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DE
L'ÉCOLE
FRANÇAISE
DE
ROME
ANNIE DUBOURDIEU
LES ORIGINES ET LE DÉVELOPPEMENT DU CULTE DES PÉNATES À ...
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COLLECTION
DE
L'ÉCOLE
FRANÇAISE
DE
ROME
ANNIE DUBOURDIEU
LES ORIGINES ET LE DÉVELOPPEMENT DU CULTE DES PÉNATES À ROME
ÉCOLEPALAIS FRANÇAISE 1989 FARNESE DE ROME
© - École française de Rome - 1989 ISSN 0223-5099 ISBN 2-7283-0162-X
Diffusion en France : DIFFUSION DE BOCCARD 11, RUE DE MÉDICIS 75006 PARIS
Diffusion en Italie : L'«ERMA» DI BRETSCHNEIDER VIA CASSIODORO, 19 00193 ROMA
SCUOLA TIPOGRAFICA S. PIO X - VIA ETRUSCHI, 7-9 - ROMA
PREFAZIONE
Gli scavi condotti a Lavinio in questi ultimi decenni hanno suscita to nuove riflessioni intorno ad alcuni temi della religione romana e alla leggenda delle origini di Roma. Accanto agli studi che si sono avuti, oltre che sulla formazione del mito di Enea nel Lazio, sulla storia e il significato cultuale di Castore e Polluce, di Minerva, di Indiges ecc, non poteva mancare un riesame del culto dei Penati, che a Lavinio ave va un ruolo privilegiato, così efficacemente indicato dalle parole di Varrone : Oppidum quod primum conditum in Latto stirpis Romanae Lavinium : nam ibi dii Penates nostri. La presente opera affronta que sto argomento con ampiezza di visione e organicità di struttura, utili zzando tutti gli strumenti offerti dalla linguistica, dalla filologia, dal l'archeologia. Si tratta infatti di un tema di particolare difficoltà : esso si presentava oscuro già agli antichi, che ci hanno lasciato al riguardo opinioni contrastanti. Lo stesso Varrone sembra avere espresso in diversi luoghi della sua opera concetti diversi, secondo quanto leggi amo in Servio Danielino {ad Aen. Ili, 148). La situazione è resa ancora più difficile in quanto l'erudizione degli antichi ha, come in altri temi della religione e della mitografia, introdotto elementi che sono soltanto il frutto di dotte speculazioni. L'opera esamina anzitutto il problema etimologico, importante per la definizione del significato stesso dei Penati. In ordine a questo stesso obiettivo è acutamente approfondito (soprattutto attraverso lo studio dei larari di Pompei) il carattere che essi hanno nel culto privato. Ma la maggior parte dell'indagine riguarda naturalmente i Penati pubblici, articolandosi nello studio dei luoghi di culto : il tempio di Vesta nel Foro, il tempio sulla Velia, il tempio di Lavinio. Con grande efficacia viene sostenuta, contro il parere di molti stu diosi, la presenza dei Penati nel tempio di Vesta : è proprio questo che deve essere ritenuto il vero luogo di culto originario dei Penati a Roma. Lo stretto collegamento cultuale tra Vesta e i Penati ha una grande importanza come elemento indicativo per la definizione del significato stesso dei Penati, sostanzialmente affine a quello di Vesta.
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ORIGINES ET DÉVELOPPEMENT DU CULTE DES PÉNATES À ROME
Questa unione dei due culti nel tempio del Foro trova un preciso riscontro a Lavinio, dove i magistrati romani sacrificavano ogni anno Penatibus pariter ac Vestae. Questa analogia penso debba estendersi, a mio avviso, alla tipologia stessa dell'edificio templare : infatti, secondo Dionisio di Alicarnasso, i Penati di Lavinio si trovavano in una καλιάς, cioè in un tempio circolare a forma di capanna, che corrisponde dun que al tempio del Foro (che ha un rapporto strutturale con la capanna, come è affermato dagli scrittori). La καλιάς di Lavinio è rappresentata, in tale forma, nei medaglioni di Adriano e di Antonino Pio e in altre fonti iconografiche. L'analogia dei culti di Vesta e dei Penati a Lavinio e a Roma trova spiegazione nella comune appartenenza alla civiltà latina (mentre non mi sembra proponibile l'ipotesi di una priorità cronologica di Lavinio). E quanto al fatto che i Penati di Lavinio venissero considerati Penati di Roma, si deve trovarne la ragione, come è ben dimostrato dalla Dubourdieu, nella leggenda troiana e nel foedus del 338 con cui Roma accettava il mito di una unità dei popoli latini che traeva origine da Lavinio. Particolare attenzione è dedicata al tempio dei Penati sulla Velia. Anzitutto si affronta il problema della duplicità dei luoghi del culto in Roma, e se ne trova la soluzione in una recente teoria che il tempio della Velia debba la sua origine ad un ipotetico trasporto a Roma, nella casa di Tulio Ostilio, dei Penati di Alba. Tuttavia possiamo domandarci se sia veramente un problema questa duplicità dei luoghi di culto: non abbiamo forse più luoghi di culto in Roma, per esempio, per la triade Giove Giunone Minerva, per Giunone Regina, per Giove Statore, per Èrcole Vincitore? Ma soprattutto è da osservare che non mancano motivi precisi per spiegare un tempio particolare, autonomo, dei Penat i; altro è il carattere arcaico, legato a Vesta e al penus, nel tempio di Vesta, altro è quello del tempio sulla Velia quale ci è documentato da Varrone e Dionisio di Alicarnasso. Né appare convincente il fatto che il culto di una città distrutta sia stato posto nella casa privata di un re. Da rilevare inoltre che non abbiamo testimonianze sull'esistenza di un cul todei Penati ad Alba, e che è da dimostrare l'alta antichità del tempio dei Penati sulla Velia. Su questo tempio veliense, come è noto, sono state in questi ultimi anni formulate nuove ipotesi : il tempio sarebbe da identificarsi con l'edificio rotondo noto come tempio del divo Romolo; ovvero sarebbe stato nell'area della basilica di Massenzio e quindi distrutto, mentre le immagini dei Penati avrebbero preso posto nelle aule fiancheggianti il
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«tempio del divo Romolo» (identificato, quest'ultimo, come tempio di Giove Statore) : queste immagini sarebbero riprodotte nelle monete di Massenzio che raffigurerebbero questo edificio. Da questa teoria altre conseguenze vengono sviluppate dalla Dubourdieu : avremmo recuper ato,nelle monete di Massenzio, l'iconografia dei Penati come figure giovanili con un bastone in mano; questo attributo troverebbe un riscontro nella raffigurazione dell'Ara Pacis (dove sarebbe rappresentat o un sacello portatile immaginato a Lavinio) nonché nei «caducei» visti da Timeo nel santuario di Lavinio. Questi bastoni vengono spiegati in rapporto ad un ruolo dei Penati come itineranti, messaggeri, ruolo dovuto alla creduta origine troiana. Si aprono così prospettive di gran de rilievo non solo sulla iconografia ma anche sul significato dei Penat i. È tuttavia evidente che il loro accoglimento è subordinato a quello delle nuove teorie sulla topografia della via Sacra e della Velia e della interpretazione delle figure nelle monete di Massenzio (che sono inve ce,a mio avviso, Eroti funerari nel sepolcro di Massenzio sulla via Appia). Un punto centrale per la comprensione del ruolo dei Penati è il co l egamento con la leggenda troiana, che portò all'identificazione coi sacra portati da Enea. Del resto già R. H. Klausen, un secolo e mezzo fa, nel suo celebre Aeneas und die Penaten. Die italischen Volksreligio nen unter dem Einfluss der griechischen, aveva visto la necessità di affrontare congiuntamente i due temi. A questo proposito la Dubourd ieu svolge un'approfondita discussione sul dibattuto problema della leggenda troiana nel Lazio, e, tra le varie ipotesi che si sono formulate, aderisce alla teoria che la leggenda lavinate di Enea si sia affermata e sia stata accettata da Roma stessa nel corso del IV secolo. Se così è, viene a stabilirsi un dato cronologico fondamentale per la storia del culto dei Penati : è soltanto da questo momento che essi vengono inserit i nell'ideologia delle origini di Roma. La «troianizzazione» di queste divinità indigene spiega molti aspetti oscuri e contradditori : il culto ufficiale dei magistrati romani a Lavinio; la presenza del Palladio nel tempio di Vesta nel Foro; la connessione con gli dei di Samotracia; la identificazione dei Penati con Nettuno e Apollo (i costruttori delle mura di Troia). Inoltre, la determinazione cronologica di questa integrazione del mito troiano viene a indebolire le ipotesi che sono state avanzate da alcuni studiosi sulla interpretazione come Palladi di due teste di età arcaica, una marmorea dal Palatino (a meno che non sia stata, come è possibile, importata dalla Grecia in età successiva) e una fittile dalla Velia (mentre non reca difficoltà per una statua fittile di Lavinio, ispi-
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rata molto probabilmente alla iconografia del Palladio, in quanto essa è databile al IV secolo). Sempre per lo stesso motivo (affermazione relat ivamente tarda della leggenda troiana) è difficilmente accettabile la teo ria che i Penati e Vesta siano stati introdotti, in età arcaica, dalla Grecia a Roma, tramite Lavinio, nonché l'ipotesi che i Penati siano da mettere in rapporto, sino dalle origini, con i Castori (il rapporto dei Castori come anche dei Lares Praestites - con i Penati è verisimilmente da limi tarsi ad una pura ispirazione iconografica, come già pensava G. De Sanctis). Si sono qui evidenziati i motivi portanti su cui è costruita questa ricerca : intorno ad essi si articola l'esame di moltissimi temi introdotti in funzione dello studio del problema centrale. È così che la presente opera, con l'apporto di chiarimenti decisivi, con la presentazione di ipotesi suggestive, con le ampie discussioni parimenti fondate su basi filologiche e archeologiche, reca un contributo di grande rilievo ad un tema che è tra i più significativi nella storia della religione romana, e che per i suoi aspetti oscuri e contraddittori metteva in difficoltà gli antichi stessi. Ferdinando Castagnoli
AVANT-PROPOS
Ce livre a pour origine une thèse de doctorat soutenue en mars 1983 à Paris. Pour mener à bien ce travail, j'ai eu la chance de bénéfic ier,grâce à Monsieur Georges Vallet, de plusieurs mois de bourse à l'École française de Rome qui me fait aujourd'hui l'honneur de l'ac cueillir dans sa Collection, avec le soutien bienveillant de son directeur, Monsieur Charles Pietri. Cette recherche doit beaucoup à l'aide généreuse et savante de Monsieur Jacques Heurgon, mon directeur de thèse. Elle a été nourrie par les travaux et les exceptionnelles découvertes archéologiques de Monsieur Ferdinando Castagnoli, qui a eu l'amabilité de venir à Paris pour participer à mon jury de thèse. J'ai essayé de tirer profit de ses observations et de celles des autres membres du jury, Monsieur Ray mond Bloch, Monsieur Alain Hus, Monsieur Robert Schilling. Enfin Monsieur François-Charles Uginet, secrétaire aux publications de l'École française de Rome, par sa sollicitude et ses conseils, m'a beau coup aidée dans la réalisation matérielle de ma tâche. Que tous soient ici profondément remerciés. Paris, mars 1988
INTRODUCTION
«C'était dans le temps que Monsieur le Prince de Brunswick faisait à mes petits pénates le même honneur que vous avez daigné leur faire», écrivait Voltaire au duc de Richelieu1. De tous les dieux de la religion romaine, les Pénates sont parmi les rares qui soient passés dans notre langue sous la forme d'un nom commun. Certes, l'emploi du mot en français reste très limité, puisque, selon le dictionnaire de Littré, il apparaît pour la première fois chez La Fontaine, et qu'on ne le retrou ve plus après les Encyclopédistes; il semble toujours employé, sinon avec une nuance d'humour, du moins avec le sourire d'une certaine complicité créée par une commune culture; les «petits pénates» de Voltaire, du reste, paraissent bien une allusion précise à un vers de Virgile2. Il est de fait que cette acception de «pénates» au sens figuré, pour désigner la maison, remonte à l'emploi du mot le plus courant dans les témoignages de la littérature latine. Il suppose un usage métonymique du nom de ces dieux pour désigner le lieu où ils étaient honorés et qu'ils ont fini par symboliser. Il apparaît donc que, dans la plupart de ses emplois, «Pénates» désigne les dieux de la religion privée, domestique. Les Pénates, certes, ne sont pas les seuls dieux honorés à l'intérieur de la maison, où ils figurent, pour ne citer qu'eux, à côté des Lares; mais il faut croire qu'ils entre tiennent avec la maison une relation d'une qualité particulière, puisque ce sont eux qui la désignent symboliquement. La nature de cette rela tion devra donc être éclairée par l'étude étymologique du mot d'abord, par l'analyse des contextes dans lesquels il apparaît ensuite. Cette étude essaiera de se dégager de la confusion qui a régné chez les Romains eux-mêmes, puisque les Pénates ont fini par être, suivant la définition
1 Lettre à Richelieu, 19 août 1766. 2 En. VIII, 543-44 : paruosque penatis / laetus adit.
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ORIGINES ET DEVELOPPEMENT DU CULTE DES PENATES A ROME
de Servius, «tous les dieux honorés à la maison»3, ce qui impose, entre l'analyse du sens premier du mot et cette dernière acception, une étude de l'histoire de la notion, de son évolution à l'intérieur du culte privé. A côté du culte des Pénates privés, nous savons qu'il existait un culte des Pénates publics, des Penates populi Romani, ce qui pose év idemment le problème de la relation entre les deux cultes, privé et public, et de l'antériorité de l'un par rapport à l'autre. Sans doute fautil admettre, avec G. Wissowa4, que le culte privé est originel et que le culte public en dérive, encore que ce point de vue ait été parfois viv ement controversé5. Cette explication se conçoit du reste plus aisément pour d'autres cultes que pour celui de nos dieux; le Genius du maître de maison par exemple, est honoré au foyer domestique à côté des Pénates; lorsqu'on honora les empereurs comme des dieux, on en vint tout naturellement à rendre public, de privé qu'il était, le culte de leur Genius. De même, sur un autre plan, on conçoit comment on peut pas ser du culte privé des Lares de tel domaine, au culte des Lares des car refours, qui réunit plusieurs familles au point de rencontre des dif férents domaines6. Toutefois, le culte de nos dieux semble résister davantage à ce type d'explication; car si les Pénates sont spécifiquement les dieux de la maison, dans ce qu'elle a de plus intime, l'idée même qu'ils puissent recevoir un culte public paraît contraire à leur nature. Il nous faudra donc chercher à rendre compte de l'existence, bien attestée, d'un culte public des Pénates du peuple romain, et tenter d'éclaircir ses parentés éventuelles avec le culte privé, plus aisément saisissable. Pour l'étude de ce dernier, nous disposons d'une documentation abondante, fournie par les villes de Campanie détruites lors de l'érup tiondu Vésuve de 79 après J.-C. Ces cités nous offrent un ensemble exceptionnel d'habitats privés, datant d'une période qui, pour Pompéi, va du IVe siècle avant J.-C. au Ier après J.-C. Au demeurant, notre info rmation reste lacunaire, dans le temps et dans l'espace : dans les traces de cabanes retrouvées sur le Palatin, rien n'a subsisté qui évoque un quelconque culte domestique, et nous n'avons peut-être aucune trace
3 4 5 6 p. 64.
Ad Aen. II, 514 : Penates sunt omnes di qui domi coluntur. Religion und Kultus der Römer, 2e éd., Munich, 1912, p. 164. F. Bömer, Rom und Troia, Baden-Baden, 1951, p. 106 sq. Cf. J. Bayet, Histoire politique et psychologique de la religion romaine, Paris, 1957,
INTRODUCTION
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des Pénates, ni d'aucune divinité domestique d'ailleurs, à l'époque archaïque. De plus, à Rome même, les reconstructions successives de maisons sur un même emplacement, l'occupation continue du site, ont fait à peu près disparaître toute trace d'habitat privé antérieur à l'épo queaugustéenne, mises à part les huttes du Palatin citées plus haut. Les conclusions que l'on peut tirer de l'étude du culte domestique à Pompéi ne devront donc être utilisées qu'avec prudence. En ce qui concerne le culte public, nous connaissons deux sanc tuaires des Pénates à Rome même, ou plutôt, deux sanctuaires qui pas saient pour contenir les images de ces dieux. L'un, situé en bordure du Forum, sur la Vèlia, leur était spécifiquement consacré : c'est l'Aedes deum Penatium, dont l'existence et le nom sont bien attestés, mais dont les remaniements successifs du site rendent très difficile de retrouver la trace aujourd'hui, malgré les tentatives d'identification diverses qui ont été faites de ce sanctuaire avec des bâtiments qui subsistent enco re : le monument rond dit «Hérôon de Romulus», ou les parties d'édifi ces anciens incluses dans l'église des SS. Còme et Damien. Il existe auss iune tradition selon laquelle les Pénates du peuple romain seraient conservés dans l'Aedes Vestae sur le Forum, tradition récemment controversée d'ailleurs, car seul Tacite nous offre un témoignage for mel mentionnant la présence des Pénates dans ce sanctuaire dont ils. ne sont pas les dédicataires spécifiques7; les autres textes relatifs à ce monument se contentent d'attester l'existence de sacra dans ses murs, ce qui nous amènera à poser le problème de la relation entre ces der niers et les Pénates. Ce point est d'autant plus intéressant d'ailleurs, que c'est de ces deux termes, sacra - ou l'équivalent grec ίερά - et Pénat es,que sont souvent désignés dans les textes les objets sacrés apportés par Enée de Troie jusqu'en Italie. Par conséquent, nous serons conduit à nous demander si, en plus de leur relation avec Vesta, dans le sanc tuaire de laquelle ils étaient conservés, et indépendamment de la lumiè re que peut jeter sur eux l'histoire propre de ce monument, l'identité des sacra - Pénates conservés sur le Forum ne doit pas aussi s'expl iqueren liaison avec la légende d'Enée et de sa venue en Italie, encore que très peu d'auteurs attribuent au héros troyen la fondation de Rome. De plus, il nous faudra essayer de rendre compte de ce fait sur prenant, qu'il y ait eu à Rome deux lieux de culte officiel des Pénates publics du peuple romain.
7 Ann. XV, 41.
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ORIGINES ET DÉVELOPPEMENT DU CULTE DES PÉNATES À ROME
Paradoxalement, c'est peut-être l'existence d'un troisième lieu de culte officiel des Pénates publics qui nous permettra de comprendre les raisons de cette pluralité. On sait en effet que les Romains rendaient officiellement un culte, en une sorte de procession annuelle compre nant les plus hauts magistrats de Rome, aux Pénates de Lavinium, aujourd'hui Pratica di Mare, au sud-est de Rome; or, Varron déclare que ces Pénates étaient, aux yeux des Romains, les leurs propres : nam ibi dii Penates nostri8. Cette affirmation, qui explique le sacrifice an nuel des magistrats romains, nous renvoie à la légende des origines troyennes de Rome : Enée fuit Troie en ruines avec son père, son fils, et ses dieux Pénates; après diverses errances, il arrive en Italie, et plus précisément, au Latium, terre que lui avaient assignée les dieux; il épouse Lavinia, fille du roi Latinus, et fonde Lavinium, où il installe ses dieux; son fils Ascagne quittera plus tard la ville et fondera lui-même Albe, d'où sont originaires Romulus et Rémus, lointains descendants de ce dernier. La légende de la filiation troyano-lavinate de Rome, par l'i ntermédiaire d'Albe, explique que les Romains, qui se voient comme les héritiers et les descendants de Troie et d'Enée, vénèrent dans les Pénat es de Lavinium, supposés apportés par Enée, leurs propres Pénates. Il est clair que ce culte lavinate des Pénates du peuple romain nous appar aîttout chargé d'affabulations légendaires, liées à la tradition des ori gines troyennes de Rome; nous aurons donc à examiner comment s'est élaborée cette dernière. Mais, si le culte des Pénates publics est l'e xpression de traditions concernant les origines d'une cité, comme nous le croyons, il nous faudra essayer de rendre compte de la coexistence de plusieurs légendes des origines de Rome, qui, semble-t-il, permet seule d'expliquer qu'il ait existé trois cultes des Pénates publics, rendre compte aussi des relations que ces différentes légendes entretiennent entre elles. *
*
*
Le premier ouvrage moderne, qui ait traité substantiellement des Pénates est dû à R. H. Klausen: Aeneas und die Penaten9; le propos essentiel de son auteur est d'étudier le personnage du héros troyen,
8 De L.L. V, 144. 9 Hamburg-Gotha, t. 1, 1839; t. II, 1840.
INTRODUCTION
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dans la tradition grecque d'une part, latine d'autre part. L'étude des Pénates proprement dits n'occupe qu'une petite partie du second volu mede l'ouvrage10, consacré aux dieux liés à Enée. Elle consiste en une étude étymologique du mot Penates, dont R. H. Klausen affirme qu'il est rattaché à la racine de penus sans toutefois expliquer le suffixe -ates; le savant allemand étudie ensuite la signification de ces dieux dans le culte privé, l'emplacement de leur culte dans la maison, la valeur affective qui leur est accordée comme symboles de la prospérité et de la pérennité de la famille; puis il passe à l'étude du culte public, dans lequel il voit une extrapolation, à l'échelle de l'Etat romain, du culte privé. Utilisant certaines des données littéraires dont nous dispo sons, Virgile en particulier, R. H. Klausen accepte la légende du trans fertdes Pénates de Troie en Italie par Enée, sans chercher à dater l'ap parition de cette légende dans la tradition; les dieux d'Enée - et, sur ce point encore, Klausen suit exactement Virgile - furent installés à Lavinium par le héros troyen, et honorés là par les Romains qui se considé raientcomme des descendants d'Enée; cependant, ce dernier culte, qui, selon Klausen, ne fut jamais tout à fait oublié, tendit à s'effacer pro gressivement au profit d'un culte des Pénates publics à Rome même, sorte de duplication du culte lavinate. Sur l'identité des Pénates, Klau senfait état des différentes spéculations antiques, sans chercher entre elles une cohérence quelconque; il constate qu'à Rome même, il est cer tain que les Pénates publics étaient au nombre de deux (R. H. Klausen s'appuie là sur la description que fait Denys d'Halicarnasse des statues cultuelles du temple de la Vèlia), couple qu'il rapproche de celui des jumeaux fondateurs dans une démarche dont il nous semble qu'elle annonce déjà celle de G. Dumézil11 un siècle plus tard. Klausen se bor ne à constater qu'à côté de cette conception dualiste des Pénates, les traditions antiques mentionnent une identification de nos dieux avec ceux de la Triade Capitoline, et qu'il existe une tentative de définition des Di Penates Consentes étrusques. Cet ouvrage, vieux d'un siècle et demi, reste, au demeurant, fondamental pour l'étude de notre sujet. Presque cinquante ans plus tard, G. Wissowa étudiait, dans un très long article intitulé Die Ueberlief erung über die römischen Penaten 12, la
10 P. 620-662. 11 La religion romaine archaïque, 2e éd., Paris, 1974, p. 263-266. 12 in Hermes, 1886, XXII, p. 45 sq.; repris dans Gesammelte Abhandlungen zur römis chenReligions und Stadtgeschichte, Munich, 1904, p. 95-128.
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ORIGINES ET DEVELOPPEMENT DU CULTE DES PENATES A ROME
tradition littéraire concernant les Pénates et, plus précisément, les spé culations des érudits anciens à leur sujet. Signalant que les traditions antiques se présentaient de façon particulièrement confuse à travers ces spéculations, il s'est efforcé d'en mener une critique comparative, présentée d'abord sous la forme d'un tableau très clair, qui met en regard trois versions de la tradition sur les Pénates : celle d'Arnobe, cel lede Macrobe, et celle de Servius-Daniel ; les différents thèmes de cette tradition sont désignés, dans le tableau, par des lettres, puis étudiés très méthodiquement dans la suite de l'article; s'efforçant de retrouver la source utilisée par ces trois commentateurs tardifs, dont les textes sont très souvent voisins, voire semblables, G. Wissowa pense pouvoir l'iden tifier chez l'érudit du IIIe siècle Cornelius Labeo, auteur du De Dis animalibus ; c'est en grande partie à travers lui, selon G. Wissowa, que nous sont connues les théories de Varron et de Nigidius Figulus; par la comparaison et l'étude très serrée qu'il fait des différentes traditions, Wissowa s'efforce aussi de mettre un nom, ou des noms, sous les tradi tions présentées anonymement par nos trois commentateurs. Nous avons, dans le cours de notre étude, largement utilisé ce travail. Le lien très étroit qu'entretient le sujet de notre recherche avec le problème des origines troyennes de Rome (Enée, dans une tradition largement répandue, est supposé avoir apporté de Troie à Lavinium les Pénates vénérés comme leurs par les Romains) a tout naturellement amené les savants qui ont travaillé sur cette question à aborder le pro blème des Pénates. En étudiant Les origines de la légende troyenne de Rome13, J. Perret a minutieusement rassemblé et étudié les documents littéraires qui attestent l'existence de la légende de la venue d'Enée en Italie, le caractère d'ancêtre fondateur, et le culte que ce caractère implique, donnés par les Romains au héros troyen. J. Perret pense que cette légende est née vers le début du IIIe siècle avant J.-C, au temps de la guerre contre Pyrrhus, et refuse de se fier aveuglément aux données de l'annalistique et de l'historiographie romaines. L'organisation de l'ensemble des traditions constituant la légende des origines troyennes de Rome recevrait alors son plein épanouissement à une date relativ ement tardive, à l'époque de César, puis d'Auguste, dans la mesure où
13 Paris, 1942.
INTRODUCTION
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elle contribue puissamment à fonder les prétentions dynastiques de la Gens Iulia14. Les années 1950 marquent une étape importante dans l'histoire des études sur la légende des origines troyennes, avec l'essor que les découv ertes archéologiques vont apporter à l'étude des témoignages littérai res, jusque là base à peu près unique des recherches. Dès 1938, la découverte, à Véies, de plusieurs exemplaires d'un groupe statuaire de terre cuite représentant Enée portant Anchise sur ses épaules, daté du début du Ve siècle15, ainsi que le scarabée «étrusque» de la collection de Luynes, daté du VIe siècle, montrant une scène analogue, ont cons idérablement modifié les données du problème. F. Borner, dans Rom und Troia10, étudie, dans une première partie, les origines de la légen de de la venue d'Enée au Latium à la lumière des découvertes archéolo giques,en montrant que le foyer de diffusion de cette dernière a été l'Etrurie, et explique pourquoi Enée a été choisi par les Romains com mehéros fondateur17; la seconde partie, intitulée Les Pénates, combine les données de la tradition littéraire, Varron en particulier, et les témoi gnages archéologiques, notamment les petites figurines primitives de terre cuite découvertes dans les tombes albaines, en qui F. Borner voit une première figuration des Pénates, tandis que l'urne funéraire où elles étaient enfermées serait, selon le savant allemand, une image du penus, réserve aux provisions qui constituait primitivement un édifice distinct de la maison; les Pénates seraient bien, ainsi, les dieux du penus, le culte public s'étant modelé sur le culte privé. Cette interpréta tion des figurines albaines et des urnes funéraires a été très vivement contestée par H. Müller-Karpe dans Vom Anfang RomsÏS, étude elle aussi fortement appuyée sur les données archéologiques, alors toutes récentes, fournies par les statuettes de Véies et le scarabée «étrusque». A la fin de la même décennie, A. Alföldi reprenait ce sujet dans Die trojanischen Urahnen der Römer19, sujet que, comme F. Borner et
14 Le savant français est revenu sur ce problème dans Rome et les Troyens, REL, 49, 1972, p. 39-52. 15 Cette datation a parfois été contestée; voir infra, p. 199-201. 16 Baden-Baden, 1951. 17 Cf. aussi les comptes rendus de l'ouvrage faits par P. Boyancé, Les Pénates et l'a ncienne religion romaine, REA, 54, 1952, p. 109-115; J. Heurgon, in Latomus, 11, 1952, p. 231-233. 18 Heidelberg, 1959. 19 Bale, 1957.
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ORIGINES ET DÉVELOPPEMENT DU CULTE DES PÉNATES À ROME
H. Müller-Karpe, il éclaire de données archéologiques et iconographiq ues. Il étudie, en particulier, une amphore trouvée à Vulci, de fabrica tion locale, qu'il date de la première moitié du Ve siècle avant J.-C. Sur ce vase est représenté Enée portant Anchise sur ses épaules, et donnant la main à Ascagne, dont l'autre main est tenue par une femme, identi fiée comme Creuse; cette dernière porte sur la tête un vase oblong, un doliolum, qu'elle maintient de sa main libre, et qui est supposé, selon A. Alföldi - hypothèse, nous le verrons, souvent reprise - contenir les sacra. Ces sacra-Pénates seraient donc ceux de Troie, venus en Etrurie, puis à Rome, qui serait l'héritière de la cité de Priam. D'autre part, A. Alföldi, s'appuyant sur l'iconographie, fournie notamment par le monnayage romain, de la tête féminine désignée comme Rhomè, héroï ne troyenne éponyme de Rome dans certaines légendes, confirme par elle l'existence d'une tradition très ancienne concernant les ancêtres troyens de Rome, en relation avec la légende d'Enée; dans la diffusion de ce culte, l'Etrurie aurait joué un rôle essentiel. L'ouvrage d'A. Alföldi nous intéresse surtout ici dans la mesure où il touche à la légende de la venue d'Enée en Italie, et, aussi, où l'étude iconographique permet de reculer fortement dans le temps cette tradition «troyenne». Ce mouvement va du reste s'accentuer dans les années 60 avec les découvertes archéologiques faites à Rome et dans l'ensemble du Latium. Ces dernières tendent à confirmer les dates que les historiens latins assignaient à la fondation de Rome, à la domination étrusque à Rome, à l'influence de la Grèce et de la Grande-Grèce20. Les fouilles menées à Pratica di Mare, l'ancienne Lavinium, par l'Istituto de Topog rafia antica dell'Università di Roma, sous la direction de F. Castagnoli, ont abouti, depuis 1949 jusqu'à nos jours21, à une série d'extraordinai res découvertes qui ont grandement élargi les données de notre sujet. En particulier, l'enthousiasme soulevé par la mise au jour d'une ins cription du VIe-Ve siècle, dédiée à Castor et Pollux, dans l'aire d'un sanctuaire où se trouvaient alignés treize autels archaïques datés du VIe au IVe siècle, a amené A. Alföldi, dans un nouvel ouvrage22, et G. K.
20 Cf. J. Heurgon, Note sur les sources de l'histoire romaine primitive : de l'hypercritique à la réhabilitation de la tradition, in Rome et la Méditerranée occidentale, 2e éd., Paris, 1980, p. 378-385. 21 Pour une chronologie détaillée des découvertes, cf. F. Castagnoli, Lavinium I, Rome, 1972, p. 36-37. 22 Early Rome and the Latins, University of Michigan Press, Ann Arbor, 1964.
INTRODUCTION
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Galinsky23, à reconnaître dans ce sanctuaire celui des Pénates, identi fiés avec les Dioscures, le nombre très élevé des autels s'expliquant par le fait qu'il s'agit d'un sanctuaire fédéral. La présence, à peu de distan ce de cet ensemble, d'une tombe à tumulus dite «Hérôon d'Enée» semb leau reste venir à l'appui de cette identification.
On comprend donc que notre sujet se trouve largement renouvelé par les recherches actuelles, d'ailleurs encore en cours, puisqu'on est en train de fouiller une aire cultuelle située à l'est du village de Pratica, où furent découvertes en 1977 une cinquantaine de statues votives24. De plus, des fouilles sont actuellement en cours sur la Vèlia, sous la Basilique de Maxence. Il n'est pas certain qu'on puisse retrouver des traces du temple des Pénates, sans doute démoli lors de la construction de la Basilique, mais on a déjà mis au jour quelques vestiges apparte nant très probablement au temple de Jupiter Stator, dont nous verrons qu'il est peut-être en rapport avec les statues des Pénates. Aussi de vrons-nous constamment, à côté des données littéraires et des ouvrages fondamentaux, cités plus haut, qui les ont interprétées, tenir compte de l'actualité archéologique, à Pratica, mais aussi à Rome et dans toute l'Italie centrale. En effet, dans la mesure où les Pénates se trouvent liés à la légende des origines de Rome, origines troyennes et origines albaines, leur étu de pose des problèmes dont la solution a été controversée au cours des dernières décennies. C'est, d'abord, celui du rôle de l'Etrurie dans l'i ntroduction au Latium des légendes chantées par les poèmes homériq ues, et en particulier du personnage d'Enée, présent dès les VIe- Ve siè-
23 Aeneas, Sicily and Rome, Princeton, 1969. 24 Deux volumes ont à ce jour été publiés : Lavinium I : Topografia generale, fonti e storia delle ricerche, Rome, 1972; Lavinium II : Le Tredici Are, Rome, 1975; un troisième volume, consacré à l'Hérôon d'Enée, est en préparation. Pour le dépôt votif, cf. P. Sommella, Le dépôt de statues votive découvert à Pratica di Mare, Archeologia, mars 1978, p. 20-21; F. Castagnoli, II culto di Minerva a Lavinio, Accademia Nazionale dei Lincei, quaderno 146, 1979, p. 3-14. La synthèse la plus récente sur l'ensemble des découvertes du Latium se trouve dans deux articles de J. Poucet, Le Latium protohistorique et archaï que à la lumière des découvertes récentes I, AC, 47, 1978, p. 566-601; II, ibid., 48, 1974, p. 177-190. Cf. aussi Enea nel Lazio, Archeologia e Mito, Catalogue de l'Exposition, Rome, 1981.
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ORIGINES ET DÉVELOPPEMENT DU CULTE DES PÉNATES À ROME
cles en Etrurie : nous aurons à nous demander si sa reconnaissance par les Romains comme l'ancêtre des Latins est la conséquence de l'hég émonie étrusque sur le Latium. C'est aussi celui du rôle de la GrandeGrèce comme intermédiaire entre la Grèce et le Latium, dont les décou vertes archéologiques récentes de Lavinium ont montré qu'il a dû être très important. Ces problèmes, qui touchent à l'élaboration de la civil isation latine, sont étroitement liés à d'autres, très délicats, d'ordre chronologique. La légende d'Enée est présente très tôt en Italie central e, mais le Troyen n'a pas été dès l'abord considéré comme le porteur des Pénates et l'ancêtre fondateur. D'autre part, le fait qu'il n'ait jamais reçu de culte à Rome, où sont pourtant conservés les Pénates du peuple romain, semble former avec ce rôle d'ancêtre des Romains une curieu se contradiction, que seule permettra de résoudre l'étude des relations entre Rome et Lavinium. En définitive, l'orientation qu'a prise notre recherche semblera peut-être paradoxale : en voulant étudier des dieux dont nous avions pu penser que, de par leur nom, ils étaient éminemment rivés au sol romain, nous nous sommes aperçu qu'ils étaient, en réalité, liés à toutes les influences extérieures à la cité qui ont contribué à en modeler l'image.
PREMIÈRE PARTIE
ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT
CHAPITRE I
ETYMOLOGIE : PENATES ET PENUS
I - L 'ETYMOLOGIE DE PENATES L'explication étymologique du mot Penates semble avoir été incer taine dans l'Antiquité, si l'on s'en rapporte à un passage où Cicéron a cherché, le premier, à expliquer le nom de ces dieux : di Penates, sine a penu ducto nomine (est enim omne quo uescuntur homines penus), siue ab eo quod penitus insident; ex quo etiam penetrates a poetis uocantur1. Cicéron propose ici deux etymologies de Penates : le mot vient soit de penus, soit de penitus, chacune des deux explications permettant d'ex pliquer une caractéristique de ces dieux : la première, à laquelle Cicé ron fait allusion sans l'expliciter, semble être de protéger la nourriture, ce pourquoi leur nom est expliqué comme un dérivé de penus, mot défi nipar Cicéron comme signifiant «la nourriture»; leur seconde caracté ristique est de résider dans la partie la plus retirée de la maison; aussi leur nom peut-il s'expliquer comme apparenté à penitus «à l'intérieur». Mais entre ces deux etymologies possibles (siue), Cicéron n'établit aucu ne relation, n'indique pas s'il faut considérer les radicaux de penus et de penitus comme hétérogènes (ce que semble suggérer le sens qu'il donne à l'un et à l'autre mots), ou s'il existe un rapport entre eux. Penates est formé sur un thème pen-, auquel est ajouté un suffixe -ates, -atium2; sur ce thème sont formés aussi penus, penes, penitus, penetro, penetralis, et quelques autres mots moins fréquents. Or, il sem ble qu'il existe dans cette famille de mots un flottement sémantique entre le sens de «à l'intérieur», présent dans penes, penitus, penetro, et
1 De Nat. Deor. II, 68 : « les dieux Pénates, qui tirent leur nom soit du penus (tout ce dont les hommes se nourrissent s'appelle penus), soit du fait qu'ils résident à l'intérieur; de là vient que les poètes les appellent aussi penetrates ». 2 A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, 4è éd., Paris, 1960, s.u. penus.
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celui de «nourriture», attesté dans l'usage courant de penus qu'exprime sans ambiguïté la définition de Cicéron : est . . . omne quo uescuntur homines penus. Mais il existe un autre emploi du mot penus, dans l'e xpression Penus Vestae, qu'il faut rattacher aux mots de la première série, étant donné la définition qu'en donne Festus : Penus uocatur locus Intimus in aede Vestae tegetibus saeptus3; locus y indique clair ement un sens spatial. Nous retrouvons donc, dans ce groupe de mots, les deux sèmes que Cicéron percevait dans le nom des Pénates. Penates est-il formé sur penes ou sur penus? Penes est considéré comme un locatif sans désinence de penus4, devenu préposition avec le sens de «à l'intérieur de» ou «chez»5. E. Norden6, S. Weinstock7, P. Monteil8 supposent que Penates est construit sur penes. Mais la morphologie de penus permet d'expliquer Penates comme l'un de ses dérivés. Nous savons en effet, par les propos qu'Aulu-Gelle prête à un grammairien, que penus avait une pluralité de formes : Penus quoque, inquit, uariis generibus dictum et uarie declinatum est. Nam et «hoc penus» et «haec penus» et «huius peni» et «penoris» ueteres dictauerunt9. Plutôt que de considérer que les deux premières formes corres pondent à une variation du genre du mot, et les deux suivantes à une variation de déclinaison, il faut, croyons-nous, prendre en compte les quatre formes dans leur ensemble, ce qui donne pour penus la morphol ogie suivante : penus, oris (n), penum, i (n), clairement indiqués par Aulu-Gelle; huìus peni doit sans doute être rapporté à un masculin
3 296 L. 4 A. Walde, Lateinisches Etymologisches Wörterbuch, Heidelberg, 1906, p. 572; F. Muller-Izn, Altitalisches Wörterbuch, Göttingen, 1926, p. 330; J. Pokorny, Indogermanis ches Etymologisches Wörterbuch, Berne-Munich, 1948-59, p. 807; Α. Walde- J. Β. Hofmann, Lateinisches Etymologisches Wörterbuch, Heidelberg, 1930-35, p. 282; A. Ernout-A. Meillet, loc. cit. ; ces formes de locatif sans désinence ont été étudiées par M. Leuman-J. B. Hof mann, Lateinische Grammatik I, 2e éd., Munich, 1977, p. 412. 5 Dans ce dernier sens, penes est à peu près synonyme de apud, mais il est moins usité que lui (on le trouve cependant chez Cicéron, Horace, Tite-Live); Festus (20 L) éta blit une différence d'emploi entre les deux prépositions : apud et penes in hoc differunt, quod alterum personam cum loco significai, alterum personam et dominum ac potestatem, quod trahitur a penitus ; cette dernière explication, qui rapproche curieusement potestas et penitus, se fonde peut-être sur un passage de Varron cité infra p. 15 n. 13. 6 Alt Germanien, Leipzig-Berlin, 1934, p. 98 n. 4. 7 R.E., XIX, 2, s.u. Penates, col. 419. 8 Eléments de phonétique et de morphologie du latin, Paris, 1970, p. 194. 9 N. AU. IV, 1, 2.
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penus, i, attesté chez Piaute10. Nous avons, par conséquent, trois thè mes dans ces formes : un thème sigmatique -os/es dans penus, oris, un thème en —o/-e dans penus, i, un thème en -u, enfin, dans penus, us; le mot a donc une morphologie multiple : trois genres et trois déclinai sons11. Sur la forme penus, i, Pen-ates a pu être formé par dérivation, à l'aide du suffixe -aies ajouté au radical sans la voyelle thématique. On forme de même, à partir d'Arpinum, Arpin-ates. Il est donc inutile de supposer, comme l'a fait F. Borner12, l'existence d'une forme *penuates, construite à partir du thème en -u, et d'où viendrait Penates13.
II - Sens de penus Si l'on considère que les Pénates sont les «dieux du penus», il reste à éclairer la signification de ce mot. Il est employé, nous l'avons vu, dans deux acception : le Penus Vestae du sanctuaire de la déesse sur le Forum est un locus, mais partout ailleurs, le mot désigne des provisions de diverses sortes, et ses dérivés portent soit l'un, soit l'autre de ces deux sèmes.
10 Pseud., 178 : penus annuus. 11 Le texte d'Aulu-Gelle est corroboré par un passage de Servius {Ad Aen. I, 703) : Sane dicimus et hic et haec et hoc penus, sed a masculino et a feminino genere quarta est declinatio, a neutro tertia, quo modo pecus pecoris; unde Horatius «portet f rumenta penusque»; masculino uero genere Plautus «nisi mihi annus penus datur», feminino Lucilius posuit, ut «uxori legata penus». Quartae autem declinationis esse Persius docet, ut «in locuplete penu defessis pinguibus Vmbris ». 12 Rom und Troia, Baden-Baden, 1951, p. 56. 13 G. Radke a proposé une tout autre hypothèse {Die Götter Altitaliens, Münster, 1965, p. 247-252, reprise dans Die dei Penates und Vesta in Rom, A.N.R.W., Π, 17, 1, Ber lin-New-York, 1981; p. 355-358): pénates viendrait de penes, lui-même dérivé de* potis, « maître » ; les Pénates seraient les dieux s'occupant de tout ce qui relève de la potestas du maître de maison. A l'appui de cette hypothèse, G. Radke cite Varron {De L.L. V, 58), selon qui, dans les Libri Augurales, les Pénates étaient appelés diui qui potes, nom qui rappelle les θεοί δυνατοί de Samothrace. Cette explication, reprise par D. P. Harmon {The Family Festivals of Rome, A.N.R.W., II, 16, 2, Berlin-New- York, 1978, p. 1593), ne nous paraît pas convaincante; on comprend mal la relation établie entre pen- et pot-, et la signification qu'aurait ici le suffixe -aies, que nous étudions plus loin. Il est également peu probable qu'il y ait un rapport étymologique entre Penates et les Penestes étrusques (cf. J. Heurgon, Les Penestes étrusques chez Denys d'Halicarnasse (IX, 5, 4), Latomus, 18, 1959, p. 715).
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1) Penus dans le vocabulaire profane Envisageons d'abord l'usage courant, profane, de penus. Cicéron en propose comme définition : omne quo uescuntur homines ; définition brève, et assez restrictive, car elle implique que le penus ne représente que ce qui compose l'alimentation, et non pas, plus généralement, les produits nécessaires à la vie matérielle des hommes. C'est Aulu-Gelle qui, parmi les auteurs anciens, donne la plus lon gue et la plus complète définition du mot penus. Il rapporte une conversation que sont censés tenir le philosophe Favorinus et un gram mairien un peu hâbleur. Favorinus, interrogeant son interlocuteur sur la nature du penus, fait remarquer, pour expliquer les difficultés que ce dernier éprouve à répondre, que le sujet est fort ardu, et que les spécial istesn'ont pas toujours su donner une définition juste du mot : ne Uli quidem ueteris iuris magistri, qui sapientes appellati sunt, definisse satis recte existimantur, quid sit «penus»14. Cette remarque est intéressante à un double titre : elle indique nettement que, pour les Anciens, la défini tiondu penus n'était pas claire et était un sujet de controverse entre juristes15. Par ailleurs, la référence aux ueteres iuris magistri est signifi cative : si les anciens juristes se sont intéressés à la définition du mot, c'est qu'elle intervenait dans les questions de propriété et d'héritage; on est donc fondé à penser que, pour eux, le penus est bien un ensemble de denrées, dont il s'agira de préciser très exactement la nature, non une pièce ou un lieu particulier de la maison car on voit mal alors com ment, dans les questions d'héritage, sa destination aurait pu être fixée indépendamment de celle des autres pièces de la maison. C'est en ce sens aussi qu'il faut interpréter l'un des plus anciens emplois de penus que nous connaissions, chez Lucilius : Legauit quidam uxori mundum omne penumque; Quid mundum (atque penum)? Quid non? Quis diuidet istuc?16 Penus désigne sans doute ici un ensemble de biens de consomma-
14 N. Att. iv, 1, 16. 15 L'O.L.D. (p. 1326 s.u. penus) distingue un sens «juridique» à l'intérieur de la rubri queconsacrée au sens de «nourriture», «provisions» (sens lb). 16 XVI, 6.
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tion, mais le poète suggère que sa délimitation est fluctuante, ce qui justifie les querelles d'héritage17. Aulu-Gelle, dans le texte déjà cité, nous offre une image très signifi cative des débats grammaticaux (nous l'avons vu), mais aussi philoso phiques et juridiques auxquels donne lieu la définition du penus. Débat philosophique d'abord, à propos de la notion même de définition; à la question de Favorinus concernant la nature du penus, le grammairien donne une réponse naïve, qui consiste à énumérer ce qui peut être qual ifié de penus : quis adeo ignorât «penum» esse uinum et triticum et oleum et lentim et fabam atque huiusce modi cetera18; mais Favorinus objecte aussitôt que certaines céréales, ou certaines graines (milium et panicum et glans et hordeum) ne font pas partie du penus, contraire ment à ce que laisse entendre l'expression huiusce modi cetera, et cela pose le problème logique de la définition19. Favorinus aborde alors la question sous le seul aspect qui offre une réponse à peu près satisfai sante, son aspect juridique; encore souligne-t-il que les définitions qu'ont données du penus les ueteris iuris magistri divergent sur certains points. Ces juristes semblent à peu près unanimes sur la personne des des tinataires du penus : il ne peut s'agir que du paterfamilias, ses enfants et sa familia, à l'exclusion de ceux qui travailleraient pour lui dans une entreprise20. Toutes les denrées destinées à la vente sont, de même, exclues du penus selon Q. Mucius Scaevola, pour qui le penus se limite aux provisions qui peuvent être consommées dans l'année par le pater familias et son entourage proche, à l'exclusion de toutes les denrées excédant cet usage, qui seront donc vendues21. Cet usage familial, non mercantile, du penus, est fondamental, et paraît être la pierre de tou che permettant d'admettre ou de refuser à certaines denrées le titre de penus. C'est ainsi que, selon Masurius Sabinus, la nourriture des ani-
17 Voir F. Charpin, Lucilius, C.U.F., Paris, 1979, Notes complémentaires, p. 249-250. 18 IV, 1, 7. 19 Cf. Aulu-Gelle, Les Nuits Attiques I-IV, éd. de R. Marache, C.U.F., Paris, 1967, p. 190, n. 1. 20 C'est ainsi qu'il faut comprendre, selon R. Marache (op. cit., p. 191-192 n. 3) l'e xpression familiae eius, quae circum eum aut liberos eius est et opus non facit (IV, 1, 17). 21 N. AU., IV, 1, 23 : ex his autem quae pomercalia et usuaria isdem in locis essent esse ea sola penoris putat (Q. Mucius Scaevola) quae satis sint usu annuo. Sur Q. Mucius Scae vola, voir Kubier, R.E., XVI, 1, s.u. Mucius, n°22, col. 437-446.
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maux dont le maître se sert peut être considérée comme penus22, par opposition, sans doute, à celle des bêtes utilisées dans les exploitations agricoles. Sur la nature des provisions constituant le penus, les doctrines des juristes anciens, selon l'exposé qu'en fait Favorinus, paraissent diverger davantage; d'après Q. Mucius Scaevola, le penus est quod esculentum aut poculentum est, définition étroite, semblable à celle qu'en donne Cicéron; au contraire, Catus Aelius et Servius Sulpicius, aux dires de Favorinus, incluent dans le penus, outre boissons et aliments, des pro duits utilisés dans la vie domestique comme l'encens et les bougies {thus, cereos)23, et certains juristes y comprennent également ce qui sert à préparer les provisions, comme le bois et le charbon24; dans cet tedéfinition élargie, il faut mettre aussi la nourriture des animaux utili séspar le maître. Enfin, la troisième caractéristique des provisions que l'on peut lég itimement désigner du terme de penus, selon Q. Mucius Scaevola cité par Favorinus, est l'usage différé qui en est fait; le penus ne fait pas l'objet d'une consommation immédiate, mais est tenu en réserve au fond de la maison, et il est remarquable qu'un rapport étymologique implicite soit établi ici entre penus et penitus, renforcé par l'emploi des mots reconduntur et intus pour caractériser le mode de conservation propre au penus25; il ne nous paraît pas douteux que l'auteur de cette définition joue sur les deux sèmes contenus dans le radical pen-. L'usa ge à long terme des provisions contenues dans le penus est également suggéré dans un passage de Perse26, et nettement affirmé par Servius : inter penus et cellarium hoc interest, quod cellarium est paucorum die-
22 IV, 1,21: etiam quod iumentorum causa apparatum esset quibus dominus uteretur; sur Masurius Sabinus, voir Steinwenten, R.E., I A2, s.u. Sabinus, n°29, col. 1600-1601. 23 IV, 1, 20. Sur Catus Aelius, voir Klebs, R.E., I, 1, s.u. Aelius n° 58, col. 492-493; sur Servius Sulpicius, Münzer et Kubier, R.E., IV, Al, s.u. Sulpicius n° 95 (Münzer, col. 851857, Kubier, col. 857-860). 24 Ibid. 25 IV, 1, 17 : nam quae ad edendum bibendumque in dies singulos prandii aut cenae causa paratum, «penus» non sunt; sed ea potius, quae huiusce generis longae usionis gratia contrahuntur et reconduntur, ex eo, quod non in promptu sint, sed intus et penitus habeantur, «penus» dicta est. 26 Sat. Ill, 73-75 : Bisce nee inuideas quod multa fidelia putet In locuplete penu defensis pinguibus Vmbris Et piper et pernae, Marsi monumenta clientis.
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rum, penus uero temporis longi27. Nous avons dit plus haut que la limi te de ce long terme était, pour les juristes, une année28. Dans tous les emplois que nous en avons relevés, penus désigne les provisions elles-mêmes, non la réserve aux provisions. Le seul cas qui prête à discussion est sans doute le passage de Perse : in locuplete penu pourrait en effet désigner une pièce, ou une sorte d'armoire; mais il est possible aussi de l'interpréter comme signifiant «parmi les provisions», «dans les provisions», et nous penchons plutôt pour cette interprétat ion, en raison du caractère d'hapax que revêtirait une interprétation spatiale du mot dans le vocabulaire profane. Pour désigner le local où l'on conserve les provisions, on emploie l'expression cella penaria, où la parenté entre penaria et penus est manif este. Nous trouvons une mention de la cella penaria, au sens large de «réserve à provisions», chez Cicéron : itaque ille M. Cato Sapiens cellam penariam rei publicae nostrae, nutricem plebis Romanae Siciliani nominabat29. Mais d'autres emplois de l'expression permettent d'en préciser le sens. Un autre texte de Cicéron établit une distinction entre trois types de cellae : semper enim boni assiduìque domini cella uinaria, olear ia, etiam penaria referta est30; l'idéal du bon propriétaire est donc d'avoir trois réserves, parmi lesquelles la cella penaria se définit dans un système d'opposition aux deux autres. A première vue, on pourrait penser que les deux premières cellae contiennent les aliments liquides, la cella penaria les aliments solides, notamment les céréales, comme la désignation par cette expression de la Sicile, grand fournisseur de Rome en blé31, invite à le faire. Mais ce passage du Cato Maior, censé reproduire les paroles de Caton lui-même, doit plutôt être éclairé par un rapprochement avec quelques lignes du De Agricultural·, patrem familiae uillam rusticani bene aedificatam habere expedit, cellam oleariam, uinariam, dolia multa, uti lubeat caritatem exspectare. Seules sont mentionnées les cellae contenant l'huile et le vin, réserves qui permett ent au bon propriétaire d'attendre le moment où ces denrées atte ignent leur cours le plus élevé {uti caritatem exspectare lubeat) pour les mettre en vente; il faudrait donc comprendre que, par opposition, et 27 28 29 30 31 32
Ad Aen. I, 703. L'expression penus annuus se trouve aussi chez Plaute (Pseud. 178). Verr. II, 2, 5. Cat. Mal, 56. Cf. M. Finley, La Sicile antique, Paris, 1986, p. 129-130 (trad. J. Carlier). De Agr., 3.
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conformément à la définition de Q. Mucius Scaevola, la cella penarla renfermait les provisions destinées à l'usage familial. Plutôt que penus, on disait donc cella penarla pour désigner la réserve aux provisions33, expression dans laquelle il est clair que cel la donne la référence spatiale, et penarla définit un contenu. Sur la localisation de cette cella dans la domus romaine classique, c'est Varron qui nous fournit les renseignements les plus précis : circum cauum aedium, erant uniuscuiusque rei utilitatis causa parietibus dissepta : ubi quid conditum esse uolebant, a celando cellam appellarunt; penariam ubi penus, ubi cubabant, cubiculum, ubi cenabant, cenaculum3A; l'expression cauum aedium désigne sans aucun doute Y atrium, d'après une indication fournie peu auparavant par Varron35; la cella penaria était donc l'une des chambres latérales donnant sur l'atrium, et le penus se trouve ainsi conservé dans la partie la plus ancienne, la plus centrale de la maison. Mais le texte de Varron donne en outre de la localisation de la cella penaria dans la maison une justification intéressante : l'étymologie fantaisiste qui met en rapport cella avec celare souligne que la réserve aux provisions se trouvait dans un endroit «caché» de la maison, ce que, d'autre part, exprime aussi conditum. Il faut d'ailleurs rapprocher l'emploi de ce terme du verbe reconduntur, que Q. Mucius Scaevola, cité par Aulu-Gelle, utilisait pour définir le penus. Signalons, enfin, que des esclaves étaient attachés à l'approvisio nnement de la réserve. Certains, selon Caton cité par Festus, étaient chargés de porter le penus : penatores qui penus gestanti. Il est probab le qu'il s'agissait de simples exécutants, d'esclaves à qui on confiait la charge de transporter les provisions dans la cella penaria, et de les en sortir. C'est là l'unique attestation du mot penator, mais Plaute, pour sa
33 L'expression que l'on trouve chez Vitruve, cum penu cellas (VI, 150), dans la des cription de la demeure grecque, ne nous semble pas pouvoir être considérée comme un terme d'architecture désignant spécifiquement «la réserve aux provisions». Varron consacre les dernières pages du 1. I des Res Rusticae à la conservation des fruits, mais il n'y désigne pas comme cella penaria la réserve où on les entreposait. 34 De L. L. V, 162. 35 De L. L. V, 161 : cauum. aedium dictum, qui locus intra parietibus relinquebatur patulus qui esset ad omnium usum. 36 268 L.
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part, cite un procurator peni37, le Pseudolus lui-même, qui, dans ces fonctions, se présente comme un esclave38. 2) Le Penus Vestae Sur le Penus Vestae, la source principale de nos renseignements est Festus : Penus uocatur locus intimus in aede Vestae tegetibus saeptus qui certis diebus circa Vestalia aperitur39. L'Aedes Vestae est celle du Fo rum, contigue à l'Atrium Vestae et à la Regia40. Le témoignage fourni par ce texte est précieux, car le Penus, selon les indications qu'il donne, étant délimité par des nattes, matériau périssable, on s'explique la min ceur des données archéologiques à ce sujet; peut-être, comme le suggè re F. Coarelli41, faut-il reconnaître l'emplacement du Penus dans une cavité de forme trapézoïdale d'un peu plus de 2 mètres de côté, s'ouvrant sur le podium, et auquel on ne pouvait accéder que depuis la cel la. Festus donne une définition spatiale du Penus qui va à l'encontre des emplois du mot dans le vocabulaire profane, tandis que intimus et tegetibus, lui-même dérivé de tego «couvrir»42 expriment l'idée d'« int ime», de «profondément caché». D'autre part, l'usage des tegetes pour former les cloisons doit sans doute être interprété comme une marque de conservatisme religieux; selon W. Altmann, ce mode de cloisonne ment était le plus ancien, et servait à délimiter les espaces intérieurs dans la hutte primitive43; Ovide souligne d'ailleurs le caractère archaï que qu'a toujours conservé l'extérieur de l'édifice, reproduisant de son temps encore l'aspect qu'il avait «au temps de Numa»44; les cloisons de 37 Pseud. 608 : Condus promus sum, procurator peni. 38 Pseud. 601 : Nunc quidem etiam seruio. 39 296 L; cf. G. Radke, Die dei Penates und Vesta in Rom, p. 358-361. 40 Pour une bibliographie sur YAedes Vestae, voir infra p. 454 n. 1. 41 Roma (Guide archeologiche Laterza), Rome, 1980, p. 82. 42 A. Ernout-A. Meillet, op. cit., s.u. tego. 43 Die Italischen Rundbauten, Berlin, 1906, p. 59; selon l'auteur, ce type de cloison séparait, dans la maison primitive, la partie réservée aux hommes de celle réservée aux femmes. 44 Fastes VI, 263-266 : Hic locus exiguus, qui sustinet atria Vestae tune er at intonsi regia magna Numae; forma tarnen templi, quae nunc manet, ante fuisse dicitur et formae causa probanda subest.
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nattes, à l'intérieur de l'édifice, seraient une autre illustration de cet archaïsme. La seconde partie du texte de Festus a trait à l'ouverture du Venus certains jours de l'année, et au caractère sacré de cette ouverture, lié à la nature des objets contenus dans le sanctuaire45. Le grammairien Véranus, cité par Festus, parle d'un penus exterior, où serait conservée la mûries, saumure préparée par les Vestales en vue de certains sacrifi ces46.A. Preuner fait justement remarquer que la notion de penus exte rior ne contredit pas celle que suggère l'expression locus intimus, com me en témoigne la présence du mot intus47. La mention d'un penus exterior, impliquant l'existence d'un penus interior (au demeurant j amais mentionné dans les textes qui nous sont parvenus) suggère qu'il y avait, en quelque sorte, deux degrés dans le secret : le penus interior représentait «le saint des saints», où étaient sans doute conservés les pignora imperii. Il est à noter, d'autre part, qu'aucun texte ne désigne par le terme de Penus Vestae ni les ingrédients nécessaires aux sacrifi ces, ni les sacra populi Romani : conformément à la définition qu'en donne Festus, le Penus Vestae est un locus. 3) Rapport entre les deux sens de penus. Le thème penLes deux significations du mot penus renvoient, nous l'avons dit, à deux séries de mots, construits sur le thème pen-, spécialisées l'une dans le sens de «à l'intérieur de», l'autre de «nourriture»48. Ce sont, d'une part, les mots formés sur penes, lui-même ancien locatif de penus, pré position signifiant «à l'intérieur de», «chez»: l'adverbe penitus «à l'i ntérieur de, au fond» (cf. funditus, radicitus, stirpitus), parfois employé comme adjectif dans la langue archaïque et post-classique avec le sens de «qui se trouve au fond»; penetro «pénétrer», formé sur penitus, d'où penetralis «secret, retiré», et, tardifs, penetrabilis, penetrano et penetrator; d'autre part, autour du sens de «nourriture, provisions», on a, 45 Voir infra p. 454-470. 46 152 L : mûries est quae est intus in aede Vestae in penu exteriore ; voir C. Koch, R.E., VIII A2, s.u. Vesta, col. 1730 : les Vestales conservaient aussi dans le Penus les diffé rents ingrédients sacrés nécessaires aux sacrifices : mola salsa, paille de fève du rituel des Parilia, sang du Cheval d'Octobre, cendres des veaux morts-nés extraits des vaches sacri fiées lors des Fordicidia. 47 Hestia-Vesta, Tübingen, 1864, p. 268. 48 A. Ernout-A. Meillet, op. cit., s.u. penus.
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construits sur penus, penarius «où l'on range les vivres», et penator «ce lui qui est chargé des vivres». L'existence de deux sèmes pour cet ensemble de mots a conduit A. Walde à supposer qu'ils sont construits sur deux thèmes49; il distin gue un thème pen-, contraction de deux prépositions, έπί («sur») et en («dedans»), donnant une forme epen, puis pen, signifiant à peu près «tout là-dedans»50; la contraction des deux prépositions serait un fait isolé, spécifique du latin, et sans correspondant dans d'autres langues; sur ce thème serait formé le mot penus au sens de «l'intérieur de la maison», dont Penates serait un dérivé. A. Walde distingue ce penus d'un mot homophone, signifiant «la réserve aux provisions», et qu'il conviendrait de mettre en relation avec le lituanien penù, peneti «nourr ir»,les messapiens πανία «l'abondance» et πανός = lat. panis; ce thè me pa- se trouverait aussi dans le latin pascor. Ainsi, A. Walde suppose que seul l'un des deux mots penus serait à l'origine du nom des Pénat es,«dieux de l'intérieur de la maison»51. Cette hypothèse n'a pas été reprise, et les savants qui ont, après A. Walde, étudié l'étymologie de ces mots, les rattachent à un thème unique, pen-, qu'ils rapprochent toutefois d'autres thèmes indo-euro péens, mais sans indiquer clairement la relation existant entre ces dif férentes familles de mots. Ainsi, F. Muller-Izn52 considère que tous les mots qui nous intéres sent,penus, penes, penitus, pénates, dérivent d'un seul radical pensignifiant «l'intérieur de»: penus désigne l'intérieur de la maison, ou du temple dans l'expression Penus Vestae, et c'est sur ce dernier mot qu'est formé, à l'aide du suffixe -ates, pénates «les dieux de l'intérieur de la maison». Muller-Izn rapproche ce radical de ceux que citait, sans en tirer de conclusion, Walde, pen-/pon- «travailler», et le lituanien penù «nourriture», que lui-même met en relation d'une façon assez curieuse: «travailler pour s'assurer de la nourriture»; malgré cette série de rapprochements hasardeux, Muller-Izn n'explique pas la rela tion sémantique qui existerait entre pen- «à l'intérieur de» et pen- «tra vailler pour s'assurer de la nourriture».
49 Op. cit., p. 571 sq. 50 Op. cit., p. 573 : «dabei drinnen, ganz drinnen». 51 La même distinction entre deux mots penus est reprise dans A. Walde-J. Pokorny, Vergleichendes Wörterbuch der Germanischen Sprachen, Leipzig, 1926, t. II, p. 25. 52 Op. cit., p. 330-331.
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Pour J. Pokorny53, penus, penes, pénates sont formés sur une base unique pen-, mais le sens premier de cette dernière serait «nourrir», «nourriture», et aussi «dépôt de nourriture»; c'est grâce à ces sens multiples du mot penus que se fait le passage du sens de « nourriture » à celui d'« intérieur» : il désigne en effet soit «les provisions de bouche», soit «l'intérieur de la maison», où la nourriture était conservée; c'est ce dernier sens que l'on trouve dans le locatif penes «chez», dans l'adject if -adverbe penitus «profond, profondément», dans la désignation com mepénates des «dieux de l'intérieur de la maison». J. Pokorny rappro che ce thème du lituanien penù «nourriture», et de la base pa-. J. B. Hoffman54 estime, pour sa part, que sur le radical pen- ont été formés penus «l'intérieur de la maison», Penates «les dieux de l'int érieur de la maison», le sème «à l'intérieur de» se trouvant aussi dans penitus, penetro, etc. . . Ayant mis en doute l'explication donnée par Walde de ce radical, consistant à voir en lui la contraction de deux pré positions, Hofmann n'en propose aucune autre, et constate la fragilité du rapprochement de ce radical avec la racine pen-/pon- «travail ler»55;mais il estime aussi qu'il est bien difficile de refuser, comme l'avait fait Walde, de considérer que penus «l'intérieur de la maison», et penus «les provisions de bouche» sont le même mot; en ce denier sens, penus lui paraît pouvoir être rapproché de la racine de pasco, mais il constate que la relation entre pen- et pa- n'est pas claire56. A. Ernout et A. Meillet57 renoncent à rapprocher le thème pend'autres racines indo-européennes, et réussissent à rendre compte de la relation entre les deux sens de penus, qui ne constitue pour eux qu'un seul mot, par une explication historique : à l'origine, le mot aurait signi fié«la partie intérieure de la maison», sens qu'il a conservé dans le domaine religieux pour le Penus Vestae; mais à l'époque classique, il signifie «les provisions de bouche», cachées à l'intérieur de la maison, ce qui apparaît très clairement, notent-ils, dans la définition de Cicéron : est ... quo uescuntur homines penus; les Pénates seraient «les dieux dont les images sont conservées à l'intérieur de la maison»58;
53 Op. cit., p. 807. 54 Op. cit., p. 282. 55 Op. cit., p. 281. 56 Op. cit., p. 283. 57 hoc. cit. 58 Cette définition semble appuyée par un passage de Festus : penetralia sunt Penatium deorum sacrarla (231 L). Mais un texte de Servius {Ad Aen II, 484 : penetralia id est
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dans penitus, penetralis, etc. . ., on trouverait la signification de «pro fond» originellement présente dans penus. Toutefois, ajoutent A. Ernout et A. Meillet, aucun rapprochement sûr n'est permis entre cette famille de mots et les racines pa- «nourrir», et pen- «travailler pénible ment». Nous ne sommes pas très éloignés, dans cette hypothèse, de l'e xplication proposée par Muller-Izn, mais, à l'encontre du savant all emand, A. Ernout et A. Meillet renoncent à établir une explication ét ymologique de ce groupe de mots, «malgré son aspect indo-européen». Si, refusant l'hypothèse selon laquelle deux thèmes de sens diffé rents auraient servi de base à la formation des mots qui nous occupent, et admettant qu'ils ont été formés sur un thème unique, nous cher chons à rendre compte de leurs différents sens, nous sommes conduit à nous demander quelle est la signification originelle du thème pen-. Deux hypothèses sont alors possibles : ou bien le sens premier est «nourriture» (c'était la suggestion de Pokorny), et le sens de «à l'int érieur de» en est dérivé, ou bien (comme le pensent A. Ernout et A. Meill et), c'est le phénomène contraire qui s'est produit. Examinons la première de ces hypothèses. Du sens de «nourriture» qu'a penus dans le vocabulaire profane, on passerait à celui de «pro fondément caché à l'intérieur de»; c'est l'évolution sémantique suggé rée par l'O.L.D.59, qui donnerait à un substantif désignant d'abord une entité, «les provisions», le sens de «lieu où se trouve cette entité, «réser ve aux provisions», d'où «lieu retiré, lieu caché au fond du bâtiment». Une telle hypothèse présente des difficultés pour expliquer l'usage de l'expression Penus Vestae : d'une part, cette réserve ne contient pas que des provisions destinées aux sacrifices, mais aussi les sacra du peuple romain60, et il faudrait alors considérer que le Penus n'était pas orig inellement destiné à les renfermer, ce qui reste indémontrable; d'autre part, les objets enfermés dans cette «réserve» ne sont jamais, nous l'avons vu, désignés du terme de penus. Considérons à présent l'autre hypothèse : le sens primitif de penus serait «la partie intérieure de la maison», puis le mot aurait désigné «la réserve aux provisions», qui occupait cet emplacement, et enfin «les
domorum secreta, dicta penetralia aut ab eo quod est penitus, aut a penatibus) semble considérer que penitus et pénates ne sont pas construits sur le même radical; voir infra p. 29 sq. 59 P. 1326, s.u. penus. 60 Ovide, Fastes VI, 450; Liv., V, 40; Plut., Cam., 20; voir infra p. 454 sq.
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provisions qui y étaient conservées». Il y aurait eu, comme dans la pre mière hypothèse, un glissement sémantique, mais en sens inverse : un mot désignant par son caractère essentiel («caché, profond») le lieu où se trouve une entité (les provisions) aurait fini par désigner cette entité elle-même. On pourrait d'ailleurs rapprocher cette évolution de celle du sens d'un mot comme sinus, désignant d'abord «le pli de la toge situé sous la poitrine», puis «la poitrine», et enfin «les sentiments», dont la poitrine est le siège supposé61. De même, et dans un registre sémantique plus proche de celui de penus, le substantif français «cave», qui désigne, par un mot exprimant sa localisation dans la mai son, «toute espèce de réduit souterrain», puis «une construction sous terre destinée à loger le vin et autres provisions», a fini par désigner, par extension, «les vins mêmes qu'on a en cave»62. Dans les mots for més sur la base pen-, le premier sème, celui de «profond», ou «à l'int érieur de», se serait maintenu dans les formations penes, penitus, penetralis, etc., et dans l'expression Penus Vestae, où il faudrait voir la fixa tion, dans un terme de la langue religieuse, d'un sens que le vocabulai re profane a perdu. Comme les cloisons de nattes qui le délimitaient, comme l'aspect extérieur du bâtiment qui l'abritait, le Penus Vestae, par son nom même, serait un vestige de l'époque archaïque. Si l'on admet cette hypothèse, comment expliquer que penus, au sens de «partie intérieure de la maison, réserve aux provisions», semble avoir complètement disparu du vocabulaire profane? Nous avons vu qu'à l'époque de Caton, la réserve aux provisions est appelée cella penar la.Qu'en est-il pour l'habitat primitif? Dans ce qui a été retrouvé des huttes du Palatin, par exemple, rien ne peut être identifié comme une réserve aux provisions63. Il est d'ailleurs peu probable que, dans ces cabanes de taille modeste, le penus ait constitué une pièce à part, et il faut plutôt se le représenter comme une sorte de fosse creusée dans le sol, comparable à la cavité trapézoïdale dans laquelle F. Coarelli croit pouvoir reconnaître le Penus Vestae64. On peut penser, enfin, que si le
61 O.L.D., p. 1771, s.w. sinus, sens la et b, et là. 62 P. E. Littré, Dictionnaire de la langue française, s.u. cave. 63 S. M. Puglisi, Gli abitatori primitivi del Palatino attraverso le testimonianze archeologiche e le nuove indagine sratigrafiche sul Germalo, Mon. Line, XLI, 1951, p. 1-98; P. Ro manelli, Certezze e ipotesi sulle origini di Roma, Stud Rom, 13, 2, 1965, p. 4-18 (notamment tables I et II). 64 II n'est pas du tout certain que l'on puisse identifier comme une «réserve aux pro visions» la fosse de 1,50 m de profondeur que l'on a trouvé sur le flanc d'une des cabanes
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mot penus ne désigne jamais «la partie intérieure de la maison» dans les textes littéraires, c'est que l'évolution de l'architecture domestique a rendu sans objet son emploi, comme pourrait le faire penser le terme de cella penaria, dont nous avons déjà relevé l'emploi; à mesure que la maison s'agrandit, les pièces se multiplient et se spécialisent dans tel ou tel usage bien défini. Le mot penus, qui n'aurait en fait jamais désigné à proprement parler une pièce de la maison, mais une réserve souterrai ne, n'aurait plus alors eu d'emploi que pour exprimer ce que contenait la cella penarla, avec laquelle son rapport étymologique devait être sent i comme évident. F. Borner a proposé à ce problème une solution originale65. Selon lui, le penus, dont le sens premier est «réserve aux provisions», était originellement un édifice distinct de la maison, un silo de forme ronde. Cette forme se retrouve, note-il, dans le plan de YAedes Vestae - dont d'autres savants ont donné une tout autre interprétation66 -, ce qui n'a rien de surprenant puisque cet édifice contient le Penus Vestae, celui de la cité. La situation de cette construction ronde, distincte de la Regia, maison du roi, mais néanmoins proche d'elle, est sans doute analogue, pense F. Borner, à celle de la maison primitive et de son penus, type d'architecture privée dont le savant allemand estime qu'il est particuli èrement bien représenté dans les Monts Albains, proches de Rome, d'où il tire son origine. Mais F. Borner va plus loin : ces magasins à provi sions (penora) ont donné leur forme, non seulement, dans la vie rel igieuse officielle, au sanctuaire de Vesta sur le Forum, mais aussi, dans la vie privée, aux urnes funéraires, rondes également. Tandis que la forme de ces urnes, généralement désignées par les archéologues du terme d'« urnes-cabanes», a été interprétée comme la reproduction à
du Palatin; S. M. Puglisi (op. cit., P. 66) émet avec prudence l'hypothèse selon laquelle ce serait une carrière. Si on admet que le penus ait pu être une réserve souterraine, sa fonc tion serait alors en partie celle du mundus, et W. Warde-Fowler (Mundus patet, JRS, 2, 1912, p. 52 sq) a proposé de voir dans le mundus non pas une fosse mettant en rapport les vivants et les morts, mais le penus de la cité. Sur le mundus, voir F. Coarelli, Ara Saturni, Mundus, Senaculum. La parte occidentale del Foro in età arcaica, DArch, 9-10, 1976-77, p. 346 sq; A. Magdelain, Le Pomerium archaïque et le mundus, REL, 54, 1977, p. 71-109; A. Piganiol, Recherches sur les Jeux Romains, Strasbourg, 1923, p. 1-14. 65 Rom und Troia, p. 95-96. 66 Notamment G. Dumézil (La religion romaine archaïque, 2e éd., Paris, 1974, p. 322326), pour qui cette forme est l'expression du caractère terrestre de Vesta, qui règne dans un espace non orienté et non inauguré, par opposition aux dieux célestes, dont les templa sont définis par les quatre directions du ciel.
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échelle réduite des huttes primitives67 rondes, ovales ou carrées avec des angles arrondis, F. Borner, reprenant une hypothèse déjà avancée par Oelmann68, rejette cette interprétation pour voir dans ces objets des «urnes-garde-manger» («Speicherurne»); ainsi, ajoute-il -, les rap ports entre les vivants et les morts sont plus étroits encore, l'urne à provisions appartenant elle-même au domaine de la vie, comme tous les objets découverts dans ces urnes ou auprès d'elles : ustensiles d'argil e, armes, lampes; il arrive également, dit F. Borner, que l'urne ne contienne pas de cendres, mais simplement ces ustensiles, ces «supplé mentsde la tombe», comme il les appelle. Cette thèse originale présente des difficultés, fort justement rele vées par P. Boyancé69. Nous voudrions ajouter ici quelques remarques pour ce qui concerne directement notre propos. Tout d'abord, F. Bo rner assimile et confond l'ensemble de la construction de l'Aedes Vestae, et le Penus Vestae proprement dit; la forme ronde de la première ne préjuge en rien de ce qu'était celle du Penus (nous avons vu qu'une hypothèse archéologique lui donnait une forme trapézoïdale plutôt que circulaire); il est dès lors difficile de penser que le modèle architectural du Penus Vestae, c'est-à-dire du penus public, était celui du grenier à provisions rond de la maison privée. En second lieu, admettre que le penus, «réserve aux provisions», était à l'origine un édifice distinct de la maison paraît incompatible avec le sens du thème pen- dans penes, penitus, penetro, etc. . . : si le penus a d'abord été une construction indé pendante de la maison, aucune métonymie, aucune évolution sémanti que, ne peut expliquer qu'il se rattache à une famille de mots dont le sens est «à l'intérieur». C'est donc la seconde hypothèse, donnant comme premier sens à penus «lieu le plus profond de la maison», puis de «réserve aux provi sions», d'où viendrait celui de «provisions», qui nous paraît la plus pro bable. Cette hypothèse, qui considère le sens spatial comme originel70,
67 Cf. F. Cumont, Lux Perpetua, Paris, 1949, p. 15 : «Fréquemment, l'urne funéraire elle-même reproduit plus ou moins exactement l'apparence de la hutte où s'abritaient les vivants»; voir aussi W. Altmann, op. cit., p. 14 et 59. 68 Bonner Iahrbücher, 134, 1929, p. 1 sq. 69 Les Pénates et l'ancienne religion romaine, REA, 54, 1952, p. 109-115 (compte ren du de l'ouvrage de F. Borner, Rom und Troia) ; voir aussi le compte rendu de J. Heurgon, in Latomus, 11, 1952, p. 231-233. 70 Pour R. H. Klausen (Aeneas und die Penaten, Hambourg-Gotha, 1839-40, p. 636637), le sens de cette famille de mots n'est pas «à l'intérieur» au simple sens spatial, mais
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et fait donc des Pénates les «dieux de la partie intérieure de la maison», nous semble d'ailleurs confirmée, nous allons le voir, par la présence, dans le nom des dieux, du suffixe -aies.
III - Le suffixe -ates Le suffixe -as, -atis est défini par A. Ernout71 comme l'un des «suffixes de dérivation, marquant la provenance ou l'appartenance, et qui servent à former des ethniques», à côté de -no- (-ano-, -ino-, -uno-), -ensis (-esis, iensis); A. Ernout note qu'il est moins usité que les deux autres, et distingue trois catégories de mots dans lesquelles il apparaît : ce sont d'abord les adjectifs dérivés de thèmes pronominaux, cuias, «de quel pays», nostras, «de notre pays», uestras «de votre pays», et «d'autres dérivés» : Infernas et Supernas désignant la mer Adriatique et la mer Tyrrhénienne, summas et infumas, ou infimas, «gens de la plus haute ou de la plus basse qualité», optimates «les hommes du meil leur rang» (dans ces derniers mots, selon A. Ernout, le sens local s'atténuant pour faire place à un «sens moral»), Primas et Magnates «du pre mier rang» et «les Grands» (formes tardives du latin d'église). A. Er nout range dans cette série Pénates, où «penas est dérivé correctement d'un thème pen- figurant dans penes, penitus, penus»72; une autre catégorie, beaucoup mieux représentée que la première, est celle des noms gentilices, indiquant l'identité des individus, en particulier des affranchis, par un nom dérivé de celui de leur ville d'origine73. Ces anthroponymes, cependant, ne sont qu'une extension d'un type de for-
de l'intérieur «dans la mesure où il est le cœur et le centre vital de tout»; penes nos est voudrait dire non pas «il se trouve dans notre maison», mais «il est associé à la maison». Cette valeur affective nous paraît certaine (cf. infra p. 51 sq.) pour certains emplois méto nymiques de Penates, plus contestable pour les autres mots formés sur le thème pen-. 71 Le suffixe en-as, -atis, in Philologica III, Paris, 1965, p. 29. P. Monteil {op. cit., p. 194) note que ce suffixe, dérivé de thèmes en -a- du type Antemna-tes, a été utilisé, par extension, dans d'autres thèmes, du type Arpin-ates. 72 Op. cit. p. 32; le mot, comme un certain nombre d'autres présentant ce suffixe, n'est employé qu'au pluriel, malgré la possibilité morphologique d'un singulier* Penas ou* Penatis, relevée par le jurisconsulte Antistius Labeo cité par Festus (298 L) : Penatis singulariter Labeo Antistius posse dici putat qui pturaliter Penates dicantur; cum patiatur proportio etiam dici, ut optimas, primas, Antias. 73 Ce procédé a été relevé par Varron, De L.L. VIII, 83 (cité par A. Ernout, op. cit., p. 33).
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mation d'ethniques en -as, atis (comme Antias, Arpinas. . .), dont Pline, au livre III de son Histoire Naturelle, nous fournit une longue liste : on les rencontre dans le Bruttium, en Calabre, Apulie, Lucanie, Campanie, dans le Latium et le Samnium, en Ombrie, en Ligurie, et dans la Celti que. Ce tableau des emplois du suffixe -as, -atis nous donne une pre mière indication sur le sens qu'il est préférable de considérer comme originel dans le thème pen-. Dans tous ses emplois, le suffixe -as s'ajoute à une base à sens spatial, ce qui nous invite à donner à pen-, dans la formation Penates, le sens de «la partie la plus retirée de la maison». D'autre part, le suffixe -as, -atis exprime lui-même l'origi ne74,et on ne peut guère songer à l'associer à un mot ne désignant pas un lieu. Le sens de Penates est donc «ceux de l'intérieur de la maison» ou «ceux de la réserve aux provisions», et non «ceux qui s'occupent des provisions»; le suffixe -as n'entre pas dans la formation des noms d'agent, et ce serait penatores, attesté, selon Festus, chez Caton, qui cor-
74 Seuls deux mots présentant ce suffixe ne semblent pas exprimer l'origine; c'est anas, attesté chez Paulus-Festus (26 L : anatem dicebant morbum anuum), «incompréhens ible» pour M. Leuman-J. B. Hofmann {op. cit., p. 233), «forme suspecte» ou «imaginat ion de grammairien» pour A. Ernout {op. cit., p. 32); l'autre est sanates, défini par Pau lus-Festus (475 L : Sanates dicti sunt, qui supra infraque Romam habitauerunt. Quod nomen ideo his est inditum, quia, cum defecissent a Romanis, breui post in amicitiam, quasi sanata mente, redierunt). S'agit-il du nom d'un peuple voisin de Rome, comme supra infraque Romam pourrait le faire penser? Festus, en tout cas, ne met pas le mot Sanates en rapport avec un nom de ville, mais en donne une étymologie évidemment fan taisiste {sanata mente). Le témoignage d'Aulu-Gelle est assez sensiblement différent; un jurisconsulte rapporte aux «réglementations archaïques des Douze Tables» les notions juridiques suivantes {N. Att. XVI, 10) : proletarii et assidui et sanates et uades et subuades et uiginti quinque asses et taliones furtorumque quaestio cum lance et lido. Il est clair que les trois premiers termes font allusion à des catégories sociales, mais seules les deux pre mières sont connues par ailleurs; M. Leuman et J.B.Hofmann {loc. cit.) y voient une confusion avec sanatus; on trouve chez Pline la forme Manates, que M. Lejeune {Problè mes de philologie vénète I-VI, RPh, 25, 1951, p. 222-223) attribue à une lecture fautive d'une inscription du Ve siècle, «probablement apposée au lieu des réunions de la Ligue latine»; selon ce même savant, Sanates a pour origine un mot vénète, l'ethnique Sainatis, devenu en Vénétie une épithète divine, et, dans le Latium, l'ethnique Sanates. A. Ernout {op. cit. p. 33) admet l'hypothèse d'un nom de peuplade. Il faut sans doute écarter, com mele fait S. Weinstock {op. cit., col. 418) la suggestion de Norden {loc. cit.) selon laquelle Penates désignerait à l'origine une classe sociale tôt disparue, ou les dieux de cette classe sociale. P. Monteil {op. cit. p. 194) considère que les mots de la série optimates, summates, infimates ont fini par désigner des classes sociales.
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respondrait à ce dernier sens75. Il faut remarquer, toutefois, que Pen ates représente un type de formation isolé dans le groupe des dérivés en -as. En effet, les mots appartenant au premier groupe défini par A. Ernout sont formés sur des thèmes pronominaux, ou des radicaux servant à la formation d'autres adjectifs {infernas/inferus, supernas/superus, etc. . .). A cet égard, et bien qu'A. Ernout le rattache à ce groupe, Penates, s'il est, comme nous le pensons, formé sur penus, se rattacher ait plutôt, par son type de formation (substantif désignant un nom de lieu + suffixe -as), au groupe ethnique (Arpinas), à cette différence près que penus n'est pas un nom propre. On peut se demander, à ce point de l'enquête, quelle est la format ion la plus ancienne, celle des noms ethniques ou celle des adjectifs du type nostras. Cette dernière ne se rencontre qu'en latin, et elle est très souvent attestée chez Plaute, et une fois dans un fragment d'Ennius76; les ethniques se trouvent, nous l'avons vu, en latin, mais aussi dans d'autres langues italiques, ainsi qu'en étrusque et en gaulois77. En rai son de l'ancienneté attestée de la formation de type nostras en latin, E. Seyfried78 note qu'on pourrait considérer cette dernière comme l'origine du développement du suffixe -as dans les noms d'ethniques, italiques et non italiques, dont l'emploi se serait donc étendu à partir du Latium. Contre une telle hypothèse, il formule à juste titre l'objec tion suivante : étant donné que la plus grande partie des noms d'ethni ques en -as que nous connaissons n'apparaissent pas dans le Latium, il y a quelque invraisemblance à supposer que le suffixe est originaire de cette région. Aussi E. Seyfried, comme M. Leuman et J. B. Hofmann79, conclut-il au caractère primaire du suffixe dans les noms ethniques, son utilisation dans les mots du type nostras n'étant qu'une extension de cet emploi. 75 268 L : Penatores qui penus gestant. Cato aduersus M. Acilium quarta : postquam na[ti]uitas e nauibus eduxi, non ex militions atque nantis piscatores et penatores feci. Peutêtre faut-il voir, dans cet unique emploi attesté de penatores, une création μη peu artifi cielle, appelée par piscatores (cf. S. Weinstock, op. cit., col. 419); mais l'emploi du suffixe reste, néanmoins, significatif. 76 Cf. A. Ernout, op. cit., p. 31-32. 77 Cf. A. Ernout, op. cit., p. 34-54; pour l'osco-ombrien, voir R. von Planta, Grammat ik der Oskisch-Umbrischen Dialekte, 2e éd., Berlin-New-York, 1973, t. II, p. 51-52; pour l'étrusque, W. Schulze, Zur Geschichte Lateinischer Eigennamen, 2e éd., Berlin-ZurichDublin, 1966, p. 529. 78 Die Ethnike des alten Italiens, Zurich, 1951, p. 114. 79 hoc. cit.
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II est donc intéressant de connaître la répartition géographique du suffixe -as, -atis dans les noms ethniques, et d'essayer d'en tirer des conclusions sur l'origine de cette formation. E. Seyfried a établi un classement de ces appellatifs d'après leur provenance géographique80, qui fait apparaître que, si la formation en -ates est présente dans l'e nsemble du domaine italique, en Etrurie, et en Gaule, c'est dans le Latium (18 exemples, dont 5 seulement se trouvent chez les Latins pro prement dits), mais surtout en Ligurie (23 exemples), et en Ombrie (28 exemples), qu'elle est le mieux représentée. Quelles conclusions peut-on tirer de ces constatations? J. Wackernagel81 fait remarquer que, pour le choix des suffixes d'ethniques, les considérations euphoniques sem blent avoir joué un rôle très important : par exemple, pour former des ethniques sur des noms de ville dont le radical se termine et -n- ou -nn-, les suffixes -anus et -inus ne peuvent pas être utilisés, et on leur préfère -ensis ou -as. De telles remarques rendent difficile de tirer des conclusions de la répartition géographique des différents suffixes. Pourtant, E. Seyfried82 a essayé de trouver une justification à l'emploi du suffixe -as dans les cas où les raisons euphoniques ne s'imposent pas. Il pense qu'il faut y voir un emprunt des peuples italiques à un pays étranger; à cause de la fréquence de son apparition dans le sud de la Gaule, il conclut à l'origine ligure, et peut-être même celte, de ce type de formation83, à laquelle il trouve des parallèles dans le domaine illyrien; l'origine très ancienne du peuple ligure lui semble une preuve supplémentaire du bien-fondé de cette hypothèse. J. Wackernagel, en revanche, reste beaucoup plus réservé sur les origines du suffixe -as, dont il se contente de mentionner, à la suite de R. von Planta, la présen ce très fréquente en osco-ombrien; mais il rappelle, d'autre part, que le latin semble avoir très bien accueilli les suffixes des autres langues ita liques, ce qui tendrait à faire penser qu'il donne au suffixe -as une ori gine osco-ombrienne, le suffixe d'ethnique spécifiquement latin étant, à ses yeux, -ensis. W. Schulze84 attribue à l'influence étrusque la forma-
80 Op. cit., p. 104. 81 Zu den Lateinischen Ethnika, ALL, 14, 1906, p. 9. 82 Op. cit., p. 113. 83 Op. cit., p. 115. Cette thèse avait déjà été soutenue par E. Norden (op. cit., p. 100102), pour qui ce suffixe ethnique est spécifique du sud de la Gaule, et d'origine ligure ou celte. C. Jullian (cité par A. Ernout (op. cit., p. 51 n. 1) assignait à ce suffixe une origine ligure. 84 Op. cit., p. 529.
ETYMOLOGIE : PENATES ET PENUS
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tion des ethniques en -as, à partir du modèle observé dans les cognomi na présentant ce suffixe, majoritairement d'origine étrusque; à quoi A. Ernout objecte à juste titre qu'«il est impossible que la domination étrusque ait été assez puissante et d'assez longue durée pour couvrir un aussi vaste domaine»85, et que des ethniques en -as se trouvent dans des régions qui n'ont jamais subi l'influence étrusque. Il conclut donc qu'il faut raisonnablement supposer une commune origine au suffixe -as en Italie et en Gaule, preuve possible, parmi d'autres, de la parenté des langues parlées dans ces pays. D'un côté, donc, on a un suffixe d'ethniques utilisé largement dans un vaste domaine géographique, de l'autre, un emploi, dérivé du pre mier, de ce suffixe exprimant l'origine, dans un petit nombre de mots, anciennement attestés, et spécifiquement latins86, parmi lesquels il faut ranger Penates. L'étude du suffixe -ates nous a donc permis de préciser à la fois la fonction propre des Pénates et le sens qu'il convient de donner à la base pen- dans cet appellatif : elle désigne un lieu, le penus au sens de «la partie la plus retirée de la maison»; les Pénates, de par leur nom, sont les dieux d'un lieu, sont attachés à ce lieu, qu'ils protègent. Mais leur dénomination exprime aussi leur ancienneté et leur origine pro prement latine, deux caractéristiques essentielles de leur personnalité.
85 Op. cit., p. 53. 86 Cf. M. Leuman-J. B. Hofmann, op. cit., p. 233. Il est à remarquer que le grec, par exemple, ne peut rendre exactement Penates, pour lequel Denys d'Halicarnasse (I, 67, 3) propose une série de synonymes.
CHAPITRE II
L'USAGE DU MOT PENATES DANS LA LITTÉRATURE CLASSIQUE
Le présent chapitre se propose d'examiner l'utilisation qu'a faite du mot Penates la littérature de l'époque classique. Nous laisserons pro visoirement de côté tous les problèmes posés par l'étymologie et l'his toire du mot, pour essayer de voir, très concrètement, à quelle réalité correspondaient les Pénates pour les écrivains latins. Il n'est pas douteux en effet qu'il s'agisse d'une réalité familière, car, à de très rares exceptions près, parmi lesquelles l'exemple de Cicéron déjà cité1, les écrivains ne donnent la plupart du temps aucune définition religieuse du mot : ils l'emploient sans en expliquer le sens, comme s'ils se référaient à une réalité quotidienne dont la banalité di spense d'explications. Il nous a paru intéressant de voir quels écrivains ont employé le mot Penates, avec quelle fréquence ils l'ont fait, et d'exa miner dans quel contexte et en quelles circonstances le mot apparaiss ait.
I - Penates et di pénates Le premier problème qui retiendra notre attention est morphologi que : faut-il dire di pénates ou pénates seul? Pour S. Weinstock2, la réponse n'est pas douteuse : «Dans la langue correcte», écrit-il, «on dit toujours di pénates». Cette affirmation nous paraît éminemment contest able. En effet, sur quelque deux cents emplois du mot chez des écri vains allant de Naevius à Suétone, nous n'avons rencontré que 27 emplois de di à côté de pénates. Le reste du temps, pénates est employé 1 De Nat. Deor., II, 68; cf. supra p. 13. 2 R.E. XIX, 1, s.u. Penates col. 418.
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seul. Mais, après ces constatations brutes, nous devons examiner de plus près le détail des faits. Il apparaît tout d'abord un clivage entre la prose et la poésie : sur les 27 exemples relevés d'emploi de l'expression di pénates, quatre seulement se trouvent chez des poètes, Plaute et Térence3. Il semble que l'expression di pénates soit, sinon la plus cor recte, du moins la plus fréquente : Cicéron la préfère à pénates seul (deux fois sur trois environ) et le seul exemple du mot chez César est également di pénates; de même, Salluste écrit toujours di pénates. Il semble donc qu'il s'agisse là d'une préférence assez sensible chez les prosateurs de l'époque républicaine. En revanche, Tite-Live, chez qui l'on rencontre 27 fois le mot pénates, ne l'accompagne que 5 fois de di; on ne peut pas saisir une évolution à travers l'œuvre de Tite-Live, car une étude livre par livre des emplois de di pénates en face de pénates montre que la première expression, de beaucoup la moins fréquente, apparaît dans les livres I, V, VII et XXX, une fois par livre. Tacite écrit systématiquement pénates seul. Il semble donc bien qu'il y ait. une évo lution chez les prosateurs, pénates se substituant peu à peu à di pénates, pour des raisons de simplification évidentes4. Mais il faut ici se garder de vouloir présenter une évolution trop systématique et trop schémati que : le premier emploi de pénates se trouve, dès les débuts de la littéra turelatine, chez Naevius : Postquam auem aspexit in tempio Anchisa Sacra in mensa penatium ordine ponuntur5, où nous constatons que pénates est employé sans di ; au IIe siècle, on trouve chez l'annaliste Cassius Hemina, cité par Servius6 la mention des pénates; cependant, l'état du texte de Servius, s'il permet de lire à peu près certainement penatibus, ne nous fait pas savoir si le mot était accompagné ou non de dis. Ces remarques nous invitent à une pruden-
3 Mere, 834 et 836; Phorm., 311. Chez ces deux écrivains, du reste, qui ne disent jamais pénates seul, l'emploi de la formule di pénates s'explique très bien par la facilité métrique qu'elle offre dans les vers iambiques. 4 Cette évolution a pu être facilitée par le fait que Penates, étant une formation or iginel ement adjective, comme nostras, a peut-être suivi, dans son emploi comme substant if, l'usage des ethniques du type Arpinates (cf. supra p. 31). 5 Fr. 3; cf. commentaire de M. Barchiesi (Nevio epico, Padoue, 1962, p. 368 sq.) pour la construction assez délicate du génitif penatium. Voir aussi infra p. 47. 6 Ad Aen. II, 717 : (Aenean cum dis pena)tibus.
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te réserve dans tout jugement sur la prétendue incorrection de pénates, comme sur l'évolution de di pénates à pénates. Il existe une autre raison à la préférence donnée à pénates sur di pénates : c'est que pénates, s'il désigne à proprement parler des dieux, est très souvent aussi employé dans un sens métonymique, pour dé signer le foyer, la maison, la patrie. On peut dès lors concevoir que, dans une acception métonymique, la présence de di à côté de pénates soit gênante. Examinons-en quelques exemples : chez Lucain, nous lisons : . . . altos fecunda pénates impletura datur1. La métonymie est ici très nette. Penates désigne évidemment, non les dieux du penus, mais la maison. De même, nous trouvons chez Ovi de: Rex ibi Lyncus erat; régis subit Me pénates*. Dans cet exemple encore, pénates est employé seul au sens métony miquede «maison», ou plus précisément, puisqu'il s'agit d'un roi, de «palais royal». On trouve des exemples analogues en prose9. Il semble donc bien que, dans certains cas, l'utilisation de pénates dans un sens métonymique, qui lui ôte son sens originel de «dieux du foyer», rende difficile la présence du substantif di à côté de l'adjectif pénates. Mais on ne saurait faire de cette constatation, qui se vérifie en effet pour un certain nombre d'exemples, une règle imperative, car on pourrait trou verdes cas nombreux où pénates a le sens précis de «dieux» et n'est pas accompagné de di, comme dans l'exemple de Naevius que nous avons mentionné plus haut; il est des cas où le sens métonymique n'exclut pas la présence de di. On ne saurait donc voir dans l'opposition entre l'util isation du mot pénates dans son sens propre et son acception métonymi que une explication systématique de l'alternance di pénates /pénates. Nous avons mené notre étude à partir d'un corpus de deux cents emplois de pénates, dans une période allant de Plaute à Suétone. Exa-
7 II, 333-34 : «Elle est donnée pour remplir par sa fécondité d'autres pénates» (trad. A. Bourgery, C.U.F., Paris, 1947). 8 Met. V, 660 : « Là régnait Lyncus. Il (= Triptolème) entre dans les Pénates de ce roi» (trad. G. Lafaye, C.U.F., Paris, 1961). 9 Par exemple, Tacite, Ann., XIII, 4, 3.
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minons tout d'abord la fréquence des emplois du mot chez ces auteurs : y a-t-il une évolution historique de la fréquence d'emploi de pénates? Peut-on dire qu'il apparaît plus volontiers chez certaines familles d'es prit, dans certains genres littéraires, en poésie ou en prose? L'étude de notre corpus ne nous permet guère de dire que le mot a été plus employé à telle époque qu'à telle autre. On en trouve très peu d'exemples avant l'époque cicéronienne (un exemple chez Naevius, un chez Cassius Hemina, cité par Servius, deux exemples chez Plaute et un exemple chez Térence seulement), beaucoup chez Cicéron (15), 24 chez Ovide et Virgile, 27 chez Tite-Live, 16 chez Sénèque, 14 chez Lucain, 22 chez Tacite, et 43 chez Stace. Encore faut-il tenir compte, pour appréc ierces chiffres, du fait que les œuvres de ces écrivains sont inégale ment importantes et que la plus grande partie de l'œuvre de Naevius ou de Cassius Hemina, par exemple, est perdue pour nous. Il est assez dif ficile, donc, de voir une évolution historique de la fréquence d'emploi du mot. On peut constater sa rareté chez Plaute et sa fréquence chez Cicéron, mais doit-on dire pour autant qu'il était plus fréquemment employé à l'époque cicéronienne? César ne l'utilise qu'une fois - dans sa correspondance -, Catulle une fois aussi, et Lucrèce jamais. De la même façon, pour la période impériale que nous avons considérée, Stace emploie le mot 43 fois, Apulée, jamais. Il nous a semblé en revanche que, plus qu'à des différences de mentalité dues à telle ou telle époque, la plus ou moins grande fréquen ce des emplois du mot venait des différentes familles d'esprit auxquell es appartenaient les écrivains, et surtout des différences entre les gen res littéraires où pénates apparaît. C'est ainsi que l'on peut dire que le mot est très rare chez les comiques (3 exemples) alors qu'il est fréquent dans les tragédies de Sénèque (16 exemples). Encore l'exemple de l'em ploi de pénates chez Plaute doit-il être examiné avec un peu d'attention. Les deux emplois du mot chez cet auteur se trouvent dans la même tirade, à deux vers d'intervalle10: Charinus, jeune homme de bonne famille, va quitter la maison paternelle et s'exiler; au moment de son départ, il adresse une invocation solennelle aux dieux de son foyer, par mi lesquels les Pénates. Il n'y a donc rien là qui appartienne spécifique ment au genre comique. L'origine sociale du personnage et les circons tances dans lesquelles cette invocation est prononcée relèveraient plu-
10 Mere, 834; 836.
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tôt de la tragédie. Il semblerait donc qu'il y ait dans le mot pénates des connotations qui le font préférer dans un langage théâtral noble. On peut dire aussi que le mot est fréquent dans l'éloquence judi ciaire (Cicéron), très fréquent chez les historiens (Tite-Live et Tacite). Peut-être, là encore, la fréquente apparition du mot s'explique-t-elle par une certaine hauteur de ton de ces œuvres. Une remarque que nous pouvons faire à propos de la poésie semble aller dans le même sens : le mot est fréquent dans l'épopée (Virgile et Lucain) et dans les «grands poèmes» d'Ovide, comme les Métamorphoses, alors qu'il n'apparaît que très rarement dans la poésie élégiaque, en particulier chez Ovide qui n'offre que quelques exemples de pénates dans les Amores et les Tris tes. En revanche, chez d'autres auteurs, cette opposition s'explique par le contenu des œuvres, par les sujets abordés, plutôt que par une diffé rence de ton entre les œuvres; c'est ainsi que Cicéron emploie fréquem ment pénates dans ses discours, très rarement dans ses œuvres philoso phiques, Sénèque fréquemment dans ses tragédies, jamais dans ses ouvrages philosophiques.
II - Le sens du mot Penates Dans le corpus des citations du mot pénates sur lequel repose notre étude, ce dernier, nous l'avons déjà vu, est employé tantôt au sens pro pre de «dieux du penus y>, tantôt dans un sens métonymique, soit que pénates désigne à la fois les dieux du penus et une autre entité, la mai son ou la patrie par exemple, soit que pénates désigne uniquement une entité différente de celle des «dieux du penus», auquel cas il y a méto nymie complète. Dans notre corpus, pénates est utilisé au sens de «dieux du penus» 74 fois, c'est-à-dire une fois sur trois environ. Nous pouvons donc déjà constater que l'acception du mot dans son sens propre n'est pas la plus courante. Employé en ce sens, pénates désigne les dieux de la maison, du foyer. Parmi les très nombreux exemples que nous pourrions citer, nous en avons choisi un de Catulle qui nous a semblé significatif : Venistine domum ad tuos pénates Fratresques unanimos anumque matrem?11.
11 Catulle, 9, 3-4 : «Es-tu de retour auprès de tes pénates, de tes frères si unis et de ta vieille mère?» (Trad. G. Lafaye, C.U.F., Paris, 1932).
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Dans cet exemple, domum ne désigne pas la maison, au sens archi tectural, mais représente globalement un ensemble explicité dans la suite par tuos pénates d'une part, fratres unanimos anumque matrem d'autre part. Dans sa domus, le personnage auquel est adressé le poème va retrouver tout ce qu'il aime, les gens de sa famille auxquels il est attaché, et aussi les dieux du foyer, qui sont cités les premiers. Mais il arrive aussi que pénates, pris dans son sens propre, désigne, à côté des dieux de la maison particulière, ceux de l'Etat, de la patrie. Nous lisons chez Tacite : Proprium esse militis decus in castris : illam patriam, illos penatis 12. Sans doute dans cet exemple penatis désigne-t-il les dieux du foyer de chaque soldat, mais il représente probablement aussi les dieux de la patrie, comme le suggère le mot de patriam placé juste avant lui; en effet, cette phrase signifie que le soldat considère le camp non comme un lieu de passage, un domicile provisoire, mais comme son pays, et, par conséquent, le lieu où se trouve sa maison, les deux notions étant étroitement unies. Il arrive aussi - c'est le cas le plus rare - que pénates désigne à la fois les dieux de la maison et une autre entité, et, en ce cas, la métony mie n'est pas complète. Parfois, pénates désigne les dieux du foyer et la maison au centre de laquelle ils résident; ainsi, Ovide, évoquant la peste d'Egire : Corpora deuoluunt in humum fugiuntque pénates quisque suos : sua cuique domus funesta uideturn. A notre avis, pénates représente ici les dieux du penus, mais aussi la maison tout entière. On pourrait évidemment objecter à cette interpré tation que domus est employé dans le vers suivant, et qu'il faut y voir une opposition de sens entre domus et pénates. Nous pensons qu'il s'agit plutôt d'une alternance destinée à éviter la répétition, et que les deux termes sont presque synonymes, à cette nuance près que le pre mier désigne, en plus de la maison à proprement parler, les dieux domestiques. Dans d'autres cas, pénates désigne, outre les dieux du foyer, la patrie. C'est ainsi qu'on peut lire chez Cicéron : Exterminabit dues
12 Hist. Ill, 84, 3 : « pour le soldat, le véritable honneur était dans le camp ; là était sa patrie, là étaient ses pénates» (Trad. H. Goelzer, C.U.F., Paris, 1921). 13 Met. VII, 575-6 : « Ils se roulent sur la terre ; chacun prit ses pénates, chacun regarde sa demeure comme un séjour funeste» (trad. G. Lafaye, C.U.F., Paris, 1928).
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Romanos edicto consul a suis dis penatibus?14. Dans cet exemple, on peut fort bien comprendre que pénates désigne les dieux de la maison; mais il évoque aussi la patrie, par référence au contexte, où les mots consul, dues,- placent la phrase dans le registre du vocabulaire politi que, et la réalité désignée par pénates, ce ne sont pas seulement les dieux d'un foyer particulier, mais toute la ciuitas et son organisation. Enfin, pénates, par le même procédé de la demi-métonymie, dé signe parfois, à côté des dieux domestiques, la famille. C'est le cas, notamment, chez Virgile : Enée, racontant ses malheurs à Didon, évo que son arrivée chez le roi thrace Lycurgue : Hospitium antiquom Troiae sociique Penates dum fortuna fuit15. Il est tout à fait possible d'interpréter ici pénates comme «les dieux du foyer». En effet, les associations de dieux (socii) sont connues par ailleurs, et il est assez naturel de considérer qu'à l'occasion d'un mariag e, les dieux des deux familles se trouvent associés16. Mais il n'est pas douteux non plus qu'il faille donner au mot pénates un sens plus large et qu'il désigne non seulement les dieux particuliers de la famille d'Enée et de celle de Lycurgue, mais aussi, par extension, ces deux familles elles-mêmes, le terme de socii s'appliquant parfois à la relation conjugale17 et se justifiant tout particulièrement ici, à propos d'une alliance politique entre deux grandes familles. A côté de ces quelques exemples d'une métonymie partielle, nous en trouvons de nombreux de métonymie totale, où pénates ne semble plus désigner du tout les dieux du penus. Au sens métonymique, pénates représente presque toujours la maison, comme on le voit chez Lucain, évoquant l'austérité de Caton :
14 Sest., 30: «Un consul pourra-t-il bannir par un édit les citoyens romains loin de leurs Pénates?» (trad. J. Cousin, C.U.F., Paris, 1965). 15 En. III, 15-16 : «nation liée à Troie depuis toujours, pénates alliés des nôtres tant que notre fortune dura» (trad. J. Perret, C.U.F., Paris, 1977). 16 Pourtant, les divinités invoquées lors des cérémonies du mariage semblent plutôt être celles qui ont pour fonction spécifique de protéger ce lien : cf. G. Dumézil, La rel igion romaine archaïque, 2è éd., Paris, 1974, p. 603-604; id., Mariages indo-européens, Paris, 1979, p. 17 sq.; D. P. Harmon, The Family Festivals of Rome, A.N.R.W. II, Berlin-NewYork, 1978, p. 1598-1600. 17 Ovide, Mei. XIV, 678 : tori socium.
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ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT . . . magnique pénates summouisse hiemem tectols.
La désignation de pénates par magni montre clairement qu'il ne s'agit pas des dieux du foyer, mais de la maison elle-même, sens explici té d'ailleurs par l'utilisation du mot tecto. De même, nous pouvons lire chez Tacite : expugnationes urbium, populationes agrorum, raptus penatium hauserunt animo19; il ne s'agit évidemment pas de piller les dieux, mais la demeure. Il arrive assez fréquemment que pénates désigne non pas la maison d'un simple particulier, mais le palais royal. Par exemp le,chez Sénèque, Jocaste déclare à Polynice : Te profugam solo patrio pénates régis externi tegunt20. Dans d'autres exemples, la métonymie est pleinement réalisée, et pénates désigne alors soit, dans le domaine privé, le foyer, soit, dans le domaine public, la patrie, sans référence réelle à des divinités. C'est le cas par exemple dans un texte de Sénèque, où pénates désigne «le foyer » avec une forte valeur affective : Cur me in pénates obsidem inuisos datam hostique nuptam degere aetatem in malis lacrimisque cogis ? 21. Il se trouve aussi des exemples où. pénates signifie «patrie», comme chez Horace : Caesar Hispana repetit penatis uictor ab ora22.
18 Π, 384-5: «De grands pénates, un toit suffisant pour écarter l'orage» (trad. A. Bourgery, ibid.). Magni pénates est peut-être à rapprocher de l'expression de Virgile Penatibus et Magnis Dis (En. III, 12; VIII, 679). 19 Hist. I, 51,7 : «Le soldat se repaît l'imagination d'assaut donné aux villes, de terri toires ravagés, de maisons pillées (trad. H. Goelzer, ibid). 20 Phéniciennes, 503-4 : «transfuge de la patrie, abrité par les pénates d'un roi étran ger» (trad. L. Hermann, C.U.F., Paris 1924). 21 Sénèque, Phèdre, 89-91 : «Pourquoi m'ayant livrée en otage à un foyer qui m'est odieux et m'ayant mariée à mon ennemi, me forces-tu à passer ma vie dans l'infortune et dans les larmes ? » (trad. L. Hermann, ibid.). 22 Odes III, 14, 3-4: «César, de l'extrême Espagne, regagne victorieux, ses pénates» (trad. F. Villeneuve C.U.F. Paris 1917).
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Nous trouvons ici, dans le rapprochement Hispana-penates, l'anti thèse entre l'étranger et le sol de la patrie23. Un autre emploi métonymique donne parfois à pénates le sens de «famille». Nous avons vu qu'il y avait parfois métonymie partielle avec ce sens, pénates signifiant alors à la fois «les dieux du penus» et «la famille». Mais il arrive aussi qu'il y ait métonymie complète. On en trouve l'exemple chez Tacite : An quia ueram progeniem penatibus Caesarum datura sit24? L'enfant, au dies lustricus, était présenté par son père aux dieux du foyer domestique, parmi lesquels figurent les Pénat es25; cet usage explique peut-être qu'ici pénates désigne par métony mie la famille, comme le souligne l'emploi de progeniem. Dans une acception plus étendue que «maison» ou que «famille», pénates désigne aussi parfois le territoire, comme par exemple chez Virgile. Ainsi, un compagnon d'Ulysse abandonné chez les Cyclopes est trouvé par Enée et ses compagnons et il leur déclare : Scio me Danais e classibus unum et bello Iliacos fateor petiisse penatis26. Penates nous semble ici avoir la signification de «territoire», mais avec une valeur religieuse et sentimentale que l'on ne trouve évidem ment pas dans fines. Enfin, notre corpus nous offre un exemple d'un cas où par méto nymie, pénates désigne le train de maison. Il se trouve chez Tacite, dans un discours de Valerius Messalinus : et panca feminarum necessitatibus concedi quae ne coniugum quidem penatis, adeo socios non onerent27. Nous venons de voir que pénates était employé assez souvent dans son acception originelle de «dieux du. penus», plus souvent encore, avec métonymie partielle ou totale, au sens de «maison», «palais royal», «foyer», «patrie», «famille», «territoire», et enfin «budget de la mai-
23 On trouve chez Stace (Silves III, 5, 12-13) un exemple tout à fait analogue où pénat es évoque la terre natale du poète. 24 Ann. XIV, 61, 3-4: «Serait-ce parce qu'elle va donner une descendance légitime aux pénates des Césars?» (trad. P. Wuilleumier, C.U.F., Paris, 1978). 25 D. P. Harmon, op. cit., p. 1596-1598. 26 En. III, 603-604. Je sais que je fus homme de la flotte des Grecs, j'avoue que j'ai porté la guerre contre les Pénates d'Ilion» (trad. J. Perret, ibid.). 27 Ann. Ill, 34, 3: «On faisait aux femmes un petit nombre de concessions, qui, n'étant pas même à charge pour le foyer de leurs époux, ne l'étaient assurément pas pour les alliés» (trad. P. Wuilleumier, C.U.F., Paris, 1974).
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son». Il est vrai, et l'exemple de Catulle que nous avons cité le montre assez clairement, que le passage du sens propre à la métonymie est par fois subtil. Il nous a semblé aussi que ce jeu sur le sens du mot n'a pas toujours existé : pénates n'est jamais employé au sens semi-métonymi que ou métonymique chez les auteurs les plus anciens, Naevius, Plaute, Terence, Cassius Hemina; les premiers emplois métonymiques se trou vent au Ier siècle, peut-être déjà chez Catulle, à coup sûr chez Cicéron, après qui la métonymie est systématiquement présente.
III - Penates et son contexte Dans la moitié environ des exemples que nous avons examinés, le mot pénates est employé seul, sans entrer dans une enumeration où il serait associé à d'autres mots de sens voisins. Mais le mot apparaît sou vent associé à d'autres dans des enumerations par exemple, où il est coordonné ou juxtaposé à d'autres substantifs. Nous avons essayé de classer d'après leur valeur sémantique les mots qui accompagnent pénates et sont mis en parallèle avec lui. Etant donné que par son sens propre le mot pénates appartient au vocabulaire religieux, il nous a semblé intéressant de voir si les mots auprès desquels on le rencontre appartenaient ou non à ce vocabulaire. Il apparaît que dans un certain nombre de cas, ces mots ont une valeur religieuse, dans d'autres cas une valeur non religieuse, parfois enfin un sens qui, sans en faire à proprement parler des mots du vocabulaire technique de la religion, les apparente à lui. Les Pénates sont parfois associés avec des dieux qui, de par leur nature, sont en rapport avec les dieux du penus. C'est au premier chef, Vesta, avec laquelle ils apparaissent liés deux fois dans notre corpus de référence. Nous le trouvons d'abord chez Cicéron : Nobis aram Penatium, nobis illum ignem Vestae sempiternum commendai28. Il s'agit ici des Pénates publics de Rome, et ce texte fait allusion à la tradition selon laquelle ils se trouvaient dans le sanctuaire de Vesta : aussi le feu qui symbolisait dans le temple la présence de la déesse et les Pénates de Rome, plus ou moins mis en relation avec le Penus Vestae, sont-ils ici associés. De cette association entre les Pénates publics et Vesta, nous 28 Cat. IV, 18 : «c'est à nous qu'elle (la patrie) confie les autels des Pénates et le feu de Vesta qui brûle éternellement» (trad. H. Bornecque et E. Bailly, C.U.F., Paris, 1961).
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trouvons également un écho dans Tacite, lors de la description de l'i ncendie de Rome sous Néron : Aedesque Statoris louis uota Romulo Numaeque regia et delubrum Vestae cum Penatibus populi Romani exusta29; ici encore c'est une commune présence dans ÏAedes Vestae qui justifie le rapprochement. Parmi les dieux qui sont, de par leur nature, associés aux Pénates publics, nous trouvons aussi, cités à deux reprises dans notre corpus, les Grands Dieux. Enée, racontant ses malheurs à Didon, évoque le moment où il vient de quitter Troie : Feror exsul in altum cum sociis natoque, penatibus et magnis dis30. Les Pénates sont associés ici avec les Grands Dieux, les deux noms étant coordonnés par et. Le rapprochement entre ces deux groupes de divinités est l'écho d'une tradition qui va même parfois, comme chez Cassius Hemina et Servius, jusqu'à l'assimilation entre Pénates et Grands Dieux31. On trouve une expression analogue dans un autre pas sage de Y Enéide : Hinc Augustus agens halos in proelia Caesar cum patribus populoque, penatibus et magnis dis32. Enfin, on lit chez Cicéron33 l'expression pénates patriique dei; là encore, le rapprochement n'a rien de fortuit; nous avons vu que l'em ploi métonymique de pénates lui donnait parfois le sens de «patrie»; ce rapprochement, comme pour celui des Pénates et des Grands Dieux, aboutit presque à une identification. Les Pénates du culte privé sont souvent associés aux Lares ce qui n'est pas surprenant, puisqu'il s'agit dans l'un et l'autre cas de divinités
29 Tacite, Ann. XV, 41, 1 : «Le temple de Jupiter Stator, voué par Romulus, le palais royal de Numa et le sanctuaire de Vesta, avec les Pénates du peuple romain, furent consumés» (trad. P. Wuilleumier, ibid.). 30 En. III, 11-12: «Exilé, je mets le cap sur le grand large avec mes compagnons, mon fils, les Pénates et les Grands Dieux» (trad. J. Perret, ibid.); Cf. R. Schilling Penatibus et Magnis Dis (Virgile, Enéide III, 13 et VIII, 679), Mise. E. Manni, VI, Rome 1980, p. 196378. 31 Ce point très délicat sera repris ci-dessous, p. 285-92 ; 430-9. 32 VIII, 678-79 : «D'un côté Auguste César conduisant au combat les Italiens avec les Pères et le peuple, les Pénates et les Grands Dieux» (trad. J. Perret, C.U.F., Paris, 1978). 33 Sest., 45.
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ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT
du foyer, donc proches par le lieu de leur culte, et qu'en outre les deux groupes de divinités présentent d'autres traits communs, notamment d'être des ensembles au sein desquels ne se dégage aucune individualit é. De ce rapprochement, on trouve un exemple chez Cicéron : Ista tua pulchra Liberias deos Penates et familiäres meos Lares expulit, ut se ipse tamquam in captivis sedibus collocar et?34. Il existe, à côté de ce texte, beaucoup d'autres exemples de ce voisinage des Lares et Pénates35. Les Pénates du culte public, comme ceux du culte privé, sont par fois associés à des divinités dont les affinités avec eux sont moins évi dentes. Ce sont, pour le culte public, Jupiter et Quirinus : Mox ait : «O magnae qui moenia prospicis urbis Tarpeia de rupe, Tonans, Phrygiique pénates gentis Iuliae et rapii secreta Quirini. . .36. Il s'agit d'une invocation de César au moment où il s'apprête à franchir le Rubicon. L'instant est donc solennel. César s'adresse aux divinités qui sont les plus imposantes du panthéon romain : Jupiter, dieu suprême, représentant la souveraineté absolue sur les dieux et sur les hommes; Quirinus, qui est présenté ici, ainsi qu'en témoigne l'allu sion à son mystérieux enlèvement, comme le fondateur de Rome, divi nisé sous le nom de Quirinus; les Pénates enfin sont ceux qu'Enée a apportés de Troie, comme le montre l'adjectif Phrygii qui les qualifie, et par là-même, sont ce que la religion d'Etat a de plus ancien et de plus sacré; mais l'expression Phrygiique pénates gentis Iuliae, en même temps qu'elle rappelle les origines troyennes des Pénates, laisse deviner les prétentions de la Gens Iulia - c'est César qui parle ici - à être ellemême d'origine troyenne et même, à identifier les Pénates de Troie aux siens propres, ce qui fonde ses prétentions politiques37. Le choix des divinités (Jupiter, Pénates, Quirinus) invoquées par César en ces cir-
34 Dont., 108 : «Ta belle liberté (= de Clodius) a-t-elle pu chasser mes dieux pénates et mes lares domestiques, pour prendre place elle-même en terrain conquis?» (trad. P. Wuilleumier, C.U.F., Paris, 1952). 35 Cf. notamment Lucain, VII, 397; Plaute, Mere, 834; Liv., I, 29, 4; Virgile, En. VIII, 543. 36 Lucain, I, 196-198 : «Bientôt il dit : «O toi qui regardes les murailles de la grande ville du haut de la roche tarpéienne, Dieu du Tonnerre, pénates phrygiens de la famille Julia, enlèvement mystérieux de Quirinus » (trad. A. Bourgery, ibid.). 37 Voir infra p. 210; 217; cf. P. Wuilleumier-H. Le Bonniec, M. Annaeus Lucanus, Bellum Ciuile I (éd. comm., Coll. Erasme), Paris, 1962, p. 46.
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constances solennelles, obéit donc à la fois au désir de nommer les cultes les plus imposants ou les plus anciens, mais aussi à celui d'expri mer l'idée de souveraineté : Jupiter est le dieu suprême, Romulus-Quirinus le roi-fondateur de la cité, divinisé, les Pénates sont liés à Enée, fondateur de Lavinium, cité-mère de Rome, et par là-même, ancêtre mythique des Romains. Dans le domaine du culte privé, nous trouvons chez Horace une association intéressante de divinités dans laquelle entrent les Pénates : Quod te per Genium dextramque deosque Penatis Obsecro et obtestor, uitae me redde priori™. Il s'agit ici d'un serment dans lequel la dextra est invoquée comme le symbole de la valeur religieuse inébranlable du serment; Genius, dextra et Penates ont en commun d'être ce que l'interlocuteur possède de plus personnel et de plus précieux. Nous avons rencontré dans notre corpus des citations où pénates était associé à des mots du vocabulaire religieux qui ne sont pas des noms de dieux : ce sont, notamment, sacra et ara. De la première asso ciation, nous avons un exemple chez Naevius, dans le premier emploi connu de Pénates : Sacra in mensa penatium ordine ponuntur. La relation entre sacra et penatium dépend de l'interprétation que l'on donne du génitif penatium; si on le fait dépendre de mensa*9, le lien entre sacra et penatium est simplement celui d'un voisinage à l'occasion de la célébration d'un culte; si au contraire, comme M. Barchiesi40, on le fait dépendre de sacra, il s'agit d'un génitif de définition, et il y a presque identification entre les deux termes. De même, on trouve chez Virgile, au moment où Hector apparaît en rêve à Enée et s'adresse à lui:
38 Ep. I, 7, 94-95 : « Aussi, par ton Génie, par ta main droite, par tes Dieux Pénates, je t'en prie, je t'en supplie, rends-moi à ma première existence» (trad. F. Villeneuve, C.U.F., Paris, 1964); pour la valeur du Genius, voir G. Dumézil, op. cit., p. 362-69. 39 Cf. C. Goudineau, ΊΕΡΑΙ ΤΡΑΠΕΖΑΙ, MEFR, 79, 1967, p. 77. 40 Nevio epico, ibid. ; c'est cette construction que nous préférons. Cf. ci-dessous, p. 85.
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ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT Sacra suosque Ubi commendai Troia penatisi.
Le terme de sacra est ici assez imprécis et, comme dans l'exemple de Naevius, la relation entre ce terme et les Pénates semble presque une assimilation, au moins partielle, puisque les Pénates font partie des objets sacrés emportés de Troie par Enée. On rencontre enfin, chez Cicéron, deux exemples de ara associé à pénates*1 : les arae en question sont celles de son culte personnel et pri vé et il n'est pas surprenant qu'il les associe à ses Pénates. Mais le mot pénates n'est pas toujours environné de mots apparte nant au vocabulaire strictement religieux. Il arrive qu'il soit associé à des mots qui, sans avoir un sens technique religieux, ont pourtant, par leurs connotations, certains rapports avec les valeurs religieuses. Ce sont, en particulier, les noms de parenté, qui figurent assez souvent à côté de pénates. Par exemple, dans le texte de Catulle précédemment cité : Venistine domum ad tuos pénates Fratresque unanimos anumque matrem43, Penates est mis sur le même plan que fratres et mater. L'ensemble de ces mots a une valeur sentimentale, est destiné à émouvoir : les Pénates représentent la maison dans ce qu'elle a de plus attachant, et l'attendrissement suscité par l'évocation des frères et de la mère est fortement souligné par les mots unanimos et anum44. Mais le rappro chement de pénates avec fratres et mater suggère en outre que l'on peut être attaché à ses Pénates au même titre qu'à des membres de sa famill e, que les Pénates, en quelque sorte, font partie du cercle de famille dans ce qu'il a de plus émouvant. Nous trouvons une association tout à fait analogue chez Virgile, lorsqu'Enée dit :
41 En. II, 294. «Troie te confie ses choses saintes et ses Pénates», (trad. J.Perret, ibid.); malgré la traduction de J. Perret, nous ne pensons pas qu'il faille distinguer rad icalement les sacra et les Pénates. Cf. ci-dessous, p. 183; 193-4. 42 Dom., 109; Sest., 145. 43 9, 3-4. 44 Voir E. Ellis, A Commentary on Catullus, Oxford, 1876, p. 22-23; A. Baehrens, Catullus (éd. revue par K. P. Schulze), Leipzig, 1893, p. 112.
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Ascanium Anchisenque patrem Teucrosque penatis commendo sociis45. Des noms propres figurent ici à côté des noms de parenté, ou les remplacent, mais l'effet est le même : ils représentent ce qu'Enée a de plus cher au monde. Dans ces deux exemples, étant donné le caractère sacré des liens de famille, on ne peut pas dire qu'il y ait hétérogénéité entre pénates et les mots qui l'environnent. Il en va de même pour le mot focus, qui se trouve à plusieurs repri sesdans nos textes, associé à pénates, par exemple dans Cicéron : Nudum eicit domo atque focis patriis diisque penatibus praecipitem, judices, exturbat46. Le focus, c'est évidemment le feu qui sert à cuire les aliments et le mot a alors un sens profane, mais c'est aussi le foyer autour duquel ont lieu les sacrifices de la religion domestique, et, com meen français, il a une valeur affective. Enfin, on trouve des exemples où pénates est associé à des mots qui n'ont pas de valeur religieuse. Ce sont, en gros, ceux qui signifient «maison», «cité», ou «territoire». Nous les avons classés dans cet ordre, en allant de ceux qui sont le plus près de la réalité matérielle des Pénat es (ceux qui signifient «maison») à ceux qui en sont le plus éloignés. En effet, pénates est très fréquemment associé à domus ou, dans quelques cas, à tectum47 pris métonymiquement au sens de «maison». Ainsi, on lit chez Cicéron : Cum domum ac deos pénates suos ilio oppu gnante defenderet48. Cette association s'explique par deux raisons. Tout d'abord, il n'est pas surprenant que domus et pénates soient rapproc hés,puisque les Pénates se trouvent à l'intérieur de la maison et sont une sorte de symbole de la vie domestique. Mais de plus, il y a, là aussi, une valeur sentimentale donnée à chacun des deux mots : la domus et les pénates représentent ce que Milon a de plus cher. On trouve chez Ovide une variante intéressante de domus, qui est torus :
45 En. II, 747-48 : «Ascagne, mon père Anchise, les Pénates troyens, je les confie à mes compagnons » (trad. J. Perret, ibid.). 46 Rose. Amer., 23 : «il le jette nu hors de sa maison, il l'expulse, il le bannit, juges, loin des foyers de ses ancêtres, loin de ses dieux pénates» (trad. H. de la Ville de Mirmont, C.U.F., Paris, 1921). 47 Par exemple, Liv., I, 29, 4. 48 Mil., 38 : « quand il défendait sa maison et ses pénates contre les attaques de Clodius» (trad. A. Boulanger, C.U.F., Paris, 1967).
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ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT Ecce fugit notumque torum sociosque pénates Fallacisque uias ire Corinna parat49.
Domus est ici remplacé par torus, qui évoque les relations amour euses de Corinne et du poète; cette substitution va tout à fait dans le sens de l'analyse que nous avons faite précédemment à propos de l'a ssociation de domus et de pénates : en effet, le torus et les pénates sont symboliques de la vie commune d'Ovide et de Corinne, et représentent donc ce à quoi le poète tient le plus. Penates est parfois associé à des mots signifiant «cité», urbs ou civitas, comme chez Tite-Live50: Si ... consensus aliqui patrum, non Gallicum bellum, nos ab urbe, a penatibus nostris ablegatos tenet. Le rapprochement de pénates et de urbe s'explique parce que Yurbs est constituée par les maisons qui renferment les Pénates de chacun, mais on peut aussi considérer que penatibus nostris désigne, outre les Pénat es particuliers, les Pénates de l'Etat, et l'association est alors "des plus naturelles. Il arrive également que Penates soit environné de mots désignant «la terre», «le territoire», comme tellus, arua, agri, rura. Par exemple, on lit chez Tacite : delegata domus et penatium et agrorum cura feminis senibusque et infirmissimo cuique ex familia51. Penatium s'oppose ici à agrorum, comme l'intérieur de la maison a tout le domaine qui appart ientau maître de maison, et penatium représente la vie domestique dans ce qu'elle a d'intime, alors qu agrorum renvoie aux activités exté rieures. Enfin, aussi souvent qu'à des mots signifiant «la maison», pénates est associé à des mots désignant « la patrie » : ce sont patria, patria terra, solum patrium. Nous lisons par exemple chez Cicéron : Si in patriam, si ad deos pénates redire properaret52. Certes, la patrie est le lieu où se trouvent les dieux pénates de chacun, mais l'association des deux mots
49 Am. II, 11, 7-8 : «Voici que, fuyant le lit connu et nos pénates communs, Corinne va s'engager sur ces chemins dangereux» (trad. H. Bornecque, C.U.F., 1930). 50 VII, 13, 8 : «Si c'est quelque entente des sénateurs et non la guerre gauloise qui nous tient éloignés de la ville et de nos pénates» (trad. R. Bloch, C.U.F., Paris, 1968). 51 Germ., 15, 1 : «le soin de la maison, des pénates et des champs abandonné aux femmes, aux vieillards, aux plus faibles de la famille» (trad. J. Perret, C.U.F., Paris, 1949). 52 Prov. Cons. 35 : «s'il avait hâte de retrouver sa patrie et ses pénates» (trad. J. Cous in, C.U. F., Paris, 1962); cf. aussi Cicéron, Sest., 145; Salluste, Hist. 2, 47, 3; 2, 47, 4; Tacite, Hist. Ill, 84, 3, etc.
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prend une couleur affective particulière. Il s'agit en effet d'un retour, et l'amour du personnage en question va à sa terre natale, et aussi à ses dieux domestiques, comme à ce qu'il a de plus cher. On rencontre fr équemment cette association de pénates et de patria, et elle a toujours la valeur sentimentale que nous venons d'indiquer. Au terme de cette étude des mots qui environnent le plus souvent pénates, nous pouvons dire que c'est en partie par la fréquence de ces associations que s'explique l'emploi métonymique du mot pénates. Nous avons vu qu'il était souvent employé au sens de «maison», ou de «pa trie» par exemple, c'est parce qu'en effet il était très souvent associé avec ces deux notions qu'il a pu les désigner métonymiquement.
IV - Circonstances de l'emploi de Penates II nous reste, pour terminer cette étude, à voir en quelles circons tances les écrivains latins de la période que nous avons envisagée emploient le plus volontiers le mot pénates. Il nous est apparu que les circonstances dans lesquelles le mot apparaissait le plus souvent pouvaient se diviser en deux catégories : d'une part, les circonstances qui, de par leur nature, justifient la ment ion des dieux pénates, et d'autre part, celles dont le caractère dramati que, ou chargé de signification affective, explique la présence de ce mot. Les Penates sont mentionnés fréquemment dans l'évocation d'une maison, lorsqu'il s'agit de décrire la pièce où se trouvent les dieux ou leurs effigies. Nous lisons ainsi chez Sénèque, dans Oedipe, au moment où le messager évoque la fumée du corps des enfants de Thyeste brûlés par Atrée : Ipsos pénates nube deformi obsidet53. Atrée fait probablement brûler les corps de ses neveux sur le foyer familial, près des effigies des Pénates. De même, les statuettes repré sentant les Pénates sont assez souvent mentionnées, par exemple chez Suétone : ultimo templis compluribus dona detraxit simulacraque ex 53 Oed., 708 : «Elle environne les pénates eux-mêmes de ses affreuses vapeurs» (trad. L. Hermann, ibid.).
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ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT
auro uel argento fabricata conflauit in Us Penatium deorum, quae mox Galba restituii54. Très souvent aussi, Penates est employé métonymiquement pour dire «maison» et s'emploie là où on aurait pu dire domus, quand il s'agit d'entrer dans une maison par exemple, comme dans le texte d'Ovide que nous avons déjà cité plus haut : Rex ibi Lyncus erat; régis subit Me pénates. Il arrive également assez souvent due Penates soit mentionné dans les diverses circonstances de la vie privée, par exemple à propos d'une naissance. Nous avons déjà cité le texte de Tacite : an quia ueram progeniem penatibus Caesarum datura sit?55. Certes, nous l'avons vu, penatibus peut désigner métonymiquement la famille des Césars, mais il désigne d'abord, au sens propre et religieux du mot, les dieux Pénates de la famille auxquels l'enfant était présenté quelques jours après sa naissance. Les Pénates sont encore mentionnés par Tite-Live à propos de la prise de la toge prétexte : magis pro maiestate uidelicet imperii Arimini quant Romae magistratum initurum, et in deuersorio hospitali quant apud pénates suos praetextam sumpturum56. Les Pénates sont mentionnés également au moment du mariage qui se déroulait devant leurs images, ainsi qu'en témoigne un texte de Tite-Live : tamque praeceps festinatio ut, quo die captant hostem uidisset, eodem matrimonio iunctam acciperet et ad pénates hostis sut nuptiale sacrum conficeret57. De même chez Tacite58, lorsqu'Auguste, follement épris de la beauté de Livie, l'enlève à son premier mari, c'est devant ses Pénates qu'il l'install e. Enfin, le nom des Pénates est évidemment mentionné à propos du culte dont ils sont l'objet et des sacrifices particuliers que ce culte implique, ainsi que le signale Horace :
54 Nér., 32 : «en dernier lieu il dépouille une foule de temples des dons qu'ils avaient reçus et fit fondre les statuettes d'or et d'argent, entre autres celles des dieux pénates, qui plus tard furent rétablis par Galba» (trad. H. Ailloud, C.U.F., Paris, 1961). 55 Ann. XIV, 61, 3-4. 56 XXI, 63, 10 : «sans doute il est plus conforme à la majesté de son commandement d'entrer en charge à Ariminum qu'à Rome et de prendre la robe prétexte dans un hôtel qu'auprès de ses pénates » (trad. E. Lasserre). 57 XXX, 14, 2 et 3 : «cette hâte si téméraire que, le jour même où il avait vu cette ennemie prisonnière, il l'avait unie à lui par le mariage, en accomplissant devant les pénates de son ennemi le sacrifice nuptial (trad. E. Lasserre); voir supra p. 41. 58 Ann. V, 1, 3.
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inmunis aram se tetigit manus non sumptuosa blandior hostia molliuit auersos pénates jarre pio et saliente mica59. Il se produit aussi que le nom des Pénates est cité en des circons tances variées, où on ne l'aurait pas forcément attendu, et dont nous nous efforcerons de trouver les caractères communs. Le mot Penates est fréquemment usité lorsque quelqu'un revient dans sa demeure. Par exemple, nous lisons dans Tite-Live, à propos de Tullia, au moment où Servius vient d'être assassiné : contaminata ipsa respersaque, tulisse ad pénates suos uirique sui60. Cet exemple appelle deux remarques : tout d'abord, pénates est pris ici dans une acception métonymique, au sens de domus; d'autre part, il s'agit de circonstances dramatiques : un assassinat vient d'avoir lieu, et la fem me dont il est question est couverte du sang de la victime, qui se trouve de plus être son père. Ce sont d'ailleurs les Pénates qui ven geront ce crime61. De même, pénates est très souvent employé métonymiquement lors qu'il s'agit d'expulser quelqu'un de sa maison. Ainsi on lit dans le De Lege Agraria de Cicéron : se moueri possessionibus auitis suis sedibus ac dis penatibus negant oportere62. Dans cette citation, pénates apparaît dans un contexte destiné à souligner que cette dépossession serait odieuse, parce que contraire à la tradition ancestrale (auitis) et l'accent est mis sur le caractère sacré conféré à la propriété par le fait qu'elle vient des ancêtres. Par ailleurs, il s'agit de circonstances tragiques, d'une expulsion. Le mot pénates apparaît très fréquemment à la place de domus lorsque l'on décrit les effets de la guerre, par exemple chez Lucain :
59 Odes III, 23, 17-20: «si une main qui n'a rien à expier a touché l'autel, elle a pu, sans qu'une victime somptueuse l'eût rendue plus agréable, apaiser les Pénates hostiles avec un froment pieux et un grain de sel pétillant» (trad. F.Villeneuve, C.U.F., Paris, 1927). 60 Liv., I, 48, 7: «souillée elle-même par les éclaboussures, elle revient au foyer conjugal» (trad. G. Baillet, C.U.F., Paris, 1958). 61 J. Heurgon, Tite-Live I (éd. comm.), Coll. Erasme, Paris, 1970, p. 162. 62 2, 57 : «ils déclarent qu'on ne doit pas les déposséder, les arracher à leur antique résidence et à leurs dieux pénates» (trad. A. Boulanger, C.U.F., Paris, 1932).
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ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT Premii undique helium inque domum iam tela cadunt quassantque pénates621.
Penates est souvent usité en de semblables circonstances chez TiteLive64. De même, on est frappé, chez le même historien, de voir qu'en des circonstances particulièrement dramatiques pour Rome, lorsque Véturie s'adresse à Coriolan65, ou que Camille essaie de convaincre les Romains de ne pas fuir à Véies66, le mot pénates apparaît toujours par ticulièrement chargé de valeur affective. Enfin, pénates apparaît également très souvent lors des invocations solennelles, où l'on prend ces dieux à témoin des paroles qui vont être prononcées : quare per diuos oratus uterque Penatis, écrit Horace67 à propos d'un père mourant qui adresse ses dernières recommandations à ses deux fils. Là encore les circonstances sont à la fois tragiques et solennelles. Pouvons-nous, aux divers types de circonstances, qui viennent d'être énumérés, où apparaît pénates, trouver des traits communs? Pour mieux les saisir, il nous faut essayer de comprendre ce que repré sentaient les Pénates dans la sensibilité romaine. Ils sont ce que l'hom me a de plus cher au monde, à côté de la famille et de la patrie68. Il faut les défendre en toutes circonstances, et il est criminel de s'attaquer à eux69. Les Pénates sont donc chargés d'une valeur à la fois religieuse et sentimentale. Cela explique qu'on les nomme, parfois métonymiquement, à la place de domus, dans toutes les circonstances graves, ou cel les dont la charge affective est forte, lors d'une invocation solennelle70, ou au moment d'abandonner la terre ancestrale71. Ils sont une référen ce à un système de valeurs où entrent en jeu en même temps le sent iment religieux et la sensibilité personnelle, et il n'est pas douteux que le mot pénates ait contenu pour les Romains une forte charge d'émotion.
63 Χ, 479-80 : « de toutes parts la guerre se fait pressante : déjà tombent dans l'int érieur du palais des traits qui l'ébranlent» (trad. A. Bourgery, ibid.). 64 I, 29, 4; V, 53, 5; VI, 3, 3; VII, 13, 8; XXII, 3, 10. 65 II, 40, 7 : intra ilia moenia domus ac pénates mei sunt, mater coniunx liberique. 66 Le mot revient à trois reprises dans la bouche de Camille : V, 30, 6; V, 53, 5; V, 53, 8. 67 Sat. II, 3, 176. 68 Sénèque, Phéniciennes, 663. 69 Liv., I, 29, 4; II, 40, 7. 70 Cic, Dom., 144; Horace, Ep. I, 7, 94-95. 71 Cic, Rose. Amer., 23; Quinci., 83.
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Nous nous sommes proposé, dans ce chapitre, d'étudier la valeur et l'usage du mot pénates dans la littérature. Nous avons examiné la fr équence des emplois du mot, son sens exact, le contexte dans lequel il apparaissait, les circonstances dans lesquelles il était employé. Il nous semble, au terme de cette étude, que l'on peut tirer les conclusions sui vantes. Tout d'abord, pour tenter de préciser les circonstances d'usage du mot Penates, nous avons distingué le sens propre du sens métonymique et semi-métonymique. Le classement n'a pas toujours été aisé à faire et certains exemples demeurent ambigus. Ainsi, dans Tite-Live72, à pro pos d'un centurion qui a perdu toute sa fortune et qui veut la reconquér ir en combattant on lit : restituentem euersos pénates. S'agit-il, pénates ayant alors le sens métonymique de domus, de remettre debout la mai son dont le centurion a été dépossédé, ou, au sens propre, de redresser les statuettes de ses dieux pénates renversés73? L'emploi de euertere peut fort bien se justifier dans les deux cas. Peut-être d'ailleurs, à côté d'exemples où l'on peut clairement voir si pénates est employé au sens propre ou métonymique, faut-il admettre dans quelques cas l'existence d'une certaine ambiguïté. D'autre part, nous remarquerons que, dans les textes dont nous disposions, qui s'étendent sur cinq siècles environ, les deux emplois de pénates, au sens propre et au sens métonymique, ne se sont pas tou jours trouvés concurremment. Le sens propre apparaît dans les exemp lesles plus anciens de notre corpus, chez Naevius, Plaute et Térence, alors que la métonymie ne nous semble s'être pleinement réalisée qu'à partir de Cicéron. Peut-on pour autant dater avec certitude de l'époque classique l'apparition du sens métonymique? Il faut ici être très pru dent, car nous ne possédons qu'un exemple de pénates chez Naevius, Plaute, et Térence; dans ces conditions, il est peut-être abusif de conclure que le sens métonymique n'existait pas aux IIIe et IIe siècles. En revanche, nous trouvons à partir de Cicéron74 l'un et l'autre emploi,
72 VI, 14, 7. 73 J. Bayet {Tite-Live, Histoire Romaine VI, C.U.F., Paris, 1966, p. 25) traduit pénates par «foyer». 74 Par ex., Rose. Am., 23, pour le sens propre; Sest. 30, pour le sens métonymique.
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ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT
et il en va de même chez Tacite75. Chez l'auteur le plus tardif de notre corpus, Suétone, les deux exemples existant de pénates76 sont à prendre au sens propre. Ces faits nous renseignent sur l'histoire sémantique de la notion comme sur l'importance de ces dieux dans la mentalité rel igieuse des Romains. En effet, on aurait pu penser que la valeur rel igieuse précise des dieux Pénates risquait de s'effacer peu à peu pour laisser la place à un emploi purement métonymique, survivance d'un sens originel perdu. Or il n'en est rien; à partir de Cicéron, les deux sens se trouvent employés concurremment. Cela nous montre la vitalité de cette notion de dieux Pénates, dont nous savons du reste, par l'édit de Théodose, qu'en 392, ils faisaient encore l'objet d'un culte spécifi que77. A côté de l'emploi de pénates au sens propre, on trouve, comme nous l'avons vu au début du présent chapitre, un large emploi du sens métonymique, dont nous avons dit qu'il était plus fréquent que le sens propre dans l'ensemble de notre corpus. L'importance du sens métony miquede pénates prouve que le mot contenait des possibilités d'exten sion que nous pensons avoir expliquées par l'étude des circonstances dans lesquelles il apparaissait. Certes, pénates n'est pas le seul mot à désigner métonymiquement le foyer, la maison ou la patrie; Lares est parfois employé dans le même sens. Mais cela témoigne de la valeur affective dont cette notion est dotée, de même qu'en français les mots «foyer» ou «patrie» ne désignent pas de simples entités matérielles. Les Pénates représentent une réalité du monde romain si familière qu'on éprouve peu le besoin d'en donner des définitions. Le mot est tellement associé à l'intimité de la vie familiale, à son essence, qu'il a fini par la symboliser. Ainsi s'expliquent à la fois l'emploi métonymique du mot pour désigner la maison ou la patrie, et le caractère dramatique ou affectif des circonstances dans lesquelles on aimait particulièrement à l'employer.
75 Par ex., Germ. 15, 1; Hist. I, 15, 2. 76 Aug., 92; Mer., 32. 77 Cf. ci-dessous p. 83 sq.
DEUXIEME PARTIE
LES
PÉNATES PRIVÉS
INTRODUCTION
Nous avons vu que l'on pouvait définir les Pénates comme «les dieux du penus», ou, plus exactement «ceux du penus». Cette définition implique l'existence d'un penus de la maison privée dans la religion domestique, ou, dans la religion publique, du penus de l'Etat, le Penus Vestae. Les témoignages antiques indiquent clairement l'existence de deux catégories de Pénates : d'une part, il existe des Penates priuati, mentionnés sous cette forme dans de nombreux textes, et nettement définis comme tels par Tertullien1, en association avec les Lares: priuatos enim deos, quos lares et pénates domestica consecratione perhihetis; d'autre part, les textes littéraires et les inscriptions attestent l'existence de Penates populi Romani, honorés par les Romains à Lavinium, l'une des cités-mères de Rome, et aussi, selon le témoignage de Tacite, dans le sanctuaire de Vesta2, où était ménagée une partie secrète désignée comme Penus Vestae. L'existence de ces deux catégor ies de Penates n'est pas pour nous surprendre, dans la mesure où il s'agit de dieux domestiques, honorés au foyer, et où il y a un paralléli sme évident entre le culte du foyer privé et celui du foyer de l'Etat, le maître et la maîtresse de maison jouant un rôle comparable à celui des prêtres et prêtresses de l'Etat; cette correspondance a été soulignée notamment par Wissowa3. Mais remarquer cette correspondance n'est pas aborder le problè me le plus difficile, celui d'un éventuel rapport chronologique, d'une relation de filiation, entre le culte des Penates priuati et celui des Penat es publici. Sur ce point, deux théories s'opposent. Pour D. G. Orr, le culte public des Pénates a existé dès les origines de Rome et a peut-être précédé celui des Pénates privés : «II est possible que le culte domesti-
» 2 3 XIX, 1974,
Ad Nat. I, 10, 46. Ann. XV, 41, 1. Religion und Kultus de Römer, 2e éd., Munich, 1912, p. 156; S. Weinstock, R.E. 1, s.u. Penates, col. 422; G.Dumézil, La religion romaine archaïque, 2è éd., Paris, p. 359.
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LES PÉNATES PRIVÉS
que soit une sorte de version miniature des rituels publics»4; G. Dumézi l, au contraire, considère que «les Penates. . . ont sûrement été pro mus du culte privé au culte public»5; question d'autant plus complexe que les Pénates apparaissent très liés à Vesta6, voire confondus avec elle7. G. Dumézil pourtant, à l'encontre de K. Latte8, voit dans la déesse du feu une des divinités les plus anciennes de la religion publi que9. En face d'opinions aussi contradictoires, nous serions tenté d'invo querle principe méthodologique de J. Bayet : «En commençant par les aspects familiaux de la religion, on ne les suppose pas antérieurs aux aspects tribaux ou fédératifs, ni plus purs qu'eux; on en constatera au contraire l'hétérogénéité : obstinés sur certains points jusqu'à la scléros e, sur d'autres sensibles aux variations sociales ou idéologiques. Mais la première cellule humaine constitue un tout saisissable; une multiplic ité de rapports s'y engagent, propres à faire concevoir la complexité vivante de faits que l'analyse de la religion d'Etat est contrainte à dis joindre»10. Cependant, le choix que nous avons fait de commencer l'étude du culte des Pénates par la religion privée nous paraît justifié par la nature même de ces dieux. En effet, chargés de la protection de la réserve aux provisions, ils nous semblent étroitement rivés à la mai son privée; l'emploi métonymique de leur nom explique en partie qu'ils aient contribué à donner naissance aux Penates publici, dont l'existence se justifie d'autre part très bien par la transformation des cultes du foyer du roi en cultes d'Etat11. Le culte public n'est donc, croyonsnous, qu'une extrapolation du culte privé. On pourrait invoquer comme argument en faveur de l'antériorité du culte public le fait que les Penates populi Romani sont liés à la
4 Roman Domestic Religion, A.N.R.W., II, 16, 2, Berlin-New- York, 1978, p. 1559. 5 La religion romaine archaïque, p. 359. 6 Cicéron {De Nat. Deor. II, 68) écrit : nec longe absunt ab hac ui (= Vesta) di Penat es;selon le témoignage de Tacite (Ann. XV, 41), les Pénates étaient honorés à Rome dans le sanctuaire de Vesta : cf. infra p. 467-70. 7 Macrobe, III, 14, 41; Servius, Ad Aen. II, 296; pour l'étude du sacrifice des magist ratsromains à Vesta et aux Pénates, voir infra p. 355-61. 8 Römische Religionsgeschichte, Munich, 1960, p. 90. 9 Ibid. 10 Etude politique et psychologique de la religion romaine, Paris, 1957, p. 62. 11 S. Weinstock, R.E. XIX, 1, s.u. Penates, col. 441; F. Coarelli, // Foro Romano I: Periodo arcaico, Rome, 1983, p. 70-71; cf. infra p. 519.
INTRODUCTION
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légende de la venue d'Enée en Italie; mais, nous le verrons12 cette der nière n'est pas antérieure, au plus tôt, au VIe siècle, et il n'y a aucune preuve qu'Enée ait été considéré comme l'ancêtre des Latins avant le IVe siècle; or, il y a de bonnes raisons de penser que le culte privé des Pénates existait déjà à cette époque; enfin, la désignation comme «Pé nates» des dieux apportés de Troie par Enée peut fort bien n'être que la marque de la superposition, à la légende, d'une tradition indigène. Nous commencerons donc par l'étude des Pénates privés. Cela ne veut pas dire que le sujet soit simple. Notre documentation, en effet, présente de grandes lacunes en ce qui concerne les réalités de ce culte; les témoignages littéraires nous renseignent assez bien sur lui à l'épo queclassique, mais, dans les débuts de la littérature latine, chez Naevius, nous n'avons sur lui qu'une indication très mince, et difficile à interpréter. Ce caractère fragmentaire se retrouve également dans l'ic onographie : ce qui nous est parvenu de l'habitat privé ne nous a guère livré de représentations des divinités domestiques, sauf dans le cas de Pompéi. D'autre part, à côté de ces images, ou de ces commentaires sur le culte des Pénates privés, nous nous trouvons devant des définitions et des interprétations très variées de la personnalité de nos dieux : en bref, il semble que les Pénates aient été primitivement une collectivité indistincte de dieux veillant sur le penus, alors que des témoignages plus tardifs, comme ceux des fresques de Pompéi, les assimilent à des dieux à la personnalité bien distincte, Jupiter, Vesta, Mercure, etc. . . Nous nous trouvons donc, là encore, devant un problème de méthode : ayant à étudier le culte des Pénates privés et la nature de ces dieux, nous avons choisi de parler d'abord des réalités du culte, puis de la définition des Pénates. On peut certes objecter à cette méthode qu'il paraît plus logique de définir des dieux avant de parler du culte dont ils sont l'objet. En fait, la démarche inverse nous a paru plus adaptée à notre propos. Elle présentait en effet l'avantage d'aller du niveau de la description, de la réalité matérielle, presque tangible, des faits, à celui de l'interprétation, beaucoup plus complexe et sujette à caution. Cette méthode n'a pas toujours été celle de nos investigations, mais elle nous a semblé préférable pour rendre plus clair l'exposé de notre sujet.
12 Cf. infra p. 161 sq.
CHAPITRE I
LES RÉALITÉS DU CULTE DES PENATES PRIVÉS
Nous nous proposons, dans un premier temps, d'aborder l'étude des Pénates privés par l'examen des réalités matérielles de leur culte, assez bien connu. Nous avons appuyé notre étude sur deux sortes de témoignages : d'une part, les textes des auteurs anciens, d'autre part les données archéologiques; pour ces dernières, les villes de Campanie détruites lors de l'éruption du Vésuve en 79 offrent évidemment un ensemble très complet d'architecture domestique; nous avons essentie llementutilisé les exemples fournis par Pompéi, ce qui n'a d'autre justi fication que pratique : les lararia de la cité ont fait, contrairement à ceux d'Herculanum, l'objet d'une publication méthodique1.
I - La localisation du culte 1) Dans la maison en général Nous avons vu que les Pénates pouvaient être considérés comme des di priuati, ainsi que le rappelle Tertullien dans le texte précédem ment cité. A ce titre, les Pénates ont leur siège et leur culte dans la mai son particulière, comme l'indique Servius2 : Penates sunt omnes di qui
1 G. K. Boyce, Corpus of the Lararia of Potnpei, in Memoirs of the American Academy in Rome, XIV, 1937; D. G. Orr a présenté dans un article {Roman Domestic Religion : The Evidence of the Household Shrines, A.N.R.W., II, 16, 2, Paris-New- York, 1978, p. 15571591) un resumé d'une étude non publiée sur la religion privée (Roman Domestic Reli gion, : A Study of the Roman Household Deities and their Shrines, Ph. D. Dissertation, Uni versity of Maryland, College Park, Maryland, 1972). 2 Ad Aen. II, 514.
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LES PÉNATES PRIVÉS
domi coluntur. Cette indication n'est pas très surprenante3, dans la mesure où nous avons déjà remarqué que la notion de «Pénates» était à ce point proche de celle de «maison» que les deux mots étaient parfois confondus et que l'on utilisait métonymiquement Penates pour désigner la maison. Essayons à présent de préciser la localisation du culte de nos dieux dans cette dernière. De nombreux témoignages de textes anciens attestent que le Pénat es sont honorés dans la maison d'une manière très vague et très génér ale. Nous en avons vu des exemples en étudiant l'usage du mot Penates dans la littérature classique. Quelques textes, en revanche, localisent plus précisément la résidence de ces dieux dans la maison. C'est ainsi que Cicéron écrit, dans un texte que nous avons précédemment com menté4 : penitus insident. Servius s'exprime en termes apparemment à peu près analogues quand il dit5 : penetralia id est domorum secreta, dicta penetralia aut ab eo quod est penitus, aut a penatibus. L'une des deux etymologies proposées par Cicéron pour le mot Penates le met donc en relation avec penitus. L'explication fournie par Servius pour le terme penetralia est en fait un peu différente : le choix donné entre deux etymologies, l'une qui le rapproche de penitus, l'autre de pénates, semble exclure la possibilité d'une parenté entre ces deux derniers ter mes, comme le souligne l'emploi de aut. Pourtant, nul doute que pour Servius, les Pénates soient liés à une partie retirée, ou mystérieuse, de la maison, puisque le nom des domorum secreta est tiré du leur. Cela indique donc bien que les Pénates ont leur séjour dans la partie intime de la maison, peut-être sa partie secrète, cachée; que Servius ne dé signe pas cette dernière du terme penus nous paraît aller dans le sens des remarques faites précédemment : il est probable que pour lui, com mepour Cicéron, ce mot désigne «les provisions», non l'endroit où on les conservait. Ces indications, toutefois, restent encore assez vagues, puisqu'elles ne mentionnent le nom d'aucune pièce, ou partie précise de l'architecture de la maison, qui serait le lieu du culte des Pénates.
3 Cf. G. Radke, Die dei pénates und Vesta in Rom, A.N. R.W. , II, 17, I, Berlin-NewYork, 1981, p. 253-255. 4 De Nat. Deor. II, 68 : di Penates, siue a penu ducto nomine. . . siue ab eo quod peni tusinsident. 5 ,4c? Aen. II, 484; voir supra p. 24 η. 58.
LES RÉALITÉS DU CULTE DES PÉNATES PRIVÉS
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2) Dans une pièce particulière de la maison Les premières traces archéologiques certaines que nous possédions du culte des Pénates privés se trouvent dans les plus anciennes maisons de Pompéi qui datent de l'occupation samnite du territoire, c'est-à-dire d'une période allant du dernier quart du Ve siècle avant J.-C. à la fin du IIIe siècle6. Mais la plupart des maisons datent d'une période compris e entre la «romanisation» de la ville à l'époque de Sulla, et sa destruc tion en 79 après J.-C. L'état de conservation de l'ensemble permet une étude assez précise du culte domestique. Les divinités domestiques y sont vénérées dans des petites chapelles pouvant revêtir des formes et des tailles différentes, appelées laraires7, «improprement», comme le note P. Boyancé8, puisque ce terme n'apparaît qu'à l'époque impérial e, et que son usage systématique à propos des lieux du culte domesti que est le fait des modernes. Il arrive, assez exceptionnellement (dans six cas seulement9 sur l'ensemble des cinq cents laraires recensés par G. K. Boyce), que les divinités domestiques se voient réserver une pièce particulière de la maison, que l'on désigne du terme de sacrarium; il y a trois autres exemples où il n'est pas absolument certain que ces pièces aient été réservées exclusivement au culte domestique. Les sacrarla se disti nguent des autres pièces de la maison par une architecture particulière : deux d'entre eux10 ont un plafond voûté, l'un11 est souterrain, deux encore12 ont des bancs le long des murs où pouvaient s'asseoir les fidè les; ces caractères architecturaux rappellent ceux des sanctuaires de divinités orientales, en particulier de Mithra. Tous ces sacraria présent ent des niches où étaient représentés les dieux et un autel en maçonner ie où se faisaient les sacrifices13. Mais dans la majorité des cas, les dieux domestiques se voient sim-
6 R. C. Carrington, Notes on the building materials of Pompeii, JRS, 23, 1933, p. 125152; E. La Rocca-M, et A. de Vos, Guida archeologica di Pompei, Milan, 1976, p. 13 et 31. 7 G. K. Boyce, ibid.; A. Maiuri, L'ultima fase edilizia di Pompei, Rome, 1942; pour une bibliographie plus complète, cf. Guida archeologica di Pompei, p. 349-354. 8 Les Pénates et l'ancienne religion romaine, REA, 54, 1952, p. 112. 9 Op. cit., p. 18: VI, 1, 1; VI, 15, 18; VII, 2, 20; IX, 8, 3 et 6; IX, 9, 6; Villa des Colonnes de mosaïque. 10 VI, 15, 18 et VII, 2, 20. 11 VI, 1, 1. 12 VI, 1, 1 et IX, 9, 6. 13 G. K. Boyce, op. cit., pi. 41.
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LES PÉNATES PRIVÉS
plement consacrer une petite chapelle en forme de niche plaquée contre le mur d'une des pièces de la maison. Celle dont l'attestation est la plus fréquente est la cuisine. Du reste, l'un des sacello, dont nous venons de parler14, adossé au mur d'un jardin, offre dans son architec ture des particularités qui ont pu faire penser qu'il s'agissait originell ement d'une cuisine15: notamment, de possibles traces d'un foyer dans les ruines d'une structure maçonnée se trouvent dans l'un des coins de cette pièce rectangulaire. Souvent, donc16, les dieux domestiques sont honorés dans la cuisine à Pompéi, et, ians les fresques des villes campaniennes étudiées par W. Helbig17, sur vingt-huit représentations où figurent les Pénates seuls ou accompagnés d'autres divinités domesti ques, huit se trouvent placées dans la cuisine. Ce fait est du reste confirmé par les témoignages littéraires. Servius écrit : singula entm domus sacrata sunt dus ut culina penatibus18; dans un passage de Mart ial, il est question d'un sanglier, tué à la chasse par l'un des amis du poète, que l'on va faire cuire chez ce dernier : Pinguescant madido laeti nidore pénates flagret et exciso festa culina iugo19. D'après ce texte, la localisation des Pénates dans la cuisine n'est pas douteuse, puisque les dieux seront nourris des vapeurs qui se déga geront dans la pièce lorsqu'on cuira l'animal20. Plus précisément, cer tains textes indiquent que le lieu privilégié du culte des Pénates est le foyer, dont Servius nous dit même qu'il constitue véritablement l'autel
14 ix, 9, 6. 15 G. K. Boyce, op. cit., p. 91 ; cette hypothèse est reprise de A. Mau, Pompeji in Leben und Kunst, 2e éd., Leipzig, 1908. 16 Par exemple I, 2, 6; I, 2, 19; I, 3, 8; V, 1, 18; V, 2, 3; VI, 1, 10; VII, 3, 11-12 etc. . .; sur les 505 exemples de Pompéi étudies par G. K. Boyce, la chapelle des dieux domesti ques se trouve dans la cuisine 90 fois, et plusieurs fois dans une petite pièce contigue à cette dernière; en outre, il faut tenir compte de ce que cet ensemble comporte de nomb reuses tabernae et cauponae où il n'y a pas toujours de «laraires». 17 Wandgemälde der vom Vesuv verschütteten Städte Campaniens, Leipzig, 1868. 18 Ad Aen. II, 469. 19 VII, 27, 5-6: «Que mes pénates s'engraissent joyeusement à la vapeur de son fumet et qu'on déboise une hauteur pour le feu de ma cuisine en fête» (trad. H.-J. Izaac, C.U.F., Paris, 1930). 20 Mais la fumée aura aussi pour effet de déposer de la graisse sur les images des dieux (pinguescant est à prendre au sens métaphorique et au sens propre).
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de ces dieux: cum focus ara sit deorum penatium21. Cette explication permet d'éclairer une expression de Virgile, dans la description du palais de Didon : l'une des tâches des cinquante servantes est de flammis adolere penatis22; les parfums sont brûlés dans le foyer, où sont vénérés les «Pénates» de la reine, selon l'interprétation d'A. Bellessort23; J. Perret va plus loin : il voit dans l'emploi de Penatis une méto nymie pour culina, «et l'expression signifierait embraser la cuisine de flammes, faire grand feu dans la cuisine»24. Du reste, nous avons vu que pénates était souvent employé métonymiquement pour focus25. Dans le vers qui précède immédiatement ceux que nous avons cités, Martial dit du sanglier : iacet. . . nostris focis, où il ne nous semble pas qu'il faille voir dans focis une métonymie; l'animal, tué, va être cuit dans le foyer. La cuisine n'est cependant pas la seule pièce où l'on trouve des représentations des Pénates dans les maisons de Pompéi; il existe pour leur image, ou l'autel de leur culte, une grande variété d'emplace ments : l'atrium26, le péristyle ou le pseudo-péristyle27 un mur bordant le jardin28 ou, beaucoup plus rarement, les fauces29, ou encore une petite pièce, ou un recoin, attenant au tablinum30, peut-être une fois le tablinum lui-même, mais l'identification de la base de maçonnerie com meles restes d'un laraire n'est pas certaine31; peut-être faut-il voir une cella penaria dans une petite pièce très étroite, voisine du triclinium, dans une maison de Pompéi32 : la présence d'étagères, taillées dans le
21 Ad Aen. XI, 211. 22 En. I, 704. 23 Enéide I-VI, 2e éd., C.U.F., Paris, 1966. 24 Enéide I-IV, 2e éd., C.U.F., Paris, 1981, Notes complémentaires, p. 151-152. 25 Cette métonymie, remarque fort justement S. Weinstock (R.E. XIX, I, s.u. Penates, col. 423) était préparée par l'expression penetrates focos que l'on trouve chez Catulle (68, 102) et Cicéron (Har., 57). 26 I, 2, 3; I, 7, 10-12; I, X, 4; V, 1, 26; V, 2, 1 ; VI, 7, 3; VI, 11, 19; VI, 16-27; VII, 6; 7; VII, 9, 47; Vili, 3, 18; IX, 1, 22; IX, 3, 5; IX, 7, 20, etc. . . 27 I, 3, 8; I, 3, 20; I, 7, 7; V, 1, 7; V, 4, 2; VI, J, 1 VI, 8, 5; VI, 9, 6-7; VI, 12, 2; VI, 16, 7; VII, 6, 3. 28 I, 2, 10; I, 4, 9; V, 3, 7; V, 4, 3; VI, 14, 30; VI, 15, 7-8; VII, 2, 14, etc. . . 29 I, 2, 17; I, 10, 3; V, 2, 2A; VI, 11, 15; VII, 6, 30. 30 V, 2, 2, C; VI, 15, 6; VI, 16, 26-27; VIII, 5-6, 9; IX, 2, 21 ; IX, 6, 9. 31 VII, 7, 10; cf. G. K. Boyce, op. cit., p. 68 n° 297. 32 I, 7, 10-12 B. Cf. G. K. Boyce, op. cit., p. 26 n° 41 ; l'identification comme cella penaria de la petite pièce où figurent les dieux domestiques au V, 2, 3 Β (op. cit. p. 38 n° 110) n'est pas du tout certaine.
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mur, peut constituer un élément en faveur de cette identification; or dans cette pièce sont représentées, dans une niche, plusieurs divinités domestiques; on trouve un exemple de laraire dans le triclinium33; la présence des dieux domestiques dans une pièce où l'on reconnaît un cubiculum est exceptionnelle34; enfin, on trouve des images des dieux domestiques dans de nombreuses boutiques et arrière-boutiques, par fois dans la cuisine des tabernae ou cauponae, ou dans la pièce princi palede ces dernières, quelquefois dans des moulins35. De cette localisation du culte des Pénates dans les différentes piè ces de la maison, de sa fréquence dans telle ou telle pièce, nous pou vons essayer de tirer quelques conclusions. D'une façon très générale, la chapelle des dieux domestiques est située dans des lieux servant à l'usage commun, cuisine, atrium, péristyle, vestibule, en particulier. Ce fait est aisément explicable : Pénates et Lares, même s'ils sont la plu part du temps accompagnés du Genius spécifiquement attaché au maît rede maison, ne sont pas les divinités personnelles de ce dernier, mais celles de toute la famille, et, pour les Pénates, celles de la maison ellemême. De plus, cette localisation du culte domestique dans des pièces où chacun pouvait se rendre permettait à l'ensemble de la maisonnée de rendre hommage aux dieux familiaux. Lorsque leur chapelle était située dans le vestibule, ou dans l'atrium, les visiteurs eux-mêmes pou vaient les saluer au passage. C'est ce à quoi nous assistons dans le Sati ricon, lorsque Encolpe et ses deux amis arrivent au dîner chez Trimalcion36: sur les murs de l'atrium sont peints les épisodes de la vie du maître de maison, et dans un coin se trouve une armoire (armarium) contenant les dieux domestiques; chez Trimalcion, le ridicule se sent dans la vanité et la richesse ostentatoire qui s'étalent dans ces peintures et cette sorte d'autel domestique; mais, sous un aspect caricatural, elles nous renseignent tout de même sur les pratiques de la vie privée37. La répartition de ces chapelles domestiques se fait à peu près également entre l'atrium (56 exemples), le péristyle (59 exemples), et l'un des murs bordant le jardin (49 exemples); mais la cuisine reste, de loin, avec 90 exemples, le lieu le plus fréquemment utilisé pour y placer les laraires.
33 ix, 2, 16. 34 VIII, 3, 14 C; la distinction entre cubiculum et sacellum donne parfois matière à controverses ; à ce sujet, cf. G. K. Boyce, op. cit., p. 75 n. 2. 35 I, 3, 27; V, 3, 8; V, 4, 1, etc. .. 36 Sat., XXIX. 37 Voir E. Paratore, // Satyricon di Petronio II (Commento), Florence, 1933, p. 94-95.
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II nous semble que cet état de choses est le résultat d'une double évolu tion: de l'architecture de la maison privée d'une part, de la conception des Pénates, d'autre part. Dans l'une des plus anciennes maisons de Pompéi, la «Maison du Chirurgien»38, datant du IVe siècle, les pièces constituent un seul corps de bâtiments s'organisant autour de l'atrium, et le laraire des dieux domestiques est dans la cuisine; c'est une peinture présentant deux zones : dans la zone inférieure se trouvent deux serpents affrontés symétriquement à un autel; dans la zone supérieure, le Genius versant une libation sur un autel, à la droite duquel se tient un camillus; deux figures indistinctes encadrent ce groupe central, mais on peut penser avec quelque vraisemblance, étant donné la similitude avec l'iconogra phie d'autres laraires, qu'il s'agit des Lares; au-dessus encore sont représentés deux autres figures indistinctes : sans doute, croyons-nous, les Pénates39. Servius, nous l'avons vu, considère la cuisine comme la «pièce des Pénates». Dans la cabane primitive, constituée d'une unique pièce, les Pénates ne pouvaient être honorés que dans cette dernière, si l'on refuse toutefois l'hypothèse proposée par F. Borner d'une réserve aux provisions distincte de la maison, dont les Pénates auraient été les dieux. De toute façon, à supposer même que le penus de la maison pri mitive ait été séparé du reste de l'espace domestique par des cloisons d'osier tressé, comme le Penus de YAedes Vestae, les dieux du penus n'en auraient pas moins été vénérés dans la pièce unique. Mais, à partir du moment où la maison comporte plusieurs pièces à destination spé cialisée, s'organisant autour de l'atrium, il faut expliquer que ce soit, plus volontiers qu'ailleurs, dans la cuisine qu'on les ait honorés40. Leur présence dans la cella penaria n'est attestée que dans un cas, peut-être deux : cette pièce, petite, aveugle, au total plutôt ingrate, convenait sans doute assez mal à l'importance qu'ont prise les Pénates. En revanche, la localisation de leur culte dans la cuisine de préférence s'explique sans doute par l'évolution du sens du mot penus. En effet, à partir du moment (difficile à dater précisément, mais la définition de Cicéron, est
38 VI, 1, 10; cf. E. La Rocca-M. et A. de Voos, op. cit., p. 327; G. K. Boyce, op. cit., p. 43, n°135. 39 Cf. G. K. Boyce, ibid. 40 Selon D. G. Orr {op. cit., p. 1563), les Pénates étaient primitivement honorés dans le penus, réserve aux provisions située derrière le foyer, au fond de l'atrium, et, dans le temple de Vesta, le penus a dû servir à la fois de réserve pour les ingrédients du sacrifice et de cuisine où on les apprêtait.
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omne quo uescuntur homines penus, constitue de toute façon un termi nus post quern) où penus désigne les provisions, la nourriture, et non un espace particulier de la maison, il paraît assez naturel que la cuisine ait été le séjour des dieux du penus. C'est sans doute ainsi qu'il faut expli quer la présence de représentations des Pénates dans les moulins (pistrinae) : la relation entre nos dieux et le blé et la nourriture, nous paraît ici assez claire, de même d'ailleurs que dans les cauponae. D'autre part, la présence de ces dieux dans des pièces communes autres que la cuisine s'explique par une évolution dans la conception que l'on s'est faite d'eux : nous y reviendrons plus loin. De fait, nous avons vu que les Pénates étaient compris comme le symbole même de la maison, qu'ils désignaient parfois métonymiquement. Dans cette mes ure, on conçoit que leurs images aient été placées dans les lieux où l'ensemble de la maisonnée avait le plus souvent l'occasion de passer, en particulier l'atrium, et, pour les maisons qui en comportent un, le péristyle. Il semble que cette pratique soit apparue tôt à Pompéi, car, dans la «Maison de Salluste», qui date du IIIe siècle, le laraire se trouve dans l'atrium : c'est une peinture qui représente le Genius entouré de deux Lares, avec, en dessous, un serpent; des trous dans le mur, sous cette peinture, font penser que l'on y avait placé des statuettes d'autres dieux domestiques, les Pénates41. Dans cet exemple, comme dans celui de la «Maison du Chirurgien», nous constatons que les dieux domesti ques, Genius, Lares, Pénates, paraissent avoir été vénérés dans la même chapelle, dès les IVe-IIIe siècles; aussi conçoit-on qu'on ait voulu les mettre à une place d'honneur dans la maison, même si cette place ne correspondait pas à la définition primitive de certains de ces dieux. C'est sans doute ainsi que s'explique une expression assez curieuse de Suétone, à propos de la superstition d'Auguste : enatam inter iuncturas lapidum ante domum suam palmam in compluuium deorum Penatium transtulit42; compluuium désigne métonymiquement Y atrium de la mai son d'Auguste sur le Palatin43. L'atrium, cœur de la demeure, centre de
41 G. K. Boyce, op. cit., p. 44 n° 139. 42 Aug. 92, 3 : «Un palmier ayant poussé entre les pierres devant sa maison, il le fit transporter dans le "compluvium" à côté des dieux Pénates» (trad. H. Ailloud, C.U.F., Paris 1961). 43 C'est à cette interprétation que se rallie finalement S. Weinstock (op. cit., col. 448) après avoir aussi envisagé l'explication selon laquelle ce compluuium deorum Penatium ferait partie du temple de Vesta construit par Auguste sur le Palatin ; cf. S. T. PlatnerTh. Ashby, A Topographical Dictionary of Ancient Rome, Oxford-Londres, 1929, p. 557-58.
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la vie domestique, paraît tout naturellement désigné pour abriter les dieux qui symbolisent la maison. On peut d'ailleurs considérer que l'atrium, qui était à l'origine la seule pièce de la maison romaine, a dû être le siège premier des Pénates, antérieurement à la cuisine, dont l'existence représente déjà un développement de l'architecture domesti que; de cette antériorité, il n'y a malheureusement aucune trace ar chéologique à Pompéi44. Le péristyle, pour les maisons qui présentent ce type d'architecture45, joue un rôle tout à fait analogue, comme cen tre de l'univers domestique, à celui de l'atrium. Du reste, dans les mai sons d'une taille très importante, comportant à la fois un atrium et unpéristyle, il arrive qu'il y ait plusieurs laraires : c'est le cas à la «Maison du Faune», où l'on trouve deux niches abritant les images du culte domestique, l'une dans le péristyle, l'autre dans la cuisine. 3) Les différentes formes de chapelles domestiques Nous avons vu que certaines maisons pompéiennes comportent un sacrarium, pièce qui semble exclusivement réservée au culte privé; mais dans la plupart des cas, les dieux domestiques sont honorés dans une pièce par ailleurs destinée à un autre usage; l'espace assigné à leur représentation, d'une architecture plus ou moins élaborée, va alors de la simple peinture murale à une véritable petite chapelle miniature : on le désigne généralement du terme de lararium, qui, répétons-le, ne sem ble pas correspondre à un usage ancien. Il arrive que cette chapelle des dieux domestiques soit une simple peinture murale, d'une taille variable. Dans la «Maison du Chirurgien», l'une des plus anciennes de la ville, nous l'avons vu, les dieux domesti ques sont représentés sur le mur sud de la cuisine, mais de tels pan neaux peuvent aussi bien se trouver sur le mur d'un péristyle46 ou d'un atrium47, ou encore du jardin48. Dans une maison49, cette peinture couvre un mur entier de la cuisine, mais ces laraires n'occupent le plus 44 Cf. K. Schefold, La peinture pompéienne. Essai sur l'évolution de sa signification, trad. J. M. Croisille, Coll. Latomus, vol. 108, Bruxelles, 1972, p. 52-68. 45 Cf. R. Etienne, La vie quotidienne à Pompéi, Paris, 1966, p. 277-307 (en particulier les plans des p. 279 et 287). 46 Par exemple I, 3, 24. 47 Par exemple V, 2, 1. 48 Par exemple, V, 2, 4 C; V, 2 3 B. 49 V, 4, 3 B.
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souvent qu'une portion du mur, et ils ne constituent pas la forme la plus fréquente du culte domestique, puisqu'on ne la trouve que dans 59 des 505 cas étudiés par G. K. Boyce. Plus fréquente est la niche50, cavité ménagée dans le mur, généra lement à une hauteur telle que l'on puisse aisément l'atteindre lor squ'on est debout; il y a à Pompéi deux exceptions : une niche est placée à ras du sol, l'autre, dans la «Maison du Faune», très haut dans le mur de la cuisine. La niche, sous sa forme la plus simple, est un réceptacle carré ou rectangulaire taillé dans le mur; mais cette forme dépouillée se trouve rarement, et la plupart des niches sont rehaussées par des ornements. On trouve par exemple, dans la partie supérieure de la niche, différentes variétés d'arc51. Plus fréquemment encore, la niche est décorée par des éléments plus ou moins complexes destinés à lui donner l'apparence d'une facade de temple, ou de chapelle; c'est, dans le cas le plus simple, un fronton triangulaire, souvent complété par des pilastres ou des colonnes52; ils peuvent être simplement peints autour de la niche, ou exécutés en stuc, parfois même en marbre53. Etant don né les dimensions relativement réduites de ces niches (elle ont en moyenne une cinquantaine de centimètres de haut et une dizaine de centimètres de profondeur), tous les éléments du culte domestique ne sont pas représentés à l'intérieur de la cavité; en particulier, le ou les serpents, l'autel54, quelquefois même une ou plusieurs divinités55 peu vent être peints sur le mur, en-dessous de la niche ou à côté d'elle. A Herculanum, on trouve de nombreux exemples de laraires de bois, bien conservés, dont la sobriété contraste souvent avec la richesse décorati ve du panneau sur lequel ils sont placés56. Le plancher de la niche est quelquefois constitué par la surface brute du réceptacle taillé dans le mur; dans la majorité des cas cepen dant, il est couvert par une plaque de pierre ou un carrelage, qui
50 72 exemples selon G. K. Boyce. 51 Cf. G. K. Boyce, op. cit., pi. 2, 3, 4, 6. 52 Op. cit., pi. 5, 7. 53 A. Maiuri (Ercolano, Rome-Novara-Paris 1932, p. 54-56) cite l'exemple de la «Mai sondu Squelette», à Herculanum, où la chapelle des dieux domestiques est richement ornée d'une mosaïque en pâtes de verre de diverses couleurs; quelques autres exemples à Pompéi, en place et au Musée de Naples. 54 Op. cit., pi. 9 et 10. 55 Op. cit., pi. 12 fig. 4; pi. 25 fig. 1. 56 Cf. D. G. Orr, op. cit., p. 1585, et pi. X.
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déborde légèrement du plan du mur pour constituer une sorte de rebord comportant parfois des moulures57, ou décoré d'une frise à méandres58; le rebord est parfois aussi réalisé avec un morceau de tui le de toit59; il permet d'agrandir le plancher de la niche et, ainsi, de poser des statuettes des divinités tutélaires de la maison, et aussi les offrandes qui leur sont destinées. Les murs de la niche sont tout d'abord recouverts de stuc blanc, et demeurent parfois tels. Mais dans la plupart des cas, ce stuc est peint de couleurs variées : jaune, orange, rouge, vert, noir. La peinture est unie lorsqu'elle sert de fond à des représentations figurées des dieux domestiques, elles-mêmes peintes. Mais il arrive aussi que les dieux du foyer soient présents dans la niche sous forme de statuettes. Les parois intérieures de la niche sont alors souvent décorées de motifs comme des fleurs, des feuilles, parfois des oiseaux. Les trous dans le plancher de certaines niches donnent à pen ser que les statuettes des dieux y étaient fermement fixées. Dans beaucoup de niches, la façade avait l'apparence d'un temple en miniature. Mais il y a des cas où le temple en miniature est plus complet et ne comporte pas seulement une façade : il s'agit alors de Yaedicula, dont la caractéristique, outre d'offrir une sorte de modèle réduit de temple, est d'être placée sur un podium. Cette forme architec turale semble représenter une tradition continue et très ancienne60. Elle correspond, en fait, à des modèles réduits de temples61, qui appa raissent en Italie, non seulement à Pompéi, mais aussi dans le Latium et en Etrurie62. Les aediculae, à Pompéi, se trouvent parfois assez curieusement placées dans l'angle d'une pièce, et offrent alors deux façades et deux frontons, les deux autres côtés étant fermés par les murs mêmes de la pièce contre lesquels s'appuient les aediculae63. A côté de la véritable aedicula, on trouve à Pompéi un autre type archi tectural assez voisin, qualifié par G. K. Boyce de «pseudo-aedicula»64.
57 G. K. Boyce, op. cit., pi. 5 fig. 2 («Maison du Faune»). 58 Ibid., pi. 6 fig. 1. 59 Ibid., pi. 13 fig. 1. 60 Ibid., p. 12 η. 6. 61 Ibid., p. 12 η. 4. 62 D. G. Orr (op. cit., p. 1576) insiste sur la probable origine étrusque des sanctuaires domestiques, dont il croit reconnaître une représentation sur un sarcophage de Volterra. 63 G. K. Boyce, ibid., pi. 29 fig. 3 et 4. 64 Ibid., p. 12-13.
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La structure générale de la construction est la même, mais on ne trou ve pas les colonnes du temple en miniature : il s'agit d'une niche creu séedans un bloc de maçonnerie, surmontée d'un fronton, et souvent ornée, comme les niches murales, d'une façade a'aedicula; comme Yaedicula, la « pseudo-aedicula » est placée sur un podium d'un peu plus d'un mètre de haut65. Quant à la décoration intérieure de ces deux types architecturaux, elle est tout à fait analogue à celle des niches murales, dont nous avons déjà parlé plus haut. Il apparaît qu'en Campanie même, Yaedicula n'était pas toujours posée sur un podium. Cette sorte de petit temple portatif était placé, dans la maison de Trimalcion, à l'intérieur d'une armoire : praeterea grande armarium in angulo uidi, in cuius aedicula erant Lares argentei positi Venerisque signum. marmoreum et pyxis aurea non pusilla, in qua barbam ipsius conditam esse dicebant66. D'après cette description, il semble que l'on devait ouvrir les portes de l'armoire pour montrer aux visiteurs les images des dieux domestiques, ou que Y armarium en ques tion n'avait pas de porte, puisqu'on voit Yaedicula qui se trouve à l'inté rieur. Tous les détails {argentei, marmoreum, aurea) attestent la richess e, ici ostentatoire, du maître de maison; en revanche, il est difficile, faute de points de comparaison, de juger de la singularité ou de la banalité de la pratique consistant à mettre une aedicula dans une armoire. Notre étude a pris en compte les différentes formes de l'espace réservé au culte des dieux domestiques à Pompéi, et, dans les cas où c'était possible, nous les avons comparées avec des faits latins. Pompéi présente l'avantage d'offrir un ensemble très important de maisons pri vées, mais il n'est pas possible de généraliser les conclusions que l'on peut en tirer, ni de les transposer dans le domaine proprement romain, même s'il est permis de penser qu'il y a eu de grandes ressemblances entre les cultes privés à Rome et à Pompéi, surtout à partir du Ier siècle avant J.-C. où s'opère, sous l'égide de Sulla, la romanisation de la cité67. A Rome même, aucun laraire antérieur à l'époque impériale n'a
65 Op. cit., pi. 34 fig. 1 et 2. 66 Sat., XIX: «En outre, je remarquai dans un coin une grande armoire avec, audedans, un reliquaire contenant les Lares d'argent, une statue en marbre de Vénus, et une boîte d'or non des plus petites, qui passait pour renfermer la première barbe du maître de maison» (trad. A. Ernout, C.U.F., Paris, 1923). 67 E. La Rocca-M. et A. de Voos, op. cit., p. 14 sq.
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été conservé68. On en a découvert un, en très bon état, avec un Mithreum souterrain attenant, dans une maison de l'Esquilin69. Cette construction, datée de l'époque de Constantin, présente de grandes ana logies avec celles de Pompéi. Il s'agit d'un sacrarium, petite chapelle adossée à l'un des murs de la cour intérieure; sur son côté droit se trouve la porte qui donne sur l'escalier descendant au Mithreum. Le sacrarium a trois murs indépendants, et est surmonté d'un fronton. L'intérieur et l'extérieur des murs étaient revêtus de plaques de marb re, dont il subsiste quelques traces; la voûte était peinte en rouge; la niche principale contenait la statue d'Isis-Fortuna, tandis que celles des côtés, de forme carrée, abritaient les images de divinités considérées par C.L.Visconti comme «les Lares et les Pénates»70: Zeus-Sérapis, Zeus, Diane, Vénus, Mars, Hercule, Ariane, et d'autres fragments diff icilement identifiables. De même, dans le Trastevere, Y Excubitorium de la VIIe cohorte des vigiles71, daté du IIe siècle après J.-C, comporte une pièce rectangulaire avec une entrée à arc, dont un graffito indique la fonction : c'est le sacrarium de la caserne, un laraire consacré au Genius de Y Excubitorium.
II - Les représentations des Pénates Les laraires de Pompéi - peintures murales, niches, aediculae, sacraria - contiennent généralement plusieurs divinités domestiques; elles apparaissent parfois peintes sur les murs intérieures des niches ou des aediculae, soit sur le fond blanc constitué par le stuc, soit sur un fond d'intonaco de couleur variée, qui peut être lui-même décoré de différents motifs animaux ou végétaux; il se produit également, nous l'avons vu, que les dieux domestiques soient peints pour partie dans le laraire, pour partie sur le mur environnant; enfin, ces dieux sont repré sentés sous deux formes, peintures et statuettes, dont A. De Marchi72
485.
68 Cf. M. Floriani Squarciapino, s.u. Lares, Enciclopedia dell'Arte antica, IV, p. 482-
69 C. L. Visconti, Del larario e del mitreo scoperti nell'Esquilino presso la Chiesa di S. Martino ai Monti, BCAR 13, 1885, p. 27-38; F. Coarelli, Roma (Guide archeologiche Laterza) Rome, 1980, p. 213. 70 Op. cit., p. 29. 71 C. L. Visconti, op. cit., p. 28; F. Coarelli, op. cit., p. 356. 72 // culto privato di Roma antica, Milan, 1896, p. 104.
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pense que la seconde a précédé chronologiquement la première. Les chapelles domestiques de Pompéi contiennent généralement plusieurs types de divinités domestiques dont la définition et la distinction ne va pas sans quelques difficultés, et sur lesquelles nous reviendrons dans le chapitre suivant. Servius définit les Pénates comme omnes di qui domi coluntur7i, ce qui impliquerait alors que tous les dieux représentés dans les laraires de Pompéi sont les Pénates. En fait, nous avons suivi le classement opéré par G. K. Boyce qui distingue le Genius et les Lares de toutes les autres divinités domestiques, considérées par lui comme les Pénates. D'un point de vue purement iconographique, ce classement nous a semblé justifié, car Genius et Lares se présentent sous des traits caractéristiques et aisément reconnaissables74. Le Genius est souvent représenté sous la forme d'un serpent, ou de deux serpents affrontés, mais parfois aussi sous des traits anthropomorphiques : il a alors une couronne, et, à la main, une corne d'abondance; ce type de représentat ion anthropomorphique n'exclut d'ailleurs pas la présence des ser pents : c'est le cas notamment dans la «Maison du Chirurgien». Quant aux Lares, ils portent une tunique ou une chlamyde, retroussée, parti cularité vestimentaire qui les fait qualifier d'incincti75 ou de succincti76; ils sont généralement représentés avec des traits juvéniles, une expression paisible; leur chevelure est bouclée; ils tiennent dans la main une corne d'abondance, ou un rhyton avec lequel ils versent du vin; le peintre ou le sculpteur leur a toujours imprimé un mouvement caractéristique, celui de la danse; enfin, s'il arrive que le Lar familiaris soit représenté seul, on voit le plus souvent les Lares représentés par deux, mais ils ne sont jamais plus nombreux77. Du point de vue icono graphique, Lares et Genius d'une part, Pénates d'autre part, sont dis tincts dans la mesure où les premiers ont un type de représentation spécifique, tandis que les seconds n'en ont pas, et sont figurés sous la forme de divinités auxquelles ils s'identifient, comme Jupiter, Fortuna, etc. . . Dans la disposition générale des représentations des divinités, s'il est impossible de trouver un type immuable, on constate tout de même quelques modes de représentation particulièrement fréquents : le ser-
73 Ad Aen. II, 514. 74 Cf. D. G. Orr, op. cit., p. 1563-1575. 75 Ovide, Fastes II, 634. 76 Perse, V, 31. 77 La distinction entre Pénates et Lares sera étudiée plus amplement ci-dessous, p. 101-110.
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pent seul enroulé autour de l'autel, les deux serpents affrontés enca drant l'autel, le Genius représenté comme un jeune homme encadré par les deux Lares. De plus, le Genius et les Lares d'un côté, les autres divi nités domestiques de l'autre, sont assez fréquemment représentés à des niveaux différents dans les peintures murales, les niches ou les aediculae, soit dans le sens de la hauteur - il y a différentes zones superpos ées dans les panneaux - soit dans le sens de la profondeur : les uns figurent en avant des autres.
1) Peintures et statuettes Nous avons vu que les panneaux peints représentant les divinités domestiques sont de tailles très variables; en règle générale, cependant, ils n'excèdent pas une vingtaine ou une trentaine de centimètres, en particulier dans les niches. Les statuettes, elles, avaient le plus souvent une dizaine de centimètres de hauteur, et étaient soit posées sur le plancher du laraire, soit fichées dans ce plancher, où l'on a parfois retrouvé des trous qui servaient à cet usage. Il semble qu'il y ait eu une évolution vers une richesse de plus en plus grande de la matière dans laquelle elles étaient faites, malgré le traditionalisme attaché à ces représentations religieuses : à Pompéi, on a retrouvé, à côté de modest es statuettes de terre cuite, des statuettes de marbre, de bronze, ou d'argent, parfois de véritables pièces d'orfèvrerie78. Aussi peut-on se poser la question de savoir si ces statuettes avaient une destination spé cifiquement religieuse, ou si elles étaient seulement des objets d'art : le départ entre les deux destinations semble impossible à faire, comme le montre l'exemple des Lares d'argent de Trimalcion. Au reste, parmi les statuettes de dieux retrouvées à Pompéi, certaines, isolées ou en grou pes, ont été découvertes en dehors des laraires79 : comme dans plu sieurs cas figurent parmi elles Genius et Lares, nous considérerons qu'elles étaient destinées au culte domestique. Très souvent, peintures et statuettes de dieux domestiques sont associées dans un même laraire, et il arrive même que certains soient 78 A ce propos, A. De Marchi (op. cit., p. 105) rappelle un passage du festin de Tr imalcion (Sat., LX) où Trimalcion fait apporter des statuettes d'argent de ses Lares, que les convives doivent baiser; des pièces analogues ont été trouvées à Pompéi (loc. cit., n. 4). 79 29 exemples selon G. K. Boyce, loc. cit.
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représentés sous les deux formes, comme c'est le cas des Lares dans la «Maison des Murs Rouges»80 où les Lares sont peints sur le mur du fond de Yaedicula, et présents sur le devant de cette dernière, sous fo rme de statuettes, et beaucoup plus petits. Pourtant, Lares et Genius surtout sous la forme d'un ou deux serpents - sont la plupart du temps peints81. Il en va de même pour les Pénates, représentés peints dans 60 laraires, et dont il n'existe que 27 exemples de statuettes trouvées, seu les ou en groupes, dans des niches ou aediculae, 29 hors des chapelles domestiques. Sauf dans un cas82 où une peinture murale représente les Pénates, tandis que l'on a retrouvé des statuettes des Lares, c'est géné ralement l'inverse qui se produit; ce fait peut du reste s'expliquer en partie de la façon suivante : les Lares ont une identité plus strictement définie que les Pénates, et leur nombre ne dépasse jamais deux; au contraire, il était possible au maître de maison, à l'occasion de telle ou telle circonstance, d'ajouter une nouvelle divinité au nombre de ses Pénates, groupe de divinités à la définition plus vague, donc plus accueillant; l'ajout d'une statuette sur le devant de la chapelle domesti que était alors particulièrement facile. Néanmoins, sur un ensemble de 505 laraires, G. K. Boyce a relevé 60 exemples de Pénates peints, 27 de statues des Pénates; 87 laraires seulement comportaient donc des ima ges de nos dieux, et, même si l'on admet que les statuettes trouvées en dehors des petits édifices de culte appartenaient en fait à certains d'en treeux, on n'arrive qu'à un total de 116 chapelles domestiques ayant comporté des représentations des Pénates; dans certaines des autres, la décoration murale est complètement effacée, mais ni cela, ni la dispari tion probable de statuettes ne nous semblent suffire pour affirmer que toutes les chapelles de Pompéi ont contenu des images des Pénates. Inversement, il est des laraires où les Pénates sont représentés peints, sans être accompagnés d'autres divinités domestiques83; mais le plus souvent (41 exemples), ils sont accompagnés des Lares et du Genius (21 exemples), du Genius seul (16 exemples), et, dans un seul cas, d'un Lare unique : encore son identification est-elle douteuse84.
80 VIII, 5-6, 37; cf. G. K. Boyce, op. cit., pi. 31 fig. 1. 81 Le serpent est symbole de fécondité, et représente souvent le Genius : G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2e éd., Munich, 1912, p. 176-77. 82 V, 4, 3. 83 11 exemples sur les 60 cités plus haut. 84 Cf. G. K. Boyce, op. cit., p. 92, n° 463.
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2) Les divinités représentées comme Pénates Elles ont comme caractéristique commune d'avoir, outre le rôle particulier qu'elles jouent comme dieux domestiques de telle maison, une identité autre, bien définie dans le panthéon romain, ou celle de divinités étrangères, orientales en particulier, ce qui explique que l'on puisse les désigner par des noms propres. Parmi les figures peintes, on trouve les divinités suivantes : Fortu na (12 fois dont une identification incertaine), Vesta (10 fois), Bacchus (8 fois), Jupiter (7 fois), Amor (7 fois), Hercule (6 fois, dont 2 où il n'y a que les attributs du dieu), Mercure (6 fois), Vénus Pompeiana (6 fois), Sarnus (4 fois), Isis-Fortuna (3 fois), Minerve (3 fois), Vulcain (3 fois, dont une identification incertaine), Luna (2 fois, dont une identification incertaine), Pan (1 fois, mais il y a deux représentations du dieu dans le même laraire), Apollon, Cérès, Diane (ses attributs seulement), Epona, Lunus (l'identification du dieu est due à G. K. Boyce) Mars, Sol, Vénus, Victoria (1 fois); parmi les divinités égyptiennes, on trouve Isis (4 fois, dont 1 où il n'y a que les attributs de la déesse), Harpocratès (3 fois), Anubis (2 fois), Osiris et Sérapis (1 fois); quatre divinités, deux dans le panthéon romain, deux parmi les divinités égyptiennes n'ont pas pu être identifiées. On est tout d'abord frappé par la variété et le nombre des dieux considérés comme Pénates (27 au total). C'est Fortuna qui apparaît le plus souvent; plus qu'à la déesse du hasard aveugle, équivalent de la Τύχη grecque, nous avons affaire ici à la déesse assurant la prospérité, ainsi qu'en témoignent ses attributs, gouvernail et corne d'abondance en particulier; Fortuna veille à la bonne marche des affaires de la mai son, à leur heureux succès. Cette même déesse, du reste, est représentée sur le mur de l'atrium de la maison de Trimalcion, près de l'armoire contenant Yaedicula des dieux domestiques : Praesto erat Fortuna cornu abundanti copiosa85; si la taille de la corne d'abondance est ridicule et signale le nouveau riche, cet attribut est le même que dans les fresques pompéiennes. La présence fréquente de Vesta parmi les dieux pénates s'explique, elle aussi, aisément. Bien qu'à l'origine elle ait été, croyonsnous, une divinité distincte des Pénates, elle a fini par être considérée
85 Sai., XIX; cf. J. Champeaux, Fortuna. Recherches sur le culte de la Fortune à Rome et dans le monde romain, Coll. de École Française de Rome, 64, Rome, 1982, p. XXIIXXIII.
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elle-même comme «penate»86, confusion qui s'explique sans doute par une commune présence près du foyer domestique. Bacchus, quant à lui, est représenté huit fois dans ces fresques, et on a là un témoignage de la ferveur que le culte de ce dieu connut à Pompéi à partir de la fin du Ier siècle avant J.-C.87. La représentation de Mercure, qui, du reste, figurait fréquemment sur les murs extérieurs des maisons, parmi les dieux de la chapelle domestique, témoigne plutôt, nous semble-t-il, d'un choix personnel du maître de maison, sans doute en relation avec son activité88; là encore, on peut évoquer l'atrium de Trimalcion où, à côté de Fortuna, est représenté Mercure, dieu du commerce, auquel Trimal cion se considère comme redevable de sa richesse. La présence dans notre corpus de Sarnus et Vénus Pompeiana témoigne, à côté des dieux vénérés dans tout le monde romain, de l'i mportance des divinités locales dans le culte domestique. Sarnus est le nom de la rivière qui arrose Pompéi, le Sarno; Vénus Pompeiana est la divinité protectrice de la cité89; Pompéi, en effet, est désignée comme Colonia Cornelia Veneria Pompeianorum 90, dénomination qui lui fut donnée en l'honneur de Sulla, et, parce que Vénus était l'objet d'un culte particulier dans la Gens Cornelia, la cité s'est trouvée, de ce fait, placée sous sa protection91. Or, si le culte public de Vénus existait dès avant la fondation de la colonie sullanienne, il connut alors un grand développement92, dont on retrouve l'écho dans le culte privé. Dans ce dernier, les représentations de Vénus Pompeiana se réfèrent à un type iconographique bien différent de celui de la peinture profane, où elle est représentée surtout dans ses amours avec le dieu Mars; dans son image cultuelle, Vénus Pompeiana est vêtue d'une tunique et d'un riche manteau, avec, à la main, un sceptre, attribut de la divinité, mais aussi parfois un timon de navire dont la signification est double : il rappelle les origines marines de la déesse, mais aussi la prospérité maritime de
86 Cf. infra p. 292-6. 87 K. Schefold, La peinture pompéienne. Essai sur l'évolution de sa signification (trad. J. M. Croisille), p. 172 sq. 88 K. Schefold, op. cit. p. 58-59 n. 2. 89 A. Maiuri, Pompéi ed Ercolano, Padoue, 1950, p. 85 sq. 90 E. La Rocca-M, et A. de Voos, op. cit., p. 15. 91 Martial désigne Pompéi comme Veneris sedes (IV, 44, 5); sur les liens entre Vénus et Sulla, voir R. Schilling, La religion romaine de Vénus depuis les origines jusqu'au temps d'Auguste, 2e éd., Paris, 1982, p. 284 sq. 92 E. La Rocca-M. et A. de Voos, op. cit., p. 95-96.
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la cité. Enfin, les divinités égyptiennes, qui occupent, dans notre cor pus, une place non négligeable (12 exemples), montrent qu'à Pompéi, comme à Rome, certaines divinités orientales avaient été adoptées dans le culte domestique93, parfois même assimilées à des divinités romain es, comme c'est le cas d'Isis-Fortuna (3 exemples dans ces peintures). De même à Herculanum, les sanctuaires domestiques offrent des repré sentations de divinités orientales, notamment Isis et Harpocratès94. Dans les 60 laraires où les Pénates sont peints, ils sont 19 fois représentés seuls, c'est-à-dire sans être accompagnés d'une autre divini té domestique, Genius ou Lares; il n'existe que 11 exemples où soit représenté un seul Penate : 4 fois Fortuna, 3 fois Hercule, 2 fois Jupit er, 1 fois Bacchus, Cérès, Diane, Isis-Fortuna, Mercure, Sarnus, Vénus Pompeiana, Vesta; en revanche, dans 26 laraires, on ne trouve qu'un seul Penate, mais accompagné du Genius, des Lares, ou des deux. On voit donc que ne figure qu'un seul Penate, accompagné ou non d'autres divinités domestiques, dans 37 laraires, donc dans les trois quarts des exemples à peu près, ce qui constitue sans doute un témoignage import antsur l'histoire de l'évolution de la notion de «Pénates», dans la mesure où, à l'origine, elle comporte une pluralité de dieux. Lorsque plusieurs Pénates sont représentés, leur nombre va de 2 à 8; certaines associations s'expliquent par des souvenirs mythologiques : Mars et Vénus, Hercule et Bacchus, Minerve et Vulcain; celle de Vénus Pomp eiana et du Sarnus reflète l'influence des cultes locaux; mais la plu part n'expriment sans doute que les choix personnels du paterfamilias ou de ses ancêtres. On peut noter aussi que, pour le nombre de dieux représentés, on a 9 fois deux dieux, 1 fois trois dieux, 2 fois quatre dieux, 1 fois huit dieux. Mais ces chiffres ne prennent pas en compte la présence possible de statuettes, qui ont pu disparaître des laraires : par exemple, dans un laraire où Bacchus et Fortuna sont représentés peints comme Pénates95, à côté d'eux ont été trouvées sept statuettes, dont l'une seulement a pu être identifiée à coup sûr comme une divinité, Diane; de même, un laraire qui offre l'image de divinités égyptiennes peintes96 contenait également deux statuettes d'Isis et d'Horus. On peut simplement constater que, généralement, les Pénates n'étaient pas très
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K. Schefold, op. cit., p. 172. Cf. D. G. Orr, op. cit., p. 1586. Cf. G. K. Boyce, op. cit., n° 13. Op. cit., n°220.
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nombreux dans ces laraires, les chiffres qui apparaissent le plus fr équemment étant un et deux; mais l'interprétation de notre documentat ion est forcément rendue incertaine par la disparition possible de sta tues et ne prend pas en compte les fouilles en cours. Parmi ces dernières, les divinités les plus fréquemment représent ées sont un peu différentes des peintures : Mercure (12 exemples), Minerve et Vénus (11), Jupiter (8), Hercule (7 exemples), Diane, Fortu na, Isis-Fortuna, Esculape (3 exemples), Apollon et Neptune (2 exemp les), Bacchus, Hygéia, Junon, Persephone, Priape, Sol (1 exemple); parmi les divinités égyptiennes, on trouve Harpocratès (5 exemples), Isis (3 exemples), Anubis et Horus (1 exemple). Faut-il en conclure que certains dieux étaient plus volontiers représentés sous forme de peintu re que sous forme de statue, comme cela semble être le cas de Vesta, par exemple97? Pour les statues trouvées dans des laraires, dans 12 cas sur 27 ne figure qu'un seul Penate; si on laisse de côté un exemple où les deux statues de Mercure et Minerve accompagnent une figure pein te d'Hercule98, on trouve 2 exemples d'un groupe de deux Pénates, 2 exemples de groupes de trois, 5 exemples de quatre, 1 exemple de 2 statues de divinités égyptiennes dans une niche où par ailleurs sont peintes les figures d'Anubis, Harpocratès, Isis, Sérapis, et une divinité, égyptienne aussi, non identifiée. Les groupements de ces statuettes semblent répondre à la personnalité du propriétaire de la maison essentiellement, sauf en un cas99 où l'on reconnaît Jupiter, Junon, Minerve - les dieux de la Triade Capitoline donc -, et Mercure, ce qui correspond à une des définitions des Pénates selon les Anciens100. Quant aux statuettes trouvées en dehors des laraires, lorsqu'elles ont été trouvées en groupes, les seuls de ces derniers qui nous aient paru significatifs sont ceux de divinités égyptiennes101. Pour précieux que soient les laraires de Pompéi, les renseigne ments qu'ils nous donnent nous apparaissent doublement limités. Ils le sont, bien évidemment, dans l'espace, puisque nous avons vu le rôle
97 Dans ce cas particulier, la raison en est peut-être la tradition selon laquelle il n'existait pas de représentation figurée de Vesta dans le sanctuaire du Forum (cf. Ovide, Fastes VI, 295); cette tradition a été très controversée dès l'Antiquité (cf. Cicéron, De Nat. Deor. III, 80; De Or. III, 10). Cf. C. Koch in R.E. Vili A 2, s.u. Vesta, col. 1728. 98 G. K. Boyce, op. cit., n° 108. 99 Op. cit., n°221. 100 Cf. infra p. 147-9. 101 G. K. Boyce, op. cit., n° 202 et 372.
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important joué, parmi les Pénates, par deux divinités locales, Vénus Pompeiana et Sarnus; cela doit nous inciter à la prudence, en nous empêchant de généraliser à l'Italie, et même d'appliquer à Rome, les conclusions que l'on peut tirer des représentations des Pénates dans la cité campanienne. Mais ils sont aussi limités dans le temps, et il est clair que les laraires où les figures des Pénates sont aisément reconnaissables privilégient une période qui va du Ier siècle avant J.-C. à 79 ap. J.-C. Exemple significatif, la «Maison du Chirurgien», dont les pein tures du laraire ne nous sont plus connues que par un relevé de Piranèse102, nous montre, à côté du Genius et des Lares, deux figures de divi nités impossibles à identifier. Aussi notre documentation reste-t-elle, en définitive, très lacunaire, même dans un ensemble aussi bien conservé que Pompéi; pour ne rien dire de l'époque archaïque, la religion privée des IV-IIe siècles nous est extrêmement mal connue.
III - Le culte des Pénates Nous avons vu que le lien entre les Pénates et le foyer était si fort que Servius allait jusqu'à voir en ce dernier l'autel propre de nos dieux103: en effet, attachés qu'ils sont à la partie la plus intime de la maison, ils demeurent liés au centre même de la vie domestique, le foyer, lui-même compris comme étant à la fois essentiel à la vie matér ielle de la maisonnée - on y prépare les repas -, et primordial dans la vie religieuse domestique - on y entretient le culte des dieux protec teursde la maison. Nous avons d'ailleurs noté, en étudiant l'usage du mot Penates combien, en dehors même de tout contexte religieux, il était fréquemment cité à côté de focus, voire employé métonymiquement à sa place. Cependant, si le foyer est l'autel des Pénates, il arrive souvent, dans les laraires de Pompéi, que soit représenté un autel peint, parmi les figures des dieux domestiques : un type iconographique particulièr ement bien attesté est une peinture représentant un autel orné de feuil lages, encadré par deux serpents104; mais on trouve de nombreuses
102 Antiquités de la Grande-Grèce, Pompeia I, pi. 20-21 (cité par G. K. Boyce, op. cit., p. 43). 103 Ad Aen XI, 211 : Cum focus ara sit deorum penatium. 104 G. K. Boyce, op. cit., pi. 9 fig. 1 et 2; pi. 16, fig. 1 ; pi. 24 fig. 1, etc. . .
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variantes: serpent près de l'autel105 dont les anneaux sont aussi hauts que ce dernier, ou enroulé autour de l'autel106, ces deux derniers types étant du reste parfois réunis107; il n'est pas rare non plus que l'autel soit représenté deux fois, soit sur le même plan108 soit dans deux plans différents du laraire, une fois sur la bande supérieure, une fois sur la bande inférieure109. Ces autels ne sont pas toujours dans la niche; ils sont parfois aussi placés en-dessous d'elle. Dans certains laraires, on a un autel de maçonnerie, soit placé directement dans la niche110, soit endessous d'elle, accompagné d'un serpent peint111; ces autels véritables se trouvent de préférence dans les sacraria, pièces sans doute unique mentconsacrées au culte des dieux domestiques112. On peut donc sup poser que ces autels peints ne peuvent être qu'une projection de ce culte, ou, plus exactement, la transposition, dans le monde de la rel igion domestique, des usages de la religion publique, où de grands sacri fices s'accomplissaient sur des autels placés devant le temple des. dieux. C'est ainsi que, dans une peinture murale placée sur un mur de cuisine, on peut voir deux zones nettement séparées dans le sens de la haut eur113 : en bas, deux serpents sont affrontés de chaque côté d'un autel sur lequel sont posés des œufs et des fruits; en haut, deux Lares enca drent une scène centrale, où les personnages s'ordonnent autour d'un axe de symétrie constitué par un second autel, décoré de feuillages : à gauche, un tibicen dont le pied est posé sur un scabellum, suivi par un camillus, représenté beaucoup plus petit, conduisant vers l'autel un porc; à droite, un Genius vêtu de la toge prétexte, tenant dans sa main droite une corne d'abondance, derrière qui se tient un second camillus en tunique blanche, tenant dans sa main droite des guirlandes ou des bandelettes, dans la gauche un plat plat, sur lequel sont posées des bro ches. Il semble qu'en fait, le véritable lieu du culte des Pénates soit la
105 Par ex. ibid., pl. 24 fig. 2. 106 par ex fad., pi. 23 fig. 2. 107 Par ex. ibid., pi. 9 fig. 3. 108 Ibid., pi. 25 fig. 2. 109 Par ex. ibid., pi. 24 fig. 1. 110 Ibid., pl. 5 fig. 2 («Maison du Faune»). 111 Ibid., pl. 11, fig. 1. 112 Ibid., pl. 41 fig. 1 et 2. 113 G. K. Boyce, op. cit., n° 265 (peinture reproduite in Guida archeologica di Pompei, p. 339).
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table, située devant le foyer, et S. Weinstock, à ce propos, note à juste raison que, «dans le domaine sacré, la table et l'autel ont au fond la même fonction»114. La différence entre les deux réside, en fait, dans le type d'offrandes que l'on y dépose, comme le souligne C. Goudineau115 : «Tandis que l'autel est réservé aux sacrifices sanglants, la table reçoit les offrandes telles que galettes et gâteaux, fruits, œufs, sel, boissons, ou encore tel mets considéré comme particulièrement cher et traditio nnellement consacré à telle divinité». Nous en avons sans doute un témoignage dans le fragment de Naevius déjà cité : sacra in mensa penatium ordine ponuntur116. Si l'on fait dépendre le génitif penatium de mensa117, on a alors affaire à la désignation spécifiquement d'une table sacrée, dédiée à la seule divinité, en l'occurrence les Pénates; mais même si l'on construit sacra penatium., la table, dont l'usage est alors simplement domestique au lieu d'être sacré, n'en est pas moins, semble-t-il, le lieu réservé aux Pénates. Selon S. Weinstock118, il faut voir là, dans le domaine grec, où les témoignages sont plus nombreux, une preuve du transfert des usa ges du culte public au culte privé. Il nous semble au contraire que l'on peut parfaitement concevoir le schéma inverse, si l'on accepte l'idée que la table du dieu était, à l'origine, et au moins pour certains cultes, la table de la maison où l'on préparait les repas. Là encore, donc, la religion privée aurait servi de modèle à la religion publique, dans laquelle, évidemment, les tables utilisées pour les sacrifices ne peuvent être que des sacrae mensae ou les mensae deorum119. Ce lien entre les Pénates et la table trouve du reste une confirmat ion dans la grande fréquence avec laquelle, dans les laraires de Pompéi, par exemple, les Pénates sont situés dans l'atrium ou dans la cuisi114 115 116 117 118 119
Op. cit., col. 426; cf. aussi A. De Marchi, op. cit., p. 114-119. IEPAI ΤΡΑΠΕΖΑΙ, MEFR, 79, 1967, p. 77. Fr. 3. Cf. ci-dessus, p. 47. Ibid. En. II, 763-766 : Hue undique Troia gaza incensis erepta adytis, mensaeque deorum crateresque auro solidi, captiuaque uestis congeritur. Il faut comprendre que les mensae deorum, de même peut-être que les cratères d'or, sont arrachés des sanctuaires de Troie lors du sac de la ville.
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ne : l'atrium était originellement la seule pièce de la maison, et la table familiale s'y trouvait donc; la cuisine contient elle aussi une table. Par ailleurs, la relation entre les Pénates et la table se trouve peut-être ren forcée par l'étymologie qui fait d'eux les dieux du penus au sens où l'entend Cicéron (omne quo uescuntur homines); du moment où l'on considère que penus désigne la nourriture, n'est-il pas tout naturel que les dieux du penus aient leur place sur la table? C'est en ce sens qu'il faut comprendre le texte de Naevius : on suppose que les statues des Pénates sont alignées {ordine ponuntur) sur la table. Il y a lieu de pen ser aussi que les statuettes que l'on voit dans certains laraires de Pompéi, par exemple, pouvaient, au moment des repas, être déplacées et posées sur la table. Même dans les cas où les images des dieux n'étaient peut-être pas présentes sur la table, il semble qu'on leur ait rendu un culte à chaque repas. Le lieu du culte des Pénates est donc non pas la réserve aux provisions, mais la table, la gestion de la première étant sans doute confiée à un esclave120, tandis que les repas, sous la prési dence du paterfamilias, réunissaient toute la maisonnée. Peut-être ce lien entre la table et les Pénates constitue-t-il l'une des explications du premier prodige qui, dans l'Enéide, annonce à Enée qu'il a atteint la terre que lui réservaient les dieux121; c'est l'épisode de la manducation des tables : Anchise avait prophétisé à Enée que ses errances connaîtraient un terme lorsque la faim l'aurait poussé, ainsi que ses compagnons à «manger ses tables»; or, sur le rivage latin, les Troyens, épuisés, chargent de fruits trouvés là des galettes de blé, galet tesqu'ils finissent par manger elles-mêmes pour assouvir leur faim; c'est alors qu'Ascagne s'écrie : Heus, etiam mensas consumimus 122.
120 Cf. Plaute, Pseud., 608 : Condus promus sum, procurator peni : «Je suis le dépensier, l'administrateur des vivres» (trad. A. Ernout, C.U.F. Paris, 1957); pour la relation entre condus et promus, cf. A. Ernout, ibid., p. 56 n. 1 ; on peut rapprocher ce «couple en asyndète» d'une expression de Varron : promuni condita (R.R. I, 62). 121 On trouvera une étude détaillée de ce prodige in P. M. Martin, Deux interprétations grecques d'un rituel de l'Italie proto-historique, R.E.G., 84, 1972, p. 281-292; cf. aussi G. Dury-Moyaers, Enée et Lavinium. A propos des découvertes archéologiques récentes, Coll. Latomus, vol. 174, Bruxelles, 1981, p. 205-208. La première mention du prodige se trouve chez Lycophron (Alexandra, v. 1226 sq.). 122 En. VII, 116.
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Et Enée, qui a reconnu l'accomplissement du prodige annoncé, adresse une invocation solennelle à la terre latine et aux Pénates. J. Per ret123 a rapproché ces gâteaux des mensae paniceae, sortes de galettes sur lesquelles on disposait les offrandes destinées aux dieux124; or, dans notre texte, ce sont les Pénates qu'invoque immédiatement Enée. Du reste, J. Perret125 rapproche ce texte de la figure d'Enée sur le relief de Y Ara Pacis, tenant dans sa main gauche «une telle galette, chargée de fruits et de gâteaux divers». En fait, c'est l'un des camilli, nous semblet-il, qui tient ce plat dans sa main gauche, et il est impossible de dire s'il s'agit d'une galette ou d'une patella; mais la présence des Pénates, juste au-dessus de ce plateau d'offrandes, illustre bien notre propos. Comme l'a souligné J. Carcopino126, ce rituel ne doit pas être interprété comme un trait spécifique de la religion lavinate. Il s'explique bien plutôt par un jeu sur le sens de ce Cereale solum, comme l'appelle Virgile quel ques vers plus haut : on offrait aux Pénates un mélange de sel et de froment127, qui pouvait peut-être se présenter sous forme de galette; le prodige de la manducation des tables serait donc une allusion à l'une des pratiques du culte domestique de nos dieux. Deux objets sont spécialement consacrés au culte des dieux domest iques : la patella, sorte d'assiette ou de coupe plate, et le salinum, la salière. Il est probable qu'à l'origine, on utilisait dans le culte domesti que les objets usuels, profanes, souvent assez grossièrement modelés en terre cuite128. Mais ils ont dû devenir rapidement des objets réservés au culte, ce qui explique que, même dans les demeures par ailleurs modest es, ils aient été faits dans une matière précieuse129; les gens riches les font orner au gré de leur imagination, comme le montre un passage de
123 Les origines de la légende troyenne de Rome, Paris, 1942, p. 493-495. 124 Cf. Servius, Ad Aen. I, 736; III, 257. 125 Ibid., p. 494 n. 2. 126 Virgile et les origines d'Ostie, 2e ed., Paris, 1968, p. 672 sq. 127 Cf. Wörner, s.u. Aineias, in Roschers Lexicon I, col. 177; pour l'offrande de farine et de sel, cf. Horace, Odes III, 23, 17-20 : voir infra p. 89-90. 128 par exemple, Perse (II, 60) rapporte aux temps légendaires de Numa l'usage de ces objets de terre cuite: uestalesque urnas et tuscum fictile; cf. A. De Marchi, op. cit., p. 124.. 129 A. De Marchi, op. cit., p. 123; il s'appuie sur un texte de Cicéron (ibid., η. 2) qui nous montre Verres et ses complices, faute de trouver les richesses qu'ils attendaient dans les maisons qu'ils vont piller, se rabattant sur les objets réservés au culte domesti que : Ma quidem certe pro lepuscuHs capiebantur; patellae, paterae, turibula (Verr. II, 21, 46).
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Valére Maxime : in C. uero Fabricii et Q. Aemilii Dapi, principum saeculi sui, domibus argentum fuisse confitear oportet. Uterque enim patellam deorum et salinum habuit : sed eo lautius Fabricius, quod patellam suam corneo pediculo sustineri uoluit130'; l'expression patella deorum indique clairement l'usage purement cultuel qui était fait de cet objet. Cicéron rapporte expressément la patella aux Pénates; un riche sicilien, du fait de sa citoyenneté romaine, se croit à l'abri de la cupidité de Verres : apposuit patellam in qua sigilla erant egregia. Iste, continuo ut uidit, non dubitauit illud insigne penatium hospitaliumque deorum ex hospitali mensa tollere111. Nous voyons ici une patella particulièrement décorée, sans doute une véritable pièce d'orfèvrerie : les sigilla en question sont ceux des dieux domestiques, mais il ne s'agit pas de statuettes, habituel lementabritées dans le laraire, qui seraient pour l'occasion posées sur le bord de la patella : sigilla désigne ici les figures en relief qui l'ornent, tandis que l'expression illud insigne penatium montre bien le rapport très étroit établi entre la patella et les Pénates. Quelle relation les divini tés désignées comme hospitalium deorum («les dieux de son hôte») entretiennent-ils avec les Pénates? Faut-il comprendre qu'il s'agit de dieux domestiques autres que les Pénates? Nous pensons plutôt que l'expression penatium hospitaliumque deorum est un hendiadyn, les deux termes désignant les Pénates, mais le second étant destiné à faire ressortir le caractère doublement impie du geste de Verres par le rap prochement hospitalium / hospitali : Verres va violer à la fois la rel igion et les droits sacrés de l'hospitalité. Enfin, la patella décorée des images des Pénates est définie par sa présence sur la table, par làmême revêtue d'un caractère sacré auquel la qualification d'hospitali vient encore ajouter. Sur ce plat sacré étaient posées les offrandes faites aux Pénates; sous leur forme la plus simple et la plus fréquente, elles consistaient en une portion du repas, mélange de sel et de farine, comme le montrent ces vers d'Horace :
130 ΐγ^ 4; 3 : «n faut que j'avoue qu'il y avait de l'argent chez C. Fabricius et Q. Aemilius Dapus, premiers de leur siècle. En effet, chacun d'eux avait la patella et la salière des dieux : mais Fabricius était plus somptueux en ce qu'il voulut que sa patella fût soutenue par un pied de corne». 131 II, IV, 48 : «II fit servir un petit plat orné de figures en relief d'une rare beauté. Aussitôt que Verres le vit, il n'hésita pas à enlever de la table de son hôte cet ornement consacré aux dieux pénates et hospitaliers» (trad. G. Rabaud, C.U.F., Paris, 1959). Cf. auss iF. Borner, Rom und Troia, Baden-Baden, 1951, p. 102-103.
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ïnmunis aram si tetigit manus, non somptuosa blandior hostia molliuit auersos Penatis jarre pio et saliente mica 132. Peut-être arrivait-il parfois que cette offrande aux Pénates comport ât aussi de la" viande, comme le suggère un texte de Varron133. Le blé, ou la farine, constitue la base de l'alimentation, et le sel en est considér é, lui aussi, comme un élément essentiel134. Aussi comprend-on le caractère sacré accordé à la salière (salinum) à côté de la patella; l'une et l'autre sont considérées comme indispensables au culte. A ce sujet, Tite-Live raconte comment, pendant la Seconde Guerre Punique, en 210 avant J.-C, le trésor public manqua de métaux précieux et tous les sénateurs, en conséquence, décidèrent d'offrir tout l'or, l'argent et le bronze qu'ils possédaient personnellement, à quelques réserves près, notamment argenti, qui curuli sella sederunt, equi ornamenta et libras pondo, ut salinum patellamque deorum causa habere possint 135. Un texte de Perse136 nous confirme que le blé et le sel étaient considérés comme la base de l'alimentation, et en même temps comme les offrandes posées sur la patella 137. Cette offrande de farine et de sel posée sur la patella, considérée comme la part des Pénates, était jetée au feu, ainsi que le suggèrent les
132 Odes III, 23, 17-20 : «Si une main qui n'a rien à expier a touché l'autel, elle a pu, sans qu'une victime somptueuse l'eût rendue plus agréable, apaiser des Pénates hostiles avec un froment pieux et un grain de sel pétillant» (trad. F.Villeneuve, C.U.F., Paris, 1927). 133 Sat. 265. 134 J. André, L'alimentation et la cuisine à Rome, Paris, 1981, p. 191-193. 135 XXVI, 36, 6 : « en fait d'argent, pour les sénateurs qui ont siégé sur une chaise curule, les ornements des harnais de leurs chevaux, plus une livre, afin de pouvoir garder une salière et une coupe pour le culte» (trad. E. Lasserre, Paris, 1950). 136 III, 24-26 : Sed rure paterno Est tibi far modicum, purum et sine labe salinum - Quid metuas ? - cultrixque foci secura patella est. «Mais tu as sur le domaine paternel une récolte de blé majeure, tu as une salière propre et sans tare - qu'as-tu à craindre? - et un modeste plat qui assure le culte du foyer» (trad. A. Cartault, C.U.F., Paris, 1929). 137 A. De Marchi (pp. cit., p. 121) considère que le terme de salinum désignait à l'origi ne non la salière, mais la patella elle-même, sur laquelle étaient placés le sel et les prémi ces offerts aux dieux.
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mots de Perse cultrix foci. . . patella, et l'indication donnée par Horace dans saliente mica : le grain de sel pétille dans le feu domestique. Cet usage éclaire peut-être la difficile expression de Virgile que nous avons déjà mentionnée, et flammis adolere penatis 138, dans la mesure où il éta blit un rapport entre le feu et les Pénates, par l'intermédiaire de l'o ffrande, à eux dédiée, habituellement jetée dans le foyer domestique. Enfin, il explique sans doute aussi les termes du code de Théodose interdisant en 392 d'honorer les dieux domestiques païens, et, en parti culier, de faire des offrandes avec «du feu aux Lares, du vin pur au Genius, du parfum aux Pénates»139. Mais il arrive aussi que l'on fasse en l'honneur des dieux domesti ques un sacrifice sanglant, sans doute dans des occasions exceptionnell es de la vie familiale. Les victimes sont alors de petite taille (hostiae) et l'on pouvait éventuellement les acheter au marché140. On immolait sans doute aussi des agneaux141, mais il semble que le porc ait été particuli èrement voué aux dieux domestiques142. Il faut peut-être expliquer ainsi la scène figurée sur l'un des reliefs de l'Ara Pacts, représentant le sacri ficefait par Enée aux Pénates 143. De ce sacrifice du porc fait sur l'autel domestique, les peintures de Pompéi que nous avons mentionnées plus haut, représentant des camilli conduisant un porc vers un autel près duquel se tient le Genius, portent un témoignage irréfutable144. Il semble que les Romains aient considéré que les Pénates, à qui on réservait une portion du repas, étaient présents autour de la table sous
138 En. I, 704; cf. supra p. 67. 139 XVI, 10, 12 : Nullus omnino. . . secretiore piaculo Larem igne, maro Genium, Penat esnidore ueneratus accendat lumina, accendat tura, serta suspendat. 140 Cf. A. De Marchi, op. cit., p. 138. 141 Cf. Plaute Rud., 1208 : sunt domi agni et porci sacres (il s'agit d'en faire le sacrifice aux Lares); Tibulle (I, 10, 25) promet aux Lares hostia. . . rustica porcus. 142 A. De Marchi, op. cit., p. 138 n. 3; H. Le Bonniec, Le culte de Cérès à Rome des origines à la fin de la République, Paris, 1958, ρ . 82. 143 Cf. infra p. 209 sq. ; 424-6. 144 Peut-être devons-nous voir une autre attestation du lien existant entre le porc et les divinités domestiques dans l'existence d'un culte des Lares Grundiles, dont R. Schilling (Les «Lares Grundiles », in Mélanges J. Heurgon, Rome, 1976, p. 956), faisant allusion au second miracle qui marque l'arrivée d'Enée au Latium, celui de la truie aux trente porcel ets,écrit: «Qui peuvent être ces Lares "grognons", sinon les porcins prophétiques qui ont été élevés, en vertu d'une sorte de sublimation sanctifiante, au rang de protecteurs de la mission confiée à Enée».
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la forme de statuettes dressées sur cette dernière : quand Enée décide de s'arrêter en Sicile chez Aceste, il déclare à ses compagnons : Bina boum uobis Troia generatus Acestes dai numero capita in nauis; adhibete penatis et patrios epulis et quos colit hospes Acestes 145. Nous"
soulignerons, pour terminer, la valeur sentimentale attachée à ce culte des Pénates. Ce qui importe en effet n'est pas la richesse de l'offrande, mais la pureté d'intention avec laquelle elle est faite, comme le dit Horace dans lé texte que nous avons cité plus haut {immunis. . . manus). Il suggère même que l'offrande sera d'autant plus agréable aux dieux qu'elle sera plus modeste {non somptuosa blandior hostia), attachant ainsi à la simplicité, voire à la pauvreté, une valeur religieuse qui est bien dans la tradition du mos maiorum. Ce sont les Pénates que l'on salue lorsqu'on quitte sa maison, ou au contraire, qu'on la retrouve après une longue absence. Ils partagent les tracas du maître de maison, éprouvent les mêmes sentiments que lui146. La force de la croyance en ces dieux, la vitalité de leur culte, s'expliquent par leur quasi-identifica tion avec la maison; il nous paraît intéressant de noter, pour conclure, qu'à la fin du IVe siècle après J.-C, comme nous le montre le code de Théodose, l'empereur éprouvait le besoin d'interdire expressément le culte des Pénates, ce qui prouve qu'il était encore largement pratiqué.
145 En. V, 61-63 : «Aceste, fils de Troie, vous offre à tous pour chaque navire un cou ple de bœufs. Appelez au banquet les Pénates de nos pères et ceux qu'honore Aceste notre hôte» (trad. J. Perret, op. cit.). 146 Comme Horace, Ovide les qualifie à'auersos {Tristes I, 3, 47) pour dire qu'ils parta gentsa propre amertume pendant son exil.
CHAPITRE II
LES PÉNATES PRIVÉS : ESSAI D'INTERPRÉTATION
II semble à première vue qu'il existe deux conceptions différentes des Pénates. D'une part, suivant le sens étymologique, les Pénates, «ceux du penus» sont définis comme une collectivité, une pluralité de dieux indistincts parmi lesquels aucune individualité ne se dégage et qui ne sont définis que par leur lieu de résidence et la fonction de pro tection qu'ils exercent sur lui. D'autre part, dans la religion domesti que, ainsi que nous l'avons vu au cours du précédent chapitre, nous avons trouvé une tendance à «pénatiser» - le mot est de G. Dumézil1 à peu près n'importe quel dieu du panthéon gréco-romain, parfois même des divinités orientales, ayant par ailleurs une personnalité bien définie. Le passage d'une collectivité indifférenciée de divinités attachées à un lieu, le penus, à des divinités individualisées et qui, par ailleurs, ont d'autres fonctions que de veiller sur le bien-être de la maison, constitue une première question; elle se double d'une autre, qui lui est étroit ementliée, celle de la représentation figurée des Pénates. Avec les divini tés de Pompéi considérées comme Pénates, nous sommes en présence de représentations anthropomorphiques, mais, des Pénates considérés comme collectivité indistincte, nous ne possédons aucune image identi fiable, et on peut même se demander si pareille représentation est concevable. Quelle est la nature du rapport entre ces deux conceptions des Pénates? Il semble exclu d'espérer pouvoir les réduire l'une à l'au tre, et une hétérogénéité totale serait peu vraisemblable. Le plus natur elest de penser qu'il y a eu une évolution de l'une à l'autre, de la col lectivité indistincte, sans images, aux divinités individualisées sous une forme anthropomorphique; il faut alors essayer de déterminer les fac teurs de cette évolution, ce qui pose des problèmes d'autant plus diffici-
1 La religion romaine archaïque, 2e éd., Paris, 1974, p. 360.
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les qu'ils mettent en jeu, non pas la seule question des Pénates, mais les conceptions d'ensemble de l'histoire de la religion romaine.
I - Les Pénates et les autres dieux domestiques Le problème de la distinction entre les Pénates et les autres dieux domestiques semble ne pas se poser, si l'on s'en tient à la définition de Servius plusieurs fois mentionnée selon laquelle les Pénates sont omnes dii qui domi coluntur. D. G. Orr2 voit dans des passages de Cicéron3 et d'Horace4 une preuve de la véracité de cette affirmation. Pour notre part, nous sommes plus réservé sur la valeur à accorder à cette définition. D'abord, Cicéron comme Horace citent les seuls Pénates5 sans doute parce qu'ils les considèrent comme les dieux les plus import antsdans le culte domestique. Ensuite, il nous paraît que, s'il y a par fois confusion entre les Pénates et d'autres divinités domestiques - di patrii et diui parentes notamment - l'iconographie des laraires distin gue nettement les Lares, d'une part, le Genius d'une autre, et enfin tous les autres dieux. Cette distinction se retrouve d'ailleurs dans l'édit de Théodose interdisant les cultes domestiques païens, qui différencie net tement ceux du Genius, des Lares et des Pénates. Pour essayer de définir plus précisément la valeur des Pénates dans la pratique religieuse romaine, nous nous proposons d'abord de voir avec quelles autres divinités ils ont été associés, parfois confon dus. 1) Pénates, θεοί πατρώοι et di patrii On a parfois considéré6 que les Pénates étaient l'équivalent, la transposition, dans la pratique religieuse romaine, des θεοί παθρφοι
2 Roman Domestic Religion, A.N. R.W. , II, 16, 2, Berlin-New- York, 1978, p. 1563. 3 Har. Resp., 17, 37. 4 Odes II, 4, 15; III, 23, 19; D.G. Orr. s'appuie aussi sur l'exemple des laraires de Pompéi. 5 En fait, Cicéron dit patrii penatesque dii, expression qui nous paraît en effet, com meà D. G. Orr, désigner les seuls Pénates, ici du moins, car dans d'autres cas, il peut s'agir de divinités différentes : cf. infra p. 95-8. 6 Notamment S. Weinstock, in R.E., XIX, 1, s.u. Penates, col. 421-422. G. Dumézil, au contraire {op. cit. p. 360) souligne le peu d'exactitude de cette équivalence.
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grecs. Cette idée se fonde en partie sur un passage où Denys d'Halicarnasse essaie de donner des équivalents grecs du terme Penates : τους δε θεούς τούτους 'Ρωμαίοι μεν Πενάτας καλουσιν ■ οί δέ έξερμηνεύοντες εις την 'Ελλάδα γλώσσαν τούνομα οί μέν πατρφους άποφαίνουσι7. Cela dit, le grec θεοί πατρφοι correspond très exactement au latin di patrii, et nous allons essayer de voir quelles relations ces deux termes entretien nent avec les Penates. Le rapprochement entre les θεοί πατρφοι et les Penates est justifié par l'usage romain. Nous avons déjà remarqué, dans un précédent chap itre, que le mot pénates était souvent associé à la maison, à la patrie, parfois même employé métonymiquement pour domus et patria. De fait, on rencontre de nombreux exemples d'emploi du mot pénates à côté du mot domus, par exemple chez Cicéron : cum domum ac deos pénates suos ilio oppugnante defenderet*. On pourrait citer nombre de cas où pénates est ainsi employé à côté de domus ou d'autres mots de sens voisin, comme fundus9, mais aussi associé parfois à auitae sedes10, c'est-à-dire à la demeure paternelle, et, de là, à la patria11. Le fait que les Pénates, d'une part, la domus, la patria et les dieux qui les protègent d'autre part, soient fréquemment associés, indique à lui seul que, dans la sensibilité romaine, ces notions sont très proches et s'ap pellent, pour ainsi dire, l'une l'autre. Mais l'usage de la langue va beau coup plus loin. On trouve en effet dans Plaute l'expression di pénates meum parentum n, ce qui implique que les Pénates sont considérés ici comme des dieux que l'on se transmet de père en fils, de génération en génération. C'est sans doute par l'intermédiaire d'expressions de ce type que l'on arrive à une sorte de confusion des Penates et des di patrii; ainsi Horace écrit, à propos d'Ulysse : Iamne doloso non satis est Ithacam reuerti patriosque pénates aspicere13,
7 I, 67, 3 : « Les Romains appellent ces dieux les Pénates ; ceux qui traduisent ce nom en grec disent, les uns, πατρφοι. . . ». 8 Mil, 38. 9 Cic, Quinci., 83 : De fundo expulsus, iam a suis dis penatibus praeceps eiectus. . . 10 Cic, Leg. Agr., 2, 57. 11 Cic, Phil., 12, 14. 12 Merc, 834. 13 Sat. II, 5, 4-6.
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et l'on pourrait citer d'autres exemples où l'on trouve pénates patrii14. Il faut remarquer que di patrii peut, dans à peu près tous les cas où il apparaît, être compris de deux façons. Il s'agit tout d'abord des dieux «paternels», c'est-à-dire, comme nous venons de le voir, de ceux que l'on se transmet, à l'intérieur d'une famille, de père en fils. Mais ce sont aussi les dieux de la patria, c'est-à-dire de l'Etat, les Penates populi Romani. Cette expression de pénates patrii désigne donc à la fois les Pénates au sens le plus étroit du terme, les dieux protecteurs de la famille, et les dieux protecteurs de la patrie, l'ensemble de ces divinités étant confondues dans un même sentiment d'attachement et de ten dresse qui les fait qualifier de cari15, ou de ueteres16, adjectif dans lequel s'exprime un respect ému. Ayant constaté que les di pénates étaient parfois appelés patrii et donc assimilés à ces derniers, il nous faut à présent essayer d'expliquer comment le rapprochement a pu se faire entre ces deux catégories de dieux. Comment les dieux du penus, «garde-manger» selon certains, «partie la plus retirée de la maison» selon d'autres, ont-ils pu être asso ciés, voire assimilés aux di patrii, dieux paternels, ou même, ce qui est plus surprenant peut-être, aux dieux protecteurs du populus Romanus? Ce problème a été diversement résolu. S. Weinstock17 se borne à noter le rapprochement des Penates et des di patrii, ou l'assimilation des uns aux autres. F. Borner18 part d'une constatation que nous avons faite à plusieurs reprises : il existe à coup sûr une distinction entre les Pénates comme dieux du penus - F. Borner donnant à ce mot le sens de «réserve aux provisions» -, et les Pénates que l'on voit honorés à l'épo queclassique, c'est-à-dire, au fond, n'importe quelle divinité choisie par le maître de maison pour protéger sa demeure et sa famille; c'est cette dernière catégorie qui est représentée dans les laraires de Pompéi. F. Borner rappelle alors la thèse de Wissowa, selon laquelle les dieux de la première catégorie, ceux du penus, sont les plus anciens mais ne sont pas parvenus jusqu'à nous sous une forme iconographique, car ils remontent à une époque très ancienne où les dieux n'avaient pas de
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Par ex., Cic., Dom., 144; Phil, II, 30, 75; Lucain, IX, 230, etc. . . Lucain, VII, 347. Ovide, Tristes I, 5, 81. Op. cit., col. 421-22. Rom und Troia, Baden-Baden, 1951, p. 106-110.
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représentation figurée; ce dernier fait, selon Wissowa, plaide en faveur de l'ancienneté, plus grande que celle des di patrii, des «dieux du gar de-manger». F. Borner, pour sa part, critique cette idée, car il lui paraît impossible que les di patrii soient postérieurs aux dieux du penus, et il estime que, selon toute probabilité, ils sont aussi anciens les uns que les autres; dans ces conditions, le problème reste entier de savoir pourquoi les Penates sont aussi appelés di patrii19. F. Borner propose l'explication suivante : les deux notions de Penat es et de di patrii, originellement distinctes, mais aussi anciennes l'une que l'autre, ont été peu à peu confondues en raison du voisinage des deux catégories de dieux dans la maison. P. Boyancé a fait justement remarquer20 que la solution proposée par F. Borner est assez malaisée à accepter dans l'hypothèse où se place cet auteur, d'un sens originel du penus comme «garde-manger», ce qui, donnant au mot un sens très précis, rend difficile l'assimilation des dieux censés y résider aux di patrii) la difficulté est d'autant plus grande que, F. Borner voyant dans les urnes rondes en forme de cabanes retrouvées à Albe l'image des anciens greniers à blé, édifices distincts de la maison, il est alors délicat de parler de proximité, à l'intérieur de la maison, des dieux de ces silos et des di patrii du foyer domestique. En revanche, note P. Boyancé - et nous approuvons entièrement cette remarque -, si l'on donne comme sens premier à penus celui de «la partie la plus retirée de la maison», comme le suggèrent A. Ernout et A. Meillet, cette difficulté disparaît : les dieux qui résident dans le penus compris en ce sens ont pu être peu à peu confondus avec les di patrii, présents dans la maison en tant que protecteurs de la famille. Au demeurant, ce ne sont sans doute pas des raisons purement topographiques qui expliquent le rapprochement fait entre les deux groupes de dieux. Nous avons vu que le penus semblait, aux yeux des anciens juristes, faire partie de l'héritage21 : on conçoit qu'à ce titre, on
19 Notons que F. Borner résout dans un sens assez proche de D. G. Orr {op. cit., p. 1559) le problème de la relation chronologique entre culte public et culte privé, le pre mier, celui des di patrii, étant, selon lui, contemporain de l'autre tandis que Wissowa soutient la thèse contraire {Die Ueberlieferung über die römischen Penateti, p. 96), reprise par G. Dumézil {op. cit., p. 359). 20 Les Pénates et l'ancienne religion romaine, REA, 54, 1952, p. 133. 21 Gell., Ν. AU. IV, 17: Scaevola s'est préoccupé pour cette raison de le définir; cf. supra p. 17-9.
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ait pu qualifier de patrius et de patrii les dieux qui veillaient sur lui22. Il est d'ailleurs curieux de constater qu'à côté de l'expression assez fr équente pénates patrii que nous mentionnions plus haut, on trouve aussi pénates et di patrii employée deux fois chez Cicéron23 : il est permis de se demander s'il ne s'agit pas là d'un hendiadyn, ayant un effet d'amp lification oratoire, comme c'est le cas, nous semble-t-il, dans un passa ge de Tite-Live où la ferox Tullia exhorte Tarquin à revendiquer le trô ne de Rome qui lui est dû : di te pénates patriique et patris imago et domus regia et in domo regale solium et nomen Tarquinium créât uocatque regem24. Cette phrase nous paraît illustrer particulièrement bien la confusion qui s'établit entre pénates, di patrii, et domus, le rappel de la patris imago ordonnant du reste les termes autour de la figure du père, dont Tarquin tient cet héritage à la fois matériel, religieux et affectif. Sans doute aussi l'emploi très fréquent de Penates à côté at patria25, ou de domus20 ou encore de focus21 a-t-il facilité cette assimilation des Pénates avec les di patrii. Encore peut-on se demander si ces derniers ont une existence réelle indépendamment des Pénates. L'expression n'apparaît pas avant Cicéron, et nous semble pouvoir s'expliquer com meune traduction latine des θεοί πατρώοι grecs, sans toutefois recou vrirune notion religieuse bien précise, si ce n'est peut-être les Pénates, avec lesquels, en définitive, les di patrii se confondent. 2) Pénates et diui parentes Parmi les divinités avec lesquelles les Pénates ont été associés ou confondus, à côté des di patrii, on trouve aussi les diui parentum ou diui parentes. Dans leur sens le plus strict, ces derniers sont les ancê-
22 On trouve aussi chez Tacite (Hist. Ill, 86, 8) l'expression in paternas pénates; de même, Plaute écrit (Mere, 834) : Di Penates meum parentum ; si l'on interprète meum parentum comme un génitif possessif, ainsi que le fait A. Ernout (Comédies, IV, C.U.F., Paris, 1956), il faut comprendre que les Pénates ici invoqués ont été reçus en héritage de ses parents par le jeune Charinus. 23 Sest., 45; Har. Resp., 17, 37. 24 I, 47, 4. Ce n'est pas l'interprétation de J. Heurgon (Tite-Live I (éd. comm), Coll. Erasme, Paris, 1970, p. 158), qui distingue di pénates «dieux de ton foyer» et di patrii «dieux de ta patrie». 25 Par ex. Cic, Prov. Cons. 35; Salluste, Hist., 2, 47, 3; 2, 47, 4; Ovide Met. IX, 640; Liv., VI, 14, 8; XXII, 3, 10; Sénèque, Phéniciennes, 557; 664; Tacite, Hist. Ill, 84, 3. 26 Par ex. Cic., Mil., 38; Liv. XXX, 13, 13. 27 Par ex. Cic., Sest., 145, etc.
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très morts divinisés et honorés par le culte funéraire familial. Il semble du reste, si l'on en croit le témoignage de Festus, que l'expression diui parentum soit la plus ancienne, car elle figurait, selon lui, dans une lex regia qu'il rapporte aux règnes de Romulus et Tatius et de Servius Tullius28, et qu'elle ait été corrigée plus tard en diui parentes. En effet, comme le fait remarquer G. Dumézil29, le génitif assez étrange paren tum«conduit à faire reposer sur diui tout le poids du concept. . . sans qu'il soit possible de préciser le rapport qui était senti entre ces «dieux» et les parentes ou ancêtres dont ils étaient les dieux». Or, nous possé dons un témoignage au moins, celui de Servius, qui assimile les pénates aux di parentes : etiam domi suae sepeliebantur (maiores) : unde orta est consuetudo ut di pénates colantur in domibus30. C'est le seul témoigna ge que nous avons trouvé de cette assimilation, et il est tardif : deux raisons pour qu'il soit examiné avec prudence, mais ce n'est sans doute pas là pure invention de Servius. Cette assimilation des di parentum et des di pénates n'a pu se faire qu'à un moment où la nature originelle des pénates ne se comprenait plus. Cependant, elle a pu être préparée par certains points communs entre les deux groupes de dieux. D'une part, une expression comme celle de Plaute, di pénates meum paren tum31 a pu faciliter cette confusion, dans la mesure où le génitif meum parentum peut se comprendre comme un génitif de définition, et non de possession. D'autre part, une commune résidence dans la maison, et, plus précisément, autour du foyer ou de l'autel domestique, facilitait cette assimilation : des imagines maiorum, portraits des ancêtres dé funts, ont été retrouvées à Pompéi dans des sacrarla contenant aussi les images des Pénates32, ce qui explique qu'on ait pu avoir tendance à les confondre : c'est ainsi que, dans le texte de Tite-Live que nous avons cité plus haut33, Tullia cite la patris imago juste après les di pénates 28 260 L. : In régis Romuli et Tati legibus : «Si nurus. . . (nurus) sacra diuis parentum estod». In Servi Tulli haec est : «Si parentum puer uerberit, ast olle plot assit paren(s) puer diuis parentum sacer esto». 29 La religion romaine archaïque, p. 370. 30 Ad Aen. V, 64: «Les anciens étaient ensevelis dans leur propre demeure: de là vient la coutume d'honorer les dieux Pénates dans les maisons». 31 Mere, 834. 32 Cf. A. Zadoks, Ancestral Portraiture in Rome, Amsterdam, 1932, passim; Ο. Vessberg, Studien zur Kunstgeschichte der römischen Republik, Lund, 1941, passim.; A. De Franciscis, // ritratto romano a Pompei, Naples, 1951, notamment fig. 1 (sacellum avec des imagines maiorum). 33 I, 47, 4.
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patriique. Toutefois, ce qui nous semble différencier les imagines maiorum des Pénates, c'est le type iconographique : les Pénates sont assimi lables à des dieux du panthéon romain connus par ailleurs, et leur visa geest généralement empreint d'une sérénité qui contraste avec le réa lisme des visages d'ancêtres34. Le témoignage de Servius suggère à S. Weinstock35 une remarque fort intéressante. Dans les cas d'incinération, les cendres des morts étaient conservées dans des doliola à l'intérieur de la maison, ce qui explique que les ancêtres morts ont été confondus avec les Pénates, parce qu'ils faisaient partie, comme eux, des sacra vénérés dans le culte domestique. Or, note S. Weinstock, une tradition relative au culte pu blic des sacra conservés dans le Penus Vestae, parmi lesquels auraient figuré, selon Tacite, les Pénates, assure que, lors de l'invasion gauloise de 390 av. J.-C, ces sacra furent enfermés dans des doliola, et emportés ou enfouis sous terre par les Vestales36. D'autre part, Varron rapporte une tradition concernant le lieu-dit Doliola, qui semble être celui où furent enterrés les sacra : locus qui uocatur Doliola ad Cloacam Maxi mam. . . a doliolis sub terra. Eorum duae historiae, quod alii inesse aiunt ossa cadauerum, alii Numae Pompila religiosa quaedam post mortem eius infossa37. Le rapprochement entre ces deux textes suggère l'exi stence d'un lien, dans le culte privé, entre cendres des morts, doliola, et Pénates, qui trouverait un correspondant exact dans le culte public38. Dans le culte privé, les Pénates, confondus avec les di parentes, ne sont
34 Cf. A. De Franciscis, op. cit., p. 19-21. 35 Op. cit., col. 426. 36 Liv., V, 40, 8 : optimum ducunt condita (sacra) in doliolis sacello proximo aedibus flaminis Quirinalis. . . defodere; cf. infra p. 475 sq. 37 De L.L. V, 157. 38 F. Coarelli (// Foro Romano I : Periodo arcaico, Rome, 1983, p. 283) remarque que les religiosa quaedam enfouis post mortem Numae ont, comme les ossements, une valeur funéraire, religiosus étant l'adjectif qui désigne spécifiquement le caractère sacré de la tombe (sur le sens de religiosus, voir E. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo européennes II, Paris, 1969, p. 267-272). Toutefois, S. Weinstock estime que la tradition rapportée par Varron est une conséquence de la confusion des di parentes et des Pénates dans le culte privé, alors que F. Coarelli {op. cit., p. 292-98), se fondant sur des témoigna ges archéologiques, considère que la tradition d'ensevelissement en ce lieu est datable du VIIe- VIe siècle, mais que, dans la vénération dont sont l'objet les doliola jusqu'à l'époque impériale, s'était perdu peu à peu le sentiment de leur signification; ils rejoignent sur ce point les sacra du culte de Vesta et des Pénates, auxquels ils ont fini par être assimilés.
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pas très différents des Di Manes, expression beaucoup plus fréquente pour désigner les ancêtres morts divinisés39.
3) Pénates et Lares II est une autre catégorie d'êtres divins dont les Pénates ont été très souvent rapprochés: les Lares; ils ont parfois même été confondus. Tertullien les unit comme dieux du culte privé : priuatos enim deos, quos lares et pénates domestica consecratione perhibetis40. Mais ce t émoignage tardif ne fait que corroborer l'usage assez fréquent de la li ttérature classique, où les Pénates sont invoqués à côté du Lar familiaris ou des Lares : Ista tua pulchra Liberias deos Penates et familiäres meos Lares expulit41. Il est remarquable que les Lares, comme les Pénates, apparaissent à la fois dans le culte privé (Lar familiaris, au singulier, ou les deux Lares figurés dans les peintures ou les sculptures des laraires de Pompéi) et dans le culte public (Lares compitales, Lares militares, Lares praestites)42. Cette association des Pénates et des Lares, ou du Lar familiaris, voi re l'emploi de l'une ou l'autre expression dans des circonstances semb lables, s'explique par les nombreux points communs entre ces deux catégories de divinités43. A part le cas où l'on parle du Lar familiaris au singulier, les Lares sont une collectivité d'êtres divins, tout comme les Pénates. Le mot de «collectivité» paraît plus approprié, s'agissant des Lares, que celui de «communauté indifférenciée», car il existe différent es sortes de Lares : compitales, praestites, Lar familiaris. . . Il n'en reste pas moins que nous avons affaire à deux groupes d'êtres divins qui sont, dans la plupart des cas - et c'est, pour les Pénates, leur caractère originel -, présentés collectivement sans différenciation d'individualit é.
39 Cf. G. Dumézil, ibid. 40 Adu. Nat. I, 10, 76. 41 Cic, Dom. 108; de même Rep. V, 5; Phil II, 30, 75; Plaute, Mere. 834; Lucain, VII, 394; Ovide, Tristes I, 3, 45; Liv., I, 29, 4; Virgile, En. VIII, 543; IX, 258. 42 Voir D. G. Orr, op. cit., p. 1563-69; D.P.Harmon, The Family Festivals of Rome, A.N.R.W., II, 16, 2, Berlin-New- York, 1978, p. 1593-95. Voir aussi J. Marquardt-A. Mau, Das privatleben der Römer, 2° éd., Darmstadt, 1964, p. 28 sq., 124 sq., 378 sq.; L. PrellerH. Jordan, Rom. Mythologie, 3° éd., Berlin, 1881, p. 105-123; Böhm, R.E., XII, I, s.u. Lares, col. 806-833; Κ. Latte, Römische Religionsgeschichte, Munich, 1960, p. 89 sq. 43 Cf. G. Piccaluga, Penates e Lares, SMSR, 32, 1961, p. 81-97.
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Un autre trait commun aux Pénates et aux Lares est d'être des divi nités attachées à un lieu44. Les Pénates tirent leur nom de ce lieu, le penus, et, par extension, leur domaine est devenu l'ensemble de la mai son. Il en va de même pour les Lares, bien que la maison ne soit pas leur unique séjour. Ils figurent parmi les dieux domestiques séjournant auprès du foyer au même titre que les Pénates; du reste, il semble que, dans les demeures de Pompéi, Pénates et Lares soient fréquemment représentés côte à côte, soit dans les peintures, soit dans les statuettes contenues dans les laraires; toutefois, nous avons noté que les uns et les autres n'étaient pas toujours dans le même plan du laraire; d'autre part, ils sont nettement différenciés du point de vue iconographique : les Lares, comme nous l'avons vu dans le précédent chapitre, ont une attitude et un costume bien particuliers, tandis que les Pénates ont le costume ordinaire de la divinité avec laquelle ils sont identifiés, ce qui revient à dire qu'ils n'ont pas de type iconographique spécifique. Cette communauté de séjour dans la maison privée s'accompagne d'une autre ressemblance, qui en est vraisemblablement la conséquenc e : les Pénates et les Lares sont des divinités protectrices. Les uns et les autres sont en principe bienveillants et, si nous avons vu précédemment que les Pénates sont quelquefois présentés comme hostiles, cette attitu de n'est pas une caractéristique de leur nature, mais bien plutôt le fruit de circonstances qui ont justifié leur courroux. Nous avons montré dans une précédente étude que les Pénates ont pour fonction de veiller sur le penus, mais aussi sur le bien-être de la maisonnée d'une manière générale. A cette vigilance matérielle s'ajoutent des fonctions relevant de la protection morale et religieuse de la famille, qui expliquent en partie la charge affective dont nous avons déjà à plusieurs reprises sou ligné qu'elle accompagnait généralement la mention des Pénates. On place leurs images sur la table où sont dressés les plats, dont une por tion leur revient. De même, on met les statues des Lares sur la table45 et, lorsqu'un morceau de nourriture tombe au cours du repas, on le pose sur la table, puis on le brûle au foyer devant les Lares46. Cette part prise par les Pénates et les Lares aux repas qui réunissent l'ensem-
44 G. Piccaluga, pourtant (p. 82-96), voit là une raison de les opposer plutôt que de les rapprocher : voir infra p. 107-8. 45 Pétrone, Sat., LX. 46 Pline, N.H., XXVIII, 27.
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ble de la famille montre la place que ces dieux tiennent dans la religion domestique. De même, nous avons vu que les Pénates étaient fréquemment invoqués lorsqu'on quittait, ou qu'on retrouvait sa maison, dont ils représentent en quelque sorte toute la valeur affective et sentimentale, et qu'ils désignent même souvent par métonymie. Nous avons des exemples d'invocations aux Lares dans des circonstances analogues : on s'adresse à eux au moment de partir en voyage47 et aussi au moment où le fils disparu revient dans la maison de son père48. En arrivant chez soi, on salue indifféremment, semble-t-il, les uns ou les autres. Ainsi, chez Térence, un personnage qui regagne son logis déclare : Ego deos pénates hinc salutatimi domum Deuortar49, tandis qu'on lit chez Caton : paterfamilias ubi ad uülam uenit ubi harem familiärem salutami50. Enfin, comme les Pénates, le Lar familiaris est chargé de la protection du patrimoine familial et c'est à ces divinités collectivement que dans le passage du Mercator que nous avons cité plus haut, le jeune Charinus confie le bien hérité de ses pères au moment de son départ pour l'exil : Di Penates meum parentum, familiae Lar Pater Vobis mando meum parentum rem bene ut tutemini51. La même valeur sentimentale est attachée aux Lares et aux Pénat es.Le Lar familiaris est lié de très près au sort de la maison, ce que confirme le prologue de YAululaire. Comme les vicissitudes de la famille sont celles des Pénates, elles sont aussi celles des Lares, et leur sort et celui de la maison sont liés : ils voyagent avec la famille52 et chasser leur image d'une maison prou-
47 Mere, 834; Mil. Gîor., 1339. 48 Rud., 1206. 49 Phorm., 311-312; «Et moi, je vais de ce pas au logis saluer mes dieux pénates» (trad. J. Marouzeau, C.U.F., Paris, 1947). 50 De Agr.; 2. 51 Mere. 834-835 : «Dieux pénates de mes parents, vénérable Lare de la famille, pro tégez bien leur fortune, je les recommande à vous» (trad. A. Ernout, C.U.F., Paris, 1956). 52 Ovide, Fastes IV, 802; Tibulle, II, 5, 42.
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ve que la famille qui habite cette maison n'a plus d'avenir53; comme pour les Pénates, se séparer d'eux est particulièrement douloureux54. Enfin, Pénates et Lares ont encore ceci de commun qu'ils sont les uns et les autres apparentés, ou confondus, avec les esprits des ancê tres morts. Nous avons dit plus haut que les Pénates étaient parfois identifiés avec les di parentes, ou di parentum, dieux des parents morts dont la nature exacte reste, comme l'a noté G. Dumézil55, assez obscur e. Or, les Lares, eux aussi, ont été rapprochés de ces di parentum, ou di Manes, notions qui semblent assez voisines56, et du reste l'une et l'autre peu précises. Un commentaire de Servius affirme très clair ement cette identification : Omnes in suis domibus sepeliebantur, unde ortum est ut Lares colerentur in domibus : unde etiam umbras Laruas uocamus a Laribus57. Ce texte nous intéresse particulièrement pour les contradictions apparentes qu'il présente avec le témoignage du même Servius cité plus haut à propos des Pénates. Le culte domestique des Lares se trouve ici justifié par la coutume, imputée aux maiores, de l'ensevelissement dans la maison, comme l'était le culte domestique des Pénates. Cela implique, en fait, une identification des deux groupes de dieux, Lares et Pénates, par l'intermédiaire d'une commune identifica tion aux esprits divinisés des ancêtres morts. Cette assimilation des Lares et des di parentes peut cependant être mise en relation avec un certain nombre d'autres témoignages qui font des Lares des esprits apparentés au monde infernal. Sans nous attarder ici à exposer en détail les problèmes, d'ailleurs fort complexes58, posés par aspect de la personnalité des Lares, nous nous bornerons à ceux qui peuvent nous éclairer sur les rapports de ces dieux avec les Pénates. Le témoignage de Servius concorde en partie avec un texte de Varron cité par Arnobe : Varrò similiter haesitans nunc esse illos (= Lares) Mânes et ideo Maniam matrem esse cognominatam Larum, nunc aerios rursus deos et heroes
53 Suétone, Caligula, 5. 54 Tibulle, II, 4, 53; Juvénal, VIII, 110. 55 Ibid. 56 Cf. J. Β. Jacobsen, Les Mânes (trad. Philippot), Paris, 1924 passim; D.P.Harmon, op. cit., p. 1603. 57 Ad Aen. VI, 152: «Tous étaient ensevelis dans leurs maisons; de là vient que les Lares sont honorés dans les maisons; à cause de cela aussi nous appelons les ombres Laruae, de Lares». 58 Cf. G. Wissowa in Roschers Lexicon s.u. Lares; id., Religion und Kultus der Römer, 2e éd. Munich, 1912; Böhm, loc. cit.; G. Piccaluga, ibid.
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pronuntiat appellari, nunc antiquorum sententias sequens Laruas esse dicit Lares, quasi quosdam genios et functorum animas59. Ce texte indi que avec une certaine prudence, dont témoigne l'emploi de quasi, que Varron considère les Lares comme les âmes des morts {functorum ani mas). Un texte d'Augustin va beaucoup plus loin dans le sens d'une confusion entre'Génius, héros et Lares : inter lunae uero gyrum et nimborum ac uentorum cacumina aerias esse animas, sed eas animo, non oculis uideri et uocari heroas et Lares et genios60. Cette confusion entre Lares, héros et Genius d'une part, l'assimilation des Lares aux âmes des morts d'autre part, s'expliquent par différentes raisons. Nous ne nous risquerons pas ici à trancher du difficile problème de l'origine et de la nature primitive du culte des Lares, dont le nom même ne va pas sans difficultés : si l'on admet, comme J. Heurgon61 qu'il est d'origine étrus queet signifie «grand» «puissant», «on ne s'étonnera pas qu'il ait pu s'appliquer aussi bien, sans les caractériser, aux diverses activités du Lar familiaris et des Lares, genii et functorum animae. . . Il n'exprimer ait en fait qu'une vénération indistincte en présence de certaines manif estations de la puissance divine»62. Leur nom, par conséquent, ne sau rait nous suffire pour définir la personnalité des Lares. Mais la tradi tion selon laquelle les Lares seraient les ancêtres morts divinisés doit être rapprochée de la personnalité de Larentia, ou Larunda, dont le nom est de la même famille que Lares ; cette dernière, parfois présentée comme l'épouse du berger Faustulus, qui recueillit Romulus et Rémus63, est parfois identifiée comme une divinité chthonienne, en l'hon neur de qui un sacrifice était fait aux Larentalia du 23 décembre, sacri fice dont la signification exacte nous échappe64; mais le caractère
59 Ad Nat. Ill, 41 : «Varron, hésitant lui aussi, dit tantôt qu'ils (= les Lares) sont les Mânes et que pour cette raison la mère des Lares est nommée Mania, tantôt au contraire déclare qu'ils sont les esprits aériens et sont nommés heroes, tantôt, suivant les opinions des anciens, il affirme que les Lares sont les Laruae, c'est-à-dire en quelque sorte les génies et les âmes des défunts ». Voir U. Pestalozza, Mater Larum et Acca Larentia, Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Rendiconti, XLVI, 1933. 60 De Civ. Dei VII, 6 : « Entre le cercle de la lune et les sommets des nuages et des vents, il y a des âmes aériennes, mais on ne peut les voir que par l'esprit, pas par les yeux et on les appelle héros, Lares, Genius». Cf. D. P. Harmon, op. cit., p. 1593-95. 61 Lars, largus et Lare Aineia, in Mélanges d'archéologie et d'histoire offerts à André Piganiol, 1966, p. 655-664. 62 Ibid., p. 660; U. Pestalozza, loc. cit. 63 Ovide, Fastes III, 55-56. 64 Cf. Ovide, Fastes 1. 1 (trad. H. Le Bonniec), Catane, 1969, p. 162 η. 11.
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chthonien de la déesse, dont le nom présentait une parenté avec celui des Lares, a pu faciliter l'assimilation de ces derniers aux di parentes. Comme tels, on les comptait aussi parmi les Di Manes. D'autre part, ainsi qu'en témoigne le texte de Varron cité par Arnobe, le nom de Mania, considérée parfois comme la mère des Lares, fournit un argu ment de plus pour assimiler les Lares aux Mânes. Enfin, l'assimilation des Lares et des héros, qui date, semble-t-il, de l'époque augustéenne65, traduit sans doute une influence grecque car, d'une part, ils sont assi milés aux δαίμονες66, d'autre part, Denys d'Halicarnasse traduit Lar familiaris par ήρως κατοικούμενος67, et Lares familiäres est traduit par fois68 par ήρωες κατοικούμενοι. Les Pénates étant traduits, dans la ver sion grecque du Monument d'Ancyre, par οί κατονκούμενοι69, il est possible que la parenté des deux traductions ait favorisé la confusion des deux termes qu'elles traduisaient; mais il est plus probable, selon un schéma inverse, que la confusion existant entre Pénates et Lares ait entraîné des traductions très proches. Quoi qu'il en soit, les Mânes étant mal différenciés des di parentum, auxquels étaient parfois assimil és les Pénates, Lares et Pénates se trouvent confondus dans une même identification aux âmes des ancêtres morts. Cependant, si Pénates et Lares ont pu être assimilés, chez des auteurs tardifs surtout, il n'en reste pas moins qu'il existe entre eux des différences non négligeables. La première est celle de la nature et de la formation de leur nom. Lar ou Lares est un nom propre70, parfois même un prénom71. Le mot n'est jamais accompagné de di, mais au contraire, le nom de Lar ou Lares est souvent qualifié par un adjectif désignant différentes sortes de Lares {Lar familiaris, Lares compitales, Lares militares, Lares praestites). En revanche, nous avons vu que pénat es était une formation adjective, fréquemment accompagnée du mot di. Les Lares, jamais désignés du terme de di, n'étaient donc sans doute pas, au contraire des Pénates, considérés comme des divinités, mais plutôt comme des êtres secondaires dans la hiérarchie des puissances supérieures aux hommes, des sortes de «démons», ainsi qu'en témoigne
65 66 67 68 69 70 71
Cf. G. Wissowa, in Roschers Lexicon, s.u. Lares, col. 1870. Cic, Tim., 38. IV, 2, 3. Corp. Gloss. Lai. Ili, 167, 56. Χ, 12. Cf. J. Heurgon, ibid. ; pour les origines étrusques du mot, id., op. cit., p. 655 n. 2. Op. cit., p. 660.
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la traduction grecque par ήρωες72. D'autre part, on trouve le singulier Lar dans l'expression Lar familiaris, alors qu'il n'existe rien de tel pour les Pénates. Certes, nous avons vu qu'à Pompéi, il se trouvait que fût «pénatisée» une seule divinité, mais le mot Pénates n'a jamais été employé au singulier. Au contraire, et sans aborder ici la question de l'ancienneté du culte du Lar familiaris par rapport aux autres aspects du culte des Lares, il est certain que cette expression se trouve très tôt attestée dans les textes au singulier73. L'existence de ce singulier, ainsi que l'usage de qualifier par des adjectifs le Lar ou les Lares, dès les premiers témoignages littéraires74, atteste que, contrairement aux Pé nates, il ne s'agit pas d'une pluralité indistincte, mais plutôt d'une col lectivité d'êtres divins, très souvent désignés comme un ensemble, ce qui a facilité leur confusion avec les Pénates. D'autre part, nous l'avons vu, Pénates et Lares ont en commun d'être, dans leur essence même, attachés à des lieux. Ils sont les uns et les autres présents dans la maison, ainsi qu'en témoigne l'iconographie des laraires de Pompéi. Mais, alors que les Pénates résident unique ment dans la maison, et tirent du reste leur nom d'une partie de cette dernière, il en va tout autrement pour les Lares, dont le nom n'a rien à voir avec elle. Cette différence a été nettement mise en lumière par G. Piccaluga75 : alors que les Pénates sont les dieux d'un monde clos, celui de la demeure dans le culte privé, celui des temples dans le culte public, les Lares, eux, sont en rapport avec le monde extérieur. Ils sont les dieux des champs et des carrefours, donc ils se situent à la frontière où l'univers familial de la maison ou du domaine côtoie ou affronte les forces extérieures. Il se trouve que la sphère de leur action coïncide avec celle des Pénates, mais en partie seulement, car les lieux où ils séjournent sont infiniment plus vastes et d'une nature très différente de ceux où résident les Pénates. Ces derniers symbolisent la vie calme et
72 Cf. B. Liou-Gille, Cultes «héroïques» romains. Les fondateurs, Paris, 1980, p. 8. Pourtant, il est un fait qui semble témoigner de l'importance des Lares : leur nom figure, à côté de celui de dieux aussi éminents que Jupiter ou Mars, dans la formule de la deuotio (voir Liv., VIII, 9, 6), occasion particulièrement chargée de solennité : cf. G. Dumézil, R.R.A., p. 108-110; B. Liou-Gille, op. cit., p. 102; Ch. Guittard, Tite-Live, Accius, et le rituel de la deuotio, CRAI, 1984, p. 581-600. Sans doute apparaissent-ils alors comme des divini tés chthoniennes. 73 Plaute, Mere, 834. 74 Par exemple, chez Plaute ou chez Caton. 75 Op. cit., p. 88-89.
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réglée de la famille; les Lares, sans être le symbole de la nature sauvag e, représentent aussi le monde extérieur; c'est même, selon G. Wissowa76 le sens originel de leur culte, puisque, selon lui, les Lares ont d'abord été des divinités des champs, puis des carrefours, et ensuite seulement serait apparu le Lar familiaris, divinité domestique77. Lares et Pénates, nous l'avons vu, ne se contentent pas d'avoir leur séjour dans la maison; ils la protègent, ainsi que ceux qui l'habitent. Or, là encore, nous constatons que le champ d'action des Lares est plus étendu que celui des Pénates. Ces derniers en effet ne veillent que sur les maîtres, et la présence d'esclaves sur les fresques pompéiennes représentant le sacrifice aux Pénates, ne doit pas faire illusion : le camillus et le uictimarius assistent en effet au sacrifice, mais c'est pour aider le maître de maison, lui passer les objets dont il a besoin et lui présenter la victime, non pour prendre eux-mêmes une part vraiment religieuse à la cérémonie78 qui se déroule, dont ils ne sont que les sim ples assistants. Les esclaves n'ont pas de Pénates. Au contraire, les Lares protègent l'ensemble de la maisonnée, maîtres et esclaves. Le Lar familiaris est tout spécialement le protecteur de la familia : le seul offi cereligieux que le uilicus et la uilica ont à accomplir est de lui offrir des couronnes aux jours de fêtes79 et l'esclave affranchi lui consacre ses chaînes80. Les occasions auxquelles on fait des sacrifices ou des offrandes aux Lares et aux Pénates sont, elles aussi, différentes. La fonction essentielle des Pénates dans la vie familiale est leur présence et leur participation aux repas, mais ils n'ont pas de rôle spécifique dans les circonstances solennelles ou exceptionnelles de la vie domestique, aux-
76 Op. cit., col. 1870-1876. 77 Le lien étroit unissant le Lar familiaris et le foyer est particulièrement bien illustré par une des légendes concernant la naissance de Servius Tullius, connue par Ovide (Fas tesVI, 633 sq.) : alors que la mère du futur roi, une esclave, versait des libations avec sa maîtresse Tanaquil sur le foyer royal, le Lar familiaris, ou Vulcain, lui serait apparu, et, sur ordre de sa maîtresse, elle se serait unie à lui : cf. J. Champeaux, Fortuna. Le culte de la Fortune à Rome et dans le monde romain, Coll. de l'Ecole Française de Rome, 64, Rome, 1982, p. 295-296, et 441. 78 Cf. J. Scheid (Piété et impiété, dans id., Religion et piété à Rome, Paris, 1985, p. 21), qui souligne le rôle généralement «passif et subordonné» des esclaves dans les cérémon ies religieuses. 79 Caton, De Agr., 5, 3. 80 Horace, Sat. I, 5, 65.
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quelles pourtant ils assistent81. Au contraire, le jeune garçon suspend sa bulla à la statue du Lar familiarisé2 lors de la prise de la toge viri le83, la fiancée dépose un as à ses pieds lors des cérémonies du mariag e84,on lui sacrifice des béliers après un deuil85 pour purifier la familia funesta*6. Dans toutes ces pratiques, on relève un caractère apotropaïque direct (mariage, et purification après la mort d'un membre de la famille), ou un lien avec des pratiques apotropaïques (port de la bul lapar les jeunes garçons), qui semblent à peu près étrangers au culte des Pénates. De tout ce qui sépare les Lares des Pénates, il nous a semblé qu'on pouvait tirer quelques conclusions pour définir plus clairement la natu re de ceux-ci par opposition à ceux-là. Les Pénates sont attachés à la maison; les Lares étendent leur action au monde extérieur. Les Pénates protègent uniquement ceux qui sont le plus étroitement liés à la mai son, les maîtres; les Lares sont honorés aussi par les esclaves. Les Pénates n'ont guère de rôle que dans une routine familiale paisible, mais on les invoque lorsqu'elle est perturbée87; les Lares sont honorés dans les circonstances particulières de la vie domestique; il semble que l'on associe les Pénates à la vie de la maison, alors qu'on semble plutôt chercher à conjurer une éventuelle influence maléfique des Lares par des pratiques superstitieuses. Les Pénates sont généralement présentés comme bienveillants, alors qu'il y a dans la nature des Lares quelque chose d'un peu inquiétant qui apparaît dans différents aspects de leur culte signalés plus haut : leurs relations avec le monde des morts l'e xplique sans doute en partie. Certes, nous avons vu que, selon Servius, les Pénates étaient assimilés aux di parentum. Mais ce témoignage isolé reflète sans doute une tradition déjà assez confuse et mal comprise à l'époque de Varron88. Les rapports des Lares et des Mânes reposent
81 Voir supra p. 52. 82 Horace, Sat. 1, 5, 65; Perse, 5, 31 ; Pétrone, Sat., LX, 8 : Lares bullatos. 83 Le passage de Tacite {Ann. XIV, 61, 3-4) cité supra p. 43 et 52 nous paraît offrir un exemple d'emploi métonymique de Penates pour signifier «foyer» beaucoup plutôt que faire référence à une pratique cultuelle précise. 84 Varron apud Nonius, p. 531; cf. J. Champeaux, op. cit., p. 289-91. 85 Cic, Leg., II, 57; voir G. Dumézil, La religion romaine archaïque, p. 372. 86 Cicéron (Leg. II, 57) parle du sacrifice d'un porc ou d'une truie fait en l'honneur des morts (cf. D. P. Harmon, op. cit., p. 1602-3), mais sans mentionner les Pénates. 87 Cf. supra p. 51 sq. 88 Son exactitude est d'ailleurs formellement récusée par Böhm (loc. cit.).
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vraisemblablement sur une tradition plus solide, sur laquelle s'est peutêtre appuyé Servius, qui, réunissant en une seule réalité religieuse le Lar familiaris et les Lares en général, a fait du foyer le lieu du culte funéraire primitif. Or, comme on a eu de plus en plus tendance à confondre Lares et Pénates, pour toutes les raisons que nous avons exposées, Servius a pu en déduire que les Pénates étaient assimilables aux Mânes, et aux di parentum, et qu'ils étaient les âmes des membres morts de la famille, enterrés dans la maison. Aussi nous semble-t-il que, pour comprendre cette confusion, il faut retourner le raisonnement de Servius: ce n'est pas «parce que» (unde orta est consuetudo. . .) les morts étaient anciennement enterrés dans la maison, qu'on a honoré les Pénates dans ses murs, mais parce que les uns et les autres ont pu être, à des titres différents, honorés dans la maison, que Servius a cru pouvoir les confondre, ce qu'il est le seul à avoir fait. En réalité, tout ce qui touche au monde des morts a un côté inquiétant profondément opposé à la nature des Pénates, alors qu'au contraire les Lares, en tant qu'esprits chthoniens, peuvent être dangereux. C'est cette commune identification des Lares et des Pénates aux âmes des ancêtres morts qui a entraîné une confusion entre eux, en dépit de certaines différences profondes de nature. Les Pénates ont donc été rapprochés d'un certain nombre de plural itésdivines, di patrii, di parentum, et Lares, ou identifiés avec elles. Ils sont étymologiquement «ceux qui résident dans la partie la plus retirée de la maison». Or, les pluralités divines dont nous avons parlé, quelles que puissent être leurs différences avec les Pénates, ont en commun avec eux de résider dans la maison, même si ce n'est pas leur unique fonction et qu'elles n'en tirent pas leur nom : les di patrii résident dans la maison ou la propriété de famille, ou, pour le culte public, dans la patrie; les Lares résident en partie dans la maison, et, même si ce n'est pas leur unique résidence, ils sont en tous les cas définis comme les dieux d'un lieu; ce caractère est évidemment beaucoup moins net pour les di parentum, mais il se peut que leur soit confusément liée l'idée d'une résidence dans la maison, soit à cause de la présence des imagi nes maiorum dans certains laraires89, soit que, dans les temps primitifs on enterrât parfois les morts sous la hutte, soit encore parce qu'on pens ait que, lorsqu'elles n'avaient pas été apaisées, lors des Parentalia, par
89 Voir supra p. 99.
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les sacrifices rituels, les âmes des morts venaient rôder autour de la maison qu'ils avaient habitée de leur vivant90. La notion de Pénates était assez vague pour pouvoir être confon due avec d'autres, avec lesquelles elle offrait quelques parentés. Mais, nous l'avons vu dans le précédent chapitre, elle s'est étendue au point de désigner n'importe quel dieu choisi comme protecteur d'une mai son, comme l'attestent les laraires de Pompéi. Ainsi, nous passons de l'idée précise de dieux qui se définissent par leur localisation et leur absence d'individualisation, à une extension de cette notion à toute divi nité que le bon plaisir, les goûts, ou le métier d'un maître de maison aura choisi pour «penate», ce qui justifie la définition des Pénates don née par Servius : omnes dii qui domi coluntur91. Comment ont pu se faire, d'une part, la confusion de la notion originelle des Pénates avec les pluralités divines mentionnées plus haut et, d'autre part, l'extension de cette notion à tous les dieux honorés dans la maison, c'est ce que nous allons nous efforcer d'élucider à présent.
II - Histoire des pénates privés Si les auteurs anciens se sont livrés à d'abondantes spéculations sur les Pénates publics, leur origine, leur histoire, on ne peut en dire autant des Pénates privés. Sur ces dieux, si souvent mentionnés, dont l'existence semble si présente dans la réalité quotidienne romaine, au cun écrivain ne nous a laissé la moindre indication «théologique», peutêtre justement parce qu'ils appartenaient à un monde si familier que l'on n'éprouvait pas le besoin de les définir. Pour connaître l'histoire de nos dieux, nous devrons essayer d'en reconstituer les éléments essen tiellement à travers les témoignages iconographiques, malheureuse ment très fragmentaires, que nous comparerons à ce que l'étymologie peut nous apprendre de la conception originelle des Pénates, et qui s'exprime dans leur nom.
90 Cf. Ovide, Fastes II, 546-553. 91 Ad Aen. II, 514.
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1) La définition étymologique des Pénates Nous avons vu92 que Penates était une formation adjective signi fiant «ceux qui résident dans le penus», «ceux du penus». De par leur nom, donc, les Pénates sont définis d'après leur localisation dans la maison, ou plutôt dans «la partie la plus intime» de cette dernière, ce qui reste encore assez imprécis. «Ce vague même», note P. Boyancé93, «est en harmonie avec la tendance du Romain à définir très extérieure ment la personnalité de son dieu, par la seule mention du lieu ou des circonstances où s'exerce son activité. Si obscurs que soient des compos és comme di indigetes, di nouensides, les éléments les plus clairs de ces mots (indu-, -sides) paraissent bien relatifs au séjour, à la résiden ce»94.Il faut sans doute reconnaître dans les Pénates des divinités qui, comme les di indigetes et di nouensides dont les rapproche P. Boyancé, appartiennent au fonds le plus ancien d'une religion spécifiquement latine; nous avions déjà noté, du reste, ce caractère latin de nos dieux à propos du suffixe en -as, -atis utilisé en dehors des noms ethniques; dieux très anciens, spécifiquement latins, et, dans leur sens étymologi que du moins, tout à fait indépendants de l'influence de la religion grecque (il n'y a pas d'équivalent exact de Penates en grec), les Pénates ont aussi en commun avec les di indigetes95 et di nouensides de se pré senter comme une pluralité; sans nous attacher ici à examiner les pro blèmes très difficiles posés par l'étude de ces divinités, particulièr ement obscures, bornons-nous à rappeler que leur nom figurait dans un certain nombre de formules rituelles, et notamment celle de la deuotio, qui nous est connue par Tite-Live96: ils y sont cités au pluriel, sans distinction d'individualité, et, bien que l'épithète d'Indiges ait été don née à Enée et Sol, il semble qu'elle soit moins ancienne que la mention collective des Indigetes97. L'étymologie de leur nom définit donc les Pénates comme une col92 Cf. ci-dessus, p. 29 sq. 93 Les Pénates et l'ancienne religion romaine, p. 113. 94 G. Wissowa a fondé le plan de son livre Religion und Kultus der Römer sur la divi sion entre les di indigetes, « dieux anciens, autochtones », et di nouensides, « dieux import és».Cette conception est critiquée notamment par G. Dumézil (op. cit., p. 32) sans que le sens de ces deux termes ait été définitivement éclairci (cf. B. Liou-Gille, op. cit., p. 103). 95 Sur les di indigetes, cf. Β. Liou-Gille, op. cit., p. 99 sq. 96 VIII, 9, 6; cf. le commentaire de G. Dumézil, op. cit., p. 108-110; cf. supra p. 100. 97 Cf. B. Liou-Gille, op. cit., p. 115 : «Du groupe anonyme des Indigetes, seuls Enée et Sol ont émergé».
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lectivité de dieux indifférenciés, caractérisés uniquement par leur loca lisation dans une certaine partie de la maison. Peut-il alors s'agir de dei à proprement parler, revêtus d'une personnalité véritable? Il paraît dif ficile de répondre positivement à cette question, et on serait alors tenté de rapprocher les Pénates des Indigitamenta dont la liste, dressée par Varron, nous a été transmise par Servius98 : divinités au pouvoir menu, extrêmement limité à une action précise, et sans existence en dehors de cette action, dans lesquels les tenants des théories prédéistes ont voulu reconnaître le type le plus ancien des numina romains, parmi lesquels auraient ensuite émergé des dei à la personnalité plus affirmée". Ind épendamment des pertinentes objections formulées par G. Dumézil à l'encontre de ces théories, il nous paraît, en tout état de cause, difficile de souscrire à une telle assimilation. Les Indigitamenta se définissent par une action; ils sont du reste individualisés, chacun portant un nom - nom d'agent en -tor formé sur un radical de verbe100 -, qui exprime clairement sa fonction propre et l'oppose par là-même aux autres Indi gitamenta du groupe auquel il appartient. Au contraire, les Pénates ne sont pas définis par leur action, mais par leur localisation dans la mai son, et aucune individualité ne se détache parmi eux. Aussi, bien qu'ils apparaissent, comme certains Indigitamenta, dans la sphère de la vie privée, leur personnalité nous semble tout à fait différente. 2) Les figurines des tombes albaines Nous avons exposé précédemment101 l'interprétation donnée par F. Borner102 des urnes funéraires découvertes dans les Monts Albains; rappelons-la brièvement : ces urnes funéraires, rondes ou à angles arrondis, dans lesquelles on s'accorde généralement à voir des modèles réduits de cabanes primitives d'où leur nom d'urnes-cabanes, sont en réalité des urnes-greniers («Speicherurne») reproduisant les silos ronds, forme architecturale du penus primitif, selon F. Borner; les figu rines de terre cuite que l'on y a retrouvées, représentations très primiti-
98 Ad Georg. I, 21. 99 Pour l'exposé et la critique de ces théories, cf. G. Dumézil, op. cit., p. 36-48. 100 Par exemple, pour les Indigitamenta présidant à la vie agricole, on a Insitor, Occator, Vervactor, etc. . . 101 Cf. supra p. 27-8. 102 Rom und Troia, p. 90 sq.
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ves d'hommes et de femmes nus103, doivent être identifiées, non comme des images des morts104, mais comme celles des divinités résidant dans le penus, donc les Pénates, ou leurs ancêtres. La datation de ces tomb es, et des statuettes, est très discutée; F. Borner admet qu'elle se situe entre le Xe et le VIIIe siècle environ. Il appuie cette interprétation sur une étude approfondie de découvertes comparables, comportant ce qu'il désigne comme «Kleinplastik», dans le domaine italique, mais auss idans l'ensemble du bassin méditerranéen, et en conclut qu'il s'agit toujours, non d'images d'ancêtres morts, mais de divinités. Dans cette analyse, l'interprétation des figurines des urnes albaines prend donc tout naturellement sa place. F. Borner voit une preuve supplémentaire du bien-fondé de sa thèse dans le fait suivant : les urnes étaient ellesmêmes placées dans de grands vases de terre cuite, des doliola105; or, les statuettes des tombes albaines ont été retrouvées, soit dans l'urne elle-même, soit dans l'espace compris entre la paroi du doliolum et l'urne; il existe donc, à Albe, un lien entre les statuettes anthropbmorphiques et les doliola, tout comme il existe un lien entre les Pénates et les doliola. Toutefois, voir dans les statuettes des tombes albaines des images primitives des Pénates soulève deux difficultés, relevées par F. Borner lui-même. La première est que, dans la mesure où l'on identifie des urnes comme des urnes-greniers, il faut admettre, comme nous y oblige la présence des cendres du défunt à l'intérieur de ces urnes, qu'on enfermait les restes des morts dans des images du grenier à blé; cette coutume, affirme F. Borner106, remonte à la préhistoire la plus lointai ne. D'autre part, l'existence à une date aussi haute de représentations figurées, anthropomorphiques, des divinités, semble se heurter à une affirmation de Varron, qui nous est connue par Augustin : Dicit etiam (= Varrò) anttquos Romanos plus annorum centum et septuaginta deos sine simulacro coluisse107. Cette phrase a eu une importance très gran de,car elle a été le fondement d'une véritable doctrine, illustrée notam-
103 cf. op. cit., pi. m. 104 Cette interprétation était celle de F. von Duhn (Italische Gräberkunde, Heidelberg, 1924-1939, 1. 1, p. 391-408). Cf. F. Borner, op. cit., p. 83 n. 15, 16, 17. 105 Op. cit., p. 65. 106 Op. cit., p. 96. 107 De Ciu. Dei IV, 31 : «Varron dit aussi que les anciens Romains honorèrent les dieux sans images pendant plus de cent-soixante-dix ans».
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ment par G. Wissowa108, selon laquelle la religion romaine primitive n'avait pas connu d'images des dieux, avant, si l'on en croit Varron, 583 avant J.-C. environ, c'est-à-dire le règne de l'étrusque Tarquin l'Ancien. Comment expliquer cette apparente contradiction? L'affirmation de Varron, poursuit F. Borner109, s'applique fort bien aux grands dieux, notamment à ceux de la Triade Capitoline : la tradition romaine nous apprend en effet - et cela confirme les données de Varron - que c'est Tarquin l'Ancien qui fit construire le temple de Jupiter sur le Capitol e110, et que les statues des dieux furent exécutées par un sculpteur de Véies, Vulca111; toutefois, remarque F. Borner, ce culte archaïque sans image, remplacé au VIe siècle par un culte anthropomorphique, n'a existé que pour les dieux «indo-germaniques», tandis que, pour ceux qui appartenaient au vieux fonds «méditerranéen» primitif, des images ont toujours existé : les figurines des tombes albaines en sont une illus tration; par conséquent, aussi haut que nous puissions retrouver des traces d'un culte des Pénates, ou des dieux du grenier à blé, ces der niers ont été représentés sous forme anthropomorphique. Nous avons déjà signalé les difficultés que présentait la thèse de F. Borner à propos du sens de penus et de l'interprétation qu'il donne des urnes elles-mêmes : si le penus est primitivement un édifice distinct de la maison, on voit mal comment il pourrait désigner «la partie la plus intime» de cette dernière. D'autre part, il n'existe aucun témoigna ge archéologique prouvant l'existence de ces sortes de silos à une épo que antérieure à l'époque archaïque; si même on admet, en suivant l'hypothèse proposée par F. Coarelli112, que le mundus du Forum, qui se présente comme une fosse circulaire et que la tradition rattache à la fondation de la cité par Romulus, a pu constituer un silo collectif, contenant les prémices des récoltes de l'année et symbolisant la riches se publique, il s'agit là d'une fosse souterraine, dont l'architecture est sans rapport avec les urnes funéraires retrouvées dans les Monts Albains. La plupart des archéologues113 reconnaissent bien dans les urnes contenant les cendres, dont la partie figurant le sol est soit ron de, soit ovale, le modèle des maisons primitives : certains détails archi-
108 109 110 111 112 113
Religion und Kultus der Römer, p. 32 sq. Op. cit., p. 99 sq. Liv., I, 38, 7. Pline, N.H., XXXV, 157. // Foro Romano I, p. 209-225. Cf. Civiltà del Lazio primitivo, Catalogue de l'Exposition, Rome, 1976, p. 68-98.
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tecturaux font préférer cette interprétation à celle qui voit en elles des «urnes-réserves aux provisions»: l'une d'elles, par exemple, trouvée dans une tombe à puits de Grottaferrata, présente la figuration d'une fenêtre rectangulaire, et des ouvertures pour laisser passer la fumée114. Par conséquent, et indépendamment même de la signification des figu rines à forme humaine retrouvées dans certaines d'entre elles, il nous semble qu'il faut renoncer à l'hypothèse, pourtant séduisante, qui fait reconnaître dans ces urnes des penora très anciens, présentés comme siège des «Pénates» dans le culte privé. Mais la signification que F. Borner donne aux figurines elles-mê mes nous paraît pouvoir soulever des objections. Nous laisserons de côté l'hypothèse selon laquelle des divinités «méditerranéennes» ont toujours connu des représentations figurées, au contraire des divinités «indogermaniques» : la question dépasse le cadre de cette étude. Mais, nous l'avons vu, les Pénates se présentent toujours comme une pluralité divine. Or, dans les urnes funéraires des Monts Albains, on a retrouvé, semble-t-il, une seule statuette par urne, ou par doliolum115; même si l'on pense, avec F. Borner, qu'il s'agit d'une divinité, et du dieu du gre nier à blé, peut-on vraiment y voir l'ancêtre des Pénates, dont la plural ité semble un des caractères essentiels? Cette première difficulté se double d'une autre : les statuettes des tombes albaines sont soit mascul ines, soit féminines; ce fait paraît en contradiction avec le genre du mot Penates, toujours employé au masculin pluriel, ce qui implique que, si le groupe peut comporter des déesses, il ne peut pas ne comport er que des déesses. La présence de divinités féminines parmi les Pénat es nous paraît un phénomène relativement tardif, datable du Ier siècle avant J.-C; c'est ce que l'on voit dans les laraires de Pompéi; mais un rapprochement avec quelques éléments du culte des Pénates publics peut appuyer notre hypothèse. Denys d'Halicarnasse nous dit qu'on voyait dans le temple des Pénates à Rome, sur la Vèlia, leurs statues sous la forme de «deux jeunes gens. . ., ouvrages d'une facture ancien ne»116; cette dernière expression exclut toute datation précise, mais pour que Denys puisse s'exprimer en ces termes, il faut que les statues lui soient apparues comme largement antérieures à son propre temps : or, ce sont deux divinités masculines qui sont représentées. Enfin, en
114 Ibid., p. 74 n° 1. 115 Cf. F. von Duhn, Italische Gräbenkunde, p. 401-2. 116 I, 68, 2.
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tout état de cause, il subsiste un vide de plusieurs siècles entre les ima ges des tombes albaines et les premières attestations sûres du culte pri vé des Pénates : IVe siècle avant J.-C. pour la plus ancienne attestation iconographique, le laraire de la «Maison du Chirurgien» à Pompéi, IIIe siècle avant J.-C. pour le fragment du texte de Naevius où figure la pre mière mention de nos dieux. Pour sujette à caution qu'elle nous appar aisse en définitive, la thèse de F. Borner nous semble avoir néanmoins le très grand intérêt d'avoir su dégager une unité de la civilisation latiale, que les données archéologique qui ont suivi la publication de Rom und Troia117 n'ont pu que confirmer: pour l'histoire des Pénates en particulier, la mise en relation du culte romain et des trouvailles des Monts Albains a permis de montrer les éléments historiques, attestés par l'archéologie, sur lesquels s'est fondée la légende de la filiation albaine de Rome. En définitive, les figurines des tombes albaines nous paraissent avoir été interprétées de facon beaucoup plus convaincante par H. Mïiller-Karpe118 qui voit en elles, comme F. von Duhn, des figurines humain es, et non des dieux : il s'agirait d'orants dont les gestes sont ceux de la prière ou de l'offrande. H. Müller-Karpe, d'autre part, pense que ces statues ne sont pas l'une des expressions du fonds indigène de la rel igion romaine primitive119, et les compare, d'une facon tout à fait éclai rante, avec des figurines analogues trouvées dans le monde égéen : elles seraient la preuve de contacts très anciens entre des commerçants venus de ces régions et l'Italie centrale120.
3) La signification du nombre deux Denys d'Halicarnasse nous apprend que, dans le temple de la Vèlia, on honorait les Pénates sous la forme de deux jeunes gens, et que ces statues étaient «anciennes». La première image que nous possé-
117 Cf. Ensemble des articles contenus dans le catalogue Civiltà del Lazio primitivo. 118 Vom Anfang Roms, Heidelberg, 1959, p. 76 sq. 119 Ibid., p. 51-56. 120 P. 81 sq.; voir pi. 21-25; pour l'élaboration de la civilisation latiale, voir J. Heurgon, Rome et la Méditerranée occidentale, 2e éd. Paris, 1980, p. 74-79. D'autre part, en Etrurie, il ne semble pas qu'on trouve de représentation figurée de la divinité avant la fin du VIIIe ou le début du VIIe siècle av. J.-C. : cf. A. Hus, Les Etrusques et leur destin, Paris, 1980, p. 119-120; M. Pallottino, Etruscologia, 7e éd., Milan, 1984, p. 325 sq.; id., Storia della prima Italia, Milan, 1984, p. 55 sq.
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dions des Pénates dans le culte privé est la peinture du laraire de la «Maison du Chirurgien» à Pompéi121 : il s'agit d'une peinture qui pré sente, au-dessus de deux serpents, eux-mêmes surmontés d'un Genius accompagné d'un camillus encadrés par deux personnages, en qui il faut sans doute reconnaître les Lares, deux figures indistinctes, qu'il nous paraît difficile de ne pas identifier comme les Pénates, en compar ant cette représentation avec celles des autres laraires pompéiens. En l'état où nous sont offerts ces Pénates, il est impossible de voir si, de par leurs vêtements, leurs attributs, ou tel détail de leur iconographie, on peut reconnaître en eux d'autres divinités connues par ailleurs dans le panthéon romain. Mais il nous semble que le fait qu'ils soient deux peut n'être pas sans signification122, puisque ce nombre est celui des statues de la Vèlia. Quel sens peut-on lui donner? Nous en voyons deux interprétations possibles. La première est de dire que représenter deux dieux a pu apparaître comme la manière la plus simple de suggérer une pluralité divine, de rendre la notion de pluriel. La seconde nous a été suggérée par les remarques de G. Dumézil à propos de dieux qu'il désigne comme ceux de la «troisième fonction», c'est-à-dire ceux qui assurent le bien-être matériel123: le plus important est Quirinus, l'un des dieux de la première Triade Capitoline, lui-même assimilé à Romul us;or, dans la légende des origines, Romulus a un frère jumeau; G. Dumézil, rapproche cette donnée de la présence des deux frères Nasatya, «généralement indiscernables», dans le Rg Veda, et dont le rôle, en bien des aspects124, rappelle celui de Romulus et Rémus; s'appuyant aussi sur la légende d'un couple de jumeaux comme oncles de Caeculus, fondateur de Préneste, G. Dumézil essaie de dégager la valeur que l'on peut accorder à la gémellité: «On conçoit l'importance du concept de gémellité au niveau de l'abondance, de la vitalité, de la fécondité : par une convenance naturelle, chez un grand nombre de peuples, la naissance de jumeaux est signe et gage de tout cela»125. Dans
121 Cf. supra p. 69. 122 Notons toutefois (cf. supra p. 81) que l'on rencontre dans des laraires pompéiens beaucoup plus récents des exemples de groupes de deux Pénates auxquels il ne faut sans doute pas accorder la même signification. 123 Op. cit., p. 268 sq. 124 Op. cit., p. 253-54. 125 Op. cit., p. 252. D. Briquel (Les Pélasges en Italie. Recherches sur l'histoire de la légende, B.E.F.A.R., vol. 252, Rome, 1984, p. 480 n. 112) relève l'importance de ces légen desde héros fondateurs non seulement à Rome, mais en Italie (Gabies, Crustumérium,
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la mesure où les Pénates sont à mettre parmi les dieux qui, résidant dans la réserve aux provisions, veillent par là-même sur elle, et donc sur le bien-être de la maison en général, on peut concevoir que la représentation des Pénates sous la forme de deux dieux - ancienne semble-t-il, peut-être attestée au IVe siècle sans qu'il soit possible de préciser davantage - soit explicable par cette valeur symbolique de la gémellité. Il faut sans doute croire d'ailleurs que, à l'époque où ils sont représentés sous cette forme, les Pénates ont conservé leur personnalité propre, et ne sont pas assimilés à d'autres divinités bien individualisées par ailleurs : c'est le cas, selon nous, pour le culte public sur la Vèlia, où le type iconographique des Pénates nous paraît non pas identique à celui des Dioscures, comme on l'a dit souvent, mais tout à fait original et exprimant la personnalité propre de ces dieux126; au demeurant, le mauvais état de la peinture du laraire de la «Maison du Chirurgien» et le caractère isolé de cet exemple, ne permettent que des hypothèses prudentes127. 4) La pluralité et la confusion avec d'autres dieux Lorsque, laissant de côté les quelques maisons antérieures à l'épo que sullanienne, on considère l'ensemble des laraires de Pompéi, on constate qu'à peu près toutes les divinités considérées comme Pénates sont assimilées à des dieux bien connus par ailleurs, et que leur nombre est très variable, et, semble-t-il, de peu d'importance : il varie, ainsi que l'identité des Pénates, selon les goûts, le métier, ou le bon plaisir du maît re de maison. Cela nous impose les conclusions suivantes : à une date impossible à préciser entre, probablement, le IVe et le Ier siècle avant J.-C, on a perdu le sentiment de l'identité propre des Pénates. Cette plu-
Tibur, Préneste, Lavinium, où les Pénates ont «un rôle analogue par rapport à Enée à celui des frères Digidii ou Depidii par rapport à Caeculus»). 126 Cf. ci-dessous, p. 430 sq. 127 J. Heurgon {Recherches sur l'histoire, la religion et la civilisation de Capone préro maine, 2e éd., Paris, 1970, p. 370-72), à propos d'une monnaie de Capoue représentant une déesse double, note que ce phénomène de déboublement de la divinité est fréquent dans le monde grec, mais qu'on en trouve aussi d'autres exemples en Italie, par exemple dans le sanctuaire de la Fortune de Préneste. A propos de la double Fortune d'Antium, J. Champeaux {op. cit., p. 169-174) a fort bien montré que ces «dyades divines» résultaient de la duplication d'une divinité unique à l'origine, et que ce processus était attesté, non seulement dans le monde italique ou méditerranéen, mais dans tous les polythéismes. Les Pénates, néanmoins, semblent avoir été une pluralité dès leurs origines.
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ralité indifférenciée de divinités agissant collectivement et résidant en semble, s'est maintenue à l'intérieur de la maison, mais transformée, en prenant la forme d'un groupement de dieux à la personnalité bien défi nie, et ayant d'autres caractéristiques que de résider dans le penus. Ils sont toujours désignés du terme de Penates dans les témoignages litt éraires, invoqués comme tels, et leur nom conserve toute sa valeur affect ive, mais leur identité s'est profondément modifiée. Peut-être faut-il voir là, en partie, une trace de l'influence grecque sur la religion romain e, qui tendait à faire prévaloir les grands dieux assimilés à ceux du panthéon grec128. Mais une si profonde transformation ne s'explique que parce qu'en définitive la fonction des Pénates a changé. Ils ne sont plus compris comme «ceux qui résident dans le penus», puisque, semble-t-il129, le mot n'est pas ou n'est plus employé pour désigner une part ie de la maison; de divinités attachées à un lieu, et définies par lui, ils sont devenus les protecteurs de la maison et de ses occupants, et on comprend dès lors que chacun ait choisi, en fonction de sa propre per sonnalité, le dieu qui lui semblait le mieux convenir à cette fonction : la présence de Mercure chez Trimalcion est très révélatrice à cet égard. Mais on conçoit aussi, dans cette définition nouvelle, que le nombre de ces dieux protecteurs de la maisonnée ne puisse avoir grande significa tion : lorsque les Pénates sont deux, Bacchus et Fortuna par exemple, ils n'offrent aucune ressemblance entre eux, contrairement aux couples de dieux dont nous avons parlé plus haut; ce nombre, quel qu'il soit, n'e xprime rien d'autre que la juxtaposition de divinités qu'ont réunies les hasards des goûts, ou de l'histoire, du paterfamilias. Dès l'époque classique, donc, les Pénates semblent avoir perdu leurs caractères originels. Assimilés à d'autres dieux des panthéons romain ou étrangers, ils sont parfois aussi confondus avec d'autres dieux honorés dans la maison, θεοί πατρώοι, di parentes, ou Lares, ce qui explique qu'au IVe siècle après J.-C, Servius ait pu les définir com meomnes di qui domi coluntur. Ce phénomène nous paraît d'ailleurs spécifique du culte privé. Les Pénates du culte public, eux, ont mieux conservé leur caractère originel, sans doute parce que, mêlés à la légen de des origines de Rome, ils ont pu ainsi préserver, beaucoup mieux que les dieux du culte privé, leur identité propre.
128 Cf. J. Bayet, Histoire politique et psychologique de la religion romaine, Paris, 1957, p. 121-122. 129 Voir supra p. 19.
TROISIÈME PARTIE
LES PÉNATES PUBLICS
INTRODUCTION
LES TRADITIONS ANTIQUES SUR LES PÉNATES
II existe un étonnant contraste entre l'usage, très courant si l'on en juge par les témoignages littéraires, du mot Penates, et l'embarras où semblent s'être trouvés les Romains dès qu'il s'agit de donner de ces dieux une définition exacte, et, plus encore, d'expliquer leur origine. Du reste, nous l'avons vu, le culte privé n'a guère été l'objet des réflexions des érudits, moins encore des historiens. Les traditions antiques concernant les Pénates se rapportent à peu près toutes au culte public. Nous voudrions montrer ici que dès les débuts de l'annalistique romai ne s'est posé le problème d'une définition des Pénates, et que l'ensem ble de la tradition les concernant offre, lors même des premières ébau ches de réflexion sur le sujet, des difficultés, des obscurités, des contra dictions, écheveau particulièrement embrouillé dont on a parfois de la peine à retrouver le fil conducteur. Le mot Penates apparaît pour la première fois dans les tout débuts de la littérature latine, au IIIe siècle avant J.-C. avec Naevius : postquam aues aspexit in tempio Anchisa sacra in mensa penatium ordine ponuntur1. Bien que ces vers ne contiennent, en l'état où ils nous sont connus, aucune réflexion ni sur l'origine ni sur la nature des Pénates, il est curieux de souligner le hasard qui nous a fait parvenir cette première attestation du mot dans le contexte d'usages de la religion privée, cer tes, mais expressément rapportés au troyen Anchise, père de l'ancêtre
1 Fr. 3 (Ribbeck) ; on voit généralement dans ce passage (cf. G. Wissowa, Die Ueberlieferung über die römischen Penateti, Hermes, 23, 1886, p. 45 sq. = Gesammelte Abhan dlungen zur römischen Religions und Stadt Geschichte, Munich, 1904, p. 104; M. Barchiesi, Nevio epico, Padoue, 1962, p. 368 sq.) une transposition anachronique des usages du paterfamilias romain au troyen Anchise.
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mythique des Romains, Enée; ainsi, lorsque le mot Pénates apparaît pour nous dans la littérature romaine, se trouvent suggérés les problè mes essentiels qui nous ont retenu au cours de cette étude : culte des Pénates privés, relation de ces derniers avec les Pénates publics de l'état romain, origine troyenne des Pénates de Rome.
Timée L'historien Timée, né à Tauromenium, en Sicile, mais qui séjourna longtemps à Athènes, écrivit, entre le milieu du IVe et le milieu du IIIe siècle avant J.-C, plusieurs ouvrages sur l'histoire de Rome2, dont un très court fragment concernant les Pénates nous est parvenu par l'i ntermédiaire de Denys d'Halicarnasse : σχήματος δε και μορφής αυτών (= les Pénates) πέρι Τίμαιος μεν ό συγγραφεύς ώδε αποφαίνει · κηρύκεια σιδηρά και χαλκά και κέραμον Τρωικον είναι τα εν τοις άδύτοις τοΐς έν Λαουϊνίω κείμενα ιερά, πύθεσθαι δε αυτός ταύτα παρά των έπιχωρίων3. Nous avons ici le premier témoignage sur les Pénates de Lavinium, que les Romains, à l'époque de Varron, considéraient comme leurs, mais aussi l'unique description de ces mystérieux Pénates, description d'au tant plus précieuse d'ailleurs que Timée, selon Denys, aurait mené son enquête sur place auprès des Lavinates. Ce texte nous apprend d'une part que les Pénates de Lavinium, aussi appelés ίερά, étaient cachés aux regards des profanes (έν τοΐς άδύτοις), et que les dieux n'y semblaient pas représentés sous une forme anthropomorphique; d'autre part, bien que le fragment conservé par Denys nous laisse dans une totale igno rance de la conception qu'avait Timée de ces dieux, la désignation de la poterie comme «troyenne» suggère très fortement la légende de la fon dation de Lavinium par Enée, et aussi celle des origines troyennes de
2 Cf. A. Momigliano, Atene nel III secolo a.C. e la scoperta di Roma nelle storia di Timeo di Tauromenio, RSI, 71, 1959, p. 529-556; repris dans Terzo contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico. Storia e Litteratura, 108, 1, Rome, 1966, p. 23-53. 3 I, 67, 4 : «Concernant leur apparence et leur forme, l'historien Timée s'exprime en ces termes : les objets sacrés conservés dans la partie secrète du sanctuaire de Lavinium sont des caducées de fer de bronze, et de la poterie troyenne ; il tient ces informations des habitants ».
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Rome. On conçoit en tout cas que ces indications aient pu servir à al imenter la seconde.
Cassius Hemina L'annaliste Cassius Hemina, vers la fin du IIe siècle av. J.-C, est le premier auteur que nous connaissions à avoir mené une véritable réflexion sur l'identité des Pénates, du moins ceux du culte public, dans l'ouvrage qu'il consacra à l'histoire de Rome depuis Enée et la chute de Troie. Mais l'ouvrage de Cassius Hemina ne nous étant parvenu que par les fragments cités par des auteurs plus tardifs, il se pose à son propos le problème, qui est celui de toute citation dans les textes anti ques, de savoir ce qu'il faut exactement attribuer à l'annaliste dans le texte qui nous est offert. Une première citation de Cassius Hemina nous est fournie par le scholiaste de Vérone, en commentaire au passage de l'Enéide où Virgile évoque le départ d'Enée et des siens après le sac de Troie : après avoir résumé l'opinion de Varron, selon qui Enée avait emmené son père et ses dieux Pénates, et celle d'Atticus, pour qui Enée n'avait emmené qu'Anchise, les Pénates étant venus en Italie depuis Samothrace, le scholiaste écrit : Additur etiam ab L. Cassio Censorio miraculo magis Aenean patris (dignitate sanctio)rem inter hostes intactum properauisse concessisque ei nautbus in Italiani nauigasse. Idem historiarum libro I ait, Ilio capto (Aenean cum dis pena)tibus umeris impositis empisse duosque filios Ascanium et Eurybaten bracchio eius innixos ante ora hostium praetergressos (dat)as etiam ei naues concessumque ut quas uellet de nauibus securus ueheret*. Outre le prodige de Timpanite que semble conférer à Enée sa piété envers sa famille et envers ses dieux, ce passage affirme fortement l'origine troyenne des Pénates honorés par la suite en Italie, où le fils d'Anchise et de Vénus les a apportés. Il faut souligner que Cassius Hemina ne parle pas ici explic itement des origines troyennes de Rome, mais qu'il se contente de 4 Ad Aen. II, 717 : «L. Cassius Censorius ajoute aussi qu'Enée, rendu plus sacré par la dignité que lui conférait son père, s'était élancé indemne par un véritable prodige au milieu des ennemis, et qu'on lui avait permis de se rendre en bateau jusqu'en Italie. Dans le premier livre de ses Histoires le même auteur raconte qu'après la prise de Troie, Enée s'est enfui avec ses dieux Pénates sur ses épaules, et est passé sous les yeux des ennemis en tenant dans ses bras ses deux fils, Ascagne et Eurybate ; qu'on lui donna des navires, et lui permit de prendre et d'emporter en toute sécurité ceux qu'il voudrait».
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désigner d'un nom spécifiquement latin, les Pénates, les dieux transfé rés par Enée (Aenean cum dis penatibus umeris impositis). Cependant, l'annaliste semble s'être intéressé non à la seule origine des Pénates, mais aussi à leur histoire et à leur identité, comme en témoigne ce pas sage de Servius-Daniel : alii autem, ut Cassius Hemina, dicunt deos Penates ex Sam.oth.raca appellatos θεούς μεγάλους, θεούς δυνατούς, θεούς χρηστούς5. Cette citation forme un complément à celle que nous connaissons par le scholiaste de Vérone. D'une part, elle confirme l'i ndication que nous avait donnée cette dernière : Cassius Hemina appelle «Pénates» les dieux de Troie. D'autre part, notre passage fait plus part iculièrement référence, dans l'histoire de ces dieux, à l'épisode samothracien, dont nous verrons que les différentes traditions donnent des interprétations fort divergentes. Servius-Daniel oppose du reste ici {alii autem) Cassius Hemina et d'autres tenants, non nommés, de la même tradition, à d'autres interprétations de l'identité des Pénates qui ont été précédemment citées. D'après Servius-Daniel, Cassius Hemina semble considérer qu'il existait des dieux appelés Pénates antérieurement à un séjour qu'auraient fait ces derniers dans l'île de Samothrace, séjour qui leur aurait valu d'autres dénominations, s'ajoutant, comme des synony mes grecs, à celle, originelle, de «Pénates». C'est donc affirmer - et sur ce point, comme nous le verrons, Cassius Hemina se sépare d'une autre tradition suivie par Atticus et Varron6 - que, si l'on respecte l'ordre chronologique, les Pénates sont venus de Troie à Samothrace, puis de Samothrace en Italie, version à laquelle on aboutit en mettant en rela tion les citations du scholiaste de Vérone et de l'interpolateur de Servius; les Pénates, selon Cassius Hemina, auraient donc séjourné à Samothrace, apportés là de Troie par Enée, qui les aurait ensuite intro duits en Italie. Un texte de Macrobe, citant lui aussi l'annaliste, en sem ble une confirmation : Cassius uero Hemina dicit Samothracas deos eosdemque Romanorum pénates proprie dici1. Sans doute ici peut-on avoir des doutes sur la fidélité de la citation, car ce que l'on appelle les
5 Ad Aen. I, 378 : «mais d'autres, comme Cassius Hemina, disent que les dieux Pénat estiennent de Samothrace leur appellation de «grands dieux», «dieux puissants», «dieux bienfaisants ». 6 Cf. infra, p. 131. 7 Sat. Ill, 4, 9.
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«dieux de Samothrace», ou «Grands Dieux», ce sont les Cabires, confondus avec les Dioscures8. L'assimilation des Pénates avec les «dieux de Samothrace», se trou vait-elle véritablement chez l'annaliste, comme n'a pas l'air de le mettre en doute G. Wissowa9? Ne faut-il pas plutôt, sans suspecter la bonne foi de Macrobe, y voir le reflet, chez ce dernier, d'une partie de la tradi tion, notamment d'une tradition dont témoignent des monnaies de 103 av. J.-C, et qui apparaît peut-être aussi chez Atticus10, assimilant Pénat es et Dioscures, assimilation dont nous pensons qu'elle n'a été que très limitée, et due en partie à une commune dénomination de «Grands Dieux»? Il nous apparaît au contraire que le texte de Cassius Hemina, tel que nous le restitue Servius-Daniel, ne va pas si loin, mais qu'on y retrouve tous les éléments qui permettront la confusion DioscuresPénates. C'est d'abord le séjour d'Enée et des Pénates à Samothrace, qui n'implique pas une origine samothracienne de ces dieux. Selon G. Wissowa, la source de cet épisode des errances d'Enée - l'étape à Samothrace - est probablement à chercher chez les écrivains grecs du Ve siècle11, parmi lesquels il faut peut-être placer un certain Critolaos, que Festus cite comme autorité pour cette étape dans les voyages d'Enée : de Samothrace, Enée et Saon auraient apporté en Italie l'inst itution des Saliens, et Enée est d'autre part présenté comme celui qui a porté les Pénates jusqu'à Lavinium12, sans qu'il soit toutefois précisé si le culte de ces derniers était d'origine troyenne ou samothracienne. La même escale d'Enée à Samothrace est attestée à deux reprises par Servius13. Ensuite a dû aider à la confusion Dioscures-Pénates l'appella-
8 Sur les Cabires, voir Kern, in R.E., X, 2, s.u. Kabeiros und Kabeiroi, col. 14011450; F. Chapouthier, Les Dioscures au service d'une déesse, Paris, 1935, p. 153-184; B. Hemberg, Die Kabiren, Uppsala, 1950, passim. 9 Op. cit. p. 105. 10 Cf. infra, p. 131. 11 Ibid. et η. 9; G. Wissova s'appuie sur l'ouvrage de Wörner {Die Sage von den Wan derungen des Aeneas bei Dionysos von Halicarnassos und Virgilius, Leipzig, 1882, p. 8) selon qui la légende du débarquement d'Enée à Samothrace était bien connue en Grèce dès la fin du Ve siècle. 12 439 L. : At Critolaus Saonem ex Samothrace, cum Aenea deos Penates qui Lauinium transtulerit, saliare genus saltandi instituisse. 13 Ad Aen. VII, 207 : cum. . . Aeneas Italiani peteret, profectus ad Thraciam est et Samothracas deos sustulit et pertulit secum ; Vili, 679 : magnos deos, quos Aeneas de Samothracia sustulit.
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tion de θεοί μεγάλοι, dont Cassius Hemina nous dit qu'elle est l'une des dénominations que les Pénates ont tirées de leur séjour à Samothrace, dénomination qui, nous le verrons, a été l'une des raisons de leur ass imilation aux Grands Dieux. Pourtant, si l'on examine de plus près le texte de Cassius Hemina, tel qu'il est rapporté de façon presque analo gue par le scholiaste de Vérone et par Macrobe, peut-être à travers un intermédiaire commun, on s'aperçoit que cette désignation n'est qu'un des trois termes grecs désignant les Pénates à Samothrace. L'existence de ces trois désignations manifeste, en fait, l'impossibilité de rendre en grec la notion, spécifiquement latine croyons-nous, de Pénates, pour laquelle il n'y a pas d'équivalent dans le panthéon grec14. Si, dans l'es prit de Cassius Hemina, les Pénates avaient été l'exact équivalent des Grands Dieux - Cabires - Dioscures -, pourquoi n'aurait-il pas seul ement fait état d'une désignation comme θεοί μεγάλοι, au lieu que la triple dénomination qu'il cite (et qui n'est pas habituelle, dans ses deux derniers termes, pour les Cabires-Dioscures), apparaît comme une ma nière de cerner par différentes approches une notion intraduisible? En revanche, nous n'avons conservé aucune citation de Cassius Hemina concernant le transfert des Pénates de Samothrace à Rome, et le récit qu'il faisait du débarquement d'Enée au Latium, connu par Solin15, ne mentionne que le culte de Venus Frutis et le Palladium. S'il y a tout lieu de penser que les traditions rapportées par Cassius Hemina sur les Pénates ont de lointaines sources grecques, il n'est pas indifférent de constater que notre annaliste a probablement vécu en un temps où Rome a connu une forte hellénisation, en particulier autour des Scipions16; G. Wissowa17 suggère même que Cassius Hemina a pu connaître ces traditions, non pas directement, mais par l'intermédiaire d'un grec de l'entourage du jeune Scipion.
δ' έξερμηνεύοντες 14 C'est ainsi aussi εις την que 'Ελλάδα Denys γλώσσαν d'Halicarnasse τούνομα, écrit, οί àμέν propos Πατρώους de cesάποφαίνουσι, mêmes dieuxοί: δε oi δ' Γενεθλίους, είσί δ' οι Κτησίους, άλλοι δε' Μύχιους, οί Έρκείους (Ι, 67, 3) : « ceux qui rendent ce nom en langue grecque traduisent par soit « dieux de la famille », « dieux de la race», «dieux de la propriété», «dieux de l'intérieur de la maison», «dieux de l'enceinte de la maison ». 15 II, 14. 16 Voir P. Grimai, Le siècle des Scipions, 2e éd., Paris, 1975, p. 27-37. 17 Op. cit., p. 105.
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Varron 18 Après Cassius Hemina, dont l'œuvre ne nous est parvenue que sous forme de très brefs fragments, c'est Varron qui, dans ce que nous connaissons de la littérature latine, a mené la plus large réflexion sur les Pénates, mais l'ouvrage dans lequel il en parlait, les Antiquités Humaines, ne nous est connu que par les citations d'auteurs posté rieurs19, notamment les commentateurs de l'Enéide. On trouve chez Varron, attesté par plusieurs citations, l'épisode du départ d'Enée après la chute de Troie. Chez Servius-Daniel : Varrò rerum humanarum ait permissum a Graecis Aeneae, ut euaderet et quod carum putaret auferret; illum patrem liberasse, cum Uli quibus similis optio esset data aurum et argentum abstulissent. Sed Aeneae propter admirationem iterum a Graecis concessum ut quod uellet auferret; illum ut simile quod laudatum fuerat faceret, deos pénates abstulisse. Tune ei a Graecis concessum ut et quos uellet secum et sua omnia liberaret20. Cette évocation reprend les thèmes déjà présents chez Cassius Hemina : dé sintéres ement d'Enée et piété envers son père et envers ses dieux Pénates, tellement extraordinaires qu'ils lui assurent l'admiration de ses plus furieux ennemis, et qu'ils sont récompensés; désignation com me«Pénates» des dieux emportés de Troie; fuite d'Enée, de ses compag nons, et de ses dieux, loin de Troie. Le scholiaste de Vérone cite pro bablement le même passage de Varron, peut être connu de lui, comme de l'interpolateur de Servius, par une source commune, Cornelius Labeo, antiquaire du IIIe siècle, qui semble avoir été l'auteur d'une compil ation sur les doctrines théologiques, le De dis animalibus, où il parlait
18 Cicéron ne nous a pas laissé de théorie sur la nature des Pénates publics, mais il a le premier essayé de donner une explication étymologique du mot : nec longe absunt ab hac ui (= Vesta) di Penates, siue a penu dueto nomine (est enim omne quo uescuntur homines penus) siue ab eo quod penitus insident; ex quo etiam penetrates a poetis uocantur {De Nat. Deor. II, 68). Voir supra p. 13. 19 Cf. l'étude très complète de A. J. Kleywegt, Varrò über die Penaten und die Grossen Götter, in Medelelingen der Koninklijke Nederlandse Akademie, Amsterdam, 1972. 20 Ad Aen. II, 636 : «Varron, dans les Antiquités Humaines, dit qu'il fut accordé par les Grecs à Enée de s'en aller et d'emporter ce qu'il avait de cher; il emmena son père alors que les autres, à qui la même permission avait été donnée, avaient emporté de l'or et de l'argent. L'admiration qu'en éprouvèrent les Grecs leur fit accorder une seconde fois à Enée la permission d'emporter ce qu'il voulait; celui-ci, pour accomplir une action semblable à celle qu'on avait admirée, emporta ses dieux pénates. Alors les Grecs lui accordèrent d'emmener avec lui ceux qu'il voudrait, et tous ses biens».
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des Pénates21. En effet, le scholiaste écrit : Varrò secundo Historiarum refert Aenean capta Troia arcem cum plurimis occupasse magnaque hostium gratia obtinuisse abeundi potestatem. Itaque concessum ei quod uellet auferre cumque circa aurum opesque ceteri morarentur, Aenean patrem suum collo tuli se mirantibusque Achiuis hanc pietatem redeundi Ilium copiam datant ac Deos Penates ligneis sigillis uel lapideis, terrenis quoque, Aenean umeris extulisse, quant rem Graecos stupentes omnia sua auferendi potestatem dedisse eaque ratione saepius redeuntem omnia a Troia abstulisse et in nauibus posuisse22. On voit combien ce passage est proche du précédent, dont il diffère, pourtant, sur un point très import antpour nous, par les détails qu'il donne sur la représentation des Pénates, exprimée dans le groupe à l'ablatif (construction d'ailleurs très rude, que nous interprétons comme un ablatif de moyen dépendant directement du substantif deos Penates) ligneis sigillis uel lapideis, terre nisquoque. Le diminutif sigillis s'explique peut-être par le fait que ces effigies doivent être portatives, puisqu'Enée ne saurait s'encombrer d'immenses statues; mais surtout, ce témoignage est en contradiction avec celui de Timée, selon qui les Pénates «troyens» honorés à Lavinium semblent être des objets non anthropomorphiques. Sur l'origine des Pénates, nous connaissons également la doctrine de Varron par deux passages de l'interpolateur de Servius : Varrò deos Penates quaedam sigilla lignea uel marmorea ab Aenea in Italiani dicit aduecta. Idem Varrò Kos deos Dardanum ex Samothraca in Phrygiam, de Phrygia Aeneam in Italiani memorai portauisse23. Notons d'abord que les indications données ici par Servius-Daniel sur la représentation figurée des Pénates recoupent, à quelques détails près (marmorea au
21 Cf. Servius, Ad Aen. III, 168. 22 Ad Aen. II, 717 : «Dans le second livre de ses Histoires, Varron dit qu'après la prise de Troie, Enée occupa la citadelle avec beaucoup de ses compagnons, et obtint, par une grande faveur des ennemis, la permission de s'en aller. Aussi lui fut-il accordé d'emport er ce qu'il voulait et, tandis que tous les autres s'affairaient autour de l'or et des richess es, Enée prit son père sur son dos et, en raison de l'admiration que ce geste de piété suscita chez les Achéens, on lui donna la permission de retourner à Troie, et il sortit sur ses épaules les dieux Pénates, représentés sous forme de statuettes de bois, de pierre, et aussi de terre; ce geste étonna les Grecs, qui lui accordèrent le droit d'emporter tous ses biens, grâce à quoi, en y retournant plusieurs fois, il emporta tous ses biens de Troie et les déposa dans ses navires». 23 Ad Aen. I, 378 : «Varron dit que les Pénates, petites statues de bois ou de marbre, furent apportés en Italie par Enée. Le même auteur raconte que Dardanus apporte ces dieux de Samothrace en Phrygie, et Enée de Phrygie en Italie. »
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lieu de lapideis, et terrenis manque), celles du scholiaste de Vérone, ce qui implique une source commune, qui peut être le texte même de Varron, ou l'ouvrage de Cornelius Labeo. Sur l'origine des Pénates, on voit que la doctrine de Varron s'oppose absolument à celle de Cassius Hemina. Pour Varron, il existe bien un épisode samothracien dans l'histoire de nos dieux, mais il se situe non entre Troie et l'Italie, mais avant le séjour des Pénates à Troie; Dardanus et Enée jouent dans l'his toire des dieux des rôles symétriques, ordonnés de part et d'autre de l'épisode troyen. Dans un autre passage, Servius cite Varron à peu près dans les mêmes termes, à propos de la représentation des Pénates emportés par Enée d'une part, de l'histoire des dieux d'autre part24; enfin, ce dernier point est confirmé par un passage de Macrobe qui prête à Varron une doctrine identique : Varrò humanarum secundo Dardanum refert deos Penates ex Samothrace in Phrygiam, et Aeneam ex Phrygia in Italiani detulisse25. La ressemblance de ce texte avec celui de l'interpolateur de Servius fait là aussi suggérer par G. Wissowa26 une source commune, Cornelius Labeo. Soulignons encore que, si cette doc trine de Varron sur la place de Samothrace dans l'histoire des Pénates s'oppose à celle de Cassius Hemina, elle s'oppose aussi à celle d'Atticus que nous connaissons par le scholiaste de Vérone, qui, à la suite du passage précédemment cité27 où il résume l'opinion de Varron selon laquelle Enée avait emporté de Troie son père et ses Pénates ajoute : Atticus de pâtre consentit, de Dis Penatibus negai, sed ex Samothracia in Italiani deuectos, à la suite de quoi il mentionne la doctrine de Cassius Hemina sur la question. Telle qu'elle nous est transmise ici, la position d'Atticus n'est pas très claire. On peut l'interpréter de deux façons, qui, l'une et l'autre, amènent à effacer l'étape troyenne : soit Enée n'aurait quitté Troie qu'avec son père, aurait fait étape à Samothrace, où il aurait trouvé les dieux qu'il aurait introduits en Italie, probablement sous le nom de Pénates, d'après le texte du scholiaste; soit les dieux ont été apportés de Samothrace en Italie par un autre qu'Enée, dont le nom ne nous est pas donné. Cette dernière interprétation, pourtant, paraît peu probable, puisqu'à l'époque où a vécu Atticus, la légende du 24 Ad Aen. III, 148 : Varrò sane rerum humanarum secundo ait Aeneam deos pénates in Italiani reduxisse, quaedam lignea uel lapidea sigilla. . . Sane hos deos Dardanum ex Samothracia in Phrygiam, Aeneam uero in Italiani transtulisse idem Varrò testatur. 25 Sat. Ill, 4, 7. 26 hoc. cit. 27 Ad Aen. II, 717.
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transfert des Pénates par Enée jusqu'en Italie était bien établie. Il sem ble donc plutôt que la doctrine d'Atticus s'oppose à la fois à celle de Cassius Hemina et à celle de Varron en ce que, si elle donne, comme Varron, une origine samothracienne aux Pénates, elle leur ôte tout caractère troyen autre que celui d'avoir été transférés en Italie par le troyen Enée. L'opinion de Varron sur les origines samothraciennes des Pénates va amener, plus naturellement encore que chez Cassius Hemina, une confusion entre les Pénates et les Grands Dieux de Samothrace, ce qu'exprime sans ambiguïté un commentaire de Servius : Varrò quidem unum esse dicit pénates et magnos deos; nam in basì scribebatur MAGNIS DIS28. Le socle en question (in basi) est très vraisemblablement29 celui des statues des dieux dans leur temple de la Vèlia, à Rome. Daniel poursuit, en mentionnant un complément à cette doctine qu'il attribue aussi à Varron, et à d'autres qu'il ne nomme pas : Varrò et alii complures Magnos Deos adfirmant simulacra duo uirilia, Castoris et Pollucis, in Samothracia ante portant sita, quibus naufragio liberati uota soluebant30. On aboutit donc ici à une double identification, attribuée par les commentateurs de Virgile à Varron : d'une part, les Pénates sont identiques aux Grands Dieux, d'autres part les Grands Dieux honorés à Samothrace sont Castor et Pollux, présentés comme des dieux bienfai sants,en particulier pour les marins. Evidemment, cette doctrine, pour différente qu'elle soit de celle de Cassius Hemina, la rappelle sur cer tains points : les Pénates et les dieux de Samothrace ont en commun la dénomination de «Grands Dieux»; d'autre part, si Cassius Hemina, d'après les fragments de son œuvre que nous connaissons, n'assimilait pas les Pénates aux Dioscures, il proposait comme l'une des appella tions grecques des Pénates le terme de θεοί χρηστοί «dieux bienfai sants», ce qui n'est pas sans rappeler le rôle de Castor et Pollux à Samothrace comme protecteurs des naufragés. Or, comme l'a bien montré C. Peyre31, l'établissement de la doctri ne varronienne sur l'identité des Grands Dieux de Samothrace fait diffi-
28 Ad Aen. III, 12. 29 Cf. C. Peyre, Castor et Pollux et les Pénates pendant la période républicaine, MEFR, 74, 1962, p. 452. 30 Ibid. : « Varron et beaucoup d'autres affirment que les Grands Dieux sont deux statues de jeunes gens, celles de Castor et Pollux, placées devant la porte de Samothrace, auxquelles les rescapés des naufrages offraient des vœux. » 31 Op. cit., p. 453-454.
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culte, puisqu'aux opinions attribuées à l'érudit par Servius et Daniel, on peut opposer un passage du De Lingua Latina où Varron donne des Grands Dieux une définition très différente de celle que lui prêtent les deux commentateurs: Terra enim et Caelum, ut (Sa)mothracum initia docent, sunt Dei Magni, et hi quos dixi multis nominibus, non quas (S)amo(th)racia ante portas statuii duas uirilis species aeneas Dei Mag ni, neque ut uolgus putat, hi Samothraces dii, qui Castor et Pollux, sed hi mas et femina et hi quos Augurum libri scriptos habent sic «diui potes», pro ilio quod Samothraces θεοί δυνατοί32. Nous reprendrons ici brièvement la pertinente analyse que C. Peyre a faite de ce texte. Var ron distingue deux conceptions des Grands Dieux : l'une est savante, appuyée de l'autorité des mystères de Samothrace et des Livres des Augures, et définit les Grands Dieux comme de sexe différent, et confondus avec la Terre et le Ciel; il existe d'autre part une tradition populaire, qui voit dans les Grands Dieux les Dioscures - deux jeunes gens donc -, et identifie peut-être ces derniers (mais ici l'interprétation du texte de Varron est délicate), avec les deux statues d'hommes en bronze qui se trouvent aux portes de Samothrace. Si les Grands Dieux sont de sexe opposé, ils ne peuvent pas être identifiés aux Dioscures, ni, comme le souligne C. Peyre, et bien que Varron ne le dise pas expressé ment, aux Pénates, pour la même raison. Varron se contredisait-il, du De Lingua Latina aux Antiquités Humaines? Servius et Daniel ont-ils été égarés par la complexité du problème? Comme le note C. Peyre «nous croirons d'abord à ce qu'il (= Varron) dit lui-même», et donc, en définit ive,nous pouvons penser que Varron n'assimilait pas les Grands Dieux aux Dioscures, ni aux Pénates. Un autre détail du passage du De Lingua Latina pourrait faire préférer cette interprétation de la pensée de Var ron. Les Grands Dieux, déclare-t-il, sont appelés θεοί δυνατοί à Samot hrace, diui potes en latin. Or, dans les dénominations grecques des Pénates attribuées à Cassius Hemina par le scholiaste de Vérone ne
32 De L. L. V, 58 : «Or le Ciel et la Terre, comme l'enseignent les mystères de Samot hrace, sont les Grands Dieux; je viens de les mentionner sous de nombreuses appella tions;mais ils ne s'identifient pas pour autant avec les Grands Dieux dont Samothrace a placé les deux effigies masculines en bronze devant ses portes. Ils ne sauraient en effet se confondre, malgré l'opinion populaire, avec les dieux de Samothrace en question, qui, eux, s'identifient avec Castor et Pollux; or ceux dont je parle sont deux divinités, homme et femme, ce sont celles que les Livres des Augures ont enregistrées sous la dénomination diui qui potes pour rendre l'expression de Samothrace θεοί δυνατοί (= les Dieux Puis sants)» (Trad. J. Collart, Paris, 1954).
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figure pas cette dernière, ce qui fait penser qu'elle ne s'appliquait effectivement pas aux Pénates, distincts, donc, des Grands Dieux de Samothrace, mais probablement, comme le note Varron, partiellement confondus avec eux, au moins dans la tradition populaire; la commune dénomination de «Grands Dieux» - puisque, selon lui, cette appellation figurait sur l'inscription de la statue des Pénates - a dû jouer pour beaucoup dans cette assimilation. Par ailleurs, ainsi que nous l'avons noté plus haut, Macrobe prête au contraire à Cassius Hemina l'idée selon laquelle les Pénates étaient désignés, entre autres, comme θεοί δυνατοί, ce qui ajoute encore à la confusion de notre dossier. Aussi l'e xpression virgilienne Penatibus et Magnis Dis33 nous semble-t-elle, com medu reste l'ensemble des conceptions du poète concernant les origi nestroyennes de Rome, fortement influencée par la doctrine de Var ron, et nous aurons à nous demander si elle désigne deux personnalités divines différentes, ou une seule, exprimée par un hendiadyn34. Concernant la définition varronienne des Pénates, Macrobe rappell e que, dans le livre II des Antiquités Humaines, Varron disait que les Pénates avaient été apportés par Dardanus de Samothrace à Troie, par Enée de Troie en Italie : qui sint autem di Penates in libro quidem memorato Varrò non exprimit35. L'ouvrage en question ne parlait donc sans doute que de l'histoire des Pénates, sans se soucier de définir l'e ssence de ces dieux. En revanche, nous connaissons par une citation d'Arnobe une définition varronienne des Pénates, probablement parve nueà l'écrivain chrétien par l'intermédiaire du même érudit du IIIe siè cle, Cornelius Labeo36 : Varrò qui sunt introrsus atque in imis penetralibus caeli deos esse censet, quos loquimur nec eorum numerum nec nomi na stiri. Hos Consentes et Complices Etrusci aiunt et nominant, quod una oriantur et occidant una, sex mares et totidem feminas, nominibus ignotis et miserationis parcissimae ; sed eos summi louis consiliarios ac participes existimari37. La première partie de cette définition semble
33 En. III, 12; VIII, 679. 34 Pour un commentaire de cette expression, cf. R. B. Lloyd, Penatibus et Magnis Dis; C. Peyre, loc. cit. ; R. Schilling, Penatibus et Magnis Dis, Miscellanea di Studi Classici in onore di Eugenio Manni, Rome, 1980, t. VI, p. 1963-1978; voir infra, p. 433 sq. 35 Sat. Ill, 4, 7. 36 Cf. G. Kettner, Cornelius Labeo : ein Betrag zur Quellen Kritik des Arnobius, Berlin, 1877, p. 11 ; G. Wissowa, R.E., IV, s.u. Cornelius, n° 168, col. 1351-52. 37 III, 40 : « Varron pense que les dieux dont nous parlons sont ceux du dedans, rés ident au plus profond du ciel, et qu'on ignore leur nombre et leur nom. Les Etrusques les
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dictée par des préoccupations étymologiques, encore que cela ne soit pas explicitement dit; mais introrsus est sans doute amené par un rap prochement avec penus et penitus, tandis que la mise en relation de pénates avec penetralia est plus claire; ce texte rappelle évidemment celui du De Natura Deorum (II, 68). En revanche, l'image in imis penetralibus caeli introduit l'aspect théologique de cette définition, puisqu'il s'agit cette fois, non plus du penetrale de la maison, comme chez Cicéron, mais de celui du ciel. L'ignorance où est Varron, selon Arnobe, du nom et du nombre des Pénates, s'explique par l'indétermination qui caractérise ces divinités, toujours présentées en groupe; ce mystère trouvera d'ailleurs son correspondant, nous allons le voir, dans le secret entourant les noms des Grands Dieux apportés à Samothrace par Dardanus, secret à propos duquel Denys d'Halicarnasse se réfère à plu sieurs sources grecques. Cette indétermination, affirmée par Varron, correspond au fait que les Pénates ne connaissent aucune individualisat ion, ce qui exclut et de les nommer autrement que par leur nom géné rique, et de les compter. Faut-il attribuer à Varron la suite de la phrase, c'est-à-dire le résumé de la doctrine étrusque sur les Pénates, bien que l'on trouve les indicatifs aiunt et nominant? C'est probable, et nous ver rons que, sur ce point, la doctrine de Nigidius Figulus est très proche de celle de Varron. Il n'est pas de notre propos d'étudier ici l'équivalen ce établie entre Pénates et Dei Consentes et Complices, traduction de mots étrusques qui nous demeurent inconnus38. Cette traduction est mentionnée pour la première fois chez Varron, et le terme de Consentes posé comme l'équivalent des Pénates fait problème pour nous : en effet, ces dieux avaient un temple et un portique - ce dernier a subsisté jus qu'à nos jours - au pied du Capitole depuis la fin de la République, avec douze statues de bronze doré; or, la tradition littéraire mentionne déjà l'existence de deux temples où seraient conservés les Pénates : le temple qui leur appartenait en propre sur la Vèlia {Aedes deum Penatium) et Y Aedes Vestae du Forum. Dans ce que nous saisissons ici de la doctrine étrusque à travers Varron et Arnobe, ces dieux formaient,
disent et les appellent Consentes et Complices, parce qu'ils apparaissent et disparaissent ensemble; ils sont six hommes et autant de femmes, leur nom est inconnu et ils sont très peu accessibles à la pitié ; mais on considère qu'ils sont les conseillers et les confidents de Jupiter suprême». 38 L'étude la plus récente et la plus détaillée du problème se trouve chez J. Heurgon (Varron, Economie rurale I, C.U.F., Paris, 1978, commentaire p. 93-95 n. 8 et 9); voir infra p. 233.
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comme les Pénates romains, un groupe sans individualité distinguée par un nom particulier, mais ils étaient tout de même individualisés par leur nombre, douze, également réparti entre les deux sexes; ces derniers détails contredisent deux autres données, déjà mentionnées, des traditions antiques sur les Pénates : d'une part, ou bien on ne préci se pas leur nombre, ou, lorsqu'il est précisé, ils sont deux, comme c'était le cas notamment pour leurs statues du temple de la Vèlia; d'au trepart, les Pénates sont présentés comme des divinités de sexe mascul in, ainsi qu'en témoigne notamment leur image sur les monnaies39. Ce que nous voyons donc se superposer dans la doctrine varronienne sur les Pénates, c'est d'abord une conception «historique» de ces dieux, liés à Dardanus et à Enée, leur assignant une origine samothracienne et troyenne; ensuite, une conception plus théologique, les définissant comme des «dieux des profondeurs du ciel», ou les assimilant à des divinités étrusques. Il est évident que les deux coïncident assez mal, et qu'au total, la doctrine de Varron paraît assez difficile à définir très précisément et de façon cohérente, en l'état où nous est parvenue l'œu vre. Au demeurant, la théorie étrusque des Pénates adoptée par Varron semble une raison supplémentaire d'exclure une assimilation complète chez l'érudit entre Pénates et Grands Dieux de Samothrace, qu'il défi nit, dans un passage connu par Augustin40, comme Jupiter, Junon, et Minerve41.
Denys d'Halicarnasse Nous avons déjà cité le passage dans lequel Denys d'Halicarnasse rend compte des diverses traductions grecques du terme latin Penates42 donc aucune n'est semblable à celles que proposent Cassius Hemina et Varron; comme le souligne Denys lui-même, elles correspondent aux diverses attributions de nos dieux. Nous avons vu aussi que c'est par lui que nous connaissons la description faite par Timée des Pénates de Lavinium, mais il ne reprend pas cette dernière à son compte, soul ignant l'impiété qu'il y a à s'enquérir de choses qui doivent rester secrè39 40 41 42
Voir infra p. 432-3 De du. Dei VII, 28. Contra : G. Wissowa, Die Ueberlieferung. . ., p. 117. I, 67, 3.
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tes, comme les Pénates - ίερά du temple de Lavinium. En revanche, il nous a donné l'unique description que nous connaissions du temple de ces dieux à Rome sur la Vèlia, ainsi que la description des statues cultuelles : νεώς έν 'Ρώμη δείκνυται της αγοράς ού πρόσω κατά την επί Καρίνας φέρουσαν έπίτομον όδον υπεροχή σκοτεινός ιδρυμένος ού μέ γας · λέγεται δε κατά την έπιχώριον γλώτταν Ούελία το χωρίον, εν δε τούτω κείνται των τρωικών θεών εικόνες, ας άπατιν όραν θέμις, επ ιγραφή ν εχουσαι δηλουσαν τους Πενάτας · είσί δε νεανίαι δύο καθήμενοι δόρατα διειληφότες, της παλαιάς έργα τέχνης43. Beaucoup des indica tionsfournies ici recoupent ce que nous savons déjà par Varron; elles ont fait penser à G. Wissowa44 que ce dernier était la source essentielle de Denys, qui, au demeurant, a personnellement visité le temple de la Vèlia. Tout d'abord, comme chez Varron, est affirmée l'origine troyenne des Pénates honorés à Rome, mais cela semble, dans le texte de Denys, peu compatible avec l'affirmation trouvée chez Timée, selon laquelle les Pénates de Lavinium sont eux aussi troyens; la précision της παλαιάς έργα τέχνης souligne d'ailleurs le caractère «archaïque» (troyen?) des statues. Denys, comme Varron, évoque l'inscription qui figurait sur le socle de la statue, mais il est probable qu'aucun de nos deux auteurs ne la cite totalement, puisque Varron affirme qu'elle port ait Magnis Dis, tandis que le texte de Denys suggère qu'y était présent le mot Penates : ce flottement même reflète sans doute la confusion, déjà relevée, entre Pénates et Grands Dieux de Samothrace, par l'inte rmédiaire d'une commune dénomination; on trouve aussi la trace, chez Denys, d'une confusion entre Pénates et Dioscures, puisque la descrip tion qu'il fait des statues des dieux, armés de lances, suggère un type iconographique proche de celui des Dioscures. Dans la suite de son récit, Denys nous fournit d'autres indications sur les origines, plus lointaines, des «Pénates», pour lesquelles il s'ins pire de deux poètes, Satyros, inconnu par ailleurs, et Arctinos, poète cyclique situé au VIIIe siècle environ, ainsi que de «nombreux autres auteurs» (άλλοι συχνοί), et un certain Callistratos, dont l'identité et la
43 I, 68, 1-2 : «A Rome, on montre un temple non loin du Forum en bordure du rac courci qui mène aux Carinae ; il est rendu obscur par la hauteur de ce qui l'entoure (ou : par sa hauteur) et n'est pas grand; l'endroit est appelé Vèlia dans la langue locale. Dans ce temple se trouvent des images des dieux de Troie qu'il est permis à tous de voir, por tant une inscription qui les désigne comme les Pénates : ce sont deux jeunes gens assis tenant des lances, ouvrages d'une facture ancienne». 44 Ibid.
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date sont inconnues45. Nous résumons ici les données essentielles de ce texte46. Chrysè apporte en dot, lors de son mariage avec Dardanus, des objets offerts par Athéna, les «Palladia» et les symboles sacrés des Grands Dieux (τα ίερα των μεγάλων θεών), aux mystères desquels elle avait été initiée. Les Arcadiens fuirent ensuite le Péloponnèse pour s'installer à Samothrace, où Dardanus construisit un temple à ces dieux, qui restèrent sans nom, ce dernier étant un secret réservé à quel ques initiés; il organisa pour eux le culte à mystères célébré «au jourd'hui encore», dit Denys, dans l'île. Lorsqu'il quitta Samothrace pour l'Asie Mineure, il laissa dans l'île les cérémonies sacrées et les rites des dieux (τα μεν ίερα των θεών και τάς τελετάς) et emporta avec lui leurs images et les «Palladia» (τα δε Παλλάδια και τας τών θεών εικόνας). Il apprit alors par un oracle que les dons d'Athéna rendraient invisible la cité qui les détiendrait. Il les installa donc dans celle qu'il fonda et qui tira son nom du sien propre, Dardania; lorsque, plus tard, ses descendants fondèrent Troie, ils y transportèrent les objets sacrés qu'ils déposèrent dans un temple construit pour eux sur la citadelle. Lors de la chute de Troie, Enée prit les statues des Grands Dieux (τά τε ιερά τών μεγάλων θεών) et un des Palladia, et les emporta en Italie. Ains i,conclut Denys, les objets sacrés apportés par Enée en Italie, sont les images des Grands Dieux, particulièrement honorés par les Samothraciens. A la lecture de ce texte, où Denys résume les doctrines des diffé rents historiens ou prêtres grecs qui ont écrit sur le sujet, on est frappé d'abord par un fait : Denys nous présente cette histoire comme celle des Pénates; or, les dieux sont constamment nommés «Grands Dieux» et non «Pénates», puisque ces textes sont dûs à des auteurs antérieurs à l'époque romaine, pour qui les Pénates n'ont pas d'existence. D'autre part, nous sommes ici en présence de conceptions très proches de cel les de Varron, plus détaillées toutefois, ce qui s'explique aisément par le fait que nous ne connaissons le texte de Varron qu'à travers des résu més. Pour Denys, comme pour Varron, l'épisode samothracien se pla ce, dans l'histoire des Pénates, avant le séjour de ces dieux à Troie; comme chez Varron encore, c'est Dardanus qui porte les dieux de Samothrace en Asie Mineure, et Enée de Troie en Italie. Denys nous
45 Cf. E. Cary, The Roman Antiquities of Dionystus of Halicarnassus (texte et traduct ion),Londres, 1968, p. 224 n. 1 ; voir infra p. 490 sq. 46 I, 68, 2-4 ; 69; cf. R. Schilling, op. cit., p. 1968.
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donne des indications plus précises que celles des commentateurs de Virgile à propos de l'origine et de l'histoire des Grands Dieux : cadeaux d'une déesse, ils ont été donnés à Chrysè eh Grèce; après le séjour à Samothrace, ils ont été conservés successivement dans deux villes de Troade, Dardania, fondée par Dardanus, puis Troie, fondée par ses héritiers. Comme Varron enfin, Denys identifie les dieux apportés par Enée en Italie comme les Grands Dieux, qu'il confond donc en partie, semble-t-il, avec les Pénates. Il y a sur ce point, chez lui aussi, un cer tain flottement, car on assiste à une sorte de dédoublement des Grands Dieux, opéré par Dardanus à Samothrace lors de son départ pour l'Asie Mineure : il laisse sur place les ιερά et les τελετάς, tandis qu'il emporte leurs images (τας εικόνας) en Italie. Il semble que Denys ait voulu ren dre compte par là de la confusion existant entre Pénates et Grands Dieux de Samothrace, et de leur partielle identification. Ce dédouble ment entre d'une part cérémonies sacrées et mystères, d'autre part images cultuelles, assez surprenant, doit permettre à notre historien d'expliquer la parenté que l'on reconnaît entre Grands Dieux de Samot hrace et Pénates troyens à Rome, tout en continuant à affirmer qu'il existe deux cultes distincts. Dans le livre II des Antiquités Romaines, Denys, à propos des sacra conservés dans le temple de Vesta sur le Forum, se fait l'écho de deux traditions les concernant, dont l'une affi rmequ'ils sont έκ των έν Σαμοθράκη . . . ίερών μοϊραν, une partie des objets sacrés de Samothrace que Dardanus emporta de Samothrace en Troade et Enée de Troie en Italie47, conception qui, compte tenu du fait que ce temple était supposé contenir les Pénates du peuple ro main48, cadre assez bien avec celle que nous venons d'étudier : une partie (μοϊραν) des ίερών de Samothrace a été emportée d'abord par Dardanus en Troade, puis par Enée au Latium, où ils sont conservés, tandis que l'autre, restée dans l'île, continue à y être l'objet d'un culte à mystères. Soulignons, pour finir, que Denys ne met pas en doute l'iden tification des Pénates publics de Rome comme les Grands Dieux, sta tues d'origine divine, mais aussi samothracienne et troyenne, car, résu mant les thèses des différents auteurs grecs à propos des μεγάλοι θεοί, il les rapporte expressément aux Pénates romains, ceux de la Vèlia dans le premier passage étudié, du temple de Vesta dans le second. Enfin, Denys affirme que les noms (c'est-à-dire en fait l'identité) des
47 II, 66, 5; cf. infra p. 491-2. 48 Cf. Tacite, Ann. XV, 41.
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dieux installés par Dardanus à Samothrace restèrent cachés, ce qui s'explique sans doute, dans la tradition grecque dont il s'inspire, par le fait qu'il s'agit d'un culte à mystères réservé aux initiés, mais qui cor respond aussi à la difficulté de définir les Pénates autrement que par ce nom collectif, ne distinguant aucune individualité.
NlGIDIUS FlGULUS Nous ne connaissons que par des fragments de citations l'œuvre de Nigidius Figulus, l'un des principaux représentants du pythagorisme à Rome, qui, comme Varron, fut l'un des grands érudits de son temps49. Sa doctrine sur les Pénates nous est connue par Macrobe : Nigidius enim de dis libro nono decimo requirit num di Penates sint Troianorum Apollo et Neptunus, qui muros eis fecisse, et num eos in Italiani Aeneas aduexerit; Cornelius quoque Labeo de dis Penatibus eadem existimat50. L'opinion citée par Macrobe est confirmée par une affirmation analo gued'Arnobe : Nigidius Penates deos Neptunum Apollinemque prodidit, qui quondam mûris immortalibus Ilium. . . cinxerunt51. Nous voyons donc ici affirmée, comme chez les auteurs précédents, l'origine troyenne des Pénates, par l'intermédiaire d'Enée. Non seulement l'épisode samothracien de leur histoire n'est pas mentionné, mais les Pénates en question semblent être spécifiquement honorés sous ce nom à Troie, et attachés à cette ville, dans la mesure où ils sont présentés comme les constructeurs de ses murailles; d'autre part, ces divinités, au nombre de deux, et masculines (ce qui est conforme à une partie au moins de la tradition sur les Pénates), sont identifiées comme Neptune et Apollon. C'est là un témoignage tout à fait original, et il convient d'essayer de comprendre le choix de ces deux dieux. Selon une tradition attestée par 49 Cf. J. Carcopino, La Basilique pythagoricienne de la Porte Majeure, 2e éd., Paris, 1944, p. 196-200. 50 Sat. Ill, 4, 6 : « Nigidius en effet, au livre XIX de son ouvrage sur les dieux, demande si les dieux Pénates ne sont pas l'Apollon et le Neptune des Troyens, par qui furent bâties, dit-on, les murailles de cette ville, et s'ils n'ont pas été amenés en Italie par Enée. Cornelius Labéo exprime la même hypothèse sur les dieux Pénates» (Trad. H. Bornecque, Paris, 1937); cf. R. Schilling, op. cit., p. 1975. 51 III, 40 : « Nigidius raconte que les Pénates sont Neptune et Apollon, qui entourè rent Troie de murailles immortelles». Cf. aussi Servius-Daniel, Ad Aen. I, 378 : nam alii ut Nigidius et Labeo, deos Penates Aeneae Neptunum et Apollinem tradunt.
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Lycophron52, ce sont Apollon et Neptune qui construisirent les rem parts de Troie, avec des pierres qui sont donc d'origine divine, et qui furent par la suite, après la chute de la ville, emportées par Diomède : ce dernier les utilisa pour la fondation d'une nouvelle cité53. Les indi cations données là par Lycophron ont peut-être comme source, ainsi qu'en beaucoup d'autres endroits, Timée54; il faudrait donc supposer que c'est à l'historien sicilien que s'est référé Nigidius Figulus, au moins pour cette tradition relative à la construction des murailles troyennes. L'origine de la tradition d'une assimilation des Pénates avec Neptune et Apollon ne nous est pas connue, Nigidius Figulus en consti tuant la première attestation. Macrobe mentionne seulement qu'elle figure aussi chez Cornelius Labeo et ajoute : hanc opinionem sequitur Maro55, faisant allusion au passage de l'Enéide où, tandis que les Troyens sont parvenus en Crète où les a conduits une mauvaise inter prétation d'un oracle de Délos, Anchise fait un sacrifice de remercie ment aux dieux, pour lequel Apollon et Neptune sont cités les pre miers : Sic fatus meritos ans mactauit honores taurum Neptuno, taurum tibi, pulcher Apollo50. Le commentaire que donne Servius de ces vers leur confère pour tant une signifigation très différente : Taurum Neptuno propter futuram nauigationem. Taurum tibi, pulcher Apollo propter oraculum datum. Sane hoc loco Vergilius secutus ueterum opinionem Neptunum tantum et Apollinem nominauit; dicuntur enim hi dii pénates fuisse, quos secum aduexit Aeneas, quamuis diuersis locts alias opiniones aliorum secutus poeta de dis penatibus diuersa dixerit57. L'explication de Servius, on le
52 Alex. 617 sq. 53 Cf. Bethe, R.E., V, I, s.u. Diomedes, col. 824 sq.; pour le développement de la légende des aventures de Diomède après la Guerre de Troie, voir J. Bérard, La colonisa tion grecque de l'Italie méridionale et de la Sicile dans l'Antiquité, Paris, 1957, p. 304-383. 54 Cf. A. Momigliano, loc. cit. 55 Sat. Ill, 4, 6. 56 III, 118-119: «Ayant ainsi parlé, il immola sur les autels les offrandes que l'on doit aux dieux, un taureau à Neptune, un taureau à toi, bel Apollon» (Trad. J. Perret, C.U.F., Paris, 1977). 57 Ad Aen. III, 119: «Un taureau à Neptune: à cause des navigations futures. Un taureau à toi, bel Apollon, en remerciement de l'oracle. A coup sûr, Virgile, ayant suivi ici l'opinion des. Anciens, a seulement nommé Neptune et Apollon car ils étaient, dit-on, les
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voit, diffère sensiblement de la doctrine de Nigidius Figulus, telle que nous la livrent Macrobe et Arnobe. Le choix de Neptune et d'Apollon comme deux des divinités dédicataires du sacrifice d'Anchise est justi fiépar certaines fonctions de ces dieux - dieux de la mer et de la navi gation pour l'un, dieu oraculaire pour l'autre -, non par le fait qu'ils ont construit les murs de Troie. Ils sont cependant qualifiés de «Pénat es»,ceux-mêmes qui ont été transférés en Italie par Enée. La phrase sane. . . nominami est d'une interprétation plus délicate : les ueteres, dont Virgile refléterait la doctrine, ne sont pas nommés, et ne sont défi nis que par une probable antériorité à Virgile lui-même. Il faut sans doute rapprocher ce texte d'un autre passage de l'interpolateur de Servius, à propos des Pénates : quos tarnen Penates alii Apollinem et Neptunum uolunt5S; mais les savants désignés par alii ne sont pas davantage nommés; peut-être faut-il comprendre que Daniel songe alors à Nigi dius Figulus? D'autre part, l'emploi de l'adverbe tantum fait ici problè me par rapport à la conception des Pénates prêtée à Nigidius Figulus, car il implique qu'il existe d'autres dieux considérés comme les Pénates troyens, que Virgile n'a pas nommés, et dont l'identité nous demeure inconnue. La remarque finale de Daniel, à propos d'une certaine inco hérence dans les conceptions virgiliennes des Pénates, due au fait que le poète suit différentes autorités dont les conceptions sur ce point divergent, nous intéresse précisément dans la mesure où elle témoigne de la diversité, voire de la confusion, des doctrines sur les Pénates à la fin du Ier siècle av. J.-C. Là ne se limite pas ce qu'Arnobe nous apprend de la conception des Pénates que se faisait Nigidius Figulus; il ajoute: idem rursus in libro sexto exprimit et decimo disciplinas Etruscas sequens genera esse Penatium quattuor et esse louis ex his alios, alios Neptuni, Inferorum tertios, mortalium hominum quartos, inexplicabile quid dicens59. Nous nous trouvons ici en présence d'une définition «étrusque» des Pénates bien différente de celle que le même Arnobe attribue à Varron. Les deux doctrines, toutefois, ont ceci de commun qu'elles semblent inspi-
dieux Pénates, qu'Enée apporta avec lui, bien qu'en d'autres passages, le poète ait eu des positions différentes, ayant suivi les diverses opinions de divers auteurs». s« Ad Aen. II, 325. 59 III, 40 : « Le même auteur déclare dans le livre XVI, en suivant les « disciplines étrusques», qu'il y a quatre sortes de Pénates, dont les uns sont ceux de Jupiter, les autres ceux de Neptune, les troisièmes ceux des enfers, les quatrièmes ceux des hommes mort els, disant là quelque chose d'inexplicable».
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rées par une conception cosmogonique de la divinité, et par la division de l'univers en un certain nombre de régions : elles étaient sans doute au nombre de douze dans la conception varronienne, mais Varron ne précisait pas quelles étaient les attributions de chacune des divinités. Chez Nigidius Figulus, qui paraît avoir joué un rôle déterminant dans la transmission de la disciplina Etrusca à Rome60, les quatre catégories de Pénates semblent s'expliquer de la façon suivante : les trois premièr es correspondent aux trois domaines de l'univers61, le Ciel {louis), la mer (Neptuni), la Terre {Inferorum), auxquels vient curieusement s'ajouter celle des hommes; division étrange, notamment en sa quatriè me partie, ce que souligne probablement la remarque finale d'Arnobe : inexplicabile quid dicens; en effet, la catégorie des «hommes mortels» s'intègre particulièrement mal dans une division du Ciel ou de l'uni vers. Une seule de ces catégories rappelle ce que Varron, cité par Arnobe, disait des «Pénates étrusques», celle des Penates louis, puisque, selon Varron, les Etrusques considéraient les Pénates comme consiliarios ac participes louis62. Cette doctrine des «Pénates étrusques» attribuée à Nigidius est très difficile à situer par rapport aux autres définitions des mêmes dieux connues par Varron, ou encore par un certain Caesius, cité par Arnobe, et par ailleurs totalement inconnu63 : Caesius et ipse eas (= disciplinas Etruscas) sequens Fortunam arbitratur et Cererem, Geniumque Iouialem ac Paient, sed non Ulam feminam, quant uulgaritas accipit, sed masculini nescio quern generis ministrum louis ac uilicum64. Cette définition, on le voit, ne recoupe celles de Varron et de Nigidius que sur un point, la présence de Jupiter, ou du moins de son Genius, parmi les Pénates; par
60 Cf. G. Dumézil, La religion des Etrusques, appendice à La religion romaine archaï que,2e éd., Paris, 1974, p. 622. 61 Cf. G. Wissowa, ibid., p. 124; R. H. Klausen, Aeneas und die Penaten, HambourgGotha, 1839-40, p. 659. A. Grenier, Les religions étrusque et romaine, Paris, 1948, p. 54. 62 Pourtant, A. Pfiffig (Religio Etrusca, Graz, 1973, p. 31) se demande s'il faut com prendre que Jupiter fait partie des Pénates ou non; selon lui, la question reste douteuse. 63 W. Kroll (R.E., suppl. VI, col. 19, s.u. Caesius), se fondant sur cette citation d'Ar nobe, suppose qu'il était contemporain de Nigidius et de Varron. 64 III, 40 : « Caesius, suivant lui aussi la discipline étrusque, pense que les Pénates sont Fortuna, Cérès, le Genius de Jupiter, et Paies, ce dernier étant non pas la divinité féminine connue du vulgaire, mais je ne sais quel serviteur et intendant de Jupiter, de sexe masculin » ; sur Paies comme divinité masculine, voir G. Dumézil, La religion romaine archaïque, p. 385-86; J. Heurgon, Au dossier des deux Paies. Varron, R. R., II, 1, 9, Latomus, 10, 1951, p. 277-278.
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ailleurs, de même que celle de Nigidius établissait quatre catégories de Pénates, elle pose l'existence de quatre divinités appelées Pénates. Pourt ant, une indication de l'interpolateur de Servius vient ajouter à cette question une confusion supplémentaire : Tusci Penates Cererem et Palem et Fortunam dicunt65; cette triade n'a plus aucun point commun avec les définitions des Pénates étrusques proposées par Varron et Nigidius Figulus, mais elle coïncide partiellement avec la définition proposée par Caesius, et surtout le choix des divinités ici nommées doit peut-être se comprendre par la relation qu'elles entretiennent avec la récolte, le blé, et la prospérité agricole et alimentaire en liaison avec le penus, auquel les Pénates sont étymologiquement rattachés. Ces diffé rentes traditions sur les «Pénates étrusques», pour contradictoires qu'elles nous paraissent parfois, attestent en tout cas la continuité et la vitalité de la réflexion théologique étrusque. Que des écrivains latins comme Caesius, Nigidius Figulus, ou Varron, et plus tard, Macrobe ou Martianus Capella aient cherché à rapprocher les Pénates romains de divinités étrusques montre de quel prestige a joui, pendant des siècles, la spéculation théologique des Etrusques. La diversité des tentatives pour définir les «Pénates étrusques» nous semble pouvoir s'expliquer par l'impossibilité de faire correspondre la notion, spécifiquement lati ne, de Pénates, à des divinités du panthéon étrusque. Curieusement, les deux définitions des Pénates attribuées à Nigi dius, celle qui les identifie à Neptune et Apollon, et celle des «Pénates étrusques» n'ont guère de point commun que le nom de Neptune66; mais, comme nous l'avons vu, le dieu semble considéré sous des aspects différents dans l'un et l'autre cas. L'interpolateur de Servius, après nous avoir fait connaître la définition des Pénates comme Neptune et Apollon données par Nigidius et Labeo67, revient sur ce point à propos d'un autre passage; il propose une définition des Pénates, qu'il ne rap porte expressément à aucun auteur, et qui voit en eux les dieux apport és de Samothrace, en Troade, par Dardanus, de Troie en Italie par
65 II, 325; l'identification de Cérès comme «penate étrusque» a été étudiée par H. Le Bonniec, Le culte de Cérès des origines à la fin de la République, Paris, 1958, p. 26-27; celle de Fortuna par J. Champeaux, Fortuna. Recherches sur le culte de la Fortune à Rome et dans le monde romain (Coll. de l'École Française de Rome, 64), Rome, 1982, p. 229-231; voir aussi M. Pallottino, Etruscologia, 7e éd., Milan, 1984, p. 330-331. 66 Cf. R. Bloch Quelques remarques sur Poséidon, Neptune et Nethuns, CRAI, 1981, p. 341 sq. 67 Ad Aen. I, 378.
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Enée; les prêtres chargés de la garde des sacra penatium auraient été nommés Sai à Samothrace, Salii à Rome68. Daniel ajoute : quos tarnen Penates alii Apollinem et Neptunum uolunt, alii, hastatos et in regia positos tradunt. Le mot tarnen indique que cette nouvelle définition s'oppo se à la précédente, et il est fort probable que les alii sont Nigidius et Cornelius Labeo, dont nous savons par ailleurs que la doctrine sur les Pénates était connue de Daniel. Ce dernier veut-il nous donner à enten dre par là qu'il oppose deux doctrines, celle qui assimile les Pénates aux dieux de Samothrace d'une part, celle qui les définit comme Neptu ne et Apollon, et dont Nigidius aurait été l'un des tenants, d'autre part? Ce point est d'autant moins net que la dernière phrase de notre passage oppose aux deux premières une troisième définition des Pénates, tou jours sans référence d'auteur : ce sont des dieux armés de lances dont les statues se trouvent dans la Regia. Nous pensons que l'interpolateur de Servius désigne ainsi les statues des Pénates du temple de la Vèlia : ils étaient, en effet, selon la description de Denys d'Halicarnasse, repré sentés comme deux jeunes gens armés de lances, et la proximité de cet tecolline et des bâtiments de la Regia69 explique sans doute la confu sionfaite par Daniel. Or ces dieux, qu'une inscription gravée sur le socle de leur statue désignait, selon Varron et Denys, comme les «Grands Dieux», ont souvent été confondus avec les Dioscures, euxmêmes identifiés aux Cabires de Samothrace. Est-ce cette distinction que Daniel veut établir ici? Nous pensons plutôt qu'il se contente d'énumérer des définitions opposées des Pénates, qui sont, d'après ce passag e, au moins au nombre de quatre, puisqu'immédiatement après il mentionne la conception «étrusque», étudiée plus haut, de la triade Cérès, Paies et Fortuna. Il nous semble donc difficile d'assurer que ce passage contient une quelconque allusion à l'opinion que Nigidius Figulus pouvait se faire des Grands Dieux et de leurs relations avec les Pénates. S. Weinstock70 a fait remarquer que G. Wissowa avait peut-être abusivement attribué à Nigidius un passage de Servius, à propos de la définition des Grands Dieux71 : Varron, dit-il, pense que les Pénates sont la même chose que
68 Ad Aen. II, 325 : namque Samothraces horum Penatium antistites Saos uocabant, qui postea a Romanis Salii appellati sunt : hi enim sacra penatium curabant. 69 F. Coarelli, Roma, (Guide archologiche Laterza), Rome, 1980, p. 77 sq. 70 R.E., XIX, I, s.u. Penates, col. 453. 71 III, 12.
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les Grands Dieux, puisqu'il est écrit MAGNIS DIS sur la base de leur statue : pourtant, ajoute-t-il, ce titre peut être simplement honorifique {potest tarnen hoc pro honore dici) et il oppose à celle qu'il attribue à Varron une autre définition des Grands Dieux : nam dii magni sunt Iuppiter, Minerva, Mercurius qui Romae colebantur, pénates uero apud Laurolauinium72. G. Wissowa73 suggère une attribution de cette définition des Grands Dieux à Nigidius, ce qui permettrait de voir chez le pytha goricien une doctrine nettement opposée à celle de Varron : les Grands Dieux seraient deux dieux de la Triade Capitoline, ou les trois, selon Daniel, à laquelle s'ajoute Mercure, alors que les Pénates seraient Nep tune et Apollon. Toutefois, ici, non plus que chez Daniel, il n'existe d'in dice sûr qui permette d'attribuer cette conception à Nigidius. Il n'est pas davantage possible de savoir si l'on doit attribuer la dernière remarque citée (les Grands Dieux sont honorés à Rome, alors que les Pénates le sont à Lavinium) à la même autorité, ou tout simplement à Servius lui-même. Quoi qu'il en soit, on a le sentiment qu'on" a atteint ici un degré de confusion tel entre toutes ces définitions des Pénates, que le besoin d'une explication rationnelle et cohérente aboutit à des affirmations que dément l'architecture religieuse, puisque le temple de la Vèlia est désigné dans les texte comme Aedes deum Penatium, ce qui prouve l'existence d'un culte des Pénates à Rome, quelles que soient les origines et l'histoire des dieux qui en étaient l'objet.
Indications éparses et anonymes Nous savons, par une brève indication de Macrobe, que l'érudit Hygin avait consacré un ouvrage aux Pénates : Addidit Hyginus in libro quem de Dis Penatibus scripsit uocari eos θεούς πατρώους74. C'est mal heureusement là la seule indication que nous possédions sur cet ouvrag e, qui confirme ce que dit par ailleurs Denys d'Halicarnasse sur les équivalents grecs de Penates. Virgile, ajoute Macrobe, s'est inspiré de
72 Daniel a ajouté Iuno entre Iuppiter et Minerva; nous y revenons ci-dessous, p. 147 sq. 73 Op. cit., p. 122. Voir P. Boyancé, Sur la théologie de Varron, REA, 57, 1955, p. 5784. 74 Sat. Ill, 4, 13 : «On trouve aussi, dans le livre d'Hygin sur Les dieux Pénates, qu'ils sont appelés θεοί πατρφοι ('dieux paternels' ou 'dieux de la patrie')» (Trad. H. Bornecque). Voir R. Schilling, op. cit. p. 1976.
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cette remarque d'Hygin lorsqu'il emploie les expressions di patrii ou patrii Penates. Les commentateurs tardifs nous ont laissé un certain nombre de définitions des Pénates dont ils ne mentionnent pas les tenants; nous avons déjà eu l'occasion d'en voir quelques-unes, lors qu'elles pouvaient être mises en relation avec des conceptions clair ement attribuées à tel ou tel auteur. Macrobe cite une tradition concernant les Pénates, sans en nom mer les auteurs : après avoir rappelé, comme nous l'avons vu plus haut, que Varron, dans le livre II des Antiquités Romaines, racontait l'histoire des Pénates sans définir la nature de ces dieux, il déclare : sed qui diligentius eruunt ueritatem Penates esse dixerunt per quos penitus spiramus, per quos habemus corpus, per quos rationem animi possidemus; esse autem medium aethera Iouem, Iunonem uero imum aera cum terra, et Mineruam summum aetheris cacumen; et argumento utuntur quod Tarquinius, Demarati Corinthii filius, Samothracicis religionibus mystice imbutus, uno tempio ac sub eodem tecto numina memorata coniunxit75. Cette définition, anonyme, se compose de deux parties : la première définit les Pénates comme les dieux qui animent la vie physique (per quos spiramus, per quos habemus corpus), et la vie de l'intelligence (per quos rationem animi possidemus). Cette tentative pour faire des Pénates le centre et le moteur de ce qui anime la vie est assez étrange et s'expli que peut-être par le rapport étymologique établi ici entre Penates et penitus spiramus, encore que l'emploi de cet adverbe semble un peu artificiel et paraisse plutôt destiné à donner une cohérence à ce qui, en fait, n'en a pas, entre la désignation comme Penates de ces dieux et leur fonction. La seconde partie de la définition nous montre les Pénates, principes vitaux, comme assimilés à l'éther, en tant qu'il comporte trois couches, éther qui est donc présenté comme le siège de la vie corporell e et spirituelle, ou plutôt des souffles qui l'animent76. Il n'est donc
75 Sat. Ill, 4, 7 : «Mais ceux qui mettent plus de soin à découvrir la vérité ont dit que les Pénates sont les dieux par lesquels nous respirons, par lesquels nous avons un corps, par lesquels nous possédons la raison. Ils ajoutent que Jupiter est l'éther moyen, Junon la couche inférieure de l'air et de la terre, Minerve la partie la plus élevée de l'éther. Ils en donnent comme preuve que Tarquin, fils de Démarate de Corinthe, initié aux mystères de Samothrace, réunit ces trois divinités dans un même temple et sous le même toit» (Trad. H. Bornecque). 76 L'ensemble de cette conception paraît inspirée du stoïcisme (cf. A. Rivaud, Histoi re de la philosophie I : Des origines à la scholastique, 2è éd., remise à jour par G. Varet, Paris, 1960, p. 381-400), et plus précisément de Chrysippe (Cf. E. Bréhier, Chrysippe et
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plus question ici des trois éléments qui définissaient les Pénates dans la théorie attribuée à Nigidius Figulus, selon laquelle trois catégories d'en treeux relevaient du ciel (Jupiter), de l'eau (Neptune), de la terre (les enfers). Ici, seul l'air est en cause, avec tout de même une allusion à la terre pour la partie la plus basse (imum aera cum terra). D'autre part, ce triple principe constituant les Pénates est assimilé à Jupiter, Junon, Minerve, c'est-à-dire à la Triade Capitoline. L'attribution à chacune des divinités qui la composent de telle couche de l'éther peut surprendre; en particulier la place médiane de Jupiter, alors qu'on l'attendrait plu tôt dans les sommets, doit sans doute se comprendre par référence à la représentation figurée de la Triade Capitoline, avec Jupiter au centre, entouré de Junon et de Minerve. L'allusion faite au temple, dans la sui tedu texte, suggère du reste cette explication. Enfin, l'origine de cette triade constituant les Pénates n'a plus aucun rapport avec la légende des origines troyennes de Rome, puisque son introduction est rapportée à Tarquin l'Ancien, légendairement originaire de Corinthe, mais qui avait passé une partie de sa vie à Tarquinia, d'où il tire son nom. C'est donc affirmer l'origine étrusque des Pénates, ainsi que de la Triade Capitoline, car il n'est pas douteux que l'indication finale de notre cita tion {uno tempio ac sub eodem tecto numina memorata coniunxit) est une allusion au temple à trois cellae du Capitole77. Nous voyons une fois encore ici la force de l'influence qu'a eue la réflexion théologique étrusque sur les spéculations des écrivains romains; malheureusement, les indications très vagues de Macrobe nous laissent ignorer les noms des tenants de cette conception, et donc sa date. Il nous faut aussi noter la curieuse mention de la connaissance qu'aurait eue Tarquin des myst ères de Samothrace {Samothracis religionibus mystice imbutus); quel rapport cette indication a-t-elle avec le culte des Pénates? Faut-il en
l'ancien stoïcisme, 2è éd., Paris, 1951, p. 117-127). Il est clair, toutefois, - et la désignation par le terme latin Penates de la divinité le montre -, qu'il s'agit d'une adaptation romaine de la doctrine, probablement tardive, à en juger par la relative impropriété de cette défi nition, bien éloignée de celle, généralement et couramment admise, de «dieux du foyer ». 77 Les historiens romains, Tite-Live notamment (I, 55) attribuent à Tarquin le Super be la construction du triple temple du Capitole, exécutée par des artisans étrusques (I, 56). Sur le caractère «étrusque» de la Triade Capitoline, cf. R. Bloch, Tite-Live, II, C.U.F., Paris, 1967, Appendice I : Le départ des Etrusques, p. 107; G. Dumézil, Mythe et Epopée III, Paris, 1973, p. 204-206; id., La religion romaine archaïque, p. 317; id., Anchise foudroyé? dans L'Oubli de l'Homme et l'Honneur des dieux, Paris, 1985, p. 160-161.
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déduire qu'il existe, dans l'esprit des tenants de cette tradition, une confusion entre Pénates et Grands Dieux de Samothrace? Il est impossi ble de le dire78, non plus que de dater cette conception de nos dieux. Macrobe la fait figurer dans un chapitre du livre III des Saturnales où il se propose de montrer que Virgile emploie toujours le mot «Pénates» en conformité parfaite avec la tradition concernant ces dieux. Il a, dans les lignes précédentes, montré que Virgile suivait la tradition connue par Varron à propos de l'histoire des Pénates, et, après notre passage, il mentionne la conception des Pénates qu'avait Cassius Hemina et, là encore, souligne la précision avec laquelle Virgile en a tenu compte. Entre les deux est exposée cette tradition concernant la nature des Pénates, point sur lequel, note Macrobe, Varron ne s'est pas expliqué en même temps que sur leur histoire. D'autre part, bien que Virgile ne reprenne pas exactement cette théorie, Macrobe s'efforce de montrer que les dénominations que le poète applique à Junon sont à la fois ins pirées de la doctrine de Cassius Hemina sur les Pénates et de leur iden tification avec Jupiter, Junon et Minerve. Cela implique donc que cette dernière doctrine est au moins contemporaine de Virgile, peut-être antérieure à lui. La comparaison avec un passage de Daniel montre que les deux auteurs ont dû s'inspirer d'une source commune, qui pourrait bien être, comme le suggère G. Wissowa, Cornelius Labeo : nonnulli tarnen Penates esse dixerunt, per quos penitus spiramus et corpus habemus, et animi rationem possidemus; eos autem esse Iouem aetherem medium, Iunonem imum aera cum terra, summum aetheris cacumen Mineruam : quos Tarquinius, Demarati Corinthii filius, Samothraciis religionibus mystice imbutus uno tempio et sub eodem tecto coniunxit. His addidit et Mercurium sermonum deum79. La doctrine est, on le voit, semblable à celle que l'on trouvait dans Macrobe, également anonyme, tout en étant attribuée à plusieurs auteurs (nonnulli), et exprimée dans des termes à très peu près identiques; un seul point, important, montre une diver gence entre deux témoignages : l'indication selon laquelle Tarquin au rait ajouté à la triade de Pénates citée par Macrobe Mercure «dieu des conversations», ce qui ramène à une conception quadripartite des Pé-
78 Selon Augustin (De Ciu. Dei VII, 28), Varron identifiait les mystérieux Grands Dieux de Samothrace comme Jupiter, Junon, et Minerve, ce qui représenterait une nouv elle incohérence par rapport à l'ensemble de sa doctrine. 79 Ad Aen. II, 296.
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nates. Au demeurant, cette tradition, qui ajouterait Mercure à la Triade Capitoline, peut être rapprochée de la tradition, rapportée par Servius80, selon laquelle les Pénates seraient Jupiter, Minerve, Mercure, et, d'après Daniel, Junon, tradition que G. Wissowa propose d'attribuer à Nigidius Figulus. Cependant, le même savant81 a très probablement raison d'y voir une addition personnelle du scholiaste, qui fait ici une tentative pour rendre cohérentes toutes ces traditions. G. Wissowa a pu montrer très ingénieusement qu'il ne s'agit pas d'une fantaisie : Daniel tente de concilier la tradition, connue de nous par Macrobe, selon laquelle les Pénates étaient en fait les dieux de la Triade Capitoline, et la tradition rapportée par Servius, selon laquelle les Grands Dieux étaient Jupiter, Minerve et Mercure82, série où Daniel, nous l'avons dit, a ajouté le nom de Junon entre Jupiter et Minerve. Cela implique natu rellement une identification des Pénates et des Grands Dieux dans l'es prit du scholiaste, ce qui éclaire peut-être, ici comme dans le texte de Macrobe précédemment étudié, l'indication selon laquelle Tarquin avait été initié aux mystères de Samothrace. Enfin, il existe une autre tradition concernant l'identité des Pénates connue par des textes convergents de Macrobe et de l'interpolateur de Servius, remontant sans doute, en raison, là aussi, de la quasi-identité des termes, à une source commune : c'est la tradition selon laquelle Vesta fait partie des Pénates, ou leur est étroitement associée. Macrobe écrit : eodem nomine appellatili (= Virgile) et Vestam, quam de numero Penatium aut certe comitem eorum esse manifestum est, adeo ut et consules et praetores seu dictatores, cum adeunt magistratum, Lauinii rem diuinam faciant Penatibus pariter et Vestae83. L'interpolateur de
80 Cf. ci-dessus, p. 145-6. 81 Op. cit., p. 123. 82 Ad Aen. III, 12. F. Altheim {Griechische Götter in alten Rom, Gieszen, 1930, p. 7779) retient cette mention de Mercure comme l'attestation d'une réalité historique, ce que B. Combet-Farnoux {Mercure romain. Le culte public de Mercure et de la fonction mercant ile à Rome de la république archaïque à l'époque augustéenne, B.E.F.A.R, vol. 238, Rome, 1980, p. 210-11) récuse absolument : la mention de Mercure «a été déduite de la présence, à côté des Cabires de Samothrace, d'un dieu serviteur, Καδμΐλος ou Κάσμιλος, assimilé à Hermès, mais elle ne reflète absolument pas la participation de Mercure au culte capitolin. Dans le jeu de l'interprétation allégorique, cette adjonction a été rendue possible par l'incertitude sur le nombre et les noms des divinités associées dans les groupements des Magni Dei ». 83 III, 4, 11 : «II applique aussi la même épithète à Vesta, laquelle fait évidemment partie des Pénates, ou à coup sûr leur est associée; cela est si vrai que les consuls, les
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Servius nous livre une tradition très semblable : his ergo quaeritur, utrum Vesta edam de numero penatium sit, ac comes eorum accipiatur, quod cum consules et praetores siue dictator abeunt magistratu, Lauini sacra penatibus simul ac Vestae faciunt84. La parenté, voire l'identité, entre Vesta et les Pénates trouve son expression, selon cette tradition, dans le sacrifice accompli en l'honneur de l'ensemble de ces divinités à Lavinium par les magistrats romains. Nos deux auteurs en voient aussi une preuve dans la dénomination de potens que Virgile applique à Vest a85, dénomination qui, selon certaines traditions, était donnée aux Pénates86. Même si nous admettons, comme le fait G. Wissowa, que la source commune de ces deux textes est l'érudit du IIIe siècle Cornelius Labeo, cette tradition d'une parenté entre Vesta et les Pénates date au moins du Ier siècle avant J.-C, puisque nous l'avons déjà trouvée, total ement inexpliquée d'ailleurs, chez Cicéron : Nec longe absunt ab hac ui (= Vesta) di Penates*1.
Martianus Capella L'érudit africain de Ve siècle après J.-C. Martianus Capella nous a laissé, dans un ouvrage intitulé De nuptiis Philologiae et Mercurii un exposé présentant une tentative de systématisation des divinités étrus ques, l'une des trois que nous possédions, note G. Dumézil88, avec la théorie des foudres connue par Sénèque et Pline, et le foie de Plaisance. Martianus Capella commence par donner une classification des dieux, dont seule la première catégorie nous intéresse ici : Ac mox louis scriba praecipitur pro suo ordine ac ratis modis caelicolas aduocare praecipueque senatores deorum, qui Penates ferebantur Tonantis ipsius, quorumque nomina quoniam publican secretum cadeste non pertulit, ex eo,
préteurs ou les dictateurs, lorsqu'ils entrent en charge, vont à Lavinium faire un sacrifice aux Pénates en même temps qu'à Vesta» (Trad. H. Bornecque, op. cit.). Cf. infra p. 35561. 84 Ad Aen. II, 296. 85 En. II, 296 : Vestamque potentem. 86 Varron, cité par Probus, ad Verg. Bue. VI, 31; cf. R. Schilling, op. cit., p. 1974. 87 De Nat. Deor. II, 68. 88 La religion des Etrusques, p. 670.
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quod omnia pariter repromittunt, nomen eis consenîione perfecit89. Dans la classification des dieux étrusques proposée par Martianus Capella, les Pénates occupent hiérarchiquement la première place (praecipue), ce qui semble confirmé par le fait qu'ils constituent une sorte de sénat (senatores deorum). Les autres informations apportées ici rappell ent celles qu'Arnobe affirme avoir tirées de Varron, en particulier la notion de Penates Consentes et Complices, exprimée ici par le substantif consentione, et l'idée qu'ils sont spécialement attachés à la personne de Jupiter. A ce propos, on peut du reste se demander si le mot Consentes exprime le fait qu'ils agissent toujours en accord entre eux, ou en accord avec Jupiter, question à laquelle on peut répondre en référence avec le rôle que jouent ces mêmes dieux dans la théorie des foudres, empruntée par Sénèque et Pline à une même source, Caecina; nous citerons ici ce qu'en dit J. Heurgon90: «Sénèque, d'après Caecina (Q.N. 2, 41), Arnobe (3, 40) et Martianus Capella (1, 41) font mention des duodecim dei, dii Consentes et Complices, summi louis consiliarii, au Sénat desquels Jupiter fait appel lorsqu'il lance sa seconde manubia, c'est-àdire les foudres intermédiaires entre les moins graves, dont il dispose de lui-même, et les plus dévastatrices, qu'il ne lance qu'après avoir pris l'avis des dei superiores et inuoluti». La théorie des foudres donne donc à entendre que Consentes doit se comprendre comme «en accord avec Jupiter». Cela s'explique d'autant mieux d'ailleurs que Martianus Ca pella joint aux Pénates, senatores deorum, Vulcain, qualifié de Iouialis, dont les relations avec la foudre sont évidentes. Mais d'autre part, cette théorie présente une difficulté par rapport à celle que nous avons citée plus haut, selon laquelle les Pénates étaient les premiers dieux dans l'ordre hiérarchique, puisque ce rang appartient, chez lui, aux dei supe riores et inuoluti. Enfin, et c'est là un point commun avec ce que dit Varron, non point des Di Consentes étrusques, mais, nous l'avons vu, des Pénates romains91, ils sont toujours désignés collectivement, et, pourrait-on dire, fonctionnellement, mais leur nom individuel reste
89 Op. cit., I, 41 : «Et bientôt le secrétaire de Jupiter reçoit l'ordre de réunir les habi tants du ciel en fonction de leur rang et d'un protocole réglé, et en premier lieu les séna teurs des dieux, qui étaient considérés comme les Pénates du Dieu Tonnant en personne, et à qui, du fait que le secret céleste ne permet pas de publier leur nom, il donne un nom venu du fait qu'ils agissent en accord, car ils promettent les choses tous en même temps. » 90 Varron, Economie rurale I, C.U.F., Paris, 1978, commentaire, p. 94. 91 Ap. Arnobe III, 40.
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caché. Dans la suite du texte92, Martianus Capella indique que le ciel est divisé en seize régions, dont les dei Consentes Penates occupent la première, division dont certains érudits se sont efforcés d'étudier la correspondance avec celle du foie de Plaisance; nous n'insisterons pas sur ce problème, qui dépasse le cadre de la présente étude93. J. Heurgon souligne très justement que ces termes, et les explications qu'en donnent les savants latins, ne peuvent être que des approximations de termes étrusques inconnus. «Les dei consentes d'Arnobe et de Martia nus Capella ne sont que la projection, dans la théorie étrusque, de ce qu'ils comprenaient et assimilaient à la leur»94. On voit donc que les spéculations des érudits anciens sur les Pénat esoffrent, à mesure que l'on avance dans le temps, une complexité, pour ne pas dire une confusion, de plus en plus grande. L'histoire de nos dieux, dont nous trouvons les premiers éléments chez Cassius Hemina, s'organise progressivement autour de la légende des origines troyennes de Rome; leur identité, en revanche, paraît avoir fait diffi culté depuis Varron. On a le sentiment que, leur essence échappant aux savants anciens, ces derniers cherchent à les définir soit d'après les épi sodes de leur histoire (confusion avec les Grands Dieux de Samothrace, identification avec Neptune et Apollon constructeurs des murailles de Troie), soit en les insérant dans des systèmes théologiques (identifica tion à la Triade Capitoline, théorie des Pénates étrusques). Dans la confusion et les contradictions des théories antiques au sujet des Pénat es,la critique moderne a eu beaucoup de peine à mettre de l'ordre.
92 i, 45. 93 Voir résumé des doctrines, et discussion in G. Dumézil, La religion des Etrusques, p. 670-76; A. Pfiffig, op. cit., p. 121-127. 94 Loc. cit. ; G. Dury-Moyaers, Enée et Lavinium. A propos des découvertes archéologi ques récentes, Coll. Latomus, vol. 174, Bruxelles, 1981, p. 194.
PREMIÈRE SECTION
LAVINIUM
INTRODUCTION
Oppidum quod primum conditum in Latto stirpis Romanae, Laviniufn : nam ibi dii Penates nostri. Cette phrase de Varron1 servira de point de départ à notre enquête sur les Pénates publics et justifiera l'or dre de notre exposé. Elle affirme en effet l'antériorité de Lavinium par rapport à Rome et d'ailleurs à tout établissement romain dans le Latium, supposant ainsi que les Pénates honorés à Lavinium, non seu lement par les habitants de la ville, mais par les Romains eux-mêmes, sont bien ceux de Rome. Lavinium comme cité-mère de Rome, métro polereligieuse, où les Romains vénèrent, dans le berceau, le foyer de leur race, les dieux qui symbolisent la patrie, telle est la définition don née par Varron d'une cité qui, de son temps, n'était plus qu'une modest e bourgade des environs de Rome, sans rôle politique2. L'importance considérable que revêt néanmoins Lavinium aux yeux des Romains est attestée pour nous par deux séries de témoignag es. D'une part, à l'époque classique, la légende des origines troyennes connaît un développement littéraire qui met Lavinium au premier plan comme lieu du débarquement d'Enée et comme premier établissement en Italie du héros troyen dont les descendants, plus ou moins lointains selon les versions de la légende, fonderont Rome. C'est à l'emplacement de la future Lavinium qu'Enée installera enfin les Pénates arrachés à la destruction de Troie et emportés par Anchise dans les navigations des survivants troyens. D'autre part, deux faits au moins dans les institu tionsromaines témoignent de l'attachement de Rome à Lavinium : ce sont le sacrifice annuel des magistrats romains dans cette ville lors de
1 De L.L., V, 144. 2 La décadence de Lavinium, sensible dès le IIe siècle av. J.-C. dans les sanctuaires et dans l'architecture civile, semble avoir été un mouvement irréversible, dont on peut suggérer des explications variées : C. F. Giuliani, dans Enea nel Lazio. Archeologia e mito, Catalogue de l'Exposition, Rome, 1981, p. 166.
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leur entrée en charge et le renouvellement annuel du traité d'alliance entre Rome et Lavinium. Pour mener à bien cette étude, nous disposons d'une abondante documentation littéraire : les poètes et les historiens, grecs et latins, ont souvent raconté ou évoqué la fuite d'Enée et son arrivée en Italie. Par ailleurs, nous avons un certain nombre de témoignages iconographi ques représentant la fuite d'Enée, sur la Tabula Iliaca du Musée du Capitole notamment, ou son établissement au Latium, comme sur un bas relief de l'Ara Pacis. Mais jusqu'à ces dernières années, il existait une évidente disproportion entre la richesse de la documentation litt éraire et iconographique (cette dernière n'avait pas été trouvée sur l'em placement supposé de Lavinium), et la rareté des témoignages archéo logiques du site ancien de la ville, l'actuel village de Pratica di Mare. Or depuis les années 1960, grâce aux résultats des fouilles menées à Prati ca di Mare par Ferdinando Castagnoli et Paolo Sommella3, nous di sposons de témoignages archéologiques abondants, qui n'ont du reste pas encore livré tous leurs secrets : ce sont notamment, pour ce qui tou che directement à notre sujet, la tombe archaïque d'époque orientalisante désignée comme l'«Hérôon d'Enée», et les treize autels qui se trouvent non loin d'elle, dont la destination et la signification ne sont pas parfaitement expliquées à ce jour; le nombre élevé de ces autels, l'abondance du matériel votif trouvé dans leurs alentours semblent bien attester la présence d'un culte fédéral important; enfin, on a trou vé au pied de l'un des treize autels une lamelle de bronze portant une dédicace à Castor et Pollux, divinités souvent assimilées aux Pénates. Aussi Lavinium nous apparaît-elle aujourd'hui comme «une petite et véritable Delphes du Latium antique», selon l'expression de Jacques Heurgon4; les découvertes archéologiques confirment les dires des Anciens sur l'importance de Lavinium, mais aussi sur l'ancienneté de cette cité : l'«Hérôon d'Enée» présente deux phases de construction : la
3 Les résultats des fouilles ont été publiés dans deux ouvrages majeurs : F. Casta gnoli, Lavinium I : Topografia generale, fonti e storia delle ricerche, Rome, 1972; F. Casta gnoli, L. Cozza, M. Fenelli, M. Guaitoli, A. La Regina, M. Mazzolani, E. Paribeni, F. Picarreta, P. Sommella, M. Torelli, Lavinium II : Le Tredici Are, Rome, 1975. Les éléments nou veaux fournis par le site de Pratica di Mare ont naturellement donné lieu à de nombreus es publications que nous signalerons le moment venu. 4 La Magna Grecia e i santuari del Lazio, in La Magna Grecia e Roma nell'età arcaica, Atti dell'ottavo convegno di studi sulla Magna Grecia, (Tarente, octobre 1968), Naples, 1969, p. 11.
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construction la plus récente, qui date du IVe siècle, a été refaite sur un édifice du VIIe siècle dont il reste encore des traces; les treize autels ont été édifiés du VIe au IVe siècle; la dédicace à Castor et Pollux date du VIe siècle. Mais les fouilles récentes de Lavinium, ainsi que celles qui ont été menées parallèlement dans d'autres cités du Latium, et à Rome même, nous conduisent aussi à envisager sous un jour nouveau le problème de l'influence grecque dans le Latium. En effet, la présence de la légende d'Enée à une époque ancienne à Lavinium, l'architecture des treize autels, fortement influencée, nous le verrons, par les modèles grecs, et l'attestation d'un culte à Castor et Pollux, héros venus de Grèce, mont rent des liens très forts entre la Grèce, ou la Grande-Grèce, et le Latium, dès les VII et VIe siècles. Or, on considérait jusqu'à présent que l'influence de la Grèce sur le Latium s'était exercée essentiellement par l'intermédiaire des Etrusques5. Les découvertes archéologiques récent es, à Lavinium notamment, tendent à prouver plutôt que les Latins ont reçu directement les importations grecques, ou du moins avec la Gran de-Grèce pour médiateur, diminuant par là même le rôle que l'on attr ibuait auparavant à l'Etrurie dans l'élaboration de la civilisation lati ne6. C'est donc en tenant compte de ces données nouvelles qu'il nous faudra éclairer l'apparent paradoxe par lequel Enée, héros troyen issu des poèmes et légendes grecs apportés au Latium, y aurait établi les Pénates, dieux spécifiquement latins et sans équivalent dans la religion grecque.
5 Voir par exemple J. Bayet, Histoire politique et psychologique de la religion romain e, p. 120-127. 6 Cette opinion devra être nuancée, car il existe des témoignages attestant la présen ce de la légende d'Enée en Etrurie dès le Ve siècle, notamment une amphore de Vulci, datée de cette époque (voir ci-dessous, p. 201-2).
CHAPITRE I
ÈNEE ET LES PÉNATES : LE TRANSFERT DES SACRA
Dans le récit que fait Virgile de l'arrivée d'Enée en Italie, nous voyons le héros troyen débarquer sur un rivage proche de l'emplace ment de la future Lavinium, et installer là les dieux Pénates arrachés aux ruines de Troie : «Salue fatis mihi debita tellus uosque», ait, «o fidi Troiae saluete pénates : hic domus, haec patria est»1. Cette installation vérifie d'ailleurs pleinement les prédictions faites à deux reprises à Enée, par les Pénates eux-mêmes2 et par Anchise3, et ce sont ces divinités venues de Troie que les Romains honorent à Lavinium, mère de Rome et centre religieux du Latium. Cette version de la légende d'Enée au Latium, largement populari sée par l'œuvre de Virgile, a connu un développement littéraire qui a orienté les études faites sur Lavinium : la venue au Latium d'Enée, por teur des Pénates troyens, a en effet été associée à l'ensemble du problè me des origines troyennes de Rome. Or, il nous semble, comme il a déjà été noté par G. Moyaers4, après F. Castagnoli5, qu'il est possible de dissocier de cette question d'ensemble celle du transfert des Pénates par Enée, que nous proposons d'étudier à présent. Les découvertes archéologiques récentes ont en effet montré qu'il existe une légende spécifiquement lavinate d'Enée, même si elle a par la suite été reprise
1 En. VII, 120-122: «Salut, terre que me devaient les destins et vous aussi, dit-il, salut, fidèles Pénates de Troie : ici est ma maison, ici ma patrie» (Trad. J. Perret, C.U.F., Paris, 1978). 2 En. III, 163 sq. 3 En. VII, 122-127. 4 Enée et Lavinium, RBPh, 55, 1977, p. 21 sq. 5 Lavinium I, Rome, 1972, p. 96.
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et utilisée dans une optique romaine6. Les fouilles menées à Pratica di Mare nous révèlent une occupation très ancienne du site, à peu près contemporaine de la date assignée par la légende et l'histoire à l'arrivée d'Enée7. Nous essaierons de montrer ici l'évolution de la tradition relative au transfert des sacra, depuis les plus anciens témoignages jus qu'à l'époque d'Auguste.
I - Les sources littéraires Du transport des Pénates par Enée, nous avons de nombreuses attestations littéraires et iconographiques. Examinons d'abord les t émoignages littéraires8. 1) Enée dans la littérature grecque antérieure au IIIe siècle avant J.-C. Dans l'Iliade9, un glorieux avenir est promis à Enée, puisque luimême et ses descendants régneront sur les Troyens, mais il n'est ques tion ni de l'Italie, ni des ίερά qu'Enée emportera de Troie. Dans la Théogonie d'Hésiode10, le nom d'Enée et une allusion, géographiquement très imprécise d'ailleurs, au Latium, se trouvent rapprochés, mais pas véritablement mis en relation. Il s'agit d'une interpolation que l'on date, à la suite de Wilamowitz, du VIe siècle11 et où il n'est fait aucune allusion à un quelconque transfert des ίερά par Enée. De même, dans l'Hymne homérique à Aphrodite, que J. Humbert12 date d'entre 630 et 610, Enée doit régner sur Troie13, ce qui doit être mis en rapport avec
6 Cf. F. Castagnoli, La leggenda di Enea nel Lazio, Stud Rom, 30, 1982, p. 15. 7 Cf. G. Dury-Moyaers, Enée et Lavinium, A propos des découvertes archéologiques récentes, Coll. Latornus, vol. 174, Bruxelles 1981, p. 99-127. 8 G. Dury-Moyaers {op. cit., p. 33-94) a donné une revue très complète des textes littéraires concernant Enée, jusqu'à Virgile; pour notre part, nous avons plus particuli èrement étudié les textes ayant trait au transfert des sacra. 9 XX, 307-308: «C'est le puissant Enée qui désormais régnera sur les Troyens Enée, et avec lui, tous les fils de son fils qui naîtront dans l'avenir» (trad. P. Mazon, C.U. F., Paris, 1938). Cf. N. Horsfall, Some problems in the Aeneas legend, CQ, 29, 1979, p. 372-390. 10 1008-1016. 11 Cf. G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 38-45. 12 Hymnes, C.U.F., Paris, 1936, p. 144-146 et 146 n. 1. 13 196-197.
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le fait que les rois de Troade prétendaient descendre d'Enée14. Il n'est pas question, avant le VIe siècle, du voyage d'Enée en Occident. C'est peut-être dans Yllioupersis de Stésichore, au VIe siècle, que nous trou vons pour la première fois le thème légendaire du voyage d'Enée vers l'Occident, et celui du transport des ίερά. C'est la première fois aussi que ces deux thèmes sont associés15. Cette œuvre ne nous est pas connue directement, mais seulement par l'illustration qu'en aurait faite Théodoros, sculpteur que l'on s'accorde généralement à dater de l'épo queaugustéenne, sur la Tabula Iliaca conservée au Musée du Capitol e16, mais la fidélité de l'image à son modèle littéraire a été très viv ement contestée; nous laisserons pour l'instant de côté tous les problè mes posés par l'étude iconographique de la Tabula elle-même, que nous étudierons avec l'ensemble des représentations figurées du transfert des sacra, nous limitant ici à la question suivante : dans quelle mesure ce relief, sur lequel on peut lire l'inscription 'Ιλίου Πέρσις κατά Στησίχορον nous donne-t-il un reflet fidèle du poème de Stésichore, dont il est pour nous le seul écho? Stésichore, connu par ailleurs par des cita tions et des fragments, a vécu au VIe siècle, semble-t-il, à Himère17. La Tabula Iliaca du Musée du Capitole, dont la partie gauche manque, pré sente, en son état actuel, l'illustration de plusieurs poèmes épiques : l'Iliade, la Petite Iliade, YEthiopide, et Yllioupersis de Stésichore, qui occupe la place d'honneur, le panneau central18. Ce panneau est divisé en plusieurs zones de haut en bas, qui offrent, dans ce même sens, une sorte de déroulement chronologique : en haut, figurent, à l'intérieur de l'enceinte des murs de Troie, différentes scènes du pillage de la ville; juste en-dessous de la muraille, où s'ouvre la Porte Scée, on peut voir, situés symétriquement, le tombeau d'Hector à gauche, celui d'Achille à droite; et enfin, sous les tombeaux, le rivage, avec les vaisseaux des Grecs rangés en une ligne courbe d'un côté, l'embarquement d'Enée et des siens de l'autre; des inscriptions permettent d'identifier un certain nombre de scènes et de personnages.
14 G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 46. 15 Cf. N. Horfall, Some problems . . ., p. 375-76. 16 A. Sadurska, les Tables Iliaques, Varsovie, 1964, p. 24-37; N. Horsfall, ibid.; F. Cas tagnoli, La leggenda di Enea nel Lazio, p. 8. 17 Cf. Maas, in R.E. Ill, A 2, s.u. Stesichoros ; G. Vallet, Rhegion et Zancle, Paris, 1978, p. 257-259. 18 Cf. Ο. Jahn, Griechische Bildchroniken, Bonn, 1873, t. 1.
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La mise à sac de Troie occupe une place de choix sur la Tabula, et le personnage d'Enée est lui-même au centre de cette Ilioupersis : il est le seul à être représenté trois fois19. On le voit une première fois à l'i ntérieur de la muraille de Troie, sur la gauche de la Porte Scée. Deux personnages se font face, et ont chacun un genou fléchi; ils se pen chent l'un vers l'autre, les bras tendus vers l'avant soutenant un objet assez volumineux, de forme oblongue; la scène est malaisée à interprét er, car seul le personnage d'Enée, à gauche, est désigné par l'inscrip tion Αΐ,νήας; ni l'autre personnage, ni l'objet qu'il tient avec l'aide d'Enée ne sont nommés. L'objet en question est fort probablement une ciste contenant les ιερά qui sont confiés à Enée avant sa fuite; selon A. Sadurska20, l'autre personnage serait Anchise remettant les Pénates à son fils; pour J. Heurgon21, au contraire, il s'agirait d'un prêtre qui confierait les ιερά à Enée. On peut rapprocher cette image du passage de l'Enéide22 où Panthus, prêtre d'Apollon, portant dans ses bras les sacra uictosque deos de Troie, se joint à Enée qui va tenter une dernière résistance dans la citadelle. Cette interprétation du personnage comme un prêtre nous paraît plus satisfaisante, le prêtre incarnant en quelque sorte les dieux qui investissent Enée de sa mission religieuse, symboli sée par la ciste sacrée; d'autre part, on ne voit pas pourquoi Anchise remettrait la ciste à Enée à ce moment, alors que c'est lui-même qui la tient dans les autres scènes où apparaissent le père et le fils. Enée figure une seconde fois sur la Tabula, dans la Porte Scée. Cet tescène est placée, sur le relief, un peu en-dessous de la précédente, et, comme nous l'avons indiqué, elle se situe ultérieurement dans le dérou lement de la chute de Troie. Elle représente en effet Enée quittant l'en ceinte de la ville par sa porte monumentale; il est conduit par Her mès23, qui se tient sur sa gauche, porte sur ses épaules Anchise serrant
19 J. Heurgon, La Magna Grecia e i santuari del Lazio, Atti dell'ottavo convegno di studi sulla Magna Grecia (Tarente, octobre 1968), Naples, 1969, p. 24. 20 Op. cit., p. 29. 21 Op. cit., p. 24. 22 En. II, 318-21; c'est d'ailleurs l'interprétation de N. Horsfall (Stesichorus at Bovillae?,JHS, 90, 1979, p. 39). 23 Selon Naevius, cité par Servius-Daniel (Ad Aen. I, 170 = Barchiesi, fr. 11), HermèsMercure aurait construit le bateau sur lequel s'enfuit Enée (cf. G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 49 n. 94) = nouam . . . rem Naevius bello punico dicit, unam nauem habuisse Aeneam, quant Mercurius fecerit. L'interpolateur présente donc ce détail comme une innovation de Naevius.
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contre lui un récipient, et conduit Ascagne de sa main droite; tous ces personnages sont nommés par des inscriptions. Derrière, au fond de la porte, se tient un personnage féminin généralement identifié comme Creuse, l'épouse troyenne d'Enée qui ne pourra s'enfuir avec lui. Enfin, Enée apparaît une troisième fois, plus bas sur le relief, plus tard dans le temps: c'est la scène de l'embarquement sur le rivage; quatre per sonnages franchissent une passerelle qui va les conduire de la terre fe rme sur un vaisseau à la voile ferlée où sont installés des rameurs; Anchise marche en tête, portant une ciste (τα ίερά, dit l'inscription), soutenu par Enée qui vient immédiatement derrière lui et tient par la main Ascagne; derrière eux s'avance Misène. Les différents personnag es et les ίερά sont nommés, et la scène dans son ensemble est désignée par l'inscription suivante : Αίνήας σύν τοϊς ιδίοις άπαι[ρ]ών είς την Έσπερίαν. La fidélité de la Tabula Iliaca au poème de Stésichore a été fort ement mise en doute par J. Perret, qui écrit : «l'hypothèse d'un emprunt aux traditions contemporaines par le sculpteur de la Table Iliaque nous paraît infiniment plus vraisemblable»24. L'argumentation de J. Perret repose essentiellement sur l'interprétation la plus courante des mots είς την Έσπεριαν d'une part, sur celle du personnage de Misène d'autre part, tendant à accréditer la thèse selon laquelle Stésichore faisait venir Enée en Italie centrale ou en Campanie. En effet, un certain nombre de savants, dont E. Pais25, reconnaissent dans le personnage de Misène, qui figure au côté d'Enée dans la scène de l'embarquement, celui qui donna son nom au promontoire de Campanie; l'objet à pointe supérieur e triangulaire qu'il porte appuyé sur l'épaule gauche serait une tromp ette; la présentation de Misène comme trompette d'Enée, que l'on trouve chez Virgile, serait donc déjà présente chez Stésichore. J. Perret s'est efforcé de montrer l'impossibilité de cette thèse avec des argu ments que nous résumons ici26. Tout d'abord, l'usage de la trompette de guerre n'existant pas chez Homère, ni, selon les Anciens, au temps de la Guerre de Troie, Stésichore aurait commis là un gros anachronis me. D'autre part, chez Timée et Polybe, Misène n'est pas le trompette, mais un simple compagnon d'Enée que rien ne différencie des autres, et, selon J. Perret, il faut sans doute dater de César sa transformation
24 Les origines de la légende troyenne de Rome, Paris, 1942, p. 309. 25 Storia critica di Roma, I, Rome, 1913, p. 235. 26 Op. cit., p. 111-112.
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en trompette, transformation à laquelle se conformera Virgile. Enfin, J. Perret réfute l'hypothèse selon laquelle le sculpteur du relief aurait emprunté le personnage de Misène à l'Enéide parce que Stésichore, dans son poème, faisait venir Enée en Campanie27. Si les Grecs de l'Ita lieméridionale ont eu, à coup sûr, des relations avec la Campanie au VIe siècle, ces échanges, estime-t-il, ne sont pas suffisamment import antspour expliquer l'implantation du personnage d'Enée en Campan ie; de plus, la légende troyenne, entre le VIe et le IIe siècle, n'a connu aucune illustration en Campanie, ce qui rend peu plausible qu'elle ait été présente chez Stésichore; enfin, dans la spéculation erudite romain e, qui, à partir du IIe siècle avant J.-C, recherche dans la littérature antérieure des traces de la légende des origines troyennes de Rome, nul n'a jamais mentionné Ylîioupersis de Stésichore. A l'exact opposé de J. Perret, A. Sadurska, au terme d'une étude détaillée du relief et des interprétations qui en ont été données, conclut que ce dernier peut bien être «la source . . . d'une reconstitution du poè me de Stésichore»28. En particulier elle remarque29 que Misène ne porte pas sur le relief la trompette que lui attribue Virgile, mais une rame, que le poète mettait aux mains de Palinure. Aussi J. Heurgon30, reprenant l'argumentation d'A. Sadurska, affirme-t-il que «Stésichore avait conçu son Ilioupersis comme une petite Enéide, dans laquelle les ιερά étaient transportés vers une nouvelle Troie, qui n'était naturell ement pas encore Rome, mais qui devait être en Campanie». Récemment, la fidélité de la Tabula Iliaca au poème de Stésichore a été violemment contestée par N. Horsfall31. Ses arguments essentiels sont les suivants. Le panneau de gauche du relief, sur lequel on voit un personnage (sans doute, nous l'avons dit, un prêtre) remettre à Enée un récipient cylindrique, semble une exacte illustration d'un passage de Virgile32. En bas à droite du relief, le mot Εσπερία que contient l'in scription est suspect : il ne peut, selon N. Horsfall, s'être trouvé chez
27 28 29 30 31 p. 7-8) 32
Op. cit., p. 306-309. Op. cit., p. 34. Op. cit., 29 et 33. Op. cit., p. 26. Stesichorus at Bovillae? passim; F. Castagnoli {La leggenda di Enea nel Lazio, reprend à son compte cette position. En. II, 318-21.
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Stésichore33, car il apparaît pour la première fois à l'époque hellénisti que34; d'autre part, Misène n'a été présenté comme un compagnon d'Enée et un joueur de trompette que chez les antiquaires romains; enfin, la scène centrale, qui montre le départ d'Enée portant Anchise sur son épaule gauche, lequel serre contre lui une ciste contenant les sacra n'est pas d'inspiration grecque : d'une part, la position d'Enée et d'Anchise est différente de ce que l'on en voit dans l'iconographie grec que du thème35, d'autre part, ce thème du transfert des sacra apparaît pour la première fois avec certitude, selon N. Horsfall, chez Hellanicos cité par Denys d'Halicarnasse36, tandis que la combinaison de ce thème avec celui de la venue d'Enée en Italie ne se trouve sûrement attestée qu'à partir de Varron; enfin, l'importance donnée au personnage d'Enée, dont J. Heurgon37 pense que la destinée est l'un des thèmes principaux du relief, est spécifiquement romaine, et s'explique ais ément par le rôle assigné, dans la légende des origines troyennes de Rome, au héros et à ses descendants, à des fins de propagande polit iquesoutenant les prétentions de la Gens Iulia. N. Horsfall conclut que le relief semble être une illustration, bien plutôt que du poème de Stési chore, de l'Enéide. Nous voudrions ici présenter quelques objections à la thèse de N. Horsfall. G. Dury-Moyaers38, au terme d'une étude très précise de l'emploi du mot 'Εσπερία et de ceux de la même famille, conclut : «II serait fort étonnant que le terme n'ait pas existé avant l'époque hellé nistique (Apollonius) alors que, selon Denys, «Hespéria» est le plus ancien nom par lequel les Grecs ont désigné l'Italie39. La présence de
33 Pour S. Mazzarino, au contraire, (// pensiero storico I, Bari, 1958, p. 587 η. 1), il n'est pas douteux que ce mot, qui désignait «l'Occident», n'ait figuré dans le poème de Stésichore. 34 G. K. Galinsky (Aeneas, Sicily and Rome, Princeton, 1969, p. 106 sq.) avait déjà sou ligné ce fait. 35 Voir infra p. 196 sq. 36 I, 47, 6 et 48, 1. 37 Op. cit., p. 24. 38 Op. cit., p. 52. Au contraire, une position prudente est adoptée sur ce point par H. Boas (Aeneas arrival in Latium, Amsterdam, 1938, p. 14). Enfin, selon G. Vallet (op. cit., p. 272 n. 5), « le nom d'Hespérie . . . désignait au temps de Stésichore la partie de l'Italie qui s'étendait au-delà du monde habité par les Grecs». 39 T. J. Cornell (Aeneas'arrival in Italy, Liverpool Classical Monthly, 2, 1977, p. 77) admet aussi que la tradition de la venue d'Enée en Occident puisse remonter à Stésichor e.
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Misène aux côtés d'Enée ne nous paraît guère une preuve convaincante non plus : d'une part, il existait une tradition associant les aventures d'Enée et d'Ulysse en Italie, notamment chez Hellanicos, où ils sont les fondateurs de Rome, ce qui expliquerait la présence de Misène ici; d'autre part, comme le note J. Heurgon40, pourquoi le sculpteur auraitil emprunté à Virgile ce personnage tout à fait secondaire, s'il ne s'était pas trouvé chez Stésichore? Enfin, il nous semble un peu arbitraire de dire que le thème du transfert des sacra ne pouvait se trouver chez Sté sichore, alors que la première mention en est faite par Hellanicos cité par Denys d'Halicarnasse. Il n'y a pas plus de raison qu'il se soit trouvé chez Hellanicos que chez Stésichore, et, de surcroît, si l'on met en dout e la fidélité de Théodoros à l'œuvre de Stésichore, en alléguant des rai sons de propagande politique, la même démarche peut aussi s'appli querau résumé que nous donne Denys des Troika d'Hellanicos41. En réalité, il ne nous paraît pas impossible que ces deux thèmes aient été présents dans l'Ilioupersis de Stésichore. Il existe au VIe siècle de forts courants d'échanges entre l'Italie méridionale et la Campanie toute proche42. Or, certaines villes de Grande-Grèce ou de Sicile sont des fon dations chalcidiennes43, et notamment Zancle, qui elle-même fonda Himère44, patrie probable de Stésichore. La légende d'Enée était connue dès cette date en Chalcidique, ainsi que l'atteste une monnaie représentant la fuite d'Enée avec son père et son fils, frappée à Aineia, cité supposée fondée par Enée, et qui porte son nom45. La légende d'Enée a dû venir de Chalcidique dans les colonies d'Italie méridionale et de Sicile, et d'autre part Γ« Occident» mentionné dans le titre donné à la scène de l'embarquement d'Enée sur le relief peut fort bien désigner la Campanie étrusquisée du VIe siècle, puissante voisine de la Grande-Grèce que Stésichore ne pouvait sans doute ignorer. De sur40 Op. cit., p. 26. 41 Bien que N. Horsfall (Some problems . . ., p. 377) affirme que Denys cite probable ment le texte d'Hellanicos lorsqu'il parle de τα εθη των θεών qu'emporte Enée, l'examen attentif du texte de Denys montre qu'il attribue cette version des aventures d'Enée - escal e à Pallènè notamment - à Hellanicos entre autres, mais, hormis ce point essentiel, absent du récit d'autres voyages d'Enée faits par d'autres historiens, il n'est pas certain que tous les détails donnés par Denys soient empruntés à Hellanicos. 42 Cf. J. Heurgon, op. cit., p. 17 sq. 43 J. Bérard La colonisation grecque de l'Italie méridionale de la Sicile dans l'Antiquit é, Paris, 1957, p. 68-108. 44 Op. cit., p. 240 sq. 45 Voir ci-dessous, p. 197.
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croît, comme le note J. Heurgon46, le promontoire de Misène devait être fort bien connu des marins de Chalcidique, dont les récits ont pu être portés à la connaissance de Stésichore. Evidemment, il ne s'agit que d'une hypothèse, comme le rappelle G. Vallet : «II est possible que la venue d'Enée en Occident soit le fait tardif du scupteur . . ., mais il est possible aussi qu'il y ait là une donnée remontant à Stésichore»47. Nous avons vu d'ailleurs que dans le passage interpolé de la Théogonie, daté du VIe siècle, il est question, tout de suite après la mention de la généalogie d'Enée, de la domination des enfants d'Ulysse et de Circé sur «le pays des illustres Tyrrhéniens». Quant au thème du transfert des sacra, il peut aussi s'être trouvé dans le poème de Stésichore, dans la mesure où il est l'expression de l'un des caractères du personnage d'Enée présent déjà chez Homère, sa piété envers les dieux48. Toutef ois,si l'on accepte de voir dans le relief une illustration fidèle de l'Ilioupersis de Stésichore, il faut admettre que le poète d'Himère a innové dans la combinaison de ces deux thèmes. S. Mazzarino, insistant sur le côté novateur de l'œuvre de Stésichore49, considère qu'il peut s'agir là d'une innovation du poète; elle irait à l'encontre de la tradition issue d'Homère, que l'on trouve notamment chez Sophocle, selon la quelle Enée serait le fondateur d'une nouvelle Troie en Asie Mineure, et serait au contraire une version «occidentale» des aventures d'Enée, mieux adaptée au public italiote et siciliote de Stésichore, qui voyait en lui une sorte d'« Homère lyrique»50. Enfin, comme l'a fort justement souligné G. K. Galinsky51, il serait assez surprenant que le sculpteur, s'il a trahi l'œuvre de Stésichore, se soit expressément réclamé d'elle, alors qu'elle était bien connue des contemporains. Au demeurant, on peut fort bien admettre que tous les détails du relief ne viennent pas de Stésichore. Il se peut, notamment, que l'insi stance mise sur le thème des sacra s'explique par le souci de propagande dynastique de la Gens Iulia. Peut-être en effet la scène au cours de laquelle un prêtre remet la ciste sacrée à Enée a-t-elle été inspirée à
46 Op. cit., p. 24. 47 Op. cit., p. 272. 48 //. XX, 298-99 : (Enée) « qui offre toujours d'agréables présents aux dieux maîtres du ciel» (trad. P. Mazon, C.U.F., Paris, 1957). N. Horsfall {Some problems. . ., p. 372) lui reconnaît ce caractère chez Homère. 49 Op. cit., p. 587 n. 190. 50 Op. cit., p. 206. 51 Op. cit., p. 107-108.
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l'artiste par l'Enéide. Quant au type iconographique selon lequel est représenté Enée portant Anchise, A. Sadurska le date précisément du dernier quart du Ier siècle av. J.-C.52. Toutefois, il est remarquable que, plus qu'au personnage d'Enée troyen, ces trois figurations du héros fassent allusion à son destin futur. La seconde et la troisième scènes (la Porte Scée, le rivage) représentent les différentes étapes de son départ. En liaison avec ce thème du départ d'Enée, les trois scènes où le héros apparaît suggèrent sa mission religieuse et historique. On trouve bien ici les thèmes essentiels de la légende d'Enée : la piété filiale envers Anchise; la mission, dont il est investi, de fonder une race nouvelle, symbolisée par Ascagne; le transport des ίερά qui assureront la conti nuité religieuse entre Troie et la ville qu'Enée va fonder en Occident. C'est bien finalement ce transfert des ίερά, comme le souligne J. Heurgon53, qui apparaît comme constamment lié au personnage d'Enée sur la Tabula Iliaca, et donc probablement aussi dans le poème de Stésichore qu'elle illustre. Le relief témoigne sans doute de l'intention d'établir l'ascendance troyenne de la Gens Iulia, et a dû être exécuté à l'époque d'Auguste, à un moment où la légende des origines troyennes prenait toute son importance54. Sans doute ne peut-on tout à fait écarter, de la part du sculpteur, des intentions de propagande dynastique, mais elles ne témoignent pas contre la thèse de la fidélité du relief à l'œuvre litt éraire. Plutôt que de soutenir que, pour glorifier la Gens Julia, cet artiste a trahi le poème de Stésichore, il nous paraît plus vraisemblable de penser qu'il a choisi d'illustrer ce texte précisément parce qu'il servait son propos. Aux siècles suivants, des auteurs grecs parlent de la venue d'Enée en Italie; Denys d'Halicarnasse a rassemblé leurs témoignages dans ses Antiquités Romaines55, à propos de l'identité du fondateur de Rome, dans une série qui semble chronologique. Parmi eux, les témoignages les plus anciens sont ceux de Damastes de Sigée et d'Hellanicos dans l'Histoire des Prêtresses d'Argos56; ces deux historiographes du Ve siècle,
52 Op. cit., p. 33 : A. Sadurska compare cette image à la description donnée par Ovi de (Fastes V, 563-64) du groupe de marbre qui ornait le Forum d'Auguste; voir infra p. 206. 53 Op. cit., p. 25. 54 Cf. A. Sadurska, op. cit., p. 35. 55 I, 72. 56 Cf. G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 53 sq. ; pour les relations entre Damastes et Hella nicos, cf. S. Mazzarino, op. cit., p. 203-7.
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les premiers dans la littérature, ont parlé de l'arrivée d'Enée au Latium en termes sans équivoque. En effet, à propos d'Hellanicos et d'autres auteurs, Denys affirme : Αίνείαν φησίν . . . είς Ίταλίαν έλθόντα. C'est la première mention de l'Italie comme terme du voyage d'Enée, et Denys ajoute que, selon ces auteurs, Enée est le fondateur de Rome, ce qui situe plus précisément son débarquement dans le Latium. Le texte de Damastes n'est pas cité; Denys écrit simplement: ομολογεί δ' αύτω (= Hellanicos). Nous n'insisterons pas davantage ici sur ces témoignag es, car il n'y est pas expressément question des ίερά apportés par Enée de Troie au Latium57. 2) Le IIIe siècle Ensuite, ce n'est qu'au IIIe siècle, avec Timée, que nous trouvons à nouveau dans la littérature grecque une illustration de la légende it alienne d'Enée. Des différentes explications qui peuvent être avancées pour cette éclipse de deux siècles, nous ne mentionnerons que celleci58 : aux Ve et IVe siècles, les contacts entre les Grecs et l'Italie s'affai blissent, mais sont rétablis au IIIe siècle du fait des conquêtes romaines. Avec Timée59, nous avons pour la première fois un témoignage direct sur le développement de la légende d'Enée en Italie, puisqu'il a eu l'o ccasion de mener sur place une enquête auprès des indigènes : πυθέσθαι δε αυτός ταΰτα έπί των έπιχωρίων. D'autre part, Timée est le premier auteur, à notre connaissance, à rapporter expressément à Lavinium les origines de la légende italienne d'Enée. Ce que l'on peut savoir du per sonnage de Timée60 permet de mieux juger la portée de son témoignag e. Ce Sicilien, qui vécut la plus grande partie de sa vie en exil à Athè nes, qu'il admirait, écrivit à deux reprises sur Rome : une fois dans son 57 Pour le transfert des sacra chez Hellanicos d'après Denys, voir infra p. 490-3. Sans évoquer le transfert des ιερά, Xénophon fait mention de la piété d'Enée envers son père, qui lui valut la considération des Grecs : Αινείας δε σώσας, και αυτός τον πατέρα, δόξαν ευσέβειας έξηνέγκατο ώστε και οί πολέμιοι μόνφ έκείνω ών έκράτησαν (Cyn. Ι, 15): «Enée, pour avoir sauvé lui aussi son père, acquit un renom de piété, si bien qu'il fut le seul des vaincus dans Troie à qui les ennemis permirent de n'être pas dépouillé de ses armes» (trad. E. Delebecque, C.U.F., Paris, 1970). 58 Cf. G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 64-65. 59 Cité par Denys d'Halicarnasse, I, 67, 4. 60 Cf. A. Momigliano, Atene nel IH secolo a.C. e la scoperta di Roma nelle storie di Timaeo di Tauromenio, RSI, 71, 1959, p. 529-556 = Terzo Contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Rome, 1966, I, p. 23-53.
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histoire de la Sicile, l'autre dans une histoire de la guerre contre Pyr rhus; on ne peut savoir à laquelle de ces deux œuvres appartenaient les fragments concernant Lavinium, qui ne nous sont connus que par le témoignage de Denys. Ce n'est sans doute pas un hasard si Timée est particulièrement bien informé sur cette cité, qui avait depuis plusieurs siècles des contacts avec la Grèce et la Grande-Grèce, ainsi qu'en témoi gnent les fouilles de Pratica61. Timée a donc interrogé les habitants de Lavinium sur la nature des dieux honorés dans leur cité sous le nom de «Pénates», et il en donne la définition suivante : κηρύκεια σιδηρά και χαλκά και κέραμον Τρωικον είναι τα έν τοΐς άδύτοις τοις έν Λαουϊνίω κείμενα ιερά62. Ni Enée, ni le transport des Pénates par ce dernier ne sont mentionnés ici, mais on ne saurait en conclure que Timée ignorait la légende de la venue d'Enée en Italie. Ce fragment ne prend sa pleine valeur que replacé dans le contexte où il est cité par Denys : ce dernier vient de parler des dieux apportés par Enée de Troie à Lavinium (των θεών, ους Αινείας εκ της Τρωάδος ήνέγκατο και καθίδρυσεν έν Λαουϊνίω)63, rappelle les différent es appellations qui leur sont données en grec tandis que les Romains les appellent «Pénates», et, enfin, mentionne la définition qu'en a don née l'historien grec Timée. Il est donc vraisemblable que, dans un tel contexte, Denys ne cite que la partie la plus originale du témoignage de Timée : l'enquête sur place et la description de ίερά mal connus et myst érieux; les autres épisodes de la légende (arrivée d'Enée à Lavinium et installation en cet endroit des dieux apportés de Troie) nous semblent implicitement contenus dans la qualification de Τρωικόν, donnée à la poterie, mais qui s'applique sans doute à l'ensemble des ιερά mention nés par Timée. Au IIIe siècle, un autre écrivain grec, le poète Lycophron a évoqué dans {'Alexandra l'arrivée d'Enée en Italie et le transfert des ίερά, pro phétisés par Cassandre. Le problème des rapports entre Timée et Lyco phron a été l'objet de longues controverses, en raison des incertitudes
61 Cf. E. Paribeni, Ceramica di importazione, in Lavinium II, Rome, 1975, p. 361-374; la dédicace aux Dioscures trouvée près d'un des treize autels prouve également ces contacts; cf. F. Castagnoli, Iscrizioni, in Lavinium II, p. 441-43. 62 In Denys d'Halicarnasse, I, 67, 4: «Les objets sacrés enfermés dans la partie secrète du temple de Lavinium sont des caducées de fer et de bronze et de la poterie troyenne ». 63 I. 67, 1 «Les dieux qu'Enée apporta de Troade et installa à Lavinium».
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qui pèsent sur l'identité du poète et la datation de l'œuvre64. On s'a ccorde à reconnaître que la plus grande partie de YAlexandra est inspi réepar Timée, mais les vers 1226-1280, où Cassandre évoque le destin d'Enée et la future naissance de Rome, ont pu faire douter que Lyco phron ait vécu au IIIe siècle, ou être considérés comme une interpolat ion65. J. Perret66 estime impossible que le passage en question soit ins piré par Timée (opinion fondée sur l'analyse des différences entre nos deux auteurs sur des points très précis) et soutient que Lycophron s'est appuyé sur le récit de Fabius Pictor, ce qui impose de dater le poète du IIe siècle. Au contraire, J. Heurgon67 a pu montrer que, malgré le caractère énigmatique de ces vers, lorsque Cassandre évoque, outre l'avenir d'Enée, celui de Rome et de ses futures conquêtes, elle définit les limites d'un état romain qui correspond très exactement à ce qu'était ce dernier vers 274, date présumée de Y Alexandra. Il reste diffi cile de déterminer la part de l'influence de Timée sur Lycophron, dont T. J. Cornell68 estime qu'on ne peut rien dire, tandis que F. Castagnoli la juge probable69. A. Momigliano70, qui considère les vers concernant Enée et Rome comme authentiques et date l'ensemble du poème d'avant 264, tout en reconnaissant les liens étroits existant entre Timée et Lycophron, estime «impossible de dire dans quelle mesure précise Timée et Lycophron se sont réciproquement influencés dans leur juge ment sur Rome». Selon Lycophron, Enée débarque en Italie, où il va construire une ville et y installer les images de ses dieux71 : «Au pays des Aborigènes,
64 Cf. J. Geffcken, Timaios' Geographie des Westens, 1892, p. 1 sq. Berlin. 65 Cf. J. Heurgon, Recherches sur l'histoire, la religion et la civilisation de Capone pré romaine, 2è éd., Paris, 1970, p. 279 n. 5 et 6 pour la discussion sur l'authenticité du passa ge; cf. aussi G.Kinkel, Lycophronis Alexandra, Leipzig, 1880; C. von Holzinger, Lykophron's Alexandra, Leipzig, 1893; G. W. Mooney, The Alexandra of Lycophron, Londres, 1921 ; A. W. Mair, Lycophron, Londres, 1969 (Loeb Classical Librairy). 66 Les origines de la légende troyenne de Rome, p. 346-366. 67 Op. cit., p. 279-283. 68 Aeneas and the Twins : The Development of the Roman Foundation Legend, PCPhS, 201, 1975, p. 22. 69 Enea nel Lazio. Archeologia e mito, Catalogue Exposition, Rome, 1981, p. 158. 70 Op. cit., p. 551-554. τ' φκισμένην 71 V. 1253-1265 / πύργους : κτίσει δε χώραν έν τοϊς τόποις Βορειγόνων / υπέρ Λατίνους Δαυνίους τριάκοντ' έξαριθμήσας γονάς / συος κελαινής, ην άπ'Ίδαίων λόφων / και Δαρδανείων έκ τόπων ναυσθλώσεται, / ίσηρίθμων θρέπτειραν έν τόκοις κάρπων / ής καί πόλει δείκηλον ανθήσει μια / χαλκφ τυπώσας και τέκνων γλαγοτρόφων / δεΐμας δέ
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sur les Latins et les Dauniens, il fondera une cité avec trente tours, en nombre égal aux petits de la truie noire qu'il transporta sur son navire depuis les hauteurs de l'Ida et le pays de Dardanus, et qui mit au mon deen une fois ce nombre de petits; dans une seule cité il placera son image et celle des porcelets nourris de lait, façonnée en bronze; il cons truira un sanctuaire à Myndia Pallènis et y installera les images des dieux de sa patrie, que, négligeant femme, enfants, et tout le riche ensemble de ses biens, il vénérera en même temps que son vieux père». Le terme Βορειγόνοι72 désigne, selon T. Zielinsky73, «les peuples du nord», qui sont, d'après ce texte74, les Latins et les Dauniens; J. Heurgon reconnaît dans ces derniers, à la lumière d'un texte de Denys d'Halicarnasse, les Campaniens de l'est, et il note que l'ensemble de l'expres sion désigne «par une anticipation hardie, un empire qui rassemblait les Latins et les Campaniens». Quant à la «cité aux trente tours», dont le nom n'est pas précisé, elle a donné lieu à diverses identifications; J. Perret a proposé d'y reconnaître Albe et ses trente colonies75, mais déjà R. H. Klausen76 avait suggéré qu'il s'agissait de Lavinium, ce que confirment d'une part l'indication sur la présence d'une statue de bron ze de la truie miraculeuse, dont Varron77 nous dit qu'elle existait enco re de son temps sur le Forum de la cité78, d'autre part l'allusion, assez
δηκον Μυνδία Παλληνίδι / πατρώ' άγάλματ' έγκατοικιεϊ θεών, / α δη, παρώσας και δάμαρτα καί τέκνα / και κτήσιν άλλην όμπίαν κειμηλίων / σύν τω γεραιω πατρί πρεσβειώσεται. 72 Cf. J. Heurgon, op. cit., p. 281; J. Perret, op. cit., p. 361-365. 73 Xenien der 40 sten. Versammlung deutscher Philologen, Munich, 1891, p. 41. 74 Pour lequel diverses corrections ont été proposées : cf. J. Heurgon, op. cit., p. 281 n. 5; G. D'Anna (Lycophron, Alex. 1254, in Studi in onore di A. Ardizzone, Rome, 1978, p. 281-290) propose de lire «au-delà du Lacinio et des Dauniens», c'est-à-dire au nord de la Calabre et des Pouilles (cité par F. Castagnoli, op. cit., p. 161 n. 8). 75 Op. cit., p. 350-351. 76 Aeneas und die Penaten, Hambourg-Gotha, 1839-40, p. 675 sq.; C. von Holzinger {op. cit., p. 341) retient lui aussi cette identification; de même, G. W. Mooney, op. cit., p. 135. 77 Res Rusticae II. 4, 18. 78 Pour le commentaire sur la couleur de la truie aux trente porcelets, cf. C. von Holzinger, loc. cit. ; A. W. Mair, op. cit., p. 424-425. D'autre part, A. Alföldi (Early Rome, p. 272) souligne que la légende d'une truie miraculeuse est attestée dès le IIIe siècle à Tuder, en Ombrie, sur une monnaie (A. Sambon, Les monnaies antiques de l'Italie, Paris, 1903, n° 156) où est représentée une truie avec trois porcelets; A. Alföldi rapproche cette image des monnaies de Vespasien montrant la même scène, et estime que les trois petits en représentent symboliquement trente; la truie mettant bas un grand nombre de porce-
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obscure, aux trente tours, dont C. von Holzinger79 pense qu'elle symbol ise les trente cités de la Ligue latine à la tête de laquelle se trouva sans doute à un moment Lavinium. Fait capital, c'est la première mention dans la littérature d'un lien entre Enée et Lavinium, mais, contraire ment à ce que suggère G. K. Galinsky80, il nous paraît très probable que ce lien existait déjà chez Timée : nous avons dit que la qualification de Τρωικόν donnée par ce dernier à la poterie conservée dans d'adyton du temple de Lavinium nous semblait suggérer implicitement une rela tion entre Enée et la cité. Le texte de Lycophron contient deux autres innovations, dont il est difficile de préciser dans quelle mesure elles remontent à Timée, et, peut-être, à travers lui, à une tradition locale lavinate, à côté d'éléments déjà connus de la littérature antérieure : la piété d'Enée envers son père et envers ses dieux, qu'il fait passer avant toute autre considération familiale ou matérielle. La première de ces innovations est la désignat ion comme πατρώ'άγάλματα θεών de ce qui, jusqu'au IIIe siècle, ne nous est connu que par le terme vague de ίερά. Ces «images des dieux de la patrie» que Lycophron met aux mains d'Enée lui ont-elles été sug gérées par Timée? Nous nous bornerons ici81 à constater l'apparente divergence entre les indications données par les deux écrivains, l'histo rien voyant dans les Pénates de Lavinium «des caducées de fer et de bronze et de la poterie troyenne», tandis que l'expression αγάλματα θεών, employée par le poète, suggère beaucoup plus vraisemblablement des représentations anthropomorphiques. Avec Lycophron, c'est la pre mière fois que l'histoire des ίερά troyens est évoquée à peu près telle que nous la trouverons chez Virgile : Enée installe au Latium, dans une ville fondée par lui, les images des dieux de sa patrie. La seconde inno vation est le lien établi chez Lycophron entre les «images des dieux de la patrie» d'Enée et Athéna à Lavinium, puisque c'est dans le sanctuai re de la déesse qu'Enée installe ses dieux; ce témoignage est essentiel, car il est non seulement la première, mais l'unique attestation littéraire
lets semble donc un thème légendaire d'Italie centrale, prodige qui est gage de prospérité pour la cité dans laquelle il s'accomplit. 79 Loc. cit. 80 Op. cit., p. 141 : «II ne peut en aucune façon être montré que Lycophron a ici utilisé comme source Timée». 81 Cette question sera reprise ci-dessous, p. 264 sq.
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d'un culte d'Athéna à Lavinium82. Or, il semble bien que les découvert es de 1977 à Pratica di Mare apportent une confirmation, sinon d'un lien entre les Pénates et Athéna, du moins de l'existence d'un important sanctuaire de la déesse à Lavinium83, ce qui constitue peut-être une preuve de la présence de traditions locales lavinates dans le poème de Lycophron, et, par là-même, de sa dépendance par rapport à Timée, dont nous savons par Denys qu'il s'était rendu à Lavinium. Avec Timée et Lycophron, nous avons un aspect tout à fait nouveau d'Enée dans la littérature grecque : aux données grecques de la légende s'ajoutent des éléments latins, lavinates, réfléchis par les deux écrivains grecs. Au IIIe siècle, la légende du transport des ίερά par Enée de Troie au Latium apparaît dans la littérature latine naissante. Elle était sans doute évoquée par Naevius au Livre I du Bellum Punicum, avec d'au tres éléments de la légende d'Enée. Il nous en est parvenu un fragment, qui contient la première mention du mot Penates dans la littérature lati ne : Postquam auem aspexit in tempio Anchisa sacra in mensa Penatium ordine ponuntur8*. Bien que nous ne possédions pas le contexte de ces vers, on admet généralement85 que la scène se situe au Latium. Sans doute Enée n'estil pas directement mentionné ici, mais nous trouvons dans ce passage d'autres éléments caractéristiques du thème de la fuite du Troyen : la présence d'Anchise (que toutes les versions de la légende ne font pas arriver jusqu'au Latium), et la mention des Pénates, auxquels il sacri fie;selon l'interprétation de M. Barchiesi, Anchise est présenté ici com me un paterfamilias romain, offrant un sacrifice aux Pénates sur la table même où étaient disposées les prémices du repas et où l'on dres-
82 C'est ce qui l'a rendu suspect à J. Perret (op. cit., p. 353) qui refuse, de ce fait, l'identification de Lavinium comme «la cité aux trente tours». 83 Cf. F. Castagnoli, // culto di Minerva a Lavinio, Accademia Nazionale dei Lincei, Quaderno 246; Enea nel Lazio, p. 187 sq. ; C. Bearzot Atena Itonia Tritonia e Iliaca, in Poli tica e religione nel primo scontro tra Roma e l'Oriente, Milan, 1982, p. 57-60; M. Torelli, Lavinio e Roma. Riti iniziatici e matrimonio tra archeologia e storia, Rome, 1984, p. 19 sq.; F. Castagnoli, Ancora sul culto di Minerva a Lavinio, BCACR, 90, 1, 1985, p. 7-12. ' 84 Fr. 3 Barchiesi. 85 Pour le commentaire de ce passage, cf. M. Barchiesi, Nevio epico, Padoue, 1962, p. 368 sq.
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sait de petites statuettes des dieux. Toutefois, nous l'avons vu86, on peut comprendre aussi que mensa désigne la table des dieux, une sorte d'autel domestique, interprétation, qui nous semble préférable, de mens a associé au nom d'un dieu87. Mais surtout, comme chez Lycophron, on a chez Naevius une allusion aux représentations des πατρώοι θεοί venus de Troie. Il est remarquable que, dès les premiers témoignages de la littérature latine, nous voyions désigner par le mot Penates les sacra troyens88. Naevius fait jouer à Anchise un rôle que Virgile attr ibuera à Enée lui-même, mais les caractères généraux de la scène sont toujours les mêmes, à travers des variantes qu'il est impossible d'attr ibuerà des sources précises. En effet, parallèlement à la mise en forme littéraire, en grec ou en latin, que nous connaissons par les œuvres ou fragments d'œuvres qui nous sont parvenus, il faut sans doute suppos er une vie de cette légende dans la tradition locale du Latium, parlée ou peut-être écrite, avec les enjolivements éventuels que cela suppose. L'absence de tout document nous empêche évidement de suivre la genèse de cette formation. 3) La tradition annalistique Chez Fabius Pictor, la légende de la venue d'Enée au Latium est élaborée avec des préoccupations de concordance chronologique entre la venue d'Enée et la fondation de Rome89, mais nous ne possédons aucun fragment de l'annaliste se rapportant au transport des sacra. Il en va de même pour ce que nous connaissons de l'œuvre d'Ennius : au début des Annales, il est fait allusion à la légende de la venue d'Enée en Italie, dans une contrée appelée par Ennius tantôt Hesperia90, tantôt Saturnia terra91; mais, du moins en l'état où nous est parvenue l'œuvre, il n'est rien dit des sacra apportés par Enée. Au IIe siècle, l'historien Cassius Hemina a raconté l'histoire de Rome depuis Enée, et évoqué la fuite d'Enée et son arrivée en Italie : Additur etiam ab L. Cassio Censorio miraculo magis Aenean patris (di-
86 Cf. ci-dessus, p. 85-86. 87 Cf. En. II, 764 : mensae deorum. 88 Pourtant, la construction du génitif Penatium fait difficulté : cf. supra p. 85-86. 89 Cf. G. Manganaro, Una biblioteca storica nel ginnasio a Tauromenio nel IIe siècle a.C, in A. Alföldi, Romische Frühgeschichte, Heidelberg, 1976, p. 83-96. 90 Macrobe, Sat. VI, 1, 11. 91 Varron, De L.L. V, 42.
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gnitate sanctio)rem inter hostes intactum properauisse concessique ei nauibus in Italiani nauigasse. Idem historiarum libro I ait, Ilio capto (Aenean cum dis penatibus) umeris impositis empisse duosque filios Ascanium et Eurybaten bracchio eius innixos ante ora hostium praeitergressos)92. Nous avons ici, comme chez Ennius, la mention de l'Italie comme terme du voyage d'Enée; le Latium n'est pas cité, contraire ment au fragment du texte des Annales que nous venons de voir, où, selon le commentaire qu'en fait Varron, Saturnia terra désigne le La tium. Cassius Hemina, d'après le scholiaste de Vérone ne parle que d'Italia93. En revanche, nous avons pour la première fois, avec ce texte, une assez longue évocation du transport des sacra. La scène de la fuite d'Enée évoquée par Cassius Hemina s'apparente à d'autres illustrations du thème déjà étudiées : Enée s'enfuit de Troie en bateau en emmenant avec lui ses dieux et sa famille; l'ensemble du tableau se présente bien comme le «groupe pyramidal» dont parle J. Heurgon94 à propos des reliefs de la Tabula Iliaca, mais il est traité ici avec quelques variantes par rapport à la version de Stésichore, telle que nous la présente la Table du Capitole. Sur cette dernière en effet, le départ d'Enée à pro prement parler est représenté deux fois, dans la Porte Scée et sur le rivage au moment de son embarquement. Enée porte sur ses épaules son père Anchise, qui serre contre lui une ciste contenant, d'après les inscriptions commentant ces reliefs, les ιερά. Ici, il n'est pas question d'Anchise, dont le nom n'est pas mentionné. Ce sont les dieux Pénates eux-mêmes qu'Enée porte sur ses épaules (umeris impositis) : ils pren nent la place qu'occupe Anchise dans d'autres versions, formant donc le sommet de la pyramide. D'autre part, la base de la pyramide est, elle aussi, un peu différente de ce qu'elle est généralement dans les évoca tions littéraires et iconographiques de la scène. En effet, Enée, au lieu de tenir par la main l'unique fils de son mariage troyen, Ascagne, porte ou tient appuyés à son bras (bracchio eius nixos) deux fils troyens, Ascagne et Eurybates. Enfin, si ce texte est une citation exacte de Cas sius Hemina, nous voyons chez l'annaliste, comme chez Naevius, les sacra de Troie désignés par l'expression di Penates. Cela témoignerait donc, aux IIIe et IIe siècles, d'une élaboration romaine de la légende des
92 In Schol. Verg, Ad Aen. II, 717 = fr. 5 Peter; voir supta p. 125-8. 93 On désignait par ce nom le sud de la péninsule, plus précisément le Bruttium, nom antique de la Calabre : cf. G. Vallet, Rhégion et Zancle, p. 103. 94 La Magna Grecia e i santuari del Lazio, p. 24.
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origines troyennes : la désignation, spécifiquement latine, de Penates est en effet appliquée ici à des divinités supposées venir d'Asie Mineure, dans une légende apportée en Italie par les Grecs. 4) L'épanouissement de la légende Au Ier siècle avant J.-C, la légende se développe et est de plus en plus élaborée. Bien que les aventures d'Enée aient figuré dans ses His toires qui ne nous sont pas parvenues, nous connaissons la version qu'en donne Varron par un commentaire du scholiaste de Vérone : Varrò secundo Historiarum refert, Aenean capta Troia arcem cum plurimis occupasse magnaque hostium (gratia obtinuisse a)beundi potestatem. Itaque concessum ei quod uellet auf erre; cumque circa aur(um) opesque alias ceteri morarentur, Aenean patrem suum collo (tulisse miserantibus)que Achiuis hanc pietatem redeundi Ilium copiam datam, ac deos pénates ligneis sigillis uel lapideis terrenis quoque Aenean (umeris extulisse). Quam rem Graecos stupentes omnia sua auferendi potestatem dedisse eaque ratione saepius redeuntem omnia e Troia abstulisse et in nauibus posuisse95. Ce texte, qui semble plutôt un résumé de celui de Varron qu'une citation exacte, présente pour la première fois des épiso desde la fuite d'Enée qui figureront dans les récits ultérieurs. Ici, le personnage d'Enée prend une nouvelle dimension : il n'est plus seule ment le guerrier et le futur fondateur de cité, il est déjà le pius Aeneas que l'on trouvera chez Virgile. Du guerrier courageux que la légende avait jusque-là présenté, Varron a cependant conservé un trait : il essaie de résister le plus longtemps possible aux Grecs en occupant avec des compagnons d'armes la citadelle de Troie (Aenean . . . arcem cum plurimis occupasse). Mais c'est surtout par sa piété qu'il va se distinguer des autres Troyens, et attirer sur lui, à deux reprises, l'admiration et la cl émence de ses ennemis. Sa piété en effet se manifeste sous un double
95 Ad Aen. II, 717 : «Dans le second livre de ses Histoires, Varron raconte qu'après la prise de Troie, Enée occupa la citadelle avec un grand nombre de ses concitoyens, et obtint, par une grande faveur de l'ennemi, la permission de se sauver. Aussi lui accordat-on le droit d'emporter ce qu'il voulait; alors que tous les autres s'attardaient à choisir de l'or et autres richesses, Enée chargea son père sur ses épaules; et lorsque les Achéens, émus de cette piété, l'autorisèrent à revenir à Troie, Enée emporta sur ses épaules les dieux Pénates figurés par des statuettes de bois, de pierre, et de terre cuite. Les Grecs, stupéfaits d'admiration, l'autorisèrent à emporter tous ses biens, et Enée, refaisant plu sieurs fois le trajet, enleva de Troie tous ses biens et les déposa dans ses navires ».
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aspect : piété filiale d'abord (Aenean patrem suum collo tulisse), qui va valoir à Enée une seconde autorisation de retourner à Troie96, et lui donner l'occasion de montrer cette fois sa piété envers les dieux (ac deos Penates umeris extulisse). Certains éléments de ce récit rappellent celui de Cassius Hemina : les sacra de Troie sont désignés comme des Penates, et les termes mêmes par lesquels est évoqué Enée portant sur ses épaules ses dieux Pénates rappellent aussi le texte de Cassius Hemi na {Aenean cum dis Penatibus umeris impositis); mais nous ne retrou vonspas ici le «groupe pyramidal»; les différents éléments de la pyra mide sont dissociés, chacun d'entre eux figurant dans l'un des voyages d'Enée des ruines de Troie au rivage : Anchise d'abord, les Pénates, puis omnia sua, parmi lesquels il faut sans doute comprendre Ascagne. Cette dissociation suscite une émotion devant le personnage d'Enée, différente de celle que donnait la vision saisissante du raccourci formé par le «groupe pyramidal»; elle permet de montrer que c'est précis émentpar sa pietas, dans ses exercices successifs, qu'Enée a pu emport er de Troie en ruines tout ce qui lui tenait à cœur. Mais, si la mise en scène de l'exercice de cette pietas semble due à Varron, l'existence de cette dernière comme caractéristique du personnage d'Enée remonte peut-être à Stésichore, cependant que le thème du désintéressement d'Enée, prêt à renoncer à ses richesses, se trouvait déjà exprimé chez Lycophron97. Enfin, si la destination du voyage d'Enée n'est pas men tionnée dans ce texte, elle est néanmoins formulée très clairement ai lleurs chez Varron : Oppidum quod primum conditum in Latto stirpis Romanae, Lauinium : nam ibi dii Penates nostri. Hoc a Latini filia, quae coniuncta Aeneae, Lauinia, appellatum98 : Lavinium est le premier ét ablissement troyen en Italie, le siège des Pénates apportés par Enée. La même scène est évoquée, de facon beaucoup moins frappante, chez Denys d'Halicarnasse, dont les Antiquités Romaines sont très la rgement inspirées de Varron". L'épisode de la résistance d'Enée et de ses compagnons dans la citadelle de Troie est longuement développé, alors que le départ d'Enée proprement dit tient en quelques lignes :
96 Le thème de la piété filiale d'Enée et de l'admiration qu'elle suscita chez les enne mis, était déjà présent chez Xénophon (Cyn. I, 15) : Voir supra p. 169; 171 n. 57. 97 Alex., 1263-65. 98 De L.L. V, 144. 99 Cf. Paul M. Martin, La propagande augustéenne dans les Antiquités Romaines de Denys d'Halicarnasse, REL, 48, 1971, p. 162-175; E. Gabba, La «Storia di Roma arcaica» di Dionigi d'Halicarnasso, A.N.R.W., II, 30, 3, Berlin-New- York, 1983, p. 799-816.
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άπήει . . . αγόμενος επί ταΐς κρατίσταις συνωρίσι τόν τε πατέρα και θεούς τους πατρφους γυναικά τε και τέκνα και των άλλων ει τι πλείστου άξιον ήν σώμα ή χρήμα100. On trouve ici les mêmes éléments que dans les documents précédents : le départ d'Enée avec son père, ses παθρωοι θεοί, et son fils. Mais il s'agit d'une simple enumeration, qui ne se sou cie pas de composition dramatique, ni ne cherche à susciter l'émotion; elle comporte quelques détails que l'on ne trouve pas ailleurs : existen ce de plusieurs enfants d'Enée à Troie, présence de sa femme Creuse; en revanche, le terme du voyage d'Enée est très clairement indiqué dans un passage voisin101; Enée et ses compagnons arrivent en Italie près de l'embouchure du Tibre : les Aborigines, habitants du lieu, don nent aux Troyens fugitifs des terres sur lesquelles Enée fonde la ville de Lavinium, épisode sans doute directement inspiré du texte de Varron cité plus haut. Tite-Live, s'il mentionne au début de son ouvrage la légende de l'établissement d'Enée en Italie102, ne donne aucun détail sur les condi tions dans lesquelles le héros troyen a fui sa patrie. Ni Anchise, ni les Pénates ne sont cités, et Ascagne est le fils, non du mariage troyen d'Enée avec Creuse, mais de l'union d'Enée et de Lavinia en Italie. C'est évidemment chez Virgile que l'épisode du transfert des sacra de Troie en Italie par Enée reçoit la mise en œuvre la plus riche. Cela s'explique par le rôle que jouent les sacra pour assurer la continuité entre Troie, l'établissement fondé par les Troyens au Latium, et la futu re Rome; leur présence en Italie fonde et justifie les prétentions des Romains à être les héritiers des Troyens et celles de la Gens Iulia et d'Auguste à détenir le pouvoir suprême; elle donne à l'histoire d'Enée et de ses descendants une dimension religieuse et spirituelle. Il y a quelques années, G. Dumézil avait montré de facon très convaincante103 comment, au livre II de l'Enéide, se dévoile la mission d'Enée, qui va opérer chez le héros une transformation complète. Dans
100 I, 46, 4 : « il partit . . . emportant avec lui, dans ses meilleurs attelages, son père, son épouse, et ses enfants, et tout ce qui, être vivant ou bien, était le plus précieux». 101 I, 45, 1 : εις Λαύρεντον, αίγιαλον Λβοφιγίνων επί τω Τυρρηνικοί πελάγει κείμενον («vers Laurentum, rivage des Aborigines sur la mer Tyrrhénienne»). 102 I, 1, 1 sq. 103 Mythe et Epopée I, 2e éd., Paris, 1974: Enée et la première fonction, p. 384-393; Genèse de la mission d'Enée au deuxième chant de l'Enéide, p. 393-403.
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un ouvrage plus récent104, il écrit : «le sujet du second chant n'est pas le malheur de Troie en tant que tel, mais la mutation qu'il produit dans l'âme d'Enée et qui fait d'un guerrier vaincu, désespéré, sans patrie, le sauveur des Pénates et le dépositaire presque sacerdotal d'un grand avenir». Le thème du transfert des sacra se développe du livre II, où Enée évoque chez Didon la dernière nuit de Troie et son départ loin de sa patrie, au livre VIII, où le Tibre lui apparaît en songe pour lui révé lerqu'il a atteint le terme de son voyage fixé par les destins, la terre où il devra établir les Pénates de Troie, et fonder une cité d'où ses descen dantspartiront pour en fonder une autre, promise à l'empire du mond e105. C'est au moment même où se prépare la ruine de Troie que sa mis sion est pour la première fois révélée à Enée. Les Troyens, trompés par les paroles de Sinon, ont fait pénétrer le cheval des Grecs dans leur ville, dont tous les habitants dorment paisiblement. Hector apparaît alors en songe à Enée, lui annonce la ruine prochaine de Troie, lui conseille de fuir et ajoute : Sacra suosque ubi commendai Troia penatisi hos cape fatorum comités, his moenia quaere magna, pererrato statues quae denique ponto 106. Enée, qui jusqu'alors était seulement l'un des guerriers troyens, se voit ainsi annoncer une double mission, religieuse et politique : d'une part, on lui confie les sacra et les Pénates de Troie qui le suivront au cours de ses tribulations et seront pour lui comme des compagnons {f atorum comités), d'autre part, il devra, au terme de ses épreuves, fonder au-delà des mers {pererrato ponto) une cité puissante {moenia magna) susceptible d'offrir aux Pénates et aux sacra un abri sûr107. L'expression
104 Mariages indo-européens. Quinze Questions Romaines, Paris, 1979 : Le coup de lan cede Laocoon, p. 179-188. 105 Cf. H. Boas, Aeneas' arrival in Latium, p. 56 sq. 106 Π, 293-295 : « Troie te confie ses choses saintes et ses Pénates, prends-les comme compagnons de tes destins, pour eux cherche une ville qu'au terme, après de longues erreurs sur toutes les mers, tu instaureras, grande» (Trad. J. Perret, C.U.F., Paris, 1977). 107 R. G. Austin (Aeneidos, Liber Secundus, éd. comm., Oxford, 1964, p. 135) estime que commendai, dont il rapproche l'emploi de celui qui en est fait par Properce (IV, 11, 73 sq.) « suggère la remise solennelle d'une charge, comme celle d'enfants par un père ou une mère mourant».
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sacra suosque Penates nous semble d'ailleurs présenter une difficulté d'interprétation : on peut en effet comprendre, comme le fait J. Perret, qu'il s'agit de deux réalités distinctes, des «objets de culte», et les Pénat es108; mais on remarquera aussi que le terme latin sacra est la traduc tion de ιερά, ces ίερά que Stésichore mettait dans les mains d'Anchise lorsque les survivants de Troie s'embarquaient pour l'«Hespérie»; on peut se demander alors si sacra et Penates désignent deux sortes de réa lités cultuelles, et si l'on ne peut l'interpréter comme un hendiadyn 109. G. Dumézil souligne que «de ces trois éléments (= de la mission d'Enée) - la fondation, les dieux, Yimperium - tantôt l'un, tantôt l'autre, tantôt deux, tantôt les trois sont mis en valeur, mais ils sont inséparables et ceux qui ne sont pas exprimés sont toujours sous-entendus»110. Il nous semble toutefois que Virgile établit, dans ce passage, une hiérarchie entre les deux éléments présents (les dieux, la fondation) : la préémi nenceappartient ici à l'élément religieux, puisque la future cité qu'élè veraEnée n'a de signification que par rapport aux sacra, aux Pénates qu'elle aura à abriter : si ce n'est pas là son unique fonction, c'est du moins ce qui justifie sa fondation. La transformation d'Enée ne se fait pas sans heurts, sans retours passagers au personnage du guerrier qu'il a été jusque-là. Lorsqu'il s'éveille et voit Troie en flammes - les maisons des Troyens s'écroulent de toute part autour de lui -, il décide de reprendre les armes, de lutter contre les Grecs, même si cette entreprise est sans espoir111. Enée va donc s'engager avec ses compagnons dans une tentative de résistance en s'enfermant dans la citadelle, épisode qui rappelle évidemment le récit de Varron et de Denys d'Halicarnasse. La mission que lui a confiée Hector semblerait oubliée dans les fureurs de la guerre, si Panthus, arcis Phoebique sacerdos112, ne se réfugiait auprès d'Enée en lui apportant les sacra :
108 Cf. aussi II, 320; XII, 490. "*> Cf. infra p. 338. 110 Mythe et Epopée I, p. 384. 111 II, 314 : «Je me souviens qu'il est beau de mourir dans les armes» (trad. J. Perret, op. cit.). Selon R. G. Austin (op. cit., p. 142-143), le caractère guerrier d'Enée, trait essent iel du personnage, s'exprime notamment dans l'anaphore in armis . . . in armis (v. 314 et 317). 112 II, 319.
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LES PÉNATES PUBLICS sacra manu uictosque deos paruomque nepotem ipse trahit113.
Dans cette résistance désespérée d'Enée guerrier (ses dieux sont déjà uicti), le personnage de Panthus, peut-être déjà présent dans Vllioupersis de Stésichore, si l'on en croit l'illustration qu'en donne la Table Iliaque du Capitole, apportant ici les sacra, est un rappel de la mission du héros. Quant aux uictos deos, il nous semble que, dans la vision de Virgile, ils ne peuvent être que les Pénates114, l'ensemble de l'expression sacra uictosque deos posant le même problème d'interpré tation que nous avons signalé plus haut, à savoir le sens du rapport établi entre sacra et deos115. Au contraire de Varron et de Denys d'Halicarnasse, pour qui Enée, renonçant au bout d'un moment à défendre Yarx, se rendait directement sur le rivage avec son père, ses sacra et ses biens, Virgile a pris soin de ménager une progression qui rend psycho logiquement vraisemblable la transformation d'Enée de guerrier fu rieux en chef spirituel. Chez Varron et Denys, c'est en raison seulement de sa défaite et de sa reddition forcée qu'Enée, s'inclinant devant les faits, accepte son exil, occasion pour lui de manifester sa pieias. Chez Virgile, ce sont des chocs affectifs qui modifient la sensibilité du héros et le mettent à même d'accepter et d'accomplir sa mission. En effet, après l'échec de sa résistance dans la citadelle, il court vers le palais de Priam et assiste au meurtre du roi par Pyrrhus. L'émotion provoquée par ce spectacle produit en lui un brutal abattement où tombent sa colère et sa fureur de combattant116. L'espèce de vide qui se fait alors en lui prépare sa mutation. L'image de Priam, vieillard assassiné, fait surgir l'image d'Anchise à qui semblable sort pourrait bien échoir, et, par une sorte d'effusion sentimentale, celle de tous les siens. Certes, ce n'est pas exactement sa mission religieuse qui vient alors à l'esprit
113 II, 320-321 : «avec dans ses bras les objets saints, nos dieux vaincus, un enfant, son petit-fils, qu'il traîne lui-même.» (op. cit.). 114 Cf. VIII, 11 : uictosque Penatis. 115 Servius (Ad Aen. II, 320) note que le sens du mot sacra, désignant, selon lui, les objets saints de Troie, s'éclaire par le rapprochement avec les paroles d'Hector (II, 293). R. G. Austin (op. cit., p. 144), s'appuyant sur un passage d'Augustin (De Ciu. Dei, I, 3), affirme qu'il s'agit ici des Pénates de Troie, et rapproche, à juste titre croyons-nous, le texte de Virgile d'une des scènes représentées sur la Tabula Iliaca du Musée du Capitole; cf. infra p. 207. 116 II, 559-560 : «Alors pour la première fois une horreur atroce m'envahit; je demeur ai sans mouvement» (op. cit.).
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d'Enee, mais l'une des formes de sa pietas, son attention aux siens, se manifeste ici. Cet élargissement du champ d'exercice de la pietas d'Enée prend une ampleur particulière chez Virgile, à qui ce thème a pu être inspiré par Cassius Hemina et Varron; rappelons que Lycophron faisait à Enée un mérite de préférer ses dieux et son père à sa femme et à ses enfants. La violence et la colère du héros vont s'expr imer une dernière fois, lorsqu'il aperçoit Hélène117. Un désir de vengeanc e et de meurtre s'empare de lui, et il aurait tué Hélène si Vénus ne lui avait alors montré l'inutilité, l'absurdité de ce geste, impuissant à sau ver Troie de la ruine ou à réparer ce désastre. Dès lors tous les éléments sont en place pour qu'Enée accepte et accomplisse sa mission. Il gagne la maison d'Anchise, ducente deo118, ce qui lui permet d'éviter les traits des Grecs et souligne le caractère sacré qui sera désormais le sien. Il a un dernier sursaut de colère guerrière, qui est désarmé par Creuse, et, surtout, par le prodige qui s'accomplit sur la personne d'Ascagne : l'aigrette de feu qui apparaît au-dessus de sa tête le désigne comme l'élu des dieux, le porteur des espoirs de Troie en ruines119. Ce prodige signifie que la race troyenne, en la personne d'Ascagne, est promise à d'autres destinées, et que les dieux n'ont pas abandonné Enée et sa famille. C'est bien ainsi d'ailleurs qu'il est inter prété par Anchise, chez qui il suscite une soumission à la volonté divi ne, dont il voit désormais qu'elle les protège, lui et les siens, comme héritiers de Troie 12°. Enée va, lui aussi, comprendre que le prodige port ele même message que le songe dans lequel Hector lui était apparu; alors va se former le « groupe pyramidal » : Ergo age, care pater, ceruici importere nostrae; . . . mihi paruos lulus sit cornes, et longe seruet uestigia coniunx . . . Tu, genitor, cape sacra manu patriosque penatis; me bello e tanto digressum et caede recenti
117 Π, 567-587. Notons que l'authenticité du passage concernant Hélène, que Servius ne commente pas, a été vivement contestée. Voir un résumé de la discussion chez R. G. Austin (op. cit., p. 217-218, avec bibliographie p. 219). 118 II, 632. 119 Cf. H. Boas, op. cit., p. 165 sq. Selon Virgile, Lavinia (En. VII, 71 sq.) et Octave (En. VIII, 680 sq.) firent l'objet du même prodige. Mais la même tradition existait à pro pos du roi Servius Tullius : voir J. Champeaux, Fortuna. Le culte de la Fortune à Rome et dans le monde romain, Coll. de l'École Française de Rome, 64, Rome, 1982, p. 295-296. 120 II, 703.
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LES PÉNATES PUBLICS attrectare nefas, donec me flumine uiuo abluero121.
La scène ressemble beaucoup à celle qui est sculptée sur la Tabula Iliaca du Musée du Capitole : dans la Porte Scée, Anchise, tenant les sacra dans ses bras, est porté sur les épaules d'Enée, qui tient Ascagne près de lui; Creuse suit de loin. Les deux derniers vers contiennent un autre élément, propre à Virgile : «Comme pour marquer la rupture avec le personnage qu'il a d'abord été cette nuit-là, Enée se reconnaît souillé», écrit G. Dumézil122. Anchise, qui, lui, est pur, porte les sacra, et réunit alors en sa personne les deux aspects de la pietas d'Enée : piété filiale Enée l'emmène avec lui et le soutient - piété envers les dieux - c'est lui qui porte leurs images, qu'Enée ne touchera qu'après s'être purifié. Le «groupe pyramidal» des fugitifs est donc constitué, avec, longe, Creuse, qui disparaît. Enée part à sa recherche, confiant à ses compa gnons : Ascanium Anchisenque patrem Teucrosque penatis 123. La tentative pour retrouver Creuse est le dernier obstacle au départ d'Enée. On songe évidemment à la scène que le sculpteur de la Tabula Iliaca a située dans la Porte Scée : tandis qu'Enée, conduit par Hermès, quitte la ville avec Anchise et Ascagne, une femme, identifiée comme Creuse, reste en arrière, dans une attitude douloureuse. Mais chez Vir gile, par un retournement saisissant, c'est Creuse elle-même, apparue en songe à Enée, qui va pousser Enée à la fuite; car non seulement elle le dissuade de continuer à la chercher, mais elle lui indique, ce que nul n'avait fait jusque-là, la destination de son voyage124. La contrée réser véepar les dieux à Enée est désignée, du même terme que chez Stésichore - d'après la Tabula Iliaca du moins -, par le mot à'Hesperia, notion géographique assez vague, un peu précisée par la mention du Tibre; mais le Latium n'est pas nommé. Pourquoi Virgile met-il dans la
121 II, 707-720 : « Allons, père chéri, place-toi sur notre cou . . . que le petit Iule m'ac compagne, et qu'un peu plus loin mon épouse suive bien notre marche . . . Toi, père, prends dans tes mains les objets sacrés, les Pénates de nos ancêtres ; moi qui sors à peine d'une guerre si rude et de ses carnages, je ne peux les toucher avant de m'être purifié dans une eau vive» {op. cit.). 122 Mythe et Epopée I, p. 401. 123 II, 747. 124 II, 781 : et terram Hesperiam uenies.
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bouche de Creuse cette révélation? Au premier abord, il peut sembler paradoxal que Creuse se retire, volontairement, de l'avenir d'Enée; mais le personnage est transfiguré : Creuse, dépouillée de la jalousie d'une épouse mortelle, se fait l'interprète de la volonté divine auprès d'Enée; ses paroles vont délivrer Enée des scrupules qui pouvaient l'ar rêter dans l'accomplissement de sa mission. Aussi le livre II se terminet-il sur l'évocation d'Enée rejoignant ses compagnons et, sublato genitor e125,s'avancant sur une route inconnue, et le livre III s'ouvre-t-il par la reprise du même tableau, sur la mer cette fois : Feror exsul in altum cum sociis natoque penatibus et magnis dis 126. Cependant, le transfert des sacra connaît chez Virgile plusieurs éta pes. Par suite d'une erreur d'interprétation de l'oracle de Délos, Enée s'installe avec ses compagnons en Crète, mais une série de fléaux s'abattent sur eux, les plongeant dans le doute et l'angoisse, quand, une nuit, les Pénates de Troie apparaissent à Enée, et lui révèlent son erreur : sa destination est la contrée autrefois appelée Hespérie, au jourd'hui Italie127. Cette révélation est une reprise et une confirmation de celle que Virgile avait confiée à Creuse au livre précédent. Le terme Hesperia est répété, avec quelques précisions sur l'histoire de cette terre et de son nom «moderne», Italia. Mais, surtout, Virgile donne ici aux Pénates une dimension supplémentaire : de divinités passivement trans portées par Enée, ils prennent un rôle actif, deviennent des protagonist es de l'épopée, et guident le héros jusqu'au terme de ses errances. Dans les livres II et III, Virgile évoque donc le départ d'Enée et mentionne la destination de son voyage, le terme de son exil. Les livres
125 II, 804. 126 III, 11-12 : «Exilé, je mets le cap sur le grand large avec mes compagnons, mon fils, les Pénates et les Grands Dieux» (op. cit.); sur l'expression Penatibus et Magnis Dis, cf. R. B. Lloyd, Penatibus et Magnis Dis, AJPh, 77, 1956, p. 38-46; R. Schilling, Penatibus et Magnis Dis, Mise. E. Manni VI, Rome, 1980, p. 1963-1978. 127 III, 163-6 : «II est un lieu - les Grecs le nomment Hespérie - terre antique, puis sante par ses armes et par la fécondité de sa glèbe; les Oenotres l'ont habité. On dit que par la suite, cette nation a pris le nom d'un de ses chefs et porte maintenant le nom d'Italie » (op. cit.) ; voir R. D. Williams, Aeneidos, Liber Tertius (éd. commentée), Oxford, 1962, p. 91 : le nom d'Oenotrie, que Servius explique comme venant du nom du vin en grec, et Varron comme un dérivé du nom du roi Oenotrus, désigna d'abord le Bruttium et la Lucanie, mais fut peu à peu employé par les poètes pour désigner toute l'Italie, dont le nom viendrait de celui du roi Italus.
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VII et VIII, complétant la version virgilienne du transfert des sacra, racontent l'installation d'Enée et de ses dieux au Latium. Le groupe formé par le héros et sa famille s'est disloqué à la mort d'Anchise, à la fin du livre III. En revanche, au cours de ce même livre, il a été plus ou moins clairement révélé à Enée qu'un prodige l'avertirait qu'il a bien atteint la terre promise par les destins et annoncée déjà par des songes et des oracles. Les Pénates, on l'a vu, le poussent à gagner l'Italie, et les Troyens, qui naviguent vers le nord, sont pris par une tempête. Ils sont alors en butte aux persécutions des Furies, lorsqu'une d'elles, Céléno, rappelle à Enée le brillant avenir qui lui est promis et lui apprend qu'un prodige marquera son arrivée : Enée et ses compagnons manger ont leurs tables128. Cette prophétie reste fort mystérieuse pour Enée et ses compagnons, puisque la Furie n'explique pas comment se produira cette manducation des tables, ni sa signification129; comme souvent chez Virgile, les révélations se font en plusieurs temps, l'avenir se révèl e progressivement. En continuant sa navigation, Enée parvient à Buthrote, en Epire, où le troyen Hélénus a fondé un royaume130; Hélénus va révéler à Enée131 que des signes lui indiqueront qu'il a définitiv ement terminé ses voyages : c'est d'abord l'enfantement par une truie blanche de trente porcelets132, ensuite la nécessité pour Enée et ses compagnons de mordre dans leurs tables. Alors seulement : fata uiam inuenient aderitque uocatus Apollo113.
128 III, 255-257 : absumere mensas; voir supra p. 86. 129 Le prodige de la manducation des tables se trouvait déjà chez Lycophron (Alex., 1250-1252), et est mentionné par Denys d'Halicarnasse (I, 55, 3), qui signale les deux interprétations que l'on donne de ces « tables » : il s'agirait, soit de persil que les Troyens auraient déposé sur le sol en guise de table, soit (et c'est à cette tradition que se rattache Virgile), de gâteaux qui leur auraient évité de salir leur nourriture; ils auraient ensuite mangé ces «tables» improvisées; cf. R. D. Williams, op. cit., p. 107-108. 130 Ces migrations «troyennes» sur les côtes de la mer Ionienne ont été étudiées par J. Gagé, Base de migration « dardanienne » et escales «troyennes» dans la Mer Ionienne, REL, 55, 1977, p. 84-112 : les étapes d'Enée sur la côte d'Epire feraient partie d'une tradi tion relativement récente, relancée, au temps de Virgile, par la victoire d'Octave à Actium. La mention d'Apollon, relevée plus bas, va dans le même sens. 131 III, 388 sq. 132 Le «miracle de la truie» est mentionné par Lycophron (Alex., 1255-60), Fabius Pictor (apud Diodore, VII, 3), et Denys d'Halicarnasse (I, 56, 5); sur l'illustration iconogra phiquedu thème, voir F. Castagnoli, Lavinium I, Rome, 1972, p. 77, fig. 78; p. 78, fig. 80 et 81 ; p. 79, fig. 82, p. 94-100. 133 III, 395 : « Les destins trouveront leur voie, Apollon invoqué t'assistera » (op. cit.).
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La mention d'Apollon est intéressante, car la présence de ce dieu protecteur personnel d'Auguste, ce qui contribue à donner sa significa tion politique au transport des sacra, - va en quelque sorte encadrer l'aventure des Pénates134. On se rappelle que. c'est Panthus, prêtre d'Apollon, qui les a sauvés de Troie en flammes et les a emportés dans la citadelle où Enée a tenté une résistance aux Grecs; c'est Apollon encore qui assistera Enée lors de l'accomplissement du prodige de la manducation des tables, événement qui marquera le début d'une ère nouvelle pour les Troyens. Aussi, lorsqu'Enée et les siens, parvenus sur les bords du Tibre135, se reposent sous un arbre et mangent des mets placés sur des galettes de blé136, la remarque d'Ascagne, etiam mensas consumimus, fait-elle comprendre à Enée que ses destins sont enfin accomplis, et ce dernier, bouleversé par la présence divine que révèle le prodige, invoque solen nellement les Pénates, numine pressus : Salue fatis rnihi debita tellus uosque, ait, ο fidi Troiae saluete Penates : hic domus, haec patria est 137. Reconnaissant en face de son fils et de ses compagnons qu'il peut enfin fonder une cité et y établir ses dieux138, il associe dans son invoca tion aux Pénates et à la terre italienne le souvenir de son père Anchise, dont le soutien moral, de son vivant et également après sa mort, l'a aidé à surmonter ses épreuves139. Ainsi se trouve reconstitué, du moins par la parole, le groupe qui a fui Troie, Enée, Anchise et Ascagne, groupe
134 Apollon tient une place essentielle dans le livre III (cf. R. D. Williams, op. cit., p. 19-20), et c'est lui encore dont l'oracle accueille Enée sur la côte italienne, au livre VI; il est par ailleurs {En. VIII, 720) le protecteur d'Auguste : J. Gagé, Apollon romain. Essai sur le culte d'Apollon et le développement du «ritus Graecus» à Rome des origines à August e, Paris, 1955, p. 479-522; P. Boyancé, Apollon solaire, in Mélanges J. Carcopino, Paris, 1966, p. 149-170; J. Perret, Enéide, l. V-VIII,- C.U.F., Paris, 1978, Notes Complémentaires, p. 165-166. 135 J. Carcopino, Virgile et les origines d'Ostie, 2è éd., Paris, 1968, p. 433 sq. 136 VII, 106. 137 VII, 120-122 : «Salut, terre que me devaient les destins, et vous aussi, dit-il, salut fidèles Pénates de Troie, ici est ma maison, ici ma patrie» (op. cit.). 138 H. Boas, op. cit., p. 4-26. 139 Sur la présence d'Anchise, voir C. J. Fordyce, Aeneidos Libri VII-VIH, Oxford, 1977, p. 85 (éd. commentée).
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qui comme Apollon, mais cette fois au niveau humain, se trouve au point de départ et au point d'arrivée du transfert des sacra. Enfin, une fois acquise pour Enée la certitude d'être parvenu au terme de ses errances, il va lui falloir trouver une terre que personne ne lui dispute pour installer ses compagnons et ses dieux. L'installation des sacra troyens en Italie est évoquée dans la suite du livre VII, lors que le troyen Ilionée se rend en ambassade auprès de Latinus pour lui demander une terre et lui offrir ses présents : Dis sedem exiguam patriis litusque rogamus innocuom 14°. Ilionée présente sa réquête d'une manière qui souligne à la fois la modestie des prétentions des exilés (sedem exiguam, litus innocuom) et le sentiment de piété qui inspire ces prétentions {dis patriis) : il n'est pas question de disputer à Latinus la souveraineté sur le Latium. Les sacra sont désignés ici comme di patrii, ce qui marque, davantage peut-être que ne l'aurait fait le mot Penates, le caractère d'exilés et l'humilité des Troyens, mais rappelle aussi l'expression que Lycophron mettait dans la bouche de Cassandre : πατρω' αγάλματα θεών141. L'installation en Italie des dieux de Troie, ainsi qu'une alliance entre les fugitifs et les Latins, sont remis en question par la colère de Junon; c'est pourquoi au livre VIII reparaissent les trois thèmes du débarquement d'Enée, de la prophétie lui annonçant la fin de ses voyag es, et de l'accomplissement d'un prodige marquant la réalisation de cette prophétie. Le débarquement d'Enée est évoqué au début du livre VIII sous forme de récit, lors de l'ambassade de Vénulus envoyé par Latinus auprès de Diomède pour chercher du secours contre les Troyens : aduectum Aenean classi uictosque Penatis inferre et fatis regem se dicere posci 142. Ces paroles sont destinées à susciter l'inquiétude chez Diomède en
140 vil, 229-230 : « Nous demandons pour les dieux de notre patrie une modeste demeure, un rivage paisible» (op. cit.). 141 Alex., 1261. 142 VIII, 11-12 : «qu'Enée arrivé avec une flotte y installe avec lui ses Pénates vaincus, prétend que ses destins l'appellent à y être roi» (op. cit.).
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même temps que Vénulus souligne l'impudence des prétentions du chef troyen par le contraste entre uictos, Penates et regem. Parallèlement à cette présentation polémique du débarquement et des projets troyens par le camp latin, le second prodige annoncé par Hélénus comme devant marquer l'arrivée des fugitifs dans la terre pro mise est rappelé, puis accompli. Enée connaît, une nuit, un moment de doute sur sa mission143. Alors, pour le réconforter et lui rappeler que les dieux ne l'ont pas abandonné, approuvent ses actions et même la guerre qu'il est obligé de mener, le dieu du Tibre lui apparaît en song e144. Il lui confirme d'abord qu'il ne doit pas douter d'avoir atteint le terme de ses voyages : Ο sate gente deum, Troianam ex hostibus urbem qui reuehis nobis aeternaque Pergama seruas Exspectate solo Laurenti aruisque Latinis Hic Ubi certa domus, certi (ne absiste) pénates 145. Les termes de ce dernier vers sont très proches des mots que Virgil e fait prononcer à Enée lorsqu'il invoque les Pénates après la manducation des tables146. Cette reprise est destinée à tirer Enée de son trou ble, de ses hésitations, et l'effet en est renforcé par la répétition des mots certa, certi, certi pénates contrastant évidemment avec uictos deos et uictos pénates employés précédemment147. Un dieu local accueille donc Enée et l'investit religieusement d'une souveraineté qui ne lui est pas encore reconnue sur le plan politique et humain. Il lui apprend aussi que s'est réalisé le prodige de la truie aux trente porcelets annonc é par Hélénus au livre III. C'est alors seulement qu'Enée en apprend
143 vin, 29. 144 Cf. J. Carcopino, op. cit., p. 525 sq. 145 VIII, 36-39 : « Ο rejeton de la race des dieux, toi qui nous ramènes la ville de Troie sauvée de ses ennemis et nous conserves l'éternelle Pergame, toi qu'attendaient le pays laurente et les campagnes latines, ici est ta demeure certaine et - ne va pas nous man quer - tes pénates certains » (op. cit.). 146 VII, 120-122. 147 C. J. Fordyce (op. cit. p. 207) remarque que la suite des paroles d'Enée (VIII, 4346) reprend la prophétie déjà faite en III, 390-393 (prodige de la truie aux trente porcel ets)à peu près exactement dans les mêmes termes, ce qui est très rare, à cette échelle, dans l'Enéide, mais s'explique, pense-t-il, par l'un des caractères de la composition de Virgile, consistant, pour le poète, à reproduire un groupe de vers qu'il a en tête; mais nous croyons qu'il faut chercher aussi dans ces effets une signification psychologique et affective.
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la signification de la bouche du dieu : alors que la manducation des tables se réfère à l'existence présente d'Enée, la truie aux trente porcel ets préfigure les destinées de ses descendants148 : dans trente ans, Ascagne fondera la ville d'Albe, dont le nom, Alba, est annoncé par la cou leur blanche de la truie. Virgile combine ici deux données légendaires : comme Caton et Varron, il attribue à Enée la fondation de Lavinium, mais, comme Fabius Pictor149, il interprète le nombre de porcelets com meun symbole du nombre d'années qui doit s'écouler avant la fondat ion d'Albe150. Enfin, Enée, après avoir pieusement rendu grâce au dieu, se dirige vers l'endroit indiqué par lui et constate en effet la réalisation du pro dige, mirabile monstrum151. Il va alors procéder au sacrifice de l'ani mal152, geste par lequel il reconnaît l'accomplissement des destins et en même temps affirme sa souveraineté sur un pays qui n'est pas encore le sien, mais lui a été seulement promis : «II est sans doute important», écrit J. Perret153, «qu'Enée sacrifie un animal domestique, propriété du roi Latinus. Ce qui nous est ici conté doit prendre place parmi ces légendes où un héros s'approprie des droit sur un pays en célébrant un sacrifice, en immolant un animal prodigieux qui normalement devait consacrer, confirmer, l'autorité du souverain présentement en place». Le sacrifice est adressé à Maxuma Iuno, fait surprenant à première vue, mais qui peut s'expliquer par le désir d'Enée de n'établir religie usement sa souveraineté sur le Latium qu'en se conciliant la déesse qui lui a jusque-là été la plus hostile, comme si une sorte de consensus divin était indispensable à l'accomplissement des destins154. Du reste, un signe est probablement donné du fait que Junon accepte tacitement ce sacrifice et renonce à poursuivre Enée de sa haine : les flots agités du
148 VIII, 31-48. 149 Apud Diodore, VII, 3. 150 Cf. J. Perret, Les origines..., p. 325; C. J. Fordyce, op. cit., p. 208-209; K. W. Grandsen, Aeneid VIII, Cambridge, 1976 (éd. comm.), p. 45. "» VIII, 81-83. 152 VIII, 84-85. 153 Enéide, l. V-VIII, Notes Complémentaires, p. 206. 154 Sur la signification de cette Maxima Iuno - épithète très rare que Virgile n'em ploie que deux fois dans l'Enéide -, cf. R. Rebuffat, Les Phéniciens à Rome, MEFR, 78, 1966, p. 20 sq. : à la suite de J. Carcopino (op. cit., p. 526 sq.), R. Rebuffat reconnaît dans cette dernière une divinité carthaginoise; sa colère contre Enée serait l'un des effets des malédictions de Didon; cf. aussi J. Carcopino, op. cit., p. 607.
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Tibre s'apaisent et laissent désormais aux navires d'Enée un passage facile : Thybris ea fluuium, quant longa est, nocte tumentem leniti et tacita refluens ita substitit unda, mitis ut in morem stagni placidaeque paludis sterneret aequor aquis, remo ut luctamen abesset155. Enée accomplit son sacrifice sacra ferens, nous dit Virgile156. Cette expression, souvent négligée par les commentateurs, ou même les tra ducteurs, présente quelques difficultés d'interprétation. Il nous semble qu'elle peut être comprise de deux façons, en liaison avec le sens que l'on donne à sacra et suos Penates151; tout d'abord, puisqu'il s'agit de l'accomplissement d'un sacrifice, on pourrait penser que Virgile se réfère aux réalités religieuses de son temps, et que sacra désigne les objets cultuels nécessaires au sacrifice. Mais une autre interprétation nous semble beaucoup plus satisfaisante, surtout si l'on accepte de voir dans sacra et Penates une seule entité. Ce sont, en effet, les sacra et les Pénates qu'Hector confie à la garde d'Enée lorsqu'il lui apparaît en songe158, eux que Panthus emporte dans la citadelle quand Enée tente de résister aux Grecs159, eux encore dont Enée, souillé, charge Anchise lorsqu'il se décide à quitter Troie160. Le mot sacra pouvant désigner des satuettes cultuelles, on peut penser que la présence des Pénates au sacrifice de la truie miraculeuse est fortement suggérée ici. Certes, le sens de ferens n'est pas très clair : «apportant les images de ses dieux», pour que les dieux de Troie assistent au sacrifice qui consacre l'arrivée d'Enée sur la terre que lui ont destinée les destins nous paraît le sens le plus probable. Sans doute peut-on objecter que la truie est immolée à Junon, non aux Pénates, mais il paraît assez naturel que, comme le font les Pénates du culte privé, les dieux de Troie assistent à tous les événe ments de la vie domestique, surtout lorsqu'ils ont l'importance de
155 VIII 86-89 : « Tout au long de cette longue nuit, le Tibre a calmé ses flots tumul tueux ; rappelant son cours, il s'est arrêté ; l'onde se tait ; comme en un lac paisible ou sur des eaux dormantes, il étend sur le fleuve sa surface unie les rames n'ont plus à lutter» (op. cit.). 156 VIII, 85. 157 II, 293. 158 II, 293. 159 II, 320. 160 II, 717.
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celui-ci : ils ont été les comités d'Enée pendant son voyage et assistent au sacrifice destiné à célébrer la fin de leurs errances communes et à désarmer la dernière hostilité à l'installation d'Enée au Latium, celle de Junon161. On sait du reste que la victime est immolée en plein air, sur un autel, hors de la présence de la statue du dieu destinataire du sacri fice, située, elle, à l'intérieur du temple. Le texte de Virgile distingue les sacra apportés par Enée - de petits objets -, de l'ara consacrée à Junon sur lequel il immole la truie. Les deux prodiges qui marquent l'arrivée d'Enée au Latium ne sont pas une création de Virgile parmi les péripéties du transfert des sacra. Ils sont l'un et l'autre mentionnés par Lycophron162 et par Denys d'Halicarnasse163 : chez ce dernier la manducation des tables est annon cée par une divinité mal déterminée, une nymphe, ou la Sibylle, où par l'oracle de Dodone, avec la même signification que chez Virgile; Yomen de la truie miraculeuse est mentionné aussi, avec quelques variantes de détail, et il présage aussi la souveraineté de la race d'Enée sur le Latium164. Après le second prodige, Enée n'a plus de doute sur sa mission, et le sacrifice de la truie marque une sorte de prise de possession religieu se de la terre latine, accomplissement des fata devant lequel Junon ellemême va s'incliner. Dans l'Enéide, l'histoire du transfert des sacra va de pair avec la transformation du personnage d'Enée : l'un et l'autre se font par étapes, et ne suivent pas une progression continue : les diffé rentes escales des sacra en témoignent; et jusqu'aux derniers vers du poème, Enée a recours aux armes, mais ce n'est plus alors que contraint, pour accomplir les fata. Sa transformation, son dévouement absolu à sa mission religieuse, se manifestent d'ailleurs par le fait que c'est cette mission même qui le définit et délimite son apport dans le pacte final qui l'associe à Latinus pour la souveraineté sur le Latium : nec mihi regna peto : paribus se îegibus ambae inuictae gentes aeterna in foedera mutant. Sacra deosque dabo; socer arma Latinus habeto165.
161 162 163 164 165 égales
Sur le sacrifice du porc aux Pénates, voir supra p. 90; de la truie, infra p. 213 sq. Alex., 1250-52; 1255-60. I, 55-56. Voir C. J. Fordyce, op. cit., p. 208-210. XII, 190-192 : «... et je ne demande pas la royauté pour moi : que sous des lois les deux nations invaincues s'unissent dans une alliance éternelle. Leurs rites,
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Ainsi, dans son association avec Latinus, Enée se contentera d'ap porter l'élément religieux (sacra deosqué), en abandonnant au vieux roi le pouvoir politique et militaire. La traduction que J. Perret propose pour ce passage, de même que l'explication qu'il en donne166, souligne qu'«Enée organisera la vie religieuse de la communauté»; sacra est compris ici comme «éléments de l'organisation rituelle»; mais qui sont les deos? Il semble que dans cette scène s'accomplisse la mission per sonnelle d'Enée, que les fata ont désigné pour assurer la survie religieu se de Troie par le transfert des dieux de cette cité. Peut-on alors imagi ner que ces deos soient autres que les Pénates? Cette première remar que en appelle une autre : on se souvient que, au moment où Hector apparaît en songe à Enée pendant la dernière nuit de Troie, il lui décla re que la cité lui confie sacra suosque penatis 167. Bien que J. Perret tra duise dans le premier cas sacra par «choses saintes», et dans le second par «rites», ne peut-on aussi suggérer que la ressemblance des deux expressions indique qu'elles désignent les mêmes réalités : il s'agirait alors pour Enée d'installer, dans la cité qui marquera le terme de ses errances, l'héritage religieux de Troie. De même que, nous l'avons remarqué, le «groupe pyramidal» d'Enée, Anchise portant les sacra, et Ascagne, encadrait le voyage d'Enée sur le rivage de Troie comme à l'embouchure du Tibre, les sacra Penatesque de Troie se trouveraient mentionnés aux deux termes de la mission d'Enée : lors de la chute de la cité de Priam, qui semble lui parler par la bouche d'Hector, et au moment où il prononce le serment qui marque sa prise de possession religieuse de la terre latine. Cela dit, si l'on accepte cette interprétation, reste posé le problème, déjà évoqué plus haut, de la relation entre sacra et pénates, ou, ici, deos. Avec Virgile, la légende du transfert des sacra de Troie atteint un degré d'élaboration qui ne sera pas dépassé, et s'explique en partie par le souci de propagande dynastique, mais aussi par un projet plus vaste : donner un sens à l'histoire de Rome en insérant les événements du pré sent dans la trame d'une légende où se mêlent les traditions locales,
leurs dieux, je les leur donnerai moi-même ; que mon beau-père Latinus possède le pou voir militaire» (trad. J. Perret, C.U.F., Paris, 1980). 166 Op. cit., Notes Complémentaires, p. 246; cf. aussi id., Le serment d'Enée et les évé nements politiques de janvier 27, in Mélanges Durry, REL, 47 bis, 1969, p. 277-295. 167 II, 293. Le rapprochement de ces deux passages a été fait par J. Conington, The Works of Virgil, vol. 3, Aen. VI-XII (éd. comm., revue par H. Nettleship), Hildesheim, 1963, p. 422-423.
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l'influence des récits venus d'Italie du sud et de Grèce, et le souvenir littéraire des poèmes homériques.
II - La tradition iconographique La légende de la fuite d'Enée et du transfert des sacra est attestée, parallèlement à son illustration littéraire, par de nombreux témoigna ges iconographiques168. 1) Le VIe siècle Le thème de la fuite d'Enée apparaît au VIe siècle sur les vases attiques à figures noires et, au début du Ve siècle, sur les vases attiques à figures rouges169. K. Schauenburg 17° en a relevé 52 exemples sur les premiers, 5 sur les seconds. Ces figurations correspondent toutes à peu près au même type iconographique : le groupe central est formé par Enée portant Anchise sur ses épaules; il n'y a qu'une exception : sur un lécythe à figures rouges trouvé à Gela171, Enée conduit son père par la main; le vieillard marche derrière lui. L'aspect guerrier des deux per sonnages est souligné : Enée porte toujours un casque, très souvent une cuirasse et une lance, Anchise tient lui aussi parfois une lance. Ce grou pe n'est jamais isolé, mais les personnages qui l'entourent varient : ce sont soit des guerriers, soit une femme (sans doute Creuse), ou plu sieurs femmes. Sur les 57 vases de notre corpus, Ascagne n'apparaît que 1 1 fois, et sur 4 vases figurent autour d'Enée et d'Anchise plusieurs enfants, ce qui est une attestation de la légende suivant laquelle Enée aurait eu plusieurs enfants de son mariage troyen 172. Sur aucune de ces peintures ne figure aux mains d'Anchise ou d'Enée la ciste ou le réci pient contenant les sacra. Tous ces vases sont datés du dernier quart du
168 Cf. W. Fuchs, Die Bildgeschichte der Flucht des Aeneas, A.N.R.W., I, 4, Berlin-NewYork, 1973, p. 615-632. 169 Cf. J. D. Beazley, Attic Black-Figure Vase Painters, Oxford, 1956; Attic Red-Figure Vase Painters, 2e ed., Oxford, 1963. 170 Aeneas und Rom, Gymnasium, 67, 1960, p. 176-191. 171 J. D. Beazley, Attic Red-Figure Vase Painters, 956. 172 Cf. Cassius Hemina, in Servius, Ad Aen., II, 717 (= fr. 5 Peter); cf. supra p. 125 sq.
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VI e siècle et des premières décennies du Ve siècle173. D'autre part, fait remarquable et déjà souligné par F. Borner174, ceux de ces vases dont l'origine est connue ont été trouvés en Italie : 17 en Etrurie, 4 en Italie du sud, 5 en Sicile. Il semble donc que ce thème, traité par les peintres athéniens, ait correspondu à une certaine demande des commerçants en relation avec l'Italie, à une sorte de mode, étant donné la relative brièveté du temps pendant lequel le thème est traité sur les vases grecs. Deux autres images archaïques de la fuite d'Enée nous sont connues. L'une, grecque, est un tétradrachme d'Aineia, en Chalcidique, dont un exemplaire, en assez mauvais état, se trouve à Berlin175, l'autre à New- York176. W. Fuchs le date du dernier quart du VIe siècle177. La scène présente deux groupes de personnages symétriques : deux per sonnages se font face, à gauche Enée, portant son père sur ses épaules, et une figure féminine à droite, tenant un enfant dans ses bras, groupe dans lequel on reconnaît généralement Creuse et Ascagne178; la grande originalité de cette représentation par rapport au type iconographique des vases grecs consiste, d'une part, dans la présence de ces deux grou pes,d'autre part dans le fait qu'Enée ne porte pas Anchise sur son dos, mais l'a juché sur ses épaules179. On ne voit pas de récipient contenant les sacra dans les mains d'Anchise. R. Texier pense que la présence de la ciste mystique serait tout à fait explicable sur le monnayage d'une cité qui se présentait comme une fondation d'Enée, et, malgré la fente qui mutile l'exemplaire de Berlin sur lequel il a travaillé, croit pouvoir distinguer aux mains d'Anchise «l'indiscutable reste du bord du cof fret»180, ce qui constituerait une exception dans l'iconographie du VIe siècle. A. Alföldi, à l'examen de l'exemplaire de New- York, mieux conservé, affirme qu'Anchise ne tient pas de ciste181.
173 K. Schauenburg, op. cit., p. 183; W. Fuchs, op. cit., p. 616-17. 174 Rom und Troia, Baden-Baden, 1951, p. 50 sq. (cependant F. Borner n'a travaillé que sur un corpus de 11 vases); cf. aussi K. Schauenburg, op. cit., p. 184. 175 E. Babelon, Traité des monnaies grecques et romaines, II, 1, Paris, 1907, n° 1556. 176 A. Alföldi, Die Trojanischen Urahnen der Römer, Bale, 1957, pi. XIII, 2. 177 Op. cit., p. 617 et n. 12. 178 r Texier, A propos de deux représentations archaïques de la fuite d'Enée, RA série VI, 14, 1939 p. 12-21 ; G. K. Galinsky, op. cit. p. 111-112. 179 Pour l'étude du type iconographique sur les vases grecs, cf. W. Fuchs, ibid. 180 Op. cit., p. 18. 181 Op. cit., p. 16.
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La seconde image est connue sous le nom de «scarabée étrusque» de la Collection de Luynes, à la Bibliothèque Nationale182. Il s'agit d'une intaille ovale en cornaline, de 2 cm de hauteur, 1 cm de largeur. Le dessin, creusé dans la pierre, est très net : Enée porte un casque, et tient d'une main un bouclier et de l'autre une lance; il a un genou en terre, ce qui est une originalité dans notre iconographie; le graveur a sans doute voulu représenter le moment où Enée, en se baissant, per met à son vieux père de monter sur ses épaules, car Anchise a un pied posé sur la jambe pliée d'Enée. Anchise tient d'une main une ciste ron deassez plate, avec un bourrelet en haut et en bas; son geste est singul ier : il a l'air de présenter cette ciste, alors que dans les représentations ultérieures, sur la Tabula Iliaca, par exemple, il la serre contre lui. La datation de la pierre n'est pas établie avec certitude : A. Alföldi183 la fait remonter à la fin du VIe siècle, ainsi que G. K. Galinsky184, alors que M. Pallottino185, se fondant sur le schéma de la composition et les particul aritésanatomiques, y voit une expression de l'art tardo-archaïque des premières décennies du Ve siècle. Cette intaille est en tout cas l'attesta tion iconographique la plus ancienne que nous possédions du transfert des sacra, puisque ces derniers ne figurent ni sur les vases grecs des VIe et Ve siècles, ni sur la monnaie d'Aineia. Du reste, ce thème semble exis ter dans la littérature dès le VIe siècle, chez Stésichore, si l'on en croit l'illustration donnée de Y Ilioupersis par la Tabula Iliaca : aussi bien dans la scène située à la Porte Scée que lors de l'embarquement des rescapés, Anchise, porté sur les épaules d'Enée, serre à deux bras contre lui la ciste contenant les ιερά, qu'une inscription désigne d'ail leurs dans la scène de l'embarquement. Cette remarque ne peut cepen dantêtre faite qu'avec prudence, dans la mesure où nous ignorons si le relief est fidèle dans tous ses détails au poème de Stésichore. Notons enfin, sur cette intaille, l'absence d'Ascagne. Reste une difficulté non négligeable : l'origine de ce bijou est inconnue. Les trois auteurs préc édemment cités s'accordent à l'identifier comme étrusque186. La présen ce des sacra aux mains d'Anchise, alors qu'ils sont toujours absents
182 Cf. P. Zazoff, Etruskische Scarabäen, Mayence, 1968, p. 41 sq. 183 Op. cit., p. 16 et Early Rome, p. 226. 184 Op. cit., p. 60. 185 Compte rendu de Die Trojanischen Urahnen der Römer, SE, 26, 1958, p. 336-339. W. Fuchs (op. cit., p. 617) estime qu'elle est postérieure au tétradrachme d'Aineia, ce qui donne la même datation que celle de M. Pallottino. 186 Cf. aussi G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 168.
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dans les attestations grecques du thème, semble d'ailleurs venir à l'ap pui de l'hypothèse d'une origine non grecque de cette intaille187. 2) Les Ve-IHe siècles Les peintres grecs se sont intéressés à la fuite d'Enée à la fin du VIe siècle, et plus faiblement, au début du Ve siècle, ainsi que le prouve la fréquence du thème dans le corpus de K. Schauenburg : 52 exemples dans les vases à figures noires, 5 dans les vases à figures rouges. Pourt ant, le thème n'est pas limité à la peinture des vases, ni uniquement destiné à l'exportation vers la Sicile et l'Italie; Vllioupersis est repré sentée sur les métopes du côté nord du Parthenon, dont deux épisodes seulement peuvent être identifiés de façon sûre : les retrouvailles de Ménélas et d'Hélène, et la fuite d'Enée et d'Anchise, qui ne porte pas de sacra sur cette représentation188. Dans les siècles suivants, les artistes grecs cessent de s'intéresser à ce thème. En revanche, il est illustré au Ve siècle en Italie, notamment en Etrurie. A Véies, on a trouvé quatre exemplaires d'un groupe de terre cuite représentant Enée et Anchise189, sans doute faits à partir d'un même moule : la statuette a une vingtaine de centimètres de hauteur et représente Enée, debout, portant un casque190; Anchise est sur ses
187 P. Zazoff (ibid.) voit dans l'objet tenu par Anchise non une ciste contenant les sacra, mais un simple coffret où sont conservés des objets précieux. Cette interprétation, qui ne nous convainc guère, est reprise par F. Castagnoli (La leggenda di Enea nel Lazio, p. 4) ; pour F. Zevi (Note sulla leggenda di Enea in Italia, in Gli Etruschi a Roma, Incontro di studio in onore di M. Pallottino, Rome, 1981, p. 153), la présence des sacra est caracté ristique de l'iconographie italique de la fuite d'Enée, par opposition à ses représentations grecques. 188 C. Praschniker, Parthenon Studien, Augsburg-Vienne, 1928, p. 107 sq.; G. Κ. Galinsky, op. cit., p. 56; W. Fuchs, op. cit., p. 620. 189 G. Q. Gigliogli, Observazioni e monumenti relativi alla legenda delle origini di Roma, BMIR, 12, 1941, p. 8-15; Ch. Picard, Un groupe archaïque étrusque: Enée portant Anchise, RA, 21, 1944, p. 154-156; G. Bendinelli, Gruppo fittile di Enea ed Anchise prove niente da Veio, RFIC, 26, 1948, p. 88-97; A. Alföldi, Die Trojanischen Urahnen . . ., p. 16-17; F. Bömer, Rom und Troia, p. 14 sq.; P. J. Riis, Art in Etruria and Latium during the First Half of the Fifth Century B.C., Entretiens sur l'Antiquité Classique, XIII, Les origines de la République romaine, Vandoeuvres-Genève, 1967, p. 83; G. K. Galinsky, op. cit., p. 133-134; M. Pallottino, loc. cit.; J. Perret, Rome et les Troyens, REL, 49, 1971, p. 41-43; M. Torelli, C.R. de l'ouvrage de L. Vagnetti, // deposito votivo di Campetti a Veio, DArch, 7, 1973, p. 396-404; G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 169-171. 190 II est impossible de dire si Enée est nu ou vêtu.
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épaules et serre ses deux bras autour du cou de son fils; pas de trace, donc, des sacra dans ces célèbres statues, et Ascagne n'apparaît pas. La datation de ces œuvres est très discutée; G. Bendinelli191 propose l'expl ication suivante : autour de 470-460 a dû être érigé, près d'un des sanc tuaires de Véies, un groupe de bronze, grec, représentant Enée et Anchise; sur ce modèle, on a fabriqué, à partir de moules, des ex-voto de terre cuite dont nos quatre statues sont un exemple, que G. Bendin ellidate de la lère moitié du Ve siècle. A. Alföldi a d'abord accepté la datation de H. Fuhrmann192, à savoir cette même moitié du siècle, puis, plus prudemment, a renoncé à les situer précisément à l'intérieur du Ve siècle193; ses critères ne sont d'ailleurs pas stylistiques : il pense que ces statuettes ont été faites en un temps où Enée a pu être considéré com meun fondateur, c'est-à-dire entre 500 et 400. Au contraire, J. Perret194, s'appuyant sur une analyse proposée par M. Torelli195, suggère d'abais ser cette date de presque un siècle : du point de vue stylistique d'abord, il souligne la gaucherie de ces statues «comme ensommeillées», contrastant avec «l'art nerveux et expressif» des vases et des acrotères du Ve siècle; du point de vue archéologique, il s'appuie sur un docu ment fourni par l'un des inventeurs, qui estime impossible de dater les statuettes du Ve ni même du IVe siècle, mais propose le IIIe siècle. Reve nant sur ce problème, P. J. Riis196, par comparaison avec d'autres œu vres étrusques et latines, situe très précisément ces statues dans le second quart du Ve siècle. Cette datation haute nous paraît préférable. La datation basse197, en effet, implique que ces statues ont été faites sous l'influence de Rome. Or, le type de l'Enée romain, nous le verrons, est différent : l'image de la fuite comporte généralement celle des sacra et d'Ascagne, dont la présence avait une telle importance pour les Romains; ces deux éléments, en revanche, n'intéressaient pas les Grecs,
191 Op. cit., p. 96. 192 Op. cit., p. 17; H. Fuhrmann, in AA, 1941, p. 423. 193 Early Rome, p. 287. 194 Ibid. 195 Ibid. ; M. Torelli date ces statues des années 350-250, c'est-à-dire après la chute de la ville devant les Romains (396). 196 Ibid. Ν. Horsfall (Stesichorus at Bovillae?, p. 40) date cette intaille de 490 envi ron. 197 F. Castagnoli {La leggenda di Enea nel Lazio, p. 5) date ces statues plutôt des IVeIIIe siècles.
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comme l'a souligné W. Fuchs198; or ils sont l'un et l'autre absents de nos terres cuites, et c'est pourquoi, sans doute, G. Bendinelli suggérait un modèle grec à ces reproductions. Toutefois, W. Fuchs nous semble avoir souligné à fort juste titre199 que, par rapport aux vases attiques, où le groupe d'Enée et Anchise est toujours montré de profil, nous avons ici une représentation frontale, qui rappelle davantage celle des monnaies d'Aineia. A. Alföldi200, à la suite de H. Fuhrmann201, a reconnu, dans une sta tue mutilée de femme courotrophe trouvée à Véies, Creuse portant Ascagne, et a même supposé, en s'appuyant sur l'analogie ainsi établie avec le tétradrachme d'Aineia, qu'il existait un groupe symétrique d'Enée et d'Anchise. Cette identification de Creuse et Ascagne est pré sentée avec beaucoup plus de réserve et de prudence par M. Pallottino202, qui ne voit là qu'une hypothèse, mais date en revanche, avec pré cision, cette statue du passage du style archaïque au style classique, c'est-à-dire du milieu du Ve siècle. Le thème de la fuite d'Enée est traité sur une amphore étrusque à figures rouges trouvée à Vulci, aujourd'hui conservée à Munich, et datée de la première moitié du Ve siècle203. La raideur du dessin, sa relative maladresse, si on le compare aux figures de la céramique attique, attestent une origine locale, un art encore en train de s'ébau cher204. L'ensemble de la scène pourtant, manifeste un souci certain de composition; sur la gauche, Enée, de profil, légèrement penché en avant, tient une lance dans chaque main et porte son père sur ses épaul es.Anchise, très droit, se tient des deux mains aux épaules de son fils. Sur la droite, Creuse tourne la tête en arrière vers Enée et Anchise, et tient sur sa tête avec sa main gauche un vase de terre cuite, un doliolum long et très étroit. Elle tient de sa main droite la main gauche d'Ascagne, qui regarde lui aussi vers son père et a son autre main posée sur
198 Op. cit., 624. 199 Op. cit., p. 618. 200 Die Trojanischen Urahnen ..., p. 17-18. 201 Ibid. 202 Ibid.; id., Il grande acroterio femminile di Veto, ArchClass, 2, 1950, p. 122-179. 203 Cf. A. Alföldi, Die Trojanischen Urahnen . . ., p. 16 sq. ; datation acceptée par M. Pallottino (ibid.) et par P. J. Riis (op. cit., p. 72), qui estime impossible de la dater d'avant 470. 204 Pour une analyse stylistique détaillée (influences grecques et caractères d'un art local), cf. P. J. Riis, op. cit., p. 70-72.
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les jambes d'Anchise. L'enfant, mis au centre de la composition, forme ainsi une sorte de trait d'union entre les personnages placés symétr iquement par rapport à lui. Ce qui nous intéresse surtout ici, c'est le doliolum supposé contenir les sacra de Troie, et qui se trouve, non aux mains d'Anchise, mais dans celles de Creuse : elle tient le vase sur sa tête comme si elle voulait ainsi le mettre au-dessus d'un danger possi ble,l'empêcher d'être brisé. A. Alföldi205 a très justement rapproché cet te représentation de deux autres données; d'une part, Timée, d'après Denys d'Halicarnasse206, aurait vu dans le temple de Lavinium un κέραμον Τρωικόν, qui pourrait donc être le vase que Creuse porte et qui contient les ιερά de Troie. On objectera que les objets cultuels étaient généralement transportés dans des cistes de formes variées, non dans des vases, mais la ciste qui figure sur le scarabée étrusque peut témoi gner seulement du fait que le graveur, ignorant des réalités du culte lavinate, a représenté le type de récipient qui, habituellement, contient les objets sacrés207. Quoi qu'il en soit, la concordance entre le témoigna ge de Timée, qui est allé à Lavinium et a recueilli des renseignements des habitants eux-mêmes, et cette représentation, antérieure de deux siècles au voyage de Timée dans le Latium, et qui ne peut donc être une illustration de son récit, est frappante. D'autre part, on peut faire un rapprochement entre ce doliolum et les vases {doliola) peut-être conser vés dans le sanctuaire de Vesta à Rome, supposés contenir certains des objets sacrés garants de la prospérité romaine, les pignora imperii20*; ce rapprochement accrédite évidemment la thèse suivant laquelle ce sont les sacra de Troie que transporte Creuse sur l'amphore de Vulci. Au IVe siècle, dans la céramique italiote, le cycle des légendes de Vllioupersis est assez fréquemment représenté209; mais l'épisode de la fuite d'Enée ne figure que sur un vase, et encore son identification estelle douteuse. Il s'agit d'un cratère à volutes trouvé en Apulie : la scène, dont le thème central est la supplication de Cassandre, présente huit
205 Early Rome, p. 284-286. 206 Cf. supra p. 124-5; infra p. 264 sq. 207 Cependant, N. Horsfall (The iconography of Aeneas'flight : a practical detail, AK, 2, 1979 (2) p. 104-105) refuse absolument l'identification de l'objet que Creuse porte sur la tête avec un dolium contenant les Pénates, et suggère plutôt d'y voir un bagage, dont on peut même voir les courroies. F. Castagnoli, (op. cit., p. 5) souscrit à cette interprétation. 208 Cf. supra p. 22 ; infra p. 454 sq. 209 Cf. J. M. Moret, Vllioupersis dans la céramique italiote, Les mythes et leur expres sionfigurée au IVe siècle, Genève, 1975, passim.
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personnages, répartis sur deux étages. A droite, on voit un vieillard tenant par la main un enfant; l'identification avec Ascagne et Anchise est possible, mais il n'existe, nous l'avons vu, qu'un seul exemple, sur un vase du VIe siècle, où Enée, au lieu de porter Anchise sur les épaul es,le guide par la main; comme le fait remarquer J. M. Moret210, il s'agit soit d'Ascagne et d'Anchise, soit d'un groupe anonyme. Le même auteur propose d'identifier comme Enée le jeune guerrier qui porte un bouclier et se tient aux pieds de Cassandre; on serait alors en présence d'un schéma iconographique tout à fait original, dont c'est le seul exemple connu : jamais en effet Enée et Anchise ne sont séparés dans les représentations figurées; d'autre part, s'il semble bien que le vieil lard et l'enfant soient en train de fuir, ce qui n'est pas le cas du person nageidentifié comme Enée: il ne s'agirait donc pas de «la fuite d'Enée»; enfin, Anchise ne porte pas les sacra. La céramique italiote du IVe siècle, on le voit, ne s'est à peu près pas intéressée à la fuite d'Enée, même quand elle traitait de Yllioupersis : les épisodes du cycle légendaire troyen que les peintres choisissent d'illustrer correspondent sans doute à d'autres besoins, à d'autres inté rêts. Au IIIe siècle, où pourtant se développe dans la littérature grecque et latine la légende du héros troyen, il n'y a qu'une attestation icono graphique du thème d'Enée portant Anchise; elle n'est pas romaine, mais sicilienne: c'est une monnaie émise à Ségeste en 241 avant J.-C. environ211, et elle daterait donc du moment où la Sicile devient province romaine, ce qui expliquerait la présence d'un thème ayant trait aux ori gines de Rome, origines troyennes qui seraient aussi celles de Ségest e212; elle représente Enée portant Anchise sur ses épaules; Enée, qui tient dans sa main droite une sorte de bâton, ou de lance, est montré de face, tandis qu' Anchise est vu sous son profil droit; on a donc ici un compromis entre le type grec et le type étrusque du traitement du thè me. Toutefois, cette datation a été contestée par W. Fuchs213, qui situe le monnayage de Ségeste beaucoup plus tardivement, au milieu du Ier
210 Op. cit., p. 54 sq. 211 Cette datation, proposée par B. V. Head (Historia numorum, 2e éd., Londres, 1912, p. 167) est acceptée par A. Alföldi (Die Trojanischen Urahnen . . ., p. 29) et G. K. Galinsky (op. cit. p. 173); cf. aussi K. Schauenburg, op. cit., p. 184. 212 Sur la signification politique de ce monnayage, cf. J. Perret, Les origines . . ., p. 502 ; F. Borner Rom und Trota, p. 45 ; A. Alföldi, ibid. ; G. K. Galinsky, ibid. 213 Op. cit., p. 625-626.
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siècle avant J.-C, et y voit une dérivation du type du monnayage de César214. 3) Le Ier siècle avant J.-C. Au siècle suivant, il n'y a pas d'illustration de la fuite d'Enée, et il faut attendre l'époque de César pour que le thème reparaisse, à des fins de propagande gentilice et politique évidentes. C'est le moment d'ailleurs où, dans le domaine littéraire la légende des origines troyennes de Rome reçoit de Varron une formulation qui ne changera à peu près plus215. La première représentation proprement romaine de la fuite d'Enée est une monnaie de César, datée de 48 avant J.-C.216: elle n'a d'ailleurs pas été frappée à Rome, mais en Gaule : au droit, on voit la tête d'une divinité souriante, sans doute Vénus, ancêtre de la Gens Iulia; sur le revers, est représenté le groupe d'Enée et d'Anchise, symb ole, note W. Fuchs217, de la pietas Romana et de la pietas Caesaris; Enée, nu, porte sur son épaule gauche Anchise dont les mains sont croisées sur la poitrine et qui semble218 tenir un vase, ou une ciste. Si le modèle iconographique d'Enée nu est sans doute emprunté à la Grèce, cette monnaie présente toutefois une singularité dans la représentation du héros219: dans sa main droite tendue, comme s'il voulait attirer l'a ttention sur elle, Enée tient une petite statuette représentant une déesse armée et casquée : c'est le Palladium de Troie que, dans certaines ver sions de la légende220, le héros avait sauvé en même temps que son père et ses sacra. Cette représentation frontale - seul le Palladium est vu sous son profil gauche - ne serait pas concevable, souligne W. Fuchs, sans l'influence des artistes étrusques, qui ont donné de cette scène des 214 Selon une tradition attestée pour la première fois chez Thucydide (VI, 2, 1-5), Ségeste serait une fondation d'un groupe de Troyens qui avaient fui après la destruction de la cité; cf. M. I. Finley, La Sicile antique, Londres, 1968, trad, franc. J. Carlier, Paris, 1986, p. 25-26. 215 Cf. ci-dessus, p. 129-136. 216 E. Sydenham, The Coinage of the Roman Republic, Londres, 1952, p. 168, n° 1013 (pi. 27). 217 Op. cit. p. 624. 218 L'interprétation est très délicate. Cf. W. Fuchs, op. cit., p. 625. 219 G. K. Galinsky, op. cit., p. 51; et p. 3-61 pour l'étude de la figure du pius Aeneas; cf. aussi J.-P. Brisson, Le «pieux Enée», Latomus, 31, 1972, p. 379-412. 220 Notamment chez Denys d'Halicarnasse, I, 69, 2, cf. infra p. 460-7.
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illustrations comportant ce type de représentation, dans les terres cui tes de Véies par exemple. Il est remarquable toutefois qu'Ascagne soit absent de cette représentation, étant donné son rôle dans la légende des origines troyennes; sans doute W. Fuchs221 a-t-il raison de considérer que le sauvetage par Enée du Palladium, d'Anchise et des Pénates - à supposer qu'ils figurent bien sur cette image - suffisait à suggérer la fondation de Rome comme nouvelle Troie. Aussi ne s'étonnera-t-on pas de trouver le thème d'Enée portant Anchise sur l'une des premières monnaies frappées par Octave, en 42 ou 41, puis à nouveau en 38 avant J.-C.222 : au droit, on voit la tête d'Oc tave, au revers Enée et Anchise; on a souligné223 que le modèle icono graphique du groupe était non pas le denier de César, mais un mon nayage émis un peu après 100 avant J.-C. par la Gens Herennia, et représentant les deux frères de Catane, Anapias et Amphinomos, sau vant leur père d'une éruption de l'Etna en le portant sur leurs épaul es224; au droit de ces monnaies, il y a une tête de femme avec la légen de Pietas. Cette dernière explique le choix d'un tel modèle iconographi que pour représenter Enée, mais il faut conclure aussi, comme le fait W. Fuchs, devant cette rupture entre le monnayage de César et celui d'Octave, d'une part que les monnaies de César n'ont pas été frappées, ni connues, à Rome, d'autre part qu'il y a peut-être, dans les années 42-38 avant J.-C, une raison politique qui fait répugner à se rattacher aux modèles plastiques étrusco-romains du groupe d'Enée et d'Anchise. Sur ces monnaies d'Octave, on ne voit pas de sacra aux mains d'Anchis e. Il semble que ce flottement entre différents types iconographiques cesse au moment où Auguste va faire ériger sur le Forum qui porte son nom un groupe statuaire représentant Enée, Anchise et Ascagne, grou peaujourd'hui perdu, mais dont de nombreuses copies, répandues à travers l'Empire, permettent de se représenter l'original. La datation du groupe du Forum d'Auguste a été fixée par W. Fuchs entre 27 et 22 avant J.-C.225, bien que l'inauguration du Forum, dont les travaux ont
221 222 223 224 n. 105. 225
Op. cit., p. 625. E. Sydenham, op. cit., p. 182 n° 1104. G. K. Galinsky, op. cit., p. 55-56; W. Fuchs, op. cit., p. 626. En fait, un seul des deux frères est représenté; cf. G. K. Galinsky, op. cit., p. 55 Op. cit., p. 628-629.
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commencé dès 42, n'ait eu lieu qu'en 2 avant J.-C.226. Il se fonde d'abord sur le fait qu'à partir de 28, Auguste effectua plusieurs voyages à Troie, voyages dont l'influence se fait sentir, par exemple, dans la forme de son mausolée. D'autre part, W. Fuchs met ce groupe statuaire en rela tion avec un passage de Virgile, au livre II de l'Enéide, où Enée, lors de son départ, évoque le tableau qu'il formera avec les siens227 : son père sera sur ses épaules, et Iule les accompagnera; et il précise228 qu'Anchise portera sacra patriosque penatis, que l'enfant le tiendra par la main droite, et que lui-même aura les épaules couvertes d'une peau de lion. Cette évocation semble à W. Fuchs une description tout à fait fidèle du groupe du Forum d'Auguste; or, note-t-il, c'est entre 29 et 23 que Virgil e a lu à Auguste des livres séparés de l'Enéide, et notamment le livre II. Nous savons du reste que cette période semble correspondre à une phase architecturale particulièrement active sur le Forum d'Auguste229. Enfin, on a retrouvé un fragment de sculpture ayant sans doute appar tenuà ce groupe, que l'on peut dater des mêmes années230. Un autre témoignage littéraire, celui d'Ovide, est sans doute une allusion à ce même groupe statuaire : Hinc uidet Aenean oneratum pondère caro et tot Iuleae nobilitatis auos; hinc uidet Iliaden umeris ducis arma ferentem231. L'évocation plastique du groupe d'Enée et d'Anchise est beaucoup moins suggestive que chez Virgile, mais il est clair qu'Ovide songe ici aux deux statues qui avaient la place d'honneur dans les deux niches centrales ménagées dans les absides qui fermaient le Forum : au nord, Enée et Anchise, au sud, Romulus, choix dont l'intention politique et idéologique est claire. V. Spinazzola232 a souligné que les deux fresques
226 P. Zanker, Forum Augustum, Tübingen, 1968, p. 5 sq.; F. Coarelli, Roma (Guide Archeologiche Laterza), Rome, 1980, p. 104 sq. 227 En. II, 707-711. 228 En. II, 717-724. 229 Op. cit., p. 628 n. 64. 230 Op. cit., et P. Zanker, op. cit., pi. 35. 231 Fastes V, 563-65 : «Ici, il voit Enée chargé de son cher fardeau et maint ancêtre de la lignée des Jules; là il voit le fils d'Ilia portant sur ses épaules les armes d'un chef vaincu» (trad. H. Le Bonniec, Bologne, 1970). 232 Pompei alla luce dei scavi nuovi di Via dell'Abbondanza, Rome, 1953, I, p. 150 sq. (fig. 183 et 184).
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retrouvées à Pompéi sur la façade des Fullonica de Fabius Ululutremulus, représentant à droite Enee, Anchise et Ascagne, à gauche, Romulus avec le trophée d'Acron, sont probablement un souvenir du Forum d'Auguste; ces fresques sont d'ailleurs datées d'entre 20 avant J.-C. - 25 après J.-C. De même, V. Spinazzola rapproche de ces peintures les groupes de terre cuite, d'inspiration populaire233, reproduisant le grou pestatuaire d'Enée, Anchise et Ascagne, aujourd'hui disparu, qui se trouvait dans l'Edifice d'Eumachia. A quelques variantes près, le type iconographique est désormais fixé : Enée, marchant vers la droite ou vers la gauche, et le regard dirigé vers l'un ou l'autre côté, porte son père sur son épaule gauche, et tient Ascagne de sa main droite; Anchise serre contre lui la ciste sacrée. Ce dernier détail, le fait qu'Enée soit vêtu et porte généralement la barbe, et la présence d'Ascagne, sont une nouveauté par rapport au monnayage de César, sur lequel néanmoins Enée tenait son père sur son épaule gauche, et non sur son dos, comme sur les vases grecs. Il paraît certain que ce modèle s'est fixé aux envi rons des années 20 avant J.-C, où il apparaît systématiquement, en même temps que dans la littérature s'organise définitivement la légen de des origines troyennes de la Gens Iulia, qui fonde ses prétentions politiques234. V. Spinazzola n'a pas manqué de rapprocher de ce modèle l'une des représentations de la Tabula Iliaca, où les fugitifs se trouvent dans la Porte Scée235 : à l'exception du bonnet phrygien dont sont coiffés Enée, Anchise et Ascagne, et qui ne figure pas ailleurs sur la tête des trois personnages à la fois, on trouve les mêmes caractéristiques : Enée, vêtu, et présenté en marche, tient sur son épaule gauche Anchise ser rant une ciste, et donne la main droite à Ascagne. Aussi A. Sadurska236 date-t-elle le relief du dernier quart du Ier siècle avant J.-C, en se fon dant sur la ressemblance avec les peintures et statues de Pompéi d'une part, la mention de la statue du Forum d'Auguste chez Ovide d'autre
233 Ibid., fig. 187; G. Κ. Galinsky, op. cit., p. 8 et fig. 6. 234 Le modèle a été également utilisé pour des caricatures (cf. V. Spinazzola, op. cit., p. 153; W. Fuchs, op. cit., p. 630), retrouvées dans certaines peintures de Pompéi, ce qui atteste sa popularité. Du reste, une intention malicieuse s'exprime dans un graffito des Fullonica de Fabius Ululutremulus, qui parodie le premier vers de l'Enéide (Fullones ululamque cano non arma uirumque), alors même que des fresques représentant Enée et Romulus décoraient la façade de l'édifice. 235 Op. cit., p. 153. 236 Op. cit., p. 35 ; cette datation est reprise par W. Fuchs, op. cit., p. 630.
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part, et enfin la naissance d'une propagande dynastique dans cette période; elle estime, en revanche, que l'œuvre est antérieure à l'Enéide. De fait, si même on estime que le relief est fidèle à l'œuvre de Stésichore, on peut admettre que le type iconographique du «groupe pyrami dal» ne se trouvait pas chez le poète, ni même peut-être dans les modèl es iconographiques qui l'ont précédé. V. Spinazzola237 assure que le relief, sur lequel apparaissent quelques traces de peinture, est en partie dérivé d'un original pictural, et il le rapproche des fresques iliaques de la Casa Omerica238 inspirées par l'Iliade, l'Aithiopis d'Arctinos, et quel ques épisodes de Y Ilioupersis de Stésichore et de la Petite Iliade. Or, la dernière image de la fresque (elle en comportait 50), peinte à la sortie de la maison, montre Enée, portant Anchise sur son dos, guidé par Mercure. Le tableau est malheureusement très altéré, et bien des dé tails nous échappent. Il est très difficile de dire, par exemple, si Ascagne figurait aux côtés de son père. Une ressemblance avec la Table Ili aque pourrait faire penser que les deux images ont été inspirées par l'Ilioupersis de Stésichore : sur la fresque, comme sur le relief, Enée est guidé par Hermès-Mercure, dont la présence n'est attestée nulle part ailleurs239. Mais le type du groupe Enée-Anchise est fort différent : dans la fresque, suivant la tradition que nous avions rencontrée dans la céra mique grecque, Anchise est sur le dos d'Enée, non sur ses épaules, et le groupe est figuré de profil; au contraire, sur le relief, nous avons une représentation frontale, avec Anchise sur l'épaule gauche d'Enée. Si donc des modèles grecs, de céramique ou de peinture murale - on son geen particulier à la Leschè des Cnidiens à Delphes, où Polygnote avait peint des scènes de la ruine de Troie - ont pu inspirer la fresque de Pompéi, leur influence est beaucoup moins visible dans la Tabula Ilia ca. On date les peintures de la Casa Omerica d'environ 30 avant J.-C, ce qui les situe seulement quelques années avant la date d'exécution pro bable de la Tabula. On peut donc sans doute moins parler d'une évolu tiond'un même modèle que de l'expression de deux modèles différents. Les fresques de la Casa Omerica, dont V. Spinazzola240 fait très just ement remarquer que leur disposition le long d'un portique semi-souter237 Op. cit., p. 577. 238 Op. cit., p. 577-593; K. Schef old, Die Wänder Pompejis, Berlin, 1957, p. 17-18; E. La Rocca-M. et A. de Vos, Guida archeologica di Pompei, Milan, 1976, p. 201-202. 239 Rappelons toutefois que selon Naevius (apud Servius-Daniel, Ad Aen. I, 170), Mer cure avait construit le bateau sur lequel s'enfuit Enée. 240 Op. cit., p. 577.
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rain évoque fortement les portiques de la Leschè de Delphes, sont plus influencées que le relief par des modèles grecs; la Tabula, elle, du moins sur ce point précis, exprime davantage la mode iconographique et idéologique de son temps241. D'innombrables répliques de ce modèle ont été exécutées pendant tout l'Empire, sur des objets de toute sorte, monnaies, pierres gravées, lampes, bas-reliefs, peintures murales242; il ne connaît dès lors à peu près aucune variation (si ce n'est qu'Anchise ne porte pas les sacra sur toutes les représentations; sur les petits objets, monnaies ou lampes, il ne les porte à peu près jamais243), et on le retrouve jusque chez Raphaël et le Bernin. Si le thème de la fuite d'Enée et du transfert des sacra est large ment attesté dans l'iconographie, celui de l'arrivée du héros troyen au Latium est illustré pour la première fois à l'époque d'Auguste, sur le bas-relief de droite de la façade de l'Ara Pacis Augustae à Rome. Le monument, dont la construction fut votée en 13 avant J.-C, fut dédié en janvier 9 avant J.-C.244. Ce relief, assez mutilé, est généralement inter prété comme le sacrifice d'Enée aux Pénates de Lavinium245. Sur la partie gauche, on voit deux camilli : l'un amène un porc, l'autre présent e des offrandes et tient de l'autre main un vase destiné aux libations; au-dessus de leur tête, il y a un petit temple sur le devant duquel deux personnages sont assis. Au centre droit, un homme occupe toute la hau teur du relief : c'est Enée, barbu, se tenant dans une attitude majestueu-
241 En revanche, la scène de l'embarquement, en bas et à droite du relief, fait plutôt songer à celle que présente le lécythe de Gela : voir supra p. 196. 242 Pour une bibliographie très détaillée, cf. K. Schauenburg, op. cit., p. 184-185. Le départ d'Enée est l'un des reliefs qui figurent sur l'autel de la Gens Augusta à Carthage (cf. L. Poinssot L'autel de la Gens Augusta à Carthage, Paris-Tunis, 1929, p. 20-27), daté d'un peu avant 14 ap. J.-C; la scène présente le type iconographique traditionnel romain : Enée porte son père sur son épaule gauche et tient son fils de sa main droite. Anchise serre contre sa poitrine une corbeille en osier. 243 Cf. K. Schauenburg, op. cit., p. 190. 244 Res Gestae, II, 37 sq. ; F. Coarelli, Roma, p. 304. 245 Cf. G. Moretti, Ara Pacis Augustae, 2 vol., Rome 1948, 2, p. 215; S. Weinstock, Two archaic inscriptions from Latium, 1RS, 50, 1960, p. 112-114; id., Pax and the Ara Pacis, ibid., p. 44-58; F. Coarelli, Roma, p. 304-306. Cependant, d'autres auteurs parlent de façon plus vague de « sacrifice d'Enée » (C. Peyre, Castor et Pollux et les Pénates pendant la période républicaine, MEFR, 77, 1962, p. 456; E. Simon, Ara Pacis Augustae, Tübingen, 1967, p. 23-24; R. Schilling, Penatibus et Magnis Dis, Misceli. E. Manni, Rome, 1979, p. 1972; C. Pietrangeli-R. Bianchi Bandinelli, Ara Pacis Augustae, in Enciclopedia dell'Arte Antica, I, Rome, 1957, p. 523-528.
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se, et vêtu d'un manteau sacerdotal dont un pli lui couvre la tête; l'e xpression du visage est grave; derrière lui se tient un personnage très mutilé : il n'en reste que le bras droit qui tient un bâton à nœuds, et un morceau de l'épaule droite et du corps qui permet de voir qu'il porte un manteau militaire; la tête a été rapportée sur le corps par G. Moretti 246. Si l'identification du personnage central comme Enée ne soulève guère de difficulté, il n'en va pas de même pour la figure de droite. G. Moretti247 propose de voir en elle un compagnon d'Enée, le fidus Achates, débarqué avec le héros troyen en Italie; il ne peut, selon lui, s'agir d'Ascagne, que toute la tradition littéraire et iconographique pré sente comme un enfant. Mais précisément, l'absence d'Ascagne, ou Iule, dont la Gens Iulia tire son nom, sur ce relief destiné à célébrer la dynastie naissante, surprend un peu. Aussi G. Moretti a-t-il supposé, constatant que la partie du relief située au bas et à droite, contre le pilastre, était vide, - compte tenu de ce que l'on peut reconstituer du volume de la silhouette de droite -, qu'Achate tenait par la main Ascagne, ou que ce dernier se tenait à côté de lui, dans le coin droit en bas du relief248. A l'appui de cette hypothèse, on peut faire valoir que l'e nsemble de la scène offrirait alors une composition triangulaire, dont la tête d'Enée, personnage essentiel, formerait le sommet; de chaque côté de lui s'ordonneraient symétriquement deux figures, de hauteur dé croissante en allant du sommet à la base du triangle : les deux camilli à gauche, Achate et Ascagne à droite. Au contraire, S. Weinstock249 fait remarquer que le personnage d'Achate est une invention de Virgile, et qu'il est plus vraisemblable de penser qu'il s'agit d'Ascagne : car ce der nier, qui était un enfant au moment du sac de Troie, peut fort bien être un jeune adulte lors de l'arrivée des Troyens en Italie; il serait, d'autre part, surprenant qu'Ascagne ne fût pas présent lors de cette célébration solennelle. Cette interprétation soulève une difficulté, relevée du reste par S. Weinstock lui-même : c'est que, s'il s'agit bien d'Ascagne, sa représentation en adulte serait le seul exemple dans l'iconographie de ce sacrifice, qui figure sur des médailles d'Antonin le Pieux250. Etant
246 247 248 249 250
Op. cit., p. 153. Op. cit., p. 216. Op. cit., p. 153. Pax and the Ara Pacis, p. 57. Cf. F. Castagnoli, Lavinium I, fig. 81 et 88; infra p. 227-8.
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donné l'état de mutilation de toute la partie droite du relief, il est diffi cile de se prononcer. Au demeurant, ces deux interprétations ne pren nent pas en considération un élément de la sculpture qui, lui, est par faitement conservé : c'est le bâton que le personnage adulte tient à la main. Si l'on rapproche cette représentation de celle de la Tabula Iliaca qui en est à peu près contemporaine, une autre hypothèse paraît possi ble : dans la scène de la Porte Scée, Enée est guidé par Hermès, comme l'indique une inscription gravée aux pieds du dieu; or, si sur la Tabula Iliaca Hermès ne tient pas à la main une baguette de héraut, cet insigne lui est très fréquemment attribué; peut-être alors pouvons-nous identi fiercomme Hermès, qui, selon certaines traditions, guida Enée hors des murs de Troie, le personnage tenant un bâton qui figure à côté d'Enée sur le relief251. Il faudrait en ce cas supposer, comme l'a fait G. Moretti, qu'Ascagne était représenté à ses côtés, car il paraît impossi ble que l'ancêtre et l'éponyme de la Gens Iulia ne figurât pas à la prise de possession religieuse de la terre latine par Enée. L'animal amené par l'un des camilli est un porc, ou une truie, et, là encore, on en a proposé différentes interprétations : G. Moretti252 et F. Coarelli253 pensent qu'il s'agit de la truie aux trente porcelets, ce qui serait conforme au récit que fait Denys d'Halicarnasse254 de l'arrivée d'Enée au Latium et du sacrifice de l'animal miraculeux, ainsi qu'à la tradition rapportée par Virgile255; au contraire, S. Weinstock y voit seu lement un porc qui serait sacrifié aux Pénates256. L'une et l'autre inter prétations soulèvent des difficultés. S'il s'agit de la truie aux trente por celets, animal prodigieux dont l'apparition aurait été prophétisée à Enée pour marquer son arrivée dans la terre promise, il est singulier qu'ici l'animal soit représenté seul, sans au moins quelques-uns de ses petits, figurés pour évoquer l'ensemble : trois pour trente, par exemple, ou bien sept ou huit, comme sur des médailles d'Hadrien ou d'Anto-
251 Le personnage d'Hermès-Mercure est présent aussi aux côtés d'Enée et d'Anchise sur la fresque de la Casa Omerica, datée de 30 avant J.-C. environ. Il y aurait donc conco mitance dans l'apparition du personnage auprès des Enéades dans les représentations figurées; dans les témoignages littéraires, seul Naevius le mentionne. 252 Op. cit., p. 215. 253 Op. cit., p. 305. 254 I, 56. 255 En. VIII, 81-85. 256 Pax and the Ara Pacis, p. 57.
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nin le Pieux257. C'est, à notre connaissance, le seul exemple de ce mode de représentation de la truie aux trente porcelets; on ne peut arguer ici de la mutilation de l'animal sur le relief : seul l'arrière-train est endom magéet les quatre pattes, elles, sont bien visibles; or les porcelets sont toujours représentés tétant entre les pattes de leur mère. Nous savons d'autre part que, dans le culte privé, s'il était courant d'offrir aux Pénat es une portion du repas, il arrivait aussi que l'on sacrifiât un animal de petite taille aux dieux domestiques, et notamment un porc. Par ail leurs, nous ignorons la nature du sacrifice que faisaient aux Pénates les magistrats romains lors de leur entrée en charge258. Dire que le sacrifi ce est offert, non aux Pénates, mais à Junon259 ne supprime pas la diffi culté, car on sacrifiait à cette déesse une génisse ou une chèvre, pas un porc. Nous reviendrons sur ce problème lorsque nous essaierons d'in terpréter l'ensemble de la scène260. Reste à examiner le point le plus important pour la présente étude. Le temple représenté en haut du relief à gauche est-il le temple des Pénates à Lavinium, le sanctuaire où Enée aurait déposé les sacra apportés de Troie? Et d'autre part, l'animal qui va être sacrifié leur est-il destiné? L'identification des deux personnages assis sur le devant du temple a donné matière à des controverses. Ils présentent des caractéristiques si spécifiquement romaines qu'E. Petersen261 a cru pouvoir les désigner comme le sénat et le peuple de Rome. On admet très généralement aujourd'hui, à la suite de G. Moretti262, qu'il s'agit des Pénates. Le tem ple est situé sur une hauteur, colline ou rocher, et domine la scène. S'il s'agit véritablement d'un temple, il n'est pas représenté à la même
257 J. M. C. Toynbee, Roman Medaillons, New- York, 1944, pi. 25; Cf. F. Castagnoli, Lavinium. I, fig. 80, 81, 82; Α. Alföldi {Early Rome, p. 272) montre que le nombre réduit des porcelets figurés ne doit pas empêcher de reconnaître dans l'animal la truie aux tren te porcelets. 258 Macrobe, III, 4, 11; Servius, Ad Aen., III, 12; cf. infra p. 355-61. 259 Comme le fait J. Carcopino, Virgile et les origines d'Ostie p. 607; selon R. Turcan {Enee, Lavinium et les treize autels, RHR, 200, 1983, p. 51), «la truie n'est pas une victime appropriée aux Pénates»; contra, voir A. De Marchi, // culto privato di Roma antica, Milan, 1896, p. 138. 260 Cf. infra p. 424-5. 261 Ara Pads Augustae, Vienne, 1902. 262 Op. cit., p. 215. Sur les représentations des dieux dans les scènes de sacrifice, voir E. Will, Le relief cultuel gréco-romain. Contribution à l'histoire de l'art de l'Empire romain, Paris, 1955, p. 241.
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échelle que les personnages et l'animal qui composent cette scène : il est beaucoup plus petit, et il est difficile de penser que cette petite taille s'explique par une tentative du sculpteur pour représenter la perspecti ve du temple dans le lointain : le seul relief de l'Ara Pacis qui soit par faitement conservé, représentant une femme - Tellus, Vénus, ou l'Italie - allaitant les enfants, témoigne chez l'artiste d'une telle maîtrise tech nique qu'on ne peut croire que l'auteur de notre relief, même s'il s'agit d'un artiste différent, ait eu cette gaucherie. Au reste, aucun autre él ément du relief, qui est d'un style assez austère, mais dont le modelé est délicat et les proportions des différentes figures parfaitement respect ées, ne révèle une maladresse technique. De plus, des éléments archi tecturaux263 empêchent d'identifier cet édifice comme un temple : il n'a pas le soubassement habituel ni les marches qui conduisent au seuil, non plus que de portique ni de colonnade; seuls deux pilastres enca drent les deux silhouettes assises sur le devant du temple; d'autre part, les images des dieux ne sont jamais placées sur le devant du temple, mais dans une cella située au contraire tout au fond de celui-ci264; enfin, ce serait la seule représentation semblable du temple des Pénates à Lavinium. Les médailles d'Hadrien et d'Antonin le Pieux citées plus haut nous montrent Enée devant un temple rond, dont il n'est pas cer tain d'ailleurs qu'il soit celui des Pénates; mais, quelle que soit l'identi fication qu'on fait de ce sanctuaire, la singularité de l'édifice figuré sur le relief demeure. En revanche, cette petite construction peut parfait ement être identifiée comme un sacellum, ou un lararium, semblables à ceux où, dans le culte privé265, on conservait les images des dieux domestiques, Lares et Pénates. Ces petites chapelles étaient même par fois portatives. Il s'agirait donc ici d'un détail emprunté à la vie rel igieuse privée de l'époque où vivait le sculpteur, et appartenant au culte domestique. De même, la guirlande de lauriers qui entoure les statuet tes rappelle celles dont on décore les images des dieux domestiques dans les circonstances de fêtes familiales. Enfin, on peut rapprocher cette figuration du petit sanctuaire du culte domestique d'une expres sion employée par Virgile lorsqu'Enée sacrifie la truie miraculeuse :
263 Cf. P. Gros, Aurea Templa. Recherches sur l'architecture religieuse de Rome à l'épo qued'Auguste, Rome, 1976, p. 101 sq. 264 G. Wissowa, Religion und Kultus der Romer, 2e éd., Munich, 1912, p. 56; P. Gros, op. cit., p. 155 sq. 265 Cf. supra p. 71 sq.; Hug, R.E. XII, s.u. lararium, col. 794-95.
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sacra ferens266. Il serait forcé de dire que le sculpteur a eu pour projet d'illustrer le texte de Virgile, mais il est possible qu'il y ait là une rémi niscence de l'Enéide : le sculpteur aurait alors interprété le terme de sacra comme les images des dieux qui, dans la maison ou même en voyage, assistent aux événements de la vie familiale et à qui on fait des sacrifices. Ici, les sacra troyens sont représentés comme l'étaient les Pénates dans les chapelles de culte domestique, sous forme de statuet tes anthropomorphiques. Un autre argument en faveur de cette identi fication nous paraît résider dans la différence de construction entre ce petit édifice et l'autel que l'on devine au milieu du relief, vers lequel un des camilli conduit l'animal. Tandis que ce dernier est en pierres sèches assez grossièrement entassées, ce qui trahit une construction hâtive, provisoire, faite par Enée au moment d'accomplir son sacrifice, l'appa reillage de pierres que l'on voit sur le côté gauche du petit temple est particulièrement net et soigné : on peut donc penser qu'il s'agit là d'un laraire portatif apporté par Enée, non d'un sanctuaire qu'il aurait const ruit sommairement pour les Pénates troyens dès son arrivée au Latium. Les parentés entre l'Enéide et le relief restent, malgré tout, limi tées. Aucun élément de la scène figurée ne permet de dire que le sacri ficeaccompli par Enée s'adresse non aux Pénates, mais, comme chez Virgile, à Junon. Il est probable au contraire que le sculpteur a suivi la tradition rapportée par Denys d'Halicarnasse, et dont s'est écarté Virgil e; mais il l'a traitée d'une manière composite. Il ne nous paraît pas douteux qu'il faille situer la scène à Lavinium : la présence de feuilles de chêne, que l'on aperçoit en haut du relief entre le sacellum des Pénat es et la tête d'Enée, si elle s'explique peut-être par le goût des Romains pour des éléments de paysage encadrant des monuments267, peut aussi être un souvenir de la tradition littéraire selon laquelle Enée découvre la truie miraculeuse dans une forêt268, et une allusion à un aspect bien connu du paysage lavinate269. En revanche, l'attitude des dieux rappelle leurs statues dans l'Aedes deum Penatium de la Vèlia, à Rome, décrites par Denys d'Halicarnasse270: deux jeunes gens assis.
266 VIII, 85; cf supra p. 193-4. 267 P. Grimai, Les jardins romains à la fin de la République et aux deux premiers siè cles de l'Empire, Paris, 1943, p. 73. 268 Virgile, En. VIII, 82 : per siluam. 269 Caton, Fr. 55 Peter (apud Servius-Daniel, Ad Aen. X, 541), boues . . . profugisse in siluam. 270 I, 68, 2; cf. infra p. 419 sq.
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II ne faut donc pas voir dans ce relief une représentation qui se voudrait réaliste du sacrifice d'Enée à son arrivée dans le Latium. Il présente au contraire une fusion d'éléments très divers; des éléments grecs viennent du cycle des légendes de Y Ilioupersis : le personnage d'Enée, son voyage qui se termine par l'arrivée en Hespérie; d'autres détails sont empruntés aux légendes locales, romaines et lavinates : le prodige de la truie aux trente porcelets, le transfert des sacra troyens considérés comme les Pénates de Lavinium; enfin, certains éléments traduisent des réalités religieuses romaines contemporaines de l'exécu tion de l'œuvre : le costume sacerdotal d'Enée, la présence des deux camilli, leurs costumes, leurs couronnes de feuilles, le plat contenant les offrandes, le vase destiné aux libations que l'un d'eux tient à la main, le sacellum où se tiennent les statuettes des Pénates, et aussi le porc, victime parfois sacrifiée à Cérès ou à Tellus271 et présente égale ment dans les suouetaurilia212 ; mais cette figuration de l'animal peut être interprétée comme une synthèse entre un élément réaliste et un épisode légendaire, celui de la truie miraculeuse. C'est ce que suggère S. Weinstock273, en affirmant qu'il ne s'agit pas de la truie miraculeuse, ni même du sacrifice initial d'Enée à son arrivée au Latium, mais d'un sacrifice fait aux Pénates en souvenir de ce sacrifice initial, alors qu'Enée est déjà roi de Lavinium : le sacrifice annuel des magistrats romains à Lavinium en serait un renouvellement274. Le relief n'est pas une illustration du texte de Virgile, mais il a pu être inspiré par lui dans certains détails, et il exprime sans doute le même courant de pensée politico-religieux qui formule la légende troyenne des origines de Rome à l'époque d'Auguste. Cette hypothèse est du reste confirmée par l'interprétation que l'on peut donner des quatre reliefs qui décorent les parois extérieures : sur le devant, le sacrifice d'Enée à droite, à gauche un relief en très mauvais état repré sentant sans doute le berger Faustulus recueillant Romulus et Rémus, ou Mars devant la grotte du Lupercal où la louve venait nourrir les jumeaux; sur le derrière de l'autel, la scène symétrique du sacrifice
271 Cf. H. Le Bonniec, Le culte de Cérès à Rome des origines à la fin de la République, Paris, 1958, p. 82 : le sacrifice d'une truie «convient particulièrement à Cérès et à Tellus, mais elle est sacrifiée à bon nombre de divinités, si bien que l'on n'ose rien affirmer». 272 E. Benveniste, Symbolisme social dans les cultes gréco-italiques, RHR, 86, 1945, p. 12 sq.; G. Dumézil, Tarpéia, Paris, 1947, p. 142 sq. 273 Op. cit., p. 57. 274 Cf. infra, p. 355 sq.
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d'Enée représente une femme nourrissant deux enfants; quelle que soit l'identité de cette dernière275, le relief célèbre la prospérité romaine; la quatrième scène est à peu près complètement effacée276. L'ensemble illustre donc à la fois la paix et l'abondance romaines, et les deux reliefs de la façade représentent les deux fondateurs de la race romai ne : Enée, l'ancêtre troyen, et son descendant, Romulus, fondateur de Rome. L'association des deux personnages en des scènes symétriques rappelle évidemment les peintures des Fullonica de Pompéi et les grou pesstatuaires des niches centrales du Forum d'Auguste. Les reliefs de Y Ara Pacis célèbrent la paix enfin établie par August e. Ni Romulus, ni Enée ne sont représentés comme les guerriers qu'ils sont dans certains épisodes de leur légende. Fait très rare dans l'icon ographie du personnage, Enée ne porte pas un casque, mais le vêtement sacerdotal : il est bien le pius Aeneas chanté par Virgile277; mais il y a plus : l'expression de son visage, le traitement de sa barbe et de sa che velure rappellent, comme le fait remarquer G. Moretti278, le type icono graphique de Jupiter; Enée serait donc définitivement passé ici, pour reprendre la terminologie de G. Dumézil, de la fonction guerrière à cel le de la souveraineté, et même, il serait presque identifié au dieu de cette fonction, Jupiter. On voit comment la légende de la venue d'Enée au Latium et du transfert des sacra s'est peu à peu élaborée et transformée dans la litt érature et l'iconographie entre le VIe et le Ier siècle avant J.-C. Le destin du héros troyen se précise peu à peu. Dans la plus ancienne attestation littéraire du personnage d'Enée, l'Iliade, un avenir brillant est promis au héros, sans que le poète dise où se réalisera cet avenir. Au VIe siècle, avec Stésichore - si on accepte de considérer que la Tabula Iliaca illus trebien son poème -, la terre promise à Enée est l'Hespérie, et au Ve siècle, Hellanicos et Damastes parlent, selon Denys d'Halicarnasse, de l'Italie. Aux IIIe et IIe siècles, ni les auteurs grecs ni les auteurs latins n'ajouteront de précision supplémentaire et ce n'est qu'avec Varron, puis Virgile, que la légende du débarquement d'Enée au Latium, et plus précisément à l'emplacement de la future Lavinium, s'établit défi nitivement.
275 276 277 278
G. K. Galinsky, op. cit., p. 191 sq. Cf. C. Pietrangeli-R. Bianchi Bandinella op. cit., p. 525 et 527. G. K. Galinsky, op. cit., p. 35-36; J.-P. Brisson, Le «pieux Enée», p. 379 sq. Op. cit., p. 216.
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Le personnage d'Ascagne accompagnant son père n'est pas tou jours présent dans la tradition littéraire et iconographique, contraire ment à celui d'Anchise; son rôle se transforme. Sur les vases attiques du VIe et du Ve siècles, il ne figure pas très souvent, ou est accompagné d'autres enfants; de même Hellanicos le cite parmi d'autres fils du mariage troyen d'Enée. Il n'est toujours présent dans le groupe des fugitifs qu'à partir du moment où les écrivains latins au IIIe siècle reprennent à leur compte la légende d'Enée; encore Cassius Hemina, au IIe siècle, cite-t-il deux fils d'Enée fuyant avec lui; l'amphore de Vulci est le seul témoignage archaïque d'origine italique où Ascagne joue un rôle important, et nous avons souligné plus haut que ce type icono graphique est unique. En revanche, à partir du Ier siècle, Ascagne est mis en valeur pour les raisons politiques et dynastiques déjà relevées. Parallèlement à l'évolution du rôle d'Ascagne, le personnage d'Enée se transforme, de guerrier troyen des poèmes homériques en pius Aeneas, manifestant sa piété envers ses dieux, ses sacra, et aussi envers son père, qui est, dit Ovide, altera sacra279, cette transformation du person nage s'opérant chez Virgile par une intériorisation de sa mission. Le transfert des sacra n'intéresse ni la littérature ni l'iconographie grecques, à l'exception notable du poème de Stésichore, si la Tabula Iliaca l'illustre fidèlement; l'origine du «scarabée étrusque» est incon nue.L'amphore de Vulci, même si l'interprétation du doliolum n'est pas certaine, serait donc la première attestation de la légende en Italie, au Ve siècle. Timée et Lycophron témoignent de sa vitalité au IIIe siècle. Etant donné que les œuvres de Naevius, de Fabius Pictor et d'Ennius ne nous sont connues que par de très courts fragments, il est impossible de tirer aucune conclusion du fait que la légende n'est pas mentionnée dans ce que nous en connaissons. En revanche, à partir du IIe siècle, avec Cassius Hemina, elle est constamment liée au thème de la fuite d'Enée, et le poème de Virgile s'ordonne autour d'elle. Nous montrerons plus loin que l'histoire du transfert des sacra n'a pas un caractère purement littéraire, mais qu'en elle se mêlent des apports locaux et des légendes venues de Grèce. Il restera à voir par quel chemin ces légendes sont arrivées au Latium pour se greffer sur les traditions latines.
279 Fastes 1, 527-528.
CHAPITRE II
LE SANCTUAIRE DES PÉNATES À LAVINIUM
Dans la légende troyenne, à l'épisode du transfert des sacra par Enée de Troie en Italie succède la prise de possession par les Troyens de la terre latine, et, après des luttes avec les peuples autochtones, la fondation par Enée d'une cité nouvelle, Lavinium, et l'installation dans cette dernière des dieux de Troie, et notamment des Pénates. C'est ce à quoi fait allusion Varron dans un texte déjà cité : oppidum quod primum conditum in Latio stirpis Romanae, Lauinium : nam ibi dii Penates nostri1. Il y a donc identification des dieux apportés par Enée et des Pénates des Romains. Le sacrifice des magistrats romains à Lavinium, attesté par Servius-Daniel et Macrobe, témoigne lui aussi de l'existence de ce culte, et est l'expression du même sentiment2. Servius-Daniel écrit : cum consules et praetores siue dictator abeunt magistratu, Lauini sacra Penatibus simul et Vestae faciunt3; le témoignage de Macrobe est formulé presque dans les mêmes termes : ut et consules et praetores seu dictatores, cum adeunt magistratum, Lauini rem divinam faciant Penati bus pariter et Vestae4. Les deux auteurs attestent que les hauts magist ratsromains allaient à Lavinium accomplir un sacrifice (sacra, rem diuinam) à Vesta et aux Pénates, cependant que Varron affirme que les Pénates romains se trouvaient à Lavinium. Nous sommes donc fondés à penser que ces dieux avaient à Lavinium un sanctuaire, qu'ils parta geaient peut-être avec la déesse du foyer. L'existence de ce dernier est attestée dans la tradition littéraire et iconographique, mais l'interpréta tion de ces données, parfois divergentes, est assez délicate. On peut
1 2 3 4
De L.L. V, 144. Pour une étude détaillée de la signification de ce sacrifice cf. ci-dessous, p. 355-61. Ad Aen. II, 296. III, 4, 11. Sur les deux leçons adeunt et abeunt, voir ci-dessous, p. 355-7.
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donc espérer pouvoir les éclairer par les découvertes archéologiques récentes de Pratica di Mare, notamment le sanctuaire des Treize autels et le sanctuaire extra-urbain situé à l'est des murailles de la cité.
I - Les donnés littéraires et iconographiques 1) La tradition littéraire Outre les très minces indications de Varron, Servius-Daniel, et Macrobe que nous venons de rappeler, l'existence d'un temple des Pénates, ou d'un temple renfermant les images des Pénates, est attestée dans trois textes. Le premier est un témoignage de Timée cité par Denys d'Halicarnasse : κηρύκεια σιδηρά και χαλκά και κέραμον Τρωικον είναι τα εν τοις άδύτοις τοις έν Λαουϊνίω κείμενα ίερά5. Bien qu'aucune précision ne soit donnée sur la divinité dédicataire de Y adyton en question, on est en droit de penser, puisque Denys se propose de définir les Pénates de Lavinium, et en l'absence d'indication contraire, qu'il s'agit d'un sanc tuaire qui leur est propre. Ce témoignage, au demeurant, nous aide peu pour l'identification du temple : il ne contient aucune précision topo graphique. Le second texte est un passage de XAlexandra de Lycophron : δείμας δε πατρω' αγάλματ' σηκον Μυνδία έγκατοικιεΐ Παλληνίδι θεών6. Selon la prophétie de Cassandre, Enee fondera Lavinium et y éta blira le culte d'Athéna, désignée ici par deux épithètes dont J. Perret note à juste titre qu'elles font allusion au voyage d'Enée, le pays des Myndiens désignant l'Asie, son point de départ, et Pallènè l'une de ses étapes7; dans sa prophétie, Cassandre n'attribue à Enée aucune autre fondation de culte; le choix d'Athéna s'explique assez bien, comme l'a
5 I, 67, 4 : « Les objets sacrés contenus dans la partie secrète du sanctuaire de Lavi nium sont des caducées de fer et de bronze et de la poterie troyenne». 6 1261-62: «Ayant construit un temple à Myndia Pallènis, il (Enée) y installera les images des dieux de sa partrie»; cf. supra p. 172-6. 7 Les origines de la légende troyenne de Rome, Paris, 1942, p. 353; cf. Denys d'H., I, 49.
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souligné Holzinger8, par le fait qu'elle est par excellence une déesse poliade, à Troie en particulier, et que l'établissement de son culte par Enée dans la cité qu'il fonde en Italie est hautement symbolique du fait que cette dernière est une nouvelle Troie. Le terme σηκός désigne «l'en ceinte sacrée» plutôt que le temple lui-même9: c'est peut-être une allusion aux cultes archaïques en plein air, ou au caractère hâtif, provi soire, de ce premier établissement donné par le Troyen à Athéna; mais sans doute ne faut-il pas chercher à attribuer un sens trop rigoureux aux termes d'un texte volontairement énigmatique. A s'en tenir à cette prophétie en tout cas, les πατρφοι θεοί d'Enée, en qui, croyons-nous, il faut reconnaître les Pénates, n'ont pas à Lavinium de sanctuaire qui leur soit propre : leurs images (αγάλματα) sont déposées dans celui d'Athéna. Quel crédit peut-on accorder à ce témoignage? Les obscurités et les fantaisies qu'il contient ne doivent pas jeter sur lui un discrédit total. Le culte d'Athéna, considérée comme une déesse troyenne, a été étudié par G. Pugliese Carratelli 10, qui s'appuie sur un texte de Strabon; ce dernier mentionne les cités d'Italie du sud qui passaient pour des ét ablissements troyens et où étaient vénérées des statues d'Athéna Ilias que l'on considérait comme «troyennes»11. Strabon évoque, non sans ironie, la multiplicité de ces «Athénas troyennes», dont l'une se trouve à Lavinium : και έν 'Ρώμη και έν Λαουϊνίω και έν Λουχερία και έν Σειρίτιδι Ίλιας 'Αθηνά καλείται, ώς εκείθεν κομισθεΐσα 12. Le fait qu'Enée installe ses dieux ancestraux dans le temple d'Athéna est-il l'expression d'un lien cultuel? C'est peu vraisemblable, car il n'existe aucune attes tation d'un tel lien, si ce n'est, par l'intermédiaire, précisément, du per-
8 Lykophrons Alexandra, Leipzig, 1893, ad loc. 9 P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, IV, 1, Paris, 1968, s.u. σηκός. 10 Lazio, Roma e Magna Grecia prima del secolo quarto a.C, PP, 23, 1968, p. 324. Voir aussi C. Bearzot, Atena Itonia Tritonia e Iliaca, in Politica e religione nel primo scontro tra Roma e l'Oriente, Milan, 1982, p. 57-60; M. Sordi, Lavinio, Roma e il Palladio, ibid., p. 6578 ; C. Cogrossi, Atena Iliaca e il culto degli eroi, ibid., p. 79-98 ; M. Torelli, Lavinio e Roma. Riti iniziatici e matrimonio tra archeologia e storia, Rome, 1984, p. 19-74. 11 VI, 1, 14: Siris et Héraclée notamment; Strabon ironise sur le prodige raconté à propos de la statue d'Athéna dans cette cité : elle aurait fermé les yeux, devant un sacrilè ge, comme à Troie lors du viol de Cassandre; cf. M. Torelli, op. cit., p. 21-22. 12 Ibid. : «Car à Rome, comme à Lavinium, comme à Lucéria et comme, finalement, en Siritide, Athéna est appelée «Athéna Troyenne» parce qu'on la croit apportée de Troie» (trad. F. Lasserre, C.U.F., Paris, 1967).
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sonnage d'Enée, dans la tradition selon laquelle Enée aurait emporté de Troie, parmi les sacra, le Palladium, supposé conservé à Rome dans le sanctuaire de Vesta13. Mais il ne s'agit pas, selon nous, d'un lieu cultuel à proprement parler; en réalité, Enée emporte de Troie ce que la cité a, religieusement, de plus précieux : nous avons vu que certaines images montrent aux mains d'Anchise une ciste, censée contenir des sacra dont la définition reste très vague; d'autres montrent le Palladium dans les bras d'Enée14. Aussi nous semble-t-il que la contradiction entre le texte de Lycophron et les indications que l'on peut tirer du témoignage de Timée rapporté par Denys d'Halicarnasse n'est pas aussi insurmontable qu'il y paraît à première vue. On peut supposer, en effet, que la pro phétie de Cassandre évoque un état provisoire de l'installation des dieux troyens par Enée dans la cité qu'il vient de fonder : son premier soin est pour la déesse poliade, dans le sanctuaire de laquelle il établit, provisoirement, ses πατρφοι θεοί, ce qui n'exclut pas - et l'on retrouve alors le témoignage de Timée - qu'ultérieurement, ces derniers aient été installés dans un temple qui leur fût spécifiquement dédié. C'est, une fois encore, chez Denys d'Halicarnasse que nous trou vons les renseignements les plus substantiels sur l'installation des Pénat es à Lavinium par Enée. Le Troyen, qui a reconnu l'accomplissement des prodiges dont les dieux lui avaient annoncé qu'ils marqueraient son arrivée dans la terre qui lui était destinée (la manducation des tables et la truie aux trente porcelets) va sacrifier l'animal miraculeux : Αινείας δε της μέν ύος τον τόκον άμα τη γειναμένη τοις πατρφοις άγίζει θεοΐς έν τω χωρίω τφδ', ού νυν έστιν ή καλιάς, και αυτήν οί Λαουϊνιάται τοις άλλοις άβατον φυλάττοντες ίεράν νομίζουσι ■ τοις δέ Τρωσί μεταστρατο-πεδευσαι κελεύσας έπί τον λόφον ιδρύεται τα εδη των θεών έν τω κρατίστω και αύτίκα περί την κατασκευήν του πολίσματος άπαση προθυ μία ώρμητο15. Ce texte atteste tout d'abord l'existence d'une καλιάς, chapelle commemorative du sacrifice de la truie par Enée; cette cha-
13 Cf. infra p. 460-7. 14 Par exemple, sur une lampe conservée au Musée Kestner à Hanovre : voir K. Schauenburg, Aeneas und Rom, Gymnasium, 67, 1960, p. 184 et t. XVIII, 2; F. Castagnoli, Lavinium I, Rome, 1972, p. 79 fig. 83 et p. 114. 15 I, 57, 1 : «Enée sacrifia la truie et ses petits aux θεοί πατρώοι à l'endroit où s'élève aujourd'hui la chapelle que les Lavinates considèrent comme sacrée et interdisent à tous les autres. Ayant donné l'ordre aux Troyens de déplacer leur camp sur la hauteur, il ins talla les images des dieux au meilleur emplacement, et aussitôt s'adonna de tout son cœur au travail de construction de la cité».
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pelle aurait encore existé du temps de Denys, ainsi qu'en témoigne l'emploi du présent έστιν, et seuls les Lavinates y auraient accès, ce qui corrobore peut-être l'indication de Timée selon laquelle le temple de Lavinium comportait un adyton. Le terme de καλιάς16 signifie, au sens premier, «hutte de branchages», «cabane», puis «petite chapelle», et semble désigner un édifice assez modeste17. D'autre part, Denys parle d'un établissement par Enée des πατρφοι θεοί «sur la hauteur»: ce temple est-il la καλιάς, ou cette dernière n'est-elle qu'une chapelle com memorative, non le siège du culte? Le texte de Denys, à lui seul, n'offre pas de réponse à cette question, que les attestations iconographiques du temple permettent peut-être d'éclairer un peu. En revanche, il peut constituer un argument en faveur de la suggestion de F. Castagnoli18, selon qui le temple des Pénates à Lavinium (où Vesta devait être honor éeaussi puisqu'ils recevaient un sacrifice commun de la part des magistrats de Rome) ressemblait peut-être à celui de Vesta sur le Forum19; nous savons en effet que, dans son état le plus ancien, le sanctuaire du Forum avait un toit de branchages20, ce que semble auss isuggérer le terme de καλίας. Enfin, ce texte donne à penser que le sanctuaire dans lequel Enée établit ses πατρφοι θεοί est à l'intérieur de la cité : un peu auparavant, en effet, Denys indique qu'Enée et ses com pagnons, ayant débarqué au Latium, construisent une cité μικρόν άποσχόντες άπο θαλάττης επί λόφω τινί21; on peut supposer qu'il s'agit de la même hauteur que celle où il établit ses dieux, car Denys indique clairement qu'Enée commence la construction de la ville aussitôt (αύτίκα) après avoir installé ses dieux «sur le meilleur emplacement»; la priorité donnée aux dieux, comme ce choix topographique, semblent l'une des illustrations de la piété d'Enée22. Il nous paraît donc, d'après
16 P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, II, Paris, 1970, s.u. καλιάς 17 F. Castagnoli, in Enea nel Lazio. Archeologia e mito, Catalogue de l'Exposition, Rome, 1981, p. 157-158. 18 Lavinium I, p. 115; A. Alföldi, Early Rome and the Latins, University of Michigan Press, Ann Arbor, 1964, p. 274. 19 Nous savons par Tacite (Ann. XV, 41) que ce temple passait pour contenir les Penates populi Romani. 20 Ovide, Fastes IV, 261-62. 21 I, 45, 1 : «sur une hauteur non loin de la mer». 22 Rappelons par exemple que Lycophron (Alex., 1263 sq.) indique qu'Enée a préféré ses dieux à l'ensemble de ses biens, et que, selon Varron, c'est l'exercice de cette piété qui lui valut l'estime des Grecs (Servius, Ad Aen. II, 717; cf. supra p. 175; 179 sq.
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le témoignage de Denys, seul document littéraire que nous possédions à ce sujet, que le temple des Pénates, situé «dans le meilleur endroit» d'une ville construite sur une hauteur, ne pouvait se trouver qu'à l'int érieur des murs de la cité. 2) Les documents iconographiques Nous avons précédemment étudié23 le relief de l'Ara Pacis repré sentant le sacrifice d'Enée. Nous avons alors indiqué les raisons qui nous donnaient lieu de croire, à la suite de G. Moretti24, que la scène se situait à Lavinium, comme le montrent le caractère hâtif de la cons truction de l'autel sur lequel Enée va sacrifier l'animal, et certains détails qui semblent, même si on peut les interpréter comme des él éments conventionnels de la représentation des paysages, évoquer préc isément des aspects de la région de Lavinium, par exemple le chêne couvert de feuillles qui apparaît en haut au centre de la scène, malheu reusement très endommagé par la cassure principale du relief : diffé rents témoignages attestent que les environs de Lavinium étaient boi sés, et que la forêt était toute proche de la ville25. Au demeurant, nous avons insisté sur l'absence de caractère réaliste de l'ensemble de la scè ne, et, notamment, sur les difficultés qu'offre l'identification du petit édifice qui figure en haut à gauche du relief. Celle des deux personnag es assis sur le devant comme les Pénates nous paraît certaine, mais, si l'édifice leur est bien dédié, duquel de leurs temples s'agit-il? La ques tion a été longuement débattue. Pour R. Schilling26, l'édifice et les ima ges des dieux sont en tous points conformes à la description que fait Denys d'Halicarnasse du temple de la Vèlia à Rome27, et il n'est pas douteux qu'il faille voir sur le relief une représentation du temple de Rome (restauré par les soins d'Auguste, comme nous l'apprennent les
23 Cf. supra p. 209-216. 24 Ara Pacis Augustae, Rome, 1948, p. 215. 25 Caton, cité par Servius-Daniel (Ad Aen. X, 541 = Fr. 55 Peter), raconte que des boeufs qui devaient être sacrifiés s'enfuirent dans la forêt ; une anecdote analogue, à pro pos de poulets sacrés, se trouve chez Valére Maxime (I, 6, 7) et Obsequens (24). 26 Penatibus et Magnis Dis, Mise. E. Manni VI, Rome, 1980, p. 1972; R. Schilling considère cette identification comme incontestable, et s'appuie sur les affirmations d'E. Petersen (Ara Pacis Augustae, Vienne, 1902, p. 57); cf. aussi F. Castagnoli, Lavinium I, p. 115. 27 I, 68, 1-2.
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Res Gestae28), que le sculpteur aurait ainsi voulu mettre à l'honneur. Cette identification nous paraît cependant sujette à caution29, mais il est possible, en revanche, que certains éléments de la représentation de cet édifice soient réalistes, et, en particulier, le fait qu'il est situé sur une sorte d'escarpement rocheux; cette particularité rappelle un détail du texte de Denys que nous commentions plus haut, indiquant qu'Enée installa ses παθρφοι θεοί sur une hauteur. Nous aurions ainsi, dans le relief de Y Ara Pacis, une indication, sinon sur l'architecture du temple, du moins sur sa situation géographique. Sur une monnaie d'Antonin, on peut voir une scène représentant elle aussi le sacrifice d'Enée30. Elle date des années 145-146 et appart ientà une série de monnayages commémorant le 900e anniversaire de la fondation de Rome31, dans lesquels Antonin est présenté comme un nouvel Enée, ce qui explique le choix du thème. Le type iconographi que semble très directement inspiré de celui de Y Ara Pacis32. La comp osition d'ensemble est, comme sur le relief, pyramidale, avec la figure d'Enée dominant la scène; sur la droite se tient un enfant, Ascagne; à gauche, on voit deux camilli, dont l'un approche une truie d'un autel qui se trouve entre les deux groupes de personnages; l'attitude des deux serviteurs est absolument identique à ce qu'elle était sur le relief de YAra Pacis : l'un, debout, tient dans sa main gauche une coupe remp lie d'offrandes, l'autre se baisse pour guider l'animal vers l'autel. En revanche, le temple, qui est présenté, comme sur Y Ara Pacis, en haut à gauche, à la hauteur de la tête d'Enée, à l'arrière-plan, a une forme bien différente du sacellum figurant sur le relief : c'est un édifice tétrastyle surmonté, semble-t-il, d'un fronton ou d'un toit pointu (cette partie de la monnaie est assez altérée); la comparaison avec d'autres monnaies fait préférer la seconde interprétation : le monument de Lavinium était rond, et fort semblable au sanctuaire de Vesta sur le
28 IV, 7 : Aedem deum Penatium in Velia . . . feci. 29 Nous avons déjà dit, en effet, que la scène nous paraissait se passer à Lavinium, d'une part; d'autre part, le petit édifice ne présente pas les caractéristiques architectural es d'un temple ; voir supra p. 209 sq. 30 F. Gnecchi, / medaglioni romani, Milan, 1912, II, p. 37 n. 84 (pi. 66, 6); F. Casta gnoli, Lavinium /, p. 81, fig. 88. 31 Ph. V. Hill, The Undated Coins of Rome A.D. 98-148, Londres 1970, p. 91 ; F. Casta gnoli, op. cit., p. 113, et n. 11. 32 J. Toynbee, Roman médaillons, New- York, 1944, p. 218 sq; F. Castagnoli, op. cit., p. 115 n. 5.
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Forum. L'ensemble de la scène fait penser que le édifice est présenté comme le temple des Pénates. Les discordances existant entre ces figu rations nous prouvent leur absence de caractère réaliste et leur peu de valeur documentaire. Du reste, F. Castagnoli33 souligne le caractère «purement symbolique et conventionnel» de la scène représentée sur la monnaie d'Antonin, un peu différente pourtant de celle qui figure sur les monnaies que nous allons étudier à présent. L'une, datant également de l'époque d'Antonin, et exprimant la même intention de célébration dynastique dans son utilisation de la légende d'Enée, présente, sur son revers, le débarquement du héros troyen34. Il figure au centre de la scène, en train de descendre une pas serelle, accompagné d'Ascagne, qu'il tient par la main; sur la droite, on aperçoit la proue recourbée d'un navire, dont Enée et son fils viennent de descendre, mais où se trouvent encore leurs compagnons; sur la gauche, au pied de la passerelle, est accroupie la truie miraculeuse35 vers laquelle Enée tend la main droite; derrière elle, on aperçoit un arbre et, selon F. Castagnoli36, «un élément rocheux, une porte de Lavinium, et une grotte»; au-dessus, on aperçoit différents édifices difficil ement identifiables, mais dans l'un d'eux, le plus important, il nous semb lequ'on peut reconnaître un édifice rond, surmonté d'un toit en cou pole; sans doute faut-il y voir le temple des Pénates. Par rapport à la représentation précédemment étudiée, celle-ci présenté la singularité de montrer une porte de la ville; le fait de représenter les édifices audessus d'elle, tandis que le débarquement d'Enée se fait en-dessous d'elle, signifie sans doute que ces constructions sont à l'intérieur de la cité. Un relief de la même époque, conservé au British Museum37, relè vedu même modèle iconographique38. La partie supérieure manque, mais ce qui nous a été conservé est assez semblable à la monnaie :
33 Op. cit., p. 115. 34 F. Gnecchi, op. cit., p. 20 n° 99, pi. 54, 9; F. Castagnoli, op. cit., p. 78, fig. 81. 35 A. Alföldi, Early Rome, p. 273. La figuration de la truie sur cette monnaie et celles que nous étudions plus bas est peut-être inspirée de l'effigie de bronze de la truie aux trente porcelets dont Varron nous dit (R.R. II, 14, 17) qu'elle figurait à Lavinium in publico; cf. A. Alföldi, loc. cit., n. 6; F. Castagnoli, op. cit., p. 115; supra p. 174. 36 Op. cit., p. 113. 37 British Museum Quaterly II, 1927-28, p. 84-85; F. Castagnoli, op. cit., p. 77 fig. 78. 38 F. Castagnoli (op. cit. p. 114) considère qu'elle est une copie de la monnaie, ou que les deux figurations appartiennent à un modèle commun.
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proue recourbée de navires à droite, Enée tenant Ascagne par la main au centre, avec le même geste du héros vers la truie accroupie, entre les pattes de laquelle on distingue cette fois nettement des porcelets; derrière l'animal, on voit une porte, au-dessus de laquelle s'incline un arbre; enfin, au-dessus de cette dernière, il y a une colonnade, sur une sorte d'escarpement. Nous pensons qu'il faut y reconnaître le temple des Pénates figuré, cette fois, non seulement à l'intérieur de l'enceinte de la cité, mais sur une hauteur. Ce dernier détail nous apparaît com meun élément réaliste absent de la représentation précédente, tandis que sur l'une et l'autre, la figuration d'un arbre est peut-être un autre trait de réalisme faisant allusion aux forêts qui entouraient Lavinium. Toutefois, il est impossible de voir, en l'état où nous est parvenu ce relief, quelle forme l'artiste avait donnée au temple. Deux monnaies très semblables, datant, l'une du règne d'Had rien39, l'autre d'Antonin40 offrent sur leur revers une représentation de la même scène du débarquement d'Enée, un peu différente des pré cédentes. Cette fois, la truie, avec ses porcelets, se trouve au centre de la monnaie et est très grosse par rapport aux autres éléments du tableau41; devant elle, on peut voir une porte pratiquée dans une muraille qui semble entourer l'ensemble de la scène, et dans laquelle sont construites des tours, dont deux flanquent la représentation de l'animal42; au second plan se trouve Enée portant Anchise, avec, à droite une construction assez basse, peut-être un puteal selon F. Castag noli43, protégeant un arbre sacré que l'on aperçoit derrière; à gauche figurent une autre petite construction et un temple rond périptère c'est l'édifice le plus important de notre scène -, avec un toit pointu ou en coupole, dans lequel F. Castagnoli44 propose de reconnaître la καλίας évoquée par Denys d'Halicarnasse, «c'est-à-dire», ajoute-t-il, «le temple lavinate de Vesta et des Pénates». Nous trouvons donc dans ces
39 J. Toynbee, op. cit., p. 143, pi. XXV n. 4; F. Castagnoli, op. cit., p. 78 fig. 80; G. Giorgi, La leggenda delle origini di Roma in un raro medaglione di Adriano, RIL, LVII, 1955, p. 84-87. 40 F. Gnecchi, op. cit., p. 22 η. 115, pi. 55, 8; F. Castagnoli, op. cit., p. 79 fig. 82. 41 A. Alföldi, op. cit., p. 273. 42 On se rappelle que Lycophron (Alex., 1252-1256) faisait allusion aux «trente tours» de Lavinium, qu'il mettait en rapport avec le nombre de porcelets de la truie miraculeus e : voir supra p. 173 sq. 43 Op. cit., p. 114. 44 Ibid.
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monnaies deux des caractères déjà notés dans d'autres représentations du temple des Pénates à Lavinium : il est à l'intérieur des murs de la cité, et il est rond, Toutefois, il faut se garder d'assigner à ces représent ationsun caractère trop strictement réaliste. Il est clair, par exemple, qu'elles n'offrent pas de cohérence chronologique, comme en témoi gnent la présence d'Anchise parmi les Troyens lors de l'arrivée au Latium, et le fait que la cité, ses remparts et ses monuments sont déjà construits quand Enée débarque. Aussi la valeur de témoignage que l'on peut accorder à la représentation du temple est-elle sujette à cau tion. Enfin, deux lampes datables de la même époque45 offrent une représentation de l'arrivée d'Enée en Italie qui semble directement ins pirée de la partie supérieure des deux monnaies précédentes46, mais dont l'originalité par rapport à elles consiste dans la présence d'Ascagne et du Palladium dressé sur une base47. Au fond à gauche, derrière Ascagne, on aperçoit un temple rond périptère, avec un toit pointu, et un arbre. Les thèmes iconographiques qui constituent ces images sont donc semblables à ceux que nous avons précédemment étudiés. Il semble48, malgré des divergences, qu'apparaissent à plusieurs reprises certaines caractéristiques dans la représentation du sanctuai re : construction sur une hauteur, à l'intérieur de la cité, en forme de hutte. Ce sont celles-là qui nous frappent, parce qu'elles correspondent aux indications fournies par Denys d'Halicarnasse sur la καλίας. Mais par ailleurs, nous avons souligné le peu de réalisme de ces représentat ions; la légende du débarquement d'Enée au Latium est inséparable de l'affirmation des origines troyennes de Rome, et les empereurs se pré sentent soit comme les descendants d'Ascagne, soit comme une réincar nation d'Enée49. Dans cette mesure précisément s'explique le caractère
45 L'une est conservée au Musée Kestner de Hanovre (inv. 1170) (cf. F. Castagnoli, op. cit., p. 79 fig. 83), l'autre au Musée d'Aquileia (ibid., p. 79 fig. 84). 46 Cf. F. Castagnoli, op. cit., p. 114. 47 Sur la lampe du Musée de Hanovre, une inscription sur la base du Palladium désigne Enée, Anchise et Ascagne. 48 Cf. F. Castagnoli, op. cit., p. 115. 49 Auguste se présentait comme un nouveau Romulus (G. Radke, Quirinus. Eine Kri tische Überprüfung der Überlieferung und ein Versuch, A.N. R.W. , II, 17, 1, Berlin-NewYork, 1981, p. 294-95), Hadrien comme un nouvel Auguste (J. Beaujeu, La religion romai ne à l'apogée de l'Empire : I La politique religieuse des Antonins, Paris, 1955, p. 126-127 et 152 n. 2), et Antonin revivifia la légende des origines troyennes {ibid. p. 291-293); voir
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non réaliste de ces images, qui synthétisent les différentes étapes chro nologiques et géographiques des aventures d'Enée; aussi est-il possible de penser que le temple rond est celui de Vesta sur le Forum, cette représentation étant alors destinée à rappeler que Rome est la fille de Lavinium. En définitive, on voit combien l'interprétation des données littérai res et iconographiques de la tradition concernant le sanctuaire des Pénates est délicate. Aussi nous faut-il nous tourner vers l'archéologie et les récentes découvertes faites sur le site de l'antique Lavinium pour essayer d'y trouver des éléments susceptibles de nous éclairer.
II - Les témoignages archéologiques Les fouilles menées à Pratica di Mare depuis une vingtaine d'an nées par l'Istituto di Topografia antica dell'Università di Roma ont mis au jour des restes très importants de l'antique Lavinium50, parmi le squels un ensemble architectural, à destination cultuelle, à l'extérieur du périmètre de la cité antique, au sud-ouest de Pratica, entre le village et la mer, et, en 1977, sur une colline située à l'est des murailles antiques, un dépôt votif et les restes de différents édifices actuellement en cours d'exploration51, dont au moins un sanctuaire. 1) Le sanctuaire des Treize autels A) Présentation des découvertes Dès 1900, Lanciani et Ashby avaient supposé l'existence d'un sanc tuaire près de la petite église de la Madonnella, entre Pratica di Mare et la côte, et G. Β Trovalusci52 avait pensé que là se trouvait peut-être le
aussi S. Lewuillon, La piété d'Enée et Coton le censeur. Un problème d'idéologie et de pro pagande impériales, Latomus, 38, 1979, p. 125-146. 50 Pour un exposé de l'ensemble de ces découvertes, cf. Lazio arcaico e mondo greco, PP, 32, 1977, IV : Ficana e Lavinium, p. 340-372. 51 P. Sommella, Le dépôt de statues votives découvert à Pratica di Mare, Archeologia, n° 1 16, mars 1978, p. 20-21 ; Enea del Lazio, p. 187-271. 52 Lavinium - Pratica di Mare, Marino 1928, p. 43.
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sanctuaire des Pénates. Les découvertes faites entre 1957 et 196853 comportent, entre autres, un alignement de treize autels, les restes d'un sanctuaire, et un édifice attenant, probablement utilitaire54. Les treize autels55 constituent un ensemble monumental d'une im portance dont il n'y a pas d'autre exemple en Italie centrale, mais qu'on rencontre à Agrigente et à Paestum56; ils sont situés sur une ligne nord-sud qui forme une très légère courbe, et regardent vers l'est, conformément à la règle rapportée par Vitruve : arae spectant ad orient ent'5'1. La série des autels a 50 mètres de long et une largeur qui varie entre 2, 5 et 3,5 mètres. Ils sont posés par groupes de 3 ou 4 sur des plates-formes, sauf le VIII, posé à même le sol58, construits en tuf ou en cappellaccio, et la structure générale, à peu près identique chez tous, présente la forme d'un | |, le sacrifiant opérant dans l'espace plus ou moins profond laissé entre les deux antes latérales. Les autels, d'autre part, présentent des modénatures très caractéristiques59. Si le plan général est d'inspiration grecque, le profil semble une innovation de l'Italie, avec ses lignes courbes, qui s'inspirent néanmoins de l'échine du chapiteau dorique ou de la corniche à bec de chouette60; à Lavinium, on trouve dans certains autels le bec de chouette entre la corni chede couronnement et la corniche de base; parfois, les deux corni ches sont simplement juxtaposées. Ce modèle a des correspondants en Etrurie, à Rome et dans le Latium61, dans des autels, mais aussi dans des podiums de temples, des bases, des cippes. Ainsi, le podium du
53 Pour une chronologie détaillée des découvertes, voir F. Castagnoli. . ., Lavinium II : Le Tredici Are, Rome, 1975, p. XL 54 C. F. Giuliani - P. Sommella, Lavinium : Compendio dei documenti archeologici, PP, 32, 1977, p. 356-372; J. Poucet, Le Latium protohistorique et archaïque à la lumière des découvertes archéologiques récentes I, AC, 47, 1978, p. 592-596; G. Dury-Moyaers, Enée et Lavinium, Coll. Latomus, vol. 174, Bruxelles, 1981, p. 129-143; Enea nel Lazio, p. 169185. 55 Lavinium II, passim. 56 Cf. F. Castagnoli, Sulla tipologia degli altari di Lavinio, BCAR, 67, 1959-60, p. 155. 57 IV, 9, 1. 58 Cf. les très nombreux plans, dessins, photos contenus dans Lavinium IL 59 L. Cozza, Le tredici are : Struttura e architettura, in Lavinium II, p. 89-174, et p. 94 fig. 93. 60 F. Castagnoli, Roma arcaica e i recenti scavi di Lavinium, PP, 32, 1977, p. 348; id., Lavinium II : Introduzione p. 5. 61 F. Castagnoli, Sulla tipologia. . ., p. 153 sq.; id., Roma arcaica e i recenti scavi di Lavinium, p. 347-48; L. Shoe, Etruscan and Republican Roman Mouldings, Memoirs of the American Academy in Rome, XXVIII, 1965, p. 97.
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second temple de Sant'Omobono, daté du milieu du VIe siècle, offre de grandes analogies avec l'autel XIII de Lavinium62; deux autels trouvés dans cette même aire sacrée présentent également cette structure63, ainsi que l'autel archaïque du Comitium, longtemps identifié comme la «tombe de Romulus»64. On en trouve également des exemples en Etrurie, notamment à Orvieto et à Fiesole; mais, tandis que L. Shoe65 est ime que le modèle grec a été diffusé dans le Latium par l'intermédiaire de l'Etrurie, F. Castagnoli66 propose au contraire de considérer, étant donné l'ancienneté des premiers autels de Lavinium et leur évidente inspiration grecque, que le type a été créé, sur le modèle grec, à Lavi nium et à Rome, puis diffusé dans la haute vallée du Tibre, et de là, peut-être, vers le nord, c'est-à-dire vers TEtrurie, jusqu'à Marzabotto. Le modèle se trouve reproduit dans de très nombreux autels-miniatur es, en Etrurie et dans le Latium67. La construction de ces autels est datée du VIe au IVe siècles avant J.-C; certains parmi les plus récents ont été reconstruits sur l'emplace ment d'un autel ancien. Ils ont d'abord été construits isolément, sépa résles uns des autres : le XIII est le plus ancien, mais on date égale ment du VIe siècle le IX et le VIII primitifs. Au milieu du Ve siècle s'y ajoutent cinq autres autels, dont quatre (I, II, III, IV) présentent des soubassements contigus, mais pas une plate-forme unique, ce qui, selon P. Sommella et C. F. Giuliani68, indique peut-être qu'il ne s'agit pas d'une architecture d'ensemble, mais de constructions faites à des mo ments divers. Au cours du IVe siècle sont construits les autels VI et VII qui font apparaître une volonté architecturale nouvelle : prenant place entre le VIII et le V déjà construits, ils expriment sans doute chez les architectes le désir de composer et de parfaire un alignement; cette conception d'un ensemble architectural s'exprime aussi dans le fait que ces deux autels sont construits, pour la première fois dans notre site, sur un soubassement commun, qui, de plus, englobe le V et vient tou-
62 A. Sommella Mura, La decorazione del tempio arcaico, PP, 32, 1977, p. 65. 63 F. Castagnoli, Sulla tipologia. . . p. 150. 64 F. Coarelli, Roma (Guide archeologiche Laterza), Rome, 1980, p. 50-52; L. Shoe, op. cit., p. 104; F. Castagnoli, Sulla tipologia. . ., p. 151. 65 Op. cit., p. 94-97. 66 Op. cit., p. 349. 67 L. Cozza, op. cit., p. 93. 68 Lavinium : Compendio dei documenti archeologici, p. 357-59.
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cher le soubassement du IV69. Enfin, à la fin du IVe siècle, selon la même volonté et le même principe architecturaux que précédemment, quatre autels sont construits sur une seule plate-forme, entre le VIII, dont elle touche le soubassement, et le XIII : trois autels nouveaux y apparaissent, les X, XI et XII, ainsi que le IX reconstruit. Il est possible aussi qu'au moment de la construction de cette plate-forme, l'autel XIII ait cessé d'être utilisé, car sa partie basse semble avoir été enterrée par le matériau de cette construction, ne laissant à découvert que la surface supérieure de l'autel70. Entre la fin du IVe et le IIe siècles, certains autels, parmi les plus anciens, ont été reconstruits : le VIII qui datait du VIe siècle, les I et II du Ve siècle. Mais ce qui nous importe ici, c'est que la série des treize autels, avec la volonté architecturale, religieuse et peut-être politique qu'exprime un tel ensemble, exceptionnel, répétonsle, en Italie centrale, reçoive son achèvement dans le courant du IVe siècle. Ainsi que l'indique très clairement F. Castagnoli71, l'ensemble des treize autels et du sanctuaire attenant pose un double problème : s'il est permis de penser qu'il s'agit d'un sanctuaire fédéral, la significa tion du nombre des autels, et l'identification de la divinité à laquelle était destinée le sanctuaire, soulèvent des difficultés qui ne sauraient être facilement résolues.
B) Tentatives d'interprétation du nombre des autels Le premier problème posé par l'ensemble des treize autels est celui de sa destination : ces autels sont-ils consacrés à autant de divinités auxquelles on pouvait faire un sacrifice simultanément, ou au contraire sont-ils dédiés à une même divinité par différentes cités, voire une confédération de cités? En d'autres termes, il faut se demander si le nombre de ces autels a une signification strictement religieuse, ou une signification politique. Le nombre des autels offre déjà une difficulté. Nous avons vu que les fouilles en avaient mis au jour treize; le XIII est le plus ancien, et situé à un niveau nettement inférieur à celui de l'autel voisin, le XII; celui-ci appartient au dernier groupe d'autels construit pour compléter 69 Pour un schéma très clair de ces différents stades de construction de la série des treize autels, cf. C. F. Giuliani - P. Sommella, op. cit., p. 358 fig. 2. 70 Cf. P. Sommella, in Lavinium II : Lo scavo stratigrafico delle platee, p. 82. 71 Lavinium II : Introduzione, p. 5.
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l'alignement, à la fin du IVe siècle. En effet, les débris de matériau de construction de la plate-forme de soubassement des autels XII à IX ont en partie recouvert l'autel XIII, ce qui a fait penser que ce dernier avait probablement cessé d'être utilisé au moment où les autels XII à IX ont, eux, commencé à l'être72. On aurait alors un ensemble qui, dans son état définitif et complet de fonctionnement, comportait douze aut els73. Evidemment, ce chiffre a donné matière à une interprétation rel igieuse de l'ensemble des autels, car il a des correspondants dans des religions qui ont influencé celle de Rome. En raison de la domination politique que l'Etrurie a exercée dans les débuts de l'histoire de Rome et du Latium74, elle a marqué aussi certains aspects de la religion. Or, il existe dans la religion étrusque, aux dires des érudits romains, un groupe de divinités appelées di Consentes Pénates, comme l'atteste Matianus Capella75, qui ne précise pas le nombre de ces dieux, mais les cite dans une classification générale des divinités étrusques76. Cette même dénomination est attestée par Arnobe : il passe en revue les diffé rentes définitions qu'ont données des Pénates les savants romains, Nigidius, Caesius, Varron, puis il expose la conception étrusque des Pénates donnée par Varron : hos Consentes et Complices Etrusci aiunt et nominant, quod una oriantur et occidant una, sex mares et totidem feminas, nominibus ignotis et miser ationis parcissimae77 . Consentes, attesté chez Martianus Capella, est ici redoublé par Complices, et expliqué par una : ces termes soulignent que les dieux en question apparaissent et dispa raissent simultanément; mais ce qui nous importe, c'est l'indication de leur nombre donné par Arnobe : six dieux et six déesses, douze divinités en tout. Il est assez tentant d'interpéter à la lumière de ces textes l'ensem ble cultuel découvert à Pratica : le sanctuaire est celui des Pénates aux-
72 P. Sommella (JLavinium II : Lo scavo stratigrafico, p. 82) est très prudent sur ce point, de même que F. Castagnoli {ibid. : Introduzione, p. 5). 73 Cependant, le chiffre treize peut avoir lui aussi une signification mystique : cf. O. Weinreich, Triskaidekadische Studien zur Geschichte der Zahlen, Gieszen, 1916. 74 Cf. A. Alföldi, Early Rome, p. 176 sq.; J. Heurgon, Rome et la Méditerranée occident ale, 2e éd., Paris, 1980, p. 236-260. 75 I, 45. 76 Pour le commentaire de cette classification, cf. G. Dumézil, La religion romaine archaïque, appendice : La religion des Etrusques, 2e éd., Paris, 1974, p. 670-76. 77 Adu. Nat. Ill, 40; voir supra p. 151-3.
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quels les magistrats romains venaient sacrifier une fois par an, et on accomplissait le sacrifice sur les douze autels, dont le nombre corres pondà celui des dieux; ce nombre serait une marque de l'influence de la religion étrusque dans le Latium, à la suite probablement d'une occupation, ou d'une domination politique. Cette hypothèse est ment ionnée par F. Castagnoli78 avec des réserves, mais plus nettement sou tenue par M. Torelli79. A l'appui de cette hypothèse, au premier abord séduisante, on peut avancer plusieurs arguments. D'autres cultes de Lavinium portent peut-être la marque d'une influence étrusque, avec notamment, la présence de l'épiclèse Frutis donnée à Vénus dans cette cité, interprétée comme la traduction étrusque de ΓΑφροδίτη grec que80, et le nom de la déesse Juturne81. De plus, nous connaissons par l'interpolateur de Servius une autre définition des Pénates étrusques : Tusci Penates Cererem et Palem et Fortunam dicunt*2, liste à laquelle Caesius, cité par Arnobe dans le texte mentionné plus haut, ajoutait Genius Iouialis. Or, le culte de Cérès à Lavinium est attesté par le texte d'une lex sacra gravée sur une lamelle de bronze découverte près d'un des autels83 et on a trouvé une inscription dédiée à Fortuna sur un socle de pierre84. Enfin, cette interprétation paraît permettre d'expli quer de façon cohérente l'ensemble cultuel du temple et des autels. Cependant, ces arguments en faveur de l'hypothèse d'un sanctuaire et de douze autels influencés par la religion étrusque nous semblent assez mal résister à un examen plus approfondi. Sans doute ne faut-il
78 Lavinium I, p. 108. 79 Un templum augurale d'età repubblicana a Bantia, Rend. Line. Série VIII, vol. XXI, fase. 7-12, 1966, p. 313; id., compte rendu de l'ouvrage de L. Vagnetti, // deposito votivo di Campetti a Veto, in DArch, VII, 1973, p. 400. 80 R. Schilling, La religion romaine de Vénus, 2e éd., Paris, 1982, p. 75-83; cf. ci-des sous, p. 315-6. 81 Cf. K. Latte, Römische Religiongeschichte, Munich, 1960, p. 77. 82 Ad Aen. II, 325; voir supra p. 143-4. 83 R. Bloch, Une lex sacra de Lavinium et les origines de la Triade agraire de l'Aventin, CRAI, 1954, p. 203-212; F. Castagnoli, Lavinium II : Iscrizioni, p. 443-44; Enea del Lazio, p. 179-180; M. Guarducci, Legge sacra da un antico santuario di Lavinio, ArchClass, 3, 1951, p. 99-103; id., Ancora sulla legge sacra di Lavinio, ArchClass, 11, 1959, p. 204-211 ; id., Nuove osservazioni sulla lamina bronzea di Cerere a Lavinio, Mélanges J. Heurgon, Rome, 1976, p. 411-425; H. Le Bonniec, Le eulte de Cérès à Rome, Paris, 1958, appendice, p. 46366 : La lex sacra de Lavinium; id., Au dossier de la lex sacra trouvée à Lavinium, Mélanges J. Heurgon p. 508-517; S. Weinstock, A lex sacra from Lavinium, 1RS, 42, 1952, p. 34-36. 84 F. Castagnoli, Lavinium I, p. 75; 112.
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pas majorer la part de l'influence étrusque dans les cultes lavinates. Les noms de Frutis et de Iuturna n'ont pas une origine étrusque indi scutablement prouvée85. Quant aux définitions des «Pénates» étrusques, elles doivent être examinées avec la plus grande prudence. Il n'est pas certain que ces Pénates étrusques, «conception obscure» note G. Dumézi l86,ne soient pas une invention des érudits romains, qui auraient pla qué cette notion latine sur ce qu'ils savaient de la religion étrusque. Le mot même de Penates n'est d'ailleurs pas étrusque, et n'a pas d'équival ent certain dans les dieux étrusques que nous connaissons. M. Pallottino, dans le commentaire d'une inscription étrusque sur une lame de bronze trouvée à Tarquinia, propose, à la suite de C. Thulin87, d'inter préter le mot θυφλθας comme un équivalent de Consentes ou de Complic es88.Se fondant sur cette explication, M. Torelli croit pouvoir affi rmer l'existence d'un équivalent étrusque des Pénates, par l'intermédiai re de Martianus Capella (di Consentes Penates). Mais l'étymologie du mot Consentes est discutée; J. Heurgon89 propose d'y voir une format ion analogique de praesens à partir d'un verbe *consum «exprimant le fait que ces dieux constituaient un groupe unifié» et explique comme une interprétation populaire le fait qu'il ait été rapproché de consiHum90; c'est à cette dernière aussi qu'il faut, selon nous, rattacher le redoublement de Consentes par Complices chez Varron. «Mais il faut prendre garde», ajoute J. Heurgon, «que ces noms de Consentes et de Complices, qui remontent à Varron et à Nigidius Figulus, sont des tra ductions plus ou moins approchées en latin de termes étrusques incon nus,traductions proposées par ces érudits qui croyaient ressaisir dans la disciplina Etrusca un système théologique analogue, par certains de ses aspects, à la religion romaine». Du reste, bien que les érudits romains les présentent comme étrusques, une origine grecque de ces dieux, peut-être avec l'Etrurie pour intermédiaire, n'est pas à exclure, comme en témoigne leur nombre de douze, qui rappelle, ainsi que le souligne fort justement J. Heurgon, les δώδεκα θεοί grecs. Par ce qu'on
85 L'étymologie de Frutis est très discutée: cf. infra p. 315-6; pour Iuturna, cf. A. Alföldi, Early Rome, p. 270 sq. 86 Op. cit., p. 633. 87 Die Götter des Martianus Capella und der Bronzeleber von Piacenza, Gieszen, 1906, p. 33-42; id., Die Etruskische Disciplin, Göteborg, 1906, I, p. 27 sq. 88 Rivista di Epigrafia Etrusca, SE, 22, 1948-49, p. 254. 89 Varron, Economie rurale, I, C.U.F., Paris, 1978, Commentaire p. 93-94, n. 8. 90 Notamment Augustin, De Ciu. Dei, IV, 23.
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entrevoit de la nature de ces di Consentes à travers ce que nous en dit Varron, on saisit quelques-uns des traits qui ont pu les faire identifier aux Pénates. C'est, d'une part, le fait qu'ils ne possèdent pas de nom individuel distinct (nominibus ignotis), d'autre part, le fait, lié au pre mier, qu'ils apparaissent, disparaissent et agissent toujours ensemble {una), trait qu'exprime au reste l'étymologie la plus probable de leur nom. Cela dit, il est impossible d'assigner une datation à l'assimilation des Di Consentes et des Pénates, dont Varron, cité par Arnobe, constitue la première attestation connue, non plus que de mesurer la portée de cette dernière dans la mentalité religieuse romaine : s'agit-il d'une croyance répandue, populaire, ou d'une spéculation isolée d'érudit? Aucune réponse n'est possible. Le culte des Di Consentes est bien attesté à Rome : Varron91 mentionne la présence de leurs statues dorées sur le Forum, probablement sous un portique que l'on peut voir aujourd'hui encore au pied du Capitole92. Leur culte fut introduit en 217 avant J.-C. par un lectisterne, après consultation des Livres Sybillins93, ce qui atteste leur origine étrangère. Le choix de l'emplacement où on leur consacra X aedes dont il ne reste que le portique mérite quelques éclai rcissements : elle est située sur le Forum, ce qui permet peut-être d'éta blirune analogie avec l'introduction du culte des Castores dont le tem ple fut édifié lui aussi en plein Forum, tout près de YAedes Vestae, cœur religieux de la cité. On explique le choix de cet emplacement par le fait que les Dioscures, déjà connus à cette époque à Lavinium, étaient désormais considérés comme des dieux latins94, et non pas étrangers. Peut-on penser que les di Consentes, comme les Dioscures, ont fait une étape à Lavinium avant d'arriver à Rome? En théorie, le fait pourrait fort bien s'expliquer par les influences grecques et étrusques mêlées qui s'exercent dans la cité des Laurentes. Malheusement, aucun témoi gnage littéraire ni archéologique n'atteste dans cette ville l'existence de leur culte. Il faudrait alors supposer qu'ils étaient assimilés aux Pénates à une date antérieure à 217, comme le fait M. Torelli, qui propose même une date antérieure au IVe siècle95 : en ce cas, ils n'auraient été mentionnés à Lavinium que sous leur nom latin de Penates, et c'est 91 92 93 94 gnoli, 95
R.R. i, 1, 4. F. Coarelli, Guida archeologica di Roma, Milan, 1974, p. 50-51 ; 74. Liv., XXII, 9, 10. Gette question a fait l'objet de nombreux travaux, très bien analysés par F. Casta Lavinium I, p. 107 (η. 10 à 14 en particulier). Op. cit., p. 312.
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l'érudition romaine qui aurait fait, au Ier siècle, la lumière sur leurs ori gines étrusques. Il ne peut s'agir ici que d'hypothèses, que nous ne pou vons, étant donné la complexité de la question, laisser de côté, mais qui ne permettent pas d'affirmer pour les Pénates de Lavinium une origine étrusque incontestable. Néanmoins, il est surprenant, si les douze autels ont été dédiés à douze Pénates inspirés par le modèle étrusque, qu'ils n'aient pas été construits ensemble, et surtout que l'achèvement définitif de l'ensemb le, constituant une série complète à peu près sans intervalle entre les plates-formes des autels, se situe au IVe siècle, en un temps où la domi nation étrusque sur Rome et le Latium ne se fait plus sentir depuis longtemps96. Aussi l'hypothèse selon laquelle les douze autels de Lavi nium seraient consacrés aux Pénates, douze divinités héritées de la rel igion étrusque ou influencées par elle, nous paraît-elle séduisante, parce qu'elle permet de résoudre avec élégance les deux problèmes essentiels posées par l'ensemble cultuel (signification du nombre des autels, desti nation de ces autels et du sanctuaire attenant), mais fragile. Le chiffre douze peut aussi s'expliquer par une influence de la rel igion grecque, dont l'apport dans la religion romaine à l'époque classi queest depuis longtemps admis97; en ce qui concerne l'époque archaï que, on accorde aujourd'hui une part de plus en plus importante à l'ap port grec, parfois par l'intermédiaire de la Grande-Grèce, dans l'élabo ration de la civilisation du Latium entre le VIe et le IVe siècles. Nous en avons vu des exemples en étudiant la diffusion de la légende d'Enée de Grèce en Italie. Les douze autels et le sanctuaire seraient alors dédiés aux douze grands dieux hérités du dodékathéon grec98. G. Pugliese Carratelli" a défendu cette thèse, en montrant que la Grande-Grèce a souvent servi d'étape intermédiaire entre la Grèce et le Latium, notam mentdans le domaine religieux. Il cite l'exemple de cultes grecs adopt és par Rome : celui d'Hercule, de Diane sur l'Aventin, de la triade de Demeter, Dionysos, et Korè. A Lavinium même, il relève des cas analo guesd'adoption de dieux grecs : culte de Cérès attesté par la lex sacra, dont les prescriptions rituelles lui semblent de caractère grec, et celui
96 Cf. A. Alföldi, op. cit., p. 336 sq. 97 J. Bayet, Histoire politique et psychologique de la religion romaine, Paris, 1957, p. 120-127. 98 Cf. F. Castagnoli, Lavinium I, p. 103. 99 Lazio, Roma et Magna Grecia prima del secolo quarto A.C., PP, 23, 1968, p. 321-347 (notamment, p. 340-341).
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des Dioscures, à qui est dédiée l'inscription gravée sur la lamelle de bronze trouvé en 1959 près des autels100. G. Pugliese Carratelli voit dans le sanctuaire et les autels «une sorte de θεών αγορά, une aire de cultes grecs implantée dans le grand sanctuaire latin», qui aurait commencé à s'établir à Lavinium à la fin du VIe siècle; le dodékathéon de Lavinium ne serait pas une simple transposition du dodékathéon grec, mais aurait été composé de façon spécifiquement italienne, et originale; G. Pugliese Carratelli estime en effet qu'une seule cité n'aurait pas édifié un sanctuaire de cette importance, ni importé un tel nombre de dieux grecs : un certain nombre de cités s'y sont trouvées associées, peut-être sous la direction religieuse ou sur l'inititative des Lavinates, chacune introduisant une ou plusieurs divinités grecques qu'elle avait adoptées, pour former ainsi un dodékathéon gréco-latin. On y trouverait repré sentées des divinités d'origine grecque honorées dans certaines cités de Grande-Grèce, qui avaient eu intérêt à développer des contacts com merciaux et politiques avec le Latium, peut-être pour arrêter l'expan sion étrusque. Le culte des Dioscures, attesté à Lavinium par la dédica ce citée plus haut, et dont G. Pugliese Carratelli pense qu'il est venu de Grèce par l'intermédiaire de Tarente, en est un exemple. Nous aurions donc dans cette aire sacrée, non une illustration de l'influence étrusque à Rome, mais peut-être au contraire un témoignage des efforts de l'Ita liedu sud et du Latium pour briser la puissance étrusque101. Il paraît difficile d'admettre que le sanctuaire et les autels de Lavi nium soient dédiés aux Douze Dieux hérités de la Grèce. Certes, il existe en Grèce même des listes divergentes de ces derniers102, mais si l'on s'en tient à des divinités qui figurent sur toutes, on constate que leur culte n'est pas toujours attesté à Lavinium : on n'y trouve que les cultes de Zeus-Jupiter, Héra-Junon, Aphrodite- Vénus, Déméter-Cérès, Diony-
100 F. Castagnoli, Lavinium II : Iscrizoni, p. 441-443 (avec une bibliographie); id., Enea nel Lazio, p. 179-1800; ce problème sera étudié dans le chapitre suivant, p. 285-92. 101 De même, on a voulu voir dans la présence d'Enée à Lavinium tantôt une marque de l'influence étrusque, tantôt au contraire on l'a considérée comme l'expression d'une propagande anti-étrusque (cf. G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 165-179); G. Dumézil {Anchise foudroyé? dans L'oubli de l'homme et l'honneur des dieux, Paris, 1985, p. 160-161) suppos e que la légende d'Enée, implantée en Italie centrale avant la domination étrusque sur Rome, aurait pu focaliser, par la suite, la propagande anti-étrusque, et aurait «nourri la résistance des Latins à l'hégémonie des Tarquins installés sur les sept collines». 102 Cf. L. Séchan et P. Leveque, Les Grandes Divinités de la Grèce, Paris, 1966, p. 26.
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sos-Liber103. Encore ne sont-ils pas localisés dans le sanctuaire ni près des autels, sauf celui de Cérès. On peut, bien sûr, évoquer les lacunes de notre documentation littéraire, archéologique, ou épigraphique. Mais il y a un autre point embarrassant : la découverte de la dédicace aux Dioscures, Castorei Podlouqueique qurois, près de l'un des autels, oblige à admettre que les Dioscures étaient vénérés dans le sanctuaire, peut-être du reste en même temps que d'autres divinités. Or Castor et Pollux ne figurent dans aucune des listes des Douze Dieux grecs que nous connaissons. Certes, l'hypothèse, formulée par G. Pugliese Carratelli, de la constitution d'un dodékathéon original est très ingénieuse, puisqu'elle permet de rendre compte de la présence de cultes qui ne figurent pas dans le dodékathéon grec canonique; de surcroît, l'i nfluence grecque sur la religion lavinate au moment où s'achève la ran gée des autels, dans le courant du IVe siècle, trouve un parallèle dans les faits romains : si l'on en croit Tite-Live 104, c'est en 399 qu'eut lieu à Rome le premier lectisterne, après consultation des Livres Sibyllins, pour faire cesser les épidémies qui ravageaient alors la ville. Mais il nous paraît peut-être un peu difficile d'affirmer que les dix divinités inconnues - outre Cérès et les Dioscures identifiés par les inscriptions dédicatoires - à qui étaient consacrés les autels, étaient toutes grec ques, même si l'on est convaincu par la démonstration que fait G. Pugliese Carratelli de l'influence de la Grèce sur le Latium, dans le domaine religieux notamment. Plus généralement, le chiffre douze a une signification mystique particulière dans beaucoup de religions, en liaison avec le calendrier ou l'astronomie. La religion romaine en présente des exemples; c'était le nombre des autels consacrés à Janus, d'après certains érudits105; Lydus, citant Fonteius, parle d'un δωδεκάβωμον 106 consacré à ce dieu : le nomb re de ces autels est sans doute à mettre en relation avec les douze
103 F. Castagnoli, Lavinium I, p. 71-74; 111-112. 104 V, 13, 6: Lectisternio tune primum in urbe Romana facto. Ce lectisterne, selon l'historien, fut suivi de plusieurs autres au cours du IVe siècle (en 364 : VII, 2, 2 ; 349 : VII, 27, 1 ; 326 : Vili, 25, 1). La consultation des Livres Sibyllins atteste, comme la prati que du lectisterne, une influence grecque : cf. G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2e éd., Munich 1912, p. 536 sq. ;JC. Latte, Römische Religionsgeschichte, Munich, 1960 p. 160 sq.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, 2è éd. Paris, 1974, p. 558-62; voir aussi R. M. Ogilvie, A Commentary "on Livy, Books 1-5, Oxford, 1965, p. 655-58. 105 Cf. F. Castagnoli, op. cit., p. 103. 106 De Mensibus IV, 2; cf. aussi Macrobe, I, 9, 16.
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Saliens, prêtres du dieu, et, aussi, avec le nombre des mois de l'année, ou les signes du Zodiaque. A Rome, les Frères Arvales sont également douze. Il est probable, en outre, qu'à ce chiffre s'attache une notion de tout achevé, et par là, de perfection, comme en témoigne le passage de Virgile très judicieusement cité par F. Castagnoli à ce propos107; il s'agit de l'arrivée de Latinus en face des armées latine et troyenne : Latinus. . .
cui tempora circum aurati bis sex radii fulgentia cingunt, Solis aui specimen . . . 108 Latinus et Enée se présentent devant leurs deux armées pour conclure solennellement un pacte d'alliance définitif, et Virgile cherche à exprimer la solennité et la majesté de la personne même du roi : aurat i radii rappelle l'éclat du soleil, tandis que bis sex évoque sans doute la forme ronde de l'astre, à laquelle est liée la notion de perfection. On a voulu voir dans le nombre des autels une signification politi que, et il semble en effet que le chiffre douze en ait eu une très tôt en Grèce, peut-être en liaison avec le culte des Douze Dieux : c'est ainsi qu'on a pu expliquer par la constitution de la dodécapole ionienne au VIIe siècle l'élaboration du dodékathéon 109. Il y aurait donc là une volonté politique de renforcer une confédération de cités par un culte où les dieux sont en nombre égal à celui des cités. Il revient à J. Heurgon110 d'avoir rapproché la ligue des douze cités étrusques de la dodé capole ionienne, dont F. Altheim111, contrairement à O. Weinreich, pen sequ'elle trouvait son expression religieuse autour du culte d'une seule divinité, celui d'Artémis à Ephèse. Les témoignages antiques attestent en effet l'existence d'une ligue de douze cités ou peuples étrusques, dont la liste est d'ailleurs varia ble112. Strabon113 attribue à l'ancêtre mythique des Etrusques, Tyrrhé-
107 Lavinium I, p. 103, n. 5. 108 En XII, 161-163 : «Latinus. . . douze rayons d'or enserrent ses temps qui resplen dissent, emblème du Soleil son aïeul» (trad. J. Perret, C.U.F., Paris, 1980). 109 Cf. O. Weinreich, s.u. Zwölfgötter, in Roschers Lexicon VI, col. 765 sq. 110 Recherches sur l'histoire, la religion et la civilisation de Capoue préromaine, 2e éd., Paris, 1970, p. 77. 111 Der Ursprung der Etrusker, Baden-Baden, 1950, p. 63-64. 112 Cf. J. Heurgon, L'Etat étrusque, Historia, 6, 1957, p. 63-97. 113 V, 2, 2.
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nos, qui avait été obligé d'émigrer en Italie, la fondation dans ce pays de douze cités à la tête desquelles se trouvait un chef unique, éponyme de Tarquinia; cette cité se trouvait donc très probablement à la tête de la ligue : δώδεκα πόλεις εκτισεν (= Tyrrhénos), οικιστή ν έπιστήσας Τάρκωνα, αρ' ού Ταρκυνία ή πόλις. La permanence de cette ligue est attestée au temps de Tarquin l'Ancien, puisque, selon Denys d'Halicarnasse, des ambassadeurs étrusques viennent apporter au roi douze haches appartenant chacune au chef d'une des cités : και τους δώδεκα πελέκεις έκόμισαν αύτω λαβόντες έξ έκαστης πόλεως ενα114. Denys ment ionne une nouvelle soumission des douze cités étrusques (αί δώδεκα πόλεις) à Rome sous le règne de Servius Tullius115. Cette ligue des douze cités étrusques aurait servi de modèle, selon F. Altheim116, à la réorganisation de la Ligue latine opérée par Servius Tullius. La même idée a été reprise par M. Di Vietri117, qui explique la mainmise de Rome sur la Ligue latine comme une conséquence de la destruction d'Albe, qui exerçait jusqu'alors l'hégémonie. Selon elle, à l'occasion de ce changement dans la direction de la Ligue, la nature même de cette dernière aurait été modifiée : l'association à caractère strictement religieux des Latins, sous la tutelle d'Albe et autour du sanctuaire de Jupiter Latiaris sur le Mont Albain, serait devenue une confédération politique dont Servius Tullius aurait pris le modèle sur les Etrusques, et qui, à l'imitation de ceux-ci, aurait comporté douze cités. Ce changement dans la direction et le caractère de la Ligue aurait été facilité par la destruction d'Albe, et, conséquemment, la disparition de la tutelle religieuse autour de laquelle s'organisait la confédération. Pourtant, cette dernière aurait conservé une expression religieuse, avec l'instauration du culte de Diane sur l'Aventin, que Denys d'Halicarnasse rapporte en effet aux mêmes circonstances et au même roi118. Ainsi s'établit une sorte de filiation dans un modèle de ligue à la fois politique et religieuse119. Le modèle ionien de la dodécapole a inspi ré la constitution de la confédération des douze cités étrusques, qu'a
114 III, 61, 2; voir R. Bloch, Appendice IV : les insignes du pouvoir à Rome, p. 122, dans Tite-Live, II, C.U.F., Paris, 1967; P.-M. Martin, L'idée de royauté à Rome. De la Rome royale au consensus républicain, Clermont-Ferrand, 1982, p. 122. 115 IV, 27, 4. 116 Op. cit., p. 69. 117 Una dodecapoli etrusco-romana al tempo di Servio Tullio?, SCO, 2, 1953, p. 79-82. 118 IV, 26, 4. 119 Cf. J. Heurgon, L'Etat étrusque, p. 87.
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imitée Servius Tullius dans la réorganisation de la Ligue latine. Le culte d'Artémis-Diane est l'expression religieuse de la confédération ionienne et de la Ligue latine, tandis que le culte de Voltumna, divinité assimilée à Artémis-Diane par F. Altheim, est celle des duodecim popult étrusques120. La confédération des douze cités latines a-t-elle trouvé une autre formulation religieuse dans un culte fédéral à Lavinium, plus précis émentdans les «douze autels» et le sanctuaire attenant? Le choix de Lavinium comme centre du culte fédéral s'expliquerait par le prestige religieux de cette cité, qui aurait* eu, à une époque ancienne, l'hégémon ie sur la Ligue latine. Reste à éclaircir le problème du nombre et de l'identité des cités de la Ligue, à propos duquel les traditions antiques divergent. Une première tradition fixe à trente ces cités, et ce chiffre est parfois mis en relation par les Anciens avec le prodige de la truie aux trente porcelets : nous avons vu précédemment que chez Virgile, comme chez Denys d'Halicarnasse et chez Varron, le nombre des por celets représentait le nombre d'années qui sépareraient le débarque ment d'Enée au Latium de la fondation d'Albe121; mais il existe une autre version de la légende, selon laquelle la truie représenterait Lavi nium, la cité-mère, et les trente porcelets les cités de la confédération de la Ligue latine placées sous sa direction. De cette version, nous avons peut-être une attestation littéraire dès le IIIe siècle, dans X Alexan dra de Lycophron122. En effet, on peut comprendre que les trente tours (πύργους τριά κοντα) représentent les trente futures cités filles de Lavinium, dont la fondation est, par un raccourci d'expression, globalement attribuée à Enée, bien que l'allusion à une ville unique (πόλει μια) semble contredi re cette interprétation. Peut-être doit-on voir dans ces derniers mots 120 Ajoutons que Diane reçoit, outre le culte de l'Aventin, un culte fédéral à Némi, près d'Aricie (cf. F. H. Pairault, Diana Nemorensis, déesse latine, déesse hellénisée, MEFR, 81, 1969, p. 425-471). 121 C'est cette version que l'on trouve dans l'Origo Gentis Romanae : Ascanius completis in Lauinio triginta annis recondatus nouae urbis condendae tempus aduenisse ex numer o porculorum, quos pepererat sus alba. . . ciuitatem communit (17, 1). 122 V. 1253-1260: «Au pays des Aborigènes, sur les Latins et les Dauniens, il fondera une cité avec trente tours, en nombre égal aux petits de la truie noire qu'il transporta sur son navire depuis les hauteurs de l'Ida et le pays de Dardanus, et qui mit au monde en une fois ce nombre de petits; dans une seule cité il placera son image et celle des porcel etsnourris de lait, façonnée en bronze»; voir supra p. 173-4; cf. aussi D. Briquel, L'oi seau ominal, la louve de Mars, la truie féconde, MEFR, 88, 1976, p. 40 sq.
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une allusion à Lavinium, seule cité véritablement fondée par Enée, selon la légende. La statue de bronze (δεικήλου χαλκω τυπώσας) de la truie et des trente porcelets, qu'Enée est censé avoir érigée à Lavinium, est peut-être celle que mentionne Varron : il affirme que l'on pouvait voir de son temps, à Lavinium, les restes de cette statue, et le corps de la truie, conservé dans la saumure123. A. Alföldi interprète en ce sens le texte de Lycophron dans lequel il voit «une transposition poétique volontairement énigmatique» d'un texte de Timée aujourd'hui perdu, et tient pour certain que l'historien est à l'origine de ce passage124. A notre connaissance, il n'existe pas d'autre attestation ancienne de cette interprétation du prodige de la truie aux trente porcelets. En revanche, Denys d'Halicarnasse mentionne à plusieurs reprises les trente cités fédérées du Latium125 : à l'époque archaïque, peu de temps après sa fondation par Ascagne, Albe a eu l'hégémonie sur cette confé dération; Denys mentionne encore les trente cités au début de la Répub lique, mais il n'est plus alors question d'Albe, détruite depuis long temps, et remplacée par Rome à la tête du Latium. De même, Pline l'Ancien126 donne une curieuse liste des peuples latins, dans laquelle il mentionne par ordre alphabétique les noms de trente populi Albenses qui accomplissent, avec d'autres peuples du Latium précédemment cités, le sacrifice sur le Mont Albain et le partage de la viande. Parmi les populi Albenses sont cités les Latinienses, dont on ne sait qui ils désignent; les Lavinates, ou Laurentes, ne sont pas nommés. Pline semb le rapporter cette liste à des temps très anciens, probablement anté rieurs à l'époque royale127, puisque, parmi les cités (oppida) qui partici pent au sacrifice sur le Mont Albain, il mentionne, non pas Rome, mais la cité qui occupait auparavant le même emplacement, Saturnia : Satur nia ubi nunc Roma est. L'identification précise des trente cités paraît à peu près impossible, car les témoignages anciens sont contradictoires. Denys cite une liste, par ordre alphabétique aussi, des cités fédérées du
123 R. R. II, 4, 18 : cf. supra p. 174. 124 Early Rome, p. 271 n. 4; pour les liens entre Timée et Lycophron, cf. supra, p. 172-3. 125 III, 31, 4; VI, 63, 4; VI, 74, 6; VI, 75, 1. 126 N. H., III, 68-70; cf. A. Alföldi, op. cit., p. 13-15; 250. 127 M. Pallottino (Le origini di Roma, ArchClass, 12, 1960, p. 27-29) estime que cette liste est authentique et constitue un témoignage « probablement antérieur à la destruction d'Albe, c'est-à-dire environ le milieu du VIIe siècle».
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Latium dans les débuts de la République romaine128; elles se réunissent après la prise de Fidenae par les Romains, pour décider d'une attitude commune à adopter face à Rome. La liste, qui comporte la mention de Lavinium, ne compte que vingt-neuf noms; peut-être faut-il l'expliquer par le fait que Rome faisait partie de la confédération comme trenti ème cité, mais ici, bien évidemment, n'est pas présente à la réunion129. D'autre part, cette liste n'est pas sûre : les listes données par les diffé rents manuscrits divergent pour plusieurs noms, et F. Castagnoli130 fait justement remarquer qu'y sont cités à la fois les Λαυρεντίνοι et les Λαουινίοι, ce qui est surprenant et explique sans doute la leçon Λανυουινίοι de certains manuscrits. Enfin, nous connaissons une liste des cités de la confédération latine donnée par Caton131 qui, semble-t-il, la situe à une époque à peu près contemporaine de celle de Denys, c'està-dire au tout début du VIe siècle132: elle comporte les noms de huit peuples seulement. Nous avons vu qu'une autre tradition, également attestée chez les historiens anciens, faisait de la Ligue latine une confédération de douze cités. On a proposé différentes explications à cette double tradition d'une ligue de trente ou de douze cités. A. Alföldi133 suggère que cette évolution est due en partie à un phénomène purement latin, la trans formation de tribus en cités-états, tandis que F. Castagnoli134 explique cette réduction de trente à douze membres dans la ligue par un proces sus d'absorption des petites cités par les centres les plus importants. Le second facteur de cette évolution, selon A. Alföldi, est la domination étrusque sur le Latium et l'influence de la civilisation étrusque qu'elle a amenée; il est évident, pour lui, que la confédération étusque des douze cités a servi de modèle à la réorganisation de la Ligue latine. La pro fonde influence de la confédération étrusque se voit, ajoute-t-il, dans l'adoption par les Latins des insignes du pouvoir étrusque, les faisceaux portés par les licteurs précédant chacun des chefs des cités; du reste, cette influence étrusque ne s'est pas exercée, remarque-t-il, sur les seuls Latins : les Sabins, les Herniques, les Vosques, les Eques semblent
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V, 61, 3. Cf. A. Alföldi, Early Rome, p. 53. Lavinium I, p. 102. Fr. 58 Peter = Priscian. IV n. 629 P. Cf. F. Castagnoli, loc. cit. Early Rome, p. 25 sq. Op. cit., p. 102.
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s'être eux aussi constitués en confédération, probablement bien avant le IVe siècle, époque à laquelle Tite-Live135 et Denys d'Halicarnasse136 attestent leur existence. Reste à préciser la chronologie de cette réduct ion.Pour K.J. Beloch137, la confédération latine n'a été composée de douze peuples qu'au milieu du IVe siècle environ. Au contraire, F. Altheim138, qui, comme nous l'avons vu, fait remonter au modèle étrus quela fédération des duodecim populi, suit la chronologie indiquée par Denys d'Halicarnasse : selon lui, donc, la réorganisation de la ligue, désormais composée de douze peuples, daterait du VIe siècle, du règne de Servius Tullius. A. Alföldi, à cause de l'influence du modèle étrusque qu'il lie à la domination étrusque sur le Latium, date cette nouvelle for me de la ligue de la dynastie des rois étrusques de Rome. A. Momiglian o139 se rallie lui aussi à cette datation. Pour appuyer cette thèse, F. Castagnoli cite la liste de Caton, qui semble se référer au VIe siècle140; or, étant donné qu'elle ne mentionne que des villes importantes, contrairement aux listes des trente peuples données par Denys d'Hali carnasse et Pline, on peut penser qu'elle est incomplète, mais qu'elle fournit la liste des duodecim populi. Pour A. Alföldi141, cette liste don née par Caton correspond bien à une ligue de douze cités, et il la date de la dernière décade du VIe siècle, lorsque la Ligue latine se réorganis e - Rome, occupée par les Etrusques, en étant exclue - autour d'Aricie, pour lutter contre Porsenna. Le culte fédéral de Diana Nemorensis, près d'Aricie, est l'expression religieuse de cette nouvelle forme de la Ligue, culte dont celui de l'Aventin est une duplication : que les histo riens romains ou grecs aient rapporté l'instauration de ce dernier à une date antérieure, à savoir le règne de Servius Tullius, correspond, selon A. Alföldi142, au désir des Romains de reculer le plus possible dans le temps leurs institutions religieuses. Au contraire, M. Humbert143 rap-
135 IX, 42, 11 ; IV, 25, 7-8 (cf. A. Alföldi, op. cit., p. 28 n. 3 et 4). 136 VIII, 58, 1, cf. A. Alföldi, loc. cit. 137 Römische Geschichte, Berlin, 1926, p. 165. 138 Op. cit., p. 68 sq. 139 Compte rendu de l'ouvrage d'A. Alföldi, Early Rome, in JRS, 57, 1967, p. 215 = Quarto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Rome, 1969, p. 496. 140 Lavinium, I, p. 102. 141 Op. cit., p. 47 sq. 142 Op. cit., p. 85 sq. 143 Municipium et ciuitas sine suffragio. L'organisation de la conquête jusqu'à la Guerr e Sociale, Coll. de l'Ecole Française de Rome, 36, Rome, 1978, p. 66 n. 59.
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porte cette liste aux toutes premières années du Ve siècle, à la coalition de la plupart des cités latines formée contre Rome à l'instigation des Tarquins : Rome les affronta et les écrasa au lac Regille; selon lui, il s'agit d'une liste complète des cités ayant participé à cette coalition. Nous avons vu que la Ligue latine trouvait son expression religieu se dans deux cultes fédéraux : celui de Jupiter Latiaris, le plus ancien, sur les Monts Albains, et, lors de sa réorganisation sur le modèle étrus que, celui de Diane à Némi et sur l'Aventin. On a essayé de faire un rapprochement entre ce chiffre de douze cités et le nombre des autels découverts à Lavinium; F. Castagnoli144 l'a suggéré; A. Momigliano va plus loin dans l'affirmation de cette thèse : «les douze autels semblent impliquer une ligue de douze membres (comme la ligue étrusque). . . Les douze autels de Lavinium datent du IVe siècle, c'est-à-dire de l'épo queà laquelle, selon la tradition, Servius Tullius établit son hégémonie sur la Ligue latine»145; pour A. Momigliano, le sanctuaire de Lavinium serait bien un sanctuaire fédéral, devant lequel chaque cité membre de la Ligue aurait dressé un autel. A cette thèse, on peut faire l'objection suivante. Si l'on admet que la Ligue latine a comporté douze cités dès le VIe siècle, on ne peut faire correspondre ce chiffre, à pareille date, avec le nombre des autels. Nous avons dit plus haut que, si les premiers autels datent du VIe siè cle, ce n'est qu'au IVe siècle que l'ensemble a été complété et achevé de façon à constituer l'ensemble que nous voyons aujourd'hui. D'autre part, quelle que soit la date que l'on assigne à la constitution de la Ligue latine en douze cités, ou peuples, il est à peu près sûr qu'il y a eu un phénomène de réduction du nombre de cités, certaines ayant été détruites, d'autres absorbées par des voisines plus puissantes146. La construction de l'ensemble des autels, comme le note fort justement P. Sommella147, aurait alors suivi un processus inverse, puisque leur nomb reaurait augmenté entre le VIe et le IVe siècles. Il nous semble que cette contradiction reste inexplicable, même si l'on admet que la fédé ration des douze cités latines date de Servius Tullius. Enfin, les diffé rents autels, comme le note également P. Sommella148, s'ils appartien144 Lavinium II : Introduzione, p. 5. 145 Ibid. 146 Cf. F. Castagnoli, Lavinium I, p. 102. 147 Das Heroon des Aeneas und die Topographie des antiken Lavinium, Gymnasium 81, 1974, p. 281 n. 27. 148 Ibid.
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nent globalement au même type architectural149, présentent néanmoins des différences qui excluent qu'ils aient été construits tous à la fois. L'ensemble qu'ont découvert F. Castagnoli et son équipe n'a pas été concerté dès le début de sa construction; ce n'est que progressivement que s'est élaborée la rangée continue des autels, parachevée au IVe siè cle. On est donc fort enclin à penser que cette date est à un double titre significative. Du point de vue politique, les années 340-338 marquent l'échec de la Ligue latine coalisée contre Rome, et le règlement de 338 réorganise les relations des différentes cités du Latium autour de Rome150, qui s'assure ainsi sur elles une hégémonie définitive. Du point de vue religieux, à Lavinium, c'est également à cette date que se situe la construction, sur la même plate-forme, des autels IX à XII, qui complèt ent ainsi l'alignement de constructions datant des VIe et Ve siècles. Devons-nous alors penser que nous sommes en présence d'un sanc tuaire fédéral où douze autels représentent les douze cités de la confé dération? P. Sommella151 estime que cette solution serait simple, mais qu'elle ne correspond pas à la réalité chronologique de la construction des autels mise en parallèle avec l'histoire de la Ligue latine. Le même savant, étudiant, un peu plus tard152, la stratigraphie de la fouille des autels, met en doute l'idée, très souvent admise, que l'autel XIII ait ces sé de fonctionner à partir du moment où la plate-forme sur laquelle ont été édifiés les autels IX à XII a été construite. Certes, l'autel XIII est le plus ancien, et il est situé plus bas que les autres; mais faut-il en déduire que les treize autels n'ont jamais fonctionné ensemble? P. Som mella montre au contraire que beaucoup d'éléments prouvent une util isation simultanée des treize autels. Tout d'abord, on a retrouvé, entre l'autel XIII et la plate-forme des autels IX à XII, un canal de drainage probablement construit pour éviter que l'autel XIII ne soit enterré par les matériaux de construction de cette plate-forme importante. Cela tendrait à prouver la volonté, chez les constructeurs, de permettre l'ut ilisation de l'autel XIII au moins pendant la phase de construction de la plate-forme. D'autre part, s'il est vrai que les débris des matériaux ayant servi à l'édification de la plate-forme se sont nivelés à une hau-
149 tura et 150 151 152
Cf. aussi F. Castagnoli, Sulla tipologia. . . p. 145 sq.; L. Cozza, Le tredici are : strut architectura, in Lavinium II, p. 89 sq. Cf. M. Humbert, op. cit., p. 176-195; cf. infra p. 347 sq. Das Heroon . . .. loc. cit. Lo scavo stratigrafico delle platee, in Lavinium II, p. 81 sq.
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teur qui a enterré l'échiné de la corniche de base de l'autel, différents éléments de la stratigraphie153 permettent de penser qu'une partie de la projection verticale du monument a continué à émerger, et qu'il n'a jamais été complètement enterré. Restent alors deux problèmes non résolus : comment a-t-on pu utiliser simultanément treize autels dont l'un était d'un niveau nettement inférieur à ses voisins? si l'autel XIII a continué à être utilisé en même temps que les autres, pendant combien de temps l'a-t-il été?154. Quoi qu'il en soit, ces indications font s'écrouler toute interpréta tion strictement religieuse d'un dodékathéon, puisqu'il semble bien que les treize autels aient fonctionné, plus ou moins longtemps, simultané ment. La même raison exclut à peu près aussi l'idée d'une correspon dance entre la confédération des duodecim populi et le nombre des autels. Ce dernier, ainsi que la situation du temple, faisant penser qu'il s'agit bien d'un sanctuaire fédéral155, on a pu considérer que l'édifice était dédié à une seule divinité, comme chez les Etrusques, ou à un groupe de divinités dont l'association a un sens religieux et non pas politique. L'interprétation de cet ensemble architectural est d'autant plus difficile qu'il est exceptionnel en Italie. On en trouve des exemples en Grèce, à Olympie notamment, où sont attestés six autels, et en Sicile, dans le temple de Demeter et Koré à Agrigente, où il existe un aligne-
153 Pour une étude très détaillée, cf. P. Sommella, Lo scavo stratifrafico delle platee, p. 83. 154 Dans un article récent (Enée, Lavinium et les treize autels, RHR, 200, 1983, p. 5461), R. Turcan propose un schéma explicatif plus souple du nombre des autels et de sa signification : les bouleversements stratigraphiques qu'a connus le site rendent assez sus pectes les conclusions trop rigides que l'on pourrait tirer des données du terrain; R. Tur can admet néanmoins que le nombre des autels utilisés simultanément a pu passer de 13 à 12 (ce dernier chiffre au milieu du IVe siècle), ce en quoi il se rallie aux explications proposées par les archéologues italiens (cf. C. F. Giuliani-P. Sommella, op. cit., p. 359); R. Turcan pense pouvoir rendre compte de ce changement par les particularités propres du calendrier lavinate, qui, selon Augustin citant Varron, aurait d'abord comporté treize mois, mais aurait pu être ramené à douze au milieu du IVe siècle, lors de la dissolution de la Ligue latine et de l'établissement de l'hégémonie romaine sur le Latium, événements qui « durent s'accompagner de certaines mesures d'uniformisation et d'alignement sur les institutions romaines» (op. cit., p. 61); selon R. Turcan, un rituel d'offrandes mensuelles se pratiquait sur ces autels, dont chacun était réservé à un mois. 155 A. Alföldi (Early Rome, p. 89) remarque que les sanctuaires fédéraux - c'est le cas de celui de Diane sur l'Aventin - ont pour caractéristique d'être situés à l'extérieur des murs d'enceinte, ce qui s'explique par les privilèges d'exterritorialité dont il doivent bénéf icier.
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ment de trois autels. En Italie même, on trouve des groupes d'autels, à Ostie, par exemple, près du temple d'Hercule, mais ils ne constituent pas un alignement comme à Lavinium156. Une inscription osque d'Agnone, datant du IIIe siècle avant J.-C, mentionne l'existence du culte de quinze divinités qui avaient là des autels, mais rien n'indique que ces derniers formaient un alignement157. Il faut donc renoncer à essayer d'expliquer par le nombre des autels le fonctionnement et la destina tion du sanctuaire, et les éclairer par d'autres enquêtes. C) La divinité dedicatane Sur l'identification de la divinité dédicataire du sanctuaire, diffé rentes hypothèses ont été émises158. Nous avons déjà parlé de celles qui en font le temple des douze Consentes Penates étrusques, de douze divi nités grecques, ou encore le sanctuaire fédéral d'une ligue de douze cités. R. Bloch159, se fondant sur la présence de la dédicace à Cérès et l'attestation chez Augustin citant Varron160 d'une fête lavinate en l'hon neur de Liber qui durait un mois entier, pense à un temple consacré à la triade Cérès-Liber-Libera. Mais cette hypothèse, formulée antérieure ment à la découverte des premiers autels, paraît difficilement soutenable depuis que l'ensemble des treize a été mis au jour. A. Alföldi161 a proposé de voir dans le sanctuaire celui des Pénates identifiés aux Dioscures, cette hypothèse étant d'ailleurs en partie fon dée sur la découverte de l'inscription Castorei Podlouqueique qurois au pied d'un des autels162. Selon le même savant, le culte des Pénates dans le sanctuaire serait intimement lié à celui d 'Aeneas Indiges, et, par l'i ntermédiaire du personnage d'Enée, à celui de Vénus. La démonstration
156 F. Castagnoli, Sulla tipologia. . ., p. 155-159. 157 Op. cit., p. 159 n. 47. 158 Elles sont résumées par F. Castagnoli, Lavinium II : Introduzione, p. 5. 159 Une lex sacra de Lavinium et les origines de la Triade agraire de l'Aventin, CRAI, 1954, p. 203-212. 160 De du. Dei VII, 21 ; voir J. Champeaux, fortuna. Le culte de la Fortune à Rome et dans le monde romain, Coll. de L'Ecole Française de Rome, 64, Rome, 1982, p. 404. 161 Early Rome, p. 256 sq. 162 La même identification des Dioscures et des Pénates à Lavinium a été soutenue par S. Weinstock {Two archaic inscriptions from Latium, JRS, 50, 1960, p. 112-114) tandis que la découverte de l'inscription avait inspiré à F. Castagnoli des réflexions beaucoup plus prudentes (notamment dans Dedica arcaica lavinate a Castore e Polluce, SMSR, 30, 1959, p. 109-117) : cf. infra p. 285-92.
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d'A. Alföldi s'appuie aussi sur une inscription découverte à Pompéi et datant de l'époque de Claude163. Il y est question d'un certain Sp. Turranius et de son rôle comme pater patratus, dans le renouvellement du traité d'alliance entre Rome et Lavinium 164 : sacrorum principiorum p(opuli) R(omani) Quirit(ium) nominisque Latini, quai apud Laurentis coluntur. Il s'agit là, dit A. Alföldi, d'un culte fédéral - tous les peuples se réclamant du nomen Latini*:n y sont associés -, dont on peut fort bien penser qu'il avait son siège dans le sanctuaire des Treize autels qui, à en juger par ses dimensions et sa situation extra muros, devait être un sanctuaire fédéral. Selon A. Alföldi, l'inscription désigne les sacra principiorum et non les sacra principia165. L'expression signifierait donc «les cultes en relation avec les origines». A. Alföldi l'éclairé par un rapprochement avec un texte de Plutarque : Λαουϊνίον . . . οπού και θεών ίερα 'Ρωμαίοις πατρώων άπέκειτο, και του γένους ήσαν αύτοΐς άρχαί δια το πρώτην πόλιν έκείνην κτίσαι τον Αίνείαν166. Θεοί πατρφοι étant l'une des traductions grecques du latin Penates167, et άρχαί ayant le même sens que principia, il est fort tentant de déduire du rapproche ment de ces deux textes que l'expression sacra principiorum désigne le culte des Pénates. Nous voudrions ajouter que la présence, à une centaine de mètres au sud-est du sanctuaire des Treize autels, d'une tombe à tumulus du VIIe siècle, ouverte au VIe, et transformée en hérôon au IVe siècle168, dans laquelle P. Sommella169 reconnaît l'Hérôon d'Enée décrit par De-
163 CIL X, 797; Cf. J. Carcopino, Virgile et les origines d'Ostie, 2e éd., Paris, 1968, p. 168 sq. 164 Cf. infra, p. 354-5; A. Alföldi Early Rome, p. 264-265 et n. 9. 165 Voir aussi Die Trojanischen Urahnen der Römer, Bale, 1957, p. 46 et n. 124-125; F. Castagnoli {Lavinium I, p. 104 n. 5) approuve cette interprétation. 166 Cor., 29, 2: «Lavinium, où les Romains gardaient les emblèmes sacrés des dieux de leurs ancêtres et d'où leur nation tirait son origine, puisque c'était la première ville fondée par Enée» (trad. R. Flacelière et E. Chambry, C.U.F., Paris, 1964). 167 Denys d'Halicarnasse, I, 67, 3. 168 C. F. Giuliani - P. Sommella, op. cit., p. 366-368. 169 Op. cit., p. 367; id., Heroon di Enea a Lavinium, RPAAA4, 1971-72, p. 47-74; id., Das Heroon des Aeneas und die Topographie des antiken Lavinium, Gymnasium, 81, 1974, p. 273-303; en revanche, J. Poucet (Le Latium protohistorique et archaïque II, AC, 48, 1979, p. 181-182) est très réticent pour admettre cette identification, et exprime les mêmes réserves dans Un culte d'Enée dans la région lavinate au quatrième siècle avant J.-C.?, Hommages à Robert Schilling, Paris, 1983, ρ 187-201; de même G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 212 n. 163.
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nys d'Halicarnasse170, semble un argument supplémentaire en faveur de l'hypothèse d'A. Alföldi, selon qui il s'agirait du sanctuaire des Pénat es.Il paraît en effet plausible que le culte du héros troyen et celui des dieux qu'il a apportés de Troie soient, sinon réunis, du moins célébrés en des lieux très proches171. Enfin, il est un dernier argument qui pourrait plaider en faveur de l'identification du sanctuaire des Treize autels comme le temple des Pénates; c'est une indication de Denys d'Halicarnasse, dans le passage où l'historien évoque l'assassinat de Titus Tatius à Lavinium172. Le roi sabin, associé à Romulus, était venu à Lavinium pour célébrer un sacri fice aux θεοί πατρφοι, sacrifice qui garantissait la prospérité à Rome. Or, Titus Tatius est assassiné par les parents et amis des ambassadeurs de Lavinium qui avaient été tués à Rome έπί των βωμών, nous dit Denys. L'emploi de ce pluriel est assez surprenant173 car, dans la plu part des cas, on ne trouve qu'un autel devant un temple consacré à une seule divinité, ou à un groupe de divinités indissociables comme le sont les Pénates; d'autre part, le mot n'est pas, dans l'usage normal, em ployé au pluriel pour désigner un seul autel. Quelle importance faut-il donner à ce détail? Denys a-t-il voulu faire par ces mots une allusion à la série des treize autels? L'emploi de ce pluriel n'a-t-il aucune signifi cation particulière pour la description de l'ensemble des monuments religieux auxquels il est fait allusion ici? Nous sommes en présence d'un détail troublant, mais il nous semble impossible de répondre de façon satisfaisante et décisive aux questions qu'il suggère. Toutefois, pour séduisante qu'elle puisse paraître au premier abord, il nous paraît que l'identification du sanctuaire des Treize autels comme celui des Pénates soulève plusieurs difficultés. Tout d'abord, la présence d'une dédicace aux Dioscures près d'un des autels ne prouve pas que l'ensemble du sanctuaire leur était dédié, ni qu'il l'était à eux seuls, et, d'autre part, l'identification complète de ces dieux avec les
170 I, 64, 5. 171 La proximité des deux édifices fait aussi pencher L. Quilici (Roma primitiva e le origini delle civiltà laziale, Rome, 1979, p. 135 sq.) pour une identification du sanctuaire des Treize autels comme celui d'Indiges et des Pénates. . m II, 52, 3. 173 E. Cary, traducteur de l'édition Loeb (Cambridge, 1968, p. 461), la traduit par un singulier : « at the altar ».
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Pénates nous paraît très sujette à caution174. Ensuite, il faudrait alors admettre qu'il y a eu à Lavinium deux temples consacrés aux Pénates, la καλίας évoquée par Denys et le sanctuaire des Treize autels, car il est impossible que le texte de Denys évoque ce sanctuaire175: le terme de καλίας ne saurait s'appliquer à un monument de cette importance (rap pelons que la rangée des autels s'étend sur une cinquantaine de mètres) et, loin de se trouver sur une colline, cet ensemble architectural est construit dans une zone située nettement en contrebas des hauteurs environnantes, notamment de celle où se trouvait l'antique oppidum, aujourd'hui le village de Pratica di Mare. Il n'existe aucune attestation littéraire de l'existence de deux temples, ce qui, au demeurant, ne cons titue par un argument suffisant pour récuser l'hypothèse d'A. Alföldi. Ce qui nous paraît plus gênant dans cette dernière, c'est qu'elle implique que le temple des Pénates se trouvait à l'extérieur du mur d'enceinte de la ville. Une telle localisation paraît contraire à celle que suggèrent certaines représentations du temple, sur les monnaies d'Ha drien et d'Antonin notamment. Mais il y a plus grave : elle nous paraît profondément opposée à la nature même de nos dieux. Il serait para doxal que les Pénates, liés, de par leur nom, à la partie la plus intime de la maison, évoquant l'essence même du foyer ou de la patrie qu'ils désignent souvent métonymiquement 176 aient pu avoir un sanctuaire extra-urbain. En second lieu, il ne nous semble pas absolument certain, malgré la brillante démonstration d'A. Alföldi, que le culte des Pénates de Lavinium ait été un culte fédéral177. Enfin, le sanctuaire des Treize autels n'a pas livré de matériel postérieur au IIe siècle avant J.-C. 178, ce qui donne à penser qu'il dut être abandonné à cette époque; or, le sacrifice des magistrats romains à Vesta et aux Pénates de Lavinium est attesté encore au IVe siècle après J.-C.179, et on imagine mal qu'il ait
174 C. Peyre, Castor et Pollux et les Pénates pendant la période républicaine, MEFR, 74, 1962, p. 433-462; cf. infra p. 437-9. 175 A. Alföldi pense, pour sa part, qu'il a existé deux lieux de culte des Pénates à Lav inium : d'une part, le sanctuaire fédéral des Treize autels {Early Rome, p. 265-267), où les Pénates étaient identifiés aux Dioscures, réinterprétation modernisée de vieilles divinités locales, vénérées d'autre part dans une petite chapelle représentée sur le relief de l'Ara Pads (op. cit., p. 269). 176 Cf. supra, p. 41 sq. 177 Cf. aussi R. Turcan, op. cit., p. 57. 178 F. Castagnoli, Lavinium II : Introduzione, p. 4. 179 Macrobe, III, 4, 11; Servius-Daniel, Ad Aen. III, 12.
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pu avoir lieu dans un sanctuaire en ruines. Aussi, au terme de ces réflexions, nous paraît-il difficile d'admettre que le sanctuaire des Trei ze autels ait été celui des Pénates. R. Turcan a proposé d'identifier le sanctuaire des Treize - ou dou ze- autels comme celui de Iuno Kaîendaris180, honorée aux kalendes, selon Macrobe, par les habitants de Lavinium. Cette identification repo se largement sur l'interprétation donnée par R. Turcan du nombre des autels181, qui, pense-t-il, étaient utilisés non pas simultanément, mais un par un, selon le mois. Cette hypothèse se heurte à une première diffi culté, soulignée par l'auteur. Macrobe précise que le sacrifice se fait a mense Martio ad Decembrem; R. Turcan propose donc, en s'appuyant sur une étude de M. Renard182, d'interpréter cette donnée comme une allusion à un état du calendrier lavinate qui aurait comporté dix mois, et correspondrait, pense-t-il, à une des phases du «schéma évolutif» proposé par les archéologues italiens, datant de la fin du IVe siècle183. Outre cet argument, fondé sur la correspondance entre le calendrier et le nombre des autels, R. Turcan remarque que «cette Junon de la nouv elle lune avait vocation de patronner la croissance durant toute l'an née»184, caractère qui paraît correspondre à certaines découvertes faites dans la zone des autels, notamment de petites statuettes de bronze représentant des kouroi et des korai, datables du VIe siècle av. J.-C, et, à partir du IVe siècle, des offrandes d'argile représentant des organes génitaux masculins et féminins : Junon, déesse de la croissance, aurait protégé les iuuenes de la cité, et peut-être veillé sur leur santé et sur les divers processus physiologiques relatifs à la croissance. C'est ce second argument qui nous paraît le plus convaincant, et R. Turcan souligne à juste titre que ni les Pénates, ni Enée ne parais sent directement intéressés à la fonction de protection de la croissan ce qui appartenait manifestement à la divinité, ou à l'une des divini tés honorées dans ce sanctuaire. En revanche, la correspondance éta blie entre les différentes phases du calendrier lavinate et le nombre des autels nous paraît beaucoup plus sujette à caution, en raison, notamment, - R. Turcan le note lui-même -, de la difficulté de dater
180 Op. cit., p. 62. 181 Voir supra, p. 248 n. 154. 182 Iuno COVELLA, Mélanges H. Grégoire, IV (= Ann. Inst. Philol. Orient, et Slave, 12, 1952), p. 408, cité par R. Turcan, op. cit., p. 63, n. 76. 183 C. F. Giuliani-P. Sommella, op. cit., p. 358, fig. 2. 184 Op. cit., p. 64.
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précisément la mise en fonction de chacun des autels (rappelons qu'un certain nombre d'entre eux ont été reconstruits plusieurs fois). Mais l'hypothèse du savant français nous semble appeler une autre objection: s'il est vrai qu'Ovide et Macrobe185 mentionnent un culte de Iuno Kalendaris à Lavinium, la documentation littéraire ne fournit aucune indication relative à la localisation du sanctuaire, et rien, par mi le matériel découvert dans la zone des autels, ne peut se rapport er de façon irréfutable à la déesse. Cette identification reste donc largement hypothétique. Nous avons dit que l'importance exceptionnelle de la rangée des autels, ainsi que la situation extra-urbaine du sanctuaire invitaient à y voir un lieu de culte fédéral. Or, plusieurs témoignages littéraires attes tent l'existence d'un culte de Vénus à Lavinium, Strabon mentionnant même un culte fédéral de la déesse. Nous avons deux attestations d'un culte rendu à Vénus dans Yager Laurens. C'est d'abord un texte de Solin : nee omissum sit, Aenean aestate ab Ilio capto seconda Italicis litoribus adpulsum, ut Hemina tradii, sociis non amplius sescentis, in agro Laurenti posuisse castra : ubi dum simulacrum, quod secum ex Sicilia aduexerat, dedicai Veneri mairi quae Frutis dicitur . . ,186. La tradition rapportée ici par Solin a comme source l'annaliste Cassius Hemina, qui semble avoir raconté l'histoire d'Enée depuis sa fuite de Troie187. Il ne s'agit pas d'un santuaire de Vénus, mais seulement de la dédicace d'une statue de la déesse, ce qui s'expli que par le fait qu'Enée rend cet hommage à sa mère dès le moment de son débarquement. Par la même raison s'explique que ce n'est pas Lavinium qui est mentionnée (Enée fondera la ville plus tard), mais Vager Laurens, terme qui désigne la région environnante, et notamment la zone côtière, dans laquelle il est probable qu'Enée célèbre ce culte en l'honneur de sa mère188. Nous avons ici l'une des deux attestations de l'épiclèse Frutis don-
185 Fastes VI, 59-61; Sat. I, 15, 18. 186 II, 14 : «Et qu'on n'oublie pas qu'Enée, poussé vers les rivages de l'Italie la secon de année après la chute de Troie, comme le rapporte Hemina, avec pas plus de six cents compagnons, établit son camp dans Yager Laurens : là, tandis qu'il consacre à sa mère Vénus appelée Frutis, une statue qu'il avait apportée avec lui de Sicile ... ». 187 Fr. 5 Peter. Voir supra p. 125. 188 pour une définition précise des limites de Vager Laurens, cf. F. Castagnoli, Lavi nium I, p. 87; 90-91.
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née à Vénus189: différentes explications ont été proposées pour ce ter me190, dont l'origine est probablement une déformation du grec 'Αφροδ ίτη. Festus nous apporte un témoignage assez voisin : Nam Italici auctore Aenea uelant capita, quod is, cum rem diuinam faceret in litore Laurentis agri Veneri mairi, ne ab Ulixe cognitus interrumperet sacrificium caput adoperuit, atque ita conspectum hostis euitauit191; deux détails de ce texte diffèrent de celui de Solin : Vénus n'est pas désignée de l'épiclèse Frutis, et il n'y est pas question d'une statue de la déesse. Enfin, un texte de la Souda192 mentionne le sacrifice fait par Enée à sa mère lors de son arrivée en Occident (πλεύσας μεχρί της δύσεως), sans plus de précision géographique193. Strabon, en revanche, atteste l'existence d'un sanctuaire de Vénus : Άνα μέσον δε τούτων των πόλεων εστί το Λαουίνιον, έχον κοινον των Λατίνων ιερόν Αφροδίτης · επιμελούνται δ' αυτού δια προπόλων Αρδεαται. Είτα Λαύρεντον. Ύπέρκειται δε τούτων ή Αρδέα, κατοικία Ρουτούλων άνω έβδομήκοντα σταδίοις από της θαλάττης εστί δε και ταύτης πλησίον Αφροδίσιον οπού πανηγυρίζουσι Λατίνοι. Σαυνΐται δ' έπόρθησαυ τους τόπους, και λείπεται μεν ϊχυη πόλεων, ευδοξα δε δια την Αινείου γέγονεν έπιδημίαν και τας ίεροποιίας (ας) έξ εκείνων των χρόνων παραδεδόσθαι φασί194. Le culte de Vénus attesté ici par Strabon est rapporté
189 L'autre se trouve dans Festus: Frutinal templum Veneris Fruti (80 L); mais cette définition ne contient aucune indication sur la localisation du sanctuaire en question. 190 R. Schilling {La religion romaine de Vénus, 2e éd. Paris 1982, p, 75 sq.) donne au mot une origine étrusque; cf. F. Castagnoli, Lavinium I, p. 106-107, pour un résumé des différentes explications proposées. 191 432 L : «En effet les Italiques se voilent la tête à l'imitation d'Enée car ce dernier, tandis qu'il faisait sur le rivage de Vager Laurens un sacrifice à sa mère Vénus, se couvrit la tête afin qu'Ulysse ne le reconnût pas et ne lui fît pas interrompre le sacrifice, et évita ainsi d'être vu par l'ennemi». 192 S.u. 'Αφροδίτη. 193 M. Torelli (Lavinio e Roma, p. 161) attache cependant une grande importance à cette indication : il faudrait comprendre qu'Aphrodite έφιππος accompagne son fils jus qu'à l'endroit où se couche le soleil, donnant ainsi au culte qui sera implanté en ce lieu une connotation solaire qui l'oppose à la valeur lunaire de celui d'Aphrodite; les deux divinités seraient associées dans les processus de maturation du vin, ce qui permet à M. Torelli de donner de l'épiclèse Frutis une explication nouvelle : le mot serait à mettre en relation avec defrutum («le vin nouveau»), Vénus Frutis étant alors définie comme «celle qui fait fermenter le moût» (pp. cit., p. 172-173). 194 V, 3, 5 : «Au milieu entre Ostie et Antium se trouve Lavinium, qui possède un sanctuaire d'Aphrodite commun à tous les peuples latins, mais commis aux soins des Ardéates, qui le font entretenir par des intendants. Puis vient Laurentum, puis, en arrière
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expressément à Lavinium même195; il s'agit d'un sanctuaire fédéral196, ce qui constitue un témoignage unique dans notre documentation. Fait surprenant, Strabon mentionne la présence d'un second temple fédéral d'Aphrodite, à Ardée. L'existence de deux sanctuaires fédéraux de la même déesse, aussi peu éloignés l'un de l'autre, a surpris et a donné matière à un ample débat197. Comme Solin et Festus, Strabon associe ce culte de Vénus à la légende de la venue d'Enée, et fait même remonter l'instauration des cérémonies sacrées (ίεροπούας) qui s'y déroulent au héros troyen en personne. Enfin, Strabon nous indique qu'à son époque (aux environs de l'ère chrétienne), ces villes de la côte du Latium sont en ruines (ϊχνη πόλεων); mais l'emploi du présent dans les verbes επ ιμελούνται et πανηγυρίζουσι tend à faire penser que, malgré le déclin des cités, les lieux du culte restent encore vivants. Deux témoignages un peu postérieurs, ceux de Pline198 et de Pomponius Mela199 mentionnent, parmi les villes de la côte du Latium, un Aphrodisium; Pline dit du res te quondam Aphrodisium, ce qui confirme le témoignage de Strabon, selon lequel cet édifice était en ruines. Il nous paraît, suivant une suggestion de F. Castagnoli200 qui pré sente cette hypothèse avec prudence, qu'il y a de fortes raisons de pen ser que XAphrodisium fédéral mentionné par Strabon est le sanctuaire
de ces villes, Ardéa, établissement des Rutules à 70 stades de la mer, près du sanctuaire d'Aphrodite où les Latins tiennent leur panégyrie. Les Samnites ont pillé ces lieux, mais si l'on n'y voit que les vestiges des villes antiques, ces vestiges, du moins, ont été rendus illustres par le séjour d'Enée, et par les cérémonies sacrées qu'on prétend remonter jus qu'à cette époque reculée» (trad. F. Lasserre, C.U.P., Paris, 1967). 195 Nous n'aborderons pas ici le problème de la relation entre Lavinium et Laurentum; nous renvoyons à J. Carcopino Virgile et les origines d'Ostie, p. 327; F. Castagnoli, Lavinium I, p. 85-90. 196 Pour la question de l'administration de ce sanctuaire, cf. ci-dessous, p. 362 sq. 197 Pour R. Schilling (op. cit., p. 68) il a bien existé deux sanctuaires fédéraux de Vénus-Aphrodite, l'un à Lavinium, le plus ancien, l'autre à Ardée, sorte de «filiale» du temple de Lavinium ; au contraire, A. Alfoidi (Early Rome, p. 256 n. 7) et F. Castagnoli {op. cit., p. 110-111) estiment invraisemblable l'existence de deux sanctuaires fédéraux de Vénus à si peu de distance l'un de l'autre; bibliographie de la question in Lavinium I, p. 110 n. 8. 198 III, 5, 56-7. 199 II, 4, 71. 200 Lavinium II : Introduzione, p. 5 ; le savant italien a repris cette même hypothèse dans une conférence faite à E.P.H.E. le 13 mars 1982: Lavinium: Topographie. Cultes intra et extra muros.
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des Treize autels201. Alors que l'abandon de ce dernier dans le courant du IIe siècle avant J.-C. rend peu probable, selon nous, son identifica tion comme le sanctuaire des Pénates, il semble au contraire correspon dre assez bien à ce que note Strabon, mais aussi Pline : aux environs de l'ère chrétienne, ces monuments ne sont plus que ruines. Au demeur ant, cette hypothèse s'appuie également sur la relation probable entre le mort vénéré dans l'hérôon et la divinité dédicataire du sanctuaire, qui expliquerait la proximité des deux édifices. Le rapport de filiation entre Enée et Vénus permet précisément de donner une signification à l'ensemble de ces monuments202. 2) Le sanctuaire de l'est En 1960, F. Castagnoli avait identifié, sur une hauteur située à l'est de l'enceinte de la ville antique et de l'actuel village203, des éléments d'un autre sanctuaire; de nombreuses terres cuites architectoniques et pièces de céramique avaient été mises au jour lors d'un sondage. A part irde 1977, des fouilles systématiques furent menées, qui ne sont pas achevées, et dont les résultats n'ont encore été que partiellement pub liés204. On a découvert, notamment, un dépôt de matériel votif qui avait utilisé une dépression naturelle du terrain205 : les statues qui s'y trouvaient étaient extrêmement abîmées, brisées en de nombreux mor ceaux. L'ensevelissement du tout semble avoir eu lieu en une seule fois,
101.
201 Voir A. Dubourdieu, Le sanctuaire de Vénus à Lavinium, REL, 49, 1982, p. 83-
202 Lavinium I, p. 37 et 111. 203 Cf. G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 153-158. Outre les objets présentés en septembre 1981 -janvier 1982 à Rome à l'exposition Enea nel Lazio (cf. Catalogue, p. 187-271) la découverte du dépôt votif avait été brièvement commentée dans P. Sommella, Le dépôt de statues votives découvert à Pratica di Mare, Archeologia, n° 116 mars 1978 p. 20-21 (trad. R. Chevallier). La statue de Minerve a fait l'objet d'une publication détaillée : F. Castagnoli, // culto di Minerva a Lavinio, Accademia Nazionale dei Lincei 1979, quaderno 246, p. 314. 204 Enea nel Lazio p. 187-190. 205 R. Turcan (op. cit. p. 66) considère que le texte de Strabon (V, 3, 5) citant l'Aphrodision fédéral des Latins comme un sanctuaire encore en service au moment où il écrit va à l'encontre de l'identification de ce monument avec le sanctuaire des Treize autels, sûrement tombé en désuétude du temps du géographe, puisque Denys d'Halicarnasse, son contemporain, ne mentionne pas l'édifice; le texte de Pline, infirmant le témoignage de Strabon (quondam), évoque, selon R. Turcan, le temple situé entre Ardée et Antium, non le sanctuaire des treize autels; contra : M. Torelli, op. cit., p. 157-173.
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à la fin du IIIe siècle, ou peu après, ce qui, de même que la présence de nombreuses tuiles et terres cuites architectoniques, suggère l'abandon du sanctuaire ou une restructuration complète. Si c'est la première hypothèse qui est juste, la coïncidence de cette date avec celle de l'abandon du sanctuaire des Treize autels, comme le note M. Fenelli206, serait l'indice d'un profond déclin de Lavinium comme centre religieux à cette date. La partie la plus importante du dépôt est constituée de statues votives de terre cuite, souvent d'assez grande taille, qui, à l'e xception des statues de Minerve, sont des représentations de fidèles. Soixante-dix d'entre elles ont jusqu'à présent été identifiées - mais ce chiffre n'est pas clos -, datables d'une période comprise entre les pre mières années du Ve siècle et le début du IIe siècle avant J.-C. On trouve parmi elles de nombreuses représentations d'enfants emmaillotés, quel ques têtes isolées et quelques ex-voto anatomiques de membres, ou d'organes génitaux. On trouve aussi de nombreuses fuseroles, édifices miniatures, oiseaux, lapins, œufs, toupies, et aussi des antéfixes207. Enf in, à côté de ces objets de terre cuite, on a mis au jour quelques petits bronzes, production locale du milieu du VIe siècle avant J.-C, et aussi de la céramique italo-corinthienne, datée essentiellement des IVe-IIIe siècles. La présence, parmi les terres cuites, de plusieurs statues de Minerve, appartenant d'ailleurs à des types iconographiques différents, et datées d'époques diverses, fait penser que le sanctuaire attenant, dont on n'a actuellement retrouvé que les terres cuites architectoni ques, lui était dédié. La grande statue de la déesse casquée et armée, accompagnée d'un Triton, datée du Ve siècle, et, selon F. Castagnoli208, fabrication locale à partir d'un modèle grec, atteste que Minerve était honorée à Lavinium comme déesse guerrière, mais les statues d'en fants, ou de mères tenant leur enfant dans leurs bras, prouvent sans doute qu'on l'y considérait aussi comme la protectrice des mariages et
206 Enea nel Lazio, p. 187. 207 M. Torelli, après avoir souligné l'étroite relation existant entre Minerve et les jeu nes gens, étudie minutieusement ces statues et objets votifs; il pense pouvoir établir qu'ils ont rapport à l'initiation qui conduit les garçons à la prise de la toge virile, les jeunes filles au mariage, initiation à laquelle préside la Minerve lavinate ; il note par exemple la présence, dans le dépôt votif, de statues de jeunes garçons portant la bulla, et de statues de jeunes filles dont la coiffure lui semble un traitement spécifique de la chevelure fémi nine le jour des noces (Lavinio e Roma, p. 23-71). 208 // culto di Minerva a Lavinio, p. 8-9.
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des naissances209, ce dont témoigne peut-être la présence, très rare, d'une oie à ses côtés dans l'une de ces statues210. Une autre211, d'une stature très rigide, mal proportionnée, montre une Minerve casquée, portant le Gorgoneion sur son thorax, et, par sa présentation «rigid ementfrontale»212, elle suggère une représentation du Palladium, ce qui la mettrait évidemment en relation avec la légende de la venue d'Enée. A Rome, le Palladium, statue d'Athéna qui aurait été volée par Ulysse et Diomède à Troie, puis apportée en Italie, passait pour être conservée parmi les pignora imperii du sanctuaire de Vesta sur le Forum213, où se trouvaient aussi les Pénates. De plus, l'une des statues d'orantes214 porte un collier constitué de médaillons qui illustrent peut-être des épisodes de la Guerre de Troie, ou de la légende d'Enée : sur l'un d'entre eux, il faut peut-être reconnaître le Palladium entre Ajax et Cassandre215. Autour de ce culte s'est élaborée une tradition locale dont nous avons différents témoignages. Elle semble avoir été suffisamment forte pour survivre à l'ensevelissement de ces statues, notamment de la gran de Minerve au Triton, et à l'abandon du sanctuaire. Il est probable en effet que cette tradition était connue de Virgile, comme le montre l'épithète de «Tritonide» dont il qualifie fréquemment Athéna comme dées se poliade de Troie216. La présence de la statue de Minerve au Triton à Lavinium prouve que ce n'est pas la simple imitation littéraire d'Homèr e217 ou d'Hésiode218 qui a inspiré cette épithète à Virgile, mais qu'il a dû avoir connaissance de la tradition lavinate, aux lieux mêmes où la légende situait le débarquement d'Enée219. L'existence, à Lavinium, d'un culte d'Athéna considérée comme d'origine troyenne a été souli-
209 Ces deux aspects de la déesse sont relevés par F. Castagnoli {Enea nel Lazio, p. 189); M. Torelli, au contraire (Lavinio e Roma, p. 19-31), estime que le caractère essent ielde la Minerve lavinate est celui de protectrice des initiations juvéniles. 210 Enea nel Lazio, p. 193-194, D 62. 211 Ibid., p. 193-194, D. 63. 212 Ibid., p. 194. 213 Notamment Cicéron, Scaur., 48 : Palladium illud quod quasi pignus nostrae saluas atque imperi custodiis Vestae continetur; cf. ci-dessous p. 460-7. 214 Enea nel Lazio, p. 239-240, D 224; F. Castagnoli, ibid. p. 10-11. 215 F. Castagnoli, ibid., t. XI, fig. 3. 216 En. II, 171; II, 227; V, 615. Pour les différentes interprétations de cette épithète, cf. F. Castagnoli, II culto. . ., p. 4-6; id., Enea nel Lazio, p. 191. 217 II, IV, 515; Vili, 39; XXIII, 183; Od., Ili, 78. 218 Théogonie, 893 ; 924. 219 F. Castagnoli, op. cit., p. 4 η. 5.
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gnée par G. Pugliese Carratelli220, qui s'appuie sur un texte de Strabon, déjà cité221, mentionnant la présence d'une statue «troyenne» d'Athéna dans la cité. La découverte de la Minerve guerrière semble corroborer ce témoignage. On se rappelle les deux vers de Lycophron mentionnés au début de ce chapitre, où le poète fait dire à Cassandre qu'Enée installera «les images des dieux de sa patrie» dans le sanctuaire de Myndia Pallènis, c'est-à-dire d'Athéna. Les fouilles de 1977 montrent que l'existence de ce sanctuaire n'est pas pure fantaisie littéraire. Reste à savoir quel cré dit il faut accorder à l'affirmation selon laquelle Enée y déposa ses Pénates, et dans quelle mesure on peut considérer le sanctuaire de l'est comme celui des Pénates, ou, du moins, celui où ils étaient honorés. A suivre à la lettre les indications de Lycophron, il semblerait que l'on puisse répondre que ce temple est bien le leur. D'autre part, le texte de Denys222 cité plus haut paraît donner quelque consistance à cette hypot hèse, puisque l'historien assure qu'Enée installa ses Pénates dans un temple situé sur une hauteur (έπί τον λόφον). La situation du sanctuai re de l'est correspondrait à cette description. La localisation sur une hauteur coïnciderait également avec les indications fournies par cer tains documents figurés, l'Ara Pacis et le relief du British Museum, en particulier. Toutefois, on peut faire à cette hypothèse plusieurs objections. Tout d'abord, le texte de Lycophron constitue un témoignage absolu mentisolé d'un lien cultuel entre Minerve et les Pénates à Lavinium. Les témoignages de Macrobe et de Servius-Daniel, au contraire, attes tent que, dans la cité laurentine, c'est avec Vesta que les Pénates sont liés223, puisqu'on leur offre un sacrifice commun, à tel point d'ailleurs qu'on considère parfois Vesta comme faisant partie des Pénates. Mais surtout, on peut avancer contre cette hypothèse les mêmes arguments qui nous ont semblé décisifs pour récuser l'identification du sanctuaire des Treize autels comme celui des Pénates. D'une part la date probable d'abandon du sanctuaire (fin du IIIe ou début du IIe siècle avant J.-C.) est peu compatible avec ce que la tradition littéraire et épigraphique
220 Lazio, Roma e Magna Grecia prima del secolo quarto a.C, PP, 23, 1968 p. 324. Cf. aussi C. Bearzot, loc. cit. ; M. Sordi, loc. cit. C. Cogrossi, loc. cit. 221 VI, 1, 14. 222 I, 57, 1. 223 Penatibus pariter et Vestae (Macrobe III, 4, 11); Penatibus simul et Vestae (ServiusDaniel, Ad Aen. Ili, 12).
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nous apprend par ailleurs du culte des Pénates à Lavinium. D'autre part, ce sanctuaire, comme celui des Treize autels, est situé hors du périmètre urbain, et nous avons déjà noté combien ce dernier caractère nous paraissait contraire à la définition même des Pénates. Aussi nous semble-t-il que, comme le suggèrent d'ailleurs les monn aies d'Hadrien et d'Antonin, le temple de ces dieux est à chercher à l'intérieur de la cité antique224, peut-être, conformément à d'autres témoignages iconographiques que nous mentionnions plus haut, sur la hauteur où se situe aujourd'hui le village de Pratica di Mare. On n'y a jusqu'à présent trouvé que des terres cuites architectoniques, prove nantd'un sanctuaire dont la divinité dédicataire reste inconnue. Mais c'est sans doute sur cette colline, qui paraît avoir connu une occupation continue depuis l'Age du Bronze225 jusqu'à nos jours, qu'il faut cher cher le sanctuaire des Pénates. L'emplacement correspondrait, nous semble-t-il, à la fois aux données littéraires et aux témoignages icono graphiques. Cela dit, le temple des Pénates à Lavinium est encore à découvrir.
224 C'est l'hypothèse à laquelle est arrivé aujourd'hui F. Castagnoli (Ancora sul culto di Minerva a Lavinio, BCAR, 90, 1985, p. 8-10), qui note qu'elle est conforme aux données iconographiques des monnaies d'Antonin et d'Hadrien ; cf. supra p. 227-8. 225 P. Sommella, Lavinium. Rinvenimenti preistorici, Arch Class., 21, 1969, p. 18-33; M. A. Fugazzola Delpino, L'età del bronzo, in Civiltà del Lazio primitivo, Rome, 1976, p. 17-19; p. 65-67; G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 99 sq.
CHAPITRE III
IDENTITÉ ET HISTOIRE DES PÉNATES DE LAVINIUM
Si la tradition littéraire et iconographique et, du moins à l'heure actuelle, l'archéologie, nous laissent dans une relative ignorance sur le sanctuaire des Pénates à Lavinium, les données qu'elles fournissent sur l'histoire de ces dieux sont d'une interprétation particulièrement délicat e. Il y a à cela plusieurs raisons. D'une part, notre documentation est très lacunaire concernant l'identité même des Pénates, dont aucune sta tue n'a été retrouvée à Lavinium. D'autre part, les attestations littérai res sûres du culte ne remontent pas au-delà du IIIe siècle où, pour la première fois avec Timée, nous avons le reflet des traditions lavinates sur les Pénates. Il nous est apparu au cours d'une précédente enquête1 que les Pénates étaient, de par leur nom, des divinités spécifiquement latines, dont il n'est pas impossible de supposer, sans qu'il y ait de certitude sur ce point2, qu'elles datent des origines de la civilisation latiale; à ce titre, il n'est pas surprenant de les trouver à Lavinium3. Cependant, en l'état actuel de notre documentation, il est impossible d'atteindre les Pénates de Lavinium indépendamment des deux légendes qui se sont greffées sur les données indigènes de la religion lavinate : ce sont, d'une part la légende de la venue d'Enée, porteur des Pénates, au
1 Cf. ci-dessus, p. 13-33. 2 II ne s'agit que d'une hypothèse, qui ne nous paraît pas confirmée par la décou verte de petites figurines d'argile dans les urnes des tombes albaines (cf. ci-dessus, p. 278), contrairement à la thèse de F. Borner (Rom und Troia, Baden-Baden, 1951, p. 65 sq.). 3 L'occupation du site est en effet attestée à partir de l'Age du Bronze; la découvert e de tombes à puits du Xe siècle rattache Lavinium à la culture apenninique de l'Italie centrale; cf. P. G. Gierow, The Iron Age of Latium I (Classification and Analysis), Lund, 1964, p. 439; P. Sommella, Pratica di Mare, dans Civiltà del Lazio primitivo, Catalogue de l'Exposition de Rome, Rome, 1976, p. 492-93.
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Latium, de la fondation de la cité par le Troyen, et de l'établissement de ses dieux dans cette nouvelle Troie; d'autre part, la légende des ori gines troyennes de Rome, qui voit en Lavinium la cité-mère de Rome, et en Enée le lointain ancêtre du héros fondateur Romulus, et explique que les Romains aient pu considérer les Pénates de Lavinium comme leurs. Il est donc évident que l'histoire des Pénates de Lavinium, ou plutôt leur légende, se présente comme la fusion de composantes très diverses, éléments indigènes, mais aussi influences grecques avec l'arri véeau Latium du personnage d'Enée, étrusques peut-être puisque nous avons vu que le Troyen est connu en Etrurie dès les VIe- Ve siècles, peutêtre aussi orientales.
I - L'Identité des Pénates de Lavinium Nous possédons aujourd'hui deux témoignages concernant l'identi té des Pénates de Lavinium, de nature et de teneur fort différentes. L'un est littéraire : on peut lire chez Denys d'Halicarnasse4 une des cription de ces dieux qu'il affirme avoir empruntée à Timée; l'autre est épigraphique : c'est la dédicace à Castor et Pollux découverte en 1958 près de l'autel VIIIs. 1) Le témoignage de Timée Nous connaissons par Denys d'Halicarnasse la description, on une partie de la description, que fit l'historien Timée des Pénates de Lavi nium. Ce témoignage, dont l'authenticité a parfois été fortement mise en doute6, est essentiel7, puisqu'il constitue l'unique attestation litt éraire de l'aspect que revêtaient les dieux à Lavinium, et que d'autre part Timée, à en croire Denys, prétendait tenir ces renseignements des Lavinates eux-mêmes8 : σχήματος δε καί μορφής αυτών πέρι Τίμαιος
4 ι, 67, 4. 5 Ρ. Sommella, Lo scavo stratigrafico delle platee, in F. Castagnoli. . . Lavinium II : Le Tredici Are, Rome, 1975, p. 45. 6 J. Perret, Les origines de la légende troyenne de Rome, Paris, 1942, p. 346; 441443. 7 Voir J. Gagé, Comment Enée est devenu l'ancêtre des Siluii albains?, MEFR, 88, 1976, p. 8. 8 I, 67, 4 : πυθέσθαι δε αυτός ταΰτα παρά των έπιχωρίων; cf. ci-dessus, p. 124-5.
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μεν ό συγγραφεύς ώδε άποφαίνει · κηρύκεια σιδηρά και χαλκά και κέραμον, Τρωικον είναι τα έν τοις άδύτοις τοις εν Λαουϊνίφ κείμενα ίερά9. Avant d'essayer de voir quel type de relation les objets décrits par Timée peuvent avoir avec la divinité, il convient de s'interroger sur leur signification propre et d'abord sur celle de ces «caducées de fer et de bronze», dont c'est l'unique mention, aussi bien dans le culte privé que dans le culte public des Pénates. Le κηρύκειον, de par son nom même10 n'est pas défini autrement que par son appartenance au héraut, et cette désignation comme «bâton de héraut» n'implique pas a priori de déco ration particulière. Pourtant, dans la plupart des représentations figu rées, ce qui distingue le caducée du simple bâton, ce sont les ornements de son extrémité supérieure, qui se présentent comme des entrelace ments assez compliqués, mais se ramenant à deux types à partir des quels existent des variations11. On trouve d'une part, à l'extrémité du bâton, un cercle surmonté d'un autre cercle ouvert, ou, d'un arc de cer cle assez court, d'autre part deux bifurcations entrecroisées enroulées le long de la partie supérieure du bâton12. On a cherché à ces formes des explications. L'une d'elles a été suggérée à A. Legrand13 par le fait que le caducée est le bâton d'Hermès, dieu qui «a d'abord été pâtre»; or, ajoute-t-il à propos de la forme particulière du caducée, «les pâtres grecs ont pu trouver naturellement cette forme en contournant des scions laissés au bout d'une branche». Cette explication, qui nous semb leplausible, ne prend en compte que l'aspect ornemental du caducée. Aussi A. Legrand en propose-t-il également une autre, qui n'infirme du reste pas la première. Le caducée présenterait la reproduction de mod èles iconographiques antérieurs, empruntés à l'Orient; pour l'entr ecroisement des rameaux, on peut songer à la figuration de l'arbre sacré
9 I, 67, 4 : « Concernant leur apparence et leur forme (= des Pénates), l'historien Timée s'exprime en ces termes : les objets sacrés conservés dans la partie secrète du sanc tuaire de Layinium sont des caducées de fer et de bronze, et de la poterie troyenne». 10 P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, II, Paris, 1970, s.u. κήρυξ ; le latin caduceus est emprunté au dorien καρύκειον (cf. A. Ernout-A. Meillet, Dic tionnaire étymologique de la langue latine, s.u. caduceus). 11 Une iconographie assez riche du caducée se trouve dans l'article d'A. Legrand in Dictionnaire des Antiquités grecques et Romaines, III, 2, s.u. Mercurius (p. 1802-1823). 12 Cf. C. Scherer, in Roschers Lexicon, s.u. Hermes col. 2365; Samter, in R.E., III, I, s.u. caduceus, col. 1170-1171. 13 Op. cit., p. 1807.
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de Phénicie14 que l'on trouve sur un bandeau carthaginois15; le cercle surmonté d'un croissant est symbole de Baal, ou, plus vraisemblable ment, d'Astarté16. Cette figuration, peut-être assez schématiquement stylisée, a dû être confondue par les Grecs avec les ornements du bâton d'Hermès, par ce qu'A. Legrand appelle un «contre-sens mythique»17. Au contraire, G. Picard18, constatant que, sur les stèles d'Afrique, le signe de Tanit est souvent accompagné de caducées formés d'un bâton surmonté d'un disque et d'un croissant19, pense qu'il est abusif d'y voir un motif d'origine orientale, puisque, dit-il, «il n'existe aucun prototype en Phénicie»; il estime donc que c'est l'influence inverse qui s'est exer cée, et qu'il s'agit d'une imitation du κηρύκειον grec, avec lequel il pré sente une grande parenté, et que cet insigne a été introduit en Afrique en même temps que le culte d'Hermès. En définitive, le caducée a per du toute signification symbolique autre que celle d'être l'attribut d'Her mès,et il a tiré ses différentes valeurs des fonctions diverses attribuées au dieu. C'est dans la Théogonie d'Hésiode20 qu'Hermès apparaît pour la première fois comme le messager des dieux; le bâton qu'il tient dans la main, qu'Homère qualifiait de ράβδος21, tandis que le même poète appelle σκήπτρον22 le bâton des hérauts humains, ceux des rois par
14 Sur le caducée dans les monuments phéniciens, cf. V. Bérard, Essai de méthode en mythologie grecque. De l'origine des cultes arcadiens, Paris, 1894. Sur l'expansion phéni cienne en Occident, G. Garbini, I Fenici in Occidente, SE, 34, 1966; p. 111-117; J. Heurgon, Rome et la Méditerranée occidentale, 2e éd., Paris, 1980, p. 127-131 ; 145-149. 15 Cf. Gazette archéologique, 1879, p. 133 (cité par A. Legrand, op. cit., p. 1807 n. 13). Selon A. Legrand (ibid. n. 19), le caducée est aussi un des hiéroglyphes des inscriptions hittites. 16 A. Legrand, ibid., n. 21. 17 R. Cagnat et V. Chapot (Manuel d'Archéologie romaine I, Paris, 1916, p. 401) don nent la même explication de cet emprunt : «... l'attribut habituel d'Hermès, le caducée, emblème oriental que les Grecs avaient adopté à contre-sens ». Le caducée est attesté dans l'art mycénien, comme on peut le voir sur un anneau d'or trouvé à l'Agora d'Athènes, où il figure aux mains d'un personnage mal identifié (Ch. Picard, Les Religions préhelléni ques, Paris, 1948, p. 255 n. 2). 18 Les religions de l'Afrique antique, Paris, 1954, p. 77-78. 19 La même remarque a été faite par M. Leglay, Saturne africain, Paris, 1966 (notam mentpi. XVII fig. 1, pi. XXI, fig. 2; 3; 5). 20 Théogonie, 938-39. 21 Od. X, 319. 22 Β. Combet-Farnoux (Mercure romain. Le culte public de Mercure et la fonction merc antile à Rome de la République archaïque à l'époque augustéenne, B.E.F.A.R., vol 238, Rome, 1980, p. 343) note que κηρύκειον «était une forme adjective, qui dans l'expression
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exemple23, est désormais qualifié de κηρύκειον. Cela dit, le mot appar aîtpour la première fois au Ve siècle chez Hérodote24 et Thucydide25, non pas à propos d'Hermès, mais à propos de messagers humains, le bâton d'une forme particulière étant devenu l'emblème des hérauts. La peinture de vases confirme d'ailleurs qu'à cette époque, Hermès est le plus souvent figuré avec un caducée à la main26, et il existe un exemp le27 où un mortel, Talthybios, héraut d'Agamemnon dans l'Iliade, tient un caducée au moment où il emmène Briséis28. Toutefois, le caducée a pris d'autres significations que celle d'em blème des messagers, en liaison à la fois avec les diverses fonctions attribuées à Hermès, et avec le développement du thème iconographi que de l'entrelacement sous la forme de deux serpents affrontés, ou d'un serpent enroulé autour de la partie supérieure du bâton. V. Bérard29 note que le serpent est l'emblème du dieu-fils chez les Phéni ciens; là encore, le symbole a pu être interprété à contre-sens par les Grecs, et attribué à Hermès, car la présence du serpent, animal lié aux Enfers, pouvait s'expliquer par la fonction de psychopompe du dieu30. De même une erreur d'interprétation du bâton qu'Anubis tient à la main - en réalité le sceptre d'Osiris, dans lequel les Romains ont cru reconnaître un caducée - a permis la confusion entre le dieu égyptien et Hermès à l'époque impériale31. Enfin, Hermès s'étant, chez les Romains, en partie confondu avec Mercure, le caducée que tient ce
κηρύκειον σκήπτρον définissait la destination et la fonction du bâton servant d'insigne au κήρυξ». 23 //. VII, 277-78. 24 IX, 10. 25 I, 53. 26 P. Zanker, Wandel der Hermesgestalt in der attischen Vasenmalerei, Bonn, 1965, passim. 27 Monumenti VI, 19. 28 Le même Talthybios joue le rôle de héraut des Grecs dans le combat entre Hector et Ajax dans le passage de l'Iliade déjà cité (VII, 277-78). 29 Op. cit., p. 293-94. 30 C'est probablement la signification qu'il faut donner au bâton que tient l'un des licteurs du cortège funèbre représenté dans la «Tombe du Typhon» à Tarquinia (cf. M. Torelli, Etruria, (Guide archeologiche Laterza) Rome, 1980, p. 151; id., La peinture étrusque (coll. Skira), p. 125. 31 Cf. Samter, in R.E., III, 1, s.u. caduceus, ibid.
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dernier est devenu le symbole de l'ensemble de ses fonctions, y compris celles qui ont trait au commerce32. Il ne paraît guère douteux, au demeurant, que la signification sym bolique du caducée ait paru très floue aux yeux des Anciens, comme en témoignent les diverses tentatives d'interprétation qui en ont été faites. Selon Polybe33, ce sont des rameaux d'olivier entrelacés qui ornent le caducée, ce qui symbolise le pacifisme et la neutralité des messagers. Selon la Souda34, les deux serpents affrontés représentent les deux armées ennemies, tandis que la partie droite du bâton les sépare com meles paroles de paix séparent les adversaires. Cette même idée, que la baguette sépare les serpents, se trouvait déjà chez Servius35, mais Daniel a commenté ce rôle de la baguette en relation avec celui de conciliateur joué traditionnellement par Mercure entre deux armées ennemies36. Il ajoute deux autres explications peu cohérentes : les deux serpents sont tournés l'un vers l'autre parce que les messagers doivent se rapprocher les uns des autres, et se parler37, pour que les belligé rantspuissent se calmer; mais, note-t-il, deux globes ont été ajoutés à ces caducées, l'un représentant le Soleil, l'autre la Lune38; on reconnaît là le souvenir, déformé, de la symbolique orientale de l'une des formes systématisées du caducée. En réalité, la signification des différents emblèmes qui forment le caducée n'a pas été comprise par les Grecs, ni par les Romains, qui l'ont hérité des Grecs, d'où la diversité de ses sens et des explications auxquelles ils ont donné lieu. Il nous semble que la signification fondamentale du caducée est à chercher dans son nom même, et qu'on peut se demander si la forme, si caractéristique malgré sa variété, que revêt son extrémité supérieure,
32 Cf. Heichelheim, in RE, XV, 1, s.u. Mercurius, col. 975-982. Dans les peintures qui décorent l'entrée de la maison de Trimalcion {Sat., XXIX), le maître de maison est repré senté, jeune, lors de son arrivée à Rome, un caducée à la main (caduceum tenebat); il semble que ce soit une allusion à la fortune qu'il va faire dans le commerce, comme en témoigne aussi, un peu plus loin, l'effigie de Mercure soulevant Trimalcion. Cf. aussi B. Combet-Farnoux, op. cit., p. 426-431. 33 III, 52. 34 s.u. κηρύκειον. 35 Ad Aen. IV, 242 : uirga serpentes diuidit. 36 Ad Aen. VIII, 138 : caduceum Uli ideo adsignatur, quod fide media hostes in amicitiam conducati cf. Β. Combet-Farnoux, op. cit., p. 343-45. 37 hoc. cit. : serpentes ideo, introrsum spectantia capita habent ut significent inter se legatos colloqui et conuenire debere. 38 Ibid. : quibus caduceis duo mala adduntur, unum Solis, aliud Lunae.
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n'est pas, en définitive, plus ornementale que symbolique, comme ten drait précisément à le prouver cette variété de formes. Au reste, il est, croyons-nous, très significatif qu'Homère désigne du terme de σκήπτρον le bâton du héraut. D'autre part, dans la peinture des vases, la baguette que tient le dieu n'a pas toujours d'ornements dans sa partie supérieure39, et la forme spécifique du caducée n'est sans doute qu'une différenciation, qui a pris une signification particulière, du bâton, dont la valeur est loin d'être univoque. Du reste, les commentateurs tardifs dont nous citions les exégèses à propos de la forme du caducée le défi nissent aussi comme un bâton : turn uirgam capit, id est caduceum, écrit Servius40, et la Souda : κηρύκειον σκήπτρον41. Dans ces conditions, l'interprétation du texte de Timée cité par Denys est particulièrement malaisée, d'autant plus d'ailleurs que Timée tient cette définition des Pénates de la bouche même des habitants de Lavinium; il a donc traduit en grec un mot latin; mais lequel? Il nous paraît, en tout cas impossible qu'il ait choisi précisément ce mot de κηρύκειον si les objets en question ne lui avaient pas été désignés d'un mot en relation avec la fonction de messager (contrairement à ce que l'on a parfois avancé42) ou du moins d'un terme désignant, entre autres, cette fonction. Nous suggérerons avec beaucoup de prudence deux hypothèses. Le mot latin était peut-être caduceus, auquel cas la traduction de Timée par κηρύκειον allait de soi, caduceus, selon A. Ernout et A. Meillet43, venant du dorien καρύκειον et constituant un «em-
39 Cf. P. Zanker, loc. cit. 40 Ibid. 41 s.u. κηρύκειον b. 42 P. -M. Martin (Antiquités Romaines, I, éd. commentée. Doctorat de 3e cycle, Tours, 1971, p. 349) s'étonne de la présence de ces caducées, «les Pénates n'ayant rien à voir ni avec Mercure ni avec la fonction héraldique » ; il ajoute : « peut être Timée a-t-il pris pour des caducées des objets qui leur ressemblaient : nous pensons aux faisceaux, l'antique symbole de la royauté étrusque conservé à Rome. L'étroitesse des liens qui semblent bien avoir existé aux origines entre les Vestales et la personne royale va dans le sens de cette hypothèse». Nous pensons cependant que cette hypothèse n'est pas très solidement fon dée et qu'il est fort improbable, étant donné qu'ils étaient conservés dans Xadyton du sanctuaire, que Timée ait vu lui-même ces objets, ce sur quoi d'ailleurs le texte de Denys nous paraît clair (πυθέσθαι δέ αυτός ταύτα παρά των έπιχωρίων) ; enfin, il est contestable, comme nous le verrons plus bas, que les Pénates n'aient pas de liens avec les hérauts, ni Mercure. 43 Ibid., p. 147 s.w. caduceus; cf. A. Ernout, Aspects du vocabulaire latin, Paris, 1954, p. 65-66. La même explication par un intermédiaire étrusque se trouve aussi chez A. Wal-
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prunt ancien, direct ou indirect», un intermédiaire étrusque expliquant peut-être la présence du d dans la transcription latine. Malheureuse ment, nous n'avons aucune indication sur la date de cet emprunt; le mot caduceus est attesté pour la première fois dans la littérature latine au Ier siècle avant J.-C.44 chez Cicéron et Varron45, mais évidemment, cet argument ex silentio ne peut être décisif. Il est une seconde hypothèse, qui est de considérer que le κηρύκειον de Timée traduit le latin hasta. Elle peut paraître surprenante, les sens des deux mots étant apparemment antithétiques, si l'on prend has tadans le sens qu'il a le plus fréquemment de «lance»: comment ce symbole de paix et ce symbole de guerre auraient-ils pu être considérés comme équivalents? Du reste, leurs spécialisations, contradictoires, se montrent très nettement dans un passage d'Aulu-Gelle, citant des «tex tes anciens»46; lors des luttes entre Rome et Carthage, le général romain Quintus Fabius remit une lettre aux Carthaginois : ibi scriptum fuit populum Romanum misisse ad eos hastam et caduceum, signa duo belli aut pacis, ex quis utrum uellent eligerent47; l'emploi de utrum mont rebien qu'il n'y a pour Aule-Gelle aucune ambivalence dans ces symb oles. Cependant, tandis que A. Ernout et A. Meillet48 donnent comme premier sens du mot hasta «lance, pique», A. Walde- J. B. Hofmann49 indiquent au contraire «bâton, baguette», sens que feraient préférer des rapprochements avec l'irlandais, le gotique et le vieux saxon50, où des mots de la même racine ont ce sens. A. Alföldi, dans un article dont
de-J. B. Hofmann, Lateinisches Etymologisches Wörterbuch, Heidelberg, 1930-35, s.u. ca duceus, p. 128. 44 En revanche, caduceator, qui suppose l'existence d'un caduceus et a peut-être été fait sur le modèle orator (A. Walde-J. B. Hofmann, ibid.) est attesté chez Caton (apud Festus, 41 L. : caduceatores legati pacem petentes Cato {inc. 4) caduceatori, inquit, nemo homo nocet).' 45 De Or., 1, 202; apud Non., 528. 46 N. AU. X, 27, 1 : in litteris ueteribus. 47 Ibid., 3 : «II y était écrit que le peuple romain leur envoyait une lance et un caduc ée, deux signes de guerre ou de paix, pour qu'ils choisissent celui qu'ils voudraient» (trad. R. Marache, C.U.F., Paris, 1978). Aulu-Gelle ajoute que la même histoire, avec une légère variante, est racontée aussi par Varron {ibid., 5) : voir R. Marache, op. cit., Notes complémentaires, p. 228 (p. 189 n. 2). 48 Op. cit., p. 516, s.u. hasta. 49 Op. cit., I, p. 636, s.u. hasta. 50 Cf. A. Ernout-A. Meillet, ibid.
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le titre, Hasta-summa imperii*1 est une définition empruntée à Festus52, a pu montrer qu'avant d'être un instrument guerrier, la hasta était le symbole du pouvoir suprême, ce que confirment un certain nombre de témoignages littéraires et iconographiques qu'il apporte à l'appui de sa démonstration, ainsi qu'une autre définition de Festus : signum praecipuum est hasta53. Un passage de l'Enéide nous paraît du reste particulièrement éclairant sur ce point, dans la prophétie de la Sibylle à Enée : lue, uides, pura iuuenis qui nititur hasta. . .. Siluius, Albanum nomen, tua postuma proles, quem ubi longaeuo serum Lauinia coniunx educet siluis regem regumque parentem54. La répétition regem/regum, souligne le caractère de souverains qui sera conféré aux fils d'Enee, tandis que pura suggère peut-être que ce bâton ne sera pas un insigne souillé de sang, mais l'emblème d'un imperium qui s'impose par lui-même, sans avoir recours à la force guerrière55. A. Alföldi, enfin, rappelle56 que cette fonction de la hasta comme symbole de X imperium est mentionnée par Justin, à propos des premiers temps de Rome : per ea tempora adhuc reges hastas pro diade mate habebant57. De cette valeur symbolique, qu'il considère comme originelle, A. Alföldi fait dériver les autres fonctions de la hasta, instr umentguerrier, bien sûr, mais aussi attribut des magistrats cum imperio, notamment dans certaines affaires juridiques58; en revanche, il met tout à fait à part le rôle de la hasta dans les procédures de vente aux
51 AJA, 63, 1959, p. 1-27. 52 55 L. 53 90 L. 54 VI, 760-765 : «Ce jeune homme, tu le vois, qui s'appuie sur une haste pure. . ., Silvius, nom Albain, ton fils dernier-né que Lavinia, ton épouse mettra au monde dans une forêt pour te succéder en tes vieux jours, roi bien tard et père de rois » (trad. J. Perret, C.U.F., Paris, 1978) Cf. aussi A. Alföldi, op. cit., p. 3. 55 Ce n'est pas l'interprétation d'A. Alföldi (op. cit., p. 2), qui pencherait plutôt pour le sens de «en or», soit qu'il s'agisse d'une pureté rituelle, soit de métal pur; cependant Servius (ad loc.) pense que pura signifie sine ferro, c'est-à-dire «dépourvue de pointe métallique », et Donat (ad loc.) commente : nuntia scilicet non belli sed pads ; cf. R. G. Aust in, P. Vergili Moronis Aeneidos liber sextus (éd. commentée), Oxford, 1977, p. 235. 56 Ibid. 57 43, 3, 3. 58 Op. cit., p. 8.
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enchères, où il considère, en se fondant sur un texte d'Aulu-Gelle, qu'elle est le souvenir d'un instrument guerrier, que l'on fichait dans le sol pour marquer sa propriété sur un butin (hastam ponere). L'analyse d'A. Alföldi nous paraît pouvoir être complétée par l'étu de menée par E. Benveniste sur les mots qui désignent les insignes de la royauté dans les langues indo-européennes59. Rappelant un texte de Justin, suite de celui qu'avait cité A. Alföldi, et qui vient à l'appui de la démonstration du savant hongrois (hastas. . . quas Graeci sceptra dicere), E. Benveniste analyse la signification du σκήπτρον, dont le sens pre mier, dit-il, est «un objet sur quoi l'on s'appuie, le bâton», et, en essayant d'« unifier les différentes fonctions de ce σκήπτρον aux mains des différents personnages habilités à le détenir», il affirme que «la fonction primordiale du σκήπτρον . . . paraît être le bâton du messager. C'est l'attribut d'un itinérant, qui s'avance avec autorité, non pour agir, mais pour parler». Notons du reste que c'est le sens que donne Homère au mot lorsqu'il met le σκήπτρον aux mains des hérauts. Et E. Benven isteconclut : «Du fait qu'il est nécessaire au porteur d'un message, le σκήπτρον devient comme le symbole de sa fonction et un signe mysti quede légitimation. Dès lors, il qualifie le personnage qui porte la parole, personnage sacré, dont la mission est de transmettre le message d'autorité». Il nous paraît que cette unification des différentes fonctions du σκήπτρον faite par E. Benveniste autour du sens de «bâton de messa ger»peut se réaliser, autour du même sens, pour la hasta latine. Si l'on admet son sens originel de bâton, l'analogie est possible, et cette expli cation permettrait de réduire la dualité des valeurs que voyait A. Alföldi entre la hasta emblème de Yimperium, et celle des ventes aux enchères. Un texte de Cicéron, cité au reste par A. Alföldi, nous paraît significatif à cet égard; Cicéron s'indigne qu'Antoine ait fait vendre les biens du glorieux Pompée : Hasta posita pro aede louis Statoris, bona subiecta. . . Cn. Pompei Magni noci acerbissimae. . . praeconis60. Il y a, croyonsnous, une relation étroite entre cette hasta et le praeco : ce dernier va porter la parole pour les enchères publiques61, comme il le fait à la
59 Le vocabulaire des institutions indo-européennes, II, Paris, 1969, p. 29-33. 60 Phil. II, 64 : « La pique des enchères fut plantée devant le temple de Jupiter Sta tor. . ., et les biens du grand Cn. Pompée ont été livrés aux aigres glapissements d'un crieur public» (trad. A. Boulanger et P. Wuilleumier, C.U.F., Paris 1972). 61 Dans le De Off. II, 27, on retrouve l'expression hasta posita, sans que soit nommé le praeco.
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guerre, où il est l'équivalent du κήρυξ grec. La valeur d'emblème de la souveraineté, dont A. Alföldi souligne à juste titre l'importance, pourr aitdonc bien n'être que secondaire dans l'histoire du mot, et elle est d'ailleurs plus souvent exprimée par sceptrum, transcrit littéralement du grec. En définitive, on le voit, le mot hasta paraît avoir présenté une cer taine ambiguïté, ou offert simultanément plusieurs sens. Mais ce carac tèrese trouve être aussi celui du σκήπτρον grec, et, également, de l'em blème même du caducée, dont nous avons montré que la signification originelle s'était perdue. Elle paraît finalement être assez floue pour que le caducée soit mis aux mains, à Rome, de divinités très diverses62 : Mercure, Anubis identifié à Hermès, Maïa, mère d'Hermès, Dea Syria, sans doute à cause de la commune origine orientale de l'emblème et de la déesse, Sucellus, ce qui est plus difficilement explicable (identifica tion avec Osiris?) et, enfin Félicitas, Pax et Victoria : chez ces déesses, nous pensons que le caducée est emblème de paix et de prospérité63. Malgré la fragilité de l'hypothèse qui consiste à faire de κηρύκεια une traduction de hastae, - mais cette hypothèse est peut-être confirmée par la tradition selon laquelle les Pénates étaient hastati64 -, nous pen sons tout de même que le rôle d'itinérants, de messagers, convenait particulièrement à ces dieux, malgré un apparent paradoxe, puisque nous avons vu que les Pénates symbolisent aussi le foyer et la patrie; nous pensons pouvoir expliquer ce paradoxe par leur histoire65. Quant à la mention selon laquelle les caducées sont «en fer et en bronze», elle peut être mise en relation avec les deux périodes de la
62 R. Cagnat-V. Chapot, op. cit., p. 468. 63 Cf. B. Combet-Farnoux, op. cit., p. 345 sq. Un dernier avatar du caducée est d'être devenu l'emblème des professions de santé. Plusieurs explications, semble-t-il, permettent d'en rendre compte (J. Schouten, De slangestaf van Asklepios als symbool van de Geneeskunde, Utrecht, 1963, p. 112-123). D'une part, le bâton sur lequel s'appuie généralement Esculape, et autour duquel s'enroule un serpent, a pu être confondu, du point de vue iconographique, avec le caducée; ensuite, la mythologie fait d'Esculape, comme d'Her mès,le fils d'Apollon, tandis que par ailleurs Servius nous apprend (Ad Aen. IV, 242) que c'est Apollon qui donna le caducée à Mercure; enfin, au Moyen Age, l'aspect magique de la médecine semble avoir fait prendre comme emblème à ceux qui l'exerçaient la baguett e d'Hermès-Mercure, qui avait parfois des pouvoirs magiques. Il semble que ce soit au XVIe siècle que le caducée ait été adopté officiellement comme emblème des médecins et pharmaciens. 64 Servius-Daniel, Ad Aen. II, 325 : alii (Penates) hastatos esse. . . tradunt. 65 Cf. ci-dessous, p. 292-317.
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préhistoire du Latium précisément désignées par le nom de ces deux métaux66. En effet, les découvertes récentes ont montré que le site de Lavinium, comme celui de Rome, a été occupé, pendant l'Age du Bronz e,par des éléments appartenant à la civilisation apenninique67. Or, cette période est marquée, dans le Latium et en Italie, par la présence de productions mycéniennes68. R. Peroni, à la suite d'H. Müller-Karpe, remarque la présence, dans le mobilier funéraire de cette époque, d'él éments à valeur nettement symbolique, qui auraient été introduits grâce à des supports non pas matériels, mais conceptuels, les contacts ayant été probablement établis par des sortes de prêtres itinérants69. Pou vons-nous penser que les caducées auraient été leurs emblèmes, façon nés dans le métal qui représente la grande nouveauté de cette période? Le travail du fer est lui aussi représenté dans l'archéologie lavinate70; l'un des plus importants monuments de la cité, l'«Hérôon d'Enée»71, a livré un important matériel datant de l'époque orientalisante72, et no tamment, parmi les pièces métalliques, une grande épée et un couteau de fer. Aussi peut-on être tenté de rapprocher de la culture attestée par ces documents la mention de «caducées de fer» à Lavinium. Si nos hypothèses étaient justes, elles attesteraient l'ancienneté de ces objets, que la tradition a, par la suite, identifié avec les Pénates. La signification de ces caducées, emblèmes de prêtres ou de dieux itinérants, s'éclaire peut-être par la suite de la phrase de Denys : και κέραμον Τρωίκον. Le mot κέραμος s'applique à tout objet fabriqué en terre cuite, et il paraît désigner ici un, ou des vases, ou de la vaisselle à destination cultuelle, ce qui serait assez banal si cette poterie n'était pas
66 Cette suggestion, dont nous le remercions vivement, nous a été faite par M. A. Hus. 67 P. Sommella, Lavinium. Rinvenimenti preistorici e protoistorici, AC, 21, 1969, p. 18-33; M. A. Fugazzola Delpino - R. Peroni, Le fasi cultuali della protoistoria laziale, in Lazio primitivo, Catalogue de l'Exposition, Rome, 1976, p. 17-25; G. Dury-Moyaers, Enee et Lavinium. A propos des découvertes archéologiques récentes, Coll. Latomus, vol. 174, Bruxelles, 1981, p. 99 sq. (avec bibliographie). 68 R. Peroni, Contatti tra il Lazio e il mondo miceneo, in Enea nel Lazio, Catalogue de l'Exposition Rome, 1981, p. 87-89. 69 Op. cit., p. 87. 70 M. Pallottino (Storia della prima Italia, Milan, 1984, p. 59) note que la légende d'Enée, comme tous les nostoi des héros de la Guerre de Troie, fait partie des apports mycéniens en Italie à cette époque. 71 Voir infra p. 320 sq. 72 P. Sommella, Heroon di Enea a Lavinium, RPAA, 44, 1971-72, p. 47-74.
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qualifiée de Τρωικόν. Car il nous paraît que cet adjectif est une allusion aux origines troyenne, sinon de Rome, au moins de Lavinium, et qu'il est appliqué, par les Lavinates, à des objets sacrés (ιερά) apportés par Enée, selon la légende, jusqu'au Latium. A tout le moins, il implique la tradition d'une venue des Troyens à Lavinium73, peut-être d'une fondat ion de Lavinium par des Troyens. Peut-être aussi faut-il interpréter ce κέραμος comme le vase, ou la ciste, qui était supposé renfermer les sacra de Troie, et que l'on voit aux mains d'Anchise sur certaines repré sentations, le scarabée étrusque de la Collection de Luynes notamment, et aussi la Tabula Iliaca du Capitole, mais, également, sur l'amphore de Vulci74 où un personnage identifié comme Creuse tient sur la tête un vase allongé. M. Crawford75 propose de voir dans ce récipient la ciste dans laquelle furent transférés les sacra troyens, met cette représentat ion en rapport avec le texte de Timée, et établit, de plus, un paralléli sme avec des faits romains, puisque, selon Tite-Live76, les sacra du Penus Vestae furent cachés dans des doliola lors du siège de Rome par les Gaulois en 390. A la lumière de l'adjectif Τρωικός, les caducées de nos dieux nous paraissent mieux s'expliquer, comme emblèmes de divinités errantes, elles aussi d'origine troyenne. Il est tout à fait remarquable, d'ailleurs, que ce soit dans la seule Lavinium, où les Pénates sont, à strictement parler, des étrangers, qu'existe cette tradition concernant la présence de caducées. Au demeurant, la signification originelle des caducées de Lavinium a pu, elle aussi, se perdre, ou prêter à d'autres interprétat ions, conformes à la nature ou aux attributions des Pénates, dont nous suggérons l'une comme possible. Le caducée est l'emblème de Mercure, comme messager des dieux, mais aussi, comme patron negotiorum om nium77, dieu des marchands78; étant donné l'importance du commerce du blé à Rome, il a été considéré également comme le dieu de l'appr ovisionnement en blé79. Les Pénates étant «ceux de la réserve aux provi sions», on peut avancer l'hypothèse selon laquelle les caducées de Lavi-
73 Cette tradition est confirmée, avant Timée même, par des témoignages littéraires et iconographiques. Cf. ci-dessus, p. 162 sq. 74 Voir ci-dessus, p. 201 sq. 75 A Roman Representation of the κέραμος Τρωικός, JRS, 61, 1971, ρ. 153-154. 76 V, 40, 8 ; voir ci-dessous, p. 470-80. 77 Festus, 111 L. 78 G. Dumézil, La Religion romaine archaïque, 2e éd., Paris, 1974, p. 439-440. 79 Cf. Heichelheim, op. cit., col. 975-982.
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nium ont été compris à la lumière de la commune relation, de Mercure d'une part, des Pénates de l'autre, avec l'approvisionnement : l'un assu re son bon acheminement, les autres veillent sur lui une fois qu'il a été déposé dans le penus. Toutefois, même si des interprétations autres ont pu s'y superposer, la signification des caducées de Lavinium comme bâtons de messagers, ou de voyageurs, reste, à nos yeux, fondamental e. Cette définition des Pénates comme «des caducées et de la poterie troyenne» a donné lieu à d'abondants commentaires et suscité des polé miques, notamment celle qui s'est élevée autour du prétendu caractère non anthropomorphique des Pénates de Lavinium. Ces «symboles non figuratifs» («anikonische Symbole») ont frappé G. Wissowa80, qui a cru pouvoir les éclairer par deux textes de Varron. Le premier nous est transmis par le scholiaste de Vérone : Varrò secundo historiarum refert. . . capta Troia. . . deos pénates ligneis sigillis uel lapideis, terrenis quoque Aenean umeris extulisse81. Les dieux que transporte Enée sont «des figurines de bois, de pierre, ou de terre cuite» apportées de Troie; elles étaient probablement enfermées82 dans la ciste que l'on met géné ralement dans les mains d'Anchise, mais parfois dans celles d'Enée83. D'autre part, Servius-Daniel évoque en ces termes le départ d'Enée avec ses dieux : Varrò sane rerum humanarum secundo ait Aeneam deos pénates in Italiani reduxisse, quaedam lignea uel lapidea sigilla**: les termes qualifiant les sigilla sont les mêmes, sauf terrenis, qui manque. G. Wissowa a cru pouvoir identifier les sigilla mentionnés ici par Var ron et les κηρύκεια de Timée, comme «symboles aniconiques» des Pénat es.Cette théorie selon laquelle la religion romaine aurait d'abord connu des représentations non figurées des dieux, sur laquelle s'appuie le savant allemand, repose sur une citation de Varron faite par August in, dont nous avons déjà souligné l'importance à propos du culte pri-
80 Die Όeberlieferung über die römischen Penateti, Gesammelte Abhandlungen zur römischen Religions und Stadt Geschichte, Munich, 1904 p. 110 sq. 81 Ad Aen. II, 717: «Varron, dans le second livre des Histoires, raconte qu'après la prise de Troie, Enée emporta sur ses épaules ses dieux Pénates, représentés sous forme de statuettes de bois, de pierre, et aussi de terre». 82 Cf. F. Borner, Rom und Troia, Baden-Baden, 1951, p. 60 sq. 83 Comme dans l'une des représentations de la Tabula Iliaca du Musée du Capitole; voir supra, p. 163 sq. 84 Ad Aen. III, 148: «Varron, dans le second livre des Res Humanae, dit qu'Enée ramena en Italie ses dieux Pénates, des statuettes de bois ou de pierre».
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vé : Dicit etiam (= Varron) antiquos Romanos plus annos centum et septuaginta deos sine simulacro coluisse; quod si adhuc, inquit, mansisset castius dii obseruarentur85. Varron affirme donc que la religion romai ne archaïque n'a pas connu de représentations figurées des dieux avant le règne de Tarquin l'Ancien; cette forme de religion, ajoute Varron, aurait été plus pure (castius) que celle qui adore des images des dieux. G. Wissowa souligne d'ailleurs que, par cette conception non figurative des Pénates, Varron s'opposait à toute une tradition, illustrée notam ment par Denys d'Halicarnasse86, qui voyait en eux les deux jeunes gens représentés dans le temple de la Vèlia selon un type iconographi que très proche de celui des Dioscures. Le témoignage de Varron s'ins crirait au contraire dans la ligne de celui de Timée, rapporté par Denys. F. Borner87 a soulevé contre l'hypothèse de G. Wissowa une import ante objection à laquelle il nous paraît difficile de ne pas souscrire. Elle s'appuie sur le sens du mot sigilla dans les deux textes de Varron ayant trait à la fuite d'Enée. Citant d'autres exemples de l'emploi du mot qui ne sont pas sujets à caution, F. Borner montre qu'un sigillum est une petite statuette de bois, de pierre, ou de métal, mais toujours une figuration du dieu; on trouvait des sigilla, en particulier, dans les sacraria des maisons privées; les citations de Cicéron rassemblées par F. Borner88 montrent que sigillum et simulacrum sont parfois employés côte à côte pour désigner des représentations figurées des dieux, de taille différente peut-être : statuettes et statues. L'étymologie proposée par A. Ernout et A. Meillet89 confirme du reste l'objection de F. Borner contre l'interprétation de G. Wissowa : sigillum est un diminutif de signum, et signifie «petite statue»; il ne désigne pas un objet d'une nature différente de signum ou de simulacrum. Le sens du mot rend donc impossible l'hypothèse de G. Wissowa, qui avait pourtant le mérit e,souligné par P. Boyancé90, d'éviter une apparente contradiction à Varron. Les sigilla dont parle Varron sont donc bien des statuettes
85 dieux s'était 86 87 88 89 90
De Ciu. Dei IV, 31 : «Varron dit aussi que les anciens Romains honorèrent les sans images pendant plus de cent soixante-dix ans; si cette coutume, ajoute-t-il, maintenue, les dieux seraient vénérés avec plus de pureté». I, 68, 1. Op. cit., p. 61-65 et 99-110. Op. cit., p. 102. Dictionnaire étymologique de la langue latine, s.u. signum. Les Pénates et l'ancienne religion romaine, REA, 54, 1952, p. 109-115.
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anthropomorphiques, comme l'a montré F. Borner, et il n'est pas possi ble,nous semble-t-il, de voir dans les textes attribués à l'érudit latin une confirmation du caractère non anthropomorphique des représentations des Pénates de Lavinium, qu'attesterait Timée. Du reste, le texte attribué à Timée n'est pas en contradiction avec le seul Varron; il va à l'encontre de deux autres témoignages concer nant les Pénates de Lavinium. Le premier est celui de Lycophron, dans le passage déjà mentionné91 : Enée installera dans le temple de Miner ve «les images des dieux de sa patrie». Le mot employé par le poète est αγάλματα; or, si le sens premier de άγαλμα est «objet dont on se pare»92, s'appliquant à des dieux, il ne paraît pas pouvoir signifier autre chose que «statue», ce qui implique une représentation anthropo morphique. L'autre est un texte de Denys lui-même, évoquant un prodi ge relatif aux Pénates qui se produisit lors de la fondation d'Albe : quand on voulut transférer dans la cité nouvelle les Pénates qu'Enée avait apportés de Troie et installés à Lavinium, les dieux revinrent, pen dant la nuit, dans leur temple lavinate, et ce prodige s'accomplit à deux reprises93; Denys désigne les représentations des dieux par les mots τα εδη, τα βρέτη, qui signifient, eux aussi, «statues»94. Le témoignage de Timée apparaît donc totalement isolé dans la tradition littéraire. Dans ces conditions, l'interprétation de ce témoignage est fort déli cate, car, si du moins Denys le transcrit fidèlement, l'historien sicilien dit que les ιερά conservés dans le temple de Lavinium « sont » (είναι) des caducées de fer et de bronze et de la poterie troyenne; le sens à donner à ιερά semble explicité par le début de la phrase de Denys : σχήματος δέ και μορφής αυτών (= des Pénates de Lavinium) πέρι. Il serait pour nous d'une importance capitale de savoir si ces derniers mots figuraient chez Timée, ou s'il faut les attribuer au seul Denys95. Malheureuse ment, la phrase de Denys, telle qu'elle se présente, ne permet pas de trancher cette question. Pour résoudre la contradiction entre le témoi gnage de Timée et ceux de Lycophron, Varron, et Denys lui-même,
91 Alex., 1261-62. 92 P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, I, Paris, 1968, s.u. άγάλλομαι. 93 I, 67, 1-2. 94 P. Chantraine, op. cit., I, s.u. βρέτας; II, Paris, 1970, s.u. εζομαι. 95 F. Jacoby (F. Gr. Hist. Ill, Β, ρ. 566, Fr. 59) ne retient pas ces mots comme étant de Timée, à qui il n'attribue que la description des ιερά.
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G. D'Anna96 propose de prendre en compte l'ensemble des chapitres 67-69 des Antiquités Romaines I de Denys. Cela l'amène à voir chez ce dernier une attitude critique, réprobatrice même, vis-à-vis de Timée, notamment lorsque Denys souligne97 qu'il est déplacé de s'enquérir de choses qui doivent demeurer cachées aux profanes; en menant semblab le enquête auprès des Lavinates, Timée, dans l'interprétation du texte de Denys que propose G. D'Anna, n'a pas, en fait, obtenu de réponse à la question qu'il posait (sous quelle forme étaient représentés les Pénat es de Lavinium?), mais s'est vu décrire des objets sacrés conservés dans le temple en même temps que les dieux. Et G. D'Anna conclut en ces termes sur la signification de la notice de Timée : «Timée n'a jamais écrit que les Pénates de Lavinium n'étaient pas représentés sous une figure anthropomorphique, mais vénérés seulement sous forme d'obj ets; l'historien sicilien, si je comprends bien, aurait dû se borner à rap porter que, comme il n'avait pu voir de ses yeux, l'unique renseigne ment que lui avaient donné les habitants du lieu était la description de certains objets sacrés conservés dans le penetrale du temple; mais, étant donné qu'il avait annoncé son projet de recueillir des informat ions sur les Pénates de Lavinium, le résultat peu satisfaisant de sa visi teà Lavinium lui est durement reproché par Denys dans les termes que nous avons vus». Cette interprétation a le grand mérite de proposer une voie de conciliation entre les contradictions des témoignages antiques, sans uti liser le recours à un prétendu «culte aniconique» des Pénates, incompat ible avec certains de ces témoignages. Cependant, elle présente à nos yeux deux inconvénients. Le premier - mais le caractère très subjectif de cette appréciation ne nous échappe pas - est peut-être de surestimer le désir de Denys de polémiquer avec Timée, de lui donner, en quelque sorte, une leçon d'honnêteté historique98. Mais surtout, G. D'Anna ne précise pas quel rapport les objets sacrés (qui ne sont pas les Pénates)
96 // ruolo di Lavinio e di Alba Longa nei primi scrittori latini, in Problemi di lettera turalatina arcaica, Rome, 1976, p. 68-73. 97 I, 67, 4. 98 Reconnaissons pourtant que si, dans ce même livre I des Antiquités Romaines, Denys cite à deux reprises (I, 6, 1 ; I, 7, 1) le témoignage de Timée sans le critiquer, dans une autre référence à l'historien sicilien (I, 74, 1), il constate que ce dernier établit un synchronisme entre la fondation de Rome et celle de Carthage sans dire sur quel principe il fonde une telle affirmation. La critique de Timée semble être de tradition chez les his toriens anciens : on la trouve notamment chez Polybe (XII, 13-15).
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décrits par Timée, ont avec ces dieux, ni même s'ils en ont un; c'est précisément la nature de ce rapport que nous voudrions éclairer un peu à présent. J. Perret" a mis en doute l'existence de ce lien puisque, selon lui, Timée «a reconnu. . . la poterie troyenne, il aura apparemment vu dans ces vases des présents offerts par Enée aux indigènes; les caducées de fer ou de bronze lui ont paru se rapporter aux inévitables ambassades qu'un nouveau venu comme Enée devait adresser aux occupants de la terre où il voulait se fixer»; et, ajoute J. Perret, ce n'est que beaucoup plus tard, avec Varron, dont s'est inspiré Denys, que ces objets, orig inellement sans rapport avec eux, auraient été identifiés comme les Pénates de Lavinium. Pourtant, il ne nous parait guère douteux que ces sacra ont entretenu avec les Pénates une relation qui justifie leur com mune présence dans le penetrale du sanctuaire de Lavinium. Nous avons dit que nous croyions pouvoir considérer les caducées comme l'emblème de personnages itinérants. D'autre part, Timée n'a pas vu personnellement les objets, mais tient ses informations des Lavinates. Ces derniers peuvent fort bien soit avoir fait une réponse volontair ement énigmatique à propos de sacra interdits aux profanes, soit avoir indiqué à l'historien ce que les images des Pénates avaient de plus sin gulier, ce qui leur paraissait le plus caractéristique dans ces statues. Si l'on accepte l'une ou l'autre de ces interprétations, on admettra que les caducées n'étaient pas les Pénates, mais seulement leurs attributs. Quant à la relation existant entre les Pénates et le κέραμος Τρωικός, nous pensons qu'il faut exclure, comme pour les caducées, l'idée d'une identification entre l'objet et les dieux100. Au demeurant, considérer le κέραμος comme un objet rattaché au culte des Pénates, ainsi que l'i nterprétation de G. d'Anna y invite, est une hypothèse plausible : à Lavi nium, le culte de nos dieux semble étroitement lié à celui de Vesta, comme le suggère l'attestation, chez Macrobe et Servius-Daniel, d'un sacrifice commun; or, dans le culte de Vesta, les vases utilisés pour le transport de l'eau sont l'objet de prescriptions rituelles extrêmement strictes et doivent être, précisément, en terre cuite101. L'autre interprét ation,suggérée par M. Crawford, est qu'il s'agit de la ciste sacrée où
99 Les origines. . . p. 341. 100 Cf. ci-dessus, p. 276. 101 C. Koch, in RE VIII A, 2, s.u. Vesta, col. 1753-55.
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furent apportés les sacra troyens102. De ces deux interprétations, la seconde nous semble préférable, à cause de l'adjectif Τρωικός, référen ce explicite à l'origine troyenne, non seulement du vase, mais, croyonsnous, de l'ensemble de ces objets. Certes, les cistes sont généralement en métal (bronze le plus souvent) et ont une forme assez différente des vases103; l'objet que l'on voit sur le scarabée de la Collection de Luynes, et les deux - peut-être trois - figurations de la Tabula Iliaca ressem blent fort aux cistes qui nous sont connues par ailleurs. Mais l'amphore de Vulci, datée du Ve siècle, peut offrir un modèle iconographique du récipient ayant contenu les sacra plus répandu que ne pourrait le don ner à penser le caractère d'hapax de cette représentation. Deux siècles séparent cette représentation du voyage de Timée à Lavinium : le mod èle aurait donc pu se diffuser plus largement que nous ne l'imagi nons.D'autre part, il n'existe pas de tradition selon laquelle le culte de Vesta serait venu de Troie avec celui des Pénates; dans ces conditions, il serait peu explicable qu'on qualifiât de Τρωικός un vase destiné au culte de la déesse. F. Castagnoli104 a proposé avec prudence de reconnaître les κηρύ κεια sur l'une des monnaies d'Antonin, étudiées plus haut105, représen tant le débarquement d'Enée : au fond du tableau, on voit différents monuments, dont un temple rond et sans doute un puteal; à la gauche du temple, on aperçoit des éléments difficiles à identifier : peut-être d'autres monuments, peut-être (il semble que l'on puisse reconnaître deux bâtonnets ou deux colonnes) les caducées. Cette hypothèse nous inspire quelques réserves, d'une part à cause de la petitesse de ces objets et de l'extrême difficulté qu'il y a à voir leur configuration exact e, d'autre part, en raison du caractère secret des Pénates de Lavinium, souligné par Timée qui n'a pas pu les voir lui-même, et par Denys : ne serait-il pas alors peu plausible que, voulant donner un lustre nouveau à la légende lavinate, et présenter Antonin comme un nouvel Enée106,
102 A Roman Representation of the κέραμος Τρωικός, ρ. 154. 103 Elles ont une forme cylindrique, et sont le plus souvent en bronze, quelquefois en bois, en ivoire, ou en os (Mau, in R.E. III, 2, s.u. cista, col 2591-93); cf. ci-dessus p. 164. 104 Lavinium I, Rome, 1972, p. 113 n. 11; p. 114. 105 F. Gnecchi, / medaglioni romani II, p. 20 n. 99 (pi. 54, 9) ; F. Castagnoli, Lavinium I, p. 78 fig. 81. Voir ci-dessus p. 225-6. 106 Sur le «traditionalisme archaïsant» de l'époque d'Antonin, et la remise à l'hon neur de la légende troyenne, voir J. Beaujeu, La religion romaine à l'apogée de l'Empire. I : La politique religieuse des Antonins, Paris, 1955, p. 291-293.
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l'artiste n'ait pas respecté le mystère entourant ces représentations? De plus, cette identification semble supposer que l'on voie dans les caduc ées, comme le fait F. Castagnoli, des «symboles aniconiques» des Pé nates; or, une telle interprétation ne nous a pas paru convaincante. En revanche, nous croyons reconnaître sur le devant du petit tem ple au-dessous duquel se déroule le sacrifice d'Enée, sur YAra Pacis, une représentation de nos dieux. Nous avons déjà exposé107 les raisons qui nous font penser, à la suite de G. Moretti, que la scène se déroule à Lavinium, mais que, d'autre part, elle n'est pas réaliste dans tous ses détails. Nous avons montré que la position de l'édifice, sur une hau teur, attestée par d'autres témoignages iconographiques et littéraires, nous semblait peut-être une indication réaliste; d'autre part, nous avons suggéré que l'édifice en question n'était pas le temple des Pénat es à Lavinium, ni leur temple de Rome, mais plus vraisemblablement une sorte de petite chapelle portative. Si l'on estime que les caducées évoqués par Timée étaient les attributs de nos dieux, non leur représen tation elle-même, on peut considérer que les deux personnages assis sur le devant du petit édifice sont les Pénates108, tels qu'ils étaient figurés dans leur temple de Lavinium. Ils tiennent tous deux, dans la main gau che, un long bâton, que l'on a généralement interprété comme une lan ce à la lumière d'un texte de Denys qui décrit les statues des Pénates dans leur temple de la Vèlia, dont le relief serait une «preuve archéolog ique»109. Nous pensons, pour notre part, que c'est un caducée, non une lance, que tiennent les deux divinités. Il y a à cela plusieurs raisons. Nous avons vu que, sur les vases attiques, le caducée d'Hermès est par fois un simple bâton, sans ornement particulier en son extrémité supé rieure : c'est le cas sur notre relief. Ensuite, il n'existe aucun témoigna ge selon lequel les Pénates avaient une lance pour attribut, si ce n'est précisément le même texte de Denys, qui nous paraît pouvoir s'inter préter autrement110; au reste, un attribut guerrier conviendrait particu lièrement peu à ces dieux, d'un caractère essentiellement pacifique,
107 Cf. supra p. 212 sq. et p. 224 sq. 108 Nous nous sommes expliqué plus haut (cf. p. 117 sq.) sur la signification à donner au chiffre deux. 109 R. Schilling, Penatibus et Magnis Dis, Mise. E. Manni VI, Rome 1980, p. 1972. Nous reviendrons sur cette interprétation lorsque nous étudierons le culte des Pénates sur la Vèlia (cf. ci-dessous p. 399 sq.) et notamment la description des statues des dieux donnée par Denys (I, 68, 1-2). 110 Cf. ci-dessous, p. 400-2.
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comme semble le confirmer, sur le relief, le fait qu'ils sont assis, dans une attitude calme et majestueuse. Certes, on peut dire que le caractère d'itinérants n'est pas davantage conforme à leur nature, mais nous avons déjà répondu à cette objection : les Pénates de Lavinium sont troyens. Sur ce relief, les deux dieux sont vêtus d'un costume drapé autour des jambes et sur les épaules, qui laisse à découvert une grande partie du buste; la draperie est particulièrement bien modelée sur la statuette de droite. Le vêtement doit être interprété, nous semble-t-il, en fonction de l'ensemble de la scène, en particulier de ceux des autres personnages : en contraste avec les vêtements des deux camilli et de la silhouette très mutilée de droite, le costume des Pénates rappelle beau coup celui d'Enée; l'effet de draperie autour de la taille et sur l'épaule est le même. Peut-être faut-il y voir une intention, chez le sculpteur, de marquer un décalage géographique et chronologique entre les deux groupes de personnages; en habillant Enée et les Pénates de costumes grecs111, il aurait voulu les reléguer dans un passé lointain, mythique même, par rapport à son propre temps, dans lequel se situent en revan cheles détails réalistes comme la présence des camilli et les objets cultuels qu'ils ont dans les mains; cela peut être une façon de marquer l'origine étrangère, lointaine, des Pénates, et il paraît en tout cas vra isemblable que l'artiste ait voulu rappeler, par la ressemblance des cos tumes, une certaine parenté entre Enée et les dieux qui assistent à cette scène, parenté qui inviterait à penser qu'il s'agit des Pénates de Lavi nium. Un autre détail du relief nous paraît révéler l'origine étrangère des deux dieux assis, origine conforme à ce que la tradition nous apprend des Pénates de Lavinium : ils sont représentés la tête nue, ce qui paraît confirmé par une indication de Servius; commentant le passage de l'Enéide où les Pénates apparaissent en songe à Enée avec des uelatas comas, Servius précise qu'il ne peut s'agir là que de bandelettes, puis que les Pénates de Lavinium étaient nu-tête : nam dii qui erant apud Laurolavinium non habebant uelatum caput112. Or, il semble que les dieux «indigènes», c'est-à-dire dont le culte était considéré comme anté rieur à l'arrivée d'Enée en Italie, avait la tête voilée : c'est le cas notam mentd'Hercule à l'Ara Maxima. La tenue du sacrifiant est à l'image de
111 Cî.ibid. 112 Ad. Aen., III, 174; cependant, J. Perret (Enéide, 1. 1, C.U.F., Paris, 1977, p. 81) tra duit cette expression par «leur chevelure voilée».
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celle du dieu : selon Macrobe113, Varron considérait que sacrifier la tête nue était un ritus Graecus, tandis que la tradition rapporte par ailleurs qu'Enée a été Γ« inventeur» de l'usage spécifiquement italique de sacri fieroperto capite, usage que Festus114 explique par le fait que, lorsque le Troyen débarqua au Latium et fit un premier sacrifice à sa mère Vénus, il se couvrit la tête pour n'être pas reconnu par Ulysse : c'est d'ailleurs avec ce voile, dont le port est devenu à Rome un usage sacer dotal, qu'il est représenté sur le relief de l'Ara Pacis115. Enfin, dans l'étude iconographique du thème de la fuite d'Enée116, nous avons constaté à plusieurs reprises la présence d'Hermès aux côtés des fugitifs. Sur la scène centrale de la Tabula Iliaca, le dieu gui de les fugitifs au moment où il franchissent la Porte Scée : on l'identifie grâce à son pétase, et il semble tenir un bâton dans la main droite; dans la représentation de la Casa Omerica, V. Spinazzola croit reconnaît re, très altérée, la figure d'Hermès-Mercure. Pour notre part, nous pensons pouvoir proposer d'identifier comme Hermès la figure de droit e,très mutilée elle aussi, du relief de Y Ara Pacis : ce personnage tient en tout cas un long bâton, emblème qui nous paraît rapprocher les «Pé nates troyens» d'Hermès, comme dieux itinérants. N'y a-t-il pas pourtant, objectera-t-on, la même difficulté, à identi fiercomme les Pénates de Lavinium, les statuettes du relief de YAra Pacis que nous évoquions à propos de l'hypothétique représentation des caducées sur la monnaie d'Antonin? Les Pénates de Lavinium devaient demeurer cachés : le sculpteur a-t-il enfreint cette interdiction? Il nous paraît possible d'avancer quelques arguments en faveur d'une réponse positive. Le caractère exceptionnel de la scène représentée est l'un d'eux, encore qu'on puisse le faire valoir également à propos de la monnaie d'Antonin qui représente le débarquement d'Enée dans sa part ieinférieure. Toutefois, la scène de YAra Pacis a sans doute un aspect sacré plus marqué, puisqu'elle figure la prise de possession religieuse par Enée de la terre latine, que les dieux lui avaient réservée. Du reste, la solennité religieuse de ce moment est soulignée par divers éléments :
113 Servius-Daniel, Ad Aen. VIII, 288; Macrobe III, 6, 16; voir B. Liou-Gille, Les cultes «héroïques» romains, Paris, 1980, p. 17-18. 114 432 L; voir En. III, 404-7. 115 Au contraire, l'obligation rituelle de sacrifier à Hercule, à l'Ara Maxima, operto capite est présenté comme une singularité ; pour le culte de l'Ara Maxima, voir J. Bayet, Les origines de l'Hercule romain, Paris, 1926, p. 141-154. 116 Voir ci-dessus, p. 196-217.
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la présence d'une guirlande de feuillages qui entoure en partie les sta tuettes, et rappelle celle qui décore le bas de l'autel; la présentation des dieux sur le devant du temple qui, quelle que soit l'identification de ce dernier (petit temple portatif à Lavinium, ou temple de la Vèlia) ne peut s'expliquer qu'en un jour de cérémonie117. Enfin, si l'on songe que le sacrifice d'Enée se situe avant la fondation de la cité, et si d'autre part on accepte notre hypothèse, suivant laquelle l'édifice est un temple portatif, on pourra concevoir que les Pénates apportés par Enée n'aient été enfermés dans Yadyton de leur sanctuaire définitif qu'ultérieure ment. Nous proposons donc de reconnaître dans les statuettes de l'Ara Pacts l'image des Pénates de Lavinium, hypothèse qui, nous le ver rons118, n'est pas totalement exclusive de celle qui les identifie comme les dieux de la Vèlia. Il y aurait alors concordance entre le témoignage de Timée et la documentation figurée pour leur prêter comme attribut le caducée, emblème que nous interprétons comme celui des dieux it inérants que les Pénates furent pendant une partie au moins de leur his toire.
2) La dédicace à Castor et Pollux Découverte en 1958 près de l'autel VIII119, cette inscription est gra vée sur une lame de bronze, cassée en deux, dont les dimensions, très proches de celles de la lex sacra concernant le culte de Cérès, montrent 117 Cette pratique paraît tout à fait singulière : les statues des dieux ne sont offertes aux regards des profanes qu'en deux types de circonstances : elles sont sorties des cellae des temples lors des lectisternes, et, lors des supplicationes selon le Graecus ritus, les tem ples sont ouverts de façon permanente (G. Dumézil, La religion romaine archaïque, p. 358359). 118 Cf. infra, p. 424-6. 119 Nous empruntons à F. Castagnoli {Iscrizioni, in Lavinium H, p. 442-443) la liste des abondants commentaires suscités par cette inscription : F. Castagnoli Dedica arcaica lavinate a Castore e Polluce, SMSR, 30, 1959, p. 109 sq.; S. Weinstock, Two archaic inscrip tions from Latium, JRS, 50, 1960, p. 112 sq.; R. Schilling, Les Castores romains à la lumière des traditions indo-européennes, in Hommages. . . Dumézil (Coll. Latomus, 45), Bruxelles, 1960, p. 177 sq.; R. Bloch, L'origine du culte des Dioscures à Rome, RPh, 34, 1960, p. 182 sq.; id., Tite-Live et les premiers siècles de Rome, Paris, 1965, p. 88 sq.; id., in Acts of the Fifth International Congress of Greek and Latin Epigraphy, Oxford, 1967, p. 180; G. Puglie se Carratelli, PP, 17, 1962, p. 17 sq.; Α. Alföldi, Early Rome, p. 269 sq.; A. Degrassi, ILLRP (lère ed. Berlin 1963) 1271a; id., Imagines (1965) 30; G. Radke, Zu der archaischen Inschrift
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la remarquable continuité existant dans les traditions religieuses de Lavinium 12° puisque, tandis que la lex sacra est datée de IIIe siècle avant J.-C, la dédicace aux Dioscures a dû être gravée soit, selon J. Heurgon121, au milieu du VIe siècle, soit, comme le pense F. Castagnoli122, pendant la seconde moitié de ce même siècle. Résumons rapidement les résultats des études menées sur le texte de l'inscription Castorei Podlouqueique qurois, écrite en alphabet latin archaïque. La forme Podlouquei est particulièrement intéressante, en ce qu'elle représente un interméd iaire entre la forme grecque Πολυδεύκης et l'adaptation de cette for me en latin, Pollux, intermédiaire qui exclut une médiation par une for me étrusque Pultuke. On aurait donc ici un argument en faveur de la thèse123 selon laquelle on a surestimé le rôle des Etrusques comme intermédiaires entre la Grèce et le Latium : l'influence grecque a pu s'exercer directement, ou encore par l'intermédiaire de la Grande-Grèc e; c'est le cas pour le culte des Dioscures, que l'on pense originaire soit de Tarente124, soit, plutôt, de Locres125. D'autre part, l'appellation de qurois donnée aux deux dieux, s'oppose au grec Διός κούροι, dans la mesure où elle néglige la généalogie divine, qui n'a jamais beaucoup intéressé les Latins126, et, plutôt qu'une forme amputée, doit être consi-
von Madonnetta, Gioita, 42, 1964 p. 214 sq.; id., Die Götter Altitaliens, Münster, 1965, p. 84; R. M. Ogilvie, A Commentary on Livy-Books 1-5, Oxford, 1965, p. 289; M. Guarducci, in Mélanges. . . Piganiol, Paris, 1966, p. 1618; G. Dumézil, La Religion romaine archaïque, p. 415-6; M. Lejeune, BSL, 62, 1967, p. 76 n. 2; J. Heurgon, Atti dell'VIII Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Naples, 1969, p. 19 sq.; C. De Simone, Die griechischen Entlehnungen im Etruskischen, II, Wiesbaden, 1970, p. 91 n. 50; R. Lazzeroni, SSL, 11, 1971, p. 9 sq.; R. Arena, RIL, 106, 1972, p. 445; R. Schilling, A.N.R.W., I, Berlin-New-York, 1972, p. 320. On pourrait ajouter: N. Masquelier, Pénates et Dioscures, Latomus, 25, 1966, p. 88-98; G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 198-205; F. Castagnoli, in Enea nel Lazio, Catalogue de l'Ex position de Rome, Rome, 1981, p. 179-180; G. Radke, Archaisches Latin, Darmstadt, 1981, p. 97 ; M. Torelli, Lavinio e Roma. Riti iniziatici e matrimonio tra archeologia e storia, Rome, 1984, p. 163 sq. 120 F. Castagnoli, Lavinium II, p. 441. 121 Op. cit., p. 20. 122 Op. cit., p. 442; Enea nel Lazio, p. 179. 123 Cf. l'ensemble des travaux du congrès Lazio arcaico e mondo greco, PP, 32, 1977. 124 S. Weinstock, Two archaic inscriptions from Latium p. 114; F. Castagnoli, Lavi nium I, p. 109. 125 R. Bloch, L'origine du culte des Dioscures à Rome, p. 186 sq.; J. Heurgon {op. cit., p. 22) pense aussi à une origine locrienne, avec Rhegium comme intermédiaire. 126 F. Castagnoli, Dedica arcaica lavinate a Castore e Polluce, p. 111 ; cf. J. Champeaux, Fortuna. Le culte de la Fortune à Rome et dans le monde romain, Coll. de l'Ecole Française
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dérée comme signifiant «les jeunes gens», ou «les cavaliers»127. Enfin, la présence des Dioscures dans le Latium, à Lavinium, dès le VIe siècle, explique qu'on ait pu, au début du siècle suivant, leur construire un temple à Rome sur le Forum, c'est-à-dire à l'intérieur de l'enceinte du pomerium : ils n'étaient pas considérés comme des divinités res 128 La découverte de cette inscription, dont on mesure l'importance, située près d'un sanctuaire devant lequel étaient alignés un nombre impressionnant d'autels, et dont par ailleurs la divinité dédicataire est inconnue, a donné matière, comme ce fut le cas lors de la découverte de la lex sacra en l'honneur de Cérès129, à une interprétation qui voit dans les Dioscures les dédicataires du temple, et, de plus, les identifie aux Pénates. Nous avons exposé dans le précédent chapitre130 les rai sons qui nous faisaient refuser l'identification du sanctuaire comme celui des Pénates. Nous voudrions examiner à présent la question de l'identification des Pénates et des Dioscures à Lavinium131. Cette identification n'est pas une hypothèse qui aurait été formulée seulement lors de la découverte de l'inscription. Elle repose, en fait, sur une longue tradition, remontant à l'Antiquité132, que le bronze inscrit semble corroborer. En effet, elle s'appuie d'abord sur une tradition ic onographique : un certain nombre de monnaies représentent les Pénates et les Dioscures comme deux têtes de jeunes gens accolées, ce qui const itue une première ressemblance; de plus, on voit sur certaines des monnaies, sous la figure des Dioscures, aisément identifiables, grâce à l'étoile qui surmonte leur tête, les lettres P.P. qui signifient sans dout e133 Penates Publici, et que l'on retrouve sur d'autres monnaies à l'effi giedes Pénates, notamment sur des deniers émis à la fin du IIe siècle avant J.-C. par M. Fonteius. La tradition littéraire atteste aussi cette
de Rome, 64, Rome, 1982, p. 118-119, pour le parallèle à établir avec la Fortuna Primige nia de Préneste, mère et fille de Jupiter. 127 Enea nel Lazio, p. 179. 128 Enea nel Lazio, p. 180. 129 Cf. supra p. 234. 130 Cf. supra p. 249 sq. 131 Le problème sera repris de façon plus complète ci-dessous p. 430-9. 132 C. Peyre, Castor et Pollux et les Pénates pendant la période républicaine, MEFR, 74, 1962, p. 433. 133 Cette interprétation a été contestée : voir C. Peyre, op. cit., p. 447-449.
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confusion. Denys d'Halicarnasse134 décrit les Pénates dans leur sanc tuaire de la Vèlia à Rome comme deux jeunes gens assis tenant des «lances»: leur nombre, leur jeunesse, l'«arme» qu'ils tiennent ont pro bablement facilité leur assimilation avec les Dioscures, souvent repré sentés armés, en particulier lorsque l'artiste se propose de rappeler l'aide qu'ils apportèrent à la cavalerie romaine lors de la bataille du Lac Régule, en 490. Un passage de Varron, cité par Servius, atteste apparemment aussi cette confusion : Varrò quidem unum esse dicit Penates et Magnos Deos135; à ce commentaire, Daniel a ajouté que, selon Varron, mais aussi d'autres auteurs, les Grands Dieux étaient Castor et Pollux, vénérés à Samothrace. Ainsi se trouve posée une double équat ion, Pénates = Grands Dieux, Grands Dieux = Dioscures, qui permet d'en poser une troisième : Pénates = Dioscures. Or, cette identification, nous semble-t-il, n'a existé que très partiellement136. F. Castagnoli, lors de la première publication de l'inscription de Lavinium, était resté dans une prudente réserve sur les conclusions que l'on pouvait en tirer137. Au contraire, S. Weinstock a cru pouvoir affi rmer l'identification des Pénates aux Dioscures138, grâce à l'inscription, mais aussi par comparaison entre les faits lavinates et les faits romains. Dans un précédent travail139, il avait souligné un parallélisme entre les mystérieux objets enfermés dans le sanctuaire de Lavinium, «caducées de fer et de bronze et poterie troyenne», aux dires de Timée, et certains sacra romains : les caducées trouveraient un correspondant à Rome dans les objets conservés par les Saliens à la Regia (c'est-à-dire les ancilia), supposés venir de Phrygie140; quant à la «poterie troyenne», elle serait comparable aux doliola conservés dans le Penus Vestae du sanc tuaire du Forum. La découverte de l'inscription aux Dioscures permet à S. Weinstock141 de compléter ce parallélisme entre Rome et Lavi nium : les deux jeunes gens assis dans le temple de la Vèlia, tels que
134 I, 68, 2. Voir ci-dessous, p. 419 sq. 135 AdAen. III, 12. 136 Voir ci-dessous, p. 437-9. 137 Dedica arcaica. . . p. 117. 138 Two archaic inscriptions from Latium, p. 112-114. 139 In R.E., XIX, 1, s.w. Penates col. 439. 140 Ad Aen. II, 325. 141 Two archaic inscriptions. . . ; R. Klausen {Aeneas und die Penaten, II, Hamburg und Gotha 1840, p. 966 sq.) avait déjà établi ce parallèle; cf. aussi F. Castagnoli, Lavinium I, p. 109 n. 10; G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 221, n. 210.
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nous les décrit Denys d'Halicarnasse, sont désignés à la fois comme Pénates et Grands Dieux, et donc, selon S. Weinstock, identifiés aux Dioscures; cette forme de culte des Pénates-Dioscures avait, assure-t-il, un équivalent à Lavinium, attesté par l'inscription du sanctuaire des Treize autels. Mais il y a plus; cette identification entre les Pénates et les Dioscures permet, selon S. Weinstock, d'éclairer un point qui, même à Rome, est toujours resté obscur : la relation existant entre ces deux formes très dissemblables du culte des mêmes dieux; dans différents centres de leur culte, à Sparte et à Tarente en particulier, on offrait aux Dioscures deux jarres, deux amphores de terre cuite, représentées sur des monnaies ou des monuments figurés142 : c'est le κέραμος Τρωι κόςde Timée, auquel correspondent, à Rome, les doliola dans lesquels, selon Tite-Live143, furent cachés les sacra du Penus Vestae pendant l'i nvasion gauloise de 390. Il existe donc un lien entre les formes anthropomorphiques et les formes non-anthropomorphiques du culte des Péna tes-Dioscures, puisque les vases de terre cuite sont considérés comme le symbole de ces dieux. A. Alföldi a vu lui aussi dans l'inscription aux Dioscures de Lavi nium une confirmation archéologique de ce qui lui apparaît comme une double forme du culte des Pénates144 à Lavinium comme à Rome, où aux mystérieux sacra du Penus Vestae s'ajoutent les deux dieux du temple de la Vèlia, les uns et les autres passant pour «troyens», et les seconds, désignés par l'inscription Magnis Dis, étant identifiés aux Dios cures. Toute tentative pour expliquer séparément chacun de ces deux aspects du culte, ou pour les réduire l'un à l'autre est vouée à l'échec, affirme A. Alföldi145; si au contraire on accepte cette double forme du culte, on voit que les «Pénates secrets» du Penus Vestae appartiennent au plus ancien noyau des divinités latines; le concept grec des Dioscur es y fut ajouté, formant ainsi une «interprétation modernisée des Pénates», dont le culte n'avait plus dès lors de raisons d'être secret; le temple de la Vèlia, avec ses deux jeunes gens assis armés de lances, a pour correspondant à Lavinium la petite chapelle figurant sur le relief de l'Ara Pacts, où sont représentés les mêmes personnages, dans la même attitude; en plus de cett£ chapelle, conclut A. Alföldi, les Pénates-
142 143 144 145
S. Weinstock, ibid., pi. XIII fig. 2-4. V, 40, 8. Early Rome, p. 258-260. Ibid., p. 268-271.
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Dioscures s'étaient vu consacrer à Lavinium le sanctuaire des Treize autels, où a été trouvée l'inscription Castorei Podlouqueique qurois. Ces arguments appellent toutefois quelques réserves. Tout d'abord, il nous semble régner une certaine confusion dans les rela tions ainsi établies entre les dieux et leur représentation «symbolique». En effet, si l'on peut tirer du texte de Timée rapporté par Denys l'idée que les caducées et la poterie troyenne «sont» les Pénates, celui de Tite-Live est loin de permettre de poser une telle identification : selon l'historien, les sacra ont été cachés dans les doliola pour être protégées du sac gaulois, mais ils ne sont pas identifiés à ces mêmes doliola, qui ne leur offrent qu'un abri passager : les vases ne sont pas les sacra, ils n'en font sans doute même pas partie146. Aussi semble-t-il un peu arbi traire de voir une analogie entre faits lavinates et faits romains sur ce point; on peut du reste contester, de la même manière, que les Dioscu res aient jamais été représentés symboliquement sous forme d'amphor es à Sparte ou à Tarente, car la présence de ces objets sur des monn aies ou des monuments dédiés aux Dioscures atteste peut-être seule ment le fait qu'on leur faisait, de préférence, offrande d'amphores, non qu'ils s'identifiaient à ces amphores dans l'esprit du public. Cette difficulté n'a pas échappé à M. Crawford147, qui propose de ne voir, dans le κέραμος Τρωικός et dans les doliola de Rome, que les réci pients qui ont contenu, à un moment donné, les sacra troyens, lors d'un transport, d'un transfert, par exemple; on résoudrait ainsi l'un des problèmes posés par l'interprétation de l'amphore de Vulci, où une femme généralement identifiée comme Creuse porte sur la tête un vase qu'elle maintient d'une main148. M. Crawford croit reconnaître ce même récipient, en un ou deux exemplaires, à la poupe du bateau figurant sur les deniers de M. Fonteius; on se rappelle que la tête des Dioscures, accompagnée des lettres P.P., figure sur l'autre face de la monnaie. Nous sommes plus convaincu par le rapprochement des mots de Timée avec la scène figurant sur l'amphore de Vulci que par l'identification de deux vases à l'extrémité du bateau, car il est très difficile de distinguer ces objets sur les monnaies. De toute façon, on 146 Cf. G. Pugliese Carratelli, Achei nell'Etruria e nel Lazio, p. 21. 147 hoc. cit. 148 Rappelons toutefois (cf. ci-dessus, p. 202 n. 207) que N. Horsfall {The Iconography of Aeneas' Flight, A.K., 2, 1979, p. 104-105) voit dans l'objet que Creuse tient sur la tête non un dolium, mais un bagage sur lequel on voit des courroies; cf. aussi F. Castagnoli, La leggenda di Enea nel Lazio, Stud. Rom., 30, 1982, p. 5.
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se heurte toujours aux mêmes difficultés : pourquoi un seul récipient sur l'amphore, et deux jarres pour représenter les Pénates-Dioscures? Du fait que les Pénates troyens ont pu être transportés dans un ou des vases, et qu'il existe une relation assez étroite entre les Dioscures et la représentation de deux amphores, peut-on déduire que les Pénates et les Dioscures ont été confondus dès le VIe siècle, ou même auparav ant, à Lavinium comme à Rome? De plus, ces hypothèses nous paraissent présenter deux inconvén ients. D'une part, en essayant d'établir un parallélisme rigoureux entre les faits romains, mieux connus, et les faits lavinates, on risque de privilégier certains éléments de la tradition en en laissant d'autres dans l'ombre. Le sort qui est fait au témoignage de Timée est très révélateur à cet égard : de sa définition des sacra de Lavinium, on ne retient que la «poterie troyenne», parce qu'on peut la comparer aux vases de Sparte et aux doliola de Rome, mais on ne dit rien des caducées. D'autre part il ne faut peut-être pas admettre a priori qu'à Rome les Pénates sont les Dioscures parce que, dans leur temple de la Vèlia, comme nous le dit Denys, une inscription les désignait comme les «Grands Dieux»149, ni en déduire qu'il en allait de même à Lavinium. Enfin, on ne peut ni identi fier le sanctuaire des Treize autels comme celui des Pénates, sous pré texte qu'on y a trouvé une dédicace à Castor et Pollux avec lesquels ils étaient confondus, ni dire que, puisque le sanctuaire des Treize autels était celui des Pénates, la découverte de l'inscription aux Dioscures prouve la confusion des deux groupes de divinités. Nous pensons que cette confusion a existé, mais qu'elle est limitée dans le temps et l'espa ce150, et qu'en particulier, il n'est pas certain qu'elle se soit produite à Lavinium. Nous ne sous-estimons pas pour autant l'importance du témoignage que nous fournit la dédicace aux Dioscures sur l'histoire du culte de ces dieux, sur les relations entre la Grèce et le Latium, et Rome et Lavinium; mais il nous semble qu'en définitive, elle ne nous aide guère à mieux connaître l'identité des Pénates de Lavinium. Le témoignage de Timée, transmis par Denys, est, avec le relief de Y Ara Pacts, la seule attestation de cette identité. Cette dernière apparaît donc inséparable de l'histoire des Pénates, comme le suggère, nous l'avons vu, la mention de la «poterie troyenne», ainsi que celle des
149 Cf. E. Cary, The Roman Antiquities of Dionysius of Halicarnassus , I, Harvard-Lond res, 1968, p. 222 n. 6. Voir ci-dessous, p. 420-4. 150 Voir ci-dessous, p. 437-9.
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caducées, où nous avons cru pouvoir reconnaître l'emblème de person nages itinérants. C'est à la reconstitution de leur voyage que nous allons nous attacher à présent.
II - L'Histoire des Pénates de Lavinium Les témoignages que nous venons d'étudier concernant les Pénates de Lavinium ne nous permettent pas de saisir leur identité indépe ndamment des liens qu'ils entretiennent avec la légende d'Enée : ni la citation de Timée chez Denys d'Halicarnasse, ni le relief de l'Ara Pacts, ni même, éventuellement, la monnaie d'Antonin qui représenterait les caducées à côté du temple rond, ne nous font atteindre un état du culte des Pénates de Lavinium antérieur à l'introduction de la légende d'Enée. Or, nous l'avons vu, il semble que cette dernière ait imprimé à nos dieux, et à Lavinium seulement, le caractère particulier, et appa remment contraire à leur définition étymologique, d'itinérants, de mess agers. Cette contradiction ne peut s'expliquer que par le fait qu'à leurs caractéristiques propres s'en sont ajoutées d'autres, qui proviennent de la légende d'Enée dans laquelle ils ont été insérés. Car les données de la légende selon laquelle Enée aurait apporté au Latium «les Pénates de Troie» ne sauraient être prises au pied de la lettre. Nous voudrions montrer qu'au contraire, les objets sacrés que la littérature grecque antérieure au IVe siècle a mis aux mains d'Enée se sont confondus avec les Pénates de Lavinium, qui avaient par ailleurs leur identité propre. Mais cette confusion a été facilitée par différents éléments du site et de la civilisation lavinates, qui ont rendu possible l'implantation du per sonnage et de la légende du Troyen151. 1) Eléments autochtones A) Les Pénates et Vesta Nous avons vu 152 que, par son thème pen-, le mot Penates désignait à la fois «ceux de la partie la plus intime de la maison» et «ceux de la réserve aux provisions», et que, d'autre part, le suffixe -aies ajouté à
151 Cf. F. Castagnoli, La leggenda di Enea nel Lazio, p. 9 sq. 152 Cf. supra p. 13 sq.
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des bases autres que les noms de villes s'employait particulièrement dans le Latium; nous avons ainsi pu montrer que ces divinités étaient spécifiquement latines à l'origine. Il est probable qu'elles sont très anciennes, bien qu'il nous ait paru difficile d'en faire remonter les pre mières représentations figurées aux XIIe-Xe siècles avant J.-C, comme le fait F. Borner153, qui reconnaît dans les figurines des tombes albaines les ancêtres des Pénates. Nous voudrions montrer à présent que, bien qu'il soit à peu près impossible de connaître l'histoire des Pénates de Lavinium avant l'im plantation de la légende des origines troyennes de la cité, nos dieux, dans cette cité, présentent certains aspects que nous avions trouvés en eux dans le culte privé : notamment, ils apparaissent comme liés au foyer - ce en quoi on ne peut pas voir une influence de la légende d'Enée -, et, de ce fait, avec Vesta154. Il ne nous échappe pas que les témoignages sur lesquels nous nous appuyons sont postérieurs à l'ét ablissement de la légende des origines troyennes de Lavinium et de Rome; mais ce qui nous fait penser que nous sommes en présence d'éléments anciens de la personnalité des Pénates, c'est, d'une part, des similitudes avec certains traits du culte privé, d'autre part le fait que ces éléments correspondent à la définition étymologique de Penates. A Lavinium, comme à Rome, il existe un lien étroit entre Vesta et les Pénates, dont témoignent l'iconographie et, avec plus de certitude, les textes. Nous avons vu plus haut155 qu'une monnaie du règne d'Ha drien et deux monnaies d'Antonin représentent le thème de l'arrivée d'Enée à Lavinium, comme l'indique la présence de la truie miraculeus e, rapportant expressément la scène à cette ville; en haut et à gauche de la figure, on peut voir un temple rond. Deux lampes, datant de la même époque, mais mettant en scène la fuite d'Enée (Anchise est pré sent) plutôt que son arrivée en Italie proprement dite, présentent le même temple rond à la même place. F. Castagnoli propose156 nous l'avons dit, d'identifier ce temple comme celui de Vesta et des Pénates à Lavinium; la forme ronde est caractéristique du sanctuaire de Vesta, et se retrouve dans X'Aedes Vestae du Forum à Rome; ce temple rond
153 Rom und Troia, p. 65 sq. 154 Cf. G. Radke Die dei pénates und Vesta in Rom, A.N. R.W. , II, 17, 1, Berlin-NewYork, 1981, p. 371-72. 155 Voir supra p. 226-8. 156 Lavinium I, p. 113-114.
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serait également, selon le même savant, la καλίας mentionnée par Denys d'Halicarnasse 157. Cette hypothèse séduisante repose sur deux observations : d'une part, le thème de la fuite ou du débarquement d'Enée en Italie est lié inséparablement, pour les artistes de cette épo que, aux Pénates de Troie, et il est donc peu vraisemblable que les monuments, et notamment le temple, représentés sur ces images, ne soient pas en relation avec eux; d'autre part, la forme du temple suggè re de voir en Vesta la divinité dédicataire, et les liens de cette dernière avec les Pénates à Lavinium sont bien attestés. Toutefois, étant donné la date tardive de ces images, et le fait qu'à cette époque, la légende des origines troyennes de Rome est parfaitement élaborée158, on peut pen ser que le graveur n'a pas représenté de façon réaliste le temple de Lavinium, mais s'est inspiré de celui du Forum. Nous avons vu plus haut qu'un certain nombre de détails de la scène témoignent de son caractère symbolique plus que de son réalisme. En revanche, les témoignages de Macrobe et de Servius attestent l'existence à Lavinium d'un lien très étroit entre Vesta et les Pénates, qui ne peut être une simple projection des faits romains; chez les deux auteurs, le sacrifice des magistrats romains aux Pénates et à Vesta est mentionné comme preuve de ce que Vesta fait partie des Pénates, ou du moins qu'elle leur est liée de très près; Macrobe note : eodem nomi ne appellami (= Virgile) et Vestam, quant de numero Penatium certe comitem eorum manifestum est159 et Servius-Daniel, presque dans les mêmes termes : hic ergo quaeritur, utrum Vesta edam de numero Pena tium sit, an comes eorum accipiatur160. Ces indications commentent le passage de l'Enéide où, après l'incendie de Troie, Hector apparaît en songe à Enée et lui déclare : Sacra suosque tibi commendai Troia penatis, et Virgile poursuit :
157 I, 57, 1. 158 voir supra, p. 216-7. 159 III, 4, 11 : «Virgile a appelé du même nom (de Pénates) Vesta aussi, qui, à coup sûr, fait partie des Pénates ou est leur compagne». 160 Ad Aen. II, 296 : «On se demande donc si Vesta aussi fait partie des Pénates, ou si elle est considérée comme leur compagne».
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Sic ait et manibus uittas Vestamque potentem aeternum adytis effert penetralibus ignem161. Vesta, et le feu qui la symbolise, sont donc présentés ici comme des équivalents, presque des synonymes des sacra et des Pénates, et, du res te, Hector va les chercher adytis penetralibus, «dans la partie la plus retirée du sanctuaire», siège habituel des Pénates dont le nom même, en relation étymologique avec penetralis, est suggéré par cet adjectif162. A notre connaissance, il n'existe pas avant Virgile d'attestation d'une telle assimilation entre Vesta et les Pénates troyens. Il est fort probable que c'est la communauté de sanctuaire entre Vesta et les Pénates sur le Forum, à Rome, et l'existence d'un sacrifice commun, à Lavinium, qui ont amené Virgile à transformer ce lien en une identification, attestée plus tard par Macrobe et Servius. Vesta et les Pénates ont un autre point commun, spécifique, semble-t-il, du culte lavinate, probablement en relation avec le précédent. On sait qu'au culte de Vesta est liée une très grande importance donnée à la pureté, comme le montre, notamment, la chasteté exigée des Vestal es163. L'interpolateur de Servius affirme qu'il existe une différence entre les Grands Dieux, vénérés à Rome, et les Pénates, vénérés à Lavi nium, mais que l'on qualifie eux aussi de Magni en raison de l'impor tanceattachée à leur culte, qui elle-même s'explique par l'étendue de leur pouvoir; à l'appui de cette dernière affirmation, il rapporte l'anec dotesuivante : nam cum ambae uirgines in tempio deorum Lauini simul dormirent, ea quae minus casta erat fulmine exanimata alteram nihil sensisse1M. Les Pénates, divinités dédicataires du temple où dorment les deux jeunes filles, punissent donc celle qui est minus casta, montrant par là le prix qu'ils attachent à la pureté, ainsi que la capacité où ils sont de la déceler chez ces jeunes filles. La relation établie par ce témoignage entre les Pénates et la pureté, le fait que la scène est suppo-
161 II, 293 et 296-97 : « Troie te confie ses choses saintes et des Pénates. . . Ainsi dit-il, et des profondeurs du sanctuaire, il apporte de ses mains les bandelettes, la puissante Vesta et le feu éternel» (trad. J. Perret, C.U.F., Paris, 1981). 162 Cf. Cicéron, De Nat. Deor. II, 68 : (Penates) penitus insident; ex quo etiam penetrat es a poetis uocantur. 163 Cf. C. Koch, R.E., Vili A 2, s.u. Vesta, col. 1732; G. De Sanctis, Storia dei Romani, IV, 2, t. I, Florence, 1953, p. 164 sq.; G. Radke (Die dei pénates und Vesta in Rom, A.N.R.W., II, 17, 1, Berlin-New- York; 1981, p. 367-368) relève le fait que les Vestales, qui doivent être chastes, sont d'autre part chargées du culte du fascinus : cf. infra p. 458-60. 164 AdAen. III, 12.
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sée se passer à Lavinium d'autre part, suggèrent que le temple évoqué ici est peut-être le sanctuaire commun des Pénates et de Vesta, car l'anecdote fait penser à la nécessaire chasteté des prêtresses de Vesta. Nous ne possédons malheureusement aucune autre attestation de cette importance de la pureté dans le culte des Pénates. L'existence du lien entre Vesta et les Pénates mérite d'être exami née de plus près; le culte de Vesta présente beaucoup de parentés avec celui de l'Hestia grecque165, alors que les Pénates sont des divinités spé cifiquement romaines, sans équivalent dans le panthéon grec. Une pre mière explication de leur lien réside sans doute dans une certaine com munauté de fonction : Vesta est la déesse du feu, du foyer, et, à ce titre, sa sphère d'action recoupe en partie celle des Pénates, dieux de la part iela plus secrète de la maison, et, finalement, considérés comme dieux du foyer. La communauté de temple apparaît donc comme l'expression d'un commun rapport au foyer, lui-même sans doute fort ancien. D'au trepart, Vesta est considérée comme le garant du salut du peuple romain, comme en témoigne la façon dont sont présentés les sacrifices accomplis par les Vestales, et la formule même de la capito de ces der nières, faite par le Grand Pontife pro populo Romano166; de même, évo quant la célébration des mystères de la Bona Dea par les Romains Cicéron écrit : fit per uirgines Vestales, fit pro populo Romano167; le maintien de Y ignis sempiternus est garant du salut de l'Etat, croyance dont on a tout lieu de penser qu'elle a des racines dans le plus lointain passé indo-européen168. En revanche, si les Pénates sont censés veiller sur le salut de Rome 169, et singulièrement dans YAedes Vestae du Forum où ils figurent parfois parmi les pignora imperi170, il nous paraît rien moins que certain qu'il s'agisse là d'un caractère originel de ces dieux. Il est vrai qu'ils jouent ce rôle de protecteurs du foyer dans le culte privé, mais ce caractère, dans le culte public, a été fortement accentué par la place qui leur a été faite dans la légende des origines troyennes, où ils sont une sorte de caution religieuse pour la «nouvelle Troie».
165 C. Koch, op. cit., col. 1718-20; G. Giannelli, // sacerdozio delle Vestali Romane, Flo rence, 1913, p. 16 sq. 166 Gell., I, 12, 14; cf. G.Dumézil, Te, amata, capto, Quinze questions romaines, in Mariages indo-européens, Paris, 1979, p. 241-243. 167 Uar. Resp., 12. 168 G. Dumézil, La Religion romaine archaïque, p. 322. 169 Cicéron, Sull, XXXI, 86; cf. C. Peyre, op. cit., p. 460. ci-dessous, p. 454-70.
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B) Le Numicus On sait qu'à côté du feu, l'eau joue un rôle considérable dans le culte de Vesta. Même si l'on considère, comme le fait G. Dumézil, que l'Aedes Vestae, contrairement à tous les autres temples, est «réfractaire à l'eau»171, c'est encore là reconnaître la place très particulière de l'eau dans ce rituel. Puiser et transporter jusqu'au temple l'eau indispensable fait l'objet d'une série de règles cultuelles très strictes. L'eau destinée au culte de Vesta ne doit pas toucher la terre; elle est donc transportée dans un vase d'une forme particulière, le futile, qu'il est impossible de poser à plat à terre sans en renverser le contenu172. Les Vestales allaient puiser cette eau chaque jour à une source située en dehors de l'enceinte de la ville, au milieu des bois, du moins à l'époque archaïq ue173. Properce localise cette source, du temps de Tarpeia, sur l'empla cement de la Curie : murus erant montes; ubi nunc est Curia saepta, bellicus ex ilio fonte bibebat equus 174. Au contraire, Plutarque175 désigne cette fontaine comme la source Egèrie, située près de la Porta Capena et rapporte à la législation rel igieuse de Numa, à la coutume qu'avait le roi de s'entretenir avec les Muses et la nymphe Egèrie dans les bois situés hors de l'enceinte de la ville, l'obligation faite aux Vestales de puiser en cet endroit l'eau néces saire au culte et à l'entretien du temple. Il existe peut-être un équivalent à Lavinium176 de ce qu'est à Rome la source Egèrie pour le culte de Vesta. En effet racontant l'histoire du Numicus, autrefois large fleuve, de son temps simple fontaine comport ant un stagnum, Servius affirme : Vestae enim libari non nisi de hoc fluuio licebat177. Il s'agit, cette fois encore, d'un témoignage isolé, mais il est possible que l'approvisionnement en eau du temple de Vesta ait été réglementé à Lavinium comme il l'était à Rome. D'autre part,
171 172 173 174 175 176 177
Le religion romaine archaïque, p. 324-26. Servius, Ad Aen. II, 339. Cf. Tacite, Hist. IV, 53, 3. IV, 4, 13-14. Numa, 18. Cf. C. Koch, op. cit., col. 1720. Ad Aen. VII, 150.
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l'identification du Numicus a fait l'objet de longs débats178, mais on s'accorde aujourd'hui à penser, à la suite de F. Castagnoli qu'il est le moderne Fosso di Pratica; ce dernier se trouve179 hors des limites de l'oppidum, mais non loin de lui, ce qui serait un autre point commun avec la source Egèrie à Rome. C) Le culte de Sol Indiges La légende de la venue d'Enée en Italie ne s'implante pas dans un Latium vierge de toute tradition légendaire, ou de tout culte. Denys d'Halicarnasse, comme Virgile, nous raconte les longs combats qu'ont dû mener Enée et ses compagnons contre les Latins et leur roi Latinus, jusqu'à ce qu'intervienne, après la victoire d'Enée, un traité de paix entre les deux peuples, symbolisé par le mariage d'Enée et de Lavinia. De cette civilisation locale, la littérature ne nous permet pas toujours de nous faire une idée exacte : Virgile180 attribue à Latinus et à son peuple les usages des Romains de son temps. Mais il lui arrive aussi, nous le verrons, d'intégrer dans sa version de légende des origines troyennes des éléments qui devaient appartenir au vieux fonds légendaire local. En revanche, les découvertes archéologiques faites sur le site de Pratica depuis la fin du siècle dernier éclairent d'un jour nouveau l'histoire de ce site181. Quelques rares tessons découverts à l'emplacement des treize autels et sur la «petite Acropole», au nord de l'actuel village de Pratica, attestent une occupation de ces sites dès la civilisation apenninique; or, on a retrouvé dans d'autres sites du Latium, et notamment à Ardée, des marques d'occupation à l'époque préhistorique et protohistorique, ce qui permettrait peut-être de faire remonter très haut les relations entre Lavinium et Ardée, dont nous connaissons des traces à l'époque histori que par la survivance de coutumes religieuses. La civilisation latiale est bien représentée : la «petite Acropole» encore a livré les traces d'un habitat des débuts de cette phase de civilisation, tandis qu'on fouillait, en 1973 et 1974, une nécropole située à l'ouest des murailles de la 178 Cf. F. Castagnoli, Lavinium I, p. 91-92, avec une bibliographie du sujet. 179 / luoghi connessi con l'arrivo di Enea nel Lazio, ArchClass, 19, 1967, p. 240-243. 180 En. VII, 170 sq. 181 Pour un état présent de la question, cf. J. Poucet, Le Latium protohistorique et archaïque à la lumière des découvertes archéologiques récentes, I, AC, 47, 1978, 566, sq.; II, AC, 48, 1979, p. 177 sq. On trouvera dans le second de ces articles une bibliographie détaillée du sujet.
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cité182. Cette nécropole aurait été utilisée du Xe au VIIe siècle, donc jus qu'à l'aube de l'époque archaïque où la ville de Lavinium va être entou rée d'une muraille dont on a retrouvé d'importants fragments, ainsi qu'une porte; une partie de cette enceinte date de l'extrême fin du VIIe siècle183. Mais, pour notre propos, les vestiges les plus intéressants de cette période se trouvent situés à une centaine de mètres au sud-est des treize autels, avec les restes d'une tombe du VIIe siècle avant J.-C. Elle comportait184 un caisson rectangulaire aux parois de cappellaccio, re couvert de plaques de la même pierre. Le mobilier de terre cuite et de métal qu'elle contenait, comparable, en moins riche, à celui de la tom beBarberini de Préneste, était disposé tout autour du caisson, tandis qu'un tumulus de 18 mètres de diamètre environ, au périmètre délimité par de petits blocs de tuf, recouvrait le tout185. C'est le matériel trouvé à l'intérieur de la tombe qui permet de dater la première phase architec turale de cette dernière de l'époque orientalisante, plus précisément du second quart du VIIe siècle186. Cette tombe, comme nous le verrons par la suite, a été modifiée et reconstruite, et sa destination probablement changée. Mais la nature du matériel funéraire datant du VIIe siècle donne à penser qu'il s'agissait de la sépulture d'un personnage import ant. P. Sommella a proposé d'identifier cette tombe avec l'Hérôon d'Enée évoqué par Denys d'Halicarnasse187. Pourtant, comme le souli gneJ. Heurgon188, l'inscription que Denys a pu lire sur cette tombe et qu'il nous a transmise ne mentionne pas le nom d'Enée : Πατρός θεοΰ χθονίου, ος ποταμού Νουμικίου ρεϋμα διέπει, ce qui traduit probable ment le latin Pater Deus Indiges Numicius. Il est permis de penser que
182 P. Sommella Lavinium. Rinvenimenti preistorici et protoistorici, ArchClass, 21, 1969, p. 18-33; id., La necropoli protoistorica rinvenuta a Pratica di Mare, RPAA, 46, 197374, p. 33-48. 183 C. F. Giuliani - P. Sommella, Lavinium : Compendio dei documenti archeologici, in Lazio arcaico e mondo greco, PP, 32, 1977, p. 356-372. 184 Ibidem ; P. Sommella, Heroon di Enea a Lavinium. Recenti scavi a Pratica di Mare, RPAA, 44, 1971-72, p. 47-74; id., Das Heroon des Aeneas und die Topographie des antiken Lavinium, Gymnasium, 81, 1974, p. 273-297; id., Tomba a cassone sotto l '«heroon di Enea», in Civiltà del Lazio primitivo, Catalogue de l'Exposition, Rome, 1976, p. 305-311. .iss Voir plan de cette tombe in Compendio. . ., p. 366 fig. 7, 1. 186 P. Sommella, Heroon di Enea, p. 60-69. 187 I, 64, 5. Pour la discussion de cette identification, voir ci-dessous, p. 320-3. 188 Les récentes découvertes archéologiques dans le Latium, IL, 27, 1975, p. 126-129; de même J. Poucet, op. cit., I, p. 597.
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cette inscription, aujourd'hui perdue, était fort ancienne, ou qu'elle était la copie d'une autre, plus ancienne, ou encore la reproduction écrite d'une formule orale dont l'origine est impossible à dater. Il est en tout cas remarquable qu'à une époque où la légende de la venue d'Enée au Latium, de sa divinisation, et des origines troyennes de Rome, était définitivement établie, l'inscription vue par Denys n'ait pas comporté le nom d'Enée. Le terme d'Indiges a suscité des commentaires nombreux et contrad ictoires, chez les anciens comme chez les modernes. Pour notre pro pos, il nous paraît qu'il faut en distinguer l'emploi au pluriel, Di Indiget es, attesté pour la première fois chez Tite-Live, dans la formule de la deuotio prononcée par Decius en 340 av. J.-C.189, et l'emploi au singul ier,beaucoup plus ancien semble-t-il. L'étymologie du mot, inconnue selon A. Ernout et A. Meillet 190, avait été expliquée par G. Wissowa191 dans un système d'opposition entre Di Indigetes «dieux indigènes» et Di Nouensides «dieux nouvellement importés»; G. Dumézil192 ne voit aucu ne explication possible du mot, tandis que R. Schilling193 propose deux rapports étymologiques possibles avec le verbe indigitare «prier et invo quer » : soit Indiges est un post-verbal formé sur indigitare, soit indigitare est un dénominatif a' indiges «dérivé primaire à valeur passive», signifiant «invoqué». Or, nous connaissons des attestations très ancien nes d'un culte à' Indiges à Rome. Sur le «calendrier de Numa», à la date du 11 décembre, sont mentionnés les AGON (alia) IND (igetis)194 en grandes capitales, ce qui prouve l'ancienneté de la fête. Nous ne possé donsaucune indication supplémentaire sur la personnalité de la divini té dédicataire de cette fête à Rome; C. Koch195, comme le rappelle R. Schilling, a très ingénieusement rapproché cette fête des Matralia du 11 juin, célébration en l'honneur de Mater Matuta, qu'il assimile à Auror a;il s'agirait alors de deux fêtes astrales, proches, l'une du solstice d'hiver, l'autre du solstice d'été, célébrant, l'une le fait que les jours
189 vin, 9, 6. 190 Dictionnaire étymologique de la langue latine, s.u. Indiges. 191 Religion und Kultus der Römer, 2e éd., Munich, 1912, p. 18-23. 192 La Religion romaine archaïque, p. 55 n. 1. 193 Le culte de l'Indiges à Lavinium, REL, 57, 1980, p. 59. 194 Pour la lecture de ce texte, cf. commentaire et références in R. Schilling, op. cit., p. 54 n. 1. 195 Gestirnverehrung im alten Italien, Frankfurt-am-Main, 1933, p. 99; cf. J. Champeaux, Fortuna, p. 232.
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vont bientôt commencer à croître, l'autre à décroître. On en arrive ainsi à voir dans Indiges une très ancienne divinité solaire 196. Bien qu'aucun argument irréfutable ne permette de l'affirmer, puisque l'étymologie d'Indiges reste inconnue, il est assez probable qu'à cette divinité solaire était associée, ou identifiée, une divinité des eaux, ou l'eau divinisée. Nous avons le sentiment que ce lien est antérieur à l'introduction du personnage d'Enée au Latium, sans pouvoir en four nirune démonstration parfaite; mais divers éléments plaident en fa veur de cette hypothèse197. C'est tout d'abord l'inscription lue par Denys sur la tombe à tumulus : il est impossible de lui assigner une datation précise, mais elle a, de notre point de vue, l'intérêt d'associer les termes Πατρός θεοΰ χθονίου au Numicus dont le dieu est le protecteur, sans que soit mentionné le nom d'Enée. C'est aussi le récit même que fait Denys 198 du prodige opéré par Ήλίος, divinité adorée au lieu où débar quent Enée et ses compagnons : c'est le soleil qui, paradoxalement, a fait surgir l'eau des sources qui désaltèrent les Troyens, et c'est à lui qu'Enée en rend grâce199. Enfin, beaucoup de cultes lavinates qui sont bien attestés à l'époque archaïque ou à l'époque classique sont liés à l'eau : Vesta, les Dioscures, Juturne, Anna Perenna200; d'autres sont des cultes agraires, et par là-même, en relation eux aussi avec l'eau fertil isante, comme celui de Cérès ou de Liber. Or, les faits lavinates viennent appuyer cette interprétation. Pline l'Ancien, énumérant les villes côtières du Latium entre Ostie et Antium,
196 C'est cette conception qu'a encore récemment réaffirmée F. Castagnoli (La leggen da di Enea nel Lazio, p. 10-11; p. 13 η. 64). Voir aussi B. Liou-Gille, Cultes «héroïques romains, p. 86 sq. ; pour M. Torelli (Lavinio e Roma, p. 173-176), le caractère solaire d'Enée-Indiges à Lavinium est essentiel, et se voit aussi dans le culte romain à l'origine duquel il se trouve, celui de Sol sur le Quirinal, dont le dies natalis est en plein été, le 9 août. 197 Cf. I. Cazzaniga, // frammento 61 degli Annali di Ennio : Quirinus-Indiges, PP, 29, 1974, p. 369. 198 I, 54, 2. 199 II existe un texte d'Arnobe qui atteste ce lien : Indigetes Uli qui in flumen repunt et in alueis Numici cum ranis et pisciculis degunt (Adu. Nat. I, 36); il nous paraît sujet à caution pour diverses raisons; il s'agit ici des di indigetes, non d'Indiges ni de Sol Indiges, et ce commentaire tardif pourrait porter la marque de l'embarras d'Arnobe pour définir les Indigetes, notion assez confuse apparemment pour les Romains eux-mêmes, et, d'au trepart, n'être que l'écho de la légende, désormais bien établie, selon laquelle Enée, deve nu Aeneas Indiges, était mort en tombant dans le Numicus. 200 Cf. F. Castagnoli, Lavinium I, p. 71-75.
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cite le Locus Solis Indigetis201; cette mention d'un toponyme ne fournit évidemment aucune date précise sur son ancienneté. Toutefois, les fouilles menées sous la direction de F. Castagnoli ont mis au jour, au nord-est des treize autels, à Tor Vaianica, sous les restes d'une villa d'époque impériale, les traces d'un édifice datable au moins du Ve siè cle avant J.-C, avec des terres cuites architectoniques de fabrication locale et d'importation grecque, datées de la première moitié du Ve siè cle. F. Castagnoli considère qu'il s'agit du Locus Solis Indigetis202. La construction du sanctuaire au Ve siècle a des parallèles dans l'architec ture religieuse du Latium du VIe- Ve siècle, ce qui s'explique, selon le même savant, par l'influence grecque, mais n'implique pas qu'il n'exist ait antérieurement aucune forme de culte : «Après une longue période pendant laquelle le culte se célébrait en plein air (en tout cas nous ne trouvons que des dépôts votifs), comme à Satricum (fin du VIIIe et sur tout VIIe siècle), Gabii, Rome (Capitole, Quirinal, Forum Boarium), au VIe siècle on assiste à un grand développement des sanctuaires»203. Ces apports grecs s'insèrent donc dans une culture religieuse déjà existante. Un texte de Denys d'Halicarnasse confirme ces données : lorsqu'Enée et ses compagnons débarquent sur la côte latine, ils sont sur le point de périr de soif; c'est alors que surgissent des sources d'une eau délicieus e, qui sauve la vie des Troyens, en remerciement de quoi Enée élève en ce lieu deux autels et y offre un sacrifice τω θεω χαριστήριον των υδάτων204, et Denys ajoute que, de son temps encore, les habitants considèrent ce lieu comme ιερόν 'Ηλίου. Ainsi, la légende locale, que Denys nous a transmise, faisait remonter ce culte à une époque anté rieure à l'arrivée d'Enée. Il reste cependant un point que le seul texte de Denys ne permet pas d'élucider : quelle dénomination, entendue par lui à Lavinium, tra duit-il par Ήλίος? Est-ce Sol ou Sol Indiges? Problème qu'aide à résou dre le texte de Pline mentionné plus haut, car le lieu désigné par Pline correspond à l'emplacement où Enée, selon Denys, fit un sacrifice au
201 N. H. III, 5, 56; pour la lecture du texte, cf. F. Castagnoli, Lavinium I, p. 93 n. 10; voir aussi B. Liou-Gille, op. cit., p. 99-116. 202 / luoghi connessi. . ., p. 235 sq. (voir carte p. 236); id., in Enea nel Lazio p. 167; G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 143 sq. 203 Les sanctuaires du Latium archaïque, CRAI, 1977, p. 474. 204 I, 55, 2 : «au dieu, en remerciement pour les eaux»; sur l'association de l'eau et du Soleil dans la légende d'Enée, voir infra p. 323 sq.
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Soleil en remerciement du prodige qu'il avait accompli en sa faveur205; on peut s'étonner que Denys n'ait pas essayé de traduire le terme d'Indiges, mais cette omission nous paraît pouvoir s'expliquer par la diffi culté où il était de trouver un équivalent grec du mot; de surcroît, contrairement à ce qui se passe quand il reproduit l'inscription lue sur l'Hérôon d'Enée, le propos de Denys n'est pas ici de traduire un texte précis, mais de rapporter une légende, dans laquelle le seul mot d'HXioç a pu lui sembler une transposition suffisante de Sol Indiges. Peut-être est-ce à l'influence des conceptions religieuses de la Grè ce206 qu'il faut attribuer, à une date qu'il est très difficile de déterminer, étant donné la pauvreté de notre documentation, les changements qui semblent être intervenus dans le concept d'Indiges, originellement divi nité solaire. A cette notion de divinité astrale va s'en superposer une autre, celle d'ancêtre fondateur207. La double valeur que va prendre le mot est perceptible en particulier chez les auteurs grecs, qui, faute de pouvoir le traduire, en donnent ce qu'ils estiment être des synonymes dans les contextes où ils l'emploient. Lydus, en commentaire à la fête du 1 1 décembre, écrit : έπετέλουν δε και έορτήν λεγομένην Άγωνάλια δαφνηφόρω και γενάρχη Ήλίω208. Ces épithètes de δαφνηφόρω et de γενάρχη données au Soleil par l'écrivain, sans qu'il indique s'il y a un lien entre les deux, sont éclairées par le rapprochement qu'en fait R. Schilling209 avec deux passages de l'Enéide. Virgile propose en effet une version de l'histoire du Latium avant la venue d'Enée et de ses compagnons qui corrobore et explique les termes employés par Lydus pour désigner Indiges. D'une part, il présente Latinus, roi de cette contrée, comme le descendant du Soleil, et ce lien généalogique est sen-
205 I, 55, 2. 206 Cette influence est sensible, nous l'avons vu, dans l'introduction à Lavinium du culte de Castor et Pollux, au cours de la seconde moitié du VIe siècle. On la trouve aussi dans la céramique d'importation : les mêmes dieux sont peut-être représentés allongés sur une klinè, à l'intérieur d'une coupe laconienne datée du milieu du VIe siècle trouvée dans la zone du sanctuaire des Treize autels (cf. E. Paribeni, Ceramica d'importazione, in Lavinium II, p. 362-368; id., Enea nel Lazio, p. 177, D 10). 207 Cf. R. Schilling, op. cit. p. 63-64. I. Cazzaniga (ibid., passim) fait un parallèle entre Indiges comme ancêtre fondateur à Lavinium, auquel fut assimilé Enée, et Quirinus-Indiges à Rome; voir aussi J.-C. Richard, Le culte de «Sol» et les «Aurelii» : à propos de Paul Fest. p. 22 L., Mélanges I. Heurgon II, Rome 1976, p. 917-919. 208 De Mens. 4, 155 : «Ils célébraient aussi une fête appelée Agonalia en l'honneur du Soleil, protecteur du laurier et fondateur de race». 209 Op. cit., p. 61 et 64.
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sible dans l'apparence même du personnage : les douze rayons d'or qui ceignent sa tête sont Solis aui specimen210; le Soleil est donc bien l'ancê tre de la dynastie autochtone. D'autre part, Varron proposait de voir une relation étymologique - vivement contestée par les modernes211 entre le nom du laurier, laurus, et celui des habitants primitifs de la contrée où débarque Enée, les Laur entes : In (Auenti)no Lauretum ab eo quod ibi sepultus est Tatius rex, qui ab Laurentibus interjectus est212. Cette étymologie est reprise par Virgile, qui lie le laurier, non seul ement au nom des habitants de l'endroit, mais aussi à l'acte même de la fondation de la ville par Latinus : Laurus erat tedi medio in penetralibus altis sacra comam multosque metu seruata per annos quam pater inuentam, primas cum conderet arces, ipse ferebatur Phoebo sacrasse Latinus Laurentisque ab ea nomen posuisse colonis213. Virgile rassemble donc ici les différentes données légendaires se rapportant au culte du Soleil à Lavinium : le nom du laurier est mis en rapport avec celui des habitants, et l'arbuste, dont la présence a dé signé à Latinus l'emplacement où il devait fonder sa cité, est consacré par lui à Phébus, autrement dit au Soleil. Ainsi, Virgile, comme le note R. Schilling214 «non seulement authentifie la présence du laurier et le titre de «chef de lignée» du Soleil, mais il suggère l'existence d'un lien interne entre ces deux données». Par ailleurs, dans la mythologie grec que, le Soleil est présenté comme l'ancêtre plus ou moins lointain d'un
210 XII, 164; voir supra p. 240. 211 En particulier A. Walde-J. B. Hofmann, L.E.W. , s.u. laurus. 212 DeL.L. V, 152. 213 VII, 59-64 : «Au milieu du palais, au cœur de la haute maison, il était un laurier; sa chevelure était sacrée, lui-même avait été consacré dans la crainte à travers de longues années. On disait que le vénérable Latinus, l'ayant trouvé comme il jetait les premiers fondements de la citadelle, l'avait lui-même consacré à Phoebus et en avait formé le nom de Laurentes qu'il imposa aux habitants» (trad. J. Perret, op. cit.); C. J. Fordyce (Aeneidos Libri VII-VHI, éd. commentée, Oxford, 1977, p. 170) remarque que Virgile manifeste ici très peu de souci archéologique, puisqu'il décrit le palais de Latinus comme une riche demeure de son temps, comme il l'avait fait précédemment pour le palais de Priam (II, 512 sq.). 214 Op cit., p. 64.
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certain nombre de dieux ou de héros : Circé était la fille du Soleil, et de sa propre union avec Ulysse étaient nés Agrios et Latinos215. Ce que Virgile nous dit de l'histoire légendaire du Latium pourrait fort bien refléter un changement de la tradition locale sous l'influence des contacts établis entre la Grèce ou la Grande-Grèce et Lavinium, et ce d'un double point de vue. Au VIe siècle se déroulent à Lavinium deux séries d'événements parallèles. D'une part, nous l'avons vu, les archéo logues situent à la fin du VIIe siècle et au milieu du VIe siècle l'édifica tion, puis la restructuration de la muraille d'enceinte de la cité : cela indique que c'est à ce moment que Lavinium devient à proprement par ler un centre urbain. Or cette émergence est due en partie à l'essor que lui ont imprimé ses contacts avec le monde grec. Mais d'autre part, les marchands grecs qui arrivent dans le port de Lavinium apportent avec eux des conceptions religieuses nouvelles pour les habitants de cette contrée, conceptions dont nous avons déjà vu quelques aspects. Sans doute est-ce à cette époque216 qu'a été introduite en Italie centrale la notion grecque de «héros», personnage d'origine mi-divine, mi-humain e, qui n'avait pas d'équivalent dans la religion romaine, ou latine; auss i a-t-on divinisé les personnages prestigieux, notamment les fondateurs de cité. C'est pourquoi il nous semble qu'on peut mettre en relation la transformation de Lavinium en véritable cité et l'apparition de la notion d'ancêtre fondateur divinisé. A cet égard, du reste, il y a un cer tain flottement dans la conception virgilienne, car la dualité subsiste entre deux personnages : d'une part, le dieu Phébus, d'autre part, son descendant, fondateur de la cité des Laurentes, Latinus, dont Virgile ne nous dit pas qu'il a été divinisé. L'archéologie semble offrir une confirmation de ce changement du concept d'Indiges, et de sa datation. Nous avons mentionné la présence, près des treize autels, d'une tombe dont les plus anciens vestiges datent de la fin de l'époque orientalisante, et dans laquelle il faut voir la sépul-
215 Hésiode, Théogonie 1008 sq.; cf. commentaire de S. Weinstock sur ces généalogies mythiques in Two archaic inscriptions front Latium, p. 117-118. C. Cogrossi {Atena Iliaca e il culto degli eroi, in Politica e religione nel primo scontro tra Roma e l'oriente, Milan, 1982, p. 89-98) suggère d'ailleurs que l'hérôon récemment découvert était à l'origine celui de Latinus; cf. M. Sordi, Lavinio, Roma e il Palladio, ibid., p. 70. Au demeurant, il n'existe aucune mention de ce monument dans les textes anciens, ni aucune attestation d'une identification entre Latinus et Indiges. 216 Cf. B. Liou-Gille, op. cit., p. 7-8; R. Schilling, La déification à Rome. Tradition lati neet influence grecque, REL, 57, 1981, p. 137-139.
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ture d'un personnage important. Or, cette tombe a été ouverte au VIe siècle, comme en témoigne la présence d'une œnochoè de bucchero qui ne peut dater d'avant la première moitié du VIe siècle217. On est en droit de supposer que cette ouverture de la tombe, accompagnée du dépôt d'une pièce au moins de nouveau mobilier funéraire, correspond à un changement dans la destination du monument. C'est peut-être à ce moment que se produit la fusion du concept originel d'Indiges et de celle du héros fondateur, divinisé du fait même de cette fusion. Il n'est pas encore, à cette date, assimilé à Enée, et il est assez probable qu'il ne porte pas d'autre nom que celui d'Indiges. A l'appui de cette hypothèse, nous voudrions avancer une fois encore l'inscription lue par Denys d'Halicarnasse sur la tombe qu'il désigne comme l'Hérôon d'Enée : Πατρός θεοΰ χθονίου. Ces trois termes nous semblent très exactement s'appliquer à la tombe d'un héros fondateur divinisé. Le mot χθονίος, comme le note R. Schilling218 «pouvait convenir à un culte funéraire» et paraît donc approprié à une inscription figurant sur une tombe. Sans qu'on puisse l'affirmer avec certitude, Denys doit traduire par ce terme le mot Indiges, qu'il interprète dans un sens dont nous verrons qu'il est définitivement établi à l'époque où sont écrites les Antiquités Romaines. Θεός, traduction très probable de deus, suggère que le personnage enseveli là a eu une vie terrestre, une vie de mortel, et a été divinisé après sa mort. Quant à Πατήρ, qui rend à coup sûr un Pater dans l'in scription originale, il exprime, selon nous, deux notions : d'une part, il traduit l'idée que le personnage enterré dans cette tombe est l'ancêtre de la race; mais d'autre part, le mot se comprend aussi en liaison avec θεός (deus), car, comme le note G. Dumézil219, la qualification de pater et de mater que l'on donne aux dieux dans la religion archaïque est une marque de respect. On pourrait même penser que le mot pater, par son ambivalence, a facilité l'assimilation de l'ancêtre fondateur avec une divinité très ancienne220.
217 C. F. Giuliani-P. Sommella, op. cit., p. 367. 218 Le culte de findiges à Lavinium, p. 58; id., La déification à Rome, p. 144-145: R. Schilling montre comment l'épithète de χθόνιος qui, par son caractère «chthonien», ne pouvait guère s'appliquer au Soleil, convient en revanche parfaitement à un «héros» selon la conception grecque. 219 La religion romaine archaïque, p. 137. 220 C. Koch {Der römischer Iuppiter, Frankfurt-am-Main 1937, p. 68 sq.) a proposé d'identifier Veiovis avec le Πατήρ θεός χθόνιος de l'inscription citée par Denys. F. Casta gnoli (Roma arcaica e i recenti scavi di Lavinio, PP, 32, 1977 p. 352-53) rappelle qu'une
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II nous semble impossible de supposer, comme l'a fait G. DuryMoyaers221, qu1 Indiges est «sans doute la divinité primordiale des Pénat es». Nous avons eu mainte occasion de remarquer que les Pénates sont originellement et essentiellement un groupe de divinités non individual isées; il n'existe pas de singulier à ce mot. Indiges et Penates semblent être des personnalités divines parfaitement distinctes, même si, comme le note justement G. Dury-Moyaers, les seconds nous demeurent incon nusà Lavinium antérieurement à l'adoption de la légende d'Enée. On peut seulement supposer leur existence dans cette cité, comme à Rome et dans le reste du Latium. 2) Introduction de la légende d'Enée à Lavinium Nous avons vu que le thème de la fuite d'Enée et du transfert des ίερά apparaît peut-être dans la littérature grecque au VIe siècle, avec Stésichore222. Dans l'iconographie, des vases attiques de la même épo que, dont certains ont été trouvés en Etrurie, présentent une illustra tion du même sujet, sans la présence des ίερά223; ce n'est que sur le «scarabée étrusque» de la Collection de Luynes, daté du VIe siècle, ou du début du Ve, que la ciste sacrée apparaît pour la première fois aux main d'Anchise, mais l'origine de cette intaille n'est pas certaine224. La seconde attestation iconographique de la présence des sacra lors de la fuite d'Enée est l'amphore de Vulci, datée du début du Ve siècle, où Creuse porte sur la tête un vase qui pourrait contenir ces sacra225. Il paraît certain que la légende de la fuite d'Enée est connue en Italie cen trale (Etrurie méridionale et Latium) dès les VI-Ve siècles. L'introduction de cette légende va se faire peu après que Lavinium se soit constituée comme centre urbain, et non plus comme ensemble d'habitats dispersés, ainsi qu'en témoigne l'essor architectural remar quable du VIe siècle : construction d'une muraille d'enceinte répondant à un souci stratégique, et non plus seulement défensif 226, qui trouve un statue de Veiovis a été trouvée dans la zone des autels, ce qui est peut-être une confirmat ion de l'hypothèse de C. Koch. 221 Op. cit., p. 22 L 222 voir supra p. 163 sq. 223 Voir supra p. 196. 224 Voir supra p. 197 sq. 225 Voir supra p. 201 sq. 226 C. F. Giuliani-P. Sommella, Compendio. . ., p. 368-370.
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correspondant à Rome dans la muraille dite de Servius Tullius, datant de la même époque; édification d'édifices civils, habitations et même four de potier, adossés à cette muraille227. Mais c'est l'architecture rel igieuse qui a laissé les traces les plus remarquables, avec la construction des premiers autels et d'un édifice utilitaire à proximité de ces der niers228; des morceaux de terres cuites architectoniques229 permettent de penser que les premiers éléments du sanctuaire datent du VIe siècle. De la fin du VIe siècle ou du début du Ve siècle datent aussi le sanctuai re oriental extra-urbain de Minerve, et celui de Sol Indiges à Tor Vaianica. Or, nous l'avons déjà noté230, ce phénomène n'est pas propre à Lavinium : un certain nombre de cités du Latium connaissent à la même époque un essor urbain et architectural comparable. J. Heurgon a montré231 que les sanctuaires du Latium archaïque sont le lieu privilégié où s'exprime l'influence du monde grec sur cette région. La culture grecque y a pénétré par des voies terrestres, mais aussi maritimes. La situation géographique de Lavinium se prêtait tout particulièrement à l'introduction dans la cité des influences grecques, et l'importance de son développement est sans doute liée au rôle com mercial qu'elle a pu jouer. Selon la tradition, Enée aurait débarqué en un lieu appelé Troia, où Denys d'Halicarnasse232 nous dit qu'il avait mouillé ses navires, avant d'établir son campement sur le rivage; il y existait déjà un culte, et, dès le Ve siècle, nous venons de le voir, un sanctuaire de Sol Indiges. La présence de ce dernier, comme la localisa tion en cet endroit du débarquement d'Enée, peuvent faire penser que ce lieu servait de port à Lavinium, située, elle, un peu à l'intérieur des terres. C'est là sans doute qu'arrivaient les bateaux en provenance de la Grèce ou de la Grande-Grèce, c'est grâce à ce port que Lavinium a connu la civilisation grecque, qui a vraisemblablement contribué à lui assurer, par l'essor qu'elle lui a imprimé, une place prépondérante dans le Latium archaïque233. D'autres cités, du reste, se sont trouvées
227 Ibid. 228 Plan et schémas de reconstitution de l'édifice, ibid., p. 262-263. 229 M. Mazzolani, Terrecotte architettoniche, in Lavinium II, p. 175-178. 230 Cf. F. Castagnoli, Les sanctuaires du Latium archaïque, passim. 231 La Magna Grecia e i santuari del Lazio, notamment, p. 9-19. 232 I, 55, 1 ; cf. F. Borner, Rom und Troia, p. 18 sq. 233 Cf. F. Castagnoli, / luoghi connessi . . ., p. 246. J. Heurgon, ibid. ; F. Zevi (Note sulla leggenda di Enea in Italia, in Gli Etruschi a Roma, Incontro di studio in onore di M. Pallottino, Rome, 1981, p. 154-156) a une vision plus nuancée du rôle portuaire de Lavinium,
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dans des situations analogues, Antium et Ardée, par exemple. Pour cet tedernière, la similitude avec Lavinium est frappante : les deux villes sont situées à l'intérieur des terres à peu près à la même distance de la côte, et présentent l'une et l'autre une escale côtière, Troia pour Lavi nium, Castrum Inui pour Ardée. En tout état de cause, il n'existe, à Lavinium même, aucun témoi gnage attestant la présence d'Enée dès le VIe siècle, alors que la vulgate des origines troyennes de Rome le présente comme le fondateur de la cité; en revanche, les deux documents iconographiques les plus anciens montrant Enée et les sacra sont étrusques : pour l'un, le scarabée de la Collection de Luynes, cette origine n'est que probable234; elle est certai ne pour l'amphore de Vulci, mais, ici, c'est l'identification du doliolum comme ciste sacrée qui peut être mise en doute, bien que l'argumentat ion d'A. Alföldi en faveur de cette identification nous paraisse très convaincante. Il s'est instauré dans le monde savant un débat passionné pour savoir si les origines de la légende d'Enée, et également, des sacra troyens, sont étrusques ou lavinates. Le partisan le plus convaincu des origines étrusques est sans douté A. Alföldi dont nous résumons briève ment ici l'argumentation235. Dans la tradition littéraire grecque, avec Stésichore et Alcimos, les Etrusques sont présentés comme des descen dantsdes Troyens, et ce fait se trouve confirmé par l'iconographie, notamment par l'amphore trouvée à Tragliatella, dans les environs de Caeré, représentant le Lusus Troiae : on peut y voir, à côté de l'image de deux jeunes cavaliers, le dessin d'un labyrinthe dans lequel est écrit le mot Truia, désignation de Troie dans la langue étrusque236; le mot, ainsi que le rituel du Lusus Troiae, aurait été introduit dans le Latium par les Etrusques, et serait à mettre en relation avec l'organisa tion de la cavalerie dans l'armée romaine sous les rois étrusques. La présence du thème de la fuite d'Enée dans les vases attiques trouvés en Etrurie fournit un argument qui va dans le même sens : les peintres
incontestable, admet-il, à l'époque archaïque, plus douteux aux IV-IIIe siècles, ce qui le conduit à placer l'apparition de la légende du débarquement d'Enée au Latium à une date haute. 23" Cf. supra p. 198-9. 235 Die Trojanischen Urahnen der Römer, Bale, 1957, p. 14 sq.; thèse reprise dans Earl yRome, p. 278-287 (avec bibliographie de la question p. 278 n. 2). 236 Voir aussi F. Bömer, Rom und Troia, p. 19; F. Castagnoli, La leggenda di Enea nel Lazio, p. 6.
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grecs s'adaptaient aux goûts de la clientèle étrusque en représentant Enée. Mais, pour A. Alföldi, les Etrusques ont donné au personnage d'Enée, que la tradition grecque présentait seulement comme fuyant Troie, une nouvelle dimension : par lui, Troie renaîtra, et, pour qu'elle puisse renaître, il lui faut un fondement divin, la caution religieuse des sacra Troiana; aussi bien, c'est en Etrurie que ceux-ci sont représentés pour la première fois, dans les deux documents que nous avons déjà mentionnés. Sur l'amphore de Vulci, le personnage qu'A. Alföldi identi fie comme Creuse porte sur sa tête un doliolum, dans lequel ce savant reconnaît le κέραμος Τρωικός mentionné par Timée selon Denys d'Halicarnasse, et aussi le vase de terre dans lequel, suivant la tradition romaine, les Vestales auraient caché les sacra troyens conservés à Rome lors de l'invasion gauloise. On aurait ainsi, conclut A. Alföldi, trois «couches chronologiques» de la légende d'Enée comme ancêtre : à Vulci, à Lavinium (où cette tradition n'est pas antérieure à celle de Vulc i), et enfin à Rome, où elle est imitée de Lavinium237. Enfin, Enée n'était pas honoré, en Etrurie, dans la seule Vulci; il existait à Véies un culte du héros troyen. A. Alföldi en cite deux preuves; d'une part, on a trouvé dans cette cité plusieurs exemplaires d'un même modèle de sta tuettes en terre cuite représentant Enée portant Anchise sur ses épaul es;d'autre part, l'acrotère figurant une femme serrant contre elle un enfant doit être interprété comme le groupe de Creuse et Ascagne238 qui aurait eu pour pendant un autre groupe, constitué d'Enée et d'Anchise; cette symétrie, ajoutons-nous, serait tout à fait comparable à celle qu'offre l'amphore de Vulci, sur laquelle s'opposent les deux mêmes couples de personnages. Aux yeux d'A. Alföldi, l'adoption d'Enée com meancêtre des Latins, à Lavinium notamment, ne serait pas une don née originelle de la civilisation de cette cité ou une conséquence des influences grecques qui ont pu librement s'y exercer par les échanges maritimes ou commerciaux, mais le résultat de l'hégémonie étrusque sur l'Italie centrale, et le Latium en particulier : Lavinium, dominée par les Etrusques, aurait été obligée d'adopter le culte de l'ancêtre fonda teurde ses maîtres, et le culte des sacra troyens à Lavinium, décalque
237 Early Rome, p. 286. 238 M. Pallottino (II grande acroterio femminile di Veto, ArchClass, 2, 1950, p. 122-179) reste très prudent à propos de cette identification, qu'il présente comme une hypothèse possible, non prouvée. M. Pallottino avait formulé les mêmes réserves in SE, 26, 1958 p. 336-339 (C. R. de l'ouvrage d'A. Alföldi, Die Trojanischen Urahnen der Römer).
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de celui que connaissaient les cités étrusques, ne serait que l'expression religieuse d'une domination politique. G. K. Galinsky239 défend lui aussi la thèse d'une origine étrusque de la légende d'Enée et des Pénates, mais son argumentation est un peu différente; en effet, bien qu'elle s'appuie à peu près sur les mêmes documents littéraires et iconographiques que celle d'A. Alföldi, elle aboutit à considérer que, si Enée a été connu en Italie comme ancêtre fondateur d'un certain nombre de cités étrusques, Lavinium n'a pas servi d'intermédiaire entre l'Etrurie et Rome pour la connaissance de sa légende. S'appuyant sur la notice d'Hellanicos240 qui fait d'Enée le fondateur de Rome, il considère que le lien entre Enée et Lavinium n'est qu'un aspect secondaire de la légende, attesté pour la première fois au IIIe siècle, dans Y Alexandra de Lycophron; l'adoption d'Enée comme ancêtre par les Romains est une manifestation de la domination étrusque sur Rome au VIe siècle, et l'enracinement de la légende troyenne à Lavinium n'est que le fruit d'une réflexion secondaire241, qui a assimilé aux composantes de la légende troyenne certains éléments de la tradition lavinate : Indiges devient Enée, les Dioscures, vénérés à Lavinium depuis le VIe siècle, comme en témoigne la dédicace trouvée près d'un des treize autels, sont identifiés aux Pénates étrusco-troyens vénérés à Rome; cette assimilation s'est faite, selon G. K. Galinsky, au IVe siècle, au moment où Rome établit définitivement sa domination sur l'Italie centrale par le traité de 338. Si cette question est tellement épineuse et controversée, c'est en partie - et le fait n'a pas échappé à G. K. Galinsky - parce qu'elle soulè ve et pose en des termes nouveaux le problème de l'origine des Etrus ques, et plus précisément, ici, de la manière dont les Etrusques voyaient eux-mêmes leurs origines; leur mère-patrie aurait été l'Asie Mineure, d'où ils seraient venus avec Enée jusqu'en Etrurie, dans une migration qui aurait supposé plusieurs étapes, et en particulier une en
239 Aeneas, Sicily and Rome, Princeton, 1969, p. 122-169. 240 In Denys d'Halicarnasse, I, 72, 2. 241 T. J. Cornell {Aeneas' arrival in Latium, Liverpool Classical Monthly, 2, 1977, p. 7783) estime que, malgré la présence du personnage d'Enée en Etrurie et les découvertes archéologiques de Lavinium, la légende de la venue du Troyen au Latium est fort proba blement le fruit des spéculations d'érudits grecs, sans racines véritables dans les tradi tions locales ; à Rome, cette légende aurait été tardivement « crée, développée et propagée par des poètes, des hommes politiques et des professeurs». Cette conception est violem mentcontestée par F. Castagnoli (La leggenda di Enea nel Lazio p. 8-9).
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Sicile, où les Elymes seraient considérés par les Etrusques comme leurs ancêtres, ou leurs parents. Cependant, il nous semble qu'il faut se gar der de la tentation de vouloir établir la chronologie et l'itinéraire d'une légende d'Enée, porteur des Pénates et fondateur d'une nouvelle Troie, dont tous les éléments auraient été donnés dès l'origine; d'autre part, s'il est certain que l'histoire politique de l'Italie centrale entre le VIe et le IVe siècle a eu de fortes incidences sur les lieux d'implantation et la formulation de la légende, il est à l'heure actuelle très difficile de déli miter exactement, dans le temps et dans l'espace, les apports grecs et étrusques dans l'élaboration de la civilisation latine242. Les arguments sur lesquels s'appuie la thèse donnant à la légende d'Enée en Italie des origines étrusques sont essentiellement d'ordre ic onographique. Or, il faut examiner avec beaucoup de prudence ces documents. L'amphore de Tragliatella est d'une interprétation délicate, et G. K. Galinsky, qui en tient pourtant pour une origine étrusque de la légende d'Enée, conteste qu'il faille voir dans le mot Truia une allusion à la cité de Priam, et considère au contraire qu'il désigne simplement une place fortifiée243, en notant d'autre part que le sens de l'ensemble des scènes représentées reste mystérieux, et que certaines sont manifes tementerotiques. La datation du scarabée étrusque de la Collection de Luynes, comme des statuettes de Véies, est également très discutée. M. Pallottino244 reconnaît dans les caractères stylistiques de l'intaille une expression de l'art tardo-archaïque du début du Ve siècle, tandis qu'il propose le milieu du Ve siècle pour le groupe de terre cuite repré sentant Enée et Anchise; enfin, les acrotères de Véies, si tant est que l'on puisse admettre (ce que le savant italien, nous l'avons rappelé, conteste par ailleurs) que l'un d'eux représentait Enée et Anchise, datent du Ve siècle. De la sorte, nous semble-t-il, on arrive assez bien à se représenter l'histoire du thème iconographique de la fuite d'Enée en Etrurie : dans la seconde moitié du VIe siècle, comme l'atteste la décou verte des 17 vases attiques traitant ce sujet, les ateliers grecs font connaître la figure d'Enée, qui est ensuite reprise, vers le début du Ve siècle, par les artistes locaux. Il n'y a donc pas coïncidence, ainsi que le
242 Cf. l'ensemble des études contenues dans Lazio arcaico et mondo greco, PP, 32, 1977. 243 Aeneas, Sicily and Rome, p. 121-122, et p. 122 n. 47 pour la bibliographic 244 Compte rendu de l'ouvrage d'A. Alföldi, Die Trojanischen Urahnen der Römer, in SE, 26, 1958, p. 336-339.
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souligne fortement M. Pallottino, entre le moment où le thème d'Enée est en vogue dans l'art étrusque, et celui de la domination étrusque sur l'Italie centrale; la présence du thème, du reste assez brève (une ci nquantaine d'années semble-t-il), correspond au contraire à l'époque où Rome et le Latium échappent à l'hégémonie de l'Etrurie et où s'effon dre cette dernière245. Ainsi l'archéologie apporte des preuves assez fragiles de la primaut é de l'Etrurie dans la diffusion de la légende d'Enée. Il faut être pru dent dans les conclusions que l'on peut tirer de la présence du person nage d'Enée en Etrurie à la fin de l'époque archaïque. M. Pallottino246 met en garde contre la tentation de déduire de l'existence des représent ations d'Enée celle d'un culte local des Enéades : les statuettes d'Enée et d'Anchise peuvent fort bien être des ex-voto parmi d'autres, nom breux et variés, sans qu'ils aient tenu une place privilégiée; de plus, même si l'on admet que le modèle de ce groupe constituait un acrotère brisé du temple de Véies, «cela ne voudrait pas dire qu'Enée avait un culte, étant donné que la décoration architectonique des édifices sacrés offre presque toujours des thèmes totalement indépendants de la desti nation religieuse spécifique du monument»247. Aussi faut-il éviter le danger, signalé par le savant italien comme par J. Perret248, de passer d'une légende à une autre, et de croire que, parce qu'Enée était connu dans le monde étrusque, il y était vénéré comme, ancêtre fondateur, Y Aeneas Penatiger que nous présente la tradition romaine de l'époque augustéenne. Rien n'indique qu'Enée ait bénéficié en Etrurie d'un culte national249, ni qu'il y ait été considéré comme l'ancêtre divinisé, ce qui relève d'ailleurs plutôt des conceptions grecques. Notons aussi que, parmi les héros de l'épopée troyenne connus des Etrusques, Ulysse
245 G. Dury-Moyaers (op. cit., p. 173) aboutit à une conclusion analogue: «Si les Etrusques ont reçu le personnage d'Enée dès la fin du VIe siècle, ils ne l'ont intégré à leur culture que durant la première moitié du Ve siècle. C'est seulement à partir de ce moment qu'ils sont susceptibles de l'avoir transmis aux Latins. Or à cette époque, l'i nfluence étrusque dans le Latium diminue, et l'on voit mal les Latins accueillir un héros «vénéré» par ceux dont ils essaient de limiter l'influence sur leurs territoires». 246 Ibid. 247 Op. cit., p. 338. 248 Rome et les Troyens, REL, 40, 1971, p. 41-43; la même idée est exprimée chez un certain nombre de critiques : cf. J. Poucet, op. cit., II, p. 181, n. 77. 249 Cf. J. Perret, Rome et les Troyens, p. 43 ; T. J. Cornell, Aeneas and the Twins, PCPhS, 201, 1975 p. 13; F. Castagnoli, La leggenda di Enea nel Lazio, p. 3-4.
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semble avoir tenu une place aussi importante que celle d'Enée250. Enf in, un certain flottement dans le traitement iconographique du thème donne à penser que le personnage d'Enée, dont le nom ne figure du reste dans aucun document étrusque archaïque, n'avait pas en Etrurie l'importance qu'A. Alföldi et G. K. Galinsky veulent lui accorder : le type, assez grossièrement façonné, quoique émouvant, des statuettes de Véies, où les sacra ne figurent pas aux mains d'Anchise, est très diffé rent de celui du scarabée, d'une facture fine et d'un modelé délicat, et sur lequel apparaît pour la première fois la ciste tenue par Anchise251. Nous sommes donc en face de deux faits troublants : d'une part, l'absence d'attestations de la légende d'Enée à Lavinium avant le IVe siècle, d'autre part la présence de cette légende en Etrurie dès la fin du VIe siècle ou le début du Ve siècle. Nul doute en tout cas - et les vases attiques importés en témoignent - que la légende soit apparue en Italie centrale sous l'influence de la Grèce. L'absence de documents iconogra phiques ne prouve d'ailleurs pas que la légende d'Enée, non comme héros fondateur, mais comme rescapé de la Guerre de Troie, ait été inconnue à Lavinium à l'époque archaïque. Il faut, plutôt que de cher cher à assigner une primauté à telle ou telle influence, se représenter la civilisation du Latium comme une «koinè culturelle», suivant l'expres sion de J. Poucet252. Au VIe siècle, le personnage d'Enée est introduit en Italie, mais peut-être simultanément dans le Latium et en Etrurie méri dionale253, parmi beaucoup d'autres éléments de la culture grecque. J. Heurgon254 a insisté sur l'importance jouée par le trafic maritime sur ces côtes, trafic qui a permis la pénétration de la civilisation grecque : les villes portuaires ont naturellement joué un rôle de premier plan dans ce processus, parmi lesquelles Caeré pour l'Etrurie méridionale, et Lavinium pour le nord du Latium. Les navigateurs, remarque 250 Cf. F. Borner, Rom und Troia, p. 23 sq. 251 G. Dumézil se fonde sur l'étude d'une bouche de bronze trouvée à Castel de Deci ma et représentant peut-être Anchise (cf. A. Bedini, L'ottavo secolo nel Lazio e l'inizio dell'orientalizante antico, in PP, 32, 1977, p. 297 sq.) pour supposer que le personnage d'Enée a été connu dans le Latium dès la fin du VIIe siècle, et que, loin d'être un apport des Etrusques, il appartient au «patrimoine latin» et a été utilisé pour exalter le nationa lismelatin contre eux {Anchise foudroyé? dans L'oubli de l'homme et l'honneur des dieux, Paris, 1985, p. 160-61; hypothèse déjà formulée dans La Religion romaine archaïque, p. 317; voir aussi G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 175-79; cf. supra p. 238 n. 101. 252 Ibid., I, p. 600. 253 M. Pallottino, ibid. 254 La Magna Grecia e i santuari del Lazio, p. 12-19.
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J. Heurgon, venaient souvent de la Chalcidique, et arrivaient sur la côte tyrrhénienne après avoir fait escale en Grande-Grèce255. Or, en ce qui concerne précisément la diffusion de la légende d'Enée, on sait que selon certains auteurs, notamment Hellanicos256, Enée, après son dé part de Troie, aurait fait, dans son errance, une étape en Chalcidique dans la ville de Pallènè; la ville d'Aineia, dont il était considéré comme le fondateur et à laquelle il a donné son nom, a frappé au VIe siècle des tétradrachmes représentant la fuite du héros portant son père, accom pagné de deux autres personnages, sans doute Creuse et Ascagne257. On s'explique ainsi assez bien que cette légende soit arrivée en Etrurie, mais probablement aussi dans le Latium : Caeré et Lavinium sont dis tantes d'une cinquantaine de kilomètres. Peut-être d'autres facteurs ont-ils, dès le VIe siècle, facilité l'intr oduction de la légende d'Enée à Lavinium. Les trois plus anciens des treize autels ont été construits au VIe siècle, et nous avons vu qu'on avait retrouvé des traces d'édifices y attenant, eux aussi datables de l'époque archaïque. L'hypothèse, soutenue par F. Castagnoli258 nous pa raît la plus vraisemblable, suivant laquelle cet ensemble serait l'Aphrodisium fédéral des Latins, mentionné par ailleurs dans les sources litt éraires259. La présence de Vénus- Aphrodite en ce lieu, situé dans la zone comprise entre l'oppidum de Lavinium et la mer, a pu contribuer au succès de la légende d'Enée que l'épopée grecque présentait comme le fils de Vénus et d'Anchise; dans l'annalistique romaine du reste, chez Cassius Hemina en particulier, ce lien sera exploité jusqu'à faire d'Enée l'initiateur du culte de sa mère à Lavinium : ibi (= in agro Lamenti) dum simulacrum, quod secum e Sicilia aduexerat, dedicai Veneri mairi quae Fruits dicitur260. Sans aborder ici le problème des origines du culte de Vénus dans le Latium261, rappelons que cette épiclèse de Fruits, employée uniquement ici et chez Festus262, reste mystérieuse : les inter prétations les plus probables sont soit une déformation étrusque
255 Cf. aussi G. Vallet, Rhégion et Zancle, Paris, 1958, p. 309 sq. 256 In Denys d'Halicarnasse, I, 47, 6 et 48, 1. 257 Voir ci-dessus, p. 197. 258 Lavinium I, p. 110-111; Lavinium II, p. 5. 259 Strabon V, 3, 5; Cassius Hemina cité par Solin, II, 14. 260 Cassius Hemina, in Solin, II, 14. 261 R. Schilling, {La religion romaine de Vénus, 2e éd., Paris, 1982, p. 83-84) reconnaît à Lavinium un rôle de premier plan dans la diffusion du culte. 262 80 L.
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d"A(ppoÔÎTT| 263 soit une adaptation en latin du grec πρύταννις264, appella tion signifiant «souveraine» et souvent appliquée aux grands dieux en Grèce265. On ignore également à quelle date elle apparaît à Lavinium, mais si on se rallie à une interprétation «étrusque» du mot, il faut la rapporter au VIe siècle. De toute façon, et quelle que soit l'étymologie proposée, le mot paraît l'illustration même, dans le domaine religieux, de la «koinè culturelle» où se mêlent traditions locales, influences étrusques, importations grecques. Enfin, dernier élément qui explique peut-être le succès de la légende d'Enée à Lavinium, cette cité semble être dès le début de l'époque archaïque, et surtout au VIe siècle, comme nous l'avons vu par la floraison de l'architecture religieuse, un centre cultuel important, abritant non seulement des cultes locaux, mais éga lement un sanctuaire fédéral, et probablement aussi le lieu d'une activi té commerciale qui explique sa prospérité. Une autre raison, enfin, est peut-être d'ordre toponymique, mais elle est très controversée. Nous avons vu qu'il existait sur la côte, un peu au nord de Lavinium, un lieu appelé Troia, port de Lavinium, semble-t-il, que l'on présentait comme le lieu du débarquement d'Enée. Reste à savoir si l'endroit fut appelé Troia à cause de la légende d'Enée, ou si c'est au contraire l'existence très ancienne de ce toponyme qui a aidé à la fixation de la légende. Aucune étymologie sûre n'a été proposée pour ce nom266, et nous avons indiqué que l'interprétation de l'amphore de Tragliatella portant le mot Truia était fort délicate. On a songé aussi à rapprocher ce nom du Lusus Troiae romain267. Peut-être l'élément le plus positif en faveur d'une antériorité du toponyme sur la légende de la venue des Troyens serait-il l'existence de ce même nom non loin de Lavinium, entre Lanuvium et Antium268.
263 R. Schilling, op. cit., p. 76-83. 264 F. Castagnoli, Lavinium I, p. 106 n. 7. 265 L'explication de Frutis comme signifiant «la Phrygienne» a été défendue par S. Ferri (SCO, 1960, p. 167-169) et G. Pugliese Carratelli (Lazio, Roma e Magna Grecia pri ma del secolo quarto a.C, PP, 32, 1968, p. 321-347). 266 F. Castagnoli, Lavinium I, p. 92-93. 267 F. Castagnoli (op. cit., p. 93 η. 5) propose avec prudence un très ingénieux ensemb le de rapprochements entre le Lusus Troiae et la légende de l'arrivée d'Enée, par l'inte rmédiaire du rituel de YEquus October. Mais rien ne permet de dire à coup sûr quels étaient les éléments préexistants. 268 Cicéron, Ad AU. IX, 9, 4; 13, 6; cf. F. Castagnoli (op. cit., p. 93 n. 4) pour la ment ion de ce nom à Ardée chez Stéphane de Byzance, résultat d'une mauvaise interprétation d'un texte de Denys. Revenant récemment sur ce problème (La leggenda di Enea nel
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A la fin de l'époque archaïque, donc, rien n'indique que la légende d'Enée avait atteint à Lavinium la forme illustrée par la littérature lati ne classique. Nous pensons au contraire que si Enée y est connu - ce qui n'est pas prouvé, mais possible -, c'est, comme chez ses voisins étrusques, en tant que personnage du cycle homérique, encore très pro che des poèmes du cycle troyen : un héros fugitif, chargé d'espérances dont la réalisation reste vague. Il n'est, dans le Latium du VIe siècle, ni porteur des Pénates, ni ancêtre fondateur, non plus d'ailleurs qu'en Etrurie. Ce qui va donner sa formulation définitive à la légende des ori gines troyennes de Lavinium, c'est l'enracinement de la tradition de l'épopée grecque, du reste assez pauvre en ce qui concerne le personna ge d'Enée, dans la culture et les croyances locales, qui vont être modif iées sous l'effet des influences grecques et étrusques. La conception grecque du héros fondateur va modifier l'idée que les habitants pou vaient se faire des origines de leur cité; de même, les sacra que Stésichore semblait avoir placés entre les mains d'Anchise, et qui figurent aussi sur le scarabée de la Collection de Luynes, ont pu être mis en relation avec des dieux locaux appelés Penates, symbolisant ainsi, sur le plan religieux, la résurrection de Troie; enfin, l'histoire du Latium archaïque, des rivalités entre les cités qui le composent, de leurs liens, de leur coalition contre Rome, écrasée par cette dernière en 338 avant J.-C, contribue à expliquer à la fois la transformation des Pénates de Lavinium et l'extraordinaire succès de la légende à' Aeneas penatiger à Lavinium et à Rome.
Lazio, p. 9), F. Castagnoli estime que le toponyme est une conséquence de l'introduction de la légende d'Enée, et non l'inverse.
CHAPITRE IV
ROME ET LES PÉNATES DE LAVINIUM
La légende du transfert des sacra en Italie par Enée légitime les prétentions des Romains à être les héritiers des Troyens, en même temps que celles de la Gens Iulia à exercer le pouvoir suprême. Au 1er siècle avant J.-C, où cette légende connaît un grand succès, Lavinium est considérée par les Romains comme la cité-mère de Rome, puisque cette dernière lui doit non seulement les ancêtres du fondateur Romul us, mais aussi les cultes qui constituent la base de la religion publique, et notamment celui des Pénates. C'est ainsi que la présente Varron dans un texte déjà cité : Oppidum quod primum conditum in Latio stirpis Romanae, Lauinium : nam ibi dii Penates nostri1. Denys d'Halicarnasse souligne aussi ce caractère de métropole religieuse de Lavinium : την μητρόπολιν ημών Λαουίνιον2 dit Véturie à Coriolan dans le long dis cours qu'elle adresse à son fils pour le détourner de se battre aux côtés des Volsques contre Rome qui l'a exilé. Elle lui rappelle qu'exilé, lui aussi, à cause d'injustes soupçons, Tarquin Collatin n'en a pas eu de ressentiment contre sa patrie, mais a fini ses jours à Lavinium, présent ée dans les termes cités ci-dessus comme une seconde patrie, et, mieux, comme la patrie originelle de tout Romain. Nous voudrions montrer ici que cette légende de la filiation entre Lavinium et Rome, solidement établie au Ier siècle avant J.-C, a sans doute trouvé une formulation à peu près définitive trois siècles plus tôt. Nous avons vu, dans le précédent chapitre, que deux séries de faits ont préparé l'établissement de cette légende : d'une part, il a existé sans doute très anciennement à Lavinium des divinités latines appelées Pé nates, d'autre part, des éléments spécifiques du site et de la civilisation lavinates ont favorisé l'implantation de la légende d'Enée; ce personna-
1 De L.L. V, 144. 2 VIII, 49, 6.
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ge apparu en Italie centrale dès le VIe siècle contenait des virtualités qui l'ont fait choisir, de préférence à tel autre, comme ancêtre légen daire des Romains. C'est, nous semble-t-il, au IVe siècle, que s'est pro duite la fusion de tous les éléments qui allaient constituer la légende des origines troyano-lavinates de Rome, dont l'expression est sensible à Lavinium même, mais aussi dans les relations qui vont s'établir à cette date entre Lavinium et Rome.
I - L'établissement à Lavinium de la légende d'Enée COMME ANCÊTRE FONDATEUR Le IVe siècle marque une étape décisive dans l'histoire de Lavinium et de ses cultes, et dans le développement de la légende des origines troyennes de la cité. L'essor de cette dernière a pour pivot la nouvelle dimension prise par le personnage d'Enée à Lavinium. 1) Développements architecturaux La tombe orientalisante à tumulus du VIIe siècle, rouverte au VIe siècle, a été complètement remodelée à la fin du IVe siècle3, datation suggérée par la céramique qu'on y a retrouvée4. Au-dessus du caisson de la tombe archaïque, on construisit une cella carrée, sans pavement, à laquelle on accédait par une sorte de vestibule rectangulaire à antes, construit dans le tumulus, fait de blocs de tuf assemblés en opera qua drata, et lui-même composé de deux parties; l'un de ses côtés ouvrait sur l'extérieur du tumulus, formant une sorte de pronaos, l'autre com muniquait avec la cella par une fausse porte en tuf à deux battants décorés de panneaux sculptés, dont on a retrouvé celui de droite5. Les détails de cette construction, qui l'apparentent à un sacellum, ainsi que le fait que la cella soit fermée par une porte scellée, permettent d'ident ifierce monument comme un cénotaphe, et de penser qu'il avait une destination cultuelle, comme l'attestent les nombreux petits vases trou vés dans le pronaos. D'autre part, deux détails montrent que la cons-
3 C. F. Giuliani-P. Sommella, Lavinium. : Compendio dei documenti archeologici, PP, 32, 1977, p. 366-368. 4 P. Sommella, Heroon di Enea a Lavinium, RPAA, 44, 1971 72, p. 52 et fig. 6 et 7. 5 Op. cit., p. 51, fig. 5.
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truction du IVe siècle ne s'est pas simplement superposée aux restes d'une tombe ancienne avec laquelle elle n'aurait eu aucun rapport; P. Sommella6 souligne qu'au contraire la cella, construite au-dessus de la tombe ancienne, est en partie appuyée sur elle; de plus, le caisson archaïque se trouve au centre du nouvel édifice, qui semble donc s'o rdonner autour de lui, et on a découvert, à la même profondeur que le fond de la tombe, un cratère à cloche daté du IVe siècle, qui, selon l'e xplication la plus probable, a été placé là lors du remaniement de l'édifi ce à cette époque. P. Sommella7 croit pouvoir identifier dans ce monu ment l'Hérôon d'Enée évoqué par Denys d'Halicarnasse : au cours du combat entre Enée et Mézence, le Troyen disparaît sans que l'on ait pu retrouver son corps; ses compagnons pensent donc soit qu'il est allé rejoindre les dieux, soit qu'il est tombé dans la rivière près de laquelle a eu lieu la bataille; on construit en son honneur un Hérôon, dont Denys dit : εστί δε χωμάτιον ού μέγα και περί αυτό δένδρα στοιχηδον πεφυκότα θέας άξια8. Denys a sans doute vu personnellement ce tumulus; P. Sommella en veut pour preuve le détail ού μέγα, et, de même, F. Casta gnoli a pu montrer que les indications données par Denys correspon dent à des réalités précises de la topographie et de l'architecture lavinates9. Denys ajoute qu'on pouvait lire sur la tombe une inscription qu'il transcrit ainsi : Πατρός θεού χθονίου, ος ποταμού Νομίκιου ρεΰμα διέ πει10; l'inscription latine, elle, n'a pas été retrouvée par les archéolo gues. Bien évidemment, cette identification n'est qu'une hypothèse, dont J. Poucet11 souligne avec vigueur les difficultés. Il n'existe, selon lui, aucune preuve décisive que le monument en question est bien celui dont parle Denys d'Halicarnasse, puisqu'on n'a pas retrouvé l'inscrip tion dédicataire; J. Poucet ajoute que, quand bien même ce monument
6 Op. cit., p. 70-71. 7 Ibid. ; id., Das Heroon des Aeneas und die Topographie des antiken Lavinium, Gym nasium, 81, 1974, p. 273-304; de même, G. Κ. Galinsky, The «Tomb of Aeneas» at Lavinium, Vergilius, 20, 1974, p. 2-11; CF. Giuliani, Santuario delle Tredici are. Heroon di Enea, in Enea nel Lazio, Catalogue de l'Exposition, Rome, 1981, p. 172-175. 8 I, 64, 4: «C'est un tumulus relativement petit, autour duquel ont été plantés des arbres en rang régulier, qui valent d'être vus». 9 / luoghi connessi con l'arrivo di Enea nel Lazio, ArchClass, 19, 1967, p. 244; c'est ainsi que F. Castagnoli a pu identifier l'antique Numicus comme l'actuel Fosso di Prati ca;voir ci-dessus, p. 297-8. 10 Ibid. ; voir ci-dessus, p. 299 sq. 11 Le Latium protohistorique et archaïque à la lumière des découvertes archéologiques récentes, II, AC, 47, 1978, p. 181-182.
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serait celui qu'a vu Denys, l'inscription ne comporte pas la mention du nom d'Enée; Denys peut donc fort bien rapporter, en toute bonne foi, ce que probablement lui ont dit les habitants (que cette tombe est celle d'Enée), sans que pour autant cette désignation remonte au IVe siècle; elle peut refléter simplement la légende des origines troyennes telle qu'elle était connue au Ier siècle avant J.-C, et de plus, aucun texte litt éraire antérieur au Ier siècle n'atteste l'identification d'Enée à Indiges12. Il n'existe, en effet, aucune preuve irréfutable du fait que l'hérôon découvert récemment est celui qu'a vu Denys, ni de témoignage de l'a ssimilation d'Enée à Indiges au IVe siècle. Cependant, à l'appui de l'h ypothèse avancée par P. Sommella, nous voudrions rappeler ici une série de faits dont aucun ne constitue une preuve déterminante de son bien-fondé, mais dont la convergence n'est pas sans intérêt. A ce jour, on n'a découvert aucune autre tombe à tumulus sur le site de Lavi nium, ce qui ne constitue pas en soi un argument suffisant, mais il faut tout de même remarquer que l'hérôon découvert en 1963 devait être, dans ce que l'on peut reconstituer de son état au IVe siècle, dédié à un personnage de toute première importance dans la vie et dans l'histoire de la cité13. D'autre part, P. Sommella accorde, à juste titre croyonsnous, une grande importance au fait que la tombe à caisson du VIIe siècle est restée, en quelque sorte, au cœur de l'édifice du IVe siècle, comme il a été noté plus haut; ce qui se manifeste ainsi, c'est une tenta tivedes constructeurs du IVe siècle pour «mettre l'hérôon, ou le culte qui y était pratiqué, en rapport avec la tombe protohistorique»14. En outre, le monument se trouve à une centaine de mètres au sudest du sanctuaire des Treize autels. Il y a lieu de penser, étant donné l'importance de ce complexe architectural, qu'il existait une relation entre lui et l'hérôon. Or le sanctuaire a toutes les chances d'être 12 G. Dury-Moyaers (Enée et Lavinium. A propos des découvertes archéologiques récentes, Coll. Latomus, vol. 174, Bruxelles, 1981, p. 212 n. 163) est elle aussi très réticente pour admettre que la tombe à tumulus est bien celle d'Enée. J. Heurgon {La thèse de Jérôme Carcopino et les fouilles actuelles sur le territoire des Laurentes, in Hommage à la mémoire de J. Carcopino, Paris, 1977, p. 172) note que si le monument avait été élevé pour Enée, l'inscription n'eût pas manqué de comporter son nom, mais rappelle toutefois la présence de l'inscription de Tor Tignosa, contemporaine de l'hérôon. Cf. ci-dessous, p. 332 sq. T. J. Cornell {Aeneas'arrival in Italy, Liverpool Classical Monthly, 2, 1977, p. 8083) nie cette identification, que F. Castagnoli {La leggenda di Enea nel Lazio, StudRom, 30, 1982, p. 13 n. 64) a, récemment encore, vigoureusement défendue. 13 Heroon di Enea a Lavinium, p. 62-63. 14 Op. cit., p. 71.
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Y Aphrodisium fédéral mentionné par Strabon15. Aussi est-on tenté de trouver dans la proximité géographique du sanctuaire et de l'hérôon une expression de la relation de filiation qu'établit la légende entre Vénus et Enée. De plus, si l'hérôon est daté du IVe siècle, c'est à cette époque aussi, nous l'avons vu dans le précédent chapitre, que l'archi tecture du sanctuaire reçoit une nouvelle impulsion, avec l'achèvement de la rangée des autels : les autels X, XI, XII, et l'autel IX reconstruit, sont posés sur une seule plate-forme, donnant ainsi à l'ensemble l'a spect d'un alignement continu16. Entre autres conclusions que l'on peut en tirer, il y a sans doute une nouvelle signification, ou une importance accrue, donnée à la divinité dédicataire, Vénus, croyons-nous. L'hypo thèsesuivant laquelle l'hérôon tout proche serait celui d'Enée serait ainsi étayée par une coïncidence chronologique entre l'essor du sanc tuaire et la nouvelle dimension donnée par les Lavinates au personnage d'Enée, promu au rang d'ancêtre divinisé. Il nous paraît y avoir là une cohérence entre les phases architecturales du monument et les étapes de la constitution de la légende d'Enée. 2) Aeneas Indiges Nous avons vu17 comment le nom d'Indiges, qui désignait sans doute originellement une divinité solaire, avait été interprété par les auteurs grecs comme signifiant «ancêtre fondateur». Que cette notion n'ait pas été, dès le IVe siècle, appliquée à Enée, c'est éminemment pro bable. Il n'en reste pas moins qu'à partir du Ier siècle avant J.-C, l'épithète Indiges désigne Enée divinisé, dans des formulations assez variées du reste. En effet Enée est, soit désigné seulement comme Indiges18, soit comme Aeneas Indiges19, comme deus Indiges20, comme Pater Indi ges21, soit encore comme Iupiter Indiges22. Pourquoi cette assimilation d'Enée à une divinité adorée à Lavinium dont le nom reste mystérieux?
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V, 3, 5. Voir ci-dessus p. 315. C. F. Giuliani-P. Sommella, Compendio. . . p. 355-359. Voir ci-dessus, p. 229 sq. Voir ci-dessus, p. 306. Ovide, Met. XIV, 608; Paulus-Festus, 94 L; Gell., II, 16, 9. Virgile, En. XII, 794; Schol. de Vér., Ad Aen. I, 259; Martianus Capella, VI, 637. Tibulle, II, 5, 49. CIL, X, 8348; Origo Gent. Rom., 14, 4; Solin, II, 14. Liv., I, 2, 6; Servius-Daniel, Ad. Aen. I, 259.
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Sans doute la notion d'Indiges a-t-elle connu ce que R. Schilling23 appelle «une période de flottement» entre le culte proprement solaire et l'assimilation à Enée : elle était à la fois vague et prestigieuse, prête donc à accueillir un personnage à qui était attribuée la fondation de Lavinium. Nous avons noté qu'un certain nombre d'éléments de la légende d'Enée font apparaître des parentés entre Enée et Indiges, en raison de l'importance donnée au Soleil pour sauver la vie d'Enée et de ses compagnons, et aussi du rôle joué par l'eau. Si de plus, comme nous le croyons, l'influence grecque a introduit à Lavinium la notion d'ancêtre fondateur24 et que cette dernière s'est plus ou moins fixée sur le vieux terme d'Indiges, il y a là un élément supplémentaire qui a facilité l'assimilation avec Enée25. Cela suppose un changement dans la conception du personnage du Troyen : nous avons vu qu'au VIe siècle, il était seulement l'un des protagonistes de la Guerre de Troie; le motif iconographique de sa fuite - le motif littéraire aussi, chez Stésichore n'est que l'un de ceux que l'Italie a hérités de la Grèce, mais il semble avoir connu une certaine vogue en Etrurie et en Italie centrale. Au contraire, Y Aeneas Indiges que mentionne la littérature à partir du Ier siècle est l'ancêtre fondateur divinisé. Il existe des liens étroits entre le Numicus, nettement rattaché par une inscription, Numice Lauinas26, à la ville de Lavinium, et Enée. A ce fleuve est associé le souvenir du dernier combat mené par Enée contre Mézence, roi des Etrusques et allié des Rutules27. Denys d'Halicarnasse désigne le Numicus comme le fleuve παρ' ον ή μάχη έγένετο28, et ì'Origo Gentis Romanae situe près du Numicus le rassemblement de l'armée d'Enée : Aeneam copias in aciem produxisse circa Numici fluminis stagnum29. Après la bataille, on ne retrouve plus le corps d'Enée. Servius, citant un passage de Caton, rapporte qu'Enée est tombé dans le fleuve au moment où il accomplissait un sacrifice : uictor Aeneas cum sacrificaret super Numicum fluuium lapsus est30; on a retrouvé son cadavre
23 Le culte de findiges à Lavinium, REL, 57, 1980, p. 67. 24 B. Liou-Gille, Cultes «héroïques» romains. Les fondateurs, Paris, 1980, p. 7-13. 25 Cf. I. Cazzaniga, // frammento 61 degli Annali di Ennio, PP, 19, 1974, p. 370. 26 CIL XIV, 2065. 27 Voir C. Cogrossi, Alena Iliaca e il culto degli eroi, in Politica e religione nel primo scontro tra Roma e l'Oriente, Milan, 1982, p. 79 sq. 28 I, 64, 4. 29 14, 4. 30 Ad Aen. IV, 620.
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dans le fleuve, qui lui a alors été consacré, indique ailleurs Servius : in quo (= le Numicus) repertum est cadauer Aeneae et consecration31. TiteLive mentionne la mort d'Enée au même endroit et dans les mêmes ci rconstances, en ajoutant que le Troyen a été enterré, ou qu'on lui a const ruit un cénotaphe, près du Numicus, où il est vénéré sous le nom de Jupiter Indiges : situs est (= Enée mort)... super Numicum f lumen : louent Indigetem appellant32; toutefois, Tite-Live refuse de reprendre tout à fait à son compte cette apothéose et même le nom sous lequel on désigne le Troyen mort (quemcumque eum dici ius fasque est)33; Denys d'Halicarnasse donne davantage de précisions34: quand la nuit qui a séparé les deux armées fait place au jour, et que les Troyens constatent la disparition d'Enée, certains expliquent ce fait comme une apothéose (οί μεν είς θεούς μεταστήναι εϊκαζον), d'autres pensent qu'Enée est tombé dans le fleuve (οί δ' έν τω ποταμφ. . . διαφθαρήναι). Mais surtout, indépendamment du fleuve qui garde présent le souvenir du héros divi nisé, les compagnons d'Enée construisent en son honneur un hérôon qui exprime clairement l'identification du mort avec le Numicus, puis qu'on pouvait y lire, selon Denys, l'inscription suivante : Πατρός θεοϋ χθονίου, ος πόταμου Νομικίου ρεΰμα διέπει35. L'étranger Enée est donc assimilé, après sa mort, au lieu même où il a fini sa vie, identifié au fleuve le plus important de la région de Lavinium. C'est non pas identi fié au fleuve, mais associé à lui, qu'il est représenté sur la ciste Pasinati de Préneste36: Enée est au centre de la scène, en haut, symétrique d'une divinité fluviale allongée en bas, dans laquelle on reconnaît le Numicus; le dieu tient à la main une gerbe de roseaux, qui rappelle le
31 Ad Aen. VII, 150. 32 I, 2, 6. 33 Ibid. : «quelque qualité qu'on doive humainement ou religieusement lui reconnaî tre» (trad. G. Baillet, C.U.F., Paris, 1958). 34 I, 64, 4. 35 Voir ci-dessus, p. 299 sq. Le lien entre Indiges et le Numicus fait apparaître com meaberrante, nous semble-t-il, la tradition rapportée par Denys (I, 64, 5) selon laquelle on disait aussi que cet hérôon avait été édifié par Enée en l'honneur d'Anchise : Anchise, dans la plupart des versions de la légende, n'est pas venu jusqu'au Latium, et il n'existe pas de lien entre lui et les eaux du Numicus. 36 Pour la discussion sur l'authenticité de cette ciste, cf. A. Alföldi, Early Rome and the Latins, Ann Arbor, 1964, p. 257 n. 2.
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caractère marécageux de la région, souligné par ailleurs dans les témoi gnages littéraires37. Mais cette relation privilégiée entre Enée et l'eau, nous la retrou vonsdès les premiers pas que fait le héros sur la terre italienne, dans le récit qu'en fait Denys : επειδή γαρ ορμώ χρησάμενοι τω Λαυρέντω σκηνάς έπήξαντο περί τον αίγιαλόν, πρώτον μεν πιεξομένοις τοις άνθρώποις ύπό δίψης ούκ έχοντος ΰδωρ του τόπου (λέγω δε ά παρά των εγχωρίων παρέλαβον) λιβάδες αυτόματοι νάματος ήδίστου έκ γης άνελθοΰσαι ώφθησαν, έξ ών ήτε στρατιά πάσα ύδρεύσατο και ό τόπος περιγυϊος έγένετο μέχρι θαλάττης καταβάντος άπό των πηγών του ρεύματος38. Ce miracle de l'eau douce, surgie de terre, sauvant la vie des Troyens une nouvelle fois menacée, est reconnu comme tel par Enée, qui va s'em presser d'en remercier les dieux : νυν μέντοι ούκέτι πλήθουσιν ώστε και άπορρειν αί λιβάδες, άλλ' εστίν ολίγον ύδωρ έκ κοίλω χωρίω συνεστηκός, λεγόμενον ύπο τών εγχωρίων ιερόν ηλίου· και βωμοί δύο παρ' αύτω δείκνυνται, ό μέν ανατολάς τετραμμένος, ό δέ προς δύσεως, Τρωικά ιδρύματ έφ' ών τον Αίνείαν μυθολογοΰσιν πρώτην θυσίαν ποιήσασθαι τω θεώ α, χαριστήριον τών υδάτων39. Un élément du récit de Denys nous semble remarquable : l'historien se fait l'écho d'une tradition locale, d'une légende qu'il a recueillie des habitants mêmes de Lavinium. Or, la tra dition associe au thème de l'arrivée d'Enée en Italie celui de sa pietas, attestée par son souci d'honorer le dieu qui a opéré le miracle, en lui construisant deux autels sur lesquels il a procédé au premier sacrifice en terre italienne; c'est le surgissement de l'eau qui a été à la fois le signe de la prédilection marquée par les dieux à Enée, et l'occasion pour le héros d'exercer sa piété. D'autre part, ce lieu est clairement rat taché par la tradition locale au souvenir du débarquement des Troyens; dans notre passage, les autels sont qualifiés de Τρωικά ιδρύματα, et un
37 Par exemple, Orig. Gent. Rom. 10, 12, 4 : peruenisse (Aenean) ad duo stagna aquae salsae uicina inter se. 38 I, 55, 1 : «Lorsqu'ils eurent jeté l'ancre à Lavinium et qu'ils eurent monté leurs tentes près du rivage, avant toute chose, les hommes torturés par la soif - car l'endroit ne possédait pas d'eau douce (je dis ce que j'ai appris des habitants), virent surgir spontané ment hors de terre des sources de l'eau la plus douce, dont se désaltéra toute l'armée et dont l'endroit fut baigné de toute part, car l'eau s'écoula des sources jusqu'à la mer». 39 I, 55, 2 : «Aujourd'hui cependant les sources ne sont plus assez abondantes pour déborder, mais il y a juste un mince filet d'eau recueilli dans un endroit creux, dont les habitants disent qu'il est consacré au Soleil; et près de lui se trouvent deux autels, l'un tourné vers l'est, l'autre vers l'ouest, constructions troyennes sur lesquelles, selon la légende, Enée offrit le premier sacrifice au dieu en remerciement de l'eau ».
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peu plus haut, dans son récit, Denys note : το χωρίον εξ φ κατεστρατοπεδεύσατο εξ εκείνου Τροία καλείται40. Le toponyme de Troia comme lieu du débarquement d'Enée en Italie est bien attesté par ailleurs chez les auteurs latins : ab Sicilia classe ad Laurentum agrum tenuisse. Troia et huic loco nomen est41, peut-on lire chez Tite-Live, et chez Festus : Troia. . . locus in agro Laurente, quo primum Italiae Aeneas cum suis constituit42. Le lieu-dit Troia, où a eu lieu le prodige du surgissement de l'eau, est mis également en relation avec le Numicus par Dion Cassius : περί Λαυρέντον δέ προσώκειλε (= Enee) το και Τροίαν καλού μενη ν, περί Νουμίκιον ποταμόν43. En ce lieu, consacré par Enée au Soleil, on construisit un sanctuaire à Sol Indiges, connu par la mention qu'en fait Pline l'Ancien; énumérant les villes et lieux-dits de la côte du Latium entre Ostie et Ardée, il cite, après la première de ces cités, opp idum Laurentum (= Lavinium) locus solis Indigetis, amnis Numtcius44. On remarque ici que l'emplacement consacré au Soleil se trouve entre Lavinium et le Numicus ce qui est en partie confirmé par une remar que de Denys, selon qui Troia serait à quatre stades de la mer45, et à vingt-quatre stades de la colline où se réfugie la truie miraculeuse qu'Enée doit sacrifier, et qui est l'emplacement de la future Lavinium : l'animal y met bas les trente porcelets46. Même en tenant compte du changement de la configuration de la côte depuis l'Antiquité, on est parvenu à identifier comme le sanctuaire de Sol Indiges les restes d'un bâtiment découvert sur la zone côtière au sud-est de Lavinium, et un peu au nord de l'embouchure du Fosso di Pratica47. Cet endroit, ratta chéau souvenir du débarquement d'Enée, ne doit pas être confondu avec l'emplacement de l'hérôon; Denys, excellent observateur de ces lieux, qu'il a lui-même visités et sur lesquels il s'est informé auprès des habitants, les différencie nettement, et par leur signification, et par
40 I, 53, 3 : «L'endroit où ils (= les Troyens) installèrent leur camp s'appelle depuis ce temps Troia»; cf. supra p. 316. 41 I, 1, 4. 42 504 L. 43 Fr. 1, in Tzetzes, Ad Lyc, 1232. 44 N.H., III, 5, 56; certains éditeurs ont corrigé Locus Solis en Lucus louis. 45 I, 53, 3; cela fait une distance de 708 mètres. 46 I, 56, 2; vingt-quatre stades = 4.262 mètres; supra p. 174-5. 47 Cf. F. Castagnoli, / luoghi connessi..., p. 237-240. On se rappelle (cf. ci-dessus p. 302) que le sanctuaire a dû être élevé à l'emplacement où se tenait plus anciennement un culte en plein air.
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leur topographie : l'un, commémorant l'arrivée d'Enée et le miracle qui a rendu sa survie possible, est très proche de la côte, dans un endroit assez marécageux, près du stagnum du Numicus; l'autre, monument dédié au héros mort, est sur une légère hauteur, entourée d'une rangée d'arbres48. Ce tombeau serait celui qui a été découvert à une centaine de mètres des treize autels, au sud-ouest de Lavinium. Il existe chez les auteurs latins la mention d'une autre source, liée elle aussi à l'histoire d'Enée et à sa présence en Italie : c'est Anna Perenna. Ovide49 rapporte en effet qu'entre autres légendes concernant ce personnage, on racontait qu'elle était la sœur de Didon, chassée du palais de la reine après la mort de cette dernière; elle fuit en bateau, et finit, après diverses errances, par atterrir en Italie, sur la côte de Lavi nium; Enée la reconnaît, s'apitoie sur son sort et sur celui de Didon, et la confie à sa femme Lavinia; mais cette dernière, folle de jalousie, pré pare sa perte, annoncée à Anna par Didon qui lui apparaît en songe; Anna fuit donc, est emportée par les eaux du Numicus, et transformée en nymphe des sources, près de ce dernier. Silius Italicus50 évoque l'histoire d'Anna Perenna à peu près dans les mêmes termes. On a donc là une légende, différente de celle rapportée par Denys, mais associant la venue d'Enée en Italie à une source située près du Numicus51.
48 I, 64, 5. « Fastes III, 655-56 : Placidi sum Nympha Numici : amne perenne latens Anna Perenna uocor. 50 Pun. VIII, 179-200. 51 Le lien étroit existant entre Anna Perenna et le Numicus avait été souligné par R. H. Klausen {Aeneas und die Penaten II, Hambourg-Gotha, 1839-40, p. 719), pour qui Anna Perenna est une nymphe dont le culte est attesté à Lavinium, Albe, et Rome; F. Castagnoli {Lavinium I, Rome, 1972, p. 111, et n. 5 pour les références bibliographiques) pense qu'elle est liée au Numicus, mais reste réservé sur sa nature, discutée, et n'accorde guère de valeur au témoignage d'Ovide, en raison de l'identité que le poète postule entre la nymphe et la sœur de Didon; M. Torelli {Lavinio e Roma, Rome, 1984, p. 63), estimant, au contraire, qu'il faut accorder la plus grande foi aux vers d'Ovide et aux différentes explications étiologiques qu'ils contiennent, réaffirme, à la suite du poète, les liens étroits d'Anna et du Numicus, mais considère comme un motif secondaire l'identification des deux «Anna»; D. Porte, enfin {L'étiologie religieuse dans les Fastes d'Ovide, Paris, 1985, p. 142-150), considère que tout le passage est un pastiche de l'Enéide, une sorte de «suite du chant IV» qui réussit à «opérer une assimilation complète entre Enée et Anna» (p. 145); dans cette perspective, le lien entre Anna et le Numicus est, non la cause, mais la conséquence de Γ« assimilation » effectuée entre Anna et Enée. Sans vouloir nous pronon-
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Aussi l'épisode latin de la vie d'Enée nous apparaît-il comme enca drépar les eaux de source, les eaux fluviales, les eaux douces de la campagne lavinate : prodige du surgissement de l'eau à son arrivée, noyade mystérieuse et identification au fleuve, où il est supposé s'être noyé, après sa mort. Le lien entre les deux événements est assuré aussi par le fleuve voisin de la source apparue aux compagnons d'Enée, lieu de la disparition du héros; il l'est encore par la double dénomination d'Indiges, appliqué au dieu auteur du prodige, le Soleil, et à Enée mort, πάτηρ χθονίος, ou Iupiter Indiges. F. Castagnoli52 pense qu'il faut attr ibuer essentiellement à cette dénomination le caractère d'« ancêtre fon dateur», personnage primitivement anonyme qui fut identifié à Enée lors du développement de la légende des origines troyennes. Mais le rôle de l'eau nous semble aussi très important, car elle apparaît, dans la légende locale rapportée par Denys, à la fois comme la condition de la survie des Troyens et l'expression du lien privilégié qu'Enée entre tient avec la divinité : le Soleil fait surgir la source, Enée est divinisé sous la forme d'un fleuve. Or, c'est précisément dans ce fleuve, si l'on en croit Servius53, que les Vestales puisaient l'eau nécessaire au culte de Vesta. Le personnage d'Enée se trouve ainsi étroitement lié aux Pénates troyens d'une part, au culte de Vesta d'autre part54. Il n'est donc pas surprenant que, par son intermédiaire, un voisina ge allant jusqu'à l'identification se soit établi entre Vesta et les Pénates à Lavinium, comme à Rome55. Notons toutefois que cette identifica tion, attestée à une époque tardive, chez Macrobe et Servius, ne nous
cer ici sur les arguments littéraires qui soutiennent cette hypothèse - le goût d'Ovide pour le pastiche, par exemple -, nous pensons que des arguments d'ordre géographique et religieux peuvent lui être opposés; la région de Lavinium abrite, dans l'Antiquité, de nombreuses sources et cours d'eau : Numicus, sources de la zone du sanctuaire des Trei zeautels et de l'hérôon (F. Castagnoli, op. cit., p. 11); d'autre part, les cultes les plus anciens de Lavinium s'adressent à des divinités liées aux eaux, Sol Indiges, Vesta, Juturne (G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 105); enfin, les fêtes d'Anna Perenna à Rome se déroulent selon le témoignage d'Ovide, il est vrai -, sur les rives du Tibre. Nous estimons donc pré férable de considérer que c'est la relation d'Anna Perenna avec l'eau du Numicus qui a suggéré à Ovide le rapprochement avec Enée, renforcé - et c'est peut-être là une inven tionde son cru -, par l'identification de la nymphe et de la sœur de Didon. 52 / luoghi connessi . . ., p. 244. 53 Ad Aen. VII, 150. 54 Cf. M. Guarducci, Enea e Vesta, MDAI (R), 78, 1971, p. 73-118. 55 Cf. G. Radke, Die dei pénates und Vesta in Rom, A.N. R.W. , II, 17, 1, Berlin-NewYork, 1981, p. 344-373.
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renseigne guère sur la nature des Pénates, puisque Vesta est purement et simplement confondue avec eux. Cette identification, dans le culte public, est peut-être l'équivalent de ce qui s'est produit dans le culte privé, où, comme le montrent les sacello, de Pompéi, le nom de Pénates a fini par désigner toutes les divinités protectrices de telle maison, divi nités dotées par ailleurs d'une personnalité propre. C'est précisément ce lien des Pénates avec une divinité liée à l'eau Enée, et, très différemment, Vesta -, qui a permis à certains comment ateursd'assimiler les Pénates aux Dioscures, sur le modèle des faits romains. En effet, Castor et Pollux sont venus en aide à l'armée romai ne pendant la bataille du lac Régule; la légende raconte56 qu'au soir de cette bataille, les jumeaux apparaissent à Rome à la fontaine Juturne, où ils abreuvent leurs chevaux; des deniers émis en 92 environ par la Gens Postumia illustrent cet épisode57. Le temple consacré aux Dioscu res à la suite de cette bataille est du reste situé tout à côté de la fontai ne Juturne sur le Forum, mais aussi très près du sanctuaire de Vesta. Or Juturne est une divinité originaire de Lavinium. Elle est, chez Virgil e la sœur de Turnus, aimée de Jupiter et transformée en fontaine . . . deam, stagnis quae fluminihus sonoris praesidet58. Virgile ne fournit aucune précision géographique au sujet de cette fontaine, alors que Servius, dans son commentaire à ces vers, la situe près du Numicus : Iuturna fons est in Italia saluberrimus iuxta Numicum. Elle apparaît ainsi comme un double, une autre forme, de la sour ce prodigieuse jaillie devant Enée et ses compagnons, et, peut-être cette source elle-même, puisque Denys ne précise pas son nom. Elle est, du reste, associée par Virgile aux combats menés par Enée pour se faire accepter sur la terre du Latium : Juturne est la sœur de son adversaire Turnus, et elle prend violemment parti pour ce dernier, aux côtés de Junon. Ainsi, la légende nous propose trois sources du Numicus, toutes liées aux aventures d'Enée en Italie : celle que fait jaillir le Soleil pour les Troyens assoiffés, Anna Perenna, et Juturne. Des relations existant
56 Cf. Liv., II, 20, 12. 57 Cf. C. Peyre, Castor et Pollux et les Pénates pendant la période républicaine, MEFR, 74, p. 44 ï fig. 6 et 443. 58 En. XII, 138-139 : «une déesse. . . haute protectrice des étangs et des fleuves sono res» (trad. J. Perret, C.U.F. Paris 1980); pour Juturne à Lavinium, voir F. Castagnoli, Lavinium I, p. 106; 111.
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entre Enée et les Pénates, Enée et Juturne, Juturne et les Dioscures, on a cru pouvoir déduire des liens entre Juturne et les Pénates, et assimi ler ces derniers aux Dioscures; ces liens sont apparus d'autant plus plausibles que, par ailleurs, les Pénates sont liés à Vesta, elle-même liée à l'eau, et qu'ils offrent, nous l'avons vu, d'autres ressemblances avec Castor et Pollux59. Enfin, les témoignages littéraires et archéologiques ayant trait au débarquement d'Enée à Lavinium et à son apothéose permettent d'éta blirun autre lien avec Vesta. Vesta est liée au feu, symbolisée par Vignis perpetuus que les Vestales doivent alimenter dans son temple de Rome pour assurer la sauvegarde de la ville : ce lien, contrairement à celui, plus complexe, qu'elle entretient avec l'eau, est presque une iden tification. Or, nous avons vu que, dans le récit de Denys d'Halicarnasse, le prodige du surgissement des sources qui accompagne l'arrivée d'Enée en Italie est dû à l'intervention du Soleil, dieu en l'honneur duquel Enée accomplit un sacrifice sur les deux autels construits là : τον Αίνείαν μυθολογοϋσιν πρώτην θυσίαν ποιήσασθαι τω θεω χαριστήριον των υδάτων60; d'autre part, il semble que, du temps même de Denys, qui s'était personnellement rendu à Lavinium, le souvenir de ce prodige et de la piété d'Enée envers le Soleil ait été conservé, puisque, de cette source, Denys écrit λεγόμενον ύπο των εγχωρίων ίερόν ηλίου61. De surcroît, le témoignage de Pline l'Ancien atteste en ce lieu la présen ce d'un culte de Sol Indiges, si du moins on accepte cette leçon, préfé rée par F. Castagnoli, tandis que Denys mentionne un culte d'Enée divi nisé sous le nom de πάτηρ χθόνιος, et Tite-Live sous le nom de Iupiter Indiges. Etant donné la rareté de cette dénomination d'Indiges, il y a tout lieu de penser qu'elle désigne un ancêtre fondateur parfois assimil é au Soleil, auquel Enée a été plus ou moins confondu à Lavinium62. Cette assimilation, qui est sans doute spécifiquement lavinate, atteste l'existence de liens entre Enée et le feu, révélés par ailleurs, lors de son arrivée, par le surgissement des sources grâce au Soleil. On voit donc
59 A. Alföldi (Early Rome, p. 270), remarque que quatre cultes originaires de Lavi nium, ceux des Pénates, de Vesta, des Dioscures, et de Juturne, se trouvent réunis dans un espace assez concentré du Forum Romain, et pense que cela découle du rôle préémi nent de Lavinium dans le Latium de l'époque archaïque. 60 Denys d'Halicarnasse, I, 55, 2: «On raconte qu'Enée accomplit en l'honneur du dieu le premier sacrifice en remerciement des eaux». 61 I, 55, 2 «Les habitants disent qu'elle est consacrée au Soleil». 62 Voir ci-dessus, p. 302 sq.
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comment les données du site ou des traditions lavinates ont fourni un cadre à l'implantation de la légende d'Enée, les anecdotes concernant son arrivée au Latium s'enracinant dans les réalités locales63. Ces liens entre Enée et le feu, Enée et l'eau, s'expliquent du reste fort bien par le caractère de fondateur du Troyen. Le fondateur est celui qui rend la vie des hommes possible, grâce au feu et grâce à l'eau : aussi ne faut-il pas s'étonner de voir Enée divinisé à la fois com mele Numicus et comme le Soleil. Mais son rôle ne se borne pas à assurer la survie matérielle de ses compagnons : il doit aussi donner des racines à leur existence spirituelle et religieuse. Quand il emporte de Troie les sacra, qu'il les établit en Italie, Enée pose les fondements de la vie religieuse de ses descendants en la rattachant à l'ancienne puissance troyenne; il assure un relais essentiel entre le passé de Troie et le futur de Rome; les Pénates, eux, symbolisent cette continuité. C'est pourquoi les liens entre Enée et les Pénates, et Enée et Vesta forment un ensemble relativement cohérent et significatif : l'ancêtre fondateur est lié au feu, à l'eau, et aux dieux de la patrie, et il est aussi une sorte de trait d'union entre eux. Si l'évolution du personnage d'Enée à Lavinium se laisse à peu près reconstituer, il est néanmoins très difficile d'en fixer les étapes chronologiques. Il est évidemment séduisant de voir, comme le fait P. Sommella64, un parallélisme entre les phases architecturales de l'hérôon, qui attestent la volonté d'annexer un culte local ancien, et l'ass imilation du personnage d'Enée, devenu ancêtre fondateur, au vieux concept a'Indiges. Encore faut-il pouvoir affirmer que cette dernière s'est faite au moment de la reconstruction de l'hérôon, c'est-à-dire au IVe siècle; aucun témoignage littéraire, nous l'avons dit, ne l'atteste, mais là encore, les récentes trouvailles archéologiques peuvent peutêtre fournir des éléments de réponse. A Tor Tignosa, à 8 kilomètres au nord-est de Pratica di Mare, on a découvert trois cippes de la même pierre et de la même dimension, dédiés à Parca Maurtia, Neuna et Neuna Fata, publiés par M. Guarduc-
63 Cf. F. Castagnoli, La leggenda di Enea nel Lazio, p. 1 1 sq. ; Dans certains aspects du mythe d'Héraklès, on trouve cette même association de l'eau et du soleil : voir F. Bader, Les Travaux d'Héraklès, dans R. Bloch, F. Bader, D. Briquel, F. Guillaumont, D'Héraklès à Poséidon. Mythologie et protohistoire, Paris, 1985, p. 94-95. 64 Herôon di Enea a Lavinium, p. 70-74.
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ci65, et dont l'interprétation est délicate. Un quatrième cippe, un peu plus petit, a été trouvé au même endroit en 1958 et publié par la même éditrice66. La lecture de l'inscription est difficile : M. Guarducci a lu tout d'abord Lare Aineia D(ono), puis Lara Ainea D(ono), tandis que H. G. Kolbe67 lit Lare Vestia Q.F. La majorité des commentateurs, au demeurant, voit dans ce cippe une dédicace à Enée. Pour les différent es interprétations des cas respectifs de Lare et de Aineia, et des rela tions syntaxiques des deux mots, nous renvoyons à l'exposé très éclai rant de S. Weinstock68, qui se rallie à l'explication de M. Guarducci, selon laquelle Enée était appelé Lar; d'autre part, on s'accorde, avec M. Guarducci, à dater cette inscription du IVe siècle69. La présence du personnage d'Enée non loin de Lavinium au IVe siècle n'est pas pour nous surprendre; nous avons vu qu'il était connu dès le VIe siècle dans le Latium. D'autre part, le terme de Lar, qui lui est accolé, est essentiel pour notre propos. On sait que l'origine et le sens du mot Lares sont très controversés. Tandis que S. Weinstock pen seque ces dieux sont les ancêtres divinisés, J. Heurgon70 suggère de rapprocher le mot Lar du thème lar-, bien représenté en étrusque où il devait suggérer «grandeur et puissance», et ajoute : «S'il est vrai, com meil est difficile de se refuser à le penser, que telle est l'origine du nom du dieu Lare en latin, on ne s'étonnera pas qu'il ait pu s'appliquer aussi bien, sans les caractériser, aux diverses activités du Lar familiaris et des Lares, genii et functorum animae»11. En ce sens, le terme conven ait particulièrement bien à un Enée dès lors considéré comme l'ancê tre fondateur, et divinisé. J. Heurgon, comme S. Weinstock, souligne du reste que Lar est tenu pour l'équivalent latin du grec ήρως, ainsi que l'atteste le texte grec du Monument d'Ancyre72. Le mot est employé au singulier dans le terme Lar familiaris, pour le nom duquel S. Weinstock
65 Tre cippi arcaici con inscrizioni votive, BCAR, 72, 1946-48, p. 3-10; cf. J. Champeaux, Fortuna. Le eulte de la Fortune à Rome et dans le monde romain, Coll. de l'Ecole Française de Rome, 64, Rome, 1982, p. 436 sq. 66 Cippo arcaico con dedica a Enea, BCAR, 76, 1956-58, p. 3 sq. 67 Lare Aineia?, MDAI (R), 77, 1970, p. 1-9. 68 Two arcate inscriptions from Latium, JRS. 50, 1960, p. 1-118. 69 Enea e Vesta, p. 73-89; voir aussi G. Dury-Moyaers, op. cit., p. 240-246. 70 J. Heurgon, Lars, largus, et Lare Aineia, in Mélanges d'archéologie et d'histoire offerts à A. Piganiol, Paris, 1966, p. 655-664. 71 Ibid., p. 660. 72 XIX, 2.
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rappelle, chez Plaute73, une variante très intéressante pour notre pro pos : familiai Lar pater; cette expression, selon S. Weinstock, contient l'idée de divinité (lar), celle d'ancêtre (pater) de la famille (familiai), mais on peut étendre cette dernière notion jusqu'à la race, au peuple, et, alors elle s'appliquerait parfaitement à Enée tel que nous le présente la tradition littéraire du Ier siècle que nous mentionnions plus haut. Ains il'inscription du cippe de Tor Tignosa non seulement attesterait que, dès le IVe siècle, Enée était divinisé et considéré comme l'ancêtre fon dateur, mais, dans sa formulation même, elle serait l'équivalent d'Aeneas Pater, et de Pater Indiges. Tirant toutes les conséquences de cette assimilation, S. Weinstock en vient à voir dans Indiges et di Indigetes une notion originelle d'« ancêtre»74. L'ensemble de cette brillante démonstration nous paraît assez convaincant, et en particulier l'idée qu'Enée était divinisé comme ancê tredès le IVe siècle. La proximité de Tor Tignosa et de Lavinium per met de penser qu'il en était de même dans la cité des Laurentes, d'au tant plus que sa situation, plus proche encore de la mer, a dû la rendre plus perméable aux influences grecques qui ont introduit à la fois le personnage d'Enée et la notion de héros-fondateur. En revanche, l'i nterprétation du mot pater n'a pas valeur de preuve déterminante, dans la mesure où il nous semble ambigu et peut parfois exprimer le respect, non la reconnaissance d'une paternité véritable; il n'en reste pas moins que cette ambiguïté même a pu favoriser les assimilations. D'autre part, si au IVe siècle Lar et Indiges ont pu désigner le même Enée, il est peut-être un peu imprudent d'en conclure qu'ils sont équivalents, et que les di Indigetes ne sont autres que les Lares75. Ce qui nous paraît plus vraisemblable, c'est que les deux mots de Lar et d'Indiges avaient à la fois assez de prestige et assez de flou pour s'appliquer à Enée. De Lar, J. Heurgon dit qu'«il n'exprimerait en fait qu'une vénération indis tincte en présence de certaines manifestations de la puissance divi ne»76. Indiges désignait à l'origine une divinité solaire, mais le mot a
73 Mere, 834 (cité par S. Weinstock, op. cit., p. 116). 74 Cette lecture (Lare Aineia dono) et cette interprétation ont été très vivement contestées par T. J. Cornell (Aeneas'arrival in Italy, p. 78-79), qui estime que l'inscription n'est pas une dédicace à Enée, mais que les trois cippes proviennent d'un sanctuaire oraculaire totalement indépendant des cultes lavinates et du personnage du héros troyen. 75 Sur les Di Indigetes, voir B. Liou-Gille, Les cultes «héroïques» romains, p. 99-116; supra p. 300. 76 Op. cit., p. 660.
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fini par devenir lui aussi assez vague. Cependant, il n'est pas possible, en l'état actuel de notre documentation, d'affirmer qu'antérieurement au IVe siècle, ni même après cette date, Lar et Indiges étaient synony mes. La découverte et l'interprétation de ce cippe tendent donc à prou verque, malgré les réserves émises par certains savants77, il a existé dès le IVe siècle un culte d'Enée dans la région de Lavinium. Néan moins, pour identifier l'hérôon découvert près de Pratica di Mare avec le monument décrit par Denys, deux difficultés subsistent. La première est que l'on n'a pas retrouvé l'inscription que Denys a traduite en grec, ce qui laisse évidemment planer un doute sur la destination exacte du monument; l'autre, qui est liée à la première, est de savoir si le monu ment mis au jour était réellement considéré comme l'Hérôon d'Enée antérieurement au Ier siècle. J. Poucet78, nous l'avons vu, insiste sur le fait, indéniable, que le nom d'Enée n'apparaissant pas dans l'inscrip tion citée par Denys, il peut fort bien s'agir de la sépulture d'un héros local dont l'assimilation à Enée ne s'est faite qu'au Ier siècle, au mo ment où la légende des origines troyennes de Lavinium et de Rome est définitivement établie. Nous avons dit plus haut que les mots employés par Denys, Πατρός θεού χθονίου, nous semblaient traduire le latin Pater Indiges ; d'autre part, cette divinité est mise en relation avec le Numicus (ος ποταμού Νομικίου ρεΰμα διέπει). Certes, comme le note J. Perret, «il importe de ne pas glisser, sans s'en apercevoir, d'une affirmation à une autre»79, mais plutôt que d'une série d'équivalences, il nous semble qu'on peut parler ici d'un faisceau de convergences. Le cippe de Tor Tignosa atteste dès le IVe siècle la divinisation d'Enée comme ancêtre fondateur; nous savons qu'au Ier siècle, Enée était assimilé à l'ancienne divinité locale Indiges, dont Denys nous apprend qu'on le vénérait à Lavinium dans un hérôon; les découvertes récentes mettent au jour à Lavinium un hérôon du IVe siècle. Il nous paraît donc qu'on peut avec quelque vraisemblance avancer l'hypothèse - en insistant, bien sûr sur l'incertitude qui subsiste du fait de l'absence de preuve archéologique
77 J. Perret, Rome et les Troyens, REL, 49, 1971, p. 48 n. 1 ; J. Poucet, op. cit., II, p. 183; T. J. Cornell, loc. cit. 78 Op. cit., II, p. 181-183. J. Heurgon {Les récentes découvertes archéologiques dans le Latium, IL, 27, 1975, p. 126-129) avait déjà souligné ce fait. 79 Op. cit., p. 43.
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irréfutable - qu'il s'agit bien de l'Hérôon d'Enée devenu dès le IVe siè cle l'ancêtre fondateur adoré sous le nom d'Indiges30.
3) La transformation des Pénates Nous en arrivons ainsi à ce qui nous semble être une autre preuve de l'existence de la légende des origines troyennes de Lavinium dès le IVe-IIIe siècle : la première mention des Pénates de Lavinium, présentés par les indigènes comme des reliques troyennes, faite par Timée81. La foi que l'on peut accorder à ce témoignage a été fortement mise en doute. On a soupçonné Denys d'avoir «sollicité» le texte de Timée82, lorsqu'il attribue à l'historien sicilien l'identification des Pénates com meκηρύκεια σιδηρά και χαλκά και κέραμον Τρωικόν. Pourtant, la pré sence des sacra dans la légende de la fuite d'Enée n'est pas une donnée apparue au Ier siècle : nous les avons trouvés aux mains d'Anchise sur le scarabée de la Collection de Luynes, et peut-être dans un doliolum tenu par un personnage qui serait Creuse sur l'amphore de Vulci83. Aussi est-il tout à fait plausible qu'on les trouve dans les développements locaux de la légende que Timée a pu nous transmettre en témoin direct. Nous avons vu que la littérature et l'iconographie grecques laissent généralement dans l'ombre le transfert des sacra, qui semble bien être un développement spécifiquement italique de la légende d'Enée; ils ne sont du reste pas présents dans toutes les images archaïques italiques de la fuite d'Enée, et manquent en particulier dans les statuettes de Véies. Mais le succès extraordinaire des sacra dans la version lavinate de la légende nous paraît lié à la transformation du personnage d'Enée que nous avons notée plus haut, et que nous croyons pouvoir dater du IVe siècle : Enée devient le fondateur de la ville de Lavinium; or toute fondation s'appuie sur des éléments religieux, qui la sanctionnent et la justifient. C'est ainsi que s'explique, selon nous, l'essor du thème des sacra, dont le transfert finira par apparaître, en particulier chez Virgil e, comme la signification essentielle de la mission d'Enée : sacra deosque dabo84, dit-il pour définir la part qu'il se réserve dans l'alliance
80 81 82 83 84
Cf. B. Liou-Gille, op. cit., p. 132-133. In Denys d'Halicarnasse, I, 67, 4. J. Perret, Les origines de la légende troyenne de Rome, Paris, 1942, p. 341. Voir ci-dessus, p. 197-8; 201-2. En. XII, 192.
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qu'il conclut avec Latinus. Que ces sacra, présentés comme troyens à Timée par les habitants de Lavinium, aient été désignés du terme de Penates dès le IIIe siècle s'explique assez bien aussi. Le mot est mention né dès cette époque par Naevius à l'aube de la littérature latine. Ces dieux sont spécifiquement latins; ils sont une pluralité indéterminée et indéfinissable autrement que par sa fonction protectrice de la partie la plus intime de la maison. Aussi se prêtaient-ils sans doute assez bien à être assimilés aux sacra (dont on ne savait ce qu'ils étaient exactement) symbolisant religieusement Troie. Les auteurs grecs nous parlent - Stésichore notamment - des ιερά mis aux mains d'Anchise, ou d'Enée; il est clair que le terme de sacra en est une traduction, et que ces derniers ont été assimilés à des dieux latins existant à Lavinium, les Pénates, qui n'avaient rien à voir, à l'origine, avec la légende troyenne85. Il a dû subsister longtemps un flottement entre ces deux notions, ce que nous prouvent les textes des IVe-IIIe siècles, mais aussi celui de l'Enéide. Nous remarquions, dans le précédent chapitre, que la phrase de Denys d'Halicarnasse citant le témoignage de Timée à propos des Pénates de Lavinium, ne nous permettait pas, de par sa structure syntaxique, de savoir si Timée prononçait le mot de «Pénates» à côté de celui de ίερά86. En revanche, le texte de {'Alexandra de Lycophron parle sans ambiguïté des πατρώα αγάλματα θεών87, où nous pensons que πατρώα est employé, par hypallage, pour qualifier θεών, les θεοί πατρφοι étant, comme l'indique Denys d'Halicarnasse88, l'une des désignations grec ques des Pénates. Il semble donc, d'après ce texte, qu'à l'époque de Lycophron, la fusion entre ίερά troyens et Pénates soit réalisée. Au res te, un autre détail du texte nous prouve l'insertion de la légende troyen ne dans les traditions lavinates : Enée déposera ces statues, nous dit le poète, dans le temple de Myndia Pallènis, c'est-à-dire de Minerve. Or, nous l'avons vu, les récentes découvertes archéologiques89 attestent l'existence d'un culte de cette déesse à Lavinium dès le Ve siècle. Les nombreuses statues et ex-voto trouvés dans le dépôt votif, datables du début du Ve aux premières années du IIe siècle, avec un matériel parti-
85 Cf. F. Castagnoli, La leggenda di Enea nel Lazio, p. 10. 86 Rappelons que F. Jacoby exclut des fragments de Timée le membre de phrase où les Pénates sont nommés ; voir supra p. 278 n. 95. 87 1261-1262. 88 I, 67, 3. 89 F. Castagnoli, 77 culto di Minerva a Lavinio, passim.
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culièrement important des IVe-IIIe siècles90, semblent attester la vitalité du culte à cette époque, et éclairent peut-être l'allusion de Lycophron; nous avons dit, par ailleurs91, qu'il ne nous semblait pas possible que les Pénates de Lavinium aient été honorés dans le sanctuaire oriental de Minerve, mais cette confusion peut s'expliquer par la notoriété de ce culte au moment où écrit Lycophron. Enfin, chez Virgile même, comme nous l'avons noté92, il subsiste un flottement dans les termes employés pour désigner les objets sacrés apportés par Enée de Troie en Italie : s'ils sont une fois désignés com mesacra93, ce qui nous semble l'héritage de la tradition grecque, ils le sont aussi comme Penates94, mais le plus souvent comme sacra Penatesque, ou une expression équivalente95, où nous avons cru pouvoir recon naître un hendiadyn, dans lequel se lit la superposition de la légende grecque à la tradition lavinate et latine. Les développements de l'histoire des Pénates sont donc différents de celle d'Enée : ce dernier, hérité des légendes grecques, a été tran sformé à Lavinium en héros fondateur. Il nous paraît au contraire que l'histoire des sacra doit très peu à la Grèce : elle est plutôt une consé quence, née à Lavinium,, de la transformation d'Enée dans cette ville; l'assimilation des sacra transportés par Enée et des Pénates, très an ciennes divinités latines, serait elle aussi, à l'origine, un fait lavinate. Encore une fois, il ne peut s'agir ici que d'hypothèses, mais qui nous semblent s'insérer dans un cadre chronologique assez cohérent, et que viennent du reste appuyer d'autres éléments de ce que nous pouvons connaître de l'histoire de Lavinium au IVe siècle. Au point où nous sommes parvenu de notre enquête, il nous semble que, jusqu'au IVe siècle, nous avons pu comprendre les rai sons de la fixation de la légende d'Enée à Lavinium : elles sont liées, d'une part aux caractères mêmes du personnage dès sa première mention chez Homère, qui souligne sa piété envers les dieux, sa filia tion divine96, les espoirs dont lui-même et ses descendants sont por-
90 M. Fenelli, Santuario orientale, in Enea nel Lazio, p. 187-190. 91 Cf. supra p. 257-261. 92 Cf. supra p. 193 sq. 93 En. VIII, 85. 94 En. II, 747; VII, 121; VIII, 11. 95 En. II, 293 {sacra suosque. . . penatis); II, 320 {sacra uictosque deos); II, 718 {sacra patriosque penatis); XII, 192 {sacra deosqué). 96 II, II, 820; 247 sq.; XX, 209.
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teurs, et aux développements que la littérature et l'iconographie grec ques donneront à Enée; mais il existe d'autre part, à Lavinium même, des éléments favorables à la fixation de ce personnage : le lieu-dit Troia, peut-être préexistant à l'introduction de la légende d'Enée, l'existence d'un culte de Vénus dès le milieu du VIe siècle, les liens privilégiés qui semblent avoir associé Enée et le Soleil et qui, sous l'influence grecque, ont favorisé l'identification du Troyen avec l'ancienne divinité locale Sol Indiges, et sa divinisation comme ancêt refondateur. Les différentes phases de la transformation d'Enée, et l'établissement à Lavinium des sacra - Pénates apportés de Troie, sont bien attestés dans ce que nous savons de l'histoire de Lavinium, dans l'évolution de son architecture. Il reste qu'à cette date du IVe siècle, où il faut très probablement situer le nouvel essor du sanctuai re des Treize autels, la réutilisation d'une tombe du VIIe siècle à laquelle on superpose un hérôon, et sans doute l'assimilation des sacra troyens aux Pénates locaux, on doit essayer de chercher une signification non plus dans l'histoire de la seule cité des Laurentes, mais, plus généralement, dans l'histoire du Latium et des rapports des différentes cités qui le composent, Rome et Lavinium notam ment.
II - Rome et Lavinium P. Sommella a remarqué97 que cette date du IVe siècle, à laquell e on construisit un hérôon sur les restes d'une tombe archaïque qui, loin d'être abandonnée, se trouve placée au cœur du nouvel édifice, est aussi marquée par un événement politique majeur de l'histoire du Latium, le traité de 338, par lequel Rome règle le sort de chacune des cités de la Ligue latine séparément, et impose définitivement son hégémonie en Italie centrale. Le savant italien souligne en particulier que la rénovation architecturale est une tentative pour s'approprier le culte pratiqué autour de la tombe orientalisante, et que le fœdus de 338 conclu entre Rome et Lavinium est présenté par Tite-Live98
97 Hérôon di Enea a Lavinium, p. 71 sq. 98 VIII, 11, 15 : cum Laurentibus renouari fœdus iussum.
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comme le renouvellement d'un fœdus dont la signification est «essen tiellement religieuse»99. Enfin, P. Sommella rappelle l'analyse d'A. Alfôldi100, selon qui les sacra principia des Latins deviennent, à partir de cette date, les sacra principiorum populi Romani Quiritium nominisque Latini, culte qu'atteste, à l'époque de Claude, une inscription de Pompéi101. Il convient de s'interroger sur les raisons qui ont pu pousser Rome à réserver à Lavinium un traitement de faveur en 338, alors qu'elle a traité très durement d'autres cités, notamment Velitrae qui fut détruite102. M. Humbert103 émet les plus grands doutes sur l'expl ication avancée par Tite-Live pour justifier l'attitude romaine : quia non desciuerant (= les habitants de Lavinium); il estime au contraire que Tite-Live veut ainsi passer sous silence la participation de Lavi nium au soulèvement général de l'Italie centrale contre Rome, et considère que le rôle de Lavinium comme métropole religieuse du Latium rend très peu plausible qu'elle ne se soit pas engagée aux côtés des Latins. Cette analyse nous paraît assez convaincante, dans la mesure où les découvertes archéologiques des dernières décennies, comme les fouilles actuellement en cours, attestent l'importance de l'architecture religieuse lavinate entre le VIe et le IVe siècle; l'existen ce de nombreux sanctuaires en témoigne, et la présence d'un Aphrodisium fédéral montre que Lavinium a eu un rôle religieux à l'échelle de tout le pays latin. Reste à expliquer le choix fait par Rome de Lavinium comme citémère et métropole religieuse, plutôt qu'un autre centre religieux du Latium. On ne peut en rendre compte qu'en cherchant, d'une part, quels liens antérieurs au traité de 338 peuvent contribuer à expliquer l'indulgence romaine, d'autre part en essayant d'apprécier le rôle de Lavinium dans le Latium du IVe siècle.
99 Op. cit., p. 72. 100 Early Rome, p. 259-265. κ» CIL, X, 797. 102 J. Heurgon, Rome et la Méditerranée occidentale, 2è éd., Paris, 1980, p. 321-322. 103 Municipium et civitas sine suffragio. L'organisation de la conquête jusqu'à la guerre sociale, Coll. de l'Ecole Française de Rome, 36, 1978, p. 178-194.
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1) Les sacrifices romains à Lavinium A) Le sacrifice expiatoire de Titus Tatius Les historiens grecs et romains font mention d'un sacrifice accomp li à Lavinium à l'aube même de l'histoire de Rome, pendant le règne de Romulus104. Après l'intervention des Sabines dans la bataille oppo sant Romains et Sabins, les deux peuples concluent un traité d'alliance qui fait fusionner les Etats en un seul à la tête duquel se trouvent le romain Romulus et le sabin Titus Tatius, qui régnent conjointement à Rome105. Or, les délégués des Laurentes, dont Lavinium est la métropol e, ont été maltraités par des parents de Titus Tatius, et c'est ce dernier qui, incapable de rétablir les Laurentes dans leurs droits, par faiblesse, va expier cette mauvaise action, nous explique Tite-Live : nam Lauinii cum ad solemne sacrificium eo uenisset, concursu facto interficitur106. L'expression ad solemne sacrificium nous paraît mériter quelques comm entaires. G. Baillet107 la traduit par «pour un sacrifice solennel», ce qui nous semble en affaiblir un peu le sens. En effet, solemnis est un «adjectif de la langue religieuse s'appliquant à des cérémonies, rites, coutumes, solennellement suivis et célébrés à date fixe»108, et les An ciens voyaient dans ce mot un composé d'annus109. Il s'agirait donc ici d'un sacrifice non pas occasionnel, mais accompli à date fixe chaque année. Le témoignage de Denys d'Halicarnasse nous paraît aller lui aussi dans le sens de notre interprétation du solemne sacrificium de TiteLive : αμα 'Ρωμύλω παραγενόμενος (= Tatius) είς το Λαουίνιον ένεκα θυσίας, ην εδεί τοις πατρφοις θεοϊς υπέρ της πόλεως θυσαι τους βασι-
104 Cependant, le scholiaste de Vérone attribue l'origine des sacrifices à Lavinium à Ascagne (Ad Aen. I, 239), Lucain (VII, 394-396) à Numa (cf. A. Alföldi, Early Rome, p. 263). Ces variantes de la tradition ne nous semblent pas infirmer les pages qui suivent. Ascagne est probablement considéré plus comme le fils d'Enée que comme le fondateur d'Albe; Numa est présenté dans la tradition romaine comme l'instaurateur de la législa tion religieuse, ce que n'est pas Romulus. 105 Cf. Liv., I, 13, 4. 106 I, 14, 2. 107 C.U.F., Paris, 1967, ad loc. 108 A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire Etymologique de la langue latine, 4è éd., Paris, 1960, s.u. solemnis. 109 Festus, 304 L.
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λεΐς110. Le verbe έδει suggère bien qu'il s'agit d'une obligation rituelle, et que, probablement, elle revient à date fixe; mais Denys va plus loin : par les détails que, contrairement à Tite-Live, il nous donne sur l'a ccomplissement du sacrifice (τοις πατρφοις θεοΐς, υπέρ της πολέως, τους βασιλείς) il suggère un rapprochement entre ce dernier et le sacrifice des magistrats romains à Lavinium lors de leur entrée en charge111. Dans les deux cas, le sacrifiant est le personnage principal de Rome, ou l'un des personnages principaux, et le sacrifice est offert, selon Denys, aux πατρφοις θεοΐς, qui sont, pour lui, l'un des équivalents grecs des Pénates latins112; ce sacrifice est donc implicitement rapproché de celui qui est offert à Vesta et aux Pénates113. Il nous semble que le même rapprochement est suggéré par les mots solemne sacrificium chez TiteLive. Bien sûr, on peut objecter à cette interprétation que Denys, com meTite-Live, ont pu projeter sur l'histoire de Rome naissante des inst itutions qu'ils connaissaient bien eux-mêmes, mais dont l'instauration est en réalité plus tardive. Il n'en reste pas moins que Tite-Live connaiss ait très certainement l'étymologife de solemnis expliqué comme un composé de annus et qu'il n'a pas employé le mot à la légère, non plus que Denys n'a inventé tous les détails concernant les conditions du sacrifice; le rapprochement des deux cérémonies, bien qu'il ne soit que suggéré par les auteurs anciens, nous paraît très riche de signification. Le récit que fait Plutarque de la scène du meurtre est très semblab le, dans l'ensemble, à celui de Tite-Live : άποκτιννύουσιν αυτόν έν Λαβινιω θύοντα μετά 'Ρωμύλου προσπεσόντες114. Mais l'établissement du sacrifice expiatoire par Romulus est présenté un peu différemment; après l'assassinat de Tatius, les Laurentes, craignant des représailles de la part des Romains, livrent les meurtriers à Romulus, qui les renvoie en disant que la mort a payé la mort; quelque temps après, une épidé mies'abat sur Lavinium et sur Rome, et on comprend que c'est parce que les meurtriers n'ont pas été punis, ni la transgression des lois expiée religieusement. Aussi Romulus décide-t-il de procéder à un sa-
110 II, 52, 3 : «Etant venu à Lavinium avec Romulus pour y accomplir un sacrifice, que les rois devaient faire aux πατρώοι θεοΐς pour la prospérité de la cité». 111 Macrobe, III, 4, 11; Servius-Daniel, Ad Aen. Il, 296; cf. infra p. 355-61. 112 I, 67, 3. 113 F. Castagnoli, Lavinium I, p. 101. 114 Romulus, 23 : «Ils se jetèrent sur lui (= Tatius) au moment où il faisait un sacrifice avec Romulus à Lavinium, et le tuèrent» (trad. R. Flacelière, E. Chambry, M. Juneaux, CUF, Paris, 1957).
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crifice expiatoire : και καθαρμοΐς ό Ρωμύλος ήνισε τας πόλεις, ους ετι νυν ίστοροΰσιν επί την φερεντίνης πύλης συντελεΐσθαι115. Plutarque ne parle pas explicitement d'un renouvellement annuel, mais il le suggère fortement, en notant que le sacrifice est accompli encore de son temps, renseignement qui n'est pas de première main, comme l'indique le mot ίστοροΰσιν. L'indication έπί της φερεντίνης πύλης est surprenante : la «porte Férentine» est inconnue par ailleurs. R. Flacelière, M. Juneaux E. Chambry116 suggèrent que Plutarque désigne peut-être par ce terme la Porta Latina, puisque Ferentinum était situé sur la Via Latina; il fau drait alors admettre que ce sacrifice s'accomplit à Rome, ce qui est possible dans le contexte (Plutarque indique que Romulus «purifia les deux villes», Rome et Lavinium), mais constituerait alors une indication isolée. Doujat et Cluver ont proposé de corriger πύλης, l'un en ΰλης, l'autre en πηγής117, en raison de l'existence, bien attestée ailleurs118 d'un Lucus Ferentinae, ou Caput aquae Ferentinae; Festus nous en indique la localisation : caput Ferentinae, quod est sub monte Albano119. Il ne s'agit donc ici ni de Rome, ni de Lavinium, ce qui paraît en contradiction avec le récit de Plutarque. En ce lieu se tenaient des réunions des peu ples latins120, dont aucun texte ancien ne nous dit qu'elles comportass ent des cérémonies religieuses, mais qui étaient plutôt des réunions militaires ou politiques121. Leur origine fait problème. Si l'on accepte la correction de Cluver, elles dateraient de Romulus122, mais d'autres auteurs les mettent en relation avec Tullus Hostilius123, Tarquin l'An cien124 et Tarquin le Superbe125, ce qui indique seulement leur anciennet é, selon A. Alföldi126, qui ne pense pas, d'autre part, que les réunions des Latins au Caput aquae Ferentinae datent d'avant le Ve siècle avant
115 Romulus, 24 : «Romulus purifia les deux villes par des sacrifices expiatoires, qui, dit-on, sont encore célébrés aujourd'hui à la porte Férentine» (ibid.). 116 Ibid., p. 91 n. 2. 117 Plutarque, Vit. I, 1, éd. K. Ziegler, Leipzig, 1960, p. 67. 118 Cf. A. Alföldi, Early Rome, p. 34-36. "» 276 L. i20 Liv., VII, 25, 5 : concilia populorum Latinorum ad Lucum Ferentinae habita. U1 A. Alföldi, op. cit., p. 35. 122 Notons encore que la mention de sacrifices expiatoires en ce lieu serait la seule indication de célébrations de caractère religieux. 123 Denys d'Halicarnasse, III, 34, 3. 124 Id., Ill, 51, 3. 125 Id., IV, 45, 3; Liv., I, 50, 1. 126 Op. cit., p. 34.
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J.-C, et estime qu'elles sont liées aux sacrifices communs du Mont Albain et de Lavinium, dont elles n'étaient séparées que géographiquement. Il semble donc qu'il ne faille pas prendre au pied de la lettre le récit de Plutarque; sans doute présente-t-il un amalgame de plusieurs données légendaires originellement distinctes : sacrifice expiatoire du meurtre de Titus Tatius, destiné à réconcilier Romains et Lavinates, réunion des peuples latins au Caput aquae Ferentinae; la leçon έπί φερεντίνης πύλης, aberrante par rapport au reste de la tradition, est peut-être une inexactitude s'expliquant par une ignorance géographi que. Comme chez Tite-Live et Denys, on trouve donc chez Plutarque une confusion entre le sacrifice expiatoire accompli par Romulus et un autre sacrifice, accompli encore de son temps, non pas à Lavinium, mais dans les Monts Albains, sacrifice annuel lui aussi. Au reste, dans ce récit, on finit par confondre le sacrifice à l'occasion duquel Tatius a été tué, et celui qu'instaure Romulus en expiation de ce crime, sacrifice renouvelé par la suite et qui semble se substituer au premier. Chez Zonaras, on trouve une confusion du même ordre, mais enco re plus nette, puisque la scène du sacrifice et le meurtre du roi se déroulent dans les Monts Albains : έν Άλβανω θύοντα μετά Ρωμύλου τον Τατιον προσπεσόντες κτιννύουσιν127; cette indication nous apparaît comme une référence explicite aux sacrifices offerts par les Latins à Jupiter Latiaris, dans les Monts Albains. B) Le pacte d'alliance entre Enée et Latinus Le sacrifice expiatoire du double meurtre des ambassadeurs des Laurentes et de Titus Tatius n'est pas seulement mis en relation plus ou moins claire, par Tite-Live et Denys, avec une réalité religieuse de leur temps (le sacrifice annuel des magistrats romains à Lavinium lors de leur entrée en charge), mais également avec une autre cérémonie, plus ancienne celle-là. En effet, Tite-Live conclut l'épisode du meurtre de Tatius par cette remarque : ut tarnen expiarentur legatorum iniuriae regisque caedes, fœdus inter Romam Lauiniumque urbes renouatum est128. L'emploi de renouatum est mérite d'être relevé. Le meurtre de Titus Tatius, vengeance des Laurentes pour une injure grave, n'est pas pour Rome et Lavinium l'occasion de sceller une alliance, mais de
127 vu, 4. 128 ι, 14, 3.
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renouveler un traité ancien. De quel fœdus peut-il s'agir ici? Il n'y en a qu'un dont Tite-Live ait précédemment parlé : le pacte conclu entre Enée et Latinus lors du débarquement des Troyens au Latium; à la sui ted'une défaite de l'armée latine, ou bien par une entente amicale, les deux chefs concluent un parte d'alliance : inde fœdus ictum inter du ces129; l'emploi de ictum, comme, dans d'autres expressions, de ferire, à propos d'un fœdus, s'explique parce qu'il s'agit bien de «frapper un traité, à cause de la victime que l'on frappait pour la circonstance»130. Le sacrifice est donc lié à la conclusion du traité. Puis, continue TiteLive, Aeneam apud Latinum fuisse in hospitio; ibi Latinum apud Penat es deos domesticum publico adiunxisse fœdus, filia Aeneae in matrimonium datani. L'alliance privée qui s'ajoute au pacte officiel entre les deux peuples se conclut dans le palais de Latinus, devant les images des Pénates. Ce dernier détail, bien sûr, a pu être emprunté par TiteLive aux rites de la vie religieuse de son temps, puisque les Pénates étaient les témoins de tous les événements de la vie familiale132. Mais il nous semble avoir aussi une tout autre portée : d'abord, il est probable que Tite-Live propose une image de la royauté de Latinus semblable à l'idée qu'il se faisait de celle des rois de Rome, et que, par conséquent, la vie religieuse privée du roi n'est pas distincte de celle de l'Etat, ce qui donne à l'alliance d'Enée et de Lavinia un caractère officiel; d'au trepart, ce fœdus accompagné d'un sacrifice devant les images des Pénates rappelle le sacrifice des magistrats romains à Vesta et aux Pénates à Lavinium. Nous avons vu que Denys d'Halicarnasse mentionnait, à propos du meurtre de Titus Tatius, l'obligation pour les rois de Rome d'accomplir un sacrifice aux πατρφοι θεοί. Denys n'explicite pas le rapprochement de ce rituel avec le pacte entre Enée et Latinus, mais un détail pourtant nous a paru révélateur133: au moment où Latinus apprend que des étrangers - Enée et ses compagnons - viennent de débarquer au
129 i, 1, 9. 130 A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, s.u. ferio; voir aussi ibid., s.u. ico. 131 Ibid. : «Enée aurait été reçu chez Latinus; c'est là que Latinus devant ses Pénates aurait ajouté une alliance de famille à l'alliance politique en donnant sa fille en mariage à Enée» (trad. G. Baillet, C.U.F., Paris, 1958); voir R. M. Ogilvie, A Commentary on Livy, Books 1-5, Oxford, 1965, p. 39. 132 Cf. supra p. 109. 133 I, 57-58.
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Latium, il décide de cesser de se battre avec les Rutules, et de lancer son armée contre les nouveaux venus; Enée, de son côté, s'apprête à livrer bataille pour conquérir un territoire. Mais la nuit précédant le combat, un dieu (έπιχώριος δαίμων) apparaît à Latinus et le dissuade de livrer ce combat134; de son côté, Enée voit en songe les πατρφοι θεοί qui lui donnent le même conseil, et les deux hommes finissent par conclure un pacte d'alliance. Le mariage d'Enée et de Lavinia intervient un peu plus tard, mais, on le voit, les πατρφοι θεοί sont associés par Denys à l'alliance primitive entre Troyens et indigènes, comme au sacrifice célé bré par les Romains à Lavinium; de surcroît, divinités d'origine troyenne et divinité locale se trouvent donner le même conseil à Enée et ses compagnons, et aux Latins. L'importance du pacte qui introduit les Troyens en Italie est d'ailleurs attestée, à la même époque, par l'illu stration que Virgile a donnée du thème dans \'Enéidens, où un sacrifice, non mentionné par Denys, accompagne la cérémonie. Virgile a dissocié l'alliance privée du traité public : Latinus promet au troyen Ilionée de donner sa fille en mariage à Enée dès l'arrivée de ses compatriotes en Italie, alors que le pacte entre les deux peuples n'est solennellement conclu qu'après une guerre; la première scène a lieu dans le temple de Picus136, la seconde au pied des remparts de Lavinium, devant les foyers et les autels dressés pour la circonstance. Mais les deux aspects, privé et public, du fœdus, sont étroitement liés, comme chez Tite-Live; lors de la conclusion du traité, Enée désigne continuellement Latinus par le mot de socer, et annonce qu'il apportera sacra deosque137; nous avons déjà relevé138 les difficultés d'interprétation de cette expression, dont nous pensons qu'elle désigne les divinités considérées comme les Pénates troyens. Il y a donc bien une convergence de témoignages liant la présence de ces dieux au premier traité jamais conclu par Rome, ou plutôt par ses ancêtres, au pacte d'alliance entre Troyens et indigènes, qui marque l'installation d'Enée et des siens en Italie.
134 L'épisode de la prédiction de Γέπιχώριος δαίμων chez Denys correspond, dans l'Enéide à la consultation par Latinus de son père Faunus, divinité prophétique (fatidici) (VII, 81 sq.). 135 XII, 161-215. 136 Notons que Picus est, comme Faunus, l'un des rois légendaires du Latium. Cf. A. Brelich, Tre variazioni sul tema delle origini di Roma, Rome, 1955, p. 48 sq.; F. Castagnoli, Lavinium I, p. 106. 137 XII, 192. 138 Cf. ci-dessus, p. 195.
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C) Le renouvellement annuel du traité entre Rome et Lavinium Tite-Live atteste l'existence d'un traité renouvelé chaque année en tre Rome et Lavinium : en 340, les cités latines se liguent et se soulèvent contre Rome139, qui gagne la guerre en 338, dissout la Ligue latine et assure, de façon plus ou moins oppressive, sa suprématie sur chacune des cités conjurées. Selon Tite-Live, seuls les Laurentes de Lavinium et les chevaliers campaniens furent épargnés, parce qu'ils ne s'étaient pas associés à la Ligue : extra poenam fuere Latinorum Laurentes Campanorumque équités, quia non desciuerant. Et, concernant les relations de Rome et de Lavinium, Tite-Live ajoute : cum Laurentibus renouari fœdus iussum renouaturque ex eo quotannis post diem decimum Latinarum140. Il y a donc eu un traité d'alliance entre Rome et Lavinium à l'issue de la Guerre latine. Comme tout établissement d'un fœdus, celui-ci s'est accompagné d'un sacrifice141. Mais le point qui nous semb leimportant ici est l'emploi, à deux reprises, de renouare à propos de ce traité {renouari, renouatur); ce verbe, déjà employé par Tite-Live à l'occasion de la cérémonie religieuse et du traité destinés à expier le meurtre de Titus Tatius, nous suggère les mêmes réflexions : il ne s'agit pas pour les deux villes de contracter une alliance qu'elles ne connais saientpas auparavant, mais de redonner de la force à une alliance antérieure. Nous avons du reste la trace de liens anciens entre Rome et Lavinium dans les clauses du traité d'alliance entre Rome et Carthage telles que nous les transmet Polybe, avec une mention du peuple des Laurentes : Καρχηδόνιοι δέ μη άδικείτωσαν δήμος Άρδεατών, Άντιατών, Λαυρεντίνων, Κιρκαιιτών, Ταρρακινιτών, μηδ' άλλον μηδένα Λατίνων, όσοι αν υπήκοοι142. Lavinium n'a donc aucun mauvais traitement à
139 Cf. A. Alföldi, Early Rome, p. 411 ; J. Heurgon, Rome et la Méditerranée occidentale, p. 321-322; F. Castagnoli, Lavinium I, p. 102-103. 140 VIII, 11, 15. 141 G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2e éd., Munich, 1912, p. 552 sq. 142 III, 22, 11 «Les Carthaginois ne feront aucun tort au peuple d'Ardée, d'Antium, de Laurente, de Circe, de Terracine, ni à aucun autre des peuples latins qui sont soumis à Rome» (Trad. J. de Foucault, Paris, 1971, C.U.F.) sur le traité, voir A. Alföldi, Early Rome, p. 350 sq. ; H. Bengston, Die Verträge der griechisch-römischen Welt von 700 bis 338 vor Ch., II, Munich-Berlin, 1962, p. 16 sq.; J. Heurgon, Rome et la Méditerranée, p. 386 sq.; P. Pédech, La méthode historique de Polybe, Paris, 1964, p. 385 sq.; R. Werner, Der Beginn der römischen Republik, Munich, 1963, p. 304; la lecture Λαυρεντινοΐ a été contestée par F. Zevi (Note sulla leggenda di Enea in Italia, in Gli Etruschi a Roma, Incontro in onore di M.. F'allottino, Rome, 1981, p. 154-155).
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craindre de la part des Carthaginois, en raison de son alliance avec Rome, ou plutôt, selon Polybe, de sa soumission à cette dernière. Par ailleurs, ce fœdus est renouvelé annuellement (quotannis). Ces détails suggèrent évidemment un rapprochement avec le traité entre Rome et Lavinium qui suivit le meurtre de Titus Tatius, et, par-delà ce traité, avec le pacte que lui-même est supposé renouveler : l'accord entre Enée et Latinus143. Tite-Live ne nous dit pas où se déroulait la cérémonie du renouvellement du traité de 338, mais une inscription de l'époque de Claude trouvée à Pompéi144 nous permet d'affirmer que c'était à Lavi nium : il s'agit d'un certain Sp. Turranius, praif(ectus) pro pr(aetore) i(ure) d(icundo) in urbe Lauinio, pater patratus populi Laurentis fœderis ex libris Sibullinis percutiendi cum p(opulo) (Romano). Il nous paraît donc tout à fait légitime, comme l'a fait A. Alföldi145, de mettre en rela tion ces trois cérémonies, bien que Tite-Live ne l'ait pas fait explicit ement. Par la mention de ces trois alliances, ou de ces trois formes de la même alliance entre Rome et Lavinium, Tite-Live donne à la ville des Laurentes une place tout à fait exceptionnelle, qu'il souligne d'ailleurs à propos du traité de 338. Lavinium n'est évidemment pas représentée dans le pacte entre Enée et Latinus, puisque ce dernier se situe avant la fondation de la cité; aussi le terme de renouatum est, que Tite-Live emploie à propos du fœdus qui a suivi le meurtre de Titus Tatius, est-il, à la lettre, abusif, et ne peut-il se comprendre que dans un sens symbol ique. Rome et Lavinium jouent respectivement les rôles d'Enée et de Latinus dans le premier pacte, ce qui s'explique par le fait que les Romains et Romulus sont considérés comme des Enéades, face aux autochtones plus anciennement établis, les habitants de Lavinium, bien que cette cité soit d'autre part présentée par Tite-Live comme la pre mière fondation d'Enée en Italie. De plus, le traité d'alliance qui a suivi la mort de Titus Tatius est en fait le premier conclu entre la toute jeune ville de Rome et une autre cité. A propos de l'association entre les peu ples sabin et romain à l'issue d'une guerre et après l'intervention des Sabines, et de la double royauté de Romulus et de Titus Tatius alors
143 Cf. G. Baillet, {op. cit., p. 24 n. 4) pour le rapprochement entre le pacte qui a suivi la mort de Titus Tatius et le traité de 338. 144 CIL X, 797. 145 Op. cit., p. 263-264.
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instaurée à Rome, Tite-Live parle bien de fœdus146; mais il nous semble qu'il s'agit d'un accord différent de celui qui est établi avec Lavinium. Par ce fœdus ou cette pax, comme l'appelle encore Tite-Live147, les Romains et les Sabins ne concluent pas une alliance, ils fusionnent en un seul peuple, et leurs deux rois exercent conjointement une même royauté148. Au contraire, Enée et Latinus, comme l'indique également Virgile149, établissent entre eux et leurs deux peuples une alliance qui conserve leur spécificité et leur identité, ainsi qu'en témoigne le fait qu'Enée va fonder une ville nouvelle, Lavinium, qu'il habitera avec ses compagnons troyens, tandis que Latinus garde la royauté sur les Laurentes. De même, l'alliance entre Rome et Lavinium, «renouvelée» après le meurtre de Titus Tatius, suppose que chacune des deux cités garde son individualité. C'est dans cette mesure que nous pouvons dire que nous sommes ici en présence du premier véritable traité conclu par Rome. Le texte de Tite-Live paraît toutefois contredire notre hypothèse, lorsque l'historien évoque le fœdus qui a uni Rome et Albe avant que les Horaces et les Curiaces ne commencent leur combat : nec ullius uetustior fœderis memoria est150 (il poursuit en détaillant les formules qui constituent le traité). En réalité, le mot uetustior, comme l'a just ement fait remarquer Neumann151, ne s'applique pas au fait de conclure un traité, mais plutôt au fait que c'est le premier traité dont on ait conservé exactement les termes, à ce que prétend Tite-Live. Il est assez
146 I, 13, 4 : inde ad fœdus faciendum duces prodeunt. 147 I, 13, 6: laeta pax. 148 On pourrait d'ailleurs considérer que c'est là un cas extrême de l'association pou vant être créée entre deux peuples par un fœdus ; car cette « fusion totale des communaut és» (J. Poucet, Recherches sur la légende des origines sabines de Rome, Kinshasa, 1967, p. 269), soulignée par plusieurs auteurs anciens (Denys d'H., II, 46, 2; Plutarque, Rom., 19, 9) peut être comprise comme une forme idéalisée d'incorporation à la ciuitas Roman a, procédure dont M. Humbert (Municipium et ciuitas sine suffragio, p. 251-271) souli gne, contre l'avis de beaucoup d'historiens antérieurs, qu'elle met fin, en réalité, à la fédération créée par le fœdus ; Servius, peut-être moins porté que Tite-Live à magnifier la fusion entre Romains et Sabins, assure que ces derniers reçurent la ciuitas sine suffragio {Ad Aen. VII, 709), anachronisme manifeste, mais qui montre qu'ils furent incorporés à l'Etat romain; J. Poucet {op. cit., p. 271) estime néanmoins qu'il ne s'agit là que d'une « notice marginale », l'ensemble de la tradition antique considérant qu'il y eut fusion entre les deux peuples. 149 XII, 192-194. 150 I, 24, 4; pour le commentaire de la formule du fétial, voir R. M. Ogilvie, op. cit., p. 110-112 (avec bibliographie). 151 S.u. fœdus, R.E. VI, 2, col. 2819.
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remarquable d'ailleurs que les premiers traités conclus par Rome, selon ses propres historiens, l'ont été avec Lavinium et Albe, ses deux cités-mères152. Dans le traité de 338, on retrouve, comme dans les deux alliances précédentes avec Lavinium, une place exceptionnelle, privilé giée,donnée à la cité des Laurentes dans l'établissement des relations entre Rome et les autres villes du Latium; alors que, selon Tite-Live, toutes ont été traitées sévèrement, Lavinium, seule dans le Latium, demeure extra pœnam. Quel sens faut-il donner au traitement de faveur accordé aux habi tants de Lavinium à l'issue de la guerre entre Rome et la Ligue latine? Tite-Live nous en propose une explication : quia non desciuerant153; desciuerant implique bien qu'il existait entre Rome et Lavinium une allian ce antérieure à celle de 338; les Laurentes ne l'ont pas désavouée, quel lesqu'aient pu être les sollicitations dont ils furent l'objet de la part des autres cités de la Ligue latine. Il ne s'agit donc pas seulement pour eux de rester neutres dans le conflit, mais de maintenir la fidélité jurée à Rome. La situation respective de Rome et de Lavinium dans cette affai re s'éclaire, du reste, par l'analogie avec celle de Rome et de Capoue. Tite-Live affirme en effet154 que les chevaliers campaniens, comme les Laurentes ont été extra pœnam . . . quia non desciuerant : les Campan ienssont donc eux aussi restés fidèles à un traité d'alliance antérieur à l'insurrection latine; la nature exacte des liens - deditio ou fœdus qui ont uni Capoue à Rome entre 343, date présumée de la deditio, et 338, fin de la Guerre latine, est particulièrement délicate à analyser, car, d'une part, elle semble avoir été falsifiée par les historiens latins, et d'autre part, ces liens n'ont pas toujours été parfaitement respectés. Selon J. Heurgon, un fœdus associe en 341 Capoue et Rome155, et TiteLive souligne la fidélité des chevaliers campaniens, semblable, selon lui, à celle des Laurentes. Les attitudes de Capoue et de Lavinium en face de Rome peuvent à bien des égards être comparées, comme l'a noté J. Beloch156. En effet, les deux villes, liées à Rome par un fœdus, ne lui ont pas, en réalité, été toujours aussi fidèles que voudrait nous le faire croire l'historiographie 152 Voir infra p. 368 sq. 153 VIII, 11, 15. 154 Ibid. 155 In Recherches sur l'histoire, la religion et la civilisation de Capoue préromaine, p. 157-191 ; id., Rome et la Méditerranée occidentale, Paris, 1942, p. 324-326. 156 Römische Geschichte bis zum Beginn der punischer Kriege, Berlin, 1926, p. 376 sq.
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romaine. J. Heurgon157 a montré comment Tite-Live avait présenté comme une deditio le fœdus de 343 entre Capoue et Rome, par analogie avec la deditio de 211 d'abord, mais surtout pour excuser l'intervention de Rome aux côtés de Capoue dans la guerre contre les Samnites (qui étaient, eux aussi, ses alliés), en présentant les liens unissant Rome à Capoue comme plus forts que ceux qui l'unissaient aux Samnites. Néanmoins, en 340, Capoue s'associa à la Guerre latine, à l'exception des chevaliers capouans. Les mêmes revirements vis-à-vis de Rome se trouvent chez les habitants de Lavinium, de l'aveu même de Tite-Live : Latinis quoque ab Lauinio auxilium, dum deliberando terunt tempus, uictis demum ferri cœptum est158. Cette phrase, qui précède de peu le texte où Tite-Live affirme la fidélité de Lavinium à Rome lors de la Guerre latine, présente avec ce dernier une surprenante contradiction; ab Lauinio est la leçon donnée par l'ensemble des manuscrits, mais Weissenborn a proposé, pour éviter cette contradiction, la correction ab Lanuuio, correction également acceptée par Dessau159. Cette leçon est refusée par M. Humbert et par F. Castagnoli160, qui souligne que «la suite des événements ne permet. . . pas d'accorder à Lanuvium la timi dité que Tite-Live lui aurait prêtée en VIII, 11, 3, si l'on admet cette correction»161. L'inscription découverte par G. Manganaro162, qui attr ibue à Fabius Pictor un récit selon lequel Enée aurait été l'allié de Lanoîos, fondateur et éponyme de Lanuvium163, ne nous paraît pas suf fire à justifier cette correction. G. Manganaro estime que la communio sacrorum de Rome et Lanuvium, réalisée par le traité de 338 164, trouvait ainsi chez Fabius Pictor un modèle mythique dans l'alliance d'Enée et de Lanoîos. Mais un raisonnement analogue explique l'alliance de
157 Capoue préromaine, p. 171-173. 158 VIII, 11, 2 et 3. 159 CIL XIV, p. 187. Cf. M. Humbert, Municipium et ciuitas sine suffragio, p. 181 n. 196. 160 Lavinium I, p. 69 n. 1. 161 Ibid. 162 Una biblioteca storica nel ginnasio a Tauromenion nel II secolo a.C. in A. Alföldi, Romische Έ rügeschichte, Heidelberg 1976, p. 87 sq. 163 νόσ]τον Λανοίου συμ μάχου τε Αινεία και Άσκα]νίου 164 Liv., VIII, 14, 2 : Lanuuinis ciuitas data sacraque sua reddita cum eo ut aedes lucusque Sospitae Iunonis communis Lanuuinis municipibus cum populo Romano esset; cf. A. Alföldi, Early Rome, p. 260.
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Rome et de Lavinium et le traitement privilégié accordé par les Ro mains à cette dernière en tant que cité-mère de Rome : Romains et Lavinates ont Enée pour commun ancêtre. Aussi pensons-nous qu'il faut maintenir la leçon ab Lauinio, et essayer d'en expliquer les appa rentes contradictions. Il est probable que Lavinium, comme toutes les autres cités latines, s'est, à un moment ou à un autre, laissé entraîner dans la Guerre latine; étant donné sa position géographique, il semble difficile qu'elle ait pu garder une réelle neutralité165, entourée qu'elle était de cités conjurées contre Rome. Tite-Live, du reste, ne lui accorde pas le bénéfice d'une telle neutralité, puisque, selon lui, elle a apporté aux Latins son auxilium, ce qu'implique bien évidemment qu'elle a, à un moment, pris activement parti pour eux. M. Humbert166 souligne la quasi-impossibilit é pour les Lavinates de prendre le parti de Rome contre les Latins : en 338, Lavinium est, comme Aricie, l'une des métropoles religieuses du Latium, et, à ce titre, elle peut difficilement se ranger aux côtés d'une des cités contre toutes les autres; il note d'autre part le peu d'à propos de l'engagement des Lavinates aux côtés des Latins en ces circonstanc es, en se fondant sur le texte même de Tite-Live que nous avons cité plus haut; en effet, les Lavinates se décident à entrer en guerre contre Rome au moment même où la défaite des Latins est déjà pratiquement certaine (Latinis. . . uictis). Aussi l'historien fait-il preuve d'un certain embarras pour justifier le traitement de faveur dont a bénéficié Lavi nium. M. Humbert a insisté à juste titre sur le fait que Tite-Live parle, non du statut politique réservé à Lavinium, mais du fœdus entre Lavi nium et Rome, et de son renouvellement. Il nous paraît difficile de sou tenir, comme l'a fait A. Bernardi167, que les termes de renouari et renouatur employés par Tite-Live à propos du traité de 338 qui met fin à la Guerre latine, font référence à un traité séparé qui aurait été conclu au début de cette guerre entre Rome et Lavinium. Il nous semb le préférable de considérer, avec J. Beloch168, que ces termes impli quent. qu'il y a eu, à un moment, rupture d'un traité; si les Laurentes n'avaient pas pris part à la guerre, ce renouvellement d'un pacte anté-
n. 2.
165 Cf. E. Manni, Per la storia dei municipi fino alla Guerra Sociale, Rome, 1947, p. 42
166 Op. cit., p. 179-184. 167 Roma e Capua nella seconda metà del quarto secolo av. C, Athenaeum, 20, 1942, p. 92. 168 Ibid.
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rieurement conclu n'aurait aucun sens. Le texte de Tite-Live (Latinis ab Lauinio. . . auxilium ferri cœptum est) nous semble fournir un solide argument en faveur de cette interprétation, et aller aussi dans le sens de notre précédente hypothèse, selon laquelle Tite-Live se référerait à un traité légendaire entre Lavinium et Rome, «datant» au moins de Romulus, peut-être d'Enée169. Le renouvellement du traité d'alliance en 338 introduit néanmoins un changement dans les relations entre Rome et Lavinium. Contraire ment à Capoue, Lavinium sera une alliée parfaitement fidèle, et on ne trouve plus de défection vis-à-vis de Rome dans son histoire. A. Alföldi170 s'appuyant sur l'un des textes de Tite-Live que nous avons cités171, voit dans les mots renouaturque ex eo quotannis la preuve que le renou vellement annuel du traité date de 338. Il est fort probable, en effet, qu'il y a eu à date ancienne une alliance entre Rome et Lavinium, mais que la qualité des relations entre les deux villes a connu des hauts et des bas : la vraisemblable participation de Lavinium aux débuts de la Guerre latine en serait un témoignage. Juridiquement, le fœdus implique que les deux partenaires en pré sence ont le même statut politique, c'est-à-dire sont des cités indépen dantes. On pourrait donc penser qu'en 338, Lavinium avait encore une autonomie politique, et que la ciuitas Romana n'a pu lui être octroyée qu'après la conclusion du traité. Toutefois, J. Beloch172 fait justement remarquer la faiblesse de cet argument : le fœdus a continué à être renouvelé jusqu'à l'époque impériale, comme en témoigne l'inscription de Pompéi datée du règne de Claude, en un temps où Lavinium avait depuis longtemps été incorporée à l'Etat romain et était un municipium fœderatum. J. Heurgon173 relève que «l'association de ces deux mots comporte, sans doute, une contradiction théorique», mais souligne, une fois encore, l'analogie des situations où se sont trouvées Capoue et Lavinium dans ce qui nous apparaît comme une contradiction juridi que : Mommsen, puis Beloch174 ont essayé d'expliquer la simultanéité de deux actions juridiques - conclusion d'un fœdus et octroi de la ciui tas Romana - en apparence incompatibles. J. Heurgon propose une
169 170 171 172 173 174
A. Alföldi, Early Rome, p. 263 sq. Early Rome, p. 262 note 2. VIII, 11, 15. Loc. cit; voir aussi M. Humbert, op. cit., p. 180 η. 93. Capoue préromaine, p. 187. Cf. résumé de leurs argumentations in J. Heurgon, Capoue préromaine, p. 188.
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autre solution, qui, renonçant à l'idée de la simultanéité des deux actes, suggère au contraire d'envisager le statut de municipium fœderatum comme la superposition de deux actes chronologiquement et juridique ment distincts : le fœdus, que Tite-Live fait remonter au temps des rois a été renouvelé chaque année, de 338 jusque sous l'Empire, sans que l'octroi de la ciuitas aux Laurentes, qui vidait un peu le fœdus de sa substance politique, l'ait pour autant supprimé: «cette survivance du fœdus dans le municipium, chaque mot désignant des réalités distinctes et pour ainsi dire se chevauchant l'une l'autre, la première de caractère plus religieux, la deuxième de caractère plus politique, indique bien la vraie nature des municipes fédérés; ce sont simplement des villes qui ont d'abord été liées à Rome par un traité et qui ont ensuite été natural iséesromaines, sans pour cela renoncer aux traditions et au prestige qui leur venait du fœdus antique»175; nous aurions donc à Lavinium l'exemple de la superposition de deux statuts, de nature un peu diffé rente d'ailleurs, superposition assez conforme à la mentalité romaine, qui, surtout lorsqu'elles impliquent des actes religieux,' répugne à abro gerles coutumes anciennes. Le renouvellement du fœdus avec Rome maintient Lavinium dans une situation de prestige que son importance politique, sans doute dès le IVe siècle, ne lui aurait pas conservée, ainsi qu'en témoigne l'octroi aux Laurentes de la ciuitas Romana116. La conclusion, ou le renouvellement, du fœdus entre Rome et Lavi nium s'accompagne, comme il est habituel, d'un sacrifice177. A quelle divinité était-il adressé? L'inscription de Pompéi178 donnant les titres de Sp. Turranius, nous fournit peut-être quelques renseignements sur ce point : pater patratus populi Laurentis fœderis ex Libris Sibullinis percutiendi cum p(opulo) (Romano), sacrorum principiorum p(opuli) R(omani) Quirit(ium) nominisque Latini, quai apud Laurentes coluntur. Au renouvellement du traité était associé l'hommage aux sacra principia, ou sacra principiorum des Romains et du nomen Latinum. Nous avons donc affaire à une réorganisation politique du Latium sous l'égide de Rome, dont nous trouvons ici l'expression religieuse. Il s'agit d'un culte fédéral, comme le montrent les mots nominis Latini, dont le siège est à
175 Capoue préromaine, p. 188-189. 176 Pour une analyse très détaillée de la notion de municipia fœderata, cf. M. Humb ert, op. cit., p. 251-271. 177 G. Wissowa, R.U.K., p. 552 sq. 178 CIL, X, 797.
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Lavinium. A. Alföldi a donné de très convaincantes raisons de com prendre sacra principiorum et non sacra principia179, et pense qu'il s'agit du culte des Pénates. Cependant le sens de l'expression n'est pas des plus clairs. Littéralement, elle signifie «les cultes en relation avec les origines». F. Castagnoli, après avoir d'abord estimé180 que le renou vellement du traité de 338 était lié au culte des Pénates, affirme aujourd'hui que les sacra principia ne peuvent être que les Pénates de Lavinium181. D) Le sacrifice des magistrats romains à Lavinium Deux témoignages tardifs nous apprennent qu'une fois par an, les plus hauts magistrats de Rome se rendaient à Lavinium pour y accomp lir un sacrifice adressé conjointement à Vesta et aux Pénates. Le fait est attesté par Macrobe : eodem nomine appelauit (Vergilius) et Vestam, quam de numero Penatium certe comitem eorum esse manifestum est adeo, ut et consules et praetores seu dictatores, cum adeunt magistratum, Lauini rem divinam faciant Penatibus pariter et Vestae 182. La cérémonie est donc célébrée par les magistrats de Rome, qui l'accomplissent cha que année au moment de leur entrée en charge. Ce dernier point a été contesté, et semble démenti par un passage de Servius 183 : hic (= Vergi lius) ergo quaeritur, utrum Vesta etiam de numero Penatium sit, an cornes eorum accipiatur, quod cum consules et praetores siue dictator abeunt magistratu, Lauini sacra Penatibus simul et Vesta faciunt. Selon Servius donc, le sacrifice des magistrats romains a lieu lors de leur sor tie de charge. Cette contradiction avec Macrobe est surprenante, car les ressemblances entre les deux textes sont telles qu'il est certain que
179 Die Trojanische Urahnen der Römer, Bale, 1957, p. 46 η. 124-125; Early Rome, p. 264-265 n. 9. 180 Lavinium I, p. 104. 181 La leggenda di Enea nel Lazio, p. 12. 182 III, 4, 11 : «Virgile a appelé du même nom Vesta, dont il est si manifeste qu'elle fait partie des Pénates, ou qu'elle est leur compagne, que les consuls, les préteurs ou les dictateurs, lorsqu'ils entrent en charge, font à Lavinium un sacrifice aux Pénates en même temps qu'à Vesta». 183 Ad Aen. II, 296 : « Virgile se demande donc si Vesta aussi fait partie des Pénates, ou si elle est considérée comme leur compagne, parce que, lorsque les consuls, les pré teurs ou le dictateur sortent de charge, ils accomplissent à Lavinium des cérémonies sacrées destinées aux Pénates en même temps qu'à Vesta » ; voir supra p. 292-6 pour les liens entre Vesta et les Pénates.
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Macrobe s'est inspiré directement de Servius pour faire ce commentair e de Virgile. K. Latte184 propose comme la bonne la leçon abeunt magistratu, et voit dans adeunt magistratum une erreur d'un copiste. Cette solution à la contradiction précédemment relevée entre les deux textes repose évidemment sur l'antériorité du texte de Servius. S. Weinstock185 résout différemment le problème, puisqu'il pense que le sacrifice avait lieu lors de l'entrée en charge des magistrats et lors de leur sortie de charge, et cite à l'appui de ce dernier point, outre le texte de Servius, deux autres témoignages; en effet, Valére Maxime écrit à propos du consul C. Hostilius Mancinus : cui consult in Hispaniam ituro haec prodigia acciderunt. Cum Lauini sacrificium facere uellet, pulii cauea emissi in proximam siluam fugerunt 186 ; avant d'accomplir le sacrifice, C. Hostilius Mancinus prend donc les auspices qui sont défa vorables; les circonstances qui entourent ces événements sont consult in Hispaniam ituro, et l'interprétation de S. Weinstock laisse entendre qu'il voit là le départ d'un consul à sa sortie de charge pour une provin ce où il exercera le proconsulat, en l'occurrence l'Espagne. Mais nos autres sources d'information sur le personnage et sa conduite infi rment cette interprétation. C. Hostilius Mancinus nous est connu notam mentpar Cicéron187, et fut consul pendant la Troisième Guerre Puni que, en 137: à ce moment, depuis plusieurs années, les Romains doi vent faire face à un soulèvement de l'Espagne - conquise par Scipion l'Africain et province romaine depuis 206 -, dont le foyer le plus actif est Numance, devant laquelle d'ailleurs C. Hostilius Mancinus capitule ra honteusement188. Il ne s'agit donc pas, on le voit, du départ d'un consul sortant de charge pour l'administration d'une province ordinair e, mais du départ du consul, au cours de l'exercice de sa magistrature, comme imperator à la tête de l'armée romaine qui doit réprimer un soulèvement grave : C. Hostilius Mancinus part pour livrer bataille, non pour administrer; le texte de Valére Maxime, cui consult, suggère bien cette interprétation, et il n'y est pas question de la sortie de charge du consul. Un autre passage de Servius, invoqué par S. Weinstock à l'ap-
184 Römische Religions Geschichte, Munich, 1960, p. 295, n. 5; cf. aussi A. Alföldi, Earl yRome, p. 261 η. 3, et F. Castagnoli, Lavinium I, p. 72 n° 142, η. 1. 185 R.E., XIX, 1, s.u. Penates, col. 428. 186 I, 6, 7. 187 De Off., Ill, 109; cf. éd. de M. Testard, C.U.F., Paris, 1970, p. 188 n. 1. 188 Cf. C. Nicolet, Rome et la conquête du monde méditerranéen. I : Les structures de l'Italie romaine, Paris, 1977, p. 337.
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pui de sa thèse, confirme plutôt, nous semble-t-il, notre interprétation : quod imperatores in prouincias ituri apud eos (= les Pénates de Lavinium) primum immolarmi189. Là encore, Servius ne parle pas de pro consuls à leur sortie de charge, mais a' imperatores. Le second texte cité par S. Weinstock est un passage de l'Histoire Auguste, dans la Vie de Marc-Aurèle : Romam ut uenit triumphauit et inde Lauinium profectus est190. On peut faire deux objections à la valeur de ce témoignage : tout d'abord, il fait référence à des réalités polit iques très différentes de celles de la Rome républicaine191, puisque, sous l'Empire, le consulat est un titre purement honorifique qui ne recouvre aucun pouvoir réel192; d'autre part, il est extrêmement vague, puisqu'il ne donne aucune précision sur les circonstances dans lesquelles MarcAurèle a célébré ce triomphe, ni sur ce qu'il est allé faire exactement à Lavinium; aussi nous rallierons-nous à l'opinion d'A. Alföldi, qui pense que ce texte «n'est pas suffisamment clair ni sûr»193. En conclusion, on peut donc dire qu'il n'existe aucun témoignage attestant un sacrifice des magistrats romains à leur sortie de charge. Pour résoudre la contradiction entre les textes, par ailleurs si voi sins, de Servius et de Macrobe, A. Alföldi194 et F. Castagnoli195 ont pro posé la correction inverse de celle de K. Latte : c'est le texte de Macro be {cum adeunt magistratum) qui donnerait la bonne leçon, et celui de Servius (cum. . . abeunt magistratu) serait une erreur de copiste, tardi ve, en tout cas postérieure à la tradition manuscrite du texte de Servius qu'a pu connaître Macrobe. Cette interprétation nous semble préférab le, car la valeur symbolique de ce sacrifice, sorte de pèlerinage au ber ceau du peuple romain effectué par les premiers personnages officiels de la cité, retour aux sources, paraît avoir plus naturellement sa place au début d'un mandat politique ou militaire important. Deux témoignages attestent la présence de prêtres romains lors de sacrifices à Lavinium. Selon Servius, les flamines venaient sacrifier dans la ville des Laurentes, et il explique d'une manière assez amusante l'utilité de la uirga qui se dressait sur leur bonnet, sorte d'épouvantail à
189 190 191 192 193 194 195
AdAen. III, 12. 27, 4. Voir C. Nicolet, op. cit., p. 406-408. P. Petit, La paix romaine, 3è éd. Paris, 1982, p. 134. Early Rome, p. 261 n. 3. Ibid. Ibid.
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oiseaux, nécessaire, sans doute, dans cette région boisée : flamines in capite habebant pilleum, in quo erat breuis uirga. . . Alii dicunt. . . hoc factum. . . quia cum sacrificarent apud Laurolauinium et eis exta fr equenter aues de uicinis uenientes lucis abriperent, eminentia uirgarum eas terrere uoluerunt. Exinde edam consuetudo permansit, ut apud Lau rolauinium ingénies haberentur uirgae, non breues ut in urbe190. Aucune précision, toutefois, n'est donnée sur la divinité à laquelle ce sacrifice était destiné; les Pénates ne sont pas mentionnés. Un passage du scholiaste de Vérone permet peut-être d'éclairer ce point : Aeneae Indigeti templum dicauit, ad quod pontifices quotannis cum consulibus ire soient sacrificaturi197 : il est ici question des pontifes, mais l'indication selon laquelle ils sont accompagnés des consuls a suggéré à J. Scheid198 un rapprochement avec les textes de Servius et Macrobe mentionnant la présence des consuls, préteurs, ou dictateurs, qui lui fait considérer comme «très probable» qu'il s'agisse du même sacrifice aux Pénates. Au reste la mention que fait le scholiaste de «l'espace consacré à Aeneas Indiges» comme lieu de la cérémonie peut paraître renforcer l'hypothèse d'un sacrifice à ces dieux, étant donné le lien établi entre Enée et les Pénates de Lavinium. G. Wissowa199, A. Alföldi200, et F. Cas tagnoli201, affirment très nettement qu'il s'agit du même sacrifice. Un passage du commentaire d'Asconius au Pro Scauro fournit sur ce point un témoignage important, mais discuté : Cn. Domitius qui consul fuit cum C. Cassio cum esset tribunus plebis, iratus Scauro quod eum in augurum collegium non cooptauerat, diem ei dixit apud populum et multam irrogauit, quod eius opera sacra populi Romani deminuta esse diceret. Crimini dabat sacra publica populi Romani deum Penatium quae
196 Ad Aen. VIII, 664 : « Les flamines avaient sur la tête un bonnet surmonté d'une courte baguette. Les uns disent que la raison de cet usage est que, alors qu'ils sacrifiaient à Lavinium, et que les oiseaux venaient des bois voisins leur arracher les entrailles des victimes, ils voulurent les effrayer par la hauteur des baguettes. La coutume s'est mainte nue de porter de longues baguettes à Lavinium, et non des baguettes courtes comme à Rome ». 197 Ad Aen. I, 239. 198 Le délit religieux dans la Rome tardo-républicaine, in Le Délit religieux dans la cité antique, Ecole Française de Rome, Rome, 1981, p. 171. »» R.U.K., p. 518. 200 Early Rome, p. 261. 201 Lavinium I, p. 109 n. 3.
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Lanini fièrent opera eins minus recte casteque fieri202. E. Pais203 a contest é que ce fût en tant que pontife que M. Aemilius Scaurus commit cette faute; si l'on accepte cette interprétation, le texte d'Asconius n'apporte aucun élément en faveur de la thèse selon laquelle les pontifes assis taient au sacrifice des magistrats romains aux Pénates de Lavinium. Au contraire, J. Scheid a pu démontrer, avec des arguments qui nous sem blent très convaincants204, que Scaurus était bien pontife lorsqu'il com mit l'impiété dont Domitius l'accusa. Si l'on accepte l'identification du sacrifice fait à Lavinium par les pontifes avec celui des magistrats romains lors de leur entrée en charg e,le texte d'Asconius comme celui de Valére Maxime à propos de C. Hostilius Mancinus205 nous montrent l'importance attachée à l'accom plissement de ces sacra lavinates. Scaurus, pour avoir sacrifié minus recte casteque, semble avoir mis en péril l'équilibre religieux de Rome, la pax deorum, et, d'autre part, cette faute a entraîné une punition pour toute la cité, sous la forme d'une défaite206; aussi l'accusation portée contre lui semble-t-elle avoir été extrêmement grave207. De même, ïomen des poulets sacrés qui s'échappent de leur cage au moment où C. Hostilius Mancinus va sacrifier à Lavinium lors de son départ pour l'Espagne annonce sa capitulation devant Numance et la honte qui en rejaillira sur lui208, mais aussi sur Rome tout entière. Sans doute faut-il mettre également en relation avec le sacrifice aux Pénates, comme le
202 18-19, p. 21 C : «Cn. Domitius qui fut consul en même temps que C. Cassius, lors qu'il était tribun de la plèbe, courroucé contre Scaurus parce qu'il ne l'avait pas coopté pour le collège des augures, l'assigna à comparaître devant le peuple et proposa à ce dernier de lui infliger une amende parce que, disait-il, les cérémonies sacrées du peuple romain avaient, par sa faute, subi un préjudice. Il lui faisait grief de ce que les cérémon ies sacrées en l'honneur des Pénates du peuple romain, qui se font à Lavinium, avaient été par sa faute trop peu correctement et purement accomplies ». 203 Dalle Guerre Puniche a Cesare Augusto, Rome, 1918, p. 154 sq. Cf. J. Scheid, op. cit. p. 168-169. 204 Op. cit., p. 169-171. 205 Un texte d'Obsequens reprend à peu près littéralement celui de Valére Maxime, mais, curieusement, assimile la faute de Scaurus, considéré en tant que consul, à celle de C. Hostilius Mancinus : M. Aemilio C. Hostilio Mancino coss. cum Lauinii auspicar entur, pulii e cauea in siluam Laurentinam euolarunt neque inuenti sunt (24). 206 J. Scheid, op. cit., p. 125. 207 Cf. J.-L. Ferrary, Recherches sur la législation de Saturninus et Glaucia, II, MEFR, 91, 1979, p. 100, n. 47. 208 C. Nicolet, loc. cit. : C. Hostilius Mancinus perdit son titre de citoyen romain.
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suggère F. Castagnoli209, le prodige raconté par Caton : Lauini boues immolatos, prius quant caederentur, profugisse in siluatn210; nous igno rons tout des circonstances dans lesquelles se produisit ce prodigium. Reste à préciser la relation existant entre le sacrifice des magistrats et des prêtres de Rome aux Pénates de Lavinium lors de l'entrée en charge des premiers, et le renouvellement annuel du traité d'alliance entre Rome et Lavinium. G. Wissowa211 ne met pas en doute qu'il s'agis se de la même cérémonie, non plus qu'A. Alföldi212; les deux savants appuient leur affirmation sur l'inscription de Pompéi, mentionnée plus haut, qui contient les mots sacrorum principiorum p(opuli) R(omani) Quirit(ium) nominisque Latini, suivant immédiatement l'évocation du fœdus entre Rome et Lavinium. Le texte d'Asconius que nous citions plus haut semble venir à l'appui des arguments d'A. Alföldi rappelés ci-dessus; les mots de l'inscription sont, en effet, bien proches des sacra publica populi Romani deum Penatium, quae Lauini fièrent, à ceci près, cependant, qu'aucun mot du texte d'Asconius ne suggère que ce culte est commun à tous ceux qui se réclament du nomen Latinum. Ajoutons que la date présumée des deux cérémonies ne permet guère de les di fférencier : les magistrats romains entrent en charge le 1er janvier à part irdu Ier siècle av. J.-C.213 et les Fériés Latines - le renouvellement du fœdus entre Rome et Lavinium a lieu neuf jours après elles214 - sont célébrées le plus souvent en janvier. Enfin, un argument de poids pour affirmer que ces deux cérémonies sont distinctes serait d'arriver à montrer qu'elles ont des significations idéologiques différentes, ce qui paraît difficile. L'importance attachée par les Romains à la célébration des sacra de Lavinium, comme leur réorganisation par le fœdus de 338, nous paraissent une des expressions du courant idéologique et religieux qui a donné sa forme, notamment, à la légende troyenne215. Cependant, assi miler le renouvellement annuel du fœdus entre Rome et Lavinium et le sacrifice des magistrats romains aux Pénates et à Vesta présente des difficultés lorqu'on examine les lieux de culte découverts à Pratica di
209 210 211 212 213 214 215
Lavinium I, p. 109 n. 3; voir aussi A. Alföldi, Early Rome, p. 267. Servius-Daniel, Ad Aen. X, 541 = fr. 55 Peter. R.U.K. p. 518. Early Rome, p. 260-261. C. Nicolet, op. cit., p. 400. Cf. ci-dessous, p. 372 sq. Cf. ci-dessous, p. 378-9.
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Mare. Le traité de 338 semble renouvelé dans un sanctuaire fédéral, puisque, à en juger par l'inscription de Pompéi, il associe tous ceux qui se réclament du nomen Latinum; or, nous l'avons vu, les Pénates s'a ccommoderaient mal, par leur nature, d'un sanctuaire fédéral extra urbain. C'est pourquoi sans doute F. Castagnoli216 se borne, avec beau coup de prudence, à poser, sans le résoudre, le problème de cette iden tification217. 2) La signification du choix de Lavinium comme métropole de Rome Que représente Lavinium dans le Latium du IVe siècle? N'est-elle déjà, comme elle le deviendra par la suite, qu'une ville sainte, sans importance politique? A) Rôle particulier de Lavinium Nous avons vu précédemment que, au moins pendant l'époque archaïque, l'architecture lavinate n'est pas exclusivement religieuse. L'importance de la muraille d'enceinte du VIe siècle en est la preuve, de même que le choix du site de l'oppidum sur une colline, où se trouve aujourd'hui le village de Pratica, montre la volonté d'avoir une position facile à défendre, naturellement protégée des agressions voisines. Nous croyons d'autre part que, au VIe siècle au moins, Lavinium, par son escale maritime Troia, a eu un rôle commercial qui explique son essor architectural comme centre urbain et son rôle dans la diffu sion des légendes grecques, notamment celle d'Enée. Evoquant le traité de 508 avant J.-C. entre Rome et Carthage, Polybe mentionne une clau se qui assure la paix pour Ardée, Antium, Lavinium, Circeii et Terracine218 : ces villes sont situées au bord de la mer, et les garanties dont
216 Lavinium I, p. 109. 217 Rappelons toutefois que, revenant récemment sur ce problème (La leggenda di Enea nel Lazio, p. 12), F. Castagnoli et allé beaucoup plus loin: «il semble y avoir un rapport évident entre le fœdus et les principia du peuple romain et du nomen Latinum, qui ne peuvent être que les Pénates de Lavinium»; à l'appui de cette thèse, le savant italien cite le texte de Varron que nous avons plusieurs fois mentionné : oppidum, quod primum conditum in Latio stirpis Romanae, Lavinium : nam ibi dii Penates nostri (De L.L. V, 144); voir aussi M. Torelli, Lavinio e Roma, p. 179; 209; 217. 218 III, 22; cf. F. W. Walbank, A Historical Commentary to Polybius, I, Oxford, 1957, p. 341 sq.
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elles bénéficient de la part des Carthaginois s'expliquent par leur rôle dans l'économie du Latium, non par leur rôle religieux. De plus Lavinium présente l'avantage d'être située à peu de distance de l'Etrurie, dont la prospérité et l'activité sont considérables au VIe siècle, et qui est en liaison avec le monde grec. Si le rôle portuaire de Lavinium est attesté à l'aube du VIe siècle, il est difficile de suivre l'histoire politique de la cité entre le VIe et le IVe siècle. Strabon fournit une indication peut-être précieuse, à propos de YAphrodisium fédéral des Latins à Lavinium, dont il affirme qu'il est administré par des intendants d'Ardée219. Or, un passage de Pline220, et un autre de Pomponius Mela221, probablement dérivés d'une commune source grecque222, mentionnent un Aphrodisium près d'Ardée, entre la ville et la côte, sanctuaire fédé ralselon Strabon223. Si l'existence de deux sanctuaires fédéraux dédiés à la même déesse et aussi proches a pu sembler singulière, R. Schil ling224 a très justement noté qu'on connaît d'autres exemples de ces duplications de sanctuaires225. Ainsi, lorsque Strabon note que l'admi nistration de YAphrodisium fédéral de Lavinium était placé sous la tutelle d'Ardée, cela signifie probablement qu'à un moment de l'histoire de la Confédération latine, Ardée a imposé son hégémonie et pris en mains le culte fédéral. Aucune indication sur la date à laquelle cet év énement s'est produit ne nous est parvenue, mais il y a tout lieu de croi reque c'est antérieurement au IVe siècle, avant la victoire romaine sur le Latium. Ardéea-t-elle arraché à Lavinium la place qu'elle aurait eue à la tête des Latins? C'est possible, car l'importance économique de Lavinium aurait justifié qu'elle tînt ce rôle, dont la présence de YAphro disium fédéral aux portes de son enceinte serait du reste un témoignag e. Mais ce n'est là qu'une hypothèse, une mince lueur jetée dans l'om bre qui entoure l'histoire de la Confédération latine et des rivalités entre les cités pour en prendre la direction. On peut donc supposer qu'après le VIe siècle, date à laquelle sont édifiés les premiers autels du sanctuaire que nous considérons comme YAphrodisium, Lavinium a
219 V, 3, 5 : επιμελούνται δ' αύτοΰ (= V Aphrodisium fédéral) δια προπόλων Άρδεαται. 220 Ν.Η., III, 5, 56-57. 221 Π, 4, 71. 222 F. Castagnoli, Lavinium I, p. Ill; p. 55 n. 8 pour une bibliographie détaillée. 223 Ibid. 224 La religion romaine de Vénus depuis les origines jusqu'au temps d'Auguste, 2è éd., Paris, 1982, p. 68-69. 225 Liv., I, 45, 2 (sanctuaires de Diane à Aricie et à Rome); cf. supra p. 256.
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connu un certain déclin politique ou économique, mais a continué, son architecture en témoigne, à être une métropole religieuse. La récente découverte du dépôt de statues votives dans l'aire sacrée située sur une hauteur à l'est de Pratica di Mare remettra peutêtre en question cette vision des choses. On estime226 que l'ensemble de ces statues et ex-voto, parfois copiés sur des modèles grecs, sont le pro duit d'ateliers locaux. Cette floraison artistique attesterait une import anteactivité économique à Lavinium entre le Ve et le IIIe siècles, limi teschronologiques que l'on assigne à ces objets. Mais il est très difficile d'apprécier le rôle que cette activité économique a conféré à Lavinium, et, par là-même, d'en déduire que la ville avait à cette époque une importance politique. Ce rôle économique n'est-il pas en effet très spé cialisé, limité à la production - quelle qu'en soit la remarquable valeur artistique - d'objets sacrés à usage strictement local, même si les com manditaires en étaient étrangers à la cité? Rappelons à ce propos le mot de J. Heurgon qualifiant Lavinium de «véritable petite Delphes du Latium antique»227. Nous penserions volontiers que, en 338, Lavinium avait déjà perdu, sans qu'il soit possible de déterminer les causes ni la date de ce fait, le rôle commercial et politique que nous lui supposons au VIe siècle. Une autre donnée nous semble venir à l'appui de cette hypothèse : Lavinium, dit Tite-Live228 est demeurée extra pœnam lors de la défaite de la Ligue latine devant Rome. La fidélité par laquelle Tite-Live expli que cette faveur étant assez douteuse, est-il concevable que Rome ait accordé un traitement privilégié à une ville politiquement importante, qui pouvait, si elle n'était pas écrasée par le traité de 338, constituer une menace pour elle par la suite? Nous croyons, au contraire, que si Lavinium a été épargnée, et même favorisée par rapport aux autres cités latines, c'est que Rome n'avait rien à craindre d'elle sur le plan politique. Il faut sans doute voir une explication de ce traitement de faveur dans le prestige religieux de la «Delphes latine», mais il convient aussi de chercher les raisons qui ont amené Rome à considérer Lavinium comme sa métropole religieuse et sa cité-mère, de préférence à d'autres
226 P. Sommella, Le dépôt de statues votives découvert à Pratica di Mare ; F. Castagnoli, // culto di Minerva a Lavinio; id., Enea nel Lazio, p. 187-269. 227 La Magna Grecia e i santuari del Lazio, p. 11. 228 Vili, 11, 15.
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centres fédéraux de la religion latine, comme les Monts Albains ou Aricie. La relation de filiation entre Rome et Lavinium est bien attestée au Ier siècle avant J.-C, mais il est délicat de définir les éléments autour desquels elle s'est constituée, et de les dater. B) Eléments légendaires On serait tenté, au premier abord, de penser que le personnage d'Enée, dont nous avons dit qu'il a dû être connu à Lavinium et en Etrurie dès le VIe siècle, a été l'un de ces éléments. Il existe en effet une tradition qui rapporte à Enée lui-même, et non à Romulus, la fondation de Rome, tradition connue grâce à Hellanicos, cité par Denys d'Halicarnasse. Denys passe en revue les différentes légendes ayant trait à la fondation de la ville229, attribuée selon lui par certains auteurs grecs à Romus, l'un des quatre fils d'Enée; il y ajoute le témoignage, différent, d'Hellanicos, καθ' έκάστην πραχθέντα historien du συναγάγων Ve siècle : Αίνείαν ό δέ ταςφησίν ίερείας έκ τάς Μολοττών έν "Αργείεις καιΊτατα λίαν έλθόντα μετ' 'Οδυσσέως οίκιστήν γενέσθαι της πόλεως, όνομάσαι δ' αυτήν άπο μιας των Ίλιάδων 'Ρώμης230. Le récit d'Hellanicos, dont on n'a pas de raison de penser qu'il ait été déformé par Denys - il ne le reprend pas à son compte, mais le cite parmi d'autres traitant du même sujet -, reprend un thème que l'on trouve peut-être déjà sousjacent dans un passage interpolé de la Théogonie23·1 , généralement daté du VIe siècle : le poète, en évoquant à la suite les amours de Vénus et d'Anchise, dont Enée est le fruit, et celles de Circe et d'Ulysse, s'est peut-être, nous l'avons vu, souvenu d'une légende associant les deux héros, ennemis dans la Guerre de Troie. Le témoignage d'Hellanicos à propos de la fondation de Rome par Enée, postérieur, croyons-nous, à l'introduction du personnage du Troyen en Italie, est un développe ment grec de la légende d'Enée, sans relation avec l'élaboration que connaît cette dernière en Italie après qu'elle y fut introduite232. En 229 1, 72-89. 230 I, 72, 2: «L'auteur de l'histoire des prêtresses d'Argos et des événements qui se produisirent du temps de chacune d'elle dit qu'Enée vint avec Ulysse du pays des Moloss es en Italie, et fonda une cité dont il tira le nom de celui de Rome, l'une des Troyennes». Voir N. Horsfall, Some Problems in the Aeneas' Legend, CQ, 29, 1979, p. 376 sq. 231 1008-1016; voir supra p. 162. 232 Contra : T. J. Cornell {Aeneas'arrival in Italy, passim), pour qui la légende, apparue à la fin de la République, est une élaboration savante, sans racines populaires.
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effet, il n'existe pas à Rome de culte d'Enée comme fondateur, même au Ier siècle, quand la légende des origines troyennes de Rome est déf initivement établie. S'il existe dans le «calendrier de Numa» une ment ion en grandes capitales d'une fête des Agonalia Indigetis, à la date du 11 décembre, dont on s'accorde à penser qu'elle a une signification astrale233, rien n'indique, dans les développements ultérieurs de ce culte, qu'à Rome Enée ait été assimilé à Indiges comme il le fut à Lavi nium. Rome n'a pas connu de culte d'Enée comme ancêtre fondateur, et ce n'est donc pas dans le personnage du héros troyen qu'il faut cher cher la raison du lien privilégié qui a uni Rome et Lavinium. De sur croît, nous avons vu que le culte d'Enée n'est attesté à coup sûr à Lavi nium qu'au IVe siècle; la transformation de la tombe orientalisante du VIIe siècle en hérôon date de la fin du IVe siècle, de sorte qu'il faut y voir, selon nous, une conséquence de l'établissement du traité de 338, et non l'explication du sort privilégié fait alors à Lavinium. Nous pensons que cette explication se trouve plutôt dans la rencont re entre les possibilités qu'offrait Lavinium et le désir de Rome de don ner à la légende de ses origines un éclat qui correspondît à son nouveau rôle politique. Quelques faits religieux ou légendaires ont aidé à la cris tallisation et à l'enracinement de la nouvelle légende qui va naître de cette rencontre. Au IVe siècle, Lavinium est à coup sûr une métropole religieuse du Latium; mais elle n'est pas la seule. Par ailleurs, il existe une légende grecque de la venue d'Enée en Italie, et ce personnage est connu à Lavinium; on sait aussi qu'il transportait des ίερά troyens; enfin, il existait à Lavinium, depuis le VIe siècle, un culte de Vénus. Les témoignages de Timée et de Lycophron attestent l'existence d'une légen de troyenne des origines de Lavinium au IVe ou IIIe siècle, et, à ce moment, les Pénates de Lavinium sont assimilés aux ίερά troyens. Cela ne prouve pas, objectera-t-on, que la légende des origines troyano-lavinates de Rome se soit constituée dès cette date; pourtant, on pourrait ainsi expliquer le traitement réservé à Lavinium en 338, et nous nous propo sonsde donner quelques justifications à l'appui de cette hypothèse. Le culte des Pénates privés ou publics, est inconnu du monde grec et il nous est apparu comme italique et même spécifiquement latin. Le suffixe -ates234, quand il sert à former des dérivés à partir de mots
233 R. Schilling, Le culte de V« Indiges à Lavinium», p. 54-58. B. Liou-Gille, op. cit., p. 105-114; voir supra p. 300. 234 Voir supra p. 29 sq.
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autres que des noms de villes se trouve surtout dans le Latium235. D'aut repart, il y a tout lieu d'assigner à ce culte une très haute antiquité, malgré l'absence de preuves archéologiques irréfutables et le fait que le mot Penates n'apparaît dans les textes latins qu'avec Naevius. L'existence, hypothétique, d'un très ancien culte des Pénates dans le Latium ne suffirait pas à expliquer pourquoi les Romains ont recon nu comme leurs les Pénates de Lavinium. Entre les deux cités existent d'autres liens, d'autres parallélismes légendaires et religieux, parmi le squels la présence, dans les deux cités, du Palladium. Nous avons déjà fait état du passage de Lycophron236 suggérant l'existence à Lavinium d'un sanctuaire de Pallas-Athéna antérieurement à la venue d'Enée; G. Pugliese Carratelli237 propose d'y voir l'une des traces du culte d'Athéna Ilias en Italie centrale, originaire de la Grande-Grèce (le même culte est attesté en Sicile, à Siris). Le nom de Pallas sous lequel la déesse était peut-être vénérée à Lavinium238 suggérerait la présence du Palladium dans cette cité239. D'ailleurs, parmi les statues trouvées dans le dépôt votif du sanctuaire de Minerve, nous avons mentionné une représentat ion de la déesse très rigide, de facture «archaïque», peut-être copie du Palladium240. Il n'est pas exclu que la statue ait été conservée dans le sanctuaire de Vesta. Or, à Rome, la présence du Palladium parmi les sacra du Penus de l'Aedes Vestae sur le Forum est bien attestée à l'épo queclassique241, mais il est difficile de dater les origines de cette tradi tion, et de déterminer si le culte du Palladium à Rome est dérivé de celui de Lavinium, ou s'il est apparu simultanément dans les deux cités242.
235 Contra : F. Borner, Rom und Troia, p. 65-78 ; voir aussi P. Boyancé, Les Pénates et l'ancienne religion romaine, REA, 54, 1952, p. 113-114. 236 Alex, 1261-62; voir supra p. 174 sq.; 260 sq. 237 Lazio, Roma e Magna Grecia, p. 324-325. 238 Virgile {En. XII, 447) désigne comme Palladts arces la cité où règne Latinus. 239 F. Castagnoli, Lavinium I, p. 106 n. 13. 240 M. Fenelli, Enea nel Lazio, p. 193-194 (D 63) et fig. D 63 p. 195. Pour M. Sordi {Lavinio, Roma e il Palladio, in Politica e religione nel primo scontro tra Roma e l'Oriente, Milan 1982, p. 65-78), le Palladium de Lavinium est un «faux». 241 Cicéron, Scaur., 48 : eripuit fiamma Palladium Mud quod quasi pignus nostrae salutis atque imperi custodiis Vestae continetur; cf. Denys d'H., I, 69, 4; voir infra p. 4607. 242 Lavinium I, p. 99 n. 9; id., Ancora sul culto di Minerva a Lavinio, BCAR, 90, 1, 1985, p. 7-12.
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De toute façon, sauf dans un fragment de vase où E. Paribeni243 croit pouvoir reconnaître le Palladium de Rome, nous ne saisissons jamais les traditions littéraires ou iconographiques relatives à la statue indépendamment de la légende d'Enée. Il est certain qu'il existe un lien entre ce dernier et le Palladium, mais il est difficile de dire s'il existait antérieurement à la fixation de la légende des origines troyano-lavinates de Rome; si oui, on peut penser que la présence du Palladium par mi les sacra, à Rome et à Lavinium, est une conséquence de l'adoption d'Enée comme ancêtre; sinon, l'existence de la légende du Palladium à Rome antérieurement à l'établissement de la légende de la filiation entre Rome et Lavinium a pu faciliter la constitution de cette dernière, tandis que se développait et s'établissait à Lavinium même la légende d'Enée et du transfert des sacra, parmi lesquels la tradition mentionn ait le Palladium. Il en va de même du culte de Vesta, commun aux deux cités, mis en relation avec le Palladium et la légende de l'arrivée d'Enée; là encore, il est difficile de dire si le culte romain est dérivé du culte lavinate, ou si ce culte s'est implanté parallèlement dans les deux cités. C) Réalités historiques L'archéologie prouve que le site de Lavinium n'a pas été habité à date plus ancienne que celui de Rome : pour l'un et l'autre, les premièr es traces d'occupation datent de la fin de l'Age du Bronze ou des débuts de l'Age du Fer, c'est-à-dire aux alentours du Xe siècle, et elles sont connues par des groupes de tombes244. Mais il serait peut-être imprudent d'en déduire que les relations de filiation que Rome se reconnaît avec Lavinium relèvent de la seule légende, et d'une légende relativement tardive. L'archéologie du site de Rome confirme, selon F. Coarelli245, les données de la tradition, c'est-à-dire que Rome accède au statut de cité au VIe siècle avant J.-C, comme en témoigne le dévelop-
243 Una testa d'Atena arcaica del Palatino, ΒΑ, 49, 1964, p. 193-198. 244 Μ. Pallottino, Le origini di Roma, ArchClass, 12, 1960, p. 1-36; P. Romanelli, Certez ze e ipotesi sulle origini di Roma, StudRom, 13, 1965 p. 4-18; M. Pallottino, Le origini di Roma: considerazioni critiche sulle scoperte e sulle discussioni più recenti, A.N.R.W. I, 1, Berlin-New York, 1972, p. 22-47; R. Peroni, Le fasi preurbane della fine dell'età del bronzo et dell'inizio dell'età del ferro, in Civiltà del Lazio primitivo, Catalogue de l'Exposition, Rome, 1976, p. 19-25; J. Poucet, Le Latium protohistorique . . ., I, p. 572 sq. 245 // Foro Romano. I : Periodo arcaico, Rome, 1983, p. 56 sq.
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pement architectural de ce temps (construction du foyer de l'Etat avec le sanctuaire de Vesta, de la maison du roi, organisation d'une place destinée à la vie publique, édification de la muraille attribuée à Servius Tullius). Lavinium, nous l'avons vu, connaît un développement comme centre urbain à la même époque. On peut conclure à une évolution parallèle des différents peuples latins, au changement des villages en cités au VIe siècle (peut-être en partie sous l'influence étrusque), et à l'apparition simultanée de traditions religieuses analogues dans ces cités appartenant à une même ethnie, avec, là aussi, la possibilité d'i nfluences grecques ou étrusques. Mais il ne faut pas exclure l'hypothèse d'une colonisation lavinate à Rome; l'archéologie lui fournit peut-être un appui, puisqu'il semble que le premier tracé des murailles de Lavi nium ait daté du VIe siècle, ce qui donnerait à sa constitution comme cité une antériorité sur celle de Rome; que Lavinium ait connu ce déve loppement nouveau plus tôt que Rome peut s'expliquer par le fait que sa situation géographique et son rôle portuaire l'ont rendue plus per méable aux apports étrangers. L'idée que Rome est la fille de Lavinium n'est donc pas forcément une invention littéraire. Du reste, la tradition atteste une relation privi légiée entre les deux cités à une date très ancienne; Denys d'Halicarnasse246 et Tite-Live247 font remonter l'alliance entre elles, et le sacrifice l'accompagnant, au règne de Romulus; certes, ces indications n'ont pas la valeur d'un témoignage historique, mais elles ont l'intérêt de refléter une tradition qu'il n'y a pas lieu de récuser a priori248; le traité de 509 entre Rome et Carthage mentionné, par Polybe249, en assurant la pro tection d'un certain nombre de cités du Latium parmi lesquelles Lavi nium, témoigne, lui aussi, de liens de la cité avec Rome. Il est impossi ble de préciser comment ces liens étaient formulés, ou ressentis, par les Romains, mais ils peuvent être l'un des éléments qui favorisèrent plus tard l'élaboration de la légende des origines troyano-lavinates de Rome. Cette dernière résulte, croyons-nous, de la fusion de deux tradi tions : d'une part, la légende de la venue d'Enée en Italie et de l'origine troyenne de Lavinium, d'autre part, celle, plus diffuse peut-être, d'un
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II, 52, 3. I, 14, 2-3. Cf. M. Pallottino, Le origini di Roma, A.N.R.W., I, 1, p. 31 notamment. III, 22 ; voir supra p. 347-8.
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rapport de filiation entre Lavinium et Rome. Nous avons souligné qu'un ensemble de faits, dans les deux cités, ont contribué à rendre possible la légende des origines troyennes de Rome, par l'intermédiaire de Lavinium. Il nous semble que le traité de 338 est, entre autres, une manière de reconnaissance de cette légende. En effet, au moment où Rome octroie à Lavinium un statut privilégié parmi les autres cités lati nes, les différentes composantes de l'histoire des Pénates se transfor ment et s'organisent en un tout cohérent : on reconnaît les Pénates de Lavinium dans les objets «troyens» apportés par Enée et conservés dans un sanctuaire de cette cité; la tombe orientalisante devient un hérôon consacré à Enée divinisé sous le nom d'Indiges; le sanctuaire fédéral de Vénus prend une nouvelle importance avec l'achèvement de la rangée des treize autels. Sachant, par ailleurs250, que les Romains considéraient comme leurs les Pénates de Lavinium, on peut être fondé à penser que cette croyance s'établit au moment où l'histoire de ces dieux reçoit à Lavinium une formulation définitive. Nous croyons que c'est autour d'eux que s'est élaborée la légende des origines. Le choix d'Enée comme penatiger ne nous semble guère pouvoir s'expliquer par des raisons politiques. Voir dans le rôle qui lui est conféré l'une des manifestations de la domination étrusque sur le Latium est, nous l'avons vu, hasardeux, car il est peu probable qu'il ait jamais eu un rôle essentiel en Etrurie. Qu'il ait servi au contraire à la propagande latine contre les Etrusques ou contre les Grecs est plus probable, mais très difficile à prouver251. Il nous paraît vraisemblable - mais ce n'est qu'une hypothèse - qu'Enée avait l'avantage d'établir un lien entre Lavinium, puis Rome, et la fabuleu se et prestigieuse Guerre de Troie. S'il a été préféré à Ulysse, qui, selon une tradition connue dès Hésiode, serait venu lui aussi en Ita lie, c'est moins, croyons-nous, pour des raisons politiques que parce qu'Ulysse a pour caractère essentiel, chez Homère, d'être intelligent, mais aussi fourbe et sans scrupule, tandis que déjà dans l'Iliade sont mentionnées, chez Enée, des qualités qui font de lui l'égal d'Hector, et aussi les bonnes relations qu'il entretient avec les dieux. De là naî tra le pius Aeneas252 et X Aeneas penatiger; mais le développement de
250 Varron, De L.L. V, 144. 251 Voir supra p. 238 n. 101 ; 314 n. 251. 252 J.-P. Brisson, Le «pieux» Enée, Latomus, 31, 1972, p. 379-412.
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cet aspect du personnage reste spécifiquement lavinate et romain, et s'organise autour des Pénates. Le traitement que Rome a réservé à Albe nous semble confirmer ces hypothèses, encore qu'il soit d'une interprétation délicate. Rome se considère comme la fille de Lavinium : elle honore dans les Pénates de cette cité ses propres Pénates, et en Enée son lointain ancêtre. Pourt ant, deux légendes des origines ont dû se trouver en concurrence à Rome au IVe siècle253 : celle qui reconnaissait comme fondateur le héros local Romulus, et celle qui faisait descendre les Romains des Troyens, par l'intermédiaire de Lavinium. On peut suivre, chez les écri vains romains, d'Ennius à Fabius Pictor, les tentatives pour harmoniser ces deux légendes, puis, pour les rendre chronologiquement vraisemb lables254. Fabius Pictor a été ainsi conduit non seulement, comme ses prédécesseurs, à voir dans Albe, fondée par Ascagne, une colonie de Lavinium et un intermédiaire entre Lavinium et Rome, mais à imaginer une dynastie albaine qui comble l'hiatus existant entre la fin de la Guerre de Troie et la fondation de Rome par Romulus, qui n'est plus alors le fils ou le petit-fils d'Ascagne, mais son lointain descendant. Or, curieusement, Albe est, d'une certaine manière, effacée. Certes, Rome a maintenu le culte fédéral de Jupiter Latiaris sur les Monts Albains, où Tite-Live reconnaît, avec les cultes de Lavinium, l'un des héritages rel igieux des maiores255. Mais la légende assigne à Albe un rôle ingrat : le bon Numitor en a été chassé par Amulius, qui tente de faire disparaître les deux jumeaux qui menaceraient sa puissance; Romulus est donc exclu d'Albe. D'autres éléments en font une ville réprouvée : la légende de sa destruction par Tullius Hostilius d'une part256, celle du transfert des Pénates rapportée par Denys d'Halicarnasse d'autre part257: les dieux, 253 T. J. Cornell, Aeneas and the twins : the development of the Roman foundation legend, PCPhS, 201, 1975, p. 1-32; G. D'Anna, // ruolo di Lavinio e di Alba Longa nei primi scrittori latini, in Problemi di Letteratura latina arcaica, Rome, 1976 p. 49 sq. 254 J. Heurgon, Archeologie et critique historique : la Rome des rois, Catalogue de l'Ex position Naissance de Rome, Paris, 1977. 255 V, 52, 8 : Uli sacra quaedam in monte Albano Lauiniique nobis facienda tradiderunt. Ces paroles, par lesquelles Camille, après le siège de Véies, au moment de l'invasion gauloise de 390, propose aux Romains les maiores comme modèles de piété sont très significatives, en raison de l'association qu'elles font des cultes de Lavinium et du Mont Albain d'une part, de l'importance qu'elles donnent à ces cultes d'autre part. 256 Liv., I, 22-23; voir infra p. 445 sq. 257 I, 67, 1 et 2.
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transportés de Lavinium à Albe lors de la fondation de cette dernière, refusent par deux fois de rester dans le sanctuaire qu'on y avait const ruit à leur intention. L'ensemble de ces traditions nous semble illustrer la place centrale des Pénates dans les légendes des origines de Rome. Le refus des dieux de résider à Albe symbolise sur le plan religieux un certain désir qu'a eu Rome de minimiser ou d'effacer Albe; c'est à Lavinium, non à Albe, qu'elle honorera ses Pénates. Nous avons cru pouvoir montrer que la légende des origines troyennes de Lavinium s'élabore entre le VIe et le IVe siècles, et devient, vers le milieu de ce dernier, la légende des origines de Rome. A. Alföldi258 met en relation le fœdus de 338 avec l'inscription de Pompéi ment ionnant les sacrorum principiorum p(opuli) R(omani) Quirit(ium) nominisque Latini, quai apud Laurentis coluntur259, et un passage d'Asconius : sacra populi Romani deum Penatium quae Lanini fièrent260; selon lui, à cette date, les sacra principiorum261 des Latins sont identifiés à ceux de Rome, ce qui correspond à l'affirmation de la suprématie de Rome sur le plan politique; le sanctuaire fédéral des Latins, dédié aux Pénates, serait celui des Treize autels; sur ce dernier point, nous avons déjà formulé des réserves262. L'inscription de Pompéi présente différents archaïsmes morphol ogiques263 qui font penser qu'elle reproduit des formules anciennes, figées. Le terme sacrorum principiorum a retenu notre attention, par ce qu'il nous paraît confirmer ce que nous avons dit au début de cette étude sur l'histoire des dénominations des Pénates à Lavinium. Le mot Penates n'apparaît pas ici - alors qu'il est cité par Asconius mais on trouve sacra, traduction probablement des ιερά d'Enée dans la tradition grecque, notamment chez Stésichore; principiorum fait allusion aux origines lavinates de Rome. Il est surprenant de trouver les Romains mentionnés dans la célébration de ce culte avant le no-
258 Early Rome, p. 259-265. 259 CIL X, 797. P. Sommella (Heroon di Enea a Lavinio, p. 73) reprend à son compte ce rapprochement. 260 In Scaurianam, 18-19. 261 A. Alföldi préfère cette expression à sacra principia {Die Trojanischen Urahnen der Römer, p. 46 η. 124; il réaffirme la même interprétation dans Early Rome, p. 264 n. 9); voir F. Castagnoli, La leggenda. . ., p. 12. 262 Voir ci-dessus, p. 251 sq. 263 La forme quai en est le seul exemple dans le passage que nous en avons cité, mais l'inscription en contient d'autres.
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men Latinum; sans doute, comme le suggère A. Alföldi, la formule affirme-t-elle la domination politique de Rome sur le Latium. En revanche, il nous paraît peu probable que ces sacra, manifestement les Pénates, aient été, antérieurement à 338, l'objet d'un culte fédéral des Latins que Rome aurait plus ou moins confisqué à son profit après la défaite de la Ligue latine. Il n'existe aucune preuve que le culte des Pénates à Lavinium ait été un culte fédéral antérieurement au IVe siècle, sauf à identifier le sanctuaire des Treize autels comme celui des Pénates, ce qui nous paraît difficile. Nous proposons donc pour l'histoire de ce culte un schéma un peu différent. Selon nous, le culte des Pénates à Lavinium est, avant 338, un culte local, analogue, sans doute, à celui qui existait dans d'autres cités latines. Il prend un essor nouveau avec la formulation des origines troyano-lavinates de Rome, et le sacrifice annuel des magistrats romains atteste qu'il est à la fois lavinate et romain. Aucun document ne prouve non plus qu'après 338 le culte des Pénates à Lavinium ait été un culte fédéral du Latium264. Pourtant, on peut rapprocher la mention du nomen Latinum dans l'inscription pom péienne des précisions données par Tite-Live sur la date à laquelle le fœdus entre Rome et Lavinium fut renouvelé chaque année à partir de 338 {renouaturque ex eo quotannis post diem decimum Latinarum)265. Cette date manifeste le désir d'associer l'ensemble du Latium au renou vellement du traité, puisqu'elle est fixée par rapport aux Fériés Latines, fête religieuse rassemblant toutes les cités latines. Nous voudrions mont rer comment le lien chronologique entre ces deux cérémonies et leur réorganisation sous l'égide de Rome témoigne de la mainmise de cette dernière sur les cultes latins, par une sorte d'annexion qu'elle en fait pour sa plus grande gloire. D) La mainmise de Rome sur les centres religieux du Latium : les Monts Albains et Lavinium Tite-Live nous dit266 que depuis 338 jusqu'à son temps, et, nous l'avons vu, au moins jusqu'au règne de Claude, le fœdus entre Rome et
264 Les textes de Servius et de Macrobe parlent du sacrifice romain à Lavinium, mais n'y mentionnent pas la présence de représentants d'autres cités latines. 265 VIII, 11, 15; cf. M. Torelli, Lavinio e Roma, p. 228-236. 266 VIII, 11, 15.
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Lavinium était renouvelé post diem decimum Latinarum. La relation ainsi établie entre les Fériés Latines et le renouvellement du pacte nous paraît significative, en raison du type de relations politiques et religieu ses qu'elle implique à la fois entre Lavinium et Rome, Lavinium et les autres peuples de la Ligue latine, et enfin entre Rome et ces mêmes peuples267. Les Fériés Latines sont la fête qui témoigne religieusement de l'existence d'une union entre les Latins. Les origines de cette fête sont particulièrement obscures, car les données légendaires ont été interpré tées par les historiens anciens en fonction de la place qu'ils ont voulu donner à Rome. Nous ne possédons aucun témoignage sur les origines des Fériés Latines antérieur au Ier siècle avant J.-C; Denys d'Halicarnasse attribue l'instauration de la fête à Tarquin le Superbe268 : après avoir établi sa suprématie sur les Latins, le roi aurait proposé à ces der niers de bâtir un temple où ils viendraient tous chaque année célébrer la permanence de leur alliance; le lieu choisi fut le Mont Albain, où l'on faisait à Jupiter Latiaris un sacrifice commun : chacune des cités lat ines emportait une partie de la viande de la victime, un taureau. D'au tres témoignages attribuent à Tarquin l'Ancien l'établissement des Fé riés Latines269, en reculant ainsi un peu l'origine. Ces traditions suppos ent que Rome aurait établi sa suprématie sur les Latins dès le début du VIe siècle, ou selon Denys, vers la fin du siècle, donnée qui paraît peu conforme aux faits historiques. Mais il semble certain que la direc tiondes Fériés Latines est la marque de la suprématie non seulement religieuse, mais politique, de la cité qui l'assume sur les autres cités de la Ligue. Au cours du VIe ou du Ve siècle, avec des difficultés et des revers, Rome s'est imposée à la tête des Latins. C'est ce dont témoi gnent les auteurs anciens en attribuant aux rois l'instauration des Fériés Latines. Mais le choix d'Albe, ou plutôt du Mont Albain, comme lieu de célébration de ce culte fédéral, nous paraît particulièrement intéressant270. Pourquoi Albe? Une première réponse vient à l'esprit, étant donné la date des Antiquités Romaines, et l'inspiration idéologi-
267 Cf. A. Alföldi, Early Rome, p. 265. 268 iv, 49; A. Alföldi, Early Rome, p. 29 sq. 269 Schol. Bob., Cicéron, Pro Piando, 23; Aurelius Victor, De Vins Illustrious, III, 8, 2; cf. Samter, in R.E., VI, 2, s.u. Feriae Latinae, col. 2213. 270 Cf. A. Alföldi, Early Rome, p. 265.
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que de l'ouvrage. Denys a dû être largement influencé par Varron271, chez qui devait se trouver un état pleinement élaboré de la légende des origines troyennes de Rome : après le mariage d'Enée et de Lavinia, et la fondation de Lavinium, Ascagne, ou Iule, fils du mariage troyen d'Enée, devenu adulte, va fonder non loin de là la ville d'Albe, que la légende considère comme une autre cité-mère de Rome, puisque fon dée par l'ancêtre de la Gens Iulia. Aussi Denys a-t-il pu croire que le choix du Mont Albain s'explique par la légende des origines troyennes. Mais les renseignements qu'il nous fournit ici contiennent peut-être plus d'exactitude historique qu'il n'y paraît à première vue. On peut en effet penser qu'au sein de la Confédération latine, différentes cités se sont disputé l'hégémonie, parmi lesquelles Albe, dont le rôle dans la légende des origines s'explique par l'importance politique qu'elle a eue pendant longtemps dans le Latium. Au moment où Rome prend le pre mier rôle dans la Confédération, elle met la main sur les Feriae Latinae qu'elle instaure, ou réorganise. L'existence du sactuaire de Jupiter Latiaris est bien attestée272. S'il préexistait à la mainmise des Romains sur la Confédération latine, on peut expliquer le maintien de ce culte fédéral par une concession faite à l'ancienne ville dirigeante, dans un domaine qui ne mettait pas en cause la suprématie politique des Ro mains. Si ces derniers ont instauré le culte du Mont Albain eux-mêmes, on peut expliquer ce choix par des motifs un peu analogues; dans les deux cas, les Romains se donnent l'élégance de rendre hommage à l'a ncienne métropole, et d'établir leur hégémonie sur le Latium sans écra serAlbe; ils ne prennent pas le risque de détruire un culte existant, ou bien ils organisent les Fériés Latines de façon à cantonner le Mont Albain dans le rôle de centre religieux, parce qu'Albe ne représente plus pour eux une rivale politique dangereuse. Pourtant, Rome devra encore lutter pour affirmer son hégémonie sur le Latium273. Tite-Live, racontant les débuts de la Guerre latine en 340, prête à l'un des chefs de l'insurrection, L. Annius Setinus, des paroles très sévères sur le fœdus qui unit les Latins à Rome, à propos
271 P. -M. Martin, La propagande augustéenne dans les Antiquités Romaines de Denys d'Halicarnasse, REL, 48, 1971, p. 162-175. 272 Cf. C. Thulin, in R.E., X, 1, s.u. Iuppiter, col. 1134-35; Denys d'Halicarnasse, IV, 49, 2. 273 Cf. M. Pallottino, Compte rendu de l'ouvrage d'A. Alföldi, Die Trojanischen Urah nender Römer, in SE, 26, 1958, p. 336-339.
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duquel il parle de sub umbre fœderis aequi seruitutem pati274. En 338, les victoires de Rome sur les Latins vont aboutir, non à un anéantisse ment, à une destruction matérielle des cités révoltées, mais au démant èlement de la Ligue - les cités latines n'ont plus le droit de conclure entre elles des alliances particulières -, et à la soumission définitive à Rome, puisque cette dernière les prive, soit d'une partie de leur territoi re, soit de leur autonomie politique275. On assiste donc, avec la série des sénatus-consultes qui réglèrent le cas de chaque cité en particulier, à une réorganisation politique complète du Latium. Nous ne possédons aucun renseignement sur l'histoire des Fériés Latines antérieur à ceux que fournit Denys. Il y a cependant tout lieu de penser que, pendant les difficiles années de la Guerre latine, de 340 à 338, les Latins refusèrent de s'associer religieusement à la commémor ation d'un fœdus qu'ils trouvaient insupportable, mais que la réorgani sation politique du Latium sous la domination de Rome s'accompagna d'un renouveau du culte fédéral abandonné. Il est probable aussi que c'est de 338 que date l'existence à Rome d'un certain nombre de manif estations qui font partie des Fériés Latines, ou qui les accompagnent, bien qu'aucun témoignage sûr ne permette de l'affirmer : au moment des Feriae les activités habituelles cessent à Rome; Cicéron276 fait dire à Scipion l'Africain que c'est un jour où l'on peut s'adonner aux activités que l'on aime, littéraires notamment, par opposition aux activités polit iques; Tite-Live277 mentionne l'existence de Ludi, et Pline de courses de quadriges278. Donc, si Albe garde l'exclusivité des cérémonies propre mentreligieuses sur le Mont Albain, une partie des Feriae se déroule à Rome et y attire sans doute des habitants des autres villes du Latium. La date des Fériés Latines n'est pas fixe. Elle est établie par le Sénat lors de sa première réunion de l'année avec les consuls qui vien nent d'entrer en charge279. Ce fait atteste d'ailleurs, parmi d'autres, la suprématie de Rome en Italie centrale et sa mainmise sur les Fériés Latines, puisque ce sont les sénateurs romains, convoqués par les consuls, qui décident, à Rome, de la date d'une fête théoriquement
274 vin, 4, 2. 275 Cf. J. Heurgon, Rome et la Méditerranée occidentale, p. 223 ; A. Alföldi, Early Rome, p. 411-414. 2™ De Rep. I, 9. 277 V, 19, 1. 27» N.H., XXVII, 45. 279 Samter, op. cit., col. 2214.
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confédérale. D'après les témoignages anciens, il semble que la date de cette célébration ait la plupart du temps suivi de peu l'entrée en charge des consuls280. A partir du Ier siècle av. J.-C, les magistrats entrent nor malement en charge le 1er janvier. Avant cette date, il semble que les Fériés Latines aient souvent été célébrées au printemps, en avril, en mai, ou au début juin281. A partir du Ier siècle et jusqu'à la fin de la République, les Fériés Latines ont le plus souvent lieu peu après l'en trée en fonction des consuls, c'est-à-dire généralement en janvier282. Sous l'Empire, elles sont souvent célébrées plus tardivement qu'à l'épo querépublicaine, à une date qui varie de mai à août. Les fêtes duraient plusieurs jours, probablement trois ou quatre283, au cours desquels diverses manifestations avaient lieu, à Rome, nous l'avons vu, et peutêtre dans d'autres villes du Latium; mais aucun témoignage ne confir me ce dernier point. La manifestation proprement confédérale était la cérémonie religieuse, le sacrifice à Jupiter Latiaris sur le Mont Albain, qui avait lieu le dernier jour, et couronnait ainsi la fête. Neuf jours plus tard (post diem decimum Latinarum) était renouvel é à Lavinium le traité d'alliance entre la cité et Rome. Le renouvelle ment du fœdus η di donc pas lui non plus de date fixe dans l'année. Mais ce qui est particulièrement significatif, c'est que la date en soit fixée par rapport à celle des Fériés Latines : il existait donc, dans l'es prit des Romains, une relation étroite entre les deux cérémonies. Il est probable, nous l'avons vu, que Rome a commencé à établir son hégé monie sur le Latium dès l'époque des rois, mais non sans difficulté ni sans contestation de la part des Latins : la guerre de 340 en témoigne. La victoire de Rome, en 338, s'est vraisemblablement accompagnée, sur le plan religieux, d'une mainmise définitive sur les Fériés Latines, parallèle de ce que furent, sur le plan politique, les sénatus-consultes réglant le sort des différentes cités de la Ligue latine; la fête a pris une
280 G. Wissowa, R.U.K., p. 552 sq.; A. Alföldi, Early Rome, p. 265; CIL, X, 797. 281 CIL XIV, 2238; Liv., XXV, 12, 1; XLI, 16, 1; XLII, 22, 16 et 35, 3. 282 C'est en janvier 44 qu'eurent lieu les Fériés Latines au retour desquelles César fut acclamé triomphalement et ne protesta pas lorsqu'un inconnu orna sa statue d'une cou ronne de laurier entrelacée de bandelettes blanches (Suétone, César, 79, 2; cf. aussi Cicéron, Ad Fam., VIII, 6, 3). Il est arrivé cependant qu'elles aient lieu en mars, comme en témoigne une lettre de Cicéron à son frère {Ad Quint, fratr. II, 4, 2). 283 Suétone, Claude, 4; Tacite, Ann., IV, 36.
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forme qui ne changera plus désormais, jusqu'à l'Empire compris284. Il nous semble possible d'établir un autre parallèle : de même que les Fériés Latines illustrent religieusement l'association officielle des villes du Latium - en réalité le triomphe de Rome sur des villes contraintes d'accepter le statut d'association plus ou moins étroite que Rome leur impose -, de même la partie religieuse du renouvellement du traité d'alliance avec Lavinium, le sacrifice, est l'illustration, dans le domaine du sacré, du sort privilégié accordé à la cité sur le plan politique, puis qu'un fœdus implique l'accord des deux parties et leur égalité, et que le fœdus de 338 est, en effet, présenté par Tite-Live comme une récom pense de la bonne conduite des Laurentes vis-à-vis de Rome. La victoire de Rome en 338 établit entre elle et les autres villes latines des relations politiques et religieuses qui ne changeront guère jusque sous re 285 Dans le cas de Lavinium, nous avons vu que le renouvellement annuel du traité d'alliance à partir de 338 est la marque, comme l'a noté A. Alföldi s'appuyant sur le texte de Tite-Live (renouatur ex eo quotaniis), d'une fidélité désormais indéfectible de Lavinium à Rome; l'emploi du présent renouatur en témoigne. Quel sens précis faut-il alors donner, dans cette phrase, à quotannis? Tite-Live écrit: renouat ur ex eo quotannis post diem decimum Latinarum286; quotannis peut fort bien porter sur ce qui précède, mais aussi sur ce qui suit : à partir de 338, le traité aurait été renouvelé tous les ans, ce qui n'avait peut-être pas été le cas dans le passé, mais aussi renouvelé à une date définie par rapport à celle des Fériés Latines. Cette inter prétation confirme ce que nous avons dit plus haut : le raffermisse ment définitif des liens entre Lavinium et Rome s'insère dans l'e nsemble d'une réorganisation politique du Latium sous la domination de Rome, qui trouve sa formulation religieuse dans les Fériés. Certes, des liens particuliers unissent Rome et Lavinium, mais ils reçoivent en 338 une nouvelle signification : la situation de Lavinium est privi légiée, mais ces privilèges sont sanctionnés par le renouvellement
284 Les Fériés Latines furent célébrées jusqu'en IVe siècle ap. J.-C. (cf. Samter, op. cit. col. 2216). 285 A. Alföldi (Early Rome p. 264-265) souligne le fait que la date du renouvellement du traité d'alliance entre Rome et Lavinium, coïncidant avec celle des vœux des magist ratsau Capitole, a été fixée en même temps que Rome établissait définitivement son hégémonie sur le Latium. 286 Ibid.
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d'un traité présenté presque comme un complément aux Fériés Lati nes, en tout cas daté par rapport à elles. Ce même désir de réunir l'ensemble des cités latines dans un culte que Rome, en fait, contrôle, s'exprime probablement dans la mention du nomen Latinum de l'inscription de Pompéi. L'intention était d'ailleurs habile. Lavinium était une métropole religieuse presti gieuse qui possédait déjà au moins un sanctuaire fédéral, celui de Vénus. Lorsqu'au IVe siècle les Romains se mettent à honorer à Lavi nium leurs Pénates, ils associent à ce culte toutes les cités latines sur lesquelles ils viennent d'établir leur domination. Enée devient l'ancê tre non seulement des Romains, mais de tous les Latins; les Pénates qu'il a sauvés de la ruine de Troie sont communs à tout le Latium. Ainsi Rome réaffirmait, sans mettre en danger sa suprématie polit ique (le nomen Latinum est cité après Rome), l'unité des peuples latins287, au moment même où elle anéantissait la Ligue qui en assoc iait, non sans rivalité parfois, les différentes cités. Cette association des peuples latins et de Rome dans le culte des Pénates de Lavinium est-elle purement verbale, ou s'est-elle traduite par des pratiques cultuelles précises? La documentation manquant totalement sur ce point, on en est réduit à des hypothèses. Il est pos sible que ce culte, sans être à proprement parler fédéral, (les autres cités latines n'y étaient peut-être pas les égales de Rome, héritière directe de Lavinium), ait associé les Latins à Rome, selon des modal itésdifficiles à préciser. L'affirmation, au moins formelle, de la par ticipation de tous les Latins aux côtés des Romains dans le culte des Pénates à Lavinium pourrait aider à résoudre l'une des difficultés soulevées par l'éventuelle identification du sanctuaire des Pénates, ou du sanctuaire, peut-être dédié à une autre divinité, où ils étaient ho norés. Nous signalions plus haut288 les difficultés que soulevait l'iden tification comme temple des Pénates du sanctuaire des treize autels, et, pour les mêmes raisons, du sanctuaire oriental de Minerve, mal gré la caution que le texte de Lycophron semble donner à cette der nière289. En revanche, si le sanctuaire des Pénates était situé, comme nous le croyons, dans l'enceinte de la cité, sur la hauteur aujourd'hui
287 A. Alföldi, Early Rome, p. 1-10 (et bibliographie, p. 1, n. 2). 288 Cf. supra p. 251-3; 257-61. 289 Cf. C. Cogrossi, Atena Iliaca e il culto degli eroi, dans Politica e religione nel primo scontro tra Roma e l'Oriente, p, 97 sq.
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occupée par le village de Pratica, il est possible de penser que le culte n'était pas à proprement parler fédéral : lors du renouvellement du traité d'alliance entre Rome et Lavinium, les autres cités latines auraient été seulement mentionnées dans la formule rituelle. L'importance attachée par les Romains aux cérémonies de Lavi nium, comme la réorganisation de ces cérémonies par le traité de 338, nous paraissent une des expressions du courant idéologique et religieux qui a organisé, notamment, la légende des origines troyennes de Rome. En effet290, les cultes lavinates vont être confisqués par Rome à son profit, dans la mesure où ils serviront de caution à la légende d'Enée comme ancêtre fondateur. Ils ne sont pas supprimés, mais détournés par et pour Rome. *
En essayant de reconstituer l'histoire des Pénates de Lavinium, qui furent successivement ceux de Troie, ceux de Lavinium, puis ceux de Rome, nous avons constaté à maintes reprises que les don nées de la tradition concernant ces dieux étaient confirmées par les récentes découvertes archéologiques faites à Pratica. L'élaboration de la légende des origines troyano-lavinates de Rome s'est faite à partir de diverses traditions : la venue d'Enée au Latium et le transfert des sacra troyens par le héros, la divinisation d'Enée comme fondateur de Lavinium et l'assimilation des sacra aux Pénates, enfin l'annexion par Rome de cette légende qu'elle a sans doute contribué à mieux formuler, au moment où elle voit en Enée son lointain ancêtre, et ses propres Pénates dans ceux de Lavinium, et même où l'un et les autres sont reconnus comme le bien commun de tous les Latins. Cet teélaboration a été rendue possible par la combinaison des traditions locales de Lavinium, de Rome, et par leur transformation sous l'effet des influences de leurs voisins grecs et étrusques. Nous avons essayé de dégager une ligne cohérente dans l'histoire de nos dieux; mais en proposant ces jalons, nous avons éminemment conscience du caractè re hypothétique de ce travail, qui ne s'explique pas seulement par le fait que les fouilles du site de Pratica di Mare ne sont pas achevées,
290 Voir M. Humbert, op. cit. p. 183.
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ni tous les monuments découverts identifiés de façon irréfutable, mais aussi, dans la mesure où nous touchons là aux origines de Rome et à la conception qu'elle se faisait de sa propre histoire, par la difficulté de démêler les fils dont elle a tissé sa légende. Le seul point qui nous semble à peu près assuré, c'est que le IVe siècle a marqué des changements considérables dans l'histoire du Latium et de Rome, changements qui se manifestent dans l'architecture de la métropole religieuse de Lavinium, mais dont il est difficile d'appréc ier la portée exacte. Le lien que nous avons proposé de voir entre l'établissement définitif de l'hégémonie romaine et les développe ments à Lavinium des éléments qui composent la légende d'Enée et des Pénates reste de l'ordre de la conjecture.
DEUXIÈME SECTION
ROME
INTRODUCTION
Les liens privilégiés qui unissent Rome et Lavinium trouvent leur expression politique la plus marquante dans le renouvellement annuel du traité de 338, et leur formulation légendaire dans l'affirmation des origines troyennes de Rome, dont l'état d'élaboration définitif semble dû à Fabius Pictor, comme en témoigne le souci de l'annaliste de ren dre chronologiquement cohérentes, par l'insertion de la dynastie albaine, les légendes de la fondation de Lavinium par Enée et de Rome par Romulus1. Lavinium, comme premier établissement des Troyens en Italie après de longues errances sur les mers, sert d'intermédiaire, de relais, entre la cité de Priam, désormais anéantie, et la future Rome; sa fondation marque l'aboutissement de la mission d'Enée, personnage qui, dans la sphère humaine, assure la continuité entre Troie et la nouv elle cité. A l'autre bout, pourrait-on dire, de cette chaîne légendaire, et dans une position symétrique de celle d'Enée et de Lavinium, se trou vent Romulus et Rome. Si le rapport de filiation entre les deux cités est nettement établi, - Varron, nous l'avons dit, voit en Lavinium la citémère de Rome -, la relation généalogique entre Enée et Romulus est moins nette, puisque certaines versions de la légende font de Romulus le petit-fils du Troyen2, alors que Fabius Pictor propose une parenté plus éloignée entre les deux fondateurs; certains voient même en Enée le fondateur de Rome3.
1 Cf. Fr. 4 Peter ; J. Heurgon, Archéologie et critique historique : la Rome des Rois, in Naissance de Rome, Catalogue de l'Exposition, Paris, 1977; G. Manganaro, Una biblioteca storica nel ginnasion a Tauromenion, in A. Alföldi, Römische Frühgeschichte, Heidelberg, 1976, p. 83-96. 2 Alcimos par exemple (cf. G. Manganaro, ibid.). 3 Cette tradition semble spécifiquement grecque; on la trouve notamment chez Hellanicos (apud Denys d'Halicarnasse, I, 72, 2); cf. Enea nel Lazio, Catalogue de l'Exposit ion, Rome, 1981, p. 109-154; dans la littérature latine, seul Salluste {Cat. VI, 1) s'est fait l'écho de cette tradition.
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Cependant, s'il a existé à date ancienne entre Rome et Lavinium des liens très étroits, d'ordre essentiellement religieux4, dont le traité de 338 est une nouvelle affirmation, le personnage d'Enée ne saurait avoir cristallisé l'expression de cette filiation. Il assure bien la continuit é entre Troie et Lavinium, et il semble avoir été, après sa mort, l'objet d'un culte dans cette dernière cité comme ancêtre et fondateur divini sé5. Mais Enée n'a jamais reçu de culte à Rome : il n'est pas un héros romain, et ne peut par conséquent suffire à exprimer le lien légendaire entre Troie et Rome; son histoire s'arrête à Lavinium, où il n'est pas certain que les Romains l'aient honoré aux côtés des Lavinates. En revanche, la continuité religieuse entre Troie et Rome, par l'i ntermédiaire de Lavinium, s'exprime dans le culte des Pénates. C'est en effet à ces dieux, spécifiquement latins, qu'ont été assimilés les sacra troyens apportés en Italie par Enée, et vénérés comme tels à Lavinium : ce culte des Pénates troyens dans la cité des Laurentes est attesté dès le jljème siècle par Timée; les sacra sont symboles du lien mythique et rel igieux entre Troie et le nouvel établissement des fugitifs sur le sol ita lien. Mais il y a plus : les Pénates troyens ne sont pas vénérés par les seuls Lavinates; les plus hauts magistrats de Rome, nous l'avons vu, viennent une fois par an à Lavinium, en une sorte de procession, accomplir au nom de l'Etat un sacrifice à Vesta et aux Pénates : par cette cérémonie en l'honneur de dieux que Varron désigne comme Penates nostri6, Rome reconnaît Lavinium comme sa métropole rel igieuse, et les Pénates de la cité latine se voient dotés d'une aura légen daire considérable. Ce «pèlerinage aux sources», cet hommage rendu aux dieux troyens établis à Lavinium, et considérés par les Romains comme leurs propres Pénates, n'a pas paru à leurs yeux incompatible avec un autre culte public des Pénates, à Rome même, et dans deux sanctuaires diffé rents. Les témoignages antiques attestent en effet l'existence d'une Aedes deum Penatium1 sur la Vèlia, et aussi la présence de ces dieux dans le sanctuaire de Vesta sur le Forum : delubrum Vestae cum Penatibus populi Romani*. L'existence même de ces deux cultes fait problè-
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B. Liou-Gille, Cultes «héroïques» romains, Paris, 1980, p. 133. Ibid., p. 85-134. De L.L. V, 144. Notamment Varron, De L.L. V, 54; Liv., XLV, 16, 5, etc. Tacite, Ann. XV, 4L.
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me. Les Pénates du temple de la Vèlia, nous disent les Anciens, étaient représentés comme deux jeunes gens assis tenant des lances, alors que les Pénates enfermés dans le Penus de l'Aedes Vestae étaient de mysté rieux objets. S. Weinstock9 a voulu voir dans cette double tradition un écho romain de celle qu'il avait relevée à Lavinium, hésitant entre une repré sentation anthropomorphique des Pénates proche du type iconographi que des Dioscures et les assimilant même à ces derniers, et une concept ion des Pénates comme objets «aniconiques»; nous avons dit10 quelles réserves nous inspirait cette interprétation du témoignage de Timée sur les Pénates de Lavinium, et, par conséquent, toute tentative pour voir un parallèle exact entre faits lavinates et faits romains. Comment expliquer, d'autre part, que les Pénates du peuple ro main aient été honorés dans deux temples aussi proches, dont un seul, il est vrai, leur était spécifiquement dédié? La réponse à cette question est difficile, à cause de la minceur de la documentation littéraire concernant le temple de la Vèlia, de son obscurité et de ses contradict ions à propos des mystérieux sacra du Penus Vestae; les attestations iconographiques sont évidemment inexistantes pour ces derniers, rares et sujettes à caution pour les dieux de la Vèlia. Enfin, la topographie du Forum, en l'état où nous pouvons aujourd'hui la connaître, ne fait guè requ'accroître ces difficultés : du Penus Vestae ne subsiste que la trace, à l'identification hypothétique, d'une enceinte de pierres sur le sol; quant à la Vèlia, elle a connu de tels bouleversements, dans l'Antiquité comme à l'époque moderne, qu'il est bien délicat d'y reconnaître la tra ce de monuments antérieurs au temps de Néron, malgré les très inté ressantes perspectives ouvertes par F. Coarelli11 sur l'histoire architec turale de cette colline. Outre l'étude de ces deux lieux du culte public des Pénates à Rome, et de leurs rapports éventuels, il nous faudra aussi nous interroger sur la coexistence dans la conscience religieuse des Romains du culte lavinate et du culte romain des Pénates publics. S'il est clair que les Pénat es de Lavinium leur apparaissent comme les sacra apportés de Troie par Enée, et qu'ils les reconnaissent pour leurs, on voudrait pouvoir
9 Two archaic inscriptions from Latium, JRS, 50, 1960, p. 112-114. 10 Cf. supra p. 289-91. 11 Roma (Guide archeologiche Laterza), Rome, 1980, p. 90-92; id., Il Foro Romano. I : Periodo arcaico, Rome, 1983, p. 24-26; 40-42.
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expliquer quelles relations les dieux troyens entretiennent avec les Pénates de Rome dans leur double culte. Pour cela, il nous faudra, une fois encore, faire appel à l'histoire des premiers siècles de Rome, mais aussi à l'idée que Rome s'en est faite, en la mêlant de légendes, car les Pénates nous semblent éminemment liés à la vision que les Romains ont eue d'eux-mêmes. Nous verrons en effet que, s'ils honorent ces dieux à la fois à Lavinium et à Rome, c'est peut-être parce qu'ils ont gardé vivant le souvenir de leurs doubles origines.
CHAPITRE I
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA
Nous connaissons par des témoignages littéraires l'existence d'une Aedes deum Penatium in Velia, mais les textes ne nous apportent géné ralement que des renseignements bien pauvres sur ce sanctuaire : ici, il est simplement mentionné pour permettre de localiser par rapport à lui d'autres édifices1; là, nous apprenons un élément de son histoire, des truction partielle2, ou restauration3, qui ne nous permet pas de nous faire une idée de l'ensemble de cette dernière. C'est un écrivain de lan gue grecque, Denys d'Halicarnasse, qui, seul, nous donne une localisa tion et une description assez précises du sanctuaire et des statues de culte qui y étaient vénérées4. D'autre part, les données de l'archéolo gie sont ici particulièrement difficiles à interpréter, car le site de la Vèlia a connu, depuis le règne de Néron jusqu'au temps de Mussolini, des bouleversements tels qu'on ne peut espérer de confrontation très éclairante entre les textes antiques et l'état actuel des lieux. En revan che,nous verrons qu'on a souvent cru pouvoir rapprocher ces témoi gnages littéraires des représentations figurées d'un monument qu'on identifie comme le temple des Pénates sur la Vèlia : c'est le cas notam mentdu petit temple du bas-relief représentant le sacrifice d'Enée sur l'Ara Pacis - parfois identifié aussi, nous l'avons vu plus haut5, comme le temple de Lavinium - et de l'édifice rond flanqué de deux cellae, représenté sur certaines monnaies de Maxence frappées à la mémoire de son fils Romulus, mort prématurément6. Ces deux figurations,
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Varron, De L.L. V, 54. Liv., XLV, 16,5. Res Gestae, XIX. I, 68, 1-2. Cf. supra p. 209-216; 224-5. F. Coarelli, Roma (Guide archeologiche Laterza), Rome, 1980, p. 86-É
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LES PÉNATES PUBLICS
d'ailleurs fort différentes, ont l'intérêt de nous offrir non seulement la représentation du temple, mais celle des dieux dédicataires. C'est donc sur la localisation et l'architecture du sanctuaire des Pénates, puis sur la figuration et la personnalité des dieux que nous ferons d'abord porter notre étude, en comparant, autant que possible, la tradition littéraire et les données de l'iconographie. Nous essaierons ensuite d'utiliser les résultats de cette première enquête pour reconsti tuer l'histoire du culte en liaison avec ce que nous savons de la Vèlia, colline située à l'extérieur du pomerium de Romulus, et, si l'on en croit la tradition, lieu de résidence du roi Tullus Hostilius - le temple aurait même été construit sur l'emplacement de sa maison7 -, en liaison auss iavec le type de représentation des dieux, tel que nous l'ont transmis Denys d'Halicarnasse et certains documents figurés; il nous faudra voir s'il n'existe pas un lien entre ces deux caractéristiques du culte - locali sation sur la Vèlia, type iconographique - et si ce lien l'apparente aux autres cultes des Pénates, à Rome même, sur le Forum, et à Lavinium ou, au contraire, le différencie d'eux. Enfin, nous essaierons d'appréc ier la signification du culte de la Vèlia dans l'ensemble des cultes publics romains.
I - LA VÈLIA : CADRE GÉOGRAPHIQUE ET ARCHITECTURAL 1) Le cadre géographique La définition du site de la Vèlia - plus rarement Veliae - est part iculièrement délicate et a donné lieu, depuis le début du siècle, à un ample débat archéologique. La configuration actuelle des lieux, très bouleversés à plusieurs reprises à travers l'histoire de Rome depuis le Ier siècle ap. J.-C, ne permet guère d'éclairer la question. Pour délimi ter cette colline, on s'appuie soit sur les très rares définitions qu'en ont donné les auteurs anciens, soit sur les quelques éléments qui nous sont parvenus de l'histoire du site (ils sont d'ailleurs en partie légendaires), soit encore sur la localisation des bâtiments civils ou religieux dont la tradition nous dit qu'ils se trouvaient sur la Vèlia; méthode assez peu sûre au demeurant, car on aboutit à des définitions de la colline qui ne 7 Solin, I, 25.
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA
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se recoupent pas exactement, ce qui a conduit H. F. Rebert à suggérer que le terme Velia a pu avoir plusieurs sens8. Deux auteurs anciens seulement nous fournissent sur la Vèlia des indications topographiques. C'est tout d'abord Varron : lorsqu'il énumère les différentes collines qui constituent la ville de Rome et expli queleur nom9, il cite le Palatin et ajoute : Huic (= le Palatin) Cermalem et Velias coniunxerunt. Ce texte fait donc de la Vèlia l'un des trois sommet du Palatin, avec le Germai et le Palatin proprement dit10. Quant à Denys d'Halicarnasse, il définit en ces termes la Vèlia : λόφον ύπερκεΐμενον της αγοράς ύψηλον επιεικώς και περιτομον, ον καλοΰσι 'Ρωμαίοι Όυελίαν11. Ces indications complètent celles de Varron : la Vèlia ferme le Forum à l'est; ύψηλον επιεικώς doit sans doute se com prendre par rapport à la hauteur du Palatin, car le niveau du sol à l'époque augustéenne étant celui que nous voyons aujourd'hui, la Vèlia domine assez nettement le Forum; le renseignement le plus précieux se trouve probablement dans l'adjectif περιτομον : il suggère en effet que la colline est, de tous côtés, nettement délimitée par ses escarpements, et non qu'elle se termine par des pentes molles qui rendraient difficile de lui assigner des frontières exactes. C'est avec raison que F. Castagnol i12 souligne qu'il faut entendre par «Vèlia» non pas seulement la zone de la summa Sacra Vian, mais, essentiellement la hauteur derrière la Basilique de Maxence, dont la Via Sacra n'est qu'une bordure. S. B. Platner14 s'est sans doute appuyé sur les indications de Denys lorsqu'il a représenté la Vèlia comme un petite colline ovale se dressant dans la plaine qui sépare l'Esquilin et le Palatin. La spécificité topogra phique de la Vèlia se fonde, suivant G. De Angelis d'Ossat15, sur une
8 The Velia : a Study in Historical Topography, TAPhA, 56, 1925, p. 54-69. 9 De L.L. V, 41-54. 10 Cf. G. Lugli, Roma antica. Il centro monumentale, Rome, 1946, p. 224; id., I templi dei Lari et des Penati sulla Velia, in Mélanges J. Marouzeau, 1948, p. 401 ; voir plan de la Rome primitive in M. Pallottino, Le origine di Roma : considerazioni critiche sulle scoperte e sulle discussioni più recenti, A.N.R.W., I, I, Berlin-New- York, 1972, p. 34. 11 V, 19, 1 : «une colline dominant le Forum, modérément élevée, escarpée de tous côtés, que les Romains appellent Vèlia». 12 // tempio dei Penati e la Velia, RFIC, 74, 1946, p. 160-161. 13 C'est ce que font S. Β. Platner et T. Ashby (A Topographical Dictionary of Ancient Rome, Oxford-Londres, 1929, p. 550); cf. F. Castagnoli, op. cit., p. 160-161 n. 3. 14 Topography and Monuments of Ancient Rome, Oxford, 1911, fig. 4 et 6. 15 // sottosuolo dei Fori Romani e l'Elephas antiquus della Via dell'Impero, BCAR, 64, 1936, p. 10.
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unité géologique : la Vèlia est un ensellement étroit, isolé, aux pentes escarpées, compris entre le Palatin et l'Esquilin, et, plus précisément, entre la Via Sacra et la Via del Colosseo. Or, cette idée que la Vèlia est une unité géographique bien déterminée trouve une confirmation dans certains des éléments qui nous sont parvenus de son histoire. En effet, Antistius Labeo, cité par Festus, présente la Vèlia comme l'une des col lines qui composaient le Septimontium : Septimontio . . . hisce montibus feriae Palatio, cui sacrificium quod fit, Palatuar dicitur; Veliae cui item sacrificium; Fagutoli, Suburae, Cermale, Oppio, Caelio monti, Cispio monti™. Ainsi présenté, le Septimontium apparaît, plutôt que comme une cité englobant différentes communautés, comme une sorte de ligue groupant des unités probablement distinctes du point de vue politique, et célébrant leur alliance par des fêtes religieuses {feriae), comme le fera plus tard la Ligue latine17; la Vèlia est l'une de ces unités politi ques, où était accompli un sacrifice à l'occasion des manifestations rel igieuses du Septimontium. Le témoignage de Varron, sans doute à peu près contemporain de celui d'Antistius Labeo18 semble aller dans le même sens, encore que l'interprétation en soit assez délicate. Varron commence en effet par donner une définition du Septimontium : ubi nunc est Roma, Septimontium nominatum ab tot montibus quos postea urbs mûris comprehendit : e quis Capitolinum, etc. . .; suit une enumerat ion de collines, parmi lesquelles la Vèlia, citée, nous l'avons vu plus haut, comme l'un des trois sommets du Palatin. Mais cette enumeration comporte beaucoup plus de sept noms, et, d'autre part, le propos de Varron n'est pas de retracer l'histoire du Septimontium, mais de don ner la ou les etymologies des noms des différents sites de Rome; aussi parle-t-il de la division «du reste de la ville» (reliqua urbis loca) en qua tre régions, allusion à l'organisation attribuée à Servius Tullius19, sans fournir des données chronologiques sur le passage du Septimontium à cette division nouvelle. Le Palatin, avec ses différents sommets, appart ientà la quatrième région. Nous ne pouvons donc pas savoir quels sont, parmi les lieux cités (le plus souvent des collines, ou des hauteurs) lesquels Varron considérait comme ayant fait partie de l'ancien Septi-
16 474 L. 17 Cf. commentaire de H. F. Rebert, op. cit., p. 56. 18 R.E. I, s.u. Antistius, col. 2550 sq. 19 Cf. Liv., I, 43, 13 : Quadrifariam enim urbe diuisa regionibus collibusque qui habitabantur. Pour un résumé très clair des problèmes posés par cette Roma Quadrata, voir F. Castagnoli, Topografia di Roma antica, Turin, 1980, p. 55-56.
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montium; concernant la Vèlia, la seule indication peut-être intéressante est la mention, sur cette colline, d'une chapelle des Argées : Veliense : sexticeps in Velia apud aedem deum Penatium; cette indication nous permet de supposer que la Vèlia, outre le temple des Pénates, a abrité, dans cette chapelle, un culte probablement fort ancien20; les éventuell es relations entre ce culte et le sacrificium mentionné par Antistius Labeo comme faisant partie des cérémonies du Septimontium restent obscures, la seule conclusion que l'on puisse en tirer étant sans doute que la Vèlia a été très anciennement un centre religieux, ce qui laisse supposer qu'elle a constitué à un moment une unité politique, et ce pro bablement comme l'un des membres du Septimontium, avant d'être englobée dans l'enceinte de la cité. A cet égard, l'anecdote, rapportée par Tite-Live21, de la construct ion de la maison de Valerius Publicola, nous paraît assez révélatrice. En 509, première année de la République, les consuls sont, dit-il, Brutus, qui avait chassé le roi Tarquin, et Valerius, surnommé Publicola; mais Brutus meurt au cours de la guerre que la toute jeune République romaine doit mener contre les Etrusques soulevés par Tarquin, et Valer ius, resté seul consul, devient l'objet de violents soupçons : regnum eum adfectare fama ferebat, quia nec collegam subrogauerat in locum Bruti et aedificabat in summa Velia : «ibi alto atque munito loco arcem inexpugnabilem fieri»22', devant l'assemblée du peuple, Valerius se jus tifie alors en dissociant vigoureusement sa personne, ses intentions pro fondes, et la valeur symbolique que l'on prétend accorder au choix de son domicile : ego, si in ipsa arce Capitolioque habitarem, metui me cre der em posse a ciuibus mets?23. Et, pour prouver sa bonne foi, il décla re : tuta erit uobis Velia; deferam non in planum modo aedes, sed colli etiam subiciam, ut uos supra suspectum me ciuem habitetis; in Velia
20 Pour le commentaire de l'ensemble de ce passage, cf. J. Collari, Varron, De Lingua Latina V, Paris, 1954, p. 169-179; sur les Argées, voir notamment G. Maddoli, // rito degli Argei e le origine del culto di Hera a Roma, PP, 26, 1971, p. 153-166. 21 II, 6, 5-12. 22 Liv., II, 6, 6 : «le bruit courait qu'il aspirait au trône, parce qu'il ne s'était pas fait donner de collègue en remplacement de Brutus et qu'il faisait bâtir au sommet de la colline de Vèlia : « Sur cette position élevée et très forte, il aurait une citadelle imprenab le» (trad. G. Baillet, C.U.F., Paris, 1962). 23 II, 6, 10 : «même si j'habitait la citadelle du Capitole, me viendrait-il à l'idée que je puisse inquiéter mes compatriotes?» (ibid.).
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aedificent quibus melius quant P. Valerio creditur libertas24; joignant le geste à la parole il fait descendre les matériaux destinés à la construc tion de la maison infra Veliam, et cette dernière est finalement bâtie in infimo cliuo. Cet épisode, dans les termes où le raconte Tite-Live, nous donne à voir dans la Vèlia une unité géographique : elle est désignée comme collis, par opposition au planum, au même titre que le Capitole, dont l'él évation au-dessus du Forum est aujourd'hui encore très manifeste; pourtant, le fait de s'installer sur le Capitole est présenté par Valerius Publicola comme une insolence plus grande que de bâtir sa maison sur la Vèlia, probablement, pour une part, parce que le Capitole est plus élevé. La même insistance sur la hauteur de la Vèlia s'exprime aussi dans les mots choisis par Tite-Live pour évoquer l'emplacement final ement choisi par Valerius, infra Veliam et in infimo cliuo, ce qui suggère en outre que, comme nous le remarquins plus haut, la Vèlia devait être alors escarpée de tous côtés25. La désignation de la Vèlia comme un munitus locus va dans le même sens. Le fait, pour un individu, de s'ins taller sur la hauteur, au-dessus des autres, prend évidemment une valeur symbolique26, et exprime le désir de dominer autrui; en y renonçant, Valerius montre sa détermination de n'être qu'un des c itoyens de Rome, au même niveau, à tous les sens du terme, que les autres. Mais cette interprétation symbolique se double, dans la cons cience romaine, d'une expérience vécue : une colline peut devenir pour celui qui s'y installe un refuge imprenable, une sorte de citadelle dont les fortifications naturelles le protégeront, et d'où il pourra exercer son pouvoir sur la plaine environnante {alto atque munito loco arcem inexpugnabilem fieri). Aux contemporains de Valerius, ce geste peut rappel er l'établissement de places-fortes sur les hauteurs dans le Latium : 24 Ibid. : «vous n'aurez pas à craindre la Vèlia. Je descendrai habiter dans la plaine, ou, mieux encore, au pied de la colline : ainsi, puisque je suis un citoyen suspect, vos maisons domineront la mienne. Pour construire sur la Vèlia, il faut être meilleur républi cain que Publius Valerius»« (ibid). 25 λόφον περίτομον (Denys d'Halicarnasse, V, 19). 26 A propos de la description faite par le Pseudo-Aristote de la ville d'Oinarea, en Etrurie, en partie située sur une hauteur et dont les habitants craignaient, pour cette raison, que quelqu'un ne fût tenté par la tyrannie, J. Heurgon {Oinarea-Volsinii, in Beiträ ge zur Alten Geschichte und deren Nachleben, Festschrift für F. Altheim, Berlin, 1969 p. 273-279) souligne que l'histoire grecque offrait des exemples analogues ; R. M. Ogilvie (A Commentary on Livy, Books 1-5, Oxford, 1965, p. 250) pense qu'il s'agit peut-être d'un thème hellénistique.
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c'est Yarx, position naturellement défendue, et d'où l'offensive est faci litée. Ici, il n'est pas douteux que cette position, dont les avantages pourraient être vantés en d'autres circonstances, est présentée comme un danger pour Rome, ou plutôt pour le peuple romain, dans la sensi bilité duquel ces phrases éveillent peut-être l'écho d'épisodes doulou reux de son histoire, comme peut le faire penser la mention par Vale rius de la citadelle du Capitole; peut-être faut-il voir là une allusion à l'épisode légendaire de la trahison de Tarpéia27. Il ne s'agit donc plus de la peur de la tyrannie, mais du danger que représente une citadelle inexpugnable lorsque la trahison la fait passer aux mains d'ennemis de Rome. La dernière phrase du discours de Valerius Publicola devant l'assemblée du peuple (in Velia aedificent quibus melius quant P. Vale riocreditur libertas) laisse entendre que, pour les Romains, la Vèlia est un emplacement dont le choix est particulièrement inquiétant, et justi fie à lui seul le cupiditatis regni crimen qui pèse sur Valerius28. Il faut sans doute voir là le souvenir de la tradition qui plaçait sur cette colline la demeure du roi Tullus Hostilius29. On peut penser aussi que se lit en filigrane derrière ces paroles le souvenir très lointain d'un temps où la Vèlia constituait une unité politique appartenant au Septimontium, alliée, mais peut-être aussi rivale, de la communauté romuléenne du Palatin. Quoi qu'il en soit, si nous avons insisté sur le sens que l'on peut donner au récit de Tite-Live, c'est qu'il nous paraît illustrer la valeur que revêtait la Vèlia aux yeux des Romains. Ils n'ont pu voir en elle une arx, annonçant chez celui qui l'avait choisie pour séjour une volonté de domination, voire de tyrannie, et un danger politique et stratégique
27 Liv., I, 11-12. 28 R. M. Ogilvie (op. cit., p. 251) remarque justement qu'il faut accorder une impor tance particulière au geste qui précède le discours de Valerius, par lequel il fait abaisser les faisceaux devant le peuple, auquel il va s'adresser (II, 7, 7 : submissis fascibus) ; cette explication historique d'une pratique romaine, l'abaissement des faisceaux devant le peu ple souverain, annonce bien la tonalité générale du discours du consul. 29 Solin, I, 25: Tullus Hostilius in Velia (habitauit) ; Varrón, αρ. Non., 531, 19: Tullum Hostilium in Veliis. Le rapprochement entre Valerius Publicola et Tullus Hostilius est d'ailleurs explicitement fait par Cicéron (De Rep. II, 31): P. Valerius ... aedes suas detulit sub Veliam, posteaquam, quod in excelsiore loco Veliae cepisset aedificare eo ipso ubi rex Tullus habitauerat, suspicionem populi sensit mouere. La localisation de la maison de Valerius Publicola in Velia par le même écrivain dans un autre texte (De Har. Resp., 1-6) n'est qu'une apparente contradiction avec ce qui précède, très justement expliquée par H. F. Rebert (op. cit., p. 63). Cf. aussi Valére Maxime (IV, 1, 1) qui définit ainsi la situation primitive de la maison de Valerius Publicola : excelsiore loco . . . instar arcis.
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pour l'ensemble du peuple romain, que parce qu'elle constituait bien, géographiquement, une sorte de citadelle au-dessus du Forum, nett ement détachée de la plaine environnante. L'anecdote du déplacement de la maison de Publicola du sommet de la Vèlia au pied de la colline est racontée également par Denys d'Halicarnasse30; le récit en est moins détaillé et plus froid, mais il est, en substance, le même. Plutarque situe le premier emplacement de la mai son de Publicola sur la Vèlia : υπέρ την καλουμένην Όυελίαν οίκίαν έπικρεμαμένην τη αγορά, και καθορώσαν έξ ύψους απαντά, δυσπρόσοδου δε πελάσαι καί καλεπήν έξωθεν31. Cette description va dans le même sens que le récit de Tite-Live, ainsi que l'indication donnée par Aurélius Vic tor : domum in Velia tutissimo loco habebat32. Pourtant, il est aujourd'hui bien difficile de connaître les limites géographiques précises de cette colline, qui pouvait être qualifiée par Denys d'Halicarnasse de περίτομος; car toutes les dépressions qui la séparaient des hauteurs environnantes furent plus ou moins comblées, pour des raisons diverses33, et seule sa limite ouest, sur le Forum, est aujourd'hui à peu près certaine. Au sud, elle était séparée du Palatin par une vallée qui fut comblée en 62 ap. J.-C. par les ruines de l'incen die de Néron; son versant est, tourné vers l'Esquilin, fut nivelé par cer taines des constructions de la Domus Aurea, puis par le soubassement du temple de Vénus et de Rome, monument formant l'un des côtés du Forum de la Paix; la construction de l'énorme Basilique de Maxence, au IVe siècle, a complètement modifié l'aspect de ce qui devait être le sommet de la colline34; enfin, au nord-est, le percement, au milieu du XXe siècle, de la Via dei Fori Imperiali, a détruit les Carinae, zone de passage qui la séparait de l'Esquilin, derrière la Basilique de ce 35
30 V, 48. 31 Publicola, 10, 3-6: «... sur le mont appelé Vèlia une maison qui surplombait le Forum et voyait d'en haut tout ce qui se passait. Elle était d'un accès escarpé et difficile ». (Trad. R. Flacelière, E. Chambry, M. Juneaux, C.U.F., Paris, 1961). 32 De Vins Illustrious, XV. 33 G. Lugli, / templi dei Lari e dei Penati sulla Velia, p. 401. 34 S. B. Platner-T. Ashby, op. cit., p. 76-78. 35 S. B. Platner-T. Ashby, op. cit., p. 100; E. Nash, Pictorial Dictionary of Ancient Rome, Tübingen, 1962, I, p. 180; 290; F. Coarelli, Roma, p. 78; id., Il Foro Romano I: Periodo arcaico, Rome, 1983, p. 111-113.
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2) Les monuments Faute de pouvoir distinguer nettement aujourd'hui ce que furent les contours de la Vèlia de l'époque archaïque au temps d'Auguste, nous allons essayer de la définir par les monuments qui en consti tuaient le cadre architectural pendant cette période. Pour ce qui est des édifices situés sur la colline elle-même {in Velia, in Veliis), nous avons vu qu'il existait une tradition qui plaçait là la demeure du roi Tullus Hostilius, sur l'emplacement de laquelle, selon Varron, on aurait par la suite construit le temple des Pénates; Cicéron ne mentionne pas cette identité d'emplacement des deux monuments, mais seulement le fait que la maison de Tullus Hostilius était in excelsiore loco Veliae36. Il n'existe naturellement aucune trace de ce bâtiment, d'une authenticité historique douteuse. On n'a rien retrouvé non plus de la chapelle des Argées que Varron, nous l'avons vu, place aussi sur la Vèlia37. Sur cet te colline se trouvait également, jusqu'à l'époque d'Auguste, un petit sanctuaire dédié à Mutunus Tutunus, mentionné par Festus : Mulini Tutini sacellum fuit in Veliis, aduersum murum Mustellinum in angi (portu), de quo ans sublatis balnearia sunt (f)acta domus Cn. D(omitii) Caluini, cum mansisset ab urbe condita (ad pri)ncipatum Augusti3*; la suite du texte est malheureusement très mutilée. La chapelle de Mutu nusTutunus, dont Festus fait remonter l'ancienneté à la fondation de Rome {ab urbe condita)39 aurait donc été démolie, selon lui, lors de la construction de la maison de Domitius Calvinus, à l'époque d'August e40. Il n'a subsisté aucune trace de cette maison, ce que F. Castagnol i41 explique par la construction de la Basilique de Maxence : selon lui, c'est dans cette zone, qui était à proprement parler la colline de la
36 De Rep. II, 31. 37 De L.L. V, 54. 38 142 L : «II y avait sur la Vèlia un petit sanctuaire de Mutunus Tutunus, en face du Murus Mustellinus, dans une ruelle; on en avait enlevé les autels pour construire les bains de la maison de Cn. Domitius Calvinus; le sanctuaire était resté là de la fondation de Rome au principat d'Auguste ». 39 Pour l'ancienneté du culte de ce dieu, cf. aussi G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2è éd., Munich, 1912, p. 243 sq. 40 F. Castagnoli (77 tempio dei Penati e la Velia, p. 163-164, n. 3) critique l'identifica tion que Hülsen a cru pouvoir faire du temple de Mutunus Tutunus et des autres édifices de la Via Sacra sur le relief d'un sarcophage du Musée de Naples, en raison d'impossibilit és chronologiques. 41 Op. cit., p. 163.
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Vèlia, qu'il faut placer tous les monuments dont les auteurs anciens nous disent qu'ils étaient in Velia, ou in Veliis. Quant au Murus Mustellinus, en face duquel se trouvait le sanctuaire de Mutunus Tutunus, Festus ne nous donne aucune précision sur sa localisation dans l'e nsemble géographique qu'il appelle la Vèlia42. D'autres édifices se trouvaient au pied de la colline. Nous venons de voir que Valerius Publicola, soupçonné d'aspirer à la tyrannie, avait décidé de faire construire sa maison au pied de la Vèlia : infra Veliam; . . . ubi nunc Vicae Potae est domus in infimo cliuo aedificata43. Le sanctuaire de Vica Pota, très ancienne divinité selon G. Wissowa44, dont Cicéron explique le nom comme signifiant «vaincre et pouvoir» (uincendi et potiundi)45, existait donc encore à l'époque d'Auguste, mais aujourd'hui aucun vestige ne permet de le localiser. Il y avait dans la zone de la Vèlia un autre monument lié à Valerius Publicola, le tom beau de la Gens Valeria, présenté par les auteurs anciens comme excep tionnel et par son emplacement, et par les conditions dans lesquelles il fut édifié. Cicéron46 souligne que, bien que la loi des XII Tables inter dît les sépultures à l'intérieur de la ville, certains grands hommes, dont Publicola, avaient obtenu antérieurement à cette loi le privilège d'être enterrés dans Rome, privilège dont leurs descendants continuaient à bénéficier. Selon Tite-Live47, Valerius Publicola, à sa mort, était si pau vre que ses ressources personnelles ne suffirent pas à payer ses funér ailles; l'Etat s'en chargea, pour marquer sa reconnaissance des im menses services qu'il avait rendus à Rome : sumptus . . . de publico est datus. Chez Denys d'Halicarnasse se trouvent combinées les deux tradi tions : ή μέντοι βουλή, μαθοϋσα ώς είχεν αύτοΐς τα πράγματα άπορώς, έκ των δημοσίων εψηφίσατο χρημάτων έπιχορηγηθήναι τας είς την ταφήν
42 G. Lugli (/ templi . . ., p. 402) propose de localiser sur la Vèlia la maison de Proculus, l'ami du poète Martial. Ce dernier désigne la demeure comme excelsa domus (I, 70, 12); excelsa, pense G. Lugli, s'applique moins à l'édifice proprement dit qu'à sa situation sur une hauteur; mais, aucune des indications topographiques données auparavant par Martial ne nous semble devoir faire préférer une localisation de la maison sur la Vèlia plutôt que sur le Palatin. 43 Liv., II, 7, 12; Plutarque (Publicola, 10, 6) donne une indication analogue; cf. S. B. Platner-T. Ashby, op. cit., p. 569. 44 Ibid. 45 De Leg. II, 28. 46 Ibid., 58. 47 Π, 16, 7; de même Aurelius Victor, De Viris Illustribus, XV : publiée sepultus; Plu tarque, Publicola, 23.
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δαπανάς, και χωρίον ένθα έκαύθη και ετάφη . . . έν τη πόλει σύνεγγυς της αγοράς άπέδειξεν ύπο Όυελίας48. Si l'on en croit Denys, la sépulture de Valerius se serait donc trouvée en bas de la Vèlia, ce que Plutarque note également en localisant le tombeau παρά την καλουμένην Όυελίαν49. Il semble que, cette fois, l'archéologie puisse confirmer la tradi tion littéraire, puisque l'on a découvert, en 1876, un fragment d'un élo ge de M. Valerius Messalla 50, sur le chemin qui mène à l'Aedes Pacts, derrière la Basilique de Maxence. Cette inscription provient évidem mentde la sépulture de la Gens Valeria, mais les indications topogra phiques que nous pouvons en tirer pour notre propos restent imprécis es : le fragment n'a sans doute pas été trouvé à son emplacement origi nel,et a dû être réutilisé dans une construction qui a remplacé la sépul turedes Valerii51. Si l'on admet qu'il n'a pas été beaucoup déplacé, il indiquerait alors à peu près la limite nord de la Vèlia, vers les Carinae; cette sépulture constituerait donc l'unique référence topographique uti lisable des monuments dits in Velia, sub Veliis, infra Veliam. Il est pro bable, au reste, que c'est la présence de cette sépulture, encore visible, semble-t-il, au temps de Cicéron, qui a donné naissance à toutes les légendes concernant la maison de Valerius Publicola, celle de son frère, et la générosité de Rome à leur égard ; ces traditions, assez confuses, viennent peut-être, comme le note H. F. Rebert52, de la Gens Valeria elle-même : Cicéron53 affirme que les deniers de l'Etat servirent à payer non le tombeau, mais la maison, de Publicola, tandis qu'Asconius54, citant Hygin, rapporte que le fils de Valerius, M. Valerius Valé-
48 V, 48, 3 : «Le Sénat, toutefois, apprenant dans quel dénûment ils (= les parents de Valerius Publicola) étaient, décida de subvenir avec l'argent de l'Etat aux dépenses de la sépulture et désigna un lieu où il fut brûlé et enseveli, dans la cité, près du Forum, au pied de la Vèlia». 49 Publicola, 23; la contradiction entre cette indication topographique et celle que donne ailleurs Plutarque pour le même monument (Quaest. Rom., 79 : έν άγορα) est réso luede façon très convaincante par F. Castagnoli (op. cit., p. 160 n. 1) : dans ce dernier passage, Plutarque fait référence à des hommes illustres que les Romains décidèrent d'ensevelir sur le Forum, à titre exceptionnel; l'imprécision dans la localisation de la sépulture de Publicola tient peut-être au fait qu'elle est mentionnée dans une enumerat ion de monuments. 50 Cf. A. Degrassi, Elogia, 77. 51 Cf. A. M. Colini, Forum Pacis, BCAR, 65, 1937, p. 14. 52 Ibid., p. 64. 53 De Ear. Resp., 26. 54 In Pis., 52.
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sius, bénéficia de la même générosité; une autre tradition assure que l'Etat fit construire, à ses frais également, une maison au frère de Publicola, M. Valerius55, sur le Palatin. Tels sont les édifices dont la tradition littéraire nous affirme qu'ils s'élevaient sur la Vèlia, mais dont, répétons-le, seule la sépulture des Valerti a laissé une trace visible. Avant d'aborder l'étude du dernier d'entre eux, le temple des Pénates, nous voudrions ajouter ici quelques remarques sur la confusion qui a parfois été faite entre la Vèlia et la summa Sacra Via. G. Lugli, comme le montre d'ailleurs bien le titre de son article56, estime que les deux termes désignent le même lieu et considère par conséquent que le temple des Lares, qu'Auguste avait restauré57, est situé sur la Vèlia. Il nous semble, au contraire, que F. Castagnoli58 critique à très juste titre cette conception, en s'appuyant précisément sur le texte des Res Gestae : aedem Larum in sum maSacra Via, aedem deum Penatium in Velia . . . feci ; Auguste paraît ici faire une différence entre les deux emplacements59, qui sont sans dout e très proches cependant60. Du reste, les monuments situés sur la Via Sacra au pied du Palatin ne sont jamais désignés comme in Velia : Solin61 situe le temple des Lares sur l'emplacement de la maison d'Ancus Marcius (Ancus Marcius in summa Sacra Via, ubi aedes Larum est); or Varron62 le place in Palatio, et la demeure d'Ancus, in Palatio, ad portant Mugionis; il en va de même pour la maison de Scaurus63, au pied du Palatin sur la Via Sacra. Il semble donc que la Via Sacra passait devant la Vèlia, qu'elle séparait du Palatin : lorsque, tournant le dos au Capitole, on empruntait la Via Sacra jusqu'à son extrémité est - que désigne le terme summa Via Sacra - le Palatin se trouvait à droite, la Vèlia à gauche64.
55 Denys d'Halicarnasse, V, 39. 56 / templi dei Lari e dei Penati sulla Velia. 57 Res Gestae, XIX. 58 Op. cit., p. 159-160. 59 La même distinction est clairement posée par E. Van Deman (The Neronian Sacra Via, AJA, 27, 1923, p. 390), qui s'appuie, elle aussi, sur le texte du Monument d'Ancyre. 60 F". Coarelli (Roma, p. 77-79) propose une localisation de la Via Sacra un peu diffé rente de celle qui est traditionnellement acceptée, mais qui n'infirme pas la distinction faite entre la Vèlia et la summa Sacra Via. 61 I, 25. 62 Apud Non., 531, 19. 63 Asconius, In Scaur., 45. 64 Cf. F. Castagnoli, Topografia di Roma antica, p. 73; 105.
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II - Le Temple des Pénates Parmi les monuments que la tradition situe sur la Vèlia figure, enfin, le Temple des Pénates; malheureusement, il n'en est que rare ment et brièvement question chez les auteurs anciens. Varron65 ment ionne l'Aedes deum Penatium in Velia, sans autre précision, pour situer par rapport à elle l'une des chapelles des Argées, et le même auteur, cité par Nonius à propos du lieu de résidence des différents rois, note : Tullum Hostilium in Veliis, ubi nunc est aedis deum Penatium00. TiteLive, à propos de prodiges annonciateurs de catastrophes pour Rome, indique, avec la même sécheresse : Aedes deum Penatium in Velia de caelo tacta erat67. Nous avons déjà cité la mention du temple dans les Res Gestae68, assez brève elle aussi. Enfin, Solin, localisant les habita tionsdes différents rois sur différentes collines de Rome, écrit : Tullus Hostilius in Velia, ubi postea aedes deum Penatium facta est69. Ces tex tes, on le voit, restent fort imprécis en ce qui concerne la localisation du temple, puisqu'il ne comportent guère que la mention in Velia, ou in Veliis. Varron, cité par Nonius, et Solin, identifient l'emplacement du monument avec celui de la maison de Tullus Hostilius; mais, d'une part, nous ignorons quelle localisation la tradition assignait à cette der nière; d'autre part, même si l'on considère qu'elle la situait au sommet de la colline, d'où Tullus Hostilius pouvait voir et surveiller - comme Plutarque dit que pouvait le faire Valerius Publicola depuis sa maison l'ensemble du Forum, il n'est pas sûr qu'il faille donner aux mots ubi nunc et ubi postea un sens très précis : ils peuvent fort bien désigner la colline de la Vèlia en général, et non l'emplacement précis de la maison de Tullus Hostilius70.
65 De L.L. V, 54. 66 531, 19. 67 XLV, 16, 5. 68 XIX. 69 I, 25. 70 Nous avons déjà noté à deux reprises un certain flou dans les indications topogra phiques données par Cicéron pour la localisation de la maison de Valerius Publicola, par Plutarque pour celle du sépulcre des Valerti.
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1) La description de Deny s d'Halicarnasse Seul Denys d'Halicarnasse nous a laissé une description détaillée de la situation du temple : νεώς έν 'Ρώμη δείκνυται της αγοράς ού πρόσω κατά την έπί Καρίνας φέρουσαν έπίτομον όδον υπεροχή σκοτεινός ιδρυ μένος ού μέγας · λέγεται δε κατά την έπιχωρίων γλώτταν Ούελία το χωρίον71. Les indications de Denys concernant la Vèlia, qui serait donc limitée par le Forum et les Carinae, confirment ce que nous avons déjà noté; en revanche, il nous fournit une précision supplémentaire avec les mots κατά την έπί Καρίνας φέρουσαν έπίτομον όδόν, qui doivent être rapprochés de la suite du texte de Festus précédemment cité72 à pro pos du sanctuaire de Mutunus Tutunus; le fragment présente malheu reusement des lacunes considérables, mais on peut lire dextra u(ia) . . . (diuer)ticulum. ubi et colitur et . . . Il est permis d'avancer quelques hypothèses : la uia est peut-être la Via Sacra, sur la droite de laquelle se trouve la Vèlia, lorsqu'on va du Palatin vers le Capitole; quant au diverticulum, il pourrait désigner la petite rue conduisant aux Carinae mentionnée par Denys; enfin, et colitur doit faire allusion à l'un des lieux de culte situés sur la Vèlia, mais nous avons vu qu'il y en avait plusieurs, et il est impossible, en l'état du texte, de savoir duquel parle Festus. La position du temple, le long de la rue qui conduit aux Carinae, rend peu probable que ce dernier se soit trouvé au sommet de la Vèlia, à la place du centre actuel de la Basilique de Maxence. Il y a tout lieu de croire que cette rue, que Denys qualifie d'έπΐτoμoς, était taillée dans le flanc de la colline et gagnait les Carinae par un chemin plus court que celui qui ferait escalader la Vèlia du côté du Forum pour la redescendre ensuite vers le nord. Le sens de «raccourci» nous semble donc plus intéressant que celui de «petite rue» («short street») adopté par E. Cary73 pour επίτομος. Plus difficile est l'interprétation de υπεροχή. Ρ. Whitehead74 traduit par «dans un endroit très obscur», contestant la traduction habituelle «obscur en raison de la hauteur», pour des raisons grammaticales assez confuses, et surtout pour des raisons topographiques sur lesquel-
71 I, 68, 1 : «A Rome, on montre un temple non loin du Forum, en bordure du rac courci qui mène aux Carinae ; il est rendu obscur par la hauteur de ce qui l'entoure (ou : par sa hauteur) et n'est pas grand; l'endroit est appelé Vèlia dans la langue locale». 72 142 L; cf. supra p. 395. 73 Denys d'H., Antiquités Romaines I, Londres, 1967 (Loeb Classical Library). 74 The Church of S.S. Cosma e Damiano in Rome, AJA, 31, 1927, p. 11.
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les nous reviendrons plus bas; il fait donc de υπεροχή un adverbe. F. Castagnoli75 critique cette traduction, mais reconnaît la difficulté du passage et hésite entre les deux sens possibles de «obscur à cause de sa propre hauteur», ou «obscur à cause de quelque chose qui le surplomb e, à cause d'une hauteur ou d'un sommet au-dessus de lui». Sans pré juger des conclusions auxquelles nous pourrons aboutir sur la localisa tion du temple, il nous semble, dès à présent, que le sens de «obscur à cause de sa propre hauteur» est un peu difficile à accepter : Denys pré cise que le bâtiment est petit (ού μέγας); aussi est-il peu vraisemblable qu'il ait été très haut, car cela impliquerait qu'il ait eu des proportions notablement différentes de celles qu'avaient habituellement les temp les. Cette difficulté du texte de Denys n'est pas éclairée par un com mentaire de Donat à l'Eunuque de Terence; Donat cite un passage de Varron dans les Humanae Res : Numerius Equitius Cuppes et Manius Macellus singuîari latrocinio multa loca habuerunt infesta. His in exsilium actis bona publicata sunt, aedes ubi habitabant dirutae eque ea pecunia scalae deum penatium aedificatae sunt10. Les deux voleurs dont les biens furent confisqués ne sont pas autrement connus, et aucun autre texte n'atteste l'existence de ces Scalae deum Penatium. Leur nom suggère une comparaison avec les Scalae Caci11, situées sur la pente sud du Palatin, qui reliaient cette colline avec la zone du Forum Boarium78. Cet escalier tire son nom d'un des héros de la plus ancienne histoire de Rome79, et se trouve à proximité de la grotte du Lupercal; toutefois, comme le souligne B. Liou-Gille80, nous ne connaissons aucu ne attestation littéraire ou archéologique d'un temple ou d'un autel de Cacus sur le Palatin. Au contraire, nous savons qu'il existait sur la Vèlia un sanctuaire des Pénates, et il paraît donc assez naturel de mettre en 75 Op. cit., p. 158 n. 2. 76 Eunuchius II, 2, 25 : « Numerius Equitius Cupper et Manius Macellus mirent au pillage beaucoup d'endroits par leur extraordinaire brigandage. Après qu'on les eut exi lés, leurs biens furent affectés au domaine public, les maisons dans lesquelles ils habitai ent détruites, et avec cet argent on construisit l'escalier des dieux Pénates». 77 Leur existence est attestée par Plutarque (Rom., 20; texte corrigé) et Solin (I, 18). Cf. S. B. Platner-T. Ashby, op. cit., p. 475-66. 78 F. Coarelli (Roma, p. 126; plan, p. 123) pense que ces Scalae reliaient la zone du Forum Boarium au sommet de la colline, tandis que F. Castagnoli (Topografia ... p. 106) estime qu'elles étaient situées dans la partie basse de la pente seulement. 79 Cf. B. Liou-Gille, op. cit., p. 46-47. 80 Ibid.
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relation l'escalier et le sanctuaire, et de localiser ces Scalae sur la Vèlia. S'agit-il d'un escalier qui, gravissant une partie de la pente de la colli ne,desservait particulièrement le temple, ou simplement des marches du podium? La première hypothèse nous paraît préférable81, dans la mesure où, d'une part, la fortune dérobée par les deux voleurs était, semble-t-il, confortable (singulari latrocinio) et pouvait donc permettre la construction d'un escalier assez imposant; d'autre part, il n'est pas usuel de dire scalae suivi du génitif du nom du dieu pour parler des marches du podium d'un sanctuaire82.
2) L'identification de la partie rectangulaire de l'église SS. Còme et Damien comme le sanctuaire des Pénates L'identification topographique du sanctuaire se révèle particulièr ement délicate, en raison de la relative pauvreté des témoignages littérai res, en raison aussi des bouleversements architecturaux du site. Faute d'en trouver la trace ailleurs, on a cru pouvoir reconnaître, au début du XXe siècle, des restes du temple des Pénates dans le groupe de bât iments qui constituent l'actuelle église des SS. Còme et Damien, entre la partie basse de la colline où se trouve la Basilique de Maxence, et le Temple d'Antonin et de Faustine. Cette église a été édifiée au VIe siècle par le pape Félix IV sur plusieurs bâtiments antiques, ce qui donne à son plan un aspect singulier. L'identification de ces bâtiments a soulevé beaucoup de controverses, dont nous ne retiendrons ici que ce qui inté resse directement notre sanctuaire; en effet, les monuments antiques que l'on peut reconnaître sous les parties plus récentes ont été euxmêmes construits à des époques différentes, au temps d'Auguste, de Vespasien et de Sévère. Ces multiples réutilisations des constructions antérieures rendent très hasardeuses les tentatives de reconstitution ou d'identification des monuments en question. Ce groupe architectural, tel qu'il se présente à nos yeux, se compose, en gros, de deux parties, dont les orientations différentes attestent l'hétérogénéité83 : ce sont d'une part un monument rond flanqué de deux cellae absidiales, regar-
81 C'est l'interprétation de S. B. Platner - T. Ashby, op. cit., p. 388. 82 Scalae Caci et Scalae deum Penatium sont, à notre connaissance, les deux seuls exemples où scalae est suivi du génitif d'un nom de héros ou de dieu. 83 R. Lanciani, Degli antichi edifici dei S.S. Cosma e Damiano. BCAR, 10, 1882, p. 2954.
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dant vers le Forum et s'ouvrant sur la Via Sacra par deux portes de bronze datant de l'Antiquité, d'autre part une partie rectangulaire, utili sée pour l'édification de l'église proprement dite, à laquelle le monu ment rond a servi de vestibule, puisqu'une porte a été percée entre les deux corps de bâtiments pour les relier. L'identification de ces monu ments est problématique, et a été l'objet d'une longue controverse, dont nous retraçons brièvement l'histoire84. R. Lanciani85 voit dans l'édifice rond le tombeau de Romulus, fils de Maxence, tandis que l'édifice rec tangulaire aurait été une seule salle à l'origine (le Temple de la Paix, construit par Vespasien), divisée ensuite en deux parties dont l'une serait le Templum Sacrae Urbis; P. Whitehead, dans une première étu de86, puis G. Biasotti et P. Whitehead87, et à nouveau P. Whitehead88, au contraire, contestent l'existence d'un tombeau - ou d'un hérôon - de Romulus près du Forum, et identifient la partie nord-est du bâtiment rectangulaire comme le temple des Pénates, et le bâtiment rond comme un vestibule monumental construit par la suite pour entrer dans ce der nier; l'hypothèse de ces deux savants s'appuie du reste, en ce qui concerne l'identification du temple des Pénates, sur une étude antérieu re de E. Van Deman89. H. F. Rebert90 propose, lui aussi, cette identifi cationdu temple des Pénates, en se fondant sur la même étude, et elle est acceptée également par S. Weinstock91. Au contraire, F. Castagnol i92 conteste l'identification du bâtiment rectangulaire comme le tem ple de nos dieux, et le même savant et L. Cozza93 proposent d'y voir deux parties distinctes : le Templum Pacis et, peut-être, la Bibliotheca Pads mentionnée par des auteurs tardifs. Examinons de plus près cette identification du temple des Pénates. E. Van Deman fonde son hypothèse, déjà avancée par H. Jordan et C.
84 Cf. G. Lugli, Roma antica. Il centro monumentale, p. 225. 85 Op. cit., p. 33. 86 Degli antichi edifici componenti la chiesa dei S.S. Cosma e Damiano al foro roman o,Nuovo Bull. d'Arch. Crist., 19, 1913, p. 143-165. 87 La Chiesa dei S.S. Cosma e Damiano al Foro Romano e gli edifici preesistenti, RPAA, 3, 1924-25, p. 83-122. 88 The Church of S. S. Cosma e Damiano in Rome, AJA, 31, 1927, p. 1-18. 89 The Neronian Via Sacra, AJA, 27, 1923, p. 394-95. 90 hoc. cit. 91 S.w. Penates in R.E., XIX, 1, col. 451. 92 II tempio dei Penati e la Velia, p. 164. 93 L'angolo meridionale del Foro della Pace, BCAR, 76, 1956-58 p. 119-142.
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Hülsen94, sur un examen minutieux des murs du bâtiment rectangulair e; la partie la plus basse de ces derniers est formée de blocs de tuf de l'Anio, et elle est nécessairement antérieure à la partie supérieure, en blocs de peperino, datée du temps de Vespasien; d'après la nature du matériau et le mode de construction, E. Van Deman la date de l'époque d'Auguste. Cette datation, le fait qu'Auguste ait mentionné lui-même dans les Res Gestae la réfection du temple des Pénates sur la Vèlia, et l'emplacement de ces restes de murs, non loin du Forum, sur les pentes de la colline, permettent à l'archéologue américaine d'assurer que nous sommes là en présence des restes du fameux temple; enfin, elle cite comme confirmation supplémentaire de cette hypothèse la proximité du sanctuaire de Vesta et de la Regia, les trois bâtiments étant liés par d'étroites connexions politiques et religieuses. G. Biasotti et P. Whitehead, pour leur part, ont cru pouvoir tirer de l'examen de ces murs latéraux de la partie postérieure de l'église, tour née vers le Forum, la conclusion qu'ils constituaient un mur d'enceinte, datant de l'époque d'Auguste. En effet, ils notent que ces murs présen tent un bossage à l'intérieur aussi bien qu'à l'extérieur, qu'ils sont sans fenêtre, et qu'une corniche les surmonte, comme c'était le cas des murs, semblables à ceux-ci, qui entouraient le Forum d'Auguste. Com meces derniers, les murs intégrés dans la construction de l'église seraient donc des murs d'enceinte, ayant pour fonction d'entourer un espace couvert. Ils sont percés de deux portes, dont l'emplacement est visible aujourd'hui encore, donnant accès au sanctuaire proprement dit. Cette hypothèse, enfin, trouverait une confirmation dans le texte de Denys d'Halicarnasse que nous citions plus haut95 : il s'agirait d'un mur d'enceinte délimitant un téménos, à l'intérieur duquel s'élevait le petit temple des Pénates; la présence de ces murs élevés et peu distants du sanctuaire expliquerait un détail du texte de Denys, υπεροχή σκοτει νός, dont nous avons vu que l'interprétation faisait difficulté96. Cette hypothèse a aussi le mérite, contrairement à celle d'E. Van Deman, qui faisait des murs augustéens ceux mêmes du temple, de rendre compte d'un autre détail du texte de Denys qualifiant ce dernier de ού μέγας, ce qui cadrait mal avec l'explication proposée par l'archéologue américai-
94 Topographie der Stadt Rom im Altertum I, 2, Berlin, 1878, p. 416 sq. 95 I, 68, 1. 96 La fig. 2 p. 86 présente une reconstitution planimétrique très claire de l'ensemble : voir la reproduction ci-contre.
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ne. S. Weinstock97, enfin, accepte cette localisation du temple des Pénates qui lui paraît tout à fait conforme à la description de Denys, en soulignant toutefois qu'elle correspond à ce que les textes anciens désignent comme sub Velia, c'est-à-dire le pied de la colline; cette inter prétation s'appuie sur la lecture des manuscrits qui donnent en cet endroit ύπ'Έλαίας, ou ύπ' Ούελίας98; Ε. Cary99, au contraire, propose la correction Ούελία, ce qui évite la contradiction entre la notation de Denys et toutes les autres localisations du temple des Pénates, in Velia. S. Weinstock avance, en outre, un argument nouveau en faveur de cette localisation. Nous avons vu qu'il considérait qu'à Lavinium comme à Rome, les Pénates étaient, dès l'origine, identifiés aux Dioscures 10°, et la description des statues des dieux, qui suit le texte de Denys précédem ment cité et sur laquelle nous reviendrons plus bas, le confirme dans ces vues; or, note-t-il, les saints Corne et Damien, deux frères médecins et patrons des médecins, étaient assimilés par les Grecs aux Dioscures, divinités jumelles et protectrices; aussi ne faut-il pas s'étonner, selon
CLIVVS AD CARINAS
ÌVÌ4
AEDLS
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DEVM j PENATtV/Λ ·
97 Loc. cit. 98 Cf. aussi F. Castagnoli, op. cit., p. 165 n. 2. 99 Op. cit., ad. loc. 100 Supra p. 288-9.
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lui, que l'église dédiée aux deux saints se soit élevée précisément sur l'emplacement du temple des Pénates-Dioscures; ce serait, au contraire, un témoignage d'une remarquable continuité dans les traditions rel igieuses, du paganisme gréco-romain au christianisme. Le monument antique utilisé pour la construction de l'église est d'ailleurs désigné comme le «Temple des Castors» dans un dessin du bâtiment fait au XVIe siècle par P. Ligorio, accompagné d'un commentaire de son contemporain Panvinio, conservés à la Bibliothèque Vaticane101. Cette localisation nous paraît au demeurant appeler de sérieuses réserves. La première vient du fait que, dans toutes les références litt éraires au temple, sauf chez Denys si l'on accepte la leçon ύπ' Ούελίας, ce dernier est situé in Velia, ou εν Ούελία. Or, nous l'avons vu à propos des autre édifices que la tradition situe sur la Vèlia, il semble que les auteurs fassent une différence très nette entre les monuments situés sur la colline elle-même (in Velia, in Veliis) et ceux qui se trouvent en contrebas (sub Velia, infra Veliam). Cette distinction est particulièr ement bien illustrée par l'anecdote du déplacement de la maison de Valerius Publicola. Aucun des monuments n'est localisé à l'aide de l'un ou l'autre terme indifféremment, sauf, précisément, la maison de Publi cola située in Velia dans un texte de Cicéron, singularité dont nous avons rendu compte précédemment102. Nous verrons plus bas qu'il est ύπ' peut-être possible de résoudre la contradiction entre la leçon Ούελίας et les autres références littéraires antiques. De toute façon, cet te localisation constitue une difficulté topographique, dans la mesure où l'emplacement même de l'église S.S. Corne et Damien n'est pas à proprement parler au pied de la Vèlia, mais un peu plus à l'ouest, le long de la Via Sacra. Cette difficulté n'a d'ailleurs pas échappé à H. F. Rebert103 qui, pour justifier le relatif éloignement de cet emplacement par rapport à la hauteur sur laquelle est construite la Basilique de Maxence (hauteur qu'il identifie comme la Vèlia) propose de donner plusieurs sens au terme Velia : oppidum, dans la mesure où elle était l'une des collines du Septimontium; deuxièmement le nom d'une colli ne; troisièmement «une expression pour ainsi dire formelle qui a fini par être vidée de tout contenu topographique»104; ce dernier sens se
101 102 103 104
F. Castagnoli-L. Cozza, op. cit., p. 125. Voir ci-dessus p. 393 n. 29. Op. cit., p. 56 sq. Op. cit., p. 60.
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trouverait dans toutes les mentions du Temple des Pénates, où l'expres sion in Velia serait restée figée par le conservatisme religieux des Romains. Cette théorie a été très justement combattue par F. Castagnoli 105. Nous voudrions ajouter qu'il nous paraît peu plausible, étant don néque le terme Velia correspond sans aucun doute à une réalité géo graphique précise du site de Rome, qu'il ait pu être employé dans une expression, Aedes deum Penatium in Velia, où il était privé précisément de cette référence; de plus, comme F. Castagnoli le souligne, cette hypothèse repose sur une erreur de méthode : H. F. Rebert accepte comme une certitude la localisation du temple avancée par E. Van Deman, et tente, à partir de là, de proposer pour le mot Velia une, ou des définitions cohérentes, alors qu'il nous semble au contraire qu'une identification de l'édifice qui ne le situerait pas in Velia est par là même fortement sujette à caution. On peut faire à cette localisation d'autres objections plus graves. F. Castagnoli106 note tout d'abord que l'édifice antique, dans la partie augustéenne duquel on a cru pouvoir reconnaître les restes du téménos abritant le Temple des Pénates, semble parfaitement intégré dans l'e nsemble plus vaste du Forum de la Paix, dont il occupait l'angle sudouest; d'autre part, son orientation (nous avons déjà noté que le bât iment rectangulaire présente une orientation différente de celle que définissent la porte et les deux absides latérales du bâtiment rond qui borde la Via Sacra) fait également penser qu'il constituait une partie du Forum de la Paix. F. Castagnoli remarque que l'hypothèse d'E. Van Deman, reprise par G. Biasotti et P. Whitehead, se heurte aux habitudes de l'architecture religieuse romaine : ces murs sans ornements, compos és de blocs grossièrement taillés, ne peuvent être ceux d'un temple, ni même de l'enceinte d'un temple. Alors que P. Whitehead107 considère que les deux murs parallèles, en blocs de tuf, que l'on peut identifier aujourd'hui encore, épais de 0,90 m, avaient originellement 23 m de long et 17,50 m de hauteur, et que le quadrilatère ainsi délimité avait 18,50 m de large, F. Castagnoli note que ce schéma architectural ne
105 Op. cit., p. 160-161 n. 3 : selon F. Castagnoli, on ne peut admettre la distinction entre plusieurs sens du terme «Vèlia», soit colline à proprement parler, soit expression vide de contenu topographique ; ce dernier sens, retenu par H. F. Rebert pour expliquer l'expression Penates in Velia, le conduit à une identification fausse du Temple des Pénat es. 106 Op. cit., p. 157. 107 The Church of S.S. Cosma e Damiano in Rome, p. 9.
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peut être comparé, comme on a suggéré de le faire, avec celui de l'Ara Pacis 108 : en effet, ce dernier monument offre des proportions harmon ieuses, les murs du téménos étant relativement beaucoup plus bas que ceux de l'enceinte supposée du sanctuaire des Pénates, et surtout, ces murs abritent un autel, non un temple (même si la tradition littéraire Denys en particulier - nous affirme qu'il était petit); l'ensemble dont la reconstitution est suggérée par G. Biasotti et P. Whitehead aurait été un exemple unique dans l'architecture des sanctuaires et d'un «indiscuta ble mauvais goût», selon le savant italien109; on comprend mal d'ail leurs quelle aurait été, dans cette hypothèse, l'histoire architecturale du temple après sa reconstruction par Auguste : en particulier la construc tion d'un contrefort de tuf sur le mur augustéen à l'époque de Néron, que l'on peut reconnaître aujourd'hui encore, aurait été d'un effet par ticulièrement disgracieux, et l'indiscutable incorporation de cette aire sacrée dans le Forum de la Paix s'expliquerait difficilement; enfin, si l'on accepte de localiser au pied de la colline le Temple des Pénates, on peut très malaisément mettre en relation avec lui les Scalae deum Penatium mentionnées par Varron cité par Donat110. Il nous paraît donc, en définitive, très difficile d'accepter l'hypo thèseselon laquelle le Temple des Pénates aurait été situé sur l'empla cement de l'actuelle église des S.S. Corne et Damien; outre les raisons négatives que nous venons de passer en revue, plaide aussi contre elle le fait que les bâtiments antiques sur lesquels s'est édifiée l'église peu vent être identifiés de facon beaucoup plus convaincante comme le Templum Pacis et la Bibliotheca Pacis111. Faut-il alors accepter l'idée, avancée par G. Lugli112, que l'emplacement du Temple des Pénates nous demeure inconnu? F. Castagnoli113 propose une reconstitution de la topographie antique de la Vèlia qui permet de suggérer un autre emplacement; selon lui, le centre de la Vèlia aurait été, non l'actuelle Basilique de Maxence, mais la zone qui se trouve derrière cet édifice114;
los Voir G. Moretti, Ara Pacis Augustae, Rome, 1948, passim. 109 Op. cit., p. 158. 110 Soulignons toutefois que cette relation n'est qu'une hypothèse : la localisation des Scalae deum Penatium demeure inconnue. 111 Cf. F. Castagnoli-L. Cozza, ibid. 112 Roma antica. Il centro monumentale, p. 226. 113 Op. cit., p. 159-160. 114 II a soutenu à nouveau, plus récemment, cette localisation (Topografia di Roma antica, p. 73-74).
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le Temple des Pénates se trouvait, dans cette hypothèse, sur le versant nord de la colline, derrière la Basilique, versant qui fut entaillé par le percement de la Via dei Fori Imperiali à l'époque moderne. Cette loca lisation, selon le savant italien, permet de résoudre la contradiction entre les mentions du temple in Velia et ύπ' Ούελίας - cette dernière chez Denys -, car l'emplacement en question peut être désigné par l'un ou l'autre terme; en effet, la Via ad Carinas, dit F. Castagnoli, était tail lée dans le flanc assez abrupt de la colline, comme le fait apparaître un grand terrassement mis au jour par les travaux de la première moitié du XXe siècle115; le Temple des Pénates devait être situé au-dessus de cette rue, à laquelle il était relié par un long escalier - les Scalae deum Penatium probablement -, et était peut-être encaissé dans le flanc de la colline et, par là - même, rendu obscur par le sommet de cette dernièr e, qui le dominait; de plus, note F. Castagnoli116 la distinction est cla irement exprimée par Auguste dans les Res Gestae entre le temple des Lares, situé in summa Sacra Via, et celui des Pénates, in Velia. Cette hypothèse nous paraît intéressante à bien des égards. Elle a le très grand mérite de cadrer avec tous les témoignages littéraires, et de ne pas offrir de singularité du point de vue de l'architecture rel igieuse. Nous retiendrons tout particulièrement l'idée que le petit tem pleétait à flanc de colline, en haut d'un grand escalier : cela permet en effet d'expliquer qu'on ait pu à la fois dire qu'il était sur la Vèlia et en bas de la Vèlia, de justifier l'existence des Scalae deum Penatium et, d'autre part, de comprendre qu'à cause de sa petite taille, le temple devait être encaissé dans le flanc de la colline, dont le sommet le sur plombait probablement, d'où la notation de Denys sur l'obscurité qui y régnait, ou qui l'entourait. Nous avouons être un peu moins convaincu par la localisation du monument sur le versant nord de la Vèlia. En effet, il nous semble que ce versant est assez éloigné du Forum, alors que Denys affirme que le temple était της αγοράς ού πρόσω; bien enten du, il s'agit là d'une réserve fondée sur un argument bien fragile, car en définitive, les termes employés par Denys sont vagues, et la notion de proximité est toute relative. D'autre part, la localisation du temple par rapport au Cliuus ad Carinas nous paraît particulièrement délica-
115 BCAR, 61, 1933, p. 82, cité par F. Castagnoli (// tempio dei Penati e la Velia, p. 159 n.2). 116 Op. cit., p. 159-160.
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te117. Si cette rue conduit bien, comme nous le croyons, du Forum aux Carinae, et est taillée à flanc de colline, il est néanmoins impossible de s'appuyer sur le texte de Denys pour savoir quelle portion de la rue était voisine du Temple des Pénates. F. Castagnoli118 fait valoir que le Temple de Tellus, que P. Ligorio situe près de l'église Sant'Andrea in Portogallo, aux environs de l'actuelle Via del Colosseo, était localisé, par le même Denys, κατά την έπί Καρίνας έρουσαν όδόν119, et encore in Carinis. Mais, selon nous, ces références n'indiquent pas que le Temple de Tellus était en bordure de la même section de la rue, ni même qu'il s'agissait de la même rue; les deux temples peuvent avoir été situés, l'un - celui des Pénates - près du Forum, l'autre - celui de Tellus - à l'autre extrémité de la rue, aux Carinae même. En l'état actuel des lieux, il nous paraît à peu près impossible de trancher de cette dernière question. En revanche, il est fort probable que ce temple, quel qu'ait été son emplacement précis par rapport au sommet de la Vèlia - ver sant tourné vers les Carinae ou versant tourné vers le Forum -, a été détruit au IVe siècle lors des énormes travaux de construction de la Basilique de Maxence, qui occupe en fait la plus grande partie de la superficie de la Vèlia.
3) Le «Temple de Romulus» comme sanctuaire des Pénates Un autre localisation du Temple des Pénates, qui n'infirme pas du reste la précédente, a été proposée par F. Coarelli120. Selon lui, ce temp le, qui se trouvait sur le flanc de la Vèlia, au sommet d'un escalier, fut détruit lors de l'édification de la Basilique de Maxence. Il fut alors reconstruit aussi près que possible de son emplacement d'origine, dans un endroit libre : c'est le monument rond généralement désigné comme le «Temple de Romulus». La démonstration de l'archéologue italien est faite en deux temps : d'une part, il conteste l'identification de l'édifice rond comme l'hérôon du fils de Maxence, d'autre part, il donne des arguments en faveur de son identification comme le Temple des Pénat es. 117 Le plan proposé par G. Biasotti et P. Whitehead {op. cit., p. 86, fig. 2), reproduit ci-dessus, offre une interprétation de cette localisation. 118 Op. cit., p. 159 n. 1. 119 VIII, 79. 120 Guida archeologica di Roma, Milan, 1975, p. 94.
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La désignation comme «Temple de Romulus» de l'édifice repose sur une tradition assez confuse, dont il est diffide de suivre la trace à travers les siècles. Le Liber Pontificalis note que le pape Félix IV a construit l'église de S.S. Còme et Damien in loco qui appellatur Via Sacra, iuxta templum urbis Romae; ce temple est en réalité le Templwn Veneris et Romae121, et le monument auquel il est fait référence est plus probablement la Basilique de Maxence122. Plus tard, la tradition ratta chale souvenir de Romulus à la Basilique de Maxence : Romulus était le nom du fils, mort jeune, de cet empereur, et on lui rendit un culte quasi-divin; de plus, des monnaies du temps123 représentent, dans la Basilique, une statue de Romulus et Rémus allaités par la louve. Cette zone paraît donc liée aux deux Romulus, le fondateur de Rome et le fils de l'empereur, au point que, dans les Mirabilia, la Basilique semble avoir été désignée comme Templum Romuli. En 1450, Poggio Bracciolini124 donne ce nom, non pas à la Basilique, mais à l'église elle-même; enfin, à partir du XVIIe siècle, on appelle ainsi le vestibule rond, et non l'église proprement dite125; le premier, semble-t-il, Canina126 a eu l'idée de l'identifier avec l'hérôon bâti par l'empereur Maxence à la mémoire de son fils Romulus divinisé. Telle est la tradition sur laquelle se fonde la désignation du monument rond qui borde la Via Sacra comme le «Temple de Romulus». Elle s'appuie aussi, comme le rappelle F. Coarelli, sur des monnaies de Maxence représentant au droit le buste de Romulus, désigné par la légende, au revers un temple rond surmonté d'un dôme sur lequel est posé un aigle, avec la légende aeternae memor iae127 : cet édifice serait celui qui servit par la suite de vestibule à l'égli se SS. Còme et Damien. Cette identification du monument rond en bor dure de la Via Sacra, appuyée sur le témoignage des monnaies de Maxence à la mémoire de son fils, est soutenue par S. B. Platner et
121 Cf. F. Castagnoli-L. Cozza, op. cit., p. 119. 122 Cf. aussi P. Whitehead, op. cit., p. 2. 123 J. Maurice, Numismatique Constantinienne, Paris, 1908, I, p. 307; planche VIII, fig. 8. 124 Cf. Valentini et Zuchetti, Codice topografico, IV, p. 234, cité in F. Castagnoli L. Cozza - op. cit., p. 119, n. 1. 125 Ciampini, Vet. Mon. (1686), I, p. 5 cité par P. Whitehead, op. cit., p. 4, n. 5. 126 Cité par P. Whitehead, ibid., n. 6. 127 C. H. V. Sutherland - R. A. G. Carson, The Roman Imperial Coinage, vol. VI, Lond res, 1967, p. 337, n° 207.
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T. Ashby128. F. Castagnoli129 rejette l'hypothèse suivant laquelle il s'agi rait du Temple des Pénates, qu'il situe plutôt sur les pentes de la colli ne,sans proposer d'autre identification pour l'édifice. F. Coarelli, tout en affirmant que l'identification du monument «pose de graves problèmes», conteste celle que nous venons de rappel er : selon lui, le Templum Romuli, dont l'existence est signalée dans cette zone, est une fausse identification de la Basilique de Maxence en ruines; il n'a probablement jamais existé de «Temple de Romulus» en ce lieu, et F. Coarelli cite à l'appui de sa thèse la mention, au XVIe siè cle130, d'une inscription sur une pierre de l'édifice, signalant qu'il avait été dédié par Constantin, ce qui exclut de le lier au souvenir du fils de Maxence. Quant au témoignage des monnaies frappées au temps de Maxence, elles représentent, dit F. Coarelli, le mausolée de Romulus sur la Via Appia. L'identification de ce dernier est, du reste, bien éta blie, et il forme un ensemble avec le Cirque de Maxence situé tout à côté, construit également par l'empereur à la mémoire de son fils mort131. Reste à donner des arguments en faveur de l'identification du monument rond comme le Temple des Pénates. Nous avons déjà dit que F. Coarelli note la proximité du probable emplacement originel du sanctuaire et de celui de l'édifice rond, le plus proche parmi ceux qui étaient disponibles, également en bordure de la Via ad Carinas, dont F. Coarelli reconnaît le commencement sur la droite de la rotonde. De plus, il souligne la présence, des deux côtés de cette dernière, de deux niches rectangulaires terminées par une abside; celle de gauche est actuellement fort endommagée, mais celle de droite, en revanche, est bien conservée. On peut voir que les deux cellae s'ouvraient sur la faça de de l'édifice, du côté de la Via Sacra, par une entrée flanquée de deux colonnes de cipolin, à laquelle on accédait par quelques marches; les colonnes de celle de droite sont encore en place, et l'une d'elles est ornée d'un gracieux chapiteau corinthien132. La présence de ces deux niches avait d'ailleurs été relevée au XVIe siècle par P. Ligorio, qui
128 Op. cit., p. 450. 129 Topografia di Roma antica, p. 75-76. 130 F. Coarelli fait sans doute allusion à la description de Panvinio dont nous avons fait état plus haut. 131 Cf. F. Coarelli, Dintorni di Roma (Guide archeologiche Laterza), Rome, 1981, p. 30-38. 132 Cf. E, Nash, Pictorial Dictionary of Ancient Rome, II, p. 268-69, fig. 1023 et 1025.
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avait cru pouvoir en déduire que le monument était le «Temple de Romulus et Rémus», identification d'ailleurs également suggérée au dessinateur par le souvenir de Romulus associé à cette zone, avec la dénomination de «Temple de Romulus» donnée à la Basilique de Maxence133. La présence de ces deux niches aux flancs d'un monument rond avait suggéré à R. Lanciani134, puis à G. Lugli135, une comparaison avec une monnaie frappée au temps de Maxence et représentant, au droit, un buste de Romulus désigné par une légende, au revers, un monument rond, surmonté d'un dôme sur lequel est posé un aigle, et flanqué de deux cellae contenant chacune une statue d'un dieu placée sur un piédestal avec la mention aeternae memoriae 136. La ressemblance du monument servant de vestibule à l'église SS. Còme et Damien, et de celui qui est représenté sur la monnaie, jointe à la rareté de ce type architectural - une rotonde flanquée de deux niches rectangulaires à absides -, ont semblé à ces deux auteurs de suffisantes garanties pour les identifier comme le Temple de Romulus en bordure de la Via Sacra; nous venons de voir pour quelles raisons F. Coarelli refuse cette identi fication. Mais l'archéologue italien a voulu, en outre, rendre compte de la présence de deux niches aux flancs du monument (niches qui au raient abrité les statues, d'après la figuration de la monnaie) dont l'identification de l'ensemble de ce dernier comme le Temple de Romul us n'explique pas la présence. Ces deux niches, selon F. Coarelli, au raient abrité les statues des Pénates, représentés au nombre de deux sur la monnaie, ce qui serait d'autre part conforme à ce que dit Denys d'Halicarnasse de la représentation de ces dieux dans le temple de la Vèlia137; l'ensemble de l'édifice serait donc le Temple des Pénates, reconstruit à cet emplacement au moment où s'édifiait la Basilique de Maxence. Revenant tout récemment sur cette question, F. Coarelli138 a propos é du monument une autre identification, liée à la modification qu'il suggère du tracé traditionnellement admis de la Via Sacra. S'appuyant
133 Cf. R. Lanciani, op. cit., p. 34. 134 Loc. cit. 135 Roma antica. Il centro monumentale, p. 225. 136 Pour la description de la monnaie, voir J. Maurice, op. cit., p. 192, et pi. XVIII n°ll. 137 I, 68, 2 ; cf. ci-dessus, p. 400-2. 138 Roma (Guide archeologiche Laterza), p. 77-78 ; // Foro Romano I : Periodo arcaico, p. 11-38.
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sur les indications de Varron et de Festus, qui distinguent un sens étroit et un sens plus large de ce terme, F. Coarelli assigne comme limi tes au premier le parcours compris entre la Regia et le début de la montée qui se trouve pratiquement en face du «Temple de Romulus» (le prolongement de la route jusqu'à l'Arc de Titus étant plutôt désigné, selon lui, comme Cliuus Sacer), au second le parcours compris entre l'Arx et le Sacellum Streniae sur les Carinae. Il en résulte évidemment un changement profond dans la localisation d'un certain nombre d'édi fices que les témoignages littéraires placent sur la Via Sacra ; nous n'en retiendrons ici que ce qui concerne le «Temple de Romulus». F. Coarell i fonde sa démonstration sur ces données topographiques nouvelles, plaçant en fait notre monument in summa Sacra Via, et sur les Catalogi des édifices de Rome par région, datant de l'époque de Constantin, et mentionnant, parmi les édifices situés sur la droite de la Via Sacra quand on vient du Colisée, le Temple de Jupiter Stator. F. Coarelli affi rmequ'il est impossible de reconnaître, comme on le fait traditionnement, les traces de ce temple dans les vestiges qui subsistent à côté de l'Arc de Titus; en revanche, le «Temple de Romulus» étant le seul monument non identifié qui se trouve dans cette zone, il est tentant de l'identifier comme le Temple de Jupiter Stator, d'autant que les sources littéraires localisent ce dernier en un endroit qui correspond à l'empla cement du «Temple de Romulus». Dans cette nouvelle perspective, l'histoire du monument se trouve changée : le Temple de Jupiter Stator, dont la tradition attribue la fondation à Romulus pour remercier le dieu d'avoir arrêté les Romains en fuite devant les Sabins qui descen daient du Capitole139, aurait sans doute été tout d'abord un sanctuaire à ciel ouvert, auquel fut substitué en 294 av J.-C. un temple dédié par Régulus après sa victoire sur les Samnites. A l'époque de Maxence, le monument fut remanié, et c'est alors que l'on lui adjoignit les deux cellae absidiales qui sont représentées sur la monnaie, et qui ont fait - à tort dit F. Coarelli - identifier l'ensemble corame le «Temple de Romul us».En effet, le Temple des Pénates aurait été démoli à cette époque en raison des travaux de construction de la Basilique; on ne le reconst ruisit pas totalement - contrairement à ce que F. Coarelli avait admis dans sa première étude -, mais on transféra les deux statues des dieux dans les niches construites à cet effet sur les côtés du temple le plus proche, celui de Jupiter Stator, qui fut restauré, ou reconstruit, à cette
139 cf. Liv., i, 12.
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époque : c'est l'état du monument que nous voyons aujourd'hui. Enfin, note F. Coarelli, le choix de ce temple pour abriter les statues des Pénat ess'explique fort bien, pour des raisons topographiques que nous avons déjà mentionnées, mais aussi pour des motifs idéologiques; l'em pereur Maxence a eu le désir de renouer avec le plus ancien passé de Rome, comme en témoignent, entre autres, le choix de cette ville pour sa capitale, et le nom de Romulus qu'il donna à son fils; l'intérêt porté à ces cultes, liés aux deux fondateurs de Rome, celui de Jupiter Stator à Romulus et celui des Pénates à Enée, et leur réunion en un seul ensemb le architectural, n'ont, dans cette perspective, rien qui doive surprend re. Cette démonstration brillante, et à première vue assez convaincant e, nous paraît appeler cependant quelques réserves. Nous ne retien drons pas ici comme objection à cette identification le témoignage ic onographique du relief du tombeau des Haterii, dont l'un des motifs a souvent été interprété comme la représentation du Temple de Jupiter Stator : on voit essentiellement de l'édifice sa facade, mais quelques lignes de perspective permettent de penser que le monument représent é était quadrangulaire; au demeurant, l'interprétation de ces reliefs est particulièrement épineuse, puisqu'il n'est pas certain qu'ils aient consti tué un ensemble topographique, ni même qu'ils soient des édifices réels140, et l'identification de notre temple est douteuse. Nous n'avons aucun autre témoignage iconographique concernant ce monument, et les mentions qui en sont faites dans les textes ne permettent pas de savoir s'il était rond ou quadrangulaire141. Sa désignation comme aedes, sans impliquer une forme ronde, ne l'exclut pas142; cette forme serait du reste la plus probable, car il n'est guère concevable que, lors de la
140 F. Castagnoli, Gli edifici rappresentanti in un rilievo del sepolcro degli Haterii, BCAR, 69, 1941, p. 59-60. 141 Cicéron déclare (Cat. I, 5, 11) avoir réuni le Sénat dans YAedes louis Statoris pour y prononcer la Première Catilinaire, ce qui est repris par Plutarque (Cic, 16). Or, nous savons par Aulu-Gelle (N. Ait. XIV, 7, 7) que le Sénat ne pouvait voter de sénatus-consulte valable que dans un espace orienté et inauguré, ce qui exclut un monument rond (cf. G. Dumézil, La Religion romaine archaïque, 2è éd., 1974, p. 322-3). Cependant, le sanctuai re proprement dit, ici désigné comme aedes, pouvait être construit à l'intérieur d'un espa cedélimité consacré au dieu - que désigne précisément le mot templum -, lui-même orienté. 142 G. Dumézil, loc. cit.; l 'Aedes Vestae est un monument rond, non orienté. Remar quons cependant que peuvent être désignés comme aedes des sanctuaires quadrangulaires, par exemple, sur le Forum, X Aedes Saturni, XAedes Concordiae, X Aedes Castorum.
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restauration par Maxence, ou antérieurement à elle, on ait changé la forme du sanctuaire. Mais ce point nous semble au demeurant faire difficulté, car le temple de Jupiter Stator est probablement très ancien, comme en témoigne la tradition rapportant sa fondation à Romulus. Or, parmi les sanctuaires archaïques, seul celui de Vesta est rond, ce qui s'explique par la personnalité religieuse propre de la déesse, ainsi que l'a montré G. Dumézil. D'autre part, s'il est difficile d'admettre que Maxence a érigé deux monuments ronds, hérôa à la mémoire de son fils, dont l'un aurait été situé sur la Via Appia, et l'autre en bordure de la Via Sacra, un examen de l'ensemble des monnayages commémoratifs frappés par cet empe reurà la mémoire de membres de sa famille disparus suscite une cer taine perplexité143; des monnaies portant au revers aeternae memoriae ont en effet été frappées par l'empereur, pour commémorer non seul ement la mort de son fils Romulus, mais aussi celle de son père Maximianus Herculius, de son beau-père Galérius, de son oncle par alliance Constantius, dont les noms figurent au droit des monnaies; au revers, au-dessous de l'inscription aeternae memoriae, on voit sur toutes un monument rond, surmonté d'une coupole sur laquelle est posé un aigle, animal qui symbolise sans doute les prétentions dynastiques que Maxence exprimait par ce monnayage144; le monument est soit tétrastyle145, soit hexastyle 146, soit encore sans colonnade147, et on y voit deux portes, soit fermées soit entr'ouvertes. Il est évident que ce type archi tectural n'a pas dans ses détails de caractère réaliste. L'archétype de ce monnayage est celui qui célèbre la mémoire de Romulus, mort le pre mier, en 309, et le monument rond représente, avec plus ou moins d'exactitude, l'hérôon du prince : certaines monnaies le montrent com posé de gros blocs de pierre, d'autres ne figurent du corps du bâtiment que les colonnes, en nombre variable. En revanche, il paraît improbab le que des monuments identiques aient été construits pour les autres parents de Maxence, morts après Romulus : le monument de ce dernier a servi de modèle pour les monnayages commémoratifs de la famille, ainsi que la légende aeternae memoriae, qui n'existe d'ailleurs, à notre
143 144 145 146 147
C. H. V. Sutherland - R. A. G. Carson, op. cit., p. 346-382; 400-406. Ibid., p. 346. Ibid., n°211; 243-249. Ibid., n° 250-256. Par ex., ibid., n° 239.
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connaissance, que sur les monnaies de Maxence; seul change le nom du mort, écrit au droit de la pièce. Mais si les détails varient, l'allure générale du monument est la même, et elle est aussi très proche de l'édifice représenté sur les monn aies auxquelles F. Coarelli fait allusion. Ces dernières existent en quel ques exemplaires au Cabinet des Médailles148 avec des variantes de détail : dans les niches latérales, il n'y a pas de statues sur certains exemplaires, sans qu'il soit possible de déterminer si cette absence est due à l'usure du métal à cet endroit, ou si elle est délibérée; l'architrave et les acrotères sont plus ou moins stylisés sous forme de figures géo métriques, suivant les exemplaires; les deux portes sont rectangulaires ici, là elles sont arrondies en haut ou sont surmontées d'un fronton triangulaire. Sans doute ne faut-il pas chercher dans ce monument, non plus que dans les représentations de l'Hérôon de Romulus, une figuration réaliste, encore que ce type de monnayage ait été frappé exclusivement à Rome, alors que le précédent provient à la fois de Rome et d'Ostie149. Mais ce qui est surprenant à nos yeux, c'est la re ssemblance indéniable entre les deux types de monnayages, encore ren forcée par le fait que les deux niches latérales sont incorporées dans la structure générale du monument, dans la mesure où elles sont incluses dans l'espace délimité par la coupole; notons du reste que dans le monument de la Via Sacra, les deux cellae, quoique appuyées de chaque côté de la rotonde, ne sont pas abritées sous la coupole qui recouvre cette dernière. Il y a d'autres points de ressemblance : le droit des deux types de monnaies, et, au revers, la légende aeternae memoriae. Enfin on comprend mal pourquoi Maxence aurait fait figurer cette dernière inscription au-dessus du temple de Jupiter Stator, sauf à vouloir asso cier le souvenir de son fils à son homonyme, instaurateur légendaire de ce culte. Au demeurant, l'hypothèse de F. Coarelli ne saurait être tout à fait rejetée : d'autres détails, notamment la présence des deux statues, que nous étudierons plus loin, sont des arguments convaincants en faveur, sinon de l'identification de l'ensemble du monument comme le temple de Jupiter Stator, du moins de l'attribution des deux cellae aux Pénates, après la destruction de leur temple sur la Vèlia même.
ne N° 9005-9006. 149 Cf. C. H. V. Sutherland-R. A. G. Carson, op. cit., p. 346 sq.
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4) Conclusion II semble donc bien qu'il faille admettre que nous ignorons l'e mplacement originel exact du temple des Pénates, et l'aspect du sanctuair e. Pourtant, certains savants, et notamment F. Castagnoli150, pensent que c'est de lui que s'est inspiré le sculpteur du relief représentant le sacrifice d'Enée sur l'Ara Pacis; mais nous avons vu précédemment151 qu'on avait aussi proposé de situer la scène à Lavinium, cité à laquelle, beaucoup plus qu'à Rome, est lié le personnage d'Enée. F. Castagnoli souligne cependant qu'une telle identification est d'autant plus plausi ble qu'Auguste, comme en témoignent les Res Gestae, avait restauré le temple de la Vèlia; l'anachronisme qui consiste à faire sacrifier Enée devant ce temple n'est pas gênant, note-t-il, étant donné que l'artiste n'a manifestement aucune préoccupation historique. Cette hypothèse nous paraît toutefois devoir soulever des objec tions. La première est qu'il est tout de même plus plausible que la scè ne se passe à Lavinium, et nous avons donné précédemment152 des arguments à l'appui de cette suggestion. D'autre part, l'édifice qui a été sculpté sur le relief de l'Ara Pacis ne correspond guère à ce que Denys, à peu près à l'époque où est exécuté le monument, nous dit du sanc tuaire de la Vèlia. Malgré l'altération du relief sur tout le côté gauche, l'édifice semble construit, non sur le flanc d'une colline, comme Denys nous le laisse entendre du temple des Pénates, mais à son sommet, rai son qui, entre autres, nous avait fait penser qu'il fallait sans doute situer la scène à Lavinium. De plus, contrairement à ce que dit F. Cas tagnoli, l'accès à ce petit sanctuaire ne se fait pas, comme pour un tem ple ordinaire, par une série de marches taillées dans le podium; en l'état du relief, on voit simplement une marche, qui est plutôt du reste une sorte d'encadrement faisant le tour de la façade ouverte de l'édifi ce. Il nous semble, en tout cas, qu'on est fort loin de l'image que l'on peut se faire des Scalae deum Penatium que, selon Donat, mentionnait Varron; d'autre part, le petit édifice de l'Ara Pacis n'a pas l'air d'être dans l'ombre, ni encaissé, comme le laisse entendre Denys du temple de la Vèlia. Enfin, il y a une grande différence de style architectural entre l'autel qui figure au centre de la scène et le petit édifice : le premier est
150 // tempio dei Penati e ία Velia, p. 164-165. 151 Supra p. 209-216; 224-5. 152 Ibid.
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en pierres sèches, d'une construction assez sommaire, alors que le second présente au contraire une architecture élaborée, avec un mur latéral en blocs régulièrement taillés, des colonnes à chapiteaux corin thiens, un fronton décoré en son centre d'une phiale et orné de deux acrotères en forme de palmettes. Ces détails invitent à voir une opposi tion entre le caractère hâtif et improvisé, provisoire, de la construction de l'autel, et l'aspect soigné de celle du petit temple qui nous a fait plu tôt penser à un sacellum apporté de Troie par Enée153. Rappelons bri èvement les détails qui appuient cette hypothèse : l'absence de colonna de tout autour du temple, la petite taille de l'édifice par rapport au res tede la scène. Par conséquent, même si l'on admet que l'ensemble du tableau n'a pas un caractère historique, il semble difficile de voir dans le petit édifice de YAra Pacis une figuration du temple de la Vèlia154. Il faut donc, sans doute, nous résigner à l'idée que nous ne connaissons ni l'emplacement exact, ni l'aspect précis de ce temple, détruit très proba blement lors du plus grand bouleversement qu'ait connu la colline où il s'élevait, au cours de la construction de la Basilique de Maxence.
III - Les statues des Pénates Sur la représentation des Pénates publics dans le sanctuaire de la Vèlia, nous possédons trois témoignages : l'un, littéraire, est la descrip tion qu'en donne Denys d'Halicarnasse; les deux autres sont iconogra phiques: ce sont d'une part le relief du sacrifice d'Enée de l'Ara Pacis, d'autre part, des monnaies frappées par Maxence; mais nous verrons que l'identification des Pénates de la Vèlia sur ces deux derniers docu ments n'est pas certaine, et la représentation qu'ils en offrent devra fai re l'objet d'une confrontation serrée avec le texte de Denys. 1) Le témoignage de Denys d'Halicarnasse Nous devons à Denys d'Halicarnasse une description détaillée des statues des Pénates qui se trouvaient dans le sanctuaire de la Vèlia; elle fait suite à celle du monument lui-même : έν δε τούτω κείνται των
153 Voir ci-dessus, p. 212-4. 154 Cette identification a été, en dernier lieu, affirmée par R. Schilling (Penatibus et Magnis Dis, Mise. E. Manni VI, Rome, 1980, p. 1972).
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Τρωικών θεών εικόνες, ας άπασιν όραν θέμις, έπιγραφήν εχουσαι δηλοϋσαν τους Πενάτας · είσί δε νεανίαι δύο καθήμενοι δόρατα διειληφότες, της παλαιάς έργα τέχνης · πολλά δε και άλλα εν ίεροϊς άρχαίοις είδωλα τών θεών τούτων έθεασάμεθα, και έν άπασι νεανίσκοι δύο στρατιωτικά σχήματα έχοντες φαίνονται · όραν μεν δε ταύτα εξεστιν, ακούει ν δε και γράφειν υπέρ αυτών155. Nous citons ici le texte établi par E. Cary156; mais, à la suite de la mention de l'inscription désignant les statues com mecelles des Pénates, les manuscrits indiquent ; δοκοΰσι γαρ μοι του θ μήπω γράμματος εύρημένου τω S δηλουν την εκείνου δύναμιν οί παλαίοι157; cette remarque s'intègre particulièrement mal dans le texte des manuscrits; aussi un commentateur allemand du XIXe siècle, J. J. Amb rosch158, a-t-il supposé qu'elle était le fait d'un scribe ancien, et qu'elle s'appliquait à l'inscription et au membre de phrase précédent, ας άπα σιν όραν θέμις; pour ce dernier mot, l'un des manuscrits donne la leçon δέμας. Ambrosch propose donc l'hypothèse suivante : originellement le texte de Denys était εικόνες άπασιν όράν, ΔΙΣ ΜΑΓΝΙΣ έπιγραφήν εχου σαι, δηλουσαν τους Πενάτας; la transcription des mots latins ΔΙΣ ΜΑΓ ΝΙΣ, mal compris, aurait été altérée en ΔΕΜΑΣ et ΔΕΜΙΣ, et cette seconde altération aurait été rapprochée de θέμις, ou prise pour une variante de ce mot, ce qui permettrait d'expliquer la remarque du scri be; et il est en effet assez difficile autrement de comprendre à quel mot elle s'applique; plus tard enfin, on aurait transcrit θέμις et ajouté le relatif ας que ce dernier mot nécessitait. Mais Ambrosch admet luimême que ce serait alors l'unique cas où Denys aurait cité le texte latin d'une inscription, au lieu, comme il le fait habituellement, de la tradui re en grec. Cette hypothèse repose sur deux éléments : d'une part, l'a ccusatif τους Πενάτας a très peu de chances d'être le texte même de l'inscription, mais se justifie par la présence de δηλουσαν; d'autre part, la reconstitution proposée par Ambrosch pour le texte de l'inscription
155 I, 68, 1-2: «dans ce temple se trouvent des images des dieux de Troie qu'il est permis à tous de voir, portant une inscription qui les désigne comme les Pénates : ce sont deux jeunes gens assis, tenant des lances, ouvrages d'une facture ancienne ; nous avons vu beaucoup d'autres images de ces dieux dans des sanctuaires anciens, et dans tous, ils sont représentés comme deux jeunes gens en tenue militaire; il est permis de les voir, d'en entendre parler et d'écrire à leur sujet». "' Op. cit., p. 222, et p. 222-223, n. 6. 157 «II me semble en effet que la lettre θ n'ayant pas été inventée, les anciens ren daient sa valeur par le δ». 158 Commentaire aux Antiquités Romaines, Breslau, 1840-46, I, p. 236.
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s'appuie très probablement sur un texte de Varron cité par Servius : Varrò quidem unum esse dicit Penates et Magnos Deos; nam et in basi scribebatur Magnis Dis 159. Aucune précision n'est donnée par Varron ni par Servius sur l'identité de la statue sur le socle de laquelle seraient écrits les mots Magnis Dis, mais les commentateurs s'accordent généra lement à penser qu'il s'agit des statues du temple de la Vèlia160, en admettant, d'une part, que, comme nous le notions, Denys ne donne pas le texte exact ni complet de l'inscription, non plus que Varron, si l'on s'en tient du moins aux termes de la citation de Servius; c'est en éclairant les deux textes l'un par l'autre, avec l'appui d'autres témoi gnages littéraires et iconographiques que nous étudierons plus loin, que l'on peut tenter de reconstituer le texte de l'inscription et identifier la statue à laquelle Varron fait allusion. D'autre part, ce texte opposerait à la tradition lavinate des Pénates que Dénys, citant Timée et se réfé rant à sa propre expérience, vient de rappeler, une conception différent e de ces dieux: tandis que les Pénates «troyens» de Lavinium se pré sentaient comme «de la poterie troyenne et des caducées de fer et de bronze», qu'il était interdit aux profanes de voir et dont on ne devait pas non plus parler, les Pénates honorés à Rome sur la Vèlia, selon Denys, étaient visibles par tous; il insiste à deux reprises sur cette caractéristique de leur culte, encadrant en quelque sorte par cette remarque la description qu'il donne des images des dieux; d'autre part les Pénates y sont représentés sous la forme anthropomorphique de deux jeunes gens. De façon assez surprenante, Denys reconnaît les deux statues de la Vèlia comme des images des dieux «troyens», ce qui est apparemment en contradiction avec le fait que les mêmes Pénates troyens sont conservés à Lavinium sous la forme de poterie et de caduc ées. Il existe donc bien, si l'on s'en rapporte au témoignage de Denys, une double tradition concernant les sacra troyens> et même, plus préci sément, les Pénates troyens. Denys, qui semble avoir vu personnelle ment les statues de la Vèlia, les présente comme des œuvres «d'une fac ture ancienne» (της παλαιάς τέχνης), et ce type iconographique des Pénates, nous dit l'historien, se retrouve dans d'autres sanctuaires an-
159 AdAen. III, 12. 160 Notamment S. Weinstock, s.u. Penates, in R.E. XIX, 1, col. 449; R. Β. Lloyd, Penat ibus et Magnis Dis, AJPh, 77, 1956, p. 41 ; C. Peyre, Castor et Pollux et les Pénates pendant la période républicaine. MEFR, 74, 1962, p. 452; R.Schilling, Penatibus et Magnis Dis, p. 1963-1978.
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ciens (έν ίεροΐς άρχαίοις), en de nombreux exemplaires (πολλά είδωλα). Malheureusement, les indications de Denys nous permettent seulement de savoir que ces statues lui apparaissaient comme nettement antérieu res au Ier siècle avant J.-C, mais en aucune facon d'en préciser la data tion; il aurait été intéressant, en particulier, de pouvoir les situer chro nologiquement par rapport aux «Pénates troyens» que, selon Denys, Timée a vus à Lavinium. Le type iconographique que nous décrit Denys donne aux dieux ainsi représentés un caractère militaire, ou guerrier : sur la Vèlia, nous dit-il, ils tiennent des «lances» (δόρατα διειληφότες) ; dans les autres temples, ils portent un vêtement militaire (στρατιωτικά σχήματα έχοντ ες). Cet aspect guerrier nous semble former une curieuse contradic tion avec ce qui est dit par ailleurs de leur attitude : ils sont assis (καθήμενοι), position suggérant le repos et la paix, que l'on ne voit généralement pas dans les représentations de divinités guerrières, ou en tenue guerrière. Nous nous arrêterons donc sur ces caractéristiques singulières des statues de la Vèlia, dont le texte de Denys est le seul garant. Nous avons vu161 que, dans le monde grec, le long bâton a des significations symboliques diverses162: bâton du messager, bâton de l'orateur, il est aussi le σκήπτρον, symbole du pouvoir royal, mais E. Benveniste lui donne comme sens étymologique «le bâton sur lequel on pèse et qui vous retient de tomber»163. Du reste, l'insigne de la royauté n'était pas toujours désigné de ce terme. Pausanias164 raconte l'histoire du sceptre d'Agamemnon, fabriqué par Zeus pour Héphaïstos, selon Homère165, et passé ensuite aux mains de Pélops, d'Atrée, de Thyeste, et enfin d'Agamemnon; ce sceptre est conservé et vénéré à Chéronée, et désigné du terme de δόρυ : τούτο ούν το σκήπτρον σέβουσι (= les habitants de Chéronée) Δόρυ όνομάζοντες166. Or, le mot δόρυ, qui a fini par désigner en grec classique la lance de l'hoplite, signifie chez
161 Cf. ci-dessus, p. 265 sq. 162 Cf. E. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, II, Paris, 1969, p. 29-33. 163 Op. cit., p. 32. 164 IX, 40, 11-12. »« //. II, 101 sq. 166 Ibid. : «Ils vénèrent donc ce sceptre, qu'ils appellent Δόρυ».
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Homère «tronc d'arbre», «bois», et «bois d'une pique»167; pourtant, il nous paraît peu probable que Denys ait joué sur cette pluralité de sens; il n'est guère douteux que l'historien a pris le mot dans le sens qu'il avait très couramment de «lance». Comment expliquer que Denys ait reconnu des «lances» aux mains des dieux de la Vèlia, alors que les Pénates n'ont jamais eu de caractère guerrier, à aucun moment de leur histoire168? Nous voyons deux expli cations possibles, qui ne sont d'ailleurs pas exclusives l'une de l'autre. Tout d'abord, Denys déclare que les Pénates de la Vèlia étaient «deux jeunes gens assis tenant des lances», sans donner d'autre précision sur leur costume; et il poursuit en affirmant que dans «beaucoup d'autres sanctuaires anciens», les Pénates «sont représentés comme deux jeunes gens en tenue militaire», ce qui est l'unique attestation de ce costume pour les Pénates. Cette singularité nous semble explicable par une confusion avec les Dioscures, partiellement identifiés avec les Pénat es 169 : Castor et Pollux, eux, sont très souvent représentés en tenue guerrière, une lance à la main170; Denys a vu des statues des Dioscures dans des sanctuaires autres que la Vèlia, et, à la lumière de l'assimila tion entre Dioscures et Pénates, il interprète comme des lances les longs bâtons que les dieux de la Vèlia tiennent à la main : aussi les qualifie-t-il de δόρατα, mais rien d'autre n'indique que nos dieux aient eu un aspect guerrier; au contraire, comme nous l'avons déjà souligné, la position assise paraît leur donner un caractère pacifique. D'autre part, si Denys déclare avoir vu personnellement ces sta tues, puisque, dit-il, cela était permis à tous171, il est possible aussi qu'il ait recueilli à Rome des témoignages à leur sujet; mais le mot par lequel les Romains désignaient le long bâton nous reste inconnu. Il n'est pas interdit de supposer que les informateurs de Denys ont pu employer le mot hasta, dont nous avons vu172 que la signification de «lance» n'était que l'un des sens, à côté de celui de «bâton», attribut du
167 P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, I, Paris, 1968, s.u. δόρυ. Notons toutefois que l'indication d'Homère, selon laquelle le sceptre d'Agamemnon avait été fabriqué par Héphaïstos, suggère plutôt un objet métallique. 168 Cf. N. Masquelier, Pénates et Dioscures, Latomus, 25, 1966, p. 93. 169 Voir ci-dessous p. 430-9. 170 Cf. l'iconographie des Dioscures sur les monnaies, donnée par C. Peyre, op. cit. 171 I, 67, 2 : ας απασιν όραν θέμις. 172 Cf. supra p. 270-3.
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héraut ou du roi173. Toutefois, si Denys a entendu ce mot, dont le sens le plus courant est celui de «lance», il n'est pas surprenant qu'il l'ait traduit par δόρυ, sans avoir la moindre intention de jouer sur la polysé mie des deux mots. Ainsi pourrait-on rendre compte du mot employé par l'historien dans sa description des dieux de la Vèlia, ce qui permett rait d'éviter de leur assigner un aspect guerrier qui cadre bien mal avec leurs fonctions habituelles.
2) Le sacrifice d'Enee sur l'Ara Pacis Si l'on accepte notre interprétation du texte de Denys, il paraît exis ter une grande parenté entre la description que fait l'historien des dieux de la Vèlia, où les Pénates seraient dépourvus de caractère guerr ier, et le relief de l'Ara Pacis, parenté que plusieurs savants ont déjà soulignée174. Historiquement, cette hypothèse est très plausible : le texte et le relief sont contemporains entre eux, contemporains aussi de la restauration du temple de la Vèlia par Auguste mentionnée dans les Res Gestae 175. Sur le devant du petit temple qui figure en haut et à gau che du relief, on voit en effet deux personnages dans lesquels on recon naîtgénéralement les Pénates176; ils sont assis, probablement sur une sorte de banc, caché, comme le bas de leurs jambes, par la grille déco réede guirlandes au-dessus de laquelle ils apparaissent; telle est bien en effet la position dans laquelle les décrit Denys. Ils sont vêtus d'un costume drapé autour des jambes et sur les épaules, qui laisse à découv ertune grande partie du buste; cette draperie est particulièrement bien modelée sur la statuette de droite. Ce vêtement doit être interprété, nous semble-t-il, en fonction de l'ensemble de la scène, en particulier de ceux des autres personnages : en contraste avec le costume des deux camilli et du personnage très mutilé de droite, le costume des Pénates rappelle beaucoup celui d'Enée; l'effet de draperie autour de la taille et sur l'épaule est le même. Peut-être faut-il y voir une intention, chez le sculpteur, de mar quer un décalage géographique et chronologique entre les deux grou-
173 Cf. A. Alföldi, Hasta - Summa Imperii, AJA, 63, 1959, p. 1-27. 174 F. Castagnoli, op. cit., p. 164-165 : «les images des Pénates (sur le relief de l'Ara Pacis) sont identiques à celles que décrit Denys»; R. Schilling, op. cit., p. 1972. 175 Res Gestae, XIX. 176 Une autre identification a été proposée par Petersen. Cf. ci-dessus, p. 212.
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pes de personnages, dont les différents représentants alternent de la gauche à la droite de la scène : en habillant Enée et les Pénates de cos tumes grecs177, il aurait voulu les reculer dans un passé lointain, et même mythique, par rapport au Ier siècle, dans lequel se situent en revanche les détails réalistes comme la présence des camilli et les objets cultuels qu'ils tiennent dans les mains; il a peut-être aussi voulu souli gner leur origine étrangère, lointaine; il paraît certain en tout cas qu'il a voulu rappeler entre le héros troyen et les Pénates une certaine parenté qui s'exprime, ici, par la ressemblance des costumes, et aussi par le fait que, sous Yhimation, ils ont le buste nu, ce qui paraît carac téristique de la représentation des divinités, et donnerait ainsi à Enée une dimension surhumaine178. Or, si Denys ne nous donne aucun détail précis concernant les vêtements des statues de la Vèlia, il affirme qu'il a vu dans d'autres sanctuaires «beaucoup d'autres images de ces dieux ... en tenue militaire». Faut-il en déduire que Denys laisse enten dreque, dans leur temple de Rome aussi, les Pénates portaient ce type de vêtements? On aurait alors ici une contradiction entre les témoignages littéraires et iconographiques, et il faut beaucoup plus probablement considérer que cette notation ne s'applique pas aux sta tues de la Vèlia, mais à d'autres statues, que Denys pense être aussi celles des Pénates. En revanche, les deux documents semblent concorder à propos d'un autre attribut des Pénates de la Vèlia: ils tiennent des «lances», nous dit Denys, et le relief de l'Ara Pacts nous les montre tenant dans la mains gauche un long bâton. Mais s'agit-il bien d'une lance, comme on l'a très généralement admis, probablement sous l'influence du texte de Denys? La statuette de droite est mutilée dans sa partie supérieure : la tête et la partie de la «lance» qui est au-dessus de la main ont disparu. Mais dans celle de gauche, qui est intacte, rien n'indique que le bâton tenu par le dieu soit précisément une lance. Aussi convient-il de s'inter roger sur la nature de l'objet que les deux dieux tiennent à la main sur
177 Le costume d'Enée, à part le voile sacerdotal qui recouvre sa tête et sur lequel nous nous sommes expliqué plus haut (cf. ci-dessus, p. 283-4) présente une ressemblance frappante avec celui de certaines sculptures grecques classiques, par exemple celui du personnage de droite d'une stèle funéraire du Musée des Beaux-Arts de Moscou (cf. Y. Morisot, A propos de la représentation sculptée des vêtements dans l'art grec, REA, 75, 1974, p. 117-132, pi. VII = H. Diepoler Die Attische Grabereliefs des 5 und 6 Jahr v. Chr., Berlin, 1931, pi. 31). 178 Cf. G. Moretti, Ara Augustae, Rome, 1948, p. 215.
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notre relief, comme sur l'indication de Denys, selon laquelle représentés comme δόρατα διειληφότες. Il nous paraît en effet s'est peut-être trop hâté d'interpréter dans un sens guerrier cet et qu'il convient plutôt d'y voir un bâton de messager, comme δόρατα que Denys mentionne aux mains des dieux de la Vèlia.
ils sont que l'on attribut, dans les
3) Les monnaies de Maxence Un autre témoignage iconographique nous fait penser que la figu ration des Pénates dans le temple de la Vèlia était bien celle de deux jeunes gens assis tenant un long bâton. Nous avons mentionné plus haut les monnaies, conservées à Paris au Cabinet des Médailles, frap pées par Maxence à la mémoire de son fils Romulus, et rappelé la très intéressante interprétation du monument proposée par F. Coarelli : les deux cellae absidiales qui flanquent le monument rond étaient destinées à abriter les statues des Pénates, dont le temple sur les pentes de la Vèlia aurait été démoli lors de la construction de la Basilique de Maxence179. Nous avons vu qu'il y avait certaines variations dans l'ic onographie du monument, suivant les différents exemplaires des monn aies; sur certaines, les niches latérales sont vides, sur d'autres, elles contiennent des bases de statues, sur d'autres enfin, on voit une statue dans chaque niche. Ces statuettes nous montrent deux personnages qui semblent assis (on ne voit cependant pas leur siège), ou du moins appuyés sur quelque chose, car ils ont une jambe assez largement croi sée par-dessus l'autre; ils tiennent à la main un long bâton qu'il n'est pas possible d'identifier plus précisément; l'usure des monnaies et la très petite taille de ces effigies ne permettent pas de voir comment ils sont vêtus, mais ils semblent nus sur l'un des exemplaires; enfin, les deux divinités sont représentées dans des attitudes parfaitement symét riques : celle de gauche tient le bâton dans la main gauche et a la jam begauche croisée par-dessus la droite, celle de droite tient le bâton dans la main droite et a la jambe droite croisée sur la gauche. Il est clair, dès l'abord, que ces représentations offrent avec celles de YAra Pacis, où l'on a voulu reconnaître les statues du Temple de la Vèlia, d'assez notables différences. Ces deux petites effigies n'ont pas la majesté grave, l'attitude un peu raide des statues du relief; elles n'en
179 Roma, p. 87-88; voir supra p. 414-5.
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ont pas non plus les vêtements qui rattachent les deux jeunes gens assis côte à côte dans le petit temple à un monde lointain et surhumain; contrairement à ces derniers, les figurines des monnaies de Maxence sont montrées dissociées, et dans des positions non pas semblables, mais symétriques. Au demeurant, ce dernier détail nous paraît ais ément explicable par des raisons relevant de la composition générale de l'une et l'autre images. Sur les monnaies, les deux statuettes ne sont pas côte à côte, mais encadrent, en quelque sorte, la partie centrale du monument qui, par son volume, est la plus importante, et sert d'axe de symétrie à l'image. Sur l'Ara Pacis, au contraire, les deux statues consti tuent un groupe, et le choix qu'a fait le sculpteur de leur mettre leur long bâton dans la main gauche s'explique par l'orientation du temple, sur le devant duquel ils apparaissent, par rapport à l'ensemble de la scène; en effet, l'édifice n'est pas représenté de face, mais de troisquarts, et ce n'est qu'en leur faisant tenir leur bâton dans la main gau che que l'artiste pouvait éviter qu'une partie du corps des dieux fût cachée par leur bras droit. La rareté des représentations figurées des Pénates publics ne permet pas de faire une étude concluante sur ce point, mais dans la figuration, souvent assez voisine, des Dioscures, les dieux tiennent leur lance dans la même main ou non, et dans la main droite ou gauche, suivant un critère qui semble être essentiellement l'effet de composition de l'ensemble de la scène, ou du groupe qu'ils constituent180. Il existe de grandes parentés entre les statuettes des monnaies et celles de YAra Pacis : le fait que les dieux soient au nombre de deux, qu'ils soient assis, qu'ils tiennent de longs bâtons. Evidem ment,nous ne pouvons affirmer avec certitude qu'il faut reconnaître les statues des Pénates dans le temple de la Vèlia, ni sur le relief, ni sur les monnaies commémoratives de Maxence. Cependant - et le fait nous paraît mériter d'être fortement souligné -, les caractères communs aux deux figurations sont précisément ceux que relève Denys dans sa des cription des Pénates de la Vèlia : deux jeunes gens assis tenant de longs bâtons dont nous avons essayé d'expliquer pourquoi Denys les avait identifiés comme des lances.
180 Cf. F. Chapouthier, Les Dioscures au service d'une déesse, Paris, 1935, p. 22-96 (pour l'iconographie des Dioscures); cf. aussi l'ensemble des monnaies représentant les Dioscures réunies par C. Peyre (op. cit.).
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4) Les attributs des Pénates «troyens» et leur signification Dans sa description des statues cultuelles du sanctuaire de la Vèlia, Denys précise qu'il s'agit des «images des dieux troyens», ce qui impli queune sorte de duplication des Pénates apportés par Enée, puisqu'ils sont donc supposés se trouver à Lavinium et sur la Vèlia. Or, nous croyons181 qu'il faut interpréter les «caducées de fer et de bronze» où Timée, selon Denys d'Halicarnasse, voyait l'image, ou plutôt les attr ibuts des dieux troyens, comme des bâtons de messagers, insignes de dieux itinérants. Ces attributs instaurent une profonde parenté entre les Pénates de Lavinium et ceux de la Vèlia, parenté encore renforcée par le fait qu'il s'agit d'une particularité propre à ces deux seuls cultes : les Pénates n'ont cet insigne ni dans le culte privé, ni dans le sanctuaire de Vesta sur le Forum. Dès lors, l'interprétation du petit édifice figurant sur le relief de YAra Pacis, et, surtout, des statuettes assises sur le devant de ce dernier nous paraît plus facile. Nous avons déjà dit182 que la scène nous paraiss ait se situer à Lavinium, et que nous voyions dans l'édifice une petite chapelle portative. Qui sont les dieux assis sur le devant? Il nous sem ble plausible que ce soient ceux de la Vèlia, mais on peut faire à cette hypothèse deux objections : la première est que, la scène se déroulant à Lavinium, le sculpteur n'avait pas de raison de représenter les Pénates de la Vèlia; la seconde est d'ordre iconographique: les dieux sont représentés sous forme de petites statuettes, à l'échelle de ce templeminiature, alors que les statuettes de la Vèlia devaient avoir au moins la taille humaine. A ces deux objections, on peut répondre en souli gnant, une fois encore, l'absence de réalisme de la scène, qui rend peu gênant de représenter des statues d'une taille plus petite que leur taille véritable, et de montrer à Lavinium des statues conservées à Rome183. La qualification de «troyens» que Denys donne aux dieux de la Vèlia ne justifie-t-elle pas leur présence à Lavinium? Mieux, cette dernière n'est-
181 Supra p. 264 sq. 182 Supra p. 212 sq. 183 Cette amphibologie iconographique ne se trouverait d'ailleurs pas que sur l'Ara Pacis. Nous avons déjà mentionné (supra p. 225-8) les monnaies d'Hadrien et d'Antonin qui représentent Enée débarquant, avec son père sur ses épaules, dans une ville de Lavi nium déjà construite, et où le monument rond figurant à l'arrière-plan est peut-être le sanctuaire de Vesta à Rome (cf. F. Castagnoli, Lavinium I, Rome, 1972, p. 78-79 fig. 80-82 et p. 113-114).
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elle pas une façon de rappeler les origines troyano-lavinates de Rome? A ces raisons idéologiques s'ajoute une justification historique que nous avons rappelée plus haut : c'est au moment où est sculpté le relief qu'Auguste fait restaurer le temple de la Vèlia. Enfin, nous pensons que les représentations des Pénates «troyens» de Lavinium et de la Vèlia étaient assez voisines, ou, au moins, que les divinités de Lavinium, comme celles de Rome, possédaient comme attribut commun un long bâton, insigne des messagers. Ce caractère nous apparaît fondamental dans le rôle assigné aux Pénates «troyens» du culte public. Dans la légende des origines troyennes de Rome, les Pénates jouent un rôle essentiellement symbolique : ils représentent la continuité entre Troie et Rome, dont l'instrument, dans le domaine humain, est Enée. Mais eux-mêmes, malgré leur qualité de dieux, sont finalement les intermédiaires d'une volonté supérieure qui a voulu la renaissance de Troie et la grandeur de Rome, Jupiter ou le Fatum. Cet aspect de la personnalité des Pénates est d'ailleurs confirmé par leur rôle dans l'Enéide; lorsque Hector, mort, apparaît en songe à Enée, il lui déclare : Sacra suosque tibi commendai Troia penatis1*4; La personnification de Troie symbolise ici cette volonté supérieure, dont le transfert des Pénates est l'un des desseins. De même, après l'installation d'Enée et des siens en Crète, par suite d'une erreur d'inter prétation de l'oracle de Délos, les Pénates, à leur tour, apparaissent à Enée pendant son sommeil, pour lui révéler son erreur et sa véritable destination, l'Italie; or, ils se présentent à Enée tout d'abord comme les porte-parole d'Apollon, ou les véridiques interprètes de l'oracle : Quod tibi delato Ortygiam dicturus Apollo est, hic canit et tua nos en ultro ad limina mittit185. Et leur discours se termine par une exhortation à gagner l'Ausonie et à abandonner la Crète, ce en quoi ils se présentent cette fois comme les messagers de Jupiter, ou révèlent ses intentions cachées :
184 II, 293 : «Troie te confie ses choses saintes et ses Pénates» (trad. J. Perret, C.U.F., Paris, 1977). 185 III, 154-155: «Ce qu'Apollon te dira si tu te rends à Ortygie il te l'annonce ici: voici qu'il prend les devants et nous envoie sur ton seuil» (ibid.).
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LES PÉNATES PUBLICS Dictaea negat tibi Iuppiter arua 186.
On peut donc penser que cette mission d'intermédiaire entre les divinités supérieures et les hommes - en l'occurrence Enée - dont sont investis les Pénates, trouve son expression, sur le plan iconographique, dans le long bâton qu'ils tiennent à la main, et qui signifierait que leur présence résulte de la volonté d'une puissance souveraine dont ils sont les messagers. L'attitude pleine de majesté qu'on leur voit sur le relief de Y Ara Pacis est peut-être précisément le reflet de la gravité de la mis sion dont ils sont investis, et l'expression de la toute-puissance de la divinité qui les a envoyés.
IV - Dioscures et Pénates Paradoxalement, c'est en partie à cause de ce type iconographique que les commentateurs anciens, comme Denys d'Halicarnasse, mais aussi des savants modernes ont cru pouvoir affirmer que les Pénates du temple de la Vèlia et les Dioscures étaient confondus. Nous avons montré plus haut187 que la découverte à Lavinium, près d'un des treize autels, d'une inscription du VIe siècle dédiée à Castor et Pollux, avait semblé apporter aux tenants de cette thèse un argument supplémentair e, dans la mesure surtout où l'on identifie le sanctuaire attenant aux autels comme celui des Pénates.
1) La confusion des Pénates et des Dioscures Parmi les critiques modernes, S. Weinstock188, le premier, a propos é, avant même la découverte de la lame de bronze gravé de Lavinium, de reconnaître, dans la description donnée par Denys des dieux de la Vèlia, «les Dioscures, comme ils sont souvent représentés dans les tem ples romains», hypothèse que le savant fonde donc tout d'abord sur des raisons iconographiques : les dieux figurés sous la forme de deux jeu nes gens armés de lances sont Castor et Pollux. Il nous semble toutefois 186 III, 171 : «Jupiter te refuse les champs Dictéens» {ibid.). 187 Cf. supra p. 285 sq. 188 S.u. Penates, in R.E., XIX, 1 col. 449.
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que S. Weinstock ne prend pas assez en compte la position assise des dieux dans ces statues, qui nous paraît pourtant, nous l'avons dit, fon damentale pour leur interprétation. Or, dans la tradition iconographi que des Dioscures, il n'existe, à notre connaissance, aucun exemple où ils soient figurés assis189. La tradition se rapportant à l'introduction de leur culte à Rome190 les présente comme des divinités guerrières: au cours de la guerre opposant les Romains aux Latins, Castor et Pollux, à la suite de vœu du général romain Aulus Postumius de leur consacrer un temple à Rome s'ils viennent au secours des Romains lors de la bataille du lac Régule, ils apparaissent dans les rangs de la cavalerie romaine sur leurs montures; quinze ans plus tard, un temple leur fut consacré sur le Forum191. Dans les statues, comme sur les monnaies, les Dioscures, en souvenir de cet épisode sans doute, sont représentés soit à cheval, soit debout à côté de leurs chevaux, soit encore simplement debout192, attitudes de dieux guerriers bien éloignées de celles des Pénat es.C. Peyre193 note à ce propos : «L'attitude des seconds (= les Pénates) est toujours plus immobile, plus statique, que celle de Castor et Pollux, debout, comme suspendus dans leur marche». Cette difficulté a été relevée par N. Masquelier194 qui propose plusieurs explications pour la résoudre : les lances mises aux mains des Pénates dans les statues de la Vèlia pourraient avoir une signification apotropaïque qui consisterait à faire «éloigner les esprits méchants» du foyer par les divinités chargées de sa protection; ou bien la position assise des Dioscures-Pénates expri merait «la volonté de signifier dans leur rôle une stabilité nouvelle, un élément de calme propre à leur fonction : sauvegarder l'Etat prospère». Disons tout de suite que ces arguments nous paraissent l'un et l'autre peu convaincants. De plus, entre les statues des Pénates sur la Vèlia décrites par Denys et la représentation habituelle des Dioscures, il exis te une autre notable différence : les attributs caractéristiques de Castor et Pollux les plus fréquents, qui même les symbolisent parfois, sont soit
189 Ph. L. Williams, Amykos and the Dioskouroi, AJA, 49, 1945, p. 330-347. 190 Cf. R. Bloch, L'origine du culte des Dioscures à Rome, RPh, 86, 19 60, p. 182-193; id., Tempium Castoris, BSAF, 1980-81, p. 35-47. 191 Cicéron, De Nat. Deor. II, 2, 6; Liv., II, 20, 12; Denys d'Halicarnasse, V, 13. 192 M. Albert, Le culte des Dioscures en Italie, Paris, 1883, p. 18. 193 Op. cit., p. 456. 194 pénates et Dioscures, p. 93.
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l'étoile ou le pileus surmonté d'une étoile, soit l'amphore195; aucun n'est mentionné dans la description de Denys. Pourtant, il est certain qu'il y a eu, dans certains monnayages, une confusion entre Dioscures et Pénates : sur une série de monnaies, émi ses en 103 av. J.-C. environ, par M. Fonteius, on voit les têtes de deux jeunes gens surmontées d'une étoile - attribut qui suffit à faire recon naître les Dioscures -, désignées par les lettres P.P., dont C. Peyre196, après une étude approfondie, conclut avec beaucoup de vraisemblance qu'elles signifient Penates Publici. Il est incontestable que ce monnayag e atteste l'identification des deux groupes de dieux. Encore faut-il mesurer la portée de cette identification. Il est clair que, du point de vue strictement iconographique, il existait entre les deux types de représentations, aussi bien les images en pied que les têtes accolées qui figurent sur les monnaies, des ressemblances certaines qui ont pu faci liter la confusion. Entre la représentation traditionnelle des Dioscures armés d'une lance, avec ou sans leurs chevaux, la monnaie émise en 106 av. J.-C. par Caius Sulpicius et représentant, au droit, les têtes acco lées des Pénates, au revers, deux hommes debout tenant des lances dans la main gauche et désignant de la main droite une truie, couchée entre eux197, et celle des Lares Praestites, représentés, sur la monnaie émise en 112 ou 111 av. J.-C. par L. Caesius198, comme deux hommes assis face à face avec un chien entre eux, et tenant un bâton dans la main gauche, il n'y a guère de différence pour un observateur peu attentif. Cela ne signifie pas, selon nous, que Dioscures, Pénates, et Lares soient confondus, moins encore qu'ils l'aient été dès l'origine, comme l'a soutenu S. Weinstock pour les Dioscures et les Pénates. Si l'on veut comprendre ces images, il faut les étudier, comme l'ont fait C. Peyre199 et A. Alföldi200, replacées dans des séries dont elles représent ent une des variantes. On s'aperçoit alors que la «confusion» entre les différents groupes de divinités n'est en fait qu'une ressemblance, non pas fortuite, mais limitée dans l'espace et dans le temps. La confusion qui a pu se produire à certains moments entre Dios-
195 Peyre, 196 197 198 199 200
R. Chapouthier, Les Dioscures au service d'une déesse, p. 113-114 et 315-316; C. op. cit., p. 443-444. Op. cit., p. 447-450. M. Crawford, Roman Republican Coinage, Cambridge, 1974, n° 312 (pi. XLI). Ibid., n° 298 (pi. XL). Op. cit., passim. Hasta - Summa Imperii, passim.
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cures et Pénates ne se manifeste pas uniquement dans le domaine icono graphique. Comme l'a très bien montré C. Peyre, elle repose sur une commune dénomination de Magni DU, et nous reprenons brièvement ici sa démonstration, qui nous semble tout à fait convaincante201. A propos d'une expression de Virgile, Penatibus et Magnis Dis202, Servius écrit : Varrò quidem unum esse dicit Penates et Magnos Deos; nam et in basi scribebatur MAGNIS DUS. Potest tarnen hoc pro honore dici; nam Dii Magni sunt Iuppiter, Iuno, Minerva, Mercurius, qui Romae colebantur, Penates uero apud Laurolauinium : unde apparet non esse unum. Ce commentaire attribue donc à Varron l'opinion selon laquelle les Pénat es seraient les Grands Dieux, opinion confirmée par l'inscription figu rant sur la base de leurs statues, très probablement dans le temple de la Vèlia, comme nous l'avons vu plus haut. Mais Servius objecte (t arnen) que la désignation de Magni Dii peut être purement honorifique, puisque les Grands Dieux sont Jupiter, Junon, Minerve et Mercure, honorés à Rome alors que les Pénates l'étaient à Lavinium. Daniel a fait, à cet endroit, l'interpolation suivante : id est Varrò et alii complures Magnos Deos adfirmant simulacra duo uirilia, Castoris et Pollucis, in Samothracia ante portam sita, quibus naufragio liberati uota soluebant. Alii Deos Magnos caelum et terram putant ac per hoc Iouem et Iunonem. Dii Penates a Samothracia sublati ab Aenea in Italiani aduecti sunt, unde Samothraces cognati Romanorum esse dicuntur. Quos inter cetera ideo magnos appellant quod . . ,203, et Daniel énumère différentes preuves de la puissance des Pénates et de l'importance de leur culte, notamment à Lavinium. C. Peyre souligne fortement l'importance de ces témoigna-
201 Op. cit., p. 452 sq. 202 Ad Aen. III, 12 (passage auquel se rapportent les commentaires cités ici; mais auss iVIII, 679) : «Varron dit que les Pénates sont identiques aux Grands Dieux; en effet, sur la base de leurs statues était écrit : « Aux Grands Dieux. Mais cette formule peut avoir une valeur honorifique; car les Grands Dieux sont Jupiter, Junon, Minerve et Mercure, qui étaient honorés à Rome alors que les Pénates l'étaient à Lavinium : d'où il ressort qu'ils ne sont pas identiques»; voir supra p. 145-6; 149 sq. 203 Ibid., «C'est-à-dire que Varron et plusieurs autres affirment que les Grands Dieux sont deux statues de jeunes gens, Castor et Pollux, placées à Samothrace devant une port e, à qui ceux qui avaient échappé à un naufrage offraient des vœux. D'autres pensent que les Grands Dieux sont le ciel et la terre, et donc Jupiter et Junon. Les dieux Pénates, arrachés à Samothrace, furent apportés en Italie par Enée; c'est pourquoi on dit que les Samothraciens sont parents des Romains. On les appelle 'Grands' entre autres parce que ... ». On trouvera un commentaire de ces deux citations de Varron chez B. Cardauns, M. Terentius Varrò, Antiquitates Rerum Divinarum, Wiesbaden, 1976, II, p. 220-22.
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ges, attestant «l'existence, dans l'opinion romaine, de deux traditions concurrentes : selon l'une, les Pénates étaient les Grands Dieux, qui étaient eux-mêmes les Dioscures; selon l'autre, le terme de Magni DU n'était qu'une façon d'honorer les Pénates, justifiée par l'importance de leur culte dans la religion romaine, mais qui n'impliquait aucune iden tification avec les authentiques Grands Dieux. Varron aurait été l'un des tenants de la première tradition; ceux de la seconde nous demeur ent inconnus»204. Très ingénieusement, C. Peyre a rapproché de cette opinion, que Servius et Daniel attribuent à Varron, un autre texte de Varron : Terra enim et caelum, ut (Sa) mothracum initia docent, sunt Dei Magni, et hi quos dixi multis nominibus, non quas (S)amo(th)racia ante portas statuii duas uirilis species aeneas Dei Magni, neque, ut uolgus putat, hi Samothraces dii, qui Castor et Pollux, sed hi mas et femina et hi quos Augurum Libri scriptos habent sic «diui potes» pro ilio quod Samot hrace θεοί δυνατοί»205. Ce texte, remarque C. Peyre, se trouve en contradiction avec l'opinion que Servius et Daniel, nous venons de le voir, attribuent à Varron. Ici, en effet, Varron fait état de deux tradi tions concernant la définition des Grands Dieux : l'une, savante, attestée par l'enseignement des mystères de Samothrace et les Livres des Augur es,voit dans les Grands Dieux deux divinités de sexe différent, Terre et Ciel, l'autre, populaire, les identifie avec Castor et Pollux, originaires, eux aussi, de Samothrace. Mais il n'est pas question d'une assimilation des Pénates à l'un ou l'autre groupe de divinités, Grands Dieux - Ciel et Terre, ou Grands Dieux - Dioscures. Toutefois, selon C. Peyre, on peut penser que Varron attribuait à la même opinion populaire l'identifica tion des Pénates comme les Grands Dieux - Ciel et Terre, impossible elle aussi, puisque les Pénates sont des divinités masculines, du moins dans le culte public. Aussi conclut-il : «II semble que la confusion soit venue des mots plutôt que des réalités religieuses elles-mêmes. Dans
204 Op. cit., p. 453. 205 De L.L. V, 58 : «Or le Ciel et la Terre, comme l'enseignent les mystères de Samot hrace, sont les Grands Dieux; je viens de les mentionner sous de nombreuses appella tions;mais ils ne s'identifient pas pour autant avec les Grands Dieux dont Samothrace a placé les deux effigies masculines en bronze devant ses portes. Ils ne sauraient en effet se confondre, malgré l'opinion populaire, avec les dieux de Samothrace en question qui, eux s'identifient avec Castor et Pollux; or ceux dont je parle sont deux divinités, homme et femme, ce sont celles que les Livres des Augures ont enregistrées sous la dénomination diui qui potes pour rendre l'expression de Samothrace θεοί δυνατοί (= les Dieux Puis sants)» (trad. J. Collari, Paris, 1954).
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une perspective savante, théologique dirait-on, les termes de Magni DU, appliqués aux Pénates, ne pouvaient se rapporter qu'à leurs fonctions de toute particulière importance dans le culte romain, mais ne signi fiaient pas qu'ils s'identifiaient aux dieux homonymes de Samothrace. Distinction peut-être trop subtile pour les croyances populaires et pour de nombreux auteurs »... 206. Nous voyons ainsi souligné, très justement nous semble-t-il, le rôle essentiel qu'a dû jouer la dénomination commune de Magni DU dans l'assimilation des Dioscures et des Pénates; cette dénomination, tous les Romains pouvaient la voir sur la base des statues de la Vèlia, dans l'in scription à propos de laquelle R. B. Lloyd207 fait une intéressante remarq ue,en notant que l'inscription mentionnée par Varron chez Servius, Magnis Dis, n'est sans doute pas le texte entier de cette dernière, non plus que l'indication de Denys, selon qui les dieux sont désignés comme les Pénates. Mais les deux indications, de Varron et de Denys, apparais sent complémentaires à R. B. Lloyd; si on les combine, on arrive à un texte si proche de celui de Virgile que l'on peut, selon lui, considérer comme plausible que l'expression employée par le poète soit une repro duction pure et simple du texte de l'inscription, d'autant que la restau ration par Auguste du Temple de la Vèlia avait pu attirer l'attention sur le sanctuaire et les statues qui y étaient conservées. Toutefois, cette hypothèse ne nous paraît pas totalement convaincante; on pourrait penser également que le texte de l'inscription était Penatibus Magnis Dis, texte qui pouvait, lui aussi, se prêter à la confusion entre Pénates et Grands Dieux, mais permettrait de mieux comprendre la remarque de Servius, selon qui l'expression Magnis Dis pourrait être simplement un titre honorifique. Toutefois, quelle qu'ait pu être l'importance des mots Magni DU pour la confusion entre Pénates et Dioscures, il nous semble qu'elle a reposé aussi sur la tradition des origines samothraciennes des deux groupes de dieux et sur les relations qu'ils entretiennent avec la légen de d'Enée, tous points sur lesquels, dans un récent article, R. Schil ling208 a justement attiré l'attention. Etudiant de près les indications fournies par Denys d'Halicarnasse209, R. Schilling note que l'historien
206 207 208 209
Op. cit., p. 454. Penatibus et Magnis Dis, p. 41-42. Penatibus et Magnis Dis, p. 1963-1978. I, 68 et 69; II, 66, I.
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distingue des autres sacra emportés par Enée en Italie les μεγάλοι θεοί, culte apporté en dot par Chrysè à Dardanus, qui l'établit à Samothrace, où l'on en célèbre encore les mystères, puis en Asie, dans les deux cités fondées par Dardanus, Dardania et Troie; à la chute de Troie, les μεγά λοιθεοί furent emportés par Enée en Italie, et constituent une partie des objets sacrés, interdits à la vue des profanes, conservés dans le sanctuaire de Vesta. Enée, dit Denys, a emporté en Italie d'autres sacra interdits aux profanes, que R. Schilling croit pouvoir identifier avec les Pénates, ou πατρφοι θεοί, bien distincts, donc, des μεγάλοι θεοί; or, constate-t-il, à Rome, les faits sont compliqués par l'assimilation des Dioscures aux Grands Dieux; les dieux de la Vèlia, décrits par Denys et figurés sur le relief de l'Ara Pacts, sont en fait «une représentation des Dioscures qui, par suite d'un anachronisme propre à la restauration d'Auguste, n'ont de Pénates que le nom»210. Nous sommes donc en pré sence d'un «enchaînement des assimilations» Pénates - Grands Dieux Dioscures. «Ce confusionnisme», poursuit R. Schilling, «serait découra geant s'il n'apparaissait comme un phénomène largement artificiel, entretenu sinon créé par les glossateurs . . . Tout se -passe comme si l'expression grecque μεγάλοι θεοί, qui avait chez Denys d'Halicarnasse une signification claire avec sa référence d'origine à Samothrace, avait perdu dans la traduction latine sa spécificité et s'était prêtée aux spécu lations les plus fantaisistes». En fait, conclut R. Schilling, dans la prati quecultuelle, les Romains n'ont jamais pu confondre les Pénates avec les Castores honorés dans leur temple du Forum, non plus qu'avec les dieux de la Vèlia, les μεγάλοι θεοί qu'Enée avait apportés de Troie. On notera combien les conclusions de cette étude sont opposées à celles de C. Peyre, à la fois pour l'identification des statuettes de la Vèlia et pour la portée donnée à la confusion Pénates-Dioscures, savante pour R. Schilling, populaire pour C. Peyre. Au demeurant, il nous apparaît que la confusion entre Pénates et Dioscures, à cause d'une commune origine samothracienne, est en fait le résultat de l'assimilation des deux groupes de divinités aux Cabires de Samothrace - les grands Dieux211 -, dont les raisons essentielles sont les suivantes : les Cabires, qui passaient pour avoir à Samothrace un
58).
210 Ibid., p. 1972. 211 Cette confusion apparaît dans le passage de Varron cité plus haut {De L.L. V,
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culte à mystères212, furent transportés par Dardanus à Troie, puis par Enée en Italie : on les confondit donc avec les Pénates. Les Dioscures furent eux aussi confondus avec les Cabires, essentiellement à cause de leur commune fonction de protecteurs des navigateurs213.
2) Les limites de cette confusion II nous semble cependant que cette confusion des Pénates et des Dioscures est relativement tardive - du moins est-elle attestée pour la première fois à la fin du IIe siècle av. J.-C. sur les monnaies de M. Fonteius -, et limitée; nous avons vu quels motifs pouvaient l'expliquer: traits iconographiques communs, commune dénomination de Magni DU. Mais l'élaboration de la légende des origines troyennes et du trans fertdes Pénates par Enée, qui en est le principal acteur, a dû jouer un rôle essentiel dans cette confusion, flottement plutôt qu'assimilation véritable, croyons-nous. En effet, on a, d'une part, les Grands Dieux de Samothrace, dont la légende rapporte à Enée l'introduction en Italie, et que certaines traditions, populaires selon Varron, identifiaient aux Dioscures; et, d'autre part, les Pénates, eux aussi apportés par Enée de Troie en Italie, et nommés, peut-être indépendamment de toute assimi lation aux dieux de Samothrace, Magni DU. Il faut avouer que, dans ces conditions, les distinctions faites par Denys entre différentes sortes de sacra paraissent assez artificielles et fragiles; toute une tradition a sans doute eu tendance à ne pas faire de différence entre les sacra apportés par Enée. Au reste, selon nous, la distinction des Pénates parmi ces der niers n'est probablement pas une donnée primitive de la légende de la venue d'Enée au Latium, mais la conséquence de l'établissement de la légende des origines troyennes214. Si, comme nous le pensons, les Pénat es sont des dieux locaux, spécifiquement latins, protecteurs de la réser ve aux provisions et du bien-être domestique, il n'y a aucune raison de penser qu'ils aient pu être assimilés, dès les origines, aux Dioscures grecs, divinités guerrières. Ces dieux locaux, nous l'avons vu pour Lavinium, ont été insérés dans la légende de la venue d'Enée au Latium215
212 Cf. Kern, s.u. Kabeiros und Kabeiroi, in R.E., X, 2, col. 1424. 213 Ibid., col. 1430; cf. aussi le texte de Varron cité par Servius (Ad Aen. III, 12) que nous avons rappelé ci-dessus; et B. Hemberg, Die Kabiren, Uppsala 1950, passim. 214 Voir ci-dessus p. 316-7. 215 Cf. F. Castagnoli, La leggenda di Enea nel Lazio, StudRom, 30, 1982, p. 10.
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qui les a du même coup ennoblis : ils ont été considérés comme une partie de l'héritage sacré apporté par Enée de Troie, héritage assez vague d'abord, désigné du nom de ίερά, chez Stésichore par exemple. Ces sacra associés au voyage du héros troyen étaient suffisamment imprécis pour prendre place dans d'autres légendes, qui se sont combi néesà celles des errances des fugitifs. C'est ainsi par exemple que les sacra ont connu des spécifications diverses selon les légendes auxquell es ils ont été associés : Grands Dieux de Samothrace, Pénates, Palla dium. De là viennent les flottements et les confusions des traditions les concernant, traditions que Varron, Denys, Servius et son interpolateur Daniel, semblent avoir tenté d'unifier et de rationaliser216. Aussi l'ass imilation des Pénates aux Dioscures nous paraît-elle un effet secondaire de la légende troyenne, conséquence du lien établi entre Enée et les Grands Dieux-Dioscures d'un côté, Enée et les Pénates, de l'autre. Elle ne peut donc pas être antérieure au IVe siècle av. J.-C. D'autre part, nous croyons aussi qu'elle est limitée dans la cons cience religieuse des Romains. C. Peyre, comme R. Schilling, soul ignent qu'il était difficile à un habitant de Rome de confondre deux groupes de divinités dont les temples, sur le Forum même, étaient si clairement distingués. Certes, C. Peyre a bien montré217 par le rappro chement de deux textes de Cicéron, invoquant sur Rome, l'un la pro tection des Pénates, l'autre celle des Dioscures, combien ils étaient proches dans leur rôle de divinités tutélaires. Il n'en reste pas moins que des compétences partiellement communes ne sauraient suffire à établir une confusion entre dieux que séparent leur origine, leur his toire et l'ensemble de leur sphère d'action. De plus, C. Peyre a sans doute raison de remarquer que ce rapprochement, attesté de façon très limitée dans le domaine iconographique, a été rendu possible par la modification proprement romaine de la personnalité des Dioscur es218, qui, de dieux guerriers, sont devenus simplement des protec teursde la ville, rôle qui les rapprochait évidemment des Pénates, en
216 R. Schilling {op. cit., p. 1973) ajustement souligné que ces tentatives apparaissent bien souvent comme des spéculations d'érudits. 217 Op. cit., p. 460. 218 R. Schilling {Les Castores romains à la lumière des traditions indo-européennes, Hommages à G. Dumézil, Coll. Latomus, 45, 1960, p. 186 sq.) a montré comment, dans cette transformation proprement romaine des Dioscures de divinités guerrières en divini tés pacifiques, Castor avait éclipsé son frère au point que le couple des jumeaux était appelé Castores.
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qui il faut certainement voir, comme le dit C. Peyre, les divinités «assimilatrices». Cette confusion a, croyons-nous, été faite par Denys dans la description qu'il nous a laissée des dieux de la Vèlia, et elle lui a fait identifier le long bâton qu'ils tiennent à la main comme une lance. Quant aux autres sanctuaires «anciens» où Denys prétend avoir vu les Pénates figurés comme deux jeunes gens en costume militaire, nous pensons qu'il s'agissait en réalité de temples des Dioscures, puisque l'historien ne fait apparemment pas la distinction entre les deux grou pesde divinités.
V - Histoire du culte de la Vèlia Concernant l'organisation du culte des Pénates sur la Vèlia, aucun texte ne nous fournit le moindre renseignement. Le relief de YAra Pacis offre très probablement une représentation de nos dieux dans le petit temple figuré à gauche, mais on ne peut rien en conclure sur les sacri fices faits aux dieux de la Vèlia. Nous avons déjà souligné le caractère délibérément non réaliste de la scène; si les dieux sont représentés ici sous la forme qu'ils revêtent dans leur temple de la Vèlia, le relief ne les montre pas installés dans ce temple; nous avons cru pouvoir mont rer219 que le petit édifice était un sacellum portatif, sur le devant duquel étaient placées les statues, ce qui n'est possible que dans des circonstances exceptionnelles220 dont témoignent les guirlandes qui dé corent l'édifice. Enfin, il n'est pas certain que l'animal - porc ou truie qu'Enée s'apprête à sacrifier avec l'aide des camilli soit destiné précisé ment aux dieux qui contemplent la scène depuis le devant de leur petit temple : il est possible que, comme chez Virgile, la destinataire soit Junon, et que les dieux de Troie soient seulement les témoins solennels du sacrifice qui marque religieusement l'installation d'Enée en terre italienne221.
219 Voir supra p. 212-3. 220 G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, p. 56 sq. 221 Voir supra p. 214-5.
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1) L'histoire du temple Nous sommes un peu moins ignorants sur l'histoire du temple puisque nous disposons là de quelques points de repère. Tite-Live, ment ionnant une série de prodiges survenus en 167 av. J.-C, écrit : Aedes Penatium in Velia de caelo tacta erat222, preuve que l'édifice date au moins du milieu du IIe siècle. D'autre part, Auguste note dans les Res Gestae223 : Aedem Larum in summa Sacra Via, aedem deum Penatium in Velia . . . feci. On a parfois voulu tirer argument de l'emploi du verbe feci pour dire qu'Auguste avait entièrement reconstruit un temple en ruines. Cela nous semble assez peu probable, car peu conforme aux indications de Denys d'Halicarnasse : νεώς έν 'Ρώμη δείκνυται . . . ύπεροχχί σκοτεινός ιδρυμένος ού μέγας224. De ce passage, F. Castagnoli225 croit pouvoir tirer la conclusion suivante : le temple était petit et assez oublié; le verbe δείκνυται prouve, dit-il, que «le temple ne s'imposait pas par sa célébrité et qu'il était nécessaire d'attirer spécialement l'a ttention sur lui». Il paraît vraisemblable que Denys a vu ce temple avant sa restauration par Auguste, car, sinon, il ne le présenterait pas comme un sanctuaire peu renommé; Auguste a donc dû faire procéder à une restauration, non à une reconstruction complète. Après l'indication des Res Gestae, nous ne savons plus rien de l'histoire du temple, sauf si nous acceptons les hypothèses de F. Coarelli rappelées plus haut : au IVe siècle, au moment où Maxence décide la construction de l'énorme Basilique qui occupe la majeure partie de la colline, il fait démolir le Temple des Pénates qui se trouvait sur une des pentes de la Vèlia, et fait transférer les statues des dieux dans deux cellae absidiales qui flan quent un bâtiment en rotonde, Hérôon de Romulus, ou plutôt, selon F. Coarelli, Temple de Jupiter Stator. Ces deux cellae après la dispari tion des statues, à l'occasion sans doute d'un des nombreux remanie ments postérieurs de l'édifice, sont encore visibles aujourd'hui. On le voit, ces quelques repères chronologiques constituent, en définitive, un dossier bien mince, à la fois à cause du petit nombre des mentions du temple, et du laconisme avec lequel en ont parlé les écri vains qui le citent. Bien que G. Lugli226 affirme que sa fondation est
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XLV, 5. XIX. I, 68, 1 ; cf. supra, p. 400-2. Op. cit., p. 158-159. Roma. Il centro monumentale, p. 226.
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sûrement plus ancienne que la moitié du IIe siècle av. J.-C, nous ne possédons pas le moindre document qui permette de connaître avec certitude tout ou partie de son histoire, et, en particulier, l'origine du culte reste mystérieuse. Aussi allons-nous tenter de reconstituer cette histoire en mettant en relation les différentes traditions ayant trait à la Vèlia et aux Pénates. 2) La Vèlia dans l'histoire des origines de Rome Nous avons déjà vu qu'il existait une tradition qui plaçait sur la Vèlia la maison de Tullus Hostilius; elle est attestée chez Solin : Tullus Hostilius in Velia, ubi postea deum Penatium aedes facta est221; Nonius la mentionne aussi, en l'attribuant à Varron : Tullum Hostilium in Veliis, ubi nunc est aedis deum Penatium22*. La grande ressemblance des deux formulations fait penser qu'il s'agit dans les deux cas d'une citation de Varron229. Mais d'autres faits témoignent d'un lien entre Tullus Hostilius et la Vèlia. Comme le montre clairement le récit de Tite-Live, l'événement essentiel du règne du roi est la guerre contre Albe, avec ses diverses péripéties, et, pour finir, la destruction de la cité; l'épisode des Horaces et des Curiaces, le plus frappant sans doute dans le déroulement des hostilités, se clôt, après le meurtre de sa sœur par Horace triomphant, sur le châtiment infligé au jeune guerrier par son propre père au nom de toute la cité : transmisso per uiam tigillo, capite adoperto uelut sub iugum misit iuuenem. Id hodie quoque publiée semper refectum manet : sororium tigillum uocant230. Or, le Tigillum 227 I, 22. 228 531, 19. 229 II existe une variante au moins à cette tradition, transmise par Tite-Live, selon qui, après la destruction d'Albe et l'agrandissement de Rome consécutif à l'arrivée des Albains, Tullus Hostilius aurait désormais habité sur le Caelius, dès lors rattaché à la ville ; aucune indication n'est donnée sur sa première résidence : Caelius additur urbi mons et, quo frequentius habitaretur, earn sedem Tullus regiae capit ibique habitauit (I, 30, 1). 230 I, 26, 13 : «Le père plaça une poutre en travers de la rue et fit passer son fils la tête voilée sous cette sorte de joug. Cette poutre existe encore et est toujours restaurée par l'Etat. On l'appelle «la Poutre de la Sœur» (trad. G. Baillet, C.U.F., Paris, 1958). Selon G. Dumézil (Heur et malheur du guerrier, 2è éd. Paris, 1985, p. 37), ce rite du passage sous la poutre, ou sous le joug, « rappelle des moyens connus de désacralisation, de transfert d'un monde à l'autre, du retour du surnaturel ou de l'exceptionnel à l'ordinaire et à l'h umain ».
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Sororium231 était voisin du Compitum Acilii et la découverte de ce der nier a permis de le localiser en bordure de la Vèlia232. F. Coarelli233 voit une preuve de l'association faite par les Romains entre la Vèlia et Tullus Hostilius, et plus généralement les rois, dans l'épisode de la tentative faite par Valerius Publicola pour faire bâtir sa maison sur cette colline. La récente découverte d'une inscription datée du VIe siècle sur une pierre de remploi du temple de Mater Matuta à Satricum234, portant probablement la mention du nom de Valerius Publicola, dont elle attesterait ainsi l'existence historique, renforce év idemment cette hypothèse. F. Coarelli pense que l'épisode de la cons truction de la maison de Valerius, l'un des premiers consuls de Rome, sur la Vèlia, est sans doute une illustration du passage des rois aux consuls, passage moins aisé que n'ont voulu le faire croire les annalist es. La légende qui situe sur la Vèlia la maison de Tullus Hostilius se rattache à toute une tradition, selon laquelle les rois auraient habité sur les différentes collines qui entourent le Forum. Solin235 en offre un résumé très clair : Tatius habitait sur YArx à l'emplacement du temple de Iuno Moneta236, Numa d'abord sur le Quirinal, puis dans la Regia proche du sanctuaire de Vesta, Servius Tullius et Tarquin le Superbe sur l'Esquilin. Selon Varron, cité par Nonius237, Ancus Martius aurait habité sur le Palatin, près de la Porta Mugonia, cette dernière indication étant donnée aussi par Solin. G. Lugli238 explique le choix de la Vèlia comme résidence de Tullus Hostilius par le fait que, dans les premiers temps de Rome, cette colline était très proche de la cité palatine, tout en étant à l'extérieur d'elle, et qu'à ce titre, elle constituait un lieu de séjour privilégié pour les rois ou les riches Romains qui voulaient une résidence à l'écart de l'agitation citadine. En fait, il semble que cette tradition soit beaucoup plutôt un
231 Cf. F. Coarelli, Guida archeologica di Roma, p. 194. 232 Cf. E. Nash, op. cit., I p. 290-291 ; F. Castagnoli, Topografia di Roma antica, p. 76. 233 // Foro Romano I : Periodo arcaico, p. 79-82. 234 Lapis Satricanus : Archaelogical, epigraphical, linguistic and historical aspects of the new inscription from Satricum, by C. M. Stibbe, G. Colonna, C. de Simone, H. S. Vesnel, with an introduction by M. Pallottino, Archaelogische Studien van het Nederlands Instituut te Rome, Scripta Minora V, 1980, (notamment p. 13-17; 95-150). 235 I, 21-26. 236 Voir H. Zehnacker, Moneta. Recherches sur l'organisation et l'art des émission monétaires de la République romaine, B.E.F.A.R., 222, Rome, 1973, p. 52. 237 531, 19. 238 / templi dei Lari e dei Penati sulla «Velia», p. 407.
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moyen de rendre compte de l'extension progressive de Rome, ou de l'intégration des différentes collines membres de l'ancien Septimontium dans la cité239. F. Coarelli240 a très bien montré les bouleversements sur venus dans le développement de cette zone au VIIIe siècle. Vers le milieu du siècle, date légendaire de la fondation de Rome, la nécropole du Forum, utilisée depuis le XIe siècle, cesse brusquement de l'être241, tandis que la cité palatine s'impose comme centre essentiel parmi tous les montes avoisinants. Vers la fin du siècle, ou le début du VIIe, ce qui correspond à la date traditionnelle du règne de Tullus Hostilius, la Vèlia a été intégrée à la cité palatine, dans laquelle elle va jouer un rôle considérable242. En l'état actuel de nos connaissances archéologiques, il n'a pas été retrouvé sur la Vèlia de traces d'habitat aussi ancien que sur le Palatin243. Cependant, nous avons déjà noté plus haut que cer tains des cultes implantés sur la Vèlia étaient fort anciens, notamment celui des Argées. Mais nous avons d'autres preuves de l'ancienneté de la constitution de cette cité palatino-vélienne. En effet, pour localiser Subure, Varron écrit : eidem regioni adtributa Sutura, quod sub muro terreo Carinarum2*4. Les Carinae, nous l'avons vu, sont la zone de passa ge entre la Vèlia et l'Esquilin; il y a\^ait donc là, selon Varron, un mur de terre qui délimitait l'enceinte de la ville «ancienne», ensemble formé par la Vèlia et le Palatin. P. De Francisci souligne à fort juste titre que l'emplacement de la Regia, du temple des Lares, et de celui des Pénates, révèle un déplacement du centre de la communauté245, auparavant situé sur le Palatin, ou même le Germai. Un autre fait aussi nous appar aît comme très significatif à cet égard. Dans une liste des populi
239 Sur ce problème, qui a été très largement débattu, voir la mise au point de M. Pallottino, Le origini di Roma, A. N.R.W. , I, 1 p. 33-37. 240 Guida Archeologica di Roma, p. 194-195; id., Il Foro Romano I, p. 24-26. 241 Cf. M. Pallottino, Le origini di Roma, ArchClass 1960, p. 26; P. Romanelli, Certezze e ipotesi sulle origini di Roma, StudRom, 13, 2, 1965, p. 11-12; F. Delpino, Sepolcreti della valle del Foro e tombe del Palatino, in Civiltà del Lazio primitivo, Rome, 1976, p. 103-107; F. Coarelli, Roma, p. 40. 242 Cf. aussi M. Pallottino Le origini di Roma, ArchClass, 12, 1960, p. 9. 243 Ibid., p. 7. 244 De L.L. V, 48; cf. P. De Francisci, Primordia Civitatis, Rome, 1959, p. 483; J. Col lari, Varron, De Lingua Latina V, p. 174. 245 Ibid., p. 482; G. Lugli exprime (// tempio . . ., p. 407) l'opinion contraire : pour lui, la Vèlia aurait été une sorte de banlieue élégante de la cité palatine, appréciée pour son calme.
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Albenses donnée par Pline246 à laquelle M. Pallottino247 pense qu'il faut reconnaître un caractère certain d'authenticité, et qu'il estime dater du milieu du VIIe siècle - époque à laquelle se constitue la cité palatinovélienne -, on lit le nom des Velienses, à côté de celui des Querquetulani, habitants du Querquetual, ancienne dénomination du Caelius248 : c'est donc de la Vèlia que les habitants de la cité tiraient leur nom, ce qui confirme la place centrale de cette colline dans la nouvelle commun auté. L'existence du Tigillum Sororium au pied de la Vèlia nous paraît une autre preuve de l'existence de la cité palatino-vélienne, car il était composé de trois poutres qui formaient comme une porte d'entrée à cette dernière249. Aussi peut-il sembler particulièrement intéressant de noter que la construction du Tigillum Sororium est mise en relation avec le combat des Horaces, et donc le règne de Tullus Hostilius. On arrive ainsi à reconstituer un ensemble assez cohérent : au début du VIIe siècle, la cité palatine annexe la Vèlia qui devient en fait son centre architectural et religieux250; on construit un mur de terre qui fait le tour de la nouvelle cité251, et une porte, qui ne cessera, au moins jusqu'à l'époque de Tite-Live, d'être maintenue en bon état par les deniers publics; avec l'extension de Rome, cette porte perdit sa signification politique pour ne plus garder qu'une valeur religieuse, légendairement liée à l'expiation d'Horace, ce qui explique sans doute qu'on l'ait si so igneusement conservée. Nous sommes donc ici en présence d'une phase bien définie de l'histoire de Rome, avec des fortifications de terre entourant la cité, fortifications qui seront remplacées au VIe siècle par le mur en cappellaccio «de Servius Tullius»252.
246 N.H. III, 69. 247 Le origini di Roma, ArchClass, 12, 1960, p. 27. 248 P. De Francisci, op. cit., p. 429. 249 Cf. F. Coarelli, Guida archeologica di Roma, p. 194. 250 M. Pallottino, op. cit., p. 29-33. 251 Peut-être le ruisseau qui coulait sur la pente ouest de la Vèlia (cf. E. Gjerstadt, Early Rome II, Lund, 1956, p. 17) servait-il de frontière entre cette cité palatino-vélienne et la nécropole du Forum: cf. P. Romanelli, op. cit., p. 11-12; J. Heurgon Rome et la Méditerranée occidentale, p. 85. 252 F. Castagnoli, Roma, in Civiltà del Lazio primitivo, p. 99-101.
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3) Tullus Hostilius, les Pénates et la Vèlia On peut se demander si les indications de Solin et de Nonius citant Varron veulent dire que le Temple des Pénates était situé à l'endroit précis où se trouvait la maison de Tullus Hostilius, ou seulement dans son voisinage; question impossible à résoudre, et qui, d'ailleurs, n'a pas en définitive autant d'importance que la relation ainsi établie, de façon incontestable, entre le temple des dieux et la maison du roi. On sait que les dieux du foyer de l'Etat étaient d'abord ceux du foyer du roi. Le cas est particulièrement net pour le culte de Vesta sur le Forum, dont la tradition attribue l'instauration et l'organisation à Numa253. F. Coarelli254 a justement attiré l'attention sur le fait que les bâtiments de la Regia, dont Solin nous dit qu'ils étaient la demeure de Numa255, sont proches de l'Aedes Vestae, ce qui suggère qu'à l'origine, le culte de Ves taétait celui du foyer du roi; de même, Solin met en relation la maison d'Ancus Martius et le Temple des Lares in summa Sacra Via256. F. Coarelli voit là l'illustration du même processus par lequel les dieux domestiques du roi deviennent ceux de l'Etat; les Lares d'Ancus Mart ius et les Pénates de Tullus Hostilius deviennent, dit-il, des cultes publics, et il note du reste que ces trois cultes du foyer public, Vesta, Pénates et Lares, sont établis dans des bâtiments proches les uns des autres, et proches aussi de la Regia, qui n'est séparée de la Vèlia que par la Via Sacra257. Nous ajouterons qu'il est intéressant de voir deux de ces cultes du foyer public, celui des Lares et celui des Pénates, ment ionnés côte à côte par Auguste dans l'énumération des temples qu'il a restaurés : aedem Lamm in summa Sacra Via, aedem deum Penatium in Velia . . . feci25*; cela peut s'expliquer à la fois par la proximité géogra phique des deux sanctuaires et par la parenté existant entre Lares et Pénates. Nous constatons donc que la tradition établit des relations entre la Vèlia, Tullus Hostilius, et les Pénates vénérés sur cette colline. Poussant plus loin les conclusions que l'on peut en tirer, et rappelant que c'est au règne de Tullus Hostilius que l'on rapporte la destruction d'Albe,
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Liv., I, 20, 3. // Foro Romano I, p. 65 sq. I, 21 : Numa . . . deinde propter aedem Vestae in regia quae adhuc ita appellatur. I, 23 : Ancus Martius in summa Sacra Via, ubi aedes Larum est. Op. cit. p. 57. Res Gestae, XIX.
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F. Zevi259 a proposé de voir dans les Pénates de la Vèlia ceux d'Albe, hypothèse que nous allons à présent étayer de quelques remarques, et dont nous voudrions montrer toute la richesse. Nous avons déjà noté que, chez Tite-Live, le récit de la guerre avec Albe et la destruction de cette dernière après l'échec des tentatives d'al liance ou d'association avec Rome occupe la presque totalité du récit retraçant le règne de Tullus Hostilius : les démêlés avec Albe semblent avoir été l'événement majeur de ce règne, lui avoir donné son caractère essentiel260. De plus, le lien entre Tullus Hostilius et Albe est peut-être confirmé par la localisation du Tigillum Sororium et par les traditions s'y rapportant. D'après Tite-Live en effet, cette sorte de porte, dont nous savons d'autre part qu'elle était située au pied de la Vèlia, avait été placée là par le vieil Horace pour faire passer son fils sous elle, à titre d'expiation du meurtre de sa sœur; le Tigillum Sororium est donc lié, dans cette tradition, à l'épisode central de la rivalité avec Albe, le combat des Horaces et des Curiaces. Ainsi se trouveraient liés Tullus Hostilius, la Vèlia et Albe. Peut-on supposer, en conséquence, qu'il a existé une relation entre Albe et les Pénates de la Vèlia, par l'intermé diaire de Tullus Hostilius qui formerait entre eux une sorte de trait d'union légendaire? S'il est assez aisé de croire que les Pénates de la Vèlia ont pu pas ser pour ceux de Tullus Hostilius, il faudrait encore accepter l'idée que ces derniers étaient aussi ceux d'Albe, ce qui, à première vue, paraît un peu surprenant. En effet, il existe des exemples d'euocatio par les Romains des dieux de l'ennemi ou de procédés divers d'incorporation de ceux-ci à la religion de Rome261; mais jamais on ne voit ainsi annexés des dieux aussi intimes, aussi personnels, aussi symboliques de la patrie que les Pénates; s'approprier les Pénates d'autrui paraît contradictoire dans les termes. Cependant, le cas des relations entre Rome et Albe est
259 // mito di Enea nella documentazione archeologica : communication faite au XIXe Congrès de Tarente, le 9 octobre 1979 (pas encore publiée); id., Note sulla legenda di Enea in Italia, in Gli Etruschi a Roma, Incontro di studio in onore di Massimo Pallottino, Rome, 1981, p. 156-58. 260 Cependant, J. Poucet {Archéologie, tradition et histoire : Les origines et les premiers siècles de Rome, Et Class, 47, 1979, p. 201 sq.) conteste le caractère historique de la des truction d'Albe par Tullus Hostilius, et même l'existence de cette cité, dans un site où il n'y aurait eu, selon lui, que de petits villages; voir A. Grandazzi, La localisation d'Albe, MEFRA, 98, 1986, p. 74. 261 G. Dumézil, La religion romaine archaïque, p. 425-431.
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à mettre à part, cette dernière cité n'étant pas, par rapport à Rome, dans une simple relation d'hostilité, ni même d'altérité. Car, Tite-Live le souligne dès le début de son récit de la guerre avec Albe, Romains et Albains sont, dans une large mesure, semblables, comme peuvent l'être des frères, ou des pères et des fils : Et bellum utrimque summa ope parabatur, ciuili simillimum bello, prope inter parentes natosque, Troianam utramque prolem, cum Lauinium ab Troia, ab Lauinio Alba, ab Albanorum stirpe regum oriundi Romani essent262. La similitude entre les deux peuples est soulignée chez Tite-Live non seulement par le rap pel de la filiation entre Rome et Albe - filiation bien établie désormais par la vulgate de la légende des origines -, mais aussi par le rappel d'une commune origine troyenne, et d'une autre relation de filiation, entre Albe et Lavinium cette fois; la mention de cette filiation ne sert d'ailleurs qu'à expliquer le fait essentiel, le centre de la phrase Troianam utramque prolem. Cette «guerre civile» présente deux phases dans le récit de Tite-Live : après le combat des Horaces et des Curiaces et la victoire d'Horace, un premier traité de paix est conclu entre les deux peuples, donnant évidemment la suprématie à Rome, conformément aux clauses établies conjointement avant le combat par les deux rois. Mais, à la première occasion - la guerre contre Véies -, les Albains se rendent coupables de trahison vis-à-vis de leurs alliés Romains, ce pourquoi Tullus Hostilius décide de détruire la ville et d'accueillir à Rome sa population, considérée non pas comme étrangère, mais com meprofondément parente de celle de Rome, fraternelle, au point que ce transfert est finalement présenté par le roi comme le retour à une unité perdue lors de la fondation de Rome : mihi . . . populum omnem Albanum Romam traducere in animo est . . . unam urbem, unam rempublicam facere; ut ex uno quondam in duos populos diuisa Albana res est, sic nunc in unum redeat263. La fusion des deux peuples prend ainsi l'a llure d'une réconciliation, après une division plus ou moins imposée par le méchant roi Amulius et une trahison dont est seul rendu responsable le dictateur Mettius Fufétius, cruellement châtié. Aussi, dans la mesure
262 I, 23, 1 : Les deux peuples mettent toute leur ardeur à préparer la guerre, vérita ble guerre entre concitoyens, presque entre pères et fils : tous deux étaient d'origine troyenne, puisque Lavinium était sortie de Troie, Albe de Lavinium et Rome de la famille royale d'Albe (trad. G. Baillet, op. cit.). 263 Liv., I, 28, 7: «J'ai pris la résolution de transférer toute la population d'Albe à Rome ... de n'avoir plus qu'une seule ville et un seul Etat. Autrefois, Albe a partagé son peuple en deux; qu'elle reprenne aujourd'hui son unité» (trad. G. Baillet, op. cit.).
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où le transfert des Albains à Rome est présenté comme une réconcilia tion familiale, devient-il possible de supposer que Tullus Hostilius a ramené à Rome les Pénates de la cité pour les installer chez lui, sur la Vèlia; cette installation a dû alors éminemment symboliser la cohésion et l'unité familiale retrouvées. Pourtant, cette version de la guerre avec Albe, où Rome se donne le beau rôle de réunir les frères devenus ennemis, pourrait en réalité recouvrir des faits plus brutaux, et en particulier la violence probable de l'antagonisme qui a dû opposer Rome et Albe à la fin du VIIe siè cle264. Tite-Live, d'ailleurs, ne cherche pas à dissimuler que les «frères albains» ont fort mal pris les retrouvailles familiales, puisqu'ils quittent leur ville en un long cortège pleurant et gémissant. La destruction tota lede tous les bâtiments privés et publics, à l'exception des temples, ne laisse guère de doute non plus sur l'animosité des Romains à l'égard d'Albe, ni sur la peur qu'elle révèle sans doute de voir un jour renaître la cité-mère. Ce qui se lit donc à travers le récit de Tite-Live, c'est une lutte à mort entre deux cités rivales, entre lesquelles la chance a dû longtemps balancer. Au reste, dans la liste des peuples du Latium don née par Pline265 que nous avons mentionnée plus haut, les Velienses, comme les Querquetulani, sont rangés parmi les populi Albenses, déno mination où nous croyons pouvoir lire la marque d'une hégémonie d'Albe sur les peuples environnants, y compris ceux qui composeront plus tard Rome. Au moment où s'effectue la destruction d'Albe, Rome est encore très menacée à l'intérieur même du Latium, comme le mont recet épisode, mais aussi par ses puissants voisins d'Etrurie266. Elle est une petite cité, qui n'a réussi à imposer sa loi qu'à une partie des Sabins : c'est ce qu'illustre l'association de Romulus et de Tatius267. Albe, sa toute proche voisine, a dû très tôt constituer pour elle une 264 Cf. A. Alföldi, Early Rome, p. 236 sq.; selon R. M. Ogilvie {op. cit., p. 105), on peut distinguer dans le récit de Tite-Live trois couches de matériel : d'une part, des éléments légendaires, par exemple la bataille des champions et la mort de Mettius Fufétius, appar tenant à la. tradition indo-européenne et plus anciens que Rome même; ensuite, des él éments historiques qui ont quelques chances d'appartenir au VIF siècle, comme le nom du roi Tullus Hostilius, celui de Fufétius, et la prise d'Albe; enfin, les résultats des recher chesfaites par les Romains pour expliquer, par des éléments légendaire ou historiques des premiers temps de Rome, le nom, autrement inexpliqué, de certains lieux, comme la Fossa Cluilia, ou les Sepulcra Horatiorum et Curiatiorum. 265 N.H. III, 69. 266 Cf. R. Bloch, Les origines de Rome, Paris, 1959, p. 47-58. 267 Cf. M. Pallottino, Le origini di Roma, A.N.R.W., I, 1 p. 40-41.
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menace, et réciproquement; Tite-Live268 mentionne du reste, avant la guerre proprement dite, les nombreuses incursions des Albains dans le territoire romain, des Romains dans le territoire albain. Ce violent antagonisme n'exclut d'ailleurs pas que les deux cités aient été unies par des liens réels. La légende du bon roi Numitor chas sé par son frère, de la naissance et de l'exposition des deux jumeaux Romulus et Rémus, de la fondation et du premier peuplement de Rome, peuvent fort bien refléter un fait historique : le départ de colons albains de la métropole, non pas à proprement parler pour fonder Rome (M. Pallottino269 remarque avec raison que la contemporanéité archéologique entre l'occupation du site du Palatin et celui des Monts Albains exclut à peu près cette vision des choses), mais pour défendre leurs intérêts dans la plaine, et notamment dans la basse vallée du Tibre270, a inévitablement créé des liens entre eux et les habitants de cette région. La parenté entre les deux cités, hautement affirmée par Tullus Hostilius chez Tite-Live, peut donc être en partie une réalité, qui expliquerait l'installation des Pénates d'Albe à Rome. Elle justifierait aussi l'existence de deux temples des Pénates à Rome, ou plutôt de deux sortes de Pénates : les Pénates de la Vèlia, qui seraient ceux d'Albe, transférés à Rome, et ceux de Rome même conservés dans l'Aedes Vestae271. Mais l'hypothèse selon laquelle les dieux de la Vèlia seraient les Pénates d'Albe éclaire aussi d'un jour nouveau le rôle essentiel de nos dieux dans la légende des origines de Rome, car leur histoire permet de voir comment deux traditions ont été superposées, avec un effort manif este pour leur donner une cohérence. En effet, Rome connaît et vénè re aussi comme ses Pénates ceux d'une autre cité-mère, Lavinium272. D'une part, comme nous l'avons vu, les Romains se reconnaissent com medes Enéades, avec Lavinium comme relais entre Troie et Rome, ce qui justifie le culte officiel dont les Pénates «troyens» de cette cité sont l'objet. Mais d'autre part, ils sont aussi les descendants de l'albain Romulus, et Albe est à ce titre leur autre cité-mère : ses Pénates ont donc leur place chez eux après sa destruction. La légende de la filiation
268 269 270 271 272
I, 22. Le origini di Roma, A.N.R.W., I, 1, p. 40. Ibid. Voir ci-dessous p. 453 sq. Voir ci-dessus p. 355 sq.
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LES PÉNATES PUBLICS
entre Lavinium et Albe est pour partie destinée, croyons-nous, à rendre compatibles les deux légendes des origines, de même que la dynastie albaine comble l'hiatus de plusieurs siècles qui sépare Enée et Romul us, les deux fondateurs273. Le sort fait par Rome à ses deux cités-mères est pourtant bien différent : au VIIe siècle, Albe est anéantie, mais ses Pénates, reconnus comme leurs par les Romains, sont transférés à Rome; au IVe siècle, Lavinium bénéficie d'un traitement de faveur lors de l'anéantissement de la Ligue latine, et ses Pénates sont vénérés cha que année par les hauts magistrats de Rome à Lavinium même. Cette différence s'explique, selon nous, par le fait qu'Albe a dû représenter un très grand danger pour Rome, danger qu'elle a voulu conjurer dès qu'elle a pu prendre le dessus dans le conflit qui opposait les deux cités; Lavinium, peut-être en partie dépouillée de son importance politi que274, a sans doute pu être épargnée et honorée sans qu'il en coûtât beaucoup à l'hégémonie romaine sur le Latium. Toutefois, il nous sem ble très significatif du rapport de forces instauré entre Rome et ses deux métropoles que les cultes fédéraux dont Albe et Lavinium étaient le siège soient passés sous le contrôle des Romains, ce qui fait dire à Camille: Uli (= nos ancêtres) sacra quaedam in monte Albano Lauinique nobis facienda tradiderunt275. Au reste, la réprobation qui pèse sur Albe dans la pensée romaine est symboliquement justifiée par la bassesse de deux de ses chefs, Amulius et Mettius Fufétius; ce dernier entraîne la cité dans une trahison qui amène sa destruction. Or ce côté maudit d'Albe s'exprime égale ment, comme nous l'avons souligné déjà, dans une anecdote rapportée par Denys d'Halicarnasse à propos de la fondation de la ville276 : un
273 T. J. Cornell, Aeneas and the twins : the development of the Roman foundation legend, PCPhS, 201, 1975 p.. 1-32; G. D'Anna, // ruolo di Lavinio e di Alba Longa nei primi scrittori Latini, in Problemi di letteratura latina arcaica, Rome, 1976, p. 43-144. 274 Cependant, il n'est pas douteux que Lavinium ait gardé à cette époque tout son prestige comme cité sainte, ainsi qu'en témoignent les réalisations architecturales du temps : transformation de l'hérôon, achèvement de la rangée des autels (cf. supra p. 232; 299). Cela implique d'ailleurs une activité économique importante, l'existence de nom breux artisans et de riches commanditaires, la fortune de ces derniers étant attestée par les bijoux et parures féminines de certaines statues votives : cf. Enea nel Lazio. Archeolo gia e mito, Catalogue de l'Exposition, Rome, 1981, p. 211-269. 275 Liv., V, 52, 8 : «leurs traditions à eux nous obligent à faire des sacrifices sur le Mont Albain et à Lavinium» (trad. G. Baillet, C.U.F., Paris, 1969). 276 I, 67, 1-2; les mêmes événements se trouvent rapportés dans YOrigo Gentis Romanae (17, 2).
LE CULTE DES PÉNATES SUR LA VÈLIA
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groupe de Lavinates, avec Ascagne à leur tête, s'établissent dans cette nouvelle cité, où ils ont bâti un temple pour les Pénates qu'ils transfè rent en grande pompe de Lavinium; mais pendant la nuit, les dieux retournent dans leur sanctuaire primitif; l'événement se produit à deux reprises, après quoi les Albains renoncent à établir chez eux les dieux de Troie. Les Pénates d'Albe sont par conséquent «autochtones». Aussi peut-il paraître surprenant, si nous ne nous trompons pas en pensant que ce sont eux qui occupent le sanctuaire de la Vèlia, que Denys, décrivant les statues de ces dieux, les présente comme des Τρωικοί θεοί277. Cela prouve simplement, croyons-nous, que la légende des origi nestroyennes, et de la triple filiation Troie-Lavinium, Lavinium-Albe, Albe-Rome, était suffisamment bien établie pour quon qualifiât de «troyens» - qualification due à Denys lui-même, mais peut-être inspirée par ses informateurs à Rome - tous les sacra rattachée à la légende des origines, et en particulier les Pénates. Il nous semble donc qu'encore une fois, nos dieux se trouvent liés de très près à la vision qu'a eue Rome de son histoire et de sa légende. Le culte de la Vèlia peut sembler faire double emploi avec celui de Lavinium : l'un et l'autre s'adressent aux Pénates d'une cité-mère. Mais en même temps qu'à la légende de ses origines albaines, c'est à un épi sode crucial de l'histoire de Rome que le culte de la Vèlia fait référenc e, celui d'une lutte à mort avec la puissante cité qui eut longtemps l'hégémonie sur le Latium; l'anéantissement de cette dernière et l'a ppropriation de ses Pénates par les Romains en sont l'aboutissement, que viendra expliquer, et aussi justifier, la légende.
277 i, 68, 1.
CHAPITRE II
LES PÉNATES ET L'AEDES VESTAE SUR LE FORUM
Nous avons vu comment on peut rendre compte de l'existence d'un double culte des Pénates «troyens» par la légende des origines troyano-lavinates de Rome : les Pénates de l'Etat sont honorés à Rome, mais aussi dans la cité-mère, Lavinium. Si l'on accepte de voir dans les Pénates de la Vèlia les dieux d'Albe, la même légende des origines peut justifier leur présence sur cette colline, puisque Rome se reconnaît en fait deux cités-mères : Lavinium, fondée par l'ancêtre de tous les Latins, le troyen Enee, et Albe, d'où Romulus est originair e. Mais il est plus surprenant de voir qu'à Rome même, les témoi gnages des auteurs anciens semblent bien attester qu'à côté du tem ple de la Vèlia, dont ils étaient les dédicataires spécifiques, les Pénat esétaient honorés aussi dans l'Aedes Vestae, sur le Forum, ou du moins, qu'on y vénérait des sacra parmi lesquels, peut-être, se trou vaient les Pénates de l'Etat romain. C'est ce second lieu de culte que nous allons examiner à présent. Nous étudierons d'abord les tradi tions relatives à la nature des sacra du Penus Vestae, dont la défini tionapparaît assez confuse pour que la présence des Pénates en cet endroit ait pu être récemment controversée; nous essaierons ensuite d'éclairer cette définition par une histoire des sacra du sanctuaire de Vesta, ou, plus précisément, par une étude des témoignages concer nantles circonstances historiques à l'occasion desquelles ces sacra sont mentionnés dans la tradition littéraire; enfin, nous voudrions essayer de définir ces sacra-Pénates par la signification que l'on peut donner à leur présence dans l'Aedes Vestae, en montrant que ce mo nument renferme à l'origine le foyer du roi, mais que ces Pénates, les seuls vraiment romains, ont fini par être insérés eux aussi dans la légende des origines troyennes.
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LES PÉNATES PUBLICS I - Les traditions relatives à la présence de sacra DANS L'AEDES VeSTAE
L'Aedes Vestae, telle qu'elle se présente aujourd'hui à nos yeux, est le fruit d'une restauration partielle récente, qui restitue un monument datant, dans sa plus grande partie, de la fin du IIe siècle après J.-C, époque où il fut reconstruit par les soins de Julia Domna, épouse de Septime-Sévère, à la suite de l'incendie de \9\l. Une grande part des fondations et du podium datent de l'époque augustéenne. Bien qu'on ait parfois attribué la fondation de ce sanctuaire à Romulus2, la tradi tion antique l'attribue plutôt à Numa3. Ce monument rond, non orient é, forme un ensemble unitaire avec le bâtiment adjacent de la Domus Vestalium, Maison des Vestales, ensemble que l'on désigne du terme d'Atrium Vestae4.
1) Le Penus Vestae et les sacra A l'intérieur du sanctuaire se trouvait un locus intimus5, le Penus Vestae6, interdit aux profanes, qui contenait des sacra importants et mystérieux7. Malheureusement, il n'y a pas grand secours à attendre de l'archéologie pour éclairer les difficiles problèmes posés par le Penus Vestae et son contenu. On a retrouvé une cavité de forme trapé zoïdale, de 2,50 m de côté et de 5 m de profondeur, à laquelle on ne pouvait accéder que par la cella; on a cru pouvoir l'identifier comme le
1 Cf. A. Preuner, Hestia-Vesta, Tübingen, 1864; H.Jordan, Der Tempel der Vesta, Berlin, 1886; E. Van Deman, The Atrium Vestae, Washington, 1909; S. B. Platner-T. Ashby, A Topographical Dictionary of Ancient Rome, Oxford, 1929, p. 557-59; A. Brelich, Vesta, Zurich, 1949; F. Coarelli, Roma, (Guide archeologiche Laterza), Rome, 1980, p. 80-86; F. Castagnoli, Topografia di Roma antica, Turin, 1980, p. 82. 2 Cf. S. Β. Platner-T. Ashby, op. cit., p. 558; F. Castagnoli, op. cit., p. 82. 3 Plutarque, Numa, 11; Festus, 320 L. 4 Cette signification du terme Atrium Vestae a été contestée : cf. ci-dessous, p. 507 sq. 5 Festus, 296 L. 6 Cf. supra p. 21-2. 7 G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2e éd., Munich, 1912, p. 165 sq. ; G. Radke Die dei pénates und Vesta in Rom, A.N.R.W., Π, 17, 1, Berlin-New- York 1981, p. 358-361.
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Penus8, mais cette identification n'est qu'hypothétique, et il n'y a nulle trace des objets qu'il contenait. L'existence d'un emplacement considéré comme «le saint des saints» à l'intérieur du sanctuaire de Vesta, et appelé Penus Vestae est bien attestée dans la tradition littéraire9. Festus le définit ainsi : Penus uocatur locus intimus in aede Vestae tegetibus saeptus, qui certis diebus circa Vestalia aperitur; i dies religiosi habentur10. Nulle trace, bien év idemment, n'a pu subsister de ces sortes de nattes de paille (tegetibus) qui délimitaient verticalement le Penus à l'intérieur du sanctuaire, et, plus précisément, de la cella, tandis que son tracé sur le sol est peutêtre encore reconnaissable dans la cavité trapézoïdale mentionnée plus haut; il n'est pas certain, toutefois, que cet espace trapézoïdal ait repré senté toute la surface du Penus; peut-être était-il lui-même englobé dans l'enceinte, plus vaste, de ce dernier; Festus parle en un autre endroit an penus exterior, où l'on conservait la mûries11, ce qui suppos erait une distinction entre ce dernier et un penus interior, plus secret, plus saint aussi. Nous savons que la mûries, saumure fabriquée selon des prescriptions très strictes par les Vestales12, était destinée à saler la mola salsa, farine elle aussi préparée par ces prêtresses13, dont on ver sait un peu sur les animaux que l'on s'apprêtait à sacrifier14. Bien qu'aucun texte ancien ne le précise, on est fondé à penser que la mola salsa était également conservée dans le penus exterior : avec la mûries, elle constitue, pour ainsi dire, les ingrédients des sacrifices publics; il paraît donc logique qu'elles soient préparées par les Vestales et conser vées dans le lieu le plus sûr du foyer de l'Etat. Dans cette partie exté rieure du Penus, on gardait probablement aussi les cendres de veaux morts-nés brûlés lors des Fordicidia15, les tiges de fèves, qui, mêlées aux cendres, servaient lors du rituel des Parilia, et peut-être également, selon certains savants - mais ce point de vue est très vivement contesté
8 Cf. Ch. Hülsen, // Foro Romano, Rome, 1905, t. II, p. 179; S. Β. Platner-T. Ashby, op. cit., p. 558; F. Coarelli, op. cit., p. 82. 9 Cf. supra p. 21-2. 10 296 L. 11 152 L : mûries. . . quae est intus in aede Vestae in penu extenore. 12 C. Koch, in R.E., Vili A 2, s.w. Vesta, col. 1730. 13 Cf. G. Dumézil, La Religion romaine archaïque, 2e éd., Paris, 1974, p. 324-25. 14 C. Koch, loc. cit. 15 C. Koch, loc. cit.
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par G. Dumézil16 -, le sang du Cheval d'Octobre. Nous sommes, là encore, en présence d'éléments dotés de valeur religieuse, certes, mais destinés à disparaître et à être remplacés chaque année; loin d'être en eux-mêmes les objets d'un culte, ils servent seulement d'instruments dans la célébration d'un culte; au même titre que la mûries et la mola salsa, ils sont des ingrédients qui ne prennent de sens qu'insérés dans l'ensemble d'un rituel. Que tous aient été conservés à l'abri des regards des profanes dans le Penus du foyer de l'Etat se comprend aisément, de même qu'il est vraisemblable qu'en raison de leur caractère périssable, de leur existence transitoire, ils se trouvaient dans le penus exterior. La présence du feu de Vesta, Yignis perpetuus, dans le penus exte rior a été contestée par S. Weinstock17, qui le situe dans le penus inte rior, probablement en raison de son caractère hautement sacré. A cette hypothèse, C. Koch18 oppose une argumentation assez convaincante; il note tout d'abord que si le feu de Vesta est souvent qualifié de sempiternus ou à'aeternus, il ne l'est jamais d'arcanus; s'appuyant d'autre part sur un texte d'Ovide19, selon lequel, lors des Vestalia, les matrones se rendaient en pèlerinage au sanctuaire de Vesta, C. Koch estime impossible qu'elles n'aient pu apercevoir le feu de Vesta et soutient que, puisque la mola salsa était préparée précisément au moment des Vestalia, il est concevable que les matrones en aient, lors de leur passag e, emporté chacune une petite quantité à l'usage du culte de la déesse dans leur propre foyer. Ajoutons que si nous rapprochons le témoigna ge d'Ovide du premier texte de Festus que nous avons mentionné, nous nous trouvons devant un ensemble de données assez cohérentes : le penus exterior, habituellement fermé aux profanes, s'ouvrait, du moins pour les matrones20, au moment des Vestalia. Bien que l'expression penus interior ne figure, à notre connaissanc e, dans aucun texte ancien, beaucoup de savants l'ont utilisée par com modité, en opposition avec le penus exterior mentionné par Festus, pour désigner le saint des saints, un endroit jamais ouvert aux profa-
16 La religion romaine archaïque, p. 231-4: G.Dumézil présente les textes anciens traitant de ce sujet, les théories d'un certain nombre de savants (H. J. Rose et F. Borner notamment), et propose une explication différente, en affirmant que le sang du Cheval d'Octobre n'a jamais été conservé dans l'Aedes Vestae. 17 R.E., XIX, 1, s.u. Penates, col. 441. 18 Op. cit., col. 1730. 19 Fastes VI, 395 sq. 20 Selon Ovide (Fastes VI, 450), aucun homme n'avait accès au sanctuaire de Vesta.
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nés. Nous ignorons tout des emplacements respectifs du penus interior et du penus exterior; tout au plus pouvons-nous penser que le premier était situé derrière l'autre, de façon à être inaccessible lors même que ce dernier s'ouvrait, au moment des Vestalia. Etait-il seulement consti tué de la cavité trapézoïdale encore visible? Il est impossible d'en rien dire, et supposer, comme le fait S. Weinstock21, qu'il comportait peutêtre une niche où étaient conservés les Pénates est une hypothèse qui ne se fonde que sur une assimilation des usages du culte public à ceux du culte privé, mais qu'aucune donnée archéologique ne confirme. Il semble d'ailleurs que, dans les textes anciens, ce penus interior soit en fait désigné du terme de penetrai, penetrale22, ou de penetralia23, bien que la définition qu'en donne Servius reste assez vague24. Beaucoup de témoignages littéraires attestent la présence dans ce penetrale de mystérieux sacra ; ils sont simplement désignés par ce mot chez Tite-Live25, chez Ovide26, tandis que Pline27 parle de sacra Roman a; chez les auteurs grecs, Denys d'Halicarnasse, lorsqu'il évoque le geste héroïque de Lucius Caecilius Metellus sauvant lors d'un incendie du temple les objets sacrés abandonnés là par les Vestales épouvantées, désigne ces derniers du terme τα ίερά28, de même que Plutarque29. Pourtant, ce même auteur rapporte une tradition, sans mentionner malheureusement ses origines, selon laquelle le temple de Vesta n'au rait rien renfermé d'autre que le feu : καίτοι τινές ουδέν είναι το φρουύπ' ρούμενον αυτών έτερον ή το πυρ άφθιτον ίστορουσι30. Nous avons déjà noté l'imprécision de cette expression de sacra - τα ίερά, désignant les objets apportés par Enée de Troie en Italie, imprécision qui a pu donner matière, chez les Anciens mêmes, à des interprétations diverses; il en va de même pour les sacra du Penus Vestae. Pourtant, nous voudrions montrer que l'affirmation de Tacite, se21 Loc. cit. 22 Liv., XXVI, 27, 14. 23 Hist. Aug., Héliogabale, 6, 6. 24 Ad Aen. III, 12 : nam et ipsum penetrai penus dicitur. 25 V, 40, 7 : quae sacrorum secum ferenda. . . essent consultantes. 26 Fastes VI, 450 : sacra uir intrabo non adeunda uiro. 27 N. H. XXVIII, 7. 28 II, 66, 4. 29 Cam., 20, 5. 30 Cam., 20, 4: «Cependant, quelques écrivains prétendent que celle-ci (= les Vestal es)ne gardent pas autre chose que le feu perpétuel » (trad. R. Flacelière, E. Chambry, M. JUneaux, C.U.F., Paris, 1961).
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Ion laquelle les Pénates du peuple romain se trouvaient dans l'Aedes Vestae31, ne doit pas être mise en doute. Nous croyons en trouver une première preuve, étymologique, pourrait-on dire, dans le nom même du penus, ou du penetrale, où étaient conservés ces sacra, mot dont la parenté avec Penates est soulignée par Cicéron32. A cette raison s'ajout e, nous allons le voir, le fait que certains de ces sacra, le phallus sacré et le Palladium, nommément désignés, ont des liens avec les Pénates qui justifieraient la présence de ces derniers à leurs côtés dans le Penus Vestae. 2) Le phallus On trouve chez Pline l'attestation de la présence d'un phallus dans le sanctuaire de Vesta : quamquam illos religione muta tutatur et fascinus, imperatorum quoque, non solum infantium, custos, qui deus inter sacra Romana a Vestalibus colitur33. Ainsi, le phallus conservé dans le sanctuaire est considéré comme l'un des sacra, et même comme un dieu; d'après cette phrase de Pline, son symbolisme paraît assez clair : la protection qu'il assure aux tout jeunes enfants (infantium) est proba blement en relation avec la force virile fécondante qu'il représente34; s'il veille aussi sur les imperatores , c'est peut-être par une extension de la fonction protectrice précédemment évoquée, peut-être encore parce que le général en chef est en quelque sorte l'une des incarnations de la force virile. La valeur de protection de la fécondité que symbolise la présence de ce phallus dans le Penus Vestae nous paraît ici essentielle. S. Weinstock35 a fort judicieusement rapproché cette notation de Pline,
31 Ann. XV, 41, 1. 32 De Nat. Deor. II, 68 : ... Penates, siue a penu ducto nomine (est enim omne quo uescuntur homines penus) siue ab eo quod penitus insident; ex quo etiam penetrales a poetis uocantur; cf. supra p. 13 sq. 33 N.H. XXVIII, 39 : « Cependant, un phallus aussi les protège de son pouvoir sacré et muet, gardien non seulement des nourrissons, mais aussi des généraux, et qui est honoré comme un dieu par les Vestales parmi les sacra de Rome ». 34 Le lien entre le feu et le pouvoir fécondant est illustré notamment dans le mythe de la naissance de Servius Tullius : cf. J. Champeaux, Fortuna. Le culte de Fortuna à Rome et dans le monde romain, Coll. de l'Ecole Française de Rome, vol. 64, Rome, 1982, p. 29596 et n. 240; le même mythe de la «conception miraculeuse par le feu» se retrouve dans certaines traditions relatives à la naissance de Romulus et Rémus, et du fondateur de Préneste, Caeculus. 35 Op. cit., col. 445.
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isolée et apparemment surprenante, si l'on pense à la nécessaire chastet é des Vestales, d'un texte d'Augustin, citant Varron, à propos de céré monies qui se déroulaient à Lavinium en l'honneur de Liber et pendant lesquelles on honorait un phallus : In oppido autem Lauinio unus Libe ro totus mensis tribuebatur, cuius diebus omnes uerbis flagitiosissimis uterentur, donec illud membrum per forum transuectum esset atque in loco suo quiesceret. Cui membro inhonesto matrem familias honestissimam palam coronam necesse erat imponere. Sic uidelicet Liber deus placandus fuerat pro euentibus seminum, sic ab agris fascinatio repellendo,, ut matrona facere cogeretur in publico, quod nec meretrix, si matronae spectarent, permuti debuit in theatro36. Ces rites, qui suscitent chez Augustin une si grande indignation, sont donc de caractère agraire (pro euentibus seminum, ab agris), destinés à détourner les influences néfas tes et à assurer une heureuse récolte; cependant, le fait qu'ils soient célébrés par une matrone leur donne une portée plus large : ce n'est pas seulement la prospérité agricole qu'ils sont supposés apporter, mais la fécondité en général, végétale, animale et humaine. On est év idemment tenté de mettre en relation ces cérémonies avec la présence d'un phallus dans le sanctuaire de Vesta sur le Forum, étant donné le rôle joué par la matrone dans les rites lavinates d'une part, le fait que le Penus Vestae s'ouvrait pour les matrones aux Vestalia d'autre part37. Toutefois, notons que le texte de Varron, tel que nous l'a transmis Augustin, n'indique pas où était conservé le phallus en dehors des Liberalia ; l'expression in suo loco quiesceret est d'une interprétation délicate en effet, car elle ne permet nullement de préciser quel était ce locus (peut-être un temple, mais il n'est pas certain que ce soit celui de Liber), et on hésite entre deux interprétations : le phallus est-il sorti du
36 De Ciu. Bei VII, 21 : «Dans la cité de Lavinium, un mois tout entier était consacré à Liber, pendant lequel chacun employait les mots les plus orduriers, jusqu'au jour où ce membre était porté à travers le forum et installé au lieu qu'on destinait à son repos. Sur ce membre déshonnête, il fallait que la mère de famille la plus honnête déposât publique ment une couronne. Voilà comment on devait apaiser le dieu Liber pour obtenir l'heu reuse germination des semences, voilà comment on devait détourner des champs les mauvais sorts; il fallait qu'une matrone fût contrainte de faire en un lieu public ce qu'une courtisane même ne devrait pas pouvoir faire au théâtre, si les matrones ri squaient de voir la scène» (Trad. J. Perret, Paris, 1960). 37 Cependant, J. Champeaux (op. cit., p. 404) met les rites lavinates en rapport avec les fêtes romaines de Fortuna Virilis aux calendes d'avril : à la croyance en la vertu fécondante de 1 obscénité à Lavinium correspondrait à Rome l'indécence du «bain cho quant des humiliores et des courtisanes parmi les hommes».
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locus où il est habituellement gardé, promené en procession sur le forum de la cité, puis ramené dans le temple où il est publiquement couronné par une matrone, ou est-il sorti d'un temple (mais lequel?), promené sur le forum, puis déposé en un lieu traditionnellement fixé, sur ce même forum, pour y être couronné en public? Rien ne permet de répondre à ces questions. S. Weinstock va jusqu'à affirmer38 que le phallus de Lavinium a pu être transporté dans le sanctuaire de Vesta à Rome avec les autres sacra lavinates, ce qui ne nous paraît guère plaus ible, aucun témoignage n'attestant le transfert de ces sacra de Lavi nium à Rome. Nous croirions plutôt à l'existence de deux cultes, identi quesmais indépendants, d'un phallus comme symbole de prospérité et de fécondité, dans les deux cités latines. 3) Le Palladium
Parmi les sacra conservés dans le penetrale de ÏAedes Vestae, Rome se vantait de posséder le Palladium, statue d'Athéna supposée venir de Troie39. La première attestation de la présence de cette statue dans le sanctuaire se trouve dans le Pro Scauro de Cicéron, qui date de 54 avant J.-C. : Palladium illud quod quasi pignus nostrae salutis atque imperii custodiis Vestae continetur40. Le passage contient deux indications im portantes : Cicéron y affirme que la statue d'Athéna avait été sauvée des flammes par le Grand Pontife L. Caecilius Metellus lors d'un incen die de l'édifice en 241 avant J.-C, sans préciser la date à laquelle la statue avait pu y être déposée; ce texte indique, en outre, l'importance exceptionnelle que revêtait le Palladium aux yeux des Romains comme garant de la pérennité de leur puissance (pignus nostrae salutis atque imperi), importance qui justifie sa place en ce lieu. La mention de la présence de la statue est attestée ensuite chez Tite-Live, qui la rapporte à une date plus ancienne encore, puisqu'il fait dire à Camille, au moment où il exhorte les Romains à ne pas s'exiler pour s'abriter à Véies lors de l'invasion gauloise de 390 avant J.-C, arguant de l'imposs ibilité d'abandonner les plus saintes institutions de Rome : «Quid de 38 Loc. cit. 39 Cf. L. Ziehen, in R.E., XVIII, 3, s.u. Palladion, col. 182; les différentes traditions antiques relatives au Palladium ont été très clairement présentées par F. Chavannes {De Palladii raptu, Berlin, 1891). 40 48 ; cf. Philippiques XI, 24, à propos de Brutus : qui ita conseruandus est ut illud signum quod, de caelo delapsum, Vestae custodiis continetur : quo saluo, salui sumus.
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aeternis Vestae ignibus signoque quod imperii pignus custodia eius tem pli tenetur loquar?»41. Tite-Live atteste dans un autre passage, en des termes très voisins, la présence du Palladium dans le penetrale au début du IIIe siècle avant J.-C. : en 210, après la prise de Capoue, le romain Quintus Flaccus s'explique devant les Campaniens de la haine qu'il leur voue à titre public : Vestae aedem petitam et aeternos ignés et conditum in penetrali fatale pignus imperi Romani42. Une distinction apparaît ici très clairement faite par Tite-Live entre l'aedes et le penetrale, le sens de ce dernier étant du reste renforcé par conditum, allusion au fait qu'aucun profane ne pouvait y avoir accès; le sens du mot, ainsi que l'emploi de fatale pour désigner le pignus, montre l'importance, déjà notée dans le texte de Cicéron, qu'avait la statue pour les Romains, sou ligne l'énormité du forfait que les Campaniens s'apprêtent à commett re, et justifie les publicas inimicitias que Quintus Flaccus leur voue. On trouve plusieurs mentions de la présence du Palladium dans le sanc tuaire de Vesta chez des auteurs contemporains et postérieurs43, ce qui prouve qu'elle était bien attestée à Rome, mais il faut souligner dès à présent qu'aucun document littéraire ne fait allusion à la présence de la statue à Rome avant le IVe siècle. Encore peut-on remarquer que les textes de Cicéron et de Tite-Live peuvent attester anachroniquement l'existence de la statue aux IIIe et IVe siècles. Nous ne possédons aucune représentation figurée du Palladium, sûrement identifiée, antérieure au règne d'Auguste. E. Paribeni44 a cru pouvoir reconnaître dans la tête assez mutilée d'Athéna trouvée sur le Palatin, appartenant à une statue identifiée par lui comme une œuvre attique du VIe siècle, le fameux Palladium du sanctuaire du Forum. Mais cette suggestion paraît «tout à fait hypothétique» à F. Castagnoli 45, de même que la proposition faite par G. Colonna46 d'identifier comme le Palladium la statuette de terre cuite dont on a découvert la
41 V, 52, 7 : « Faut-il citer le feu éternel de Vesta et la statue, gage de notre puissance, gardée dans son temple?» (trad. G. Baillet, C.U.F., Paris, 1969). 42 XXVI, 27, 14 : «Ils avaient cherché à atteindre le temple de Vesta, son feu éternel, et, caché dans son sanctuaire, le gage donné par le destin à l'empire romain» (trad. E. Lasserre, Paris, 1950). 43 Sénèque, Contr., I, 3, 1 ; Properce, IV, 4, 45; Ovide, Fastes VI, 424-435; Pline, N.H. VII, 45, 141; Lucain, Pharsale 1, 598; Juvénal, Sat. Ill, 139. 44 Una testa di Minerva arcaica del Palatino, BA, 49, 1964, p. 193-198. 45 Ancora sul culto di Minerva a Lavinio, BCAR, 90, 1985, p. 12 n. 32. 46 Naissance de Rome, Catalogue de l'Exposition, Paris, 1977, η. 707.
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tête sur la Vèlia, datable du dernier quart du VIe siècle. Si l'on suit F. Castagnoli, il n'y a donc pas d'attestation iconographique du Pall adium avant le Ier siècle après J.-C. Sous le règne d'Auguste, on voit le Palladium pour la première fois sur la base de Sorrente47 : la statue d'Athéna armée apparaît dans l'e ncadrement de la porte entre les colonnes du sanctuaire de Vesta; enco re faudrait-il avoir la certitude que le relief représente bien YAedes Vestae du Forum, et non un temple de la déesse qu'Auguste aurait fait construire sur le Palatin48, édifice dont l'existence est d'ailleurs discu tée49; G. E. Rizzo50 et M. Guarducci51 pensent que le sanctuaire a bien été bâti par Auguste sur le Palatin, et que c'est lui qui figure sur la base de Sorrente. Posant plus précisément le problème de la présence du Palladium sur le relief, M. Guarducci fait remarquer52 que la statue d'Athéna, tenue hors de portée des regards profanes, n'aurait, selon une tradition rapportée par Hérodien53, été montrée au public pour la première fois qu'à la fin du IIe siècle après J.-C, sous le règne de Com mode, et affirme qu'il ne peut s'agir, sur notre relief, que d'une copie du «vrai» Palladium, celui du sanctuaire du Forum, qu'Auguste aurait fait exécuter pour la placer dans le temple du Palatin. Cette hypothèse permet de rendre compte d'un fait à première vue peu vraisemblable : la représentation figurée, sur le relief, d'une statue que nul ne devait voir. Cependant, ne montrer qu'une copie du Palladium rendait-il possi ble de contourner l'interdit religieux pesant sur lui? La réponse à cette question est d'autant plus délicate que, comme nous le verrons plus loin, une partie de la tradition affirme qu'il a existé très tôt, à Troie même, des copies du Palladium. Après l'époque d'Auguste, on constate la présence de la statue sur des monnaies à partir du règne de Galba54 : elle figure aux côtés d'une représentation de Vesta. Nous avons vu plus
47 G. E. Rizzo, La base di Augusto, BCAR, 60, 1932, p. 7-109. 48 Voir M. Guarducci, Enea e Vesta, MDAI(R), 78, 1976, p. 90 sq., pour un résumé des arguments en faveur de l'identification du monument comme le sanctuaire du Forum d'une part/ celui du Palatin d'autre part. 49 M. Guarducci, op. cit., 89-90. 50 Ibid. 51 Op. cit. p. 90. 52 Op. cit., p. 109 sq. 53 I, 14, 4. 54 H. Mattingly-E. Sydenham, The Roman Imperial Coinage I, Londres, 1923, pi. XV, 265; L. Ziehen, op. cit., col. 200.
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haut55 que, sur une lampe conservée au Musée Kestner de Hanovre, il fallait reconnaître le Palladium dans la statue qui figure aux côtés d'Enée fuyant sa patrie avec son père et son fils56; l'épisode se situe à un moment bien antérieur, dans le déroulement chronologique de la légende, à la construction du sanctuaire du Forum, mais ce monument figure tout de même à l'arrière-plan, à gauche d'Enée qui constitue l'élément central de la scène; le type iconographique du Palladium est conforme aux représentations traditionnelles où Athéna est figurée cas quée et tenant une lance57. Il apparaît donc que, alors que les témoi gnages littéraires font peut-être remonter au IVe siècle la présence du Palladium sur le Forum, les premières images sûrement identifiées de la statue datent, elles, de l'époque d'Auguste, et leur rareté s'explique sans doute en partie par le mystère qui entourait l'ensemble des sacra du sanctuaire de Vesta et l'interdiction faite aux profanes de les voir. Comment rendait-on compte de la présence du Palladium «troyen» à Rome? Elle apparaît généralement liée à la légende de la venue d'Enée en Italie, et en rapport avec la mention de la même statue à Lavinium. C'est Cassius Hemina qui a, le premier dans la tradition litté raire, fait venir le Palladium au Latium58 : Enée le reçoit sur la côte latine des mains de Diomède, dont nous savons, par les citations de Callistratos et Satyros (elles-mêmes inspirées par le poète Arctinos) faites par Denys d'Halicarnasse59, qu'il avait dérobé le Palladium à Troie en compagnie d'Ulysse. Denys, quant à lui, rapporte la tradition selon laquelle Enée aurait en personne apporté la statue en Italie, les deux Grecs n'en ayant dérobé que la copie60. Plutarque, enfin, mentionne une tradition, très répandue selon lui, rapportant à Enée l'introduction en Italie du Palladium conservé dans l'Aedes Vestae61. Toutefois cet épi sode, tel que nous le présentent les traditions antiques, ne va pas sans
55 Cf. supra p. 228. 56 C'est l'interprétation de F. Castagnoli (Lavinium 1, Rome, 1972, p. 114). 57 Selon Servius (Ad Aen. II, 166), le Palladium était caractérisé par la mobilité des yeux et de la lance de la déesse : uerum tarnen agnoscitur hastae oculorumque mobilitate. 58 Apud Solin, II, 14 : Nec omissum sit Aenean. . . ut Hemina tradii. . . in agro Laurenti posuisse castra : ubi. . . a Diomede Palladium suscepit. 59 I, 68-69. 60 II, 66, 5. 61 Cam., 20, 6 : καί πλείστος μεν λόγος κατέχει το Τρωικον έκεΐνο Παλλάδιον άπολεΐσθαι δι' Αινείου κομισθεν εις Ίταλίαν.
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quelques difficultés ni incohérences62. Après son débarquement sur la côte du Latium, Enée fonde Lavinium, dont certains habitants, autour d'Ascagne, fonderont Albe, elle-même cité d'origine de Romulus. Mais il n'y pas de lien direct entre Enée et Rome (rappelons du reste que le Troyen ne reçoit pas de culte dans la cité de Romulus); seul peut-être permettrait d'expliquer la présence du Palladium à Rome l'un des déve loppements grecs de la légende, au Ve siècle, qui fait d'Enée le fonda teurde Rome63 et qui semble n'avoir eu aucun écho en Italie64; telle était, d'après Denys d'Halicarnasse65, l'origine de Rome selon Hellanicos, Damastes de Sigée, et d'autres dont il ne cite pas le nom; pour ces auteurs, le nom de Rome aurait été donné par Enée à la nouvelle cité, et viendrait de celui de Rhomè, l'une des Troyennes, qui aurait joué un rôle décisif dans l'installation des fugitifs en Italie en invitant ses com pagnes à brûler les vaisseaux pour empêcher un nouveau départ et de nouvelles errances. Certaines des traditions concernant les aventures d'Ulysse après la chute de Troie expliqueraient peut-être aussi la mention du Palladium «troyen» à Rome. Selon Hellanicos cité par Denys66, Ulysse accompag nait Enée dans ses voyages «depuis le pays des Molosses», c'est-à-dire l'Epire, jusqu'à Rome. Il est vrai qu'il n'est fait, dans ce passage, aucu ne mention du Palladium, mais il existait chez des écrivains grecs, nous l'avons vu, une tradition rapportant à Ulysse le vol de la statue. Peutêtre est-ce à lui, donc, qu'on attribuait l'introduction du Palladium à Rome; mais cette explication reste largement hypothétique. Il faut souligner toutefois que ces légendes sont des développe ments spécifiquement grecs des aventures des protagonistes de la Guer re de Troie. Il n'existe aucune attestation latine de la venue d'Ulysse en Italie. Quant aux voyages d'Enée, la tradition romaine considère que
62 Pour M. Sordi (Lavinio, Roma e il Palladio, in Politica e religione nel primo scontro tra Roma e l'Oriente, Milan, 1982, p. 65-66), le culte d'Athéna à Lavinium préexiste à l'ar rivée d'Enée, tradition qu'a, du reste, suivie Virgile dans l'Enéide (XII, 477 sq.), puisqu'Amata et d'autres femmes se réfugient aux pieds de la déesse lors de l'arrivée des Troyens. Selon M. Sordi, le culte d'Athéna à Lavinium serait, chez Virgile, anti-troyen et anti-romain. 63 Cf. supra p. 364-5. 64 Contra : T. J. Cornell, Aeneas' arrival in Italy, Liverpool Classical Monthly, 2, 1977, p. 77-83. 65 I, 72, 2. 66 Ibid.
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Lavinium en constitue la dernière étape, et que le héros meurt noyé dans le Numicus, près de la cité qu'il a fondée67. D'autre part, si le transfert des sacra par Enée de Troie en Italie, à l'emplacement de la future Lavinium, est bien attesté dans la tradition littéraire et iconographique68, il n'existe, à notre connaissance, aucune légende selon laquelle tout ou partie de ces sacra aurait été transféré de Lavinium dans une autre cité; une seule tentative (dont nous trouvons la première mention chez Denys69, et, plus tard, dans YOrigo Gentis Romanae70) fut faite pour emporter les Pénates installés par Enée à Lavinium vers Albe, et se solde à deux reprises par un échec, puisque les dieux revinrent de nuit à Lavinium. Cette légende suggère peut-être, d'ailleurs, qu'un interdit pesait sur le déplacement des sacra troyens après leur première installation au Latium. De toute façon, il n'existe pas d'attestation du transfert du Palladium de Lavinium à Rome. L'établissement de la tradition de la présence du Palladium à Rome, qui suppose une duplication de la statue de Lavinium, a dû, tou tefois, être facilité par certains éléments des légendes ayant trait soit aux sacra troyens, soit à la statue elle-même. D'une part, en effet, elle trouve un correspondant exact dans la duplication des Pénates publics de Rome, honorés à la fois à Lavinium et à Rome, et, comme le Palla dium, liés à la légende d'Enée. D'autre part, il semble qu'à la statue de Pallas aient été attachées, dès ses attestations à Troie, des traditions de duplication, voire de multiplication, qui ont pu favoriser le développe ment de la tradition romaine. Ces dernières sont bien évidemment liées au pouvoir magique attribué à la statue de conférer la pérennité à la cité qui la détenait71, et nous sont connues, dans leurs différentes variantes, par Denys d'Halicarnasse, d'après les compilations de Callistratos et de Satyros, elles-mêmes tirées d'un poème d'Arctinos daté du
67 C'est la tradition rapportée par Servius, Ad Aen. VII, 150: nam Numicus ingens ante jluuius fuit, in quo repertum est cadauer Aeneae et consecratum ; cf. supra p. 323-6. 68 Cf. supra p. 161-218. 69 I, 67, 1-2. 70 17, 1. 71 C'est ce qu'exprime l'oracle en vers rendu à Dardanos lorsqu'il quitte Samothrace pour l'Asie avec le Palladium et les images des Grands Dieux, reproduit par Denys (I, 68, 4); G. Dumézil (Ilos, Mon et le Palladium, dans L'oubli de l'homme et l'honneur des dieux, Paris, 1985, p. 38-46) prête au Palladium une signification « trif onctionnelle ».
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VIIIe siècle avant J.-C.72 : le Palladium est un don divin d'Athéna à Dardanos73 et consiste dès l'origine en deux statues, installées à Troie par Dardanos; après la prise de la ville, Enée en aurait emporté une, tandis qu'Ulysse et Diomède auraient volé l'autre. Mais Denys oppose à cette tradition le récit même d'Arctinos, selon qui une seule de ces statues aurait été le véritable Palladium, l'autre n'étant qu'une copie destinée à tromper des voleurs éventuels, et effectivement dérobée par les Grecs74. Enfin, dans l'Antiquité, de nombreuses cités se targuaient de posséder le véritable Palladium75. Ces confusions ont sans doute larg ement facilité l'établissement des traditions romaines concernant la sta tue. De quand date la prétention des Romains à détenir le Palladium? W. Volgraff 76 considère qu'elle se formule au IIIe siècle avant J.-C; pour M. Sordi77, elle s'accompagne nécessairement de la conviction que la statue de Lavinium est un faux : selon elle, la liste, connue par Servius78, des sept pignora imperii - dont le Palladium - possédés par Rome comporte plusieurs couches chronologiques, exprimant l'élargi ssement progressif des ambition romaines de domination; la présence supposée, à Rome, du vrai Palladium, daterait du conflit avec Antiochus, en 192 avant J.-C; L. Ziehen79, à la suite de G. Wissowa, date au contraire les prétentions romaines du temps de Varron. Nous croyons préférable de considérer que la tradition selon laquelle YAedes Vestae du Forum aurait enfermé le Palladium de Troie est intimement lié au rôle assigné par les Romains à Enée, d'une part comme fondateur de Lavinium80, mais surtout comme ancêtre de tous les Latins, légende
72 I, 68, 3; sur Arctinos, voir H. G. Evelyn- White, Hesiod; the Homeric Hymns and Homerica, Loeb Classical Librairy, Londres, 1920, p. XXXI; M. L. West met en doute la valeur du témoignage de Denys, qui est de troisième main (Hesiod, Theogony, Oxford, 1966, p. 432). 73 Selon une tradition rapportée par Varron (chez Servius, Ad Aen. II, 166) et Ovide (Fastes VI, 421), le Palladium était tombé du ciel. 74 I, 69, 2-3. 75 L. Ziehen, op. cit., col. 171-172; E. Paribeni, in E.A.A., V, s.u. Palladio, p. 893-97; G. Pugliese Carratelli, Roma e Magna Grecia prima del secolo quarto a.C, PP, 23, 1968, p. 324 sq. ; F. Castagnoli, op. cit. p. 7. 76 Le Palladium de Rome, BAB, 1938, p. 34 sq. 77 Op. cit., p. 74-77. 78 Ad Aen. VII, 188. 79 Op. cit., col. 183. 80 F. Castagnoli, op. cit., p. 12 n. 32.
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qui donne à Rome l'héritage de Troie. La mention du Palladium dans le sanctuaire du Forum est donc une des conséquences de la légende fai sant d'Enée ancêtre des Romains, et daterait, si nos hypothèses sont exactes81, du milieu du IVe siècle avant J.-C.82. Expression hautement symbolique des liens de filiation unissant Rome à Lavinium et à Troie, cette duplication du Palladium s'explique par le désir de Rome d'être l'héritière des cultes les plus prestigieux de la cité fondée par Enée, et elle a un correspondant exact dans la dupli cation des Penates publici à Lavinium et à Rome. 4) Les Pénates Les Pénates faisaient-ils partie des sacra conservés dans le sanc tuaire de Vesta sur le Forum? Les spéculations des érudits modernes semblent tenir pour certaine une réponse positive83. Au demeurant, comme nous l'avons déjà noté plus haut, les témoignages archéologi ques manquant totalement, nous ne pouvons nous référer qu'à la tradi tionlittéraire; or, chez tous les auteurs anciens, il n'est jamais question que de sacra, ou de Ιερά; le seul qui mentionne explicitement la présen ce des Pénates dans YAedes Vestae est Tacite : delubrum Vestae cum
81 Voir supra p. 339 sq. 82 Au contraire, pour C. Ampolo {Analogie e rapporti fra Atene e Roma arcaica. Osser vazioni sulla Regia, sul Rex sacrorum e sul culto di Vesta, PP, 26, 1971, p. 455), la présence du Palladium au côté de Vesta à Rome et à Lavinium a pour modèle le lien entre Pallas et le foyer sacré à Athènes, et X interpretatio par Rome de ces cultes athéniens date de la fin du VIe siècle (contra F. Castagnoli, op. cit., p. 12 n. 32); d'autre part, la légende de l'intr oduction au Latium du Palladium est parfois liée non à Enée, mais à Ulysse, l'un des auteurs du rapt de la statue et ancêtre, selon Hésiode (Théogonie, v. 1011-1016), d'Agrios et Latinos (cf. G. Dury-Moyaers, Enée et Lavinium. A propos des découvertes archéologi ques récentes, Coll. Latomus, vol. 174, Bruxelles, 1981, p. 40); ces derniers seraient les rois latins de Lavinium et d'Albe (ibid., p. 43 η. 58 et 59), à qui leur père aurait peut-être transmis le Palladium (contra A. Alföldi, Die Struktur des voretruskischen Römerstaates, Heidelberg, 1974, p. 115); l'introduction de la statue en Italie n'aurait été rapportée à Enée qu'au IVe siècle (M. Sordi, op. cit., p. 67; F. Castagnoli, op. cit., p. 11 n. 25). 83 Pourtant, Servius (Ad Aen. VII, 188), expliquant la signification de ancile, écrit : septem fuerunt pignora, quae Imperium Romanum tenent : Faius matris Deum, quadriga fictilis Veientanorum, cineres Orestis, sceptrum Priami, uelum Ilionae, Palladium, ancilia. Le chiffre sept a évidemment une valeur magique ; parmi ces pignora, seuls le sceptre de Priam et le Palladium sont «troyens», et tous ne sont pas gardés dans le sanctuaire de Vesta; pour l'interprétation de ce texte, cf. M. Sordi, op. cit., p. 74-75.
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Penatibus populi Romani exusta84. Soulignant fortement la singularité de ce témoignage, A. Brelich85 a contesté, non la bonne foi de Tacite, mais l'exactitude du renseignement par lui fourni; certes, note-t-il, il s'agit d'une argumentation ex silentio; le fait que seul le témoignage de Tacite nous soit parvenu peut n'être qu'un hasard, mais il est plus curieux de constater que de nombreux auteurs ont mentionné les objets sacrés contenus dans le Penus Vestae, raconté leur histoire, ou tel épiso de de leur histoire, sans jamais les désigner clairement comme les Pénates. Aussi A. Brelich s'efforce-t-il de montrer que le témoignage de Tacite ne peut que refléter une confusion datant de l'époque augustéenne. Résumons brièvement sa démonstration. A l'époque républicaine, le culte des Pénates était bien distinct de celui de Vesta. Ces dieux étaient l'objet d'un culte à Lavinium, où l'on considérait qu'ils avaient été apportés de Troie par Enée. A Rome, ils étaient honorés dans un tem ple à eux spécifiquement dédié, sur la Vèlia, sous une forme qui était celle des Grands Dieux de Samothrace (A. Brelich note au passage que la distinction entre Pénates et Grands Dieux n'a nullement été faite par Varron mais, pour la première fois, au IVe siècle, par Servius86: deux jeunes gens assis armés d'une lance. Aucun lien n'a existé à l'époque républicaine, ni à Lavinium, ni à Rome, entre Vesta et les Pénates. Mais au moment où Auguste, après son accession au pouvoir, se fait cons truire une maison sur le Palatin, et édifie sur cette même colline un sanctuaire à Vesta, ce dernier abrite un foyer qui est à la fois celui d'Auguste et celui de l'Etat; au titre de foyer d'Auguste, on y honore les Pénates de la Gens Iulia, apportés par Enée, selon la légende, de Troie en Italie, ceux de Lavinium donc; ainsi se trouvent pour la première fois associés, selon A. Brelich, Vesta et les Pénates, au foyer d'Auguste devenu celui de l'Etat; les liens attestés par Servius et Macrobe entre ces mêmes divinités à Lavinium, ne sont qu'un reflet de la pratique romaine, datable, donc, au plus tôt, de l'époque augustéenne. Etant donné la confusion dès lors établie entre les cultes, originellement dis tincts, de Vesta et des Pénates, à Rome sur le Palatin, et à Lavinium, il n'est pas surprenant, ajoute-t-il, que Tacite ait pu considérer que le
84 Ann. XV, 41, 1. 85 Vesta, p. 75-85. 86 II faudrait alors admettre, comme le fait C. Peyre (Castor et Pollux et les Pénates pendant la période républicaine, MEFR, 74, 1962, p. 453), que Servius n'est pas fidèle à la doctrine de Varron lorsqu'il écrit (Ad Aen. III, 12) : Varrò quidem unum esse dicit Penates et Magnos Deos. Voir ci-dessus p. 433-7.
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sanctuaire de Vesta sur le Forum abritait, lui aussi, les Penates populi Romani. Telle est, résumée à grands traits, l'argumentation d'A. Brelich, fondée essentiellement sur le silence de la tradition littéraire concer nant la présence des Pénates dans YAedes Vestae à l'époque républicain e, et, d'autre part, sur le caractère unique et la date du témoignage de Tacite. Cependant, il nous semble que la présence, parmi les sacra de YAedes Vestae, du phallus sacré et du Palladium peut être un argument contre la thèse d'A. Brelich. Il est clair, en effet, que l'un et l'autre ont une valeur de talisman : ils sont des gages de fécondité dans un cas, de pérennité dans l'autre; à leur présence est attachée l'existence même de Rome. Or, précisément, dans la légende de la fuite d'Enée emportant ses dieux, dans les pratiques du culte privé, dans l'usage même que font les textes du mot Penates, on voit que ces dieux représentent l'e ssence de la maison, ou de la patrie, qu'ils peuvent désigner par métonym ie. Est-il alors vraiment surprenant qu'ils soient conservés au foyer de l'Etat87? D'autre part, l'analogie avec les faits lavinates - rappelons que le sacrifice des magistrats romains à Lavinium était dédié à Vesta et aux Pénates, ce qui laisse supposer un temple commun88 - a pu jouer en faveur de l'identification comme Pénates des sacra de YAedes Vestae*9. A cette première série d'arguments, nous voudrions à présent en ajouter deux autres, qui tendent, croyons-nous, à établir que les Pénates de l'Etat se trouvaient bien dans le sanctuaire de Vesta antérieurement à l'époque augustéenne. Ce sont, d'abord, les récits qui nous sont parve nusconcernant l'histoire des sacra du sanctuaire, récits qui prouvent, selon nous, des parentés entre eux et les Pénates publics que nous connaissons par ailleurs à Lavinium et sur la Vèlia; d'autre part, la pré sence des Pénates publics dans YAedes Vestae nous paraît s'expliquer par la signification topographique et historique de ce monument dans la Rome archaïque; enfin, la légende des origines troyennes de Rome a pu exercer une certaine influence sur les traditions concernant ce tro isième lieu du culte des Pénates publics. 87 Cf. G. Radke, Die dei pénates und Vesta in Rom, p. 371-72. 88 Voir supra p. 292-8; 355-61. 89 La présence, à Lavinium, d'un culte phallique, ainsi que celle, hypothétique, du Palladium, tout en étant comparables aux faits romains, ne suffisent pas à prouver l'exi stence de Pénates dans YAedes Vestae, dans la mesure où phallus et Palladium semblent avoir reçu à Lavinium un culte indépendant de celui des Pénates.
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LES PÉNATES PUBLICS II - L'histoire des sacra de l'Aedes Vestae
II ne nous est possible de reconstituer une histoire des sacra du sanctuaire de Vesta que par les épisodes, peu nombreux, où ils sont expressément mentionnés. Ils le sont principalement à l'occasion des récits que font historiens ou poètes soit de l'invasion gauloise, soit des incendies qui, à plusieurs reprises, ravagèrent l'édifice : cela les amène à parler de la nécessité de sauver les sacra, et, par conséquent, d'expli querpourquoi ils sont si précieux, et même indispensables à la survie de Rome. 1) L'invasion gauloise de 390 avant J.-C. La présence de sacra particulièrement précieux à l'intérieur du sanctuaire de Vesta est mentionnée pour la première fois à l'occasion de l'invasion gauloise de 390 av. J.-C.90, et de l'émotion suscitée à Rome par l'arrivée des Gaulois dans la ville, après la défaite romaine de l'Al lia. Nous avons de ces événements deux récits détaillés de Tite-Live et Plutarque, et deux mentions rapides, chez Valére Maxime et Florus. A) Le récit de Tite-Live Tite-Live raconte qu'à Rome, devant le danger, on décide de se ras sembler, avec vivres et armes, sur le Capitole, ainsi transformé en une véritable forteresse, où l'on protégerait «les dieux, les hommes, et le nom romain» (deos hominesque et Romanum nomen defendere)91; on prend aussi, ajoute Tite-Live, les dispositions suivantes : flaminem sacerdotesque Vestales sacra publica a caede, ab incendiis procul auferre, nec ante deseri cultum eorum quant non superessent qui colerent92. L'in terprétation qu'il faut donner de ces sacra publica est assez délicate; elle est liée à celle des mots flaminem, sacerdotesque Vestales, leçon choisie par J. Bayet93; d'autres manuscrits donnent f lamines, ou sacer dotesque et Vestales. Le fait que, si l'on accepte flaminem, au singulier,
90 S. Weinstock, R.E., XIX, 1, s.u. Penates, col. 442. 91 V, 39, 9-10. 92 V, 39, 11 : «Le flamine et les prêtresses de Vesta mettraient les objets du culte national à l'abri de la destruction et de l'incendie, on n'abandonnerait pas le culte des dieux, tant qu'il resterait quelqu'un pour l'assurer» (trad. G. Baillet, C.U.F., Paris, 1969). 93 Ibid. p. 64-65 n. 1.
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le prêtre ne soit pas également désigné par le nom du dieu qu'il servait est assez surprenant94, mais J. Bayet justifie le choix de cette leçon par la suite du texte ; nous y reviendrons. La leçon sacerdotesque et Vestales donnerait à entendre que c'est de l'ensemble des prêtres et prêtresses de Rome qu'il s'agit, ce qui rend alors difficilement compréhensible la mention du flaminem : en effet, les leçons flamines d'une part, et Vestal es d'autre part, se trouvent dans des manuscrits différents95. Si l'on accepte, comme le fait J. Bayet, la leçon Vestales, il est permis de pen serque les sacra publica mentionnés sont uniquement ceux du sanctuai re de Vesta, considérés comme les plus saints et les plus importants de Rome, ce qui semble bien confirmé, nous allons le voir, par le récit que fait Tite-Lïve de la suite de l'épisode. Cependant, dans la fin de la phras e, nous croyons pouvoir relever une discordance entre la leçon cultum eorum, choisie par J. Bayet, de préférence à cultum deorum donnée par un manuscrit, et la traduction «le culte des dieux» de G. Baillet. La leçon eorum nous paraît un argument en faveur de notre interpréta tion : l'anaphorique renvoie à sacra publica, et il s'agirait des sacra de l'Aedes Vestae, auxquels est lié le salut de Rome. Du reste, l'ensemble du passage cité, et la suite96, semblent bien marquer une opposition entre les dieux gardés par les Romains sur le Capitole (ceux de la Tria de Capitoline évidemment, mais peut-être d'autres dont on aurait envi sagé de mettre les statues en lieu sûr dans la citadelle ou dans le triple temple du Capitole), et ceux que les prêtres emportent loin de Rome. Dans la suite de son récit, Tite-Live explique que le Capitole étant une colline trop petite pour accueillir l'ensemble de la population de Rome; les plébéiens renoncent à ce refuge et se dirigent vers le Janicu-
94 Habituellement, le nom du flamine est suivi d'un adjectif formé sur le nom du dieu qu'il sert (Dialis, Martialis, etc. . .); G. Dumézil (Flamen-Brahmane, Paris, 1935, p. 4344) note l'étroite dépendance où se trouve ce prêtre par rapport à son dieu, et souscrit entièrement à la définition qu'en donne C. Jullian (in D.A. II, p. 1159 b) : «esclave du dieu dont il est prêtre»; id., La religion romaine archaïque, 2e éd. Paris, 1974, p. 118 sq.; il semble donc naturel que le flamine soit toujours désigné par le nom de son dieu. 95 R. M. Ogilvie (A Commentary on Livy, Books 1-5, Oxford, 1965, p. 722) souligne très clairement les deux problèmes posés par ce passage : qui est ce flamine ? Sacerdotes désigne-t-il les Vestales, ou est-il employé pour distinguer d'elles d'autres collèges de prê tres qui auraient fui en leur compagnie? Le rapprochement avec le passage que nous citons ci-dessous (V, 40, 7) amène R. M. Ogilvie à identifier le flamine comme celui de Quirinus, tandis que les sacerdotes seraient les Vestales, interprétation appuyée sur le commentaire de Weissenborn (Liv., V, Berlin, 1821, ad /oc). 96 V, 39, 2 : si arx Capitolium, sedes deorum. . .
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le, ou encore vers la campagne ou des villes voisines. Il poursuit : Fl amen interim Quirinalis uirginesque Vestales, omissa rerum suarum cura, quae sacrorum secum ferenda, quae, quia uires ad om.nia ferenda deerant, relinquenda essent consultantes, quisue ea locus fideli adseruaturus custodia esset, optimum ducunt condita in doliolis sacello proximo aedibus flaminis Quirinalis, ubi nunc despui religio est, defodere; cetera inter se onere partito ferunt uia quae Sublicio ponte ducit ad Ianiculum. In eo cliuo eas cum L. Albinius de plebe homo conspexisset plaustro coniugem ac liberos auehens inter ceteram turbam quae inutilis bello urbe excedebat, saluo edam turn discrimine diuinarum humanarumque rerum religiosum ratus sacerdotes publicas sacraque populi Romani pedibus ire ferrique, se ac suos in uehiculo conspici, descendere uxorem ac pueros iussit, uirginesque sacraque in plaustrum imposuit et Caere, quo iter sacerdotibus erat, peruexit97. Tel est le récit de Tite-Live, qui, pour détaillé qu'il soit, laisse pla ner beaucoup d'incertitudes sur les points qui nous importent. L'identit é des prêtres qui sont les héros de cet épisode ne nous semble pas sujette à caution, et est clairement indiquée dès les premiers mots : ce sont le flamine de Quirinus et les Vestales, qui vont tous jusqu'à Caeré; car si Tite-Live indique bien que seules les Vestales montent dans le chariot qui emporte vers Caeré Lucius Albinius et sa famille (eas cum conspexisset, sacerdotes publicas, uirgines), c'est sans doute parce que cet homme, présenté comme un modèle de respect et de piété, juge scandaleux, non pas que des femmes aillent à pied (il fait descendre du chariot non seulement ses enfants, mais sa propre épouse pour faire place aux Vestales), mais qu'aillent à pied les femmes chargées du plus
97 V, 40, 7-10 : «Cependant, le flamine de Quirinus et les Vestales, sans songer à euxmêmes, se demandent quels objets sacrés ils doivent prendre avec eux, lesquels il faut laisser faute de pouvoir tout emporter, et dans quelle cachette fidèle ils les mettront en sûreté. Le mieux, pensent-ils, est de les enfermer dans des jarres, et de les enterrer dans une chapelle voisine de la maison du flamine de Quirinus, à l'endroit où aujourd'hui encore il est sacrilège de cracher. Quant aux autres objets, ils se partagent entre eux le fardeau et les emportent par la route qui mène au Janicule par le pont Sublicius. Les prêtresses montaient la côte quand un homme de la plèbe, Lucius Albinius, les aperçut. Il emmenait sur un chariot sa femme et ses enfants parmi toute la foule des non-combatt ants qui évacuait Rome, Sachant même en un pareil moment faire une différence entre les choses divines et les choses humaines, et se faisant scrupule de voir à pied des prê tresses de l'Etat avec les objets sacrés du peuple romain tandis que sa famille était en voiture, il fit descendre sa femme et ses enfants, installa sur son chariot les Vestales et les objets sacrés et les conduisit à Caeré, où les prêtres se rendaient» (op. cit.).
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prestigieux sacerdoce de Rome, parce qu'il exige un dévouement de toute la personne qui revêt cette charge à la divinité. Il est probable, au demeurant, qu'une fois les Vestales installées sur le chariot de Lucius Albinius, le flamine de Quirinus continue de les escorter, à pied, com me le suggère très bien, à la fin de notre passage, la traduction «les prêtres» que donne G. Baillet pour sacerdotibus. Il faut encore expli quer la présence du flamine de Quirinus aux côtés des Vestales pen dant tout cet épisode, et nous pensons que c'est de lui qu'il était ques tion dans le passage précédent (flaminem sacerdotesque Vestales), beau coup plus probablement que du flamine de Jupiter, bien que l'absence de l'adjectif Dialis ait pu suggérer cette dernière interprétation à J. Bayet98, et que le flamine de Jupiter soit en effet le premier dans l'ordre hiérarchique. Au demeurant, il n'existe, à notre connaissance, aucun lien rel igieux particulier entre le flamen Dialis et les Vestales, ces dernières étant seulement placées sous la dépendance du Pontifex Maximus, qui les «prend» et veille sur elles". Pour quelle raison les prêtresses sontelles ici liées au flamine de Quirinus, ou du moins, agissent-elles de concert avec lui? Au cours de l'une des trois cérémonies où nous savons que le flamine de Quirinus jouait un rôle100, il n'apparaît associé aux Vestales que lors de la fête du blé engrangé, les Consualia. Com ment justifier, dès lors, son intervention aux côtés des Vestales au moment de l'invasion gauloise? Une explication nous paraît possible : Quirinus «veille à la subsistance, au bien-être, à la durée de cette (= des Romains) masse sociale», laissant la «superstructure idéologique» à Jupiter et Mars101. Peut-être, en des circonstances aussi dramatiques, est-ce au prêtre de cette divinité protectrice que l'on a confié la survie toute matérielle des sacra populi Romani du sanctuaire de Vesta102.
98 Op. cit., p. 64-65, n. 1 ; J. Bayet renvoie à Liv., V, 52, 13-14; mais dans le passage en question, il n'est pas réellement établi de lien entre les Vestales et le flamine de Jupiter : Tite-Live se contente de les présenter comme les prêtres les plus prestigieux de Rome, et flamen employé seul (§ 14) renvoie évidemment au flamen Dialis mentionné quelques lignes plus haut (§ 13). 99 Voir G. Dumézil, «.Te, amata, capto», Quinze Questions Romaines, Dans Mariages Indo- Européens, Paris, 1979, p. 241-243. 100 Cf. G. Dumézil, La religion romaine archaïque, p. 168-172. 101 G. Dumézil, op. cit., p. 257. 102 II est possible, également, que la tradition rapportée par Tite-Live s'explique par l'identification du fondateur, Romulus, à Quirinus, dont le prêtre interviendrait ici pour sauver la ville dans ce qu'elle a de plus sacré ; mais la datation de cette identification fait
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Reste à définir plus précisément ces sacra, pour lesquels deux interprétations sont possibles: ou bien, comme le propose J. Bayet103, on considère qu'il s'agit de l'ensemble des «fétiches» de Rome, toutes les reliques et les objets auxquels était attaché un pouvoir magique, ou bien on ne voit dans les sacra publica dont parle Tite-Live sans autre précision que ceux de l'Aedes Vestae. Il est évident que les mots em ployés par l'historien laissent flotter une incertitude autour des objets en question, évident aussi que l'interprétation que l'on donne de ces sacra dépend en partie de celle que l'on donne de l'identité des prêtres qui ont été les agents effectifs de leur sauvetage, aidés par le plébéien Lucius Albinius. On peut, bien sûr, objecter à l'interprétation la plus étroite des sacra comme ceux du Penus Vestae, qu'il n'est pas exclu que les Vestales, dont le collège, parmi tous les sacerdoces de Rome, était le plus vénéré et le plus considéré, aient pu s'occuper aussi d'autres sacra que ceux que renfermait le sanctuaire de la déesse au service de laquell e elles étaient consacrées. D'autre part, des objets sacrés, les ancilia, étaient conservés dans le sacrarium de Mars à l'intérieur de la Regia 104, bâtiment situé tout à côté de l'Aedes Vestae et de la Maison des Vestales, et dont nous verrons qu'il était lié très étroitement à l'ensemble consti tuant l'Atrium Vestae, ce qui pourrait expliquer l'intervention des prê tresses. Tite-Live donne une autre précision qui, loin d'aider à résoudre le problème de l'identité des sacra emportés par les prêtres, ajoute à sa confusion. Les Vestales et le flamine, nous dit-il, renoncent à emporter dans leur fuite tous les sacra, trop encombrants (quia uires ad omnia
problème : cf. G. Dumézil (op. cit., p. 260) qui, refusant de la considérer comme une fable répandue par la Gens Iulia, à des fins de propagande politique, au Ier siècle av. J.-C, estime qu'elle peut dater «du temps même où les légendes sur les origines de Rome rece vaient leur forme définitive»; pour R. M. Ogilvie (op. cit., p. 724), la seule circonstance où les Vestales et le flamine de Quirinus apparaissent conjointement est la fête des Consualia, et le point commun entre elle et le sauvetage des sacra servait peut-être, pense-t-il, le suivant : Consus étant le dieu de l'emmagasinage, il serait naturel que son flamine partici pe à celui des sacra; de plus, les Consualia sont une «fête sabine», et Quirinus était le dieu de la communauté sabine du Quirinal avant son identification avec Romulus; selon F. Coarelli, au contraire (Foro Romano I : Periodo arcaico, Rome, 1983, p. 284), les cultes auxquels est attaché le Flamen Quirinalis ont un caractère chthonien et funéraire, et notamment les Consualia. 103 Op. cit., p. 66 η. 1. 104 Servius, Ad Aen. Vili, 663; voir U. Scholz, Studien zum altitalische und altrömis chen Marskult und Marsmythos, Heidelberg, 1970, p. 26-29.
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ferenda deerant); aussi en font-ils deux parts, dont l'une, laissée à Rome, est cachée dans des jarres enfouies dans une chapelle proche de la maison du flamine de Quirinus (optimum ducunt condita in doliolis sacello proximo aedibus flaminis Quirinalis. . . defodere), l'autre effect ivement emportée par eux. Quel fut le critère du choix? Emportèrent-ils les moins encombrants, les plus précieux? Tite-Live ne nous en dit rien, ce qui laisse supposer que la tradition était assez confuse sur ce point, et nous croyons pouvoir saisir, à travers le récit que nous a livré l'histo rien,les traces de pratiques religieuses très anciennes dans l'anecdote de l'enfouissement des sacra105. Tite-Live précise que le lieu où ils furent enterrés est resté entouré d'interdits religieux : nunc despui reli gio est. Or, sur ce lieu-dit Doliola, Varron nous rapporte une autre tradi tion: Locus qui uocatur Doliola ad Cluacam Maximam, ubi non licet despuere, a doliolis sub terra. Eorum duae historiae, quod alii inesse aiunt ossa cadauerum, alii Numae Pompila religiosa quaedam post mortem eius infossa106; cette notice n'a de commun avec le récit de Tite-Live que l'interdiction religieuse de cracher en ce lieu; elle localise les Doliola près de la Cloaca Maxima, sans plus de précision, tandis que Tite-Live les plaçait près de l'Aedes flaminis Quirinalis, dont l'emplacement ne nous est pas autrement connu. Aussi G. Lugli107 se fonde-t-il sur la
105 J. Gagé (Le chariot d'Albinius et le transfert des sacra au temps de l'invasion gauloi se à Rome, in Enquêtes sur les structures sociales et religieuses de la Rome primitive, Coll. Latomus, vol. 152, Bruxelles, 1977, p. 520-545) donne de l'épisode une interprétation qui tend à abolir cette distinction ; en effet, relevant le rapport établi par les Anciens entre les mots Caere et caerimonia, il suppose que la ville est à l'origine de cette pratique, mal connue, et consistant sans doute, selon lui, en «une demi-exibition aux fidèles de symbol es divins d'ordinaire invisibles» (p. 533), d'origine pélasge, et exprimant, dans le fait de promener ces symboles , « le souvenir et le respect essentiel du mouvement de migration » (p. 534), caractéristiques de ces peuples; J. Gagé fait enfin remarquer que les sacra qui furent transportés et ceux qui furent enfouis sont sans doute les mêmes : « La caerimonia d'Albinius aurait compris, selon nous, le placement et la promenade de symboles très sacrés sur un chariot sans valeur officielle, mais probablement aussi le dépôt scrupuleux de ces symboles au terme de l'itinéraire, en les faisant descendre du chariot pour leur assigner un lieu où ils seraient inviolables et invisibles» (p. 537). 106 De L.L. V, 157 : «Le lieu que l'on appelle Doliola, situé près de la Cloaca Maxima, et où il est interdit de cracher, tire son nom de jarres enfouies sous terre. Il existe deux traditions concernant ces dernières, puisque les uns disent qu'elles contiennent des os de morts, les autres des objets sacrés ayant appartenu à Numa, enfouis là après sa mort». 107 / monumenti minori del Foro Romano, Rome, 1947, p. 101-110; E. Nash, Pictorial Dictionary of Ancient Rome, Tübingen, 1962, p. 305-6.
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proximité des Doliola avec la Cloaca Maxima pour les localiser au Forum Boarium, où des traces de l'égout sont visibles. Cette hypothèse, qui impliquerait que YAedes Flaminis Quirinalts y fût située aussi, pré sente l'inconvénient, justement souligné par F. Coarelli108, de placer les Doliola en un lieu assez éloigné du sanctuaire de Vesta, rendant ainsi difficilement explicable que les Vestales le choisissent pour y transport er les sacra. Au contraire, la localisation proposée par F. Coarelli, en plein Forum, sur l'emplacement ensuite occupé par YEquus Domitiani 109, a le mérite de ne pas susciter semblable objection, de se trouver à proximité d'une section de la Cloaca Maxima, et de suggérer une locali sation de YAedes Flaminis Quirinalts, sur le Forum, qui paraît compatib le avec ce que nous savons d'autre part des fonctions de ce prêtre110. L'autre tradition dont Varron se fait l'écho ici n'est pas moins inté ressante, puisque, recoupant dans une certaine mesure ce que dit TiteLive, elle affirme que les Doliola auraient été liés au souvenir d'objets sacrés (religiosa quaedam) ayant appartenu à Numa. Or, si l'on se rap pelle que la construction de YAedes Vestae est attribuée au même Numa111, cela plaide en faveur d'une identification des sacra dont le sauvetage est évoqué ici avec ceux du temple de Vesta. Festus explique le nom du lieu-dit Doliola d'une façon semblable à Tite-Live, mais avec moins de précision : Doliola locus in Urbe sic uocatus quia inuadentibus Gallis Senonibus sacra in eodem loco doliolis reposita fuerunt112; les ci rconstances historiques sont les mêmes que chez l'historien, mais il n'est pas question de l'autre partie des sacra, transportés à Caeré. Le seul point commun à toutes les traditions concernant ces jarres et le lieu où elles furent enfouies est le caractère sacré des objets qu'elles conte naient, caractère qui se manifeste par l'interdiction religieuse de cra cher en cet endroit. Malgré tout, la définition de ces sacra, ou religiosa, reste fort vague, ce qui n'est peut-être pas surprenant pour des objets mystérieux, invisi-
108 Op. cit., p. 284. 109 Op. cit., p. 286. 110 F. Coarelli (op. cit., p. 284) note à ce propos que les maisons des f lamines majeurs ne devaient pas être trop éloignées de la Regia, demeure du rex dont ils étaient les pro ches collaborateurs dans ses activités religieuses. 111 Plutarque, Numa, 11 ; Festus, 320 L. 112 60 L. : «Doliola est un endroit de la ville qui tire son nom du fait que, lors de l'invasion des Gaulois Senons, les sacra furent déposés dans des jarres (doliolis) en ce même lieu».
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bles. On a l'impression que Tite-Live rapporte à des événements précis, l'invasion gauloise de 390 avant J.-C. et le transfert des sacra, la légende attachée au lieu-dit Doliola, que d'autres témoignages, que nous connaissons par Varron, rapportaient à des événements différents, bien antérieurs. Au demeurant, la confrontation des textes de Tite-Live et de Varron n'éclaire pas vraiment la question de la définition des sacra sau vés en 390. S. Weinstock113 a cru*· pouvoir déduire du récit de Tite-Live une confirmation de sa théorie d'un double culte des Pénates-Dioscures à Rome et à Lavinium; rappelons rapidement l'essentiel de sa démonstrat ion : à Rome, les Pénates sont honorés sur la Vèlia sous une forme qui, telle que nous la voyons représentée sur le relief de l'Ara Pacts, est iden tique à celle des Dioscures, avec qui ils sont confondus; pour Lavinium, Timée fait état d'un culte des Pénates sous forme de κέραμος Τρωικός; or, le récit de Tite-Live nous apprend que les sacra des Pénates conser vés dans le Penus Vestae furent à cette occasion placés dans des doliola, qui, selon S. Weinstock, sont l'exact correspondant de la «poterie troyenne» mentionnée par Timée. Nous avons déjà dit114 que la conclu sion de S. Weinstock, pour qui Pénates et Dioscures sont dès l'origine les mêmes divinités, nous paraissait difficilement acceptable; sur le point précis des Doliola, son argumentation n'est pas convaincante, car d'une part, il ne met nullement en doute l'équation sacra du Penus Ves tae = Pénates; d'autre part, dire, comme le fait Tite-Live, que les sacra ont été cachés dans des doliola, ne signifie nullement qu'ils sont ces doliola. Aussi nous semble-t-il impossible d'arguer du texte de Tite-Live pour affirmer que les sacra étaient les doliola, donc les Dioscures-Pénates115.
113 Two archaic inscriptions from Latium, JRS, 50, 1960, p. 112-114. 114 Voir supra p. 431 sq. 115 La suite du récit de Tite-Live évoque la résistance des Romains lors de l'assaut des Gaulois vers le Capitole, l'échec de cette tentative, l'organisation de la résistance romaine par ceux qui avaient fui à Ardée et à Véies, autour de Camille, lui-même exilé à Ardée par Rome; ce dernier est nommé dictateur, et, grâce à lui, les Romains parviennent, malgré leur épuisement, à mettre en fuite les Gaulois, puis il les convainc de ne pas abandonner leur ville, presque entièrement détruite, pour s'installer à Véies, mais, au contraire, de rebâtir les édifices privés et publics ; et il fait dire par un sénatus-consulte : cum Caeretibus hospitium publice fieret, quod sacra populi Romani ac sacerdotes recepissent beneficioque eius populi non intermissus honos deum immortalium esset (V, 50, 3). Les mot sacra populi Romani ac sacerdotes reprennent exactement les termes employés plus haut, et ne nous éclairent donc pas; en revanche honos deum immortalium tendrait à nous faire
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F. Coarelli a récemment proposé116 une hypothèse nouvelle sur la nature des objets enfouis au lieu dit Doliola. Selon lui, les fouilles faites sur le Forum à YEquus Domitiani montrent que sous le socle de la sta tue se trouvait un petit édifice, probablement un temple, dans les restes duquel se voient des cavités qui semblent avoir été originellement fe rmées par des couvercles, véritables «châsses» destinées à renfermer des objets sacrés particulièrement précieux; l'une d'elles a même conservé son contenu, cinq vases archaïques datables du second quart du VIIe siècle av. J.-C. Ces vases semblent avoir constitué l'originalité spécifique du sanctuaire, qui peut être identifié comme les Doliola. On a découvert, aux abords de l'édifice, les squelettes d'un couple sans doute enterré vivant, ce que F. Coarelli rapproche de la pratique de l'ensevelissement d'un couple de Grecs et d'un couple de Gaulois au Forum Boarium117, mais aussi du supplice de la Vestale fautive. On retrouverait ainsi le caractère funéraire attaché à ce lieu, déjà noté par le savant italien à propos de la présence du Flamen Quirinalis lors de cérémonies à signification chthonienne. Le supplice de la Vestale, en fin, enfermée vivante dans une chambre souterraine avec des provi sions118, sans doute contenues dans des vases, suggère à F. Coarelli d'in terpréter le matériel découvert dans la cavité du petit édifice comme les récipients où l'on déposait les vivres destinés aux suppliciés, rel igieusement conservés jusqu'à l'époque impériale qui n'en connaissait d'ailleurs plus la signification. Bien que la brillante démonstration de F. Coarelli ne soit pas par faitement explicite sur ce point, il semble que, pour lui, soient assimilés à ces vases les objets sacrés relatifs au culte de Vesta et des Pénates,
donner un sens large à sacra, car il est assez peu probable que ce terme désigne seul ement Vesta et les Pénates, et non l'ensemble des dieux du Forum dont les sacra auraient été emportés par les prêtres ; la suite du texte appuie cette hypothèse : on y apprend que Jupiter, loin de devoir partir pour l'exil, a protégé le Capitole où est édifié son temple : quod Iuppiter Optimus Maximus suam sedem atque arcem populi Romani in re trepida tutatus esset (V, 50, 4). Il nous paraît impossible, toutefois, de déduire d'une confrontation entre ce passage et le précédent que, dans le premier, le mot sacra désignait l'ensemble des objets sacrés de Rome, et non pas seulement ceux que renfermait le Penus Vestae. 116 Op. cit., p. 290-94. 117 Voir A. Fraschetti, Le sepolture rituali del Foro Boario, in Le délit religieux dans la cité antique, Rome, 1981, p. 51-115; D. Briquel, Des propositions nouvelles sur le rituel d'ensevelissement des Grecs et des Gaulois au Forum Boarium, REL, 49, 1982, p. 30-37. 118 Plutarque, Numa, 10.
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comme eux conservés religieusement, et consistant eux aussi, pour une part, en vases119. Cette hypothèse, pourtant, ne permet pas de rendre parfaitement compte du texte de Tite-Live, car si l'on veut bien admett re, à la suite de F. Coarelli, que les Doliola étaient un petit sanctuaire essentiellement destiné à abriter les vases découverts par les archéolo gues, il est certain que les sacra sur lesquels veillaient les Vestales n'y figuraient pas en permanence. On pourrait alors penser que c'est, outre la proximité de YAedes Vestae et des Doliola, la relative ressemblance existant entre les sacra et les vases enfermés aux Doliola qui aurait déterminé le choix de ce lieu par les prêtresses : l'édifice, comme le Penus Vestae, aurait contenu des vases, et, de plus, les uns et les autres étaient rapportés au temps de Numa. D'autre part, il serait intéressant de savoir pourquoi le flamine de Quirinus et les Vestales ont choisi de s'enfuir vers Caeré, cité sur la route de laquelle ils rencontrent Lucius Albinus et sa famille120. Malgré l'extraordinaire épanouissement urbain et artistique de Caeré aux VIIVIe siècle121, en dépit du rôle important qu'elle a dû jouer dans l'actif courant d'échanges entre la Grande-Grèce, l'Etrurie et le Latium ar chaïque12 , cette cité ne semble avoir eu aucune place particulière ni dans la légende de la venue d'Enée en Italie123, ni dans la légende des origines de Rome, qui justifierait qu'elle fût choisie pour abriter les sacra troyens. Il est beaucoup plus probable qu'il faut attribuer ce choix aux liens étroits existant entre Rome et cette cité, formés depuis déjà plusieurs siècles, mais qui se resserrèrent très fortement à cette
119 Cf. S. Weinstock, loc. cit. 120 Voir R. M. Ogilvie, op. cit., p. 273; J. Heurgon, Rome et la Méditerranée occidental e, 2e éd., Paris, 1980, p. 298. 121 J. Heurgon, op. cit., p. 104-105; M. Torelli, Etruria (Guide archeologiche Laterza), Rome, 1980, p. 52-56. 122 J. Heurgon, La Magna Grecia e i santuari del Lazio, in La Magna Grecia e Roma nell'età arcaica, Atti Vili convegno di Studi sulla Magna Grecia (Tarente, oct. 1968), Naples, 1969, p. 13 sq.: id., Rome et la Méditerranée occidentale, p. 110-114; cf. aussi M. Torelli, op. cit., p. 59 : des documents épigraphiques attestent la présence de Romains à Caeré dès le VIIe siècle. 123 Au demeurant, par son rôle portuaire, elle a pu contribuer à l'introduction des légendes grecques en Italie centrale, et notamment celle d'Enée; mais elle n'aurait eu qu'un rôle d'intermédiaire, contrairement à Lavinium, où la légende d'Enée s'est enraci née.
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époque, en partie sous la forme d'une commune alliance contre Véies124 et qui furent peut-être si forts que Lucius Albinius et les prêtres fugitifs pensèrent trouver en elle, plus qu'une alliée, une véritable «seconde patrie»; le sénatus-consulte décrété après la défaite des Gaulois à l'in stigation de Camille, par Yhospitium qu'il accorde aux habitants de Caer e,atteste le caractère quasi-religieux de ces liens125. Mais ces données ne permettent malheureusement pas de définir plus précisément les sacra qui furent alors mis en sûreté à Caeré, et il semble bien qu'il faille nous résigner, en l'état actuel de nos connaissances, à considérer qu'un halo de mystère entourait ces objets, ou que Tite-Live rapporte des tra ditions contradictoires ou confusément exprimées.
B) Le récit de Plutarque Le récit que fait Plutarque de ces mêmes événements, en revanche, offre une définition beaucoup plus précise des sacra. Après avoir aban donné la ville, les Romains se retranchent sur le Capitole : έν πρώτοις δε των ιερών α μεν είς το Καπιτωλιον ανεσκευάσαντο τα δε της 'Εστίας αί παρθένοι μετά των ιερέων εφευγον άρπασάμεναι126. Τα ιερά est ici l'équivalent de sacra, et parmi ces derniers, Plutarque distingue très clairement deux catégories : d'une part, des ίερά se rapportant à des divinités non nommées, que les Romains mettent en sûreté avec eux sur le Capitole; d'autre part, les ιερά de Vesta, qui furent emportés hors de Rome par les Vestales et des prêtres dont l'identité n'est pas autrement précisée. Dans la suite de son récit, Plutarque, nous l'avons vu plus haut, rapporte des traditions divergentes sur l'identité des ίερά du tem ple de Vesta : feu seul, ou feu et différents autres objets. Sur la nature de ces objets sacrés eux-mêmes, il existe également différentes tradi-
124 M. Torelli, op. cit., p. 59 : Tite-Live (IX, 36) atteste qu'à cette époque, certains nobles romains étaient éduqués à Caeré. Sur les rapports entre Rome et Caeré, voir M. Sordi, / rapporti romano-ceriti e la civitas sine suffragio, Rome, 1960, p. 36-52. 125 J. Heurgon, Rome et la Méditerranée occidentale, p. 299-301 ; pour J. Gagé (op. cit., p. 532-36), Caeré est, certes, une ville hellénisée, mais elle porte peut-être aussi la trace d'influences pélasgiques, impossibles à dater, qui se manifestent, à l'époque historique, par des traditions religieuse comme les caerimoniae, que Rome lui aurait empruntées dans un moment de crise, lors de l'invasion gauloise. 126 Cam., 20, 3 : «Mais leur premier soin fut pour les objets sacrés; il en est que l'on transporta au Capitole, mais ceux de Vesta furent emmenés hors de Rome, avec l'aide des prêtres, par les Vestales en fuite» (ibid.).
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tions. Selon les uns, comme nous l'avons vu, il s'agirait du Palladium troyen, apporté par Enée en Italie; mais ces ιερά sont aussi définis δ' autrement : είσι oi τα Σαμοθράκια μυθολογουντες Δάρδανον μεν εις Τροίαν έξενεγκάμενον όργιάσαι και καθιερώσαι κτίσαντα την πόλιν, Αίνείαν δε περί την άλωσιν έκκλέψαντα διασώσαι μέχρι της έν 'Ιταλία κατοικήσεως 127. Cette seconde tradition rapportée par Plutarque assimil e donc les sacra du temple de Vesta à ceux de Samothrace, transférés par Dardanos de l'île à Troie, par Enée de Troie en Italie. Evidemment, les lignes de Plutarque plaident fort en faveur d'une identification de ces sacra comme les Pénates, pour deux raisons. D'une part, nous avons vu128 que pour certains auteurs, en particulier Varron129, les dieux de Samothrace sont Castor et Pollux, eux-mêmes parfois identifiés avec les Pénates; il est tout à fait possible que le terme, vague, de τα Σαμοθράκ ια désigne, outre les mystères cultuels, les dieux. D'autre part, le fait qu'Enée, dans cette tradition, est supposé avoir transporté ces sacra de Troie en Italie suggère fortement qu'il s'agit des Pénates. Si ces der niers ne sont pas nommément désignés, nous pensons que c'est parce que Plutarque a sans doute ici comme source Denys d'Halicarnasse130, et, à travers lui, des sources grecques, qui ne connaissent pas, ou n'uti lisent pas, le terme de «Pénates». Au demeurant, il nous semble très probable que c'est bien d'eux qu'il s'agit dans ce texte. A la lumière de cette tradition rapportée par Plutarque, on peut peut-être interpréter, dans le récit précédemment étudié que fait Tite-Live de la même inva sion gauloise, la mention des sacra populi Romani que le texte de l'his torien, nous l'avons vu, ne permettait pas de définir précisément : nous pensons que l'expression désigne, elle aussi, les Pénates publics. Plutarque conclut ainsi l'exposé des différentes traditions sur les sacra du temple de Vesta : Οι δε προσποιούμενοι τι πλέον έπίστασθαι περί τούτων δύο φασίν ού μεγάλους άποκεΐσθαι πίθους, [ών]τον μεν άνεωγότα και κενόν, τον δε πλήρη και κατασεσημασμένον, αμφότερους δε ταΐς παναγέσι μόναις παρθένοις ορατούς. "Αλλοι δε τούτους διεψεϋ-
127 Cam., 20, 6: «D'autres racontent que Dardanos, après avoir fondé la ville de Troie, y apporta les objets sacrés de Samothrace, qu'il fit servir au culte et à la célébra tion des mystères, et qu'Enée, à la prise de la ville, les enleva secrètement et les garda jusqu'à son établissement en Italie» {ibid.). 128 Ci-dessus, p. 432 sq. 129 De L.L. V, 58. 130 Cf. R. Flacelière, E. Chambry, M. Juneaux, op. cit., Notes complémentaires, p. 236; voir ci-dessous, p. 490 sq.
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σθαι νομίζουσι τω τα πλείστα των ίερών τότε τας κόρας εμβαλούσας εις πίθους δύο κρύψαι κατά γης υπό τον νεών του Κυρίνου, και τον τόπον εκείνον έτι και νυν των Πιθίσκων φέρεσθαι την έπωνυμίαν131. Nous trou vons ici la notation, déjà rencontrée dans d'autres témoignages, de l'i nterdiction faite aux profanes de voir les ίερά du temple de Vesta, ce qui explique en partie les incertitudes de la tradition à leur sujet. Plutarque est le seul auteur à nous faire connaître la version de la légende selon laquelle il y aurait eu en permanence dans le temple de Vesta deux jar res; cette tradition, dont il ne cite malheureusement pas les tenants, nous semble s'expliquer, une fois encore, à la lumière de l'assimilation qui a été faite, pendant une période limitée132, entre les Pénates et les Dioscures, ces derniers étant souvent symbolisés par des jarres ou représentés avec des jarres133; la précision selon laquelle l'une était pleine et l'autre vide peut être mise en relation avec le pouvoir magique accordé à ces ίερά, et rapprochée des légendes sur la duplication du Palladium, dont une ou plusieurs copies auraient été faites pour trom perles voleurs éventuels; de même, ici, seule la jarre pleine (Plutarque ne précise pas de quoi elle est remplie, mais on peut imaginer que c'est de ίερά, en tout cas des objets précieux et mystérieux, puisque la jarre est scellée) aurait une valeur réelle, et la seconde ne serait qu'un double destiné à brouiller les pistes; mais on peut penser aussi que les jarres constituent en elles-mêmes les objets sacrés. Cependant, Plutarque le note lui-même (άλλοι δε τούτους διεψεΰσθαι νομίζουσι), cette tradition paraît se superposer à une autre, que nous avons déjà relevée chez TiteLive, selon laquelle les ίερά du temple de Vesta n'auraient pas séjourné en permanence dans des jarres, mais n'y auraient été placés par les Vestales que lors de l'invasion gauloise. Plutarque, toutefois, nous four nitici un détail qui ne figurait pas chez Tite-Live : ces jarres étaient au
131 Cam., 20, 7-8 : «Ceux qui prétendent en savoir là-dessus plus que les autres disent qu'il existe là deux jarres de médiocre grandeur, dont l'une est ouverte et vide, et l'autre pleine et scellée, et que toutes les deux ne sont visibles que pour les vierges sacrées. D'aut res, enfin, pensent que ces derniers ont été abusés par le fait que les Vestales mirent alors la plupart des objets sacrés dans deux jarres, qu'elles cachèrent sous terre au pied du temple de Quirinus, et que cet endroit porte encore aujourd'hui le nom de «Petites Jarres» (op. cit.). 132 Cf. supra p. 437-9. 133 Cf. S. Weinstock, Two archaic inscriptions from Latium, pi. XIII. Notons cepen dantqu'ici, Plutarque précise que les ίερά qui furent enterrés ne sont pas ceux du temple de Vesta.
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nombre de deux, ce qui explique probablement la confusion avec la pre mière tradition qu'il rapporte, elle-même, sans doute, plus ou moins explicable par une assimilation Dioscures-Pénates que rendait possible la présence des deux vases. Chez Plutarque, l'explication du nom de lieu Doliola est la même que chez Tite-Live et Festus, mais il localise les Doliola près du temple de Quirinus, indication isolée qui les situerait donc sur le Quirinal134, et doit être le résultat d'une confusion entre la maison du flamine de Quirinus et le temple du dieu. On peut noter cependant qu'à travers les discordances de la tradi tionlittéraire antique à ce sujet, il y a un point commun entre les indi cations de Tite-Live et celles de Plutarque : la relation établie entre les sacra qui furent enterrés et Quirinus; double relation chez Tite-Live, puisque le lieu d'enfouissement est proche de la maison du flamine de Quirinus, mais aussi que le flamine agit conjointement avec les Vestales dans le sauvetage des sacra; relation dans le récit de Plutarque égale ment, puisque les sacra sont mis à l'abri près du temple du dieu. Enfin, si Plutarque rapporte des traditions diverses sur l'identité des ίερά conservés dans le sanctuaire de Vesta, il n'est guère précis sur le point de savoir quels furent ceux des ίερά que l'on enterra dans les deux jar res. Dans la suite de son récit, Plutarque rapporte la tradition, que nous avons déjà relevée chez Tite-Live, selon laquelle les Vestales, après avoir enterré dans des jarres «la plupart des objets sacrés» (ceux qui ne se trouvaient pas dans YAedes Vestae, si l'on s'en rapporte à ce qu'il a dit plus haut) s'enfuient avec les ίερά du sanctuaire de Vesta : τα δε κυριώτατα καί μέγιστα των ίερών αύται λαβουσαι φυγή παρά τον ποταμον έποιοΰντο καί άποχώρησιν135. Les superlatifs κυριώτατα et μέγιστα indiquent clairement qu'aux yeux de Plutarque, ou de ses sources, la première place dans la hiérarchie des ίερά revient à ceux du sanctuaire de Vesta, qui furent emportés par les prêtresses hors de Rome. La ren contre avec Lucius Albinius, qui installe les Vestales portant les ίερά sur son chariot à la place de sa femme et de ses enfants, est très sem blable chez Plutarque, quoique plus rapidement évoquée, à ce qu'elle était chez Tite-Live. La destination des voyageurs, elle, est moins précis e, puisque Plutarque dit seulement : έκείναις παρέδωκεν έπιβήναι καί
134 C£. F. Coarelli, Roma, p. 237-238. 135 Cam., 21, 1 : «Donc, ces Vestales, ayant pris les objets sacrés les plus importants et les plus précieux, s'enfuirent et suivirent dans leur retraite la rive du fleuve» {op. cit.).
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διαφυγεΐν εις τίνα των 'Ελληνίδων πόλεων136. Il y a tout lieu de croire, toutefois, que c'est bien à Caeré que songe Plutarque, conformément à la tradition transmise par Tite-Live137.
C) Les témoignages de Valere Maxime et Florus Cette hypothèse est confirmée par une anecdote rapportée par Valére Maxime à propos des mêmes événements138 : il n'y est question des sacra que de façon assez vague, et nulle mention n'est faite de l'e nfouissement d'une partie d'entre eux dans des jarres : ils sont emportés à Caeré par les Vestales et le flamine de Quirinus, avec l'aide de Lucius Albinius, et Valére Maxime se fonde sur cet épisode du séjour des sacra à Caeré pour proposer une étymologie du mot caerimonia139. Le seul 136 Cam., 21, 2 : «II les y (= sur le chariot) fit monter, pour qu'elles pussent gagner l'une des villes grecques» (op. cit.). 137 Cf. R. Flacelière, E. Chambry, M. Juneaux, op. cit., Notes complémentaires, p. 237 : «II n'y a pas de raison de croire que Plutarque suivait une autre tradition, car, n'y regardant pas de trop près, il pouvait considérer comme grecque une ville telle qu'AgyllakCaeré, qui était en bons rapports avec les Grecs et avait construit un trésor à Delphes (Strabon, V, 2, 3; Hérodote, I, 167)». 138 I, 1, 10 : Urbe enim a Gallis capta, cum flamen Quirinalis uirginesque Vestales sacra onere partito ferrent easque pontem Sublicium transgressas et cliuum, qui ducit ad Ianicutum ascendere incipientes L. Albanius, plaustro coniugem et liberos uehens, aspexisset, proprior publicae religioni quam priuatae cantati suis, ut plaustro descenderent, imperauit atque, in id uirgines et sacra imposita, omisso coepto innere, Caere oppidum peruexit, ubi cum summa ueneratione recepta. Grata memoria ad hoc usque tempus hospitalem humanitatem testatur; inde institutum est sacra caerimonias uocari, quia Caeretani ea infracto retpublicae statu perinde ac fiorente coluerunt : « A la prise de Rome par les Gaulois, le flami ne de Quirinus et les Vestales emportaient les objets sacrés dont ils s'étaient partagé le fardeau. Ils venaient de passer le pont Sublicius, et commençaient à gravir la côte qui mène au Janicule, lorsque L. Albanius, qui emmenait sur son chariot sa femme et ses enfants, les aperçut : plus attaché à la religion de l'Etat qu'à ses affections privées, il fit descendre sa famille du chariot, y plaça les Vestales et les objets sacrés et, se détournant de sa route, il les conduisit au bourg de Caeré, où ils furent accueillis avec la plus grande vénération. La reconnaissance a perpétué jusqu'à ce jour le souvenir de cette généreuse hospitalité. Car dès lors s'établit l'usage de donner aux rites sacrés le nom de cérémonies, parce que les habitants de Caeré les célèbrent aussi bien dans les malheurs de la républi que qu'au temps de sa prospérité» (trad. P. Constant, Paris, 1935). 139 L'étymologie du mot reste incertaine. A. Ernout-A. Meillet (Dictionnaire étymologi que de la langue latine, s.u. caerimonia) proposent une dérivation à partir d'un mot étrus quecaerimo. L'étymologie avancée par Valére Maxime n'est donc peut-être pas aussi fan taisiste qu'il paraît; cf. supra p. 475 n. 105.
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détail original donné par l'écrivain, par rapport aux récits de Tite-Live et de Plutarque, se trouve dans les mots omisso coepto itinere : Lucius Albinius change donc sa destination primitive pour aller à Caeré, et il est facile d'imaginer que c'est à la demande des Vestales. Cela confir merait une importance particulière de la ville à cette époque aux yeux des Romains, comme nous avons cru pouvoir le montrer en étudiant le récit de Tite-Live. Le dernier témoignage concernant ce sauvetage des sacra est celui de Florus : Pontifices et flamines quidquid -religiosissimi in templis erat, partim in doleis defossa terra reçondunt, partim inposita plaustris secum Veios auferunt. Virgines simul ex sacerdotio Vestae nudo pede fugientia sacra comitantur. Tarnen excepisse fugientis unus e plebe fertur Albinius, qui depositis uxore et liberis uirgines in plaustrum recepii 14°. Par rapport aux récits précédents, on peut dire que les acteurs sont les mêmes, mais que les rôles sont distribués un peu différemment. D'une part, les pont ifes quittent Rome et participent au sauvetage des sacra, ce qui est sans doute dû à la contamination avec un autre épisode de l'histoire de l'Aedes Vestae, l'incendie de 241 avant J.-C. Les sacra, d'autre part, ne sont pas ceux du seul sanctuaire de Vesta, mais de tous les temples de Rome, de sorte qu'ils ne sont évidemment pas désignés avec plus de précision; toutefois, comme dans le récit de Tite-Live, ils sont partagés en deux, une partie restant à Rome dans des récipients où on les dispo se pour cette seule circonstance, et qui sont enterrés, l'autre partant sous l'escorte des prêtres qui les installent, dès le départ, dans des char iots, détail qui ne figurait pas dans le récit de Tite-Live. Les Vestales, qui ne semblent pas avoir eu l'initiative du sauvetage, ne font qu'a ccompagner le cortège, et l'on peut supposer qu'elles n'avaient pas pu trouver place dans les chariots où étaient montés les pontifes et les fiamines; le geste de piété d'Albinius ne s'adresse donc qu'à la seule per sonne, particulièrement sacrée il est vrai, des Vestales, non aux sacra; enfin, la destination du cortège est Véies, non Caeré, ce qui s'explique peut-être par une confusion avec la tradition selon laquelle Camille
140 I, 13, 11-12 : «Les pontifes et les flamines prennent dans le temples les objets les plus sacrés et les cachent dans des tonneaux enfouis sous la terre, ou les emportent avec eux à Veies sur des chariots. En même temps, les vierges affectées au sacerdoce de Vesta accompagnent nu-pieds les objets sacrés dans leur fuite. On raconte que les fugitives furent cependant recueillies par un plébéien, Albinius, qui, après en avoir fait descendre sa femme et ses enfants, les prit dans son char» (trad. P. Jal, C.U.F., Paris, 1967).
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s'était alors réfugié à Véies, avant de prendre la tête de la résistance au siège gaulois141. Indiquons, pour en finir avec l'épisode capital de l'histoire des sacra que constitue l'invasion gauloise de 390 avant J.-C, que Lucius Albinius est certainement un personnage historique 142, comme tend à le faire penser YElogium anonyme trouvé sur le Forum, qui rappelle la part que prit dans le sauvetage des sacra un personnage qui est peutêtre Albinius143. Il n'est sans doute pas indifférent que Tite-Live le désigne comme un de plebe homo144. Le rôle décisif joué par ce plébéien dans le sauvetage de sacra dont dépend le salut de Rome est très signi ficatif de l'intégration définitive de la plèbe dans l'Etat romain, mais aussi, selon l'interprétation que donne J.-C. Richard de l'expression homo de plebe, confirme l'aristocratie «dans l'assurance de sa propre supériorité»145. Enfin, nous avons cru pouvoir conclure du récit de cet épisode fait par Plutarque que les sacra en question étaient ceux qui furent apportés de Troie en Italie par Enée, tandis que l'explication donnée par Tite-Live du lieu-dit Doliola tendait plutôt à mettre ces sacra en relation avec Numa. Dans l'un et l'autre cas, on assiste au pas sage d'un culte privé de l'ancêtre fondateur ou du roi, à un culte public; les dieux d'Enée deviennent ceux de tous les Latins, ceux de Numa les dieux de l'Etat romain. Si, comme nous le pensons, ces sacra sont les Pénates, l'intervention de Lucius Albinius montre comment des cultes gentilices deviennent ceux de tous les Romains, patriciens et plé béiens mêlés.
141 Cf. P. Jal, op. cit., p. 25, n. 1 ; M. Sordi, / rapporti. . ., p. 1-23. 142 Cf. J. Heurgon, Rome et la Méditerranée. . ., p. 298. 143 CIL VI, 1272; cf. S. Weinstock, in R.E., XIX, 1, s.u. Penates, col. 442. 144 V, 40, 9. 145 Les origines de la plèbe romaine. Essai sur la formation du dualisme patricio-plébéien, B.E.F.A.R., vol.232, Rome, 1978, p. 109-110; voir aussi J. Gagé, Matronalia. Essai sur les dévotions et les organisations cultuelles des femmes dans la Rome ancienne, Coll. Latomus, vol. 60, Bruxelles, 1963, p. 280-283; id., Le chariot d'Albinius, p. 529-530 : J. Gagé doute que YElogium fasse référence à Albinius, dans la mesure où le sauveteur des sacra est supposé avoir assuré la continuité du culte à Caeré, ce qui, pense-t-il, implique à peu près sûrement qu'il soit patricien ; en revanche, J. Gagé estime certain que la famille, plé béienne, d'Albinius avait «du prestige sur le plan religieux», et en voit une confirmation dans le fait qu'une Albinia, probablement sœur ou fille de Lucius Albinius, était l'auteur du uotum du temple de Junon Lucina.
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2) L'incendie de 241 avant J.-C. Les sacra sont de nouveau mentionnés à l'occasion d'un autre év énement majeur de l'histoire du temple de Vesta, l'incendie de 241 avant J.-C. Le texte de Tite-Live manque pour cette période; voici le résumé qui nous en a été conservé : Cum templum Vestae arderei, Caecilius Metellus pontifex maximus ex incendio sacra rapuit146. Ce texte très bref mentionne les sacra sans aucune autre précision, et la fidélité de l'abréviateur aux mots mêmes employés par Tite-Live est douteuse, puisque le sanctuaire du Forum est désigné du terme de templum Vestae, au lieu de l'habituel Aedes Vestae. A) Le témoignage d'Ovide Le premier récit que nous en connaissons est celui d'Ovide : Heu quantum timuere patres, quo tempore Vesta arsii et est tectis obruta paene suis! Flagrabant sancii sceleratis ignibus ignes, mixtaque erat flammae fiamma profana piae; adtonitae flebant demisso crine ministrae : abstulerat uires corporis ipse timor. Prouolat in medium et magna « Succurrite ! » uoce «Non est auxilium fiere!» Metellus ait. «Pignora uirgineis fatalia tollite palmis : non ea sunt uoto, sed rapienda manu. Me miserum! dubitatis? » ait. Dubitare uidebat et pauidas posito procubuisse genu. Haurit aquas tollensque manus «Ignoscite» dixit «Sacra! Vir intrabo non adeunda uiro. Si scelus est, in me commissi poena redundet! Si capitis damno Roma soluta mei!» Dixit et irrupit : factum dea rapta probauit Pontificisque sui munere tuta fuit141. 146 Per., 19. 147 Fastes VI, 437-454 : « Ah ! quelle fut la crainte du Sénat, le jour où le temple de Vesta brûla, et où la déesse fut presque ensevelie sous la chute de son propre toit! Les feux sacrés brûlaient de feux criminels, et la flamme profane se mêlait à la flamme saint e.Frappées de stupeur, cheveux épars, les prêtresses pleuraient; la peur leur avait ôté toute force. Metellus bondit au milieu d'elles et s'écrie d'une voix forte : « A l'aide ! Pleurer
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De cet acte héroïque du Grand Pontife L. Caecilius Métellus, nous avons déjà trouvé une mention, citée plus haut, à propos du sauvetage du Palladium lors de ce même incendie148. Ce dernier, selon Ovide, ne serait pas imputable à un accident, bien que S. Weinstock149 souligne les dangers que courait un édifice qui abritait un feu perpétuel, et dont au moins une partie de la structure intérieure était faite de nattes de paille150; il serait le fait d'une main impie (sceleratis ignibus fiamma profana). Le récit d'Ovide prête aux Vestales une attitude bien différent e de l'énergique détermination dont elles firent preuve lors de l'inva siongauloise : épouvantées, stupéfaites, elles sont incapables non seul ement de prendre une décision par elles-mêmes, mais même d'obéir aux injonctions de Métellus. Il est clair, d'ailleurs, que le comportement qu'Ovide leur donne, caractérisé par la peur, les larmes, et l'impuissanc e, est destiné à donner davantage de relief et d'éclat à l'action héroï quede Métellus. Cette opposition entre les réactions des représentants des deux sexes échappe ici au lieu commun, et est rendue plus saisi ssante par la transgression de l'interdit religieux que suppose le geste de Métellus, Notons d'abord que son intervention, en tant que Grand Pont ife, est moins surprenante que ne l'était, lors de l'épisode précédem ment étudié, celle du flamine de Quirinus aux côtés des Vestales, puis que son titre met les prêtresses sous sa tutelle. On sait que l'intérieur de l'Aedes Vestae était interdit aux profanes, sauf au moment des Vestalia 151 où les matrones avaient sans doute accès au moins au penus exte rior, sinon au penetrale. En revanche, l'intérieur du temple semble avoir été absolument interdit aux hommes, y compris au Grand Pontife,
ne sert à rien! Emportez dans vos mains virginales les gages de notre destin ce ne sont pas vos vœux, mais vos bras qui les sauveront ! Malheur à moi ! vous hésitez ? » dit-il. Il les voyait hésiter et tomber à genoux toutes tremblantes. Il puise de l'eau et levant les mains : «Pardonnez-moi, dit-il, objets sacrés. Moi, un homme, je vais entrer dans ce lieu où un homme ne doit pas pénétrer. Si c'est un crime, que le châtiment de la faute retom be sur moi! Que Rome, au prix de ma vie, soit tenue quitte!». Il dit et s'élança; la déesse qu'il enlevait approuva son acte et fut sauvée par l'intervention de son pontife» (trad. H. Le Bonniec, Bologne, 1970). 148 Cicéron, Scaur., 48. 149 Penates, in R.E., XIX, 1, col 441. 150 Cf. Festus, 296 L; Ovide (Fastes VI, 261-262) oppose à la toiture de bronze que l'on voit de son temps sur l'Aedes Vestae le toit de chaume et les murs d'osier tressé de « l'épo quede Numa», sans qu'il soit possible de dater ces changements dans l'architecture du temple. 151 Festus 296 L.
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à qui Ovide fait dire uir intrabo non adeunda uiro, et dont la fonction ne suffit pas pour le faire excepter de la règle générale152; nous verrons d'ailleurs plus loin que d'autres éléments de la légende de Métellus semblent confirmer ce point153. Le poète met dans la bouche de Métel lus des propos qui insistent beaucoup sur la conscience qu'il a de trans gresser la loi religieuse : il demande par avance son pardon (ignoscite), et revendique pour lui-même, et non pour Rome, toute la punition que pourra vouloir susciter le courroux des dieux outragés. Sans doute peut-on expliquer comme un geste de purification les mots haurit aquas : il faut comprendre que Métellus se purifie les mains - on se rappelle le rôle capital que joue l'eau dans le culte de Vesta à Rome, et les prescriptions religieuses très strictes qui réglementaient le puisage et le transport de cette eau154 - avant de toucher les objets sacrés désignés deux fois, de façon très vague, par les mots sacra et pignora fatalia; nous avons déjà relevé l'emploi de cette dernière expression chez Tite-Live pour désigner le seul Palladium155, mais nous ne pensons pas qu'il faille interpréter ce pluriel comme poétique; il nous semble au contraire que c'est bien de l'ensemble des sacra qu'il s'agit, et qu'Ovide désigne ainsi, outre, très probablement, le Palladium, les autres objets sacrés que la légende faisait venir de Troie, et en particulier les Pénat es156. Aussi, en définitive, le geste courageux de Métellus, qui brave les dangers matériels de l'incendie, mais aussi la colère des dieux en enfreignant les interdits, fait-il ressortir l'extraordinaire valeur des sa cra qu'il permet de préserver de la destruction, valeur qui se comprend d'autant mieux qu'ils sont considérés comme l'héritage de Troie. Les mots dea rapta sont ambigus; nous croyons en effet qu'on peut en don ner deux interprétations. Si, comme on est naturellement tenté de le
152 Dans le récit que fait Tite-Live de l'invasion gauloise de 390, le Grand Pontife n'a ccompagne pas les Vestales et les sacra, mais se retire avec une partie des Romains sur le Capitole, pour organiser la défense de Rome (V, 41, 3). 153 Cf. aussi Denys d'Halicarnasse (II, 66, 3), pour qui le fait que les sacra soient confiés à des jeunes filles, et l'interdiction faite aux hommes de pénétrer à l'intérieur du temple, se justifient par la nécessaire pureté des premières; voir supra p. 295. 154 C. Koch, in R.E., Vili, A 2, s.u. Vesta, col. 1753-1755. 155 V, 52, 7. Cf. aussi Cicéron, Scaur., 48. 156 Dans la suite du texte (v. 455-456), Ovide oppose d'ailleurs les dangers courus autrefois par les sacra du sanctuaire à la sécurité que leur assure le principat d'Auguste, et se félicite de ce que le feu brûlera toujours in Iliads focis ; selon J. G. Frazer (Publii Ovidii Nasonis Fastorum Libri sex, vol. IV, 1. V-VI, Londres, 1929, p. 267), Ovide, malgré le vague de l'expression pignora fatalia, pense principalement au Palladium.
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faire, on pense qu'il s'agit de Vesta, on se trouve en présence d'une double difficulté : d'une part, le même Ovide avait signalé, un peu plus haut157, qu'il n'y avait pas de statue de la déesse à l'intérieur du sanc tuaire; d'autre part, l'expression pontificis sui surprend, car le Grand Pontife n'est pas spécialement affecté au culte de Vesta, encore que, par la captio qu'il fait des Vestales, il assure dans ce culte un rôle essentiel; on peut aussi penser qu'il s'agit du Palladium, mais l'emploi du possessif sui après pontificis ne se justifie pas davantage. Quant à la prétendue origine criminelle de l'incendie, elle nous paraît devoir s'ex pliquer moins comme une indication émanant d'une quelconque source historique, que comme l'occasion pour Ovide d'opposer, en un contrast e d'une force et d'une poésie saisissantes, le scandaleux mélange du feu sacré et du feu profane, allumé par une main impie. B) Le récit de Denys d'Halicarnasse Denys d'Halicarnasse mentionne ces même événements, lorsqu'il s'interroge sur le contenu exact de l'intérieur du sanctuaire de Vesta, et oppose deux traditions, selon l'une desquelles on n'y conserverait que le feu sacré de la déesse, selon l'autre le feu et des objets sacrés; à l'ap pui de cette dernière, Denys cite l'épisode de L. Caecilius Métellus : έμπρησθέντος γαρ του τεμένους καί των παρθένων φευγουσών, έκ του πυρός των ίεροφαντω τις Λεύκιος Καικίλιος ό καλούμενος Μέτελλος άνήρ ύπατικός. . . ύπεριδών της ιδίας ασφαλείας του κοινή συμφέροντος ένεκα παρεκινδύνευσεν είς τα καιόμενα βιάσασθαι καί τα καταλειφθέντα ύπο των παρθένων άρπάσας ίερα διέσωσεν έκ του πυρός · έν ω τιμάς παρά της πόλεως έξηνέγκατο μεγάλας, ως ή της εικόνος αυτού της έν Καπι τωλίω κειμένης επιγραφή μαρτυρεί158. L'ensemble de l'épisode, quoique moins détaillé et moins théâtral, ressemble fort au récit qu'en fait Ovide; comme le poète, Denys oppose à la passivité des Vestales, qui ne songent qu'à la fuite, l'héroïsme du Grand Pontife; mais, contrairement à Ovide, Denys ne fait pas état du cas de conscience qui 157 VI, 295-296. 158 II, 66, 4 : «Tandis que le temple brûlait et que les Vestales fuyaient l'incendie, l'un des pontifes, Lucius Caecilius, surnommé Métellus, homme de rang consulaire. . ., négli geant sa propre sécurité en faveur du bien public, s'exposa au danger de se jeter dans le temple en flammes, et arracha et sauva du feu les objets sacrés abandonnés par les Ves tales en récompense de quoi l'Etat lui accorda de grands honneurs, comme en témoigne l'inscription de sa statue qui fut élevée sur le Capitole».
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se pose à L. Caecilius Métellus, pour savoir s'il doit sauver les sacra (ou ίερά), au risque de bafouer l'interdiction faite aux hommes d'entrer dans le penetrale. Aussi le problème a-t-il été posé de savoir si le Grand Pontife n'était pas excepté de cette interdiction159; à cette question, Denys a donné, dans le passage qui précède immédiatement notre texte, une réponse positive160. Son témoignage est particulièrement intéres sant pour notre propos, parce que, précisément, l'historien s'interroge sur la nature et la définition des ίερά. L'épisode de leur sauvetage par Métellus lui semble la preuve que l'intérieur du sanctuaire du Forum ne contient pas simplement le feu de la déesse. Mais, poussant plus loin son enquête sur les ίερά sauvés par Métellus, il ajoute : τούτο μη λαβοντες όμολογούμενον έπισυνάπτουσιν αυτοί στοχασμούς τινας ίδιους, οί μεν εκ των έν Σαμοθράκη λέγοντες ίερών μοΐραν είναί τίνα φυλαττομέυην την ένθάδε Δαρδάνου μεν είς την ύφ' έαυτοΰ κτισθεΐσαν πόλιν έκ της νήσου τα ίερά μετενεγκαμένου, Αινείου δέ, οτ' εφυγεν έκ της Τρωάδος άμα τοις άλλοις καί ταύτα κομίσαντος είς Ίταλίαν161. Cette tentati ve de définition est, on le voit, particulièrement incertaine et confuse. D'une part, Denys ne nomme pas les tenants des différentes définitions des ίερά, et, d'autre part, il indique que ces hypothèses (στοχασμούς), plutôt qu'étayées sur des traditions nettement établies, risquent fort de n'être que des spéculations fantaisistes d'érudits (ίδιους), qui tentent de mettre en ordre ou de rationaliser des données légendaires confuses et contradictoires. La forme même dans laquelle Denys les expose montre ce flottement : rien n'y est strictement défini; των έν Σαμοθράκη ίερών μοΐραν reste vague, et ne peut guère s'éclairer que par un passage du
159 Cf. C. Koch, op. cit., col. 1730-31; si l'on en croit Lucain (Pharsale I, 598), l'accès au Palladium était même réservé à la seule Grande Vestale. 160 II, 66, 3 : είσί δέ τίνες οι φασιν εξω του πυρός απόρρητα τοις πολλοίς ίερά κεΐσθαι τίνα έν τω τεμένει της θεάς, ών οϊ τε ίεροφάνται την γνώσιν εχουσι καί ai παρθένοι : « II y a des gens qui disent qu'en plus du feu, il y a dans le sanctuaire de la déesse des objets sacrés interdits aux profanes, et dont seuls ont la connaissance les pontifes et les Vestal es». Denys ne prend donc pas à son compte l'affirmation du fait que les pontifes - et non pas seulement le Grand Pontife - ont accès aux ίερά, mais la rapporte à des auteurs dont il ne cite pas le nom. 161 II, 66, 5 : « Considérant ce point comme acquis, ils ajoutent des hypothèses de leur cru : les uns déclarent que c'est une partie des objets sacrés de Samothrace qui est conservée là, Dardanos ayant transporté les objets sacrés de cette île jusqu'à la cité par lui fondée, et Enée, lorsqu'il fuit de Troade, les ayant emportés, en même temps que d'autres, en Italie».
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livre I des mêmes Antiquités Romaines162 que nous avons commenté plus haut : Dardanos, en quittant Samothrace, aurait laissé dans l'île les rites et les mystères des Grands Dieux, et aurait emporté, dans la cité qu'il allait fonder, le Palladium et les statues de ces mêmes dieux; éclaircissement tout relatif d'ailleurs, car il peut paraître assez surpre nantde dissocier d'une part les mystères des Grands Dieux, d'autre part leurs statues. Mais si la définition des ίερά, finalement établis à Troie par Dardanos, est obscure, celle des objets sacrés emportés par Enée en Italie, d'après le texte de Denys, ne l'est pas moins : le Troyen, nous dit-il, prend avec lui les ίερά de Dardanos «en même temps que d'autres» (άμα τοις άλλοις) qui ne sont nullement définis. Cependant, il semble bien qu'il faille comprendre que les ίερά apportés en Italie ne sont pas les seuls Grands Dieux de Samothrace et le Palladium, hérita ge de Dardanos. Cette hypothèse se trouve peut-être confirmée par un autre passage de Denys dans lequel, après avoir déclaré que les ίερά apportés par Enée en Italie étaient les images des Grands Dieux et le Palladium (ce dernier étant conservé à Rome dans le sanctuaire de Vest a), il ajoute : εϊη δ' αν και παρά ταΰτα τοις βεβήλοις ήμΐν άδηλα ετέρα163. R. Schilling, au terme d'une analyse très aiguë et très pertinente de ces textes, conclut: «La distinction faite par Denys est importante. A confronter ses différentes déclarations, il y a lieu de différencier les éléments sacrés du sanctuaire de Vesta. Il y aurait les symboles des grands dieux, ainsi que le Palladium d'une part, et d'autre objets sacrés protégés par un secret qui les soustrait totalement à la curiosité du pro fane»164. Tout en reprenant cette conclusion à notre compte, nous vou drions ajouter que dans les deux passages que nous venons d'étudier, sur lesquels se fonde R. Schilling, Denys rapporte expressément ces autres ίερά, non définis, à la venue en Italie d'Enee, qui les y aurait transportés. Ce témoignage, pour difficile qu'en soit l'interprétation, est capital, car il constitue la seule attestation claire de l'origine des sacra de l'Aedes Vestae, origine à la fois samothracienne et troyenne, avec Enée pour intermédiaire entre Troie et l'Italie. Cette origine justifierait év idemment, si elle était établie avec plus de certitude, que l'on identifiât
162 163 autres 164
I, 68, 3-4. I, 69, 4 : « II se peut qu'outre ceux-là, il y ait encore d'autres objets interdits à nous profanes». Penatibus et Magnis Dis, Mise. E. Manni, VI, Rome, 1980, p. 1969.
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comme les Pénates certains des sacra du sanctuaire de Vesta, et l'on peut supposer que Denys songe à cette identification, car il conclut son exposé par la remarque suivante : «Sur la nature de ces objets, j'estime que ni moi ni ceux qui désirent observer le respect envers les dieux ne doivent mener d'indiscrètes recherches»165. Cette réflexion rappelle cu rieusement celle qui concluait l'exposé consacré à la définition des mystérieux Pénates de Lavinium166, et le rapprochement des deux pas sages nous invite à penser qu'il s'agit, dans l'un et l'autre cas, d'objets de même nature, mystérieux garants de la puissance d'une cité, qui ont été identifiés avec les Pénates. Certes, dans ce texte, Denys parle de ίερά, non de Pénates, alors qu'à propos des dieux de Lavinium167, ou de ceux de la Vèlia168, il transcrit en grec le mot latin Penates. Cela nous paraît pouvoir s'expliquer par le fait qu'il rapporte des traditions anté rieures à l'assimilation ίερά troyens-Pénates. Plutarque, qui s'est mani festement inspiré de ce passage dans son récit, reprend presque mot pour mot le texte de Denys. Denys, voyant dans l'exploit de Métellus la preuve de l'existence de ίερά, en plus du feu, à l'intérieur du sanctuaire de Vesta, en cite cette première définition. Mais il ajoute aussitôt qu'il en existe une autre qui prétendait que les ίερά n'étaient que le Palladium apporté par Enée de Troie en Italie169; définition très restrictive donc, mais qui établit égale ment un lien entre Enée et Rome, entre les sacra apportés par lui et ceux du sanctuaire de Vesta. C) - Les témoignages d'Augustin et d'Orose Le seul autre témoignage, à notre connaissance, qui attribue au Grand Pontife L. Caecilius Métellus le sauvetage de l'ensemble des sacra est celui d'Augustin; évoquant la personnalité de Varron, son désir, dans les Res Diuinae, d'assurer par ses écrits la pérennité du culte des dieux, Augustin affirme qu'il leur a, par là-même, rendu un service plus utile quant Metellus de incendio sacra Vestalia et Aeneas de Troiano
165 166 167 168 169
II, 66, 6. I, 67, 4. I, 67, 3 ; voir supra p. 264. I, 68, 1 ; voir supra p. 400. II, 66, 5 ; voir supra p. 463-6.
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excidio pénates liberasse praedicatur170. Avec beaucoup moins de détails qu'Ovide et que Denys, - mais son propos est tout à fait différent -, Augustin nous apporte donc là un témoignage analogue, dans ses gran deslignes, aux deux précédents : Métellus, dont l'action est présentée comme exemplaire, a sauvé des flammes l'ensemble des sacra du sanc tuaire de Vesta. Il est clair que, pour faire mesurer à ses lecteurs le sens religieux dont, selon lui, Varron a fait preuve, Augustin le compar e à deux personnages proverbialement considérés comme des modèles de piété, parce qu'ils ont sauvé les dieux du plus grand péril. Cela dit, il est assez difficile d'apprécier le sens du rapprochement fait par August in entre Métellus et Enée. Il y a, en effet, deux façons de le comprend re, qui, croyons-nous, aboutissent à deux définitions opposées des sacra de YAedes Vestae. On peut considérer, d'abord, qu'Augustin établit un parallèle entre deux actions analogues, le sauvetage des dieux : ce qu'Enée a fait pour les Pénates de Troie, Métellus l'a fait pour les sacra Vestalia; cela n'implique pas que les premiers soient l'équivalent des objets sacrés, ou même comptent parmi eux; les deux hommes ont en commun d'avoir sauvé ce à quoi leur patrie tenait le plus, ce qui la symbolisait religieusement et était le garant de son pouvoir, mais n'était pas forcément identique dans l'une et l'autre ville171. Cependant, on peut aussi comprendre que les actions héroïques d'Enée et de Métel lus sont en tous points semblables, et que ce sont les mêmes sacra que l'un et l'autre ont sauvés de la destruction, le premier lors de la chute de Troie, le second lors de l'incendie de 241 ; sacra Vestalia et Penates ne seraient alors qu'une seule réalité religieuse, la différence dans les dési gnations s'expliquant par une sorte de tradition lexicale attachée à l'une et l'autre circonstances où ces dieux furent arrachés à la destruct ion. Il n'est d'ailleurs pas exclu que sacra Vestalia ne désigne pas les seuls Pénates, puisque, nous l'avons vu, la tradition littéraire atteste la présence d'autres objets sacrés dans le Penus Vestae. Enfin, Orose nous a laissé un récit du même événement : Dehinc cum omnia in circuitu fori popularetur (ignis), aedem Vestae corripuit. Et ne sibi quidem diis subuenientibus, ignem illum, qui aeternus putabatur, temporarius ignis oppressiti unde etiam Métellus, dum arsuros deos
170 De Ciu. Dei VI, 2 : « que celui de Métellus arrachant les objets sacrés de Vesta à l'incendie, ou d'Enée soustrayant les Pénates au désastre de Troie» (trad. J. Perret, Paris, 1960). 171 II nous semble que c'est dans ce sens que va l'analyse d'A. Brelich (Vesta, p. 77).
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eripit, uix brachio semiustus aufugtt172. C'est, à notre connaissance, le seul texte où figure le mot deos à propos des sacra contenus dans YAedes Vestae, et il faut très certainement y voir une allusion aux Pénates; au demeurant, il est probable que ce n'était pas l'expression usuelle, mais le mot est sans doute choisi pour faire avec arsuros un contraste plus expressif, et ridiculiser des dieux si fragiles. D) Interprétation du geste de Métellus Le geste héroïque du Grand Pontife Métellus173 semble, bien qu'il soit mentionné pour la première fois chez Cicéron, avoir eu la valeur d'une sorte de référence proverbiale aux yeux des Romains, très per ceptible dans le texte d'Augustin. Cependant, mis à part les textes que nous venons de citer, qui sont les moins nombreux, les autres témoi gnages attestant son exploit parlent en fait du sauvetage du Palladium, et non de celui des sacra en général. Parmi ceux-ci, le premier en date, pour la mention du Palladium comme pour celle de l'exploit de Métell us, est le texte de Cicéron déjà cité174, mais de nombreux auteurs par lent de cette action du Grand Pontife: Valére Maxime175, Sénèque le Rhéteur176, Pline l'Ancien177, Ampelius 178, Juvénal179. Plus curieuse est la mention que fait Augustin de ce même incendie de 241, qu'il présente
172 IV, 9, 14-15 : «A partir de ce moment, alors que le feu dévastait tout dans l'enceint e du Forum, il s'empara du sanctuaire de Vesta. Et, comme les dieux ne se portaient même pas secours à eux-mêmes, un feu éphémère écrasa ce feu que l'on pensait éternel; à cette occasion aussi, Métellus, en arrachant aux flammes les dieux qui allaient brûler, les emporta à grand peine dans ses bras, à demi brûlé lui-même». 173 Pour l'identification du personnage, voir F. Münzer, in R.E. III, 1, s.u. Caecilius, col. 1203 n°72; F. Coarelli, Le Tyrannoctone du Capitole et la mort de Tiberius Gracchus, MEFR, 81, 1969, p. 149 n. 1; J.-C. Richard, Sur quelques grands pontifes plébéiens, pas sim. 174 Scaur., 48. 175 I, 4, 4 : Insequenti nocte aedis Vestae arsit, quo incendio Métellus inter ipsos ignis raptum Palladium incolume seruauit. 176 Contr. IV, 2 : Métellus pontifex, cum arderei Vestae templum, dum Palladium rapuit. . . 177 N.H. VII, 45 : Métellus . . . cum Palladium raperei ex aede Vestae. 178 20, 1 1 : Gaius Métellus pontifex (qui ex) ardente tempio Vestae Palladium extulit. . . 179 III, 138-139 : qui/seruauit trépidant flagranti ex aede Mineruam : Juvénal ne nom mepas Métellus, ce qui prouve la notoriété de son exploit; il est d'ailleurs remarquable que le poète fasse allusion à lui après avoir mentionné Scipion Nasica, qui reçut chez lui la pierre noire de Pessinonte, et Numa comme modèles d'honorabilité et de piété.
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comme un désastre succédant à un autre immédiatement antérieur, une crue dévastatrice du Tibre : Turn uero illic ignis non tantum uiuebat, sed etiam saeuiebat. Cuius impetu exterritae uirgines sacra Ma fatalia quae iam très, in quibus fuerant, presserant ciuitates, cum ab ilio incendio liberare non possent, Metellus pontifex suae quodam modo saluas oblitus inruens ea semiustus abripuit1S0. L'expression ilia fatalia a suggéré à G. Combes la traduction «l'emblème fatal», c'est-à-dire le Pal ladium181, sans doute par analogie avec l'expression fatale pignus de Tite-Live182, qui désigne très certainement cette statue. Mais il nous paraît impossible de ne pas considérer que ce terme désigne, non le seul Palladium, mais l'ensemble des sacra dont Enée se chargea. C'est que, dans l'interprétation de G. Combes, le pluriel Ma fatalia est comp ris comme un pluriel poétique; or, nous avons cru pouvoir montrer que l'expression venait probablement des auteurs dont s'est inspiré Denys, selon qui il aurait existé, dès l'origine, plusieurs statues d'Athéna; Rome n'a pas connu la légende selon laquelle le Palladium existe raiten plusieurs exemplaires authentiques, c'est-à-dire dotés du pou voir magique de conférer la puissance à la cité qui le détiendrait. Servius nous rapporte une tradition concernant l'introduction du Pall adium à Rome, différente de celle qui la rattache à la venue d'Enée au Latium; le Palladium, lors de la chute de la ville, serait resté à Troie : intra parietem extructum; quod postea bello Mithridatico dicitur Fimbria quidam Romanus inuentum indicasse. Quod Romam aduectum, et cum responsum fuisset illic imperium fore, ubi et Palladio adhibito Mamurio fabro multa similia facta sunt. Verum tarnen agnoscitur hastae oculorumque mobilitate1^. Ce passage indique clairement que les Romains
180 De du. Dei III, 18 : «Mais à ce moment-là, le feu ne se contentait pas de vivre, il faisait rage. Epouvantées de son assaut, ces vierges étaient impuissantes à dérober aux flammes l'emblème fatal qui déjà avait porté malheur aux trois villes qui l'avaient gardé. Alors, le pontife Métellus, oublieux en quelque sorte de son propre salut, s'y précipitant à demi-brûlé l'emporta» (trad. G. Combes, Paris, 1959). 181 Op. cit., p. 485 n. 2; P. de Labriolle {La cité de Dieu, livres I-V, Paris , 1941), traduit aussi Ma fatalia par «l'emblème fatal» et explicite cette traduction dans la fin de la phra se « Métellus. . . leur arracha le Palladium ». 182 xxvi, 27. 183 Ad Aen. II, 166 : «inséré à l'intérieur de la muraille. Au cours de la guerre contre Mithridate, un Romain, Fimbria, signala, dit-on, qu'il l'avait découvert. On sait qu'il fut transporté à Rome, et comme un oracle avait prédit que le pouvoir se trouverait là où serait la statue, beaucoup d'exemplaires semblables furent faits par les soins du forgeron Mamurius. Mais on reconnaît la vraie statue à son pouvoir de faire bouger sa lance et ses
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considéraient qu'il n'y avait à Rome qu'un seul vrai Palladium. De sur croît, l'interprétation de la proposition quae iam très, in quibus fuerant, presserant ciuitates, dans le texte d'Augustin, nous semble soulever, en tout état de cause, une difficulté que l'interprétation de Ma fatalia par «le Palladium» est loin de résoudre. G. Combes184 suggère que les trois villes en question sont Troie, Lavinium et Albe, hypothèse qui nous paraît très plausible. Or, si la présence du Palladium à Troie est un fait bien attesté, il n'en va pas de même à Lavinium, où nous ne connais sons avec certitude qu'un culte de Minerve, dans le sanctuaire extra urbain oriental185, où la présence du Palladium n'est pas indubitable ment attestée186. En revanche, il n'existe, à notre connaissance, aucune mention de la présence de cette statue d'Athéna à Albe187. D'autre part s'il est vrai que la présence du Palladium à Troie n'a pas suffi à éviter l'anéantiss ement de la cité188, Lavinium, bien qu'elle ait connu un certain déclin au cours de son histoire, n'a jamais subi véritablement de revers cuisant, encore moins de destruction complète. Mais sans doute, pour Augustin, Rome elle-même est-elle l'une de ces trois cités. Si l'on considère, au contraire, que le terme Ma fatalia, loin de s'appliquer au seul Palladium, désigne l'ensemble des sacra dont Au gustin laisse implicitement entendre qu'ils furent apportés par Enée, et probablement parmi eux ceux que l'on a appelés dans le Latium, peutêtre à Rome, et à coup sûr à Lavinium, les Pénates, l'expression quae très presserant ciuitates devient un peu plus claire. La présence de sacra
yeux ». Voir M. Sordi, Lavinio, Roma e il Palladio, in Politica e religione nel primo scontro tra Roma e l'Oriente, p. 76. 184 Op. cit., p. 485, η. 1. iss Voir ci-dessus, p. 257-61. 186 Ce sont les conclusions auxquelles parvient F. Castagnoli (Ancora sul culto di Minerva a Lavinio, passim), à partir de l'analyse du texte de Strabon que nous avons cité : le Palladium n'a, en fait, jamais été déposé à Lavinium, et Strabon se moque des préten tionsde la cité à le détenir; le culte de Minerve, très richement attesté dans le sanctuaire extra-urbain découvert à l'est des murs de la ville, doit être distingué de celui du Palla dium, conservé à Rome. 187 Cf. L. Ziehen, in R.E. XVIII, 3, s.u. Palladion, col. 171-201; P. Grimai, Dictionnaire de la mythologie grecque et latine, Paris, 1951, p. 339-340. 188 II est évident que l'expression employée par Augustin (très presserant ciuitates) est tout-à-fait polémique, puisqu'elle tend à faire des fatalia, non les victimes de la défaite, mais les véritables agents de cette défaite : le sens et la forme active du mot presserant en témoignent.
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à Troie, parmi lesquels les di patrii emportés par Enée pour les sous traire à la destruction de la ville, est un thème dont nous avons vu qu'il est bien attesté dans la littérature et l'iconographie189. De même, l'allu sion probable à Albe parmi les trois cités s'explique mieux : Augustin peut songer, soit à l'épisode du transfert des Pénates de Lavinium à Albe lors de la fondation de cette cité, de l'échec de cette tentative, et du retour des Pénates, la nuit, dans le sanctuaire de Lavinium190, soit encore à la guerre entre Rome et Albe et à la destruction totale de cette dernière. Cette seconde interprétation est incompatible avec la premièr e, qui reconnaît dans Albe une cité fille de Lavinium et nie la présence à Albe de Pénates lavinates; mais on peut considérer qu'Augustin ne prend en compte que le lien de filiation existant entre les deux cités. Toutefois, même dans l'hypothèse où Ma fatalia désignerait les sacra en général, la mention de Lavinium reste inexplicable si ce n'est par une assimilation polémique faite par Augustin du sort de cette cité à celui de sa cité-mère, Troie, et de sa cité-fille, Albe, toutes deux anéanties. Il nous semble, en tout cas, que cette interprétation est de beaucoup pré férable à celle qui voit dans les fatalia le seul Palladium. Par consé quent, le témoignage d'Augustin nous "paraît, en définitive, se ranger parmi ceux qui attribuent à Métellus le sauvetage de l'ensemble des sacra, et non pas simplement du Palladium. Le rapprochement entre ce passage et celui que nous avons précédemment étudié du même auteur est du reste assez éclairant à ce sujet191. En définitive, il ne nous paraît pas téméraire de penser que l'action héroïque de Métellus consiste à avoir sauvé des flammes les sacra du sanctuaire de Vesta, plutôt que la seule statue d'Athéna. Que le Pall adium soit assez souvent mentionné seul nous paraît pouvoir s'expliquer par le fait qu'il était sans doute le seul objet sacré à avoir un nom pro pre, et par le prestige dont il jouissait; l'identité des autres était assez vague, comme le montre du reste leur désignation par le simple terme de sacra, sauf dans le texte de Tacite où il est question de Penates populi Romani. Quant à la portée de l'action de Métellus, et donc à l'importance des objets sacrés qu'il mit à l'abri par son courage, elle est, en génér al, fortement soulignée par les auteurs que nous venons de citer.
189 Cf. supra p. 161-217. 190 Cf. Denys d'Halicarnasse, I, 67, 2-4. 191 De Ciu. Dei VI, 2.
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Nous n'insisterons pas sur la valeur qu'elle revêt chez les deux au teurs chrétiens, Augustin et Orose, valeur essentiellement polémique, puisqu'il s'agit de ridiculiser les dieux des païens en montrant qu'en des circonstances critiques, incapables d'assurer leur propre salut, ils ne furent sauvés que par une intervention humaine. Le point de vue des auteurs païens est évidemment tout autre, et met fortement en valeur l'exploit de Métellus, comme nous avons cru pouvoir le mont rer dans le cas d'Ovide. Denys192 signale que de grands honneurs (τιμάς μεγάλας) furent rendus au Pontifex Maximus, rappelés dans une inscription figurant au pied de sa statue sur le Capitole. Pline l'Ancien est plus précis : tribuit ei populus Romanus quod nulli alii ab condito aeuo, ut, quotiens in senatum iret, curru ueheretur ad curiam19i. D'autre part, de même qu'Ovide insistait sur le danger couru par Métellus, Valére Maxime, Augustin et Orose194 notent que Métel lus fut à demi-brûlé. Mais d'autres précisent qu'il perdit la vue à cet te occasion: Pline l'Ancien195, Sénèque le Rhéteur196 et Ampelius197. Cette cécité peut parfaitement s'expliquer comme la suite des brûlu res que subit le Grand Pontife, ou comme la blessure causée à ses yeux par la lumière trop vive des flammes. Mais il semble bien que, comme le suggère A. Brelich198, il faille accorder une autre significa tion à cette infirmité, dont Sénèque, dans la Controversia déjà citée, souligne ce qu'elle a d'incompatible avec les charges exercées par la
192 π, 66, 4. 193 N.H. VII, 45, 141 : «II reçut du peuple romain un privilège qui n'a jamais encore été accordé depuis notre ère : celui de se faire transporter en char à la curie, chaque fois qu'il se rendait au Sénat» (op. cit.). A. Brelich (// mito nella storia di Cecilio Metallo, SMSR, 15, 1939, p. 33) pense, tout en en critiquant, à la suite de Mommsen (ibid., n. 7), la plausibilité historique, que cet honneur fait entrer Métellus dans un monde surhumain. R. Schilling (op. cit., Commentaire, p. 205 n. 6) est beaucoup plus nuancé et réservé. 194 I, 4, 4 : semiustus; De Ciu. Dei III, 18 : semiustus; IV, 11, 9 : semiustatus. 195 N.H. VII, 141 : /5 Métellus orbam luminibus exegit senectam amissis incendio, cum Palladium raperei ex aede Vestae : « Ce Métellus passa sa vieillesse dans la cécité ; il avait perdu la vue dans un incendie, en enlevant le Palladium du temple de Vesta» (op. cit.); dans la suite, Pline affirme que le privilège qui lui fut octroyé par le peuple romain était destiné à compenser cette infirmité. 196 Contr. IV, 2 : oculos perdidit ; le titre de la Controuersia est d'ailleurs Métellus Caecatus. 197 20, 1 1 : oculos amisit. 198 Op. cit., p. 34 sqq.
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suite par Métellus, posant par là même un problème juridique199. Ovi de avait insisté sur la difficulté que présentait l'intervention de Métel lus lors de l'incendie du point de vue du strict respect de la législa tionreligieuse : sauver les sacra l'amène à pénétrer dans un lieu interdit aux hommes, et à voir des objets qui ne doivent pas être vus, απόρρητα ίερά, comme le note Denys200. La cécité du Grand Pontife serait alors, non une lésion accidentelle, mais le résultat d'une puni tion divine. Il est manifeste, d'ailleurs, que ce point a embarrassé les auteurs latins, dans la mesure où ils présentaient l'intervention de Métellus comme un acte héroïque, et non pas impie. Factum dea rapta probauit201 écrit Ovide, tandis que Sénèque fait gagner Métellus sur les deux tableaux, celui du courage et celui de la piété, en déclarant : habes, Vesta, duplex pontificis tui meritum : seruauit sacra nec uidit202. A Brelich propose d'établir un parallèle entre Métellus, devenu aveugle à la suite de l'incendie du sanctuaire de Vesta, et l'ancêtre éponyme de la Gens Caecilia, Caeculus, fondateur de Préneste, qui était né d'une étincelle de feu203, et avait le pouvoir de rendre aveug le204: chez le Grand Pontife comme chez son ancêtre légendaire, souligne A. Brelich205, il existe une relation entre la perte du sens de la vue et le feu. Mais ce qui nous semble surtout notable ici, c'est que la cécité est présentée comme la punition de ceux qui ont vu des choses divines qui devaient rester cachées. Il existe au moins deux exemples analogues, qui peuvent, croyons-nous, être rattachés à la légende troyenne, ou à ses héros. Selon le pseudo-Plutarque, Ilos, qui avait sorti le Palladium de son temple troyen en flammes, fut aveu glé: ού γαρ έξη ν ύπ' ανδρός βλέπεσθαι, conclut-il206. La ressemblance
199 Cf. Münzer, op. cit., col 1204, et la bibliographie donnée par A. Brelich, op. cit., p. 33 n. 1. 200 II, 66, 3. 201 Fastes VI, 453. 202 Loc. cit. 203 Servius, Ad Aen. VII, 678; Schol. Veron., Ad Aen. VII, 681 ; Solin, II, 9. Cf. A. Brel ich, op. cit., p. 38 n. 1. 204 Tertullien, Ad Nat. II, 15. Cf. A. Brelich, op. cit., p. 36 n. 3. 205 Op. cit., p. 38. 206 par Min> 17 (cf_ a. Brelich, op. cit., p. 35 n. 5). Cependant, chez le pseudo-Plutar que, Métellus et Ilos, après avoir été punis par la cécité, finissent par recouvrer la vue, ce qui, pour Métellus, est absolument contraire à l'ensemble de la tradition, comme le souli gneA. Brelich (ibid.).
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avec l'épisode de Métellus est frappante. Mais ce caractère secret des objets enfermés dans l'Aedes Vestae rappelle aussi ce que Denys d'Halicarnasse notait à propos des sacra apportés et établis par Enée à Lavinium, identifiés par l'historien comme les Pénates : au moment où les fondateurs d'une nouvelle cité, Albe, construisent un temple où ils se proposent d'installer les Pénates de Lavinium, ils prennent soin de ménager à l'intérieur de ce dernier un espace inviolable, où il sera interdit d'entrer : κατασκευασθέντος. . . ναού χωρίον έχοντος άβατον207; et, concluant sur le problème de l'identification des sacra lavinates, Denys affirme qu'il refuse d'enquêter davantage sur des objets qu'il est interdit de voir208. Bien qu'il n'existe pas de tradition selon laquelle la vue des sacra de Lavinium aurait pu être cause de cécité, il nous semble que l'interdit qui les frappe permet de les rapprocher de ceux du Penus Vestae du sanctuaire du Forum. Cette parenté, déjà soulignée plus haut, permet peut-être d'expliquer pourquoi, à un cer tain moment, on a considéré que les seconds étaient, comme les pre miers, les Pénates du peuple romain. Enfin, concernant la légende de la cécité de Métellus comme puni tion pour avoir vu des sacra qu'il était interdit de voir, un autre rappro chement nous paraît peut-être pouvoir être suggéré avec beaucoup de prudence. Il existe une tradition littéraire selon laquelle Zeus aurait menacé Anchise de l'aveugler de la foudre, ou même aurait mis cette menace à exécution, pour le punir de son union avec Aphrodite209, tra dition grecque à l'origine. Or, on a découvert à Castel de Decima, dans une tombe datée de la fin du VIIIe siècle210, un objet de bronze placé entre les roues d'un char, pièce sans doute destinée à maintenir l'écart entre les chevaux. A. Bedini propose de reconnaître, dans l'un des per sonnages figurés sur cette pièce de bronze, Anchise aveuglé par deux oiseaux, dont le bec semble en effet plongé dans ses yeux, tandis qu'un autre personnage, symétrique, semble être une femme allaitant un enfant, peut-être Vénus et Enée. A. Bedini, suivant une suggestion faite
207 I, 67, 1 : «un temple comprenant un espace inviolable ayant été construit». 208 I, 67, 4. 209 Cf. Hymne homérique à Aphrodite, 286-288, pour la menace; Théocrite, ap. Servius, Ad Aen. I, 617 et II, 35, 649, 687, pour son exécution. Voir A. Bedini, L'ottavo secolo nel Lazio e l'inizio dell'orientalizzante antico, in Lazio arcaico e mondo greco, PP, 32, 1977, p. 302, n. 61. 210 Cf. A. Bedini, op. cit., p. 297-303.
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dès la découverte du bronze par G. Pugliese Carratelli211, propose donc de l'expliquer en liaison avec la légende troyenne, ce qui ferait remont er à une date haute, sans doute le VIIIe siècle, la présence de cette dernière en Italie centrale. Naturellement, le héros et les circonstances de l'anecdote sont tout à fait différents de ceux de l'incendie du sanc tuaire de Vesta en 241. Mais, outre le point commun constitué par l'aveuglement comme punition d'une relation interdite de simples mort els avec le divin, il y en a peut-être un autre, le personnage d'Enée, qui nous apparaît ici comme le pivot autour duquel s'organisent les deux légendes d'Anchise et de Métellus : Anchise est aveuglé par Zeus parce qu'il s'est uni à Aphrodite, union dont naît Enée; ce dernier transporte de Troie au Latium des sacra qu'il est interdit de voir, et qu'une partie au moins de la tradition identifie avec ceux du sanctuaire de Vesta, Pénates et Palladium; or, pour avoir sauvé ces derniers des flammes, et donc les avoir vus, le Grand Pontife Métellus est aveuglé. Au reste, nous avons déjà cité un texte d'Augustin qui établit un parallélisme entre Métellus et Enée : Métellus de incendio sacra Vestalia et Aeneas de Troia no excidio pénates liberasse praedicatur212. Ainsi, il nous semble que l'épisode du sauvetage des sacra du sanc tuaire de Vesta par Métellus tend à authentifier la présence des Pénates parmi ces derniers. Les auteurs qui ont mentionné l'épisode insistent sur l'importance de cet exploit, considéré, au même titre que le sauve tagedes sacra de Troie par Enée, comme héroïque et exemplaire. D'au tre part, pas plus que les Pénates de Lavinium, ces sacra ne doivent être vus par les profanes. Enfin, les liens avec la légende de la fuite d'Enée et de sa venue au Latium sont nombreux. La présence du Palladium parmi les sacra de X'Aedes Vestae suggère une relation entre eux et ceux de Troie. Comme ces derniers, ils sont les garants et les symboles de la pérennité de la ville qui les détient, et le geste de Métellus, comparé à celui d'Enée, suggère fortement qu'ils ont l'un et l'autre sauvé des objets sacrés de nature identique.
211 Op. cit., p. 302, n. 62; G.Dumézil {Anchise foudroyé?, in L'oubli de l'homme et l'honneur des dieux, Paris, 1985, p. 151-161) accepte cette interprétation du bronze de Castel di Decima, qu'il appuie par des exemples analogues, empruntés à la mythologie grecque et scandinave. 212 De du. Dei VI, 2.
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3) Incendies divers Tite-Live nous rapporte un autre épisode marquant de l'histoire du sanctuaire de Vesta sur le Forum, l'incendie de 210 avant J.-C, auquel nous avons déjà fait allusion. Là encore, un sauvetage héroïque est accompli, cette fois par des esclaves : Aedis Vestae uix defensa est tredecim maxime seruorum opera, qui in publicum redempti ac manu misst sunt213. Il s'agit d'un incendie criminel, allumé par des nobles campaniens qui furent dénoncés par un esclave de l'un d'eux, sur promesse d'une forte récompense du consul romain; ils avaient, dit Tite-Live, cherché à atteindre YAedes Vestae, son feu éternel, et conditum in penet rali fatale pignus imperi Romani. Tite-Live ne cite donc là que le Palla dium, et non les autres sacra, sans doute parce qu'il est le plus connu; mais il nous semble que la mention du penetrale suggère aussi la pré sence des autres, et notamment de ceux qui ont un rapport étymologi que avec le nom de ce lieu, les Pénates. On peut, enfin, à la lumière de cet épisode, faire la remarque suivante : le fait que les sacra aient été sauvés par des esclaves, comme ils l'avaient été précédemment par le plébéien Lucius Albinius, rend difficile d'interpréter le geste du Grand Pontife Métellus comme une preuve du caractère gentilice du culte des sacra de YAedes Vestae, interprétation que pourrait suggérer un texte de Festus citant les Caecilii parmi les «familles troyennes», descendantes des compagnons d'Enée214. Dion Cassius mentionne encore deux incendies, l'un, pendant la guerre civile, en 47 avant J.-C, l'autre en 17 avant J.-C, mais il se contente de dire que les Vestales durent sortir du temple les ίερά dans le premier cas215, dans le second cas qu'elles transportèrent les ίερά dans la maison du flamine de Jupiter sur le Palatin216. Nous n'avons donc aucune précision sur la nature de ces ίερά. Cependant, une indica tion donnée par Dion Cassius nous semble particulièrement intéressan-
213 XXVI, 27 : « Le temple de Vesta fut défendu à grand peine, surtout grâce aux efforts de treize esclaves, qui furent rachetés pour le compte de l'Etat et affranchis» (trad. E. Lasserre, op. cit.). 214 38 L. : alii appellatos eos (= Caecilios) dicunt a Caecade Troiano, Aeneae comité ; des listes des «familles troyennes» figuraient, notamment, dans l'ouvrage de Caton, De aduentu Aeneae (cité par Servius, Ad Aen. IX, 707; Or. Gent. Rom., 15, 4), et dans celui de Varron, De familiis troianis (Servius, Ad Aen. V, 704); cf. S. Weinstock, Penates, col. 446. 215 XLII, 31, 3. 216 LIV, 24, 2.
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te, et confirme notre analyse de l'action de Métellus : c'est la mention de la cécité de la Grande Vestale. Il est peu probable qu'une telle infir mité soit antérieure à l'incendie du temple, car elle paraît peu compatib le avec cette fonction très prestigieuse217. Est-elle une punition pour avoir pénétré dans le Penus où étaient gardés les ίερά? Mais cela sem ble en contradiction avec le fait que, précisément, seules les Vestales y avaient accès. Il se peut que Dion Cassius rapporte à la Grande Vestale, et à cette circonstance, une cécité plus souvent attribuée à Métellus; nous n'avons aucun autre témoignage sur cet événement, mais le lien entre le transfert des ίερά et la cécité nous semble devoir être relevé. Ensuite, nous connaissons par Tacite l'incendie du sanctuaire sous le règne de Néron : delubrum Vestae cum Penatibus populi Romani exusta2U. Ici, la mention des Pénates est claire. S. Weinstock219 souligne le contraste entre Métellus qui sauva les sacra au péril de sa vie, en bravant les interdits religieux, et en perdant peut-être la vue à la suite de ce geste, et Néron, dont certains prétendirent à Rome220 qu'il avait lui-même ordonné de mettre le feu pour pouvoir mener à bien les réali sations architecturales qu'il projetait; lors de cet incendie, ajoute S. Weinstock, les «Pénates troyens» furent brûlés, et c'est en effet ce qu'on peut déduire du texte de Tacite pris à la lettre. L'histoire des Pénates dans l'Aedes Vestae s'arrêterait là. Pourtant, comme nous allons le voir, la présence des sacra est à nouveau mentionnée plus tard. Il faut donc probablement interpréter l'indication de Tacite de la manière suivante : le sanctuaire et le lieu spécifique où l'on conservait les sacra, le Penus Vestae, furent brûlés, mais sans doute les sacra eux-mêmes furent-ils sauvés. Hérodien221 signale un dernier incendie du temple en 191 après J.C; les Vestales, dit-il, sauvèrent des flammes le Palladium, dont il pré cise que c'était la statue apportée par Enée de Troie en Italie; il n'est pas question d'autres sacra. En revanche, l'Histoire Auguste nous donne des indications, les dernières que nous possédions concernant les sacra de l'Aedes Vestae, à propos d'une série d'actes d'impiété et de profanat ion dont se rendit coupable l'empereur Héliogabale : sacra p. R. subla-
217 218 219 220 221
Cf. C. Koch, Vesta, col. 1732-1754. Ann. XV, 41, 1. Op. cit., col. 444. Cf. Tacite, Ann. XV, 40. I, 14; cf. Dion Cassius LXXII, 24.
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tis penetralibus profanami. Ignem perpetuum extinguere uoluit. . . et in penum Vestae quod solae uirgines solique pontifices adeunt, inrupit. . . et penetrale sacrum est auf erre conatus cumque seriam quasi ueram rapuisset, quant uirgo maxima falso monstrauerat atque in ea nihil repperisset adplosam fregit. . . Signum tarnen quod Palladium esse credebat abstulit et auro uinctum in sui dei tempio locauit222. Dans ce témoignage tardif, nous trouvons rassemblées la plupart des données que nous connais sons déjà sur les sacra. Notons d'abord l'emploi du terme penetralia, et penetrale, dont le sens n'est pas, ici, tout à fait clair. Le sens habituel de penetralia est «le lieu le plus secret du temple»223, et c'est celui qu'il faut lui donner dans sublatis penetralibus; en effet, si l'on comprenait le mot comme «objets sacrés», il ferait double emploi avec sacra; mais il faut alors donner à ferre le sens de «violer»; en revanche, penetrale sacrum nous semble signifier, comme complément de auferre, «les objets sacrés cachés dans le secret du temple». En fait, le texte de l'His toire Auguste paraît distinguer trois catégories de sacra enfermés dans le penetrale : le feu, le Palladium, et au moins deux jarres, dont le texte suggère que l'une, vide, est destinée à tromper d'éventuels ravisseurs, et que l'autre - qui échappe finalement à l'impiété d'Héliogabale - est pleine. Cette anecdote semble présenter la contamination de deux tradi tions. D'une part, dans la présence de jarres, ici désignées par le mot seria, on reconnaît la tradition que nous avons étudiée plus haut, connue par Tite-Live et par Plutarque, selon qui224 les Vestales, lors de l'invasion gauloise, auraient enterré dans des jarres une partie des sacra avant d'emporter l'autre à Caeré. Le témoignage de l'Histoire Auguste est différent, puisque, d'après ce texte, des sacra n'auraient pas été enfermés dans des jarres lors d'une circonstance précise, et hors du sanctuaire de Vesta, mais l'auraient été continuellement à l'intérieur
222 Hist. Aug., Heîiog. VI, 6-9 : « II profana les objets sacrés du peuple romain après avoir violé les penetralia. Il voulut éteindre le feu perpétuel. . . et se précipita dans le Penus Vestae, où seuls les Vestales et les Pontifes ont accès. Il tenta d'emporter les objets sacrés cachés dans le sanctuaire et tandis qu'il avait enlevé, la prenant pour la vraie, une jarre que la Grande Vestale lui avait mensongèrement désignée, et qu'il avait constaté qu'elle ne contenait rien, il la jeta à terre et la brisa. . . Pourtant, il emporta une statue qu'il croyait être le Palladium, et la plaça dans le temple de son dieu, attachée par des chaînes d'or». 223 Ce sens est conforme à la définition de Festus (231 L.) : penetralia sunt penatium deorum sacrario. ,224 Liv., V. 40, 8; Plutarque, Cam., 20, 7.
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même du Penus. D'autre part, l'Histoire Auguste nous apprend qu'il y avait deux jarres, dont l'une - la vraie - était pleine (elle contenait des sacra), et l'autre vide et sans valeur, ce qui explique le geste de fureur d'Héliogabale, lorsqu'il s'aperçoit qu'il a été trompé. Or, tandis que, pour Tite-Live, les deux jarres sont pleines, pour Plutarque, comme pour l'auteur de l'Histoire Auguste, l'une est pleine et l'autre vide. Dans ce dernier texte, comme chez Plutarque, ce détail peut s'expliquer par une contamination avec certaines des traditions relatives au Palladium, selon lesquelles, dès l'origine, les Troyens auraient fait faire une copie de la statue, copie sans valeur qu'auraient volée Ulysse et Diomède. Selon ce dernier témoignage que nous possédons sur l'histoire des sacra, et bien que le texte ne le dise pas explicitement, ce sont sans dout e les Pénates qui sont supposés être conservés dans l'une des jarres de manière permanente, contrairement à ce que suggère le récit de TiteLive sur le sauvetage des sacra en 390, mais conformément à la tradi tion rapportée par Plutarque. En conclusion, à examiner les témoignages sur l'histoire des sacra du sanctuaire de Vesta, il nous semble, malgré les réserves formulées par A. Brelich225, qu'il existe bien une tradition qui les identifie aux Pénates, identification plus ou moins claire suivant les textes. Nous avons souligné, au cours de l'étude de ces témoignages, l'extraordinaire importance que revêtent ces sacra pour le salut du peuple romain, les parentés avec les sacra apportés par Enée à Lavinium, dans lesquels les Romains reconnaissent leurs propres Pénates. Mais ce lien des sacra du Penus Vestae avec Enée est aussi, et surtout, assuré par leur association avec le Palladium, dont la plupart des traditions font d'Enée l'introduc teur en Italie. Aussi est-il permis de penser que si seul le texte de Tacite mentionne explicitement la présence des Penates populi Romani dans le sanctuaire de Vesta, cette attestation, loin d'être un fait isolé et ne datant que de l'époque d'Auguste, repose sur une tradition assez solide et bien antérieure à l'instauration du pouvoir augustéen, même si l'on admet que le premier témoignage concernant les sacra dans leur en semble - non le seul Palladium -, celui de Tite-Live à propos de l'inva siongauloise de 390, atteste peut-être de manière anachronique, au IVe siècle, des traditions beaucoup plus récentes. Nous nous proposons d'examiner à présent l'origine des Pénates conservés dans l'Aedes Vestae, qu'une partie de la tradition rattache à
Vesta, p. 75-85.
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Enée, alors qu'une autre tradition, beaucoup mieux représentée, affi rmequ'il avait installé ses Pénates à Lavinium. Pour préciser l'origine de ces dieux dans YAedes Vestae, nous étudierons l'histoire du sanctuair e, en le replaçant dans l'ensemble architectural auquel il appartient.
III - L'Aedes Vestae, la Regia et les Pénates Le sanctuaire de Vesta, où sont gardés les sacra populi Romani, est voisin de la Maison des Vestales, avec laquelle il forme un ensemble, lui-même proche de la maison du Rex sacrorum, devenue ensuite celle du Pontifex Maximus226; de plus, YAedes Vestae n'est séparée de la Regia que par une rue, que l'on identifie généralement comme la Via Sacra, identification d'ailleurs contestée par F. Coarelli227, pour qui la Via Sacra serait, non la rue, qui, passant entre ces deux bâtiments, longe ensuite la Basilica Iulia jusqu'à ÏAedes Saturni, mais celle qui longe la Basilica Aemilia et va jusqu'à YArx en passant par le Comitium; enfin, le long de la Via Noua, au pied du Palatin, se trouvait le Lucus Vestae228. Il se pose, à propos de cet ensemble, quelques problèmes de dénominat ion. Selon E. Van Deman229, il n'y avait pas, à l'époque des rois, ces différents bâtiments à l'intérieur de «l'enceinte de Vesta»; la maison du Rex sacrorum n'avait d'ailleurs pas de raison d'être, puisque cette fonc tion sacerdotale date précisément de la chute des rois; les différentes parties qui constituaient cet ensemble étaient fortement resserrées et unifiées autour de la personne du roi, formant ce que l'archéologue américaine appelle une «structure complexe» qu'elle désigne du terme de Regia (ce qui apparaît aujourd'hui comme une dénomination erro née, après avoir fait l'objet de longs débats230), Yatrium proprement dit étant, selon elle, équivalent de ce qu'il est dans l'architecture privée : un espace ouvert. Au contraire, F. Castagnoli et F. Coarelli, à la suite de S. B. Plainer et T. Ashby, distinguent nettement la Regia, d'un côté de la Via Sacra, et YAtrium Vestae de l'autre, enceinte comprenant la Domus Vestalium et YAedes Vestae. Il n'en reste pas moins que l'ensemble
226 Cf. F. Coarelli, Roma, p. 81; II Foro Romano I, p. 70-72. 227 Roma, p. 78. 228 E. Van Deman, op. cit., p. 9; S. Β. Platner-T. Ashby, op. cit., p. 58-59; F. Castagnoli, Topografia di Roma antica, p. 82-83 ; F. Coarelli, II Foro Romano I, p. 234. 229 Ibid. 230 Cf. E. Van Deman, op. cit., p. 10 η. 4.
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Regia - Atrium Vestae forme un tout organique autour de la personne du roi. En effet, ces différents édifices ne constituent pas seulement une unité topographique - ils sont regroupés dans un espace relativ ement limité, entre la Vèlia et le Palatin -, mais aussi une unité fonctionn elle, rassemblant les cultes rattachés à la personne du roi et, peut-être, la demeure même du roi et de sa famille.
1) L'Aedes Vestae et la Regia Examinons d'abord les données littéraires relatives à ces deux édi fices, que sépare la Via Sacra. On rapportait la fondation du sanctuaire de Vesta à Numa, selon une tradition qui nous est connue par Tacite231, Plutarque232 et Festus233. Cette tradition s'explique du reste assez bien : tandis que Romulus a fondé Rome et lui a donné une organisation poli tique et militaire, Numa la dote d'une législation religieuse et instaure différents sacerdoces, notamment celui des Vestales234. Or, un texte de Solin attribue également à Numa la construction de la Regia, qui aurait été, selon lui, la demeure royale235 : Numa in colle Quirinali (habitauit), deinde propter aedem Vestae in regia quae adhuc ita appellatur236. Les données fournies par ces témoignages sont donc relativement claires : il y aurait eu, à l'époque de Numa, c'est-à-dire suivant l'historiographie romaine, à la fin du VIIIe ou au début du VIIe siècle, deux bâtiments distincts : d'une part le sanctuaire de Vesta, rond, où était conservé le feu perpétuel, d'autre part la Regia, résidence du roi; la construction des deux édifices était rapportée à Numa. Un texte d'Ovide nous apporte pourtant à ce sujet un témoignage singulier :
231 Dans le passage déjà cité des Annales (XV, 41, 1), à propos de l'incendie de Néron, Tacite écrit : Numae regia et delubrum Vestae cum Penatibus populi Romani exusta. 232 Numa, 11, 1 : «On dit que Numa donna au temple de Vesta, où l'on garderait le feu perpétuel, la forme ronde» {op. cit.). 233 320 L : Rutundam aedem Vestae Numa Pompilius rex Romanorum consecrasse uidetur. 234 Cf. Liv., I, 20, 1 sq. 235 Nous reviendrons sur cette question très largement controversée : cf. infra p. 513 sq. 236 I, 25.
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Hic locus exiguus, qui sustinet atria Vestae, tune er at intonsi regia magna Numae237. Une première difficulté réside dans l'interprétation du terme atria Vestae; le pluriel est de toute évidence poétique, au lieu de l'expression habituelle Atrium Vestae. H. Le Bonniec238 pense que ce terme désigne uniquement la Maison des Vestales, tandis qu'E. Van Deman239 et F. Coarelli240 voient dans l'Atrium Vestae l'ensemble constitué par le sanctuaire de Vesta et la Maison des Vestales. Mais surtout, comme le souligne H. Le Bonniec, Ovide a l'air de considérer que la Regia est confondue avec l'Atrium. Cette notation n'est sans doute pas une confu sionou une fantaisie du poète. Elle prouve, croyons-nous, qu'à l'origi ne, il n'y avait guère de distinction entre ces différents bâtiments, Regia, sanctuaire de Vesta, Maison des Vestales241. L'adjectif magna, dans l'expression regia magna, nous paraît, dans cette hypothèse, faire référence à une vaste enceinte plutôt qu'à un palais somptueux; regia doit ici être compris comme «l'espace appartenant au roi». L'histoire des bâtiments compris dans l'enceinte de Vesta serait, en conséquence, celle d'une progressive spécialisation. A l'époque de Numa, la maison du roi, le sanctuaire de Vesta, et la Maison des Vestales ne sont pas clairement différenciés : le foyer de Vesta est celui du roi, et n'est, pas conséquent, pas distinct de sa maison; les Vestales sont peut-être les filles non mariées du roi242, et habitent donc la maison du roi.
237 Fastes VI, 263-264 : « Cet espace étroit, qui porte aujourd'hui l'Atrium de Vesta, était alors le grand palais de Numa, le roi chevelu» (trad. H. Le Bonniec, op. cit.). 238 Op. cit., p. 208 n. 62. 239 Op. cit., p. 9. 240 Roma, p. 81. 241 Une remarque d'E. Van Deman va dans le même sens : « Pendant la première période de son existence, il n'y avait pas de constructions distinctes à l'intérieur de l'en ceinte de Vesta, mais les différentes parties, plus ou moins étroitement unies entre elles, formaient une unique structure complexe» (loc. cit.); et elle ajoute en note : «La route qui sépare à présent le temple de la dernière Regia n'est pas d'origine» (loc. cit., n. 2); voir aussi J. G. Frazer, op. cit., p. 188-201. 242 Cf. A. Preuner, Hestia-Vesta, passim; A. Brelich, Vesta, passim; J.-P. Vernant, Hestia-Hermès : sur l'expression religieuse de l'espace et du mouvement chez les Grecs, in l'Homme, 1963, 3, p. 12-50 (repris dans Mythe et Pensée chez les Grecs I, Paris, 1965, p. 124-170); cette explication du statut des Vestales peut être rapprochée de la tradition rapportée notamment par Tite-Live (I, 3, 11), selon laquelle Rhéa Silvia, fille du roi d'Albe Numitor, était Vestale (voir P. M. Martin, L'idée de royauté à Rome. De la Rome royale au consensus républicain, Clermont-Ferrand, 1982, p. 108); cette opinion est combattue par
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Quant au temple lui-même, toujours d'après le témoignage d'Ovide, il était originellement en roseaux, de même que les huttes primitives : Quae nunc aere uides, stipula turn teda uideres, Et paries lento uimine textus erat243 Comme le souligne à juste titre H. Le Bonniec244, cette parenté, dans le matériau de construction, avec les cabanes primitives, explique probablement aussi en partie la forme du sanctuaire245. Du reste, les documents figurés, en particulier les monnaies, représentent très sou vent l'Aedes Vestae comme une hutte ronde, avec un toit de chaume pointu246. Or, l'archéologie semble confirmer la tradition selon laquelle l'Ae des Vestae aurait été construite «par Numa», c'est-à-dire vers le milieu du VIIe siècle, selon les données de l'annalistique romaine. De la cons truction du bâtiment de cette époque, on n'a retrouvé aucune trace247, ce qui s'explique fort bien s'il était fait de branchages, comme le pré tend Ovide. Cette affirmation, comme la datation du monument, est, du reste, corroborée par la découverte de deux puits situés près de l'en ceinte ronde de X'Aedes, entre l'édifice et la Maison des Vestales. Cette découverte revient à G. Boni et date du début du siècle, mais le matériel trouvé dans ces deux puits, l'un archaïque, l'autre d'époque républicai-
M. Beard (The sexual status of the Vestal virgins, JRS, 70, 1980, p. 12-27), pour qui les Ves tales sont les épouses, plutôt que les filles, du roi : leur costume ressemble à celui des matrones, et la formule de la capito, où le Pontifex Maximus a pris la place du roi, instau re une relation de type conjugal, plutôt que filial; la légende de Rhéa Silvia est interpré tée en ce sens : c'est l'aspect de la Vestale comme mère de Romulus et Rémus qui est retenu, tandis que M. Beard souligne que le rapport privilégié des Vestales au feu peut être expliqué comme une sorte d'union sexuelle, la flamme étant un symbole phallique, comme l'illustre la légende de la naissance de Servius Tullius (cf. supra p. 458 n. 33); M. Beard estime d'ailleurs que le statut sexuel des Vestales est ambigu, pour partie fémi nin, pour partie masculin. 243 Fastes VI, 261-262: «Ce temple que vous voyez aujourd'hui couvert de bronze, vous l'auriez vu alors couvert de chaume, et ses parois étaient faites alors d'osier flexi ble» (trad. H. Le Bonniec, op. cit.). 244 Op. cit., p. 208 n. 61; voir aussi C. Koch, Vesta, col. 1725-26. 245 Comme le rappelle H. Le Bonniec, loc. cit. ; G. Dumézil (La religion romaine archaï que,p. 319-326) explique cette forme par des traditions religieuses indo-européennes. 246 C. Koch, op. cit., col. 1724-25. 247 Cf. R. Lanciani, Notizie Scavi, 1883, p. 434 sq.; G. Boni, ibid., 1900, p. 159 sq.; A. Bartoli, // valore storico delle scoperte al Palatino e al Foro, in Atti della Soc. hai. Pro gresso delle Scienze, 21, 1932.
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ne, fut publié par A. Bartoli248 en 1961. Dans le puits archaïque, on a retrouvé, notamment, un fragment de crépi grossier portant l'empreint e d'un roseau249, ce qui confirme la ressemblance entre le sanctuaire et les cabanes servant d'habitation. D'autre part, ce puits archaïque contient essentiellement de la vaisselle, datable, par comparaison avec du matériel analogue découvert sur le Forum, d'une période comprise entre le VIIe et le début du VIe siècle, et rien, dans le matériel enfoui là, n'est postérieur à cette date250. Nous avons donc la preuve qu'il a existé en ce lieu un culte de Vesta dès le VIIe siècle251, sans qu'il soit possible, indique A. Bartoli252, de faire une distinction entre les objets purement cultuels et ceux qui appartenaient aux Vestales, en raison du très mauv ais état de la plupart d'entre eux. A peu près à la même époque, dans le courant du VIIe siècle, appar aissent les premières traces de construction du bâtiment tout proche, la Regia, dont nous avons vu que la tradition attribuait aussi l'édifica tion à Numa. En effet, les fouilles récentes faites sur l'emplacement de la Regia253 font commencer l'histoire, ou plutôt, selon la terminologie de F. E. Brown, la «protohistoire» du site à cette date. Selon ce savant, la plus ancienne trace d'occupation du site serait constituée par un groupe de cabanes, pour lesquelles on a pu fixer une datation précise grâce à un morceau de bois appartenant à l'une d'elles : 679 avant J.-C. environ; mais il est possible qu'il faille faire remonter la première apparition de cet habitat à la fin du VIIIe siècle, ou aux toutes premièr es années du VIIe254; ce groupement de cabanes aurait constitué, dit F. E. Brown, une sorte de faubourg du village du Palatin, qui se serait progressivement étendu de la colline à la plaine du Forum, vers le sud.
248 I pozzi dell'area sacra di Vesta, Monumenti Antichi, Accademia dei Lincei, 45, 1961, p. 3-143; cf. aussi G. De Sanctis, Storia dei Romani, IV, 1, Florence 1953, p. 164-165. 249 Op. cit., p. 19. 250 Op. cit., p. 13-14. 251 P. Romanelli, Certezze e ipotesi sulle origini di Roma, StudRom, 13, 2, 1965, p. 12. 252 Op. cit., p. 15-16. 253 F. E. Brown, New Soundings in the Regia : the evidence for the early Republic, in Les Origines de la République romaine, Entretiens sur l'Antiquité Classique, XIII, Fondat ion Hardt, Vandoeuvres-Genève, 1967, p. 47-64; La Protostoria della Regia, RPAA, 47, 1974-75, p. 15-36. F. R. Brown avait, en 1935 consacré une première étude à la Regia (The Regia, MAAR, 12, 1935), essentiellement topographique et archéologique. Enfin, on trouve un résumé des travaux récents sur la Regia chez J. Poucet, La Rome archaïque. Quelques nouveautés archéologiques : S. Omobono, le Comitium, la Regia, AC, 49, 1980, p. 308-312. 254 Cf. F. E. Brown, La Protostoria della Regia, p. 19.
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Cet habitat, antérieur à la date légendaire du règne de Numa, n'aurait eu aucun caractère royal, ni sacré. Mais, au début du dernier quart du VIIe siècle, il y a eu sur le site une importante inondation venue des eaux du Tibre - selon F. E. Brown, cet emplacement a connu au cours de sa protohistoire de nombreuses inondations, du fait du débordement périodique du Tibre, et de l'écoulement d'un torrent qui descendait de la Vèlia255 - accident qui marque une étape décisive dans l'histoire de la Regia; les cabanes alors dévastées par les eaux ne furent jamais reconst ruites, et les seules qui subsistèrent, parce qu'elles se trouvaient pla cées à un niveau un peu plus élevé, furent abattues. Tout cet espace fut recouvert d'une couche de terre battue contenant quelques morceaux de tuf, de façon à rendre le sol uniforme et à pallier les dénivellations dues à la pente, opération qui, selon F. E. Brown256, semble exprimer l'intention de constituer un templum, par l'acte rituel de la liberano de l'espace, qui change ainsi complètement de nature avant d'être à pro prement parler inauguré257. On a retrouvé, datant de la même époque, un cippe de tuf, que F. E. Brown croit pouvoir interpréter comme l'a ttestation de l'existence en ce lieu d'une aire sacrée, avec, peut-être, un autel. De la construction de bâtiments, on n'a retrouvé que quelques vestiges, mais F. E. Brown a pu en reconstituer le plan : il s'agit de deux pièces couvertes d'un toit de tuiles, séparées l'une de l'autre par une sorte de cour centrale, et s'ouvrant par une porte sur une enceinte de forme irrégulière; en face de l'entrée de la pièce sud, on trouve, creusé dans le dallage du sol, un foyer circulaire d'environ 1 mètre de diamèt re, et des vestiges de fourneaux; enfin, il semble qu'il y ait eu un porti que à colonnade devant les deux bâtiments, donnant sur le reste de l'enceinte sacrée. Des phases architecturales suivantes de l'histoire de la Regia, minu tieusement étudiées par F. E. Brown, nous ne retiendrons ici que ce qui intéresse notre propos : ce premier groupe de bâtiments semble avoir été remanié au début du VIe siècle, puis partiellement détruit par une inondation torrentielle, suivie d'un incendie; on reconstruisit les bât iments, en utilisant les fragments qui subsistaient, avec une orientation
255 Voir E. Gjerstad, Early Rome II, Lund, 1956, p. 17; P. Romanelli, op. cit., p. 11-12; J. Heurgon, Rome et la Méditerranée occidentale, p. 85. 256 Op. cit., p. 20-21. 257 A l'appui de son hypothèse, F. E. Brown cite un texte de Cicéron (De Leg. II, 21) à propos de l'action des augures : urbemque et agros et templa liberata et effata habento.
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différente, mais suivant un schéma d'ensemble toujours identique : deux pièces desservies par un vestibule, s'ouvrant sur un espace délimit é par un mur d'enceinte de forme irrégulière, dont l'un des coins for me un angle aigu qui restera, jusqu'à l'époque impériale, caractéristi que de la Regia. La destination exacte de ce bâtiment tripartite pendant l'époque royale soulève de très délicats problèmes, que n'a pas contribué à résoudre la découverte d'une coupe de bucchero portant l'inscription REX25S. Dans la première étude qu'il consacra à la Regia259, F. E. Brown avait considéré qu'il s'agissait de sanctuaires, hypothèse fondée sur différentes considérations. Certaines d'entre elles s'ap puient sur la tradition littéraire, qui désigne la Regia comme un fanum260, renfermant les sanctuaires de Mars261 et d'Ops Consiva262 et un focus263. D'autre part, F. E. Brown a tout d'abord cru pouvoir appuyer cette hypothèse sur des arguments archéologiques reposant sur la décoration du fronton et du toit de la Regia lors des reconstruct ions du VIe siècle, avec des acrotères et des terres cuites peintes; ce type d'ornements, pensait-il, ne se trouve, au VIe siècle, que dans l'a rchitecture religieuse. Quelques années plus tard, le savant américain, dans l'étude que nous avons largement utilisée pour exposer l'histoire architecturale du bâtiment, est revenu sur cette interprétation religieu se de la Regia de l'époque royale. Des analogies avec d'autres cons tructions archaïques de l'Italie centrale264 ont modifié l'orientation de sa réflexion. D'une part, note-t-il, aucun temple de cette période ne présente de ressemblance, dans son organisation architecturale, avec la Regia, dont les pièces, avant d'être, dans une dernière phase, réu nies en un bâtiment tripartite, furent, dans les étapes de cette cons-
258 E. Gjerstad, Early Rome III, Lund, 1960, p. 307. Cette inscription a été étudiée en dernier lieu par M. Guarducci (L'epigrafe REX nella Regia del Foro Romano, Vestigia, XVII, 1972, p. 381-84) qui considère que l'inscription date d'avant 509 et désigne donc un des derniers rois de Rome, et non le rex sacrorum républicain. J. Poucet (ibid., p. 309) donne une bibliographie détaillée du sujet. 259 New soundings in the Regia : the evidence for the early Republic. 260 Festus, 346 L. 261 Servius, Ad Aen. VII, 603; Gell., Ν. Au. IV, 6, 1-2. 262 Varron, De L.L., VI, 21 ; Festus, 202 L. ; voir P. Pouthier, Ops et la conception divi nede l'abondance. . ., Rome, 1981, p. 65 sq. 263 Festus, 190 L. 264 Voir M. Torelli, Storia degli Etruschi, Rome-Bari, 1981, p. 174 sq.; F. Coarelli, // Foro Romano I, p. 61-70.
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truction, dispersées autour de la cour constituant l'enceinte sacrée, suivant un schéma variable, comme nous l'avons vu; la présence de restes de fourneaux, dans la première Regia, est, elle aussi, assez diffi cile à expliquer dans une interprétation religieuse des bâtiments. Or, à Acquarossa, l'antique Ferentum, l'Institut suédois de Rome a mis au jour un bâtiment considéré d'abord comme un temple, et aujourd'hui comme le palais du prince local265, dont la structure ressemble fort à celle de la Regia du Forum : elle est constituée par trois corps de bât iments s'ouvrant sur une cour centrale, de forme irrégulière, mais qui n'est pas sans rappeler la forme trapézoïdale de la cour de la Regia romaine. Dans un autre site étrusque, à Poggio Civitate266, on a retrou vé des terres cuites architectoniques, datées du VIe siècle, et utilisées, non dans l'architecture religieuse, mais dans une demeure princière. F. E. Brown en est donc venu à considérer que la Regia romaine a été, dès l'origine, non pas un sanctuaire ou un groupe de temples, comme il l'avait d'abord cru, mais la demeure du roi. Il existe, à propos du lieu de la résidence des rois, une double tradi tion, rapportée par Solin267 : selon l'une, leur résidence était la Regia, selon l'autre, ils demeuraient sur les collines dominant le Forum268. F. E. Brown269 explique cette double tradition par le caractère particul ier de la Regia du Forum, qui ne représente, selon lui, que la partie sacrée de la demeure royale; en effet, note-t-il, il existait un culte de Mars et d'Ops Consiva dans la Regia, cultes liés à la personne du roi primitif, à la fois guerrier et dispensateur d'abondance; or, la relative petitesse des pièces de la Regia rend peu vraisemblable que le roi, la reine, leurs enfants, leurs serviteurs, les aient effectivement habitées :
265 Cf. C. E. Ostenberg, Med Kungen pa Acquarossa, Malmö, 1972, p. 133-137, cité par F. E. Brown, La Protostoria della Regia p. 34 η. 1 1 ; M. Torelli, Etruria, p. 225. 266 Κ. Phillips, Poggio Civitate: The archaic Etruscan Sanctuary, Florence, 1970; M. Cristofani, Considerazioni su Poggio Civitate, in Prospettiva, I, 1975, p. 9 sq. 267 I, 25 : Ceteri reges quibus locis habitauerunt dicemus. . . Huma in colle primum Quir inali, deinde in regia quae adhuc ita appellatur. . . Tullus Hostilius in Velia, ubi postea deum Penatium aedes facta est. . . Ancus Martius in summa Sacra Via ubi aedes Larum est. . . Tarquinius Priscus ad Mugoniam Portant, supra summam Nouam Viam. . . Servius Tullius Esquilinus supra cliuum Urbium. . . Tarquinius Superbus et ipse Esquilinus supra cliuum Pullium ad Fagutalem lacum ; voir F. Coarelli, // Foro Romano I, p. 56-57. 268 La tradition cependant situait les demeures de Romulus et de Tatius respectiv ement sur le Palatin et sur l'Arx uniquement, la fondation de la Regia du Forum n'étant attribuée qu'à leur successeur Numa. 269 La Protostoria della Regia, p. 35-36.
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leur «résidence profane» était donc, dit F. E. Brown, située dans diffé rents quartiers de la ville, suivant les rois, leur «résidence sacrée» à la Regia210. Il semble bien que, pendant toute la période royale, les bât iments compris dans l'enceinte sacrée de Vesta aient été peu distincts, et tous étroitement rattachés à la personne sacrée du roi, à mi-chemin, comme le roi lui-même, entre profane et sacré. Les liens unissant Numa et Egèrie, Servius Tullius et la Fortune271, nous paraissent signi ficatifs, entre autres, de ce statut de la personne royale. Au moment de l'instauration de la République, il n'est guère pensable que la Regia ait pu conserver un caractère d'habitation : elle est uniquement le sanc tuaire de Mars et d'Ops, substituts divins du couple royal, tandis que le Rex sacrorum reçoit comme résidence un édifice voisin, situé à l'endroit le plus élevé de la Via Sacra212. C. Ampolo273 a montré, de facon très convaincante, que les faits historiques romains et leurs conséquences sur les édifices de l'enceinte de Vesta trouvent des correspondants politiques et architecturaux à peu près complets à Athènes : sur le côté ouest de l'Agora, à l'emplace ment où fut édifiée plus tard la Tholos, on construisit vers 540, sous la tyrannie de Pisistrate, un bâtiment, remanié ensuite, aux environs de 500, après la réforme de Clisthène. Or, ce dernier présente de grandes analogies de structure avec la Regia, et cette structure correspond, elle aussi, à la chute d'une tyrannie et à l'instauration d'un régime démoc ratique; C. Ampolo propose de reconnaître dans ce bâtiment le βουλοικεΐον, demeure de l'archonte-roi, où se trouvait la κοινή εστία, liée au culte de Pallas; cela prouverait, ajoute-t-il, des contacts étroits entre Athènes et Rome dès le début du VIe siècle, peut-être par l'intermédiai re de Lavinium, où des cultes grecs, comme celui des Dioscures et peutêtre celui de Vesta que les Romains considéraient comme d'origine étrangère, étaient implantés à cette date.
270 Cette interprétation est contestée par G.-Ch. Picard : « Ne vaudrait-il pas mieux supposer que l'édifice a toujours eu une destination religieuse, y compris les repas qui pouvaient être préparés et consommés dans la chapelle d'Ops, déesse de l'abondance?» (Les mystères de la Regia, REL, 54, 1977, p. 354). 271 Voir J. Champeaux, op. cit., p. 293-95. 272 F. Coarelli, II Foro Romano I, p. 64. 273 Analogie e rapporti fra Atene e Roma arcaica. Osservazioni sulla Regia, sul Rex sacrorum e sul culto di Vesta, PP, 26, 1971, p. 443-460.
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2) Les Pénates de Numa La tradition attribuant à Numa à la fois la construction de la Regia et celle de l'Aedes Vestae est essentielle pour comprendre ce qu'étaient les sacra conservés dans le mystérieux penetrale du sanctuaire, car cette tradition, croyons-nous, fait référence à un stade précis de l'histoire du développement de Rome. On a débattu le point de savoir si le sanctuaire de Vesta se trouvait à l'intérieur du pomerium de la cité romuléenne, située sur le Palatin. Pour S. B. Plainer et T. Ashby274, il est à l'extérieur de l'enceinte de la ville; de même, A. Bartoli considère qu'il appartient plutôt à la zone du Forum qu'à celle du Palatin275. La réponse à cette question paraît en réalité à peu près impossible, étant donné que, comme le note du reste l'archéologue italien, les limites du pomerium de Romulus ne nous sont connues que par deux textes de Tacite276 et de Solin277 qui sont trop imprécis pour permettre une définition rigoureuse des frontières de la cité. Il est certain, en revanche, que, même si l'on admet, ce qui est contestable, que Vesta tire son nom de celui de la déesse grecque 'Εσ τία278, il n'est pas possible que cette déesse du foyer ait eu un temple à l'extérieur de l'enceinte urbaine. Par conséquent, le culte de Vesta nous ramène à un temps où le Forum, ou du moins sa partie orientale où se dresse YAedes Vestae, part iecomprise entre le Palatin et la Vèlia, est inclus dans l'enceinte de la ville. Nous avons vu précédemment279 que ce stade du développement de Rome correspond à la cité palatino-vélienne, qui se forme dans le courant du VIIe siècle. Cette date correspond à l'attestation sûre d'un culte de Vesta et des premières constructions de la Regia, dont la contemporanéité est très importante pour notre propos, car si l'empla cement de YAedes Vestae peut encore apparaître comme les derniers contreforts du Palatin, la Regia, elle, se trouve au pied de la Vèlia. L'en-
274 Op. cit., p. 557. 275 Op. cit., p. 7. 276 Ann. XII, 23 : et pomerium urbis auxit Caesar, more prisco, quo Us qui protulere Imperium etiam terminos urbis propagare datur. 277 I, 18 : Ea (= Roma) incipit a silua quae est in area Apoîlinis, et ad supercilium scalarum Caci habet terminum. 278 Cf. G. De Sanctis, op. cit., p. 164 n. 144 et p. 165; contra : G. Dumézil, La religion romaine archaïque, p. 329. 279 Voir supra p. 441-5.
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semble fonctionnel constitué par YAedes Vestae et la Regia apparaît donc, topographiquement, comme un trait d'union entre les deux colli nes. La date que l'archéologie peut assigner à ce stade du développe ment de Rome, où pour la première fois la construction d'un mur d'en ceinte en terre la constitue en cité280, correspond non seulement à l'ap parition probable de nos deux édifices, mais aussi à la date que la tradi tion assigne au règne de Numa. Nous avons dit plus haut les raisons qui nous portaient à croire que, parmi les sacra conservés dans YAedes, se trouvaient les Pénates. Le lien établi entre Numa et ce sanctuaire, foyer du roi avant d'être celui de l'Etat, nous fait supposer que le Penus Vestae contenait les Pénates que la légende des origines rapportait à Numa, les seuls Pénates publics véritablement romains, autochtones, puisque ceux de Lavinium venaient de Troie et ceux de la Vèlia, croyons-nous, d'Albe. Il nous paraît explicable que ces Pénates soient ceux «de Numa», et non ceux du fondateur Romulus, dans la mesure où c'est au premier qu'est rapportée toute l'organisation religieuse de Rome. La présence des Pénates dans le sanctuaire de Vesta sur le Forum n'a rien qui doive surprendre. Nous avons vu281 que Servius et Macrobe mentionnent un sacrifice fait conjointement à Vesta et aux Pénates à Lavinium, ce dont nos auteurs déduisent que la déesse est cornes des Pénates ou peut-être même qu'elle fait partie des Pénates282. Il s'agit évidemment là d'attestations tardives, mais Cicéron écrit, à propos des Pénates : nec longe absunt ab hac ui (= Vesta)283. Cette affirmation nous paraît exclure, bien que Cicéron puisse songer aussi aux faits lavinates et, en particulier, au sacrifice annuel des magistrats romains, qu'il n'existe pas, à Rome même, un lien entre Vesta et les Pénates. Ces témoignages paraissent aller à l'encontre de la suggestion d'A. Brelich, selon laquelle ce lien daterait de l'époque augustéenne, les Pénates honorés au foyer de l'Etat ne pouvant être que ceux de la Gens Iulia; notre propre hypothèse, consistant à voir en eux les «Pénates de Numa», est également incompatible avec elle. D'autre part, dans notre étude des possibles représentations figu-
280 281 282 283
Ibid. Voir supra p. 355-61. De numero Penatium. . . esse (Servius, Ad Aen. II, 296; Macrobe, III, 4, 11). De Nat. Deor., II, 68.
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rées du temple des Pénates à Lavinium284, nous avons constaté que, sur des monnaies d'Hadrien et d'Antonin et des lampes de la même époque montrant l'arrivée d'Enée à l'emplacement de la future Lavinium, on apercevait dans le fond de la scène un temple rond offrant une ressem blance frappante avec les images de ÏAedes Vestae sur le Forum, souli gnée par F. Castagnoli285. Nous avions noté alors qu'il n'était pas imposs ibleque ce monument fût le sanctuaire du Forum; dans cette hypothès e, l'allusion très claire faite aux Pénates par la présence d'Enée serait une attestation supplémentaire du lien entre Vesta et les Pénates à Rome même. Si, comme nous avons cru pouvoir le montrer, les Pénates étaient honorés dans le sanctuaire de Vesta, et si ces Pénates étaient ceux «de Numa», il subsiste deux difficultés. La première est qu'une partie de la tradition désigne ces sacra comme troyens, ce qui revient à les ratta cher plutôt à Enée qu'à Numa. La légende qui fait d'Enée le fondateur de Rome ne nous paraît pouvoir fournir qu'une solution partielle à cet tedifficulté, dans la mesure où cette tradition reste très limitée et sem blele fait de l'historiographie grecque, tandis qu'à Rome même, Romul us s'impose comme fondateur286. Deux éléments nous semblent avoir joué un rôle beaucoup plus important dans la tradition relative à l'or igine troyenne des sacra du Penus Vestae. C'est, d'une part, la présence parmi eux du Palladium, dont l'origine «troyenne» a pu s'étendre à tous les objets conservés là, d'autant plus d'ailleurs que, en tant que pignora imperii, ils étaient entourés d'un mystère qui favorisait ces confusions. D'autre part, nous croyons qu'il faut voir dans cette tradi tion le reflet de l'importance prise par la légende des origines troyennes de Rome : à partir du moment où cette dernière fut nettement affirmée, dans le courant du IVe siècle selon nous287, les Pénates du sanctuaire du Forum, originellement romains, autochtones et rattachés à Numa, furent considérés comme troyens. Cette fois encore, nous constatons que nos dieux apparaissent comme l'expression de l'image que Rome se fait d'elle-même. La seconde difficulté est la suivante : pourquoi seul le texte de
284 Voir ci-dessus, p. 224-9. 285 Lavinium I -p. 113-115. 286 Toutefois, le caractère mystérieux de ces sacra empêchait sans doute de les rap porter systématiquement et exclusivement à Enée plutôt qu'à tel autre. 287 Cf. supra p. 372 sq.
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Tacite mentionne-t-il la présence des Penates populi Romani dans YAedes Vestae, alors que les autres témoignages littéraires nous parlent de sacra, et pourquoi ce sanctuaire ne porte-t-il pas le nom des Pénates, à côté de celui de Vesta? A la première question, on peut répondre que sacra désigne l'ensemble des pignora imperii, les Pénates n'étant pas seuls à être considérés comme tels. Enfin, si le sanctuaire ne porte pas le nom de ces dieux, c'est peut-être parce qu'à quelques dizaines de mètres de YAedes Vestae se trouvait, sur la Vèlia, un sanctuaire appelé Aedes deum Penatium. N'aurait-il pas été gênant, dans ces conditions, de désigner aussi par le nom des Pénates le sanctuaire de Vesta? Mais surtout, comme l'a fort brillamment montré F. Coarelli288, il semble qu'à la chute de la royauté, la cohésion que donnait la personne du roi aux divers cultes qui lui étaient attachés se soit brisée, et que l'on assis te à une spécialisation de différents bâtiments pour chacun de ces cultes : la Domus Vestalium et YAedes Vestae sont distinctes, la Regia devient un simple sanctuaire de Mars et d'Ops Consiva, le Rex sacrorum habite un autre édifice, les Lares et les Pénates ont des temples pro pres. Il est remarquable, comme l'a noté F. Coarelli289, que les trois principaux cultes du foyer du roi, celui de Vesta, celui des Pénates, celui des Lares, aient été finalement rattachés aux trois rois «légendair es», Numa, Tullus Hostilius, Ancus Martius290. Cette spécialisation des bâtiments au service d'un seul culte expli que, selon nous, que la tradition suivant laquelle les Pénates publics proprement romains se trouvaient dans le sanctuaire de Vesta ait été un peu éclipsée, à la fois par la présence du temple, tout proche, de la Vèlia, et par la tradition, liée à la légende des origines de Rome, du caractère troyen des sacra du Penus Vestae.
288 // foro Romano I, p. 77. 289 Ibid. 290 Solin, I, 25.
CONCLUSION
Les Pénates, «ceux du penus», semblent avoir été, à l'origine, les dieux de la partie la plus reculée de la maison, et la notion trouve sans doute son point de départ dans le culte privé, comme il a été noté par beaucoup de savants, G. Wissowa notamment. Au reste, l'étymologie même du mot ne laisse guère de place au doute sur ce point, car le penus appartient à l'architecture de la maison privée, et il faut proba blement expliquer l'existence du Penus Vestae dans le sanctuaire du Forum par le lien établi entre Pénates et foyer du roi. Les Pénates forment, dans le culte privé, une collectivité indétermin ée, au sein de laquelle aucune individualité ne se détache. Malheureus ement, l'iconographie primitive de ces dieux ne nous est pas connue par l'archéologie, en dépit de l'hypothèse de F. Borner consistant à voir dans les figurines d'argile des tombes albaines, statuettes masculines et féminines, les ancêtres des Pénates romains. Peut-être d'ailleurs des représentations figurées d'une pluralité indistincte sont-elles inconcevab les. Beaucoup plus tardivement, on trouve, comme dans les laraires de Pompéi, un certain nombre de dieux, bien connus par ailleurs et indivi dualisés, protecteurs personnels du maître de maison et de sa famille. Ce qui nous manque alors, ce sont des images qui nous montreraient la figuration archaïque de Pénates privés, comme les statues de la Vèlia, aux dires de Denys d'Halicarnasse, le faisaient pour le culte public. Aucun témoignage archéologique ne vient, à ce jour, appuyer ce que nous croyons pouvoir reconstituer de l'histoire de la notion dans le culte privé : pluralité indifférenciée de divinités résidant dans la partie la plus retirée de la maison, qu'ils protègent, les Pénates ont dû forcé ment s'individualiser dès lors qu'on les a représentés sous une forme figurée. Il est possible, mais non certain, qu'ils aient alors d'abord été deux, dans le culte privé comme dans le culte public, ce nombre appa raissant comme la façon la plus simple de représenter la pluralité. Nous voudrions à nouveau insister sur le contraste existant, à l'i ntérieur du culte privé, entre deux faits : d'une part, le mot Penates est
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très employé, de façon métonymique souvent, et semble chargé pour les Romains d'une forte valeur affective; d'autre part — et sur ce point les laraires de Pompéi constituent un document exceptionnel -, on a l'impression que les Romains finissent par ne plus savoir ce que sont exactement les Pénates, et qu'ils éprouvent le besoin de renforcer leur identité, en quelque sorte, en les assimilant à d'autres dieux, individual isés par ailleurs, et choisis par le paterfamilias en fonction de son acti vité ou de ses goûts; la confusion existant dans la conception romaine des Pénates trouve son point d'aboutissement avec la définition que Servius donne d'eux) {omnes di qui domi coluntur1), où les Pénates sont sentis comme protecteurs de la maison, mais ont en fait perdu leur originalité et, finalement, leur identité véritable; la notion, vidée de son sens, était prête à accueillir d'autres divinités, qui ont joué d'ail leurs dans le culte privé un rôle assez proche de celui qu'ont dû avoir les Pénates à l'origine, comme protecteurs de ce que la maison a de plus précieux. Le lien entre Pénates privés et Pénates publics se comprend assez bien par l'ambivalence de la personnne du roi et, à cet égard, la compar aison avec d'autres cultes domestiques est tout à fait éclairante. Les Pénates de l'État sont à l'origine ceux du roi, ce qui est illustré par les légendes concernant leur culte à Rome : le temple des Pénates sur la Vèlia est situé à l'emplacement de la maison de Tullus Hostilius, ou près d'elle2; le sanctuaire de Vesta, où sont aussi gardés les Pénates du peuple romain, est intégré dans un complexe architectural qui com prend la maison du roi, la Regia, liée à Numa. Il en va sans doute de même d'un autre culte domestique, celui des Lares, dont Solin, et Varron cité par Nonius3, nous disent que le temple se trouvait à l'empla cement de la maison d'Ancus Martius. Nous avons souligné que la proximité de ces bâtiments, Regia et Aedes Vestae, Temple des Pénates sur la Vèlia, Temple des Lares, prouvait sans doute une unité originelle de ces différents cultes autour de la personne du roi. Il nous paraît remarquable que les trois cultes du foyer - Vesta, Pénates et Lares -r, soient rapportés précisément à la personne de trois des rois légendaires de Rome, Numa, Tullus Hostilius et Ancus Martius, alors qu'à la «dy nastie étrusque», qui, elle, semble correspondre à une réalité histori-
1 Ad Aen. II, 514. 2 Solin, I, 25; Varron ap. Nonius 531, 19. 3 Ibid.
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que4, aucun culte du foyer public n'est rattaché par la tradition romaine. La dispersion des cultes du foyer du roi entre trois lieux et le lien établi entre ces trois cultes et trois rois légendaires de Rome nous sem blent pouvoir être éclairés par l'histoire des origines de la ville, du Septimontium, et des différentes enceintes de Rome. Au VIe siècle, c'està-dire à l'époque de la «dynastie étrusque» inaugurée par Tarquin l'An cien, apparaît la muraille en cappellaccio dite «servienne» qui consacre l'accession de Rome au statut de cité regroupant un certain nombre de villages situés sur les collines entourant la dépression constituée par le Forum. Mais nous avons vu qu'antérieurement à la constitution de cet te cité, il a existé, sans doute dans le courant du VIIe siècle, une ville composée du Palatin et de la Vèlia : le Tigillum Sororium en aurait constitué une sorte de porte d'entrée, bien qu'il n'ait pas, semble-t-il, existé de mur de fortification en dur. Or, les trois cultes du foyer du roi se trouvent inclus dans cet ensemble. L'existence de ces cultes serait donc antérieure à la constitution de la cité dite de Servius Tullius, et ils auraient, pour cette raison, été mis en relation avec les rois légendaires de Rome. D'autre part, le fait que ces trois lieux de culte, pour proches qu'ils soient les uns des autres, ne sont pas rassemblés dans un seul bâtiment, la Regia par exemple, ancien foyer du roi, s'explique peutêtre par le processus d'intégration progressive des collines avoisinantes au noyau primitif de la cité constitué par le village du Palatin, lié, lui, à la personne du fondateur Romulus, La dispersion géographique des trois cultes serait alors l'expression religieuse d'une disparité originelle, tandis que leur complémentarité, au contraire, manifesterait la consti tution de la ville palatino-vélienne en un tout organique. Timée cité par Denys d'Halicarnasse, et Denys lui-même, nous font connaître deux types de représentations figurées des Pénates publics. A Lavinium, si l'on en croit Timée, les Pénates «étaient des caducées de fer et de bronze et de la poterie troyenne», alors que, dans le temple de la Vèlia, à Rome, les Pénates étaient représentés, dit Denys, comme deux jeunes gens assis tenant de longs bâtons. Nous avons vu que la définition de Timée ne devait pas être prise au pied de la lettre, dans la mesure où les objets troyens ne représentaient sans doute pas les dieux, mais étaient plutôt leurs attributs; quant au nombre de deux des sta-
4 Cf. J. Heurgon, Archéologie et critique historique : la Rome des Rois, in Naissance de Rome, Catalogue de l'Exposition, Paris, 1977.
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tues de la Vèlia, il nous paraît, comme dans le culte privé, exprimer la pluralité au sein du groupe que forment les Pénates. Cette signification originelle n'a plus été perçue par la suite, et a favorisé la confusion partielle avec les Dioscures. Quant aux sacra du sanctuaire de Vesta, considérés, eux aussi, comme les Pénates du peuple romain, ni l'a rchéologie ni les témoignages littéraires ne peuvent nous donner une idée de la forme qu'ils revêtaient; contrairement aux dieux de la Vèlia, mais comme ceux de Lavinium (Timée n'a connu l'identité de ces der niers, qui devait demeurer inconnue aux profanes, que par une indis crétion de ses informateurs lavinates), leur vue était interdite. Il est d'ailleurs remarquable que dans les deux cultes des Pénates liés à la venue d'Enée en Italie, celui de Lavinium et celui de l'Aedes Vestae à Rome, la vue des dieux était rigoureusement refusée aux profanes, comme l'illustre bien l'épisode de l'aveuglement du Grand Pontife Métellus. Cela s'explique, croyons-nous, par le caractère talismanique des sacra troyens. Il en va tout autrement des Pénates de la Vèlia, eux aussi liés à la légende des origines de Rome, mais dont nous avons cru pou voir montrer qu'ils étaient de provenance albaine. Or, les Pénates d'Albe ne sont pas ceux de Lavinium, puisque selon le récit de Denys, ces derniers refusèrent par deux fois de s'installer dans le temple qu'on leur avait construit dans la nouvelle cité. Ils ne sont donc pas liés à Enée, ni d'origine troyenne, et n'ont pas le caractère mystérieux des dieux troyens. La conception des Pénates publics paraît avoir connu une évolu tionassez comparable à celle des Pénates privés. L'expression Penates populi Romani est usuelle, mais des écrivains comme Cicéron ne défi nissent pas davantage ces dieux. Les tentatives d'explication apparais sent plutôt comme les efforts des érudits (Varron et Nigidius Figulus en sont de bons exemples) pour donner un contenu théologique ou phi losophique à la notion, en assimilant les Pénates à d'autres divinités dont la personnalité est connue par ailleurs : Dioscures, Apollon et Nep tune, dieux de la Triade Capitoline, auxquels s'ajoute parfois Mercure. Mais les contradictions que présentent entre elles ces diverses spécula tions tendent à prouver qu'elles restent assez artificielles, coupées du sentiment religieux vécu, de la pratique quotidienne. Seule est proba blement authentique la conscience d'un lien entre les Pénates de Rome et les sacra de Troie : encore n'a-t-elle pu se former que lorsque s'est affirmée la légende des origines troyennes de Rome, sans doute au cours du IVe siècle avant J.-C. Les Pénates du peuple romain sont honorés dans trois temples : un
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à Lavinium, deux à Rome, sur la Vèlia et dans le sanctuaire de Vesta, sur le Forum, au plus profond du Penus Vestae. Ce triple culte ne peut s'expliquer, nous semble-t-il que dans la mesure où les Pénates sont liés aux diverses légendes des origines de Rome, et en sont comme l'expres sion symbolique. Le fait que Rome ait considéré comme ses propres Pénates non seulement ceux qu'elle abritait dans ses sanctuaires du Forum et de la Vèlia, mais, en outre, ceux de Lavinium, est en étroite liaison avec la double légende des origines troyano-lavinates et albaines de Rome, et la reconnaissance de Lavinium et d'Albe comme citésmères. Dans les traditions de filiation d'une cité à une autre, il est par ticulièrement difficile de faire la part de l'histoire et celle de la légende. On a pu, en effet, penser qu'Albe était une colonie de Lavi nium, fondée par des Lavinates qui, pour une raison inconnue, se seraient exilés; il en va de même pour les relations entre Albe et Rome; les personnages mythiques d'Ascagne et de Romulus, fils ou descendant du fondateur de la cité-mère, symbolisent cette tradition et ont fixé sur eux les légendes de fondation. Il est probable, cepen dant que ni Albe ni Rome n'ont été créées ex nihilo par des emi grants lavinates et albains, mais qu'il y a eu, néanmoins, un phéno mène d'émigration, qui ne correspond pas forcément à la fondation d'une nouvelle cité. Les récentes découvertes archéologiques dans le Latium tendent du reste à prouver une certaine unité de la civilisa tion latiale et il existe, en effet, un parallélisme entre l'évolution des différentes cités, qui n'exclut évidemment pas des influences de l'une sur l'autre. En particulier, pour ce qui nous concerne, l'archéologie a prouvé qu'il n'y avait pas d'antériorité d'occupation des sites de Lavi nium et d'Albe par rapport à celui de Rome, ce qui semble exclure une fondation d'Albe par des Lavinates, de Rome par des Albains. Au contraire, il est frappant de constater la concordance chronologique entre certains phénomènes dans les différentes cités latines, notam mentla construction de murs d'enceinte en cappellaccio dans le cou rant du VIe siècle à Lavinium et à Rome, par exemple. Aussi la légende des origines lavinates et albaines de Rome nous paraît-elle devoir s'expliquer par d'autres raisons que la réalité histori que, d'ailleurs possible, de migrations de populations. On voit bien quel intérêt Rome a pu trouver à se poser comme l'héritière de Troie, par l'intermédiaire du personnage d'Enée : plutôt que de penser qu'elle a obéi à des intérêts de propagande anti-grecque ou anti-étrusque, com meon l'a parfois suggéré, nous croirions volontiers que Rome, qui ne
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put imposer son hégémonie sur le Latium qu'au prix de luttes longues et difficiles, pouvait tirer un grand prestige de sa parenté avec la fabu leuse cité évoquée par les poèmes homériques, dont la chute même avait quelque chose de grandiose. Au demeurant, l'existence de la légende des origines troyano-lavinates n'a été rendue possible que parce qu'à Lavinium ont existé, très tôt, des éléments de l'histoire d'Enée, dont nous avons vu au cours de notre étude les preuves archéologiques. A cet égard, le rôle portuaire de Lavinium, ou du lieu-dit Troia, situé sur la côte même, a dû être déterminant dans l'introduction et la fixation d'éléments de la religion, de l'art, et de la littérature grecs. Toutes les découvertes de ces vingt dernières années à Lavinium tendent à nous montrer une cité mar chande florissante au VIe siècle, attirant de nombreuses importations grecques, mais aussi une ville à l'architecture religieuse imposante, qui fait voir en elle une des métropoles religieuses du Latium. Il est proba ble qu'entre le VIe et le IVe siècle, pour des raisons qui nous échappent en partie, le rôle politique de Lavinium, sans doute lié à son rôle por tuaire, a connu un certain déclin, mais que son rôle de métropole rel igieuse a toujours été rayonnant, comme le montre la construction pro gressive, entre ces deux dates, de la rangée des treize autels. La découv erte, en 1977, de l'important dépôt votif sur une hauteur à l'est du village de Pratica, montre l'importance des commandes qu'étaient ca pables de satisfaire les ateliers locaux au IVe siècle, et, en définitive, le rôle économique, probablement centré sur la vie religieuse, qu'avait encore la cité. Le prestige de cette métropole religieuse, l'implantation sur son territoire, autour du personnage d'Enée, d'éléments de la légen de troyenne, expliquent largement, à côté des raisons qui pouvaient fai re préférer Enée à un autre héros des poèmes homériques comme ancêtre fondateur, que Rome se soit plu à voir en elle l'une de ses deux cités-mères, la seule en tout cas qu'elle n'ait cessé de respecter et d'ho norer par le pèlerinage annuel de ses plus hauts magistrats. Nous avons souligné le contraste existant entre l'attitude de Rome vis-à-vis de Lavinium en 338, les égards qu'elle manifesta pour les Lavinates, et la dureté du châtiment qu'elle avait exercé, trois siècles plus tôt, à l'encontre de son autre cité-mère, Albe, totalement anéantie, cependant qu'était maintenu le grand culte de Jupiter Latiaris sur les Monts Albains. La double filiation lavinate et albaine que se reconnaît Rome s'exprime en particulier dans des cérémonies religieuses, comme le montrent les paroles adressées par Camille aux Romains, selon TiteLive, au moment où ils envisagent d'abandonner Rome pour se réfu-
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gier à Véies: Uli (- maiores) sacra quaedam in monte Albano Lauiniique nobis facienda tradiderunt5. L'existence de trois cultes publics des Pénates du peuple romain nous paraît devoir s'expliquer par la superposition de plusieurs légen des de fondation, le culte des Pénates représentant, dans chacune, com mel'essence même de la nouvelle cité. D'une part, il y a une tradition locale, selon laquelle Romulus fonde la ville et lui donne ses institutions politiques et militaires, fondation complétée par Numa, qui, roi pacifi que,organise les cultes et la législation religieuse de Rome. Au reste, nous l'avons vu, c'est à lui que la tradition attribue la construction de l'édifice rond de ÏAedes Vestae, en tout cas l'institution religieuse du foyer du roi. Nous croyons donc vraisemblable que des Pénates aient été présents à ce foyer et qu'ils aient été conservés dans le Penus du sanctuaire, ce qui reproduirait parfaitement les usages du culte privé, tout en permettant de rendre compte de la singularité que représente l'existence d'un penus dans un édifice religieux. Toutefois, au sein même de la tradition concernant le sanctuaire où sont abrités les «Pé nates de Numa» se lisent certains éléments de la légende des origines troyennes de Rome; aussi les dieux ont-ils fini par être confondus avec les sacra qu'Enée était censé avoir apportés en Italie; la présence du Palladium dans le Penus Vestae a pu contribuer à favoriser cette confus ion. A côté de ces Pénates «locaux», Rome abrite, dans le temple de la Vèlia, des Pénates dont nous avons cru pouvoir montrer les origines albaines. Ils seraient l'expression religieuse de l'autre tradition concer nant la naissance de Rome, celle de sa filiation albaine, Romulus étant le petit-fils du roi légitime Numitor, lui-même descendant d'Ascagne, fils d'Enée. La venue des habitants d'Albe à Rome est présentée comme une réconciliation entre frères ennemis, et l'adoption des dieux albains par les Romains prend une signification particulière quand il s'agit des Pénates; on sait en effet que dans le culte privé, ces dieux étaient héri téset se transmettaient de père en fils. En installant les Pénates d'Albe sur la Vèlia, ce sont donc les dieux de leurs pères que les Romains éta blissent dans leur propre cité. Les conclusions de notre étude ne sauraient avoir qu'un caractère provisoire, puisqu'un site essentiel pour notre recherche, le temple des Pénates à Lavinium, n'a pas été découvert à ce jour. Cependant, avec
5 V, 52, 8.
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les éléments dont nous disposons, nous croyons pouvoir affirmer que le culte des Pénates est au cœur de l'image que les Romains se font de leur maison, et, pour le culte public, de leur patrie. En lui se lisent beaucoup de traits spécifiques de la mentalité romaine : attachement très fort au foyer dans le culte privé, et à la patrie dans le culte public. Mais dans le culte des Penates populi Romani s'exprime également la fascination des maiores et du passé, si reculé soit-il, ainsi que le désir de l'auréoler. Aussi le culte des Pénates publics nous apparaît-il, en définitive, comme l'une des expressions les plus significatives de l'ima ge que, entremêlant légende et histoire, réalité et mythe, Rome a voulu offrir d'elle au regard d'autrui et à sa propre contemplation.
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INDEX NOMINVM ET RERVM NOTABILIVM
Acquarossa-Ferentum :514 Aedes Vestae : 3; 27; 28; 44; 59; 69; 81 n. 96; 135; 139; 202; 222; 223; 229; 236; 259; 269 n. 42; 293; 294; 295; 296; 366; 384; 385; 404; 416; 428; 442; 449; 453 sq.; 524; 527; 529. aedicula et pseudo-aedicula : 73; 74; 75; 77. Ager Laurens : 254; 255; 327. Aineia : 168. - tétradrachme d'A. : 197; 198; 201; 315. Ajax : 259. Albe: 174; 192; 241; 242; 243; 328 n. 51; 341 n. 104; 349; 350; 370 sq.; 441; 44551; 464; 497; 498; 501; 517; 526; 527; 528. - Monts Albains : 27; 241 ; 243; 246; 344; 364; 370 n. 255; 372 sq.; 449; 450; 528 ; 529. - tombes albaines : 7 ; 27-8 ; 97 ; 113-7; 293; 523. - Populi Albenses : 2434; 443-444; 448. - Voir transfert des Pé nates. . . Albinius L. : 472; 474-5; 479-80; 483; 484-6; 503. Amata : 464 η. 62. Amor : 79. Anchise: 7; 8; 36; 49; 86; 123; 125; 157; 164; 165; 167; 170; 176; 178; 180; 181; 185; 186; 188; 189; 193; 195; 196; 197; 198; 199; 200; 201; 202; 203; 204; 205; 206; 207; 208; 217; 227; 228; 310; 312; 315; 317; 325 n. 35; 336; 337; 364; 5012. ancile (-ia) : 467 n. 83 ; 474. Ancus Martius: 398; 442; 445; 514 n. 267; 519; 524. Anna Perenna : 301 ; 328; 330.
Antium : 119 n. 127; 309; 316; 361. Antonin: 225; 281. - médailles d'A.: 210; 211; 213; 226; 227-8; 252; 261; 284; 292; 293; 518. Anubis: 79; 82; 267; 273. Aphrodite : voir Vénus. Apollon: 79; 82; 140; 141; 153; 188; 189; 190; 429; 526. - Area Apollinis : 516 η. 277. -prêtre d'A. (Panthus) : 164; 183; 189; 193. Apulie: 30; 202. Ara Pacts : 87; 90; 158; 209; 216; 224; 225; 260; 282-85; 289; 291; 292; 387; 408; 418; 419; 424-6; 427; 428-30; 436; 43940; 477. Arctinos : 137. Ardée:256;298; 309; 316 n. 268; 327; 361; 477 n. 115. - sanctuaire d'Aphrodite à Α.: 256; 257 η. 205; 362. Argées: 391; 399; 443. Ariane : 75. Aride : 245; 352; 362 η. 225; 364. Artemis : 242. Arvales : 240. Ascagne-Iule : 8; 49; 86; 125; 165; 170; 178; 180; 181; 185; 186; 189; 192; 195; 196; 197; 198; 200; 201; 202; 203; 205; 206; 207; 210; 217; 225; 226; 228; 243; 310; 315; 341 n. 104; 370; 374; 464; 527; 529. Astarté : 266. Athéna: 138; 175; 220; 260; 460; 461; 462; 463; 464 η. 62; 497; 498. - Athéna Ilias : 221; 366. - Pallas Α. : 515. Athènes: 171; 515. Atrium Vestae: 21; 454; 474; 507-8; 509.
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INDEX NOMINVM ET RERVM
Atticus: 125; 126; 127; 131-2. Auguste: 6; 52; 70; 181; 189; 215; 224; 395; 396; 398; 404; 408; 409; 424; 429; 436; 440; 461; 462; 463; 468; 506. - Oc tave: 185 n. 119; 188 n. 130; 205. - Fo rum d'A. : 205; 216. Aulus Postumius : 431. Baal : 266. Bacchus: 79; 80; 81; 82; 120. bulla: 109; 258 η. 207. Cabires: 127; 128; 145; 437. Cacus : voir Scalae Caci. caducée: 124; 172; 220; 264-70; 292; 421; 428-30; 525. Caecilius Métellus L. : 457; 460; 487; 500; 503; 504; 526. Caecina : 152. Caeculus : 118; 458 n. 34; 500. Caere: 309; 314; 315; 472 sq.; 475 η. 105; 476; 479-80; 484-5; 505. caerimonia : 475 η. 105; 480 η. 125; 484. Caesius: 143; 144. Caesius L. : - monnaie de C. : 432. Callistratos : 137; 465. Camille: 54; 477 η. 115; 485; 528. Campanie: 2; 30; 74; 165-8; 347. Campaniens: 174; 350 sq.; 461; 503. Capitole: 135; 390; 391; 392; 393; 400; 414; 470; 471; 477-8 η. 115; 480; 489 η. 152; 490 η. 158; 499. - Temple du C. : 115; 148; 471; 477-8 η. 115. Capoue: 119 η. 127; 350-55; 461. Cannae : 394; 397; 400; 409; 410; 412; 414; 443. Carthage: 347; 361; 368. Cassandre: 172; 173; 220; 259; 260. Castel di Decima : 501 ; 502 η. 211. Castores: - Temple des C. : 431; 436. - nom des C. : 438 n. 218. cella penaria : 19-20; 26; 27; 67; 69. κέραμος τρωικός: 124-5; 171-2; 202; 220; 265; 274-5; 280; 289-91; 421; 477; 525. Cérès: 79; 81; 143; 144; 234; 238; 249; 285; 287; 301. César: 6; 46; 165; 204. - monnayage de C. : 204; 205; 207. Chalcidique: 168; 315. Chrysé: 138; 139; 436.
ciste : 202; 281. - ciste contenant les sacra troyens: 164; 165; 167; 169; 178; 196; 197; 198; 204; 207; 209; 222; 276; 28081; 307. Cloaca Maxima : 100; 475-6. Consentes Complices (Di) : 5 ; 1 34-5 ; 1 52-3 ; 233-6; 249. Consualia : 473; 474 n. 102. Coriolan: 54; 319. Cornélius Labeo : 6; 129; 131; 134; 140; 141; 144; 145; 149. Crète: 187; 429. Creuse: 8; 165; 181; 185; 186; 187; 196; 197; 201; 202; 275; 290; 307; 310; 315; 336. Critolaos: 127. Crustumerium : 118 n. 125. cuisine - culina : 66 sq. Damastes de Sigée : 170-1 ; 216. Dardania: 138; 139; 436. Dardanus: 130; 131; 135; 136; 138; 139; 140; 144; 174; 436; 437; 466; 481; 4912. Dea Syria : 273. Demeter: 238; 239; 249. Depidii Digidii (frères) : 119 η. 125. deuotio: 112; 300. Diane: 75; 79; 81; 82; 362 η. 225. - culte de l'Aventin : 237; 242; 246. - Diana Nemorensis : 246. Didon: 182; 328-9 n. 51. Diomède: 141; 190; 259; 463; 466; 506. Dionysos : 238 ; 239. Dioscures: 8; 9; 127; 128; 132; 133; 137; 145; 158; 159; 236; 238; 239; 249; 251; 285-92; 301; 303 n. 206; 311; 330; 331; 385; 405-6; 423; 427; 430-39; 477; 481; 482; 483; 515; 526. di parentes (parentum) : 98-101; 104; 109; 110; 120. di patrii - θεοί πατρφοι : 94-8; 110; 120; 146; 181; 190; 222; 223; 225; 250; 251; 337; 341-2; 345; 346. dodécapole : 240 sq. dodékathéon : 237-9; 240; 248. doliolum (-α): 100; 114; 116; 201-2; 217; 275; 288; 289-91; 309; 310; 336. - nom de lieu: 100; 475-9; 486.
INDEX NOMINVM ET RERVM duodecim populi : 245-7; 248. Egèrie: 297; 515. église SS. Còme et Damien : 3; 402-410; 411; 413. Enee: - E. ancêtre des Etrusques: 200; 310; 311-12. - E. ancêtre des Latins: 10 ; 47 ; 61 ; 123-4; 216; 264; 310; 313; 32039; 352; 364 sq.; 378-9; 384; 453; 466; 467. - arrivée d'E. au Latium ou en Ita lie : 7; 8; 60-1; 125; 130; 134; 138; 159; 161; 171; 209 sq.; 216; 226; 228; 255; 256; 259; 263; 275; 300; 308; 332; 436-8; 464; 496; 502; 518. - arrivée d'E. à Lavinium: 6; 8; 158; 159; 161; 171; 181; 216; 226; 228; 256; 259; 263; 275; 299300; 308; 326; 328; 332; 336-9; 463; 464; 502; 518; 526. - E. fondateur de Rome: 3; 311; 364; 383; 464; 518. - fuite d'E.: 4; 125; 129; 158; 176; 177; 196 sq.; 209; 217; 254; 307; 309; 312; 463; 469; 502. - Hérôon d'E. : voir Lavinium. - E. Indiges : voir Indiges. - E. et les Pénates troyens : voir origines troyennes des Pé nates de Lavinium. - piété d'E. : 169; 170; 175; 179-80; 184; 185; 186; 205; 216; 217; 223; 326. Epona : 79. Equus October : 22 η. 46; 316 η. 267; 456. Esculape : 82. Etrurie (influence dans le Latium) : 7 ; 8 ; 9 ; 159; 233; 234; 235; 237; 241-2; 245; 264; 309 sq.; 368; 369; 379. euocatio : 446. Fabius Q. : 270. Faustulus: 105; 215. Félicitas : 273. Ferentinum, Lucus Ferentinae, Caput aquae Ferentinae : 343-4. Fériés Latines : 347; 360; 372 sq. flamine : 357-8; 470-6; 479; 485. - F. Dialis, Martialis : 471 n. 94. - F. Quirinalis : 471 n. 94 ; 472-6 ; 484-6. - Aedes Flaminis Dial is: 503. - Aedes Flaminis Quirinalis : 475-6; 483. foedus : 339-40; 344-55; 360-1; 371; 372-77. Fonteius (deniers de) : 287; 290; 432; 437. Fordicidia : 22 n. 46; 455. Fortuna: 76; 79; 80; 81; 82; 120; 143; 144-
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5 ; 234. - Fortuna Virilis : 459 n. 36. - à Préneste: 119 n. 127. foyer (focus): 40; 41; 42; 43; 46; 49; 56; 59; 66; 83; 98; 99; 103; 108 n. 77; 368; 513; 517; 519; 523; 524; 525; 529; 530. Gabies: 118 n. 125. Gaule : 32; 33; 204. - gaulois : 31 ; 478. Gela (cratère de) : 196. Genius: 2; 47; 68; 69; 70; 76; 78; 81; 83; 84; 90; 94; 105; 118. - Genius Iouialis : 143; 234. Gens Caecilia : 500; 503. Gens Herennia (monnayage de la) : 205. Gens Mia: 7; 46; 167; 169; 170; 181; 204; 207; 210; 319; 374; 468; 473-4 n. 102; 517. Gens Valeria (tombeau de la): 396-8; 399 n. 70. Grande-Grèce (influence dans le Latium) : 8; 10; 159; 196; 217; 231; 237-9; 286; 291; 302; 303 sq.; 308; 314; 334; 361; 379. Grands Dieux - Μεγάλοι θεοί: 45; 127; 128; 132 sq.; 137; 138; 139; 145; 149; 153; 288-91; 295; 421; 433-8; 468. Guerre Latine : 347-50; 374-5. Hadrien: - médailles d'H. : 211-2; 213; 227-8; 252; 261; 281; 293; 518. Harpocratès : 79; 81 ; 82. hasta : 270-73 ; 423-4. Hector: 47; 185; 193; 195; 294; 429. Hélénus: 188; 191. Herculanum : 63; 72; 81. Hercule: 75; 79; 81; 82; 237; 249; 283; 284 n. 115. Hermès: 150 n. 82; 265; 266-7; 273; 282; 284. Hesperia: 165; 166; 167; 177; 183; 186; 187; 215; 216. Himère: 163; 168; 169. Horace(s): 349; 441-2; 444; 446; 447; 448 n. 264. Horus: 81; 82. Hostilius Mancinus C. : 356 sq. Hygéia : 82. ignis perpetuus: 331; 456; 480; 487; 488; 490; 491; 493; 503; 505; 508; 509-10 n. 242.
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INDEX NOMINVM ET RERVM
Ilionée : 190. imagines maiorum : 99; 99 n. 32; 110. Indiges: 303-7; 311; 331; 332; 334; 335; 336; 365; 369. - Agonalia Indigetis : 300; 365. - Enee Indiges: 112; 249; 322; 323 sq.; 336; 358. - Jupiter Indiges : 323; 329; 331. - Sol Indiges: 112; 298 sq.; 308. - Locus Solis Indigetis: 32; 327. Indiges et les Pénates : 251 η. 171. - Quirinus-Indiges : 303 η. 207. Indigetes : 300; 334. - Indigetes/Nouensides : 112. - Indigitamenta : 113. invasion gauloise de 390 av. J.-C. : 100; 310; 460; 470-77; 488 n. 152; 505; 506. Isis: 79; 81; 82. - Isis Fortuna: 79; 81; 82. Janus : 239. Junon-Héra: 82; 136; 146 η. 72; 148; 190; 192; 193; 194; 212; 214; 238; 330; 433; 439. Jupiter: 46; 61; 76; 79; 81; 82; 136; 142; 143; 146; 148; 151-52; 216; 238; 330; 414; 429; 430; 433; 473; 477-8 η. 115. Jupiter Indiges : 323; 329; 331. - Jupiter Latiaris: 241; 246; 344; 373; 374; 528. Temple de J. sur le Capitole : 115. - Temp lede J. Stator: 9; 45; 272; 414; 415; 416; 417; 440. Juturne : 234; 235; 301 ; 330; 331. Korè : 248. Lanuvium : 316; 351-2. laraire (lararium): 63; 65; 71 ; 75; 77; 78; 107; 117; 213; 214; 523; 524. Lare(s) : - Lar : 333 sq. - Lar familiaris : 76; 101; 103; 105; 107; 108; 109; 110; 333-4. - Lares: 1; 2; 56; 74; 75; 77; 78; 81; 83; 84; 94; 120; 333; 398; 519; 524.Lares compitales : 101. - Lares familiär es : 106. - Lares Grundiles : 90 n. 144. Lares militares, L. praestttes : 101. - La res et Pénates: 45-6; 59; 68; 69-70; 75; 101-111. - type iconographique des L. : 76; 102. - Temple des L. sur le Forum: 398; 409; 445; 514 n. 267; 519. Larentia-Larunda : 105. Latinus: 4; 180; 190; 192; 240; 298; 303-4; 344-46; 348.
Laurentes-Lauinates : 124; 250; -304; 341 sq.; 347 sq.; 377. Lavinia: 4; 180; 181; 185 n. 119; 271; 298; 328; 345; 346; 374. Lavinium: 4; 5; 8; 10; 124; 127; 137; 146; 150; 151; 155 sq.; 383-6; 387; 428; 430; 433; 450; 451; 463 sq.; 497; 498; 501; 502; 515; 518; 525 sq. - Aphrodision : 256; 315 sq.; 323; 340; «362; 369. - κα λιάς: 222-3; 227; 228; 252; 294. - dédica ce à Cérès: 234; 237; 249; 285-6; 287. dédicace aux Dioscures : 8; 158; 159; 238; 239; 249; 251; 285-92; 311; 430. Hérôon d'Enée : 9; 158; 250; 257; 274; 299-300; 303; 305-6; 320-23; 335-6; 339; 369. - Pénates de L. : 4; 59; 124; 136; 137; 146; 157 sq.; 418; 428; 433; 451; 502; 517; 518; 525 sq. - sacrifice des mag istrats romains: 4; 150-1; 157-8; 212; 215; 219; 223; 233-4; 252; 294; 295; 342; 344; 345; 355-61; 372; 384; 517. - les treize autels et le sanctuaire attenant : 8 ; 158; 220; 229-257; 315 sq.; 322-23; 339; 371; 372; 378; 430; 528. - sanctuaire de Minerve-Athéna : 176; 220; 221; 257 sq.; 308; 337-8; 366; 378; 497. - dépôt votif proche du sanctuaire : 257-9 ; 363 ; 366 ; 528. Liber: 249; 301; 459. Libera : 249. Liberalia : 459. liberano : 512. Ligue latine: 175; 241-47; 347 sq.; 372 sq.; 390; 450. Lucus Vestae : 507. Luna: 79; 268. Lunus : 79. Lupercal : 215. Lusus Troiae : 309 ; 3 1 6. Mamurius : 496. Mânes (Di): 101; 104; 106; 109. Mania - Mater Larum : 105. mariage: 52; 258 n. 207; 258; 298; 345; 346. Mars: 75; 79; 80; 81; 215; 473; 474; 513; 514; 515; 519. Marzabotto : 231. Mater Matuta : 300; 442.
INDEX NOMINVM ET RERVM Mattalia : 300. Maxence (Basilique de): 9; 394; 395; 400; 402; 406; 409; 410; 411; 412; 413; 414; 415-6; 419; 426; 440. - monnaies de M. : 387; 411-2; 413; 416-7; 426-7. mensa : voir table. Mercure: 61; 79; 80; 81; 82; 120; 146; 150; 164 η. 23; 208; 267; 268; 275; 276; 284; 433; 526; voir Hermès. Mézence : 324. Minerve- Athéna : 79; 81; 82; 136; 146; 148; 175; 259; 433; 495 n. 179. - voir Athéna et Myndia Pallénis. Misène : 165-9. Mithra : 65. - Mithreum : 75. mola salsa : 22 η. 46; 455-6. Mucius Scaevola Q. : 17; 18; 20. mundus : 115. municipium : 353 sq. mûries : 455-6. Murus Mustellinus : 395-6. Mutunus Tutunus : 395-6; 400. Myndia Pallénis : 174; 220; 260; 337. Neptune: 82; 140; 141; 142; 144; 153; 526. niche: 66; 67; 72; 73; 77; 84; 457. Numa : 100; 341 n. 104; 442; 445; 454; 4756; 479; 486; 488 n. 150; 495 n. 179; 508; 509; 510; 511; 512; 514 n. 267 et 268; 515; 516-9; 524; 529. - calendrier de N. : 300; 365. - N. et Egèrie : 515. Numicus: 297-98; 324-32; 335; 465. Ops Consiva: 513; 514; 515; 519. origines albaines de Rome: 117; 370; 383; 446-51; 453. origines troyennes de Rome: 5; 6; 9; 124; 125; 157; 167; 170; 205; 215; 228; 264; 293; 294; 296; 298; 300; 309; 335; 360; 365 sq.; 429-30; 438; 447-51; 453; 467; 506; 518; 526; 527; 528. origines troyennes des Pénates de Lavinium: 5; 6; 124; 125; 126; 127; 130; 131; 132; 134; 139; 144-5; 161; 167; 168; 172; 182; 188; 190; 198; 209; 215; 217; 219; 263-4; 275; 280-1; 283; 292; 307; 319; 332; 336-7; 384; 385; 419; 422; 42830; 435-37; 451; 457; 465; 468; 481; 486;
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489; 491; 492; 493; 494; 496; 497-8; 502; 506; 517; 529. Osiris: 79; 267. Palatin; 2; 3; 70; 389; 390; 393; 394; 398; 400; 401; 442-4; 449; 461; 462; 468; 503; 508; 511; 514 n. 268; 516; 525. Paies: 143; 144-5; 234. Palinure: 166. Palladium (-a): 128; 204; 205; 222; 228; 259; 366-7; 438; 460-7; 469; 481; 482; 488; 489; 491 n. 159; 492; 493; 495; 4958; 500; 502; 503; 504; 505; 506; 518; 529. Pan : 79. Parilia: 22 n. 46; 455. Pasinati (ciste) : 325. patella : 87 ; 88; 89; 90. Pax : 79. Pénates étrusques : 142 sq.; 233 sq. Pénates dans l'héritage : 95; 96; 98 n. 22. Penates louts : 143. Penates populi Romani : 2; 3; 7; 10; 59; 60; 96; 468-9; 498; 501; 504; 506; 508 n. 231; 518; 524; 526; 530. Pénates et Vesta: 3; 44-45; 60; 150-1 ; 219; 227; 252; 260; 280; 292-6; 329-30; 331; 342; 355 sq.; 384; 468; 469; 477-78 η. 115; 478; 517; 518. penator : 20; 23. Penestes : 15 n. 13. penetrale (ta, is) : 13; 22; 64; 134; 135; 279; 280; 295; 457; 458; 460; 461; 488; 491; 503; 505; 516. penus: 5; 7; 13; 14-21; 29; 97; 523; 529. Penus Vestae: 14; 15; 21-22; 25; 26; 27; 28; 44; 59; 69; 100; 275; 288; 289; 366; 385; 453; 454-8; 459; 468; 474; 477; 479; 488; 494; 501; 504; 506; 517; 518; 519; 523; 527; 529. Perséphone-Korè : 82 ; 237. phallus: 458-60; 469. pignora imperii: 22; 202; 259; 296; 466; 467 η. 83; 487; 489; 518; 519. pignus : 366 η. 241 ; 460-1 ; 496; 503. Plaisance (foie de) : 151 ; 153. Poggio Civitate : 514. pomerium : 388; 516. Pompéi: 2; 61; 63; 65; 67; 71; 72; 74; 75;
552
INDEX NOMINVM ET RERVM
77; 80; 81; 82; 93; 96; 99; 102; 107; 111; 116; 117; 118; 119; 207; 216; 250; 330; 340; 348; 353; 354; 360; 371; 523; 524. Pontifex Maximus: 473; 487; 500; 503; 507; 509 n. 242; 526. pontifices : 485. pore (sacrifice du): 90; 109 η. 86; 211; 212; 439. Pratica di Mare: 4; 8; 158; 162; 172; 176; 220; 233; 252; 360; 363. Frenesie : 118; 299; 458 n. 34; 500. Priam: 8; 184. Priape : 82. Pyrrhus (fils d'Achille) : 184. Pyrrhus (roi d'Epire) : 6. Quirinal: 302; 442; 483; 508; 514 η. 267. Quirinus: 46 sq.; 118; 473-4 η. 102; 483-4. - Q. Indiges : 303 η. 207. - Temple de Q. : 483. Regia: 21; 27; 145; 288; 404; 443; 445; 474; 476 n. 110; 507-8; 509; 511-5; 516; 517; 519; 524; 525. relief du British Museum (sacrifice d'Enee): 226-7; 260. représentation non anthropomorphique des dieux: 114-5; 124; 130; 276-7; 282; 288-92; 385; 421; 523; 525. rex sacrorum : 507; 513 n. 258; 515; 519. Rhéa Silvia : 509-10 n. 242. Rhomè : 8 ; 464. ritus Graecus : 284. Romulus (fondateur de Rome) : 47 ; 99 ; 115; 206; 207; 216; 319; 341-4; 348; 353; 370; 383; 388; 411; 413; 414; 415; 449; 450; 453; 454; 458 n. 34; 464; 473-4 n. 102; 508; 514 n. 268; 516; 517; 518; 525; 527; 529. - R. et Rémus : 4; 105; 118; 215; 411; 413; 449; 509-10 n. 242. Romulus (fils de Maxence) : 387; 403; 4108. - Temple ou Hérôon de Romulus : 3 ; 403; 410-8; 440. sacellum : 66; 213; 225; 330; 419; 439. sacra - Pénates troyens : 5; 6; 46; 126; 130; 139; 140; 144; 162; 165; 172; 177; 178; 182; 186; 187; 195; 202; 215; 275; 292; 295; 307; 310; 329; 332; 337; 346; 365; 369 ; 379 ; 383-6 ; 428 sq. ; 436 sq. ; 465 sq. ; 489; 492-3; 494; 496; 502; 517. - Voir
origine troyenne des Pénates de Lavinium. sacra Penatium : 36; 47-8. sacra populi Romani: 22; 25; 139; 250; 360; 385; 457 sq. 470 sq.; 481; 504 sq.; 507; 516; 517; 518; 519; 526. sacra principia(-orum) : 354; 360; 371. sacrarium: 65; 71; 75; 84; 99; 277; 474. sacrifice aux Pénates privés : 108-9. Saliens: 127; 145; 240; 288. salinum : 87; 89. Samothrace: 125-8; 130; 131-4; 138; 140; 148-50; 433; 468; 481; 491-2. Sant'Omobono (aire sacrée de) : 230. Saon : 127. Sarnus: 79; 80; 81; 83. Satyros: 137; 465. Scaevola M. Q. : 17 sq. Scalae Caci : 401-2; 516 n. 277. Scalae deum Penatium: 401-2; 408; 409; 418. scarabée étrusque (coll. de Luynes) : 7 ; 198-9; 202; 275; 281; 307; 309; 312; 314; 317; 336. sceptre-σκήπτρον : 80; 266-7; 272; 273; 422-3. Scipion (s) : 128. Ségeste : 203-4. Septimontium : 390-1; 393; 406; 443; 525. Sérapis: 79; 82. serment (par les Pénates) : 47. Servius Tullius : 53; 185 n. 119; 241; 242; 245; 246; 308; 368; 390; 442; 444; 458 n. 34; 509-10 n. 242; 514 n. 267; 515; 525. Sicile: 172; 199; 203; 312; 366. sigillum (-a): 88; 130; 131 n. 24; 179; 2768. Sol : 79 ; 82 ; 268 ; 302 sq. ; 324 sq. ; 332 ; 339. - Sol Indiges : voir Indiges. Stésichore: 163; 170; 180; 183; 184; 186; 198; 208; 217. Sucellus : 273. Sulla: 74; 80. Sulpicius C. : - monnaies de C.S. : 432. suouetaurilia : 215. table(s)-raensa : 36; 85 sq.; 102-3; 176-7.
INDEX NOMINVM ET RERVM
553
- manducation des t. : 86; 188; 189; 191 ; Tyrrhénos : 241. 192; 194; 222. Ulysse: 95; 168; 169; 255; 259; 284; 305; Tabula Iliaca : 158; 163-70; 178; 184 η. 115; 313; 364; 369; 463; 464; 466; 467 n. 82; 506. 186; 198; 207; 211; 216; 217; 275; 281; 284. Valerius Publicola : 391-4; 396-8; 399 n. 70; Tanaquil : 108 η. 77. 406; 442. Tanit : 266. Véies: 115; 370 n. 255; 447; 477 n. 115; Tarpéia : 393. 480; 485-6; 529. - statuettes d'Enée et Tarquin l'Ancien: 115; 147; 149; 150; 241; Anchise: 199; 201; 205; 310-4; 336. - statue de la courotrophe : 201 ; 310-1. 343; 373; 514 η. 267; 525. Tarquin le Superbe: 98; 343; 373; 391; Véiovis : 306 n. 220. 442; 514 η. 267. Vèlia: 116; 117-8; 132; 136; 214; 387 sq. Tarquinia : 241 ; 267 η. 30. - Pénates de la V. : 139; 285; 288-9; 291 ; Tibre: 189; 191; 193; 449; 496; 512. 385; 387 sq.; 468; 493; 517; 523 sq. Tibur: 118 η. 125. Temple des Pénates: 137; 145-6; 285; Tigillum Sororium : 441-42; 444; 446; 525. 384; 385; 387 sq.; 468; 514 n. 267; 519; 524 sq. - inscription de la statue: 132; Titus Tatius: 99; 251; 341-44; 347; 348; 349; 442; 448; 514 η. 268. 137; 145 sq.; 420 sq.; 433-6. toge prétexte : 52 ; 84. Velienses : 444; 448. toge virile (prise de la) : 109; 258 n. 207. Vénus: 75; 79; 80; 81; 82; 125; 204; 238; Tor Tignosa (cippes de) : 332-4. 249; 254-57; 284; 315; 323; 339; 364; Tor Vaianica : 301 ; 308. 378; 501-2. - V. Frutis : 128; 234; 235; transfert des Pénates de Lavinium à Albe : 254-5; 315-6. - V. Pompeiana: 79; 80; 498; 526. 81; 83. Triade Capitoline: 5; 82; 115; 136; 148; Vesta: 3; 61; 79; 81; 150-1; 280; 281; 292149; 150; 153; 471; 526. - Première Tria 96; 297; 301; 329; 330; 332; 367; 384; decapitoline : 118. 445; 515; 519. Vestales: 22 n. 46; 100; 269 n. 42; 295-6; Troia : 308; 309; 316; 327; 339; 361; 528. Troie: 3; 5; 48; 61; 126; 129; 130; 131; 297; 310; 329; 331; 455; 457; 458; 459; 470 sq; 507; 508; 509-10; 511. - Maison 134; 138; 139; 141; 142; 144; 157; 162; des V. : 454; 507; 509; 510; 519. 163; 164; 165; 178-83; 185; 189; 193; 195; 205; 210-1; 221-2; 254; 259; 264; Vestalia: 455-7; 459; 488. Véturie: 54; 319. 281; 310; 312; 315; 337; 364; 370; 383-6; 419; 429; 436-7; 463 sq.; 489; 492-3; 496- Via Sacra: 389; 390; 395 n. 40; 398; 403; 8; 502; 517. 406; 407; 409; 411; 414; 416; 417; 440; truie: - aux trente porcelets: 174; 188; 445; 507; 508; 514 n. 268; 515. Vica Pota : 396. 192; 213; 215; 222; 224; 225; 227; 242-3; 293; 327; 432. - représentée sans les por Victoria : 79. celets : 211-2; 226-7. - sacrifice de la t. : Vulca: 115. 192-4; 211; 439. - statue de la t. à Lavi Vulcain : 79; 81. - V. Iouialis : 152. nium: 174; 243. Vulci (amphore de): 8; 201-2; 217; 275; Tullia: 53; 98; 99. 281; 290; 307; 309-10; 336. Zancle : 168. Tullus Hostilius: 343; 370; 388; 393; 395; Zeus : 75 ; 501 ; 502. - Zeus-Sérapis : 75. 399; 441; 514 n. 267; 519; 524.
INDEX LOCORVM ANTIQVORVM
707: 503 n. 214. X, 541 (fr. 55 Peter): Ampélius 20, 11 : 495; 499. 214 n. 269; 224; 360. Catulle Antistius Labeo ap. Festus, 474 L : 390. 9, 3-4 : 39; 44; 48. 68, 102 : 67 η. 25. ClCÊRON Arnobe Cat. I, 5, 11 : 415 η. 141. IV, 18 : 44. I, 36: 301 n. 199. III, 40: 134-5; 140; Cat. Mai., 56 : 19. 142 sq.; 233; 236. *De Or., I, 202 : 270. Asconius Dom. 108: 46; 101 η. 41. 144: 54 η. 70; In Pis., 52 : 397. 96 η. 14. In Scaur., 18-19, p. 21 C : 358-9; 371. (Ad) Farn. Vili, 6, 3 : 376 η. 282. Augustin Har. Resp. 12 : 296. 16 : 393 η. 29. 17, 37 : De Ciu. Dei I, 3 : 184 η. 115. Ill, 18 : 496; 94; 98. 26: 397. 57: 67 η. 25. 499. IV, 31: 114; 277. VI, 2: 493-4; Leg. Agr. 2, 57: 53; 95 η. 10. 502. VII, 6: 105. VII, 21: 249; 459. Leg. Π, 21 : 512 η. 257. Π, 28 : 396. II, 58 : VII, 28: 136; 149 n. 78. 109 η. 85 et 86. Aulu-Gelle Mil. 38: 49; 95. N. Att. I, 12, 14 : 296 η. 166. Π, 16, 9 : 323 Nat. Deor. II, 2, 6 : 431 η. 191. Π, 68 : 13; η. 18. IV, 1, 2 : 14. IV, 1, 16 : 16 sq. IV, 24; 35; 60 η. 6; 64; 69-70; 86; 129 1, 17 : 18; 97 η. 21. IV, 1, 21 : 18. IV, 1, η. 18; 135; 151; 295 η. 162; 458; 517. 23 : 17. IV, 6, 1-2 : 513 η. 261. Χ, 27, 1 : III, 80 : 82 η. 97. 270. Χ, 27, 3: 270. XIV, 7, 7: 415 Off. Π, 27 : 272 η. 61. III, 109 : 356. η. 141. XVI, 10: 30 η. 74. Phil. 2, 64 : 272. 11, 24 : 460 η. 40. 12, 14 : Aurélius Victor 95 η. 11. De Vir. III. Ill, 8, 2 : 373 η. 269. XV : 394; Prou. Cons. 35 : 50; 98 η. 25. 396 η. 47. Quinci. 83 : 54 η. 71 ; 95. Cassius Hemina (Ad) Quint, fratr. Il, 4, 2 : 376 η. 282. αρ. Macr., Sat. Ill, 4, 9 : 126-7. Rep. I, 9 : 375. Π, 31 : 393 η. 29; 395. V, αρ. Serv., Ad Aen. Π, 717: 125-8; 178. 5: 101 η. 41. αρ. Solin, II, 14 : 128; 254-5; 463. Rose. Am. 23 : 49; 54 η. 71 ; 55. Caton Scaur. 48: 366 η. 241; 460; 488 η. 148; De Agr. 2 : 103. 3 : 19. 5,3 : 108 n. 79. 489 η. 155; 495. ap. Festus, 268 L. : 30-1. Sest. 30: 41; 55 η. 74. 45: 45; 98. 145: ap. Priscian., IV, n. 629 Ρ (= fr. 58 Pe 48; 98. ter) : 244. Süll. XXXI, 86 : 296 η. 167. ap. Servius, Ad Aen. IV, 620: 324. IX, Tim. 38 : 106 η. 66.
556
INDEX LOCORVM ANTIQVORVM
Verr. II, 2, 5 : 19. II, 21, 46 : 87 n. 129. IV, 4, 3 : 88. C.I.L. X, 797: 250; 340; 348; 353; 354-5; 360-1; 371 sq. 8348: 323 n. 21. XIV, 2065: 324n.26. 2238: 376 n. 281. Corp. Gloss. Lat. Ill, 167, 56: 106 n. 68. Denys d'Halicarnasse I, 45, 1 : 181. 46, 4 : 181. 47, 6 : 167; 315. 48, 1 : 167; 315. 53, 3 : 327. 55 sq. : 194. 55, 1 : 308; 326. 55, 2: 302; 306; 326; 331. 55, 3: 188 n. 129. 56, 2: 327. 56, 5: 188 n. 132. 57, 1 : 222-3; 227; 228; 294. 64, 4: 321; 324; 325. 64, 5: 299; 301; 325 n. 35. 67, 1: 501. 67, 1 sq. : 370; 450; 465. 67, 2 sq. : 498. 67, 3: 136; 250; 337; 493. 67, 4: 124-5; 202; 220; 264-5; 278; 279; 336 n. 81; 493; 501. 68, 1 : 400; 404; 440; 451 ; 493. 68, lsq. : 137; 224; 420 sq. 68, 2: 116; 117; 214; 288; 413. 68, 2 sq. : 138. 68, 3 : 466. 68, 3 sq. : 492. 68, 4 : 465 n. 70. 68 sq. : 436. 69, 1 sq. : 138. 69, 4 : 366 n. 241; 492. 72, 2: 311; 364; 383 n. 3; 464. II, 46, 2: 349 n. 148. 52, 3: 251; 341-2; 368. 66, 1 : 436. 66, 3 : 489 n. 153; 491 ; 500. 66, 4: 457; 490; 499. 66, 5: 463; 491; 493. 66, 6: 493. III, 31, 4 : 243. 34, 3 : 343 n. 123. 51, 3 : 343 n. 124. 61, 2: 241. IV, 26, 4: 241. 27, 4: 241. 45, 3: 343 n. 125. 49, 2 : 374 n. 272. V, 13 : 431 n. 191. 19, 1 : 389; 392 n. 25. 39: 398 n. 55. 48: 394; 397. 61, 3: 244. VI, 63, 4 : 243. 74, 6 : 243. 75, 1 : 243. VIII, 49, 6 : 319. 58, 1 : 245. 79 : 410. Diodore de Sicile VII, 3: 188 η. 132; 192. Dion Cassius XLII, 31, 3 : 503. LIV, 24, 2 : 503. LXXII, 24: 504 n. 221. Fr. 1 in Tzetzes, Ad Lyc. 1232 : 327. Donat Eun. II, 2, 25 : 401.
EUSÈBE Mai. n. coll. VIII p. 214 (= fr. 4 Peter): 383. Fabius Pictor ap. Diod., VII, 3 : 188 n. 132. ap. Euseb. Arm., Mai, n. coll. VIII, p. 214 (= fr. 4 Peter) : 383. Festus 20 L : 14 n. 5. 26 L : 30 n. 74. 41 L : 270. 55 L : 271. 60 L : 476. 80 L : 255 n. 189; 315. 90 L : 271. 94 L : 323 n. 18. 111 L : 275 n. 77. 142 L : 395; 400. 152 L : 22; 455. 190 L: 513 n. 263. 202 L: 513 n. 262. 231 L : 24 n. 58; 505 n. 223. 260 L : 99. 268 L : 20; 31 n. 75. 276 L : 343. 296 L : 21-22; 454 n. 5; 455; 488 n. 150 et 151. 298 L: 29 n. 72. 304 L: 341 n. 109. 320 L: 454 n. 3; 476 n. 111; 508. 346 L: 513 n. 260. 432 L: 255; 284. 439 L : 127. 474 L : 390. 475 L : 30 n. 74. 504 L : 327. Florus I, 13, 11-12: 485. Hellanicos αρ. Denys d'H., I, 47, 6 : 167; 315. 48, 1 : 167; 315. 72, 2: 311; 364; 383 n. 3; 464. Hérodien I, 14: 504. I, 14, 4: 462. Hérodote I, 167: 484 n. 137. IX, 10: 267. Hésiode Théog. 893: 259. 924: 259. 938-9: 266. 1008 sq.: 162; 169; 304 n. 215; 364. 1011 sq.: 467 n. 82. Histoire Auguste Héliog. 6, 6 : 457 n. 23. 6, 6-9 : 505. Marc. Aur. 27, 4 : 357. Homère //. II, 101 sq. : 422. II, 247 sq. : 338. II, 820: 338. IV, 515: 259. VII, 277-8: 267. VIII, 39 : 259. XX, 209 : 338. XX, 307-8 : 162. XXIII, 183 : 259. Od. Ili, 78 : 259. Χ, 319 : 266. Horace Ερ. I, 7, 94-95 : 47, 54 η. 70. Odes II, 4, 15 : 94. Ill, 14, 3-4 : 42. Ill, 23,
INDEX LOCORVM ANTIQVORVM 17 sq. : 53; 87; 89-90; 91. III, 23, 19: 94. Sat. I, 5, 65 : 108 η. 80; 109 η. 82. Π, 5, 4-6 : 95. Hygin αρ. Asc, In Pis. 52 : 397. αρ. Macr., Sat. Ill, 4, 13 : 146. Hymnes Homériques Aphr. 196-7 : 162. 286-8 : 501. Justin, 43, 3, 3: 271. Juvénal III, 138-9: 495. Ill, 139: 461 n. 43. VIII, 110: 104 n. 54. LUCAIN Phars. I, 196-8: 46. 598: 461 n. 43; 491 n. 159. II, 333-4 : 37. 384-5 : 41-2. VII, 347 : 96 η. 15. 394 : 101 η. 41. 3946: 341 η. 104. IX, 230: 96 η. 14. Χ, 479-80 : 54. LUCILIUS XVI, 6:16. Lycophron Al. 617 sq. : 141. 1226 sq. : 86 η. 121. 1250-52: 188 η. 129; 194. 1253 sq. : 242-3. 1255 sq. : 188 η. 132; 194. 1261 : 190. 1261-62 : 220; 260; 278; 337-8. Lydus De Mens. IV, 2 : 239. IV, 155 : 303. Macrobe Sat. I, 9, 16 : 239 η. 106. 15, 18 : 254. III, 4, 6: 140. 4, 7: 134; 147 sq. 4, 9: 126-7. 4, 11: 150; 212; 219; 252 η. 179; 260; 294; 342 η. Ill; 355 sq.; 517 η. 282. 4, 13 : 146. 6, 16 : 284. 14, 41 : 60 η. 7. Martial I, 70, 12 : 396 η. 42. VII, 27, 5-6 : 66-67. Martianus Capella De Nupt. Phil, et Mere. I, 41 : 151-53. 45 : 233. Naevius Fr. 3: 36; 47; 61; 85; 86; 117; 123-4; 176. Fr. 11 : 164 n. 23. NlGIDIUS FlGULUS ap. Arn., Ili, 40: 140; 142 sq. ap. Macr., Sat. Ill, 4, 6:140.
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Nonius 531, 19: 393 η. 29 398; 399; 441; 442; 524. 528 : 270 η. 45. Obsequens 24: 224 η. 25; 359 η. 205. Orose IV, 9, 14-15: 494-5; 499. Ovide Am. II, 11, 7-8: 50. Fastes I, 527-8: 217. Π, 546-553 : 111 η. 90. 634 : 76 η. 75. III, 55-6 : 105 η. 63. 655-6 : 328. IV, 802 : 103 η. 52. V, 563-65 : 206. VI, 59-61 : 254. 261-2 : 488 η. 150; 510. 263-4: 509. 263-66: 21. 295: 82 η. 97. 395 sq. : 456. 421 : 466 η. 73. 424-35 : 461 η. 43. 437-54 : 487. 450 : 456 η. 20; 457. 453 : 500. 455-6 : 489 η. 156. 633 sq. : 108 η. 77. Met. V, 660: 37; 52. VII, 575-6: 40. IX, 640 : 98 η. 25. XIV, 608 : 323 η. 18. Tr. Ι, 3, 45 : 101 η. 41. 3, 47 : 91 η. 146. 5, 81 : 96 η. 16. Pausanias IX, 40, 11-12: 422. Perse Sat. Ill 24-26: 89-90. 73-75: 18 η. 26. V, 31 : 76 η. 76; 109 η. 82. Pétrone XIX: 74; 79. XXIX: 68; 268 η. 32. LX : 77 η. 78; 102 η. 45; 109 η. 82. Plaute Merc. 834: 36; 38; 95; 98 η. 22; 99; 101; 103; 107 η. 73; 334. 836 : 36; 38. Mil Gl. 1339: 103. Pseud. 178: 15. 601: 21. 608: 21; 86 η. 120. Rud. 1208: 90 η. 141. Pline l'Ancien N.H. Ill, 5, 56: 301-302; 327. 56-7: 256; 362. 68 sq. : 243. 69 : 444; 448. VII, 45; 141 : 461 η. 43; 495; 499. XXVII, 45 : 375. XXVIII, 7 : 457. 27 : 102 η. 46. 39 : 458. XXXV, 157: 115 η. 111.
558
INDEX LOCORVM ANTIQVORVM
Plutarque Quaest. Rom, 79 : 397 n. 49. Vitae : Cam. 20, 3 : 480. 20, 4 : 457. 20, 5 : 457. 20, 6: 463; 481. 20, 7: 505 n. 224. 20, 7-8: 482. 21, 1 : 483. 21, 2: 484. Cic. 16: 415 n. 141. Cor. 29, 2 : 250. Numa 10: 478 n. 118. 11: 454 n. 3; 476 n. 111. 11, 1 : 508. 18: 297. Public. 10, 3-6 : 394. 10, 6 : 396 n. 43. 23 : 397. Rom. 19: 349 n. 148. 20: 401 n. 77. 23: 342. 24 : 343. POLYBE III, 22, 11 : 347; 361; 368. 52: 268. Pomponius Mela II, 4, 71 : 256; 362. Priscien IV, 629 Ρ : 244. Probus Ad Verg. Bue. VI, 31 : 151 η. 86. Properce IV, 4, 13-14 : 297. IV, 4, 45 : 461 η. 43. IV, 11, 73 sq. : 182 η. 107. PSEUDO-AURÉLIUS VICTOR Origo Gent. Rom. 10, 12, 4 : 326 η. 37. 14, 4 : 323 η. 21 ; 324. 15, 4 : 503 η. 214. 17, 1 : 242 η. 121; 465. 17, 2: 450. Pseudo-Plutarque Par. Min. 17: 500. Res Gestae IV, 2, 3: 106. IV, 7: 225. X, 12: 106. XIX, 2: 333; 387 η. 3; 398; 424; 440; 445. Salluste Cat. VI, 1 : 383 n. 3. Hist. 2-, 47, 3: 50 n. 52; 98. 47, 4: 50 n. 52; 98. SCHOLIASTE DE BOBBIO Cic. Pro Plane. 23 : 373 n. 269. SCHOLIASTE DE VÉRONE Ad Aen. I, 239 : 341 η. 104; 358. 259 : 323 η. 19. II, 717 : 130; 179; 276. VII, 681 : 500 η. 203. Sénèque le Rhéteur Contr. I, 3, 1 : 461 n. 43. IV, 2 : 495; 499; 500.
Sénèque Oed. 708: 51. Phèdre 89-91 : 42. Phén. 503-4 : 42. 663 : 54 n. 68. Servius-Daniel Ad Aen I, 170 : 164 n. 23. 259 : 323 n. 22. 378: 126. 617: 501 n. 209. 703: 18-9. 736 : 87. II, 35 : 501 n. 209. 166 : 463 n. 57; 466 n. 73; 496. 296: 60 n. 7; 149; 150-1; 219; 294; 342; 517. 320: 184 n. 115. 325: 142; 145; 234; 273 n. 64. 339: 297. 469 : 66. 484 : 24 n. 58; 64. 514 : 2; 63-4; 76; 524. 636: 129. 649: 501 n. 209. 687 : 501 n. 209. 717 : 36; 1256. III, 12: 132; 145 n. 71; 150; 212; 252; 260; 288; 295; 355 sq.; 421; 433-4; 437 n. 213; 457; 468 n. 86. 119 : 141. 148: 131; 276. 168: 130 n. 21. 174: 283. 257 : 87. IV, 242 : 268; 273 n. 63. 620 : 324. V, 64: 99; 110. 704: 503 n. 214. VI, 152: 104. 760: 271 n. 55. VII, 150: 297; 325; 329; 465 n. 67. 188: 466; 467 n. 83. 207: 127. 603: 513 n. 261. 678 : 500 n. 203. 709 : 349 n. 148. VIII, 138: 268. 288: 284 n. 113. 663: 474. 664 : 358. 679 : 127. X, 541 : 214 n. 268; 224; 360. XI, 211 : 66; 83. Ad Georg. I, 21 : 113. Silius Italicus Pun. : VIII, 179-200: 328. SOLIN I, 18: 401 n. 77; 516. 21: 445. 21 sq. : 442. 22 : 441. 23 : 445. 25 : 388 n. 7; 393 n. 29; 398; 399; 508; 514; 519; 524. II, 9: 500 n. 203. 14: 128; 254; 315; 323 n. 21; 463. Souda s.u. 'Αφροδίτη : 255. s.u. κηρύκειον : 268 ; 269. Stace Silves III, 5, 12-13: 43 n. 23. Strabon V, 2, 2 : 240. V, 2, 3 : 484 n. 137. V, 3, 5 : 255; 315; 323; 362. VI, 1, 14: 221.
INDEX LOCORVM ANTIQVORVM Suétone Aug. 92: 56; 70. Cal. 5 : 104 η. 53. César : 79, 2 : 376 η. 282. Claude 4 : 376 η. 283. Nér. 32: 51-52; 56. Tacite Ann. Ill, 34, 3 : 43. IV, 36 : 376 η. 283. V, I, 3: 52. XII, 23: 516. XIII, 4, 3 : 37 η. 9. XIV, 61, 3-4: 43; 52; 109 η. 83. XV, 40: 504. XV, 41, 1: 3; 45; 384; 458; 467-8; 504; 508 η. 231. Germ. 15, 1 : 50; 56. Hist. I, 15, 2 : 56. 51, 7 : 42. Ill, 84, 3 : 40; 50 η. 52; 98 η. 25. 86, 8 : 98 η. 22. IV, 53, 3: 297 η. 173. Terence Phorm. 311-12: 36; 103. Tertullien Ad. Nat. I, 10, 46: 59; 63. I, 10, 76: 101. II, 15: 500 η. 204. Ill, 41 : 105. Théocrite αρ. Serv., Ad Aen. I, 617 : 501 n. 209. II, 35 : 501 n. 209. II, 649 : 501 n. 209. II, 687 : 501 n. 209. Théodose Codex XVI, 10, 18: 90; 91. Thucydide I, 53 : 267. TlBULLE I, 10, 5 : 90 n. 141. II, 4, 53 : 104 n. 54. 5, 42 : 103 n. 52. 5, 49 : 323 n. 20. TlMÉE αρ. Denys d'H., I, 67, 4: 124-5; 171-2; 202; 220; 264-5; 278; 336. TlTE-LIVE I, 1, 1 : 181. 1, 4 : 327. 1, 9 : 345. 2, 6 : 323 n. 22; 325. 3, 11 : 509 n. 242. 12: 414. 13, 4: 341 n. 105; 349. 13, 6: 349. 14, 2: 341. 14, 2 sq. : 368. 14, 3: 344. 20, 1 sq. : 508 n. 234. 20, 3 : 445. 22 sq. : 370. 23, 1: 447. 26, 13: 441-2. 28, 7: 447. 30, 1: 441 n. 229. 38, 7: 115 n. 110. 43, 13: 390 n. 19. 45, 2: 362 n. 225. II, 6, 5-12 : 391. 6, 6 : 391. 6, 10 : 391-2. 7, 7 : 393 n. 28. 7, 12 : 396 n. 43. 16, 7 :
559
396. 20, 12: 330 n. 56; 431 n. 191. 40, 7: 54. IV, 25, 7-8 : 245. V, 19, 1 : 375. 30, 6: 54. 39, 2: 471. 39, 9-10: 470. 39, 11 : 470. 40, 7: 457; 471 n. 95; 472. 40, 8: 100; 275; 289; 505 n. 224. 41, 3: 489 n. 152. 52, 7: 461; 489. 52, 8: 370; 450; 529. 52, 13-14: 473 n. 98. 53, 5 : 54. 53, 8 : 54. VI, 3, 3 : 54. 14, 7 : 55. 14, 8 : 98 n. 25. VII, 2, 2 : 239 η. 104. 13, 8 : 50; 54. 25, 5 : 343 η. 120. 27, 1 : 239 η. 104. Vili, 4, 2 : 375. 9, 6 : 107 η. 72; 300. 11, 2-3: 351. 11, 15: 339; 350; 353; 363; 372. 14, 2: 351 η. 164. 25, 1 : 239 η. 104. IX, 36: 480 η. 124. 42, 11 : 245. XXII, 3, 10: 54; 98 η. 25. XXV, 12, 1 : 376 η. 281. XXVI, 27, 14: 457 η. 22; 461; 27: 496; 503. 36, 6 : 89. XXX, 13, 13 : 98 η. 26. 14, 2-3 : 52. XLI, 16, 1 : 376 η. 281. XLII, 22, 16: 376 η. 281. 35, 3: 376 η. 281. XLV, 5: 440. 16, 5: 384 η. 7; 387 η. 2; 399. Periochae, 19 : 487. Tzetzès Ad Lyc, 1232: 327. Valére Maxime I, 1, 10: 484. 4, 4: 495; 499. 6, 7: 224 η. 25; 356. IV, 1, 1 : 393 η. 29. Varron De L.L. V, 41-54: 389 sq. 48: 443. 54: 384 η. 7; 387 η. 1 ; 395; 399. 58: 15 η. 13; 133-4; 434; 436 η. 211; 481. 144: 4; 157; 180; 219; 319; 361 η. 217; 369 η. 250; 384. 152 : 304; 437 η. 213. 157 : 475. 161 : 20. 162 : 20. VI, 21 : 513 η. 262. VIII, 83 : 29 η. 73. R.R.: Ι, 62: 86 η. 120. II, 4, 18: 174; 243. Sat. : 265 : 89. αρ. Am., Ill, 40: 134-5.
560
INDEX LOCORVM ANTIQVORVM
ap. Aug., De Civ. Dei, IV, 31 : 114; 277. VII, 21 : 249; 459. VII, 28 : 136. αρ. Donat, Eun II, 2, 25 : 401. αρ. Macr., Ill, 4, 7 : 134. 6, 16 : 284. ap. Non., 528: 270. 531 : 109 η. 84. 531, 19: 393; 398; 399; 441; 442; 524. αρ. Prob., Ad Verg. Bue. VI, 31 : 151 η. 86. αρ. Schol. Ver., Ad Aen. II, 717: 130; 179; 276. ap. Serv., Ad Aen. II, 166 : 466 n. 73. 636 : 129. Ili, 12: 132; 288; 421; 433; 468 n. 86. Ili, 148 : 131 ; 276 n. 84. V, 704 : 503 n. 214. Virgile En. I, 704: 67; 90. Π, 171: 259. 227: 259. 293: 184 η. 115; 193; 195; 295; 429. 293 sq. : 182; 338. 294 : 48. 296-7 : 295. 318 sq. : 164. 319 : 183. 320 : 193. 320-1: 184; 338. 559-60: 184. 632: 185. 707 sq. : 186; 206. 717: 193. 747 sq. : 206. 718: 338. 747: 186; 338. 767-8: 49. 804: 187. Ill, 11-12: 42 η. 18; 45; 134; 187. 1516: 41. 118-9: 141. 154-5: 429. 163 sq. : 161; 187. 255-7: 188. 388
sq. : 188. 404-7 : 284 η. 114. 395 : 188. 603-4 : 43. V, 61-63: 91 η. 145. 615: 259. VI, 760-5: 271. VII, 59-64: 304. 71 sq.: 185 η. 119. 81 sq. : 346 η. 134. 106 : 189. 116 : 867. 120 sq. : 189; 191. 122 sq. : 161. 170 sq. : 298. 229-30: 190. VIII, 11: 184 n. 114. 11-12 : 190. 29: 191. 31 sq. : 192. 36 sq. : 191. 81 sq. : 192; 211. 82 : 214 n. 268. 84 sq. : 192. 85: 214; 338. 86 sq. : 193. 543: 1; 101 n. 41. 678-9: 42 n. 18; 45; 134. 680 sq: 185 n. 119. 720: 189 n. 134. IX, 258: 101 n. 41. XII, 138-9: 330. 161-63: 240; 303-4. 161-215: 346. 192: 336; 338; 346. 192 sq. : 349. 366; 477 sq. : n. 238 464. 794 : 323 n. 19. VlTRUVE IV, 9, 1 : 230. VI, 150: 20 n. 33. XÉNOPHON Cyn. I, 15: 171 n. 57. ZONARAS VII, 4 : 344.
Le sacrifice d'Enee (/Ira Pacis, Rome. Cliché Deutsche Archäologische Insti
Planche II
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Les monnaies de Maxence (Cliché Bibliothèque nationale, Paris).
TABLE DES MATIÈRES
Pag. 1
Introduction
Première partie ETYMOLOGIE ET USAGE DU MOT
Chapitre I: Etymologie -.pénates et penus
13
I - L'étymologie de Penates . II - Sens de penus 1) Penus dans le vocabulaire profane 2) Le Penus Vestae 3) Rapport entre les deux sens de penus. Le thème penIII - Le suffixe -aies Chapitre II : classique I II III IV
-
13 15 16 21 22 29
L'usage du mot pénates dans la littérature
Penates et di pénates Les sens du mot Penates Penates et son contexte Circonstances de l'emploi de Penates
35 '
35 39 44 51
562
table des matières
Deuxième partie LES PÉNATES PRIVÉS
Introduction
59
Chapitre I : Les réalités du culte des pénates privés
63
I - La localisation du culte 1) dans la maison en général 2) dans une pièce particulière de la maison 3) les différentes formes de chapelles domestiques . . II - Les représentations des Pénates 1) peintures et statuettes 2) les divinités représentées comme Pénates III - Le culte des Pénates Chapitre II : Les pénates privés : essai d'interprétation I - Les Pénates et les autres dieux domestiques 1) Pénates, θεοί πατρώοι et di patrii 2) Pénates et diui parentes 3) Pénates et Lares II - Histoire des Pénates privés 1) La définition étymologique des Pénates 2) Les figurines des tombes albaines 3) La signification du nombre deux 4) La pluralité et la confusion avec d'autres dieux
63 63 65 71 75 77 79 83 93
. .
94 94 98 101 111 112 113 117 119
Troisième partie LES PÉNATES PUBLICS
Introduction : Les traditions antiques sur les Pénates Timée Cassius Hemina
123 124 125
TABLE DES MATIÈRES
563
Varron Denys d'Halicarnasse Nigidius Figulus . Indications éparses et anonymes Martianus Capella
129 136 140 146 151
Première section : Lavinium
155
Introduction
157
Chapitre I : Énée et les Pénates : le transfert des sacra
161
I - Les sources littéraires 1) Enée dans la littérature grecque antérieure au IIIe siècle avant J.-C 2) Le IIIe siècle 3) La tradition annalistique 4) L'épanouissement de la légende II - La tradition iconographique 1) Le VIe siècle 2) Les Ve-IIIe siècles 3) Le Ier siècle avant J.-C Chapitre II: Le sanctuaire des pénates À Lavinium
162 162 171 177 179 196 196 199 204 219
I - Les données littéraires et iconographiques 220 1) La tradition littéraire 220 2) Les documents iconographiques 224 II - Les témoignages archéologiques 229 1) Le sanctuaire des Treize autels 229 A - Présentation des découvertes 229 Β - Tentatives d'interprétation du nombre des au tels 232 C - La divinité dédicataire 249 2) Le sanctuaire de l'est 257 Chapitre III : Identité et histoire des pénates de Lavinium .... I - L'identité des Pénates de Lavinium 1) Le témoignage de Timée 2) La dédicace à Castor et Pollux
{.
263 264 264 285
564
TABLE DES MATIÈRES II - L'histoire des Pénates de Lavinium 1) Eléments autochtones A - Les Pénates et Vesta Β - Le Numicus ,C - Le culte de Sol Indiges 2) Introduction de la légende d'Enée à Lavinium . . .
Chapitre IV: Rome et les Pénates de Lavinium
292 292 292 297 298 307 319
I - L'établissement à Lavinium de la légende d'Enée com meancêtre fondateur 320 1) Développements architecturaux 320 2) Aeneas Indiges 323 3) La transformation des Pénates 336 II - Rome et Lavinium 339 1) Les sacrifices romains à Lavinium 341 A - Le sacrifice expiatoire de Titus Tatius 341 Β - Le pacte d'alliance entre Enée et Latinus . . . 344 C - Le renouvellement annuel du traité entre Rome et Lavinium 347 D - Le sacrifice des magistrats romains à Lavi nium 355 2)' La signification du choix de Lavinium comme mé tropole de Rome 361 A - Rôle particulier de Lavinium 361 Β - Eléments légendaires 364 C - Réalités historiques 367 D - La mainmise de Rome sur les centres religieux du Latium : les Monts Albains et Lavinium . . 372 Deuxième section : Rome
381
Introduction
383
Chapitre I : Le culte des Pénates sur La Velia
387
I - La 1) 2) II - Le 1)
Vèlia : cadre géographique et architectural Le cadre géographique Les monuments Temple des Pénates La description de Denys d'Halicarnasse
....
388 388 395 399 400
TABLE DES MATIÈRES 2) L'identification de la partie rectangulaire de l'égli se SS. Còme et Damien comme le sanctuaire des Pénates 3) Le «Temple de Romulus» comme sanctuaire des Pénates 4) Conclusion III Les statues des Pénates 1) Le témoignage de Denys d'Halicarnasse 2) Le sacrifice d'Enée sur l'Ara Pacis 3) Les monnaies de Maxence 4) Les attributs des Pénates «troyens» et leur signi fication , IV - Dioscures et Pénates 1) La confusion des Pénates et des Dioscures 2) Les limites de cette confusion V - Histoire du culte de la Vèlia 1) L'histoire du temple 2) La Vèlia dans l'histoire des origines de Rome ... 3) Tullus Hostilius, les Pénates et la Vèlia
Chapitre II : Les Pénates et l'Aedes Vestae sur le forum I - Les traditions relatives à la présence de sacra dans YAedes Vestae 1) Le Penus Vestae et les sacra 2) Le phallus 3) Le Palladium 4) Les Pénates II - L'histoire des sacra de YAedes Vestae 1) L'invasion gauloise de 390 avant J.-C A - Le récit de Tite-Live Β - Le récit de Plutarque C - Les témoignages de Valére Maxime et Florus 2) L'incendie de 241 avant J.-C A - Le témoignage d'Ovide Β - Le récit de Denys d'Halicarnasse C - Les témoignages d'Augustin et d'Orose .... D - Interprétation du geste de Métellus 3) Incendies divers
565
402 410 418 419 419 424 426 428 430 430 437 439 440 441 445
453 454 454 458 460 467 470 470 470 480 484 487 487 490 493 495 503
TABLE DES MATIÈRES
566
III - L'Aedes Vestae, la Regia et les Pénates 1) L'Aedes Vestae et la Regia 2) Les Pénates de Numa
.
507 508 516
Conclusion
521
Bibliographie
531
Index nominvm et rervm notabilivm
547
Index locorvm antiqvorvm
555
Planches I et II Table des matières
561