché noi non siamo diretti interessati. E siamo in condizioni migliori per tenere la ricerca e la scoperta lontano dagli occhi del pubblico.» «È naturale. Se il tesoro sarà scoperto nel mare di Cortés, dove crediamo che si trovi, i messicani strilleranno che spetta a loro. Il Perù rivendicherà il diritto di proprietà iniziale, e i due paesi saranno costretti a trattare; in questo modo i tesori saranno spartiti e collocati nei loro musei nazionali.»
«E al nostro Dipartimento di Stato andrà il merito di un colpo sensazionale nei rapporti con i nostri cari vicini del Sud», soggiunse Ragsdale. «Questo l'ha detto lei, non io.» «Perché non ha informato la Dogana o l'FBI?» chiese Gaskill. «Ho informato il presidente», rispose Sandecker in tono sbrigativo. «Se poi non ha passato la notizia dalla Casa Bianca a voi, dovete prendervela con lui.» Ragsdale finì il caffè e rimise la tazza sul vassoio. «Ha chiuso la porta su un problema che ci riguarda tutti, ammiraglio. E, mi creda, per noi è un vero sollievo non dover avviare un'indagine. Sfortunatamente - o fortunatamente, a seconda del punto di vista - ha aperto la porta a un altro dilemma.» Gaskill lanciò un'occhiata a Ragsdale. «La coincidenza è davvero sorprendente.» «Quale coincidenza?» chiese incuriosito Sandecker. «Il fatto che, dopo quasi cinque secoli, due piste fondamentali per la soluzione del mistero del tesoro di Huascar siano emerse da due fonti diverse a cinque giorni di distanza l'una dall'altra.» Sandecker alzò le spalle. «Temo di non capire.» Gaskill riferì all'ammiraglio le vicende dell'armatura d'oro di Tiapollo. E concluse riepilogando i sospetti che nutriva sulla Zolar International. «Mi sta dicendo che altri stanno cercando il tesoro di Huascar in questo preciso momento?» chiede Sandecker in tono incredulo. Ragsdale annuì. «Un gruppo di criminali che opera su scala internazionale, specializzato in furti d'opere d'arte, contrabbando e falsificazione di antichità. I suoi profitti annui si calcolano in parecchi milioni di dollari esentasse.» «Non lo immaginavo.» «Purtroppo il nostro governo e i media hanno trascurato d'informare adeguatamente il pubblico su un'attività criminale che è seconda soltanto al traffico della droga.» «Il valore attribuito ai capolavori del Gardner Museum di Boston rubati nel mese di aprile del 1990», spiegò Gaskill, «si aggirava intorno ai duecento milioni di dollari.» «E se a questo aggiunge gli altri furti, l'attività di contrabbando e i falsi che girano in quasi tutti i Paesi del mondo», continuò Ragsdale, «può capire perché ci troviamo di fronte a un'industria in piena espansione.» «L'inventario delle opere d'arte e delle antichità rubate nel corso degli
ultimi duecento anni uguaglierebbe il numero degli abbonati sull'elenco telefonico di New York», sottolineò Gaskill. «E chi acquista simili quantità di merce illegale?» chiese Sandecker. «La domanda è molto superiore all'offerta», rispose Gaskill. «I ricchi collezionisti sono i responsabili indiretti dei saccheggi perché creano una forte domanda sul mercato. Fanno la fila per comprare oggetti storicamente importanti dai trafficanti clandestini. La lista dei clienti sembra il registro delle celebrità. Capi di Stato, pezzi grossi del governo, divi del cinema, grandi industriali e persino curatori di musei importanti che guardano dall'altra parte mentre trattano l'acquisto di merce al mercato nero per arricchire le loro collezioni. Se hanno a disposizione la somma necessaria, comprano.» «Anche i trafficanti di droga acquistano quantità incredibili di opere d'arte e di antichità perché è un mezzo rapido e facile per riciclare il denaro sporco e fare nel contempo un investimento.» «Posso capire perché gli oggetti non registrati vadano perduti in un giro simile», rifletté Sandecker. «Ma i quadri e le sculture più famosi, senza dubbio, ricompaiono e vengono recuperati.» Ragsdale scosse la testa. «A volte siamo fortunati, e una soffiata ci porta a scoprire qualche opera rubata. Ogni tanto un mercante d'arte onesto o un curatore di museo ci telefonano, se riconoscono pezzi che i ladri cercano di vendere loro. Ma troppo spesso le opere d'arte perdute rimangono tali: se ne perdono semplicemente le tracce.» «Un numero enorme di oggetti antichi rubati dai cosiddetti tombaroli viene venduto prima che gli archeologi abbiano la possibilità di studiarli», disse Gaskill. «Per esempio, durante la guerra nel deserto contro l'Iraq, all'inizio degli anni '90, migliaia di pezzi, inclusi tavolette d'argilla non decifrate, gioielli, tessuti, vetri, vasi, monete d'oro e d'argento e sigilli furono portati via dai musei kuwaitiani e iracheni, a volte dagli oppositori di Saddam Hussein e dai ribelli sciiti e curdi. Gran parte di questo materiale era già passato attraverso i mercanti e le case d'aste prima che fosse possibile catalogarlo come scomparso o rubato.» «Mi sembra quasi impossibile che un collezionista paghi somme enormi per certe opere, pur sapendo che appartengono ad altri», commentò Sandecker. «Non può certo mostrarle senza correre il rischio di essere smascherato o arrestato. E allora, che se ne fa?» «Diciamo che è una distorsione patologica», rispose Ragsdale. «Gaskill e io possiamo elencarle un grande numero di casi di collezionisti che na-
scondono gli oggetti acquistati illegalmente in qualche cripta segreta e vanno a vederli una volta al giorno, o magari ogni dieci anni. Non ha importanza che il materiale non sia visibile al pubblico. La grande soddisfazione di questo genere di collezionisti sta nel possedere qualcosa che nessun altro può avere.» Gaskill annuì. «La mania di accumulare oggetti può spingere ad adottare sistemi macabri. È già abbastanza grave profanare e spogliare le sepolture indiane per vendere crani e corpi mummificati di donne e bambini: ma certi collezionisti di oggetti storici della guerra di secessione americana sono arrivati al punto di violare le tombe dei cimiteri nazionali per impadronirsi delle fibbie dei cinturoni di unionisti e confederati.» «Un doloroso esempio di dove può spingersi l'avidità umana», mormorò Sandecker. «I casi di tombe saccheggiate sono innumerevoli», proseguì Ragsdale. «Le ossa dei morti di tutte le culture, a partire dall'uomo di Neandertal, finiscono frantumate e disperse. Il rispetto per i defunti non conta nulla, se c'è da ricavare un guadagno.» «C'è poi da aggiungere che l'appetito insaziabile dei collezionisti di antichità fa sì che proprio loro diventino le prime vittime delle truffe», precisò Gaskill. «La domanda pressoché inesauribile genera un lucroso commercio di falsi.» Ragsdale annuì. «Se non vengono sottoposti a una perizia adeguata, gli oggetti falsi possono passare per autentici. Molte collezioni di musei rispettabili annoverano antichità false, e nessuno se ne accorge. È raro che un curatore o un collezionista sia disposto a credere di essere stato imbrogliato da un falsario, e pochi studiosi hanno il coraggio di ammettere che i pezzi da loro esaminati sono sospetti.» «Non sono esenti neppure le opere d'arte famose», spiegò Gaskill. «L'agente Ragsdale e io siamo stati testimoni di casi in cui certi capolavori sono stati rubati e poi copiati da esperti; quindi i falsi sono stati restituiti per incassare il premio. Il curatore della galleria, felicissimo, appende il falso alla parete e non si accorge che l'hanno fregato.» «In che modo vengono distribuiti e venduti gli oggetti rubati?» chiese Sandecker. «I saccheggiatori di tombe e i ladri d'opere d'arte collocano la refurtiva per mezzo di una rete clandestina di mercanti disonesti che anticipano il denaro e, in modo indiretto, tramite cioè una serie di agenti, sovrintendono alle vendite.»
«Non è possibile rintracciarli tramite la rete clandestina?» Gaskill scosse la testa. «I fornitori e i distributori operano anche loro a porte chiuse e nella massima segretezza, quindi è quasi impossibile per noi infiltrarci in qualche ramo dell'organizzazione per seguire una pista che porti fino ai grossi trafficanti.» Ragsdale intervenne. «Non è come risalire da un consumatore allo spacciatore, al fornitore, su su fino ai signori della droga, che sono quasi tutti ignoranti, raramente si danno da fare per nascondere la loro identità, e molto spesso usano la droga loro stessi. Qui ci troviamo di fronte a uomini istruiti, con amicizie importanti ai massimi livelli del mondo degli affari e del governo. Sono abili e astuti. Tranne qualche caso raro, non trattano direttamente con i clienti. Quando ci avviciniamo, si chiudono nel loro guscio e alzano una muraglia di avvocati pagatissimi che bloccano le nostre indagini. «Certo, abbiamo pescato qualcuno dei piccoli trafficanti che operano in proprio», riprese dopo un attimo, «nonché recuperato un numero cospicuo di oggetti rubati. Qualcuno cade nelle nostre mani durante la spedizione ai compratori, i quali però non finiscono quasi mai in carcere perché sostengono di essere all'oscuro del fatto che la merce sia di provenienza illecita. Insomma, quello che abbiamo recuperato è solo una goccia nel mare. Senza prove concrete non possiamo arginare il traffico illegale.» «Ho l'impressione che vi troviate in condizioni d'inferiorità», disse Sandecker. Ragsdale annuì. «Siamo i primi ad ammetterlo.» L'ammiraglio si dondolò in silenzio sulla poltroncina girevole, e rifletté sulle parole degli agenti seduti di fronte a lui. Infine disse: «In che modo può aiutarvi la NUMA?» Gaskill si chinò in avanti. «Siamo convinti che voi abbiate aperto la porta quando, senza saperlo, avete sincronizzato la vostra ricerca del tesoro di Huascar con quella del maggior trafficante in assoluto di antichità e di opere d'arte rubate.» «La Zolar International.» «Sì, una famiglia che ha esteso i suoi tentacoli in ogni angolo di questo commercio.» «Prima d'ora né gli agenti dell'FBI né quelli della Dogana si sono mai imbattuti in un gruppo di falsari, ladri e contrabbandieri la cui attività fosse così vasta e prolungata nel tempo. Senza contare poi che tale attività coinvolge una lunga serie di uomini famosi e molto ricchi che hanno acquistato
illegalmente opere per miliardi di dollari», disse Ragsdale. «Vada avanti», lo incalzò Sandecker. «Ora abbiamo la possibilità di entrare in gioco», spiegò Gaskill. «Gli Zolar, attirati dalla possibilità di trovare ricchezze fantastiche, hanno abbandonato la loro abituale prudenza e hanno intrapreso una ricerca per scovare il tesoro. Se riusciranno nell'intento, noi avremo un'occasione preziosa per osservare i loro metodi di spedizione e arrivare al loro magazzino segreto.» «Dove li sorprenderete con le mani nel sacco», concluse Sandecker. Ragsdale sorrise. «Per la verità non usiamo espressioni del genere, ammiraglio. Comunque, sì, il concetto è quello.» Sandecker era incuriosito. «Volete che richiami la mia squadra? È così?» Gaskill e Ragsdale si scambiarono un'occhiata e annuirono. «Sì, ammiraglio», confermò Gaskill. «È così.» «Con la sua approvazione, ovviamente», si affrettò ad aggiungere Ragsdale. «Ne avete parlato con i vostri superiori?» Ragsdale annuì di nuovo con aria solenne. «Il direttore dell'FBI, Moran, e il direttore della Dogana, Thomas, hanno dato il loro consenso.» «Vi dispiace se faccio un paio di telefonate di conferma?» «Non ci dispiace affatto», disse Gaskill. «L'agente Ragsdale e io ci scusiamo per non aver rispettato la gerarchia. Avremmo dovuto chiedere ai nostri superiori di trattare direttamente con lei... tuttavia abbiamo pensato che fosse meglio esporre il nostro caso in base alla conoscenza diretta che ne abbiamo, sperando che tutto andasse per il meglio.» «Me ne rendo conto», dichiarò Sandecker, magnanimo. «Allora collaborerà?» chiese Ragsdale. «E richiamerà la sua squadra?» Sandecker guardò pigramente il fumo che saliva dal sigaro. «La NUMA starà al gioco dell'FBI e della Dogana. Tuttavia, signori, non chiuderò il nostro progetto di ricerca.» Gaskill lo fissò. Non riusciva a capire se stava scherzando. «Non credo di aver afferrato, ammiraglio.» «Avete mai provato a cercare qualcosa che è rimasto nascosto per quasi mezzo millennio?» Ragsdale lanciò un'occhiata al collega e alzò le spalle. «Per quel che riguarda l'FBI, le nostre operazioni di ricerca riguardano solitamente persone scomparse, latitanti e cadaveri. I tesori perduti sono fuori del nostro campo.»
«Non mi sembra il caso di spiegare che cosa cerca la Dogana», disse Gaskill. «Conosco molto bene le vostre direttive», rispose Sandecker in tono discorsivo. «Ma il ritrovamento di un tesoro perduto rappresenta una probabilità su un milione. Non è possibile interrogare qualcuno per scoprire piste che si sono esaurite nel sedicesimo secolo. Il nostro quipu e la vostra mummia dorata hanno fornito soltanto vaghi riferimenti a un'isola misteriosa del mare di Cortés. Un'indicazione che colloca il proverbiale ago in un pagliaio di centosessantamila chilometri quadrati. Presumo che gli Zolar siano dilettanti in fatto di ricerche di questo genere. Quindi le probabilità che trovino la caverna con la catena d'oro di Huascar sono molto vicine allo zero.» «Crede che i suoi abbiamo prospettive migliori?» chiese Gaskill, un po' seccato. «Il mio direttore dei Progetti Speciali e il suo team sono i migliori in attività. Se non mi credete, potete controllare i risultati che abbiamo ottenuto.» «Come intende aiutarci?» chiese Ragsdale con una certa incredulità nella voce. Sandecker sferrò l'affondo. «Noi svolgeremo la nostra ricerca contemporaneamente agli Zolar. Ma ci terremo nell'ombra. Gli Zolar non hanno motivo di sospettare che esistano concorrenti. Certo, vedranno gli uomini e i mezzi aerei della NUMA... e probabilmente penseranno che sono impegnati in qualche ricerca oceanografica. Se riusciranno a scoprire il tesoro, i miei si dilegueranno e torneranno a Washington.» «E se gli Zolar non riuscissero nell'intento?» chiese Ragsdale. «Se la NUMA non riuscirà a trovare il tesoro, vorrà dire che non vuol farsi trovare.» «E se invece la NUMA ce la facesse?» insistette Ragsdale. «Lasceremo una traccia di molliche di pane in modo che gli Zolar la seguano e si convincano di aver scoperto da soli il tesoro.» Sandecker s'interruppe. Girò con fermezza lo sguardo da Ragsdale a Gaskill a Ragsdale. «E da quel momento in poi, signori, potrete fare ciò che vorrete.» 35. «Continuo a immaginare che Rodolfo Valentino compaia a cavallo sulla
prossima duna e mi porti nella sua tenda», disse Loren con voce assonnata. Era sul sedile anteriore della Pierce Arrow, con le gambe ripiegate, e guardava l'oceano di sabbia che dominava il paesaggio. «Continua a cercare», disse Pitt. «Le Coachella Dunes, un po' più a nord di qui, sono il posto in cui Hollywood girava molti dei film ambientati nel deserto.» Cinquanta chilometri oltre Yuma, in Arizona, Pitt era entrato in California. Girò a sinistra, lasciando l'Interstatale 8 per immettersi sulla strada statale più stretta che conduceva alle città di confine, Calexico e Mexicali. Gli automobilisti che li superavano o li incrociavano sgranavano gli occhi sbalorditi nel vedere l'automobile d'epoca e la sua roulotte. Loren aveva espresso il desiderio di partecipare a un tour dell'Arizona meridionale sponsorizzato dal Classic Car Club of America e aveva convinto Pitt a usare la vecchia macchina nonché la roulotte. Il tour doveva incominciare di lì a due settimane. Pitt dubitava che sarebbero riusciti a concludere la caccia al tesoro in quel breve tempo, ma aveva accontentato Loren perché si divertiva a guidare le sue vecchie automobili su lunghi percorsi. «Quanto manca al confine?» chiese Loren. «Tra quarantadue chilometri saremo in Messico», rispose lui. «E poi ce ne sono altri centosessantacinque fino a San Felipe. Dovremmo arrivare per l'ora di cena al molo dove Al e Rudi hanno attraccato il traghetto.» «A proposito di pasti», disse pigramente Loren, «il frigo è vuoto e la dispensa pure. A parte i cereali e il caffè della colazione di questa mattina, abbiamo finito la scorta di viveri nel campeggio di Sedona, ieri sera.» Pitt staccò la destra dal volante, le strinse il ginocchio e sorrise. «Immagino che sia mio dovere sfamare i passeggeri.» «Che ne dici di quel locale per camionisti là avanti?» Loren si raddrizzò e indicò qualcosa al di là del parabrezza stretto e piatto della Pierce. Pitt sbirciò al di sopra del tappo del radiatore - un arciere che stava per scagliare una freccia - e vide sul bordo della strada un cartello sbiadito dal sole del deserto che sembrava sul punto di crollare nella sabbia. La scritta era così vecchia e stinta che era difficile leggerla: BIRRA GHIACCIATA E UNA CUCINA CHE PIACEREBBE ALLA MAMMA. FRA DUE MINUTI ARRIVERETE AL BOX CAR CAFÉ.
«La birra ghiacciata è interessante», rise Pitt. «Ma diffido della cucina. Quand'ero piccolo, a mia madre piaceva preparare piatti che mi facevano diventare verde.» «Vergogna! Tua madre è un'ottima cuoca.» «Adesso sì. Ma venticinque anni fa neppure un senzatetto affamato era disposto ad avvicinarsi a casa nostra.» «Sei un mostro.» Loren girò la manopola della vecchia radio a valvole termoioniche e cercò di sintonizzarsi su una stazione di Mexicali. Finalmente ne trovò una che trasmetteva musica messicana. «Non m'importa se lo chef ha la peste nera. Sto morendo di fame.» Quando porti una donna a fare un viaggio lungo, pensò scoraggiato Pitt, ha sempre fame o chiede continuamente di fermarsi per andare in bagno. «E poi», insistette lei, «devi far benzina.» Pitt diede un'occhiata all'indicatore del carburante. L'ago segnalava che il serbatoio era pieno per un quarto. «Credo che non sarebbe sbagliato fare rifornimento prima di attraversare il confine.» «Mi sembra che non abbiamo fatto molta strada, dopo la nostra ultima sosta a un distributore.» «Una grossa macchina costruita sessant'anni fa, che ha un motore a dodici cilindri e traina una roulotte, non può vincere il premio per il risparmio di carburante.» Apparvero il ristorante e il distributore. Nell'avvicinarsi, Pitt vide soltanto un paio di vecchi carri merci uniti, con due pompe davanti e un'insegna al neon appena visibile nell'ombra del Box Car Café. Un gruppo di vecchie roulotte era parcheggiato sul retro; erano tutte vuote e abbandonate. Davanti, nel parcheggio sterrato, diciotto o venti motociclisti si aggiravano in mezzo a una piccola flotta di Harley-Davidson, bevevano birra e si godevano la brezza fresca che soffiava dal golfo di California. «Certo che quando scegli sei davvero infallibile», commentò maliziosamente Pitt. «Forse è meglio proseguire», mormorò Loren che cominciava a ripensarci. «Hai paura dei centauri? Con ogni probabilità sono viaggiatori stanchi come te e me.» «Però non vestono come noi, questo è indiscutibile.» Loren indicò con la testa il gruppo: c'erano uomini e donne in numero uguale, e tutti erano abbigliati di nero con distintivi, toppe e messaggi stampati che esaltavano la più famosa motocicletta d'America.
Pitt girò il grosso volante e la Pierce lasciò l'asfalto avvicinandosi alle pompe. Il motore dai dodici cilindri a v era così silenzioso che fu difficile capire se si era spento quando Pitt girò la chiave. Aprì la portiera incardinata controvento, mise un piede sull'alto predellino e scese. «Salve», disse rivolgendosi al motociclista più vicino, una bionda con coda di cavallo, pantaloni e giubbotto di pelle nera. «Come si mangia, qui?» «Non è all'altezza di Spago's o di Chasen's», rispose gentilmente la donna. «Ma se si ha fame, non è niente male.» Un cartello metallico crivellato da fori di proiettili dichiarava SELF SERVICE. Pitt inserì la pompa nell'imboccatura del serbatoio della Pierce Arrow e azionò la leva. Quando aveva fatto ricostruire il motore, l'officina aveva modificato le valvole in modo che potesse usare benzina senza piombo. Loren si rannicchiò nel sedile con aria diffidente, mentre i motociclisti si avvicinavano per ammirare la vecchia macchina e la roulotte. Dopo aver risposto a un torrente di domande, Pitt aprì il cofano e mostrò il motore. Poi fece scendere Loren. «Immagino che ti farà piacere conoscere questi signori», le disse. «Sono tutti iscritti a un club di motociclisti di West Hollywood.» Loren pensò che scherzasse e si sentì tremendamente imbarazzata mentre lui faceva le presentazioni. Poi rimase senza parole quando scoprì che erano avvocati e che, insieme alle mogli, avevano organizzato quella gita nel deserto della California meridionale. E si sentì lusingata perché molti la riconobbero quando Pitt pronunciò il suo nome. Dopo una piacevole e cordiale conversazione, gli avvocati hollywoodiani e le consorti li salutarono, montarono in sella alle amatissime moto, sfrecciarono via con le marmitte che echeggiavano in coro e si diressero verso l'Imperial Valley. Pitt e Loren si sbracciarono per rispondere ai saluti, quindi si voltarono a guardare i carri merci. Le rotaie sotto le ruote arrugginite erano sepolte nella sabbia. Le pareti di legno malconce erano state, un tempo, di un marrone rossiccio, e la scritta sopra la fila di finestre diceva: SOUTHERN PACIFIC LINES. Grazie all'aria secca, i vecchi vagoni erano sopravvissuti ai danni della continua esposizione agli agenti atmosferici e sembravano in condizioni discrete. Pitt era proprietario di un pezzo di storia delle ferrovie, una carrozza Pullman che faceva parte della collezione ospitata nel suo hangar a Washington. La vettura, un tempo lussuosa, era stata in servizio nel periodo
antecedente alla prima guerra mondiale: quei carri merci, rifletté, dovevano essere stati fabbricati intorno al 1918. Insieme a Loren salì una scaletta e varcò una porta aperta all'estremità di uno dei carri. L'interno era sciupato, ma pulitissimo. Non c'erano tavoli, ma solo un lungo banco con sgabelli che si estendeva per l'intera lunghezza dei due vagoni uniti. La cucina era dietro il banco, e sembrava costruita con legname usato e rimasto al sole per interi decenni. Le fotografie appese alle pareti mostravano antiche locomotive che eruttavano fumo e trainavano treni passeggeri e merci attraverso il deserto. La lista dei dischi del juke-box Wurlitzer era un assortimento di successi pop degli anni '40 e '50 e di suoni di locomotive a vapore. Si potevano ascoltare due dischi per venticinque centesimi. Pitt inserì un moneta e selezionò: Frankie Carle che suonava Sweet Lorraine e il fragore di una locomotiva Norfolk & Western che usciva da una stazione e si lanciava a tutta velocità. Un uomo alto, poco più che sessantenne, con i capelli grigi e la barba bianca, stava asciugando il banco di quercia. Alzò la testa e sorrise. Gli occhi verdazzurri erano cordiali. «Salve, gente. Benvenuti al Box Car Café. Dovete andare lontano?» «Non molto», rispose Pitt, rivolgendo a Loren un sorriso malizioso. «Siamo partiti da Sedona più tardi di quanto avessi deciso.» «Non dare la colpa a me», ribatté lei, altezzosamente. «Sei tu, quello che si è svegliato in preda alla passione carnale.» «Cosa posso servirvi?» chiese l'uomo dietro il banco. Portava stivaletti da cowboy, pantaloni di denim e una camicia scozzese scolorita dai troppi lavaggi. «Dovrebbe andar bene la birra ghiacciata», rispose Loren mentre apriva un menu. «Messicana o nazionale?» «Corona?» «Una Corona, subito. E lei, signore?» «Ha anche birra alla spina?» chiese Pitt. «Olympia, Coors e Budweiser.» «Vorrei un'Oly.» «Mangiate qualcosa?» s'informò l'uomo dietro il banco. «Il chiliburger», rispose Loren. «E i crauti.» «Io non ho molta fame», disse Pitt. «Mi accontento dei crauti. Il locale è suo?»
«L'ho comprato dal primo proprietario quando ho abbandonato le prospezioni minerarie.» Mise le birre sul banco e si voltò verso il fornello. «I carri merci sono reliquie interessanti della storia delle ferrovie. Li hanno portati apposta, oppure una volta passava di qui una linea?» «In pratica ci troviamo sul binario di raccordo della vecchia linea principale», spiegò il proprietario. «Andava da Yuma a El Centro. Fu abbandonata nel 1947 perché non la usava più nessuno: ormai erano di moda i camion. I vagoni furono comprati da un vecchio che era stato macchinista della Southern Pacific. Lui e la moglie li trasformarono in ristorante e distributore di benzina. Con l'interstatale che passa più a nord e tutto il resto, non vediamo più molto traffico.» Il barista-cuoco aveva l'aria di essere stato un personaggio tipico del deserto prima ancora che venisse costruita la ferrovia. Aveva lo sguardo disincantato di chi ha visto troppe cose e ha ascoltato mille storie; tutte gli si erano di certo impresse nella mente e lui le aveva classificate in tre categorie: drammatiche, umoristiche e dell'orrore. Tuttavia c'era qualcosa in lui: una sorta di aura, un misto di stile e di eleganza... No, quell'uomo non apparteneva a una taverna dimenticata da Dio su una strada remota e poco trafficata del deserto. Per un istante, Pitt ebbe l'impressione che il vecchio cuoco avesse qualcosa di vagamente familiare. Poi, ripensandoci, concluse che somigliava a qualcuno che però non riusciva a identificare esattamente. «Scommetto che conosce una quantità di storie interessanti su queste zone», disse, tanto per scambiare due chiacchiere. «Ah, in queste sabbie sono sepolte molte ossa di pionieri e minatori che cercarono di attraversare quattrocento chilometri di deserto da Yuma a Boriego Springs nel cuore dell'estate.» «Dopo aver passato il Colorado, non trovavano più acqua?» chiese Loren. «Neppure una goccia fino a Boriego. Questo succedeva molto tempo prima che la valle venisse irrigata. Spesso solo dopo che quegli uomini erano morti scoprivano che i loro cadaveri erano a pochi metri dall'acqua. Il trauma era così devastante che sono tornati come fantasmi per infestare il deserto.» Loren lo guardò, perplessa. «Ho l'impressione che mi sia sfuggito qualcosa.» «Non c'è acqua in superficie», spiegò il vecchio. «Ma sottoterra ci sono fiumi interi, e certuni sono larghi e profondi come il Colorado.»
Pitt era incuriosito. «Non ho mai sentito parlare di grandi fiumi che scorrono sotto il deserto.» «Di sicuro ce ne sono due. Uno è enorme, e scende dall'alto del Nevada verso sud, attraversa il deserto Mojave, poi devia verso ovest e si getta nel Pacifico un po' più a sud di Los Angeles. L'altro scorre verso ovest sotto l'Imperial Valley della California prima di girare a sud e di buttarsi nel mare di Cortés.» «E che prove ci sono dell'esistenza di questi fiumi?» chiese Loren. «Qualcuno li ha visti?» «Il fiume sotterraneo che sfocia nel Pacifico», rispose il cuoco mentre le preparava il chiliburger, «fu scoperto da un ingegnere che cercava il petrolio. Diceva che i suoi strumenti geofisici avevano rivelato la presenza del corso d'acqua e l'avevano seguito attraverso il Mojave e sotto la città di Laguna Beach, fino all'oceano. Finora nessuno ha potuto confermare o smentire l'affermazione. Il fiume che sbocca nel mare di Cortés è ricordato dalla vecchia storia di un cercatore minerario che scoprì una grotta attraversata appunto da un fiume.» Pitt si tese mentre gli riaffiorava alla mente la traduzione del quipu fatta da Yaeger. «E il cercatore, come descriveva il fiume sotterraneo?» Il vecchio rispose senza staccarsi dai fornelli. «Si chiamava Leigh Hunt e probabilmente era un bugiardo dotato di parecchia immaginazione. Però nel 1942 andava in giro a giurare che aveva scoperto una caverna nelle Castle Dome Mountains, a nord-est di qui, non molto lontano. Dall'imboccatura, attraverso una successione di grotte, era disceso nelle viscere della terra, fino a quando non aveva incontrato un fiume sotterraneo che scorreva in un grande canyon. E là, diceva Hunt, aveva trovato ricchi depositi d'oro alluvionale.» «Già, mi sembra di aver visto il film», disse Loren in tono scettico. Il vecchio si voltò verso di lei e agitò in aria una paletta. «Quelli dell'ufficio Stime dichiararono che la sabbia prelevata da Hunt nel canyon sotterraneo conteneva oro per tremila dollari la tonnellata. Una percentuale ottima, se tiene presente che a quel tempo l'oro costava soltanto venti dollari e sessantacinque centesimi all'oncia.» «Hunt tornò al canyon e al fiume?» chiese Pitt. «Oh, ci provò, ma un esercito di profittatori lo seguì sulla montagna nella speranza d'impadronirsi di un pezzo del Fiume d'Oro, come veniva chiamato. Lui perse la testa e fece saltare con la dinamite un tratto molto stretto della galleria, a un centinaio di metri dall'entrata. E fece crollare
mezza montagna. Hunt e quelli che lo seguivano non riuscirono mai a scavare tra le rocce cadute o a trovare un'altra galleria che portasse all'interno.» «Con la tecnologia mineraria di oggi», osservò Pitt, «dovrebbe essere possibile riaprire il passaggio.» «Sicuro, per chi ha voglia di spendere due milioni di dollari», sbuffò il vecchio. «Non ho mai saputo che ci sia qualcuno disposto a rischiare una somma così grossa per una storia che potrebbe essere una balla.» S'interruppe per mettere sul banco i piatti con il chiliburger e i crauti. Poi spillò un boccale di birra, girò intorno al banco e sedette su uno sgabello accanto a Pitt. «Dicono che il vecchio Hunt riuscì a penetrare di nuovo nella montagna, ma non fece più ritorno. Sparì subito dopo aver fatto saltare in aria la caverna e nessuno lo vide più. Raccontavano che avesse trovato un'altra strada per entrare e che fosse morto là dentro. Qualcuno crede alla storia del grande fiume che scorre in un canyon sotterraneo, però molti pensano che sia solo una delle tante leggende del deserto.» «Sono cose che esistono», disse Pitt. «Qualche anno fa ho partecipato a una spedizione che ha trovato un fiume sotterraneo.» «Nel deserto del sud-ovest?» chiese il vecchio. «No, nel Sahara. Scorreva sotto un pericoloso impianto di smaltimento di rifiuti tossici e trasportava sostanze inquinanti nel fiume Niger, e poi nell'Atlantico, dove causava la proliferazione delle maree rosse.» «Il fiume Mojave, a nord di qui, s'inabissa sottoterra dopo un lungo percorso in superficie. Nessuno sa con certezza dove vada a finire.» Fra un boccone e l'altro del chiliburger, Loren chiese: «Mi sembra così convinto che il fiume di Hunt vada a gettarsi nel mare di Cortés... Come fa a sapere che non sfocia nel Pacifico al largo della California?» «Per via dello zaino e della borraccia di Hunt. Li perse nella caverna, e furono ritrovati sei mesi dopo. Erano stati gettati a riva su una spiaggia del golfo di California.» «Non le sembra molto improbabile? Lo zaino e la borraccia potevano essere di chiunque. Perché dice che erano suoi?» Loren interrogava l'uomo come se si trovasse nel bel mezzo di una commissione d'inchiesta del Congresso. «Lo dico perché c'era stampigliato il suo nome.» L'ostacolo inatteso non sgomentò Loren: si limitò ad aggirarlo. «Potrebbero esserci venti o più spiegazioni logiche per la presenza di quegli oggetti nel golfo. Potrebbero essere stati perduti oppure buttati là da qualcuno
che li aveva gettati in mare da una barca.» «Sì, può darsi che li avesse persi in mare», ammise il vecchio. «Ma come spiega gli altri cadaveri?» Pitt lo fissò. «Quali cadaveri?» «Il pescatore che sparì nel lago Cocopah», rispose il vecchio abbassando la voce come se avesse paura che qualcuno origliasse. «E i due sub che scomparvero nel Satan's Sink. Quel che restava dei loro corpi fu trovato nel golfo di California.» «E il tam tam del deserto diffonde un altro paio di leggende», commentò Loren in tono asciutto. Il vecchio alzò la mano destra. «È la verità sacrosanta. Potete andare a informarvi all'ufficio dello sceriffo.» «Dove si trovano quei due posti?» chiese Pitt. «Il lago Cocopah, dove sparì il pescatore, è a sud-est di Yuma. Il Satan's Sink si trova in Messico, all'estremità settentrionale dei monti della Sierra el Mayor. Potete tracciare una linea della montagna di Hunt attraverso il lago Cocopah e il Satan's Sink fino al mare di Cortés.» Loren continuò a interrogarlo. «E chi può affermare che non fossero annegati mentre pescavano o facevano immersioni nel golfo di California?» «Il pescatore e la moglie erano rimasti sul lago per quasi tutto il giorno. Poi lei decise di tornare al camper per preparare la cena. Il marito l'accompagnò a riva e continuò a pescare sul lago. Un'ora dopo, quando la moglie lo cercò, vide soltanto la barca capovolta. Tre settimane dopo, un tale che faceva lo sci nautico avvistò il cadavere che galleggiava sulle acque del golfo, a centocinquanta chilometri dal lago.» «Io penserei piuttosto a un omicidio: la moglie lo ha ammazzato, poi ha buttato in mare il cadavere e, per stornare i sospetti, ha dichiarato che l'uomo era stato risucchiato in un corso d'acqua sotterraneo.» «E i sub?» chiese Pitt. «Non c'è molto da raccontare. S'immersero nel Satan's Sink, una specie di pozzo in una faglia sismica, e non ne uscirono più. Un mese dopo i loro cadaveri sfracellati furono ripescati nel golfo di California.» Pitt rigirò i crauti con la forchetta. Gli era passato del tutto l'appetito. La sua mente stava innestando la marcia. «Sa per caso dove sono stati trovati lo zaino e la borraccia di Hunt e i tre cadaveri?» «Non ho fatto uno studio dettagliato del fenomeno», rispose il vecchio, e fissò con aria pensierosa il consunto pavimento di legno. «Ma se non ricordo male furono trovati davanti a Punta el Macharro.»
«In quale parte del golfo di California?» «Sulla riva occidentale. La Punta el Macharro è due o tre chilometri a nord di San Felipe.» Loren guardò Pitt. «La nostra destinazione.» Pitt sorrise ironicamente. «Ricordami di tenere gli occhi aperti per cercare altri cadaveri.» Il vecchio finì la birra. «State andando a San Felipe per pescare?» Pitt annuì. «Sì, credo che si possa parlare di una spedizione di pesca.» «Il panorama non è gran cosa, quando si scende al di sotto di Mexicali. Il deserto sembra desolato e brullo alla maggioranza della gente... eppure ci sono più fantasmi, scheletri e miti per chilometro quadrato che in qualunque altra giungla o montagna della terra. Teneteli presenti, e li vedrete, sicuro come gli Irlandesi vedono i folletti.» «Li terremo presenti», rispose Loren con un sorriso, «quando passeremo sopra il Fiume d'Oro di Leigh Hunt.» «Oh, ci passerete», disse il vecchio. «Il guaio è che non ve ne accorgerete neppure.» Pitt pagò la benzina e il pranzo, uscì e andò a controllare l'olio e l'acqua della Pierce Arrow. Il vecchio accompagnò Loren sul terrazzino del vagone. Aveva in mano un secchio di carote e lattuga. «Buon viaggio», la salutò allegramente. «Grazie.» Loren indicò le verdure. «Va a dar da mangiare a un coniglio?» «No, al mio asino. Mr Periwinkle è invecchiato e non ce la fa più a pascolare da solo.» Loren gli tese la mano. «È stato molto interessante ascoltare i suoi racconti, signor...» «Cussler. Clive Cussler. Lieto di averla conosciuta, signora.» Quando ripartirono e la Pierce Arrow riprese la sua corsa verso il confine, Pitt si girò verso Loren. «Sai, per un momento ho creduto che il vecchio potesse indicarmi la pista per arrivare al tesoro.» «Ti riferisci all'indicazione di Yaeger a proposito del fiume che scorre sotto un'isola?» «Mi sembra ancora impossibile da un punto di vista geologico.» Loren girò lo specchietto retrovisore per mettere il rossetto. «Se il fiume scorre a grande profondità, può darsi che passi sotto il golfo di California.» «Sì, può darsi, ma non c'è speranza di saperlo con certezza senza trivel-
lare vari chilometri di roccia durissima.» «Potrai considerarti molto fortunato se riuscirai ad arrivare alla caverna del tesoro senza dover effettuare scavi impegnativi.» Pitt sorrise senza staccare gli occhi dalla strada. «Ma che storie che si è inventato, eh?» «Il vecchio cuoco? Certo, ha una gran fantasia.» «Mi dispiace di non aver sentito come si chiama.» Loren si assestò sul sedile e guardò dal finestrino mentre le dune lasciavano il posto a una distesa di mezquites. «A me lo ha detto.» «Allora?» «Era un nome strano.» Loren tacque, cercando di ricordare. Poi alzò le spalle, rassegnata. «È buffo... l'ho già dimenticato.» 36. Quando arrivarono a San Felipe, c'era Loren al volante. Pitt era sdraiato sullo strapuntino posteriore e dormiva, ma lei non lo svegliò. Guidò la Pierce Arrow impolverata e tempestata d'insetti morti intorno alla piazza, evitò di andare a sbattere sul marciapiede con un lato della roulotte, poi svoltò a sud in direzione del porto riparato da un frangiflutti. Non si aspettava di vedere tanti alberghi e ristoranti. Quello che un tempo era un sonnacchioso villaggio di pescatori era in pieno boom turistico. Lungo le rive continuavano a sorgere nuove località di villeggiatura. Arrivata cinque chilometri più a sud della cittadina, svoltò a sinistra su una strada che puntava verso le acque del golfo di California. Le sembrò strano che un porto artificiale fosse stato costruito su un tratto di costa così esposto. Sarebbe stato più pratico celarlo al riparo di Punta el Macharro, qualche chilometro più a nord. Oh, be', concluse, i gringos non conoscevano la politica della Baja California. Fermò la Pierce davanti a un traghetto antiquato che sembrava un fantasma uscito da un cantiere di demolizione. L'impressione era accentuata dalla bassa marea che aveva lasciato lo scafo del traghetto inclinato in modo ridicolo, con la chiglia affondata tra i sedimenti. «Sorgi e risplendi, ragazzone», disse Loren, e scosse Pitt per svegliarlo. Lui batté le palpebre e sbirciò incuriosito dal finestrino. «Devo essere entrato in una piega temporale oppure sono finito in un episodio di Ai confini della realtà. Quale delle due ipotesi è esatta?» «Nessuna delle due. Sei nel porto di San Felipe, e stai guardando quella
che sarà la tua casa per le prossime due settimane.» «Dio santo», mormorò sbalordito Pitt. «Un autentico battello a vapore con le ruote a pale.» «Devo ammettere che ricorda un po' i racconti di Mark Twain.» «Vuoi scommettere che traghettò le truppe di Grant a Vicksburg attraverso il Mississippi?» Gunn e Giordino li videro e agitarono le braccia per salutarli. Scesero sul molo mentre Pitt e Loren lasciavano la macchina e si fermavano a contemplare il battello. «Fatto buon viaggio?» chiese Gunn. «Meraviglioso, a parte il fatto che Dirk russava», rispose Loren. Pitt le lanciò un'occhiata di sdegno. «Io non russo.» Lei alzò gli occhi al cielo. «Mi è venuta la tendinite al gomito a forza di scuoterti.» «Che ne pensate della nostra piattaforma operativa?» chiese Giordino, e indicò il traghetto con un gesto solenne. «Costruito nel 1923. Fu uno degli ultimi battelli a vapore di questo tipo.» Pitt sollevò gli occhiali da sole e studiò il traghetto. Viste da lontano, molte navi tendono a sembrare più piccole di quanto non siano in realtà. Solo da vicino si comprende che sono enormi. E questo valeva per quel traghetto della prima metà del secolo. Ai suoi tempi il battello, lungo settanta metri, era stato in grado di trasportare cinquecento persone e sessanta automobili. Il lungo scafo nero era occupato da una sovrastruttura a due piani; il ponte superiore ostentava due fumaioli gemelli e due timoniere. Come quasi tutti i traghetti che trasportavano auto, poteva essere caricato e scaricato da poppa a prua, secondo la direzione in cui attraccava. Persino quando era nuovo non doveva essere molto bello; ma aveva svolto un servizio importante per milioni di persone. Il nome dipinto al centro della sovrastruttura che racchiudeva le ruote a pale precisava che il suo nome era Alhambra. «Dove hai rubato quel relitto?» chiese Pitt. «In un museo marittimo?» «Bisogna conoscerlo per amarlo», rispose Giordino senza molta convinzione. «È l'unico mezzo che sono riuscito a trovare in fretta e che può ospitare un elicottero», spiegò Gunn. «E Sandecker è stato felicissimo perché l'ho avuto per un pezzo di pane.» Loren sorrise. «Questa, almeno, è un'anticaglia che non potrai includere nella tua collezione di mezzi di trasporto.»
«Non riesco a credere che le caldaie siano a carbone», commentò Pitt. «No, furono adattate per funzionare a nafta cinquant'anni fa», disse Gunn. «Le macchine sono ancora in ottime condizioni, e la velocità di crociera è venti miglia orarie.» «Non ti riferisci a nodi o chilometri?» chiese Loren. «La velocità dei traghetti si misura in miglia», rispose Gunn con aria saputa. «Mi sembra che non sia in condizioni di andare da nessuna parte», commentò Pitt. «A meno che si riesca a disincagliare lo scafo dal fango del fondo.» «Prima di mezzanotte galleggerà come un sughero», gli assicurò Gunn. «In questa parte del golfo di California, la marea sale di quattro o cinque metri.» Sebbene ostentasse una certa diffidenza, Pitt si stava già affezionando al vecchio traghetto. Automobili, aerei e imbarcazioni antichi, come tutti gli oggetti meccanici che venivano dal passato, lo affascinavano. Era nato troppo tardi, diceva spesso. Ottant'anni troppo tardi. «E l'equipaggio?» «Un macchinista con un aiuto e due mozzi.» Gunn s'interruppe e sorrise. «Io starò al timone mentre tu e Al folleggerete nel golfo con la vostra macchina volante.» «A proposito dell'elicottero, dove l'avete nascosto?» «All'interno della stiva per le auto», rispose Gunn. «Così è più comodo provvedere alla manutenzione senza preoccuparci delle condizioni meteorologiche. Per le operazioni di volo, lo spingiamo sul ponte di carico.» Pitt si rivolse a Giordino. «Hai preparato il programma delle ricerche giorno per giorno?» L'italiano scosse la testa. «Ho calcolato l'autonomia e i tempi dei voli, ma il programma delle ricerche l'ho lasciato a te.» «Quanto tempo pensi che impiegheremo?» «Dovremmo coprire l'intera area in tre giorni.» «Prima che mi dimentichi», esclamò Gunn, «l'ammiraglio vuole che vi mettiate in contatto con lui domattina presto. Nella timoniera c'è un telefono Iridium.» «Perché non posso chiamarlo subito?» chiese Pitt. Gunn diede un'occhiata all'orologio. «Qui siamo indietro di tre ore rispetto alla costa orientale. In questo momento l'ammiraglio è al Kennedy Center e si sta godendo uno spettacolo teatrale.»
«Scusate», intervenne Loren. «Posso fare qualche domanda?» Gli uomini s'interruppero e la guardarono. Pitt s'inchinò. «A lei la parola, deputata Smith.» «Prima domanda: dove hai intenzione di parcheggiare la Pierce Arrow? Sarebbe un po' rischioso aver portato qui una macchina d'epoca da centomila dollari per abbandonarla poi incustodita su un molo.» Gunn sembrava sorpreso da quella domanda. «Dirk non te l'ha detto? La Pierce e la roulotte saranno caricate sul traghetto. Lo spazio non manca.» «Ci sono un bagno e una doccia?» «Per l'esattezza ci sono quattro gabinetti per le signore sul ponte passeggeri superiore, e una doccia nell'alloggio dell'equipaggio.» «Quindi non bisogna fare la fila per andare al cesso. Mi piace.» Pitt rise. «E non dovrai neppure disfare i bagagli.» «Fai conto di essere su una nave da crociera delle Carnival Lines», concluse allegramente Giordino. «È l'ultima domanda?» chiese Gunn. «Muoio di fame», annunciò Loren con aria solenne. «Quando si mangia?» In autunno, la Baja California ha un suo splendore particolare che si riversa da un cielo d'uno strano, fulgido biancazzurro. Quel giorno non si vedeva una nube da un orizzonte all'altro. La penisola, che è una delle terre più aride del mondo, protegge il mare di Cortés dalle onde martellanti che arrivano dal Pacifico. Le tempeste tropicali con venti fortissimi non sono insolite durante i mesi estivi; tuttavia, verso la fine di ottobre, i venti prevalenti si spostano da est a ovest e in genere riparano il golfo di California dalle onde alte e agitate. Con la Pierce Arrow e la roulotte saldamente fissate nell'immensa stiva per le automobili, Gunn al timone e Loren, in bikini, sdraiata sul ponte, il traghetto superò i frangiflutti del porto e virò verso sud. Era uno spettacolo impressionante: le volute nere salivano dal fumaiolo, le ruote a pale addentavano l'acqua e il bilanciere, a forma di rombo appiattito, si muoveva in su e in giù trasmettendo l'energia dell'enorme pistone del motore alla biella che faceva girare la ruota a pale. Il suo movimento aveva un ritmo che risultava quasi ipnotico se lo si fissava abbastanza a lungo. Mentre Giordino effettuava l'ispezione dell'elicottero prima del volo e rabboccava il serbatoio del carburante, Pitt, grazie all'ausilio del Motorola Idirium, si mise in contatto con Sandecker e venne messo al corrente degli
ultimi sviluppi della situazione a Washington. Un'ora dopo, mentre il traghetto doppiava Punta Estrella, concluse la conversazione e scese sul ponte scoperto anteriore del traghetto, dove stava l'elicottero. Non appena Pitt ebbe agganciato la cintura di sicurezza, Giordino fece alzare l'apparecchio turchese della NUMA e incominciò a seguire una rotta parallela alla costa. «Cosa aveva da dirti il vecchio prima che lasciassimo l'Alhambra?» chiese Giordino portandosi in assetto orizzontale a ottocento metri. «Yaeger ha fornito qualche nuova traccia?» Pitt aveva preso posto sul sedile del copilota e fungeva da navigatore. «Yaeger non ha fatto scoperte sensazionali. L'unica informazione che ha potuto aggiungere è che, secondo lui, la statua del demone è situata direttamente sopra l'entrata della galleria che conduce alla caverna del tesoro.» «E il fiume misterioso?» «In quanto a quello, brancola ancora nel buio.» «E Sandecker?» «L'ultima novità è che stanno cercando di precederci. La Dogana e l'FBI sono piovuti dal cielo e gli hanno comunicato che anche una banda di ladri d'opere d'arte è sulle tracce del tesoro di Huascar. Ci ha avvertiti di tenere gli occhi bene aperti.» «Abbiamo concorrenti, quindi?» «Una famiglia che dirige un impero mondiale basato sulle opere d'arte rubate o false.» «E come si fanno chiamare?» «Zolar International.» Giordino rimase assorto per un momento, poi scoppiò in una risata irrefrenabile. «Cosa c'è di tanto divertente?» «Zolar», sghignazzò Giordino. «Mi ricorda un ragazzino piuttosto stupido... Durante le recite scolastiche, alle medie, faceva sempre un noiosissimo numero di magia. Si faceva chiamare il Grande Zolar.» «A quanto mi ha detto Sandecker», riprese Pitt, «il tizio che dirige l'organizzazione è tutt'altro che stupido. Gli agenti del governo calcolano che i suoi proventi illeciti superino ogni anno gli ottanta milioni di dollari. Una bella somma, se tieni presente che non versa una lira al fisco.» «D'accordo, allora non è il ragazzino scemo che ho conosciuto a scuola. I federali pensano che Zolar sia arrivato molto vicino al tesoro?» «A loro parere, lui è in possesso d'indicazioni più precise delle nostre.» «Sono pronto a scommettere il mio tacchino della festa del Ringrazia-
mento che arriveremo prima noi.» «E perderai comunque.» Giordino si voltò a guardarlo. «Ti dispiacerebbe spiegarti un po' meglio?» «Se faremo il colpo prima di loro, dovremo mimetizzarci nel paesaggio e lasciare che si portino via il bottino.» «Ci chiedono di rinunciare?» Giordino non riusciva a crederci. «Gli ordini sono questi», disse Pitt. Gli si leggeva negli occhi il risentimento. «Ma perché?» chiese Giordino. «Perché il nostro buon governo vuole lasciare che i criminali si arricchiscano?» «Perché la Dogana e l'FBI possano seguirli, incriminarli e in seguito farli condannare per reati molto gravi.» «Non posso dire che questo tipo di giustizia mi piaccia. I contribuenti saranno informati della cosa?» «No, probabilmente, come non furono informati dell'oro spagnolo che l'Esercito portò via da Victorio Peak nel New Mexico dopo che fu scoperto da un gruppo di civili negli anni '30.» «Viviamo in un mondo sordido e implacabile», commentò poeticamente Giordino. Pitt indicò il sole che sorgeva. «Vira e porta l'elicottero in una direzione approssimativa di centodieci gradi.» Giordino prese nota. «Vuoi controllare l'altra sponda del golfo al primo passaggio?» «Solo quattro isole hanno caratteristiche geologiche simili a quelle che stiamo cercando. Ma lo sai: preferisco incominciare la ricerca dal perimetro estremo della griglia e poi procedere verso l'interno e gli obiettivi più promettenti.» Giordino sogghignò. «Un uomo sano di mente comincerebbe dal centro.» «Non lo sapevi?» ribatté Pitt. «Quello che si diverte di più è l'idiota del villaggio.» 37. Erano stati quattro giorni di lunghe ricerche. Oxley era scoraggiato, Sarason stranamente soddisfatto, e Moore perplesso. Avevano sorvolato tutte le isole del mare di Cortés che avevano le caratteristiche geologiche corri-
spondenti. Alcune, sulle loro vette, presentavano masse rocciose che facevano pensare a sculture artificiali. Ma le ricognizioni a bassa quota e le faticose scalate di controllo avevano ben presto rivelato che quei massi potevano sembrare bestie scolpite unicamente con un grosso sforzo di fantasia. Moore aveva abbandonato le sue arie da accademico arrogante. Era chiaramente sconcertato. La scultura nella roccia doveva esistere su un'isola di un mare interno. I glifi dell'armatura d'oro erano chiarissimi, e non era possibile equivocare sulle istruzioni emerse dalla loro traduzione. Per un uomo tanto sicuro di sé, il fallimento era esasperante. Moore era sconcertato anche dall'improvvisa trasformazione del comportamento di Sarason. Quel bastardo, pensava, non manifestava più animosità o collera. Gli strani occhi quasi incolori sembravano osservare, osservare sempre, e non perdevano mai la loro intensità. Ogni volta che li guardava, Moore si rendeva conto di avere di fronte un uomo che conosceva bene la morte. Moore era sempre più irrequieto. I rapporti di forza erano cambiati. Il suo margine di vantaggio s'era ridotto: Sarason aveva intuito la verità al di là delle sue credenziali di professore insolente, ormai ne era certo. Se aveva riconosciuto in Sarason l'istinto dell'assassino, era logico che anche Sarason l'avesse identificato in lui. Ma c'era anche una piccola soddisfazione. Sarason non era un chiaroveggente. Non poteva sapere, come non lo sapeva nessuno al mondo eccettuato il presidente degli Stati Uniti, che il professor Henry Moore, stimato antropologo, e la sua altrettanto stimata moglie archeologa, Micki, erano specializzati nell'eliminazione di capi del terrorismo internazionale. Grazie alle loro credenziali accademiche viaggiavano liberamente da un Paese all'altro, in veste di consulenti per vari progetti archeologici. Inoltre - dato particolarmente interessante - la CIA era del tutto all'oscuro della loro attività. Gli incarichi venivano affidati direttamente ai due da un'organizzazione federale sconosciuta ai più, denominata Foreign Activities Council, che aveva sede in una piccola stanza sotterranea della Casa Bianca. Moore si assestò sul sedile e studiò una carta del golfo di California. Infine disse: «C'è qualcosa che non va». Oxley consultò l'orologio. «Le cinque. Preferisco atterrare finché c'è ancora luce. Tanto vale lasciar perdere per oggi.» Lo sguardo inespressivo di Sarason rimase fisso sull'orizzonte vuoto. Contrariamente al solito, era tranquillo e taciturno. Non fece commenti.
«Deve essere qui», sbottò Moore mentre esaminava le crocette sulla mappa che indicavano le isole scartate. Il suo tono era quello di uno studente che non capiva quali errori avesse commesso in un esame. «Ho la spiacevole sensazione che potremmo esserle passati accanto», disse Oxley. Ora che vedeva Moore in una luce diversa, Sarason lo rispettava come avversario. E si rendeva conto che, nonostante la figura esile, il professore era robusto e in ottima forma. Le sue faticose arrampicate sulle pareti rocciose delle isole più promettenti, la sua affannosa stanchezza, il suo comportamento da ubriaco... tutta scena. In due occasioni aveva scavalcato un crepaccio con l'agilità d'uno stambecco. Un'altra volta aveva spostato agevolmente un macigno che gli bloccava la strada e che doveva pesare quanto lui. «Forse la scultura incaica che stiamo cercando è andata distrutta», mormorò Sarason. Moore, sul sedile posteriore dell'idrovolante, scosse la testa. «No. Avrei riconosciuto i frammenti.» «E se fosse stata spostata? Non sarebbe la prima volta che una scultura antica viene trasferita in un museo.» «Se gli archeologi messicani avessero preso una massiccia statua di roccia e l'avessero esposta da qualche parte», insistette Moore, «l'avrei saputo.» «Allora come spiega il fatto che non è dove dovrebbe essere?» «Non so spiegarlo», ammise Moore. «Non appena atterreremo all'hacienda, riesaminerò i miei appunti. Deve esserci un indizio, qualcosa di apparentemente insignificante che mi è sfuggito quando ho tradotto i glifi dell'armatura d'oro.» «Spero che lo trovi prima di domattina», disse Sarason in tono asciutto. Oxley lottò contro la tentazione di assopirsi. Era ai comandi dalle nove del mattino e aveva il collo indolenzito. Strinse fra le ginocchia la barra di comando e si versò un caffè dal thermos. Bevve un sorso e fece una smorfia. Non era soltanto freddo: aveva il sapore dell'acido per batterie. All'improvviso scorse un lampo verde sotto una nube. Indicò dal finestrino di sinistra. «Non si vedono molti elicotteri in questa parte del golfo», commentò con noncuranza. Sarason non si degnò di guardare. «Deve essere della Marina messicana in servizio di pattuglia.»
«E senza dubbio sta cercando un pescatore ubriaco con il motore in avaria», soggiunse Moore. Oxley scosse la testa. «Non ricordo di aver mai visto un elicottero militare turchese.» Sarason alzò gli occhi, sorpreso. «Riesci a distinguere i contrassegni?» Oxley afferrò il binocolo e scrutò attraverso il parabrezza. «È americano.» «Probabilmente è della Drug Enforcement Agency e collabora con le autorità messicane.» «No, appartiene alla National Underwater & Marine Agency. Chissà cosa starà facendo nel golfo di California.» «Svolgono rilevamenti oceanografici in tutto il mondo», spiegò Moore con noncuranza. Sarason s'irrigidì come se gli avessero sparato. «Sono stati due mascalzoni della NUMA a mandare all'aria la nostra operazione in Perù.» «Non mi sembra probabile che ci sia un collegamento», ribatté Oxley. «Quale operazione ha mandato all'aria la NUMA in Perù?» chiese Moore arricciando il naso. «Sono usciti dalla loro giurisdizione», rispose Sarason in modo vago. «Mi piacerebbe sapere com'è andata...» «La cosa non la riguarda», lo interruppe bruscamente Sarason. «Quanti sono a bordo?» «Sembra un modello a quattro posti», disse Oxley. «Però vedo solo un pilota e un passeggero.» «Si avvicinano o si allontanano?» «Il pilota si è portato su una rotta convergente e passerà circa duecento metri sopra di noi.» «Puoi salire e virare con lui?» chiese Sarason. «Voglio vederlo meglio.» «Dato che le autorità dell'aviazione civile non possono ritirarmi una licenza che non ho mai chiesto», ribatté Oxley con un sorriso, «vi porterò a un passo dal pilota.» «È pericoloso?» chiese Moore. Il sogghigno di Oxley si accentuò. «Dipende da lui.» Sarason prese il binocolo e guardò l'elicottero. Era un modello diverso da quello che era atterrato vicino al pozzo sacrificale: quello aveva la fusoliera più corta e i pattini, mentre questo aveva un carrello retrattile. Ma era impossibile equivocare sul colore e sui contrassegni. Tuttavia, rifletté, era assurdo pensare che gli uomini a bordo di quell'elicottero fossero gli stessi
apparsi all'improvviso nelle Ande. Puntò il binocolo sulla cabina di pilotaggio. Tra pochi secondi avrebbe potuto scorgere le facce dei due che erano a bordo. Per una ragione inesplicabile, la sua calma s'incrinò e i nervi si tesero. «Che ne dici?» chiese Giordino. «Potrebbero essere quelli?» «Potrebbero.» Pitt scrutava con un binocolo da marina l'idrovolante che procedeva in una rotta diagonale sotto l'elicottero. «Dopo aver osservato il pilota volare in cerchio sopra l'Isola Estanque per un quarto d'ora come se cercasse qualcosa sulla cima, credo di poter affermare che, sì, abbiamo incontrato la concorrenza.» «A detta di Sandecker hanno avviato la ricerca due giorni prima di noi», disse Giordino. «E, poiché si stanno ancora guardando intorno, neppure loro possono aver ottenuto grandi risultati.» Pitt sorrise. «C'è di che sentirsi rincuorati, no?» «Se non riescono a trovarlo e non ci riusciamo neppure noi, gli Inca ci hanno dato da bere un bel carico di balle.» «Non credo. Rifletti un momento. Ci sono due ricerche diverse in corso nella stessa area ma, per quanto ne sappiamo, le due squadre si servono d'istruzioni non collegate. Noi abbiamo il quipu di Drake, mentre loro si affidano alle incisioni sull'armatura d'oro di una mummia. Nel peggiore dei casi, le serie separate d'indicazioni ci avrebbero portati a località diverse. No, gli antichi non ci hanno messo fuori strada. Il tesoro è là. Molto semplicemente, non abbiamo guardato nel posto giusto.» Giordino, come sempre, era stupefatto: dopo aver passato ore ad analizzare carte e a studiare strumenti, prendendo mentalmente nota di tutte le navi avvistate sul mare sottostante, della geologia delle isole e di ogni variazione del vento, Pitt non dimostrava il minimo segno di esaurimento né di mancanza di concentrazione. Anche lui doveva provare gli stessi dolori muscolari e avvertire la tensione nervosa che gravava su Giordino... eppure non sembrava infastidito. In realtà Pitt sentiva la stanchezza e l'ansia, ma riusciva a cancellarle dalla sua mente e a prodigarsi con la stessa energia con cui aveva incominciato al mattino. «Fra le loro ricognizioni e le nostre», commentò Giordino, «dobbiamo aver esaurito tutte le isole che si avvicinano alle caratteristiche geologiche appropriate.» «Sono d'accordo», rispose pensosamente Pitt. «Ma sono anche convinto che siamo tutti sul campo giusto.»
«E allora dov'è? Dov'è quel maledetto demone?» Pitt indicò il mare. «È là, da qualche parte. Da cinquecento anni. E ci fa marameo.» Giordino indicò l'idrovolante. «I nostri compagni di ricerca stanno salendo per venire a controllarci. Vuoi che li semini?» «Inutile», disse Pitt. «Hanno una velocità oraria superiore alla nostra di un'ottantina di chilometri. Mantieni la rotta verso il traghetto con l'aria più innocente del mondo.» «È un gran bell'idrovolantc. Non se ne vedono se non nella zona dei laghi del Canada settentrionale.» «Si sta avvicinando un po' troppo per un incontro occasionale, non sembra anche a te?» «O cerca di mostrarsi gentile, oppure vuole leggere le piastrine con i nostri nomi.» Pitt scrutò con il binocolo la cabina di pilotaggio dell'aereo che ormai volava a una distanza dall'elicottero non superiore ai cinquanta metri. «Cosa vedi?» chiese Giordino che continuava a pilotare. «Qualcuno che mi guarda con il binocolo», rispose Pitt con un gran sorriso. «Forse dovremmo invitarli a dividere con noi un barattolo di senape Grey Poupon.» Il passeggero dell'idrovolante abbassò per un momento le mani per fregarsi gli occhi prima di riprendere a osservare. Pitt strinse i gomiti contro i fianchi per reggere meglio il binocolo. Quando lo riabbassò non sorrideva più. «È un vecchio amico conosciuto in Perù», disse in tono di gelida sorpresa. Giordino si voltò a guardarlo incuriosito. «Un vecchio amico?» «Il falso Steve Miller è ricomparso per perseguitarci.» Pitt riprese a sorridere, un sorriso diabolico. Poi fece un cenno di saluto con la mano. Se Pitt era sorpreso dall'incontro inaspettato, Sarason era allibito. «Lui!» esclamò. «Cos'hai detto?» chiese Oxley. Frastornato nel rivedere l'uomo che gli aveva causato tanti problemi, e ancora incerto se quello non fosse uno scherzo dell'immaginazione, Sarason puntò di nuovo il binocolo e incontrò il viso di un diavolo che sorride-
va malignamente e agitava la mano con la stessa compostezza con cui un partecipante a un funerale saluta il defunto. Poi spostò di poco il binocolo e impallidì nello scorgere il pilota. «Gli uomini a bordo di quell'elicottero sono i due che hanno rovinato la nostra attività in Perù», disse con voce cupa. Oxley non sembrava molto convinto. «È piuttosto improbabile, fratello. Sei proprio sicuro?» «Ti dico che sono loro... Quelle facce sono impresse a fuoco nella mia memoria. Sono costati alla nostra famiglia milioni di dollari in oggetti preziosi che più tardi sono stati confiscati dal governo peruviano.» Moore ascoltava con attenzione. «Perché sono qui?» «Per la nostra stessa ragione. Qualcuno deve aver fatto una soffiata sul nostro progetto.» Sarason lanciò a Moore un'occhiata feroce. «Forse il caro professore ha qualche amico alla NUMA?» «Io ho rapporti con il governo una sola volta all'anno, quando presento la dichiarazione dei redditi», replicò Moore. «Quali che siano, quelli non sono certamente amici miei.» Oxley era ancora dubbioso. «Ha ragione. È impossibile che il nostro professore abbia stabilito qualche contatto con l'esterno. La tua affermazione avrebbe più senso, secondo me, se fossero agenti della Dogana, e non scienziati o ingegneri dipendenti da un'organizzazione che si occupa di oceanografia.» «No, giuro che sono gli stessi che sono comparsi dal nulla e hanno salvato l'archeologa e il fotografo nel pozzo sacro. Si chiamano Dirk Pitt e Al Giordino. Pitt è il più pericoloso dei due. È stato lui che ha ucciso i miei uomini ed evirato Tupac Amaru. Dobbiamo seguirli e scoprire qual è la loro base operativa.» «Ho appena il carburante sufficiente per tornare a Guaymas», rispose Oxley. «Dobbiamo lasciarli andare.» «Costringili a scendere. Falli precipitare», insistette Sarason. Oxley scosse la testa. «Se sono davvero pericolosi come dici, è probabile che siano armati, mentre noi non lo siamo. Calmati, fratello. Li incontreremo di nuovo.» «Ma riflettete un attimo», intervenne Moore. «È assolutamente impossibile che sappiano dove cercare. Soltanto mia moglie e io abbiamo decifrato i glifi sull'armatura d'oro della mummia. Deve trattarsi di una coincidenza, oppure lei ha avuto un'allucinazione.» «Come può spiegarle mio fratello», disse Sarason in tono gelido, «non
sono il tipo che soffre di allucinazioni.» «Due sub della NUMA che girano il mondo combattendo il male», borbottò seccamente Moore. «Farebbe meglio a smettere di drogarsi con il mescal.» Sarason non ascoltò le parole di Moore. Il pensiero di Amaru fece scattare in lui una molla. Ritrovò l'autocontrollo e lo shock iniziale lasciò il posto a una lucida e spietata risoluzione. Era arrivato il momento di sguinzagliare il cane idrofobo delle Ande. «Questa volta», sibilò, «saranno loro a pagare.» Joseph Zolar era finalmente arrivato con il suo jet e attendeva nella sala da pranzo dell'hacienda in compagnia di Micki Moore quando i tre entrarono, stanchissimi, e si sedettero. «Non c'è bisogno di chiedere se avete trovato qualcosa. L'insuccesso vi si legge in faccia.» «Lo troveremo», disse Oxley sbadigliando. «Il demone deve essere là, da qualche parte.» «Io non ne sarei altrettanto sicuro», commentò Moore mentre prendeva un bicchiere di Chardonnay. «Abbiamo quasi finito di controllare le isole.» Sarason si avvicinò e diede una pacca sulle spalle di Zolar. «Ti aspettavamo tre giorni fa.» «Ho avuto da fare. Una transazione che ci ha reso un milione e duecentomila franchi svizzeri.» «Un mercante?» «Un collezionista. Uno sceicco saudita.» «Com'è andato l'accordo con Vincente?» «Gli ho venduto il lotto intero a eccezione di quei maledetti idoli cerimoniali indiani. Lo hanno spaventato a morte... anche se non so per quale motivo.» Sarason rise. «Forse a causa della maledizione.» Zolar scrollò le spalle. «Se sono accompagnati da una maledizione, questo vuol dire che il prossimo cliente potenziale dovrà pagare di più.» «Hai portato con te gli idoli?» chiese Oxley. «Mi piacerebbe darci un'occhiata.» «Sono in una cassa da imballaggio nella stiva dell'aereo.» Zolar guardò con aria famelica la quesadilla nel piatto che gli stava davanti. «Speravo che al mio arrivo aveste qualche buona notizia da darmi.» «Non si può dire che siamo stati con le mani in mano», ribatté Moore. «Abbiamo esaminato tutti gli scogli che affiorano nel mare, dal fiume Co-
lorado fino a Cabo San Lucas, e non abbiamo visto niente che somigli a un demone di pietra con le ali e la testa di serpente.» «Mi dispiace darti altre brutte notizie», intervenne Sarason, rivolgendosi a Zolar, «ma abbiamo incontrato gli amici che ci hanno rovinato la festa in Perù.» Zolar lo fissò, sbalordito. «Vuoi dire i due diavoli della NUMA?» «Proprio loro. E, per quanto possa sembrare incredibile, credo che siano in caccia dell'oro di Huascar.» «Purtroppo sono costretto a dichiararmi d'accordo», disse Oxley. «Altrimenti, perché sarebbero comparsi improvvisamente in questa zona?» «È impossibile che sappiano qualcosa che noi non sappiamo», commentò Zolar. «Forse ci hanno seguiti», disse Micki, e tese il bicchiere perché Henry le versasse il vino. Oxley scosse la testa. «No, il nostro idrovolante ha un'autonomia doppia in confronto al loro elicottero.» Moore si rivolse a Zolar. «Forse mia moglie ha ragione. È estremamente improbabile che si sia trattato di un incontro casuale.» «Come dobbiamo regolarci?» chiese Sarason senza rivolgersi a qualcuno in particolare. Zolar sorrise. «Credo che la signora Moore ci abbia fornito la spiegazione.» «Io?» ribatté Micki. «Ho detto soltanto che...» «Che potrebbero averci seguiti.» «E allora?» Zolar la guardò con aria subdola. «Cominceremo col chiedere ai nostri amici mercenari infiltrati nelle forze dell'ordine locale di guadagnarsi i bei soldoni che passiamo loro: indagheranno per scoprire la base operativa dei nostri concorrenti. E quando li avremo scovati, saremo noi a seguire loro.» 38. Mancava mezz'ora al calare dell'oscurità quando Giordino fece posare l'elicottero nel cerchio bianco dipinto sul ponte di carico dell'Alhambra. I due mozzi, che si chiamavano Jesús e Gato, si tenevano pronti per spingere l'apparecchio nell'enorme stiva per le automobili e legarlo. Quando Giordino spense il motore, Loren e Gunn si fecero avanti. Non erano soli. Un uomo e una donna uscirono dall'ombra della colossale so-
vrastruttura del traghetto e li raggiunsero. «Com'è andata?» gridò Gunn nel fragore sempre più smorzato dei rotori, mentre Giordino si sporgeva dal finestrino della cabina di pilotaggio. Per tutta risposta, Giordino abbassò i pollici. Pitt scese dal portello del vano di carico e inarcò le folte sopracciglia nere in un'espressione di sorpresa. «Non mi aspettavo di rivedervi proprio qui.» La dottoressa Shannon Kelsey sorrise con aria dignitosa, mentre Miles Rodgers stringeva energicamente la mano di Pitt in uno slancio di sincera amicizia. «Spero che la nostra improvvisata non le dispiaccia», esclamò Rodgers. «Oh, no, tutt'altro. Sono contento di vedervi. Immagino che vi siete già presentati.» «Sì, abbiamo fatto conoscenza. Shannon e io non ci aspettavamo di essere accolti da un membro del Congresso e dal vicedirettore della NUMA.» «La dottoressa Kelsey mi ha raccontato le sue avventure peruviane», disse Loren con voce bassa e gutturale. «La sua è una vita molto interessante.» Giordino scese dall'elicottero e guardò incuriosito i due nuovi arrivati. «Evviva, la banda si è riunita», li salutò. «È una rimpatriata di vecchi amici, oppure un congresso di cacciatori di mummie?» «Sì, che cosa vi ha portati a bordo del nostro umile traghetto nel mare di Cortés?» chiese Pitt. «Certi agenti del governo hanno chiesto a Miles e a me di abbandonare ciò che stavamo facendo in Perù e di volare qui per collaborare alle vostre ricerche», spiegò Shannon. Pitt guardò Gunn con aria interrogativa. «Agenti del governo?» Gunn scrollò le spalle per indicare che non ne sapeva niente e mostrò un foglio. «Il fax che ci informava del loro arrivo ci è pervenuto un'ora dopo che sono comparsi con un volo charter. Hanno insistito per attendere il vostro rientro prima di rivelare lo scopo della visita.» «Erano agenti della Dogana», disse Miles a Pitt. «Sono piombati nel Pueblo de los Muertos con un alto funzionario del Dipartimento di Stato e hanno fatto appello al nostro spirito patriottico.» «Hanno chiesto a Miles e a me d'identificare e fotografare il tesoro di Huascar non appena l'avrete trovato», soggiunse Shannon. «Si sono rivolti a noi per la mia competenza nel campo dell'arte e della cultura andine e per la fama di fotografo di Miles, ma soprattutto per i recenti fatti che ci hanno
coinvolti con la NUMA.» «E avete accettato», concluse Pitt. «Quando gli agenti della Dogana ci hanno informati che la banda dei contrabbandieri da noi incontrata nelle Ande ha legami con la famiglia dei trafficanti clandestini di opere d'arte attualmente impegnati nella caccia al tesoro, abbiamo fatto subito i bagagli», confermò Rodgers. «Gli Zolar?» Rodgers annuì. «La possibilità di contribuire a catturare l'assassino di Doc Miller è stata più forte della riluttanza a lasciarci coinvolgere.» «Un momento», intervenne Giordino. «Gli Zolar hanno qualcosa a che fare con Amaru e il Solpemachaco?» Rodgers annuì di nuovo. «Non ve l'hanno detto? Nessuno vi ha informati che il Solpemachaco e la famiglia Zolar sono la stessa cosa?» «Immagino che qualcuno abbia dimenticato di comunicarcelo», disse Giordino in tono caustico. E scambiò con Pitt un'occhiata d'intesa. Come se avessero letto l'uno nella mente dell'altro, concordarono tacitamente di non parlare dell'incontro imprevisto con l'impostore che si era spacciato per il dottor Miller. «Siete stati messi al corrente delle istruzioni che abbiamo decifrato sul quipu?» chiese Pitt a Shannon, cambiando argomento. Shannon fece un cenno affermativo. «Mi hanno consegnato una traduzione completa.» «Chi ve l'ha fornita?» «Il corriere che me l'ha consegnata personalmente era un agente dell'FBI.» Pitt fissò dapprima Gunn e poi Giordino con una calma ingannevole. «La trama si complica. Mi sorprende che Washington non abbia distribuito comunicati stampa e non abbia venduto i diritti cinematografici a qualche major di Hollywood.» «Se la cosa si viene a sapere», commentò Giordino, «tutti i cacciatori di tesori esistenti tra qui e le calotte polari piomberanno sul golfo di California come mosche addosso a un sanbernardo emofiliaco.» La stanchezza incominciava a impadronirsi di Pitt. Si sentiva rigido e indolenzito, e gli faceva male la schiena. Il suo organismo chiedeva a gran voce un po' di riposo. Aveva tutti i diritti di essere esausto e scoraggiato. Accidenti, pensò, perché non divido con gli altri la mia disperazione? Non c'è nessun motivo per portare la croce da solo. «Mi dispiace doverlo dire», annunciò rivolgendosi a Shannon. «Ma
sembra che lei e Miles abbiate fatto un viaggio inutile.» Shannon alzò gli occhi, sorpresa. «Non avete trovato il nascondiglio del tesoro?» «Qualcuno vi ha detto che l'avevamo trovato?» «Ci hanno lasciato credere che aveste individuato il posto», disse Shannon. «Un pio desiderio», rispose Pitt. «Finora non abbiamo visto neppure l'ombra di una roccia scolpita.» «Conosce il simbolo descritto dal quipu?» chiese Gunn all'archeologa. «Sì», rispose lei senza esitare. «Il Demonio de los Muertos.» «Il 'demonio dei morti'!» esclamò Pitt. «Il dottor Ortiz ce l'aveva detto. Merito un brutto voto perché non avevo stabilito il nesso.» «Lo ricordo bene», soggiunse Gunn. «Il dottor Ortiz ha disseppellito una grande, grottesca statua di pietra con le zanne e ha detto che era un dio chachapuyano dell'Aldilà.» Pitt ripeté le parole del dottor Ortiz. «In parte giaguaro, in parte condor, in parte serpente, azzannava chiunque disturbasse i morti e lo trascinava nelle viscere della terra.» «Il corpo e le ali sono coperti da squame, come una lucertola», aggiunse Shannon. «Ora che sapete esattamente cosa state cercando», fece Loren con rinnovato entusiasmo, «il vostro compito dovrebbe essere più facile.» «Conosciamo la carta d'identità della bestia che veglia sul tesoro», disse Giordino, riportando la conversazione su un piano pratico. «E con ciò? Dirk e io abbiamo esaminato tutte le isole che corrispondono alle caratteristiche indicate e siamo rimasti a mani vuote. L'area della ricerca è stata coperta per intero; e se può esserci sfuggito qualcosa, è stato escluso anche dalla concorrenza.» «Al ha ragione», ammise Pitt. «Non sappiamo più dove cercare.» «Siete sicuri di non aver visto tracce del demone?» chiese Rodgers. Giordino scosse la tesa. «Neppure una squama o una zanna.» Shannon fece una smorfia rassegnata e avvilita. «Allora il mito è soltanto un mito.» «Il tesoro che non è mai esistito», mormorò Gunn. Si lasciò cadere su una vecchia panchina per i passeggeri. «È finita», soggiunse lentamente. «Chiamerò l'ammiraglio e gli dirò che chiudiamo.» «Anche i nostri rivali a bordo dell'idrovolante dovrebbero tagliare la corda e involarsi nel tramonto», rifletté Giordino.
«Sì, per riorganizzarsi e ritentare», disse Pitt. «Non sono i tipi che abbandonano le ricerche di un tesoro da un miliardo di dollari.» Gunn lo guardò sbalordito. «Li hai visti?» «Ci siamo incontrati e salutati», rispose Pitt senza scendere nei particolari. «È una grossa delusione, non poter catturare l'assassino di Doc», commentò mestamente Rodgers. «E poi, speravo di poter essere il primo a fotografare i tesori e la catena d'oro di Huascar.» «Un fiasco», mormorò Gunn. «Un fiasco totale.» Shannon rivolse un cenno a Rodgers. «È meglio che ci mettiamo d'accordo per tornare in Perù.» Loren si lasciò cadere sulla panca accanto a Gunn. «È un vero peccato, dopo che tutti si sono dati da fare con tanto impegno.» All'improvviso Pitt si rianimò. Si scrollò di dosso la stanchezza e ridiventò allegro e ottimista come al solito. «Non posso parlare anche a nome di voi profeti di sventura, ma io ho intenzione di fare un bagno, prepararmi una tequila on the rocks con lime, cuocere una bistecca alla griglia, fare una bella dormita, e ripartire domattina in cerca del mostro che fa la guardia al tesoro.» Tutti lo guardarono come se avesse l'esaurimento nervoso... tutti tranne Giordino, il quale non aveva bisogno di poteri sovrannaturali per capire che l'amico aveva fiutato una pista. «Hai tutta l'aria di uno che è resuscitato. Che significa questo voltafaccia?» «Ricordi quando una squadra della NUMA trovò una nave a vapore vecchia di centocinquant'anni che era appartenuta alla Marina della repubblica del Texas?» «Fu nel 1987, vero? E la nave era la Zavala.» «Appunto. E ricordi dove fu trovata?» «Sotto un parcheggio di Galveston.» «Adesso hai capito?» «Io no di certo», scattò Shannon. «Dove vuole arrivare?» «A chi tocca cucinare?» chiese Pitt senza risponderle. Gunn alzò una mano. «È il mio turno in cambusa. Perché me lo chiedi?» «Perché, quando ci saremo goduti un buon pasto e un paio di cocktail, spiegherò il grande piano di Dirk.» «Che isola ha scelto?» chiese cinicamente Shannon. «Bali, Ha'i oppure Atlantide?» «Non c'è nessuna isola», rispose Pitt con aria misteriosa. «Nessuna isola.
Il tesoro che non è mai esistito esiste e si trova sulla terraferma.» Un'ora e mezzo più tardi, con Giordino al timone, il vecchio traghetto invertì la rotta e le ruote a pale lo portarono di nuovo verso nord, in direzione di San Felipe. Mentre Gunn, con l'aiuto di Rodgers, preparava la cena in cambusa, Loren andò in cerca di Pitt. Lo trovò seduto su una sedia pieghevole in sala macchine, a chiacchierare con il capo macchinista e ad assorbire i suoni, gli odori e i movimenti dei giganteschi motori dell'Alhambra. Aveva l'espressione di un uomo assolutamente euforico. Loren gli arrivò alle spalle portando una bottiglietta di tequila e un bicchiere con il ghiaccio. Gordo Padilla fumava un mozzicone di sigaro e passava uno straccio pulito su un paio di manometri della pressione. Indossava stivali da cowboy sciupati, una maglietta ornata da immagini coloratissime di uccelli tropicali e un paio di pantaloni tagliati al ginocchio. I capelli lucidi e imbrillantinati erano folti come erba palustre e gli occhi castani scrutavano i motori con lo stesso ardore che avrebbero dimostrato alla vista di una prosperosa modella in bikini. Molti credono che i macchinisti delle navi siano omaccioni straripanti con il petto villoso e gli avambracci robusti coperti da tatuaggi pittoreschi. Padilla non era villoso e neppure tatuato. Sembrava una formica che si aggirava intorno ai motori colossali. Era così piccolo che, per statura e peso, avrebbe avuto le carte in regola per diventare fantino. «Mia moglie Rosa», disse fra un sorso e l'altro di birra Tecate, «pensa che amo più questi motori di lei. E io le rispondo sempre: meglio questi che un'amante. Non mi costano niente e non devo incontrarli di nascosto.» «Le donne non hanno mai capito l'affetto che un uomo può provare per una macchina», confermò Pitt. «Le donne non possono appassionarsi agli ingranaggi e ai pistoni», disse Loren, mentre passava una mano sulla camicia hawaiana di Pitt, «perché le macchine sono incapaci di dimostrare affetto verso chi le colma di attenzioni.» «Ah, bella signora», sospirò Padilla, «lei non immagina che soddisfazione proviamo quando riusciamo a sedurre un motore perché funzioni come si deve.» Loren rise. «No, e non voglio neppure immaginarlo.» Alzò gli occhi verso l'enorme struttura che sosteneva i bilancieri, poi guardò i grandi cilindri. «Ma devo ammettere che è un apparato imponente.»
«Un apparato?» Pitt le passò un braccio intorno alla vita. «In confronto alle turbine diesel moderne, i motori a bilanciere sembrano antiquati. Ma se pensi alle tecniche dell'ingegneria e della fabbricazione che erano l'ultimo grido a quell'epoca, sono veri monumenti al genio dei nostri antenati.» Loren gli porse la bottiglietta di tequila e il bicchiere con il ghiaccio. «Basta con queste stupidaggini mascoline sui vecchi motori puzzolenti. Bevi. La cena sarà pronta fra dieci minuti.» «Non hai nessun rispetto per le cose belle della vita», commentò Pitt mentre le strusciava la guancia contro una mano. «Scegli. I motori o me?» Pitt alzò gli occhi verso l'asta del pistone che muoveva il bilanciere. «Non posso negare di essere ossessionato dal ritmo di un motore», rispose con un sorriso malizioso. «Confesso però che è davvero piacevole accarezzare qualcosa di morbido e delicato.» «È un pensiero che sarà di gran conforto per tutte le donne del mondo.» Jesús scese la scaletta del ponte delle automobili e disse qualcosa a Padilla in spagnolo. Padilla ascoltò, annuì e guardò Pitt. «Jesús dice che è da mezz'ora che le luci di un aereo ronzano intorno al traghetto.» Per un momento Pitt fissò l'asse gigantesco dell'albero motore che faceva girare le ruote a pale. Poi strinse Loren e disse laconicamente: «Buon segno». «Buon segno di che cosa?» chiese lei, incuriosita. «I nostri concorrenti», rispose allegramente Pitt. «Hanno fallito e adesso ci seguono nella speranza che li portiamo al tesoro. Per noi è un vantaggio.» Dopo un pasto abbondante servito su uno dei trenta tavoli della vasta sezione passeggeri, Pitt aprì una carta nautica e due mappe geologiche della terraferma. Parlava con chiarezza e precisione ed esponeva i suoi pensieri in modo così limpido che avrebbero potuto essere quelli degli ascoltatori. «L'aspetto del paesaggio non è più lo stesso. Ci sono stati grandi cambiamenti durante gli ultimi cinquecento anni.» S'interruppe e accostò le tre mappe che offrivano una veduta globale della zona desertica dalle rive settentrionali del golfo fino alla Coachella Valley in California. «Migliaia di anni fa il mare di Cortés si estendeva sull'attuale deserto del Colorado e l'Imperial Valley, sopra il mare di Salton. Nel corso dei secoli, il fiume Colorado straripò e trascinò in mare quantità enormi di sedimenti. Formò quindi un delta e una specie di diga nell'area settentrionale del ma-
re. L'accumulo di sedimenti si lasciò dietro un grande specchio d'acqua che in seguito fu chiamato lago Cahuilla; mi sembra che il nome derivi dagli indiani che vivevano sulle sue rive. Se viaggiate fra le colline che circondano il bacino, potete vedere ancora oggi la linea raggiunta anticamente dall'acqua e trovare conchiglie marine sparse nel deserto.» «E quando si prosciugò?» chiese Shannon. «Fra il 1000 e il 1200 dopo Cristo.» «E allora da dove è spuntato il mare di Salton?» «Per cercare d'irrigare il deserto fu costruito un canale che doveva portare l'acqua dal Colorado. Nel 1905, dopo una serie di piogge eccezionali e l'afflusso di una grande quantità di sedimenti, il fiume ruppe gli argini del canale e l'acqua si riversò nella parte più bassa del bacino del deserto. Un intervento disperato bloccò il flusso, ma ormai era passata abbastanza acqua per formare il mare di Salton, con la superficie ottanta metri al di sotto del livello del mare. In pratica è un grande lago che diventerà come il Cahuilla, sebbene il drenaggio dell'irrigazione abbia stabilizzato temporaneamente le sue dimensioni.» Gunn portò una bottiglia di brandy messicano. «Una breve pausa perché l'alcool possa ringiovanire il sangue», annunciò. In mancanza di bicchieri adeguati, il liquore fu versato in quelli di carta. Gunn alzò il suo. «Un brindisi al successo.» «Evviva!» disse Giordino. «È sorprendente come un buon pasto e un po' di brandy possano cambiare lo stato d'animo.» «Speriamo che Dirk abbia una soluzione al mistero», disse Loren. «Sarà interessante vedere se ha senso.» Shannon fece un gesto spazientito. «Sentiamo dove va a finire.» Pitt non disse nulla. Si curvò sulle mappe e tracciò una linea circolare attraverso il deserto con un pennarello rosso. «Questa era l'estensione approssimativa del golfo di California verso la fine del quindicesimo secolo, prima che l'accumulo dei sedimenti del fiume si spostasse verso sud.» «A meno di un chilometro dall'attuale confine fra gli Stati Uniti e il Messico», osservò Rodgers. «È un'area oggi coperta quasi interamente da terre umide e distese di fango, e conosciuta come Laguna Salada.» «E in che modo la palude s'inserisce nel quadro?» chiese Gunn. Pitt era radioso come un dirigente d'azienda che sta per annunciare agli azionisti un cospicuo dividendo. «L'isola dove gli inca e i chachapuyas seppellirono la catena d'oro di Huascar non è più un'isola.»
Sedette e bevve qualche sorso di brandy, in attesa che gli altri si rendessero ben conto della sua rivelazione. Come se obbedissero all'ordine di un sergente istruttore, tutti si chinarono sulle carte, studiando i segni che Pitt aveva tracciato per indicare l'antica linea costiera. Shannon indicò un piccolo serpente che Pitt aveva disegnato e che si avvolgeva intorno a un alto affioramento roccioso a metà strada fra la palude e i primi contrafforti dei monti Las Tinajas. «Che significa il serpente?» «È una specie di X per indicare il punto in cui scavare», rispose Pitt. Gunn esaminò con attenzione la mappa geologica. «La piccola montagna che hai evidenziato è alta poco meno di cinquecento metri, secondo i dati altimetrici.» «Come si chiama?» chiese Loren. «Cerro el Capirote», rispose Pitt. «Capirote è un cappello cerimoniale a punta, come quelli dei maghi delle favole.» «E pensi che questo pinnacolo in mezzo alla desolazione sia il sito del tesoro?» chiese Rodgers. «Studiando con attenzione la mappa, si trovano altre alture con le vette appuntite che sorgono nel deserto poco lontano dalla palude. Corrispondono tutte alla descrizione generale. Ma io sono pronto a scommettere che quella che stiamo cercando è il Cerro el Capirote.» «Che cosa la spinge a una conclusione così decisa?» chiese Shannon. «Mi sono messo nei panni degli Inca e ho scelto il posto più adatto per nascondere quello che, a quel tempo, era il tesoro più grande del mondo. Se fossi stato al posto del generale Naymlap, avrei cercato l'isola più importante all'estremità settentrionale di un mare lontano il più possibile dagli odiati conquistadores spagnoli. Il Cerro el Capirote era il punto più remoto che potevano raggiungere nella prima metà del Cinquecento, e l'altezza lo rende più imponente.» Sul ponte passeggeri del traghetto l'atmosfera stava diventando euforica. Una speranza nuova aveva ravvivato un progetto che stava per venire accantonato. L'incrollabile sicurezza di Pitt aveva contagiato tutti. Persino Shannon beveva il brandy e sorrideva come la padrona d'un saloon di Dodge City. I dubbi erano stati buttati a mare. Ormai davano per certo che avrebbero trovato il demone appollaiato sulle cime del Cerro el Capirote. Se avessero sospettato che Pitt nutrisse qualche riserva, la riunione sarebbe finita subito. E Pitt era sicuro delle proprie conclusioni, ma aveva una mentalità troppo pratica per non nutrire qualche dubbio.
E poi c'era l'altra faccia della medaglia. Lui e Giordino non avevano detto di aver riconosciuto l'assassino del dottor Miller in uno dei concorrenti. Si rendevano conto che gli Zolar (o il Solpemachaco, o comunque si chiamassero in quella parte del mondo) non sapevano che il tesoro era alla loro portata. Pitt pensò a Tupac Amaru, a quei suoi occhi freddi e privi di vita, e comprese che la caccia stava per diventare pericolosa e molto sporca. 39. L'Alhambra si spinse a nord di punta San Felipe e si fermò quando le ruote a pale sollevarono una scia di sedimenti rossi. A pochi chilometri di distanza si spalancava la foce del Colorado, ampia e poco profonda. Ai lati dell'acqua torbida e salata c'erano spoglie barene di fango, completamente prive di vegetazione. Pochi pianeti nell'universo avevano un aspetto così desolato e spento. Pitt osservava il paesaggio tetro attraverso il parabrezza dell'elicottero mentre si assestava l'imbracatura di sicurezza. Shannon stava sul sedile del copilota; Giordino e Rodgers avevano preso posto nel vano di carico. Salutò con la mano Gunn, che rispose alzando due dita a v, e Loren, che gli buttò un bacio. Le sue mani parvero volare sui comandi mentre i rotori giravano, accelerando sino a far vibrare la fusoliera. Poi l'Alhambra sembrò abbassarsi sotto di lui: fece muovere l'elicottero obliquamente sopra l'acqua come una foglia portata dal vento. Quando fu a distanza di sicurezza dal traghetto, incominciò un'ascesa diagonale su una rotta verso nord. A cinquecento metri, Pitt si stabilizzò in assetto orizzontale. Sorvolò per dieci minuti le acque tetre dell'estremità del golfo di California prima di spingersi sopra le paludi della Laguna Salada. Un ampio tratto era stato allagato dalle piogge recenti e i rami morti dei mezquites sporgevano dall'acqua salmastra come braccia scheletriche protese in cerca di salvezza. Pitt si lasciò indietro la gigantesca depressione e virò sopra le dune che discendevano dalle montagne fino all'orlo della Laguna Salada. Il paesaggio assunse le caratteristiche di una luna bruniccia. Il terreno irregolare e roccioso ispirava timore: era bello da vedere, ma letale per un organismo che volesse sopravvivere ai suoi orrori nel caldo rovente dell'estate. «C'è una strada asfaltata», annunciò Shannon, indicando in basso.
«È l'Autostrada 5», disse Pitt. «Va da San Felipe a Mexicali.» «Questa zona fa parte del deserto del Colorado?» chiese Rodgers. «Il deserto a nord del confine si chiama così in omaggio al fiume. In realtà, l'area è inclusa nel deserto di Sonora.» «Non è un territorio molto ospitale. Non vorrei attraversarlo a piedi.» «Chi è intollerante verso il deserto, ci muore», rifletté Pitt. «Chi lo rispetta si accorge che è un posto affascinante per viverci.» «Vive davvero qualcuno, laggiù?» chiese sorpresa Shannon. «In maggioranza sono indiani», spiegò Pitt. «Quello di Sonora è forse il deserto più bello del mondo, anche se gli abitanti del Messico centrale ne hanno una pessima opinione.» Giordino si sporse dal finestrino per vedere meglio e scrutò in lontananza con il fido binocolo. Poi batté la mano sulla spalla di Pitt. «Il tuo bersaglio è là, sulla sinistra.» Pitt annuì, corresse la rotta e scrutò una montagna solitaria che si ergeva dal fondo del deserto proprio davanti a lui. Il nome Cerro el Capirote era calzante. Sebbene non fosse esattamente conico, ricordava vagamente uno di quei cappelli da mago delle favole con la punta appiattita. «Mi sembra di scorgere una scultura in forma di animale sulla cima», annunciò Giordino. «Allora scendo», disse Pitt. Ridusse la velocità, fece abbassare l'elicottero e girò intorno alla vetta. Si avvicinò e volò prudentemente in cerchio per timore di qualche improvvisa corrente discendente. Poi tenne l'elicottero in volo a punto fisso quasi a muso a muso con la grottesca effigie di pietra. Il mostro, con la bocca spalancata, sembrava ricambiare il suo sguardo con l'espressione truculenta di un cane da guardia affamato. «Venghino, venghino, signori», esclamò Pitt come un imbonitore da fiera. «Venghino ad ammirare lo straordinario demone dell'oltretomba che mescola le carte con il naso e le distribuisce con i piedi.» «Allora esiste!» gridò Shannon, emozionatissima come tutti. «Esiste davvero!» «Sembra un mascherone medievale logorato dal tempo», commentò Giordino che riusciva a dominarsi meglio degli altri. «Deve atterrare», lo implorò Rodgers. «Bisogna dare un'occhiata da vicino.» «Ci sono troppe rocce intorno alla statua», ribatté Pitt. «Devo trovare un tratto piano per scendere.»
«C'è un piccolo spiazzo privo di macigni a una quarantina di metri dal demone», disse Giordino, e indicò al di sopra della spalla dell'amico. Pitt annuì e virò intorno alla grande scultura per avvicinarsi contro il vento che soffiava da ovest. Ridusse la velocità. L'elicottero turchese rimase librato per un momento, poi si posò sull'unico spazio libero sulla cima del Cerro el Capirote. Giordino scese per primo, portando i cavi che agganciò all'elicottero e avvolse intorno alle sporgenze di roccia. Quando ebbe terminato l'operazione, si accostò alla cabina di pilotaggio e si passò la mano a coltello sulla gola. Pitt spense il motore e le pale poco dopo smisero di girare. Rodgers balzò a terra e tese la mano a Shannon per aiutarla. Non appena fu scesa, la donna si mise a correre verso l'animale di pietra. Pitt fu l'ultimo a lasciare l'elicottero, ma non seguì gli altri. Alzò il binocolo e scrutò il cielo nella direzione da cui giungeva il suono smorzato di un motore. L'idrovolante non era altro che un puntolino argenteo nella volta azzurra. Il pilota si era tenuto a una quota di duemila metri nel tentativo di non farsi scorgere. Tuttavia Pitt non s'era lasciato ingannare. L'intuizione gli aveva detto che era stato seguito da quando era decollato dall'Alhambra, e l'apparizione del nemico non fece che confermare i suoi sospetti. Prima di raggiungere gli altri radunati intorno al mostro di pietra, si accostò al ciglio della parete scoscesa e guardò in basso. Era una fortuna non essere costretto ad affrontare la salita. Il panorama del deserto era sensazionale. Il sole ottobrino tingeva le rocce e la sabbia di colori vividi che diventavano scialbi durante l'estate. Le acque del golfo di California scintillavano a sud e le catene montuose ai due lati delle paludi della Laguna Salada salivano maestose in una leggera foschia. Era molto soddisfatto. Ce l'aveva fatta. Gli antichi avevano scelto un luogo davvero imponente per nascondere il loro tesoro. Quando finalmente si avvicinò all'enorme bestia di pietra, Shannon stava misurando con estrema attenzione il corpo di giaguaro mentre Rodgers scattava le foto, un rullino dopo l'altro. Giordino girava intorno al piedistallo in cerca dell'ingresso della galleria che portava nelle viscere della montagna. «Il pedigree corrisponde?» chiese Pitt. «L'influenza chachapuyana è chiara», rispose Shannon, rossa in viso per l'emozione. «Un esempio straordinario della loro arte.» Indietreggiò come se ammirasse un quadro esposto in una galleria. «Vede come i motivi delle squame sono riprodotti esattamente? Corrispondono a quelli delle bestie
scolpite nel Pueblo de los Muertos.» «La tecnica è la stessa?» «È quasi identica.» «Forse è opera dello stesso scultore.» «È possibile.» Shannon alzò la mano e accarezzò la parte inferiore del collo squamoso del serpente. «Spesso gli Inca assoldavano scultori chachapuyani.» «Gli antichi dovevano avere un senso dell'umorismo ben strano per creare un dio così brutto da far inacidire il latte.» «La leggenda è piuttosto vaga, ma afferma che un condor depose un uovo, e che l'uovo fu divorato e poi vomitato da un giaguaro. Ne nacque così un serpente che si avventurò guizzando nel mare, dove gli spuntarono squame di pesce. Il resto del mito dice che, siccome l'essere era bruttissimo ed evitato dalle altre divinità che vivevano al sole, dimorava sottoterra, dove finì per diventare il guardiano dei morti.» «Sembra la storia del brutto anatroccolo.» «È orrendo», dichiarò Shannon in tono solenne. «Eppure non posso fare a meno di provare un profondo sentimento di tristezza. Non saprei come spiegarlo, ma sembra che la pietra sia dotata di vita propria.» «Capisco. Anch'io percepisco qualcosa di più della fredda roccia.» Pitt abbassò lo sguardo su una delle ali che era caduta e s'era frantumata. «Povero vecchio animale. Tempi duri, per lui.» Shannon indicò i graffiti e i fori dei proiettili. «È un peccato che gli archeologi locali non l'abbiano riconosciuto per ciò che è: un'eccezionale opera d'arte realizzata da due culture fiorite a migliaia di chilometri da qui...» Pitt l'interruppe bruscamente, alzando una mano per chiedere silenzio. «Sente qualcosa? Un suono strano, come qualcuno che piange?» Shannon inclinò la testa e rimase in ascolto. Poi fece un cenno di diniego. «Soltanto gli scatti della macchina fotografica di Miles.» Il suono strano che Pitt credeva di aver sentito era cessato. Sorrise. «Probabilmente era il vento.» «Oppure coloro che sono sorvegliati dal Demonio de los Muertos.» «Credevo che garantisse loro il riposo nella pace eterna.» Shannon sorrise. «Sappiamo pochissimo dei riti religiosi incaici e chachapuyani. Forse il nostro amico di pietra non era benevolo come immaginiamo.» Pitt lasciò che Shannon e Miles continuassero a lavorare e raggiunse
Giordino, che stava battendo con un piccone la roccia intorno al piedistallo del mostro. «Vedi qualche traccia di un passaggio?» gli chiese Pitt. «No, a meno che gli antichi non avessero scoperto un metodo per fondere la roccia», rispose l'altro. «Questa bestiaccia è scolpita in una lastra enorme di granito che forma il nucleo della montagna. Non riesco a trovare nemmeno un'incrinatura alla base della statua. Se un passaggio esiste, deve trovarsi in qualche altro punto.» Pitt inclinò la testa e ascoltò. «Eccolo di nuovo.» «Vuoi dire il gemito?» «Lo senti anche tu?» chiese sorpreso Pitt. «Pensavo che fosse il sibilo del vento fra le rocce.» «Non è il vento.» Un'espressione strana apparve sulla faccia di Giordino. Si umettò l'indice con la lingua e controllò l'aria. «Hai ragione. Neppure un filo.» «Non è un suono costante», disse Pitt. «Si nota a intervalli.» «L'ho notato anch'io. Arriva come un alito per circa dieci secondi, poi non si sente più per quasi un minuto.» Pitt sorrise soddisfatto. «Per caso, non stiamo descrivendo lo sfiatatoio di una caverna?» «Vediamo se riusciamo a trovarlo», suggerì Giordino. «Aspettiamo di sentire di nuovo il suono.» Pitt trovò una roccia che sembrava abbastanza comoda e si sedette. Pulì con cura una lente degli occhiali da sole, si asciugò la fronte con un fazzolettone, si portò le mani alle orecchie e cominciò a girare la testa come un'antenna radar. Lo strano gemito andava e veniva, come se fosse prodotto da un congegno a orologeria. Pitt attese fino a che non ebbe ascoltato tre sequenze. Poi indicò a Giordino di spostarsi lungo il lato settentrionale della vetta. Non fu necessaria una risposta: non c'era bisogno di parole. Erano amici fin da bambini ed erano rimasti in stretto contatto durante gli anni passati insieme nell'Aeronautica militare. Quando Pitt, su richiesta dell'ammiraglio Sandecker, era entrato nella NUMA dodici anni prima, Giordino era andato con lui. Con il tempo avevano imparato a comprendersi senza chiacchiere inutili. Giordino scese un pendio ripido per una ventina di metri, poi si fermò. Rimase in ascolto, in attesa di un altro cenno di Pitt. Il gemito lugubre gli giunse più forte che all'amico. Ma sapeva che il suono riverberava sui macigni e risultava distorto. Non esitò quando Pitt gli accennò di allontanarsi dal punto in cui era più intenso e gli indicò un luogo in cui il fianco della
vetta scendeva bruscamente per una decina di metri in una specie di scivolo. Mentre Giordino, sdraiato sullo stomaco, cercava un modo per arrivare in fondo, Pitt lo raggiunse, si accoccolò al suo fianco e tese una mano con il palmo verso il basso. Il gemito si ripeté e Pitt annuì, schiudendo le labbra in un sorriso teso. «Sento uno spiffero. Qualcosa, nelle viscere della montagna, fa in modo che l'aria venga espulsa da uno sfiatatoio.» «Vado a prendere la corda e la torcia elettrica nell'elicottero», disse Giordino. Si alzò e si avviò. Dopo due minuti ritornò in compagnia di Shannon e Miles. All'archeologa brillavano gli occhi. «Al dice che avete trovato un modo per penetrare nella montagna.» «Fra poco lo sapremo», rispose Pitt. Giordino legò intorno a un grosso macigno l'estremità della corda di nylon. «Chi avrà questo onore?» «Facciamo a testa o croce», propose Pitt. «Testa.» Pitt lanciò in aria una moneta da un quarto di dollaro e rimase a guardarla mentre rotolava e si fermava su una minuscola superficie piatta fra due macigni imponenti. «Croce. Hai perso.» Giordino scrollò le spalle, poi fece un cappio e lo passò sotto le ascelle dell'amico. «Non metterti in mente di sbalordirmi con le tue prodezze di scalatore. Ti calerò e poi ti tirerò su.» Pitt si rendeva conto che l'amico era più forte di lui; non era molto alto, ma aveva spalle larghe e robuste, e le braccia muscolose erano degne di un lottatore professionista. Chiunque tentasse di gettare a terra Giordino, anche se si trattava d'una cintura nera di karate, aveva l'impressione di essere stato afferrato dagli ingranaggi di una macchina implacabile. «Attento a non spellarti le mani con la corda», gli raccomandò Pitt. «E tu stai attento a non romperti una gamba, altrimenti ti lascerò in pasto al mostro», ribatté Giordino mentre gli consegnava la torcia elettrica. Fece scorrere lentamente la fune e calò Pitt fra le pareti dello stretto scivolo. Non appena Pitt toccò il fondo con i piedi, guardò verso l'alto. «Bene, sono arrivato.» «Che cosa vedi?» «Una spaccatura nella parete di roccia, larga quanto basta per passare. Ora entro.»
«Non liberarti della corda. Subito oltre l'entrata potrebbe esserci un precipizio.» Pitt si stese bocconi e strisciò nella fenditura. Dopo circa tre metri, il passaggio si allargò tanto da permettergli di alzarsi in piedi. Accese la torcia elettrica e girò il fascio luminoso sulle pareti. La luce gli rivelò che si trovava all'inizio di un passaggio che sembrava discendere nell'interno della montagna. Il fondo era liscio, ma a intervalli di pochi passi c'erano gradini scavati nella roccia. Una ventata di aria umida lo investì: gli parve l'alito di un gigante. Passò i polpastrelli sulle pareti, e sentì che erano bagnate. Spinto dalla curiosità, avanzò nel passaggio fino a quando la corda di nylon non si tese impedendogli di procedere oltre. Puntò la luce davanti a sé nell'oscurità. La mano gelida della paura gli attanagliò il collo quando vide due occhi che lo fissavano. Su un piedistallo di roccia nera, apparentemente scolpito dalla stessa mano che aveva modellato il mostro sulla vetta, c'era un Demonio de los Muertos - un po' più piccolo di quello all'esterno - che scrutava minacciosamente l'imboccatura del passaggio. Questo mostro era intarsiato di turchesi e aveva zanne di quarzo candido e occhi di gemme. Pitt pensò seriamente di liberarsi della corda e di continuare l'esplorazione. Ma non sarebbe stato giusto nei confronti degli altri. Tutti dovevano essere presenti alla scoperta della camera del tesoro. Controvoglia, tornò alla fenditura nella parete e riemerse nella luce del sole. Quando Giordino lo aiutò a risalire, Shannon e Rodgers lo attendevano ansiosi. Incapace di frenare l'eccitazione, Shannon quasi lo aggredì. «Che cos'ha visto?» gridò. «Ci dica che cosa ha trovato!» Per un momento Pitt la fissò senza espressione, poi sorrise euforico. «L'accesso al tesoro è sorvegliato da un altro demone, ma a parte questo sembra che la strada sia libera.» Tutti gridarono di gioia. Shannon e Rodgers si abbracciarono e si baciarono. Giordino diede una pacca a Pitt, così forte da fargli battere i molari. In preda a una dilaniante curiosità, scrutarono la stretta apertura che conduceva all'interno della montagna. Nessuno vide una galleria nera che scendeva: guardavano attraverso la roccia come se fosse trasparente e vedevano il tesoro... O almeno, era ciò che credevano di vedere. Ma Pitt no. Guardava il cielo. L'intuito, o forse la superstizione, gli fece scoprire l'idrovolante che,
dopo averli seguiti fino alla vetta, stava attaccando l'Alhambra. Per un attimo lo vide chiaramente, come su uno schermo televisivo. E non era uno spettacolo piacevole. Shannon si accorse che era diventato di colpo silenzioso e assorto. «Che succede? Ha l'aria di aver perduto la sua ragazza.» «Può darsi», disse cupamente Pitt. «Può darsi.» 40. Giordino tornò all'elicottero per prendere un altro rotolo di corda, una seconda torcia elettrica e una lanterna Coleman. Si buttò la corda sulla spalla, passò la torcia a Shannon e consegnò la Coleman a Rodgers insieme a una scatola di fiammiferi. «Il serbatoio è pieno, quindi dovremmo avere luce per tre ore o più.» Shannon prese la seconda torcia elettrica. «Sarà meglio che io vada per prima.» Giordino scrollò le spalle. «Per me va bene. Purché sia qualcun altro a far scattare le trappole nella caverna.» Shannon fece una smorfia. «Che idea incoraggiante.» Pitt rise. «Ha visto troppe volte i film di Indiana Jones.» «Ma sì, trattami pure male», disse mestamente Giordino. «Un giorno o l'altro te ne pentirai.» «L'apertura è molto larga?» chiese Rodgers. «La dottoressa Kelsey può passare carponi, ma noi dovremo strisciare come serpenti.» Shannon scrutò il fondo della spaccatura. «I chachapuyas e gli inca non potevano aver trasportato tonnellate d'oro su balze così ripide per poi calarle attraverso questa specie di tana per topi. Dovevano aver trovato un passaggio più ampio intorno alla base della montagna, sopra l'antico livello dell'acqua.» «Sprecheresti anni e anni se lo cercassi», commentò Rodgers. «Ormai deve essere sepolto dalle frane e dall'erosione di quasi cinque secoli.» «Scommetto che gli inca l'ostruirono causando un crollo», disse Pitt. Shannon non intendeva permettere che fossero gli uomini a entrare per primi. Arrampicarsi sulle rocce e scendere nei recessi bui era una delle sue specialità. Calò la corda con grande disinvoltura e strisciò nella feritoia. Poi toccò a Rodgers, seguito da Giordino e infine da Pitt. Giordino si voltò verso quest'ultimo. «Se resto sepolto sotto una frana,
ricordati di tirarmi fuori.» «Ma prima chiamo il pronto intervento.» Shannon e Rodgers erano già scomparsi giù per i gradini di pietra, stavano esaminando il secondo Demonio de los Muertos quando Pitt e Giordino li raggiunsero. Shannon scrutava i motivi inseriti nelle squame di pesce. «Le immagini su questa statua sono conservate meglio di quelle del primo demone.» «Sei in grado d'interpretarle?» chiese Rodgers. «Se avessi più tempo a disposizione, lo farei. A quanto pare, furono scalpellate con molta fretta.» Rodgers fissò le zanne sporgenti dalle fauci della testa di serpente. «Non mi sorprende che gli antichi avessero tanta paura dell'Aldilà. Questo coso è abbastanza brutto da far venire la diarrea. Sembra che gli occhi seguano ogni movimento.» «Basta a far passare una sbornia», fece Giordino. Shannon rimosse la polvere intorno alle gemme rosse che formavano gli occhi. «Topazio madera. Probabilmente estratto a est delle Ande, in Amazzonia.» Rodgers posò a terra la lanterna Coleman, diede pressione al combustibile e accostò un fiammifero acceso. La lanterna inondò il passaggio di una luce viva per un raggio d'una decina di metri. Poi Rodgers l'alzò per esaminare meglio la statua. «Perché c'è questo secondo demone?» chiese, colpito dal fatto che il mostro, perfettamente conformato, sembrava scolpito da pochissimo tempo. Pitt accarezzò la testa del serpente. «È una specie di assicurazione: se qualche intruso avesse superato il primo...» Shannon umettò un angolo del fazzoletto e tolse la polvere dagli occhi di topazio. «È sorprendente che tante culture, antiche, separate geograficamente e del tutto prive di contatti, avessero creato gli stessi miti. Nelle leggende indiane, per esempio, i cobra erano considerati i guardiani d'un regno sotterraneo pieno di ricchezze straordinarie.» «Non mi sembra affatto strano», commentò Giordino. «Quasi tutti hanno una paura mortale dei serpenti.» Dopo un frettoloso esame della straordinaria scultura, proseguirono lungo la galleria. L'aria umida che saliva dal basso li faceva sudare; nonostante l'umidità, però, dovevano avanzare cauti per non sollevare nubi soffocanti di polvere. «Chissà quanti anni impiegarono per scavare questo passaggio», com-
mentò Rodgers. Pitt alzò le mani e passò le dita sulla volta di calcare. «Non credo che l'abbiano scavato completamente. È più probabile che abbiano allargato una spaccatura già esistente nella roccia. E comunque, non erano bassi di statura.» «Come fa a saperlo?» «La volta. Noi siamo costretti a camminare chini. È una trentina di centimetri al di sopra delle nostre teste.» Rodgers indicò una grande lastra posata ad angolo in una nicchia nella parete. «È la terza che vedo da quando siamo entrati. Che funzione poteva avere?» Shannon rimosse lo strato secolare di polvere e scorse la propria immagine riflessa su una superficie lucida. «Sono riflettori d'argento levigato», spiegò. «Lo stesso sistema usato dagli Egizi per illuminare le gallerie interne. Il sole batteva su un riflettore all'entrata e i raggi rimbalzavano dall'uno all'altro, rischiarando cosi le camere senza il fumo e la fuliggine che sarebbero derivati dall'uso di lampade a olio.» «Erano precursori degli ecologisti, dunque...» mormorò distrattamente Pitt. Il suono dei loro passi echeggiava avanti e indietro, come le increspature su uno stagno. La consapevolezza di essere vicini al cuore morto di una montagna dava a tutti una sensazione inquietante, quasi claustrofobica. L'aria stagnante divenne così densa e carica di umidità che la polvere cominciò ad attaccarsi ai loro indumenti. Dopo altri cinquanta metri entrarono in una piccola caverna con una lunga galleria. Era una vera catacomba, costellata di cripte scavate nelle pareti dove erano disposte in fila le mummie di venti uomini, avviluppate in mantelli di lana splendidamente ricamati. Erano i resti mortali delle guardie che continuavano a proteggere il tesoro, nell'attesa del ritorno dei compatrioti da un impero che non esisteva più. «Erano veri giganti», rilevò Pitt. «Dovevano essere sui due metri e dieci.» «È un vero peccato che non possano giocare a pallacanestro», borbottò Giordino. Shannon esaminò i fregi dei mantelli. «Secondo le leggende, i Chachapuyas erano alti come alberi.» Pitt girò lo sguardo sulla camera. «Ne manca uno.» Rodgers si voltò a guardarlo. «Chi?»
«L'ultimo, quello che aveva provveduto alla sepoltura degli altri guardiani.» Dopo la galleria dei morti arrivarono a una camera più grande. Shannon la identificò subito come l'alloggio dei guardiani prima della loro morte. Una grande tavola rotonda di pietra era circondata da una panca. Evidentemente la tavola era stata usata per mangiare. Gli ossi di un grosso uccello erano rimasti in un piatto d'argento posto fra i boccali di ceramica. C'erano letti scavati nelle pareti: su alcuni erano ancora posate coperte di lana. Rodgers scorse qualcosa che luccicava sul pavimento. La raccolse e l'accostò alla luce della Coleman. «Che cos'è?» chiese Shannon. «Un anello d'oro massiccio, liscio e senza incisioni.» «Un segnale incoraggiante», disse Pitt. «Ci stiamo avvicinando alla cripta principale.» Shannon ansimava per l'emozione. Precedette gli uomini oltre un altro varco in fondo all'alloggio dei guardiani e raggiunse una galleria con il soffitto a volta, simile a un'antica cisterna e così stretta da permettere il passaggio a una sola persona. Pareva scendere nelle viscere della montagna per un'eternità. «Pensate che abbiamo fatto molta strada?» chiese Giordino. «Una decina di chilometri, se do retta ai miei piedi», rispose Shannon che incominciava a sentirsi stanca. Pitt aveva calcolato la distanza in base ai gradini di pietra che avevano disceso dopo aver lasciato le cripte. «La vetta del Cerro el Capirote è appena cinquecento metri sopra il livello del mare. Credo che abbiamo raggiunto il fondo del deserto e siamo scesi venti o trenta metri più in basso.» «Accidenti!» esclamò Shannon. «qualcosa mi ha svolazzato contro la faccia.» «È successo anche a me», disse Giordino disgustato. «Mi sa che un pipistrello mi ha condito con un po' di bava.» «Rallegrati perché non era un vampiro», commentò Pitt. Continuarono la discesa per altri dieci minuti. Poi Shannon si fermò e alzò una mano. «Ascoltate! Ho sentito qualcosa.» Dopo qualche istante, Giordino disse: «Sembra che qualcuno abbia lasciato aperto un rubinetto». «Un torrente o un fiume», mormorò Pitt, ricordando quello che gli aveva raccontato il gestore del Box Car Café. In breve il suono dell'acqua corrente crebbe e riverberò nello spazio ri-
stretto. L'aria s'era rinfrescata: adesso era pura e meno soffocante. Affrettarono il passo, sperando ansiosamente che ogni svolta della galleria fosse l'ultima. Poi le pareti si allargarono all'improvviso nell'oscurità, e si trovarono in quella che sembrava un'immensa cattedrale. La montagna era cava. Shannon gettò un urlo che echeggiò come se fosse intensificato da enormi amplificatori da concerto rock. Si afferrò alla prima persona che le stava vicina, Pitt. Giordino, che pure non si spaventava facilmente, aveva la faccia di chi ha visto un fantasma. Rodgers era impietrito, con il braccio proteso e immobile, e continuava a reggere la lanterna Coleman. «Oh, mio Dio», ansimò alla fine, ipnotizzato dall'apparizione spettrale che si ergeva di fronte a loro e brillava sotto la luce viva. «Che cos'è?» Il cuore di Pitt pompò almeno cinque litri di adrenalina nel suo organismo. Ma, almeno esteriormente, rimase calmo ed esaminò con freddezza la figura torreggiante che sembrava un mostro uscito da un film dell'orrore. Il fantasma era orribile. Troneggiava sopra di loro, eretto, con i denti ghignanti, i lineamenti macabri, gli occhi spalancati. Pitt calcolò che l'apparizione lo superava di tutta la testa. Alta sopra una spalla, come immobilizzata nell'atto di fracassare il cranio a un intruso, una mano ossuta stringeva una mazza da combattimento con il bordo seghettato. La luce della Coleman brillava sulla macabra figura, che sembrava racchiusa nell'ambra gialliccia o in una resina di fibra di vetro. Poi Pitt comprese. L'ultimo guardiano del tesoro di Huascar s'era trasformato per l'eternità in una stalagmite. «Come ha fatto a diventare così?» chiese Rodgers. Pitt indicò la volta della caverna. «L'acqua che sgocciola dalla volta di calcare ha liberato anidride carbonica e questa, cadendo sul guardiano, ha finito per ricoprirlo di uno strato di cristalli di calcite. Con l'andare del tempo, è rimasto racchiuso come uno scorpione in un fermacarte di resina acrilica.» «Ma com'è possibile che sia morto e rimasto così, in piedi?» chiese Shannon che stava superando la paura iniziale. Pitt passò leggermente la mano sul mantello cristallizzato. «Non lo sapremo mai, a meno che non lo liberiamo con uno scalpello dalla sua tomba trasparente. Sembra incredibile... Forse, quando si accorse che stava per morire, costruì un supporto per restare eretto con il braccio alzato e si tolse la vita, probabilmente con il veleno.»
«Erano tipi che prendevano sul serio il loro lavoro», borbottò Giordino. Come se fosse attratta da una forza misteriosa, Shannon si accostò alla figura terribile e guardò la faccia imprigionata nei cristalli. «La statua, i capelli biondi. Era un chachapuyas.» «È molto lontano da casa», disse Pitt. Alzò il polso e consultò l'orologio. «Ci restano due ore e mezzo prima che la Coleman resti a secco. È meglio che continuiamo a muoverci.» Anche se non sembrava possibile, l'immensa grotta si estendeva ulteriormente: i raggi delle lampade rivelavano appena la grande volta ad arco, molto più vasta di qualunque altra ideata o costruita dall'uomo. Le stalattiti gigantesche che scendevano dal soffitto si congiungevano con le stalagmiti che salivano dal pavimento e diventavano colonne titaniche. Alcune stalagmiti avevano forma di bestie stranissime che sembravano congelate per l'eternità in un paesaggio alieno. I cristalli brillavano come denti sulle pareti. La bellezza e la grandiosità che scintillavano sotto i fasci di luce davano la sensazione di trovarsi al centro di uno spettacolo creato da raggi laser. Poi, bruscamente, le formazioni s'interruppero: sul fondo della caverna s'intravedeva la riva di un fiume ampio più di trenta metri. Sotto le luci, l'acqua nera assunse un cupo color smeraldo. Pitt calcolò che la velocità della corrente doveva essere di nove nodi. Il suono che avevano sentito nel passaggio era causato dal movimento dell'acqua intorno alle rive rocciose di un'isola lunga e bassa che affiorava al centro del fiume. A incantarli però non fu la scoperta di quel fiume straordinario sotto il deserto, bensì una visione talmente incredibile da superare ogni limite della fantasia umana. Sull'isola piatta c'era una montagna di manufatti d'oro. L'effetto delle due torce elettriche e della lanterna Coleman sul tesoro aureo lasciò senza parole gli esploratori. Rimasero immobili a contemplare lo spettacolo magnifico. C'era la catena d'oro di Huascar, avvolta in una grande spirale alta dieci metri. C'era anche il disco d'oro del Tempio del Sole, lavorato meravigliosamente e tempestato di centinaia di pietre preziose. C'erano piante d'oro, ninfee e pannocchie di mais, figure d'oro massiccio di re e di divinità, di donne, di lama, nonché dozzine e dozzine di oggetti cerimoniali ornati di grossi smeraldi. Ammucchiati come all'interno di un furgone per i traslochi, c'erano tonnellate di statue d'oro, mobili, tavoli, sedie e letti, tutti lavorati ad arte. Al centro stava un trono immenso d'oro massiccio intarsiato a fiori d'argento.
E non era tutto. Disposte in lunghe file, erette come fantasmi e racchiuse in gusci d'oro, c'erano le mummie di dodici generazioni di sovrani e principi incaici. Ciascuno, accanto a sé, aveva la sua armatura, le acconciature e una serie di indumenti. «Non avevo mai immaginato una collezione come questa, neppure nei miei sogni più folli», mormorò Shannon. Giordino e Rodgers erano paralizzati dallo sbalordimento. Nessuno dei due parlava. Guardavano la scena a bocca aperta. «È straordinario che fossero riusciti a trasportare metà delle ricchezze delle Americhe per migliaia di chilometri attraverso un oceano a bordo di imbarcazioni di balsa e di canne», mormorò Pitt in tono di ammirazione. Shannon scosse la testa. L'espressione reverente dei suoi occhi si mutò in tristezza. «Provi a immaginarlo, se ci riesce. Questa è solo una minima parte delle ricchezze appartenenti all'ultima delle grandi civiltà precolombiane. Possiamo fare solo una stima approssimativa della quantità enorme di oggetti che gli Spagnoli portarono via e trasformarono in lingotti.» La faccia di Giordino brillava quasi quanto l'oro. «Però è una bella consolazione sapere che gli Spagnoli non riuscirono a mettere le mani su quel che c'era di meglio.» «C'è qualche possibilità di raggiungere l'isola? Vorrei studiare gli oggetti», esclamò Shannon. «E io devo fotografarli da vicino», soggiunse Rodgers. «È impossibile, a meno che non possiate attraversare a piedi dieci metri di acqua corrente», disse Giordino. Pitt scrutò la caverna girando il fascio della lampada sul pavimento nudo. «A quanto pare i chachapuyas e gli inca portarono via il ponte. Dovrete accontentarvi di studiare e fotografare il tesoro da qui.» «Userò il teleobiettivo e pregherò che il mio flash serva a qualcosa, vista la distanza», disse Rodgers. «Quanto vale tutta questa roba?» chiese Giordino. «Bisognerebbe pesarla», ribatté Pitt, «calcolare il prezzo corrente dell'oro e infine moltiplicare il totale per tre, per tener conto del valore artistico e della rarità.» «Sono certa che il tesoro vale il doppio di quanto avevano stimato gli esperti», disse Shannon. Giordino si voltò a guardarla. «Allora sarebbero trecento milioni di dollari?» L'archeologa annuì. «Forse anche di più.»
«Ma non vale neppure quanto la figurina di un giocatore di baseball», osservò Pitt, «se non viene portato alla superficie. Non sarà facile asportare i pezzi più grandi, inclusa la catena, da un'isola circondata dall'acqua tumultuosa, e trascinarli lungo una stretta galleria fino alla vetta della montagna. Poi, una volta lassù, ci vorrà un grosso elicottero solo per la catena.» «Sarà un'operazione in grande stile», annuì Rodgers. Pitt puntò il fascio luminoso sulla catena enorme. «Nessuno aveva detto che sarebbe stata facile. Comunque, portare il tesoro fuori di qui è un problema che non ci riguarda.» Shannon gli lanciò un'occhiata interrogativa. «Ah, no? E allora, chi dovrebbe occuparsene?» Pitt la fissò a sua volta. «Ha dimenticato? Noi dobbiamo lasciar fare ai nostri vecchi amici del Solpemachaco.» Quel pensiero era svanito dalla mente di Shannon nel preciso momento in cui aveva messo gli occhi su quegli straordinari oggetti. «È una vergogna», sibilò furiosamente in uno scatto d'amor proprio. «È la più grande scoperta archeologica del secolo, e io non posso dirigere il programma di recupero.» «Perché non presenta un reclamo?» chiese Pitt. Lei continuò a guardarlo, perplessa. «Di che sta parlando?» «Faccia sapere alla concorrenza che cosa pensa.» «E come?» «Le lasci un messaggio.» «È impazzito?» Pitt prese la corda che Giordino portava a tracolla e fece un cappio. Poi la roteò nell'aria come un lazo, la lanciò attraverso l'acqua e sorrise trionfante quando il cappio si strinse intorno alla testa di una scimmietta d'oro. «Ah-ah!» esclamò in tono d'orgoglio. «Neppure Will Rogers avrebbe saputo fare di meglio.» 41. Le paure di Pitt trovarono conferma quando portò l'elicottero sopra l'Alhambra. Non c'era nessuno sul ponte ad accoglierli. Il traghetto sembrava deserto: il ponte delle auto era vuoto, come la timoniera. Non era all'ancora e non andava alla deriva. Lo scafo riposava sull'acqua appena due metri al di sopra dei sedimenti del fondo. Sembrava una nave abbandonata dall'e-
quipaggio. Il mare era calmo, e l'Alhambra non rollava né beccheggiava. Pitt fece posare l'elicottero e spense i motori non appena le ruote toccarono la tolda. Restò seduto mentre il rumore della turbina e delle pale si spegneva lentamente in un silenzio agghiacciante. Attese un minuto intero, ma non comparve nessuno. Poi aprì il portello e balzò sul ponte. Si fermò, in attesa che succedesse qualcosa. Finalmente un uomo uscì da dietro la tromba di una scala, si avvicinò e si fermò a cinque metri dall'elicottero. Anche senza i capelli bianchi e la barba, Pitt riconobbe l'individuo che in Perù s'era spacciato per il dottor Steven Miller. Sorrideva come se avesse catturato un pesce da primato. «È un po' fuori strada, no?» chiese Pitt, imperturbabile. «A quanto pare lei è la nemesi che mi perseguita, signor Pitt.» «È una qualità che mi lusinga. Con che nome si fa chiamare, oggi?» «Sono Cyrus Sarason, anche se questa informazione non le sarà di nessun aiuto.» «Non posso dire di essere lieto di rivederla.» Sarason si avvicinò e sbirciò l'interno dell'elicottero al di sopra della spalla di Pitt. La sua faccia perse l'espressione soddisfatta e si contrasse per la preoccupazione. «È solo? Dove sono gli altri?» «Quali altri?» ribatté candidamente Pitt. «La dottoressa Kelsey, Miles Rodgers e il suo amico Albert Giordino.» «Me lo dica lei, visto che ha imparato a memoria l'elenco dei passeggeri.» «Signor Pitt, le ricordo che farebbe meglio a non scherzare con me», lo avvertì Sarason. «Avevano fame, e li ho portati a un ristorante sul mare a San Felipe.» «Non è vero.» Pitt non staccò lo sguardo da Sarason per scrutare i ponti del traghetto. C'erano fucili puntati su di lui: ne era assolutamente certo. Tuttavia non si mosse e continuò a fronteggiare l'assassino di Miller come se non avesse un pensiero al mondo. «Allora mi faccia causa», ribatté, e rise. «Non si può permettere il lusso di fare il gradasso», ribatté aspramente Sarason. «Forse non si rende conto della gravità della situazione in cui si trova.» «Credo di rendermene conto», rispose Pitt, senza smettere di sorridere. «Lei vuole il tesoro di Huascar e per averlo sarebbe pronto a sterminare
metà della popolazione messicana.» «Per fortuna non sarà necessario. Ma riconosco che settecento milioni di dollari o poco meno costituiscono un incentivo notevole.» «Non le interessa sapere come e perché stavamo compiendo le nostre ricerche contemporaneamente a lei?» chiese Pitt. Questa volta fu Sarason a ridere. «Con un po' di persuasione, il signor Gunn e la signorina Smith mi hanno parlato del quipu di Drake.» «Torturare un membro del Congresso degli Stati Uniti e il vicedirettore di un'organizzazione scientifica internazionale non è un'idea molto intelligente.» «Però si è rivelata efficace.» «Dove sono i miei amici e l'equipaggio del traghetto?» «Mi chiedevo appunto quando si sarebbe deciso a farmi questa domanda.» «Vuole arrivare a un accordo?» A Pitt non era sfuggita l'espressione da predatore di Sarason che lo fissava nel tentativo d'intimidirlo. Ricambiò il suo sguardo con fermezza. «Oppure vuole dirigere la musica e il ballo?» Sarason scosse la testa. «Non capisco perché dovrei negoziare. Lei non ha niente da darmi in cambio e, ovviamente, non è un uomo di cui posso fidarmi. E io ho in mano tutte le fiches. Per dirla in poche parole, signor Pitt, lei ha perso la partita prima ancora di pescare le carte.» «Allora può dimostrarsi un vincitore magnanimo e restituirmi i miei amici.» Sarason scrollò le spalle, alzò una mano e fece un gesto di richiamo. «È il minimo che posso fare prima di legarle addosso qualche grosso peso e buttarla in acqua.» Quattro uomini massicci e dalla pelle scura, che sembravano buttafuori ingaggiati in qualche locale d'infima categoria, spinsero avanti i prigionieri con i fucili automatici e li fecero allineare sul ponte alle spalle di Sarason. Il primo era Gordo Padilla, seguito da Jesús, Gato e l'aiuto macchinista di cui Pitt non ricordava il nome. I lividi e le incrostazioni di sangue sulle facce indicavano che erano stati picchiati, ma non erano ridotti molto male. Gunn, invece, non l'aveva sfangata: dovevano trascinarlo. Era stato brutalmente percosso, e Pitt vide le macchie di sangue sulla camicia e gli stracci avvolti intorno alle mani. Poi fu la volta di Loren. Aveva il volto tirato, le labbra e le guance gonfie come se fosse stata punta da uno sciame d'api. I capelli erano spettinati e c'erano lividi violacei sulle braccia e sulle gambe. Ma teneva ancora la testa alta e si divincolò dalla stretta delle
guardie che la spingevano in avanti. Quando vide Pitt assunse un'espressione di sfida che tuttavia si trasformò ben presto in amara delusione. Gemette disperata. «Oh, no, Dirk! Hanno preso anche te!» Gunn alzò faticosamente la testa e mosse le labbra spaccate e sanguinanti. «Ho cercato di avvertirti, ma...» La voce si smorzò. Sarason sorrise freddamente. «Il signor Gunn intendeva dire che lui e l'equipaggio sono stati sopraffatti dai miei uomini dopo che ci avevano gentilmente permesso di salire a bordo del traghetto, da una barca da pesca presa a nolo, per poter usare la radio.» Pitt provò l'impulso di avventarsi contro quegli individui che avevano maltrattato i suoi amici. Respirò profondamente per dominarsi e giurò a se stesso che l'uomo di fronte a lui l'avrebbe pagata. Forse non subito, ma sarebbe venuto sicuramente il momento. L'importante, adesso, era non commettere sciocchezze. Lanciò un'occhiata verso il parapetto più vicino e valutò la distanza e l'altezza. Poi si rivolse di nuovo a Sarason. «Non mi piacciono gli uomini grandi e grossi che picchiano le donne indifese», disse senza scomporsi. «E poi, a che scopo? Conosce l'ubicazione del tesoro.» «Allora è vero», esclamò Sarason, soddisfatto. «Avete trovato il mostro che custodisce l'oro sulla cima del Cerro el Capirote.» «Se fosse sceso a vedere un po' più da vicino invece di giocare a nascondino fra le nuvole, avrebbe potuto vedere la bestia.» Le ultime parole di Pitt accesero un lampo di curiosità negli occhi vitrei. «Sapeva di essere seguito?» «Era ovvio che avreste cercato il nostro elicottero dopo l'incontro casuale di ieri. Immagino che avrà controllato i campi d'atterraggio sulle due sponde del golfo di California, la scorsa notte, e avrà fatto domande fino a che qualcuno a San Felipe non ha parlato del nostro traghetto.» «È davvero molto acuto.» «Non proprio. Ho commesso l'errore di sopravvalutarla. Non credevo che si sarebbe comportato come un dilettante precipitoso e avrebbe incominciato a mutilare la concorrenza... Un atto del tutto ingiustificato.» Negli occhi di Sarason s'insinuò un'espressione di perplessità. «Cosa significa, Pitt?» «Fa tutto parte del piano», rispose Pitt in tono quasi gioviale. «Vi ho portati di proposito fino al tesoro.»
«Questa è una menzogna.» «L'abbiamo imbrogliata, amico. Apra gli occhi. Perché pensa che abbia portato altrove la dottoressa Kelsey, Rodgers e Giordino prima di tornare al traghetto? Per tenerli lontani dalle sue manacce luride, ecco perché.» Sarason obiettò: «Non poteva sapere che ci saremmo impadroniti del traghetto prima del suo ritorno». «Non ne avevo la certezza. Ma diciamo che il mio intuito ha fatto gli straordinari. Senza contare che le mie chiamate via radio al traghetto sono rimaste senza risposta.» Un sorriso da iena spuntò sulla faccia di Sarason. «Un abile tentativo, Pitt. Potrebbe mettersi a scrivere favole per bambini.» «Non mi crede?» chiese Pitt in tono sorpreso. «Neppure una parola.» «Cosa intende fare di noi?» Sarason era ancora più allegro. «È più ingenuo di quanto immaginassi. Sa benissimo cosa vi succederà.» «Conta un po' troppo sulla fortuna, Sarason. L'assassinio della deputata Smith le farà piombare addosso metà delle forze dell'ordine degli Stati Uniti.» «Nessuno saprà che è stata assassinata», replicò impassibile Sarason. «Il traghetto affonderà con tutti coloro che sono a bordo. Uno sfortunato incidente che nessuno sarà mai in grado di spiegare.» «Ma ci sono la dottoressa Kelsey, Giordino e Rodgers. Sono al sicuro in California, pronti a raccontare tutto agli agenti della Dogana e dell'FBI.» «Qui non siamo negli Stati Uniti. Siamo in Messico. Le autorità locali faranno ampie indagini, ma non troveranno indizi di reato nonostante le accuse infondate dei suoi amici.» «Dato che c'è in gioco quasi un miliardo di dollari, avrei dovuto immaginare che non avrebbe badato a spese per comprare la collaborazione delle autorità del posto.» «Non vedevano l'ora di mettersi a disposizione, dopo che abbiamo promesso loro una parte del tesoro», dichiarò Sarason. «Considerando la sua consistenza», disse Pitt, «poteva permettersi di giocare a Babbo Natale.» Sarason guardò il sole calante. «Si fa tardi. Credo che abbiamo chiacchierato abbastanza.» Si voltò e pronunciò un nome che fece venire i brividi a Pitt. «Tupac, vieni a salutare l'uomo che ti ha reso impotente.» Tupac Amaru giunse alle spalle di una delle guardie e si fermò davanti a
Pitt, ghignando come il teschio d'una bandiera pirata. Aveva l'espressione soddisfatta e distaccata di un macellaio che valuta un pezzo di ottima carne di manzo. «Ti avevo detto che ti avrei fatto soffrire come tu hai fatto soffrire me», disse minacciosamente. Pitt scrutò con una strana intensità quella faccia malvagia. Non aveva bisogno di spiegazioni particolareggiate per immaginare che cosa lo aspettava. Incominciò a mettere in atto il piano che aveva preparato subito dopo essere sceso dall'elicottero. Si mosse verso Loren, tenendosi un po' a lato e, senza darlo a vedere, incominciò a iperventilare. «Se sei stato tu a picchiare la signorina Smith, morirai com'è vero che mi stai davanti con quell'aria stupida.» Sarason rise. «No, no. Signor Pitt, lei non ucciderà nessuno.» «E neppure lei. Persino in Messico finirebbe impiccato se ci fosse un testimone ai suoi omicidi.» «Sono disposto ad ammetterlo.» Sarason squadrò Pitt con attenzione. «Ma di quale testimone sta parlando?» S'interruppe per indicare con un ampio gesto del braccio il mare vuoto. «Come vede, la terra più vicina è un deserto distante venti chilometri, e l'unico natante in vista è il nostro peschereccio che si trova a dritta della prua.» Tutti girarono la testa, tranne Gunn. Fece un cenno a Pitt e tese la mano per indicare la timoniera vuota. «Nasconditi, Pedro!» gridò. «Scappa e nasconditi!» A Pitt furono sufficienti tre secondi. Tre secondi per compiere quattro passi di corsa, scavalcare il parapetto e tuffarsi in mare. Due guardie notarono il movimento improvviso con la coda dell'occhio, si voltarono fulmineamente e spararono una raffica con i fucili automatici. Ma avevano tirato troppo in alto e troppo tardi. Pitt era piombato nell'acqua ed era scomparso nelle profondità torbide. 42. Nel mare, Pitt stava muovendo le braccia e le gambe con la frenesia di un demonio. Una giuria in una gara olimpionica sarebbe rimasta impressionata dalla velocità del suo tuffo. L'acqua era tiepida, ma la visibilità al di sotto della superficie era inferiore a un metro a causa dei sedimenti che affluivano dal fiume Colorado. Il rumore della raffica venne intensificato dalla densità dell'acqua: a Pitt sembrò una salva d'artiglieria.
I proiettili entrarono nel mare: sembrava assurdo, ma il suono che produssero era identico a quello di una cerniera lampo che viene chiusa. Pitt si portò in assetto orizzontale quando toccò il fondo con le mani sollevando una nube di sedimenti. Ricordava, dagli anni passati nell'Aeronautica militare, che la velocità di un proiettile si esauriva dopo che aveva attraversato l'acqua per un metro e mezzo. Oltre quella profondità, scendeva verso il fondo senza causare danni. Quando la luce al di sopra della superficie si smorzò, comprese di essere passato sul fianco sinistro dello scafo dell'Alhambra. Aveva scelto il momento più adatto. Si avvicinava l'alta marea e la chiglia del traghetto era a due metri dal fondale. Continuò a nuotare adagio, regolarmente, espellendo una piccola quantità d'aria dai polmoni e dirigendosi verso poppa in una rotta che, si augurava, avrebbe dovuto portarlo sul lato di dritta vicino alle grandi ruote a pale. Aveva quasi esaurito l'ossigeno e la sua vista cominciava a rabbuiarsi quando l'ombra del traghetto sparì all'improvviso, e tornò a vedere la superficie luminosa. Emerse due metri a poppa dell'interno della ruota di dritta. Doveva correre il rischio di essere scoperto. Non poteva fare altro, se non voleva annegare. Pregò che gli scagnozzi di Sarason non avessero capito il suo piano e fossero quindi accorsi alla fiancata opposta del natante. Sentì qualche altro sparo che finiva in acqua sul lato di sinistra, e ricominciò a sperare. Non gli erano ancora addosso, per il momento. Aspirò in fretta l'aria pura mentre si orientava. Poi s'immerse di nuovo sotto la protezione temporanea delle gigantesche ruote a pale. Valutò la distanza, alzò una mano sopra la testa e si spinse scalciando lentamente. La sua mano toccò una trave di legno. Pitt vi si aggrappò e sollevò la testa dall'acqua. Gli sembrava di essere entrato in un enorme fienile, con le travi di sostegno che andavano in tutte le direzioni. Levò lo sguardo verso la catena cinematica che faceva muovere il traghetto: era di tipo radiale, simile per costruzione e funzionamento alle vecchie, pittoresche ruote ad acqua usate nei mulini e nelle segherie. I robusti mozzi di ghisa montati su quella biella erano fissati a bracci lignei che si estendevano verso l'esterno per un diametro di dieci metri. Le estremità dei bracci erano imbullonate a lunghe assi orizzontali, le pale, che giravano e giravano e s'immergevano nell'acqua, spingendo all'indietro per far avanzare il traghetto. Pitt si aggrappò a una delle pale e attese, osservando un piccolo banco di persici maculati che gli girava intorno alle gambe. Non era ancora al sicu-
ro. C'era una porta d'accesso che permetteva agli uomini dell'equipaggio di provvedere alla manutenzione della ruota. Decise di restare in acqua. La ragione gli suggeriva che sarebbe stato un errore gravissimo farsi cogliere mentre si arrampicava sui bracci lignei: poteva infatti esserci qualcuno pronto a uscire dalla porta di accesso e a sparargli. Era meglio restare in una posizione che gli permetteva d'immergersi nell'acqua all'avvicinarsi di un pericolo. Sentì i passi che correvano sul ponte delle automobili, intervallati da qualche sparo. Non poteva vedere, ma intuiva le azioni degli uomini di Sarason. Si aggiravano sui ponti scoperti e sparavano contro tutto ciò che poteva sembrare un corpo nell'acqua. Sentiva le voci che gridavano, ma le parole erano incomprensibili. Nessun pesce grosso nel raggio di cinquanta metri sarebbe sopravvissuto al bombardamento. Lo scatto della serratura della porta d'accesso risuonò esattamente come aveva previsto. Scivolò nell'acqua fino a quando non rimase scoperta solo una metà della testa: ma le gigantesche pale lo nascondevano comunque a chi stava lassù. Non vide la faccia barbuta che sbirciava l'acqua, però sentì una voce forte e chiara risuonare alle spalle dell'uomo sulla porta, una voce che ormai conosceva anche troppo bene. Gli si rizzarono i capelli in testa nell'udire le parole pronunciate da Amaru. «L'hai visto?» «Quaggiù non c'è niente, tranne i pesci», borbottò l'uomo, guardando i persici maculati. «Non è riemerso lontano dalla nave. Se non è morto, deve essere nascosto sotto lo scafo.» «Non c'è nessuno. Non è il caso di cercare. Lo abbiamo appesantito con tanti proiettili che potremmo adoperare il suo cadavere come ancora.» «Non sarò soddisfatto fino a che non vedrò il corpo», dichiarò Amaru. «Se vuoi un cadavere», disse l'altro, mentre rientrava dalla porta di accesso, «trascina una grappa sul fondo. È l'unico modo per rivederlo.» «Vai alla rampa di prua», ordinò Amaru. «Sta tornando il peschereccio.» Pitt sentì il rombo del motore diesel e le vibrazioni delle eliche: il peschereccio si affiancava per caricare Sarason e i suoi mercenari. Si chiese vagamente che cosa stessero dicendo i suoi amici riguardo alla sua fuga, anche se in realtà il tuffo non era stato che un tentativo disperato di salvarli. Niente andava secondo i piani. Sarason lo precedeva sempre di due pas-
si. Pitt aveva già lasciato che Loren e Gunn finissero nelle mani dei ladri d'opere d'arte. Era rimasto a guardare mentre il traghetto e l'equipaggio venivano catturati. Aveva tradito il segreto del tesoro di Huascar. Si stava comportando in modo così stupido che non si sarebbe meravigliato se Sarason e i suoi complici l'avessero eletto presidente del consiglio d'amministrazione del Solpemachaco. Passò quasi un'ora prima che sentisse il rumore del peschereccio che si allontanava. Poi venne il frastuono di un elicottero che decollava dal traghetto... senza dubbio era l'elicottero della NUMA. Imprecò: aveva fatto un altro regalo ai delinquenti. Era scesa l'oscurità e non c'erano luci riflesse sull'acqua. Pitt si chiese perché gli uomini sui ponti superiori avessero impiegato tanto tempo per abbandonare la nave. Era convinto che sul traghetto ci fosse ancora qualcuno, lasciato lì con il compito di toglierlo di mezzo nel caso che fosse ricomparso. Amaru e Sarason non potevano uccidere gli altri prima di avere la certezza assoluta che Pitt era morto e che non poteva spifferare tutto alle autorità e, soprattutto, ai mass media. Pitt sentiva l'apprensione gravargli nel petto come una pietra legata al cuore. Era in una situazione di svantaggio. Se Loren e Rudi erano stati portati via dall'Alhambra, doveva arrivare a riva in un modo o nell'altro e informare Giordino e i funzionali della Dogana nella città statunitense di Calexico, al confine. E l'equipaggio? Bisognava accertarsi che Amaru e gli altri non fossero più a bordo. Se erano rimasti per smascherare il suo bluff, avrebbero atteso. Avevano a disposizione tutto il tempo del mondo. Lui invece no. Si allontanò dalla pala e s'immerse sotto lo scafo. I sedimenti del fondo parevano più vicini alla chiglia di quanto ricordasse dal primo tuffo. Gli parve una cosa illogica finché non passò sotto un tubo di scarico della sentina e avvertì un forte risucchio. Non occorrevano altre spiegazioni: le valvole della sentina erano state aperte. Amaru aveva deciso di affondare l'Alhambra. Si girò e, lentamente, nuotò verso l'estremità del traghetto, dove aveva lasciato l'elicottero. A rischio di essere visto, tornò a galla per qualche attimo accanto allo scafo per riprendere fiato. Dopo un'ora e mezzo d'immersione, si sentiva saturo d'acqua e la sua epidermide era grinzosa come quella di un ultranovantenne. Non era troppo stanco, ma le sue forze erano diminuite del venti per cento. Scivolò di nuovo sotto lo scafo e puntò verso
i timoni che molto presto apparvero davanti a lui nell'acqua torbida. Tese le braccia, si afferrò a uno di essi e alzò lentamente la faccia dall'acqua. Non c'era nessuno che lo guardasse ghignando e non c'erano armi puntate contro la sua fronte. Si tenne aggrappato al timone e restò a galla per riposare e riprendere le forze. Ascoltò. Ma dal ponte delle automobili, sopra di lui, non giungeva il minimo rumore. Finalmente si issò abbastanza in alto per sbirciare al di sopra della rampa rialzata. L'Alhambra era immerso nel buio più totale; non c'erano luci, né all'interno né all'esterno. I ponti erano silenziosi e deserti. Come aveva sospettato, l'elicottero della NUMA era sparito. La paura dell'ignoto gli fece correre un brivido lungo la schiena. C'era troppo silenzio, come in un vecchio fortino prima d'un attacco a sorpresa degli Apache. Non era una giornata fortunata, pensò Pitt. I suoi amici erano stati catturati e venivano tenuti in ostaggio. O forse erano morti, anche se non voleva crederci. Aveva perduto un altro elicottero della NUMA, rubato da quei criminali che avrebbe dovuto far cadere in trappola. Il traghetto stava affondando, ed era certo che qualche sicario era nascosto a bordo per uccidere lui. Tutto sommato, avrebbe preferito essere sotto il trapano di un dentista. Non sapeva da quanto tempo era aggrappato al timone. Forse da cinque minuti, forse da un quarto d'ora. I suoi occhi si erano assuefatti all'oscurità, tuttavia la sola cosa che riusciva a scorgere all'interno della stiva era il riflesso vago dei paraurti cromati e del radiatore della Pierce Arrow. Attese di vedere un movimento o di sentire un suono furtivo. Il ponte che si estendeva come un'immensa caverna gli faceva paura. Ma, se voglio procurarmi un'arma, devo entrare per forza, rifletté nervosamente. Aveva bisogno di un'arma qualunque per proteggersi dagli uomini che avevano intenzione di trasformarlo in una portata di sushi. A meno che gli uomini di Amaru non avessero perquisito a fondo la vecchia Travelodge, non potevano aver trovato la fida automatica 45, inventata da John Browning e prodotta dalla Colt, che Pitt teneva nel frigorifero, nel cassetto delle verdure. Issatosi a bordo, gli bastarono cinque secondi per attraversare di corsa il ponte, spalancare la portiera della roulotte e balzare all'interno. Con un movimento meccanico aprì lo sportello del frigo e il cassetto. La Colt automatica era lì dove l'aveva lasciata. Il sollievo d'impugnare la sua fida pistola lo investì come l'acqua di una cascata.
Ma durò poco. La Colt era leggera, troppo leggera. Tolse il caricatore. Era vuoto. Assalito da una nuova disperazione controllò il cassetto accanto al fornello, dove stavano i coltelli da cucina. Erano spariti, con tutte le posate. L'unica arma rimasta nella roulotte era la Colt scarica. Gatto e topo. Sì, erano là fuori. Adesso Pitt sapeva che Amaru si sarebbe divertito a giocare con la preda prima di farla a pezzi e di buttarla in mare. Pitt si concesse qualche istante per riflettere sulla strategia da adottare. Sedette sul letto della roulotte e pianificò le mosse successive. Se qualcuno degli assassini era sul ponte delle automobili, avrebbe potuto sparargli, accoltellarlo o stordirlo con una mazzata mentre correva verso la roulotte. Niente gli impediva di fare irruzione per mettere la parola fine alla storia. Amaru è furbo e subdolo, ammise Pitt. Aveva intuito che era ancora vivo e che, alla prima occasione, sarebbe corso in cerca di un'arma. Era stata una mossa astuta, perquisire la roulotte e scoprire la pistola; ma soltanto un sadico avrebbe pensato di lasciarla lì dopo aver tolto i proiettili. Quella era la prima fase di un gioco tormentoso che si sarebbe concluso con un colpo mortale. Amaru intendeva farlo soffrire atrocemente prima di ucciderlo. Prima le cose importanti, decise Pitt. I mostri, quei mostri che volevano assassinarlo, erano in agguato nell'oscurità. Erano convinti che lui fosse inerme... Per di più, a bordo di una nave che affondava, senza un posto dove andare. Ed era esattamente ciò che Pitt voleva che loro credessero. Se Amaru non aveva fretta, non ne aveva neppure lui. Si tolse gli indumenti fradici e le scarpe e si asciugò. Indossò un paio di pantaloni grigioscuri, una maglietta di cotone nero e un paio di scarpe di tela. Preparò un sandwich al burro d'arachide e lo mangiò con calma, innaffiandolo con un paio di bicchieri di Crystal Light. Poi, rinfrancato, aprì un cassettino sotto il letto e controllò il contenuto di un astuccio. Il caricatore di scorta della pistola era sparito, com'era prevedibile. Ma c'era una piccola torcia elettrica, e in un angolo del cassetto era rimasta una boccetta di plastica con l'etichetta: «Integratore vitaminico. Vitamina A, C & Beta Carotene». Scosse la boccetta e sorrise soddisfatto. Svitò il tappo e rovesciò nel palmo della mano otto proiettili calibro 45. Ora va meglio, pensò. L'astuzia di Amaru non era perfetta. Inserì sette proiettili nel caricatore e uno in canna. Adesso era in grado di rispondere al fuoco nemico e il buon vecchio Alhambra non sarebbe affondato oltre il bordo del ponte inferiore quando la chiglia si fosse posata sul fondo.
Un'altra dimostrazione della legge di Pitt, pensò. I piani dei cattivi hanno sempre una lacuna. Diede un'occhiata all'orologio. Erano passati quasi venti minuti da quando era entrato nella roulotte. Frugò in un cassetto, prese un passamontagna blu e se lo infilò. Poi trovò il coltello svizzero nella tasca dei pantaloni buttati su una sedia. Sollevò un anello nel pavimento e aprì la botola che aveva aggiunto alla roulotte in modo da avere più spazio per riporre il materiale. Tirò fuori la cassetta, la posò e s'infilò nella stretta apertura. Si sdraiò sul ponte, sotto la roulotte, scrutò nell'oscurità e rimase in ascolto. Non sentì nulla. I cacciatori invisibili erano pazienti. Freddamente, con metodo, sicuro dell'esito delle proprie azioni, Pitt rotolò via e si mosse come un fantasma. Passò da un boccaporto aperto e scese una scaletta che portava alla sala macchine. Si mosse con cautela, attento a non compiere movimenti bruschi e a non far rumore. Amaru non gli avrebbe dato scampo. Nessuno badava alle caldaie che producevano il vapore necessario per alimentare i motori; infatti si erano raffreddate al punto che Pitt poteva toccare con la mano nuda i fianchi senza scottarsi. Spianò la pistola con la destra e tenne la torcia sulla sinistra, a braccio teso, lontana il più possibile al suo corpo: solo gli imprudenti avrebbero puntato un fascio di luce direttamente davanti a sé. Se un uomo con le spalle al muro intende sparare a chi gli butta la luce negli occhi, non deve far altro che mirare al punto in cui immagina sia l'avversario, cioè direttamente dietro la torcia elettrica. La sala macchine sembrava deserta. Ma Pitt s'irrigidì. Sentiva un borbottio soffocato, come se qualcuno tentasse di parlare nonostante un bavaglio. Girò il fascio luminoso verso la struttura gigantesca che sosteneva il bilanciere. C'era qualcuno, lassù. Quattro uomini. Gordo Padilla, il suo assistente (di cui Pitt continuava a non ricordare il nome) e i due mozzi Jesús e Gato erano appesi a testa in giù, legati e imbavagliati con il nastro isolante, e lo guardavano con occhi supplichevoli. Pitt aprì la lama più grande del coltello a serramanico, li liberò e attese che si strappassero i bavagli. «Muchas gracias, amigo», ansimò Padilla. Il nastro adesivo gli aveva strappato una dozzina di peli dai baffi. «Sia ringraziata la Vergine Maria, è arrivato in tempo. Avevano intenzione di sgozzarci come pecore.» «Quando li avete visti l'ultima volta?» chiese Pitt a voce bassa.
«Meno di dieci minuti fa. Potrebbero tornare da un momento all'altro.» «Dovete allontanarvi subito dal traghetto.» «Non ricordo quando abbiamo calato in mare le scialuppe di salvataggio per l'ultima volta.» Padilla alzò le spalle in un gesto rassegnato. «Probabilmente le gru e i motori sono arrugginiti e il fasciame è marcio.» «Non sapete nuotare?» chiese disperatamente Pitt. Padilla scosse la testa. «Non molto bene. E Jesús non sa nuotare per niente. Ai marinai non piace andare in acqua.» Poi s'illuminò. «Però c'è un gommone a sei posti legato al parapetto vicino alla cambusa.» «Si auguri che sia ancora in grado di galleggiare», commentò Pitt consegnando il coltello a Padilla. «Prenda questo e liberi il gommone.» «E lei? Non viene?» «Mi lasci dieci minuti per cercare gli altri. Se entro quel tempo non avrò trovato un segno della loro presenza, potrete andarvene mentre io creo una diversione.» Padilla abbracciò Pitt. «Che Dio sia con lei.» Era il momento di muoversi. Prima di salire sui ponti superiori, Pitt si avventurò nell'acqua che stava riempiendo le sentine e chiuse le valvole. Poi decise che non era il caso di risalire usando una scala. Aveva l'inquietante sensazione che Amaru stesse osservando ogni sua mossa. Salì sul motore fino al cilindro, quindi si arrampicò su una scaletta fino alla sommità della struttura prima di uscire sul ponte superiore del traghetto, un po' a poppa dei fumaioli gemelli. Pitt non aveva paura di Amaru. Aveva vinto la prima ripresa in Perù perché Amaru lo aveva creduto morto dopo aver lanciato nel pozzo sacro il cavo di sicurezza. L'assassino sudamericano non era infallibile. E avrebbe sbagliato ancora perché aveva la mente obnubilata dall'odio e dal desiderio di vendetta. Pitt scese dopo aver controllato le due timoniere. Non trovò traccia di Loren e di Rudi nel grande settore passeggeri, nella cambusa e nell'alloggio dell'equipaggio. La ricerca si concluse in fretta. Senza sapere chi o che cosa avrebbe potuto incontrare nell'oscurità, ispezionò gran parte della nave muovendosi carponi e correndo da un riparo all'altro come un granchio. La nave sembrava deserta come un cimitero, ma non riusciva a credere che gli assassini l'avessero abbandonata. Le regole del gioco non erano cambiate. Loren e Rudi erano stati portati via dal traghetto perché Sarason sospettava che Pitt fosse ancora vivo. L'errore stava nell'affidare l'incarico di ucciderlo a qualcuno accecato dalla
vendetta. Amaru era saturo d'odio: non voleva eliminarlo rapidamente, ma prendersi la soddisfazione di torturare l'uomo che l'aveva evirato. Loren e Rudi Gunn avevano una spada sospesa sulla testa; tuttavia non li avrebbe colpiti fino a che non fosse arrivato l'annuncio che Pitt era stato eliminato. I dieci minuti erano passati. Non gli restava altro che provocare una diversione in modo che Padilla e i suoi compagni potessero allontanarsi nell'oscurità grazie al canotto. E quando avesse avuto la certezza che erano al sicuro, avrebbe dovuto raggiungere la riva a nuoto. Quello che lo salvò, nei due secondi che seguirono l'attimo in cui sentì i passi di piedi nudi sul ponte, fu un fulmineo tuffo sulle mani e sulle ginocchia. Fu un movimento istintivo. Se si fosse voltato di scatto, avesse acceso la torcia elettrica e premuto il grilletto in direzione della massa scura apparsa all'improvviso nella notte, avrebbe perduto le mani e la testa sotto la lama di un machete che fendeva l'aria come l'elica di un aereo. L'uomo che era balzato dall'oscurità non riuscì a fermarsi. Urtò con le ginocchia Pitt, volò in avanti come se fosse stato scagliato da una molla gigantesca, e piombò di peso sulla tolda. Il machete, sbalzato dalle sue mani, cadde in acqua. Pitt rotolò su se stesso, puntò il fascio luminoso contro l'assalitore e premette il grilletto della Colt. Il rimbombo fu assordante, e il proiettile penetrò nel petto dell'assassino appena al di sotto dell'ascella. Un colpo mortale. Un breve rantolo e il corpo sul ponte si rattrappì e rimase immobile. «Bel lavoro, gringo», tuonò la voce di Amaru attraverso un altoparlante. «Manuel era uno dei miei uomini migliori.» Pitt non sprecò il fiato per rispondere. Esaminò fulmineamente la situazione. Ormai era chiaro che Amaru aveva seguito i suoi movimenti da quando aveva raggiunto i ponti scoperti. Non era più necessario agire con circospezione. Sapevano dov'era, ma lui non poteva vederli. La partita era terminata. Poteva solo augurarsi che Padilla e i suoi compagni riuscissero ad allontanarsi inosservati. Sparò altri tre colpi nella direzione da cui veniva la voce di Amaru. «Mancato.» Amaru rise. «Completamente.» Pitt cercò di guadagnare tempo sparando a intervalli di pochi secondi fino a quando la pistola non fu scarica. Ormai aveva esaurito le tattiche dilatorie e non poteva fare altro. La situazione divenne ancora più disperata quando Amaru o uno dei suoi uomini accese sia le luci di navigazione sia quelle del ponte, lasciandolo esposto come un attore su un palcoscenico vuoto sotto un riflettore. Si appoggiò con la schiena a una paratia e fissò il
parapetto al di là della cambusa. Il gommone non c'era più: le cime erano state tagliate e penzolavano. Padilla e i suoi uomini si erano dileguati nella notte prima che si accendessero le luci. «Ti faccio una proposta che non meriti», disse Amaru in tono gioviale. «Arrenditi subito e potrai morire in fretta. Se resisterai, la tua sarà una morte molto lenta.» Pitt non aveva bisogno di un mediatore per capire le intenzioni del suo nemico. Le possibilità erano davvero poche. Il tono di Amaru gli ricordava quello del bandito messicano che cerca di dissuadere Walter Houston, Humphrey Bogart e Tim Holt dalla loro caccia all'oro nel film Il tesoro della Sierra Madre. «Non farci perdere tempo e deciditi. Abbiamo da fare...» Pitt non voleva sentire altro. Era assolutamente certo che Amaru cercava di calamitare la sua attenzione mentre un altro assassino si avvicinava per tirargli una coltellata. Non aveva nessuna voglia di far divertire una banda di sadici. Attraversò correndo il ponte e si tuffò dal traghetto per la seconda volta. Un campione di tuffi si sarebbe lanciato in aria con eleganza e avrebbe eseguito avvitamenti e salti mortali prima di entrare nell'acqua quindici metri più sotto. E si sarebbe fratturato le vertebre sbattendo contro i sedimenti del fondale, due metri sotto la superficie. Pitt non aspirava a farsi selezionare per le olimpiadi. Si lanciò a piedi in avanti, prima di piegarsi su se stesso e di piombare nell'acqua come una palla di cannone. Amaru e i due uomini rimasti con lui corsero a sporgersi dal ponte superiore. «Riuscite a vederlo?» chiese Amaru scrutando l'acqua scura. «No, Tupac. Probabilmente è andato sotto lo scafo.» «L'acqua diventa torbida», esclamò un'altra voce. «Deve essere sepolto nel fango del fondale.» «Questa volta non correremo rischi. Juan, la cassa di bombe a mano che abbiamo portato da Guaymas. Lo ridurremo in poltiglia. Lanciale a cinque metri dallo scafo, soprattutto nell'acqua intorno alle ruote a pale.» Pitt aveva formato un cratere sul fondo. L'urto non era stato abbastanza violento per causargli lesioni fisiche, ma sufficiente per sollevare una nube enorme di sedimenti. Si allontanò a nuoto dall'Alhambra senza che dall'alto potessero vederlo. Temeva che, una volta superato il riparo offerto dall'acqua torbida, gli assassini potessero scorgerlo. Ma non andò così. Da sud arrivava una brez-
za che sollevava minuscole onde e causava una rifrazione che le luci del traghetto non potevano penetrare. Nuotò sott'acqua fino a quando i polmoni non cominciarono a bruciargli. Riemerse, adagio, confidando nel passamontagna scuro che doveva rendere invisibile la testa nell'acqua nera. Dopo cento metri giunse fuori della portata delle luci della nave. Riusciva appena a scorgere le figure che si muovevano sul ponte superiore, e si domandava perché non sparavano. Poi sentì un boato sordo, vide l'acqua sollevarsi in un grande zampillo e fu aggredito da una pressione che gli svuotò l'aria dai polmoni. In successione rapida vennero altre quattro detonazioni. Per fortuna giungevano dalla parte centrale della nave, vicino alle ruote a pale. Quando si era allontanato da una delle estremità, aveva messo una certa distanza fra sé e la forza delle detonazioni. Si piegò su se stesso con le ginocchia contro il petto per assorbire meglio l'impatto. Trenta metri più vicino, e avrebbe perso i sensi; sessanta, e sarebbe stato schiacciato. Continuò ad allontanarsi dal traghetto fino a che le detonazioni non si smorzarono e si ridussero a qualcosa di simile alla stretta sensuale di una donna robusta. Alzò gli occhi verso il cielo sereno e si orientò con la Stella Polare. A quattordici chilometri di distanza, la desolata costa occidentale del golfo di California era la terra più vicina. Si tolse il passamontagna e si girò su se stesso. Con la faccia rivolta verso la coltre di stelle, incominciò a nuotare con calma sul dorso, verso occidente. Pitt non era in condizioni adatte neppure per entrare a far parte della squadra olimpica di nuoto. Dopo due ore, ebbe l'impressione che le sue braccia sollevassero pesi di nove chili a ogni movimento. Dopo sei ore, i muscoli protestarono tormentandolo con fitte che non sembravano possibili. E finalmente la stanchezza incominciò a smussare i dolori. Adottò il vecchio sistema dei boy scout: togliersi i pantaloni, annodarli alle caviglie e gettarli sopra la testa perché si riempissero d'aria e formassero un galleggiante che gli permettesse di fare una sosta per riposare, come avvenne sempre più spesso con il passare delle ore. Neppure per un istante pensò di fermarsi e di lasciarsi andare alla deriva nella speranza di essere avvistato da un peschereccio alla luce del sole. La visione di Loren e Rudi nelle mani di Sarason era uno stimolo più che sufficiente per spronarlo a continuare. A oriente le stelle incominciavano a impallidire e a spegnersi quando toccò il fondo con i piedi. Uscì barcollando dall'acqua su una spiaggia sab-
biosa, si lasciò cadere disteso e si addormentò. 43. Ragsdale, che indossava una tuta antiproiettile sotto quella da operaio, si avvicinò con noncuranza alla porta laterale di un piccolo magazzino con il cartello AFFITTASI alla finestra. Posò a terra la cassetta degli attrezzi vuota, prese una chiave dalla tasca e aprì la porta. All'interno, una ventina di agenti dell'FBI e otto della Dogana stavano facendo gli ultimi preparativi per l'irruzione nella sede della Zolar International, dall'altra parte della strada. Avevano già preavvertito dell'operazione le locali forze dell'ordine, sorvegliando inoltre l'intero complesso industriale per accertare eventuali attività insolite. Quasi tutti gli uomini e le quattro donne portavano tute d'assalto e impugnavano armi automatiche, mentre i numerosi esperti nei campi dell'arte e delle antichità avevano abiti da passeggio, ed erano carichi di borse piene di cataloghi e di fotografie di oggetti rubati e destinati al sequestro. Il piano prevedeva che gli agenti, subito dopo aver fatto irruzione, si dividessero per svolgere compiti diversi. La prima squadra doveva impadronirsi dell'edificio e radunare i dipendenti; la seconda era incaricata d'individuare gli oggetti rubati; e la terza avrebbe perquisito gli uffici dell'amministrazione in cerca di documenti che conducessero a scoprire furti o acquisti illegali. Una squadra specializzata nel maneggiare opere d'arte si teneva pronta a imballare, rimuovere e immagazzinare la merce confiscata. L'ufficio del procuratore federale, che si occupava del caso per conto della Dogana e dell'FBI, aveva insistito perché l'irruzione si svolgesse come da manuale e gli oggetti confiscati venissero trattati con guanti di velluto. L'agente Gaskill era in piedi accanto a un piano delle operazioni. Si voltò quando sentì Ragsdale che si avvicinava e sorrise. «Tutto tranquillo?» L'agente dell'FBI si accomodò su una sedia pieghevole. «Tutto tranquillo, a parte il giardiniere che sta potando la siepe intorno alla costruzione. Il resto del complesso è silenzioso come un cimitero.» «Gli Zolar hanno avuto una buona idea quando hanno deciso di servirsi del giardiniere come sentinella», commentò Gaskill. «Se questa settimana non avesse falciato quattro volte il prato, non avremmo mai fatto caso a lui.» «Senza contare che la nostra sorveglianza ha identificato la cuffia del walkman per una radio trasmittente», soggiunse Ragsdale.
«È un buon segno. Se non avessero nulla da nascondere, perché ricorrerebbero a certe tattiche?» «Non farti troppe illusioni. Può darsi che le attività del magazzino della Zolar sembrino sospette e niente più; quando, due anni fa, FFBI si è presentato con un mandato di perquisizione, non ha trovato neppure una biro rubata.» «È successo lo stesso alla Dogana quando abbiamo convinto gli agenti del fisco a effettuare una serie di accertamenti. Zolar e la sua famiglia sono risultati candidi come la neve.» Ragsdale fece un cenno di ringraziamento a uno dei suoi agenti che gli aveva portato una tazza di caffè. «Questa volta l'unico elemento a nostro favore è il fattore sorpresa. L'ultima irruzione è fallita perché un poliziotto locale che era sul libro paga di Zolar l'aveva avvertito.» «Dovremmo ringraziare il cielo di non dover entrare in una specie di fortezza armata di massima sicurezza.» «Saputo qualcosa dal tuo informatore?» chiese Gaskill. Ragsdale scosse la testa. «Comincio a pensare di aver sbagliato ad affidargli l'incarico. Non ha segnalato neppure l'ombra di attività illecite.» «Nessuno è entrato o uscito tranne gli impiegati normali. Negli ultimi quattro giorni non sono arrivati né partiti carichi illegali. Hai la sensazione che stiamo aspettando che nevichi d'estate?» «Pare di sì.» Gaskill lo fissò. «Vuoi ripensarci e lasciar perdere l'irruzione?» Ragsdale ricambiò l'occhiata. «Gli Zolar non sono perfetti. Deve esserci una falla nel loro sistema, e sono pronto a scommettere la carriera che si trova nella costruzione dall'altra parte della strada.» Gaskill rise. «Sono d'accordo con te, amico... e anch'io mi gioco il pensionamento anticipato.» Ragsdale alzò un pollice. «Allora l'operazione comincia fra otto minuti, come previsto.» «Non vedo nessun motivo per fermarci, e tu?» «Con Zolar e due dei suoi fratelli che girano intorno alla Baja California in cerca del tesoro, e il resto della famiglia in Europa, non avremo mai un'occasione migliore di esplorare il magazzino prima che l'esercito dei loro avvocati fiuti l'operazione e intervenga per bloccarci.» Due agenti, a bordo di un furgoncino prestato dal Dipartimento d'Igiene di Galveston, si fermarono accanto al marciapiede, di fronte al giardiniere
che curava un'aiuola fiorita davanti alla sede della Zolar. L'uomo che stava sul sedile del passeggero abbassò il vetro e chiamò: «Mi scusi». Il giardiniere si voltò a guardare il camioncino con aria interrogativa. L'agente sorrise. «Sa dirmi se i canali di scolo del vostro vialetto si sono intasati durante l'ultima pioggia?» Incuriosito, il giardiniere lasciò l'aiuola e si avvicinò. «Non ricordo che abbiano tracimato», rispose. L'agente tese dal finestrino una carta stradale della città. «Sa se in qualcuna delle vie qui intorno ci sono stati problemi di drenaggio?» Mentre il giardiniere si curvava per studiare la carta, l'agente tese fulmineamente il braccio, gli strappò la cuffia della trasmittente e staccò il cavo che la collegava alla batteria. «Siamo agenti federali», esclamò. «Stia fermo e non si azzardi a batter ciglio.» L'agente che era al volante parlò nella radio portatile. «Procedete. Via libera.» Gli agenti federali non piombarono nella sede della Zolar International con la velocità folgorante che avrebbero usato per un'irruzione in un caso di droga, e non sferrarono un attacco massiccio come quello disastroso compiuto anni prima contro il gruppo di fanatici religiosi a Waco, nel Texas. Quella non era una fortezza armata di massima sicurezza. Una squadra circondò le uscite mentre il grosso del contingente entrava con calma dalla porta principale. Gli impiegati e gli amministratori non diedero segno di paura o di ansia. Sembravano piuttosto confusi e perplessi. Gentilmente ma con fermezza gli agenti li radunarono al piano terreno, dove furono raggiunti dagli operai del magazzino e del reparto spedizioni e dagli artigiani del settore restauro e conservazione. I dipendenti della Zolar International furono fatti salire su due autobus e condotti alla sede dell'FBI nella vicina Houston per essere interrogati. L'operazione di rastrellamento portò via meno di quattro minuti. La squadra burocratica, formata principalmente da agenti dell'FBI esperti di contabilità e guidata da Ragsdale, si mise immediatamente all'opera. Frugò nelle scrivanie, esaminò gli schedari e passò in rassegna tutte le transazioni documentate. Gaskill, i suoi della Dogana e gli esperti d'arte cominciarono a catalogare e a fotografare le migliaia di oggetti d'arte e d'antiquariato immagazzinati nella costruzione. Era un compito noioso che portò via molto tempo, ma non condusse alla scoperta di oggetti rubati. Poco dopo l'una del pomeriggio, Gaskill e Ragsdale si recarono nel lus-
suoso ufficio di Joseph Zolar e, circondati da una serie di oggetti d'arte incredibilmente preziosi, cominciarono a mettere a confronto i risultati ottenuti. L'agente dell'FBI non aveva un'aria molto soddisfatta. «Sembra proprio una di quelle situazioni molto imbarazzanti cui segue prima una tempesta di pubblicità negativa e poi una colossale causa per danni», dichiarò Ragsdale, scuro in volto. «Nella documentazione non c'è traccia di attività criminali?» chiese Gaskill. «Niente che salti all'occhio. Ci vorrà almeno un mese di controlli per sapere con certezza se abbiamo seri motivi per aprire un caso. E voi che cosa avete scoperto?» «Finora tutti gli oggetti che abbiamo studiato sembrano puliti. Non c'è traccia di roba rubata.» «Allora è un altro fiasco.» Gaskill sospirò. «Mi dispiace doverlo dire, ma a quanto pare gli Zolar sono molto più furbi di tutte le squadre d'investigatori che il governo degli Stati Uniti possa mettere in campo.» Qualche minuto più tardi, i due agenti della Dogana che avevano lavorato con Gaskill a Chicago nell'irruzione in casa di Rummel, Beverly Swain e Winfried Pottle, entrarono nell'ufficio. Si comportavano in modo molto ufficiale, ma non nascondevano un vago sorriso. Ragsdale e Gaskill erano assorti nel loro dialogo e non avevano notato che i due agenti non erano passati dalla porta dell'ufficio, bensì dal bagno privato adiacente. «Hai un momento, capo?» chiese Beverly Swain a Gaskill. «Cosa c'è?» «Credo che i nostri strumenti abbiano individuato una specie di pozzo che conduce sotto l'edificio», rispose Winfried Pottle. «Che avete detto?» chiese precipitosamente Gaskill. Ragsdale alzò la testa. «Quali strumenti?» «Il detector sonic-radar che abbiamo avuto in prestito dall'Istituto minerario del Colorado», spiegò Pottle. «L'unità di rilevamento mostra uno spazio stretto sotto il pavimento del magazzino. E penetra sottoterra.» Ragsdale e Gaskill si scambiarono una vaga occhiata di speranza. Si alzarono. «Come facevate a sapere dove cercare?» chiese l'agente dell'FBI. Pottle e la Swain non riuscirono più a nascondere un sorriso di trionfo. La giovane donna fece un cenno a Pottle, e questi rispose: «Abbiamo pensato che, se esisteva un passaggio comunicante con una camera segreta, allora doveva cominciare o finire nell'ufficio privato di Zolar. Un tunnel in
cui poter entrare senza che nessuno se ne accorgesse». «Il suo bagno personale», mormorò pensosamente Gaskill. «Un posto a portata di mano», confermò Beverly Swain. Ragsdale respirò a fondo. «Mostratecelo.» Pottle e la Swain li condussero nella grande stanza da bagno con il pavimento in marmo, il lavabo, la tazza e i rubinetti antichi, e le pareti rivestite da pannelli di tek provenienti da un vecchio yacht. Indicarono una moderna vasca dotata di un impianto per l'idromassaggio che sembrava contrastare con il resto dell'arredamento. «Il pozzo si trova sotto la vasca», spiegò Beverly Swain, indicando con la mano. «Siete sicuri?» chiese Ragsdale, non troppo convinto. «Secondo me, la soluzione più pratica sarebbe il cubicolo della doccia usato come ascensore.» «L'avevamo sospettato anche noi», ribatté Pottle. «Ma lo strumento mostrava che sotto il pavimento della doccia c'erano soltanto cemento e terra.» Pottle brandì una lunga sonda tubolare collegata per mezzo di un cavo elettrico a un computer portatile dotato di stampante. Mise in funzione l'unità e fece scorrere la sonda intorno al fondo della vasca. Sullo schermo del computer le luci lampeggiarono per qualche secondo, poi dalla fenditura in alto uscì un foglio di carta. Quando si fermò, Pottle lo strappò e lo mostrò a tutti. Al centro del foglio bianco una colonna nera si estendeva da un'estremità all'altra. «Non c'è il minimo dubbio», annunciò Pottle. «Un pozzo delle stesse dimensioni della vasca che scende nel sottosuolo.» «Siete sicuri che questa meraviglia dell'elettronica funzioni come si deve?» s'informò Ragsdale. «Lo stesso tipo di unità ha scoperto lo scorso anno camere e corridoi sconosciuti nelle piramidi di Giza.» Gaskill non disse nulla. Entrò nella grossa vasca. Provò a regolare il rubinetto, ma scoprì che serviva esclusivamente per modificare il getto e la direzione. Poi si sedette e girò i rubinetti dorati «caldo» e «freddo», ma non uscì neppure una goccia d'acqua. Alzò la testa con un sorriso. «Credo che stiamo facendo progressi.» Poi azionò la leva che sollevava e abbassava il tappo. Non successe nulla.
«Prova a girare il rubinetto», suggerì Beverly Swain. Gaskill strinse in una delle grosse mani il rubinetto placcato d'oro e lo girò leggermente. Con sua sorpresa si mosse, e la vasca incominciò a scendere lentamente sotto il pavimento. Quando girò il rubinetto nella direzione opposta, la vasca tornò nella posizione precedente. Adesso sapeva con assoluta certezza che il rubinetto e la vasca erano i punti deboli che potevano far crollare l'intera organizzazione degli Zolar e mandarli al fresco definitivamente. Fece cenno agli altri di avvicinarsi e chiese in tono allegro: «Andiamo giù?» La «vasca» discese per quasi trenta secondi prima di fermarsi in un altro bagno. Pottle calcolò che la distanza era di una ventina di metri. Uscirono dalla stanza da bagno e si trovarono in un ufficio che sembrava quasi la copia di quello superiore. Le luci erano accese, ma non c'era nessuno. Con Ragsdale in testa, il gruppetto di agenti socchiuse la porta e sbirciò nell'immenso magazzino pieno di oggetti d'arte e di antichità di provenienza furtiva. Erano tutti sbalorditi dalle dimensioni del locale e dall'incredibile quantità di oggetti che conteneva. Gaskill calcolò approssimativamente che dovevano essere almeno diecimila pezzi. Ragsdale si avventurò nel magazzino per una rapida ricognizione e tornò dopo cinque minuti. «Quattro uomini che lavorano con un carrello elevatore a forche», riferì. «Stanno calando in una cassa di legno la statua bronzea d'un legionario romano a metà della quarta corsia. Dall'altro lato, in un'area chiusa, ho contato sei persone, fra uomini e donne, impegnati in quella che pare sia la sezione falsificazioni. C'è una galleria che attraversa il muro sud. Deve essere collegata a una costruzione vicina che serve da facciata per le spedizioni e gli arrivi del materiale di provenienza illecita.» «E deve servire anche agli impiegati clandestini per entrare e uscire», suggerì Pottle. «Mio Dio», mormorò Gaskill. «Abbiamo fatto centro. Da qui ho già riconosciuto quattro opere d'arte rubate.» «Sarà meglio rimanere tranquilli fino a che non avremo fatto scendere i rinforzi», lo ammonì Ragsdale. «Mi offro come volontaria per il servizio ascensore», annunciò Beverly Swain con un sorriso malizioso. «Quale donna potrebbe farsi sfuggire l'occasione di sedere in una vasca da bagno di lusso che va su e giù?» Non appena la giovane agente se ne fu andata, Pottle si piazzò di sentinella alla porta del magazzino, mentre Gaskill e Ragsdale perquisivano l'ufficio sotterraneo di Zolar. Scoprirono quasi subito ciò che cercavano
dietro una grande libreria che girava sui cardini. Quando la spinsero, trovarono una camera lunga e stretta, piena, dal pavimento al soffitto, di vecchi schedari di legno. Ogni schedario conteneva in ordine alfabetico i fascicoli con la documentazione degli acquisti e delle vendite effettuati dalla famiglia Zolar a partire dall'anno 1929. «È qui», mormorò sbalordito Gaskill. «È tutto qui.» E cominciò a estrarre i fascicoli da un cassetto. «Incredibile», commentò Ragsdale studiando i documenti di un altro schedario al centro del magazzino. «Per sessantanove anni hanno tenuto una registrazione di tutte le opere d'arte che hanno rubato, contrabbandato e falsificato, inclusi i dati finanziari e personali degli acquirenti.» «Oh, Gesù», gemette Gaskill. «Dai un'occhiata a questo.» Ragsdale prese il fascicolo e scorse le prime due pagine. Quando rialzò gli occhi, aveva un'espressione sbalordita. «Se è vero, la statua di Salomone esposta come opera di Michelangelo all'Eisenstein Museum of Renaissance Art di Boston è un falso.» «E realizzato con grande abilità, a giudicare dal numero di esperti che l'hannno autenticata.» «Ma l'ex curatore sapeva la verità.» «Certo», disse Gaskill. «Gli Zolar gli fecero un'offerta che non poteva rifiutare. Secondo questa relazione, dieci rarissime sculture etrusche dissepolte illegalmente nell'Italia centrale e introdotte di contrabbando negli Stati Uniti furono scambiate insieme al falso Salomone in cambio dell'opera autentica. Dato che il falso era troppo perfetto per essere scoperto, il curatore diventò una specie di eroe per gli amministratori quando dichiarò che aveva arricchito la collezione del museo persuadendo un riccone americano a donare le sculture.» «Chissà quanti altri casi di frode ai danni di musei scopriremo», mormorò Ragsdale. «Sospetto che questa sia solo la punta dell'iceberg. I fascicoli riportano migliaia e migliaia di transazioni illegali con acquirenti che chiudevano gli occhi di fronte alla provenienza degli oggetti.» «Mi piacerebbe essere un topolino nascosto nel muro», disse Ragsdale con un sorriso, «quando la procura federale scoprirà che gli abbiamo scaricato addosso abbastanza materiale per sgobbare dieci anni.» «Non conosci i procuratori federali», disse Gaskill. «Quando vedranno l'elenco di tutti gli uomini d'affari, i politici, le celebrità dello sport e dello spettacolo che hanno comprato merce scottante, crederanno di essere in pa-
radiso.» «Forse faremmo bene a riconsiderare l'idea di smascherarli», disse Ragsdale. «Cosa proponi di fare?» «Sappiamo che in questo momento Joseph Zolar e i suoi fratelli, Charles Oxley e Cyrus Sarason, si trovano in Messico, dove non possiamo arrestarli senza ingaggiare un'estenuante battaglia legale. Giusto?» «Perciò insabbiamo questa parte dell'irruzione», continuò Ragsdale, che aveva compreso la tattica di Gaskill. «Secondo tutti gli indizi, i dipendenti della parte legittima dell'attività non hanno la più vaga idea di quello che succede nel sotterraneo. Lasciamo che domani tornino al lavoro come se l'irruzione non avesse avuto esito. Gli affari continuano come al solito. Altrimenti, se gli Zolar sospettano che li abbiamo smascherati e che la procura federale sta per piombargli addosso, si nasconderanno in qualche Paese dove non potremo mai più catturarli.» Gaskill si fregò il mento con aria pensierosa. «Non sarà facile tenerli all'oscuro di tutto. Probabilmente hanno contatti quotidiani con l'azienda.» «E noi useremo tutti i trucchi possibili per fregarli», ridacchiò Ragsdale. «Faremo dire dagli operatori che nel corso di qualche lavoro di costruzione sono state tagliate le linee a fibre ottiche. Invieremo fax fasulli. Terremo in ghiaccio i dipendenti che abbiamo preso. Con un pizzico di fortuna, potremo fare in modo che gli Zolar restino all'oscuro di tutto per quarantotto ore mentre troviamo il sistema per attirarli oltre il confine.» Gaskill lo guardò in faccia. «Sei deciso a fare tutto il possibile, eh?» «Se la posta in gioco è la speranza di mettere al fresco quei mascalzoni per sempre, sarei disposto a scommetterci anche la moglie e le mie creature...» «L'idea mi piace.» Gaskill sorrise. «Mettiamoci all'opera.» 44. Molti dei centosettantasei abitanti del villaggio di Billy Yuma sopravvivevano coltivando meloni, mais e fagioli; altri tagliavano ginepri e manzanita e li vendevano come legna da ardere o da usare per le recinzioni. Da qualche tempo, però, c'era stato un ritorno d'interesse per la loro antica arte della ceramica. Molte donne montolo creavano ancora il vasellame elegante che era molto richiesto dai collezionisti d'arte indiana. Yuma, che aveva lavorato come cowboy in un grosso ranch per quindici
anni, aveva risparmiato denaro a sufficienza per mettersi in proprio. Lui e la moglie Polly se la passavano bene in confronto alla maggior parte degli indigeni della zona a nord della Baja California: lei fabbricava vasi e lui allevava bestiame. Dopo il pasto di mezzogiorno, come faceva sempre, Yuma sellò la cavalla e andò a controllare la mandria per vedere se c'era qualche bestia ammalata o ferita. Il territorio inospitale, pieno di pietre acuminate, cactus e arroyos scoscesi, poteva conciare male un bovino imprudente. Stava cercando un vitello che si era perso quando vide lo sconosciuto che avanzava sullo stretto sentiero in direzione del villaggio. L'uomo sembrava fuori posto. Diversamente dai cacciatori e dagli escursionisti, portava soltanto gli abiti che aveva addosso; non aveva borraccia né zaino e neppure un cappello per ripararsi la testa dal sole pomeridiano. Aveva l'aria esausta, eppure camminava con passo deciso, quasi avesse fretta di arrivare in qualche posto. Incuriosito, Billy interruppe le ricerche del vitello e, attraversato il letto di un ruscello in secca, si diresse verso la pista. Pitt aveva camminato nel deserto per quattordici chilometri. Era stata una strana sensazione quella che l'aveva svegliato dal sonno dello sfinimento. Pitt, aprendo gli occhi, aveva visto una lucertolina che gli si era posata sul braccio e lo fissava. Allora s'era scrollato di dosso la piccola intrusa e aveva guardato l'orologio subacqueo. Era rimasto sbalordito nello scoprire che aveva dormito per metà della mattina. Il sole batteva già sul deserto; ma la temperatura era sopportabile: trenta gradi, più o meno. Il sudore gli si asciugò subito sulla pelle, e provò le prime fitte della sete. Si leccò le labbra e sentì il sapore salato dell'acqua marina. A dispetto del caldo, fu assalito da una collera gelida. Aveva dormito per quattro ore preziose: un'eternità per i suoi amici prigionieri di Sarason e della sua banda di sadici. Lo scopo della sua esistenza era salvarli. Dopo un tuffo nell'acqua per rinfrescarsi, si avviò nel deserto in direzione ovest, verso l'Autostrada 5 che era lontana venti, forse trenta chilometri. Quando l'avesse raggiunta, avrebbe potuto ottenere un passaggio fino a Mexicali, e poi attraversare il confine e arrivare a Calexico. Queste erano le sue intenzioni... a meno che la locale società dei telefoni non avesse piazzato un telefono pubblico all'ombra di un mezquite. Si voltò a guardare il mare di Cortés e lanciò un'ultima occhiata all'Alhambra. Il vecchio traghetto era immerso nell'acqua fino al livello del pon-
te e riposava sul fondo, un po' inclinato. Comunque, pareva in buone condizioni. E sembrava anche deserto. Non c'erano barche o elicotteri inviati da Giordino e dagli agenti della Dogana statunitense a nord del confine. A ogni modo, non aveva importanza. Se una squadra di soccorso avesse effettuato un volo di ricognizione sopra il traghetto, non avrebbe cercato qualcuno sulla terraferma. Pitt decise di proseguire. Mantenne un'andatura regolare, sui sette chilometri orari. Quel territorio desolato evocava in lui il ricordo della traversata del Sahara nel Mali settentrionale in compagnia di Giordino, due anni prima. Era mancato poco che morissero, privi d'acqua, in quell'inferno rovente. Solo quando avevano trovato il relitto di un aereo misterioso avevano potuto costruire una specie di land yacht e navigare sulla sabbia fino alla salvezza. In confronto a quell'avventura, l'impresa che lo attendeva era una passeggiata in un parco. Gli ci vollero due ore di cammino per trovare un sentiero polveroso. Pitt lo seguì. Dopo un'altra mezz'ora vide un uomo a cavallo, poco lontano dalla pista. Gli si avvicinò e alzò la mano in segno di saluto. L'uomo lo squadrò con gli occhi stanchi. La faccia severa sembrava una lastra di arenaria logorata dalle intemperie. Pitt osservò lo sconosciuto: portava un grande cappello di paglia da cowboy, con la tesa larga rialzata ai lati, una camicia di cotone a maniche lunghe, pantaloni di denim e stivaletti da cowboy molto sciupati. I capelli neri non mostravano neppure un filo grigio. Era piccolo e magro e poteva avere un'età compresa fra i cinquanta e i settant'anni. La carnagione era di bronzo brunito piena di grinze. Le mani che tenevano le redini erano coriacee, segnate dalle fatiche di molti anni. Era un tipo duro, pensò, ed era sopravvissuto con tenacia incredibile in una terra spietata. «Buon pomeriggio», disse gentilmente Pitt. Come quasi tutti quelli del suo popolo Billy era bilingue; parlava il suo dialetto con gli amici e i familiari, e lo spagnolo con gli estranei. Ma conosceva abbastanza anche l'inglese, che aveva imparato durante i numerosi viaggi oltre il confine per vendere il bestiame e fare provviste. «Sa che si trova su un territorio privato indiano?» disse. «No. Mi scusi. Sono stato gettato a riva nel golfo, e sto cercando di raggiungere l'autostrada e un telefono.» «Ha perso la sua barca?» «Sì», rispose Pitt. «Può proprio dirlo.»
«Abbiamo un telefono nella casa per le riunioni. Posso portarla io.» «Gliene sarei molto grato.» Billy tese una mano. «Il mio villaggio non è lontano. Monti a cavallo dietro di me.» Pitt esitò. Preferiva i mezzi di trasporto meccanici. Quattro ruote erano meglio di quattro zampe, e i cavalli servivano soltanto per i film western. Ma non intendeva fare lo schizzinoso. Prese la mano di Billy e si meravigliò della forza dell'ometto che, nonostante i suoi ottantadue chili, lo issò senza la minima difficoltà. «A proposito, mi chiamo Dirk Pitt.» «Billy Yuma», disse il cavaliere senza stringergli la mano. Procedettero in silenzio per mezz'ora, prima di arrivare in cima a una butte coperta di yucca. Scesero in una piccola valle attraversata da un ruscello poco profondo e passarono accanto alle rovine di una missione spagnola, distrutta tre secoli prima dagli indiani ostili ai religiosi. Erano rimasti soltanto i muri di adobe e un piccolo cimitero. Le tombe degli spagnoli, sulla cima di un dosso, erano invase dalle erbacce. Più in basso c'erano le sepolture più recenti degli abitanti del villaggio. Una lapide attirò l'attenzione di Pitt. Si lasciò scivolare a terra e si avvicinò. Le lettere scolpite nella pietra sciupata erano chiaramente leggibili. PATTY LOU CUTTING 2-1I-24 2-3-34 IL SOLE SPLENDA CALDO E MITE PER TE, NELLA NOTTE PIÙ NERA BRILLI QUALCHE STELLA. LA MATTINA PIÙ TETRA TI OFFRA UN PO' DI LUCE. E QUANDO SCENDE LA SERA, DIO TI TENDA LA MANO. «Chi era?» chiese Pitt. Billy Yuma scosse la testa. «I vecchi non lo sanno. Dicono che la tomba fu fatta di notte da sconosciuti.» Pitt girò lo sguardo sul deserto di Sonora. Una brezza leggera gli sfiorava la nuca. Un falco volteggiava nel cielo e sorvegliava il proprio regno. Quella terra di montagna e di sabbia, di conigli selvatici, di coyote e di canyon aveva il potere d'intimidire e d'ispirare. È un posto adatto per morire ed essere sepolti, pensò. Alla fine, voltò le spalle alla tomba di Patty Lou e accennò a Yuma di proseguire. «L'ultimo tratto lo farò a piedi.» Yuma annuì in silenzio e si avviò. Gli zoccoli della cavalla sollevavano
nuvolette di polvere. Pitt lo seguì giù per la collina, verso una modesta comunità di coltivatori e allevatori. Procedettero lungo il letto del ruscello, dove tre ragazzine che lavavano i panni all'ombra di un pioppo si fermarono per guardarlo incuriosite. Pitt fece un cenno di saluto, ma quelle lo ignorarono e con aria quasi solenne ripresero a lavare. Il cuore della comunità dei Montolo consisteva di diverse case e di costruzioni: alcune erano fatte con rami di mezquite rivestiti di argilla, un paio erano di legno, ma in maggioranza erano costruite con blocchi di cemento. L'unica evidente influenza della vita moderna era rappresentata dai pali della luce e del telefono, da qualche camioncino malconcio che sembrava scampato a uno sfasciacarrozze, e da una parabola per ricevere i canali televisivi via satellite. Yuma fermò la cavalla davanti a una piccola costruzione aperta su tre lati. «La nostra casa delle riunioni», disse. «Dentro c'è un telefono. Deve pagare.» Pitt sorrise, frugò nel portafoglio ancora fradicio e mostrò un tesserino dell'AT&T. «Non ci sono problemi.» Yuma annuì e lo condusse in un piccolo ufficio arredato con un tavolo di legno e quattro sedie. Il telefono stava su un elenco molto sottile posato sul pavimento di piastrelle. Il centralinista rispose dopo diciassette squilli. «Sí, por favor?» «Voglio fare una chiamata con la carta di credito.» «Sì, signore, il numero della carta e il numero che vuole chiamare», rispose l'altro in inglese. «Almeno la mia giornata non è un disastro completo», sospirò Pitt nel sentire la voce. Il centralinista messicano gli passò un operatore americano, che a sua volta lo mise in contatto con il servizio informazioni al quale chiese il numero dell'ufficio della Dogana a Calexico, e che finalmente gli diede la comunicazione. Rispose una voce maschile. «Servizio Dogana, desidera?» «Sto cercando di mettermi in contatto con Albert Giordino della National Underwater & Marine Agency.» «Un momento, glielo passo. È nell'ufficio dell'agente Starger.» Due clic. Poi una voce che sembrava venire da una cantina disse: «Qui Starger». «Sono Dirk Pitt. Al Giordino è lì?»
«Pitt, è proprio lei?» esclamò Curtis Starger. «Dov'era finito? Stiamo diventando matti per tentare di convincere la Marina messicana a cercarla.» «Non è il caso. Con ogni probabilità il comandante locale è al soldo degli Zolar.» «Un momento. Giordino è qui con me. Glielo passo sulla derivazione.» «Al», disse Pitt, «sei tu?» «È un piacere sentire la tua voce, amico. Immagino che qualcosa sia andato storto.» «Per dirla in poche parole, i nostri amici del Perù hanno catturato Loren e Rudi. Ho aiutato l'equipaggio a fuggire con il gommone e sono riuscito a raggiungere la riva a nuoto. Sto chiamando da un villaggio indiano nel deserto a nord di San Felipe, una trentina di chilometri a ovest dal punto in cui l'Alhambra è semiaffondato nel fango.» «Manderò uno dei nostri elicotteri», intervenne Starger. «Ho bisogno di sapere il nome del villaggio.» Pitt si rivolse a Billy Yuma. «Come si chiama la sua comunità?» Yuma annuì. «Canyon Ometepec.» Pitt ripeté il nome, fornì altri particolari sugli avvenimenti delle ultime diciotto ore e riattaccò. «I miei amici verranno a prendermi», disse a Yuma. «Con la macchina?» «Con un elicottero.» «È un uomo importante?» Pitt rise. «Non più del sindaco del suo villaggio.» «Non abbiamo il sindaco. I nostri anziani si riuniscono e parlano dei problemi della tribù.» Passarono due uomini con un asino stracarico di rami di manzanita. Gli uomini e Yuma si scambiarono un'occhiata. Non ci furono saluti né sorrisi. «Deve essere stanco e assetato», disse Yuma a Pitt. «Venga a casa mia. Mia moglie le preparerà qualcosa da mangiare mentre aspettiamo i suoi amici.» Era l'offerta più allettante che Pitt avesse ricevuto quel giorno e accettò con gratitudine. La moglie di Billy Yuma, Polly, era una donna grassa che portava molto bene il suo peso. Aveva la faccia tonda e rugosa, e un paio di enormi occhi scuri. Nonostante la mezza età, i suoi capelli erano d'un nero corvino. Stava trafficando intorno a una stufa a legna sotto una ramada accanto alla
casa di cemento. Per la cucina e la zona pranzo, gli Indiani dei deserti del sud-ovest preferiscono l'ombra di una ramada all'aperto, anziché l'interno delle case. Pitt notò che il tetto della ramada era costruito con le costolature di un cactus saguaro sostenute da pali di mezquite circondati da una parete di steli pungenti di ocotillo. Dopo avergli fatto bere cinque tazze d'acqua versate da una grossa olla porosa che manteneva fresco il contenuto, Polly offrì a Pitt spezzatino di maiale e fagioli rifritti. Le tortillas erano fatte con chicchi di mezquite pestati e ridotti in una farina dolce. Il vino era ricavato dal succo fermentato dei frutti di saguaro. Pitt non ricordava di aver mangiato niente di più delizioso. Polly parlava poco, e quando pronunciava qualche parola si rivolgeva a Billy in spagnolo. Pitt aveva l'impressione di scorgere un accenno di humour nei grandi occhi scuri, ma la donna manteneva un'aria seria e distaccata. «Non sembrate una comunità molto felice», disse Pitt, tanto per fare conversazione. Yuma scosse la testa, mestamente. «Il dolore ha colpito la mia gente e quella degli altri villaggi della tribù quando sono stati rubati i nostri simboli sacri. Senza quelli, i nostri figli e le nostre figlie non possono essere iniziati. Dopo la loro scomparsa abbiamo avuto molte disgrazie.» «Mio Dio», mormorò Pitt. «Gli Zolar.» «Come, señor?» «È una famiglia di ladri internazionali che hanno rubato metà degli oggetti antichi mai scoperti.» «La polizia messicana ci ha detto che i nostri idoli sono stati rubati da americani che vanno a frugare nei terreni sacri degli Indiani per impadronirsi della nostra eredità e venderla.» «È possibile», commentò Pitt. «Come sono i vostri idoli sacri?» Yuma tese la mano a circa un metro dal suolo. «Sono alti più o meno così e le facce sono state scolpite molti secoli fa dai miei antenati nelle radici di pioppi.» «È molto probabile che i vostri idoli siano stati comprati dagli Zolar per pochi spiccioli e rivenduti a caro prezzo a un ricco collezionista.» «Si chiamano Zolar?» «È il cognome della famiglia. Agiscono nell'ambito di un'organizzazione clandestina chiamata Solpemachaco.» «È una parola che non conosco», disse Yuma. «Che cosa significa?»
«È un mitico serpente incaico con molte teste che vive in una caverna.» «Mai sentito.» «Credo che abbia qualche legame con un altro mostro leggendario che i Peruviani chiamavano Demonio de los Muertos e che veglia sull'oltretomba.» Yuma si guardò pensosamente le mani sciupate dal lavoro. «Anche noi abbiamo un demone dell'Aldilà che impedisce ai morti di fuggire e ai vivi di entrare. E giudica i morti: lascia passare i buoni e divora i malvagi.» «Un demone del Giorno del Giudizio», disse Pitt. Yuma annuì con aria solenne. «Vive su una montagna poco lontano da qui.» «Il Cerro el Capirote», mormorò Pitt. «Com'è possibile che uno straniero lo sappia?» chiese Yuma, scrutando gli occhi verdi di Pitt. «Sono stato sulla vetta. Ho visto il giaguaro alato con la testa di serpente, e posso assicurarle che non è stato messo lì per difendere l'oltretomba o per giudicare i morti.» «Mi sembra che conosca molto bene questa terra.» «No, in effetti la conosco pochissimo. Ma m'interesserebbe molto ascoltare altre leggende sul demone.» «Ce n'è un'altra», ammise Yuma. «Enrique Juarez, il più vecchio dei nostri anziani, è uno dei pochi montolo che ricordano ancora le storie e le usanze di un tempo. Ci ha parlato di divinità dorate che vennero dal sud su grandi uccelli dalle ali bianche che si muovevano sull'acqua. Si fermarono per molto tempo su un'isola nel vecchio mare. Quando ripartirono, lasciarono il demone di pietra. Alcuni dei nostri antenati più coraggiosi raggiunsero l'isola, ma non tornarono più. Gli altri si spaventarono e si convinsero che la montagna era sacra e che il demone avrebbe divorato gli intrusi.» Yuma s'interruppe e guardò il deserto. «È una storia che è sempre stata ripetuta, dai tempi dei miei avi. I nostri giovani, abituati alla mentalità moderna, la considerano una favola.» «Una favola che contiene elementi di verità storica», dichiarò Pitt. «Può credermi quando le dico che all'interno del Cerro el Capirote c'è un tesoro immenso. Non fu messo lì da divinità dorate, bensì dagli Inca del Perù, che puntarono sulla venerazione dei vostri antenati per il sovrannaturale e scolpirono il mostro di pietra per ispirare paura e tenerli lontani dall'isola. Per prudenza, inoltre, lasciarono un gruppo di guardie con il compito di uccidere i curiosi. Tutto ciò in attesa che gli Spagnoli venissero cacciati
dalla loro patria: allora sarebbero tornati a riprendere il tesoro per il nuovo re. Ma la storia prese una strada diversa. Gli Spagnoli rimasero, e nessuno tornò qui.» Billy Yuma non era un uomo portato alle grandi emozioni. La faccia grinzosa rimase imperturbabile, ma gli occhi si spalancarono. «C'è un grande tesoro sotto il Cerro el Capirote?» Pitt annuì. «E molto presto certi uomini spinti dalle peggiori intenzioni entreranno nelle viscere della montagna per rubare le ricchezze degli Inca.» «Non possono!» protestò Yuma. «Il Cerro el Capirote è magico. È sulla nostra terra, la terra dei Montolo. Fuori delle sue pareti stanno i morti che non hanno superato il giudizio.» «Tutto questo non basterà a fermare quegli uomini, mi creda», mormorò Pitt. «La mia gente protesterà con la polizia locale.» «Se anche in questo caso gli Zolar si sono comportati secondo le loro abitudini, avranno già corrotto la polizia.» «Ma... quegli uomini malvagi che ha nominato sono forse gli stessi che hanno venduto i nostri idoli sacri?» «Come le ho detto, è assai probabile.» Billy Yuma lo scrutò per un momento. «Allora non dobbiamo temere che invadano il nostro terreno consacrato.» Pitt non capiva. «Posso chiederle perché?» La realtà svanì lentamente dalla faccia di Billy. Fu come se entrasse in uno stato di trance. «Perché coloro che hanno rubato gli idoli del sole, della luna, della terra e dell'acqua sono maledetti e moriranno di una morte terribile.» «Lo crede davvero?» «Sì», rispose Yuma. «Nei miei sogni vedo i ladri che annegano.» «Annegano?» «Sì, nell'acqua che ritrasformerà il deserto in un giardino, com'era ai tempi dei miei antenati.» Pitt stava per rispondere che non aveva intenzione di depositare il suo denaro nella banca dei sogni. Era molto scettico nei confronti di tutto ciò che era al di là dell'esperienza sensibile. Tuttavia, l'espressione irriducibile degli occhi di Yuma e il tono duro della sua voce lo colpirono profondamente. E cominciò a essere contento di non avere nessun legame con gli Zolar.
45. Amaru entrò nella sala principale dell'hacienda. Una parete era occupata da un grande camino di pietra asportato da una vecchia missione dei gesuiti. L'alto soffitto era decorato da pannelli di gesso. «Scusate se vi ho fatto aspettare, signori.» «Non importa», disse Zolar. «Ora che quegli stupidi della NUMA ci hanno condotti direttamente all'oro di Huascar, abbiamo approfittato del tuo ritardo per discutere il sistema migliore per riportarlo in superficie.» Amaru annuì e si guardò intorno. Oltre a lui c'erano quattro uomini. Seduti sui sofà intorno al camino stavano Zolar, Oxley, Sarason e Moore. Le facce erano inespressive, ma nell'aria regnava un'atmosfera di trionfo. «Si sa qualcosa della dottoressa Kelsey, del fotografo Rodgers e di Albert Giordino?» chiese Sarason. «I miei contatti oltre il confine pensano che Pitt ti abbia detto la verità, a bordo del traghetto, quando ha raccontato di averli lasciati alla sede della Dogana degli Stati Uniti a Calexico», rispose Amaru. «Doveva aver fiutato una trappola», commentò Moore. «È apparso evidente quando è tornato al traghetto da solo», disse bruscamente Sarason ad Amaru. «Lo avevi in pugno e te lo sei lasciato scappare.» «Per non parlare dell'equipaggio», soggiunse Oxley. «Vi assicuro che Pitt non è scappato. È morto quando io e i miei uomini abbiamo lanciato le bombe a mano nell'acqua intorno a lui. In quanto all'equipaggio del traghetto, i poliziotti messicani che avete pagato per collaborare faranno in modo che tacciano per tutto il tempo necessario.» «Comunque non va bene», riprese Oxley. «Dato che Pitt, Gunn e la Smith sono irreperibili, tutti gli agenti federali da San Diego a Denver verranno a curiosare.» Zolar scosse la testa. «Qui non hanno autorità. E i nostri amici del governo locale non permetteranno loro di entrare.» Sarason lanciò un'occhiata irosa ad Amaru. «Hai detto che Pitt è morto. Dov'è il cadavere?» Amaru ricambiò lo sguardo con altrettanta rabbia. «Lo stanno mangiando i pesci. Puoi credermi sulla parola.» «Scusa, ma non sono convinto.» «Non può essere sopravvissuto alle esplosioni subacquee.»
«Quell'uomo è sopravvissuto a ben altro.» Sarason si alzò, andò al bar e si versò da bere. «Non mi sentirò tranquillo fino a quando non vedrò i suoi resti.» «E non sei riuscito neppure ad affondare il traghetto», disse Oxley ad Amaru. «Avresti dovuto portarlo dove l'acqua è più alta prima di aprire le valvole delle sentine.» «O meglio ancora avresti dovuto incendiarlo con a bordo la deputata Smith e il vicedirettore della NUMA», proseguì Zolar, accendendosi un sigaro. «Cortina, il capo della polizia, svolgerà un'indagine e annuncerà che il traghetto, con la Smith e Rudi Gunn, è andato perduto in uno sfortunato incidente», disse Sarason. Zolar lo guardò male. «Non basterà a risolvere il problema delle interferenze delle forze dell'ordine americane. Il loro Dipartimento della Giustizia pretenderà ben altro che un'indagine locale se Pitt è sopravvissuto per raccontare le azioni sballate del tuo amico.» «Lasciate perdere Pitt», tagliò corto Amaru. «Nessuno più di me aveva una buona ragione per volerlo morto.» Oxley girò lo sguardo da Amaru a Zolar. «Non possiamo rischiare in base a un'ipotesi. Cortina non può ritardare per più di qualche giorno un'indagine congiunta ordinata dai governi del Messico e degli Stati Uniti.» Sarason alzò le spalle. «È comunque il tempo sufficiente per portar via il tesoro e sparire.» «Anche se Pitt uscisse dal mare e raccontasse la verità», disse Henry Moore, «sarà la vostra parola contro la sua. Non potrà provare che esistono legami fra voi e la scomparsa della Smith e di Gunn. Chi crederà che una famiglia di illustri mercanti d'arte sia coinvolta in una storia del genere? Potreste fare in modo che Cortina accusi Pitt di aver commesso questi reati per impadronirsi del tesoro.» «Approvo l'idea del professore», esclamò Zolar. «I nostri influenti amici della polizia e degli ambienti militari si lasceranno convincere facilmente ad arrestare Pitt, in caso metta piede in Messico.» «Fin qui, tutto bene», disse Sarason. «Ma i nostri prigionieri? Dobbiamo eliminarli subito oppure più tardi?» «Perché non li gettiamo nel fiume che scorre attraverso la caverna del tesoro?» propose Amaru. «I loro resti ricompariranno probabilmente nel golfo di California. E quando i pesci avranno finito di divorarli, un perito settore, al massimo, potrà accertare che sono morti annegati.»
Zolar girò lo sguardo sui fratelli e su Moore, che sembrava stranamente a disagio. Dopo un momento si rivolse ad Amaru. «Una soluzione semplice ma brillante. Qualche obiezione?» Nessuno parlò. «Mi metterò in contatto con il comandante Cortina e gli assegnerò l'incarico», annunciò Sarason. Zolar agitò il sigaro nell'aria e mostrò i denti in un ampio sorriso. «Allora siamo d'accordo. Mentre Cyrus e Cortina alzano una barriera fumogena per gli investigatori americani, noi faremo i bagagli, ci trasferiremo al Cerro el Capirote e cominceremo a recuperare l'oro domattina alle prime luci.» Un servitore entrò e porse a Zolar un telefono portatile. Zolar ascoltò senza rispondere. Poi tolse la comunicazione e rise. «Buone notizie, fratello?» chiese Oxley. «Gli agenti federali hanno fatto un'altra irruzione nei nostri magazzini.» «È tanto divertente?» chiese Moore, sorpreso. «Succede spesso», spiegò Zolar. «Come al solito sono rimasti a mani vuote e hanno fatto la figura dei cretini.» Sarason finì di bere. «Quindi gli affari continuano come al solito e lo scavo del tesoro procede secondo i programmi.» Scese il silenzio mentre ognuno dei presenti pensava alle ricchezze incredibili che avrebbero trovato sotto il Cerro el Capirote. Tutti, tranne Sarason. I suoi pensieri tornavano all'incontro con Pitt a bordo del traghetto. Sapeva che era ridicolo, ma non riusciva a togliersi di mente quello che Pitt gli aveva detto. Perché aveva affermato di aver condotto lui e i suoi fratelli fino al tesoro? E cosa significava che erano stati imbrogliati? Pitt aveva mentito, aveva cercato di fargli capire qualcosa, oppure le sue parole non erano state altro che uno sfoggio di spavalderia da parte di un uomo convinto di stare per morire? Non vale la pena scervellarsi, decise Sarason. Il campanello d'allarme echeggiava nella sua mente, ma c'erano cose più importanti di cui occuparsi. Non pensò più a Pitt. Non aveva mai commesso un errore più grave. Micki Moore scese cautamente la scala ripida della cantina dell'hacienda reggendo nelle mani un vassoio. Si avvicinò a uno degli uomini di Amaru che sorvegliava la porta del piccolo ripostiglio dove stavano i prigionieri. «Apri la porta», ordinò. «Non può entrare nessuno», borbottò irritato il guardiano. «Scostati, stupido cretino», ringhiò Micki, «o ti taglio le palle.»
Il guardiano rimase sconcertato dalla volgarità di quella donna elegante e indietreggiò d'un passo. «Ho avuto ordini precisi da Tupac Amaru.» «Qui c'è soltanto roba da mangiare, idiota. Fammi entrare o mi metterò a urlare e giurerò a Joseph Zolar che hai violentato me e la donna che sta lì dentro.» Il guardiano sbirciò il vassoio e si arrese. Aprì la porta e si fece da parte. «Ma non dica niente a Tupac.» «Non preoccuparti», rispose seccamente Micki, entrando nello stanzino soffocante. I suoi occhi impiegarono qualche secondo per assuefarsi alla luce fioca. Gunn era sdraiato sul pavimento di pietra. Si sollevò a sedere con uno sforzo. Loren era in piedi al suo fianco, come se volesse proteggerlo. «Ma bene», mormorò sdegnosamente Loren. «Questa volta hanno mandato una donna a fare il loro sporco lavoro.» Micki le mise il vassoio fra le mani. «Ecco qualcosa da mangiare. Frutta e sandwich e quattro bottiglie di birra. Lo prenda!» Si voltò e sbatté la porta in faccia al guardiano. Quando si girò di nuovo verso Loren, i suoi occhi s'erano già abituati al buio. Era sbalordita. Scorgeva i gonfiori e i lividi sulle labbra e intorno agli occhi di Loren, gli indumenti strappati e riannodati alla meglio. Notò i segni rossi sul seno e le chiazze sulle braccia e le gambe. «Bastardi», sibilò. «Sadici bastardi. Mi dispiace. Se avessi saputo che vi avevano picchiati, avrei portato qualcosa per medicarvi.» Loren s'inginocchiò e posò il vassoio sul pavimento. Porse una bottiglia di birra a Gunn; ma l'uomo aveva le mani troppo doloranti per svitare il tappo. Fu Loren a toglierlo. «Chi è il nostro angelo di misericordia?» chiese Gunn. «Sono Micki Moore. Mio marito è antropologo e io sono un'archeologa ingaggiata dagli Zolar.» «Per aiutarli a trovare il tesoro di Huascar?» chiese Gunn. «Sì, abbiamo decifrato i glifi...» «Dell'armatura d'oro di Tiapollo», concluse Gunn. «Sappiamo tutto.» Loren rimase in silenzio per qualche istante mentre mangiava avidamente un sandwich e beveva una birra. Quando si sentì un po' rinfrancata, guardò incuriosita Micki. «Perché lo ha fatto? Per ridarci coraggio prima che quelli tornino e ricomincino a prenderci a pugni?» «Noi non c'entriamo con quello che vi è successo», rispose sinceramente Micki. «Anzi, Zolar e i suoi fratelli hanno intenzione di uccidere me e mio marito non appena avranno recuperato il tesoro.»
«Come fate a saperlo?» «Abbiamo avuto a che fare altre volte con individui del genere. Siamo in grado d'intuire come vanno le cose.» «Cosa intendono fare a noi?» chiese Gunn. «Gli Zolar e i loro amici della polizia e delle forze armate messicane vogliono far credere che siete annegati nel tentativo di fuggire dal traghetto che stava affondando. Il loro piano è gettarvi nel fiume sotterraneo che, a quanto dicevano gli antichi, attraversa la caverna del tesoro e si getta in mare. Quando i vostri cadaveri torneranno a galla, non sarà rimasto abbastanza di voi per provare che le cose sono andate in un modo diverso.» «Mi pare credibile», mormorò Loren in tono rabbioso. «Devo riconoscerlo.» «Mio Dio», disse Gunn. «Non possono assassinare a sangue freddo una rappresentante del Congresso degli Stati Uniti.» «Credetemi», commentò Micki. «Quegli uomini non hanno né scrupoli né coscienza.» «Come mai non ci hanno ancora uccisi?» chiese Loren. «Avevano paura che il vostro amico Pitt potesse denunciare il vostro sequestro. Ma adesso non se ne preoccupano più. Si sono convinti che la loro versione possa reggere di fronte alle accuse di chiunque.» «E l'equipaggio del traghetto?» chiese Loren. «Hanno assistito all'atto di pirateria.» «La polizia locale impedirà loro di dare l'allarme.» Micki esitò. «Purtroppo devo dirvi che Pitt non li impensierisce più. Tupac Amaru giura che, dopo il vostro trasferimento all'hacienda, lui e i suoi uomini lo hanno ridotto in poltiglia lanciando bombe a mano nell'acqua.» Gli occhi violetti di Loren erano colmi d'angoscia. Fino a quel momento aveva sperato che Pitt fosse riuscito a salvarsi. Ora aveva l'impressione che il suo cuore fosse caduto nel crepaccio d'un ghiacciaio. Barcollò, si appoggiò a una parete e si nascose il viso fra le mani. Gunn si alzò. Nei suoi occhi non c'era dolore, ma soltanto una certezza ferrea. «Dirk morto? Le canaglie come Amaru non possono uccidere un uomo come Dirk Pitt.» «Ha detto che anche lei e suo marito sono nella lista nera degli Zolar?» chiese Loren. Micki alzò le spalle. «Sì, dovranno ridurre al silenzio anche noi.» «Mi scusi se glielo dico», osservò Gunn, «ma mi pare che lei la prenda con troppa disinvoltura...»
«Mio marito ha un piano.» «Per fuggire?» «No, Henry e io potremmo fuggire in qualunque momento. Ma vogliamo prenderci una parte del tesoro.» Gunn la fissò, incredulo. Poi commentò, cinicamente: «Suo marito dev'essere un antropologo con le palle». «Forse capirebbe meglio se le dicessi che ci siamo conosciuti e innamorati mentre svolgevamo un incarico per conto del Foreign Activities Council.» «Non ne ho mai sentito parlare», disse Gunn. Loren, invece, guardò Micki con aria pensierosa. «Io sì. A quanto si dice, è un'organizzazione segretissima che opera dietro le quinte della Casa Bianca. Nessuno, al Congresso, è mai riuscito a trovare prove concrete della sua esistenza e dei suoi finanziamenti.» «Che funzione ha?» chiese Gunn. «Svolge attività clandestine sotto la supervisione diretta del presidente al di fuori della competenza degli altri servizi segreti nazionali e a loro insaputa», rispose Micki. «Che genere di attività?» «Sporchi trucchi contro le nazioni straniere considerate ostili agli Stati Uniti», ribatté Loren, senza staccare lo sguardo da Micki per scoprire se reagiva; ma la donna conservava un'espressione distaccata e remota. «Sono soltanto un membro del Congresso e non sono al corrente di queste attività. Posso soltanto formulare ipotesi. Ho il sospetto che la direttiva principale sia compiere attentati.» Gli occhi di Micki diventarono duri e freddi. «Ammetto che per dodici anni, fino a quando non ci siamo ritirati dal servizio per dedicarci esclusivamente all'archeologia, Henry e io avevamo ben pochi rivali.» «Non mi sorprende», osservò ironicamente Loren. «Dato che vi spacciavate per scienziati, nessuno sospettava che foste i sicari del presidente.» «Per sua informazione, deputata Smith, le nostre credenziali accademiche non sono false. Henry ha una libera docenza all'università della Pennsylvania, io a Stanford. Non abbiamo rimorsi per le missioni che abbiamo compiuto agli ordini di tre presidenti. Eliminando i capi di certe organizzazioni terroristiche straniere, Henry e io abbiamo salvato la vita a un numero di americani molto più grande di quanto possiate immaginare.» «E adesso per chi lavorate?» «Per noi stessi. Come ho detto, ci siamo ritirati. Abbiamo deciso che era
venuto il momento di sfruttare la nostra competenza. Non siamo più al servizio del governo. Anche se ci pagavano bene, non ci hanno concesso la pensione.» «Il lupo perde il pelo ma non il vizio», chiosò beffardamente Gunn. «Non potrete centrare il vostro obiettivo senza uccidere Amaru e gli Zolar.» Micki accennò un sorriso. «Forse dovremo farlo, prima che loro uccidano noi. Ma non prima che sia stato portato in superficie un quantitativo sufficiente dell'oro di Huascar.» «Quindi la pista sarà disseminata di cadaveri.» Micki si passò una mano sul viso. «Il vostro coinvolgimento nella caccia al tesoro è stata una sorpresa per tutti. Quando hanno scoperto che un altro gruppo era sulla strada giusta per arrivare all'oro, gli Zolar hanno reagito in modo eccessivo. Un comportamento da stupidi. Hanno perso la testa, assassinando o sequestrando tutti quelli che, a loro parere, erano ostacoli sulla strada del tesoro. Potete ritenervi fortunati perché non vi hanno eliminati a bordo del traghetto come il vostro amico Pitt. Il fatto che vi abbiano tenuti in vita, seppur temporaneamente, li bolla come dilettanti.» «Lei e suo marito», mormorò Loren, «avreste...» «Vi avremmo sparato e avremmo bruciato il traghetto?» Micki scosse la testa. «Non è nel nostro stile. Henry e io abbiamo eliminato esclusivamente stranieri colpevoli di aver massacrato donne e uomini senza batter ciglio. Non abbiamo mai fatto male a un americano e non intendiamo cominciare adesso. Anche se la vostra presenza ha complicato la nostra operazione, faremo quanto è in nostro potere per aiutarvi a fuggire.» «Anche gli Zolar sono americani», le rammentò Loren. Micki alzò le spalle. «Un semplice dettaglio tecnico. Rappresentano quello che forse è il più grosso giro di furti e di contrabbando d'opere d'arte della storia. Non sono che squali... e grossi, per di più. C'è bisogno che ve lo dica? Avete conosciuto di persona la loro brutalità. Henry e io pensiamo che se lasceremo le loro ossa a sbiancare nel deserto di Sonora faremo risparmiare ai contribuenti americani i milioni di dollari che verrebbero spesi per una lunga e complicata indagine sulle loro attività criminali. E poi, se venissero catturati e condannati, ci sarebbero le spese del processo e del carcere.» «E quando avrete nelle mani una parte del tesoro?» chiese Gunn. «Che cosa succederà?» Micki gli rivolse un sorriso malizioso. «Vi manderò una cartolina dalla
località in cui ci troveremo e vi farò sapere come lo spendiamo.» 46. Un contingente militare stabilì un posto comando e isolò il deserto per oltre tre chilometri intorno alla base del Cerro el Capirote. Nessuno poteva entrare o uscire. La cima della montagna era diventata il centro organizzativo delle operazioni di recupero del tesoro condotte dal cielo. L'elicottero della NUMA rubato a Pitt e ridipinto con i colori della Zolar International s'innalzò nel cielo sereno e tornò verso l'hacienda. Pochi minuti più tardi, un grosso elicottero militare da trasporto messicano discese e un distaccamento di genieri in uniforme da combattimento balzò a terra, aprì il portellone posteriore e cominciò a scaricare un carrello elevatore, rotoli di cavo e un grosso argano. I funzionali dello Stato del Sonora che erano sul libro paga degli Zolar avevano concesso le licenze e i permessi necessari nel giro di ventiquattr'ore: una procedura che in condizioni normali avrebbe richiesto mesi, forse anni. Gli Zolar avevano promesso di finanziare nuove scuole, strade e un ospedale. Il loro denaro aveva unto gli ingranaggi della burocrazia locale e dato un taglio all'iter abituale. Il governo messicano, ingannato dai funzionari corrotti, aveva offerto la sua piena collaborazione, approvando inoltre in tutta fretta la richiesta di Joseph Zolar, che voleva in prestito un reparto di genieri della base militare di Baja Peninsula. Secondo un contratto stipulato a tempo di record con il ministero del Tesoro, gli Zolar avevano diritto al venticinque per cento degli oggetti recuperati. Il resto doveva essere depositato presso la Corte nazionale di Città del Messico. L'unico problema era che gli Zolar non intendevano stare ai patti. Il tesoro non sarebbe stato diviso con nessuno. Quando la catena d'oro e il grosso dei preziosi fossero stati portati sulla cima della montagna, avrebbe avuto inizio un'operazione clandestina: con il favore delle tenebre, tutto sarebbe stato trasferito in un lontano campo d'atterraggio militare presso le grandi dune del Desierto de Aitar, poco più a sud del confine con l'Arizona. Là gli oggetti sarebbero stati caricati a bordo di un jet da trasporto, assolutamente identico a quello di una grande compagnia aerea, e scaricati in una base d'appoggio segreta che gli Zolar possedevano nella cittadina di Nador, sulla costa settentrionale del Marocco. Allo spuntar del giorno, tutti erano stati trasferiti dall'hacienda alla cima
della montagna. Nell'abitazione non era rimasto neppure il minimo effetto personale. Restava soltanto il jet degli Zolar, parcheggiato sulla pista dell'hacienda e pronto a partire con un preavviso di pochi minuti. Loren e Rudi furono fatti uscire dalla loro prigione e trasportati al Cerro el Capirote. Micki Moore aveva ignorato l'ordine di non comunicare con gli ostaggi e aveva prestato a Loren una camicetta, pantaloni e sandali. Aveva medicato i lividi e le ferite dei due e procurato un pasto decente. Dato che molto difficilmente avrebbero potuto fuggire scendendo le pareti rocciose della montagna, nessuno li sorvegliava. Potevano girare quanto volevano. Oxley scoprì quasi subito il piccolo varco che conduceva nelle viscere della montagna e mise al lavoro una squadra di militari perché l'allargassero. Rimase a sovrintendere l'operazione, mentre Zolar, Sarason e i Moore scendevano nel passaggio, seguiti da una squadra di genieri con le lampade fluorescenti portatili. Quando arrivarono al secondo demone, Micki gli accarezzò teneramente gli occhi come aveva fatto Shannon Kelsey prima di lei. «Un'opera d'arte meravigliosa», sospirò. «Ottimamente conservata», ammise il marito. «Bisognerà distruggerla», dichiarò Sarason in tono indifferente. «Cosa sta dicendo?» chiese Moore. «Non possiamo spostarla. Questa bestiaccia blocca gran parte della galleria. Non potremmo trasportare la catena di Huascar.» Micki inorridì. «Non potete distruggere un capolavoro dell'antichità.» «Possiamo distruggerlo e lo distruggeremo», confermò Zolar. «D'accordo, è un peccato. Ma non abbiamo tempo per gli scrupoli archeologici. La statua deve sparire.» L'espressione rattristata di Moore s'indurì. Guardò la moglie e fece un cenno d'assenso. «Ci sono sacrifici inevitabili.» Micki comprese. Se volevano impadronirsi di una parte del tesoro abbastanza cospicua per vivere nel lusso, avrebbero dovuto chiudere gli occhi di fronte alla rovina del demone. Proseguirono, mentre Sarason restava indietro e ordinava ai genieri di collocare una carica esplosiva sotto la statua. «Siate prudenti», raccomandò in spagnolo. «Usate una carica piccola. Non vogliamo causare un crollo.» Zolar si meravigliò nel vedere l'energia e l'entusiasmo manifestati dai Moore quando giunsero alla cripta dei guardiani. Se li avessero lasciati fa-
re, avrebbero passato una settimana studiando le mummie e gli ornamenti sepolcrali prima di procedere verso la camera del tesoro. «Andiamo», disse spazientito Zolar. «Potrete curiosare intorno ai morti più tardi.» I Moore procedettero con riluttanza nell'alloggio dei guardiani, e indugiarono per pochi minuti prima che Sarason raggiungesse il fratello e insistesse per proseguire in fretta. L'apparizione improvvisa del guardiano racchiuso nei cristalli di calcite sconvolse tutti, come era accaduto a Pitt e al suo gruppo. Henry Moore scrutò nel sarcofago semitrasparente. «Un antico chachapuya», mormorò come se fosse di fronte a un crocifisso. «Conservato nelle condizioni in cui è morto. È una scoperta incredibile.» «Doveva essere un guerriero di nobile lignaggio», disse Micki in tono reverente. «È una conclusione logica, mia cara. Di certo era molto importante per avere la responsabilità di custodire un immenso tesoro reale.» «Quanto pensa che possa valere?» chiese Sarason. Moore si voltò a guardarlo con una smorfia. «Non si può dare un prezzo a un oggetto così straordinario. Il suo valore storico è inestimabile.» «Conosco un collezionista che lo pagherebbe cinque milioni di dollari», disse Zolar come se stesse stimando un vaso Ming. «Il guerriero appartiene alla scienza», reagì di scatto Moore, soffocato dalla collera. «È un legame visibile con il passato e il suo posto è in un museo, non nel soggiorno di un losco collezionista di oggetti rubati.» Zolar gli lanciò un'occhiata insidiosa. «D'accordo, professore, glielo cedo in cambio della sua parte dell'oro.» Moore sembrava incerto. Il suo spirito professionale di scienziato combatteva contro l'avidità. Si rendeva conto solo in quel momento che l'eredità di Huascar trascendeva la pura e semplice ricchezza e l'idea gli causava un moto di vergogna. Rimpiangeva di avere a che fare con delinquenti privi di scrupoli. Afferrò la mano della moglie, certo che anche lei la pensasse nello stesso modo. «Se è necessario. Siamo d'accordo.» Zolar rise. «Allora è tutto sistemato. Possiamo procedere per trovare quello che siamo venuti a cercare?» Dopo qualche minuto si fermarono sull'orlo del fiume sotterraneo e fissarono ipnotizzati la massa d'oro rischiarata dalle lampade portatili dei genieri. Vedevano solo il tesoro. Il fiume che scorreva nelle viscere della ter-
ra sembrava insignificante. «Spettacolare», mormorò Zolar. «Non posso credere di avere davanti tanto oro.» «Supera di parecchio i tesori della tomba di Tutankhamen», disse Moore. «È magnifico», sussurrò Micki stringendo il braccio del marito. «Dev'essere il cache più ricco di tutte le Americhe.» Lo sbalordimento di Sarason passò in fretta. «Erano furbi, gli antichi bastardi», esclamò. «Il fatto che il tesoro sia su un'isola circondata da una corrente molto forte complica le operazioni di recupero.» «Sì, ma abbiamo funi e argani», gli ricordò Moore. «Pensate alle difficoltà che loro dovettero superare per trasferire qui tutto l'oro servendosi soltanto di corde di canapa e di muscoli.» Micki notò una scimmia d'oro accovacciata su un piedistallo. «È strano.» Zolar la fissò. «Cosa c'è di strano?» Micki si avvicinò alla scimmia sul piedistallo rovesciato sul fianco. «Perché il pezzo si trova ancora da questa parte del fiume?» «Sì, è strano che non sia stato messo con gli altri», spiegò Moore. «Sembra che sia stato buttato qui.» Sarason indicò i segni nella sabbia e nei cristalli di calcio accanto alla riva. «Direi che è stato trascinato via dall'isola.» «C'è scribacchiato qualcosa», disse Moore. «Riesce a decifrarlo?» chiese Zolar. «Non occorre. La scritta è in inglese.» Sarason e Zolar lo fissarono come due banchieri di Wall Street che si vedono abbordare da un senzatetto e si sentono chiedere cinquantamila dollari. «Niente scherzi, professore», scattò Zolar. «Dico sul serio. Qualcuno ha inciso un messaggio nell'oro tenero del piedistallo. E mi sembra che l'abbia fatto di recente.» «Che cosa dice?» Moore indicò a un geniere di puntare il raggio della lampada sul piedistallo della scimmia, si assestò gli occhiali e cominciò a leggere a voce alta. Membri del Solpemachaco, benvenuti al congresso annuale dei ladri e dei saccheggiatori. Se avete qualche ambizione nella vita
oltre all'acquisizione di bottini rubati, siete venuti nel posto giusto. Accomodatevi e prendete solo gli oggetti che potete usare. I vostri affezionati sponsor: dottoressa Shannon Kelsey, Miles Rodgers, Al Giordino e Dirk Pitt. Vi fu un momento di silenzio, poi Zolar ringhiò al fratello: «Cosa diavolo sta succedendo? Che razza di stupido trucco è questo?» Sarason aveva stretto le labbra in un'espressione amara. «Pitt aveva ammesso di averci condotti al demone», rispose controvoglia. «Ma non aveva detto che era penetrato nella montagna e aveva visto il tesoro.» «È stato molto generoso a informarci, no? Perché non me l'hai detto?» Sarason alzò le spalle. «Ormai è morto. Non pensavo che avesse importanza.» Micki si rivolse al marito. «Conosco la dottoressa Kelsey. L'ho conosciuta a un simposio d'archeologia a San Antonio. È una famosa esperta di culture andine.» Moore annuì. «Sì, conosco il suo lavoro.» Poi fissò Sarason. «Ci avevate fatto credere che la deputata Smith e gli uomini della NUMA erano semplicemente in caccia del tesoro. Non ci avevate parlato di archeologi professionisti.» «Fa qualche differenza?» «Sta succedendo qualcosa che sfugge al nostro controllo», l'avvertì Moore, che aveva l'aria di divertirsi della confusione degli Zolar. «Se fossi in voi, porterei via l'oro al più presto possibile.» Le sue parole furono sottolineate da un'esplosione smorzata nel passaggio. «Non abbiamo niente da temere se Pitt è morto», insistette Sarason. «Il messaggio è stato lasciato prima che Amaru lo uccidesse.» Ma stava sudando freddo. Le parole ironiche di Pitt gli echeggiavano nelle orecchie. «L'abbiamo imbrogliato, amico.» Lentamente la faccia di Zolar cambiò. Le labbra si strinsero, la mascella rientrò, gli occhi si riempirono d'apprensione. «Nessuno, dopo aver scoperto un tesoro così enorme, lascia un messaggio ridicolo e se ne va. C'è un metodo nella follia di questi uomini, e vorrei conoscere il loro piano.»
«Chiunque si metterà sulla nostra strada prima che il tesoro sia stato portato via dalla montagna sarà eliminato», gridò Sarason al fratello. «È una promessa.» Le parole avevano un suono energico, un'eco di minaccia. Tutti gli credettero. Tranne Micki Moore. Era l'unica che gli stava abbastanza vicina per vedere che gli tremavano le labbra. 47. I burocrati di tutto il mondo sembrano uguali, pensò Pitt. La falsità del sorriso si rivelava nell'espressione di superiorità degli occhi. Dovevano aver frequentato tutti la stessa scuola e imparato a memoria lo stesso discorso prefabbricato, pieno di frasi evasive. Questo era calvo, portava gli occhiali con le lenti spesse e aveva i baffi neri tagliati con cura meticolosa. Il profilo e l'aria altezzosa di Fernando Matos ricordavano agli americani presenti nella sala conferenze un conquistador spagnolo. Quell'uomo alto e sicuro di sé incarnava il tipico burocrate sfuggente e impenetrabile. Guardava gli americani radunati nella sede della Dogana a meno di cento metri dal confine internazionale. L'ammiraglio James Sandecker, che era arrivato da Washington poco dopo che Gaskill e Ragsdale erano piombati sul posto da Galveston, lo fissava con aria inespressiva e non diceva niente. Shannon, Rodgers e Giordino erano relegati sulle sedie lungo una parete, mentre Pitt stava alla destra di Sandecker. Lasciavano a Curtis Starger, capo della Dogana della regione, il compito di parlare. Con sedici anni di anzianità alle spalle, Starger ne aveva viste di tutte. Era un bell'uomo snello, con i lineamenti affilati e i capelli biondi, e sembrava più un bagnino di San Diego che un agente navigato. Fissava Matos con un'espressione che avrebbe incenerito l'asbesto. Subito dopo le presentazioni, si lanciò all'attacco. «Lascerò perdere i convenevoli, signor Matos. In queste faccende sono abituato a trattare con i dirigenti delle vostre forze dell'ordine, soprattutto l'ispettore Granados e il capo della divisione investigativa del Messico settentrionale, il señor Rojas. Vorrei che mi spiegasse perché un funzionario di medio livello di un oscuro ufficio del Dipartimento Affari Nazionali è stato mandato a ragguagliarci sulla situazione. Ho l'impressione che il governo di Città del Messico sia all'oscuro più o meno quanto noi.»
Matos fece un gesto rassegnato con le mani. Non batteva mai le palpebre e il sorriso restava fisso. Se si sentiva offeso, non lo lasciava capire. «L'ispettore Granados sta lavorando a un caso a Hermosillo e il señor Rojas è ammalato.» «Mi spiace moltissimo», borbottò Starger. «Se non fossero indisposti o impegnati altrove, sono certo che sarebbero stati lieti di consultarsi con lei. Capisco la sua frustrazione. Ma le assicuro che il mio governo farà tutto il possibile per collaborare.» «La procura federale degli Stati Uniti ha motivo di credere che tre fratelli, Joseph Zolar, Charles Oxley e Cyrus Sarason, gestiscano un gigantesco traffico internazionale di opere d'arte rubate, contrabbandate e falsificate. Abbiamo inoltre ragione di credere che abbiano sequestrato un membro del Congresso e un alto dirigente della nostra più prestigiosa organizzazione di scienze marine.» Matos sfoggiò un sorriso blando. «È assolutamente ridicolo. Come sapete bene, signori, dopo l'inutile irruzione nel magazzino degli Zolar nel Texas, la loro reputazione è rimasta immacolata.» Gaskill sorrise ironicamente a Ragsdale. «Le notizie si diffondono in fretta.» «Gli uomini che sembrate decisi a perseguire non hanno violato nessuna legge in Messico. Non abbiamo nessun motivo per indagare sul loro conto.» «Cosa avete intenzione di fare per liberare la deputata Smith e il vicedirettore Gunn?» «Al caso stanno lavorando i migliori investigatori della nostra polizia», gli assicurò Matos. «I miei superiori hanno già dato disposizioni perché venga pagato il riscatto. E posso garantire che è solo una questione di ore prima che i banditi responsabili del reato vengano catturati e i due ostaggi siano restituiti sani e salvi.» «Le nostre fonti affermano che i criminali responsabili sono gli Zolar.» Matos scosse la testa. «No, no, tutti gli indizi provano che il sequestro è opera di un gruppo di banditi.» Pitt intervenne. «A proposito di sequestri, che fine ha fatto l'equipaggio del traghetto? Perché è scomparso?» Matos lo guardò con aria sprezzante. «La cosa non ha importanza. E, per la precisione, la nostra polizia ha quattro dichiarazioni firmate che indicano proprio lei come istigatore del complotto.» Pitt fu assalito dal risentimento. Gli Zolar avevano previsto tutto, ma i-
gnoravano il fatto che gli uomini dell'Alhambra non erano morti e che Amaru aveva fallito e aveva mentito. Padilla e i suoi uomini dovevano essere arrivati a terra e adesso la polizia locale li teneva nascosti. «I suoi investigatori hanno avuto la cortesia di attribuirmi un movente?» chiese Pitt. «I moventi non mi riguardano, signor Pitt. Io mi baso sui fatti. Comunque, visto che ne ha parlato, l'equipaggio afferma che lei ha ucciso la deputata Smith e Rudi Gunn per conoscere l'ubicazione del tesoro.» «Se l'hanno bevuta, i suoi funzionari di polizia hanno il morbo di Alzheimer», scattò Giordino. «Un fatto è un fatto», ribatté imperturbabile Matos. «Come funzionario del governo, io devo operare entro precisi parametri legali.» Pitt non si scompose per l'accusa ridicola e insinuò: «Mi dica, señor Matos, quale sarà la sua percentuale del tesoro?» «Il cinque...» Matos si trattenne troppo tardi. «Stava per dire il cinque per cento?» chiese Starger senza alzare la voce. Matos inclinò la testa e alzò le spalle. «Non stavo per dire niente del genere.» «Mi sembra che i suoi superiori facciano finta di non vedere un colossale complotto», intervenne Sandecker. «Non c'è nessun complotto, ammiraglio. Sono pronto a giurarlo.» «In pratica», disse Gaskill, tendendosi un po' al di sopra del tavolo, «ci sta dicendo che i funzionari del governo dello Stato di Sonora hanno fatto un accordo con gli Zolar per tenere il tesoro peruviano.» Matos alzò la mano. «Il Perù non ha nessun diritto legale. Tutti gli oggetti trovati in territorio messicano appartengono al nostro popolo...» «Appartengono al popolo peruviano», l'interruppe Shannon, rossa in viso per la collera. «Se il suo governo avesse un filo di decenza, come minimo inviterebbe i peruviani a spartirlo.» «I rapporti fra le nazioni non funzionano in questo modo, dottoressa Kelsey», rispose Matos. «Le piacerebbe che il tesoro perduto di Montezuma venisse ritrovato nelle Ande?» «Non sono in condizioni di giudicare certi eventi impossibili», ribatté Matos. «E poi, le voci sull'entità del tesoro sono molto esagerate. In realtà, ha un valore molto modesto.» Shannon era allibita. «Ma che sta dicendo? Ho visto con i miei occhi il tesoro di Huascar. Se mai, è ancora più sostanzioso di quanto si pensasse.
Ha un valore potenziale di poco inferiore a un miliardo di dollari.» «Gli Zolar sono mercanti rispettabili e hanno fama di stimare con precisione le opere d'arte e gli oggetti antichi. La loro valutazione del tesoro non supera i trenta milioni.» «Stia a sentire!» esclamò furiosamente Shannon. «In quanto alle valutazioni di opere delle antiche culture peruviane, la mia reputazione è molto superiore. Glielo dirò chiaramente. Gli Zolar raccontano balle.» «È la sua parola contro la loro», disse con calma Matos. «Per un tesoro tanto limitato», commentò Ragsdale, «stanno organizzando un'operazione in grande stile.» «Cinque o dieci operai per portare via l'oro dalla caverna. Niente di più.» «Vuol vedere le foto scattate dai satelliti che mostrano la cima del Cerro el Capirote brulicante come un formicaio di uomini ed elicotteri?» Matos rimase in silenzio, come se non avesse sentito una parola. «E cosa ci guadagneranno gli Zolar?» chiese Starger. «Gli permetterete di portar via il tesoro dal Paese?» «I loro sforzi in favore del popolo del Sonora non resteranno privi di riconoscimenti. Saranno ricompensati.» Era una frottola così grossa che nessuno dei presenti ci cascò. L'ammiraglio Sandecker era l'americano di rango più elevato che fosse in quella sala. Rivolse a Matos un sorriso disarmante. «Domattina incontrerò il nostro presidente, lo informerò degli avvenimenti preoccupanti in corso nel Messico, e gli farò presente che le vostre forze dell'ordine ritardano le indagini e alzano una cortina fumogena sul sequestro di due nostri concittadini importanti. Non ho bisogno di ricordarle, señor Matos, l'accordo commerciale che sta per essere riesaminato dal Congresso. Quando i nostri rappresentanti sapranno del modo indecoroso con cui state trattando una loro collega, e del fatto che collaboriate con trafficanti d'opere d'arte rubate, probabilmente riterranno difficile continuare gli attuali rapporti commerciali. Per dirla in poche parole, señor, il suo presidente si troverà alle prese con un grosso scandalo.» Dietro le lenti, gli occhi di Matos assunsero all'improvviso un'espressione turbata. «Non è il caso di reagire in questo modo a un trascurabile disaccordo fra i nostri Paesi.» Pitt notò che sulla fronte del messicano erano spuntate minuscole gocce di sudore. Si rivolse a Sandecker. «Io non sono esperto di politica, ammiraglio, ma sono pronto a scommettere che il presidente del Messico e il suo governo non sono stati messi al corrente della situazione.»
«Lo penso anch'io», confermò Sandecker. «E questo spiegherebbe perché non stiamo parlando con un personaggio importante.» Matos era diventato pallidissimo e aveva l'aria di sentirsi male. «Mi ha frainteso. Il mio Paese è pronto a collaborare in tutti i modi possibili.» «Dica ai suoi superiori del Dipartimento Affari Nazionali», replicò Pitt, «o a quelli che sono i suoi veri padroni, che non sono affatto furbi come credono.» «La riunione è finita», dichiarò Starger. «Considereremo le varie possibilità e domani a quest'ora informeremo il suo governo delle nostre azioni.» Matos cercò di recuperare un brandello di dignità. Si guardò intorno con aria severa. Quando parlò, lo fece a voce più bassa. «Devo avvertirvi che un tentativo d'inviare in Messico le vostre forze speciali...» Sandecker l'interruppe. «Le do ventiquattr'ore di tempo per mandare la deputata Smith e il mio vicedirettore Rudi Gunn al valico di frontiera fra Mexicali e Calexico. Basterà un minuto di ritardo perché ci vada di mezzo molta gente.» «Lei non ha l'autorità per fare simili minacce.» «Quando dirò al mio presidente che le vostre forze della sicurezza stanno torturando la Smith e Gunn per costringerli a rivelare segreti di Stato, non so come reagirà.» Matos sgranò gli occhi inorridito. «Ma è una menzogna! Un'invenzione!» Sandecker sorrise con aria gelida. «Visto? Anch'io so inventare i fatti.» «Le do la mia parola...» «È tutto, señor Matos», disse Starger. «La prego d'informare il mio ufficio di ogni ulteriore sviluppo.» Quando il funzionario di Mexicali lasciò la sala conferenze, aveva l'aspetto di un uomo che aveva visto la moglie scappare con l'idraulico e il cane venire travolto dal furgone del lattaio. Non appena fu uscito, Ragsdale, che aveva ascoltato in silenzio, si rivolse a Gaskill. «Be', se non altro, non sanno che abbiamo scoperto il loro magazzino pieno di merce rubata.» «Speriamo che rimangano all'oscuro ancora per un paio di giorni.» «Avete fatto l'inventario della roba?» chiese Pitt. «Ci vorranno diverse settimane per un elenco completo.» «Ricorda di aver visto qualche idolo religioso degli Indiani del sudovest, scolpiti in legno di pioppo?»
Gaskill scosse la testa. «No.» «Per favore, se li trova, me lo faccia sapere. Ho un amico che vorrebbe riaverli.» Ragsdale si rivolse a Sandecker. «Come vede la situazione, ammiraglio?» «Gli Zolar hanno promesso la luna», rispose Sandecker. «Comincio a credere che se li arrestassero metà dei cittadini dello Stato del Sonora insorgerebbero per liberarli dalla prigione.» «Gli Zolar non permetteranno a Rudi e a Loren di parlare», disse Pitt. «Mi dispiace doverlo ammettere», mormorò Ragsdale, «ma potrebbero essere già morti.» Pitt scosse la testa. «Non posso crederlo.» Sandecker si alzò e incominciò a camminare avanti e indietro per sfogare la frustrazione. «Anche se il presidente approverà uno sconfinamento clandestino, la nostra squadra speciale non ha informazioni che possano guidarla al luogo in cui Loren e Rudi sono prigionieri.» «Io penso che gli Zolar li tengano sulla montagna», disse Giordino. Starger annuì. «Probabilmente ha ragione. L'hacienda che hanno usato come quartier generale per la ricerca del tesoro risulta deserta.» Ragsdale sospirò. «Se la Smith e Gunn sono ancora vivi, temo che non lo resteranno a lungo.» «E noi non possiamo fare altro che stare a guardare», disse Starger, esasperato. Ragsdale guardò il confine. «L'FBI non può organizzare un'irruzione in territorio messicano.» «E neppure la Dogana», precisò Gaskill. Pitt guardò per un momento i due agenti federali. Po si rivolse a Sandecker. «Loro no, ma può farlo la NUMA.» Gli altri lo fissarono senza capire. «Cosa possiamo fare?» chiese Sandecker. «Entrare in Messico e liberare Loren e Rudi senza causare un incidente internazionale.» «Sicuro», rise Gaskill. «Passare il confine non sarebbe un problema; ma gli Zolar hanno dalla loro parte i militari e la polizia del Sonora. Le foto dei satelliti mostrano la presenza di forze di sicurezza sulla cima del Cerro el Capirote e intorno alla base. Comincerebbero a spararvi già dieci chilometri prima di raggiungere la montagna.» «Ma io non ho intenzione di arrivare là con una macchina o a piedi»,
mormorò Pitt. Starger lo fissò e sorrise. «Cosa può fare la NUMA che non possano fare l'FBI e la Dogana? Nuotare nel deserto?» «No», rispose Pitt nel tono più serio del mondo. «Nuotarci sotto.» PARTE QUARTA VIAGGIO NELL'INCUBO
48.
31 ottobre 1998 Satan's Sink, Baja, Messico Nelle colline aride all'estremità settentrionale della Sierra el Mayor, circa cinquanta chilometri a sud di Mexicali, c'è una galleria naturale che si apre nel fianco di un dirupo. Scavata milioni di anni fa dall'azione turbolenta di un antico mare, il corridoio discende sul fondo di una piccola caverna, scolpita nella roccia vulcanica dalle acque del Pliocene e più di recente dalla sabbia portata dal vento. Sul fondo della caverna una polla d'acqua emerge dal deserto. A parte la colorazione azzurro cobalto, è così limpida da apparire invisibile e, al livello del suolo, il pozzo sembra senza fondo. Satan's Sink non ha la forma del pozzo sacro del Perù, pensò Pitt, guardando il cavo di nylon giallo che scendeva nelle profondità trasparenti. Era seduto su una roccia vicino all'acqua. I suoi occhi erano oscurati dalla preoccupazione, e le mani stringevano leggermente il cavo di nylon avvolto intorno al tamburo di un verricello. Ottanta metri al di sopra del fondo del pozzo, l'ammiraglio Sandecker era seduto su una sedia pieghevole accanto a un furgone Chevrolet 1951 da mezza tonnellata, malconcio e arrugginito, che avrebbe dovuto essere demolito anni prima. Dietro stava parcheggiata un'altra automobile, una logora station wagon Plymouth Belvedere del 1968. Tutti e due avevano targhe di Baja California Norte. Sandecker teneva con una mano una lattina di birra Coors e con l'altra reggeva un binocolo accostato agli occhi per studiare il paesaggio circostante. Era vestito in modo intonato al vecchio camion, e sembrava uno dei tanti pensionati giramondo che si accampano nella penisola della Baja California per spendere meno. Era sorpreso di vedere tante piante fiorite nel deserto di Sonora, nonostante la scarsità d'acqua e il clima che passa dalle notti sottozero durante l'inverno a un caldo estivo che produce temperature da altoforno. In lontananza c'era una piccola mandria di cavalli al pascolo. Quando si fu convinto che gli unici esseri viventi nelle immediate vicinanze erano un crotalo rosso che prendeva il sole su una roccia e un coniglio selvatico dalla coda nera che si era avvicinato a balzi per guardarlo e poi era schizzato via, si alzò e scese il pendio che portava al pozzo. «I tutori della legge non si sono ancora fatti vedere?» chiese Pitt. «Qui intorno ci sono soltanto serpenti e conigli», borbottò Sandecker.
Indicò l'acqua. «Da quanto tempo sono giù?» Pitt diede un'occhiata all'orologio. «Da trentotto minuti.» «Mi sentirei più tranquillo se usassero un equipaggiamento professionale invece del vecchio materiale da sub prestato dagli agenti della Dogana locale.» «Ogni minuto conta, se vogliamo salvare Loren e Rudi. Risparmiamo sei ore facendo una ricognizione esplorativa adesso per vedere se il mio piano ha qualche possibilità di riuscita. Lo stesso tempo che il nostro equipaggiamento modernissimo impiegherà per arrivare da Washington a Calexico.» «È una pazzia tentare un'operazione cosi pericolosa», commentò Sandecker con voce stanca. «Abbiamo alternative?» «Non me ne viene in mente nessuna.» «Allora dobbiamo tentare», disse Pitt con fermezza. «Non sa neppure se ha la più remota possibilità di...» «Il segnale!» Pitt interruppe l'ammiraglio mentre il cavo si tendeva nelle sue mani. «Stanno risalendo.» Pitt tirò il cavo, Sandecker tenne il verricello fra le ginocchia e girò la manovella. Incominciarono a riportare in superficie i due sub che si erano addentrati nel pozzo per circa duecento metri. Dopo un interminabile quarto d'ora emerse il nodo rosso che era il terzo segnale, a cinquanta metri. «Appena cinquanta metri», commentò Sandecker. Girava la manovella per cercare di attenuare la fatica di Pitt che aveva la parte più pesante del compito. L'ammiraglio era un salutista convinto, faceva chilometri di jogging ogni giorno e ogni tanto si allenava nel centro ginnico della NUMA; tuttavia lo sforzo di tirare senza soste un peso morto spingeva i battiti del suo cuore vicino alla linea di pericolo. «Li vedo», ansimò in tono di sollievo. Pitt lasciò il cavo e sedette per riprendere fiato. «Adesso possono risalire da soli.» Giordino fu il primo a emergere. Si tolse le bombole dalle spalle e le passò a Sandecker. Poi tese la mano a Pitt che s'inclinò all'indietro e lo fece uscire dall'acqua. Poi fu la volta del dottor Peter Duncan, un idrologo del Geological Survey, che era arrivato a Calexico con un volo charter un'ora dopo che Sandecker lo aveva contattato a San Diego. In un primo momento aveva pensato che l'ammiraglio scherzasse quando parlava di un fiume sotterraneo; ma la curiosità aveva vinto lo scetticismo e aveva ab-
bandonato tutto per partecipare all'immersione esplorativa. Sputò il boccaglio dell'erogatore. «Non avevo mai visto una sorgente d'acqua così vasta», dichiarò fra un respiro e l'altro. «Avete trovato un accesso al fiume.» Le parole di Pitt non erano una domanda ma una constatazione. «Il pozzo scende per una sessantina di metri prima d'incontrare un corso d'acqua orizzontale che passa per centoventi metri attraverso una serie di strette spaccature e finisce nel fiume», spiegò Giordino. «È possibile far passare un'imbarcazione?» chiese Pitt. «In certi punti si restringe un po', ma credo che possiamo farcela.» «La temperatura dell'acqua?» «Venti gradi centigradi: abbastanza fresca, però sopportabile.» Duncan si tolse il cappuccio, rivelando la folta barba rossa. Non cercò di uscire dall'acqua. Si appoggiò con le braccia sul bordo e continuò a parlare, eccitato. «Quando mi ha descritto un grande fiume con una corrente di nove nodi che scorre sotto il deserto di Sonora... be', non ci avevo creduto. E adesso che l'ho visto con i miei occhi, sono ancora scettico. Penso che ogni anno là sotto scorrano milioni di metri cubi d'acqua.» «Pensate che sia lo stesso fiume sotterraneo che passa sotto il Cerro el Capirote?» chiese Sandecker. «Non c'è il minimo dubbio», rispose Duncan. «E adesso che l'ho visto, sono pronto a scommettere che è lo stesso fiume che secondo Leigh Hunt scorreva sotto le Castle Dome Mountains.» «Quindi è probabile che esista anche il suo canyon pieno d'oro», sorrise Pitt. «Conosce la leggenda?» «Non è più una leggenda, ormai.» Sulla faccia di Duncan apparve un'espressione soddisfatta. «Già, è vero.» «Per fortuna eravamo assicurati a un cavo fisso», osservò Giordino. Duncan annui. «Sono perfettamente d'accordo. Senza quello, saremmo stati trascinati via dal fiume quando siamo usciti dal torrente che alimenta il pozzo.» «E sareste andati a raggiungere i due sub che finirono nel golfo di California», concluse Pitt. «Non posso fare a meno di chiedermi dove sia la sorgente», mormorò Sandecker.
Giordino si passò una mano fra i capelli ricciuti. «I più moderni strumenti geofisici a penetrazione del terreno non dovrebbero aver problemi nel seguirne il corso.» «È impossibile prevedere l'importanza che una scoperta del genere può avere per il sud-ovest afflitto dalla siccità», disse Duncan, ancora emozionato da quanto aveva visto. «Potrebbe fruttare migliaia di posti di lavoro, milioni di ettari da coltivare, pascoli per il bestiame. Forse potremmo vedere il deserto trasformato nel giardino dell'Eden.» «I ladri annegheranno nell'acqua che trasforma il deserto in un giardino», disse Pitt guardando il pozzo azzurro e trasparente e ricordando le parole di Billy Yuma. «Che cosa?» domandò incuriosito Giordino. Pitt scosse la testa e sorrise. «È soltanto un vecchio proverbio indiano.» Giordino e Duncan portarono l'equipaggiamento alla superficie, quindi si tolsero le tute mentre Sandecker caricava il materiale sulla station wagon. Pitt, al volante del vecchio camion, gli si fermò accanto. «Ci vediamo qui fra due ore», annunciò all'ammiraglio. «Le dispiace dirmi dove ha intenzione di andare?» «Vado a parlare con un tale che dovrebbe reclutare un esercito.» «È qualcuno che conosco?» «No. Ma se le cose vanno come spero, prima del tramonto potrà stringergli la mano e decorarlo con una medaglia.» Gaskill e Ragsdale si trovavano nel piccolo aeroporto a ovest di Calexico, sul lato statunitense del confine, quando l'aereo della NUMA atterrò e andò a fermarsi accanto a un grosso furgone della Dogana. Avevano appena cominciato a trasferire l'equipaggiamento dalla stiva dell'aereo al furgone quando Sandecker e Giordino arrivarono a bordo della station wagon. Il pilota andò a salutarli. «Abbiamo dovuto sgobbare per procurarvi tutto quello che avete chiesto, ma ce l'abbiamo fatta.» «I nostri tecnici sono riusciti ad abbassare il profilo dell'hovercraft come vuole Pitt?» chiese Giordino. «È stata un'impresa miracolosa.» Il pilota sorrise. «Ma i ragazzi prodigio dell'ammiraglio mi hanno detto di riferire che hanno modificato il Wallowing Windbag riducendolo a un'altezza massima di sessantuno centimetri.» «Ringrazierò tutti personalmente quando tornerò a Washington», disse con calore Sandecker.
«Vuole che rientri alla base?» gli chiese il pilota. «O devo restare qui?» «Rimanga vicino al suo aereo, nel caso avessimo bisogno di lei.» Avevano appena finito di caricare il furgone e stavano chiudendo il portellone dell'aereo quando Curtis Starger arrivò sfrecciando attraverso la pista al volante di un veicolo della Dogana. Si fermò e balzò a terra come se l'avessero sparato con un cannone. «Ci sono problemi», annunciò. «Di che genere?» chiese Gaskill. «La guardia di confine messicana ha appena chiuso la frontiera a tutto il traffico statunitense diretto nel Messico.» «Anche il traffico commerciale?» «Anche quello. E per aggravare le cose hanno piazzato un reparto di elicotteri militari con l'ordine di costringere all'atterraggio tutti gli aerei e di fermare tutti i veicoli che appaiano sospetti.» Ragsdale guardò Sandecker. «Devono aver saputo qualcosa della sua partita di pesca.» «Non credo. Nessuno ci ha visti entrare e uscire dal pozzo.» Starger rise. «Scommetto che quando il señor Matos è corso a riferire agli Zolar la nostra posizione intransigente, quelli si sono fatti venire la bava alla bocca e hanno obbligato i loro amiconi del governo ad alzare il ponte levatoio.» «Lo penso anch'io», dichiarò Ragsdale. «Avevano una paura matta che gli piombassimo addosso come la carica dei Seicento.» Gaskill si guardò intorno. «Dov'è Pitt?» «È al sicuro dall'altra parte», rispose Giordino. Sandecker batté il pugno sul fianco dell'aereo. «Eravamo arrivati a un passo dal successo», borbottò irosamente. «Un disastro, un maledetto disastro.» «Dobbiamo trovare il modo per portare questa gente e l'equipaggiamento a Satan's Sink», disse Ragsdale agli altri agenti federali. Starger e Gaskill si scambiarono un sogghigno. «Oh, io credo che la Dogana possa rimediare a tutto», dichiarò con fermezza Starger. «Avete un asso nella manica, voi due?» «L'affare Escobar», dichiarò Starger. «Sapete di cosa si tratta?» Ragsdale annuì. «Il traffico di droga.» «Juan Escobar viveva in Messico, appena al di là del confine», spiegò Starger a Sandecker e a Giordino. «Ma gestiva un'officina per la riparazione dei camion da questa parte. Riuscì a far passare parecchi grossi carichi
di stupefacenti prima che la DEA scoprisse il suo gioco. Ci fu un'indagine in collaborazione e i nostri agenti trovarono una galleria lunga centocinquanta metri che partiva dalla sua casa, passava sotto la recinzione del confine e sbucava nell'officina. Arrivammo troppo tardi per arrestarlo. Escobar si mise in allarme, chiuse l'attività prima che potessimo inchiodarlo, e sparì insieme alla famiglia.» «Uno dei nostri agenti», soggiunse Gaskill, «un ispanico nato e cresciuto a East Los Angeles, abita nella casa che era di Escobar e fa la spola attraverso il posto di frontiera, spacciandosi per il nuovo proprietario dell'officina.» Starger sorrise con orgoglio. «La DEA e la Dogana hanno già fatto più di venti arresti in base alle informazioni pervenute loro da altri trafficanti di droga che volevano servirsi della galleria.» «Ha detto che è ancora aperta?» chiese Sandecker. «Non immagina quante volte sia stata utile a noi», rispose Starger. Giordino aveva l'aria di chi si vede offrire la salvezza. «Possiamo far passare il materiale dall'altra parte?» Starger annuì. «Basta entrare con il furgone nell'officina. Farò venire qualcuno dei nostri perché vi aiuti a portare l'equipaggiamento fino alla casa di Escobar passando sotto il confine, e lo carichi sul camion del nostro agente. È un veicolo che tutti conoscono, quindi non vi fermeranno.» Sandecker guardò Giordino. «Bene», disse in tono solenne, «è pronto a scrivere il suo necrologio?» 49. Il demone di pietra attendeva, ignorando stoicamente l'attività che lo circondava. Non sentiva nulla, non poteva voltare la testa e vedere gli sfregi e i crateri aperti nel suo corpo e nell'unica ala rimasta dai proiettili dei soldati messicani che, ridendo, lo avevano usato come bersaglio quando gli ufficiali erano spariti nelle viscere della montagna. Qualcosa, nella pietra scolpita, faceva intuire che i suoi occhi minacciosi avrebbero continuato a scrutare il deserto per secoli dopo che gli intrusi umani fossero morti e dimenticati. Per la quinta volta in quella mattina, un'ombra passò sul demone quando un elicottero scese dal cielo e si posò nell'unico spazio aperto abbastanza grande per atterrare, fra due elicotteri militari e il grande argano alimentato da un gruppo elettrogeno altrettanto imponente.
Sul sedile passeggeri dell'elicottero blu e verde della polizia il comandante di Baja California Norte, Rafael Cortina, guardava pensosamente dal finestrino il movimento sulla cima della montagna. I suoi occhi incontrarono l'espressione malevola del demone di pietra che sembrava ricambiarlo. A sessantacinque anni pensava senza soddisfazione al momento in cui, fra poco, sarebbe andato in pensione. Non lo attirava la prospettiva di un'esistenza noiosa in una casetta affacciata sulla baia a Ensenada e di una pensione che gli avrebbe consentito pochi lussi. La faccia bruna e squadrata rifletteva i quarantacinque anni di carriera. Cortina non era mai stato benvoluto dai colleghi. Lavoratore e onesto, si era vantato di non aver mai incassato una tangente. Neppure un peso in tutti gli anni passati nella polizia. Ma neppure rimproverava gli altri perché accettavano mazzette da noti criminali o da uomini d'affari disonesti che cercavano di sfuggire alle indagini. Se n'era andato per la sua strada, non aveva mai fatto la spia e non aveva mai espresso lamentele o giudizi morali personali. Ricordava con amarezza che era stato scavalcato molte volte per le promozioni. Tuttavia, quando i suoi superiori eccedevano e venivano coinvolti in uno scandalo, i commissari civili si rivolgevano sempre a Cortina, detestato per la sua onestà eppure unico uomo davvero fidato. C'era una ragione per cui Cortina non era mai stato comprato in una terra dove la corruzione era normale. Ogni essere umano aveva un prezzo. Con pazienza, risentita, Cortina aveva atteso fino a che qualcuno non gli aveva offerto quel prezzo. Se doveva vendersi, non l'avrebbe fatto per poco. E i dieci milioni di dollari offerti dagli Zolar per la collaborazione, al di là dell'approvazione ufficiale per l'asportazione del tesoro, erano sufficienti a fare in modo che sua moglie, i quattro figli e le relative mogli e gli otto nipoti si godessero la vita nel Messico rinnovato grazie al trattato del NAFTA. Al contempo, però, sapeva che era finita l'epoca in cui si chiudevano gli occhi e si tendeva la mano. Gli ultimi due presidenti messicani avevano ingaggiato una guerra senza esclusione di colpi contro la corruzione dei burocrati. E la legalizzazione e il blocco dei prezzi di certe droghe avevano inferto ai trafficanti un colpo che aveva ridotto i loro profitti dell'ottanta per cento, e di due terzi il volume del loro commercio di morte. Cortina scese dall'elicottero e si trovò davanti uno degli uomini di Amaru. Ricordava di averlo arrestato a La Paz per rapina a mano armata e di aver contribuito a farlo condannare a cinque anni. Non riuscì a capire se il delinquente l'avesse riconosciuto. Lo fece entrare in una roulotte di allu-
minio portata in aereo da Yuma e usata come ufficio per il programma di recupero del tesoro. Rimase sorpreso nel vedere alle pareti alcuni quadri a olio dei più noti artisti del sud-ovest. Nella roulotte rivestita da ricchi pannelli, seduti intorno a un tavolo francese del Secondo Impero, c'erano Joseph Zolar, i suoi due fratelli, Fernando Matos del Dipartimento Affari Nazionali e il colonnello Roberto Campo, comandante delle Forze Armate nella Baja Peninsula. Cortina accennò un inchino e sedette. Spalancò gli occhi quando una cameriera molto carina gli portò un bicchiere di champagne e un piatto di storione affumicato coperto di caviale. Zolar indicò uno schizzo del passaggio che conduceva alle caverne. «Non è un lavoro facile, lasciate che ve lo dica: bisogna trasportare tutto l'oro attraverso un fiume profondo sotto il deserto, e poi risalire uno stretto corridoio fino alla cima della montagna.» «Va tutto bene?» chiese Cortina. «È troppo presto per darci alla pazza gioia», rispose Zolar. «La parte più faticosa, trascinare fuori la catena di Huascar, è già in corso. Quando raggiungerà la superficie...» S'interruppe per consultare l'orologio «...cioè fra mezz'ora, la taglieremo in sezioni per caricarla e scaricarla più in fretta. Sarà ricomposta quando l'avremo portata al sicuro nel nostro magazzino in Marocco.» «Perché in Marocco?» chiese Fernando Matos. «Perché non nel magazzino di Galveston o nella tenuta di Douglas in Arizona?» «Per precauzione. È una collezione di oggetti che non possiamo correre il rischio d'immagazzinare negli Stati Uniti. Abbiamo un accordo con il comandante militare marocchino che protegge le nostre spedizioni. E il Marocco è un comodo centro di distribuzione per inviare la merce in Europa, in Sudamerica e in Estremo Oriente.» «Come intendete portar fuori il resto delle antichità?» chiese Campos. «Quando le avremo trasportate attraverso il fiume sotterraneo con le zattere, le traineremo su per il passaggio grazie a una serie di piattaforme e pattini.» «Allora l'argano che ho requisito è utile?» «Un dono di Dio, colonnello», rispose Oxley. «Entro le otto di questa sera i suoi uomini dovrebbero finire di caricare gli oggetti d'oro sugli elicotteri che ha messo gentilmente a nostra disposizione.» Cortina teneva in mano il bicchiere di champagne, ma non beveva. «C'è
un modo per misurare il peso del tesoro?» «Il professor Moore e sua moglie lo stimano sulle sessanta tonnellate.» «Mio Dio», mormorò il colonnello Campos, un uomo imponente dai folti capelli grigi. «Non avevo idea che fosse così grande.» «I documenti storici non ci hanno fornito un inventario completo», spiegò Oxley. «E il valore?» chiese Cortina. «La nostra stima iniziale», dichiarò Oxley, «era duecentocinquanta milioni di dollari americani. Ma credo si possa dire che è più vicino ai trecento milioni.» La cifra indicata da Oxley era inventata. Il solo valore dell'oro al prezzo di mercato era prossimo ai settecento milioni di dollari: un dato emerso dopo l'inventario dei Moore. E il valore storico dell'insieme dagli oggetti faceva raggiungere il miliardo di dollari sul mercato clandestino. Zolar si rivolse a Cortina e a Campos con un gran sorriso. «E questo significa, signori, che possiamo aumentare in misura considerevole la somma destinata alla popolazione di Baja California Norte.» «Sarà più che sufficiente per le opere pubbliche previste dal vostro governo», soggiunse Sarason. Cortina lanciò un'occhiata di straforo a Campos e si chiese quanto avrebbe incassato il colonnello per guardare dall'altra parte mentre gli Zolar portavano via il grosso del tesoro, inclusa l'enorme catena d'oro. Matos, poi, era un enigma. Non capiva in che modo il funzionario governativo rientrasse nei piani. «Alla luce dell'aumento del valore, credo che dovrebbe esserci una gratifica.» Campos afferrò al volo l'allusione di Cortina. «Sì, sono d'accordo con il mio buon amico Rafael. Non è stato facile, per me, chiudere il confine.» È la prima volta che mi chiama per nome, pensò Cortina, divertito. E sì che ci conosciamo da dieci anni e ci incontriamo ogni tanto per discutere questioni di carattere poliziesco e militare... Sapeva che Campos si sarebbe irritato se non avesse fatto altrettanto, e perciò disse: «Roberto ha ragione. Gli uomini d'affari e i politici locali stanno già protestando per il blocco dell'afflusso turistico e del traffico commerciale. Dovremo dare tutti e due molte spiegazioni ai nostri superiori». «E non capiranno quando gli direte che l'avete fatto per impedire agli agenti federali americani di attraversare illegalmente il confine per confiscare il tesoro?» chiese Oxley. «Vi assicuro che il Dipartimento Affari Nazionali collaborerà in tutti i
modi per sostenere la vostra posizione», dichiarò Matos. «Forse...» Cortina alzò le spalle. «Chi può sapere se il nostro governo crederà alla nostra versione oppure farà processare me e il colonnello Campos per aver abusato della nostra autorità?» «La sua gratifica...» disse Zolar a Cortina. «Che cosa vorrebbe?» Senza batter ciglio, Cortina rispose: «Altri dieci milioni di dollari in contanti». Campos rimase sbalordito per un istante, ma poi si associò a Cortina. «Il comandante Cortina parla per tutti e due. Considerati i rischi e il valore accresciuto del tesoro, non è esagerato chiedere dieci milioni in contanti più di quanto prevedeva l'accordo originale.» Sarason intervenne. «Naturalmente si renderà conto che il valore di stima è ben lontano dal prezzo che finiremo per incassare. Il comandante Cortina sa che i gioielli rubati vengono raramente ricettati per più del venti per cento del vero valore.» Zolar e Oxley rimasero impassibili, ma sapevano che nell'elenco dei loro clienti c'erano più di mille collezionisti smaniosi di acquistare oggetti d'oro a prezzi astronomici. «Dieci milioni», ripeté Cortina in tono inflessibile. Sarason continuò a mercanteggiare. «È una somma colossale», protestò. «La protezione che vi assicuriamo contro le forze dell'ordine statunitensi e messicane rappresenta solo la metà del nostro impegno», gli ricordò Cortina. «Senza gli elicotteri da trasporto del colonnello Campos per portare l'oro nel luogo del trasbordo nel Desierto de Aitar, non potreste far nulla.» «E senza la nostra partecipazione alla scoperta, non potreste far nulla neppure voi», ribatté Sarason. Cortina allargò le mani in un gesto indifferente. «Non posso negare che abbiamo bisogno l'uno dell'altro. Ma sono convinto che sarebbe nel vostro interesse comportarvi con generosità.» Sarason guardò i fratelli. Zolar annuì impercettibilmente. Dopo un attimo, Sarason si girò verso Cortina e Campos e fece un gesto rassegnato. «Ci rendiamo conto di aver perso. Consideratevi più ricchi di altri dieci milioni di dollari.» Il carico massimo che l'argano poteva rimorchiare era cinque tonnellate e quindi la catena di Huascar doveva essere tagliata a metà e portata fuori in due pezzi. I soldati del genio avrebbero poi costruito una zattera con le assi requisite in una segheria vicina per trasportare la parte più massiccia
del tesoro attraverso il fiume sotterraneo. Soltanto il trono d'oro risultava troppo pesante per la zattera. Quando la catena di Huascar fosse stata trainata in cima alla montagna, il cavo dell'argano avrebbe dovuto essere riportato nella caverna e fissato a un'imbracatura avvolta intorno al trono. A un segnale, quest'ultimo sarebbe stato trascinato attraverso il fondo del fiume sino alla terraferma. Poi i genieri, con l'aiuto degli uomini di Amaru, l'avrebbero caricato su una slitta per il viaggio finale nelle viscere della montagna. Una volta usciti dal Cerro el Capirote, il tesoro sarebbe stato caricato su mezzi che gli artigiani incaici, creatori dei capolavori aurei, non avrebbero mai potuto immaginare: uccelli che volavano senza le ali, chiamati elicotteri. Sull'isola del tesoro, Micki Moore catalogava e preparava descrizioni dei pezzi mentre Henry li misurava e li fotografava. Dovevano lavorare in fretta. Amaru spronava i genieri a portar via tutto, e la piccola montagna di antichità preziose rimpiccioliva a un ritmo impressionante. Inca e chachapuyas avevano impiegato sei giorni per portarla nella caverna, ma l'equipaggiamento moderno poteva rimuoverla in dieci ore. Micki si avvicinò al marito e mormorò: «Non posso». Moore la guardò. Gli occhi di Micki parevano rispecchiare l'oro che brillava sotto i riflettori. «Non voglio quest'oro.» «Perché?» chiese il marito a voce bassa. «Non so spiegarlo. Mi sento già abbastanza sporca. Sento che anche tu la pensi come me. Dobbiamo fare qualcosa per salvarlo dalle mani di Zolar.» «E il nostro piano? Dovevamo eliminare gli Zolar e prendere il tesoro dopo che fosse stato caricato sull'aereo nel Desierto de Aitar...» «Non ne avevamo ancora visto le dimensioni e la magnificenza. Ammettiamolo, Henry, questa faccenda è troppo grossa per noi.» Moore divenne pensieroso. «È il momento meno adatto per dare ascolto alla coscienza», mormorò. «La coscienza non c'entra. È ridicolo pensare che tu e io, da soli, riusciremmo a scaricare tonnellate di oggetti antichi. Affrontiamo la realtà. Noi non abbiamo né l'organizzazione né i contatti per vendere un tesoro simile sul mercato clandestino.» «Non dovrebbe essere difficile vendere la catena di Huascar.» Micki lo guardò a lungo negli occhi. «Tu sei un ottimo antropologo e io un'ottima archeologa. E siamo abilissimi anche nel lanciarci di notte dagli
aerei in Paesi stranieri e nell'uccidere certa gente. Ma non siamo esperti in furti di oggetti antichi. E poi, odiamo questa gente. Dammi ascolto. Cerchiamo di non disperdere il tesoro, facciamo qualcosa per evitare che venga smembrato e nascosto nelle camere blindate di un branco di sciacalli mossi soltanto dall'avidità e accecati dalla quantità di soldi che potrebbero ricavare dalla vendita dell'oro.» «Devo ammettere», disse stancamente Moore, «che anch'io avevo qualche riserva. Cosa proponi di fare?» «Quello che è giusto», rispose lei. Per la prima volta, Moore vide spuntare la compassione negli occhi della moglie. La donna gli parve più bella che mai. Micki l'abbracciò. «Non dobbiamo più uccidere. Questa volta non saremo costretti a nasconderci quando avremo concluso l'operazione.» Moore le prese la testa fra le mani e la baciò. «Sono fiero di te, cara.» Micki lo scostò, spalancando gli occhi. Aveva ricordato qualcosa. «Gli ostaggi. Gli ho promesso che li avremmo salvati, se avessimo potuto.» «Dove sono?» «Ammesso che siano ancora vivi, dovrebbero trovarsi in superficie.» Moore si guardò intorno e vide che Amaru dirigeva la rimozione delle mummie dei guardiani dalla cripta. Gli Zolar intendevano lasciare le caverne completamente vuote, come le avevano trovate gli inca. Non sarebbe rimasto nessun oggetto di valore. «Abbiamo un inventario particolareggiato», disse Moore alla moglie. «Andiamo». Salirono su una slitta carica di animali d'oro che veniva rimorchiata verso l'esterno. Quando uscirono alla luce del sole si guardarono intorno, ma non videro Loren Smith e Rudi Gunn. Ormai era troppo tardi perché i Moore potessero rientrare nella montagna. Loren rabbrividiva. Gli indumenti laceri non la proteggevano dalla fredda umidità della caverna. Gunn la cinse con un braccio per riscaldarla. La minuscola camera scelta come loro prigione era poco più di un anfratto nel calcare. Non c'era spazio per stare in piedi e ogni volta che cercavano di muoversi per trovare una posizione più comoda o per scaldarsi, la guardia infilava il calcio del fucile attraverso l'apertura. Dopo che le due sezioni della catena d'oro erano state trainate lungo il passaggio, Amaru li aveva costretti a scendere dalla cima della montagna
fino alla piccola cavità dietro la cripta dei guardiani. All'insaputa dei Moore, Loren e Rudi erano stati imprigionati prima che gli scienziati uscissero dalla caverna del tesoro. «Vorremmo un po' d'acqua», disse Loren alla guardia. L'uomo si voltò a guardarla. Era enorme, spaventoso, con la faccia ripugnante, le labbra carnose, il naso rincagnato e un occhio solo. L'occhiaia vuota era scoperta e gli conferiva una bruttezza non inferiore a quella di Quasimodo. Loren rabbrividì, non per il freddo bensì per la paura. Sapeva che un atteggiamento sprezzante poteva risultare controproducente, ma non gliene importava più. «Acqua, imbecille. Hai capito? Agua!» L'uomo le lanciò uno sguardo crudele e sparì. Dopo pochi minuti tornò e buttò nella cavità una borraccia d'acqua. «Credo che ti sia fatta un amico», mormorò Gunn. «Se spera di ottenere un bacio al primo appuntamento», disse Loren mentre stappava la borraccia, «sarà meglio che cambi idea.» Offrì l'acqua a Gunn, che scosse la testa. «Prima le signore». Loren bevve un sorso e gli passò l'acqua. «Chissà dove sono finiti i Moore.» «Forse non sanno che ci hanno trasferiti in questa buca.» «Ho paura che gli Zolar abbiano intenzione di seppellirci vivi», sussurrò Loren. Le lacrime le salirono agli occhi per la prima volta. Cominciava a cedere. Aveva sopportato le percosse e i maltrattamenti; ma ormai sembrava che lei e Gunn fossero stati abbandonati da tutti, e la fioca speranza che l'aveva sorretta s'era quasi spenta. «C'è ancora Dirk», le ricordò Gunn. Lei scosse la testa. Non voleva far vedere che piangeva. «Smettila, per favore. Anche se fosse ancora vivo, Dirk non potrebbe entrare in questa maledetta montagna con una divisione di Marine per raggiungerci in. tempo.» «Se non lo conosco male, non avrà bisogno di una divisione di Marine.» «È soltanto un essere umano. Sarebbe l'ultimo a considerarsi capace di fare miracoli.» «Finché siamo ancora vivi ed esiste una possibilità», disse Gunn, «è la sola cosa che conta.» «Ma per quanto tempo?» Loren scosse tristemente la testa. «Un paio di minuti o un paio d'ore? La verità è che in pratica siamo già morti.»
Quando la prima sezione della catena fu trascinata alla luce, tutti coloro che si trovavano sulla vetta andarono ad ammirarla. La vista di una simile massa d'oro mozzava il respiro. Nonostante la polvere e le concrezioni di calcite, l'oro giallo brillava accecante sotto il sole di mezzogiorno. In tutti gli anni in cui si erano dedicati al furto e al traffico di antichità, gli Zolar non avevano mai visto un capolavoro artistico tanto splendido. Nessun oggetto prezioso poteva uguagliarlo. Al mondo non c'erano che quattro collezionisti in grado di acquistare l'intero pezzo. Lo spettacolo raddoppiò di grandiosità quando la seconda sezione della catena fu estratta dall'imboccatura del passaggio e deposta accanto alla prima. «Madre celeste!» esclamò il colonnello Campos. «Gli anelli sono grossi come il polso di un uomo.» «È difficile credere che gli Inca fossero tanto abili nelle tecniche della metallurgia», mormorò Zolar. Sarason s'inginocchiò per studiare gli anelli. «Il pregio artistico e la raffinatezza sono fenomenali. Ogni anello è perfetto. Non ci sono difetti.» Cortina si avvicinò a uno degli anelli terminali e lo sollevò con uno sforzo considerevole. «Devono pesare all'incirca cinquanta chili l'uno.» «È davvero distante anni luce da qualunque altra scoperta», commentò Oxley, che quasi tremava di fronte a quello spettacolo incredibile.» Sarason distolse lo sguardo dalla catena e fece un cenno ad Amaru. «Falla caricare subito sull'elicottero da trasporto.» L'assassino annui in silenzio e cominciò a dare ordini ai suoi uomini e a una squadra di soldati. Anche Cortina, Campos e Matos diedero una mano. Con l'aiuto di un carrello elevatore a forche e con grande fatica, le due sezioni furono issate a bordo di due elicotteri militari e trasportate alla pista d'atterraggio nel deserto. Zolar rimase a guardare fino a quando gli elicotteri non divennero due minuscoli punti nel cielo. «Ormai niente ci può fermare», annunciò allegramente ai fratelli. «Ancora qualche ora e saremo lontani con il più grande tesoro conosciuto dall'uomo.» 50. Secondo Sandecker, il piano per entrare nel Cerro el Capirote dall'ingresso posteriore e salvare Loren Smith e Rudi Gunn era poco meno di un suicidio. Comprendeva bene le ragioni per cui Pitt intendeva rischiare la vita: salvare dalla morte la donna amata e un caro amico, pareggiare il con-
to con un paio di assassini, e strappare un tesoro prodigioso dalle mani di una banda di ladri. Ma sapeva pure che Pitt univa a questi motivi (più che validi per la maggioranza degli uomini) anche il desiderio di sfidare l'ignoto, di farsi beffe del diavolo e di vincere nonostante le schiaccianti probabilità contrarie. Ecco quali erano i suoi veri incentivi. In quanto a Giordino, data l'amicizia che li legava fin dall'infanzia, Sandecker era certo che sarebbe stato disposto a seguire Pitt anche attraverso un mare di lava fusa. Sandecker avrebbe potuto fermarli. Ma non aveva costruito quella che molti giudicavano l'organizzazione più efficiente del governo senza correre la sua parte di rischi. L'abitudine di non andare al passo con la Washington ufficiale faceva sì che fosse rispettato e invidiato. Gli altri direttori di organizzazioni a livello nazionale non avrebbero mai preso in esame un progetto rischioso che poteva comportare il biasimo del Congresso e le dimissioni forzate per ordine del presidente. L'unico rammarico di Sandecker era di non poter partecipare personalmente all'avventura. Portò un carico di attrezzature da sub dal vecchio Chevrolet nella galleria tubolare e si fermò a guardare Peter Duncan, seduto sull'orlo del pozzo e intento a sovrapporre una mappa topografica trasparente a quella idrografica dei sistemi sotterranei conosciuti. Le due carte erano nella stessa scala, e questo permetteva a Duncan di seguire il corso approssimativo del fiume sotterraneo. Intorno a lui, gli altri stavano preparando l'attrezzatura. «In linea d'aria», disse Duncan senza rivolgersi a qualcuno in particolare, «la distanza fra il Satan's Sink e il Cerro el Capirote è all'incirca trenta chilometri.» Sandecker guardò l'acqua. «Quale capriccio della natura ha formato il canale del fiume?» «Sessanta milioni d'anni fa», rispose Duncan, «un terremoto aprì una faglia nel calcare e permise all'acqua di entrare e di scavare una serie di caverne collegate tra loro.» L'ammiraglio si rivolse a Pitt. «Quanto tempo crede che ci vorrà per arrivare?» «Con una corrente di nove nodi», disse Pitt, «dovremmo arrivare alla caverna del tesoro in tre ore.» Duncan sembrava incerto. «Non ho mai visto un fiume che non sia tortuoso. Al suo posto aggiungerei altre due ore al momento previsto per l'arrivo.» «Il Wallowing Windbag ce la farà in tempo», disse fiducioso Giordino
mentre si spogliava. «Solo se troverete sempre la strada libera. Ma state per addentrarvi nell'ignoto. È impossibile prevedere le difficoltà che incontrerete. Passaggi sommersi che si estendono per dieci o più chilometri, cascate alte quanto un palazzo di dieci piani, rapide non navigabili fra le rocce. I canoisti hanno un detto: se c'è una roccia, ci vai a sbattere. Se c'è un gorgo, ci finisci dentro.» «Non c'è altro?» sorrise Giordino, per nulla turbato dalle nere previsioni di Duncan. «Che so, vampiri o mostri con sei fauci piene di denti di barracuda che stanno in agguato nelle tenebre per divorarci?» «Sto solo cercando di prepararvi all'inaspettato», ribatté Duncan. «L'unica cosa che posso dire per infondervi un minimo di sicurezza è questa: credo che la sezione principale del sistema fluviale scorra in una faglia. Se ho ragione, il canale sarà tortuoso ma abbastanza pianeggiante.» Pitt gli batté la mano sulla spalla. «Abbiamo capito e la ringraziamo. Ma in questa fase l'unica cosa che possiamo fare Al e io è di sperare nel meglio, aspettarci il peggio, e accontentarci di una via di mezzo.» Sandecker si rivolse a Duncan. «Quando siete passati dal torrente che alimenta il pozzo al fiume vero e proprio», chiese, «c'era una sacca d'aria?» «Sì, la volta di roccia era a una decina di metri dalla superficie del fiume.» «Fin dove si estendeva?» «Tenevamo stretto il cavo per non farci trascinare dalla corrente e abbiamo potuto dare solo un'occhiata. La mia torcia non è riuscita a rivelare la fine della galleria.» «Con un po' di fortuna, faranno l'intero percorso con l'aria.» «Ci vorrà molta fortuna», commentò Duncan in tono scettico e senza staccare gli occhi dalle carte sovrapposte. «Come fiume sotterraneo, questo è davvero enorme. È il corso d'acqua inesplorato più lungo che scorra in una zona carsica.» Giordino, che stava agganciando al braccio un minuscolo portastrumenti con un manometro, una bussola e un profondimetro, si fermò. «Una zona carsica?» «È il termine per indicare una fascia di calcare attraversata da un sistema di corsi d'acqua, passaggi e caverne.» «C'è da chiedersi quanti altri fiumi sconosciuti scorrano sottoterra», disse Pitt. «Leigh Hunt e il suo canyon pieno d'oro sono stati per lungo tempo poco
più che un aneddotto per gli idrologi della California e del Nevada; oggi invece meritano un'indagine approfondita», ammise Duncan. «Dopo quello che avete scoperto qui, posso garantire che anche i più riluttanti dovranno cambiare idea.» «Forse potrò fare qualcosa per la causa», annunciò Pitt, mentre si stringeva al braccio un piccolo computer impermeabile. «Cercherò di programmare un rilevamento e d'inserire i dati sul corso del fiume via via che procediamo.» «Vi sarò grato per tutti i dati scientifici che potrete fornirmi», disse Duncan. «La scoperta di un tesoro sotto il Cerro el Capirote può accendere la fantasia, ma in realtà è trascurabile in confronto a quella di una fonte d'acqua che può trasformare milioni di ettari di deserto in terreni produttivi.» «Forse l'oro potrebbe servire a finanziare i sistemi di pompaggio e le condutture per il progetto», suggerì Pitt. «È un sogno da tenere in considerazione», riconobbe Sandecker. Giordino mostrò la macchina fotografica subacquea. «Le porterò qualche foto.» «Grazie», disse Duncan. «E apprezzerei molto anche un altro favore.» Pitt sorrise. «Sentiamo.» Duncan gli consegnò un pacco di plastica con la forma d'un pallone da basket ma grande la metà. «È un tracciante colorato, chiamato giallo fluorescina con un ravvivatore ottico. Le offrirò il miglior pranzo messicano di tutto il sud-ovest se lo butterà nel fiume quando raggiungerete la camera del tesoro. È tutto. Mentre scenderà il fiume, il contenitore libererà automaticamente il colorante a intervalli regolari.» «Vuole scoprire in quale punto del golfo di California sfocia il fiume sotterraneo?» Duncan annuì. «Ci sarà un importante legame idrologico.» Stava per domandare a Pitt e a Giordino di prelevare qualche campione d'acqua, ma cambiò idea. Aveva già chiesto anche troppo. Se fossero riusciti a navigare sul fiume fino all'interno cavo del Cerro el Capirote, lui e i colleghi avrebbero potuto organizzare più tardi spedizioni scientifiche basate sui dati acquisiti. Pitt e Giordino continuarono i preparativi per altri dieci minuti e ripassarono i piani per il viaggio. Avevano compiuto insieme innumerevoli immersioni in cento condizioni diverse d'acqua e di clima, ma nessuna così lunga nelle viscere della terra. Non intendevano lasciare niente al caso,
come chirurghi che discutono una delicata operazione al cervello. Ne andava della loro sopravvivenza. Furono concordati segnali di comunicazione, interventi nel caso di perdite d'aria, il sistema per gonfiare e sgonfiare il Wallowing Windbag, e i compiti riservati all'uno e all'altro... Tutte le procedure furono discusse e approvate. «Vedo che non ha scelto una muta pressurizzata», osservò Sandecker mentre Pitt indossava una tuta normale. «La temperatura dell'acqua è piuttosto fresca, ma non dovremo preoccuparci dell'ipotermia. Una tuta come questa ci dà maggiore libertà di movimento di una pressurizzata, e sarà quindi molto utile se ci troveremo a lottare in acqua per raddrizzare il Wallowing Windbag in caso venga rovesciato dalle rapide.» Invece di fissarle alla schiena, Pitt agganciò le bombole a un'imbracatura intorno ai fianchi per avere un accesso più facile attraverso le strettoie. Portava addosso anche gli erogatori, i tubi collegati alle valvole, il manometro e una bomboletta piena di ossigeno puro per la decompressione. Poi fu la volta delle cinture zavorrate e dei giubbetti equilibratori. «Niente gas misti?» chiese Sandecker. «Respireremo aria», rispose Pitt mentre controllava gli erogatori. «E il pericolo di una narcosi da azoto?» «Quando saremo usciti dal fondo del pozzo e dalla parte inferiore del ruscello che lo alimenta prima che salga verso il fiume, eviteremo come la peste le immersioni in profondità.» «Mi raccomando di restare al di sopra del margine di sicurezza», disse Sandecker. «Non scendete oltre i trenta metri. E quando sarete a galla, attenti ai macigni sommersi.» L'ammiraglio non disse altro. Non disse: «Se qualcosa va male e vi trovate ad aver bisogno di un aiuto immediato, sarà come se foste sul terzo anello di Saturno». In altre parole, non ci sarebbe stata alcuna possibilità di soccorrerli. Pitt e Giordino compirono un ultimo controllo dell'equipaggiamento sul bordo del pozzo e fecero scattare le fibbie e i fermagli ad apertura rapida per essere certi di potersene liberare agevolmente in caso di emergenza. Non misero i soliti cappucci da sub, bensì caschi da operai edili, con doppie lampade da minatore sulla fronte. Poi si lasciarono scivolare nell'acqua. Sandecker e Duncan sollevarono un lungo contenitore sigillato d'alluminio e si sforzarono di calarlo nel pozzo. Era largo un metro, lungo quattro,
e articolato al centro per poterlo manovrare più agevolmente negli spazi ristretti. Sulla terraferma era pesante a causa della zavorra di piombo necessaria per dargli una galleggiabilità neutra, tuttavia, sott'acqua, un sub poteva muoverlo senza fatica. Giordino strinse il boccaglio fra i denti, assestò la maschera e afferrò la maniglia anteriore del contenitore. Fece un ultimo cenno di saluto mentre spariva sotto la superficie. Pitt alzò la testa e strinse la mano a Duncan. «Qualunque cosa faccia», lo avvertì questi, «non si lasci trascinare dalla corrente oltre la caverna del tesoro. Da quel punto al luogo in cui il fiume sfocia nel golfo di California ci saranno più di centoventi chilometri.» «Non tema. Non resteremo là sotto più del necessario.» «Che Dio vi accompagni», disse Duncan. «Ogni protezione divina sarà molto gradita», replicò Pitt in tono sincero. Poi strinse la mano a Sandecker. «Mi tenga in ghiaccio una tequila, ammiraglio.» «Vorrei che ci fosse un altro modo per entrare nella montagna.» Pitt scosse la testa. «È possibile riuscirci solo per via subacquea.» «E ci riporti Loren e Rudi», concluse Sandecker, che dominava a stento l'emozione. «Li rivedrà presto», promise Pitt. E sparì. 51. La voce dell'operatore radio strappò il capitano Juan Diego dalle sue fantasticherie. Smise di guardare la sua tenda e si voltò verso la montagna conica. Il Cerro el Capirote e il deserto che lo circonda sono di una bruttezza indescrivibile, pensò. Un luogo davvero squallido in confronto allo Stato di Durango dov'era nato. «Sì, sergente, cosa c'è?» L'operatore gli voltava le spalle e Diego non poteva vedere la sua espressione sbalordita. «Ho chiamato le postazioni della sicurezza per ricevere i rapporti che fanno ogni ora, ma il Posto Quattro e il Sei non rispondono.» Diego sospirò. Non aveva certo bisogno di complicazioni impreviste. Il colonnello Campos gli aveva ordinato di formare un perimetro di sicurezza intorno alla montagna, e lui aveva obbedito. Nessuno gli aveva spiegato le ragioni, e lui non le aveva chieste. Pieno di curiosità, poteva solo guardare
gli elicotteri che arrivavano e ripartivano e domandarsi che cosa stava succedendo lassù. «Mettiti in contatto con il caporale Francisco al Posto Cinque e digli di mandare qualcuno a controllare il Quattro e il Sei.» Diego sedette alla scrivania da campo e annotò le mancate risposte sul rapporto quotidiano, attribuendole a un probabile guasto degli apparecchi. Non gli passava per la mente la possibilità che ci fosse un vero problema. «Non riesco a comunicare neppure con Francisco al Posto Cinque», esclamò l'operatore. Diego si voltò. «Sei sicuro che il tuo apparecchio funzioni come si deve?» «Sì, signore. La radio trasmette e riceve perfettamente.» «Prova il Posto Uno.» L'uomo si assestò la cuffia e chiamò. Dopo qualche istante si voltò, alzando le spalle. «Mi dispiace, capitano. Anche il Posto Uno è muto.» «Voglio controllare personalmente», sbottò Diego in tono irritato. Prese una radio portatile, uscì dalla tenda e si avviò verso il suo veicolo. All'improvviso tuttavia si fermò e sgranò gli occhi, allibito. Il veicolo militare era sollevato dal cric sotto la ruota anteriore sinistra, ma la ruota e quella di scorta non c'erano. «Cosa diavolo succede?» borbottò fra sé. Era uno scherzo, oppure il colonnello Campos lo stava mettendo alla prova? Girò sui tacchi per tornare alla tenda, ma si bloccò dopo due passi. Come evocati da un incantesimo, erano apparsi tre uomini che gli sbarrarono la strada. E tutti e tre gli puntavano i fucili al petto. Il primo interrogativo che gli passò per la mente fu: perché quegli indiani vestiti da bovari stanno sabotando il mio equipaggiamento? «Questa è zona militare», esclamò. «Non potete star qui.» «Obbedisci, soldato», disse Billy Yuma, «e ai tuoi non succederà niente di male.» Diego comprese che cosa era successo alle postazioni della sicurezza. Ma era confuso. Non era possibile che pochi indiani catturassero quaranta soldati senza sparare un colpo. Si rivolse a quello che aveva parlato. «Gettate le armi prima che arrivino i miei uomini, o vi arresteremo.» «Mi dispiace informarti, soldato», ribatté Yuma, che si divertiva a intimidire l'ufficiale dall'uniforme ben stirata e dagli stivali lucidi, «che il tuo reparto è stato disarmato e ora viene tenuto sotto guardia.» «Impossibile!» scattò altezzosamente Diego. «Un branco di ratti del de-
serto non può tener testa a militari bene addestrati.» Yuma scrollò le spalle e si girò verso uno dei suoi uomini. «Vai a sistemare la radio che c'è nella tenda in modo che non funzioni.» «Sei pazzo. Non puoi distruggere una proprietà del governo.» «Siete entrati illegalmente nella nostra terra», spiegò Yuma senza alzare la voce. «Qui non avete nessuna autorità.» «Vi ordino di gettare quei fucili», gridò Diego, e cercò di estrarre la pistola. Yuma avanzò d'un passo senza cambiare espressione, e piantò la canna del vecchio Winchester contro lo stomaco del capitano Diego, «Non fare resistenza. Se premo il grilletto, il tuo corpo smorzerà lo sparo e quelli sulla montagna non lo sentiranno.» La pressione dolorosa convinse Diego che quegli uomini non scherzavano. Conoscevano il deserto e sapevano muoversi come fantasmi. Aveva avuto l'ordine d'impedire che si avvicinassero cacciatori e cercatori minerali, ma nessuno aveva parlato di un gruppo armato di indiani in agguato. Porse lentamente la pistola automatica a uno degli uomini di Yuma che la prese e l'infilò nella cintura dei jeans. «Anche la radio portatile, grazie.» Controvoglia, Diego consegnò la radio. «Perché lo fate?» chiese. «Non sapete che è contro la legge?» «Se voi soldati siete al servizio degli uomini che profanano la nostra montagna sacra, siete voi a violare la legge, la nostra legge. Ora basta con le chiacchiere. Venite con noi.» Il capitano Diego e il suo operatore furono condotti su una grande sporgenza di roccia che si protendeva dalla montagna, a circa un chilometro di distanza. E là, dove era impossibile vedere qualcosa dalla vetta della montagna, Diego trovò gli uomini della sua compagnia seduti in gruppo e tenuti sotto tiro da alcuni indiani. I soldati si alzarono e si misero sull'attenti. Sembravano sollevati nel vedere il comandante. Due tenenti e un sergente si avvicinarono e salutarono. «Nessuno è riuscito a scappare?» chiese Diego. Uno dei tenenti scosse la testa. «No, signore. Ci sono piombati addosso prima che potessimo opporre resistenza.» Diego girò lo sguardo sugli indiani che sorvegliavano i suoi. Incluso Yuma erano appena sedici. «Siete soltanto voi?» chiese in tono incredulo. Yuma annuì. «Non avevo bisogno di nessun altro.» «Cosa intendete fare di noi?»
«Niente, soldato. Io e i miei vicini siamo stati attenti a non far male a nessuno. Tu e i tuoi farete una bella siesta per qualche ora, poi sarete liberi di lasciare la nostra terra.» «E se tentassimo di scappare?» Yuma scrollò le spalle, indifferente. «Spareremo a tutti. Pensateci bene, perché i miei sono capaci di colpire un coniglio ih corsa a cinquanta metri.» Yuma aveva detto tutto ciò che aveva da dire. Voltò le spalle al capitano Diego e incominciò a salire una pista quasi invisibile in una spaccatura della parete meridionale della montagna. I montolo non si scambiarono neppure una parola. Come a un ordine tacito, dieci seguirono Billy Yuma, mentre cinque rimasero a fare la guardia ai prigionieri. La salita fu più rapida dell'ultima volta. Yuma ricordava l'esperienza precedente, ed evitava le svolte che portavano a cammini ciechi. Ricordava gli appigli utili e non si serviva di quelli fortemente corrosi. Tuttavia era faticoso procedere su una pista che neppure un mulo da soma avrebbe affrontato volentieri. Avrebbe preferito avere a disposizione un maggior numero di uomini per sferrare l'assalto, ma i dieci che lo seguivano erano i soli che non avessero paura della montagna. O almeno, così dicevano. A Yuma non sfuggiva l'apprensione visibile nei loro occhi. Quando ebbe raggiunto un cornicione piatto, si fermò per riprendere fiato. Il suo cuore cominciava a martellare; ma era dominato dall'energia nervosa di un cavallo da corsa pronto a scattare dalla gabbia. Prese dalla tasca dei pantaloni un vecchio orologio e lo consultò. Annuì fra sé, soddisfatto, e mostrò il quadrante agli altri. Erano in anticipo di venti minuti sul previsto. Lassù, sopra la vetta della montagna, gli elicotteri stavano librati come api intorno a un alveare. Erano così carichi di tesori che stentavano a sollevarsi nel cielo per stabilire una rotta che li avrebbe portati al campo di atterraggio del Desierto de Aitar. Gli ufficiali e i soldati del colonnello Campos lavoravano così in fretta e avevano una tale soggezione del tesoro che nessuno di loro pensò di mettersi in contatto con le forze di sicurezza stazionate intorno alla base della montagna. L'operatore radio che stava sulla cima era troppo occupato a coordinare i movimenti degli elicotteri per chiedere un rapporto al capitano Diego. Nessuno pensò di guardare l'accampamento deserto. Nessuno notò il piccolo gruppo di uomini che stava salendo a passo lento verso la vetta. Però al capo della polizia, Cortina, sfuggivano pochi dettagli. Mentre il
suo elicottero s'innalzava dal Cerro el Capirote per ritornare al suo quartier generale, l'uomo guardò il mostro di pietra e notò qualcosa cui gli altri non avevano prestato attenzione. Cortina era un uomo pratico: chiuse gli occhi e pensò che si fosse trattato di un'illusione ottica, o forse del particolare angolo della visuale. Ma quando tornò a guardare l'antica statua, avrebbe giurato che l'espressione maligna era cambiata. L'aria minacciosa era sparita. Agli occhi di Cortina, un attimo prima che scivolassero fuori dell'inquadratura del finestrino, le fauci zannute del custode dei morti erano atteggiate in un sorriso. 52. Pitt aveva la sensazione di cadere all'interno di una gigantesca cannuccia da bibita piena di una nebbiolina azzurro-cobalto. Le pareti verticali del pozzo erano rotonde e lisce, come se fossero state levigate. Se non avesse potuto vedere il compagno nell'acqua trasparente, pochi metri sotto di lui, gli sarebbe sembrato un pozzo senza fondo. Discese pinneggiando senza fatica e raggiunse Giordino, occupato a rimorchiare il contenitore oltre la curva a gomito al termine del pozzo. Pitt lo aiutò spingendo e poi lo seguì. Diede un'occhiata al profondimetro. L'ago si manteneva in posizione costante vicino ai sessanta metri. A partire da quel punto, mentre il ruscello saliva verso il fiume, la pressione dell'acqua si sarebbe ridotta, e avrebbe eliminato i timori di una perdita dei sensi. Era una faccenda ben diversa rispetto all'immersione nel pozzo sacrificale sulle pendici delle Ande. Là aveva usato un robusto cavo di sicurezza e l'equipaggiamento per le comunicazioni. Inoltre, a parte la breve sortita nella caverna laterale per salvare Shannon e Miles, non aveva mai perso di vista la superficie. Questa volta, invece, sarebbero entrati in un mondo sotterraneo di tenebra eterna che nessun uomo e nessun animale aveva mai visto. Mentre spostavano l'ingombrante contenitore lungo le curve del ruscello che portava al fiume, a Pitt venne in mente che le immersioni nelle grotte erano uno degli sport più pericolosi del mondo. C'erano l'oscurità totale, la sensazione claustrofobica di essere molto al di sotto della roccia compatta, il silenzio esasperante e il rischio di perdere l'orientamento se i sedimenti si sollevavano in nubi impenetrabili. Tutto ciò che poteva portare a quello stato di assoluto panico che aveva già causato la morte di dozzine di sub
ben addestrati e attrezzati per affrontare i pericoli congiurava per conferire alle immersioni speleologiche un fascino morboso, quasi impossibile da comprendere per chi non l'aveva vissuto in prima persona. Cosa gli aveva detto il suo istruttore della National Speleological Society quando stava per affrontare la prima immersione in una grotta marina nelle Bahamas? «Chiunque può morire in ogni momento in un'immersione del genere!» Con la chiarezza particolare che imprime per sempre nella memoria un fatto appreso in gioventù, Pitt rammentava che, nel 1974, ben ventisei sub avevano perduto la vita soltanto nelle grotte sottomarine della Florida: in tutto il mondo il totale delle morti doveva essere stato tre volte superiore. Pitt non aveva mai sofferto di claustrofobia e la paura riusciva raramente a distrarlo, ma nelle condizioni rischiose provava un'inquietudine sufficiente ad affinare i suoi sensi e a renderlo pronto a reagire di fronte a pericoli inaspettati. Non lo entusiasmava l'idea d'immergersi senza una guida fissa o un cavo di sicurezza. Sapeva che l'operazione avrebbe potuto rivelarsi quasi un suicidio, soprattutto nel momento in cui fossero stati in balia della corrente del fiume. Non avrebbero potuto fermarsi prima di raggiungere la caverna del tesoro. La spaccatura che conduceva al fiume si allargò e si restrinse in una serie di forme a clessidra. A cento metri dal fondo del pozzo avevano perduto il novanta per cento della luce esterna. Accesero le lampade fissate ai caschi. Un'altra rapida occhiata al profondimetro rivelò a Pitt che erano scesi a meno di venti metri dalla superficie dell'acqua. Giordino interruppe l'avanzata, si fermò e agitò una mano. Erano arrivati allo sbocco del sistema del fiume. Pitt rispose facendo con la mano il segnale di OK. Poi infilò il braccio nella cinghia fissata al contenitore perché non gli venisse strappato da una turbolenza inattesa. Giordino scalciò energicamente con le pinne e si lanciò verso monte nel tentativo di trascinare il contenitore trasversalmente nel fiume per quanto era possibile prima che la corrente lo portasse a valle e prima che Pitt potesse uscire dal ruscello affluente. Il suo tempismo fu quasi perfetto. Nel momento in cui perse lo slancio e la corrente lo afferrò e lo fece girare, Pitt e l'estremità posteriore del contenitore schizzarono dalla galleria laterale. Come avevano stabilito in anticipo, gonfiarono con calma i giubbetti equilibratori, sganciarono i piombi dal contenitore perché restasse a galla e salirono con calma mentre la corrente li portava verso valle. Dopo una cin-
quantina di metri affiorarono, e le loro lampade rivelarono una grande galleria aperta. La volta era rivestita da una strana roccia nera che non era calcare. Solo quando Pitt riuscì a tenere ferma la luce ne riconobbe l'origine vulcanica. Il corso del fiume, fortunatamente, era abbastanza calmo e non interrotto da rocce, ma le pareti si ergevano perpendicolari dall'acqua e non offrivano la possibilità di fermarsi. Pitt sputò il boccaglio e chiamò Giordino. «Tieniti pronto a spostarti di lato quando vedi un tratto accessibile alla riva. «D'accordo», gridò Giordino girando la testa. Passarono rapidamente dall'intrusione vulcanica al calcare, coperto da uno strano rivestimento grigio che assorbiva i raggi luminosi e dava l'impressione che le batterie delle lampade fossero quasi scariche. Un rombo incessante crebbe ed echeggiò nel passaggio. Là avanti si prospettava la realizzazione dei loro peggiori timori... venire trascinati attraverso rapide non navigabili o precipitare in una cascata prima di poter prendere terra. «Tieniti stretto», gridò Giordino. «Sembra che stiamo per fare un ruzzolone.» Pitt abbassò la testa in modo che i fasci luminosi delle lampade del casco puntassero direttamente davanti a lui. Fu una fatica sprecata. Il passaggio si riempì ben presto di una nebbia che saliva dall'acqua, densa come vapore. Pitt ebbe la visione di se stesso che precipitava dalle cascate del Niagara senza neppure la protezione di un barile. Il rombo era ormai assordante, ingigantito dall'acustica della caverna. Poi Giordino entrò nella nebbia e scomparve. Pitt non poté fare altro che tener stretto il contenitore e restare a guardare, paralizzato, mentre gli spruzzi lo avvolgevano. Si preparò a una caduta interminabile che però non venne. Il rombo non era causato dal fatto che il fiume precipitasse, bensì da un torrente furioso che scendeva dall'alto. Pitt si sentì sbatacchiare da un diluvio che erompeva in un pennacchio enorme dalla volta calcarea della caverna: il torrente alimentava il fiume sotterraneo e proveniva da un'altra sorgente. Era sconcertato dalla vista di tutta quell'acqua che scorreva sotto un deserto arido, a una distanza non superiore a quella che un buon lanciatore di giavellotto poteva raggiungere con il suo attrezzo. Concluse che il torrente doveva essere spinto nel fiume dalla pressione di un sistema di falde acquifere. Quando superò il tratto di nebbia, vide che le pareti si erano allargate e che il tetto s'inclinava verso l'alto formando una camera di proporzioni immense. Era una caverna decorata in modo bizzarro da elittiti grottesche,
un tipo di stalattiti che paiono ignorare la forza di gravità e si sviluppano in direzioni eccentriche. I depositi minerali avevano formato funghi scolpiti alti più di un metro e fiori delicati ed eleganti. Uno speleologo avrebbe descritto quelle formazioni spettacolari come una grottavetrina. Pitt non poteva fare a meno di chiedersi quanti altri monti sotterranei sorgevano in quella tenebra eterna, aspettando d'essere scoperti ed esplorati. Era facile lasciare briglia sciolta alla fantasia e immaginare che qualcuno fosse vissuto là sotto in tempi remoti e avesse realizzato quelle magnifiche sculture di calcite. Ma per Giordino era diverso. Non faceva caso alla bellezza. Si voltò a guardare Pitt con un gran sorriso in cui si rispecchiava il sollievo di essere ancora vivo. «Sembra il rifugio del Fantasma dell'Opera», ridacchiò. «Non credo che troveremo Lon Chaney che suona l'organo qui sotto.» «C'è un posto per prendere terra trenta metri più avanti, a sinistra», annunciò Giordino con evidente sollievo. «Bene. Comincia a svoltare nell'acqua meno profonda e nuota come un pazzo per uscire dalla corrente.» Giordino non aveva bisogno d'incitamenti. Virò, si trascinò dietro il contenitore e scalciò furiosamente con le pinne. Pitt lasciò il grosso tubo di alluminio, nuotò con energia fino a raggiungere il punto centrale e lo spinse in direzione dell'amico. Come Pitt aveva sperato, il sistema funzionò. Giordino uscì dalla corrente e avanzò in acque più calme. Quando toccò il fondo con le pinne salì a riva, trascinando con sé il contenitore. Pitt, liberato del peso, nuotò agevolmente nelle acque poco profonde e toccò terra dieci metri più a valle di Giordino. Uscì dall'acqua, sedette, si tolse le pinne e la maschera e si avviò camminando con prudenza sulle rocce levigate mentre sganciava le bombole. Giordino fece altrettanto prima di cominciare ad aprire il contenitore. Alzò la testa verso Pitt con aria soddisfatta. «Ecco un bel posticino.» «Scusa il disordine», ribatté Pitt. «Ma i sette nani sono in ferie.» «Sei contento come me di essere arrivato fin qui?» «Non mi dispiace essere vivo, se è questo che vuoi dire.» «Ma dove siamo?» Pitt digitò un comando sul computer che portava legato al braccio. «Secondo il mio fido prodigio della tecnologia, abbiamo percorso due chilometri attraverso la dannazione e siamo scesi di altri due metri verso l'inferno.»
«Ci restano altri ventotto chilometri.» «Sì», disse Pitt, e sorrise come un mago che si accinge a sbalordire gli spettatori. «Ma a partire da questo momento viaggeremo alla grande.» Cinque minuti più tardi le otto camere d'aria del Wallowing Windbag erano piene, e lo scafo era gonfio e pronto a battersi con il fiume. Usato come veicolo di soccorso, il piccolo hovercraft, grazie al suo cuscino d'aria, viaggiava tranquillamente sopra rapide, sabbie mobili, ghiacci sottili e fanghiglie inquinate. Adottato dalla polizia e dai vigili del fuoco un po' dovunque, aveva salvato innumerevoli persone dall'annegamento. E adesso quell'esemplare stava per essere sottoposto a una prova di resistenza che i suoi costruttori non avevano mai immaginato. Lungo tre metri e largo uno e mezzo, aveva un motore quattro tempi di cinquanta cavalli che potevano lanciarlo su una superficie piatta alla velocità di sessantaquattro chilometri all'ora. «I nostri tecnici hanno fatto un ottimo lavoro per modificare l'altezza», disse Giordino. «Adottare un motore orizzontale e una ventola è stato un colpo di genio», ammise Pitt. «È sorprendente vedere quanta roba avevano messo nel contenitore.» Prima di ripartire, caricarono e legarono dieci bombole di riserva, altre bombole più piccole per rigonfiare l'hovercraft, una batteria di luci che includeva due fari d'atterraggio per aerei chiuse in involucri stagni, batterie di scorta, una cassetta di pronto soccorso, e altri tre regolatori. In un recipiente impermeabile, Pitt recuperò la vecchia Colt 45 automatica e due caricatori. Sorrise quando trovò anche un thermos di caffè e quattro sandwich alla mortadella. L'ammiraglio Sandecker non dimenticava mai quei particolari che assicurano il successo di un'operazione. Pitt rimise nel contenitore il thermos e i sandwich. Non c'era tempo per un picnic. Doveva affrettarsi se volevano raggiungere la caverna del tesoro prima che fosse troppo tardi per salvare Loren e Rudi. Mise la pistola e i caricatori in un sacchetto di plastica e sigillò l'apertura. Poi aprì la tuta e sistemò il sacchetto contro lo stomaco. «Per un momento fissò l'hovercraft gonfiabile. «O Circe, qual di tal viaggio sarà il duce?» esclamò. «All'Ade nessun giunse finor su negra nave.» Giordino, che stava sistemando due remi timonieri negli scalmi, alzò la testa. «E questa dove l'hai sentita?»
«È l'Odissea di Omero.» «'Anche i troiani magnanimi ritorneranno in vita dal buio nebbioso...'» recitò con noncuranza Giordino. «È l'Iliade. Anch'io so citare Omero.» «Non finirai mai di stupirmi.» «Bah, sciocchezze.» Pitt salì a bordo. «Il materiale è ben fissato?» «Tutto quanto.» «Pronto per partire?» «Metti in moto.» Pitt si acquattò a poppa accanto alla ventola del motore. Avviò l'accensione e il motore raffreddato ad aria entrò in funzione. Era molto silenzioso, e lo scarico emetteva soltanto una pulsazione smorzata. Giordino si mise a prua dell'hovercraft e accese uno dei fari d'atterraggio. La caverna s'illuminò a giorno. Si voltò a guardare Pitt e rise. «Spero che nessuno ci multi per aver inquinato un ambiente vergine.» «Lo sceriffo locale non potrebbe farci niente», ribatté Pitt. «Ho dimenticato il portafogli.» L'hovercraft si staccò dalla riva, sospeso su un cuscino d'aria alto venti centimetri, e avanzò verso il centro del fiume. Pitt stringeva la barra di comando e regolava senza difficoltà una rotta perfettamente diritta. Era strano sfiorare l'acqua senza avvertire una sensazione di contatto. Da prua, Giordino poteva guardare la superficie straordinariamente trasparente che era passata dall'azzurro cobalto del pozzo a un color acquamarina intenso, e vedeva le salamandre albine e i piccoli branchi di pesci ciechi che sfrecciavano fra i macigni sferici sparsi sul fondo del fiume come ornamenti caduti. Forniva all'amico continue segnalazioni sulle condizioni del fiume più avanti e scattava fotografie mentre Pitt manovrava l'hovercraft e registrava sul computer i dati da passare a Peter Duncan. Nonostante la velocità sostenuta, il sudore e l'umidità estrema delle grandi gallerie formavano intorno alle loro teste una nebbia simile a un alone. Nessuno dei due, comunque, badava a quel fenomeno e alla tenebra che si chiudeva alle loro spalle. Non si voltarono neppure una volta: continuarono impassibili ad addentrarsi nel canyon scavato dal fiume. Per i primi otto chilometri la navigazione procedette spedita e senza intoppi. Passavano sopra tratti senza fondo e accanto a gallerie minacciose che si estendevano nelle pareti delle caverne. Le volte, nella successione di grotte, variavano da un'altezza di trenta metri a quella appena sufficiente per far passare l'hovercraft. Rimbalzarono senza difficoltà su alcune casca-
telle ed entrarono in un canale stretto dove furono costretti a prestare la massima attenzione per evitare le rocce onnipresenti. Quindi attraversarono una galleria enorme che si estendeva per circa tre chilometri ed era piena di cristalli che brillavano sotto la luce del faro. In due occasioni diverse la volta toccò la superficie dell'acqua: i due amici furono allora costretti a sgonfiare il Wallowing Windbag fino a fargli raggiungere una galleggiabilità neutra, e a respirare con le bombole. Si fecero così portare dalla corrente, trascinandosi dietro l'hovercraft appiattito e l'equipaggiamento fino a quando non emersero in un'altra caverna e tornarono a gonfiarlo. Nessuno dei due si lamentò per la fatica: non si aspettavano una tranquilla crociera lungo un fiume placido. Per smorzare la tensione incominciarono a battezzare con nomi assurdi le gallerie e gli elementi geologici principali: la Casa dei Divertimenti, il Museo delle Cere, la Palestra di Giordino. Un piccolo getto d'acqua che scaturiva da una parete fu chiamato Naso Sgocciolante. In quanto al fiume, fu chiamato Vecchio Sbronzo. Dopo aver superato il secondo passaggio sommerso ed essere risaliti sull'hovercraft, Pitt osservò che la velocità della corrente era aumentata di due nodi e che il gradiente del fiume scendeva più in fretta. Come foglie in un torrentello, i due correvano nel mondo della tenebra eterna, senza mai sapere quali pericoli erano in agguato al di là della prossima ansa. Le rapide crebbero spaventosamente, e l'hovercraft fu trascinato all'improvviso in una furiosa cateratta. L'acqua smeraldina, nel precipitare attraverso un passaggio punteggiato di macigni, divenne bianchissima e ribollente. Il Wallowing Windbag s'impennava come un toro da rodeo mentre si lanciava fra le rocce e piombava nel vuoto. Ogni volta che Pitt si diceva che le rapide non potevano diventare più violente, il fiume sbatacchiava l'hovercraft con una tale massa d'acqua che in più di un'occasione lo seppellì completamente. Ma la piccola imbarcazione si liberava sempre e risaliva in superficie. Pitt lottava come un disperato per tenere il mezzo su una rotta diritta. Se in quel tumulto si fosse girato su un fianco, ogni speranza di sopravvivenza sarebbe andata perduta. Giordino afferrò i remi d'emergenza e s'impegnò con tutte le sue forze: quella manovra, però, fece cadere in acqua il faro di atterraggio. Guidati soltanto dalla luce delle lampade fissate ai caschi, superarono una brusca ansa passando sopra rocce massicce; alcune erano in parte sommerse e sollevavano grandi onde a coda di gallo, altre si ergevano sopra la turbolenza come monoliti minacciosi. L'hovercraft ne sfiorò
diverse. Poi apparve uno spuntone di roccia che sembrava messo lì apposta per stritolare l'imbarcazione e i suoi occupanti. Ma lo scafo strusciò appena contro il masso senza lacerarsi e fu trascinato oltre. I pericoli non finivano mai. Furono afferrati da un vortice, come se l'hovercraft fosse un turacciolo risucchiato in una fogna. Pitt si puntellò con la schiena contro una cellula di supporto piena d'aria per poter stare in piedi e spinse la manetta del gas al massimo: l'urlo del motore si perse nel rombo delle rapide. Tutta la sua forza di volontà era concentrata nel compito d'impedire che l'hovercraft si girasse, offrendo il fianco alla forza della corrente. Giordino collaborava, tirando con energia i remi. Sembrò che fosse trascorsa un'eternità quando uscirono finalmente dal vortice e furono ributtati nelle rapide. Pitt tirò indietro la manetta e allentò la stretta convulsa sulla barra di controllo. Ormai era inutile lottare contro il fiume. Il Wallowing Windbag sarebbe andato là dove l'avrebbe trascinato l'acqua. Giordino scrutò nella tenebra davanti a loro, augurandosi di vedere acque più calme, e scorse una biforcazione che divideva il fiume in due gallerie diverse. «Stiamo per arrivare a un bivio!» gridò. «Sai dirmi qual è il ramo principale?» gridò Pitt di rimando. «Quello di sinistra sembra più largo!» «Okay, a sinistra!» L'hovercraft rischiò di finire sfracellato contro la grande massa di roccia che divideva in due il fiume ed evitò per pochissimo di rovesciarsi quando fu investito da una contro-onda gigantesca. Avanzò nella turbolenza e balzò affondando la prua sotto una muraglia d'acqua. Si riportò in assetto orizzontale prima di venire scagliato in avanti dalla corrente implacabile. Per un istante Pitt temette di aver perso Giordino; poi quello si alzò dall'acqua che riempiva l'interno dell'imbarcazione e scosse la testa per vincere lo stordimento dovuto al fatto di aver roteato come una pallina in una roulette. Poi, incredibilmente, Giordino sorrise e s'indicò le orecchie. Pitt comprese. Il rombo continuo delle rapide sembrava attutirsi. L'hovercraft rispondeva di nuovo ai comandi, seppur lentamente perché era pieno d'acqua per metà. Il peso eccessivo impediva di mantenere il cuscino d'aria. Aumentò la potenza e gridò a Giordino: «Comincia a sgottare!» I progettisti dell'hovercraft avevano pensato a tutto. Giordino inserì una leva in una piccola pompa e cominciò a spingerla avanti e indietro. Subito un getto d'acqua schizzò all'esterno attraverso un tubo. Pitt si sporse a studiare l'acqua nella luce delle lampade. Il canale s'era
ristretto e, anche se le rocce non agitavano più l'acqua, sembrava scorrere a una velocità terrificante. All'improvviso vide che Giordino aveva smesso di sgottare e si era messo in ascolto con un'espressione sgomenta dipinta sul viso. Poi anche lui sentì. Un rombo sordo giungeva dal vuoto nero, più a valle. Giordino fissò l'amico. «Credo che siamo fregati», gridò. L'immagine ossessiva di se stesso che precipitava dalle cascate del Niagara si riaffacciò. Questa volta non si stavano avvicinando a un torrente che cadeva dall'alto. Il suono che riverberava nella caverna era quello di un enorme volume d'acqua che piombava in una cascata immensa. «Gonfia il giubbetto equilibratore!» ruggì Pitt nel caos. L'acqua li trascinava a una velocità di venti nodi e sembrava incanalarsi in una specie di imbuto. Erano trascinati verso il precipizio invisibile da una agghiacciante valanga di terrore liquido. Superarono un'ansa ed entrarono in un uragano di nebbia. Il rombo diventò assordante. Pitt non sentiva paura e neanche un senso d'impotenza o di disperazione. Provava soltanto uno strano torpore, come se avesse perduto la facoltà di pensare in modo lucido. Gli sembrava di entrare in un incubo dove nulla aveva più forma. L'ultimo attimo cosciente fu quello in cui il Wallowing Windbag rimase sospeso nell'aria prima di piombare nella nebbia. Privati di un punto di riferimento, i due amici non avevano neppure la sensazione di cadere: era come se volassero all'interno di una nube. Poi Pitt non sentì più fra le mani la barra di comando e venne scagliato fuori dell'hovercraft. Ebbe l'impressione di sentire Giordino che urlava qualcosa, ma la voce si perse nel rombo delle cascate. La caduta attraverso il vortice parve protrarsi per un'eternità. Poi venne l'impatto. Piombò come una meteora in una gora profonda alla base della cascata. Rimase senza fiato e in un primo momento pensò di essersi sfracellato sulle rocce. Poi sentì intorno a sé la pressione consolante dell'acqua. Trattenne istintivamente il respiro e lottò per raggiungere la superficie. Aiutato dal giubbetto equilibratore, riaffiorò e subito la corrente lo trascinò via. Le rocce sembravano tendersi verso di lui come predatori infernali. Fu scagliato lungo una successione di rapide e urtò contro tutti i macigni che sporgevano dal fiume. Il contatto gli strappò la tuta e gli spellò le gambe e le braccia protese. Subì un colpo al petto, poi urtò con la testa contro qualcosa di duro. Se non ci fosse stata la protezione del casco che assorbì l'ottanta per cento del colpo, si sarebbe spaccato il cranio. Il giubbetto rimase miracolosamente gonfio. Pitt discese, semisvenuto,
lungo una breve successione di rapide. Una delle lampade del casco s'era rotta nell'impatto e l'altra irradiava un raggio rossiccio e sbiadito. Con sollievo, sentì i ciottoli sotto i piedi e si accorse di essere spinto verso una secca che portava a un piccolo spazio aperto lungo la riva. Continuò a nuotare fino a quando, lottando per sottrarsi alla violenza della corrente, non urtò la ghiaia con le ginocchia. Allora tese le mani per issarsi sul cornicione. Un gemito gli sfuggì dalle labbra: da un polso s'irraggiò un dolore tremendo. Durante la caduta, si era fratturato qualcosa. E non soltanto il polso. Aveva anche due o più costole incrinate sul lato sinistro. Il rombo delle cascate sembrava lontano. A poco a poco la sua mente ridiventò lucida. Si chiese fin dove l'aveva trascinato la corrente. Poi, mentre le nebbie si schiarivano, ricordò Giordino. Disperato, lo chiamò urlando con voce echeggiante; sperava di avere una risposta, ma non ne era convinto. «Sono qui.» La risposta non era più forte di un sussurro, ma Pitt la sentì come se uscisse da un altoparlante. Si alzò barcollando e cercò di orientarsi. «Ripeti un po'.» «Sono appena sei metri più a monte di te», disse Giordino. «Non mi vedi?» Una nebbia rossa sembrava velare gli occhi di Pitt. Li fregò e riuscì a metterli a fuoco. E si accorse che la nebbia rossa era causata dal sangue che sgorgava da un taglio alla fronte. Adesso vedeva chiaramente Giordino steso sul dorso a poca distanza da lui, per metà fuori dell'acqua. Si avvicinò all'amico vacillando e stringendosi il lato sinistro del petto nell'inutile tentativo di placare il dolore. S'inginocchiò a fatica. «Sono contento di vederti. Credevo che tu e il Windbag aveste proseguito senza di me.» «I resti del nostro fido hovercraft stanno filando verso valle.» «Sei ferito gravemente?» chiese Pitt. Giordino sorrise, alzò le mani e agitò le dita. «Almeno posso ancora suonare alla Carnegie Hall.» «Che cosa vorresti suonare? Non sei nemmeno capace di strimpellare una canzoncina.» Gli occhi di Pitt si riempirono di preoccupazione. «E la schiena?» Giordino scosse la testa. «Sono rimasto con il Windbag e i miei piedi si sono impigliati nei cavi che bloccavano l'equipaggiamento quando ha colpito il fondo. Poi lui è andato da una parte e io dall'altra. Credo di avere le
gambe fratturate sotto le ginocchia.» Parlava delle lesioni con calma, come se spiegasse che aveva due gomme sgonfie. Pitt gli toccò delicatamente i polpacci mentre Giordino stringeva i pugni. «Sei fortunato. Sono fratture semplici, non composte.» Giordino lo fissò. «Tu mi sembri appena uscito dalla centrifuga di una lavatrice.» «Qualche graffio e qualche livido», mentì Pitt. «Allora perché parli a denti stretti?» Pitt non rispose. Cercò di lanciare un programma sul computer fissato al braccio; ma lo strumento s'era rotto urtando contro una roccia. Sganciò le cinghie e lo buttò nel fiume. «Tanti saluti ai dati per Duncan.» «E io ho perso la macchina fotografica.» «È un peccato. Per parecchio tempo, nessuno passerà di nuovo da queste parti, soprattutto oltre le cascate.» «Hai idea di quanto sia lontana la caverna del tesoro?» chiese Giordino. «Tirando a indovinare, devono essere all'incirca due chilometri.» Giordino lo fissò. «Dovrai andare da solo.» «Non dire pazzie.» «Sarei di peso.» Giordino non sorrideva più. «Dimenticati di me. Raggiungi la caverna del tesoro.» «Non posso lasciarti qui.» «Anche con le ossa rotte, posso ancora stare a galla. Ti seguirò più tardi.» «Stai attento quando arrivi», mormorò Pitt. «Puoi lasciarti portare dalla corrente, ma non puoi sfuggirle. Tieniti vicino alla riva, lontano dal centro, o verrai trascinato oltre e sarà impossibile recuperarti.» «Pazienza. Le nostre bombole sono sparite con il Wallowing Windbag. Se fra qui e la caverna del tesoro incontriamo una galleria sommersa più lunga di quanto possiamo resistere trattenendo il respiro, annegheremo in ogni caso.» «Sforzati di essere un po' più ottimista, eh?» Giordino prese la torcia elettrica di scorta che portava legata a una coscia. «Questa ti servirà. La lampada del tuo casco ha l'aria di aver fatto a pugni con una roccia e di averne rimediato un bel KO. Ora che ci penso, anche la tua faccia è un disastro. Stai sanguinando sui brandelli della tua bella tuta.» «Un altro tuffo nel fiume rimedierà a tutto», disse Pitt, e fissò la torcia all'avambraccio al di sopra del polso fratturato, dove prima teneva il com-
puter. Sganciò la cintura zavorrata. «Questa non mi servirà più.» «Non porti la bombola?» «Non voglio pesi superflui.» «E se incontri una camera allagata?» «L'attraverserò a nuoto finché reggeranno i polmoni.» «Un ultimo favore», mormorò Giordino, e mostrò le cinghie dell'imbracatura che erano servite per sostenere le bombole. «Legami insieme le gambe per impedire che sbattano di qua e di là.» Pitt strinse le cinghie il più possibile, cercando di usare la massima delicatezza. Giordino aspirò bruscamente l'aria ma non disse nulla. «Riposa per un'ora almeno prima di seguirmi», ordinò Pitt. «Tu vai e vedi che cosa puoi fare per salvare Loren e Rudi. Io ti seguirò appena possibile.» «Ti aspetterò.» «Vedi di procurarti una grossa rete.» Pitt strinse il braccio di Giordino in un gesto di commiato. Poi s'immerse nell'acqua fino a quando la corrente non lo sollevò trasportandolo in un'altra caverna. Giordino rimase a guardare finché la torcia di Pitt non sparì oltre una curva del canyon e si perse nell'oscurità. Due chilometri, pensò. E si augurò che quell'ultimo tratto del viaggio si svolgesse nelle grotte piene d'aria. 53. Zolar tirò un respiro di sollievo. Era andato tutto bene, meglio di quanto avesse previsto. Il progetto stava per concludersi. La roulotte usata come ufficio, il carrello elevatore e l'argano erano stati portati via dagli elicotteri insieme alla maggior parte degli uomini del colonnello Campos. Era rimasta solo una piccola squadra di genieri per caricare l'ultimo lotto sull'aereo da trasporto militare che era parcheggiato accanto all'elicottero rubato alla NUMA. Zolar guardò gli ultimi pezzi del tesoro disposti in una fila ordinata. Studiava i preziosi oggetti antichi e pensava alla somma che ne avrebbe ricavato. La magnificenza della lavorazione delle ventotto statue di guerrieri inca era indescrivibile. Ognuna era alta un metro e offriva una rara visione dell'abilità degli artigiani dell'antico Perù. «Se ce ne fosse qualcuna in più, basterebbero per giocare a scacchi», commentò Oxley.
«Purtroppo non potrò tenerle», rispose Zolar con aria triste. «Temo che dovrò accontentarmi di usare la mia parte dei profitti della vendita per acquistare oggetti di provenienza legittima per la mia collezione personale.» Fernando Matos divorava con gli occhi lo spettacolo dell'esercito dorato mentre calcolava mentalmente la parte che gli spettava, il due per cento. «Nel nostro Museo Nazionale d'Antropologia a Città del Messico non abbiamo niente che gli si avvicini.» «Potrà sempre regalargli la sua parte», ribatté Oxley in tono sarcastico. Matos gli lanciò un'occhiata offesa e cominciò a dire qualcosa ma fu interrotto dall'avvicinarsi del colonnello Campos. «Il tenente Ramos comunica dalla caverna che all'interno della montagna non è rimasto nulla. Non appena lui e i suoi uomini risaliranno, caricheranno gli oggetti. E io andrò alla pista di atterraggio per dirigere il trasbordo.» «Grazie, colonnello», disse Zolar. Non si fidava di Campos. «Se non ha obiezioni, tutti noi la seguiremo.» «Naturalmente.» Campos girò gli occhi sulla vetta ormai quasi deserta. «E gli altri?» Gli occhi profondamente incassati di Zolar assunsero un'espressione fredda. «Mio fratello Cyrus e la sua squadra seguiranno con il nostro elicottero non appena avranno sbrigato un paio di faccende.» Campos comprese e sorrise cinicamente. «Mi fa orrore pensare a tutti i banditi che vanno in giro a rapinare e assassinare i visitatori stranieri.» Mentre attendevano che il tenente Ramos e la sua squadra uscissero dalla montagna e caricassero gli ultimi tesori, Matos andò a esaminare il demone di pietra. Tese la mano, gliela posò sul collo e rimase sorpreso nel sentire la pietra così fredda dopo che per tutto il giorno aveva assorbito i raggi del sole. Ritirò la mano di scatto. Aveva avuto l'impressione che la pietra gelida fosse diventata di colpo elastica e viscida come la pelle squamosa d'un pesce. Indietreggiò, sgomento, e girò sui tacchi per allontanarsi in fretta. In quell'istante vide una testa umana affacciarsi dal ciglio del precipizio davanti al demone. Matos apparteneva a una famiglia di docenti universitari e non credeva alle superstizioni e alle leggende. Rimase immobile, più per la curiosità che per la paura. La testa era quella di un uomo che si stava arrampicando sulla vetta. L'intruso si fermò per un momento, poi puntò il fucile contro Matos. Yuma era rimasto quasi un minuto disteso su un cornicione per riprende-
re fiato e attendere che il suo cuore rallentasse i battiti. Quando sollevò la testa oltre il ciglio della montagna, vide un ometto dall'aria strana con la testa calva e i grossi occhiali, vestito da passeggio con camicia e cravatta, che lo stava fissando. Gli ricordava i funzionari governativi che passavano per il villaggio dei Montolo una volta l'anno, e promettevano aiuti sotto forma di fertilizzanti, mangime, sementi e denaro, ma poi se ne andavano e non mantenevano mai gli impegni. Scorse anche un gruppo di uomini accanto a un elicottero militare lontano una trentina di metri. Non s'erano accorti di lui. Era salito in modo da finire dietro il grande demone di pietra, invisibile a tutti. Eccettuato Matos, che purtroppo si trovava a pochi passi. Puntò contro di lui il vecchio Winchester e disse a voce bassa: «Non fiatare o ti uccido». Yuma non aveva bisogno di voltarsi: sapeva che i suoi parenti e vicini si stavano inerpicando sulla cima. Ma sapeva anche di aver bisogno di un altro minuto perché il piccolo gruppo arrivasse a destinazione. Se l'uomo che gli stava di fronte avesse dato l'allarme, il fattore sorpresa sarebbe andato perduto e i suoi compagni sarebbero stati colti sul fianco della montagna, allo scoperto. Doveva guadagnare tempo. La situazione peggiorò quando un ufficiale e una squadra di genieri comparvero all'improvviso, uscendo dalla spaccatura nella roccia. Non si guardarono intorno e si avviarono direttamente verso quella che a Yuma sembrava una fila di uomini dorati molto bassi. Quando vide i genieri, il pilota dell'elicottero avviò i motori. Matos, accanto al demone di pietra, alzò lentamente le mani. «Abbassale!» sibilò Yuma. Matos obbedì. «Come avete fatto a superare il nostro cordone di sicurezza?» chiese. «Cosa ci fate qui?» «Questo è terreno sacro per la mia gente», sibilò Yuma. «E voi lo state profanando con la vostra avidità.» Per ogni secondo che guadagnava, altri due montolo superavano il bordo del cornicione alle sue spalle e si disponevano in un gruppo nascosto dalla massa del demone. Erano arrivati fin lì senza uccidere né ferire nessuno, e a Yuma sarebbe dispiaciuto dover incominciare adesso. «Torna verso di me», ordinò a Matos. «E fermati vicino al demone.» Negli occhi di Matos c'era un'espressione folle. La passione per il ricco tesoro incominciò lentamente a bruciare la paura. La parte che gli spettava lo avrebbe fatto diventare più ricco di quanto avesse mai sognato. Non poteva rinunciarvi per colpa d'una banda d'indiani superstiziosi. Lanciò u-
n'occhiata nervosa ai genieri che, alle sue spalle, si stavano accostando all'elicottero. Il timore di perdere tutto gli serrava lo stomaco in una morsa. Yuma si rese conto di quanto stava per accadere. L'uomo in borghese gli stava sfuggendo. «Vuoi l'oro?» gli chiese. «Prendilo e lascia la nostra montagna.» Quando vide altri uomini comparire alle spalle di Yuma, Matos non resistette. Si voltò e cominciò a correre e a gridare: «Sparate! Sparate agli intrusi!» Senza alzare il fucile e senza prendere la mira, Yuma fece fuoco. Il colpo centrò il ginocchio di Matos. Il burocrate sussultò, perse gli occhiali e cadde pesantemente bocconi. Poi rotolò sulla schiena e strinse il ginocchio con entrambe le mani. Silenziosi come fantasmi in un cimitero, i parenti e i vicini di Yuma circondarono l'elicottero. Il tenente Ramos, che non era uno stupido, si rese conto fulmineamente della situazione. I suoi uomini erano genieri, e non erano armati. Alzò le braccia in segno di resa e gridò a quelli della squadra di fare altrettanto. Zolar imprecò a gran voce. «Da dove diavolo sono arrivati questi indiani?» «Non è il momento di chiederci perché», ribatté Oxley. «Dobbiamo andarcene.» Superò con un salto il portellone di carico e tirò a bordo il fratello. «I guerrieri d'oro!» protestò Zolar. «Sono ancora qui.» «Scordateli.» «No!» insistette Zolar. «Maledetto imbecille! Non vedi che gli indiani sono armati? I genieri non possono aiutarci.» Si voltò e gridò al pilota: «Decolli! Andale! Andale!» Il colonnello Campos reagì più lentamente degli altri. E commise la stupidaggine di ordinare al tenente Ramos e ai suoi di resistere. «Attaccateli!» gridò. Ramos lo guardò dritto negli occhi. «Con che cosa, colonnello? Con le mani nude?» Ormai Yuma e gli altri della sua tribù erano a dieci metri dall'elicottero. Fino a quel momento nessuno aveva più sparato. La vista del sole che brillava sui guerrieri dorati stordì per un momento il gruppo di montolo. L'unico oggetto d'oro puro che avessero visto era il piccolo calice sull'altare della chiesa della missione, nel vicino villaggio di Llano Colorado.
La polvere cominciò a sollevarsi in vortici: il pilota aveva dato motore e le pale dei rotori stavano sferzando furiosamente l'aria. Fu allora che, finalmente, Campos comprese che era meglio essere prudente. Prese la rincorsa e balzò attraverso il portello del vano di carico mentre Oxley si tendeva per aiutarlo. In quell'istante l'elicottero ebbe un brusco sussulto verso l'alto. Le mani sollevate di Campos afferrarono l'aria. Lo slancio lo portò sotto l'elicottero, oltre l'orlo del dirupo, come se si fosse tuffato nell'acqua. Oxley rimase a guardare mentre il corpo del colonnello rimpiccioliva roteando nell'aria prima di sfracellarsi sulle rocce. «Cristo», gemette Oxley. Zolar, che stava aggrappato a una maniglia nel vano di carico, non vide il corpo di Campos che piombava verso la base della montagna. Pensava ad altro. «Cyrus è ancora nella caverna.» «È con Amaru e i suoi amici. Non preoccuparti. Le loro armi automatiche bastano per liquidare pochi indiani con i fucili da caccia e le doppiette. Partiranno con l'ultimo elicottero che aspetta sulla montagna.» «Solo in quel momento Zolar si accorse che mancava qualcuno. «Dove sono Matos e il colonnello?» «Gli indiani hanno sparato a Matos, e Campos si è mosso troppo tardi.» «È rimasto sul Cerro el Capirote?» «No, è caduto dal Cerro el Capirote. È morto.» Uno psichiatra avrebbe giudicato molto interessante la reazione di Zolar. Per un momento l'uomo assunse un'aria pensierosa, poi scoppiò a ridere. «Matos ferito e il caro colonnello morto. Altri profitti per la famiglia.» Il piano che Yuma aveva concordato con Pitt era stato realizzato. Lui e i suoi avevano occupato la vetta e cacciato i malvagi dalla sacra montagna dei morti. Il montolo seguì con gli occhi due dei suoi nipoti che scortavano il tenente Ramos e i genieri giù per il ripido sentiero, verso il deserto. Era impossibile trasportare Matos. Con il ginocchio fasciato era costretto a camminare zoppicando con l'aiuto di due genieri. La curiosità attirò Yuma verso l'imboccatura allargata del passaggio interno. Provava un intenso desiderio di esplorare la caverna e di vedere con i suoi occhi il fiume descritto da Pitt. Era l'acqua che aveva visto nei sogni. Ma gli uomini più anziani erano troppo spaventati per addentrarsi nelle viscere della montagna sacra, e l'oro costituiva un problema con i più giovani. Volevano lasciar perdere tutto e portarlo via prima che tornassero i sol-
dati. «Questa è la nostra montagna», disse uno dei giovani, figlio d'un allevatore che abitava vicino a Yuma. «I piccoli guerrieri d'oro ci appartengono.» «Prima dobbiamo vedere il fiume dentro la montagna», ribatté Yuma. «Ai vivi è proibito entrare nella terra dei morti», ricordò il fratello maggiore di Yuma. Uno dei nipoti lo guardò con aria dubbiosa. «Non c'è nessun fiume sotto il deserto.» «Io credo all'uomo che me ne ha parlato.» «Non puoi fidarti del gringo come non puoi fidarti di quelli che hanno sangue spagnolo nelle vene.» Yuma scrollò la testa e indicò le statue d'oro. «Quelle provano che non ha mentito.» «I soldati ritorneranno e ci uccideranno tutti, se non ce ne andiamo», protestò un altro. «I guerrieri d'oro sono troppo pesanti per portarli giù per il sentiero», disse il giovane. «Bisognerà calarli con le corde, e ci vorrà tempo». «Preghiamo il demone e muoviamoci», ribatté il fratello. Il giovane si ostinò. «No, se prima non avremo portato giù i guerrieri d'oro.» Controvoglia, Yuma si arrese. «Così sia, parenti e amici miei. Manterrò la promessa ed entrerò da solo nella montagna. Prendete gli uomini d'oro, ma affrettatevi. Non vi restano ancora molte ore di luce.» Mentre si voltava e varcava l'apertura allargata che conduceva al passaggio sotterraneo, Yuma non aveva paura. L'ascesa alla cima della montagna aveva dato buoni frutti. Gli uomini malvagi erano stati sconfitti. Il demone era di nuovo in pace. E adesso Billy Yuma era sicuro che, con la benedizione del demone, poteva entrare senza pericolo nella terra dei morti. E magari trovare una pista che lo avrebbe portato agli idoli sacri della sua gente. 54. Loren era raggomitolata nella stretta cella di pietra e sprofondava nelle sabbie mobili dell'autocommiserazione. Non aveva più la forza di lottare. Le ore si erano confuse fino a che il tempo aveva perduto ogni significato. Non ricordava quando aveva mangiato per l'ultima volta. Cercava di ram-
mentare cosa si provava quando si era caldi e asciutti, ma era qualcosa che sembrava avvenuto molti, molti anni prima. La fiducia in se stessa, l'indipendenza, la soddisfazione di essere un membro del Congresso dell'unica superpotenza mondiale non contavano nulla in quella piccola grotta umida. La Camera dei Rappresentanti sembrava lontana un milione di anni luce. Era arrivata alla fine e aveva combattuto finché era stato possibile. Adesso era rassegnata. Meglio morire. Guardò Rudi Gunn. Durante l'ultima ora non si era quasi mosso. Non c'era bisogno di essere un medico per capire che era molto peggiorato. In una tempesta di furore sadico, Tupac Amaru gli aveva calpestato e fratturato diverse dita. E gli aveva causato gravi lesioni sferrandogli calci allo stomaco e alla testa. Se non fosse stato curato al più presto, probabilmente sarebbe morto. Loren pensò a Pitt. Tutte le possibili strade verso la libertà erano bloccate, a meno che lui non potesse accorrere a salvarli alla testa della cavalleria. E non era una prospettiva probabile. Ricordava le altre volte che l'aveva salvata. La prima era stata quando si trovava a bordo d'una nave da crociera russa, prigioniera di agenti del vecchio governo sovietico. Pitt era comparso e l'aveva sottratta a un tremendo pestaggio. La seconda volta era successo quando il fanatico Hideki Suma la teneva in ostaggio nella sua città subacquea al largo delle coste del Giappone. Pitt e Giordino avevano rischiato la vita per salvare lei e un collega del Congresso. Non aveva il diritto di arrendersi. Ma Pitt era morto, schiacciato dalle bombe a mano nel mare di Cortés. Se i suoi compatrioti avessero avuto la possibilità di mandare oltre confine un contingente delle Forze Speciali per portarla in salvo, ormai l'avrebbero già fatto. Attraverso l'apertura della grotta aveva visto il tesoro che veniva trainato davanti alla sua cella e attraverso la camera dei guardiani fino alla vetta della montagna cava. Quando tutto l'oro fosse stato portato via, lo sapeva, sarebbe venuto per lei e per Rudi il momento di morire. Non dovettero attendere a lungo. Uno dei puzzolenti seguaci di Amaru si avvicinò al guardiano e impartì un ordine. Quello si voltò e indicò a cenni di uscire. «Salír, salír», comandò. Loren scosse Gunn per svegliarlo e lo aiutò ad alzarsi in piedi. «Vogliono portarci via», gli disse sottovoce. Gunn la guardò, stordito, e poi, incredibilmente, sorrise. «Era ora che ci trasferissero in una camera migliore.»
Si avviò al suo fianco trascinando i piedi e cingendole le spalle con un braccio mentre lei lo sorreggeva. Furono condotti in un'area piatta fra le stalagmiti, accanto alla riva del fiume. Amaru stava scherzando con quattro dei suoi uomini. Loren ne riconobbe uno che aveva visto a bordo del traghetto: Cyrus Sarason. I latinoamericani sembravano tranquilli, ma Sarason sudava e aveva la camicia macchiata sotto le ascelle. Il guardiano guercio li spinse avanti brutalmente e si scostò dagli altri. Per Loren Sarason aveva la stessa aria di un insegnante di ginnastica costretto a fare da chaperon durante un ballo della scuola e quindi terribilmente annoiato. Amaru, invece, sembrava straripare d'energia nervosa. L'eccitazione gli brillava negli occhi. Fissava Loren con l'intensità di chi si trascina nel deserto e all'improvviso vede un saloon che offre birra in ghiaccio. Si avvicinò e le sollevò il mento con una mano. «Sei pronta a farci divertire?» «Lasciala stare», disse Sarason. «Non c'è ragione di prolungare la nostra presenza qui.» Una sensazione fredda e viscida s'insinuò nello stomaco di Loren. Questo no, pensò. Dio, non questo. «Se volete ucciderci, fatelo.» «Il suo desiderio si realizzerà presto.» Amaru rise sadicamente. «Ma prima dovrai accontentare i miei uomini. Quando avranno finito e se saranno soddisfatti, forse ti grazieranno e ti lasceranno vivere. Se no, pollice verso come i romani che giudicavano un gladiatore nell'arena. Ti consiglio di soddisfarli.» «È una pazzia!» gridò Sarason. «Abbi un po' di fantasia, amico. I miei uomini e io abbiamo lavorato sodo per aiutarti a trasportare l'oro in cima alla montagna. Il meno che puoi fare è darci una piccola ricompensa per i nostri servizi prima che lasciamo questo posto infernale.» «Siete pagati molto bene.» «Com'è l'espressione che usate nel tuo Paese?» chiese Amaru, ansimando. «Fringe benefits?» «Non ho tempo per gli spassi sessuali», sbottò Sarason. «Lo troverai», sibilò Amaru, e snudò i denti come un serpente che sta per attaccare. «O ai miei uomini dispiacerà molto. E allora non potrai più tenerli a freno.» Sarason diede un'occhiata ai cinque delinquenti e alzò le spalle. «A me la donna non interessa», disse, guardando Loren per un momento. «Fatene
quel che volete, ma sbrigatevi. Abbiamo ancora da fare e non voglio far aspettare i miei fratelli.» Loren stava per vomitare. Guardò Sarason con occhi imploranti. «Lei è diverso da loro. Lei sa bene chi sono e che cosa rappresento. Come può permettere che succeda una cosa simile?» «La barbarie è normale, nel posto da dove vengono», rispose Sarason in tono indifferente. «Ognuno di loro sarebbe disposto a tagliare la gola a un bambino con la stessa noncuranza con cui noi affetteremmo un filetto.» «Allora non farà niente per fermarli?» Sarason alzò le spalle. «Potrebbe essere divertente.» «Non è migliore di loro.» Amaru sogghignò. «A me piace molto mettere in ginocchio le donne altezzose come te.» Fu il segnale che troncò ogni discussione. Amaru fece un gesto a uno dei suoi uomini. «A te l'onore di cominciare, Julio.» Gli altri sembravano delusi di non essere stati prescelti. Il fortunato si fece avanti con la bocca stirata in un ghigno libidinoso e afferrò il braccio di Loren. Il piccolo Rudi Gunn, gravemente ferito e quasi incapace di reggersi in piedi, si curvò all'improvviso, si lanciò in avanti e sferrò una testata al ventre dell'uomo che stava per assalire Loren. La carica ebbe l'impatto di un manico di scopa contro la porta di una fortezza. Il grosso peruviano grugnì e tirò un manrovescio che mandò Gunn lungo disteso sul pavimento della caverna. «Buttate nel fiume quel piccolo bastardo», ordinò Amaru. «No!» gridò Loren. «Per amor di Dio, non uccidetelo!» Uno degli uomini di Amaru afferrò Gunn per la caviglia e cominciò a trascinarlo verso l'acqua. «Forse è un errore», avvertì Sarason. Amaru lo guardò in modo strano. «Perché?» «È probabile che il fiume sbocchi nel golfo. Invece di lasciare un cadavere che potrebbe essere identificato, sarebbe meglio farli sparire per sempre.» Amaru esitò, riflettendo per un momento. Poi rise. «Un fiume sotterraneo che li porta nel mare di Cortés... Mi piace. Gli investigatori americani non sospetteranno mai che sono stati uccisi a cento chilometri dal punto in cui li troveranno. L'idea mi piace, sì.» Fece un cenno all'uomo che trascinava Gunn, perché continuasse. «Spingilo più che puoi nella corrente.»
«No, vi prego», implorò Loren. «Lasciatelo vivere e farò tutto quello che volete.» «Lo farai lo stesso», disse Amaru. La guardia lanciò Gunn nel fiume. Si sollevò uno spruzzo, e Gunn sparì sott'acqua senza un gemito e senza una parola. Amaru si girò verso Loren e fece un cenno a Julio. «Possiamo cominciare.» Loren urlò e si mosse con l'agilità di un gatto. Si avventò sull'uomo che le stringeva il braccio e gli piantò negli occhi le unghie dei pollici. Un urlo di dolore echeggiò nella caverna del tesoro. L'uomo che aveva avuto il permesso di violentare Loren si portò le mani al volto e gridò come un maiale ferito. Nel vedere il sangue che gli scorreva fra le dita, Amaru, Sarason e gli altri rimasero paralizzati dalla sorpresa. «Oh, Madre di Dio!» gridò Julio. «Quella carogna mi ha accecato!» Amaru si avvicinò a Loren e la schiaffeggiò con violenza. Lei barcollò, ma non cadde. «La pagherai», disse Amaru con calma gelida. «Quando sarai servita allo scopo, avrai lo stesso trattamento prima di morire.» Negli occhi di Loren la paura aveva lasciato il posto a una rabbia furiosa. Se ne avesse avuto la forza, avrebbe lottato con le unghie e con i denti come una tigre, prima di essere sopraffatta. Ma i giorni di maltrattamenti e di denutrizione l'avevano indebolita troppo. Prese a calci Amaru, tuttavia quello incassò i colpi come se non fossero più fastidiosi dell'attacco di una zanzara. Poi le afferrò le mani e gliele girò dietro la schiena. Convinto di averla ridotta all'impotenza, cercò di baciarla, ma lei gli sputò in faccia. Infuriato, Amaru le sferrò un pugno al ventre. Loren si piegò su se stessa, soffocata dal dolore, e ansimò per riprendere fiato. Si lasciò cadere in ginocchio e si rovesciò lentamente sul fianco, stringendosi lo stomaco con le braccia. «Dato che Julio non può più far niente», disse Amaru, «voialtri potete accomodarvi.» Le dita protese degli uomini afferrarono Loren. La girarono sul dorso, le bloccarono le braccia e le gambe. Trattenuta in quella posizione dalla forza dei tre, Loren gridò, in preda al terrore. Le strapparono gli indumenti laceri, e la pelle chiara e liscia brillò sotto le luci artificiali lasciate dai genieri. La vista del suo corpo nudo eccitò ancora di più gli assalitori. Il Quasimodo guercio s'inginocchiò e si chinò su di lei. Ansimava e snu-
dava i denti in una smorfia di lussuria animale. Le premette la bocca sulla bocca. Le urla di Loren si smorzarono quando l'uomo le morse il labbro inferiore e lo fece sanguinare. Aveva la sensazione di soffocare in un incubo. L'uomo si scostò e le passò sul seno le mani callose, ruvide come carta vetrata. Gli occhi violetti di Loren erano colmi di ripugnanza. Urlò di nuovo. «Resisti», bisbigliò l'uomo con voce rauca. «Mi piacciono le donne che resistono.» Loren si sentì sprofondare in un abisso d'umiliazione e di orrore quando il delinquente si calò su di lei. Le sue urla di terrore si trasformarono in un grido di sofferenza. Poi all'improvviso si trovò le mani libere e graffiò la faccia dell'aggressore. Quello si scostò mentre il sangue gli scorreva sulle guance, e guardò i due compagni che avevano lasciato le braccia e le gambe di Loren. «Idioti, che cosa state facendo?» sibilò. Gli uomini, che erano rivolti al fiume, indietreggiarono a bocca aperta, e si fecero il segno della croce come se avessero visto il diavolo. Non guardavano lo stupratore né Loren. Fissavano il fiume. Confuso, Amaru si voltò a scrutare le acque scure. Ciò che vide fu abbastanza per dargli la sensazione di essere impazzito. Spalancò la bocca nello scorgere una luce strana che si muoveva sott'acqua verso di lui. Tutti rimasero immobili, come ipnotizzati, quando la luce affiorò e diventò parte di una testa protetta da un casco. Come un fantasma orribile che sale dall'abisso torbido di un inferno acquatico, una forma umana si erse lentamente dalle profondità nere del fiume e avanzò verso la riva. L'apparizione, grondante di brandelli simile a nere alghe marine, sembrava provenire da un pianeta alieno. L'effetto era reso ancora più agghiacciante dalla riapparizione di un morto. Con il braccio destro, come un padre che sostiene il figlio, il fantasma reggeva il corpo inerte di Rudi Gunn. 55. La faccia di Sarason sembrava una maschera funebre. Il sudore gli grondava dalla fronte. Sebbene non fosse un uomo facile al panico, aveva gli occhi stravolti dallo shock. Rimase in silenzio, come se quell'apparizione mostruosa l'avesse lasciato troppo stordito per parlare. Amaru balzò in piedi e tentò di dire qualcosa, ma dalle labbra gli uscì soltanto un bisbiglio gracchiante. «Vattene, diablo, torna all'inferno.»
Il fantasma posò delicatamente Gunn al suolo. Si tolse il casco con una mano. Poi aprì la lampo della tuta e frugò all'interno. Gli occhi verdi erano fissi su Loren, distesa sulla roccia fredda, e brillavano d'una collera terribile sotto le luci artificiali. I due che tenevano ancora Loren per le gambe lo fissarono ammutoliti mentre la Colt tuonava una, due volte nella caverna. Le facce si distorsero orribilmente, le teste si piegarono all'indietro ed esplosero. I due uomini si accasciarono e caddero sulle cosce di Loren. Gli altri si allontanarono precipitosamente come se Loren fosse contagiata all'improvviso dalla peste nera. Julio gemeva in un angolo lontano, incapace di vedere, e continuava a coprirsi con le mani gli occhi feriti. Loren non urlava più. Fissava l'uomo che era uscito dal fiume. Lo riconosceva, ma era convinta di avere un'allucinazione. Lo shock dell'incredulità, poi l'orrore del riconoscimento gelarono il cuore di Amaru. «Tu!» esclamò con voce soffocata. «Sembri sorpreso di vedermi, Tupac», disse Pitt in tono disinvolto. «Anche Cyrus è diventato verde.» «Sei morto. Ti ho ucciso io.» «Chi fa male un lavoro ottiene pessimi risultati.» Pitt puntò la Colt dall'uno all'altro e parlò a Loren senza guardarla. «Ti hanno fatto male?» Per un momento lei rimase troppo sbalordita per rispondere. Finalmente balbettò: «Dirk... Sei davvero tu?» «Se ce n'è un altro, spero che lo prendano prima che firmi troppi assegni. Scusa se non ce l'ho fatta ad arrivare prima.» Loren annuì, coraggiosamente. «Grazie a te potrò sopravvivere e vedere punite queste bestie.» «Non dovrai aspettare a lungo», ribatté Pitt, impassibile. «Sei abbastanza in forze per risalire il passaggio?» «Sì, sì», mormorò Loren, che cominciava a rendersi conto di essere veramente in salvo. Rabbrividì, si scostò di dosso i due morti e si alzò, indifferente alla propria nudità. Indicò Gunn. «Rudi è ridotto male.» «Sono stati questi delinquenti a conciarvi così?» Loren annuì in silenzio. Pitt snudò i denti. Negli occhi verdi brillava un istinto omicida. «Cyrus si è appena offerto di portare Rudi in cima alla montagna.» Pitt puntò distrattamente la pistola in direzione di Sarason. «Dalle la tua camicia.» Loren scosse la testa. «Preferisco stare nuda, piuttosto che indossarla.» Sarason era consapevole di trovarsi a un passo dalla morte, e la sua pau-
ra lasciò il posto all'istinto di sopravvivenza. Incominciò a pensare a un piano per salvarsi. Si accasciò sulla roccia come se fosse sopraffatto dallo shock, e posò la mano destra sul ginocchio a pochi centimetri dalla Derringer calibro 38 legata alla gamba all'interno dello stivale. «Come sei arrivato fin qui?» chiese per guadagnare tempo. Pitt non diede troppe spiegazioni. «Siamo arrivati con una nave da crociera sotterranea.» «Siete arrivati?» «Il resto della squadra dovrebbe emergere da un momento all'altro», bluffò Pitt. All'improvviso Amaru gridò ai due uomini che gli erano rimasti: «Prendetelo!» Erano assassini incalliti, ma non avevano voglia di morire. Non tentarono neppure di prendere i fucili automatici che avevano posato per violentare Loren. Uno sguardo alla canna della 45 impugnata da Pitt era sufficiente a scoraggiare chiunque non avesse tendenze suicide. «Cani vigliacchi!» ringhiò Amaru. «Vedo che continui a ordinare agli altri di fare il tuo sporco lavoro», ribatté Pitt. «Ho commesso un errore quando non ti ho ucciso in Perù.» «Ho giurato che ti avrei fatto soffrire quanto tu hai fatto soffrire me.» «Non ti consiglio di scommetterci la tua pensione del Solpemachaco.» «Hai intenzione di assassinarci tutti a sangue freddo?» chiese bruscamente Sarason. «No, affatto. Omicidio a sangue freddo è stato quello del dottor Miller e di chissà quanti altri innocenti che rappresentavano un ostacolo. Io sono il loro angelo vendicatore e sono qui per giustiziarvi.» «Senza neppure un processo equo», protestò Sarason, mentre tendeva lentamente la mano oltre il ginocchio verso la Derringer. Solo in quel momento si accorse che le ferite di Pitt non si limitavano al taglio sanguinante sulla fronte. Le spalle erano incurvate per la stanchezza e il portamento era malfermo. La mano sinistra era premuta contro il petto. Polso e costole fratturati, pensò Sarason. Le sue speranze crebbero quando si rese conto che Pitt era sull'orlo del collasso. «Non hai il diritto d'invocare giustizia», disse Pitt in tono sprezzante. «È un peccato che il grande sistema giudiziario americano non infligga agli assassini la stessa fine che hanno fatto subire alle loro vittime.» «E tu non hai il diritto di giudicare le mie azioni. Se non fosse per me e per i miei fratelli, migliaia di oggetti preziosi marcirebbero nelle cantine
dei musei di tutto il mondo. Noi li abbiamo preservati e distribuiti a chi è capace di apprezzarne il valore.» Pitt fissò Sarason. «Ti sembra una buona cosa? Giustifichi i furti e gli omicidi perché tu e i tuoi parenti possiate incassare profitti enormi. Per te sono parole magiche, ma sei un ciarlatano e un ipocrita.» «Anche se mi ucciderai, non toglierai di mezzo la mia famiglia.» «Non l'hai saputo?» Pitt sorrise rabbiosamente. «La Zolar International è finita nella fogna. Gli agenti federali hanno fatto irruzione nel tuo magazzino di Galveston e hanno trovato bottino sufficiente per riempire cento gallerie.» Sarason inclinò la testa all'indietro e rise. «La nostra sede di Galveston è perfettamente legale. Tutta la merce viene comprata e venduta in piena regolarità.» «Io sto parlando del secondo magazzino», mormorò Pitt con noncuranza. Negli occhi di Sarason passò un lampo d'apprensione. «C'è un magazzino solo.» «No, sono due. Il magazzino ufficiale è collegato a una galleria che serve a trasportare la merce di provenienza illecita all'altro, dove c'è un sotterraneo che ospita montagne di oggetti di contrabbando, una sezione che si occupa di falsificazioni e un'immensa collezione di opere d'arte rubate.» Sarason aveva l'aria di essere stato colpito da una mazzata. «Maledetto! Come puoi sapere queste cose?» «Due agenti federali, uno della Dogana e l'altro dell'FBI, mi hanno descritto l'irruzione in tutti i particolari. E posso aggiungere che ti aspetteranno a braccia aperte quando tenterai di contrabbandare negli Stati Uniti il tesoro di Huascar.» Le dita di Sarason erano a un centimetro dalla piccola pistola a due colpi. «Tanto peggio per loro», sibilò, ritrovando la facciata di noncuranza. «L'oro non andrà negli Stati Uniti.» «Non ha importanza», ribatté con calma Pitt. «Tanto non potrai spenderlo.» Nascoste dal ginocchio accavallato sull'altra gamba, le dita di Sarason incominciarono a estrarre cautamente la Derringer dallo stivale. Calcolava che le lesioni avrebbero rallentato il tempo di reazione di Pitt d'una frazione di secondo, ma decise di non rischiare con un tiro improvviso. Se avesse mancato il bersaglio con il primo colpo, sapeva che Pitt, per quanto malridotto, non gli avrebbe lasciato il tempo di sparare il secondo. Esitò,
mentre ideava una diversione. Guardò Amaru e i due che scrutavano Pitt con rabbia implacabile. In quanto a Julio, era inservibile. «Sei tu quello che non ha molto tempo da vivere», disse. «I militari messicani che hanno collaborato per portar via il tesoro avranno sentito gli spari e arriveranno qui da un momento all'altro per ucciderti.» Pitt scrollò le spalle. «Staranno facendo la siesta, altrimenti sarebbero già arrivati.» «Se lo attaccassimo tutti insieme», proseguì Sarason in tono discorsivo come se fossero seduti intorno a un tavolo da pranzo, «potrebbe ammazzare due o magari tre di noi prima che il superstite riesca a ucciderlo.» L'espressione di Pitt divenne fredda, remota. «Il problema è: chi sarà il superstite?» Ad Amaru non interessava chi sarebbe vissuto e chi no. Per un uomo privato della sua virilità, pensava, il futuro non aveva senso. Non c'era più niente da perdere. L'odio per quell'individuo che l'aveva castrato fece scattare una rabbia feroce, alimentata dal ricordo della sofferenza e del tormento psicologico. Senza una parola, si avventò su Pitt. Con un guizzo, si scagliò come un cane ringhiante contro di lui cercando di afferrargli la mano che impugnava la pistola. Il colpo centrò il peruviano al petto e attraversò un polmone. L'eco dello sparo rimbombò nella caverna. L'impatto avrebbe fermato un uomo normale, ma Amaru era dominato da una forza cieca come un toro nell'arena. Si lasciò sfuggire un gemito quando l'aria gli uscì dai polmoni, e piombò addosso a Pitt scagliandolo all'indietro, verso il fiume. Un lamento uscì dalle labbra di Pitt quando le costole incrinate protestarono in un'esplosione di dolore. Si girò disperatamente su se stesso, liberò la mano dalla stretta di Amaru e lo scagliò lontano. Colpì alla testa l'aggressore con il calcio della Colt, ma si trattenne dal ripetere la mossa quando, ai margini del suo campo visivo, scorse le due guardie ancora illese che cercavano di riprendere le armi. Istintivamente, e nonostante il dolore, continuò a stringere la Colt. Con un proiettile stese il grottesco guardiano guercio trapassandogli il collo. Ignorò Julio, che era accecato, e sparò al petto dell'altro. Pitt sentì Loren urlare l'avvertimento, come se il suo grido giungesse da una grande distanza. Troppo tardi vide che Sarason gli puntava contro la Derringer. I suoi muscoli si mossero con una frazione di secondo di ritardo. Vide la vampata uscire dalla canna e sentì una tremenda martellata alla
spalla sinistra prima di udire l'esplosione. Il colpo lo fece girare su se stesso. Cadde in acqua mentre Amaru si trascinava verso di lui con lo stesso accanimento di un orso ferito deciso a smembrare una volpe paralizzata. La corrente l'afferrò e lo spinse lontano dalla riva. Si aggrappò disperatamente alle pietre del fondo per ancorarsi. Sarason si avvicinò lentamente alla riva e osservò la lotta che si svolgeva nel fiume. Amaru aveva stretto le braccia intorno alla vita di Pitt e cercava di tirarlo sott'acqua. Con un sogghigno, Sarason prese attentamente la mira alla testa di Pitt. «Uno sforzo lodevole, signor Pitt. Sei davvero tenace. Per quanto possa sembrare strano, sentirò la tua mancanza.» Ma il colpo di grazia non arrivò. Come tentacoli neri, due braccia cinsero le gambe di Sarason e gli strinsero le caviglie. Abbassò lo sguardo sull'essere indescrivibile che lo tratteneva e cominciò freneticamente a percuotere la testa che emergeva dall'acqua. Giordino aveva seguito Pitt e s'era lasciato andare alla deriva. La corrente era meno forte del previsto nel tratto che precedeva l'isola del tesoro, e quindi era riuscito a trascinarsi nelle secche senza che nessuno lo notasse. Aveva maledetto l'impossibilità di aiutare Pitt a liberarsi di Amaru; ma quando Sarason si era avvicinato, s'era affrettato ad abbrancarlo. Non badò ai colpi che gli grandmavano sulla testa. Alzò la faccia verso Sarason e disse con voce profonda: «Saluti dall'inferno, maiale». Sarason si riprese dallo sbalordimento e liberò un piede per conservare l'equilibrio. Dato che Giordino non cercava di alzarsi, intuì che doveva essere ferito gravemente al di sotto delle anche. Gli sferrò un calcio rabbioso e lo colpì alla coscia. Giordino sobbalzò in una contrazione di sofferenza e lasciò l'altra caviglia di Sarason. «Data l'esperienza precedente», disse questi, che aveva ritrovato la calma, «avrei dovuto immaginare che non potevi essere lontano.» Fissò per un momento la Derringer. Sapeva che gli restava un solo proiettile... Comunque c'erano quattro o cinque armi automatiche quasi a portata di mano. Poi diede un'occhiata a Pitt e ad Amaru, avvinghiati in una lotta mortale. Non c'era bisogno di sprecare il proiettile per Pitt. Il fiume aveva afferrato i due e li stava strascinando implacabilmente verso valle. Se Pitt fosse sopravvissuto e fosse uscito dall'acqua, Sarason avrebbe avuto a disposizione un arsenale per liquidarlo. Prese una decisione. Si chinò e puntò la canna della Derringer tra gli occhi di Giordino. Loren gli balzò alla schiena, lo bloccò con le braccia e tentò di trattener-
lo. Sarason si liberò senza fatica e la gettò di lato. Lei cadde pesantemente su una delle armi abbandonate, la prese e premette il grilletto. Non accadde nulla: non era abbastanza esperta per sapere che doveva togliere la sicura. Proruppe in un gemito quando Sarason tese il braccio e la colpì alla testa con il calcio della Derringer. Poi Sarason girò di scatto su se stesso. Gunn, che aveva ripreso i sensi, gli aveva scagliato una pietra che gli rimbalzò sul fianco con la scarsa forza di una palla da tennis colpita male. Sarason scosse la testa, meravigliato dalla forza d'animo e dal coraggio di quegli individui che resistevano con tanta frenesia. Quasi gli dispiaceva che dovessero morire tutti. Si girò di nuovo verso Giordino. «È stato solo un breve rinvio», disse con una smorfia, e tese di nuovo il braccio per puntare l'arma alla faccia di Giordino. Nonostante il dolore delle fratture alle gambe e lo spettro della morte che incombeva su di lui, Giordino lo guardò negli occhi e sogghignò velenosamente: «Va' a farti fottere». Lo sparo echeggiò come una cannonata nella caverna, seguito dal tonfo del piombo che attraversava la carne viva. Giordino vide gli occhi di Sarason fissarlo con una strana espressione confusa. Poi l'uomo si voltò e mosse meccanicamente due passi sulla riva, crollò lentamente bocconi e finì inerte sulla pietra. Giordino non riusciva a credere d'essere ancora vivo. Alzò la testa e vide un ometto, vestito come un bovaro e con un Winchester fra le mani, che avanzava nel cerchio di luce. «E lei chi è?» gli chiese. «Billy Yuma. Sono venuto per aiutare il mio amico.» Loren, che si stringeva con una mano la testa sanguinante, sgranò gli occhi. «Amico?» «L'uomo che si chiama Pitt.» Nel sentire quel nome, Loren si rialzò e a passi malfermi corse verso la riva del fiume. «Non lo vedo!» gridò spaventata. Giordino si sentì stringere il cuore. Urlò il nome di Pitt, ma la sua voce echeggiò senza risposta nella caverna. «Oh, Dio, no», mormorò allarmato. «Non c'è più.» Con una smorfia, Gunn si sollevò a sedere e guardò la tenebra verso valle. Come gli altri che pure avevano affrontato con calma la morte pochi minuti prima, era stravolto nello scoprire che il vecchio amico era stato trascinato via verso una fine certa. «Forse ce la farà a tornare indietro a
nuoto», mormorò. Giordino scosse la testa. «Non può ritornare. La corrente è troppo forte.» «Dove va a finire il fiume?» chiese Loren, in preda a un panico crescente. Giordino batté il pugno contro la roccia, disperato. «Nel golfo di California. Dirk viene trascinato verso il mare di Cortés, a cento chilometri da qui.» Loren si lasciò cadere sul pavimento della caverna, si coprì la faccia con le mani e pianse senza ritegno. «Mi ha salvata e adesso morirà.» Billy Yuma s'inginocchiò accanto a lei e le batté gentilmente una mano sulla spalla nuda. «Se non può farlo nessun altro, forse lo aiuterà Dio.» Giordino era stravolto. Non sentiva più il dolore delle fratture e guardava l'oscurità senza vedere nulla. «Cento chilometri», ripeté lentamente. «Neppure Dio può tenere in vita un uomo con un polso e un paio di costole fratturati e un proiettile in una spalla per cento chilometri di acque furiose nel buio più assoluto.» Dopo aver sistemato tutti in modo che stessero almeno più comodi, Yuma risalì in fretta sulla cima della montagna e raccontò l'accaduto. Convinse i parenti a entrare nelle caverne, e quelli improvvisarono barelle con il materiale lasciato dai genieri e trasportarono Gunn e Giordino in superficie. Un uomo anziano offrì a Loren, per avvolgersi, una coperta tessuta dalla moglie. Secondo le istruzioni di Giordino, Gunn e la sua barella furono legati nello stretto vano di carico dell'elicottero della NUMA, rubato e poi abbandonato dagli Zolar. Loren salì e prese posto sul sedile del copilota mentre Giordino, con la faccia contratta dalla sofferenza, veniva sollevato e sistemato ai comandi. «Dovremo pilotare insieme questo frullino», disse a Loren quando il dolore alle gambe divenne meno lancinante e più sordo. «Dovrai azionare la pedaliera per far muovere il rotore di coda.» «Spero di riuscirci», rispose lei nervosamente. «Basta che usi un tocco leggero con i piedi scalzi, e andrà tutto bene.» Con la radio di bordo chiamarono Sandecker, che si aggirava come un leone in gabbia nell'ufficio di Starger alla sede della Dogana, e avvertirono che stavano per arrivare. Giordino e Loren ringraziarono Billy Yuma, i suoi parenti e amici, e si congedarono da loro calorosamente. Quindi Giordino accese il motore e lo lasciò scaldare per un minuto mentre controllava
gli strumenti. Quindi si rivolse a Loren. «Appena cominceremo a sollevarci, l'effetto della coppia motrice farà in modo che la coda si sposti verso sinistra e il muso verso destra. Premi leggermente il pedale di sinistra per compensare.» Loren annuì brevemente. «Farò del mio meglio, ma vorrei non doverlo fare.» «Non abbiamo altra scelta, dobbiamo andarcene con l'elicottero. Se lo trasportassero giù dalla montagna, Rudi non ce la farebbe.» L'elicottero si sollevò lentamente a meno di un metro da terra. Giordino lo tenne per un po' in quella posizione mentre Loren si familiarizzava con la pedaliera che agiva sul piccolo rotore. All'inizio aveva la tendenza a forzare un po' troppo, ma poi si abituò e annuì. «Credo di essere pronta.» «Allora, via», esclamò Giordino. Venti minuti più tardi, collaborando all'unisono, effettuarono un atterraggio perfetto davanti alla sede della Dogana a Calexico, dove l'ammiraglio Sandecker li attendeva accanto a un'ambulanza, fumando ansiosamente un sigaro. Nel momento in cui Amaru lo spinse sott'acqua, e sentì le zanne della corrente afferrare il suo corpo straziato, Pitt comprese che gli sarebbe stato impossibile ritornare alla caverna del tesoro. Era doppiamente intrappolato... da un assassino che gli stava avvinghiato e da un fiume deciso a trascinarlo all'inferno. Anche se entrambi fossero stati illesi, l'esito non sarebbe stato in dubbio. Per quanto fosse un tagliagole, Amaru non era in grado di uguagliare l'esperienza subacquea dell'americano. Prima che il fiume si chiudesse sopra la sua testa, Pitt trasse un respiro profondo, si premette il braccio illeso contro il petto per proteggere le costole fratturate e si rilassò senza sprecare energie per scrollarsi di dosso l'aggressore. Continuò a stringere la pistola, anche se sparando sott'acqua si sarebbe probabilmente fratturato tutte le ossa della mano. Sentì la presa di Amaru scivolargli dalla vita ai fianchi. L'assassino aveva una forza incredibile. Insisteva furiosamente nel suo tentativo di strappargli la pistola mentre entrambi roteavano nella corrente come pupazzi travolti da un vortice. Nessuno dei due riusciva a vedere l'altro, perché erano immersi nelle tenebre. Senza il minimo barlume di luce, Pitt aveva la sensazione d'essere immerso nell'inchiostro.
Fu la rabbia a tenere in vita Amaru nei quarantacinque secondi successivi. La sua mente impazzita non si rendeva conto che stava annegando doppiamente: il polmone trapassato dal proiettile s'inondava di sangue e nello stesso tempo aspirava acqua. Le ultime forze lo stavano ormai abbandonando, quando toccò con i piedi una secca formata dalla sabbia accumulatasi nella curva esterna del fiume. Affiorò sputando sangue e acqua in una piccola galleria scoperta e si avventò verso il collo di Pitt. Ma ormai non aveva più energia, non poteva più lottare. Appena uscì dall'acqua sentì che il sangue sgorgava dalla ferita al petto. Con uno sforzo minimo, Pitt poté spingerlo di nuovo nella corrente. Non vide il peruviano trascinato nella tenebra, non poté osservare la faccia esangue, gli occhi resi vitrei dall'odio e dall'imminenza della morte. Però sentì la voce malevola che si allontanava lentamente. «Ho detto che avresti sofferto.» Le parole erano poco più d'un bisbiglio rauco. «Adesso languirai e morirai nel buio e nella solitudine più nera.» «È un'ottima cosa, essere travolti in un'orgia di grandiosità poetica», disse Pitt in tono gelido. «Buon viaggio fino al golfo di California.» La risposta fu un colpo di tosse e un gorgoglio, e finalmente il silenzio. La sofferenza tornò a impadronirsi di Pitt. Il dolore si irradiò dal polso fratturato alla ferita alla spalla e alle costole incrinate. Non era sicuro che gli fosse rimasta la forza per resistere. Lo sfinimento attenuava leggermente la tortura. Non s'era mai sentito così stanco in tutta la sua vita. Si trascinò su un tratto asciutto della barena e lentamente si accasciò nella sabbia soffice. Quindi perse i sensi. 56. «Non mi piace l'idea di andarmene senza Cyrus», disse Oxley mentre scrutava il cielo sopra il deserto, a sud-ovest. «Nostro fratello si è trovato altre volte in situazioni anche più difficili», ribatté impassibile Zolar. «Pochi indiani di un villaggio locale non dovrebbero rappresentare una minaccia seria per gli assassini di Amaru.» «L'abbiamo aspettato già molto a lungo...» «Non ti preoccupare. Probabilmente Cyrus comparirà in Marocco con un paio di ragazze al fianco.» Erano in fondo a una stretta striscia d'asfalto tracciata fra le innumerevoli dune del Desierto de Aitar perché i piloti dell'Aeronautica militare messicana potessero addestrarsi in condizioni estreme. Dietro di loro, con la
sezione di coda che sporgeva dal bordo della pista spazzata dalla sabbia, un Boeing 747-400, con i colori di un grande corriere aereo nazionale, era pronto per il decollo. Zolar passò sotto l'ombra dell'ala destra e controllò l'elenco degli oggetti preziosi inventariati da Henry e Micki Moore mentre i genieri messicani caricavano gli ultimi pezzi. Indicò con un cenno della testa la statua d'oro di una scimmia che veniva innalzata da un grosso carrello elevatore nella stiva a circa sette metri da terra. «Questa è l'ultima.» Oxley girò lo sguardo sul deserto che circondava la pista. «Non avresti potuto scegliere un posto più isolato per effettuare il trasbordo del tesoro.» «Possiamo ringraziare il compianto colonnello Campos che ce l'ha suggerito.» «Ci sono stati problemi con gli uomini di Campos dopo la sua morte prematura?» chiese Oxley in tono più cinico che rammaricato. Zolar rise. «Non ce ne sono stati, dopo che ho regalato a ognuno di loro una barra d'oro da cento once.» «Sei stato molto generoso.» «È difficile non esserlo, quando si ha intorno una simile ricchezza.» «È un vero peccato che Matos non potrà spendere la sua parte», disse Oxley. «Già. Infatti ho continuato a piangere da quando sono partito dal Cerro el Capirete.» Il pilota di Zolar si avvicinò e accennò un saluto. «L'equipaggio e io siamo pronti, signori. Vorremmo decollare prima dell'imbrunire.» «Il carico è fissato bene?» chiese Zolar. Il pilota annuì. «Certo, non è il lavoro più perfetto che abbia visto. Ma, anche considerando che non usiamo i container, dovrebbe resistere fino a quando non atterreremo a Nador, in Marocco, purché non incontriamo grosse turbolenze.» «Sono previste?» «No, signore. I dati meteorologici indicano che troveremo sereno per tutta la rotta.» «Bene, sarà un volo tranquillo», commentò soddisfatto Zolar. «Ricordi che in nessun caso dobbiamo sconfinare negli Stati Uniti.» «Ho tracciato una rotta che ci porterà a sud di Laredo e di Brownsville fino al golfo del Messico sotto Key West, prima di attraversare l'Atlantico.» «Quanto impiegheremo per atterrare in Marocco?» chiese Oxley al pilo-
ta. «Il nostro piano di volo prevede dieci ore e cinquantacinque minuti. Con lì carico al massimo e addirittura in eccesso, con diversi quintali di troppo e il pieno di carburante, più la deviazione a sud del Texas e della Florida, abbiamo aggiunto un po' più di un'ora alla durata del volo. E mi auguro di trovare il vento in coda.» Zolar guardò gli ultimi raggi del sole. «Quindi dovremmo atterrare a Nador domani alle prime ore del pomeriggio.» Il pilota annuì. «Appena sarete seduti, decolleremo.» Tornò all'aereo e salì la scaletta appoggiata al portello anteriore. Zolar fece un gesto per indicare la scala. «Se non ti sei innamorato di questa distesa di sabbia, non vedo nessun motivo per restare ancora qui.» Oxley s'inchinò con fare gioviale. «Dopo di te.» Quando varcarono il portello, si fermò a dare un'ultima occhiata verso il sud-ovest. «Però non mi sembra giusto non aspettare.» «Se fosse al nostro posto, Cyrus non esiterebbe a partire. La posta in gioco è troppo alta per attendere ancora. Nostro fratello se la caverà. Smetti di preoccuparti.» Salutarono a cenni i genieri messicani che si scostarono dall'aereo e acclamarono i benefattori. Poi il tecnico di bordo chiuse il portello e lo bloccò. Pochi minuti dopo, le turbine urlarono e il grosso Boeing 707-400 s'innalzò dalle dune ondulate, inclinò l'ala destra e virò leggermente a sud-est. Zolar e Oxley erano seduti in un piccolo scompartimento passeggeri sul ponte superiore, dietro la cabina di pilotaggio. «Chissà cos'è successo ai Moore?» mormorò Oxley mentre guardava dal finestrino il mare di Cortés che si andava allontanando. «L'ultima volta che li ho visti erano nella caverna mentre i genieri finivano di caricare su una slitta il resto del tesoro.» «Scommetto che Cyrus ha risolto il piccolo problema oltre a quello di Loren Smith e di Rudi Gunn», disse Zolar, e si rilassò per la prima volta dopo parecchi giorni. Alzò gli occhi e sorrise mentre la sua cameriera personale portava un vassoio con due bicchieri di vino. «So che ti sembrerà strano, ma avevo avuto la sensazione inquietante che non sarebbe stato facile sbarazzarsi di loro.» «Devo ammetterle che la stessa idea era venuta anche a Cyrus. Anzi, lui pensava che fossero due sicari.» Oxley si voltò verso di lui. «Anche la moglie? Vorrai scherzare!»
«No, credo che parlasse sul serio.» Zolar bevve un sorso di vino, fece un cenno d'approvazione e annuì. «Eccellente. Un Cabernet californiano di Chàteau Montelena. Devi assaggiarlo.» Oxley prese il bicchiere e lo guardò. «Non me la sento di festeggiare... Non prima di aver portato il tesoro al sicuro in Marocco e di essere sicuri che Cyrus ha lasciato il Messico.» Ben presto l'aereo raggiunse quella che i due fratelli credevano fosse la quota di crociera. Quindi entrambi slacciarono le cinture di sicurezza e andarono nella stiva. Cominciarono a esaminare attentamente l'incredibile collezione di antichità auree. Dopo meno di un'ora, però, Zolar s'irrigidì e guardò il fratello in modo strano. «Non hai l'impressione che stiamo scendendo?» Oxley era intento ad ammirare una farfalla d'oro posata su un fiore dello stesso metallo. «Io non sento niente.» Zolar non era convinto. Si chinò a guardare da un finestrino e vide che il suolo era meno di mille metri più sotto. «Siamo troppo bassi!» esclamò bruscamente. «C'è qualcosa che non va.» Oxley socchiuse gli occhi e guardò a sua volta da un finestrino. «Hai ragione. Gli ipersostentatori sono estesi e abbassati. Sembra che stiamo per atterrare. Deve esserci un'emergenza.» «Perché il pilota non ci ha avvertiti?» In quel momento sentirono che il carrello si abbassava. Il terreno sembrava andar loro incontro più rapidamente. Passarono fulminei accanto a case e binari ferroviari, e arrivarono alla fine di una pista. Le ruote toccarono il cemento, i motori urlarono sotto l'azione del deviatore di spinta. Il pilota pigiò i freni e poco dopo azionò le manette mentre guidava l'enorme aereo su una bretella di rullaggio. La scritta sul terminal diceva: BENVENUTI A EL PASO. Oxley sbarrò gli occhi, ammutolito, mentre Zolar gridava: «Mio Dio, siamo atterrati negli Stati Uniti!» Corse a bussare freneticamente sulla porta della cabina di pilotaggio. Non ottenne nulla fino a che l'enorme aereo non si fermò davanti a un hangar della Air National Guard all'estremità opposta del campo. Solo allora la porta si socchiuse lentamente. «Cosa diavolo ha fatto? Le ordino di decollare immediatamente...» Le parole si spensero nella gola di Zolar quando si trovò la canna di una pistola puntata fra gli occhi.
Il pilota era al suo posto, come il copilota e il tecnico di bordo. Henry Moore stava sulla soglia e stringeva una strana pistola automatica da 9 mm di sua invenzione, e intanto Micki Moore stava parlando alla radio mentre puntava una piccola automatica calibro 25 al collo del pilota. «Scusate lo scalo imprevisto, miei cari ex amici», disse Moore in un tono imperioso che Zolar e Oxley non gli avevano mai sentito usare. «Ma come potete vedere il piano di volo è cambiato.» Zolar fissò la canna della pistola e la sua espressione passò dallo shock alla rabbia minacciosa. «Idiota, stupido idiota, ha idea di quello che ha fatto?» «Oh, sì», rispose Moore sbrigativamente. «Io e Micki abbiamo dirottato il vostro aereo con il carico di preziosi oggetti d'oro. Credo che conosciate la massima: non c'è onore fra i ladri.» «Se non fa ripartire immediatamente l'aereo», strillò Oxley, «ci piomberanno addosso gli agenti della Dogana.» «Ora che ne ha parlato, Micki e io avevamo l'idea di consegnare il tesoro alle autorità.» «Non sa cosa sta dicendo!» «Oh, invece lo so molto bene, Charley, vecchio mio. Agli agenti federali lei e suo fratello interessate più del tesoro di Huascar.» «Da dove siete spuntati?» chiese Zolar. «Ci siamo fatti dare un passaggio da uno degli elicotteri che hanno trasportato l'oro. I genieri erano abituati alla nostra presenza e non hanno fatto caso a noi quando siamo saliti sull'aereo. Ci siamo nascosti in uno dei bagni fino a che il pilota non è sceso sulla pista per parlare con lei e Charles. Allora abbiamo occupato la cabina di pilotaggio.» «È perché mai gli agenti federali dovrebbero credervi sulla parola?» chiese Oxley. «Perché, in un certo senso, una volta anche Micki e io eravamo agenti federali», spiegò laconicamente Moore. «Dopo che abbiamo occupato la cabina di pilotaggio, Micki si è messa in contatto radio con certi vecchi amici di Washington e quelli vi hanno preparato una bella accoglienza.» Zolar sembrava in procinto di balzare alla gola di Moore, a costo di farsi uccidere. «Lei e sua moglie vi siete accordati per una percentuale degli oggetti antichi. Non è così?» Attese una risposta ma, dato che Moore taceva, continuò: «Che percentuale vi hanno offerto? Il dieci? Il venti? O addirittura il cinquanta per cento?» «Non abbiamo fatto patti con il governo», tagliò corto Moore. «Sapeva-
mo che non avevate intenzione di onorare il nostro accordo, e che avevate deciso di ucciderci. Avevamo progettato di rubare il tesoro e di tenerlo per noi. Ma, come può vedere, abbiamo cambiato idea.» «Avete troppa familiarità con le armi», osservò Oxley. «Cyrus aveva ragione. Siete due sicari.» Moore annuì. «Suo fratello è molto intuitivo. Ci vuole un assassino per riconoscerne un altro.» Si sentì bussare al portello di prua sul ponte sottostante. Moore indicò la scala con la pistola. «Andate ad aprire», ordinò a Zolar e Oxley. Cupi in volto, i due obbedirono. Quando il portello pressurizzato si spalancò, due uomini entrarono dalla scaletta che era stata accostata all'aereo. Erano entrambi in borghese. Uno era un negro colossale che aveva l'aria dell'ex giocatore di football. L'altro era un bianco molto elegante. Zolar intuì immediatamente che erano agenti federali. «Joseph Zolar e Charles Oxley, io sono l'agente David Gaskill della Dogana e questo è l'agente Francis Ragsdale dell'FBI. Siete in arresto per aver contrabbandato opere d'arte negli Stati Uniti e per averne rubate innumerevoli altre da musei pubblici e privati, senza contare le falsificazioni e la vendita illegale di oggetti d'antiquariato.» «Di che sta parlando?» chiese Zolar. Gaskill non gli badò: si rivolse a Ragsdale mostrando i denti in un gran sorriso. «Vuoi occupartene tu?» Ragsdale annuì, felice come un ragazzino che ha appena ricevuto in regalo un hi-fi nuovo. «Sì, certo, grazie.» Mentre Gaskill ammanettava Zolar e Oxley, Ragsdale lesse i loro diritti. «Siete arrivati puntuali», commentò Moore. «Ci avevano detto che eravate a Calexico.» «Siamo partiti con un jet militare un quarto d'ora dopo che ci è arrivata la comunicazione dalla sede centrale dell'FBI a Washington», rispose Ragsdale. Oxley guardò Gaskill con un'espressione in cui non si leggevano né paura né turbamento, ma solo una grande astuzia. «Neppure in cento anni troverete prove sufficienti per farci condannare.» Ragsdale indicò con un cenno della testa la stiva piena d'oro. «Quello cosa sarebbe, secondo lei?» «Siamo semplici passeggeri», ribatté Zolar che aveva ritrovato la compostezza. «Siamo stati invitati dal professor Moore e dalla moglie.»
«Capisco. Le dispiace dirmi da dove sono venuti tutte le opere d'arte e gli oggetti antichi di provenienza illecita immagazzinati a Galveston?» Oxley sbuffò beffardamente. «Il nostro magazzino di Galveston è perfettamente in regola. Vi avete fatto irruzione più volte e non avete mai trovato niente.» «Se è così», ribatté Ragsdale, «come spiega la galleria che va dalla Logan Storage Company al magazzino sotterraneo della Zolar International, pieno di roba rubata?» I due fratelli si guardarono e diventarono cinerei. «Sta inventando tutto», disse impaurito Zolar. «Davvero? Vuole che descriva la galleria in tutti i particolari e faccia un breve elenco dei capolavori rubati che abbiamo scoperto?» «La galleria... non potete aver trovato la galleria.» «Da trentasei ore», chiarì Gaskill, «la Zolar International e la vostra organizzazione clandestina conosciuta come Solpemachaco non sono più in attività.» «È un vero peccato che vostro padre Mansfield Zolar, alias lo Spettro, non sia ancora vivo. Altrimenti avremmo sistemato anche lui», soggiunse Ragsdale. Zolar sembrava sul punto di cedere a una crisi cardiaca. Oxley era incapace di muoversi. «Prima che voi due e il resto dei vostri parenti, collaboratori, soci e acquirenti usciate di prigione, sarete diventati vecchi quanto la merce che avete rubato.» Gli agenti federali incominciarono a invadere l'aereo. Quelli dell'FBI portarono via l'equipaggio e la cameriera di Zolar, quelli della Dogana sganciarono le cinghie degli oggetti d'oro. Ragsdale fece un cenno ai suoi. «Portateli alla procura federale.» Non appena i ladri d'arte, sconfitti e desolati, furono fatti salire a bordo di due automobili, gli agenti si rivolsero ai Moore. «Non so dirvi quanto vi siamo grati per la collaborazione», disse Gaskill. «L'incriminazione della famiglia Zolar sarà un colpo durissimo per il traffico delle opere d'arte rubate.» «Non l'abbiamo fatto per puro disinteresse», commentò Micki con un sorriso. «Henry è certo che il governo peruviano ci assegnerà una ricompensa.» Gaskill annuì. «Sì, lo credo anch'io.» «E il prestigio che ci darà il fatto di essere stati i primi a catalogare e fo-
tografare il tesoro darà un grosso impulso alla nostra reputazione di scienziati», spiegò Henry Moore mentre rimetteva in tasca la pistola. «Anche la Dogana vorrebbe un rapporto su tutti gli oggetti, se non vi dispiace», aggiunse Gaskill. Moore annuì. «Micki e io saremo lieti di collaborare. Abbiamo già inventariato il tesoro. Vi consegneremo un rapporto prima che venga restituito ufficialmente al Perù.» «Nel frattempo dove lo terrete?» chiese Micki. «In un magazzino governativo di cui non possiamo rivelare l'ubicazione», rispose Gaskill. «Ci sono notizie della deputata Smith e del dirigente della NUMA?» Gaskill annuì. «Pochi minuti prima del vostro atterraggio siamo stati informati che entrambi erano stati salvati da una tribù d'indios e che venivano trasferiti in un ospedale locale.» Micki si lasciò cadere su un sedile per i passeggeri e sospirò. «Allora è finita.» Henry sedette sul bracciolo e le prese la mano. «Per noi sì», disse gentilmente. «D'ora in poi vivremo come una coppia di vecchi professori in una rispettabile università.» Micki alzò gli occhi verso di lui. «È tanto orribile?» «No», rispose Moore baciandole la fronte. «Credo che potremo sopportarlo.» 57. Quando riemerse lentamente dall'abisso del torpore, Pitt ebbe la sensazione di procedere a stento su un pendio fangoso e di ripiombare indietro ogni volta che stava per riprendere del tutto i sensi. Cercò di aggrapparsi a quei brevi attimi di lucidità, ma ricadde nel vuoto. Se riuscissi ad aprire gli occhi, pensò vagamente, tornerei alla realtà. Infine, con uno sforzo immane, schiuse le palpebre. Vide soltanto la tenebra fredda come una tomba e scosse disperato la testa, pensando di essere precipitato di nuovo nel vuoto; poi il dolore ritornò come una vampata e lo svegliò completamente. Si girò sul fianco, si sollevò a sedere, scosse di nuovo la testa cercando di liberarsi dalla nebbia che gli occupava la mente. Ricominciò la lotta con il dolore martellante della spalla, le fitte al petto e il tormento al polso. Si sfiorò il taglio alla fronte.
«Sei ridotto proprio bene», borbottò. Lo sorprendeva di non sentirsi troppo debole per il sangue perduto. Sganciò dall'avambraccio la torcia elettrica che gli aveva dato Giordino prima che precipitassero nella cascata. L'accese e la puntellò nella sabbia per dirigere il raggio verso la parte superiore del torace. Aprì la lampo della tuta e tastò piano la ferita alla spalla. Il proiettile aveva attraversato la carne ed era uscito dalla schiena senza ledere la scapola e la clavicola. Il neoprene della muta lacerata ma ancora aderente aveva contribuito a sigillare il foro e a bloccare il flusso del sangue. Era un sollievo non sentirsi esausto come aveva previsto: si rilassò e valutò la situazione. Le probabilità di sopravvivere erano inesistenti. Di fronte a cento chilometri di rapide, cascate e attraversamenti di caverne completamente sommerse, non aveva bisogno d'un chiromante per sapere che la sua linea della vita s'interrompeva prima della vecchiaia. Anche se avesse sempre trovato l'aria, c'era pur sempre la distanza dall'apertura del canale sotterraneo fino alla superficie del mare di Cortés. Quasi tutti gli uomini che si fossero trovati in un inferno di tenebra nelle viscere della terra senza speranza di salvezza avrebbero ceduto al panico e sarebbero morti straziandosi le dita nel tentativo inutile di aprirsi un varco verso la superficie. Ma Pitt non aveva paura. Era stranamente soddisfatto e in pace con se stesso. Se devo morire, pensò, tanto vale mettermi comodo. Con la mano illesa assestò la sabbia per stendersi. Rimase sorpreso quando il fascio luminoso della lampada si rifletté su mille pagliuzze d'oro nella sabbia nera. Ne raccolse una manciata e l'accostò alla luce. «Questo posto è pieno d'oro alluvionale», mormorò. Fece girare il raggio sulla caverna: le pareti erano tagliate da cenge di quarzo bianco striato da vene d'oro. Scoppiò a ridere, rendendosi conto dell'assurdità della situazione. «Una miniera d'oro», dichiarò alla caverna silenziosa. «Ho scoperto una miniera d'oro favolosamente ricca e non lo saprà mai nessuno.» Si assestò e pensò alla scoperta. Qualcuno mi ha voluto dire qualcosa, pensò. Anche se non aveva paura della vecchia con la falce, ciò non significava che doveva arrendersi e aspettarla. Nella sua mente prese forma una decisione ostinata. È meglio entrare nell'Aldilà dopo un audace tentativo di restare in vita, anziché gettare la spugna e finire come uno straccio, concluse. Forse altri esploratori avventurosi avrebbero dato tutto ciò che possedevano per l'ono-
re di entrare in quel santuario mineralogico, ma adesso Pitt voleva uscirne. Si alzò, gonfiò il giubbetto equilibratore e avanzò nell'acqua fino a quando la corrente non lo portò via. Devo affrontare una caverna alla volta, si disse, mentre puntava la torcia sull'acqua davanti a sé. Non poteva contare sulla vigilanza incessante. Era troppo debole per lottare con le rapide ed evitare le rocce. Poteva solo stare calmo e andare dove lo portava la corrente. Dopo un po' ebbe la sensazione di non aver fatto altro nella vita se non passare da una galleria all'altra. La volta delle caverne e dei passaggi salì e si abbassò con regolarità monotona per dieci chilometri. Poi sentì il rombo temibile di una rapida. Per fortuna, la prima che incontrò non era troppo turbolenta. L'acqua gli sbatté in faccia e lo sommerse più volte, ma poi Pitt raggiunse di nuovo un tratto tranquillo. Poco dopo il fiume si placò: davanti a Pitt si aprì un lungo canyon, all'interno d'una galleria immensa. Quando arrivò alla fine, quasi un'ora dopo, la volta si abbassò gradualmente e toccò l'acqua. Pitt si riempì d'aria i polmoni e si tuffò. Poteva usare soltanto un braccio e non aveva più le pinne, e quindi si muoveva lentamente. Puntò la torcia elettrica contro il tetto roccioso e nuotò sul dorso. I polmoni cominciarono a protestare per la mancanza di ossigeno, eppure lui continuò a nuotare. Finalmente la torcia rivelò una sacca d'aria. Salì alla superficie e aspirò avidamente l'aria pura che era rimasta intrappolata. La piccola grotta si allargò e la volta s'inarcò al di là del raggio della torcia. Il fiume svoltò bruscamente nel punto dove aveva formato una barriera di ghiaia levigata. Pitt si trascinò faticosamente all'asciutto per riposare e spense la luce per far durare più a lungo le batterie. All'improvviso la riaccese. Qualcosa aveva colpito la sua attenzione in mezzo alle ombre, prima che la luce si spegnesse. C'era qualcosa, a meno di cinque metri da lui: una sagoma nera dalle linee rette che contraddicevano la geometria della natura. Pitt si rianimò nel riconoscere i resti malconci del Wallowing Windbag. Incredibilmente, l'hovercraft aveva superato la tremenda caduta nella cascata ed era stato gettato sulla ghiaia dopo che la corrente l'aveva trascinato per quasi quaranta chilometri. Finalmente un barlume di speranza. Barcollando, si avviò sulla ghiaia, raggiunse lo scafo di gomma e lo esaminò con la torcia. Il motore e la ventola erano stati strappati via. Due delle camere d'aria erano perforate e sgonfie; le altre sei erano ancora intatte. Parte dell'equi-
paggiamento era sparita, ma quattro bombole d'aria compressa, la cassetta del pronto soccorso, la sfera di plastica di tracciante colorato consegnata da Duncan, uno dei remi di Giordino, due torce elettriche e il contenitore stagno con il thermos di caffè e quattro sandwich alla mortadella erano sopravvissuti. Un miracolo. «Direi che la mia situazione è molto migliorata», annunciò allegramente Pitt alla caverna deserta. Aprì la cassetta del pronto soccorso. Usò il disinfettante per la ferita alla spalla e applicò una benda all'interno della tuta lacera. Sapeva che era inutile bendare le costole fratturate; strinse i denti e fasciò strettamente il polso con il cerotto. All'interno del thermos il caffè aveva conservato quasi tutto il calore, e Pitt ne bevve la metà prima di attaccare i sandwich. Nessun filetto gigante alla fiamma, pensò, può essere più delizioso di quella mortadella. E giurò che non si sarebbe mai più lamentato dei sandwich di quel tipo. Dopo un breve riposo, ritrovò in parte le forze. Adesso si sentiva abbastanza ristorato per fissare di nuovo l'equipaggiamento e aprire il contenitore del colorante. Sparse nell'acqua il ravvivatore ottico alla fluorescina. Nella luce della torcia rimase a guardare fino a che il colorante non tinse l'acqua del fiume d'una vivida luminescenza gialla. Poi la corrente lo portò via. «Così dovrebbero capire che sto per arrivare», commentò a voce alta. Spinse fuori della secca ciò che restava dell'hovercraft. Con cautela, salì a bordo e remò con una mano sola per portarsi al centro del fiume. Mentre il Wallowing Windbag semisgonfio andava alla deriva verso valle, Pitt si assestò comodamente e cominciò a canticchiare Up the Lazy River in the Noonday Sun. 58. Informato degli avvenimenti che si stavano svolgendo in California dall'ammiraglio Sandecker e dagli agenti Gaskill e Ragsdale che erano a El Paso, il segretario di Stato decise d'infischiarsene del protocollo diplomatico e chiamò personalmente il presidente del Messico. Gli parlò della colossale attività di furti e di contrabbando organizzata dagli Zolar. «È incredibile», commentò il presidente messicano. «Ma vero», gli assicurò il segretario di Stato. «Posso soltanto rammaricarmi dell'accaduto e promettere la piena colla-
borazione alle indagini da parte del mio governo.» «Se mi perdona, signor presidente, vorrei sottoporle un elenco di richieste.» «Sentiamo.» Dopo meno di due ore il confine fra il Messico e la California fu riaperto. I funzionari governativi che si erano lasciati convincere dagli Zolar con false promesse a rischiare la carriera vennero arrestati. Fernando Matos e il comandante Rafael Cortina furono fra i primi fermati dagli investigatori americani. Nel contempo, vari mezzi navali della Marina messicana in servizio nel mare di Cortés ricevettero l'ordine di salpare. Il tenente Carlos Hidalgo seguì con gli occhi un gabbiano prima di rivolgere nuovamente l'attenzione alla linea dell'orizzonte. «Stiamo cercando qualcosa di speciale, oppure cerchiamo e basta?» chiese con noncuranza al comandante. «Cerchiamo cadaveri», rispose il comandante Miguel Maderas. Abbassò il binocolo e mostrò la faccia tonda e cordiale sotto i capelli neri lunghi e folti. I denti candidi erano quasi sempre scoperti in un sorriso alla Burt Lancaster. Era basso e tozzo, ma solido come una roccia. Hidalgo era ben diverso. Magro, alto e con la faccia scarna, pareva una salma abbronzata. «Vittime di un incidente di navigazione?» «No, sub annegati in un fiume sotterraneo.» Hidalgo socchiuse gli occhi con aria scettica. «Non sarà una delle solite storie dei gringos a proposito di pescatori e sub trascinati dalle acque sotto il deserto e finiti nel golfo?» «E chi può dirlo?» rispose Maderas con una scrollata di spalle. «Io so soltanto che per ordine del comando della flotta a Ensenada dobbiamo pattugliare le acque dell'estremità settentrionale del golfo di California tra San Felipe e Puerto Peñasco e vedere se c'è traccia di cadaveri.» «È un'area molto grande per una nave sola.» «Verranno anche due motovedette partite da Santa Rosalia. E tutti i pescherecci della zona sono stati invitati a riferire l'eventuale avvistamento di resti umani.» «Se li trovano gli squali», mormorò Hidalgo, «non resterà nulla.» Maderas si appoggiò al parapetto, accese una sigaretta e guardò in direzione della poppa della sua motovedetta, un ex dragamine statunitense lungo sessantasette metri che non aveva un nome ufficiale, a parte la visto-
sa sigla G-21 dipinta a prua. Ma l'equipaggio la chiamava poco affettuosamente Porquería, in pratica «schifezza», perché una volta aveva avuto un'avaria in mare aperto ed era stata rimorchiata in porto da un peschereccio: un'umiliazione imperdonabile. Tuttavia era una nave solida, pronta a rispondere al timone e stabile nel mare agitato. Gli equipaggi di molti pescherecci e di yacht privati dovevano la vita a Maderas e alla Porquería. Hidalgo, come comandante in seconda, aveva il compito di tracciare la griglia per la ricerca. Quando ebbe finito di lavorare su una grande carta nautica della parte settentrionale del golfo di California, diede le coordinate al timoniere. Poi incominciò la parte più noiosa: procedere per un lungo tratto e quindi invertire la rotta, come se si dovesse falciare un prato. Il primo percorso fu effettuato alle otto del mattino. Alle due del pomeriggio, un uomo che era di vedetta a prua gridò: «Oggetto in acqua!» «Dove?» «A centocinquanta metri dalla prua, a sinistra.» Maderas alzò il binocolo e scrutò l'acqua verdazzurra. Scorse subito un corpo che galleggiava a faccia in giù e veniva sollevato in quel momento dalla cresta di un'onda. «Visto.» Si accostò alla porta della timoniera e fece un cenno. «Ci porti a fianco dell'oggetto e avverta qualcuno che si tenga pronto a recuperarlo.» Poi si rivolse a Hidalgo. «Fermi i motori quando saremo a cinquanta metri.» L'onda di prua si abbassò dolcemente e il rombo sordo dei motori diesel si smorzò in un borbottio, mentre la motovedetta si affiancava al corpo che galleggiava sulle onde. Dall'alto del ponte, Maderas vide che la faccia gonfia era sfracellata. Non è sorprendente che gli squali la trovino poco appetitosa, pensò. Si rivolse a Hidalgo e sorrise. «Non c'è voluta una settimana, dopotutto.» «Siamo stati fortunati», mormorò l'altro. Senza mostrare rispetto per il morto, due uomini dell'equipaggio agganciarono il corpo con un arpione e lo tirarono verso una barella di rete metallica calata in acqua. Il cadavere fu trascinato sulla barella e issato sulla tolda. Era così malconcio da conservare solo una remota rassomiglianza con un essere umano. Maderas sentì alcuni dei suoi uomini vomitare in mare prima che il corpo venisse chiuso in un sacco di plastica. «Be', chiunque fosse ci ha fatto un favore», commentò Hidalgo. Maderas lo guardò con aria interrogativa. «Ah, e quale sarebbe?»
Hidalgo sogghignò, impassibile. «Non è rimasto in acqua abbastanza a lungo per puzzare.» Tre ore dopo la motovedetta superò il frangiflutti di San Felipe e attraccò a fianco dell'Alhambra. Come aveva sospettato Pitt, quando erano arrivati a riva con il gommone, Gorgo Padilla e i suoi erano andati a casa dalle mogli o dalle amichette e avevano festeggiato lo scampato pericolo concedendosi tre giorni di siesta. Poi, sotto gli occhi attenti della polizia di Cortina, Padilla aveva radunato i suoi e aveva ottenuto un passaggio su un peschereccio per ritornare al traghetto. Giunti a bordo, avevano riattivato i motori e fatto uscire l'acqua imbarcata quando Amaru aveva aperto le valvole. Con lo scafo liberato dai sedimenti e i motori in funzione, erano tornati a San Felipe con l'Alhambra e avevano attraccato in porto. Agli occhi di Maderas e Hidalgo, che osservavano la scena dall'alto del ponte della Porquería, il ponte anteriore del traghetto appariva come il reparto traumatologico di un ospedale. Loren Smith, in top e calzoncini, mostrava i lividi e un abbondante assortimento di fasciature e cerotti sulle spalle, sullo stomaco e sulle gambe. Giordino stava su una sedia a rotelle, con le gambe ingessate. Non c'era Rudi Gunn, ricoverato in condizioni stazionarie al Centro Regionale Medico a nord di Calexico, dopo essere sopravvissuto a una lesione allo stomaco, fratture a sei dita delle mani e a un leggero trauma cranico. L'ammiraglio Sandecker e l'idrologo Peter Duncan erano sul ponte del traghetto in compagnia di Shannon Kelsey, di Miles Rodgers, di un contingente della polizia locale e del perito settore statale di Baja California Norte. Avevano la faccia cupa, mentre la motovedetta calava sull'Alhambra la barella con il cadavere. Prima che il perito settore e il suo assistente potessero sollevare il sacco, Giordino si accostò con la sedia a rotelle. «Vorrei vedere il corpo», disse. «Non è un bello spettacolo, señor», gli gridò Hidalgo dal ponte della motovedetta. Il perito settore esitò. Non sapeva se la legge gli permetteva di mostrare il cadavere a quegli stranieri. Giordino lo fissò freddamente. «Vuole identificarlo o no?» Il perito, un ometto con gli occhi vacui e una quantità di capelli grigi, non conosceva l'inglese quanto bastava per capire, ma fece un cenno all'as-
sistente che aprì la lampo del sacco. Loren impallidì e girò la testa, ma Sandecker si affiancò a Giordino.» «È...?» Giordino scosse la testa. «No, non è Dirk. È quello psicopatico, Tupac Amaru.» «Dio, sembra appena uscito da una betoniera.» «Più o meno», mormorò Duncan, scosso da un brivido. «Le rapide devono averlo sbattuto contro tutte le rocce fra qui e il Cerro el Capirote.» «Se l'era meritato», borbottò Giordino in tono acido. «Fra la caverna del tesoro e il golfo di California», commentò Duncan, «il fiume deve scatenarsi.» «Non c'è traccia di un altro corpo?» chiese Sandecker a Hidalgo. «No, senior. È l'unico che abbiamo trovato. Ma abbiamo ricevuto l'ordine di continuare a cercare un secondo uomo.» Sandecker staccò gli occhi da Amaru. «Se Dirk non è finito nel golfo, deve essere ancora sottoterra.» «Forse è stato gettato su una spiaggia o su un banco di sabbia», disse speranzosa Shannon. «Può darsi che sia vivo.» «Non può organizzare una spedizione nel fiume sotterraneo per trovarlo?» chiese Rodgers all'ammiraglio. Sandecker scosse la testa. «Non posso mandare una squadra incontro a una morte sicura.» «L'ammiraglio ha ragione», annuì Giordino. «Potrebbe esserci una dozzina di cascate come quella dove siamo precipitati Dirk e io. Anche con un hovercraft come il Wallowing Windbag sarebbe molto difficile percorrere sani e salvi cento chilometri di fiume pieno di rapide e di rocce.» «E se questo non bastasse», soggiunse Duncan, «bisogna attraversare le caverne sommerse prima di emergere nel golfo di California. Senza bombole, sarebbe inevitabile annegare.» «Fin dove pensa che possa averlo trascinato la corrente?» gli chiese Sandecker. «Intende dalla caverna del tesoro?» «Sì.» Duncan rifletté un momento. «Pitt avrebbe forse una possibilità se fosse riuscito a raggiungere la riva dopo meno di cinquecento metri. Allora potremmo legare un uomo a un cavo di sicurezza e mandarlo verso valle per quel tratto, per poi trainarlo controcorrente.» «E se entro quella distanza non si trovasse traccia di Pitt?» domandò
Giordino. Duncan alzò mestamente le spalle. «Allora, a meno che il corpo non affiori nel golfo, non lo troveremo mai.» «C'è qualche speranza per Dirk?» chiese Loren in tono supplichevole. Prima di rispondere Duncan girò lo sguardo da Giordino a Sandecker. I loro occhi rispecchiavano una dolorosa impotenza, le facce erano segnate dalla disperazione. Si rivolse di nuovo a Loren e disse gentilmente: «Non posso mentirle, signorina Smith». Sembrava che quelle parole gli causassero un grande disagio. «Le speranze per Dirk equivalgono a quelle di un uomo gravemente ferito che cerchi di raggiungere il lago Mead presso Las Vegas dopo essere stato trascinato dalle acque del Colorado all'inizio del Grand Canyon.» Loren parve colpita da un pugno. Vacillò. Giordino la sostenne, stringendole il braccio. Con il cuore in pezzi, Loren mormorò: «Per me, Dirk Pitt non morirà mai». «Oggi i pesci sono un po' timidi», disse Joe Hagen alla moglie Claire. Lei era sdraiata bocconi sul tetto della cabina, in bikini violaceo, e leggeva una rivista. Sollevò gli occhiali da sole e rise. «Non saresti capace di prendere un pesce neppure se saltasse a bordo.» Anche Joe rise: «Aspetta e vedrai». «In questa parte del golfo di California troverai soltanto gamberi», insistette la moglie. Gli Hagen erano sulla sessantina, e piuttosto in forma. Come succede a molte donne della sua età, il didietro di Claire era diventato abbondante e la vita un po' flaccida, ma il viso era quasi privo di rughe e i seni erano ancora tondi e sodi. Joe era un omone che aveva perso la battaglia contro la pancia. Gestivano ad Anaheim una concessionaria di auto usate garantite. Da quando Joe aveva comprato un ketch di quindici metri, The First Attempt, a Newport Beach, i coniugi Hagen lasciavano sempre più spesso ai loro due figli la gestione dell'azienda. Amavano navigare lungo la costa, doppiare Cabo San Lucas e avventurarsi nel mare di Cortés, e passavano i mesi autunnali facendo la spola fra i porti pittoreschi. Era la prima volta che si spingevano tanto a nord. Mentre attendeva pigramente che qualche pesce si decidesse ad abboccare, Joe teneva d'occhio il profondimetro. Il ketch avanzava con il motore al minimo e le vele serrate. In quella estremità del golfo di California le maree arrivavano fino a sette metri, e non voleva incagliarsi su un banco di sabbia non segnalato
dalle carte. Si rilassò quando l'ago indicò una profondità superiore ai cinquanta metri. Era strano, pensò. Il fondo marino, nella parte settentrionale del golfo, era uniformemente basso e raramente superava i dieci metri con l'alta marea. Di solito, era un miscuglio di sedimenti e di sabbia. Lo strumento, invece, segnalava che la depressione era di roccia compatta. «Ah, e dire che tutti avevano riso dei grandi geni», disse Joe quando sentì tirare la lenza. Girò il mulinello e scoprì una corbina della California lunga quanto il suo braccio. Claire si schermò gli occhi con una mano. «È troppo bella per tenerla. Ributtala in acqua, poverina.» «È strano.» «Che cosa?» «Tutte le corbine che ho preso erano bianche con le macchie nere. Questa, invece, è colorata come un canarino fluorescente.» Claire si assestò il reggiseno e andò a prua per vedere meglio il pesce. «Sì, è davvero strano», borbottò Joe. Sollevò una mano e mostrò il palmo e le dita macchiati di un giallo vivo. «Se non fossi sano di mente, direi che qualcuno ha tinto questa corbina.» «Brilla al sole come se le squame fossero lustrini», disse Claire. Joe si sporse dalla barca. «Qui intorno l'acqua sembra strizzata da un limone.» «Potrebbe essere un buon posto per pescare.» «Forse hai ragione.» Joe le passò accanto, andò a prua e calò l'ancora. «Credo che sia il caso di passare qui il pomeriggio per prendere qualcosa di grosso.» 59. Non c'era mai tregua. Pitt superò altre quattro cataraffe. Per fortuna, nessuna era una cascata come quella che per poco non aveva ucciso lui e Giordino. Lo sbalzo massimo che incontrò fu di due metri. Il Wallowing Windbag, parzialmente sgonfio, si lanciò audacemente e affrontò con successo un percorso a ostacoli fra le rocce che si nascondevano fra spuma e spruzzi, prima di continuare il viaggio verso l'oblio. I tratti di rapide ribollenti erano quelli peggiori. Solo dopo quelle fasi di tormento, Pitt poté rilassarsi per un po' nei tratti di acqua calma. Aveva l'impressione che uomini minuscoli armati di tridente gli colpissero le feri-
te. Ma il dolore aveva una sua utilità: gli aguzzava i sensi. Maledisse il fiume, certo che stava tenendo in serbo il peggio, prima di sventare il suo tentativo disperato di salvarsi. L'acqua gli strappò il remo dalle mani, ma fu una perdita di poco conto. Con cinquanta chili di equipaggiamento a bordo di un'imbarcazione sgonfiabile, era inutile tentare bruschi cambiamenti di rotta per schivare le rocce che apparivano all'improvviso nell'oscurità, soprattutto se si cercava di remare con un braccio solo. Era troppo debole per fare qualcosa di più che tenersi aggrappato alle cinghie di sicurezza fissate all'interno dello scafo e lasciare che la corrente lo portasse dove voleva. Altre due camere stagne si lacerarono dopo gli urti contro rocce aguzze e Pitt si trovò semisommerso dall'acqua in quello che era diventato poco più di un airbag sgonfio. Continuò a stringere con la destra la torcia elettrica. Vuotò tre bombole d'aria compressa e buona parte della quarta trascinando la piccola imbarcazione attraverso numerose gallerie sommerse. Poi, finalmente, raggiunse alcune caverne aperte e poté rigonfiare le camere d'aria. Non aveva mai sofferto di claustrofobia ma, in quel vuoto tenebroso e interminabile, molti ne sarebbero stati colpiti. Si impose di non arrendersi al panico: cantò e parlò con se stesso, commentando quella folle cavalcata sull'acqua ostile. A un certo momento si passò il fascio luminoso sulle mani e sui piedi: erano raggrinziti come prugne a causa delle lunghe ore d'immersione. «Con tutta quest'acqua, la disidratazione è l'ultimo dei miei problemi», mormorò alle rocce indifferenti. Passò su fosse trasparenti di tale profondità che il raggio della torcia non giungeva sino in fondo. Si divertì a immaginare le comitive di turisti che visitavano quel luogo. È un peccato che nessuno possa vedere queste caverne così simili alle cattedrali gotiche, si disse. Forse, adesso che si conosceva l'esistenza del fiume, avrebbero scavato un tunnel per portare i visitatori a studiare quelle meraviglie geologiche. Aveva cercato di risparmiare le tre torce, tuttavia le batterie, una dopo l'altra, s'erano esaurite e le aveva gettate via. Pitt calcolò che dell'ultima torcia gli restavano appena venti minuti di luce. Poi l'oscurità infernale lo avrebbe inghiottito definitivamente. Scendere le rapide con un gommone sotto il sole e il cielo azzurro è uno sport che prende il nome di rafting in acqua bianca. Lì sotto, pensò, lo si poteva ribattezzare rafting in acqua nera. L'idea gli parve buffa: si mise a
ridere. La risata echeggiò in una immensa caverna laterale e destò cento suoni strani. Se non avesse saputo che era stato lui a produrli, gli avrebbero agghiacciato il sangue. Non sembrava più possibile che al mondo esistessero altri luoghi, escluso quel labirinto d'incubo di caverne tortuose. Il concetto di senso dell'orientamento era ormai una pura astrazione. La bussola era resa inutilizzabile dalla presenza abbondante di minerali di ferro nelle rocce. Pitt era così disorientato e lontano dalla superficie che si chiese se aveva varcato la soglia della follia. L'unico filo di lucidità era alimentato dalle visioni incredibili rivelate dalla luce della torcia. S'impose di ritrovare l'autocontrollo con qualche giochetto mentale. Cercò d'imparare a memoria i particolari di ogni caverna, di ogni galleria e di ogni ansa del fiume per poterli descrivere agli altri dopo essere tornato in superficie. Ma erano troppi: la sua mente obnubilata non riusciva a conservare altro che poche immagini vivide. E poi doveva concentrarsi per tenere a galla il Windbag. Un'altra camera d'aria sibilava e si svuotava attraverso uno strappo. Fin dove sono arrivato? si chiese, stordito. Quanto manca alla fine? La sua mente divagava. Doveva scuotersi. Non sentiva la fame, e non pensava a grosse bistecche o a costate accompagnate da una bottiglia di birra. Il suo organismo esausto aveva già dato più di quanto potesse aspettarsi. Lo scafo semisgonfio dell'hovercraft urtò la volta della caverna che scendeva sott'acqua; girò su se stesso, sbatté contro la roccia, si spostò su un lato della corrente e s'incagliò in una secca. Pitt rimase disteso nell'acqua che riempiva per metà l'interno, con le gambe penzoloni all'esterno, troppo sfinito per caricarsi sulle spalle l'ultima bombola, sgonfiare l'imbarcazione e portarla attraverso la galleria allagata. Non poteva svenire. Non ora. Doveva arrivare lontano. Respirò più volte profondamente e bevve un po' d'acqua. Tese la mano verso il thermos, lo sganciò e finì il caffè. La caffeina contribuì a rianimarlo un poco. Gettò il thermos nel fiume e lo vide galleggiare contro la roccia, troppo leggero per spostarsi dall'altra parte. La torcia si era affievolita. La spense per risparmiare le batterie, si stese sul dorso e guardò a occhi spalancati la tenebra soffocante. Non sentiva più dolore. Le terminazioni nervose rifiutavano di funzionare e il suo corpo era intorpidito. Doveva aver perso quasi un litro di sangue, calcolò. Non voleva pensare alla possibilità di un fallimento. Per qualche minuto rifiutò di credere di non poter ritornare in superficie. Il fe-
dele Wallowing Windbag l'aveva portato fin lì: ma se avesse perduto un'altra camera d'aria avrebbe dovuto abbandonarlo e proseguire da solo. Cominciò a concentrare le energie calanti sullo sforzo che ancora lo attendeva. Qualcosa s'insinuò nella sua memoria. Sentiva un odore. Cosa dicevano gli odori? Possono riportare alla mente gli avvenimenti del passato. Aspirò profondamente per non permettere che l'odore sfuggisse prima di poter ricordare perché era così familiare. Si leccò le labbra e riconobbe un sapore che prima non c'era. Sale. E allora comprese. Era l'odore del mare. Aveva raggiunto finalmente la foce del sistema fluviale sotterraneo che sboccava nel golfo di California. Pitt spalancò gli occhi e alzò la mano fin quasi a toccarsi la punta del naso. Non riusciva a distinguere i particolari, eppure c'era un'ombra vaga che non avrebbe potuto esistere nella tenebra eterna di quel mondo sotterraneo. Scrutò l'acqua e scorse un riflesso torbido. La luce filtrava dal passaggio davanti a lui. La rivelazione che la luce del giorno era alla sua portata ingigantì le speranze di sopravvivenza. Uscì dal Wallowing Windbag e considerò i due rischi più gravi che ora si trovava di fronte: la lunghezza della risalita in superficie e la decompressione. Controllò il manometro della bombola. Ottocentocinquanta libbre per pollice quadrato. C'era aria sufficiente per un tratto di circa trecento metri, purché restasse calmo, respirasse regolarmente e non si sforzasse. Se la superficie fosse stata più lontana non avrebbe dovuto preoccuparsi dell'altro problema. Sarebbe annegato molto prima di essere colpito dall'embolia gassosa. I controlli periodici del profondimetro, effettuati durante il lungo viaggio, gli avevano rivelato che in quasi tutte le caverne piene d'aria la pressione era di poco superiore a quella atmosferica esterna. Era preoccupante, ma non temibile. E raramente era sceso oltre i trenta metri di profondità quando si era tuffato in un passaggio sommerso che divideva due gallerie aperte. Se si fosse trovato alle prese con la stessa situazione, avrebbe dovuto risalire al ritmo di diciotto metri al minuto per evitare di essere colpito dall'embolia. Quali che fossero gli ostacoli, non poteva tornare indietro né rimanere dov'era. Doveva continuare. Non aveva scelta. Sarebbe stata la prova definitiva per quel po' di forza e di decisione che gli restavano.
Non era ancora morto, almeno fino a quando non avesse respirato l'ultimo ossigeno contenuto nella bombola. E poi avrebbe continuato finché non gli fossero scoppiati i polmoni. Controllò che le valvole fossero aperte e che il tubo a bassa pressione fosse collegato al giubbetto equilibratore. Poi si caricò la bombola sulla schiena e chiuse i fermagli ad apertura rapida. Un respiro per essere certo che l'erogatore funzionasse normalmente, e fu pronto. Senza la maschera che aveva perduto, la visibilità sarebbe stata confusa: ma non avrebbe dovuto far altro che nuotare verso la luce. Strinse fra i denti il boccaglio, chiamò a raccolta tutto il suo coraggio e contò fino a tre. Era il momento di muoversi. Si tuffò nel fiume per l'ultima volta. Mentre scalciava con i piedi scalzi pensò che avrebbe dato l'anima per riavere le pinne perdute. La roccia scendeva, scendeva davanti a lui. Superò i trenta metri, poi i quaranta. Cominciò a preoccuparsi quando superò i cinquanta. Quando ci si immerge respirando aria compressa, c'è una barriera invisibile fra i sessanta e gli ottanta metri, oltre la quale il sub si sente come un ubriaco e perde il controllo delle facoltà mentali. La bombola emise un suono stridente urtando contro la roccia sopra di lui. Dato che si era liberato della cintura dopo la terribile esperienza nella grande cascata, e dato che la tuta di neoprene era a pezzi, si era immerso con la galleggiabilità positiva. Si piegò su se stesso e si tuffò più in basso per evitare il contatto. Aveva l'impressione che la roccia non finisse mai. Il profondimetro indicava settantacinque metri quando la corrente lo portò al di sotto della parete e poi ancora oltre. L'angolo della risalita era graduale, e non era la situazione più auspicabile. Avrebbe preferito un'ascesa diretta alla superficie che avrebbe ridotto le distanze e gli avrebbe permesso di risparmiare l'aria. La luce divenne più intensa fino a che Pitt non riuscì a leggere i numeri sull'orologio senza l'aiuto del raggio agonizzante della torcia. Le lancette sul quadrante color arancio segnavano le cinque e dieci. Era mattina presto oppure pomeriggio? Da quanto tempo s'era immerso nel fiume? Non ricordava se erano passati cinque minuti o cinquanta. La sua mente stordita cercava a fatica le risposte. Il verde smeraldo trasparente dell'acqua del fiume diventò più azzurro e più opaco. La corrente diminuiva, e l'ascesa rallentava. Sopra di lui c'era un baluginio lontano. E finalmente apparve la superficie. Era nel golfo di California. Era uscito dal fiume e stava nuotando nel mare di Cortés. Alzò gli occhi e vide un'ombra in lontananza. Diede un'ul-
tima controllata al manometro. L'ago tremolava sullo zero. L'aria compressa era quasi finita. Anziché respirarla avidamente, usò quel poco che era rimasto per gonfiare in parte il giubbetto equilibratore in modo che lo sollevasse fino alla superficie se avesse perso i sensi per la mancanza d'ossigeno. Un'ultima aspirazione che riempì appena i polmoni; poi Pitt si rilassò ed esalò a sbuffi per compensare la pressione declinante durante la salita. Il sibilo delle bollicine d'aria che uscivano dall'erogatore diminuì mentre i suoi polmoni si svuotavano. La superficie sembrava così vicina da poterla toccare quando i polmoni presero a bruciargli. Era un'illusione. Le onde erano lontane ancora venti metri. Scalciò con forza mentre un elastico enorme sembrava stringergli il petto. Poi il bisogno d'aria diventò il suo unico anelito mentre la tenebra cominciava ad addensarsi intorno ai suoi occhi. All'improvviso s'impigliò in qualcosa che ostacolava l'ascesa. Aveva la vista confusa perché era privo di maschera, e quindi non riusciva a distinguere che cosa lo tratteneva. D'istinto, si dibatté goffamente nel tentativo di liberarsi. Un rombo colossale gli esplose nel cervello. Ma in quell'istante, prima che la tenebra si chiudesse sulla sua mente, sentì che il suo corpo veniva trascinato verso la superficie. «Ne ho preso uno grosso!» gridò allegramente Joe Hagen. «È un marlin?» chiese emozionata Claire nel vedere che la canna da pesca si stava piegando come un punto interrogativo. «Se è un marlin, non oppone molta resistenza», ansimò Joe mentre girava febbrilmente il mulinello. «Sembra un pesce inerte.» «Forse l'hai trascinato fino a che non è morto.» «Prendi l'arpione. È quasi arrivato in superficie.» Claire prese il lungo arpione e lo puntò come una lancia oltre la fiancata del ketch. «Vedo qualcosa», esclamò. «Mi sembra che sia grosso e nero.» Poi gettò un urlo d'orrore. Pitt era a un millimetro dall'incoscienza quando la sua testa affiorò in un avvallamento fra due onde. Sputò il boccaglio e aspirò a pieni polmoni. Il riflesso del sole sull'acqua gli abbagliò gli occhi che non vedevano la luce da quasi due giorni. Socchiuse le palpebre, estatico, di fronte all'improvviso caleidoscopio di colori.
Il sollievo, la gioia di essere vivo, la soddisfazione di una grande impresa... tutto confluiva, travolgendolo. Un urlo di donna gli trapassò gli orecchi. Alzò lo sguardo e trasalì nel vedere lo scafo azzurro di uno yacht che torreggiava accanto a lui e due persone che si affacciavano dalla fiancata, pallide come morti. In quel momento comprese che si era impigliato in una lenza. Qualcosa gli batté contro la gamba. Strinse la lenza ed estrasse dall'acqua un piccolo tonno, non più lungo del suo piede. Il poverino aveva un amo enorme che gli sporgeva dalla bocca. Strinse delicatamente il pesce sotto un'ascella e lo liberò dall'amo con la mano illesa. Poi lo guardò negli occhi vitrei. «Visto, Toto?» disse in tono trionfale. «Siamo tornati nel Kansas!» 60. Il comandante Maderas e il suo equipaggio erano salpati da San Felipe e stavano riprendendo le ricerche quando arrivò la chiamata degli Hagen. «Signore», disse l'operatore radio, «ho appena ricevuto una comunicazione urgente dallo yacht The First Attempt.» «Cosa dice?» «Lo skipper, un americano che si chiama Joseph Hagen, riferisce di aver preso a bordo un uomo che ha agganciato mentre pescava.» Maderas aggrottò la fronte. «Vorrà dire che ha agganciato un cadavere.» «No, signore, è stato molto preciso. L'uomo è vivo.» Maderas era sconcertato. «Non può essere quello che cerchiamo. Abbiamo visto com'era conciato l'altro. Qualche natante in zona ha segnalato un membro dell'equipaggio caduto in mare?» L'operatore scosse la testa. «No, signore.» «Qual è la posizione del First Attempt?» «Dodici miglia nautiche a nord-ovest da qui.» Maderas entrò nella timoniera e fece un cenno a Hidalgo. «Tracci una rotta verso nord-ovest e cerchi uno yacht americano.» Poi si rivolse all'operatore. «Richiami Joseph Hagen per farsi dare altri particolari sull'uomo che hanno pescato, e gli dica di restare nella posizione attuale. Li raggiungeremo fra circa trentacinque minuti.» Hidalgo alzò la testa dalle carte nautiche. «Che cosa ne pensa?» Maderas sorrise. «Sono un buon cattolico e devo credere a ciò che la Chiesa dice dei miracoli. Ma questo voglio vederlo con i miei occhi.»
La flotta degli yacht oceanici e i molti pescherecci messicani che navigano nel mare di Cortés hanno una loro rete d'informazioni. I proprietari delle barche chiacchierano fra loro. Gli argomenti includono i bollettini meteorologici, gli inviti a festicciole, le ultime notizie pervenute dai porti di partenza e persino le offerte di oggetti da vendere o da scambiare. In tutto il golfo si diffuse molto presto la notizia che i proprietari del First Attempt avevano preso un umano impigliato nella lenza. L'interesse fu alimentato da coloro che abbellirono l'episodio prima di diffonderlo tramite la Rete di Baja. I padroni dello yacht che si misero in comunicazione più tardi degli altri sentirono una storia sensazionale: gli Hagen avevano catturato un'orca e le avevano trovato nel ventre un uomo ancora vivo. Alcuni dei natanti oceanici più grandi erano dotati di radio capaci di raggiungere le stazioni degli Stati Uniti. E molto presto le notizie si sparsero dalla Baja California fino a Washington. La comunicazione di Hagen fu captata da una stazione radio della Marina messicana, a La Paz. L'operatore di turno chiese conferma, ma Hagen era troppo occupato a chiacchierare con altri proprietari di yacht e non rispose. L'operatore pensò che si trattasse di una festa scatenata, tipica del giro della nautica da diporto; prese nota sul registro e si concentrò sui messaggi ufficiali della Marina. Quando, venti minuti più tardi, smontò di servizio, ne parlò casualmente con l'ufficiale comandante della stazione. «Sembrava molto loco», spiegò. «Il rapporto era in inglese. Probabilmente era un gringo ubriaco che faceva lo spiritoso.» «È meglio mandare una motovedetta a controllare», disse l'ufficiale. «Informerò il comando della flotta del distretto settentrionale e vedrò che cosa abbiamo in zona.» Il comando della flotta non aveva bisogno di essere informato. Maderas aveva già comunicato che si stava dirigendo a tutta velocità verso il First Attempt. Inoltre, il comando aveva ricevuto un messaggio dal capo delle Operazioni Navali messicane, che ordinava al comandante di affrettare la ricerca e di fare tutto il possibile per effettuare il salvataggio. L'ammiraglio Ricardo Alvarez era a pranzo con la moglie al circolo ufficiali quando un aiutante si presentò al suo tavolo con le due comunicazio-
ni. «Un uomo preso da un pescatore?» sbuffò Alvarez. «Che razza di assurdità!» «Questo è il messaggio che è stato trasmesso dal comandante Maderas del G-21», rispose l'aiutante. «Quanto ci vorrà prima che Maderas raggiunga lo yacht?» «Dovrebbe essere lì da un momento all'altro.» «Chissà perché alle Operazioni Navali ci si preoccupa tanto di un comune turista perduto in mare.» «Si è saputo che il presidente in persona s'interessa al salvataggio», mormorò l'aiutante. L'ammiraglio Alvarez lanciò un'occhiata alla moglie. «L'ho sempre detto che il trattato del NAFTA era un errore. Adesso dobbiamo fare quel che vogliono gli americani ogni volta che uno di loro cade nel golfo di California.» E così vi furono più interrogativi che risposte quando Pitt fu trasferito dal First Attempt alla motovedetta. Stava sul ponte, sorretto da Hagen, che gli aveva tagliato la tuta lacera e gli aveva prestato una camicia e un paio di calzoncini. Claire aveva cambiato la fasciatura alla spalla e aveva messo un cerotto sul brutto taglio alla fronte. Pitt strinse la mano a Joseph Hagen. «Scommetto che sono il pesce più grosso che abbia mai pescato.» Hagen rise. «Oh, sì, è un'avventura da raccontare ai miei nipotini.» Pitt baciò la guancia di Claire. «Non dimentichi di mandarmi la ricetta per la zuppa di pesce. Non ne avevo mai assaggiata una tanto buona.» «Deve esserle piaciuta davvero; ne ha mangiato almeno quattro chili.» «Sarò sempre in debito con voi. Mi avete salvato la vita. Grazie.» Pitt fu aiutato a scendere nella piccola lancia che lo trasferì alla motovedetta. Appena salì sulla tolda, fu accolto da Maderas e Hidalgo, e poi fu accompagnato in infermeria dal medico. Prima di scendere sottocoperta, Pitt si voltò a salutare gli Hagen con la mano. Joe e Claire si tenevano abbracciati. Joe si girò a guardare la moglie con aria perplessa. «Io non ho preso neanche cinque pesci in tutta la vita e tu non sai cucinare. Perché quello ha parlato di una meravigliosa zuppa di pesce?» Claire sospirò. «Poverino. Era così dolorante e affamato che non ho avuto il coraggio di dirgli che gli ho preparato una zuppa in scatola condita
con il brandy.» A Guaymas, Curtis Starger venne a sapere che Pitt era stato ritrovato vivo. Stava perquisendo l'hacienda usata dagli Zolar. La comunicazione arrivò tramite il telefono Iridium dal suo ufficio di Calexico. Con uno spirito di collaborazione inconsueto, gli organi investigativi messicani avevano autorizzato Starger e i suoi agenti doganali a perquisire le costruzioni e la tenuta alla ricerca di altre prove utili per dimostrare la colpevolezza della dinastia di ladri. Starger e i suoi agenti erano arrivati e avevano trovato la pista d'atterraggio e la proprietà completamente deserti. L'hacienda era vuota e il pilota dell'aereo privato di Joseph Zolar aveva deciso che era meglio dare le dimissioni. Era uscito dal cancello, aveva preso l'autobus, era arrivato in città e aveva preso il primo volo per tornare a Houston, in Texas. La perquisizione non rivelò niente di concreto. Le stanze erano state ripulite da ogni indizio incriminante. L'aereo abbandonato sulla pista, invece, era tutta un'altra storia. A bordo, Starger trovò quattro statue di legno scolpite rozzamente e con le facce dipinte. «Che ne pensi?» chiese Starger a uno degli agenti, che aveva un'ottima conoscenza delle antiche opere d'arte del sud-ovest. «Sembrano simboli religiosi indiani.» «Sono di legno di pioppo?» L'agente alzò gli occhiali da sole ed esaminò attentamente gli idoli. «Sì, ne sono sicuro.» Starger passò delicatamente la mano su uno degli idoli. «Ho il sospetto che siano proprio quelli che Pitt stava cercando.» Rudi Gunn fu avvertito mentre giaceva in un letto d'ospedale. Un'infermiera entrò nella stanza seguita da uno degli agenti di Starger. «Signor Gunn, sono l'agente Anthony di Maggio, della Dogana. Ho pensato che le avrebbe fatto piacere sapere che Dirk Pitt è stato ripescato vivo nel golfo di California circa mezz'ora fa.» Gunn chiuse gli occhi e sospirò di sollievo. «Sapevo che ce l'avrebbe fatta.» «Ho sentito che è stata una grande impresa. Ha nuotato per oltre cento chilometri in un fiume sotterraneo.» «Nessun altro ce l'avrebbe fatta.» «Spero che la buona notizia la convincerà a collaborare un po' di più»,
disse l'infermiera che brandiva un lungo termometro rettale. «Non è un bravo paziente?» chiese di Maggio. «Ne ho curati di migliori.» «Vorrei che mi portasse un pigiama invece di questa ridicola camicia da notte allacciata dietro», sbottò Gunn. «Le camicie degli ospedali sono così per uno scopo preciso», ribatté l'infermiera. «Quale?» «Sarà meglio che vada e la lasci in pace», intervenne di Maggio prima di battere in ritirata. «Le auguro di guarire in fretta.» «Grazie per avermi portato la notizia che Pitt è vivo», disse sinceramente Gunn. «Non c'è di che.» «Ora riposi», ordinò l'infermiera. «Tornerò fra un'ora con le medicine.» Fedele alla promessa, l'infermiera tornò dopo un'ora esatta. Ma il letto era vuoto. Gunn era scappato dall'ospedale indossando soltanto la ridicola camicia da notte e una coperta. Stranamente, quelli a bordo dell'Alhambra furono gli ultimi a saperlo. Loren e Sandecker stavano parlando accanto alla Pierce Arrow con alcuni investigatori della polizia messicana quando il proprietario di un lussuoso cruiser attraccato alla vicina stazione di rifornimento diede la notizia del salvataggio di Pitt. «Ehi, del traghetto!» gridò attraverso il breve tratto d'acqua che separava i due natanti. Miles Rodgers era sulla tolda accanto alla timoniera e parlava con Shannon e Duncan. Si sporse dal parapetto e gridò: «Cosa c'è?» «Hanno trovato il vostro amico!» L'annuncio echeggiò all'interno della stiva per le automobili e Sandecker si precipitò fuori. «Lo ripeta!» urlò. «I proprietari di un ketch hanno ripescato un uomo», rispose lo skipper. «La Marina messicana dice che è quello che stavano cercando.» Tutti erano usciti sul ponte, e tutti avevano paura di fare la domanda più importante. Giordino accorse sulla rampa di carico come se la sedia a rotelle fosse un dragster, e gridò in direzione del cruiser: «È vivo?» «Secondo i messicani era ridotto male, ma si è ripreso dopo che i soccorritori lo hanno rimpinzato di zuppa.»
«Pitt è vivo!» esclamò Shannon. Duncan scosse la testa. «Non riesco a credere che sia arrivato fino al golfo di California.» «Io sì», mormorò Loren nascondendo il viso fra le mani. Piangeva senza ritegno, dimentica della dignità e della posatezza. Si chinò e abbracciò Giordino. Aveva le guance bagnate e arrossate sotto l'abbronzatura. «Sapevo che non poteva morire.» Tutti dimenticarono gli investigatori messicani e cominciarono a gridare e a scambiarsi abbracci. Sandecker, che di solito era taciturno e riservato, lanciò un sonante evviva, piombò nella timoniera, prese il telefono e chiamò il comando della flotta messicana per avere altri particolari. Duncan incominciò a studiare freneticamente le carte idrografiche delle falde acquifere del deserto. Era impaziente di conoscere quali dati era riuscito ad accumulare Pitt durante l'incredibile traversata del sistema fluviale sotterraneo. Shannon e Miles festeggiarono stappando una bottiglia di champagne trovata nel frigo della cambusa, e distribuirono i bicchieri agli altri. Miles manifestava una gioia aperta, ma negli occhi di Shannon c'era un'espressione assorta. Fissò Loren, presa da una strana invidia che fino a quel momento non aveva creduto possibile. Cominciava a pensare che l'alterigia da lei dimostrata nei confronti di Pitt fosse stata un errore. «Quel dannato è come il proverbiale soldo falso che salta sempre fuori», disse Giordino, che stentava a dominare l'emozione. Loren lo guardò con fermezza. «Dirk ti aveva detto che mi ha chiesto di sposarlo?» «No, ma non mi sorprende. Tiene molto a te.» «Però non ti sembra una grande idea, vero?» Giordino scosse lentamente la testa. «Scusami, ma devo confessare che la vostra unione non sarebbe voluta dal Cielo.» «Siamo entrambi troppo testardi e indipendenti... È questo che intendi dire?» «Già, è così. Tu e lui siete due treni espressi che corrono su binari paralleli e ogni tanto s'incontrano nelle stazioni, ma finiscono per raggiungere destinazioni diverse.» Loren gli strinse la mano. «Ti ringrazio per la sincerità.» «Che ne so io di certi rapporti?» Giordino rise. «Non sono mai rimasto con una donna per più di due settimane.» Loren lo guardò negli occhi. «C'è qualcosa che non vuoi dirmi.»
Giordino abbassò lo sguardo sulla tolda. «Sembra che le donne intuiscano al volo certe cose.» «Chi era?» chiese esitando Loren. «Si chiamava Summer», rispose sinceramente Giordino. «Morì in mare quindici anni fa al largo delle Hawaii.» «Ah, quella storia del Pacifico... Ricordo che Dirk me ne ha parlato.» «Fece l'impossibile per salvarla, ma non ci riuscì.» «E non l'ha dimenticata», disse Loren. Giordino annuì. «Non ne parla mai, ma spesso, quando vede una donna che le somiglia, lo sguardo gli diventa lontano, assente.» «Ho visto quell'espressione più di una volta», disse Loren in tono malinconico. «Non può continuare in eterno ad aver nostalgia di un fantasma», dichiarò Giordino. «Tutti conservano l'immagine di un amore perduto che prima o poi debbono esorcizzare.» Loren non aveva mai visto Giordino tanto mesto. «Anche tu hai un fantasma?» Lui la guardò e sorrise. «Un'estate, quando avevo diciassette anni, vidi una ragazza in bicicletta sull'isola di Balboa, nella California meridionale. Portava un paio di calzoncini bianchi e una camicetta verde annodata in vita, e i capelli biondi erano raccolti in una coda di cavallo. Le gambe e le braccia erano abbronzatissime. Non mi trovavo abbastanza vicino per vedere il colore degli occhi, ma sapevo che dovevano essere azzurri. Sembrava uno spirito libero, pieno di vita e di senso dell'humour. Non passa giorno che non ricordi quell'immagine.» «E non la seguisti?» chiese Loren, un po' sorpresa. «A quel tempo ero molto timido, che tu ci creda o no. Passai per quel marciapiede tutti i giorni per un mese, sperando di rivederla. Ma non comparve più. Probabilmente era in vacanza con i genitori e tornò a casa poco dopo che l'avevo incontrata.» «È molto triste», disse Loren. «Oh, non so.» Giordino rise. «Forse ci saremmo sposati e, dopo aver avuto dieci figli, avremmo scoperto di odiarci.» «Per me, Pitt è come il tuo amore perduto. Un'illusione che non riesco ad afferrare.» «Cambierà», le assicurò Giordino. «Tutti gli uomini si addolciscono con gli anni.» Loren accennò un sorriso e scosse la testa. «Non certo quelli come Dirk
Pitt. Sono spronati dalla brama di risolvere gli enigmi e di sfidare l'ignoto. L'ultima cosa che desiderano è invecchiare accanto alla moglie e ai figli e morire in una clinica.» 61. Nel piccolo porto di San Felipe regnava un'atmosfera di festa. Il molo era affollato di gente. Dovunque regnava l'eccitazione mentre la motovedetta si avvicinava all'imboccatura del frangiflutti. Maderas si rivolse a Pitt. «Che accoglienza!» Pitt socchiuse le palpebre per ripararsi gli occhi dal sole. «È una festa locale?» «Sono accorsi tutti alla notizia del suo straordinario viaggio sotterraneo.» «Vuole scherzare?» chiese Pitt, sorpreso. «No, señor. La scoperta del fiume che scorre sotto il deserto ha fatto di lei un eroe per tutti i coltivatori e gli allevatori che, da qui all'Arizona, lottano per sopravvivere in un ambiente ostile.» Maderas indicò due furgoni e i tecnici che scaricavano apparecchiature televisive. «Ecco perché lei fa notizia.» «Oh, Dio», gemette Pitt. «Ma io voglio solo un letto comodo per dormire tre giorni.» Le sue condizioni fisiche e mentali erano migliorate considerevolmente quando, attraverso la radio di bordo, aveva saputo dall'ammiraglio Sandecker che Loren, Rudi e Al erano tutti vivi anche se un po' malconci. Sandecker gli aveva riferito anche che Cyrus Sarason era stato ucciso da Billy Yuma e che Gaskill e Ragsdale, con l'aiuto di Henry e Micki Moore, avevano catturato Zolar e Oxley e il tesoro di Huascar. Allora c'è speranza per i miei amici indiani, pensò stoicamente Pitt. Anche se furono pochi minuti, gli sembrò che passasse un'ora prima che la Porquería attraccasse accanto all'Alhambra per la seconda volta in quel giorno. Un grande striscione di carta era teso sul ponte passeggeri del traghetto, e le lettere grondavano ancora vernice fresca. Diceva: BENTORNATO DALL'ALDILÀ. Sul ponte delle automobili un complesso di mariachi messicani suonava e cantava un motivo che gli sembrava familiare. Pitt si sporse dal parapetto della motovedetta, tese l'orecchio, ributtò la testa all'indietro e rise. Poi si piegò in due per il dolore quando la risata gli fece esplodere un fuoco nella
gabbia toracica. Giordino aveva realizzato la grande impresa. «Conosce la canzone che stanno suonando?» chiese Maderas, allarmato dal comportamento di Pitt. «Riconosco la musica, non le parole», ansimò Pitt. «Cantano in spagnolo.» Míralos andando véalos andando lleva a tu novia favorita, tu compañero real bájate a la represa, dije la represa júntate con ese gentío andando, oiga la música y canción es simplemente magnifico camarada, esperando en la represa esperando al Robert E. Lee... Mentre le trombe squillavano, le chitarre strimpellavano e i sette cantanti modulavano una versione mariachi di Waiting for the Robert E. Lee, Loren stava tra la folla che aveva invaso il traghetto e si sbracciava all'impazzata. Pitt la cercò con lo sguardo fino a quando non la vide; poi agitò a sua volta il braccio, allegramente. Loren notò che aveva la testa fasciata, un braccio al collo e un polso ingessato. Con i calzoni e la camicia avuti in prestito sembrava fuori posto in mezzo all'equipaggio della motovedetta. A prima vista sembrava straordinariamente in forma per un uomo sopravvissuto a un viaggio nel purgatorio, nell'inferno e in un abisso nero. Ma Loren sapeva che era abilissimo nel nascondere lo sfinimento e la sofferenza. E glieli leggeva negli occhi. Pitt vide l'ammiraglio Sandecker in piedi dietro la sedia a rotelle di Giordino. Scorse anche Gorgo Padilla, che cingeva con un braccio la moglie Rosa. Jesús, Gato e il macchinista di cui non ricordava il nome brandivano bottiglie in aria. Poi la passerella si abbassò e Pitt strinse la mano a Maderas e Hidalgo. «Grazie, signori, e ringraziate il medico a nome mio. Mi ha rattoppato magnificamente.» «Siamo noi a esserle debitori, señor», disse Hidalgo. «I miei genitori hanno un piccolo allevamento poco lontano da qui e avranno grandi benefici quando si scaveranno pozzi nel suo fiume.» «Per favore, fatemi una promessa», chiese Pitt. «Se possiamo», rispose Maderas. Pitt sorrise maliziosamente. «Non permettete che qualcuno dia il mio
nome a quel fiume maledetto.» Si voltò, attraversò la passerella, raggiunse il ponte del traghetto e si trovò immerso in un mare di esseri umani. Loren gli corse incontro, si fermò, poi gli cinse il collo con le braccia, lentamente per non fargli male. Lo baciò con le labbra che tremavano. Poi si scostò, piangendo, sorrise e disse: «Bentornato a casa, marinaio». E incominciò l'assalto. Giornalisti e cameramen statunitensi e messicani sciamarono intorno a lui mentre salutava Sandecker e Giordino. «Credevo che questa volta ci volesse una lapide», esclamò Giordino che splendeva come un'insegna al neon sulla via principale di Las Vegas. Pitt sorrise. «Non sarei qui se non avessi trovato il Wallowing Windbag.» «Spero si sarà reso conto», disse Sandecker con un cipiglio simulato, «che sta diventando troppo vecchio per andare a nuotare nelle caverne.» Pitt alzò la mano illesa come se volesse fare un giuramento. «Com'è vero Dio, ammiraglio, se in futuro mi azzarderò anche solo a guardare un'altra caverna, l'autorizzo a spararmi ai piedi.» Poi Shannon si avvicinò e, con somma irritazione di Loren, gli diede un lungo bacio sulle labbra. Quando lo lasciò, gli disse: «Mi è mancato molto». Prima che Pitt potesse rispondere, Miles Rodgers e Peter Duncan vennero a stringergli la mano sana. «È davvero un tipo tosto», disse Rodgers. «Ho rotto il computer e ho perso i dati», disse Pitt a Duncan. «Mi dispiace moltissimo.» «Non è un problema», rispose Duncan con un gran sorriso. «Ormai ha dimostrato che il fiume scorre da Satan's Sink, passa sotto il Cerro el Capirote e sfocia nel golfo di California, e possiamo seguirne il percorso con sistemi sonici geofisici galleggianti e strumenti trasmittenti.» In quel momento, ignorato dalla folla, un traballante taxi di Mexicali si fermò fumando. Un uomo schizzò a terra, attraversò correndo il molo e salì a bordo. Indossava soltanto una coperta. A testa bassa, si aprì un varco tra la gente fino a quando non raggiunse Pitt. «Rudi!» gridò Pitt, passando il braccio libero intorno alle spalle dell'amico. «Da dove piovi?» Come se non aspettasse altro, Gunn lasciò con le dita ingessate la coperta che cadde sulla tolda, e rimase solo con la camicia dell'ospedale. «Sono fuggito dalle grinfie di un'infermiera diabolica per correre a salutarti», esclamò.
«Come stai?» «Tornerò alla mia scrivania della NUMA prima di te.» Pitt si voltò e chiamò Rodgers. «Miles, ha la macchina fotografica?» «Nessun fotografo degno di questo nome abbandona mai le sue macchine», gridò Rodgers nel vociare della folla. «Faccia una bella foto dei tre bastardi malconci del Cerro el Capirote.» «E di una carogna malconcia», aggiunse Loren mentre si metteva in fila. Rodgers scattò tre foto prima che incominciassero a farlo i reporter. «Signor Pitt!» Un intervistatore della televisione gli mise davanti un microfono. «Cosa ci può dire del fiume sotterraneo?» «Posso dire solo che esiste», rispose tranquillamente Pitt. «E che è molto bagnato.» «È grande, secondo lei?» Pitt rifletté un momento, passò un braccio intorno al fianco di Loren e la strinse a sé. «Credo che sia all'incirca due terzi del Rio Grande.» «Così enorme?» «Sicuro.» «Come si sente dopo aver nuotato per oltre cento chilometri nelle caverne?» Pitt s'irritava sempre quando un cronista assillava una madre o un padre per sapere cosa provava dopo che la sua casa era bruciata con dentro tutti i figli, o placcava un testimone per scoprire quale impressione gli aveva fatto vedere qualcuno cadere da un aereo senza il paracadute. «Cosa sento?» ribatté. «In questo momento sento che mi scoppierà la vescica se non vado subito in bagno.» EPILOGO RITORNO A CASA 62. 4 novembre 1998 San Felipe, Baja California Due giorni dopo, quando tutti ebbero fatto dichiarazioni particolareggiate agli investigatori messicani, poterono lasciare il Paese, e si ritrovarono sul molo per scambiarsi i saluti. Il dottor Peter Duncan fu il primo a partire. Se ne andò la mattina presto
prima che qualcuno se ne accorgesse. Lo attendeva un anno molto laborioso, come direttore del Sonoran Water Project, come si sarebbe chiamato. L'acqua del fiume si sarebbe rivelata un dono del Cielo per il sud-ovest assediato dalla siccità. L'acqua avrebbe creato posti di lavoro per la gente del deserto. Nuovi acquedotti e tubature avrebbero portato l'acqua nelle città e nei paesi, e avrebbero trasformato un lago in secca in una riserva delle dimensioni del lago Powell. Poi sarebbero venuti i progetti per estrarre le ricchezze minerali che Pitt aveva scoperto nella sua odissea, e quelli per costruire un centro turistico sotterraneo. La dottoressa Shannon Kelsey era stata invitata a tornare in Perù per continuare gli scavi nelle rovine delle città chachapuyane. E Miles Rodgers l'avrebbe seguita. «Spero che ci rivedremo», disse Rodgers stringendo la mano a Pitt. «Solo se mi promettete di stare alla larga dai pozzi sacri», ribatté Pitt. Rodgers rise. «Ci può contare.» Pitt guardò Shannon negli occhi. La decisione e l'audacia vi brillavano più che mai. «Le auguro tutto il bene possibile.» Shannon vedeva in lui l'unico uomo che avesse conosciuto e che non avrebbe potuto né avere né dominare. Provava per Pitt un senso d'affetto che non sapeva spiegare. Per fare di nuovo dispetto a Loren, lo baciò ancora una volta sulle labbra. «Arrivederci, ragazzone. Non si scordi di me.» Pitt annuì. «Non potrei neppure se volessi.» Poco dopo che Shannon e Miles furono partiti con la macchina a noleggio per l'aeroporto di San Diego, un elicottero della NUMA scese dal cielo e si posò sulla tolda dell'Alhambra. Il pilota lasciò il motore al minimo e balzò dal portello del vano di carico. Si guardò intorno per un momento, riconobbe Sandecker e si avvicinò. «Buongiorno, ammiraglio. È pronto per partire o devo spegnere il motore?» «Lo tenga acceso», rispose Sandecker. «Dov'è il mio jet passeggeri della NUMA?» «Sta aspettando alla stazione aerea dei Marine, a Yuma, per riportare a Washington lei e gli altri.» «Okay, a bordo.» Sandecker si rivolse a Pitt. «Allora, si mette in ferie per malattia?» «Io e Loren abbiamo pensato di fare un giro in Arizona con il Classic
Car Club of America.» «L'aspetto fra una settimana.» Sandecker si girò verso Loren e le diede un bacio su una guancia. «Lei è un membro del Congresso. Non ascolti le chiacchiere di questo individuo e faccia in modo che torni indietro tutto intero e pronto per riprendere a lavorare.» Loren sorrise. «Non si preoccupi, ammiraglio. I miei elettori vogliono che anch'io torni ai miei doveri in ottima forma.» «E io?» chiese Giordino. «Non posso avere un po' di tempo per la convalescenza?» «Può stare dietro una scrivania anche con la sedia a rotelle.» Poi Sandecker sorrise diabolicamente. «Rudi, invece, è un caso diverso. Credo che lo manderò alle Bermuda per un mese.» «Figurarsi», disse Gunn, mentre si sforzava disperatamente di restare impassibile. Era uno scherzo. Per Sandecker, Pitt e Giordino erano come figli, e tra loro c'era il massimo rispetto. L'ammiraglio sapeva con certezza assoluta che, non appena si fossero ripresi, sarebbero piombati nel suo ufficio per chiedere di poter dirigere un progetto oceanico. Due mozzi sollevarono Giordino sull'elicottero, dove un sedile era stato tolto per far posto alle gambe ingessate. Pitt si chinò a pizzicare un alluce che sporgeva dal gesso. «Cerca di non perdere questo elicottero come hai perduto gli altri.» «Non è un problema», ribatté Giordino. «Me ne danno uno in regalo ogni volta che compro cinquanta litri di benzina.» Gunn posò la mano sulla spalla di Pitt. «È stato divertente», disse in tono allegro. «Dovremo rifarlo, una volta o l'altra.» Pitt fece una smorfia d'orrore. «Puoi togliertelo dalla testa.» Sandecker abbracciò Pitt. «Si riposi e se la prenda calma», disse a voce bassa perché gli altri non sentissero. «Ci vedremo quando ci vedremo.» «Tornerò presto.» Loren e Pitt rimasero sul ponte del traghetto a salutare fino a quando l'elicottero non virò verso nord-est sopra le acque del golfo di California. «Bene, siamo rimasti noi due», esclamò Pitt. Lei sorrise, provocante. «Sto morendo di fame. Perché non andiamo a Mexicali in cerca di un buon ristorante tipico?» «Ora che me ne parli, mi è venuta voglia di un piatto di huevos rancheros.» «Immagino che toccherà a me guidare.»
Pitt alzò la mano. «Ho ancora un braccio sano.» Loren non volle saperne. Pitt andò sul molo e le diede istruzioni mentre lei guidava la grossa Pierce Arrow e la roulotte sulla rampa del traghetto. Pitt diede un'ultima occhiata nostalgica al vecchio battello a pale e rimpianse di non poter navigare con quello attraverso il canale di Panamá, nell'Atlantico e lungo il fiume Potomac fino a Washington. Ma era impossibile. Sospirò rassegnato. Stava per assestarsi sul sedile della Pierce Arrow quando una macchina si fermò accanto a lui, e ne scese Curtis Starger. «Sono contento di averla trovata in tempo», esordì. «Dave Gaskill mi ha raccomandato di consegnarle questo.» Porse a Pitt un fardello avvolto in una coperta india. Pitt, che non poteva prenderlo con entrambe le mani, guardò Loren che afferrò l'involto e l'aprì. Quattro facce dipinte su bastoni da preghiera simili a mazze li guardarono. «Gli idoli sacri dei Montolo», mormorò Pitt. «Dove li avete trovati?» «A bordo dell'aereo privato di Joseph Zolar a Guaymas.» «Ci avrei giurato, che erano finiti nelle sue mani.» «Sono stati identificati, in base al foglio con i dati che li accompagnava, come gli idoli montolo scomparsi», spiegò Starger. «I Montolo ne saranno felici.» Starger lo guardò con un sorriso storto. «Credo di poterle permettere di consegnarli.» Pitt rise e indicò la Travelodge con un cenno della testa. «Non sono preziosi quanto l'oro che c'è nella roulotte.» Starger lo guardò. «Molto spiritoso. Tutti gli oggetti d'arte sono stati inventariati e custoditi altrove.» «Le prometto che lascerò gli idoli nel villaggio dei montolo durante il tragitto verso il confine.» «Io e Dave Gaskill non ne abbiamo mai dubitato.» «Dove sono gli Zolar?» chiese Pitt. «In carcere, sotto una montagna di accuse che vanno dal furto e dall'importazione illegale d'opere d'arte e di antichità fino all'omicidio. Le farà piacere sapere che il giudice ha negato la libertà su cauzione, tanto era sicuro che sarebbero scappati all'estero.» «Avete fatto un ottimo lavoro.» «Grazie per il suo aiuto, signor Pitt. Se la Dogana potrà farle un favore, che ovviamente non sia chiudere un occhio sull'importazione di merce illegale, non esiti a chiamarci.» «Lo ricorderò, grazie.»
Billy Yuma stava dissellando la cavalla dopo aver fatto il giro quotidiano della sua piccola mandria. Si fermò a guardare il tormentato paesaggio di mezquites e tamerici che si alternavano agli affioramenti rocciosi. Vide una nube di polvere che si avvicinava e si materializzava lentamente in qualcosa che sembrava un'automobile vecchissima con una roulotte al traino. E tutte e due erano di un blu molto scuro. La sua curiosità crebbe quando macchina e roulotte si fermarono davanti alla sua casa. Risalì dal corrai mentre la portiera della parte del passeggero si apriva e Pitt scendeva a terra. «Un caldo sole per lei, amico mio», lo salutò Yuma. «E cielo sereno per lei», rispose Pitt. Yuma gli strinse con vigore la destra. «Sono molto contento di vederla. Mi avevano detto che era morto nell'oscurità.» «Quasi», rispose Pitt, e indicò il braccio ingessato. «Volevo ringraziarla perché è entrato nelle viscere della montagna e ha salvato la vita ai miei amici.» «I malvagi devono morire», commentò filosoficamente Yuma. «Sono felice di essere arrivato in tempo.» Pitt gli porse gli idoli avvolti nella coperta. «Ho portato qualcosa per lei e per la sua tribù.» Yuma spostò delicatamente un lembo della coperta, come se si aspettasse di vedere un bimbo. Per lunghi istanti contemplò in silenzio le facce delle quattro divinità. Poi le lacrime gli riempirono gli occhi. «Ci ha restituito l'anima della mia gente, i nostri sogni, la nostra religione. Ora i nostri figli potranno essere iniziati e diventare uomini e donne.» «Mi hanno detto che chi li aveva rubati sentiva strani suoni, come gemiti di bambini.» «Gli idoli piangevano perché volevano tornare a casa.» «Credevo che gli Indiani non piangessero mai.» Yuma sorrise, sopraffatto dalla gioia. «Non deve crederlo. Ma quando piangiamo non ci facciamo vedere da nessuno.» Pitt presentò Loren a Billy e alla moglie Polly, che li invitò a pranzo e non volle sentire rifiuti. Quando Loren si lasciò sfuggire che a Pitt piacevano gli huevos rancheros, Polly gliene preparò una porzione che sarebbe bastata per sfamare cinque mandriani. Durante il pasto, gli amici e i parenti di Yuma vennero a contemplare con reverenza gli idoli ritrovati. Gli uomini stringevano la mano a Pitt, le
donne portavano piccoli doni a Loren che, commossa, piangeva senza vergognarsene. Pitt e Yuma si erano resi conto di essere molto simili. Nessuno dei due si faceva illusioni. Pitt sorrise. «È un onore averla come amico, Billy.» «Qui sarà sempre il benvenuto.» «Quando porteranno l'acqua in superficie», promise Pitt, «farò in modo che il suo villaggio sia il primo a riceverla.» Yuma si sfilò dal collo un amuleto appeso a un cinghiolo e l'offrì a Pitt. «Qualcosa per ricordare un amico.» Pitt osservò l'amuleto. Era una raffigurazione del Demonio de los Muertos di Cerro el Capirote, in rame con intarsi in turchesi. «È troppo prezioso. Non posso accettarlo.» Yuma scosse la testa. «Avevo giurato di portarlo fino al ritorno dei nostri idoli. Adesso è suo: le porterà fortuna.» «Grazie.» Prima di lasciare Canyon Ometepec, Pitt accompagnò Loren alla tomba di Patty Lou Cutting. Lei s'inginocchiò e lesse l'iscrizione sulla lapide. «Che belle parole», disse a voce bassa. «Sono legate a una storia?» «Pare che non lo sappia nessuno. Gli Indiani dicono che la ragazzina fu sepolta una notte da sconosciuti.» «Era così giovane. Appena dieci anni.» Pitt annuì. «Riposa in un posto molto solitario, per una ragazzina della sua età.» «Quando torneremo a Washington cercheremo di scoprire se c'è traccia di lei in qualche documento.» I fiori selvatici erano sbocciati ed erano morti, e Loren fece una ghirlanda di rami di creosoto e la posò sulla tomba. Per un po' rimasero a contemplare il deserto. I colori incendiati dal sole al tramonto erano vivi e straordinari, esaltati dalla limpida aria novembrina. Tutti gli abitanti del villaggio s'erano schierati lungo la strada per salutarli quando Loren guidò la Pierce Arrow verso l'autostrada. Mentre cambiava marcia, guardò malinconicamente Pitt. «Per quanto possa sembrarti strano, quel piccolo villaggio sarebbe un posto ideale per una tranquilla luna di miele.» «Vuoi ricordarmi che una volta ti ho chiesto di sposarmi?» chiese Pitt, accarezzandole le mani che stringevano il volante. «Sono disposta ad attribuirlo a un momento di follia da parte tua.» Pitt la fissò. «È un rifiuto?»
«Non fare quella faccia straziata. Uno dei due deve conservare la testa sulle spalle. E tu sei troppo scrupoloso per tirarti indietro.» «Ma parlavo sul serio.» Loren staccò gli occhi dalla strada e gli rivolse un caldo sorriso. «Lo so, ma affrontiamo la realtà. Il nostro problema è che stiamo bene insieme, ma nessuno dei due ha bisogno dell'altro. Se vivessimo in una casetta circondata da uno steccato, i mobili si coprirebbero di polvere perché nessuno di noi sarebbe mai lì. L'olio e l'acqua non si mescolano. La tua vita è il mare, la mia è il Congresso. Non potremmo mai avere un legame veramente stretto. Non sei d'accordo?» «Devo ammettere che non hai tutti i torti.» «Voto per continuare come adesso. Qualche obiezione?» Pitt non rispose subito. Nascondeva molto bene il sollievo, pensò Loren. Lui guardò a lungo la strada attraverso il parabrezza e finalmente disse: «Sai una cosa, deputata Smith?» «Che cosa?» «Per una che vive di politica sei una donna incredibilmente sincera e sexy.» «E per essere un ingegnere marino», disse lei con voce roca, «sei cosi facile da amare.» Pitt sorrise maliziosamente e un lampo gli passò negli occhi verdi. «Washington è molto lontana?» «Circa cinquemila chilometri. Perché?» Pitt sfilò la fascia che gli reggeva il braccio ingessato, la buttò sul sedile posteriore e le cinse le spalle. «Pensa: abbiamo a disposizione cinquemila chilometri per scoprire quanto sono amabile.» POSCRITTO Le pareti dell'anticamera dell'ufficio privato di Sandecker nella sede centrale della NUMA sono coperte da una quantità di foto che mostrano l'ammiraglio in compagnia di personaggi ricchi e famosi. Fra gli altri ci sono cinque presidenti, numerosi pezzi grossi militari, capi di Stato, membri del Congresso, scienziati illustri, e diversi divi del cinema. Tutti guardano l'obiettivo con le labbra socchiuse in sorrisi prevedibili. Tutte le foto hanno semplici cornici nere. Tutte tranne una, appesa al centro, che ha la cornice d'oro. Nella fotografia Sandecker è al centro d'uno strano gruppo di persone
che sembrano sopravvissute a un incidente spettacolare. Un uomo basso e ricciuto sta su una sedia a rotelle con le gambe ingessate tese verso il fotografo. Accanto a lui c'è un ometto con gli occhiali dalla montatura d'osso, con la testa fasciata e varie dita ingessate, che indossa soltanto una camicia da notte da ospedale. Poi c'è una bella donna in calzoncini e bustino prendisole ridotta come se fosse ospite di un centro sociale per mogli maltrattate. Al suo fianco c'è un uomo alto con la fronte bendata e un braccio al collo. Gli occhi hanno un'espressione di sfida e la testa è inclinata all'indietro in una risata. Se, dopo essere entrati nell'ufficio dell'ammiraglio, gli domandate chi sono gli strani personaggi nella foto dalla cornice d'oro, preparatevi ad ascoltarlo attentamente per un'ora. È una storia lunga, e l'ammiraglio Sandecker tiene molto a raccontare in quale modo il Rio Pitt ha avuto questo nome. FINE