ROBERT McCAMMON LORO ATTENDONO (Bethany’s Sin, 1980) PARTE PRIMA LE PREMESSE 1 NEI PRESSI DEL MAR NERO 1965 Un'ombra fem...
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ROBERT McCAMMON LORO ATTENDONO (Bethany’s Sin, 1980) PARTE PRIMA LE PREMESSE 1 NEI PRESSI DEL MAR NERO 1965 Un'ombra femminile cadde sulle carte e e sui diagrammi spiegati sul piccolo tavolo di metallo, e l'uomo alzò gli occhi. L'aria era densa dell'odore del caldo e della polvere, del sudore dei corpi e di tabacco turco forte e dolce; sparsi sul terreno vi erano gli escrementi essiccati dal sole lasciati cadere dai cani randagi, ossuti e macilenti, che qualche volta si spingevano a curiosare fino all'entrata, rinforzata da travi di legno stagionato; scure aureole di mosche danzavano attorno al capo degli uomini, avventandosi contro le guance e le orecchie indifese. Se non fosse stato per la grande tettoia di latta poggiata sui pali infissi tutt'attorno allo scavo, gli uomini sarebbero impazziti già da settimane, bersagliati senza tregua dal sole. Dallo scavo centrale, un rettangolo che discendeva da un metro e mezzo fin quasi a dieci di profondità, si dipartivano trincee serpeggianti che andavano in tutte le direzioni, girando attorno a grandi massi e a monticelli di pietre spaccate. Si udivano, attorno, i rumori dello scavo: picconi che urtavano la roccia, vanghe che spostavano di lato palate di terra dura e pietrosa. Di tanto in tanto era il vento a portare l'odore penetrante e salato del Mar Nero, che si infilava nel pozzo come il respiro di un altro mondo. Era luglio, il mese più caldo, e il sole pareva l'occhio di un ciclope incastonato su una fronte azzurra. — Buon giorno. — Il dottor Vodantis salutò la donna, con un leggero cenno del capo. Il sudore gli imperlava le pieghe delle borse che aveva sotto gli occhi, cerchiati di scuro. Era là fin dalle sei e trenta del mattino, e benché anche l'Hotel Imperiale, a quattro miglia di distanza, nel villaggio di Caraminya, fosse caldo, non era nulla in paragone del calore assoluto che opprimeva quella landa collinosa. Si sentiva scorticato e coperto di polvere, sebbene il suo abito kaki fosse relativamente pulito rispetto a quello degli altri.
La donna restituì il cenno. Era alta, dalle ossa grosse, con il viso intensamente abbronzato attorno a cui si arricciava morbida una criniera ben spazzolata di capelli del color di mezzanotte. Portava vecchi jeans scoloriti e stivali da lavoro di cuoio scuro, una camicia di cotone e una semplice catena d'oro attorno alla gola. Uno zaino verde-oliva le pendeva dalla schiena. — Ecco, questo è ciò che volevo farle vedere. Con permesso, prego. — Il dottor Vodantis si sporse oltre il suo giovane assistente di campo e spinse una delle carte verso la donna. Era un disegno in cui alcune linee distinte indicavano le trincee e il pozzo centrale e vi erano poi altre linee interrotte, ora circolari, ora rette, ora ellittiche. Egli fece scorrere il dito lungo una delle trincee. — Qui — disse. Il dito piegò a sinistra e si fermò in un rettangolo dai contorni spezzati, che aveva al centro un punto di domanda. — Potrebbe essere... dunque... a un centinaio di metri da questo anfiteatro. Uno dei lavoranti turchi l'ha scoperta ieri mattina. L'altro uomo la stava osservando. Gli occhi di lei - due zaffiri di un azzurro profondo e insieme chiaro, che spiccavano in modo impressionante contro l'abbronzatura intensa del viso - si strinsero impercettibilmente. Da lontano si udì il rombo di un bulldozer. — Vedo — disse infine la donna. — Un'apertura? E verso dove? — Verso le viscere della montagna, ma non sappiamo ancora fin dove — rispose il dottor Vodantis. — L'assistente del dottor Markos l'ha percorsa per qualche metro, ieri. — Gettò uno sguardo al dottor Markos, un uomo scarno con un ciuffo di capelli bianchi e la barba ispida e corta. — Solo per quattro metri — intervenne questi, rivolgendosi alla donna. — L'ho richiamato indietro perché mi pare che il tunnel sia troppo pericoloso da esplorare, per ora. La parte superiore è instabile, e abbiamo bisogno di supporti idraulici prima di arrischiarci a mandare dentro un uomo. — Che cosa ha trovato? — Un passaggio in discesa graduale. Iniziava a restringersi quando lo richiamai. — Tentò di tener fermo lo sguardo, ma era difficile, perché negli occhi di questa donna c'era qualcosa di simile... sì, alla forza. Conosceva bene la sua reputazione; aveva anche lavorato con lei, tre anni prima, in uno scavo a Creta, e sebbene non gli piacessero le tecniche che lei adottava, tuttavia ne rispettava l'intelligenza. Aveva visto fiammelle riflettersi nei suoi occhi, una volta, una notte che le stelle sembravano trapunte nel cielo come su una immensa coperta e le voci dei fantasmi sibilavano nei corridoi di un tempio in rovina; un'oscura e terribile determinazione era al-
lora scivolata sul suo viso, velandone i contorni, e in quel momento lui aveva pensato che la mano dell'oracolo si fosse posata sulla sua spalla, avvolgendola in una ragnatela. — Prima di mandare chiunque della mia squadra là dentro — le disse — voglio essere sicuro della loro incolumità. Una cascata di pietrisco potrebbe far franare l'intera montagna sopra a quel tunnel. Dopo tutto — sorrise leggermente, mentre il viso della donna rimaneva impassibile — qualunque cosa ci sia là dentro, c'è rimasta dal 1200 avanti Cristo, e penso che possa aspettare ancora un po'. — Girò lo sguardo sugli altri in cerca di solidarietà. — Una data approssimativa — fece piano la donna, i suoi occhi ancora senza espressione. — E mi parrebbe che come archeologo lei dovrebbe essere un po' più... disposto... a correre i rischi necessari. — Necessari. Bene. Ecco la parola chiave. — Il dottor Markos trasse una pipa scheggiata di radica dalla tasca della camicia, sfregò un fiammifero e lo avvicinò al tabacco già carbonizzato. — Ha pensato che potrebbe essere una caverna naturale senza alcuna connessione con queste rovine? Se così fosse, ci potrebbe essere un tratto franoso, una parete di roccia solida, un labirinto inestricabile di passaggi attraverso cui nessun uomo riuscirebbe più a trovare la via d'uscita. Io non vedo nulla, in quel luogo, che meriti una esplorazione affrettata e pericolosa. — Picchiò il dito su un altro rettangolo della carta. — Invece, qui dove sono state trovate le armi... — Non sono d'accordo — disse la donna, sempre con voce calmissima. — Ritengo che la città fosse costruita a semicerchio attorno alla base della montagna, per due ragioni: una strategica, in caso di attacco, e... Il dottor Markos alzò le sopracciglia; un filo di fumo salì serpeggiando oltre il suo capo. — ...una di protezione — proseguì lei — forse a causa di ciò che si trova dentro quel tunnel. — Pura speculazione — fece il dottor Markos, sorridendo leggermente. — Mi dispiace, ma sono d'accordo anch'io — intervenne il dottor Vodantis. — Avete tutto il diritto di non pensarla come me — disse lei. — E io ho il diritto di credere in ciò che penso sia vero. Dottor Vodantis, vorrei vedere quell'apertura. Adesso. — Senza aspettarlo, girò le spalle al gruppo degli uomini e iniziò a scendere nel pozzo, verso le trincee. Ogni passo la portava indietro nel tempo. Gruppi di lavoratori turchi e greci si affollavano attorno alla lenta, dolorosa risalita alla luce di antiche opere in muratura, rozze e scurite dal tempo; c'erano a terra pietre segnate con un nu-
mero in gesso e frammenti di roccia, e ciascuna faceva parte dell'enorme puzzle a più dimensioni che era quel luogo vetusto. Dall'altro lato del pozzo una lunga scalinata di gradini in pietra cominciava a emergere dalla terra. Il dottor Vodantis si affrettò davanti a lei. — Da questa parte, prego — disse, entrando in una trincea che scendeva giù con un'inclinazione di trenta gradi. La terra si è mossa nel suo sonno pesante, pensò la donna mentre seguiva il dottor Vodantis verso il basso; la terra ha scosso le spalle, ha tirato un lungo respiro e si è mossa sotto l'aspro tocco della natura e quello ancor più aspro degli uomini. Su entrambi i lati della trincea i muri di mattoni andavano lentamente ricomponendosi, emergendo dalle pareti di terriccio giallo. C'erano finestre e arcate di porte, intasate di sassi e pietrisco; su un muro c'era una grossa macchia nera e bruciata, il segno delle fiamme. La donna si fermò e la toccò, con gli occhi che splendevano. E poi seguì l'uomo dentro le fauci del tempo. Il sangue le scorreva rapido nelle vene. Proprio sopra di lei c'era un'apertura, attraverso cui poteva scorgere l'azzurro abbagliante del cielo e la sagoma rossastra, maligna della montagna che torreggiava su tutti loro. Qualcosa di scuro attraversò il suo campo visivo, per scomparire dietro la rupe più vicina. Un'aquila, che volava verso il nido attraversando la pianura smeraldina del mare. — Attenzione a dove mette i piedi. Ecco, questa pare proprio una parete. — Un paio di passi sopra a un tratto di lastre scure, poi continuarono a scendere. Chi è passato di qui prima di me? si chiese lei. A chi appartenevano la carne e il sangue che si erano mossi attraverso i corridoi stretti di questa immensa fortezza? Perché di quello si trattava, lo aveva capito non appena letti i rapporti sugli scavi e viste le mappe e le foto, in albergo. Un'enorme fortezza dotata di mura, con la schiena poggiata contro la montagna e il viso arcigno rivolto al Mar Nero. Costruita da quale mano? Questa città sarebbe rimasta nascosta, non fosse stato per il terremoto dello scorso dicembre, una scossa che aveva ridotto in macerie la maggior parte del villaggio di Caraminya, uccidendo più di trenta persone. Ora le strade di Caraminya sembravano stregate e silenziose, proprio come questo luogo più vecchio di centinaia d'anni. La frattura nella terra aveva scoperto una parete di antichi mattoni, nera per il fuoco ma con una storia emozionante da raccontare. Che la donna sapeva già. Non solo sperava, no, perché nella speranza c'è sempre un elemento di
paura. E lei non era donna da provare paura. No, lei sapeva. Ebbe la sensazione improvvisa che la montagna incombesse su di lei come una casa enorme fatta di solida roccia. Una casa che l'aspettava per darle il bentornato. Una nuvola di mosche si materializzò sopra la sua testa, come se la loro memoria genetica collettiva si ricordasse di un cumulo di corpi decomposti, bruciati dal sole, trapassati dal filo della spada, che giacevano scomposti lungo questi corridoi. Un'aria stagnante, colma del respiro dei morti, si materializzò attorno a lei e in un attimo svanì. Ma in quell'attimo le parve di sentire il clangore delle armi e l'alta, stridula risata delle orde combattenti. Era solo il rumore delle vanghe che scavavano le pietre e due studenti volontari che ridevano parlottando fra di loro. — Qui — disse il dottor Vodantis. Dove la trincea si interrompeva c'era un mucchio di massi dai contorni spezzati. Una pila di pietre di forma irregolare era stata contrassegnata con il gesso ed era coperta da un foglio di plastica trasparente; due giovani lavoranti in jeans e maglietta erano impegnati a ripulire dal terriccio un muro di mattoni. Alzarono gli occhi e fecero un cenno al dottor Vodantis. Questi indicò i bordi frastagliati dei massi. — Ecco dove è stata sgombrata l'apertura — disse alla donna. Lei si avvicinò. Un buco scuro e triangolare si apriva fra due dei massi più grandi; davanti all'apertura si inginocchiò e allungò un braccio, tastando all'interno le rocce acuminate che si univano in alto. Si sfilò lo zaino, aprì una tasca laterale e ne trasse una torcia dal manico di plastica. L'accese e si volse di nuovo verso il tunnel. Questo continuava ben oltre la portata del raggio, come un'orbita vuota che si apriva sugli oscuri recessi di un teschio insultato dal tempo; i denti acuminati delle rocce biancheggiarono, e lei vide che il passaggio era alto circa sessanta centimetri e ampio a malapena quanto le sue spalle. — Bene, ora entrerò — disse, un attimo dopo. — La prego — esclamò immediatamente l'uomo, facendo un passo verso di lei. — Non posso permetterlo. Almeno attenda l'arrivo dell'equipaggiamento di sicurezza, non ci metterà più di tre giorni... Ma lei non udì, perché stava già infilandosi avanti. Prima che il dottor Vodantis potesse fermarla era scivolata oltre l'apertura, stringendo le spalle e spingendosi con le gambe. Un attimo dopo il carrarmato delle sue suole era sparito nell'oscurità. — Signore Iddio — mormorò il dottor Vodantis, scuotendo vigorosamente la testa. Si sentì addosso gli occhi degli studenti e allora si voltò verso di loro e spalancò le braccia con gesto desolato.
La donna strisciava nell'angusto tunnel, seguendo il sottile raggio di luce. Il dottor Vodantis era uno stupido, pensò; peggio ancora, era un vigliacco, come Markos. Eppure si trattava di archeologi, e sulla soglia di una scoperta che avrebbe potuto sconvolgere il mondo. Era da stupidi non affrontare il rischio necessario per disvelare la verità; ma era proprio la verità che questi uomini perseguivano? Avanzava a fatica, metro dopo metro, senza esitare. Le pareti e il soffitto erano costituite da roccia irregolare; a un certo punto uno spunzone si impigliò nella manica, e col movimento successivo lei sentì la stoffa lacerarsi. Più avanti il tunnel svoltava a destra, e poi diede la sensazione di scendere, ma poco per volta. Accoccolata sopra di lei stava la montagna, come un mostro in attesa, migliaia e migliaia di tonnellate di roccia di cui ora poteva sentire l'odore freddo e ferroso. Il tunnel iniziò a restringersi ulteriormente; ora la roccia iniziò a sfregarle le spalle a ogni movimento, finché la sua pelle nuda cominciò a gridare. Da lontano sentì una voce, e allora si fermò, lasciando che ondate di suono la raggiungessero come da un oceano. Era il dottor Vodantis, che gridava il suo nome dall'entrata del tunnel. Strinse le spalle e continuò. Perché davanti a lei, sepolto sotto tonnellate di roccia, sotto gli inganni e le bugie e i sentieri aggrovigliati del tempo, stava il passato. E oggi lei avrebbe potuto svelare la verità. Si fermò dopo pochi metri perché le spalle avevano urtato contro qualcosa di strano. Illuminò con la torcia la parete a sinistra, vi fece scorrere sopra la mano. Pietra liscia, fredda. Una parete forgiata dalla mano dell'uomo. Migliaia di anni prima di frane e terremoti, questo era stato un passaggio che portava al cuore della montagna. L'artiglio del mistero stringeva questo luogo, e mentre strisciava avanti le parve di poter udire la voce potente di Giasone gridare ordini agli Argonauti, il passo risonante di Èrcole percorrere il campo di battaglia, il tuono e il clangore delle armi incrociate da guerrieri che combattevano viso a viso in un mare di corpi. Il suo stesso sangue prese a cantare antiche canzoni. Un brivido gelido le serpeggiò lungo la schiena e lentamente si impossessò del suo corpo. Perché di fronte a lei, alla fredda luce della torcia, era apparso un altro passaggio. Il respiro le uscì sibilando dai denti. Con le spalle graffiate e sanguinanti, si spinse verso il termine del tunnel. C'era un cumulo di pietre e attraverso queste il buco era così piccolo da non permetterle di sporgere contemporaneamente la testa e la mano che reggeva la torcia. Un odore di muffa e di secoli ristagnava oltre quell'apertura, e pareva chiamarla con un
dito scheletrico. Si rese conto che faticava a respirare a causa della densità dell'aria, e che avrebbe dovuto far presto. Poggiò il palmo della mano contro una delle pietre più piccole che chiudevano il passaggio e spinse. Niente. Provò con un'altra. Avrebbe dovuto esserci una pietra chiave, un masso che scivolando di lato facilitasse lo spostamento anche degli altri, permettendole di entrare in... che cosa? Il cuore le batteva colpi sordi. Appoggiò la spalla contro il masso e spinse, finché la fronte non le si imperlò di sudore. Ancora. Ancora. Niente da fare: la pietra pareva irremovibile. La spalla e la schiena intera le dolevano, e allora piantò i piedi contro le pareti di roccia per darsi più forza. Qualcosa si smosse. Lei trattenne il fiato, inspirò, provò di nuovo. Si udì il rumore di una pietra che scivola sull'altra. E quando cedette - di colpo, come se qualcosa dall'altra parte avesse rimosso con un sol gesto tutti gli ostacoli - lei cadde in avanti, incapace di mantenersi in equilibrio dentro il tunnel. Pietre grosse e piccole caddero con lei, attorno e su di lei, con risonante cacofonia, cortine multistrato di polvere giallastra l'avvolsero. La torcia le sfuggì di mano, lei aperse la bocca per gridare, una roccia la colpì al gomito paralizzandole il braccio, il mento urtò contro la pietra facendole sbattere i denti e aprendole una piccola ferita sul labbro. Era caduta su di una superficie liscia e lì rimase immobile, per lunghi istanti, lasciando che gli echi delle pietre cadute si spegnessero attorno come la marcia di eserciti lontani; sentì la polvere depositarsi su di lei, imbiancandole la pelle e i capelli, e il suo odore le parve di sangue e sudore. Davanti al raggio della torcia caduta si stendeva un pavimento di pietra liscia, intatto. Quando si sentì pronta a muoversi di nuovo strisciò verso la torcia, la strinse fino a farsi sbiancare le nocche e si alzò in piedi. Lentamente, ruotò la luce in tutte le direzioni; sopra la torcia i suoi occhi lampeggiavano. Una lunga stanza, dalle pareti lisce. Cortine di polvere attorno a forme nell'ombra. Aveva lasciato fuori il mondo esterno - quel regno di automobili e di grattacieli incombenti e di navi enormi che violavano i mari - ed era entrata nel mondo degli antichi, così diverso e impressionante da farle gelare il sangue nelle vene. E così silenzioso. Così totalmente, assolutamente silenzioso. Si mosse, e davanti a lei si alzarono piccole onde di polvere. C'erano figure su ogni lato. Statue di dimensioni umane, bloccate in posizioni di combattimento, che stringevano lance e spade. Toccate dal raggio della torcia, le restituivano lo sguardo occhi vuoti su volti impassibili.
— Meraviglioso — udì la sua voce pronunciare, e l'eco meravigliosomeraviglioso-meraviglioso ripeté decine di volte, ogni volta un po' più piano. Quelle statue erano scolpite in marmo rilucente e quando lei si avvicinò a una di loro, facendo scorrere il raggio sull'abito da battaglia, vide che erano... Il sangue le fremette. Sì. È così. È davvero così, dunque. Sono... La luce le tremò fra le mani, facendo danzare le ombre. A pochi passi di distanza vide i resti di pitture murali, immagini di campi di battaglia, incrinate dall'età ma tuttora marcate dai colori originali, rossi violenti e verdi e azzurri; combattenti che alzavano la spada sui caduti; enormi destrieri da guerra che calpestavano file di nemici in armatura; archi che scoccavano le loro frecce mortali verso il sole; scene di massacri - arti, divelti e teste staccate stillanti sangue, schiavi in catene trascinati dietro a cavalli bardati d'oro. Il cuore le pulsava dentro il cervello; l'aria odorava di cose antiche, segrete, tremende, e lei non poteva decidersi a lasciare quella stanza colma di suprema bellezza e orrore. Le parve di udire la voce del dottor Vodantis gridare il suo nome, più volte, ma un attimo dopo il suono era svanito, quasi assorbito dalle pareti, e lei fu di nuovo sola. Fece alcuni passi avanti, nel buio, e fu come se qualcuno camminasse dietro di lei. Qualcuno o qualche cosa, che si teneva nel buio. All'estremità della stanza, il raggio di luce cadde su qualcosa che mandò un bagliore scuro. Era un blocco di pietra nera, squadrato, alto fino alla vita. La donna si mosse in avanti, sollevando polvere di secoli, poi si arrestò. Diresse la torcia verso terra. Sparpagliati attorno, stavano parecchi oggetti metallici forgiati rozzamente, intaccati dalla ruggine e spezzati, riconoscibili perciò solo da un occhio esperto. L'elsa di una spada; ciò che probabilmente era stata la punta di una lancia; alcuni elmi schiacciati, uno quasi completamente appiattito; frammenti di armatura, sfregiati e arrugginiti, quasi sanguinanti fra i mucchietti di polvere chiara. Percorse il pavimento, su e giù, in cerca di altre testimonianze: ancora armi, spezzate come da un colpo improvviso, e fra loro resti della lama di asce, che riflettevano ancora, sia pur fiocamente, la luce. Sbatté le palpebre: il raggio era caduto per un attimo su qualcosa di bianco. Un attimo dopo lo rivide. Un osso. E ora, mentre si avvicinava, incominciò a distinguere altre ossa, sparse fra le armi e la polvere. Parecchie ossa, che erano rimaste occultate in una
lunga e terribile oscurità. Un teschio spezzato la guardava sogghignando. Ella mosse la luce sopra le ossa, vide che le pareti e il soffitto erano coperti da una spessa polvere di carbone. E poi fece un passo indietro, barcollando, e il respiro le divenne pesante. Perché aveva visto un piedistallo che si staccava contro la parete più lontana, e su quello una figura con le braccia che sembravano tese verso di lei. Impietrita, a vegliare per l'eternità sui morti. Gli occhi dell'idolo erano su di lei, e la statua era così simile a una figura viva che la donna pensò per un attimo di aver visto muovere quelle orbite senza sguardo. Le ombre oscuravano il debole raggio della torcia. E lei fu certa di sentir pronunciare il proprio nome, ora; il dottor Vodantis che la chiamava da un tempo e luogo estranei... No. Non il dottor Vodantis... Qualcos'altro. Un fruscio d'ombre, che acquistavano forma, che acquistavano forza. Ella trasse un profondo respirò, sentì quell'aria dolce e amara insieme; la sentì... strana. Facendo ondeggiare la luce, la ruotò intorno sul picchetto d'onore delle statue. Si erano mosse? Erano avanzate verso di lei? Si erano voltate leggermente, quelle teste di marmo, sui loro colli di pietra? Una di loro, una figura armata di arco, sembrava scrutarla. Il bianco sguardo cieco le bruciò attraverso l'anima e vi lasciò un marchio di fuoco. Un sussurro. Il suo nome, pronunciato da imperscrutabili distanze. In equilibrio sopra la pietra nera - un altare? - l'idolo protettivo sembrava essere in attesa, mentre alla sua base la polvere pareva respirare e alzarsi in spirali, come se fosse viva. Una voce, più chiara adesso, portata da un vento freddo che muoveva la polvere in un caleidoscopio di immagini fantastiche, che dava forma alle ombre. La lingua era sconosciuta. No, era una sorta di greco deformato. Un greco rozzo, antico, un dialetto risonante d'impeto e di forza bruta primordiale. Ella non osava lasciar cadere la torcia, ma il solo fatto di tenerla in mano le costava uno sforzo tremendo. Riusciva a capire solo frammenti del messaggio, vincendo il rumore pulsante che aveva in testa e che pareva il rimbombo di tamburi di guerra. Indietreggiò, allontanandosi dalla pietra nera, dall'idolo proteso che incombeva in alto, e fece ruotare intorno la torcia; la voce era più forte ora, implorante, era molte voci assieme, potenti e inevitabili, che echeggiavano da ogni lato. Gettò la luce sopra quei volti fantasmatici, e quando la voce tornò la sua potenza la fece vacillare, cadere sulle ginocchia di fronte all'idolo; in quell'istante le parve di vedere il capo della statua volgersi leggermente, impercettibilmente, e vide allora fiamme azzurre lampeggiare in
quelle orbite di marmo. Un istante, e poi svanire, nel più rapido degli attimi. E qualcosa si mosse fra le spesse cortine di polvere, come qualcuno che lentamente uscisse dalle fiamme. La figura, una forma di ombra e luce, di polvere e pietra, si avvicinò alla donna con passi fatti di vapore e rimase ondeggiante; al posto del viso aveva un profilo scuro. Orbite lucenti d'azzurro, come diamanti ardenti, lampeggiarono con una forza che le fece piegare la testa all'indietro; ella sentì quella medesima terribile, tremenda forza afferrarle il cuore, scoprirle i muscoli, le ossa e le vene. Eternità di ere passarono fra di loro, e quando lei aprì la bocca per gridare non riconobbe più la sua stessa voce. La figura ondeggiò di fronte a lei e il profilo scuro di ciò che avrebbe potuto essere un braccio le sfiorò il viso, lasciando nelle narici odore di povere e di epoche remote. E poi la polvere si alzò di nuovo, un oceano di polvere, oscurando qualunque cosa fosse ciò che la donna pensava di aver visto; ella trovò la forza di alzarsi in piedi e di incominciare di nuovo a indietreggiare, urlando in ogni sua fibra. La voce - no, le molte voci confluite in una - ora svaniva, gradualmente, riassorbita dalla parete di pietra che aveva attraversato. E alla fine scomparve. Raggiunta l'entrata del tunnel, si tirò su fino al passaggio e riempì i polmoni di aria fresca, con avidità. Provava una strana percezione del proprio corpo; i nervi le vibravano, i muscoli si contraevano come se lei ne avesse perso il controllo. Volle guardare indietro alla caverna, vedere ancora una volta le imponenti pitture murali e la pietra nera e l'idolo proteso, ma non c'era spazio nel tunnel per voltare la testa; iniziò a strisciare verso il punto in cui il dottor Vodantis l'aspettava, verso un mondo di follia e di sporcizia, di crimine e di brutalità. Le voci se n'erano andate, ma nel profondo della sua anima lei poteva udirne l'eco, ancora e ancora e ancora... Fiamme di azzurro elettrico danzarono per un istante negli occhi della donna, e lei ripercorse il tunnel per tornare dove gli uomini aspettavano. 2 VIETNAM 1970 Era stato legato alla branda con corde ruvide che gli segavano le caviglie e i polsi e ora, nudo e immobilizzato con le braccia e le gambe divaricate, aspettava.
Il sudore era sgorgato dal suo corpo, era scivolato via e poi sgorgato di nuovo e sotto di lui la rozza coperta che fungeva da materasso era fradicia, come lo era stato quel buco dove si era accoccolato quando i mortai avevano iniziato a dilaniare la giungla intorno a lui. Ma qui era peggio, perché c'era silenzio e non si poteva sapere quando sarebbe caduto il prossimo colpo, o dove avrebbe colpito. Uno per uno, li avevano portati via tutti dalle gabbie di bambù: Endicott, Lyttle, il caporale sconosciuto che aveva la dissenteria e continuava a urlare, Vinzant, Dickerson, e ora lui. Aveva sperato con tutte le sue forze di non essere l'ultimo. Avrebbe voluto farla finita subito, perché aveva udito le loro urla e visto le loro facce quando li avevano gettati di nuovo nelle gabbie, lasciati là a sussultare e lamentarsi e contorcersi, come feti, per sfuggire alla insopportabile realtà della tortura. Aveva pregato Iddio di non lasciarlo per ultimo. Ma nell'udire le sue preghiere Dio doveva aver sorriso e voltato il capo. Perché solo adesso era venuto il suo turno. Di ritrovarsi solo. Di aspettare. Tentò di raccogliere ricordi; tentò di farli rivivere perché portassero via la sua mente da quella scura capanna fatta di tavole nere e coperta di liane verdi, perché si camuffasse nella giungla. Visi: suo padre e sua madre netta stanza sul davanti della loro piccola casa nell'Ohio, con la neve che cadeva fitta fuori dalla finestra, l'albero di Natale appena tagliato e scintillante di ornamenti, nell'angolo. Suo fratello... no, Eric era già morto quell'anno, però mettiamolo dentro anche lui, facciamo che tutto sia perfetto, come avrebbe dovuto essere. Come fanno a torturarti? Ti picchiano? fa' entrare Eric nella stanza; fallo sedere davanti al fuoco in quel suo modo caraneristico; fa' che la neve sui suoi capelli e sul maglione si sciolga lentamente. Fa' che il fuoco illumini il suo viso, e anche il viso di mamma e papà. No, non picchiano. Gli altri non sono stati picchiati. Comunque non sono state le botte a provocare quelle ferite e ammaccature. Il ricordo dell'albero di Natale smosse ricordi più recenti. Sua madre che lavorava il maglione color verde foresta che gli aveva regalato quell'anno. Anche se lui sapeva di che cosa si trattava, per regalarglielo lei lo aveva messo in una scatola con un disegno di cornette dorate. Adesso conta tutte le cornette. Una. Due. Tre. Ma se non ti picchiano, allora come fanno? Non aveva visto le dita degli altri; avevano infilato schegge di bambù sotto le unghie, o quella era una cosa che accadeva solo nei vecchi film di guerra in bianco e nero? Quattro. Cinque. Sei. Sette. Otto cornette. La luce della fiamma che si rifletté sulle pareti. Lui - ma non c'era anche Eric? - aveva
aiutato suo padre a tagliare la legna nel bosco per il camino, quella mattina, e suo padre si era inginocchiato nella neve e gli aveva mostrato le tracce di un cervo, che si dirigevano verso la sicurezza delle colline. «Il progresso li fa scappar via» aveva detto papà. «Loro sanno che le città si stanno mangiando le foreste, e che non è giusto.» E allora come lo fanno? Perché gli avevano tolto tutti i vestiti? Perché lo facevano aspettare? E alla luce del fuoco Eric - Eric che è morto - volta lentamente la testa. I suoi occhi sono bianchi e liquidi, come gli occhi di quel cervo che papà uccise una volta per errore, nei giorni infocati dell'autunno. I suoi occhi sono ciechi, e tuttavia perforano l'anima come una scheggia di granata, mettendone a nudo i segreti. «Sei stato tu» dice Eric in un sussurro. Il fuoco scoppietta dietro di lui, come lo scatto di una tagliala o il filo di una mina quando lo spezzi e pensi Gesù è la mia ora. «Sei stato tu a uccidermi, perché lo sapevi. Sei stato tu e io non lascerò mai che lo dimentichi.» Quel sorriso morto, familiare eppure terribile. I denti sono sporchi di terra della tomba. «Su, Eric» dice mamma piano, concentrata nel suo lavoro a maglia. «Smettila con questi discorsi. Cerchiamo di passare un bel Natale.» L'uomo sulla branda tremò, stringendo gli occhi con forza, perché il suo tentativo di evitare la tortura lo aveva gettato in un travaglio più sconvolgente, più terrificante di qualsiasi cosa loro avrebbero mai potuto inventare. Sbatté la testa da una parte all'altra, finché le immagini si tinsero di azzurrino e poi scomparvero, come disegni tracciati con inchiostro simpatico. — Tenente Reid? Una voce d'uomo, che Evan riconobbe immediatamente: era l'ufficiale vietcong alto e smilzo che aveva sempre addosso un'uniforme immacolata, quello che odiava persino avvicinarsi ai prigionieri coperti di sporcizia. Quello con il sorriso da gatto, e gli occhi che penetravano l'acciaio; il Gentiluomo Sorridente, lo chiamava Dickerson. E ora l'uomo entrò nel campo visivo di Evan. Alla luce dell'unica lampadina sospesa in alto la sua fronte riluceva, coperta da un velo leggero di sudore; egli la deterse con un fazzoletto candido e poi sorrise in faccia al prigioniero, leggermente, con gli zigomi che sporgevano dall'insieme del teschio, sottolineati da due ombre scure. — Tenente Reid — disse, con un cenno del capo. — Finalmente ci incontriamo, senza sbarre di mezzo. Evan non rispose. Chiuse gli occhi per sfuggire a quel viso circondato dall'alone della lampadina. Era per questo che gli erano stati tolti gli abiti,
perché erano sporchi di fango ed escrementi, e la loro vista avrebbe offeso il Gentiluomo? — Perché mai gli americani trovano forza nel silenzio? — chiese piano il Gentiluomo. — Nell'atteggiamento scostante? Certo dovete sapere che per voi la guerra è finita. Perché insistere...? Ah, bene. Mi aspetto che anche lei sia come tutti gli altri, all'inizio. Tranne che il giovane caporale, ma sfortunatamente egli è troppo... ammalato... per essere coerente. Evan digrignò i denti. — Vorrei chiedere a lei una cosa — disse l'uomo, ponendo uno sforzo nel pronunciare correttamente. — Vorrei arrivare a conoscerla meglio. Gradirebbe accettare? Non parlare, Evan ricordò a se stesso. Non lasciarlo entrare, no... — Vorrei sapere da dove viene, dove è nato — proseguì il Gentiluomo. — Certo questo me lo può dire? Ah, bene. Qualunque posto sia, sono sicuro che le manca molto, vero? Io ho una moglie e due figlie. Una bella famiglia. Anche lei ha famiglia? Tenente Reid, io non amo i monologhi. Evan aprì gli occhi e scrutò in profondità il viso dell'uomo che stava sopra di lui. Ancor più a fondo. Il suo sguardò andò oltre i muscoli facciali, fino all'osso. Il Gentiluomo sorrideva come un amico da lungo tempo perduto o come un fratello. Ma come Evan si concentrò vide quel viso improvvisamente cambiare, sciogliersi come il viso di una figura di cera. I denti si allungarono, divennero zanne; gli occhi si trasformarono nel fulcro di un odio ribollente che sembrò attanagliargli il cuore. Sì. Quello era il vero uomo, dietro la facciata dei sorrisi. — Vede? — disse il Gentiluomo. — Io le sono amico. Io non voglio farle del male. — Vai all'inferno — ribatté Evan, immediatamente pentendosi di aver parlato. Il Gentiluomo rise. — Ah. Una risposta. Non molto buona, ma una risposta. Come ha iniziato la carriera militare, tenente? È stato - come si dice - indotto? Oppure l'ha fatto per scelta, per un malinteso patriottismo? Questo non significa molto ora, non è vero? Sono sicuro che almeno per il giovane caporale non significa molto. Temo che possa morire. — E perché non gli chiamate un medico? — fece Evan. — Tutti voi avrete medici per le vostre ferite — rispose l'uomo con tono di voce uniforme. — Tutti voi avrete buon cibo e bevande e veri letti. Se dimostrerete di meritarli. Noi non desideriamo sprecare il nostro tempo e i nostri sforzi con coloro che dimostrano di non... apprezzarli. Io speravo
che lei avrebbe dimostrato di apprezzarli, tenente, perché lei mi piace e... — Bugiardo — disse Evan. Posso vedere attraverso di te. Ti conosco. Poteva vedere se stesso, tremante, con gli occhi appannati, in piedi di fronte a una telecamera ronzante a denunciare l'imperialismo militare degli Stati Uniti. Oppure l'avrebbero fatto sfilare per le strade di Hanoi con una corda attorno al collo, mentre i bambini gli gettavano sassi? Il Gentiluomo fece un passo avanti. — Non c'è scopo a comportarsi così. Io potrei renderle più facili le cose, oppure più difficili. Ci sono cose che vorremmo lei facesse per noi. Ma la scelta sta a lei. Io ora vedo che lei ha paura perché non sa che cosa l'aspetta. Ma neppure io lo so, perché presto la faccenda sarà fuori dalle mie mani. C'è qualcun altro, qui, che sarà felice di occuparsi di lei. — I suoi occhi ebbero uno scintillio ferino. — Qualcuno esperto nelle arti della paura. Quindi, tenente Reid, perché non proviamo a parlare da persone civili? Una goccia di sudore rotolò dentro l'occhio di Evan e bruciò come una fiamma. Egli rimase muto. — Odia dunque se stesso così tanto? — chiese dolcemente il Gentiluomo. — Capisco. Mi dispiace per lei, davvero. — Rimase a fissarlo ancora un attimo, poi scomparve fra le ombre, come un fantasma. E nulla si mosse più per un tempo intollerabilmente lungo un'ora, forse due? Quando l'ombra successiva comparve, essa comparve silenziosa, materializzandosi nel cerchio di luce sopra alla branda di Evan senza che questi se ne accorgesse. — Tenente Reid — disse la figura, una voce di seta che gli mandò un brivido, come una lama gelida, lungo la schiena. — Consideriamo per un momento la femmina della specie. Evan sbatté le palpebre. Sentiva le funi ai polsi e alle caviglie come fili di metallo arroventato e aveva perso la sensibilità nelle mani e nei piedi. Una donna era china su di lui; era una vietcong, che indossava una severa uniforme con una sciarpa nera attorno al collo. I capelli lisci erano tirati in una crocchia nera e gli occhi, su quel viso, erano due lunghe fessure di freddo disprezzo. Fece correre lo sguardo sul suo corpo immobilizzato. — Estremamente pericolosa è la femmina — ella disse piano — perché colpisce senza preavviso. Sembra dolce, debole e indecisa, ma questo è il fulcro del suo potere. Quando il momento viene — e con l'unghia ella tracciò lungo il suo torace una linea che subito divenne rossa — la femmina non ha esitazioni.
Fece una lunga pausa, gli occhi immobili; una mano si staccò dal corpo, lasciò il cerchio della luce. — La capacità di vendetta della femmina è leggendaria, tenente; perché altrimenti il maschio tenterebbe continuamente di controllarla e di placarla? Perché ha paura. — La mano tornò; qualche cosa pendeva fra le dita. — Il morso della femmina può essere insopportabilmente doloroso. E mortale. Per esempio, questa — la donna fece dondolare una piccola gabbia di bambù sopra il torace di Evan — femmina, ecco qui. Vede? — Nell'altra mano teneva una appuntita cannella di bambù. La spinse più volte dentro la gabbia e sorrise. Qualcosa si mosse nella gabbietta. — Ora essa ha ricevuto un'offesa che renderà tutto il suo essere furioso di vendetta. — Di nuovo spinse la lama di bambù nella gabbia; a Evan sembrò di udire un sibilo acuto, e poi un filo di liquido scuro filtrò dal fondo e cadde sul pavimento. Non sangue, no, bensì... Veleno. — Se lei non vuole parlare — disse la donna — forse preferirà gridare... — Fece scattare la chiusura e, tenendo la gabbietta col braccio teso, la scosse sopra il corpo sudato e rabbrividito di Evan. E ciò che cadde sulle sue cosce gli liberò suo malgrado un gemito di puro terrore dalla gola. Un ragno della giungla grande come circa metà della sua mano, coperto da lunghi peli color marrone-verde. Occhietti neri simili a punte di matita ruotarono in cerca della fonte del proprio tormento. Si agitò avanzando, attraverso vesciche di sudore, lungo la coscia; egli alzò la testa, gli occhi impazziti, e vide la coppa rossastra della bocca del ragno in mezzo a un paio di mandibole nere. Ebbe l'impulso di gridare e agitarsi, ma con le ultime gocce di volontà che gli restavano riuscì a mantenersi immobile. La donna fece un passo indietro, le spalle uscirono dalla luce e lui poté sentirne solo il respiro rauco, eccitato. Il ragno salì sui testicoli e rimase fermo, gli occhietti scintillanti. — Via da me, bastardo — Evan sibilò rivolto a quella cosa mostruosa, sentendo che i nervi incominciavano a cedergli. — Via, via, via... — Il ragno ricominciò ad avanzare, oltre i testicoli, sul ventre, attraverso la fitta peluria castana. — Vuole ancora rimanere in silenzio? — chiese la donna. Con gli occhietti neri che roteavano scintillando in ogni direzione, il ragno iniziò a risalire il torace; si fermò un attimo sullo sterno, assaggiando il sudore. Evan sentì i polsi scoppiargli e dentro di sé liberò un grido che lo lasciò svuotato e sull'orlo della follia. Il ragno strisciò avanti. Verso la ve-
na che pulsava sulla gola. — Il silenzio la ucciderà — sussurrò la donna, avvolta nell'ombra, immobile, muovendo solo la bocca, che aveva la stessa forma a coppa di quella del ragno. Il ragno arrivò alla base della gola e lì si fermò. Una goccia di fluido colò sulla pelle dell'uomo. Egli poté sentire l'aroma dolce e nauseabondo del veleno e il suo corpo incominciò a tremare, senza più controllo. Il ragno attese. E l'istante successivo la donna fece un passo avanti. La sua ombra cadde sull'uomo disteso, accecandolo. Alzò la mano, quella armata della lama di bambù, e la calò sul ragno. Ci fu un sibilo acuto e un odore spesso, aspro; poi il ragno si attaccò alla gola di Evan. Egli sentì una rasoiata di dolore gelido e poi un calore appiccicoso, mentre il veleno scorreva dalle ghiandole; il ragno si scosse, svuotando i propri fluidi dentro l'animale bianco che stava sotto di lui. E l'uomo lanciò un grido di terrore animale, scuotendo violentemente le funi che lo imprigionavano; il ragno abbandonò la gola, lasciando dietro di sé un filo di liquido marrone, cadde al suolo e si affrettò verso il buio. Ma la donna abbassò la scarpa e lo ridusse in una poltiglia sanguinolenta. L'uomo stava ancora gridando e contorcendosi; il sangue gli segnava le caviglie e i polsi. Il Gentiluomo entrò nel cerchio di luce, con gli occhi stretti e impazienti, seguito da due soldati armati. Uno di questi sogghignò. La donna era affascinata dalla reazione di Evan al dolore. Sporse la lingua, si leccò velocemente il labbro inferiore. Un attimo dopo Evan alzò la testa, con i cordoni del collo tesi allo spasimo e, fra di essi, un punto rosso che segnava il morso del ragno. Quando la testa gli ricadde indietro il respiro divenne rauco e irregolare e sotto le palpebre socchiuse gli occhi si rovesciarono, mostrando il bianco vitreo. Il Gentiluomo fece cenno di sciogliere le funi. — Con quello chiamato En-di-cott ci sono possibilità — disse la donna. — E anche con quello chiamato Vin-zant. Essi coopereranno. Gli altri sono inservibili. — Fece un rapido cenno al Gentiluomo e restò a guardare gli altri due che slegavano l'americano, poi si voltò e svanì nell'ombra. Dopo che lei fu scomparsa l'ufficiale vietcong guardò con ripugnanza il ragno spiccicato a terra e rabbrividì. Si accorse con un moto di disgusto che una bava di veleno era finita sulla sua scarpa e allora si affrettò verso la propria stanza, a ripulirla prima che il cuoio francese si rovinasse.
PARTE SECONDA GIUGNO 3 NEL BUIO 1980 Nel buio egli sentì la voce distante, echeggiante, di un cane che abbaiava e, con il cervello ancora intorpidito dal sonno, si chiese come mai quel rumore gli facesse accapponare la pelle. È perché, pensò, quel cane sta abbaiando contro qualcuno? O contro qualcosa? Una presenza che si aggira per le strade notturne di Bethany's Sin come un mostro in cerca di vendetta? Mosse leggermente la testa per leggere l'ora sulla sveglia luminosa che teneva sul comodino. Le tre e venti. Le ore più lunghe della notte dovevano ancora arrivare, le ore più silenziose, quelle in cui gli incubi tremano al limitare della realtà. Attese, senza desiderio di tornare nel regno oscuro del sonno poiché ora la paura l'aveva afferrato, stringendogli lo stomaco in una morsa di tensione, in un nodo di muscoli e intestini. Perché egli sapeva che quando fosse venuto il suo momento, sarebbe venuto di notte. Improvvisamente, come se la terra l'avesse inghiottito, il cane cessò di abbaiare. L'uomo giaceva immobile sotto le lenzuola azzurrine, striate dai raggi luminosi della luna che passava fra le tende aperte, chiara come una luce al neon. Cielo limpido per i prossimi giorni, avevano detto le previsioni del tempo; bel tempo per il primo fine settimana di giugno, ma probabili acquazzoni martedì. Vide il profilo di un albero stagliarsi nel chiaro di luna, una cosa con molte teste, un'Idra che ondeggiava e sibilava e aspettava appena fuori dalla sua finestra. Al successivo soffio di brezza riuscì quasi a sentire la cosa sussurrare. Vieni fuori, Paul, vieni dove le stelle e la luna sono splendenti, dove la notte è spessa, dove nessuno vedrà mentre ti faccio a pezzi. Buon Dio, pensò improvvisamente. Sono qui per me. No. No, smettila! Non c'è niente, là fuori, niente tranne il buio e gli alberi e i cani che abbaiano e le strade familiari del villaggio. Perché non me ne sono andato via oggi? si chiese. Perché non ho preso la macchina e non sono andato a Johnstown, non ho preso una stanza all'Holiday Inn, dove avrei potuto leggere, guardare la televisione, sentirmi in salvo? Perché,
sentì dentro di sé la voce severa della ragione che lo ammoniva, non puoi esserne certo. La tua casa è qui. Il tuo lavoro è qui. Le tue responsabilità. Quando si era recato dal dottor Marbry la settimana prima per i suoi disturbi - aveva rimandato finché aveva potuto, ma dalla morte di Elaine, tre anni prima, provava dolori di ventre e uno stato quasi costante di letargia si era sentito spinto ad aprirsi, a rivelare alcune di quelle sensazioni che avevano messo radici dentro di lui e ora si sviluppavano selvagge e intricate. Il medico aveva ascoltato con tranquillità, annuendo dove del caso, gli occhi seri e attenti. «Ho sentito rumori nel mio telefono» aveva detto al dottor Marbry. «Come se qualcuno stesse ascoltando le mie conversazioni. Li ho sentiti parecchie volte, però molto lievi. E poi ci sono dei tipi sospetti...» «Tipi sospetti?» Il dottor Marbry aveva alzato un sopracciglio. «Non tutte le notti, però io so quando ci sono. A volte soffro d'insonnia, così rimango sveglio e ho sentito i rumori.» «Ha mai visto qualcuno aggirarsi attorno alla casa, di notte?» «No. Ma certe volte, mentre ero alla finestra a guardare fuori, con la coda dell'occhio ho visto ombre, cose che si muovevano. E c'è un cane che abbaia sempre, giù alla fine di McClain Terrace; so che le sembrerà strano che un cane mi debba impensierire, ma è come... un avvertimento. Quel cane ha visto o percepito qualcosa di... terribile.» «Bene» aveva detto il medico «potrei prescriverle delle pillole per aiutarla a riposare meglio. Forse è stato troppo impegnato alla banca, in questo periodo, e non ha praticato abbastanza attività fisica; potrebbe essere questa la causa della sua insonnia. E del resto sa qual è il problema che le causa l'ulcera. Non ha pensato di riprendere con il golf?» Troppe cose erano cresciute dentro di lui, troppi rumori e ombre di scheletri nel buio. Gocce di sospetto e disagio erano diventate pozze, torrenti, fiumi, oceani che si alzavano dietro una diga sempre più debole. La pressione l'avrebbe presto schiantato. Certo, era andato da Wysinger, ma questi non era stato di nessun aiuto. «Sicuro» gli aveva detto Wysinger «passerò con la macchina di ronda per McClain Terrace un paio di volte al giorno, se lei pensa che sia utile. Inoltre, il mio numero è sulla guida e lei mi può chiamare anche di notte se succede qualcosa. Va bene?» «La ringrazio» gli aveva detto. «Qualsiasi cosa lei possa fare. Ma sapeva che Wysinger non avrebbe trovato nulla. No, no. Erano troppo intelligenti, troppo perspicaci per lasciarsi intrappolare. E ora una parola gli bruciava nel cervello: paranoico, paranoico, para-
noico, come la filastrocca strana di un bambino, il ritornello che accompagna il salto della corda. «Tu ti preoccupi troppo per cose insignificanti, Paul» gli diceva sempre Elaine, persino quando abitavano ancora a Filadelfia. «Impara a rilassarti. Impara a prendere le cose come vengono.» Sì. E ora stanno venendo a prendermi. Improvvisamente sentì il bisogno di far luce. Tastando sul comodino, trovò la lampada, l'accese e strizzò gli occhi finché non si furono abituati. I miei occhi se ne stanno andando, pensò, sentendo una nuova fitta di panico. Erano diventati miopi e deboli in tutti quegli anni passati a leggere parole scolorite sui moduli di banca. Prese dal tavolino gli occhiali dalle spesse lenti, li inforcò, spostò decisamente le coperte e si alzò in piedi. Attraversò la stanza per andare a guardare, dalla finestra, il rettangolo di giallo gettato sul prato verde dalla sua stanza illuminata. Contorcendo il collo, scrutò su e giù per McClain Terrace. Scuro, vuoto, silenzioso come una tomba. Ancora più scuro prima dell'alba, pensò, gettando uno sguardo alla sveglia. Riportando gli occhi alla finestra, gli parve di vedere il barlume di una luce in una casa più avanti, ma invece di sentirsi confortato da quella luce sentì un nuovo motivo di paura svilupparsi velocemente dentro di lui. Però poi si accorse che non era una luce, bensì il riflesso chiaro e luccicante della luna sopra il vetro di una finestra. Tutti stavano dormendo. Tranne lui. E tranne la cosa che aveva disturbato il cane in fondo alla strada. Smettila! disse a se stesso. Ti stai sbagliando! La mezza età ti sta facendo forse perdere la ragione, diventare pazzo? Paranoico, paranoico, paranoico: era quella la parola che si usava per i pazzi, vero? Uscì sul pianerottolo, accendendo la luce delle scale, andò a piedi nudi fino ai gradini, scese. Poi attraversò il soggiorno al pianterreno, fermandosi ad accendere il televisore a colori. Naturalmente sullo schermo non comparve nulla se non una tempesta di neve multicolore, pure in qualche modo quel rumore lo rassicurò, come quand'era piccolo e lo lasciavano solo in casa, controllato solo da quel guardiano in bianco e nero. Entrò in cucina. Alla luce nuda e bianca del frigorifero frugò in cerca di avanzi. Quella era l'unica cosa che vivendo da solo non aveva imparato: cucinare, utilizzare ciò che di volta in volta era disponibile. Il frigo era pieno di piccole scodelle di terracotta che contenevano avanzi di cibi, lattine di birra, una brocca di tè vecchio di due giorni, un piatto blu con fette di roast-beef avvolte nell'alluminio. Spalmò della senape su due fette di pane per prepararsi un sandwich al roast-beef.
Aveva dato il primo morso al panino quando le luci tremolarono. E poi si spensero, come se il buio esterno fosse finalmente riuscito a passare da sotto la porta e le finestre. Fissò la lampadina dentro il frigorifero rimasto aperto e questa si spense, insieme a tutte la altre luci nella casa e al frigo stesso, il cui motore lanciò un lungo gemito umano. E poi si ritrovò nel buio, circondato da un silenzio uguale a quello che segue il colpo di fucile, o lo spazio fra due ticchettii dell'orologio. Cristo! pensò, impietrito per un secondo, mentre il cuore gli balzava violentemente in petto. Sentì qualcosa cadere sul pavimento e il rumore lo scosse, finché si rese conto che si trattava del panino, che aveva lasciato andare. E ora? si chiese, aspettando immobile, sperando che le luci si riaccendessero. I dannati fusibili erano sovraccarichi. Oppure c'era stata un'interruzione di elettricità: si ricordò di aver letto un articolo sul giornale che diceva che l'Ente Energia della Pennsylvania avrebbe fatto dei lavori sulle linee, quella settimana e la successiva. Si voltò, a tentoni aprì un cassetto e prese una torcia, ma le batterie erano quasi esaurite e gettavano una luce debole e scura. Strano, pensò, come gli oggetti familiari sembrano sconosciuti in una mezza luce; nel soggiorno i mobili sembravano strisciare, contorcersi in forme orribili al suo passaggio. Se un fusibile non funzionava, oppure se tutti i fusibili erano saltati, avrebbe dovuto provvedere prima che il cibo nel frigorifero andasse a male; quando raggiunse la porta sotto le scale che portava al seminterrato, si fermò. Non sarebbe stato meglio chiamare l'Ente Energia per controllare, prima? Mise la mano sul pomello della porta e ne sentì il freddo che, attraverso le vene, gli risalì al cuore. Chiama l'Ente Energia. No, penseranno che sei stupido! Penseranno che sei paranoico, e se continui così prima o poi i colleghi in banca parleranno di te sussurrando. Girò il pomello, penetrò quell'oscurità che sapeva di chiuso con il debole raggio della torcia e iniziò a discendere i gradini di legno. Faceva più freddo, quaggiù, ed era silenzioso come in una tomba. Sentì sotto ai piedi nudi il pavimento freddo di pietra del seminterrato. Non scendeva spesso nel seminterrato, lo usava come deposito per le cose del passato: vecchi bauli pieni di abiti smessi, una sedia dal bracciolo rotto, la base in ceramica scheggiata di una lampada, qualche scatola di cartone decorato che conteneva alcuni abiti di Elaine, libri ammuffiti e le riviste della National Geographic. Aveva ricoperto due pareti con pannelli di legno; le altre due erano di mattoni a vista, e c'erano colonne di cemento armato che sostenevano il soffitto attraversato da tubature grandi e piccole. Dal lato opposto c'era
una porta con quattro pannelli di vetro e a ciascun lato stava una finestra che guardava sul piccolo cortile posteriore. La massa scura della caldaia era silenziosa; il metallo gli riflesse negli occhi il raggio della torcia. Allora girò il raggio attorno, in cerca della scatola dei fusibili, montata su una parete appena dietro le scale; il raggio attraversò la porta di uno sgabuzzino pieno di latte di vernice e rotoli di tappezzeria vecchia. Ebbe la rapida visione di una lampadina appesa e ondeggiante dal suo filo come una testa spiccata dal tronco. La scatola dei fusibili faticò ad aprirsi; i cardini arrugginiti non giravano. Dall'uno e dall'altro lato del debole raggio, l'oscurità aveva iniziato a premere, come le ondate lente di un oceano buio. Lui si attaccò alla scatola, scuotendola, e scuotendo via una mano gelida che sembrava esserglisi posata sul collo. Il coperchio si aprì. L'uomo trafficò con la torcia, diresse il raggio all'interno. E fu allora che vide che i fusibili erano stati strappati via. Percepì piuttosto che sentire il movimento dietro di lui, e mentre si girava e alzava il braccio a proteggersi sentì qualcosa lanciare un grido acuto nel buio, dall'apertura dello sgabuzzino. Ebbe la visione, in un centesimo di secondo, di qualcosa che mandava un bagliore blu elettrico mentre girava e girava e fendeva l'aria, ma non ebbe il tempo di tirarsi indietro né di respirare né di urlare. Perché l'istante seguente un'ascia bipenne, dal bagliore azzurro intenso, si abbatté in mezzo ai suoi occhi. Frantumati dalla forza inumana del colpo, gli occhiali si divisero sulla sella del naso, ricadendo metà da una parte, metà dall'altra insieme alle due metà della testa, dove la lama era penetrata oltre i muscoli, l'osso e il cervello. Il corpo fu gettato contro la parete, dove ricadde con il rumore secco dell'osso del collo che si spezzava. Un'ondata di sangue si riversò dalle narici e dagli occhi, che avevano conservato uno sguardo inorridito, mentre il busto scivolava a terra come un sacco vuoto. Qui si contorse spasmodico, nella danza mortale di muscoli e nervi, e attraverso la lingua tagliata i denti tintinnarono come i sassolini gettati dagli antichi oracoli. E poi il corpo giacque immobile, in una pozza rossa, la torcia ancora stretta in una mano che lentamente sbiancava. Prima dell'alba anche le batterie si sarebbero definitivamente svuotate. E nel seminterrato, facendo tintinnare i vetri delle finestre, echeggiando fra le pareti della casa e poi uscendo lungo McClain Terrace, si alzò il gri-
do selvaggio dell'aquila vittoriosa, pasciuta di sangue. Quando anche gli ultimi echi svanirono, alcuni minuti dopo, un cane iniziò ad abbaiare, da qualche parte, freneticamente, come Cerbero ai cancelli dell'Ade. 4 IL VILLAGGIO BETHANY'S SIN, diceva il segnale stradale, a lettere bianche sullo sfondo verde. E più sotto: POP. 811. Il cartello era scrupolosamente pulito e luccicava al sole del mattino; Evan Reid ricordò l'altro cartello, ben diverso, che gli aveva indicato l'entrata nella città di La Grange: sforacchiato da pallini di fucile, pieno di ruggine, ridotto a una forma assurda dalla manovra errata di un camion. Una fortuna uscire da quel posto infernale, pensò amaramente, mentre l'auto familiare color blu scuro correva lungo la strada asfaltata, ombreggiata ai lati da una fila di olmi verdi rigogliosi, verso la vita che stava davanti, verso il villaggio di Bethany's Sin. — Ci siamo! — esclamò Laurie dai sedili posteriori, tirandosi su fra l'uomo e la donna che stavano davanti. Il suo visetto era pieno della sincera eccitazione di un esserino di sei anni che ha appena visto il sole splendere da dietro grosse nuvole nere di tempesta; era finalmente estate, dopo un lungo e terribile inverno di gelo, e i suoi occhi pieni di aspettativa erano azzurri e dolci come il cielo della Pennsylvania. Era stata occupata per la maggior parte della mattina a colorare un libretto, ma quando avevano raggiunto le verdi colline tondeggianti, le foreste ombrose sicuramente piene di elfi dalla barba bianca, come nelle fiabe della sera, Laurie aveva messo da parte i pastelli e aveva iniziato a fantasticare. Di fianco a lei sul sedile la bambola preferita, Miss Prissy, annuiva in silenzio a ogni scossa della vettura. La cosa migliore di tutte, pensò lei, guardando un corvo che disegnava pigri cerchi nel cielo, era che mamma e papà non avevano più litigato fra di loro da un bel po' di tempo. — Non ancora — disse Kay Reid, girando la testa per sorridere alla figlioletta. Aveva gli stessi occhi azzurri di Laurie, dentro a un ovale attraente che i capelli corvini circondavano per ricadere morbidi sulle spalle. — Però sarà meglio mettere via i pastelli, perché non ci vorrà ancora molto. — Okay. — Laurie iniziò a metterli in fila nella scatola verde e gialla,
mentre i capelli dorati le volavano attorno sollevati dall'aria dei finestrini. Kay guardò il marito, al suo fianco; sapeva che era stanco per la lunga guida e preoccupato perché si era accorto, prima, che la ruota anteriore sinistra era definitivamente logora. — Quasi a casa — disse, sorridendogli leggermente. Casa: la parola sembrava strana perché l'aveva usata già altre volte, per altri luoghi; era diventata come una di quelle parole che perdono significato, dopo averle ripetute troppe volte. Non erano mai rimasti in quegli altri posti che lei aveva chiamato casa, non nello squinternato appartamento all'ultimo piano dalle tubature risonanti né nella casa dal tetto di tavole che sembrava sempre piena dell'odore aspro delle fabbriche d'acciaio. Erano stati entrambi luoghi soffocanti, polverosi nonostante Kay pulisse e sistemasse continuamente, luoghi inadatti per farvi crescere una bambino, luoghi senza speranza per curare antiche ferite. No. Non pensarci più. La sua mente si ritrasse da quegli oscuri recessi della memoria. Guardò lui, vide i suoi occhi seguire la linea bianca al centro della strada. Che cosa c'è dentro i suoi occhi? si chiese. Speranza? O paura? Si rese conto improvvisamente di quanto sembrasse più vecchio dei suoi trentadue anni; delle piccole rughe raccolte attorno ai suoi profondi occhi grigi e alla bocca, dei fili grigi che prematuramente si mescolavano, alle tempie, fra i suoi ricciuti capelli castani. Erano le tracce della preoccupazione e del dolore, dei tempi difficili in cui il mondo con i propri artigli sembrava chiudersi su di loro, emarginandoli, intrappolandoli. Lui sentì quello sguardo su di sé. — Che c'è? — chiese. — Sono solo un po' nervosa — rispose lei, e sorrise. — Non devi. Adesso andrà tutto bene. A lato della strada ora scorrevano bianche staccionate, cassette della posta, stradine che portavano a case invisibili, nascoste nel folto dei boschi. Oltre la curva seguente apparve un muro dipinto di bianco, poi un cancello di ferro battuto con una elaborata D al centro e, dietro, un bosco fitto oltre cui si intravedevano dei tetti. Mentre superavano la tenuta, Kay vide parecchi cavalli, bianchi e neri e pezzati che pascolavano su di un prato lontano; alcuni di essi alzarono la testa al rumore della familiare che si allontanava. Arrivarono a un incrocio segnalato da una luce gialla intermittente; accanto c'era una stazione di benzina con un'insegna che proclamava PNEUMATICI A BASSO PREZZO - devo ricordarmelo, pensò Evan mentre si fermava all'incrocio - e al di là della strada un grande segnale con una serie di stemmi e scritte: IL LIONS CLUB, IL CIVITANS CLUB, IL ROTARY CLUB VI DANNO IL BENVENUTO A BETHANY'S SIN.
Poi l'auto si trovò a percorrere una strada fiancheggiata da olmi e querce; oltre gli alberi si vedevano prati ben tenuti, ampi, e dignitose villette di mattoni e pietra. Poi ancora staccionate e cancelli e vialetti, strade tranquille, le cime degli alberi smosse da un soffio di brezza. Un postino in pantaloni corti, con la borsa a tracolla, stava facendo il suo giro; una giovane donna bionda in jeans spingeva una carrozzina; un adolescente abbronzato falciava il prato, e il sudore brillava sulle sue spalle nude. Una Volkswagen gialla, tirata a lucido, li incrociò allontanandosi in direzione opposta. All'isolato più avanti una Buick marrone scuro stava girando dentro una traversa. Evan improvvisamente si vergognò della propria familiare, desiderando che avesse un aspetto migliore. In effetti l'auto portava tutti i segni di cinque anni di intenso servizio e sembrava piovuta da un altro mondo in questo lindo villaggio residenziale dove tutto-sta-al-proprioposto; se ci fosse stato un cartello dedicato alla loro famiglia, avrebbe avuto la scritta COME CERCARE DI CAVARSELA. POP.3. Sorpassarono un McDonald sulla destra e poi lungo una via chiamata Fredonia giunsero direttamente al centro del paese. Piccoli negozi pittoreschi erano disposti in cerchio lungo una strada chiamata, a ragione, il Cerchio; era una comunità pianificata con cura, pensò Kay, leggendo le insegne dei negozi: EVA PIANTE E FIORI, BRYSON ARTIGIANATO E ARTICOLI DA REGALO, RISTORANTE IL LAMPIONAIO, DROGHERIA TALMADGE, CAFFETTERIA PERKY POT. Ma ciò che a lei piacque di più, perché inoltre riempiva l'aria di un delicato profumo estivo, fu il piccolo giardino che stava in mezzo al Cerchio: peonie e calendule e margherite, tre differenti varietà di rose, viole del pensiero dai toni vellutati e intensi erano piantate in file ordinate proprio nel cuore del villaggio. C'era una sbalorditiva varietà di toni sapientemente accostati, dal pallido bianco al rosso fiammeggiante al porpora scuro; i colori si riflettevano nelle vetrine dei negozi. Le strade si dipartivano dal Cerchio in tutte le direzioni, come i raggi dal fulcro di una enorme ruota. — Che beeello! — esclamò Laurie, alzando Miss Prissy al finestrino perché vedesse. — E che buon profumo. Siamo quasi arrivati alla casa nuova? — Quasi — rispose Evan, seguendo la curva del Cerchio oltre il tendone a strisce verdi e bianche delle Delizie Economiche, oltre un negozio di libri usati chiamato Capitolo Primo. Girò in Paragon Street e si allontanò dal centro del paese, sorpassando l'ufficio dello sceriffo, un edificio in mattoni rossi con gli infissi bianchi, e l'avveniristica biblioteca pubblica Wallace
Perkins. Evan e Kay erano stati a Bethany's Sin tre volte: la prima in aprile, quando Kay aveva avuto il lavoro presso la scuola, il George Ross Junior College, la seconda a maggio per cercare una casa conveniente, la terza durante la prima settimana di giugno per prendere gli accordi definitivi e sistemare tutto. Sebbene fosse molto più piccolo dei paesi vicini che stavano presso la statale 219 - Spangler, Barnesboro, Saint Benedict e Carroltown - Bethany's Sin aveva un aspetto fresco che sia Evan che Kay trovavano attraente. I prati erano verdi come smeraldo, le strade linde e senza rifiuti, le case graziose e invitanti. Lembi di bosco crescevano selvaggi entro i confini del paese, così che un isolato poteva sorgere proprio sul limitare della foresta, o una valletta di pini e caprifogli dividere una strada dalla seguente. E di lato alle strade, come sentinelle in tenuta estiva, c'erano gli alberi, che si alzavano alti sui tetti di Bethany's Sin gettandovi un caleidoscopio di ombre. Mentre guidava, Evan controllò la pianta che Marcia Giles gli aveva disegnato durante l'ultima visita. Bethany's Sin si stendeva per meno di due miglia da nord a sud, ma c'erano molte svolte e stradine strette e vialetti serpeggianti fra cui Evan non aveva ancora imparato a orientarsi; passarono il vecchio edificio in pietra della scuola elementare Douglas in Knollwood Street, girarono a destra in Blair Lane. Evan guardò di nuovo la pianta: il viale portava a Cowlington Street, poi a sinistra in Deer Cross Lane e infine su per una piccola collina, in McClain Terrace. A poco a poco gli sarebbe diventato familiare, ma per ora tutto era ancora un labirinto di case e di verde. Oltre Deer Cross Lane Kay vide un paio di campi da tennis ombreggiati e uno spazio coperto per i barbecue; c'era un sentiero lastricato in fondo al quale una figura solitària in calzoncini corti da corsa, rossi, svoltò e scomparve alla vista. Arrivarono in McClain Terrace, lindo e fresco come tutto il resto del villaggio. Forse le case, lì, erano leggermente più recenti e più piccole, ma a Kay non importava; una di quelle sarebbe stata la loro, e questa era la cosa importante. Ripeté mentalmente i nomi che stavano sulle cassette delle lettere: Haversham, Kincaid, Rice, Demargeon. E poi ce n'era una che non portava ancora nessun nome. Evan svoltò nel vialetto d'ingresso. — Eccoci arrivati, truppa! — esclamò. La casa era a due piani, bianca con gli infissi verde scuro e la porta d'ingresso dello stesso colore. Olmi crescevano nel giardino antistante e il vialetto che arrivava alla porta era fiancheggiato da bassi sempreverdi. Seb-
bene il cortile posteriore non fosse visibile da lì, Evan ricordava che esso scendeva dolcemente fin dove una staccionata chiusa con un chiavistello delimitava la proprietà; oltre a questo c'era un fossetto di scolo e poi l'intrico verde selvaggio della foresta, che si stendeva ininterrotta fino a Marsteller, la città più vicina, a oltre due miglia di distanza. Mentre fermava la macchina, Evan pensò a ciò che gli aveva detto la signora Giles: è un posto molto tranquillo, signor Reid, e dato il suo genere di lavoro so quanto lei debba apprezzare la pace e la tranquillità. Sono comodità che stanno scomparendo, al giorno d'oggi. Spense il motore, tolse le chiavi; nel portachiavi c'erano quelle che la signora Giles aveva consegnato loro, dopo gli accordi definitivi presi nel suo ufficio. — Ci sono anche i cervi qui intorno? — chiese Laurie mentre lui toglieva due pesanti valigie dal cofano della familiare. — La signora Giles dice che li hanno visti un paio di volte — le rispose Kay. — Ecco qui. Perché non metti Miss Prissy in questa scatola e la porti dentro, per aiutarmi? Stai attenta, c'è dentro del vetro. Lei prese la scatola di cartone. — E i lupi? Ci sono anche loro? — Credo di no — rispose Evan. — Non siamo abbastanza a nord. Kay prese le chiavi da Evan e portò una scatola piena di utensili da cucina su per i tre gradini che arrivavano alla porta d'ingresso; un battente di rame rifulse di luce solare. Aspettò che Laurie e suo marito la raggiungessero e poi infilò la chiave nella toppa, girandola a sinistra. Ci fu un piccolo clic e allora lei sorrise, aprì la porta e li fece passare. Evan si fermò sulla soglia, con una valigia per mano: davanti a lui un atrio con il pavimento di legno e a sinistra un soggiorno dal soffitto alto e la moquette color beige. L'ambiente sembrava ancora spoglio, nonostante il nuovo divano, il tavolino e le sedie che avevano portato da La Grange in un furgone. Mancavano quadri alle pareti e soprammobili sul tavolo; ma tutto a suo tempo, pensò lui. Per ora il tutto non aveva niente da invidiare alle immagini sulle riviste di arredamento che Kay aveva incominciato a comprare, mentre contava con impazienza i giorni per il trasloco. Dio, pensò improvvisamente, questo atrio e il soggiorno insieme sono probabilmente grandi quanto l'intera casa di La Grange, acquattata sotto le ciminiere, con i muri color ruggine e il tetto che trasformava ogni acquazzone in una scarica di artiglieria. — Bene — disse Evan, e la sua voce diede vita alla stanza vuota, si infilò su per la scala e risuonò tornando. — Penso che siamo a casa. — Si voltò, fece a Kay e a Laurie un mezzo sorriso, perché i sorrisi ancora fatica-
vano a venirgli, e trasportò le valigie oltre la soglia. Le appoggiò a terra in soggiorno e rimase per un momento a guardare dalla finestra che dava su McClain Terrace, mentre Kay e Laurie andavano in cucina; ormai lui conosceva a memoria la disposizione della casa, dopo aver percorso decine di volte quelle scale con lampade e materassi e scatoloni che contenevano tutta la loro storia di dieci anni di matrimonio: un salotto con pannelli di legno, una piccola zona pranzo e la cucina sul retro, un porticato con gradini che conducevano nel cortile posteriore; al piano superiore due stanze da letto, un bagno e un antibagno. Molti armadi a muro. E un intero seminterrato, a cui si accedeva tramite una porta posta sotto le scale. Evan guardò le case al di là della strada e si chiese chi vi abitasse; sentì Kay chiacchierare in cucina e Laurie ridere. Ci sarebbe stato tempo, in seguito, per conoscere i vicini. Ora c'erano altre due valigie che aspettavano in macchina. Uscì, sentendo il rumore lontano della brezza che si apriva la via fra i rami degli alberi. Raggi di sole mescolati all'ombra caddero su di lui, scaldandogli le spalle mentre apriva il retro della familiare e tirava fuori le valigie ammaccate. Lì dentro c'erano le loro vite, pensò; impacchettate dentro valigie e scatole di cartone, ripiegate, sistemate nello spazio ristretto, schiacciate e avvolte in fogli di giornale per non farle tintinnare. La strada era stata lunga e faticosa, da La Grange; il ricordo di quel posto terribile era come la punta di uno scalpello contro la sua anima. Lascia che si allontani, disse a se stesso; lascia che si allontani, perché quella parte della nostra vita è finalmente superata. Andrà tutto bene, ora, qui a Bethany's Sin, ogni cosa come deve andare. Farò io in modo che vada bene. Guardò la sua casa oltre il prato e per la prima volta, dopo tanto tempo, si sentì orgoglioso. Evan vide le tendine spostarsi in una finestra sul retro, dove c'era la cucina, e Kay guardare fuori e salutarlo con la mano. Allora inscenò una pantomima simulando una schiena distrutta, afferrò le valigie e si diresse piegato verso la porta, scorgendo ancora il sorriso di lei mentre lasciava cadere la tendina. Sentì un tagliaerba mettersi in moto circa due strade più in là e il ronzio degli insetti alzarsi in coro. E fu allora che la pelle sulla nuca gli si aggricciò, come succedeva quando percepiva qualcosa senza forma o nome. Voltò la testa per guardare al di là della strada. Le case erano simili a massi di pietra e di legno, immerse nel sole. Ciascuna leggermente differente dall'altra, gli infissi marrone scuro oppure blu, gli intonaci bianchi o verde intenso o terra bruciata, ma tutte immerse nel medesimo silenzio. Ma mentre si volgeva di nuovo verso la propria casa colse con la coda dell'occhio un movimento.
Era qualcuno seduto nell'ombra del porticato della casa di fianco. Che lo fissava, con le mani incrociate in grembo e il mento leggermente sollevato. Sopra la tettoia del porticato le ombre dei rami fronzuti si incrociavano come le spire di un serpente. Evan capì che era stato lo sguardo di quella figura, fisso sulla sua nuca, ad avergli provocato il brivido gelido. Fece un passo avanti. — Salve! — gridò. La figura, avvolta in un oscuro drappeggio, non si mosse. Evan non avrebbe potuto dire se si trattasse di un uomo o di una donna; i suoi occhi si posarono sulla targhetta che stava con bella evidenza sulla cassetta delle lettere: DEMARGEON. — Siamo arrivati proprio oggi — tentò di nuovo, ma la figura rimase immobile. Evan ebbe la sensazione di conversare con il manichino di un grande magazzino. Fece per appoggiare a terra le valigie e dirigersi verso la casa dei Demargeon, ma improvvisamente la figura si mosse, girando silenziosamente sulla sedia e, sotto gli occhi di Evan, la sedia stessa girò e si allontanò senza rumore. Poi la figura svanì dentro casa e si udì il rumore della porta che si chiudeva piano. Egli rimase fermo per un momento, con le valigie ancora in mano, fissando il porticato; non si era dunque trattato di una normale panca da porticato, dove la figura stava seduta, bensì di una sedia a rotelle. — Gesù Cristo! — mormorò Evan. Scosse la testa e si volse verso la propria porta. Ma prima che potesse raggiungerla udì un colpo di clacson e una lucida Buick nera venne a fermarsi presso il marciapiede. La donna al volante agitò la mano e spense il motore, scivolando poi fuori da dietro il volante. — Buon giorno — fece la signora Giles, risalendo il vialetto verso di lui. Era molto alta, quasi quanto lui, e di una magrezza scheletrica, come se avesse esagerato con la dieta. L'ultima volta che l'aveva incontrata indossava un professionale completo gonna e camicetta, ma ora aveva infilato un abitino estivo blu mare dalle maniche corte; ai polsi le danzavano tintinnanti braccialetti. — Siete arrivati da molto? — Non da molto. Stiamo ancora scaricando la macchina. — Vedo. — Aveva occhi scuri guizzanti che ricordavano a Evan una qualche specie di insetto, una fronte alta incoronata da capelli castani striati di bianco. Sorrideva e la sua faccia sembrava piena di denti, bianchi e regolari. — Com'è andato il viaggio? — Molto bene. Entri, la prego. Kay e Laude sono dentro in esplorazione. — La seguì oltre la soglia e appoggiò le valigie ai piedi della scala. — Kay! — chiamò. — C'è la signora Giles!
— Arrivo subito! — la voce di Kay giunse dalla stanza da letto grande. Evan guidò la donna nel soggiorno, dove lei sedette sul sofà. — Posso rimanere solo un minuto — disse mentre lui prendeva posto sulla sedia di fronte. — Ho voluto venire per darvi ufficialmente il benvenuto nel villaggio e anche per sapere se c'è qualcosa che posso fare per aiutare a sistemarvi. — Grazie — rispose Evan — ma siamo quasi a posto. Dovremo ancora procurarci qualche mobile... — Potreste provare il negozio di Broome a Westbury; non è lontano da qui. — Per ora probabilmente aspetteremo. Non c'è fretta. — Certo — rispose la signora Giles — conviene fare con calma. Penso che vi accorgerete di aver fatto un ottimo investimento; oggi non conviene più affittare un appartamento quando è possibile avere una buona casa di proprietà. Almeno, non attorno a Bethany's Sin. Corre voce che la Chemco International comprerà dei terreni intorno a Nanty Glo per costruire una nuova zona attrezzata; se sarà così, Bethany's Sin sarà avvantaggiata dallo sviluppo complessivo dell'area e tutti i proprietari ne beneficeranno... Non è quello che vi ho detto quando parlavate di affittare quell'appartamento a Johnstown? Evan sorrise e annuì. — È così. — Bene — rispose lei, stringendo le spalle — il progresso sarà una bella cosa, ma detto tra noi io spero che il villaggio non diventi tanto più grosso di quanto è ora. Oggi ha un carattere e un'atmosfera che mi dispiacerebbe vedere perdere a causa di grossi complessi industriali; e penso che anche voi ne abbiate avuto abbastanza, a La Grange, vero? Per quanto mi riguarda, non avrei potuto resistere in quell'aria inquinata e con tutti qui rumori nemmeno... oh, ma ecco qui la bella bambina dai capelli d'oro... — Aveva girato gli occhi nel sentire Kay che entrava tenendo Laurie per mano. — Ti piace avere una cameretta tutta per te, cara? — chiese alla piccola. — Sì, è molto bella — rispose Laurie. — Ma pensa che il letto sia troppo grande per lei — intervenne Kay. — Le ho spiegato che quando una persona ha una stanza tutta per sé può finalmente dormire in un letto grande. E comunque — aggiunse, carezzando i capelli di Laurie — adesso c'è posto anche per Miss Prissy, vero? — Sì — rispose Laurie — però lei dorme sempre sul mio guanciale. La signora Giles sorrise. — Penso che vi sistemerete bene. Ottimo — riprese, rivolgendosi a Kay — credo proprio che avrà il suo da fare prima
dell'inizio del trimestre estivo. — Tanto da non sapere da dove cominciare. Andrò al George Ross domattina per parlare con il dottor Wexler. Lo conosce? — Non mi pare. — E poi, mercoledì mattina, ci sarà un incontro con i nuovi insegnanti e una specie di ricevimento. E poi lavoro di gruppo. Sono contenta di non dover iniziare il trimestre a freddo. — Ma anche se dovesse — fece la signora Giles — sono certa che se la caverebbe benissimo. Lei è una donna intelligente e questa sembra una perfetta opportunità per la sua carriera. — Lo è — rispose Kay. — Certo, sono nervosa perché non ho mai insegnato in una scuola grande come il George Ross. Ma comunque vada sarà una buona esperienza. — Lanciò un rapido sguardo a Evan. — Per tutti e due. — Ne sono certa. — La signora Giles si alzò dal divano. — Devo proprio scappare, ora; ci sono delle telefonate che mi aspettano in ufficio. Comunque avete il mio numero e se c'è qualsiasi cosa che possa fare per voi, vi prego di chiamarmi. D'accordo? — Grazie — rispose Kay — lo faremo. La signora Giles uscì nell'atrio, seguita da Evan; là si fermò e si volse verso la bambina. — Proprio dei bellissimi capelli — disse piano. — Splendono al sole, non è vero? Fra qualche anno spezzerai di certo molti cuori, te lo dico io. — Sorrise negli occhi a Laurie e poi attraversò la soglia. — Grazie per essere venuta — disse Evan mentre l'accompagnava alla macchina. Alzò gli occhi verso il portico di fronte; una lama di sole ne attraversava ora l'impiantito di pietra. — A proposito — le chiese quando raggiunsero la Buick — ho visto uno dei miei vicini, poco fa, appena prima che lei arrivasse. C'era qualcuno seduto sotto quel portico. In una sedia a rotelle, mi pare. Sa di chi si trattasse? La signora Giles alzò lo sguardo verso la casa dei Demargeon con una mano già sullo sportello. — Harris Demargeon — rispose, e la sua voce aveva assunto un tono cupo. Il tono, pensò Evan, delle disgrazie e degli incidenti. Il tono ospedale e cimitero. — Pover'uomo. Alcuni anni fa fu coinvolto in... un incidente piuttosto brutto sulla strada di King's Bridge, a nord di Bethany's Sin. C'è un locale, là, chiamato Il Canto del Gallo, dove non si peritano di vendere birra anche ai minorenni, il sabato sera tardi. Un ragazzo ubriaco con uno di quei furgoni colorati gli andò a sbattere, pratica-
mente un frontale. Il pover'uomo rimase paralizzato dalla vita in giù. — Oh — fece Evan. — Capisco. — Un'immagine gli lampeggiò nella mente, come una cometa multicolore: un autocarro con la scritta ALLEN LINES sulla portiera, che attraversava di scatto la linea di mezzeria. Il grido di Kay. — Ho tentato di rivolgergli la parola — disse alla donna — ma evidentemente non si sentiva in vena. — Preferisce stare per conto proprio. — Aprì la portiera. Un'ondata di caldo si riversò fuori. — Sono sicura che conoscerete presto la signora Demargeon; è una mia buona amica. — Si accomodò dietro il volante, girò la chiavetta. — Tra l'altro, hanno comperato la casa dalla mia agenzia. — Il motore si accese. — Buona fortuna a lei e a sua moglie, signor Reid — lo salutò. — Siamo veramente felici di avervi qui a Bethany's Sin. — Grazie di nuovo — rispose Evan, facendo un passo indietro; lei ingranò la marcia e scomparve al termine del viale, girando a sinistra verso il centro del villaggio. L'occhio di Evan percepì qualcosa mentre si voltava verso casa e allora guardò meglio, per capire che cosa fosse. Oltre il groviglio dei rami di olmo che si stagliavano nel cielo si scorgeva a tratti la copertura d'ardesia colorata di un tetto; da questa parte del Cerchio, parve a Evan. Un grosso edificio o una casa imponente, sebbene non l'avesse notato prima. Ma ora, per qualche ragione, ne rimase trafitto. Sentì il cuore accelerare i battiti. Sentì il sangue bruciargli nelle vene. Sentì, come in un sogno avvolto dalla nebbia, la sua stessa voce gridargli dentro la testa: Fermati! Fermati! Fermati! Ferma... I rami degli olmi, mossi dalla brezza, si intricarono in un nuovo disegno, l'ombra gli cadde sugli occhi e l'istante dopo il tetto d'ardesia era scomparso. — Evan! — Qualcuno lo stava chiamando. Qualcuno vicino a lui. Un essere umano. Kay. — Evan, sto facendo del caffè! Ne vuoi una tazza? Evan, che succede? Lui tentò di voltarsi, ma aveva il collo rigido. Le spalle gli tremavano violentemente. — Evan? — Ora nella voce di lei risuonò una nota familiare di panico. Rispondile, disse a se stesso. Voltati verso di lei e rispondile. — Evan! — chiamò Kay dalla soglia. Vedeva la schiena di lui, vedeva la testa leggermente rivolta in alto e inclinata di lato, in quello strano modo che lui aveva di guardare alle cose, di affondare con l'anima nelle cose, di diventare parte di esse. Lei iniziò a scendere i gradini e ad attraversare il prato.
Ma prima che lo raggiungesse lui si era voltato e aveva sorriso, con gli occhi sereni e la fronte distesa. — Va tutto bene — le disse. — Stavo solo... lasciando vagare la mente, credo. Kay sentì i polmoni riempirsi di nuovo. Sia ringraziato Iddio, pensò. Sia ringraziato chiunque abbia ascoltato le mie preghiere per... quella cosa. — Vieni dentro. — Gli tese la mano e lui, annuendo, la prese. — Sei caldo — gli disse. — È un invito per qualcosa di speciale? — No — fece lei, guidandolo verso la porta. — Seriamente, mi sembri caldo. Ti senti bene? — Certo — rispose lui. — Perché non dovrei? — Lei non rispose. Quando entrarono in casa lui si rese conto di come stesse sudando; piccole gocce gli avevano completamente coperto il viso e il collo. Buffo, pensò. Dannatamente buffo. Ma non buffo abbastanza per farlo ridere, perché invece la sua faccia ardeva e pareva gonfia. Come bruciata da un enorme, onnivoro fuoco. 5 IL DONO E LA MALEDIZIONE Il sonno lo aspettava, ed Evan aveva paura. Il resto della giornata era trascorso sistemendo la casa: disfacendo valigie e scatoloni, appendendo abiti negli armadi, sistemendo posate, recipienti e padelle in cucina, scopando e pulendo pavimenti, riempiendo il frigorifero e la dispensa con ciò che si erano portati da La Grange. Nel pomeriggio Evan aveva riattraversato il Cerchio, portando l'auto a quella stazione di benzina dove si vendevano pneumatici, e aveva passato una mezz'oretta a chiacchierare con il proprietario, un ometto magro con un'onda di capelli rossi scomposti e il nome, JESS, ricamato sulla camicia. Avevano discusso sul prezzo e alla fine l'uomo aveva scontato cinque dollari, nella speranza che Evan, appena arrivato in città, si rivolgesse di nuovo a lui in futuro. Jess guidò la familiare dentro il garage, e mentre un ragazzo dai cortissimi capelli rossi - lo stesso colore del padre - montava la gomma nuova, lui ed Evan sedettero in ufficio a farsi una tranquilla chiacchierata. — È un piacere averla qui — gli aveva detto Jess. — Bethany's Sin è davvero un grazioso posticino. Fin troppo tranquillo per me - io e la mia famiglia abitiamo a Spangler. Ormai da quattro anni. — Che lavoro fa? — Lo scrittore — gli aveva risposto Evan. — O almeno ci provo.
— Libri, eh? — Non ancora. Racconti brevi e articoli per riviste. Cose di questo genere. — Un buon lavoro se ci si arriva. Per quanto mi riguarda, io ho provato di tutto. Per qualche anno ho guidato camion. Poi nel settore costruzioni. Ci sono entrato con mio cognato, ma non è andata. Poi il circuito dei rodei, come quando ero ragazzo, nel Sud Dakota. Certo, il modo più difficile per mettere insieme un dollaro. Prendi quei bestioni di cavalli, sono maligni. Più grandi sono e più maligni diventano; e non gli piacciono gli uomini, proprio per niente. Tutto quel che potevo fare era stringere i denti e tener duro. Bene, così è. Mi pare che Billy abbia finito con quella ruota. Torni qualche volta, staremo seduti a prendere il fresco e a fare due chiacchiere; non ho molte occasioni di chiacchierare con la gente di Bethany's Sin. Tornando a casa Evan sbagliò a una svolta e si trovò su Ashway Road, una strada che girava indietro verso la statale 219, verso nord. Al limite settentrionale del villaggio sorgeva un poggio erboso su cui si alzavano olmi e querce. E tombe. Era il Cimitero della Collina Ombrosa, chiuso verso la strada da un basso muro di pietre. Evan fece inversione di marcia dove la strada si allargava, prima di immettersi nella provinciale, e cercò di orientarsi, incerto, verso McClain Terrace. All'angolo tra la Blair e la Stevenson voltò leggermente la testa a destra per accertarsi che non arrivassero auto - e in effetti finora ne aveva viste straordinariamente poche - e fu allora che lo vide, contornato dalle frange di una nuvola candida: il tetto d'ardesia che aveva scorto quel mattino, ora solo a una strada di distanza. Quale strada? si chiese. Cowlington? Riuscì a vedere finestre appena sotto lo spiovente del tetto, i cui vetri rimandavano i riflessi di altri tetti e finestre, di strade e case e forse dello stesso Cerchio. Come occhi a cui nulla sfuggiva, incastonati in un viso di scura pietra rugosa. Dietro di lui echeggiò il clacson di una Ford bianca; Evan sbatté le palpebre, distogliendo lo sguardo da quella casa, e svoltò verso casa propria. E ora era disteso al fianco di Kay, lei con gli occhi chiusi e il corpo caldo stretto al suo, lui affondato dalla stanchezza ma incapace di lasciarsi andare. Diffidente verso il riposo perché spesso per lui non si trattava di riposo: era invece come sedersi di fronte allo schermo di un cinema, al buio, aspettando e temendo allo stesso tempo che lo spettacolo incominciasse. Si rivide bambino, a New Concord nell'Ohio, andare al Teatro Lirico di Hanover Street i pomeriggi del sabato. Eric era al suo fianco, la mano dentro il sacchetto a righe bianche e rosse dei popcorn; intorno a lui il
chiacchierio dei bambini, riuniti lì e tagliati fuori dal mondo reale per un paio d'ore, liberi di perdersi nelle ombre che presto sarebbero strisciate fuori ondeggiando dal vecchio schermo di tela. E quando il mostro appariva, ribollente di orrendi liquidi o digrignante denti da vampiro, il rumore del popcorn continuava scoppiettante fino a che la maschera dalla giacchetta rossa, andando su e giù per le file e dardeggiando il raggio della torcia, non avesse minacciato l'espulsione da quella scuola di sogni d'argento. Alcuni di quei mostri erano inverosimili e buffi, figure vestite di gomma con enormi orecchie e pistole a raggi cosmici, millepiedi giapponesi striscianti dentro a tunnel sottoterra, esseri dagli occhi sporgenti che sembravano uova al tegamino. Di tutti quei mostri si poteva poi ridere, quando si fosse lasciata la sala per dirigersi alla pasticceria più vicina. Ma ce n'era uno che Evan ancora ricordava. E di cui aveva ancora paura. Era uno di quei vecchi serial in bianco e nero, dalla pellicola saltellante, con gli episodi che terminavano nel momento del massimo pericolo, lasciando lo spettatore terrificato. Lo aveva costretto a tornare più e più volte in quel cinema, per vedere ogni episodio, perché nessuna persona normale sarebbe stata in grado di girare tranquillamente le spalle a quella cosa che strisciava sullo schermo. Ogni sabato occorreva assicurarsi che lui fosse ancora là, che non se ne fosse andato, che non fosse riuscito a uscire dallo schermo per scivolare come le ombre della notte attraverso le strade di New Concord. L'Artiglio del Male. Qualcosa che non si riusciva mai a veder bene e di cui ci si accorgeva sempre troppo tardi. Qualcosa che avrebbe potuto essere uomo o donna o forse nemmeno un essere umano, bensì la gelida, tangibile forma del respiro di un demone. Qualcosa che colpiva senza preavviso, e ciò che era davvero nessuno poteva saperlo od osare immaginarlo. Ma alcuni si spingevano a immaginarne i movimenti, che erano... striscianti. Come quelli di un ragno. E per nessuna ragione al mondo tu gli avresti voltato le spalle, o lo avresti lasciato infilarsi dietro di te. Perché se lo avessi fatto ti avrebbe distrutto oppure, se non fosse giunto ad affondare le sue zanne nella tua gola, avrebbe divorato tutto quanto stava intorno a te. Nell'ultima puntata del serial l'Artiglio del Male riusciva a fuggire, scivolando fuori dalla gabbia in cui l'eroe (John Hall? Richard Arlen?) l'aveva rinchiuso e gettato nel fiume. Di questo erano fatti gli incubi, cose che una volta affondate tendono a riaffiorare, più tardi nella vita, attaccandosi alla gola o alle spalle. Perché fin da bambino, in quel cinema, Evan Reid sapeva che esistevano
davvero cose come l'Artiglio del Male; non con lo stesso nome, no, perché quello era solo un racconto, ma l'oscurità e il male e il terrore in una qualche terrificante, nera, orrenda forma che colpiva le proprie vittime nel silenzio più assoluto. Di fianco a lui, Kay si mosse leggermente nel sonno. Fu solo vagamente consapevole di affondare in un luogo di oscurità, dove le cose lo aspettavano. Il luogo dove si ritrovò avrebbe potuto essere la versione in sogno del Teatro Lirico, solo molto fredda; così fredda che riusciva a vedere il suo stesso respiro condensarsi davanti a lui. C'era un silenzio assoluto, che annichiliva le orecchie, e il suo primo pensiero fu: Dove sono gli altri bambini? È sabato pomeriggio, lo so. Lo spettacolo sta per incominciare. E allora dove sono? Dapprima pensò di essere solo, ma poi, molto lentamente, una figura prese forma al suo fianco. Una forma fatta di ombre e luci colorate, che davano l'illusione della materia. Fredda. Molto, molto fredda. Per una frazione di secondo i tratti di Eric si sovrapposero al viso della figura, ma poi scomparvero. Altri occhi, nasi, labbra, guance emersero da quella forma, per scivolare subito via; alcuni Evan li riconosceva, altri no. Era come guardare fotografie di morti che venivano posate l'una sull'altra come carte di un mazzo, a gran velocità. Alcuni di quegli occhi e bocche erano spalancate dal terrore. Forse una maschera fatta d'ombra aveva strappato i biglietti per questa rappresentazione; forse essa avrebbe avuto luogo interamente nella mente di Evan, o forse si trovava davvero su quella linea di confine tra sogno e realtà, tra fatti e premonizioni. Comunque fosse, se esistesse o meno, adesso Evan aspettava che incominciasse. Perché sapeva che c'era qualcosa che doveva vedere, che doveva sapere. Iniziò dentro di lui, un tremito rosso attraverso la mente che pian piano crebbe, lanciò fuori tentacoli che gli toccavano i nervi, qui e poi lì e poi là. Crebbe nella forma di un ragno che gli mordeva il cervello con la bocca rossa, a coppa, e lui era incapace di gridare o di ritrarsi. La cosa strisciava sopra di lui, infliggendogli punture dolorose con le tenaglie pelose. In un turbinio di colori le immagini sorsero sopra di lui, accecandolo con uno scoppio di luce bianca: un campo desolato, pieno di arbusti e l'improvviso, terribile rumore del legno che si spezza. Un volo di corvi che disegnava in cielo il suo nero pentagramma. Un grido acuto, improvvisamente strozzato. Poi di nuovo alto, un urlo demoniaco che gli strappò un gemito di terrore puro; la terra che esplodeva, sputando geyser di polvere e di piante della
giungla e di rami di alberi. Granate di mortaio. Facce ombreggiate dalle sbarre delle gabbie di bambù, che lo guardavano lottare contro due guardie vestite di nero. Una faccia americana sopra di lui, che lo guardava, dicendo stai tranquillo, stai bene, stai bene, stai bene ora. Una breve immagine di Kay e Laurie, entrambe più giovani, Laurie ancora neonata fra le braccia della madre. Voci aspre e qualcuno che piangeva. Fogli di carta appallottolati gettati dentro al cestino e una pozza di luce gialla. E poi, finalmente e più inquietante di tutto, un segnale stradale con la scritta BETHANY'S SIN. Seguito dall'oscurità assoluta. Egli scosse la testa, tentando di scappare, di gridare per liberarsi; ma si rese conto un istante dopo che non era ancora finita. No, non ancora. Perché, dopo tutto, era stato portato lì per vedere l'episodio successivo. L'oscurità si schiarì, molto gradualmente. Fino a diventare luce del sole, e c'erano le strade e le case del villaggio, sistemate con ordine e grazia. Poteva vedere i colori dei fiori del Cerchio, i negozi attorno, però le strade sembravano deserte e le case vuote, nulla si muoveva. Egli camminava solo, seguendo la propria ombra, circondato dal silenzio. E poi si fermò di fronte a quella grande casa di pietra scura, dal tetto d'ardesia. Attraverso un recinto di ferro lavorato, che terminava in lance appuntite, lungo un vialetto di cemento verso un imponente portale di solida quercia. Sentiva il sapore della paura in bocca, ma non aveva modo di voltarsi, di scappare via. Non proprio qui, in questo luogo. La sua mano lentamente si tese, afferrò il battente e spinse. La porta si aprì senza rumore e lui rimase in piedi sulla soglia. Dentro, il buio; freddo, odore di secoli e di ossa trasformate in cenere. Il sole gli bruciava la schiena; le ombre davanti gli gelavano il viso. E mentre guardava, incapace di muoversi, la polvere turbinò in un lungo corridoio che si pareva stendersi verso l'eternità. E alla fine si solidificò in una cortina, e attraverso quella cortina Evan vide una figura indefinita muoversi, lentamente e inesorabilmente. Senza forma, antica, terribile. Che si avvicinava. Più vicino, ancora più vicino. Alzava un braccio, le dita perforavano la polvere turbinante, la spostavano come se fosse una stoffa di seta o la ragnatela di un enorme ragno. Le dita si protesero verso di lui ed Evan si portò le braccia davanti al viso, ma non riuscì a trovare la forza di spostarsi, non riuscì a sbattere il portone massiccio su quella cosa infernale che stava nel corridoio. La mano attraverso la polvere cominciò ad avvicinarsi
a lui. E così pure la forma di una testa senza volto, circondata da un drappeggio d'ombra. Egli gettò le braccia in avanti per respingerla, aprendo la bocca in un grido di terrore. Afferrò qualcosa, spinse. Sentì mani sui suoi polsi, qualcuno che lo scuoteva. La luce che tornava, pungendogli gli occhi. Qualcuno che diceva... — Evan! — Kay. Che lo stava scuotendo. Le sue dita strette attorno ai polsi di lei, che aveva le mani sulle sue spalle. — Evan! Svegliati, ti prego! Svegliati! Cosa succede? — Aveva gli occhi gonfi di sonno e spaventati, e lo scuoteva più forte per far sì che la vedesse. Lui sfregò via le ragnatele del sonno e sedette contro il cuscino. Gocce di sudore gli imperlavano la fronte, ma stavano asciugandosi. Sbatté le palpebre, tentando di ricordare dove si trovasse. Quella casa. No. La nostra casa, Kay di fianco a me. Fuori, il villaggio addormentato. E il mondo al proprio posto. Quell'altro mondo, dove gli venivano mostrate quelle cose, sbiadito e scomparso. Aspettò un momento, tentando di riacquistare un po' di equilibrio; aveva il respiro ancora affannato. — Sto... bene, ora — riuscì a dire alla fine. — Sto bene. — Guardò negli occhi di Kay, e lei annuì. — Era molto brutto? — gli chiese. Dall'altra stanza oltre il pianerottolo giunse la voce spaventata di Laurie: — Mamma? Papà? — Non è nulla — le rispose Evan. — Solo un brutto sogno. Torna a dormire. Silenzio. — Vuoi un bicchiere d'acqua o qualcos'altro? — gli chiese Kay. Lui scosse la testa. — È passata, ora. Gesù, la prima notte nella nostra nuova casa! — Ti prego... — Kay gli posò un dito sulle labbra. — Non parlarne. Ora va tutto bene. Riesci a rimetterti a dormire? — Non... no, credo di no. Non ancora, almeno. — Aspettò lunghi secondi, consapevole dello sguardo di lei, e alla fine girò il capo a guardarla. — Non voglio rovinare tutto — disse. — No, certo. Non hai mai rovinato nulla. Non pensare nemmeno qualcosa del genere. — Ehi — disse lui, guardandola negli occhi. — Sono tuo marito, ricordi? Non hai bisogno di prendere in giro te stessa, e certo non di prendere in giro me. Tutti e due lo sappiamo. — Ti biasimi per troppe cose. Non devi farlo. — Si sentì a disagio nel
pronunciare quelle parole, come se sapesse bene che erano bugie. Poteva vedere i suoi occhi lontani e perseguitati, aperti su cose terribili che non era riuscito a riconoscere completamente. — Voglio che le cose vadano bene — disse Evan. — Voglio che tutto funzioni. Funzionerà — disse lei. — Ti prego... — Ma finora non è stato così, vero? — le chiese, e il suo silenzio lo colpì. — Sempre questi sogni. Non riesco a liberarmene. Non riesco a farli smettere. Dio, quando finiranno? Mi si sono attaccati, e adesso si trasformano in incubi che riguardano Bethany's Sin. — Bethany's Sin? — Gli occhi di Kay divennero freddi, stringendosi. — Che cosa c'entra? — Non riesco a capire. Ma non ci riesco mai. Solo che questo sembrava... peggiore di tutti gli altri. Kay lo fissò senza parlare, perché non sapeva che cosa dire, perché non c'era nulla da dire. Gli occhi di lui dicevano tutto. Tormento. Dolore. Colpa. Ebbe l'improvvisa sensazione, una certezza, che nella stanza accanto Laurie non fosse affatto addormentata, ma stesse in silenzio ad ascoltare, forse piena di paura. Laurie aveva sentito suo padre gridare nella notte troppe volte per non avere paura. Evan stava sforzandosi di controllare il respiro. I dettagli dell'incubo andavano rapidamente svanendo; rimaneva solo il terrore gelido che come un arbusto spinoso si era avviticchiato attorno alle sue viscere. — Non ce la faccio a controllare questi sogni — disse alla fine. — Non ce l'ho mai fatta. Tutta la vita ho gridato nel sonno; ho provato a non dormire e poi a prendere pillole per dormire e poi pillole per stare sveglio. Ma non ce la faccio a liberarmi di questi dannati sogni! — Gettò di lato le coperte e sedette sul bordo del letto. Kay si sorprese a fissare una piccola cicatrice a mezzaluna che lui aveva sulla schiena, in basso, dove la giacca del pigiama si era sollevata. Una scheggia di granata, da quell'altro mondo. Era quella che lo aveva riportato a casa dalla guerra. La sfiorò con le dita, leggermente, quasi temendo che potesse riaprirsi e versare di nuovo rivoli di sangue rosso sulle lenzuola chiare. Le sembrava estranea, così come tante cose ancora le sembravano, pur dopo tanto tempo. — E non so nemmeno che cosa diavolo significano — riprese lui. — Quando tento di esaminarli un pezzo per volta, come frammenti, il mio cervello diventa poltiglia. I frammenti mi sfuggono quanto più cerco di afferrarli. E questa volta... questa volta riguardavano Bethany's Sin. Dio sa perché. Ma è così.
— Sono solo sogni — disse Kay, tentando di mantener calma la voce. Quante volte gli aveva ripetuto quelle stesse parole nel mezzo della notte? Solo sogni. Non reali. Non possono fare del male. — Non c'è niente di vero; non capisco perché tu ti lasci... preoccupare così tanto. — Attenta, attenta, pensò, qui viene l'insidia, le parole sono fiori che devo scegliere in un letto di ortiche. Fissò la sua nuca, i ciuffi ribelli che si alzavano sui lati e in cima. Lui vi passò una mano e, per una frazione di secondo, le sue spalle si afflosciarono. — Non significano nulla, Evan — ripeté piano, con voce calma. — Solo che hai messo forse troppa senape sulla carne. Avanti, rimettiti giù. Che ore sono? — Voltò la testa per guardare l'orologio da notte. Mio Dio — disse. — Quasi le cinque. — Sbadigliò, strizzando gli occhi davanti ai numeri fosforescenti della sveglietta. — Significano qualcosa — disse lui, con voce sorda, vuota. — Quello del camion significava qualcosa, o no? E quelli prima di... — Evan — lo interruppe Kay. — Ti prego... — Lei stessa sentì la propria voce: stanca, irritata. Forse anche un po' spaventata. Sì. Ammettilo, si disse. Attraverso gli spessi strati di scetticismo che aveva lentamente accumulato anno dopo anno per proteggersi da cose che non riusciva a capire, spesso era penetrata la lama di un disagio, di una irrazionale paura. Ma solo per un attimo, perché sempre era in grado di riacquistare il controllo, di dire no, no, è solo una coincidenza, non ci sono cose come... — Mi dispiace di averti spaventata — disse Evan. — Gesù Cristo, dovrò iniziare a mettermi un pezzo di nastro adesivo sulla bocca prima di andare a letto, così tu e Laurie potrete qualche volta farvi una dormita decente. ...come la chiamano... — Pensavo di averli lasciati alle spalle — proseguì lui, senza guardarla. — Pensavo che fossero rimasti a La Grange. Magari acquattati sotto al letto, o qualcosa del genere. L'ultimo era stato su Harlin, e il mese dopo ho perso il lavoro al giornale. ...seconda vista? — Mi ricordo — disse Kay, senza amarezza questa volta perché, dopo di allora, le cose in fondo si erano messe per il meglio. Coincidenze; si trattava solo di coincidenze. — Adesso spengo la luce — disse. — Va bene? — Va bene — rispose lui. — Certo. Kay si sporse, premette l'interruttore. Il buio invase di nuovo la stanza, tranne che per una lama di chiaro di luna che filtrava attraverso le tende. Si distese sul dorso, le palpebre pesanti di sonno, ma non si riaddormentò immediatamente. Invece, rimase in ascolto del respiro di lui. Le ricordava
stranamente quello di un animale spaventato che da bambina aveva visto nella gabbia di uno zoo. Alzò la mano e gli toccò la spalla. — Non vuoi tentare di dormire? — Ancora un poco — rispose lui. Non era ancora pronto. Le vecchie paure erano risalite a galla, come ferite sulla carne bianca. Tutto questo era incredibile, irreale, come il sogno dentro al sogno di Poe. Perché non mi vogliono lasciare in pace? chiese a se stesso. Questo è un nuovo inizio. Io voglio che tutto vada bene. Non voglio più i sogni! Da un abisso di tempo gli arrivò la voce di Jernigan: Il vecchio Reid può vedere! Questo bastardo ha la dannata vista! Ha detto che in sogno ha visto il filo tirato attraverso il sentiero, l'ha visto incandescente, azzurro o qualcosa del genere. E Bookman proprio là ha trovato quella dannata cosa, ben tirata, nascosta nel fango, che ci aspettava, giusto dove il vecchio Reid gli aveva detto di cercarla! E Bookman va in mezzo agli alberi e trova la mina e dopo che tutti sono andati a pararsi il culo lui la tira e boom! come un fuoco d'artificio. E poi arrivano i cong a contare i morti e si beccano del buon piombo tra i denti. Certo. Evan fissò la parete vuota, sentendo il buio e il silenzio della casa insinuarsi come midollo estraneo dentro le sue ossa. Il sogno che aveva fatto questa notte era... diverso da tutti gli altri di prima. Forme ondeggianti, cose indefinite acquattate in un vortice oscuro: che cos'erano? Che cosa significavano? Anzi, avevano un significato? Come chiunque, lui faceva sogni che erano solo frammenti, a volte comici, a volte paurosi. Sogni che erano, come Kay aveva detto, provocati da un po' più di senape o di spezie oppure da cose che aveva visto nell'ultimo spettacolo in televisione. Ma l'esperienza gli aveva insegnato a capire che gli altri erano diversi. Se loro - quegli esseri senza forma che lo scortavano e gli mostravano film dentro la mente - volevano che vedesse, ebbene allora c'era un motivo. Un motivo mortalmente serio. E lui aveva imparato a non prendere sotto gamba le immagini che loro gli permettevano di vedere; quella vista aveva salvato le loro vite in passato, e più di una volta. Naturalmente lui sapeva che Kay si rifiutava di prendere in considerazione quest'idea; lei liquidava quei fatti come coincidenze perché non riusciva a capire, e inoltre ne aveva paura. Lui non gliene aveva parlato prima del matrimonio, perché in quei giorni ancora stava tentando di venire a patti con se stesso, di capire come mai avesse in dote quella strana facoltà, per metà visione, per metà afflizione. La voce di sua madre: un dono. La voce di suo padre, più aspra: una maledizione. Sì. Entrambe queste cose.
Decise che gli occorreva un bicchiere d'acqua fredda, così si alzò dal letto, accese la luce nel bagno di piastrelle azzurre e riempì un bicchiere di plastica dal rubinetto. Nello specchio del bagno il suo viso sembrava perseguitato dalle cose che vivevano dentro al suo cervello: cerchi neri sotto agli occhi verde-grigi, rughe già profonde sulla fronte e a lato della bocca, prematuri fili grigi alle tempie. Sulla guancia sinistra, proprio sopra lo zigomo, c'era una piccola cicatrice storta; un'altra appariva sopra al sopracciglio sinistro. Una volta aveva ignorato un sogno, stremato dai combattimenti nella giungla, dalla lotta che giorno per giorno combatteva per la sopravvivenza; nel sogno gli avevano mostrato un cielo rosso pieno di insetti di fuoco. Quando la granata di mortaio era arrivata, quella mattina, lui era all'aperto e le schegge lo avevano colpito al fianco sinistro, una pericolosamente vicino al cuore. Quel che era successo dopo era difficile da ricordare: un insieme di rumori e facce e odore di sangue e odore di ospedale. Come avesse fatto il medico, un giovane di nome Dawes, a salvarlo dal dissanguamento non sapeva. Ricordava, vagamente, strumenti che passavano e uomini che gridavano. Poi il buio, finché una luce bianca accecante gli fu accesa in faccia, in un ospedale da campo; sentiva qualcuno lamentarsi e, settimane più tardi, si rese conto che doveva esser stato lui stesso. Ora, in piedi davanti allo specchio, sapeva che sotto la giacca del pigiama il suo petto era attraversato da una ragnatela di linee bianche. Prima della guerra aveva dormito insieme a Kay, entrambi nudi. Ora non più, sebbene Kay dicesse che non le sarebbe importato, e lui sapeva che lei era sincera; ma quel campo di pelle simile a una mappa stradale gli riportava alla mente immagini che erano gocce di sangue bollente. Quattro anni prima, mentre ancora era preso nel filo spinato di quella tana di terrore che la guerra aveva teso attorno a lui, aveva tentato di farsi crescere la barba. Voleva nascondersi: non gli piaceva più Evan Reid, non lo riconosceva, non l'avrebbe riconosciuto se l'avesse incontrato per le strade di La Grange. Durante la guerra aveva ucciso esseri umani, dapprima con orrore nauseato e repulsione, poi con un senso di vuoto, come se lui fosse tutt'uno con il suo M-16, caldo e fumante. E alla fine, dopo quello che gli avevano fatto in un campo di prigionia, si scoprì persino a dar loro la caccia, i nervi vibranti dell'istinto di uccidere. Gli uomini più induriti, quelli con gli occhi strani, stretti a fessura, quelli che non permettevano mai a nessuno di stare alle loro spalle, dicevano che dopo aver acquistato l'istinto di uccidere non lo si perde mai più. Lui aveva pregato Iddio di perderlo; e forse per questo aveva scelto di ignorare il sogno ed era rimasto
immobile ad aspettare che esplodesse la granata di mortaio. Perché era tempo di fermarsi. O di essere fermati. La barba fu rasata una settimana dopo l'inizio del tentativo, perché cresceva contropelo attorno alla ferita sulla guancia, accentuando più che nascondere i ricordi. La memoria di ciò che era stato e che aveva fatto. Bevve l'acqua, ne riempì un altro mezzo bicchiere e bevve di nuovo. Nello specchio i suoi occhi lo fissarono da sopra il bordo del bicchiere. Poi spense la luce e tornò nella camera, dove la forma immobile di Kay giaceva sotto le lenzuola. Mentre attraversava la stanza il raggio di luna cadde su di lui. Improvvisamente, lontano, un cane iniziò ad abbaiare. Forse da un cortile in fondo a McClain Terrace, pensò Evan. Si fermò, si diresse alla finestra e scostò le tende con una mano. Guardò attraverso il vetro. Rami fronzuti si stagliavano nella luminescenza perlacea lunare. Il cane iniziò a ululare. Qualcosa si mosse oltre la finestra, l'apparizione di uno spettro che immediatamente svanì lungo la strada. Evan, con il collo teso ma impossibilitato a vedere a causa degli alberi, ebbe l'impressione fugacissima di qualcosa di nero. E di enorme. E in quell'istante la pelle gli si era aggricciata e i capelli sulla nuca drizzati. Ora sentiva il cuore martellargli in petto e con tutti i sensi allerta tentò di scrutare nella notte. Ma non c'era più nulla. Ammesso che qualcosa ci fosse stato. Ombre? Diede una rapida occhiata al cielo. Una nuvola che fosse passata rapida davanti alla luna? Forse, ma... se non quella, allora cosa? Lungo tutta McClain Terrace le case erano scure, nulla si muoveva, nessuna luce era visibile, nulla di nulla di nulla... Egli sentì un freddo pungente ed ebbe un brivido improvviso. Si allontanò dalla finestra, lasciando ricadere la tenda. Si infilò sotto alle lenzuola, sentendo Kay mormorare e avvicinarsi leggermente. A lungo rimase ad ascoltare il battito del suo cuore che gli faceva risuonare il corpo come un piano scordato. Che cos'era stato? si chiese, già sull'orlo del sonno. Che cosa c'era fuori, per le strade notturne di Bethany's Sin? E come mai sentiva che non avrebbe voluto, per niente al mondo, uscire a vedere? Mentre cadeva nel cratere oscuro del sonno sentì quel cane abbaiare ancora. Ancora. E ancora.
6 PICCOLE PAURE Il cinguettio degli uccelli riempiva l'aria mattutina lungo McClain Terrace e dita di sole filtravano tra i rami della foresta oltre i vetri della cucina di Kay, mentre lei armeggiava ai fornelli. Laurie non era ancora sveglia; la settimana seguente avrebbe dovuto alzarsi alle sette e mezzo per andare al centro estivo, mentre Kay si recava al George Ross College, poche miglia a nord di Ebensburg. Evan stava facendo la doccia, al piano superiore, Kay udì il rumore dell'acqua cessare proprio mentre appoggiava il bollitore sul fuoco, per il caffè. Mentre prendeva le tazze - graziose tazze bianche dal bordino blu attorno all'orlo - dalla credenza, improvvisamente le mani le tremarono. Una tazza si infranse sul pavimento di linoleum, gettando ovunque pezzetti di ceramica come bianchi dentini. Si diede della stupida e velocemente raccolse i frantumi con la paletta. Ma la verità era che una spirale d'acciaio aveva iniziato a stringerle l'anima. Ebbe la visione della cassa di un orologio da tasca che il nonno Emory una volta le aveva mostrato: le minuscole rotelle ticchettanti dell'ingranaggio e la molla centrale che si avvolgeva sempre più stretta, mentre lui la caricava con la vecchia mano scura. Ma non si romperà, nonno? gli aveva chiesto lei. E se non dovesse più funzionare? Ma lui si era limitato a sorridere e aveva continuato a caricare la molla, fino al fermo, poi le aveva messo l'orologio aperto in mano lasciandole guardare gli ingranaggi, che ticchettavano in una meccanica follia. E forse ora, pensò lei, la molla che controllava i suoi nervi e il battito del suo cuore e persino il lavorio della sua mente stava venendo caricata da una mano invisibile. Un invisibile nonno. Che caricava e caricava e caricava finché lei non sentiva il primo doloroso battito eromperle alle tempie. Aperse un cassetto, frugò alla ricerca del tubetto di Tylenol che vi aveva messo il giorno prima e ne prese due con un bicchiere d'acqua. Le compresse le diedero un leggero sollievo, ma sapeva che si trattava di un dolore da tensione nervosa, ostinato e persistente, e spesso così intenso che il Tylenol era inutile. Mosse le spalle per allentare i muscoli tesi che sentiva sul dorso. L'acqua iniziò a bollire, emettendo un fischio che alle sue orecchie parve un urlo. Tolse il bollitore dal fuoco, rischiando di scottarsi, e allo stesso tempo si concentrò per tentare
di cacciare tutte le paure che, come vapore, si sentiva gonfiare attorno. Paure che li avevano seguiti da La Grange e ora sedevano a guardarla, sogghignanti, dalla credenza e dagli scaffali. Perché nella guerra dei nervi erano loro a partire in vantaggio. Pochi minuti dopo sentì Evan scendere le scale. Entrò in cucina con i capelli ancora umidi, odoroso di sapone. Indossava una camicia dalle maniche corte color azzurro pallido su leggeri pantaloni grigi, e si chinò a baciarla sulla guancia. — Buon giorno — le disse. — Buon giorno. — Spazzò la cucina con una mano immaginaria ricacciando le piccole paure dietro ad angoli e fessure, in attesa. Sorrise e gli restituì il bacio. — La colazione è quasi pronta. — Grandioso — fece lui, e guardò dai vetri la foresta variegata di luci e ombre. — Sarà una bella giornata. Laurie non è ancora sveglia? — No — rispose Kay. — Non c'è ragione per non lasciarla dormire ancora un po'. Evan annuì. Diede un'occhiata al cielo, aspettandosi quasi di vedere ciminiere incombenti e fumo rossastro, invece scorse nuvole lontane contro un azzurro tenue. Quante mattine, si chiese, aveva spostato le tende dell'unica finestra di cucina, nella casa di La Grange, e aveva visto quella macchia di sangue nel cielo? Quelle stanze strette, dai soffitti bassi, erano state anche loro una gabbia, con sbarre di ferro invece che di bambù. E in quello scuro edificio di mattoni, lontano oltre il parcheggio della fabbrica, il Gentiluomo aspettava, solo che questa volta aveva un nome. Si chiamava Harlin. La mente di Evan si ritrasse e lui lasciò che il sole riflesso dagli alberi gli scaldasse il viso; ma mentre quei pensieri si ritiravano ricordò l'incubo con il cartello di Bethany's Sin e la cosa oscura emergente dal mantello di polvere. Sentì la spina dorsale irrigidirsi. Quale avrebbe potuto essere la forma di quella cosa oscura? si chiese; quale entità malvagia, deforme, che si protendeva per afferrarlo? Solo l'Ombra lo sa, rispose a se stesso. E persino l'Ombra potrebbe sbagliarsi. — È pronto — disse Kay, posando i piatti della colazione sul piccolo tavolo rotondo della cucina. Sedettero. Per qualche minuto mangiarono in silenzio; da un olmo nel cortile un uccello dai riflessi blu lanciò un trillo e si involò nel cielo. Passarono altri minuti e poi Evan si schiarì la voce, alzando gli occhi dal piatto, a guardarla; incontrò gli occhi di lei e non li lasciò distogliere. — Vorrei parlarti del mio sogno di questa notte... Lei scosse la testa. — Ti prego. Non voglio sentirlo.
— Kay — fece lui, con voce calma — ho bisogno di parlarne. Devo tirarlo fuori, guardarlo in faccia, cercare di capirlo. — Posò la forchetta e rimase in silenzio per qualche istante. — So che i miei... sogni ti fanno paura. So che ti mettono a disagio. E anche a me fanno paura, molto, molto di più che a te, perché devo conviverci. Lo sa Iddio quanto vorrei non dovere; quanto vorrei non farci caso, o allontanarli o... qualunque cosa, ma non posso. Tutto quello che ti chiedo è di aiutarmi a capire. — Non voglio sentirlo — ripeté Kay con fermezza. — Non c'è ragione di parlare dei tuoi sogni con me, perché io mi rifiuto di considerarli come fai tu. Per l'amor di Dio, Evan, tu ti stai facendo torturare! — Si protese leggermente verso di lui, sopra il tavolo, ignorando quello sguardo perseguitato, implorante che gli aveva visto così spesso negli occhi. — E insisti nel tentare di torturare anche Laurie e me, allo stesso modo. Tutti sognano, ma non tutti sono convinti che i loro sogni siano sempre sul punto di influenzargli la vita, in qualche modo! Quando tu invece insisti, sei tu stesso — si interruppe per scegliere con cura le parole — che li fai avverare! Evan sorseggiò il caffè e poi rimise la tazza sul piattino; una goccia tremolò sull'orlo. — Io non sogno come una persona normale — disse. — Devi accettarlo, ormai. Posso dormire per mesi senza sogni, a volte, ma quando alla fine arrivano essi sono... molto strani. E reali. Terribili e minacciosi; diversi dai sogni normali. E, sempre, tentano di dirmi qualche cosa... — Evan! — gridò Kay forte, più forte di quanto intendesse. Colpito, Evan la fissò e sbatté le palpebre, e lei lasciò cadere la forchetta sul tavolo. — Non mi interessa quello che dici o pensi — disse, tentando faticosamente di non perdere il controllo. Le tempie le pulsavano. Oh no! esclamò dentro di sé. Dannazione dannazione ecco che arriva il mal di testa! — Non sono premonizioni. Non esistono le premonizioni. — Tenne gli occhi fissi in quelli di lui, non lo lasciò andare. — Sei tu che li fai avverare, con il tuo comportamento, non lo capisci? Non ti rendi conto che sei tu? — Sentì un gusto amaro salirle dalla gola, un insieme di acqua salata, bile e sangue. — Ti chiudi gli occhi, per non vederlo? Lui continuò a fissarla, il viso impietrito nella maschera che gli calava quando lei lo feriva. Nel cortile dietro un pettirosso continuava a trillare. Kay si alzò e portò il piatto nel lavandino. Non serviva parlare di questa cosa; di tutte le piccole spine che giorno per giorno pungevano il loro matrimonio questa era la più lunga e acuminata. Questa aveva provocato sangue e lacrime. E ciò che era peggio, pensava Kay, era che si trattava di una
situazione senza speranza: Evan non avrebbe mai smesso di considerare i suoi sogni una sorta di finestra aperta su un altro mondo e lei non avrebbe mai accettato le sue a volte ridicole "premonizioni". Se in passato alcune cose si erano avverate, ebbene ciò era dovuto solo a lui, non a qualcosa di sovrannaturale. Non al Destino, non al Male, ma solo a Evan Reid. E la semplice verità era per lei ancor più dolorosa: lui aveva lasciato che quei sogni determinassero la sua vita e, peggio ancora, la loro vita insieme. Zingari borghesi, disse a se stessa, con amara ironia. Che ci spostiamo con la nostra sfera di cristallo. Vivendo nella paura quando i sogni annunciavano a Evan che ci sarebbe stato un incendio in casa - aveva lasciato acceso il riscaldamento elettrico una mattina, una resistenza danneggiata aveva provocato scintille, molto fumo ma pochi danni. Colpa sua, di nuovo. Vivendo nella paura a causa di Eddie Harlin - meglio non pensare a quell'uomo! - e così decine di altre volte. E ora è incominciata di nuovo, pensò fra sé. Siamo qui solo da un giorno, ci sono così tante opportunità per vivere meglio, finalmente, ed ecco che è già incominciata. E perché? Sì, certo. «Perché lui ha paura.» Non è così che ha detto lo psicologo dei Veterani di Guerra, il dottor Gellert, qualche anno fa? «Evan non riesce a fidarsi delle persone» il medico le aveva detto durante una di quelle terribili sedute. «C'è un'enorme quantità di stress dentro a Evan, signora Reid; è il risultato della guerra, della sua idea di sé, della convinzione di essere personalmente responsabile di molte cose che sono capitate. Si direbbe un problema complesso; risale al suo rapporto con i genitori e, specialmente, con suo fratello maggiore, Eric...» Evan finì il caffè e portò i piatti al lavandino. — Va bene — disse. — So che ti disturbano, so che ti spaventano. E allora non ne parleremo più. — Aspettò la sua risposta e lei, alla fine, si voltò. — Mi terrorizzano — disse. — E mi terrorizza vedere che tu credi in loro così tanto. Mi dispiace di innervosirmi, Evan; mi dispiace di non capire, ma... dobbiamo tutti e due cercare di metterci le cose brutte dietro alle spalle. — Fece una pausa, guardandolo negli occhi. — Va bene? — Sì — disse Evan, annuendo. — Va bene. Kay allungò il braccio e lo prese per mano, portandolo verso le finestre. — Guarda là — disse. — Un'intera foresta tutta per noi, quando ci alziamo al mattino. E il cielo, così azzurro, chiaro. Non hai mai giocato a disegnare con le nuvole, da piccolo? Che cosa ti sembra quella grossa, laggiù? Evan la cercò con lo sguardo. — Non saprei — rispose. — Tu che dici? — Una faccia — disse Kay. — Qualcuno che sorride. Vedi gli occhi e la
bocca? A Evan pareva di vedere un arciere, ma non lo disse. — Chissà come sarà la pioggia, dietro queste finestre. O la neve? Evan sorrise e la circondò con un braccio. — Dubito che vedremo la neve, quest'estate. — Dev'essere completamente bianco — proseguì Kay. — E i rami pieni di ghiaccioli. E in primavera e autunno sarà ancora diverso. — Si voltò verso di lui e lo guardò negli occhi; lui aveva scacciato i tormenti e le ombre, almeno per quel momento, e lei gliene fu grata. Lo circondò con le braccia. — Andrà tutto bene — disse. — Proprio come abbiamo sempre sperato. Io ho il mio posto d'insegnante: tu scriverai, Laurie incontrerà nuovi amici e avrà una vera casa; e a quest'età è molto importante, per lei. — Sì, è così. — La tenne stretta e guardò fuori la foresta. Sarebbe stata bellissima sotto una coltre di neve. E poi a primavera, quando le prime gemme fossero apparse su quelle migliaia di rami nudi, non si sarebbe visto altro che tenero verde e la crescita lenta e sicura dei germogli; e in autunno, mentre giorno per giorno il freddo fosse calato, gli alberi si sarebbero incendiati le chiome d'oro e di rosso, per poi lentamente scurirsi, accartocciarsi, cadere. Dietro quelle finestre la Natura avrebbe continuamente cambiato colore tutti i suoi vestiti. Lo riempiva di gioia pensare a tutta quella bellezza in serbo per loro, perché negli anni passati ce n'era stata dolorosamente poca. Si udì un improvviso din-don! dall'entrata. Il campanello, ricordò Evan. — Vado io — fece Kay; gli strinse per un attimo la mano e poi si allontanò dalle finestre, attraversando il salotto e il corridoio che portava all'atrio. Attraverso i vetri smerigliati della porta d'ingresso vide il profilo di una persona. Girò la serratura e spalancò la porta. Era una donna, apparentemente sulla quarantina, vestita con un completo da tennis giallo canarino; un ciondolo con le lettere J e D le pendeva dal collo. La pelle abbronzata ma straordinariamente liscia le dava l'aspetto di chi vive costantemente all'aperto e l'espressione del suo viso attraente sebbene un po' squadrato era sicura e tranquilla. Aveva in mano un cesto di pomodori. — La signora Reid? — disse. — Sì, sono io. — Sono felice di conoscerla. Mi chiamo Janet Demargeon. — Accennò di lato con la testa. — La vostra vicina di casa. — Ma sì, certo — rispose Kay. — Entri, la prego. — Fece un passo indietro e la donna entrò nell'atrio. Un profumo di erba appena tagliata entrò
con lei dalla porta aperta, e Kay immaginò ampi, ricchi pascoli verdi. — Vedo che avete già traslocato — disse la signora Demargeon, facendo correre attorno lo sguardo. — Com'è grazioso. — Non ancora — rispose Kay. — Restano dei mobili da comperare. — Comunque ha già un aspetto grazioso. — La donna sorrise e le offrì il cesto. — Dal mio orto. Ho pensato che le piacesse qualche pomodoro fresco. — Sono bellissimi — fece Kay prendendolo. E in effetti lo erano: grandi e rossi e senza difetti. La signora Demargeon entrò in soggiorno e si guardò intorno, continuando a chiacchierare: — E solo un hobby. Sono convinta che tutti dovrebbero avere un hobby, e il giardinaggio è il mio. Kay l'invitò ad accomodarsi, cosa che lei fece sedendo accanto alla finestra, su una poltrona. — È veramente grazioso qui, e così fresco! — fece, sventolandosi con la mano dalle lunghe unghie rosse. — Il mio condizionatore si è rotto proprio all'inizio di giugno e il tecnico della Sears, giù a Westbury, non si è ancora fatto vedere. — Posso offrirle qualcosa? Una tazza di caffè? — Gradirei molto del tè freddo. Con parecchio ghiaccio. Evan, sentendo le voci, arrivò dalla cucina. Kay lo presentò e gli mostrò i pomodori; Evan afferrò la mano tesa della donna e la strinse, pensando, stranamente, che gli ricordava quella di un uomo, così dura e asciutta. Però i suoi occhi erano molto belli, verdi con pagliuzze nocciola, e i capelli scuri, spazzolati all'indietro, avevano riflessi dorati. Kay portò il cesto di pomodori in cucina, lasciandoli soli. — Di dove siete, lei e sua moglie, signor Reid? — gli chiese la signora Demargeon quando lui si fu seduto sul divano. — Abbiamo vissuto per un po' di tempo a La Grange; è un piccolo centro industriale vicino a Bethlehem. La signora annuì. — Ne ho sentito parlare. Lavorava per una fabbrica? — In un certo senso. Ero redattore e curatore di L'Uomo d'Acciaio, la rivista di pubbliche relazioni dell'azienda. Più che altro scrivevo i titoli. — Uno scrittore? — ribatté lei, alzando le sopracciglia. — Bene! Non abbiamo mai avuto uno scrittore nel villaggio, prima d'ora. Ha mai pubblicato qualcosa? — Poche cose. Un racconto breve sulla rivista Racconti, in aprile, e prima di quello un articolo sui conducenti di camion, su una pubblicazione del settore. Poi altri articoli e racconti, ma su riviste minori. Cose del genere.
— Interessante. Almeno può dire di aver guadagnato qualcosa dai suoi sforzi, sono sicura che è più di quanto molti possano dire. Ha un lavoro qui nel villaggio, oppure a Johnstown? Evan scosse la testa. — Sto cercando. Abbiamo lasciato La Grange a causa di alcuni... be', problemi. E Kay insegnerà durante il trimestre estivo al George Ross. — Davvero? E che cosa insegnerà? — Algebra elementare — intervenne Kay, portando dalla cucina un bicchiere di tè freddo per la signora Demargeon. La donna lo sorseggiò con espressione grata. — Si tratta di un corso solo estivo, ma spero in un corso di matematica teorica per l'autunno. — Sedette di fianco a Evan. — È al di là della mia comprensione — fece la signora Demargeon. Chiunque sappia fare una cosa del genere ha il mio rispetto immediato. Vi ho visti passare con la macchina, ieri; non c'era anche una bambina, con voi? — Nostra figlia, Laurie — disse Kay. — E penso proprio che stia ancora dormendo. — Che peccato! Mi piacerebbe conoscerla, magari un'altra volta. Mi era sembrata una bimba così dolce, graziosa! Quanti anni ha? — Ha appena compiuto i sei, a maggio — rispose Kay. — Sei anni. — La donna sorrise, guardando da Kay a Evan. — Un'età meravigliosa. Andrà certo in prima alla Douglas, in settembre? È un'ottima scuola. — Signora Demargeon... — iniziò Evan, chinandosi leggermente in avanti. — La prego, mi chiami Janet. — Con piacere; Janet. Ho notato ieri notte che la strada era completamente buia. Sono tutte occupate le case di McClain Terrace? — Sì, tutte. Ma la maggior parte della gente che vive qui va a letto con le galline e si alza all'alba. Molto abitudinaria, se mi capite. Inoltre, credo i Rice siano in vacanza, per tutto il mese. Ogni estate vanno in montagna, negli Allegheny, a fare campeggio. — E la casa davanti alla nostra, dall'altra parte della strada? — continuò Evan. — Ieri non ho visto nessuna luce, per tutta la sera. — Davvero? Bene, allora significa che anche il signor Keating è partito per le vacanze. E ora che ci penso, è qualche giorno che non vedo la sua macchina. È un vedovo, ma mi pare che abbia dei parenti a New York, probabilmente sarà andato a trovarli. È un uomo molto disponibile; sono
sicura che vi piacerà. — Sorrise e sorseggiò il tè. — Che delizia! Ma naturalmente, giugno non è il mese più caldo, qui a Bethany's Sin. È ad affrontare agosto che bisogna prepararsi. È davvero il mese assassino, non c'è pianta che non ingiallisca. Perché è anche secco. Terribilmente secco! — Riportò lo sguardo su Kay. — E così, avete già incontrato molti del villaggio? — Lei è la prima vicina che conosciamo — disse Kay. — Naturalmente conosciamo la signora Giles, ma per il fatto della casa. — Ci vuole un po' di tempo, certo, ma non mi preoccuperei. Sono persone socievoli. — Ritornò con gli occhi su Evan. — La maggior parte lo è, comunque, alcuni altri, quelli che vivono nelle ville più grandi, vicino al Cerchio, si tengono in disparte. Le loro famiglie hanno vissuto qui da generazioni e, mio Dio, loro non mancano di farlo pesare, neanche discendessero dai Padri Pellegrini! Kay sorrise. Si sentiva a proprio agio con quella donna, ed era felice che fosse venuta a dar loro il benvenuto. Si trattava, dopo tutto, di un segnale, del fatto che erano stati accettati nel villaggio, non foss'altro che da uno dei suoi abitanti. E l'accettazione dava sempre un senso di benessere. — Il Cerchio è molto bello — stava dicendo Evan. — Chi se ne occupa non risparmierà certo fatica né denaro per tenere in ordine tutti quei fiori. — Il Comitato per gli Abbellimenti provvede a tutto. Dunque vediamo: il signore e la signora Holland, la signora Omarian, il signore e la signora Brecker, il signor Quarles. E qualcun altro. Fanno a turno a piantare e innaffiare e curare e tutto il resto. Avevano proposto anche a me di entrarci, l'anno scorso, ma ho dovuto rifiutare. C'è il mio giardino che mi tiene già fin troppo legata. — Ne sono sicuro — fece Evan. — Mi chiedevo: che cos'è quella grande casa su in Cowlington Street? Se ne vedono i tetti dal giardino anteriore. La signora Demargeon si fermò per un momento. — Grande casa? Vediamo. Ah, certo! Si tratta del museo. — Il museo? Lei annuì. — Costruito dalla Società di Storia. — Che genere di cose ci sono? — intervenne Kay. La signora Demargeon ebbe un sorrisetto storto. — Cianfrusaglie, mia cara. Semplicemente cianfrusaglie. Quelle signore della Società pensano che un po' di cianfrusaglie coperte da un po' di polvere significhi storia. Non merita nemmeno il tempo ad andarci, perché per la maggior parte dei
giorni è chiuso e sbarrato peggio di una casa vuota. Gioca a tennis, signora Reid? — Per favore mi chiami Kay. Oh, una volta giocavo un po', ma è molto che non riprovo. — Grandioso! Da queste parti mancava proprio un altro tennista! Io faccio parte di un Tennis Club - il Dynamos - e giochiamo ogni martedì mattina dalle dieci, sui campi che stanno ai piedi della collina. Siamo in cinque: Linda Paulson, Anne Grantham, Leigh Hunt, Jean Quarles e io. Forse le andrebbe di giocare, qualche martedì? — Magari — rispose Kay. — Dipende dalle lezioni. — Naturalmente. — La donna finì il suo tè e posò il bicchiere sul tavolino di fianco. I cubetti di ghiaccio tintinnarono. Si alzò, e allora Evan e Kay fecero lo stesso. — Farei meglio ad andare, ora — disse, muovendosi verso la porta. Poi improvvisamente si fermò, si voltò a guardarli e chiese: — Siete giocatori di bridge? — Ho paura di no — rispose Evan. — E allora di canasta? Poker? Non importa. Vi voglio a casa mia, venerdì sera. Riuscirete a venire? Kay guardò Evan, che annuì. — Sì — rispose allora. — Con piacere. — Ottimo. — Abbassò gli occhi sull'orologio da polso ed ebbe un'espressione irritata. — Oh, no! Sto facendo tardi! Leigh mi starà già aspettando a Westbury. Kay, la chiamerò in settimana e ci metteremo d'accordo per venerdì, va bene? — Aprì la porta d'ingresso, scese un gradino. — Bene, vi auguro buona giornata. E spero che i pomodori vi piacciano. — Agitò una mano, scoccò un ultimo sorriso e imboccò il vialetto, verso il marciapiede. Kay rimase a guardarla per un attimo, poi richiuse la porta. Mise un braccio attorno a Evan. — È stata molto carina. Preparerò qualcosa per venerdì. Che ne dici di insalata di patate? Lui annuì. — Va bene. Si sentì un rumore, su per la scala, e poi comparve Laurie con addosso ancora il pigiamino verde pisello, sfregandosi gli occhi. — Ciao, amore — le disse Kay. — Vuoi fare colazione? La piccola sbadigliò. — Budino. — E budino sarà. Che ne dici di metterci sopra qualche fetta di banana? — Kay prese la bambina per mano e si mosse verso la cucina. — La signora Demargeon non ha detto nulla del marito — fece Evan, e Kay si girò a guardarlo interrogativa. — Il marito? Che c'entra?
Lui strinse le spalle. — Niente, in realtà. L'ho visto sulla loro veranda, ieri, e poi la signora Giles mi ha detto che fu coinvolto in un incidente, alcuni anni fa. È paralizzato e su una sedia a rotelle. — La moglie probabilmente non ama parlarne — fece Kay. — Che tipo di incidente? — Automobilistico. — Dio — disse lei, piano. — È terribile. — Le balenarono le immagini di metallo contorto, fanali frantumati, corpi feriti e sanguinanti. Sarebbe potuto accadere anche a noi una volta, disse una voce dentro di lei. Basta! — Sono certa che lo incontreremo venerdì. — Strinse la mano di Laurie. — Vieni, amore, andiamo a fare colazione. — Scomparvero attraverso la saletta, e per alcuni istanti Evan rimase fermo in corridoio, circondato da ombre e lame di luce. Dopo un attimo si accorse che stava tormentandosi le nocche, e ricordò lo stesso gesto automatico, molto, molto tempo fa, mentre aspettava dentro una gabbia di bambù. Mentre aspettava che lo venissero a prendere per farlo urlare. Strinse le spalle, inconsapevolmente, come se volesse scuotere via un cappotto scomodo o una vecchia pelle logora e rugosa. Rientrò in soggiorno, si accostò a una finestra e spostò la tendina per vedere la casa dei Demargeon, di fianco. — Evan? — La voce di Kay lo chiamava dalla cucina. — Dove sei? Non rispose, pensando automaticamente che lei cercava di tenerlo sempre sott'occhio, come faceva con Laurie. Il viale del garage dei Demargeon era dall'altro lato della casa, e un momento dopo vide passare l'auto - una Honda bianca - che si allontanò in direzione del Cerchio. Una sola persona era nell'abitacolo. E guardando ancora gli parve di vedere un'ombra muoversi attraverso la finestra di fronte. Muoversi lentamente e con sforzo. Come su una sedia a rotelle. — Evan? — chiamò di nuovo Kay, con un accenno di preoccupazione nella voce a malapena nascosto. Rialzò lo sguardo. — Nel soggiorno — disse. E lei fu tranquilla. Sentì Laurie chiedere qualcosa sui bambini che ci sarebbero stati al centro estivo e Kay rispondere che non lo sapeva, ma che certo dovevano essere simpatici. L'ombra era scomparsa dalla finestra. Evan si allontanò. Fuori, fra i rami protettivi dell'olmo, un uccello incominciò a cantare. Quella nota alta corse lungo tutta McClain Terrace e si disperse in fondo, nel silenzio.
7 LA LEGGE A BETHANY'S SIN A mezzogiorno Oren Wysinger svoltò nel parcheggio del McDonald's a bordo dell'auto di servizio, una Oldsmobile bianca e blu. Con una rapida occhiata, da sotto l'ala del berretto di ordinanza, si accertò che tutti gli occhi, dentro al locale, avessero lasciato i piatti per fissarsi su di lui; e che solo dopo aver visto che la luce intermittente sul tetto della macchina non era accesa ritornassero alla precedente occupazione. Era quella sensazione di potere che lo rendeva felice, che gli ricordava tutte le volte come lui, Oren Wysinger, fosse un uomo importante. Addirittura, forse, l'uomo più importante del villaggio. Fece girare lentamente lo sguardo attorno al locale, controllando le auto parcheggiate fra le strisce gialle. Abitanti del villaggio, in maggioranza. Ma c'era anche una macchina sportiva rossa, sconosciuta: probabilmente qualcuno in gita, o qualche giovinastro di Spangler o Barnesboro che tentava di rimorchiare. Spense il motore e rimase a fissare l'arrogante sconosciuta per qualche minuto. Dopo di che un ragazzo e una ragazza, entrambi adolescenti, entrambi in jeans, lei con una maglietta striminzita e lui con una camiciola bianca dalle maniche corte, uscirono dal ristorante e raggiunsero l'auto. Il ragazzo notò Wysinger e accennò col capo, e allora Wysinger si portò due dita all'orlo del berretto. La macchina sportiva uscì lentamente dal parcheggio, ma lui ebbe la netta sensazione che, un paio di svolte più in là, il ragazzo avrebbe schiacciato a fondo sul pedale e sarebbe entrato sulla provinciale correndo come un pazzo. Oren Wysinger aveva quarantasei anni. Aveva il viso di un uomo che vive all'aperto, senza temere le intemperie: rughette convergenti attorno agli occhi, di un marrone tanto scuro che pareva nero, solchi e fratture e dirupi sul resto della pelle in un viso che pareva il letto disseccato di un torrente. Basette grigie, tagliate cortissime, spuntavano da sotto il cappello, che nascondeva una capigliatura scarsa color sale e pepe. Il suo naso adunco era reso ancor più adunco da una gobba decisa, ricordo di una bottigliata durante una rissa che stava tentando di sedare, tre anni prima al Canto del Gallo. Complessivamente, aveva un aspetto prudente, cauto ma pericoloso, diffidente verso gli estranei e fieramente protettivo nei confronti di Bethany's Sin. Perché quello era il suo incarico, come sceriffo. Su entrambe la mani possenti le unghie apparivano rosicchiate fin quasi alla radice. Wysinger si allungò, il suo metro e novanta di carne e muscoli andò a
riempire totalmente lo spazio del sedile anteriore e la fibbia ornata della cintura sfregò contro il volante. Aveva lo stomaco vuoto come una canna, ormai le uova strapazzate con prosciutto delle cinque e mezzo del mattino, preparate nella casa solitària di Deer Cross Lane, non erano che un vago ricordo, come pure i biscotti e i due litri abbondanti di latte fatti sparire durante le ronde della mattinata. Dietro, per terra, restavano il pacchetto e due cartoni vuoti. Uscì finalmente dall'auto, attraversò lo spazio di fronte al ristorante. Conosceva bene le ragazze che servivano, era un abitudinario: si trattava di due ragazzine furbe, delle scuole superiori, provenienti da Barnesboro, e di un'altra di Elmora, di nome Kim, di gran lunga la più graziosa. Kim aveva pronto il pranzo per lui: tre hamburger, patatine fritte e una Coca Cola grande. Gli sorrise chiedendogli come andava, e allora lui mentì raccontandole di aver inseguito una Spider fino a Cowlington Street, un'ora prima. Prese il pacchetto, salutò col capo alcuni avventori e rispose a un paio d'altri e poi fu fuori, di nuovo alla sua auto. Una volta seduto accese la radio e mangiò ascoltando il canale della polizia. Una voce stava chiedendo il numero di targa di un furgone. I codici si intrecciavano. Voci diverse ma dall'inconfondibile tono professionale, una sirena in lontananza. Si sorprese a tastarsi il rotolo di grasso alla cintura, che iniziava a preoccuparlo nonostante le ancora ridotte dimensioni. E poteva ancora sentire, sotto, la fermezza dei muscoli. Ma non era più come quando il suo corpo, nudo, era solcato da muscoli e tendini come cordoni tesi che parevano vibrare a ogni movimento. Era perché ora non faceva abbastanza esercizio: una volta faceva a piedi tutte le ronde, ma poi il villaggio si era ingrandito, negli ultimi anni, e l'auto era diventata indispensabile. Pensò a quei poliziotti sulle strade statali, che aveva appena sentito, uomini dai muscoli d'acciaio dentro a potenti scatole metalliche. Portavano occhiali da sole verdi o grigi, per non essere disturbati dai riflessi sull'asfalto, e quei caratteristici berretti che davano loro un profilo così interessante. Una volta aveva desiderato diventare uno di loro e si era arruolato, molti anni fa; ma non era andata bene. Era il suo modo di fare, gli avevano spiegato; e aveva anche i riflessi troppo lenti. Che ridere sentirsi dire una cosa del genere da uno scribacchino, lui che era stato difensore negli All-State a Conemaugh, la sua città d'origine, sette miglia a nord-est di Johnstown. Riflessi lenti. Merda! E come se non bastasse quella stronzata sul modo di fare. Tra l'altro, che cosa c'entrava il modo di fare? No, lo avevano fregato, mettendogliela in culo solo perché veniva da una cittadina di provincia e non da Johnstown; e poi volevano fargli pagare la foto sulla Voce di Cone-
maugh e l'articolo sulla stella del football americano che aveva fatto domanda per il corso di polizia. Lo avevano preso in giro, per quell'articolo. Che figli di puttana. E comunque il loro dannato corso non valeva un fico secco. Dopo di che, niente lo aveva più legato a Conemaugh, tutti i suoi amici erano morti o se n'erano andati, tutti i posti della sua giovinezza erano stati inghiottiti dal cemento. Divorò l'ultimo hamburger e, dopo aver finito anche la Coca, stritolò il bicchiere di carta dentro la mano. E com'era finita? Quei bastardi correvano sulle strade, e potevano anche strofinarcisi il culo, per quel che gl'importava. Pochi minuti dopo sentì parlare di una Jaguar rossa, decappottabile, sulla 219, lanciata a centocinquanta. Si trattava di sicuro della macchina sportiva che aveva appena visto; annuì e sorrise fra sé e sé. Il suo istinto non l'aveva mai ingannato. Girò la chiave nell'accensione e il motore ruggì. Mentre usciva dal parcheggio rivide nella mente le braccia nude di Kim, coperte di peluria leggera. Come faceva di cognome? Granger. Bella ragazza. Probabilmente aveva un sacco di spasimanti, e tutti calciatori. Mentre guidava girava lo sguardo a destra e a sinistra, controllando i lati della strada; percorse il Cerchio, salutando col capo una coppia sul marciapiede, e girò verso l'ufficio. L'auto entrò nella fresca ombra degli alberi. Dalla radio sentiva ancora le voci della polizia. Sembravano vicinissime, mentre in realtà erano miglia distanti, assorbite nelle proprie vite. Come sarebbe stato facile irrompere in una di quelle trasmissioni, urlare dentro al microfono della radio, farli sobbalzare mentre compivano le solite ronde gridando Qui è Oren Wysinger da Bethany's Sin, mandate subito delle macchine e dei rinforzi perché... No. No, non avrebbe potuto farlo. La sua radio non aveva microfono. Mentre ascoltava le voci sembrarono svanire, fino a ridursi a un brusio indistinto. Voci da un altro mondo, fluttuanti attraverso l'etere. In Cowlington Street un'ombra enorme si stagliò sulla sua strada, dandogli un brivido. Non poté evitare di premere leggermente sull'acceleratore. Quando girò a destra, all'incrocio seguente, gettò uno sguardo nello specchietto e riuscì a scorgere la casa di pietra, a tre piani, prima che venisse coperta di nuovo dai rami degli alberi. Non gli piaceva passare da quella parte, sebbene fosse costretto a farlo per lavoro. Gli ricordava casa Fletcher, nella periferia di Conemaugh; una casa più piccola, è vero, che però non riusciva a dimenticare, dopo dieci anni, e gli era rimasta acquattata in fondo all'anima.
A quel tempo guidava l'auto di ronda a Conemaugh, dove lavorava parttime insieme a due altri uomini. E in una fredda mattina di febbraio era arrivato a quella casa sulla collina, chiamato dalla signora Kahane, un'insegnante, che aveva notato qualcosa di strano. Tim e Ray, i figli di Cyrus Fletcher, erano assenti da scuola ormai da tre giorni e nessuno aveva risposto al telefono o alla porta. Spinse la porta d'ingresso, ma la trovò bloccata; tutte le finestre erano chiuse, le tende tirate, impossibile vedere dentro. Ma la porta sul retro si spalancò immediatamente. E non appena ebbe fatto un passo sentì un odore penetrante e dolciastro, non dissimile da quello emanato dai cani morti le cui carcasse schiacciate dalle auto gli toccava spostare dalla statale. Faceva freddo dentro la casa, e quindi non si trattava dell'odore di cibo andato a male oppure di sangue: era proprio l'odore scarlatto della Morte. Trovò tutto in ordine in cucina. Caffè dentro a due tazze bianche, sul tavolo. Piatti apparecchiati: per quattro, i due ragazzi, la moglie di Fletcher, Dora, e Cyrus. Pancetta e uova verdastre dentro i piatti. Chiamò forte Cyrus e Dora, ma nessuno rispose. Dopo un lunghissimo istante si decise a salire la scala di quercia che portava al primo piano, dove c'erano le camere da letto. Da qualche parte un orologio ticchettava: quel rumore gli rimase nel cervello, se ci pensava gli pareva di risentirlo, chiarissimo. Qualcuno ci dev'essere, pensò. Qualcuno che ha caricato quell'orologio. Trovò i ragazzi a letto, con le coperte ancora rimboccate. Non avevano più faccia; i lineamenti erano ridotti in poltiglia. Uno di loro - Tim? - aveva la bocca aperta, e Wysinger vide i denti bianchi brillare sotto la crosta di sangue. Anche le gole erano state tagliate. Nell'altra stanza, quella più grande, era peggio. Dora, con la vestaglia che indossava tutte le mattine quando preparava, all'alba, la colazione per la famiglia, giaceva sul pavimento in un lago di sangue: La testa era pressoché staccata dal tronco, una gamba era stata gettata in un angolo, come la stampella di un paralitico. Fu allora che lui ebbe un conato e si slanciò in bagno, a vomitare. Ma in bagno c'era Cyrus. In parte era sparso sul pavimento, e Cyrus Fletcher era stato un uomo grosso, forte, che tagliava la legna e la portava in città ai clienti. Ora di lui sembrava essere rimasto ben poco, qualche brandello di muscoli e di carne attorno a schegge d'osso. I rimasugli di una faccia spalancata, urlante, distrutta sotto i colpi di un oggetto pesantissimo. Dopo un bel po' di tempo, dopo che ebbe finito di tremare e vomitare, Wysinger notò i segni sulle pareti del bagno. Tagli profondi. Come i colpi
di un'ascia. E gli stessi segni erano nella stanza dove giaceva Dora. E mentre correva verso la macchina per chiamare aiuto si rese conto che il ticchettio dell'orologio, non più caricato da tre giorni, si era improvvisamente fermato. Da quel momento era iniziato l'orrore, che fino ad allora l'aveva risparmiato. Come le fila di un'enorme ragnatela, tessuta attraverso il tempo. Ma ora lui sapeva, e odiava passare vicino a quella casa di pietra in Cowlington perché anch'essa era piena di cose morte, reliquie che lui non capiva. Cose di un passato strano e antichissimo. L'auto era immersa nell'ombra, ora, e lui ebbe freddo, nonostante il sole brillasse infuocato oltre i rami fronzuti e gli uccelli cantassero e il vento sussurrasse fra le foglie parole antiche che nessun uomo poteva capire. Davanti al piccolo edificio di mattoni rossi che era l'ufficio dello sceriffo, Wysinger istintivamente schiacciò il piede sul freno. Parcheggiata davanti all'ufficio c'era una vecchia Ford camioncino, piuttosto scassata, la cui vernice, di un colore assurdo, era ormai divorata dalla ruggine. Il paraurti posteriore mancava e dal cassone pendevano le gambe di un giovane, tranquillamente semisdraiato. Wysinger indurì gli occhi, mentre parcheggiava nello spazio contrassegnato dalla scritta RISERVATO ALLO SCERIFFO. Non conosceva l'uomo - o almeno gli pareva di non averlo mai visto prima - e improvvisamente si sentì curioso e sospettoso insieme. Ciò nonostante si diede tempo, fingendo prima di controllare la radio e il contenuto del cruscotto, poi finalmente tirando fuori le gambe, appoggiando i piedi sull'asfalto e drizzandosi. Sbatté poi la porta e la chiuse a chiave e infine guardò verso il giovane, con l'aria di soppesarlo. — Buon giorno — disse l'uomo. Un accento piatto, sconosciuto. Dietro a occhiali di metallo gli occhi castani lo fissavano amichevoli, come se si aspettasse che Wysinger si affrettasse oltre i pochi metri di asfalto che li separavano per dargli una cordiale, decisa stretta di mano. Wysinger fece un cenno col capo e fissò gli occhi sulla targa. Nebraska. Archiviò l'informazione nella mente. L'uomo dimostrava ventotto o ventinove anni, certamente non di più. Aveva capelli castani ricci e baffi dello stesso colore; i capelli erano piuttosto arruffati ma puliti e i baffi sembravano aggiustati da poco. Ma la targa del Nebraska e l'abbigliamento del giovane - jeans e camicia da lavoro - rivelavano immediatamente al perspicace sceriffo la sua professione: vagabondo. Qualcuno sempre in cerca di elemosina dallo Stato; un membro di quelle legioni che percorrevano il paese in lungo e in largo, spesso dormendo in macchina, cercando lavori
occasionali, qualsiasi cosa per tirare avanti. Gente che aveva lasciato la propria casa seguendo il richiamo della strada, in cerca di qualcosa che solo loro sembravano vedere. — Io sono lo sceriffo — dichiarò Wysinger in modo assolutamente non necessario, perché voleva che questo giovane capisse bene con chi aveva a che fare, e immediatamente. — Sì, signore — rispose l'uomo, con un tono cordiale che gli provocò un'irritazione subitanea. — Stavo cercando proprio lei. — Saltò giù dal camioncino e si avvicinò a Wysinger, che riuscì a scorgere, dietro di lui, un assemblaggio di utensili, pezzi di legno e di mattone, un rotolo di tela incatramata. — Che cosa posso fare per lei? — chiese Wysinger. — Mi chiamo Neely Ames — fece l'uomo, tendendo la mano. Wysinger ricambiò il gesto con lentezza. — Dovrei conoscerla? — fece lo sceriffo, scrutandolo. — No — ribatté l'uomo. — A meno che non si trovasse ieri a Greenwood, dov'ero anch'io. No, in realtà sto solo passando da queste parti, sono diretto al nord. — Mm-mm — fece Wysinger. — Faccio lavori occasionali — riprese l'uomo, accennando al furgone. — Sradicare ceppi, tagliare l'erba lungo le strade, portare le immondizie in discarica: tutto quel che può servire. Stavo passando e ho notato che avete una bella cittadina ordinata, qui, così mi sono chiesto se magari qualcuno non avesse bisogno di qualche servizio. Ma prima di mettermi a chiedere in giro ho pensato di venire a presentarmi allo sceriffo, per evitare fraintendimenti. Ho fatto bene? — Bene — rispose Wysinger. Nei suoi occhi Neely poteva leggere chiaramente la diffidenza. Non era certo una cosa nuova, per lui; l'aveva già incontrata decine di altre volte, in cittadine come Hollyfork o Whiting o Beaumont, o altre. Si era trattato quindi di imparare una piccola parte, che tutte le volte recitava con un'espressione seria seppur implorante sul viso. Non troppo implorante, però, altrimenti avrebbero pensato che li stavi prendendo in giro. E dovevi anche avere un aspetto onesto, per non dare l'impressione di quello che potrebbe irrompere in una banca nel cuore della notte e scappare via con i risparmi di una vita di tutti i cittadini. Neely non amava indossare quella maschera per gli altri, ma doveva pur mangiare e permettersi un albergo, ogni tanto, per cui gli occorrevano un po' di soldi. La cosa più difficile da ottenere
quando se ne aveva davvero bisogno. Ma in quattro anni di viaggiare non aveva mai rubato; una volta a Banner, nel Texas, aveva trovato per terra uno di quei borsellini di plastica che si aprono nel mezzo, con dentro un centinaio di dollari ma nessuna carta d'identità. Si era tenuto i soldi, ma non pensava di aver commesso un furto. Semplicemente, di essere stato fortunato. Altre volte era stato sfortunato, come quando l'avevano gettato in una cella fetida, ad Hamilton in Louisiana, con il sospetto di aver derubato un piccolo supermercato di settantacinque dollari. La ragazzina che stava alla cassa aveva detto che lo riconosceva però non era sicura. Dopo un giorno avevano dovuto rilasciarlo per mancanza di prove e il poliziotto gli aveva detto: «Bene, adesso prendi la strada e non portare più il culo da queste parti, capito?». Era stato contento di uscire e aveva provato l'impulso di invertire la rotta, andare a quel supermercato e derubarlo di ogni dannato penny si trovasse in cassa. Ma non l'aveva fatto perché la strada, nella sua saggezza, si stendeva diritta davanti a lui come la linea del suo destino. In quei quattro anni, comunque, aveva imparato due cose: tutte le città sono sostanzialmente simili; tutti i pubblici ufficiali sono sostanzialmente simili. Due lezioni che la ripetizione costante gli aveva fatto definitivamente acquisire. — E così staresti cercando lavoro, eh? — chiese Wysinger. L'espressione dello sceriffo era rimasta immutata. — Pensavo di trovare qualcosa, sì — rispose Neely. Ebbe la sensazione che fra poco gli sarebbe arrivata una versione del noto discorso nonvogliamo-vagabondi-qui-intorno. Già sentito. Wysinger accennò al furgoncino. — Dove stai andando? Vivi nel nord? — No. Sto solo viaggiando. Per vedere il paese. — E perché? Neely strinse le spalle. — Direi che è un buon modo per passare il tempo. Ed è qualcosa che ho sempre desiderato fare. — Sembra piuttosto un modo di buttare via il tempo, a me. — Strinse gli occhi come un lupo. — Che cosa stai cercando di fare, mollare la moglie e tre o quattro mocciosi? — No — rispose Neely tranquillo. — Non sono sposato. E non ho bambini in giro. — Guai con la legge, allora? Come hai detto che ti chiami? — Ames. Come i fratelli. — Ormai si era reso conto che si trattava di una causa persa. Accennò al furgone. — Bene, sceriffo. Mi restano ancora alcune miglia, come dice il poeta.
— Poeta? Quale poeta? — Frost — rispose Neely, aprendo la portiera dal lato del guidatore e facendo per salire. Avrebbe potuto raggiungere Spangler, Barnesboro, Emeigh, Stifflertown oppure un altro dei puntini disseminati lungo il nastro scuro della 219. Avrebbe trovato lavoro, più avanti. Al diavolo questo tizio. — Parlare della legge ti spaventa, eh? — fece Wysinger, girando attorno al furgone. — Ti fa venir voglia di scappare? Neely infilò la chiavetta e accese il motore. — Pensavo che stessi cercando lavoro — continuò Wysinger. — Dove vuoi andare? Perché non scendi di lì, così facciamo una bella chiacchierata e magari anche qualche telefonata per capire in che faccenda sei dentro? — Mi dispiace — fece Neely. — Ho cambiato idea. — Ecco, forse sarebbe proprio meglio... — Wysinger si fermò a metà della frase. Neely alzò gli occhi. Lo sceriffo stava guardando a destra, con la bocca semiaperta e lo sguardo vitreo. Neely gettò lo sguardo a sua volta nello specchietto retrovisore. C'era una Cadillac nera ferma di là dalla strada, in cui il profilo del conducente si delineava dietro il volante. Immobile. A osservare loro. Wysinger, senza dire più nulla a Neely, attraversò la strada per avvicinarsi a quell'auto, girò dal lato dell'autista, si piegò al finestrino. Nelly gli vide muovere le labbra. La figura fece un cenno con la testa. Poi Wysinger sembrò assorto ad ascoltare. A quel punto Neely scosse la testa, ingranò la retromarcia e iniziò a muoversi. — Ehi! Aspetta un attimo! — Era la voce di Wysinger, ancora presso l'auto sconosciuta. La testa dello sceriffo tornò a piegarsi, di nuovo in ascolto. Un minuto dopo la Cadillac nera si allontanò senza rumore dal marciapiede e svanì in fondo alla via, mentre lo sceriffo tornava lentamente presso Neely, riattraversando la strada. Si passò una mano sulla bocca, e i suoi occhi parevano più scuri, a disagio. — Che succede? — gli chiese Neely. Wysinger si mordicchiò un'unghia. — Sembra che ti sia fatto un amico nel villaggio, Ames. Qualcuno ti vuole dare un lavoro. — Chi? — Il sindaco — rispose Wysinger. — Se hai voglia di lavorare puoi entrare a libro paga per il villaggio. Non è una cifra, questo te lo posso dire subito. E inoltre si lavora sodo. — Che cosa dovrei fare?
— Di tutto. Portare via i rifiuti, togliere erbacce, tagliare l'erba, tener pulite le strade, cose del genere. La paga è cento alla settimana. Starai sempre in contatto con me, che ti dirò di volta in volta cosa fare. — Diede un'occhiata nella direzione in cui era sparita la Cadillac. — Che ne dici? Neely strinse le spalle. La possibilità di guadagnare qualcosa c'era, e lui non aveva fretta di arrivare da nessuna parte. Bethany's Sin era un piccolo villaggio grazioso, invitante e pulito. Non aveva senso rifiutare un paio di centoni prima di fare rotta verso gli stati della Nuova Inghilterra. — Perché no? — fece. — Non mi sembra male. Wysinger annuì. I suoi occhi sembravano due specchi neri, dentro ai quali parve a Neely di potersi riflettere. — C'è una pensione sull'angolo di Kittridge e Grant, una strada dopo il Cerchio. Appartiene a una donna di nome Bartlett. È pulita e non troppo cara. Perché non vai e le dici che ti mando io? Dille che lavori per il villaggio, e lei ti darà una buona stanza. — I suoi occhi restavano immobili e strani. Morti, pensò improvvisamente Neely: i suoi occhi sembrano morti. Fu allora, fissando gli occhi neri e imperscrutabili dello sceriffo, che Neely fu lì lì per dire no, grazie, credo che non mi fermerò. Penso che proseguirò verso il nord e cercherò fortuna da quelle parti. Ma aveva bisogno dei soldi. Disse — Okay, va bene. Ci vado subito. Wysinger lo guardò negli occhi per un attimo e poi disse — Vai, allora, e poi torna qui velocemente. C'è un albero morto che deve essere abbattuto, a un paio di strade da qui, prima che cada in testa a qualcuno. — Fece un passo indietro e guardò in entrambe le direzioni. — È libera — disse — puoi fare marcia indietro. Neely alzò la mano e si allontanò verso il centro del villaggio. Allora era il sindaco dentro la Cadillac nera, si disse. Non era riuscito a vederne la faccia. Grugnì di soddisfazione. Non era mai successo prima che un sindaco gli desse del lavoro da fare. Si sentiva a disagio, però, a causa di quello sceriffo. Avrebbe dovuto starci attento, perché percepiva in lui qualcosa di crudele, e mettere un distintivo addosso a una persona crudele significa autorizzarne la crudeltà. Ma che altro aveva sentito in quell'uomo, solo pochi istanti prima? Qualcosa di scuro e intangibile, qualcosa di simile a... paura? Sì, probabilmente lo sceriffo aveva paura del sindaco. Probabilmente il sindaco di Bethany's Sin era un uomo molto influente. Meno male che sta dalla mia parte, si disse Ames. Wysinger guardò il furgone sparire oltre la curva. Strappò coi denti un pezzo di unghia, sul dito indice sinistro. In petto il cuore gli batteva dei
colpi come dentro a un bidone vuoto. Aveva in simpatia solo poche persone, e fra queste non figurava certo quel Neely Ames: non gli piaceva chi rifiutava le responsabilità e prendeva la vita così come viene. Non gli piaceva chi rifiutava di vivere in gabbia. Per questo il sentimento, che aveva dentro, in quel momento, era più simile alla pietà che a qualcos'altro. — Possa Iddio salvare la tua anima — mormorò Wysinger, poi si voltò e scomparve dentro l'ufficio. 8 KAY SISTEMA LE COSE Kay aveva passato la giornata al George Ross Junior College e ora, guidando verso Bethany's Sin, ritornava col pensiero a tutto ciò che aveva fatto. Aveva pranzato nella mensa dell'Istituto con il dottor Kenneth Wexler, il capo del Dipartimento di Matematica, un uomo di cinquant'anni dai capelli grigi; avevano discusso dei corsi di algebra che lei avrebbe iniziato il lunedì successivo. Il venerdì e il sabato sarebbe andata al College per essere presente alle iscrizioni. Ci sarebbero stati tra i venti e i venticinque studenti in ciascuna delle sue tre classi e, come aveva sottolineato il dottor Wexler, sarebbe stata una bella esperienza, un tantino faticosa, ma formativa. Il dottor Wexler le aveva poi mostrato il suo ufficio, in realtà poco più di un cubicolo dove stavano un tavolo, una sedia e una finestra, nel nuovo Dipartimento delle Arti e delle Scienze, tutto in cemento e vetrate. Separato da un divisorio c'era l'ufficio del signor Pierce, un uomo allampanato vestito di scuro, che, le aveva detto Wexler, insegnava calcolo. Il signor Pierce era venuto a salutarla, scappando però via subito, per tornare alle sue carte. Kay aveva dato un'occhiata alle pareti nude color beige, decidendo che occorreva assolutamente qualche manifesto. C'era solo una piccola bacheca, appesa dietro il tavolo. Anche qualche piantina sul davanzale avrebbe rallegrato un po' l'ambiente. Sulla bacheca erano fissate una dozzina di quelle puntine dalla capocchia colorata, blu, rosse, verdi e gialle, e ad alcune erano rimasti attaccati dei pezzetti di carta. Chissà che cosa c'era stato appeso, pensò Kay. Nei cassetti trovò fermagli metallici e un blocchetto di carta con sopra stampato DALL'UFFICIO DI CERALO MEACHAM. Il suo predecessore. Quando aveva chiesto di lui al dottor Wexler questi aveva risposto in maniera evasiva, incuriosendola.
Nell'Aula 119, quella che sarebbe stata la sua classe, Kay era rimasta qualche istante in piedi davanti al leggio, a fissare i banchi vuoti. Poi aveva provato la lavagna, scrivendo il suo nome con del gesso giallo: Signora Reid. Non si rendeva ancora ben conto che ciò che aveva sognato così a lungo adesso era a portata di mano. La possibilità di insegnare a tempo pieno, se il suo lavoro estivo fosse risultato buono. Gesù, pensò. Non ci credo. Non è vero. Mentre Evan lavorava alla rivista aziendale, a La Grange, lei aveva insegnato a un paio di classi al Clarke College, frequentando lei stessa nel pomeriggio i corsi di perfezionamento. La possibilità di arrivare al dottorato era ancora lontana, ma aveva deciso di prendersi tutto il tempo necessario. Ora si sarebbe sistemata in quella scuola, avrebbe insegnato algebra e magari, nel pomeriggio, seguito come tutor qualche studente e nel frattempo avrebbe potuto lavorare alla tesi di dottorato. Senza scapicollarsi. Alla fine spense le luci dell'Aula 119 e percorse il lungo corridoio in linoleum fino alla sala insegnanti, dove stava un distributore di bevande. Mentre beveva una Coca Cola seduta a un tavolo d'angolo osservava l'andirivieni degli insegnanti, che arrivavano a fumare una sigaretta o giusto a scambiare due chiacchiere. Arrivò una donna piuttosto avanti con gli anni, che portava uno stretto chignon di capelli candidi; prese un succo di pompelmo e si presentò come signora Edith Marsh. Insegnava poesia e sorrideva mite a ogni frase di Kay. Il signor Pierce entrò e si accese una sigaretta, parlò con Kay solo qualche secondo e poi andò a guardar fuori dalla finestra che dava sul parcheggio quasi vuoto. Un uomo sulla trentina, in jeans e giacca sportiva scura entrò e perse un quarto di dollaro dentro la macchina delle bevande. Kay gli cambiò un altro dollaro, mentre lui, soffiando dentro una pipa scheggiata, le raccontava di insegnare nel Dipartimento Studi Classici. Poi le augurò buona fortuna e perse ancora una moneta dentro la macchina: al che rinunciò, alzando le mani con gesto sconsolato e uscì a grandi passi, lasciandosi dietro un filo di fumo. Era ritornata ancora una volta in ufficio, a ispirarsi per la scelta dei manifesti da portare - nature morte? pittura astratta? scene campestri? - e poi aveva lasciato l'edificio. E ora, raggiungendo le prime case di Bethany's Sin e dirigendosi verso il centro estivo della Scuola del Sole, dove aveva lasciato Laurie, si chiese chi fosse Gerald Meacham. Un insegnante di matematica, certo; un uomo molto distinto e intelligente, aveva detto il dottor Wexler. Abitava a Spangler. Era passato uno strano sguardo negli occhi del dottor Wexler quando lei gli aveva chiesto se era stato licenziato o si
era dimesso. Il capo dipartimento sembrava non desiderare di parlarne. Chissà perché? Forse uno scandalo? Che il dottor Meacham avesse valutato i test con l'occhio fisso alla gonna delle studentesse? Comunque fosse andata, pensò Kay, ringrazio Iddio per ciò che è successo a Gerald Meacham. Se quel lavoro non fosse arrivato per l'intera famiglia adesso sarebbero stati guai. La Scuola del Sole era un edificio bianco e giallo, in Blair Street; c'era un cortile recintato e quando Kay lo attraversò, lungo il vialetto che portava all'ingresso, vide dei bambini giocare sulle altalene. Sentì le loro risate, come il gorgoglio di acque argentine fra i ciottoli di un torrentello di montagna. C'era un ruscello vicino alla casa dove era cresciuta; lei lo chiamava il suo ruscello segreto e, per tutta un'estate, era andata ogni giorno a vedere l'acqua che correva. Aveva gettato sassolini e formulato desideri. Uno per una vita felice. Un altro per un principe azzurro. Un terzo per un bellissimo castello dove abitare. Ma l'inverno seguente erano arrivati degli operai a spianare per la costruzione di una nuova autostrada; avevano macchine che si nutrivano di pini e querce ed erano affamate fin dalle sei del mattino. Tutte le mattine. Quando lei era tornata all'inizio della primavera con altri desideri da esprimere aveva trovato il cemento che copriva il suo ruscello segreto. Era rimasta a fissarlo e in quel preciso momento aveva avuto la netta e perdurante sensazione che qualcuno, che lei non conosceva e non avrebbe mai conosciuto, si fosse messo a ridere. Qualcuno rideva perché le aveva rubato qualcosa di suo. Qualcosa che era stato suo in quei giorni estivi di bimba di sette anni. E in quel momento aveva provato la prima amarezza. E la prima paura. Suonò alla porta; attraverso i vetri si vedevano alcune delle stanze interne: pareti coperte dai disegni dei bambini, cavalli, spaventapasseri, figure allampanate, case, automobili, un tavolino circondato da sei piccole sedie, uno scaffale pieno di libri e fumetti colorati, un acquario con pesciolini. Due bambine, una dai capelli scuri e l'altra con una magnifica chioma rossa, sedevano a leggere al tavolino e ora, alzati gli occhi, fissavano Kay. Dal corridoio arrivò una donna snella che portava giacchetta e pantaloni bianchi, evidentemente la divisa. Sorrise a Kay e aprì la porta. Kay aveva conosciuto la signora Omarian, che dirigeva la Scuola del Sole, durante il loro ultimo viaggio a Bethany's Sin, prima di lasciare La Grange per sempre. La signora Omarian, il cui nome era Monica, doveva avere circa trent'anni; aveva un viso amichevole, attraente, circondato da una folta capigliatura scura, e si muoveva calma, come se il suo lavoro fos-
se un gioco. Quando la porta si aprì Kay sentì il fresco dell'aria condizionata. La scuola eira tranquilla, silenziosa, come se i bambini stessero tutti dormendo da qualche parte. — Salve — la salutò la signora Omarian. — Come è andato il primo giorno di scuola? — Bene. Meglio di quanto mi aspettassi. — Era nervosa? Kay sorrise. — Temo proprio di sì, e non poco. — Credo che sia del tutto normale — disse la signora Omarian. Si fece da parte e Kay entrò. Le due bambine al tavolino chinarono di nuovo la testa sui libri. — Ho insegnato anch'io al George Ross, per qualche semestre — disse a Kay. — Davvero? In quale dipartimento? — Psicologico, sotto il dottor Anderson. Erano solo corsi introduttivi in psicologia infantile, niente di troppo impegnativo. Ma mi sono divertita, comunque. — Strinse le spalle. — È stato circa quattro anni fa, e ancora adesso a volte mi manca la vita del College. Le conferenze degli insegnanti, i ritrovi accademici, i pranzi collegiali, cose del genere. — Fissò Kay per qualche secondo, in silenzio. — Davvero la invidio. — Non vedo perché. Direi che ha moltissimo da fare qui — rispose Kay — e anche che fa un lavoro importante. — È così. Ci sono molte madri che lavorano, più di quante non immagini, qui a Bethany's Sin. Vado subito a prendere Laurie, è nel cortile dietro, a giocare. — La signora Omarian si voltò, dirigendosi verso la porta posteriore. Un attimo dopo Kay sentì una sensazione di pizzicore alla nuca e si voltò. La bambina dai capelli rossi la stava fissando. L'altra stava leggendo Bellezza Scura. La piccola fulva chiese: — Sei la mamma di Laurie Reid? — Sì, sono io. — Io sono Amy Grantham. — Molto piacere di conoscerti, Amy — le disse Kay. La bimba rimase qualche secondo in silenzio, ma i suoi occhi non lasciavano quelli di Kay. — Laurie è appena arrivata? — Sì. Siamo arrivati al villaggio proprio ieri. — È bello qui — disse Amy. Aveva gli occhi color azzurro scuro, come due tunnel verso l'anima. E non si abbassavano mai. — La mia mamma dice che è il posto migliore del mondo.
Kay sorrise. Udì dei passi in corridoio, poi comparve Laurie per mano alla signora Omarian. — Ciao, amore — disse Kay, accarezzandole i capelli e dandole un bacio in fronte. — È andato tutto bene oggi? Laurie fece sì con la testa. — Ci siamo divertite. Abbiamo giocato con le altalene e poi con le bambole e poi abbiamo visto i cartoni animati. — I cartoni animati? — chiese Kay. — Abbiamo un proiettore nella sala sul retro — spiegò la signora Omarian. — E che cosa abbiamo visto oggi, Laurie? — I corridori. E gli scoiattoli. E... Paperino. La signora Omarian sorrise e strizzò l'occhio a Kay sopra la testa di Laurie. — È vero. — Bene — Kay prese la mano di Laurie — adesso dobbiamo andare. Di' alla signora Omarian arrivederci a venerdì mattina. — E si mossero verso la porta. — Ciao, Laurie — disse Amy Grantham. Anche l'altra bambina alzò il visino e disse ciao. — Ciao — rispose Laurie. — Ci vediamo venerdì. Giunte alla porta la signora Omarian disse — Ha proprio una bambina che si comporta benissimo. Se fossero tutti così buoni potrei stare a vedere Beautiful tutto il giorno. Salutarono la signora Omarian e pochi minuti dopo erano in auto verso McClain Terrace, mentre Laurie chiacchierava dei bambini che aveva conosciuto quel giorno. Sembrava che si fosse proprio divertita e ciò tranquillizzava Kay, perché la bambina avrebbe dovuto passare al centro gran parte del suo tempo, quell'estate. Kay avrebbe preferito che rimanesse a casa, con Evan, ma sapeva che Evan aveva intenzione di organizzare il proprio studio giù nel seminterrato per poi mettersi immediatamente a lavorare. Così, era meglio che Laurie restasse alla Scuola del Sole. Sulla via del ritorno passarono davanti a un edificio moderno di cemento, con una grande vetrata anteriore, che occupava un intero isolato circondato da alberi ombrosi. Un semplice cartello nero con scritta bianca diceva CLINICA MARBRY. Kay ricordò che la cllnica serviva da centro ospedaliero per il villaggio, come le aveva spiegato la signora Giles nel corso della loro prima visita, ma non vi era mai entrata né conosceva nessuno dei medici. Alle sue preoccupazioni per la qualità dell'assistenza medica nel villaggio, la signora Giles le aveva assicurato che la cllnica aveva uno staff altamente qualificato ed era ben equipaggiata, e che inoltre il dottor
Marbry, il direttore, era il genere di medico che non risparmia le visite a domicilio, nei casi di emergenza. Nell'entrare in casa Kay udì provenire dal seminterrato i colpi di mitraglia, per quanto soffocati, della vecchia macchina da scrivere del marito. Laurie salì subito nella sua cameretta, a giocare, e Kay aprì la porta sotto la scala e scese nel seminterrato. Evan sedeva allo scrittoio sormontato dalla serranda avvolgibile che avevano comperato insieme a una svendita, parecchi anni prima; il legno qua e là era intaccato e rigato e tre delle quattro gambe avevano dovuto essere sostituite, ma con un buon lavoro di cartavetro e un successivo restauro Evan era riuscito a far rivivere il bel colore caldo della quercia scura, che ora brillava sotto due mani di vernice trasparente. Evan aveva posizionato il tavolo presso il lato più lontano dalla scala, vicino a una finestra con zanzariera che si poteva rialzare e che dava sul cortile posteriore, facendo entrare un fiotto di luce e aria. Gli scatoloni con i libri erano in pile ai lati, in attesa degli scaffali che lui aveva progettato di costruire fin dal primo giorno in cui aveva messo piede nel seminterrato e ne aveva indovinato le possibilità. Aveva portato giù due manifesti incorniciati - la copia di un poster su un viaggio dello Zeppelin negli anni Trenta e un autentico cartellone pubblicitario dello show di Harry Blackstone, anche questo frutto di un mercatino dell'usato - e li aveva appesi ai due lati della finestra. Una lampada a braccio di metallo sopra la sua spalla destra gettava un cerchio di luce sul foglio dentro la macchina, e di fianco c'erano una pila di fogli bianchi e un'altra di quelli che aveva scritto durante la giornata. Per terra, vicino al tavolo, stava un cestino della carta straccia e al suo fianco un paio di fogli appallottolati. Kay rimase per qualche istante dietro di lui, a guardarlo lavorare. Batteva alcune righe e poi si fermava, fissando immobile il foglio. Poi ancora qualche parola. Poi, improvvisamente, una dozzina o più righe. Seguite dal silenzio. Dopo qualche attimo Evan si rialzò sulla sedia, rimanendo immobile come se avesse sentito qualcosa. Poi si voltò di scatto e la fissò con occhi spalancati.. Quel movimento veloce la spaventò. — Che c'è? — esclamò, facendo un passo indietro. Gli occhi di Evan si rasserenarono all'istante. — Scusa. Non volevo spaventarti, ma la verità è che tu mi hai messo una paura del diavolo. Da quanto tempo sei qui? — Solo qualche minuto. Volevo guardarti. — Ho sentito che c'era qualcosa qui con me, ma senza capire che cosa fosse. È andato tutto bene a scuola? Hai fatto tutto quello che pensavi di
fare? Lei annuì e si avvicinò, mettendogli le mani sulle spalle e baciandolo in cima alla testa, su una delle sue buffe rose di capelli. Sapeva che quelle rose lo facevano impazzire quando tentava di pettinarsi, quindi era costretto a rinunciare e a lasciarli arruffati; ma lei così li trovava attraenti. — Mi sono presentata al dottor Wexler — gli rispose. — E da oggi ho anche un ufficio. — Grande — fece lui, e accennò al tavolo. — È lussuoso come il mio? — Forse più comodo ma molto meno affascinante — fece lei, e lo baciò di nuovo. — È stata proprio una bella giornata, Evan. Mi sento come se questo fosse il mio posto. — E lo è — le disse lui. — Sono molto contento per te, e anche molto orgoglioso. Lei guardò da sopra la sua testa il foglio infilato nella macchina. — Che cos'è? — Niente di preciso. Parole in libertà. Ho scritto le prime impressioni sul villaggio. Sai, colori, suoni, odori... cose del genere. — Interessante. — Si chinò e lesse la descrizione dei fiori in mezzo al Cerchio. — È molto bella. Che cosa pensi di farne? — Ho in mente qualcosa — le rispose Evan. — C'è una piccola rivista di Filadelfia che si chiama Pennsylvania Progress, dove di tanto in tanto pubblicano racconti sulle città più piccole dello stato. La storia, la gente, che cosa succede, come si evolvono. Mi chiedevo se prenderebbero in considerazione qualcosa su Bethany's Sin. Kay annuì. — È probabile di sì — disse. — Ma tu qui sei un nuovo arrivato. Come pensi di fare per mettere insieme la storia? — Ricerche vecchio stile — fece lui. — E lavoro di gambe. Sono sicuro che ci dev'essere qualcosa in biblioteca, e poi gli anziani che vivono qui sapranno certo raccontare le origini del villaggio. — Strinse le spalle. — Non so, forse non porterà a nulla, forse il Progress non lo prenderà, ma penso che valga la pena di provare. — E allora fallo — disse Kay. Lui rimase zitto un momento, fissando la carta sul rullo della macchina da scrivere. — E inoltre — riprese, girandosi a guardarla — non ti piacerebbe scoprire qual è stato il peccato? — Il peccato? Quale peccato? — Bethany's Sin! Il Peccato di Bethany. Devi ammettere che è un nome piuttosto insolito e intrigante per un villaggio. Mi piacerebbe scoprire a
che cosa si riferisce. Lei sorrise. — Forse a niente. Perché dovrebbe? — E perché no? I nomi di molte città e villaggi prendono origine da qualcosa di specifico. Un evento, una persona, un periodo. Cose del genere. Prendi il nome Bethany. Si tratta di una persona? È il nome o il cognome? Mi piacerebbe scoprirlo. — Pensi che in biblioteca avranno qualcosa? — Non saprei. Ma credo proprio che incomincerò a cercare da lì. Kay passò le dita fra i capelli del marito. — Che cosa vuoi per cena? Ci sono delle braciole in frigorifero. — Le braciole mi suonano bene. — Okay. Ecco fatto il menù della serata. Sarà meglio che mi dia da fare. Mi piace quest'idea della tua storia. Mi piace davvero. — Si mosse verso le scale. — Bene. Sono contento. — Tornò a voltarsi verso la macchina da scrivere e rimase in silenzio. Lei rimase a guardarlo ancora un po', fino a quando non ricominciò a battere i tasti, poi salì e attraverso il salotto entrò in cucina. Dopo cena andarono in auto fino al negozio di mobili di Broome a Westbury, ma scoprirono che i prezzi erano un po' troppo alti, per loro. Passeggiarono lungo il viale per un'oretta, curiosando nei negozi, ed Evan comprò due coni gelato per Kay e per Laurie al Baskin-Robbins. Poi fecero sosta al supermercato per acquistare i viveri per il resto della settimana e finalmente imboccarono di nuovo la 219 per Bethany's Sin. Era buio e i fari della familiare ritagliavano due piste di luce nella notte. Laurie disse che riusciva a vedere le stelle e Kay la aiutò a contarle. Incrociarono qualche auto e un grosso camion che andava verso nord, ma nell'avvicinarsi alla svolta verso Bethany's Sin Evan notò che il traffico era scomparso. La strada era molto buia, senza i fari di altre auto che la illuminassero, e gli alberi e la folta vegetazione che la circondavano davano a Evan l'impressione di pareti impenetrabili. La luna era bianca e piena, un grande disco d'argento luminoso sospeso sopra di loro. Laurie disse che sembrava il viso di una principessa che viveva in alto fra le stelle e poteva vedere tutto ciò che accadeva sulla terra. Kay sorrise e le accarezzò i capelli ed Evan fissò lo sguardo sulla strada, perché aveva sentito dentro di sé qualcosa contrarsi. Tentò di contrastare la sensazione stringendo le spalle, così come si tenta di rilassare un muscolo dorsale improvvisamente teso. Il vento fischiò attraverso i finestrini abbassati e i fari improvvisamente illuminarono la
carcassa di un cane a lato della strada, facendo brillare i denti, le orbite vuote simili a pozzi senza fondo. Istintivamente Evan deviò il volante con uno scatto e allora Kay gli chiese se andava tutto bene. — Sì — rispose lui, sorridendo. — Sto benissimo. — Ma pochi secondi dopo il sorriso sparì. Strinse leggermente gli occhi ed ebbe la sensazione che gli alberi si contorcessero ai lati della strada. Davanti comparve, finalmente, la luce gialla intermittente che segnalava l'incrocio verso Ashaway. Evan rallentò e girò a sinistra, e presto si trovarono oltre il cimitero con le sue file di tombe. Lungo le strade le luci erano accese in molte case: qui dentro un soggiorno, là in un bagno, una camera da letto, una cucina. Le lampade delle verande avevano un alone bianco o giallo chiaro. Evan si sentì rassicurato dalla consapevolezza che gli abitanti di Bethany's Sin erano in casa, a prepararsi per la notte: a leggere il giornale, a guardare la televisione, a parlare di ciò che era successo durante il giorno trascorso, a fare progetti per il seguente. Pensò per un istante di poter vedere attraverso le pareti e di osservare le numerose famiglie del posto, tutte sicure e comode dentro le loro graziose case in legno e mattoni, tutte concentrate sulle proprie vite quotidiane. Ma qualche cosa in fondo a lui insisteva nel tormentarlo, e lui non riusciva a capire che cosa fosse. Un istante dopo, mentre si trovavano ormai a due strade da McClain Terrace, Kay sospirò e disse — È tutto così tranquillo questa sera, vero? E allora lui capì. Rallentò gra.dualmente la velocità. Kay lo guardò, dapprima divertita, poi irritata, infine preoccupata. Accostò l'auto al marciapiede presso una casa bianca con il camino, a due piani. Una lampada era accesa dietro i tendaggi chiari di un'ampia finestra. Il piano superiore della casa era buio. Evan spense il motore e rimase in ascolto. — Papà? — si udì la vocetta di Laurie dai sedili posteriori. — Perché ci siamo fermati qui? — Ssst — sussurrò Evan. Kay fece per parlare, ma lui scosse la testa. Lei lo guardò negli occhi, avvertendo una morsa di paura nello stomacò. Quando non riuscì più a tollerare il silenzio disse — Ma cosa stai facendo? — Ascoltando — rispose lui. — Che cosa? — Che cosa senti? — le chiese lui. — Niente. Non c'è niente da sentire qui fuori. — Giusto — annuì lui. La guardò e vide che non aveva capito. — Nes-
sun rumore — spiegò. — Niente automobili. Niente radio né televisioni. Niente suoni di conversazioni che escano dalle finestre aperte. Nessuno che brontola o chiacchiera o litiga... — Evan — lo interruppe Kay, con la voce che prendeva quando lui si comportava in modo infantile. — Di che parli? — Ascolta! — fece lui, tentando di parlare a bassa voce. — Resta un attimo ad ascoltare. Lei gli ubbidì. Dai boschi veniva il frinire monotono dei grilli. Un uccello notturno lanciò un grido acuto, una strada più avanti. Ma nient'altro. Strano, dovette ammettere lei, fra sé e sé. Davvero strano. No. Sto diventando come Evan. Non è per niente strano. È semplicemente un villaggio tranquillo, con gente tranquilla, a un'ora tranquilla di tarda sera. Aspettò ancora qualche minuto senza parlare e poi le vennero in mente le bistecche congelate acquistate al supermercato, che si stavano lentamente sgelando nel retro dell'auto. Andiamo, Evan — disse. — Adesso possiamo andare a casa, papà? — chiese Laurie. Evan guardò sua moglie negli occhi. Stava aspettando che lui girasse la chiavetta dell'accensione. Dietro le sue spalle qualcosa si mosse. Gli occhi di Evan cercarono di mettere a fuoco. Era una figura che si era mossa lentamente attraverso il vano della finestra, stagliandosi contro l'alone della lampada, fermandosi solo un istante a scostare la tenda. Poi era sparita. Evan sbatté le palpebre, senza capire ciò che aveva visto. — Ehi! — Kay gli stava tirando la manica. — Ti ricordi di me? Sono la tua povera moglie! Abbiamo carne congelata e gelato e latte fresco dentro a tre borse di plastica, qui dietro, e faremmo bene a portarle in un frigorifero! Lui rimase immobile ancora un istante, ma la figura non tornò. Allora disse — Va bene. Andiamo. — Girò la chiave e mise in moto; l'auto si staccò dal marciapiede, dirigendosi verso McClain Terrace. Evan ha ragione, pensava intanto Kay, mentre arrivavano in vista di casa loro, scura in una fila di altre abitazioni illuminate. C'è un gran silenzio stanotte. Uno strano silenzio. Ma... meglio il silenzio di un chiasso infernale. Non è per questo che siamo venuti qui a Bethany's Sin? Mentre entravano nel vialetto Evan tentava di rievocare la figura che aveva scorto. Aveva qualcosa di strano. Qualcosa di sconcertante. Qualcosa che... non andava bene. — Eccoci qui — esclamò Kay, uscendo dalla macchina. — Chi vuole fare il bravo e aiutare con la spesa?
— Io, io! — esclamò Laurie. — Benissimo, ecco un Buon Samaritano! Evan, non pensi di scendere? Lui rimase immobile un altro secondo. E poi voltò lentamente la testa. — Sì. — Andò sul retro della macchina per prendere una borsa e improvvisamente si fermò, scosso da un brivido. Aveva capito ciò che non andava nella figura. Quando si era voltato verso la finestra, illuminata dall'interno, Evan aveva visto che alla figura mancava il braccio sinistro. Senza sapere perché sentì i nervi rabbrividire come se gli avessero infilato un cubetto di ghiaccio nella schiena. Kay, con una borsa in mano, stava andando alla porta. Laurie la seguiva, con una borsa più piccola. Kay girò la testa verso di lui e lo chiamò — Sbrigati, lumaca! E in quell'istante, se Evan fosse stato ancora intento ad ascoltare i suoni portati dalla brezza notturna, avrebbe sentito un rumore venire da tre strade più in là, all'incrocio di Blair e Cowlington. Un suono di zoccoli al galoppo. 9 IN VISITA — ...e per la Festa del Lavoro viene organizzata una fiera, al Cerchio — stava dicendo la signora Demargeon. — I commercianti chiudono i negozi e quasi tutte le strade vengono chiuse al traffico; vengono sistemati tavoli da picnic, un palco per la banda, i premi per la miglior torta e i biscotti e le salse. Due anni fa i miei pomodori vinsero il primo premio nella loro categoria, ma l'anno scorso il nastro azzurro è andato a Darcy McCullough. Sembra proprio che non possiamo fare a meno di qualche competizione, ogni tanto. Serve a tenerci svegli. Ma anche l'autunno è un periodo buono, per Bethany's Sin; dopo la metà di settembre le giornate si rinfrescano e i primi freddi arrivano a ottobre. Tutti gli alberi diventano gialli e dorati e rosso scuro. È davvero bellissimo. Vedrete. — Sorbì un po' di caffè dalla tazza che portava in rilievo il suo monogramma, J e D, e gettò un'occhiata a Evan per accertarsi che la stesse ascoltando. E così era. — E poi viene l'inverno. Il cielo diventa grigio da un giorno all'altro e per Natale cade la prima neve. Ma è una bella neve farinosa, sembra zucchero a velo, non quella poltiglia umida che cade nel New England. Bethany's Sin entra in piena attività, a Natale. I club fanno a gara nel raccogliere fondi per le case
dei bambini poveri, a Johnstown, e poi c'è una competizione con premio di cinquanta dollari per la miglior decorazione della casa e del giardino. Noi l'abbiamo vinta - lanciò uno sguardo veloce all'uomo che sedeva alla sua sinistra - dunque... quattro anni fa. Sì, è giusto. Quattro anni fa. Tirammo fili di piccole lampade bianche che si accendevano e spegnevano da un albero all'altro, e l'effetto era davvero molto grazioso. — Sembra bellissimo — disse Kay. — Oh, sì — confermò la signora Demargeon. — Natale è sempre un bel periodo. E poi l'inverno dura a lungo, qui, la neve di solito rimane a terra fino ai primi di marzo. Ma all'inizio di primavera si vedono già le prime gemme e i bulbi spuntare. Evan, posso offrirle ancora qualcosa? Stava facendo girare fra le mani la tazza vuota di caffè. — No, grazie — rispose. — Ne ho bevuto abbastanza. — È quello decaffeinato, per cui non bisogna preoccuparsi di restare svegli come grilli fino alle tre di notte — spiegò lei, lanciando a Kay un rapido sorriso. — So cosa vuol dire non riuscire a dormire dopo aver bevuto troppo caffè. — Voltò la testa a guardare suo marito. — Vuoi qualcos'altro, Harris? L'uomo sulla sedia a rotelle si spinse avanti. — Solo un po' di frutta — le rispose. Raggiunse il tavolino dove stava un portafrutta verde colmo di mele e uva, scelse una mela e, addentandola, si mosse di nuovo verso di loro. — Una cosa mi stavo chiedendo — disse Evan, e la signora Demargeon riportò lo sguardo su di lui e sorrise incoraggiante. — Quali chiese frequenta la maggior parte della gente di qui? Ho notato una chiesa presbiteriana verso sud, appena oltre i confini di Bethany's Sin, e un'altra sulla 219 a circa un quarto di miglio a nord. Però non ho visto che tipo di chiesa fosse... — Metodista — fece lei. — Si tratta della chiesa metodista. Quella che frequentiamo Harris e io. Credo che la gente di qui si divida essenzialmente fra metodisti e presbiteriani. E quale frequentate voi? — In realtà — rispose Evan — noi non... — Episcopale — lo interruppe Kay. — Davvero. Bene, vediamo. Ci dovrebbe essere una buona chiesa episcopale a Spangler, credo. A pochi minuti di macchina. — Me lo chiedevo — riprese Evan — perché non ho visto nessuna chiesa dentro l'area vera e propria del villaggio, e mi era sembrato un po' strano.
— Strano? — La signora Demargeon ebbe una risatella. — No, no. Le chiese sono vicinissime. Anche qui la maggior parte della gente è molto religiosa. — Capisco. — Dieci anni fa questo villaggio praticamente non esisteva — spiegò lei, girandosi verso Kay. — Sulle carte era indicato da un puntino, quattro o cinque famiglie e un paio di negozi. Ora basta guardarlo. E ogni anno praticamente raddoppia. Possiamo immaginare che cosa diventerà fra altri cinque anni, o anche solo fra tre. Naturalmente mi dispiacerebbe molto vederne cambiare i tratti caratteristici. Credo che se riuscissimo a tenere sotto controllo il cosiddetto progresso senza farci prendere dalla smania di spalancare le porte a chiunque, alla lunga ce la caveremmo meglio. Voi cosa ne dite? E mentre continuavano a chiacchierare Evan si ritrovò a guardare con interesse Harris Demargeon. L'uomo sedeva all'altro lato del soggiorno allegramente decorato, a sinistra della poltrona foderata di stoffa a fiori che sua moglie occupava, e sembrava che durante la conversazione la sua attenzione andasse e venisse. A volte il suo atteggiamento era gentile e interessato, poi subito dopo Evan vedeva gli occhi grigio pallido scivolare verso la finestra, lo sguardo farsi cupo, come se ci fosse qualcosa oltre le tende chiuse che nessun altro poteva vedere. Il signor Demargeon doveva essere stato un uomo imponente, una volta, lo si capiva dalla struttura delle ossa, ma ora sembrava essersi rimpicciolito; gli zigomi sporgevano sul volto magro e attorno agli occhi, profondamente incassati, c'era una ragnatela di rughe profonde. I capelli erano ancora scuri, ma andavano rapidamente diradandosi e alla sommità già si vedeva un cerchietto calvo. Era vestito con begli abiti, pantaloni scuri, camicia bianca dalle maniche corte e cravatta a righe. Però il nodo della cravatta era storto e un bottone della camicia slacciato. Evan pensò che forse l'uomo si lasciasse vestire come uno di quei manichini, nei grandi magazzini, ed ebbe la rapidissima visione della signora Demargeon che abbigliava il marito: infilando a fatica i pantaloni nelle gambe paralizzate, tirandoli su e allacciandoli attorno alla vita paralizzata. Dio, che cosa terribile doveva essere, pensò. Per un istante immaginò Kay che lo vestiva, e lui che rimaneva immobile come Harris Demargeon. Incapace di camminare e correre, incapace di fare una moltitudine di cose che normalmente sembravano scontate. Incapace di fare l'amore. Un uomo a metà. Il signor Demargeon lo guardò, come se fosse riuscito a vedere i suoi
pensieri attraverso la corazza del cranio. Gli occhi grigi indugiarono solo un secondo e poi si distolsero. Evan non era riuscito a dirgli nulla. E comunque il signor Demargeon sembrava un tipo silenzioso, molto riservato al confronto della personalità della moglie. Tuttavia si trattava di una sorta di riserbo amichevole, e aveva risposto prontamente alle domande di Evan sugli altri abitanti del viale. Però Evan sentiva qualcosa, in quell'uomo, che ancora non era riuscito a definire. Esitazione? Distacco? L'uomo sorrideva raramente, ma quando lo faceva tornavano a formarsi attorno alla sua bocca rughe d'espressione che dovevano esserci state anni addietro, segno evidente di momenti più felici. Per qualche motivo vedere questo disturbò Evan più delle altre cose. Avevano cenato con i Demargeon e Kay aveva portato insalata di patate e un dolce di gelatina di fragole, con fettine di mela e arancia sospese in mezzo. La signora Demargeon era un'ospite affascinante e una buona conversatrice, e aveva dimostrato aperta ammirazione sia per la posizione di Kay al George Ross sia per il fatto che Evan avesse venduto parecchi racconti. Con Laurie era stata deliziosa e la bambina era stata al centro dell'attenzione fino a quando, dopo cena, era andata in salotto a vedere la televisione; Kay era andata a controllare qualche tempo dopo e l'aveva trovata tranquillamente addormentata sul divano. Inoltre Kay aveva notato come la loro ospite fosse una accuratissima padrona di casa: ogni cosa aveva un aspetto fresco e pulito; posate, piatti e bicchieri rilucevano e i mobili costosi che arredavano le stanze erano stati scelti con gusto e trattati con cura. Quella casa la metteva a suo agio e le faceva desiderare ancora di più di sistemare rapidamente la propria. La signora Demargeon aveva raccontato brevemente la sua vita coniugale: si erano incontrati e sposati a Filadelfia, dove lei era segretaria in uno studio legale e lui consulente di un'agenzia finanziaria chiamata MerrillO'Day. Si trattava per lei del primo matrimonio, per lui del secondo. Pochi anni dopo lui si era messo in proprio ed era riuscito a guadagnare molto bene, ma la responsabilità di un'impresa troppo vasta non gli piaceva, per cui aveva deciso di ritirarsi e dedicarsi a giocare in Borsa. Avevano stabilito di lasciare la città e su un opuscolo di vendite immobiliari avevano visto l'offerta della loro attuale casa. Dopo due visite a Bethany's Sin avevano deciso di comperarla; Harris aveva pensato che fosse un buon investimento e lei semplicemente che sarebbe stato delizioso vivere in un posto del genere. — E ora — chiese — raccontateci voi come vi siete conosciuti. — All'Università Centrale dell'Ohio — spiegò Kay. — Evan aveva una
borsa di studio in scrittura creativa e io stavo studiando per il mio master in matematica. Devo dire che fu un incontro come quello dei romanzi: un giorno ci trovammo allo stesso tavolo perché la mensa era affollatissima e chiacchierando scoprimmo di frequentare lo stesso corso facoltativo sulle civiltà primitive. E di venire entrambi dalla zona di New Concord. Così iniziammo a vederci. Non ho ancora capito che cosa ci trovasse in me, a quel tempo: ero un topo di biblioteca e inoltre timidissima. Ma in ogni caso, una cosa tirò l'altra. Dopo la laurea Evan - e qui il suo viso si oscurò leggermente, ma solo Evan se ne accorse - dovette... andare via per un paio di anni. In guerra. Quando ritornò ci sposammo. E Laurie nacque circa quattro anni più tardi. — Mise la mano su quella di Evan e la strinse. — Credo di poter dire che ne abbiamo passate un bel po', insieme. La signora Demargeon sorrise. — E chi potrebbe dire il contrario? Di questi tempi è un miracolo anche solo che una giovane coppia come voi rimanga sposata. Così tanti, troppi problemi. I soldi e tutto il resto. — La mancanza di soldi — fece Evan con spirito. Tutti scoppiarono a ridere. Poi però, guardando il signor Demargeon, quella strana sensazione di disagio, di freddo, iniziò di nuovo a insinuarsi dentro Evan. Qualcosa che stava acquattato dietro al viso dell'uomo. Dietro quegli occhi. Dentro quel cervello. Alcune parole. La signora Demargeon e Kay che lo guardavano. Evan disse — Chiedo scusa. — Che cosa stava dicendo? — Quali sono i suoi progetti? — chiese la signora Demargeon. — Intendo, adesso che siete qui a Bethany's Sin? — Sto sistemando il seminterrato per farne uno studio — rispose lui — e sto iniziando a scrivere. Ma vorrei anche cercare un lavoro fuori casa. Magari nel giornale di Johnstown. Non so ancora, non mi sono ancora guardato intorno. — C'è una rivista locale a Spangler — lo informò lei. — E anche a Barnesboro. — Magari si potrebbe farne una anche qui. — Un progetto ambizioso — disse la signora Demargeon, dando un'occhiata a Kay e poi ancora a lui. — Non è mai stato tentato prima. — È solo un'idea. Niente di più. — Si chinò leggermente verso di lei, sentendo su di sé lo sguardo del marito. — Mi piacerebbe saperne di più su Bethany's Sin e sulla gente che vive qui. — Davvero? E come mai?
Evan le spiegò l'idea di scrivere un articolo con la storia del villaggio per il Pennsylvania Progress. Lei ascoltò dimostrando grande interesse, annuendo dove occorreva. — Veramente interessante — disse quando lui ebbe finito. — E ha già iniziato la sua ricerca? — No. Pensavo di parlarne con qualcuno, prima. — Non so se davvero il villaggio abbia una storia degna di questo nome — continuò lei. — Esiste come centro autonomo solo da... uhm, una decina d'anni. Non credo che ci siano abitanti famosi o avvenimenti degni di nota, edifici storici o altre cose del genere. Se è la storia che le interessa, potrebbe andare a Saint Lawrence, alla miniera di Seldom Seen Valley. Quella è davvero... — Bethany's Sin — intervenne Evan, cercando di riportarla in tema. — Per esempio, da dove è venuto questo nome? Lei strinse gli occhi, gettò un'occhiata al marito. — Non saprei. E tu, Harris? Lui rimase a pensarci un momento. — No, non ne ho mai sentito parlare — disse alla fine. — Non è mai stato curioso di saperlo? — Evan si rivolse a lui. — Oh, certo. I primi tempi. Ma poi nessuno sembrava saperne nulla. — Strinse le spalle. — Ho concluso che fosse uno di quei nomi che non significano niente; qualcuno comincia a usarlo e questo è tutto. Evan mormorò, leggermente deluso. Aveva sperato in una storia avvincente dietro al nome del paese, in qualcosa che avesse radici in un passato misterioso, ma ora pensò che davvero poteva non esserci nulla. Aveva fatto correre troppo l'immaginazione. Non era quello che Kay gli diceva sempre? Che lui viveva sull'orlo dell'immaginazione e che un giorno o l'altro ci sarebbe caduto dentro perdendo per sempre la percezione del reale. Sì. Forse aveva davvero ragione lei. — Se le fa piacere — si offerse la signora Demargeon — potrei chiedere in giro io. Sa, cercare di scoprire se ci sono cose che lei possa utilizzare per l'articolo. Ma in generale credo proprio che Bethany's Sin sia un piccolo villaggio quieto e senza misteri. Niente più di questo. — Sorrise a Kay. — In realtà io preferisco così. Non mi piacciono la notorietà, i fatti eclatanti e cose del genere. E probabilmente la maggior parte degli abitanti la pensa come me. — Pensa allora che alcuni si potrebbero opporre a che io scriva qualcosa sul villaggio? — No, non proprio opporre, ma... forse sarebbero un po' riluttanti. Dan-
no valore soprattutto alla loro privacy, e bisogna ricordare che per questo si sono trasferiti qui: come me e Harris, per cercare un luogo lontano dalla grande città. Un luogo tranquillo, capisce, che non venga sbattuto sulle prime pagine. Evan rimase in silenzio un attimo, pensando a ciò che la donna aveva appena detto. La signora Demargeon finì il caffè e riappoggiò la tazza. Lui strinse le spalle. — Non credo che niente di ciò che potrei scrivere arriverebbe mai a rovinare la tranquillità del villaggio. Pensavo anzi che alla gente di qui farebbe piacere leggere qualcosa di Bethany's Sin su una rivista. — Be' — disse la donna — di questo non sono sicura. Ma non sto dicendo che non sia una buona idea. Al contrario. Sto solo avvertendola che potrebbe trovare delle resistenze. — Penso che farei meglio a pensare a qualcos'altro, allora — concluse Evan. — Per favore non ascolti me — disse la signora Demargeon. — Faccia come pensa sia meglio fare. Evan diede un'occhiata all'orologio e vide che erano le undici passate. — Kay — disse — penso che faremmo bene a svegliare Laurie e muoverci verso casa. Sta diventando tardi. — Ma no! — esclamò la signora Demargeon. — È ancora presto! — No, ho paura che Evan abbia ragione — fece Kay, alzandosi dal divano. — Sono un pochino stanca per stamattina: non ho mai visto così tanti studenti tutti insieme in una scuola! Svegliarono Laurie, che li seguì assonnata fino alla porta, dove salutarono i loro ospiti. Kay prese la bimba per mano e uscì sulla veranda; la signora Demargeon la seguì, invitandola a tornare per fare quattro chiacchiere e prendere un po' di verdure dall'orto. Evan stava apprestandosi a seguirla quando sentì la sedia a rotelle di Harris Demargeon avvicinarsi a lui, quasi arrivargli sui piedi. Si voltò e lo guardò. L'uomo lo stava fissando, i suoi occhi due pozze chiare che nascondevano inquietanti, terribili profondità. Evan si sentì trascinato dentro, e rabbrividì. La bocca dell'uomo tremò a sua volta, fece per aprirsi... — Harris? — La signora Demargeon, sorridendo, gettò un'occhiata oltre la soglia. — Faremmo bene a non trattenerli, sono stanchi. — Io... io sono stato molto felice della visita — disse allora lui a Evan. — Mi ha fatto piacere chiacchierare. — Grazie. Anche a me — rispose Evan. — Dovremo riprendere il di-
scorso. La signora Demargeon gli strinse la mano; aveva la pelle fredda e calli sulle dita. Il giardinaggio, pensò Evan. Nel frattempo era uscito anche lui in veranda e lì, un istante prima che lei lasciasse la stretta, si rese conto di quanto forte fosse quella donna. Gli sembrò di avere per un attimo messo la mano in una pressa, ma la stretta durò una frazione di secondo. — Ritornate a trovarci — disse lei dai gradini della casa. Dietro, la porta illuminata inquadrava Harris sulla sedia a rotelle. — Davvero, tornate presto. — Lo faremo — rispose Kay. — È stato proprio piacevole. Buona notte. — Buona notte. — E la donna scomparve oltre la soglia. La porta si chiuse, ma la lampada sulla veranda rimase accesa. Si diressero a casa. Evan scoprì che senza accorgersene aveva preso a massaggiarsi la mano. — È stata una bella serata — disse Kay mentre raggiungevano la loro porta. — Sì — rispose lui. — Davvero. — Trasse di tasca le chiavi e aprì la porta, ed entrarono nel buio. Kay accese le luci dell'atrio e del soggiorno. Laurie riusciva a malapena a tenere gli occhi aperti, così lui la prese in braccio e la portò su per le scale, in camera sua. Kay le mise il pigiama e le rimboccò le coperte, mentre Evan scendeva a spegnere le luci. Controllò che la porta d'ingresso fosse chiusa, spense la lampada dell'atrio e quella del soggiorno. E poi, in piedi nel buio, spostò le tende e guardò la strada deserta. I Demargeon avevano spento la luce della veranda e il viale era tornato buio, tranne che per il rettangolo di luce gettato dalla finestra della loro camera da letto. Rimase a guardare a lungo, senza vedere nulla, finché gli occhi gli caddero sulla forma scura che stava dall'altro lato della strada. Chi aveva detto, la signora Demargeon, che viveva laggiù? Sì certo, un vedovo. Di nome Keating. Adesso era in vacanza, aveva detto lei. Dove andranno in vacanza i vedovi? si chiese Evan. A visitare luoghi dove memorie felici li attendevano con le loro spine gentili? Luoghi dove erano stati con la moglie? Evan era incuriosito da quell'uomo e aspettava di conoscerlo. Si chiese quanto tempo sarebbe rimasto in vacanza. Scorse il lampo bianco di una lampada, a una finestra poche case più in là. No, non si trattava di una lampada, ma della sfera argentea della luna, che guardava il villaggio con occhi benevolenti e si rifletteva sul vetro. Si passò una mano sopra le nocche dell'altra, con gesto inconscio. Bethany's Sin: quelle due parole gli vennero a galla senza che se ne ren-
desse conto, mentre fissava il disco freddo della luna. Doveva esserci un significato. La sua curiosità non poteva rinunciare. Ma di che si trattava? Di qualcosa che risaliva a dieci anni prima, quando il villaggio era diventato autonomo? O a qualcosa di anteriore, sepolto sotto la cortina fuligginosa del tempo? Decise che avrebbe dovuto scoprirlo. E mentre saliva dalla moglie che lo stava aspettando si rese conto, improvvisamente e con orrore, che aveva paura di andare a dormire. Che temeva il sonno. Perché aveva paura di quello che i suoi sogni gli avrebbero potuto mostrare. 10 NON CI SONO MODI BUONI PER MORIRE Per John Moscato la notte era come un amico. Forse il solo amico che gli fosse rimasto, dopo che il vecchio Mack Tucker e Salty Reese erano morti. O almeno, lui pensava che Mack Tucker fosse morto, dopo che aveva mancato l'ultimo appuntamento nel campo sotto i piloni della ferrovia, tre miglia a sud di Latrobe; chiedendo in giro John Moscato aveva saputo da un tizio, uno dall'aria malaticcia chiamato Wintzell, che Mack era caduto da un vagone diretto verso nord, una settimana prima, vicino a Charleston nel West Virginia. — Sì — aveva detto Wintzell, arrotolandosi una sigaretta con dita luride. — L'ho visto coi miei occhi. Era un vecchio debole, proprio. Non ce l'avrebbe fatta ancora per molto, sulla strada. — Un bagliore del fuoco acceso per cucinare gli sfiorò il viso. La pelle pareva il cuoio vecchio della borsa in cui teneva il tabacco. — Eppure saltellava e si agitava, l'ultima volta, era proprio contento: diceva che stava tornando dalle sue parti, andava a trovare i vecchi amici. Comunque, è andata così: gli è scivolato un piede. Era vicino al portellone ed è andato giù pulito, noi si era a centodieci tranquilli. E sotto i sassi, niente erba. Scattiamo tutti su e ci sporgiamo, per vedere, ma era caduto proprio in curva e poi faceva buio, troppo buio. A lungo John Moscato era rimasto in silenzio; accarezzando la lunga barba d'argento sedeva a fissare il fuoco, con le gambe incrociate. Nel campo circondato da cespugli gli altri ragazzi giocavano a carte o parlavano piano, raccontando vecchie storie o tracciando rotte ferroviarie sulla polvere. — Sicuro che si chiamasse Tucker? — John Moscato chiese fi-
nalmente. — Tucker? — Wintzell aggrottò le ciglia, concentrandosi. Poi si grattò il naso, deformato a causa di un'antica frattura mai sistemata da un medico. — Fammici pensare. Fammici pensare un attimo. Tucker, dici? Be', mi pareva che il nome di quel vecchio fosse Tuckey. O forse Tucker, ora che ci penso meglio. D'altronde non serviva chiedere una descrizione perché Mack Tucker non era mai stato uguale tutte le volte che John Moscato l'aveva visto. Una volta era arrivato con i capelli bianchi lunghi e arruffati e baffi da tricheco, la volta dopo si era rasato completamente la testa e fatto crescere un pizzetto ispido. E così non c'era modo di conoscere il destino - morto sulle rotaie? in prigione in qualche villaggio? in un campo di lavoro per vagabondi? - del vecchio Mack Tucker. Tutto quel che John Moscato poteva sapere era che l'uomo non si era presentato al solito appuntamento per la prima volta in sette anni. La cosa lo rattristava, perché ormai sapeva che sulla strada gli amici veri erano pochi e difficili da incontrare, e probabilmente nella sua vita non ne avrebbe incontrati più. Chiacchierò di strade con gli altri ragazzi raccolti intorno al fuoco; stava andando nel New England, disse, e poi probabilmente ancora più a nord, verso i laghi. — E vuoi andare a nordest partendo da qui? — chiese un tipo magro, dalla mascella prominente, che si chiamava Dan. — È così. Passando dalla Pennsylvania. — Mmm-mm. — Dan masticava un filo d'erba e sembrava esaminarlo; pareva attratto dallo zaino verde oliva dell'esercito che John portava con sé, e John prese nota mentalmente di mettersi a dormire dalla parte opposta del campo, rispetto a quest'uomo. — Farai meglio a stare attento — fece Dan piano. — Che cosa vuoi dire? — Niente di male. Stavo solo pensando a qualcosa che ho sentito una volta. Quando hai detto dove andavi mi è tornato in mente. — Girò lo sguardo sul cerchio degli uomini attenti. — Qualcuno che conosce Mike Hooker? Tommy Jessup? — Ho sentito nominare Jessup — uno di loro rispose. — Quattro dita, così era chiamato. — È lui — fece Dan, annuendo vigorosamente. — Sono passati di qui anche loro, due o tre anni fa. Stavano andandosene nel Maine. Avevano
grandi progetti. Hooker voleva andare da un suo cognato che faceva il taglialegna ed entrare nell'affare. Ero seduto proprio qui e ho parlato con loro e gli ho detto "Buona fortuna!", e poi loro sono partiti. E per Dio quella è stata l'ultima volta che qualcuno ne ha sentito parlare. — Sbirri? — chiese John Moscato. Dan strinse le spalle. — Nessuno lo sa. Dico, diavolo, è strano. Presto o tardi tu senti sempre parlare della gente che hai conosciuto, di tutti quanti. Ascolti e senti le notizie, e poi le ripeti a qualcun altro. Ma in tutto questo tempo nessuno ha mai saputo che cos'è successo a Hooker e Jessup. Solo che sono... spariti. — Lo stesso con Perkin Casey — intervenne un tipo più giovane con i capelli lunghi mentre si arrotolava una sigaretta. La chiuse, la leccò e riprese: — Un bravo compagno. Stava andando in Pennsylvania l'ultima volta che l'ho visto, forse otto mesi fa. Ho chiesto in giro, ma... — strinse le spalle e rimase zitto. I bagliori del fuoco guizzavano sui visi degli uomini intenti. Qualcuno tossì e qualcun altro toccò col piede una bottiglia mezzo sepolta nella polvere. — Sì — fece Dan. — Vi dirò io quello che ho sentito. E l'ho sentito mica da due o tre, e da tizi che non hanno paura degli sbirri. Da gente in gamba, furba. C'è un posto a nordest di qui che si ingoia noi ragazzi, tutti interi. Ecco quello che dicono, e voi potete anche ridere ma io so quel che ho sentito. Una città piccola che si chiama.. non mi ricordo, Brittany o qualcosa del genere. Si mangia i ragazzi. Vai da quelle parti e non torni più. — Non è Brittany — disse un altro, dal tronco dov'era seduto. — È un nome strano. Bostany. Bostany's Sin. Il... peccato di Bostany. — Il peccato? — John alzò le sopracciglia cespugliose. — Mi sembra di aver sentito nominare un posto del genere, da qualche parte. — Bene, allora stammi a sentire — gli disse Dan. — Se fossi in te, che voglio andare verso nord, mi terrei lontano da lì. Che tra l'altro ci sono dei poliziotti dal culo sporco che vanno a strofinarselo da quelle parti. — Ehi — fece uno degli altri — abbiamo qui delle carte bollenti che si stanno raffreddando. Voi ragazzi volete andare avanti a raccontarvi le favole o preferite una bella partita? Tutto questo ricordava John Moscato, mentre ricordava anche che la notte gli era amica. Essa lo proteggeva e lo nascondeva, e inoltre lui preferiva viaggiare col fresco, mentre gli uccelli notturni cantavano la ninnananna
dei vagabondi. La brezza di mezzanotte gli si infilava fra le vesti e il peso dello zaino - pieno di uno strano assortimento di stracci, camicie, calzini, un paio di scarpe, un berretto rosso da golf trovato sulla strada, un paio di bottiglie vuote di vin moscato - era familiare e rassicurante piuttosto che gravoso. John indossava la sua tenuta "da viaggio": pantaloni neri logori, scarpe di tela sporca, una T-shirt con la pubblicità di una marca di birra, vinta in una competizione per bevitori di birra a cui aveva partecipato un giorno in un lontano bar della California e di cui era particolarmente orgoglioso. I suoi capelli d'argento scendevano ancora folti ai lati del capo ma erano praticamente scomparsi dalla sommità; e ora anche la barba già lussureggiante cominciava a dargli dei problemi. La pettinava e lavava ogni volta che era necessario, e per adesso non aveva mai mancato di suscitare commenti ovunque fosse passato, cioè su tutta la faccia degli Stati Uniti parecchie volte e un paio di volte su quella del Messico. Mentre camminava in direzione nordest lungo una stretta strada provinciale, nel Somerset, John Moscato fissò gli occhi nell'oscurità e si chiese dove si trovasse. Aveva incrociato solo poche auto dirette a sud, nelle ultime tre ore, e non aveva visto nessun segnale stradale. Aveva una carta dentro lo zaino, dietro, ma non voleva fermarsi a cercarla. La strada si dipanava alla sua medesima andatura: questo lo sapeva per esperienza. In alto, il cielo era un mantello intessuto di stelle, alcune luminose, altre distanti, come i ricordi. La luna sembrava sospesa sopra la sua spalla destra, come per proteggerlo, e lui poteva vedere il debole profilo della propria ombra stagliarsi di fianco sull'asfalto. Da entrambi i lati si alzavano le spesse cortine degli alberi, e John Moscato vi intuiva dozzine di diversi rumori: gridi acuti di uccello, frinio di grilli, piccoli animali notturni che si muovevano fra i cespugli. I suoi stessi passi sembravano parte di quel mondo notturno, la sua ombra era come la brezza fra le fronde o il rumore degli insetti annidati nell'erba. Fra un'oretta si sarebbe fermato a cercare una radura nella foresta, per dormire, e poi, il mattino dopo, magari avrebbe trovato qualcuno disposto a separarsi da cinquanta centesimi e a indicargli il più vicino posto per mangiare. Tre passi dopo si fermò di colpo. Il cuore gli diede un balzo, incominciando a battere con furia, e gli occhi involontariamente si spalancarono. A una cinquantina di metri da lui, a lato della strada, una figura si stagliava immobile contro gli arbusti. John Moscato rimase fermo, irrigidito, stringendo gli occhi per vedere meglio nel buio. La figura non si mosse. John tentò un passo avanti. Poi un altro.
Signore Iddio — mormorò un attimo dopo — questi dannati occhi vedono doppio. — Li sfregò con le mani e poi fissò di nuovo il segnale stradale. Gli era sembrato per un attimo un essere umano, alto e magro, la cui vista gli aveva inviato un brivido gelato giù per la schiena. Ora brontolò fra sé contro la propria stupidità e si avvicinò per leggere. Cercò in tasca una scatoletta di fiammiferi e poi ne accese uno; si spense, dovette accenderne un altro per distinguere le lettere bianche: COLVER - 2, ELMORA - 7, BETHANY'S SIN - 9. Mai stato a Colver, disse tra sé; potrebbe essere una cittadina piacevole. Vedremo. Gli occhi gli caddero sull'ultimo nome. Bethany's Sin. Non ne aveva già sentito parlare? Ma sì, da qualche parte. E poi il ricordo gli tornò improvviso come il sangue alla faccia dopo tre giorni di bevute. Intorno al fuoco, nel campo dei vagabondi. Quello che aveva detto Dan. «Un posto che si ingoia noi ragazzi. Stanne alla larga. Un brutto posto.» Si passò il dorso della mano sulla bocca, sempre fissando quel nome. Il fiammifero si spense. Lo gettò via e riprese a camminare, ma un pochino più in fretta, mentre ricordava tutto ciò che aveva raccontato Dan e come gli occhi di tutti si erano fatti strani e oscuri, a quel racconto. Forse era meglio sistemarsi per la notte e riprendere il cammino domattina presto, con gli uccelli. Aveva percorso circa un altro miglio quando decise di campeggiare e lasciò la strada, spingendosi dentro un intrico di alberi e cespugli in cerca di una radura protetta. Meglio nascondere a eventuali poliziotti il fuoco del caffè. Mentre avanzava pensò a Mack Tucker. Sperava che l'uomo non fosse morto; sperava che avrebbero potuto incontrarsi, da qualche parte, ma se davvero era morto lui gli augurava ogni bene, anche nell'altro mondo. Certo che vi era entrato in un brutto modo: spaccandosi la testa sulle pietre, con il cervello che colava fuori mentre un carro merci gli cantava il lamento funebre. La sua mente si ritrasse al pensiero. Non c'erano modi buoni per morire. John Moscato diede un'occhiata dietro di sé. La strada era scomparsa, celata dal denso fogliame. Respirò l'odore verde intenso dei boschi, delle cortecce ruvide, del cielo color carbone in cui, gettati a caso, luccicavano diamanti. Si spinse più avanti dentro la foresta, sentendo i pantaloni e la maglietta impigliarsi nei cespugli spinosi. È poi si fermò; inclinò il capo di lato, in ascolto. Gli occhi gli brillavano. Aveva sentito qualcosa di strano. Qualcosa di lontano. Solo l'eco di un rumore. Ma da quale direzione provenisse non era sicuro. Il grido alto, acuto, di... certo, lo riconosceva. Di un'aquila. Un'aquila a
caccia. Ed era questa la cosa strana, pensò John Moscato, perché in quella parte del paese non c'erano aquile. E comunque le aquile non cacciavano di notte. Ascoltò di nuovo, le orecchie tese, ma il suono non si ripeté. Allora riprese ad avanzare, vagamente consapevole di avere i palmi delle mani bagnati di sudore. Pochi minuti dopo gli sembrò di sentirlo ancora, ma ormai temeva che fosse la propria immaginazione. Eppure gli era parso più vicino, alla sua destra. Avanzò verso sinistra, spingendo da parte un ramo. Una spina gli graffiò a sangue l'avambraccio. — Merda! — esclamò. Un altro grido. Era quello? All'inferno tutti i diavoli, pensò John, non lo so. Lo sento, ma non so dire da dove viene. Aveva di fronte la luna, ora, e quell'occhio bianco sembrava tenerlo sotto tiro come un faro che cerca il fuggitivo. Alzò lo sguardo e lo fissò, pensando che quella notte l'omino della luna aveva piuttosto l'aspetto di una donna. Troppo brutto quel che era capitato al povero Mack; troppo dannatamente brutto. I boschi di qui sono troppo fitti, farei bene a riportare il culo sulla strada. Eh, che ne dici, vecchio mio? Un grido nel vento della notte, più vicino, ora, molto più vicino; un attimo sopra la sua testa e poi svanito. Rabbrividì per tutto il corpo e di colpo smise di avanzare tra i cespugli. Sì. Meglio tornare sulla strada, poliziotti o non poliziotti. Adesso, subito. Si voltò, strappando la maglietta dalle spine, e a fatica cercò dì tornare da dove era venuto; gli sembrò di sentire sulla nuca il tocco della luna, caldo e leggero. Scosse le spalle. Al diavolo questi dannati boschi, pensò. Meglio rischiare la strada. Quel tale Dan era probabilmente tutto matto. Bethany's Sin. Che razza di nome per un paese era mai quello? E comunque, che diavolo sapeva di preciso quel Dan? Protese il collo, cercando di vedere il nastro familiare dell'asfalto. Una massa solida di fogliame gli stava davanti, oscura e senza forma. Fece un passo avanti. E se ne accorse troppo tardi. Non si trattava di fogliame, no. Non fogliame, ma... L'attimo seguente qualche cosa ruggì una sfida che gli sfondò i timpani e lo fece balzare indietro, in preda a un terrore gelido e assoluto. La cosa balzò in avanti, si levò, si impennò su muscolose zampe posteriori mentre quelle anteriori scalciavano in cielo; la luce lunare brillò sugli zoccoli e sugli occhi di fuoco, incassati dentro al massiccio capo triangolare.
John Moscato urlò nelle sue più intime fibre. Un cavallo. Un enorme, terribile, massiccio cavallo nero. E qualcosa di ancor più terribile che lo cavalcava. Una figura umana, che con una mano afferrava la corta criniera. Gli occhi fissi su di lui dal viso in ombra: occhi di fiamma blu elettrico che gli strapparono il grido fin dalle viscere, liberando il terrore soffocato in gola. Si girò, faticando a controllare il proprio corpo. Vide un'altra figura oscura. E poi un'altra. E un'altra ancora. Decine di figure, che stringevano il cerchio attorno a lui. Tutte con occhi come fornaci, che ora lanciavano fiamme di odio al calor bianco. Vesti fluttuanti inargentate dalla luna avvolgevano completamente i loro corpi e in quell'istante John seppe che era entrato dentro un luogo dove il tempo si era fermato e se anche fosse riuscito a rompere il cerchio e fuggire verso la strada forse non l'avrebbe trovata là, come non avrebbe trovato Colver o Elmora. C'erano forme apparentemente umane in groppa a quegli enormi cavalli neri, ma esse non erano umane. No, non più umane. Bensì incubi di malvagità inzuppati di orrore. Il piede di John urtò contro una radice d'albero; egli barcollò e cadde, sbilanciato anche dal peso dello zaino. Le bottiglie vuote tintinnarono. Lui tese le braccia con gesto implorante, in ginocchio, il viso ormai coperto di goccioline di sudore che scivolavano lungo la barba, riflettendo la luna. Il cuore gli martellava. Intorno a lui i cavalieri erano silenziosi, ma i cavalli emettevano sordi nitriti, come rombi di tuono lontano. E gli occhi, dalle palpebre immobili, gli bruciavano l'anima. Cercò la voce, la trovò dentro il suo essere più profondo. — Chi... siete? — sussurrò. — Chi siete? Essi non parlarono. Lui li sentiva respirare. — Vi prego — disse, e la voce si incrinava. — Sono solo un vecchio. Io non... voglio fare del male a nessuno. — Le braccia tese tremavano. — Non cerco guai. E fu allora che la figura dietro a John Moscato si chinò leggermente in avanti; un braccio si levò con la velocità del lampo, lasciando una traccia color blu elettrico nell'aria, il colore della forza crudele e incontrollata. John sentì una fitta calda di dolore e un tremito gli attraversò il corpo. Strinse i denti e gli sgorgarono le lacrime dagli occhi. Sentì un rumore d'acqua che scorreva. Mi sono pisciato addosso, pensò; cazzo, mi sono pisciato addosso. E invece no. Non era orina, era il sangue che sgorgava a fiotti dal moncherino dov'era prima la sua mano. L'ondata del dolore non aveva ancora raggiunto il cervello.
Un'altra figura levò l'ascia; la luna rifulse sul taglio. La lama cadde con un sibilo metallico. L'avambraccio destro di John Moscato si staccò dal gomito. Egli fissò con occhi attoniti i brandelli di carne e il bianco, spaventoso, umido bagliore dell'osso. La sua mano giaceva a terra pochi metri più in là. E fu allora, nel momento in cui il calore gli raggiunse vene e nervi e midollo incendiandoli, mentre la bocca si spalancava e gli occhi sembravano schizzargli dalle orbite, che il suo grido riempì la notte come l'urlo di un animale ferito a morte. Un'ascia ricadde. Il moncherino della spalla destra mandò fuori un fiotto di sangue denso. Una pioggia rossa schizzò i tronchi degli alberi. Il corpo di John Moscato tremò come percorso da una scossa elettrica; egli vide i loro occhi su di lui e capì che doveva alzarsi in piedi, alzarsi e correre, correre, correre e raggiungere la strada. Urlando di dolore e di orrore si rialzò, barcollò, perse di nuovo l'equilibrio, cadde contro uno dei cavalli e poi sopra un cespuglio spinoso. Quelle cose si voltarono verso di lui, alzarono le asce. Lui allora si alzò e corse per salvarsi, inciampando, gridando, gettandosi da un albero all'altro, sentendo quei passi dietro di sé, lenti, ma non lenti abbastanza. Sanguino troppo. Troppo. Oh Dio, oh Gesù benedetto, sanguino troppo mettici dentro una mano chiudi le vene oh Dio sanguino troppo Gesù aiutami sanguino, sanguino troppo!... Le figure guidavano abilmente i cavalli fra gli alberi e i cespugli; i loro volti avevano ferite di luce e ombra e le loro dita artigliavano il manico delle asce rilucenti. Lui inciampò di nuovo, fece per cadere ma si riprese. Le gambe però si stavano indebolendo, un ronzio gli cresceva nel cervello e un torpore sabbioso aumentava a ogni passo. Lo zaino pendeva da una parte, perché non c'era più braccio a trattenere la cinghia. E allora voltò la testa, il viso coperto di sudore bruciante, per vederle. Fu allora che la forma che gli era più vicina si chinò e, con un colpo senza sforzo, spiccò la testa dal corpo insanguinato dell'uomo. Essa rotolò nella notte, più volte, la barba argentea illuminata dalla luna, gli occhi spalancati che non vedevano più nulla. Il corpo barcollò, si contrasse in una folle danza e un secondo dopo ricadde in una massa di stracci insanguinati. Con grida d'aquila, di odio e di vendetta, le figure spinsero avanti i cavalli. Gli zoccoli ridussero il corpo a una gelatina rossastra. Una di loro trovò la testa e la frantumò come un recipiente di porcellana. Per almeno
dieci minuti quelle cose rimasero a urlare sui cavalli che compivano la danza di morte, e quando finirono nulla restava se non i resti di uno zaino verde dell'esercito. Con un urlo finale agghiacciante voltarono i cavalli verso nord e si immersero nella foresta, come fantasmi. A lungo, dopo che se ne furono andati, il bosco rimase silenzioso, gli animali non osarono muoversi e persino gli insetti parvero sentire la presenza divorante del Male con l'ascia brandita. Nel cielo la luna era rimasta muta testimone. Molto lentamente, iniziò a scendere all'orizzonte mentre una luce grigia saliva dall'orlo del mondo. Alcuni autocarri passarono sulla strada, diretti verso lontane città del nord, lontane epoche intere dalla foresta che circondava Bethany's Sin. E nella foresta le mosche si radunarono per un festino. 11 UN ESTRANEO CHE SBIRCIA Proprio perché la strada era stata immersa in un silenzio di tomba per tutta la mattinata, Evan sentì distintamente il rumore del tagliaerba. Stava lavorando a un racconto nel seminterrato, ora definitivamente sistemato con una fila di scaffali, che contenevano vecchie riviste e giornali, alcune pregiate prime edizioni di Hemingway e di Faulkner e una gran varietà di altri volumi. Aveva lasciato le finestre aperte per godere la brezza del mattino. Il lamento penetrante della falciatrice proveniva dall'altra parte della strada, si rese conto dopo qualche attimo di ascolto. Dalla casa di Keating. Proprio oggi, l'ultimo di giugno, si compivano due settimane esatte dal loro arrivo nella casa di McClain Terrace. Evan era riuscito a lavorare in modo regolare e il giorno prima aveva terminato un racconto breve e l'aveva spedito ad Harper's; era tuttavia pronto a una terza delusione, perché già quella stessa rivista gli aveva respinto due scritti. Non importava; lui era certo che i suoi lavori fossero buoni, era solo questione di tempo. Dal canto suo, Kay sembrava felice ora che il trimestre al George Ross era iniziato; tutte le volte che Evan percepiva in lei insicurezza e dubbi circa le proprie abilità di insegnante l'aiutava a parlarne e a superarli, e il suo cattivo umore si rasserenava. Inoltre, era contento di vedere come Laurie si fosse abituata alla nuova casa e come davvero sembrasse impaziente di andare alla Scuola del Sole ogni mattina; poi alla sera chiacchierava allegra
dei giochi che aveva fatto con gli altri bambini. Lo rendeva felice vedere sua moglie e sua figlia così contente, perché entrambe avevano dovuto percorrere una strada lunga e faticosa, che grazie a Dio ormai si poteva relegare nel passato. Avevano comperato alcuni mobili nuovi per sistemare la casa, adoperando parte dei risparmi che Evan era riuscito a mettere via con il lavoro a La Grange, e ora infine Kay progettava di ridipingere il soggiorno in color pesca pallido. Soltanto quando era solo e permetteva alla propria mente di vagare Evan sentiva la vecchia, tormentosa puntura di ragno del dubbio. Non avevano ancora conosciuto molte famiglie del villaggio, nonostante fossero stati dai Demargeon già tre volte, ed Evan incominciava a sentire, e a temere, una sorta di mancanza di accettazione nei loro confronti. Aveva tentato di parlarne a Kay, ma lei aveva riso e risposto che ci voleva tempo, era normale. Non c'è bisogno di preoccuparsi e di volere tutto subito, aveva detto; succederà al momento giusto. Alla fine l'aveva quasi convinto. Un estraneo, pensava Evan; sempre un estraneo che cerca di sbirciare dentro. È solo immaginazione, tentò di convincersi; immaginazione e nulla più. Ma lui era davvero diverso dal resto della gente, perché a volte vedeva cose che gli altri non vedevano; e gli altri questo lo sentivano, e lo respingevano. Ecco perché aveva sempre avuto difficoltà a farsi degli amici e a fidarsi della gente. Per tutte queste ragioni Evan aveva messo da parte, per ora, il progetto della ricerca su Bethany's Sin; la signora Demargeon era apparsa così tiepida nel proprio incoraggiamento che lui aveva avuto paura di suscitare disapprovazione nel resto del villaggio. Paura: ecco la parola chiave, l'emozione centrale. Paura di molte cose, alcune che rilucevano nella luce, altre che si appiattivano nell'oscurità. Paura del fallimento e dell'odio e della violenza e... sì, anche della seconda vista che stava dietro ai suoi occhi. Dopo quella prima notte a Bethany's Sin non aveva più avuto sogni, ma l'intensità, la realtà di quel primo lo perseguitavano ancora. Con la mente vedeva le lettere dipinte sul segnale stradale: BETHANY'S SIN. E dietro, qualcosa che si avvicinava, dentro un turbine di polvere. Non aveva idea di che cosa fosse, ma il solo ricordo gli attanagliava dolorosamente i nervi. Aveva tentato di dimenticare, dicendosi che quel sogno era stato causato dall'ansia o dalla stanchezza o da qualcosa del genere, ma invece di cancellarlo aveva solo scavato una tomba, da cui quell'incubo a volte riemergeva senza preavviso, portando con sé odore di morte e terrori oscuri. Ma c'erano anche altre cose che lo disturbavano, e non tutte collegabili
al mondo dei sogni. Un giorno era uscito di casa e aveva camminato per le strade del villaggio, mosso solo dalla curiosità; aveva ammirato i fiori del Cerchio, guardato i giocatori di tennis sui campi che fiancheggiavano il viale dei Cervi, ascoltato la voce lieve del vento fra le cime degli alberi. E poi, mentre si spingeva nel cuore del villaggio, si era ritrovato all'angolo di Cowlington, improvvisamente agghiacciato. Davanti a lui un'ombra si allungava sul terreno, una cosa dagli angoli acuti e dalla massa enorme; dietro la cancellata di ferro dalle lance acuminate stava quella casa di pietra scura il cui tetto aveva visto da McClain Terrace. Le finestre riflettevano il bagliore accecante del sole, come occhi arroventati al calor bianco, dalle pupille arancioni. Dalla strada alla porta d'ingresso c'era un vialetto lastricato, affiancato da due siepi basse e squadrate, mentre invece lungo la facciata i cespugli crescevano folti e selvaggi. I prati intorno erano verdi, in leggera pendenza, con alberi di querce piantati a intervalli regolari, che gettavano sull'erba un mosaico di ombre. Nulla si muoveva attorno alla casa, e nulla Evan riusciva a scorgere dietro le finestre. Stava osservandola da qualche minuto quando improvvisamente sentì un brivido gelido, nonostante fosse in piedi in pieno sole. Il sangue gli pulsava e la fronte si era coperta di un velo di sudore. Si voltò in fretta e si allontanò, lasciandosi alle spalle quel luogo. Perché avesse provato quell'ondata improvvisa di paura non sapeva spiegarselo. E poi c'erano altre cose: l'ombra di una figura con un braccio solo, qualcosa che era passato velocemente davanti alla finestra della sua stanza perdendosi in fondo alla via, l'abbaiare dei cani nel cuore della notte. Gli occhi perseguitati di Harris Demargeon. Immaginazione ? Nulla è reale se non ciò che si percepisce, disse Evan a se stesso, mentre ascoltava il rumore insistente di quel tagliaerba. Ma è davvero reale quello che io percepisco? Dubbi tormentosi generati da vecchie insicurezze e paure? O invece qualcosa di molto diverso? Kay non voleva sentire; non c'era bisogno di caricare addosso a lei le cose che si annidavano nel suo animo; ma fossero queste ultime immaginarie oppure reali, ebbene, stavano iniziando a gridare. Ed ora avevano preso la voce di un tagliaerba. Evan si alzò, salì le scale del seminterrato e uscì sulla soglia, a guardare oltre la strada la casa di Keating. Keating sembrava più giovane di quanto si fosse aspettato; indossava je-
ans scoloriti e una maglietta macchiata di sudore e, mentre lui lo guardava, si fermò un attimo ad asciugarsi la fronte con un fazzoletto bianco. Sul vialetto d'ingresso c'era una macchina furgonata dall'aria vissuta, piuttosto ammaccata e di colore incerto, senza paraurti posteriore. Anche questo non era il tipo di vettura che lui avrebbe associato alla descrizione del vedovo. Si chiuse la porta alle spalle e attraversò la strada, rimanendo sul marciapiede a guardare l'uomo che lavorava. Keating portava un paio di occhiali tenuti insieme, sul naso, da nastro adesivo. Quando alzò gli occhi vide Evan e lo salutò con un cenno di capo. — Giornata calda per un lavoro del genere — Evan alzò la voce oltre il rumore della macchina. L'uomo lo guardò, strizzò gli occhi e poi scosse la testa, perché non aveva sentito. Si abbassò e spense il motore; il silenzio invase di nuovo la strada. — Che cosa diceva? — chiese. — Dicevo che fa caldo, oggi, per fare un lavoro del genere. Keating si passò l'avambraccio sulla fronte. — Fa più caldo che all'inferno — disse. — Ma all'ombra si resiste. Evan fece un passo avanti. — Sono Evan Reid — si presentò. — Abito nella casa di fronte. È lei il signor Keating? — Keating? — ripeté l'uomo incerto, poi vide la cassetta della posta su cui si leggeva KEA e il resto delle lettere era caduto. — Oh, no, non sono io Keating. Mi chiamo Neely Ames. — Capisco — fece Evan, che in realtà non capiva. Guardò oltre il prato la bella casetta a due piani e la vide chiusa e apparentemente deserta. — Suppongo che non sia ancora tornato dalle vacanze, allora. — Penso anch'io — fece Neely. Tolse un pacchetto di sigarette dalla tasca e ne accese una con un accendino di metallo ammaccato. — È un parente o un amico, che si prende cura della casa in sua assenza? — No. Io lavoro per il villaggio. Faccio quello che mi ordinano di fare, e oggi eccomi qui. Evan sorrise. — Avevo notato che l'erba stava diventando alta, ma non avrei mai pensato che il villaggio mandasse qualcuno a tagliarla. — Non c'è da meravigliarsi — disse Evan sopra il fumo della sigaretta. — Nelle due ultime settimane ho fatto praticamente di tutto; stanno facendomi sputare l'anima. Evan si avvicinò alla casa. Salì i gradini dell'ingresso, mentre l'altro lo guardava, e gettò un'occhiata attraverso il vetro. Vide un normalissimo
soggiorno, con poltrone, un divano scuro, lampade, un tavolino. Sul tavolino stavano alcune riviste: Sport e motori, Time, Newsweek. E poi vide due mosche che giravano in tondo vicino al soffitto; esse caddero sul tavolino e si mossero faticosamente sulla copertina di Sport e motori. — Non c'è nessuno in casa — disse Neely. — Sì, ho visto. Peccato. — Si girò di nuovo verso l'uomo e di colpo si immobilizzò. Lontano nel cielo, vicino all'orizzonte, si alzava una colonna di fumo. — È scoppiato un incendio laggiù! — esclamò, indicando col braccio. Neely guardò, ma quasi subito scosse la testa. — È la discarica, un paio di miglia oltre la foresta. O meglio, un avvallamento che il villaggio utilizza come discarica, andando a bruciarvi i rifiuti. — Ma non si rischia l'incendio? — Credo di no. È una specie di cratere lunare, terriccio e sassi. Ma se il fuoco si propagasse le dico io chi andrebbe a spegnerlo. Il sottoscritto, con una vanga da giardino oppure a mani nude, perché tra le altre cose dovrei assicurare l'intero servizio antincendio della comunità. Evan lo fissò e sorrise. — Non è il massimo, eh? — L'altro annuì vigorosamente. — Ero impaziente di conoscere la persona che vive qui — riprese Evan. — Ho come l'impressione che chiunque ci abitasse se ne sia andato. — Perché? — Sono andato sul retro per bere dal rubinetto. La porta del seminterrato è aperta. Anzi, praticamente spalancata. Come se la casa fosse disabitata. — Non sarebbe meglio dirlo allo sceriffo? — Sono entrato — continuò Neely — sono arrivato nell'ingresso, al telefono. Ho chiamato lo sceriffo perché pensavo che qualcuno avesse scassinato la porta, magari per rubare qualcosa. In ogni caso, lui mi ha detto di non preoccuparmi, che se ne sarebbe occupato. E poi mi ha fatto una scenata per essere entrato. Evan socchiuse leggermente gli occhi, girando di nuovo il capo verso la casa. — Strano — disse sottovoce. — Ci sono i mobili, dentro — gli disse Neely — ma niente di più. Gli armadi sono aperti e vuoti. E un'altra cosa: non c'è nemmeno un fusibile dentro la scatola. Evan lo guardò. — Nemmeno un ...fusibile? — ripeté, quasi a se stesso. Neely strinse le spalle. — Non so. Forse... come si chiama? Keating... forse Keating ha deciso di andarsene e se n'è andato, in quattro e quattr'ot-
to. Un mucchio di gente lo fa. — Ma perché avrebbe dovuto? — chiese Evan, voltandosi a fissare lungo la strada le altre case. In cielo, la macchia di fumo sembrava più vicina. Ma era un'altra la domanda che gli premeva: perché qualcuno avrebbe dovuto desiderare di lasciare il perfetto villaggio di Bethany's Sin? — Chi lo sa — fece Neely, guardandolo. Tirò un'ultima boccata e disse — Bene, se adesso vuole scusarmi farei bene a finire questo prato. — Tirò un paio di volte la corda e il motore tossicchiò, accendendosi; poi si diresse verso il lembo di prato che ancora restava da tagliare, pensando a quanto gli sarebbe sembrata buona una birra dopo quel dannato lavoro. Evan rimase fermo ancora un momento; con la coda dell'occhio ebbe la rapida visione di un tetto alto, che subito sparì dietro le fronde mosse dal vento. Il museo. Si voltò, riattraversò la strada e scomparve dentro la propria casa. Dopo che se ne fu andato, Neely Ames alzò gli occhi nella sua direzione. Come si chiamava quell'uomo? Reid? Sembrava a posto, mille volte meglio della maggior parte della gente che aveva incontrato finora. Per lo meno non l'aveva guardato con quella specie di disprezzo di cui gli altri lo gratificavano. Fece ruotare il tagliaerba, aprendo un sentiero fra le erbacce che arrivavano al ginocchio. Non aveva raccontato tutto a Evan Reid, gli aveva taciuto una delle cose che aveva visto là dentro: una grande macchia scura sul pavimento del seminterrato, proprio accanto alla scatola vuota dei fusibili. Questo aveva deciso di tenerlo per sé. Si asciugò il sudore e riprese il lavoro di buona lena. Il giorno stava rinfrescandosi nella sera. Il rumore del tagliaerba si arrestò e lentamente le ombre lunghe del tramonto si distesero sulla lontana foresta, avvicinandosi pian piano a Bethany's Sin. Evan le guardava arrivare dalla finestra del salotto mentre Kay stava preparando la cena in cucina, e Laurie rideva alle comiche in televisione. Gli sembrava che laggiù si stesse raccogliendo una marea di oscurità, la cui onda si alzava, acquistava forme terribili e forza immane, rotolava attraverso i boschi invadendo la terra e si avvicinava, sempre di più, sempre di più. Si strappò dalla finestra e andò ad aiutare Kay. — ...alcuni ragazzi davvero bravi — stava dicendo Kay. — Mi chiedono cose a cui a volte è difficile rispondere. Ma, accidenti, è bello. Essere messa alla prova in questo modo è... be', è una delle cose che danno più soddisfazione al mondo. — Sono contento — disse lui, continuando a far cadere i cubetti di
ghiaccio dentro alla caraffa di tè freddo. — Sembra molto interessante. — Lo è. Sai, mi piacerebbe molto se tu potessi venire per pranzare insieme, una volta. Mi piacerebbe farti vedere il posto e presentarti agli altri insegnanti. Lui annuì. — Sarebbe bello. Magari un giorno della prossima settimana. — Giovedì andrebbe bene — disse Kay. Rimescolò il riso, con l'orecchio teso al silenzio di lui. L'aveva trovato così silenzioso fin dal loro rientro in casa, e dapprima aveva pensato che avesse trovato un racconto respinto nella posta; ma tutta la posta si limitava a una bolletta elettrica e a un catalogo di vendita a distanza. Spesso lui era silenzioso quando il lavoro non andava bene, quando in un racconto non riusciva a risolvere un personaggio o una situazione. Ma adesso era diverso. Adesso era come... sì, come il mattino dopo uno di quei sogni che usava fare. Oh Dio, no, ti prego. — Non ti senti bene? — gli chiese infine, guardando dentro la pentola del riso. E lui udì la trepidazione nella sua voce. La paura di quel che poteva arrivare. Disse — Credo di essere un po' stanco. — Problemi con il racconto? — Sì. — Qualcosa che posso fare per aiutarti? — No — disse lui. — Temo di no. Ma naturalmente lei sapeva che non si trattava di quello. — Sono andato dall'altra parte della strada, oggi — disse. — Alla casa di Keating. Ti ricordi, il vedovo di cui ci ha parlato la signora Demargeon? C'era un ragazzo nel prato, che tagliava l'erba. Ha detto di aver trovato la porta sul retro aperta, la serratura rotta. Ha detto che gli sembrava una casa disabitata. — Chi era? — Uno stipendiato dal villaggio. Un lavorante tuttofare. — Guardò fuori dalla finestra di cucina, vide scuro. Il buio che avanzava, le nubi come grossi ragni. — Ho guardato anch'io da una finestra, e... — Dillo. Devi dirlo, non puoi tenerlo dentro, altrimenti la tua anima incomincerà a gridare. — Non mi è piaciuto quello che ho visto. — Che cos'hai visto? Strinse le spalle. — Mobili, riviste. Mosche. — Mosche? — Lei lo guardò con aria interrogativa. — Due mosche — fece Evan. — Che volavano in cerchio nel soggiorno.
Non so perché, ma è una cosa che mi turba. — Oh, avanti — esclamò Kay, tentando di metterla sul leggero. — Perché una cosa del genere dovrebbe preoccuparti? Evan sapeva perché, ma non glielo avrebbe detto. Perché aveva visto molti, moltissimi cadaveri in guerra. E tutti erano coperti di mosche, che succhiavano avide. Attorno alle labbra atrocemente sorridenti di quelle maschere di morte, attorno ai buchi delle pallottole e alle arterie strappate. Da allora, aveva sempre associato le mosche con la morte, proprio come associava i ragni al male. Al male assoluto e strisciante. Sedettero a cena. Evan sentiva l'oscurità respirare dietro ai vetri. — Sai papà, oggi abbiamo guardato i cartoni animati — disse Laurie. — Ci siamo divertiti. E la signora Omartian ci ha raccontato le storie. — Omarian — la corresse Kay. — Che genere di storie? — le chiese Evan tra una forchettata e l'altra di stufato di manzo. Lei fece spallucce. — Storie belle. Di cose vecchie. — Cose vecchie, eh? Per esempio? La bambina si fermò un attimo, raccogliendo i pensieri. La signora Omarian era una signora così simpatica; non gridava mai e non si arrabbiava mai, non importa che cosa facessero, magari andare sull'altalena troppo forte o ridere ad alta voce o gettare i sassi. L'unica volta che l'aveva vista davvero preoccupata era quando Patty Foster era caduta e si era tagliata il ginocchio proprio tanto. — Di un posto vecchio — rispose Laurie a suo padre. — Più bello ancora di Oz. — Dovrò venire anch'io a conoscere questa signora Omarian — disse Evan, dando un'occhiata a Kay. — Mi piacerebbe sentire queste storie. Sorrise a Laurie e continuò a mangiare. Quando la cena fu terminata Kay ed Evan rigovernarono, e poi Kay si accomodò in salotto con una pila di testi di matematica che aveva portato a casa dalla biblioteca del George Ross. Evan fece una partita a carte con Laurie al tavolo di cucina, ma la sua mente continuava a vagare. Continuava a pensare all'oscurità che li stringeva da tutte le parti e alla luna che in quel momento stava brillando sulle finestre di quell'edificio minaccioso in Cowlington Street. E quando Laurie fu a letto, addormentata, e le luci tutte spente Evan e Kay fecero l'amore nella loro tranquilla camera da letto, abbracciandosi e poi ricadendo esausti e abbracciandosi di nuovo. Kay respirava forte sotto di lui e gli circondava con le braccia la schiena e le spalle; ma persino nel
calore di quel rilassamento, quando sull'orlo del sonno erano avvinghiati l'uno all'altra, la mente di Evan si staccò e iniziò a percorrere i corridoi del passato. Eric. Lo spezzarsi di un ramo fradicio, in alto. Un corpo che cadeva, colpendo con suono sordo la terra dorata. E corvi che si alzavano in cielo, presentendo la morte. Ed Evan, il piccolo Evan, che aveva visto in sogno il fratello cercare un appiglio nel vuoto ma non aveva riconosciuto la premonizione, si chinava sopra di lui e vedeva un filo di sangue uscire da entrambi i lati della bocca, vedeva quel piccolo petto alzarsi nella ricerca disperata di aria. Eric aveva fatto come per afferrargli il braccio, ma Evan aveva gridato: «Corro a chiamare papà, corro in fretta, arriviamo subito, corro!». E poi era scappato, inciampando e gridando, verso la piccola casa sul fianco della collina, chiamando mamma e papà perché Eric si era fatto male, era caduto dall'albero e ora stava per terra come un pupazzo di carnevale, rotto. Li aveva guidati lungo il sentiero, con la paura, una immensa paura di portarli nel posto sbagliato, la paura di non ritrovare il posto giusto, la paura... E quando erano arrivati là gli occhi di Eric erano immobili, come di vetro, fissi sul disco accecante del sole, e le mosche stavano già succhiando il sangue raccolto attorno alla bocca del bambino, come acqua sgorgata da una purpurea fontana. La mente di Evan inciampava correndo in quel labirinto. Visi che guardavano attraverso sbarre di bambù. Evan, debole e stordito, che lottava contro due sentinelle vestite di scuro con tutta la forza rimastagli in corpo. Che stringeva un coltello e colpiva, una di loro cercava di dargli un colpo con il calcio del fucile, l'altra cadeva indietro mentre il liquido schizzava dalla giugulare tranciata. Il rumore di grida e passi, altre sentinelle che arrivavano correndo dalla capanna camuffata nella giungla, le loro ombre che convergevano sulle gabbie di bambù. Evan che afferrava il fucile per la canna, lo deviava di lato, affondava il coltello nel petto, fino ai polmoni. Gettava il cong da una parte, si voltava verso le gabbie dove gli uomini impazziti balbettavano e schiumavano saliva. Fuoco di mitragliatrice, pallottole che rimbalzavano a terra tra Evan e le gabbie. Una fiammata rovente che gli attraversava la spalla sinistra mentre la pallottola usciva sibilando. E poi lui aveva voltato le spalle alle gabbie ed era scappato attraverso la giungla, con le guardie che lo seguivano, sparando alla sua ombra; si era tuffato nel fogliame denso ed era rimasto immobile, per ore gli era parso, finché le urla si erano spente lontano, e allora si era alza-
to dirigendosi verso il proprio campo, parecchie miglia più a sud. Aveva raccontato della cattura del loro gruppo ed era stata organizzata una missione di salvataggio. Lui aveva condotto gli uomini indietro, attraverso la giungla, affidandosi alla memoria e all'istinto, e il giorno seguente avevano ritrovato il campo cong. Ma rimanevano solo morti. I suoi compagni erano stati giustiziati dentro le gabbie, i corpi erano forati da decine di pallottole; l'odore greve della morte stagnava nell'aria come una nebbia scura. E le mosche erano già arrivate a frotte, come antiche armate sempre vittoriose. E fu allora che Evan capì. Sì, esisteva qualcosa come l'Artiglio del Male che strisciava sopra il mondo, come un ragno, stillando veleno. Alla ricerca di corpi e di anime. Due volte Evan era stato in sua presenza ed era riuscito a sfuggire, e due volte quella cosa terribile aveva preso le vite di altri invece della sua. Ma qualunque cosa essa fosse, aspettava, e guardava, e respirava il respiro della notte. Perché un giorno sarebbe tornata per lui. Aprì gli occhi, strinse Kay contro di sé e la baciò sulla fronte. Lei sorrise nel sonno, e allora lui lasciò che la sua mente cadesse oltre quell'orlo. Dentro un terribile, familiare luogo dove lo spettacolo stava per incominciare e a lui non era permesso arrivare in ritardo. Perché loro avevano qualcosa da mostrargli. Un segnale stradale, circondato da un alone di fiamma: BETHANY'S SIN. Immagini del villaggio: graziose casette in fila, olmi verdeggianti, il Cerchio. E quella casa: il museo in Cowlington Street. La porta che si apriva, la paura che gli pulsava dentro l'anima. Un improvviso vortice di polvere, l'oscurità che cadeva, il freddo che gli faceva dolere le ossa. E poi quel movimento nella polvere, una figura drappeggiata di ombre che piano veniva sempre più vicino, camminando silenziosa e trattenendo nelle proprie spire una forza terribile. Lui voleva gridare ma non poteva; voleva correre via ma non ci riusciva. E ora la figura apriva le cortine di polvere, allungava la mano verso di lui, cercava di afferrargli la gola. E allora Evan riusciva a vedere gli occhi di quel viso oscuro e incombente. Color blu elettrico, stillanti una forza minacciosa che desiderava solo farlo a pezzi. Fissi. Sotto di loro, labbra che si aprivano in un ghigno d'odio, mostrando denti scintillanti. Evan urlò, sentì il proprio urlo lacerargli la gola; lottò per uscirne, men-
tre Kay al suo fianco ripeteva mio Dio mio Dio di nuovo no no ti prego non di nuovo no Evannn... — Okay... — riuscì a mormorare infine lui, tentando di calmare il tremito. Si sentì bagnato e viscido, freddo e solo. — Non preoccuparti. Sto bene. Davvero, sto bene. — Dio del cielo! — disse lei, e in quel momento lui si rese conto che Kay si era allontanata e non lo stava toccando. La guardò negli occhi e li vide spalancati e pieni di paura. Allora si passò una mano sul viso e scosse la testa. — Torna a dormire. Lei lo fissava in silenzio, come se stesse fissando un malato allo stadio terminale: tristezza mista a paura. — Ho detto di tornare a dormire — disse Evan, ma il suo sguardo sembrò aprirle un buco nel cervello. Lei rabbrividì fin dentro l'anima per l'espressione dei suoi occhi. Aveva visto qualcosa di simile già una volta, quando lui si era svegliato e le aveva detto che ci sarebbe stato un incidente dove loro sarebbero stati feriti, un autoarticolato rosso con la scritta ALLEN LINES avrebbe rotto i freni e tagliato una curva, piombando su di loro. Però adesso era ancor peggio, e questo la spaventava fin nel profondo del suo essere. I suoi occhi erano vuoti e stregati, accesi di un fuoco interno che combatteva contro il freddo terribile che gli aveva afferrato l'anima. — Torna a dormire — sussurrò Evan. Lei fece per parlare, si trattenne e posò la testa sul guanciale. Attraverso la finestra scorse la luna e in quell'istante le sembrò di vederla... sogghignare. — Mio Dio — disse piano Evan. — Oh mio Dio. — Si distese, con il cuore che ancora martellava in petto. Era inutile aspettare il sonno; per quella notte era finito, l'aveva toccato e poi abbandonato come un rottame inutilizzabile. Gettò di lato le lenzuola e lasciò che l'aria fresca gli asciugasse il sudore; al suo fianco Kay si mosse, ma non lo toccò né osò parlare. Quegli occhi gli bruciavano nel cervello; quando chiudeva i propri tornava a vederli, orbite di fuoco che gli erano entrate nella testa. Ora, grazie a questo secondo sogno, aveva capito. E aveva paura di quella nuova, terribile consapevolezza. Qualcosa, nel pacifico villaggio di Bethany's Sin, stava dandogli la caccia. E si avvicinava.
Mentre Kay ed Evan giacevano distesi l'uno di fianco all'altra, come due estranei impauriti, giugno scivolò dentro luglio. PARTE TERZA LUGLIO 12 UNA NOTTE SULLA STRADA DI KING'S BRIDGE — Tesoro, stiamo chiudendo — disse la donna dai capelli biondo platino. Neely Ames le gettò un'occhiata da sopra gli occhiali e annuì; lei si voltò, allontanandosi dal tavolo e tornando verso il bancone. La luce scintillava sul vetro color ambra di quattro bottigliette di birra vuote, messe una sull'altra a formare una precaria piramide; un'altra bottiglia, mezza piena, stava per terra di fianco alla sedia. Neely osservò la donna - come aveva detto di chiamarsi? Ginger? - andare dietro il banco ed estrarre il denaro dalla cassa, per contarlo. Allora pizzicò le corde della vecchia Gibson, la chitarra a dodici corde, che teneva in grembo, e la donna alzò gli occhi e gli sorrise. Poi riprese a contare mentre Vic, il gestore del bar, un uomo robusto dalla barba rossiccia e dal ventre prominente, si mise ad asciugare bicchieri e ad ascoltare a sua volta il giovane che suonava. Erano vecchie canzoni, ma naturalmente né Ginger né Vic potevano conoscerle, perché Neely le aveva scritte lui stesso. Alcune avevano anche le parole, altre no; alcune erano canzoni complete, altre solo frammenti; ma ciascuna a modo suo era speciale, perché ciascuna nasceva da un particolare evento o sentimento nella sua vita, da qualcosa che gli era bruciato dentro a lungo prima di uscire sotto forma di canzone. Ogni volta con molto dolore e un po' di confusione, passandogli fra le dita per arrivare a prender voce dalle corde della chitarra. E siccome era bravo a far tutto questo, aveva lasciato la sua casa nel Nebraska, anni prima, per unirsi a un gruppo di musicanti chiamati I Girovaghi di Mezzanotte; ma il complesso non aveva sfondato, e alla fine si erano separati. Poi, per un po' di tempo, era riuscito a guadagnare qualcosa suonando nei club e in locali di passaggio, come questo; però non conosceva tutte le ultime canzoni, quelle popolari fra la gente, e comunque gli avventori sembravano più interessati a bere che ad ascoltare. La maggior parte delle volte, quando andava a proporsi ai gestori dei club facendo loro ascoltare qualcosa, questi si stringevano nelle spalle
e dicevano mi dispiace, ma questo tipo di musica e la chitarra non vanno più, al giorno d'oggi. E certamente era vero, ma lui aveva deciso fin dall'inizio che avrebbe suonato le sue cose e nient'altro; per questo suo voto aveva pagato, accettando tutta una serie di lavori disparati, come quello che stava facendo adesso a Bethany's Sin. Che comunque gli fruttavano un po' di soldi, per cui non doveva lamentarsi. Qualche volta, quando sedeva in un bar mentre le luci si andavano spegnendo, con il portacenere colmo di cicche di fronte a sé e una fila di bottiglie vuote allineate come amici arrivati e poi andati via, gli succedeva una cosa: il ricordo di una voce, un respiro, un gusto, un odore facevano scivolare indietro la sua mente. Attraverso gli anni, attraverso la vita. Ricordava suo padre, un uomo affascinante con i capelli a spazzola e il gusto per le camicie rosse alla cow-boy, che suonava la chitarra in un gruppo chiamato Note Sincere; da lui Neely aveva imparato la musica e il dolore. Suo padre era stato un alcolista, un uomo che beveva tutta la sera e poi urlava alla luna come un cane ferito; sua madre, una donna intelligente e piena di grazia, figlia di un pastore protestante, divenne a sua volta una bevitrice sull'orlo dell'alcolismo, e insieme predicatrice di una congrega religiosa, e distribuiva opuscoli sulla pietà salvatrice del Cristo. Neely la ricordava pregare di fianco al suo uomo che giaceva con il capo dentro una pozza di vomito. Ma poi anche sua madre aveva ceduto, arrendendosi di fronte all'impresa impossibile di salvarlo e scivolando nel baratro al suo fianco. Il loro era stato vero amore. Ed ora Neely trovava che a volte il bere favoriva i suoi impulsi creativi: non era un alcolista, non era legato alla bottiglia, ma Dio sapeva quanto questo lo aiutasse a rendere accettabili i cattivi ricordi, a navigare lungo notti solitàrie, e soprattutto a dimenticare il giorno in cui la zia e lo zio erano venuti a prenderlo e a far rinchiudere suo padre e sua madre in uno di quegli ospedali dalle pareti bianche, dove gli occhi delle persone sembravano fori trapanati nel cervello. Era cresciuto in fretta, grazie alle lezioni che nessuna scuola avrebbe saputo offrirgli. Qualche volta, quando beveva whisky puro, il che non succedeva spesso, pensava di scorgere la stessa visione che suo padre doveva aver scorto: la vita vera che incominciava domani, in fondo alla strada, oltre la prossima curva. La vita vera che stava aspettando più avanti. Dopo alcuni minuti Neely afferrò la chitarra per il manico e si alzò. Le bottiglie di birra ondeggiarono, riflettendo la luce come in una danza. Ginger gli sorrise di nuovo e lui si chiese che cosa sarebbe successo se le a-
vesse chiesto di andare a casa con lui. Era probabilmente di dieci anni più vecchia, ma che importava? No, no. Meglio di no. Probabilmente era la moglie del gestore; aveva visto Vic metterle un braccio attorno alla vita un paio di volte, quella sera. La guardò ancora un momento e poi si mosse verso la porta. — Ehi — fece Vic — va tutto bene? Annuì. — Sì. — Devi andare lontano? — Bethany's Sin — rispose Neely. — Lavoro laggiù. — Sentiva la lingua un po' impastata, ma niente di più. — Bene — ribatté Vic. — Vacci piano con la macchina. — Grazie. Lo farò. — Buona notte — disse Ginger. — Mi piace come suoni la chitarra. Neely le sorrise e poi oltrepassò la soglia, camminando nel riverbero rosso dell'insegna che diceva IL CANTO DEL GALLO; sopra l'insegna il neon delineava il profilo del volatile. Il suo furgone e una Chevrolet familiare erano le uniche auto rimaste nel parcheggio illuminato dal neon. Scivolò dietro il volante, appoggiò la chitarra sul sedile di fianco, accese il motore e voltò l'auto verso Bethany's Sin. Mentre guidava diede un'occhiata all'orologio e vide che mancavano pochi minuti alle due. L'aria fresca che entrava dai finestrini abbassati gli dava un senso di leggerezza; non voleva pensare alle sei di mattina, quando Wysinger probabilmente l'avrebbe chiamato con qualche nuovo lavoro da fare. La strada di King's Bridge si distendeva davanti ai suoi fari, un nastro di asfalto liscio che era uno dei meglio tenuti di tutta la zona; lo condusse oltre Westbury Mail, immersa nell'oscurità, fino all'incrocio con la 219, poche miglia oltre il quale c'era Bethany's Sin. A quell'ora antelucana non c'erano in circolazione altre auto e solo la notte correva davanti ai fari del furgone. Si ritrovò a pensare al prato che aveva tagliato quel giorno. Chiunque abitasse là se n'era andato, su questo non c'erano dubbi. Nessun abito negli armadi, in giro solo i mobili. Tutto ciò gli dava da pensare: perché tagliare il prato di una casa abbandonata? In quelle due settimane aveva visto due altre case nelle stesse condizioni, entrambe scure e silenziose, una su via Blair e l'altra su Ashway. Certo era estate, tempo di vacanze per chi poteva permetterselo. Dopo tutto c'erano ancora i nomi sulle cassette della posta. I locali erano dei veri fanatici riguardo al tenere il villaggio immacolato, e naturalmente non c'era nulla di male in questo, ma Neely si chiese se tutto ciò non fosse esclusivamente per impressionare quelli che per caso passavano di là. O forse per attirare più famiglie dentro Bethany's Sin. Comun-
que, non erano fatti suoi. Il canto degli insetti che saliva dalla foresta gli riempiva le orecchie. Avvicinandosi a una curva Neely diminuì la velocità, meglio non rischiare di imbattersi nella polizia e cacciarsi in un mare di guai. Sicuramente gli avrebbero sentito addosso l'odore di birra, perché poteva sentirlo lui stesso. Diavolo, e invece sto bene, disse fra sé. Sto dannatamente bene. E come per sottolineare questo fatto premette leggermente sull'acceleratore, all'uscita dalla curva. Troppo tardi si accorse che c'era qualcosa sulla strada. La luce dei fari individuò forme scure in movimento. Parecchie forme. Nere. Erano animali. Egli udì una specie di brontolio sordo e si accorse allora che si trattava di cavalli; si sparpagliarono davanti al furgone, gli zoccoli lampeggianti, e un attimo dopo lui li aveva superati e affrontava un'altra curva della strada. Diede un'occhiata veloce nello specchietto, toccando i freni. Cavalli? Che diavolo ci facevano dei cavalli su quella strada nel cuore della notte? Non era riuscito a vedere chi li montava perché era passato in mezzo troppo velocemente, ma aveva avuto la fugace impressione di busti e teste che si volgevano verso di lui. I fari avevano brillato per una frazione di secondo dentro occhi spalancati, fissi e... sì, per Dio, dello stesso colore blu della elettricità che passa attraverso i cavi di una cabina ad alta tensione. Ebbe un brivido improvviso, mentre guardava nello specchietto, e il furgone rallentò, rallentò... Fino a fermarsi. Uccelli notturni lanciarono grida allontanandosi alla sua sinistra. Grilli frinirono ancora qualche secondo e poi tacquero. Oltre il raggio dei fari la strada era così buia da parere il vuoto. Guardò nello specchietto e vide il riflesso rosso delle luci posteriori del furgone. E in quel momento li vide arrivare. Ombre che si avvicinavano in quell'alone rossastro. Il sudore che brillava sui fianchi madidi degli enormi animali. I cavalieri leggermente piegati in avanti, a fendere il vento. Qualcosa che rifletteva i raggi della luna. Qualcosa di metallico. Le sue mani si strinsero involontariamente attorno al volante, il piede premette a fondo sull'acceleratore. Il furgone tossì, scoppiettò, ricominciò a muoversi riprendendo subito velocità. Ora non riusciva più a vederli ma sapeva che lo stavano seguendo e sebbene non sapesse né chi né quanti fossero il suo unico pensiero era di arrivare velocemente a Bethany's Sin. Il vecchio motore dell'auto strepita-
va e gemeva come un nonno afflitto dai reumatismi; il vento entrava dai finestrini, gettandogli i capelli negli occhi. Un attimo dopo gli parve di sentire il respiro selvaggio e aspro di quei cavalli al suo fianco. Guardò nello specchietto, non vide nulla; girò il capo sulla spalla, ancora nulla. Ma loro c'erano; lo sentiva. E si avvicinavano, sempre di più. Il motore scoppiettava e lui digrignava i denti, cercando mentalmente di spingerlo avanti. Tenendo il volante con una sola mano si piegò e alzò il finestrino dall'altra parte. Poi quello dalla sua. Sentiva l'odore del proprio sudore. Un grido si levò proprio dietro di lui: un grido alto, selvaggio, che gli fece battere il cuore di paura, e in quell'istante ebbe la percezione che su quella strada scura c'era qualcosa di vivo stillante un odio immane, vibrante. Ne poteva sentire i tentacoli che si allungavano verso di lui, come dita nere che cercavano di afferrarlo alla gola. Sui due lati della strada i profili scuri degli alberi volavano via, stagliandosi neri sul nero. L'ago del tachimetro tremava segnalando fra i centotrenta e i centoquaranta.. E di nuovo Neely udì quel grido, apparentemente lanciato proprio dietro la sua testa; il gemito in cui si spense, infernale, trapanante, gli fece raggrinzire l'anima. Quell'urlo sembrava una lama di acciaio che lo avesse attraversato. Sentì una mano stringergli lo stomaco ed ebbe un conato di nausea. Provò l'impulso di urlare di terrore e contemporaneamente di mettersi a ridere, a ridere in modo sfrenato e isterico, fino a perdere la voce, perché sapeva che tutto ciò doveva essere colpa della birra o delle sue fantasie o di qualcosa del genere; non poteva essere reale, no, non poteva accadere per davvero. Aveva spaventato un gruppo di cervi che attraversavano la strada, ecco tutto, e poi la sua immaginazione aveva preso il via. Uno sguardo nello specchietto. Nulla dietro di lui. Tutto buio. Nulla di nulla. Cervi, ormai lontani e spaventati da farsela addosso, proprio come lui. Sei ubriaco, per Dio. Un'altra curva della strada, molto stretta. Premette il piede sul freno e la velocità si ridusse immediatamente. Un movimento al suo fianco lo fece sussultare. Girò la testa per vedere. E rimase a occhi spalancati e a bocca aperta per l'orrore. Uno dei cavalieri era all'altezza del finestrino. I capelli corvini della figura svolazzavano come la criniera dell'enorme cavallo schiumante che montava. Essa era piegata in avanti, la mano sul collo muscoloso dell'animale e lo incitava al galoppo. Non aveva sella né briglie. E il viso era voltato a fissare Neely: le labbra contorte in un terribile grido di odio, i denti scintillanti al lume di luna. E gli occhi: orbite blu elettrico, emananti una forza tale da fargli letteralmente gettare indietro la testa, fin quasi a spez-
zargli il collo. Un terrore gelido gli invase il corpo ed egli dovette lottare per mantenere il controllo del volante. E un secondo dopo l'altra mano della figura comparve stringendo un oggetto di metallo, qualcosa che gli strappò un altro grido e gli fece istintivamente proteggere il viso con un braccio. Il che gli salvò gli occhi. Perché l'attimo seguente l'ascia mandò in frantumi il finestrino, riempiendo l'abitacolo di schegge di vetro. Il braccio salì e si abbatté di nuovo con forza cieca e terribile; lui sentì lo stridìo del metallo sul metallo e l'incisione nella portiera. Allora girò il volante, cercando l'acceleratore col piede ma colpendo invece il freno; il furgone incominciò a scartare, poi finì fuori strada, investì cespugli e abbatté un esile pioppo, scuotendo il giovane dentro l'abitacolo, come un dado dentro alla coppa agitata da un antico dio sorridente. Neely premette di nuovo l'acceleratore, sentì il rumore di rami che si spezzavano come ossa, sentì rompersi un vetro; uno dei fari si spense, lasciandolo nella semioscurità. Ora sentiva bene l'ansito dei cavalli e ne vedeva le figure, tutt'attorno. Quante? Dieci? Dodici? Venti? Abbracciò il volante e lo girò; il furgone lanciò un urlo, aprendosi la strada fra i cespugli come un ciclope impazzito di paura, e riconquistò la strada. Un'altra ascia colpì la portiera, lampeggiò via. Premette l'acceleratore a tavoletta; gli occhiali gli erano caduti da qualche parte, per terra, e così pure la chitarra, che continuava a emettere rumori lamentosi a ogni scossa sull'asfalto. L'indicatore del tachimetro vibrava follemente, vicino ai centoquaranta. E poi laggiù, forse a mezzo miglio di distanza, comparve la luce intermittente che segnalava la svolta verso Ashway. L'affrontò a centoquaranta, i pneumatici fischiarono in modo tale che sicuramente rimbombarono in tutta Bethany's Sin come il lamento di uno spirito all'inferno. Lanciò il furgone sulle strade deserte del villaggio, oltre le case buie, attraverso il Cerchio e verso la casa di legno a due piani dove una donna di mezza età chiamata Grace Bartlett gli affittava una stanza per venticinque dollari la settimana. Quando frenò davanti alla casa il rumore dei freni fece vibrare le finestre. Pieno di paura si guardò alle spalle, ansimando rauco, il cuore impazzito. Nessuno lo aveva seguito. Tremando si passò una mano sul viso. La nausea lo invase, incontrollabile, e riuscì appena ad aprire la portiera e a sporgersi fuori. I pezzi di vetro tintinnarono e caddero sulla strada. Gesù, disse fra sé, tentando di control-
lare i nervi; Gesù Cristo, che cosa ho visto? Il puzzo acido della birra gli salì in faccia e dovette voltare il capo. I rumori sembravano raccogliersi sopra di lui come polvere alzata dal vento. Rumori degli insetti fra gli alberi; il richiamo solitario di un uccello, verso il Cerchio; il fruscio gentile dei rami alla brezza calda; un cane che abbaiava lontano. Neely trovò gli occhiali, li inforcò e fissò gli occhi nella notte, per un momento, poi prese la chitarra e scivolò fuori dall'auto, con la testa che gli girava e le gambe di piombo. Con una mano intorpidita seguì le tracce di taglio sulla portiera, lungo il metallo che appariva sotto i diversi strati di vernice, e vide i punti dove i colpi erano caduti. Se non fosse stato per quei colpi d'ascia e i vetri rotti Neely si sarebbe convinto di aver avuto una specie di tremendo incubo, laggiù sulla strada buia, provocato dalla birra che gli aveva addormentato i sensi. E invece no. Il finestrino era in frantumi e minuscole schegge di vetro si erano conficcate nel braccio che aveva alzato a proteggere il viso. Guardò di nuovo dentro al buio, sentì un brivido lungo la schiena e una voce che gli gridava Entra in fretta in fretta in fretta! Neely voltò le spalle al furgone e corse verso la casa. Salì le scale frugandosi in tasca e infilò alla cieca la chiave dentro la serratura della propria stanza. Accese la luce, illuminando la tappezzeria che aveva un disegno a canne di bambù, marrone scuro. Dopo aver sistemato la chitarra in un angolo si avvicinò alla finestra che dava sulla strada e alzò il vetro. E rimase lì per almeno un quarto d'ora, a guardare e ascoltare che cosa, nemmeno lui lo sapeva. Ma nulla si mosse. Si passò una mano sul viso; sentì schegge di vetro sul palmo. Wysinger doveva essere informato, decise infine. Qualche cosa ha tentato di uccidermi, e io l'ho visto in faccia; ho visto quegli occhi, e so che cos'era. Qualche cosa di orribile, piena d'odio. Qualche cosa che aveva la forma di una donna. Però... no, non era umana. Non era assolutamente umana. Alla fine chiuse la finestra, si tolse le schegge dal braccio e dalla mano con un paio di pinzette e poi tentò di prendere sonno. Il sonno venne, lanciando urla acute e mulinando un'ascia da battaglia. Poco prima dell'alba un'ombra salì le scale e venne a fermarsi alla porta di Neely. Piano tentò la maniglia. Ma trovandola chiusa svanì da dove era arrivata. 13
CIÒ CHE VIDE NEELY Lo sceriffo Wysinger si chinò leggermente in avanti, stringendo gli occhietti feroci al di sopra del mozzicone spento che teneva in bocca. Dietro la scrivania c'era una rastrelliera di legno scuro e lucido e uno scaffale dove facevano bella mostra alcuni trofei calcistici. Su molti di questi la vernice dorata cominciava a venire via, mostrando di sotto un metallo grigiastro e senza valore. Lo sceriffo tolse la sigaretta di bocca e l'appoggiò sul bordo di un posacenere di plastica rossa. — Ames — disse con calma — è ancora mattino presto per questo genere di favole, non ti pare? — Quale genere di favole? — ribatté Neely, in piedi dall'altro lato della scrivania, le mani lungo i fianchi. — Storie. Racconti di fate. — Wysinger riaccese la sigaretta e tirò una lunga boccata, mandando poi il fumo fuori dalle narici come un drago. Poi la schiacciò nel posacenere. Minuscole braci rosse scintillarono prima di spegnersi. — Avanti, che genere di frottola stai cercando di rifilarmi? — Ehi! — fece Neely, alzando il braccio perché l'altro potesse vedere i tagli sulla pelle. — E guardi anche questi! — Indicò due piccole ferite che si era ritrovato sul mento, quella mattina. — E poi venga a dare un'occhiata al mio dannato furgone! — Rimase in attesa che l'altro si muovesse; vedeva la luce della stanza riflettersi sulla pelle rosea del capo di Wysinger, che appariva fra i capelli radi. Lo sceriffo rimase immobile per un momento. Infine strinse le spalle con disprezzo e alzò la propria massa dalla sedia girevole. Fuori dall'ufficio la luce del mattino aveva una tonalità perlacea, mentre un lieve manto di nebbia ancora restava sospeso a pochi centimetri da terra. Neely girò attorno al furgone e Wysinger lo seguì senza fretta. — Ecco — disse Neely, indicando i tagli e il finestrino rotto; nella luce mattutina i segni sulla carrozzeria erano chiaramente visibili. Wysinger fece un passo avanti, fece correre la mano lungo uno dei tagli. — Dove hai detto che sei stato ieri sera ? — chiese. — Sono stato al Canto del Gallo fino all'ora di chiusura — Neely spiegò di nuovo. — Mentre tornavo al villaggio mi sono trovato in mezzo a un gruppo di cavalli e cavalieri, che stavano attraversando la strada, a quanto pare; ho rallentato per vedere chi fossero e loro mi hanno aggredito. Può vedere da solo le conseguenze. — Sì, vedo. A che ora hai detto che è successo? — Circa alle due.
— Le due? — grugnì Wysinger. — Un po' troppo tardi perché la gente se ne vada a cavallo in una strada di campagna. Quanti erano? — Non lo so. Non sono stato a contarli, ho solo cercato di uscirne vivo! — Mmm-mm — Lo sceriffo esaminò il bordo frantumato del finestrino. Che cosa hai detto che usavano? Martelli? — No. Asce. O perlomeno uno di loro la usava. — Asce? — Wysinger voltò le spalle all'auto e fissò Neely negli occhi. — Lo sai che sembra un po' strano, vero? Neely fece un passo verso di lui, con la mascella tesa. — Adesso mi ascolti — disse, senza più preoccuparsi della posizione di Wysinger nel villaggio, senza preoccuparsi di quel dannato lavoro a cui pure teneva, senza preoccuparsi più di nulla se non di convincere quello stupido bue. — So quello che ho visto, ieri sera. Gente a cavallo che tentava di farmi la pelle. E, per Dio, uno di loro mi ha frantumato il finestrino con un'ascia. Tentando di buttarmi fuori dalla dannatissima strada! — Controlla il tuo linguaggio — disse tranquillo Wysinger, mentre un'auto passava accanto a loro. — Hanno tentato di uccidermi! — esclamò Neely, più forte di quanto avrebbe voluto. Sentì la propria voce echeggiare dentro al furgone. — Mi pare che lei non l'abbia ancora capito! — L'ho capito. Quello che non ho capito è chi fossero e perché avrebbero dovuto farti del male. Sei andato contro uno dei cavalli? E per questo che uno dei fari è rotto e la griglia è completamente squassata? — No — fece Neely scuotendo con forza la testa. — Non ho investito nessuno. È successo quando sono andato fuori strada. Wysinger sorrise leggermente, sentendo che l'aveva portato dove voleva arrivare. — Bene, adesso ragioniamo — disse, guardando l'altro uomo. — Non può darsi che tutto sia successo quando sei andato fuori strada? Eh? Non può darsi che tu abbia un po' esagerato con il bere, ieri sera, e che poi sia andato diritto dentro un fosso, rompendo il finestrino e ammaccando la portiera? E così per non farmi scoprire che stavi guidando ubriaco e che hai provocato un incidente, questa mattina ti sei inventato una bella storiella e sei corso subito a darmela da... — No — lo interruppe Neely, la voce ferma e fredda come acciaio, lo sguardo che sosteneva quello duro di Wysinger. — Non è affatto andata così. — Vuoi restare aggrappato a questa stronzata dei cavalli in mezzo alla strada? Cristo! — fece Wysinger con disprezzo. Gli girò le spalle e si av-
viò alla porta. I suoi polmoni reclamavano appassionatamente la seconda sigaretta del mattino. — Aspetti un attimo! Aspetti! — Neely fece un passo avanti, mise una mano sulla spalla di Wysinger e lo fece girare. Gli occhi dell'altro scintillarono e Neely lasciò cadere la mano. — Non le ho ancora detto tutto. Ho visto uno dei cavalieri, l'ho guardata in faccia... — Guardata? Che cosa diavolo vuoi dire con "guardata"? — Era una donna. Ma io non... non ho mai visto una donna come quella, prima d'ora. È stato come... come guardare dentro una fornace rovente. O un vulcano. Sentivo il calore uscire da quegli occhi, come se stessero aprendo due fori dentro di me. Non ho mai visto una cosa come quella in tutta la mia vita e, in nome di Cristo, spero di non vederla mai più. Wysinger rimase immobile un secondo, frugandolo con lo sguardo. Quando parlò la sua voce era dura e senza emozioni. — Va bene — disse. — Vuoi che vada a fare un giro sulla 219 per vedere, e io ci andrò. Ma ti dico una cosa. Tu non mi piaci. Non mi piacciono i dannati vagabondi che tendono la mano per avere la carità. E ancor meno mi piacciono i vagabondi che bevono fino all'alba e poi mentono per pararsi il culo. Non credo una sola parola di tutta la merda che hai spiattellato, e nessun altro ci crederà. Se riesco a provare che questa notte guidavi come un pazzo lungo la 219 con la pancia piena di birra, o ti sbatto in galera o ti butto a calci fuori dal paese! — Le palpebre spesse scesero un attimo sugli occhi. — E adesso fila al ripostiglio e prendi la falciatrice. Il cimitero è pieno di erbacce. — Senza dargli modo di rispondere gli voltò le spalle, andò a grandi passi verso la porta e scomparve. — Figlio di puttana! — esclamò Neely a mezza bocca. Ma ancor prima di uscire di casa, quel mattino, sapeva che la sua storia era strana e difficile da credere e che Wysinger gli avrebbe probabilmente riso in faccia. A colazione, nella cucina gialla della signora Bartlett, la prosperosa e materna donna lo aveva guardato preoccupata e gli aveva chiesto a che ora fosse andato a letto la sera prima. Non va bene restare in piedi fino a così tardi, gli aveva detto, mentre andava su e giù per la cucina avvolta in una vestaglia color pesca; quando il mio Willy era vivo, aveva detto, era il primo ad andare a letto e il primo ad alzarsi. Era un gran lavoratore, e una brava persona. Posso vedere dai tuoi occhi che non hai fatto una bella dormita, e invece il tuo corpo ne avrebbe bisogno. Ti senti bene? Le disse che si sentiva benissimo, ma toccò a malapena la colazione. Non le raccontò nulla di quanto gli era capitato sulla strada.
Ora scosse la testa disgustato e girò attorno all'ufficio dello sceriffo, sul retro, dove una rete metallica chiusa da un lucchetto circondava un capanno di lamiera. Adoperò una chiave per aprire la recinzione e un'altra per la porta del capanno, poi chiuse di nuovo tutto accuratamente dietro di sé, perché era direttamente responsabile degli utensili e in caso di danno glieli avrebbero fatti pagare sicuramente come nuovi. I muscoli delle braccia gli dolevano già, mentre caricava la falciatrice sul retro del furgone; poi gettò dentro anche il falcetto e avviò l'auto, dirigendosi verso la collinetta del cimitero. Sentiva calare su di sé una cappa grigia e desolata; solo, ecco come si sentiva. Completamente solo. E così forse era anche meglio, nella sua desolazione, la prospettiva di passare la maggior parte della giornata nel cimitero. Mentre Neely si allontanava in auto Oren Wysinger lasciò cadere le tende della finestra. Tirò il chiavistello della porta, andò dietro la scrivania e prese una chiave dal cassetto di mezzo. Poi si avvicinò allo schedario, dall'altro lato dell'ufficio, e si inginocchiò ad aprire con la chiave il cassetto più basso. In fondo, sepolto sotto risme di carta da macchina per scrivere, c'era un libro marrone grande quanto un album fotografico. Wysinger lo prese, lo portò sulla scrivania e accese la lampada di metallo. Poi sedette e si accese una sigaretta, lasciando che il fumo gli filtrasse dall'angolo della bocca. E infine aprì il libro. Incollato con nastro adesivo sulla prima pagina c'era un ritaglio ingiallito di giornale con il titolo TRUCIDATA FAMIGLIA DI CONEMAUGH. Sotto c'era una foto della casa dei Fletcher. Girò la pagina. Un altro ritaglio: UCCISO ABITANTE DI SPANGLER. L'immagine sfocata di un uomo di mezza età, sorridente, con la cravatta, e sotto il nome Ronald Biggs. Sulla pagina seguente due ritagli più piccoli: VEDOVO TRUCIDATO e UCCISO CITTADINO DI BARNESBORO. L'intero libro era pieno degli atroci resoconti di omicidi: fotografie delle case dove erano stati rinvenuti i cadaveri, di automobili ritrovate ai margini di strade di campagna, di lenzuola che ricoprivano ciò che, si intuiva, dovevano essere corpi orrendamente mutilati. Come quelli dei Fletcher. I ritagli coprivano un arco di tempo di dieci anni; l'ultimo era il breve racconto di come una donna di Barnesboro avesse scoperto il corpo mutilato di un insegnante di matematica del George Ross, di nome Gerald Meacham. Era successo poco più di tre mesi prima. Wysinger fumò in silenzio per qualche minuto, fissando la pagina bianca
che veniva dopo. Quando sentì il bruciore improvviso sulle dita spense la sigaretta. Sentiva dentro di sé una sensazione opprimente, sorda, come se tutti i suoi fluidi vitali si fossero raccolti in un'unica pozza interna di acqua stagnante, ogni giorno più torbida, densa di un fango infernale. Egli conosceva il legame che c'era fra tutte quelle uccisioni. Per la maggior parte si trattava di uomini che vivevano soli. Tutti uccisi dai colpi di un oggetto pesante e affilato. Tutti uccisi di notte, fra le dodici e l'alba. Tre anni dopo che il sindaco di Bethany's Sin gli aveva dato l'incarico di sceriffo, Wysinger si era seduto a quella stessa scrivania con una bottiglia di Johnny Walker e una mappa della contea. Già da lungo tempo aveva iniziato a ritagliare e tenere gli articoli sugli omicidi apparsi sui piccoli giornali locali, probabilmente perché niente, in tutta la sua vita, lo aveva mai colpito e nauseato così tanto come il vedere i corpi dei Fletcher fatti a pezzi. Forse si trattava di curiosità per quegli altri delitti, oppure di una strana ma decisa sensazione che tutti fossero in qualche modo connessi, oppure del presentimento di un destino terribile, ma lui aveva ritagliato e conservato e studiato per anni quegli articoli, mentre la polizia degli altri villaggi incolpava di volta in volta maniaci o vagabondi o barboni armati. E quella sera, seduto con la schiena irrigidita dal Johnny Walker, lo sceriffo Wysinger aveva tracciato cerchi sulla mappa attorno alle città dove avevano trovato i cadaveri oppure, in alcuni casi, solo le macchine abbandonate sul ciglio della strada o nei boschi. Poi aveva collegato quei cerchi con linee. E allora si era accorto che Bethany's Sin stava nel centro esatto, come un ragno in agguato al centro della ragnatela. Toccò quella pagina bianca del libro scuro che gli stava davanti. Le dita gli trasmisero una sensazione di contaminazione, peste, malattia. Spesso gli era capitato di svegliarsi nella notte, solo nella propria casa, ad ascoltare la voce del buio. La malattia si era insinuata nel midollo delle sue ossa e lì si era installata, propagandosi; qualche volta le piaghe risalivano in superficie e lui sentiva il bisogno di urlare. Ma non l'aveva mai fatto, perché aveva troppa paura. Ci sarebbe stato un nuovo ritaglio, lì, se il furgone di Neely Ames si fosse impigliato fra i cespugli del bosco. La polizia avrebbe ritrovato il corpo dell'uomo sfigurato dai colpi. Se un corpo fosse rimasto. Cristo! pensò. Troppo vicino a Bethany's Sin. Troppo dannatamente vicino. Indagini, polizia sguinzagliata in giro, gente che faceva domande. Troppo dannatamente vicino. Chiuse il libro e spense la luce, ma non si mosse dal tavolo. Aveva una paura terribile per quel che sarebbe successo, perché ora avreb-
be dovuto parlare con il sindaco. E sebbene sapesse, dai calcoli precisissimi che teneva, che la luna stava iniziando a calare, era spaventato fino alla morte, fino all'impotenza. Kay pensò: alle tre il silenzio è il maestro, entra in classe e insegna come il tempo possa scivolare via. Era seduta nel suo piccolo ufficio, con una pila di compiti di fronte a sé che aspettavano di essere corretti. La maggior parte delle lezioni al George Ross si teneva al mattino e nel primissimo pomeriggio, e a quell'ora tutti gli studenti e quasi tutti gli insegnanti se n'erano andati. Una quindicina di minuti prima era andata in fondo al corridoio, alla sala insegnanti, dove c'era quell'imprevedibile macchina per le bevande che aveva sempre appiccicati foglietti indignati. Le sale erano silenziose e vuote, le porte chiuse, i tubi al neon spenti. Si era portata la Coca Cola indietro in ufficio e là aveva continuato a correggere i compiti, perché c'era qualcosa di strano e di leggermente... sì, inquietante in un edificio così grande da cui tutti i rumori erano svaniti, tutte le persone allontanate. È sciocco, disse a se stessa, veramente sciocco. Io riesco a lavorare meglio quando c'è silenzio; posso finire tranquillamente questi compiti e poi andare a prendere Laude alla Scuola del Sole e andare a casa da Evan. Era contenta inoltre che Pierce se ne fosse andato presto. Quell'uomo la rendeva nervosa. Kay prese il compito seguente. Roy Sanderson. Un ragazzo simpatico e brillante. Se la cavava sempre bene con i test a sorpresa a cui Kay qualche volta li sottoponeva. Controllò i primi problemi, trovò un errore nel quarto e lo cerchiò con la penna rossa; allungò una mano per prendere, sulla destra, la lattina di Coca. Dapprima la vide con la coda dell'occhio e non fu sicura. Quando girò la testa per guardare ebbe un tremito e il respiro le si troncò in gola. C'era una figura umana dall'altro lato della porta, oltre il vetro smerigliato. Era immobile, e da quanto tempo fosse lì Kay non aveva modo di dirlo. Si aspettò di vedere la maniglia girare e la porta aprirsi, invece per alcuni, lunghissimi secondi la figura rimase a fissare la sua forma seduta al tavolo. — Chi c'è? — chiese, rendendosi conto che la sua voce risuonava stridula. In un attimo la figura scomparve. Kay posò la penna, aprì la porta e guardò fuori. Il corridoio era deserto. In fondo a destra, dove partiva un altro corridoio, le sembrò di sentire dei passi che si allontanavano. — Chi c'è? — gridò di nuovo. I passi si ferma-
rono. Quando Kay, seguita dai suoi stessi passi risuonanti, si mosse per raggiungere l'angolo sentì, chiunque fosse laggiù, che si era rimesso a camminare. Kay girò l'angolo e si trovò in un corridoio che sarebbe stato completamente buio, se non per le lame di sole che entravano dalle fessure delle tapparelle. In fondo vide la porta richiudersi. Si fermò, con un raggio di sole che le scottava sulla pelle, e fissò quella porta. Chi poteva essere? si chiese, stringendo leggermente gli occhi. Uno degli altri insegnanti? O forse uno studente? Fece un passo avanti e poi si arrestò. Un brivido le era passato per il corpo. Torna dentro il tuo ufficio, disse a se stessa. Hai ancora un mucchio di lavoro da terminare. Torna indietro. Torna indietro. Torna indietro. Ti stai comportando in maniera ridicola, sentì dentro di sé un'altra voce che interveniva. Adesso ti spaventi delle ombre, come... Evan? No, non mi spavento. Fece un passo avanti e spinse lentamente la porta. Che si aprì su un altro corridoio. La luce fioca di alcuni tubi al neon. Porte chiuse, con sopra dei numeri. Silenzio. No, non proprio silenzio, si rese conto Kay dopo qualche istante. Proveniva da lontano un rumore come di metallo tintinnante, e poi un rumore ritmico, piatto. Qualcosa di bagnato che sbatteva. Kay lasciò andare la porta, che oscillò dietro di lei, e poi, camminando velocemente, andò in direzione di quei rumori. Finestre con le persiane chiuse. Una serie di porte con il vetro smerigliato, come la sua, con le targhette dei nomi: DOTTOR CLIFFORD, DOTTOR HEARN, DOTTOR PERRY, e così via. Professori di storia, le venne in mente. Ma certo, questa era l'ala di storia del Dipartimento Arti e Scienze. Proseguì, con le orecchie tese, sentendo ancora quel brivido gelido dentro e desiderando contemporaneamente di tornare in ufficio e di scoprire chi fosse l'ombra immobile rimasta davanti alla sua porta. E i rumori metallici erano ormai vicini, il suono ritmico risuonava da parete a parete. Kay capì che venivano dall'altra estremità del corridoio, dietro l'angolo, dove stavano in agguato le ombre del pomeriggio. Torna indietro, si disse. Poi, un attimo dopo: No, io non sono come Evan. Io non ho paura delle ombre. E poi si trovò oltre l'angolo, e troppo tardi si accorse di qualcuno che stava piegato in mezzo al corridoio. Un viso si voltò verso l'alto a guardarla, occhi dilatati, una bocca che si spalancava. — Dio! — gridò la donna con voce acuta, facendo un passo indietro e contemporaneamente lasciando cadere lo spazzolone. Il manico di legno rimbalzò per terra. Per poco ella non rovesciò il secchio pieno di acqua
schiumosa che le stava ai piedi. — Dio! — esclamò di nuovo la donna delle pulizie, tentando di riprendersi. — Dio mio, a momenti mi faceva morire di paura! Ma dico, venirmi addosso in quel modo sbucando da chissà dove! Oh Dio il mio cuore! — Io... mi dispiace — disse Kay, arrossendo fino alle orecchie. — Non volevo spaventarla. Mi dispiace terribilmente. Si sente bene? — Oh Dio mio, devo riprendere fiato. — Si appoggiò alla parete e tirò parecchi respiri profondi. Era una donna robusta, con i capelli bianchi e il viso segnato da rughe profonde. — Non c'è mai nessuno in giro, da queste parti, a quest'ora — fece. — E io non mi aspetto di ritrovarmi alle spalle qualcuno che arriva come un fantasma, come in un film dell'orrore! — Mi scusi — ripeté Kay, sentendosi imbarazzata e ridicola. — Non volevo proprio spaventarla. Stavo solo... guardandomi in giro. — Sono qui da una vita — riprese la donna delle pulizie — ma una cosa del genere non mi è mai successa! Ma perché camminava così piano? — Non pensavo di camminare piano. — E invece sì! Oh, Signore aiutami! — Improvvisamente scrutò Kay, piantandole gli occhi scuri nella faccia. — È una studentessa? Guardi che tutti gli insegnanti sono già andati via. — No, non sono una studentessa. Mi chiamo Kay Reid e insegno matematica. La donna annuì. — Bene, quand'è così. È Myrna Jacobsen che pulisce l'ala di matematica. Non mi meraviglio di non averla mai vista prima. Perché io sto di qui. — Si fermò ancora un momento, scosse la testa, poi si piegò a sollevare lo spazzolone. — La mia schiena non è più quella di una volta. E nemmeno i miei nervi, a quanto ho visto. Ma il pomeriggio qui c'è sempre silenzio, e allora io penso che non ci sia nessuno. — Capisco — disse Kay. — Davvero, le chiedo ancora scusa. — Va bene, va bene — fece la donna, tirando ancora un respiro profondo e poi ricominciando a lavare. Kay si voltò per andarsene, ma poi cambiò idea. — Per caso, lei non era nel corridoio di matematica, poco fa? — Io? No di certo. — Scrutò Kay con un'espressione guardinga. — È Myrna che lavora là, come le ho detto. Non manca mica qualcosa? Kay scosse la testa. Sollievo evidente da parte dell'altra. — Meno male. Myrna è una donna a posto, e una che lavora sodo. — Riprese un moto circolare, seguendo lo spazzolone che aveva all'estremità le frange di panno bagnato. A loro volta
queste ripresero a sbattere contro le piastrelle. — Qualcuno è stato là pochi minuti fa — insistette Kay. — Ero curiosa di sapere chi. — Lei vuol dire la dottoressa Drago — fece la donna. — La dottor...? — Drago. — La donna accennò con la testa. — È passata di qui un minuto fa. Però lei camminava forte, e l'ho sentita. La sua classe è laggiù in fondo, la numero 102. — Che cosa insegna? — Non lo so di preciso. Mi pare storia. — Il panno riprese a sbattere sul pavimento. Kay non conosceva quel nome, ma del resto non conosceva nessuno dei colleghi di storia. Vedeva però la porta segnata con il 102 poco più in là. — E la dottoressa Drago si trova in classe adesso? La donna strinse le spalle, ormai riassorbita dal lavoro. — Non lo so. Io l'ho vista entrare. Kay si allontanò. — Attenzione che è bagnato! — le gridò dietro la donna. Kay fece qualche passo ancora e spinse la porta del 102. Ciò che vide la lasciò un attimo meravigliata. Era una grande classe fatta ad anfiteatro, con gli scranni che scendevano a semicerchio verso il leggio centrale. Le alte finestre erano oscurate dai tendaggi e dall'alto pendevano globi bianchi che mandavano una luce pallida. Kay rimase sulla porta, in cima all'anfiteatro, per alcuni istanti, guardandosi intorno, poi lentamente prese a scendere i gradini coperti di moquette, verso il leggio. Al confronto di quella classe la sua pareva minuscola, e la tentazione di provare a mettersi a quel leggio, circondato dagli scranni, era troppo forte. Salì sulla piattaforma centrale e fece scorrere la mano sul legno liscio. E poi andò a mettersi al posto del docente, afferrando i lati del leggio con le mani, girando lo sguardo sull'anfiteatro vuoto. Quanti studenti poteva contenere quell'aula? Più di cento, sicuramente. Guardò meglio: la sala era deserta, e se anche la dottoressa Drago fosse entrata doveva esserne già uscita. Dall'altro lato della piattaforma c'era una porta e sopra di questa brillava il segnale verde dell'uscita; probabilmente dava direttamente sul parcheggio. E Kay stava per scendere dalla piattaforma quando una voce fresca, tranquilla disse: — No. Rimanga lì. Sembra il suo posto. Alzò la testa di scatto, ma non riuscì a vedere chi aveva parlato. E tuttavia non si mosse. — Io... non riesco a vederla — disse. Silenzio per qualche secondo, poi: — Sono qui.
Kay guardò a destra. Una donna stava scendendo dall'alto dell'anfiteatro; Kay capì di non averla vista prima perché coperta da una di quelle sfere di vetro, e si sentì a disagio per il fatto di essere stata osservata, ignara. La donna venne verso di lei. — Sembra a suo agio, là. Come se fosse a casa sua dietro quel leggio. — La voce era ben modulata e imperiosa, con una traccia di accento straniero che Kay non riuscì a identificare. — Ero solo... curiosa — rispose, mentre la guardava avvicinarsi. — Volevo sapere come ci si sente. — Sì. Anch'io ho cominciato così. È interessante, vero? Ora immagini cento e venti studenti che la guardano e l'ascoltano. Questo non le fa muovere qualcosa dentro? Io direi di sì. — Continuava ad avvicinarsi e ormai la luce le illuminava i tratti. Kay annuì, tentò di sorridere ma lo trovò difficile. — Non sono entrata per... curiosare. Stavo cercando una persona. — Davvero? Chi? — La dottoressa Drago — rispose Kay. La donna era proprio sotto di lei, ai piedi della piattaforma. — Allora credo che l'abbia trovata — disse con voce calma. E Kay si ritrovò a fissarla dentro agli occhi. La dottoressa Drago aveva, le parve, superato da poco la quarantina; era una donna alta, dalle ossa grosse, ma si muoveva con la grazia fluida di un'atleta, piena di leggerezza eppure di forza. La folta capigliatura corvina era pettinata all'indietro e le lasciava libero il viso dalla mascella forte; dalle tempie partivano due venature grigie che si perdevano fra quel manto nero. Il viso era abbronzato intensamente e la pelle liscia, con poche rughe soltanto attorno agli occhi e alla bocca; era l'aspetto di chi passa gran parte del suo tempo all'aria aperta, sotto il sole, senza però l'invecchiamento prematuro che questo in genere comporta. Sul viso di questa donna c'erano una decisione e una forza di volontà che Kay poteva quasi percepire fisicamente. Ma erano gli occhi della dottoressa Drago che insieme, stranamente, la disturbavano e la attraevano: erano occhi profondi, chiari, di un color acquamarina che faceva venir in mente la profondità degli oceani più remoti. Lo sguardo di Kay era incatenato da quello di questa donna, ed ella sentì improvvisamente il proprio cuore aumentare le pulsazioni. Sebbene la dottoressa Drago fosse vestita con semplicità, con jeans azzurri e una blusa blu polvere, portava gli ornamenti dei ricchi: braccialetti d'oro massiccio a entrambi i polsi, un paio di catene d'oro al collo, un meraviglioso zaffiro alla mano destra. Nessuna fede nuziale. — Kathryn Drago — disse. Sorrise e tese la mano. I bracciali tintinnaro-
no. — E per favore mi chiami Kathryn. Kay strinse la mano e la sentì ruvida e fredda. — Sono... — Kay Reid — la interruppe l'altra. — E abita a Bethany's Sin, vero? — Sì, è vero. In McClain Terrace. Come lo sa? — Anch'io vivo laggiù. E i nuovi arrivi mi interessano sempre. Lei è sposata, vero? E suo marito si chiama...? — Si interruppe, in attesa. — Evan — rispose subito Kay, cercando di distogliere lo sguardo dagli occhi della Drago e rendendosi conto che era impossibile. — Evan — ripeté l'altra, pronunciando il nome lentamente come se stesse gustandolo contro il palato. — Un bel nome. E avete bambini? — Una bimba — disse Kay — Laurie. — Le sembrò che gli occhi della dottoressa Drago si allargassero, leggermente, ma non poté esserne certa. — Siamo nel villaggio soltanto da un mese. — Quegli occhi la fissavano, le impedivano di distogliere i propri, persino di battere le ciglia, al punto da lasciarglieli asciutti. — Davvero? E come le sembra la vita nel villaggio? — Quieta. Riposante. Molto gradevole. La dottoressa Drago annuì. — Bene. È bello sentirglielo dire. Molte famiglie arrivano a Bethany's Sin e non vedono l'ora di tornare in città. Questo non sono mai riuscita a capirlo. — No — disse Kay — nemmeno io lo capisco. Bethany's Sin sembra... perfetto. — Che cosa aveva quella donna da farle battere il cuore in petto all'impazzata? Da mandarle il sangue in acqua? Fece per discendere. — Per favore — la fermò ancora lei. — Rimanga lì, vuole? Si immagini dietro quel leggio, davanti a sé tutti i posti occupati. Immagini che stiano aspettando di sentirla parlare. Li immagini pronti ad assorbire parte della sua conoscenza. Kay sbatté le palpebre. La dottoressa Drago stava sorridendo lievemente, un sorriso amichevole, ma quegli occhi sopra alle labbra erano... strani e freddi. E ora le bruciavano dentro. Strano. Molto strano. Io non sono come Evan. No, io non sono come lui. Io non ho paura delle ombre. Chi è questa donna? Perché sta... guardandomi in questo modo? — Questa è la mia classe — spiegò la dottoressa Drago con tono noncurante. — Sono il capo del Dipartimento di Storia dell'istituto. Kay annuì, impressionata. — Dev'essere una grossa responsabilità. — Quegli occhi la bruciavano. Ma perché? — Lo è, infatti. Ma è anche una grande soddisfazione. Provo un grande piacere nell'esplorare i misteri del passato e nel trasmetterli ai miei studen-
ti. Il cuore di Kay continuava a battere veloce e il suo viso era infuocato. — Non c'è aria condizionata qui? — chiese, o le parve di chiedere, perché la Drago non rispose e continuò a guardarla sorridendo. — Qual è il suo campo? — chiese dopo un momento. — Matematica — disse Kay, e si portò una mano alla guancia. Non la trovò ardente, come si aspettava, ma fresca. — Sto tenendo un corso di algebra. — Capisco. Non dovrebbe trovare grosse difficoltà, allora. Il trimestre estivo è molto tranquillo. ...tranquillo tranquillo tranquillo. Le parole sembravano risuonare dentro la testa di Kay. Dannazione! pensò improvvisamente. Mi sto prendendo qualcosa. Un raffreddore? Gli occhi della Drago brillavano come fiamme. — Vivo alla periferia del villaggio — disse. — In una delle prime case lungo la strada d'ingresso. — Quale? — La si vede dalla strada. Ci sono prati con dei... — Cavalli — la interruppe Kay. — Sì, la vedo tutti i giorni. È bellissima: credo di non aver mai visto una casa come quella prima d'ora. — Grazie. — La donna rimase in silenzio qualche secondo, a osservarla. Poi le toccò la mano. — Non si sente bene? — Sto bene — mentì Kay. Si sentiva raggelata e ardente allo stesso tempo, e tuttora incapace di distogliere lo sguardo dalla donna che aveva di fronte. Il cuore continuava a battere veloce, come quello di un uccello catturato. — Mi sento solo un po' stordita. Lei le diede di nuovo un colpetto sulla mano, come a una sorella. — Sono sicura che non è nulla — disse. E poi sbatté le palpebre e il legame fra di loro fu rotto. Kay sentì come se un peso le venisse tolto dalle spalle; tuttavia era ancora stanca e stranamente fredda. Distolse in fretta gli occhi dal viso della donna e scese dalla piattaforma. — Sta bene, ora? — chiese piano la dottoressa Drago. — Sì, grazie. Ma ho dei compiti da correggere che mi aspettano in ufficio. Farei meglio ad andare. È stato un piacere incontrarla e spero di rivederla. — Sentiva il desiderio di uscire in fretta da quell'aula, di uscire dall'ala di storia; e non sarebbe andata a correggere nessun compito. Sarebbe invece andata in fretta a prendere la macchina, avrebbe guidato velocemente fino a casa e si sarebbe distesa sul divano. Il sangue pareva esserle diventato freddo e sentiva una strana sensazione di brivido alla base del
collo, come se le dita ruvide della dottoressa Drago la stessero accarezzando in quel punto. Iniziò a salire i gradini e la donna la seguì. — Spero che continui a trovare piacevole vivere nel nostro villaggio — disse quando furono in cima. — Da dove vi siete trasferiti, con suo marito? — La Grange — le disse Kay. — È una città industriale. — Uscirono insieme sul corridoio. La dottoressa Drago torreggiava su di lei, e sul suo viso ora c'erano ombre attorno agli occhi e nell'incavo delle guance. — Ne ho sentito parlare — rispose, e sorrise di nuovo. — Una specie di crogiolo arrugginito, vero? — Una definizione adatta. — Kay rischiò di impigliarsi di nuovo in quegli occhi e istintivamente distolse lo sguardo. Non ho paura. Che cosa c'è che non va? Pensò che forse stava per venirle uno dei suoi mal di testa, ma non sentiva altro che quei brividi alla base del collo. Che stavano scomparendo, però. Grazie al cielo. Erano quasi scomparsi. Per un attimo ho pensato di essere sul punto di vomitare. — Farò meglio a tornare al lavoro, ora. — Certo — disse la dottoressa Drago. Kay si voltò e si incamminò verso l'aula di matematica, ma improvvisamente sentì la donna che la chiamava. — Signora Reid! Kay! Vorrei chiederle una cosa. Kay si voltò; il viso della donna era nell'ombra e quegli occhi non si vedevano più. Strano. Molto strano. — Sì? — Mi stavo chiedendo... sa, avrò ospiti a casa alcuni membri della facoltà, sabato sera. Se lei potesse, mi piacerebbe molto che venisse con suo marito. — Un party? Non so se... — Non è un vero party. Solo una piccola riunione informale. Quattro chiacchiere e caffè. — Si interruppe per qualche secondo. — Sarebbe una buona occasione per incontrare anche gli altri. — Mi piacerebbe, ma devo parlarne prima con Evan. Potrei farglielo sapere. — Il mio numero è sulla guida. Mi piacerebbe molto avervi da me, tutti e due. Kay esitò. Adesso si sentiva bene, i brividi e il freddo erano scomparsi. Il cuore era tornato a battere normalmente. Eri solo nervosa, cercò di spiegare razionalmente. Terribilmente nervosa. — Grazie — disse allora. — La chiamerò. — Aspetto di sentirla — fece la dottoressa Drago. Rimase immobile per un momento. Dietro al velo d'ombra, quegli occhi color acquamarina scin-
tillavano. E senza aggiungere parola si voltò e scomparve all'altra estremità del corridoio. Per lunghi istanti Kay non riuscì a muoversi. Guardava fissamente nella direzione in cui la donna era scomparsa. Voglio andare a quel party, disse a se stessa. Voglio conoscere gli altri. Era certa che Evan sarebbe stato d'accordo, ma anche in caso contrario lei ci sarebbe andata, da sola, se necessario. Perché negli ultimi minuti del loro incontro Kathryn Drago aveva fatto sentire a Kay di appartenere a Bethany's Sin. Più di quanto non fosse appartenuta a nessun altro luogo. Mai. 14 RACCONTI SUSSURRATI Bethany's Sin? — Jess strinse gli occhi azzurro chiaro, concentrandosi, e infine brontolò: — No, non credo di averci mai pensato più di tanto. Mi è sempre sembrato solo un nome. — Già — fece Evan, e si chinò leggermente in avanti, sulla sedia. — Ma che cosa c'è dietro al nome? A che cosa si riferisce? Jess rimase in silenzio per qualche attimo, arrotolandosi una sigaretta. Erano seduti a chiacchierare nell'ufficio della stazione di servizio in Fredonia, bevendo Coca Cola acquistata dalla macchinetta di fronte. Nel garage il figlio di Jess stava dandosi da fare con una Volkswagen rossa, e ogni tanto vi girava attorno come un lottatore che studia l'avversario prima di buttarcisi di nuovo addosso. Solo poche auto si erano fermate da quando Jess ed Evan stavano chiacchierando; una famigliola aveva chiesto informazioni ed Evan aveva visto negli occhi della moglie la stessa espressione che c'era stata in quelli di Kay, il giorno in cui erano arrivati al villaggio per la prima volta. E naturalmente sapeva il perché; era un luogo bellissimo, la cui bellezza faceva immediatamente presa sulle donne. Evan aveva ricevuto posta importante quella mattina. La rivista Fiction gli aveva accettato un racconto, la storia di due antichi amanti che si incontravano da vecchi per caso, su un treno. E mentre loro parlavano, rivivendo antiche memorie, il treno iniziava a fermarsi in stazioni che andavano sempre più indietro nel tempo, finché da ultimo, quando si rendevano conto che il loro amore era ancora forte, il treno si fermava a Niven Crossing, la loro città natale, nell'anno in cui si erano innamorati, in una notte d'estate, sulla spiaggia del lago Bowman.
L'altra lettera invece non era buona. Un racconto respinto dall'Esquire. Era la storia di un reduce del Vietnam, la cui moglie e gli amici improvvisamente prendevano le sembianze di quelli che lui aveva ucciso in guerra; era una storia per Evan terrificante, perché toccava quelle ferite ancora aperte, dov'erano esposti i nervi della paura e del senso di colpa. Aveva allora deciso di aspettare, di allontanarsi ulteriormente da quell'esperienza per provare a raccontarla in modo articolato; tutto ciò che aveva scritto finora sul Vietnam era disorganizzato e caotico come un urlo di paura. Forse quell'urlo sarebbe rimasto per sempre dentro di lui; era il fardello lasciategli dalla guerra, il ricordo di giovani falciati come spighe dalla lama oscura della morte, di corpi senza faccia o braccia o gambe, di soldati impazziti che urlavano in silenzio, di se stesso legato su una branda e un ragno peloso sulla pelle nuda e, molto più tardi, di se stesso solo in mezzo al fuoco mortale, in attesa del fulmine di Dio. Era stato difficile riadattarsi al mondo, una volta tornato a casa, perché tutto gli sembrava irreale. Nessuno che balzava in piedi all'arrivo della posta; nessuno che urlava perché venisse un medico a richiudergli la pancia da cui colavano le viscere; nessuno che contava le stelle in cielo chiedendosi se l'indomani notte sarebbe stato ancora là a ripetere l'esercizio. Nessuno sembrava davvero consapevole delle cose che gli succedevano intorno, e neppure sembrava curarsene più di tanto. E questo faceva infuriare Evan e contemporaneamente lo deprimeva: il fatto che così tanti fossero morti, come tanti Gesù mandati dalla patria, mentre tutti quei Giuda a casa contavano i denari. Era così che ricordava Harlin, il suo editore di L'Uomo d'Acciaio: un dannato Giuda della peggior specie. Fin dal primo giorno di lavoro Harlin, un grassone dai capelli a spazzola e la mascella inferiore allungata, gli aveva reso la vita dura. "Eri laggiù in Vietnam, eh? Avrai visto un po' di scaramucce?" Evan aveva risposto di sì. "Io ho dato addosso ai nazi nella Seconda Guerra. Là in Francia. E li prendevo per le palle, quei maledetti. Che io sia dannato, quelli sì che erano bei tempi." Evan era rimasto zitto. "Sissignore, puoi dire tutto quello che vuoi. Ma per Dio, non c'è niente di meglio che combattere per il tuo paese." Dopo qualche tempo Harlin aveva cominciato a bersagliarlo di domande, voleva sapere ora quanti cong lui avesse ucciso, ora se avesse mai usato il napalm contro le capanne, ora se avesse mai fatto fuori qualcuno dei civili, perché per Dio tanto erano tutti uguali lo stesso, no? Evan lo aveva deliberatamente ignorato e a poco a poco Harlin era diventato scontroso e poi cattivo, chiedendogli se era proprio certo di essersi mai trovato in combattimento, e altrimenti perché non voleva mai parlarne
e come mai non aveva portato a casa a sua moglie almeno un orecchio mozzato, in nome di Cristo? E attraverso quel velo di cattiveria Evan cominciò a vedere scintille di verità nei propri sogni: Harlin in piedi di fronte a lui, col viso bianco come il gesso e simile all'argilla. Molto lentamente quel viso cominciava a trasformarsi, a ribollire come il centro di un vulcano d'odio che stava all'interno; brandelli di carne molliccia caddero, cadde il naso, poi il labbro inferiore, la mandibola, finché la faccia si aprì mostrando quello che stava sotto: un teschio ancora coperto dai capelli, su cui brillavano due occhi spaventosi. E quella cosa-Harlin si mosse, lasciando una scia di liquido nauseabondo e scuro, verso Kay, che dormiva nella camera da letto della loro casa di La Grange. La cosa-Harlin si abbassò la cerniera e comparve un pene eretto, coperto di scaglie, che pulsava, affamato della carne di Kay. E proprio mentre Harlin stava togliendo le lenzuola dal corpo di lei Evan si era svegliato, ansimante e senza fiato. Era stato nel corso del ricevimento natalizio per i dipendenti della rivista e le loro mogli che quel terrore che Evan aveva dentro si era materializzato, esplodendo come un enorme foruncolo. Harlin aveva incominciato a tormentarlo sulla guerra, chiedendogli quanti suoi amici fossero morti e, poi, dopo una mezza bottiglia di whisky, quante "piccole fiche gialle" avesse infilzato. Evan lo aveva respinto da sé, leggermente, e allora l'ira di Harlin si era drizzata come un cobra dal suo cantuccio nascosto, di scatto. — Sei un dannato bugiardo — gli aveva detto con fare minaccioso, mentre intorno cadeva il silenzio e tutti smettevano di bere. — Che cosa credi di essere, un eroe di guerra o qualcosa del genere? Io ho fatto molto più di te, per Dio, e lo sai che cosa mi hanno dato? Una pacca sulle spalle e un calcio nel culo. E per Dio mio figlio Jerry, che il Signore lo benedica, che il signore benedica mio figlio Jerry, l'ho tirato su bene, gli ho insegnato a combattere per la sua patria come un uomo deve fare e allora lui si è offerto volontario per il VietNam, non ha aspettato che ce lo mandassero, no, ma ci è andato volontario, perché il suo vecchio gli aveva detto che era la cosa giusta. L'ho visto salire sul treno e poi gli ho dato la mano come a un uomo, perché quando un ragazzo ha diciotto anni è un uomo. E lo sai dove si trova adesso?. — Gli occhi di Harlin avevano scintillato per un istante, solo per un istante, bruciando attraverso il cervello di Evan. — Nell'ospedale dei veterani di Filadelfia. Senza metà della testa. Sta lì seduto, non dice mai una parola, non mangia da solo, si piscia nei calzoni come un bambino piccolo! E l'ultima volta che sono andato a trovarlo è rimasto seduto
alla finestra e non mi ha nemmeno guardato, come se mi volesse rimproverare, come se mi odiasse. Odiare me! E tu guardati invece, lì in piedi con un fottuto cocktail in mano e la tua giacca a quadretti e la cravatta, a pensare di essere un fottutissimo eroe di guerra, non è così? — Gli altri erano intervenuti cercando di calmarlo ed Evan aveva preso per mano Kay per andare via; ma l'uomo non si voleva fermare. — Tu non sei un uomo! — aveva gracchiato Harlin. — Se lo fossi saresti orgoglioso di aver ucciso quei dannati musi gialli che hanno sparato al mio Jerry! Tu non sei un uomo, sei un bastardo senza le palle! Ehi! — In quel momento mise a fuoco Kay. — Ehi! Magari uno di questi giorni ti faccio vedere com'è un cazzo con le palle, eh? E allora le immagini del sogno invasero la mente di Evan, e lui si mosse con velocità incredibile, implacabile, superando Kay che non riuscì a trattenerlo, superando altre due persone che stavano in mezzo, il viso contorto dalle cose terribili che erano risalite a galla e che avevano preso il controllo delle sue azioni. In un lampo aveva gettato avanti le braccia, aveva afferrato Harlin per la gola, l'aveva fatto ruotare di spalle e si apprestava a spezzargli la spina dorsale con il ginocchio. Aveva sentito vagamente qualcuno che urlava e riconosciuto la voce di quel pazzo: la propria. E allora Kay aveva urlato: — Noooo! — nello stesso istante in cui Evan iniziava a fare forza, nello stesso modo in cui aveva ucciso un giovane cong che non doveva avere più di diciannove anni. Lo avevano strappato via da Harlin, mentre Kay scoppiava in un pianto dirotto. E qualche giorno dopo Evan aveva perso il lavoro, licenziato in tronco per "pigrizia e negligenza sul lavoro"; così avevano lasciato La Grange. Mio Dio, pensò ora Evan, nell'ufficio della stazione di benzina, sembra accaduto secoli fa. Ma aveva ormai capito che l'istinto di uccidere, manifestato in quell'occasione, non l'aveva mai e non l'avrebbe mai più lasciato; gli era entrato dentro in profondità, era la parte oscura di se stesso, che lui teneva nascosta e chiusa a chiave. Negli ultimi giorni aveva di nuovo pensato a quella storia sul villaggio. Aveva scritto una lettera al Pennsylvania Progress, domandando se sarebbero stati interessati a qualcosa su Bethany's Sin. Non aveva ancora ricevuto risposta, ma perché nel frattempo non darsi da fare? Così si era ritrovato a far cadere la conversazione sul villaggio, in particolare chiedendo a Jess se sapeva qualcosa sull'origine di quel nome. Jess si accese la sigaretta e aspirò. — Non lo so — disse. — Non crede che forse ci sarà qualcosa in biblioteca?
— Forse sì — fece Evan; aveva già deciso di fermarsi in biblioteca tornando a casa. — Ma pensavo che forse, lavorando qui, lei potrebbe aver sentito racconti, pettegolezzi, qualcosa insomma che mi potrebbe dare un'indicazione. Jess emise una specie di grugnito e fumò in silenzio per un po'. Evan pensò che non avrebbe più detto nulla, ma quando lo guardò vide che sembrava diventato più scuro: si era spostato dal sole. Gli usciva un filo di fumo dalle narici, mentre si appoggiava all'indietro contro due taniche di olio e finalmente diceva: — Qui intorno ci sono un mucchio di locali. Per esempio uno, sulla statale, chiamato Il Canto del Gallo. E andandoci si possono sentire un mucchio di storie interessanti, se si tengono le orecchie aperte. Alcune sono solo balle, altre... be', sono interessanti, se capisce quel che intendo. Evan non capiva. — Che specie di storie? — Un tizio chiamato Muncey faceva andare questa stazione prima di me — disse piano Jess, gli occhi scuri e lontani, che evitavano quelli di Evan. — Ho preso il suo posto perché un giorno lui è sparito. Aveva una moglie e due bambini, viveva in una roulotte a un paio di miglia da qui. E anche loro non ne seppero più nulla. Poche settimane dopo, la polizia trovò la sua macchina, trascinata nel bosco e coperta di rovi. — Si fermò, aspirando il fumo. — E l'uomo? — lo incoraggiò Evan. — Mai trovato. All'inizio, capisce, pensavano che se la fosse battuta con la cassa, abbandonando moglie e figli al loro destino. — Jess scosse la testa. — Ma non era così. La polizia trovò i soldi, dentro le buste che si usano per versare in banca, sotto il sedile anteriore. Il finestrino dalla parte del guidatore era frantumato e anche il parabrezza era rotto - questo lo dicevano alcuni del posto, al Canto del Gallo, magari non è vero. E magari sì. — È una brutta cosa — disse Evan — però si sente in continuazione di gente che sparisce. Sono i casi disgraziati della vita. — Disgraziati. E vero. — Jess sorrise leggermente, ma poi il sorriso si spense. — Ma c'è qualcosa d'altro. Quello che è successo a Muncey - qualunque cosa sia - è successo altre volte qui intorno. E non solo due o tre volte. Ma abbastanza per far pensare. — Pensare? A che cosa? — A quello che non si sa — disse Jess, parlando ancora in modo tranquillo ma con gli occhi inquieti. — Se va dalle parti del Canto del Gallo sentirà storie come questa. E si farà delle domande, come mi faccio io. Al-
cuni del posto hanno visto delle cose, di notte. Cose strane; e hanno sentito richiami nella foresta, e poi cose che si muovevano velocemente tra i cespugli. Cose che non avevano il coraggio di andare a vedere da vicino. Evan sentì un brivido percorregli la schiena. Ricordò la prima notte nella casa nuova, l'ombra sfuggente che aveva scorto oltre la finestra. Che cosa poteva essere? — Sissignore — riprese Jess. — Il Canto del Gallo. Vada da quelle parti, qualche sera, e capirà che cosa intendo dire. — Sembra che qualcuno abbia una bella immaginazione, da queste parti — fece Evan, incoraggiante. Una bella immaginazione: quante volte Kay gli aveva detto la stessa cosa? Più di quanto non ricordasse. — Non è immaginazione — rispose Jess. — No. Io, queste cose che si raccontano non le ho mai viste. Un paio di volte, tornando a casa, io e il mio ragazzo abbiamo sentito dei gridi strani nella foresta, ma potevano essere uccelli o altri animali. Ma provi a parlare con qualcuno che c'è andato vicino, provi a guardarlo negli occhi, e poi vedrà se parla ancora di immaginazione. No. Quello che troverà in quegli occhi è paura, pura e semplice. Non sto dicendo che Bethany's Sin non sia un posticino grazioso e tranquillo. Ma lavoro qui già da un po' di tempo e ho una sensazione. Una sensazione che non mi piace. Come se qualcosa... ci sia qualcosa, qui intorno, che non va. Come troppa vernice sopra una tavola di legno fradicio. — Jess voltò leggermente la testa e guardò Evan negli occhi. — Comunque mi tengo ben lontano da qui dopo il calare della sera — concluse. — E mi tengo lontano dalle strade secondarie. A lungo Evan rimase zitto. Non occorrevano parole; poteva leggere un messaggio sul viso di quell'uomo. Un avvertimento, forse? Correnti interne ribollivano dentro di lui, gelide, sempre più impetuose. Di scatto, Jess si alzò, allontanandosi. Una macchina stava entrando nel distributore, e lui andò a occuparsene. Tornando a casa Evan si fermò alla biblioteca. La bibliotecaria, una graziosa giovane brunetta con il nome ANNE sulla targhetta della divisa, ascoltò le richieste di Evan circa le origini del nome Bethany's Sin e scrisse un appunto sulla scheda. Poi uscì da dietro il banco e lo condusse a uno scaffale con su scritto NOTIZIE SULLA REGIONE. Tirò giù il più vecchio di tre volumi piuttosto malmessi e glielo porse; il titolo era Nomi e località: la tradizione nei villaggi della Pennsylvania. Però Bethany's Sin non compariva nell'indice e, osservando la data di pubblicazione, Evan si rese conto che il libro era stato pubblicato alla fine degli anni Trenta. Lo
restituì alla bibliotecaria con un gentile ringraziamento e poi le chiese se da qualche altra parte fosse possibile trovare notizie sulla storia di Bethany's Sin; lei gli sorrise e rispose che si trattava di una richiesta inconsueta, ma che probabilmente nel seminterrato si sarebbero potute trovare vecchie carte. Perché non mi lascia il nome e il numero di telefono? gli chiese; darò un'occhiata e la richiamerò in caso trovassi qualcosa. Mentre si dirigeva alla porta l'attenzione di Evan fu attratta da un'acquaforte appesa alla parete. Si fermò un attimo, poi si avvicinò per guardare meglio. Mostrava una donna che impugnava un arco e alla vita aveva una faretra piena di frecce; ai suoi piedi un branco di animali che parevano lupi la seguiva, con espressione non minacciosa ma di profonda lealtà. Sullo sfondo stava la foresta e in alto, sulla sua spalla sinistra, era l'ovale pallido della luna. Sotto al quadro stava una targhetta di ottone: dono della Dr.ssa Kathryn Drago alla biblioteca pubblica Wallace Parkins. Evan guardò il viso della donna ritratta: era calmo e determinato, gli occhi rivelavano una grande forza di volontà interiore. Guardò di nuovo la targhetta. Dr.ssa Kathryn Drago? Non conosceva quel nome, ma l'acquaforte che lei aveva donato lo attirava stranamente. — È del diciassettesimo secolo — fece alle sue spalle la bibliotecaria; gli si era avvicinata mentre lui fissava il quadro. — Se lei è interessato all'arte, abbiamo una grande varietà... — Chi dovrebbe rappresentare? — le chiese Evan, indicando la figura. — La dea greca Artemide — rispose Anne. — Credo. Non sono preparata in mitologia come dovrei. — Gli sorrise come scusandosi. — Mitologia? — Evan rimase in silenzio un momento, guardando quegli occhi che lo fissavano dall'acquaforte. — Ho seguito un corso, una volta. Molto tempo fa. Ma non riesco a ricordare nulla di questa dea. È come se volesse uscire dal quadro. Chi è Kathryn Drago? — La dottoressa Drago — lo corresse Anne. — È stata eletta sindaco qualche anno fa, e ha fondato la Società di Storia del villaggio nel... be' circa cinque o sei anni fa. — Sindaco? — Evan alzò le sopracciglia. — Non sapevo che il sindaco di Bethany's Sin fosse una donna. — Vive appena fuori dal villaggio — disse Anne. — E alleva cavalli. Cavalli? Evan rimase un attimo sovrappensiero, ricordando una strana casa e i cavalli che pascolavano nell'ampia distesa di verde. — Ma certo — disse. — Ho visto quel posto. Questa acquaforte deve essere costata molto. — Credo proprio di sì. Posso mostrarle i nostri libri di arte?
— No, grazie — rispose lui. — Magari un'altra volta. — E poi si ritrovò fuori, a camminare nel sole, mentre la sua mente seguiva nell'oscurità un percorso tortuoso, come un corridore dentro un labirinto. Cavalli? Mitologia? Qualcosa si faceva strada nel suo cervello, poi scivolava indietro prima che lo potesse afferrare. La dea greca Artemide. Si fermò, fu sul punto di tornare indietro in biblioteca per chiedere se avessero libri di mitologia, poi si scrollò di dosso l'impulso e continuò a camminare verso McClain Terrace. Prima doveva risolvere altre cose. Come l'origine di Bethany's Sin. Se non avesse trovato nulla nei libri avrebbe dovuto andare a sentire quelle storie che, come aveva detto Jess, si raccontavano al Canto del Gallo. La sua mente cominciò a vagare e lui si ritrovò a pensare ai cavalli. Riguardo a essi tutta la sua esperienza si limitava a brevi cavalcate in sella a pony depressi, alle fiere del suo paese, quand'era ragazzo. Ma un altro ricordo gli pungeva la mente come una spina. La forma che aveva visto dalla finestra di camera da letto, la prima notte: scura, rapida, già scomparsa ancor prima che lui potesse vederla bene. Avrebbe potuto essere un cavallo e un cavaliere? Forse sì, pensò. Forse sì. Sentì il viso che gli bruciava. Il sole picchiava come sulla carne viva. Si guardò intorno, vide cavalli, alberi, strade, ma non riuscì a capire dove si trovava. Blair? No, non ancora. Si inoltrò nel villaggio, come attratto da una forza esterna, le gambe che si muovevano automaticamente. Il sole splendeva ardente fra le fronde, gli faceva dolere gli occhi. Il cuore cominciò a battergli veloce, il viso sembrava irradiare calore mentre il sangue gli bruciava nelle vene, sempre più ardente... E bruscamente si fermò. Davanti a lui sorgeva il museo. Per qualche minuto non riuscì nemmeno a muoversi; i muscoli non rispondevano agli impulsi del cervello, e ogni cosa attorno sembrava scintillare di luce accecante. Si ricordò il sogno e allora un dito di ghiaccio aprì le cortine di calore per andarsi a posare, lievemente, sulla sua gola. Stava avverandosi? avverandosi come tutti gli altri, alla fine, in un modo o nell'altro? La casa lo aspettava, immersa in un silenzio grave, cupo. Lui voleva girarsi, tornare sui suoi passi, ritornare verso la biblioteca; ma il suo cammino era stato predeterminato e i suoi passi l'avevano condotto a questa casa in attesa, minacciosa. Ebbe paura, un sentimento che cresceva dentro di lui ma fuori dal suo controllo; l'attimo dopo stava attraversando Cowlington Street dirigendosi verso il museo, e un'auto lo scartò e gli suonò forte il clacson. Camminava lentamente, faticosamente, respirando rau-
co; si fermò un attimo al cancello e poi lo spinse, aprendolo. Mentre lo attraversava sentì il calore sul viso farsi, se possibile, più intenso. Gli sembrava di muoversi in sogno, pesantemente; i suoi occhi erano fissi sull'ingresso che stava sotto a un arco retto da due colonne, e sebbene una voce, dentro l'anima, gli gridasse di girarsi e di scappare, lui sapeva di dover seguire la direzione del suo sogno. Doveva raggiungere quella porta e... sì, aprirla. Per vedere. Per vedere quel che c'era oltre. Si fermò davanti alla porta, i sensi vibranti, la faccia madida di sudore. Sopra di lui incombeva il museo, gettando un'ombra come di ragno enorme sull'erba verde e perfetta del prato. Molto lentamente alzò il braccio, sentendo gli occhi dilatarsi, dilatarsi perché sapeva che cosa avrebbe trovato dentro: una cosa dagli occhi scintillanti pieni d'odio che avrebbe tentato di afferrarlo con la mano artigliata. Mise la mano contro la porta, sentendo i nervi che urlavano. E spinse. Ma la porta non si aprì. Era chiusa dall'interno. Spinse ancora, più forte, poi con il pugno colpì il battente ligneo; sentì il suono che si propagava all'interno, echeggiando lungo i corridoi e le stanze piene di... che cosa? Evan colpì di nuovo il portone. E poi di nuovo. No, questo non c'era nel sogno. Qualcosa non andava. Non era così che succedeva. Apri e fatti vedere. Apri, apri, dannazione. Apri! — Ehi! — gridò qualcuno alle sue spalle. — Che cosa credi di fare? Evan si voltò in direzione della voce, strizzando gli occhi per mettere a fuoco. C'era un'auto della polizia accostata al marciapiede, di fronte all'edificio. Un uomo in uniforme ne discese e iniziò a venire con passo deciso verso di lui. — Che cosa stai facendo? — chiese di nuovo l'uomo. — Io... nulla — disse Evan, con voce che risuonò tesa e distante. Nulla. — Davvero? E allóra perché sei qui? — L'uomo indossava una uniforme da sceriffo e i suoi occhi piccini, dentro il volto ampio, si fissarono in quelli di Evan, incatenandoli. — Stavo solo... cercando di entrare — disse Evan. — Entrare? — Gli occhi di Oren Wysinger divennero due fessure. — Oggi è chiuso tutto il giorno. E comunque non c'è un regolare orario di apertura. — Rimase in silenzio per un momento, fissando gli occhi dell'uomo che aveva di fronte e trovandovi qualcosa che lo disturbò, come se la superficie di una pozza d'acqua stagnante improvvisamente si fosse increspata, ma non permettesse di vederne la causa. — Chi sei? — chiese con
voce piatta. — Reid. Evan Reid. Io... abito in McClain Terrace. — Reid? La famiglia appena arrivata? — Esatto. — Oh. — Wysinger lasciò andare gli occhi di Evan. — Mi dispiace di essere sembrato scortese, signor Reid. Ma qui in genere non ci viene molta gente e quando l'ho vista colpire la porta non sapevo che cosa pensare. — Non fa nulla. — Evan si passò una mano sulla faccia, sentendo che il calore si stava lentamente dissolvendo. — Capisco. Sono stato incuriosito da questo edificio. Wysinger annuì. — È chiuso — confermò. — Ma si sente bene? — Sono solo... un po' stanco. — Non vedo auto. Era a piedi? Evan annuì. — Stavo ritornando a casa. — Vuole un passaggio? Stavo andando anch'io da quella parte. — Grazie — rispose Evan. — Mi farebbe piacere. Tornarono verso la macchina della polizia. Evan salì, poi si voltò a guardare il museo ancora un momento, infine distolse gli occhi e chiuse la portiera. Wysinger mise in moto e si diresse verso McClain. — Sono Oren Wysinger — si presentò, porgendo a Evan una mano grande, ruvida, nodosa. — Sono lo sceriffo del villaggio; mi dispiace di non averla riconosciuta, prima. Credo di essere un po' diffidente di natura. — Stava solo facendo il suo lavoro. — Sì, certo — fece lui — ma qualche volta mi faccio trascinare. Vedo che si sente meglio, ora. — Sì, grazie. Non so cosa mi sia successo. Mi sono sentito molto stanco e... comunque, ora sto bene. — Ottimo. — Wysinger girò leggermente la testa, diede un'occhiata al profilo del suo passeggero e poi si concentrò nuovamente sulla strada. — Il museo apre alle nove il lunedì, mercoledì e venerdì. Qualche volta anche il martedì. Dipende da diverse cose: il tempo, la gente disponibile quel giorno, cose così. Lei sembrava molto ansioso di poter entrare. — Non sapevo che fosse chiuso — rispose Evan. Sentì gli occhi di Wysinger addosso; poi l'altro li distolse. — Volevo vedere che cosa c'è dentro. — È abbastanza interessante, se le piace il genere — disse Wysinger. — Statue e roba varia. Quanto a me, non me ne intendo troppo. — Che genere di statue?
Wysinger strinse le spalle. — Per me una statua è una statua. Ma ci sono anche altre cose. Cose vecchie. — Mi dica — proseguì Evan. — Bethany's Sin è un villaggio davvero piccolo. Trovo strano che ci sia un museo così grande. Anzi, addirittura che ci sia un museo. Chi l'ha costruito? — La casa in sé c'è da molto tempo — rispose Wysinger. — La Società di Storia l'ha comprata e sistemata, dentro e fuori, allargando le stanze e addirittura aggiungendo un piano. — Svoltò dentro McClain Terrace. — È la casa bianca con le imposte verdi, vero? — Esatto. E da dove vengono le cose che la Società di Storia vi ha esposto? — Non saprei, signor Reid. Per dirle la verità, non frequento gli stessi ambienti delle signore della Società di Storia. Non sono molto... aggiornato, penso si possa dire. — Rallentò e si accostò al marciapiede. — Ma sono ritrovamenti locali? — insistette Evan. — Oppure oggetti indiani? Wysinger fece un sorrisetto. — Non saprei distinguere un oggetto indiano da uno giapponese, signore. Temo che dovrà tornare in orario di apertura e scoprirlo da solo. — Fermò l'auto davanti alla casa di Evan. — Eccoci qui. Avete proprio una bella casetta. Evan discese e chiuse la portiera, e l'altro si sporse per tirare giù il finestrino. — Mi dispiace di non essere ancora passato a darvi il benvenuto. È il lavoro che mi tiene troppo occupato. Spero di conoscere presto sua moglie e i bambini. — Solo uno — fece Evan. — Una bambina. — Davvero. Be', di nuovo — Wysinger strinse le spalle — le chiedo scusa di essere stato un po' brusco, al museo. — Non c'è problema. — Bene, allora. Farò meglio ad andare. Così lei potrà riposarsi. Arrivederci. — Wysinger alzò una mano e poi guidò l'auto fin in fondo alla strada, scomparendo presto dietro la curva. Evan percorse il vialetto che portava all'ingresso, dando un'occhiata alla casa dei Demargeon. Niente auto sul viale. La casa silenziosa. Si chiese se Harris Demargeon fosse in casa, fece per andarlo a trovare e poi decise di non disturbarlo. Prese la chiave di tasca e aprì la porta d'ingresso, si ritrovò nell'atrio e chiuse la porta alle sue spalle. Kay e Laurie sarebbero ritornate fra mezz'ora. Andò in cucina, bevve un bicchier d'acqua e poi sedette in salotto. Il manoscritto respinto dall'Esquire stava sul tavolino al suo fianco,
ma lui evitò di guardarlo. Tentò di rilassarsi, sentendo però i muscoli ancora rigidi e uno strano prurito alle braccia e alle gambe, come se il sangue avesse ripreso a scorrervi da poco. A lungo rimase seduto immobile, con la mente che tentava di assemblare i pezzi di un mosaico che ancora non riusciva a capire. Immaginazione? Ciò che sentiva era dato solo dall'immaginazione, come Kay andava ripetendogli? Che cos'è questa paura che ho dentro? si chiese. E perché, in nome di Dio, sembra crescere di giorno in giorno, mentre io divento più debole? Con gli occhi della mente vide il museo al centro del villaggio, e tutte le altre cose che vi ruotavano attorno. Batté le palpebre. Vide gli occhi di Jess, cupi e lontani. Batté le palpebre di nuovo. Quel quadro sulla parete della biblioteca, la placca di sotto. La dottoressa Drago? Un altro battito. Un'ombra dietro le tende di una finestra, una figura senza il braccio sinistro. E persino quando chiudeva gli occhi e appoggiava indietro la testa gli occhi della sua mente, che vedevano con terribile chiarezza, rimanevano fissi su quei frammenti di immagine che gli ruotavano in testa, come scintille da una girandola. Perché lui sapeva ciò che era accaduto quel pomeriggio, sapeva perché era stato trascinato fino al museo, sapeva e insieme temeva quella conoscenza con certezza orribile. Quando le premonizioni - l'immaginazione, avrebbe detto Kay; «immaginazione, sai bene che è solo quello e nient'altro, non mi piace sentirti gridare nel cuore della notte, mi fa venire male alla testa» - quando le premonizioni diventavano più forti iniziavano a opprimerlo più dei sogni. Iniziavano a filtrare attraverso il sipario che stava fra i due mondi. La seconda vista - un dono, aveva detto sua madre; una maledizione, suo padre aveva sussurrato fra i denti, Eric è morto, l'abbiamo trovato nel campo, Evan Perché non l'hai aiutato? - che era arrivata a lui attraverso generazioni, dal nonno Frederick al bis-bisnonno Ephran e da Dio solo sapeva quanti altri, nascosti fra i rami dell'albero genealogico, si faceva più acuta, più intensa, più paurosa. Questo non gli era mai successo prima, mai, e lui non sapeva come comportarsi. O fin dove l'avrebbe portato. Se le sue premonizioni diventavano più immediate, avrebbero potuto prendere il controllo su di lui, alla fine uscire definitivamente dai sogni e oscurargli il cammino in mezzo al mondo dei vivi? Gesù, pensò: avrebbe visto ogni cosa attraverso gli occhi della mente, il bene e il male, la bellezza e l'orrore devastante. Non voleva pensarci, perché aveva paura di quello che avrebbe provato. No. Devo controllarmi, devo tenere queste cose lontano da me, perché se cado in loro potere quale sarebbe... la reazione
di Kay? Orrore? Disgusto? Pietà? E così rimase seduto nel salotto, in compagnia di quelle visioni rapide e scintillanti, finché non udì la porta aprirsi e Kay e Laurie entrare in casa, entrambe sorridenti e felici e inconsapevoli. 15 IL SOGNO DI KAY — Siamo stati invitati a un party — Kay disse a Evan dal letto; lui era in bagno e si stava spazzolando i denti. — Sabato sera — aggiunse qualche secondo dopo. Lui si sciacquò la bocca e si guardò i denti nello specchio. Bianchi e diritti. Non aveva mai avuto problemi con i denti, nessuna carie, niente dolori. — A casa di chi? — Il capo del Dipartimento di Storia al George Ross. La dottoressa Drago. Evan si irrigidì senza volere, ma poi rilassò i muscoli e rimise via lo spazzolino. Fece un verso di assenso. — L'hai incontrata? — Sì. Un incontro molto strano, tra l'altro. Qualcuno stava curiosando attorno al mio ufficio, oggi pomeriggio; o almeno così mi è sembrato, anche se probabilmente mi sbaglio. In ogni caso, l'ho incontrata nella sua classe e abbiamo parlato per qualche minuto. Ti ricordi quella grande casa appena fuori il villaggio? È la sua. Evan spense la luce del bagno ed entrò in camera. Kay sedeva nel letto con le ginocchia raccolte e una rivista appoggiata sopra. Il chiarore dolce della lampada da notte al suo fianco gettava un intrico di ombre sul soffitto. — Un party ufficiale? — chiese, dirigendosi verso il letto. — No, niente del genere. Ha detto che si tratta semplicemente di una chiacchierata fra alcuni dei membri della facoltà. Lui spostò le lenzuola e scivolò nel letto, sedendo contro il cuscino. — Com'è lei? — Oh, ha i capelli scuri. Una donna piuttosto grande, direi. — Rimase zitta per un momento ed Evan la guardò. — I suoi occhi — disse allora. — Sono... colpiscono molto e... è strano... — Che cosa è strano? Lei strinse la spalle. — Niente. È una donna notevole. Il suo sguardo è... diretto, forte. E i suoi occhi sono del più bell'azzurro verde che abbia mai visto. Davvero.
Evan sorrise. — Sembri qualcun altro con cui ho parlato oggi. — Davvero? Chi? — Una donna di nome Anne, che lavora in biblioteca. È da lei che ho già sentito nominare questa Kathryn Drago. Lo sai che è anche sindaco di Bethany's Sin? — Dio mio — esclamò stupita Kay. — Dove trova il tempo di organizzare dei party? — E ha anche dato vita alla Società di Storia che gestisce il museo in Cowlington Street. Direi che deve avere un'agenda abbastanza piena, eh? — Direi anch'io. Ma sembra una donna molto efficiente, ben organizzata. — Per forza. Sai, sento nella tua voce qualcosa che ho sentito oggi in quella della bibliotecaria. Una crescente ammirazione. Certo, sono d'accordo che una donna così deve essere ammirata e rispettata, ma avresti dovuto sentire la signora della biblioteca. Sembrava l'adorazione di un eroe. Kay rimase in silenzio un attimo. — C'è qualcosa in quella donna — disse alla fine — che impone rispetto. Sì, è questa la parola che stavo cercando. Impone. Quando stavo là di fronte a lei mi sentivo... piccola. Come se lei fosse di una statura enorme, incombente, e io fossi assolutamente insignificante. Che cosa ne pensi? — Timore — disse Evan. — Si trattava di puro timore. E forse di un po' di nervosismo per essere l'ultima arrivata. Kay chiuse il volume e lo mise da parte, ma non accennò a spegnere la luce. Al contrario, rimase immobile per un po', fin quando Evan le prese gentilmente la mano. — Scusa — gli disse. — Stavo pensando a qualcosa. — Poi ricadde nel silenzio. — La scuola? Magari dei ragazzacci nella tua classe? — Vide che era distante, gli occhi sfocati e fissi. — Ehi — disse dolcemente. Cosa c'è che non va? — Aspettò, poi le diede un colpetto. — Cosa c'è che non va? — chiese di nuovo quando lei lo guardò. — Stavo pensando. Agli occhi - e non saprei perché - di quella donna. Al modo in cui mi guardava. Evan le accarezzò il braccio, sentendo una tensione che sembrava irraggiarsi dal suo corpo come se una molla fosse stata caricata dentro di lei. Caricata ancora e ancora e ancora. — I suoi occhi? — le chiese, guardandola attentamente. Che cos'è questa sensazione? chiese a se stesso. C'è qualcosa che non va. — Sì. Quando lei mi guardava io... non riuscivo a muovermi. Davvero,
non potevo. Quegli occhi erano così incredibilmente belli e così... incredibilmente forti. Mi sentivo strana mentre ritornavo, in macchina, come se le ossa mi stessero tremando, ma quando sono arrivata da Laurie e poi a casa quella sensazione era passata, e al contrario mi sentivo... proprio bene, come se tutto stesse andando come doveva. — Ed è così — disse Evan, baciandola sulla guancia. Sentì la pelle tesa e fredda. — Vuoi andare al party della dottoressa Drago? Kay esitò un attimo. — Sì — disse alla fine. — Voglio andarci. — Okay. Ci andremo. Così vedrò finalmente questa superdonna. E adesso perché non spegni la luce? Lei annuì e allungò il braccio, premendo l'interruttore. Il buio si affrettò a invadere la stanza. Evan si mosse sotto le lenzuola verso Kay, le baciò di muovo la guancia e poi le labbra, lievemente e dolcemente dapprima, come sapeva che a lei piaceva. Premendo il corpo contro quello di lei, tenendola forte e insieme teneramente, le baciò le labbra e aspettò che rispondesse. Ma lei non lo fece. Si tirò le lenzuola attorno al corpo e, senza dirgli una parola, si scostò leggermente. Lui rimase ferito e confuso. Si chiese che cosa avesse fatto di male: urtato i suoi sentimenti? Inavvertitamente dimenticato qualcosa? Fece per chiederle che cosa c'era che non andava quando si rese conto che la pelle di lei stava raffreddandosi; dapprima trasalì, poi rimase immobile al suo fianco tenendole una mano sulla spalla nuda e pensò che sembrava come se il calore venisse risucchiato via dal corpo di lei. Era silenziosa e respirava regolarmente, ma lui non avrebbe potuto dire se teneva gli occhi aperti o chiusi. — Kay? — disse piano. Nessuna risposta. — Kay? — Silenzio. Lei non si mosse. Evan rimase sveglio al suo fianco, a lungo. La pelle di lei era strana: fresca e insieme umida, come la pelle raggrinzita di chi sia stato immerso a lungo dentro una vasca di acqua tiepida. O come la pelle di un cadavere che si raffredda. E tuttavia il suo respiro era regolare, più profondo adesso che dormiva. Evan si sollevò leggermente su di lei, spostò con dolcezza i capelli dal viso e rimase a guardarla. Era una donna molto bella: sensibile, molto intelligente, tenera e attenta. Sapeva di amarla, di averla sempre amata e anche di averle fatto del male in quegli ultimi anni, e per questo si disprezzava. Lei cercava prima di tutto stabilità e sicurezza ed Evan si rendeva conto che aveva mandato in frantumi i suoi sogni, più e più volte, a causa delle sue stesse insicurezze e intime paure, che gli ribollivano dentro e a volte riuscivano a uscire. Aveva trascinato sia Kay che
Laurie dentro una serie interminabile di vicoli ciechi, e l'amara constatazione di quanto avesse reso instabili le loro vite gli lacerava il cuore. Loro meritavano molto di più di quanto lui non fosse stato in grado di dare; a volte si chiedeva se senza di lui se la sarebbero cavata meglio. Ma non aveva mai dato voce a quei pensieri; solo, ogni tanto ci pensava. Guardò ancora Kay, poi si distese e chiuse gli occhi. Mentre scivolava nel sonno gli sembrò di sentirla muovere di scatto al suo fianco, come se qualcosa l'avesse disturbata, ma poi pensò di averlo solo immaginato. Mentre il buio lo inghiottiva ebbe la visione improvvisa di quell'acquaforte di Artemide nella biblioteca. Vide quegli occhi fissi. Pensò alla reazione di Kay di fronte a Kathryn Drago. Drago. Drago. Quel nome rimbombava vuoto dentro di lui. E poi, finalmente, cadde in un sonno senza sogni. Ma non così Kay. Kay si ritrovò in un luogo sconosciuto e straniero, dove il sole ardeva rosso e gli avvoltoi si libravano in cerchi sopra una pianura visitata dalla morte. I corpi giacevano in mucchi sanguinanti e i resti della battaglia erano sparsi ai suoi piedi. Resti particolari: spade e lance, elmi spezzati, scudi deformati, placche di armature. E altre cose. Cavalli morti e moribondi, braccia e gambe tagliate, corpi mutilati. Qui un guerriero dalla barba nera che implorava pietà, mentre il sangue sgorgava copioso da una ferita all'addome. E Kay vide se stessa avvicinarsi all'uomo e mentre la sua ombra gli cadeva sul corpo lui la guardava con occhi colmi di terrore e si portava le mani davanti agli occhi. Lei rimaneva sopra di lui, a fissarlo. E seppe che il suo unico desiderio era quello di distruggerlo. Di allungare una mano e strappargli fuori le budella. Di calpestarlo fino a spezzargli le ossa. Egli parlò, in un dialetto che Kay dapprima non capì; poi però le parole sembrarono formare un senso dentro di lei: — ...risparmiami la vita... in nome degli dèi risparmiami la vita... Kay sapeva di essere osservata. Sentì l'odio alzarsi dentro di lei come amarissima bile. — Ecco la mia pietà — disse, e la sua voce risuonò bassa e gutturale e completamente irriconoscibile. E un istante dopo il braccio era calato, e l'arma stretta in pugno aveva tagliato l'aria con un sibilo spaventoso. La lama della scure incise la gola del guerriero, più a fondo, ancora più a fondo, mentre il sangue schizzava nell'aria e la bocca dell'uomo si spalancava in un grido muto, e più a fondo, ancora più a fondo penetrava quella lama stretta in pugno.
La testa rotolò sulla sabbia inzuppata di sangue, con la bocca ancora aperta, e dopo pochi metri si fermò per sempre. Ai suoi piedi il corpo iniziò una danza di morte, contraendosi, saltando, con il moncone del collo che ancora gettava sangue. Finché, lentamente, il cuore smise di battere. Kay scavalcò il corpo, si avvicinò alla testa, l'alzò per i capelli levandola alta sul proprio capo. Il sangue gocciolò sulle sue spalle, inondando una vecchia ferita che parve aprirsi di nuovo. Tenne la testa in alto, di fronte alle altre, poi aprì la bocca e lasciò uscire un urlo che la terrorizzò e insieme le diede un brivido di eccitazione, un lungo, selvaggio, acuto urlo che echeggiò attraverso la pianura. Le altre risposero al grido di guerra, finché la terra intera ne fu scossa e il mondo non ebbe altra voce. Poi lei fece mulinare la testa sopra di sé e la scaraventò al suolo con una forza tale da spaccare il cranio, facendone uscire il cervello come una gelatina giallastra. Il suo cavallo, enorme ma dai fianchi snelli, la stava aspettando. Lo raggiunse con pochi passi, balzò in groppa e fece scivolare l'ascia dentro una faretra di pelle di leone legata al dorso dell'animale. Davanti a sé vide una nuvola di polvere gonfiarsi all'orizzonte. Erano tre cavalieri che si avvicinavano, e gli zoccoli dei loro destrieri alzavano spirali di sabbia sul campo di battaglia, evitando, con balzi esperti, i cadaveri e gli oggetti. I cavalieri tirarono le redini, i loro occhi scintillarono di eccitazione e sete di sangue e una di loro, Demondae l'Oscura, indicò l'ovest e disse che gli ultimi nemici stavano fuggendo, ora, strisciando sul ventre e mangiando sabbia e piagnucolando per il tocco della morte. Possiamo dar loro la morte in un solo giro del sole, disse Demondae, con il viso ancora macchiato del sangue di un guerriero a cui aveva spezzato la schiena con un colpo d'ascia. Sotto di lei lo scuro cavallo madido di sudore scartava impaziente, i sensi ancora eccitati dai clangori e dagli urli della battaglia. Iniziarono a dare la caccia al nemico verso ovest, spaventando gli avvoltoi che dalla pianura si alzarono in cielo e rimasero là a sorvegliare il ricco banchetto di uomini e bestie. Kay sentì il sangue cantarle e capì che non si trattava del suo stesso sangue. Attraverso gli occhi, ridotti a due fessure contro i raggi ardenti del sole, guardava sdegnosa i corpi mutilati e sapeva che non erano i suoi occhi a guardare. Una lunga cicatrice irregolare le correva lungo la coscia fino al ginocchio, il segno di una battaglia precedente, ma lei sapeva che non era la sua pelle a portare quel segno. No, no. Erano il sangue e gli occhi e il cervello di un'altra. Di un essere feroce e terribile e affamato di distruzione come lo si può essere di cibo e di acqua. Di un essere che aveva tagliato
via la testa di un uomo e aveva urlato un grido di battaglia vecchio decine di secoli. Di un essere che stava dentro di lei. E che ora cacciava la preda alla luce rossa del sole. Guardando a destra e a sinistra come un animale che scruta la foresta in cerca del pericolo. Che inalava un fiotto d'aria dolciastra, l'odore della decomposizione e del sangue degli uomini. Che sentiva la forza bruta dell'animale fra i muscoli lisci delle coscie. Kay poteva leggere dentro la mente di questo essere, poteva sentirne i pensieri e percepire la corsa del sangue nelle vene come in fiumi in piena. Forse ne prenderò uno. Reclamerò il più forte e lo trascinerò legato dietro al mio cavallo come un fascio di paglia. E poi gli toglierò lentamente la pelle come si toglie la pelle a... No. Kay udì la propria vera voce provenire da un tunnel perso nel tempo. No... ...a un frutto fradicio. Fino a che urlerà... Ti prego. No. Ti prego. Non riesco a respirare. Voglio svegliarmi voglio svegliarmi... ...per chiedere pietà e allora gli spaccherò il cranio... Ti prego. Ti prego. Lasciami andare. Lasciami andare... ...e mangerò il cervello del guerriero dalla coppa del teschio. Non riesco a respirare. Non riesco... voglio... Non riesco... Ti prego... — Ti prego... — Kay udì la sua voce echeggiare, echeggiare, echeggiare dentro la testa e improvvisamente il campo di battaglia e il sole ardente iniziarono a fondersi come un disegno a olio i cui colori si mischiassero fino a diventare grigi, non più vita e morte ma lei che emergeva da un luogo antico, simile a una caverna. Un rumore. Un globo di luce. Non il sole. Non più corpi. Non quella carneficina. Dove sono? Non lo so, sono persa non so dove sono né chi sono, né perché... — Kay? — Qualcuno che parlava dolcemente. Un uomo. Il nemico è qui, colui che distrugge tutte le cose buone e belle. Uomini. — Kay? Tentò di metterlo a fuoco, tentò di rimettere insieme i frammenti di immagine. Per un attimo lo vide con una barba nera e gli occhi spalancati dal terrore e un odio puro, freddo, simile a un lampo le scoppiò dentro, ma udì se stessa dire sono Kay Reid, stavo dormendo e ora mi sono svegliata. La sensazione del sogno si increspò per un attimo ancora dentro di lei e poi scomparve. — O mio Dio — si sentì esclamare e si rese conto che stava fissando la lampada che lui aveva acceso. — Ehi — fece Evan, gli occhi gonfi di sonno, dandole un colpetto. Dove
sei stata? — Dove sono... stata? — Sì — continuò lui — che cosa stavi sognando? Hai iniziato ad agitarti e a dire qualcosa, ma troppo piano e non ho capito. Kay di scatto tese le braccia e lo strinse forte. Lui sentì il cuore che le batteva all'impazzata. — È stato un incubo? — le chiese, ora davvero preoccupato. — O mio Dio, sì — rispose Kay. — Tienimi solo abbracciata per un minuto. Non dire nulla, tienimi solo abbracciata. Rimasero stretti, in silenzio, per un lungo tempo. Poi il silenzio fu rotto da quel cane in fondo alla strada che iniziò ad abbaiare. — Dannato cane — fece Evan irritato. — Chiunque sia il padrone lo dovrebbe imbavagliare quando scocca la mezzanotte. Ti senti un po' meglio ora? Lei annuì, ma era una bugia. Sentiva un grande freddo dentro, come se una parte della sua anima fosse rimasta nella caverna che l'aveva inghiottita quando era caduta nel sonno. Si sentiva debole e prosciugata; la stessa sensazione, si rese conto, che si era impadronita di lei durante l'incontro con Kathryn Drago nell'anfiteatro. Basta! disse a se stessa aspramente. Questo non ha senso! È stato un incubo e nient'altro! Ma per la prima volta nella sua vita una scheggia del suo cervello rifiutava di accettare quella verità, e allora la paura la invase come l'acqua che trabocchi da una diga, dietro alla quale si è accumulata per anni. Solo una piccola onda, all'inizio, ma abbastanza per mettere in discussione il cemento armato della ragione. — Pensavo che gli incubi appartenessero al mio dipartimento — disse Evan, cercando di scherzare ma accorgendosi immediatamente che aveva detto la cosa sbagliata. Il viso di lei si rannuvolò nel dubbio. Lui allora continuò a stringerla in silenzio, sempre sentendo il battito veloce del suo cuore. Di qualsiasi cosa si fosse trattato l'aveva spaventata da morire. Disse — Vuoi raccontarlo? — Non ancora. Ti prego. — Va bene. Quando vuoi, allora. — Non l'aveva mai vista così sconvolta da un sogno, perché lei non era come lui, e vederla così lo sconvolgeva, perché lei era sempre stata così forte, così logica. — Tu... mi hai chiesto dove sono stata — disse Kay. — E in effetti era proprio come se fossi in un posto... molto diverso. O almeno una parte di me lo era. Non so; è così strano che non so come spiegarlo. — Si fermò. Il cane abbaiò, ancora e ancora. — Ero in un... una specie di campo di battaglia. C'erano corpi e spade e scudi sparpagliati sul terreno. I corpi erano...
mutilati. Senza testa. — Rabbrividì e lui le accarezzò la nuca per calmarla. — Ho persino... ucciso un uomo. — Tentò di sorridere, ma i muscoli non le risposero; il viso pareva congelato. — Gli ho tagliato la testa. Dio, è stato così... reale. Ogni cosa sembrava reale. — Solo un sogno — disse lui. — Assolutamente non reale. — Ma potevo persino sentire il calore del sole sulla pelle. Il mio corpo era diverso; la mia voce era diversa. Ricordo... — scostò improvvisamente le lenzuola per guardarsi la coscia sinistra. — Che cosa c'è? — chiese Evan, stringendo gli occhi. La sua coscia era liscia e senza segni, tranne alcune lentiggini vicino al ginocchio. — Avevo una terribile cicatrice sulla gamba, in sogno. Proprio qui. — Toccò la coscia. — Era così reale, così tanto reale! E noi ci mettemmo a dare la caccia agli uomini, per ucciderli... — Noi? Chi altro? — Alcune altre. — Scosse la testa. — Non ricordo più. Ma so che parte di me... voleva trovare quegli uomini. Parte di me voleva sterminarli perché li odiavo come non ho mai odiato nessuno in tutta la mia vita. Non solo ucciderli ma farli a pezzi. Farli... oh, è troppo orribile pensarci! — Va bene, va bene. Allora non pensarci. Forza, mettiti giù. Così. Ora spengo la luce, va bene? E noi ci riaddormentiamo. È stato solo un sogno. — Che strano — disse piano Kay. — Te l'ho detto io così tante volte. Frammenti dei suoi sogni gli tornarono in mente affollandosi come ombre spaventose, come forme striscianti fuori dal buio. Le respinse, chiudendole dietro una porta mentale. Dietro quella porta presero a mugolare maligne. — Spengo la luce — annunciò, e premette l'interruttore. Kay scivolò vicino a lui, come se avesse paura dello spazio vuoto fra di loro. In fondo alla via il cane abbaiò di nuovo, con forza crescente. Poi di colpo tacque. — Grazie a Dio per le piccole cose — brontolò Evan. — Era così reale! — disse Kay, incapace di scacciare le immagini del sogno. — Potevo sentire il peso dell'ascia nella mano. E sentivo il cavallo muoversi sotto di me. Evan rimase immobile. — Che cosa? — Ero a cavallo — spiegò lei. — Un cavallo grande. Potevo sentire la sua forza sotto di me... — Un cavallo? — sussurrò lui. Lei lo guardò, sentendo qualcosa nella sua voce che non capiva. I suoi occhi erano aperti e fissi sul soffitto.
— E le altre erano... a cavallo anche loro? — chiese Evan dopo un intervallo che a Kay parve lunghissimo. — Sì. Lui rimase zitto. — Perché questo ti interessa tanto? — allora gli chiese. — Non è nulla. Sapevi che la dottoressa Kathryn Drago alleva cavalli, vero? — Sì. — Ecco fatto, allora — disse lui. — Questo spiega il tuo sogno. O almeno una parte. Forse sei agitata all'idea di andare a quel party; c'era anche la Drago nel sogno? Kay pensò per un istante. — No, non c'era. — Be', a ogni modo questo spiega la parte sui cavalli. — Sbadigliò e diede un'occhiata all'orologio da notte. Le quattro e dieci. "Agitata?" si chiese Kay, con le sopracciglia aggrottate. Sì, doveva ammettere di essere un po' nervosa per il sabato sera; nervosa al pensiero di conoscere gente nuova e nervosa, stranamente, all'idea di trovarsi di nuovo così vicina a Kathryn Drago. Era l'aura di forza che quella donna irraggiava, decise, che la metteva così tanto a disagio. Chissà come ci si sentiva a possedere tutto quel potere? Ad avere così tanta influenza sulla gente? Si chiese come fosse il marito della dottoressa Drago. Un uomo grosso con una personalità forte, impositiva? Oppure l'opposto di lei: piuttosto piccolo e mite? Certamente ricco, in entrambi i casi. Sarebbe stato interessante scoprirlo. Il terrore e la ripugnanza causatale dal sogno erano svaniti, ora, e aveva di nuovo sonno. Evan non si era più mosso e lei pensò che si fosse addormentato. Si fece ancor più vicina a lui e si lasciò andare. Ma nel buio gli occhi di Evan erano ancora aperti. Di tanto in tanto si muovevano, come se sul soffitto potessero trovare la strada per uscire da una gabbia orribile che stava per chiudersi. 16 LA CASA DELLA DOTTORESSA DRAGO Molto prima di raggiungere il muro che separava la proprietà Drago dalla strada provinciale, Kay ed Evan scorsero il riflesso delle luci nel cielo scuro. Il cancello di ferro battuto che portava al centro una D era aperto ed Evan svoltò dentro il viale privato che portava attraverso i boschi fino alla
casa. Davanti si scorgevano lanterne colorate che pendevano da fili tesi fra i rami bassi degli alberi e che gettavano attorno riflessi multicolori. E poi, dopo una leggera curva, la casa apparve nel suo pieno splendore. Furono le sue dimensioni a lasciarli sbalorditi. Ne avevano scorto appena il tetto, quel primo giorno dalla strada, ed erano stati tratti in inganno; ora le colonne di pietra della facciata ricordarono a Evan una specie di costruzione greca o romana, fiancheggiata ai quattro angoli da quattro torri a due piani. Non aveva mai visto prima un'abitazione tanto grande; il suo primo pensiero fu quanto potesse essere costata. Un milione di dollari? Due milioni? O ancora di più? Le luci scintillavano come fuochi da una miriade di finestre, andando a riflettersi e moltiplicarsi sui finestrini delle auto parcheggiate lungo il viale. Kay sentì che lo stomaco le si contraeva. Si chiese se avesse fatto bene ad accettare l'invito. Ci sarebbero certo state persone importanti, là dentro, persone vestite nel modo appropriato che parlavano il linguaggio della cultura e delle finanze, persone intelligenti e ambiziose bene addentro i segreti del mondo. Pensò che i suoi capelli non fossero a posto, sebbene li avesse spazzolati fino a farli splendere; pensò che il completo pantalone beige, morbido e attillato, che aveva comperato il giorno prima a Westbury Mall non le stesse troppo bene, sebbene Evan le avesse ripetuto dieci volte che su di lei era perfetto; pensò che non si sarebbe trovata a suo agio là in mezzo e temette irrimediabili disastri: macchie di sudore sotto le ascelle, alito cattivo (la bottiglia di collutorio nel bagno, comprata tre giorni prima, era già mezzo vuota), frasi sbagliate nel tentativo di parere spiritosa. Evan le aveva detto di rilassarsi, che tutte quelle persone non sarebbero state affatto diverse da loro, ma lei non gli voleva credere. Evan aveva comperato una cravatta nuova da abbinare al blazer blu marino, ai pantaloni grigi e alla camicia azzurra. Aveva passato tutti i negozi di Westbury Mail finché non ne aveva trovata una con piccoli cavalli grigi su uno sfondo blu scuro. All'ultimo momento Kay aveva deciso che non ci sarebbero andati perché non era riuscita a trovare una baby sitter per Laurie. Aveva però chiesto alla signora Demargeon se non conoscesse una ragazza adatta, magari una teenager desiderosa di guadagnare dieci dollari, ma la signora Demargeon aveva insistito per venire lei stessa, e nulla di ciò che Kay aveva obiettato aveva potuto dissuaderla. Andate e godetevi il party, aveva detto allegramente la signora. Laurie e io ce la caveremo bene. E ora Evan stava fermando la familiare di lato e spegneva il motore. Be-
ne — disse, stringendole la mano rassicurante — eccoci qui. C'era un lungo vialetto d'ingresso fiancheggiato da siepi perfette che conduceva all'imponente portone. Evan mise un braccio attorno alla vita di Kay, picchiò con il battente di ottone scintillante, e attese. Udivano provenire dall'interno il rumore della conversazione, risa, musica. Un movimento dietro la porta. Sul vialetto una fila di lanterne si mosse spinta dalla brezza, mandando bagliori colorati, e un grappolo di campanelle tintinnò gaiamente. La porta si aprì e ne uscì un torrente di chiacchiere e allegria. Una figura comparve sulla soglia. — Ah, eccovi, siete voi! — esclamò. Iniziavo a pensare che non sareste venuti. Prego... — La porta si aprì di più; la figura fece cenno di entrare. Kay ed Evan oltrepassarono la donna, entrando in una vasta sala dal soffitto alto e dal meraviglioso pavimento di ceramica verde azzurra. Evan scorse i candelieri che illuminavano una fuga di magnifiche stanze, arredate con mobili costosi e molto verde. C'erano alcuni ospiti che facevano capannello in quella prima sala, con i bicchieri in mano, ma la maggior parte sembrava raccolta nelle altre stanze. — Dottoressa Drago — stava dicendo Kay — vorrei presentarle mio marito, Evan. Ed Evan si voltò verso la donna. Indossava un abito nero che sfiorava il pavimento e braccialetti d'oro ai polsi; i capelli erano pettinati all'indietro, ed Evan si trovò a fissare sinceramente affascinato il fondo degli occhi più belli che avesse mai visto. Essi guardavano senza distogliersi, senza il minimo battito di ciglia, e tennero incatenati quelli di lui fino a che la donna sorrise e tese la mano dalle unghie laccate. — Kathryn Drago. Molto lieta di conoscerla. — Lui prese la mano tesa, sentì le proprie ossa scricchiolare in quella stretta ma riuscì a mantenere un'espressione sorridente. In quel momento Kay si accorse di quanto grande fosse quella donna: le sue spalle erano ampie quasi quanto quelle di Evan e sembrava addirittura leggermente più alta di lui. La donna lasciò la mano di Evan e lui, continuando a sorridere, si sfregò le nocche. Intanto Kathryn Drago si era voltata dicendo — Vi faccio vedere il patio — e li condusse lungo il corridoio dal pavimento di ceramica. — Kay, come sono andate le sue lezioni questa settimana? — Bene — rispose Kay. Il brusio delle voci era ormai vicino. — Non l'hanno ancora fatta impazzire, spero? — Be', finora sono riuscita a controllarli.
— Sì — disse l'altra, e sorrise. — Sono convinta che ce la farà, fino in fondo. Intanto Evan aveva notato qualcosa di strano, nelle casa. Non c'erano assolutamente quadri alle pareti; al loro posto, su queste e sui soffitti si vedevano affreschi dai colori brillanti, che mostravano scene pastorali, rovine di templi greci, cavalli dai fianchi nervosi che correvano in branco. Aveva visto, prima, gli occhi della Drago fissarsi per un attimo sulla sua cravatta, stringersi leggermente e poi ritornare al suo viso. E sebbene la donna avesse sorriso cordialmente a lui era parso di cogliere qualcosa di forzato, in quel sorriso. Qualcosa di freddo e di strano. La guardò mentre si muoveva con grazia davanti a loro; era una donna molto bella, su questo non c'erano dubbi. Ma qualcosa che andava al di là della bellezza la rendeva così attraente: dal primo istante Evan aveva percepito una sensualità primitiva che ardeva sotto la fredda compostezza del suo atteggiamento. Era qualcosa che avrebbe potuto toccare, semplicemente allungando una mano, e per un attimo gli sembrò anche di sentire un profumo di muschio, il più sensuale tra gli odori, avvolgerlo lungo quel corridoio affrescato. Si rese conto improvvisamente di stare all'erta, con i sensi svegli e pronti. — È una casa bellissima — stava dicendo Kay. — L'ha fatta costruire suo marito oppure l'ha comperata già così? La Drago ebbe una risata rauca. — Mio marito? No. Non sono sposata. L'ho fatta costruire io stessa. Arrivarono in una sala ampia, dal pavimento di pietra con colonne di marmo. C'era un bar dietro al quale un barista dall'aspetto professionale in giacchetta bianca stava mescolando un cocktail dentro una caraffa. Alcune coppie eleganti erano in piedi e chiacchieravano attorno al bar, come satelliti attorno al pianeta, e a malapena notarono l'ingresso di Kay ed Evan dal corridoio. Ma Evan notò come tutti gli occhi si posassero pieni di rispetto sulla dottoressa Drago. In un angolo, vicino a un enorme camino i cui lati erano istoriati in forma di figure umane, un trio di musicisti - mandolino, chitarra e flauto - suonava una melodia apparentemente straniera, spagnola o greca decise Evan. Quella musica sembrava animare gli affreschi alle pareti. Porte a vetrata si aprivano sul patio lastricato, dove sostava una cinquantina di altri ospiti; tutt'attorno al patio erano accese torce che si animavano allo spirare della brezza, aggiungendo una luce suggestiva a quella delle lanterne sospese fra gli alberi. La Drago li guidò verso il bar. — Una bibita? — chiese. Evan scosse la testa, Kay chiese un gin tonic. La donna fece girare lo sguardo sulla sala
per pochi secondi, poi i suoi occhi si fermarono in quelli di Evan. — Qual è il suo lavoro, signor Reid? — Sono uno scrittore — rispose lui. — Ha pubblicato già diversi racconti — intervenne Kay, prendendo il gin tonic che il barista le stava offrendo. — Capisco. — Di nuovo gli occhi della dottoressa Drago si posarono, in un lampo, sulla cravatta di Evan. E poi indietro sul viso. Sorrideva, ma Evan poteva percepire chiaramente la forza che stava dietro a quegli occhi; ora capiva che cosa Kay intendesse dire. Gli sembrava che questa donna tentasse di risucchiargli il cervello attraverso gli occhi. E per poco non vi riusciva, perché lui provò il desiderio improvviso di raccontarle il suo progetto su Bethany's Sin. Ma resistette. E allora gli parve di vedere qualcosa lampeggiare nello sguardo di lei, qualcosa di velocissimo eppure netto, il danzare di fiamme blu scuro come dietro la grata di una stufa a gas. Evan sbatté le palpebre, istintivamente, e allora la strana illusione svanì. Il rumore della musica sembrò invadere l'ambiente, divenne fastidioso. — Ho saputo solo da poco che lei è anche sindaco di Bethany's Sin — disse Kay. — Come riesce a conciliare tutto questo impegno con il lavoro che le deve dare la scuola? — Non senza parecchi sforzi, questo è vero — rispose lei, spostando lo sguardo su Kay. — Ma devo dire che, in tutta onestà, non è molto difficoltoso gestire l'amministrazione di un villaggio di queste dimensioni. E inoltre gli abitanti cercano sempre di darmi una mano. — Sorrise. — In realtà riesco a delegare il novantanove per cento del lavoro agli altri. — E la Società di Storia? — intervenne Evan. — Anche quella deve prenderle molto tempo, o mi sbaglio? Ella girò lentamente la testa verso di lui. I suoi occhi improvvisamente si fecero pesanti, come se lo scrutasse con sdegno. Sorrideva ancora, ma ora quel sorriso appariva freddo e calcolato. — Dunque — disse con calma — vedo che lei mi conosce più di quanto non pensassi. Evan strinse le spalle. — Ho solo messo insieme le informazioni raccolte qua e là. Lei annuì. — Certo. Fa parte del suo lavoro, non è vero? Intendo dire, scavare. La Società di Storia... va avanti da sola. — Sono andato al museo qualche giorno fa — continuò Evan, osservandola per cogliere le sue reazioni — ma era chiuso. Né io né Kay abbiamo ancora avuto occasione di vederlo. Mi interessano molto i reperti storici. — Davvero? È meraviglioso. La storia è una materia affascinante. È la
mia vita, in realtà. Dopo tutto, che cosa sarebbero il presente e il futuro senza le fondamenta del passato? — Sono d'accordo. Ma che tipo di reperti ci sono nel museo, esattamente? Di quale periodo? Lei lo fissò negli occhi per non più di qualche secondo, ma a Evan parve un'eternità. Di nuovo gli parve di veder danzare delle fiammelle blu scuro, mentre dita d'acciaio gli stringevano il cranio. La bruciante intensità dello sguardo di questa donna gli faceva dolere il fondo degli occhi. — Manufatti molto antichi e pregiati provenienti da uno scavo archeologico che diressi nel 1965, sulle rive meridionali del Mar Nero. Fanno parte di un prestito ufficiale del governo turco. — Archeologia? Pensavo che lei fosse professore di storia. — Infatti. Ma l'archeologia è stata il mio primo amore. Quando abbandonai le ricerche sul campo mi dedicai più a fondo allo studio della storia. — Spostò per un attimo lo sguardo su Kay. — Kay, non gradirebbe un'altra bibita? Dopo qualche secondo Kay sbatté le palpebre e rispose — Sì, grazie. Diede il bicchiere, ancora mezzo pieno, alla dottoressa Drago che si diresse al bar. — Il signore e la signora Reid! — esclamò qualcuno dietro di loro. Che piacere incontrarvi! Si voltarono per trovarsi di fronte alla signora Giles, che indossava una lungo abito vaporoso con ricami d'oro; dietro di lei c'era un uomo dai capelli scuri, di altezza media, in abito marrone chiaro. — Questo è mio marito, David — fece la signora Giles, completando poi le presentazioni. Evan tese la mano destra all'altro, ma David Giles offerse la sinistra, ruotando il polso per stringere con forza quella di Evan. Fu allora che Evan si accorse, con un brivido freddo, che la manica destra di David Giles era appuntata appena sopra il gomito. Rimase a fissare come instupidito quella manica vuota per qualche secondo, sentendo il cuore martellargli in petto come un tamburo pagano che in lontananza annuncia pericolo. Il suo gin tonic — disse la dottoressa Drago, porgendo il bicchiere a Kay. — Salve Marcia, David — li salutò. — Vedo che vi conoscete. — È così — rispose la signora Giles. — Servitevi pure al bar — disse la Drago. — Quanto a me, se mi scusate vado a occuparmi degli altri ospiti. Vi auguro buon divertimento. — E con ciò uscì nel patio, lasciando sospeso nell'aria quel lieve odore di muschio che circondò Evan come un velo profumato e invisibile.
Kay e Marcia Giles chiacchierarono per qualche minuto del villaggio, mentre Evan studiava David Giles; l'uomo pareva a disagio, teneva le spalle contratte come se si aspettasse un colpo sulla nuca. Sembrava essere sulla cinquantina, con occhi scuri e guance incavate. Evitava di proposito di incrociare lo sguardo con Evan, sembrava anzi sfuggire i suoi occhi come impaurito. Evan però si sentiva disturbato da quella manica appuntata. Gli ricordava la figura mutilata che aveva visto fra le tende della finestra e sentiva un dito freddo sfiorarlo, come acciaio, lungo la spina dorsale. — Qual è il suo lavoro? — chiese infine all'uomo. Giles alzò la testa come se non avesse sentito. — Prego? — Il suo lavoro. Che cosa fa? — Io... vendo assicurazioni per la Pennsylvania State Equity. Quella compagnia con il grosso ombrello che copre ogni cosa. — Certo — fece Evan, e sorrise. — Ho visto la pubblicità in televisione. Ha un ufficio qui nel villaggio? — No, lavoro da casa. — Rimase zitto un attimo, guardandosi in giro. — Marcia mi ha raccontato di lei e sua moglie. Vi siete trasferiti in una casa di McClain Terrace? — Esatto. — Un bel posticino — disse. Un'altra pausa. — Spero che il villaggio le piaccia. — E un posto interessante — fece Evan. — Naturalmente, per me tutti i posti che hanno segreti sono interessanti. — Lo disse con calma, scrutando il viso dell'uomo. Questo non mostrò reazioni, ma con la coda dell'occhio Evan vide la signora Giles voltare leggermente la testa. — Segreti? — chiese lei, sorridendo cordiale. — Che genere di segreti? — Ho fatto alcune ricerche per un articolo sul villaggio — spiegò Evan. — Sembra che ci sia un segreto dietro il suo nome. O meglio, diciamo che è dannatamente difficile trovare qualcosa che ne parli. La signora Giles rise dolcemente. Che genere di insetto mi ricorda? si chiese Evan. Qualcosa di astuto e aggressivo. Sì, una mantide religiosa. — Mi dispiace che abbia fatto tanta fatica — disse. — Avrei potuto risparmiarvela io. Negli anni Cinquanta non c'era nulla qui tranne qualche casetta di assi e un negozietto che vendeva di tutto. Ma c'era almeno un abitante importante: si chiamava George Bethany ed era proprietario di... be', diciamo che era un uomo d'affari cresciuto in proprio con un interesse per le signore. Alcune di quelle signore pensò bene di metterle a lavorare. Guadagnando alle loro spalle.
Evan alzò le sopracciglia. — Prostituzione? — Temo di sì. Le sue signore offrirono i loro servigi agli agricoltori e ai boscaioli di tutta l'area di Johnstown, fino a che la polizia non lo cacciò fuori dallo stato. Qualcuno - non saprei chi - iniziò a chiamare il luogo "Il Peccato di Bethany" in onore - per così dire - dell'uomo. Il nome rimase, anche se qualche tempo fa, una volta, cercammo di cambiarlo. Evan strinse le spalle. — Perché cambiarlo? Penso che sia tutto molto interessante. — Non è esattamente l'immagine che vorremmo dare al resto dello stato, però. — Lei sorrise con il suo sorriso da mantide. — E certamente non quello che vorremmo che tutta la Pennsylvania leggesse. — Era solo un'idea a cui stava lavorando — intervenne Kay in difesa. — Un'idea su cui sto lavorando — la corresse lui. Poi guardò di nuovo la signora Giles. — Come ha scoperto tutto questo? — La proprietà è il mio campo di lavoro. Stavo cercando alcune vecchie carte che registravano una proprietà a Johnstown, quando mi sono imbattuta in alcuni dei... documenti professionali di quell'uomo. Sono custoditi nel seminterrato del palazzo municipale di Johnstown. O almeno c'erano fino a tre... no, quattro anni fa. Se ci siano ancora non so. — Dovrò andare a dare un'occhiata, allora. — Bene, buona fortuna. — La signora Giles mise un braccio attorno al marito, sfiorò il moncherino mutilato e lo accarezzò. — Sebbene devo dire che spero che il suo articolo rimanga non scritto. Temo che la gente del luogo non sia di vedute così ampie come lei potrebbe pensare. Cosa voleva dire? si chiese Evan, incrociando il suo sguardo piatto e inespressivo. Che Kay e io potremmo essere presi di mira e cacciati dal villaggio? Che verremmo isolati dalla società? Qualsiasi fosse la conseguenza, la velata minaccia era stata espressa. Interessante, in sé e per sé. Evan prese la mano di Kay. — Penso che daremo un'occhiata in giro — disse alla donna. — È stato un piacere incontrarla. E conoscerla. — Accennò in direzione di David Giles e vide negli occhi dell'uomo una oscurità insondabile e inquietante. Aveva già visto quello sguardo vuoto, e cercò nella memoria. Ma sì, certo. Gli occhi di Harris Demargeon. E gli occhi degli uomini che erano stati messi dietro le sbarre di bambù nel campo di prigionia vietcong. Che cosa potevano avere in comune? Evan condusse Kay verso il patio. — Che cosa c'è che non va? — gli chiese lei mentre uscivano. — Ti stai comportando in modo non normale. — Davvero? E come?
— Preoccupato. E sei stato anche un po' scortese verso la signora Giles. — Non me ne sono reso conto — rispose lui. — Se sono stato maleducato mi dispiace. — E fissavi il braccio di suo marito come se non avessi mai visto un uomo mutilato prima d'ora. Evan emise un grugnito. — È proprio questo il punto — disse con voce tranquilla — che l'ho già visto. Lei lo guardò senza capire. Vide il suo sguardo oscurarsi e allora distolse il proprio, per non vedere quelle cose strane, paurose che venivano a galla dai luoghi nascosti della sua anima. Non qui! gli disse mentalmente. Ti prego, per l'amor di Dio! Non qui! Lui le mise un braccio attorno alle spalle. — Va tutto bene — disse, come se avesse percepito la paura di lei. — Davvero, sto bene. Era una bugia. Il meccanismo dentro al suo cervello aveva iniziato a soppesare domande, vaghe premonizioni, sensazioni di cui lui era incapace di liberarsi. Non posso lasciare che lei se ne accorga, si disse. Devo controllarmi. E improvvisamente, dalla piccola folla di persone che chiacchierava sul patio, un'altra coppia si fermò di fronte a loro. L'uomo era più basso e robusto di Evan e forse di qualche anno più vecchio, con capelli castano chiaro non troppo corti e due occhi azzurri intelligenti e vivaci. Stringeva tra i denti una pipa di radica che non sembrava però accesa. Al suo fianco stava una donna piccola e graziosa, dai capelli biondo miele e attraenti occhi verdi che riflettevano le luci delle lanterne. In qualche modo sembravano perfettamente adatti l'uno all'altra, anche se al primo sguardo si notava come fossero agli opposti: lui esuberante e gioviale, lei più sensibile e meditativa. — Ma io la conosco, vero? — chiese l'uomo, guardando Kay con aria interrogativa. — Non credo... — Ma certo! Lei è la nuova insegnante di matematica al George Ross! Kay annuì, pensando che il suo viso pareva stranamente familiare. E poi, riconoscendo la pipa di radica, ricordò. — Naturalmente! Lei è l'uomo che una volta ha perso tutte le monete dentro la macchina delle bibite in sala professori. È professore di... — Lettere classiche — fece lui e sorrise, voltandosi verso Evan e tendendo la mano. — Mi chiamo Doug Blackburn e questa è mia moglie Christie. — Evan gli strinse la mano e fece le presentazioni. — E non mi hanno ancora dato indietro i miei soldi — disse l'uomo a Kay. Questi la-
druncoli di monetine sono capaci di svuotarti le tasche, a non stare attenti. Ha già mangiato in mensa? Se non l'ha fatto mi permetta di avvertirla. Non entri senza un medico. E si assicuri che questi abbia con sé l'occorrente per la lavanda gastrica. O meglio ancora, si porti il pranzo da casa! — Risero, poi l'uomo girò lo sguardo sul patio. — C'è molta gente, qui, ma pochi che conosciamo. — Mise un braccio sulle spalle della moglie. — Dove abitate? — A Bethany's Sin — rispose Evan. — Ci siamo passati qualche volta — fece Christie. — Un bellissimo posto. — Voi abitate da queste parti? — chiese Kay. — A Whittington — rispose Blackburn. — Noioso come l'inferno. Tirano giù le tapparelle alle cinque di sera. E così — si interruppe per qualche secondo mentre accendeva la pipa — vanno bene le lezioni? — È ancora un mordi e fuggi — spiegò lei. — Se riesco a portarli oltre agosto penso che poi andrà tutto bene. — Speriamo tutti di riuscire a portarli oltre agosto. I piccoli bastardi della lezione delle otto mi stanno facendo impazzire. Non leggono mai a casa, non rispondono alle domande in classe; non riconoscerebbero la Gorgone nemmeno se Medusa in persona li impietrisse. Mi viene voglia di bocciarli tutti quanti, quegli idioti. No, meglio di no. Almeno non per il gusto di farlo. — Sfregò un altro fiammifero e lo tenne sul fornello della pipa. — Mitologia? — chiese Evan. — È una delle sue materie? — Esatto. Mitologia, Storia romana, Latino, Greco. Le interessa qualcuna di queste? — Sì, in un certo modo. Ho visto un'acquaforte nella biblioteca di Bethany's Sin; mostra una donna con arco e frecce sullo sfondo di una foresta. È una specie di dea greca, e mi stavo chiedendo... — Artemide — disse Blackburn. — Ma è conosciuta anche con altri nomi: Diana, Cibele, Demetra. — Oh. Ed è la divinità di che cosa? Blackburn sorrise e strinse le spalle. — Un po' di tutto. Questi greci avevano la tendenza a complicare le cose, fra cui i campi di intervento dei loro dèi, capisce. Artemide era dea e protettrice delle donne, del raccolto, e divinità della luna. Ma è specialmente conosciuta come la Cacciatrice. — La... Cacciatrice? — fece piano Evan. Kay gli prese il braccio. — Che cos'è tutta questa faccenda? — chiese. — Non sapevo che ti interessasse la mitologia.
— E in effetti no, fino a poco tempo fa. — Allora ha probabilmente parlato con Kathryn Drago — fece Blackburn. — Mi ha stretto all'angolo più di una volta. E dal momento che vivete a Bethany's Sin non mi stupisco che le interessi Artemide. Evan fece una pausa di qualche secondo. — Non capisco — disse alla fine. — Il museo di Bethany's Sin! — esclamò Blackburn. — Artemide era la dea delle... — Eccovi qui — disse una voce, mentre una figura si portava di fianco a Evan e lo prendeva sottobraccio. — Vi stavo cercando. — La dottoressa Drago fece un cenno a Blackburn e a sua moglie. Teneva in mano una coppa di cristallo colma di un vino rosso denso. — Dottor Blackburn. Vedo che lei e sua moglie avete conosciuto i Reid. — Sì, e stavamo chiacchierando di un argomento che dovrebbe interessarle — disse lui con tono mondano. — Il signor Reid mi stava chiedendo della dea Artemide. Credo che non gli abbia ancora fatto fare il giro del suo museo, vero? — Sorrise leggermente. La dottoressa Drago rimase in silenzio per un momento, mentre faceva girare il vino nella coppa. Un silenzio di cattivo presagio. Evan percepì un muro di tensione ostile alzarsi fra lei e l'altro uomo, e si rese conto che anche Kay doveva sentire lo stesso, perché i suoi muscoli si erano irrigiditi. — Lei mi prende in giro — disse infine la Drago a voce bassissima. — Non sono sicura che mi piaccia. Blackburn rimase perfettamente immobile, come trafitto. Forse anche lui aveva percepito la stessa cosa di Evan: la presenza di qualcosa di pericoloso, dentro quella donna, che poteva improvvisamente balzare fuori, senza preavviso. — Le sue opinioni private sono, naturalmente, suo diritto — proseguì lei calma. — Ma quando sceglie di renderle pubbliche, in casa mia, si mette su un terreno pericoloso. Dottor Blackburn, per essere un uomo di intelletto lei è sorprendentemente... miope. Forse quest'autunno metteremo in calendario quel dibattito di cui abbiamo parlato? — Mi sembra che il dibattito sia già incominciato — disse Blackburn, a disagio, guardando alcuni degli ospiti che si erano mossi in cerchio verso di loro. La Drago sorrise. I suoi occhi erano due pezzi di vetro azzurro scintillante, appena tratto dalla fornace, ancora ardenti di forza non circoscritta. Ma da essi non usciva calore; al contrario, un freddo paralizzante. — Io la di-
struggerò — disse. — Lei si atterrà alle sue opinioni e io alle mie prove. — Prove? — Blackburn scosse la testa incredulo. — Quali prove? Quei frammenti e quelle armi che ha messo sotto vetro nel suo museo? Certo non quelle! Un gruppo di persone si era raccolto, attirato dall'uomo e dalla donna che si fronteggiavano come combattenti al fianco di Kay ed Evan. Kay si ritrovò a fissare la testa di Blackburn come se ne vedesse, sotto, il teschio. — Io possiedo verità — disse la Drago. — No. Solo miti. E sogni. La Drago si chinò verso l'uomo. A Evan sembrò che la mano di lei, che ancora gli teneva il braccio, avesse iniziato ad aumentare la stretta. Poteva sentirvi la forza interna, come se le dita fossero acciaio ricoperto di pelle umana. — In una caverna sulla riva del Mar Nero — scandì con voce assolutamente calma, ma che tutti potevano udire poiché aveva assunto una tonalità bassa, minacciosa — trovai ciò che ero andata cercando per tutta la mia vita. Non sogni. Non miti. Ma realtà. Ho toccato le pareti fredde di pietra di quella tomba, dottor Blackburn. E nessun uomo sulla terra può permettersi di deridere ciò che io so essere vero. — I suoi occhi mandarono un lampo. Parve a Evan che il cerchio attorno a loro fosse diventato più numeroso e più vicino. Quando alzò lo sguardo vide che, stranamente, era composto solo da donne. — Non sto deridendo le sue convinzioni — insistette il dottor Blackburn, sebbene la moglie lo stesse tirando per la manica — e naturalmente penso che il suo scavo sul Mar Nero sia stato importante. Ma le sto dicendo come professore di lettere classiche che lei non ha nessuna base per... — Nessuna base! — La donna parlò in modo pungente e, pensò Evan, amaro. Percepì emozioni rabbiose dentro di lei, che le stava tenendo a bada con enorme forza di volontà. — Per più di dieci anni ho cercato una prova per le mie convinzioni — disse. — Sono tornata in Grecia e in Turchia più e più volte per seguire ogni sentiero che potessi scoprire... — Bene, temo che li abbia seguiti fino a un vicolo cieco. Semplicemente, non esistono prove sufficienti. Un brivido gelido corse lungo la schiena di Evan. Naturalmente non capiva su che cosa esattamente stessero discutendo l'uomo e la donna, ma ebbe improvvisamente una sensazione di panico inspiegabile e di terrore profondo. Dalla casa giungeva ancora la musica, ma sembrava distante an-
ni luce, il gruppo delle donne che li aveva circondati, incuriosite, sembrava ora minaccioso. Al suo fianco Kay tremò. La dottoressa Drago gli lasciò andare il braccio, lasciandogli sicuramente delle ammaccature. — Lei è uno sciocco — disse all'uomo che le stava di fronte. — Tutti gli uomini hanno chiuso gli occhi di fronte alla verità che io ho scoperto, e ciò è molto pericoloso. — Pericoloso? — Blackburn quasi sorrise. — E come? Evan stava osservando il cerchio delle donne. Alcune le aveva già viste, nel villaggio; altre erano sconosciute. Ma su tutti i loro visi c'era adesso una uguale espressione, che faceva accapponare la pelle: alla luce ondeggiante delle torce Evan vide su di loro il freddo odio. Tutti gli occhi scintillavano oscuri e la pelle pareva tesa sulle ossa del teschio. E quando guardò Kay al suo fianco la vide fissare la nuca di Blackburn con la medesima intensa ferocia a mala pena trattenuta. Voltò la testa, incontrò lo sguardo di un altro uomo sul patio. L'uomo sembrava ipnotizzato ma quando incrociò lo sguardo di Evan si affrettò a guardare dentro al bicchiere che teneva in mano. Evan sentì l'odio crescere dentro a quelle donne, uscire come un torrente dagli occhi, dai pori della loro pelle, impetuoso, riversandosi in direzione di Blackburn. Improvvisamente ebbe paura di muoversi, come se si trovasse in mezzo a un branco di belve selvagge. Un'ondata gelida si era riversata sopra Kay, intorpidendone il cervello e le reazioni. Volle chiamare Evan ma sentì la voce paralizzata. Ebbe paura quando si rese conto di non poter più controllare il proprio corpo. Non riusciva a muoversi, non riusciva a respirare, non riusciva ad afferrare il braccio di Evan per dirgli andiamo a casa, c'è qualcosa di sbagliato, qualcosa di terribilmente sbagliato. Era come se qualcun altro, un essere estraneo e terribile, fosse scivolato dentro la sua pelle e le afferrasse l'anima con mani antiche. Volle urlare. Non ci riuscì. I suoi occhi - ma erano ancora suoi? O di qualcun altro? - studiavano la forma del cranio di Blackburn. L'ampiezza del collo. E un attimo dopo si rese conto che lei o la cosa dentro di lei, che indossava il suo corpo come un vestito, stava pensando di uccidere. La sua mano destra si alzò lentamente. Si allungò. Lentamente. Evan la fissò a occhi spalancati, aprendo la bocca per parlare. E improvvisamente anche la dottoressa Drago tese il braccio verso Blackburn, e le torce fiammeggiarono dentro alla coppa di cristallo che reggeva. La sua mano dalle lunghe dita sembrò irrigidirsi, e allora si udì uno schiocco improvviso che fece sussultare il dottor Blackburn; questi gettò
indietro la testa. — Gesù! — esclamò, attonito. La mano di Kay era ancora alzata proprio dietro la sua nuca. Lei aveva sentito l'odio che stava acquattato dentro la rabbia uscire di controllo, gettando scintille come un cavo elettrico agitato dal vento. Nell'immagine che si era costruita dentro al suo cervello si vedeva posare la mano a coppa attorno a quella nuca e poi stringere fino a che non sentisse l'osso frantumarsi e il cervello gocciolare fuori. Ma ora, con il movimento della Drago, la forza che l'aveva dominata sembrò ritrarsi, lasciando dietro un freddo vuoto, come se portasse via fra gli artigli avidi un brandello della sua anima. Improvvisamente ricordò dove si trovava - al party della dottoressa Drago - chi era - Kay Reid io sono Kay Reid - e che l'uomo al suo fianco la stava guardando con occhi acuti e indagatori. Lentamente tirò giù la mano e si guardò nel palmo, dove le linee erano coperte di sudore. La dottoressa Drago aprì la mano e il vetro cadde per terra, tintinnando sulla pietra. Il vino era schizzato sul vestito e sulla scollatura e scivolava nell'incavo dei seni, come spesse gocce di sangue. Altro liquido stillava dalle dita, cadendo al suolo, ed Evan vide i numerosi tagli sul palmo. — Gesù — ripeté l'altro uomo, fissandola a occhi spalancati. — Si è... fatta male. L'espressione di lei non era cambiata. Stava ancora sorridendogli, ma gli occhi erano duri e non ammettevano scuse. — Ho paura che... questo tipo di discussioni mi faccia andare in collera. Mi scusi. Blackburn rimase immobile per un minuto; poi sembrò accorgersi di quanto stretto fosse attorno a lui il cerchio delle donne, perché voltò la testa velocemente come un animale in trappola. Ma Evan aveva visto un cambiamento scendere su di loro, come sopra sua moglie; la loro espressione adesso era tranquilla, non rifletteva più l'odio della Drago per Blackburn. La signora Giles si avvicinò alla dottoressa Drago e le prese il braccio. — Ti prego — disse — lascia che ti medichi. — No — rispose la Drago, liberando il braccio. Goccioline di sangue si sparsero sulla pietra ai suoi piedi. — Noi... faremmo bene ad andare, credo — disse Blackburn. Prese per mano sua moglie che annuì velocemente, gli occhi ancora spalancati per lo shock. — Mi dispiace se io... se ho fatto sì che lei... facesse questo. Non volevo... — Non è nulla — disse la donna. — Sì. Bene... — si interruppe, guardando dalla Drago a Evan e di nuovo
a lei. — Io... la ringrazio per l'invito. Grazie davvero. — Marcia — disse la dottoressa Drago — vorresti accompagnare i Blackburn alla porta? — Arrivederci. Piacere di avervi conosciuto — disse Blackburn a Kay ed Evan, e poi lui e sua moglie seguirono Marcia Giles verso la porta d'ingresso. Il cerchio delle donne si era sciolto. Le luci si riflettevano nei bicchieri. Attraverso il patio qualcuno rise. La conversazione riprese. La Drago alzò la mano e sembrò esaminare le ferite. Un'altra donna una bionda snella che Evan aveva visto in un negozio del villaggio - le portò una salvietta bianca inzuppata d'acqua. La Drago incominciò a togliere le schegge di vetro rimaste. — Sciocco da parte mia — disse. — Quell'uomo riesce sempre a mandarmi su tutte le furie. — Che cosa... di che cosa si trattava? — le chiese Evan. — Della sua stupidità. — Gli rivolse lo sguardo e poi sorrise. — Delle sue paure. Ma fortunatamente niente che possa rovinare il mio party. Preferirei non parlarne più. Kay, ci sono altre persone che vorrei farle conoscere. Evan, ci vuole scusare? Lui annuì. — Certo. — Poi, rivolto a Kay — Stai bene? — Lei lo fissò e annuì. — Solo pochi minuti. Ci sono altri insegnanti del George Ross che Kay dovrebbe conoscere. — Prese il braccio di Kay con la mano sana. Andiamo — disse, ed entrambe scomparvero attraverso il patio. Evan sentì il bisogno di bere qualcosa . Qualcosa di forte. Uno scotch, pensò. Andò al bar e ne ordinò uno. Si rese conto che il suo cuore pulsava forte. Quel che era successo gli sembrava una specie di strano sogno, qualcosa che usciva dalle sue facoltà di controllo e della sua comprensione. E che cosa era successo a Kay? Che cosa era stata sul punto di fare? Quell'espressione di puro odio nei suoi occhi ancora gli bruciava il cervello. Non l'ho mai vista così, prima, pensò. Sembrava selvaggia, feroce e... sì, mortifera. Scosse la testa e sorseggiò il whisky. E guardando attraverso la stanza vide che cos'erano le figure scolpite sul camino. Guerrieri in armi, a cavallo di enormi cavalli scalpitanti. Con asce da guerra in pugno, e lance e faretre attraverso le spalle. Fece un passo in quella direzione. Poi si immobilizzò. La musica suonava. Qualcuno dietro di lui rise. Una voce femminile, leggera e libera.
Ma lui non sentiva. Perché aveva visto che quei guerrieri erano donne. 17 DOPO LA FESTA Mentre tornavano in auto verso casa Evan chiese a Kay che cosa le era successo. — Successo? — fece lei. — Che cosa intendi dire? Non mi è successo nulla. — E invece sì. Ho visto il modo in cui fissavi il dottor Blackburn. Ho visto come hai allungato la mano verso di lui. Che cosa intendevi fare? Lei rimase in silenzio per lunghi istanti; davanti a sé vedeva innumerevoli strati di oscurità, perforati dai fari dell'auto. Fece un respiro profondo. Come poteva dare senso a quello che aveva sentito? Come poteva spiegarlo a lui? E a se stessa? — E allora? — la incalzò lui, in attesa. — Sono stanca — rispose. — Non pensavo che ci sarebbe stata così tanta gente. — Kay — disse piano Evan — tu mi stai nascondendo quello che senti. Invece io voglio sapere, perché è importante. Gli gettò una rapida occhiata, poi distolse gli occhi. — Importante? E come? — Pochi giorni fa mi hai raccontato un incubo, qualcosa che riguardava... uccidere un uomo. Ricordi? Hai detto che eri su un campo di battaglia, e stavi a cavallo, e impugnavi un'ascia da guerra... — Ricordo — fece con voce cupa. — Da allora ti ho sentita singhiozzare nel sonno più di una volta. Ma non ti sei mai svegliata e io non te ne ho mai parlato. Ma adesso voglio sapere. Hai avuto ancora incubi dello stesso genere? — Non lo so — disse, e immediatamente si rese conto che aveva parlato troppo in fretta. Bugiarda. Bugiarda. Bugiarda. Aveva avuto altri incubi, ma ne ricordava solo frammenti sconnessi. L'ultimo era stato particolarmente spaventoso. Stava combattendo con lancia e ascia contro orde di guerrieri dalle barbe nere. Attorno c'erano altre come lei, e mentre colpivano da tutte le parti mulinando le asce, mutilando corpi, spaccando ossa, infrangendo crani, aveva sentito alzarsi il grido di guerra, il suono più terribile e forte che avesse mai sentito. I guerrieri cadevano, ovunque c'e-
rano mucchi di corpi insanguinati, ma poi essi si erano gettati in avanti tutti insieme, contro le lame che lampeggiavano rosse al sole, mentre urla di rabbia e di dolore, urla selvagge e primitive, arrivavano fino alle montagne e raggiungevano i nidi impervi delle aquile. In quel momento aveva desiderato svegliarsi, uscire a forza da quell'incubo, ma si trovò intrappolata, obbligata a finire quella frenetica, folle battaglia sanguinosa che sembrava appartenere alla sua stessa memoria. Frammenti di visi, lampi di colpi, armi che si levavano. Ricordò di aver alzato l'ascia gocciolante di sangue e, con un urlo di rabbia e odio, di averla calata sibilante a staccare la spalla di un guerriero. Poi oscurità, oscurità dappertutto, il clamore della battaglia che si allontanava e l'oscurità che invadeva ogni cosa. E si era resa conto di essere sfuggita a quel luogo ancora una volta, e Dio mio, Dio mio non voleva esservi costretta a ritornare quando il sonno l'avrebbe di nuovo ripresa. — Ne hai avuti ancora? — ripeté Evan. Stavano attraversando il villaggio, erano sulla Blair. — Sì — ammise alla fine. — Un paio di volte. Lui rimase zitto per un po'. Svoltarono dentro a McClain. C'erano luci accese nella loro casa e in quella dei Demargeon. — Hai capito il motivo della discussione di stasera fra il dottor Blackburn e la Drago? — le chiese. — No. — Nemmeno io. Ma voglio scoprirlo. Chiamerò Blackburn domani. — Perché? Non vedo come possa interessarci. — Forse no, ma c'è qualcosa che succede qui intorno che non riesco a capire. E ha a che fare con... — Evan, ti prego... — iniziò Kay. Lui svoltò la macchina nel vialetto, spense il motore e poi i fari. — Ha a che fare con quel dannato museo — continuò lui — e con Bethany's Sin. — Evan... Lui la guardò diritto in faccia. — Ascoltami! — esclamò, un po' più violentemente di quanto non avrebbe voluto. — Durante quel party, stasera, quando quelle donne si sono strette in cerchio attorno a Blackburn come lupi attorno a una pecora, ho visto un lampo di odio nei loro occhi che in tutta la mia vita non ho mai visto. Come se loro... volessero proteggere Kathryn Drago. E come se fossero disposte a fare a pezzi quell'uomo, un pezzo per volta, su questo potrei giurare. — Non sai quello che stai dicendo, Evan! Non ha senso! — Ho sentito l'odio dentro di loro — disse Evan, tentando di dar voce
alle emozioni che si agitavano spasmodicamente dentro di lui. — E per un momento l'ho sentito anche dentro di te. Lei lo guardò, a bocca aperta. — Odio? — ripeté. — Io non... odio nessuno. — Ma hai provato il desiderio di fargli del male, vero? Perché hai allungato la mano verso la sua gola e Dio sa che cosa volevi fare, o a che cosa stavi pensando, ma io ho visto sul tuo viso la stessa cosa che ho visto su quello delle altre! — Oh, Cristo! — esclamò Kay. La rabbia esplose dentro di lei, anche se aveva capito che stava di proposito tentando di coprire quel germoglio di violenza che Evan aveva visto mettere radici. Allungò la mano verso la maniglia, aprì lo sportello. — Non sono più disposta a sentire questi tuoi... sogni. Lui uscì dalla macchina e la seguì verso casa. — I miei sogni sono una cosa. Quello che vedo è un'altra. E vedo qualcosa che sta succedendo qui e che... non riesco a comprendere. — È la tua immaginazione! — disse lei, voltandosi a fissarlo quando raggiunsero la porta. — Non è la mia dannatissima immaginazione! — La voce di Evan era aspra e agitata. — Non gridare! La signora Demargeon è... — Non mi importa! — Si fissarono per un attimo, fronteggiandosi. Evan si passò una mano sul viso; lo sguardo della Drago gli perseguitava il cervello, rendendolo febbrile e portandogli i sensi sull'orlo della frenesia. — Dio — fece, dopo aver ripreso controllo — mi dispiace. Non intendevo gridare con te. Ma quello che sto sentendo ora, quello che sto vedendo, non è frutto di immaginazione. So che non lo è! — Ma gli occhi di lei erano vitrei e distanti e lui capì di essere stato di nuovo chiuso fuori. Si frugò in tasca per le chiavi, mentre lei attendeva, immobile. Stava per infilare la chiave nella serratura quando la porta si aprì. La signora Demargeon era in piedi, con gli occhi leggermente gonfi, come se si fosse appena svegliata. — Oh — fece — eccovi a casa. Mi pareva di aver sentito qualcosa qui fuori. — Si portò la mano alla bocca per frenare uno sbadiglio. — Come è andata? — Molto bene — disse Kay, entrando. Evan entrò a sua volta e chiuse la porta. In salotto c'era il segno, sul divano, dove era stata seduta la signora Demargeon, e una pila di riviste sul tavolino. Una tazza di caffè piena a metà, un sacchetto aperto di patatine, alcuni dei libri e dei giocattoli di
Laurie erano sparsi tutt'attorno. — Oh, povera me — fece la signora, sfregandosi gli occhi. — Mi sono addormentata. E quando dormo non mi svegliano nemmeno le cannonate. — Laurie è di sopra? — chiese Kay. — Sì. L'ho messa a letto alle otto e mezzo. — Spero che non le abbia dato problemi. — Assolutamente nessun problema. E una bimba così dolce. Ci siamo divertite a leggere e guardare la televisione. — Voltò il capo verso Evan. — Spero che abbiate trascorso una bella serata. — C'era moltissima gente — rispose lui, passandosi una mano tra i capelli. — La maggior parte erano insegnanti del George Ross. Cristo, sono stanco! — Posso prepararle un panino? — chiese Kay alla signora Demargeon. Qualcosa da bere? — O mio Dio, no! Ho bevuto tanto caffè da affondarci una flotta! — Diede un'occhiata all'orologio. — Farei bene ad andare. Mentre Kay parlava con la signora, Evan salì le scale stancamente e andò a togliersi il blazer e la cravatta in camera da letto. Sentiva le voci delle donne giungere attutite dal piano di sotto. Sarebbe stata una brutta notte; lo sentiva. Il letto lo stava aspettando, un luogo dove sogni orribili e memorie dolorose sarebbero strisciati come ragni fin dentro la sua mente. E anche dentro quella di Kay? si chiese. Settimane prima aveva sentito con sicurezza che una forza terribile, lì a Bethany's Sin, una presenza che lui non comprendeva, lo stava lentamente incalzando. Ora quella forza sembrava più vicina; molto più vicina. E forse anche più vicina a Kay? si chiese. Manifestandosi nei sogni di lei, proprio come si manifestava nei suoi? Iniziò a sbottonarsi la camicia. Voci dal piano di sotto. Kay che parlava, poi la signora Demargeon. Si tolse la camicia e poi andò a vedere Laurie. Un raggio di luce che arrivava dall'ingresso cadeva sul letto della bimba, che dormiva rannicchiata sotto le coperte. Evan rimase a guardarla, a guardare i capelli sottili sparsi sul cuscino come un meraviglioso ventaglio orientale. Sedette sul bordo del letto, molto piano per non disturbarla, e lievemente le toccò la guancia. Lei si mosse appena un attimo e sorrise nel sonno. Sentì il calore della sua pelle che si diffondeva attraverso di lui, cacciando via le paure della notte. — Mia principessa — sussurrò, e le accarezzò la guancia con il dorso della mano. Ma c'era qualcosa sul letto, al suo fianco. Gli ci volle un momento prima di capire che cosa fosse; poi afferrò l'og-
getto e si alzò con la stessa lentezza di un uomo intrappolato nella pania terribile di un incubo che si stava svolgendo. Un giocattolo. Ecco tutto. Solo un giocattolo. Un piccolo arco azzurro lucente, con una corda bianca. Comperato a buon prezzo su una bancarella. Di plastica. Il cuore gli diede un colpo sordo. Sul comodino, sotto la lampada di Snoopy, altri oggetti più piccoli. Tre piccole frecce con la punta resa innocua da una ventosa di gomma. Sul pavimento, ai suoi piedi, un bersaglio di carta con scritto 100, 200, 300, 400 nei cerchi concentrici e 500 nel mezzo. Strinse forte l'arco in mano, si allontanò dal letto e si ritrovò a scendere la scale, guidato dal suono della voce della signora Demargeon. — ...qualsiasi volta — stava dicendo la signora, sbadigliando di nuovo mentre era in piedi con Kay alla porta d'ingresso. — Davvero. Mi piace stare con i bambini, e Laurie non dà il minimo problema. Così la prossima volta che voi... — Si interruppe improvvisamente perché aveva scorto l'uomo senza camicia arrivare da dietro Kay. I suoi occhi si dilatarono leggermente e Kay girò su se stessa. — Evan? — disse piano Kay, spostando gli occhi dalle terribili cicatrici che gli solcavano il petto ai suoi occhi vuoti, spiritati, e poi ancora alle cicatrici. Evan mostrò l'arco. — Che cos'è questo? — chiese. — Da dove viene? La signora Demargeon tentò di sorridere, non ci riuscì, gettò una rapida occhiata a Kay. — Io... be', siamo andate in macchina a Westbury Mail alle otto, a prendere il gelato, e poi siamo entrate dentro un negozietto di giocattoli, Thurmond's. Lei ha visto quel piccolo completo di arco e frecce e ha detto che le piaceva, così... — Così lei lo ha comprato — terminò lui piano. — Sì, l'ho comprato. È una sciocchezza, davvero. Non costa niente. Abbassò di nuovo gli occhi sul petto di lui, sulle cicatrici che lo solcavano come una tappezzeria lacerata. Evan vide i suoi occhi scintillare. La punta della lingua sporse a leccare il labbro inferiore e scomparve in un lampo. — Non voglio questo oggetto in casa mia — le disse, tentando di tener ferma la voce. — Non voglio niente di simile in casa mia. — Evan! — La voce di Kay. — Era un regalo per Laurie! Lui scosse la testa. — Non mi interessa. Ecco. Se lo riporti via. — Davvero — disse la signora Demargeon, facendo un passo indietro, lo sguardo ancora fisso sulle cicatrici, come se ne fosse ipnotizzata. Non volevo far nulla di male. È solo un giocattolo. Un giocattolo. — È un giocattolo, in nome del cielo! — le fece eco Kay.
— No. È qualcosa di più. La prego, signora Demargeon, lo porti via. — Non capisco perché sia così sconvolto, signor Reid. — Lo porti via, ho detto! — Tese gli oggetti in avanti e Kay gli afferrò il polso. I suoi occhi scintillavano di rabbia. La signora Demargeon non lo prese. — Non volevo far nulla di male. È solo un giocattolo — disse. E poi iniziò ad arretrare, con gli occhi sempre fissi sulle cicatrici, come se stesse fisicamente accarezzandole. — Tenetelo per la bambina, vi prego. — La sua voce era diventata bassa, con qualcosa di rauco. Sotto tensione. — Tenetelo. Devo andare. Devo... — E poi si girò velocemente e si mise quasi a correre verso casa; Kay ed Evan rimasero fermi sulla soglia fino a che non sentirono, nella notte immobile, il chiudersi della sua porta. — Evan! — esclamò Kay irritata. — Che cosa c'era di male in... — si bloccò, spalancò gli occhi. Lui aveva iniziato a torcere l'oggetto. La plastica mostrò crepe bianche, poi si spezzò. Evan gettò i due pezzi di arco nella strada. Poi la fissò con uno sguardo selvaggio, ardente. — Non voglio quella roba in casa mia! — le disse, come sfidandola a contraddirlo. Di scatto, con il volto in fiamme, lei girò sui tacchi e salì le scale. La porta della camera si chiuse. Con rumore. Evan picchiò un pugno contro la parete. All'inferno! sibilò, scuotendo la testa. Che cosa mi sta succedendo? Sto perdendo la ragione? Vedeva i due pezzi dell'arco di plastica, tenuti insieme dalla corda. Chiuse la porta e girò la chiave, sentendo i nervi vibrare. Un giocattolo per bambini, ecco tutto. Semplicemente un giocattolo. E invece no. No. Un giocattolo. No! Perché niente era semplice a Bethany's Sin; ogni cosa era complicata e segreta e connessa a quel buio che sembrava in attesa, appena fuori dalla finestra. Coincidenze? Immaginazione? Quando aveva visto il piccolo arco aveva immediatamente ricordato la figura di Artemide, con il suo arco e frecce, e la fila di guerriere intagliate sul camino della dottoressa Drago, alcune delle quali munite di faretra. Coincidenze? O invece qualcosa di strano e selvaggio e spietato, che dal cuore di Bethany's Sin tendeva gli artigli verso di lui e verso Kay e persino verso Laurie? Per Dio, entrerò in quel museo e scoprirò tutto, si disse, le mani strette a pugno abbandonate impotenti lungo i fianchi. Ma non questa notte. Questa notte devo riposare. E pensare. ' Dopo qualche secondo Evan cominciò a salire le scale, verso la stanza. Dove Kay, dal canto suo, stava sognando sanguinose carneficine.
18 DIETRO LE PORTE DEL MUSEO La domenica mattina Laurie si mise a piangere, quando Kay le disse che papà aveva rotto senza volere il suo giocattolo nuovo. Non piangere, le disse allora Kay, ne compreremo un altro. Evan trovò il numero di Doug Blackburn tramite l'ufficio informazioni telefoniche di Whittington e provò a chiamare. Non ebbe risposta. Passò il resto della giornata nel seminterrato, tentando di lavorare a un nuovo racconto e gettando nel cestino un foglio dopo l'altro. Kay dormì male di nuovo, quella notte. Evan, disteso accanto a lei, la sentiva sussultare, e quando le prese la mano sentì la pelle fredda come quella di un cadavere. Appena dopo mezzanotte lei lanciò un grido acuto e allora lui tentò di svegliarla, ma non ci riuscì né scuotendola né chiamandola per nome né mettendole un fazzoletto bagnato sulle tempie. La fronte era imperlata di sudore. Alla fine si calmò e allora anche Evan si ridistese. Alle nove del mattino di lunedì era in piedi in Cowlington Street, di fronte al museo. Era una giornata afosa e opprimente e sentiva già il sudore colargli lungo la schiena. Rimase a guardare quell'edificio minaccioso per un minuto e poi, irrigidendosi, attraversò la strada, il cancello e si incamminò lungo il vialetto. Sentiva il polso battergli e, non appena arrivato all'ampio portone di quercia, sentì il sangue trasformarsi in fuoco liquido. Tentò il battente. Chiuso. Picchiò con il pugno, sentendo propagarsi gli echi, all'interno, come un muggito. Un filo di sudore gli scese dalla fronte e lo asciugò con il dorso della mano. Movimenti dietro la porta. Dei passi. Una pausa. Poi il rumore del chiavistello tirato. La porta si aprì lentamente. — Buon giorno! — esclamò cordialmente una donna dai capelli grigi e dai tratti decisi. Era ben vestita, con un completo pantalone blu mare, e appariva linda e vigile. Spalancò il battente per farlo passare. — Entri, prego! Entrò. C'era un corridoio con vetrinette, un tavolo con un registro. Il pavimento era di mattonelle blu e le pareti dipinte color crema. Simile al corridoio che aveva visto in sogno, eppure... diverso. C'erano stanze che si aprivano a lato e, in fondo, un ampio scalone dalla ringhiera di legno lucido che portava al secondo piano. Dietro di lui la donna dai capelli grigi chiuse la porta. Sentì l'aria condizionata incominciare ad asciugargli la camicia sulla schiena. — Sono Leigh Hunt — si presentò la donna, sorridendo e tendendogli la
mano. Un stretta ferma e fredda. — Vuole per cortesia firmare il registro? Annuì e prese la penna che lei gli offriva, firmando. — Mi dispiace che abbia trovato il portone chiuso — disse lei. — Oggi sono qui da sola, ed è raro che abbiamo visitatori al mattino presto. Sarà certamente una giornata terribile, vero? La radio ha detto quasi quaranta gradi. E ancora niente pioggia in vista. Comincia a diventare pericoloso, glielo dico io. — Diede un'occhiata alla firma. — Il signor Reid? — Lo guardò in faccia, sembrò studiarlo. — Ma certo! Sua moglie insegna in facoltà al George Ross, vero? Non eravate al party della dottoressa Drago sabato sera? — Sì, eravamo là. — Mi pareva di averla già vista. C'eravamo anch'io e mio marito, ma non abbiamo avuto l'opportunità di conoscerei. Le interessa la nostra Società di Storia? — Sono solo curioso — disse lui. Lei sorrise. — Capisco. Bene, siamo felici di avervi qui. Mi sorprendevo che lei e sua moglie non foste ancora venuti al museo. — Siamo stati molto occupati. A sistemare la casa e tutto quanto. — Certamente. Posso offrirle una tazza di caffè? Lui scosse la testa. — Bene, allora lasci che le spieghi brevemente cosa sono tutti questi oggetti. Furono ritrovati nel 1965 e '66, in uno scavo archeologico che la dottoressa Drago dirigeva sulla costa sud orientale del Mar Nero, in Turchia. I frammenti di statue, terrecotte, monete e armi che vedrà nelle vetrinette datano approssimativamente al 1192 avanti Cristo. Circa all'epoca della guerra di Troia. Quella particolare regione della Turchia è adesso geologicamente instabile; ci sono stati numerosi terremoti, alcuni disastrosi, nell'ultimo secolo, e il più recente, nel 1964, ha portato alla luce una muraglia fatta di terra e di pietre tagliate in modo regolare. Gli archeologi vi hanno iniziato gli scavi nel 1965. — Iniziò a camminare lungo il corridoio, e i suoi passi rimbombavano da parete a parete. Evan seguiva appena dietro. — La dottoressa Drago dirigeva un sito archeologico ad Atene, in quel periodo, e per anni aveva ripetutamente chiesto al governo turco di poter condurre una serie di scavi archeologici presso la foce del fiume Kelkit. Le fu sempre rifiutato. Ma poi seppe della nuova scoperta e chiese di nuovo al governo il permesso di condurre una squadra di archeologi greci a scavare ad Ashava. — Ashava? — Sì. Era il nome che gli archeologi turchi avevano dato al nuovo sito.
In onore di un professore o qualcosa del genere. Comunque, la dottoressa Drago e la sua squadra vennero accettati. E furono loro a fare la maggior parte, se non tutte, delle scoperte più importanti. Gli oggetti che vedrà qui furono tutti ritrovati dalla squadra di esperti greci. Evan si avvicinò a una vetrinetta e guardò dentro. C'erano frammenti di terracotta, tutti numerati; la maggior parte senza decorazioni, ma su alcuni c'erano disegni di linee intricate. — Questi furono trovati in uno strato superiore. Infatti il museo segue l'ordine delle singole scoperte. Il terzo piano racchiude gli oggetti trovati nello strato più basso e più antico di tutto lo scavo. In altre vetrinette c'erano ancora terrecotte. Poi vide un frammento di ciò che doveva essere stata una statua: un braccio, con la mano curiosamente piegata, come se cercasse di afferrarlo attraverso il vetro. — E così, che cosa scoprirono su Ashava? Che cos'era in realtà? — chiese alla donna vedendo, nel riflesso del vetro, che lo stava fissando. — Una città — disse la signora Hunt. — O, per dir meglio, una città fortificata. Sepolta dai movimenti della terra, sottratta agli occhi umani per mille anni o forse più. E un altro capriccio della natura riportò alla luce le sue mura interne. Evan gettò un'occhiata dentro una delle stanze. Si scorgeva nell'ombra una statua senza testa. In una mano teneva una lancia che sembrava sul punto di scagliargli contro. C'erano altri oggetti: grandi vasi ricostruiti, piccoli medaglioni dentro una vetrina. — Ashava, eh? — disse, voltandosi verso la signora Hunt. — Temo di non averne mai sentito parlare, ma in effetti non posso considerarmi un'autorità in fatto di storia antica. — Lo sono in pochi. Ashava era il nome dato dai ricercatori turchi. La dottoressa Drago la identificò con un nome diverso. Themiscrya. Lui scosse la testa. — Mi dispiace. Non mi dice nulla. — Non importa — proseguì lei. — Neanch'io l'avevo mai sentita nominare finché la dottoressa Drago non me ne parlò. Themiscrya era una città molto antica, leggendaria. Le sue origini sono... sepolte nel passato, ma dalle sue rovine possiamo presumere che all'inizio fosse una comunità di agricoltori. Era una fortezza, come ho detto, ma costruita come tale allo scopo di difendersi contro le orde di barbari che scorrazzavano distruggendo ogni cosa. Che non erano poche. Nel 72 avanti Cristo le legioni romane attaccarono Themiscrya e la distrussero. Evan si rese conto che in quell'edificio aleggiava un odore di polvere. Di ere passate. Di segreti antichi, e forse anche di nuovi. — Come mai sono
qui questi oggetti? — le chiese mentre si avvicinavano allo scalone. — Come mai non in Turchia? La signora Hunt ebbe un sorriso da gatto. — Il governo turco si trovava in necessità di... aiuto finanziario, alla fine degli anni Sessanta. Come credo che lei sappia, la dottoressa Drago è molto ricca. E... si accordò per un prestito in cambio degli oggetti ritrovati. — Devono significare molto per lei. — È così. E anche per tutti noi. — Davvero? Perché? — Perché avere qui un museo simile rende Bethany's Sin un luogo speciale. Un luogo importante. Il villaggio tutto ne è molto orgoglioso. Evan annuì, guardando su per la scala. Da lì vedeva il busto ammaccato di un'altra statua, illuminata in modo da gettare lunghe ombre sulla parete alle sue spalle. — Come mai la dottoressa Drago è così ricca? — chiese, guardando diritto in viso la signora Hunt. — È stata una donna molto fortunata. E intelligente. Nel... 1967, mi pare, sposò Nicholas Drago. Era la sua terza moglie. — Non l'ho mai sentito nominare. — Il finanziere greco — spiegò lei. — Il proprietario della compagnia di navigazione e della catena di hotel. Disgraziatamente, il signor Drago morì per una caduta un anno dopo il matrimonio. Abitavano in una villa in una di quelle isole vulcaniche nel mare di Grecia. Non conosco i dettagli, ma si trattò di un tragico incidente. — Scosse la testa. — Povera donna. Era stata il suo più grande amore; lui le lasciò quasi tutti i suoi beni, e per un certo periodo lei mandò avanti gli affari prima di ritornare in America. — Ritornare? — Sì, certo. Lei era nata qui. — Diede un'occhiata su per le scale. — Vuole vedere tutto il museo? Lui annuì. — Bene. La devo lasciare, allora. Ho della corrispondenza da sbrigare. Se ha delle domande, qualsiasi domanda, la prego di chiedere. Va bene? — Lo farò. — Prese a salire le scale, sentendo i passi di lei spegnersi in fondo al corridoio. Per più di mezz'ora girò lungo i piani superiori del museo; c'erano altre vetrinette, altri frammenti di statue. Al terzo piano c'erano due cose interessanti: dischi di bronzo, perforati, che Evan pensò venissero usati come denaro, e una vetrinetta contenente alcune punte di lancia in selce, uno scudo metallico a forma di luna crescente con in rilievo un viso adirato e un elmetto ammaccato con la protezione per il naso rotta a metà. Evan ri-
mase a lungo a fissare lo scudo e l'elmetto, affascinato, poi continuò con le altre stanze. Alcune urne, decorate con figure di guerrieri; un frammento di terracotta con una mano che impugnava la spada; una grande lastra di pietra ricoperta in parte da un affresco, che rappresentava il viso barbuto di un uomo, con gli occhi spalancati e fissi e... sì, terrorizzati. Quegli occhi sembravano cercare i suoi. Fu la loro espressione a raggelarlo. Strano, pensò: la signora Hunt ha detto che Themiscrya era una comunità agricola. Ma dove stavano gli attrezzi agricoli? Sembrava piuttosto una comunità dedita alla guerra. Continuò attraverso un'altra stanza, guardandosi attorno con calma, e infine si trovò bloccato. Da una grande porta nera, simile a una lastra di pietra. Mise la mano sul pomo d'ottone della maniglia, rotondo e lucente. Non girava. Là dietro doveva esserci ancora più di metà del terzo piano, pensò. Un deposito? No. Il deposito di solito si trova nel seminterrato. O forse no? Rimase fermo un attimo, poi tornò indietro, fino al pianterreno. La signora Hunt, penna in mano, alzò gli occhi dal tavolo. — Tutto bene? — Sì. Davvero molto interessante. Ma mi stavo chiedendo una cosa. — Che cosa? — Al terzo piano. Sembra che ci sia una porta chiusa a chiave. Che cosa c'è dietro? — Tutti lo chiedono — disse, e sorrise cordialmente. — Si tratta di una speciale esposizione che stiamo preparando. Una ricostruzione panoramica di Themiscrya; i punti chiave illuminati e una serie di diapositive a ciclo continuo, cose del genere. — Interessante. E quando sarà pronta? Lei ci pensò un attimo. — Dovrebbe essere in novembre. Almeno speriamo. Evan rimase in piedi davanti al tavolo e lei alla fine disse: — Spero che la visita le sia piaciuta, signor Reid. Magari la prossima volta porterà anche sua moglie e la sua bambina? — Certo — disse, e fece per dirigersi verso l'uscita. — Grazie e buona giornata. — Anche a lei. Spero che troverà un po' d'ombra per camminare. Evan lasciò il museo. Raggiunse la strada e si diresse verso casa, sentendo il tocco ardente del sole sul viso. Nel petto il Cuore gli batteva lento e tranquillo, ma sentiva la tensione che cominciava a diffondersi dalla base della nuca. Si voltò a guardare il museo. Dunque era tutto lì. Le ultime ve-
stigia di una comunità agricola che era esistita più di tremila anni prima sulla costa sud orientale del Mar Nero. Ricordava il litigio fra la dottoressa Drago e il dottor Blackburn; certo era degli oggetti contenuti nel museo che stavano discutendo, ma perché? E che cosa c'entrava la mitologia? Si ripromise di provare ancora a chiamare la casa di Blackburn. Ma come spiegare i sogni? si chiese, guardando le finestre del museo. Che cosa avevano tentato di dirgli? Che esisteva un pericolo in quel luogo, per lui, un pericolo che si sarebbe avvicinato dentro un turbine di polvere? Se era così, non aveva visto nulla. Non aveva nemmeno percepito nulla. Paranoia? Forse. Signore Iddio, e se tutte quelle premonizioni e sensazioni non fossero stato altro, dopo tutto, che la sua immaginazione? E se non ci fosse stato proprio niente da temere a Bethany's Sin e lui stesse costruendosi tutto perché era nella sua natura temere, chiedere, cercare? Riprese il cammino verso McClain. Voleva controllare la posta e mettere giù la struttura di un nuovo racconto. E poi ebbe un pensiero curioso, improvviso: come sapeva Leigh Hunt che avevano una bambina piccola? Non aveva mai incontrato prima quella donna, e neppure Kay l'aveva conosciuta. Forse l'aveva saputo da qualcuno. Sì, doveva essere così. Non c'erano segreti a Bethany's Sin. Kay aveva deciso di gettarsi dietro le spalle i sogni spaventosi di domenica ed era di buon'umore quando arrivò a casa. Laurie sembrava aver dimenticato il giocattolo. Evan ora si sentiva ridicolo per quella reazione, sapendo che aveva messo in imbarazzo Kay di fronte alla signora Demargeon. A cena raccontò la sua visita al museo e lei ascoltò con interesse la descrizione degli oggetti. Stava per non chiamare Doug Blackburn. Non aveva ragione Kay, si disse, sostenendo che erano affari che non lo riguardavano? Non stava interferendo con vicende locali in cui non c'entrava per nulla? Ma alla fine fece la chiamata, alle dieci e mezzo, e Blackburn rispose con voce assonnata. — Certo che la riconosco — fece Blackburn. — Il signor Reid, vero? — Esatto. Mi dispiace di averla svegliata. Volevo chiederle una cosa. Le sarebbe possibile incontrarci per parlare di una faccenda, quando vuole lei, in settimana? — Che cosa ha in mente? — Vorrei parlare della dottoressa Drago.
Silenzio. Poi — Bene... dovrò correggere le prove scritte di metà trimestre, questa settimana, e sarò molto occupato. Che ne dice di - un attimo che vedo - ...giovedì della settimana prossima? Venga a casa con sua moglie e passeremo insieme la serata. — No, preferirei venire da solo. Ci fu una pausa, e poi nella voce di Blackburn risuonò una nota seria. — Ehi, ma di che cosa si tratta? — Riguarda il museo della dottoressa Drago e il suo scavo archeologico. Ma preferirei parlarne a voce. — Bene, allora facciamo così: venga giovedì alle sette, okay? — Benissimo. — Arrivederci, allora. A giovedì. — Arrivederci. E grazie. — Tornato in salotto Evan diede il bacio della buonanotte a Laurie prima che Kay la mettesse a letto, poi sedette sul divano a guardare il telegiornale della notte di Johnstown. Il giornalista stava parlando di un politico locale, poi prese a riferire della scoperta di un corpo in avanzato stato di decomposizione, ancora non identificato, trovato nei boschi attorno a Elmora. E dall'altra parte del villaggio, nella sua stanza in affitto in casa della vedova Bartlett, Neely Ames sentì un colpo alla porta al di sopra della musica rock che usciva dal transistor. Disse: — Un momento! — spense la radio, afferrò i blue jeans dalla sedia e li indossò velocemente. Era la signora Bartlett, con un vassoio su cui stavano una teiera bianca e un bicchiere pieno di cubetti di ghiaccio. — Ho qualcosa per lei — disse la donna, entrando e guardandosi in giro, senza far caso, però, ai vestiti gettati tutt'attorno. — So che a cena ha detto di essere stanchissimo, e qualche volta un corpo troppo stanco non riesce a riposare. Così ho preparato un po' del mio tè speciale di sassofrasso. La aiuterà a rilassarsi. — Posò il vassoio sul tavolino di fianco al letto. — È molto gentile da parte sua — rispose lui; l'aroma pungente del sassofrasso era entrato nella stanza insieme alla signora Bartlett. — Ecco fatto — esclamò la signora Bartlett, versando il tè. I cubetti di ghiaccio scrocchiarono e quel rumore ricordò a Neely, sgradevolmente, la notte in cui qualcosa aveva infranto i vetri della sua auto. — Si raffredderà in un attimo. Lui prese il bicchiere e sedette vicino alla finestra. Da questa entrava giusto una bava di vento, ma era vento caldo, umidiccio. I muscoli delle
spalle e delle gambe gli dolevano ancora per il lavoro della giornata; sembrava che quel bastardo di Wysinger avesse deciso di distruggerlo logorandolo. Aveva passato la mattinata, caldissima e afosa, raccogliendo spazzatura lungo la periferia di Bethany's Sin, riempiendo i sacchi di plastica con lattine e giornali e cartacce e rifiuti di ogni tipo. Poi, nel pomeriggio ardente, aveva abbattuto un albero morto nella via Fredonia, segandolo in pezzi piccoli, e aveva portato tutto quanto alla discarica. Aveva sempre odiato andare a quella discarica; era un luogo lurido, pieno di spazzatura e di mosche nere che pungevano senza remissione. — Ha un aspetto stanco — disse la signora Bartlett. — Una persona giovane ha bisogno di riposo. — Giovane? No, non sono più giovane — rispose lui. Il bicchiere era deliziosamente fresco fra le sue mani. — Ho lavorato alla discarica, oggi. Sa dove si trova? Lei scosse la testa. — È oltre i boschi, al centro del nulla. È un posto che odio. Dannatamente deserta come la luna e bollente come l'inferno... — Allora non ci terrei a vederla — fece lei. — No, credo di no. — Sorseggiò il tè. Era molto dolce. — Ma mi pagano per ficcarmi laggiù e allora non devo lamentarmi. Lei gli sorrise con comprensione. — Oggi ci saranno stati cinquanta gradi — proseguì. — Anche il terreno sta iniziando a spaccarsi, come il letto di un fiume in secca. — Bevve di nuovo. Quasi troppo dolce. — È buono — disse. — Grazie per averci pensato. — Sono contenta che le piaccia. La maggior parte dei miei clienti l'hanno sempre gradito. Lui annuì e bevve di nuovo. Dolce sopra l'amaro. — Le estati sono sempre caldissime qui a Bethany's Sin — proseguì la donna. — Io stessa non sopporto di uscire al sole nel pomeriggio. Si dice poi che il sole faccia venire le rughe. Lui emise un grugnito di assenso e si toccò la fronte con il bicchiere. — Allora farei bene a non guardarmi nello specchio — disse. — Devo avere la faccia di un ottantenne. — Sarà tutto a posto domattina, dopo una bella dormita. — Credo di sì. Almeno lo spero. Lei lo guardò bere. Poi disse — La lascio riposare, ora — e si mosse verso la porta. — Ci saranno frittelle a colazione.
— Grande! — Buona notte. — Chiuse la porta dietro di sé, e lui udì i passi lenti giù per le scale. In fondo alla casa un'altra porta si chiuse. Terminò il tè, appoggiò il bicchiere freddo su entrambe le guance e poi andò alla porta per girare la chiave. Quando ebbe spento la luce e tolti di nuovo i jeans si distese sul letto per tentare di dormire. Faceva troppo caldo e calciò via le lenzuola; la brezza lieve della notte passò sul suo corpo dita leggere. In bocca gli era rimasto un retrogusto amaro e inghiottì un paio di volte per liberarsene. Che genere di tè aveva detto che era? Sassofrasso. Sentiva ancora l'odore nell'aria. La mente cominciò a scivolare; il sonno parve più vicino, come una bellissima donna in una vaporosa camicia nera. Quando chiuse gli occhi ebbe la sensazione che la testa gli rotolasse lungo un passaggio fresco. Una sensazione, si rese conto, non dissimile da un'ubriacatura. Ma insieme diversa. Gesù, disse a se stesso, sono davvero stanco! Ho bisogno di dormire, di riposare, e al diavolo tutto il resto. Dimentica il dannato caldo, la dannata discarica e la danr nata voce arrogante di Wysinger. Ecco quel che devi fare. Dimentica. Lascia che il sonno arrivi. Aspettò per quel che gli parve un lungo intervallo di tempo, ma ancora rimaneva sul quel limite nebuloso fra sonno e veglia. Da un luogo distante gli arrivarono le prime strofe di una canzone a cui lavorava da settimane: Svanirò dentro la notte/Me ne andrò prima del tramonto/e non ti sentirò chiamarmi/Ci sarà solo la strada. Attraverso la cortina delle palpebre Neely vide figure immobili nell'oscurità della sua stanza. In attesa. In silenzio. Avevano occhi azzurri brucianti come gli occhi che aveva visto quella notte sulla strada statale, e lui desiderò cancellare quel ricordo terribile, ma il suo cervello non gli obbedì: le cose con gli occhi scintillanti si avvicinarono al suo letto. Poi iniziarono ad arretrare, molto lentamente, finché si persero di nuovo nell'oscurità. Il ricordo di quella notte sulla statale gli afferrò lo stomaco con artigli di paura. Aveva fatto sostituire i finestrini del furgone, ma ogni mattina i profondi graffi sul metallo della portiera gli davano l'orrendo benvenuto dell'incubo. Se non fosse stato per quei graffi si sarebbe rassegnato a considerare l'incidente, liquidandolo, come un primo attacco di delirium tremens. Ma così non poteva, e sebbene da allora fosse tornato qualche volta lungo la strada di King's Bridge fino al Canto del Gallo, non aveva mai parlato dell'episodio ed era sempre stato attento a lasciare il locale contemporaneamente a qualcun altro che si dirigeva verso Bethany's Sin. Ora stava precipitando. Precipitando dentro un corridoio alla cui lontana
estremità si apriva un abisso buio. Cadeva rapidamente, rotolando, sentendo in bocca quel gusto amaro e strano. Tè di sassofrasso? O qualcos'altro? Forse la signora Bartlett - la vecchia cara signora Bartlett, così simile a sua madre prima che cominciasse a bere - metteva della droga nel tè? Tentava di drogarlo? Di approfittare della sua debolezza? Dovrò sgridarla, pensò. Non è leale. Improvvisamente sentì il suono acuto del metallo contro il metallo, e seppe di essere ancora sveglio. Era difficile aprire gli occhi; alla fine riuscì a sollevare leggermente le palpebre, e intanto sentì il corpo coperto da una patina bagnata e la stanza quasi pulsante di calore. Che cosa si muoveva? si chiese. Che cosa? Di nuovo il rumore. Un rumore leggero, appena udibile. La maniglia. Girò con sforzo la testa e fissò la porta, oltre l'oscurità. Non riusciva a vedere il pomolo della maniglia, ma intuì che stava ruotando. Qualcuno dall'altra parte aveva una chiave. Neely tentò di alzarsi sui gomiti, ma riuscì a sollevarsi appena. La testa sembrava pesante, il collo quasi incapace di sopportarne il peso. Fissò la porta, con i muscoli del viso rilasciati e la bocca aperta. Ci fu un leggero clic! e lui capì che la serratura era scattata. Tentò di gridare ma non ritrovò la voce. Drogato, ormai ne era certo. La signora Bartlett mi ha drogato con qualche cosa! La porta iniziò ad aprirsi; una lama di luce entrò per prima, divenendo pian piano più larga e lunga e lucente, cadendo sul letto e accecandolo. Finché, quando la porta fu del tutto spalancata, la luce gli colpì in pieno gli occhi, dolorosamente. E nella luce si stagliavano tre figure, due davanti e una dietro. — È pronto — disse qualcuno. In realtà Neely sentì due voci che si sovrapponevano. Una parlava inglese - la voce della signora Bartlett - l'altra un linguaggio aspro, gutturale, che non aveva mai sentito prima. E questa seconda voce, la più potente, lo riempì di un terrore che gli fece aggricciare lo stomaco. Le figure oltrepassarono la soglia e si avvicinarono. Rimasero in piedi accanto al letto, in silenzio. Ma ora lui riusciva vederne gli occhi, sulla macchia nera del viso. Tre paia di occhi. Fissi. Scintillanti di fiamme azzurre che sembravano volerlo incenerire. Egli tentò di scivolare via, ma i suoi muscoli non ubbidirono; la finestra era aperta; avrebbe potuto urlare, magari qualcuno l'avrebbe udito. Quando tentò di farlo udì una specie di belato flebile. Gli occhi si mossero, esaminando il suo corpo nudo. Una mano si allungò; Neely
vide pendere dal polso un braccialetto di denti di animale. Le dita seguirono la lunghezza del suo pene. Tentò di sottrarsi, non poté. Un'altra mano discese, dita fredde tracciarono cerchi sul suo ventre. La cosa-Bartlett tornò verso la porta e la chiuse. Il cuore di Neely batteva impazzito. Poteva sentire quelle cose respirare nel buio, un ansito forte. Mani gli toccarono il petto e le braccia e le cosce e la gola; sentì odore di femmina, intenso ed esigente, riempire la stanza di desiderio sessuale. Dita sul suo pene, che accarezzarono la pelle liscia. Sotto quegli occhi brucianti che lo perseguitavano sapeva che le labbra erano aperte, tese dalla lussuria. Una delle due forme sedette sul letto al suo fianco, si chinò e leccò i testicoli. L'altra andò al capo opposto e scivolò su di lui, gli afferrò le spalle, mordicchiò il petto, dapprima leggermente e poi con desiderio crescente. Voltando la testa con uno sforzo che gli fece spuntare gocciole di sudore, Neely vide gli occhi della cosa-Bartlett immobile presso la porta chiusa. Stava sogghignando. E con orrore sentì che il suo corpo rispondeva alle carezze delle due donne accanto al letto. Questo le eccitò ancor di più, ed esse si contesero il posto accanto al suo organo sessuale. Una bocca lo afferrò, mani dalle lunghe unghie gli accarezzarono le cosce, dai fianchi alle ginocchia, lasciandogli strisce in rilievo. Il desiderio fisico lo scosse, mandandogli i nervi in fiamme. I suoi testicoli dolevano per liberarsi. E poi si accorse che una di loro, la cosa-donna dal braccialetto di denti, si era alzata e stava lentamente togliendosi l'abito ruvido che indossava. Nonostante il buio riuscì a vedere il ventre liscio, le cosce tese e ferme e, nel mezzo, il triangolo di peluria scura. La febbre gli raggiunse il cervello, e ora egli aveva solo un bisogno e un desiderio al mondo. Lei lo percepì e iniziò a muoversi con esasperante lentezza. Allora l'altra cosa-donna scese dal letto e si spogliò; lui sentì il calore che promanava da entrambi i loro corpi, e non gli importò più di quegli occhi terribili che lo guardavano quasi indifferenti, non gli importò più di sapere se quelle cose fossero visioni da incubo, non gli importò più, non gli importò... Quella con il braccialetto gli accarezzò il corpo con un tocco di fuoco. Una cortina di capelli neri e folti le pioveva sulle spalle, e da essi promanava un odore di foresta. Gli salì a cavalcioni, le sue gambe lo strinsero forte. Muovendosi in avanti, con la mano lo guidò dentro di lei. Impaziente. Ebbe un sospiro lieve e iniziò a muoversi, prima lentamente, poi con crescente passione. Le sue unghie gli incidevano le spalle, mentre i suoi
occhi fissi lo guardavano dritto in volto con una strana indifferenza. Neely le afferrò le braccia, sentì sotto i palmi una pelle liscia e soda; si sollevò e lei gli cadde addosso allo stesso tempo, mescolando piacere e dolore. Un attimo dopo esplose dentro di lei, con un gemito inumano che a malapena riconobbe come la sua stessa voce. Gli umori di lei lo imprigionarono, pulsando contro la sua carne con una forza che lo teneva imprigionato. Lei cadde di nuovo su di lui, e le sue gambe gli impedirono di uscire. L'orgasmo lo lacerò come un lampo, mentre lei continuava a muoversi, a spremerlo fino all'ultima goccia. Poi, mentre lei tremava violentemente nelle spire del proprio orgasmo, Neely fece scivolare le mani giù dalle spalle fino a raggiungere i capezzoli. Uno di questi era duro e rigido. L'altro mancava. E Neely si rese conto, con una nuova ondata di stupore e paura, che quella donna aveva una sola mammella. Quella destra non c'era più, e le sue dita avevano incontrato al suo posto i bordi fibrosi di una cicatrice a forma di stella. La donna lo lasciò andare e in silenzio discese dal suo corpo. Prima che scivolasse di nuovo dentro al vestito, Neely poté vedere gioielli di sudore e di sperma sospesi sulla fine peluria tra le cosce. Alla porta la cosa-Bartlett non si era mossa. I suoi occhi ferocemente azzurri gli bruciavano attraverso il cranio. Aspettarono che riacquistasse le forze. Aveva il corpo prosciugato e la mano conservava il ricordo di quella strana e vivida ferita. E poi la seconda donna si accostò. Era snella e bionda, e la sua bocca e le sue dita giocarono con il suo corpo fino a che lui di nuovo fu eretto e pulsante. Lei allora discese sopra di lui con febbrile intensità, mordendogli le spalle e la gola, battendolo con i fianchi. E qualche secondo prima che un nuovo orgasmo lo attraversasse, lui si rese conto che anche a questa donna mancava il seno destro, perché poteva sentire la cicatrice premuta contro il proprio petto. Gli rimase addosso per qualche istante, ansimando, e poi il suo peso scomparve. Neely, con il corpo dolente ed esausto, vide le tre donne in piedi su di lui, che lo guardavano come se stessero esaminando una insignificante curiosità. — Dormirà, ora. — Due voci avevano parlato. Una quella della signora Bartlett, l'altra quella gutturale, straniera, che gli fece accapponare la pelle. La mano della cosa-Bartlett uscì dal buio, gli accarezzò la fronte febbricitante. E poi le donne scivolarono oltre la soglia in un fruscio di abiti, dentro la luce accecante dell'atrio. La porta si chiuse dietro di loro, la chiave
girò. Passi sulla scala. Un'altra porta si chiuse nelle viscere della casa. Poi solo silenzio. E di colpo l'ondata gigantesca del sonno si alzò davanti a Neely, infrangendosi su di lui con il tocco avido di un amante, sommergendolo e cullandolo. Trascinandolo giù e giù e giù, sempre più in basso... 19 COSE DISSEPOLTE Dietro a uno strato di nuvole dal colore cadaverico il sole àrdeva, bruciando la terra, ingiallendo l'erba e gli alberi chini, scacciando ogni ombra e depositando un bacio di fuoco sulle spalle di Neely Ames. La puzza della discarica era intorno a lui, lo circondava come un mantello nauseabondo. Era una distesa ampia e nuda di polvere interrotta qua e là da mucchi di immondizia di ogni tipo, da cui si alzavano sciami di mosche nere che circondavano il capo di Neely, lanciandosi verso i rivoletti di sudore che gli correvano giù dal viso e dalle braccia, e poi, scacciate, alzandosi di nuovo, senza desistere. Oltre la discarica, in fondo, erano accesi diversi fuochi, da cui si alzava un fumo acre che stagnava nell'aria immobile e impregnava gli abiti di Neely, facendogli lacrimare gli occhi dietro agli occhiali. Quando si spostava gli stivali alzavano nubi di polvere e lui doveva prestare attenzione alle spaccature del suolo, ampie come fratture di un improvviso terremoto. Dio solo sapeva quante tonnellate di rifiuti giacevano sepolte sotto il terreno; ora questo sembrava ritrarsi, o viceversa gli strati di immondizia dilatarsi sotto l'azione feroce del sole. In un punto si potevano vedere, a un profondità di almeno due metri, una incredibile palude di materiale in decomposizione, bottiglie, pannolini, persino abiti vecchie e scarpe. Sotto il primo strato della discarica un fango orribile emetteva un puzzo che faceva rivoltare lo stomaco a Neely. Passando accanto a un mucchio di cartoni e di pezzi di vetro, sentì uno squittio acuto provenire da una tana di topi; li aveva già visti prima, il mattino presto quando faceva un po' più fresco, forme scure che correvano da un mucchio all'altro in cerca di rimasugli di cibo. Odiava questo posto perché era sporco e puzzolente, tanto quanto Bethany's Sin era bella e senza macchia. E ora portava un sacco di plastica con dentro un gatto grigio semidecapitato. L'aveva dovuto recuperare dove era stato investito, sulla 219; un camion probabilmente l'aveva preso in pieno, durante la notte, e il conducente dentro la sua alta cabina aveva sentito soltanto un colpetto alla ruota. La
carcassa era già ridotta male quando era andato a recuperarla, nel pomeriggio, e naturalmente le mosche si erano radunate a frotte. Mentre avanzava, per andare a depositare il sacco più all'interno della discarica, lo stivale ruppe una crosta di terra e affondò fino alla caviglia. Neely imprecò e dovette fare un paio di passi prima di recuperare l'equilibrio. Attraverso il velo sottile di polvere che si era alzato vide una nuova frattura zigzagare attraverso la superficie, perdendosi via; immaginò voragini che si aprivano ai suoi piedi e se stesso risucchiato come dentro le sabbie mobili, condannato a morte in quella fanghiglia, dove sarebbe stato soffocato dai rifiuti di Bethany's Sin. Scacciò la visione e gettò il sacco di plastica in avanti; i topi squittirono e scapparono. La puzza in quel punto era infernale, perché lì lui gettava le carcasse degli animali - cani, gatti, scoiattoli, una volta persino un vitello - investiti sulla 219 o nelle strade del villaggio. Si trattava di un compito decisamente sgradevole, ma era quello che gli toccava fare. Come Wysinger gli aveva più volte ripetuto. Prese un fazzoletto dalla tasca posteriore per pulire gli occhiali dai frammenti di cenere. Fili di fumo si avvolgevano attorno a lui; ne sentiva il sapore in fondo alla gola. Amaro. Come il retrogusto del tè della signora Bartlett. Improvvisamente rabbrividì, sebbene il sole gli bruciasse il viso. Qualcosa iniziò a prendere forma nella sua memoria - figure scure che incombevano su di lui, occhi come pozze di fuoco azzurro, mani tese verso di lui dall'oscurità - e poi scivolò via prima che potesse fermarlo. Per tutto il giorno qualcosa di strano l'aveva perseguitato, immagini d'ombra che attraversavano la sua mente con la velocità del lampo e poi sparivano, e che lo lasciavano con una sensazione di terrore ma anche di... sì, di un forte desiderio sessuale. Non ricordava di aver sognato; in verità, il mondo gli era sembrato oscurarsi dopo che la signora Bartlett aveva lasciato la stanza. Probabilmente si era disteso ed era caduto in un sonno di piombo fino all'alba. Ma quando si era svegliato aveva sentito il corpo dolente e, per un attimo, come un odore di donna nell'aria e sul suo letto. No, no. Era solo il suo desiderio. Ma una cosa lo preoccupava. Mentre faceva la doccia aveva notato graffi sulle proprie cosce. Aveva pensato a dove se li fosse procurati. Probabilmente nel segare l'albero i rami gli avevano graffiato le gambe senza che se ne rendesse conto. Ma strano che non li avesse notati prima... Si rimise gli occhiali, sugli occhi che gli bruciavano per il fumo, e iniziò a tornare, attraverso la discarica, al furgone, si fermò a guardare dentro al buco da lui stesso provocato poco prima. Signore Iddio! pensò. Tutto que-
sto dannato posto è ridotto come un gruviera. Chissà da quanto tempi gli abitanti lo stanno usando come discarica; chissà quante tonnellate di rifiuti ci sono qua sotto. Diede un calcio al terreno, che era secco e si sfarinò, allargando il buco. Dentro al quale brillò qualcosa. Neely si chinò, guardò, tolse la polvere. Un minuscolo oggetto quadrato, argenteo. Altri piccoli oggetti, bianco-giallastri. Ne raccolse uno e lo guardò da vicino, tentando di capire che cosa fosse. D'impulso si alzò, trovò un ramo e frugò dentro il buco. L'immondizia si staccò a strati. Le mosche lo circondarono, avide, in attesa di ciò che avrebbe scoperto. Ma non c'era nulla; solo rifiuti e sporcizia. Gettò da parte il ramo, pulendosi la mano sui pantaloni, e guardando ancora l'oggetto che aveva nell'altra mano. Capì che cos'era, e la scoperta gli fece battere più veloce il cuore in petto. Come diavolo poteva trovarsi lì, nella discarica di immondizie? A meno che... Dio, no! Lo avvolse nel fazzoletto, si chinò e cercò gli altri. Ne trovò due, li raccolse e poi si allontanò dal buco, dirigendosi verso il furgone. In McClain Terrace, Evan si rialzò dalla macchina per scrivere e si stirò. Aveva completato circa un terzo del nuovo racconto a cui stava lavorando e aveva bisogno di una pausa. Di fianco alla macchina per scrivere c'era mezza tazza di caffè tiepido e un paio di matite mordicchiate; prese la tazza, andò al piano di sopra, in cucina, la sciacquò nel lavandino e mise il bollitore sul fuoco. Mentre la piastra si scaldava pensò a quel che l'attendeva: presto o tardi avrebbe dovuto trovare il coraggio di iniziare un romanzo. Sarebbe stato sulla guerra, sui reduci feriti e mutilati che erano tornati a casa solo per accorgersi di aver lasciato un campo di battaglia per un altro. E qui, in quel campo di battaglia più grande, più feroce, non c'era modo di di distinguere l'amico dal nemico, finché non era troppo tardi. Qui il nemico aveva diverse facce: il medico dell'ospedale che spiegava che le cicatrici col tempo sarebbero scomparse; lo psichiatra con un brutto parrucchino che ti diceva che non era colpa di nessuno, non tua, non di quelli che ti avevano mandato a combattere, non di nessun altro; la sorridente signora del collocamento che diceva mi dispiace, oggi non abbiamo niente per lei; la gente come Harlin che ti si gettava addosso e ti succhiava il sangue, per impedire alla propria anima tormentata di cadere a pezzi. Tutto questo sarebbe dovuto venir fuori, un giorno. Ma non ora. No, ora bastava già scrivere queste grida minori nel buio e
sperare che qualcuno le sentisse e capisse. Ora bastava già tentare di controllare la battaglia che infuriava dentro di lui; la lotta contro le sue paure e la sua rabbia spesso irragionevole, la lotta contro quelle premonizioni che, adesso se ne rendeva conto, avevano contribuito a fargli a pezzi la vita. Il bollitore iniziò a fischiare. Lo tolse dalla piastra e contemporaneamente diede un'occhiata fuori dalla finestra. Vide una figura alla finestra della casa dei Demargeon. Era Harris, sulla sua sedia a rotelle, che da dietro le tendine guardava la strada. Gli occhi dell'uomo sembravano buchi neri sul viso pallido. Un attimo dopo le tendine ricaddero e la figura scomparve. Poteva immaginare quello che la signora Demargeon aveva detto al marito di quella notte in cui lui aveva lasciato traboccare le sue paure e i suoi sospetti. Quell'Evan Reid ha perso la testa. Ha preso un giocattolo che avevo comprato per la sua bambina e ha fatto qualcosa di... terribile, mentre io volevo solo essere gentile. Te lo dico io, non credo che dovremmo ancora vedere quella gente; quell'uomo è instabile. Evan spense il fornello. Instabile. Sì, forse era la parola giusta. E adesso, senza volerlo, aveva fatto ancora del male a Kay tagliandola fuori dalle altre persone. La signora Demargeon probabilmente non le avrebbe più parlato Dio! Scosse la testa al pensiero della propria stupidità. No. Io posso rimediare. Posso andare là e scusarmi. Subito. Esitò per un attimo, poi uscì da casa e si diresse verso la veranda dei Demargeon. L'auto non era nel viale, ma almeno avrebbe potuto parlare con Harris, tentare di spiegargli che a volte perdeva il controllo di se stesso, lasciando che le sue paure e premonizioni aprissero varchi dentro la sua coscienza. Ma Kay non ne ha colpa, avrebbe detto all'uomo. Kay ha bisogno di amici; desidera sentirsi parte del villaggio. Salì i gradini e suonò al campanello. Aspettò per un momento. C'era silenzio dentro la casa, e incominciò a pensare che l'uomo non avrebbe aperto. Suonò di nuovo, e allora sentì il cigolio della sedia a rotelle che si avvicinava lentamente. La porta si aperse, trattenuta da una catenella. Gli occhi di Harris Demargeon si spalancarono leggermente. — Signor Reid — disse. — Che cosa posso fare per lei? — Io... be' pensavo di venire a parlare con lei un momento. L'altro non si mosse. Disse — Mia moglie non c'è. — Sì, lo so — rispose Evan. — Ma pensavo... forse potremmo parlare io e lei.
Demargeon lo guardò, sembrò esitare. Non lo biasimo, pensò Evan. Dopo tutto, si sa che i veterani di guerra sono dei killer. Dei killer pazzi, tra l'altro. Dio! Quest'uomo ha davvero paura di me! Ma poi l'uomo alzò la mano. Si udì un clic! e la catenella ricadde. Demargeon si tirò indietro e la porta si spalancò. — Entri — disse. Evan entrò. Il riverbero rovente aveva surriscaldato la stanza. Demargeon andò a mettersi dall'altra parte della sala e rimase a guardare Evan. — La prego — disse piano. — Chiuda lei la porta e rimetta la catena. Evan eseguì. — L'ho vista dalla finestra della cucina e ho pensato che fosse il momento giusto per venire a scusarmi. L'altro uomo indicò il divano ed Evan sedette. — Scusarsi? — chiese. — Per che cosa? — Per la mia scortesia nei riguardi di sua moglie, qualche sera fa. Si fermò, cercando una reazione. Ma l'uomo sembrava non sapere di che si trattava. — Aveva comperato a mia figlia un giocattolo, un arco con delle frecce. — Strinse le spalle. — Non so. Mi colpì, lo associai con... qualcosa che mi stava preoccupando, e temo di aver perduto la calma. — Mentre parlava studiava il signor Demargeon. Camiciotto bianco dalle maniche corte, pantaloni scuri, cravatta nera. Il viso di un colore pallido, poco sano. Gli occhi scuri e acuti. — In ogni caso, non volevo offendere sua moglie — proseguì. — È stato molto gentile da parte sua venire a sorvegliare Laurie, e anche molto gentile comprarle quel giocattolo. Non so che cosa mi abbia preso... so che ho perso il controllo. Spero che mi capisca. Demargeon rimase in silenzio. — Naturalmente ha tutto il diritto di sentirsi offeso — continuò, sapendo di meritarsi l'ostilità dell'altro. — Vedo che è contrariato. Però la prego, a mia moglie piace molto la signora Demargeon. Non vorrei vedere la loro amicizia... — Vada via da qui — sussurrò l'uomo. Evan non era sicuro di aver sentito bene. — Che cosa? — Vada via da qui — ripeté il signor Demargeon, con la voce tesa e rauca. Avanzò con la sua sedia e poi si fermò, ed Evan vide che aveva gli occhi sconvolti. — Prenda sua moglie e sua figlia e vada via. Adesso. Oggi. — Chiedo scusa — disse Evan. — Non capisco che cosa sta... — Vada via da Bethany's Sin! — fece l'uomo, a metà fra il grido e il singhiozzo. — Non si preoccupi dei vestiti o dei mobili o della casa! Pren-
da su loro e vada via! Evan, fissando gli occhi frenetici dell'uomo, sentì il morso della paura afferrargli lo stomaco. Non sapeva ancora di che cosa stesse parlando Demargeon, ma in quell'istante gli parve di vedere al posto dell'uomo un orrendo cadavere animato. — Mi ascolti! — disse Demargeon, tentando visibilmente di non perdere il controllo. Stava tremando. Accostò la sedia a rotelle a Evan, con gli occhi spalancati e supplicanti. — Lei non sa. Lei non capisce. Ma quello che percepisce è vero; ancora non lo vede bene, ma è vero! Ora, per l'amore di Cristo e di tutto quanto ha di sacro, per salvare sua moglie e sua figlia e se stesso... — Aspetti un attimo! — lo interruppe Eyan. — Che cosa diavolo sta... Demargeon guardò di scatto la porta, come se avesse sentito qualcosa. Con il viso irrigidito in una maschera, inghiottì, poi tornò a fissare Evan. — Loro sanno che lei ha dei dubbi — disse. — La stanno controllando, e sono in attesa. E quando verranno a prenderla sarà di notte e allora sarà troppo tardi... — Chi? — fece Evan. — Chi verrà? — Loro! — proseguì Demargeon, con le mani tremanti afferrate ai braccioli grigi della sedia. — In nome di Dio, ma non ha visto che nessun uomo cammina per le strade di Bethany's Sin dopo il tramonto? Non ha visto? — No, io... — Loro uccisero Paul Keating di notte — disse precipitosamente Demargeon.. — E poi portarono il suo corpo dove portano tutti i corpi. Io sentii il grido di guerra dopo che l'ebbero ucciso; lo sentii e tentai di tagliarmi la gola con un coltello da cucina, ma lei non mi lasciò, lei disse no, no, che non sarei riuscito a sfuggire in quel modo, e oh Dio i suoi occhi, oh Signore Iddio i suoi occhi mi bruciavano... È pazzo, si disse Evan. O l'hanno fatto diventare pazzo. E che cos'era la faccenda di Keating? Di che cosa stava parlando quest'uomo...? — Verranno a prenderla! Certo, verranno a prendere lei come sono venuti a prendere me! — Un filo di saliva era uscito dalla bocca dell'uomo e ora pendeva dal mento sulla camicia. — Di notte! Verranno di notte quando la luna sarà alta e piena e la porteranno in quel luogo... oh Dio, in quel luogo orribile! Evan scosse la testa, fece per alzarsi dal divano per andare alla porta. — Lei non mi crede! — esclamò Demargeon. — Lei non capisce! —
Qualche cosa di oscuro e orribile attraversò i suoi occhi. — Le mostrerò. Le mostrerò che cosa le faranno! — E già stava arrotolandosi una gamba dei pantaloni, tirando con forza la stoffa. Aveva il respiro rauco e spezzato, e mormorava parole sconnesse, che Evan non riusciva a capire. La stoffa dei pantaloni si lacerò. Allora le sue dita si mossero frenetiche, attorno al ginocchio. Evan vide il sole brillare sulla plastica. Le dita di Demargeon lavoravano attorno a una cinghia. Poi, con il viso tirato per lo sforzo, scalciò con il ginocchio. La gamba si staccò e andò a finire per terra, di fianco alla sedia a rotelle. E già Demargeon lavorava attorno all'altra gamba, strappando via la stoffa, con i denti digrignati e un velo di sudore sulla fronte. Un'altra cinghia. Scalciò di nuovo, ansimando. La gamba destra cadde dall'altro lato della sedia, e i pantaloni vuoti, a brandelli, pendettero flosci dal busto mutilato dell'uomo. Evan era balzato in piedi e arretrava verso la porta. Aveva la bocca aperta ma non riusciva a trovare le parole; inciampò, per poco non cadde sul tavolino da caffè. Il sudore rigava la faccia di Demargeon.. Le due protesi giacevano a terra, con le pantofole nere a una estremità e i calzini che finivano sulla plastica. Demargeon alzò lo sguardo perseguitato a cercare gli occhi di Evan. E poi iniziò a ridere, in modo isterico, folle. Mentre rideva le lacrime gli brillarono negli occhi e presero a cadergli sulle guance, sulla camicia bianca. La risata echeggiò nella stanza, stridula e terribile, la risata di qualcuno che è al di là di ogni salvezza. — Dio, no... — esclamò Evan, scuotendo la testa, arretrando mentre l'altro avanzava verso di lui. — Dio del cielo, no, no, no! Tintinnio di chiavi nella serratura. La porta si aprì, poi si fermò bruscamente trattenuta dalla catena. Un viso di donna apparve dalla fessura. — Fatemi entrare! — La voce della signora Demargeon, decisa, imperiosa. Evan allungò la mano verso la catena. — Lei mi ucciderà! — disse Demargeon, tentando di frenare il riso, mentre le lacrime colavano ancora dalla punta del mento. — Tutte loro mi uccideranno! Evan si fermò, il sangue raggelato, con le dita a pochi centimetri dalla catena. — Signor Reid? È lei? Mi lasci entrare, per favore. — Mi ucciderà — sibilò il signor Demargeon. — Signor Reid? La porta, per favore. Evan esitò, trattenuto dallo sguardo di puro terrore che c'era negli occhi
dell'uomo. — Devo assistere mio marito! — disse aspra la signora Demargeon. Evan distolse lo sguardo dall'uomo e tolse la catena. Dietro di lui, Demargeon gemette come un animale preso in trappola. La donna entrò nel soggiorno, tenendo in mano la borsa piena della spesa; diede un'occhiata rapida al marito quindi a Evan e posò la spesa sul tavolo. Demargeon ruotò all'indietro la sedia a rotelle, andando a finire su una delle gambe di plastica. L'espressione di terrore che aveva negli occhi raggelò Evan, riportandogli d'improvviso un ricordo lacerante: se stesso legato su una branda, e una donna dal sorriso di seta che teneva sospesa su di lui una gabbia di bambù con dentro una creatura infernale, strisciante. La signora Demargeon si voltò e vide le gambe di plastica sul pavimento. Rimase a fissarle, poi, molto lentamente, alzò gli occhi sul viso del marito. — Harris — disse con voce calma — hai fatto il bambino cattivo, non è vero? Lui la fissò con gli occhi spalancati, scuotendo la testa. — Che cosa diavolo sta succedendo, qui? — intervenne Evan, e si rese conto che la sua voce suonava forzata. — Le sarei grata se ora ci lasciasse, signor Reid — disse la signora, senza voltarsi. — No! Non me ne andrò prima di sapere che cosa sta succedendo! Allora lei si voltò, fissandolo con occhi cupi, intensi. — Mio marito è un uomo malato — disse. — Non credo che possa aiutarlo rimanendo qui. — Malato? — fece eco Evan, incredulo. — Lui è... mutilato! Le sue gambe... sono tagliate al ginocchio! — Signor Reid! — esclamò la signora Demargeon, con gli occhi fiammeggianti. Dietro di lei, Harris Demargeon tremava, muovendo la bocca senza emettere suono. Lei tacque un attimo, si portò la mano alla fronte e chiuse gli occhi. — Mio Dio — fece. — Signor Reid, lei non capisce la situazione. — Ha proprio ragione, non capisco! La signora Giles mi aveva detto che suo marito era paralizzato, non ridotto come un pezzo di carne! Lei allora gli rivolse uno sguardo vuoto, vitreo, che lo fece rabbrividire. — Va bene — disse. — Va bene. Venga un momento sulla veranda. — Mentre lasciavano il soggiorno lui udì l'uomo che iniziava a singhiozzare ad alta voce. — Mio marito è stato... ferito molto gravemente in un incidente sulla strada di King's Bridge — disse la signora Demargeon, una volta che furo-
no sulla veranda. — Ma non rimase paralizzato. Le sue gambe furono maciullate. — Aggrottò la fronte, scuotendo la testa. — Da quel momento Harris ha incominciato a lasciarsi andare. Un processo graduale e terribile, molto doloroso per chi vi assiste di giorno in giorno. Ma che cosa potrei fare? — Alzò gli occhi su Evan. — Non me la sento di metterlo in un ospedale; non me la sento di farlo rinchiudere. — Si comporta più da uomo terrorizzato che da pazzo — disse Evan. — Qualche volta è peggio delle altre. Ma non mi piace lasciarlo solo, capisce. Quando è da solo si comporta come... lei ha potuto vedere. Balle! pensò Evan. Tutte dannatissime balle! — La signora Giles mi aveva detto che era paralizzato dalla vita in giù. — La signora Giles non è obbligata a sapere tutto! — esclamò irritata la donna. — Ha visto come ha reagito lei stesso! Pensa che voglia che il villaggio consideri mio marito come una specie di mostro da baraccone? È questo che vorrebbe lei? Signore Iddio, ne ho passate abbastanza! — Tacque un momento, cercando di riprendere il controllo. Dopo l'incidente fu portato in ospedale a Johnstown. Rimase là per mesi. E quando tornò a casa decisi che era meglio non spiegare a nessuno la natura delle sue... ferite. — Fissò Evan negli occhi. — Spero che lei rispetterà i miei sentimenti. Sei una bugiarda, pensò lui. Ma perché? Annuì. — Certo. — Bene. Mi dispiace di essermi lasciata andare, ma lo shock di vederlo così... lo so, ormai dovrei essere abituata agli scoppi di Harris, ma è difficile. — Si mosse verso la porta. — E meglio che vada a prendermi cura di lui, ora. Arrivederci. — E la porta si chiuse. Evan sentì la catena agganciata. Sentì la voce di lei, indistinta. Poi il cigolio della sedia a rotelle. Lasciò la veranda, con la testa che gli pulsava e la nausea allo stomaco, e tornò velocemente a casa. E in tutto quel tempo qualcosa che quell'uomo spaventato e certamente per metà pazzo aveva detto gli riecheggiava nella mente come l'avvertimento di un oracolo: Verranno a prenderti di notte! 20 IL CANTO DEL GALLO A cena, seduto con Kay e Laurie attorno al tavolo di cucina, Evan si accorse che la mano che reggeva la forchetta gli tremava. L'oscurità si stava diffondendo oltre le finestre, cancellando la foresta, trasformando le case di Bethany's Sin in forme maligne su cui le luci bril-
lavano come occhi astuti. Evan poteva vedere la falce bianca della luna nascente; pensò allo scudo forgiato a mezza luna che c'era al terzo piano del museo, con la faccia incollerita disegnata in rilievo, pensò agli occhi spalancati che lo avevano fissato dal frammento di terracotta. E si rese conto che la loro espressione di terrore era simile a quello che aveva visto negli occhi di Harris Demargeon. — Vanno bene le cotolette? — gli chiese Kay, vedendo che non aveva mangiato molto. — Che cosa? — La guardò. — Non stai mangiando. — Oh — Portò alla bocca un po' di purè. — Sto pensando, ecco tutto. — A che cosa? Qualcosa che è successo oggi? Esitò, sul punto di raccontarle ogni cosa, di dirle che pensava che la signora Demargeon gli avesse mentito, di dirle di quella paura crescente di cui non riusciva ancora a darsi ragione. Ma sapeva che cosa avrebbe risposto lei: devi andare da un dottore per queste paure irrazionali, stai rovinandoci la vita con le tue premonizioni o quello che diavolo sono, oh Dio la mia testa, la mia testa scoppia... — No — rispose, distogliendo gli occhi. — Sto pensando a un racconto che mi dà dei problemi. — Perché non me ne parli? Sorrise, un piccolo sorriso trasparente. — Sai che non ne posso parlare finché non li ho finiti. Lei lo guardò per un momento, pensando che aveva un aspetto... come? Stanco? Impaurito? Schiacciato? Gli toccò la mano, sentì il pulsare del sangue attraverso la pelle. — Sai — disse lui, posando la forchetta e guardandola, e poi guardando Laurie che stava rincorrendo nel piatto carote e piselli. — Stavo pensando a una cosa, in questi giorni. Ha fatto così caldo questa settimana, e così asciutto, che mi chiedevo se non potessimo prendere la macchina e andarcene tutti e tre sulla costa il prossimo fine settimana. Che ne dite? Gli occhi di Laurie si illuminarono. — L'oceano! — esclamò. — Giusto. L'oceano. Ti ricordi l'estate che siamo andati a Beach Heaven? Laurie annuì. — Era divertente! Ma mi sono scottata. — Ti ricordi la barca naufragata che spuntava dalla sabbia? Possiamo andare a vedere se c'è ancora. Ricordi la torre del faro che sembrava un lecca-lecca? Kay gli strinse la mano. — Sarebbe bello, Evan. Ma ho dei compiti in
classe da dare la settimana prossima. Non posso venire. — Avanti! Puoi per il fine settimana! Lei sorrise. — È troppo distante per due giorni soli. Perché non aspettiamo fino alla fine del trimestre? — Nooooo! — disse Laurie, ormai completamente dimentica delle sue carote e piselli. — Bene — insistette Evan — magari possiamo andare da qualche parte più vicino. In montagna, dove farà più fresco. Solo per un fine settimana, saremo indietro per lunedì mattina. — Sìììì! — disse Laurie. Kay lo stava osservando in modo strano. Che cos'era questa ansia di vacanze? si chiedeva. Di solito erano lei e Laurie che dovevano strapparlo dalla macchina per scrivere per un paio di giorni. Adesso sembrava che lui fosse impaziente, persino ansioso di lasciare il villaggio. — Credo che dovrò fare la parte della guastafeste — disse, guardandolo. — Ma quei compiti hanno la priorità, ora. — Bene, e allora quando potresti venire? — le chiese lui, e in quel momento lei fu sicura che qualcosa non andava. — Non saprei dirlo, adesso — rispose. — Quando finirà il trimestre, in agosto... Lui rimase zitto, quasi trapassandola con gli occhi. — Agosto non è così lontano — aggiunse lei. — Solo due settimane. — Sono preoccupato per te — disse lui. — Penso che dovremmo... andarcene per un po' da questo posto. — Preoccupato per me? — È così. Quei sogni che stai facendo... — Per favore — lo interruppe lei, e appoggiò la forchetta sul piatto con molta attenzione. — Non parliamo di quei sogni. — È importante! — esclamò lui, e poi si accorse che l'aveva detto con troppa forza, perché vide gli occhi di Laurie spalancarsi, come aspettando un loro litigio. Disse più piano: — Tutti i sogni ricorrenti significano qualcosa. Credimi, io so che... — Non sono sogni ricorrenti! — disse lei. — Voglio dire, mi sembra di essere sempre la stessa persona e mi sembra di conoscere i luoghi, ma... quello che succede è sempre diverso. — Va bene. Ma comunque sono preoccupato. — Ansia — riprese lei. — Tu stesso mi hai detto da che cosa dipendono. — E poi strinse gli occhi, rendendosi conto di quale tremenda, sconvolgente ragione si celasse dietro le parole di lui. — Così adesso tu pensi che
questo villaggio abbia qualcosa a che fare con i miei sogni? — Penso che una vacanza ci farebbe bene, a tutti. — Andiamo a Beach Haven! — disse Laurie. — Dai, andiamo! — No. Io non posso. — Kay stava tremando, dentro di sé, perché ora sapeva. Aveva visto quello sguardo tremendo, troppo familiare sul viso di Evan: quello sguardo perso e impotente e spaventato, lo sguardo di un uomo che sta annegando e non vede niente a cui potersi aggrappare. — Evan — disse calma — questo è il posto più bello in cui abbiamo mai vissuto. Abbiamo un'occasione, qui, un'occasione concreta di combinare qualcosa. Non lo capisci? Evan rimase immobile, poi spinse via il piatto come un bambino castigato. Sei stato un bambino cattivo, aveva detto la signora Demargeon. — Potrebbe essere l'ultima occasione, per noi — aggiunse Kay. Lui annuì, si alzò. — Dove vai? — Fuori — disse, con voce non arrabbiata ma tesa e vuota. — Fuori? Fuori dove? — Vado a fare un giro in macchina. Dove sono le chiavi? — Anch'io voglio andare in macchina! — disse Laurie. — Nella... mia borsa sul letto. — Lo guardò mentre attraversava il salotto. — Vuoi che veniamo con te? — No. — E poi salì le scale verso la camera da letto. — Mangia — disse Kay alla bambina. — Le carote ti fanno bene. — Rimase in ascolto, lo sentì scendere, sentì la porta d'ingresso aprirsi e poi chiudersi. E un minuto dopo sentì la familiare andare in moto e uscire dal vialetto. La sentì rombare lungo tutta McClain Terrace. — Che cos'ha papà? — chiese Laurie. — Faceva cose strane. E solo allora Kay sentì le lacrime bruciarle negli occhi. — Papà... non sta bene, Laurie. Non sta bene per niente. — Le lacrime scesero, brucianti, cadendo sulla tovaglia. Laurie la fissò. Il Canto del Gallo, pensò Evan mentre voltava verso nord, guidando lungo le strade silenziose immerse nell'ombra. Un buon posto per andare a bere, stasera. E magari un buon posto per fare qualche domanda. Passò oltre la montagnola scura del cimitero, illuminando con i fari alcune lastre tombali. E poi si trovò circondato dal buio, diretto verso la strada di King's Bridge, con il cervello attraversato da domande che passavano come meteore bianche dietro agli occhi. «Verranno a prenderti di notte» aveva detto
quell'uomo «come hanno fatto per me. Prendi tua moglie e la bambina e vattene. Subito.» E la voce calma, controllata di Kay: «Agosto non è così lontano. Questa può essere la nostra ultima occasione. Questa può essere la nostra ultima occasione». Si accorse che stava andando sempre più veloce, che premeva l'acceleratore a tavoletta. I fari illuminarono un cartello a lato: LIMITE DI VELOCITÀ 70. Il tachimetro segnalava già 105. Stai scappando? chiese a se stesso. Stai scappando da Bethany's Sin? Le gomme fischiarono in curva. Passò attraverso Westbury Mail, punteggiata di luci rassicuranti, con auto parcheggiate; sembrava parte di un mondo lontano anni luce da Bethany's Sin. Un istante dopo l'oscurità lo inghiottì di nuovo. Dalla 219 svoltò sulla strada per King's Bridge e pochi minuti dopo vide all'orizzonte il riflesso rossastro di un'insegna al neon. Era una costruzione più piccola di quanto si fosse immaginato, una semplice, vecchia casa di legno con il tetto di ardesia rossa e le finestre fiancheggiate da insegne pubblicitarie di marche di birra. Sopra la porta la figura dell'uccello era delineata dal neon, il collo teso verso l'alto. In un parcheggio di ghiaia, a lato, c'erano solo alcune macchine e un furgoncino; Evan vi svoltò dentro, parcheggiò di fianco all'edificio e spense il motore. Alcuni visi si rivolsero a lui, mentre entrava, gettandogli una rapida occhiata per poi distogliersi di nuovo. I loro possessori erano evidentemente contadini dei dintorni, seduti ai tavoli o al bar. Dietro il bancone un uomo robusto con una barba rossiccia asciugava bicchieri con un panno bianco. Una donna dai capelli platino stava spillando birra in un boccale, che poi tese a un agricoltore alto e secco, dalle folte basette grigie. Incrociò lo sguardo di Evan, fece un cenno e sorrise, dicendo — Buona sera. Evan sedette su uno sgabello alto, presso il bancone, e chiese una Schlitz. — Subito — fece la donna, e si voltò. Mentre lei spillava la birra dentro un boccale smerigliato si guardò intorno. C'erano altri tavoli sul retro, popolati di figure. Suono di risa. Un uomo dai capelli bianchi in giacca e cravatta con una donna che avrebbe potuto essere sua figlia. Lei gli accarezzava la mano e lui le toccava l'orecchio. Altri uomini seduti insieme, a chiacchierare a bassa voce. Fumo di sigaretta che saliva verso l'alto, dove c'era già una densa nebbia. Evan colse frammenti di conversazione: lamentele sul caldo, quel dannato politico di Meyerman e il suo piano per le strade, il prezzo di mercato della soia, il motore di quella Ford non vale un accidenti te lo dico io. La donna spinse la birra verso di lui. — Ecco qui. — Grazie. — La sorseggiò, gustando il sapore amaro e il freddo pungen-
te. Quando gli occhi si abituarono ulteriormente alla semioscurità del locale, ruotò sullo sgabello e guardò ancora verso il retro. Le forme adesso erano persone, in maggioranza uomini dall'aspetto stanco, probabilmente agricoltori locali. Evan si chiese come fosse la loro terra, sotto quel caldo. Bruciata, spaccata, disseccata, così che avrebbero avuto un altro periodo duro da fronteggiare. Suo padre aveva posseduto e lavorato la terra, e così lui ora riconosceva quella espressione assente, stanca. Ciò che il caldo faceva alla terra lo stava facendo anche a questi uomini. Segnando e avvizzendo loro la pelle, prosciugandola come cuoio sopra le ossa disseccate. Essi bevevano come se stessero cercando di recuperare un po' dei fluidi che il sole aveva sottratto al loro corpo. E in fondo Evan vide una piramide di bottiglie di birra in equilibrio sopra il tavolo. La luce filtrava dorata attraverso di loro, e dietro si scorgeva una figura, seduta. Pensò che qualcosa in quella figura gli era familiare, e allora prese il boccale e andò verso di lui. Mentre si avvicinava al tavolo una voce disse — Attenzione. C'è una tavola sconnessa qui sotto. Se ci mette sopra un piede la mia creazione va all'inferno. — Anche la voce era conosciuta, sebbene lievemente ubriaca. Evan girò attorno al tavolo. L'uomo guardò in su, bottiglie di birra si riflessero nei suoi occhiali. — Non l'ho già vista da qualche parte? — chiese Evan. L'uomo strinse gli occhi, fermandosi un attimo. — Lei è... l'uomo che abita in McClain Terrace, vero? Il signor Rice? — No. Evan Reid. E lei è... — Neely Ames. — L'uomo gli tese la mano. — Piacere di rivederla. Prenda una sedia e si accomodi. Le offro una birra? — Ne ho già presa una, grazie. — Evan prese una sedia da un altro tavolo e si accomodò. — Sembra che si sia dato da fare, stasera. — Già — rispose Neely. — E devo completare l'opera prima che il locale chiuda. Ehi, non è che puzzo di discarica, vero? Oppure di fumo? — Non mi pare. — Bene — disse. — Bene. Pensavo di aver assorbito quella dannata discarica dentro la pelle. Probabilmente sono l'unico che sente l'odore. — Alzò una bottiglia di birra piena a metà e ne prese un sorso, a collo. — Giornata di merda — disse. — Per tutti e due — aggiunse Evan, e bevve a sua volta. — Ha scoperto qualcosa del suo amico? Quello che vive dalla parte opposta della strada?
La faccia tesa allo spasimo di Demargeon, che diceva che avevano ucciso Paul Keating di notte. Evan disse: — No. Più nulla. — Male. Credo che se ne sia andato. Non posso dire che abbia fatto male. — Perché dice così? L'altro scosse la testa. — Non ci faccia caso. Certe volte questa tenta di parlare al mio posto. — Accennò alle bottiglie, che sembrarono tremare lievemente sotto lo sguardo di Evan. — Mi dica — fece Neely — che cosa la tiene in quel villaggio? — Le circostanze — rispose Evan, e l'altro gli lanciò uno sguardo. — È un posticino grazioso; mia moglie e io abbiamo fatto un buon affare con la casa... — Sì, mi piace la vostra casa — annuì Neely. Sorrise. — Non vivo in una casa da tanto tempo... Stanze in affitto, d'accordo, ma niente che possa chiamare casa mia. Deve essere una bella cosa, avere una famiglia come la sua. — Lo è. — Sa, non è perché mi occorrevano urgentemente dei soldi che ho accettato il lavoro a Bethany's Sin. Stavo passando in macchina e il villaggio mi è sembrato così pulito e tranquillo e bello. Mi sembrava che, per quanto continuassi a viaggiare, non avrei mai più trovato un posto come quello. Sono un vagabondo, e questa è l'unica cosa di cui sono sicuro, ma pensavo che se mai avrei potuto cercare di trovare casa, allora Bethany's Sin avrebbe potuto essere il posto giusto. — Alzò di nuovo la bottiglia. — Riesce a capire? — Sì, credo di sì. — Pensavo che avrei potuto sistemarmi qui intorno — proseguì Neely. — All'inizio ho pensato davvero di farcela. Ma c'è il modo in cui quella gente mi guarda, per la strada, come se fossi qualcosa che a loro piacimento potrebbero schiacciare sotto al piede. E quel dannato sceriffo è il peggiore di tutti. A quel bastardo piacerebbe vedermi spezzare in due. — Forse è solo uno a cui salta la mosca al naso — disse Evan. — Può darsi. — Guardò meglio Evan, come ritrovando qualcosa sul suo viso. — Anche lei deve averci avuto a che fare. — E così. Neely annuì. — Allora sa che cosa voglio dire. — Finì la bottiglia e rimase in silenzio per un attimo, fissando le profondità dorate del vetro. — Adesso ho deciso che me ne andrò da quel villaggio — disse a voce molto
bassa. — Perché? Ha appena detto che le piace. — È così. Lei sa giocare a poker, signor Reid? — Un po'. Posò la bottiglia davanti a sé, esitando a rischiare il crollo dell'intera piramide. — C'è una sensazione che qualche volta ti prende, quando la posta è molto alta. Come se qualcosa ti si stia chiudendo attorno, da dietro. Forse perché hai finito la tua scorta di fortuna o perché hai una mano brutta o perché c'è un giocatore più bravo di te che ti sta lasciando credere di vincere finché non decide di far scattare la trappola. Questa è la sensazione che ho adesso io. Qualcuno ha fatto salire la posta, più in alto di quanto mi posso permettere, e sta aspettando di girare l'ultima carta. Non so se ho voglia di aspettare e vedere davvero quella carta. — Non capisco che cosa voglia dire — fece Evan. — Certo. — Neely sorrise leggermente. — Nessuno può capire. — Quando guardò di nuovo Evan i suoi occhi erano lontani e cupi, dietro a figure a cavallo che inseguivano la sua macchina. —Mi è successa una cosa — disse piano, perché non voleva che nessun altro sentisse — fuori sulla strada che porta a Bethany's Sin. Ho continuato a pensarci e tutte le volte ne ho un po' più paura. Non so che cosa stesse succedendo, e non voglio saperlo; ma ora sono sicuro che loro mi avrebbero ucciso. Evan si chinò leggermente sul tavolo. Le bottiglie tintinnarono. — "Loro"? Di chi sta parlando? — Non so chi fossero. O che cosa. Ma, per Dio, non sembravano esseri umani, questo lo so. Mi ascolti! — Scosse la testa con rabbiosa rassegnazione. — Probabilmente sta pensando di essere di fronte a un caso clinico. — No — fece Evan. — La prego , mi racconti il resto. Che aspetto avevano? — Donne — disse Neely — ma diverse da tutte le donne che io abbia mai visto, tranne che negli incubi. Erano forse in dieci o dodici, a cavallo in mezzo alla strada, come se stessero attraversando per entrare nel bosco dall'altra parte. Ero venuto via da qui dopo la chiusura, avevo bevuto un po' ma non abbastanza per avere delle allucinazioni. In ogni caso, sono finito giusto in mezzo a loro prima di riuscire a frenare, e quando ho rallentato per vedere di che si trattava mi hanno... attaccato. Evan era muto e il cuore sembrava pulsargli dentro la testa. — Con delle asce — continuò Neely, tenendo sempre la voce bassa. — Una di loro ruppe il vetro del finestrino. Dio del cielo, non ho mai visto
niente del genere in tutta la mia vita! Io... ne ho guardata una in faccia. Non dimenticherò mai l'aspetto di quell'essere. Sprizzava la volontà di farmi a pezzi, e se fossero riuscite a mandarmi fuori strada non sarei qui seduto, questa sera. — Si interruppe un momento, passandosi una mano sulla bocca. — Più di tutto, ricordo gli occhi di quella donna. Mi perforavano, bruciandomi; era come se stessi fissando delle fiamme azzurre, e Dio sa se sarò mai capace di dimenticarli. Evan lo guardava, senza dire nulla. — Non ero ubriaco — disse Neely. — Quelle cose c'erano davvero. Evan lasciò uscire il respiro con un sibilo. Si appoggiò alla spalliera, mentre i pensieri gli mulinavano nel cervello: così tante cose e così prossime a ricomporsi in un disegno unico, oscuro e terrificante. — L'ho detto a Wysinger — aggiunse Neely — che mi ha riso in faccia. Lei è l'unico altro a cui l'ho detto. Evan si passò una mano sulla fronte. Si sentiva scosso e febbricitante, incapace di mettere insieme i pezzi. «Vada via» aveva detto Demargeon. «Vada via adesso. Adesso. Adesso.» — Vedo che anche lei pensa che sia pazzo — disse Neely. — Bene. Qui c'è qualcos'altro che mi ha fatto accapponare la pelle. — Si frugò in tasca e tirò fuori il fazzoletto ripiegato. Lo appoggiò sul tavolo - la piramide tintinnò - e iniziò a spiegarlo. Apparvero dei minuscoli oggetti. Neely li alzò uno per uno ed Evan si chinò a osservarli da vicino. L'altro ne portò uno alla luce; scintillò dell'argento e del giallo. — Che cos'è? — chiese Evan. — Un dente — rispose Neely — con l'otturazione. E anche questi altri sono denti, anche se sono fatti a pezzetti. Evan fece per toccare l'oggetto che Neely alzava, poi ritrasse la mano. — Dove li ha trovati? — È quella la cosa strana: nella discarica. — Riportò lo sguardo su Evan. — Che cosa ci fanno, in nome di Dio, dei denti umani in una discarica? — No — fece Evan, con la voce incolore. — Si sbaglia. — Su che cosa? — Io non credo... che Dio c'entri con tutto questo. Gli occhi di Neely si strinsero. — Cosa? — Niente. Sto solo pensando ad alta voce. Neely incominciò a riavvolgere le schegge di dente nel fazzoletto. — Volevo mostrarli a Wysinger. Magari per fargli esplorare la discarica o
qualcosa del genere, perché questa cosa non mi piaceva proprio per niente. Ma adesso non sono più così sicuro di dovermene preoccupare. — Fissò a lungo su Evan uno sguardo intenso. — Ehi, ma si sente bene? Aspetti un minuto, vado a prenderle una birra. — E si alzò in piedi, ricacciandosi in tasca il fazzoletto e facendo per dirigersi verso il bar. Ma appena si mosse una tavola nel pavimento scricchiolò. La piramide ondeggiò prima da una parte, poi dall'altra, gettando sul tavolo raggi di luce d'ambra. Ondeggiò ancora. E poi cadde, infrangendosi come una antica città di stelle oscure. 21 SEGRETI Il venerdì mattina Kay rimase a casa da scuola, e chiamò il dottor Wexler per dirgli che aveva una forte emicrania. Sarò a posto per lunedì, gli disse, e lui le augurò di guarire presto e di passare un buon fine settimana. Kay mise giù il ricevitore e rimase distesa a letto, con le tende chiuse e la stanza in ombra. Poco prima aveva dovuto accendere la lampada e poi l'aveva spenta in tutta fretta, sentendosi forare gli occhi. Evan e Laurie erano in cucina a preparare la colazione; li sentiva trafficare e sapeva che, dopo, sarebbe toccato a lei ripassare per sistemare. Ma era bello da parte loro e, anche se qualcosa inevitabilmente sarebbe bruciato, avrebbe fatto mostra di gradire. Non aveva mentito completamente al dottor Wexler, la sua testa stava pulsando. Ma lei sapeva che non si trattava di emicrania. Si sentiva come se i nervi, dentro, le stessero tremando e una mano gelida le accarezzasse le spalle. Erano ormai settimane che tentava di fingere che tutto andasse bene, che si trattava solo di ansia, che presto l'ansia sarebbe passata e lei sarebbe tornata a essere la solita Kay, pratica e saggia. Ma ora non poteva più fingere. Qualcosa le stava succedendo, qualcosa che non poteva spiegare con l'ansia o con un'altra sensazione che le fosse nota. Era iniziato tutto con quegli strani sogni. Dapprima era stata un'osservatrice interessata, seppure impaurita, ma ora, mentre si intensificavano e la trascinavano lentamente dentro di loro, era diventata una protagonista incapace di fuggire. E sempre di più aveva la sensazione di essere imprigionata dentro un altro corpo, un corpo con una lunga ferita sulla coscia, e osservava scene di carneficina e lotta senza remissione attraverso occhi stretti a fessura, occhi che non era-
no i suoi. Avrebbe voluto parlare a Evan di quei sogni, dirgli che paura e confusione si attoreigliavano ormai dentro di lei, ma si vergognava di ammettere che qualcosa di oscuro e intangibile la stava gradualmente terrorizzando. Perché sarebbe equivalso ad ammettere che c'era qualcosa da temere nei sogni di lui. No. Non poteva farlo. E comunque Evan sembrava troppo preoccupato da qualcos'altro per badare a lei. Negli ultimi giorni, a cena, aveva sempre mangiato pochissimo; i suoi occhi erano stanchi e incavati perché rimaneva sveglio fino a tardi, a guardare la televisione o a tentare di lavorare nel seminterrato. Ma Kay avrebbe potuto contare sulle dita di due mani il numero di tasti che aveva sentito colpire la carta. Erano tutti sintomi familiari, e le sconvolgevano i nervi non meno dei suoi stessi incubi. Quello della notte appena trascorsa era stato, in ogni caso, il peggiore di tutti. Si era svegliata nelle ore grigie dell'alba con un grido di dolore strozzato in gola. Attraverso un turbinio di polvere e fumo le orde degli invasori, guerrieri scuri di pelle con lunghe barbe, avanzavano mulinando spade tinte di sangue; arcieri a cavallo attraversavano le mura cadute e le pire dove bruciavano i cadaveri. Lei e tre compagne avevano combattuto fianco a fianco, mulinando le asce grondanti sangue come feroci macchine da guerra. Lei aveva spaccato il cranio di uno dei nemici con un colpo solo, e poi aveva sentito un nome, Oliviadre, che aveva riconosciuto come proprio, gridato in avvertimento. Saltando di lato aveva parato con la lama della scure il colpo di una spada, e calando l'arma aveva troncato di netto la mano del nemico. Dal moncherino era sprizzato sangue, e quel semplice colpo aveva posto fine alla vita di lui. Ma dietro di lei, Coliae era a terra con una freccia nella gola; Demusa lanciò il grido di guerra mentre una spada la colpiva alla spalla e un'altra le penetrava nel petto; Antibre fu colpita in viso dal lampo di una lama, e mentre cadeva sulle ginocchìa riuscì a staccare la testa del guerriero che l'aveva ferita. Attraverso il fumo i guerrieri avanzavano, in fila compatta, i petti ansanti. Oliviadre arretrò sopra a un mucchio di compagne cadute, stringendo saldamente il manico della propria scure. Tutto intorno bruciavano i fuochi della sconfitta, la grande città, la loro grande nazione, alla fine caduta sotto gli stivali dell'invasore. Corpi mutilati ingombravano i viali di pietra, e il sangue schizzato sugli affreschi donava loro un colore ardente, glorioso. E ora Oliviadre, arrestandosi e guardandosi attorno come un animale in trappola, vide la paura negli occhi degli uomini, ma seppe anche che la sua fine era vicina. Uno dei guerrieri, un uomo grande e insieme folle e coraggioso, si gettò in avanti,
preparandosi a gettare una lancia. Oliviadre lanciò un grido di furore, sentì il bacio caldo della lancia ferirle la spalla mentre si gettava di lato e in un attimo fu sull'uomo, colpendo all'impazzata. Il corpo mutilato cadde, la testa quasi del tutto staccata. Ella vi sputò sopra e si preparò per gli altri. Questi esitarono, percependo in lei quella stessa furia devastatrice che stava per sottomettere Atene, cento anni prima. Un arco fischiò e sibilò una freccia sopra la testa degli uomini. Essa colpì Oliviadre alla spalla, facendola arretrare di qualche passo. I guerrieri, vedendo il suo sangue, si spinsero avanti. Finché la sua ritirata prudente venne fermata dalle rovine annerite di un muro. I guerrieri si fermarono, cercando una strategia. Ma lei colse l'occasione, e immediatamente lanciò il grido di guerra dell'aquila, raggelante, e balzò oltre il mucchio dei corpi sopra agli uomini terrorizzati. Ne abbatté uno con un solo colpo, menò un colpo e vide un braccio cadere, impugnando ancora la spada; un dolore lancinante alla schiena; colpì, colpì di nuovo, gettando una pioggia rossa sui visi che cadevano, colpì; un dolore tremendo alla nuca; colpì ancora, con l'ascia fattasi più pesante, i guerrieri che si facevano più vicini mentre lei cadeva in ginocchio; uno di loro alzava la spada e poi... Oscurità. Una luce grigia. Il mattino in McClain Terrace. Dio, la mia testa! Dovrò chiamare il dottor Wexler... — Colazione! — annunciò Laurie, entrando nella stanza subito seguita da Evan e portando un vassoio con uova e pancetta e un bicchiere di succo d'arancia. Posò il vassoio con cura in grembo alla madre e aggiunse allegra: — Però abbiamo bruciato un po' il toast. — Oh, andrà benissimo. Ha un aspetto magnifico. — Vuoi un po' di luce? — le chiese Evan. — No, ti prego. La testa mi fa ancora male. — Allungò una mano verso il comodino per prendere la boccetta del Tylenol. Rimanevano solo due compresse; le ingoiò con il succo d'arancia. — Non stai per nulla meglio? Fece segno di no. L'immagine finale del sogno le rimaneva fissa dietro gli occhi: un guerriero che alzava la spada, contraendo i muscoli, per colpirla sul cranio. No. Quella non ero io. Quella era... Oliviadre.. Oliviadre è stata colpita da quella spada, non io. E allora perché sento questo terribile, pulsante dolore?
— Ti fa molto male, mamma? — chiese Laurie. — Sì, cara.. Evan prese in mano la bottiglietta vuota del Tylenol. — Allora sarà meglio che io vada in farmacia e te ne prenda un'altra. — La guardò per un momento, scorgendo i segni del male nelle rughette attorno agli occhi. — Vuoi che chiami un medico? — Oh, non è necessario — disse subito lei. Provò ad assaggiare un po' di uovo, allungò la mano a prendere il sale. — Mi passerà presto. — Hai lavorato troppo — disse Evan. — Probabilmente è il troppo leggere. — Sì, probabilmente è così. È una buona cosa che oggi resti a riposare, così sarò pronta per i compiti la settimana prossima. — E io non vado a scuola stamattina? — chiese Laurie. — No — rispose Kay. — Perché non stai a casa a farmi compagnia? — Ma può stare papà! — protestò Laurie. — La signora Omarian doveva finire la storia, oggi! Kay strinse la mano della bambina. — Pensavo che volessi stare a casa, amore. Puoi guardare la televisione, e andare fuori a giocare, e... — La regina! — esclamò Laurie. — Perderò la storia della regina! Gli occhi di Evan diedero uno sguardo rapido a Kay, poi tornarono sul visetto di Laurie. — Che regina? — La regina vera! — rispose Laurie. — Quella che sta proprio qui, in questo posto! — In questo posto? Che posto vuoi dire? La piccola scosse la testa, irritata perché suo padre non capiva. — Proprio qui! — disse con enfasi. — Abita in un grande castello! Kay iniziò ad accarezzare i capelli della figlia. — Stai a casa con me, amore. Vedrai che ci divertiremo. Laurie tacque per un momento. Poi: — Noooo, mi perderò tutto! — Ti dico io cosa faremo, principessa — intervenne Evan. — Perché non andiamo insieme in macchina fino al negozio di giocattoli? Va bene? Un'altra pausa, poi finalmente la piccola annuì. — Va bene. Mentre attraversavano il prato per prendere la macchina, Evan si sorprese a fissare la casa dei Demargeon. Non vi era segno di vita; anche la macchina non c'era. Poi, con Laurie seduta al suo fianco, fece marcia indietro fino alla strada e svoltò verso il Cerchio. — Ti piace molto la signora Omarian — disse Evan mentre guidava. — Sì. È brava.
E ci sono tanti altri bambini alla Scuola del Sole? Lei annuì. — Fa caldo. Posso tirare giù il finestrino? — Certo. Forza. — Arrivarono a un incrocio. Evan rallentò e poi fermò, guardando da entrambe le parti, poi proseguì in mezzo a case silenziose. — La signora Omarian deve raccontare delle storie proprio belle — disse un momento dopo. — Oh sì, racconta delle belle storie. Solo a noi e non ai maschietti, perché dice che noi siamo speciali. — Certo che siete speciali — disse Evan. — Quanti maschietti ci sono alla Scuola del Sole? — Oh... solo quattro o cinque. Siamo quasi tutte bambine, come me. Lui annuì, diede un'occhiata nello specchietto retrovisore ed ebbe la rapida visione del tetto del museo. — Mi piacerebbe sentire qualcuna di quelle storie — disse. — Specialmente quella della regina che abita nel castello. — Non si può — disse Laurie. — La signora Omarian ha detto che sono solo per noi perché siamo speciali. Ha detto che i papà non possono saperle. — Davvero — fece Evan, con tono disinvolto. — Un segreto, eh? — È divertente avere dei segreti. La vista di Evan sembrò oscurarsi. Era solo vagamente consapevole di guidare lungo le strade di Bethany's Sin, perché un'altra parte di lui stava in un corridoio, circondato da un turbinio di polvere e calore, guardando una forma scura con occhi fiammeggianti avvicinarsi lentamente, sempre di più, fino a fermarsi di fronte a lui. Una mano lacerò il velo di polvere, tendendosi per afferrarlo. Sentì un tocco freddo, forte, si sentì trascinato in avanti. Papà disse qualcuno. Il suo cuore martellava, ma non poteva fare nulla per resistere; la cosa lo trascinava lungo il corridoio fino a un'enorme sala, dove altre aspettavano. Papà! Una voce, molto vicina. Il pavimento di pietra grezza, il soffitto di vetro e, oltre a quello, la luna che ardeva nel cielo nero. Attorno, in cerchio lungo tutta la sala, figure con occhi fiammeggianti e orribili. Una lastra di pietra nera al centro, e su di essa qualcuno. Papà, ti prego! La voce di Laurie. Kay. Kay distesa sulla pietra, ma... una Kay diversa. Una Kay con due espressioni: metà della faccia ghignante, un occhio di fiamme azzurre che bruciavano odio; l'altra metà piangente, l'occhio dilatato di paura. Dietro di lei altre figure, in attesa. Papà, stai... Kay che alzava un braccio, la mano che impugnava un'ascia da guerra che lampeggiava con lo stesso riflesso azzurro spettrale; l'altra mano te-
sa verso di lui, le dita tremanti in una frenetica... — ...andando troppo forte! — gridò Laurie, vicino al suo orecchio. E allora lui si strappò da quel posto terribile e vide il segnale di stop che si avvicinava rapidamente e seppe che, nonostante schiacciasse a fondo sul freno, la macchina sarebbe andata oltre l'incrocio e pregò Dio che non stessero arrivando altre macchine in quell'istante. Le gomme fischiarono, fischiarono. L'auto sbandò violentemente. Davanti una figura scura, che si gettava di lato. — Cristo! — Evan esclamò, stringendo i denti e fermando l'autovettura nel mezzo dell'incrocio. Guardò Laurie, che tremava e si mordeva il labbro, con gli occhi spalancati. — Mi dispiace, principessa — disse. — Dio, mi dispiace. Ti sei fatta male? Lei scosse la testa, con gli occhi spaventati. — Dio, mi dispiace — disse di nuovo lui. — Non l'ho fatto apposta. Non so a che cosa stavo pensando. — E improvvisamente si rese conto di un'altra presenza, e di uno sguardo che lo trapassava. Sentì un odore animale e guardò di scatto a lato, dalla sua parte. Di fianco alla familiare c'era un cavallo nero lucente, dai fianchi massicci, con le narici dilatate, che scuoteva ancora nervosamente la grande testa triangolare. Nei suoi occhi sembrava ardere un fuoco rosso. E a cavallo dell'animale, senza sella, c'era Kathryn Drago, con la mano aggrappata alla criniera. — Buono, Joker — stava dicendo piano. — Buono. Buono. — Il cavallo scosse la testa e poi si tranquillizzò, mentre la donna gli accarezzava il collo. Poi ella fissò Evan. — È stato molto imprudente da parte sua, signor Reid — disse freddamente. — Avrebbe potuto uccidere il mio cavallo, mentre attraversavamo la strada. — Mi dispiace — rispose lui. — Non l'ho proprio vista. — Eravamo ben visibili — disse la donna. — È sua abitudine infrangere le norme di circolazione? — Mia moglie non si sente bene — si giustificò Evan, non riuscendo a trovare niente di meglio. — E io sto andando in farmacia per lei. La donna continuava ad accarezzare il collo dell'animale. Il cavallo ebbe un nitrito basso di piacere e si calmò definitivamente. — Kay è ammalata? — chiese lei, e i suoi lineamenti si addolcirono leggerissimamente. — È una cosa seria? — Dolore di testa — rispose lui. — Ma oggi ha dovuto rimanere a casa da scuola. — Capisco. — Guardò attraverso il finestrino, oltre Evan. — È la vostra bambina?
— Sì, è lei. — È bellissima. Ciao! — Ciao — disse Laurie. Gli occhi della Drago ritornarono su Evan. — Deve stare più attento. Qualcuno avrebbe potuto farsi male. — È il tuo cavallo? — chiese Laurie, sporgendosi addosso a Evan per guardare dal basso all'alto. — Si chiama Joker — disse la Drago. Le orecchie del cavallo fremettero. — L'ho fatto correre un po', stamattina. È un bel cavallo, vero? — È così grazioso! — esclamò Laurie, il pericolo di incidente ormai dimenticato. — Mi piacciono i cavalli! — È una buona cosa. Ho venti cavalli nelle mie stalle. Forse la tua mamma e papà ti porteranno un giorno a provare. — Posso, papà? — Laurie lo guardò. — Vedremo — rispose lui, accarezzandole i capelli. Quando guardò di nuovo la Drago vide qualcosa lampeggiarle negli occhi, qualcosa di cupo e pericoloso. — Spero che potrete portarla presto — disse lei. — Ogni donna dovrebbe saper maneggiare un cavallo. — Avrà molto tempo per imparare. — Davvero — rispose lei, e sorrise molto leggermente. Un clacson suonò per avvertire Evan di liberare l'incrocio. Lui disse: — Mi dispiace per quello che è successo, dottoressa Drago. Starò più attento in avvenire. — Sì — rispose lei. — Sarà meglio. — E poi con mano esperta fece girare il cavallo, con un solo tocco di stivale, e cavalcò via nella direzione opposta. Evan fece un cenno di scusa al guidatore dell'altra auto e proseguì verso il Cerchio. — E così gentile — disse Laurie. — Mi piacerebbe andare a vedere i suoi cavalli. Evan rimase in silenzio. Il Cerchio era davanti a loro, con i suoi piccoli negozi lindi. Notò però che i fiori, nel mezzo, erano morti per il caldo eccessivo. E alla periferia di Bethany's Sin, vicino al grande cartello di benvenuto, Neely Ames si fermò un attimo dietro la falciatrice rossa per asciugarsi la fronte con un braccio. Il sole lo stava cuocendo e aveva ancora un bel po' di terreno prima di finire. Sentì le palpebre gonfie per il caldo; intorno, gli
alberi chinavano le cime verso il terreno. Stava incominciando a sognare quello speciale tè di sassofrasso che la signora Bartlett gli preparava ormai tutte le sere. Era sempre così fresco, e lo faceva dormire così bene. 22 LA PAURA DI WYSINGER E LA RICERCA DI EVAN L'auto dello sceriffo, con la scritta POLIZIA DI BETHANY'S SIN sul fianco, si fermò lentamente davanti al grande cancello nero con la lettera D in ferro battuto. Wysinger ne scese e si avvicinò al citofono inserito nel pilastro laterale; premette un pulsante e attese. Una voce metallica, di donna: — Sì? Si schiarì la gola nervosamente. — È lo sceriffo Wysinger. Vorrei vedere la dottoressa Drago. — Per quale motivo? — Una questione riservata. Seguì una lunga pausa, mentre lui più volte cambiava posizione, da un piede all'altro. Poi — Molto bene. Torni alla macchina ed entri. — Si udì un clic e il cancello cominciò ad aprirsi, lentamente, con un ronzio di apparecchiature nascoste. Wysinger eseguì l'ordine, dirigendosi verso la casa. Il disagio gli si diffondeva lungo le ossa, come tutte le volte che veniva qui; evitava quel luogo ogni volta che poteva, tuttavia alcune volte era necessario parlare con la dottoressa Drago in persona. Quella donna non gli piaceva, anzi la odiava, perché possedeva denaro e terra, perché aveva cultura e aveva viaggiato ovunque, perché era intelligente e potente. Ma oltre le barriere dell'odio c'era la paura, quella paura che ora lo afferrava divorandogli ogni residuo coraggio, fino a ridurlo, quando avrebbe raggiunto la porta dell'edificio, a una gelatina ansimante e tremula. Come al solito, sentiva la mancanza di un goccetto, che l'avrebbe aiutato ad affrontarla; pensò che avrebbe potuto portare la fiaschetta del whisky nel cassetto della macchina. No, mèglio di no. Lei avrebbe sentito l'odore. Merda, disse tra sé, riusciva a sentire l'odore di un uomo alla distanza di un quarto di miglio. E poteva sentire anche la sua paura; lui lo sapeva, conosceva il modo in cui lei - e tutte quelle altre che erano diventate simili a lei - riusciva ad acuire i propri sensi, risvegliando quella forza strana e terribile annidata nel profondo dell'anima. Le sue paure erano aumentate, ora, dal fatto che la sera stava rapidamen-
te spegnendosi dentro una notte senza fine. Attraverso gli alberi scorse il profilo ammantato d'ombra di quella casa enorme, che lo attendeva. La pelle gli rabbrividì sotto la camicia macchiata di sudore. Alzò gli occhi a scrutare il cielo, piegando il collo all'indietro. Niente luna quella notte; l'ultima falce era ormai svanita. Dio del cielo, pensò, ho il terrore di entrare nella casa di quella donna! Varcare la sua soglia era come entrare in un mondo diverso, terrificante, dove la parola di lei era legge, sopra e oltre le leggi degli uomini. La casa era in ombra e pareva deserta, ma quando Wysinger parcheggiò l'auto e si diresse lentamente, a piedi, verso la porta, una luce si accese dietro una finestra. La porta si aprì e una giovane donna snella e bionda, vestita di viola, lo attese. In silenzio lui la seguì all'interno, lungo i corridoi in penombra fiancheggiati dai murali color pastello, verso il retro della casa. — Aspetti qui — gli disse la giovane quando furono di fronte a due porte di quercia lucente. Lei entrò, Wysinger si tolse il cappello, sentendo il cuore che gli batteva più rapido, e alzò gli occhi ai dipinti lungo il corridoio. Un branco di cavalli, dai muscoli tesi, correva sopra a una parete. La donna bionda riapparve, tenendo la porta aperta. Lui la superò, entrando nella stanza, e la porta si chiuse alle sue spalle. In quell'istante si sentì in trappola. Era in piedi nello studio della dottoressa Drago, una stanza dalle pareti di pietra grezza con un enorme camino e statue a misura d'uomo, dagli occhi spiritati, ai quattro angoli. Davanti a una grande finestra che dava sui pascoli all'aperto c'era un tavolo di noce lucidato in maniera impeccabile, adorno di figure umane intagliate; la dottoressa Drago, in abiti neri, sedeva là, scrivendo su di un foglio di carta azzurro pallido. Una sola lampada era accesa al suo fianco. — Che cosa vuole? — chiese freddamente, senza alzare gli occhi. Wysinger si avvicinò al tavolo. Quando fu a due metri la testa della donna si alzò e i suoi occhi lo immobilizzarono sul posto. — Vorrei... parlarle delle... altre — disse con voce bassa. E attenta. — Per cosa? — Non ho detto nulla... prima, ma il tempo della caccia si sta avvicinando, e io... Gli occhi di lei si strinsero. — Che cosa ha a che fare lei con il tempo della caccia? Lui fece una pausa, raccogliendo le forze. Le gambe sembravano voler cedere. — Non è sicuro — disse. — Quel lavorante, Ames, le ha viste sul-
la strada di King's Bridge. È l'unico a essere riuscito a vederle e a sopravvivere. Lo hanno attaccato troppo vicino al villaggio. Non mi piace. Lei non parlò. Posò la penna e incrociò le mani davanti a sé. Poi: — Non mi interessa quello che le piace o non le piace, Wysinger. Non ha alcuna importanza. — Sì che ce l'ha, per Dio! — ribatté lui, senza riuscire a frenare la voce. — Ho già dovuto trattare con la polizia di stato, quando è venuta a ficcare il naso qui per cercare le persone scomparse! Se qualcuno trova un altro furgone o un altro corpo nei boschi intorno al villaggio, inizieranno a mettere le cose insieme! — Come aveva fatto lei? — Come avevo fatto io! — rispose Wysinger. — Io mi interessai alla cosa in modo particolare perché trovai i primi, i Fletcher; ma qualcun altro, qualche dannato furbone di poliziotto, un giorno farà lo stesso! — Questo fa parte del suo lavoro — disse tranquillamente la dottoressa Drago. — Tenerli alla larga. — Certo, so che è il mio lavoro, ma se ci saranno troppe domande forse non riuscirò a controllare la situazione. — Che cosa suggerisce? Inspirò profondamente. — Le tenga oltre la strada di King's Bridge. Le tenga lontano da tutte le strade della contea. Le faccia cacciare nei boschi oppure sulle strade secondarie, lontano dal villaggio. — Non ero al corrente del coinvolgimento del lavorante — disse la Drago. — Lui è stato scelto con uno scopo, non per il divertimento. — A me non interessa quello che capiterà a quel piccolo bastardo, ma lui le ha viste ed è in grado di descriverle. E sta passando il suo tempo al Canto del Gallo, probabilmente a far andare la lingua con tutti quelli che lo stanno a sentire. — Nessuno gli crederà. — Non ne sarei così sicuro — disse Wysinger. — Da quel che so, qualcun altro ha incominciato a fare un sacco di domande sul museo e... — Sì — lo interruppe la Drago. — Lo so. Il signor Reid. — Potrebbe sapere qualcosa — proseguì Wysinger. — E se è così, che cosa succederà? Gli occhi della Drago scintillarono. — Calma — disse. — Il signor Reid è un uomo curioso, ma sta brancolando nel buio. — Io penso che si dovrebbe sbarazzare di lui — affermò Wysinger. — Questo lo deciderò io! — ribatté aspra la Drago. — Quando verrà il
momento. La signora Reid ora sta subendo la trasformazione. Presto sarà pronta per il rito, ma fino a quel momento sarà instabile, ondeggiando avanti e indietro fra quello che è ancora e quello che sarà. Uccidere suo marito ora sarebbe... poco saggio. Wysinger si passò una mano sulla faccia. — È pericoloso. Sta facendo troppe domande. — Il signor Reid è sotto controllo. La signora Hunt ha soddisfatto la sua curiosità circa il museo, e la signora Giles gli ha raccontato una storiella perfetta riguardo a - e sorrise lievemente - Bethany's Sin. Sapeva che Reid è stato un militare? Ha servito nei marines. Questo lo rende un avversario molto più interessante. — Quell'uomo rappresenta un problema — insistette Wysinger. — L'ho trovato che dava pugni contro la porta del museo, un giorno, come se si trovasse in... una qualche maledetta trance, o qualcosa del genere. — Strano — disse la donna, mentre le ombre si raccoglievano intorno ai suoi occhi. — Alcuni giorni fa non si è fermato a uno stop, finendo quasi contro il mio cavallo. Ho scorto per un attimo i suoi occhi attraverso il parabrezza. Erano come... distanti, sfocati. Una trance? Interessante. Molto interessante. — Prese di nuovo in mano la penna e la picchiettò diverse volte sulla carta assorbente di fronte a lei. — Forse c'è di più nel signor Reid di quanto non sospettassi. — Alzò gli occhi sull'uomo di fronte. — Prenderò in considerazione i suoi suggerimenti. Ora vada. Egli annuì e si diresse verso la porta, con il cuore che ancora gli martellava; qualsiasi cosa quella dannata cagna avesse deciso, pensò, sarebbe stato felice di ritrovarsi fra le mura di casa propria, quella notte. — Wysinger — disse la Drago. L'uomo rabbrividì involontariamente e si girò. — Abbiamo due nuovi arrivi nel villaggio. La signora Jensen e la signora Berryman hanno avuto due bambine la settimana scorsa, in clinica. La signora Gresham ha avuto un maschio mercoledì sera; voglio che lei dia di tanto in tanto un'occhiata al signor Gresham, per essere certi che... ogni cosa rimanga sotto controllo. Ora può andare. — Ritornò alla sua corrispondenza. Dentro l'auto della polizia, con il cappello di nuovo in testa e il cuore che lentamente tornava a normalizzare i battiti, Wysinger guidò fino al cancello, aspettò che si aprisse lentamente, poi voltò verso il villaggio. Nello specchietto scorse quel cancello che tornava a chiudersi, come una barriera tra due mondi. Tirò un respiro di sollievo nell'allontanarsi da quel dannato posto. Certo la dottoressa Drago lo pagava più che bene, e gli a-
veva dato la casa in Deer Cross Lane, ma lui sapeva perfettamente che allo stesso modo lei avrebbe potuto ordinare la sua morte, senza alcun problema. E, in nome di Dio, che morte orribile sarebbe stata! Come Paul Keating, o come le dozzine di altri disgraziati. Come i Fletcher, mutilati nelle grigie ore dell'alba un attimo prima di sedersi a tavola per colazione. Loro lo eleggevano a sceriffo un anno dopo l'altro, ma lui sapeva che in cuor loro lo disprezzavano; sapeva che intimamente desideravano mettergli le mani addosso e lacerarlo in pezzi sanguinolenti. Quel quaderno di ritagli era diventato la sua polizza di assicurazione. Infatti, se avesse percepito avvicinarsi una minaccia, avrebbe potuto sigillarlo e metterlo al sicuro, magari in una cassetta di sicurezza di Johnstown; oppure mandarlo al cugino Hal nel Wisconsin, con l'ordine di non aprirlo a meno che non gli fosse successo qualcosa. In quel modo aveva su di loro un vantaggio. Si chiese che cosa avrebbero fatto se avessero trovato il quaderno. Ucciderlo? No, probabilmente no. Avevano bisogno di lui, per salvare le apparenze. Tutto va bene a Bethany's Sin; nessun avvenimento oscuro in quel villaggio. Stronzate. La notte era calata sul villaggio. Le stelle brillavano in cielo. Niente luna quella notte. Niente luna. Grazie a Dio. Si stava avvicinando alla casa dei Gresham; era scura, ma lui sapeva che Gresham era dentro, seduto, a fissare la parete o il soffitto. Certo c'era una bottiglia vuota sul pavimento al suo fianco, e la televisione o la radio accese, che riempivano le stanze di presenze di fantasmi, di voci di fantasmi. Il signor Gresham, completamente ubriaco, piangeva la morte del figlio neonato. Forse pensava al suicidio? No. Gresham non ne aveva il coraggio. Wysinger lasciò alle spalle la casa dei Gresham. Improvvisamente un paio di fari girarono oltre la curva e lo sorpassarono, veloci ma entro i limiti del paese. Vide i fanalini rossi nello specchietto, poi più nulla. Una familiare? Di chi? Tranne che per quella macchina le strade di Bethany's Sin erano deserte; nella foresta gli insetti iniziarono il loro frinio, sempre più alto, mentre il calore del giorno si era condensato in una nebbia a pochi centimetri dal terreno. Wysinger girò in Deer Cross Lane e poi dentro al vialetto di casa sua. Per lui la giornata era finita. Ma per Evan la parte più importante della giornata doveva ancora venire. Uscì con la macchina da Bethany's Sin, passò oltre la proprietà Drago e si immise sulla 219, verso Whittington, dove il dottor Blackburn lo stava spettando. Aveva avuto la tentazione di chiamarlo per rimandare l'appunta-
mento dal momento che Kay non si sentiva bene, ma poi aveva deciso che parlare con Blackburn era di vitale importanza. Kay aveva perso altri due giorni di scuola; ciò lo preoccupata molto, perché non era da lei rimanere a casa dal lavoro. E certo non era una ipocondriaca, né facile ad ammalarsi, neppure di raffreddore. Ma ora rimaneva a letto la maggior parte del tempo, mangiando quasi nulla e praticamente vivendo di Tylenol. Evan aveva insistito perché entrasse in clinica per un controllo, ma lei aveva detto che non aveva tempo, ora, che l'avrebbe fatto al termine del trimestre. Sembrava a Evan che proprio negli ultimi due giorni il suo viso avesse iniziato a cambiare; era diventata pallida e ombre bluastre si erano raccolte sotto gli occhi e nell'incavo delle guance. Di notte piangeva e gridava nel sonno, ma si rifiutava poi di parlare di quello che la faceva star male. Evan le aveva comperato delle vitamine in farmacia, pensando che forse dipendesse da qualche carenza nel cibo, ma le bottigliette erano rimaste, chiuse, nell'armadietto del bagno. Si sentiva impotente, mentre guardava sua moglie che stava... sì, letteralmente scomparendo sotto ai suoi occhi. Lei stava comunque dormendo quando aveva lasciato la casa, diretto a Whittington. Trovò il 114 di viale Morgan nella tranquilla piccola comunità di Whittington; la casa di Blackburn era più piccola della sua, di mattoni rossi scoloriti e circondata da una staccionata bianca. Quando Evan suonò alla porta un cane iniziò ad abbaiare all'interno. La voce di Blackburn, mentre si avvicinava alla porta, disse: — Zitto, Ercole! — e il cane tacque. La porta si aprì e Blackburn, in jeans e pullover, sorrise e disse: — Entri! La casa era ben arredata, anche se non lussuosa; nel soggiorno c'erano un divano marrone di lana e un paio di poltrone, un tappeto color oro scuro, un tavolino di cristallo con alcune riviste sparse. Christie, anche lei vestita comodamente, gli sorrise dal divano e un piccolo buìldog gli annusò con metodo le gambe. — È un piacere rivederla — disse Blackburn, stringendogli la mano. — Eccoci qui. Si sieda. Posso offrirle qualcosa da bere? Una birra? Evan sedette su una delle poltrone. — No, grazie. — Abbiamo del vino — disse Christie. — Della fattoria di Boone. — Allora lo assaggerò volentieri. — Bene. Doug, ne vuoi un bicchiere? — si alzò dal divano. — Uno piccolo. — Christie uscì dalla stanza, e Blackburn prese il suo posto sul divano; il buìldog saltò al suo fianco, senza smettere di sorvegliare l'estraneo. — Bene — fece. — Come vanno le cose a Bethany's Sin? — È sempre là — fece Evan. — Oltre a questo... — Strinse le spalle.
Blackburn accarezzò la schiena del buìldog, che si stirò pigramente. — Vede anche lei quello che c'è qui a Whittington. Le sette di sera e si spengono le luci, per decreto. No, in realtà è un posticino grazioso. Christie e io preferiamo la tranquillità. E anche Èrcole. — Grattò la testa del cane. Christie arrivò con il vino Fragolino; Evan prese il bicchiere e lei si accomodò dall'altra parte del divano. — Mi dispiace che sua moglie non sia potuta venire, signor Reid. Mi piacerebbe rivederla. — Non si sente troppo bene in questo periodo. — Oh, mi dispiace — disse subito Christie. — Di che si tratta? Un virus o qualcosa del genere? Evan sorseggiò il vino. — Per dire la verità, non riesco a capire che cosa sia. Penso che si tratti di affaticamento. — Quella bugia lo colpì mentre la stava pronunciando. — Probabile che sia così — disse Blackburn. — Si tratta del suo primo trimestre; suppongo che ce la stia mettendo tutta per fare un buon lavoro. — Sì — fece Evan. — Credo proprio di sì. Blackburn bevve un sorso di vino, poi posò il bicchiere sul tavolino di fronte a sé; estrasse dalla tasca della camicia la pipa di radica e la riempì di tabacco. — E ora — disse, dopo averla accesa — che cosa esattamente voleva sapere? Devo dire che mi è sembrato molto ansioso, al telefono. E preoccupato. Spero di poterla aiutare, di qualsiasi cosa si tratti. — Lo spero anch'io. — Evan si chinò leggermente in avanti. — Al party della dottoressa Drago voi due... be', avete iniziato una discussione sugli oggetti contenuti nel suo museo. Non ho capito di che cosa si trattava, ma ho visto chiaramente com'era sconvolta la dottoressa Drago. Dopo quella sera, sono stato al museo; ho visto gli oggetti provenienti da Themiscrya e ho una domanda. — Spari — fece Blackburn. — Perché quel contrasto fra voi due su una comunità di agricoltori vecchia di tremila anni? Blackburn lo fissò, sbatté le palpebre, sorrise leggermente. Poi il sorriso si allargò. — Oh, avanti! Chi le ha detto che Themiscrya era una comunità di agricoltori? Non la stessa dottoressa Drago, certamente! — No. Una donna al museo, un membro della Società di Storia. — Non capisco — fece Blackburn, aggrottando la fronte. — Forse qualcuna delle signore di quella cosiddetta società ha ancora del buon senso, dopo tutto. Evan scosse la testa. — Mi dispiace, ma non riesco a capire.
— Fin dal 1965 — disse Blackburn, con il fumo della pipa che si avvolgeva attorno al capo — Kathryn Drago ha sostenuto che la città di Themiscrya fosse la capitale del paese delle amazzoni. Un centro di guerra, non un dannato insediamento di contadini! — Amazzoni? — Evan sorrise lievemente. — Come Wonder Woman? — No. — Stranamente, la voce di Blackburn risuonò grave. — Quella è una semplificazione, e una ridicolizzazione. Le amazzoni avevano un posto nella mitologia greca; ammesso che davvero esistessero - e c'è un grosso se - erano donne guerriere assetate di sangue, che consideravano la battaglia un divertimento. Gli uomini erano i loro nemici giurati; quelli che non uccidevano sui campi di battaglia li mutilavano e tenevano come schiavi sessuali... — Aspetti un attimo! — esclamò Evan. Quella parola era entrata in lui con la forza di un colpo di fucile, cancellandogli il sorriso dalle labbra e mettendogli allo scoperto i nervi e la carne. — Che cosa intende, con "li mutilavano"? — Li azzoppavano, per esempio. Avevano la credenza barbara che tagliare via un braccio o una gamba potesse fortificare gli organi sessuali maschili. Certo, a loro non importavano particolarmente le attenzioni degli uomini, ma avevano bisogno di neonati femmine per mantenere forte la tribù. Di solito le amazzoni uccidevano gli uomini quando questi non servivano più. — Si fermò un attimo, scorgendo qualcosa di strano negli occhi di Evan. — C'è qualcosa che non va? — chiese. — No — rispose Evan. — Va tutto bene. — Una figura dietro la tenda. Lui che faceva per stringere una mano che non c'era più. Gambe di plastica che si staccavano da un busto. — Va tutto bene, va tutto bene... — Dal punto di vista mitologico — stava dicendo Blackburn — la dottoressa Drago ha ragione. Secondo le leggende pervenuteci attraverso i greci, la città di Themiscrya era la grande fortezza delle amazzoni, da cui le guerriere calavano per le loro campagne contro i greci. Dal punto di vista storico, invece, non ci sono prove, nonostante io stesso e innumerevoli altri studiosi di mitologia saremmo ben felici del contrario. Certo, Themiscrya esisteva, questo è un dato storico. I romani attaccarono e distrussero la città nel 72 a.C., ma nessuna amazzone fu trovata fra le rovine. Solo uomini. E dunque... — Che cosa si sa dei primi abitanti di Themiscrya? — chiese Evan. — Quelli a cui appartenevano gli oggetti del museo? — Ah! — fece Blackburn, la pipa stretta fra i denti. — Ecco dove la fac-
cenda diventa difficile. Gli storici in realtà non sanno molto sulle origini di Themiscrya; per questo i ritrovamenti della dottoressa Drago sono stati così importanti. Dal 1965 un'immagine della primitiva civiltà di Themiscrya è andata lentamente emergendo: si trattava di una civiltà guerriera, i cui componenti allevavano cavalli e coltivavano alcuni cereali, ed erano inoltre dediti al culto delle divinità Ares e Artemide. È rimasta testimonianza in alcune pitture murali che si trattava, un tempo, di una città molto bella, ben pianificata. Ma a un certo punto, attraverso i secoli, incominciò a decadere, gradualmente, come accadde a molte città e a volte accade tuttora; quando i romani l'attaccarono, probabilmente dell'antico splendore non era rimasto molto. — E non c'è assolutamente alcuna prova per sostenere la tesi della dottoressa Drago? Blackburn sorrise. — Prove poco convincenti. E questo non basta. — Per esempio? — Terrecotte dipinte con figure simili ad amazzoni. Frammenti di pitture murali che mostrano figure che potrebbero essere guerriere femmina, in piedi sopra ai nemici caduti. Cose di questo genere. Ma a quei tempi, deve sapere, la leggenda delle amazzoni era molto popolare; moltissimi pittori e scultori del tempo si ispirarono a esse. Figure di amazzoni appaiono qua e là su tazze, vasi, ceramiche e terrecotte, persino nel Partenone. E allora perché non dovrebbero esserci anche su oggetti provenienti da Themiscrya? Ma la dottoressa Drago trovò qualcosa che in realtà fece leggermente oscillare gli storici. Strisciò attraverso un tunnel dalle pareti pericolanti, fino a una caverna e là trovò una statua di Artemide sopra un altare di pietra nera. Questa Àrtemide era ricoperta da quelle che vennero individuate chiaramente come mammelle femminili. Dozzine di mammelle. Evan alzò le sopracciglia. — C'è una credenza fra alcuni studiosi di mitologia, in realtà infondata, che afferma che le amazzoni si tagliassero via il seno destro, o con una spada ardente o con un altro strumento di ferro. Sarebbe stato un rito per dimostrare il proprio coraggio e insieme per fare un sacrificio alla dea. E anche, come sostengono alcuni, il seno destro avrebbe potuto ostacolarle quando tendevano la corda dell'arco. — Tracciò una stella sulla parte destra del proprio petto. — La ferita avrebbe dovuto essere così. Quella statua che c'è di sopra nel museo di Bethany's Sin. Non l'ha vista? Evan scosse la testa, ricordando una porta nera che gli aveva sbarrato il passo. Ricordando un altare di pietra nera visto in sogno, circondato da
donne in attesa. — Un'altra cosa interessante — riprese Blackburn, mentre sfregava un altro fiammifero per la pipa. — Si diceva che Themiscrya fosse infestata. Evan fissò negli occhi il suo interlocutore. — Infestata? — Esatto. — Il tabacco si accese; Blackburn esalò una boccata di fumo. — C'era un villaggio chiamato Caraminya vicino agli scavi; da quanto ho ricostruito, gli abitanti pensavano che i terremoti frequenti nella zona fossero causati dall'ira delle amazzoni uccise. Appena dopo l'inizio degli scavi, alcune donne di Caraminya... "diedero fuori", penso che direbbe lei. — Come? — Tentarono di uccidere i mariti, cominciarono a urlare e a delirare in una lingua che nessuno conosceva. Comunque, Caraminya non esiste più. Dopo il terremoto del '65 e dopo che Themiscrya iniziò a comparire fuori dalla terra, gli abitanti del villaggio raccolsero le proprie cose e se ne andarono. — La caverna trovata dalla dottoressa Drago — disse lentamente Evan. — Che altro c'era? — Statue danneggiate dal fuoco. La prova di un incendio scoppiato là dentro, molto tempo prima. Moltissima cenere; mucchi di cenere che dapprima sembrava semplice polvere. Quella caverna era rimasta chiusa lo sa Dio per quanti secoli; il terremoto l'aveva riportata alla superficie. Evan sorseggiò pensieroso un po' di vino. — Cenere? Di che cosa? — Ossa — rispose Blackburn, guardandolo negli occhi. — La caverna era stata utilizzata come una immensa pira funeraria, secoli prima. Gli storici ci stanno ancora lavorando sopra. Evan si passò una mano sulla fronte, terminò il vino e posò il bicchiere sul tavolo. — Ancora un po', signor Reid? — chiese Christie. Evan scosse la testa. — E ora, mi spiegherebbe che cosa c'è dietro a tutto questo? — chiese Blackburn. Attento, Evan si disse. Attento. — Lei crede che le amazzoni siano davvero esistite? — chiese. — Da qualche parte? Blackburn sorrise di nuovo, ma solo con le labbra. — Se ci si vuole credere, allora sì, sono esistite. Omero dice di sì. Arriano dice di sì. E così pure Erodoto. Notizie storiche riportano che le amazzoni attaccarono e quasi sopraffecero la città di Atene, attorno al 1256 avanti Cristo. L'ultima grande regina delle amazzoni, Pentesilea, si narra venisse uccisa da Achille a Troia. E Troia è esistita. Chi può saperlo? L'unica cosa che resiste è la leg-
genda di selvagge, intelligenti guerriere che vennero dalle nebbie e tornarono nelle nebbie. Ma immagini di sentire, signor Reid, attraverso una piana di battaglia quel prolungato e feroce grido di guerra che gelava il sangue nelle vene; da lontano vedrebbe la polvere dei cavalli che si avvicinano, e molto prima che siano arrivate le frecce riempirebbero il cielo. E poi seguirebbe un combattimento corpo a corpo, spada e lancia contro l'ascia bipenne, la scure da guerra a due lame delle amazzoni; i loro cavalli scarterebbero a lato, evitando i colpi di lancia, e la bipenne calerebbe a tagliare una mano che stringe la spada. E durante quella terribile carneficina, i loro occhi scintillerebbero selvaggi, i loro sensi canterebbero nel tumulto e nell'eccitazione della lotta, a loro necessaria come lo stesso respiro. Non ci sarebbe fine alla battaglia finché l'ultimo uomo non fosse decapitato o trascinato al campo per essere mutilato. Sarebbe un terribile modo di morire, Reid, e io ringrazio Iddio che, se le amazzoni sono davvero esistite, i nostri destini non si siano mai incrociati. — Alzò il bicchiere di vino, bevve, e lo posò di nuovo sul tavolo. Evan si alzò dalla sedia. Dentro di lui si era scavato un abisso, come tra il corpo materiale e l'anima; e dentro a quello turbinavano una gelida oscurità e il terrore, che premevano per riversarsi fuori e scorrere come bile dalle sue labbra. Si mosse verso la porta. Blackburn si alzò a sua volta. — Non vuole andarsene già, vero? Abbiamo ancora tutta la bottiglia di vino da finire. — Devo andare — rispose Evan, mettendo una mano sulla maniglia. — Sa, non riesco ancora a capire che cosa stia succedendo — fece Blackburn. — Ma ho capito che non ha intenzione di dirmelo. — Che cosa succedeva ai neonati maschi? — gli chiese invece Evan. — Certo alcune delle amazzoni dovevano partorire dei maschi. — Certo. — Blackburn si tolse la pipa di bocca e scrutò il viso di Evan, incerto su quello che vi scorgeva. — Non si poteva evitare. Le amazzoni tenevano alcuni dei bambini, per usarli in seguito come riproduttori. Ma la maggior parte dei maschietti veniva uccisa. Perché le interessa così tanto la civiltà delle amazzoni? Vorrei saperlo. — Un giorno glielo dirò. Per adesso, diciamo che si tratta solo di curiosità. — Evan aprì la porta; il caldo stagnante di fuori lo avvolse. Ercole guaì una, due volte, e Christie appoggiò la mano su di lui per calmarlo. — Grazie per avermi ricevuto — disse. — E grazie per il vino. — Porti anche sua moglie, la prossima volta — disse Christie. — Certo. Buona notte.
— Buona notte — disse Blackburn. Evan guidò verso Bethany's Sin, la mente che lavorava furiosamente, ritraendosi dalla terribile verità ma poi sempre, sempre ritornandovi, perché non c'era altra via che uscisse dal labirinto. E nella casa dei Reid in McClain Terrace la cosa si mosse nel buio, giù dalle scale, attraverso il salotto, verso la cucina. Dove c'erano i coltelli. Poteva sentire il fetido odore del maschio in quelle stanze; il maschio con cui quella donna pietosamente debole chiamata Kay viveva, dormiva, a cui permetteva di toccare quella dimora di carne. La bambina dormiva al piano di sopra. Un lenzuolo sotto la porta per tenerla chiusa e attutire i rumori. La cosa si mosse attraverso la cucina, con i sensi all'erta. Quasi capace di vedere nel buio. Quasi. Bicchieri, piatti sopra il ripiano di fianco al lavandino. Una mano frugò fra questi, facendone cadere molti per terra. Aprendo cassetti, svuotandoli, buttandoli a terra. E alla fine trovò ciò che cercava. Un coltello da macellaio dalla lama larga, praticamente nuovo e affilatissimo. Tanto da trarre un filo di sangue dal dito che lo tastava. Nel buio la cosa attese l'uomo che doveva tornare a casa, mentre l'allegro orologio giallo della cucina indicava che da tre minuti agosto era iniziato. PARTE QUARTA AGOSTO 23 A CASA Dall'oscurità emersero lentamente alcune forme d'ombra. I fari brillarono su finestre scure, risvegliando quelle creature senza nome, maligne, in attesa, dal loro letargo dietro i fazzoletti di prato ben rasato. Mentre Evan guidava oltre le case gli pareva che quelle belve si staccassero dalle loro cornici di legno dipinto per seguirlo; ma quando guardava nello specchietto non vedeva altro che l'oscurità, che ingoiava ogni cosa: le correnti del mare di mezzanotte avevano circondato Bethany's Sin. Accese la radio, cercando fra le stazioni. Musica rock, il grido di Mick Jagger che si alzava e poi svaniva nell'etere; un piano che suonava dolcemente Moon River; una voce di donna che narrava affannosamente qualcosa al Jimmy K's di Johnstown; i suoni spezzati e aspri del mondo reale
oltre i confini del villaggio. — Mio Dio — sussurrò improvvisamente Evan, come temendo che qualcosa, dentro di fui, cedesse di schianto come un pavimento caricato oltre la soglia di resistenza. Si passò una mano sul viso. — Mio Dio. Oh Signore, oh Dio del cielo. — La paura e l'incredulità si alternavano dentro di lui, spaccandolo in due. Le strade buie di Bethany's Sin. La foresta buia di Bethany's Sin. Che si mescolava, entrava dentro un buio più grande, si appoggiava ai finestrini della macchina tentando di entrare per prenderlo. Quando giunse in McClain Terrace l'intero peso del terrore si era attaccato a lui come un enorme ragno stillante veleno. Lui e Kay e Laurie erano finiti nel covo di un culto sanguinario, satanico, il culto delle amazzoni. Girò dentro il proprio vialetto, fermò l'auto, spense la radio e i fari, poi rimase immobile per qualche minuto, cercando di raccogliere i pensieri, mentre il caldo soffocante lo avvolgeva. Era questo ciò di cui le sue premonizioni tentavano di avvertirlo, fin dal primo giorno in cui avevano messo piede in quella casa? Che il male di Bethany's Sin era concentrato nel museo, nei suoi resti della ormai scomparsa Themiscrya? O c'era qualcosa di ancor più terribile che doveva ancora arrivare? Rabbrividì improvvisamente, sentì la propria mente per un attimo scivolare fuori dal controllo. Sto diventando pazzo? si chiese. No. Io sono a posto. Io sono a posto. Ma devo portare Kay e Laurie via di qui. E devo agire con attenzione. Tolse le chiavi dal cruscotto e uscì dall'auto. Aprì la porta d'ingresso e, superando la soglia, girò l'interruttore della luce. Le ombre scivolarono via. C'era qualcosa da bere in casa? Sì; della birra nel frigo. Accese la luce del soggiorno mentre andava in cucina, si fermò sulla soglia, fece un passo avanti, si fermò di nuovo, fece ancora un passo, come una marionetta mossa da un filo invisibile, tirato da mani che parevano artigli. Le suole schiacciarono i frammenti di bicchieri e piatti rotti. Allungò una mano verso l'interruttore, lo girò, poi, immobile, la fece ricadere; il cuore aveva iniziato a battere più veloce e la stretta umida dell'incertezza l'aveva preso alla gola. Forse Kay si era alzata dopo che lui era uscito ed era successo qualcosa, qui in cucina? Rimase a fissare quel disastro, con la schiena verso la porta. Potevano essere scivolati giù dal ripiano, da soli, tutti quegli oggetti? si chiese. La casa era estremamente silenziosa; terribilmente silenziosa. Non era il silenzio della quiete, ma l'attesa di eventi che si dipanavano come una trama lentissima e inesorabile. Evan spinse alcuni dei pezzi di vetro con il piede. Poi, dimenticata la birra, ritornò in soggiorno, spense la luce e
salì le scale; un gradino scricchiolò sotto il suo peso. Entrambe le porte delle camere da letto erano chiuse. Muovendosi al buio, Evan aprì quella della propria e scivolò dentro. L'ombra del tavolo. L'ombra della lampada. L'ombra del letto. E nel letto le insenature e le colline del corpo di Kay sotto le lenzuola; era distesa sul fianco sinistro e gli voltava le spalle. Vide la macchia più scura dei capelli sparsi sul guanciale. Svegliala, disse a se stesso. Svegliala e dille tutti i tuoi sospetti e porta via lei e Laurie da questo posto maledetto da Dio. Svegliala adesso. Adesso, subito. La sua mano si mosse verso la collina della spalla di lei. No. Aspetta. Penserà che sei impazzito; penserà che sei ubriaco o che stai delirando o che il tuo fragile equilibrio alla fine ha ceduto. Dannazione svegliala può essere l'ultima possibilità! Esitò. No. Non stanotte. Domattina. Domattina glielo dirò e forse, forse, riuscirò a farle capire che dobbiamo andarcene di qui. Evan si spogliò in silenzio, indossò il pigiama, scivolò nel letto accanto a sua moglie; attraverso la schiena di lei ne udiva il battito del cuore, forte e regolare. Per un po' rimase a fissare il soffitto, vedendo gli occhi di Harris Demargeon pendere senza volto sopra di lui, e per sfuggire a quella visione chiuse i propri e cercò di dormire. Il lento muoversi di un corpo nel letto. Pochi centimetri alla volta. Qualcosa che passò veloce davanti alle palpebre chiuse di Evan, una tremula fiamma. Come il riflesso repentino della luce sulla lama di un coltello. Gli occhi di Evan si aprirono. E lui vide il profilo vago di sua moglie sopra di sé. Alzò la testa, fece per chiederle che c'era. Ma la voce non gli uscì. Perché sul viso di Kay fiammelle color azzurro bruciavano dentro uno sguardo terribile, fisso. In quell'istante lacerante Evan si rese conto che la cosa in forma di donna davanti a lui non era più la vera Kay. Ella gridò - un grido che fece vibrare i vetri e lacerò l'animo di Evan - e abbassò il coltello che aveva alzato sopra il capo. Mentre Evan balzava di lato il coltello si conficcava nel guanciale dove un attimo prima c'era la sua testa; il rumore della stoffa strappata riempì la stanza. Evan era rotolato sul pavimento e ora, accucciato, stava indietreggiando. La cosa-Kay voltò la testa, trafiggendolo con lo sguardo; strappò il coltello dal guanciale, lo alzò di nuovo e venne contro di lui, ansimando rauca e rapida. — Kay! — gridò Evan. — In nome di Dio che cosa stai...? E in quel momento lei balzò avanti, gli fu sopra prima che lui potesse
pensare di raggiungere la maniglia della porta. Il coltello scintillò, si abbassò verso il suo viso con un sibilo sinistro. Mentre Evan tirava indietro la testa di scatto sentì un dolore caldo, pungente sopra al sopracciglio sinistro. Lei venne ancora avanti, ringhiando come un animale, riaggiustando la presa sul manico del coltello. Lui si rese conto che lo stava tagliando fuori dalla porta, e allora un'ondata di panico lo travolse. — Kay! — le gridò, ma quegli occhi, quegli occhi terribili, fissi, fiammeggianti lo trapassavano di un odio assoluto. Non Kay, no. Qualcun altro. Non un essere umano. Qualcuno che stava oltre la porta nera degli incubi. Qualcosa di umido gli scorreva sul sopracciglio. Colava giù. Dovette ripulirsi l'occhio. E mentre lo faceva lei balzò avanti di nuovo, la mano si mosse con la velocità di un serpente, le fauci del coltello avide del suo sangue. Si buttò di lato, sentì la lama sfregargli il torace. La mano libera della cosa-Kay lo afferrò alla gola e iniziò a stringere con una forza inimmaginabile dentro a quel corpo esile; lui le prese il polso e tentò di liberarsi. Il coltello si alzò di nuovo, un balenio freddo di acciaio nel buio. Le dita affondavano nella gola di Evan, impedendogli di respirare. Lui strinse il pugno per colpirla in viso; il coltello si alzò di più, ancora di più; le nocche di lui divennero bianche, la lama del coltello scintillò. Colpiscila! No. Colpiscila! No. Colpiscila...! Il coltello raggiunse lo zenit. Il braccio tremò leggermente, raccogliendo la forza per un colpo che avrebbe raggiunto il cuore. Qualcosa che picchiava. Picchiava. Di nuovo. — Mamma? — La voce di Laurie dietro la porta di camera sua. — Mamma? Papà? — Il tremito della paura nella sua voce, delle lacrime che stavano per scorrere. Il coltello esitò. Colpiscila non è Kay è qualcosa dentro il suo corpo ma non lei Dio mio non lei Dio mio non lei... Il pugno si abbatté quasi involontariamente. La colpì sulla guancia e la testa di lei sbatté all'indietro, e tuttavia gli occhi non sbatterono; le dita attorno alla sua gola si allentarono leggermente e allora Evan colpì di nuovo, nell'incavo del braccio, strappandosi a quella morsa che stava per soffocarlo. Il coltello si abbatté sibilando, mancandolo per poco; lei gridò di nuovo, un urlo selvaggio, che faceva gelare il sangue, ma prima che il colpo seguente calasse Evan aveva afferrato una sedia e con quella la teneva a distanza. — Mamma! — gridò Laurie. — Papà apri la porta! Mentre la cosa-Kay indietreggiava per slanciarsi di nuovo contro di lui, emettendo un ringhio gutturale, Evan si gettò in avanti con la sedia. La fece sbilanciare, barcollare; si udì un rumore di stoffa lacerata e la lama del
coltello apparve attraverso il cuscino della sedia, verso il viso di Evan. Allora lui spinse con tutte le sue forze, sentendo i muscoli delle spalle tendersi allo spasimo. Lei scivolò, inciampando nel lembo della camicia da notte, e cadde in un angolo, sbattendo forte la testa contro la parete. Evan gettò da parte la sedia, con il coltello ancora infisso, e si gettò verso l'interruttore. Lo girò. Luce accecante. — Papà! — Laurie era ormai rauca. — Papà ti prego fammi uscire fammi uscire! Nell'angolo, Kay giaceva con gli occhi chiusi, il viso pallido e tirato come quello di un cadavere. Sembrava far fatica a respirare; il petto le si alzava e aveva la fronte imperlata di sudore. Si chinò su di lei con attenzione e le sentì il polso. Era velocissimo. Una goccia di sangue cadde sul petto di lei. Poi un'altra. Evan portò una mano al taglio sopra l'occhio per fermare il sangue; intanto esso scivolava in un filo sottile fra i seni di Kay. La sua testa ricadde di lato e lui vide gli occhi che si muovevano rapidamente dietro le palpebre abbassate. La scosse, cercando di svegliarla, ma lei non reagì. Allora scavalcò la sedia e raggiunse il tavolo, sfogliò rapidamente la guida telefonica. Come si chiamava il medico? Myers? No. Marbry. In fretta, doveva fare in fretta. Laurie singhiozzava al di là del corridoio. Trovò il nome: Marbry, Eleanor, medico. Due numeri: casa e ufficio. Gocce di sangue sulla pagina. Scelse il numero di casa, lo sbagliò, lo compose di nuovo. Kay si lamentò piano dall'angolo. Il medico rispose subito. Evan, tentando di tener calma la voce, le disse chi era e da dove stava chiamando, e che sua moglie aveva avuto un incidente. La dottoressa Marbry non chiese altri particolari. Disse che sarebbe arrivata in quindici minuti. Evan si asciugò la fronte con un lembo del pigiama, tirò fuori il coltello dalla sedia e lo posò sul letto, fuori dalla portata di Kay; rimise a posto la sedia e infine uscì sul pianerottolo, per aprire la porta di Laurie. La trovò bloccata. Quando riuscì a estrarre il lenzuolo e a liberarla, la bambina gli si gettò fra le braccia. — Non riuscivo a uscire — singhiozzò. — Sentivo dei rumori brutti ti sentivo gridare il nome della mamma e io non potevo uscire perché la porta non si apriva! — Sssst — sussurrò lui, tenendola stretta, sentendo il suo cuoricino battere contro il proprio petto. — Va tutto bene. Lei si tirò indietro, lo guardò, vide il sangue. Nuove lacrime le salirono agli occhi e il labbro inferiore iniziò a tremare. — Papà ha battuto la testa — le disse piano Evan. — Ho fatto un altro
dei miei soliti sogni brutti. Lo sai, vero, quelli che faccio sempre? E ho sbattuto la testa contro il comodino. È solo un piccolo taglio. — Dov'è la mamma? — Tentò di guardare oltre la spalla di lui. — È in bagno a prendere un cerotto da mettermi. Sta arrivando un dottore per darmi un'occhiata, sarà qui fra poco. — Guardò negli occhi di sua figlia, tentando di tener fermo il proprio sguardo. — E adesso, vuoi fare qualcosa da brava bambina? — Ma la mamma sta bene? — Certo che sta bene. Ma tu lo sai che si arrabbia moltissimo con me quando faccio quei sogni. Adesso voglio che tu vada giù in salotto e rimanga là finché il dottore non sarà andato via. Lo farai, da brava? Lei rimase in silenzio, si asciugò le lacrime, infine annuì. — Bene. Credo che ci siano dei biscotti giù in cucina, e anche dei cioccolatini. Non credo che la mamma dirà qualcosa se ne assaggi un po'. Adesso vai. — Aspettò fino a che lei, riluttante, non arrivò in fondo alle scale. La luce si accese in salotto. Allora tornò in camera sua; Kay era ancora dove l'aveva lasciata, e si lamentava debolmente. Il dottor Marbry era una donna magra, sulla cinquantina, con capelli grigi un po' fuori posto e una fronte alta segnata dalle rughe. Mentre Evan la guidava velocemente su per le scale, i suoi occhi nocciola si muovevano dietro gli occhiali spessi come pesci in un acquario. — Qui dentro — disse Evan, precedendola nella camera. Lei guardò Kay nell'angolo e poi il coltello sul letto; posò la valigetta sul comodino e l'aprì velocemente. — Che cos'è successo qui dentro? — chiese con voce neutra e gradevolmente modulata. — Mia moglie ultimamente ha iniziato a fare strani sogni — rispose Evan, con la mano ancora premuta sul sopracciglio. La ferita aveva smesso di sanguinare e il sangue si era rappreso. — Credo di averla disturbata durante uno di questi, e allora lei... mi ha attaccato. Non credo che sapesse quel che stava facendo. — Di solito sua moglie dorme con un coltello nel letto? Evan rimase in silenzio. La dottoressa Marbry trasse uno stetoscopio dalla borsa e lo posò in punti differenti sul petto di Kay, auscultando per qualche attimo; spostò piano la testa di Kay e tastò fra i capelli. — Un brutto colpo qui — disse piano. — E questo cos'è? — Posò un dito vicino al segno rossastro che c'era sulla guancia. — Ho dovuto difendermi. — Capisco. Come sta sua moglie ultimamente, in generale?
— È stanca. Mangia pochissimo; sono sicuro che sta perdendo peso e non riesce più a dormire bene. Kay tremò, emise un lamento. La dottoressa Marbry andò velocemente alla valigetta, prese un'ampolla e l'aprì sotto il naso di Kay; Evan percepì l'odore dell'ammoniaca. Le sue palpebre si mossero e lei girò la testa da una parte e dall'altra. Sta per rinvenire — disse il medico. — So che può sembrare brutto — fece Evan — ma preferirei che non dicesse nulla allo sceriffo Wysinger. — Non ho intenzione di dire nulla a nessuno — rispose la donna, alzando prima la palpebra destra di Kay, poi la sinistra. I globi rotearono. Kay si lamentò di nuovo, ora più forte, e pian piano i suoi occhi si apersero, inumiditi. Si tirò su a fatica, sbatté le palpebre, si portò una mano alla nuca. — O Dio, mi fa male — disse. — Mi viene da vomitare. Mi viene da... — Signor Reid — disse il medico — voglio che scenda in cucina a far bollire dell'acqua. Poi la metta in una tazza e la porti qui, va bene? Lui uscì e fece come la donna gli aveva chiesto, dicendo a Laurie che stava in salotto che tutto andava benissimo. Ma vide che lei non gli credeva. Quando tornò in camera sentì l'odore del vomito; Kay era china sul water e la dottoressa stava dicendole dolcemente, come una mamma al bambino — Su, su. Adesso starà bene. Si sente meglio ora? — La testa — mormorò Kay, pulendosi il viso con una salvietta bagnata. — La testa mi fa male. — Ecco l'acqua calda — disse Evan. — Bene. L'appoggi là, per favore. Il dottor Marbry condusse Kay, che appariva più pallida e debole che mai, fino al letto. Kay posò lentamente la testa sul cuscino. Stava tremando ed Evan non era certo che si rendesse ancora conto di dove si trovava o di quel che era successo. Il medico frugò nella valigetta e ne trasse una bottiglietta color ambra, senza etichetta. Svitò il tappo e versò dentro l'acqua bollente ciò che assomigliava a una mistura di miele e di erbe; salì un profumo dolciastro, e pezzetti di erba galleggiarono in superficie. — Voglio che beva questo — disse la dottoressa, porgendo la tazza a Kay. — Che cos'è? — chiese Evan. — Un rimedio naturale — replicò lei, senza guardarlo. — Qualcosa che le calmerà i nervi. Benissimo, cara. Lo beva tutto. Fino all'ultima goccia.
Kay eseguì. Il medico riprese la tazza e la posò sul tavolo. — Come si sente ora? — Strana. Ancora un po' di nausea. Dov'è mio marito? — Kay fissò gli occhi della dottoressa come se non si rendesse conto che Evan era nella stanza. — Qui, Kay. Sono qui. — Sedette al suo fianco e le prese la mano. Era fredda. Il polso batteva ancora rapido, ma stava rallentando gradualmente. — Che cosa ti è successo alla testa? — gli chiese, alzando una mano a sfiorargli il sopracciglio. — Ma è sangue! — Signor Reid. — La dottoressa Marbry si alzò in piedi, chiudendo di scatto la valigetta. — Vorrei per favore parlare con lei, giù nell'atrio. — Che cos'ha mia moglie? — chiese Evan al medico, piano, quando la porta della stanza fu chiusa alle loro spalle. — Sembra che non ricordi nulla di quanto è successo. — Credo che si trovi in un lieve stato di shock; è disorientata a causa del colpo alla testa. Ma per essere completamente onesta con lei, devo dirle che non sono certa delle sue condizioni generali. Sembra essere complessivamente in buona salute, tuttavia lei mi dice che il suo appetito è scomparso, che è stanca e non dorme bene. Vorrei sottoporla ad alcuni esami in clinica. Da domani mattina. — Che genere di esami? — Sangue, urine, elettrocardiogramma. Ed encefalogramma. — Il cervello? Pensa che ci sia qualcosa che non va nel... — Vorrei vederci chiaro — lo interruppe il medico. — E più in fretta possibile. Può portarla in clinica domani mattina? Attorno alle nove? No, pensò Evan. Domani mattina voglio prendere mia moglie e mia figlia e portarle via da questo posto. — Le sue condizioni potrebbero essere serie — continuò il medico, con voce ancora neutra ma enfatizzando le parole. — C'è la possibilità che debba rimanere in clinica per diversi giorni. — Non so... — iniziò a dire Evan. — Se è una questione di pagamento... — No! — esclamò bruscamente. No. Stai calmo. Stai calmo. Kay sta male; sta realmente male, dopo tutto. Rimase in silenzio un momento; la dottoressa lo guardava. Un pensiero gli ronzava nel cervello: verranno a prenderti di notte. Se lo strappò via, come un'erbaccia infestante. Annuì. — La porterò in clinica domani mattina. Per la prima volta un'ombra di sorriso le passò sul volto. — È la cosa più
saggia che possa fare. Sua moglie si addormenterà subito, ora. Non si disturbi, scenderò da sola. Oh — si interruppe, aprì di nuovo la valigetta e tirò fuori una benda adesiva — questo è per la sua fronte; si tratta solo di un graffio, posso assicurarglielo. Non necessita di punti. Può ripulirlo con dell'alcol e poi applicare questo cerotto. — E poi si voltò e scomparve giù per le scale. La porta d'ingresso si aprì, poi si richiuse. Tornato in camera, Evan sedette di fianco a Kay, che stava per addormentarsi; gli occhi le si chiudevano. Evan le afferrò la mano e la strinse. — Kay? — disse piano. — Mi senti? Lei si mosse; gli occhi erano mezzo chiusi. — Ho sonno... — mormorò. — Quando sono entrato, prima, e poi sono venuto a letto con te, penso che tu stessi sognando di nuovo. Riesci a ricordarlo? Di che cosa si trattava? — Non riesco — sussurrò lei. — Prova. Ti prego. È importante. — No. — Sbatté le ciglia, scosse la testa. — Terribile. — Distenditi. E poi pensa, prova a ricordare. — Mi fa male la testa. — Tentò di portarsi la mano al viso, ma non ci riuscì e la lasciò ricadere. Strinse le palpebre, come se dentro di lei cose oscure risalite alla superficie stessero facendola a pezzi. — Non potevo uscire — sussurrò. — Lei non mi lasciava. — Uscire? Chi non ti lasciava uscire? — Si chinò su di lei. — Lei. Oliviadre. Lei. Perché io ero lei, e lei era me. E lei mi teneva e non mi lasciava uscire. — Oliviadre? Kay, di che cosa stai parlando? — I miei sogni. È lei che sono nei miei sogni. — Rimase in silenzio per un lungo minuto, ed Evan pensò che si fosse addormentata. Ma poi le sue labbra si mossero di nuovo. — Oliviadre è me, e io sono lei. E questa volta lei non mi voleva lasciar tornare. — Le palpebre si strinsero. Umide ai lati. — Ero sola nel buio e non potevo... ritornare qui perché... lei è troppo forte adesso. — Due lacrime si gonfiarono. — Stavi sognando di nuovo? — le chiese, e con la coda dell'occhio vide Laurie in piedi presso la porta. — Sì. Oliviadre era... morta, e quegli uomini... quegli uomini trascinarono il suo corpo per i capelli dove avevano già trascinato i corpi delle altre. Dormire. Voglio dormire. — Le lacrime iniziarono a rotolare. — Quali uomini? — Quelli con le spade. Tremendi. Trascinarono Oliviadre e... la lascia-
rono sul mucchio dei cadaveri. E poi loro... ci diedero fuoco e noi bruciammo e io sentii che bruciavamo tutte. — Le lacrime le scendevano lentamente dalle guance. — Ma dopo che fummo bruciate fino alle ossa e dopo che anche le ossa furono... bruciate, anche loro, noi continuammo a vivere... vivevamo ancora... — Kay? — sussurrò Evan. — Ma eravamo al buio. — La sua voce era diventata un singhiozzo. Tutte noi eravamo come fili di fumo, ancora là, ad aspettare. Ad aspettare. Buio terribile. Freddo e terribile. — Dove eravate? — le chiese Evan. — Riesci a dirmelo? — Tutte morte, morte ma non andate. Ad aspettare. Aspettare a lungo. Una lacrima le cadde dal mento. — Poi la luce. E la... donna. — Quale donna? Kay, quale donna? — Non so. Ho sonno. Loro erano tutte attorno a lei, come polvere, e poi loro... entrarono in lei. La bocca di Evan era secca. — Entrarono... in lei? — Oliviadre non voleva lasciarmi tornare — sussurrò Kay; le sfuggì un sospiro che pareva un ansito, lento, torturato, e mentre un'altra lacrima le scivolava sulla guancia lei rimase silenziosa e immobile. — Papà? — chiamò piano Laurie. Lui si rialzò, il viso toccato dall'ombra. — La mamma sta dormendo — disse. — Andiamo a metterci a letto. Va bene? 24 LA CAMERA NUMERO 36 Gli ampi corridoi della Clinica Marbry erano immacolati. Come si dice? pensò Evan mentre camminava, la mano di Laurie stretta nella sua. Così puliti da poterci mangiare sopra. Proprio così. Le mattonelle brillavano sotto la luce circolare che cadeva dal soffitto; le pareti erano dipinte in due tonalità, verde pallido e beige. E da esse pendevano quadri incorniciati, a olio o ad acquerello: barche a vela gonfiate dal vento, margherite gialle in un campo soleggiato, due cuccioli dagli occhi innocenti, un gaio clown che suonava il flauto. Odori asettici erano nell'aria: sapone, detergenti, lisoformio. Era sabato pomeriggio, e oltre le sale con l'aria condizionata della Clinica Marbry il sole arrostiva Bethany's Sin, picchiando sui tetti delle case attorno al Cerchio, riflettendosi sulle finestre, rifrangendosi a pochi centime-
tri dal terreno in una nuvola di calore. Evan sentì il sudore che si asciugava sul viso e la camicia madida che iniziava a separarsi dalla pelle. La dottoressa Marbry gli aveva detto il giorno prima, il primo giorno del ricovero di Kay, che la clinica era dotata di cinque infermiere a tempo pieno e di cinque a parttime nel pomeriggio, ma in quel momento il luogo sembrava deserto. Molte delle stanze che si aprivano ai lati del corridoio erano spalancate; si scorgevano letti vuoti con le lenzuola ripiegate sul fondo. Il giorno prima Evan aveva visto due pazienti: un uomo disteso sul dorso, nel letto della stanza numero 36, che fissava il soffitto, e una donna incinta nella stanza 27. Quest'ultima stava guardando Ok il prezzo è giusto alla televisione, e aveva alzato gli occhi tranquillamente su Evan mentre lui passava davanti alla porta aperta. Ma c'erano anche porte aperte, con le scritte TERAPIA INTENSIVA o POST OPERATORIO o CHIRURGIA in lettere di metallo. Kay era nella stanza 30, una camera graziosa che dava sul davanti della clinica, con un'ampia finestra dalle tendine beige. Il giorno prima aveva insistito per tornare subito a casa ed era scesa dal letto, chiedendo a Evan e Laurie di aiutarla a vestirsi, dicendo che non aveva assolutamente nulla e che stava perdendo troppe lezioni. Ma una giovane infermiera nera era entrata in quel momento per prenderle la pressione e le aveva ingiunto, piuttosto severamente, di ritornare a letto. Subito. Il venerdì pomeriggio, nel suo ufficio pieno di libri, seduta dietro la scrivania dal ripiano nero, la dottoressa Marbry aveva lo sguardo freddo, come sempre, e diretto. Forse lunedì o martedì, avrebbe risposto alla domanda di Evan che voleva sapere quando sua moglie sarebbe potuta tornare a casa. Non abbiamo ancora finito gli esami, e comunque, aveva sostenuto, ci vuole tempo anche per valutarli. E se si trovasse qualcosa bisognerebbe ripetere l'esame, per essere sicuri, naturalmente. «Pensa a qualcosa in particolare?» aveva chiesto Evan. «La prego» gli aveva risposto lei. «Aspettiamo fino a che non avremo in mano gli esami, va bene?» — Eccoci qui — disse Evan a Laurie, e bussò alla porta con il numero 30. — Entrate. — Kay aveva la voce stanca. Dentro, la prima impressione di Evan fu che, dannazione, Kay sembrava stare peggio. Gli occhi sembravano essere infossati nel capo e avevano uno sguardo acuto, brillante, come se fossero pezzetti di vetro lucido. Gli zigomi le sporgevano, come se la pelle fosse tesa attorno al teschio.
— Ehi, salve — fece Kay, e sorrise a entrambi. — Ciao — fece Laurie piano, a disagio. — Vieni qui a darmi un bacio. — Kay sedette contro i cuscini e abbracciò la figlia; Laurie la baciò sulla guancia. — Stai facendo la brava? Laurie annuì. — Come ti senti? — chiese Evan, sedendo sul letto e prendendole la mano. — Bene, proprio bene. Non ho nulla. Hai parlato con la dottoressa Marbry? — Ieri pomeriggio, dopo che sono uscito di qui. — Che cosa ti ha detto ? — Evan glielo raccontò e lei scosse la testa. — Tutti questi esami sono inutili; non verrà fuori niente. Tutto quello che mi stanno facendo è bucherellarmi ogni tanto per prendere il sangue e misurarmi la pressione a tutte le ore della notte. Alle due del mattino quell'infermiera mi ha dato da bere la cosa più orribile che abbia mai assaggiato in vita mia. Sembrava succo d'arancia, a vederla, ma era abominevole. — Ti fanno male le punture? — chiese Laurie. — Sono come punture di api. Non troppo. — Com'è il cibo? — chiese Evan. In realtà lei aveva l'aspetto di chi non ha mangiato da giorni. — Va bene. Sa un po' di gesso. Ma la mia infermiera, la signora Becker, ha fatto un salto per me alla drogheria, ieri pomeriggio, e mi ha portato un sandwich di pastrami. Ha detto che se la dottoressa Marbry l'avesse vista sarebbero stati guai, per lei, perché io dovrei seguire una speciale dieta. Per gli esami. — Laurie e io sentiamo tanto la tua mancanza — disse lui, stringendole la mano. — Davvero tanto. — È una bella cosa sapere che si manca a qualcuno — disse Kay, e sorrise. Evan le accarezzò il dorso della mano, dove le vene azzurre si distinguevano sotto una pelle più bianca del marmo. — Devo chiederti una cosa — disse piano. — Ricordi qualcosa di ciò che è successo giovedì notte? Un'ombra le passò brevemente negli occhi. Appoggiò la testa all'indietro. — Ricordo di aver messo Laurie a letto circa alle nove. Poi di essere andata a letto un po' prima delle undici. E poi le luci accese e il viso della dottoressa su di me. — Niente altro? Per favore, pensaci bene. Lei scosse la testa. — No, nient'altro.
Evan si chinò in avanti, cercò il suo sguardo. — Non è quello che mi hai detto, quella notte. Eri sedata e assonnata, e mi hai detto che avevi sognato... — Sogni! — esclamò Kay, con voce così dura che Laurie sbatté le palpebre e fece un passo indietro. — Nessuno al mondo ripone così tanta fede nei sogni quanto te, Evan! Per l'amor di Dio! — Hai detto un nome — continuò lui, sempre tenendole la mano. — Oliviadre. Sai chi è? — Certo che no. — Io lo so — disse lui calmo. — È la donna che tu vedi in quei sogni. Anzi. È la donna che tu sei nei sogni. Lei lo guardò incredula, ma sul suo viso lui scorse la paura ed ebbe la certezza di aver colpito nel segno, di aver intaccato quella cosa oscura, informe, che a Bethany's Sin passava per verità. A lungo lei rimase zitta, gettando occhiate nervose verso il punto in cui Laurie si trovava. — Sì — disse finalmente. — Nei miei sogni sono una donna chiamata Oliviadre. Ma che differenza fa? — Che tipo di donna è? — Una... specie di guerriera — rispose Kay. — Orgogliosa. Senza pietà. Per l'amor del cielo, non mi senti? Sto parlando come se lei esistesse davvero! — Hai detto anche qualcos'altro, Kay. Che Oliviadre non voleva lasciarti andare; che lei è troppo forte ora... — Non ho mai detto una cosa del genere! — ribatté aspra Kay. Lui la fissò per un attimo, in silenzio. — Sì. L'hai detto. — Lei non è reale, dannazione! — esclamò la donna, senza più preoccuparsi del fatto che Laurie sentisse. — Lei è un'ombra, non è di carne e sangue! Che cosa c'è che non va in te, Evan? Stai perdendo il... — Si fermò all'improvviso, le labbra già arrotondate a pronunciare quella parola. — Cervello? — terminò lui. — Perdendo il cervello? No. Adesso ascoltami. Non voltare la faccia! Ascoltami! — Lei lo fissò con gli stessi occhi che avevano fiammeggiato al buio della loro camera da letto. — Qualcosa di terribile sta accadendo in questo villaggio. Non dire nulla, ascoltami soltanto! Ci sono forze in questo posto, Kay, forze che io non comprendo e mai comprenderò, ma, in nome di Dio, ho paura per tutti noi. Quando questa cosa terribile balzerà in avanti, non verrà solo per me, ma anche per te e per Laurie. — Le afferrò le spalle e la fissò. — Credimi, per questa volta, Kay. Ti prego, credimi.
Gli occhi di lei erano scuri. Disse con voce calma: — Stai spaventando Laurie. — Voglio che tu mi creda! — esclamò, e lei si ritrasse leggermente perché i suoi occhi avevano avuto un brevissimo lampo selvaggio e la sua voce era sul punto di spezzarsi. — Ho paura che ti abbiano già fatto qualcosa, e dobbiamo andarcene prima che sia troppo tardi! — Evan — disse piano Kay. — Evan, lasciami andare. Lasciami andare, per favore. — No! — sibilò Evan. — Non ti lascerò andare! Sono assassine, sono tutte assassine e, in qualche modo, ti stanno rendendo simile a loro! Ti sei gettata su di me con un coltello, Kay! E non sapevi che cosa stavi facendo perché non eri in te! Non capisci? Non eri tu! — Papà! — disse Laurie, attaccandosi al suo braccio. — Fai male alla mamma! — Loro sono tutte come la donna dei tuoi sogni! — continuò lui. — Tutte! — Papà! — singhiozzò Laurie. — Per favore lasciala andare! — Sì — disse calma Kay, con voce stanca e svuotata. — Lasciami andare. Lui rimase chinato su di lei ancora un momento, e lesse sul suo viso la convinzione che la sua paura lo avesse infine portato definitivamente e irreversibilmente sull'orlo dell'abisso. La lasciò andare, si portò la mano alla fronte; sotto la garza la ferita gli pulsava. — Non è come le altre volte — disse. — Ho parlato con Doug Blackburn, e ora so quello che loro sono... Kay si tirò il lenzuolo sul petto, fissandolo come se finalmente gli ultimi brandelli d'amore che sentiva per lui si fossero dissolti alla luce della ragione. Si stava chiedendo che cosa fare per quell'uomo; non era mai stato violento, finora, niente del genere, ma la preoccupava il fatto che Laurie fosse in casa da sola con lui. No! No! disse a se stessa. È mio marito che sta qui, davanti a me; non è un dannatissimo estraneo! Egli è gentile e buono e vuole solo il nostro bene, ma... Signore Iddio, ha tanto bisogno di aiuto. Evan ha bisogno di aiuto. — Non voltarmi le spalle — disse lui, e il suo viso era nascosto da strisce di sole. — Ho bisogno di te, adesso, più di quanto ne abbia mai avuto. Fidati di me solo un poco. Ammetti solo che questa... questa cosa nei tuoi sogni è... — No! — esclamò Kay, e rabbrividì alla vulnerabilità che percepì nella propria stessa voce. Sua madre non le aveva insegnato a essere debole; sua
madre l'aveva cresciuta con le virtù della ragione e del buon senso, insegnandole a chiudere fuori i demoni che arrivavano di notte a portare dubbi e paure e superstizioni. E così lei aveva deciso che avrebbe cresciuto Laurie. — No — disse all'uomo che stava di fronte a lei. — Tu ti sbagli. Non c'era nient'altro che lui potesse dire. Kay voltò la testa, tese la mano alla piccola. — Presto ti iscriveremo a una vera scuola, e potrai andarci tra un paio di settimane — le disse. — Non è bello? Laurie annuì, con gli occhi ancora un po' troppo larghi. Di scatto Evan lasciò la stanza, sentendo la testa pulsare. I suoi passi rimbombarono lungo il corridoio immacolato. C'era un distributore d'acqua, da qualche parte, e lui aveva bisogno di lavare via il gusto di cenere che sentiva nella bocca. Lo trovò, bevve, e poi rimase là appoggiato con la testa china, come un uomo che aspetti il suo carnefice. O la sua carnefice? Mentre tornava lungo il corridoio vuoto, fra le due file di quadri senza significato, vide che una delle porte era leggermente aperta. La stanza numero 36, dove aveva visto l'uomo il giorno prima. Si fermò, fece per proseguire e poi si fermò ancora; guardò su e giù per il corridoio e si avvicinò alla porta. E davanti alla porta sentì un brivido lungo le vene, la vista gli si offuscò, improvvisamente, come il giorno in cui per poco non aveva investito Kathryn Drago a cavallo. Tentò di allontanarsi e invece fece un passo avanti e vide la propria mano che si alzava. E poi si ritrovò nella stanza dentro una lama di luce che entrava densa e calda dalla finestra. Mentre guardava, aguzzando lo sguardo, la luce svanì e così pure il calore, e la stanza rimase in preda alle tenebre. In un angolo, vuota, c'era una sedia a rotelle. Tre figure. Due donne in piedi, un uomo disteso sul letto, nudo, le braccia e le gambe divaricate e legate con cinghie. Una delle donne gli stava chiudendo la bocca con del nastro adesivo, per non farlo gridare, e sopra l'adesivo gli occhi di lui schizzavano dalle orbite, pieni di orrore. Una figura ghignante, dipinta a olio, pendeva incorniciata dalla parete dietro il letto, tenendo una gabbietta con un ragno fra le dita dalle unghie laccate. La seconda donna impugnava un'ascia. A doppia lama e scintillante, che rifletteva la luce azzurra che la notte gettava sulle pareti come un dipinto che colava, eseguito da una mano oscura. L'uomo si agitava, le vene del collo rigonfie. I suoi occhi girarono indietro, mostrando il bianco. La donna allungò una mano e gli toccò il pene, lo accarezzò, sfiorò i testicoli, e poi alzò l'ascia. Il corpo dell'uomo si inarcò. L'ascia ricadde.
Gocce di sangue schizzarono sul viso di Evan. La pelle divenne blu e poi bianca, la gamba cadde dal letto, tranciata al ginocchio. L'ascia si alzò. Ricadde di nuovo. L'altra gamba rotolò; rivoli di sangue apparvero fra le lenzuola. Evan aprì la bocca per gridare ma fu sangue, denso e lento, a scendergli sul mento. E quando sbatté le palpebre e tentò di arretrare, la luce aumentò, invase la stanza, fino a che lui si rese conto che no, non era sangue sul suo viso, non sangue ma gocce di sudore. Attraverso la finestra il feroce sole d'agosto gli bruciava la pelle. Agosto è il mese assassino, gli aveva detto la signora Demargeon un giorno, tanto tempo prima. Nella stanza il letto era rifatto, fresco, coperto da una coperta candida. Niente sedia a rotelle. Uscì velocemente, chiuse la porta dietro di sé, e si appoggiò per un attimo alla parete, premendosi la bocca con una mano. Dio. Dio del cielo. Aveva riconosciuto l'uomo sul letto. Era lui. Non si sbagliano, si disse. Le mie premonizioni non si sbagliano mai, e ora sono diventate più forti, mi assalgono anche di giorno. Mi mettono in guardia. Mi avvertono che questo è ciò che potrebbe accadere. No! Sì. Questo è ciò che ti potrebbe accadere se non prenderai subito Laurie e la porterai via da questo villaggio. E Kay? Che succederà se tu ti stai sbagliando e se lei è davvero ammalata? Verranno a prenderti di notte. Occhi azzurri fiammeggianti: lo sguardo senza pietà delle amazzoni. No, no, no! La sua mente si ritraeva e per un attimo temette che le ginocchia gli cedessero, lì nel corridoio della clinica. Perdo la testa, perdo la mia dannatissima testa! Calmati. No no no! Calmati. Non posso lasciare Bethany's Sin mentre Kay è ammalata! L'immagine di Harris Demargeon che strappava da sé quelle gambe di plastica gli incideva la mente come un rasoio. Certo. Ecco dove lo facevano, qui in clinica. E qui lo avrebbero portato quando fossero state pronte a mutilarlo, per impedirgli anche solo di tentare la fuga da Bethany's Sin. Sì. La dottoressa Marbry aveva portato qui Kay con due scopi: impedire a lui di vedere la terribile cosa-donna che scivolava a indossare il suo corpo come un abito di carne, e impedirgli di lasciare il villaggio prima che loro fossero pronte. E quando la cosa chiamata Oliviadre avesse definitivamente posseduto Kay, sarebbero venute a prenderlo di notte. E Laurie? Che cosa avrebbero fatto a Laurie? Una mano lo toccò. Gli afferrò la spalla. — Signor Reid?
Si voltò. Gli occhi della dottoressa Marbry lo scrutarono in viso. — Non si sente bene? — Sto benissimo — rispose in fretta. — Sembra un po' pallido. — Mi girava leggermente la testa. Ma adesso sto bene. Lei lo guardò, la mano ancora sulla sua spalla. — Sono contenta. Stavo proprio venendo a dirle che sua moglie ha in programma ancora qualche esame questo pomeriggio. Sarebbe meglio che lei e sua figlia andaste a casa. — Sorrise, lasciò cadere la mano. — Mi dispiace, perché so quanto ci teniate a restare con lei. — Potrà tornare a casa per lunedì? — Credo di poter dire con sicurezza che per lunedì sarà di nuovo in McClain Terrace — rispose la donna. Evan la guardò negli occhi. Infestata. Themiscrya era infestata. Il sorriso non scomparve. — Faremo gli ultimi esami domani mattina. La signora Reid probabilmente dovrà prendere dei farmaci, così sarà meglio che lei... Infestata. Themiscrya. Bethany's Sin? — ...programmi di venire addirittura lunedì mattina. Se ci sarà qualcosa di diverso, glielo farò sapere. Va bene? Annuì. Infestata. Entrambe infestate. Themiscrya, allora. Bethany's Sin, ora. — Bene — fece la dottoressa Marbry. Evan si passò una mano tremante sul viso. — Ha l'aspetto stanco, signor Reid. Potrei darle qualcosa che l'aiuti a... La regina, Laurie stava dicendo dentro il suo cervello; la vera regina. Ella vive in un grande castello... — ...dormire — terminò il medico. La Drago. — Vuole che le prescriva delle pillole? — gli chiese. Finalmente riuscì a riportare l'attenzione su di lei. — No — rispose. — Sto bene. Sarà meglio che vada a prendere Laurie, ora, e la riporti a casa. — Certo. — Ombre attraversarono rapide il suo viso. — Credo sia meglio. Evan la ringraziò, si voltò e tornò alla stanza di Kay. — Adesso dobbiamo andare — disse alla piccola, e la prese per mano. — Dove sei andato? — gli chiese Kay. — Fino in fondo al corridoio. — Era in piedi nel vano della porta, Lau-
rie al suo fianco. — Non preoccuparti per me. — Tentò di sorridere. — Non sto perdendo la testa. — Non l'ho mai detto — ribatté lei nervosamente. — Non era necessario. Ma voglio che tu sappia una cosa, qualunque cosa succeda. Io ti amo. Ti ho sempre amata, e ti amerò sempre. Tu sei una persona forte, speciale; lo sa Iddio, che sei più forte di quanto io sia mai stato. Ricorda solo che ti amo, d'accordo? — Evan... — fece per dire Kay, ma era troppo tardi. Suo marito e sua figlia erano scomparsi. In auto, mentre tornavano a casa, Laurie sedeva immobile sul sedile di fianco a suo padre. — Spero che la mamma guarisca — disse a un certo punto. — Sembra così ammalata! — Guarirà — fece Evan, con voce vuota. A casa per lunedì, aveva detto la dottoressa Marbry. Certo. Ma sarebbe stata ancora la Kay Reid che aveva appena lasciato in quella stanza d'ospedale? — La mamma è strana — disse piano Laurie. — Starà bene quando tornerà a casa? Lui allungò un braccio e strinse la figlia al suo fianco. Minuscoli oggetti avevano iniziato a brillargli dietro agli occhi. Argentei e gialli. Macchiati di terra, come il sorriso morto di Eric quando questi distoglieva il viso dal fuoco. Evan accelerò leggermente; avevano svoltato in McClain Terrace e ora lui sorpassò la loro casa senza nemmeno guardarla. — Papà! — esclamò Laurie. — Stai andando troppo avanti! — Bene — fece lui con tono leggero — pensavo di andare fino a Westbury Mall, principessa. Pensavo che forse potresti riuscire a mangiare un gelato. — Oh, sì che potrei. Vorrei che ci fosse anche la mamma. — E io devo comperare delle cose al magazzino — aggiunse. E poi rimase in silenzio, mentre si allontanavano da Bethany's Sin. Perché aveva ormai deciso che cosa doveva fare. Per salvarsi la mente. Per sapere se davvero l'Artiglio del Male era scivolato come un ragno sopra a Bethany's Sin oppure se aveva afferrato la sua mente in una stretta mortale da cui mai più egli si sarebbe liberato. Per sapere se sarebbe toccato alle cose che abitavano a Bethany's Sin o invece a lui stesso di perire sotto lo sguardo severo, irato di Iddio. Che diavolo ci fanno denti umani nella discarica? gli aveva chiesto Neely Ames al Canto del Gallo. Per fortuna la luna sarà alta stanotte, pensò Evan. Ci sarà luce abbastan-
za per scavare. 25 LA CUCINA DELLA SIGNORA BARTLETT — La signora Bartlett? — chiese Evan alla donna dai capelli grigi e dall'aspetto matronale che gli aveva aperto la porta. — Sono io. — Era rimasta sulla soglia, tenendo la porta semichiusa, come se temesse di trovarsi in presenza di un venditore di scope a domicilio. — Sono Evan Reid — disse lui. — Lei non mi conosce, vivo nel villaggio in McClain Terrace. Cerco una persona di nome Neely Ames, che dovrebbe avere una stanza da lei. — Il signor Ames? Sì, abita qui. — È in casa? Lei diede un'occhiata all'orologio da polso. — Non, non credo che ci sia. Non ha visto il suo furgone parcheggiato qui intorno, vero? Evan scosse la testa. — Neely non torna dal lavoro fin dopo le sei di sera; lavora per il villaggio, sa. Qualche volta sono anche le sette quando si sente il furgone arrivare. Posso riferirgli un messaggio da parte sua? Ora fu Evan a guardare l'orologio. Le cinque e un quarto. — Preferirei aspettare, se me lo permette. È davvero molto importante. — Lo sceriffo probabilmente potrebbe dirle dove trovarlo. — I suoi occhi esaminavano Evan da capo a piedi. — Credo che farei prima ad aspettarlo qui — ribatté Evan. — Posso entrare? La signora Bartlett sorrise, fece un passo indietro e aprì completamente la porta. — Certo. Questo sole è ancora insopportabile, vero? — Davvero — fece lui, entrando nella pensione. All'istante fu avvolto da un odore muschiato, la combinazione di odori di persone e di calore, che ristagnava dietro alle pareti di quella casa. C'era un ampio soggiorno con un tappeto di stile orientale, verde e marrone, sul pavimento di legno, poltrone e un divano raggruppati attorno a un caminetto affumicato, lampade sui tavolini bassi, alcune stampe alle pareti. I raggi del sole filtravano accecanti attraverso le tende di una finestra a bovindo. — Si sieda, prego — disse la signora Bartlett, indicandogli una poltrona. — Stavo proprio preparando della limonata fresca in cucina. Vado a prendergliene un bic-
chiere. — No, la ringrazio. Sto bene così. Lei allora si sedette di fronte; aveva le gambe gonfie e percorse da vene varicose, che si intravedevano sotto le calze grigiastre. — È un amico di Neely? — In un certo senso. — Davvero? — Alzò le sopracciglia. — Non mi pare di avergli mai sentito parlare di amici, qui nel villaggio. — Ci siamo incontrati un giorno in McClain Terrace — spiegò Evan. — E poi di nuovo al Canto del Gallo. La signora Bartlett aggrottò la fronte. — Oh, ma non è un bel posto, quel Canto del Gallo. Che vergogna che due brave persone come voi frequentino un posto simile. Ha una cattiva reputazione, l'avverto. Evan strinse le spalle. — Non mi sembra così male. — Io non riesco a capire la necessità di posti dove uomini adulti vanno e si comportano come bambini. Mi sembra una perdita di tempo. — Si sventolò il viso con una rivista che aveva preso dal divano in fianco. — Dio mio, ha fatto proprio caldo in questi ultimi giorni. Un caldo senza pietà. E peggiorerà ancora. Fa sempre così verso la fine dell'estate. Ci dà una bella botta, e poi via, finisce tutto nell'autunno. Davvero non vuole che le porti qualcosa da bere? Lui sorrise, scosse la testa. — Non si può mai dire a che ora Neely arrivi a casa — fece la signora Bartlett dopo qualche minuto. — Magari va direttamente al Canto del Gallo, e allora non ritorna fino a mezzanotte. Perché non gli lascia un messaggio, oppure potrei dirgli io di venire da lei, quando torna? — Ho bisogno di parlargli di persona. Lei borbottò: — Deve essere qualcosa di serio, allora. — Gli rivolse un sorrisetto astuto. — Discorsi di uomini, vero? Cose che noi donne non dobbiamo sapere? — No — feee lui educatamente — non si tratta di questo. — Suvvia, io so tutto dei segreti degli uomini. — Rise e scosse la testa. — Proprio come bambini. — Da quanto tempo dirige questa pensione? — chiese allora Evan. — Ormai sono quasi sei anni. Certo, non c'è un grande traffico. Ma sarebbe sorpreso di sapere quanti commessi viaggiatori e agenti di assicurazione passano da Bethany's Sin. C'è l'Holiday inn a circa dieci miglia a nord di qui, dopo il Canto del Gallo, ma le assicuro che chiedono un muc-
chio di soldi per una stanza, mentre qui io preparo anche da mangiare. E così, non mi posso lamentare per il lavoro. — Ne sono convinto. E suo marito lavora qui in paese? — Mio marito? No, purtroppo mio marito è scomparso, poco tempo dopo che ci siamo trasferiti nel villaggio. — Mi dispiace. — Adesso la osservava più attentamente. — Aveva il cuore messo male — disse la signora Bartlett. — La dottoressa Marbry l'aveva avvertito che gli sarebbe occorso uno di quei... aggeggi per farlo andare, ma lui non si decideva. Ringraziando Iddio è morto in pace, nel suo letto, una notte. Evan si alzò, si avvicinò alla finestra e scostò la tenda. Il sole lo colpì. Le strade erano deserte. Una fila di case dal lato opposto: linde scatole di legno e mattoni, lindi praticelli, vialetti asfaltati per l'auto. Si scostò dalla finestra, le guance infiammate dal sole, e vide sulla mensola del caminetto un gruppo di fotografie incorniciate. La prima era una foto di matrimonio, scattata di fronte a una chiesa, in cui una attraente giovane donna dai capelli scuri baciava un uomo robusto dal vestito che gli tirava. Tutti intorno sorridevano. Nella seconda foto la donna era a letto e teneva in braccio un fagottino, un bimbo appena nato; un'ombra - quella dell'uomo - si stagliava sulla parete alle sue spalle. La stessa donna in una terza foto era in piedi con un neonato in braccio - lo stesso o un altro? - su un praticello ben tagliato di fronte a una casa bianca. Qualcosa in quest'ultima foto lo colpì sgradevolmente: fece un passo avanti, la prese in mano. Gli occhi della donna erano più duri, infossati dentro la testa; la bocca sorrideva, ma quegli occhi rispecchiavano un'anima in cui tutti i sorrisi erano svaniti. E c'era anche qualcos'altro, sempre in quella foto: un oggetto sul bordo, di fianco alla donna. Guardando meglio Evan si rese conto che era una mano che afferrava un bracciolo. E poi un lembo di una ruota. I raggi di metallo. Un'ombra. — Quella è mia figlia Emily — disse la signora Bartlett. — La chiamiamo Em. È ancora una bella ragazza. — Questo è il suo nipotino, allora? — chiese lui, reggendo in mano la foto. — La mia nipotina, Jenny. Compirà otto mesi in ottobre. Jenny è la mia seconda nipotina. — Vede quell'altra foto, la prima sul caminetto? — Evan la prese in mano e la signora Bartlett annuì. — Proprio quella. Si chiama Karen, e avrà due anni ad aprile. E lei ha bambini? — Una bambina di nome Laurie — rispose Evan. Rimise le fotografie
dove si trovavano. — Dove vive sua figlia? — A poche strade di distanza da qui. Lei e suo marito, Ray, hanno una bellissima casa in Warwick Lane. — Si sventolò con la rivista. — Oh, questa casa è diventata un forno! Ringrazierò Dio quando saremo in autunno, davvero! Quest'anno non mi lamenterò delle bufere. È proprio sicuro di non volere un bel bicchiere di limonata con molto ghiaccio? Lui diede di nuovo un'occhiata all'orologio. — Va bene — si arrese. — La ringrazio. — Bene. — Sorrise, si alzò dal divano, scomparve sul retro della casa. Evan sentì aprirsi una dispensa, poi un'altra. Si voltò verso il caminetto, fissò per alcuni istanti le fotografie. Come sembravano normali, semplici. Ma, in nome di Dio, quale terribile storia raccontavano. Bastava guardare gli occhi della donna nella terza foto per vedere il cambiamento che era avvenuto dentro di lei. Lo stesso cambiamento ora stava avviluppando Kay. Si allontanò dalla mensola, affacciandosi sul corridoio che collegava la stanza con il retro della casa; c'era una stretta scala che portava a una serie di porte chiuse. Le stanze degli ospiti. In fondo al corridoio una porta era aperta, da cui si vedeva la signora Bartlett affaccendarsi. Si vedevano gli scaffali, una stufa, alcune piante in vaso, una carta da parati con mele e arance e ciliegie. Tintinnò il vetro. Lui si mosse silenziosamente lungo il corridoio, verso la cucina. Un attimo prima che la signora Bartlett si accorgesse della sua presenza, riuscì a vedere bottigliette e fiale in uno scomparto aperto. Senza etichetta tutte quante, contenevano liquidi color verde bluastro, marrone, grigiastro, dall'aspetto viscoso. In alcune c'erano sostanze solide: polvere bianca, qualcosa come cenere umida, qualcos'altro come schegge di carbone. Di fianco al bicchiere di limonata che la signora Bartlett stava accuratamente rimestando c'era una fiala con del liquido giallastro. Senza cappuccio. La signora si voltò, i suoi occhi si dilatarono, ma un attimo dopo si era già ricomposta. Con le labbra tese in un sorriso, allungò un braccio con naturalezza e chiuse lo scomparto. — Spero che le vadano bene i dolcificanti artificiali — fece, coprendo la fiala con il corpo. — Certamente, non c'è problema — rispose Evan. — Deve aver più sete di quanto non pensasse. Stavo per portargliela io. — Mescolò di nuovo, lasciò cadere un paio di cubetti da un portaghiaccio, gli tese il bicchiere. — Ecco qui. — Dopo che lui l'ebbe preso lo precedette lungo il corridoio, verso il soggiorno; lui la seguì, chiedendosi quale sostanza infernale vi avesse mescolato. Non poteva fidarsi di nessuna di loro,
assolutamente di nessuna. Forse questa anziana, modesta donna era la vera maga di Bethany's Sin e qui, nella sua casa semplice, in quella cucina dalla tappezzeria ingenua, mescolava potenti e antiche droghe. Che cosa usciva da quella cucina? Pozioni per dare forza? Per far dormire? Afrodisiaci? Ricette provenienti dalla cultura delle amazzoni, liquidi distillati dalle radici più nere e dal midollo di ossa maschili? E se avesse bevuto quella pozione, che cosa gli sarebbe successo? Avrebbe sentito il suo corpo indebolirsi? Si sarebbe addormentato? O semplicemente il cervello si sarebbe spappolato, perdendo ogni istinto di autodifesa quando loro finalmente sarebbero venute a prenderlo? In soggiorno lei sedette di nuovo sul divano, sorridendo, sventolandosi, aspettando che lui bevesse. Dai suoi occhi non si capiva se si fosse resa conto che lui aveva visto. — Caldo — fece. — Ecco di che si tratta, semplicemente di caldo. Evan sentì lo stridio di vecchi freni, sulla strada. Guardando dalla finestra vide il furgone scassato di Neely Ames accostarsi al marciapiedi. — Bene — disse, posando il bicchiere intatto sul tavolino. — Credo che il signor Ames sia arrivato. — Entrerà dal retro — disse calma la donna. — C'è una scala che porta direttamente alla sua stanza. — I suoi occhi ebbero uno scintillio; passarono velocemente da lui al bicchiere e poi ancora a lui. — Grazie, signora Bartlett — disse Evan, già alla porta. — Ho apprezzato la sua ospitalità. — Grazie, signor Reid. — La donna si alzò, fece una smorfia di dolore a causa delle gambe gonfie, gli si avvicinò. — Ritorni a trovarmi, la prego. — Va bene — fece lui, e poi fu in strada, diretto verso il furgone. Ames, con la maglietta inzuppata di sudore e il viso arrossato dal sole, spalancò la portiera e scese dall'auto. Alzò gli occhi, vide Evan e continuò a sfregarsi via l'olio della falciatrice dalle mani con uno straccio macchiato. — 'Sera — disse; aveva macchie scure sotto agli occhi, e le guance incavate. Si massaggiò la spalla destra. — Che cosa ci fa da queste parti? — La stavo aspettando — rispose Evan. Voltò la testa verso la casa e vide le tendine ondeggiare. — Sono venuto a chiedere il suo aiuto per una cosa. — Il mio aiuto? — Si tolse gli occhiali, pulendo le lenti con un lembo asciutto della maglietta. — Per fare che cosa? — Perché non andiamo un momento in camera sua? Sarebbe meglio. — Evan accennò al retro della casa.
— Scusi il disordine — disse Neely quando furono di sopra. — Butti giù quei dannati stracci dalla sedia e si accomodi. Vuole una birra? Mi dispiace, ma saranno calde. — No, grazie. — Evan sedette. Neely strinse le spalle, tirò fuori l'ultima lattina da un cartone sul tavolino e l'aprì. Bevve, chiuse gli occhi, e poi si gettò sulla sedia, mettendo le gambe sul letto. — Cristo. Cristo Iddio ci ho lasciato le palle sotto quel dannato sole, oggi. — Bevve ancora dalla lattina. Evan si guardò intorno. C'era una chitarra dentro la custodia, appoggiata contro una parete; quelli che sembravano fogli di musica sul tavolo; una valigia aperta, vuota, sul pavimento. — E così — fece Neely dopo qualche istante — che cosa posso fare per lei? — È chiusa quella porta? — Evan accennò col capo. — Sì — L'altro lo guardò interrogativo. — Perché? — Evan si chinò in avanti, guardandolo in viso. — Ha ancora quei denti che mi ha mostrato? Quelli che ha trovato nella discarica? — No. Li ho buttati via. — Ha mai detto nulla allo sceriffo? — Volevo. Ma poi ho pensato che mi avrebbe solo riso in faccia. E inoltre, ho pensato che ci potesse essere una spiegazione ragionevole. Forse venivano dai rifiuti di qualche studio dentistico; o magari qualcuno aveva preso un bel pugno che gli ha fatto sputare i denti. Mi sono messo tranquillo. — Stronzate — fece Evan. — Non ci crede, più di quanto non ci creda io. — Diede un'occhiata alla valigia. — Sta pensando di andarsene? Neely bevve ancora, poi schiacciò la lattina e la gettò nel cestino. — Domani mattina — disse. — Questa sera chiudo il conto con la signora Bartlett. — Lei lo sa già? Neely scosse la testa. — E Wysinger? — Al diavolo quel bastardo — esclamò il giovane. — Quel figlio di puttana non ha fatto che rompermi le scatole, da quando sono arrivato qui. Oggi era giorno di paga. — Si picchiò sulla tasca posteriore. — Questi mi porteranno a una bella distanza da Bethany's Sin. — Dove andrà? — Verso nord. Nel New England. Chi lo sa? Mi cercherò un piccolo
club tranquillo e nascosto per suonarci le mie canzoni. Se riuscirò ancora a suonare una chitarra con queste dannate vesciche alle mani. No, basta. Io qui ho chiuso. Me ne andrò all'alba. — Aver trovato quei denti nella discarica ha niente a che fare con questa decisione? — Diavolo, no. La gente butta via ogni genere di cose. C'è più spazzatura di quanto lei non immagini. — Tacque, guardò in faccia Evan. — Forse sì. Forse. Come le avevo detto, al Canto del Gallo, ho una brutta sensazione su questo villaggio. Voglio andarmene via. Lei forse non capisce di che cosa sto parlando, ma mi sento come... come se qualcosa mi si stesse chiudendo intorno. E non mi vergogno a dirle che questo qualcosa mi fa cagare addosso dalla paura. — Afferrò un pacchetto di sigarette che stava sul comodino, ne accese una, inalò il fumo. — Non ho intenzione di stare ad aspettarlo. — Ho bisogno del suo aiuto — disse Evan, tenendo lo sguardo ben fermo. — Stanotte. — Come? — Voglio che mi porti alla discarica. Voglio che mi faccia vedere dove ha trovato quei denti. — Mmm? — Neely strinse gli occhi al di sopra della sigaretta accesa. — E perché? — Perché ho intenzione di cercare qualcuno. Paul Keating. — Keating? Il tipo che vive nella casa di fronte alla sua...? — La voce gli si spense. — Che viveva nella casa di fronte. Viveva. Io credo che sia morto, e che il suo corpo sia sepolto nella discarica. Il fumo usciva dalle narici di Neely. Questi tolse la sigaretta dalla bocca e guardò da un'altra parte. — Di che cosa diavolo sta parlando? — Mi ha sentito bene. Adesso mi ascolti. Io credo alla sua storia di quelle donne che l'hanno attaccata per strada; e credo che abbiano attaccato molti altri. Ora, le chiedo di credere a quel che sto dicendo io, e di aiutarmi. Non posso cercare nella discarica senza il suo aiuto. — Io porterò il culo fuori da questo posto domani mattina — fece Neely. — Okay. Benissimo. Faccia come ha deciso. Ma io devo restare qui e per Dio devo sapere la verità su questo posto. Mi porti solo laggiù, è tutto quello che le chiedo. E mi aiuti a scavare. — Gesù — sussurrò Neely; tirò una boccata, esalò il fumo, schiacciò il mozzicone nel posacenere al suo fianco. — Lei vuole andare a cercare un
corpo? — O dei corpi — ribatté Evan. E con la coda dell'occhio vide il balenio di un'ombra attraversare la striscia di luce sotto la porta. Si alzò piano, attraversò la stanza con pochi passi mentre Neely lo fissava dalla sedia, fece scattare la serratura e spalancò la porta. Sul pianerottolo in cima alle scale non c'era nessuno. Le altre porte lungo il corridoio erano chiuse. Si chiese dietro a quale l'astuta vecchia cagna si stesse nascondendo. Chiuse di nuovo la porta, fece scattare la chiave, rimase per un attimo con l'orecchio appoggiato al legno. Niente. Neely si accese un'altra sigaretta. Inspirò come se il fumo potesse far dileguare le paure che ora gli stavano afferrando le viscere. Quando Evan lo guardò di nuovo, Neely vide che i suoi occhi erano due fessure decise. — Vuole aiutarmi? — gli chiese, rimanendo accanto alla porta. La punta della sigaretta bruciava, avvicinandosi alle dita di Neely. Improvvisamente egli rabbrividì, perché aveva avuto la sensazione che una figura dagli occhi fiammeggianti di azzurro, in piedi dietro di lui, alzasse lentamente una scure. Evan aspettava. Neely brontolò: — Non so chi è più pazzo, io o lei. A che ora? — Alle due. — Che cosa? Signore Iddio! — Non voglio che nessuno ci veda, — Va bene, va bene — fece Neely, e si alzò dalla sedia. — Allora è meglio che mi lasci dormire un po'. Ha un paio di vanghe? — Una vanga e un piccone. Li ho comprati questo pomeriggio. — Bene. Dovrebbero bastare. Evan aprì la porta sul retro e poi si girò ancora. — Un'altra cosa. Se fossi in lei, non mangerei né berrei nulla di quanto la signora Bartlett tenterà di offrirle questa sera. Verrò a prenderla qui davanti alle due in punto. — E poi si voltò di nuovo e sparì giù dalle scale. Neely lo guardò andar via. Non mangiare né bere niente di quanto la signora Bartlett gli avrebbe offerto. Che diavolo era quella storia? Una voce dentro di lui urlò No, non farlo! ma lui la cacciò via, si rifiutò di ascoltare. Ed essa tacque. Chiuse la porta esterna e rimase a fissare la valigia. Quell'uomo aveva bisogno del suo aiuto. Che cosa avrebbe cambiato un giorno in più? Ma per Dio, non appena fosse uscito da quel posto puzzolente avrebbe riempito quella valigia con le sue poche cose, avrebbe preso la sua chitarra e le sue canzoni e sarebbe uscito da quel villaggio. Alla svelta.
Si sfilò la maglietta dalla testa, l'appallottolò e la gettò nella valigia. Aveva fame, ma decise di non chiedere alla signora Bartlett di preparargli qualcosa. Forse quell'uomo non era poi così pazzo come sembrava. Si toccò piano la spalla, passando le dita sopra un lungo graffio che aveva notato per la prima volta qualche giorno prima, nello specchio del bagno. 26 ALLA DISCARICA Evan salì le scale in silenzio; indossava abiti scuri e aveva ai piedi gli stivali da combattimento dalle suole spesse, ritrovati dentro un baule impolverato nel seminterrato. Aprì piano la porta di Laurie; un raggio di luce cadde sul letto della bambina. Evan entrò e rimase a guardarla. Stava dormendo tranquilla, con il visetto sereno; al suo fianco c'era la bambola di pezza, che gli sorrideva come se fosse a parte del suo segreto. Evan allungò una mano a sfiorarle la guancia. Lei si mosse lievemente, e allora lui la ritrasse. Mia principessa, pensò. Mia bellissima principessa. Prego Iddio che tu possa dormire sempre il sonno dell'innocente. Si chinò, le baciò piano la fronte e poi fece due passi indietro, chiudendosi la porta alle spalle. Era ora di andare. Attraverso le finestre del salotto vide la luna, ancora non completamente piena ma bianca come il ghiaccio, e luminosa. Un lento venticello notturno spostava grandi nuvole d'argento attraverso il cielo, e quando queste passarono dinanzi alla luna la sua luce divenne tenebrosa, attraversata da ombre che parevano gigantesche figure a cavallo. E in quel momento Evan provò la stessa sensazione provata così tante volte durante la guerra: lasciare la sicurezza del campo per una missione protetta dalle tenebre, fidandosi solo dei propri istinti per salvare la pelle, sapere che tutti gli occhi erano occhi di nemici e che il mattino era lontano secoli. Forse era stato un bene, pensò, essere stato catturato molti anni prima e costretto a giacere su una branda sotto lo sguardo carico di disprezzo di quell'ufficiale donna; ora sapeva di non dover sottovalutare queste donne di Bethany's Sin, perché non avrebbero avuto pietà. Con loro si trattava di uccidere o di essere ucciso. Prese le chiavi, uscì e chiuse la porta. McClain Terrace dormiva avvolta dalle tenebre. Scivolò dentro la macchina e accese il motore, accendendo poi solo le luci di posizione. Mentre usciva a marcia indietro dal vialetto, lentissimamente, la vanga e il piccone appena acquistati tintinnarono nel
baule. Mentre si allontanava da casa sua non si accorse delle tende che si muovevano a una finestra della casa dei Demargeon. E non vide gli occhi fiammeggianti che scrutavano dietro quelle tende. Mentre guidava verso la pensione, aiutato dalle luci giallastre dei lampioni, si chiese che cosa avrebbe fatto se davvero avesse ritrovato le ossa di Paul Keating. Andare dallo sceriffo Wysinger? Dalla polizia dello Stato? Si rese conto che era rischioso andare da Wysinger; non sapeva da che parte stava quell'uomo. Era mai possibile che tutti quegli eventi terribili si verificassero attorno allo sceriffo senza che questi non li percepisse nemmeno? Forse, ma Evan decise che non era il caso di rischiare. La posta era troppo alta. Ma come avrebbe mai potuto tentare di spiegare a qualcuno ciò che lui pensava accadesse a Bethany's Sin, che si trattava di un villaggio infestato dagli spiriti come lo era stato l'antica Themiscrya, che l'essenza immortale delle amazzoni si era radicata qui, in questo minuscolo villaggio, e che una a una le donne erano state invase da uno spirito malvagio e senza nome, che godeva e si dilettava a massacrare e a mutilare gli uomini? Il segreto di Bethany's Sin era ben nascosto, nonostante stillasse nauseabonda sporcizia; un bellissimo villaggio all'esterno, perfetto, disegnato apposta per attirare le vittime, sempre di più, sempre di più, fino a che esse rimanevano definitivamente invischiate. Quelle cose-oltre-lamorte, quelle ombre di guerriere assetate di sangue si erano attaccate come sanguisughe all'anima di Kathryn Drago, e lei le aveva portate fuori da quell'antica caverna e ora le diffondeva come scintille da un enorme incendio perché andassero a bruciare altre anime. La regina, aveva detto Laurie. La vera regina. La dottoressa Drago. Era possibile che le ossa di una regina delle amazzoni si trovassero in quella caverna e fossero state ridotte in cenere con tutte le altre? E che ora quella fiera leonessa avesse tenuto per sé il corpo di Kathryn Drago, come degno ricettacolo di un odio e di una forza che avevano attraversato i secoli? Strade silenziose si dipanavano davanti a lui. Ecco la pensione della signora Bartlett. Rallentò, accostò al marciapiede e si fermò. Una figura attraversò il prato. Neely, il viso lucente di sudore, scivolò dentro e richiuse piano la portiera. Evan mosse l'auto, fece inversione e guidò verso la periferia del villaggio. — È a ovest... — iniziò a dire Neely. — So arrivarci — gli rispose l'altro. Fuori dal villaggio accese i fari. La
strada si illuminò davanti a loro. Neely poteva quasi toccare la tensione che sprigionava dall'altro. In quanto a lui, il cuore gli martellava contro le costole. Si frugò nella tasca della camicia. — Dispiace se fumo? Evan scosse la testa. Neely estrasse una sigaretta, rimase a fissare per alcuni secondi il fiammifero che aveva acceso, poi lo spense. Le luci verdi del cruscotto si riflettevano sulle lenti dei suoi occhiali. — Una sigaretta basterebbe — fece, come parlando a se stesso. Ma Evan aveva sentito. — Per che cosa? — Una sigaretta. Buttala dal finestrino e puff! Il sole ha bruciato e asciugato tutto, qui intorno, per miglia. I boschi sono così secchi che scricchiolano. Niente pioggia da settimane. Sissignore. Solo una sigaretta. — Fissò l'estremità ardente. Davanti a loro c'era una biforcazione. — Prenda a destra — disse Neely, e si rimise la sigaretta in bocca. Poi si appoggiò indietro sul sedile e chiese: — Come mai è così sicuro che troveremo qualcosa laggiù? E perché tutto questo dannato mistero? — Non ha detto nulla alla signora Bartlett, vero? — gli chiese invece Evan girandosi a guardarlo. — No. Nulla. — Bene. — Evan rimase in silenzio, guardando la strada. Un cervo balzò fuori da un cespuglio, si gettò nel boschetto, sparì. — Non sono certo di trovare quel che sto cercando, nella discarica. E in effetti, spero di non trovarlo. Spero di essere io il pazzo; spero di essere tanto pazzo da non riuscire più a vedere o a capire le cose. — Fece una pausa. — Ma non è così. — Sta dicendo cose che non hanno senso. — Tutto ciò ha a che fare con le donne che lei vide sulla strada di King's Bridge — spiegò Evan. — Io credo che furono loro a entrare nella casa di Paul Keating e a ucciderlo. E che poi portarono il corpo alla discarica. E per quanto riguarda il mistero — e gettò un'occhiata a Neely — noi non vogliamo fare la fine di Keating, vero? — Giri qui a sinistra — disse calmo Neely. Aveva già sentito il miscuglio di odori dolciastri e acidi, nauseabondi, della discarica, e paventava quello che li aspettava. Scavare attraverso quello schifo? Riportare alla luce uno strato dopo l'altro? Gesù Cristo in che cosa mi sono andato a ficcare!
Nuvolette di fumo si alzavano dalla strada, come serpenti dalle squame grigie. — Rallenti — disse Neely, le narici piene del putrido odore della discarica. — Ci siamo. Evan premette il piede sul freno e portò la familiare a fermarsi a lato della strada. Spense il motore e le luci. A destra scorse una distesa uniforme scura, e in fondo il brillio rosso di minuscoli fuochi. Uscirono entrambi dall'auto e andarono al baule; Evan prese la vanga, tese il piccone a Neely insieme alla lanterna cieca che aveva comprato da Western. — Ora mi faccia strada — gli disse. — Okay. Attento a dove mette i piedi. — Neely accese la lanterna, si mise in spalla il piccone e iniziò a camminare con attenzione sulla distesa scura. Evan lo seguiva passo passo, sentendo la terra che si spezzava sotto gli stivali e alzando mulinelli densi di polvere. Un fumo acre aleggiava intorno, nell'aria, e si attaccava ai capelli e agli abiti come qualcosa di vivo; i mucchi di immondizia assumevano forme strane; topi squittivano da ogni dove. La puzza assalì Evan, che dovette stringere i denti e ricacciare un'ondata di nausea, costringendosi a pensare solo a quella missione. La terra era percorsa da lunghe spaccature, che lasciavano scorgere, alla luce della luna, strati e strati di immondizia fumante, che sprigionava il calore accumulato durante il giorno. Ma anche la luna ora gli parve brutale, ardente sopra la pelle, penentrante sino ai nervi. Davanti a lui, Neely muoveva il raggio della lanterna su e giù per il terreno, spezzando sotto le suole quella terra morta, terra di nessuno; l'afa li aveva circondati, bagnandoli di sudore. E come nuvole turbinanti, ronzanti di polvere più scura, arrivarono le mosche. Una dozzina sbatterono contro il viso di Neely, fra i suoi capelli, iniziarono a girargli attorno alla testa. — Cristo! — esclamò lui disgustato, cercando di cacciarle con la lanterna. Esse si divisero, ronzando, e poi lo attaccarono di nuovo. Altre mosche si gettarono sulle gocce di sudore che bagnavano il viso e le braccia di Evan, succhiando avidamente. — Un attimo — fece Neely; si fermò, cacciò le mosche con una mano, le cacciò di nuovo. I suoi occhi seguirono il raggio della lanterna sul terreno. Una grande massa di immondizia stava proprio sulla sinistra, e aveva in cima pneumatici consunti e pezzi di automobile. Un frigorifero scassato, pieno di ruggine, era steso al suolo come una bara aperta. Fece qualche passo avanti, cercando punti di orientamento; fece ondeggiare il raggio da una parte all'altra, sperando di individuare quella larga crepa dentro a cui aveva trovato i denti. Ma, in nome di Dio, qui il terreno era tutto una crepa, e non c'era modo dire dove fosse quella giusta. Dovrei essere nella mia
stanza a fare la valigia, disse a se stesso, non qui in questo posto miserabile. Dio, la puzza! E quelle maledette mosche! — C'è qualcosa che non va? — disse Evan dietro di lui. Neely avanzò di qualche passo, fin dove il terreno era aperto; dentro brillarono dei vetri: bottiglie di birra. Perché non lasciare che quel tizio scavi proprio qui? pensò. Facciamola finita, così potrò portare i piedi fuori da questo posto. — È qui — fece, senza guardare l'altro. — È sicuro? — Sì, sono sicuro! — ribatté, piazzando la lanterna sul fianco del frigorifero, in modo da illuminare la crepa. Meglio farla finita in fretta! scacciò con la mano le mosche che gli danzavano davanti agli occhi. — Stia indietro — disse a Evan e, raccogliendo le forze, alzò il piccone e lo calò sulla terra con un gesto ampio e forte. Si udì il vetro frantumarsi, e il rumore di metallo contro metallo. Neely trasse fuori il piccone e menò un altro colpo, poi un altro e un altro ancora. Infine si asciugò una goccia di sudore che gli era colata sul mento e fece un passo indietro. — È tutto suo. Evan scavò con la vanga, portando all'aria pezzi di vetro, lattine vuote, cartoni di latte, frammenti di giornali e cartacce. Scavò ancora, facendo forza con la spalla contro il manico; scoprì altro vetro, lattine, l'immondizia di Bethany's Sin. — Che cos'è? — disse improvvisamente Neely. Evan pensò che si riferisse a un mucchio di ferri arrugginiti, si voltò e disse: — Nulla. Solo rifiuti. Ma Neely non stava guardando dentro al buco; fissava invece il buio, alla sua destra. — No — disse piano. — Ho sentito qualcosa. — La luna gli scintillò sugli occhiali. — Lontano. — Che cosa? — Evan si immobilizzò sulla vanga. — Non so. Come un lamento, o qualcosa del genere. Il fischio di un treno? pensò Evan. Guardò nella direzione in cui l'altro guardava, poi si volse di nuovo al buco. Riprese a scavare, incontrando terra più dura. — Serve di nuovo il piccone. Neely lo calò nella crepa, ruppe una crosta di terreno; una nuvola di polvere li avvolse, poi le mosche. La morte è qui, pensò Evan, mentre il sangue gli si gelava. La morte è qui, nascosta. Si fece avanti quando Neely ebbe finito e iniziò a scavare di nuovo. Pochi minuti dopo portò alla luce quella che appariva come una camicia: ma tirandola su si accorse che si trattava di stracci. La gettò via e ricominciò a spalare. La luce della luna batteva in pieno sul viso di Neely; egli fissava lonta-
no, tendendo l'orecchio. Che cosa gli aveva ricordato quel rumore? si chiese. Qualcosa che aveva già sentito. — Piccone — disse Evan. Neely eseguì, poi disse — Tutto ciò non ha molto senso, non le sembra? Voglio dire, se sta cercando delle ossa, ci sono quintali di terra da rimuovere. Evan non rispose; affondò la vanga, sollevò dell'immondizia, la gettò di lato. Affondò, sollevò. Poi ancora. Le mosche si erano radunato attorno alla sua testa sudata, e lui la scosse per cacciarle. Morte. Morte. Morte, lì intorno, da qualche parte. E poi, improvvisamente, si immobilizzò. Aveva sentito un rumore alto, stridente, in lontananza; alzò gli occhi a fissare l'orizzonte su cui si stagliava la foresta. — L'ha sentito, vero? — fece Neely. — Che diavolo era? — Aveva gli occhi spalancati e brillanti dietro le lenti. — Qualche animale, nei boschi — rispose Evan, con voce piatta. Lo sguardo percorse l'orizzonte, cercando, ma non vide altro che la luce della luna su montagnole di immondizia. — Piccone. — Un animale le palle! — ribatté aspro l'altro. — Non assomigliava a nessun dannatissimo animale che io abbia mai sentito! — Mi serve che spacchi ancora la crosta — fece Evan, uscendo dal buco che era ormai abbastanza profondo. Neely, brontolando, scese a sua volta. Il piccone si alzò, ricadde, di nuovo e di nuovo. In distanza qualcosa stridette. La luna rifulse sull'acciaio del piccone. — Non c'è niente qui, per Dio! — esclamò Neely. — Cristo, non sono nemmeno sicuro che sia il posto giusto! Come faccio a dirlo? — Si tirò fuori da quella trincea di rifiuti. Evan, con la camicia inzuppata, spostò altra polvere. Bottiglie di Coca Cola, lattine di birra schiacciate, scatole di detersivo, mucchi di giornali, recipienti di lisoformio. Una puzza che diventava via via più forte, nauseabonda. Le mosche volavano, in attesa. Screeeech. Più vicino. Da sinistra, ora. Un lamento che fece accapponare la pelle e stringere lo stomaco di Neely. Evan scavò, sollevò la vanga. Un oggetto scuro, solido, apparve nella polvere. Si chinò a prenderlo in mano, lo portò alla luce. Un mocassino sporco, logorato dall'uso. Mentre lo alzava, le mosche calarono per esaminarlo, poi si alzarono di nuovo. Lo gettò fuori dalla fossa, che ormai gli arrivava ai fianchi, e riprese a scavare. — Non troverà nulla — disse Neely, con voce tesa. — Andiamocene da
qui! — Fra poco — rispose Evan. Scavò. Scavò. Scavò ancora. I lati della fossa iniziavano a cedere, del materiale gli cadde sugli stivali. Le mosche rimanevano sospese sopra di lui, araldi di morte, spazzini di cadaveri. Le spalle gli dolevano in maniera insopportabile e a malapena udì il grido che questa volta arrivò da destra, più vicino di tutti gli altri. Ma Neely si girò di scatto verso quel suono, con il cuore che prese a martellargli, perché ormai l'aveva riconosciuto. L'aveva udito sulla strada di King's Bridge, quando una donna dagli occhi azzurri fiammeggianti l'aveva fissato attraverso il finestrino del suo furgone, un istante prima che un'ascia balenasse. Si sentì invadere dal calore e fece fatica a tirare il fiato. — Piccone — stava dicendo intanto Evan. Neely non si mosse. — Piccone, dannazione! — Allungò le braccia, strappò il piccone dalle mani dell'uomo paralizzato dal terrore e iniziò a colpire la terra in un delirio di energia. — Stanno arrivando — sussurrò Neely, fissando il buio, terrorizzato da ciò che poteva vedere. — Signore Iddio stanno arrivando... La fossa arrivava alla vita di Evan; egli si tappò le orecchie alle grida di guerra che si avvicinavano, chiuse la mente di fronte all'orrore che correva a cavallo verso di loro, alle asce scintillanti nella luna. — Dannazione lo so che devono essere qui! — gridò, con voce spezzata, e colpì con tutta la sua forza contro una delle pareti della fossa. La crosta di terra, si incrinò, si spaccò, si ruppe, e iniziò a cadere attorno a lui. E le ossa iniziarono a piovere come un osceno diluvio che abbia rotto le mura di una diga di terra. Scheletri interi con brandelli di vestiti, crani spaccati, ossa del bacino, di braccia e di gambe con i residui di carne grigiastra ancora attaccati, spine dorsali che parevano orrende scalette caddero attorno alle gambe di Evan, che ruotò su se stesso, un grido soffocato in gola, e con l'ultimo residuo di forza diede un colpo definitivo alla parete. Ancora rifiuti domestici, scatole, lattine, bottiglie; e poi ossa. Teschi ghignanti, senza denti. Colpì ancora. L'immondizia ricadde. Femori spezzati. Dita, mandibole, un teschio con un ciuffo di capelli scuri, una gabbia toracica con brandelli di camicia azzurra. Colpì ancora, mentre un grido interno lo lacerava. Piccole ossa e teschi minuscoli, di neonati. Il terrore gli afferrò il cuore, stringendolo. I piccoli maschi. Ecco dove i piccoli maschi venivano messi a dormire per sempre. La sua mente, invasa dallo shock, ondeggiò: iniziò a ripetere, follemente, il verso di una canzone dei Beatles. "Tutti i bravi bambini vanno in cielo.
Tutti i bravi bambini vanno in cielo." Inghiottì polvere; le mosche lo circondarono, gettandosi sull'odore della morte, sulla carne secca che pendeva ancora dalle ossa. Queste erano le tombe dissacrate di Bethany's Sin: non il Cimitero della Collina Ombrosa, no, perché quello era un luogo sacro e probabilmente solo le donne erano degne di giacervi. No, era qui che gli uomini assassinati e i neonati maschi venivano portati, gettati via con gli altri rifiuti, coperti di immondizia, dimenticati. Questo era il campo di battaglia delle amazzoni, i corpi ammonticchiati come quelli in altri antichi campi di battaglia. — ...stanno arrivando! — gli urlò Neely, e continuò a urlargli perché aveva visto la prima delle ombre che si avvicinavano rapidamente; ma Evan non sentì. Sentiva la mente scivolargli via. Non trovava la forza di uscire da quella fossa di massacri dimenticata da Dio. Mia moglie e la bambina; devo prendere mia moglie e la bambina... — Vieni fuori, dannazione! — gridò Neely, e gli tese la mano oltre l'orlo della fossa. — Vieni fuori! Sbrigati! — Lanciò un'occhiata alle proprie spalle. Ombre che prendevano forma. Rumore tonante di zoccoli, la terra che tremava; occhi azzurri fiammeggianti che gli davano la caccia. Guardò in giù verso Evan, vide che l'uomo era sotto shock. Si sporse, con i nervi che vibravano, e afferrò il polso dell'altro, lo tirò. E l'istante dopo un urlo che lacerava i timpani si udì esattamente dietro a Neely Ames; questi si volse, aprì la bocca per gridare. Il cavallo più nero della notte fu sopra di lui come un uragano e un'ascia dalla lama scintillante come mille cavi elettrici scoperti sibilò abbassandosi verso di lui. Riuscì ancora a sentire l'urlo dell'aria lacerata dal metallo. La testa di Neely, schizzando spirali di sangue, volò sopra la spalla di Evan; il sangue gli inondò la faccia. Il corpo decapitato, che stringeva ancora il suo polso, cadde sulle ginocchia e scivolò dentro la fossa. Le gocce calde di sangue lo riportarono alla realtà, e all'incubo di quegli esseri che si stavano chiudendo attorno a lui. Evan si strappò dalla stretta della morte e afferrò il piccone. L'amazzone sul cavallo nero era tesa all'indietro, preparando il colpo che gli avrebbe spaccato il cranio; lui, con le spalle chine in avanti, gettò il piccone contro le zampe anteriori del cavallo. L'animale nitrì di dolore, barcollò, perse l'equilibrio e cadde pesantemente, schiacciando sotto di sé la cosa-donna che portava in groppa; ci fu un rumore schioccante di ossa spezzate e un inumano, gutturale urlo di dolore. Ma già Evan era balzato fuori dalla fossa e stava correndo attraverso la
discarica, verso la sua auto. Le altre girarono i cavalli per inseguirlo, con gli occhi fiammeggianti di odio, agitando le asce; affondarono gli speroni nel ventre degli animali, che con gli zoccoli sollevarono nuvole di polvere. Egli si guardò alle spalle mentre correva. Quella davanti, su un cavallo baio, l'avrebbe raggiunto prima che arrivasse alla macchina. Continuò a correre, mulinando disperatamente le gambe; sentiva la terra tremare all'approssimarsi del cavallo. Ruotò su se stesso mentre l'ascia calava verso di lui. Gli sfiorò la guancia, lui cadde, si rialzò piantando i pugni nella polvere lurida, ricominciò a correre, il cavallo era al suo fianco e il braccio dell'amazzone si era alzato di nuovo. Evan si volse e le gettò in faccia il pugno di terra che stringeva in mano; l'ascia che ricadde gli sfiorò il braccio sinistro, questa volta, lacerandogli la stoffa della camicia. Il cavallo girò su se stesso, mentre il suo cavaliere tentava di ripulirsi gli occhi, e le altre si avvicinavano anche loro, rapidamente. Ma Evan aveva raggiunto l'auto. Si gettò dietro al volante, abbassò le sicure delle portiere, infilò furiosamente le chiavi nell'accensione. I pneumatici alzarono nuvole di polvere quando premette sull'acceleratore. Dietro di sé sentì l'acuto, raccapricciante grido di guerra, e seppe che lo stavano seguendo. Bethany's Sin, pensò, con il cervello che pulsava più del suo cuore. Devo tornare laggiù. Devo prendere Laurie e scappare via. E Kay? Che cosa fare per Kay?. No, tornerò dopo. Prima andare dalla polizia di Stato. Poi portarli con me. Ma prima ancora prendere Laurie. Laurie. Girò il volante a sinistra, e la familiare ruotò, le gomme fischiarono, in un cerchio che quasi la gettò dentro il fosso dall'altra parte della strada. E poi accelerò di nuovo, digrignando i denti, i fari che illuminavano la strada deserta davanti. Sentì il grido dell'amazzone più vicina direttamente all'altezza dell'orecchio, e poi vide la figura al suo fianco, sulla strada: un grande cavallo castano che portava un cavaliere, i cui occhi fiammeggianti lo trafissero. I denti dell'amazzone erano scoperti, e lui ebbe un istante per rendersi conto che questa donna era la bibliotecaria che gli aveva chiesto se voleva vedere i libri d'arte. Ma ora aveva il viso come una maschera, e l'odio usciva dalla bocca spalancata. Evan schiacciò il freno, ma il cavallo era troppo vicino, e l'auto urtò forte nel fianco dell'animale, gettandolo di lato. Sentì il paraurti che si staccava e uno dei fari si spense, ma il corpo dell'amazzone, disarcionato dall'impatto, volò sul cofano dell'auto, ruppe il parabrezza e gettò schegge di vetro attorno al viso di Evan, che gli ferirono le guance e la fronte e il collo. Il corpo, con il viso tagliato, la gola che pompava sangue denso dalla giugulare recisa, rimbalzò sul cofano; gli oc-
chi senza più vista rispecchiarono per un istante ancora la tremenda forza dell'entità che ne aveva preso possesso, e poi si oscurarono. Divennero nere, vuote orbite, mentre la carne si rinsecchiva e il cranio diventava simile a un teschio, quello di un essere morto da molto tempo. Evan schiacciò l'acceleratore a tavoletta, riprese la strada verso Bethany's Sin, indietro verso quel miserabile, malvagio covo di... quelle cose. Questa volta non si preoccupò del silenzio; le gomme fischiarono mentre affrontava le curve, e il motore urlava spinto al limite. Strade oscure. Case oscure. Una tremenda, fitta oscurità. La luna, ghignante e riflessa da decine di finestre. McClain Terrace. Casa sua, immersa nel buio e nel silenzio. Salì con l'auto sul prato, affondando con i pneumatici, e balzò fuori, correndo verso la porta. Lo stavano certamente seguendo, in pochi minuti sarebbero arrivate lì. Frugò per trovare le chiavi, le infilò nella serratura. In fretta. Doveva fare in fretta. Doveva. Stavano arrivando. Riuscì finalmente a girare la chiave. Un cane, lontano, abbaiava e abbaiava. E un istante dopo la porta, senza che la spingesse, si spalancò. Una mano dalle unghie curate lo afferrò al polso, lo tirò dentro l'atrio buio con una forza da mandarlo per terra, e dall'oscurità una figura si avvicinò, con gli occhi fiammeggianti, tremendi, e lui sentì se stesso gemere come un animale in trappola. Fu tirato su, spinto nel buio, e gettato sul pavimento del salotto illuminato dalla luna. Raggomitolato come una bestia, aspettando il colpo fatale, si guardò attorno con occhi selvaggi. Quattro figure lambite dal chiaro di luna. Quattro donne. Quattro paia di occhi senza pietà, assetati di sangue. Una di loro sedeva sulla poltrona dall'altra parte del tavolino, fissandolo senza parlare. Dio Onnipotente, pensò, sentendo la bocca asciutta come la polvere della discarica e vedendo il corpo senza testa di Neely volargli addosso. Erano qui ad aspettarmi. Tutto il tempo. Dalla poltrona la cosa-Drago parlò, con due voci: la sua, nel suo inglese dall'accento greco, e un'altra, in una lingua aspra e gutturale che era la lingua perduta delle amazzoni, ed entrambe le voci si mescolavano perfettamente uscendo dalla stessa gola. — E ora — disse piano, la lingua delle amazzoni risonante fra le pareti della piccola stanza — è venuto il momento di parlare.
27 LE DONNE — Lei è un uomo molto più intelligente di quanto avessi pensato — disse la cosa-Drago dalla poltrona. — Io ammiro l'intelligenza. E ammiro anche la saldezza di propositi. Gli occhi di Evan si mossero lievemente. La signora Giles - o quel che un tempo era stata la signora Giles - era in piedi nell'angolo; la non-piùsignora Demargeon vicino alla scala; una giovane donna bionda con una maschera di odio profondo presso la poltrona della Drago. Tradusse quei centimetri in secondi. — Non sia sciocco — disse la donna in poltrona. Lui la guardò. Gli occhi di quella cosa-donna bruciavano di fuoco azzurro, feroci. Laurie. La paura lo colpì come una lama d'acciaio. — Dov'è mia figlia? — Dorme. Il suo sguardo si mosse verso le scale. — Non qui — fece la donna, e il tuono della lingua delle amazzoni risonò da parete a parete, come se quelle parole fossero state pronunciate dentro una caverna persa nel tempo e non nel salotto di una casa di legno. — Da un'altra parte. — Dov'è? — Si sforzò di tenere lo sguardo fermo, ma nonostante questo subiva lo sguardo di quella donna, come se si trovasse davanti a una fiamma ardente. — Al sicuro, glielo garantisco. Interessante. La fine della sua vita potrebbe essere lontana solo pochi secondi. Perché si preoccupa della bambina? — Perché sono un essere umano — disse Evan, scegliendo con cura le parole. — Dubito che voi sappiate ancora che cosa significano sentimenti umani. La cosa-Drago tacque, lo fissò per qualche secondo. — Oh, certo — disse infine. — Lei si sta riferendo all'istinto materno. Non necessario. I più forti sapranno sempre badare a sé. I deboli devono essere sradicati come una minaccia al perpetuarsi della razza. Gli occhi di Evan si strinsero. — Ho visto un esempio stanotte di quello che avete "sradicato". — Sì — disse la donna. — L'ha visto. È stato al Campo delle Ossa, dove i nostri nemici giacciono, stroncati dal volere di Artemide...
— Nemici? — esclamò incredulo Evan. — Uomini e neonati? — Uomini e futuri uomini — disse piano la Drago, con voce di velluto e d'acciaio, la voce dell'amazzone più bassa e rauca. — Due di voi sono entrati nel Campo delle Ossa. Solo uno è ritornato; dov'è l'altro? — È morto. Ucciso da una di quelle... cose a cavallo. — Guerriere. Un peccato che il signor Ames sia stato abbattuto; non vedrà mai i suoi figli. — Figli? Lei rispose con un cenno del capo. — Due donne sono pregne del suo seme. Noi speriamo che una di loro ci dia una figlia. Naturalmente, il signor Ames non lo sapeva; la pozione di Antigatha rafforzava la sua potenza sessuale e gli cancellava la memoria. — Antigatha? — Il cuore di Evan diede un colpo. — La signora Bartlett? — Quella che lei chiama Bartlett, sì. Ha sottovalutato le nostre superiori capacità di vista, odorato e udito. Antigatha ha potuto udire facilmente la vostra conversazione dietro la porta chiusa. Sfortunatamente per l'altro uomo; le guerriere più giovani hanno ancora da imparare a controllarsi, anche nei confronti del nemico. Speravo che quell'uomo potesse divenire un buon riproduttore. — Allora non sono state mandate per ucciderci? — No. Solo a... — fece una pausa, cercando la parola giusta — riportarvi indietro al villaggio. Le assicuro, se avessi ordinato la sua morte, ora lei sarebbe morto. E sepolto, ormai, insieme con gli altri. — Scosse la testa, gli occhi scintillanti. — Non la voglio morto. Non ancora. Evan girò velocemente lo sguardo sulla stanza; le altre donne non si erano mosse. Lo fissavano come belve ansiose di uccidere. Un brivido gli percorse la schiena; vedeva le ombre gettate dalla luna sulle pareti, simili a enormi ragni, che strisciavano sempre più vicino. — In nome di Dio, che cosa siete? — chiese, con un brivido nella voce. Che cosa siete, tutte voi? — Noi siamo... sopravvissute — rispose la cosa-Drago, e le due voci echeggiarono, intrecciandosi. — Sopravvissute grazie alla pura forza delle nostre individuali volontà, riunite insieme in un luogo di oscurità fredda per... un lungo periodo di attesa. Siamo le prescelte di Artemide, l'avanguardia della Sua potenza, e il nostro odio ci ha sostenute quando fummo piegate in ginocchio e gettate nelle fauci di Ade. — Chiuse gli occhi un momento, li riaprì e fissò l'uomo per terra davanti a lei. — Siamo guerriere, al di là e al di sopra di ogni cosa, ed è possibile combattere nell'Ade
tanto fieramente quanto sui confini di Atene. Si può combattere la morte in uno scontro supremo di volontà e, con l'aiuto divino di Artemide, vincere! Sì, vincere! — I suoi occhi fiammeggiarono, bruciando il viso di Evan, che si ritrasse. — Tu non sai nulla del desiderio di vivere, di camminare sulla terra e fra le foreste, di sentire ancora l'odore del mare, di restare in piedi sotto il sole ardente e di gridare al cielo! Noi conosciamo tutto questo, e conosciamo anche l'amaro, infinito freddo e l'oscurità, e sappiamo che significa voler gridare e non avere voce, voler vedere e non avere occhi! — La sua voce salì, salì, echeggiò fra le pareti. — Conosciamo la stretta di Tanatos, dei suoi artigli squamati e i suoi occhi rossi e ardenti, e sappiamo che significa combattere quella stretta, con la forza della nostra rabbia! E sappiamo che significa aspettare e aspettare e aspettare! — Il suo braccio si tese, i braccialetti d'oro tintinnarono al polso; il pugno si abbatté sul tavolino, che si spezzò con un rumore secco da parte a parte. Ella sbatté gli occhi, come se per un istante la forza che aveva dentro avesse tentato di uscire dirompente, rompendo il controllo. Ritirò il braccio e rimase a fissarlo al di là del tavolino spezzato. La mente di lui ondeggiò, di nuovo, mentre stringeva i denti e tentava di azzittire l'urlo che incominciava a lacerargli l'anima. — Lei non è più Kathryn Drago — disse, dopo un momento. — Chi è lei? La cosa-donna alzò la mano, stretta a pugno. Questo tremò di rabbia repressa. — L'ultima erede del sangue reale — sussurrò. — Dopo Troia — sembrò sputare quel nome — dopo l'assassinio di Pentesilea, il Trono del Potere venne a me. Ma ciò fu negli ultimi tempi, quando eravamo indebolite dalle guerre che ci avevano decimato. — I suoi occhi erano semichiusi, oscurati dai ricordi. — E così i codardi arrivarono, un'orda dopo l'altra; distruttori dalla barba nera che camminavano sulle nostre spiagge, oltrepassavano le porte della nostra città. Li cacciammo combattendo decine e decine di volte; Artemide rialzava i cadaveri e dava loro nuova vita per combattere ancora, e noi combattemmo, giorno e notte, senza riposo. Fino alla fine. Fino alla fine. — La sua voce era diventata un mormorio. — La fine giunse in quella caverna, vero? Lei lo fissò irata. — I cadaveri furono ammonticchiati e bruciati. La caverna fu sigillata, e gli invasori presero Themiscrya... — Basta! — gridò la cosa-Drago, e la parola fu un urlo rauco nella lingua delle amazzoni. La non-signora Giles fece un passo avanti, e così pure la non-signora Demargeon.
— Perché raccogliersi nel corpo di Kathryn Drago? — chiese lui, osservandola con attenzione, pronto a balzare indietro di fronte a un attacco improvviso. I coltelli. C'erano coltelli in cucina. Sarebbe riuscito ad arrivarci? Ma lei non si mosse. Invece, sorrise, un sorriso sottile, spiritato, che le stirò la pelle sugli zigomi, dandole l'aspetto della maschera della morte. — Perché ella ci era stata condotta dalla volontà di Artemide. Perché ella stava compiendo il proprio destino, guidata fin dove noi l'aspettavamo, nell'oscurità. Ed ella aveva già imposto giustizia al distruttore. Evan rimase immobile; la sua mente invece stava turbinando. Coltelli. Coltelli in cucina. — Forse capirà se le dico il suo nome da ragazza. Bethany Katrina Nikos. Suo padre e sua madre erano emigrati in America dalla Grecia, nel 1924; il padre acquistò un fazzoletto di terra e costruì una casa di legno, e nel 1932 nacque sua figlia. Ma lui era un uomo rozzo, ignorante, che sapeva solo lavorare con le mani; sua moglie era fragile e intelligente, ma si piegava a lui perché non conosceva un'altra strada. Quando i raccolti iniziarono a venir meno, lui sfogò la sua rabbia nell'alcol e nel picchiare la moglie; molto spesso la ragazzina veniva svegliata nel cuore della notte dal rumore dei colpi e dalle urla strazianti, tremende. — Batté improvvisamente le palpebre, ed Evan capì che la piccola parte di Kathryn Drago che serviva da paravento a quell'altra forza più potente stava ricordando. — Grida tremende — sibilò. — A quel tempo il villaggio cominciava a crescere. Tutti sapevano che quell'uomo picchiava sua moglie, ma che cosa potevano fare? Erano affari suoi. E di notte mi ricordo... mi ricordo mia madre, il viso gonfio e ammaccato, seduta sull'orlo del mio letto, che mi raccontava storie di una terra in cui gli uomini non osavano infliggere quei tormenti alle donne, di una terra dove le donne erano padrone, e gli uomini tenuti dove meritavano. Mi raccontava la leggenda delle amazzoni, quando eravamo sole, quando lui era ubriaco e dormiva, e quelle storie sembravano dare fuoco alla mia anima... — Sbatté di nuovo gli occhi; il viso contorto, ghignante. — La uccise una notte in cui i venti urlavano attorno alla casa e la neve aveva gelato la terra. La colpì, e poi la colpì di nuovo, e lei cadde dalle scale e si spezzò il collo. La ragazzina sentì il rumore delle ossa che si rompevano. — Digrignò i denti, lo fissò in volto. — Naturalmente venne la polizia, ma la ragazzina aveva paura di parlare. Lui raccontò che avevano litigato sulla faccenda del bere, lei era scivolata ed era caduta. Tutti quegli uomini... sorrisero gli uni agli altri, come se condividessero un segreto che — batté di nuovo le palpebre, e dentro agli occhi
passò un'ombra — aveva mia madre al centro. Oh certo. Un bel segreto. E così io vissi in quella casa con lui, e lui continuò a bere sempre di più e cominciò a cercare la carne di qualcun'altra, da colpire. Ma io sapevo cosa fare, e così... attesi... Fino al giorno in cui, ubriaco, entrò nella vasca piena di acqua calda. — La forza era tornata a fiammeggiarle negli occhi; le labbra erano piegate in un'espressione selvaggia. — La bambina aspettò che lui si addormentasse, poi prese il rasoio e andò presso la vasca. — La lingua dardeggiò fra le labbra. — Colpì. Colpì. Colpì ancora, mentre lacrime amare le scendevano sulle guance. L'acqua divenne rossa di sangue, il sangue schizzò sulle pareti intorno. E poi lei andò dalla polizia per raccontare quello che aveva fatto, e perché l'aveva fatto. Giustizia. Aveva voluto fare giustizia. Fu mandata a vivere presso parenti ad Atene. E da là iniziò la sua ricerca. — "Il peccato di Bethany" fu l'omicidio — disse Evan con voce atona. — Gli abitanti chiamarono così il villaggio dopo quello che lei aveva fatto. — Non omicidio! — sibilò la cosa-Drago, chinandosi in avanti. — Giustizia! La vera giustizia delle amazzoni! — Rimase in silenzio un attimo, con gli occhi scintillanti, macchie di luce lunare dipinte sulle guance. — Quando noi tornammo con lei, ella comprò quella terra e costruì il tempio di Artemide sulle fondamenta della casa di suo padre. E per rendere grazie ad Artemide insieme a lei iniziammo il tempo della caccia. Trovammo altri ricettacoli adatti, e alcuni non adatti, che distruggemmo. Ora le più giovani fra di noi si raccolgono nel parco e poi cavalcano in onore di Artemide, quando la luna è piena. L'afa sembrava lentamente strangolarlo; Evan scosse la testa, confuso, incapace di pensare lucidamente a che fare. Correre verso la cucina? Combattere qui? O che altro? Il suo cervello gridava, e sopra quel suono poteva udire gli altri esseri che respiravano. — Questo mondo è strano — sussurrò la cosa-Drago. — Molto strano. Pieno di cose che noi non osiamo nemmeno immaginare. Ma la sostanza non cambia: lei e la sua specie siete i nostri nemici, e noi non avremo tregua finché non vi avremo distrutto. — Che cosa farete di me? — si udì domandare. — Ci occorre la sua intelligenza e la sua resistenza nelle nostre figlie — rispose lei piano. — La useremo a scopo di riproduzione. Immagini di mutilazioni gli attraversarono la mente; braccia e gambe tagliate e recise, volti urlanti. Scosse la testa. — No! No, non voglio! — Può essere un bene per lei, se non tenta di resistere. La onoreremo
come un prigioniero speciale... — No! — urlò Evan. — No, in nome di Dio! La donna lo fissò, con la furia che si raccoglieva in viso. Lo fissò fino a che lui non credette di impazzire o di mettersi a urlare. — Ha una seconda scelta — sussurrò, e allungò una mano sul pavimento sotto la poltrona; il braccialetto d'oro catturò un raggio di luna, lo riflesse sul viso di Evan. Ella alzò per i capelli la testa staccata di Harris Demargeon e la posò sul tavolino spezzato, di fronte a sé. Gli occhi morti erano riversi all'indietro, bianchi, come le orbite cieche delle statue; la bocca pendeva aperta. — Ora decida — disse l'amazzone. 28 LA DECISIONE Mentre ancora l'eco delle minacciose parole della donna si spegneva tra le pareti del salotto, Evan si gettò in avanti, sapendo perfettamente che, se non si fosse mosso con la rapidità del fulmine, le altre gli sarebbero state addosso come leonesse vendicatrici. Afferrò il bordo del tavolino e lo scaraventò contro la Drago; la testa di Harris Demargeon schizzò via, sbattendo contro la parete, e la cosa-Giles lanciò un grido di odio, gettandosi verso di lui; la Drago, digrignando i denti, con un braccio parò il colpo e mandò a ricadere il tavolo per terra. Ma ormai Evan aveva attraversato la stanza, si era piegato a raccogliere una sedia, l'aveva sbattuta contro la finestra infrangendo la vetrata, che esplose con fragore. Diede un'occhiata alle sue spalle e le vide, che si protendevano verso di lui, come in un incubo girato al rallentatore, con la cosa-Drago che si alzava e puntava il braccio incitando le altre. Evan gettò la sedia contro di loro, vide la cosa-Giles spazzarla di lato come se si trattasse di carta. E poi ruotò su se stesso e balzò oltre la finestra rotta. Corse attraverso il cortile posteriore, in discesa, senza osare guardarsi indietro. Raggiunse la siepe, la scavalcò, e saltò giù nel fossetto di scolo, di cemento. Allora si guardò indietro, aspettandosi di vederle correre verso di lui, ma scorse soltanto la figura di Kathryn Drago, in piedi nella cornice della finestra infranta, che lo guardava. I loro occhi si incontrarono per una frazione di secondo, fiammeggiarono. Poi lui si ritrovò a correre nella foresta. Le gambe si muovevano meccanicamente. I rami bassi gli colpivano il viso, le ombre lo racchiudevano ai lati. Il suo solo pensiero era andare via,
trovare un sentiero dentro a quella foresta che lo portasse a Spangler o Barnesboro, in qualunque luogo vi fossero luci, telefoni, gente normale. Ovunque potesse cercare aiuto. Correva, e la luce della luna entrava qua e là come una lama bianca fra il folto fogliame, come l'occhio di un faro che cercasse di scovarlo. A un certo punto sentì lo stivale impigliarsi in una radice e si ritrovò per terra. Aveva sbattuto forte, l'aria era uscita con un sibilo compresso dai polmoni, e ora giacque per qualche secondo con il viso sul terreno che sapeva di cenere. Ansimava come un animale braccato, ma l'aria afosa che lo premeva da tutti i lati non gli dava refrigerio. Con la testa pulsante di dolore e confusione, si tirò in piedi aggrappandosi a un tronco, e vi rimase avvinghiato. E allora, improvvisamente, capì ciò che stava facendo. Scappando. Scappando ancora, come tutte le altre volte che aveva voltato le spalle al male improvvisamente palesatosi nel mondo; come quando aveva voltato le spalle al fratello che giaceva spezzato nel campo, mentre lo spettro della morte gli si stava avvicinando; come quando aveva voltato le spalle agli uomini impazziti dietro le sbarre di bambù, lasciandoli alla mercé dei loro nemici. La mente di Evan barcollò, come un corpo che cercasse di correre con dei pesi attaccati alle spalle. Sì. L'Artiglio del Male esisteva davvero; ed era rimasto tutto quel tempo ad aspettarlo, a Bethany's Sin. E in tutti quegli anni, mentre pensava di sfuggire alla sua presa, lui aveva semplicemente continuato a scappare arrivandogli sempre più vicino. Fino a che ora, alla fine, esso si protendeva verso di lui. E allora, aggrappato all'albero, Evan sentì la propria mente vacillare. Oh Dio, ansimò. Oh Dio aiutami, aiutami! Come le ferite rosse di un rasoio, le visioni corsero lungo la sua mente, una dopo l'altra: un'amazzone dagli occhi fiammeggianti, che cercava di afferrarlo con una mano mentre con l'altra alzava la scure insanguinata; un luogo dove statue dagli occhi vuoti stavano immobili, gettando ombre di ragno sulle pareti, dove la luna bruciava attraverso un soffitto di vetro, dove il cerchio delle amazzoni si stringeva sempre più; Kay al centro di quel luogo, con gli occhi chiusi e il seno nudo, e il fumo che si alzava dietro di lei; il volto della cosa-Drago, ghignante; infine, se stesso che bruciava dentro le alte fiamme dell'Ade. Si strappò dalle visioni, tornando a forza alla realtà; il sudore gli colava sul corpo: Dio mio aiutami. Dio mio aiutami. La sua mente si stava lacerando. No! Resisti! In nome di Dio, resisti! Perché tra i veli di quelle orrende visioni aveva visto ciò che lui doveva fare. Doveva tornare tra loro, e portare via sua moglie e sua figlia. Perché
se avesse voltato le spalle e fosse scappato, verso Barnesboro o Spangler o Marsteller o qualunque altro luogo, le avrebbe perse per sempre. Si afferrò a quell'albero come se fosse l'ultima cosa concreta, reale della sua vita, e un pensiero di semplicità cristallina scese nella sua mente: perché lo avevano lasciato fuggire? Perché avevano fatto in modo che scappasse? L'istante successivo capì. Udì il grido stridente delle amazzoni alla sua destra, e capì che erano a meno di un miglio da lui. Esse erano in grado di vedere anche al buio, fra quei boschi, e i loro cavalli sceglievano i sentieri d'istinto. E allora nemmeno lì, nel silenzio e nell'oscurità, ci sarebbe stato un luogo dove nascondersi. Il cuore gli martellava; si staccò dall'albero, si guardò intorno. Un altro grido, questa volta da sinistra e più vicino. Stavano accerchiandolo, giocando al gatto e al topo. Barnesboro e Spangler erano tagliati fuori per lui, ora, e dietro stava Bethany's Sin, un enorme ragno femmina gravido di male al centro della sua ragnatela. Che ora racchiudeva sua moglie e la sua bambina. Scrutò ancora un attimo nel buio, in ascolto. Grida da sinistra e da destra, mentre loro si stringevano senza tregua verso il vertice dove stava lui, assolutamente indifeso. E allora prese la decisione. Si girò e cominciò a correre indietro verso il villaggio, voltando il capo a scatti per guardare nel buio, vicino agli alberi, evitando le lame di luna; pochi minuti dopo era di nuovo nel fossetto di scolo dietro la propria casa. Un altro grido di guerra, portato dal vento della notte, forse a mezzo miglio. Il suono gli martellò sui timpani. Strisciò sul ventre, si tirò su dietro la siepe, e guardò attraverso il cortile. La sua casa era invasa dalla notte, come se anch'essa fosse stata consumata dal male assoluto, il chiaro di luna si rifletteva sulle schegge di vetro della finestra spaccata. Gli sembrò di sentire un ramo spezzarsi dietro di lui, e ruotò di scatto, pronto a balzare. Ma non c'era nulla. Allora giacque perfettamente immobile, un'ombra fra centinaia di altre. Il cervello gli ardeva: certo che lo aspettavano, certo che pensavano che lui, trovandosi la fuga sbarrata dalle guerriere a cavallo, tentasse di tornare nella sua stessa casa, sia per cercare un'arma che per provare a usare il telefono, per chiamare aiuto. I suoi occhi, ridotti a due fessure, scivolarono a sinistra. La casa dei Demargeon, buia. Si vedeva la porta che dava nel seminterrato: quattro rettangoli di vetro, proprio come la sua. Dietro di lui un altro grido di guerra rotolò attraverso la foresta. Vicino, molto vicino. Non poteva indugiare all'aperto. Si aspettavano che tentasse di entrare nella casa dei Demargeon? Si aspettavano che cercasse lì un nascondiglio, per atten-
dere che la luce del giorno ripulisse le strade? Strisciò lungo la siepe, si alzò di scatto e velocemente la scavalcò, ricadendo nel cortile. Accucciato, in ascolto. Tutto taceva. Allora cominciò a correre da ombra a ombra, rimanendo basso; percorse l'orto della signora Demargeon, ormai appassito per il gran caldo. Quando raggiunse la porta del seminterrato strinse il pugno e colpì il vetro inferiore, che si crepò. Allora tolse alcuni pezzi, gettandoli, nell'erba, fino a che non riuscì a infilare la mano per ruotare il pomolo della maniglia. Spostò la levetta che bloccava la serratura, ruotò il pomolo, e fu dentro. Richiuse la porta dietro di sé, facendo scattare la serratura, e poi, ansimando a tratti, scivolò lungo la parete, per terra. Rimase a lungo in ascolto, senza udire nulla all'infuori delle grida, lontane, nel bosco; poi queste si allontanarono ancora e svanirono, lasciando il ricordo di un'eco. Il seminterrato era grande circa come il suo, con una scala di legno che portava su a una porta chiusa, che dava nella casa. C'erano mucchi di scatole contenenti cianfrusaglie: vecchi abiti, riviste che sapevano di muffa, una lampada rotta, vasi di fiori sbrecciati. Una sedia senza una gamba stava nell'angolo, vicino a una griglia per barbecue e a un paio di latte di combustibile liquido. Vicino alla porta c'era una rastrelliera con attrezzi da giardino: una vanga, una paletta da giardiniere, un grembiale verde di plastica. Nell'angolo più vicino a lui c'era un sacco di fertilizzante che sapeva di gesso. Ora non gli restava altro che attendere l'alba, ancora secoli lontana. Si prese il viso fra le mani e tentò di dormire, ma gli tornava in mente, senza tregua, l'immagine di una figura da incubo che entrava nel seminterrato e lentamente si avvicinava, e allora spalancava gli occhi a stento trattenendosi dal gridare. Durante un brevissimo sonno, sognò il fuoco. Un incendio rosso e arancio che ruggiva, il cielo pieno di cenere e schegge di legno bruciato. E poi carboni ardenti fra le rovine, casse bruciate, mattoni che cadevano mentre un fumo rossastro lentamente saliva a oscurare l'orizzonte. E dopo l'incendio un luogo di fantasmi, dove la cenere si alzava in spirali lente e le mura annerite, i campi bruciati non conoscevano più erba né fiori. Persino mentre sognava, Evan si rendeva conto che quello sarebbe stato il destino di Spangler, o di Marsteller o di Saint Benedict o di qualsiasi altra delle piccole città che sorgevano attorno a Bethany's Sin, quando le guerriere avessero raggiunto la piena forza. Quando le amazzoni avessero insegnato alle loro figlie come maneggiare l'ascia bipenne della collera, e quelle figlie lo avessero insegnato poi alle proprie, e quell'eredità di male e di assassinio e
di ira fosse passata da generazione a generazione, la loro sete di violenza si sarebbe abbattuta su intere comunità. Avrebbero colpito di notte, rapidamente e senza preavviso, e quello sarebbe diventato un luogo di città fantasma, dove i cani abbaiano di notte e il grido dell'aquila echeggia tra rovine desolate. Storie sussurrate di notturni terrori avrebbero fatto di quel luogo una terra desolata, infestata, e tuttavia ci sarebbe stato chi, per caso o per curiosità, avrebbe percorso la Statale 219 della Pennsylvania che passa accanto al villaggio di Bethany's Sin. E per costoro non ci sarebbe stato ritorno. Il sogno si dissolse. Una raggio di sole caldo batteva sul viso di Evan; si svegliò allo stesso modo di quando era in guerra, con i sensi all'erta, acuiti, la visione lucida, il cervello già al lavoro per salvarsi la pelle. Si tirò via dalla luce, verso l'ombra che l'avrebbe nascosto. Gli uccelli cinguettavano fra gli alberi e, in lontananza, si udì il suono di un clacson, probabilmente al Cerchio. Diede un'occhiata dalla porta a vetri e alzò gli occhi al sole. Nel cielo azzurro c'era qualcosa di argenteo: un aeroplano, in discesa verso l'aeroporto di Johnstown. Si chiese che cosa pensassero quegli esseri di aeroplani, grattacieli, di auto e di navi, di televisioni ed elettrodomestici elettrici e falciatrici e di tutte le migliaia di oggetti che lui dava per scontati. Che cosa potessero capire del mondo moderno, e di come potessero adattarvisi. Probabilmente possedendo i corpi dovevano possedere anche la memoria, l'intelligenza, in parte anche la personalità delle donne che avevano preso; aveva visto la donna seduta di fronte a lui andare avanti e indietro fra due mondi, da Kathryn Drago alla forza che si era annidata dentro di lei. Forse l'entità dell'amazzone rimaneva nascosta, utilizzando la personalità della Drago come un travestimento, finché non c'era bisogno che la sua violenza emergesse in pieno da quella pozza di carne viva. Forse questo valeva per tutte loro. Persino la lingua stava in mezzo ai due mondi, la voce che parlava inglese e quell'altro ringhio gutturale, raggelante. E allora pensò a Kay, distesa sul letto di quella clinica mentre un'amazzone di nome Oliviadre lentamente le rubava l'anima. Si passò le mani sul viso. Quando la trasformazione sarebbe stata completa, la Kay che lui conosceva e amava sarebbe ancora rimasta imprigionata dentro quella forma, oppure Oliviadre l'avrebbe sopraffatta interamente? Devo andare da lei! gridò una voce dentro di lui. Devo andarci subito e portarla via da là! No. Non ancora. Ti ucciderebbero prima che riuscissi ad attraversare McClain Terrace. Ma come, allora? Come posso fare, in nome di Dio, a togliere mia
moglie dalle loro mani? E che cosa è successo a Laurie? Era quasi certo che non le avessero fatto del male, ma l'idea di che cosa stavano preparando per lei lo fece rabbrividire. Ebbe uno scatto improvviso. Aveva sentito squillare un telefono. Su per le scale. Squillare, squillare. Poi una voce attutita dalla porta chiusa. Si alzò silenziosamente e si avvicinò alle scale. Poi si fermò, rendendosi conto che gli occorreva una qualche arma; allungò la mano alla rastrelliera e prese la paletta. Scivolò su per le scale in silenzio e mise l'orecchio sulla porta. — ...non ho avuto notizie da nessuna di loro. — La non-si-gnora Demargeon stava parlando ora con la voce da signora Demargeon, ed Evan se la immaginò in vestaglia e ciabatte; l'entità dell'amazzone per il momento era sommersa, in attesa. Una lunga pausa. — Sì, è vero. — Un'altra pausa. — Non può essere andato molto lontano. Questo lo sappiamo. Hanno battuto la foresta fra la sua casa e la statale, tutta la notte. Se è là, lo troveranno. — Una pausa. Si schiarì la gola. Evan fece per socchiudere la porta ma poi decise di no. — No. Cybella dice che non corriamo alcun rischio; sono rimasta con lei fino all'alba, in attesa di notizie. L'uomo non ha raggiunto la statale. Vieni qui e apri questa porta, cagna, sibilò Evan fra sé. Vieni qui. La donna rimase in ascolto, disse: — No — rimase in ascolto ancora. — No — con enfasi. Poi, con un tono di voce più calmo: — Aspettiamo e vediamo. L'uomo non rappresenta un problema. Nel frattempo, procederemo con il rito del Ferro e del Fuoco; Oliviadre sta diventando irrequieta. Gli si chiuse la gola. Che cos'era la faccenda del rito? E Oliviadre? si chinò in avanti, premette l'orecchio sulla porta. Il legno scricchiolò lievemente, e lui ebbe un tremito. — ...incontrato una giovane coppia a Westbury Mall ieri — stava dicendo la donna. — I Daniels. Lui è agente di assicurazioni di Hartford a Barnesboro, lei è casalinga, incinta di cinque mesi. Gente molto per bene, a quel che ho capito. Bremusa ritiene che andrebbero benissimo nel villaggio; mostrerà loro la casa vuota in Deer Cross Lane, la settimana prossima. — Una pausa. — Sì. Sì, va bene. — Poi: — Devo andare, ora. Arrivederci. — Il rumore del ricevitore posato sull'apparecchio, i passi che si allontanavano. Evan rimase contro la porta ancora un momento. Bethany's Sin stava per catturare e inghiottire una coppia di nome Daniels; Bremusa - la signora Giles? - aveva dei progetti per loro. Certo, così come aveva avuto progetti
per Kay ed Evan. Mostrare loro una bella casa in una bella strada in un bel villaggio, offrirla a un prezzo incredibilmente basso, e poi... La porta si aprì così improvvisamente che lui non ebbe tempo di reagire, e si trovò di fronte la donna, dal viso ancora pieno di sonno, con addosso una vestaglia giallo canarino. I suoi occhi erano scuri e stupiti, ma in una frazione di secondo la forza li sommerse, brillando feroce e azzurra e selvaggia, la forza indomabile dell'amazzone; un istante dopo essi erano orbite di odio fiammeggiante, e lei, con un ringhio di collera, alzò l'ascia che teneva in mano e la calò sulla spalla di Evan. Egli si piegò e poi si gettò contro di lei, con tutta la sua forza; l'ascia terminò la corsa contro la balaustra della scala, spezzandola. Caddero avvinghiati, rotolando e rovesciando tavolino, lampada e telefono. Quando lei tentò di ritrarre l'ascia lui le strinse il polso, piegandolo prima che potesse colpire di nuovo; lei si contorse, ringhiando come un animale, afferrò a sua volta il polso che sosteneva la paletta e iniziò a stringere. Evan lasciò cadere l'arnese, sentendo le ossa che sbattevano insieme, e mandò un urlo di dolore. Rotolarono avanti e indietro, sbatterono contro una parete. Lei gli sputò in viso e tentò di liberare il braccio, ma lui la teneva con tutte le sue forze. Allora si volse e infilò il piede fra loro due, calciò e riuscì a distaccarlo, gettandolo fino in mezzo al soggiorno. Lui ricadde su una poltrona, riacquistò l'equilibrio e afferrò la paletta, proprio mentre lei gli balzava addosso, brandendo l'ascia. Quando portò di scatto la testa all'indietro, Evan vide il riflesso del proprio viso sulla lama dell'ascia, e fu certo di averla evitata per un soffio. Digrignò i denti, sentendo la rabbia e l'angoscia gridare dentro di sé, sentendo l'istinto di uccidere che gli si gonfiava dentro, e cresceva, cresceva. Si gettò in avanti, con la paletta. Ma la donna fu più veloce; gli prese di nuovo il polso, torcendolo. Un'onda di dolore, le dita che si aprivano facendo cadere di nuovo l'attrezzo. La cosa-donna lo colpì con un pugno di ritorno che lo prese alla mascella, facendogli quasi spezzare il collo. Lui barcollò. Lei riuscì ad afferrargli la camicia, all'altezza della spalla, e la lacerò con le unghie artigliate, mettendo alla luce il petto percorso dalle cicatrici. Evan ricadde indietro, la testa ancora ronzante per il pugno, e poi sulle ginocchia. La cosa che era stata Janet Demargeon si levò su di lui, alzando l'ascia per il colpo definitivo. La guardò in faccia e vide la sete di sangue nei suoi occhi, vide il modo in cui guardava le cicatrici sul suo petto; allo stesso modo le aveva guardate quella sera nell'atrio di casa sua, e ora si rese conto che dovevano aver riportato alla memoria dell'entità che stava in lei
memorie di battaglie all'ultimo sangue; per questo era quasi scappata via, per resistere all'impulso di attaccarlo. Ma adesso l'ascia si alzava; la sua ombra ricadde su di lui, troppo debole e impotente per reagire. Fu l'istinto di uccidere che prevalse. In lui. Scoprì i denti, scattò con la mano verso la paletta di ferro per terra. Affondò i talloni nel tappeto e si gettò contro di lei, mentre l'ascia, raggiunto lo zenit, esitava una frazione di secondo. Lanciò la paletta in avanti e verso l'alto, con tutta la forza del suo corpo ripiegato. La sua mano si fermò solo contro la stoffa giallo canarino. La donna piegò indietro la testa e urlò, un grido non solo di dolore, ma di ira furibonda. Il giallo canarino divenne rosso. In pochi secondi. Lei tentò di fare un passo indietro per menare il colpo a sua volta, ma Evan le afferrò le caviglie e lei cadde, stringendo ancora l'ascia nella mano che diventava bianca. Subito lui tirò fuori la paletta e l'affondò di nuovo. Lei urlò, si contorse, cercò di graffiargli il viso ma non riuscì a raggiungerlo; Evan si buttò con tutto il suo peso sopra quell'arma improvvisata e la sentì penetrare in profondità. Il corpo sotto di lui si contorse selvaggiamente, con una forza incredibile; il braccio si alzò e calò l'ascia graffiandogli la spalla sinistra. Poi l'altra mano gli afferrò la guancia, affondando le unghie nella carne. Lui si ritrasse e poi colpì, ancora e ancora e ancora. Finché non si rese conto che stava pugnalando una donna morta. Si ritrasse, le mani appiccicose di sangue; la paletta da giardiniere era infilata dentro il corpo fino al manico, attorno a cui si era raccolta una pozza di sangue. Evan strisciò via, scosso e nauseato, e vomitò in un angolo del soggiorno. A lungo giacque disteso sul dorso, incapace di muoversi, sentendo rivoletti di sangue scorrergli sul viso dai profondi graffi alla guancia. Si rese conto che la donna doveva aver sentito lo scricchiolio della porta, e percepito lui nascosto là dietro; forse aveva sentito l'odore di sudore o di paura. Quando riuscì a guardare il cadavere vide che gli occhi erano scuri e spenti, il viso raggrinzito e simile a un teschio, tutta la terribile forza uscita per sempre. Tuttavia aveva paura di voltarle le spalle. Si fissò le mani insanguinate: le dita gli tremavano. Dopo un poco riuscì a dirigersi barcollante verso il bagno, per ripulirsi, e vide nello specchio un viso che lo spaventò: gli occhi infossati, pallido, un ematoma alla mandibola, un altro sullo zigomo destro, i tre graffi insanguinati. Ferite rosse su entrambe le spalle, un lungo graffio sul petto. La camicia lacerata gli pendeva alla vita. Si lavò la faccia con acqua fredda, riuscendo a non vomitare di nuovo, e poi andò a esplorare il resto della casa dei Demargeon.
Le stanze erano piccole, ben arredate, quasi da catalogo. In una stanzetta sul retro trovò il corpo decapitato di Harris Demargeon, ancora seduto sulla sedia a rotelle. Era una stanza senza finestre, con dentro un solo letto coperto da una stoffa marrone. Evan richiuse velocemente la porta. Nel soggiorno sedette sul divano e si sorprese a fissare con curiosità il cadavere della donna. E così, dunque, pensò. Quando il corpo muore, anche loro muoiono. Oppure no? Non poteva esserne sicuro. Ma sapeva con sicurezza una cosa: per reggere un'ascia ci voleva una mano reale, e la mano di questa donna non avrebbe mai più potuto reggerne una. Si alzò dal divano, si chinò sul corpo, slacciò la vestaglia. Il seno sinistro era floscio, con il capezzolo piatto e grigiastro; dove una volta c'era stato il seno destro c'era una cicatrice scura, a forma di stella, il segno di una grave bruciatura. Il Rito del Ferro e del Fuoco, aveva detto la donna. Questa sera; Oliviadre sta diventando irrequieta. Evan richiuse la vestaglia perché non voleva più vedere la ferita. Gli occhi spenti della donna, chiusi a metà, fissavano il soffitto. E ora Evan, seduto sul pavimento in presenza della morte, si prese la testa fra le mani e vide con chiarezza ciò che doveva fare, per salvare sua moglie e sua figlia. 29 EVAN, IN ATTESA DELLA NOTTE La ricerca di Evan nella casa dei Demargeon lo portò a scovare sei bottiglie vuote di Coca Cola sotto il lavandino di cucina. Ne prese due, le portò nel seminterrato e iniziò a frugare negli scatoloni per trovare stracci adatti alla bisogna, non troppo sporchi, sottili abbastanza da passare attraverso il collo delle bottiglie. Quando ne trovò due che andavano bene, riempì le bottiglie per tre quarti con liquido combustibile. Poi arrotolò gli stracci e li infilò nelle bottiglie, a fare da miccia per quelle due rudimentali bombe incendiarie. Poi salì al piano di sopra per aspettare. Nell'atrio, risistemò il telefono, per paura che rimanendo a lungo occupato desse dei sospetti. Gli occorreva dar vita a un'azione di disturbo, qualcosa che gli permettesse di arrivare alla clinica e trovare Kay; aveva deciso di appiccare fuoco alla casa dei Demargeon, e con quelle due bombe incendiarie avrebbe po-
tuto dar fuoco a un paio di altri obiettivi, creando abbastanza confusione da permettergli di passare. Ma c'era un grosso problema: dove si trovava Laurie? In casa della Drago? Alla Scuola del Sole? Sì. Forse là, sotto la sorveglianza attenta di qualunque mostruosa entità si celasse nei panni della signora Omarian. E ora, mentre trascorrevano lente le ore del pomeriggio, Evan montava la guardia nel soggiorno, spostando le tendine di pochi millimetri per guardare lungo McClain Terrace. Dapprima questo gli sembrò deserto, ma guardando meglio scorse il profilo scuro di una figura seduta alla finestra di una casa posta in diagonale, al di là della strada. E un'altra figura era nella casa di fianco a quella, dove Paul Keating era stato ucciso. Due sentinelle, che sorvegliavano la strada. Probabilmente la signora Demargeon avrebbe dovuto fare lo stesso. All'inferno tutte quante, sibilò. La luce iniziò ad attenuarsi. Mentre la sera calava su Bethany's Sin, Evan vide parecchie auto transitare lentamente da McClain Terrace, dirigendosi verso il Cerchio. Nessuna luce si scorgeva nelle case attorno, ma lui sapeva che esse erano ancora là, in attesa. Sul pavimento scorse un accendino dalla base di plastica, caduto dal tavolo durante la lotta; si chinò a raccoglierlo, sedette sul divano e rimase a giocherellare, accendendolo e spegnendolo. La fiammella si rifletté negli occhi vitrei del cadavere a terra. Cadde la notte. Bethany's Sin giaceva immersa nel silenzio. Da qualche parte, in casa, proveniva il ticchettio continuo di un orologio. Evan si asciugò la fronte con il dorso della mano, trasalendo per il bruciore che il sudore provocò sulle ferite aperte. Ora era solo, completamente solo, e qualsiasi cosa fosse successa quella notte sarebbe dipesa totalmente dai suoi istinti, dalla sua capacità di scivolare in silenzio da ombra a ombra, dalla sua volontà di sopravvivere. Quella notte avrebbe fronteggiato l'Artiglio del Male, senza più fuggire. I battiti del suo cuore facevano eco a quelli dell'orologio. Venti minuti dopo le otto il telefono suonò. Si irrigidì, fissandolo mentre faceva un secondo squillo. Poi un terzo. Un quarto, un quinto. Che lo sappiano pure. Sì. Che sappiano pure che sono pronto ad affrontarle. Il telefono suonò di nuovo. Evan si alzò, attraversò la stanza, lo strappò via dalla parete. E allora fu il momento di andare. Portò l'accendino giù nel seminterrato, usò ciò che restava della latta di liquido infiammabile per inzuppare le riviste e i vecchi abiti degli scatolo-
ni, poi trascinò questi ultimi sotto le scale. Fece a pezzi la sedia di legno e ve la gettò sopra; nella seconda latta rimaneva abbastanza liquido da inondare anche le scale. Poi fece scattare l'accendino, avvicinò la fiamma al lembo di un abito inzuppato; la stoffa fumò, sfrigolò, prese fuoco. Subito dopo presero rapidamente fuoco le riviste e i giornali; lingue sottili si innalzarono verso le scale, e dopo pochi secondi una striscia di fuoco serpeggiava lungo i gradini di legno. Evan aspettò finché il mucchio di scatoloni non fu completamente incendiato e i gradini iniziarono ad annerirsi; infine uno di questi prese fuoco, e così pure la balaustra. Un fumo grigio, acre, invase il seminterrato. Allora Evan si infilò l'accendino in tasca, prese le due bombe incendiarie che aveva confezionato e scivolò oltre la porta, nel cortile posteriore. Corse verso la siepe, la scavalcò, attento a non rompere le bottiglie. Guardandosi indietro vide il bagliore rosso riflettersi dai vetri della porta, e allora si mise a correre lungo il fossetto, nel buio, pensando di percorrere tutto il perimetro del villaggio fino a raggiungere la clinica. Sopra di lui, il cerchio quasi perfetto della luna lo inondava di una luce ardente, assurda. Continuò a correre, chinato, guardandosi intorno; alla sua destra c'era il retro della fila di case, a sinistra la massa scura e solida della foresta. Un attimo dopo si alzò un grido terribile, acutissimo, e tre amazzoni a cavallo emersero da quel buio, lanciate su di lui, mulinando le asce. E questa volta nei loro occhi brillava uno sguardo mortifero. Lui seppe che avevano l'ordine di ucciderlo. Afferrò l'accendino nella tasca, lo fece scattare, diede fuoco alla miccia imbevuta di una delle bottiglie. Non perse tempo a mirare, la gettò in mezzo a loro. Quando la bomba ricadde ci fu una rapida, accecante palla di fuoco, e i cavalli lanciarono un nitrito di terrore, imbizzarrendosi. Due di loro si scontrarono, rovinando a terra, mentre il terzo iniziò a girare follemente su se stesso, circondato dal fuoco che aveva immediatamente preso sull'erba secca e sugli arbusti. Ma già Evan li aveva superati, correndo. Guardandosi alle spalle, vide la macchia avvolta dalle fiamme e, oltre quella cortina, le sagome dei cavalli imprigionati. Poi non si volse più. Continuò a correre, calcolando che si trovava ancora sul perimetro di Bethany's Sin, ma non sapendo a quanta distanza dalla clinica. Dal nero abisso della foresta gli sembrò di sentir giungere altre grida, in avvicinamento, e strinse con più forza la bomba che gli rimaneva. Le ombre lo circondavano; la notte era come una sala da ballo dove danzavano follemente, avvinghiandosi, il buio e le lame di luna. Inciampò, quasi cadde, riprese a
correre; se quella bottiglia si fosse rotta, sarebbe rimasto senza più armi. E poi, con il petto ansimante e i polmoni che stavano per scoppiare, si fermò improvisamente. Scrutò nel buio. Ascoltò. Che cos'era quel suono, quel suono tremendo, infernale? Zoccoli. Rumore di zoccoli, quattro o cinque cavalli. Che venivano lungo il fossetto, dietro di lui. E prima che potesse balzare al di là della siepe, gli furono addosso: quattro amazzoni dai visi distorti dall'odio, le asce balenanti al chiar di luna. I cavalli dagli occhi rossi mandavano un suono basso, il rumore del terremoto che si dipana nelle viscere della terra. Grida acute e rabbiose uscivano invece dalle gole delle donne. Facendo un passo indietro, gettò l'altra bottiglia, accesa, contro di loro. Essa descrisse un arco di fuoco, e ricadendo esplose in una tempesta di fiamme e di vetro, che le colpì agli occhi, avvolse i capelli. Una di loro gettò un urlo selvaggio, iniziando una folle danza di dolore; un'altra si strappò la veste in fiamme; la terza balzava su un cavallo impazzito, la cui criniera aveva preso fuoco. Evan si gettò al di là della siepe, sentendo la lama di un'ascia che sibilava alle sue spalle, ricadde sull'erba, iniziò a correre attraverso un cortile verso la strada asfaltata. Quando la raggiunse vide che si trattava di Fredonia; aveva completamente aggirato Bethany's Sin, andando oltre la clinica. In distanza sentiva le urla di dolore dei cavalli, mentre il cielo, in direzione di McClain Terrace, si tingeva debolmente di rosso. Sapeva che ormai avevano individuato l'incendio, e probabilmente stavano già lavorando per spegnerlo. Rimase fermo per un momento, tentando di orientarsi: avrebbe dovuto attraversare il villaggio per giungere alla clinica, dove però loro sarebbero state ad aspettarlo. Si guardò intorno: c'era la stazione di benzina, alcune case silenziose, la casa che portava fuori da Bethany's Sin, verso la salvezza, e... ...qualcosa in mezzo alla strada. Si accesero due luci. Evan ne fu preso in mezzo, come una farfalla irretita da due fuochi. Batté le palpebre, tentò di vedere oltre. Si rese conto che erano fari. Un'automobile stava in mezzo alla strada, bloccandola. — Signor Reid — disse una voce. Una voce d'uomo. — Signor Reid, penso che farebbe meglio a non muoversi. Ora venga in questa direzione. E attento a quello che fa. — Una figura uscì dall'auto, venne avanti sullo sfondo della luce dei fari. Lo sceriffo Wysinger, che impugnava una pistola. — Avanti, ora — disse, come invitando un bambino a uscire dal nascondiglio. — È inutile scappare. Dovrebbe saperlo, ormai, signor Reid.
Evan non si mosse. — Sto andando a cercare mia moglie e mia figlia disse, sentendo la bocca asciutta. — Oh no, non più. Non è questo che loro vogliono. Sua moglie è una di loro adesso, signor Reid, o comunque presto lo sarà. Lei non può lottare contro di loro. Nessuno lo può. — Io posso lottare! — gridò Evan, tremando di rabbia; la sua voce echeggiò lungo la strada. — Per l'amor di Dio mi aiuti! — Dio non funziona in questo posto — ribatté tranquillo Wysinger. O almeno, non il Dio che io e lei preghiamo. — Ebbe un sorriso da serpente. — Che pregavamo. No. Perfino Dio si tiene alla larga da Bethany's Sin. — Io e lei, insieme, possiamo lottare! — gridò disperatamente Evan. Wysinger scosse la testa, alzò la pistola e la puntò contro Evan. — Io sono troppo vecchio, e sono troppo debole. Lei è solo un pazzo. E poi, la mia piccola nicchia all'inferno è già pronta che mi aspetta, e io non ho fretta di arrivarci. — Ma che cosa le succede? — urlò Evan rabbioso. — Lei è lo sceriffo, qui, e sta seduto dentro un nido di assassine! — Sono vivo perché a loro servo — rispose Wysinger, con gli occhi che scintillavano sopra la canna della pistola. — Se non servissi, sarei ormai lontano da qui, le mie ossa a disfarsi con quelle degli altri. È una questione di sopravvivenza, signor Reid; o ce la fai o non ce la fai. E adesso salga qui sopra, e faccia in fretta. — Fece un cenno con la pistola. Evan con la mente che girava all'impazzata, camminò lentamente verso l'uomo. Improvvisamente Wysinger inclinò la testa da una parte; un soffio di brezza aveva portato odore di fumo, ed Evan si accorse che anche l'altro l'aveva sentito. Gli occhi dello sceriffo si dilatarono; vide il debole chiarore rosso in lontananza, sopra McClain, e un chiarore più vivido là dove la foresta aveva preso fuoco. — Lei... ha appiccato il fuoco! — sussurrò incredulo. Poi il suo viso si arrossò di rabbia. — Lei, figlio di puttana! Idiota di un figlio di puttana! — Allungò un braccio, afferrò ciò che restava della camicia di Evan e lo tirò in avanti, appoggiandogli la pistola sotto la gola. — Dovrei farle saltare il suo dannato cervello, qui e ora! Quella foresta brucerà come una manciata di paglia secca! — Scosse Evan con furia cieca. — Lo sa che cosa ha fatto? Lo sa...? — Sì — rispose Evan. — Lo so. — Gli piantò gli occhi negli occhi. — Non avete i mezzi per frenare un incendio di queste dimensioni. Neely Ames me l'ha detto. Quando vedranno il fuoco da Spangler o Barnesboro,
manderanno i loro mezzi ad aiutare. E allora ci troveranno, lei, me e... quelle donne. — Che sia dannato! — esclamò Wysinger, digrignando i denti. I suoi occhi scivolarono sulla foresta. Le scintille salivano al cielo, e ricadendo avrebbero appiccato nuovi fuochi. Spinse Evan verso l'auto. — Salga qui sopra! — ruggì, con la paura che gli spezzava la voce. — In fretta! Evan scivolò sul sedile. Wysinger, il viso teso e imperlato di sudore, si mise dietro il volante, tenendo sempre la pistola puntata contro Evan; poi mise in moto. — La uccido se prova a muoversi — disse ferocemente. — Giuro che la uccido. — Dove mi sta portando? — Da loro. In quel... tempio. — Ingranò la marcia con la mano libera. — Loro sapranno cosa fare per quel dannato fuoco. — Digrignò i denti. — E sapranno cosa fare di lei! — Schiacciò l'acceleratore e l'auto balzò in avanti. Evan scattò, afferrò il polso da orso di quell'uomo, lo alzò; la pistola fece fuoco, due volte; un vetro si infranse; Wysinger perse la presa sul volante, allungandosi per afferrarlo alla gola, ed Evan, senza mollare la mano con la pistola, gettò il suo peso pieno contro il volante. I pneumatici stridettero nella notte, l'auto sfondò il guard rail e si lanciò attraverso la piazzola della stazione di benzina. Troppo tardi Wysinger capì le intenzioni di Evan; imprecò, tentò di riprendere il controllo della vettura, ma in una frazione di secondo Evan gli aveva schiacciato il piede con il proprio, e l'acceleratore era a tavoletta. L'auto della polizia finì contro la pompa di benzina, con un rumore stridente di metallo, poi contro la costruzione, infrangendo la lastra di vetro, e poi avanti, sfondando tutto, fin dentro l'ufficio dove Evan era rimasto seduto, una volta, a chiacchierare con Jess il proprietario. Evan fu gettato in avanti e poi indietro, poi ancora avanti, batté la fronte contro il parabrezza, la spalla contro la portiera; in una frazione di secondo vide il volto sudato di Wysinger, la bocca aperta in un grido. La macchina atterrò sopra un mare di vetro infranto, colpì un bancone di legno spaccandolo in due, facendo volar via il registratore di cassa che si infranse contro la parete, infine si fermò. Il motore ruggiva, ruggiva, ruggiva... Attraverso un velo rosso di dolore Evan vide le prime lingue di fuoco alzarsi intorno al legno. Cercò di muoversi, senza riuscirci. Un bel fuoco, pensò. Un bel fuoco che cancelli tutto quanto. La spalla gli pulsava, pensò che certamente si fosse rotta, ma, provandoci, riuscì a muovere tutte le dita
tranne il pollice. Un bel fuoco, pensò, osservandolo mentre cresceva. Brucia, cancella, brucia. Un momento dopo riuscì a voltare la testa. Un'ammaccatura livida, che si stava gonfiando, copriva un lato del viso di Wysinger; il volante si era spezzato e metà giaceva sul grembo dell'uomo; egli si lamentò piano ma non si mosse. Il fuoco aveva fatto crescere bolle di vernice sul cofano dell'auto. Evan le guardò scoppiare. E poi si mosse, lentamente, dolorosamente, tentando di uscire dall'auto. Spìnse la portiera e questa si aprì, poi cadde a terra sulla spalla ferita, poi iniziò a strisciare, attraverso pezzi di vetro e olio e latte rovesciate. Strisciò fuòri dalla finestra rotta, con il sangue che gli usciva dal naso spezzato, strisciò attraverso l'asfalto della piazzola; strisciò, lasciandosi dietro un filo di sangue, fino alla strada e là giacque, incapace di strisciare più a lungo. Ci fu un rumore lento e sibilante e poi un'esplosione, vetro e metallo. Un grido spezzato che si trascinò a lungo. Evan riuscì a voltare il capo. Il serbatoio dell'auto era esploso e le fiamme ora avvolgevano tutta la macchina. Sotto lo sguardo di Evan un serpente di fuoco girò intorno all'ufficio e poi si allungò verso ciò che restava delle pompe di benzina, scomparendo sottoterra in mezzo ai detriti. L'esplosione che seguì fu tale da spaccargli i timpani. Metallo e vetro e pezzi di asfalto volarono in alto, e una pioggia di benzina infiammata ricadde sulle macerie. La costruzione con l'ufficio e l'auto della polizia che stava dentro scomparvero in una palla di fuoco bianco, ed Evan vide ciò che sembrava un corpo umano in fiamme esplodere in minuscoli frammenti. Si appallottolò a terra, mentre i detriti ricadevano, attorno a lui. La benzina in fiamme finì sui prati e sui tetti delle case circostanti, riempiendo l'aria di una puzza penetrante, che avvolse alberi e ogni cosa. Lentamente Evan ricordò dove si trovava; si accorse che la camicia era bruciata e che bruciacchiati erano i capelli e le sopracciglia. Si passò una mano sul viso, e la mano rimase sporca di sangue. Rimase disteso sull'asfalto caldo, sentendo il ruggito dell'Ade che lambiva le spiagge di Themiscrya. Il Rito del Ferro e del Fuoco. Oliviadre. Il tempio, aveva detto Wysinger; ecco dove si trovavano. Il tempio. Tutte raccolte là per il rito. Stiamo facendo una festa. E tutti sono invitati. Anche lei, signor Reid. Ma certo, lei in particolare. Venga avanti. Stiamo aspettandola. Avanti. Non vorrà arrivare in ritardo proprio adesso, vero? — No — mormorò Evan fra le labbra spaccate. — No. — Si tirò su,
barcollò sulle gambe malferme, fece per cadere. Stiamo aspettandola. Tutte noi, e anche sua moglie. Sua moglie, Oliviadre, la donna dagli occhi fiammeggianti e dal sorriso maligno. In piedi in mezzo al fumo e a piccoli incendi che si propagavano, Evan scorse il museo fra le lontane cime degli alberi. Mandava un riflesso, anch'esso, ma era un riflesso di luce, l'unico edificio di Bethany's Sin che pareva vivo, quella notte. Che pareva vivo e che lo aspettava; per un attimo pensò che quelle finestre accese sembravano davvero occhi freddi, vuoti, gli occhi di una statua, oppure di un mostro in forma di ragno acquattato al centro di Bethany's Sin, in attesa della prossima offerta sacrificale. Evan fece appello alle sue ultime riserve di energia. Sono a posto, si disse. Ce la posso fare. Posso. Ce la posso fare, perché in caso contrario sarebbero loro a vincere. Posso. Sarebbero loro a vincere, e allora l'Artiglio del Male si chiuderebbe su mia moglie e mia figlia. Sono a posto. Posso. Posso. Qualcosa dentro di lui sibilò in una lunga risata isterica. Acuta e distorta. Ti stiamo aspettando. Vieni. Vieni alla festaaaaaa! Gli occhi di quella casa lo fissarono, lo chiamarono. Ed Evan barcollò, avanzando, attraverso strade di fuoco. 30 FERRO E FUOCO Quando Evan giunse al museo i suoi muscoli erano ridotti a nodi dolenti di pura adrenalina. Guardandosi sopra la spalla vedeva gli alberi in fiamme vicino al Cerchio, le foglie carbonizzate svolazzare dai rami anneriti, gli sfregi rossastri stagliarsi contro il cielo. Si udivano vetri schioccare in lontananza, a un tratto una palla di fuoco si alzò verso il cielo, seguita da un volo di pipistrelli in fiamme. Tegole di tetto, si rese conto lui dopo un istante; uno degli edifici presso il Cerchio era esploso. Pensò a quei meravigliosi fiori arrangiati con cura al centro del Cerchio, ora ridotti in cenere, circondati da lingue di fuoco che divoravano l'erba secca, che serpeggiavano verso le case e le verande, i soggiorni e le cucine. Evan girò la testa, guardò verso destra. Un orribile squarcio rosso nel buio: la foresta stava bruciando, e fra non molto, sicuramente, i vigili del fuoco da Spangler e Barnesboro sarebbero giunti. Guardò verso McClain Terrace, vide i profili degli alberi infiammati. E, trasportate dal vento, come ondate di fumo, le grida; c'era chi stava cercando di lottare contro il
fuoco, e stava certamente perdendo. Una Buick verde scuro, i pneumatici stridenti, girò verso Cowlington e lo superò ruggendo, rischiando di investirlo; poi udì l'urlo dei freni quando l'autista si fermò di fronte alla parete di fuoco che c'era dall'altro lato del villaggio. Passò un'altra auto, girò in Cowlington e sparì nella notte. E poi un'altra ancora. Evan si asciugò il viso, ansimando a bocca spalancata, poiché non poteva più farlo attraverso il naso rotto, e si avvicinò ai cancelli del museo. Sei automobili erano parcheggiate di fianco all'edificio, ed Evan riconobbe la Buick nero brillante della signora Giles. Mentre superava il cancello e imboccava il viale, fu circondato da una nube di fumo, in cui svolazzavano cenere e scintille. Da lontano sentì uno stridio di freni e il rumore di metallo infranto. Bene. Bene. Dovevano morire tutte. E allora si rese conto che la sua visione di rovine affumicate non rappresentava il destino di un luogo sconosciuto, ma di Bethany's Sin. Persino il primo giorno, quando aveva visto il tetto del museo fra gli alberi, aveva sentito il calore dell'incendio che avrebbe distrutto quel covo del male. Ora tutto si stava avverando: il fuoco avanzava dai due lati di Bethany's Sin, lentamente accingendosi a riunirsi al centro, come i due pezzi di uno stesso esercito. La pedina del destino, pensò improvvisamente, afferrando il cancello e guardando su verso l'edificio incombente. Sono stato la pedina del destino. Una figura si stagliò contro la finestra del primo piano, guardò fuori per qualche secondo e poi scomparve. Forse, pensò lui, quel rito infernale era già incominciato prima dello scoppiare dell'incendio e ora non doveva essere interrotto; o forse stanno davvero aspettando me. Un'altra macchina passò ruggendo e scomparve dentro la cortina di fumo. Evan raggiunse il portone, con il cuore che gli martellava. Era chiuso dall'interno e, nonostante facesse forza con la spalla sana, non si smuoveva. Udì un rumore improvviso e, voltandosi, vide che uno degli alberi dall'altra parte della strada era avvolto dalle fiamme; scintille cadevano sul tetto del museo, scivolando giù sul prato. Di fianco i cespugli ardevano già, e l'erba era coperta di cenere. Fece un passo indietro e guardò in alto: non c'erano appigli possibili sul muro dell'edificio, nulla che potesse aiutarlo a salire al primo piano, dove ora Kay giaceva alla loro mercé. Arrampicarsi su per una grondaia? pensò freneticamente, sentendo alle spalle crescere il calore. No, non l'avrebbe potuto reggere. La cenere svolazzante gli entrava negli occhi, si impigliava fra i capelli. Devo salire lassù! gridò la voce dentro di lui. Devo trovare il modo di salire! Corse lungo la parete,
frugandola con gli occhi; gli stivali calpestavano erba già annerita. E si fermò di fronte all'enorme quercia che si levava dietro al museo; i suoi rami, che stavano prendendo fuoco, toccavano il tetto. Il fuoco ruggiva ormai alle sue spalle; gli alberi lungo Cowlington ardevano di fiamme bianche e arancioni. Un ramo si spezzò e cadde sul tetto di una casa vicino, e poi un altro. Le case erano circondate da quelle feroci ragnatele, e figure umane passavano correndo. Stiamo aspettandoti. Vieni alla festa. Stiamo aspettando proprio te, abbiamo la tua bella moglie qui con noi... Evan girò le spalle all'incendio, corse verso la quercia e si issò attaccandosi ai rami più bassi. Salì, con i muscoli che urlavano; salì ancora, verso il tetto. Scintille roventi lo bruciarono, attorno a lui le foglie fumavano, qua e là incendiandosi. E mentre saliva, senza più sentire il dolore né il tocco del fuoco, si strappò ciò che restava della camicia e la lasciò cadere. Saltò verso il tetto e atterrò proprio quando la quercia, assediata dalle scintille roventi, cedeva. Ed Evan si ritrovò a guardare attraverso una lastra di vetro, al centro del tetto, dentro la sezione del museo che quel giorno gli era stata negata, chiusa dietro la porta nera. Era una sala ampia, dal pavimento di legno. Nel mezzo c'era una lastra di pietra nera, e su di essa giaceva Kay, nuda, con la pelle che riluceva pallida contro la pietra. Sembrava addormentata o drogata, era distesa immobile. Di fianco all'altare di pietra c'era un braciere ardente, e dentro strumenti di ferro che si arroventavano. Ai lati della sala c'erano statue intatte, figure immobili in posizione di combattimento: le mani stringevano asce, oppure spade acuminate, le braccia tendevano archi; un'altra statua, che dava le spalle a Evan, stava eretta su un piedistallo davanti ai piedi di Kay. E le amazzoni, in lunghe vesti nere, stringevano in cerchio la donna nuda; cantavano una nenia in quella loro lingua incomprensibile, e mentre Evan guardava si chinarono di fronte alla statua e tesero le braccia verso di lei. E solo allora lui si accorse che le loro mani grondavano sangue. Sangue macchiava le loro labbra, come un rossetto osceno; Evan, con il cuore martellante, piegò il collo per vedere. Presso il capo di Kay c'era un recipiente colmo di sangue e sei tazze di rame. Sopra il recipiente, su un supporto di ferro, c'era la testa mozzata di un cavallo nero, che ancora stillava sangue. La nenia continuava, come un ronzio. Evan scorse i loro occhi fiammeggianti, crudeli. Cenere e scintille svolazzavano attorno a lui, posandosi sul
tetto del museo. Un pezzo di legno gli cadde sulla spalla. Le amazzoni sembravano non temere l'incendio, né sembravano curarsi del fatto che presto le squadre di vigili del fuoco sarebbero arrivate; in quell'istante Evan provò come un senso di rispetto per il loro coraggio, per quanto malvagio e distorto: quelle donne non temevano nulla, nemmeno la morte ammantata di fuoco. La cosa-Drago, con la veste nera che scivolava sul pavimento, entrò nel suo campo visivo. Attorno a lei le cose che avevano distrutto le anime della signora Giles, della signora Bartlett, della dottoressa Marbry e di altre che aveva già visto ma non conosceva chinarono il capo, in segno di deferenza per la loro regina. La Drago si fermò di fronte alla statua, che torreggiava sopra tutto, pronunciò alcune frasi in quella lingua cantilenante e poi fece un passo verso il braciere ardente; la mano destra, protetta da un guanto di metallo, si allungò a trame uno degli strumenti. Una pinza fatta a forbice, arroventata e pulsante di un terribile bagliore. Poi ella si volse verso Kay. Le altre amazzoni si alzarono, con gli occhi scintillanti. La dottoressa Marbry si portò a fianco della Drago, per assisterla. La pinza a coppa si aperse, calò verso la mammella destra di Kay. Kay, con gli occhi sempre chiusi, aprì la bocca e la contorse in un grido muto, mentre la pinza arroventata si avvicinava. Il seno, capì finalmente Evan. Stavano per mutilarle il seno! E allora colpì con lo stivale, frantumando il vetro del lucernario. Schegge di vetro caddero giù a pioggia; le amazzoni guardarono verso l'alto, i visi contorti. Evan calciò di nuovo e poi saltò attraverso l'apertura. Atterrò di fianco all'altare, balzando subito in piedi. Il cerchio di donne si chiuse su di lui, sibilando odio, le mani protese per afferrarlo. Evan si gettò con tutto il peso contro il braciere, rovesciando i carboni ardenti sul pavimento, facendole arretrare per un istante. I carboni iniziarono a fumare; Evan girò la testa, guardò la statua alta sul piedistallo. Era una donna, le braccia protese in avanti, priva di una mano. Attorno al collo e alle spalle aveva collane di seni pietrificati, dai capezzoli eretti; nel viso solenne, gli occhi vuoti bruciavano di un azzurro feroce, infernale, che sembrava dilatarsi e balzar fuori... Ed Evan capì che stava fissando il viso terribile di Artemide, dea delle Amazzoni, adorna del simbolico dono sacrificale delle donne che avevano consacrato la loro vita e tutto il loro essere alla distruzione degli uomini. Quegli occhi gli fiammeggiarono fin dentro al cranio, costringendolo
quasi ad arretrare e a cadere in ginocchio. No! gridò la voce dentro di lui. E allora si gettò contro la statua, rovesciando il piedistallo; la statua ondeggiò, ondeggiò, cadde al suolo. La testa e il braccio sinistro si spezzarono, ma gli occhi, su quel capo mozzo, continuarono a fiammeggiare. Un sibilo dietro di lui; l'aria che si divideva. Si piegò, mentre le pinze roventi si abbattevano a pochi centimetri dal suo viso. La cosa-Drago, il volto una maschera di odio freddo e assoluto, si gettò si di lui, spingendolo fra le braccia di due amazzoni che gli stavano dietro; queste lo afferrarono con braccia d'acciaio, da dietro, immobilizzandolo. Drago alzò le pinze sfrigolanti davanti al suo viso. — Ora il tuo tempo è venuto — sussurrò, sussurrarono due voci, intrecciandosi, echeggiando. Sull'altare Kay si mosse leggermente. — Tenetelo mentre finisco — ordinò alle donne; le braccia si strinsero, fin quasi a impedirgli di respirare. Ed ella si volse ancora verso sua moglie. — Non toccarla, Iddio ti maledica! — gridò Evan. Lottò, scoprì che non riusciva a muoversi. — Allontanati da lei! — Lacrime di rabbia e di terrore gli salirono agli occhi. Le pinze, salde nel guanto di metallo, si erano abbassate sul corpo bianco di Kay. — Fermati! Fermati! — gridò, lacerandosi la gola. — Se vuoi un sacrificio, allora prendi me! La Drago batté le palpebre, le pinze sospese sopra il seno di Kay. Lentamente voltò il capo verso di lui; il suo sorriso malvagio gli gelò il midollo dentro le ossa. — Non toccarla! — gridò ancora Evan, senza abbassare gli occhi di fronte a quello sguardo. — Prendi me come sacrificio, se non hai paura... La Drago non si mosse. In lontananza si udì il lamento di una sirena. Poi di un'altra. Il fumo era entrato nella stanza, e si sentivano le fiamme divorare il tetto del museo. Le sirene divennero più forti. — Tu e io — incalzò Evan. — Da soli. Vieni avanti, cagna senza coraggio! Le labbra della Drago si separarono in un ghigno, ma ancora ella non si mosse. — Non ti resta molto tempo — disse lui. — Stanno arrivando. Themiscrya sta bruciando, cagna, e sono stato io ad accendere la fiamma. — Una mano gli afferrò la gola. — Vieni avanti, dannata! Avanti! — Il fumo tur-
binò fra di loro; da qualche parte, nella casa, si udì del vetro infrangersi. — Prendete Oliviadre e andate — sussurrò la Drago alle altre, tenendo gli occhi fissi sul viso di Evan. — Andate via tutte, in fretta. Assicuratevi che le bambine siano in salvo, fuori dal villaggio. — Le altre donne esitarono. — Andate via subito! — esclamò la Drago, con al voce vibrante di un'intima forza. Le amazzoni lasciarono Evan, si ritrassero. La cosa-Giles e un'altra donna bionda iniziarono a scuotere Kay; questa si mosse, mormorò qualcosa, si trasse a sedere. La cosa-Giles l'aiutò a mettersi in piedi, e in quel momento Evan vide il viso di sua moglie. Un occhio bruciava di quella forza terribile, spettrale, e un lato del viso si torse di odio quando ella posò gli occhi su di lui; l'altro occhio era chiaro e terrorizzato. E allora si rese conto che senza il rito la trasformazione non era completa; senza la benedizione della dea Artemide elle era ancora, in parte, Kay. Ma in parte anche Oliviadre, imprigionata fra due mondi. — Portatela via! — ordinò la Drago. — Kay — esclamò Evan. Lei lo guardò, un occhio azzurro fiammeggiante. La bocca si mosse, ma non ne uscì alcun suono. — Non lasciare che ti prendano, Kay — fece lui. — Ti prego, in nome di tutto ciò che è sacro, non lasciare che ti prendano. Io ti amo. Ricordati che io ti amo... La Drago avanzò verso di lui, brandendo le pinze. — Portatela subito via da qui — disse alle amazzoni. — In fretta! — L'ultima parola fu abbaiata nella lingua rauca delle amazzoni. Il viso di Kay si contorse, la collera che lottava contro l'amore. Una lacrima scese dall'occhio chiaro, scivolò sulla guancia. — Ev...an...? — mormorò con voce roca. — Evan? Ev...? — E poi le donne la costrinsero a girarsi, e una la ricoprì con un manto nero; la spinsero verso la porta del museo, e sulla soglia la dottoressa Marbry si volse un istante a guardare l'uomo. Poi la porta nera si chiuse. Imprigionando Evan con la guerriera dagli occhi assetati di sangue. Egli fece un passo indietro, lei stringendo le pinze lo incalzò, come una leonessa incalza la preda, un passo alla volta, lentamente... — Nessun uomo potrà fermarci — sibilò. — Nessun uomo. E poi colpì, in un lampo che gli occhi di lui non riuscirono a cogliere; le pinze calarono sul suo petto, vi disegnarono una linea di sangue. Evan get-
tò indietro la testa, emettendo un grido di dolore; la Drago incalzò, alzando l'arma per un secondo colpo. Ma Evan, il cervello in fiamme, parò il colpo. Si scontrarono con una furia che fece tremare il pavimento, Evan afferrando il polso che stringeva il metallo, la Drago artigliandogli il viso con la mano libera, mirando agli occhi, incontrandone uno. Gli lacerò la pelle, lo tagliò in due, ed Evan urlò impazzito di dolore, la spinse verso l'altare, una mano attorno al polso, l'altra avvinghiata alla gola. Ma lei lo fece girare come un pupazzo, ridendogli in faccia, lo sollevò e lo gettò contro la parete. Evan si sforzò di tirare il fiato. Con l'occhio sano vide il fuoco scivolar giù dal tetto, vide parte del pavimento già in fiamme. Ciò che restava del lucernario esplose in schegge ardenti, e l'ovale della luna apparve all'apertura. Poi la Drago gli fu di nuovo addosso, dirigendo quelle pinze verso la testa di lui; lui si ritrasse, le pinze gli segnarono di rosso la guancia. La colpì con un pugno, prendendola in pieno volto; lei non barcollò nemmeno. Allora lui colpì di nuovo e di nuovo. Finalmente la testa di lei si piegò di lato, ed Evan con tutta la sua forza la colpì sotto al mento. Sentì i denti sbattere, vide il sangue uscire dall'angolo della bocca; lei sputò fuori carne, Evan si accorse che si era troncata la lingua in due. Ma ancora gli occhi le fiammeggiavano, ancor più ferocemente, ed ella sorrise con il sorriso folle dei guerrieri, di chi ha visto la morte in faccia e adesso osa sfidarla. Evan le mise entrambe le mani attorno alla gola e strinse; caddero a terra, rotolarono attraverso fuoco e vetro, la mano libera della donna che gli colpiva il capo, l'altra mano, dalle nocche bianche, che stringeva le pinze. Sopra di loro il soffitto si spaccò e schegge infuocate, come confetti, caddero intorno. La Drago si contorse, riuscì a sbatterlo contro una delle statue laterali. Una spada di pietra gli graffiò il fianco. Le pinze tornarono su di lui, fischiarono di nuovo a lato della sua testa, finché lui, questa volta, afferrò direttamente il ferro arroventato e lo gettò di lato. Lei gridò di rabbia e lo colpì con il guanto di metallo, gettandolo in ginocchio, dove lui giacque, con il dolore che gli correva lungo le ossa, la testa pulsante. Il fuoco divorava il pavimento tutt'attorno, e al suo riverbero lui vide l'ombra della donna su una parete: una cosa enorme, distorta, che stillava il veleno di una malvagità da incubo. L'amazzone torreggiò su di lui, lottando per recuperare il respiro, col sangue che le inondava un volto altrettanto feroce e inumano quanto quello delle statue circostanti. Si pulì con la mano il sangue denso che le circon-
dava la bocca, fissando con disprezzo l'uomo sotto di sé, e poi gli sputò addosso. Quando si voltò, afferrò le pinze cadute, per staccare dal busto la testa del suo nemico. Fece per volgersi di nuovo verso di lui. Ma Evan si era alzato dal pavimento e gettato, come un proiettile umano, contro la donna. La Drago fece un verso come se l'aria fosse stata strappata, a viva forza, dai suoi polmoni, e poi lanciò un grido quando lui l'afferrò alla gola e la spinse indietro, ancora indietro, fino a farle perdere l'equilibrio... Verso la statua nell'angolo più distante. La statua dalla spada acuminata tesa in avanti. Gli occhi della Drago lanciarono fiamme azzurre; Evan continuò a spingerla, con ogni residuo d'energia che gli restava in corpo. E allora il grido di collera di lei si mescolò con un grido di puro dolore. La spada di pietra le trapassò la schiena e il ventre; la punta scintillante emerse dal corpo di lei, rossa sulla veste nera, e la cosa-donna si contorse, infilzata, cercando ancora di colpirlo. Riuscì ad afferrarlo per una spalla e allora lo tirò in avanti, e prima di poter reagire lui sentì un dolore bianco trafiggergli a sua volta lo stomaco. E si rese conto, con una sensazione di chiarezza incredibile, che lo aveva tirato contro quella parte della spada che emergeva dal corpo di lei. La Drago lo tenne stretto, senza permettergli di muoversi. La fiamma dentro ai suoi occhi ondeggiò. — Morire — sussurrò, per quanto glielo permetteva la lingua tranciata. Schizzi rossi erano rappresi alle sue labbra. — Morire. Morire, morire, morire... Evan si afflosciò, provando una sensazione più bruciante del sole di agosto. Ma anche mentre stava perdendo le forze continuava a spingerla indietro, più a fondo su quella spada senza pietà. La bocca di lei si aprì, si aprì e rimase aperta, anche quando il terribile riverbero azzurro dei suoi occhi si spense. E lui si accorse di fissare gli occhi scuri di un cadavere, e allora un velo rosso di dolore e di fuoco passò fra lui e la donna, oscurandogli la vista. Sostituendo quell'immagine con la visione dolce e silente di un campo dorato, su cui si alzava un albero morto, le braccia nude protese verso il cielo. Un corpo giace in quel campo, accanto a un ramo che si era rotto ed era caduto al suolo. Un corpo giovane, il corpo di un ragazzo, immobile. Ed Evan in piedi su di lui, un Evan cresciuto, ma lo stesso Evan di sempre. Correrò a chiamare aiuto, pensa. Correrò a chiamare papà, e allora lui dirà che Eric sta bene, che sta bene, che non è morto davvero. Ma l'Evan cre-
sciuto sa che non si può correre via dalla morte, che non si riesce, e che si deve lottare contro l'Artiglio del Male dovunque esso si trovi, anche sul proprio mefitico terreno. Evan fa un passo avanti, mette una mano sulla spalla del ragazzo. Ed Eric apre gli occhi, ridendo. — Ci hai creduto, vero? — esclama scanzonato. — Accidenti, ho preso una bella botta! Roba da rompermi tutte le ossa! — Stai... bene? — chiede Evan cresciuto, con un filo di voce. — Io? Certo! — Eric salta in piedi, il ragazzo Eric che non è mai cambiato, e si frega via la terra dalle ginocchia. — Però mi sono davvero spaventato! — È stato... pericoloso — dice Evan, strizzando gli occhi per la troppa luce. — Non devi farlo più. — Oh, non lo farò più. Una volta basta, te lo garantisco! Ehi! — Eric improvisamente guarda oltre suo fratello, verso un punto lontano. — Senti? — No. Che cosa? Eric sorride. — Ma dai! Mamma e papà! Ci stanno chiamando a casa! È ora, lo sai. — Sì — dice Evan. — Credo di sì. — Allora andiamo. Ma Evan rimane ancora immobile, come se stesse cercando di ricordare qualcosa che la sua mente non riesce ad afferrare. — Sbrigati, lumaca! — grida Eric, ridendo. — Arriveranno fra poco, li vedrai! Avanti! Vediamo chi arriva prima! Ed Evan cresciuto si volta verso suo fratello ancora ragazzo, e gli sorride e dice: — Lo sai che tanto vinco sempre io — e corrono insieme verso il fondo di un campo dorato che sembra allungarsi all'infinito. Da Cowlington Street invasa dalle fiamme Kay vide il tetto del museo cadere, alzando una nube di scintille e di fiamme. Ci fu un rumore intenso, che scosse la terra, come se il museo stesse per venir inghiottito dentro una voragine apertasi nel suolo. Sbatté gli occhi, mentre il calore le scottava il viso; due donne le stavano ai lati, tirandola; le loro mani erano fredde come il ghiaccio. Come le mani di cadaveri. Mio ma...rito, pensò lei. No, no, non più tuo marito! un'altra, terribile voce dentro di lei gridò. Sì, mio marito. Evan. No, no, non tuo marito! Evan è... là dentro. È dentro quel posto! Lascialo morire lascialo morire lascialo... Mio marito! Dio mio, dov'è mio
marito? Tentò di liberarsi da quelle donne, ma non riuscì a muovere le braccia, e loro la stavano tirando, portandola via, e tutto intorno era fuoco e fumo, e un rumore alto, assordante. Dov'è Evan, devo trovare Evan! Il calore le gonfiava il viso, e dentro di lei quella voce terribile adesso sembrava più lontana, e piena di paura: vai con le altre in fretta vai con le altre! Scosse la testa, da una parte e dall'altra, mentre lacrime calde le scendevano da entrambi gli occhi. Tentò di liberarsi, fu strattonata. — Evan! — gridò, cercando di lottare. — Devo trovarlo! — Le finestre del museo esplosero, in una orrenda cacofonia che le fece scoppiare la testa di dolore. La voce dentro di lei, morente: vai via! In fretta! Vai via! — Dov'è mio marito? — gridò Kay, lottando contro qualcosa che stava su di lei come la fredda, appiccicosa morsa di una mano invisibile. Una voce, che stava svanendo nel nulla, gridava dentro la sua anima. — Voglio trovare mio marito! — La voce scomparve. E dalla parete di fumo e di fuoco che incombeva sulla strada emerse un mostro dagli occhi bianchi fiammeggianti, dalla voce acuta e ultraterrena. Una luce bianca immobilizzò Kay dove ella si trovava, e improvvisamente le due donne - chi erano? - scomparvero, sparirono attraverso il fumo, svanirono. Ci fu un lungo stridio di freni e i pompieri balzarono giù dal camion, verso la donna inebetita che barcollava, avvolta in un mantello nero. — Sta bene? — Uno di loro, un uomo robusto dai favoriti scuri, gridò sopra al frastuono. — Come si chiama? — Kay — disse lei, sforzandosi di pensare. — Sono Kay Reid. — Gesù Cristo Santo! — gridò un altro pompiere al suo fianco. — Questo dannato villaggio sta bruciando tutto intero! Dov'è iniziato questo dannato fuoco? Kay scosse la testa, tentò di fissare lo sguardo sull'uomo. — È fuori di sé, Jimmy — fece il pompiere con i favoriti scuri. — Avanti, signora, andiamo sul camion. — Gesù Cristo santo! — esclamò di nuovo Jimmy; il suo faccione dal doppio mento era rigato di fuliggine. — Ma dov'è tutta la gente? Dov'è tutta la dannata gente? La condussero velocemente al camion. Dietro di loro un albero infuocato cadde a terra. — Mio marito — disse Kay, lottando per respirare attraverso il fumo. — Devo trovarlo. — Si voltò, fissò la casa che iniziava a rovinare su se stessa. — Mio marito era là dentro!
— Va bene, va bene — tentò di calmarla Favoriti Neri. — Troveremo suo marito. Adesso però dobbiamo portarla via da qui. Avanti, si appoggi e sarà... — Laurie! — urlò Kay, afferrando l'uomo per le spalle, mentre il panico le si gonfiava dentro. — Dov'è la mia bambina? — Calma, calma — disse Jimmy. — Forse in questo momento la sta aspettando. — Il tetto esplose in migliaia di scintille. Lui si piegò leggermente, spingendola verso il camion. — L'unità di emergenza ha trovato un gruppo di bambine dentro una casa, a un paio di isolati da qui. Era un asilo. — Oh Dio — singhiozzò Kay, sentendo le gambe che stavano cedendo. Il pompiere la sostenne, spingendola avanti. — Oh mio Dio, oh mio Dio, oh mio Dio... — Tra un attimo sarà al sicuro — fece Jimmy. — Ecco qui, salga. Gesù Cristo, ma com'è iniziato questo dannato fuoco? — batté le palpebre, guardò verso gli altri pompieri, poi abbassò la voce. — Cristo, Steve! Questa signora non ha niente addosso, sotto il mantello! — si tolse la giacca, gliela avvolse attorno mentre sedeva accanto a lei sul camion; lei si strinse addosso nella stoffa ruvida, senza nemmeno accorgersi che puzzava di sudore e di fumo acre. E poi iniziò a piangere. Senza riuscire più a fermarsi. — Su, su — fece Jimmy. — Su, da brava. PARTE QUINTA IN SEGUITO 31 ROVINE E INIZI Due figure in piedi su una distesa di rovine fumanti. Una donna e una bambina, per mano. La brezza di settembre, fresca di autunno, sussurrava attraverso le crepe dei muri ancora in piedi, sospirando attorno ai camini che si alzavano spettrali e ai mozziconi inceneriti di qualche albero. Il poco che restava di Bethany's Sin era stato isolato dalla polizia e dal comando dei vigili del fuoco, mentre questi cercavano indizi, in quel mare di cenere, che spiegassero l'improvviso e terribile olocausto. Kay era stata interrogata diverse volte, prima dalla polizia e poi dai giornalisti. A tutti ella ripeté la stessa cosa: non so. Nel corso dell'ultima settimana, i cronisti
avevano iniziato a chiamare il piccolo appartamento che Kay aveva affittato a Johnstown - Dio solo sapeva come avessero fatto a trovare il numero perseguitandola di giorno e di notte, trattandola come una specie di macabra celebrità. E ultimamente si erano visti attorno alla scuola privata che Laurie frequentava, sperando di poterla incontrare; ma la signora Abercrombie, che Dio la benedica, era una signora in gamba, e riusciva a distinguere un cronista a un miglio di distanza. Già diverse volte aveva chiamato Kay al George Ross e le aveva detto che Laurie l'avrebbe aspettata all'ingresso posteriore quel giorno, perché lei-sa-chi è ancora là fuori. L'ultimo interrogatorio di Kay era stato con un certo tenente Knowles, un uomo sulla cinquantina dai capelli grigi ricci e dagli occhi azzurri come smalto. Le aveva offerto del caffè, una sigaretta. — No grazie, no, la ringrazio. Vorrei solo finire in fretta, la prego. — Bene — aveva detto l'uomo; aveva sorriso come per chiedere scusa e si era accomodato su una sedia girevole di plastica nera. — So come dev'essere doloroso tutto questo per lei... — E allora perché continuate a farmi venire qui? Certo che è doloroso! — Mi dispiace — disse Knowles. — Mi dispiace davvero. — I suoi occhi sembravano sinceri. — Ma sembra che lei sia proprio l'unica persona a essersi salvata dall'incendio. Certo, lei e le bambine. Ma le bambine non sanno nulla... — E nemmeno io. — Le dispiace se fumo? Kay scosse la testa. Knowles afferrò un pacchetto di sigarette e un accendino. — Questa intera faccenda è così... folle. Davvero folle. — Accese la sigaretta, spinse il pacchetto lontano da sé. Alla sua destra, alla sinistra di Kay, c'era la foto di una moglie sorridente con due bambini. — La macchina dello sceriffo distrutta dentro la stazione di benzina, e di lui nulla che si potesse riconoscere; quello strano posto pieno di statue e cianfrusaglie; alcuni scheletri intorno... Kay si mosse a disagio. — Mi dispiace — fece Knowles al di sopra della sigaretta. — Ma si tratta della verità. Persino uno scheletro senza testa! un altro con una spada o qualcosa del genere piantata nella pancia. E lei sa come i pompieri hanno trovato suo marito e quella dottoressa... — Si interruppe, scorrendo le note che aveva di fronte a sé. — Drago — disse Kay. Qualcosa in quel nome le faceva aggricciare la pelle.
— Esatto. Bene, le dirò, non c'è nulla che abbia un senso. — La guardò, strinse gli occhi. — E lei non riesce ancora a ricordare? Voglio dire, non c'è nulla che le sia tornato in mente? — Ho già detto ai suoi colleghi tutto quello che ricordo. L'ho detto e ripetuto. Ricordo di aver visto mio marito dentro a quel museo. Poi non ricordo nient'altro, finché non mi sono ritrovata in strada. — E prima di questo? Niente? Lei inspirò profondamente. Oh, Dio, era lì che la cosa si confondeva. Le sembrava di ricordare se stessa a letto nella clinica, a fissare le ombre sul soffitto; l'infermiera le aveva appena portato quella disgustosa bevanda dall'aspetto di spremuta d'arancia, e lei aveva pensato che la spremuta d'arancia non è per la sera, è per colazione. Si ricordava che era preoccupata per Evan, per quel che avrebbe potuto fare nel suo presente stato mentale non aveva parlato a nessuno di questo - e poi aveva sentito improvvisamente e stranamente freddo, e non era riuscita a schiacciare il campanello per chiedere un'altra coperta. Dopo di che, più nulla. Solo il buio. — No — disse, e Knowles ebbe un'espressione delusa. L'uomo aspirò dalla sigaretta, ne scosse la punta nel posacenere; aveva la fronte aggrottata, aggrottata praticamente da quando quella brutta faccenda era iniziata. C'erano così tante dannate questioni senza una risposta! L'esplosione della stazione di benzina; gli scheletri dell'uomo e della donna, fusi insieme dal calore, trovati fra le rovine di quel museo; qualche scheletro femminile nella foresta bruciata, insieme con i resti, egualmente carbonizzati, di alcuni cavalli; altri corpi devastati dal fuoco dentro le case, dov'erano rimasti intrappolati dai muri caduti; il fatto che Bethany's Sin fosse deserta, tranne che per i bambini, per questa donna seduta qui di fronte a lui e per alcuni frammenti di corpi bruciati e irriconoscibili. Il medico legale stava ancora contando; era arrivato a poco più di cinquanta. Le altre persone che vivevano a Bethany's Sin erano semplicemente scomparse. Svanite. La cosa più strana che avesse mai dovuto affrontare. Altre cose lo preoccupavano, oltre a quelle citate, e lo facevano sedere sul letto, di notte, tentando di metterle assieme; ma si rendeva conto che probabilmente non sarebbe mai riuscito a comporre l'intero puzzle, per quanto lui e tutta la sua squadra avessero investigato. Frammenti di un grosso quaderno erano stati trovati nell'ufficio dello sceriffo: ritagli di giornale, datati anni fa, notizie di scomparse e di morti. In un altro notes bruciacchiato, calcoli sulle fasi della luna, date riferite alla luna piena, l'intero calcolo sul mese di dicembre. Come diavolo si poteva spiegare tutto
ciò? Che cos'era Wysinger, una specie di astronomo dilettante, o un pazzo? E per quanto riguardava Kay Reid, la donna era rimasta in ospedale per tre giorni dopo l'incendio, alternando febbre e abbassamenti bruschi di temperatura, momenti di isterismo e lunghi silenzi. Si lamentava di un incubo ricorrente, di vedere figure chine sul suo letto, aveva scritto un medico sulla sua cartella. Gli incubi non ben definiti, ma indicativi di un forte trauma. E ora questa donna, forse la chiave di quanto era successo quella notte di agosto a Bethany's Sin, era qui seduta di fronte a lui e insisteva a dire di non ricordare nulla. Poteva guardarla in viso e vedere rughe recenti disegnate attorno ai suoi occhi, e sapeva che aveva passato un periodo duro, difficile; ma gli stava forse mentendo? Fingeva di sapere meno di quello che sapeva in verità? Così provò a giocare d'azzardo. — Ha ancora quegli incubi, signora Reid? — le chiese, scrutandola in cerca di reazione mentre si fingeva assorto a spegnere la sigaretta. Lei sobbalzò, ma si riprese subito. — A che cosa si riferisce? — Gli incubi che aveva all'ospedale. La perseguitano ancora? Kay rimase un momento in silenzio. — No — disse infine. — No, non più. — È una buona notizia. Su che cos'erano? — Ha deciso di cambiare mestiere, e darsi alla psichiatria? Knowles sorrise, e scosse la testa. — No. È solo curiosità. Per un lungo istante lei finse di guardarsi le unghie, incerta se dirglielo o no. E poi parve rilassarsi, visibilmente, come se avesse deciso di scaricarsi le spalle da un peso enorme. Lo fissò. — Sì — mormorò piano — gli incubi. Avevo paura di dormire, all'inizio, perché venivano ogni notte. Erano... particolarmente brutti quando stavo in ospedale perché mi ricordavano qualcos'altro. La clinica a Bethany's Sin. Ero stata... male, e il medico mi aveva fatta ricoverare. — Che cos'aveva? Lei scosse la testa. — Non lo so. Quando tento di ricordare ciò che è successo da allora in avanti, la mia mente non... be', è come se la mia memoria fosse cancellata, o qualcosa del genere. So che sembra strano, ma è come se io... avessi interamente cessato di esistere. Avevo freddo, un freddo terribile, ed ero in un luogo completamente e assolutamente buio. — Kay guardò l'uomo in faccia, con occhi intensi e spaventati. Knowles fece scattare l'accendino, accese un'altra sigaretta. — Non riuscivo a trovare la strada per tornare — proseguì lei — finché non udii Evan chiamarmi per
nome, come se fosse lontano e tentasse di aiutarmi. E allora cominciai a lottare per tornare alla luce; iniziai a ripetere il mio nome, ancora e ancora, e tentai di ricordare tutto quello che mi era successo nella vita e che mi aveva reso ciò che sono. — Vide che gli occhi di Knowles vagavano al di sopra della sigaretta e capì che non l'avrebbe potuta comprendere né credere. — Era come se stessi annegando dentro una pozza d'acqua azzurra, e poi tentassi di risalire alia superficie, dove vedevo brillare il sole. — Lo vide sbattere le palpebre, e allora scivolò nel silenzio. Knowles, a disagio, si schiarì la gola, cambiò posto sulla sedia. — Faceva tutto parte dei suoi incubi? Kay sorrise leggermente. — Sì, è così. — Non gli avrebbe detto quello che realmente aveva scorto in quelle visioni: se stessa vestita di un lungo abito nero, che camminava lungo un corridoio ampio, di pietra, ai cui lati stavano statue sorridenti dagli occhi semiumani, vulcanici; in fondo al corridóio un rettangolo scuro. Uno specchio, si rese conto Kay mentre si avvicinava, ma che non rifletteva null'altro che il proprio buio infernale. E quando Kay si chinava a guardare dentro, vedeva una forma, qualcosa di antico che ondeggiava come polvere, girando su se stesso, turbinando come un vortice di odio immenso. E mentre lei guardava, incapace di strapparsene via, la forma si solidificò, divenne una figura umana, con occhi azzurri fiammeggianti, fissi, che le penetravano sin nell'anima. E dallo specchio era uscita la mano di uno scheletro, che l'aveva afferrata al polso e aveva iniziato a tirare. E allora lei si era resa conto, in un terrore che tutto cancellava, che quello non era uno specchio, no, bensì una soglia, che si apriva in quella regione di vuoto informe che stava tra la vita e la morte. Lo scheletro aveva stretto la presa, tirandola lentamente oltre quella soglia. Ma in quel momento lei aveva ritrovato la voce e gridava, strappandosi da quell'orrore senza nome, girandosi e correndo indietro lungo il corridoio, mentre le statue si staccavano dalle pareti e tentavano di darle addosso, alzando le spade e le asce e le lance che avevano in pugno per colpirla. Ma lei riusciva sempre a fuggire. E pian piano quegli incubi erano scomparsi. Grazie a Dio. — Quali sono i suoi progetti, ora? — le chiese Knowles. — Ho un appartamento — rispose Kay. — Mi è stata data la possibilità di rimanere al George Ross. Laurie... piange ancora, ma credo che presto riuscirà a rimettersi. — Sorrise, o almeno ci provò, perché le labbra le tremarono. — Non mi ero resa conto di quanto amassi Evan e avessi bisogno
di lui, finché lui non è scomparso. Qualche volta, di notte, allungo ancora la mano dall'altra parte del letto, per toccarlo. — Le brillarono gli occhi. — Vorrei tanto sentirlo ancora lì. L'amore è strano, non è vero? Come si dice? Te ne accorgi solo quando non c'è più. Quando scompare. Ma lui non è scomparso, non del tutto. Nessuno scompare del tutto a meno che non lo si dimentichi. Knowles rimase fermo per un momento, scrutando il suo viso. No, decise. Questa donna non sta mentendo. In quel momento si sentì più che mai certo che, qualunque cosa fosse successa a Bethany's Sin, lui non l'avrebbe mai saputa. Mai. No, no, pensò, questo no. Sono un poliziotto, e forse un giorno troverò qualcosa. Si alzò in piedi. — Penso che con questo sia tutto finito, signora Reid. La ringrazio molto di essere venuta. Due figure in piedi su una distesa di rovine fumanti. Una donna e una bambina, per mano. — Non mi piace qui, mamma — disse Laurie. — Andiamo a casa. — Subito, amore — le disse piano Kay. — Solo un attimo, e poi andremo. — Erano in piedi in quel che rimaneva di McClain Terrace: facciate annerite di case dai tetti caduti. Nulla se non poche travi rimaste delle casa dei Demargeon, come se fosse stata colpita dal fulmine di Dio. La casa dove la famiglia Reid aveva vissuta era solo un guscio nero: il tetto inclinato; le finestre come occhi vuoti. Kay aveva voluto tornare qui per un'ultima volta; poi non ci sarebbe mai più venuta, e le loro vite sarebbero iniziate di nuovo esattamente da quel momento. Era una casa così bella, pensò, guardando le rovine. Un paese così bello. Si avvicinò, schiacciando sotto le scarpe cenere e pezzi di vetro. Qualche cosa ondeggiò per terra, e Kay si chinò a raccoglierlo. Era una pagina di un racconto di Evan. Riuscì a distinguere a malapena i caratteri battuti a macchina, e prima che potesse leggerli la brezza aveva ridotto in polvere quel velo sottile, facendolo volar via. Quella stessa brezza fece risuonare voci di fantasmi attraverso le porte vuote. Kay si asciugò gli occhi - velocemente, per non far vedere a Laurie - e disse: — Vieni. Sarà meglio andare a casa, ora. — Attraversarono il prato di cenere verso la Vega di seconda mano di Kay, salirono con la cenere attaccata alle scarpe. Kay strinse a sé Laurie per un istante, poi accese il motore e lasciò McClain Terrace dietro di sé. Luci gialle lampeggiavano su Blair Street. Un segnale di pericolo: un mucchio di rovine e di alberi caduti che aspettavano ancora di essere spo-
stati. Kay dovette voltare in Cowlington Street. Passando davanti alla massa annerita del museo rallentò, alzando gli occhi. Accostò la Vega al marciapiede e rimase ferma per alcuni minuti, con il cuore che le pulsava, lento ma forte. La tomba di Evan, pensò. Ma perché? Che cosa era successo in quegli ultimi giorni? Che cos'era che continuava a picchiare alla porta della sua mente, mentre i ricordi si affollavano senza riuscire a entrare? Qualcosa di cui Evan aveva cercato di avvertirla, per tutto il tempo? Qualcosa che lei aveva rifiutato di ascoltare, ricacciandolo con un gesto della mano e un'accusa? La brezza sussurrò attorno ai lati della casa. Spirali di cenere vorticarono, risvegliati dalla brezza, e circondarono le fiancate della Vega. Kay sentì odore di bruciato. — Non mi piace qui, mamma — disse Laurie. — Adesso andiamo — rispose Kay. Ingranò la marcia e si allontanò dal marciapiede, accelerando. — Non torneremo più in questo posto. — Un giorno capirò, disse a se stessa. Un giorno sarò abbastanza forte da lasciar entrare questi ricordi, e vedrò quello che Evan aveva visto. Accarezzò i capelli di Laurie. — Saremo a casa in pochi minuti — disse, e guardò la bambina. Laurie sorrise. Per una frazione di secondo le parve di cogliere qualcosa di strano negli occhi della piccola, ma poi Laurie batté le palpebre e quello scintillio, a metà visto e a metà riconosciuto, scomparve. Laurie scivolò attraverso il sedile verso sua madre, pensando a quanto le sarebbe mancata la signora Omarian. La signora Omarian con quelle buffe storie su quelle buffe signore, quelle storie troppo buffe perché i papà potessero saperle. Poi, però, Laurie non ebbe più voglia di sorridere. Madre e figlia lasciarono Bethany's Sin. E si diressero verso la città. Verrà un giorno in cui la donna vincerà l'uomo, e lo scaccerà lontano... Antico oracolo. FINE