Le cefalee: manuale teorico-pratico
Breve storia delle cefalee
III
Gennaro Bussone • Gerardo Casucci • Fabio Fredia...
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Le cefalee: manuale teorico-pratico
Breve storia delle cefalee
III
Gennaro Bussone • Gerardo Casucci • Fabio Frediani Gian Camillo Manzoni • Vincenzo Bonavita
Le cefalee: manuale teorico-pratico
IV
Gennaro Bussone U.O. Neurologia III - Cefalee Dipartimento di Neuroscienze Cliniche Fondazione I.R.C.C.S. Istituto Neurologico “C. Besta” Milano ASC – Associazione per una Scuola delle Cefalee Gerardo Casucci U.O. di Medicina Generale Casa di Cura “S. Francesco” Telese Terme (BN) ASC – Associazione per una Scuola delle Cefalee
R. De Simone
Gian Camillo Manzoni Centro Cefalee, Dipartimento di Neuroscienze Ospedale Maggiore Università degli Studi di Parma Parma ASC – Associazione per una Scuola delle Cefalee Vincenzo Bonavita Dipartimento di Scienze Neurologiche Università degli Studi di Napoli “Federico II” Napoli ASC – Associazione per una Scuola delle Cefalee
Fabio Frediani U.O. Neurologia, Centro Cefalee Policlinico “S. Pietro” Ponte San Pietro (BG) ASC – Associazione per una Scuola delle Cefalee
ISBN 978-88-470-0753-6 e-ISBN 978-88-470-0754-3 Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla ristampa, all’utilizzo di illustrazioni e tabelle, alla citazione orale, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla registrazione su microfilm o in database, o alla riproduzione in qualsiasi altra forma (stampata o elettronica) rimangono riservati anche nel caso di utilizzo parziale. La riproduzione di quest’opera, anche se parziale, è ammessa solo ed esclusivamente nei limiti stabiliti dalla legge sul diritto d’autore, ed è soggetta all’autorizzazione dell’editore. La violazione delle norme comporta le sanzioni previste dalla legge. Springer-Verlag fa parte di Springer Science+Business Media springer.com © Springer Italia 2008 L’utilizzo in questa pubblicazione di denominazioni generiche, nomi commerciali, marchi registrati, ecc. anche se non specificatamente identificati, non implica che tali denominazioni o marchi non siano protetti dalle relative leggi e regolamenti. Responsabilità legale per i prodotti: l’editore non può garantire l’esattezza delle indicazioni sui dosaggi e l’impiego dei prodotti menzionati nella presente opera. Il lettore dovrà di volta in volta verificarne l’esattezza consultando la bibliografia di pertinenza.
Layout copertina: Springer Medicom, Milano Impaginazione: C & G di Cerri e Galassi, Cremona Stampa: Grafiche Porpora, Segrate Stampato in Italia
Breve storia delle cefalee
V
Prefazione
Questo libro elabora in maniera più estensiva i contributi didattici presentati ai corsi dell’Associazione per una Scuola delle Cefalee (ASC), braccio formativo dell’Associazione Neurologica Italiana per la Ricerca sulle Cefalee (ANIRCEF). L’obiettivo principale dei Corsi ASC, e quindi anche di questo volume, è quello di un incontro e di un confronto tra la ricerca clinica e l’esperienza clinica. Si può giungere infatti ad una maggiore comprensione della patologia cefalalgica proprio attraverso la stretta continuità fra ciò che l’esperienza clinica suggerisce e ciò che la ricerca ripropone. Le cefalee, infatti, vanno acquistando una sempre maggiore rilevanza per i problemi genetico-epidemiologici e per le nuove acquisizioni nel campo della fisiopatologia, che stanno aprendo nuove frontiere terapeutiche. Tutti gli argomenti trattati ripropongono un percorso metodologico unitario, quale guida per l’approfondimento diagnostico e terapeutico. Alcuni capitoli hanno carattere prevalentemente didattico, con l’intento di rivolgersi ai più giovani che non avendo una conoscenza specifica della materia possono essere sollecitati ad acquisire maggiori conoscenze, altri affrontano problemi clinici di particolare interesse o espongono le linee di ricerca che si sono sviluppate in questi ultimi anni. Si è cercato di ottenere la maggiore omogeneità possibile degli elaborati, talora con non pochi problemi, ma riteniamo di averli risolti dando alla stampa un testo moderno e facilmente consultabile. Ringraziamo tutti i colleghi che hanno collaborato alla realizzazione di questo progetto, nella convinzione che nella soluzione di qualsiasi problema solo l’apporto collettivo sia la strada da percorrere. Infine, un ringraziamento particolare alla Signora Tina Pappalardo per il prezioso contributo redazionale e a Springer per la collaborazione fornita. Ci auguriamo che questo testo possa essere di utilità teorica e pratica a tutti coloro che aspirano ad una migliore conoscenza delle cefalee e delle algie cranio-facciali. I Curatori
Breve storia delle cefalee
VII
Introduzione: ma serve insegnare?
Questa introduzione riporta integralmente una lettura con cui si è dato inizio al VII Corso ASC (Frascati, 8-10 giugno 2007), con un dibattito sulla metodologia generale della conoscenza, sulla metodologia della diagnosi clinica per congetture e confutazioni e sulla metodologia dell’insegnare. Essendo i suoi contenuti solo in minor parte pertinenti alle cefalee, essa non avrebbe dovuto trovar posto in questo volume. Si è ritenuto opportuno, tuttavia, accoglierla perché essa vale a far comprendere il significato di un impegno didattico perseguito senza pause e da cui è nato anche questo “manuale teorico-pratico”.
Lo scopo di questa lettura è dar conto a voi delle ragioni che otto anni fa hanno spinto me, Gennaro Bussone e Giancamillo Manzoni a dar vita ad una Scuola delle Cefalee. La motivazione autoreferenziale era la seguente: un metodologo clinico, conoscitore del tema come non può mancare di essere un clinico neurologo, e due clinici neurologi con la conoscenza del tema che può derivare dalla ricerca sul tema stesso (Gennaro Bussone interessato a problemi fisiopatologici e terapeutici, Giancamillo Manzoni interessato a problemi epidemiologici e sistematici), potevano comporre una triade virtuosa per insegnare. Ovviamente rimaneva aperto il problema di fondo in cui si imbatte chi organizza una scuola e non dico questa ma qualunque scuola: ma serve insegnare, ammesso che si sia capaci di insegnare? Parto da lontano con un quesito, che è solo in apparenza il reciproco del primo: perché impariamo? Risponderò citando Platone e l’Apologia di Socrate: “Mentre veniva preparata la cicuta Socrate imparava un’aria sul flauto. A cosa ti servirà? gli fu chiesto. A saper quest’aria prima di morire”. È il concetto del servire che appare qui stravolto, non essendo più l’utilità del servire che viene proposta come unità di misura ma la conoscenza in sé. Fin qui Socrate e Platone che condivide ed esalta il primo. Ma la realtà, come dimostreremo, è forse più semplice e più complessa al tempo stesso. Michel de Montaigne scrisse riferendosi alla lettura: “Non faccio niente senza gioia”, e Pablo Casals a chi gli chiedeva come mai avesse generato un figlio all’inconsueta età di 81 anni rispondeva: “Perché lavoro e faccio ogni cosa con gioia”. Dunque, la condizione non rinunciabile del fare (leggere, ricercare, e ovviamente insegnare) è la gioia del fare. Tale è stata per noi tre (Gennaro, Giancamillo e io) la condizione non rinunciata e pienamente vissuta nell’istituire e poi far vivere la nostra scuola delle cefalee. Come vedete non manco di continuare ad essere autoreferenziale, ma il problema che rimane è la qualità della richiesta di chi già medico, già neurologo ricerca l’insegnamento in medicina clinica. Riparto da lontano con un esempio: quello della lettura e della rilettura. Ripensate alle lezioni di letteratura italiana che avete vissuto da giovanissimi studenti di liceo: il piacere del leggere era deliberatamente proscritto che si leggesse Guicciardini o Metastasio, Parini o Alfieri, Foscolo o Leopardi. L’insegnare a leggere precludeva la gioia del leggere; non era il leggere in sé che veniva richiesto, ma ascoltare le chiose e i commenti sul testo che così veniva di fatto sottratto alla lettura. Ritorna imperativo con l’esempio della lettura a scuola il monito del fare, inclusi l’insegnare e l’imparare, con gioia.
VIII
Introduzione: ma serve insegnare?
Ma qual è il rapporto tra l’insegnare e la retorica scientifica? Insegnare (imparando) e imparare (insegnando) sono momenti essenziali della retorica scientifica, che si configura come un dibattito a tre alla ricerca della verità quale congettura non confutabile (o se vi piace di più come ipotesi non falsificabile): il problema, chi insegna e chi impara. Ma quella ora indicata non è altro che la trasposizione del metodo sperimentale alla clinica, sulla base della filosofia popperiana della conoscenza come sequenza di congetture e confutazioni. Siamo così al centro del mondo dell’insegnare tanto più complesso quanto maggiore è la cultura generale e specifica di chi ascolta per imparare. E ritorno così all’esempio della lettura ma come rilettura, esempio assolutamente pertinente per chi rivisita in un corso come il nostro un’area disciplinare già visitata, alla ricerca di più informazione e perché no di un maggiore rigore metodologico. È stato scritto che un libro è diverso per ogni generazione di lettori, per ogni singolo lettore e per lo stesso lettore che torna a rileggerlo: sembra riscritto in ogni epoca in cui lo si legge e ogni volta che lo si legge. È stato scritto ancora che il “il piacere di rileggere è enormemente superiore a quello di leggere”. Rileggere (nel nostro caso reimparare ampliando) è dunque un leggere carico di tutto quello che, tra una lettura e l’altra, è passato su quel libro sia dentro di noi che nel mondo che ci circonda. Ma se è così per il leggere perché non dovrebbe accadere lo stesso per il reimparare, per ripensare il già pensato, per rivisitare il già conosciuto? Dal quesito introduttivo (ma serve insegnare?) sono scivolato gradualmente verso il quesito complementare: ma serve imparare? Qui non v’è dubbio sulla risposta: anche senza riferimento a Socrate, imparare è imperativo quando il risultato dell’apprendimento è trasferibile alla comunità in cui si opera ed in particolare alla comunità che chiede aiuto perché in sofferenza. Se leggere in generale è, fuori dalla scuola, un atto volontario che non tutti compiono, estendere le conoscenze nella propria area disciplinare ed esercitarsi nell’applicazione del metodo che le utilizza è un atto di volontà condizionata dalla coscienza deontologica. Utilitarismo dunque ma utilitarismo etico che, se vale per chi impara (insegnando), non può non valere per chi insegna imparando. Chi mi conosce sa che ricordo sovente un’affermazione di Isaac Singer, premio Nobel per la letteratura: “Il miglior modo di comprendere una disciplina è esserne professore”. L’utilitarismo etico ritorna così anche per Gennaro Bussone, Giancamillo Manzoni e me stesso, che con gli altri docenti di questo corso abbiamo ritenuto senza umiltà di poter insegnare. Sono caduto nel “particolare” guicciardiniano, ma voglio ritornare al problema più generale dell’insegnare fuori da questo corso e fuori dalla medicina clinica. Ritorna l’imperativo di Montaigne: la gioia di conoscere e far conoscere senza utilità derivata. Emblematica la risposta di Italo Calvino a chi gli chiedeva a che cosa serve leggere o rileggere libri: “A niente, ma è meglio leggerli che non leggerli”. Lo scrittore francese Daniel Pennac ha raccontato che durante il servizio militare sceglieva sempre la corvée della toilette (che nessuno amava fare) perché, sbrigato velocemente il compito, si richiudeva nell’ultima toilette, e così a porte sprangate lesse tutto Gogol. Come vedete la gioia del conoscere non sceglie il luogo; qualcuno ricorderà che Clemenceau era grato alla sua stitichezza che gli aveva consentito di leggere le “Memorie” di Saint Simon. Nelle battute introduttive di questa lettura v’è stato un riferimento alla metodologia clinica come replicazione del metodo sperimentale e della filosofia della conoscenza che procede per congetture e confutazioni. Tale riferimento rimanda giustamente a Karl Popper ma, nella ricerca di anticipazioni storiche, dovrebbe rimandare ad Augusto Murri e al metodo eliminativo proposto nelle sue lezioni di clinica medica all’inizio del secolo scorso. Val dunque la pena di fermarsi sulla definizione di congettura e ipotesi ma ancor prima sul termine intuizione
Introduzione: ma serve insegnare?
IX
che ritorna sovente con il riferimento al cosiddetto intuito clinico, come se l’intuizione potesse proporsi quale modalità alternativa all’ipotesi. L’aneddotica scientifica racconta che il chimico tedesco August Kekulè abbia intuito la formula chimica del benzene in sogno e che l’inglese Alan Turing abbia intuito la macchina logica universale mentre era in un placido dormiveglia su un prato. Ma cos’è l’intuizione? In filosofia è una forma privilegiata di conoscenza, che consente di ottenere il possesso immediato e totale dell’oggetto conosciuto. Non siamo lontani dall’affermazione di Plotino e di Tommaso d’Aquino i quali definivano intuizione l’atto immediato e totale con cui Dio conosce il mondo. È stato scritto da Pietro Greco in “Einstein e il ciabattino; dizionario asimmetrico dei concetti scientifici di interesse filosofico” (Editori Riuniti, 2002) che oggi possiamo definire “intuizione quell’atto creativo, magari meno istantaneo e meno globale dell’atto divino, che ciascuno di noi compie quando afferra una qualche verità, in genere logica e/o scientifica, senza dover passare attraverso la sua dimostrazione formale. Volendo ricorrere a una metafora, potremmo dire che l’intuizione è un tunnel che alcuni riescono a scavare sotto le procedure della logica formale e/o della dimostrazione fisico-matematica, per giungere alla verità (anche a una verità relativa e provvisoria, com’è sempre quella della scienza)”. Fermarsi sui meccanismi mentali dell’intuizione, ed in particolare dell’intuizione clinica può apparire fuori dal tema di questa lettura introduttiva, ma l’associazione di conoscenze a prima vista remote se ne propone come fondamento. Se così è, è anche ovvio, che quanto maggiore sarà il numero delle conoscenze remote e non, sommerse e non, maggiore sarà il numero delle intuizioni possibili. Mi fermo qui, ma sarò costretto a ritornare sul tema dell’intuizione quando analizzerò, nel contesto metodologico della diagnosi clinica, il concetto di ipotesi cui riconduco l’intuizione. Pur rivisitata e costretta in termini che allontanano l’intuizione umana dalla conoscenza intuitiva e cioè globale del mondo da parte di Dio, si può pur affermare che l’intuizione svolge un ruolo decisivo nella fantasia scientifica anticipatoria. Il nostro problema è, tuttavia, assai più concreto e circoscritto. Se ritornate agli esempi di Kekulè e di Turing, non potrete negare che il concetto di intuizione è di grande interesse per la psicologia della scoperta scientifica, ma in questa sede è necessario chiedersi se ne è pari la validità ai fini della diagnosi clinica, che non può eludere il rispetto non sotterraneo delle procedure della logica formale e/o della dimostrazione fisico-matematica. La risposta è di immediata evidenza: Kekulè e Turing sono rarità stocastiche; la maggior parte di noi può e deve ritrovare fondamenti solidi dell’argomentare nel rispetto lucido e rigoroso delle procedure della logica formale. L’intuizione è infatti per molti a rischio di errore, anche se essa non rifiuta la logica formale e anzi l’applica ma senza la coscienza di applicarla. Ne deriva l’utilità-obbligatorietà delle ipotesi nella ricerca di qualunque verità, inclusa la verità clinica. L’ipotesi è la base procedurale del metodo che caratterizza la ricerca scientifica e perciò anche il procedimento diagnostico. I filosofi dell’antica Grecia consideravano l’ipotesi come la premessa non verificata e non immediatamente verificabile di un discorso. Platone sosteneva che ogni discorso (e quindi anche il dibattito clinico) inizia con un’ipotesi. Se è così, ed è così, il segreto del buon ragionare consisterà nella capacità di scegliere ipotesi “forti”. Ma con riferimento alla diagnosi clinica, quale sarà la definizione cui aderire per selezionare l’ipotesi “forte?”. Il filosofo indicherà come forte l’ipotesi che meglio resiste alle argomentazioni che si propongono di demolirla. Al contrario il clinico adotterà un criterio di probabilità/semplicità per le ipotesi da confutare, che ordinerà in sequenza decrescente di rappresentazione epidemiologica, l’ipotesi più forte per il clinico essendo l’ipotesi che ha più probabilità di non essere demolita dalle argomentazioni confutanti che, nel procedimento diagnostico, sono i quesiti anamnestici mirati dopo la storia di malattia resa liberamente dal paziente e poi la semeiotica clinica e poi la semeiotica strumentale.
X
Introduzione: ma serve insegnare?
Lasciatemi ritornare alla storia. Dopo le anticipazioni metodologiche di Descartes, il metodo scientifico ritrova la sua rappresentazione compiuta con Galileo, il quale verifica sperimentalmente le ipotesi interpretative che formula da filosofo della natura: valga per tutti l’esempio dei gravi in caduta, uniformemente accelerata. L’esperimento del piano inclinato verifica l’ipotesi, converte cioè l’ipotesi in verità naturale. È sulla base di tali antecedenti storici che Claude Bernard definiva l’ipotesi “interpretazione anticipata dei fenomeni della natura”, definizione non diversa da quella più antica di John Locke quale “causa presunta di un fenomeno osservato”. La peculiarità del clinico rispetto al ricercatore interessato ai fenomeni della natura è che il primo fenomeno in cui si imbatte il clinico è la storia di malattia, fenomeno naturale deviante, ed è sulla storia che il clinico elabora le congetture da confutare nei modi prima indicati. Ma l’ipotesi non è la verità: è solo una possibile verità, è solo causa presunta o interpretazione anticipata, che richiede prudenza, umiltà, e il beneficio del dubbio. Quel che vado dicendovi è la rappresentazione dell’ipotesi come atto creativo dello scienziato e come riproduzione di un atto creativo, già compiuto da altri, da parte del clinico. Se non formulassero ipotesi, il ricercatore e il clinico dovrebbero proporsi di ricavare l’interpretazione (non più anticipata ma a posteriori) da un interminabile processo induttivo di raccolta di dati. È inutile aggiungere che non mancano i contrari agli apologeti dell’ipotesi come atto creativo che evita il gravoso accumulo di dati quale base per l’induzione di leggi generali. Basta ricordare Isaac Newton con la locuzione “Hypothesis non fingo”, certo come egli era di far parlare i fatti. I filosofi della scienza si sono chiesti come nascano le ipotesi da sottoporre a verifica sperimentale e se vi sia qualche discriminante tra un’ipotesi qualsiasi e un’ipotesi scientifica. Per rispondere rileggo con voi Pietro Greco nel dizionario già citato sul come a entrambe queste domande abbia risposto Karl Popper, filosofo austriaco, uno che nel ruolo creativo delle ipotesi credeva. Le ipotesi scientifiche, sostiene Popper, sono scelte sulla base di un principio di semplicità. Ovvero nel tentativo di formulare la spiegazione più semplice di un fenomeno. Le ipotesi e le teorie sono scientifiche se sono falsificabili, se cioè effettuano previsioni che possono essere contraddette da un esperimento. Entrambe queste asserzioni sono state criticate. Le ipotesi è stato affermato non sono uno strumento necessario per fare scienza. Il metodo scientifico è pluralista e le modalità della scoperta scientifica sono molte. D’altra parte non sempre il criterio di scelta delle ipotesi è quello, economico, della semplicità. Famoso è l’esempio del fisico Paul Virac, che al principio di semplicità preferiva il principio, estetico, di eleganza matematica. Ricavandone per altro notevoli gratificazioni: una sua clamorosa ipotesi sulla esistenza dell’antimateria, avanzata sulla base dell’eleganza matematica di certe equazioni che aveva elaborato, è stata poi verificata dall’osservazione. Quanto al criterio di falsificabilità proposto da Popper per “misurare”la caratura scientifica di un’ipotesi, esso esclude una serie di programmi di ricerca dal mondo della scienza. E, tuttavia, proprio nella clinica il criterio della falsificabilità delle ipotesi è ineludibile. Il fatto è che la filosofia popperiana della conoscenza non ha validità universale. Basti pensare per esempio alle scienze storiche in cui non mancano le ipotesi, ma la storia per sua natura è refrattaria a farsi rappresentare da esperimenti limpidi e ripetibili. La storia può essere narrata con rigore a posteriori, non anticipata da previsioni. Ritorna alla mente la religione dello storicismo di Rosario Romeo; un pensiero politico forte, che gli consentiva di leggere il rapporto tra presente e passato. Per noi rimane essenziale il metodo eliminativo di Murri, rifluito nella filosofia teorica di Karl Popper; al momento esso si propone come il migliore dei procedimenti possibili nella diagnosi clinica e nell’insegnamento della metodologia della diagnosi. **** Le cefalee costituiscono l’area disciplinare della nostra scuola, ma non a caso tre clinici neurologi, e non clinici di altre aree disciplinari, si sono proposti come organizzatori della scuola, perché le cefalee sono un capitolo elettivo della neurologia.
Introduzione: ma serve insegnare?
XI
La storia della relazione del mal di testa con il corpo dottrinario della neurologia è un frammento della storia della neurologia, ma anche un solo frammento di storia può essere cruciale ed è questo il caso. Il sistema nervoso riceve ed elabora stimoli sensoriali allo scopo di generare e controllare comportamenti adeguati: compito della neurologia è comprendere come il sistema nervoso svolga questa funzione e quali siano le conseguenze del suo eventuale disordine. Ne deriva che, per recare solo un esempio, se guardiamo all’emicrania come una malattia complessa che coinvolge la modulazione sensoriale, di fatto guardiamo ad essa come modello di compromissione di una fondamentale funzione nervosa; possiamo dunque affermare che l’emicrania si colloca in una posizione cruciale della neurologia. Non sarà mai ripetuto abbastanza che la cefalea è solo un sintomo ed è compito del neurologo tradurre il sintomo in specifiche entità nosografiche, con i loro meccanismi fisiopatologici da cui derivano specifiche terapie. L’emicrania che vi ho citato come modello esemplare di compromissione della modulazione sensoriale mi offre l’occasione per una notazione conclusiva sulla valenza anche non clinica di una scuola delle cefalee: il rapporto tra emicrania e selezione naturale. È largamente noto quanti siano gli elementi che suggeriscono come la suscettibilità all’emicrania abbia, in larga misura, una base genetica e che individuano pertanto l’emicrania come un tratto su cui inevitabilmente deve agire una pressione evoluzionistica. I principali elementi che sostengono questa ipotesi sono: a) l’elevata prevalenza della malattia, visto che essa colpisce il 12% della popolazione; b) la diversa prevalenza dell’emicrania in rapporto alla razza; c) l’identificazione di alcune mutazioni missense sul cromosoma 19 e, più recentemente, sul cromosoma 1, responsabili dell’emicrania emiplegica familiare; d) l’individuazione di un apparente linkage al cromosoma 19 in alcune famiglie con forme comuni di emicrania. La questione cruciale è: perché geni che portano ad una vulnerabilità elettiva (la predisposizione all’emicrania) persistono nel tempo? L’elevata frequenza dell’emicrania, così come il fatto che essa persista dall’antichità, comporta che un sistema nervoso particolarmente suscettibile all’emicrania ad un certo punto dell’evoluzione deve aver conferito un importante vantaggio per la sopravvivenza. Gli emicranici posseggono un sistema nervoso centrale altamente eccitabile e perciò particolarmente sensibile a stimoli ambientali, in particolar modo quelli provenienti dal sistema trigeminale. Una tale condizione probabilmente determina un comportamento caratterizzato da una maggiore attenzione agli stimoli sensoriali e un’aumentata capacità di evitare minacce provenienti dall’ambiente. N. Wiener ha scritto che “l’importanza dell’informazione e della comunicazione come meccanismo di organizzazione trascende l’individuo per interessare tutta la comunità”. Questa è stata l’ambizione della nostra scuola e questa vogliamo che sia la vostra ambizione. Vincenzo Bonavita Professore Ordinario di Neurologia Università di Napoli “Federico II” Direttore di ASC (Associazione per una Scuola delle Cefalee)
Breve storia delle cefalee
XIII
Indice
PARTE I
Forme maggiori di cefalee primarie
Capitolo 1
Breve storia delle cefalee . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3
R. DE SIMONE
Capitolo 2
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le prime descrizioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le cause . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le terapie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Letture consigliate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3 4 5 5 7
Classificazione ed epidemiologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
9
G.C. MANZONI, P. TORELLI
Capitolo 3
Classificazione delle forme maggiori di cefalea primaria . . . . . . Epidemiologia delle forme maggiori di cefalea primaria . . . . . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
9 12 16
Emicrania: la clinica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
19
D. COLOGNO
Capitolo 4
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Emicrania senz’aura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Emicrania con aura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Letture consigliate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
19 19 22 27 27
Emicrania: cenni di fisiopatologia e la terapia . . . . . . . . . . . .
29
P. CORTELLI
Capitolo 5
Fisiopatologia dell’emicrania senz’aura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Altri aspetti del meccanismo patogenetico . . . . . . . . . . . . . . . . . . Terapia dell’emicarania senz’aura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Fisiopatologia dell’emicrania con aura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Terapia dell’emicarania con aura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
29 31 33 39 40 47
Emicrania: la donna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
49
G.B. ALLAIS, C. BENEDETTO
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
49
XIV
Capitolo 6
Indice
Emicrania e ciclo mestruale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Emicrania e gravidanza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Emicrania e contraccettivi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Emicrania, menopausa e terapia sostitutiva ormonale . . . . . . . . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
49 52 56 58 59
Cefalea a grappolo e TACs: la clinica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
63
M. LEONE, A. PROIETTI CECCHINI, E. MEA, G. BUSSONE
Capitolo 7
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cefalea a grappolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le altre Trigeminal Autonomic Cephalgias (TACs) . . . . . . . . . . . Le altre forme dolorose unilaterali di breve durata senza fenomeni vegetativi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
63 63 66
Cefalea a grappolo e TACs: dalla fisiopatologia alla terapia . .
73
68 70
G. BUSSONE, S. USAI
Capitolo 8
Patogenesi della cefalea a grappolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le prime ipotesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Terapia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
73 73 76 81
Cefalea di tipo tensivo: la clinica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
83
D. D’AMICO
Capitolo 9
Classificazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Prevalenza e diagnosi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Presentazione clinica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Diagnosi differenziale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
83 85 86 86 88
Cefalea di tipo tensivo: cenni di fisiopatologia e la terapia . .
89
P. TORELLI, G.C. MANZONI
Dati sperimentali sui possibili meccanismi periferici . . . . . . . . . Dati sperimentali sui possibili meccanismi centrali . . . . . . . . . . . Modello fisiopatologico della cefalea di tipo tensivo . . . . . . . . . Terapia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . PARTE II
89 89 90 91 95
Forme diverse di cefalee primarie
Capitolo 10 Altre cefalee primarie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
101
G.C. MANZONI, P. TORELLI
Cefalea trafittiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Epidemiologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
101 101
Indice
XV
Caratteristiche cliniche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ipotesi patogenetiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Diagnosi differenziale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Terapia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cefalea da tosse . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cefalea da sforzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cefalea associata ad attività sessuale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cefalea ipnica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cefalea a rombo di tuono . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Hemicrania continua . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . New Daily Persistent Headache (NDPH) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
102 102 103 103 104 105 106 108 109 111 112 114
Capitolo 11 Cefalea cronica quotidiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
117
D. COLOGNO
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Classificazione e terminologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Epidemiologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Caratteristiche cliniche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’uso eccessivo (overuse) di analgesici e altri fattori di cronicizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ipotesi patogenetiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Comorbilità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Terapia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le cefalee croniche quotidiane in età evolutiva . . . . . . . . . . . . . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
117 118 121 122 122 125 125 127 129 130
Capitolo 12 Nevralgie craniche: clinica e terapia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
133
R. DE SIMONE, A. RANIERI
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Nevralgia del trigemino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Nevralgia del glossofaringeo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Nevralgia del nervo intermedio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Nevralgia occipitale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Nevralgia del laringeo superiore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cefalea da compressione esterna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cefalea da stimolo freddo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Letture consigliate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
133 133 139 140 140 141 141 141 142
Capitolo 13 Dolori facciali di origine centrale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
143
E. AGOSTONI
Anestesia dolorosa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Dolore centrale conseguente a ictus cerebrale . . . . . . . . . . . . . . .
144 144
XVI
Indice
Dolore facciale attribuito a sclerosi multipla . . . . . . . . . . . . . . . . Dolore facciale idiopatico persistente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Sindrome della bocca bruciante . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
144 146 147 147
Capitolo 14 Sindrome di Tolosa Hunt ed emicrania oftalmoplegica . . . . .
149
G. BUSSONE, L. LA MANTIA
Sindrome di Tolosa-Hunt . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Emicrania oftalmoplegica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
149 153 154
Capitolo 15 Cefalea ed età evolutiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
157
F. D’ONOFRIO, L. GRAZZI
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Epidemiologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Classificazione e clinica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Diagnosi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Terapia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
157 157 158 161 162 166 167
Capitolo 16 Cefalea ed invecchiamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
169
M.C. TONINI
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Dimensione del problema . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Caratteristiche cliniche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cefalee primarie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cefalee secondarie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cefalea da farmaci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Terapia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
169 169 170 170 177 177 179 182 182
PARTE III Cefalee secondarie Capitolo 17 Cefalea attribuita a disordini vascolari cranici o cervicali . .
189
E. AGOSTONI
Cefalea attribuita ad ictus ischemico o ad attacco ischemico transitorio (TIA) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cefalea attribuita ad emorragia intracranica non traumatica . . . . Cefalea attribuita a malformazioni vascolari non rotte . . . . . . . . Cefalea attribuita ad arteriti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Dolore dell’arteria carotide o vertebrale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cefalea attribuita a procedure endovascolari intracraniche . . . . .
190 191 193 194 198 201
Indice
XVII
Cefalea attribuita a trombosi venosa cerebrale . . . . . . . . . . . . . . Cefalea attribuita ad altri disordini vascolari . . . . . . . . . . . . . . . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
202 206 208
Capitolo 18 Cefalea attribuita a disordini intracranici non vascolari . . . .
209
P. TORELLI, G.C. MANZONI
Cefalea attribuita a ipertensione liquorale . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cefalea attribuita a ipotensione liquorale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cefalea attribuita a patologie infiammatorie non infettive . . . . . Cefalea attribuita a neoplasie intracraniche . . . . . . . . . . . . . . . . . Cefalea attribuita a iniezione intratecale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cefalea attribuita a crisi epilettiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cefalea attribuita a malformazione di Chiari tipo I . . . . . . . . . . . Sindrome “cefalea con deficit neurologici transitori e linfocitosi liquorale” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cefalea attribuita ad altri disordini intracranici non vascolari . . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
210 213 215 216 218 219 219 219 220 220
Capitolo 19 Cefalea attribuita a infezioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
223
F. FREDIANI, M.C. NARBONE
Cefalea attribuita a meningite batterica acuta . . . . . . . . . . . . . . . Cefalea attribuita ad ascesso cerebrale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Letture consigliate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
224 228 231
Capitolo 20 Cefalea attribuita a sostanze . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
233
G. CASUCCI
Cefalea indotta da donatori di ossido nitrico . . . . . . . . . . . . . . . . Cefalea indotta da inibitori delle fosfodiesterasi . . . . . . . . . . . . . Cefalea indotta da monossido di carbonio . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cefalea indotta da alcool . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Altre cefalee indotte da uso o esposizione acuta a sostanze . . . . Cefalea da sospensione di caffeina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
237 238 240 241 242 244 245
Capitolo 21 Cefalea attribuita a traumi del capo e/o del collo . . . . . . . . . .
247
M. AGUGGIA, S. GENCO
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Classificazione ICHD-II . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Caratteristiche cliniche ed epidemiologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Patogenesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Diagnosi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Trattamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Altre forme di cefalea del gruppo 5 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
247 248 250 252 253 254 255 257
XVIII
Indice
Capitolo 22 Cefalea attribuita a disordini dell’omeostasi . . . . . . . . . . . . . .
259
G. D’ANDREA
Cefalee attribuite a disordini dell’omeostasi . . . . . . . . . . . . . . . . Letture consigliate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
259 269
Capitolo 23 Cefalea attribuita a disordini di cranio, collo, occhi, orecchie, seni paranasali, bocca o altre strutture facciali . . . . . . . . . . . . 271 G. BUSSONE, F. MOSCHIANO
Cefalea e malattie oculari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La patologia dell’articolazione temporo-mandibolare . . . . . . . . . Le cefalee attribuite a patologia del collo . . . . . . . . . . . . . . . . . . Fattori precipitanti e aggravanti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . “Algia facciale atipica”: cosa rimane nella nuova classificazione? Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
273 275 275 276 277 279
Capitolo 24 Cefalea attribuita a disordini psichiatrici . . . . . . . . . . . . . . . .
281
R. DE SIMONE, A. RANIERI
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cefalea attribuita a disturbo psichiatrico: le forme validate . . . . I criteri sperimentali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Le prospettive future . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Letture consigliate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
281 281 283 284 284
Capitolo 25 Cefalea in pronto soccorso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
285
P. CORTELLI
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Esame obiettivo generale e neurologico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Diagnosi delle cefalee secondarie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cefalee primarie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . PARTE IV
285 287 287 288 292
Casi clinici
Capitolo 26 Casi clinici: introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
295
G. CASUCCI
I II III IV V VI
Caso clinico Caso clinico Caso clinico Caso clinico Caso clinico Caso clinico
....................................... ....................................... ....................................... ....................................... ....................................... .......................................
296 299 302 305 309 315
Indice analitico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
317
Breve storia delle cefalee
XIX
Elenco degli Autori
Elio Agostoni Divisione di Neurologia, Dipartimento di Neuroscienze, Ospedale “A. Manzoni”, Lecco Marco Aguggia Divisione di Neurologia, Ospedale “S. Giacomo”, Novi Ligure (AL) Giovanni Battista Allais Centro Cefalee della Donna, Dipartimento di Discipline Ginecologiche ed Ostetriche, Università degli Studi di Torino, Torino Chiara Benedetto Centro Cefalee della Donna, Dipartimento di Discipline Ginecologiche ed Ostetriche, Università degli Studi di Torino, Torino Vincenzo Bonavita Dipartimento di Scienze Neurologiche, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, Napoli, ASC – Associazione per una Scuola delle Cefalee Gennaro Bussone U.O. Neurologia III - Cefalee, Dipartimento di Neuroscienze Cliniche, Fondazione I.R.C.C.S., Istituto Neurologico “C. Besta”, Milano ASC – Associazione per una Scuola delle Cefalee Gerardo Casucci U.O. di Medicina Generale, Casa di Cura S. “Francesco”, Telese Terme (BN) ASC – Associazione per una Scuola delle Cefalee Daniela Cologno S.C. Neurofisiologia, Clinica-Dipartimento di Neuroscienze, Azienda Ospedaliero-Universitaria “Ospedali Riuniti”, Foggia Pietro Cortelli Clinica Neurologica, Dipartimento di Scienze Neurologiche, Università degli Studi di Bologna, Bologna Domenico D’Amico U.O. Neurologia III - Cefalee, Dipartimento di Neuroscienze Cliniche, Fondazione I.R.C.C.S., Istituto Neurologico “C. Besta”, Milano Giovanni D’Andrea Centro Cefalee e Malattie Cerebrovascolari, Clinica Villa Margherita, Arcugnano (VI) Florindo d’Onofrio Centro Cefalee, Azienda Ospedaliera “San G. Moscati”, Avellino
XX
Elenco degli Autori
Roberto De Simone Centro Cefalee, Dipartimento di Scienze Neurologiche, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, Napoli Fabio Frediani U.O. Neurologia, Centro Cefalee, Policlinico “S. Pietro”, Ponte San Pietro (BG) ASC – Associazione per una Scuola delle Cefalee Sergio Genco Clinica Neurologica I, Azienda Ospedaliera Policlinico, Bari Licia Grazzi U.O. Neurologia III – Cefalee, Dipartimento di Neuroscienze Cliniche, Fondazione I.R.C.C.S., Istituto Neurologico “C. Besta”, Milano Loredana La Mantia U.O. Neurologia IV – Centro Sclerosi Multipla, Dipartimento di Neuroscienze Cliniche, Fondazione I.R.C.C.S., Istituto Neurologico “C. Besta”, Milano Massimo Leone U.O. Neurologia III – Cefalee, Dipartimento di Neuroscienze Cliniche, Fondazione I.R.C.C.S., Istituto Neurologico “C. Besta”, Milano Gian Camillo Manzoni Centro Cefalee, Dipartimento di Neuroscienze, Ospedale Maggiore, Università degli Studi di Parma, Parma, ASC – Associazione per una Scuola delle Cefalee Eliana Mea U.O. Neurologia III – Cefalee, Dipartimento di Neuroscienze Cliniche, Fondazione I.R.C.C.S., Istituto Neurologico “C. Besta”, Milano Franca Moschiano U.O. Neurologia, Azienda Ospedaliera “Ospedale di Lecco”, Presidio di Merate, Lecco Maria Carola Narbone Centro Riferimento Regionale Diagnosi e Terapia Cefalee, A.O. Universitaria “G. Martino”, Messina Alberto Proietti Cecchini U.O. Neurologia III – Cefalee, Dipartimento di Neuroscienze Cliniche, Fondazione I.R.C.C.S., Istituto Neurologico “C. Besta”, Milano Angelo Ranieri Centro Cefalee, Dipartimento di Scienze Neurologiche, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, Napoli Maria Clara Tonini UO Neurologia, Centro Cefalee, Ospedale “G. Salvini”, Garbagnate Milanese (MI) Paola Torelli Centro Cefalee, Dipartimento di Neuroscienze, Ospedale Maggiore, Università degli Studi di Parma, Parma Susanna Usai U.O. Neurologia III - Cefalee, Dipartimento di Neuroscienze Cliniche, Fondazione I.R.C.C.S., Istituto Neurologico “C. Besta”, Milano
PARTE I
Forme maggiori di cefalee primarie
Breve storia delle cefalee
3
Capitolo 1
Breve storia delle cefalee R. De Simone
Introduzione Le cefalee sono disturbi dolorosi ricorrenti o cronici molto diffusi nella popolazione generale: è stato calcolato che circa il 90% degli individui lamenta un attacco di dolore al capo almeno una volta della vita. Anche restringendo l’osservazione alle forme ad elevata frequenza di presentazione la prevalenza delle cefalee resta molto elevata: il 15% della popolazione ha dolore almeno una volta al mese; il 4% per almeno 15 giorni al mese e l’1-2% addirittura quotidianamente. Sebbene, in un certo numero di casi, la cefalea possa risultare secondaria a patologie intracraniche o sistemiche anche severe, con possibile rischio per la vita, nella grande maggioranza dei casi il dolore è di tipo primario dunque non sostenuto da alcuna condizione nota. Accanto ad una sostanziale benignità in termini prognostici va però sottolineato il grande impatto che queste forme hanno sulla qualità della vita dei sofferenti, potendo ridurre in modo significativo le loro capacità di funzionamento sia da un punto di vista lavorativo che sociale. Tra gli oltre 35 tipi e sottotipi di cefalea primaria l’emicrania è la forma di maggiore rilevanza clinica e quella alla quale le donne in età fertile pagano il maggiore tributo. Nei paesi occidentali, in base a studi recenti, ne soffrono circa il 12% delle donne e il 6% degli uomini. L’emicrania si manifesta con attacchi ricorrenti di intenso dolore al capo, mono o bilaterale, che durano da poche ore a qualche giorno e si accompagnano ad una varietà di altri sintomi come nausea, vomito, foto e fonofobia. Il dolore ed i disturbi associati sono molto peggiorati dal movimento e ciò costringe il paziente a cercare sollievo nel riposo a letto, lontano da stimoli luminosi o sonori fino alla risoluzione della crisi, abitualmente entro 72 ore dall’esordio. La totale, seppur temporanea, disabilità che un attacco emicranico può comportare finisce per avere un impatto rilevante sulla qualità della vita di chi ne soffre frequentemente. Ogni aspetto della vita quotidiana, dal rendimento lavorativo alle relazioni sociali e familiari, può risultare severamente compromesso e questo problema è avvertito da molti individui come ancora più insopportabile del dolore in sé. L’impossibilità di prevedere con esattezza i giorni a rischio è fonte di ulteriore disagio in termini di qualità di vita, rendendo problematica la programmazione degli impegni di lavoro così come di ogni altra attività. Per queste ragioni l’attenzione dei clinici e dei ricercatori al problema della disabilità indotta dalle cefalee primarie, ed in particolare dell’emicrania, è molto cresciuta negli ultimi decenni. Oggi disponiamo di strumenti clinici in grado di misurare accuratamente il parametro disabilità, la cui significativa riduzione è sempre più spesso inclusa tra gli end-point dei trial farmacologici. Nonostante la sua gravità, l’emicrania è tuttavia un disturbo ancora poco conosciuto, frequentemente oggetto di errata diagnosi e spesso non trattato o sotto-trattato. Più di due terzi delle persone affette da emicrania preferiscono ricorrere all’utilizzo di prodotti da banco e non richiedono una consultazione specialistica. Una delle conseguenze di questo atteggiamento è la tra-
4
R. De Simone
sformazione di forme a carattere episodico in forme croniche e resistenti ai trattamenti, un fenomeno spesso sostenuto da un uso di analgesici eccessivo o improprio. Diversi fattori limitano ancora oggi l’accesso dei cefalalgici a diagnosi e cure adeguate. Tra questi uno dei principali consiste nella persistenza, a tutti i livelli, di autentici pregiudizi culturali come quello che vede nell’emicrania una semplice espressione somatica di problematiche psicologiche. Altri fattori sono il fatalismo del paziente circa la natura cronica della malattia, la reticenza legata a deludenti esperienze farmacologiche pregresse e persino la mancanza di empatia e collaborazione da parte del medico curante che può a volte catalogare riduttivamente questo disturbo come un “semplice mal di testa”. A questi fattori se ne aggiungono altri di tipo logistico ed economico (poche le strutture adeguate presenti sul territorio e spesso con lunghe liste d’attesa) che limitano ulteriormente le possibilità del paziente emicranico ad essere curato in modo corretto e tempestivo. Molta strada deve essere ancora percorsa perché una proporzione significativamente maggiore di sofferenti possa ricevere diagnosi corrette e cure efficaci ed è auspicabile che in un prossimo futuro il problema del controllo del dolore e della riduzione della disabilità dei cefalalgici sia incluso tra le priorità della sanità pubblica attraverso programmi di educazione rivolti a pazienti, ai loro familiari e agli operatori sanitari, anche con il coinvolgimento delle Istituzioni di Governo Clinico.
Le prime descrizioni La cefalea affligge il genere umano fin dall’alba dei tempi, come testimoniato dai segni di trapanazione della calotta cranica rinvenuti in reperti fossili risalenti al neolitico (7000 a.C.). Presumibilmente questa primordiale forma di neurochirurgia aveva lo scopo di liberare il paziente dagli spiriti maligni che si pensava dimorassero nella sua testa. I documenti più antichi in cui è stato possibile rintracciare riferimenti certi ad una forma di cefalea accompagnata a disturbi visivi risalgono al 3000 a.C. e provengono dalla Mesopotamia. In uno di questi la sintomatologia emicranica viene così descritta: “…e la testa è piegata con dolore che attanaglia le tempie … e i suoi occhi sono afflitti da oscuramento e nebulosità”. Altri riferimenti vengono dalla mitologia greca. Zeus, ad esempio, viene colpito da terribili mal di testa subito dopo aver divorato la moglie Metide, gravida, per evitare che si avveri la profezia secondo la quale verrà spodestato dal primo figlio maschio. Viene convocato Efesto, Vulcano per i latini, che con un’ascia apre la testa di Zeus per liberarlo dalle sofferenze, ma con un potente grido, ecco che dalla testa del dio nasce Athena, dea della guerra, armata di tutto punto. Ippocrate (460-370 a.C.) descriverà accuratamente una emicrania con aura, regredita dopo il vomito. Bisognerà però attendere fino al primo secolo dopo Cristo perché Areteo di Cappadocia definisca in modo esplicito il caratteristico pattern di dolore unilaterale, nausea e vomito che caratterizza l’emicrania, da lui denominata heterocrania. Si devono invece a Galeno (129-199 d.C.) sia il termine hemicrania, che ancora oggi conserva intatta l’iniziale efficacia descrittiva, sia una delle prime ipotesi eziopatogenetiche secondo cui gli attacchi erano causati dalla bile gialla, uno dei quattro umori (sangue, flegma, bile gialla e bile nera) teorizzati secoli prima da Ippocrate. La bile gialla, di provenienza epatica, era considerata anche responsabile del temperamento collerico, quasi a segnalare una possibile comorbidità tra il mal di capo e i disturbi del carattere. Da Galeno in avanti il termine hemicrania, riferito ad un disturbo doloroso del capo unilaterale associato a nausea, vomito e fotofobia, resterà sostanzialmente immodificato, rimanendo spesso riconoscibile anche tra idiomi radicalmente diversi. Si moltiplicheranno invece le interpretazioni eziopatogenetiche e vale qui ricordare le visioni di Ildegarda von Bingen (1098-1179), la carismatica badessa benedettina vissuta nell’alto medioevo,
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che attribuiva ai fenomeni dell’aura un significato mistico-apocalittico. Nel 1778, Fotherghill introdusse il termine “spettro di fortificazione” per descrivere le caratteristiche manifestazioni luminose a zig-zag dell’aura, paragonate a una città fortificata circondata da bastioni. Infine il primo testo monografico dedicato all’emicrania si deve a Liveing ed aveva per titolo “Su emicrania, mal di testa nauseante e disturbi associati: un contributo alla patologia delle tempeste nervose”. La pubblicazione è del 1873.
Le cause Molti autori del passato si sono cimentati con il problema delle cause dell’emicrania e restano tracce di numerose teorie che, naturalmente, riflettono soprattutto gli influssi culturali e il livello di conoscenza delle epoche in cui sono state formulate. Così, Ippocrate (460-377 a.C.) credeva che un attacco di cefalea potesse essere causato dall’esercizio fisico e dall’attività sessuale. Platone (427-347 a.C.) ipotizzava che le cefalee fossero legate all’eccessiva occupazione del proprio organismo. Celso (II secolo d.C.) credeva che l’abuso di vino, i disturbi gastrointestinali e le variazioni di temperatura fossero alla base dell’emicrania. Altre descrizioni, meno remote, contemplavano origini diverse che andavano da vapori tossici provenienti dallo stomaco all’umore malinconico che “annoiava il cuore e contagiava il cervello”. Nel ’900 la moderna ricerca ha favorito una notevole espansione della conoscenza delle cause del mal di testa, che ha condotto negli ultimi venti anni a significativi avanzamenti anche sul piano terapeutico. Ma ancora ad inizio secolo, Deyl attribuiva il dolore ad un rigonfiamento dell’ipofisi con conseguente compressione del nervo trigemino, mentre il suo contemporaneo Spitzer suggeriva invece che la cefalea fosse causata da un blocco del forame interventricolare con dilatazione del ventricolo laterale. Nel 1938, John Graham e Harold Wolff dimostrarono che l’efficacia dell’ergotamina nel trattamento dell’emicrania era legata al suo effetto vasocostrittore e questa evidenza fu posta alla base della cosiddetta teoria vascolare secondo cui il dolore è causato da una dilatazione dolorosa delle arterie del cranio. Malgrado alcune grossolane incompiutezze, la teoria vascolare dell’emicrania resterà a lungo quella più accreditata e solo nei primi anni ’80 cederà il posto a quella neuro-vascolare, basata sui brillanti studi istochimici e neurofisiologici di Moskowitz. Grazie all’avanzamento delle tecniche di neuroimaging funzionale, oggi iniziamo a considerare le cefalee primarie come disturbi complessi coinvolgenti un insieme di strutture nervose centrali, la cosiddetta pain matrix, che annoverano specifiche aree della neocortex così come centri e vie sottocorticali implicati nel controllo del traffico neurosensoriale centrale. L’insieme di queste strutture rappresenta, in sostanza, l’interfaccia vegetativa tra l’individuo e l’ambiente e ciò spinge a guardare all’universalità di questi disturbi come a qualcosa che si è conservato nel cammino filogenetico dell’uomo come conseguenza di un qualche vantaggio evolutivo, strettamente embricato con la vita di relazione.
Le terapie La storia dell’emicrania è anche la storia delle terapie sintomatiche proposte per alleviarla. La trapanazione della calotta cranica, già in uso nel neolitico, ha continuato a trovare sostenitori fino al XVII secolo. Per quanto riguarda i trattamenti specifici di questa patologia, la prima prescrizione è riconducibile ad uno scritto egizio del 1200 a.C.. Secondo questa ricetta, un coc-
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codrillo d’argilla con una pannocchia di grano in bocca andava fissato alla testa del paziente con una benda di lino che recava i nomi degli dei ritenuti responsabili della guarigione. È possibile che l’effetto di compressione e di raffreddamento indotto dalla procedura fosse responsabile di un qualche beneficio. Soluzioni di oppio e aceto, in cui l’aceto probabilmente facilitava l’assorbimento cutaneo dell’oppio, sono state largamente utilizzate in Europa nel corso del XIII secolo. Nel XVIII secolo, Erasmus Darwin, bisnonno dell’autore della teoria della selezione naturale, propose la centrifugazione quale trattamento della cefalea, per contrastare la vasodilatazione che era a suo parere la causa dell’emicrania; il trattamento avrebbe previsto la collocazione del paziente in una centrifuga per forzare la circolazione ematica dalla testa verso i piedi. William Gowers, nel 1888 raccomandò l’impiego di una soluzione di nitroglicerina all’1% in alcool (Gowers mixture) ed in seguito segnalò anche l’utilità della marijuana per la riduzione del dolore emicranico. Già Campbell, sul finire dell’800, aveva trovato che l’emicrania poteva essere controllata attraverso la somministrazione di estratti di segale cornuta. Questo termine fa riferimento all’infezione della pianta di segale da parte del micete claviceps purpurea, un fungo parassita che in una fase del ciclo vitale forma sclerozi di colore scuro e di forma allungata che richiamano i corni (da cui cornuta), o gli speroni della zampa di gallo (in francese ergot). Gli sclerozi contengono, oltre all’ergotamina, numerosi altri alcaloidi incluso un precursore dell’acido lisergico, potente allucinogeno. L’infestazione delle piantagioni di segale da parte del micete è stata responsabile, dal basso medioevo fin quasi ai nostri giorni, di drammatiche epidemie di ergotismo, una grave malattia caratterizzata da disturbi psichiatrici, stato convulsivo e gangrena ischemica delle estremità. Diffuso in tutta Europa, è in Francia che si sono sviluppate, in ogni epoca storica, le epidemie più devastanti di ergotismo. Il fungo responsabile della formazione degli sclerozi velenosi venne isolato da Tulsane a Parigi nel 1853. Le ultime due gravi epidemie si ebbero in Russia nel 1926 e in Irlanda nel 1929. Oggi l’ergotismo può considerarsi scomparso, almeno come forma diffusa a intere comunità, grazie alla facilità con cui può essere prevenuta la sua diffusione nelle coltivazioni. I primi trattamenti antiemicranici a base di segale cornuta utilizzavano semplici estratti fluidi la cui efficacia era soggetta ad ampie variazioni per il diverso contenuto di alcaloidi delle piante. Queste formulazioni venivano assunte per via orale o sottocutanea, ma era quest’ultima via che si accompagnava ai migliori risultati terapeutici. L’ergotamina, il solo alcaloide spiccatamente antiemicranico della mistura, fu identificata ed estratta come sale tartrato solo nel 1918 da Stoll; tuttavia il nuovo farmaco venne all’inizio impiegato esclusivamente come antiemorragico in ginecologia, col nome di Gynergan. Nel 1925 Rothlin trattò per la prima volta un caso di emicrania grave e ribelle con l’iniezione sottocutanea di ergotamina tartrato. Il successo stimolò nuovi studi e nel 1934 apparve, ad opera di Lennox, il primo trial controllato che decretava l’efficacia antiemicranica dell’ergotamina. La diidroergotamina fu sintetizzata nel 1943 da Stoll e Hoffmann e utilizzata in seguito per il trattamento dell’emicrania da Horton alla Mayo Clinic. Per diversi decenni l’ergotamina e il suo derivato, la diidroergotamina, sono rimasti gli unici farmaci dotati di azione antiemicranica specifica. Sebbene efficaci il loro impiego era tuttavia limitato dalla frequente comparsa di effetti collaterali, come acro-parestesie dolorose, crampi muscolari, nausea e vomito. Sul finire degli anni ’80 Humphrey e collaboratori, basandosi sull’osservazione che la serotonina è in grado di attenuare il dolore emicranico, sintetizzarono una molecola strutturalmente simile, ma più stabile: il sumatriptan. Questa molecola è stata la capostipite dei triptani, una nuova famiglia di farmaci assumibili per os e dotati di azione antiemicranica rapida ed estesa ai sintomi accessori. Il sumatriptan si è rivelato presto un agonista selettivo dei recettori 5HT-1B e 5HT-1D
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della serotonina. Come ha poi dimostrato la ricerca di base, tali sottotipi risultano tra i più coinvolti nell’infiammazione trigemino-vascolare, il meccanismo neurofisiologico alla base dell’ipotesi neuro-vascolare. Ad oggi, altri sei triptani sono stati immessi in commercio, ma uno di questi (naratriptan) non è disponibile in Italia. Gli altri sono il rizatriptan, lo zolmitriptan, l’eletriptan, l’almotriptan e il frovatriptan.
Letture consigliate Nappi G, Manzoni GC (1991) Manuale delle cefalee, 2 ed. Cluster Press Olesen J, Tfelt Hansen P, Welch KMA (2000) The Headaches, 2 edn. Lippincott Wilkliams & Wilkins, Philadelphia Sacks O (1992) Emicrania. Adelphi, Milano Silberstein SD et al (1998) Headache in Clinical Practice. Isis Medical Media
Capitolo 2
Classificazione ed epidemiologia G.C. Manzoni, P. Torelli
Classificazione delle forme maggiori di cefalea primaria Nel corso degli anni sono stati adottati diversi sistemi classificativi delle cefalee. Tra quelli che in passato hanno avuto larga diffusione dovrebbe essere ricordata la classificazione della Ad Hoc Committee on Classification of Headache del 1962 [1] in cui l’emicrania comune e l’emicrania classica sono inserite, assieme ad altre forme, in un unico gruppo denominato “cefalea vascolare di tipo emicranico”. Uno dei maggiori difetti di questa classificazione è rappresentato dalla suddivisione dei diversi gruppi di cefalea in base ad ipotetici meccanismi patogenetici che ha portato a definizioni, quali cefalea vascolare e cefalea da contrazione muscolare, sicuramente discutibili alla luce delle acquisizioni successive. Inoltre la definizione di ciascuna entità comprende termini che richiedono un’interpretazione soggettiva “gli attacchi di emicrania sono comunemente unilaterali all’esordio, sono abitualmente associati ad anoressia e, talvolta, a nausea e vomito…” per cui le diagnosi formulate da diversi medici non sono confrontabili. Per questi motivi la International Headache Society (IHS) ha, molto opportunamente, stilato un nuovo sistema classificativo, “La classificazione delle cefalee, nevralgie craniche ed algie facciali” [2], e nel 2004 è stata pubblicata, sempre ad opera della IHS, la seconda edizione della International Classification of Headache Disorders (ICHD-II) [3]. Le varie forme di cefalea sono sistematizzate secondo un ordine gerarchico, a livelli crescenti di raffinatezza diagnostica. La ICHD-II comprende, al primo livello diagnostico, 14 differenti gruppi: i primi 4 riguardano le cefalee primarie, i gruppi dal 5 al 12 si riferiscono alle cefalee secondarie, gli ultimi 2 fanno riferimento alle nevralgie craniche, dolori facciali primari e di origine centrale e ad altre cefalee. Al termine della classificazione è stata inserita un’interessante appendice che comprende, oltre ai criteri diagnostici per entità relativamente nuove che richiedono un’appropriata validazione, anche criteri diagnostici alternativi per entità già esistenti, quali ad esempio l’emicrania senz’aura e la cefalea di tipo tensivo. Tutti i medici dovrebbero essere in grado di porre una diagnosi al primo e al secondo livello diagnostico, mentre è di competenza dello specialista riconoscere le entità codificate al terzo ed eventualmente al quarto livello diagnostico. I criteri proposti per le cefalee primarie sono essenzialmente di tipo clinico e, ad eccezione di alcune forme, non hanno alcuna attinenza con i presunti meccanismi patogenetici delle varie entità cliniche. Per ogni gruppo viene contemplata anche la forma “probabile” da attribuire quando vengono rispettati tutti i criteri diagnostici per le forme “certe” eccetto uno. Si tratta, come già la precedente versione del 1988 [2], di una classificazione di attacchi e non di sindromi. Questo aspetto rappresenta un limite in quanto la classificazione attuale fotografa la situazione in un ben preciso momento, quello dell’osservazione, prescindendo totalmente da elementi diagnostici anche molto importanti e significativi quali, per esempio, la famigliarità, l’età d’esordio, le modalità di ricorrenza delle crisi, la storia naturale della patolo-
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gia, la relazione, nelle donne in età fertile, con gli eventi della vita riproduttiva, lo stile di vita e le comorbidità. L’emicrania è inserita al punto 1 della classificazione ed è suddivisa, al secondo livello di diagnosi, in 6 diversi tipi (Tab. 2.1). Per quanto riguarda le terminologie adottate, la denominazione del 1962 emicrania comune è stata sostituita da tempo con emicrania senz’aura, i precedenti termini emicrania classica, emicrania oftalmica, emicrania accompagnata, emicrania comitata sono tutti accorpati nell’unica dizione emicrania con aura e le definizioni di emicrania decapitata, emicrania abortita, hemicrania sine emicrania sono rimpiazzate da aura tipica senza cefalea. Per quel che riguarda l’emicrania con aura vengono distinte due forme differenti in funzione delle caratteristiche della fase algica. Nonostante il termine emicrania con aura indichi la presenza di un dolore di tipo emicranico, al terzo livello diagnostico è possibile differenziare l’aura tipica con cefalea emicranica e l’aura tipica con cefalea non emicranica proprio perché, dal punto di vista clinico, la cefalea che segue l’aura spesso non è affatto sovrapponibile ad un attacco di emicrania senz’aura. A differenza della prima edizione i criteri diagnostici dell’aura attualmente comprendono ben precisi parametri temporali e, in particolare, l’aura, per essere definita come tale, non può avere una durata inferiore a 5 minuti.
Tabella 2.1 Classificazione dell’emicrania nella International Classification of Headache Disorders, 2nd Edition (ICHD-II). Da [3] 1 Emicrania 1.1 Emicrania senza aura 1.2 Emicrania con aura 1.2.1 Aura tipica con cefalea emicranica 1.2.2 Aura tipica con cefalea non emicranica 1.2.3 Aura tipica senza cefalea 1.2.4 Emicrania emiplegica familiare 1.2.5 Emicrania emiplegica sporadica 1.2.6 Emicrania di tipo basilare 1.3 Sindromi periodiche dell’infanzia che sono comunemente precursori dell’emicrania 1.3.1 Vomito ciclico 1.3.2 Emicrania addominale 1.3.3 Vertigine parossistica benigna dell’infanzia 1.4 Emicrania retinica 1.5 Complicanze dell’emicrania 1.5.1 Emicrania cronica 1.5.2 Stato emicranico 1.5.3 Aura persistente senza infarto 1.5.4 Infarto emicranico 1.5.5 Epilessia indotta dall’emicrania 1.6 Emicrania probabile 1.6.1 Emicrania senza aura probabile 1.6.2 Emicrania con aura probabile 1.6.3 Emicrania cronica probabile
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Sono classificate sempre in questo gruppo le sindromi periodiche dell’infanzia considerate comunemente precursori dell’emicrania e comprendono il vomito ciclico, l’emicrania addominale e le vertigini parossistiche benigne dell’infanzia. Non esenti da critiche appaiono le complicazioni dell’emicrania (gruppo 1.5); infatti, l’aura persistente senza lesioni ischemiche (punto 1.5.3) è una forma per la quale non vi sono ancora dati attendibili in letteratura per un suo sicuro riconoscimento e forse sarebbe stato meglio inserirla in appendice. La critica maggiore riguarda però l’emicrania cronica (punto 1.5.1), entità clinica di grande importanza, di sicura esistenza ed ampia diffusione ma che, così come viene delineata dai criteri diagnostici della ICHD-II [3], risulta scarsamente aderente alla realtà clinica e certamente non rappresentativa di quelle forme di emicrania che, con il passare degli anni, evolvono verso una forma ad andamento temporale di tipo cronico quotidiano. Inoltre, il rapporto tra l’emicrania cronica e l’overuse di farmaci sintomatici appare, come impostato nel commento della ICHD-II, alquanto macchinoso e difficilmente applicabile nella pratica. A questo proposito sono stati recentemente pubblicati dei criteri diagnostici alternativi per l’emicrania cronica che prevedono: • 15 o più giorni al mese di cefalea (e non più di emicrania) per almeno 3 mesi; • la presenza di almeno 5 attacchi di emicrania senz’aura nella storia del paziente; • la presenza per almeno 8 giorni al mese, per 3 mesi consecutivi, di cefalea con caratteristiche emicraniche responsiva a triptani o ergotaminici; • l’assenza di overuse di farmaci [4]. Non è più classificata nel gruppo 1 l’emicrania oftalmoplegica che è reperibile nel capitolo 13, tra le nevralgie craniche e i dolori facciali primari e di origine centrale. La cefalea di tipo tensivo compare nella Ad Hoc Committee on Classification of Headache del 1962 [1] con la dizione cefalea muscolo-tensiva o, secondo una traduzione più letterale, cefalea da contrazione muscolare. Già dal 1988 [2] la terminologia è stata opportunamente modificata in cefalea di tipo tensivo in quanto i più moderni orientamenti patogenetici permettono di escludere che la causa di questo tipo di cefalea sia da ricercare nella sola contrazione muscolare. Attualmente vengono descritte, in relazione alla frequenza di presentazione, la cefalea di tipo tensivo episodica sporadica, quando gli episodi si ripetono meno di 1 volta al mese, la cefalea di tipo tensivo episodica frequente, se le crisi si presentano da 1 a 15 volte al mese, e la cefalea di tipo tensivo cronica in cui gli episodi hanno una frequenza superiore a 15 al mese [3]. Ciascuna forma può essere accompagnata da tenderness dei muscoli pericranici e al terzo livello diagnostico viene prevista la presenza o l’assenza di questa associazione. Il termine, difficilmente traducibile in italiano, indica un parametro misurabile e pertanto quantificabile, direttamente correlato allo stato di contrazione e di tensione della muscolatura. La dizione italiana più appropriata è “dolorabilità”. I criteri diagnostici della cefalea di tipo tensivo risentono in modo negativo di quella, che dopo tutto, può essere considerata una delle principali caratteristiche di questa forma di cefalea: la sua indeterminatezza e vaghezza che si riverbera anche nella difficoltà che spesso i pazienti manifestano nel descrivere i propri disturbi. I criteri diagnostici sono stati formulati in modo tale da consentire una chiara distinzione dall’emicrania. Dal momento che il problema principale di diagnosi differenziale è proprio nei confronti dell’emicrania senz’aura appare opportuna l’idea di elencare dei criteri che sono singolarmente in contrapposizione con quelli dell’emicrania. Il concetto viene ripreso ed affrontato anche nella descrizione dei criteri per i diversi sottotipi di cefalea di tipo tensivo probabile: per formulare la diagnosi, infatti, non è sufficiente che la cefalea rispetti tutti i parametri, eccetto uno, per un sottotipo di cefalea di tipo tensivo, ma è anche necessario che non vengano soddisfatte le caratteristiche per l’emicrania senz’aura probabile.
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Nell’appendice vengono proposti, per questa forma, dei criteri diagnostici alternativi che prevedono, non tanto l’introduzione di differenti parametri clinici, ma una diversa combinazione dei criteri relativi alla tipologia del mal di testa e dei sintomi ad esso associati. Nonostante l’intento degli estensori della classificazione di proporre un inquadramento esclusivamente clinico delle cefalee primarie, proprio nella definizione del gruppo 3 compare un riferimento ai possibili meccanismi eziologici della cefalea a grappolo e delle altre forme di cefalea di breve durata associate a segni neurovegetativi denominate appunto cefalalgie autonomico-trigeminali, Trigeminal Autonomic Cephalgias (TACs), in funzione del comune coinvolgimento delle afferenze del nervo trigemino e delle efferenze del sistema nervoso autonomo cranico. In questo gruppo vengono classificate la cefalea a grappolo, la hemicrania parossistica e la short lasting unilateral neuralgiform headache attacks with conjunctival injection and tearing (SUNCT). La cefalea a grappolo è classicamente distinta nella forma episodica e cronica. Nell’ambito della cefalea a grappolo cronica non compare più la suddivisione in forme croniche primitive e secondarie in quanto il sottocomitato responsabile della stesura dei criteri diagnostici ha proposto di codificare la cefalea a grappolo in funzione della presentazione clinica al momento dell’osservazione senza considerare l’evoluzione del pattern temporale. In base alla ICHD-II [3] quei pazienti che hanno presentato un solo periodo attivo, devono essere classificati come affetti da cefalea a grappolo al secondo livello diagnostico. Per quanto riguarda i criteri diagnostici, tra segni e sintomi associati del dolore negli attacchi di cefalea a grappolo compare anche l’agitazione psicomotoria che rappresenta probabilmente uno degli elementi clinici più specifici di questa forma di cefalea. La SUNCT rappresenta un’entità clinica ben caratterizzata dal punto di vista clinico, ma qualche dubbio può suscitare la sua collocazione nel gruppo 3 a fianco della cefalea a grappolo e non magari nel gruppo 13 (nevralgie craniche e dolori facciali di origine centrale) vicino alla nevralgia del trigemino con la quale condivide alcuni aspetti clinici o, forse più opportunamente in attesa di possibili futuri chiarimenti nosografici, nel gruppo 4 (altre cefalee primarie).
Epidemiologia delle forme maggiori di cefalea primaria Nel corso dell’ultimo decennio è stata rivolta molta attenzione ad aspetti attinenti alla diffusione dell’emicrania, come la prevalenza (percentuale di soggetti affetti in una determinata popolazione) e l’incidenza (numero di nuovi casi ogni 100.000 abitanti all’anno). Per quel che riguarda la prevalenza 1-year, cioè la presenza dell’emicrania nel corso dell’anno precedente l’indagine, i tassi riportati nei Paesi occidentali sono abbastanza concordanti, variando dal 4% al 9,5% nei maschi e dall’11,2% al 25% nelle femmine [5-9]. Nella maggior parte delle indagini condotte in Paesi non occidentali, in particolare in Africa e in Asia, si riscontrano percentuali inferiori rispetto a quelli dei Paesi europei e del nord America [10-12]. Anche se queste differenze possono essere dovute a fattori metodologici, non si può escludere un ruolo da parte di fattori culturali ed ambientali. Uno studio condotto nella contea di Baltimora nel Maryland in una popolazione multirazziale ha evidenziato una più alta prevalenza dell’emicrania nei soggetti di razza caucasica rispetto agli africani e agli asiatici [6]. Questi dati suggeriscono che i fattori genetici possano avere un ruolo importante nel determinare le differenze della prevalenza legate alla razza. Il peso dello stato socio-culturale e della situazione economica sulla prevalenza dell’emicrania è un aspetto ancora dibattuto. I primi studi condotti al riguardo hanno descritto una relazione direttamente proporzionale tra la prevalenza dell’emicrania e il livello di scolarità, mentre nel
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1992 alcuni ricercatori hanno riportato un andamento opposto che non è stato però confermato successivamente. La prevalenza dell’emicrania varia non solo in rapporto al sesso, ma anche in rapporto all’età. Prima della pubertà, l’emicrania è presente in circa il 3-5% dei bambini senza differenze significative tra maschi e femmine mentre, in età successive, affligge più frequentemente le donne (rapporto F:M = 3:1). La prevalenza dell’emicrania aumenta progressivamente, in entrambi i sessi, dall’età di 12 anni fino a circa 40 anni, età dopo la quale inizia a manifestare un graduale e progressivo decremento. Questo andamento spiega le molto basse prevalenze (1-4%) dell’emicrania riscontrate nella terza età [8]. Per quanto riguarda l’incidenza dell’emicrania, nell’unico studio prospettico condotto in un gruppo di 1007 soggetti della popolazione generale di età compresa tra 21 e 30 anni, ricontattati dopo un follow-up di 3,5-5,5 anni, il tasso riportato è pari a 24 nuovi casi/1000 abitanti/anno nelle femmine e 6 nuovi casi/1000 abitanti/anno nei maschi [13]. Alcune importanti considerazioni riguardano l’attendibilità dei dati di prevalenza riportati per l’emicrania con aura. La maggior parte degli studi di prevalenza dell’emicrania hanno indagato l’emicrania in generale e pochi hanno considerato separatamente l’emicrania con aura. Se analizziamo gli studi di prevalenza dell’emicrania con aura effettuati in epoca posteriore alla classificazione della IHS del 1988 nella popolazione generale, troviamo tassi di prevalenza abbastanza concordanti, variabili da 3 a 10% nelle donne e da 1 a 4% negli uomini [5-9]. Queste percentuali sono però nettamente, ed anche abbastanza sorprendentemente, superiori a quelle segnalate in studi pre-IHS. In base a questi risultati circa un terzo degli emicranici sarebbe affetto da emicrania con aura. In altre parole ogni 2 soggetti con emicrania senza aura ve ne sarebbe 1 con emicrania con aura. Secondo Rasmussen e Olesen il rapporto sarebbe addirittura quasi pari a 1 a 1 [5]. Se poi esaminiamo i risultati degli studi che hanno considerato separatamente la prevalenza dell’emicrania senza aura, dell’emicrania con aura e dell’associazione di emicrania senza aura ed emicrania con aura, allora troviamo differenze anche molto marcate. Infatti, solo il 13% dei soggetti con emicrania con aura di Rasmussen e Olesen [5] contro ben il 58% dei soggetti con emicrania con aura di Lipton et al hanno anche emicrania senza aura [8]. Per cercare di verificare l’attendibilità dei dati sulla prevalenza dell’emicrania con aura può essere utile valutare le metodologie adottate. Dei 9 studi post-IHS presenti in letteratura, solo 4 adottano rigidamente i criteri diagnostici della IHS del 1988, mentre gli altri apportano modifiche per lo più sostanziali ai criteri stessi nell’intento, chiaramente esplicitato dagli autori, di aumentarne la validità. Secondo Sakai e Igarashi [14] le riposte riportate nel questionario utilizzato nel loro studio non sono sufficientemente accurate per poter porre diagnosi di emicrania con aura secondo i criteri della classificazione della IHS del 1988. Questi autori decidono quindi, ormai nella fase di analisi delle riposte ai questionari postali strettamente impostati sui criteri IHS, di considerare come emicranici con aura solo i casi che presentavano una fase algica con le caratteristiche dell’emicrania senza aura. Sappiamo però che ciò si verifica solo in poco più di un terzo dei casi di emicrania con aura. Ulteriori serie perplessità sulla validità dei criteri del 1988 per l’emicrania con aura negli studi di prevalenza nella popolazione generale, sono fornite dall’esperienza di Henry et al [9] che, sia in un primo studio epidemiologico nella popolazione generale francese pubblicato nel 1992 che nella replica pubblicata nel 2002, pur applicando i criteri diagnostici della IHS del 1988 per emicrania senza aura ed emicrania con aura, affermano che non è stata valutata la prevalenza dei due sottotipi di emicrania in quanto, nella fase di validazione del questionario utilizzato, era chiaramente emersa la scarsa attendibilità delle informazioni riportate dai pazienti in merito all’aura. La cefalea di tipo tensivo, se consideriamo anche i soggetti che ne soffrono in modo sporadico, è certamente molto diffusa. Infatti, il mal di testa che colpisce in modo occasionale la mag-
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gior parte delle persone, magari in seguito a determinate circostanze come per esempio una giornata di particolare tensione o affaticamento, un lungo viaggio, una discussione, corrisponde con ogni probabilità alla cefalea di tipo tensivo. A fronte di queste generiche considerazioni, gli studi epidemiologici condotti nella popolazione generale in epoca successiva alla pubblicazione della classificazione della IHS del 1988 forniscono dati assolutamente discordanti, almeno per la forma episodica: la prevalenza stimata varia dall’11,5 al 74% per la cefalea di tipo tensivo episodica e dall’1,4 al 3% per la forma cronica [15]. Il principale problema che si incontra nelle indagini epidemiologiche condotte in questo ambito è rappresentato, in misura forse maggiore rispetto allo studio di altre forme di cefalea primaria, dalla difficoltà di definire precisamente le caratteristiche cliniche della cefalea di tipo tensivo; questo problema si evidenzia in modo particolare quando la metodologia prevede l’uso di un questionario autosomministrabile oppure un’intervista semistrutturata telefonica e può, almeno in parte, essere superato se si sottopone tutta la popolazione studiata ad un’intervista diretta effettuata da personale medico appositamente addestrato. In uno studio condotto in Danimarca nel 1989 [5], 740 soggetti selezionati dalla popolazione generale, di età compresa tra 25 e 64 anni, sono stati intervistati personalmente da un medico specialista neurologo. La prevalenza lifetime della cefalea di tipo tensivo è risultata pari al 78% e la prevalenza 1-year pari al 74%; va sottolineato che ben il 58% degli affetti ha dichiarato di avere avuto da 1 a 14 episodi di cefalea nel corso dell’anno precedente l’indagine e l’inserimento nelle stime di prevalenza di quelle forme a presentazione assai sporadica può essere considerato, per alcuni aspetti, un fattore confondente. La stima della prevalenza 1-year della cefalea di tipo tensivo cronica, definita tale se la ricorrenza degli attacchi è superiore a 15 giorni al mese per almeno 6 mesi, è pari al 3%. In un’indagine effettuata in Germania nel 1994 [16] è stato indagato un campione rappresentativo della popolazione generale composto da 4061 soggetti, di età uguale o superiore a 18 anni, mediante un questionario spedito per posta. Dai risultati è emerso che la cefalea di tipo tensivo in generale colpisce il 38,3% della popolazione; nel 35% del campione è stato possibile porre diagnosi di cefalea di tipo tensivo episodica e nel 3% di cefalea di tipo tensivo cronica. Se per quest’ultima entità i dati sono sovrapponibili a quelli proposti dallo studio danese, per la forma episodica la stima è nettamente inferiore. I risultati sono in linea con quelli emersi da una ricerca effettuata nel 1998 in una popolazione multirazziale degli Stati Uniti di età compresa tra 18 e 65 anni [15]. Il metodo utilizzato è quello a due fasi: nella prima i 13345 soggetti di un campione selezionato in modo casuale sono stati intervistati telefonicamente e nella seconda fase i soggetti con una potenziale cefalea di tipo tensivo sono stati esaminati direttamente da un medico esperto in cefalee. Il metodo pertanto appare particolarmente accurato ed è stata calcolata una prevalenza 1-year del 38,3% per la cefalea di tipo tensivo episodica e del 2,2% per la forma cronica. In base ai dati disponibili sembra che la cefalea di tipo tensivo affligga il 16,0%-44,5% della popolazione di età superiore a 65 anni e il 9,8%-18,0% dei soggetti nelle prime due decadi di vita. Le stime di frequenza della cefalea di tipo tensivo in paesi cosiddetti non occidentali evidenziano valori inferiori rispetto a quelli europei e statunitensi. La prevalenza 1-year della cefalea di tipo tensivo è uguale al 24,3% in Cile, al 16,2% nella Corea del Sud e all’11,5% a Singapore [10, 11, 17]. Per la cefalea di tipo tensivo cronica, vengono riportati valori pari, rispettivamente, a 2,6%, a 2,5% e 1,4% negli stessi studi, e a 1,7% in una popolazione rurale dell’Etiopia [10, 11, 17, 18]. È molto difficile fornire una spiegazione univoca per le differenze descritte: sicuramente la metodologia utilizzata, quale ad esempio la scelta di considerare solo le cefalee frequenti nell’indagine cilena, è in parte responsabile delle diverse stime calcolate, ma non è comunque possibile escludere che fattori ambientali, culturali o genetici possano influenzare la presentazione di questa forma di cefalea. A tal proposito, nella ricerca americana condotta nel Maryland gli autori hanno valutato la frequenza del-
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la cefalea di tipo tensivo nei diversi gruppi etnici che costituivano il campione indagato e per la forma episodica la prevalenza è risultata significativamente superiore nei bianchi rispetto agli afroamericani, sia nei maschi (40,1% vs 22,8%) che nelle femmine (46,8% vs 30,9%); il dato è stato confermato anche nella forma cronica. Per quanto riguarda la cefalea a grappolo la letteratura ad oggi disponibile relativa alla sua prevalenza è relativamente carente. La discordanza dei pochi risultati a nostra disposizione risente probabilmente della disomogeneità delle metodologie utilizzate nella raccolta dei dati nei differenti studi piuttosto che di reali disparità nelle varie popolazioni esaminate. Ekbom et al hanno indagato un campione di 10400 maschi svedesi diciottenni che si sono presentati alla visita medica per l’arruolamento al servizio militare tra ottobre 1975 e maggio 1976 [19]. Nel corso del mese precedente la visita medica obbligatoria è stato spedito un questionario che, tra l’altro, prevedeva un quesito specificamente volto a conoscere se il soggetto soffriva, oppure aveva sofferto, di una forma di cefalea ricorrente. Se tale quesito otteneva una risposta affermativa era prevista la compilazione, durante la visita medica, di un questionario suppletivo per l’identificazione della forma di cefalea primaria riferita. Sono state ottenute informazioni da un totale di 9803 soggetti. I criteri diagnostici utilizzati per porre diagnosi di cefalea a grappolo sono quelli che lo stesso autore aveva definito alcuni anni prima. Con tale metodica sono stati individuati 436 affetti da cefalea ricorrente e, tra questi, 9 hanno soddisfatto i criteri diagnostici per cefalea a grappolo confermata attraverso un’intervista diretta. La prevalenza calcolata è pari a 0,09%. Lo studio ha il merito di essere il primo condotto nella popolazione generale però, nell’interpretazione dei risultati, si deve tenere presente che sono stati considerati solo maschi diciottenni, quando sappiamo che solo nel 20% circa dei casi la cefalea a grappolo esordisce entro quest’età. Negli anni, invece, la prevalenza dello 0,09% è stata spesso riferita, erroneamente e arbitrariamente, all’intera popolazione generale. D’Alessandro et al. nel 1986 [20] hanno preso in esame l’intera popolazione della Repubblica di San Marino, costituita da 21792 abitanti (10893 maschi e 10899 femmine). La ricerca dei casi di cefalea a grappolo è stata effettuata attraverso differenti metodiche: 1) sono state consultate le cartelle cliniche degli specialisti neurologi, otorinolaringoiatri e oculisti di San Marino relative all’attività dei precedenti 15 anni; 2) è stata inviata per posta la descrizione dettagliata della sintomatologia della cefalea a grappolo ai 15 medici di base operanti nel territorio di San Marino, contattati in un secondo momento telefonicamente, ed è stato chiesto loro di individuare tra gli assistiti i possibili affetti; 3) è stata spedita una lettera con una precisa descrizione delle caratteristiche cliniche della cefalea a grappolo a tutti gli abitanti chiedendo di segnalare la presenza della propria cefalea se con aspetti simili a quelli riportati nella lettera; 4) sono infine state valutate le cartelle cliniche dei pazienti affetti da cefalea a grappolo afferiti al Centro Cefalee di Bologna al fine di trovare tra questi eventuali residenti a San Marino. Con tali modalità sono stati individuati, tra i soggetti con sospetta cefalea a grappolo, 15 affetti (14 maschi e 1 femmina) con diagnosi accertata mediante una visita diretta e posta secondo i criteri dell’Ad Hoc Committee on Classification of Headache del 1962. In base ai casi individuati, è stato possibile calcolare una prevalenza pari a 69/100.000 abitanti in generale (0,07%), 128/100.000 abitanti (0,13%) per i maschi e 9/100.000 abitanti (0,009%) per le femmine. L’indagine è stata ripetuta nel 1999 [21], seguendo la stessa metodologia e indagando i 26628 abitanti (13008 maschi e 13620 femmine) della Repubblica di San Marino. Anche in questo studio sono stati individuati 15 soggetti, tutti maschi, affetti da cefalea a grappolo secondo i criteri diagnostici della prima edizione della classificazione della IHS con una stima di prevalenza pari a 56/100.000 abitanti (0,06%) in generale e 115.3/100.000 abitanti (0,12%) per i maschi. Nonostante gli studi di San Marino siano stati realmente condotti sull’intera popolazione generale, la procedura che si è rivelata più affidabile nell’individuare i casi di cefalea a grappolo è la revisione della cartelle cliniche degli specialisti neurologi, oculisti e otorinolaringoiatri.
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Recentemente, Sjaastad et al [22] hanno valutato un campione relativamente limitato, costituito da 1839 abitanti della contea di Vågå in Norvegia, ed hanno formulato la diagnosi di cefalea a grappolo in 7 soggetti con una prevalenza di 0,33% (0,56% negli uomini e 0,10% nelle donne); il dato è pertanto nettamente superiore a quello descritto nella popolazione sanmarinese. In un’indagine condotta a Parma tra febbraio 2002 e maggio 2003 è stato indagato un campione di 10071 soggetti di età superiore a 14 anni costituito da tutti gli assistiti di 7 medici di medicina generale di Parma [23]. Lo studio è consistito in 2 fasi: una prima fase di screening per la ricerca dei casi con sospetta cefalea a grappolo, una seconda fase in cui i casi sospetti sono stati invitati per un’intervista diretta al Centro Cefalee di Parma per l’accertamento dei casi definitivi. Durante la fase di screening un questionario autosomministrabile, appositamente allestito e preliminarmente validato, è stato compilato in tre step successivi: inizialmente è stato distribuito e compilato dagli assistiti nelle sale d’attesa dei medici; successivamente, è stato inviato per posta a tutti quegli assistiti che non erano stati raggiunti nella fase ambulatoriale ed, infine, somministrato telefonicamente da parte di personale specificamente istruito agli assistiti che non era stato possibile raggiungere nei due step precedenti. Il questionario è stato compilato complessivamente da 7522 soggetti pari al 74,7% del campione di partenza: 3338 soggetti lo hanno compilato nell’ambulatorio del medico generico, 1914 lo hanno spedito per posta, 2270 hanno risposto telefonicamente. I casi individuati come sospette cefalee a grappolo, in base alle risposte al questionario, sono 111 (76 donne e 35 uomini). 45 sono stati individuati nella fase ambulatoriale, 33 in quella postale, 33 in quella telefonica. L’accertamento definitivo dei casi è avvenuto attraverso un’intervista diretta dei casi sospetti da parte di un neurologo esperto nel campo delle cefalee. 105 dei 111 casi sospetti sono stati visitati presso il Centro Cefalee di Parma, gli altri 6 sono stati intervistati telefonicamente perché non avevano accettato di recarsi al Centro. È stata inoltre effettuata una ricerca dei casi attraverso la consultazione dell’archivio del Centro Cefalee di Parma. In 21 casi, 9 donne e 12 uomini, è stata confermata la diagnosi di cefalea a grappolo con un rapporto maschi:femmine pari a 1,3:1. La prevalenza della cefalea a grappolo risulta in questo studio pari allo 0,28% (0,23% nelle donne e 0,34% negli uomini) e si tratta di una percentuale circa quadrupla rispetto a quella rilevata negli studi di San Marino. Per le questioni metodologiche già trattate, la prevalenza dello 0,28% rilevata nello studio effettuato a Parma è sicuramente più realistica rispetto a quella dello 0,07-0,1% fino ad oggi comunemente accettata. Si tratta di una differenza che, al di là del puro significato di prevalenza, assume un importante valore per quelle ricerche sulla cefalea a grappolo, come per esempio gli studi sulla famigliarità, che necessitano di precisi punti di riferimento epidemiologici.
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Classificazione ed epidemiologia
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Capitolo 3
Emicrania: la clinica D. Cologno
Introduzione L’emicrania è una forma di cefalea primaria caratterizzata da una triade sintomatologica di cui fanno parte il dolore, i sintomi di tipo neurovegetativo e l’ipersensibilità agli stimoli neurosensoriali. In alcune forme possono essere presenti sintomi e segni neurologici focali, che generalmente precedono l’attacco doloroso ma che, talvolta, possono accompagnarlo o seguirlo nel tempo. La nuova classificazione della International Classification of Headache Disorders (ICHD-II) del 2004 [1] distingue, nel capitolo dell’emicrania, sei sottocapitoli che comprendono tutti i vari tipi di emicrania: senz’aura (“comune” nella vecchia dizione), con aura (“classica”), sindromi periodiche dell’infanzia, emicrania retinica, complicanze dell’emicrania e forme probabili di emicrania (Tab. 3.1).
Emicrania senz’aura Prevalenza e storia naturale L’emicrania senza aura è una patologia dell’età adulta, con le percentuali più alte di prevalenza comprese nella fascia di età fra 20 e 60 anni. Dopo la pubertà, colpisce più frequentemente le donne, con rapporto di prevalenza nei sessi all’incirca di 2-3 a 1. Nella popolazione adulta dei paesi occidentali si registrano percentuali di prevalenza life-time, ovvero nell’arco di tutta la vita, tra il 6% ed il 12% negli uomini e tra il 15% ed il 25% nelle donne [2]. Queste differenze sono legate soprattutto alla scelta della casistica e alle caratteristiche demografiche della popolazione in studio, ma altri fattori importanti nel condizionare i dati di prevalenza sono l’età, il sesso, la razza, l’aspetto geografico e lo stato socio-economico. Tabella 3.1
Classificazione dell’emicrania secondo ICHD-II, 2004
1 Emicrania 1.1 Emicrania senz’aura 1.2 Emicrania con aura 1.3 Sindromi periodiche dell’infanzia che sono comunemente precursori dell’emicrania 1.4 Emicrania retinica 1.5 Complicanze dell’emicrania 1.6 Probabile emicrania
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D. Cologno
L’età di insorgenza è soprattutto quella giovanile e giovane-adulta: in circa il 50% dei casi il primo attacco si manifesta tra i 10 e i 19 anni di età, e un altro terzo dei casi esordisce nella decade seguente. Solo raramente il primo attacco di emicrania si verifica dopo i 50 anni [2]. Anzi, frequentemente, oltre quest’età, il quadro dell’emicrania, in pazienti sofferenti da anni, subisce un’attenuazione: si riduce l’intensità del dolore e tendono a scomparire i sintomi associati. Il decorso dell’emicrania cambia notevolmente tra un periodo e l’altro della vita. Ciò appare plausibile in considerazione del fatto che l’emicrania può essere considerata un disturbo dei meccanismi di adattamento a stimoli interni o provenienti dall’ambiente esterno. D’altro canto, l’importante ruolo giocato dai fattori precipitanti rende conto di come eventuali modifiche di questi ultimi potrebbero tradursi in influenze sul decorso dell’emicrania nel tempo.
Caratteristiche cliniche dell’attacco I sintomi premonitori dell’attacco emicranico si riscontrano in circa il 60% dei casi, manifestandosi da poche ore fino a quattro giorni prima dell’attacco. Essi sono costituiti principalmente da cambiamenti dell’umore (irritabilità, euforia, depressione), alterazioni del comportamento (iperattività, apatia, ossessività), sintomi neurologici (difficoltà di concentrazione, stanchezza, sbadigli, disfasia, iperosmia, sonnolenza, foto-fonofobia) e sistemici (aumento della diuresi, ritenzione di liquidi, sete, ricerca di cibi particolari, anoressia, dissenteria o costipazione, dolori muscolari). L’insorgenza dell’attacco acuto può verificarsi in qualsiasi momento del giorno o della notte, ma più spesso al momento del risveglio. L’esordio dell’attacco può avvenire in modo repentino oppure, più spesso, gradualmente. In questo caso l’acme della crisi viene raggiunto solitamente dopo circa due-tre ore dall’inizio dell’attacco. La frequenza degli attacchi è variabile e in genere oscilla tra 1-2 al mese e 2-3 alla settimana. Nel 75% dei pazienti la frequenza di crisi è compresa fra 1 attacco al mese e 1 attacco alla settimana. Una frequenza superiore a 3 attacchi/mese si osserva nel 40% degli uomini e in quasi il 90% delle donne [2]. La durata dell’attacco non trattato varia da un minimo di alcune ore ad un massimo di tre giorni (4-72 ore nella classificazione ICHD-II). La localizzazione del dolore è unilaterale nel 40% dei casi, bilaterale nei 28% dei casi, e variabile nel restante 32% [2]. Nella maggioranza dei pazienti in cui la localizzazione è costantemente unilaterale, il lato varia da una crisi all’altra e solo in una piccola percentuale dei casi il dolore è costantemente dallo stesso lato. In alcuni attacchi della durata di almeno due giorni, la localizzazione del dolore può variare anche nel corso dello stesso attacco. L’intensità del dolore è in genere medio-forte, tanto che il paziente non può attendere alle proprie normali attività o è comunque limitato nello svolgimento delle stesse. Il comportamento del paziente durante l’attacco è tipico. Tende a restare immobile, preferibilmente a letto, al buio e lontano da rumori, cercando di evitare qualunque stimolo possa peggiorare il suo stato. A volte alcuni pazienti non riescono a stare coricati in quanto questa posizione aumenta la pulsatilità del dolore, per cui cercano riposo in posizione semiseduta. I sintomi associati all’attacco di emicrania sono di tipo neurovegetativo e correlati ad intolleranza agli stimoli: più frequentemente consistono in fotofobia (80%), nausea (74%), e vomito (52%). Altri sintomi che possono accompagnare l’attacco emicranico sono: lacrimazione, fonofobia, osmofobia, pallore, palpitazioni, senso di mancamento, brividi o alternanza di senso di caldo e di freddo, anoressia o senso di fame, diarrea, contrazione della diuresi seguita da poliuria. Spesso il vomito provoca un’attenuazione dei sintomi, del dolore in particolare.
Emicrania: la clinica
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La comparsa dei sintomi associati si osserva più frequentemente nei pazienti di sesso femminile. Nella fase di risoluzione dell’attacco i pazienti presentano sequele diverse, variamente combinate, rappresentate da irritabilità, pallore, spossatezza, riduzione della concentrazione, variazioni dell’umore, sensazione di rinvigorimento, euforia, malessere generalizzato, poliuria, alterazioni dell’appetito [3].
Fattori precipitanti Di particolare rilievo tra questi fattori sono i diversi aspetti del ciclo ormonale della donna. La maggioranza delle donne affette da cefalea, in generale, riferisce di soffrire di attacchi in qualche modo correlati al ciclo mestruale, che si presentano immediatamente prima, durante e/o subito dopo i giorni del flusso mestruale. Ciò è particolarmente vero per le donne affetta da emicrania senz’aura, e non solo per il periodo mestruale. Infatti, anche l’assunzione di contraccettivi orali è in grado di peggiorare il decorso dell’emicrania, mentre la gravidanza e la menopausa comportano generalmente un miglioramento nell’andamento di questo disturbo. L’importanza di questi fattori è tale da giustificare la trattazione dell’emicrania mestruale in un capitolo a parte di questo manuale. I fattori in grado di scatenare un attacco emicranico sono comunque molteplici [4], proprio in considerazione del fatto che l’emicrania è una patologia dell’adattamento, per cui ogni situazione che comporta delle variazioni nei ritmi dell’organismo è potenzialmente in grado di scatenare un attacco. Nella Tabella 3.2 sono riassunti i principali fattori in grado di provocare attacchi emicranici.
Diagnosi L’elevata variabilità individuale che caratterizza l’emicrania senza aura può rendere difficile la sua corretta diagnosi. A questo problema cercano di ovviare le Linee Guida diagnostiche proposte dall’IHS nel 1988 e riprese praticamente invariate nella nuova Classificazione ICHD-II nel 2004 [1]
Tabella 3.2
Possibili fattori scatenanti l’attacco di emicrania
Categorie
Fattori
Psicologici
Emozioni, stress, rilassamento conseguente a stress, depressione
Endogeni
Ormoni, sonno prolungato, insonnia, digiuno (ipoglicemia), affaticamento fisico, febbre, ipertensione arteriosa
Alimentari
Cibi e bevande contenenti nitriti, glutammati o tiramina: cioccolato, formaggi, vino e forti alcolici, agrumi, cibi grassi fritti, carne di maiale, insaccati
Farmacologici
Trinitrina, reserpina, fenfluramina, estrogeni, calcio-antagonisti
Ambientali
Variazioni meteorologiche, altitudine, esposizione al sole, luce abbagliante, rumori, odori pungenti, monossido di carbonio
Altri
Fumo, viaggi lunghi, traumi, attività fisica sostenuta
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D. Cologno
Tabella 3.3
Criteri diagnostici dell’emicrania senza aura proposti dall’ICHD-II, 2004
Criterio
Descrizione
A. B. C.
Almeno 5 attacchi che soddisfino i punti B-D Attacchi di cefalea che, se non trattati o trattati senza successo, durano 4–72 La cefalea possiede almeno due delle seguenti caratteristiche: 1. localizzazione unilaterale 2. dolore di tipo pulsante 3. intensità media o severa (limita o impedisce lo svolgimento delle attività quotidiane) 4. peggioramento con l’attività fisica o tale da evitare l’espletamento dell’attività fisica di routine 1. nausea e/o vomito 2. fotofobia e fotofobia L’anamnesi, l’esame obiettivo generale e neurologico non suggeriscono la presenza di una condizione in grado di determinare una cefalea sintomatica oppure, in caso di dubbio, questa è esclusa con appropriate indagini
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(Tab. 3.3). L’aspetto importante della classificazione è aver introdotto il concetto dei criteri, per cui per far diagnosi è indispensabile che tutti i criteri siano rispettati. Nel caso in cui soltanto uno di questi non sia rispettato, è prevista una categoria diagnostica ad hoc (Probabile emicrania 1.6) che racchiude le forme (senz’aura, con aura, cronica) che potrebbero essere emicranie ma che non hanno tutte le caratteristiche necessarie per includerle nel gruppo con diagnosi definita. La 2a edizione della classificazione delle cefalee [1] inserisce delle note esplicative ai criteri diagnostici previsti; viene infatti segnalato come la distinzione tra emicrania senz’aura codificata al punto 1.1 e la cefalea di tipo tensivo episodica infrequente può non risultare facile ed è questo il motivo per cui sono necessari almeno 5 attacchi (criterio A); se il paziente si addormenta durante l’attacco e si risveglia senza cefalea, la durata dell’attacco deve essere calcolata fino al momento del risveglio. Viene indicata la possibilità che la durata degli attacchi emicranici nei bambini sia inferiore alle 4 ore, con una durata minima di 2 ore, e che il dolore può essere frequentemente bilaterale e molto raramente occipitale, suggerendo in questi casi la necessità di escludere una causa secondaria. Quando gli attacchi di emicrania senz’aura si presentano con una frequenza uguale o superiore ai 15 giorni/mese per più di 3 mesi, si deve porre una doppia diagnosi assegnando i codici 1.1 Emicrania senz’aura e 1.5.1 Emicrania cronica, nuova entità nosologica compresa tra le complicanze dell’emicrania.
Emicrania con aura Storia naturale L’emicrania con aura (EcA) è una forma di cefalea primaria meno frequente rispetto alla controparte senz’aura (EsA). Colpisce circa il 15-18% dei pazienti emicranici, in prevalenza soggetti di sesso femminile con un rapporto femmine/maschi compreso tra 2,1:1 e 3,2:1 a seconda delle ca-
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sistiche. La distribuzione della malattia per età riconosce un picco tra la seconda e la terza decade di vita, con un esordio tipico nella seconda decade senza differenze di sesso. Tuttavia, nella terza-quarta decade di vita, si assiste spesso ad una riduzione spontanea della frequenza delle crisi soprattutto nei soggetti di sesso maschile. L’EcA si caratterizza per una ricorrenza di attacchi molto meno regolare rispetto alla forma senz’aura, con periodi di remissione a volte molto lunghi (>1 anno) ed una frequenza media degli attacchi decisamente inferiore (nel 60% dei casi <1 attacco/mese). Non è, tuttavia, raro che gli attacchi si raggruppino in un breve periodo ripetendosi a brevissima distanza di tempo (24-48 ore) per poi riprendere il ritmo usuale. Benché nella maggior parte dei casi (84% degli uomini e 70% delle donne) l’EcA si presenti in forma isolata, in uno stesso soggetto possono coesistere emicrania con e senza aura e comparire o addirittura sostituirsi alle crisi di emicrania, aure emicraniche non seguite da cefalea soprattutto nei pazienti meno giovani. La coesistenza delle due forme di emicrania in uno stesso paziente costituisce oggetto di dibattito sulla loro interdipendenza o autonomia patogenetica e clinica. Il ruolo giocato dai fattori scatenanti è meno chiaro rispetto a quanto osservato nella forma senza aura. Per quanto riguarda i fattori ormonali, il ciclo ormonale influisce poco sullo sviluppo di crisi di EcA, mentre è più frequente l’esordio delle crisi o una loro accentuazione in corso di gravidanza, durante l’assunzione di contraccettivi orali e, meno frequentemente, dopo la menopausa. Il 40% delle pazienti affette da EcA continua ad avere crisi in gravidanza in confronto al 16% delle pazienti con EsA. L’uso dei contraccettivi orali determina abitualmente un effetto negativo sul decorso dell’EcA con un peggioramento delle crisi stimato intorno al 60%. È stato segnalato il rischio di incidenti cerebrovascolari e l’induzione di infarto emicranico in pazienti con EcA che assumono contraccettivi orali. È tuttavia opportuno specificare che tali segnalazioni riguardano non solo l’uso di contraccettivi orali con alti dosaggi di estrogeni, ma anche pazienti con più fattori di rischio cerebrovascolari quali fumo, obesità, ipertensione arteriosa, dislipidemia, un’età inferiore ai 45 anni [5]. Tra gli altri fattori favorenti, un ruolo sembra essere svolto anche dallo stress psichico, da sforzi fisici intensi, stimolazioni visive (luce naturale e artificiale) e traumi cranici lievi.
Caratteristiche cliniche dell’attacco I soggetti con EcA, analogamente a quelli con EsA, possono riferire sintomi premonitori, antecedenti di alcune ore fino a 2-3 giorni l’insorgenza dell’attacco, come fatica, difficoltà di concentrazione, visione meno nitida, fastidio per luci o rumori, pallore, sbadigli, alterazione del tono dell’umore, in varia combinazione fra loro ma tendenzialmente costanti in uno stesso soggetto. Il momento di insorgenza dell’attacco è variabile e non esistono orari preferenziali di insorgenza. L’aura costituisce l’elemento caratteristico dell’attacco ed in oltre l’80% dei casi è costituita da disturbi visivi [6]. Questi ultimi possono essere rappresentati da sintomi sia positivi che negativi e nella maggior parte dei soggetti presentano una distribuzione emianopsica che iniziando dal centro del campo visivo si sposta verso la periferia o viceversa. La tipologia dell’aura è relativamente costante nello stesso paziente ma può assumere connotati molto diversi da un soggetto all’altro. I sintomi visivi positivi sono rappresentati principalmente da fotopsie ovvero spots, flash luminosi o semplici immagini geometriche che scintillano e meno frequentemente da scotomi scintillanti denominati “spettri di fortificazione” o teicopsie caratteristicamente di forma semicircolare “a ferro di cavallo” ma che possono anche manifestarsi come linee a “zig-zag”. I sintomi visivi negativi sono più rari e costituiti da scotomi negativi spesso in forma di quadrantopsia. Nelle forme più gravi può manifestarsi una perdita parziale o totale del campo visivo. Meno
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frequentemente i soggetti possono riferire una scomposizione (scotoma a mosaico) o una distorsione delle immagini, quest’ultimo fenomeno è noto come “Sindrome di Alice nel paese delle meraviglie”. Oltre ai disturbi visivi, l’aura emicranica può essere costituita da un’ampia varietà di sintomi neurologici focali che accompagnano o più spesso seguono il deficit visivo e che suggeriscono come il processo che ha generato l’aura possa in alcuni casi estendersi anche al di fuori della corteccia visiva. Le aure somatosensoriali sono rappresentate da sensazioni di ipoestesia o parestesie (tipo puntura di spilli) prevalentemente avvertite in regione cheiro-orale o digito-linguale omolaterali al disturbo visivo e controlaterali alla fase algica. Anche deficit del linguaggio come disartria o afasia transitorie possono associarsi al disturbo visivo e spesso risultano di difficile inquadramento diagnostico [6]. In base ai nuovi criteri diagnostici dell’ICHD-II, 2004 i deficit motori non costituiscono una modalità di espressione tipica dell’aura emicranica e vanno considerati in prima battuta indicativi di un’altra forma di emicrania ovvero l’emicrania emiplegica nelle sue varianti familiare o sporadica. La durata dell’aura è compresa per definizione tra i 5 e i 60 minuti, anche se mediamente i deficit neurologici regrediscono in 20-30 minuti. Le precedenti definizioni di “Emicrania con aura prolungata” ed “Emicrania con aura ad esordio acuto” sono state abbandonate in quanto la maggior parte dei soggetti nei quali queste si manifestano presentano spesso altri attacchi che soddisfano uno dei sottotipi dell’emicrania con aura e dovrebbero, pertanto, essere codificati con tale diagnosi. I restanti dovrebbero essere codificati come “Probabile emicrania con aura”, specificando il carattere atipico (aura prolungata o aura ad esordio acuto) in parentesi. Al termine dell’aura, compare la fase dolorosa dell’attacco. Il suo esordio può verificarsi già nel corso dell’aura, senza alcun intervallo temporale dalla fine dell’aura o a distanza di alcuni minuti, ma comunque non oltre i 60 minuti. Come evidenziato nella nuova classificazione, la fase dolorosa che segue l’aura, può presentare o meno caratteristiche emicraniche (Aura tipica con cefalea emicranica; Aura tipica con cefalea non emicranica). La durata della fase algica è mediamente più breve di quanto riscontrato nell’EsA, risultando inferiore a 4 ore in un quarto dei casi (rispetto all’8,5% dei casi di EsA). La localizzazione del dolore è unilaterale nel 55% dei casi e nel 50% il dolore è pulsante. L’intensità del dolore viene giudicata mediamente inferiore a quanto sperimentato durante gli attacchi di EsA. Tuttavia, il vissuto di forte preoccupazione e timore che caratterizza la fase dell’aura, è seguito dal sollievo provato per la scomparsa dei preoccupanti sintomi dell’aura con conseguente migliore sopportazione del dolore. Più comunemente, nei pazienti che presentano “Aura tipica con cefalea emicranica”, il dolore può, con l’avanzare degli anni, perdere le caratteristiche emicraniche o sparire completamente, mentre la sintomatologia dell’aura può persistere. Si configura, pertanto, un sottotipo di emicrania individuato da precisi criteri diagnostici e identificato come “Aura tipica senza cefalea”. Alcuni individui, specie di sesso maschile, possono presentare unicamente questo tipo di sintomatologia fin dall’esordio e, poiché spesso si tratta di soggetti in età avanzata, diventa particolarmente importante effettuare una corretta diagnosi differenziale per escludere patologie organiche, in primis attacchi ischemici transitori (TIA) [7]. Un sottotipo di emicrania con aura è rappresentato dall’emicrania emiplegica familiare (FHM), in cui l’aura include un deficit motorio, completamente reversibile, e dove almeno un parente di primo o di secondo grado presenta lo stesso disturbo. L’aura comporta un deficit motorio in associazione ad almeno uno tra i seguenti sintomi, completamente reversibili: sintomi visivi; sintomi sensitivi; disturbi del linguaggio di tipo disfasico. Dati recenti derivanti da studi genetici sull’emicrania, consentono oggi una più accurata definizione della FHM. Sono stati, infatti, descritti specifici sottotipi genetici: FHM1, in cui sono presenti mutazioni nel gene CACNA1A sul cromosoma 19 e FHM2, in cui sono presenti mutazioni nel gene ATP1A2 sul cromosoma 1 [8]. È stato riportato che la FHM1 spesso presenta sintomi di tipo basilare in aggiunta a quelli tipici dell’aura; inoltre, si possono manifestare disturbi della coscienza, febbre, pleiocitosi del liquido cerebrospinale e confusione. Gli attacchi possono esse-
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re innescati da un trauma cranico. Circa il 50% delle famiglie affette da FHM1 presenta anche atassia cerebellare progressiva cronica, indipendentemente dagli attacchi emicranici. Nel sottotipo dell’emicrania emiplegica sporadica non v’è alcun tipo di familiarità. Infine, nell’emicrania di tipo basilare, i sintomi dell’aura originano inequivocabilmente dalla regione tronco-encefalica e/o riflettono il simultaneo interessamento di entrambi gli emisferi, in assenza di deficit motori. L’aura è costituita da almeno 2 dei seguenti sintomi, completamente reversibili: disartria, vertigini, acufeni, ipoacusia, diplopia, sintomi visivi bilaterali presenti simultaneamente nel campo visivo, atassia, riduzione del livello di coscienza, parestesie bilaterali simultanee. La diagnosi di emicrania di tipo basilare va posta soltanto in assenza di deficit motori. In passato, sono stati utilizzati i termini emicrania dell’arteria basilare o emicrania basilare, ma, dal momento che il coinvolgimento del territorio dell’arteria basilare è incerto, in quanto potrebbe trattarsi di una localizzazione biemisferica, si è preferito adottare il termine emicrania di tipo basilare. Interessante la recente segnalazione dell’elevata frequenza in pazienti affetti da emicrania, sia episodica sia cronica, di disturbi motori transitori unilaterali soggettivi associati o meno a disturbi visivi e/o sensitivi. L’acronimo “MUMS” (Migraine with Unilateral Motor Symptoms) coniato per questa forma è stato proposto da un gruppo di autori americani che ha riscontrato un elevata frequenza di emisindrome motoria transitoria soggettivamente riferita in corso di attacco emicranico in pazienti senza familiarità per disturbi analoghi in corso di emicranica e in assenza di alterazioni cerebrali alle indagini neuroradiologiche effettuate [9]. Si tratta di casi per i quali è stata esclusa una possibile diagnosi di stroke e che in elevata percentuale rispettano i criteri diagnostici per emicrania con aura tipica o per emicrania emiplegica sporadica, se si eccettua la distinzione clinicamente difficile da valutare tra ipostenia reale e ipostenia riferita. Tipicamente, nel sottotipo MUMS l’ipostenia transitoria esordisce in concomitanza con la cefalea, sempre unilaterale, e coinvolge sia l’arto superiore che l’arto inferiore omolateralmente al dolore; solo nel 20% dei casi è possibile oggettivare ipostenia facciale. Il 92% dei casi riferisce sintomi visivi e/o sensitivi associati, esclusivamente unilaterali e ad evoluzione graduale con una tipica marcia rostrocaudale. Il 58% dei casi lamenta ipostenia intercritica persistente. Caratteristica è l’elevata frequenza di confusione come sintomo soggettivo riportato dall’83% dei pazienti. La definizione di questa forma come entità a se stante o come sottotipo di emicrania con aura è ancora aleatoria, ma riveste certamente importanza l’osservazione di un’elevata frequenza di casi di emicrania in cui sintomi motori, alcuni sintomi associati quali allodinia e sintomi cluster-like sono talmente predominanti da indurre gli autori a etichettare in modo originale tale categoria di pazienti come “super emicranici”. Merita, infine, un breve cenno l’emicrania retinica codificata al punto 1.4 per la sua somiglianza con l’emicrania con aura, essendo caratterizzata come quest’ultima da un disturbo visivo completamente reversibile rappresentato da fosfeni, scotomi o cecità e dalla quale si distingue per la distribuzione esclusivamente mononoculare del disturbo. Da una recente review (46 casi complessivi descritti in letteratura) [10] viene confermata la maggiore prevalenza nel sesso femminile dell’emicrania retinica con un esordio tipicamente compreso tra la seconda e la terza decade di vita. La maggior parte dei pazienti presenta una storia personale di emicrania con aura. In un attacco tipico il disturbo visivo monoculare consiste in una perdita della visone parziale o completa con una durata inferiore ad 1 ora e sempre omolaterale alla successiva fase algica. Quasi il 50% dei casi riporta in seguito una perdita permanente della visione monoculare. Sebbene i criteri diagnostici dell’ICHD-II del 2004 per l’emicrania retinica prevedono un disturbo visivo transitorio per la diagnosi, da tale review si evince che anche la perdita irreversibile della vista può appartenere allo spettro dell’emicrania retinica suggerendo che probabilmente si tratta di una forma oculare di infarto emicranico o di casi di presunto vasospasmo retinico ricorrente. Allo scopo di impedire la perdita permanente della vista, questi dati inducono gli autori a consigliare, oltre ad una revisione degli attuali criteri diagnostici previsti per l’emicrania retinica, l’inizio tempestivo di un trattamento preventivo anche quando la frequenza degli attacchi emicranici è bassa.
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Criteri diagnostici L’aura presenta caratteristiche cliniche abbastanza costanti e ripetibili. I criteri diagnostici ICHDII 2004 descrivono con precisione la modalità con cui i sintomi visivi e/o sensitivi e/o del linguaggio che costituiscono l’aura tipica si manifestano. Lo sviluppo graduale, la durata non inferiore ai 5 minuti e non superiore ai 60 minuti, la presenza di sintomi positivi e negativi e la completa reversibilità dei deficit neurologici, sono le caratteristiche che identificano l’aura tipica. Esiste, come già anticipato, la possibilità che tali sintomi siano seguiti da una cefalea con caratteristiche emicraniche o non emicraniche e che l’aura rimanga un evento isolato non seguito da cefalea. Le Tabelle 3.4, 3.5, 3.6 riportate di seguito contengono i criteri diagnostici ICHD-II 2004 per le tre diverse forme di EcA. Tabella 3.4
Aura tipica con cefalea emicranica
A. almeno 2 attacchi che soddisfino i criteri B-D B. aura caratterizzata da almeno uno dei seguenti, in assenza di deficit motori: 1. sintomi visivi completamente reversibili, positivi (luci tremolanti, macchie, linee) e/o negativi (es. perdita del visus) 2. sintomi sensitivi completamente reversibili, positivi (es. punture di spilli) e/o negativi (es. ipoestesia) 3. disturbi del linguaggio completamente reversibili C. presenza di almeno due delle seguenti caratteristiche: 1. disturbi visivi omonimi e/o sensitivi unilaterali 2. almeno un sintomo dell’aura si sviluppa gradualmente in ≥5 min e/o diversi sintomi si susseguono in ≥ 5 min. 3. ogni sintomo dura ≥ 5 min e ≤ 60 min D. una cefalea che soddisfa i criteri B-D per emicrania senza aura, inizia durante l’aura o la segue entro 60 min E. non attribuita ad altra condizione o patologia
Tabella 3.5
Aura tipica con cefalea non emicranica
A. almeno 2 attacchi che soddisfino i criteri B-D B. aura caratterizzata da almeno uno dei seguenti, in assenza di deficit motori: 1. sintomi visivi completamente reversibili, positivi (luci tremolanti, macchie, linee) e/o negativi (es. perdita del visus) 2. sintomi sensitivi completamente reversibili, positivi (es. punture di spilli) e/o negativi (es. ipoestesia) 3. disturbi del linguaggio completamente reversibili C. presenza di almeno due delle seguenti caratteristiche: 1. disturbi visivi omonimi e/o sensitivi unilaterali 2. almeno un sintomo dell’aura si sviluppa gradualmente in ≥5 min e/o diversi sintomi si susseguono in ≥5 min 3. ogni sintomo dura ≥5 min e ≤60 min D. una cefalea che non soddisfa i criteri B-D per emicrania senza aura, inizia durante l’aura o la segue entro 60 min E. non attribuita ad altra condizione o patologia
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Tabella 3.6 Aura tipica senza cefalea A. almeno 2 attacchi che soddisfino i criteri B-D B. aura caratterizzata da almeno uno dei seguenti, in assenza di deficit motori: 1. sintomi visivi completamente reversibili, positivi (luci tremolanti, macchie, linee) e/o negativi (es. perdita del visus) 2. sintomi sensitivi completamente reversibili, positivi (es. punture di spilli) e/o negativi (es. ipoestesia) 3. disturbi del linguaggio completamente reversibili C. presenza di almeno due delle seguenti caratteristiche: 1. disturbi visivi omonimi e/o sensitivi unilaterali 2. almeno un sintomo dell’aura si sviluppa gradualmente in ≥5 min e/o diversi sintomi si susseguono in ≥5 min 3. ogni sintomo dura ≥5 min e ≤60 min D. non si manifesta cefalea durante l’aura, né nei successivi 60 min E. non attribuita ad altra condizione o patologia
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Letture consigliate Lance JW, Goadsby PJ (1998) Mechanism and Management of Headache. Butterworth Heinemann Nappi G, Manzoni GC (2000) Le cefalee nella pratica clinica, Masson Olesen J, Tfelt-Hansen P, Welch KMA (2000) The Headaches, 2nd Edition. Philadelphia: Lippincott Williams & Wilkins Silberstein SD, Lipton RB, Dalessio DJ (2001). Wolff's Headache and Other Head Pain. Seventh edition. Oxford University Press Silberstein SD, Lipton RB, Goadsby PJ (1998) Headaches in Clinical Practice. ISIS Medical Media
Capitolo 4
Emicrania: cenni di fisiopatologia e la terapia P. Cortelli
Fisiopatologia dell’emicrania senz’aura L’emicrania è una condizione patologica complessa che potrebbe essere considerata una tendenza ereditaria ad avere cefalea, accompagnata a sintomi vegetativi e ad ipersensibilità a diversi stimoli. Alla base di questa predisposizione potrebbe esserci un’alterazione nei meccanismi centrali di controllo del dolore e delle altre informazioni sensoriali. La nostra conoscenza sulle strutture craniche che producono il dolore risale al 1963, con gli studi di Wolff. La stimolazione diretta del cervello, dell’ependima, dei plessi corioidei e di buona parte della pia e della dura madre non causa dolore. Il pavimento della fossa cranica anteriore e della fossa cranica posteriore dà origine a dolore, mentre la fossa cranica media è sensibile solo nelle vicinanze dell’arteria cerebrale media. Le strutture dolorifiche più importanti del cervello sono i vasi, particolarmente la porzione prossimale delle arterie cerebrali, le arterie della dura madre, le vene ed i seni venosi. Le strutture ossee del cranio sono insensibili ma il dolore può essere sperimentato per stiramenti del periostio. In condizioni fisiologiche il cervello è un organo insensibile al dolore. Il mediatore di tutto il dolore cefalico è un plesso nervoso avventiziale di pertinenza del nervo trigemino che innerva i vasi sanguigni piali, durali ed extradurali. Quando vengono attivate, le fibre amieliniche di tipo C trasmettono informazioni nocicettive dai terminali perivascolari attraverso il ganglio trigeminale per proiettare al nucleo caudale del trigemino (NTC) attraverso sinapsi con neuroni di secondo ordine. Il neurotrasmettitore principale delle fibre C è il glutammato, ma le afferenze primarie contengono nei loro assoni centrali e periferici (meningei) anche la sostanza P, il peptide correlato alla calcitonina (CGRP) e la neurochinina A, così come altri neurotrasmettitori e neuromodulatori. I neuroni afferenti trigemino-vascolari terminano nel NTC. L’attività di questi neuroni è modulata da proiezioni provenienti da diverse sedi inclusa la corteccia cerebrale. Dal NTC, neuroni di secondo ordine trasmettono informazioni nocicettive a numerose sedi sottocorticali, al cervelletto e al talamo posteriore e mediale. Proiezioni trigeminali dalla porzione rostrale del tronco trasmettono informazioni nocicettive ad altre aree del cervello (ad es. aree limbiche) coinvolte nella risposta emozionale e vegetativa al dolore. Negli ultimi anni vi è stato un proliferare di studi sull’origine dell’emicrania, tuttavia non si è ancora giunti ad un modello fisiopatogenetico univoco. Quattro teorie principali sono state proposte negli anni per la fisiopatogenesi dell’emicrania: teoria periferica o vasogenica, teoria trigemino-vascolare o dell’infiammazione sterile neurogenica, teoria centrale o neurogenica ed infine una teoria unificante.
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P. Cortelli
Teoria periferica o vascolare Proposta nel XVII secolo da Willis e ripresa negli anni ’30 da Wolff, si basava sull’ipotesi che la causa dell’emicrania fosse un’alterazione dell’attività dei vasi cerebrali che, con un meccanismo di costrizione-dilatazione, produceva il classico dolore pulsante dell’emicrania. Oltre all’aspetto clinico, a supporto di questa teoria veniva riportato l’effetto positivo sul dolore dell’ergotamina, noto farmaco ad azione vasocostrittiva.
Teoria trigemino-vascolare Moskowitz nel 1984, attraverso una serie di eleganti esperimenti in modelli animali, ha dimostrato che il dolore emicranico può essere spiegato da una forma di infiammazione neurogena sterile. Secondo questa teoria, la stimolazione antidromica delle fibre C trigeminali darebbe luogo al rilascio di sostanza P, CGRP e neurochinina A. Questi neuropeptidi inducono edema tissutale con conseguente infiammazione sterile. Questo fenomeno può essere bloccato dagli alcaloidi dell’ergot, dall’indometacina, dall’ASA e dagli agonisti dei recettori 5HT1 della serotonina [1, 2]. Gli eventi che sottendono l’infiammazione sterile si verificano sia nella dura madre che nei tessuti extracranici la cui vascolarizzazione riceve fibre trigeminali. Fenomeni analoghi a quelli descritti nel ratto si verificano anche durante attacchi spontanei di emicrania come dimostrato dalla presenza di edema palpebrale, arrossamento cutaneo e incremento del CGRP nel sangue venoso prelevato dalla vena giugulare.
Teoria centrale Diversi studi identificano la suscettibilità all’emicrania in una condizione di alterata eccitabilità neuronale cerebrale. Per spiegare questo stato di ipereccitabilità sono state invocate diverse ipotesi tra cui una disfunzione dei canali del calcio, un difetto energetico mitocondriale o una riduzione dei livelli di magnesio, col risultato finale di incrementare l’attività elettrica cellulare a fronte di stimoli di per se non attivanti [3]. Su questo terreno di predisposizione intervengono i fattori precipitanti o favorenti, quali le fluttuazioni ormonali, i fattori psicosociali, il ritmo sonno-veglia, sostanze vasoattive ecc., che innescano le modificazioni che sono alla base del meccanismo patogenetico della crisi emicranica.
Teoria unificante Oggi l’emicrania è considerata una patologia poligenica e multifattoriale, alla cui patogenesi concorrono fattori sia ambientali che genetici. Probabilmente molti geni diversi potrebbero essere coinvolti ed interagire tra loro generando la peculiarità del cosiddetto cervello emicranico. La teoria unificante ipotizza che l’emicrania rappresenti una successione di eventi a partenza dalle aree posteriori del cervello, caratterizzati da una scarica elettrica che tende poi a diffondersi in altre
Emicrania: cenni di fisiopatologia e la terapia
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zone cerebrali fra cui il tronco encefalico ed il sistema trigemino-vascolare. Questi eventi scatenano processi biochimici cerebrali che producono alterazioni piastriniche, modificazioni del diametro vasale e rilascio di sostanze algogene [4, 5].
Altri aspetti del meccanismo patogenetico Qual è il ruolo del nucleo caudale del trigemino (NTC)? A seguito di stimolazioni di questo nucleo si osserva l’aumento di sintesi di c-fos e di firing cellulare. C-fos è una proteina che regola la trascrizione di geni ed ha un ruolo molto importante nelle alterazioni cellulari a lungo termine. L’alterazione di questa proteina aumenta nelle cellule dove terminano le fibre C e dove proiettano fibre spino-talamiche. Il NTC potrebbe rappresentare il generatore centrale dell’attacco emicranico. L’importanza dei meccanismi tronco-encefalici nella patogenesi dell’attacco emicranico è stata dimostrata nel 1995 con studi PET in corso di attacchi spontanei in cui è stata osservata l’attivazione controlaterale alla sede del dolore del grigio periacqueduttale (PAG) e del locus coeruleus (LC). Questi nuclei determinano le alterazioni nella regolazione neurovascolare e neurovegetativa, spiegando così molti sintomi dell’attacco emicranico [6]. Un ruolo molto importante nella fisiopatologia dell’emicrania è svolto dalla serotonina e dai suoi recettori. Modificazioni nel contenuto di serotonina nelle piastrine possono riflettere simili cambiamenti anche a livello neuronale. Sono conosciute sette classi di recettori serotoninergici, però nell’emicrania sono importanti solo i recettori 5HT2B-2C e i 5HT1B-1D. Le evidenze farmacologiche suggeriscono che l’emicrania sia dovuta ad un’ipersensibilità dei recettori 5-HT2B-2C, come dimostrato dagli studi con m-chlorophenylpiperazina (mCPP), un agonista 5 HT2B-2C che può indurre attacchi emicranici. È stato ipotizzato che il meccanismo mCPP/emicrania sia attribuibile alla stimolazione dei recettori endoteliali 5HT2B, che esita nella liberazione di ossido nitrico (NO). Diversi farmaci preventivi (pizotifene, ciproeptadina e metisergide) antagonizzano questi recettori. D’altro canto, l’attivazione dei recettori 5HT1B-1D (triptani, ergotamina) induce una vasocostrizione, blocco dell’infiammazione neurogenica e quindi della trasmissione del dolore. Anche il sistema dopaminergico (DA) sembra coinvolto nella fisiopatologia dell’emicrania. L’apomorfina, un agonista DA selettivo e specifico, ha un effetto vasodilatatore cerebrale e determina un significativo aumento del flusso nell’arteria cerebrale media nei soggetti emicranici. Questo fenomeno è stato ben documentato in studi controllati verso placebo supportando così l’ipotesi di un’ipersensibilità dopaminergica nell’emicrania. I recettori dopaminergici sono localizzati sui vasi piali, laddove avviene il processo dell’infiammazione sterile. Recentemente è stato dimostrato che i terminali DA sono in stretto contatto con le arteriole penetranti e i capillari cerebrali nella corteccia. Questa osservazione avvalora il ruolo del sistema dopaminergico nella regolazione della microcircolazione cerebrale. Sono stati identificati 5 sottotipi di recettore DA: D1, D2, D3, D4 e D5. Per verificare il coinvolgimento del sistema DA nella patogenesi dell’emicrania sono stati effettuati diversi studi di genetica molecolare. È stata trovata un’associazione positiva tra il fenotipo dopaminergico dell’emicrania senz’aura (EsA) ed il gene del recettore D2. L’ipersensibilità dopaminergica può essere spiegata sia da un’alterata funzione del recettore, sia da un’anomala funzione delle vie nervose che trasducono il segnale. Il ruolo dell’ossido nitrico (NO) è ancora discusso. L’NO, oltre ad essere un potente vasodilatatore, è coinvolto nella neurotrasmissione nel sistema nervoso centrale. In soggetti emicranici, la somministrazione di isosorbide dinitrato, un donatore di NO, induce una risposta vascolare cranica che non può essere ascritta all’azione diretta dell’NO, data la sua brevissima emivita. Questa risposta potrebbe essere, invece, mediata dalla liberazione di CGRP da fibre trigeminali peri-
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vascolari depolarizzate. Un’azione centrale dell’NO sui nuclei del tronco è stata dimostrata in animali di laboratorio ove la somministrazione sistemica di nitroglicerina induce un aumento di cfos evidente a distanza di ore dalla somministrazione. La cortical spreading depression è capace d’indurre aumento della sintesi intracellulare di c-fos nei nuclei trigeminali dei ratto. Essa si accompagna ad imponenti modificazioni elettrolitiche delle membrane cellulari. Questo induce a pensare che qualsiasi evento ionico-metabolico possa rappresentare uno stimolo in grado di attivare il sistema trigemino-vascolare tramite la liberazione di NO. Un possibile aspetto patogenetico è stato recentemente evidenziato da Welch, che ha dimostrato un disturbo dell’omeostasi con accumulo di ferro nel PAG in pazienti emicranici. Questo reperto sembra dovuto all’azione dei radicali liberi prodotti durante i diversi attacchi emicranici. Questi risultati sottolineano il ruolo del PAG nell’emicrania, potenzialmente correlato ad un difettoso controllo del sistema nocicettivo trigeminovascolare. L’emicrania potrebbe essere pertanto associata ad una soglia critica di deposizione di ferro [7]. Recentemente, infine, nuovo interesse hanno suscitato le cosiddette amine elusive (tiramina, octopamina, sinefrina) grazie all’identificazione di recettori specifici per queste sostanze (TARs, trace amine receptors) di cui alcuni presenti nell’uomo. Il coinvolgimento di queste amine era stato già ipotizzato negli anni ’60-’70, soprattutto per l’effetto di scatenamento degli attacchi emicranici proprio di alcuni alimenti ricchi di tiramina. La localizzazione di questi recettori in alcune strutture (amigdala, troncoencefalo) implicate nella patogenesi dell’emicrania, ha fatto riconsiderare il ruolo delle amine elusive quali sostanze interferenti con gli aadrenocettori del sistema adrenergico, il cui coinvolgimento nella genesi dell’attacco emicranico è ben noto [8].
Genetica dell’emicrania La tendenza dell’emicrania a ricorrere tra consanguinei, l’alta concordanza in gemelli omozigoti e l’associazione di specifiche mutazioni in forme particolari di emicrania con aura (EcA) (Emicrania Emiplegica Familiare FHM) confermano che l’emicrania ha una importante componente genetica. Negli ultimi anni sono stati condotti numerosi studi il cui fine è quello di cercare la presenza di mutazioni o polimorfismi a livello di geni codificanti proteine coinvolte nella fisopatogenesi dell’emicrania. I risultati più consistenti riguardano l’FHM in cui sono stati descritti tre differenti geni le cui mutazioni sono trasmesse con una ereditarietà di tipo autosomico dominante: l’FHM 1 associata a mutazioni del gene codificante il canale del calcio CACNA1A, localizzato sul cromosoma 19p13; l’FHM 2 legata a mutazioni del gene ATP1A2 sul cromosoma 1q21-23 codificante per una Na+-K+ ATPasi; l’FHM 3 legata a mutazioni del gene SCN1A sul cromosoma 2q24 codificante un canale del sodio voltaggio-dipendente neuronale. Queste mutazioni non sono state riconosciute come patogenetiche per le altre forme più comuni di emicrania. Studi condotti su famiglie con probandi emicranici con e senz’aura hanno dimostrato che il rischio relativo per un familiare di primo o secondo grado di essere emicranico è superiore alla popolazione di controllo, in particolare per quanto riguarda l’EcA (circa 1,4 volte per l’EsA e 4 per EcA). Sono state dimostrate associazioni significative tra emicrania senz’aura e/o con aura e diversi geni tra cui quelli codificanti recettori dopaminergici (DRD2 e 4), dopamina β-idrossilasi (DBH), trasportatore della serotonina (HSERT), recettori della serotonina 5-HT2A, metilentetraidrofolato reduttasi (MTHFR), ACE, recettore per endotelina tipo A (ETA), recettori per adenosina tipo 2 (A2AR). L’emicrania è quindi una malattia multifattoriale risultato della complessa interazione tra ambiente e predisposizione genetica [9-11].
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Terapia dell’emicrania senz’aura La terapia dell’emicrania deve cominciare dall’atteggiamento del medico, che dovrebbe rappresentare una combinazione di empatia e buone capacità comunicative. Il paziente, infatti, si presenta spesso con il timore che il sintomo cefalalgico sia espressione di una patologia grave. La natura fisiopatologica del dolore deve essere spiegata al paziente in termini che diano il giusto spazio e la giusta importanza al problema, evitando l’impressione che la narrazione dei sintomi sia un’esagerazione del disturbo oppure un’eccessiva banalizzazione. D’altro canto, aspettative irreali circa le possibilità di guarigione vanno ridimensionate a favore di obiettivi più raggiungibili, quali un efficace controllo della sintomatologia. Infatti, gli obiettivi della terapia antiemicranica sono la riduzione o la prevenzione del dolore e dei sintomi associati e l’ottimizzazione delle funzioni quotidiane del paziente. Pertanto, gli approcci terapeutici all’emicrania riconoscono strategie terapeutiche per il controllo dell’attacco acuto e, in regimi di profilassi, per la riduzione di frequenza, durata e intensità degli attacchi [12, 13]. Il primo passo della gestione terapeutica dell’emicrania consiste nell’identificazione e nella eventuale eliminazione di fattori precipitanti l’attacco. Questi fattori possono comprendere: • fattori psicologici: stress, ansia e affaticamento mentale prolungato; • fattori ormonali (per le donne): il ciclo mestruale e l’assunzione di contraccettivi orali; • fattori nutrizionali: il consumo di cioccolato, formaggi, agrumi o altri cibi contenenti nitrati o tiramina, alcool in generale (vino rosso in particolare), birra e alimenti contenenti glutammato monosodico; • stress fisici: il digiuno, i cambiamenti climatici (in particolare le giornate calde e ventose), la riduzione di ossigeno (in altitudine), la fatica, la mancanza o l’eccesso di sonno, gli sforzi fisici (compresa l’attività sessuale), l’esposizione agli odori forti, al fumo di sigaretta, alle luci forti e al rumore. È soprattutto l’associazione di più stimoli che può rivestire grande importanza nell’induzione di un attacco.
Principi generali I parametri cui ci si riferisce allorché si sceglie il farmaco più adatto per il paziente emicranico devono prendere in considerazione diversi fattori, non ultima la possibile diversità tra un attacco e l’altro nello stesso paziente. In tal senso è necessaria una attenta registrazione da parte del paziente di tutti gli episodi, descrivendone le caratteristiche di dolore, sintomatologia di accompagnamento, durata dell’attacco, relazione con fattori eventualmente favorenti o peggiorativi. Quando possibile, si tenterà di rimuovere o correggere tali fattori. La terapia, sia dell’attacco che di profilassi, può essere correttamente impostata seguendo alcuni parametri principali di riferimento di seguito riportati: • frequenza degli attacchi: prendere in considerazione la possibilità di terapia di profilassi; • durata degli attacchi: essa condiziona spesso la necessità di assumere dosi ripetute di farmaco; • intensità degli attacchi: i farmaci ad attività specifica dovrebbero essere considerati di prima scelta nel dolore di intensità forte; • controindicazioni relative: sono rappresentate generalmente da patologie concomitanti; • indicazioni relative: possono obbligare la scelta (es.: gravidanza);
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• effetti collaterali: rappresentano un fattore limitante nel rapporto rischio/beneficio modalità di assunzione: i farmaci devono essere il più possibile versatili per rispondere alle esigenze personali del paziente e alle caratteristiche dell’attacco; • costo: talora potrebbe rappresentare un fattore limitante ma non dovrebbe condizionare la scelta se le indicazioni la impongono. Verranno di seguito brevemente descritte regole generali sia per la terapia dell’attacco che per la profilassi.
Terapia dell’attacco La terapia sintomatica ha lo scopo di bloccare la crisi, una volta che questa è iniziata, nel tempo più breve possibile e senza provocare effetti collaterali. Rappresenta l’approccio migliore quando la frequenza degli episodi non sia elevata e, comunque, quando gli attacchi siano prontamente risolti dalla terapia sintomatica e la compliance del paziente nei confronti di terapie di profilassi non sia soddisfacente. Il rischio di eccessivo uso di farmaci per l’attacco in pazienti con elevata frequenza di crisi impone di disegnare la profilassi migliore nei pazienti meno disponibili a tali trattamenti, in modo da renderla il più possibile accettabile. La terapia dell’attacco si serve sostanzialmente di tre classi di farmaci: triptani, FANS ed ergot derivati, anche se l’uso di questi ultimi è sempre meno diffuso per la presenza di effetti collaterali a lungo termine e perché fondato su pochi studi controllati accuratamente. Le modalità di scelta delle diverse categorie farmacologiche possono seguire due possibili strategie: la strategia a scalini e la strategia stratificata. La prima prevede che venga scelto per l’attacco il farmaco a minor rischio di effetti collaterali ed a costo minore, modificando eventualmente la scelta se il farmaco risulta inefficace. La seconda prevede, invece, che il farmaco venga scelto in base alla disabilità globale dell’attacco. Poiché tali strategie possono risultare troppo rigide, l’atteggiamento migliore risulta essere comunque quello di individuare attacchi di diversa disabilità nel singolo paziente e consigliare per ciascuno di essi il farmaco più adatto. È necessario conoscere la storia farmacologica del paziente stesso, onde evitare di riproporre inutili e deludenti prescrizioni, a meno che non si abbia il sospetto che un farmaco, giudicato dal paziente inefficace, non sia stato assunto correttamente. In tal senso, vanno considerati alcuni parametri di correttezza che il paziente deve conoscere e che lo specialista deve sempre indicare: • dosaggio adeguato; • somministrazione tempestiva; • somministrazione diversa dalla via orale se presente/i nausea e/o vomito.
Triptani I triptani rappresentano oggi la classe di prima scelta nella terapia dell’attacco emicranico. In Italia sono attualmente disponibili sei diversi triptani: sumatriptan, zolmitriptan, rizatriptan, almotriptan, eletriptan e frovatriptan. Il sumatriptan è disponibile nelle forme sottocute (6 mg), per gli attacchi con dolore violento già all’esordio, orale (100 e 50 mg), rettale (25 mg) e spray nasale (20 e 10 mg). Zolmitriptan (2,5 mg) e rizatriptan (10 mg) sono entrambi disponibili in formulazione orale standard e come liofilizzato orale. Rizatriptan è presente in commercio in compresse da 5 mg, dosaggio indicato in pazienti in terapia concomitante con β-bloccanti. Almotriptan (12,5 mg), eletriptan (40 e 20 mg) e frovatriptan (2,5 mg) sono disponibili solo come compresse standard [14].
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Tutti i triptani mostrano una buona efficacia, con percentuali di risposta clinica a due ore intorno al 60-65% e con percentuali di scomparsa del dolore, sempre a due ore, intorno al 30%. Sumatriptan 100 mg viene considerato il gold standard e le differenze di attività dei triptani più recenti sono modeste, eccezion fatta per il rizatriptan 10 mg che mostra, solo nella scomparsa del dolore a due ore, una percentuale di efficacia del 40%. Frovatriptan si differenzia dagli altri triptani per una lunga emivita (26 ore) e per la minor percentuale di recidive. Gli effetti collaterali sono di modesta entità e comunque reversibili in 30-60 minuti. Sono costituiti soprattutto dal senso di peso o oppressione toracica, senso di calore, vertigini, faringodinia, disforia, nausea. Gli ultimi triptani sembrano mostrare un miglior profilo di tollerabilità, soprattutto almotriptan ed eletriptan; comunque tutti hanno il grosso vantaggio di non essere gastrolesivi. I triptani sono controindicati in soggetti a rischio per patologia ischemica cardiaca o cerebrale e in presenza di ipertensione arteriosa non controllata. Non vanno somministrati nelle 24 ore successive all’assunzione di ergot derivati e in presenza di terapie con IMAO, SSRI e litio. La mancata risposta clinica ad un singolo triptano non implica il fallimento di tutta la classe nel singolo paziente. È opportuno, pertanto, scegliere un farmaco diverso nella stessa classe oppure una diversa modalità di somministrazione, qualora la risposta clinica non fosse soddisfacente. Gli studi clinici indicano per tutti i triptani una percentuale non trascurabile di ricaduta, ovvero la ricomparsa del dolore entro 24 ore dall’assunzione del triptano che comunque si è rivelato efficace nel bloccare l’attacco. La ricaduta è generalmente sensibile ad una seconda dose dello stesso farmaco. Il problema della ricaduta può essere ridotto con l’impiego dei preparati a lunga emivita, naratriptan e frovatriptan, quest’ultimo commercializzato dal 2004 anche in Italia. Con frovatriptan la percentuale di ricadute scende dal 30-40% degli altri triptani al 7-25%. Talora può essere utile la associazione di un triptano con un FANS a lunga emivita, in particolare per crisi di lunga durata (es. crisi correlate al ciclo mestruale), ma tale strategia non è a tutt’oggi confortata da studi controllati e rappresenta solo un suggerimento.
FANS ed analgesici Sebbene non specifici, gli antinfiammatori non steroidei (FANS) si inseriscono a buon diritto nell’armamentario terapeutico dell’attacco emicranico, particolarmente quando somministrati in associazione con antiemetici. Inoltre essi trovano applicazione in quei pazienti in cui l’uso di farmaci specifici (triptani e derivati dell’ergot) è controindicato dalla presenza di patologie cardiovascolari. Le loro proprietà antidolorifiche si esplicano con meccanismo simile a quello dell’acido acetilsalicilico, non oppioide e non steroideo. Tali meccanismi garantiscono l’assenza di effetti collaterali che caratterizzano gli oppioidi e gli steroidi. Il paracetamolo rappresenta il farmaco di scelta in corso di gravidanza e comunque è controindicato in presenza di grave epatopatia e nefropatia. Le controindicazioni ai FANS sono note e riguardano principalmente il rischio di sanguinamento gastrico.
Coxibici Fra i vari farmaci di questa categoria, rofecoxib è sicuramente il più studiato e quello che ha mostrato i migliori risultati, sia impiegato in monoterapia che in associazione con rizatriptan. Dalla fine del 2004 però il farmaco non è più in commercio per gli effetti collaterali di tipo vascolare. Celecoxib è stato impiegato nell’emicrania parossistica e nell’hemicrania continua, mai nell’EsA. Per valdecoxib, non in commercio in Italia, esiste solo un’evidenza non controllata che ne segnala un’efficacia promettente.
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Ergot derivati La revisione di studi clinici concernenti farmaci a base di ergot derivati, evidenzia la mancanza di parametri omogenei e la difficoltà di interpretazione degli stessi. Essi sono rappresentati da ergotamina (1-2 mg per os, max 4 mg/24 ore; 0,5-2 mg rettali) e diidroergotamina (1-2 mg spray, max 4 mg/24 ore o 12 mg/settimana). Anche per i derivati dell’ergot le controindicazioni sono rappresentate dal rischio cardiovascolare, anche in relazione alla vasocostrizione coronarica prolungata propria di questi farmaci. Inoltre, l’uso eccessivo e l’abuso di derivati dell’ergot può indurre cefalea ed ergotismo. Essi possono, inoltre, indurre ipotensione paradossa.
Antiemetici Metoclopramide (10 mg per os, im, ev) e domperidone (20-30 mg per os, 60 mg rettali) rappresentano gli antiemetici di più comune utilizzo in associazione alla terapia dell’attacco, particolarmente quando effettuata con FANS. È disponibile in commercio l’associazione in forma orale di metoclopramide e acetilsalicilato di lisina. Un’altra associazione, rappresentata da indometacina + caffeina + proclorperazina, è disponibile sia in forma orale che rettale. In realtà la quantità dell’antiemetico proclorperazina presente in questa combinazione non rappresenta il dosaggio terapeutico antiemetico efficace e pertanto tale combinazione non rappresenta sempre un vantaggio rispetto alla indometacina pura. Non esistono peraltro sufficienti studi controllati che dimostrino la superiorità clinica della combinazione rispetto a preparati con sola indometacina.
Terapia della profilassi La profilassi è indicata in tutti i pazienti con frequenza di crisi medio-elevata, in particolare quando il numero di attacchi/mese sia superiore a tre o quando, anche in presenza di un minor numero di crisi, queste abbiano durata di 48-72 ore o più e siano parzialmente o completamente resistenti alla terapia specifica dell’attacco; un esempio è rappresentato dalle crisi di emicrania correlata alle mestruazioni. Infine, la terapia di profilassi si rende necessaria quando la terapia dell’attacco non sia soddisfacente per la presenza di effetti collaterali o di controindicazioni specifiche. La terapia di profilassi deve essere opportunamente scelta per il singolo paziente, soprattutto in relazione a patologie concomitanti o alla presenza di sovrappeso, depressione dell’umore o altre patologie sistemiche (ipertensione arteriosa, diabete, broncopatia cronica ecc.). La terapia deve essere mantenuta per almeno 3 mesi, verificandone l’efficacia durante questo periodo di tempo ed evitando sospensioni improvvise. Si considera efficace un trattamento che riduca la frequenza degli attacchi di almeno il 50%, ma non va sottovalutata l’efficacia in termini di intensità del dolore ed in termini di migliore risposta ai farmaci dell’attacco. In molti pazienti, infatti, sebbene la frequenza degli attacchi non si riduca significativamente dopo un adeguato periodo di terapia, il trattamento può considerarsi comunque soddisfacente quando si valuti in termini di disabilità totale e di consumo totale di farmaci sintomatici. Qualora sia necessario riprendere un trattamento di profilassi in un paziente che abbia tratto un significativo giovamento dal farmaco precedentemente utilizzato, è opportuno riproporre prima di tutto lo stesso farmaco. In tal senso, il paziente, pur vivendo l’esperienza di un peggioramento, presenterà una buona compliance rispetto al farmaco già noto, sia in termini di efficacia che di effetti collaterali. Generalmente l’efficacia del farmaco è sovrapponibile a quella ottenuta durante un precedente ciclo di terapia.
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Vale la pena ricordare che la profilassi può avvalersi, oltre che alla terapia farmacologica, di terapie non farmacologiche, ed in particolare dell’agopuntura e del biofeedback (BFB), in pazienti in cui le diverse classi di farmaci siano controindicate o qualora il paziente dimostri scarsa compliance nei confronti di trattamenti farmacologici.
β-bloccanti Sono rappresentati essenzialmente da propranololo (40-240 mg/die), nadololo (80-240 mg/die), metoprololo (50-200 mg/die), atenololo (50-100 mg/die). È opportuno un graduale aumento del dosaggio, così come una graduale riduzione prima di sospendere tali farmaci. La bradicardia, che rappresenta un effetto diretto dei β-bloccanti, può essere un effetto collaterale contenuto e non costituire una limitazione se si segue l’accorgimento di aumentare gradualmente la posologia fino a raggiungere il dosaggio desiderato. Lo schema inverso deve essere seguito quando si programma la sospensione del farmaco. Fra gli effetti collaterali da ricordare, oltre alla bradicardia, astenia, stipsi e, raramente, ipotensione. Controindicazioni ai β-bloccanti sono rappresentate da diabete e broncopatia cronica. In pazienti con depressione dell’umore tali farmaci possono indurre un peggioramento, mentre essi possono indurre miglioramento dell’ansia. Tali farmaci sono indicati in presenza di ipertensione arteriosa che grazie al loro utilizzo può essere ben controllata. Non vanno mai associati al verapamil.
Calcio-antagonisti Tra i calcio-antagonisti, la flunarizina rappresenta il farmaco di maggiore efficacia nella profilassi dell’emicrania. Nonostante il suo impiego sia stato per molto tempo ridotto a causa degli effetti collaterali, caratterizzati da sonnolenza, aumento di peso, sindromi parkinsoniane, sindromi depressive e aumento dei livelli di prolattina, l’utilizzo di bassi dosaggi (10 mg/die non danno vantaggio significativo rispetto a 5 mg/die) e di schemi ridotti di trattamento (a giorni alterni, 5 giorni alla settimana, 20 giorni al mese ecc.) rende tale farmaco estremamente efficace e ben tollerato. Il verapamil (160-320 mg/die) risulta essere meno efficace della flunarizina ma può essere preso in considerazione quando le caratteristiche del paziente limitino fortemente l’utilizzo della stessa. Infine nei soggetti anziani può essere utile la cinnarizina a 25-75 mg/die, mentre la nimodipina non ha confermato nella pratica clinica le impressioni di efficacia ottenute durante la fase sperimentale.
Inibitori dell’angiotensina Recentemente è stata dimostrata l’efficacia di lisinopril, un ACE-inibitore, alla dose di 10-20 mg/die, nel ridurre frequenza e intensità degli attacchi emicranici. Gli effetti collaterali riportati sono tosse, ipotensione, astenia. Dati positivi nel trattamento preventivo, sono stati riportati anche per candesartan, un bloccante recettoriale dell’angiotensina II, alla dose di 16 mg/die.
Antidepressivi triciclici e inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) Sono indicati in presenza di ansia e/o depressione, anche in considerazione del fatto che questi disturbi possono rappresentare fattori di peggioramento della sindrome emicranica. Tra gli antidepressivi triciclici, l’amitriptilina è in pratica l’unico farmaco tuttora in uso. Si è rivelata efficace nel trattamento dell’emicrania, specialmente in casi associati a cefalea tensiva. Il suo meccanismo d’azione antidolorifico non è correlato all’effetto antidepressivo e consiste in una mo-
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dulazione centrale di diversi neurotrasmettitori inibendo il re-uptake di serotonina e noradrenalina e attenuando le risposte beta-adrenergiche. La dose iniziale di farmaco è di 10 mg la sera con incremento progressivo di 10 mg ogni settimana fino a raggiungere la dose di 50 mg/die. Oltre ai noti effetti collaterali antimuscarinici (secchezza delle fauci e sedazione), può provocare aumento di peso e di appetito, ipotensione ortostatica, cardiotossicità e disfunzioni sessuali. Fluoxetina (10-20 mg/die), paroxetina (10-20 mg/die) e sertralina (50 mg/die) possono essere utili in pazienti con disturbo dell’umore, anche se ulteriori studi controllati, soprattutto per gli ultimi due, sono necessari per verificarne l’efficacia nella profilassi dell’emicrania.
Antagonisti serotoninergici Numerosi studi controllati e la stessa esperienza clinica mostrano risultati soddisfacenti con l’uso di farmaci che agiscono a livello del sistema serotoninergico. Gli ergot-alcaloidi ed i loro derivati sono tra le prime sostanze riconosciute svolgere un’attività antagonista a livello dei recettori della serotonina, in particolare la diidroergotamina nella formulazione a liberazione programmata (con un’emivita di 12 ore), presente in commercio in Italia dai primi anni ’80. Il primo in ordine di tempo ad essere utilizzato nella profilassi dell’emicrania è stata la metisergide, un farmaco rivelatosi estremamente efficace ed utilizzato anche come terapia d’attacco in casi ribelli ad altro trattamento. Il profilo degli effetti collaterali, normalmente di lieve entità, comprende la comparsa di mialgie, claudicatio con edema distale agli arti inferiori, dolori addominali, nausea, aumento di peso e allucinazioni. Il maggiore deterrente al suo uso, rappresentato dallo sviluppo di fibrosi retroperitoneale, polmonare ed endocardica, è un evento che si verifica con estrema rarità (1/2500 soggetti). Oggi è meno utilizzata rispetto al passato per una generica scarsa tolleranza dimostrata dai pazienti e per l’attuale disponibilità di molte altre sostanze efficaci. Dal marzo 1999 non è più in commercio in Italia. Il pizotifene è un antagonista selettivo del recettore serotoninergico 5-HT2 con lievi proprietà anti-istaminergiche e anticolinergiche. La sua efficacia nell’emicrania si traduce in una riduzione del 50-64% della frequenza degli attacchi. Il suo impiego è complicato dalla comparsa di effetti collaterali quali aumento di peso e astenia. La dose quotidiana nella profilassi di pazienti adulti è di 1-3 mg/die. Alla stessa categoria di farmaci appartengono la ciproeptadina, particolarmente utile in età infantile per la spiccata azione di stimolante dell’appetito e la metergolina, dotata anche di un’azione dopaminergica e indicata nell’emicrania mestruale.
Antiepilettici Il valporato di sodio si è rivelato efficace nella profilassi degli attacchi emicranici, come dimostrato ormai da numerosi studi clinici randomizzati e controllati. Il dosaggio consigliato è di 500-1000 mg/die, anche se è stato utilizzato in dosi superiori, fino a 2000 mg/die. In Italia non è prevista tuttavia l’indicazione nel trattamento dell’emicrania, mentre negli USA è registrato con questa indicazione. Gli effetti collaterali comprendono nausea, vomito, alopecia, tremori, sedazione, aumento di peso. Durante il trattamento bisogna monitorare i parametri pancreatici ed epatici per la tossicità segnalata. È inoltre opportuno effettuare, in caso di periodi di trattamento prolungati, un’ecografia ovarica per l’associazione descritta fra acido valproico e ovaio policistico. È utile nei pazienti emicranici con comorbidità psichiatrica (depressione e disturbo d’ansia generalizzato) per le note proprietà di stabilizzatore del tono dell’umore e nei pazienti con asma, diabete e morbo di Raynaud, rappresentando una valida alternativa all’uso dei β-bloccanti, con-
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troindicati. È controindicato in gravidanza, a causa del suo effetto teratogeno, e va utilizzato con cautela in pazienti in trattamento con aspirina o warfarin a causa degli effetti sulla coagulazione. Il topiramato ha mostrato una buona efficacia, alla dose di 50-200 mg/die. Per minimizzare gli effetti collaterali è opportuno titolare lentamente il farmaco, con dosi crescenti di 25 mg alla settimana. Il trattamento deve essere effettuato per almeno 3 mesi, anche se spesso, nella pratica clinica, si protrae per diversi mesi. La sospensione del trattamento deve essere graduale. È particolarmente indicato in pazienti sovrappeso o che presentino controindicazioni per altri farmaci di profilassi. I principali effetti collaterali sono costituiti da sedazione, riduzione dell’attenzione e della concentrazione, parestesie, diminuzione dell’appetito e calo ponderale. Numerosi altri antiepilettici sono stati impiegati nella profilassi dell’EsA (carbamazepina, lamotrigina, gabapentin, zonisamide, vigabatrin, oxcarbazepina, levetiracetam), ma i dati a disposizione non consentono per ora di trarre considerazioni conclusive sul loro impiego.
Terapie non farmacologiche Meritano un breve cenno alcuni trattamenti non farmacologici, di cui si hanno ormai evidenze di una certa efficacia. Una vasta bibliografia esiste per il biofeedback, tecnica di apprendimento dell’autocontrollo basata sull’impiego di particolari apparecchiature elettroniche. Dati su larghe casistiche risultano positivi nel 60-75% dei casi trattati. Tuttavia, l’esito positivo del trattamento nell’emicrania sembra essere influenzato da variabili quali la motivazione e le aspettative del paziente e il rapporto tra terapeuta e paziente. Anche per l’agopuntura esistono evidenze di una certa efficacia, pur se non tutti i dati sono concordanti. Per ipnosi e TENS non si hanno dati a disposizione che consentano l’inserimento di queste tecniche nell’armamentario delle terapie profilattiche per l’emicrania.
Fisiopatologia dell’emicrania con aura Studi recenti di RM funzionale e PET, ed in passato la magnetoencefalografia, hanno evidenziato come il fenomeno della Cortical Spreading Depression (CSD), descritto per la prima volta da Leao nel 1944 in seguito a studi effettuati sulla corteccia di coniglio, costituisca il substrato fisiopatologico dell’aura emicranica [15, 17]. La CSD è un evento neuro-vascolare caratterizzato da un’onda di depolarizzazione neuronale e gliale che si propaga anteriormente lungo la corteccia cerebrale a partenza dai lobi occipitali alla velocità di 3-5 mm/minuto. La CSD è accompagnata da un iniziale importante incremento del flusso ematico cerebrale di breve durata seguito da una fase più prolungata di ipoperfusione cerebrale che si propaga parallelamente all’ondata di depolarizzazione e determina le manifestazioni neurologiche focali che caratterizzano l’aura emicranica. Cutrer e colleghi [6, 15] hanno studiato con RM funzionale di perfusione soggetti affetti da EcA in fase intercritica, osservando che non vi sono variazioni né differenze emisferiche di flusso, volume ematico cerebrale e tempo medio di transito. Durante l’aura, il margine di perfusione progredisce anteriormente senza modificazioni nella diffusione suggerendo che non si verificano fenomeni ischemici. La progressione dell’oligoemia non rispetta territori vascolari e verosimilmente non è causata da vasocostrizione. Nelle zone in cui è passata l’onda oligoemica si osserva una riduzione della reazione all’ipercapnia, ma i meccanismi di autoregolazione risultano conservati. L’iperperfusione corticale associata alla CSD nelle fasi iniziali, considerata per molto tempo un epifenomeno di minore importanza, è stata rivalutata da recenti studi i quali dimostrano, sul-
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l’animale, come il blocco di questa fase determini conseguenze dannose risultanti in una prolungata e marcata ipoperfusione corticale con conseguenti infarti cerebrali. Eventi analoghi potrebbero spiegare l’insorgenza degli infarti emicranici correlati alla EcA. Studi PET hanno registrato eventi riconducibili alla CSD in corso di crisi emicraniche di soggetti che tuttavia non riferivano aura. Queste segnalazioni, ancora limitate, potrebbero supportare l’ipotesi che la CSD si realizzi anche nell’EsA suggerendo un legame fisiopatogenetico tra le due forme di cefalea. Al momento, gli eventi molecolari capaci di innescare la CSD non sono conosciuti. Studi sugli animali hanno evidenziato come stimoli elettrici, aminoacidi eccitatori e ioni possono causare la CSD indicando come evento trigger primario un’alterazione dell’omeostasi neuronale e gliale. Tuttavia, il fatto che angiografie cerebrali o dissezioni carotidee possano generare in alcuni pazienti aure emicraniche, suggerisce la possibilità che anche fattori endoteliali possano innescare la CSD. Recenti studi di Moskovitz e colleghi [2] (2002) hanno dimostrato l’esistenza di un legame tra gli eventi corticali (aura) e l’attivazione delle strutture sensibili al dolore della dura madre (fase algica), da sempre oggetto di interesse. La CSD attiva omolateralmente il sistema trigemino-vascolare attraverso il rilascio di numerosi metaboliti e neuropeptidi vasoattivi (sostanza P, CGRP, Neurokinina A) che generano una infiammazione sterile in grado di sensibilizzare le afferenze trigeminali perivascolari. Parallelamente, connessioni trigemino-parasimpatiche con le strutture del tronco encefalico, promuovono l’incremento prolungato del flusso ematico nei vasi meningei omolaterali implicato nei meccanismi della nocicezione. Infine, dati neurofisiologici indicano chiaramente che il cervello emicranico presenta una mancanza di abitudine nell’elaborazione delle informazioni e che la riserva energetica mitocondriale è ridotta a livello neuronale. L’ipereccitabilità corticale, dovuta alla mancanza di abitudine associata agli stress riconosciuti come potenziatori/attivatori dell’emicrania, potrebbe causare una eccessiva richiesta metabolica che, non potendo essere soddisfatta, potrebbe favorire un’alterazione dell’omeostasi cerebrale responsabile della partenza della CSD e della conseguente attivazione del sistema trigeminovascolare.
Terapia dell’emicrania con aura La terapia dell’EcA costituisce un problema per molti aspetti. È difficile impostare un trattamento per una cefalea primaria che si manifesta con un periodismo variabile in cui gli attacchi sono spesso sporadici, con una frequenza che molte volte non supera i tre o quattro all’anno. Altre volte essa aumenta improvvisamente fino a molti attacchi alla settimana o più. Spesso l’andamento di queste recrudescenze è bizzarro per la loro durata difficilmente prevedibile. Il secondo aspetto che rende l’approccio terapeutico problematico, è la presenza dell’aura, disturbo focale neurologico per il quale ancora oggi non esistono farmaci d’attacco risolutivi. Sicuramente è molto importante rassicurare il paziente sulla natura assolutamente benigna del disturbo. Sembra, infatti, che lo stato di agitazione e tensione che spesso accompagna il paziente durante la sua crisi, nonché la permanenza in un luogo rumoroso ed illuminato, incrementi sia l’intensità che la durata delle crisi. La raccolta accurata della storia permetterà di rilevare possibili fattori scatenanti come l’assunzione di contraccettivi orali o la suscettibilità a stimoli luminosi. Una volta identificati o esclusi possibili fattori predisponenti, occorre impostare una terapia, discriminando tra una semplice terapia dell’attacco e una terapia di profilassi. Occorre, inoltre, stabilire se è necessario impostare un trattamento specifico per l’aura o se riporre tutta l’attenzione sulla componente dolorosa della crisi.
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Terapia dell’attacco Gli obiettivi teorici del trattamento dell’attacco dell’EcA sono la scomparsa dei sintomi dell’aura e la prevenzione della fase dolorosa. I farmaci di seguito elencati sono utilizzati nel trattamento acuto dell’EcA ed il loro ordine è esclusivamente cronologico, in base alla comparsa in letteratura degli studi che ne hanno indicato l’efficacia. L’esperienza clinica ci ha indotto negli anni a modificare l’ordine, privilegiando farmaci capaci di stroncare la fase dolorosa dell’attacco emicranico, vista la refrattarietà dell’aura. Rappresentano segnalazioni aneddotiche, di esclusivo valore storico, seppure presentate da autori di rilievo quali Wolff e Alvarez negli anni ’30 e ’40, l’uso di miscele di CO2 e O2 inalate durante l’aura. Wolff indicò che l’inalazione di CO2 al 10% per 5 minuti determinava una riduzione transitoria della durata dell’aura. Una miscela di CO2 al 10% e O2 al 90% riusciva a bloccare anche l’esordio della fase algica successiva. Alvarez sottolineò che l’inalazione di O2 al 100% determinava la remissione dell’attacco emicranico nel 42% dei casi, con risultati migliori quanto più precoce era la somministrazione di O2 rispetto all’esordio dell’attacco. Lo stesso Wolff aveva notato che l’inalazione di piccole quantità di nitrito d’amile era in grado di bloccare gli scotomi dell’aura in alcuni soggetti. Aumentando le dosi, si otteneva una vasodilatazione massiva che determinava una vasodilatazione generalizzata con ipotensione marcata ed estensione dello scotoma visivo. Tali osservazioni avevano indotto Wolff a ritenere che l’aura emicranica fosse determinata da una vasocostrizione primaria che veniva bloccata dalla somministrazione di un potente vasodilatatore quale il diossido di carbonio. È stato anche osservato che l’inalazione di isoproterenolo (non in commercio in Italia) nelle fasi iniziali dell’aura emicranica ne determinava la scomparsa. Tuttavia, tale risultato non è riproducibile su una percentuale di soggetti statisticamente significativa. L’uso di vasodilatatori durante l’aura è stato supportato da evidenze relative alla somministrazione di nitroglicerina e di nifedipina sublinguale 10 mg, senza peggioramenti significativi sulla successiva fase algica.
Flunarizina La flunarizina è stato il primo farmaco utilizzato specificamente per il trattamento dell’attacco di EcA in uno studio in doppio cieco contro placebo. I pazienti affetti di EcA costituivano la parte minoritaria (17 pazienti) di una casistica costituita da 60 pazienti distribuiti in due gruppi di cui uno costituito da 31 pazienti (24 affetti da EsA e 7 da EcA) trattato con flunarizina 20 mg IV, l’altro costituito da 29 pazienti (19 con EsA, 10 con EcA) trattati con placebo. Il farmaco era somministrato durante la fase dolorosa. I pazienti erano definiti come responders se il trattamento determinava una riduzione dell’intensità del dolore e dei segni concomitanti di almeno il 50%. I responders sono risultati 23 (74,2%) contro 9 pazienti (27,6%) trattati con placebo. L’efficacia della flunarizina è stata sovrapponibile nelle due forme di cefalea primaria. L’unico effetto collaterale attribuibile alla flunarizina è stato una lieve sedazione in 9 pazienti. Commento: la flunarizina endovena è risultata efficace sulla fase dolorosa dell’attacco e sui sintomi di accompagnamento. Non vi sono indicazioni sulla eventuale utilità di questo farmaco sull’aura. Il suo uso ambulatoriale non è applicabile, vista la modalità di somministrazione e per il nostro paese la mancata commercializzazione.
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Nimodipina La nimodipina è stata testata in 43 pazienti, alla dose di 40 mg in capsule orali e sublinguali in uno studio cross-over contro placebo. Per ogni paziente sono stati testati due attacchi. Sono stati monitorati accuratamente, con appositi questionari, la durata dell’aura, la durata della fase dolorosa dell’attacco, gli effetti collaterali e la preferenza dei pazienti. In nessun parametro esaminato la nimodipina è risultata superiore al placebo. La conclusione degli stessi autori è stata che la nimodipina non ha probabilmente valore terapeutico nel trattamento dell’attacco di EcA.
Nifedipina Sono stati pubblicati due studi. Il primo è un case report relativo ad una paziente di 15 anni che ha presentato, per la prima volta nella sua vita, una crisi caratterizzata da difficoltà nella lettura, a parlare, comprendere le parole e cefalea della durata di ore. La somministrazione di nifedipina sublinguale ha rapidamente fatto scomparire i sintomi dell’aura. Il secondo è stato uno studio in doppio cieco, crossover, contro placebo. Sono stati reclutati 17 pazienti divisi in due gruppi. Sono stati trattati 6 attacchi con due vie di somministrazione: orale e sublinguale. Il farmaco, alla dose di 20 mg, veniva assunto durante l’aura. Nella prima fase dello studio i pazienti utilizzavano la nifedipina in capsule e nella seconda fase per via sottolinguale. Il trattamento con nifedipina con le due modalità di somministrazione ha aumentato la durata della fase dolorosa e non ha modificato l’aura. Commento: l’utilità della nifedipina riportata nel primo studio non è stata confermata da un successivo studio controllato, nel quale si suggerisce che il farmaco peggiora la fase dolorosa dell’attacco emicranico.
Sumatriptan Il sumatriptan, farmaco 5-HT1 agonista è considerato il farmaco di prima scelta per il trattamento degli attacchi di EsA medi e severi. Sono presenti in letteratura due studi sull’effetto del sumatriptan sugli attacchi di EcA. Il primo, eseguito in doppio cieco, randomizzato, a gruppi paralleli contro placebo, ha studiato la eventuale efficacia del farmaco alla dose di 100 mg per via orale su tre attacchi di EcA per un periodo di tre mesi su 76 pazienti divisi in due gruppi. Gli end points dello studio erano la riduzione dell’intensità del dolore a due ore o la sua totale scomparsa e dei sintomi di accompagnamento. Il sumatriptan si è mostrato significativamente più efficace del placebo nel ridurre o abolire il dolore e ridurre i sintomi di accompagnamento soltanto per il primo attacco (p = 0,023). Per il secondo e terzo attacco la efficacia del farmaco era meno evidente, la differenza statistica con il placebo non risultava significativa. Il secondo è stato un lavoro multicentrico, in doppio cieco, contro placebo, a gruppi paralleli realizzato dal Sumatriptan Aura Study Group concepito specificamente per valutare l’effetto del sumatriptan sull’aura di 171 pazienti affetti da EcA. Il farmaco alla dose di 6 mg è stato somministrato sottocute durante l’aura. La durata dell’aura (25 minuti) non è stata modificata dal farmaco e dal placebo (30 minuti). Un rilievo interessante è stato la mancanza di efficacia del sumatriptan sulla crisi dolorosa che si è manifestata nel 68% dei pazienti trattati contro 75% trattati con placebo. Commento: questi studi sembrano confermare che il sumatriptan è efficace nel risolvere l’attacco doloroso con un’azione farmacodinamica probabilmente simile a quella che svolge nell’attacco di EsA. Al contrario, quando il farmaco è somministrato durante l’aura, sembra del tutto inef-
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ficace sull’attacco di EcA nella sua globalità. Occorre segnalare un unico caso in letteratura di una paziente con storia di prolungate aure visive non seguite da cefalea trattate efficacemente con sumatriptan orale che riduceva la durata dell’aura da 2 ore a 20 minuti. Risultati sovrapponibili sono riportati anche per i triptani di seconda generazione (zolmitriptan e rizatriptan) e di terza generazione (almotriptan ed eletriptan).
Ergotamina L’utilizzo dell’ergotamina nel trattamento dell’EcA è stato a lungo dibattuto principalmente per le sue potenti proprietà vasocostrittrici che contrasterebbero con la riduzione del flusso ematico cerebrale riscontrata durante la CSD. Studi effettuati su emicranici e controlli sani che assumevano ergotamina per via im o ev (0,2-1 mg) non hanno dimostrato variazioni significative del flusso ematico cerebrale. Tuttavia, poiché studi angiografici hanno dimostrato che persone sensibili alla tossicità dell’ergotamina possono sviluppare vasospasmi cerebrali sintomatici, di conseguenza un atteggiamento prudente è quello di non utilizzare l’ergotamina per trattare attacchi emicranici preceduti da aura.
Furosemide La furosemide è stata usata in due pazienti che presentavano da anni aure visive ripetute e della durata di giorni. La prima paziente, di 34 anni, che presentava da 11 giorni perdita della vista nella parte esterna dei campi visivi, parestesie alla faccia ed agli arti e cefalea, è stata trattata con 20 mg di furosemide I.V. Dopo qualche ora l’aura è scomparsa ed è stata dimessa dopo 5 giorni di benessere in cui aveva continuato il trattamento. Nei giorni precedenti era stata trattata con proclorperazina, metilprednisone e valproato I.V. con parziale successo sulla cefalea ma senza risultati sull’aura. La seconda paziente, di 37 anni, aveva presentato un’aura visiva (spettro di fortificazione) bilaterale imponente e cefalea. Al terzo giorno, persistendo la crisi, è stata ricoverata e trattata con furosemide 20 mg I.V. I sintomi visivi sono scomparsi in circa due ore. In precedenza erano stati somministrati droperidolo I.V., magnesio e metil-prednisone I.V. con riduzione parziale della cefalea ma senza effetto sull’aura. Recenti pubblicazioni indicano che lo stato di male emicranico con aura può essere trattato efficacemente con furosemide o acetazolamide. Commento: il razionale dell’uso di furosemide deriva dala capacità del farmaco di bloccare la Cortical Spreading Depression (CSD) indotta dal potassio (K) sulla corteccia di gatto. Si ritiene che l’accumulo di K nello spazio extracellulare contribuisca ad innescare la CSD, considerata il meccanismo patogenetico dell’aura. L’uso della furosemide, testato solo su pazienti con attacchi di EcA prolungata, resta attualmente relegato a quest’ultimo sottotipo, senza indicazioni probanti per le più comuni crisi di EcA tipica.
Acetazolamide Tre pazienti con stato di male con aura sono stati trattati con apparente successo con acetazolamide 250 mg / 2-3 volte al giorno. Lo stato di male con aura è caratterizzato da aure spesso visive, per lo più non accompagnate da cefalea, che si ripetono più volte al giorno, per giorni o settimane. Tra un’aura e l’altra il paziente è asintomatico. Tale condizione non è ancora inclusa nella classificazione ICHD-II dove compare solo in appendice. L’efficacia del farmaco è riportato come drammatica. Farmaci testati, ma risultati non utili sono il propanololo ed il valproato di sodio.
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Commento: l’acetazolamide è stata utilizzata perché risultata efficace nella profilassi delle crisi di emicrania emiplegica familiare ed atassia episodica di tipo 2 (EA2), entrambe caratterizzate da mutazione missense per un gene che codifica per una proteina della sub-unità alfa del canale del calcio P/Q (CACNA1A). Non è nota l’azione farmacologica del farmaco sull’aura. Schake et al hanno dimostrato che in pazienti emicranici l’acetazolamide riduce e/o abolisce la ipoperfusione interictale, rilevata mediante 99Mtc-HMPAO SPECT.
Ketamina Un gruppo di 11 pazienti affetti da emicrania emiplegica familiare, che presentavano aure gravi e disabilitanti, sono stati trattati con ketamina alla dose di 25 mg spray nasale. Cinque pazienti hanno riportato una significativa riduzione della durata dell’aura nei 14 attacchi trattati, soprattutto sui deficit motori. Il farmaco è risultato inefficace sugli 11 attacchi trattati degli altri sei pazienti. Tutti i pazienti hanno presentato effetti collaterali: senso di alienazione e una modesta atassia. Soltanto due pazienti hanno riportato un miglioramento della cefalea giudicata di grave intensità che accompagnava le aure. Commento: la ketamina svolge un’azione antagonista sui recettori NMDA-glutammato dipendenti, agendo sul sito di legame della fenciclidina. In tal modo il farmaco blocca, sulla corteccia di animale da esperimento, la CSD indotta da rilascio di glutammato ed aspartato ed aumenta il flusso ematico cerebrale. Tale effetto si evince anche dal recupero funzionale dei tessuti sottoposti ad ipossia. La parziale efficacia della ketamina potrebbe essere spiegata da vari fattori, non ultimi la dose, la via di somministrazione, la farmacodinamica etc. La ketamina, somministrata durante l’aura, sembra essere poco efficace sulla componente dolorosa dell’attacco.
FANS Infine, è opportuno segnalare il frequente uso clinico per il trattamento sintomatico dell’attacco acuto di EcA degli stessi FANS utilizzati per l’EsA, a cui la fase algica della crisi è spesso paragonabile. Tra questi segnaliamo il paracetamolo ed i salicilati, più indicati nelle crisi emicraniche di lieve intensità, l’indometacina, il ketoprofene o il diclofenac sodico per le forme più severe.
Terapia di profilassi Gli obiettivi della terapia di profilassi sono la prevenzione degli attacchi. L’indicazione al trattamento preventivo si pone solo per i casi ad elevata frequenza, poco frequenti e più spesso a carico di adolescenti e/o giovani adulti. Anche in questo caso, viene seguito un ordine di presentazione che prescinde da criteri di Evidence Based Medicine. I farmaci più frequentemente utilizzati e per i quali vi è almeno uno studio clinico controllato in letteratura sono: • metoprololo/propanololo • flunarizina • nifedipina • acetazolamide • lamotrigina
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Metoprololo Il metoprololo costituisce il primo approccio di profilassi per l’EcA. Sono stati pubblicati 4 lavori. Nel primo, multicentrico, in doppio cieco, contro placebo a gruppi paralleli, sono stati inclusi 71 pazienti di cui 62 hanno completato lo studio (34 con il metoprololo, 37 con placebo). La dose di metoprololo impiegata è stata 200 mg/die. La durata dello studio è stata di 8 settimane. Sono stati valutati i seguenti parametri: la frequenza degli attacchi, i giorni con emicrania, il severity score (i giorni di cefalea × l’intensità) ed il consumo dei farmaci sintomatici. Il metoprololo ha ridotto significativamente il numero degli attacchi rispetto al placebo (p <0,01), il numero dei giorni con emicrania (p <0,05), la somma del severity score (p <0,05), il numero dei sintomatici utilizzati per 4 settimane (p <0,01). I principali effetti collaterali riscontrati sono stati: stanchezza, disturbi del sonno e raramente, bradicardia. Il secondo e terzo lavoro, in ordine cronologico, hanno valutato gli stessi parametri. Il secondo, in doppio cieco, ha valutato l’efficacia del metoprololo rispetto al propranololo in 30 pazienti con EsA (comune) e 6 con EcA (classica). Il terzo studio, multicentrico, in doppio cieco, contro placebo, ha studiato 74 pazienti. Il protocollo di studio prevedeva un periodo di run-in di 4 settimane, 8 settimane di trattamento ed un mese di wash out con placebo. Entrambi i lavori confermano l’efficacia del metoprololo (come anche del propranololo) nel migliorare significativamente i parametri utilizzati nel primo studio. Il quarto studio, in cieco, ha affrontato in maniera specifica le eventuali modificazioni dell’aura durante gli attacchi residui in 74 pazienti in trattamento con metoprololo, oltre alla valutazione dei parametri già utilizzati. Il metoprololo ha confermato l’efficacia su questi parametri, non riducendo la durata delle aure degli attacchi residui ma allungandone alcuni sintomi (scotomi scintillanti). Commento: il metoprololo è un farmaco utile nel ridurre la frequenza degli attacchi EcA. Sugli attacchi residui non modifica la durata dell’aura, anzi sembrerebbe allungarne alcuni sintomi.
Flunarizina La flunarizina, largamente utilizzata nell’emicrania, è stata utilizzata specificamente per la profilassi l’EcA in due studi. Il primo è uno studio contro placebo dove sono stati arruolati 20 pazienti, divisi in due gruppi, che, dopo un periodo di run-in di un mese senza farmaci, sono stati trattati con flunarizina 10 mg/die (un gruppo di 9 pazienti) e con placebo (un gruppo di 11 pazienti) per un periodo di 3 mesi. I parametri valutati nello studio sono stati: la frequenza/mese, la durata, la severità degli attacchi, il migraine index (il numero degli attacchi/mese × la media della severità) ed il migraine index corretto (migraine index × la durata mensile media degli attacchi). La flunarizina si è dimostrata significativamente più efficace del placebo in tutti i parametri considerati. Da questo studio non si evincono informazioni sull’effetto del farmaco sull’aura degli attacchi residui. Il secondo studio è uno studio in aperto in cui sono stati trattati con flunarizina 10 mg/die 176 pazienti affetti da varie forme di cefalee primarie con e senza segni neurologici. Tutti i pazienti sono migliorati (82%) rispetto al periodo di pretrattamento, indipendentemente dal tipo di cefalea. Commento: la flunarizina riduce la frequenza degli attacchi di EcA. Non vi sono indicazioni, da questi studi, sull’effetto del farmaco sull’aura degli attacchi residui.
Nifedipina In uno studio, in doppio cieco, cross over e contro placebo, 24 pazienti con EcA (classica), divisi in due gruppi, sono stati trattati con nifedipina e placebo rispettivamente per 12 settimane.
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Non vi è stata nessuna differenza significativa tra i due trattamenti nei due gruppi per quanto riguarda la frequenza mensile degli attacchi. L’incidenza degli effetti collaterali è stato più alta tra i pazienti trattati con nifedipina (54% dei pazienti, p <0,001) rispetto a quelli trattati con placebo (8%).
Acetazolamide L’acetazolamide, alla dose di 250 mg due volte al giorno, è risultata efficace nel bloccare le crisi in due pazienti, della stessa famiglia, affetti da emicrania emiplegica familiare (FHM). Commento: l’acetozolamide è stata utilizzata perchè efficace nel trattamento delle paralisi periodiche, della miotonia fluttuante e dell’atassia episodica tipo 2. Le mutazioni geniche responsabili di alcune di queste malattie sono collocate sullo stesso cromosoma (braccio corto del 19) e adiacenti al gene mutato responsabile, in alcune famiglie, della FHM.
Lamotrigina La lamotrigina è un farmaco antiepilettico entrato in uso nella seconda metà degli anni ’90. La sua efficacia sulle crisi parziali o generalizzate è dovuta alla capacità di ridurre l’ipereccitabilità neuronale bloccando i canali del sodio voltaggio-dipendenti ed il rilascio di glutammato. L’ipereccitabilità neuronale è ritenuta alla base del processo patogenetico dell’aura. In base a queste premesse, sono stati eseguiti tre studi in aperto. Nel primo, dopo un periodo di run-in di un mese, 24 pazienti con EcA ad alta frequenza sono stati trattati con lamotrigina alla dose 100 mg/die (con incremento graduale della dose) per tre mesi. È stata monitorata la frequenza degli attacchi/mese e la durata dell’aura. La lamotrigina ha determinato un significativo decremento degli attacchi rispetto al periodo pre-trattamento p <0,0001. In 13 pazienti gli attacchi sono del tutto scomparsi. Negli attacchi residui la durata dell’aura era diminuita e/o assente. In particolare, in un paziente trattato per EcA senza cefalea (aura emicranica senza cefalea o emicrania decapitata del passato), a frequenza giornaliera e/o plurigiornaliera, le aure sono scomparse. Nel secondo studio sono stati trattati 15 pazienti con dosi variabili di lamotrigina (da 25 a 100 mg/die) per 4 mesi seguiti da 3 mesi di sospensione. Il trattamento ha ridotto significativamente il numero e la durata delle aure (p <0,001), mentre la sospensione del trattamento ha aumentato significativamente il numero e la durate delle stesse (p <0,001) [18]. Appare interessante citare un recente case report relativo ad una paziente che da alcuni anni presentava attacchi di EcA scatenati esclusivamente dalla fase orgasmica dell’atto sessuale. La paziente era stata trattata con tutti i farmaci di profilassi per l’emicrania, oltre che con carbamazepina e/o benzodiazepine, senza successo. La somministrazione di lamotrigina ala dose di 75 mg/die (dopo lenta titolazione), ha determinato l’attenuazione delle crisi, ottenendone la completa scomparsa alla dose di 100 mg/die. Le crisi sono ricomparse puntualmente alla sospensione (per ben due volte) del farmaco. Dopo un anno di trattamento la paziente è completamente guarita. Commento: la lamotrigina sembra molto promettente nella terapia di profilassi dell’EcA, non solo perché riduce drasticamente il numero degli attacchi ma per la sua efficacia sull’aura. In questo senso è da considerarsi il primo farmaco attivo. Studi controllati sono comunque necessari per la conferma della sua indicazione nella profilassi dell’EcA. Sulla scia dell’azione dimostrata della lamotrigina nell’EcA, è stato proposto a scopo preventivo l’uso di altri antiepilettici quali il valproato di sodio ed il gabapentin, e più recentemente il topiramato, quest’ultimo in particolare per la sua attività antiglutammatergica, per il quale sono attualmente in corso trials clinici controllati.
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Tra i trattamenti non farmacologici, l’unico degno di nota a tale proposito è il biofeedback, che sembrerebbe addirittura avere una maggiore efficacia rispetto all’EsA. La terapia dell’attacco di EcA rimane molto lacunosa. I farmaci promettenti sono la furosemide e l’acetazolamide che sembrano efficaci nel trattamento dello stato di male con aura ed EcA prolungata. Tale utilità deve essere confermata con casistiche più adeguate e possibilmente con studi controllati (difficili da realizzarsi per la rarità di queste forme di EcA). La ketamina spray nasale ha bloccato le crisi in qualche paziente, di 11 casi testati, affetti da FHM. La parziale efficacia e gli effetti collaterali di questo farmaco poco maneggevole non ne incoraggiano l’ulteriore utilizzo. La flunarizina I.V. è utile solo sulla fase dolorosa, inoltre non è disponibile in Italia in questa formulazione. La nimodipina e la nifedipina sono del tutto inutili nella terapia dell’emicrania (qualche speranza nata da un lavoro aneddotico non è stata confermata dai lavori controllati). Il sumatriptan non è efficace sull’aura, mentre se somministrato durante la fase algica dell’attacco, mantiene la sua efficacia sul dolore. Interessante notare che questo 5-HT1 agonista, se somministrato durante l’aura, non solo non l’attenua ma risulta inefficace anche sulla fase dolorosa dell’attacco. È facile ipotizzare che l’efficacia del sumatriptan è legata all’azione in un preciso momento della catena degli eventi fisiopatologici della crisi di EcA. Il metoprololo, il propanololo e la flunarizina, farmaci utilizzati in profilassi, si sono dimostrati parzialmente utili. Essi riducono la frequenza delle crisi, ma non sembrano prevenire le aure delle crisi residue. La lamotrigina è molto promettente. Negli studi finora condotti, l’efficacia nel prevenire l’aura è evidente e le crisi residue si presentano in genere solo con la fase dolorosa. L’aura, quando è presente, è significativamente più breve. Tale efficacia deve essere confermata con studi controllati. L’acetazolamide potrebbe costituire una valida alternativa.
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Capitolo 5
Emicrania: la donna G.B. Allais, C. Benedetto
Introduzione In età adulta, per ogni uomo che soffre di emicrania si contano almeno tre donne, rapporto che corrisponde a una prevalenza del 18% nelle femmine contro il 6% nei maschi. Questo squilibrio tra i sessi non è tuttavia presente fin dall’infanzia, ma origina dalla pubertà: oltre il 10% delle emicranie inizia proprio in coincidenza con le prime mestruazioni. Da allora in avanti, la vita delle donne affette da emicrania subisce in maniera cospicua l’influsso di tutta una serie di modificazioni ormonali che accompagnano le fasi salienti della loro vita riproduttiva [1]: ciclo mestruale, gravidanza, puerperio, assunzione di contraccettivi orali, climaterio, menopausa, assunzione di terapia sostitutiva ormonale. Qui di seguito cercheremo di tratteggiare i complessi rapporti fra la patologia emicranica e le fasi del ciclo riproduttivo, analizzandole, se pur brevemente, una ad una.
Emicrania e ciclo mestruale La maggioranza delle donne affette da emicrania riferisce di soffrire di attacchi in qualche modo correlati al ciclo mestruale, che si presentano in particolare immediatamente prima, durante e/o subito dopo i giorni del flusso mestruale. Per meglio definire questo intervallo temporale troppo generico, si è recentemente introdotto il concetto di una finestra perimestruale (perimenstrual window) in cui devono cadere gli attacchi per essere realmente definiti “mestruali”; questo intervallo è rappresentato dai 5 giorni compresi fra –2 e +3 rispetto all’inizio del flusso mestruale [2]. Nonostante la sintomatologia emicranica sia profondamente legata alle fluttuazioni ormonali del ciclo riproduttivo femminile, nella classificazione delle cefalee operata dalla International Headache Society (IHS) nel 1988 [3] l’emicrania mestruale non aveva ricevuto un codice specifico e veniva solo brevemente segnalata nel contesto del commento relativo all’emicrania senz’aura (codice 1.1) con queste parole: “L’emicrania senz’aura può presentarsi quasi esclusivamente in un particolare periodo del ciclo mestruale: la cosiddetta emicrania mestruale. Non esistono criteri diagnostici universalmente accettati per questa forma clinica. Un criterio che appare ragionevole è che almeno il 90% degli attacchi si presenti in un periodo di tempo compreso fra 1-2 giorni prima dell’inizio e l’ultimo giorno delle mestruazioni, ma un’ulteriore indagine epidemiologica appare necessaria”. La recente seconda versione (ICHD-II) della classificazione IHS delle cefalee [4] ha posto rimedio al precedente mal definito inquadramento nosografico, riconoscendo, se pur solo per il momento nell’Appendice, due entità cliniche distinte nell’ambito di quella che viene genericamente detta emicrania mestruale:
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G.B. Allais et al.
– l’emicrania mestruale pura (Pure Menstrual Migraine, PMM, codice A1.1.1), caratterizzata da attacchi emicranici che si presentano sempre e solo nella finestra perimestruale, in almeno 2 cicli mestruali su 3; – l’emicrania correlata alle mestruazioni (Menstrually Related Migraine, MRM, codice A1.1.2), in cui gli attacchi si presentano sempre con la cadenza catameniale ma anche in altri momenti, per effetto di diversi fattori trigger o anche in apparenza senza alcun evento scatenante. Oltre a queste due forme, ne esiste in realtà una terza che può clinicamente coincidere con esse, ma che ha un fattore scatenante preciso e, proprio per questo, viene descritta nell’ambito delle cefalee secondarie nel capitoletto dedicato alla cefalea da sospensione di estrogeni (codice 8.4.3): è l’emicrania mestruale da contraccettivi orali (Oral Contraceptives Menstrual Migraine, OCMM) un’entità ancora mal definita dal punto di vista epidemiologico, ma probabilmente piuttosto frequente nelle utilizzatrici della pillola, caratterizzata da attacchi che si manifestano esclusivamente nella settimana di sospensione degli estroprogestinici. Gli attacchi compaiono entro 5 giorni dall’ultimo utilizzo di estrogeni, dopo che questi siano stati assunti per un periodo di almeno tre settimane. Genericamente, una percentuale molto variabile di donne emicraniche (ma in media sempre più del 50%) lamenta attacchi correlati alle mestruazioni, mentre solo il 7-10% presenta una PMM. Gli attacchi mestruali, qualunque sia il criterio utilizzato per definirli, si presentano sotto forma di emicrania senz’aura (l’aura è reperibile solo in casi veramente eccezionali); in genere ad ogni ciclo si associa un unico attacco, molto severo, di lunga durata (anche superiore alle canoniche 72 ore che costituiscono il limite temporale superiore di un attacco emicranico secondo i criteri IHS), accompagnato da imponenti fenomeni vegetativi, particolarmente refrattario al trattamento farmacologico e con un’alta probabilità di recidivare. In un recente studio [5] condotto in cinque Centri Cefalee italiani su donne sofferenti di MRM, infatti, le crisi mestruali si sono rivelate, rispetto a quelle che capitavano in altri momenti del ciclo mestruale, più severe e di maggior durata (in media 34 contro 16 ore). L’emicrania mestruale esordisce più facilmente al menarca; la remissione o un sostanziale miglioramento durante la gravidanza occorrono molto più frequentemente nelle emicranie catameniali rispetto alle altre, ma spesso l’emicrania mestruale tende a ripresentarsi dopo la gravidanza con caratteristiche di maggiore gravità. Una discreta percentuale di emicranie mestruali può anche esordire dopo la gravidanza.
Terapia dell’emicrania mestruale Per quanto riguarda l’approccio terapeutico all’emicrania mestruale, bisogna innanzitutto differenziare fra i tre quadri clinici della PMM, MRM ed OCMM, già descritti precedentemente. Tutti e tre i quadri si giovano ovviamente in primis della corretta prescrizione di un sintomatico per affrontare l’attacco emicranico [2, 6]. Nel trattamento sintomatico dell’emicrania mestruale vengono impiegate le stesse classi di farmaci utilizzate nell’emicrania tout-court, e dunque triptani, derivati ergotaminici, antinfiammatori non steroidei (FANS), vari analgesici in formulazioni di combinazione. La preferenza iniziale deve sempre essere accordata ai triptani, per la nota capacità di controllare sia i sintomi dolorosi che quelli di accompagnamento, e anche perché ormai per quasi tutti i prodotti di questa classe esistono studi specifici che dimostrano un’efficacia notevole nella gestione dell’attacco di emicrania mestruale, mentre i dati scientifici relativi a tutti gli altri prodotti sopra citati, nonostante il loro ampio uso clinico, sono scarsissimi.
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Come è noto, una profilassi antiemicranica viene di regola suggerita nel caso in cui un paziente lamenti più di due crisi/mese. In base a questo criterio, la terapia della MRM può richiedere quasi sempre l’impiego degli stessi farmaci utilizzati nel trattamento profilattico dell’emicrania, ovvero l’assunzione giornaliera di un farmaco (calcio-antagonisti, β-bloccanti, antiepilettici, serotoninergici, ecc.) per un periodo prolungato. Alcuni Autori suggeriscono di intensificare la terapia nei giorni perimestruali in questo caso specifico. L’approccio terapeutico alla PMM (o anche alla MRM con bassa frequenza di crisi extramestruali) include fondamentalmente due diverse strategie: la profilassi ciclica a breve temine o mini-profilassi e la terapia ormonale. Queste devono essere pensate quando la paziente lamenti attacchi emicranici di intensità severa, di lunga durata e con grave disabilità, non trattabili appieno con le varie classi di sintomatici, sia per inefficacia sia per effetti collaterali. Soprattutto nel caso in cui il ciclo mestruale sia regolare, e quindi sia prevedibile il giorno d’insorgenza dell’attacco, è possibile instaurare una mini-profilassi nel periodo perimestruale, coprendo tutta la perimenstrual window, somministrando farmaci per un tempo variabile dai 6 ai 14 giorni a seconda del prodotto utilizzato e della precisione con cui si può prevedere su base anamnestica il giorno esatto di inizio della crisi dolorosa [2]. I farmaci più utilizzati a questo scopo sono i FANS, ed in particolare il naprossene sodico [7], che si è dimostrato estremamente valido; se un primo antinfiammatorio non è efficace, è comunque opportuno provarne uno di classe diversa prima di desistere. In ogni caso, prima di decidere che una mini-profilassi è inefficace, questa deve essere testata per almeno tre cicli mestruali consecutivi [8]. Se comunque i FANS sono inefficaci o non utilizzabili, si può suggerire il trattamento con diidroergotamina a lento rilascio. Molto recente è l’introduzione, con ottimi risultati, di alcuni triptani nella profilassi perimestruale: il sumatriptan a dosi frazionate [9], il naratriptan [10] e il frovatriptan [11]. Da segnalare anche la possibilità di utilizzare in profilassi perimestruale i coxibici: i risultati preliminari di studi in aperto sono apparentemente molto promettenti [12]. È comunque opportuno ricordare che alcune di queste molecole (rofecoxib, valdecoxib) sono state ritirate dal commercio e per altre sono state imposte serie limitazioni all’uso per la presenza di dubbi sul profilo di sicurezza cardiovascolare. La mini-profilassi, sicuramente vantaggiosa rispetto alle normali profilassi in quanto limita l’assunzione farmacologica ad un periodo ridotto di giorni, presenta però anche alcuni svantaggi: coprendo solo il periodo perimestruale, non è in grado di prevenire eventuali attacchi ovulatori, che con una certa frequenza si associano all’emicrania mestruale; se la paziente entra in gravidanza, si può inoltre incorrere nel rischio che assuma farmaci dannosi per il feto proprio nei primi giorni di sviluppo dell’embrione. Tenendo conto che la discesa fisiologica dei tassi estrogenici nel perimestruo costituisce il principale trigger dell’emicrania mestruale, si può optare anche per una strategia che eviti la caduta degli estrogeni. La supplementazione estrogenica prima della mestruazione è stata tentata tramite compresse, impianti sottocutanei, gel percutaneo o cerotti transdermici. Al momento attuale, l’applicazione del gel percutaneo all’estradiolo sembra quella in grado di fornire i migliori risultati, perché mantiene i livelli ormonali più stabili, senza provocare né un iniziale incremento sovrafisiologico, come fanno le formulazioni iniettabili, né brevi oscillazioni giornaliere, come avviene con la somministrazione orale. Una via molto pratica di somministrazione è quella offerta dai cerotti transdermici: i risultati sulla loro efficacia non sono però univoci. Dai vari studi presenti in letteratura, emergerebbe che solo la formulazione da 100 µg (quella a più alto dosaggio attualmente presente in commercio) garantisce buoni risultati; sono però probabili maggiori percentuali di effetti collaterali [6]. Nel caso della OCMM valgono le stesse strategie della PMM, anche se può essere considerata di prima scelta indubbiamente la strategia dell’uso prolungato dei contraccettivi, cioè l’assunzione di una pillola continuativamente per 63 o 84 giorni prima di effettuare la normale sospen-
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sione di 7 giorni [13]. Va però ricordato che tutte le strategie che implicano la somministrazione prolungata di estrogeni nella donna emicranica possono essere messe in atto a patto che si effettui prima un’accurata valutazione della funzionalità piastrinica e della genetica dei fattori protrombotici e si avviino alla terapia solo pazienti non fumatrici. Nei casi resistenti di emicrania mestruale si possono anche utilizzare terapie differenti dalla supplementazione estrogenica, generalmente con uno scopo opposto: quello di ridurre, piuttosto che aumentare, i livelli estrogenici plasmatici a un tasso basso e stabile. Queste terapie, che generalmente causano effetti collaterali piuttosto seri e che sconvolgono la fisiologia del ciclo mestruale, devono veramente essere riservate solo a casi in cui non sia possibile trovare altre soluzioni. Il danazolo, derivato androgenico con proprietà anti-estrogeniche, che inibisce la steroidogenesi ovarica sopprimendo l’asse ipofiso-ovarico oppure il tamoxifene, un antiestrogeno, si sono rivelati piuttosto validi nella prevenzione degli attacchi di emicrania mestruale. Le evidenze provengono però da studi con numerosità estremamente ridotte. Né l’isterectomia né tantomeno l’ovariectomia si sono dimostrate efficaci in alcuni casi sporadici segnalati in letteratura. Ciò nonostante, una soppressione totale dell’attività ovarica tramite analoghi del GnRH può essere, secondo alcune segnalazioni preliminari, efficace; viene però provocata una vera e propria menopausa, con tutti gli effetti collaterali collegati all’ipoestrogenismo, quali le vampate di calore, la secchezza vaginale, la dispareunia e l’insonnia. A tale proposito, la migliore condizione si ottiene associando alla terapia con analoghi del GnRH una supplementazione estrogenica continua [14]. Infine in alcuni casi anche la bromocriptina, un agonista dei recettori D2 dopaminergici che inibisce il release di PRL, va annoverata fra le possibili scelte farmacologiche, in quanto esistono studi che ne dimostrano una buona efficacia nel prevenire gli attacchi di emicrania mestruale [2].
Emicrania e gravidanza La clinica, l’andamento e la terapia delle cefalee in gravidanza rappresenta un capitolo di difficile gestione anche per il cefalalgologo più esperto, sia perché i dati della letteratura sono decisamente carenti su qualsiasi aspetto delle cefalee nel corso della gestazione sia perché la condizione di massima vulnerabilità in cui vengono a trovarsi la donna e il suo prodotto di concepimento in questo periodo della vita impone una estrema attenzione nel maneggiare qualsiasi sostanza farmacologicamente attiva. In gravidanza, l’emicrania presenta nel 60-70% dei casi una tendenza al miglioramento o addirittura alla remissione; dunque le pazienti emicraniche vanno rassicurate per quanto riguarda il loro timore di patire costantemente attacchi in corso di gravidanza [15]. Esistono dei fattori prognostici positivi ormai accertati per prevedere un miglioramento in gravidanza: esso risulterà più probabile nell’emicrania senz’aura, rispetto a quella con aura, e potrà diventare più consistente con il progredire dell’età gestazionale. La maggior parte degli Autori segnala pure che se la sintomatologia è insorta al menarca, o se la cadenza degli attacchi è tipicamente catameniale, la percentuale di miglioramento sarà decisamente elevata; il dato però non è univoco. L’allattamento al seno rappresenta inoltre un ulteriore fattore favorevole per il controllo dell’emicrania, prolungando il benefico effetto degli ultimi due trimestri di gravidanza anche al puerperio. È stato dimostrato che entro il primo mese dopo il parto l’emicrania ricorre nel 43% delle donne che allattano al seno e nel 100% di quelle che non allattano [16]. Nonostante una tendenza generale al miglioramento, purtroppo una discreta percentuale di donne emicraniche non trova giovamento particolare nel corso di una gravidanza e a volte peggiora;
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addirittura vi è un esiguo gruppo di pazienti nel quale gli attacchi emicranici esordiscono con la gravidanza (quasi costantemente si tratta di attacchi di emicrania con aura). Di conseguenza, esiste un gruppo di donne affette da emicrania la cui sintomatologia richiede comunque un trattamento in un periodo estremamente a rischio per l’assunzione di farmaci, quale è la gravidanza. L’utilizzo di qualsiasi farmaco dovrebbe infatti essere strettamente limitato in gravidanza per l’eventuale rischio di danni fetali; l’assoluta sicurezza sull’uso di farmaci è di difficile accertamento, a causa delle ovvie limitazioni etiche connesse all’esecuzione di trials clinici in corso di gestazione [15]. La maggior parte dei farmaci attraversano la barriera emato-placentare e presentano, pertanto, un potenziale rischio di causare effetti avversi sul feto. Inoltre, sebbene i farmaci vengano sperimentati di routine sugli animali, onde evidenziarne eventuali effetti teratogeni, non sempre i risultati di queste indagini possono essere trasferite all’uomo. Un esempio drammaticamente reale è stato quello della talidomide che ha dimostrato gravi effetti teratogeni nell’uomo, ma non nei topi e nei ratti. Il tipo e la dose di farmaco, il momento e la durata dell’esposizione possono inoltre determinare effetti molto diversi sul prodotto del concepimento. Prima dell’inizio dell’organogenesi, ovvero prima del 31° giorno circa dall’inizio dell’ultima mestruazione, l’esposizione ad un farmaco potenzialmente dannoso ha un effetto “tutto o nulla”: se determina embriotossicità, provoca la morte dell’embrione in via di sviluppo e l’aborto, ma se la gravidanza continua non aumenta il rischio di anomalie congenite. Un’esposizione successiva può invece determinare teratogenicità, ovvero produrre malformazioni fetali; la definizione include non solo quelle obiettivabili alla nascita, ma anche anormalità strutturali minori e latenti. Il classico periodo teratogenico, nell’uomo, ha una durata di 6 settimane, approssimativamente dal 31° giorno fino alla 10a settimana dall’inizio dell’ultima mestruazione. L’effetto teratogeno dipende dal momento di esposizione, nonché dalla natura del teratogeno. Una volta trascorso il periodo dell’organogenesi, svanisce il maggior rischio di anomalie congenite, tuttavia altre anormalità possono verificarsi. È il caso del ritardo di crescita intrauterino (definito IUGR con termine di derivazione anglosassone) che rappresenta il principale esito sul feto di tossicità da farmaci utilizzati durante il secondo e terzo trimestre di gravidanza. I farmaci assunti in gravidanza possono, inoltre, avere effetti sul normale proseguimento della stessa, provocando contrazioni e sanguinamenti uterini, nonché effetti post-natali, come anomalie comportamentali e di funzione di alcuni organi del neonato [17].
I farmaci dell’attacco emicranico Per quanto concerne la gestione dell’attacco acuto, la donna dovrebbe affrontarlo in prima battuta con il riposo assoluto in ambiente buio e silenzioso e con applicazioni di impacchi freddi sulle zone dolorose. L’eventuale ricorso ad un ausilio di tipo farmacologico dovrebbe venire unicamente preso in considerazione nel caso in cui i vantaggi per la donna e per il feto ne sopravanzino i potenziali rischi e ad ogni modo utilizzando in prima battuta i prodotti per cui esista la minore evidenza di rischio. Il paracetamolo o acetaminofene è un analgesico che non fa propriamente parte dei FANS. Nonostante non ci siano studi ad alta numerosità mirati a valutarne la sicurezza in gravidanza e nonostante attraversi la barriera emato-placentare, da oltre 40 anni è il farmaco di elezione nel trattamento di prima linea del dolore in gravidanza e il suo uso estensivo a dosi terapeutiche non è mai stato correlato a particolari danni, tanto che ormai si può affermare che l’esposizione del feto nel primo trimestre di gestazione non aumenta il rischio di insorgenza di anomalie maggiori o mi-
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nori. Rappresenta, pertanto, almeno per gli attacchi di intensità lieve o media, l’analgesico di prima scelta, tanto nel primo, quanto nel secondo e terzo trimestre. Molto meno sicuro è l’uso dei FANS. Fra di essi è da preferire l’ibuprofene, a dosi non superiori a 600 mg/die, perché è l’unico sul quale vi sono studi che ne dimostrano l’innocuità prima della trentesima settimana di gravidanza. Dopo questa data anche il suo uso è controindicato, perché come tutti i FANS può provocare la chiusura prematura del dotto arterioso di Botallo, con possibile ipertensione polmonare conseguente, causare una enterocolite necrotizzante ed emorragie intracraniche, nonché prolungare la gravidanza ed inibire il travaglio di parto, mediante l’inibizione della sintesi di prostaglandine. La codeina, farmaco agonista degli oppioidi, dovrebbe essere evitata in gravidanza. Infatti, nonostante sia improbabile che l’uso occasionale alle dosi presenti nelle comuni preparazioni analgesiche combinate possa determinare effetti dannosi sul feto, l’esposizione alla codeina durante il primo trimestre di gravidanza può associarsi a malformazioni respiratorie e cardiache neonatali, a labiopalatoschisi, ad ernia inguinale ed a lussazione dell’anca. Assunta nel terzo trimestre, può dar luogo ad una sindrome simil-astinenziale neonatale. Per quanto concerne la caffeina, in gravidanza si raccomanda una riduzione dell’assunzione. Se assunta in dosi moderate (<300 mg al giorno), non sembrano esserci, se non minimi, rischi teratogeni. Con dosi maggiori è possibile un aumento del rischio di ritardo nel concepimento, aborto spontaneo, basso peso alla nascita, parto pretermine e sintomi neonatali come irritabilità ed insonnia. Fra gli antiemetici la metoclopramide non produce effetti teratogeni degni di nota e può essere normalmente utilizzata. Una cautela maggiore va tenuta con clorpromazina, proclorperazina e domperidone, che comunque non sono controindicati in maniera assoluta. L’uso di ergotamina e dei suoi derivati in gravidanza è assolutamente controindicato. Durante il primo trimestre il farmaco è stato associato a rischio di aborto e di malformazioni di vario tipo: difetti del tubo neurale, atrofia del digiuno, artrogriposi multiple, atrofia cerebrale da ipovascolarizzazione. Tali effetti si sviluppano verosimilmente in relazione alla potente azione vasocostrittrice del farmaco, che danneggia il flusso ematico utero-placentare. L’ergotamina stimola, inoltre, la contrattilità uterina. Della classe dei triptani, che ormai conta sette molecole, il capostipite sumatriptan è l’unico su cui si sia raccolta una mole di dati sufficiente per discuterne l’uso in gravidanza. Un recente resoconto degli esiti fetali e neonatali in caso di esposizione al farmaco in corso di gravidanza ha concluso che non esiste alcuna evidenza di effetti specifici del sumatriptan sull’esito della gravidanza stessa [18]. Tra gli studi precedenti, tre studi prospettici non hanno dimostrato alcun evento avverso associato al suo utilizzo. Solo uno studio retrospettivo [19] ha evidenziato che l’esposizione al sumatriptan durante la gravidanza è associata ad un aumento del rischio di parto pretermine, ma lo studio in questione presentava diversi limiti: il fatto di essere retrospettivo, il numero limitato di pazienti (n = 34) e, soprattutto, la mancanza di correlazione fra supposti parti pretermine e basso peso alla nascita solleva dubbi sulla corretta valutazione delle età gestazionali, non essendo stata registrata la data dell’ultima mestruazione. Altri studi retrospettivi non hanno dimostrato alcuna differenza statisticamente significativa, riguardo agli esiti di gravidanza, tra neonati esposti e non esposti a sumatriptan durante la gravidanza [20]. Anche alcuni dati relativi all’utilizzo del rizatriptan in gravidanza sono stati pubblicati; emerge una sostanziale sicurezza di questo triptano, ma il numero di pazienti esposte e seguite prospetticamente per l’intera gravidanza e puerperio risulta troppo esiguo per poter trarre conclusioni certe [21]. Per fornire una linea di condotta pratica, il primo farmaco da utilizzare sarà il paracetamolo alla dose di 500-1000 mg, con eventuale ripetizione della dose di 500 mg in caso di ripresa del-
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l’attacco. Ad esso si potranno eventualmente associare caffeina, per potenziarne l’effetto, oppure metoclopramide, alla dose di 10-20 mg, in caso di nausea intensa. Anche l’uso dell’associazione paracetamolo+codeina è possibile, a patto però che vi si ricorra molto raramente. Un cortisonico a basso passaggio transplacentare allo scopo di stroncare un attacco particolarmente resistente è pure ammissibile. Solo nel caso in cui i provvedimenti e le terapie suddette non dovessero essere efficaci, si potrà procedere alla somministrazione di FANS o di sumatriptan, seppur con le necessarie cautele [17]. Per la gestione di attacchi particolarmente violenti va infine tenuta in considerazione la possibilità di utilizzare alcuni cortisonici e il solfato di magnesio per via endovenosa, prodotti regolarmente utilizzati nel management di alcune patologie ostetriche [15].
Strategie di profilassi antiemicranica La profilassi degli attacchi deve comprendere sicuramente misure igieniche e comportamentali che siano in grado di garantire il maggior benessere possibile e fra queste si segnalano una corretta alimentazione, una moderata attività fisica, il rispetto dei ritmi sonno-veglia, l’evitare situazioni di stress psico-fisico. Un criterio fondamentale per il terapeuta è che la percentuale spontanea di miglioramento dell’emicrania passando dal primo al secondo trimestre di gravidanza è generalmente superiore a quella del risultato ottenibile con l’uso delle principali classi di farmaci antiemicranici: è dunque saggio non introdurre mai un farmaco di profilassi nel primo trimestre di gravidanza. Ciò, fra l’altro, permette anche di evitare i maggiori rischi teratogenetici. In caso la paziente necessiti nel secondo o terzo trimestre di gravidanza di iniziare una profilassi, il farmaco di scelta può essere considerato il propranololo, pur ricordando la possibile manifestazione di una IUGR e l’interazione con il metabolismo tiroideo, che va frequentemente testato. In ogni caso, se si usa un betabloccante in profilassi nel terzo trimestre, il trattamento va sospeso 48-72 ore prima del parto, in modo da evitare la bradicardia fetale e la riduzione di attività contrattile dell’utero. Il neonato esposto in utero alla terapia con propranololo va inoltre monitorizzato per possibile ipoglicemia. Un’alternativa sufficientemente accettabile può essere il pizotifene. L’uso degli antiepilettici (anche se alcuni dati preliminari sembrerebbero segnalare un grado di sicurezza accettabile per il topiramato) appare giustificato solo in caso di concomitante epilessia, mentre il rapporto rischio/beneficio è troppo alto in caso dell’unica applicazione a scopo profilattico antiemicranico. I calcio-antagonisti vanno preferibilmente evitati, come pure l’amitriptilina, anche se un uso a bassissimo dosaggio non è totalmente controindicato. È invece vietato l’utilizzo di metisergide. Va infine tenuta in opportuna considerazione, soprattutto per donne sofferenti di emicrania con aura, una profilassi con basse dosi di acido acetilsalicilico (75 mg al dì), che ha anche il pregio di non avere alcuna controindicazione ostetrica. Ma la paziente emicranica gravida è soprattutto la candidata ideale per trattamenti non farmacologici di profilassi. Di questi solo due hanno sinora raccolto una sufficiente mole di evidenze scientifiche a garanzia dell’efficacia: il biofeedback [22] e l’agopuntura [23], che dovrebbero auspicabilmente divenire di prima scelta nella gestione terapeutica di queste pazienti. Infatti, avviare la paziente emicranica gravida ad una terapia di profilassi di natura non farmacologia appare in assoluto la scelta migliore che lo specialista possa fare. Di fronte ad una domanda potenzialmente elevatissima da parte di un’utenza informata sta purtroppo la sconcertante realtà del difficile reperimento dell’offerta, almeno in strutture pubbliche, di tali terapie.
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L’emicrania come fattore di rischio in gravidanza Benché tutti coloro che si occupano di cefalee siano abituati a rassicurare le pazienti emicraniche gravide dicendo loro che la cefalea non ha alcun effetto sull’andamento della gravidanza e non condiziona la presenza di maggiori rischi né per il feto né per la madre stessa, una crescente mole di dati sembra invece contraddire almeno parzialmente questa affermazione [24]. Una valutazione retrospettiva statunitense [25] delle condizioni patologiche associate a qualsiasi tipo di stroke occorso in gravidanza o in puerperio ha evidenziato come la patologia più fortemente associata allo stroke fosse l’emicrania (OR 16,9; IC 95% 9,7-29,5). A questo dato sconcertante va aggiunto il fatto che di per sé la donna gravida ha 4 volte il rischio di eventi tromboembolici venosi rispetto a quando non è gravida e che la donna emicranica mostra sotto vari aspetti una tendenza ancora maggiore a questo rischio: presenta infatti rispetto alla popolazione sana una maggior frequenza di deficit geneticamente determinati dell’antitrombina e della proteina S; mutazioni dei fattori V e II della coagulazione; mutazioni della metilentetraidrofolato reduttasi e iperomocisteinemia, oltre ad una tendenza generale alla ipercoagulabilità piastrinica. Altro versante sul quale sembrano concentrarsi sempre più le attenzioni dei ricercatori è quello della strettissima associazione fra emicrania e disordini ipertensivi della gravidanza, in particolare la preeclampsia (PE). Di 11 lavori attualmente presenti in letteratura ben 9 documentano una stretta correlazione fra emicrania e PE [26]. Le pazienti emicraniche più a rischio di sviluppare PE risultano essere quelle che non migliorano in gravidanza [27], soprattutto se di età avanzata e se in sovrappeso. Appare evidente che nel prossimo futuro sia neurologi che ostetrici dovranno porre attenzione al fatto che l’emicrania rappresenta di per sé un fattore di rischio indipendente in gravidanza [24].
Emicrania e contraccettivi Il capitolo relativo all’uso di formulazioni contraccettive nella donna emicranica è estremamente ampio e meriterebbe una trattazione a se stante. Ci limiteremo qui dunque a tratteggiare solo alcuni concetti base. La donna emicranica che intende intraprendere l’assunzione di contraccettivi orali (CO) va incontro a due problematiche differenti. Da un lato vi possono essere dei rischi per la salute generale della paziente, in primis quello tromboembolico, cioè si possono presentare dei problemi di safety; dall’altro può manifestarsi un peggioramento della sintomatologia emicranica, cioè un problema di tolerability [28]. Non sempre esiste un parallelismo fra questi due ordini di problemi.
Sicurezza dell’assunzione dei contraccettivi nella donna emicranica Alcune attenzioni vanno obbligatoriamente indirizzate a tutte le donne che desiderino assumere CO. Bisogna considerare il rischio correlato all’età anagrafica, al peso corporeo, alla presenza o meno di turbe metaboliche (iperlipidemia, diabete, ecc), all’abitudine al fumo. A queste categorie generali di rischio va sicuramente aggiunta la tipologia dell’emicrania, perché se la presenza di emicrania rappresenta un fattore di rischio da considerare, la presenza di aura
Emicrania: la donna Tabella 5.1
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Rischio di stroke ischemico in funzione dei fattori: emicrania, utilizzo di CO, fumo
Fattore di rischio Emicrania Emicrania + CO
Odds ratio (IC 95%)
Studio
3,7 (1,5–9,1)
Tzourio et al, 1995
3,54 (1,3–9,6)
Chang et al, 1999
13,9 (5,5–35,1)
Tzourio et al, 1995
16,9 (2,72–106) qualsiasi formulazione
Chang et al, 1999
6,6 (0,79–54,8) a basso dosaggio (< 50 mcg) Emicrania + fumo Emicrania + CO + fumo
10,2 (3,5–29,9)
Tzourio et al, 1995
7,4 (2,14–25,5)
Chang et al, 1999
34,4 (3,27–361)
Chang et al, 1999
deve mettere in allarme molto di più. Infatti benché il rischio di sviluppare uno stroke ischemico resti relativamente basso nella popolazione emicranica (19 su 100.000 donne/anno), esso è comunque, rispetto alle donne sane, 3 volte maggiore per l’emicrania senz’aura e 6-8 volte maggiore per l’emicrania con aura [29, 30]. Come si può vedere dalla Tabella 5.1, anche solo parlando genericamente di emicrania, dai vari studi presenti in letteratura si desume come l’associazione dell’emicrania con i CO, quella col fumo, e ancor più quella con fumo e CO contemporaneamente aumenti in maniera considerevole il rischio di sviluppare uno stroke in questa popolazione [31]. Se a queste considerazioni si aggiunge la già citata maggiore presenza nella popolazione emicranica (soprattutto con aura) di disturbi della funzione piastrinica e di disordini genetici della coagulazione, nonché la nozione che alcune patologie cardiache (ad esempio forame ovale pervio, aneurisma del setto interatriale, prolasso della valvola mitrale) sono significamene più presenti in queste donne, va da sé che un’estrema attenzione deve essere posta nel prescrivere CO a donne emicraniche in genere, valutando prima i possibili fattori di rischio con opportune analisi [32]. Indipendentemente dai suddetti fattori, dove si identifichi un’emicrania con aura, la contraccezione a base di estroprogestinici va sempre sconsigliata, potendosi al limite considerare una contraccezione con formulazioni solo progestiniche.
Tollerabilità dell’assunzione dei contraccettivi nella donna emicranica Molte donne emicraniche, ma anche molti medici, credono che l’assunzione dei contraccettivi implichi necessariamente un peggioramento della sintomatologia emicranica. Questo in realtà è un grossolano errore di valutazione, almeno per quanto riguarda l’emicrania senz’aura. Circa il 67% delle donne affette da emicrania senz’aura non nota infatti peggioramenti della sintomatologia assumendo CO; un peggioramento viene rilevato comunque nel 25% dei casi, mentre un miglioramento solo nel 7% dei soggetti [33]. Diversa è la situazione dell’emicrania con aura (nella quale peraltro, come già ribadito, l’assunzione di CO è controindicata): infatti nel 56% delle pazienti tende a peggiorare e solo nel 38% resta invariata. Vi sono inoltre alcuni criteri clinici da conoscere relativamente all’andamento dell’emicrania sotto CO: 1) un certo incremento dell’emicrania può essere notato spesso nel primo trimestre di assunzione dei CO, ma molto spesso dopo un semestre non è più presente [28]; 2) spesso assu-
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mere i contraccettivi con la classica formulazione 21 giorni sì - 7 giorni no, porta ad una “mestrualizzazione” degli attacchi, cioè all’insorgenza di attacchi emicranici nel periodo della sospensione ciclica degli estrogeni [32]. Bisogna dunque avvisare la paziente che a fronte di un modico incremento iniziale della cefalea non deve scoraggiarsi e può proseguire l’assunzione; peraltro si deve anche essere molto fermi nel comunicarle che se invece compaiono fenomeni di aura o se gli attacchi diventano molto violenti o estremamente frequenti l’assunzione dei CO deve essere sospesa. Se il problema clinico che insorge è invece la presenza di forti attacchi di OCMM nella settimana di sospensione, si può ovviare ad essi con le mini-profilassi già precedentemente citate nel capitolo dedicato all’emicrania mestruale o, in maniera ancora più risolutiva, suggerendo l’assunzione dei CO con minori pause di sospensione (ad esempio, 63 giorni consecutivi seguiti da 7 giorni di sospensione): ciò riduce drasticamente il numero di mestrui/anno, diminuendo consensualmente anche il numero di attacchi di OCMM [13]. Da ultimo si ricorda che, come regola generale, quando una donna emicranica debba intraprendere l’assunzione di CO, è sensato suggerire l’uso di formulazioni a basso dosaggio e monofasiche, che presentano minore rischio di indurre attacchi emicranici rispetto alle formulazioni trifasiche.
Emicrania, menopausa e terapia sostitutiva ormonale In menopausa, similmente a quanto avviene in gravidanza, l’abolizione delle cicliche fluttuazioni ormonali è spesso associata ad un significativo miglioramento dell’emicrania. Circa due terzi delle donne emicraniche riferiscono infatti una riduzione della frequenza e dell’intensità degli attacchi [32-35]. Al contrario, negli anni immediatamente precedenti l’insorgenza della menopausa non è infrequente assistere ad un’esacerbazione dell’emicrania, probabilmente a causa di sporadiche ovulazioni che producono irregolari fluttuazioni ormonali [36]. Tra i fattori predittivi dell’andamento dell’emicrania in menopausa, una certa importanza sembra essere rivestita dalla presenza anamnestica di sindrome premestruale (PMS), che risulta positivamente correlata con l’emicrania stessa [37, 38]. In uno studio di Wang et al. [39] i soggetti che lamentavano PMS presentavano una prevalenza di emicrania, in particolare correlata alle mestruazioni, superiore (23%) rispetto a quelli senza PMS (11,3%). In questo ultimo gruppo di donne la prevalenza dell’emicrania restava tendenzialmente invariata anche in postmenopausa; al contrario nelle donne con PMS la prevalenza aumentava nella perimenopausa tardiva (31%) per poi però ridursi drasticamente in postmenopausa (7%). Un altro fattore che può influenzare l’andamento dell’emicrania è la menopausa chirurgica. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, le donne che hanno subito un’isterectomia, con o senza preservazione delle ovaie, presentano infatti un peggioramento del proprio mal di testa in circa due terzi dei casi [34]. A seconda degli studi la prevalenza dell’emicrania in donne isterectomizzate varia dal 15% [39] al 27% [40], in confronto a circa il 10% riscontrabile in donne con una menopausa spontanea. In particolare l’associazione di menopausa chirurgica e riscontro anamnestico di PMS sembra sortire l’effetto più imponente, con una prevalenza di emicrania che arriva a raggiungere il 44%. Un discorso a parte va fatto nel caso di un’emicrania che insorga o peggiori in seguito all’uso di una terapia sostitutiva ormonale (HRT). Nelle donne con emicrania ormono-sensibile, tale terapia può esporre ad un aumento del rischio di un peggioramento della cefalea che varia soprattutto in funzione del tipo di trattamento adottato. Esistono infatti numerose formulazioni, che si distinguono in funzione del tipo di estrogeni utilizzati (estrone, estradiolo, etinilestradiolo, estro-
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geni coniugati equini), della via di somministrazione orale o transdermica, e della modalità di somministrazione: combinata continua (assunzione quotidiana di estrogeno e progestinico senza interruzioni), sequenziale continua (assunzione di estrogeni per 28 giorni, con aggiunta di progestinico negli ultimi 7-14 giorni) o sequenziale ciclica (assunzione di estrogeni per 21 giorni, con aggiunta di progestinico dal dodicesimo al ventunesimo giorno). Un recente studio ha dimostrato che la prevalenza della cefalea, sia di tipo emicranico che di tipo non emicranico, è in generale aumentata nelle donne in postmenopausa che assumono o hanno assunto HRT, rispetto a chi non ne abbia mai fatto uso. Tuttavia sembrerebbe che il rischio di insorgenza di emicrania sia significativo solo per le formulazioni sistemiche, e non per quelle ad uso locale [41]. Il peggioramento della sintomatologia emicranica è risultato essere inoltre correlato alla presenza di sindrome premestruale [42], o di emicrania mestruale nel periodo premenopausale [36]. L’utilizzo della via orale, in confronto a quella transdermica, è associato ad un peggioramento della sintomatologia [43], con aumento significativo della frequenza degli attacchi e del numero di giorni con emicrania, nonché dell’uso di analgesici [44]. Questo probabilmente è dovuto al fatto che, mentre la via transdermica assicura un rilascio di estrogeni stabile e continuo, la via orale espone la paziente a quotidiane fluttuazioni delle concentrazioni ormonali plasmatiche che possono fungere da fattore scatenante gli attacchi. Parimenti, in merito alle modalità di somministrazione, quella associata ad una maggior tollerabilità sembra essere la combinata continua, in quanto non presenta le fluttuazioni ormonali caratteristiche invece della modalità sequenziale e ciclica [45]. Nelle donne che non possono o non vogliono sospendere l’HRT, l’approccio migliore consiste dunque nel manipolare tale regime terapeutico con lo scopo di minimizzare il più possibile le fluttuazioni ormonali in grado di fungere da fattore scatenante l’attacco emicranico. In questa ottica dunque sarà preferibile: – utilizzare una via di somministrazione transdermica, piuttosto che orale; – convertire una somministrazione ciclica o sequenziale, in una somministrazione combinata continua; – ridurre la dose di estrogeni o utilizzare estrone, estradiolo o etinilestradiolo piuttosto che gli estrogeni coniugati equini. Nelle donne non isterectomizzate è di fondamentale importanza inoltre associare alla terapia estrogenica una supplementazione progestinica, al fine di prevenire il rischio di cancro dell’endometrio. Nelle donne in climaterio, ma non ancora in menopausa conclamata, la gestione dell’emicrania può risultare più difficoltosa, in quanto la somministrazione esogena di estrogeni può associarsi ad una sporadica produzione endogena residua. In un tale clima di iperestrogenismo relativo si potrebbe avere un aumento del rischio di sviluppare aure emicraniche. Non è superfluo ricordare che, anche nel caso della HRT, la comparsa ex-novo di sintomi dell’aura impone l’immediata sospensione del trattamento.
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Capitolo 6
Cefalea a grappolo e TACs: la clinica M. Leone, A. Proietti Cecchini, E. Mea, G. Bussone
Introduzione Le forme di cefalea di lunga durata quali l’emicrania e la cefalea tensiva, costituiscono il gruppo di più frequente riscontro nella pratica clinica. Le cefalee di breve durata sono meno frequenti ma vanno ugualmente e correttamente riconosciute e diagnosticate poichè la corretta e tempestiva diagnosi ne consente il corretto trattamento con rapida risoluzione del fenomeno doloroso e restituzione di una adeguata qualità di vita al paziente. Le cefalee di breve durata possono essere classificate in due gruppi: quelle con interessamento del sistema vegetativo craniofacciale e le forme senza convolgimento autonomico [1]. Le prime sono costituite dalla cefalea a grappolo (CG), dall’hemicrania parossistica (PH) e dalla ShortLasting Unilateral Neuralgiform Headache Attacks with Conjunctival injection and Tearing (SUNCT). Queste vengono classificate tra le cosiddette trigeminal autonomic cephalgias [2]. Le forme di breve durata che non hanno coinvolgimento del sistema autonomico sono la nevralgia trigeminale, la cefalea idiopatica trafittiva (idiopatic stabbing headache), la cefalea da tosse, la cefalea da esercizio fisico, la cefalea da coito e la cefalea ipnica [1]. Un discorso a parte merita l’hemicrania continua (HC) che, pur non essendo una forma di breve durata, presenta degli attacchi sovrapposti a dolore di fondo ed importante coinvolgimento del sistema autonomico craniofacciale [1].
Cefalea a grappolo Clinica La cefalea a grappolo (CG) [3-6] è caratterizzata dall’estrema gravità del dolore. Questo è d’intensità devastante e, per tale motivo, la CG viene anche denominata “cefalea da suicidio”. Inoltre l’elevata frequenza degli attacchi nelle 24 ore compromette in maniera drammatica la qualità della vita del paziente. L’immagine ben nota del soggetto affetto che si contorce o che cammina al buio con le lacrime che abbondano da un occhio solo e il viso contratto da un’espressione di dolore è quella che caratterizza il quadro di presentazione della cefalea a grappolo.
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Prevalenza e storia naturale La CG colpisce circa lo 0,05-0,3% della popolazione generale [7]. Predomina nel sesso maschile che, nelle diverse casistiche, rappresenta dal 70 al 90% dei soggetti [8, 9]. Questa prevalenza appare ancora più evidente nel caso della CG cronica. Una peculiarità distintiva della CG è che i pazienti che ne sono affetti sono spesso portatori di tratti fisici particolari caratterizzati da colorito rubicondo, rughe profonde, pelle a buccia d’arancia, teleangectasie, rime palpebrali ristrette, cranio e mento ampi, e altezza maggiore rispetto alla popolazione generale di riferimento. L’età media d’insorgenza della CG è 25-30 anni ma varia a secondo delle casistiche. Nei pazienti con CG episodica vi è un picco d’insorgenza a 20 anni, mentre l’insorgenza della CG cronica riconosce un andamento bimodale con due picchi di incidenza: nelle fasce di età di 10-29 anni e di 50-59 anni. La storia naturale della cefalea a grappolo non è del tutto chiarita. La CG episodica è caratterizzata dalla presenza di periodi attivi con elevata frequenza di attacchi, separati da mesi o anni di remissione. La CG cronica è invece caratterizzata dalla presenza di attacchi senza remissioni ed è distinta in forme che derivano da una CG episodica e in forme che nascono ab initio come croniche. L’80% delle forme episodiche si mantiene tale; circa il 13% muta nella forma cronica e nei restanti 7% si osserva un andamento peculiare con le caratteristiche di forme combinate [10, 11]. Remissioni prolungate (di oltre 3 anni) senza l’ausilio di farmaci si possono osservare in una piccola percentuale di pazienti.
Caratteristiche del periodo attivo Nella maggior parte dei casi i periodi attivi detti “grappoli” ricorrono con una frequenza variabile tra 1 ogni 2 anni e 2 all’anno. In alcuni casi si osserva una periodicità che nel 70% dei casi fa coincidere l’esordio dei grappoli coi cambi di stagione, verosimilmente in rapporto alle fluttuazioni del numero di ore luce/buio nelle 24 ore [3-6]. La durata media del grappolo varia da 1 a 2 mesi. Secondo l’International Headache Society (IHS) la durata di un grappolo può variare da 7 a 365 giorni con un periodo libero da crisi di almeno 1 mese. Nella forma cronica invece, gli attacchi si presentano per oltre 1 anno con periodi di remissione che durano di meno di 30 giorni. L’esistenza di fattori in grado di scatenare un periodo attivo non è stata finora provata con certezza, anche se diverse osservazioni indicano una correlazione tra eventi di vita di particolare carico emotivo o periodi di particolare impegno lavorativo con l’inizio dei grappoli.
Caratteristiche dell’attacco La frequenza degli attacchi è, in oltre il 75% dei casi, di 1-2 al giorno durante il periodo attivo. Nel corso del grappolo segue il tipico andamento a “pendici di vulcano”: più bassa all’inizio ed al termine, più elevata nella parte centrale del grappolo. Nelle pazienti donne è più facile il riscontro di frequenze minori. I criteri diagnostici dell’IHS indicano una frequenza di attacchi compresa tra un minimo di 1 ogni 2 giorni ad un massimo di 8 attacchi al giorno [1].
Cefalea a grappolo e TACs: la clinica
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Orari d’insorgenza: molto spesso le crisi insorgono ad orari fissi. Gli orari a maggior rischio per l’insorgenza di un attacco sono tra l’una e le tre del pomeriggio, alle nove di sera e tra l’una e le due di notte. Alcuni Autori hanno messo in relazione queste fasce orarie con le abitudini di vita, quali gli orari di rilassamento o il periodo post-prandiale come anche in relazione al consumo di bevande alcoliche. Per quanto riguarda gli attacchi notturni, è stata riportata una correlazione con le fasi del sonno REM [3-6]. La durata dell’attacco è compresa tra 15 e 180 minuti, più frequentemente 30-120 minuti. I fattori scatenanti comprendono: assunzione di bevande alcoliche, agenti vasodilatanti quali la trinitrina, stress psicofisico, il rilassamento, esposizione all’istamina. Il dolore della cefalea a grappolo è sempre unilaterale. Il lato maggiormente interessato è curiosamente quello destro, seguito da quello sinistro: 49,1% vs 35,4% rispettivamente. Nel rimanente 15,5% dei casi il dolore alterna lato. La sede in cui più di frequente si localizza il dolore è la regione oculare. Molto spesso il dolore è riferito anche in regione temporale, frontale, facciale, mascellare superiore e più di rado inferiore. In circa il 20% dei pazienti il dolore è avvertito in sede posteriore-occipitale e talora anche al collo. L’intensità del dolore è elevatissima e per tale motivo la CG è anche conosciuta come “cefalea da suicidio”. Il dolore può essere più lieve all’inizio della crisi, ma diviene violentissimo nell’arco di pochi minuti e mantiene la sua intensità fino a pochi minuti prima della regressione dell’attacco stesso. Quando gli attacchi sono particolarmente gravi o frequenti può permanere, anche durante la fase intercritica, un senso di fastidio e di ipersensibilità nella zona interessata dal dolore. La qualità del dolore varia da paziente a paziente ma in oltre la metà dei casi il dolore viene definito trafittivo, lancinante, a pugnalata; in minor percentuale pulsante, martellante, penetrante e acuto. I sintomi associati al dolore riguardano soprattutto fenomeni vegetativi craniofacciali quali lacrimazione, occhio rosso, rinorrea, congestione nasale, ptosi, edema della palpebra, miosi, arrossamento e sudorazione facciale [12-15]. In rari casi viene riportata una fenomenologia con le caratteristiche dell’aura emicranica. Il comportamento del paziente durante l’attacco è caratterizzato da uno stato di agitazione e nervosismo. Queste osservazioni sono in linea circa l’effetto benefico che può avere l’attività fisica sul dolore della cefalea a grappolo. Il paziente appare inoltre agitato ed intrattabile e può dare adito a comportamenti violenti.
Diagnosi La CG presenta un profilo clinico tanto caratteristico e specifico da consentire, nella pressoché totalità dei casi, una diagnosi corretta basandosi su un’attenta anamnesi e sull’osservazione del quadro sintomatico. I criteri proposti dall’IHS per porre diagnosi di CG sono riassunti nella Tabella 6.1 [1].
66 Tabella 6.1
M. Leone et al. Criteri diagnostici della cefalea a grappolo proposti dall’ICHD-II, 2004
A. almeno 5 attacchi che soddisfino i criteri B-D B. dolore di intensità molto severa o severa, unilaterale, in sede orbitaria, sovraorbitaria e/o temporale, della durata da 15 a 180 minuti (senza trattamento) C. la cefalea è associata ad almeno uno dei seguenti segni 1. dal lato del dolore iniezione congiuntivale e/o lacrimazione 2. dal lato del dolore congestione nasale e/o rinorrea 3. dal lato del dolore sudorazione e arrossamento facciale 4. dal lato del dolore miosi e/o ptosi palpebrale 5. agitazione e irrequietezza D. la frequenza degli attacchi è compresa tra 1 attacco ogni 2 giorni e 8 attacchi al giorno E. non attribuibile ad altri disordini
Le altre Trigeminal Autonomic Cephalgias (TACs) Hemicrania parossistica In questa forma dolorosa gli attacchi sono più brevi ma più frequenti rispetto alla CG e migliorano drammaticamente e selettivamente con l’indometacina. Sono più colpite le donne con un rapporto di circa 3:1 [1, 6]. Il dolore è unilaterale, di intensità severa, in sede orbitaria, sovraorbitaria e/o temporale e secondo l’IHS, dura dai 2 ai 30 minuti (Tab. 6.2). La frequenza degli attacchi è superiore ai 5 al giorno per più della metà del periodo doloroso. Almeno uno dei seguenti sintomi omolaterali al dolore è presente: iniezione congiuntivale, lacrimazione, ostruzione nasale, rinorrea, ptosi palpebrale, edema palpebrale. Il paziente trae grande beneficio dall’indometacina (fino alla dose massima di 150 mg/die). La forma episodica è più rara di quella cronica: in questo caso gli attacchi sono sempre unilaterali, di breve durata e con accompagnamento vegetativo omolaterale e sono intervallati da fasi di remissione di settimane o mesi con un pattern temporale che ricorda quello della CG episodica [16].
SUNCT (Short-lasting unilateral neuralgiform headache attacks with cojunctival injection and tearing) La cefalea di breve durata con segni di accompagnamento vegetativi nel distretto oculofacciale scoperta più di recente è la SUNCT [1, 6, 17]. Questa è una forma rara che colpisce gli uomini con un rapporto maschi:femmine di 2 a 1. Secondo l’IHS, il dolore è parossistico e dura da 5 a 240 secondi mentre gli episodi dolorosi nelle 24 ore possono essere da 3 a 200 (Tab. 6.3). L’iniezione congiuntivale è il segno autonomico più importante e si associa a lacrimazione. Il dolore è sempre unilaterale anche se eccezionalmente può essere bilaterale; spesso riconosce come fattori scatenanti molti di quelli riportati nella nevralgia del trigemino.
Cefalea a grappolo e TACs: la clinica Tabella 6.2
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Criteri diagnostici per l’hemicrania parossistica
A. almeno 20 attacchi che soddisfino i criteri B-D B. dolore di intensità severa, unilaterale, in sede orbitaria, sovraorbitaria e/o temporale, della durata da 2 a 30 minuti (senza trattamento) C. la cefalea è associata ad almeno uno dei seguenti segni 1. dal lato del dolore iniezione congiuntivale e/o lacrimazione 2. dal lato del dolore congestione nasale e/o rinorrea 3. dal lato del dolore edema palpebrale 4. dal lato del dolore sudorazione e arrossamento facciale 5. dal lato del dolore miosi e/o ptosi palpebrale D. la frequenza degli attacchi è superiore ai 5 al giorno per oltre la metà del tempo anche se periodi con frequenza inferiore sono possibili E. la cefalea scompare dopo dosi terapeutiche di indometacina F. non attribuibile ad altri disordini
Tabella 6.3
Criteri diagnostici per la SUNCT
A. almeno 20 attacchi che soddisfino i criteri B-D B. attacchi di dolore pulsante o trafittivo in sede orbitaria, sovraorbitaria e/o temporale di durata compresa tra i 5 ed i 240 secondi C. la cefalea è associata ad iniezione congiuntivele e lacrimazione D. la frequenza degli attacchi è compresa tra 3 attacco e 200 al giorno E. non attribuibile ad altri disordini
Alcuni casi di SUNCT descritti in letteratura sono associati a lesioni strutturali cerebrali, quali malformazioni artero-venose dell’angolo ponto-cerebellare. È quindi importante, quando ci si trova ad esaminare un caso di SUNCT, escludere una causa organica con indagini di neuroimaging appropriate [18]. Dal punto di vista patogenetico sembra confermato il coinvolgimento del sistema trigeminale e della connessione, a livello del troncoencefalo, tra nucleo del trigemino e nuclei parasimpatici le cui vie efferenti decorrono poi nel nervo facciale. La contemporanea attivazione del nervo trigemino e facciale darebbero luogo a quello che viene indicato come riflesso trigemino-facciale [2, 14, 15]. Questo avrebbe un ruolo primario nella fisiopatologia non solo della SUNCT, ma anche delle altre TACs [2].
Hemicrania Continua L’Hemicrania Continua (HC) è caratterizzata da un dolore persistente, unilaterale, fluttuante ma di moderata intensità, con esacerbazioni di breve durata ma che possono persistere per più giorni, accompagnate da fenomeni vegetativi quali ptosi, iniezione congiuntivale, lacrimazione, congestione nasale [1, 6]. Gli aspetti autonomici sono usualmente meno marcati rispetto a quanto si verifica nella CG
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o nell’hemicrania parossistica. Il pattern temporale può variare: vi sono forme con lunghi periodi di remissione (circa il 15%), altre con trasformazione da una fase con remissioni ad una continua (32%) e altre ancora continue fin dall’inizio (53%). Tipica anche per questa forma è la risposta all’indometacina, anche se sono riportati sporadici casi non sensibili a tale farmaco. Molto remota parrebbe l’eventualità che l’HC rappresenti l’espressione di una condizione secondaria ad abuso di analgesici. Anche se l’attuale classificazione dell’IHS la colloca nel Capitolo 4 (Altre Cefalee Primarie) [1], Goadsby e Lipton ne avevano in passato proposto la classificazione fra le TACs, basandosi soprattutto sui caratteristici aspetti autonomici craniofacciali ed alla unilateralità del dolore che richiamano le TACs [2]. Come nelle altre forme di TACs, è verosimile che l’attivazione del riflesso trigemino-facciale sia alla base del dolore e dei fenomeni oculofacciali della HC. Studi di neuroimaging condotti negli ultimi anni suggeriscono che l’attivazione del riflesso troncoencefalico trigeminofacciale sia mediato da un’attivazione dell’ipotalamo. Difatti un’attivazione dell’ipotalamo si verifica durante crisi di CG [19-21], di hemicrania parossistica [22], di SUNCT [23] e di HC [24].
Cluster-tic Ancora tra queste forme dolorose unilaterali di breve durata con componente autonomica, va menzionata la sindrome cluster-tic. In questa forma le due entità, CG e nevralgia del trigemino, coesistono. Il dolore delle due forme di cefalea può essere presente in tempi diversi oppure, più di rado, contemporaneamente [3-6]. Anche qui l’origine della malattia potrebbe risiedere in una alterazione del circuito trigemino-vascolare, anche se bisogna ricordare che la cluster-tic non è un’entità unanimemente accettata, potendosi trattare di una associazione solo casuale. Nella classificazione dell’IHS non è compresa fra le TACs.
Le altre forme dolorose unilaterali di breve durata senza fenomeni vegetativi Nevralgia del trigemino (tic douloureux) È caratterizzata da brevi attacchi parossistici di dolore lancinanti, della durata di pochi secondi, da 1 secondo a 2 minuti [1], localizzati nel territorio di distribuzione del quinto nervo cranico, monolaterali. La seconda e terza branca del nervo trigemino sono colpite più frequentemente della prima (meno del 5%). Gli attacchi si verificano spontaneamente oppure sono scatenati da fattori quali lavarsi i denti, radersi, masticare, sbadigliare o deglutire, stimoli tattili non dolorosi come sfiorare alcune aree della faccia (trigger points). Nel 3-5% dei casi il dolore è bilaterale. Il dolore esordisce improvvisamente e può scomparire anche per periodi prolungati. L’incidenza è di circa 2-5 casi per 100.000. In oltre il 90% dei pazienti l’insorgenza si verifica dopo i 50 anni di età e le donne sono colpite più frequentemente degli uomini con un rapporto di quasi 2 a 1. Non vi è una familiarità. La diagnosi di nevralgia del trigemino può essere fatta in presenza di questi caratteri: dolore facciale o frontale della durata da 1 secondo a meno di due minuti; il dolore ha almeno 4 di queste caratteristiche: 1) distribuzione lungo una o più branche del nervo trigemino; 2) improvviso, intenso, superficiale, urente; 3) intensità severa; 4) scatenata dalla stimolazione dei cosiddetti trigger points, dal mangiare, parlare, lavare il viso o i denti; 5) asintomaticità nei periodi
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liberi. È necessario dimostrare la totale assenza di deficit neurologici, la stereotipia degli attacchi in ciascun paziente ed escludere cause organiche [1]. Nella maggior parte dei pazienti con nevralgia trigeminale non è possibile individuare alcuna eziologia. Quando si associa ad ipoestesia nel territorio di distribuzione del quinto nervo cranico, a paralisi di altri nervi cranici o ad altri segni neurologici, ad insorgenza prima dei 40 anni di età, allora si deve sospettare la presenza di una lesione organica. In questi casi i disturbi più di frequente riscontrati sono sclerosi multipla, lesioni dell’angolo pontocerebellare o della fossa posteriore, tumori del nervo trigemino (Tab. 6.4) (Tab. 6.5: diagnosi differenziale tra le varie forme di cefalee di breve durata con e senza fenomeni autonomici).
Tabella 6.4
Criteri diagnostici per la nevralgia del trigemino
A. attacchi di dolore parossistico che durano da una frazione di secondo a 2 minuti, a carico di uno o più rami del nervo trigemino e che rispondono ai criteri B e C B. il dolore ha almeno una delle seguenti caratteristiche: 1. intenso, acuto, superficiale o trafittivo 2. scatenato dalle aree triggers o da fattori triggers C. gli attacchi sono stereotipi nello stesso paziente D. non sono presenti deficit neurologici E. non attribuibile ad altri disordini
Tabella 6.5 Le principali forme di cefalee unilaterali di breve durata con e senza fenomeni autonomici craniofacciali
M:F Dolore Durata Sede
Qualità Intensità Frequenza Fenomeni autonomici craniofaciali Agitazione Scatenata da alcool Risposta a indometacina
Cefalea a grappolo
Hemicrania parossistica
SUNCT
Cefalea primaria trafittiva
Nevralgia del trigemino
3,7-7:1
1:2,5
2:1
3:1
1:2
15-180 min Orbita, Supraorbitaria temporale Trafittiva, urente Molto intenso 1 ogni 2 giorni a 8/die
2-30 min Orbita, Supraorbitaria temporale Trafittiva, urente Intenso >5/die
5-240 sec Orbita Supraorbitaria temporale Trafittiva, urente Intenso 3-200/die
1 sec Sede Variabile
1-120 sec V2-V3 (V1 rara)
Trafittiva
Scossa elettrica
Intenso da pochi a centinaia/die
Intenso fino a centinaia/die
+++
++++
+++
–––
– –/+
+++ +++
+/– ++/–
+/– +/–
––– –––
––– –––
++/–
++++
–––
+++
–––
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M. Leone et al.
Cefalea primaria trafittiva (Primary stabbing headache) Descritta per la prima volta nel 1974 [6], è caratterizzata da fitte dolorose di breve durata, che non sottendono patologia organica, della durata massima di pochi secondi, senza fenomeni vegetativi, usualmente localizzate nel territorio di distribuzione del trigemino ma che possono presentarsi in qualsiasi zona della testa [1]. Di solito non hanno un chiaro e tipico andamento periodico. Si manifestano prevalentemente in soggetti che hanno o svilupperanno una forma di emicrania. Quando le crisi sono frequenti, è indicata terapia di profilassi con indometacina.
Cefalea da tosse Cefalea precipitata da colpo di tosse in assenza di disturbo intracranico [1]. Più spesso bilaterale ma anche unilaterale. Ad esordio improvviso, può durare meno di 1 minuto ed è provocata dalla tosse. La diagnosi è di esclusione dopo le opportune indagini neuroradiologiche.
Cefalea ipnica Si verifica soprattutto negli anziani, è piuttosto rara; gli attacchi possono durare da minuti a secondi. L’esordio del dolore è tipicamente notturno, spesso unilaterale, abitualmente senza segni di interessamento del sistema vegetativo oculofacciale come invece si verifica nelle TACs. Il trattamento d’elezione è dato dai sali di litio alla dose di 900 mg/die suddiviso in 3 somministrazioni. È anche indicata la caffeina prima di coricarsi [1].
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Capitolo 7
Cefalea a grappolo e TACs: dalla fisiopatologia alla terapia G. Bussone, S. Usai
Patogenesi della cefalea a grappolo Sebbene numerosi studi siano stati effettuati per indagare la patogenesi della cefalea a grappolo, non vi è ancora una univoca interpretazione sull’origine di questa cefalea primaria. In particolare manca un modello sperimentale in grado di giustificare le principali caratteristiche cliniche della cefalea a grappolo, quali la unilateralità degli attacchi, la circadianità delle crisi e la circannualità dei periodi dolorosi (i cosiddetti grappoli) nonché la predilezione per i soggetti di sesso maschile. Per quanto concerne le manifestazioni cliniche, la cefalea a grappolo si distingue nettamente dalle altre principali sindromi dolorose del capo, quali l’emicrania e la nevralgia del trigemino, che hanno difatti trattamenti farmacologici in gran parte differenti da quelli adottati per la cefalea a grappolo. Nonostante la netta demarcazione clinica di questa sindrome dolorosa del capo è stato ipotizzato che la cefalea a grappolo, l’emicrania e la nevralgia del trigemino possano avere un terreno patogenetico comune. Questo nuovo modo di interpretare la patogenesi del dolore cranio-facciale è confermato dal non infrequente riscontro nella pratica clinica di forme di passaggio tra l’una e l’altra sindrome. Allo stato attuale delle conoscenze è tuttavia necessario continuare a tenere separata la trattazione della patogenesi della cefalea a grappolo.
Le prime ipotesi Le prime ipotesi eziopatogenetiche sulla cefalea a grappolo attribuivano l’origine del dolore ad un processo irritativo di strutture nervose periferiche del cranio. Difatti gli eponimi con cui la cefalea a grappolo era inizialmente identificata erano hemicrania neuroparalitica, nevralgia ciliare, nevralgia emicranica, nevralgia sfenopalatina, nevralgia vidiana, nevralgia del nervo grande petroso superficiale. Queste prime teorie furono via via abbandonate per il fatto che gli interventi chirurgici effettuati su tali strutture nervose, quali il nervo trigemino, vidiano, grande petroso superficiale nonché sul ganglio sfenopalatino, risultarono di scarsa efficacia nel curare la cefalea a grappolo.
Ipotesi istaminica Nel 1939 Horton osservò che durante l’attacco di cefalea a grappolo erano presenti arrossamento dell’occhio e della tempia omolaterali al dolore imputabili ad una dilatazione di vasi
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G. Bussone et al.
cranici e coniò pertanto il termine di eritromelalgia del capo. In seguito, egli riportò che l’iniezione sottocutanea di istamina, sostanza in grado di indurre vasodilatazione, poteva scatenare il tipico attacco di cefalea a grappolo ed ipotizzò pertanto una condizione di ipersensibilità dei vasi cranici all’istamina stessa. La teoria istaminica venne supportata dal riscontro di alterati livelli di questa sostanza nel sangue e nelle urine di pazienti con cefalea a grappolo, per tale motivo la cefalea a grappolo è anche nota come cefalea istaminica di Horton, eponimo oramai rimasto nella storia di questa malattia. Nessuno studio clinico controllato ha mai confermato l’efficacia della terapia desensibilizzante con istamina nella prevenzione di questa malattia [1]. In seguito, risultò evidente che, più che ipersensibile all’istamina, la cefalea a grappolo era sensibile ad agenti con azione genericamente vasodilatante poiché sia la trinitrina che l’alcol erano in grado di precipitarne gli attacchi. L’inefficacia dei farmaci antistaminici nella terapia della cefalea a grappolo confermò l’inadeguatezza della teoria istaminica.
Ipotesi vasomotoria Durante lo studio angiografico della carotide interna effettuato nel corso di un attacco di cefalea a grappolo, Ekbom e Greitz osservarono un restringimento della porzione extradurale dell’arteria dal lato del dolore alla sua uscita dal canale carotideo [2]. Questo dato angiografico fece ipotizzare che il dolore derivasse da uno stiramento dei nocicettori nella parete del vaso, il coinvolgimento a tale livello delle fibre simpatiche oculo-facciali del plesso pericarotideo poteva inoltre spiegare parte dei fenomeni vegetativi, quali la ptosi e la miosi. In seguito, Kudrow [3] dimostrò, con metodica Doppler, una diminuzione di flusso nelle arterie sovraorbitaria e frontale, sia in fase di remissione che di grappolo, riconducibile alla stenosi carotidea riportata da Ekbom e Greitz. L’ulteriore conferma di una vasocostrizione nel territorio della carotide interna, venne da studi termografici, che evidenziarono aree fredde di ipotermia nella regione sovraorbitaria dal lato del dolore. Anche Sakai e Meyer, misurando il flusso ematico cerebrale in pazienti durante e fuori attacco, hanno trovato un aumento del flusso negli emisferi cerebrali più accentuato dal lato del dolore, che hanno ipotizzato fosse correlato ad una iperemia reattiva da asimmetria del circolo carotideo [4]. Alcune osservazioni cliniche suggeriscono il coinvolgimento anche della circolazione della carotide esterna: 1. presenza di una dilatazione dell’arteria temporale superficiale durante l’attacco dal lato del dolore; 2. la compressione della carotide esterna dal lato del dolore attenua il dolore; 3. l’ergotamina, agente che provoca intensa vasocostrizione, è efficace nella terapia dell’attacco di cefalea a grappolo. Se da una parte era evidente il coinvolgimento dei vasi cranici nella cefalea a grappolo, non era però chiaro quali ne fossero le cause.
Ipotesi centrale: l’ipotesi “alta” Il sito ove viene regolata l’attività del sistema orto e parasimpatico è l’ipotalamo; l’ipotalamo presiede anche alla regolazione dei ritmi biologici, apparentemente coinvolti nel determinare il tipico periodismo della cefalea a grappolo. Su queste basi Kudrow [5] ipotizzò la presenza di una
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disfunzione dell’ipotalamo nella cefalea a grappolo. Il coinvolgimento dell’ipotalamo nella patogenesi della cefalea a grappolo era anche suggerito dall’efficacia dei sali di litio [6] nella prevenzione di questa cefalea: difatti il litio si accumula selettivamente nell’ipotalamo. I centri ipotalamici sono inoltre implicati nel controllo della nocicezione e della lateralizzazione delle funzioni ed una ridotta soglia dolorifica è stata evidenziata in questa malattia. Una delle principali attività dell’ipotalamo è la modulazione della produzione ormonale [7]; allo scopo di indagare il coinvolgimento di questo organo nella cefalea a grappolo, numerosi studi di carattere neuroendocrinologico sono stati condotti negli ultimi anni. Le principali alterazioni riportate nella cefalea a grappolo riguardano la melatonina, l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (IIS) ed il ThyrotropinReleasing Hormone (TRH) [8]. La melatonina è il principale prodotto della ghiandola pineale, la cui produzione è regolata dalle variazioni di luce e di buio. Stimoli luminosi viaggiano dalla retina ai nuclei soprachiasmatici dell’ipotalamo attraverso la via retino-ipotalamica; da qui, vie nervose raggiungono i centri simpatici del midollo toracico, decorrono nel plesso cervicale ed in quello pericarotideo, per terminare nella pineale liberando noradrenalina. Durante le fasi di oscurità la noradrenalina viene rilasciata dalle terminazioni simpatiche attivando l’enzima N-acetil-transferasi che determina la trasformazione della serotonina in melatonina. Per tale motivo nell’uomo i livelli di melatonina sono alti di notte e bassi di giorno. Le alterazioni della melatonina presenti nella cefalea a grappolo consistono principalmente in una riduzione dei livelli plasmatici lungo tutto l’arco delle 24 ore; questo si verifica soprattutto nella fase di grappolo. Studi recenti del nostro gruppo hanno evidenziato un ritmo patologico anche in fase di remissione, caratterizzato da picchi pomeridiani che in condizioni fisiologiche sono del tutto assenti [9]. Recentemente [10] la presenza di recettori per la melatonina è stata dimostrata sulla parete delle principali arterie cerebrali e pertanto abbiamo ipotizzato che i ridotti livelli di melatonina plasmatica potrebbero modificare le proprietà contrattili dei vasi cerebrali giocando così un ruolo di primo piano nei fenomeni vasomotori associati all’attacco di cefalea a grappolo. Inoltre la melatonina è anche in grado di inibire la produzione di prostaglandine, tra i principali mediatori dei processi di infiammazione sterile perivascolare in grado di giustificare, sia i fenomeni autonomici sia il dolore della cefalea a grappolo. Riteniamo che i ridotti livelli plasmatici di melatonina potrebbero favorire la formazione di prostaglandine nella parete delle arterie craniche facilitando l’attivazione del sistema trigemino-vascolare. Altrettanto interessanti sono le anomalie del cortisolo e dell’asse IIS riportate da più autori nella cefalea a grappolo. Un’aumentata produzione circadiana del cortisolo è stata osservata in fase di grappolo, mentre nella fase di remissione molti pazienti non mostravano la tipica ritmicità dell’ormone, indice di una disfunzione dei centri ipotalamici deputati alla regolazione dei ritmi biologici [11]. La iperattività dell’asse IIS nella cefalea a grappolo, testimoniata dall’aumento del cortisolo plasmatico, è stata di recente confermata dalla ridotta risposta dell’asse IIS dopo stimolo con l’Ovine Corticotropin-Releasing-Hormone (o-CRH) sia in fase di remissione che di grappolo. Questo tipo di risposta è probabilmente imputabile ad una down-regulation dei recettori adrenocorticotropi delle ghiandole surrenaliche [12]. La ridotta risposta in Adrenocorticotropin Hormone (ACTH) e cortisolo allo stimolo ipoglicemico indotto da insulina presente sia in remissione che in grappolo, conferma una disfunzione dei neuroni ipotalamici che regolano l’asse’IIS [13]. Pazienti affetti da altre sindromi dolorose, quali il low back pain, non presentano questo tipo di alterazioni, indicando che lo stress secondario al dolore non è la causa di queste anomalie. Al contrario, una ridotta risposta sia al CRH che all’ipoglicemia viene osservata in patologie dell’ipotalamo, quali tumori della regione diencefalo-ipofisaria e nell’atrofia multisistemica, confermando l’origine ipotalamica delle modificazioni neuroendocrine che caratterizzano la cefalea a grappolo.
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Per quanto riguarda le vie nervose cerebrali coinvolte, si ipotizza una ipofunzione simpatica dal momento che farmaci beta-bloccanti riducono i livelli notturni di melatonina, mentre la stimolazione dei beta-andrenorecettori cerebrali inibisce l’asse IIS. Recentemente abbiamo proposto un’ipotesi alternativa. Dato che il naloxone, antagonista dei recettori oppioidi, previene l’aumento notturno della melatonina e stimola l’asse IIS aumentando il cortisolo plasmatico, è possibile che sia la riduzione della melatonina che l’aumento del cortisolo nella cefalea a grappolo dipendano da una ipofunzione del sistema oppioide. Questa ipotesi è confermata dalla presenza di ridotti livelli di oppioidi sia nel liquido cerebro-spinale sia nelle cellule mononucleate del sangue periferico di pazienti con cefalea a grappolo. Partendo dall’osservazione che gli ormoni sessuali possono modificare la contrattilità dei vasi cerebrali, Kudrow ha proposto che una modificazione del testosterone potrebbe essere la causa dei fenomeni vasomotori associati alla cefalea a grappolo. La maggiore frequenza nel sesso maschile e l’eccezionalità della malattia nell’adolescenza, danno credito a questa ipotesi. In seguito, ridotti livelli di testosterone sono stati riportati da autori diversi ma sarebbero da attribuirsi allo stress provocato dal dolore. Altre anomalie neuroendocrine riguardano una ridotta risposta in Thyroid Stimulating Hormone (TSH) al TRH, così come pure alterazioni del Luteinizing Hormone (LH), del Follicle-Stimulating Hormone (FSH), della prolattina e dell’ormone della crescita (GH). Se da una parte il coinvolgimento dell’ipotalamo nella patogenesi della cefalea a grappolo appare ampiamente documentato, resta ancora da chiarire il preciso meccanismo con cui l’ipotalamo può contribuire alle manifestazioni cliniche della malattia. Studi sperimentali hanno evidenziato che neuroni spinali deputati al controllo delle informazioni dolorose dalla periferia, proiettano direttamente all’ipotalamo; questi stessi neuroni possono essere attivati per via antidromica stimolando l’ipotalamo stesso. È stato ipotizzato che una disfunzione ipotalamica può dare origine, periodicamente, a segnali che riducono la soglia dolorosa nel sistema trigemino-vascolare, attivando così processi di infiammazione sterile perivascolare in grado di giustificare, sia i fenomeni autonomici sia il dolore della cefalea a grappolo [14]. Recenti studi con PET hanno effettivamente documentato l’attivazione dell’ipotalamo omolaterale al dolore durante la crisi di cefalea a grappolo [15]. Questa attivazione è specifica per la cefalea a grappolo in quanto non è stata riscontrata in altre patologie dolorose del distretto cranio cefalico. Questo dato permette di ipotizzare che il primum movens alla base delle crisi di cefalea a grappolo sia proprio l’attivazione dell’ipotalamo. Dall’ipotalamo potrebbe poi prendere origine lo stimolo che conduce all’attivazione del riflesso trigemino-facciale. L’efficacia della deep brain stimulation ipotalamica nella cura della cefalea a grappolo cronica farmacoresistente confermerebbe questa ipotesi [16].
Terapia Il paziente affetto da cefalea a grappolo è terrorizzato al solo pensiero della ricomparsa delle crisi dolorose e quando giunge all’osservazione del medico è spesso in condizioni di estrema agitazione ed inquietudine. È innanzitutto importante tranquillizzarlo fornendogli una corretta informazione sulla sua malattia, rassicurandolo in particolare sulla benignità del suo disturbo. I fattori più comuni di scatenamento di una crisi di grappolo sono il fumo, l’alcool, i sonnellini pomeridiani, l’ipoglicemia prolungata, gli accessi di ira, gli stress prolungati, la luce abbagliante, i voli intercontinentali e le alterazioni del ritmo sonno/veglia. Si distinguono 2 tipi fondamentali di terapia farmacologica per questa cefalea: la terapia dell’attacco e la terapia di profilassi. Laddove identificabili, bisogna eliminare i fattori triggers tra
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i quali i principali da ricordare sono l’alcool ed il fumo; questi fattori possono scatenare la crisi esclusivamente nei periodi di grappolo cioè quando la malattia è fase attiva. Scopo della terapia di profilassi è di ridurre la frequenza delle crisi dolorose sia nella forma episodica che nella cronica. È definitivamente da abbandonare la pratica di somministrare farmaci di profilassi nelle forme episodiche una volta che il grappolo è terminato. Difatti, il grappolo successivo potrebbe insorgere anche dopo molti anni rendendo del tutto superflua la somministrazione continuativa di farmaci [17, 18].
Terapia dell’attacco Per l’attacco, il farmaco di prima scelta è il sumatriptan, agonista selettivo dei recettori serotoninergici 5HT 1B/1D. Per via sottocutanea è efficace in pochi minuti; è anche disponibile in supposte, spray nasale e compresse da 50 e 100 mg. Data l’importanza di intervenire rapidamente la via di somministrazione consigliata è quella sottocutanea [19]. Anche lo zolmitriptan in spray nasale si è rivelato utile, ma in misura inferiore [20]. L’ossigeno inalato alla velocità di 7-10 litri al minuto per circa 15 minuti è efficace negli attacchi di lieve-media entità. L’indometacina, sia intramuscolare che in supposte da 50 o da 100 mg è una valida alternativa. È estremamente efficace nell’hemicrania parossistica, tipica delle donne e caratterizzate da crisi più brevi e più frequenti nelle 24 ore, con una più massiccia componente autonomica rispetto alla cefalea a grappolo. L’applicazione nasale di cocaina o lidocaina (4-6%) per anestetizzare il ganglio sfenopalatino è poco diffusa e di non facile attuazione ma in alcuni casi si rivela utile [18, 19].
Terapia di profilassi I fattori da considerare prima di iniziare qualsiasi trattamento in un paziente con cefalea a grappolo sono molteplici: il numero delle crisi, la loro durata, la loro intensità, l’età del paziente, la concomitanza di altre patologie etc. Occorre ancora tenere conto del fatto che la forma cronica e quella episodica possono rispondere in maniera differente al medesimo trattamento. Inoltre, mentre non sussistono dubbi nelle forme croniche, il trattamento preventivo nelle forme episodiche deve tenere conto della fase del grappolo per il possibile rischio di sottoporre il paziente a terapie impegnative quando invece il grappolo è in via di esaurimento spontaneo. La maggior parte di pazienti con cefalea a grappolo hanno necessità di una terapia profilattica quando: 1) gli attacchi sono frequenti, severi, a rapida insorgenza e spesso troppo brevi perché un trattamento sintomatico sia efficace; 2) la terapia sintomatica postpone l’attacco, ma non interferisce sull’andamento del grappolo; 3) la terapia sintomatica può portare ad un abuso di farmaco; 4) la durata del grappolo può prolungarsi per mesi. Il goal della terapia di profilassi è di arrivare ad una rapida scomparsa delle crisi e mantenere questa scomparsa con il minor numero possibile di side-effects fino alla fine del periodo di grappolo. I principi della farmacoterapia di profilassi sono i seguenti: 1) iniziare le cure il più presto possibile nel periodo del grappolo; 2) continuare la terapia finché il paziente non sia libero da crisi
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da almeno due settimane; 3) ridurre il farmaco gradualmente e non di colpo; 4) ridare il farmaco all’inizio del successivo periodo di grappolo. Se un attacco violento si verifica nonostante il trattamento di profilassi, farmaci per l’attacco acuto quali ad esempio ossigeno o sumatriptan debbono essere usati. La scelta del farmaco potrà dipendere da: 1) la precedente risposta al farmaco; 2) i precedenti effetti collaterali; 3) le controindicazioni all’uso del farmaco; 4) il tipo di cluster (episodica o cronica); 5) la lunghezza del grappolo; 6) l’età e lo stile di vita del paziente. La combinazione di due o più farmaci può essere necessaria. Negli ultimi anni sono state introdotte importanti innovazioni nella terapia profilattica di questa cefalea, prima fra tutte l’uso dei calcioantagonisti e in particolare del verapamil. Questo trattamento, considerato ora di prima scelta dovunque nel mondo, presenta un effetto collaterale che è l’insorgenza di stipsi e a volte ipotensione. Prima di instaurarlo è sempre consigliabile far eseguire al paziente un elettrocardiogramma per escludere critici difetti di conduzione. Il verapamil alla dose di 360 mg/t.i.d. è stato dapprima confrontato con il litio carbonato alla dose di 900 mg/die ed ha dimostrato un’efficacia superiore al 75% nell’80% dei pazienti con cefalea a grappolo cronica. La sua azione è anche più rapida di quella del litio in quanto alla prima settimana di trattamento i pazienti migliorati con il verapamil sono il 50% mentre quelli con il litio sono il 37% [21, 22]. In un recente studio abbiamo confrontato l’efficacia del verapamil nella profilassi della cefalea a grappolo in doppio cieco contro placebo su 20 pazienti affetti da cefalea a grappolo episodica. Si è trovato che la frequenza delle crisi e il consumo di analgesici è stato significativamente ridotto già dalla prima settimana di terapia e ancor più nella seconda settimana nei pazienti che usavano il verapamil mentre non è stato visto nessun miglioramento nel gruppo placebo. Gli effetti collaterali trovati nel gruppo con verapamil non sono stati tali da sospendere la cura. Riteniamo perciò che anche alla luce di questo studio il farmaco debba essere consigliato subito sia nella profilassi della forma episodica che della forma cronica [22]. Il litio resta comunque una valida alternativa in particolare nel trattamento della cefalea a grappolo di tipo cronico. Considerato farmaco d’elezione prima dell’avvento del verapamil, è impiegato alla posologia di 900 mg/die. È necessario un controllo della funzionalità renale e tiroidea e soprattutto della litiemia per evitare effetti collaterali come poliuria, tremori, vomito, diarrea, edemi e sonnolenza che compaiono oltre il livello di 1,2 mEq/l. È noto comunque che l’efficacia terapeutica è indipendente dalla litiemia [21, 23]. Il prednisone sembra avere un’efficacia nelle forme croniche. Va comunque impiegato in casi selezionati e resistenti alle altre forme di trattamento, può essere associato al litio o al verapamil e si è dimostrato particolarmente indicato per le forme che presentano un’elevata resistenza ad altre terapie. Gli effetti collaterali del farmaco ne controindicano comunque trattamenti prolungati, si consigliano cicli di 2 settimane partendo da un dosaggio di 50-60 mg e progressivamente calando fino alla completa sospensione. L’uso del cortisone per via ev è da riservarsi solo per casi resistenti a tutti i tentativi precedentemente descritti, in pazienti affetti da serie di episodi giornalieri e comunque è necessario che siano ospedalizzati e monitorizzati durante il trattamento [17, 19]. La forma cronica di cluster deve essere trattata con verapamil o litio da soli o in combinazione. Nei casi resistenti si può inserire il corticosteroide (prednisone per os 60 mg/die) per breve tempo (2-3 settimane in dosi decrescenti) in associazione a verapamil o litio. Un’altra possibilità è il desametasone (8 mg/die per una settimana e 4 mg/die per una settimana).
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Trattamenti più prolungati con cortisone si possono attuare nelle forme croniche particolarmente resistenti: in questi casi è importante valutare gli effetti collaterali a lungo termine di una terapia steroidea prolungata.
Metisergide La metisergide alla dose di 4-5 mg/die è efficace soprattutto nelle forme di cefalea a grappolo episodica giovanile. Poiché si tratta di un derivato ergotaminico, è importante avvisare il paziente di non assumere questo farmaco contemporaneamente al sumatriptan, per evitare un potenziale effetto sinergico di vasospasmo. L’effetto collaterale più temibile è la fibrosi retroperitoneale e mediastinica; pertanto, in caso di trattamenti prolungati, dopo i primi 4-6 mesi di terapia, è indispensabile praticare alcuni accertamenti tra cui la valutazione della funzionalità renale ed eventualmente l’ecografia addome e l’Rx torace [19, 24].
Clonidina La clonidina transdermica può essere utile nelle forme croniche. In uno studio recente è stata dimostrata la scarsa efficacia di questo prodotto nella terapia di profilassi delle forme episodiche; le forme croniche sembrano invece avere un certo vantaggio [17, 19].
Melatonina In uno studio effettuato in doppio cieco la melatonina si è mostrata efficace nella forme episodiche: dei 10 pazienti trattati, 5 hanno presentato una netta regressione delle crisi. Il razionale che ha portato all’impiego di questo trattamento deriva dal riscontro di ridotti livelli notturni di melatonina nelle fasi di grappolo. Rimane da verificare se l’effetto osservato sia da attribuire al fatto che la melatonina possa avere agito promuovendo una migliore qualità del sonno. Viene attualmente considerata come add on therapy [19, 25].
Antiepilettici - valproato Pochi sono i riscontri clinici sulla costanza di efficacia del valproato anche se in uno studio clinico il farmaco è risultato efficace. Recentemente un nuovo interesse per l’impiego del valproato nella profilassi della cefalea a grappolo è derivato dall’osservazione che questo medicinale previene nell’animale la plasma protein extravasation nel sistema trigeminovascolare, effetto esercitato anche dal sumatriptan e da altri triptani [17, 19].
Antiepilettici - topiramato In uno studio recente condotto su 10 pazienti, il topiramato era stato proposto come possibile farmaco di profilassi per questa cefalea. Allo scopo di verificare questa iniziale segnalazione, abbiamo somministrato sistematicamente il topiramato in 36 pazienti affetti da cefalea a grappolo (sia nella forma episodica che nella forma cronica) con lo scopo di prevenirne le crisi. I risultati ottenuti su questo ampio gruppo non hanno rispettato le iniziali aspettative e complessivamente suggeriscono che tale farmaco sia da riservare solo a casi particolari e che in ogni caso non sia un trattamento di prima scelta poiché è risultato efficace solo nel 33% dei pazienti [19, 26]. Circa il 10% dei pazienti con cefalea a grappolo non rispondono al trattamento di profilassi o hanno significative controindicazioni ai farmaci di profilassi e per questi casi potrebbe essere presa in considerazione una terapia chirurgica validata da studi internazionali su casistiche ampie.
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Terapia chirurgica della cefalea a grappolo cronica e farmacoresistente La terapia chirurgica è indicata solo in pazienti nei quali siano state dimostrate con certezza la totale inefficacia o refrattarietà ai trattamenti farmacologici. La selezione dei pazienti potenzialmente candidati alla chirurgia e che potrebbero trarre beneficio da tale approccio è un processo estremamente delicato che richiede una specifica dedizione clinica, oltre che una profonda conoscenza del paziente e della patologia stessa. Oltre alla totale refrattarietà alle terapie farmacologiche, altri requisiti per poter essere candidati alla chirurgia sono: • cefalea strettamente unilaterale; • completa refrattarietà alla terapia medica o controindicazioni clinicamente significative alla terapia farmacologia; • assenza di disturbi di personalità. L’intervento sul trigemino è quello che, in passato, ha prodotto i risultati migliori anche se la comparsa di danni corneali e di anestesia dolorosa sono complicanze temibili. Questa ed altre procedure chirurgiche, inoltre, producono generalmente una riduzione del dolore in circa il 50% dei casi, con una elevata percentuale di ricaduta già nel primo anno dall’intervento. È da segnalare, in particolare, la persistenza del tipico dolore oculare anche dopo enucleazione del globo oculare stesso o addirittura l’esordio della malattia in pazienti in cui era stata precedentemente praticata exeresi del globo oculare. Questi elementi indicano chiaramente la natura centrale del dolore della cefalea a grappolo e possono spiegare la limitata efficacia di una terapia chirurgica basata unicamente sull’intervento su strutture periferiche.
Stimolazione cerebrale profonda dell’ipotalamo La scoperta, durante l’attacco di cefalea a grappolo, di una attivazione ipotalamica tramite studi di PET ha permesso di identificare, per la prima volta nella storia delle cefalee essenziali, un possibile target cerebrale per curare la cefalea a grappolo. Sulla base di queste osservazioni è stato proposto un nuovo approccio neurochirurgico per i pazienti con cefalea a grappolo cronica farmacoresistente. L’approccio consiste nella stimolazione inibitoria per via stereotassica della regione ipotalamica che durante le crisi risulta attivata. La metodica della deep brain stimulation è già in uso corrente da anni per varie condizioni, in particolare per i disturbi del movimento. Negli ultimi 10 anni si è dimostrata sicura, con effetti collaterali estremamente rari e con una mortalità assolutamente trascurabile. Un ulteriore vantaggio di questa metodica è la completa reversibilità dell’intervento. Questo nuovo approccio stereotassico sull’ipotalamo è stato praticato per la prima volta su un paziente affetto da cefalea a grappolo cronica che da tempo non aveva alcun vantaggio dalle terapie mediche. Data la persistenza dell’efficacia a distanza di oltre 4 anni dall’intervento, che non ha dato effetti collaterali significativi, altri pazienti affetti da cefalea a grappolo cronica intrattabile sono stati sottoposti all’intervento, con scomparsa delle crisi e senza effetti collaterali. Questi risultati stanno aprendo importanti e nuove prospettive, sia per il trattamento delle forme farmacoresistenti di cefalea a grappolo cronica sia per l’interpretazione del meccanismo alla base della cefalea a grappolo. In particolare riteniamo che il termine tutt’oggi ancora in uso di cefalea vasomotoria sia definitivamente da abbandonare alla luce dei dati che abbiamo acquisito negli ultimi anni e che dimostrano il ruolo cruciale del sistema nervoso centrale, in particolare dell’ipotalamo, nella fisiopatologia della cefalea a grappolo [27, 28].
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Cenni di terapia delle altre forme di TACs La SUNCT era ritenuta una forma totalmente farmacoresistente. Studi recenti hanno dimostrato l’efficacia della lamotrigina in alcuni pazienti affetti da questa forma [29]. Studi con f-MRI hanno dimostrato l’attivazione dell’ipotalamo posteriore durante le crisi di SUNCT, come si verifica nella cefalea a grappolo. Questa osservazione e le forti similitudini cliniche tra cefalea a grappolo e SUNCT, nonché l’efficacia della hypothalamic deep brain stimulation nella cura delle forme farmacoresistenti di cefalea a grappolo, hanno portato a sperimentare tale metodica neurochirurgica anche in un caso di SUNCT farmacoresistente. I risultati sono stati eccellenti anche in questo caso. Il follow-up a 3 anni conferma oltre che l’efficacia della metodica, la sua completa tollerabilità [30].
Hemicrania cronica parossistica ed hemicrania continua La terapia d’elezione di queste due forme è l’indometacina, alla dose usuale di 150 mg/die; talora sono sufficienti dosi inferiori, raramente dosi superiori [17, 19].
Cluster-tic In questa caso coesistono crisi di cefalea a grappolo e di nevralgia del trigemino. Il dolore delle due forme di cefalea può essere presente in tempi diversi oppure, più di rado, contemporaneamente. Il trattamento è differenziato in ogni caso: è cioè necessario trattare il paziente con la terapia specifica della cefalea a grappolo e della nevralgia del trigemino anche se le crisi delle due forme sono contemporanee [31].
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Capitolo 8
Cefalea di tipo tensivo: la clinica D. D’Amico
Classificazione All’interno della cefalea di tipo tensivo (CTT) esistono varie forme cliniche. Molti pazienti con attacchi sporadici di CTT non sono compromessi dalla loro cefalea e spesso non si rivolgono al medico. Le forme ad alta frequenza, definite come CTT cronica, possono invece determinare un impatto negativo sulla qualità di vita del paziente. La suddivisione in forma episodica e cronica introdotta dalla prima classificazione del 1988 da parte dell’International Headache Society (IHS) [1] è stata sicuramente di grande utilità, sia nella clinica che nella ricerca, per individuare vari sottogruppi diagnostici. Come ricordato, la prima edizione della classificazione internazionale [1] aveva incluso due forme di CTT in base alla frequenza (CTT episodica, CTT cronica) e aveva individuato dei sottogruppi a seconda della presenza o meno di disturbi della muscolatura pericranica accertati tramite valutazione EMG di superficie o dolorabilità registrata con un algometro. La nuova classificazione del 2004 (ICHD II) [2] prevede varie forme cliniche (Tab. 8.1) e introduce alcuni importanti cambiamenti. Il primo cambiamento introdotto dalla nuova classificazione consiste nel suddividere la CTT episodica in due sottogruppi: la CTT episodica infrequente caratterizzata da una frequenza inferiore ad un attacco al mese; la CTT episodica frequente con presenza di uno o più attacchi al mese (fino ad un massimo di 14 giorni al mese).
Tabella 8.1
Forme clinica di CTT (ICDH II, 2004)
2.1 CTT episodica infrequente 2.1.1 CTT episodica infrequente associata a dolorabilità pericranica 2.1.2 CTT episodica infrequente non associata a dolorabilità pericranica 2.2 CTT episodica frequente 2.2.1 CTT episodica frequente associata a dolorabilità pericranica 2.2.2 CTT episodica frequente non associata a dolorabilità pericranica 2.3 CTT cronica 2.3.1 CTT cronica associata a dolorabilità pericranica 2.3.2 CTT cronica non associata a dolorabilità pericranica 2.4 CTT probabile 2.4.1 probabile CTT episodica infrequente 2.4.2 probabile CTT episodica frequente 2.4.3 probabile CTT cronica
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D. D’Amico
Nella Tabella 8.2 sono illustrati i criteri diagnostici che devono essere rispettati per assegnare un singolo paziente ad una delle forme di CTT. I vari tipi clinici (CTT episodica infrequente, CTT episodica frequente, CTT cronica) si differenziano per il pattern temporale, mentre i criteri relativi alle caratteristiche del dolore sono simili per tutte le forme. Una certa differenza esiste per quanto riguarda i fenomeni vegetativi associati: mentre nelle forme episodiche la nausea è del tutto esclusa (solo eventuale anoressia), nella forma cronica è ammessa la presenza di nausea lieve. In tutte le forme di CTT foto e fonofobia possono essere presenti, ma non contemporaneamente. Un’altra differenza tra la classificazione del 1988 [1] e quella del 2004 [2] riguarda la possibilità di individuare forme associate o meno ad anomalie dei muscoli pericranici. Mentre non vengono più proposti accertamenti strumentali (EMG di superficie, algometro) viene introdotto il concetto di dolorabilità miofasciale (pericranial tenderness). Viene chiaramente indicato che il rilievo della tenderness (anche se possibile con l’aiuto di dispositivo sensibile alla pressione per una valutazione valida e riproducibile) può essere accertato semplicemente in modo manuale durante l’esame clinico. La dolorabilità pericranica è facilmente registrabile attraverso piccoli movimenti rotatori con contemporanea pressione con il secondo e terzo dito della mano sui muscoli frontale, temporale, massetere, pterigoideo, sternocleidomastoideo, splenio e trapezio. Ad ogni
Tabella 8.2 Criteri diagnostici per le varie forme di cefalea di tipo tensivo (CTT) (ICDH II, 2004) CTT EPISODICHE Almeno 10 episodi di cefalea con le seguenti caratteristiche: Per la CTT episodica infrequente: la cefalea è presente per meno di 12 giorni/anno (meno di 1 giorno/mese). Per la CTT episodica frequente la cefalea è presente per più di 12 giorni/anno ma meno di 180 giorni/anno (più di 1 giorno/mese ma meno di 15 giorni/mese per almeno 3 mesi) Per la CTT episodica sia infrequente che frequente: – La cefalea dura da 30 minuti a 7 giorni – Il dolore presenta almeno 2 delle seguenti caratteristiche: • sede bilaterale • qualità gravativa-costrittiva, non pulsante • intensità lieve o media (può inibire, ma non impedire la normale attività quotidiana) • non è aggravato da attività fisiche routinarie, come camminare o salire le scale – Si verificano entrambe le seguenti condizioni: • nausea o vomito assenti (può presentarsi anoressia) • non più di uno tra fonofobia e fotofobia – Non attribuibile ad altra malattia CTT CRONICA – Cefalea presente per 15 giorni/mese o più in media per più di 3 mesi (per 180 giorni/anno o più) – La cefalea dura ore o può essere continua – Il dolore presenta almeno 2 delle seguenti caratteristiche: • sede bilaterale • qualità gravativa-costrittiva, non pulsante • intensità lieve o media (può inibire, ma non impedire la normale attività quotidiana) • non è aggravato da attività fisiche routinarie, come camminare o salire le scale – Si verificano entrambe le seguenti condizioni: • non più di uno tra fonofobia, fotofobia, lieve nausea • assenti nausea moderata o severa e vomito – Non attribuibile ad altra malattia
Cefalea di tipo tensivo: la clinica
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muscolo è possibile attribuire un punteggio di dolorabilità locale da 0 a 3 e la somma può determinare un punteggio totale di dolorabilità per ciascun individuo.
Prevalenza e diagnosi I dati della letteratura pubblicati negli anni ’90 (dopo la classificazione del 1988) forniscono percentuali di prevalenza di questa forma di cefalea che variano tra il 24% e il 78% [3-5]. La discrepanza tra i vari studi epidemiologici dipende da differenze metodologiche e soprattutto dalla non omogeneità dei criteri diagnostici. Tutti gli studi sono comunque concordi nell’indicare alcune caratteristiche epidemiologiche: la CTT rappresenta la forma più comune di cefalea primaria nella popolazione generale, tutte le età della vita possono essere interessate, con massima prevalenza fra 30-39 anni ed età media d’insorgenza di 25-30 anni; la CTT colpisce prevalentemente il sesso femminile (rapporto maschi:femmine di 4:5 nello studio di Rasmussen BG et al del 1991 [3]). L’analisi dei risultati dei principali studi epidemiologici fornisce dati più facilmente interpretabili considerando le percentuali di prevalenza nell’ultimo anno (one-year prevalence) e sottraendo dall’analisi i soggetti con forme episodiche infrequent. La prevalenza delle forme episodiche frequenti risulta essere intorno al 38% e quella della forma cronica intorno al 2-3%, in studi condotti in vari Paesi Europei e in USA [3, 4, 6] (Tab. 8.3). È nota la possibilità della trasformazione della forma episodica in quella cronica, anche se in molti soggetti la CTT va incontro a miglioramento con il passare degli anni. Recentemente sono stati pubblicati dati interessanti riguardo alla prognosi della CTT. In uno studio danese [7] sono stati valutati 146 soggetti con CTT episodica frequente e 15 con CTT cronica che avevano partecipato ad uno studio precedente e che erano stati intervistati nel 1989. A distanza di 12 anni dalla prima ricerca, il 45% dei pazienti riportava CTT infrequente o era in remissione; nel 39% dei casi era presente CTT episodica frequente e nel 16% era presente CTT Cronica. Tra i fattori che sembravano influenzare negativamente l’outcome sono stati individuati i seguenti: cefalea cronica all’inizio della storia di malattia, coesistenza di attacchi emicranici, il non essere sposati e la presenza di insonnia. Se i dati sulla prognosi sono sostanzialmente incoraggianti, al contrario uno studio di Lyngberg et al [8] ha rilevato che la prevalenza della CTT nei soggetti giovani (25-36 anni) tende ad aumentare nel corso degli anni. Un confronto tra i dati ottenuti su un ampio campione della popolazione generale nel 1989 e nel 2001 ha evidenziato che la prevalenza di CTT è cresciuta dal 78% all’87%, che la forma episodica frequente è presente nel 37% della popolazione e la CTT cronica nel 5%.
Tabella 8.3 Prevalenza della CTT nella popolazione generale: dati di one-year prevalence in studi europei CTT episodica frequente
CTT cronica
Rasmussen BK et al [3] Danimarca
36%
3%
Gobel H et al [4] Germania
38%
2,5%
Schwartz BS et al [5] USA
38%
2,2%
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Presentazione clinica Come previsto dai criteri di classificazione, i dati di studi epidemiologici indicano che il dolore è bilaterale nella maggior parte dei casi (nell’88% dei pazienti con CTT episodica e nel 90% con CTT cronica nella casistica di Rasmussen BK, et al del 1991[3]). Comunque, in una percentuale non trascurabile, la localizzazione può essere unilaterale. Su una casistica clinica italiana di 1169 pazienti con cefalee primarie di lunga durata (dolore superiore alle 4 ore), 181 soggetti riferivano una sede costantemente lateralizzato del dolore: tra questi il 5% era costituito da soggetti con CTT [9]. Da notare che durante l’intervista clinica, molti pazienti non sanno indicare la sede del dolore, mentre molti soggetti indicano con precisione un punto. Tipicamente, molti pazienti descrivono un dolore “a cerchio” o “a fascia”. Spesso il dolore origina nelle regioni posteriori ma poi si estende alla zona parietale o frontale, oppure viene riferita un’irradiazione (o anche un’insorgenza) nell’area cervicale o delle spalle. L’intensità del dolore è generalmente di grado lieve-moderato e in alcuni casi si limita a un senso di fastidio. Nei casi di CTT cronica il fattore che determina la sofferenza è soprattutto la sua persistenza a lungo nell’arco della giornata e nel corso di mesi/anni. Normalmente, il dolore non è tale da impedire lo svolgimento delle attività quotidiane a meno che non si tratti delle stesse attività che fungono da fattori precipitanti per la cefalea. La durata della cefalea è molto variabile e, anche nello stesso paziente, non presenta un pattern stereotipato come in altre cefalee primarie. Tipicamente è continuo o fluttuante nelle forme croniche. La qualità del dolore è di tipo sordo, o gravativo-compressivo, spesso descritto come “senso di pesantezza” o “cerchio che stringe” o di “casco”. In meno di un quarto dei casi può assumere una qualità pulsante. Una delle caratteristiche della CTT è la scarsità, e in alcuni casi la totale assenza, di sintomi associati, tra i quali i più frequenti sono una lieve inappetenza, una lieve fotofobia o fonofobia. Nella pratica clinica, alcuni pazienti associano al dolore una sensazione di stanchezza, sensazioni vaghe di tipo vertiginoso, difficoltà nella memoria, nella concentrazione o nel sonno. Molti fattori, sia di tipo fisico che di tipo psichico, possono favorire o peggiorare la CTT [10, 11]. Spesso è necessaria la presenza di più di un fattore per precipitare l’attacco di CTT. Le categorie di pazienti più colpite sono quelle costrette al mantenimento prolungato di una determinata posizione durante lo svolgimento di un impegno mentale o fisico (studenti, insegnanti, impiegati, operai addetti alle catene di montaggio, ecc.) oppure soggetti sottoposti a ritmi stressanti o con problematiche psicopatologiche di base. Per questi stessi motivi, la sospensione dell’attività lavorativa, il riposo e il rilassamento sono in grado di comportare un’attenuazione della sintomatologia. In genere, il caldo migliora, mentre il freddo peggiora la CTT. In alcuni pazienti, fattori scatenanti tipici dell’emicrania, come i flussi mestruali o le variazioni metereologiche, coincidono con insorgenza o peggioramento della CTT. Riguardo al comportamento in attacco, a differenza del paziente emicranico, il paziente con CTT solitamente non trova un particolare giovamento dal dormire o dal riposo psicosensoriale, anzi alcuni pazienti riferiscono un miglioramento della cefalea mediante attività in grado di distrarli.
Diagnosi differenziale La diagnosi differenziale in presenza di un paziente con probabile CTT presenta molti problemi collegati al fatto che le caratteristiche cliniche di questa cefalea primaria sono relativamente aspe-
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cifiche. Teoricamente tutte le affezioni organiche e metaboliche possono causare una cefalea praticamente identica alla CTT. È quindi fondamentale l’esame obiettivo per guidare la diagnosi. Anche se un’obiettività normale può non escludere patologie organiche (es. ematoma subdurale, pseudotumor cerebri, ipotensione liquorale, lesione espansiva), sono consigliabili alcune semplice manovre che possono completare l’esame obiettivo generale e neurologico e fornire importanti informazioni. Infatti, eventuali anomalie riscontrate eseguendo la palpazione delle arterie temporali, la valutazione della dei movimenti mandibolari o la valutazione di segni/sintomi di sofferenza cervicale/radicolare possono far sospettare patologie quali l’arterite a cellule giganti, la cefalea da disturbi dell’articolazione temporo-mandibolare oppure una patologia del rachide cervicale. Inoltre, il sospetto clinico per tutte le condizioni patologiche appena citate (e la sua seguente confutazione o conferma) può essere suscitato da una attenta raccolta dell’anamnesi, sia generale che specifica per la cefalea. Alcuni esempi: l’insorgenza costante dopo sforzo visivo può far sospettare un problema oculistico; l’insorgenza in età avanzata e l’esordio al mattino possono suggerire una cefalea da ipertensione arteriosa o da sleep apnea; la relazione con i cambiamenti di decubito richiedono la valutazione di una forma da ipotensione liquorale (spontanea o conseguente a traumi, interventi neurochirurgici, rachicentesi); la correlazione temporale con un incidente devono far pensare alla possibilità di cefalea post-traumatica o di ematoma intracranico; l’insorgenza del dolore dopo i pasti possono essere in relazione a patologia della masticazione. Anche cefalee dovute ad esposizione a sostanze tossiche, come quelle dovute a intossicazione lieve da monossido di carbonio, possono mimare una CTT frequente o cronica. Oltre varie forme di cefalee secondarie, anche alcune cefalee primarie entrano in diagnosi differenziale. Per i casi di CTT episodica, bisogna sempre considerare l’emicrania senza aura, specie se in un soggetto con attacchi relativamente lievi e con scarsi fenomeni vegetativi oppure in pazienti che presentano alternanza di attacchi di CTT e di episodi emicranici. Nei casi di CTT cronica ad esordio improvviso, va tenuta presente la diagnosi differenziale con la New Daily Persistent Headache (codice IHS 4.8), anche se la diagnosi differenziale più comune è quella con altre forme di cefalea cronica quotidiana. Nel campo delle cefalee ad alta frequenza si è ancora lontani da una nosografia chiara e condivisa. Negli ultimi anni in letteratura è stato usato il termine cefalea cronica quotidiana (Chronic Daily Headache, CDH) per indicare le cefalee che si presentano per più di 15 giorni al mese. Secondo la classificazione proposta da Silberstein e Lipton [12], la CTT cronica è compresa in questo gruppo di cefalee, insieme ad altre forme: Hemicrania Continua (HC), New Daily Persistent Headache (NDPH), emicrania trasformata o cronica (TM o Chronic Migraine). Quest’ultima forma è quella di riscontro più comune nei centri specialistici, e si riferisce a pazienti in cui la cefalea quotidiana o quasi-quotidiana evolve da una cefalea episodica di tipo emicranico, con evidenza di periodo di escalation della frequenza associato ad una riduzione di intensità della cefalea o dei sintomi vegetativi, attacchi di emicrania sovrapposti ad una cefalea continua o subcontinua. Queste forme sono spesso associate ad overuse di farmaci sintomatici, che spesso rappresenta uno o il principale fattore di cronicizzazione. Da notare che nella attuale classificazione delle cefalee [2], è stato inserito il termine di Chronic Migraine, con un significato diverso da quello dato da Silberstein e Lipton [12]: si tratta di una forma di emicrania ad alta frequenza, non associata ad abuso di analgesici, compresa tra le complicanze dell’emicrania (al punto 1.5.1 della classificazione). D’altra parte, la revisione proposta recentemente accetta l’ipotesi che pazienti con cefalee cronicizzate possano alternare episodi con caratteristiche francamente emicraniche con un dolore più tipicamente di tipo tensivo [13]. In conclusione, solo una valutazione completa del paziente e della sua storia clinica potrà confermare la diagnosi di CTT o, in alternativa, far sospettare un’altra forma di cefalea primaria op-
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D. D’Amico
pure l’esistenza di una cefalea secondaria a patologie sottostanti. In base a sospetto clinico giustificato da elementi anomali della storia clinica o dell’esame generale e/o neurologico sarà possibile per il clinico attento richiedere eventuali indagini strumentali mirate, per ridurre al massimo l’errore diagnostico. Si ricorda che spesso la rivalutazione del paziente nel tempo può chiarire vari dubbi diagnostici, soprattutto se il paziente viene istruito a tenere un diario della cefalea (registrazione di frequenza e intensità, valutazione di sintomi associati, durata, fattori scatenanti) prima di tornare alla visita di controllo.
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Capitolo 9
Cefalea di tipo tensivo: cenni di fisiopatologia e la terapia P. Torelli, G.C. Manzoni
I meccanismi fisiopatologici alla base della cefalea di tipo tensivo (CTT) sono solo in parte noti. Mentre precedenti definizioni, come cefalea muscolo-tensiva o cefalea psicogena, suggerivano l’intervento causale diretto della contrazione muscolare e/o di particolari stati psicologici, attualmente si ipotizza una genesi multifattoriale della CTT, basata sia su meccanismi periferici che centrali.
Dati sperimentali sui possibili meccanismi periferici La dolorabilità (tenderness) miofasciale (muscoli striati, ma anche fasce e inserzioni tendinee) a livello pericranico è presente in molti pazienti ed è stata confermata da studi clinici in cieco sia in pazienti con CTT episodica che cronica. Non è possibile essere certi se l’alterazione muscolare sia un fenomeno primario della CTT o secondario al dolore. Se la seconda ipotesi è suggerita dal fatto che anche in soggetti emicranici è stato riscontrato lo stesso fenomeno, alcuni indizi indicano che la tenderness precede il dolore nella CTT: è infatti riscontrabile anche in assenza di cefalea; studi sperimentali con l’utilizzo del digrignamento dei denti indicano che lo sforzo muscolare può scatenare dolore definibile come CTT anche in soggetti normali o in pazienti emicranici. Studi basati su misurazione della contrazione dei muscoli pericranici e paracervicali con EMG di superficie hanno dato risultati contrastanti e la stessa classificazione della International Headache Society (IHS) riconosce l’esistenza di forme di CTT non associata ad anomalie muscolari. Comunque, anche se un lieve aumento della contrazione muscolare è comune nei soggetti con CTT, è difficile che questa possa condurre ad una ischemia generalizzata del muscolo o ad accumulo di metaboliti tali da provocare il dolore [1-6].
Dati sperimentali sui possibili meccanismi centrali Il gruppo di Schoenen ha studiato la soppressione esterocettiva (ES) nella CTT. La ES è l’inibizione dell’attività elettromiografica volontaria del muscolo temporale indotta dalla stimolazione del nervo trigemino. Il secondo periodo silente del riflesso ES2 è diminuito o abolito nei pazienti con CTT cronica. Visto che il riflesso è mediato da interneuroni inibitori a livello del tronco dell’encefalo (soggetti a modulazione limbica e di varie strutture corticali) questi dati elettrofisiologici suggeriscono un’alterazione dei meccanismi di controllo centrale del dolore [7]. Risultati più rilevanti derivano dallo studio della sensibilità nocicettiva centrale e dei meccanismi di sensibilizzazione centrale (central sensitization). Vari studi hanno rilevato, in particola-
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re nei soggetti con CTT cronica, una riduzione della soglia al dolore da pressione, ma anche ridotte soglie a stimoli termici ed elettrici. Questa ipersensibilità a stimoli di diversa natura dipenderebbe da un’alterazione dei meccanismi a livello sopraspinale. Infatti, le ridotte soglie sono state evidenziate sia a livello pericranico che a livello extra-cefalico, indicando un interessamento a livello sopraspinale, piuttosto che segmentario [8]. Esistono evidenze di central sensitization anche a livello spinale/trigeminale (neuroni di secondo ordine del corno dorsale). Registrando la funzione stimolo-risposta da muscoli altamente dolorabili, questa funzione assume un andamento lineare, che non è invece evidente in registrazioni da muscoli in soggetti di controllo. Analizzando questi dati alla luce delle teorie di Wolff sulla spinal sensitization, si può ipotizzare che nella CTT cronica esista una ipersensibilità a livello trigeminale conseguente a prolungati stimoli nocicettivi dalla periferia con conseguente attivazione di recettori che normalmente non mediano stimoli dolorosi.
Modello fisiopatologico della cefalea di tipo tensivo Sulla base di queste evidenze, è stato proposto dalla scuola danese di Olesen un modello fisiopatologico della CTT. Il modello prevede che il problema originario nella CTT sia l’aumentato input nocicettivo dalla periferia (strutture miofasciali), che potrebbe essere favorito da situazioni locali anatomiche o parafisiologiche (es. anomalie della masticazione, posture viziate, traumi). In presenza di stimoli prolungati, si sviluppa la central sensitization a vari livelli. A livello dei neuroni del corno dorsale, le afferenze dolorose (normalmente condotte dalle fibre A-delta e dalle fibre C), portano a modifiche plastiche a livello del corno dorsale del nucleo trigeminale, per cui anche le fibre A-beta vengono attivate (allodinia) e non svolgono il normale effetto inibitorio sul dolore con potenziamento ulteriore della trasmissione dello stimolo doloroso (iperalgesia). I mediatori probabilmente coinvolti nelle modifiche neuroplastiche sono la sostanza P, la neurokinina A, il glutammato con attivazione dei recettori NMDA e conseguente innesco di meccanismi intracellulari. L’aumentata stimolazione afferente al talamo e alla corteccia può poi portare ad un ridotto controllo inibitorio della trasmissione dolorosa anche a livello sovra-spinale. Questi meccanismi non sono ancora chiari, ma probabilmente coinvolgono le strutture centrali con funzione modulatoria, come la sostanza grigia periacqueduttale, da cui originano le vie discendenti inibitorie dirette al corno dorsale, e i nuclei del tronco dell’encefalo (RVM, Rostral Ventromedial Medulla) che contengono neuroni inibitori (off-cells) e eccitatori (oncells). A livello di strutture sovra-spinali il mediatore coinvolto sarebbe soprattutto la serotonina. Si può postulare anche un alterato controllo discendente da parte di aree limbiche (possibile collegamento con fattori emozionali) e della corteccia motoria (conseguente aumento della contrattura muscolare) (Fig. 9.1). Questo modello teorico permette di spiegare come fattori emotivi e psicologici (stress psicosociale, sindromi ansiose e depressive) possano contribuire allo sviluppo della CTT. Tali fattori potrebbero agire sia a livello periferico (aumento della contrazione muscolare) che a livello centrale (facilitazione della percezione del dolore a livello limbico o alterazione delle vie discendenti di modulazione della nocicezione). Inoltre, la teoria della central sensitization può anche spiegare come pazienti affetti da emicrania possano sviluppare nel tempo una forma cronica di cefalea, con attacchi di tipo emicranico associati ad un dolore quotidiano di tipo tensivo (Chronic Daily Headache, Transformed or Chronic Migraine). Questa evoluzione potrebbe dipendere dalla sensibilizzazione a livello del nucleo trigeminale da parte di ripetuti input a provenienza da strutture vascolari (attivazione del si-
Cefalea di tipo tensivo: cenni di fisiopatologia e la terapia
Strutture sopraspinali
Area supplementare motoria Sistema limbico Corteccia sensitiva e talamo
PAG
RVM
Sensibilizzazione dei neuroni nocicettivi di second’ordine (V, C2 e C3)
+ Tessuti miofasciali pericranici
Corteccia motoria
+
Incremento trasmissione informazioni nocicettive Tronco dell’encefalo Midollo spinale
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Motoneuroni
+
Fibre A-delta e C Fibre A-beta Afferenze sensitive
Fibre muscolari
Fig. 9.1 Modello fisiopatologico teorico della CTT. Da [8]
stema trigemino-vascolare con infiammazione neurogena e stimolazione delle terminazioni perivascolari) che si sommano agli input dalle strutture miofasciali. In conclusione, le evidenze più recenti hanno portato alla considerazione che la CTT sia la manifestazione di un’alterazione dei meccanismi di facilitazione/inibizione del dolore piuttosto che il risultato della semplice contrattura muscolare. I meccanismi periferici sembrano essere maggiormente coinvolti nella CTT episodica, mentre le modifiche funzionali a livello del sistema nervoso centrale potrebbero giocare un ruolo più importante nella CTT cronica, probabilmente per l’esistenza di un particolare habitus bio-genetico-comportamentale (difficoltà all’adattamento).
Terapia Nell’approccio terapeutico alla CTT si distinguono trattamenti acuti, intesi a interrompere l’attacco doloroso o a ridurre l’intensità dei sintomi, e trattamenti di profilassi, mirati a prevenire o a diminuire la frequenza degli attacchi. L’analisi dei dati della letteratura non è semplice in quanto i criteri diagnostici e i metodi adottati non sono uniformi e sono relativamente pochi i farmaci controllati contro placebo.
Terapia dell’attacco FANS Diversi farmaci di questa classe sono comunemente utilizzati. Per alcuni di questi esiste la conferma di efficacia in studi controllati. L’aspirina è il farmaco più usato nel mondo per la CTT e ha mostrato, in studi controllati, un’efficacia superiore al placebo. Le dosi consigliate vanno dai 0,5 ai 2 g/die. Il ketoprofene si è dimostrato superiore al placebo per il trattamento della CTT episodica a dosi di 25-150 mg/die per os o 100 mg/die per via intramuscolare o endovenosa. L’ibuprofene ha
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mostrato un vantaggio di efficacia uguale o superiore rispetto al placebo in diversi studi. Le dosi consigliate sono 200-800 mg/die ed è caratterizzato da una buona tollerabilità gastrica. Il naprossene, utilizzato in studi in doppio cieco, si è dimostrato più attivo del placebo e dell’acetaminofene. Ha un’emivita di 14 ore e risulta per questo particolarmente indicato per gli attacchi di maggiore durata, garantendo un sollievo dal dolore per almeno 12 ore. La tollerabilità gastrica del naprossene è paragonabile a quella dell’aspirina. La dose consigliata è di 550 mg/die, anche se nella pratica clinica è spesso necessario portare il dosaggio a 750-1100 mg. Per il paracetamolo esistono dati contrastanti riguardo alla superiorità rispetto al placebo. Le dosi consigliate sono tra 500 e 1000 mg/die. I principali effetti collaterali comuni a tutti i farmaci di questa categoria sono a carico dell'apparato gastrointestinale (pirosi, nausea, vomito, stipsi, diarrea, dolore epigastrico e ulcera). Meno frequenti i disturbi a carico della cute (rash e prurito) e del sistema nervoso centrale (cefalea, letargia e confusione). Sono controindicati nei pazienti con ulcera gastro-duodenale, diatesi emorragica o in trattamento con anticoagulanti. Anche in Italia, sono spesso usati prodotti di associazione di vari farmaci. La codeina è associata al paracetamolo e la caffeina è presente in molti composti da banco. Anche se la presenza della codeina suggerisce un maggiore effetto e anche se è dimostrato che l'associazione della caffeina a molti analgesici ne potenzia significativamente l'efficacia, in questi casi la prudenza si impone per evitare cefalee da uso cronico con assuefazione o cefalea da rebound: il potenziale di dipendenza ne limita l’uso ai casi di CTT episodica a bassa frequenza [9-24].
Miorilassanti Alcuni farmaci ad azione miorilassante, come le benzodiazepine o la tizanidina, sono talvolta usati per interrompere un attacco di CTT. Il loro uso, comunque, appare più appropriato nella terapia di profilassi.
Triptani Da segnalare che i triptani non sono utili nella CTT, mentre il sumatriptan è risultato efficace in uno studio in cui sono stati trattati episodi di CTT in pazienti emicranici [25].
Terapia farmacologica di profilassi Amitriptilina Fin dagli anni ’60 numerosi studi, anche controllati verso placebo hanno valutato l’efficacia dell’amitriptilina, in particolare nella CTT cronica. Nonostante la negatività di alcune osservazioni (uno studio multicentrico del 1994 non ha segnalato differenze significative tra amitriptlina 50-75 mg e placebo), questo farmaco viene considerato di prima scelta, anche in pazienti senza evidente componente depressiva. Il regime posologico più utilizzato consiste nell’assunzione di una dose iniziale serale di 5-10 mg da aumentare di 10 mg ogni 5-7 giorni, fino a una dose di mantenimento di 25-75 mg/die. I risultati positivi solitamente iniziano a manifestarsi dopo 1-2 settimane dall’inizio del trattamento. Possibili effetti collaterali sono la secchezza delle fauci, astenia, stipsi, sonnolenza, aumento ponderale; più rari, disturbi della frequenza cardiaca, ipotensione, agitazione o insonnia. L’amitriptilina è controindicata in soggetti con glaucoma ad angolo chiuso, ritenzione urinaria, aritmia [25-32].
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Altri triciclici Sono utilizzati nella CTT anche farmaci come clomipramina, imipramina, nortriptilina. La clomipramina, alla dose di 75-150 mg/die, ha mostrato vantaggio superiore al placebo e all’amitriptilina, ma con una percentuale significativa di effetti collaterali. Anche l’imipramina, alla dose di 100-200 mg/die, sembra superiore al placebo, anche se inferiore all’amitriptilina [30, 33].
SSRI ed altri antidepressivi Alcuni inibitori selettivi del re-uptake della serotonina sono usati nella CTT. La fluvoxamina (50100 mg/die) è stata confrontata in aperto con mianserina evidenziando una efficace riduzione della gravità e della frequenza degli attacchi. La sua efficacia sembra indipendente dalla componente depressiva. La fluoxetina (20 mg/die) è stata usata con successo in alcuni studi in aperto, in pazienti con forme croniche di cefalea (Chronic Daily Headache) e forme miste con caratteristiche emicraniche associate a caratteristiche tensive. Uno studio in parallelo verso sulpiride segnala l’efficacia nella CTT della paroxetina, mentre evidenze contrarie all’efficacia degli SSRI derivano da uno studio del 1996 di Bendtesen in cui il citalopram aveva una efficacia addirittura inferiore al placebo, oltre che all’amitriptilina. Considerando altri tipi di antidepressivi, la maprotilina (75 mg/die), la dotiepina (75 mg/die) e la mianserina (30-60 mg/die) si sono dimostrate superiori al placebo in alcuni studi e sono in genere ben tollerate. Non esistono studi controllati per il trazodone, per la sulpiride e per gli inibitori della MAO. Una recente segnalazione danese indica l’efficacia della mirtazapina (15-30 mg) nei pazienti con CTT cronica [30, 31, 34-39].
Miorilassanti Farmaci con meccanismo miorilassante ad azione centrale sono consigliati nella terapia di prevenzione della CTT. La tizanidina è la più studiata. Oltre a vari studi in aperto, esiste almeno uno studio controllato verso placebo che ne provano l’efficacia. Il farmaco sembra molto efficace anche nei pazienti con Chronic Daily Headache. Con dosaggi fino a 18 mg/die e con lento e graduale aumento delle dosi partendo da 2 mg/die, sono lievi gli effetti collaterali (xerostomia, senso di confusione o sonnolenza). Raro il rilievo di epatotossicità o un’importante sonnolenza o senso di confusione. Non esistono studi controllati per altri miorilassanti ad azione prevalentemente periferica (piridinolo, tiocolchicoside), centrale (ciclobenzaprina) o mista (dantrolene), anche se sono spesso utilizzati per via orale, rettale o intramuscolare, in modo empirico, nelle forme di CTT episodica. Esplicano anche un’azione miorilassante le benzodiazepine, quali il diazepam, il bromazepam, il clordiazepossido. Anche bassi dosaggi possono essere sufficienti, soprattutto nei casi in cui è presente una componente ansiosa o insonnia [40-41].
Antiepilettici L’acido valproico, agonista dei recettori centrali GABAergici, è stato recentemente testato in alcuni studi in aperto in pazienti con forme croniche di cefalea (Chronic Daily Headache) e forme miste, con una percentuale di risposta del 60% nei pazienti con forme miste ma soltanto del 21% in pazienti con CTT cronica. Recentemente, sempre in uno studio in aperto, è stata segnalata l’efficacia del topiramato, al dosaggio di 100 mg/die, nella profilassi della CTT cronica [42, 43].
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Terapia preventiva non farmacologica Tecniche comportamentali La tecnica considerata di maggiore efficacia è il biofeedback. Il paziente, con l’ausilio di un apparecchio elettronico, apprende ad autoregolare la propria tensione muscolare. La tecnica si basa sulla rilevazione dell’attività elettrica muscolare in un determinato distretto mediante elettrodi di superficie, offrendo al paziente informazioni sul proprio livello di tensione muscolare. Il paziente impara a essere consapevole delle variazioni del proprio stato di tensione e in seguito apprende come controllare volontariamente queste variazioni. Un aspetto molto interessante di questa tecnica è la possibilità di realizzare un avvicinamento tra piano biologico e piano psicologico, così intimamente intrecciati nella patogenesi della cefalea di tipo tensivo. L’esperienza italiana del gruppo dell’Istituto Besta di Milano è positiva anche in studi che hanno utilizzato gruppi di controllo trattati con tecnica placebo o in cui era presente un lungo follow-up (1-3 anni), condotti sia in pazienti di età pediatrica con CTT sia in adulti con Chronic Daily Headache e overuse di farmaci. Esercizi di contrattura/decontrattura muscolare, associati anche a esercizi di respirazione o di visualizzazione, possono essere consigliati ai pazienti con CTT. Infatti, risultati positivi sono ottenuti anche con altri approcci comportamentali, come il Relaxation Training e le terapie cognitive [44-46].
Agopuntura I pochi studi controllati verso placebo presenti in letteratura indicano una tendenza ad efficacia superiore al placebo, ma senza dimostrazione di significatività statistica [47].
Tossina botulinica L’uso della tossina è stato recentemente introdotto vista l’esperienza positiva nei disturbi distonici. Anche se alcuni studi in aperto hanno segnalato un miglioramento della CTT, non esiste una sufficiente standardizzazione della tecnica (dosi, sede delle iniezioni, periodi di follow-up). Recenti studi con tossina A verso placebo in pazienti con CTT cronica non hanno rilevato un significativo miglioramento del dolore. I possibili effetti collaterali includono la paralisi transitoria dei muscoli o reazioni nella sede di inoculo [48-51].
Altri trattamenti non farmacologici Varie tecniche di tipo fisioterapico (massaggi, manipolazioni, stretching, TENS) sono spesso consigliati a pazienti con CTT con contrattura muscolare. Anche se alcuni studi indicano risultati incoraggianti, soprattutto in pazienti con forme croniche e di sesso femminile, una recente review di studi controllati non è stata in grado di dimostrare risultati consistenti. Tecniche particolari sono indicate in sottogruppi di pazienti con evidenza di fattori scatenanti e comorbidità: trattamenti stomatologici o ortodontici in caso di disfunzione oromandibolare; psicoterapie in presenza di problematiche psicologiche e stress psicosociale [52-54].
Considerazioni generali sulla terapia Contrariamente all’attacco di emicrania, il dolore della CTT spesso non è di intensità tale da richiedere una terapia sintomatica. Da segnalare la non infrequente scarsa risposta ai farmaci anal-
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gesici. D’altra parte è necessario considerare il potenziale rischio di abuso o overuse e lo sviluppo di cefalea indotta da farmaci, soprattutto quelli contenenti caffeina e barbiturici. Anche la terapia di profilassi non è indicata in tutti i casi di CTT. Una terapia volta a ridurre la frequenza e la gravità degli attacchi deve essere considerata nei casi di reale compromissione delle capacità funzionali e della qualità dalla vita del paziente. La profilassi della CTT risulta indicata nei seguenti casi: forme croniche o comunque con una frequenza di attacchi superiore a due alla settimana; durata dell’attacco superiore a 3-4 ore in media; gravità d’attacco che potrebbe comportare abuso di medicinali o una significativa disabilità del paziente. Bisogna inoltre considerare che, vista la parziale conoscenza dei meccanismi fisiopatologici della CTT, l’uso dei farmaci è empirico. Il farmaco più efficace nella profilassi della CTT resta comunque l’amitriptilina, sostanza che blocca il re-uptake della serotonina, ma anche della noradrenalina, e che ha numerose azioni, interagendo con vari sottotipi di recettori, tra cui anche i recettori NMDA, implicati nei meccanismi di cronicizzazione del dolore. Ancor più che in altre forme di cefalea primaria, la strategia terapeutica per il paziente con CTT deve essere decisa caso per caso. Aspetti essenziali per il successo della terapia nella CTT sono i seguenti: – individuazione e trattamento di fattori muscolari, meccanici, emotivi; – rassicurazione ed informazione del paziente (benignità della malattia, consigli comportamentali su riposo, sonno, ecc.); – associazione, in casi selezionati, di trattamenti farmacologici e non farmacologici; – prevenzione dell’abuso di farmaci.
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PARTE II
Forme diverse di cefalee primarie
Cefalea di tipo censivo: la clinica
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Capitolo 10
Altre cefalee primarie G.C. Manzoni, P. Torelli
Nella classificazione delle cefalee della International Headache Society (IHS) del 1988 [1] il gruppo 4, denominato “Cefalee varie non associate a lesioni strutturali”, comprendeva sei differenti tipi di cefalea: la cefalea trafittiva idiopatica, la cefalea da compressione esterna, la cefalea da stimolo freddo, la cefalea da tosse benigna, la cefalea da sforzo benigna, la cefalea associata ad attività sessuale. Nella nuova revisione della classificazione (ICHD-II) del 2004 il gruppo 4 [2], denominato “Altre cefalee primarie”, include otto differenti tipi di cefalea. Rispetto all’edizione del 1988, due forme (la cefalea da compressione esterna e la cefalea da stimolo freddo) non compaiono più perché sono state spostate nel gruppo 13 “Nevralgie craniche e cause centrali di dolore facciale”, ma sono inserite quattro nuove entità cliniche: la cefalea ipnica, la cefalea a rombo di tuono primaria, la hemicrania continua e la new daily persistent headache (NDPH); inoltre, gli aggettivi idiopatica e benigna sono stati sostituiti dall’aggettivo primaria. La ICHD-II del 2004 comprende pertanto nel gruppo delle “Altre cefalee primarie” i seguenti tipi di cefalea: 1. Cefalea trafittiva primaria; 2. Cefalea da tosse primaria; 3. Cefalea da sforzo primaria; 4. Cefalea associata ad attività sessuale primaria; 5. Cefalea ipnica; 6. Cefalea a rombo di tuono primaria; 7. Hemicrania continua; 8. New daily persistent headache (NDPH).
Cefalea trafittiva La prima descrizione della cefalea trafittiva primaria (CTP) risale al 1964 quando Lansche identificò una nuova sindrome algica denominandola Ophthalmodynia periodica [3]. Da allora è stata definita con termini quali icepick-like pain, sharp, short-lived head pain syndrome, jabs and jolts syndrome, needle-in-the-eye syndrome, cephalgia fugax e, nella classificazione IHS del 1988, idiopathic stabbing headache. La ICHD-II del 2004 la denomina primary stabbing headache.
Epidemiologia La frequenza della CTP nella popolazione generale non è precisamente definita: Pareja riporta un’incidenza di 33/100.000 casi/anno in una popolazione ospedaliera e sottolinea la probabile sottostima del dato [4]; Rasmussen [5] rileva una prevalenza lifetime pari al 2% nella popolazione generale danese e, nella maggior parte dei casi, si tratta di pazienti emicranici; Sjaastad, infine, in uno studio epidemiologico condotto nella popolazione norvegese, segnala una prevalenza superiore al 30%, se si considera la durata del dolore inferiore a 3 secondi [6].
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G.C. Manzoni et al.
L’età di esordio generalmente si colloca nella quinta decade di vita, anche se è stata descritta una casistica di 83 soggetti di età inferiore ai 15 anni [7]. Le donne sono colpite più frequentemente degli uomini. Recentemente sono stati segnalati alcuni casi in cui la CTP si è presentata in seguito a traumi cranici, oculari o a herpes zoster a localizzazione oftalmica, ma l’insorgenza è prevalentemente spontanea. Si può manifestare in modo isolato oppure associata ad altre forme di cefalea, quali emicrania e cefalea di tipo tensivo. Raskin e Schwartz hanno comparato la prevalenza della CTP in 100 emicranici e in 100 soggetti sani individuando 42 affetti tra i primi e solo 3 nei controlli [8]. Drummond e Lance [9] studiando un campione di 530 pazienti affetti da cefalea primaria ricorrente (emicrania e cefalea di tipo tensivo) osservano la CTP in 200 soggetti. L’associazione è stata descritta anche con la cefalea a grappolo, l’emicrania cronica parossistica, la cefalea cervicogenica, la hemicrania continua e la SUNCT.
Caratteristiche cliniche È caratterizzata da fitte dolorose ad insorgenza brusca e improvvisa, localizzate al capo, a sede variabile, abitualmente nei territori di distribuzione della prima branca del trigemino (regione orbitaria, temporale) e, meno frequentemente, nella regione parietale e occipitale. Spesso il dolore è riferito nella stessa area di presentazione della cefalea primaria a cui si associa. Generalmente è unilaterale, ma può localizzarsi anche bilateralmente. Qualitativamente ha un carattere trafittivo, puntorio e lancinante, paragonato ad un punteruolo da ghiaccio (icepick-like pain) oppure ad un ago nell’occhio (needle-in-the-eye). La denominazione jabs and jolts deriva dalla descrizione di un paziente che riferiva “stilettate” improvvise, tali da determinare un sobbalzo. Nell’80% dei casi le fitte hanno una durata media di pochissimi secondi (3 o meno), si presentano singolarmente o in serie e possono essere ricorrenti, ad intervalli irregolari di ore o giorni. Alcuni soggetti riportano la persistenza, per minuti o ore, dopo una fitta particolarmente intensa, di un dolore sordo, di lieve entità, nella stessa sede. La sintomatologia algica non si presenta accompagnata da altri sintomi o segni obiettivi. Gli attacchi sono nella maggior parte dei casi spontanei anche se sono stati riportati dei fattori scatenanti tra cui gli sforzi fisici, la luce abbagliante e i movimenti del capo. L’andamento nel tempo è erratico, bizzarro e imprevedibile, senza uno specifico pattern temporale; la frequenza degli attacchi è altamente variabile. Recentemente, in uno studio condotto in 38 soggetti affetti, è stato evidenziato che nel 57% dei pazienti le crisi sono quotidiane e ricorrono per alcuni giorni consecutivi, mentre nel 14% dei casi il pattern descritto può essere definito cronico. I parossismi non hanno un orario prevedibile e sono distribuiti in modo casuale nell’arco della giornata [10].
Ipotesi patogenetiche Benché la patogenesi non sia conosciuta, la qualità del dolore, genericamente nevralgico, lascia presupporre una disfunzione neuronale parossistica. La possibile assenza di una localizzazione topografica precisa riflette probabilmente la multifocalità dell’alterazione funzionale, determinata dalla stimolazione di singole fibre dei nervi pericranici ed in particolare della prima branca del nervo trigemino. Benché sia possibile l’esistenza di una fonte d’irritazione a livello peri-
Altre cefalee primarie
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ferico, è più plausibile l’ipotesi di una perdita intermittente del controllo centrale sulle afferenze dolorifiche.
Diagnosi differenziale Per la diagnosi differenziale con altre cefalee primarie di breve durata è indicata l’analisi comparativa degli elementi riportati nella Tabella 10.1.
Terapia Gli studi relativi al trattamento di questa forma di cefalea sono numericamente limitati e i risultati non sono univoci. Mathew [11] considera la risposta all’indometacina eccellente, al dosaggio di 150 mg al dì in tre somministrazioni, anche se non assoluta come nell’emicrania cronica parossistica. Sjaastad [12], al contrario, riferisce una parziale o inesistente efficacia dell’indometacina, una maggiore azione del naprossene e un certo beneficio con altri antinfiammatori non steroidei. Recentemente è stata segnalata l’efficacia dell’ossigeno puro, inalato alla velocità di 8 L/min per 15 minuti, in un caso aneddotico di CTP associata a perdita monoculare della vista [13]. Con l’uso dell’indometacina la remissione della sintomatologia si manifesta in genere in un tempo variabile da alcune ore ad alcuni giorni e, dopo un periodo di controllo della cefalea, è indicata la sospensione del trattamento, seguito da un attento monitoraggio dell’andamento clinico. Nella maggior parte dei casi, non è comunque necessario l’approccio farmacologico.
Tabella 10.1 Diagnosi differenziale con altre cefalee primarie di breve durata (analisi comparativa degli elementi) Caratteristiche cliniche
Cefalea trafittiva primaria
Cefalea a grappolo
Emicrania parossistica
SUNCT*
Nevralgia del trigemino classica
Cefalea ipnica
Rapporto M:F Dolore tipo Intensità Durata Sede
F>M lancinante severo pochi sec >1° branca trigeminale variabile
M>F penetrante severo 15-180 min oculo-fronto temporale a dì alterni8/die
F>M penetrante severo 2-30 min oculo-fronto temporale >5/die
M>F lancinante medio 5-240 sec oculo-fronto temporale 3-200/die
F>M lancinante severo <1 sec-2 min 2°-3° branca trigeminale variabile
F>M sordo medio 15-180 min diffuso
no
si
si
si
no
no
si
no
si
no
no
no
Frequenza delle crisi Sintomi autonomici associati Risposta + alla indometacina
>15/mese
* SUNCT, Short-lasting Unilateral Neuralgiform headache with Conjunctival injection and Tearing
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Cefalea da tosse Epidemiologia Il termine céphalée à l’effort venne introdotto già nel 1932 da Tinel [14] sulla base della descrizione di 4 pazienti con forte dolore al capo in concomitanza con colpi di tosse e varie manovre tipo Valsalva, come soffiarsi il naso, trattenere il respiro, ridere, abbassare la testa, effettuare sforzi muscolari. In effetti, i soggetti che presentano cefalea da tosse hanno spesso cefalea anche in seguito ad alcune o a tutte le altre manovre segnalate da Tinel. Le descrizioni di cefalea da tosse pura non sono, a tutt’oggi, molto numerose e riguardano casistiche generalmente poco ampie, per cui si può ritenere, in ciò confortati anche dall’esperienza clinica, che la cefalea da tosse sia relativamente rara. Nella popolazione generale, la prevalenza stimata è circa dell’1% [5], con predominanza nel sesso maschile, essendo il rapporto M:F pari a 4:1. La maggior frequenza si osserva nella quinta e sesta decade di vita ed è riportata la possibilità di comparsa dopo un’infezione dell’apparato respiratorio con tosse.
Caratteristiche cliniche Per la diagnosi di cefalea da tosse primaria, la ICHD-II del 2004 sancisce i seguenti criteri: A. la cefalea deve rispettare i punti B e C; B. insorgenza improvvisa, durata da 1 secondo a 30 minuti; C. si manifesta solo in concomitanza con colpi di tosse, sforzi e/o manovra di Valsala; D. non è attribuibile ad altre patologie. Il dolore è solitamente di intensità severa e viene descritto come esplosivo, costrittivo, penetrante, a pugnalata, urente; alcuni pazienti riferiscono una lieve, ma persistente cefalea costrittiva o gravativa tra gli attacchi. La sintomatologia, localizzata generalmente nelle regioni frontale e temporale, talvolta al vertice, alla nuca o a tutto il capo, non si associa a segni neurovegetativi. La frequenza è altamente variabile e in stretta relazione temporale con gli stimoli in grado di provocarla.
Ipotesi patogenetiche Per quanto riguarda i meccanismi patogenetici, è probabile che la cefalea derivi dallo stiramento di strutture craniche algosensibili a livello del foramen magnum dovuto all’aumento della pressione liquorale che la tosse induce attraverso un aumento delle pressioni intratoracica ed intraddominale. È stato ipotizzato che durante i colpi di tosse o manovre tipo Valsalva vi sia un temporaneo ostacolo al deflusso liquorale, determinato dal ridotto ritorno venoso all’atrio destro con aumentata pressione venosa centrale ed intracranica [10]. Williams nel 1976 [15] ha misurato le variazioni della pressione nello spazio subaracnoideo in risposta alla tosse e ha evidenziato che, quando la pressione a livello lombare supera quella a livello ventricolare, il liquor tende a portarsi, con un’onda di pressione, verso l’alto. A questa fase seguirebbe un’inversione del gradiente pressorio, con ritorno dell’onda verso il basso e con-
Altre cefalee primarie
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seguente blocco, dovuto ad un meccanismo a valvola, a livello del foramen magnum. In anni più recenti, alcuni Autori hanno ipotizzato [16], nei pazienti con cefalea da tosse primaria, un aumento del volume liquorale, non tale da determinare ipertensione endocranica, ma sufficiente a causare un aumento del gradiente pressorio con compressione della dura in concomitanza con i colpi di tosse.
Diagnosi differenziale Anche se la maggioranza dei casi di cefalea da tosse che afferiscono ai Centri Cefalee sono primari, deve essere sempre tenuta ben presente la possibilità di una patologia organica sottostante; tale evenienza si ritrova in 6 dei 27 casi di Symonds [17] (un meningioma della fossa posteriore, una cisti del mesencefalo, 3 casi di impressione basilare da morbo di Paget ed un caso dopo rimozione di un tumore dell’acustico), in ben 5 degli 8 casi di Ekbom [18] (un astrocitoma cerebellare, un meningioma della fossa cranica media, un pinealoma e 2 adenomi cromofobi) e in 17 dei 30 casi descritti da Pascual (in tutti, malformazioni di Arnold Chiari tipo I) [19].
Terapia Nonostante non siano disponibili studi controllati, il farmaco che sembrerebbe più utile nel limitare gli attacchi è l’indometacina. La sua efficacia è stata riportata per la prima volta da Mathew nel 1981 [11] e il dato è stato successivamente confermato da altri autori [20]. In alcuni casi è stato possibile ottenere un controllo del numero delle crisi in seguito alla somministrazione di propranololo, alla dose di 120 mg al giorno, o di acetazolamide con dosaggio giornaliero variabile da 375 a 2000 mg [21]. Symonds e Rooke notarono che alcuni soggetti, dopo rachicentesi o pneumoencefalografia eseguite a scopo diagnostico, riferivano un miglioramento o la scomparsa degli episodi cefalalgici. Per verificare l’effettivo ruolo di queste manovre, Raskin ha sottoposto a puntura lombare una serie di 14 soggetti affetti, ottenendo una rapida e completa regressione della sintomatologia in 6 pazienti e un progressivo miglioramento in 3 [21].
Cefalea da sforzo Epidemiologia e caratteristiche cliniche I dati epidemiologici relativi a questa forma di cefalea sono del tutto carenti, a causa dell’applicazione di disomogenei parametri diagnostici nelle diverse casistiche studiate. La cefalea da sforzo può essere indotta da diversi tipi di esercizio fisico sostenuto, soprattutto quando effettuato in climi caldi-umidi, in condizioni di scarso allenamento o in altitudine. La forma idiopatica è definita, nella ICHD-II del 2004 come “cefalea da sforzo primaria” e i relativi criteri diagnostici stabiliscono che:
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A. la cefalea è pulsante e deve rispettare i punti B e C; B. dura da 5 minuti a 48 ore; C. si manifesta solo durante o in stretto rapporto temporale con esercizio fisico; D. non è attribuibile ad altre patologie. È stata segnalata la possibilità di evitare la cefalea, facendo precedere lo sforzo fisico da un periodo adeguato di attività fisica preparatoria moderata. Come nella cefalea da tosse, anche nella cefalea da sforzo va attentamente ricercata una possibile base organica. In particolare, patologie intracraniche (es. malformazioni artero-venose), stenosi carotidee, feocromocitoma e ischemia cardiaca. In una revisione di 28 casi, Pascual [19] ha segnalato 12 casi di natura sintomatica, legati a emorragia subaracnoidea, sinusite o metastasi cerebrali.
Ipotesi patogenetiche Dal punto di vista fisiopatologico, le ipotesi ad oggi formulate sono piuttosto grossolane. Un ruolo importante sembra essere svolto dalla distensione venosa acuta secondaria allo sforzo ed in alcuni casi dalla dilatazione arteriosa, che si può manifestare quando l’attività fisica viene svolta in un ambiente caldo. Mancano comunque evidenze clinico-strumentali in grado di supportare tali ipotesi. L’osservazione di ipoperfusione frontale, mediante tomografia computerizzata ad emissione di fotone singolo (SPECT) con tecnezio-99m-HMPAO durante un attacco di cefalea da sforzo benigna, ha permesso di postulare una relazione tra questa forma algica e la sindrome emicranica [22]. Nel paziente descritto, le crisi si verificavano esclusivamente in relazione con l’attività fisica, ma le caratteristiche cliniche erano chiaramente riconducibili ad una forma di emicrania.
Terapia Il suggerimento terapeutico più logico è rappresentato in primis dalla limitazione dell’attività fisica. Talora il dolore può essere evitato instaurando prima dell’attività un trattamento con farmaci antiemicranici, quali ergotamina tartrato e metisergide. Alcuni studi suggeriscono l’efficacia preventiva dell’indometacina al dosaggio di 25-150 mg [23]. Il meccanismo d’azione dell’indometacina, in questa forma di cefalea, potrebbe essere determinato dalla riduzione del flusso ematico cerebrale.
Cefalea associata ad attività sessuale Epidemiologia e caratteristiche cliniche La cefalea da attività sessuale non è sempre primaria. Infatti, un’emorragia subaracnoidea si manifesta durante un rapporto sessuale nel 4,5% dei casi di Fisher [24] e nel 12% dei casi di Lundberg e Osterman [25]; sono stati riportati anche casi di infarto cerebrale o del tronco encefalico. Il riconoscimento che la maggior parte delle cefalee da attività sessuale non sottende malforma-
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zioni vascolari ed ha prognosi benigna, risale probabilmente a Wolff [26], ma è merito di Kriz, che nel 1970 riporta in Cecoslovacchia una serie di 25 casi, aver conferito definitiva autonomia a questo tipo di cefalea. Successivamente questa forma è stata meglio definita da Martin [27], Lance [28] e Paulson e Klawans [29]. La ICHD-II del 2004 differenzia due sottotipi di cefalea associata ad attività sessuale primaria, a seconda del momento d’esordio della stessa rispetto alla fase di eccitamento sessuale, formulando i seguenti, rispettivi criteri diagnostici:
Cefalea preorgasmica A. dolore sordo localizzato al capo e al collo, associato a senso di contrattura dei muscoli del collo e mascellari; B. si manifesta durante l’attività sessuale ed aumenta con l’eccitamento sessuale; C. non è attribuibile ad altre patologie. Cefalea orgasmica A. cefalea improvvisa, severa (“esplosiva”); B. si manifesta durante l’orgasmo; C. non è attribuibile ad altre patologie. Non esistono in letteratura dati certi sulla durata delle crisi di questi tipi di cefalea, ma si ritiene che di solito vari da 1 minuto a 3 ore. Altri elementi clinici sono: la predominanza nel sesso maschile; il fatto che si può verificare in qualsiasi momento nell’arco degli anni di attività sessuale; l’andamento capriccioso, nel senso che può manifestarsi in parecchie occasioni consecutive e quindi non presentarsi più senza che si siano verificati cambiamenti nella tecnica dell’esercizio sessuale; la maggior probabilità di manifestazione quando un secondo rapporto sessuale viene attuato a breve distanza dal precedente; la maggior frequenza in soggetti affetti da cefalea da sforzo, emicrania e ipertensione arteriosa.
Ipotesi patogenetiche Dal punto di vista fisiopatologico, il primo tipo è probabilmente dovuto ad un’eccessiva contrazione dei muscoli del capo e del collo e sembra essere legata all’eccitazione sessuale piuttosto che allo sforzo fisico ad essa associato. Il secondo tipo è probabilmente causato dall’aumento della pressione arteriosa che si verifica in corrispondenza dell’orgasmo; a questo proposito Masters e Johnson hanno osservato che durante l’orgasmo la pressione sistolica aumenta da 40 a 100 mm/Hg e la diastolica da 20 a 50 mm/Hg [30].
Terapia A causa dell’andamento temporale, erratico e imprevedibile, è difficile studiare e proporre schemi terapeutici applicabili a questa forma di cefalea, anche se è stata riportata una risposta favorevole in seguito ad assunzione di indometacina ed ergotamina in acuto, e di betabloccanti, calcioantagonisti e metisergide in profilassi.
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Cefalea ipnica Epidemiologia e caratteristiche cliniche La cefalea ipnica è un’entità rara, caratterizzata dall’insorgenza del dolore nel sonno, di intensità tale da causare il risveglio. Descritta per la prima volta nel 1988 da Raskin [31], da allora sono stati riportati non più di un centinaio di casi e nel 2003 Evers e Goadsby hanno pubblicato un’interessante analisi degli 82 casi reperibili in letteratura in quel momento [32]. Non è a tutt’oggi nota la prevalenza nella popolazione generale di questa forma di cefalea; al Centro Cefalee della Mayo Clinic lo 0,07% dei pazienti osservati ha una cefalea ipnica; al Centro Cefalee di Monaco (Germania) ne risulta affetto circa lo 0,1% di tutti i pazienti osservati per cefalea. I dati disponibili, anche se ancora limitati, sono stati ritenuti sufficienti per l’inserimento di questa forma di cefalea nella ICHD-II del 2004. Per porre diagnosi si richiede che vengano soddisfatti i seguenti criteri: A. il dolore è di tipo sordo e deve rispettare i punti B-D; B si manifesta solo durante il sonno e risveglia il paziente; C. la cefalea deve avere almeno due delle seguenti caratteristiche: 1 si verifica almeno 15 volte al mese, 2. dura almeno 15 minuti dopo il risveglio, 3. esordisce dopo i 50 anni d’età; D. non si associa alcun sintomo autonomico e non più di uno tra nausea, fotofobia e fotofobia; E. non è attribuibile ad altre patologie. La cefalea ipnica è più frequente nel sesso femminile ed esordisce mediamente a 60 anni. Il dolore è bilaterale nel 60% dei casi, localizzato per lo più nelle regioni anteriori del capo, di tipo gravativo e di intensità moderata. In alcuni casi la sintomatologia è unilaterale, con tendenza alla costanza di lato, pulsante, di intensità severa e persiste per alcune ore. La metà dei pazienti ha riferito di essere regolarmente svegliato dal sonno tra le 2 e le 3 [31]. Una polisonnografia è stata effettuata in nove pazienti: l’attacco è insorto in concomitanza della prima fase REM in 5 casi e durante lo stadio 3 del sonno in un caso; nei restanti 3 pazienti non si verificò alcuna crisi durante la registrazione [33]. Dall’analisi della storia clinica dei casi riportati, la cefalea ipnica ha un andamento temporale episodico, si presenta per anni e la recessione spontanea è rara. Alcuni Autori sospettano che la sindrome di Raskin sia un disordine a presentazione non uniforme, che potrebbe comprendere al suo interno differenti sottovarietà [34, 35].
Ipotesi patogenetiche La patogenesi di questa forma non è conosciuta. L’esordio in età adulta, la breve durata degli attacchi, la presentazione ad orari fissi, la risposta terapeutica al carbonato di litio e all’indometacina, seppur non assoluta, hanno indotto inizialmente alcuni Autori a considerare questa entità una cefalalgia autonomico-trigeminale (TACs - trigeminal autonomic cephalgias) [34], come la cefalea a grappolo e l’emicrania parossistica, ipotizzando la condivisione degli stessi meccanismi patogenetici. Più tardi, questa ipotesi è stata abbandonata a causa dell’assenza di una stretta unilateralità e di segni neurovegetativi associati al dolore. La presentazione ad orari fissi, prevalentemente nelle ore notturne, suggerisce tuttavia un coinvolgimento delle strutture ipotalamiche.
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Terapia In letteratura è stata segnalata la risposta positiva alla somministrazione serale di carbonato di litio, atenololo, ergotamina tartrato, ASA, sumatriptan e indometacina [36-38]. Alcuni pazienti riferiscono di trarre beneficio dall’assunzione di 60 mg di caffeina in compresse o di una tazzina di caffè prima di coricarsi.
Cefalea a rombo di tuono I pazienti affetti da questa particolare cefalea descrivono un dolore esplosivo, molto intenso, ad esordio improvviso ed inaspettato, che può essere paragonato ad un “rombo di tuono”. L’espressione thunderclap headache venne utilizzata la prima volta nel 1986 [39], per indicare la cefalea riferita da una paziente di 42 anni portatrice di un aneurisma sacculare all’origine dell’arteria cerebrale posteriore, rilevato mediante l’esecuzione di un’angiografia cerebrale, in assenza di segni di sanguinamento, recente o pregresso, evidenziabili con la TAC cerebrale e con l’analisi del liquido cefalo-rachidiano (LCR). In letteratura sono stati poi riportati altri casi analoghi e, sebbene alcuni autori abbiano suggerito che la thunderclap headache sia sempre il sintomo di presentazione di un aneurisma cerebrale, sappiamo che può essere un disordine idiopatico [40, 41].
Epidemiologia e caratteristiche cliniche A causa del recente riconoscimento della cefalea a rombo di tuono primaria (CRTP) quale possibile entità nosografica autonoma, non sono ad oggi disponibili stime di prevalenza nella popolazione generale. Si può presentare in soggetti emicranici, ma la caratterizzazione clinica e l’andamento temporale sono del tutto indipendenti dagli episodi di emicrania. La ICHD-II del 2004 ha riconosciuto l’autonomia di questo tipo di cefalea per la quale ha stabilito i seguenti criteri diagnostici: A. dolore al capo severo che rispetta i criteri B e C; B. entrambe le seguenti caratteristiche; 1. esordio improvviso, con raggiungimento della massima intensità in meno di 1 minuto, 2. durata variabile da 1 ora a 10 giorni; C. non si ripresenta regolarmente nelle settimane o mesi successivi; D. non è attribuibile ad altre patologie. In effetti, studi prospettici hanno evidenziato che nel 8-44% dei pazienti il primo episodio di CRTP è seguito nei mesi o anni successivi, da attacchi analoghi [42]. Il dolore, generalmente bilaterale, può esordire a riposo o durante lo svolgimento di un’attività fisica moderata; gli sforzi fisici, le manovre tipo Valsalva e l’attività sessuale sono possibili fattori scatenanti nel 30% dei casi [43]. Sono state descritte manifestazioni epilettiche o deficit neurologici focali transitori associati alla cefalea in alcuni soggetti in cui è stato rilevato un vasospasmo arterioso cerebrale reversibile durante le crisi [40].
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Ipotesi patogenetiche I meccanismi che sottendono la genesi della CRTP non sono del tutto chiariti. Indagini angiografiche hanno messo in evidenza, durante la crisi cefalalgica, una vasocostrizione segmentale diffusa nelle arterie cerebrali del circolo di Willis e a livello delle diramazioni di secondo e terz’ordine. Il vasospasmo, reversibile, dovuto alla contrazione della muscolatura liscia della parete vasale, può essere determinato da molteplici stimoli (meccanici, biochimici o neurogeni), ma l’insorgenza improvvisa di questo tipo di cefalea suggerisce la presenza di un meccanismo neurogenico. In questi pazienti è possibile che l’aumentata attività del sistema nervoso simpatico o l’abnorme risposta del distretto vascolare cerebrale alle catecolamine circolanti siano responsabili della riduzione del lume vascolare arterioso. Rimane ancora da spiegare l’origine del dolore in quei soggetti in cui la CRTP non si associa a vasospasmo cerebrale diffuso [44, 45].
Diagnosi differenziale La relazione tra la thunderclap headache e gli aneurismi cerebrali non associati a emorragia è controversa. Un’analisi retrospettiva della storia clinica di 111 soggetti con aneurisma cerebrale ha evidenziato che solo in 7 casi la lesione era stata rilevata in seguito ad accertamenti per una cefalea tipo thunderclap headache [45]. Analogamente, in un campione di 562 individui ricoverati per cefalea severa ad esordio improvviso, nei quali la TAC cerebrale e l’analisi del LCR sono risultate prive di elementi patologici, è stata documentata la presenza di un aneurisma cerebrale nel 9,3% dei casi e solo nell’1,4% erano ravvisabili i segni di un microsanguinamento [44]. Se consideriamo che gli aneurismi intracranici sono presenti nel 3,5-6% della popolazione generale, è verosimile ipotizzare che il rilievo di tale malformazione, in pazienti con CRTP, sia solo un reperto casuale. Prove a favore dell’assenza di un legame tra queste due patologie derivano da studi prospettici: un gruppo di 71 persone giunte all’osservazione medica per un episodio di thunderclap headache, nelle quali l’esame obiettivo neurologico e le indagini eseguite (TAC cerebrale e analisi del LCR) non avevano messo in evidenza patologie organiche, è stato osservato prospetticamente per un periodo medio di 3,3 anni; nessuno ha presentato un’emorragia subaracnoidea durante il follow-up e il 27% ha riferito attacchi di thunderclap headache precedenti “l’episodio indice” [46]. È comunque di fondamentale importanza ricordare che patologie quali l’emorragia subaracnoidea, la trombosi dei seni venosi cerebrali, l’apoplessia ipofisaria, l’ipotensione intracranica spontanea, l’encefalopatia ipertensiva, la dissecazione delle arterie cervicali e l’ematoma retrocliveale, frequentemente esordiscono con cefalea e le caratteristiche cliniche sono del tutto sovrapponibili a quelle della CRTP. Ad oggi, è perciò possibile porre diagnosi di CRTP solo dopo l’esclusione di cause organiche di cefalea mediante opportune indagini strumentali; in tutti i casi di thunderclap headache è pertanto sempre indicata l’esecuzione di una TAC cerebrale e della rachicentesi e, secondo alcuni autori, anche dell’angiografia cerebrale o dell’angio-RMN cerebrale.
Terapia Non esistono indicazioni terapeutiche specifiche, anche se è possibile tentare un trattamento preventivo farmacologico con beta-bloccanti o calcio-antagonisti nei casi a presentazione ricorrente.
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Hemicrania continua La denominazione hemicrania continua (HC) è stata introdotta nel 1984 da Sjaastad e Spierings in occasione della descrizione di due pazienti, una donna di 63 anni ed un uomo di 53, che presentavano una cefalea strettamente unilaterale, continua dall’esordio e del tutto sensibile all’indometacina [47]. Assente nella classificazione della IHS del 1988, la HC è oggi ufficialmente riconosciuta come entità clinica autonoma ed inserita nella ICHD-II del 2004.
Epidemiologia e caratteristiche cliniche I dati disponibili in letteratura non permettono di indicare, neppure in modo approssimativo, stime attendibili di prevalenza nella popolazione generale. Raggruppando le casistiche riportate fino ad oggi, i pazienti descritti assommano ad un centinaio. Riferendoci ad essi, il rapporto femmine/maschi risulta pari a 2,6/1 [48-51]. La ICHD-II formula, per la HC, i seguenti parametri diagnostici: A. cefalea per >3 mesi che rispetta i criteri B-D; B. tutte le seguenti caratteristiche: 1. dolore unilaterale fisso, 2. quotidiano e continuo senza intervalli liberi, 3. intensità media, ma con esacerbazioni di dolore severo; C. durante le esacerbazioni almeno uno dei seguenti sintomi o segni autonomici omolaterali al dolore: 1. arrossamento congiuntivale e/o lacrimazione, 2. congestione nasale e/o rinorrea, 3. ptosi e/o miosi; D. risposta completa a dosi terapeutiche di indometacina; E. non attribuibile ad altre patologie: Nel 2005 Peres [52] in una revisione di 97 casi complessivi della letteratura, riferisce che il pattern temporale al momento dell’osservazione si contraddistingue in 87 (85%) per un andamento di tipo continuo ed in 14 (15%) per un andamento di tipo remittente; degli 87 pazienti con andamento di tipo continuo, il 64% è tale dall’esordio, mentre il 36% è divenuto tale per un’evoluzione da una forma originariamente remittente. Anche se la ICHD-II inserisce l’unilateralità fissa del dolore come elemento indispensabile per la diagnosi di HC, sporadici casi bilaterali o unilaterali alternanti sono stati descritti. La diagnosi differenziale va posta con la cefalea cervicogena e con tutte le cefalee croniche quotidiane a localizzazione unilaterale del dolore.
Ipotesi patogenetiche La fisiopatogenesi della HC è sconosciuta. È stato supposto che la HC possa essere una variante dell’emicrania poiché alcuni pazienti hanno aspetti del dolore di tipo emicranico e recentemente sono stati descritti 4 casi con associata aura visiva di tipo emicranico [53]. La specifica risposta all’indometacina potrebbe dipendere da una diminuzione del flusso ematico cerebrale, da una riduzione della permeabilità cerebrovascolare, da una diminuzione della pressione liquorale, da un’azione sulla secrezione della melatonina e da un effetto antagonista sull’ossido nitrico [54]. Matha-
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ru et al nel 2004, per mezzo di uno studio con risonanza magnetica funzionale in 7 casi di HC verso 7 controlli non cefalalgici, hanno dimostrato nella HC un’attivazione significativa a livello dell’ipotalamo posteriore controlaterale al dolore e di alcune aree troncoencefaliche omolaterali al dolore. Le aree cerebrali che si attivano sono perciò le stesse rispettivamente della cefalea a grappolo (ipotalamo posteriore) e dell’emicrania (troncoencefalo), ma dal lato opposto a quelle riscontrate in queste due forme di cefalea primaria [55].
Terapia Come sancito dalla ICHD-II, il trattamento della HC si basa sull’uso dell’indometacina a dosaggi variabili tra 25 e 250 mg/die. È consigliabile tentare una sospensione dopo un periodo protratto di benessere, non tanto per un improbabile effetto curativo dell’indometacina, ma per la possibilità di un’evoluzione verso una forma remittente o per una remissione spontanea. Segnalazioni sporadiche indicano qualche efficacia dell’aspirina e della melatonina.
New Daily Persistent Headache (NDPH) Il primo Autore che ha adottato questa terminologia è stato Vanast [56] che, nel 1986, riportò una casistica personale di 45 pazienti affetti da una forma benigna di cefalea cronica quotidiana ab initio che tendeva a migliorare con il passare del tempo senza terapia. Oggi la maggior parte degli studiosi dell’argomento ritiene, invece, che la NDPH non abbia affatto un andamento spontaneamente favorevole nel tempo, ma al contrario costituisca una delle forme di cefalea più persistente e di più difficile trattamento. Anche il quadro clinico complessivo della NDPH ha subito molte variazioni rispetto all’originaria descrizione di Vanast e, anche se a tutt’oggi esistono pareri difformi sulla reale fenomenologia clinica di questa forma di cefalea, la ICHD-II ne ha ufficialmente riconosciuta l’autonomia nosografica inserendola nel gruppo 4 della classificazione.
Epidemiologia e caratteristiche cliniche Qualche dato di prevalenza della NDPH è ricavabile da studi epidemiologici relativi alla cefalea cronica quotidiana di cui la NDPH fa parte. Castillo et al [57], in un’indagine condotta in Spagna nel 1999, trovano una prevalenza della cefalea cronica quotidiana nella popolazione generale del 4,7% e, di questi, lo 0,1% ha una NDPH. In casistiche di Centri Cefalee americani, è segnalato che la NDPH riguarda il 10,8% di tutti i pazienti adulti con cefalea cronica quotidiana e il 13% di tutti i pazienti in età pediatrica osservati per lo stesso tipo di cefalea. In letteratura sono reperibili solamente tre casistiche dedicate alla descrizione degli aspetti clinici della NDPH: quella già citata di Vanast (45 pazienti, di cui 26 donne e 19 uomini) [56], quella di Li e Rozen [58], che nel 2002 descrivono 56 casi personali (40 donne e 16 uomini), e quella di Takase et al. che riportano 30 pazienti giapponesi (13 donne e 17 uomini) [59]. L’età d’esordio della NDPH è tra i 16 e i 45 anni nella casistica di Vanast, tra i 12 e i 78 anni e tra i 13 e i 73 anni rispettivamente nelle altre due casistiche. Nel sesso femminile l’età media d’esordio appare più precoce (picco nella terza decade di vita) che nel sesso maschile (picco nella quinta de-
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cade di vita). La NDPH, così come descritta nelle tre ampie casistiche citate, risulta una cefalea ad andamento temporale di tipo cronico quotidiano fin dall’esordio, il quale viene generalmente ricordato con molta precisione dai pazienti a distanza anche di anni e nel 20-30% dei casi è in relazione con una malattia influenzale o simil-influenzale. Inoltre, per quanto riguarda la tipologia del dolore ed i sintomi associati, non poche sono le caratteristiche di tipo emicranico: il dolore è pulsante nel 55% dei casi di Li e Rozen, la nausea è presente nel 55% dei casi di Vanast e nel 68% dei casi di Li e Rozen, la fotofobia nel 34% dei casi di Vanast e nel 66% dei casi di Li e Rozen, la fotofobia nel 37% e 61% delle rispettive casistiche. La ICHD-II del 2004, in modo abbastanza sorprendente, non ha recepito molte delle indicazioni date dalle casistiche principali ed ha formulato per la NDPH dei criteri diagnostici che la pongono molto vicina alla cefalea di tipo tensivo cronica dalla quale si differenzierebbe, sostanzialmente, solo per un andamento quotidiano fin dall’esordio: A. cefalea per più di 3 mesi con le caratteristiche B-D; B. la cefalea è quotidiana e persistente dall’esordio o da meno di 3 giorni dall’esordio; C. almeno due delle seguenti caratteristiche del dolore: 1. localizzazione bilaterale, 2. qualità gravativa/costrittiva, 3. intensità lieve o media, 4. non aggravato dalle normali attività motorie, come camminare o salire le scale; D. entrambi i seguenti aspetti: 1. non più di uno tra fotofobia, fonofobia o lieve nausea, 2. né nausea media o severa, né vomito; E. non attribuibile ad altre patologie.
Ipotesi patogenetiche In considerazione del fatto che un discreto numero di pazienti con NDPH riferisce l’esordio della cefalea in stretta relazione con una malattia di tipo influenzale, è stata ipotizzata un’eziologia infettiva. Alcuni autori hanno suggerito il possibile ruolo di un’infezione da virus di Epstein Barr, in seguito al riscontro di un’infezione attiva nel 85% dei soggetti con NDPH [60]. Come un’infezione possa originare questo tipo di cefalea non è però chiaro. Si può ipotizzare un’attivazione della risposta immunitaria ad una nuova infezione virale o ad una riattivazione di un’infezione preesistente, oppure il virus stesso potrebbe in qualche modo attivare ed alterare il sistema trigeminale originando la cefalea quotidiana. Un’eziologia infettiva non è però ipotizzabile in tutti i pazienti affetti da NDPH, in quanto il 40-60% di essi non riporta un tale dato anamnestico. In un sottogruppo di pazienti affetti da questo tipo di cefalea sono stati dimostrati, quali fattori scatenanti, eventi stressanti della vita. Questi, d’altra parte, è noto che svolgono un ruolo importante nella genesi di tutte le cefalee croniche quotidiane in generale.
Terapia Attualmente, la NDPH è considerata una forma di cefalea molto difficile da trattare. Parecchi casi, vista la mancanza di una terapia standardizzata, finiscono per assumere in modo massiccio farmaci ma, contrariamente a quello che si verifica nella cefalea da overuse di sintomatici, la so-
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spensione del farmaco utilizzato quotidianamente non porta ad una regressione del dolore [61]. Molto recentemente Rozen ha segnalato l’efficacia, in cinque pazienti, del gabapentin e del topiramato [58].
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Capitolo 11
Cefalea cronica quotidiana D. Cologno
Introduzione Le cefalee croniche quotidiane (CCQ) comprendono tutte quelle forme che sono caratterizzate dalla presenza di mal di testa tutti i giorni o quasi per mesi o anni senza intervalli liberi. Sia le classificazioni delle cefalee del passato che la classificazione dell’International Headache Society (IHS) del 1988 [1], nella sua prima edizione, hanno trascurato questo vasto ed interessante capitolo che, alla luce delle attuali conoscenze, non appare corretto identificare solamente con la cefalea di tipo tensivo cronica (CTTH), che rappresenta solo un tipo, e neppure il più frequente, di CCQ. Nonostante nella classificazione IHS del 1988 il termine cefalea cronica quotidiana non sia utilizzato, i riferimenti a cefalee con andamento quotidiano (escludendo naturalmente le forme sintomatiche) sono presenti in tre punti diversi della classificazione: 1) al punto 1.6.1 “stato di male emicranico”, un’entità clinica che non rientra tuttavia in ciò che comunemente si intende per CCQ, dato che la sua durata non supera generalmente i 10-15 giorni, mentre le CCQ per definizione devono avere una durata molto più lunga; 2) al punto 2.2 “cefalea di tipo tensivo cronica”; 3) al punto 8 “cefalea associata ad uso di sostanze o alla loro sospensione”; in questa categoria dovrebbero essere classificati i pazienti che sviluppano una nuova forma di cefalea in stretta relazione con l’uso cronico o l’interruzione di sostanze come l’ergotamina, la caffeina o analgesici vari. Nei 15 anni di uso corrente sia clinico che scientifico di tale classificazione sono emersi i limiti e le carenze dell’approccio alle CCQ riassumibili in due aspetti fondamentali: la scarsa chiarezza di elencazione e collocazione di queste forme, che risultano alquanto frammentate, e l’incompletezza della loro rappresentazione (esistono, infatti, altre forme di CCQ che, forse per obiettive difficoltà di definizione, non sono citate). Nonostante negli anni si sia resa sempre più evidente l’esigenza di un’adeguata definizione nosologica delle CCQ che renda la diagnosi di tali disturbi meno complessa e difficoltosa per gli stessi specialisti, anche la nuova revisione della classificazione delle cefalee (ICHD-II), pubblicata sulla rivista Cephalalgia nel gennaio 2004 [2], risulta ancora una volta carente di un inquadramento completo ed esauriente delle CCQ. Tuttavia, a tale proposito, un’importante novità è rappresentata dall’inserimento di una nuova entità nosografica definita emicrania cronica, al punto 1.5.1, tra le complicanze dell’emicrania. L’applicazione epidemiologica e clinica dei criteri diagnostici proposti per questa nuova entità ha già mostrato chiaramente come tali criteri non permettono un inquadramento adeguato di tutte quelle forme di emicrania cronicizzata o trasformata che rappresentano la forma clinica di maggiore osservazione tra le CCQ nei centri cefalee.
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Classificazione e terminologia Criterio indispensabile per affrontare l’inquadramento nosologico e classificativo delle CCQ è la corretta definizione temporale del disturbo. Il termine “cefalea cronica quotidiana”, infatti, è puramente descrittivo, indicando un’entità clinica eterogenea che include tutte le cefalee senza sottostanti lesioni strutturali che si verificano giornalmente o quasi da almeno 3 mesi, limite previsto dall’attuale revisione della classificazione ICHD-II sia per l’emicrania cronica che per la CTTH. In passato, infatti, si è molto discusso circa la durata che deve avere la cefalea per poter parlare di forma cronica quotidiana. Si tratta naturalmente di limiti di tempo arbitrari ma necessari. La prima descrizione dell’emicrania cronica di Saper risale agli anni compresi tra il 1980 ed il 1982 quando l’autore descrisse un gruppo di pazienti affetti da una forma progressiva ed invalidante di emicrania, esordita con episodi intermittenti in epoche precoci della vita e divenuta quotidiana tra i 20 ed i 30 anni di età, con un intervallo medio di 4-10 anni tra l’esordio dell’emicrania e la sua cronicizzazione. Saper chiamò questa condizione chronic headache complex [3]. Successivamente, Mathew descrisse la stessa sindrome indicandola con il nome di transformational or transformed migraine. Nel 1987 lo stesso Mathew propose una distinzione, nell’ambito delle CCQ, di tre differenti tipi [4]: il primo è costituito da forme con andamento quotidiano o quasi quotidiano ab initio, senza fluttuazioni d’intensità e senza aspetti di tipo emicranico; il secondo comprende forme anch’esse quotidiane o quasi fin dall’inizio, ma con cefalea saltuariamente più severa e con qualche caratteristica emicranica; il terzo tipo, infine, è quello che Mathew definisce emicrania trasformata o evolutiva e consiste in emicranie che ad un certo punto evolvono verso forme croniche quotidiane, mantenendo nella maggior parte dei casi alcuni aspetti emicranici. In base alla revisione di ampie casistiche di soggetti affetti da CCQ, la distinzione di Mathew non sembra, però, essere del tutto soddisfacente. Dopo quello di Mathew, vi sono stati altri tentativi di classificazione delle CCQ. Manzoni nel 1991 ha proposto una distinzione di quattro diverse forme [5]: 1. emicrania con cefalea intervallare o Migraine Interparoxysmal Headache (MIH): soggetti affetti da emicrania che, col passare degli anni, sviluppano una cefalea continua tra gli attacchi di emicrania che vengono conservati; 2. emicrania trasformata o Transformed Migraine (TM): soggetti affetti da emicrania che, col passare degli anni, sviluppano una cefalea continua che sostituisce gli attacchi; è da notare che, nonostante l’identica denominazione, questa forma non coincide con il terzo tipo di Mathew; 3. cefalea tensiva cronica o Chronic Tension Type Headache (CTTH): soggetti affetti da cefalea bilaterale, gravativa, raramente o mai associata a segni neurovegetativi generali o locali; 4. cefalea mista cronica o Chronic Mixed Headache (CMH): soggetti che presentano caratteristiche del dolore e fenomeni di accompagnamento in parte sovrapponibili a quelli tipici dell’emicrania, in parte sovrapponibili a quelli della cefalea di tipo tensivo. Mentre la MIH e la TM sono per definizione forme sempre a secondaria cronicizzazione, in quanto rappresentano la trasformazione cronica di un’emicrania, la CTTH e la CMH possono essere sia primitive, ossia croniche ab initio, sia a secondaria cronicizzazione. Successivamente Silberstein et al nel 1994 [6] hanno indicato 4 differenti sottotipi, proponendo per ognuno di essi un eventuale inserimento nell’ambito della classificazione IHS. Il criterio maggiore per la formulazione della diagnosi di CCQ proposto da Silberstein richiede la presenza di cefalea quotidiana o quasi con durata superiore alle 4 ore nell’arco delle 24 ore e per almeno 15 giorni al mese, per più di 1 mese. L’autore ha così suggerito l’inserimento di queste forme nella classificazione IHS del 1988, proponendo al punto 1.8 della classificazione IHS l’emicrania trasformata, al 2.2. la CTT cronica (così come già previsto dalla classificazione stessa), al punto 4.7 la cosiddetta new daily persistent headache ed al 4.8 l’hemicrania continua (Tab. 11.1).
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Tabella 11.1 Headache Classification for Chronic Daily Headache (CDH). Da [6] Daily or near daily headache lasting >4 hours/day for > 15 days/month 1.8 Transformed migraine (TM) 1.8.1 with medication overuse 1.8.2 without medication overuse
2.2 Chronic tensiontype headache 2.2.1 with medication overuse 2.2.2 without medication overuse
4.7 New daily persistent continua 4.7.1 with medication overuse 4.7.2 without medication overuse
4.8 Hemicrania headache 4.8.1 with medication overouse 4.8.2 without medication overuse
Al 3° livello diagnostico ha inoltre individuato, per tutti i differenti sottotipi precedentemente elencati, 2 ulteriori sottogruppi (analogamente a quanto proposto da Mathew nel 1993 per l’emicrania trasformata): forme “con e senza abuso di farmaci”, proponendo per ogni sottotipo, precisi criteri per la formulazione della diagnosi al 3° livello. Manzoni nel 1995 [7] ha proposto un’ulteriore revisione della classificazione IHS per la diagnosi di emicrania inserendo al punto 1.7 l’evoluzione dell’emicrania ed al punto 1.8 i disturbi emicranici. Per l’evoluzione dell’emicrania è stato previsto un approfondimento al 3° livello diagnostico suddividendo l’emicrania con cefalea intervallare (che può o meno seguire i criteri diagnostici per cefalea tensiva cronica) dall’emicrania cronica (Tab. 11.2). Tutti i tentativi classificativi sin qui esposti enfatizzano il ruolo che l’uso eccessivo di farmaci, definito in termini di overuse, sembrerebbe avere nel determinismo delle CCQ, senza tuttavia indicare se esso sia fattore causale o semplicemente associato al disturbo stesso. L’attuale revisione del-
Tabella 11.2 Proposed revision of IHS classification of migraine. Da [7]
1.7.1 Migraine with interparoxysmal headache
1.7 Evolution of migraine 1.7.2 Chronic migraine 1.8 Migrainous disorder not fulfilling above criteria
1.7.1.1 fulfilling criteria for chronic tension-type headache 1.7.1.2 NOT fulfilling criteria for chronic tensiontype headache Diagnostic criteria: A. Fulfils criteria for 1.1 B. Headache for at least 15 days a month for at least 1 year
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la classificazione ICHD-II ha affrontato il problema CCQ individuando, rispetto al passato, nuove entità nosologiche sia tra le forme primarie che tra quelle secondarie. Tra le forme primarie, l’emicrania cronica viene considerata come complicanza dell’emicrania episodica inserendola al punto 1.5.1 e definita come una cefalea a caratteristiche emicraniche che dura per almeno 15 giorni al mese da oltre 3 mesi. Ogni attacco emicranico deve soddisfare i criteri diagnostici previsti per l’emicrania senz’aura (punto 1.1 anche nella nuova classificazione). Da sottolineare come per la diagnosi di emicrania cronica debba essere esclusa la presenza di overuse di analgesici e/o antiemicranici. Il comitato di esperti che ha stilato i criteri diagnostici di questa nuova entità clinica inserisce, inoltre, una lista di commenti che aiutano a meglio definire le caratteristiche cliniche di questo disturbo, quali l’esordio in forma accessuale episodica e la persistenza di cefalea cronica dopo 2 mesi dalla sospensione di un pregresso uso eccessivo di analgesici, da considerarsi, nella maggior parte di questi casi, come fattore certo di cronicizzazione della precedente forma episodica. Appare evidente che l’emicrania cronica così come definita dall’ICDH-II non corrisponda né all’emicrania trasformata di Mathew e Silberstein né all’emicrania cronica di Manzoni, che rappresentano la maggior parte delle CCQ con caratteristiche emicraniche associate ad overuse di analgesici osservate nei centri cefalee, lasciando aperto il dibattito sull’inquadramento di queste forme. Scorrendo lungo la classificazione ICHD-II, tra le complicanze emicraniche, è prevista al punto 1.5.3, “l’aura persistente senza infarto” la cui durata per definizione deve essere superiore ad 1 settimana. Nei commenti si indica l’esistenza di casi con durata di mesi o anni e quindi di durata superiore ai 15 giorni/mese, limite temporale che caratterizza ogni CCQ per definizione. La rara osservazione di tali casi nella pratica clinica comune ed il conseguente basso impatto epidemiologico e sociale di questa forma induce spontaneamente il clinico a non considerarla come una CCQ, sebbene la rigida applicazione dei criteri della ICHD-II lo permetterebbe, sottolineando i limiti di tale classificazione e la mancanza di un approccio razionale al problema delle CCQ. Per la cefalea di tipo tensivo cronica (CTTH), l’attuale classificazione ricalca i criteri diagnostici precedenti, sostituendo il termine disorder of the pericranial muscles con pericranial tenderness alla cui dimostrazione è sufficiente la palpazione manuale, senza ricorrere all’EMG o all’algometro a pressione come in precedenza richiesto. Come per l’emicrania cronica, anche per la diagnosi di CTTH non deve essere presente un overuse di analgesici o, se presente, deve essere dimostrato che la cefalea mantiene le caratteristiche di una CTTH almeno 2 mesi dopo la sospensione del farmaco abusato. L’IHS nel 1988 stabiliva che nelle forme tensive croniche la cefalea dovesse essere presente per almeno 15 giorni al mese da almeno 6 mesi. Quest’ultimo limite temporale è stato oggi modificato in 3 mesi nella nuova revisione della classificazione. Nel commento alla CTTH la classificazione IHS del 1988 specificava che talvolta l’emicrania si trasforma gradualmente in CTTH, ma che più spesso è la cefalea di tipo tensivo episodica che diviene cronica. Tale affermazione, in particolare, è molto criticabile, soprattutto perché non è affatto detto che la cefalea quotidiana in cui può trasformarsi un’emicrania sia di tipo tensivo. L’ICDH-II nella descrizione della CTTH sottolinea che si tratta sempre di una forma a secondaria cronicizzazione, risultato dell’evoluzione di una cefalea di tipo tensivo episodica. Il problema, tuttavia, si pone quotidianamente presso i Centri Cefalee dove la precisa ricostruzione della storia passata dei pazienti che si presentano perché affetti tutti i giorni da mal di testa, da mesi o addirittura da anni, rivela che, nella maggioranza dei casi, preesiste alla CCQ un’emicrania. Le forme di CTTH ab initio hanno trovato la loro collocazione nel gruppo 4 tra le “Altre cefalee primarie”. Se una CTTH è tale sin dal suo esordio o entro 3 giorni dal suo esordio viene definita New Daily Persistent Headache (NDPH-codice 4.8), secondo quanto suggerito da Silberstein oltre 10 anni fa [6]. Resta da chiarire in quale categoria inserire i pazienti che presentano una CCQ in cui si intervallano attacchi con caratteristiche prevalentemente emicraniche, ma non tali da essere diagnosticati come emicrania senz’aura, ad attacchi con caratteristiche prevalentemente tensive, ma non tali da rispettare tutti i criteri per cefalea di tipo tensivo. Il comitato di esperti ha proposto nuove categorie sia per le forme episodiche
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che per le forme croniche di emicrania e cefalea tensiva indicandole come probabili, quasi a fornire un criterio dinamico a definizioni altrimenti rigide e statiche. Per tutte le forme croniche il problema dell’uso eccessivo di analgesici, escluso per definizione dalle categorie finora elencate, viene affrontato proponendo un criterio temporale individuato in un periodo di 2 mesi di osservazione dopo la sospensione del farmaco, criterio del tutto arbitrario se si pensa all’estrema variabilità interindividuale delle forme croniche e all’influenza di altri fattori, oltre al dolore, nella patogenesi di queste forme. La possibilità offerta dalla ICHD-II di porre più di una diagnosi, almeno nei casi più complessi, non può rappresentare per il clinico una soluzione alle difficoltà dell’inquadramento diagnostico delle CCQ, a cui è sempre strettamente legato l’approccio terapeutico. Tra le forme di CCQ ad andamento non parossistico, la nuova classificazione ha fornito una collocazione per altre due forme ad andamento cronico quotidiano, meno frequenti, ma già da tempo riconosciute e validate: la cefalea ipnica (codice 4.5), correlata al sonno e tipica dei soggetti anziani, e l’hemicrania continua (codice 4.7), caratterizzata da un dolore moderato, strettamente unilaterale, continuo, responsivo all’indometacina. Come già sottolineato, nonostante l’introduzione in classificazione di una forma di emicrania ad andamento cronico, questa non rappresenta l’entità clinica di più frequente riscontro nei centri cefalee, ossia una cefalea con caratteristiche prevalentemente emicraniche, ad andamento quotidiano o quasi e spesso associata ad uso eccessivo di analgesici. Quando presente, l’overuse di analgesici permette l’identificazione di una forma di CCQ prevista dalla classificazione ICHD-II tra le forme secondarie e definita Medication Overuse Headache (codice 8.2) (MOH). Si tratta di pazienti che hanno sofferto di una o più forme di cefalea primaria preesistente, ad andamento episodico, più frequentemente di tipo emicranico, che si è modificata nel suo pattern temporale nel corso degli anni divenendo quotidiana o quasi in seguito ad un overuse di farmaci antidolorifici. I farmaci sintomatici responsabili di questa forma di cefalea secondaria e previsti dall’ICHD-II sono gli ergotaminici, i triptani, gli analgesici semplici come i FANS, gli oppioidi e gli analgesici di combinazione contenenti barbiturici, caffeina, codeina ed altri sedativi. Per tutte queste forme, criterio indispensabile alla conferma della diagnosi è la risoluzione o il marcato miglioramento della cefalea, con ritorno al precedente pattern episodico, entro 2 mesi dalla sospensione del farmaco abusato.
Epidemiologia Nonostante le CCQ, per la loro stessa natura e diffusione, comportino implicazioni sociali, cliniche e terapeutiche di grande importanza, sono ancora pochi, e solo retrospettivi, gli studi rivolti alla loro definizione epidemiologica. Non vi sono dati certi in letteratura sulla frequenza di tale disturbo. Studi sulla popolazione generale indicano che la CCQ colpisce più del 5% della popolazione [8], a differenza delle elevate percentuali emerse dagli studi clinici (dal 15% al 40% dei soggetti che afferiscono ad un Centro Cefalee ed il 10% dei pazienti ricoverati in un reparto di Neurologia). Più recentemente, Pascual e colleghi [9] in uno studio epidemiologico sulla popolazione generale spagnola (2252 soggetti) hanno indicato una prevalenza delle CCQ pari al 4,7% (9% delle donne), con una distribuzione per tipi del 50,6% per l’emicrania trasformata e del 47,2% per le CTTH. Sono stati diagnosticati 2 soli casi di new daily persistent headache e nessuno di hemicrania continua. Era presente una storia di abuso di analgesici nel 31,1% dei casi. Un recente studio epidemiologico in 6 paesi dell’America Latina [10] ha riportato una prevalenza di emicrania cronica, con una frequenza media mensile uguale o superiore a 15 giorni/mese, pari al 15%, un dato superiore a quello dei paesi europei, asiatici [11] e dell’America del Nord, con un tasso di overuse di analgesici del 13% (considerato come consumo compreso tra 4 analgesici a settimana fino all’uso giornaliero di farmaci).
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Caratteristiche cliniche L’analisi delle caratteristiche cliniche e dei sintomi associati non ha ancora permesso un inquadramento uniforme delle CCQ. Sono nettamente più frequenti nel sesso femminile (con un rapporto F/M da 3:1 a 6:1 in segnalazioni più recenti). La maggior parte dei pazienti evolve progressivamente da una forma episodica in una CCQ in un arco temporale variabile in media da 1 a 5 anni, a partire da un’emicrania (nel 78% dei casi secondo Mathew [4] e nel 72% dei casi secondo Manzoni [7]), in particolare da un’emicrania senz’aura, e meno frequentemente da una cefalea di tipo tensivo episodica o da emicrania con aura. Le forme più rare a cronicizzazione primitiva o ab initio come le NDPH o alcuni casi di hemicrania continua per definizione esordiscono come disturbo cronico quotidiano. Generalmente la trasformazione di una forma episodica in cronica si manifesta tra la terza e la quarta decade di vita e nelle donne con un tipico peggioramento della severità delle crisi legate al ciclo mestruale. Lo stesso Mathew, già nel 1987, aveva osservato che le forme che tendono più frequentemente a cronicizzare sono quelle con attacchi emicranici perimestruali, un dato confermato successivamente anche da Manzoni [5]. Le forme originariamente tensive hanno un’età di insorgenza della cefalea superiore rispetto alle forme originariamente emicraniche, ma tendono a cronicizzare più rapidamente. Le emicranie trasformate (TM), inoltre, mostrano un decorso più lungo delle emicranie con cefalea intervallare (MIH) prima di divenire quotidiane. Sia Mathew che Silberstein hanno, inoltre, dimostrato che l’età di esordio per le CCQ ex novo o ab initio è nettamente più precoce sia rispetto alle emicranie trasformate che alle forme con cefalea tensiva episodica all’origine. Caratteristica comune a tutte le CCQ a secondaria cronicizzazione è la progressiva perdita della tipicità del dolore originario. Il dolore cronico ha spesso aspetti simil-emicranici, con tipologia pulsante, intensità lieve, accanto ad aspetti più tipicamente tensivi, come la frequente localizzazione bilaterale del dolore che può divenire diffuso in oltre il 50% dei casi, associato più frequentemente a fotofobia che fonofobia, nausea, ma non a vomito e a sintomi psicosomatici, aggravato da situazioni stressanti quotidiane più che dalla attività fisica.Un altro dato interessante è che il dolore in quasi la metà delle emicranie con MIH e in quasi i 2/3 delle TM è unilaterale, suggerendo così che la cefalea intervallare delle MIH e quella che sostituisce l’emicrania nelle TM dovrebbe essere un’entità diversa dalla cefalea di tipo tensivo, per definizione quasi sempre bilaterale. Molti pazienti con CCQ hanno una familiarità positiva per cefalea primaria (più del 50,0% dei casi), in particolare per emicrania. Vengono, inoltre, segnalate in questi pazienti anomalie del ritmo sonno-veglia con difficoltà all’addormentamento, frequenti risvegli notturni e maggiore frequenza di russamento, in particolare nei pazienti con abuso di analgesici (71% dei casi secondo Mathew) [12]. Per le MOH, l’ICHD-II inserisce tra i criteri diagnostici le caratteristiche cliniche del dolore: simil-tensivo (bilaterale, gravativo e di intensità lieve o moderata) per le forme da overuse di ergotaminici, analgesici semplici e in combinazione, simil-emicranico (prevalentemente unilaterale, pulsante e di intensità moderata o severa) per quelle da overuse di triptani, mentre non vengono esplicitate per le forme da overuse di oppiodi.
L’uso eccessivo (overuse) di analgesici e altri fattori di cronicizzazione Sebbene le basi biologiche delle CCQ non siano ancora state chiarite, è verosimile che alla base dell’esordio e della progressione di tale condizione dolorosa cronica vi siano altri fattori oltre al
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dolore. Il tentativo di individuare dei possibili fattori scatenanti o favorenti la trasformazione di una cefalea episodica in una quotidiana è molto arduo, perché è difficile stabilire un nesso di causalità tra vari eventi fisiologici o patologici ed il peggioramento della cefalea. Sembra comunque che tali fattori siano più importanti nelle MIH, e ancor più nelle TM, che non nelle CTTH. Analizzando i singoli fattori, il più frequente in tutte le forme è senza dubbio l’uso eccessivo di analgesici; la stessa classificazione IHS del 1988 prevedeva l’esistenza di “cefalee indotte dall’assunzione di sostanze esogene” nel gruppo 8, descrivendo forme derivanti dall’uso continuativo sia di ergotaminici che di analgesici. La classificazione IHS del 1988 forniva un criterio quantitativo pur senza parlare di abuso o di overuse, indicando le dosi di farmaco utili per la diagnosi: 2 mg o più al giorno per os per l’ergotamina, 50 o più gr al mese di ASA o dosi equivalenti di altri FANS oppure 100 o più compresse al mese di associazioni contenenti barbiturici o altri sedativi. Non erano compresi i triptani, il cui overuse è oggi riconosciuto come possibile fattore inducente cefalea cronica. Nella nuova classificazione il criterio quantitativo è stato modificato, riferendosi non più alle dosi di farmaco ma al numero di giorni/mese di assunzione. Si delinea in questo modo il concetto di overuse di farmaco, inteso come assunzione frequente e regolare durante il mese di farmaco ed escludendo in questo modo, da tale definizione, i casi di uso eccessivo di farmaco per brevi periodi di tempo. Per i singoli farmaci, infatti, la classificazione prevede un’assunzione per più di 10 giorni/mese (con 2-3 giorni a settimana) da almeno 3 mesi per gli ergotaminici, i triptani, gli oppiodi e gli analgesici di combinazione, estendendo il limite a più di 15 giorni/mese per gli analgesici semplici. L’uso cronico di farmaci può essere responsabile di una cefalea cronica anche nel momento della loro sospensione (rebound headache secondo una vecchia terminologia): la classificazione IHS del 1988 elencava al punto 8.3 tra le cefalee che derivano dalla sospensione di sostanze usate cronicamente, la cefalea da astinenza di ergotaminici e da astinenza di caffeina o narcotici. A tale gruppo oggi sono state aggiunte anche la cefalea da sospensione di estrogeni o di altre sostanze usate cronicamente. La classificazione stessa, quindi, ammette il fatto che i farmaci più comunemente utilizzati come sintomatici (compresi i triptani) per l’emicrania e per altre forme di cefalea potessero essere essi stessi causa di una forma di dolore cronico e che, d’altra parte, la loro stessa sospensione può scatenare il dolore, provocando un circolo vizioso tra assuefazione, necessità di aumento delle dosi, peggioramento progressivo della dipendenza e della cefalea. Da notare che gli stessi rischi gravano su sostanze spesso usate in associazione agli antidolorifici quali narcotici, barbiturici e caffeina, tutte composti presenti in molti preparati di combinazione in commercio. È verosimile supporre, quindi, che questi farmaci di combinazione abbiano una maggiore possibilità di dare origine a cefalee croniche con overuse farmacologico. Da notare che il termine di “abuso” di farmaci, pur essendo entrato nell’uso comune, potrebbe indurre confusione. In particolare l’abuso che si osserva nei pazienti con cefalea cronica non corrisponde alla definizione adottata in ambito psichiatrico. La quarta edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-IV) definisce l’abuso di sostanze come una “modalità patologica di uso di una sostanza risultante in una incapacità ad adempiere ai principali comportamenti sociali e correlata all’uso della sostanza in situazioni potenzialmente rischiose (ad es. guidando un’auto) o correlata a ricorrenti problemi sociali o legali causati o esacerbati dagli effetti di tali sostanze”. Al contrario, il paziente con cefalea cronica assume i farmaci per potere continuare le proprie attività senza l’interferenza della cefalea e, quindi, per poter vivere una vita normale. È un dato di fatto, comunque, che questi soggetti vivono l’uso continuativo dei farmaci per la cefalea come una dipendenza psicologica e spesso assumono dei comportamenti rituali o di tipo coatto (ad es. avere sempre l’analgesico nella borsa o sull’auto; assumere il farmaco per affrontare una situazione lavorativa o emotiva importante). Il riscontro nei pazienti con cefalea attribuita ad overuse di farmaci di un’elevata comorbilità psichiatrica (depressione ed ansia, in particolare) ed il riconoscimento in alcuni casi di una ve-
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ra e propria “dipendenza” di questi pazienti dall’analgesico abusato ha indotto recentemente alcuni ricercatori tedeschi a considerare gli aspetti comportamentali di questi pazienti come fondamentali tanto da proporre la loro introduzione in classificazione tra i criteri diagnostici [13]. Il problema dell’overuse di analgesici e di altre sostanze è particolarmente evidente negli USA, dove è diffuso l’uso degli oppioidi come analgesici per il trattamento sintomatico della cefalea a differenza di quanto accade nei paesi europei in cui gli oppioidi sono di uso meno frequente o sono stati addirittura vietati (come in Germania già dal 1979). Interessante, inoltre, segnalare anche il ricorrente uso, negli abusers, di benzodiazepine e lassativi. In termini di frequenza, dopo l’abuso di analgesici, e spesso a questo associate, vi sono alcune condizioni psicopatologiche, come depressione, ansia, disturbi di somatizzazione, che si riscontrano in particolare in pazienti affetti da CTTH e che alcuni autori ritengono causa di cronicizzazione. A tale proposito autori tedeschi hanno recentemente suggerito che le MOH debbano essere definite come un disturbo “biocomportamentale” [13] individuando in questi pazienti stati psicologici e comportamentali tipici. Tra questi, la paura della cefalea definita cephalalgiaphobia, l’ansia anticipatoria, comportamenti ossessivo-compulsivi di assunzione del farmaco, dipendenza psicologica dal farmaco e disturbi borderline di personalità dell’Asse II, cluster B secondo il DSM-IV si riscontrano frequentemente nei pazienti con MOH. Tuttavia, come già sottolineato in precedenza, un vero disturbo di abuso, caratterizzato anche da una dipendenza fisica dal farmaco, si osserva solo in un piccola percentuale di casi. La cephalalgiaphobia e l’ansia anticipatoria, in particolare, sono state dimostrate già in passato, specialmente in pazienti che abusavano di ergotaminici assumendoli la sera prima di andare a letto e al mattino successivo al risveglio per prevenire un’eventuale cefalea. A favore della presenza in questi pazienti di un disturbo d’ansia vi è anche l’osservazione che molti dei farmaci abusati hanno anche un effetto ansiolitico/sedativo, ad esempio gli oppiodi o i prodotti di combinazione contenenti butalbital, un barbiturico a lunga durata d’azione. La motivazione alla sospensione del farmaco abusato rappresenta un fattore di primaria importanza nel determinare il grado di successo del trattamento disintossicante: in assenza di forti motivazioni, il tasso di ricaduta può raggiungere il 40% e oltre dei casi entro 1 anno dal trattamento disintossicante. Non a caso, la disintossicazione da triptani ed ergotaminici comporta tassi di successo più elevati rispetto a quella da oppioidi o analgesici di combinazione contenenti barbiturici [14]. In questi casi l’ansia o lo stress emotivo rebound può essere il primum movens verso il ritorno ad una condizione di cefalea cronica quotidiana con ripresa dell’abuso di analgesici. In uno studio osservazionale su pazienti in trattamento disintossicante da oppiodi [15], è stato dimostrato come questi pazienti tornavano ad abusare di farmaci ad azione sedativa, anche senza ottenere un effetto risolutivo sul dolore. Gli Autori hanno definito questa ricerca compulsiva di farmaci sedativi come “soporofilia” (amore per la sedazione). Spesso la prescrizione di oppiodi da parte del medico non deriva solo dal suo giudizio sul tipo e sulla severità del dolore da trattare, ma da un giudizio globale che il medico dà al paziente con cefalea cronica derivante anche dal suo comportamento. I medici, infatti, tendono a prescrivere più oppioidi a pazienti con un atteggiamento istrionico e teatrale, ansiosi, ossessivi nella richiesta di un analgesico, assidui frequentatori degli ambulatori medici, che si lamentano della continua inefficacia dei farmaci prescritti. Al fine di individuare il trattamento più adeguato, la classificazione IHS dovrebbe considerare le dinamiche psicologiche ed emozionali di tale categoria di pazienti, forse distinguendo casi con MOH semplice da casi con MOH complessa in cui gli aspetti comportamentali sono preponderanti. Infine, tra gli altri fattori di cronicizzazione segnalati in letteratura ricordiamo la menopausa chirurgica, quella precoce fisiologica, il parto e l’ipertensione arteriosa.
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Ipotesi patogenetiche Fattori biologici alla base del dolore e fattori comportamentali alla base della cronicizzazione del dolore verosimilmente sono correlati, sebbene le basi anatomiche di tale relazione siano ancora sconosciute. La fisiopatogenesi delle CCQ non è a tutt’oggi stata completamente chiarita, nonostante alcuni reports suggeriscono che ognuna delle diverse forme di CCQ possa avere una patogenesi differente. Tutti i disturbi dolorosi cronici coinvolgono il sistema limbico, in particolare attivando il giro del cingolo, implicato nella risposta emozionale al dolore. È stato dimostrato che pazienti non affetti da cefalea possono sviluppare un dolore simil-emicranico se stimolati con elettrodi impiantati nella sostanza grigia periacqueduttale (PAG). Tali cefalee possono persistere per mesi o anche anni. Immagini PET in corso di attacco emicranico e nel periodo intercritico dimostrano in questi pazienti la presenza di attivazione del PAG, del nucleo dorsale del rafe e del locus coeruleus [16]. Tale attivazione persiste anche dopo somministrazione di sumatriptan con risoluzione clinica della sintomatologia dolorosa sperimentata dal paziente. Si ritiene che la persistenza di tale attivazione sia correlata alla durata dell’attacco emicranico e alla ricorrenza dell’emicrania dopo che gli effetti del sumatriptan decrescono. Studi con RM ad alta risoluzione hanno dimostrato in pazienti con CCQ e negli emicranici, rispetto a controlli non cefalalgici, un’aumentata deposizione di ferro nel PAG, la cui entità sembrerebbe correlata con la durata di malattia [17]. Nei pazienti con CCQ è stata, inoltre, dimostrata una maggiore attivazione di flusso ematico cerebrale con iperossia nel nucleo rosso e nella substantia nigra durante la cefalea, sempre rispetto agli emicranici. Welch et al nel 2001 [18] hanno indicato che l’iperossia protratta nel tempo in alcune strutture del tronco encefalico genera radicali liberi che possono danneggiare i neuroni del PAG o determinare una disfunzione neuronale, portando ad un deficit nocicettivo. Il nucleo dorsale del rafe invia proiezioni serotoninergiche alla corteccia cerebrale e ai vasi con possibile influenza sull’eccitabilità neuronale e sul controllo vasomotorio. Un’anormale attività metabolica nel PAG potrebbe rendere tale area particolarmente vulnerabile alla modulazione recettoriale da parte di alcuni analgesici, soprattutto se abusati, che potrebbero giocare un ruolo importante nella cronicizzazione dell’emicrania. In particolare, se gli analgesici abusati sono oppiacei, si ritiene che la desensibilizzazione del sistema oppioide endogeno, indotta dall’uso ripetuto di tali farmaci, possa essere un fattore determinante nell’indurre la trasformazione di un’emicrania episodica. Tuttavia, sebbene l’abuso di analgesici sia un aspetto comunemente riscontrato in molti pazienti con CCQ, sono poche le evidenze a favore di un ruolo certo causale nella cronicizzazione dell’emicrania. Infine, la recente osservazione in 8 pazienti con emicrania cronica, sottoposti ad impianto di stimolatori sott’occipitali e studiati mediante PET [19], della presenza di modificazioni del flusso ematico cerebrale nelle regioni dorso-rostrali del ponte, nella corteccia anteriore del cingolo e nel cuneo dimostra come aree cerebrali correlate alla sfera affettiva ed emozionale nei pazienti con emicrania cronica possano essere coinvolte nel processo di cronicizzazione, accanto ad un’attivazione sottocorticale specifica responsabile del dolore.
Comorbilità Il ruolo dei fattori comorbidi nelle CCQ è particolarmente evidente sia nello sviluppo che nel mantenimento e nella progressione di queste forme, ma ancor più nell’influenzare la qualità di vita di tali pazienti. Tra questi, i fattori psicologici e, nello specifico, i disturbi psichiatrici sono
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particolarmente frequenti. Rispetto alle forme episodiche, le cefalee croniche, e tra queste in particolare l’emicrania trasformata e le forme associate ad overuse di farmaci, presentano una maggiore associazione con disturbi psichiatrici, soprattutto disturbi del tono dell’umore. L’incidenza di tali disturbi è risultata essere direttamente proporzionale alla durata della cefalea cronica. Inoltre, il confronto con pazienti con lombalgia cronica ha permesso di stabilire che la maggiore comorbidità psichiatrica osservata nei pazienti con CCQ non è solo l’effetto di una condizione dolorosa cronica, ma rappresenta una specifica associazione. È stato dimostrato che la depressione è presente in oltre l’80% dei pazienti con emicrania cronica, in particolare nei soggetti che abusano di analgesici. Il grado di ansia e depressione in tali pazienti sembra essere correlato con la durata della cefalea cronica e con la quantità di analgesici abusati. Rispetto a pazienti affetti da emicrania episodica, i pazienti con MOH presentano più frequentemente uno o più disturbi del tono dell’umore, disturbi d’ansia e abuso o dipendenza da sostanze psicoattive (tabacco, alcool e benzodiazepine), oltre all’abuso di analgesici antiemicranici. Nella maggior parte dei casi, l’età di esordio dei disturbi d’ansia e del tono dell’umore è più precoce rispetto a quella della CCQ, con una tendenza per la fobia sociale ad esordire precocemente e per il disturbo di panico più tardivamente in età adulta, mentre tutti gli altri disturbi psichiatrici si osservano in epoche intermedie. L’esordio dell’abuso di farmaci tende, invece, a coincidere con quello della cefalea cronica. Si riscontra una maggiore familiarità, in particolare nei genitori dei pazienti affetti da MOH, per disturbi del tono dell’umore e da uso di sostanze rispetto ai genitori dei pazienti con emicrania episodica. La cronologia dei disturbi psichiatrici rispetto all’esordio della MOH porta a considerare i primi come fattori di rischio per la MOH. Tuttavia, la mancanza di una chiara sequenza temporale tra l’esordio della CCQ e quello dell’overuse di farmaci impedisce di definire con chiarezza se la comorbidità psichiatrica sia un fattore di rischio per il peggioramento della frequenza della cefalea cui, a sua volta, segue l’aumentata assunzione di farmaci, oppure se sia piuttosto un fattore di rischio per l’abuso di farmaci a cui seguirebbe un peggioramento della frequenza di cefalea. Ciò che appare certo è che alcuni pazienti emicranici, ma non tutti, presentano una suscettibilità a sviluppare MOH dovuta ad una particolare vulnerabilità genetica alla dipendenza ed abuso di sostanze. È stato osservato, infatti, che la MOH è più frequente nelle famiglie di pazienti che presentano una storia di disturbo psichiatrico correlato all’uso di sostanze, indipendentemente dalla presenza o meno di MOH nel probando. Tale dato è molto interessante dal momento che si potrebbe ipotizzare una cotrasmissione genetica dei due disturbi: la MOH da una parte ed il disturbo da uso di sostanze dall’altra. Nonostante sia stato sottolineato che tra i pazienti MOH gli addictive siano solo una minoranza, resta attualmente sconosciuta la percentuale di pazienti con CCQ che rientrano in tale definizione e che presentano un comportamento addictive rispetto a quanti invece presentano un misuse o un overuse di analgesici dimostrabile come secondario al peggioramento della cefalea. Nei pazienti con CCQ, rispetto ai controlli sani, sono più frequenti eventi di vita ad elevato contenuto stressante quali divorzio, separazione, morte del coniuge e problemi con i figli. La valutazione con MMPI (Minnesota Multiphasic Personality Inventory) ha mostrato un profilo di personalità peculiare, caratterizzato da ipocondria, depressione ed isteria. Nel definire i disturbi psicopatologici associati alle cefalee croniche, la maggior parte degli studi ha utilizzato strumenti quali l’MMPI, la BDI (Beck Depression Inventory) o l’HAMA (Hamilton Anxiety Scale) per l’ansia o la depressione capaci di individuare livelli subclinici di depressione, ansia o altro disordine affettivo o di personalità. I disturbi psichiatrici secondo i criteri del DSM-IV, sono più molto rari nei pazienti con CCQ. Per fare la diagnosi in questi casi sono indispensabili altri strumenti clinici come la SCID-I o II. La classificazione ICHD-II, a tale proposito, ha inserito come nuova entità clinica “la cefalea attribuita ad un disturbo psichiatrico” nel gruppo 12, relegando tale diagnosi a quella piccola percentuale di pazienti in cui la cefalea è realmente inserita in un contesto psichiatrico per modalità di esordio e di remissio-
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ne, rappresentando essa un sintomo della patologia psichiatrica riconosciuta. Sono previste due sole forme di questo tipo di cefalea secondaria: la cefalea attribuita ad un disturbo di somatizzazione (codice 12.1) e quella attribuita ad un disturbo psicotico (codice 12.2), per le quali esistono evidenze univoche in letteratura. La mancanza di dati certi sulla classificazione di quelle forme di cefalea che esordiscono in corso di episodio depressivo maggiore, disturbo di panico, disturbo d’ansia generalizzato, fobia sociale ed altri comuni disturbi psichiatrici ha indotto il comitato di esperti ad inserire tali forme in appendice in attesa di dati incontrovertibili. Spesso la presenza di un concomitante disturbo psichiatrico aumenta la refrattarietà della cefalea al trattamento specifico: esemplificativi in proposito i dati di Guidetti et al [20] che indicano come la presenza in età infantile di uno o più disturbi psichiatrici influenzi negativamente la prognosi della cefalea durante lo sviluppo successivo. Minore attenzione è stata prestata alla cosiddetta comorbilità somatica. Ipertensione, abuso di alcool, disturbi del sonno sono fattori spesso presenti, per i quali non è ancora possibile individuare con chiarezza un ruolo causale nel processo di cronicizzazione. L’ipertensione si associa all’emicrania cronica sia in presenza sia in assenza di overuse di analgesici, in particolare nelle forme che evolvono da una episodica. Asma ed allergie sono associate sia all’emicrania cronica che alla NDPH. Una forte correlazione è stata riscontrata sia per la NDPH che per l’emicrania cronica con l’ipotiroidismo, suggerendo un possibile ruolo di quest’ultimo nello sviluppo e nel mantenimento delle CCQ.
Terapia Il trattamento dei pazienti con CCQ risulta essere spesso impegnativo. Al momento non esiste alcun protocollo uniformemente accettato. Sebbene la cefalea sia per definizione di lunga durata, un’accurata anamnesi ed un attento esame obiettivo neurologico rappresentano per ogni paziente un atto diagnostico dal quale non si può prescindere, soprattutto al fine di escludere cause poco frequenti ma trattabili di cefalea cronica, come ad esempio la CCQ da ipotensione liquorale. Punto fondamentale di partenza per impostare un corretto trattamento è l’individuazione del tipo di cefalea all’esordio, precedente la cronicizzazione, diagnosi alla quale si può giungere solo attraverso una accurata ricostruzione anamnestica in stretta collaborazione con il paziente. È fondamentale distinguere i pazienti affetti da CCQ con overuse di analgesici da quelli senza overuse. In entrambi i casi sarà instaurata una terapia di profilassi, seppure con tempi e modalità differenti. Diverse opzioni terapeutiche sono oggi disponibili per la profilassi delle CCQ: antidepressivi, ansiolitici, anticonvulsivanti, miorilassanti, agonisti e antagonisti serotoninergici, beta-bloccanti, calcioantagonisti. Oggi si ritiene che nelle CCQ i farmaci di profilassi agiscano modulando l’ipersensibilizzazione dei circuiti eccitatori, riducendo l’intensità e la durata del dolore e forse aumentando l’efficacia dei sintomatici. Nuove opzioni terapeutiche per la profilassi delle CCQ sono rappresentate da alcuni neurolettici atipici, oppioidi long-acting e dalla tossina botulinica di tipo A e B. Tuttavia, le evidenze di efficacia, in trials controllati versus placebo, relative ai farmaci di profilassi nelle CCQ sono scarse. Per la CTTH, accanto agli antidepressivi triciclici, sono di grande aiuto le tecniche di rilassamento e stress-management. Nelle forme associate ad overuse di analgesici, l’approccio terapeutico prevede alcune tappe fondamentali. In primis, il ricovero ospedaliero per un periodo variabile da 1 a 2 settimane sembra essere l’approccio più adeguato e che garantisce i più alti tassi di successo col minor rischio di ricadute nell’abuso. Compito primario del medico è, a tale proposito, un’adeguata informazione del paziente sugli obiettivi, i metodi e gli eventuali effetti collaterali in cui il paziente in-
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capperà durante il periodo di disassuefazione intraospedaliero o periodo di wash-out. In secundis, la sospensione del farmaco abusato va effettuata bruscamente, il che comporta la comparsa di cefalea rebound o da sospensione, spesso severa, paragonabile ad una vera e propria crisi di astinenza. Si deve porre particolare attenzione in questa fase ai pazienti che abusano di prodotti contenenti barbiturici per i quali, durante il ricovero, è indicata una profilassi antiepilettica. In questa fase è previsto il supporto sintomatico con antidolorifici diversi da quelli abusati (preferibilmente FANS, triptani, corticosteroidi o diidroergotamina) e reidratazione per via parenterale. Si possono eventualmente associare ansiolitici e antiemetici. Così facendo, si ottiene, nella maggior parte dei casi, una remissione della quotidianità della cefalea, ma la tappa più importante è quella finale ossia il follow-up a cui il paziente affetto da CCQ, dopo trattamento disintossicante, deve essere assolutamente sottoposto con visite di controllo ravvicinate nel tempo, volte a valutare gli effetti della terapia preventiva instaurata al momento della dimissione, impostata sulla forma di cefalea pre-cronicizzazione, requisito fondamentale per il non fallimento del trattamento stesso. È sempre consigliabile l’esecuzione di tests per ansia-depressione o MMPI in ambulatorio o durante il ricovero per disintossicazione al fine di individuare l’eventuale presenza di disturbi psichiatrici che potrebbe compromettere il successo terapeutico. La frequente concomitante presenza di depressione nei pazienti con emicrania trasformata ha portato all’uso dell’amitriptilina in monoterapia come farmaco di prima scelta. Tuttavia, al fine di ottenere un effetto antidepressivo, la necessità di usare dosi di amitriptilina (125-150 mg/die) molto più elevate di quelle comunemente usate per la profilassi dell’emicrania è responsabile della frequente comparsa di effetti collaterali che inducono spesso alla sospensione del farmaco. La dimostrazione che gli SSRI hanno un’efficacia antidepressiva sovrapponibile a quella dell’amitriptilina ha spinto ad utilizzare tale categoria di farmaci in pazienti depressi con CCQ. Tuttavia, l’efficacia antiemicranica di questi composti è controversa. I migliori risultati in questa categoria di pazienti si ottengono associando l’amitriptilina a basse dosi ad un SSRI. Pazienti con disturbo bipolare possono giovarsi di un trattamento con valproato grazie alla sua capacità di stabilizzare il tono dell’umore e alla sua dimostrata efficacia nella profilassi antiemicranica. Nella strategia terapeutica è consigliabile introdurre anche tecniche di tipo comportamentale o terapie di tipo psicologico. Questi approcci potrebbero aiutare a prevenire le recidive di abuso. Sono ormai note le indicazioni di queste tecniche, in particolare nei pazienti ansiosi. Il biofeedback è stato ormai validato in varie forme di cefalea. Il gruppo italiano guidato dal prof. Bussone dell’Istituto Neurologico “C. Besta” di Milano ha condotto numerosi studi in proposito dimostrando come, dopo la disassuefazione, l’associazione di un ciclo di EMGbiofeedback al trattamento profilattico farmacologico in un gruppo di pazienti con emicrania cronica associata ad overuse di analgesici, riduca significativamente il numero di giorni con cefalea ed il numero di analgesici assunti rispetto a pazienti trattati con la sola terapia farmacologica [21]. Ampi trials randomizzati hanno dimostrato gli stessi risultati nelle CTTH, anche nelle forme non associate ad overuse di analgesici. Gli effetti terapeutici sono maggiori se al trattamento della cefalea si fa precedere quello mirato al solo disturbo psichiatrico. Nonostante tali e tanti approcci diversificati per paziente, non bisogna dimenticare l’esistenza di forme di CCQ con abuso farmacologico intrattabili, che mantengono ancora alto (30% dei casi circa secondo Mathew [12]) il tasso di ricadute. Numerosi sono stati in questi anni i tentativi di identificare i possibili fattori predittivi dell’outcome della CCQ dopo sospensione dell’analgesico abusato: il tipo di cefalea iniziale episodica, il tipo di sostanze abusate, il sesso, la dose di analgesici assunta al mese, la presenza di una storia familiare di cefalea, in particolare nei genitori, la presenza di ipertensione arteriosa, il fumo, il consumo di alcool, il livello di istruzione, l’attività professionale, lo stile di vita, l’età di esordio della malattia, l’età di esordio dell’abuso di farmaci, l’età della sospen-
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sione del farmaco abusato, il tempo intercorso tra l’esordio della cefalea ed esordio dell’abuso, la durata dell’abuso e la durata della cefalea dall’esordio alla sospensione dell’abuso dei farmaci. Nonostante l’apparente lunghezza dell’elenco di fattori predittivi, solo alcuni tra questi acquistano una significatività clinica. Ad esempio, si ritiene che abbiano una prognosi migliore i pazienti affetti da emicrania rispetto a quelli affetti da cefalea di tipo tensivo, i pazienti più giovani alla sospensione degli analgesici, i fumatori ed i singles, coloro che abusavano di ergotamina da un breve periodo di tempo, una durata di CCQ inferiore a 10 anni, un intervallo temporale medio più breve tra l’esordio dell’abuso farmacologico e la sospensione, l’assunzione di un minor numero di farmaci al mese. In tali pazienti la prognosi dopo terapia di disassuefazione è indipendente dal metodo utilizzato per la sospensione dell’analgesico abusato, ma correlata al tipo di follow-up e all’educazione medica fornita ai pazienti. I pazienti possono considerarsi al di fuori del rischio di ricaduta dopo 5 anni dalla sospensione del farmaco abusato. A sostegno di quanto appena esposto, una recente segnalazione sulla possibile esistenza di fattori predittivi la risposta al trattamento di profilassi nelle CCQ è stata fornita da alcuni ricercatori americani che durante un trial in aperto con topiramato [22] condotto su 170 pazienti con emicrania trasformata (secondo i criteri di Silberstein e Lipton) hanno osservato che una durata di CCQ superiore a 6 mesi rappresenta un fattore predittivo negativo per la risposta al trattamento di profilassi, a differenza di altri fattori come il sesso, l’età, la frequenza della cefalea e l’assunzione di altri farmaci di profilassi che sembrano non modificare il tasso di risposta farmacologia. Tale osservazione clinica rafforza l’ipotesi che le CCQ di lunga durata siano espressione di uno stato avanzato di sensibilizzazione centrale cronica responsabile di una condizione di resistenza farmacologica. L’approccio terapeutico alle CCQ, oltre alla prevenzione secondaria farmacologica e non, deve prevedere anche una prevenzione primaria, che richiede un programma culturale di sensibilizzazione dei medici, in particolare dei medici di medicina generale, e degli stessi pazienti a ridurre il consumo di analgesici, specialmente di quelli contenenti barbiturici, e a riconoscere che gli oppiodi non sono appropriati per trattare l’attacco acuto di cefalea, insegnando loro a dismettere l’uso di un analgesico che si è dimostrato inefficace, atteggiamento molto frequente nei pazienti con MOH che continuano ad usare lo stesso analgesico anche quando questo ha ormai perso la sua efficacia. Questo aspetto appare tanto più importante se si sottolinea che tale atteggiamento è più comune con i FANS e gli oppioidi, farmaci che presentano rispetto ai triptani un più elevato tasso di ricaduta dopo trattamento disintossicante.
Le cefalee croniche quotidiane in età evolutiva L’epidemiologia delle CCQ in tale fascia di età non è ancora ben definita soprattutto a causa di problemi metodologici relativi a definizioni non univoche. Per quanto propositiva per le CCQ in età adulta, la nuova classificazione ICHD-II appare del tutto carente nella definizione delle CCQ in età evolutiva. In base ad una recente osservazione di autori americani [23], mentre negli adulti l’applicazione dei criteri diagnostici per emicrania cronica ha permesso di dimostrare l’estrema rigidità di tali criteri riferibili ad una percentuale di CCQ esigua in questa fascia di età (meno del 6%), negli adolescenti la maggior parte delle emicranie definite un tempo “trasformate”, in particolare quelle non associate ad abuso di farmaci, corrispondono all’emicrania cronica (circa il 70%), così come definita dai criteri ICHD-II. Gli Autori suggeriscono, inoltre, che se i criteri diagnostici per emicrania cronica venissero rivisti al punto da includere nel criterio quantitativo dei 15 o più giorni al mese di emicrania anche forme di probabile emicrania, allora nella definizione di emicrania cronica rientrerebbe una quota ancor più rilevante di soggetti.
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In questa fascia di età, tuttavia, la maggiore corrispondenza con i criteri diagnostici ICHD-II per emicranica cronica si osserva nelle fasi precoci di cronicizzazione, perdendosi successivamente quando prevalgono le caratteristiche tensive del dolore cronico su quelle emicraniche, più frequenti negli adulti che quindi verosimilmente si troverebbero in uno stadio evolutivo successivo della malattia. A differenza dei casi di CTTH che mantengono la stessa diagnosi applicando entrambi i sistemi classificativi (1988 e 2004), non vi è piena corrispondenza per le NDPH degli adolescenti diagnosticate secondo i criteri di Silberstein e Lipton del 1994 [6] rispetto all’applicazione dei criteri 2004, soprattutto per la preponderanza in questa fascia di età di aspetti emicranici. In età evolutiva, l’emicrania è la forma episodica di cefalea primaria che più frequentemente precede una CCQ con una tendenza alla riduzione in termini di frequenza con il progredire della malattia e la sua sostituzione con un dolore prevalentemente di tipo tensivo. Tali dati mettono in evidenza ancora una volta come la classificazione ICHD-II sia un sistema deputato a categorizzare gli attacchi senza tener conto della storia di malattia, un dato di fondamentale importanza in questo gruppo di cefalee.
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Capitolo 12
Nevralgie craniche: clinica e terapia R. De Simone, A. Ranieri
Introduzione Le nevralgie craniche includono un insieme di condizioni dolorose parossistiche del capo di riscontro poco frequente nella pratica clinica. Differenziabili in funzione del nervo interessato e dunque in base allo specifico territorio cutaneo sede del dolore, le nevralgie craniche condividono alcuni peculiari aspetti clinici tra i quali: l’unilateralità della sintomatologia; la presentazione in accessi dolorosi brevi e ripetuti; la qualità superficiale e “a scossa elettrica” della sensazione dolorosa e la presenza di specifiche modalità di scatenamento. Un altro elemento comune a tutte queste forme e che deve essere sempre tenuto presente dal clinico è la presenza di un rischio di secondarietà relativamente alto che richiede sempre un attento work-up diagnostico-differenziale.
Nevralgia del trigemino Epidemiologia Pur essendo la più comune algia facciale tipica, con un’incidenza di 3-5 nuovi casi per 100.000 abitanti per anno ed una prevalenza di 15,5 casi per 100.000, la nevralgia trigeminale (NT) può essere considerata una malattia rara. Sebbene possa insorgere ad ogni età, l’esordio è tipicamente oltre i 50 anni; il sesso femminile sembra essere più colpito, con un rapporto di circa 2:1 rispetto a quello maschile. Un disturbo spesso indistinguibile dalla nevralgia del trigemino si manifesta in circa il 2% dei soggetti affetti da sclerosi multipla.
Clinica L’attacco di dolore della NT, singolo o in brevi salve, esordisce in modo improvviso e parossistico. Il dolore, tipicamente superficiale e urente, a scossa elettrica, tende a manifestarsi in maniera stereotipata nei diversi attacchi ed è rigorosamente limitato al territorio di distribuzione di una o più branche del nervo trigemino. Le branche mascellare e mandibolare, da sole o in combinazione, sono colpite più spesso di quella oftalmica (localizzazione oftalmica isolata: meno del 5% dei casi). Il singolo attacco dura caratteristicamente meno di un secondo (fino ad un massimo di 2 minuti) ed è seguito da un breve periodo refrattario durante il quale una nuova stimolazione non è in grado di scatenare l’attacco. L’intensità è estremamente severa. La localizzazione del dolore è tipicamente unilaterale, ma può essere bilaterale nei soggetti con sclerosi multipla. Curiosamente,
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la sede destra è colpita con maggior frequenza di quella sinistra. Eccezionalmente la malattia si presenta in più membri della stessa famiglia. Gli attacchi si verificano spontaneamente ma possono essere provocati dalla stimolazione di specifiche trigger areas. Queste si ritrovano più spesso in corrispondenza della cute dell’area periorale e ai lati del naso ma possono coinvolgere la mucosa gengivale e finanche distretti extratrigeminali. In rari casi gli attacchi sono evocati da stimoli sensoriali come luce intensa, rumori o stimoli gustativi. Caratteristicamente, la stimolazione in grado di evocare la scarica è di tipo tattile e non dolorifica; inoltre, essa ricade in un range di intensità fisiologico come quello derivante dall’espletamento di normali attività come lavarsi i denti, radersi, masticare, sbadigliare o deglutire (cosiddetto trigger factors). Durante l’attacco, non raramente, il paziente presenta uno spasmo della muscolatura mimica del volto, occasionalmente accompagnata anche da altri movimenti involontari. L’associazione con tali movimenti involontari giustifica il termine di tic o tic douloureux spesso usato per denominare questa condizione. Il decorso della malattia è molto spesso intermittente e sono descritte remissioni spontanee di almeno 6 mesi nel 50% dei casi e di almeno un anno in oltre il 25% dei pazienti. Nel tempo tuttavia, la patologia tende ad un progressivo peggioramento con prolungamento della durata ed aumento della frequenza degli attacchi, possibile comparsa di dolenzia intercritica e deficit sensitivi nei territori colpiti. L’insorgenza prima dei 40 anni, la bilateralità della sintomatologia, la presenza di segni neurologici, ed una eventuale atipia del dolore per qualità, intensità o durata, devono far ipotizzare una secondarietà da escludere con appropriate indagini. Tra le possibili cause di NT secondaria vanno annoverati: sclerosi multipla; tumori (meningiomi, neurinomi ed altri tumori in fossa cranica posteriore), siringobulbia, aracnoiditi, aneurismi della basilare o della carotide interna, fratture della base cranica ed herper zoster.
Classificazione Negli ultimi anni è emerso che in quasi tutti i casi di NT è possibile dimostrare un conflitto neurovascolare in fossa posteriore la cui risoluzione chirurgica è seguita da un immediato e protratto beneficio. La sede del conflitto è stata identificata a livello del ponte, all’emergenza della radice del trigemino. Tale zona, definita da vari autori Root Entry Zone (REZ), si estende per alcuni millimetri lungo la radice del nervo e si caratterizza per una mielinizzazione ancora di tipo centrale; tale particolarità istologica conferisce probabilmente alla REZ una maggiore vulnerabilità alla compressione da parte di vasi ectasici o di lesioni espansive a lenta crescita. A causa dell’altissima prevalenza con cui, in questi pazienti, si ritrova una compressione della REZ da parte di un vaso ectasico alla craniotomia, nella recente revisione della classificazione internazionale delle cefalee ICHD-II il termine idiopatica è stato sostituito con classica così da rendere la diagnosi compatibile con la presenza di un conflitto. Sotto la dizione nevralgia del trigemino sintomatica andranno pertanto ricomprese soltanto le forme sostenute da patologie diverse dal conflitto neurovascolare. Un’altra importante modifica rispetto alla versione precedente della classificazione è stata la creazione di una sottocategoria specifica per le forme associate a sclerosi multipla (13.18.3 Facial Pain Attributed to Multiple Sclerosis). In questi ultimi casi le placche di demielinizzazione hanno sede nel ponte e frequentemente si estendono alla REZ. Anche in questi casi, tuttavia, una compressione vascolare può contribuire alla comparsa di nevralgia trigeminale. In base alla ICHD-II la diagnosi di NT classica deve soddisfare i seguenti criteri: A. parossismi dolorosi nei territori di una o più branche del V di durata da frazioni di secondo a 2 minuti;
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B. il dolore ha almeno una delle seguenti caratteristiche: 1. intenso, acuto, superficiale o lancinante, 2. scatenato da trigger areas o trigger factors; C. attacchi stereotipati nel singolo paziente; D. assenza di deficit neurologici clinicamente evidenti; E. non attribuibile ad altra condizione o patologia. Le forme sintomatiche devono rispondere agli stessi criteri ma è ammessa una dolenzia intercritica e/o la presenza di deficit sensitivi nei territori interessati. Naturalmente deve anche essere dimostrata la presenza di una lesione potenzialmente causativa, diversa da un conflitto neurovascolare. Il confine clinico tra le due condizioni è pertanto sfumato; in considerazione di una prevalenza relativamente elevata di forme secondarie che caratterizza tutte le forme nevralgiche tipiche, è consigliabile eseguire un accurato studio di neuro-imaging in tutti i casi di NT, soprattutto se di recente insorgenza. A questo proposito recenti evidenze suggeriscono che nella maggior parte dei soggetti con forme sintomatiche o associate a sclerosi multipla lo studio di riflessi oligosinaptici trigeminali come il Blink Reflex e i laser evoked potentials (LEPs) è in grado di differenziare attendibilmente le due condizioni diversamente da ogni altro parametro clinico, incluso l’età d’esordio. Tale tipo d’indagine potrebbe essere dunque impiegata come esame di screening, per selezionare la popolazione da indagare con neuroimaging.
Fisiopatologia È di notevole interesse il fatto che, nella maggioranza dei casi di NT, l’esplorazione della fossa posteriore abbia rilevato la presenza di un conflitto neurovascolare tra la porzione prossimale della radice sensitiva del trigemino ed un’arteria o una vena tortuosa o ectasica (Fig. 12.1). Peter Jannetta e collaboratori hanno pubblicato nel 1976 una estesa casistica di pazienti sottoposti a esplorazione della fossa posteriore in cui la presenza di una lesione causativa risultava
Fig. 12.1 Un caso di triplice conflitto (per gentile concessione del Prof. P. Cappabianca, Cl. Neurochirurgica, Ateneo Federico II di Napoli)
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documentabile nella totalità dei casi: in particolare, si trattava di conflitto neurovascolare nell’88% dei soggetti e di altre lesioni nel restante 12%. Nel punto di contatto era dimostrabile un focolaio di demielinizzazione potenzialmente responsabile di cortocircuiti comportanti l’inappropriato trasferimento dell’eccitazione a fibre adiacenti (cosiddette correnti efaptiche). L’interposizione, dopo craniotomia, di un cuscinetto di teflon tra le superfici in conflitto si dimostrava estremamente efficace nel controllo dei sintomi, con un 75% di pazienti liberi da dolore a un anno dall’intervento. Negli anni seguenti il pioneristico lavoro di Jannetta è stato confermato da una grande quantità di altre osservazioni ed attualmente l’intervento di decompressione microvascolare si configura come quello con i migliori risultati sia per l’alto rate di risposta clinica immediata (oltre il 90%), sia per la bassa frequenza delle recidiva a distanza. Sebbene questi dati sembrino indicare che una demielinizzazione della REZ secondaria a conflitto neurovascolare o a sclerosi multipla sia l’elemento causale in tutti i casi di NT, non mancano prove a favore di un coinvolgimento centrale nella eziopatogenesi di queste forme. Fra queste, il riscontro in casistiche autoptiche di conflitto non sintomatico in oltre il 14% dei casi; l’assenza di conflitto in una piccola parte di casi con malattia conclamata; l’efficacia di farmaci ad azione antinocicettiva centrale (baclofen, carbamazepina); la dimostrazione dell’esistenza di un periodo di latenza tra l’applicazione dello stimolo e la comparsa del dolore; la stereotipia delle scariche che appaiono non più influenzabili da ulteriori stimoli una volta partite, la descrizione di rari casi con trigger areas extra-trigeminali o addirittura coinvolgenti altre modalità sensoriali come quelle gustative o uditive ed, infine, la presenza di un periodo refrattario post-critico. Queste ultime osservazioni, in particolare, suggeriscono che i generatori della scarica potrebbero essere circuiti neuronali diversi e indipendenti da quelli che veicolano gli stimoli esterni. Mettendo insieme tutte queste osservazioni, è possibile affermare con Olesen (2000) che la NT è una malattia ad eziologia periferica (il conflitto neurovascolare e la demielinizzazione focale) e patogenesi centrale (anomala facilitazione della trasmissione nocicettiva centrale).
Terapia medica Il trattamento della NT può essere sia medico che chirurgico; come vedremo, molti pazienti finiscono per percorrere entrambe le strade, sebbene in tempi diversi. Se infatti la risposta ai trattamenti medici è inizialmente elevata, tanto da consentire in oltre l’80% dei casi un controllo pressoché completo della sintomatologia, nel tempo si assiste ad una progressiva perdita di efficacia dei trattamenti, anche in politerapia. In questi casi è inevitabile prendere in considerazione le possibili opzioni chirurgiche. Storicamente, il primo farmaco di documentata efficacia nella NT è la fenitoina, introdotta nel 1942 da Berguignon. Ma fu con l’introduzione della carbamazepina nel 1962, che questi soggetti iniziarono a ricevere la prima terapia efficace e con un discreto profilo di tollerabilità. Nel tempo l’armamentario terapeutico si è esteso, coinvolgendo numerosi altri farmaci, soprattutto ad azione antiepilettica o antispastica-antinocicettiva centrale. Di seguito vengono riportate alcune sintetiche schede relative ai farmaci disponibili, la cui efficacia è stata documentata in letteratura.
Carbamazepina (CBZ) Prima scelta. Risposta iniziale nell’80% dei pazienti. Efficace in 48 ore, ma l’effetto diminuisce nel tempo.
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Meccanismo d’azione: stabilizzazione della membrana pre e post-sinaptica, riduzione della conduttanza dei canali del Na+. Posologia: iniziare con 100 mg due volte al giorno, aumentando gradualmente il dosaggio fino a controllo della sintomatologia. Dose abituale 400-1200 mg/die. Effetti collaterali: sintomi cerebellari, diplopia, alterazioni ematologiche, epatopatia, rash cutaneo, nausea e vomito. Frequenti all’inizio, tendono a scomparire nel tempo.
Baclofen Efficacia appena inferiore a CBZ, usato anche come prima scelta o in associazione (azione sinergica). Meccanismo d’azione: derivato del GABA, si lega al recettore GABAergico ritardando l’influsso di ioni Ca++, riducendo quindi il rilascio di neurotrasmettitori eccitatori. Posologia: iniziare con 5-10 mg /die. Titolazione lenta fino a risposta clinica soddisfacente. Dosi medie 50-75 mg/die in 3 somministrazioni. Va sospeso gradualmente (allucinazioni; convulsioni). Effetti collaterali: transitori all’inizio del trattamento. Ipotensione posturale, sedazione, debolezza muscolare.
Fenitoina Efficace nel 25% dei casi. Può essere somministrato in add-on in caso di intolleranza o inefficacia della carbamazepina e/o del baclofen. La forma iniettabile è utilizzabile per il trattamento in acuto degli stati nevralgici. Meccanismo d’azione: stabilizza la membrana dei neuroni del SNC, agendo sui canali del Na+. Posologia: 200/400 mg 1-2 volte al giorno (lunga emivita). Effetti collaterali: diplopia, atassia, epatopatia, ipertrofia gengivale, alterazioni ematologiche.
Oxcarbazepina In caso di intolleranza alla carbamazepina. Trial clinici su piccoli gruppi ne dimostrano un’efficacia in 24 ore. Meccanismo d’azione: simile alla carbamazepina di cui è un derivato. Inibisce le scariche neuronali ripetute e riduce la propagazione sinaptica riducendo la conduttanza dei canali del Na+. Posologia: 10-20 mg/kg/die (iniziare con 300 mg una volta al dì fino a 1200 mg in 2-3 somministrazioni). Effetti collaterali: vertigini ed atassia (più lievi e meno frequenti che con CBZ).
Gabapentin Efficacia dimostrata in diversi trial clinici: efficace anche in caso di dolore da neuropatia diabetica o post-erpetica. Meccanismo d’azione: aumenta la disponibilità di GABA nel SNC. Posologia: 300 mg dose iniziale fino a 2400 mg/die. Effetti collaterali: sonnolenza, astenia, alterazioni delle funzionalità renali.
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Lamotrigina Efficace sia in aggiunta alla carbamazepina o fenitoina che in monoterapia. Meccanismo d’azione: agisce sui canali del Na+ stabilizzando le membrane ed impedendo il rilascio di neurotrasmettitori, soprattutto il glutammato. Posologia: l’efficacia è raggiunta a dosi comprese tra 100 e 400 mg/die. Effetti collaterali: frequenti in caso di politerapia. Rash cutanei, diplopia, vertigini, stitichezza, nausea e sonnolenza.
Topiramato Efficacia documentata anche i pazienti con NT in corso di sclerosi multipla. Meccanismo d’azione: potenzia l’attività dei recettori per il GABA ed antagonizza l’attività eccitatoria del glutammato. Posologia: dose iniziale 25 mg/die, incremento di 25 mg/settimana fino a 100-400 mg/die. Effetti collaterali: vertigini, diplopia, parestesie, disturbi cognitivi, calo ponderale, aumento della pressione endoculare.
Valproato Efficacia documentata in un singolo trial in aperto. Meccanismo d’azione: agisce sui canali del Na+ stabilizzando le membrane ed impedendo il rilascio di neurotrasmettitori, soprattutto il glutammato. Posologia: l’efficacia è ottenuta a dosi comprese tra 500 e 1000 mg/die. Effetti collaterali: rash cutanei, diplopia, vertigini, stipsi, nausea e vomito, sonnolenza, alopecia, aumento ponderale, pancreatite, epatopatia, alterazioni ormonali.
Clonazepam Di seconda scelta, dopo provata inefficacia delle altre terapie. Meccanismo d’azione: derivato benzodiazepinico. Aumenta l’attività GABAergica centrale. Posologia: efficace anche a dosi non superiori a 3 mg/die. Effetti collaterali: sonnolenza, atassia e modificazioni del comportamento.
Terapia chirurgica La terapia chirurgica della NT ha indicazione nei casi non responsivi ai farmaci o in quelli in cui un’iniziale efficacia venga progressivamente perduta nel tempo. Le tecniche chirurgiche disponibili possono essere divise in tre gruppi: • tecniche percutanee; • decompressione microvascolare; • radiochirurgia stereotassica.
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Tecniche percutanee L’accessibilità percutanea al ganglio di Gasser e alla radice retro-gasseriana attraverso il foro ovale ha favorito lo sviluppo di numerose tecniche d’intervento che utilizzano tale via d’accesso. Gli interventi percutanei mirano a produrre un danno permanente, più o meno selettivo, del ganglio di Gasser o della radice trigeminale. Sebbene gravati da un alto tasso di recidiva, sono poco invasivi e possono essere ripetuti, anche più volte. Abbandonati per effetti collaterali e scarsa selettività della lesione prodotta l’acqua bollente, il fenolo e l’alcool, la terapia percutanea si avvale oggi soprattutto di: termolisi a radiofrequenza, rizolisi chimica con glicerolo e compressione del ganglio di Gasser con palloncino. La termolisi a radiofrequenza utilizza l’effetto termico prodotto da radiofrequenze; determina una lesione selettiva che produce analgesia senza anestesia (necessaria la collaborazione del paziente). Garantisce inoltre una elevata percentuale di successo con basso rischio di complicanze. Il dolore recidiva nel 25% dei casi. La rizolisi con glicerolo è basata sulle proprietà neurotossiche del glicerolo e non richiede collaborazione del paziente. Minore è la selettività territoriale (il glicerolo viene iniettato nella cisterna trigeminale) e il dolore recidiva nel 40% dei casi. Infine, nella compressione del ganglio di Gasser con palloncino, un catetere di Fogarty viene inserito nella cisterna e gonfiato con liquido radiopaco (200 mmHg per 1’). Ciò determina un danno selettivo delle fibre di grosso calibro e dunque si garantisce la conservazione riflesso corneale nei casi coinvolgenti la prima branca. Le recidive si attestano intorno al 20%.
Decompressione microvascolare Proposta da Peter Jannetta nel 1966, rappresenta secondo alcuni un trattamento causale e non sintomatico. È efficace in una elevatissima percentuale di casi e fa registrare una bassa incidenza di recidive (10%). La tecnica è tuttavia caratterizzata da una invasività molto più elevata; è indicata nei casi con una lunga aspettativa di vita e conflitto neurovascolare evidenziabile in neuroimaging.
Radiochirurgia sterotassica Una dose elevata di radiazioni viene somministrata in un’unica sessione, in un’area-target identificata con precisione submillimetrica, previa immobilizzazione del capo mediante dispositivi di fissazione scheletrica. La tecnica ha modesti effetti collaterali sulla sensibilità ed una ridotta incidenza di recidive (10%). Gli effetti terapeutici si ottengono a distanza di mesi dall’esecuzione della procedura e ciò ne riduce il grado di accettazione da parte dei pazienti.
Nevralgia del glossofaringeo La nevralgia del glossofaringeo (NGF) è una entità rara se è vero che alla Mayo Clinic ne sono stati osservati appena 217 casi in 55 anni. I dati di prevalenza rapportati alla NT parlano di circa 1 caso di NGF ogni 100 di NT. Non sono riportate differenze tra i sessi, ma il lato sinistro sarebbe coinvolto più spesso del destro. Sul piano clinico la NGF condivide con la NT le caratteristiche fondamentali del dolore nevralgico a parossismi. Il dolore è abitualmente localizzato alla fossa tonsillare e alla parete posteriore del faringe con possibile diffusione alla branca inferiore della mandibola e all’orecchio. I parossismi dolorosi possono essere scatenati da atti-
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vità comuni come deglutire, masticare, parlare, tossire, starnutire, schiarirsi la voce o ruotare il capo. L’associazione con la NT non è infrequente (10% dei casi). La sintomatologia può in rari casi essere preceduta da una vaga sensazione di vellichio del faringe. Il profilo temporale degli attacchi è caratterizzato da raggruppamenti di attacchi per periodi che si prolungano da settimane a mesi con progressiva tendenza al peggioramento sia per severità dei sintomi che per riduzione della durata delle fasi di remissione. I parossismi dolorosi durano di solito da 8 a 50 secondi fino a pochi minuti, in qualche caso si succedono con frequenza elevata (da 5/ora fino a 300-400/die) prevalentemente di giorno (status nevralgicus). Lo scatenamento del dolore ad opera della deglutizione è responsabile di lunghe fasi di ipoalimentazione e non è raro che la storia di questi pazienti includa una marcata perdita di peso. Il dolore della NGF è sempre strettamente unilaterale e si mantiene dallo stesso lato nel singolo paziente anche in successive fasi di attività, tranne rari casi (circa 2%). Sincopi (secondarie a bradicardia o asistolia) e crisi convulsive (da ischemia cerebrale) possono verificarsi in circa il 2% delle NGF. La somministrazione di atropina previene i fenomeni cardiaci (non il dolore!) suggerendo un meccanismo vagale afferente. La diagnosi è clinica, l’esame neurologico nelle forme idiopatiche è usualmente normale. Atipie delle caratteristiche del dolore o sospetto di forme secondarie devono essere indagate. Tra le cause di NGF secondarie distinguiamo tumori dell’angolo ponto-cerebellare, carcinoma naso-faringeo, aneurismi carotidei, ascessi peritonsillari, rari neurinomi del IX, conflitti neuro-vascolari ed SM. Una nota a parte merita la sindrome dell’apofisi stiloide (sindrome di Eagle) in cui la sintomatologia nevralgica è secondaria ad irritazione del glossofaringeo nel suo decorso esocranico ad opera di apofisi stiloide di lunghezza anomala (oltre 4,5 cm contro una lunghezza media di 2,5 cm). L’approccio farmacologico è identico a quello della NT. L’anestesia locale (lidocaina 10%) delle aree triggers tonsillari e faringee ha valore diagnostico. La neurotomia selettiva del IX a livello del forame giugulare e la decompressione microvascolare sono le metodiche preferite dai neurochirurghi e limitate ai casi resistenti alla terapia medica.
Nevralgia del nervo intermedio È la forma di nevralgia forse meno frequente ed è conosciuta anche con il nome di nevralgia (genicolata) di Hunt. Le caratteristiche cliniche che la definiscono sono: parossismi unilaterali di dolore nevralgico, di durata da pochi secondi a pochi minuti; distribuzione del dolore al meato acustico esterno; fenomeni vegetativi associati quali disturbi della lacrimazione, della salivazione e del gusto; presenza di fasi attive di malattia e di periodi intervallari liberi da sintomi; prevalenza nel sesso femminile. È frequente l’associazione con herpes zoster del condotto uditivo esterno.
Nevralgia occipitale È classicamente caratterizzata da parossismi dolorosi unilaterali nel territorio dei nervi grande e piccolo occipitale, eventualmente intervallati da un dolore di fondo con dolenzia alla palpazione e disestesie. Può esordire a seguito di traumi occipitali, anche minori. Nella forma pura (nevralgia di Arnold) è di riscontro non frequente rispetto alle innumerevoli sindromi cervicali con cui contrae rapporti di confine. La complessità delle anastomosi tra nervo grande occipitale, ganglio cervicale superiore e rami cervicali posteriori da C1 a C4 rendono poi conto della difficoltà di ottenere una completa estinzione dei sintomi con il blocco anestetico del n. grande occipitale. È ri-
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portata dolorabilità elettiva alla pressione locale a livello dei punti triggers. L’eziologia include qualsiasi meccanismo o fattore (traumatico, vascolare, flogistico, cicatriziale, degenerativo, neoplastico) in grado di interferire con il nervo od i suoi rami in qualsiasi punto del decorso.
Nevralgia del laringeo superiore Si tratta di una forma estremamente rara le cui prime descrizioni risalgono ad Avellis nel 1900. È caratterizzata da parossismi dolorosi nella parte laterale della gola e nelle regioni sottomandibolare, periauricolare e lungo il collo; i parossismi sono scatenati dalla masticazione e da particolari movimenti del collo, stiramento o rotazione del capo. Il dolore, normalmente unilaterale, si presenta a parossismi della durata di pochi minuti che si ripetono fino a 10-30 volte nelle 24 ore con raggruppamento degli attacchi per periodi di tempo variabile e tendenza alla remissione. Questa sindrome entra in diagnosi differenziale con la nevralgia del IX.
Cefalea da compressione esterna La cefalea da compressione esterna è una cefalea conseguente ad una prolungata pressione esercitata sui rami cutanei dei nervi trigemino e occipitale. Le cause più comuni sono l’uso di occhiali per il nuoto, cappelli stretti o fermacapelli. La prevalenza nella popolazione generale è pari al 4% ed è più frequente nel sesso femminile ed in pazienti affetti da emicrania. Il quadro clinico è abitualmente caratterizzato da un dolore sordo, continuo e di lunga durata, in corrispondenza del punto di applicazione dello stimolo pressorio. Il dolore insorge con latenza variabile dopo l’applicazione dello stimolo e scompare dopo la sua rimozione. La terapia consiste nella rimozione delle cause scatenanti. In rari casi può essere necessario il ricorso alla infiltrazione locale di anestetici.
Cefalea da stimolo freddo Al contrario di quanto normalmente si crede, è una forma frequente di cefalea e la prevalenza nella popolazione generale è pari al 15%. È possibile distinguere due sottogruppi: la cefalea da applicazione esterna di stimolo freddo e quella provocata dall’ingestione di alimenti freddi. La prima entità ha generalmente una localizzazione bilaterale, si sviluppa in seguito all’esposizione della testa, non adeguatamente protetta, a basse temperature ed è prevenuta evitando l’esposizione del capo al freddo. L’intensità del dolore varia in relazione all’entità e alla durata dello stimolo. Sebbene la patogenesi non sia conosciuta, si ritiene sia determinata da una eccessiva stimolazione dei recettori termici localizzati a livello facciale e dello scalpo. Si tratta di una cefalea occasionale e generalmente non è necessario un trattamento farmacologico. La cosiddetta “cefalea da gelato” è provocata, in soggetti predisposti, dall’ingestione di qualsiasi bevanda o cibo freddi. In genere, il dolore si manifesta dopo pochi secondi dall’assunzione dell’alimento freddo e raggiunge l’intensità massima in meno di un minuto. La sintomatologia è riferita nella parte centrale della regione frontale. Il dolore, di tipo esplosivo o urente, recede rapidamente dopo 10-20 secondi dall’esordio e più raramente persiste per qualche minuto. È pro-
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babile che una stimolazione dei termo-recettori orofaringei sia responsabile, attraverso l’attivazione trigeminale o del nervo glossofaringeo, della deregolazione segmentale dei sistemi centrali antinocicettivi e di una risposta riflessa vasomotoria con conseguente vasocostrizione locale. Anche questa forma di cefalea in genere non richiede una terapia farmacologica ed è sufficiente evitare gli stimoli in grado di scatenarla.
Letture consigliate Bruyn GW (1983) Glossopharyngeal neuralgia. Cephalalgia 3:143-157 Cheng TM (1993) Comprehensive study of diagnosis and treatment of trigeminal neuralgia secondary to tumors. Neurology 43:2298-2302 Cruccu G, Anand P, Attal N et al (2004) EFNS guidelines on neuropathic pain assessment. Eur J Neurol 11:153-162 Cruccu G, Biasiotta A, Galeotti F et al (2006) Diagnostic accuracy of trigeminal reflex testing in trigeminlal neuralgia. Neurology 66:139-141 Gass A, Kitchen N, Macmanus DG et al (1997) Trigeminal neuralgia in patient with multiple sclerosis: lesion localization with magnetic resonance imaging. Neurology 49:1142-1144 Graff-Radford SB (2000) Facial pain. Curr Opin Neurol 13:291-296 Headache Classification Subcommittee of the International Headache Society (2004) The International Classification of Headache Disorders. Cephalalgia 24 (suppl 1):1-152 Hooge JP, Redekop WK (1995) Trigeminal neuralgia in multiple sclerosis. Neurology 45:1294-1296 Katusic S, Beard CM, Bergstralh E et al (1990) Incidence and clinical features of trigeminal neuralgia, Rochester, Minnesota, 1945-1984. Ann Neurol 27:89-95 Love S, Coakham HB (2001) Trigeminal neuralgia. Pathology and pathogenesis. Brain 124:2347-2360 Madland G, Feinmann C (2001) Chronic facial pain: a multidisciplinary problem. J Neurol Neurosurg Psychiatry 71:716-719 Nurmikko TJ, Eldridge PR (2001) Trigeminal neuralgia: pathophysiology, diagnosis and current treatment. British Journal of Anaesthesia 87 (1):117-132 Olesen J, Tfelt-Hansen P, Welch KMA (2000) The Headaches, 2 edn. Lippincott Williams & Wilkins, Philadelphia Penman J (1970) Trigeminal neuralgia. In Vinken PJ, Bruyn GW (eds) Handbook of clinical neurology, vol 5. North-Holland, Amsterdam, pp 296-322 Rasmussen P (1990) Facial pain I - A prospective survey of 1052 patients with a view of: definition, delimitation, classification, general data, genetic factors, and previous diseases. Acta Neurochir 107:112-120 Rasmussen P (1990) Facial pain II - A prospective survey of 1052 patients with a view of: character of the attacks, onset, course and character of pain. Acta Neurochir 107:121-128 Rushton JG, Stevens C, Miller RH (1981) Glossopharyngeal (vagoglossopharyngeal) neuralgia. Arch Neurol 38:201-205 Smyth P, Greenough G, Stommel E (2003) Familial trigeminal neuralgia: case reports and review of the literature. Headache 43:910-915
Capitolo 13
Dolori facciali di origine centrale E. Agostoni
Il dolore centrale appartiene al capitolo delle sindromi dolorose neuropatiche ed è associato a lesioni del sistema nervoso centrale. Il dolore centrale condivide con il dolore neuropatico le seguenti caratteristiche fisiopatologiche e cliniche [1]: – è causato da lesioni delle vie somatosensitive; – il grado della lesione è variabile, da lieve senza deficit sensitivi a severo con anestesia; – è idiosincrasico (vi è una predisposizione genetica negli animali); – è distribuito nell’area sensitiva della lesione; – l’insorgenza può essere tardiva; – può essere reversibile; – può essere continuo e nevralgico, spontaneo ed evocato; – può essere temporaneamente alleviato da blocchi anestetici locali, somatosensitivi prossimali, distali o entrambi; – può essere temporaneamente alleviato da blocchi anestetici simpatici, se presente la componente evocata; – il dolore continuo risponde meglio all’infusione endovenosa di tiopentale sodico che a quella di oppiacei; – il dolore continuo non è alleviato dalla sezione nervosa prossimale, ma può rispondere alla stimolazione cronica che induca parestesie nell’area algica; – il dolore evocato e nevralgico può essere alleviato dalla sezione nervosa. Questo argomento è stato esaminato da molti autori sebbene nessuno sia pervenuto a conclusioni definitive. Pertanto la nostra comprensione dei complessi meccanismi che regolano il dolore neuropatico, incluso quello centrale, rimane ancora scarsa. In base ai rapporti anatomo-clinici il dolore centrale può essere distinto in due categorie maggiori: dolore centrale da causa spinale e dolore centrale da causa cerebrale. In questo capitolo viene trattato il dolore della faccia da causa centrale che nella classificazione dell’Internetional Headache Society (IHS) 2004 [2] è codificato al numero 13.18. In questo raggruppamento sono raccolte le seguenti entità nosografiche: 13.18.1 anestesia dolorosa; 13.18.2 dolore centrale conseguente a ictus cerebrale; 13.18.3 dolore facciale attribuito a sclerosi multipla; 13.18.4 dolore facciale idiopatico persistente; 13.18.5 sindrome della bocca bruciante. Nell’ambito del dolore facciale attribuito a sclerosi multipla (SM) (13.18.3) viene trattata la neurite ottica per ovvie ragioni di pertinenza al capitolo della SM, anche se la classificazione IHS prevede per questa patologia la codifica 13.13.
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E. Agostoni
Anestesia dolorosa Per anestesia dolorosa si intende un’anestesia o ipoestesia persistente e dolorosa nel territorio di distribuzione del nervo trigemino o di una delle sue branche, oppure dei nervi occipitali. La classificazione IHS 2004 stabilisce i seguenti criteri diagnostici [2]: A. dolore persistente e disestesie limitati all’area di distribuzione di una o più branche del nervo trigemino o dei nervi occipitali; B. ipo-anestesia dolorifica e talora a carico di altre modalità sensitive nel medesimo territorio; C. presenza di una lesione del nervo interessato o delle sue connessioni centrali. L’anestesia dolorosa è spesso correlata ad un trauma chirurgico dei nervi occipitali o del ganglio trigeminale provocata dalla rizotomia o dalla termocoagulazione per il trattamento della nevralgia trigeminale [3].
Dolore centrale conseguente a ictus cerebrale Lo stroke rappresenta la causa più frequente di dolore centrale cerebrale. Esso si manifesta comunque solo nel 1-2% degli ictus. Lo storico studio di Dejerine e Roussy La sindrome thalamique pubblicato nel 1906 (Rev Neurol) ha radicato la nozione che il dolore indotto da ictus sia dovuto a lesioni talamiche, ma i moderni studi di neuroimaging hanno chiarito che il dolore può derivare anche da lesioni del tronco encefalico, della sostanza bianca sottocorticale e della corteccia cerebrale [4]. Quando la lesione è talamica, tende ad interessare il talamo ventro-posteriore. Vi sono osservazioni che le lesioni talamiche dolorose sono prevalenti nell’emisfero cerebrale di destra. Il dolore centrale da ictus viene descritto come dolore e disestesie unilaterali associati ad un disturbo della sensibilità, che interessano totalmente o parzialmente la faccia e che non sono giustificabili sulla base di una lesione trigeminale. Sono invece attribuibili a lesione della via quintotalamica, del talamo o della proiezione talamocorticale. I sintomi possono anche coinvolgere il tronco e/o gli arti dell’emilato controlaterale alla sede della lesione [4]. La classificazione IHS 2004 definisce i seguenti criteri diagnostici [2]: A. dolore e disestesie di una metà del volto, associati a deficit della sensibilità tattile, termica o dolorifica e che soddisfino i criteri C e D; B. una o entrambe le seguenti caratteristiche: 1. storia di esordio improvviso, che suggerisce una lesione cerebrovascolare, 2. dimostrazione della lesione in una sede appropriata per mezzo della tomografia computerizzata o della risonanza magnetica; C. il dolore e le disestesie si sviluppano entro 6 mesi dall’ictus; D. il dolore non è spiegabile con una lesione del nervo trigemino. Il dolore facciale che segue una lesione talamica solitamente è nel contesto di una emisindrome deficitaria. Nelle lesioni laterobulbari il dolore può presentarsi isolato, ma è più spesso accompagnato da emidisestesia crociata [5]. Dolore e disestesie sono solitamente persistenti.
Dolore facciale attribuito a sclerosi multipla Nell’ambito della sclerosi multipla, le sindromi dolorose della faccia sono sostanzialmente rappresentate dalla neurite ottica (NO) e dalla nevralgia trigeminale (NT). Gli aspetti clinici e fisio-
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patologici sono trattati in un altro capitolo di questo manuale al quale si rimanda il lettore. In questa sezione si ricordano i criteri diagnostici del dolore facciale attribuito alla SM, che sono alla base della diagnostica differenziale con la nevralgia trigeminale classica (13.1.1) e che rientrano nella nevralgia trigeminale sintomatica (13.1.2). Il dolore facciale attribuibile a SM viene descritto come un dolore facciale unilaterale o bilaterale, con o senza disestesie, attribuito ad una lesione demielinizzante delle connessioni centrali del nervo trigemino, spesso con tendenza a successive recidive e remissioni. La classificazione IHS 2004 definisce i seguenti criteri diagnostici [2]: A. dolore facciale uni o bilaterale, con o senza disestesie; B. evidenza di sclerosi multipla; C. il dolore e le disestesie si sviluppano in stretta corrispondenza temporale con la dimostrazione RM di una lesione demielinizzante a livello del ponte o della via trigeminotalamica; D. esclusione di altre cause. Il dolore può avere le caratteristiche della nevralgia trigeminale classica o essere di tipo continuo. In un recente studio, in cui si sono confrontate le nevralgie trigeminali primarie ed in pazienti affetti da sclerosi multipla, non si sono evidenziate differenti rilevanti nelle caratteristiche cliniche del dolore [6]. La sola differenza significativa tra i due gruppi era l’età di esordio, significativaemnte inferiore nei pazienti con SM. Conseguentemente, la presenza di una nevralgia trigeminale nel giovane, soprattutto se interessa prima un lato della faccia e poi l’altro, dovrebbe sollecitare il sospetto clinico di SM. In qualche caso i pazienti con SM possono presentare un dolore facciale con le caratteristiche del dolore facciale atipico. La percentuale di pazienti affetti da SM che presentano una nevralgia trigeminale è soggetta a varie distorsioni di selezione. In letteratura viene riportata una variabilità dallo 0,5 al 4% [7]. Le donne con SM di età inferiore ai 45 anni hanno una probabilità maggiore di avere la nevralgia trigeminale. Una importante patologia, potenziale causa di dolore facciale nella SM, è rappresentata dalla NO, che nella classificazione IHS 2004 viene collocata al codice 13.13. Per NO si intende qualsiasi disordine infiammatorio del nervo ottico, ma solitamente il termine descrive una malattia acuta o subacuta del nervo ottico attribuita ad un’infiammazione associata a demielinizzazione. La NO infiammatorio-demielinizzante è la causa più comune di neuropatia ottica in un’età compresa tra 15 e 50 anni. Le donne sono più colpite rispetto agli uomini. La NO ha un’incidenza di 1-5 casi per 100.000 abitanti per anno [7]. L’incidenza è maggiore nella razza caucasica, nei paesi ad alta latitudine e nella stagione primaverile [7]. Il profilo clinico tipico della NO è rappresentato da una disfunzione visiva unilaterale con dolore dell’occhio, aggravato dai movimenti dei globi oculari. La valutazione oftalmologica mostra un danno visivo con riduzione dell’acuità visiva, compromissione della visione dei colori e della sensibilità al contrasto, un difetto del campo visivo e del riflesso pupillare afferente. La maggior parte dei disturbi del campo visivo interessa il campo centrale e possono essere rappresentati da scotoma centrale, difetti altitudinali ed emianopsici monoculari. Nella NO il dolore oculare è di frequente riscontro, ma spesso pone importanti problemi di diagnostica differenziale con patologie di pertinenza oftalmologica e con altre condizioni neurologiche. Per comprendere l’origine del dolore nella NO dobbiamo ricordare che il nervo ottico è insensibile allo stimolo algico. Il dolore che accompagna la NO sembrerebbe quindi risultare dalla irritazione delle meningi che avvolgono il nervo ottico. L’innervazione sensitiva dell’occhio e della regione perioculare dipendono dalla prima e dalla seconda branca del nervo trigemino. Rami ricorrenti dello stesso nervo suppliscono la dura madre, i seni venosi e i vasi cerebrali. Il meccanismo che regola il dolore perioculare correlato al movimento degli occhi originerebbe dagli stretti punti di attacco dei muscoli retto mediale e superiore alla guaina del nervo ottico, a livel-
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lo dell’apice dell’orbita [8]. La contrazione dei muscoli oculari con il movimento degli occhi determinerebbe uno stiramento della guaina del nervo ottico infiammato. Nella NO l’incidenza del dolore può essere variabile in relazione alla localizzazione del processo infiammatorio. Esso è più frequente quando la NO interessa il segmento orbitario del nervo ottico, mentre è spesso assente quando questo è risparmiato dal processo infiammatorio [8]. Nella Classificazione IHS 2004 il dolore della NO viene descritto come un dolore dietro uno od entrambi gli occhi, associato ad una alterazione della visione centrale per demielinizzazione del nervo ottico. Vengono indicati i seguenti criteri diagnostici [2]: A. dolore sordo retrobulbare che interessa uno o entrambi gli occhi, aggravato dai movimenti oculari e che soddisfi i criteri C e D; B. visione alterata per scotoma centrale o paracentrale; C. l’esordio del dolore e il disturbo della visione avvengono a meno di quattro settimane di distanza l’uno dall’altro; D. il dolore si risolve entro quattro settimane; E. esclusione di lesioni compressive.
Dolore facciale idiopatico persistente Il termine dolore facciale idiopatico persistente è stato introdotto nella Classificazione IHS 2004 in sostituzione della precedente definizione algia facciale atipica [2]. Si tratta di un dolore facciale persistente che non possiede le caratteristiche delle altre nevralgie craniche classificate al punto 13. Il dolore non è attribuito ad una sottostante condizione patologica. Questa entità nosografica rappresenta una condizione ancora poco definita con criteri diagnostici poco chiari e con profonde incertezze terapeutiche. Solitamente il dolore facciale è presente quotidianamente e persiste per la maggior parte o per l’intera giornata. Il dolore all’esordio è confinato ad una area limitata di un lato della faccia, spesso a livello del solco naso labiale o della guancia e può irradiarsi alla mandibola o al collo. Generalmente il dolore è profondo, scarsamente localizzato e non è associato a disturbi sensitivi o ad altri segni fisici [9]. Le indagini di laboratorio e neuroradiologiche non dimostrano alterazioni. La Classificazione IHS 2004 propone i seguenti criteri diagnostici [2]: A. dolore facciale che è presente quotidianamente e persiste per tutta la giornata, o per la maggior parte di essa, e che soddisfi i criteri B e C; B. il dolore interessa inizialmente una zona limitata di un lato del volto, è profondo e scarsamente localizzato; C. il dolore non è associato a deficit sensitivi o altri segni obiettivi; D. le indagini strumentali, inclusa la radiografia del massiccio facciale e della mandibola, non rivelano anomalie significative. Una recente revisione di una casistica di pazienti con dolore facciale persistente ha evidenziato altre caratteristiche cliniche che sembrano associate ad un buon potere predittivo posisitvo e negativo: intensità moderata o intensa ma non insopportabile, assenza di esacerbazione del dolore con le attività della vita quotidiana, assenza di zone trigger e di segni disautonomici associati [10]. Prima che questi criteri addizionali vengano inclusi nei criteri IHS, tuttavia, sarà necessaria una verifica della loro validità in studi prospettici. Il dolore può manifestarsi in occasione di un intervento chirurgico o di un trauma facciale, dentario o gengivale, ma persiste senza cause organiche locali dimostrabili. Un dolore facciale nell’area dell’orecchio o della tempia può precedere il riscontro di un carcinoma polmonare ipsilaterale, che causa dolore riferito per interessamento del nervo vago [9]. Il termine odontalgia ati-
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pica è stato applicato ad un dolore continuo a livello dei denti o di un alveolo, in seguito ad un’estrazione dentaria, senza cause dentali dimostrabili [11]. Il dolore facciale idiopatico persistente presenta alcuni aspetti clinici comuni: è più frequente nelle donne, il dolore non segue una via nervosa ed è presente per mesi, si ripresenta periodicamente nella stessa forma, non ha caratteri parossistici, è assente durante il sonno, spesso sono presenti fattori psicologici concomitanti [12]. L’eziologia è sconosciuta, sono stati suggeriti alcuni fattori di rischio sebbene senza relazione causale. Il ruolo degli ormoni femminili è stato invocato in relazione alla maggior frequenza di questa patologia nel genere femminile, alla evenienza di osteoporosi ed alla osteonecrosi cavitazionale correlate alla menopausa. La presenza di fattori psicosociali rappresenta un quadro comune in questi pazienti, ma le relazioni causali non sono ben definite ed in particolare non è chiaro se esse rappresentino la conseguenza o la causa del dolore [12]. In alcuni casi le infezioni dei seni paranasali o dei denti o traumi minori possono essere considerati fattori di rischio. La fisiopatologia del dolore facciale idiopatico persistente vede il coinvolgimento di diversi meccanismi neuropatici: sensibilizzazione dei nocicettori, modificazioni fenotipiche e attività ectopica dei nocicettori, sensibilizzazione centrale, anormale attività simpatica, alterazione del controllo inibitorio segmentale, iper- o ipo-attività dei sistemi discendenti di controllo [13]. Il trattamento del dolore idiopatico persistente è difficile e solitamente privo di soddisfazioni. Esso consiste principalmente in un programma integrato di informazione educazione del paziente e in un approccio farmacologico che comprende: antidepressivi triciclici, anticonvulsivanti (fenitoina, carbamazepina, gabapentin, lamotrigina). Gli analgesici e le procedure chirurgiche come la decompressione microvascolare non hanno dimostrato alcuna efficacia. Altre strategie terapeutiche includono l’applicazione di caldo e freddo, il biofeedback e splint dentali [14].
Sindrome della bocca bruciante Con questa definizione si intende una sensazione intraorale di bruciore per la quale non esistono cause mediche o dentali dimostrabili. Il dolore può essere limitato alla lingua (glossodinia). Altri sintomi associati possono includere secchezza delle fauci, parestesie, alterazioni del gusto [1]. La classificazione IHS 2004 stabilisce i seguenti criteri diagnostici [2]: A. dolore orale che è presente quotidianamente e persiste per la maggior parte della giornata; B. aspetto normale della mucosa orale; C. esclusione di malattie locali e sistemiche.
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Capitolo 14
Sindrome di Tolosa Hunt ed emicrania oftalmoplegica G. Bussone, L. La Mantia
Sindrome di Tolosa-Hunt Aspetti storici Nel 1860 Von Gubler descrisse per la prima volta un’oftalmoplegia dolorosa presentando il caso di un uomo di 35 anni che soffriva di attacchi dolorosi ricorrenti, di tipo emicranico, associati ad oftalmoplegia transitoria di durata variabile, da una settimana ad un mese. Il paziente morì dopo un episodio doloroso e l’esame autoptico rivelò la presenza di un processo meningitico della base cranica. Sono stati descritti in seguito molti casi analoghi: Mauthner ne riportò 14 nel 1889, Ballet 22 nel 1896, Mingazzini 60 nel 1897. Nel 1884 Moebius, che svolgeva la sua attività presso il Policlinico Universitario di Lipsia, sotto la direzione di Von Strumpell, trattando alcuni casi simili a quello descritto da Von Gubler, identificò il disturbo come oftalmoplegia transitoria ricorrente, differenziandolo dall’emicrania. Tale definizione non fu condivisa da Charcot (1890), che considerava l’oftalmoplegia una possibile manifestazione clinica dell’emicrania e che propose il termine di emicrania oftalmoplegica per questa particolare forma. Nella grande maggioranza dei casi studiati l’oftalmoplegia coinvolgeva unicamente il III nervo cranico, sebbene Luzenberger (1897) e Bornstein (1907) avessero osservato un interessamento del IV e del VI nervo. Altri Autori descrissero inoltre quadri clinici nei quali era presente un inequivocabile coinvolgimento della prima o della seconda branca trigeminale; Moebius (1885) e Vissering (1889), riportarono casi in cui si verificò, nei giorni che seguirono la remissione dell’oftalmoplegia, una paralisi del facciale ipsilaterale a carattere transitorio. Moebius ritenne l’oftalmoplegia dolorosa un’entità clinica a sé stante, ben distinta dall’emicrania, soprattutto in relazione alle caratteristiche del dolore, spesso confinato alla regione orbitaria, e all’insorgenza della paralisi oculare, tardiva rispetto alla sintomatologia dolorosa. Egli sottolineò che l’oftalmoplegia poteva durare da alcuni giorni a mesi e che gli attacchi potevano essere intervallati da anni. Charcot seguitò a definire questo disturbo emicrania oftalmoplegica. La diatriba fra Moebius e Charcot proseguì per molto tempo e si concluse con un verdetto, o meglio, con un giudizio ufficiale di maggioranza del congresso della società francese di neurologia, nel 1925, quando Christiansen e Vallery-Radot si espressero in favore di Moebius. La decisione finale sulla controversia fu tuttavia presa nel 1934 da Garcin che, in accordo con Halbron, sentenziò che vi era un’inconfutabile distinzione clinica fra l’oftalmoplegia dolorosa ricorrente e la cosiddetta emicrania oftalmoplegica. Questa sindrome dovrebbe essere pertanto denominata di Gubler-Moebius anziché Tolosa-Hunt, in quanto Von Gubler fu il primo a descriverla e Moebius la differenziò dall’emicrania. Il merito della scoperta venne tuttavia attribuito ad altri, ignorando il determinante contributo fornito dai grandi studiosi del XIX secolo.
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L’avvento dell’angiografia cerebrale consentì una svolta nella diagnosi differenziale, in particolare con tutte quelle forme di oftalmoparesi dolorosa attribuibili ad aneurismi endocranici e ad altre lesioni di natura vascolare. Nel 1954 Eduardo Tolosa, dell’istituto neurologico di Barcellona, descrisse il caso in un uomo di 47 anni che presentava dolore orbitario violento e continuo, seguito, a distanza di 8 giorni, da oftalmoplegia [1]. L’esame angiografico mostrava un restringimento segmentario del sifone carotideo; veniva eseguita una craniotomia esplorativa che non evidenziava reperti patologici. Il paziente morì subito dopo l’intervento e l’autopsia rivelò la presenza di un tessuto di granulazione che aveva invaso il seno cavernoso, la carotide ed i nervi contigui. Non furono riscontrate lesioni endoarteritiche [1]. Nel 1961 Hunt, Meagher et al riportarono 6 casi simili e riscontrarono in essi una rapida remissione della sintomatologia dopo trattamento steroideo [2]. Nel 1966 Smith e Taxdal [3] osservarono in altri casi di oftalmoplegia dolorosa una significativa risposta alla terapia steroidea e decisero di assegnare il merito della scoperta di questa sindrome a Tolosa ed a Hunt (THS). Il riconoscimento fu in verità assai generoso nonchè arbitrario, poiché i due ricercatori non portarono alla luce una nuova entità clinica ma, molto più semplicemente, contribuirono a meglio definirla. L’eponimo fu comunque attribuito a loro e venne quindi utilizzato in letteratura, anche se a Moebius va il merito di aver sostenuto con tenacia e convinzione la propria teoria, basata unicamente sull’osservazione dei pazienti e sul ragionamento clinico, gli unici strumenti interpretativi di cui poteva avvalersi, fornendo così ai ricercatori del XX secolo i principi fondamentali per un corretto inquadramento nosografico di questa forma morbosa. Gli studi condotti nella seconda metà del ’900 permisero una miglior caratterizzazione della sindrome in senso eziopatogenetico. Il contributo di reperti bioptici presentati da Lakke [4], Schatz [5], Hallpike [6] e l’ampia serie di dati flebografici raccolta da Hannerz indirizzarono verso un’ipotesi vasculitica [7]. L’origine immunitaria della THS, sospettata da Mathew nel 1970 [8], venne sostenuta in numerosi lavori pubblicati in seguito, ma gli unici che parlarono specificamente di una genesi autoimmune della sindrome furono Dornan nel 1979 [9], Leibowitz e Huges, nel loro trattato di “Immunologia del Sistema Nervoso”, pubblicato nel 1983, e lo stesso Hannerz, nel 1986 [7]. Leibowitz e Huges ritengono che la THS possa essere ricondotta ad una forma frusta di granulomatosi di Wegener. L’insieme di questi dati clinici, strumentali e bioptici ha portato a classificare la THS come una sindrome infiammatoria, su base granulomatosa, caratterizzata da un decorso autolimitante e da una spiccata risposta ai corticosteroidi, sebbene a dosi non immunosoppressive. Essa corrisponde fondamentalmente alla sindrome della fessura orbitaria superiore (SOFS), almeno per quanto riguarda la sede della lesione; è caratterizzata da attacchi ricorrenti di dolore in sede peri-orbitaria o retro-orbitaria, talora con alternanza di lato, della durata di giorni o settimane, accompagnati o seguiti da oftalmoparesi.
Aspetti clinici Sono stati pubblicati diversi studi sulla THS, da quando fu definita per la prima volta; la revisione della letteratura condotta da Bruyn e Hoes [10], nel 1986, è una delle più ampie e complete. Essa rappresenta a tutt’oggi lo studio che ha permesso una migliore definizione delle caratteristiche cliniche e strumentali di questa sindrome. I dati di questa revisione si riferiscono complessivamente a 312 casi, con un totale di 532 attacchi, dei quali 303 adeguatamente descritti. Gli Autori hanno specificato che in alcuni articoli il sesso, l’età, il lato colpito ed il nervo coinvolto non erano indicati; pertanto, il riferimento numerico, citato nei paragrafi relativi a questi dati, risulta complessivamente inferiore al totale.
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Non c’era una significativa preponderanza di maschi (n=127) o di femmine (n=130) nei casi osservati. L’età media dei pazienti era 41,4±18,6 anni (range 3-76). Fu osservata un’elevata incidenza di casi (n=169) fra i 20 ed i 60 anni. Gli attacchi di THS solitamente esordivano con un dolore a carattere trafittivo in sede retro o periorbitaria, seguito da un’oftalmoparesi della durata di giorni o settimane; in alcuni casi l’oftalmoparesi insorgeva in concomitanza al dolore. Gli attacchi talora erano accompagnati da fenomeni vegetativi quali nausea, vomito, rialzo termico. In 144 casi (56%) gli attacchi erano ricorrenti, in assenza di una prevalenza di lato: circa la metà dei pazienti riferivano il dolore all’emicranio destro, i restanti all’emicranio sinistro. In 46 dei 303 attacchi descritti dettagliatamente era presente una classica SOFS. Il nervo più frequentemente interessato è risultato essere l’oculomotore: un suo coinvolgimento è descritto in 243 attacchi su 303 (80%); nel corso di 4 attacchi era interessata esclusivamente la componente intrinseca del nervo, in 77 era coinvolta sia la componente intrinseca che quella estrinseca. In ordine di frequenza, il secondo nervo colpito è risultato essere l’abducente: è infatti stata riscontrata una paralisi elettiva del VI in 47 attacchi (15,5%). Occasionalmente è stato riscontrato un coinvolgimento dell’innervazione simpatica della pupilla; questo potrebbe eventualmente dimostrare una estensione del processo al seno cavernoso, anche se questo aspetto non è stato approfondito. In alcuni casi, oltre ai nervi della fessura orbitaria superiore, erano coinvolti anche altri nervi cranici: nel corso di 46 attacchi è stato riscontrato l’interessamento del II nervo cranico, in 35 della seconda o terza branca trigeminale, in 9 del nervo facciale, in 1 dell’acustico. In un caso è stato osservato un contemporaneo coinvolgimento del II e del VII e papilledema. L’interessamento trigeminale è espressione dell’estensione del processo al seno cavernoso. In 4 casi è stata riscontrata la presenza di segni neurologici atipici per la sindrome: una risposta scorretta alla stimolazione cutanea plantare, controlateralmente alla sede dell’attacco doloroso, una concomitante disfasia o un’emiparesi controlaterale. Per quanto concerne le analisi di laboratorio, dati riguardanti la velocità di eritrosedimentazione (VES) erano riportati in 93 casi; la VES risultava alterata in 35 casi (37, 6%): i valori erano compresi fra 22 e 42 mm/h fino ad un massimo di 104; in 12 casi era moderatamente elevata, in 46 casi era normale. Una leucocitosi neutrofila superiore a 19500 mm3 è stata riscontrata in soli 6 casi. Dati riguardanti l’esame del liquor cefalorachidiano erano riportati in 90 casi; in soli 7 casi era descritta la presenza di cellule infiammatorie. La proteinorrachia risultava elevata in 6 casi. Il reperto liquorale risultava del tutto normale in 77 casi; tutti gli autori pertanto convennero nel ritenere che non vi fossero, nei casi di THS, significative alterazioni dei parametri di laboratorio. Per quanto riguarda le indagini strumentali, reperti arteriografici anomali nella THS furono riportati per la prima volta da Tolosa nel 1954. Le alterazioni consistevano principalmente in una riduzione ed in un’irregolarità del tratto intracavernoso della carotide interna, attribuibile ad una lesione di natura arteritica o aterosclerotica. In uno studio condotto da Kettler e Martin nel 1975, viene descritto il reperto arteriografico di una marcata stenosi della carotide interna, su base periarteritica, in un paziente con THS. La casistica riportata in letteratura è molto ampia. Complessivamente, l’angiografia carotidea risultava normale in 150 casi, mentre vennero trovati reperti patologici, quali riduzione ed irregolarità del calibro vasale, in 39 casi (26%). Le alterazioni riscontrate alla flebografia orbitaria sono state considerate determinanti ai fini della diagnosi di THS. L’esame flebografico si è inoltre rivelato importante nel controllo del paziente dopo la remissione della sintomatologia. Questa procedura venne applicata per la prima volta nell’ambito della THS da Milstein e Morretin nel 1971 [11]. I reperti patologici includevano: ostruzione della vena oftalmica superiore, particolarmente a carico del terzo segmento, senza dislocazione; scarso o mancato riempimento del seno cavernoso e formazione di circoli collaterali attraverso minuscoli rami venosi. Nel 1973 Sondheimer e Knapp [12] riportarono 3 casi di
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THS in cui l’esame flebografico dimostrò una completa obliterazione della vena oftalmica superiore associata ad ostruzione totale del seno cavernoso omolaterale. Quadri flebografici simili nell’ambito della THS furono descritti da Brismar nel 1977 [13]. Lo studio condotto da Muhletaler e Gerlock nel 1979 [14] evidenziò anomalie in 10 dei 26 casi considerati. Fra i casi della revisione, la flebografia orbitaria risultava positiva in 50 pazienti su 99 (50,5%). L’esame radiografico del cranio e la radiografia orbitaria non misero in evidenza anomalie. In alcuni casi (n=14) è stata eseguita una scintigrafia cerebrale e in altri (n=24) una TC dell’encefalo, ma solo in un caso sono stati evidenziati reperti patologici, caratterizzati da un’erosione del pavimento e del dorso della sella turcica. Allo stato attuale l’esame strumentale determinante ai fini diagnostici è la RM encefalica con mezzo di contrasto, che permette di evidenziare i casi sintomatici per quelle alterazioni anatomo-patologiche evidenziate, in epoca pre-risonanza, con flebografia e/o arteriografia. Non meno importante è l’utilizzo della RM per il monitoraggio strumentale nel corso del followup di questi pazienti. Dati riguardanti i reperti istopatologici sono riportati in 14 casi. Il materiale, proveniente da prelievi bioptici e da indagini autoptiche, è rappresentato da un tessuto di granulazione opaco, di colore roseo o rosso. Questo tessuto ricopriva la fessura orbitaria superiore o si estendeva fino alla porzione anteriore del seno cavernoso. La porzione di dura madre che ricopre la piccola ala dello sfenoide appariva inoltre ispessita. Microscopicamente, era presente una proliferazione fibroblastica ed una infiltrazione della parete del seno cavernoso con linfociti e plasmacellule, mentre non vi erano polimorfonucleati o evidenza di necrosi. Nei casi rivisti da Lakke, tuttavia, nel tessuto di granulazione erano presenti polimorfonucleati e la dura madre appariva necrotica. Schatz e Farmer nel 1972 [5] descrissero, nella trattazione degli aspetti anatomopatologici della THS, la presenza di un tessuto connettivo denso ed una risposta infiammatoria di tipo granulomatoso con cellule epitelioidi, cellule giganti, plasmacellule disseminate e aree di necrosi non caseificante. Nel 1985 Rowed [15] riportò un caso di THS in cui il materiale prelevato mediante agobiopsia era costituito da un essudato infiammatorio con abbondanti neutrofili, rari eosinofili e numerose cellule epitelioidi; una piccola area del campione conteneva ife settate, che permisero di porre diagnosi di Aspergillosi. Nel 1987 Campbell e Okazaki [16] descrissero il caso di un uomo con oftalmoplegia dolorosa, deceduto in seguito a lacerazione della carotide, in cui l’esame autoptico evidenziò un processo infiammatorio necrotizzante che coinvolgeva il sifone carotideo ed il seno cavernoso. Nel 2004 l’International Headache Society (IHS) [17] ha ridefinito i criteri diagnostici della THS specificando che il riscontro del granuloma, dimostrato dalle immagini di RM o dalla biopsia, è necessario per la diagnosi. In un recente lavoro, La Mantia et al [18] hanno rivisto i casi presenti in letteratura sulla THS, pubblicati dal 1988 (anno della pubblicazione della prima versione della classificazione internazionale delle cefalee) al 2002, analizzando i diversi casi in base ai nuovi criteri dell’IHS. Sono stati identificati 124 casi: la presentazione clinica era simile in tutti i casi descritti, ma in 44 (35%) era stata evidenziata la presenza del granuloma attraverso la RMN o la biopsia. 41/124 (33%) avevano un quadro neuroradiologico di normalità e 39 (31%) avevano una lesione specifica, determinando così una THS secondaria. Questi dati confermano che i criteri clinici adottati per la diagnosi di THS sono comuni a varie condizioni morbose e la loro applicazione da sola non garantisce una diagnosi corretta. La necessità di confermare la presenza di un processo infiammatorio alla RM permetterà una migliore classificazione delle oftalmoplegie dolorose. La condizione dei casi che soddisfano i criteri clinici ma che presentano un quadro neuroradiologico normale alla RM rimane ancora di difficile definizione.
Sindrome di Tolosa Hunt ed emicrania oftalmoplegica
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Cenni di terapia La terapia corticosteroidea è il trattamento di scelta per la THS e fu impiegata con successo per la prima volta da Hunt nel 1961 [2]. Il farmaco più frequentemente utilizzato è risultato essere il prednisone alla dose di 50-100 mg/die os per 7 gg. Generalmente la risposta al trattamento comincia a manifestarsi dopo circa 48 ore. Il dolore orbitario, talvolta di tipo emicranico, può richiedere la somministrazione di analgesici. Nella casistica di Bruyn e Hoes [10], la risoluzione spontanea degli attacchi si verificò in 79 casi (30%). La durata media degli attacchi fu stimata tra le 7 e le 8 settimane. In 129 attacchi, in seguito alla somministrazione di corticosteroidi, la durata media si ridusse a 4 o 5 settimane, che è un periodo di tempo significativamente più breve rispetto a quello degli attacchi non trattati. In alcuni casi la risoluzione dei sintomi si verificò nell’arco di poche ore. Tuttavia, in 114 attacchi trattati, la durata della sintomatologia non ebbe una sostanziale diminuzione e in 16 attacchi la terapia corticosteroidea si rivelò inefficace.
Criteri diagnostici dell’International Headache Society 2004 per la diagnosi di sindrome di Tolosa-Hunt A. uno o più episodi di dolore orbitario unilaterale, che persiste per settimane se non trattato; B. paresi singola o combinata di III, IV e VI nervo cranico e/o riscontro di tessuto granulomatoso all’esame bioptico o alla RM; C. la paresi si manifesta contemporaneamente al dolore o entro le 2 settimane successive; D. il dolore e la paresi si risolvono entro 72 ore dall’inizio di un adeguato trattamento con corticosteroidi; E. esclusione di altre cause mediante appropriate indagini diagnostiche.
Emicrania oftalmoplegica Consiste in attacchi intensi di cefalea che possiede le caratteristiche dell’emicrania, ma si associa a paresi di uno o più nervi cranici oculomotori (per lo più il III), in assenza di lesioni intracraniche dimostrabili. La sua prima descrizione è stata fatta da Gubler nel 1860, anche se il termine emicrania oftalmoplegica fu coniato per la prima volta da Charcot nel 1890. È una condizione molto rara: Friedman e coll., nel 1962, riportarono 1 caso ogni 600 pazienti emicranici che afferivano alla Montefiore Headache Clinic; uno studio danese di Hansen e coll., nel 1990 [19], riportò un’incidenza annuale di 0,7/milione di abitanti. Sembra colpire più comunemente soggetti di sesso maschile, in un epoca quasi esclusivamente infantile. Benché forme ad esordio in età adulta siano state descritte, un inizio della malattia dopo i 10 anni di età comporta necessariamente il ricorso a tecniche di neuroimaging. Può occorrere come singolo evento o, più comunemente come episodi ricorrenti, anche settimanali. La frequenza, tuttavia, tende generalmente a ridursi in epoca adolescenziale. I criteri diagnostici 2004 comprendono: A. almeno 2 attacchi che soddisfino il criterio B;
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B. cefalea di tipo emicranico concomitante con, o seguita da, entro 4 giorni dal suo esordio, paresi di III, IV e/o VI nervo cranico; C. appropriate indagini escludono lesioni parasellari, della fessura orbitaria e della fossa posteriore. Non rappresenta certamente una variante di emicrania (motivo per il quale è stata estromessa dal gruppo 1 della vecchia Classificazione IHS 1988), dal momento che la cefalea spesso dura una settimana e più, e il suo esordio è seguito da un periodo di latenza fino a 4 giorni prima della comparsa della oftalmoplegia. Inoltre, in alcuni casi, la RM mostra una captazione di gadolinio nella parte intracisternale del nervo cranico interessato, il che suggerisce una neuropatia demielinizzante ricorrente. La cefalea è tipicamente unilaterale, severa e ipsilaterale alla oftalmoplegia. Sebbene sia possibile un’alternanza di lato del dolore, oftalmoplegie simultanee, bilaterali sono estremamente rare. L’oftalmoplegia è generalmente completa, ma può anche essere parziale (es. branca superiore o inferiore del III). La midriasi è quasi sempre presente. Ptosi isolate o paralisi oculomotorie senza cefalea, che ricorrono in epoca infantile, sono state proposte come varianti di emicrania oftalmoplegica. Secondo alcuni autori esisterebbe anche una forma di emicrania oftalmoplegica caratterizzata solo da cefalea e midriasi pupillare. Risponde brillantemente, ma non invariabilmente, ai corticosteroidi.
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Capitolo 15
Cefalea ed età evolutiva F. d’Onofrio, L. Grazzi
Introduzione Numerosi studi epidemiologici effettuati nei paesi industrializzati indicano la cefalea come uno dei sintomi più frequentemente riferiti in età infanto-adolescenziale. L’emicrania senz’aura e la cefalea di tipo tensivo rappresentano le forme più comuni di cefalea in età pediatrica; tuttavia la loro precisa distinzione può risultare difficoltosa sia per i criteri molto restrittivi della classificazione, sia per la presenza, a volte, nello stesso paziente di entrambe le forme. L’interesse di molti ricercatori per le cefalee in età evolutiva è determinato dal fatto che in questa epoca della vita la malattia può essere studiata meglio nei suoi meccanismi eziopatogenetici rispetto agli adulti. Infatti, dall’insorgenza alla diagnosi, vi è una storia clinica generalmente di breve durata e, pertanto, nel soggetto non si sono ancora verificate le trasformazioni croniche a livello dei neuromediatori e dei neurotrasmettitori del dolore proprie dell’età adulta, inoltre non sono ancora presenti le note sovrastrutturazioni psicologiche correlate alla cronicizzazione del dolore e allo stress e i problemi relativi alla comorbilità soprattutto di tipo psichiatrico, presente anche in questa categoria di pazienti. Parleremo in questo capitolo prevalentemente dell’emicrania comprese le sindromi periodiche dell’infanzia, con qualche accenno alla cefalea cronica quotidiana e alla cefalea di tipo tensivo, mentre per le altre forme di cefalee primarie si rimanda ai rispettivi capitoli.
Epidemiologia Le cefalee in età evolutiva hanno una prevalenza che può oscillare tra l’8% e il 60%. Questa ampia variabilità può essere attribuita sia alla non omogeneità dei campioni studiati che alla scarsa chiarezza dei criteri diagnostici utilizzati fino al 1988. Dal 1988 in poi, la classificazione dell’International Headache Society (IHS), ha consentito un più accurato inquadramento diagnostico delle varie forme cefalalgiche e i criteri utilizzati per la diagnosi delle cefalee dell’adulto sono stati adattati con relativo successo anche a quelle del bambino, determinando un maggiore interesse per le cefalee in età evolutiva, come dimostrato dal notevole incremento di lavori scientifici. Dal 2004, la nuova classificazione ICHD-II nelle note al punto 1.1 ha introdotto, per la prima, volta specifiche caratteristiche per l’emicrania nel bambino. Applicando i criteri IHS-1988, la prevalenza dell’emicrania senza aura nei bambini oscilla a secondo degli studi tra il 2,4% e il 28%, tuttavia il dato più attendibile, dimostrato in uno studio effettuato su un campione ampio sembra essere del 10,6% [1]. La prevalenza è diversa a secondo delle varie età scolastiche oscillando tra l’1,2% e il 3,2% in età prescolare quando prevale nel
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sesso maschile, tra il 4% e l’11% durante le scuole elementari in assenza di prevalenza di sesso e tra l’8% e il 23% durante le scuole medie quando prevale significativamente nel sesso femminile [2]. Uno dei pochi studi che ha distinto le due forme, la forma senza aura da quella con aura, ha mostrato una prevalenza dell’emicrania senza aura del 3,4%, contro l’1,5% della forma con aura [3]. Invece in un recente studio che ha applicato i nuovi criteri ICHD-II condotto su una popolazione scolastica, la prevalenza dell’emicrania calcolata è del 9,7% (7,8% nei maschi e 11,7% nelle femmine) [4]. La prevalenza della cefalea di tipo tensivo oscilla tra il 10% e il 25% [5]. La prevalenza della cefalea cronica quotidiana varia a secondo degli studi tra 0,9% e 3%. Accanto alle forme più frequenti quali l’emicrania con e senz’aura e la cefalea di tipo tensivo, è possibile riscontrare anche in età infantile, sebbene raramente, le forme autonomiche trigeminali, le cosiddette TACs (Trigeminal Autonomic Cephalgias), in particolare la cefalea a grappolo e recentemente qualche segnalazione di SUNCT (short lasting unilateral nevralgiform headache attacks with conjunctival injection and tearing) e cefalea trafittiva idiopatica, per le quali tuttavia non esistono dati epidemiologici attendibili.
Classificazione e clinica La classificazione IHS del 1988 aveva mostrato alcune significative carenze circa le cefalee pediatriche inducendo i ricercatori a proporre modifiche di cui alcune accettate e inserite nella revisione della classificazione ICHD-II che ha stabilito, per la prima volta, alcuni parametri specifici per l’emicrania senza aura nei bambini. Infatti al punto 1.1 si aggiungono ai criteri diagnostici per emicrania senza aura le seguenti note: “gli attacchi emicranici nel paziente in età pediatrica possono avere una durata compresa tra l e 72 ore, benché i dati a proposito di attacchi non trattati di durata inferiore alle 2 ore necessitano di particolare attenzione; il dolore nei bambini è generalmente bilaterale e può non avere la caratteristica monolateralità tipica dell’adolescente o dell’età adulta; la sede del dolore è generalmente fronto-temporale, mentre la localizzazione occipitale, uni o bilaterale, rara nel bambino necessita di cautela diagnostica potendo sottendere una cefalea sintomatica; i sintomi associati quali fotofobia e fonofobia possono essere dedotti dal comportamento del piccolo e non essere sempre necessariamente presenti” [6]. Cercando ulteriori parametri clinici in grado di valutare la sensibilità dei criteri ICHD-II per l’emicrania nei bambini, Herschey e coll. hanno evidenziato alcune caratteristiche cliniche peculiari del dolore emicranico in bambini fino ai 12 anni di età quali: minore durata del dolore, maggiore difficoltà nel descrivere la qualità del dolore, maggiore percentuale di localizzazione frontale, maggiore presenza di nausea, vomito e stanchezza. Al contrario, nei bambini al di sopra di 12 anni prevalgono altri aspetti quali il dolore pulsante con una maggiore localizzazione bitemporale, la fotofobia e la difficoltà di concentrazione. Gli Autori concludono che se ai normali criteri classificativi si aggiungendo il dolore focale (invitando il piccolo a segnare con la mano la zona del dolore), una minore durata dell’attacco e modificando i sintomi associati (almeno due tra fotofobia, fonofobia, difficoltà nel pensare, stanchezza e sensazione di “testa leggera-vuota”) la sensibilità diagnostica aumenta dal 61,9% al 84,4% [7]. Altra caratteristica clinica dell’emicrania nel bambino è rappresentata dalla scomparsa del dolore con il sonno. Infine vanno segnalati i cosiddetti campanelli d’allarme, intesi come spie per una eventuale sintomaticità caratterizzati da: età d’insorgenza inferiore ai 5 anni, anamnesi familiare per cefalea negativa, cefalea correlata al ritmo sonno-veglia, segni neurologici all’esame clinico, cambiamento della personalità del bambino, cambiamento delle caratteristiche di una cefalea preesistente (frequenza, intensità), dolore in sede occipitale.
Cefalea ed età evolutiva
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Un tema di grande interesse è rappresentato dalla particolare evoluzione clinica delle cefalee pediatriche. È infatti da considerare che nel follow-up di bambini cefalalgici la presenza di periodi più o meno lunghi di remissione della sintomatologia dolorosa può variare da mesi ad anni, soprattutto nelle forme tensive. Molti studi hanno affrontato questo aspetto, riscontrando nella maggior parte di essi la remissione dell’emicrania in età adulta nel 30-40% dei casi. Monastero e coll., a tal proposito, hanno evidenziato che il 41,8% dei bambini affetti da emicrania ne soffriva ancora al follow-up a 10 anni, il 38,2% non presentava più crisi di cefalea e il 20% descriveva una cefalea di tipo tensivo e non più emicranica; inoltre la familiarità positiva per emicrania rappresentava un fattore prognostico negativo per la persistenza dell’emicrania dopo i 10 anni di follow-up [8]. Altro elemento peculiare nelle forme infanto-giovanili è la possibilità di un passaggio da forme emicraniche a forme tensive e viceversa, o anche di una coesistenza delle due forme nelle fasi iniziali, elementi questi che devono far sempre porre cautela ed attenzione nel momento diagnostico e, soprattutto, nel momento della decisione terapeutica. Per quanto riguarda l’emicrania con aura e le forme tensive, i criteri utilizzati per la diagnosi delle forme dell’adulto sembrano essere validi sostanzialmente anche per quelle dell’età evolutiva. Non compresa nella classificazione ICHD-II, una entità relativamente nuova nell’ambito delle cefalee pediatrico-giovanili è rappresentata dalla cefalea cronica quotidiana. Le prime descrizioni delle forme croniche riguardavano soggetti in età adulta e si riferivano a forme “trasformate” sia di emicrania che di cefalea di tipo tensivo. Queste forme cronicizzate sono altamente invalidanti sia per il paziente che per la sua famiglia; si caratterizzano per un dolore che si presenta con una frequenza superiore a 15 giorni al mese per più di tre mesi e, non raramente, anche nei pazienti più giovani si associano ad un importante e significativo uso di sintomatici. La prevalenza di forme cronicizzate in età giovanile è compresa tra 0,9% e il 3%, con un 30% dei pazienti che assume quotidianamente analgesici. Recentemente il gruppo di Wang, su un campione di 7900 adolescenti ha evidenziato, utilizzando i criteri ICHD-II, una prevalenza del 1,5%, maggiore nelle ragazze (2,4%) rispetto ai ragazzi (0,8%); il 20% degli adolescenti rispondevano ai criteri di probabile cefalea da overuse di farmaci e la cefalea cronica di tipo tensivo rappresentava il sottotipo più frequente, anche se gran parte di essi aveva anche una cefalea con le caratteristiche dell’emicrania [9]. Inoltre sembrerebbe che l’obesità rappresenti uno dei maggiori fattori di rischio nel bambino per trasformare una emicrania senza aura in una cefalea cronica quotidiana [10]. La cefalea cronica quotidiana resta un disturbo altamente invalidante comportando giorni di assenza da scuola, problemi di sonno, inabilità a svolgere attività ludiche e sociali nonché sportive con conseguente aumento della disabilità, peggioramento della qualità di vita e comparsa di comorbilità quali ansia e depressione che, se non adeguatamente valutate e considerate, potranno influire anch’esse negativamente sul già pesante quadro clinico.
Sindromi periodiche dell’infanzia possibili precursori comuni dell’emicrania Anche nella nuova e più recente revisione della classificazione un posto a parte (punto 1.3) viene riservato alle sindromi periodiche dell’infanzia, un tempo note come equivalenti emicranici in quanto possono rappresentare le modalità di esordio di una forma emicranica che si svilupperà con caratteristiche tipiche solo in età adulta. Il dolore emicranico in questa fa-
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scia di età può essere accompagnato o completamente sostituito da altri sintomi e manifestazioni dolorose. Talora i sintomi associati al dolore sono molto più importanti del dolore stesso e determinano delle condizioni morbose vere e proprie, spesso ad andamento ciclico, con lunghi periodi di remissione. Possono essere associate o indipendenti dal dolore emicranico e sono rappresentate da tre distinte entità cliniche: il vomito ciclico, l’emicrania addominale e la vertigine parossistica benigna dell’infanzia. Di seguito sono riportati i criteri diagnostici previsti dalla classificazione ICHD-II delle forme sopraelencate con l’aggiunta di note cliniche:
Vomito ciclico Criteri diagnostici: A. almeno 5 attacchi che soddisfino i criteri B e C; B. attacchi episodici, stereotipati nel singolo paziente, di nausea intensa e vomito che perdurano da 1 ora a 5 giorni; C. il vomito durante l’attacco si verifica come minimo 4 volte all’ora per almeno un’ora; D. assenza di sintomi tra gli attacchi; E. non attribuito ad altra condizione o patologia. Il vomito ciclico rappresenta una condizione episodica, a risoluzione spontanea, con periodi di completo benessere tra gli episodi critici, in cui si associano pallore e sonnolenza, senza evidenza di patologie del tratto gastrointestinale. Uno studio epidemiologico negli scolari di Aberdeen con età compresa tra 5 e 15 anni (n=2.165) utilizzando la definizione di “storia di vomito non spiegato”, evidenziava una prevalenza del vomito ciclico pari al 1,9%, con età media di insorgenza a 5,3 anni, un rapporto maschi-femmine di 1:1, una frequenza media di 8 attacchi per anno con durata media di 20 ore; i viaggi venivano riferiti come il più frequente fattore scatenante [1].
Emicrania addominale Criteri diagnostici: A. almeno 5 attacchi che soddisfino i criteri B-D; B. attacchi di dolore addominale della durata di 1-72 ore (senza trattamento o con trattamento inefficace); C. dolore addominale con tutte le seguenti caratteristiche: a. localizzazione a livello della linea mediana, periombelicale o non ben definita, b. qualità sorda o “semplicemente dolente”, c. intensità media o forte; D. durante la fase algica sono presenti almeno due tra i seguenti sintomi: a. anoressia, b. nausea, c. vomito, d. pallore; E. non attribuita ad altra condizione o patologia. Lo studio epidemiologico negli scolari di Aberdeen, utilizzando la definizione di una storia di cefalea e/o di severo dolore addominale, evidenziava una prevalenza di emicrania addominale del 4,1%. Nello studio di Dignan, su 54 piccoli pazienti con dolore addominale seguiti per 10 anni dopo la diagnosi, il dolore addominale si risolveva spontaneamente nel 61%; il 70% dei pazien-
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ti avevano una storia di emicrania (52% corrente e 12% precedente) al contrario, nei pazienti controllo solo il 20% presentavano una storia di emicrania, rafforzando il concetto che il dolore addominale possa essere un precursore emicranico [11].
Vertigine parossistica benigna dell’infanzia Criteri diagnostici: A. almeno 5 attacchi che soddisfino il criterio B; B. episodi multipli con vertigini intense (spesso associate a nistagmo o vomito; talora durante l’attacco può manifestarsi cefalea pulsante), che si verificano senza alcun sintomo premonitore e si risolvono spontaneamente nell’arco di minuti o ore; C. l’esame neurologico, le funzioni audiometriche e quelle vestibolari risultano normali nel periodo; D. l’EEG è normale. Questo disturbo, probabilmente eterogeneo, è caratterizzato da attacchi vertiginosi brevi e ripetuti in bambini per il resto sani. Gli attacchi si manifestano all’improvviso e vanno incontro a risoluzione spontanea nell’arco di minuti o ore in presenza di esame audiometrico ed impedenzometrico, vestibolare ed EEG negativi. Nello studio di Aberdeen, utilizzando la definizione di tre attacchi di vertigine in un anno, si evidenziava una prevalenza del 2,6%, un picco di età d’insorgenza a 12 anni, con la presenza di sintomi comuni nell’emicrania (pallore, nausea, fotofobia, fonofobia) e storia familiare per emicrania due volte maggiore rispetto ai controlli. Queste tre entità cliniche rappresentano condizioni morbose altamente disabilitanti per il giovane paziente che, molto probabilmente, presenterà crisi emicraniche in età adulta.
Diagnosi Sebbene il supporto dato dai criteri ICHD-II sia innegabile, certamente l’anamnesi riveste un ruolo cruciale al fine di un corretto inquadramento delle forme cefalalgiche, in particolare nei soggetti in età pediatrico-giovanile, dove l’individuazione di fattori triggers, alterazioni del ritmo sonno-veglia, alterazioni delle abitudini alimentari, sedentarietà ed eventuale presenza di situazioni di disagio scolastico o familiare rivestono una notevole importanza nel favorire, se non nell’indurre, la comparsa di una sintomatologia emicranica o di tipo tensivo, su di un chiaro terreno di predisposizione genetico-familiare. Dopo il primo contatto clinico, importante ruolo riveste il diario degli attacchi che è un mezzo utile, sia per il paziente che per la famiglia, al fine di identificare eventuali fattori scatenanti o aggravanti le caratteristiche degli attacchi dolorosi. Inoltre, il diario è un mezzo indispensabile per la quantificazione degli episodi dolorosi, al fine di scegliere con la massima obiettività possibile il provvedimento terapeutico più adeguato. Negli ultimi anni la realizzazione di strumenti utili per determinare gli indici di disabilità e di qualità di vita ha permesso di aggiungere informazioni all’anamnesi di questi pazienti e, in particolare, anche nell’ambito delle cefalee giovanili, questi strumenti si stanno diffondendo, arricchendo così le possibilità di una corretta diagnosi e di una realizzazione sempre più multidisciplinare e mirata delle strategie terapeutiche.
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Terapia Il problema del trattamento delle varie forme di cefalea pediatrica è stato negli ultimi anni ampiamente dibattuto. Generalmente sia nelle forme emicraniche che nelle forme tensive sono utilizzati gli stessi farmaci che si usano nell’adulto, anche se con dosaggi ridotti. Negli ultimi 10-15 anni, però, gli approcci terapeutici comportamentali, come le tecniche di rilassamento ed il biofeedback, si sono imposte come valide alternative nelle cefalee pediatriche e questo è confermato da numerosi studi caso-controllo e di follow-up prolungati.
Terapia farmacologica Prima di parlare di terapia farmacologia nella cefalea dell’età evolutiva, bisogna sgomberare il campo dall’equivoco basato sull’equazione che il bambino è un piccolo adulto. Infatti le specificità del processo maturativo cerebrale sia neurobiologico (basti pensare alle varie fasi età dipendente della maturazione cerebrale, al processo di trasformazione della percezione del dolore, alle variazione delle localizzazione dei neurotrasmettitori) sia di ordine psicologico, gli elementi legati alla farmacocinetica e farmacodinamica dei farmaci, le variabili socio-ambientali, rendono l’approccio terapeutico assolutamente specifico per ogni piccolo paziente, strettamente dipendente anche all’età di esordio della cefalea. I dati della letteratura sull’utilizzo di farmaci nelle cefalee in età evolutiva, fanno riferimento prevalentemente alle raccomandazione delle linee guida di varie società scientifiche internazionali (americane, francesi, italiane) estrapolate da studi di meta-analisi. Prima di impostare un trattamento farmacologico per l’attacco è assolutamente necessario rispettare alcune regole importanti: modificare alcune abitudini di vita che possono ostacolare il miglioramento clinico (regolarizzare il ritmo sonno-veglia, adeguata e regolare alimentazione, attività fisica...); eliminare i fattori trigger (in particolare quelli alimentari: cioccolata, insaccati, formaggi fermentati...); identificare gli eventuali problemi personali, familiari e scolastici, per i quali possa essere indicato un supporto psico-sociologico; fare attenzione nel cercare di prevenire una futura dipendenza dai farmaci (basti pensare al ruolo prognostico negativo che un cronico utilizzo di farmaci può rivestire); consigliare l’assunzione del farmaco ai primi sintomi per garantire una migliore risposta; favorire una somministrazione rettale o con anti-emetici in caso di concomitante patologia gastrica; cercare di ridurre il peso corporeo in caso di obesità (rischio di cronicizzazione). La sola terapia dell’attacco va preferita in caso di emicrania senz’aura del bambino con un numero di attacchi inferiore a 4 al mese. Secondo le linee guida dell’American Academy of Neurology del 2004 [12], il farmaco di prima scelta nei bambini al di sotto dei 12 anni è rappresentato dall’ibuprofene (7,5-10 mg/kg/die); in seconda battuta può essere utilizzato il paracetamolo (15 mg/kg/die). Negli ultimi anni i triptani sono stati utilizzati nella terapia dell’attacco acuto, anche nei pazienti più giovani; nei bambini al di sopra dei 12 anni, il sumatriptan spray nasale (20 mg) è risultato significativamente efficace nel ridurre il dolore, ottenendo l’indicazione ministeriale anche in questa fascia d’età [13]. Studi con rizatriptan (5 mg) e zolmitriptan (2,5 mg) non hanno mostrato una significativa efficacia rispetto al placebo, pur in presenza di una buona tollerabilità. Per contrastare la nausea ed il vomito, la metoclopramide (0,15-0,30 mg/kg per via orale, fino ad un massimo di 10 mg/die) potrebbe essere utile, anche se nel bambino va usata con caute-
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la per i noti effetti collaterali (soprattutto extrapiramidali); per tale motivo è preferibile utilizzare il domperidone (10-30 mg/die), il quale non attraversando la barriera emato-encefalica, è gravato da minori effetti collaterali sul SNC. L’eventuale utilizzo di una terapia farmacologica di profilassi nel bambino va relegato solo nei casi dove è strettamente necessaria e richiede una attenta valutazione complessiva del caso in esame. La decisione prevede una fase preliminare in cui si effettuerà un periodo di osservazione di almeno 4-6 settimane attraverso carte-diario, al fine soprattutto di controllare il pattern temporale degli episodi dolorosi, ben sapendo che una risoluzione spontanea è possibile nei pazienti più giovani. Inoltre vanno valutati attentamente altri aspetti quali: la presenza di frequenza elevata di attacchi, almeno 4 al mese, con una lunga durata di ogni singola crisi; la presenza attacchi invalidanti al punto di condizionare la vita sociale e scolastica dei piccoli pazienti; l’insuccesso della terapia per l’attacco o conseguente presenza di effetti collaterali; un età superiore ai 5 anni e l’utilizzo di un farmaco con un solo principio attivo, al più basso dosaggio possibile. In caso di mancata risposta al trattamento valutare: la compliance del piccolo o dei genitori tenendo presente che alcuni tempi fisiologici di latenza d’azione del farmaco, possono essere scambiati per insuccesso terapeutico; una eventuale auto-sospensione anticipata della terapia farmacologia da parte dei genitori; la possibilità di aumentare il dosaggio dopo due mesi di trattamento e l’eventuale cambio del farmaco. Per quanto riguarda il periodo di trattamento, non esistono linee guida stabilite dalla letteratura internazionale e/o società scientifiche; tuttavia, anche in relazione al farmaco utilizzato, si consiglia in caso di risposta positiva (riduzione delle crisi superiore al 50% e riduzione dell’intensità del singolo attacco), un ciclo di almeno tre mesi, monitorando attentamente gli eventuali effetti collaterali. Nella profilassi dell’emicrania in età evolutiva, non è consigliabile la terapia con più farmaci. Seguendo le linee guida dell’American Academy of Neurology del 2004 [12], l’unico farmaco che ha dimostrato un’elevata probabilità di efficacia è la flunarizina; evidenze non sufficienti per ciproeptadina, amitriptilina, acido valproico, topiramato levetiracetam; evidenze contraddittorie per propanololo e trazodone; elevata probabilità di inefficacia terapeutica per pizotifene, clonidina, nimodipina. Tuttavia, utilizzando i dati recenti della letteratura e le linee guida Francesi e Italiane, si evidenziano in alcuni casi risultati diversi rispetto a quanto sopra esposto. La flunarizina risulta significativamente efficace nel ridurre la frequenza delle crisi (3-5 mg/die, in unica somministrazione serale in cicli di tre mesi); farmaco con una buona tollerabilità ed alcuni effetti collaterali, quali sedazione, aumento dell’appetito e, secondo studi non confermati, incremento dell’ormone della crescita. Controindicato in caso di depressione; sono necessari almeno due mesi di somministrazione prima di dichiarare l’inefficacia del farmaco. Tra i beta-bloccanti l’unico che sembrerebbe efficace nell’emicrania dell’età evolutiva è il propranololo (3 mg/kg/die, in tre somministrazioni); farmaco generalmente ben tollerato, anche se in taluni casi può indurre affaticabilità, astenia e depressione. È controindicato in pazienti con asma bronchiale, blocco atrio-ventricolare e diabete. Tra gli antagonisti della serotonina, sia il pizotifene (1-1,5 mg/die, in unica somministrazione serale) che la ciproeptadina. (2-4 mg/die) hanno evidenziato risultati contraddittori. Per entrambi, i più frequenti effetti collaterali consistono in aumento di peso, sonnolenza e vertigini. L’amitriptilina (0,2-0,5 mg/kg/die) viene raccomandata nei bambini al di sopra dei 12 anni, essendo in grado di ridurre significativamente la frequenze delle crisi. È consigliata quando si associano sintomi depressivi, ansia, diminuzione di peso, disturbi del sonno e controindicata in presenza di disturbi epatici, cardiovascolari; gli effetti collaterali più frequenti xerostomia, aumento di peso, sonnolenza.
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Il valproato di sodio (15-30 mg/kg/die) potrebbe rappresentare un’alternativa utile nel ridurre l’intensità e la frequenza degli attacchi emicranici. In uno studio [14] in cui il valproato di sodio veniva confrontato con il propanololo in una popolazione di bambini emicranici, entrambi i farmaci determinavano una riduzione significativa degli attacchi di circa il 70%, in assenza di differenze significative tra i due farmaci. Controindicato in pazienti epatopatici (descritti casi di encefalopatia con iperammoniemia), ha come effetti collaterali più frequenti nausea, vomito, tremori, sedazione, aumento di peso. Si consiglia il monitoraggio della funzionalità epatica. Sono stati pubblicati recentemente alcuni studi riguardo l’uso del topiramato (30-50 mg/die) nelle forme di emicrania senz’aura in età giovanile. In uno studio che estrapolava i dati per età (pazienti tra i 12 e 17 anni) da tre precedenti studi randomizzati, doppio cieco verso placebo, si evidenziava una riduzione degli attacchi di emicrania con una buona tollerabilità del farmaco [15]. Effetti collaterali più frequenti sedazione, parestesie, riduzione della concentrazione e dell’attenzione, diminuzione dell’appetito, rallentamento nell’espressione verbale; per minimizzare gli eventuali effetti collaterali si consiglia una lenta titolazione (12,5 mg/settimana). Molto recentemente uno studio in aperto con il levetiracetam (20 mg/kg in due somministrazioni al giorno) su 20 bambini affetti da emicrania, ha evidenziato una buona efficacia del farmaco nel ridurre la frequenza e la disabilità, con una buona tollerabilità [16]. Segnalazioni in attesa di conferme infine emergono sull’utilizzo della zonisamide. Volendo effettuare una terapia il meno farmacologica possibile per i pazienti emicranici in età pediatrica, i sali di magnesio (1,5-4,5 gr/die) restano raccomandati, oltre che per l’efficacia dimostrata in alcuni studi, anche per la loro ottima tollerabilità. L’unico effetto indesiderato, raro, può essere un aumento della peristalsi intestinale con dissenteria, motivo per cui il trattamento dovrà essere subito interrotto con regressione completa e immediata dell’effetto collaterale. Nel caso delle cefalee di tipo tensivo inutile è la terapia dell’attacco perchè diverso, rispetto all’emicrania, è il presupposto patogenetico e anche perchè, nella maggior parte dei casi, il dolore è lieve. Talvolta si può utilizzare come sintomatico il paracetamolo. Dal punto di vista della terapia di profilassi nella cefalea di tipo tensivo, il farmaco di scelta rimane l’amitriptilina a basso dosaggio. Infine per quanto riguarda la cefalea cronica quotidiana in età evolutiva, uno studio in aperto con il topiramato a bassi dosaggi (dose media 30 mg/die) ha evidenziato una buona risposta terapeutica con una riduzione dell’intensità del dolore, della frequenze e della durata delle crisi [17].
Terapie non farmacologiche La ricerca clinica degli ultimi anni ha fornito dati convincenti sull’efficacia delle terapie di rilassamento e del biofeedback (BFB) nelle cefalee del bambino e dell’adolescente. Infatti, lavori di metanalisi degli ultimi dieci anni hanno confermato la reale validità delle terapie comportamentali con protocolli terapeutici a lungo follow-up e con studio di gruppi di controllo [18]. Il BFB si è sviluppato nella seconda metà degli anni settanta e tra tutti gli approcci terapeutici comportamentali rimane il più studiato. Con il BFB, i processi fisiologici considerati indipendenti dalla volontà (frequenza cardiaca, tensione muscolare, temperatura corporea) vengono monitorati e l’informazione ritorna immediatamente al soggetto attraverso un segnale che può esse-
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re acustico o visivo e che informa in tempo reale il paziente sull’andamento della funzione fisiologica monitorata. Il paziente, attraverso un adeguato addestramento, impara a porre sotto controllo volontario le funzioni fisiologiche desiderate. Nel caso dell’emicrania, il razionale per l’uso del BFB è l’apprendimento e il controllo della temperatura periferica (Thermal BFB); infatti, durante l’attacco emicranico si verifica una situazione di vasocostrizione periferica con diminuzione della temperatura alle estremità (polpastrelli delle dita). Attraverso il rilassamento il paziente stimola la vasodilatazione periferica e di conseguenza induce un aumento di temperatura con riduzione della intensità della crisi dolorosa. Dopo una pratica regolare il paziente può imparare a prevenire gli attacchi emicranici. Nel caso della cefalea di tipo tensivo il presupposto di funzionamento è diverso. Infatti, la cefalea di tipo tensivo, precedentemente definita cefalea da tensione muscolare, sembra determinata da un aumento della tensione a livello dei muscoli del capo e del collo, generata prevalentemente da una situazione di ansia o di stress. Sin dai primi studi condotti da Budzynski, è stato dimostrato che, imparando ad alleviare la tensione a livello dei muscoli di capo e di collo, si alleviava anche il dolore. Nel caso delle cefalee tensive viene usato il biofeedback elettromiografico (BFB-EMG): il soggetto viene addestrato a rilassare i muscoli del capo o del collo attraverso un progressivo allenamento; questo sembra più facile nei pazienti in età pediatrica, in quanto questi ultimi imparano a rilassarsi molto più rapidamente degli adulti poichè apprendono la tecnica in tempi più rapidi. L’esperienza clinica degli ultimi anni conferma senza dubbio la validità dell’approccio comportamentale, grazie ai buoni risultati ottenuti dopo lungo periodo di follow-up e con studi con gruppi di controllo [18, 19]. La percentuale di miglioramento clinico riportata dagli studi arriva fino all’80% (in particolare, quando si associano thermal BFB e training di rilassamento) e, se consideriamo l’assoluta mancanza di effetti collaterali, certamente le tecniche comportamentali rimangono una terapia da considerarsi di scelta per le forme cefalalgiche giovanili. Inoltre, negli ultimi anni, anche protocolli di trattamento semplificati, con sedute a bassa frequenza, basate su utilizzo di audiocassette, hanno confermato l’efficacia delle metodiche comportamentali. Attualmente le più utilizzate nel trattamento delle forme di cefalea in età giovanile sono: il Relaxation Training (RT) e il BFB training. Per quanto riguarda il RT si presuppone che il paziente, attraverso un adeguato addestramento, con esercizi su appositi e specifici skills, impari a diminuire lo stato di tensione muscolare connesso con il cosiddetto arousal, cioè con lo stato di attivazione neurofisiologica relativo ad una situazione di stress. Nonostante esistano diversi tipi di tecniche di rilassamento, nel caso dei pazienti in età giovanile sono spesso usati protocolli semplici che si rifanno alla tecnica di Benrstein-Borkovec che prevede semplici esercizi di contrazione e rilassamento da effettuare su diversi gruppi muscolari. Per quanto riguarda il BFB training possiamo dire che rappresenta la evoluzione tecnologica dei più antichi metodi di rilassamento, in quanto consiste nell’utilizzo di uno strumento utile al paziente per avere informazioni in tempo reale sull’andamento di una precisa funzione fisiologica, quali tensione muscolare o frequenza cardiaca o temperatura periferica. I pazienti, addestrati all’uso delle tecniche di rilassamento, possono migliorare ulteriormente l’andamento della funzione fisiologica monitorata poiché ricevono informazioni precise dallo strumento, sotto forma di segnali acustici o luminosi, per cui prendono immediatamente visione di come sta andando il loro addestramento e possono, con l’aiuto del terapeuta, porsi obiettivi sempre più ambiziosi che indirettamente vanno a influire sulla sintomatologia riferita. Per esempio nel caso delle cefalee di tipo tensivo, un adeguato addestramento alle tecniche di rilassamento in combinazione all’uso del BFB-EMG, consente al paziente di ridurre significativamente i livelli di contrattura muscolare che spesso sono responsabili, insieme ad altri fattori di tipo psico-emotivo, della sintomatologia dolorosa riferita.
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Non è stato dimostrato a tutt’oggi il protocollo ideale con cui applicare queste metodiche terapeutiche, ma certamente la combinazione di training di rilassamento e di biofeedback sembra poter dare un significativo risultato terapeutico. Sia nel caso delle forme emicraniche che nelle forme di cefalea di tipo tensivo, va considerata attentamente la possibilità di utilizzare terapie scevre da effetti collaterali; inoltre va certamente prediletto un approccio che insegni al giovane paziente come gestire gli episodi dolorosi senza necessariamente ricorrere all’uso spesso disinvolto del sintomatico che può preludere al crearsi di un circuito vizioso tra sintomo e farmaco con possibilità di instaurare forme cronicizzate associate ad abuso di sintomatici, così difficilmente trattabili. I protocolli di trattamento originariamente prevedevano sedute di training di rilassamento o di biofeedback che avevano frequenze settimanale o bisettimanale, ma negli ultimi anni sono stati approntati protocolli molto più agevoli che si articolano anche solo in sedute a cadenza quindicinale: i pazienti vengono addestrati ad esercitarsi a domicilio con appositi tapes per il rilassamento senza per nulla inficiare la possibilità di un buon risultato clinico. In alcuni studi clinici si è tentato di dimostrare la superiorità terapeutica delle metodiche comportamentali rispetto alle terapie farmacologiche, purtroppo sono studi clinici ancora in fase di risultati preliminari e non si possono trarre conclusioni definitive sia per la esiguità dei gruppi tratti sia per brevità del follow-up. Certamente la richiesta e la compliance rispetto a queste terapie sono in crescente aumento, soprattutto da parte dei genitori dei giovani pazienti che confidano nella possibilità di un trattamento non-farmacologico per evitare effetti indesiderati. Per tali motivi, ci sentiamo di incoraggiare sempre di più l’applicazione di tali terapie per questa fascia di età così delicata, dove spesso la reale presa in considerazione del sintomo e una attenzione alla gestione del sintomo stesso sono già elementi che possono preludere ad un vantaggio clinico significativo [18, 19].
Conclusioni La cefalea rimane una condizione molto comune fra i bambini e gli adolescenti. Mancando ancora specifici criteri diagnostici per ogni forma di cefalea e peculiari protocolli terapeutici in grado di agire selettivamente sui meccanismi patogenetici sin dall’inizio, un sempre maggior numero di adolescenti lamenterà episodi di cefalea e/o emicrania anche in età adulta. Queste considerazioni rafforzano l’importanza di un intervento precoce ed efficace per i pazienti in età pediatrico-giovanile affetti da cefalee ed emicrania. Vi sono alcune regole importanti da considerare preliminari all’impostazione di qualsiasi tipo di terapia farmacologia e non: rassicurare la famiglia del paziente sulla benignità della condizione; modificare alcune abitudini di vita che possono ostacolare il miglioramento clinico; eliminare i fattori trigger; identificare gli eventuali problemi personali, familiari e scolastici, per i quali possa essere indicato un supporto psico-sociologico. Tutto ciò fa parte di una attenta valutazione del paziente e dell’avvio di un adeguato programma terapeutico peculiare per ogni singolo paziente, tenendo conto che la scelta di una terapia farmacologica di profilassi, non esclude la possibilità di interventi di tipo comportamentale, che rappresentano una parte cruciale dell’eventuale intervento terapeutico. Il biofeedback e le terapie di rilassamento andrebbero considerate come terapia di scelta per i pazienti pediatrici e come ormai confermato da studi controllati, sono terapie scevre da effetti collaterali, con effetti anche di lunga durata e tali da rendere il paziente capace di gestire gli attacchi dolorosi senza necessariamente ricorrere all’uso dei farmaci. È comunque opportuno, soprattutto per questi pazienti, che la scelta della terapia sia mirata, progressiva e adattata alle esigenze e alle caratteristiche del singolo paziente.
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Capitolo 16
Cefalea ed invecchiamento M.C. Tonini
Introduzione L’età in cui una persona viene considerata anziana è fatta coincidere con l’età pensionabile e cioè con i 65 anni; un criterio condiviso dall’Istat definisce popolazione anziana quella superiore ai 65 anni, contrapponendola alla fascia di età tra i 18 e i 64 anni, considerata popolazione attiva, cioè in età da lavoro. Nel mondo, dai 13 milioni di soggetti di età ≥ 65 anni dell’inizio del ’900, si è passati a 226 milioni nel 1998 ed è stato stimato che fra cinquant’anni gli anziani saranno 376 milioni di persone, con un numero di donne 2 volte maggiore rispetto a quello degli uomini (Kofì Annan, rapporto ONU 1998) [1]. Passeremo così da una società dalla classica rappresentazione a piramide (base larga in rapporto al grande numero di soggetti giovani e di soggetti in età lavorativa e vertice ristretto per l’esiguo numero di anziani) ad una società a configurazione sempre più a botte per la crescente prevalenza dei soggetti anziani. All’Italia, insieme alla Grecia, spetta il primato di essere il Paese più vecchio d’Europa con la più alta percentuale di popolazione anziana pari al 23% rispetto alla media europea del 19% e a quella USA del 16%. Stime Eurostat prevedono per l’Italia un aumento della percentuale di popolazione anziana rispetto alla popolazione complessiva, facendo ritenere che nel 2050 gli anziani supereranno il 29,9% della popolazione totale, con un incremento del 14,1% di soggetti con 80 anni ed oltre; dovremmo così considerare anziano solo chi avrà superato i 75 anni, cioè quella fascia d’età costituita dai “grandi geronti”, ovvero la quarta età. Ne consegue che l’anziano sarà il paziente del futuro e la cefalea sarà un problema molto più presente di quanto sinora affrontato, per l’aumento progressivo dei casi attesi.
Dimensione del problema La cefalea rappresenta il decimo sintomo più comune nelle donne e il quattordicesimo negli uomini con più di 65 anni di età [2]. Era già noto nella metà dell’800 e recenti studi epidemiologici lo confermano, che la cefalea tende ad essere meno frequente con l’avanzare dell’età, anche se questa diminuzione risulta meno significativa di quanto si creda. Infatti, nei soggetti di età ≥ 65 anni la prevalenza a 1-anno è stimata tra il 5 e il 50%, pur continuando a manifestarsi in discreta percentuale anche dopo i 75 anni (il 25-54% dei soggetti a questa età può presentare uno o più episodi di cefalea nell’anno precedente), con un tasso superiore nelle donne rispetto agli uomini, rispettivamente del 55% e 22% [3-6].
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Può essere presente in forma severa ancora a 70 anni nel 10% delle donne e nel 5% degli uomini; a questa età nell’11-17% dei soggetti può continuare ad essere molto frequente [7] e nel 24% dei soggetti può manifestarsi una cefalea cronica quotidiana [8, 9]. Uno studio condotto sulla popolazione anziana italiana ha evidenziato per tutti i tipi di cefalea tassi di prevalenza a 1-anno del 56,7% nel gruppo di soggetti di età compresa tra i 65 e i 74 anni, del 42,2% nel gruppo tra i 75 e gli 84 anni e del 26,1% in quello con età superiore agli 85 anni, più elevati nelle donne (62,1%) rispetto agli uomini (36,6%) [8]. Per l’emicrania, i diversi studi epidemiologici riportano una prevalenza variabile tra il 2,9 e il 15% [4, 6, 10-12], che tende a diminuire ulteriormente con l’avanzare dell’età [13-17]; è stata dimostrata un’emicrania attiva nel 6,8% delle donne tra i 65 e i 69 anni e nel 3,4% tra i 70 e i 74 anni [18], ma anche nel 5% dei soggetti di 80 anni [16]. La prevalenza della cefalea di tipo tensivo, che a differenza dell’emicrania nell’anziano non si riduce nella stessa misura, varia tra il 18,3 e il 51,8% [4, 9, 19] e può essere presente nel 25,61% negli uomini e nel 27,1% nelle donne a 70 anni [20]. In Italia è stato stimato un tasso di prevalenza per l’emicrania dell’11%, per la cefalea di tipo tensivo del 44,5%, per le cefalee secondarie del 2,2% e per altri tipi di cefalee dell’0,7% [8].
Caratteristiche cliniche Come per il giovane-adulto, nell’anziano le cefalee più frequenti sono le forme primarie [11, 21-23]. Una differenza in relazione all’età è data dal fatto che le cefalee secondarie sono molto più comuni nella terza età rispetto al giovane, pur costituendone una minoranza (20-30% nell’ambito di tutte le cefalee osservate e il 33% dopo i 70 anni) [11, 24]; nell’anziano la presenza di malattie croniche quali ipertensione, cardiopatia ischemica/aritmica, broncopatie croniche ostruttive, anemie, diabete mellito, può aggravare una cefalea primaria pre-esistente, favorendone la cronicizzazione, o causare una nuova cefalea in stretta relazione con la malattia presentata o come evento avverso all’assunzione quotidiana del farmaco necessario a quella condizione patologica; diversa sarà la cefalea da overuse di farmaci analgesici, comune a questa età (30%) [25] per la presenza frequente di dolori muscolo-scheletrici, di artrite reumatoide, osteoporosi. Vi sono cefalee che compaiono quasi esclusivamente dopo i 60 anni, come la cefalea ipnica e la cefalea attribuita ad arterite temporale o malattia di Horton. Infine, dobbiamo considerare che una cefalea può essere in comorbilità con altre malattie, in particolare nell’anziano con la depressione maggiore, le malattie cardio-cerebrovascolari o la malattia di Parkinson (41,2%) [26] (Tab. 16.1).
Cefalee primarie Le cefalee primarie anche con l’invecchiamento sono considerate una malattia benigna dal momento che non è identificabile una causa sottostante e non provocano un danno permanente neurologico; la distinzione tra i diversi tipi di cefalee primarie si basa sulla recente revisione della classificazione internazionale delle cefalee (ICHD-II, 2004) [27], così come per il giovane-adulto, ma con alcune puntualizzazioni sull’andamento clinico.
Cefalea ed invecchiamento Tabella 16.1
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Più comuni cause di cefalea dopo i 65 anni di età
Cefalee primarie
Cefalee secondarie
Cefalea e comorbilità
Emicrania Cefalea di tipo tensivo Cefalea a grappolo Cefalea ipnica
Malattie cerebrovascolari: Depressione Maggiore – ictus ischemico o TIA Ictus – emorragia intracerebrale M. di Parkinson – arterite temporale – ipertensione arteriosa Malattie intracraniche: – tumori primitivi e secondari – idrocefalo – ematoma subdurale cronico Malattie metaboliche: – ipossia/ipercapnia – dialisi – anemia – ipotiroidismo Malattie collo, occhi, naso, orecchie, gola: – spondilosi cervicale – disfunzione TM – glaucoma – sinusite acuta – infezione dentaria o gengivale
Emicrania con e senz’aura Con l’avanzare dell’età le caratteristiche cliniche degli attacchi di emicrania senz’aura possono cambiare, verificandosi una progressiva attenuazione dei sintomi neurovegetativi, una riduzione della durata, dell’intensità della cefalea e della frequenza fino alla remissione completa [22, 28]. Le ragioni di questa evoluzione naturale dell’emicrania restano ancora da chiarire; alcuni autori sono sostenitori della “teoria vascolare”, ritenendo che con l’invecchiamento si osserva, per la comparsa di aterosclerosi, una minore compliance delle arterie cerebrali che diventano progressivamente meno pulsatili, più rigide, risultando meno suscettibili alla vasodilatazione [29, 30, 31]; ma se consideriamo che a questa età la prevalenza relativa delle cefalee attribuite a cause vascolari è aumentata, si deve pensare che altri meccanismi entrino in gioco. Il 2-3% dei soggetti può presentare per la prima volta un attacco di emicrania senz’aura dopo i 65 anni di età [31, 32], con caratteristiche cliniche (sede e qualità del dolore, sintomi di accompagnamento) sovrapponibili a quelle del giovane-adulto [29, 33]. Tuttavia quando un soggetto a questa età manifesta per la prima volta una cefalea simil-emicrania va sempre tenuta in considerazione una forma secondaria; in un’indagine condotta in 69 soggetti anziani con emicrania di nuova insorgenza più del 7% presentava anomalie cerebrali alla neuroimaging [34]. La forma con aura è meno comune; può accadere che soggetti, che hanno presentato emicrania con aura da giovani, con l’invecchiamento “perdano la cefalea”, presentando più episodi ricorrenti di aura tipica senza cefalea (1.2.3) [27], late-life migraine accompaniments o equiva-
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M.C. Tonini
lenti emicranici, la cui descrizione riportata da Fisher più di vent’anni fa rimane tuttora attuale (Tab. 16.2) [3, 22, 35-37]; in un’elevata percentuale di casi (77%), questi fenomeni benigni possono comparire per la prima volta dopo i 65 anni ed essere così confusi con attacchi ischemici transitori (TIA), in assenza di una pregressa storia di emicrania o quando questa non viene identificata [38]; in questi casi diventa mandatoria l’esecuzione di accertamenti strumentali, soprattutto se predominano i sintomi negativi; la diagnosi differenziale va fatta anche con crisi epilettiche, quando esse si manifestano con aura visiva e/o sensitiva (Tab. 16.3). Dopo i 65 anni, in una piccola percentuale di casi (1-1,6%), l’emicrania pre-esistente, soprattutto senz’aura, può evolvere in una forma cronica [8, 12, 39], in relazione non solo all’abuso di analgesici [40-42], ma alla presenza di fattori di rischio quali l’ipertensione arteriosa, la depressione (80%), le allergie, l’asma, l’ipotiroidismo, l’obesità (BMI >30), disturbi del sonno, un trauma cranico [43]. Una delle maggiori problematiche nella gestione del soggetto anziano è la presenza di malattie età-correlate, quali l’artrite (58%), l’ipertensione (45%) le cardiopatie (21%), il cancro (19%), il diabete (12%) oppure lo stroke (9%) [44], alcune delle quali possono manifestarsi in comorbilità con l’emicrania. Tuttavia pochi sono gli studi dell’associazione tra emicrania e queste condizioni morbose in questa fascia di età; sinora le evidenze più rilevanti sono a riguardo di: Emicrania e malattie cerebro-cardiovascolari. L’associazione tra emicrania, ictus ischemico e malattia cardiovascolare appare ben documentata nel giovane-adulto [50], in particolare nelle donne con la forma con aura; tuttavia nel soggetto anziano l’emicrania non è un fattore favorente l’ictus [45], né appare significativamente più presente nei soggetti con stroke rispetto a coloro senza; infatti uno studio condotto su un gruppo di 100 soggetti con ictus ischemico, confrontati con un gruppo controllo senza ictus, ha evidenziato una prevalenza lifetime dell’8% per entram-
Tabella 16.2
Diagnosi differenziale tra aura emicranica e TIA: Da [35, 36]
Età di insorgenza giovanile-adulta
Età di insorgenza avanzata
Assenza di fattori rischio Presenza di fattori di rischio vascolare Comparsa graduale del sintomo focale Comparsa acuta del sintomo focale Segue solitamente cefalea Manca spesso cefalea Sintomi motori rari Sintomi motori di maggiore entità e frequenti Sintomi visivi positivi Sintomi visivi (scotoma) Sintomi sensitivi positivi (parestesie) Sintomi sensitivi negativi (ipoestesia) Durata da 15 a 20 minuti (<30%) Durata dei sintomi focali (90%): <15 minuti Frequenza episodi bassa Alta frequenza degli episodi
Tabella 16.3
Diagnosi differenziale tra emicrania con aura ed epilessia
Durata Evoluzione temporale Sede Tipologia
Aura
Aura epilettica
5-30 minuti a marcia distribuzione emianoptica scotomi scintillanti spettri di fortificazione
secondi fissa centrale macchia colorata (rosso arancione)
Cefalea ed invecchiamento
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bi i gruppi [46], facendo così ritenere che la comorbilità emicrania ed ictus possa essere nella maggior parte dei casi casuale [47]. Così pure l’emicrania non appare associata ad elevati valori di pressione arteriosa [48] né aumenta il rischio di eventi coronarici negli anziani emicranici [49, 50]; una cardiopatia ischemica è comune nei soggetti anziani e l’utilizzo di nitrati per un dolore anginoso può scatenare una cefalea in un soggetto con emicrania; sebbene molto raramente l’anziano può manifestare cefalea anginosa (cefalea simil-emicranica in presenza di crisi anginosa con dolore toracico), che tende a regredire con l’impiego dei nitrati [51]. Emicrania e depressione. Soggetti giovani-adulti con emicrania presentano un elevato rischio di sviluppare depressione e soggetti con depressione manifestano spesso un’emicrania [52]; questo è anche vero per il soggetto anziano, il quale manifesta un’elevata comorbilità di emicrania e depressione (OR=2,4, P=0,02 ) [12, 53]; un recente studio svedese ha dimostrato che nelle donne di età compresa tra i 60 e 74 anni il rischio di emicrania attiva è fortemente associato ad una storia di depressione maggiore [53]. Inoltre la presenza di depressione può influenzare la ricorrenza e la severità degli attacchi emicranici nel soggetto anziano condizionando la prognosi, per lo sviluppo di una cefalea cronica quotidiana e influenzando anche la scelta del trattamento; d’altro canto l’aumentata frequenza di attacchi è un importante fattore predittivo di depressione [54]. Una lunga storia di emicrania severa non sembra determinare un disturbo delle funzioni cognitive [55], rendendo molto improbabile una relazione tra emicrania e demenza. Nell’anziano non abbiamo dati riguardo la comorbilità emicrania ed epilessia.
Cefalea di tipo tensivo Anche nell’anziano la cefalea tensiva è la forma più frequente di tutte le cefalee primarie, presente sin dalla giovane età; tuttavia dopo i 65 anni il 17-43% dei soggetti può presentare per la prima volta una cefalea di tipo tensivo, in relazione ad eventi psicologici negativi quali il pensionamento, un lutto per la perdita del coniuge, la perdita di relazioni sociali o affettive, il disagio economico, l’istituzionalizzazione in case di cura; inoltre alcune malattie, quali l’infarto del miocardio, l’ictus cerebrale, le malattie polmonari croniche ostruttive, le neoplasie predispongono l’anziano alla depressione, considerato uno dei fattori più importanti nello scatenare o favorire questa forma di cefalea [5, 56]. L’intensità degli attacchi diminuisce nelle donne, ma non sembra modificarsi nel sesso maschile [57, 58]. Il 2,5-2,7% dei soggetti anziani può manifestare una cefalea di tipo tensivo cronica [8, 12]. Quando si sospetta una cefalea di tipo tensivo, soprattutto se di recente esordio, una particolare accuratezza diagnostica va posta per escludere forme attribuite a neoplasia, idrocefalo, ematoma subdurale cronico, arterite temporale, problemi dell’acuità visiva (per es. presbiopia, cataratta), fibromialgia (presente nel 90% delle donne), dolori miofasciali, cefalea cervicogenica ed infine una possibile depressione mascherata [19, 59, 60].
Cefalea a grappolo La cefalea a grappolo è una forma di cefalea primaria rara nell’invecchiamento, in quanto tende a scomparire intorno ai 60-70 anni [4]. Tuttavia può esordire anche dopo i 65 anni con le stesse
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caratteristiche dell’età giovanile [21, 23, 61, 62] con una peculiare distribuzione nel sesso femminile [63, 64]. A conferma che la cefalea a grappolo sia un problema “anche” dell’anziano vi è il dato riportato in uno studio su soggetti anziani (n=359) in cui è stata calcolata una stima del 4% con questa forma di cefalea [11]; così come sono stati segnalati casi di cefalea a grappolo a 83 [65] e 89 anni [66]. Le forme croniche, la cui presentazione tardiva è una caratteristica [67], sono ancor più rare e molto invalidanti, essendo spesso accompagnate da forte agitazione che può simulare una pseudo-demenza. Nel soggetto anziano è possibile osservare attacchi tipo cluster like headache associati a glaucoma, uveite, sinusite, dissecazione carotidea, aneurisma dell’arteria vertebrale o del seno cavernoso, malformazione A-V occipitale, arterite temporale, meningioma cervicale o dell’ala dello sfenoide, rinofaringioma, adenoma ipofisario o sindrome di Tolosa-Hunt; va inoltre ricordata la diagnosi differenziale con l’arterite temporale. Se si conferma la natura idiopatica del disturbo devono essere considerate in diagnosi differenziale le altre TACs (Trigeminal Autonomic Cephalalgias), soprattutto ai fini terapeutici. In letteratura sono stati segnalati due casi di SUNCT (short lasting unilateral nevralgiform headache attacks with conjunctival injection and tearing) a 77 e a 88 anni [68, 69].
Cefalea ipnica La cefalea ipnica è stata inserita nella nuova classificazione delle cefalee dell’International Headache Society (IHS) al capitolo 4.5 “Altre cefalee primarie” [27], i cui criteri diagnostici sono elencati in Tabella 16.4. Descritta per la prima volta da Raskin nel 1988 [70] in sei casi che manifestavano una “curiosa cefalea correlata al sonno” e definita anche alarm clock headache, è una forma molto rara; finora ne sono stati descritti in letteratura più di 80 casi idiopatici, e solo rari casi sintomatici, potendola così annoverare tra le cefalee primarie. Per l’esiguità dei casi, non è stato possibile calcolarne la prevalenza e l’incidenza, ma rappresenta l’0,07-0,1% di tutte le cefalee. Insorge dopo i 50 anni, sopratutto tra i 65 e gli 85 anni di età, con predominanza nel sesso femminile (62%) [71-73]. Una recente revisione di tutti i casi pubblicati ha permesso di definire in modo dettagliato le caratteristiche cliniche e le opzioni terapeutiche (Tab. 16.5, 16.6) [74].
Tabella 16.4
Criteri diagnostici della cefalea ipnica (ICDH-2004). Da [27]
A. Cefalea che soddisfa i criteri B-D. B. Si manifesta esclusivamente durante il sonno. C. Presenta almeno due delle seguenti caratteristiche: 1. si verifica >15 volte al mese; 2. dura ≥15 minuti dopo il risveglio; 3. esordisce dopo i 50 anni. D. Non sono presenti i sintomi autonomici e non si manifesta più di uno fra i seguenti: 1. nausea; 2. fotofobia o fonofobia. E. Non attribuita ad altra condizione o patologia.
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Tabella 16.5 Caratteristiche demografiche e cliniche della cefalea ipnica (82 soggetti). Da [72] Sesso %
M 38
F 62
Età di insorgenza Durata degli attacchi in minuti Frequenza degli attacchi * 24 ore Intensità del dolore % Lieve Medio Forte
62 ± 11 (36–84) 88 ± 95 (15–500) 1.2 ± 0.8 (1/sett-6/notte) 4 60 37
Carattere del dolore % Sordo Pulsante Acuto, improvviso
57 39 4
Lato della cefalea % Unilaterale Bilaterale
40 (13 dx, 16 sin, 11 alt) 60
Sede % Fronto-temporale Posteriore Diffuso
45 3 52
Sintomi concomitanti % Nausea Foto-fonofobia Lacrimazione Ptosi
22 5 5 3
In nessun caso descritto è stata riferita una familiarità positiva per cefalea ipnica, ma viene riportata una pregressa storia di emicrania, con e senz’aura, o una cefalea di tipo tensivo episodica. Caratteristiche peculiari sono la breve durata degli attacchi dolorosi (anche se è stata riportata una durata superiore ai 540 minuti), l’assenza di segni autonomici e l’insorgenza esclusivamente durante il sonno, sia notturno che durante le ore pomeridiane; nei pazienti a cui veniva eseguita polisonnografia gli attacchi si correlavano alla fase REM del sonno. Il dolore è solitamente di grado lieve-moderato (in circa i due terzi dei casi), sordo, bilaterale con insorgenza a distanza di qualche ora dall’addormentamento. Gli attacchi dolorosi si manifestano con frequenza quotidiana o a giorni alterni, da 1 a 6 per notte, con un intervallo tra un attacco e l’altro da 1 a 3 ore, spesso a orari fissi (tra l’una e le tre del mattino); possono presentarsi per alcuni anni per poi regredire spontaneamente, rendendo la prognosi benigna. Nonostante l’assenza dei segni autonomici, nell’8% dei casi sono stati riportati sintomi quali lacrimazione, congestione nasale o rinorrea e ptosi. Non vengono riferiti fattori scatenanti. Dal momento che esordisce in età tardiva è possibile la sua associazione con diverse malattie soprattutto con l’ipertensione arteriosa (12 casi) e più raramente con tumori maligni (5 casi), depressione o distimia (4 casi), coronaropatia incluso l’infarto del miocardio (4 casi), fibrillazione striale (2 casi), diabete mellito (2 casi), sindrome dell’apnea notturna (2 casi), ictus cerebrale (2 casi), tremore essenziale (2 casi) ed epilessia (2 casi).
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Tabella 16.6 Farmaci impiegati nel trattamento della cefalea ipnica e loro efficacia (in parentesi è riportato il numero dei pazienti). Da [72] Farmaco Nessuna
Efficacia Moderata
Buona
Farmaco sintomatico ASA (9) Triptani (8) Derivati dell’ergotamina (6) Acetominofene (5) Inalazione di ossigeno (4) Nimesulide (2)
3 6 3 3 4 1
5 1 2 2
1 1 1
Farmaco di profilassi Litio (43) Indometacina (21) Caffeina (21) Antidepressivi triciclici (20) Beta-bloccanti (15) FANS (11) Vaerapamil (9) Melatonina (9) Flunarizina (7) Antiepilettici (6) Prednisone (6) Benzodiazepine (4) Pizotifene (4) Methysergide (3) Gabapentin (3) Clonidina (3) Oppiacei (2) Barbiturici (2)
5 8 9 19 14 7 6 4 3 6 3 3 3 3 – 2 2 1
5 5 4 1 – 4 1 2 – – 1 – – – 2 1 – –
33 8 8 1 0 2 3 4 – 2 1 1 – 1 – – 1
Sono stati descritti casi di cefalea ipnica sintomatici in relazione a meningioma della fossa posteriore [75], ischemia in regione medio rostrale del ponte (sede anatomica della sostanza reticolare) [76] e a lesione infiammatoria meningea a livello del forame lacero, con regressione completa dei sintomi cefalalgici alla risoluzione della patologia di base [77]. Va posta in diagnosi differenziale con la cefalea a grappolo e altre TACs, che spesso si presentano con dolore notturno; così come devono essere escluse la cefalea da arterite di Horton e da apnee del sonno. La fisiopatologia della cefalea ipnica rimane speculativa poichè non ci sono studi sperimentali al riguardo. È stato a lungo dibattuto se fosse una forma di cefalea a grappolo o una TACs, ma la sola insorgenza notturna non è sufficiente a supportare questa ipotesi, dal momento che la sede del dolore non è strettamente unilaterale, né è sempre presente un’attivazione del sistema simpatico. È stato ipotizzato che si tratti di un disturbo cronobiologico del sonno sia per il coinvolgimento del nucleo sovrachiasmatico (NSC), struttura che regola il ritmo circadiano endogeno, dal momento che gli attacchi si manifestano durante le stesse ore della notte (alarm-clock headache), e delle sue connessioni afferenti ed efferenti con il grigio periacqueduttale e i nuclei aminergici,
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importanti strutture per la modulazione del dolore; sia per la carenza di melatonina in relazione alla ridotta funzione dell’asse ipotalamo-pineale ed in particolare del NSC, che avviene fisiologicamente dopo i 60 anni. La risposta alla terapia con litio, il quale aumenta non solo la secrezione di melatonina ma anche il rilascio di serotonina, ha fatto pensare anche ad un disturbo del metabolismo della serotonina [78].
Cefalee secondarie La cefalea nelle cefalee secondarie è un sintomo che si manifesta in stretta relazione ad una patologia sottostante; nel soggetto anziano sono soprattutto rappresentate da lesioni intracraniche, da cause metaboliche, da disturbi vascolari cerebrali e dalle nevralgie, in particolare la nevralgia trigeminale (incidenza 155 casi/1.000.000 abitanti/anno) [79] e la nevralgia post-herpetica (50-75% dei casi) [80]. La loro distribuzione in età anziana viene illustrata in (Tab. 16.7) [21]. L’arterite temporale o malattia di Horton è una cefalea secondaria inserita nella ICHD-II al capitolo “attribuita a disturbi vascolari cranici (6.4.1)” [27], che esordisce esclusivamente in età anziana, con un picco di incidenza tra i 70 e i 79 anni [81]; in Italia è stato calcolato un tasso di incidenza di 6,9 casi/100.000/anno, salendo fino a 73 casi/100.000 dopo gli ottant’anni [82]. Le caratteristiche cliniche e il trattamento delle forme secondarie sono illustrati nella parte III, Cefalee Secondarie.
Cefalea da farmaci Per una maggiore prevalenza di malattie croniche (Tab. 16.8) [83], nel soggetto anziano si rende necessaria l’assunzione di farmaci che possono aggravare una cefalea primaria preesistente o causare una nuova cefalea in relazione al farmaco assunto per quella patologia (Tab. 16.9) [84, 85].
Tabella 16.7 [21]
Distribuzione delle cefalee secondarie nel soggetto anziano (campione di 193/3578). Da
Tipo di cefalea Nevralgia trigeminale Emorragia subaracnoidea Arterite temporale Tumore intracranico Disturbi del rachide cervicale Nevralgia postherpetica Disturbo occhi,naso,denti Post-traumatica
% 18,7 7,8 6,2 4,1 3.1 3,1 2,1 2,1
Maschi % 25 33 42 62.5 33 67 25 100
Femmine % 75 67 58 37,5 67 33 75 0
178 Tabella 16.8 [83]
M.C. Tonini Prevalenza delle malattie croniche nel soggetto anziano (campione 5632 di soggetti). Da Tasso di prevalenza % Femmine Maschi
Infarto del miocardio Angina Aritmia Scompenso congestizio Arteriopatia periferica Ipertensione Diabete mellito Stroke Demenza di ogni tipo Parkinsonismi Neuropatia arti inferiori
4,8 6,9* 20,3* 7,3* 5,2 67,3 13,4 5,9* 7,2* 3,0* 6,5*
10,7 7,8 25,1* 5,4* 8,1 59,4 12,9 7,4* 5,3* 3,0* 6,5
trend significativo età correlato, regressione logistica,* P <0,05 Tabella 16.9
Farmaci che inducono o aggravano una cefalea nel soggetto anziano. Da [84, 85]
SNC Sedativi (barbiturici, benzodiazepine, alcol, ipnotici) Stimolanti (caffeina, metilfenidato) Antiparkinsoniani (L-Dopa, amantidina) Sistema cardiovascolare Vasodilatatori (nitroglicerina, isosorbide, dinitrato, dipiridamolo, acido nicotinico) Antipertensivi (atenololo, nifedipina, metildopa, enapril) Antiaritmici (quinidina, digossina) Sistema gastrointestinale Antagonisti recettori H2 (ranitidina, cimetidina) Sistema respiratorio Broncodilatatori (teofillina, aminofillina, pseudoefedrina) Infezioni Antibiotici (tetracicline, cotrimoxazolo) Farmaci oncologici Chemioterapici (tamoxifene, ciclofosfamide) Sistema riproduttivo Ormoni sostitutivi (estrogeni) Sidenafil (viagra) Sistema muscolo scheletrico FANS
La cefalea farmaco-indotta si presenta in modo aspecifico, diffusa, di intensità lieve-moderata, non sempre riconoscibile e ricollegabile alla terapia medica assunta; pertanto una cefalea che compare de novo dopo i 65 anni deve far pensare a questo tipo di eziologia, anche in considerazione che riducendo le dosi del farmaco spesso la cefalea può migliorare o regredire [86].
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Terapia La terapia nella popolazione anziana è priva di evidenze scientifiche di efficacia per la mancanza di studi clinici controllati, dal momento che l’età ≥ 65 anni rappresenta un criterio di esclusione. È focalizzata sul trattamento sintomatico e di profilassi con gli stessi obiettivi del giovane-adulto, rispettivamente bloccare l’attacco nel più breve tempo possibile, ridurre l’intensità e i sintomi associati, diminuire del 50% la frequenza del numero di attacchi/mese, migliorando la qualità di vita; tuttavia è necessario fare alcune puntualizzazioni sulla gestione di un trattamento, dal momento che non tutti i farmaci sintomatici e di profilassi possono trovare un’uguale indicazione nel soggetto anziano. Infatti la strategia terapeutica nell’anziano dovrà essere decisa caso per caso, non solo per la coesistenza di altre patologie, ma perché l’invecchiamento porta a modificazioni fisiologiche della farmacocinetica con alterazioni del volume di distribuzione, innalzamento delle concentrazioni ematiche e incremento di distribuzione dei farmaci lipofilici e della loro emivita di eliminazione (Tab. 16.10) [87]; ma anche a modifiche della farmacodinamica con alterazione della sensibilità recettoriale e conseguente diminuzione dei meccanismi omeostatici per ridotta capacità funzionale degli organi. La maggiore conseguenza a queste modificazioni è la ridotta tolleranza ai farmaci con un’elevata predisposizione agli effetti collaterali, la cui incidenza nell’anziano aumenta in modo esponenziale con il numero di farmaci assunto [88]. Inoltre i soggetti anziani, per l’utilizzo contemporaneo di più farmaci, sono a maggior rischio di interazioni farmacologiche (nel 40% dei casi), e responsabili del 15-20% degli effetti indesiderati [89]. Con l’invecchiamento si rende necessario modificare il tradizionale approccio terapeutico, con una più attenta prescrizione di farmaci sintomatici e di profilassi, iniziando con basse dosi e aumentando lentamente il loro dosaggio, mantenendolo per almeno tre mesi prima di sospenderlo, monitorando con regolarità i parametri di funzionalità epatica e renale, semplificare il regime terapeutico [90, 91]. Sono importanti alcune strategie comportamentali, come l’eliminazione o la correzione di fattori scatenanti noti (mancanza di riposo e soprattutto di sonno, alimentazione, farmaci e loro abuso, fattori psicologici), terapie non farmacologiche come terapie fisiche, tecniche di rilassamento, agopuntura, etc. possono essere prese in considerazione anche come approccio di prima scelta, alternativo ai farmaci tradizionali, gravati da eccessivi effetti collaterali. Emicrania. Per la terapia sintomatica, il paracetamolo (alla massima dose raccomandata di 200 mg/die) appare il meglio tollerato [92], tenendo presente di evitarlo in soggetti con epato-
Tabella 16.10
Modificazioni della farmacocinetica in relazione all’età. Da [87]
Variabile Acqua corporea (% del peso) Massa magra (% del peso) Massa grassa (% del peso) Albumina serica (g/dl) Peso del rene (%) 100 Flusso ematico renale (%)
Giovane-adulto (20–30 anni)
Anziano (60–80 anni)
61 19 26–33 (donna) 18–20 (uomo) 4.7 80 100
53 12 38–45 (donna) 36–38 (uomo) 3.8 55–60
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patia cronica, anche se non vi sono evidenze di un aumentato rischio di eptotossicità alle dosi raccomandate [93]. I FANS nel soggetto anziano vanno usati con cautela in quanto possono aggravare o causare un’ulcera peptica (20% dei casi); interagiscono con gli anticoagulanti, potenziandone l’azione, riducono l’effetto degli agonisti dell’aldosterone e dei diuretici risparmiatori di potassio, degli antipertensivi e degli steroidi; sono quindi controindicati nello scompenso congestizio, nell’insufficienza renale ed epatica; inoltre incrementano la concentrazione plasmatica della digossina e dei barbiturici; vanno evitati con l’uso di SSRI per l’aumentato rischio di effetti indesiderati gastrointestinali, che non sembrano manifestare con gli antidepressivi triciclici [94]. Un’alternativa è rappresentata dagli inibitori selettivi delle COX-2, che appaiono meno gastrolesivi [95]. I triptani sono controindicati nel caso di anamnesi positiva o in soggetti a rischio di cardiopatia ischemica, vasospasmo coronarico, patologia cerebrovascolare, in presenza di patologie vascolari periferiche, ipertensione arteriosa non controllata. Questo è particolarmente rilevante nel soggetto anziano; tuttavia in un recente studio l’impiego dei triptani in una coorte di soggetti anziani con emicrania non aumentava il rischio di malattia cardio-cerebrovascolare [96]. A questo proposito va segnalato che nel 2002 una commissione multidisciplinare di esperti in neurologia, cure primarie, cardiologia, farmacologia ed epidemiologia (Triptan Cardiovascular Safety Export Panel) ha concluso che la frequenza degli effetti cardiovascolari dopo l’uso dei triptani è estremamente bassa e che il profilo rischio/beneficio è a favore del loro utilizzo, se non vi sono controindicazioni a carattere famigliare (emicrania emiplegica, stroke ischemico, cardiopatia ischemica, angina di Prinzmetl ed ipertensione non controllata) [97]. Gli antiemetici, quali metoclopramide o clorpromazina, possono associarsi a sindrome extrapiramidale, sedazione o secchezza alle fauci [98]; il domperidone è più consigliabile nel soggetto anziano in quanto, non passando la barriera emato-encefalica, non ha un’azione sul sistema extrapiramidale, né sul sistema nervoso centrale [99]. Gli analgesici di combinazione vanno evitati dal momento che il singolo composto può avere effetti controindicati nell’anziano: la caffeina può indurre stato ansioso ed insonnia [100], il barbiturico può essere causa di esagerata sedazione o stati confusionali o di una cefalea da abuso [101]. Nella profilassi, i beta-bloccanti (propranololo, timololo, atenololo,) hanno come effetto collaterale più frequente la bradicardia, che non rappresenta un limite al loro impiego se si usa l’accorgimento di una lenta titolazione del dosaggio e della formulazione a lento rilascio; così pure una graduale riduzione prima della sospensione può evitare effetti rebound sull’emicrania ed effetti di tipo adrenergico; altri effetti indesiderati sono l’astenia, la depressione, l’insonnia e la stipsi (mal tollerati nel soggetto anziano), raramente l’ipotensione, che possono indurre alla sospensione del farmaco da parte del paziente. Le controindicazioni sono rappresentate da diabete mellito insulino-dipendente, blocco di branca o scompenso cardiaco congestizio, vasculopatie periferiche, broncopatia cronica [102]. Non vanno mai associati a verapamil per l’ipotensione e la bradicardia indotte dal ridotto metabolismo dei beta-bloccanti. Si sconsiglia la prescrizione di flunarizina che può causare o aggravare una depressione o sintomi extrapiramidali [103, 104], e nei pazienti in terapia con beta-bloccanti per l’aumentato effetto cardiovascolare; si presentano meno frequenti gli effetti collaterali con l’uso di cinnarizina. Cauta la prescrizione di amitriptilina per i noti effetti anticolinergici [105], mal tollerati dal soggetto anziano. Possono rappresentare una valida alternativa per la minore incidenza di effetti collaterali alcuni neuromodulatori. Il valproato di sodio, durante il trattamento del quale vanno monitorati i
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parametri pancreatici ed epatici per la tossicità segnalata; va usato con cautela in pazienti che fanno uso di ASA o Warfarin, in quanto potrebbero interferire con l’emostasi e la coagulazione; gli effetti collaterali segnalati comprendono nausea, alopecia, tremori, aumento di peso [106]. Il topiramato presenta un buon profilo di tollerabilità; l’effetto collaterale più ricorrente all’inizio della terapia sono le parestesie che possono essere evitate suggerendo la somministrazione di potassio per os; altri eventi avversi più comuni sono anoressia, astenia, nausea, diarrea [107]; può essere una valida opzione terapeutica nelle forme di emicrania resistenti [108] o ad alta frequenza di attacchi [109] (Tab. 16.11). La lamotrigina sembra un farmaco promettente nella profilassi dell’emicrania con aura, ma si devono tener presenti gli effetti sulla sfera cognitiva [110, 111]. È possibile trattare in modo efficace l’emicrania ed eventuali patologie associate con un unico farmaco: esempio tipico quello di emicrania ed ipertensione nello stesso soggetto in cui trovano un buon impiego non solo i beta-bloccanti o i calcio-antagonisti, ma recentemente anche i sartani (Candesartan) [112]; oppure nel caso di emicrania e depressione è indicato l’uso di inibitori selettivi del re-uptake della serotonina (SSRI). Cefalea di tipo tensivo. Vanno preferiti gli SSRI meglio tollerati nel soggetto anziano rispetto agli antidepressivi triciclici, che come anticolinergici possono esacerbare un glaucoma, causare visione offuscata, disturbi cognitivi e indurre effetti collaterali a livello gastrico, ritardandone lo svuotamento [105] e in ultimo possono causare un’importante ipotensione ortostatica causa di cadute a terra con il rischio di fratture. Possono essere presi in considerazione terapie di profilassi non farmacologiche come tecniche di rilassamento, agopuntura, TENS; il BFB non sembra efficace nel soggetto anziano. Cefalea a grappolo. Il trattamento della cefalea a grappolo è reso complesso dalla presenza di malattie concomitanti, in particolare se il paziente deve far uso di nitroderivati che sono potenti induttori degli attacchi dolorosi; inoltre il sumatriptan, farmaco di prima scelta per l’attacco, andrà utilizzato con cautela in presenza di malattie cardiovascolari. Una valida alternativa è rappresentata dall’inalazione di ossigeno con ventimask in corso di attacco acuto. Anche la profilassi può risultare difficile dal momento che i farmaci utilizzati possono avere importanti effetti collaterali nel soggetto anziano; in questo caso il verapamil risulta il meno dannoso e quindi di prima scelta. Da segnalare particolare cautela nell’uso di litio in corso di insufficienza renale cronica, in associazione ai calcio-antagonisti, ai diuretici tiazidici, all’indometacina e al diclofenac,
Tabella 16.11 Scelta del farmaco nel trattamento dell’emicrania senz’aura nel soggetto anziano* Trattamento sintomatico Prima scelta Seconda scelta Usare con cautela o evitare Trattamento di profilassi Prima scelta Seconda scelta Usare con cautela Evitare Trattamento non farmacologico * Su suggerimento dell’autore
Paracetamolo FANS Triptani, Prodotti di combinazione Topiramato, Valproato di sodio Propranolo, Calcio-antagonisti, Sartani Nortriptilina Amitriptilina Magnesio, Riboflavina, Coenzima Q10
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che ne potenziano l’effetto, e per gli effetti collaterali quali tremori, diarrea, insonnia, apatia, confusione [113, 114]; dal momento che il litio ha un preciso range terapeutico, superato il quale può causare effetti tossici da sovradosaggio, vanno eseguiti periodici controlli della litiemia. L’impiego dei corticosteroidi è da evitare nei pazienti ipertesi e diabetici. Nei casi cronici e non responsivi ai farmaci potrà essere presa in considerazione la terapia chirurgica mediante la deep brain stimulation a livello del nucleo ipotalamico posteriore [115]. Cefalea ipnica. Non vi è un farmaco costantemente efficace, ma in alcuni casi si è osservato una positiva risposta alla somministrazione serale di carbonato di litio alla dose di 300-600 mg, all’indometacina [116] e al prednisone [117]. In alcuni casi anche l’assunzione di un tazzina di caffè può risultare efficace (Tab. 16.6).
Conclusioni Con l’invecchiamento la presenza di una cefalea pone maggiori problemi di diagnostica differenziale dal momento che, accanto a forme sintomatiche, si possono riconoscere anche forme primarie ad esordio tardivo (dopo i 65 anni); ciò richiederà un’accuratezza nella raccolta dell’anamnesi clinica, mirata a inquadrare la cefalea presente, secondo precisi criteri diagnostici proposti dalla classificazione ICHD-II 2004 [27], a identificare gli eventuali fattori scatenanti, a conoscere le condizioni patologiche esistenti e le terapie assunte, nell’esaminare le condizioni sia neurologiche che cliniche generali, nel ricorrere ad indagini strumentali e di laboratorio all’occorrenza. Sarà, quindi, utile stabilire con il paziente fin dalla prima visita un rapporto di fiducia che permetterà di ottenere il massimo delle informazioni necessarie a una corretta diagnosi; lo stesso varrà con i famigliari, anche per garantirsi la massima collaborazione per un’assunzione corretta della terapia prescritta. Sarà pure importante rassicurare il paziente con un’adeguata informazione, rendendolo partecipe delle scelte diagnostiche e terapeutiche.
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PARTE III
Cefalee secondarie
Cefalea di tipo censivo: la clinica
189
Capitolo 17
Cefalea attribuita a disordini vascolari cranici o cervicali E. Agostoni
La cefalea è un sintomo presente in un ampio spettro di malattie cerebrovascolari. La classificazione dell’International Headache Society (IHS) affronta il problema delle cefalee associate a patologia cerebrovascolare nel capitolo delle cefalee secondarie al codice numerico 6 (Tabella 17.1). Rispetto alla precedente classificazione IHS 1988, la revisione 2004 include diverse novità: in primo luogo si osserva la modificazione del titolo che diventa: “Cefalea attribuita a disordini vascolari cranici o cervicali” sottolineando in tal modo l’importanza della patologia vascolare cervicale come causa di cefalea. Si evidenzia, inoltre, l’introduzione di alcune entità nosografiche venute alla ribalta scientifica nell’ultimo decennio come la Arteriopatia Cerebrale Autosomica Dominante con Infarti Subcorticali e Leucoencefalopatia (CADASIL), la Encefalopatia Mitocondriale con Acidosi Lattica ed episodi Stroke-like (MELAS) oltre alle cefalee attribuite a procedure endovascolari. Si può, infine, osservare una più accurata definizione di entità nosografiche già incluse nella versione del 1988. Tabella 17.1
Classificazione ICHD-II [1]
6 Cefalea attribuita a disordini vascolari cranici o cervicali: 6.1 Cefalea attribuita ad ictus ischemico o attacco ischemico transitorio 6.1.1 Cefalea attribuita ad ictus ischemico (infarto cerebrale) 6.1.2 Cefalea attribuita ad attacco ischemico transitorio (TIA) 6.2 Cefalea attribuita ad emorragia intracranica non traumatica 6.2.1 Cefalea attribuita ad emorragia intracerebrale 6.2.2 Cefalea attribuita ad emorragia subaracnoidea (ESA) 6.3 Cefalea attribuita a malformazione vascolare non rotta 6.3.1 Cefalea attribuita ad aneurisma sacculare 6.3.2 Cefalea attribuita a malformazione artero-venosa (MAV) 6.3.3 Cefalea attribuita a fistola artero-venosa durale 6.3.4 Cefalea attribuita ad angioma cavernoso 6.3.5 Cefalea attribuita ad angiomatosi encefalo-trigeminale o leptomeningea (Sindrome di Sturge-Weber) 6.4 Cefalea attribuita ad arteriti 6.4.1 Cefalea attribuita ad arterite a cellule giganti 6.4.2 Cefalea attribuita ad angioite primitiva del sistema nervoso centrale 6.4.3 Cefalea attribuita ad angioite secondaria del sistema nervoso centrale 6.5 Dolore della arteria carotide o vertebrale 6.5.1 Cefalea o dolore facciale o dolore del collo attribuiti a dissecazione arteriosa 6.5.2 Cefalea post-endoarteriectomia 6.5.3 Cefalea da angioplastica carotidea 6.5.4 Cefalea attribuita a procedure intracraniche endovascolari 6.5.5 Cefalea da angiografia segue →
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E. Agostoni
→ segue
6.6 6.7
Cefalea attribuita a trombosi venosa cerebrale (TVC) Cefalea attribuita ad altri disordini vascolari intracranici 6.7.1 Arteriopatia Cerebrale Autosomica Dominante con Infarti Sub-corticali e Leucoencefalopatia (CADASIL) 6.7.2 Encefalopatia Mitocondriale con Acidosi Lattica ed Episodi Stroke-like (MELAS) 6.7.3 Cefalea attribuita ad angiopatia benigna del sistema nervoso centrale 6.7.4 Cefalea attribuita ad apoplessia pituitaria
Nella presente trattazione consideriamo in modo approfondito alcune categorie nosografiche che presentano un peso maggiore nella pratica clinica neurologica come la trombosi venosa cerebrale (TVC), la dissecazione carotidea, l’emorragia subaracnoidea (ESA) ed accenniamo alle altre per completezza espositiva.
Cefalea attribuita ad ictus ischemico o ad attacco ischemico transitorio (TIA) Cefalea attribuita ad ictus ischemico (infarto cerebrale) Criteri diagnostici: A. ogni nuova cefalea acuta che soddisfa il criterio C; B. segni neurologici e/o evidenze neuroradiologiche di un recente ictus ischemico; C. la cefalea si sviluppa simultaneamente o in stretta relazione temporale ai segni o ad altre evidenze di ictus ischemico. Nell’ictus ischemico la cefalea è accompagnata da segni neurologici focali e/o alterazioni della coscienza che solitamente rendono possibile la diagnosi differenziale con le cefalee primarie [2, 3]. La cefalea accompagna l’ictus ischemico con una percentuale variabile dal 17% al 34% a seconda delle casistiche considerate [4, 5]. La cefalea è più frequente nell’ictus a carico del territorio vertebro-basilare (42%) rispetto al territorio carotideo (31%), mentre è un evento raro negli infarti lacunari. In generale la cefalea è più frequente nell’ictus di natura embolica rispetto a quello aterotrombotico. Nella maggior parte dei pazienti questa cefalea non presenta caratteristiche specifiche e non è di grado severo. La causa della cefalea nell’ictus ischemico non è ben conosciuta anche se viene ipotizzato il ruolo della serotonina e di altri peptidi vasoattivi in un processo di attivazione del sistema trigemino-vascolare.
Cefalea attribuita ad attacco ischemio transitorio (TIA) Criteri diagnostici: A. ogni nuova cefalea acuta che soddisfa i criteri C e D; B. deficit neurologici focali di origine ischemica che durano <24 ore; C. la cefalea si sviluppa simultaneamente ai deficit focali; D. la cefalea si risolve entro le 24 ore. Nonostante la cefalea sia più comune nei TIA vertebro-basilari, essa rappresenta raramente il sintomo prominente di un TIA. Un problema clinico di rilievo è costituito dalla diagnosi differenziale tra cefalea associata a TIA e un attacco di emicrania con aura, soprattutto se quest’ultimo è il primo episodio nella vita del paziente. Vi sono alcuni indicatori clinici che sono oggi punti fermi nel processo diagnostico-differenziale:
Cefalea attribuita a disordini vascolari cranici o cervicali
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1) modalità di insorgenza: nel TIA il deficit focale si presenta con una insorgenza ictale mentre nell’aura emicranica è tipicamente progressivo; 2) qualità dei fenomeni neurologici: nel TIA sono solitamente negativi (es. amaurosi fugace), mentre nell’aura emicranica sono più spesso positivi (scotoma scintillante).
Cefalea attribuita ad emorragia intracranica non traumatica Cefalea attribuita ad emorragia intracerebrale Criteri diagnostici: A. ogni nuova cefalea acuta che soddisfa il criterio C; B. segni neurologici o evidenza alle neuroimmagini di una emorragia cerebrale recente non traumatica; C. la cefalea si sviluppa in stretta relazione temporale con l’emorragia intracerebrale. La cefalea è più frequente nell’ictus emorragico rispetto all’ictus ischemico. Spesso essa è mascherata da altri deficit neurologici focali o da uno stato di coma, ma può anche rappresentare il segno clinico precoce e principale nell’emorragia cerebellare. La cefalea accompagna l’emorragia intracerebrale nel 60% dei casi ed è più comune nelle emorragie cerebellari e lobari rispetto alle emorragie a sede tipica e del tronco cerebrale [4, 5]. La cefalea è attribuita alla trazione delle strutture sensitive intracraniche. Spesso la cefalea è unilaterale ed è accompagnata da nausea, vomito e ipertensione arteriosa di grado severo. La lateralizzazione della cefalea è un indicatore di sede dell’emorragia nell’80% dei casi. L’emorragia cerebellare merita una trattazione separata: in questo caso la cefalea è spesso acuta e può mimare l’emorragia subaracnoidea. La localizzazione occipitale e la rigidità del collo sono comuni, così come i segni di compressione delle strutture nervose della linea mediana. La diagnosi viene effettuata sulla base della evidenza TAC. La diagnosi etiologica, soprattutto nel caso delle emorragie a sede atipica, può rendere necessaria l’angioRM o l’angiografia cerebrale. Il trattamento consiste nel controllo della pressione arteriosa, nella correzione di eventuali coagulopatie e nell’intervento neurochirurgico, soprattutto in caso di emorragia cerebellare.
Cefalea attribuita ad emorragia subaracnoidea (ESA) Criteri diagnostici: A. cefalea di grado severo a insorgenza improvvisa e che soddisfa i criteri C e D; B. evidenza alle neuroimmagini o all’esame del liquor di una ESA non post-traumatica con o senza altri segni clinici; C. la cefalea si sviluppa simultaneamente all’emorragia; D. la cefalea si risolve entro un mese. L’ESA è tra le cause più comuni di cefalea intensa ad insorgenza acuta con una prognosi grave (il 50% dei pazienti muore dopo un’ESA, spesso prima di arrivare in ospedale ed il 50% dei sopravvissuti presenta disabilità). L’1,4% dei pazienti che si presentano al Pronto Soccorso (PS) per una cefalea acuta, violenta e di nuova insorgenza, ha un’ESA. Se si escludono i traumi, l’80% dei casi è dovuto alla rottura di un aneurisma sacculare. La presentazione clinica dell’ESA è rappresentata da una cefalea spesso unilaterale all’esordio, accompagnata da nausea, vomito, distur-
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bi di coscienza, rigidità nucale e, meno frequentemente, da febbre e disturbi del ritmo cardiaco. A fronte di questa classica presentazione clinica vi sono casi in cui la cefalea è meno severa e non vi sono segni associati. Il paradigma della cefalea è l’insorgenza improvvisa. Poiché i deficit neurologici possono essere assenti all’esordio, la cefalea può essere confusa con l’emicrania soprattutto se viene somministrato un triptano con una buona risposta clinica. Ogni paziente con cefalea a insorgenza improvvisa dovrebbe essere indagato per una sospetta ESA. La diagnosi può essere confermata dalla TAC di base o dalla risonanza magnetica (sequenza FLAIR) che hanno una sensibilità di oltre il 90% nelle prime 24 ore. Se le neuroimmagini sono negative, equivoche o tecnicamente inadeguate è indispensabile la rachicentesi. L’ESA è un’emergenza neurochirurgia [6]. Gli aneurismi intracranici (80-85%) responsabili dell’ESA sono per la maggior parte localizzati nelle arterie del circolo anteriore, alla giunzione della carotide interna e dell’arteria comunicante posteriore, a livello del complesso arterioso della comunicante anteriore o alla biforcazione dell’arteria cerebrale media. Gli aneurismi del circolo posteriore sono solitamente localizzati alla biforcazione dell’arteria basilare o alla giunzione tra l’arteria vertebrale e l’arteria cerebellare postero-inferiore ipsilaterale. Nel 20-30% dei pazienti si trovano aneurismi multipli. La genesi del dolore nell’ESA è attribuita alla distensione locale e allo stiramento dei vasi cerebrali e della aracnoide, oltre alla irritazione chimica dei nervi sensitivi intracranici determinata dal sangue. La cefalea può anche essere dovuta all’ipertensione intracranica o all’ischemia cerebrale tardiva. Un problema rilevante nella gestione clinica dell’ESA è rappresentato dalla possibilità di una errata diagnosi che può essere passibile di correzione. L’errore diagnostico può essere di tre tipi: – errori nella valutazione dello spettro di presentazione clinica; – errori di interpretazione della TAC e delle sue limitazioni; – errori nell’esecuzione e nella corretta interpretazione dei risultati della rachicentesi. Errori nella valutazione dello spettro della presentazione clinica: una parte dei pazienti con ESA (20-50%) riporta una cefalea premonitrice (tipo thunderclap) comparsa giorni o settimane prima dell’ESA. In considerazione dell’ampio spettro diagnostico della thunderclap headache (ESA, aneurismi non rotti, trombosi arteriosa, meningite, trombosi venosa cerebrale, cefalea benigna da sforzo e thunderclap headache benigna) e del fatto che una rapida diagnosi e la chirurgia migliorano la prognosi, tutte le cefalee tipo thunderclap devono essere ben valutate per escludere l’ESA. Cefalee di grado meno severo possono dare luogo ad interpretazioni diagnostiche errate come quelle di emicrania o cefalea di tipo tensivo. La cefalea dell’ESA può essere localizzata in sedi diverse oppure essere generalizzata, può risolversi spontaneamente e può essere migliorata da analgesici e triptani. La rigidità nucale può essere un fenomeno tardivo o non esservi affatto. L’assenza di rigidità nucale non deve far escludere l’ESA. L’ESA può essere confusa con altre condizioni mediche: ad esempio, in pazienti con rialzo termico, vomito, sudorazione e tachicardia può essere erroneamente posta la diagnosi di sindrome virale. Alcuni pazienti possono presentare elevati valori pressori ed essere considerati affetti da una crisi ipertensiva. Le aritmie cardiache possono manifestarsi nel 91% dei pazienti con ESA, così come modificazioni dell’ECG di tipo ischemico possono essere confuse con un disordine miocardio primitivo. Errori di interpretazione della TAC e delle sue limitazioni: la TAC senza mezzo di contrasto con sezioni di 3 mm è l’esame di scelta; ha un’elevata sensibilità iniziale che decresce con il trascorrere del tempo. Le moderne strumentazioni tomografiche hanno una sensibilità del 98% nelle prime 12 ore e del 93% nelle prime 20 ore. Questa sensibilità decresce fino al 58% in 5^ giornata [6]. Errori di esecuzione e di interpretazione della puntura lombare: la puntura lombare deve essere eseguita immediatamente in pazienti con ESA in cui la TAC è negativa, equivoca o tecnicamente inadeguata. La pressione del liquor deve essere rilevata. Un’elevata pressione può essere indicativa di Trombosi Venosa Cerebrale (TVC). La xantocromia appare dopo 12 ore dall’ESA e dura settimane. La sua presenza dopo 12 ore è diagnostica per ESA con un elevato grado di sensibilità Il trattamento della cefalea prevede il ricorso ad analgesici e a una moderata sedazione.
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Cefalea attribuita a malformazioni vascolari non rotte Cefale a attribuita ad aneurisma sacculare Criteri diagnostici: A. ogni nuova cefalea acuta, inclusa la thunderclap headache e/o la paralisi dolorosa del III nervo cranico, che soddisfa i criteri C e D; B. evidenza di un aneurisma sacculare alle neuroimmagini; C. evidenza di una causa correlata all’aneurisma; D. la cefalea si risolve in 72 ore; E. ESA, emorragia intracerebrale o altre cause di cefalea sono state escluse con appropriate indagini. La cefalea è riportata dal 18% dei pazienti con aneurisma cerebrale non rotto. Essa solitamente non ha un pattern specifico. Comunque una thunderclap headache è presente prima dell’ESA in circa il 50% dei pazienti. Un aneurisma non rotto può causare una thunderclap headache, però la reale frequenza di aneurismi non rotti in pazienti con thunderclap headache non è nota. Tutti i pazienti con un sospetto aneurisma non rotto devono essere sottoposti ad AngioRM.
Cefalea attribuita a malformazione artero venosa (MAV) Criteri diagnostici: A. ogni nuova cefalea che soddisfa i criteri C e D; B. evidenza di MAV alle neuroimmagini; C. evidenza di una relazione causale con la MAV; D. la cefalea si risolve in 72 ore; E. ESA, emorragia intracerebrale e altre cause di cefalea sono state escluse con appropriate indagini. In letteratura sono riportati casi di associazione tra MAV e diversi tipi di cefalea come la cefalea a grappolo, emicrania parossistica, SUNCT (short lasting unilateral nevralgiform headache attacks with conjunctival injection and tearing), ma questi casi sono atipici. L’emicrania con aura è stata riportata in oltre il 58% delle donne con MAV, anche se l’emicrania è un sintomo meno frequente rispetto a epilessia, deficit neurologici focali e sintomi/segni di sanguinamento intracerebrale.
Cefalea attribuita a fistole artero venose durali Criteri diagnostici: A. ogni nuova cefalea acuta che soddisfa il criterio C; B. evidenza di una fistola artero-venosa durale alle neuroimmagini; C. evidenza di una relazione causale con la fistola; D. ESA, emorragia intracerebrale e altre cause di cefalea sono state escluse da indagini appropriate. Per una definizione più appropriata sono necessari ulteriori studi. Un tinnito pulsante doloroso può rappresentare il sintomo di esordio. La fistola carotido-cavernosa può presentarsi con una oftalmoplegia dolorosa.
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Cefalea attribuita ad angioma cavernoso Criteri diagnostici: A. ogni nuova cefalea acuta che soddisfa il criterio C; B. evidenza di un angioma cavernoso alle neuroimmagini; C. evidenza di una relazione causale con l’angioma cavernoso; D. ESA, emorragia intracerebrale e altre cause di cefalea sono state escluse con appropriate indagini. L’angioma cavernoso può essere diagnosticato con la RM. Non ci sono studi esaustivi sulla cefalea associata a questa malformazione. La cefalea viene riportata in genere come conseguenza delle emorragie o delle crisi epilettiche conseguenti all’angioma cavernoso.
Cefalea attribuita ad angiomatosi encefalo trigeminale o leptomeningea (sindrome di Sturge Weber) Criteri diagnostici: A. ogni nuova cefalea acuta che soddisfa il criterio C; B. angioma facciale, crisi epilettiche ed evidenza di angioma meningeo ipsilaterale all’angioma facciale; C. evidenza di una relazione causale con l’angioma; D. altre cause di cefalea escluse con appropriate indagini; Al momento non vi sono sufficienti studi per definire la cefalea in questa sindrome. Osservazioni isolate suggeriscono che questa condizione clinica può causare un’emicrania sintomatica, in particolare con aura protratta, probabilmente correlata ad un’oligoemia cronica con conseguente ipossia correlata senza infarto cerebrale.
Cefalea attribuita ad arteriti Cefalea attribuita ad arterite a cellule giganti Criteri diagnostici: A. ogni nuova cefalea persistente che soddisfa i criteri C e D; B. almeno uno dei seguenti: 1. indurimento dell’arteria dello scalpo con elevati valori di VES e/o proteina C reattiva, 2. la biopsia dell’arteria temporale dimostra un’arterite a cellule giganti; C. la cefalea si sviluppa in stretta relazione temporale con altri sintomi e segni dell’arterite temporale; D. la cefalea si risolve o migliora significativamente entro 3 giorni dall’inizio del trattamento steroideo ad alte dosi. Di tutte le arteriti, l’arterite a cellule giganti è una malattia che più costantemente è associata a cefalea ed è molto comune negli anziani. La cefalea è dovuta all’infiammazione delle arterie del capo, che per la maggior parte sono rami dell’arteria carotide esterna.
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La cefalea rappresenta il sintomo più frequente nel 70% dei pazienti ed è il sintomo di esordio in 1/3 dei pazienti. L’arterite temporale può coinvolgere l’arco aortico e le sue branche. Istopatologicamente la risposta infiammatoria è centrata sulla lamina elastica interna ed è costituita dalla formazione di cellule giganti multinucleate. Queste contengono frammenti di fibre elastiche, suggerendo che l’antigene che innesca la risposta infiammatoria possa essere l’elastina. L’arteria temporale superficiale è interessata in quasi tutti i pazienti, anche se vi è una partecipazione dell’arco dell’aorta e delle sue branche incluse le coronarie, le succlavie, l’ascellare e le arterie prossimali dell’arto superiore. Possono essere interessate anche le arterie cervicali: carotide e vertebrale. In studi autoptici vi è l’evidenza che le arterie vertebrali sono interessate nella stessa misura delle arterie temporali superficiali e l’arterite può estendersi anche nel tratto intracranico delle vertebrali. La cefalea può non avere caratteristiche patognomoniche, ma alcuni aspetti possono essere suggestivi per la diagnosi. Una caratteristica importante è che la cefalea rappresenta un sintomo nuovo in un paziente senza storia di cefalea oppure una modificazione di una cefalea cronica. La cefalea è solitamente descritta come lancinante, generalizzata e continua. Le tempie sono generalmente dolenti e dure al tatto. Raramente la cefalea è predominante in sede occipitale. Circa il 5% dei pazienti sperimenta scotomi scintillanti suggestivi di una emicrania con aura. Non è ben noto il significato di questi scintillii, anche se potrebbero essere in relazione con una ischemia ottica o retinica dovuta alla vasculite, oppure essere una forma benigna di aura emicranica. Una causa molto rara di cefalea in un paziente con arterite a cellule giganti è l’emorragia intraparenchimale cerebrale. Il dolore occipito-nucale può dipendere da una vasculite delle arterie occipitali o può essere parte di una sindrome dolorosa più generalizzata che coinvolge gli arti, la colonna e il tronco, definita polimialgia reumatica, che interessa il 50% dei pazienti con arterite a cellule giganti. L’ischemia dei muscoli della mandibola e della lingua può causare claudicatio della mandibola e della lingua. La claudicatio della mandibola è presente nel 40% dei pazienti e rappresenta il sintomo d’esordio nel 4%. La claudicatio della lingua è presente nel 4% dei pazienti, ma raramente è il sintomo iniziale della malattia. Vi sono poi rare sindromi craniali neuropatiche che possono essere confuse con la nevralgia trigeminale e che sono rappresentate da emianestesia della lingua, paralisi linguale e dolore facciale, dovuti a vasculite facciale. Circa il 15% dei pazienti con arterite a cellule giganti presenta una carotidodinia verosimilmente da vasculite carotidea. L’arterite a cellule giganti può essere complicata da condizioni cliniche che accompagnano la cefalea, sia di pertinenza del sistema nervoso centrale che periferico. Le complicanze centrali sono: neuropatia ottica, disordini della motilità oculare, malattie cerebrovascolari, disordini neuro-otologici, encefalopatie, crisi epilettiche e mielopatie. Le complicanze periferiche sono rappresentate da mononeuropatie, neuropatie periferiche e miopatie. I test di laboratorio sono caratterizzati dal riscontro di una VES elevata nel 97% dei casi, isolata o associata a PCR elevata. Altri rilievi di laboratorio includono una anemia microcitica normocromica ed una trombocitosi. Un modesto incremento della fosfatasi alcalina è presente nel 15% dei pazienti e dell’alfa2-globulina nel 72%. La biopsia dell’arteria temporale rappresenta il gold-standard diagnostico. È necessario prelevare un tratto di circa 5 cm dal lato maggiormente sintomatico. Se il segmento è sufficientemente lungo (4-6 cm) e vengono fatte sezioni istologiche multiple, nell’86% dei casi viene fatta una diagnosi corretta su un prelievo unilaterale. Il quadro istologico è caratterizzato da proliferazione intimale con stenosi luminali, distruzione della lamina elastica interna dovuto ad un infiltrato di cellule mononucleate, invasione e necrosi della tonaca media fino alla progressiva invasione panarteritica, formazione di cellule giganti con granulomi ed infiltrati di cellule mononucleate e, variabilmente, trombosi endoluminale.
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Il trattamento dell’arterite a cellule giganti è basato sui corticosteroidi per somministrazione orale. La maggior parte dei pazienti richiede un trattamento prolungato per 1 o 2 anni con dosi iniziali di prednisone da 40 a 60 mg al giorno [7]. Per riassumere vi sono alcuni punti che devono essere ben ricordati per diagnosticare e curare questa importante patologia neurologica: • una cefalea con caratteristiche variabili associata ad altri sintomi di arterite a cellule giganti (polimialgia reumatica, claudicatio mandibolare), oltre a ogni cefalea recente e persistente in una persona con più di 60 anni, deve porre il sospetto di un’arterite a cellule giganti; • la recente evidenza di ripetuti attacchi di amaurosi fugace associati con cefalea è molto suggestiva di arterite a cellule giganti; • il maggior rischio è rappresentato dalla cecità conseguente a neuropatia ottica anteriore ischemica. Questo rischio può essere evitato con la pronta diagnosi e con la terapia steroidea; • l’intervallo di tempo tra la perdita della vista in un occhio e il controlaterale è solitamente inferiore a una settimana; • è da considerare il rischio di ischemia cerebrale e di demenza; • la biopsia può coinvolgere un tratto di arteria temporale non interessato dal processo patologico; sono pertanto necessarie sezioni seriali; • un esame duplex scanning dell’arteria temporale può visualizzare il tratto di arteria ispessito in sezione assiale e può pertanto essere di aiuto nella scelta del tratto di arteria da sottoporre a biopsia.
Cefalea attribuita ad angioite primitiva del SNC (PACNS) Criteri diagnostici: A. ogni nuova cefalea persistente che soddisfa i criteri D e E; B. segni di interessamento encefalico di ogni tipo (es. ictus, crisi epilettiche, disordini cognitivi o della coscienza); C. angioite del SNC confermata dalla biopsia cerebrale o meningea o sospettata sulla base dei segni angiografici in assenza di arteriti sistemiche; D. la cefalea si sviluppa in stretta relazione temporale con i segni encefalici; E. la cefalea si risolve entro un mese di trattamento con steroidi o immunosoppressori. Le angioiti primitive del SNC sono angioiti granulomatose, non infettive che prediligono le piccole arterie leptomeningee e intraparenchimali senza coinvolgimento sistemico. Esse, dal punto di vista istopatologico, sono caratterizzate da necrosi fibrinoide e infiltrazione delle pareti vasali di linfociti, istiociti e/o cellule giganti multinucleate. La patogenesi è sconosciuta. Sembrerebbero comunque dovute a una reazione immunologica infiammatoria a un antigene ignoto. Le angioiti del SNC possono colpire soggetti di qualsiasi età, con una prevalenza nel giovane adulto, senza preferenza di sesso. La cefalea può precedere la comparsa di altri segni e sintomi di giorni o settimane, ma raramente rimane isolata. In considerazione di queste caratteristiche aspecifiche, la cefalea non presenta un elevato valore diagnostico fino a quando non compaiono segni focali, crisi epilettiche, disturbi cognitivi o della coscienza. L’esatto meccanismo della cefalea è sconosciuto, eccetto che per la cefalea associata a ictus o ESA. Poiché vi può essere un ampio coinvolgimento del SNC, è possibile riscontrare svariati segni neurologici (deficit motori, sensitivi, visivi, afasia, segni cerebellari, paralisi dei nervi cranici, crisi parziali o generalizzate, disturbi cognitivi, demenza e disordini della coscienza). La modalità di insorgenza può essere varia, da acuta a lentamente progressiva. Nel contesto degli
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svariati pattern di presentazione la cefalea può essere o meno presente. La cefalea è il sintomo più frequente nelle PACNS. Essa è presente nel 50-80% dei casi e non ha un pattern di presentazione specifico; la localizzazione, il grado di severità e il profilo temporale sono estremamente variabili. Le PACNS hanno una prognosi variabile: alcuni casi a insorgenza acuta portano all’exitus in pochi mesi; altri presentano un decorso lentamente progressivo con remissioni spontanee. In assenza di trattamento l’80% dei pazienti muore entro il primo anno e circa il 100% in 4 anni. Non ci sono studi clinici controllati sul trattamento delle PACNS. I risultati provenienti da studi con piccole serie di pazienti suggeriscono che un trattamento aggressivo combinato con ciclofosfamide (3-5 mg/kg/die) e prednisone (1 mg/kg/die) può essere efficace. Questo è il trattamento raccomandato anche in alcuni casi con presentazione benigna e alterazioni angiografiche senza conferma istologica [8]. La diagnosi di PACNS è difficile poiché la modalità di presentazione è assai variabile. Non vi è consenso sull’uso dell’angiografia, della RM e della biopsia leptomeningea. Quasi sempre la TAC e la RM sono anormali in pazienti con istologia positiva, ma i quadri neuroradiologici sono aspecifici. Il quadro di più frequente riscontro è rappresentato da piccole lesioni multiple nelle sequenze T2 sia nella sostanza bianca che nella sostanza grigia, ma si possono osservare anche emorragie, lesioni tipo massa, enhancement leptomeningeo o iperintensità estese della sostanza bianca [9]. Comunque la TAC e la RM sono indispensabili per escludere altre situazioni patologiche e per guidare la biopsia. L’esame del liquor è essenziale, ma anch’esso non specifico. L’esame è anormale nell’80-90% dei casi diagnosticati istologicamente ed in circa il 50% dei casi diagnosticati angiograficamente. Solitamente il quadro generale riflette una meningite asettica con una modesta pleiocitosi e una iperproteinorrachia. Il ruolo dell’angiografia nella diagnosi di PACNS è ancora discusso. Le modificazioni angiografiche nelle PACNS (stenosi ed ectasie vasali alternate, a distribuzione vascolare multipla) sono presenti in meno del 40% dei casi diagnosticati istologicamente. Il gold standard diagnostico è rappresentato dalla biopsia cerebrale. Essa è fondamentale per escludere condizioni patologiche che possano mimare la PACNS, come ad esempio le malattie linfoproliferative, alcune infezioni e la sarcoidosi. Nonostante la sensibilità di questo esame sia bassa (è negativo nel 25% dei casi), la biopsia è indispensabile prima di ogni trattamento aggressivo. La diagnosi differenziale più difficile è con la cefalea attribuita ad Angiopatia Benigna del SNC.
Cefalea attribuita ad angioiti secondarie del SNC Criteri diagnostici: A. ogni nuova cefalea persistente che soddisfa i criteri D e E; B. segni di interessamento encefalico di ogni tipo (ictus, crisi epilettiche, disturbi cognitivi e della coscienza); C. evidenza di arterite sistemica; D. la cefalea si sviluppa in stretta relazione temporale con i segni encefalici; E. la cefalea migliora entro un mese dall’inizio del trattamento steroideo e/o immunosoppressivo. La cefalea è presente nel 50-80% dei casi. Essa non è specifica, quindi è di scarso valore diagnostico fino a che non compaiono altri segni e/o sintomi come crisi epilettiche, deficit focali, alterazioni cognitive o della coscienza. L’assenza di cefalea e di alterazioni liquorali rende improbabile la diagnosi. La patogenesi della cefalea è multifattoriale: infiammatoria, legata all’ictus (ischemico o emorragico), all’ipertensione endocranica e/o all’ESA.
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Dolore dell’arteria carotide o vertebrale Cefalea o dolore del collo o della faccia attribuiti a dissecazione arteriosa Criteri diagnostici: A. ogni nuova cefalea, dolore facciale o del collo ad insorgenza acuta, con o senza altri sintomi o segni neurologici, che soddisfa i criteri C e D; B. dissecazione dimostrata con appropriate indagini e/o neuroimmagini vascolari; C. il dolore si sviluppa in stretta relazione temporale e nello stesso lato della dissecazione; D. il dolore si risolve entro 1 mese. Le dissecazioni delle arterie cervicali e cerebrali rappresentano importanti cause di ischemia cerebrale nel giovane adulto. In questa popolazione sono responsabili del 20% degli stroke ischemici. La dissecazione colpisce più frequentemente l’arteria carotide interna (ICA) rispetto alla vertebrale (VA) ed è più comune nelle arterie cervicali rispetto alle arterie intracraniche. La dissecazione può essere spontanea o associata a traumi anche banali. Le forme spontanee sono spesso associate a malattie sottostanti come la displasia fibromuscolare, le malattie del tessuto elastico, l’ipertensione arteriosa e l’emicrania. La presentazione clinica più tipica è rappresentata dall’improvvisa insorgenza di dolore cefalico seguito, dopo ore o giorni, da segni neurologici focali di ischemia cerebrale o retinica. La fisiopatologia della cefalea nella dissecazione dell’ICA o della VA è ancora poco conosciuta. Nella dissecazione dell’ICA il dolore, localizzato in diverse parti del capo e della regione cervicale, è probabilmente riferito alla dilatazione o distensione dell’arteria che determina la stimolazione dei recettori sensibili al dolore della parete del vaso. Nella dissecazione della VA il dolore è predominante in regione occipitale. Questo viene spiegato con l’innervazione cervicale della rete vascolare della fossa posteriore. Rimane comunque un mistero perché alcune dissecazioni siano dolorose e altre no. Il dolore cefalico (cefalea, dolore facciale e del collo) è un sintomo cruciale nella dissecazione della carotide e della vertebrale [10]. Esso è il sintomo iniziale più frequente e raramente può anche essere l’unica manifestazione della dissecazione (3 su 135 pazienti con dissecazione dell’ICA e 4 su 26 nella dissecazione della VA) [11]. In tutte le casistiche di dissecazioni carotidee o vertebrali il dolore cefalico è presente dal 55% al 100% dei casi. La frequenza di questo sintomo è sottostimata perché in alcune occasioni il dato anamnestico della cefalea è mancante (casi di afasia o riduzione della coscienza). Poiché il dolore cefalico è presente all’esordio (dal 33% all’86% dei casi), esso può rappresentare un buon indicatore per la diagnosi precoce e il trattamento. Le modalità d’insorgenza del dolore sono variabili: viene descritta un’insorgenza graduale di diverse ore o giorni nell’85% delle dissecazioni dell’ICA e nel 72% di quelle della VA. In altre casistiche viene riferita un’insorgenza improvvisa. Nella dissecazione dell’ICA sono stati riportati diversi pattern di dolore isolato, inclusi la thunderclap headache, il dolore cervicale e il dolore orbitario. Non ci sono specifiche caratteristiche del dolore nella dissecazione dell’ICA o della VA. Il dolore è solitamente unilaterale, severo e persistente. La sede del dolore è variabile e possono essere interessate, isolatamente o in combinazione, diverse parti del capo (70%), del collo (20%) o della faccia (10%). Nell’80% dei casi il dolore è unilaterale e ipsilaterale alla dissecazione; comunque il dolore può essere bilaterale anche quando la dissecazione è unilaterale.
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Il dolore è molto più frequentemente localizzato che diffuso, con una preferenza per le regioni frontale, orbitaria, temporale e laterocervicale alta. Il dolore cervicale è spesso irradiato alla mandibola, occhio e/o orecchio omolaterali. Nella dissecazione della VA il dolore è solitamente localizzato all’occipite e/o alla parte posteriore del collo. Esso può essere confuso con un dolore di origine muscoloscheletrica, con potenziali drammatiche conseguenze se vengono intraprese manipolazioni chiropratiche. Il dolore è di intensità severa nel 75% dei casi, talora descritto come thunderclup headache; esso può tuttavia essere molto lieve e ignorato, particolarmente quando sono presenti segni clinici più importanti. Un dolore d’intensità severa, unilaterale, ad insorgenza improvvisa, particolarmente quando è associato con dolore cervicale, suggerisce la dissecazione arteriosa dell’ICA quando è anteriore e della VA quando è occipitale. Frequentemente la dissecazione si presenta con altre varietà di dolore cefalico e cervicale che possono mimare l’emicrania, la cefalea a grappolo, la carotidodinia e l’emorragia subaracnoidea. Quando è presente un ictus la dissecazione può essere erroneamente interpretata come un infarto emicranico. Questa distinzione è particolarmente importante perché l’emicrania può rappresentare un fattore di rischio per la dissecazione arteriosa. La dissecazione non solo mima l’emorragia subaracnoidea ma può anche causarla. I segni di ischemia, se presenti, tipicamente seguono il dolore cefalico, solitamente da pochi giorni fino a un mese. I segni locali ipsilaterali presenti in circa il 50% dei pazienti sono: • Sindrome di Horner 58% • Tinnito pulsante 5-10% • Paralisi dei n. cranici bassi (XI, X e IX) 5,2% • Interessamento del n. trigemino 3,7% • Paresi dei muscoli oculari (III, IV e VI) 2,6% • Disgeusie (interessamento del n. della corda del timpano) 2%
Indagini diagnostiche Il gold standard è ancora rappresentato dall’esame angiografico. I classici quadri angiografici comprendono stenosi irregolari (“segno della stringa”), occlusioni che iniziano distalmente alla biforcazione e pseudoaneurismi. Le tecniche di imaging non invasive comprendono il Doppler duplex scanning, il Doppler transcranico (TCD), la TC e la RM. Gli studi EcoDoppler forniscono indicazioni dirette ed indirette. Le informazioni indirette sono rappresentate da una riduzione del flusso nella ICA o il rilievo di flusso bidirezionale senza evidenza di placche ateromasiche alla biforcazione carotidea. I segni diretti sono rappresentati da stenosi graduale del lume dell’ICA e da Flap intimale. Il Doppler transcranico permette di definire le conseguenze sulla circolazione intracranica della patologia carotidea: • riduzione della velocità di flusso; • pattern di flusso collaterale; • emboli distali. Gli studi con le tecniche multimodali ad ultrasuoni hanno dimostrato una sensibilità del 95% per la dissecazione carotidea e sono particolarmente utili per il monitoraggio dell’evoluzione della lesione. Le limitazioni di queste tecniche sono rappresentate dalla bassa specificità e dalla impossibilità di evidenziare direttamente gli aneurismi dissecanti. La TC elicoidale ha dimostrato alte sensibilità e specificità nell’evidenziare la dissecazione carotidea (è una metodica in evoluzione).
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La RM offre diversi vantaggi rispetto all’angiografia convenzionale. Le immagini pesate in T1 e DP in assiale permettono una visualizzazione della parete dei vasi con accelerato contrasto tra il lume, la parete del vaso e le circostanti strutture cervicali, determinando la visualizzazione diretta dell’ematoma intramurale. Il segno alla RM patognomonico di dissecazione è il cosiddetto crescent sign, rappresentato da uno stravaso ematico nella parete del vaso. Altri segni meno specifici sono: • segnale aumentato dell’intero vaso; • scarsa o nulla visualizzazione del vaso. L’angioRM (MRA) aumenta la validità della RM e dimostra la silhouette della dissecazione come l’angiografia, ma in modo non invasivo. Prendendo come gold standard l’esame angiografico, è stato dimostrato che la RM ha una sensibilità dell’84% ed una specificità del 99% per la diagnosi di dissecazione carotidea, mentre la MRA ha una sensibilità del 95% e una specificità del 99%.
Terapia Il trattamento della dissecazione arteriosa deve mirare a prevenire l’infarto oculare e cerebrale. Non vi sono sufficienti studi controllati sulla terapia della dissecazione arteriosa, comunque diverse terapie mediche e chirurgiche sono state praticate in questa patologia. • Alcuni pazienti hanno una buona prognosi anche senza terapia. • La terapia anticoagulante con eparina seguita da warfarin è spesso raccomandata (INR tra 2 e 3,5). • La trombolisi intraarteriosa è riservata ai pazienti che giungono all’osservazione entro 3-6 ore dall’insorgenza dei sintomi di ischemia cerebrale. Gli agenti trombolitici più utilizzati sono l’urokinasi, il tPA e la pro-urokinasi. Non vi sono specifiche linee guida per quanto riguarda il dosaggio dei farmaci; in generale è più basso rispetto a quello utilizzato per la fibrinolisi sistemica. L’urokinasi è il farmaco usato nella maggior parte degli studi. Il dosaggio è variabile tra 120.000-900.000 UI con una maggiore propensione alla scelta di 500.000 UI. Altrettanto discusso è il timing della lisi del coagulo, ritenuta possibile tra una e due ore. Non vi è consenso circa la durata del trattamento anticoagulante. È comunque diffusa la tendenza ad interrompere il warfarin quando il diametro del lume è ritornato alla norma (questo avviene a 6 mesi tra il 70% ed il 90% dei casi) oppure se l’occlusione è stabile dopo 6 mesi. Nei rari casi di stenosi persistente il warfarin dovrebbe essere continuato. La terapia antiaggregante viene considerata come seconda scelta, in caso di forte controindicazione alla terapia anticoagulante. Occorre sottolineare peraltro come non esista attualmente un trial clinico randomizzato che abbia dimostrato la maggior efficacia della terapia anticoagulante orale rispetto a quella antiaggregante [12]. La terapia chirurgica è riservata ai pazienti che presentano refrattarietà alla terapia medica, lesioni localizzate e accessibili, ulteriori ischemie nonostante la terapia medica e a quei pazienti con disfunzione progressiva dei nervi cranici dovuta a un aneurisma dissecante. L’intervento più comune è la resezione dell’aneurisma e la ricostruzione della carotide. Un altro trattamento include l’angioplastica con stenting, ma non vi sono ancora dati sufficienti circa il rapporto rischio/beneficio. Nel trattamento delle dissecazioni intracraniche, in considerazione della elevata incidenza di emorragia subaracnoidea, è necessaria cautela nell’uso precoce degli anticoagulanti anche se il rischio di propagazioni in situ del trombo e l’embolizzazione artero-arteriosa, che rappresentano eventi correlati alla cattiva prognosi, potrebbero essere prevenuti dalla terapia anticoagulante. La strategia terapeutica va scelta caso per caso, distinguendo 2 categorie di pazienti: quelli con soli sintomi ischemici e quelli con ESA dimostrata alla TC o alla puntura lombare.
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Cefalea post endoarteriectomia Criteri diagnostici: A. cefalea acuta con una delle seguenti caratteristiche e che soddisfa i criteri C e D: 1. dolore moderato diffuso, 2. dolore tipo cluster unilaterale che si presenta una o due volte al giorno con attacchi che durano 2-3 ore, 3. dolore unilaterale pulsante severo; B. è stata eseguita un’endoarteriectomia carotidea; C. la cefalea si sviluppa entro una settimana dall’atto chirurgico in assenza di dissecazione; D. la cefalea si risolve entro 1 mese dall’atto chirurgico. Il tipo di cefalea che più frequentemente compare dopo una endoarteriectomia è una cefalea moderata, diffusa, non specifica. Essa è presente in circa il 60% dei casi, solitamente è presente nei primi 5 giorni dall’intervento ed è solitamente bilaterale e preferenzialmente localizzata nelle regioni frontali. Il secondo tipo di cefalea post-endoarteriectomia (38% dei casi) è di tipo cluster. Si tratta di una cefalea unilaterale che si presenta da 12 a 120 ore dopo l’intervento. Gli attacchi si presentano 1 o 2 volte al giorno e durano 2 o 3 ore. Il dolore è pulsante, di intensità da moderato a severo, localizzato in regione retro-oculare o temporo-parietale. Talora è associato a iniezione congiuntivale, lacrimazione, rinorrea, ostruzione nasale e sindrome di Horner. Nella maggior parte dei casi il dolore si risolve spontaneamente in 2-25 giorni (in media 14 giorni). Il terzo tipo di cefalea è parte della cosiddetta “sindrome da iperperfusione cerebrale” che si verifica dopo la riapertura di una stenosi serrata in soggetti con ischemia cerebrale cronica. Si tratta di una cefalea severa, unilaterale che inizia circa 2-3 giorni dopo l’intervento e può precedere crisi epilettiche e deficit focali controlaterali. Questa associazione di sintomi può preannunciare una emorragia cerebrale. Questa sindrome è rara.
Cefalea post angioplastica carotidea Criteri diagnostici: A. ogni nuova cefalea acuta che soddisfa i criteri C e D; B. esecuzione di angioplastica extra o intra-cranica; C. la cefalea si sviluppa durante o entro una settimana dall’angioplastica; D. la cefalea si risolve entro un mese. L’angioplastica con o senza stent è una procedura in corso di sviluppo sottoposta a numerosi trials clinici. I dati sulla cefalea non sono ancora conclusivi. In una piccola serie di 53 pazienti la cefalea era presente nel 51% dei casi. Il dolore si presentava durante la insufflazione del palloncino ed era considerato lieve nel 18% dei casi, moderato nel 59% e severo nel 22%.
Cefalea attribuita a procedure endovascolari intracraniche Criteri diagnostici: A. cefalea unilaterale severa a insorgenza improvvisa e che soddisfa i criteri C e D; B. esecuzione di angioplastica o embolizzazione intracraniche;
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C. la cefalea si sviluppa entro secondi dalla procedura; D. la cefalea si risolve entro 24 ore dopo il termine della procedura. Si tratta di una cefalea severa ad insorgenza improvvisa localizzata in aree specifiche a seconda dell’arteria interessata che insorge entro pochi secondi dalla procedura endovascolare e che scompare rapidamente.
Cefalea da angiografia Criteri diagnostici: A. cefalea acuta con una delle seguenti caratteristiche e che soddisfa i criteri C e D: 1. cefalea diffusa severa ed urente, 2. cefalea con le caratteristiche dell’emicrania in un paziente che soffre di emicrania; B. esecuzione di angiografia carotidea o vertebrale; C. la cefalea si sviluppa durante l’angiografia; D. la cefalea si risolve entro 72 ore. L’iniezione intracarotidea o intravertebrale di mezzo di contrasto può indurre una cefalea severa, diffusa, urente che si risolve spontaneamente. L’iniezione può anche scatenare una crisi emicranica in un soggetto già emicranico.
Cefalea attribuita a trombosi venosa cerebrale Criteri diagnostici: A. ogni nuova cefalea con o senza segni neurologici che soddisfa i criteri C e D; B. evidenza di trombosi venosa cerebrale (TVC) alle neuroimmagini; C. cefalea (e segni neurologici, se presenti) che si sviluppa in stretta relazione temporale con la TVC; D. la cefalea si risolve entro un mese dopo appropriato trattamento. In passato la TVC era considerata una rara e devastante malattia caratterizzata da cefalea, papilledema, crisi epilettiche, deficit focali bilaterali e coma che pressoché invariabilmente conduceva a morte. Le moderne metodiche neuroradiologiche come l’angiografia, la TC e soprattutto la RM e la angio-RM hanno completamente modificato le nostre conoscenze su questa malattia ed hanno introdotto la possibilità di una diagnosi precoce. La causa della cefalea nella TVC è multifattoriale; essa può essere dovuta alla causa della occlusione venosa o più spesso può essere la conseguenza della stessa. La cefalea è il sintomo prevalente in diverse condizioni responsabili della TVC, sia locali (traumi cranici, tumori cerebrali, ascessi cerebrali, meningiti o infezioni di faccia, naso, orecchio e seni paranasali) che sistemiche (policitemia, alcune infezioni). La cefalea è spesso dovuta alle conseguenze dell’occlusione venosa, particolarmente all’ipertensione endocranica, secondaria all’alterazione dell’assorbimento del liquor, ad un blocco delle granulazioni del Pacchioni da parte del trombo o ad un aumento intracranico della pressione venosa. L’ipertensione endocranica è tipica nella trombosi del seno sagittale superiore (SSS) o di entrambi i seni laterali. Un’altra causa potenziale di cefalea nella TVC è l’infarto cerebrale, che è caratterizzato dalla distensione e dalla trombosi dei seni e delle vene corticali, spesso associate con emorragia subaracnoidea perivenosa e talora con vasta emorragia subdurale.
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Cause della TVC: 1. stati protrombotici gravidanza e puerperio disordini protrombotici ereditari stati protrombotici acquisiti secondariamente a patologie ematologiche stati protrombotici associati a patologie sistemiche stati protrombotici associati ad assunzione di farmaci 2. patologie infettive infezioni respiratorie infezioni dell’orecchio infezioni dei seni paranasali infezioni della cute infezioni delle ossa infezioni delle meningi 3. disturbi del flusso disidratazione insufficienza cardiaca lesioni ostruttive dei seni durali (tumori) TVC secondarie a occlusione arteriosa malformazioni artero-venose 4. patologie infiammatorie granulomatosi di Wegener Sindrome di Bechèt sarcoidosi 5. miscellanea trombosi traumatica trombosi chirurgica La causa di TVC è comunque sconosciuta in circa il 20% dei casi. Segni e sintomi della TVC: • cefalea • papilledema • deficit sensitivi e/o motori • crisi epilettiche • modificazioni del comportamento, confusione, coma • disfasia • paralisi multipla dei nervi cranici • incoordinazione cerebellare • Nnistagmo • perdita dell’udito • segni corticali bilaterali alternanti
75% 49% 34% 37% 30% 12% 12% 3% 2% 2% 3%
Modalità di esordio della TVC: • acuto: i sintomi esordiscono all’improvviso o si sviluppano in meno di 48 h 30% • subacuto: i sintomi si sviluppano in più di 48 h e meno di 30 giorni 50% • cronico: la presentazione dei sintomi dura più di 30 giorni 20% La cefalea è il sintomo più frequente nelle TVC presente nell’80-90% dei casi e spesso rappresenta il sintomo di esordio. La cefalea non ha caratteristiche specifiche: essa è spesso diffu-
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sa (58% dei casi); può essere localizzata ad ogni parte del capo (42% dei casi); raramente il dolore è localizzato al collo. Il grado di severità è variabile da una lieve sensazione di pesantezza a un dolore insopportabile. Le modalità di insorgenza possono essere schematicamente suddivise in: subacuta, acuta e cronica. La cefalea può essere intermittente o può anche presentarsi ad attacchi [13, 14]. La cefalea nelle TVC può essere associata a ciascuno dei segni precedentemente elencati. Possono essere distinti 4 pattern maggiori di presentazione: 1. cefalea con ipertensione endocranica associata; 2. cefalea con segni focali; 3. encefalopatia subacuta; 4. trombosi del seno cavernoso. Le presentazioni inusuali comprendono: 1. cefalea isolata; 2. cefalea posturale; 3. cefalea a insorgenza improvvisa; 4. cefalea a colpo di fulmine; 5. attacchi emicranici. Queste diverse modalità di presentazione pongono, in parte, problemi di diagnosi differenziale con alcune condizioni patologiche come l’emorragia subaracnoidea, l’ipotensione liquorale, l’emicrania e l’infarto cerebrale. La diagnostica neuroradiologica vede oggi la RM come l’esame di elezione. Questa metodica permette la individuazione diretta del trombo, che appare come un aumentato segnale nelle sequenze T1 e T2 tra il 5° e il 30° giorno dall’esordio. Esistono falsi negativi rappresentati da: 1. trombi in fase acuta (<2-3 gg); 2. trombosi isolata delle vene corticali; 3. trombosi studiate tardivamente. L’angioRM e la RM stanno progressivamente soppiantando l’angiografia in questa patologia. Il segno caratteristico è l’assenza di flusso, che è indicativo di una trombosi completa. Alla RM encefalo si possono evidenziare danni parenchimali, presenti nel 60-70% dei casi. La TAC dell’encefalo riveste ancora un ruolo importante nell’indirizzare il percorso diagnostico. Vi sono dei segni importanti: • segni diretti di TVC: – segno del delta: è presente nel 35% dei casi. Compare dopo iniezione di mezzo di contrasto ed è dovuto alla opacizzazione del seno sagittale superiore in contrasto con la bassa densità del trombo endoluminale, – segno del triangolo denso: raro, già presente alla TAC basale; indica la presenza del trombo fresco nellaparte posteriore del SSS, – segno della corda: è raro, evidenziato alla TAC basale; è dovuto alla elevata densità del trombo in una vena cerebrale corticale; • segni indiretti di TVC: – enhancement intenso della falce e del tentorio dopo somministrazione di mdc, – ventricoli piccoli, – ipodensità della sostanza bianca senza mdc, – infarti venosi: – infarti emorragici spontanei (iperdensi), – infarti venosi non emorragici. Nel 10-20% dei casi la TAC è normale. A questo bisogna aggiungere il 10-20% dei casi in cui il solo reperto è rappresentato da ventricoli di piccole dimensioni.
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L’angiografia cerebrale è indicata nei casi di TVC molto precoce (<5 gg) e molto tardivi (>6 settimane) nei quali possono esserci falsi negativi o segni equivoci alla RM. I reperti angiografici sono rappresentati da: • mancato riempimento di vene o seni venosi; • riempimento ritardato e circolo collaterale venoso. La rachicentesi è ancora importante per monitorare e ridurre l’ipertensione endocranica quando presente. Outcome a breve termine • mortalità: nelle review più recenti va dal 6% al 38% (media 10-15%); • sequele: presenti nel 15-25%, le più frequenti sono: – cecità o riduzione del visus secondaria ad atrofia ottica, – deficit focali (soprattutto motori e sensitivi), – disturbi neuropsicologici, – emianopsia laterale omonima, – paralisi dei nervi cranici, – atassia cerebellare, – tetraplegia, – coma vigile. Outcome a lungo termine • fistola durale arterio-venosa a seguito di trombosi del seno laterale; • recidiva: il rischio di recidiva si aggira sul 10-15%; • epilessia. Terapia [15] La terapia dovrebbe essere iniziata prima possibile. Il trattamento farmacologico è distinto in: 1) trattamento sintomatico; 2) trattamento etiologico; 3) trattamento antitrombotico. 1. Trattamento sintomatico: – farmaci anti-convulsivanti, – metodi per ridurre la pressione intracranica: corticosteroidi, mannitolo, restrizione idrica, glicerolo, acetazolamide o diuretici, rachicentesi, drenaggio ventricolare di LCR, shunt lombo-peritoneale, coma indotto da barbiturici, by pass del seno laterale, decompressione chirurgica con o senza rimozione di ematoma cerebrale, – antidolorifici: paracetamolo per il trattamento della cefalea; 2. Trattamento etiologico: quando è possibile, la causa responsabile della TVC dovrebbe essere trattata. L’antibioticoterapia nel caso di cause settiche, i corticosteroidi nella malattia di Bechèt e LES; 3. Trattamento antitrombotico: – terapia anticoagulante, – trombolitici. Terapia anticoagulante Benché vi sia una lunga esperienza in letteratura emergono ancora molti dubbi su questa terapia. Le questioni ancora oggetto di dibattito sono le seguenti: – rischio di sanguinamento intracerebrale; – evidenza di efficacia; – quando trattare con terapia eparinica; – modalità di somministrazione. L’eparina viene utilizzata da circa 50 anni. La sua efficacia è stata ipotizzata sulla base di significativi miglioramenti immediatamente evidenti dopo l’inizio della terapia e sulla prognosi fa-
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vorevole dei pazienti trattati con eparina, sia in studi retrospettivi che prospettici. I due studi più importanti sono il German trial e l’European Dutch trial [16, 17]. Una metanalisi di questi studi ha mostrato che il trattamento eparinico è stato in grado di ridurre del 14% il rischio di mortalità e del 15% il rischio di mortalità e dipendenza [18]. In entrambi gli studi, il trattamento anticoagulante non ha presentato un aumentato rischio di emorragia cerebrale, anche in pazienti con evidenza di lesioni emorragiche preesistenti. In base a queste considerazioni, possiamo rispondere ad alcuni dei quesiti precedenti. Per quanto riguarda il rischio di sanguinamento, questo sembra sovrastimato. L’indicazione al trattamento è valida per tutte le categorie di pazienti con diagnosi di TVC eccetto i neonati. L’eparina deve essere somministrata per via e.v. o s.c. mantenendo il PTT tra 2 e 2,5 volte il valore normale. Il trattamento eparinico deve essere continuato fino al miglioramento o comunque alla stabilizzazione clinica. La terapia anticoagulante va continuata con anticoagulanti orali per circa 3-6 mesi, mantenendo l’INR tra 2 e 3. La terapia anticoagulante orale a lungo termine è indicata in alcune situazioni quali: LES, malattia di Bechet, sindrome da anticorpi antifosfolipidi primaria, associazione di presenza di Ab anti-cardiolipina e RPCA o un altro fattore protrombotico, deficit di At III (maggior rischio di recidiva tra forme congenite). È discutibile una terapia a lungo termine nelle seguenti situazioni: Ab anti CL isolati, deficit prot. C ed S, resistenza alla proteina C attivata. In queste condizioni è maggiormente indicata l’astensione dall’assunzione di contraccettivi orali e una terapia anticoagulante profilattica in concomitanza di condizioni protrombotiche. Trombolitici Dal 1971 ad oggi vi sono diverse segnalazioni sul trattamento trombolitico nelle TVC. Diversi autori hanno utilizzato urokinasi o tPA per via locale nelle TVC. I risultati sono controversi e non vi sono sufficienti evidenze per stimare il rischio/beneficio di questo trattamento. In un editoriale pubblicato sulla rivista Stroke nel 1999 MG Bousser conclude che il trattamento combinato con tPA per via locale ed eparina e.v. ha dato risultati incoraggianti [15]. Comunque al momento attuale l’eparina rimane il trattamento di prima scelta nelle TVC, grazie alla sua efficacia, sicurezza e praticabilità.
Cefalea attribuita ad altri disordini vascolari Arteropatia cerebrale autosomica dominante con infarti subcorticali e leucoencefalopatia (CADASIL) Criteri diagnostici: A. attacchi di emicrania con aura con o senza altri segni neurologici; B. modificazioni tipiche della sostanza bianca alla RM nelle sequenze T2; C. conferma diagnostica con la biopsia della cute e con il test genetico (mutazione Notch 3). La CADASIL è una malattia delle piccole arterie del cervello, caratterizzata clinicamente da infarti cerebrali profondi ricorrenti, demenza sottocorticale, disturbi dell’umore ed emicrania con aura. L’emicrania con aura è presente in 1/3 dei casi. In alcuni casi è il primo sintomo della malattia, che compare all’età media di 30 anni, 15 anni prima dell’ictus e 20-30 anni prima della morte. La RM è solitamente anormale, con evidenti alterazioni del segnale nella sostanza bianca nelle sequenze T2. La malattia interessa le cellule muscolari lisce della tonaca media delle piccole arterie ed è dovuta alla mutazione del gene Notch 3.
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Encefalopatia mitocondriale con acidosi lattica ed episodi stroke like (MELAS) Crteri diagnostici: A. attacchi di emicrania con o senza aura; B. episodi di ictus e crisi epilettiche; C. anormalità genetiche (mutazioni puntiformi 3243 del DNA mitocondriale nel tRNA Leu gene ed altre mutazioni puntiformi del DNA MELAS). Gli attacchi di emicrania sono frequenti nella MELAS e questo ha fatto pensare che la mutazione mitocondriale potesse giocare un ruolo nell’emicrania con aura, ma la mutazione 3243 non è stata trovata in 2 gruppi di soggetti con emicrania con aura.
Cefalea attribuita ad angiopatia benigna (o reversibile) del SNC Criteri diagnostici: A. cefalea diffusa, severa ad insorgenza improvvisa o progressiva con o senza deficit neurologici focali e/o crisi epilettiche, che soddisfa i criteri C e D; B. stenosi e dilatazioni od ESA sono escluse da indagini appropriate; C. una o entrambe delle seguenti: 1. la cefalea si sviluppa simultaneamente ai deficit neurologici e/o alle crisi epilettiche, 2. la cefalea determina la necessità di eseguire una angiografia, che pone in evidenza restringimenti e dilatazioni delle arterie; D. la cefalea (e i deficit neurologici se presenti) si risolve spontaneamente entro 2 mesi. Non si tratta di una malattia, ma di una sindrome clinico-angiografica caratterizzata dall’insorgenza acuta di cefalea e segni neurologici ed evidenza angiografica di stenosi segmentali multiple reversibili. Si ritiene dovuta a un vasospasmo arterioso diffuso, scatenato da una varietà di condizioni o sostanze che causano un’ipertensione acuta. Queste comprendono: feocromocitoma, eclampsia, amfetamine, efedrina, fenilpropanolamina, nicotina, derivati dell’ergot, bromocriptina e sumatriptan. In alcuni casi è stato ipotizzato il vasospasmo emicranico e in altri una thunderclap headache e, comunque, è possibile che entrambe queste cefalee siano dovute a una angiopatia reversibile di origine sconosciuta. Non esiste una terapia condivisa per questa forma di cefalea. I trattamenti sintomatici sono rappresentati da analgesici, nimodipina oltre che antiepilettici ed antiipertensivi da stabilire caso per caso. L’uso del cortisone è controverso per la sua potenzialità di mascherare quadri di PACNS.
Cefalea attribuita ad apoplessia pituitaria Criteri diagnostici: A. cefalea severa acuta retroorbitaria, frontale o diffusa, accompagnata da almeno uno dei seguenti segni e che soddisfa i criteri C e D: 1. nausea e vomito, 2. febbre, 3. ridotto livello di coscienza,
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4. ipopituitarismo, 5. ipotensione, 6. oftalmoplegia o compromissione dell’acuità visiva; B. evidenza di infarto pituitario emorragico; C. la cefalea si sviluppa simultaneamente all’infarto emorragico pituitario; D. la cefalea e gli altri segni e/o sintomi si risolvono entro un mese. Questa rara sindrome è caratterizzata da infarto emorragico dell’ipofisi. Essa è una delle cause di thunderclap headache. Il gold standard della diagnosi è rappresentato dalla RM.
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Capitolo 18
Cefalea attribuita a disordini intracranici non vascolari P. Torelli, G.C. Manzoni
Nella seconda edizione della classificazione della International Headache Society (ICHD-II) [1], le forme di cefalea attribuite a disordini intracranici di natura non vascolare sono codificate nel gruppo 7 (Tab. 18.1). La diagnosi può essere considerata certa solo quando la cefalea migliora o si risolve completamente in seguito al trattamento della patologia sottostante, mentre la diagnosi è “probabile” nei casi in cui non è disponibile un trattamento risolutivo per la patologia orga-
Tabella 18.1
Classificazione delle cefalee attribuite a disordini intracranici non vascolari (ICHD-II)
7.1 Cefalea attribuita a ipertensione liquorale 7.1.1 Cefalea attribuita a ipertensione intracranica idiopatica (IIH) 7.1.2 Cefalea attribuita a ipertensione intracranica secondaria a cause metaboliche, tossiche o ormonali 7.1.3 Cefalea attribuita a ipertensione intracranica secondaria a idrocefalo 7.2 Cefalea attribuita a ipotensione liquorale 7.2.1 Cefalea post-rachicentesi 7.2.2 Cefalea da fistola liquorale 7.2.3 Cefalea attribuita a ipotensione liquorale spontanea (o idiopatica) 7.3 Cefalea attribuita a patologie infiammatorie non infettive 7.3.1 Cefalea attribuita a neurosarcoidosi 7.3.2 Cefalea attribuita a meningite asettica 7.3.3 Cefalea attribuita ad altre patologie infiammatorie non infettive 7.3.4 Cefalea attribuita a ipofisite linfocitica 7.4 Cefalea attribuita a neoplasie intracraniche 7.4.1 Cefalea attribuita a ipertensione intracranica o idrocefalo causato da neoplasia 7.4.2 Cefalea attribuita direttamente alla neoplasia 7.4.3 Cefalea attribuita a meningite carcinomatosa 7.4.4 Cefalea attribuita a iper- o ipofunzione ipotalamica o ipofisaria 7.5 Cefalea attribuita a iniezione intratecale 7.6 Cefalea attribuita a crisi epilettiche 7.6.1 Hemicrania epilettica 7.6.2 Cefalea post-critica 7.7 Cefalea attribuita a malformazione di Chiari tipo I (CM1) 7.8 Sindrome “cefalea con deficit neurologici transitori e linfocitosi liquorale” (HaNDL) 7.9 Cefalea attribuita ad altri disordini intracranici non vascolari
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P. Torelli et al.
nica individuata oppure il tempo di osservazione non è sufficiente per valutare l’evoluzione delle due condizioni. In questo capitolo sono contemplati 9 sottogruppi e i disordini più importanti sono rappresentati dalle neoplasie intracraniche, dalle alterazioni della pressione liquorale e dalle patologie infiammatorie non infettive.
Cefalea attribuita a ipertensione liquorale In questo gruppo di cefalee vengono individuate tre condizioni differenti: 1) cefalea attribuita a ipertensione endocranica idiopatica; 2) cefalea attribuita a ipertensione endocranica secondaria a intossicazione, alterazioni metaboliche o ormonali; 3) cefalea attribuita a ipertensione endocranica dovuta a idrocefalo. In passato, l’ipertensione endocranica idiopatica (IEI) è stata denominata con varie terminologie quali meningite sierosa, pseudotumor cerebri, ipertensione endocranica benigna e tutte stavano ad indicare una condizione caratterizzata da un aumento della pressione liquorale (>200 mm H2O nei soggetti normopeso, >250 mm H2O negli obesi) associato a papilledema, in assenza di lesioni evidenziabili con le indagini strumentali. È descritta, inoltre, una rara forma di IEI senza papilledema [2-4].
Epidemiologia Negli Stati Uniti l’incidenza annuale dell’IEI è 0,9/100.000 abitanti nella popolazione generale e 19/100.000 abitanti nelle donne obese in età fertile [3]. In uno studio condotto in 85 pazienti con cefalea cronica intrattabile affidati a un Centro Cefalee, è stata evidenziata ipertensione liquorale nel 14% dei casi. L’età media di esordio è 31 anni (11-58 anni), con prevalenza nel sesso femminile (il rapporto F:M varia da 8:1 a 4,3:1 nelle diverse casistiche). Nonostante sia stata segnalata l’associazione con molte patologie, l’obesità e l’aumento di peso nei 12 mesi precedenti la comparsa della IEI sono gli unici due fattori confermati in un’indagine casocontrollo.
Caratteristiche cliniche La cefalea è presente nel 94% dei casi e si può accompagnare a deficit visivi transitori (68%), acufeni pulsanti (58%), fotopsie (54%), dolore retrooculare (44%) e ad altri sintomi meno rappresentati, tra cui diplopia (38%), perdita del visus (30%) e dolore retrobulbare durante i movimenti oculari (22%). La cefalea, purtroppo, non ha caratteristiche distintive dalle cefalee primarie e, in particolare, dall’emicrania: solitamente ha un andamento quotidiano, dura diverse ore, è ad esordio graduale, di forte intensità, pulsante, associata a nausea, ma non a vomito e non viene modificata dalla postura. Viene descritta come “il peggior mal di testa della mia vita”. L’unico elemento tipico, quando presente, è il dolore percepito a livello retrobulbare, evocato dai movimenti degli occhi. Ai fini del sospetto diagnostico, può essere di aiuto la presenza degli altri sintomi. I deficit visivi, causati dall’ischemia transitoria del nervo ottico dovuta alla compressione tissutale, sono monoculari o binoculari, durano meno di 30 secondi e non sono correlati al livello della pressione liquorale o al grado di edema papil-
Cefalea attribuita a disordini intracranici non vascolari
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lare. Gli acufeni o la percezione di suoni intracranici hanno un carattere pulsante, sono solitamente unilaterali e scompaiono durante la compressione della vena giugulare ipsilaterale; probabilmente derivano dalla trasmissione intensificata, attraverso il liquido cefalo-rachidiano (LCR), della pulsazione vascolare in una condizione di aumento della pressione esercitata sulle pareti dei seni venosi. Possono essere presenti dolore e ipostenia a livello dei muscoli facciali e degli arti superiori. Nella ICHD-II i criteri diagnostici prevedono la presenza di una cefalea ad andamento progressivo che rispetta almeno uno dei seguenti parametri: 1) presentazione quotidiana, 2) dolore diffuso e/o fisso (non pulsante), 3) peggioramento con la tosse o con gli sforzi fisici. È richiesto il miglioramento della cefalea dopo la riduzione dei livelli di pressione liquorale a 120-170 mm H2O e la scomparsa del dolore dopo 72 ore dalla normalizzazione dei valori pressori liquorali. Dal punto di vista clinico, la cefalea associata alla rara forma di IEI senza papilledema non presenta caratteristiche peculiari; sono, invece, fattori predittivi positivi per questa entità gli acufeni pulsanti e l’obesità. Sempre nella forma senza papilledema, è possibile l’associazione con traumi cranici o meningite precedenti l’esordio della patologia, non sono evidenti deficit visivi e campimetrici e solitamente la diagnosi non è precoce.
Esame obiettivo ed indagini strumentali L’unico elemento certo e diagnostico è rappresentato dal riscontro di valori della pressione liquorale, misurata in clinostatismo e decubito laterale, superiori a 200 mm H2O in soggetti adulti normopeso e maggiori di 250 mm H2O in pazienti obesi. Non sono evidenti alterazioni delle proteine, del glucosio e della componente cellulare del LCR. L’esame obiettivo evidenzia edema papillare, anche se in alcune casistiche sono stati descritti, come già detto, rari casi di IEI senza edema papillare. Talvolta l’edema della papilla nelle fasi precoci può essere difficile da identificare ed è raccomandata l’osservazione accurata e ripetuta. L’esame del campo visivo frequentemente mostra un allargamento della macchia cieca fisiologica ed alterazioni della porzione infero-nasale. Può essere presente diplopia orizzontale per il deficit del VI nervo cranico ed è possibile riscontrare alterazioni pupillari a causa della compromissione delle fibre afferenti. Tra le indagini strumentali, la RM cerebrale rappresenta la metodica più indicata per escludere altre cause di ipertensione endocranica, mentre non sono evidenti specifiche alterazioni delle neuroimmagini nel corso di IEI, sebbene in passato la presenza della riduzione del volume ventricolare fosse considerato un segno distintivo.
Patogenesi Le cause che portano all’aumento della pressione endocranica nell’IEI non sono note, anche se sono stati chiamati in causa diversi meccanismi, tra cui un deficit dell’assorbimento del LCR. Alcuni Autori hanno ipotizzato che non esistono forme idiopatiche in quanto è sempre presente, sia nei casi cosiddetti “idiopatici” che in quelli “secondari”, una trombosi dei seni venosi con un conseguente aumento della pressione a livello venoso che determina edema extracellulare ed ipertensione liquorale. Anche la genesi della cefalea nell’IEI non è conosciuta e la sua intensità non è proporzionale all’aumento della pressione liquorale. In uno studio l’incremento della pressione liquorale indotto mediante l’infusione di soluzione salina nello spazio subaracnoideo ha determinato la comparsa di cefalea frontale e temporale solo in alcuni
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pazienti. Analogamente, l’aumento sperimentale della pressione liquorale oltre 680 mm H2O per 2 minuti in 2 pazienti non ha portato alla comparsa di cefalea. È stato ipotizzato che il dolore sia dovuto alla trazione esercitata a livello dei seni venosi e delle arterie della base cranica [2-4, 5, 6].
Diagnosi differenziale Le patologie che più frequentemente portano a ipertensione endocranica, e che è necessario escludere prima di porre diagnosi di IEI, sono le neoplasie endocraniche, le lesioni ischemiche o emorragiche cerebrali, i traumi cranici, le trombosi venose cerebrali, le meningiti e l’idrocefalo. Anche disturbi sistemici, quali insufficienza renale, ipoparatiroidismo e lupus eritematoso sistemico possono essere la causa dell’aumento della pressione intracranica. Tra i farmaci che possono determinare ipertensione endocranica compaiono l’acido nalidixico, la nitrofurantoina, l’indometacina, il ketoprofene, il litio e gli steroidi anabolizzanti.
Terapia I provvedimenti terapeutici dell’IEI comprendono: 1) la perdita di peso associata ad una dieta iposodica e ad un apporto idrico controllato; 2) il trattamento farmacologico con acetazolamide (1-2 g al giorno) o furosemide (20-40 mg al giorno) e con corticosteroidi; 3) i provvedimenti chirurgici che comprendono la fenestrazione della guaina del nervo ottico, consigliata nei casi con alterazioni del visus e le derivazioni liquorali. Nei casi con cefalea che non recede con le procedure sopra esposte sono indicate le stesse terapie sintomatiche e preventive utili nell’emicrania. La sottrazione di LCR non sempre si è dimostrata efficace nel controllo della sintomatologia algica [5]. La cefalea attribuita a ipertensione endocranica secondaria a intossicazione e ad alterazioni metaboliche od ormonali, così come la cefalea associata a IEI, non presenta caratteristiche distintive: ha un andamento quotidiano, è diffusa e/o fissa (non pulsante) ed è peggiorata dalla tosse o dagli sforzi fisici. Le patologie organiche che la sottendono sono molteplici: il morbo di Addison, l’ipoparatiroidismo, l’obesità, l’insufficienza renale, il lupus eritematoso sistemico e l’ipervitaminosi A; tra i farmaci che possono portare ad un aumento della pressione liquorale ricordiamo gli steroidi anabolizzanti, il ketoprofene e l’indometacina nella sindrome di Bartter, la terapia farmacologica ormonale dell’ipotiroidismo nell’infanzia, l’acido nalidixico, la nitrofurantoina e il litio. La cefalea si sviluppa dopo settimane o mesi dall’esordio della patologia endocrina e dell’ipervitaminosi o dall’inizio dell’assunzione dei farmaci indicati e scompare entro 3 mesi dalla risoluzione della causa sottostante. I criteri diagnostici della ICHD-II per la cefalea attribuita a ipertensione intracranica secondaria a idrocefalo, a differenza della forma dovuta a IEI, richiedono che sia presente almeno una delle seguenti caratteristiche: 1) diffusa, 2) peggiore al mattino, 3) aggravata dalla manovra di Valsalva, 4) accompagnata da vomito, 5) associata a papilledema, paralisi del VI nervo cranico, alterazioni dello stato di coscienza, instabilità nella marcia e/o aumento della circonferenza cranica nei bambini di età inferiore a 5 anni.
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Cefalea attribuita a ipotensione liquorale Nella ICHD-II vengono inserite in questo gruppo tre condizioni differenti: 1) la cefalea post-rachicentesi, 2) la cefalea da fistola liquorale, 3) la cefalea attribuita a ipotensione liquorale spontanea. Le manifestazioni cliniche dovute all’ipotensione liquorale (IL) sono state descritte per la prima volta da Schaltenbrand nel 1938 con il termine di aliquorrea spontanea in cui veniva ipotizzata, alla base della condizione clinica, una minore produzione di LCR [7].
Etiologia Le cause che possono determinare una riduzione della pressione liquorale (<60 mm H2O in posizione seduta) sono molteplici, ma il meccanismo principale è la fuoriuscita di LCR dallo spazio subaracnoideo che può avvenire in seguito a lesioni traumatiche (traumi accidentali, procedure chirurgiche, puntura lombare) oppure, come succede nella maggior parte dei casi, spontaneamente. Il preciso meccanismo nella forma spontanea non è noto, ma sembra che i fattori implicati in questa condizione siano un trauma banale (come il tossire, le cadute accidentali, i rapporti sessuali) rilevabile nell’anamnesi della maggior parte dei pazienti con IL spontanea, o una debolezza focale del sacco meningeo. Quest’ultimo elemento è supportato dall’osservazione che nella sindrome di Marfan, caratterizzata da alterazioni di alcune componenti del tessuto connettivo, sono di frequente riscontro anomalie del sacco meningeo, diverticoli meningei e perdita del LCR. Nella maggior parte dei casi, l’IL spontanea si verifica per una perdita di LCR a causa di lesioni dell’aracnoide che riveste le radici dei nervi spinali, in corrispondenza della giunzione cervico-toracica o nella porzione toracica. Le ipotesi formulate in passato, che volevano tra le cause principali dell’IL spontanea la ridotta produzione di LCR o l’aumento del riassorbimento liquorale, non hanno trovato conferme [8].
Caratteristiche cliniche La cefalea è il sintomo clinico più importante dell’IL ed è presente nella quasi totalità dei casi. È tipicamente posturale: compare nella stazione eretta e scompare in clinostatismo e, quanto maggiore è il tempo di ortostatismo, tanto maggiore è il tempo necessario perché la cefalea si riduca o scompaia con il clinostatismo. Secondo i criteri della ICHD-II la cefalea inizia o si aggrava in meno di 15 minuti dall’assunzione della posizione eretta e migliora o scompare entro 15 minuti dall’assunzione della posizione clinostatica, anche se con il tempo questa caratteristica si può attenuare o scomparire. Il dolore è gravativo, meno frequentemente pulsante, localizzato in sede frontale, occipitale o diffuso, di intensità severa, non migliora con gli analgesici, tende a peggiorare scuotendo la testa, comprimendo le giugulari o con la manovra di Valsalva. La cefalea, che solitamente è l’unico sintomo, può essere associata a dolore cervicale o interscapolare, a rigidità nucale, ad acufeni o ipoacusia, a nausea, vomito e fotofobia. Raramente è presente ipoestesia facciale, galattorrea, alterazioni dello stato di coscienza, atassia, parkinsonismo, demenza frontotemporale, encefalopatia e radicolopatia cervicale. Quando è dovuta alla rachicentesi, compare entro 5 giorni dall’esecuzione della puntura lombare e scompare entro 1 settimana dall’esordio (entro 48 ore se è stato messo in atto un provvedimento per bloccare la perdita di LCR) [9].
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Patogenesi della cefalea Affinché si realizzi la cefalea posturale è necessaria, più che una diminuzione della pressione liquorale, che a volte può essere assente, una diminuzione del volume totale del LCR (circa il 10%). La diminuzione del volume totale del LCR determinerebbe per compenso, secondo la regola di Monroe-Kellie (il volume del LCR e il volume ematico intracranico sono inversamente correlati), una dilatazione dei vasi venosi cerebrali la quale, insieme all’aumentata trazione delle strutture di sostegno del cervello dovuta all’assunzione della stazione eretta, determinerebbero l’attivazione dei recettori per il dolore [10].
Esame obiettivo neurologico e indagini strumentali L’esame neurologico è solitamente negativo; tuttavia, si possono osservare transitori deficit unilaterali o bilaterali di alcuni nervi cranici (II, III, IV, VI e VII), emianopsia binasale, offuscamento visivo e diplopia. La rachicentesi evidenzia solitamente una pressione liquorale <60-70 mm H2O (<40 mm H2O nel 46% dei pazienti); tuttavia, sono stati descritti casi con normale pressione liquorale. L’esame chimico-fisico del LCR può evidenziare pleiocitosi e/o iperproteinorrachia. Tra le tecniche di neuroimaging, l’avvento della RM cerebrale ha contribuito in modo significativo all’identificazione di nuovi casi di IL, grazie alla presenza della caratteristica captazione pachimeningea diffusa e dell’assunzione di contrasto dopo somministrazione di gadolinio, con risparmio delle leptomeningi; la captazione coinvolge sia le strutture sovratentoriali che quelle infratentoriali. Possono essere presenti anche la dislocazione caudale dell’encefalo con erniazione delle tonsille cerebellari (Arnold-Chiari tipo I), la riduzione delle dimensioni dei ventricoli, l’appiattimento della base del ponte, la discesa del tronco encefalico e l’incurvatura del chiasma ottico sopra la ghiandola pituitaria. La RM spinale può evidenziare un ispessimento meningeo, la distensione delle vene epidurali, una raccolta subdurale o extradurale di LCR e cisti perineurali (cisti di Tarlov). Spesso le alterazioni descritte con la RM tendono a scomparire insieme al miglioramento della cefalea posturale. I dati emersi dalla letteratura nell’ultimo decennio, grazie all’avvento della RM, hanno permesso ad alcuni Autori di ipotizzare quattro varianti di IL: 1. aspetti clinici e radiologici tipici con pressione liquorale nella norma; 2. aspetti clinici e radiologici tipici con ipotensione liquorale; 3. ipotensione liquorale e caratteristiche cliniche tipiche senza alterazioni al neuroimaging; 4. assenza di cefalea nonostante i tipici aspetti radiologici e l’ipotensione liquorale. Una volta posta diagnosi di IL, alcune tecniche permettono di evidenziare l’eventuale sede della perdita di LCR. La cisternografia con radioisotopi, che prevede l’iniezione di Indium-111 a livello dello spazio subaracnoideo spinale, può evidenziare una fuoriuscita del tracciante mediante segni diretti (accumulo di radioattività fuori dallo spazio subaracnoideo) e segni indiretti (precoce scomparsa del radionucleotide dagli spazi subaracnoidei e precoce accumulo a livello renale e vescicale). La mielo-TC e la cisterno-TC sono considerate le metodiche più sensibili per evidenziare il sito di perdita del LCR [11].
Prevenzione della cefalea post-rachicentesi Esistono alcune raccomandazioni dell’American Academy of Neurology per ridurre l’incidenza della cefalea che segue la rachicentesi:
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1. minore è il diametro dell’ago utilizzato, minore è la frequenza della cefalea; 2. la superficie tagliente dell’ago dovrebbe essere posta parallelamente alla direzione delle fibre durali; 3. il riposizionamento del mandrino prima dell’estrazione dell’ago riduce l’incidenza della cefalea; 4. l’uso di aghi privi di una superficie tagliente riduce l’incidenza della cefalea; 5. non vi sono dati univoci che il tempo in cui il soggetto mantiene la posizione clinostatica dopo la procedura influenzi l’incidenza della cefalea; 6. non vi sono prove che l’apporto di liquidi dopo la procedura riduca l’incidenza della cefalea [12].
Terapia Nella maggior parte dei pazienti la cefalea da IL presenta una remissione spontanea. Sono stati effettuati molti tentativi terapeutici, senza tuttavia individuare un approccio standard e comunemente condiviso. Tra gli interventi non invasivi è indicato il riposo a letto, la fasciatura addominale e l’utilizzo di teofillina o caffeina che esercitano un effetto di vasocostrizione sulle arterie intracerebrali. La caffeina può essere utilizzata per via endovenosa sotto forma di benzoato sodico (500 mg seguiti dopo due ore da una seconda dose, con un’efficacia in circa il 75% dei casi) o per os (300 mg, con un’efficacia in circa il 70% dei casi). L’utilizzo di cortisonici e/o l’idratazione forzata non si sono rivelati efficaci. In caso di mancata risposta alla terapia non invasiva, il trattamento di prima scelta è rappresentato dal Blood Patch, che in circa il 90% dei pazienti determina una remissione della sintomatologia. Si effettua attraverso l’infusione di 10-20 ml di sangue autologo nello spazio epidurale a livello del sito di perdita liquorale o a livello L2-L3 quando non è possibile individuare il punto di fuoriuscita del LCR. Il meccanismo d’azione sarebbe duplice: 1) la compressione del sacco durale che determinerebbe un effetto immediato mediante l’aumento della pressione liquorale; 2) il tamponamento gelatinoso della breccia durale mediante deposizione di fibrina e attivazione dei fibroblasti, che normalmente richiede tre settimane per essere completato. Nella metà dei casi è sufficiente una sola infusione, mentre in alcuni pazienti sono necessarie infusioni multiple per ottenere la remissione completa della cefalea. Nei pazienti che non rispondono alla terapia con Blood Patch, si può ricorrere all’infusione epidurale salina, che sembra produrre risultati migliori nei casi in cui la perdita di LCR non è evidenziata. Si effettua posizionando un catetere epidurale a livello lombare L2-L3 con infusione di soluzione salina ad una velocità di 20 ml/ora per circa 72 ore. Infine, solo in casi ben selezionati, nei quali sono falliti tutti i tentativi terapeutici ed è stato identificato il sito della perdita liquorale, può essere presa in considerazione la possibilità di un intervento chirurgico [11].
Cefalea attribuita a patologie infiammatorie non infettive Cefalea attribuita a neurosarcoidosi La neurosarcoidosi colpisce primariamente le leptomeningi della base cranica con coinvolgimento dei nervi cranici, ma qualsiasi regione può essere interessata, dando origine ad un ampio range di manifestazioni neurologiche. La patologia è caratterizzata dalla presenza di granulomi formati da cellule epitelioidi e da cellule giganti multinucleate (cellule di Langhans) circondate da un anello di linfociti, senza sviluppo di caseificazione. La malattia sembra avere una genesi disimmune
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ed è stata ipotizzata una predisposizione genetica. Le manifestazioni neurologiche occorrono nel 5-6% dei pazienti con sarcoidosi sistemica (ne costituiscono la modalità di presentazione nel 48%), ma il 97% dei pazienti con neurosarcoidosi ha manifestazioni sistemiche di sarcoidosi. La sarcoidosi cerebrale senza manifestazioni sistemiche è rara benché riportata in singoli casi. Si possono considerare le seguenti sindromi principali: • la forma più comune è la leptomeningite granulomatosa a prevalente interessamento della base cranica (meningite basale granulomatosa asettica). Le manifestazioni cliniche sono legate al coinvolgimento dei nervi cranici, allo sviluppo di idrocefalo da ostruzione delle vie liquorali e/o danno a livello dei villi aracnoidei. I sintomi principali sono cefalea, torpore, vomito, segni di irritazione meningea, papilla da stasi; • l’interessamento della regione ipotalamo-ipofisaria si manifesta clinicamente con diabete insipido, insufficienza ipofisaria, disturbi del ritmo sonno-veglia e del comportamento alimentare; • lo sviluppo di granulomi multipli cerebrali o di una lesione solitaria si manifesta con crisi epilettiche (20%), demenza, deficit di memoria, cambiamenti di personalità e sintomi simili allo sviluppo di neoplasie cerebrali; • l’interessamento dei nervi periferici è frequente (15%), sotto forma di mononeurite multipla o polineuropatia subacuta sensitivo-motoria; • interessamento dei nervi cranici tra cui il VII (50%, anche ricorrente e spesso secondario a lesioni della parotide nell’ambito della sindrome di Heerfordt), l’VIII e il II (38%, secondario alla meningite basilare o primitivo). Da quanto esposto, le sindromi cefalalgiche che possono occorrere in corso di tale patologia non possono avere caratteri di specificità e anche tra i criteri diagnostici della ICHD-II non compaiono caratteristiche particolari; differenti forme di cefalea (da sindrome meningitica, da ipertensione endocranica, da lesioni granulomatose focali) possono manifestarsi in rapporto al diverso quadro clinico. In casi isolati sono state descritte forme di tipo francamente emicranico o suggestive di sindrome del seno cavernoso [13].
Altre La cefalea può essere causata da altre condizioni patologiche infiammatorie non infettive e nella ICHD-II si fa riferimento alle meningiti asettiche causate da farmaci (iniezione intratecale o insufflazione di ibuprofene, immunoglobuline, penicillina e trimetoprim), all’encefalomielite acuta disseminata, al LES, alla malattia di Behçet, alla sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi e all’ipofisite linfocitica. Nel commento a queste forme viene precisato che la cefalea può essere presente, ma solitamente non rappresenta il sintomo principale di presentazione della patologia.
Cefalea attribuita a neoplasie intracraniche Epidemiologia I dati della letteratura sono piuttosto discordanti circa la frequenza della cefalea nei pazienti con neoplasia del sistema nervoso centrale (SNC): le stime variano, nelle diverse casistiche, dal 36% all’80%, ma i dati risentono probabilmente dei risultati degli studi compiuti prima dell’avvento
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delle indagini neuroradiologiche, quando la diagnosi veniva formulata in fasi più avanzate. In uno studio prospettico condotto a New York da Forsyth et al tra il 1991 e il 1992 [14], in un gruppo di 111 soggetti con neoplasia cerebrale, la cefalea era presente nel 48% circa dei pazienti, sia con tumori encefalici primitivi che con lesioni metastatiche. Solo nell’8% dei casi, però, la cefalea è l’unico e il primo sintomo di presentazione di una neoplasia cerebrale, in assenza di segni neurologici [15]. La sintomatologia algica del capo è più frequente nei bambini (69%), probabilmente per la maggiore ricorrenza di neoplasie nella fossa cranica posteriore. La cefalea è più rappresentata nelle forme neoplastiche che hanno le seguenti caratteristiche: rapido accrescimento, localizzazione vicino alle strutture della base cranica, in quanto dotate di fibre nocicettive, determinano un’ostruzione nella dinamica liquorale. La cefalea è presente nel 90% dei medulloblastomi e nell’83% dei carcinomi nasofaringei.
Caratteristiche cliniche della cefalea La cefalea considerata “tipica” nelle neoplasie cerebrali (severa, peggiore al mattino, associata a nausea e vomito), è presente in meno del 20% dei pazienti. Nel 77% dei casi è stata descritta una forma che rispetta i criteri diagnostici per la cefalea di tipo tensivo, nel 9% si tratta di una cefalea simile all’emicrania e nel 14% dei soggetti non è classificabile. La regione più frequentemente interessata è quella frontale (68%) ed è per lo più associata a neoplasie sopratentoriali e con aumento della pressione endocranica. La cefalea è unilaterale nel 25-30% dei soggetti e in tutti questi casi è omolaterale al lato della lesione; il dolore bilaterale è comunemente associato a lesioni bilaterali, della linea mediana e a ipertensione endocranica. La sintomatologia algica è gravativa o costrittiva e nella maggior parte dei casi l’intensità è media o severa; la cefalea è descritta come il sintomo principale dal 45% dei soggetti. Il 36% dei pazienti riferisce una maggiore intensità al mattino, il 17% di notte, il 13% durante il giorno e nel 34% non c’è un pattern preciso; solo nel 23% dei pazienti l’intensità peggiora durante la manovra di Valsalva. L’andamento temporale è intermittente nei 2/3 dei casi circa e il 42% riporta una riposta positiva ai comuni analgesici. La nausea e il vomito sono riportati dal 48% dei soggetti e, con i disturbi visivi transitori, il dolore severo e la resistenza ai comuni analgesici, costituiscono i sintomi caratteristici delle forme complicate da ipertensione endocranica. Le neoplasie che non comportano ad un aumento della pressione intracranica si associano ad una cefalea solitamente meno intensa, intermittente, che meno frequentemente interferisce con il sonno e non è associata a nausea, vomito, atassia e papilledema [14, 16]. Dal punto di vista clinico, nella ICHD-II la cefalea attribuita a ipertensione endocranica o idrocefalo secondari ad una neoplasia cerebrale (7.4.1) è diffusa, non pulsante e associata ad almeno una tra le seguenti caratteristiche: presenza di nausea e/o vomito, peggiorata dall’attività fisica e/o da manovra di Valsalva, andamento accessuale. La cefalea determinata direttamente dalla neoplasia (7.4.2) soddisfa almeno uno dei seguenti criteri: 1. andamento progressivo; 2. localizzata; 3. peggiore al mattino; 4. peggiorata dalla tosse o dalla flessione anteriore del capo. In ogni caso deve essere presente una lesione evidenziata con la TC o con la RM cerebrale, deve essere riscontrata una stretta relazione temporale tra la comparsa della cefalea e lo sviluppo della neoplasia e la cefalea deve migliorare entro 7 giorni dalla rimozione o dalla riduzione della massa tumorale. La classificazione prevede anche la cefalea associata a carcinomatosi meningea (7.4.3) e ad iposecrezione o ipersecrezione ipotalamica o ipofisaria (7.4.4).
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Fattori associati alla presenza di cefalea In uno studio prospettico è emerso che i fattori più frequentemente associati alla presenza di cefalea in pazienti con un tumore intracranico sono: l’ipertensione endocranica, le maggiori dimensioni della lesione, la maggiore entità della dislocazione delle strutture circostanti e dell’edema perilesionale, la presenza di una cefalea primaria precedente la comparsa della neoplasia. I soggetti affetti da una cefalea primaria più frequentemente manifestano questo sintomo in presenza di una lesione espansiva cerebrale e spesso le caratteristiche cliniche non sono differenti dalla forma idiopatica preesistente, sebbene il dolore sia solitamente di maggiore intensità, più frequente e associato ad alterazioni neurologiche [14-16].
Patogenesi I meccanismi implicati nella genesi della cefalea sono probabilmente diversi, concomitanti e non sempre facilmente individuabili. L’ipotesi più accreditata è che il dolore sia determinato dalla stimolazione delle strutture intracraniche innervate da fibre nocicettive (arterie e dura madre della base cranica, arterie durali, seni venosi e vene tributarie, fibre intracraniche del nervo trigemino, glossofaringeo, vago e delle radici cervicali superiori). La neoplasia può sollecitare le strutture implicate direttamente oppure indirettamente, attraverso la dislocazione di altre strutture cerebrali. Il solo aumento della pressione intracranica non sembra essere sufficiente per spiegare il dolore.
Diagnosi e terapia La diagnosi di cefalea da neoplasia cerebrale non è solitamente difficile, in quanto raramente si presenta come sintomo iniziale in assenza di segni e sintomi neurologici. Gli elementi che devono porre il sospetto di una lesione cerebrale sono rappresentati dall’atipia delle caratteristiche cliniche rispetto alle forme essenziali, dall’insorgenza rapida e dall’andamento progressivo di un nuovo tipo di cefalea e dalla presenza di segni neurologici. La forma di cefalea essenziale che più frequentemente pone problemi di diagnosi differenziale è quella di tipo tensivo cronico, proprio perché le sue caratteristiche possono essere vaghe e simili a quelle della cefalea da neoplasia intracranica. Nei pazienti che non soffrono di cefalea primaria, un campanello d’allarme è una cefalea severa, a carattere parossistico e di breve durata. I trattamenti elettivi sono rappresentati dalla rimozione, quando possibile, della neoplasia e dalla riduzione della pressione endocranica. Per il controllo del dolore possono essere impiegati i FANS oppure i derivati oppioidi. Gli antidepressivi triciclici possono essere utili, in particolare nelle forme di cefalea con caratteristiche tensive, mentre farmaci antiepilettici, quali carbamazepina e clonazepam, sono da prendere in considerazione nei casi di dolore con carattere nevralgico.
Cefalea attribuita a iniezione intratecale La cefalea si sviluppa entro 4 ore dopo l’iniezione intratecale del farmaco e si risolve entro 14 giorni. È una cefalea diffusa, presente in posizione supina.
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Cefalea attribuita a crisi epilettiche L’associazione tra emicrania ed epilessia è stata studiata a lungo e non è precisamente conosciuta, anche se è stato ipotizzato che possano essere coinvolti fattori genetici e ambientali che aumentano l’eccitabilità neuronale e diminuiscono la soglia di attivazione di entrambe le patologie. La natura del rapporto è complessa e sottende a diversi fenotipi clinici: a) emicrania ed epilessia possono essere manifestazioni diverse di un’unica patologia cerebrale (es. MELAS); b) è stata segnalata un’alta incidenza di emicrania in certe forme di epilessia quali l’epilessia benigna occipitale, l’epilessia rolandica benigna e l’epilessia cortico-reticolare; c) lesioni strutturali quali le malformazioni artero-venose possono presentarsi con episodi di emicrania con aura insieme a crisi epilettiche accompagnate solitamente da cefalea; d) sono state descritte crisi epilettiche che si manifestano durante o subito dopo un’aura emicranica. Il termine migralepsy è stato, infatti, utilizzato per indicare un attacco di emicrania con aura in cui una crisi epilettica si inserisce tra l’aura e la fase algica, anche se in molti casi, probabilmente, si tratta di crisi epilettiche occipitali la cui sintomatologia richiama quella dell’aura visiva emicranica. In questo gruppo sono descritte 1) l’hemicrania epilettica e 2) la cefalea post-epilettica. L’hemicrania epilettica (7.6.1) fa riferimento ad una cefalea unilaterale con caratteristiche emicraniche che si verifica come una delle manifestazioni di una crisi epilettica parziale: dura alcuni minuti, è ipsilaterale alle alterazioni epilettiche e scompare al termine della crisi comiziale. La cefalea post-epilettica (7.6.2), invece, si presenta dopo una crisi epilettica (nel 51% dei casi) e spesso non è differenziabile da un episodio di emicrania senz’aura. È stata descritta anche in forme secondarie di epilessia, ma solitamente è associata alle forme idiopatiche di epilessia occipitale in cui si sviluppa 3-15 minuti dopo la fine delle allucinazioni visive e la durata del dolore è proporzionale alla durata dei fenomeni visivi [17-19].
Cefalea attribuita a malformazione di Chiari tipo I La cefalea rappresenta una delle manifestazioni principali della malformazione di Chiari tipo I. Può essere scatenata dai colpi di tosse e da tutte quelle situazioni che inducono una manovra di Valsalva. La durata varia da alcune ore a parecchi giorni e solitamente il dolore è localizzato nella regione occipito-nucale; la cefalea può essere accompagnata da segni vestibolari (74%), segni suggestivi della presenza di siringomielia (66%), disturbi visivi transitori e segni cerebellari (50%). La presenza della malformazione deve essere confermata mediante la RM cerebrale e della cerniera cranio-cervicale e la sintomatologia algica scompare entro 3 mesi dal trattamento chirurgico, se eseguito con successo [20].
Sindrome “cefalea con deficit neurologici transitori e linfocitosi liquorale” Si tratta di una rara sindrome descritta chiaramente per la prima volta nel 1980 e ad oggi sono stati riportati circa 100 casi. Colpisce più frequentemente i maschi durante l’età adulta (mediamente 30 anni) e alcune settimane prima dell’esordio della cefalea 1/3 dei pazienti riporta
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sintomi simil-influenzali. Gli episodi si ripetono per non più di tre mesi e il numero delle crisi è variabile da 1 a 12. La cefalea è solitamente di intensità medio-severa, pulsante o gravativa, bilaterale nel 60% dei casi, accompagnata da nausea o vomito nel 50% dei soggetti, della durata da 1 ora a 1 settimana. Il dolore è accompagnato da deficit neurologici transitori che nell’80% dei casi sono riconducibili ad alterazioni di un solo emisfero, più frequentemente quello sinistro. La durata dei deficit varia da 5 minuti a 3 giorni e questi comprendono alterazioni sensitive (ipoestesia), motorie (ipostenia) e del linguaggio (afasia motoria), mentre le alterazioni visive sono rare. In tutti i casi è stata descritta una pleiocitosi liquorale (10-760 cellule/mm3) con una netta predominanza linfocitica ed è riportata iperproteinorrachia nel 90% dei casi (94 mg/dl in media). Gli altri esami umorali, liquorali, colturali e le indagini strumentali sono normali [21].
Cefalea attribuita ad altri disordini intracranici non vascolari Si tratta di una cefalea che può essere quotidiana, diffusa e aggravata dalla manovra di Valsalva. C’è evidenza di un disordine intracranico non vascolare, diverso da quelli elencati nelle cefalee precedenti. La cefalea si sviluppa in stretta relazione temporale con il disordine intracranico e si risolve entro tre mesi, dopo terapia medica o chirurgica dello stesso.
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Cefalea attribuita a disordini intracranici non vascolari
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Capitolo 19
Cefalea attribuita a infezioni F. Frediani, M.C. Narbone
Nella seconda edizione della Classificazione Internazionale dei Disordini Cefalalgici (International Classification of Headache Disorders: ICHD-II), le cefalee secondarie a un processo infettivo costituiscono il gruppo 9, denominato appunto: “Cefalea attribuita ad infezione” (Tab. 19.1). Nella precedente classificazione, invece, il capitolo 9 era dedicato alle sole infezioni non craniche, mentre le infezioni craniche trovavano posto nel capitolo 7 (“Cefalea associata a patologia endocranica non vascolare”, al punto 7.3), dove oggi rimangono le forme infiammatorie non infettive. Questa riorganizzazione nosografica rende più logiche e coerenti le distinzioni e i successivi approfondimenti operati con la nuova classificazione. Nel commento generale al gruppo 9 si legge: “la diagnosi di cefalea secondaria attribuita a infezione va posta quando una nuova forma di cefalea (o l’aggravamento di una cefalea preesistente) compare in chiara relazione temporale con un’infezione … e scompare spontaneamente o dopo trattamento efficace dell’infezione stessa”. Tale definizione, di per sé chiara ed esaustiva, ci consente una diagnosi certa ed univoca nel momento in cui un determinato quadro clinico è supportato dalla dimostrazione strumentale della presenza di un’infezione. Nella pratica clinica, però, l’accertamento strumentale rappresenta una tappa successiva (peraltro utile se mirata) di un iter diagnostico che inizia sempre con uno o più sintomi che consentono solo una diagnosi di sospetto. Nel caso specifico delle infezioni intracraniche, la cefalea rappresenta uno dei sintomi più frequenti e, molto spesso, il sintomo principale per il quale il paziente giunge alla nostra osservazione.
Tabella 19.1
Classificazione delle cefalee secondarie ad infezione (ICHD-II, 2004)
9. Cefalea attribuita ad infezione 9.1 Cefalea attribuita ad infezione intracranica 9.1.1 Cefalea attribuita a meningite batterica 9.1.2 Cefalea attribuita a meningite linfocitaria 9.1.3 Cefalea attribuita ad encefalite 9.1.4 Cefalea attribuita ad ascesso cerebrale 9.1.5 Cefalea attribuita ad empiema subdurale 9.2 Cefalea attribuita ad infezione sistemica 9.2.1 Cefalea attribuita ad infezione sistemica batterica 9.2.2 Cefalea attribuita ad infezione sistemica virale 9.2.3 Cefalea attribuita ad altra infezione sistemica 9.3 Cefalea attribuita ad HIV/AIDS 9.4 Cefalea cronica post-infettiva 9.4.1 Cefalea cronica post-meningite batterica
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È importante, allora, vedere se la cefalea da infezione intracranica ha delle caratteristiche peculiari tali da indurci, di per sé, al sospetto diagnostico. A tale proposito nella Tabella 19.2 sono riportati i criteri diagnostici delle cefalee attribuite a infezioni intracraniche (ICHD-II, 2004 – punto 9.1). In accordo al criterio A dei 5 sottotipi, la cefalea da infezione intracranica può essere diffusa, bilaterale o unilaterale, di intensità rapidamente o gradualmente crescente, accompagnata o meno da nausea, foto e/o fonofobia; non ha durata, frequenza o pattern temporale tipici. Questo tipo di cefalea non è pertanto, di per sé, patognomonico. Tale assunto, peraltro comune alla maggior parte delle cefalee secondarie, implica che una diagnosi di sospetto di cefalea da infezione intracranica vada formulata quando una nuova forma di cefalea, o l’aggravamento di una cefalea preesistente, si verifica in un paziente febbrile e/o con una recente storia d’infezione. La presenza di sintomi e/o segni di interessamento del sistema nervoso è ovviamente di grande ausilio alla diagnosi, ma la loro assenza non esclude la presenza di un’infezione intracranica. La conferma diagnostica sarà la risultante di un iter strumentale suggerito dal tipo di infezione intracranica sospettata. Dopo questa introduzione di ordine generale, tratteremo adesso in particolare la meningite batterica e l’ascesso cerebrale, la prima come esempio conclamato di patologia infettiva delle leptomeningi, il secondo come esempio subdolo di patologia infettiva dell’encefalo.
Cefalea attribuita a meningite batterica acuta I criteri diagnostici della cefalea attribuita a meningite batterica sono riportati nella Tabella 19.2 (codice IHS 9.1.1). Se confrontiamo tali criteri con quelli proposti per la meningite linfocitaria, non è facilmente comprensibile la modalità con cui essi siano stati identificati. Al punto A della meningite batterica è descritta solo una cefalea con caratteristiche aspecifiche laddove, allo stesso punto della meningite linfocitaria, accanto alla cefalea, sono riportati due segni fondamentali ai fini diagnostici: la febbre e la rigidità nucale. Alla luce del quadro clinico di una meningite batterica acuta una descrizione di questo tipo può risultare fuorviante.
Quadro clinico Il quadro clinico della meningite batterica merita di essere descritto separatamente in due diverse epoche della vita: quella degli adulti e dei bambini e quella dei neonati e dei lattanti.
Adulti e bambini Il quadro clinico nella sua forma conclamata è connotato da una triade caratteristica: febbre, cefalea, segni meningei. La febbre, sintomo costante, è in genere elevata e precede o accompagna l’esordio brusco di una cefalea severa con vomito e fotofobia. La cefalea, di tipo gravativo, diffusa o localizzata alla fronte bilateralmente, usualmente irradiata al collo, è presente nell’80-90% dei casi; il vomito, di solito indipendente dall’assunzione di cibo, in oltre l’80% e la fotofobia nel 20-30% dei casi.
Cefalea attribuita a infezioni Tabella 19.2
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Cefalea attribuita ad infezione intracranica: criteri diagnostici, ICHD-II
9.1.1 Cefalea attribuita a meningite batterica
9.1.2 Cefalea attribuita a meningite linfocitaria
9.1.3 Cefalea attribuita ad encefalite
A. Cefalea con almeno una delle seguenti caratteristiche e soddisfacente i criteri C e D: 1. dolore diffuso 2. intensità crescente fino a divenire severa 3. associata a nausea, fotofobia e/o fonofobia
A Cefalea con almeno una delle seguenti caratteristiche e soddisfacente i criteri C e D: 1. insorgenza acuta 2. intensità severa 3.associata a rigidità nucale, febbre, nausea, fotofobia e/o fonofobia
A. Cefalea con almeno una delle seguenti caratteristiche e soddisfacente i criteri C e D: 1. dolore diffuso 2. intensità crescente fino a divenire severa 3. associata a nausea, fotofobia o fotofobia
B. Evidenza di meningite batterica all’esame del liquido cefalo-rachidiano
B. L’esame del liquido cefalo-rachidiano mostra pleiocitosi linfocitaria, moderato aumento delle proteine e glucosio normale
C. La cefalea si sviluppa durante la meningite
C. La cefalea si sviluppa in stretta relazione temporale alla meningite
D. Uno o l’altro dei seguenti punti: 1. la cefalea si risolve entro tre mesi dalla risoluzione della meningite 2. la cefalea persiste ma non sono ancora trascorsi tre mesi dalla risoluzione della meningite
D. La cefalea si risolve entro tre mesi dopo il trattamento efficace o la spontanea remissione dell’infezione
9.1.4 Cefalea attribuita ad ascesso cerebrale
A. Cefalea con almeno una delle seguenti caratteristiche e soddisfacente i criteri C e D: 1. bilaterale 2. dolore costante 3. intensità gradualmente crescente fino a divenire moderata o severa 4. aggravata dallo sforzo 5. accompagnata da nausea B. Sintomi e segni B. Evidenza al neurologici di neuroimaging e/o encefalite acuta alle indagini di e diagnosi laboratorio di confermata all’EEG, ascesso cerebrale esame del liquido cefalo-rachidiano, neuroimaging e/o altre indagini di laboratorio C. La cefalea si C. La cefalea si sviluppa durante sviluppa durante l’encefalite l’infezione attiva
D. La cefalea si risolve entro tre mesi dopo il trattamento efficace o la spontanea remissione dell’infezione
D. La cefalea si risolve entro tre mesi dalla risoluzione dell’ascesso
9.1.5 Cefalea attribuita ad empiema subdurale A. Cefalea con almeno una delle seguenti caratteristiche e soddisfacente i criteri C e D: 1. unilaterale o molto più intensa da un lato 2. associata a dolorabilità del cranio 3. accompagnata a febbre 4. accompagnata da rigidità del collo B. Evidenza al neuroimaging e/o alle indagini di laboratorio dell’empiema subdurale
C. La cefalea si sviluppa durante l’infezione attiva ed è localizzata o prevalente nella sede dell’empiema D. La cefalea si risolve entro tre mesi dopo il trattamento efficace dell’empiema
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I segni meningei, completamento chiave del sospetto diagnostico, non sono sempre conclamati nelle fasi precoci della malattia. In questi casi, o quando l’esordio è rappresentato da uno stato confusionale febbrile, la diagnosi può risultare difficile. La distribuzione percentuale dei segni meningei è stata così quantificata: rigidità nucale >80%, segno di Brudzinski 50%, segno di Laségue 50%. Altri sintomi frequenti sono l’alterazione dello stato di coscienza (>80%), dal sopore fino al coma, e le convulsioni generalizzate (20-30%). Sintomi e/o segni di lesioni cerebrali focali sono rari, per lo più tardivi nel decorso clinico, e sono espressione del secondario coinvolgimento del parenchima cerebrale (meningoencefalite).
Neonati e lattanti La diagnosi di meningite batterica pone problemi particolari in questa epoca della vita, per il venir meno del sintomo cefalea e la frequente assenza, soprattutto nelle fasi precoci, dei segni e sintomi legati all’interessamento meningeo. Un segno importante, quando presente, è la prominenza della fontanella bregmatica; in assenza anche di questa, il quadro clinico è più spesso rappresentato da febbre, sonnolenza, irritabilità, vomito, convulsioni. Nell’anamnesi si trova spesso una recente infezione materna; il sesso maschile è quello più frequentemente colpito.
Fisiopatogenesi della cefalea Le manifestazioni algiche della meningite batterica sono la risultante di una interazione tra infiammazione e trasmissione del dolore. L’agente patogeno, raggiunto lo spazio subaracnoideo, provoca un’immediata reazione infiammatoria delle leptomeningi e del liquor; dal momento che lo spazio subaracnoideo circonda in modo continuo il cervello, il midollo spinale e i nervi ottici, la meningite è sempre cerebrospinale. L’infiammazione si associa alla liberazione in loco di sostanze (quali bradichinina, prostaglandine, ossido nitrico, endotelina-1) che, attivando direttamente i nocicettori meningei, provocano una sindrome dolorosa che si traduce clinicamente in una cefalea intensa e precoce e in una reazione ipertonico-antalgica. Accanto a questo meccanismo diretto e immediato, altri fattori entrano in gioco nel determinare e sostenere la cefalea nella meningite batterica; alcuni sono legati alla eterogeneità di azione degli stessi mediatori dell’infiammazione, altri al concomitante processo febbrile. È noto, infatti, che prostaglandine (PGE2) e ossido nitrico sono implicati nella genesi delle cefalee vascolari; la febbre di per sé si associa alla liberazione di sostanze (quali interleuchina-1 e interferone) in grado di indurre cefalea con molteplici meccanismi. La cefalea, infine, può anche essere secondaria a ipertensione intracranica quando l’accumulo dell’essudato purulento nello spazio subaracnoideo, nonché l’edema infiammatorio, creano un ostacolo alla circolazione liquorale.
Etiopatogenesi La meningite batterica acuta è un’infiammazione purulenta delle leptomeningi, che può essere primaria (da diretta localizzazione dell’agente patogeno a livello meningeo) o secondaria (a infezioni localizzate in altre parti del corpo, a fratture craniche, a procedure neurochirurgiche, anestesiologiche, diagnostiche, a difetti neuroectodermici).
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Sebbene qualsiasi batterio possa causare una meningite, gli agenti patogeni più frequentemente implicati sono l’Haemophilus influenzae, la Neisseria meningitidis e lo Streptococcus pneumoniae. Seguono, in ordine di frequenza, la Listeria monocytogenes, lo Staphylococcus aureus, altri streptococchi e alcuni batteri gram-, quali Escherichia coli e Klebsiella. La via solitamente seguita dai microrganismi per raggiungere le meningi è quella plasmatica.
Dati epidemiologici Le tre più frequenti forme di meningite batterica (influenzale, meningococcica e pneumococcica) sono universalmente diffuse, meno frequenti in estate e colpiscono prevalentemente il sesso maschile. La distribuzione della meningite batterica nella popolazione generale varia in rapporto all’agente patogeno. Nel 2001, in Italia, il tasso di incidenza annuale (per 1.000.000 di abitanti) era così distribuito: Streptococcus pneumoniae 5,2; Neisseria meningitidis 4,7; Haemophilus influenzae 1,3. Negli ultimi anni si sono verificate alcune modifiche importanti nell’epidemiologia della meningite batterica, rappresentate dalla riduzione significativa dei casi di meningite da Haemophilus influenzae, grazie alla diffusione della vaccinazione, e dall’aumento significativo dei casi di meningite nosocomiale, legato alla diffusione delle procedure neurochirurgiche.
Diagnosi L’esecuzione della puntura lombare rappresenta la tappa fondamentale dell’iter diagnostico-strumentale della meningite batterica. Naturalmente, l’esame deve essere eseguito ogni qualvolta vi sia un sospetto concreto di possibile meningite. Quando un paziente si presenta con cefalea di recente insorgenza, associata a febbre, non spiegabile da processi infiammatori documentati di altri organi, o a leucocitosi o ad alterazioni del sensorio, eseguire una rachicentesi diventa imperativo. Solitamente l’esame del liquor mostra aumento della pressione (>200 mmH2O), pleiocitosi neutrofila (il numero dei leucociti varia da 100 a 100.000/mm3, ma in genere è compreso tra 1.000 e 10.000), aumento delle proteine (>45 mg/100 ml e per lo più compreso tra 100 e 500 mg/100 ml), diminuzione del glucosio (<40 mg/100 ml); l’aspetto del liquor è per lo più torbido, il colore può essere giallo-verdastro. L’esame colturale del liquor, positivo nel 70-90% dei casi, consente l’identificazione dell’agente etiologico. Nei casi in cui l’esame colturale è negativo, il quesito etiologico può essere risolto utilizzando particolari tecniche di laboratorio (quali RIA e PCR). La diagnosi differenziale interessa principalmente altre forme di meningite (di natura infettiva e non: meningite virale, tubercolare, micotica, neoplastica) e l’emorragia subaracnoidea.
Terapia La meningite batterica acuta è un’emergenza medica e, come tale, richiede un immediato trattamento terapeutico. L’antibiotico-terapia, che rappresenta il presidio terapeutico fondamentale, va avviata seguendo delle linee guida empiriche ancor prima che i risultati delle colture liquorali e/o ematiche consentano l’identificazione dell’agente patogeno e quindi una terapia mirata.
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Il trattamento va protratto per un periodo di 10-21 giorni, a dosi piene e per lo più per via endovenosa. Studi recenti hanno rivalutato l’uso precoce del desametasone nelle meningiti infantili; non esistono, invece, dati relativi all’uso dei corticosteroidi nei neonati e negli adulti, anche se la maggior parte degli Autori sono favorevoli al loro uso in qualsiasi fascia di età. Il trattamento della cefalea è ovviamente quello della patologia che la sottende; i corticosteroidi e il mannitolo hanno un’indicazione elettiva in presenza di grave edema cerebrale (pressione liquorale iniziale >400 mmH2O) e/o di ipertensione endocranica; il trattamento sintomatico si avvale dell’uso dei FANS.
Prognosi Il tasso di mortalità della meningite batterica acuta si mantiene elevato, nonostante il trattamento, risultando pari al 5-15% nei casi di meningite meningococcica e da Haemophilus influenzae e al 15-30% nei casi di meningite pneumococcica. L’infezione meningococcica è quella più frequentemente responsabile di forme fulminanti ma, una volta guarita, lascia raramente delle sequele neurologiche. Esiti neurologici sono presenti, invece, nel 25% dei bambini colpiti da meningite da Haemophilus influenzae e nel 30% dei bambini e degli adulti con meningite pneumococcica. La sordità rappresenta una sequela molto frequente in età pediatrica; le altre sequele più frequenti, in tutte le fasce d’età, sono rappresentate da altri deficit neurologici focali e dalle crisi convulsive. Una cefalea persistente oltre i 3 mesi dalla risoluzione dell’infezione è stata, inoltre, descritta nel 32% dei pazienti, così come codificato al punto 9.4.1 della classificazione ICHD-II.
Cefalea attribuita ad ascesso cerebrale I criteri diagnostici della cefalea attribuita ad ascesso cerebrale sono riportati nella Tabella 19.2. Un dolore costante, di intensità gradualmente crescente fino a divenire moderato-severa, peggiorato dallo sforzo, accompagnato da nausea, pur non peculiare, riproduce bene le caratteristiche della cefalea da ascesso cerebrale; ciò che invece può risultare fuorviante è definire bilaterale una cefalea che è molto spesso unilaterale e, come tale, anche indicativa della sede della lesione.
Quadro clinico La cefalea rappresenta il più frequente sintomo di esordio di un ascesso cerebrale seguita, in ordine di frequenza, da alterazioni dello stato di coscienza, crisi epilettiche focali o generalizzate, deficit neurologici focali. La distribuzione percentuale di tali sintomi e/o segni durante il decorso clinico è stata così quantificata: cefalea 75%, alterazioni della coscienza 50%, deficit neurologici focali 50%, crisi comiziali 30%. La febbre è assente nel 50% dei casi; la rigidità nucale si riscontra solo nel 25% dei casi. La cefalea è raramente diffusa, più spesso localizzata, bilaterale o unilaterale. Le caratteristiche della cefalea, nonché dei sintomi e/o segni di interessamento parenchimale,
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dipendono dalla sede e dal numero, singolo (75% dei casi) o multiplo, delle lesioni si vengono così a configurare i seguenti quadri clinici, dei quali descriviamo gli aspetti più frequenti. Ascesso frontale: cefalea frontale, bilaterale o unilaterale, sonnolenza, compromissione delle funzioni mentali, emiparesi, disturbi motori del linguaggio, crisi epilettiche focali motorie. Ascesso temporale: cefalea temporale o frontotemporale omolaterale, afasia nominum, quadrantanopsia superiore omonima, crisi epilettiche focali di tipo temporale. Ascesso parietale: cefalea omolaterale, emiparesi e/o emianestesia, crisi epilettiche focali sensitive, motorie e/o sensitivo-motorie. Ascesso occipitale: cefalea occipitale unilaterale o bilaterale, emianopsia laterale omonima, crisi epilettiche focali visive. Ascesso cerebellare: cefalea retroauricolare o suboccipitale, omolaterale o bilaterale, nistagmo, atassia. La sindrome da ipertensione endocranica e la presenza di rigidità nucale sono più frequenti negli ascessi cerebellari rispetto a quelli cerebrali. Quando gli ascessi sono multipli, il quadro clinico dipende dal numero e dalla localizzazione degli stessi, ma più spesso si configura come un’encefalopatia diffusa; in questo caso la cefalea si sviluppa lentamente e insidiosamente e si presenta come una cefalea diffusa gravativa. Non sono riportati in letteratura dati inerenti la frequenza della cefalea nelle differenti localizzazioni dell’ascesso cerebrale. Da quanto detto appare chiaro che, in assenza di febbre, il quadro clinico di un ascesso cerebrale è quello di un processo espansivo endocranico.
Fisiopatogenesi della cefalea La cefalea nell’ascesso encefalico è la risultante della coesistenza di un processo infettivo e di una lesione occupante spazio. Il primo determina la cefalea attraverso un’ irritazione infiammatoria delle meningi; la seconda determina cefalea con un meccanismo diretto e/o indiretto di compressione e trazione delle strutture algogene del capo, ad opera della massa in se stessa o dell’ipertensione endocranica eventualmente presente.
Etiopatogenesi L’ascesso cerebrale è una raccolta suppurativa del parenchima, secondaria nel 70% dei casi a un focolaio infettivo situato in altre parti del corpo; nel 10% dei casi l’infezione proviene direttamente dall’esterno come conseguenza di fratture, ferite o interventi del cranio; nel 20% dei casi non è possibile identificare l’origine. L’infezione primaria è localizzata nel 40% dei casi nell’orecchio medio, nella mastoide o nei seni paranasali, e raggiunge l’encefalo per contiguità; nel 30% dei casi l’infezione primaria è localizzata a distanza (più spesso cuore o polmoni) e raggiunge l’encefalo per via ematica.
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Nel primo caso si ha la formazione di ascessi singoli, per lo più superficiali e sottocorticali; nel secondo caso di ascessi multipli, per lo più profondi e paraventricolari. I microrganismi più frequentemente riscontrati sono streptococchi, Bacteroides, enterobatteri, Staphylococcus aureus; nei pazienti immunodepressi Toxoplasma, miceti, Nocardia.
Dati epidemiologici Le stime più attendibili fissano l’incidenza intorno ai 4-5 casi per milione, ma essa è probabilmente più elevata, soprattutto dopo l’avvento dell’AIDS. Colpisce prevalentemente il sesso maschile, in un rapporto di circa 2:1; il picco di incidenza si colloca fra i 30 e i 45 anni.
Diagnosi La tomografia computerizzata (TC) e/o la risonanza magnetica nucleare (RMN) dell’encefalo con mezzo di contrasto rappresentano le indagini elettive per la diagnosi strumentale di ascesso cerebrale. La RMN è una metodica più sensibile, potendo positivizzarsi in una fase più precoce rispetto alla TC. Inoltre, le recenti tecniche di acquisizione, quali la RM in spettroscopia e in diffusione, consentono diagnosi differenziali sempre più precise, soprattutto nei confronti delle lesioni neoplastiche. Nella fase conclamata, alla TC e nelle sequenze T1 pesate della RMN, compare una caratteristica immagine ad anello. Esami complementari vanno considerati quelli ematici (per la ricerca di un’eventuale leucocitosi neutrofila e di un aumento di VES, PCR e altri indici di flogosi), nonché l’esecuzione di radiografie del torace, dei seni paranasali e della mastoide, l’ECG, l’ecocardiogramma trans-toracico (ETT) e/o ecocardiogramma trans-esofageo (ETE) ed emocolture ripetute. La puntura lombare, che può evidenziare un quadro liquorale simil-meningitico, non va effettuata prima dell’esecuzione delle indagini neuroradiologiche. Nel 10-20% dei casi è necessario ricorrere alla biopsia stereotassica. La diagnosi differenziale dell’ascesso cerebrale include neoplasie cerebrali primitive e metastatiche, granulomi, ematoma subdurale, infarto cerebrale, encefalite virale.
Terapia La strategia terapeutica dell’ascesso cerebrale contempla un approccio esclusivamente medico o l’associazione dell’approccio medico con alcune tecniche neurochirurgiche. Il trattamento medico si fonda sul tempestivo avvio di un antibiotico-terapia, associata a desametasone e mannitolo e.v. La durata del trattamento non dovrebbe mai essere inferiore alle 6 settimane. Se il monitoraggio neuroradiologico mostra che le dimensioni della lesione non tendono a diminuire, può essere utile un’aspirazione del pus, seguita da instillazione di antibiotici nella cavità ascessuale. L’intervento a cielo aperto di asportazione viene per lo più indicato nei casi resistenti ai precedenti trattamenti, nell’ascesso di origine traumatica, e negli ascessi a rischio di erniazione. Il trattamento della cefalea è quello della patologia che la sottende; il trattamento sintomatico si avvale dell’uso dei FANS.
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Prognosi La prognosi è peggiore se il livello di coscienza del paziente è compromesso prima dell’avvio del trattamento; nel paziente vigile, adeguatamente trattato, la mortalità è stimata intorno al 515% dei casi. Sequele neurologiche (deficit neurologici focali, crisi epilettiche, idrocefalo) si riscontrano nel 30% dei pazienti.
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Capitolo 20
Cefalea attribuita a sostanze G. Casucci
Le sostanze capaci di indurre cefalea sono numerose e per la maggior parte note da tempo. Non è invece noto il meccanismo(i) con cui l’esposizione a queste sostanze o farmaci possa causare cefalea. Analogamente, non sono noti i meccanismi delle cefalee che insorgono alla sospensione di farmaci o sostanze. L’ipotesi originaria proposta da Wolff, per la cefalea indotta da istamina, e cioè che la vasodilatazione contribuisca alla genesi del dolore, è sostenuta dall’osservazione che i farmaci più frequentemente capaci di indurre cefalea sono sostanze vasodilatanti, che non attraversano la barriera emato-encefalica. Esistono però evidenze sperimentali e cliniche a supporto della possibilità che vari farmaci e sostanze producano cefalea stimolando o le terminazioni periferiche di neuroni sensitivi primari trigeminali o strutture neurali nel sistema nervoso centrale. La prima segnalazione scientifica di una cefalea attribuita a sostanze, fu quella da tartrato di ergotamina, descritta da O’Sullivan nel 1936. Successivamente, oltre ai farmaci, anche prodotti chimici, alcool, vapori sono stati riportati quali potenziali responsabili di cefalea. La cefalea attribuita a tali sostanze non ha caratteristiche cliniche univoche, potendosi osservare un ampio spettro di forme, da simil-emicraniche a tensive, a forme difficili da definire. Più comunemente si tratta di un dolore generalizzato, continuo, gravativo, a volte pulsante, aumentato in intensità dall’aumento della quantità di sostanza assunta. Non vi sono studi epidemiologici di popolazione mirati a definire l’esatta prevalenza delle cefalee attribuite a sostanze. I dati disponibili derivano prevalentemente da studi clinici. Tuttavia, sebbene molte segnalazioni presenti in letteratura sulle cefalee indotte da farmaci o sostanze non utilizzino i criteri diagnostici vigenti (International Classification of Headache Disorders ICHD-II, 2004), il loro uso è fondamentale per provare l’associazione [1]. Come nella precedente classificazione dell’International Headache Society (IHS) del 1988, anche nell’attuale revisione, le “cefalee attribuite a sostanze o alla loro sospensione” sono comprese nel gruppo 8. Rispetto al 1988, la nuova classificazione, così come per le altre forme di cefalea secondaria, sostituisce il termine cefalea indotta con cefalea attribuita. Sono previsti 4 differenti tipologie e non più 5 come nella precedente classificazione del 1988, ognuna delle quali si articola in sottotipi specifici a seconda del tipo di sostanza coinvolta e della relazione con essa presentata (assunzione o sospensione) (Tab. 20.1). Pertanto, tre progressivi livelli classificativi possono essere identificati per queste cefalee, a seconda della modalità di esposizione (acuta, eccessiva, cronica o interrotta) (Tab. 20.2), del tipo di sostanza esposta (Tab. 20.3) o della modalità di comparsa della cefalea rispetto all’esposizione (immediata o ritardata) (Tab. 20.4). Nella nuova classificazione, nel commento generale a questo gruppo di cefalee, si legge che quando una nuova cefalea compare per la prima volta in stretta relazione temporale con l’esposizione a una sostanza, viene codificata come cefalea secondaria attribuita alla sostanza, anche se ha le caratteristiche dell’emicrania, della cefalea di tipo tensivo o della cefalea a grappolo. Ancora, quando una cefalea primaria preesistente peggiora in stretta relazione temporale con l’esposizione alla sostanza, ci sono due possibilità diagnostiche, a seconda del giudizio clinico: porre la sola diagnosi di cefalea primaria preesistente oppure effettuare la doppia diagnosi di cefa-
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Tabella 20.1 Cefalea attribuita all’uso di sostanze o alla loro sospensione 8.1
Cefalea indotta da uso o esposizione acuta a sostanze 8.1.1 Cefalea indotta da donatori di ossido nitrico (NO) 8.1.1.1 Insorgenza immediata 8.1.1.2 Insorgenza ritardata 8.1.2 Cefalea indotta da inibitori delle fosfodiesterasi (PDE) 8.1.3 Cefalea indotta da monossido di carbonio 8.1.4 Cefalea indotta da alcool 8.1.4.1 Insorgenza immediata 8.1.4.2 Insorgenza ritardata 8.1.5 Cefalea indotta da componenti e additivi alimentari 8.1.5.1 Cefalea indotta da glutammato monosodico 8.1.6 Cefalea indotta da cocaina 8.1.7 Cefalea indotta da cannabis 8.1.8 Cefalea indotta da istamina 8.1.8.1 Insorgenza immediata 8.1.8.2 Insorgenza ritardata 8.1.9 Cefalea indotta dal peptide correlato al gene della calcitonina 8.1.9.1 Insorgenza immediata 8.1.9.2 Insorgenza ritardata 8.1.10 Cefalea come evento avverso acuto attribuito a un farmaco utilizzato per altra indicazione 8.1.11 Cefalea attribuita a uso o esposizione acuta ad altra sostanza
8.2
Cefalea da uso eccessivo di farmaci 8.2.1 Cefalea da uso eccessivo di ergotamina 8.2.2 Cefalea da uso eccessivo di triptani 8.2.3 Cefalea da uso eccessivo di analgesici 8.2.4 Cefalea da uso eccessivo di oppioidi 8.2.5 Cefalea da uso eccessivo di prodotti di combinazione di analgesici 8.2.6 Cefalea da uso eccessivo di farmaci sintomatici in combinazione 8.2.7 Cefalea da uso eccessivo di altri farmaci 8.2.8 Probabile cefalea da uso eccessivo di farmaci
8.3
Cefalea come evento avverso attribuito all’uso cronico di farmaci 8.3.1 Cefalea indotta da terapia ormonale esogena
8.4
Cefalea attribuita a sospensione di sostanze 8.4.1 Cefalea da sospensione di caffeina 8.4.2 Cefalea da sospensione di oppioidi 8.4.3 Cefalea da sospensione di estrogeni 8.4.4 Cefalea attribuita a sospensione dell’uso cronico di altre sostanze
Tabella 20.2 1° livello classificativo 8.1 8.2 8.3 8.4
Cefalee da uso acuto di sostanze Cefalee da uso eccessivo di sostanze Cefalee da uso cronico di sostanze Cefalee da uso interrotto di sostanze
Cefalea attribuita a sostanze Tabella 20.3 8.1.1 8.1.2 8.1.3 8.1.4 8.1.5 8.1.6 8.1.7 8.1.8 8.1.9 8.1.10 8.1.11 8.2.1 8.2.2 8.2.3 8.2.4 8.2.6 8.3.1 8.4.1 8.4.2 8.4.3
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2° livello classificativo
Cefalea indotta da donatori di ossido nitrico (NO) Cefalea indotta da inibitori delle fosfodiesterasi (PDE) Cefalea indotta da monossido di carbonio (CO) Cefalea indotta da alcool Cefalea indotta da componenti e additivi alimentari Cefalea indotta da cocaina Cefalea indotta da cannabis Cefalea indotta da istamina Cefalea indotta dal peptide correlato al gene della calcitonina (CGRP) Cefalea come evento avverso acuto attribuito a un farmaco usato con altra indicazione Cefalea indotta da uso o esposizione acuta ad altre sostanze Cefalea da uso eccessivo di ergotamina Cefalea da uso eccessivo di triptani Cefalea da uso eccessivo di analgesici Cefalea da uso eccessivo di oppiacei Cefalea ad uso eccessivo di altri farmaci Cefalea indotta da terapia ormonale esogena Cefalea da sospensione di caffeina Cefalea da sospensione di oppiacei Cefalea da sospensione di estrogeni
Tabella 20.4
3° livello classificativo
8.1.1.1 Cefalea immediata da donatori di ossido nitrico 8.1.1.2 Cefalea ritardata da donatori di ossido nitrico 8.1.4.1 Cefalea immediata da alcool 8.1.4.2 Cefalea ritardata da alcool 8.1.8.1 Cefalea immediata da istamina 8.1.8.2 Cefalea ritardata da istamina 8.1.9.1 Cefalea immediata da CGRP 8.1.9.2 Cefalea ritardata da CGRP
lea primaria e di forma attribuita alla sostanza. Gli elementi a favore della seconda opzione sono: 1) la relazione temporale molto stretta con l’esposizione alla sostanza; 2) il marcato peggioramento della cefalea preesistente; 3) l’ottimo livello di evidenza che la sostanza possa aggravare la cefalea primaria; 4) il miglioramento o la scomparsa della cefalea dopo che gli effetti della sostanza sono terminati. Per completare, infatti, la diagnosi di “cefalea attribuita a sostanze”, occorre che la cefalea scompaia o migliori fortemente dopo la cessazione dell’ esposizione alla sostanza stessa. Se la cefalea non cessa o migliora entro tre mesi dall’interruzione dell’esposizione alla sostanza, si potrebbe parlare di una “cefalea cronica post-esposizione a una sostanza”, entità non ancora accertata nella nuova classificazione e pertanto prevista nella sua appendice al codi-
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ce A8.5. Infine, i soggetti emicranici sono fisiologicamente e forse psicologicamente iperresponsivi a una varietà di stimoli endogeni ed esogeni, rispetto ai soggetti non emicranici. In letteratura, infatti, sono presenti numerose segnalazioni che l’ingestione di alcool, cibi, additivi alimentari, sostanze chimiche e farmaci, così come la loro sospensione, provocano o attivano l’emicrania in soggetti suscettibili. L’associazione è peraltro spesso basata su dati aneddotici e su segnalazioni di reazioni avverse a farmaci. Pertanto, studi controllati con placebo in doppio cieco sono necessari affinché una sostanza possa essere considerata causa di cefalea. In ogni caso, questo accade raramente o è raramente riportato [1]. Per quanto riguarda il primo gruppo, codificato come 8.1 ossia “Cefalea indotta da uso o esposizione acuta a sostanze”, la classificazione del 1988 prevedeva 5 sottotipi (cefalea indotta da nitrati/nitriti al punto 8.1.1, cefalea indotta da glutammato monosodico al punto 8.1.2, cefalea indotta da monossido di carbonio al punto 8.1.3, cefalea indotta da alcool al punto 8.1.4 e cefalea indotta da altre sostanze al punto 8.1.5, tra cui la marijuana). L’attuale classificazione ICHD-II prevede al punto 8.1 ben 11 sottotipi (Tab. 20.5). Questo gruppo di cefalee può essere causato da un effetto indesiderato di una sostanza tossica, come il monossido di carbonio (CO), da un effetto indesiderato di farmaci normalmente utilizzati in terapia, come i donatori di ossido nitrico (NO) e gli inibitori delle fosfodiesterasi (PDE), o da un effetto indesiderato di un farmaco utilizzato in studi sperimentali, come il calcitonin gene-related peptide (CGRP). Le cefalee possono comparire con modalità immediata (entro 10 minuti dall’esposizione a sostanze quali NO, istamina o CGRP; entro 3 ore dall’ingestione di alcool) o ritardata (dopo l’eliminazione delle sostanze dal sangue, mentre nella cefalea da esposizione ad alcool basta anche la sola diminuzione dell’alcoolemia). Le caratteristiche cliniche di queste cefalee sono assolutamente aspecifiche; ba-
Tabella 20.5 Cefalea indotta da uso o esposizione acuta a sostanze 8.1.1
Cefalea indotta da donatori di ossido nitrico (NO) 8.1.1.1 Cefalea immediata da donatori di ossido nitrico 8.1.1.2 Cefalea ritardata da donatori di ossido nitrico 8.1.2 Cefalea indotta da inibitori delle fosfodiesterasi (PDE) 8.1.3 Cefalea indotta da monossido di carbonio (CO) 8.1.4 Cefalea indotta da alcool 8.1.4.1 Cefalea immediata da alcool 8.1.4.2 Cefalea ritardata da alcool 8.1.5 Cefalea indotta da componenti e additivi alimentari 8.1.5.1 Cefalea da glutammato monosodico 8.1.6 Cefalea indotta da cocaina 8.1.7 Cefalea indotta da cannabis 8.1.8 Cefalea indotta da istamina 8.1.8.1 Cefalea immediata da istamina 8.1.8.2 Cefalea ritardata da istamina 8.1.9 Cefalea indotta dal peptide correlato al gene della calcitonina (CGRP) 8.1.9.1 Cefalea immediata da CGRP 8.1.9.2 Cefalea ritardata da CGRP 8.1.10 Cefalea come evento avverso acuto attribuito a un farmaco usato con altra indicazione 8.1.11 Cefalea indotta da uso o esposizione acuta ad altre sostanze
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sti pensare che, per la maggior parte di esse, per soddisfare i criteri diagnostici ICHD-II è sufficiente la presenza di una sola tra le seguenti caratteristiche: bilateralità, localizzazione frontotemporale, qualità pulsante, aggravamento con l’attività fisica.
Cefalea indotta da donatori di ossido nitrico La prima tra queste, la cefalea indotta da donatori di NO, è quella tipicamente causata da assunzione orale a scopo terapeutico di nitroglicerina (NTG), da manipolazione/inalazione di dinamite (nei lavoratori che una volta erano addetti alla fabbricazione di munizioni) e da ingestione di hot dog (da nitrato sodico, utilizzato come colorante e conservante di numerosi cibi, tra cui appunto gli hot dog). Il meccanismo con cui i donatori di NO possono causare cefalea è quello di un rilasciamento della muscolatura liscia dei grossi vasi, mediante stimolazione di NO, sia diretta sulle terminazioni nervose trigeminali, che indiretta attraverso l’attivazione della guanilato-ciclasi (GC) intracellulare, conversione di GTP in cGMP, attivazione della chinasi G e liberazione finale di ioni calcio (Fig. 20.1). La NTG, la sostanza più studiata di questa categoria, può causare, nei soggetti sani e in quelli emicranici, una cefalea immediata (20-40 min.), aspecifica e di grado lieve e, solo negli emicranici, una cefalea ritardata (5-6 ore), che soddisfa invece i criteri diagnostici per l’emicrania senz’aura. Analogo comportamento bifasico, ma con caratteristiche di tipo tensivo dell’attacco, si ha nei soggetti con cefalea di tipo tensivo purchè cronica, mentre nei soggetti con cefalea a grappolo l’attacco di cluster insorge tipicamente 1-2 ore dopo l’assunzione di NTG e solo durante il periodo attivo. Non è noto perché i donatori di NO inducono cefalea ritardata nei sofferenti di cefalee primarie e non nei normali. È però interessante notare che la somministrazione di NTG induce un aumento di CGRP, uno dei principali neurotrasmettitori/neuromodulatori implicati nella patogenesi del dolore emicranico, solo nel plasma di soggetti che sviluppano un attacco di emicrania [2]. Nella terapia cronica con donatori di NO si sviluppa tolleranza all’induzione di cefalea generalmente entro una settimana dall’inizio del trattamento. Questo spiega perché l’uso intermittente di NTG determini una cefalea di tale intensità da controindicarne l’assunzione. I donatori
Fig. 20.1 Meccanismo d’azione dei donatori di NO
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Tabella 20.6 Cefalea indotta da donatori di ossido nitrico (NO) Cefalea a insorgenza immediata Terminologia usata in precedenza: cefalea da nitroglicerina, cefalea da dinamite, cefalea da hot dog Criteri diagnostici: A. cefalea con almeno una delle seguenti caratteristiche e che soddisfi i criteri C e D: 1. bilaterale 2. localizzazione fronto-temporale 3. qualità pulsante 4. aggravata dall’attività fisica B. assorbimento di un donatore di NO C. la cefalea si sviluppa entro 10 minuti dall’assorbimento del donatore di NO D. la cefalea si risolve entro 1 ora dalla fine del rilascio di NO
Tabella 20.7 Cefalea indotta da donatori di ossido nitrico (NO) Cefalea a insorgenza ritardata Criteri diagnostici: A. cefalea con le caratteristiche di una cefalea primarie che compare in un soggetto che soffre di quella forma di cefalea primaria e che soddisfi i criteri C e D: B. assorbimento di un donatore di NO C. la cefalea si sviluppa dopo che l’NO è stato eliminato dal sangue D. la cefalea si risolve entro 72 ore dalla singola esposizione
di NO a lento rilascio, quali l’isosorbide mononitrato, possono indurre cefalee più prolungate di quelle da NTG [3, 4]. Una forma particolarmente severa di cefalea da nitrati è stata, infine, riportata in bambini affetti da metaemoglobinemia [5]. I criteri diagnostici della forma a insorgenza immediata e di quella a insorgenza ritardata di cefalea da donatori di NO sono rispettivamente riportati nelle Tabelle 20.6 e 20.7.
Cefalea indotta da inibitori delle fosfodiesterasi Un esempio di cefalea attribuita a sostanze, simile e comunque correlato a quella da donatori di NO, è quella da inibitori delle PDE, in particolare di quelle di tipo 5, quali sildenafil, tadalafil e vardenafil, normalmente utilizzati nel trattamento della disfunzione erettile. Le PDE sono una vasta famiglia di enzimi che degradano selettivamente o non selettivamente il cAMP e il cGMP. In particolare, l’ NO esogeno o endogeno produce i suoi effetti biologici (tra cui rilasciamento della muscolatura liscia vasale) aumentando i livelli di cGMP intracellulari. L’inibizione delle PDE potenzia l’azione vasodilatante di NO, fenomeno ricercato nell’uso degli inibitori delle PDE5 per aumentare/prolungare il rilasciamento dei corpi cavernosi prodotto dall’ NO neurale (Fig. 20.2). A questo tipo di regola generale si accompagnano, però, dati sperimentali più complessi. La somministrazione di sildenafil induce, infatti, emicrania (il dolore massimo si manifesta a circa 5 ore dall’assunzione del farmaco), senza che questa sia associata a vasodilatazione misurabile di arterie intra e extra
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239 Fig. 20.2 Patogenesi della cefalea indotta da inibitori della PDE
craniche, suggerendo così che il dolore sia generato da un meccanismo neurogeno [6]. Il meccanismo per mezzo del quale il sildenafil induce emicrania deve essere comunque attentamente indagato, poiché l’insorgenza di emicrania da sildenafil non si accompagna a un aumento misurabile dei livelli plasmatici di cAMP, cGMP o CGRP, suggerendo che questi mediatori, pur se importanti nella genesi locale (neurovascolare) del dolore, non ne sono markers attendibili a livello della circolazione sistemica. [7]. Sildenafil e dipiridamolo sono i composti di questo gruppo più studiati in protocolli sperimentali. Cefalea e flushing rappresentano gli effetti collaterali più comuni di sildenafil, comparendo in circa il 16% dei suoi consumatori. La cefalea non presenta caratteristiche cliniche specifiche, manifestandosi come una forma tensiva nella maggior parte dei volontari sani, soprattutto se giovani e di sesso femminile, e come un’emicrania senz’aura nei soggetti emicranici. La cefalea, al contrario di quella indotta da NTG, è monofasica ed è scatenata dall’assunzione di una singola dose di inibitore delle PDE. I criteri diagnostici di questa cefalea sono riportati nella Tabella 20.8 [2]. Un’aura tipica senza cefalea, a esordio tardivo (circa 3 giorni dopo l’ingestione del farmaco), è stata recentemente segnalata in un uomo bianco di 65 anni che assumeva tadalafil [8].
Tabella 20.8 Cefalea indotta da inibitori delle PDE Criteri diagnostici: A. cefalea con almeno una delle seguenti caratteristiche e che soddisfi i criteri C e D: 1. bilaterale 2. localizzazione fronto-temporale 3. qualità pulsante 4. aggravata dall’attività fisica B. deve essere stata assunta un’unica dose di un inibitore della PDE C. la cefalea si sviluppa entro 5 ore dall’assunzione dell’inibitore della PDE D. la cefalea si risolve entro 72 ore
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Cefalea indotta da monossido di carbonio La cefalea indotta da CO rappresenta, il più delle volte, il sintomo precoce principale sia di una intossicazione acuta (inalazione volontaria o meno di gas da cucina, da riscaldamento o d’auto) che di una sindrome da intossicazione cronica occulta (la cosiddetta cefalea dei magazzinieri, di antica memoria), tanto che riconoscerla in tempo utile può spesso salvare la vita al paziente. Tipica è quella dopo immersioni prolungate. Il meccanismo con cui CO induce cefalea è per lo più incerto, anche se la notevole similitudine chimica e biologica con NO può già rappresentare una sufficiente spiegazione patogenetica, a causa di una probabile interazione con NO endogeno. Altri possibili meccanismi fisiopatologici per la cefalea da CO sono: azione diretta dell’ipossia (CO diffonde rapidamente attraverso la membrana alveolo-capillare, legandosi all’emoglobina con un’affinità che è 200 volte superiore a quella dell’ossigeno, a formare carbossiemoglobina [COHb]), inibizione della catena respiratoria mitocondriale, inibizione dell’enzima guanil-ciclasi e azione diretta sui recettori dell’NMDA e sui canali ionici. Le caratteristiche cliniche di questa cefalea rimangono del tutto aspecifiche, mutando in relazione ai livelli ematici di COHb (Tab. 20.9). La cefalea da intossicazione di CO peggiora in ogni caso fino ad un certo punto, in quanto con l’aumento del livello di intossicazione compaiono segni quali l’obnubilamento del sensorio e la confusione mentale che impediscono al paziente stesso di identificare la sua cefalea e gli altri sintomi associati. Tipicamente, quando il livello di COHb è compreso tra il 10% e il 20%, la cefalea è di lieve intensità senza sintomi gastroenterici o neurologici associati (ad esempio, nei forti fumatori o nei casi di piccole perdite di gas durante la cottura di alcuni alimenti); la cefalea diventa moderata, pulsante e associata a irritabilità, per un tasso di COHb tra il 20% e il 30%; è severa e associata a nausea, vomito e disturbi della vista per livelli tra il 30% e il 40%. Oltre il 40% di COHb non compare più cefalea in quanto si ha perdita di coscienza; tale drammatico quadro clinico nei bambini si manifesta, invece, già ad una concentrazione di COHb superiore al 25%. Non vi sono studi sugli effetti a lungo termine dell’intossicazione da CO sulla cefalea, tranne segnalazioni sporadiche di alcuni casi di cefalea cronica post-intossicazione da CO. La terapia iperbarica rappresenta l’unico trattamento efficace per le forme acute più gravi [9, 10]. È stato, tuttavia, recentemente riportato un caso di cefalea indotta da CO, che rispondeva brillantemente a un terapia d’attacco con sumatriptan, con conseguente rischio, a dato confermato, di un effetto fuorviante del farmaco sulla diagnosi [11].
Tabella 20.9 Cefalea indotta da monossido di carbonio (CO) Terminologia usata in precedenza: cefalea dei magazzinieri Criteri diagnostici: A. cefalea bilaterale e/o continua, con qualità e intensità dipendenti dalla gravità dell’intossicazione da CO, e che soddisfi i criteri C e D B. esposizione al CO C. la cefalea si sviluppa entro 12 ore dall’esposizione D. la cefalea si risolve entro 72 ore dall’eliminazione del CO
Cefalea attribuita a sostanze
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Cefalea indotta da alcool Un ulteriore esempio, e forse anche il più noto e diffuso, di cefalea attribuita a sostanze è quella indotta da alcool. Come già detto, ne esistono due forme, una a insorgenza immediata e una a insorgenza ritardata, i cui criteri diagnostici sono riportati rispettivamente nelle Tabelle 20.10 e 20.11 [1]. La prima, molto rara, è dovuta a un effetto diretto dell’alcool sul cervello, verosimilmente dipendente dal fatto che l’etanolo, abbassandone la soglia di attivazione alla temperatura, stimola il recettore/canale per la capsaicina (TRPV1) sui terminali dei neuroni trigeminali, producendo così una sensazione dolorifica e rilascio di CGRP [12]. Molto diverso e complesso sembra essere il meccanismo tossico con cui l’alcool (o altri componenti delle bevande alcooliche) determina la comunissima cefalea ritardata o cefalea da hangover, peraltro a dosi molto minori negli emicranici rispetto ai controlli: la vasodilatazione, il ridotto turnover centrale di serotonina, l’aumentata attivazione dei canali del cloro stimolati dal GABA e l’aumen-
Tabella 20.10
Cefalea indotta da alcool
8.1.4.1 Cefalea a insorgenza immediata Terminologia usata in precedenza: cefalea da cocktail Criteri diagnostici: A. cefalea con almeno una delle seguenti caratteristiche e che soddisfi i criteri C e D: 1. bilaterale 2. localizzazione fronto-temporale 3. qualità pulsante 4. aggravata dall’attività fisica B. ingestione di bevande alcoliche C. la cefalea si sviluppa entro 3 ore dall’ingestione della bevanda alcolica D. la cefalea si risolve entro 72 ore
Tabella 20.11 Cefalea indotta da alcool 8.1.4.2 Cefalea a insorgenza ritardata Terminologia usata in precedenza: cefalea da hangover Criteri diagnostici: A. cefalea con almeno una delle seguenti caratteristiche e che soddisfi i criteri C e D: 1. bilaterale 2. localizzazione fronto-temporale 3. qualità pulsante 4. aggravata dall’attività fisica B. ingestione di una modesta quantità di bevande alcoliche da parte di un soggetto emicranico o di un quantitativo tossico in un soggetto non emicranico C. la cefalea si sviluppa dopo la diminuzione o l’azzeramento dell’alcolemia D. la cefalea si risolve entro 72 ore
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tata sintesi di prostacicline sono quelli più frequentemente chiamati in causa. Un meccanismo simile a quello della cefalea ritardata da donatori di NO è stato anche ipotizzato [13]. Resta il fatto che il vino rosso (con i suoi flavenoidi fenolici) rappresenta un trigger per emicrania più comune del vino bianco solo in studi effettuati in Inghilterra, mentre in Italia e Francia sembra accadere il contrario. Nessun tipo di alcoolico sembra provocare cefalea in controlli o emicranici che non abbiano riportato il vino rosso quale trigger di cefalea [14]. Il crescente uso di bevande alcooliche negli adolescenti rende, infine, la cefalea da alcool più frequente e meritevole di attenzione in questa fascia di età.
Altre cefalee indotte da uso o esposizione acuta a sostanze Solo brevi accenni saranno fatti alle cefalee indotte da componenti e additivi alimentari, il cui sottotipo specifico è la cefalea da glutammato monosodico, e alle cefalee indotte da cocaina e cannabis. I loro criteri diagnostici, peraltro aspecifici, sono rispettivamente riportati nelle Tabelle 20.12, 20.13, 20.14 e 20.15 [1].
Tabella 20.12 Cefalea indotta da componenti e additivi alimentari Terminologia usata in precedenza: cefalea alimentare Criteri diagnostici: A. cefalea con almeno una delle seguenti caratteristiche e che soddisfi i criteri C e D: 1. bilaterale 2. localizzazione fronto-temporale 3. qualità pulsante 4. aggravata dall’attività fisica B. ingestione di una dose minima di un componente o di un additivo alimentare C. la cefalea si sviluppa entro 12 ore dall’assunzione della sostanza D. la cefalea si risolve entro 72 ore da una singola assunzione
Tabella 20.13 Cefalea indotta da glutammato monosodico Terminologia usata in precedenza: cefalea da ristorante cinese Criteri diagnostici: A. cefalea con almeno una delle seguenti caratteristiche e che soddisfi i criteri C e D: 1. bilaterale 2. localizzazione fronto-temporale 3. aggravata dall’attività fisica B. ingestione di glutammato monosodico (GMS) C. la cefalea si sviluppa entro 1 ora dall’ingestione di GMS D. la cefalea si risolve entro 72 ore da una singola assunzione
Cefalea attribuita a sostanze Tabella 20.14
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Cefalea indotta da cocaina
Criteri diagnostici: A. cefalea con almeno una delle seguenti caratteristiche e che soddisfi i criteri C e D: 1. bilaterale 2. localizzazione fronto-temporale 3. qualità pulsante 4. aggravata dall’attività fisica B. uso di cocaina C. la cefalea si sviluppa immediatamente o comunque entro 1 ora dall’uso di cocaina D. la cefalea si risolve entro 72 ore da una singola assunzione
Tabella 20.15
Cefalea indotta da cannabis
Criteri diagnostici: A. cefalea con almeno una delle seguenti caratteristiche e che soddisfi i criteri C e D: 1. bilaterale 2. trafittiva o pulsante 3. sensazione di pressione al capo B. uso di cannabis C. la cefalea si sviluppa entro 12 ore dall’uso di cannabis D. la cefalea si risolve entro 72 ore da una singola assunzione
Per la prima forma sono state incriminate eniletilamina, tiramina e aspartame (es. cefalea da cioccolato, cefalea da formaggio e cefalea da chewing gum), ma la loro potenzialità a indurre cefalea non è sufficientemente dimostrata, in quanto deriva più da semplici dati osservazionali che non da studi controllati. Una qualche relazione tra le sostanze sopra citate e la cefalea è verosimilmente possibile solo in individui “suscettibili”, per lo più emicranici (l’8% degli emicranici riporta, ad esempio, che l’aspartame è un trigger specifico dell’attacco) [15, 16]. Per quanto riguarda la cefalea indotta da glutammato monosodico (la cosiddetta cefalea da ristorante cinese), la sua morfologia clinica è tipicamente sorda o urente ma non pulsante, ma può divenire tale nei soggetti emicranici. È spesso parte di una “sindrome da glutammato monosodico”, i cui sintomi sono: cefalea, oppressione toracica, sensazione di tensione o costrizione al volto, bruciore alla testa o alla parte superiore del tronco, arrossamento del viso, vertigini e disturbi addominali. Il meccanismo con cui il glutammato monosodico induce questi sintomi è sconosciuto [17]. La cefalea indotta da cocaina è riportata (in forme varie e non tutte codificate) nel 60-75% degli abusatori di questa sostanza e può associarsi a ictus ischemico o emorragico, attacco ischemico transitorio, vasculite, tremore ed epilessia. È stato anche recentemente segnalato un caso di emicrania emiplegica da uso di cocaina. La forma acuta riportata in classificazione (Tab. 20.14) sembra essere causata da un rapido blocco del reuptake pre-sinaptico della noradrenalina, con conseguente potente effetto simpaticomimetico e vasocostrizione acuta. L’uso prolungato di cocaina può causare una cefalea, peraltro non codificata, verosimilmente causata da una deplezio-
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ne serotoninica pre-sinaptica e/o da un effetto anestetico locale diretto della cocaina sul ganglio sfeno-palatino. Una cefalea da brusca sospensione di cocaina è anche stata segnalata, ma il suo meccanismo rimane sconosciuto, anche se è stata suggerita un’alterazione del metabolismo della serotonina. Anche crack ed ecstasy possono causare cefalee acute con caratteristiche simili a quella da cocaina [18]. La cefalea indotta da cannabis è frequentemente associata a secchezza delle fauci, parestesie, sensazioni di calore e arrossamento della congiuntiva. È stato segnalato che il 22% dei pazienti con overdose acuta di oppioidi sviluppa cefalea sotto trattamento con naloxone. Sono state segnalate, infine, cefalea da coito e ictus dopo assunzione di cannabis [19].
Cefalea da sospensione di caffeina A completare il gruppo delle cefalee indotte da sostanze vi sono le forme di cefalea attribuite alla loro sospensione, codificate al punto 8.4. La nuova classificazione prevede 4 differenti tipi in relazione alla sostanza assunta (Tab. 20.1). Qui prenderemo in considerazione solo quella da sospensione di caffeina, i cui criteri diagnostici sono riportati in Tabella 20.16. Questa cefalea compare nel 75% dei soggetti che sviluppano la cosiddetta “ sindrome da sospensione di caffeina”, complesso corteo sintomatologico succedaneo alla brusca sospensione di quantità anche basse-moderate di questa amina (es. 100-500 mg/die), associandosi per lo più a sonnolenza e fatica (Tab. 20.17). La suscettibilità a questa sindrome sembra essere, almeno in parte, genetica. L’insorgenza di questa cefalea sembra, inoltre, essere più frequente nelle prime ore del mattino del sabato e della domenica, verosimilmente in relazione al cambiamento delle abitudini di vita proprio di questi giorni della settimana. Il contenuto indicativo di caffeina di al-
Tabella 20.16 Cefalea da sospensione di caffeina Criteri diagnostici: A. cefalea bilaterale e/o pulsante che soddisfi i criteri C e D B. interruzione brusca o diminuzione di un consumo ≥200 mg/die di caffeina che si protrae da ≥2 settimane C. la cefalea si sviluppa entro 24 ore dall’ultima assunzione di caffeina e si attenua entro 1 ora dall’assunzione di 100 mg di caffeina D. la cefalea si risolve entro 7 giorni dalla sospensione totale della caffeina
Tabella 20.17 Sonnolenza Fatica Cefalea Depressione Ansia Irritabilità
Sindrome da sospensione di caffeina Irrequietezza Tremori Nausea Rinorrea Dolori muscolari Aumento uso di sigarette Difficoltà di concentrazione
Cefalea attribuita a sostanze Tabella 20.18
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Contenuto indicativo di caffeina di alcune sostanze
Caffè americano: 40-150 mg/tazza (in media 100 mg/tazza) Caffè espresso: 30-120 mg/tazza (in media 75 mg/tazza) Caffè decaffeinato: 2-4 mg/tazza The: 10-90 mg/tazza (in media 50 mg/tazza) Bibite (es. cola): 30-65 mg/lattina (in media 50 mg/lattina) Alcuni analgesici: 15-100 mg/compressa Farmaci eccitanti: 100-200 mg/compressa Farmaci dimagranti: 75-200 mg/compressa Cioccolata calda: 2-8 mg/tazza Tavoletta di cioccolato: 5 mg/tavoletta
Tabella 20.19
Possibili effetti patologici della caffeina
>100 mg:
arrossamento del viso, irrequietezza, nervosismo, eccitazione, insonnia (con aumento della latenza di addormentamento), diuresi >250-500 mg: tachicardia, ipertensione (effetto peggiorativo), ulcera peptica (effetto peggiorativo),diarrea e altri disturbi gastro-intestinali >1 g: ansia, depressione, pensieri e/o parole sconnesse, agitazione, fascicolazioni e/o tremori, crisi epilettiche
cune sostanze di uso comune è riportato in Tabella 20.18. Il consumo di caffeina inizia frequentemente in epoca infanto-adolescenziale. Il 75% dei giovani che diventano dipendenti sviluppa cefalea da sospensione. La graduale sospensione delle sostanze contenenti caffeina determina scomparsa della cefalea in più del 90% di questi soggetti. Si calcoola che la maggior parte degli adulti americani assuma tra 200 e 500 mg/die di caffeina, il 30% più di 500 mg/die e il 10% più di 1 gr/die. L’assunzione di caffeina è spesso associata a consumo di sigarette, alcool e altre sostanze. Almeno il 30% degli utilizzatori cronici di dosi anche non elevate di caffeina incontrano i criteri diagnostici del DSM-IV per la dipendenza da sostanze. È spesso presente tolleranza ad alcuni ma non a tutti i possibili effetti patologici della caffeina (Tab. 20.19). Il meccanismo con cui la sospensione di caffeina può causare cefalea sembra essere strettamente correlato all’effetto antagonista di questa sostanza sui recettori A2 dell’adenosina, con conseguente up-regulation recettoriale e vasocostrizione cronica encefalica secondaria [20, 21]. Pertanto, la brusca sospensione di caffeina provoca vasodilatazione cerebrale acuta e cefalea.
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Capitolo 21
Cefalea attribuita a traumi del capo e/o del collo M. Aguggia, S. Genco
Introduzione Le cefalee che seguono acutamente un traumatismo del capo, del collo o dell’encefalo sono generalmente definibili come cefalee post-traumatiche. Cefalee secondarie per definizione, in quanto “cefalee di nuova insorgenza che si verificano in stretta correlazione temporale con un evento che è noto essere causa di cefalea” come il trauma cranico, si riscontrano per la maggior parte in assenza di lesioni strutturali intracraniche o di evidenti danni dello scalpo o della teca cranica. Si associano spesso ad altri sintomi come stordimento, pseudovertigini, irritabilità, difficoltà di concentrazione, insonnia, variazioni di personalità che, aventi la cefalea come sintomo preminente, configurano la cosiddetta sindrome post-traumatica. Attraverso le usuali tecniche di neuroimmagine sono prontamente differenziate dalle cefalee attribuite ad ematoma intracranico post-traumatico o ad interventi neurochirurgici (rispettivamente classificate al punto 5.5 e 5.7 dell’attuale classificazione dell’International Headache Society IHS). Vanno inoltre esclusi dalla cefalea post-traumatica in senso stretto tutti i casi di cefalea secondaria a emorragia intracranica (gruppo 6-IHS) e ad ipertensione endocranica (gruppo 7-IHS). Il meccanismo patogenetico non è assolutamente chiarito e in molti casi il dolore persiste nonostante la negatività clinica e strumentale. In anni recenti, molti dei complessi meccanismi fisiopatologici del dolore sono stati chiariti e la dicotomia psicogeno-organico ha dato spunto ad una integrazione tra concetti socioculturali e fattori psicologico-cognitivi [1, 2]. È lecito ipotizzare che la comprensione e l’applicazione pratica di nuove strategie terapeutiche determinerà un decremento di intensità e di prevalenza del dolore cronico post-traumatico. Il concetto di concussione cerebrale si è evoluto nel tempo. Risalgono all’800 le prime segnalazioni relative alla persistenza di sintomi a seguito di traumi del capo-collo prive di segni residuali e unite alla triade sintomatologica di cefalea, stordimento ed intolleranza alcolica [3]. Con l’incremento della motorizzazione, l’incidentalità stradale è cresciuta progressivamente sino a diventare la più comune causa di danno del capo e del collo. Il termine colpo di frusta fu per la prima volta usato nel 1928 allo scopo di descrivere gli effetti traumatici sul comparto capo-collo [4]. Vi sono svariati paradossi associati al dolore cronico post-traumatico del capo e del collo. La prevalenza appare elevata in alcuni paesi e bassa in altri; la comparsa di cefalea è spesso inversamente correlata alla severità del trauma subito. I sintomi della sindrome post-concussiva non si associano solitamente ad alterazioni strutturali, ed anche lesioni a livello della colonna cervicale talora decorrono senza sintomatologia. Nella precedente classificazione IHS i criteri diagnostici delle cefalee secondarie variavano in notevole misura ed erano spesso poco esaustivi circa le caratteristiche della cefalea. Per quella attuale invece è stato deciso di standardizzare le procedure e, ove possibile, di fornire il maggior numero di tratti distintivi della cefalea in oggetto. Va comunque ricordato come, per molte delle
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forme secondarie, le caratteristiche cliniche della cefalea siano talora poco definite in letteratura e che, anche per quelle in cui vi è una buona descrizione, vi siano solo raramente caratteri distintivi specifici.
Classificazione ICHD-II Nella classificazione ICHD-II (Tabella 21.1), le cefalee attribuite a traumi sono collocate nel gruppo 5 e sono caratterizzate dalla stretta relazione temporale con l’evento traumatico, in quanto insorgono alla ripresa dello stato di coscienza dopo il trauma (se vi è stata perdita di coscienza -pdc) o entro 7 giorni dal trauma stesso. Nel caso delle forme acute, la cefalea regredisce entro 3 mesi, per le forme croniche persiste dopo 3 mesi dal trauma. Viene, inoltre, rivolta particolare attenzione al tentativo di quantificare l’entità dell’evento traumatico, attraverso la presenza dell’alterazione dello stato di coscienza, della durata della pdc, dell’amnesia post-traumatica, di una lesione cranio-encefalica e del punteggio alla scala di Glasgow (GCS). Quest’ultima, elaborata nel 1974 da Tesdale e Jennet, tiene conto della validità di tre tipi di risposte che il paziente è in grado di dare in seguito a stimolazioni idonee: la prestazione verbale, l’apertura degli occhi e la reazione motoria. Secondo tali schemi, viene comunemente considerato grave il trauma cranico a cui corrisponde un punteggio inferiore a 8 nella GCS; moderato il trauma a cui corrisponde un punteggio compreso fra 9 e 12; lieve il trauma a cui corrisponde un punteggio uguale o superiore a 13 [5]. Tabella 21.1 5
Classificazione ICHD-II
Cefalee attribuite a traumi del capo e/o del collo 5.1 Cefalea post-traumatica acuta 5.1.1 Cefalea post-traumatica acuta attribuita a un trauma cranico moderato o severo 5.1.2 Cefalea post-traumatica acuta attribuita a un trauma cranico lieve 5.2 Cefalea post-traumatica cronica 5.2.1 Cefalea post-traumatica cronica attribuita a un trauma cranico moderato o severo 5.2.2 Cefalea post-traumatica cronica attribuita a un trauma cranico lieve 5.3 Cefalea acuta attribuita a distorsione del rachide cervicale (colpo di frusta) 5.4 Cefalea cronica attribuita a distorsione del rachide cervicale (colpo di frusta) 5.5 Cefalea attribuita ad ematoma intracranico post-traumatico 5.5.1 Cefalea attribuita a ematoma epidurale 5.5.2 Cefalea attribuita a ematoma subdurale 5.6 Cefalea attribuita ad altri traumi del capo e/o del collo 5.6.1 Cefalea acuta attribuita ad altri traumi del capo e/o del collo 5.6.2 Cefalea cronica attribuita ad altri traumi del capo e/o del collo 5.7 Cefalea post-craniotomia 5.7.1 Cefalea acuta post-craniotomia 5.7.2 Cefalea cronica post-craniotomia
Cefalea post-traumatica acuta Cefalea post-traumatica acuta attribuita a un trauma cranico moderato o severo Criteri diagnostici: A. cefalea, senza caratteristiche tipiche note, che soddisfa i criteri C e D; B. trauma cranico con almeno uno dei seguenti aspetti:
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1. perdita di coscienza >30 minuti, 2. GCS <13, 3. amnesia post-traumatica >48 ore, 4. dimostrazione neuroradiologica di lesione traumatica cerebrale (ematoma cerebrale, emorragia intracerebrale e/o subaracnoidea, contusione cerebrale e/o frattura cranica); C. la cefalea si sviluppa entro 7 giorni dopo il trauma o dopo aver riacquistato coscienza dopo il trauma cranico; D. l’uno o l’altro dei seguenti aspetti: 1. la cefalea si risolve entro 3 mesi dal trauma cranico, 2. la cefalea persiste ma non sono ancora trascorsi 3 mesi dal trauma cranico.
Cefalea post-traumatica acuta attribuita a un trauma cranico lieve Criteri diagnostici: A. cefalea, senza caratteristiche tipiche note, che soddisfa i criteri C e D; B. trauma cranico con almeno uno dei seguenti aspetti: 1. assenza di perdita di coscienza o perdita di coscienza di durata <30 minuti, 2. GCS ≥13, 3. sintomi e/o segni diagnostici di concussione; C. la cefalea si sviluppa entro 7 giorni dopo il trauma; D. l’uno o l’altro dei seguenti aspetti: 1. la cefalea si risolve entro 3 mesi dal trauma cranico, 2. la cefalea persiste ma non sono ancora trascorsi 3 mesi dal trauma cranico.
Cefalea post-traumatica cronica Cefalea post-traumatica cronica attribuita a un trauma cranico moderato o severo Criteri diagnostici: A. cefalea, senza caratteristiche tipiche note, che soddisfa i criteri C e D; B. trauma cranico con almeno uno dei seguenti aspetti: 1. perdita di coscienza >30 minuti, 2. GCS <13, 3. amnesia post-traumatica >48 ore: 4. dimostrazione neuroradiologica di lesione traumatica cerebrale (ematoma cerebrale, emorragia intracerebrale e/o subaracnoidea, contusione cerebrale e/o frattura cranica); C. la cefalea si sviluppa entro 7 giorni dopo il trauma o dopo aver riacquistato coscienza dopo il trauma cranico; D. la cefalea persiste per oltre 3 mesi dal trauma cranico.
Cefalea post-traumatica cronica attribuita a un trauma cranico lieve Criteri diagnostici: A. cefalea, senza caratteristiche tipiche note, che soddisfa i criteri C e D; B. trauma cranico con almeno uno dei seguenti aspetti:
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1. assenza di perdita di coscienza o perdita di coscienza di durata <30 minuti, 2. GCS ≥13, 3. sintomi e/o segni diagnostici di concussione; C. la cefalea si sviluppa entro 7 giorni dopo il trauma; D. la cefalea persiste per oltre 3 mesi dal trauma cranico.
Caratteristiche cliniche ed epidemiologia Se la prevalenza di cefalea life-time supera il 90% solo una parte della popolazione incorre in un traumatismo cranico e la cefalea a seguito di trauma cranico medio-lieve è tipico esempio di complesso sintomatologico privo di associazione a lesioni strutturali [6]. Le caratteristiche cliniche delle cefalee attribuite a traumi sono poco definite e in letteratura il loro profilo è, quando delineato, assai multiforme. I molti sintomi sindromici possono essere suddivisi in somatici, psicologici e cognitivi. Tra i sintomi somatici, cefalea e vertigini sono i più comuni. I sintomi psicologici si manifestano spesso con depressione del tono dell’umore o variazioni del profilo di personalità. Il coinvolgimento cognitivo è solitamente riferibile a disturbi dell’attenzione e di concentrazione [7]. Evidenze istologiche di danno cerebrale, a seguito di traumatismo di entità medio-lieve, comprendono danno assonale a livello microscopico con retrazione assonale ed aggregazione microgliale; tali alterazioni sono probabilmente conseguenti ad azioni meccaniche o metaboliche conseguenti al trauma stesso [8]. Ad un trauma del cranio possono seguire svariati patterns algici: di tipo tensivo in più dell’80% dei casi e, più raramente, con caratteristiche di emicrania con o senz’aura, mentre solo eccezionalmente si manifestano sindromi cluster-like. Di frequente riscontro è la riaccensione od il peggioramento di patterns emicranici preesistenti all’evento craniotraumatico. Il dolore in queste forme è molto variabile in termini di qualità e severità e viene descritto dai pazienti come persistente, gravativo, pulsante, localizzato o diffuso, da lieve a severo, in pratica senza mai avere caratteristiche precise e distintive. Non è raro riscontrare una componente cervico-occipitale di tipo gravativo e una componente fronto-temporale di tipo pulsante; questo tipo di cefalea, che è anche la più disabilitante, assume un andamento quotidiano senza alcuna tendenza alla remissione. Cefalee possono anche fare seguito a rapidi movimenti della testa e del collo (colpo di frusta), spesso occorsi per incidente automobilistico; negli Stati Uniti si registrano più di un milione di distorsioni del rachide cervicale per anno a seguito di incidentalità stradale [9]. L’incidenza del trauma cranico, rispetto alle altre cause, è difficile da determinare. Molti traumi del capo-collo sono lievi e non vengono riferiti al medico od alle autorità competenti e, quando lo sono, possiedono un’intrinseca eterogeneità di popolazione. È comunque possibile stimare l’incidenza di trauma cranico lieve nella popolazione americana in un range variabile da 200 a 400 per 100.000 abitanti [10]. Il dolore, nel traumatismo medio-lieve, ricorre nel 25% circa dei pazienti ma, considerando il primo giorno dopo il trauma, la percentuale sale al 62% e, durante la prima settimana, all’86%. Una volta che una cefalea attribuita a trauma si è instaurata, i fattori precipitanti più comuni sono le improvvise variazioni di posizione o postura, gli sforzi o gli affaticamenti e le emozioni, sebbene in gran parte non se ne possano riconoscere di effettivamente causali. Tende solitamente a regredire con il riposo, la tranquillità e con i comuni farmaci analgesici. Dopo il trauma, il sintomo vomito è frequente in questi pazienti, anche in quelli con completo recupero della vigilanza entro un’ora, ed esso è più comune e severo nei bambini rispetto agli adulti [11]. Se è semplice stabilire una relazione tra la cefalea e il trauma, quando il dolore cefalico si sviluppa immediatamente o nei primi giorni dopo che si è verificato il traumatismo, ciò è molto più
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difficile quando la cefalea si struttura settimane o persino mesi dopo l’evento traumatico. Ad oggi, esordi tardivi di cefalee post-traumatiche con sicuro nesso di causa sono stati riportati in descrizioni aneddotiche, ma non in studi caso-controllo. In ogni caso la nuova classificazione non prevede esordio tardivo, oltre i 7 giorni. Sono stati riportati fattori di rischio per un outcome negativo dopo trauma cranico o cervicale. Le donne possiedono un maggior rischio di sviluppare una cefalea post-traumatica e l’incremento dell’età si associa a una meno rapida e/o completa risoluzione del sintomo. Fattori meccanici quali la posizione del capo al momento dell’incidente (ruotato od inclinato) aumentano il rischio di cefalea dopo il trauma [12, 13]. Una relazione lineare tra severità del trauma e gravità della sindrome post-traumatica non è stata ancora determinata in maniera conclusiva. Se fattori strettamente organici costituiscono la base patogenetica del dolore cefalico o del collo dopo l’incidente, ci si aspetterebbe ragionevolmente che l’entità del trauma si correli con l’incidenza e la prevalenza delle sindromi dolorose stesse. Per contro non vi è una correlazione lineare e, sebbene in proposito vi siano dati controversi, molti studi suggeriscono che la cefalea post-traumatica è meno frequente quanto più è severo il traumatismo cranico e che una relazione causale tra trauma del cranio e/o del collo e cefalea, in taluni casi di traumatismo lieve, resta molto difficile da stabilire [14, 15]. La cefalea tende a manifestarsi più spesso a seguito di trauma commotivo, rispetto a traumatismi comportanti danno cerebrale strutturale ed è meno frequentemente presente in caso di lesioni alla TC del cranio ed in caso di prolungata amnesia post-traumatica [16]. Il numero di persone che sviluppa una cefalea cronica di genesi post-traumatica a seguito di trauma di entità medio-lieve, varia dal 30% al 90% a seconda delle casistiche e dei Paesi analizzati. Nella maggior parte dei Paesi circa un terzo dei pazienti riferisce cefalea a distanza di 6 mesi dall’incidente e, approssimativamente, un quarto dopo 4 anni [17]. Il ruolo dell’indennizzo in caso di persistenza di cefalea resta motivo di discussione, sebbene alcuni studi abbiano dimostrato una riduzione della cefalea in Paesi ove le vittime di incidenti non ricevono danni assicurativi. La “Cefalea cronica post-traumatica” (5.2) e la “Cefalea cronica dopo distorsione cervicale” (5.4) sono spesso parte della sindrome post-traumatica in cui la complessa interazione tra fattori organici e psicosociali è difficile da stabilire. Comunemente, la cefalea post-traumatica è presente nel 50% dei pazienti incorsi in una concussione lieve e tende a scomparire nel corso del tempo e, a due mesi dal trauma, solo un terzo dei soggetti ancora la riferisce, sebbene un considerevole numero ne soffrirà ancora per molti mesi e addirittura per anni. Se i pazienti affetti da una forma di cefalea primaria preesistente sviluppino un’incidenza maggiore nello sviluppo di cefalee post-traumatiche non è ancora noto [18, 19]. Negli ultimi decenni, a seguito dell’aumento degli incidenti stradali, si è rilevato un incremento dell’incidenza di traumatismo cranio-cervicale (42%), con prevalente rischio per l’età compresa tra i 15 ed i 25 anni e per il sesso maschile. Altre cause di traumatismo sono riferibili a: cadute accidentali (23%), aggressioni (14%) e incidenti sportivi (6%). Sebbene sia difficile stabilire l’esatta epidemiologia della cefalea post-traumatica, in quanto i pazienti con trauma cranico lieve che possono successivamente sviluppare tale forma di cefalea di rado vengono ricoverati, si calcola che negli Stati Uniti l’incidenza della forma acuta sia di 200 casi ogni 100.000 abitanti, mentre in Europa, secondo i dati di uno studio condotto in Germania, si raggiungono i 350 casi su 100.000 abitanti. Inoltre, ogni anno negli USA si registrano 400.000 nuovi casi di cefalea posttraumatica cronica ed in Germania oltre 60.000. La vasta portata del fenomeno impone la necessità di effettuare una corretta diagnosi e di impostare un adeguato e precoce intervento terapeutico atto ad evitare la cronicizzazione. Quando una nuova cefalea si verifica per la prima volta in stretta relazione temporale a un evento traumatico noto, essa è codificata come cefalea secondaria attribuibile a un trauma; diverso è,
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invece, il caso di un paziente affetto precedentemente da una cefalea primaria che peggiora in stretta relazione temporale con il manifestarsi di un’altra patologia, nel nostro caso il traumatismo. Se nella precedente classificazione IHS si concludeva che solo una nuova cefalea poteva essere diagnosticata come secondaria, quella attuale ha evidenziato come ciò risulti inaccettabile in talune situazioni: ad esempio, un paziente che nel corso della vita ha avuto rari attacchi emicranici e che dopo un trauma cranico inizia ad avere attacchi emicranici disabilitanti plurisettimanali. In accordo con il precedente sistema classificativo, questo paziente poteva solo ricevere la diagnosi di emicrania, mentre la nuova classificazione prevede l’esistenza di cefalee primarie che vengono significativamente peggiorate in stretta correlazione temporale con altri disordini che, sostenuti da buone evidenze scientifiche, siano a loro volta in grado di causare cefalea. È quindi possibile oggi formulare due diagnosi: quella della cefalea primaria e la diagnosi della cefalea secondaria, limitando il problema codificativo alla decisione di usare la prima soltanto o se affiancare a essa la cefalea secondaria. Fattori che supportano l’uso di due diagnosi sono: a) una relazione temporale veramente stretta; b) un marcato peggioramento della cefalea primaria; c) le prove che l’altro disordine è in grado di aggravare la cefalea primaria nel modo osservato; d) la remissione della cefalea a seguito di terapia o a seguito della cessazione dell’altro disordine. In molti casi di cefalea secondaria, la diagnosi è definita solo quando la cefalea si risolve o migliora nettamente nell’arco di un certo periodo di tempo a seguito dell’effettivo trattamento o della spontanea remissione della patologia causale e, in questi casi, questa relazione temporale è parte essenziale dell’evidenza di causa. Non è così nel caso delle cefalee attribuite a trauma: se la causa è, infatti, determinata dalla stretta relazione temporale con l’evento traumatico, la cefalea dopo un trauma può spesso persistere ben oltre tre mesi dal trauma determinando una diagnosi di “Cefalea cronica post-traumatica” (5.2). In ogni caso, fino a che non è trascorso il tempo predefinito di tre mesi, si parla di “Cefalea post-traumatica acuta” (5.1). Identiche procedure diagnostiche si applicano per i traumatismi della colonna cervicale.
Patogenesi L’esatta fisiopatologia della cefalea post-traumatica non è nota, ma probabilmente differenti meccanismi algogeni entrano in gioco di volta in volta a determinare un particolare aspetto clinico; per quanto queste cefalee siano presumibilmente una risposta organica al trauma, la loro persistenza cronica in taluni pazienti richiede altre spiegazioni. È stato ipotizzato in passato che una sindrome post-concussiva potesse essere, almeno in parte, la conseguenza di un danno del tronco encefalico e della sostanza bianca, sulla base di esperimenti condotti su animali. Tale teoria appare oggi non sostenibile, a fronte del notevole numero di osservazioni che mostrano una mancanza di correlazione tra sindrome postraumatica, in particolare la cefalea, e severità del trauma subìto. La cefalea post-traumatica acuta, che fa seguito a un trauma cranico o a un colpo di frusta con variabile componente di torsione, è verosimilmente il risultato di impulsi algogeni somatici multisegmentali che nascono da muscoli, legamenti e dischi intervertebrali e da fibre di nervi simpatici che penetrano nel midollo cervicale tramite le fibre C dei rami dorsali di C2-C5, convergendo nel nucleo caudale del trigemino. Questa convergenza crea possibili basi neuroanatomiche che consentono al dolore cervico-nucale di riferirsi in regione frontale e viceversa. Altra interpretazione vede una compressione traumatica delle fibre di C2 a livello dell’articolazione atlanto-assiale ed ancora il coinvolgimento del nervo vertebrale con concomitante ischemia nei territori di pertinenza dell’arteria vertebrale. Sempre nella cefalea post-traumatica acuta con caratteristiche simili a quelle della cefalea tensiva, vi potrebbe essere un’anomalia del sistema antinocicettivo serotoninergico discendente, analogamente a quanto ipotizzato per la forma primaria [20, 21].
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Il dolore, specie quello cronico, può essere influenzato quantitativamente e qualitativamente da svariati fattori psicologici e cognitivi [22]. Infatti, una cronicizzazione della cefalea post-traumatica è stata correlata non solo allo stato psicologico esistente al momento dell’osservazione, ma anche a un tratto di personalità preesistente al trauma stesso. L’aspettativa di dolore e l’attenzione riposta possono prolungare ed amplificare la sintomatologia algica, mentre una riduzione dell’attesa di dolore e la distrazione possono comportare un effetto opposto. Tali variazioni sono inevitabilmente determinate da dinamiche sociali e culturali [23]. Pazienti con dolore cronico hanno evidenziato una maggior incidenza di aspetti psicopatologici rispetto a popolazioni di controllo libere da dolore e, soggetti con cefalea cronica post-traumatica hanno elevati livelli di alterazioni psicologiche [24]. Sebbene una variazione psicologica sia spesso aspetto direttamente correlato al traumatismo cranioencefalico e/o al colpo di frusta cervicale, tali sintomi sembrano essere consequenziali al dolore cronico piuttosto che ad un tratto psicopatologico preesistente al trauma stesso [25, 26]. Sono stati riportati diverse variazioni fisiologiche encefaliche dopo traumatismo cranico, tutte però aspecifiche. Studi SPECT, PET e rCBF hanno evidenziato una riduzione del consumo di glucosio e della perfusione ematica in alcune aree cerebrali di soggetti affetti da cefalea cronica post-traumatica; trattasi comunque di lavori condotti in aperto e su casistiche ridotte [2729]. Una differente perfusione ematica interemisferica è stata inoltre individuata in un’elevata percentuale di pazienti affetti da cefalea cronica post-traumatica, come anche in soggetti emicranici [30]. Segnalato inoltre un aumento in latenza della P300 ai potenziali evocati eventocorrelati [30].
Diagnosi La diagnosi si basa sulla verifica dei criteri IHS, attraverso una dettagliata anamnesi, un esame generale e neurologico completi e l’esecuzione delle opportune indagini neuroradiologiche, strumentali e di laboratorio. Il processo diagnostico dovrà escludere altri tipi di patologia quali emorragia cerebrale, ematomi epidurali e subdurali, ipotensione liquorale, trombosi venose, epilessia, processi occupanti spazio. Inoltre si dovrà porre attenzione alla possibilità di simulazioni e di reazioni psichiche di conversione. Poiché non esiste un esame o un test in grado di diagnosticare la cefalea post-traumatica, la scelta degli esami da richiedere dovrà essere guidata dai dati clinico-anamnestici. L’esecuzione di una TC cranio con finestre ossee, da ritenersi inemendabile, potrà identificare fratture della volta o della base oltre che ematomi, contusioni focali, idrocefalo. La RM dell’encefalo è più sensibile per evidenziare contusioni focali non emorragiche. Quando si associa anche trauma distorsivo cervicale, è opportuno effettuare una radiografia cervicale con differenti proiezioni per ricercare eventuali fratture e lussazioni. La radiografia cervicale dinamica in flessione ed estensione è utile per evidenziare segni indiretti di lesioni ligamentose o danni strutturali, come una spondilolistesi in fase dinamica. Non bisogna trascurare lo studio dell’articolazione atlanto-epistrofea per diagnosticare eventuali fratture del dente o lussazioni. L’elettroencefalogramma, pur non trovando indicazione routinaria nella valutazione della cefalea post-traumatica, può talora evidenziare, in fase precoce, anomalie lente più o meno lateralizzate ed aspecifiche, che tendono a normalizzarsi entro un tempo variabile da poche ore fino ad alcune settimane. Ovviamente, tale indagine riveste invece ruolo preminente nel sospetto di patologia epilettica o quando si siano avute o persistano modificazioni dello stato di vigilanza e di coscienza precedenti o susseguenti al trauma cranio encefalico.
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Anomalie dei potenziali evocati acustici sono state rilevate nel 10-20% dei soggetti affetti da sindrome post-traumatica, in correlazione con una perdita di coscienza più prolungata, ma senza relazione con la presenza di sintomi vertiginosi. Il potenziale evocato P300 è stato, invece, messo in relazione con le funzioni cognitive ed è stato osservato che la sua ampiezza tende a decrescere con il ridursi dei livelli di attenzione. La sua utilità nella valutazione dei deficit attentivomnesici, spesso lamentati dai pazienti con cefalea post-traumatica, non è ben definita, in quanto le modificazioni di ampiezza correlano anche con i punteggi riportati dai pazienti nelle scale di valutazione dell’ansia. L’elettronistagmografia mostra reperti anomali nel 40-50% dei casi di trauma cranio-cervicale. Nei soggetti che, oltre ad una cefalea, lamentano sintomi vestibolari, le prove caloriche ed i test rotazionali andrebbero sempre effettuati, in quanto le prime sono positive in circa il 63% dei casi di colpo di frusta e il 68% dei casi di trauma cranico, mentre i secondi mostrano anomalie nel 56% dei pazienti con colpo di frusta e nell’83% di quelli con trauma cranico. Quando vi sia il sospetto di deficit mnesici è utile la somministrazione di opportuni test neuropsicologici (specie di attenzione selettiva), i cui risultati vanno comunque interpretati con cautela e sempre rapportati ai dati clinico-strumentali per la possibile influenza di fattori psicologici. Infatti, i pazienti con cefalea post-traumatica mostrano una maggiore prevalenza di disturbi psicopatologici rispetto a individui con altri tipi di cefalea e a pazienti con altre forme di dolore cronico, sebbene non sia stato definito uno specifico pattern psicopatologico di fondo in questi pazienti [32, 33].
Trattamento Il trattamento della cefalea post-traumatica si basa sull’utilizzo di terapie farmacologiche e non, per quanto la carenza di studi controllati in letteratura porti ad una mancanza di evidenze scientifiche per poterne raccomandare l’uso di una determinata terapia rispetto ad altre. Una corretta informazione unita alla rassicurazione del paziente, è spesso sufficiente ad evitare inutili e ripetuti esami diagnostici e a garantire una maggiore risposta terapeutica ed una più rapida ripresa delle consuete attività. Tra i farmaci sintomatici sono utilizzati comuni analgesici e antinfiammatori non steroidei grazie ai quali, una volta esclusi processi emorragici, spesso si assiste a un rapido miglioramento clinico. Un loro uso eccessivo e protratto nel tempo espone il paziente al rischio di complicanze della cefalea per l’abuso farmacologico. Può essere utile l’utilizzo di miorilassanti periferici, spesso associabili alle altre terapie in corso. La terapia farmacologica profilattica è necessaria nei pazienti con forme croniche e/o con crisi di cefalea frequenti e si basa soprattutto sull’uso di amitriptilina. Questa è efficace in più dei due terzi dei pazienti con cefalea post-traumatica, a dosi variabili tra i 10 e i 150 mg. Anche altri antidepressivi, triciclici ed SSRI, possono rivelarsi utili. Il frequente rilievo di comorbidità con ansia e depressione impone una terapia farmacologica appropriata e, in pazienti affetti da concomitanti disturbi psicopatologici, spesso è utile un approccio comportamentale o cognitivo di supporto. Il ruolo delle terapie non farmacologiche è fondamentale. Il dolore cranio-cervicale acuto può essere trattato con l’utilizzo di un collare, ma per non più di 14 giorni, onde evitare l’ipovalidità da inattività della muscolatura cervicale. Il biofeedback mette il paziente in condizioni di poter riconoscere l’eccessiva tensione muscolare e di ridurla con il controllo volontario. Proprio nella pratica quotidiana appare, in definitiva, evidente come il trattamento della cefalea post-traumatica debba essere il più possibile individualizzato e supportato da un buon rapporto medico-paziente [34, 35].
Cefalea attribuita a traumi del capo e/o del collo
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Altre forme di cefalea del gruppo 5 Cefalea acuta attribuita a distorsione del rachide cervicale (colpo di frusta) Criteri diagnostici: A. cefalea, senza caratteristiche tipiche note, che soddisfa i criteri C e D; B. storia di trauma distorsivo del rachide cervicale (o colpo di frusta) – improvviso e significativo movimento di accelerazione/decelerazione del collo – associato temporalmente a dolore del collo; C. la cefalea si sviluppa entro 7 giorni dopo il trauma distorsivo cervicale; D. uno o più dei seguenti aspetti; 1. la cefalea si risolve entro 3 mesi dal trauma distorsivo cervicale, 2. la cefalea persiste ma non sono ancora trascorsi 3 mesi dal trauma cervicale.
Cefalea cronica attribuita a distorsione del rachide cervicale (colpo di frusta) Criteri diagnostici: A. cefalea, senza caratteristiche tipiche note, che soddisfa i criteri C e D; B. storia di trauma distorsivo del rachide cervicale (o colpo di frusta) – improvviso e significativo movimento di accelerazione/decelerazione del collo – associato temporalmente a dolore del collo; C. la cefalea si sviluppa entro 7 giorni dopo il trauma distorsivo cervicale; D. la cefalea persiste per oltre 3 mesi dal trauma cervicale.
Cefalea attribuita a ematoma intracerebrale post-traumatico Cefalea attribuita a ematoma epidurale Criteri diagnostici: A. cefalea a esordio acuto, senza caratteristiche tipiche note, che soddisfa i criteri C e D; B. evidenza alle neuroimmagini di ematoma epidurale; C. la cefalea si sviluppa da pochi minuti a 24 ore dopo la formazione dell’ematoma; D. uno o più dei seguenti aspetti: 1. la cefalea si risolve entro 3 mesi dopo evacuazione chirurgica dell’ematoma, 2. la cefalea persiste ma non sono ancora trascorsi 3 mesi dall’evacuazione chirurgica dell’ematoma.
Cefalea attribuita a ematoma subdurale Criteri diagnostici: A. cefalea a esordio acuto o graduale, senza caratteristiche tipiche note, che soddisfa i criteri C e D;
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B. evidenza alle neuroimmagini di ematoma suddurale; C. la cefalea si sviluppa entro 24-72 ore dopo la formazione dell’ematoma; D. uno o più dei seguenti aspetti: 1. la cefalea si risolve entro 3 mesi dopo evacuazione chirurgica dell’ematoma, 2. la cefalea persiste ma non sono ancora trascorsi 3 mesi dall’evacuazione chirurgica dell’ematoma.
Cefalea attribuita ad altri traumi del capo e/o del collo Cefalea acuta attribuita ad altri traumi del capo e/o del collo Criteri diagnostici: A. cefalea, senza caratteristiche tipiche note, che soddisfa i criteri C e D; B. evidenza di traumi cranici e/o del collo di un tipo non descritto in precedenza; C. la cefalea si sviluppa in stretta relazione temporale al trauma cranico e/o del collo, e/o esiste altra evidenza per stabilire la relazione causale con il trauma; D. uno o più dei seguenti aspetti: 1. la cefalea si risolve entro 3 mesi dal trauma cranico e/o del collo, 2. la cefalea persiste ma non sono ancora trascorsi 3 mesi dal trauma cranico e/o del collo.
Cefalea cronica attribuita ad altri traumi del capo e/o del collo Criteri diagnostici: A. cefalea, senza caratteristiche tipiche note, che soddisfa i criteri C e D; B. evidenza di traumi cranici e/o del collo di un tipo non descritto in precedenza; C. la cefalea si sviluppa in stretta relazione temporale al trauma cranico e/o del collo, e/o esiste altra evidenza per stabilire la relazione causale con il trauma; D. la cefalea persiste per oltre 3 mesi dal trauma cranico e/o del collo.
Cefalea post-craniotomia Cefalea acuta post-craniotomia Criteri diagnostici: A. cefalea di intensità variabile, più severa nell’area della craniotomia, che soddisfa i criteri C e D; B. craniotomia non eseguita per il trauma cranico; C. la cefalea si sviluppa entro 7 giorni dalla craniotomia D. uno o più dei seguenti aspetti:; 1. la cefalea si risolve entro 3 mesi dalla craniotomia, 2. la cefalea persiste ma non sono ancora trascorsi 3 mesi dalla craniotomia.
Cefalea cronica post-craniotomia Criteri diagnostici: A. Cefalea di intensità variabile, più severa nell’area della craniotomia, che soddisfa i criteri C e D;
Cefalea attribuita a traumi del capo e/o del collo
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B. craniotomia non eseguita per il trauma cranico; C. la cefalea si sviluppa entro 7 giorni dalla craniotomia; D. la cefalea persiste per oltre 3 mesi dalla craniotomia.
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Capitolo 22
Cefalea attribuita a disordini dell’omeostasi G. D’Andrea
Le cefalee descritte nel capitolo 10 della classificazione ICHD-II dell’International Headache Society (IHS) 2004 (Tabella 22.1), le “cefalee attribuite a disordini dell’omeostasi”, erano prima codificate come “cefalee associate con malattie metaboliche o sistemiche”. La dizione “cefalea attribuita a disordine dell’omeostasi” è stata introdotta perché si è avuta la percezione che tale definizione fosse più vicina alla vera natura di queste cefalee. In questo capitolo sono state poste cefalee prima incluse in altre sezioni della classificazione, quali: cefalea dovuta a modificazioni significative della pressione arteriosa e quelle indotte da ischemia miocardica. Inoltre, ne fanno parte le cefalee dovute a disordini dei meccanismi omeostatici di vari organi e tessuti, comprese quelle dovute ad alterazioni della concentrazione di gas nel sangue arterioso, a disordini del volume circolante, come nella dialisi, a disordini endocrini e, infine, la cefalea da digiuno. In dettaglio il capitolo 10 include: Tabella 22.1
Classificazione ICHD-II
10 Cefalee attribuite a disordini dell’omeostasi 10.1 Cefalea attribuita a ipossia e/o ipercapnia 10.1.1 Cefalea da altitudine 10.1.2 Cefalea dei subacquei (o da immersione) 10.1.3 Cefalea da apnee del sonno 10.2 Cefalea da dialisi 10.3 Cefalea attribuita a ipertensione arteriosa 10.3.1 Cefalea attribuita a feocromocitoma 10.3.2 Cefalea attribuita a crisi ipertensive senza encefalopatia ipertensiva 10.3.3 Cefalea attribuita a encefalopatia ipertensiva 10.3.4 Cefalea attribuita a pre-eclampsia 10.3.5 Cefalea attribuita a eclampsia 10.3.6 Cefalea attribuita alla risposta pressoria acuta a un agente esogeno 10.4 Cefalea attribuita a ipotiroidismo 10.5 Cefalea attribuita al digiuno 10.6 Cefalea cardiaca 10.7 Cefalea attribuita ad altri disturbi dell’omeostasi
Cefalee attribuite a disordini dell’omeostasi La diagnosi di cefalea secondaria ad un disordine dell’omeostasi può essere posta quando essa insorge in stretta relazione temporale con l’inizio del disordine stesso e/o si risolve o migliora dopo trattamento specifico e/o dopo risoluzione spontanea. Le caratteristiche cliniche
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G. D’Andrea
(emicranica, tensiva o a grappolo) della cefalea non ne modificano la codifica. Se la cefalea è preesistente e peggiora in stretta relazione temporale con l’insorgere del disturbo dell’omeostasi vi sono due possibilità di diagnosi: una relativa alla cefalea preesistente oppure una relativa ad entrambe le diagnosi. La seconda diagnosi è supportata dalla stretta correlazione temporale con il disordine dell’omeostasi, da un marcato peggioramento della cefalea preesistente, da evidenze forti che il disordine dell’omeostasi può aggravare la cefalea primaria e dalla risoluzione della cefalea con il miglioramento o la scomparsa del disordine dell’omeostasi. Nel caso la cefalea non regredisca entro 3 mesi dal trattamento del disturbo omeostatico o dalla sua risoluzione spontanea, deve essere posta diagnosi di “Cefalea cronica post-disturbo dell’omeostasi”. Le cefalee secondarie elencate in questo gruppo sono forme di maggior riscontro nell’anziano. Analizziamo in dettaglio i criteri diagnostici e le caratteristiche cliniche di ognuna di queste forme.
Cefalea attribuita a ipossia e/o ipercapnia La nuova classificazione IHS la definisce come una cefalea che compare entro 24 ore dall’esordio acuto di ipossia, con una pressione arteriosa di O2 (PaO2) inferiore a 70 mmHg, o in pazienti esposti cronicamente a condizioni di ipossia, con una PaO2 costantemente sotto il precedente livello. Spesso risulta difficile separare gli effetti dell’ipossia da quelli dell’ipercapnia. Nonostante la classificazione imponga un livello di 70 mmHg come cut-off per la definizione di ipossia, pazienti che manifestano cefalea con valori di pressione di ossigeno arteriosa superiori a 70 mmHg, ma per i quali sia ben evidente la correlazione tra l’esordio della cefalea e una improvvisa riduzione dei livelli di PaO2, possono essere classificati in questo gruppo. L’ipossia può verificarsi in diverse condizioni: per una ridotta concentrazione ambientale di O2, come nella cefalea da altitudine, o in casi in cui a normale altitudine vi sia una bassa concentrazione di O2 ambientale, oppure quando, pur in presenza di una concentrazione ambientale di O2 normale, vi sia una patologia polmonare o un difetto di ossigenazione del sangue come nei casi di anemia, di insufficienza cardiaca, di intossicazione da monossido di carbonio o di ipossia cellulare, come nell’avvelenamento da cianuro. Non è ancora chiaro come l’ipossia possa determinare cefalea. Probabilmente un aumento del flusso ematico cerebrale determina vasodilatazione dolorosa, attraverso la stimolazione delle fibre nervose intravasali trigeminali. Tuttavia quest’ipotesi vascolare non appare completamente esaustiva.
Cefalea da altitudine Storicamente la prima descrizione di questa cefalea si deve a Jose De Acosta, nel 1569, dopo una salita in groppa ad un asino sino a un’altitudine di 12.500 piedi. Da allora, questa forma di cefalea è stata correlata alla malattia da alta montagna. La cefalea del “mal di montagna” è caratterizzata da un dolore pulsante, tipicamente localizzato in sede frontale, spesso bilaterale (unilaterale soltanto nel 25% dei pazienti), peggiorato dall’aumentare dell’altitudine, dallo sforzo fisico e alleviato dall’assunzione di bevande fredde o carboidrati, associato a nausea, vomito, vertigini, tachicardia e disturbi della vista. La cefalea da altitudine è stata descritta anche nella malattia da decompressione degli aviatori (42% dei casi). Il miglior trattamento risulta essere il ritorno ad un’altitudine normale. Può essere associata a edema cerebrale o ad un’aumentata pressione del liquor in alcuni casi più severi. Dal punto di vista terapeutico l’unico farmaco testato contro placebo è il desametasone (4 mg ogni 6 ore all’esordio dei sintomi). Non deve essere usato per lunghi periodi di tempo e deve essere ridotto gra-
Cefalea attribuita a disordini dell’omeostasi
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dualmente per evitare la recidiva dei sintomi. Segnalazioni empiriche riguardano l’uso dell’acetazolamide. Si ritiene che la cefalea da altitudine sia legata direttamente all’ipossia piuttosto che ad ogni altro tipo di stress che può intercorrere durante la permanenza in altitudine. I nuovi criteri diagnostici IHS definiscono la cefalea da altitudine come: A. cefalea con almeno 2 delle seguenti caratteristiche e che segue i criteri C e D: 1. bilaterale, 2. frontale o fronto-temporale, 3. di tipo gravativo o costrittivo, 4. di intensità lieve o moderata, 5. peggiorata da sforzo fisico, movimento, tosse o chinarsi in avanti, affaticamento; B. compare solo per ascese ad altitudini superiori ai 2500 m; C. la cefalea compare entro 24 ore dall’ascesa; D. si risolve entro 8 ore dalla discesa. Questa cefalea compare in oltre l’80% dei soggetti che raggiungono altitudini elevate. È indipendente dalla presenza di una storia di cefalea preesistente, sebbene i pazienti emicranici possono avere una cefalea più severa con caratteristiche simili a quella emicranica. Il “mal di montagna acuto” è caratterizzato da cefalea di intensità almeno moderata, associata a uno o più sintomi quali nausea, vomito, astenia, vertigini e disturbi del sonno. L’acetazolamide (125 mg, due o tre volte al giorno) può ridurre la suscettibilità alla comparsa dei sintomi. Strategie preventive comprendono l’acclimatamento in altitudine per almeno 2 giorni prima di sottoporsi a intensi sforzi fisici, evitando l’assunzione di alcool e aumentando l’introito di liquidi. La maggior parte dei casi di cefalea da altitudine risponde agli analgesici semplici, quali il paracetamolo o l’ibuprofene.
Cefalea dei subacquei (cefalea da immersione) L’attuale classificazione delle cefalee ha riconosciuto dignità nosografica alla cosiddetta “cefalea dei subacquei o da immersione”, i cui criteri diagnostici IHS sono i seguenti: A. cefalea, senza caratteristiche tipiche note , che segue i criteri C e D; B. immersione a una profondità di oltre 10 m; C. la cefalea compare durante l’immersione ed è associata ad almeno 1 dei seguenti sintomi di intossicazione da CO2 in assenza di malattia da decompressione: 1. lieve sensazione di testa leggera, 2. confusione mentale, 3. dispnea, 4. sensazione di calore al volto, 5. incoordinazione motoria; D. La cefalea si risolve entro 1 ora dopo il trattamento con O2 al 100%. L’ipercapnia (pressione arteriosa di CO2 > 50 mmHg) determina vasodilatazione cerebrale e aumento della pressione intracranica, inducendo cefalea anche in assenza di ipossia. Uno sforzo fisico intenso, in immersione, provoca un aumento di 10 volte della produzione di CO2 con conseguente aumento della PaCO2 superiore a 60 mmHg. La cefalea, di solito, si intensifica nella fase di decompressione lenta di una immersione o dopo la riemersione per una improvvisa riduzione della tensione di CO2. La cefalea associata a ritenzione di CO2 si sviluppa gradualmente e si localizza bilateralmente in sede frontale, temporale o occipitale. Il dolore è tipicamente pulsante, di intensità da lieve a severa e dura in media da 10 a 30 minuti, anche se in alcuni casi può persistere per alcune ore, associato a nausea e malessere generale. FANS ed ergotaminici sono risultati inefficaci nel trattamento sintomatico di questo tipo di cefalea. La prevenzione rappresenta l’unico rimedio efficace. Il sommozzatore deve fare respiri lenti e profondi ed evitare
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G. D’Andrea
respirazioni rapide o sforzi fisici prolungati sott’acqua. Il regolatore delle bombole d’aria dovrebbe essere mantenuto a un livello tale da ridurre al minimo le resistenze respiratorie. Devono essere sempre evitati prima di un’immersione farmaci sedativi quali gli oppioidi, il butalbital o le fenotiazine in quanto possono alterare il livello di vigilanza, in particolare a profondità di 20-30 metri, quando la narcosi da gas inerti può determinare un’alterazione delle funzioni cognitive. Gli oppioidi, inoltre, possono provocare depressione respiratoria che può aggravare la ritenzione di CO2. In soggetti emicranici che devono sottoporsi a immersioni frequenti, sono da evitare i β-bloccanti in quanto possono smascherare i sintomi di un’asma latente e ridurre le performances fisiche. Una cefalea lieve, aspecifica è comune in sommozzatori con malattia da decompressione e può associarsi a dolori muscolari e scheletrici e, nei casi più gravi, a sintomi neurologici focali e respiratori, perdita di coscienza o deficit cognitivi. La cefalea nei sommozzatori può essere il risultato di un’intossicazione da monossido di carbonio che raramente contamina le bombole di aria compressa quando il sistema di erogazione d’aria è posizionato in modo da immettere aria espirata. Tale cefalea è codificata come 8.1.3 “Cefalea indotta da monossido di carbonio”. L’immersione deve essere considerata come un fattore scatenante e non causale nei soggetti affetti da emicrania o altra cefalea primaria, in cui si scatena lo specifico attacco doloroso.
Cefalea da apnee in sonno L’attuale classificazione ICHD-II prevede i seguenti criteri diagnostici: A. cefalea ricorrente con almeno una delle seguenti caratteristiche e che segue i criteri C e D: 1. si verifica per più di 15 giorni al mese, 2. bilaterale, gravativa e non associata a nausea, fotofobia e fonofobia, 3. ogni attacco di cefalea si risolve in 30 minuti; B. l’apnea in sonno (Indice di Disturbo Respiratorio > 5) è dimostrata dalla polisonnografia notturna; C. la cefalea è presente al risveglio; D. la cefalea si risolve in 72 ore e non ricompare dopo trattamento risolutivo delle apnee. La diagnosi di “cefalea da apnee in sonno” (10.1.3) richiede uno studio polisonnografico notturno. Non è chiaro se il meccanismo patogenetico di questa forma di cefalea sia correlabile all’ipossia, all’ipercapnia o ad un disturbo del sonno. Le più recenti registrazioni della saturazione di O2 e CO2 di fine espirazione suggeriscono che questa forma di cefalea sia legata ad una condizione mista di ipossia e ipercapnia, piuttosto che alla sola ipossia. Infine, è stato suggerito che movimenti del collo durante il sonno possano essere coinvolti nella patogenesi della cefalea da apnee in sonno.
Cefalea da dialisi È noto da tempo che l’imponente ricambio di acqua ed elettroliti che si verifica durante il trattamento dialitico può indurre cefalea. Ciò determinerebbe modificazioni anche in altri distretti quali la barriera emato-encefalica, il volume vascolare venoso e, persino, il volume intracellulare neuronale, quest’ultimo correlato in particolare agli scambi idrici. Bana et coll., nel 1972, hanno osservato 44 pazienti in trattamento dialitico, riportando che il 70% lamentava cefalea durante l’emodialisi. Alcuni pazienti riferivano un dolore con caratteristiche simili ad una cefalea di tipo tensivo mentre altri, precedentemente affetti da emicrania, riferivano attacchi del tutto simili alle proprie crisi emicraniche. Gli Autori correlavano
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l’intensità del dolore con alcuni fattori quali la presenza di ipertensione arteriosa, intervalli di tempo più lunghi tra le sedute di dialisi, l’ipotensione durante la dialisi, l’iponatriemia e la riduzione dell’osmolalità. La cefalea scompariva dopo nefrectomia bilaterale e successivo trapianto di rene. La classificazione IHS prevede i seguenti criteri diagnostici: A. il paziente è in dialisi; B. almeno 3 attacchi di cefalea acuta che seguono i criteri C e D; C. la cefalea compare in almeno la metà delle sedute dialitiche; D. la cefalea si risolve entro 72 ore dal termine di ciascuna seduta dialitica e/o scompare dopo trapianto renale. Di solito nei pazienti sottoposti a dialisi compare cefalea in associazione ad ipotensione e sindrome da squilibrio idro-elettrolitico conseguente al trattamento dialitico. Si tratta di una sindrome rara che può essere prevenuta modificando i parametri di dialisi.In alcuni pazienti sottoposti a dialisi che continuano a manifestare cefalea, nonostante le modificazioni dei parametri di trattamento, si deve considerare la possibilità che il paziente assuma grandi quantità di caffeina e sperimenti ad ogni seduta dialitica una “cefalea da sospensione di caffeina” (8.4.1) dal momento che tale sostanza viene rapidamente e completamente eliminata dalla dialisi.
Cefalea attribuita a ipertensione arteriosa L’ipertensione arteriosa viene definita dall’OMS come un regime pressorio costantemente al di sopra di mmHg per la pressione diastolica e/o al di sopra di 160 mmHg per la pressione sistolica. Il limite tra valori pressori nella norma ed elevati è stato fissato a 90 mmHg di pressione diastolica. In tale range pressorio ricade il 10-20% della popolazione generale per la quale l’ipertensione rappresenta un importante fattore di aumentato rischio di mortalità cardiovascolare e cerebrovascolare. Nel 1992 uno studio condotto sulla popolazione generale danese indicava che non vi erano differenze nell’incidenza delle cefalee, diagnosticate secondo i criteri della classificazione IHS, tra soggetti ipertesi e normotesi. Tuttavia, è stato dimostrato che donne emicraniche presentavano valori di pressione diastolica superiore a donne non emicraniche. Tutti gli studi condotti su campioni di pazienti ipertesi indicano che l’incidenza della cefalea correla con un regime pressorio elevato e non controllato farmacologicamente. Si riscontra, infatti, una maggiore incidenza (intorno all’80% dei casi) nelle forme di ipertensione parossistica secondaria a feocromocitoma. La cefalea correlata all’ipertensione grave riconosce un meccanismo vascolare derivante dalla vasodilatazione o dall’aumento delle resistenze vascolari indotto dall’ipertensione. Le evidenze a favore sono di tipo indiretto. Probabilmente la cefalea da ipertensione è conseguente alla perdita del meccanismo di autoregolazione cerebrovascolare e alla formazione di edema cerebrale, fondamentale nell’instaurare un’encefalopatia ipertensiva. Nell’ipertensione maligna, la pressione intracranica è marcatamente aumentata probabilmente a causa dell’edema cerebrale cronico di modesta entità, che può essere implicato nella patogenesi della cefalea in questi pazienti. Nella precedente classificazione IHS del 1998, le forme elencate al punto 10.3 erano comprese nel gruppo 6 e precisamente al punto 6.8. L’attuale classificazione IHS precisa, nei commenti introduttivi ai criteri diagnostici delle singole forme comprese al punto 10.3, che l’ipertensione arteriosa cronica lieve (140-159/90-99 mmHg) o moderata (160-179/100-109 mmHg) non sembra determinare cefalea. Tuttavia, resta ancora oggi in dubbio se un’ipertensione moderata predisponga o meno alla cefalea, a fronte di alcune evidenze in proposito. Il monitorag-
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gio ambulatoriale della pressione arteriosa in pazienti con ipertensione lieve o moderata non ha mostrato evidenze convincenti sulla correlazione tra le fluttuazioni pressorie nelle 24 ore e la presenza o assenza di cefalea.
Cefalea attribuita a feocromocitoma I criteri diagnostici previsti attualmente dall’IHS per questa forma di cefalea (in precedenza codificata al punto 6.8.2) sono i seguenti: A. attacchi intermittenti di cefalea accompagnata da almeno uno dei seguenti sintomi e che segue i criteri C e D: 1. sudorazione, 2. palpitazioni, 3. ansia, 4. pallore; B. la presenza di feocromocitoma deve essere dimostrata da indagini biochimiche, di imaging e chirurgiche; C. la cefalea si sviluppa in concomitanza con un brusco aumento della pressione arteriosa; D. la cefalea si risolve o migliora entro 1 ora dalla normalizzazione dei valori pressori. Attacchi di cefalea ad andamento parossistico si manifestano nel 51-80% dei pazienti con feocromocitoma. Si tratta di una cefalea spesso di intensità severa, a localizzazione frontale od occipitale, generalmente descritta come pulsante o continua. Una caratteristica distintiva è la sua breve durata: meno di 15 minuti nel 50% e meno di un’ora nel 70% dei casi. Può associarsi ad apprensione e/o ansia, spesso con sensazione di morte improvvisa, tremore, disturbi della vista, tachicardia, dolore addominale o toracico, nausea, vomito e talvolta parestesie.Vi può essere pallore o arrossamento del viso durante l’attacco. La diagnosi deve essere stabilita solo dopo la dimostrazione di un’aumentata escrezione di catecolamine o loro metaboliti e può essere avvalorata dall’analisi di un campione di urine raccolte in 24 ore, in coincidenza con il picco ipertensivo o nella fase di sintomaticità del paziente. Se è presente un’encefalopatia ipertensiva, la cefalea viene codificata come “cefalea attribuita a encefalopatia ipertensiva” (codice 10.3.3). Quando la diagnosi di feocromocitoma non è ancora stata posta, il paziente può soddisfare i criteri diagnostici per “cefalea attribuita a crisi ipertensive senza encefalopatia ipertensiva” (codice 10.3.2).
Cefalea attribuita a crisi ipertensive senza encefalopatia ipertensiva I criteri diagnostici previsti dall’IHS per questa forma di cefalea (in precedenza codificata al punto 6.8.3) sono i seguenti: A. cefalea con almeno una delle seguenti caratteristiche e che segue i criteri C e D: 1. bilaterale, 2. pulsante, 3. scatenata dall’attività fisica; B. presenza di crisi ipertensiva definita come un aumento improvviso dei valori pressori sistolici (>160 mmHg) e/o diastolici (>120 mmHg) senza segni clinici di encefalopatia ipertensiva; C. la cefalea si sviluppa durante la crisi ipertensiva; D. la cefalea si risolve entro 1 ora dalla normalizzazione dei valori pressori; E. appropriate indagini devono escludere tossine vasopressorie o farmaci come fattori causali. Una crisi parossistica ipertensiva può verificarsi in associazione a un’insufficienza dei riflessi barocettori (dopo endoarteriectomia carotidea o dopo irradiazione del collo) o in pazienti con tumori delle cellule enterocromaffini. La cefalea che compare con valori di pressione diastolica
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superiori a 130 mmHg è frequentemente diffusa, compare al risveglio e tende a risolversi nelle ore successive. Spesso è di tipo pulsante e sveglia il paziente dal sonno. L’intensità del dolore aumenta rapidamente in pochi minuti e regredisce più lentamente. I pazienti con ipertensione moderata o lieve possono lamentare una cefalea con caratteristiche tensive. Alcuni Autori ritengono che tali cefalee non abbiano un meccanismo di tipo vascolare, ma siano piuttosto il risultato dell’ansia del paziente di avere valori pressori elevati.
Cefalea attribuita a encefalopatia ipertensiva I criteri diagnostici previsti dall’IHS per questa forma di cefalea (in precedenza codificata al punto 6.8.3) sono i seguenti: A. cefalea con almeno 1 delle seguenti caratteristiche e che segue i criteri C e D: 1. dolore diffuso, 2. pulsante, 3. aggravato dall’attività fisica; B. persistente elevazione dei valori pressori fino a >160/100 mmHg, con almeno 2 dei seguenti sintomi: 1. confusione, 2. riduzione del livello di coscienza, 3. disturbi visivi (diversi da quelli tipici dell’aura emicranica), compresa cecità, 4. crisi epilettiche; C. la cefalea si sviluppa in stretta correlazione temporale con l’aumento dei valori pressori; D. la cefalea si risolve entro 3 mesi dal trattamento e controllo dell’ipertensione; E. devono essere escluse altre cause dei sintomi neurologici osservati. L’encefalopatia ipertensiva si verifica quando la vasocostrizione cerebrale compensatoria non riesce a prevenire l’iperperfusione cerebrale, conseguente all’aumento della pressione sanguigna. Quando i normali meccanismi di autoregolazione cerebrale vascolare vengono superati, si verifica un aumento della permeabilità endoteliale con conseguente edema cerebrale. Alla RM encefalica si osserva la presenza di edema della sostanza bianca, prevalentemente in regione parieto-occipitale. Sebbene l’encefalopatia ipertensiva nei pazienti con ipertensione arteriosa cronica si verifica solitamente con valori di pressione diastolica superiori a 120 mmHg e in presenza di retinopatia ipertensiva di grado 3 o 4 (secondo la classificazione di Keith-Wagner), soggetti in precedenza normotesi possono sviluppare segni di encefalopatia con valori pressori inferiori, anche intorno a 160/100 mmHg. La retinopatia ipertensiva può non essere presente al momento della comparsa dei segni clinici di encefalopatia ipertensiva. Ogni causa di ipertensione, tra cui il feocromocitoma e l’assunzione di tossine vasopressive, può determinare l’insorgenza di un’encefalopatia ipertensiva.
Cefalea attribuita a pre-eclampsia I criteri diagnostici previsti dall’IHS per questa forma di cefalea (in precedenza codificata al punto 6.8.4) sono i seguenti: A. cefalea con almeno 1 delle seguenti caratteristiche e che segue i criteri C e D: 1. bilaterale, 2. pulsante, 3. aggravata dall’attività fisica; B. comparsa in gravidanza o puerperio (fino a 7 giorni dopo il parto) e presenza di pre-eclampsia definita da entrambe queste caratteristiche:
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1. ipertensione (>140/90 mmHg) documentata da almeno due misurazioni a distanza di 4 ore l’una dall’altra, 2. escrezione urinaria di proteine superiore a 0,3 gr nelle 24 ore; C. la cefalea si sviluppa durante gli aumenti pressori; D. la cefalea si risolve entro 7 giorni dal trattamento efficace dell’ipertensione; E. indagini appropriate devono escludere tossine vasopressive, farmaci o la presenza di un feocromocitoma come altri fattori causali La pre-eclampsia è un disturbo multi-sistemico che può assumere varie forme. Oltre all’ipertensione e alla proteinuria, possono verificarsi edema tissutale, trombocitopenia e alterazioni della funzione epatica. Si ritiene che sia coinvolta una risposta infiammatoria materna (placentare) imponente, con ampio coinvolgimento del sistema immunitario.
Cefalea attribuita ad eclampsia I singoli casi riportati in letteratura indicano che l’eclampsia può verificarsi anche nel puerperio oltre che in gravidanza. I criteri diagnostici previsti dall’IHS per questa forma di cefalea (in precedenza codificata al punto 6.8.4) sono i seguenti: A. cefalea con almeno 1 delle seguenti caratteristiche e che segue i criteri C e D: 1. bilaterale, 2. pulsante, 3. aggravata dall’attività fisica; B. comparsa in gravidanza o puerperio (fino a 4 settimane dopo il parto) e presenza di eclampsia definita da tutte queste caratteristiche: 1. ipertensione (>140/90 mmHg) documentata da almeno due misurazioni a distanza di 4 ore l’una dall’altra, 2. escrezione urinaria di proteine superiore a 0.3 gr nelle 24 ore, 3. almeno 1 crisi epilettica; C. la cefalea si sviluppa durante gli aumenti pressori; D. la cefalea si risolve entro 7 giorni dal trattamento efficace dell’ipertensione; E. indagini appropriate devono escludere tossine vasopressive, farmaci o la presenza di un feocromocitoma come altri fattori causali; F. deve essere escluso un ictus.
Cefalea attribuita alla risposta pressoria acuta ad un agente esogeno I criteri diagnostici previsti dall’IHS per questa forma di cefalea (in precedenza 6.8.1) sono i seguenti: A. cefalea senza caratteristiche tipiche conosciute che segue i criteri C e D; B. concomitanza tra somministrazione o assunzione di una tossina o adeguata sostanza e aumento improvviso dei valori pressori; C. la cefalea si sviluppa in stretta correlazione temporale con l’aumento dei valori pressori; D. la cefalea si risolve entro 24 ore dalla normalizzazione dei valori pressori; E. non è evidente nessun’altra possibile causa di cefalea. Oltre alla cocaina, altre sostanze che possono indurre un brusco aumento dei valori pressori sono le anfetamine, le sostanze simpaticomimetiche e gli inibitori delle monoammino-ossidasi se interagiscono con cibi contenenti tiramina. Non vi è una convincente evidenza scientifica per indicare quale sia l’entità dell’aumento dei valori pressori capace di determinare cefalea e si ritiene che tale valore possa variare da persona a persona. Il criterio D è arbitrario, ma è stato introdotto per aumentare la specificità dei criteri diagnostici.
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Cefalea attribuita a ipotiroidismo I criteri diagnostici previsti dall’IHS per questa forma di cefalea sono i seguenti: A. cefalea con almeno 1 delle seguenti caratteristiche e che segue i criteri C e D: 1. bilaterale, 2. non pulsante, 3. continua; B. l’ipotiroidismo è dimostrato dalle indagini appropriate; C. la cefalea compare entro 2 mesi dall’esordio degli altri sintomi di ipotiroidismo; D. la cefalea si risolve entro 2 mesi dall’instaurazione di un trattamento efficace per l’ipotiroidismo. È stato calcolato che almeno il 30% dei pazienti con ipotiroidismo soffre di cefalea il cui meccanismo patogenetico non è ancora stato chiarito. Vi è una preponderanza del sesso femminile e spesso una storia di emicrania durante l’infanzia. Tipicamente, tale cefalea non si associa a nausea o vomito.
Cefalea attribuita al digiuno È noto da tempo che una riduzione della concentrazione ematica degli zuccheri rappresenti un fattore scatenante o aggravante un attacco di emicrania. Si ritiene che anche piccole oscillazioni nei livelli di glicemia, soprattutto se prolungati per alcune ore, possano indurre cefalea. Si tratta di una cefalea che ha aspetti diversi dall’emicrania: pur essendo il dolore da moderato a severo, raramente si associa a nausea. I sintomi scompaiono non appena il soggetto ingerisce anche piccole quantità di zuccheri. Blau, nel 1987, aveva infatti osservato che saltare un pasto, soprattutto nei giovani, può essere la causa principale di cefalee pomeridiane con caratteristiche emicraniche. L’ipoglicemia da digiuno deve essere sempre tenuta in considerazione quando il paziente riferisce attacchi di cefalea pomeridiani, spesso alla stessa ora. L’assunzione dell’analgesico insieme a un piccolo pasto può rappresentare un’utile soluzione. Il meccanismo patogenetico con cui il digiuno provoca cefalea non è ancora stato chiarito. Infatti, è possibile osservare casi di cefalea in soggetti diabetici, nonché in soggetti trattati con glucagone, proprio per correggere l’ipoglicemia. Considerando il ruolo centrale del glucosio nel metabolismo energetico cerebrale, è possibile ammettere che, in soggetti predisposti geneticamente, anche piccole variazioni nei livelli ematici di glicemia sono in grado di indurre modificazioni nel sistema nocicettivo cerebrale , tali da determinare cefalea. L’attuale classificazione IHS prevede i seguenti criteri diagnostici: A. cefalea con almeno 1 delle seguenti caratteristiche e che segue i criteri C e D: 1. localizzazione frontale, 2. dolore diffuso, 3. non pulsante, 4. di intensità lieve o moderata; B. il paziente deve essere a digiuno da oltre 16 ore; C. la cefalea si sviluppa durante il digiuno; D. la cefalea si risolve entro 72 ore dopo la riassunzione di cibo. La probabilità che insorga cefalea durante un digiuno aumenta con la durata del digiuno. Non è associata alla durata del sonno, alla sospensione di assunzione di caffeina o all’ipoglicemia.
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Sebbene possa insorgere in condizioni che determinano una riduzione del tasso ematico cerebrale di glucosio, non vi sono evidenze che supportano una correlazione di tipo causale. La cefalea da digiuno può, infatti, verificarsi anche in assenza di ipoglicemia. È stato infatti osservato che l’ipoglicemia indotta dall’insulina non scatena cefalea in soggetti emicranici e la cefalea non rappresenta un sintomo di ipoglicemie sintomatiche che portano il paziente al PS. Sono necessari studi controllati per stabilire l’esistenza di una correlazione causale, ammettendo che essa esista.
Cefalea cardiaca L’attuale classificazione dell’IHS prevede i seguenti criteri diagnostici: A. cefalea, che può essere severa, aggravata dallo sforzo e accompagnata da nausea, che segue i criteri C e D; B. presenza di ischemia acuta del miocardio; C. la cefalea si sviluppa in concomitanza con l’ischemia acuta del miocardio; D. la cefalea si risolve e non si ripresenta dopo terapia medica efficace per l’ischemia miocardica o dopo rivascolarizzazione coronaria. La diagnosi deve comprendere un’attenta e dettagliata documentazione della concomitanza di cefalea e ischemia cardiaca durante uno sforzo o durante registrazione elettrocardiografica sotto sforzo e deve essere sospettata per forme di cefalea che esordiscono in soggetti di età superiore a 50 anni, in particolare se di sesso maschile. Raramente la cefalea rappresenta l’unico sintomo dell’ischemia miocardica. Presenta aspetti molto simili all’emicrania, con cui può essere scambiata. Entrambi i tipi di cefalea si caratterizzano per la presenza di un dolore severo, spesso associato a nausea ed entrambi i tipi possono essere scatenati da uno sforzo fisico. Tuttavia, mentre per il trattamento dell’emicrania sono indicati agenti vasocostrittori, quali i triptani, questi risultano essere controindicati nella cefalea cardiogena. Da considerare, inoltre, che il trattamento dell’angina con nitroderivati può indurre una cefalea con caratteristiche emicraniche. Il meccanismo patogenetico suggerito per questa forma di cefalea si basa sulla convergenza anatomica delle fibre nervose di origine cardiaca su vie centrali che ricevono fibre somatiche afferenti dalla regione del capo, verosimilmente responsabile della percezione del dolore ischemico cardiaco come cefalea. Accanto a questo meccanismo si ritiene, più recentemente, che il rilascio di mediatori neurochimici conseguenti all’ischemia miocardia (quali serotonina, bradichinina, istamina e sostanza P) e aumenti della pressione intracranica da riduzione del ritorno venoso, possano essere coinvolti nella patogenesi di questa rara forma di cefalea.
Cefalea attribuita ad altri disturbi dell’omeostasi Anche per questo gruppo di cefalee, l’attuale classificazione dell’IHS prevede un’ultima forma in cui possono rientrate tutte quelle cefalee associate a disturbi dell’omeostasi dimostrabili, diversi da quelli precedentemente elencati. I criteri diagnostici previsti dall’IHS sono i seguenti: A. cefalea che segue i criteri C e D; B. evidenza di un disturbo dell’omeostasi diverso da quelli precedentemente descritti; C. la cefalea si sviluppa entro 2 mesi dall’esordio del disturbo e vi sono altre evidenze che il disturbo può determinare cefalea; D. la cefalea si risolve entro 3 mesi dalla risoluzione del disturbo dell’omeostasi.
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Letture consigliate Appenzeller O (1978) Cerebrovascular aspects of headache. Med Clin North Am 62:467-480 Bana DS, Yap AU, Graham JR (1972) Headache during hemodialysis. Headache 112:1-14 Biber MP (1988) Nocturnal neck movements and sleep apnea in headache. Headache 28:673-674 Blau JN (1987) Migraine: clinical, therapeutic, conceptual and research aspects. London: Chapman and Hall CheshireWP, Ott MC (2001) Headache in Divers. Headache 41:235-247 Gutierrez-Morlote J, Pascual J (2002) Cardiac cephalgia is not necessarily an exertional headache:case report. Cephalalgia 22:765-766 Headache Classification Committe of the International Headache Society (1988). Classification and diagnostic criteria for headache disorders, cranial neuralgias and facial pain.Cephalalgia 8 (suppl 7):196 Kuschinsky W (1989) Coupling of blood flow and metabolism in the brain-the classical view. In:Seylaz J, Sercombe R, eds. Neurotransmission and cerebrovascular function.Vol 2 Amsterdam:Elsevier 331-342 Martinez HR, Rangel-Guerra RA, Cantù.Martinez L et al (2002) Cardiac headache: hemicranial cephalalgia as the sole manifestation of coronary ischemia. Headache 42:1029-1032 Mountain RD (1983) Treatment of acute mountain sickness (letter). JAMA 250:1392 Rock PB, Johnson TS, Cymerman A et al (1987). Effect of dexamethasone on symptoms of acute mountain sickness at Pikes Peak, Colorado (4.300m). Aviation Space Environ Med 58:668-672 Singh I, Khanna PK, Srivastava MC (1969). Acute mountain sickness. N Engl J Med 280:175-184 The International Classification of Headache Disorders 2nd Edition (2004). Cephalalgia (suppl 1) Vaernes RJ, Owe JO, Myking O (1984) Central nervous reactions to a 6.5-hour altitude exposure at 3048 m. Aviation Space Environ Med 55:921-926
Capitolo 23
Cefalea attribuita a disordini di cranio, collo, occhi, orecchie, seni paranasali, bocca o altre strutture facciali G. Bussone, F. Moschiano Certamente la classificazione e la definizione di una malattia è sempre compito molto difficile ed il campo delle cefalee pone problemi particolari, il più importante dei quali è la carenza di informazioni fisiopatologiche, che si riflettono in una completa assenza di dati di laboratorio che possono essere usati come criteri diagnostici per qualsiasi forma di cefalea primaria. Come è esperienza comune, la cefalea di un singolo paziente, inoltre, può cambiare nel tempo non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente: ad esempio, un paziente che soffre di un’emicrania con aura, in un determinato periodo della sua vita, può soffrire in un altro di un’emicrania senz’aura o, ancora, di una cefalea tensiva. La conseguenza di ciò è che non è possibile classificare i pazienti bensì soltanto le cefalee. L’International Headache Society (IHS) con uno sforzo di anni che ha coinvolto i più importanti ricercatori del mondo, ha elaborato e pubblicato all’inizio del 2004 la seconda edizione della “Classificazione e criteri diagnostici delle cefalee, delle nevralgie craniche e dei dolori facciali”, che rappresenta il tentativo più serio per metter ordine nel complesso capitolo dei dolori del distretto craniocefalico [1]. È quindi a questa classificazione che d’ora in poi tutti gli studiosi di cefalee dovranno attenersi. Si considerano ben quattordici forme di cefalea ed ogni forma, in base a criteri diagnostici ben precisi, prevede numerose varianti con livello di approfondimento diagnostico sempre più sofisticato e sempre più parcellare. Se si considera la precedente Classificazione IHS del 1988 e la si paragona alla recente revisione pubblicata nel gennaio 2004, salta all’occhio evidente una chiara differenza per quanto riguarda le cosiddette cefalee secondarie: il termine “cefalea associata a” è stato sostituito con “cefalea attribuita a” e ciò è molto importante in quanto soltanto i pazienti che sviluppano una nuova forma di cefalea in concomitanza temporale con patologie del cranio vengono classificati in questi gruppi. Se, ad esempio, consideriamo il capitolo di cui ci stiamo occupando (gruppo 11 della classificazione, Tab. 23.1), “Cefalea o dolore facciale attribuito a patologia del cranio, collo, occhi, orecchi, naso, seni paranasali, denti, bocca o altre strutture facciali o craniche”, solo i pazienti che sviluppano una nuova forma di cefalea in corrispondenza temporale con queste patologie vengono classificati in questo gruppo (Tab. 23.1). Molte patologie possono causare sia cefalea che dolore facciale o nevralgico; in questa sezione si considerano solo la condizione di dolore facciale o di cefalee non nevralgiche. Tutte queste cefalee devono soddisfare i seguenti criteri diagnostici: A. evidenza clinica e/o di laboratorio di patologie del cranio, collo ecc.; B. cefalea localizzata alla struttura cranica o facciale interessata con irradiazione del dolore alle aree circostanti. Il dolore può o meno essere riferito ad aree più distanti; C. la cefalea scompare entro un tempo determinato dalla remissione spontanea o dopo trattamento efficace della patologia sottostante. Ad esempio, una cefalea attribuita a patologia ossea del cranio deve risolversi in 3 mesi dalla guarigione della patologia di base; una patologia da glaucoma si deve risolvere in 72 ore dal trattamento efficace del glaucoma stesso; una cefalea da rinosinusite entro 7 giorni dopo la re-
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Tabella 23.1 Cefalea o dolore facciale attribuito a patologia del cranio, collo, occhi,orecchi, naso, seni paranasali, denti, bocca o altre strutture facciali o craniche 11.1 Cefalea attribuita a patologia dell’osso cranico 11.2 Cefalea attribuita a patologia del collo 11.2.1 Cefalea cervicogenica 11.2.2 Cefalea attribuita a tendinite retrofaringea 11.2.3 Cefalea attribuita a distonia craniocervicale 11.3 Cefalea attribuita a patologia degli occhi 11.3.1 Cefalea attribuita a glaucoma acuto 11.3.2 Cefalea attribuita a errori refrattivi 11.3.3 Cefalea attribuita a eteroforia o eterotropia (strabismo latente o manifesto) 11.3.4 Cefalea attribuita a patologia infiammatoria oculare 11.4 Cefalea attribuita a patologia delle orecchie 11.5 Cefalea attribuita a rinosinusite 11.6 Cefalea attribuita a patologia dei denti, mandibole o strutture correlate 11.7 Cefalea o dolore facciale attribuito a patologia dell’articolazione temporomandibolare (ATM) 11.8 Cefalea attribuita ad altra patologia del cranio, collo, occhi, orecchie, naso, seni paranasali, denti, bocca o altre strutture facciali o cervicali
missione per trattamento efficace della forma acuta e così via. Se la cefalea persiste, di solito riconosce altri meccanismi e quindi andrà classificata sotto un’altra voce. I vari items di questa classificazione, sono riportati in Tabella 23.1. È tuttavia necessario fare alcune precisazioni: 1) nel gruppo delle cefalee associate a patologie del naso e seni paranasali si considera come entità precipua la cefalea da sinusite acuta; 2) la sinusite frontale ed etmoidale, sempre nella forma acuta, determina dolori pulsanti nell’angolo interno dell’orbita, oppure il dolore è dietro l’occhio con lacrimazione intensa, sempre più evidente al mattino. Circa le altre malattie del naso e dei seni paranasali si dice: “Altre condizioni che possono causare cefalea quali anomalie del canale nasale per deviazione del setto, ipertrofia dei turbinati e atrofia della membrana del seno, non sono sufficientemente validate. La sinusite cronica non è una causa validata di cefalea o di dolore facciale, a meno che non vada incontro a riacutizzazione” [1]; 3) l’emicrania e la cefalea di tipo tensivo sono spesso confuse con una vera cefalea da sinusite per la simile localizzazione. Affinché si possa diagnosticare la cefalea da sinusite devono essere strettamente osservati i criteri descritti (Tab. 23.2). Contrariamente alla opinione comune, le sinusiti non purulente raramente sono la causa della cefalea; molti pazienti ai quali viene diagnosticata una sinusite, spesso hanno delle crisi emicraniche [2]. 4) malattie dei denti causano di solito dolore facciale, più raramente cefalea. Il dolore di origine dentale può causare cefalea diffusa e dolore di tipo riferito. La più comune causa odontogena di cefalea è quella legata a periodontite per infezione o irritazione traumatica di un dente del giudizio parzialmente incluso [2, 3].
Cefalea attribuita a disordini di cranio, collo, occhi, orecchie, seni paranasali, bocca ... Tabella 23.2
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Cefalea attribuita a rinosinusite
Criteri diagnostici: A. cefalea frontale accompagnata da dolore in una o più regioni della faccia, orecchie o denti e che soddisfa i criteri C e D; B. evidenza clinica, all’endoscopia nasale, alla TC e/o RM e/o laboratoristica di sinusite acuta o cronica riacutizzata; C. cefalea e dolore facciale si sviluppano simultaneamente all’insorgenza o all’esacerbazione acuta di una rinosinusite; D. cefalea e/o dolore facciale si risolvono entro 7 giorni dalla remissione o dal trattamento efficace di una sinusite acuta o di una riacutizzazione di una sinusite cronica. Note: 1. l’evidenza clinica può includere secreto purulento nella cavità nasale, ostruzione nasale, iposmia/anosmia e/o febbre; 2. la sinusite cronica non è validata come causa di cefalea o dolore facciale a meno di una ricaduta in una fase acuta.
Cefalea e malattie oculari Il mal di testa in rapporto alle malattie oculari è di facile riscontro, così vale il contrario, infatti ogni dolore nella zona orbitaria e peri-orbitaria induce a pensare a malattie primitivamente oculari. È questo un dato che gli oculisti ben conoscono perché spesso il paziente si rivolge a loro per ogni mal di testa nell’ipotesi che possa trattarsi di una causa oculare. È opportuno quindi giungere ad una distinzione chiara fra quanto è di competenza strettamente oculare, quanto invece solo un sintomo oculare di cefalea di altra origine. Distingueremo qui due paragrafi, il primo riguarda la cefalea nelle malattie primitivamente oculari, il secondo riguarderà le manifestazioni oculari nelle cefalee.
Cefalea di origine oculare Un necessario primo accertamento è quello di valutare se il dolore è accompagnato da arrossamento del bulbo oculare o da riduzione della capacità visiva, in questo caso l’origine oculare della cefalea è assai probabile. Per quanto riguarda una patologia strettamente a carico del globo oculare, si ricorda che ogni affezione delle palpebre e della congiuntiva può essere causa di cefalea, caratterizzata da dolore continuo esacerbato dalla pressione. Ogni lieve palpazione sul globo oculare provoca un dolore violento in corrispondenza della zona interessata che spesso è arrossata. Per quanto riguarda una patologia strettamente legata al globo oculare si ricorda che il dolore è localizzato al bulbo, qualche volta irradiato all’orbita, il dolore si accentua con i movimenti di chiusura e di apertura delle palpebre, più spesso accompagnato da lacrimazione e da riduzione della vista. In questo capitolo di patologia oculare con manifestazioni di cefalea, importante è il glaucoma (affezione caratterizzata da aumento della tensione endoculare che comporta una progressiva diminuzione della vista).
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Il dolore in questo caso è solitamente accessuale, dura qualche ora, poi si ripete, gli attacchi sono molto violenti, il dolore è localizzato all’orbita e diffuso a volte a tutto l’emicranio, si accompagna ad arrossamento e lacrimazione congiuntivale e soprattutto ad una riduzione della vista con dilatazione della pupilla. Il riconoscimento di questa affezione è più difficile quando non si presenta acutamente ma con dolori vaghi in sede orbitaria, modesta cefalea frontale, visione di cerchi colorati lievemente sfumati intorno a sorgenti luminose. Consultare un oculista è indispensabile. Altra forma di cefalea si riscontra nelle neuriti ottiche, dovute spesso a cause tossiche e infiammatorie, si manifesta inizialmente con dolori profondi, cupi, accompagnati poi da importante riduzione della acuità visiva; il dolore si accentua alla pressione e con i movimenti del bulbo oculare.
Cefalea in sede oculare non di origine oculare Il paziente a volte lamenta di perdere la vista. Questo succede ad esempio in tutti i tumori della fossa orbitaria nei quali il dolore, dai primi momenti saltuario, diventa subcontinuo e soprattutto compare un esoftalmo, cioè l’occhio tende a sporgere dalla sede abituale, il paziente può notare un disassamento del globo oculare, lamenta diplopia e compare una congestione congiuntivale. A questo punto sono necessarie indagini neuroradiologiche e, comunque, un ricovero ospedaliero. Lo stesso dicasi per le affezioni che riguardano le strutture della scatola cranica nella prossimità del globo oculare. Anche nella nevralgia del trigemino il dolore può essere localizzato al globo oculare o nelle zone vicine, quando si tratta di una affezione della prima branca del trigemino, il dolore è sempre monolaterale, violentissimo, di durata molto breve, riferito all’orbita e al bulbo con sensazione di scarica elettrica. Altro dolore nella zona oftalmica è quello che esordisce dopo un Herpes Zooster che interessa la prima branca del trigemino, cioè la zona periorbitaria, in questi casi, passata la sintomatologia acuta resta solitamente un dolore superficiale e urente, il paziente è molto sofferente per un dolore continuo, anche quando sono scomparse le caratteristiche eruzioni vescicolari cutanee. Classici sono i dolori oculari dell’emicrania. Questa, nella sua variante con aura, inizia con disturbi di tipo oculare, il paziente spesso lamenta l’impressione strana di un’area grigia nel mezzo del campo visivo che si estende nei minuti successivi a ferro di cavallo poi alla periferia dell’area grigia si formano delle strie luminose o a greca che si estendono ancora più perifericamente, oppure il paziente lamenta delle macchie nere nel campo visivo o strie scintillanti. Queste manifestazioni oculari che precedono la crisi di tipo emicranico possono essere riferite ad un solo occhio, oppure ad entrambi, è frequente anche che si manifesti un chiaro difetto del campo visivo, il paziente lamenta di non vedere più esattamente come prima, per pochi minuti non ha l’intera percezione del campo visivo. A distanza di circa mezz’ora i disturbi visivi scompaiono lasciando il posto alla cefalea di solito fronto orbitaria, ma anche temporale. Saltuariamente questi disturbi visivi si associano ad una riduzione della rima palpebrale, il malato riferisce “mi si chiude un occhio”, anche questo disturbo è di pronta risoluzione, una volta scomparsa la crisi emicranica che segue a queste manifestazioni iniziali di difetto visivo. Va ricordato in generale che ogni manifestazione che comporta un calo costante della vista ed un dolore costante al globo oculare che si accentua alla palpazione deve lasciar pensare a un disturbo primitivo oculare; nelle forme invece di tipo emicranico, il dolore segue i disturbi oculari che sono sempre transitori accessuali e non lasciano esiti.
Cefalea attribuita a disordini di cranio, collo, occhi, orecchie, seni paranasali, bocca ...
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La patologia dell’articolazione temporo-mandibolare La mandibola si articola con l’osso temporale. Si parla dunque di articolazione temporo-mandibolare. La disfunzione temporo-mandibolare, sorgente frequente di dolore cronico a livello della faccia e del cranio, è studiata da tempo, ma è solo da qualche anno che si comincia a comprenderla meglio. La sua importanza nella genesi di alcuni mal di testa è oggetto di controversie, sopravalutata da alcuni e sottovalutata da altri. La causa più frequente di disfunzioni è la mal-occlusione dentaria, cioè una cattiva articolazione tra i denti superiori ed inferiori. Si riconoscono anche altre cause. Menzioniamo per prime le patologie dell’articolazione stessa e le patologie proprie dei muscoli masticatori. I fattori psicologici possono causare una contrattura muscolare che, più spesso, va ad aggravare una disfunzione preesistente. Nella maggior parte dei casi questi fattori si combinano per provocare il dolore. In tutti i casi, il paziente riferisce un dolore a livello della articolazione e a livello dei muscoli masticatori (muscoli temporali e masseteri soprattutto). I dolori aumentano quando egli mastica o quando parla. I disturbi sono quotidiani e non sono alleviati dagli analgesici. Bisogna sapere che dolori simili sono possibili in pazienti con articolazioni normali ai raggi X. I loro problemi sono localizzati a livello dei muscoli masticatori: in questi casi il dolore è attribuibile ad uno spasmo e alla presenza di punti scatenanti (o zone grilletto) o zone di irritabilità nei muscoli. Si ritrovano frequentemente questi sintomi in persone, che per professione o per temperamento, parlano troppo. Così gli insegnanti sono i primi ad essere svantaggiati. Gli spasmi della mandibola, che sopraggiungono talvolta durante animate lezioni, possono impedire il loro lavoro; alcuni devono interrompere per mesi la propria attività didattica. Può essere dunque un problema serio. Gli autori americani hanno la tendenza a classificare questi problemi con il termine di sindromi mioaponevrotiche (relative ai muscoli e ai loro involucri, le aponevrosi), ma queste tesi non hanno ancora ricevuto un consenso della maggior parte degli esperti. Negli Stati Uniti, alcuni dentisti credono che molti mal di testa siano attribuibili alla disfunzione temporomandibolare. Credo che si debba considerare questa affermazione eccessiva, ma non si può negare che la disfunzione temporo-mandibolare possa essere una causa di cefalee molto più spesso di quanto si sia creduto fino ad ora. Bisogna notare che i pazienti che presentano i sintomi sono portati ad indirizzarsi ai dentisti piuttosto che ai medici curanti; questi ultimi credono dunque, molto spesso, che si tratti di una malattia rara. In tutti i casi bisogna far osservare la mandibola del paziente ad un esperto. Gli specialisti di medicina dentaria (chirurgia della bocca e maxillofacciale, ortodonzisti) che devono valutare il grado di mal-occlusione dentaria e di disfunzione temporo-mandibolare hanno, quindi, un ruolo importante. Trattando la mal-occlusione e riducendo i dolori muscolari con la fisioterapia, questi specialisti apportano spesso un vantaggio significativo al paziente. Una buona valutazione odontoiatrica quindi può rivelarsi molto preziosa nella diagnostica di alcuni dolori facciali detti atipici. Quando il dolore è dovuto a una condizione patologica organica ben definita come l’artrite reumatoide, allora è presente, il dolore o la limitazione funzionale sono comuni. Il dolore, a partenza da questa articolazione, è, nella maggior parte dei casi, di tipo miofasciale ed è correlato all’infiammazione articolare [2, 3].
Le cefalee attribuite a patologia del collo Un disordine intervertebrale al collo può essere responsabile di un mal di testa detto di “origine cervicale”, inoltre i mal di testa che originano dal collo sono più numerosi di quanto si creda.
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I pazienti che soffrono di questo tipo di mal di testa sono considerati a torto come stressati e si accolla loro l’etichetta di nevrotici, in effetti, senza avere prove, si classificano questi pazienti come casi psichiatrici oppure si crede che essi soffrano di cefalee atipiche o ribelli. Se si esamina meglio il paziente che riferisce una cefalea a partenza nucale, si possono però scoprire segni di un danno intervertebrale minore e si può pensare allora che la cefalea abbia una causa cervicale o cervicogenica.
Sintomi e segni Nel caso di un mal di testa a partenza dal collo, il dolore inizia dalla regione nucale e si irradia gradualmente ad un lato del cranio. Questo dolore esordisce generalmente tutte le mattine, accompagnando il risveglio del paziente. È continuo ma può diminuire gradualmente nel corso della giornata. Il paziente riferisce che sente la testa confusa; prova un malessere, una costrizione nucale. Nei casi gravi, il dolore è accompagnato dalla nausea, talvolta diventa pulsatile, più spesso è unilaterale ed è, a torto, confuso con il dolore di tipo emicranico. Alcuni autori hanno già parlato di “emicrania cervicale”, un termine pericoloso che può aumentare la confusione nell’approccio al mal di testa, noi riteniamo che il termine “cefalea cervicogenica” sia il più corretto. La storia del paziente rivela spesso uno o più traumatismi cranici o cervicali, prima dell’incidente o della caduta che ha preceduto la comparsa o l’aggravamento dei suoi mal di testa. Spesso l’esame clinico neurologico di questi pazienti non rivela niente di anormale. Si nota talvolta un cambiamento della sensibilità alla puntura nel territorio delle radici C2 e C3. La rotazione della colonna cervicale è spesso limitata e l’iperestensione dolorosa. La pressione effettuata sull’angolo della mandibola, dirigendosi verso il collo, scatena generalmente un forte dolore dal lato affetto. La frizione del cuoio capelluto, effettuata secondo la tecnica dello shampoo, è spesso molto dolorosa quando le dita toccano il lato interessato. Palpando le faccette articolari, si evidenziano contratture muscolari dolorose a livello C2-C3 e C3-C4, sempre dal lato affetto. La radiografia del collo è spesso normale. Quando è anormale si reperta soprattutto una rettileinizzazione della colonna, una modesta artrosi e delle alterazioni ai livelli inferiori (C5, C6 e C7): si tratta generalmente a questo livello di degenerazione discale, accompagnata da artrosi. Queste alterazioni dei dischi cervicali inferiori non hanno spesso rapporto con le alterazioni intervertebrali minori presenti a livello più alto e non sono responsabili dell’irradiazione del dolore alla nuca e alla testa. Dal punto di vista clinico infatti una sofferenza a C5-C6-C7 si manifesta con dolore irradiato agli arti e mai alla nuca.
Fattori precipitanti e aggravanti Traumi cranici Parliamo dunque di traumatismi il cui l’impatto è così spesso sottostimato. Innanzitutto non si dovrebbe mai parlare di traumi cranici, ma piuttosto di traumatismi cranio-cervicali (in effetti un colpo ricevuto alla testa si ripercuote al collo) oppure, il contraccolpo al collo è un fenomeno determinante per i mal di testa. Colpo e contraccolpo possono in effetti produrre un disordine intervertebrale minore che, irritando le radici C2 e C3, provocherà una cefalea di origine cervicale più o meno persistente.
Cefalea attribuita a disordini di cranio, collo, occhi, orecchie, seni paranasali, bocca ...
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Il traumatismo che più facilmente è in grado di causare dei disordini cervicali è il colpo di frusta, (quello che si subisce in vettura quando si è tamponati). In questo caso si ha un’iperestensione brutale del collo e, spesso, una flessione secondaria dello stesso. Ciò può causare delle alterazioni a livello dei segmenti mobili (dischi, legamenti, faccette articolari) C2-C3 e C3C4 e così irritare le radici nervose implicate (C2 e C3). Il paziente potrà sviluppare in seguito mal di testa.
Le posture viziate Si sente spesso dalle madri dire ai loro figli: “tieniti dritto!” Hanno certamente ragione perché le cattive posture causano delle alterazioni intervertebrali minori che possono dare mal di testa. Al lavoro alcuni pazienti assumono posizioni fisse continuamente (ad esempio seduti davanti ad un computer). Altri adottano posizioni estremamente ripetitive che possono essere nefaste e che creano un Disturbo Intervertebrale Minore (DIM) cervicale. Si può patire un DIM sia di notte che di giorno. Molte persone, infatti, assumono posizioni scorrette per il collo anche durante il sonno. Il trascorrere molte ore per notte in tali posizioni facilita lo sviluppo di un mal di testa cronico, causato da DIM generato da queste posture. I sonniferi possono essere responsabili di questi disturbi impedendo ai pazienti di muoversi durante la notte e quindi di correggere posture scorrette. È noto che le persone che dormono troppo a lungo sotto l’effetto di sonniferi si risvegliano spesso più stanchi di quanto fossero la sera prima, quando non sono afflitti in più dal mal di testa.
Nevralgia occipitale Si tratta di un disturbo di origine cervicale, ma deve essere distinto per il suo carattere peculiare parossistico tipico della nevralgia. Il dolore è particolarmente acuto, a volte sordo, più spesso elettrico e sopraggiunge a scosse. Unilaterale di solito, può comunque cambiare lato. Non ci sono dubbi che origini a livello di C2-C3 o dal nervo di Arnold, ma il suo meccanismo sembrerebbe essere differente da quello del DIM puro e sottendere ad una sofferenza del nervo nel suo passaggio tra i tendini dei muscoli occipito-nucali. Per fortuna è un’evenienza rara. La spondilosi cervicale e l’osteocondrite non sono accettate come cause valide per una cefalea cervicogenica. Una distonia cranio-cervicale focale può causare cefalea: il dolore può essere determinato sia dalla continua contrattura muscolare che dall’irritazione di strutture nervose sollecitate dalla iperattività muscolare [2].
“Algia facciale atipica”: cosa rimane nella nuova classificazione? Al punto 13 e, quindi, tra le nevralgie craniche e le altre cause di dolore facciale centrale si parla di dolore facciale idiopatico persistente (13.18.4) che viene assimilato al vecchio termine di algia facciale atipica definendo con questo nuovo termine “un dolore facciale persistente che non
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possiede le caratteristiche delle nevralgie craniche e non è associato a segni obiettivi o a una causa organica dimostrabile”, mentre classica è la definizione di nevralgia, termine usato per designare un “qualsiasi dolore parossistico, di breve durata, con intervalli liberi, a topografia strettamente limitata al territorio d’innervazione di un nervo sensitivo o di una sua branca, senza che possano essere dimostrate grossolane alterazioni dell’integrità anatomica del nervo stesso” (si tratta quindi di una forma essenziale). Questo inquadramento nosografico risulta però carente e diviene quindi semplicistico, quando ci caliamo nella pratica quotidiana e ci troviamo di fronte alla necessità di dover meglio definire un paziente affetto da un dolore cranio-facciale. Ci accorgiamo, cioè, che specialmente per quanto riguarda le cosiddette algie atipiche questo termine è utilizzato come un grosso contenitore dove finiscono forme estremamente diverse dal punto di vista patogenetico e clinico. Questo indica la confusione che regna nell’uso del termine di algia facciale atipica, confusione attualmente non più accettabile e che purtroppo continua a portare chiunque debba consultare questo capitolo in un qualsiasi libro di neurologia ad apprendere errate interpretazioni clinicodiagnostiche. I criteri diagnostici da utilizzarsi sono la presenza di un dolore continuo, quotidiano, profondo, persistente e scarsamente localizzato che, inizialmente confinato ad un’area limitata, può successivamente estendersi a tutto il volto e al collo. Tale dolore non è associato a deficit sensitivi o ad altri segni obiettivi; le indagini neurostrumentali specifiche sono normali. Il dolore può iniziare dopo un intervento chirurgico o un trauma facciale, dentario o gengivale, ma persiste senza alcuna dimostrazione di causa locale (Tab. 23.3) [1-3]. Sarà chiaramente l’abilità del medico e il suo oculato giudizio, poi, a valutare e quantificare e l’aspetto psichico in questo tipo di dolore.
Tabella 23.3 Dolore facciale idiopatico persistente Descrizione:dolore facciale persistente che non ha le caratteristiche delle nevralgie craniche descritte sopra e non è attribuito a un altro disordine. Criteri diagnostici: A. dolore alla faccia, presente quotidianamente e persistente per tutta o quasi la giornata, che soddisfa i criteri B e C; B. il dolore all’inizio è confinato a un’area limitata di un lato della faccia ed è profondo e scarsamente localizzato; C. il dolore non è associato con deficit sensitivo o altri segni fisici; D. le indagini, compreso radiografia della faccia e della mandibola, non dimostrano alcuna rilevante anomalia. Nota: Il dolore all’origine è comunemente a livello della piega naso-labiale o al mento e può irradiarsi alla mascella o alla mandibola o a un’area più ampia della faccia e del collo. Commento: Il dolore può iniziare da un intervento chirurgico o da un trauma della faccia, denti o gengive ma persiste senza alcuna causa locale dimostrabile. Il dolore facciale intorno all’orecchio o alla tempia può precedere la scoperta di un carcinoma del polmone ipsilaterale che causa un dolore riferito per invasione del nervo vago. Il termine odontalgia atipica è stato applicato al dolore continuo nei denti o in un alveolo dentario dopo un’estrazione, in assenza di una causa dentale identificabile.
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Va tenuto presente infine che possono esistere dolori facciali persistenti idiopatici secondari a cause organiche, che di solito vengono scoperte in un secondo momento: ad esempio un carcinoma polmonare ipsilaterale può causare un dolore riferito alla regione periauricolare o alla tempia per invasione del nervo vago. A conclusione di questo excursus, è quindi sempre necessario che sia il medico con le sue capacità cliniche e la sua preparazione specifica a porre la diagnosi di un paziente cefalalgico, utilizzando correttamente la nosografìa, integrandola con il suo buon senso e la sua esperienza professionale.
Bibliografia 1. 2. 3.
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Capitolo 24
Cefalea attribuita a disordini psichiatrici R. De Simone, A. Ranieri
Introduzione Le cefalee primarie, soprattutto le forme emicraniche e quelle tensive, sono state considerate fin dalla notte dei tempi conseguenze dirette di sottostanti problemi psichici di varia natura e severità. Se ancora oggi questa opinione resiste nella cultura collettiva di larghe fasce di popolazione lo si deve senz’altro all’altissima frequenza con cui le due problematiche si ritrovano associate nello stesso paziente e al reciproco rinforzo che sul piano clinico caratterizza la comorbilità tra cefalee e disturbi della sfera psichica. La Classificazione dell’Ad Hoc Committee del 1962 ebbe, tra gli altri meriti, quello di demarcare per la prima volta in modo netto le due condizioni. Da un lato, fu riconosciuta la natura primaria di numerose forme cefalalgiche, ancorché suscettibili di peggioramento in presenza di problematiche psichiatriche; dall’altro, una specifica sezione (Cefalee da stati deliranti, conversivi o ipocondriaci) fu dedicata alla descrizione delle rare forme cefalalgiche che sembravano univocamente determinate da una condizione psichiatrica. Questa classificazione non rifletteva studi di popolazione, all’epoca non disponibili, ma rappresentava piuttosto il sedimento dell’esperienza di un gruppo di clinici autorevoli; un semplice “consenso di esperti” dunque, cui oggi attribuiremmo un livello di evidenza D. Negli anni in cui essa è stata il riferimento esclusivo dei ricercatori, proprio l’assenza di riferimenti ad evidenze scientificamente comprovate è stata la principale fonte di critiche all’impianto dell’Ad Hoc Committee. Una decisa inversione di tendenza si registra nel 1988 quando vede la luce la prima edizione della Classificazione dell’International Headache Society (IHS). Gli estensori di questo rivoluzionario impianto classificativo si prefiggevano di codificare i disturbi dolorosi del cranio nel modo più obiettivo possibile, a partire da solide evidenze scientifiche. La conseguenza fu che nessun capitolo sulle cefalee secondarie a condizioni psichiatriche poté essere incluso, per l’assenza di sufficienti evidenze comprovanti un rapporto causativo. Negli anni successivi, finalmente, si sono raccolti un certo numero di lavori e così, in occasione della prima revisione dei criteri IHS, denominata International Classification of Headache Disorder (ICHD-II) e rilasciata nel 2004, la sezione sulle cefalee attribuite a disturbi psichiatrici è ricomparsa, dopo lunga assenza.
Cefalea attribuita a disturbo psichiatrico: le forme validate A queste forme è stato dedicato un nuovo capitolo, collocato al punto 12 e denominato “cefalea attribuita a disturbo psichiatrico”. Questo include due sole condizioni: • (12.1) cefalea dovute a disturbo da somatizzazione; • (12.2) cefalea dovuta a disturbo psicotico;
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ognuna dotato di uno specifico set di criteri, in larga misura mutuati dalle corrispondenti sezioni del DSM-IV (Tab. 24.1, 24.2). Solo per queste due condizioni le evidenze scientifiche sono state considerate sufficienti alla loro validazione nosografia; vale qui la pena di sottolineare che questi due ambiti psichiatrici sono, di fatto, gli stessi a cui la classisficazione dell’Ad Hoc Committee, proposta 40 anni prima, riconosceva la possibilità di causare cefalea. Nella cefalea attribuita a disturbo psicotico, il delirio coinvolge specificamente la presenza della cefalea. In questi casi il dolore rappresenta il prodotto di una percezione allucinatoria come quando, ad esempio, un paziente riferisce una cefalea associata con il convincimento che una placca metallica gli sia stata inserita a sua insaputa nella testa. In casi come questi la cefalea risulta interamente attribuibile alla patologia psichiatrica, del cui quadro clinico è, evidentemente, parte integrante. Nella cefalea attribuita a disturbo da somatizzazione, le molteplici lamentele fisiche non possono essere pienamente spiegate, per definizione, con nessuna condizione medica generale conosciuta o con gli effetti diretti di una sostanza. Va notato che il corteo sintomatologico richiesto dal DSM-IV è piuttosto ampio: nel corso della vita il paziente deve aver presentato un minimo di 8 sintomi somatoformi, ciascuno dei quali così grave da indurre alla richiesta di trattamento medico o all’assunzione di medicinali. Anche qui, il rapporto causale tra il disturbo psichiatrico e la cefalea è immediatamente evidente. Ma attenzione: anche in questi casi l’attribuzione di secondarietà resterà vincolata ad una stretta relazione temporale documentabile tra l’esordio dei due eventi. Il criterio della coincidenza cronologica è probabilmente il più affidabile in questo
Tabella 24.1
Cefalea attribuita a disturbo da somatizzazione
A. Cefalea priva di caratteristiche tipiche note, che soddisfi il criterio C; B. Presenza di un disturbo da somatizzazione che soddisfi i criteri del DSM-IV: 1. storia di molteplici disturbi fisici esorditi prima dei 30 anni, che si manifestano lungo un periodo di alcuni anni e conducono alla ricerca di un trattamento o portano a significative menomazioni nel funzionamento sociale, lavorativo o in altre aree importanti, 2. almeno 4 sintomi dolorosi, 2 sintomi gastrointestinali non dolorosi, 1 sintomo della sfera sessuale o riproduttiva e 1 sintomo pseudoneurologico, 3. dopo appropriate indagini, ciascuno di questi sintomi non risulta essere completamene spiegato da una condizione medica generale conosciuta o dagli effetti diretti di una sostanza o di un farmaco; oppure, se esiste una condizione medica correlata, i disturbi o le menomazioni sono superiori rispetto a quanto atteso in base all’anamnesi, all’esame clinico o ai risultati di laboratorio; C. la cefalea non è attribuita ad altra causa.
Tabella 24.2
Cefalea attribuita a disturbo psicotico
A. cefalea priva di caratteristiche tipiche note, che soddisfi i criteri C-E; B. convinzione delirante sulla presenza e/o l’eziologia della cefalea che si presenta nel contesto di un disturbo delirante, di schizofrenia, di un episodio depressivo maggiore con caratteristiche psicotiche, di un episodio maniacale con caratteristiche psicotiche o di altro disturbo psicotico che soddisfi i criteri del DSM-IV; C. la cefalea si presenta solo nel contesto del delirio; D. la cefalea si risolve con la remissione clinica del delirio; E. la cefalea non è attribuita ad altra causa.
Cefalea attribuita a disordini psichiatrici
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senso, come del resto viene ribadito nei commenti introduttivi ad ognuno dei capitoli della Classificazione. Un’ulteriore difficoltà di inquadramento diagnostico riguarda quei pazienti nei quali l’occorrenza di uno dei due disturbi psichiatrici validati, coincide cronologicamente non con l’insorgenza, bensì con il significativo peggioramento di una cefalea preesistente. In questo caso gli Autori riconoscono due possibilità diagnostiche. La prima è esprimersi solo con la diagnosi della forma primaria preesistente; la seconda è di porre entrambe le diagnosi, di cefalea primaria e di cefalea attribuita alla patologia psichiatrica il cui esordio è stato associato al significativo aggravamento della cefalea preesistente. A favore della seconda opzione giocheranno aspetti quali: relazione temporale particolarmente stretta tra i due eventi; peggioramento particolarmente severo della condizione preesistente o ripristino del profilo preesistente di severità della cefalea a seguito della risoluzione, spontanea o dopo terapia, del disturbo psichiatrico.
I criteri sperimentali Nella pratica clinica, i casi di cefalea causati da disturbi psicotici o di somatizzazione non sono particolarmente frequenti. Al contrario, in una elevata percentuale di casi, alcune forme di cefalea primaria risultano associate ad una varietà di altri disturbi psichiatrici, seppure in termini di semplice comorbilità. Intesa come associazione statistica di due condizioni in proporzione maggiore di quella dovuta al caso, la comorbilità non esprime necessariamente la presenza di un nesso di causalità tra due condizioni, ma può indicare che uno o più fattori patogenetici risultano condivisi e che, pertanto, un individuo affetto da uno dei due disturbi ha un rischio aumentato di sviluppare anche l’altro, sebbene in tempi diversi. In presenza di una comorbilità epidemiologicamente significativa, proprio l’assenza di relazione cronologica tra le presentazioni di due disturbi (cosiddetta comorbilità bidirezionale) rappresenta lo spartiacque tra la possibile condivisione di uno o più meccanismi patogenetici e un’ipotetica relazione causativa diretta. Tra le diverse forme cefalalgiche primarie, l’emicrania è risultata in rapporto di comorbilità con numerose condizioni psichiatriche, come il disturbo depressivo maggiore e il disturbo distimico, il disturbo di panico, il disturbo d’ansia generalizzato, i disturbi somatoformi e i disturbi dell’adattamento. Recenti evidenze (Breslau et al, 2003) sembrano indicare che la comorbilità tra cefalea e disturbi psichici sia bidirezionale e che ognuna delle due condizioni aumenti il rischio di un successivo esordio dell’altra. L’associazione sembrerebbe inoltre specifica per l’emicrania e non è stata confermata per altre forme cefalalgiche, anche severe. Ciò potrebbe suggerire che alcune cefalee primarie e specifici disturbi psichiatrici possano condividere momenti patogenetici di tipo sia genetico che acquisito. Oltre ad un rapporto epidemiologico di associazione, nel caso di emicrania e disturbi psichiatrici, si è evidenziata anche una interazione di tipo funzionale: una reazione depressiva ad un evento luttuoso, ad esempio, è considerata in grado di aumentare la frequenza e la severità degli attacchi e di ridurre la sensibilità del paziente ai trattamenti. Se queste considerazioni, da un lato, devono suggerirci di prestare sempre la massima attenzione all’identificazione e al trattamento delle condizioni psichiatriche in comorbilità con l’emicrania, dall’altro aprono un importante problema di ordine classificativo. Come andranno inquadrati, infatti, quegli individui nei quali una nuova cefalea esordisce in coincidenza con un disturbo psichiatrico (diverso da quelli validati) e regredisce al rimettere di questo? Dal momento che i disturbi depressivi, ansiosi, di panico e dell’adattamento possono influenzare notevolmente la soglia di scatenamento di un attacco emicranico è ancora possibile che, anche in questi casi, i disturbi siano collegati tra loro solo in termini di comorbilità; ma è altrettanto evidente che di fronte a una così stretta
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R. De Simone et al.
correlazione cronologica, attribuire tout-court la cefalea all’episodio depressivo potrebbe risultare più corretto. In altri termini, le categorie psichiatriche in grado di causare una cefalea potrebbero essere ben più numerose di quelle ad oggi validate nel capitolo 12 della ICHD-II. In attesa che ulteriori contributi scientifici chiariscano questi interrogativi, gli Autori dell’IHS hanno proposto alcuni set di criteri sperimentali per attribuire, putativamente, una nuova cefalea ad alcuni tra i disturbi psichiatrici comunemente riscontrabili nei soggetti cefalalgici. In particolare nella sezione A12 dell’appendice sono forniti criteri per: • A12.3 Cefalea attribuita a disturbo depressivo maggiore; • A12.4 Cefalea attribuita a disturbo di panico; • A12.5 Cefalea attribuita a disturbo d’ansia generalizzato; • A12.6 Cefalea attribuita a disturbo somatoforme indifferenziato; • A12.7 Cefalea attribuita a fobia sociale; • A12.8 Cefalea attribuita a disturbo d’ansia da separazione; • A12.9 Cefalea attribuita a disturbo post-traumatico da stress. Per quanto riguarda le caratteristiche del disturbo psichiatrico, i criteri sperimentali proposti per queste condizioni ricalcano fedelmente quelli corrispondenti del DSM-IV. Per stimolare ulteriori ricerche, il criterio relativo alle caratteristiche del dolore delle diverse forme è stato mantenuto molto aspecifico: “Headache, no typical characteristics known ...”. Infine, per tutte le condizioni, la diagnosi richiede anche che una remissione della cefalea sia osservabile in coincidenza con una remissione del disturbo psichiatrico. La loro applicazione, dunque, implica una osservazione longitudinale, il che li rende inadatti, allo stato, per un uso clinico routinario.
Le prospettive future Recentemente alcuni articoli sono apparsi in letteratura, mirati a verificare l’efficacia dell’inquadramento proposto. Uno di questi (Loder et al, 2005) racchiude una piccola serie di eloquenti casi clinici riferiti a soggetti con disturbi psichiatrici di varia tipologia, affetti da una cefalea in grado di riscontrare i criteri sperimentali proposti dall’IHS. Future ricerche dovranno meglio precisare le caratteristiche cliniche delle cefalee attribuite a disturbi psichiatrici e confermare o escludere un ruolo etiopatogenetico diretto di questi. Anche gli intimi meccanismi che sottendono le interazioni epidemiologiche e il reciproco rinforzo clinico esistente tra cefalee e disturbi psichiatrici aspettano di essere ulteriormente chiariti. Il cammino verso la validazione di queste forme, probabilmente, è appena cominciato.
Letture consigliate Breslau N, Lipton RB, Stewart WF et al (2003) Comorbidity of migraine and depression: investigating potential etiology and prognosis. Neurology 60:1308-1312 Cahill CM, Murphy KC (2004) Migraine: another headache for psychiatrists? Br J Psychiatry 185:191-193 Loder E, Biondi D (2005) Headache attributed to psychiatric disorder: a case series. Psychosomatics 46:326333 Manzoni GC, Torelli P (2004) Headache classification: criticism and suggestions. Neurol Sci 25 (suppl 3): S67-S69 Radat F, Swendsen J (2005) Psychiatric comorbidity in migraine: a review. Cephalalgia 25:165-178
Capitolo 25
Cefalea in pronto soccorso P. Cortelli
Introduzione La cefalea è un’evenienza estremamente comune nel Pronto Soccorso (PS), riguardando circa il 1-4,5% di tutte le visite. Nonostante siano più di 300 le condizioni mediche che possono causare cefalea, fortunatamente la maggior parte delle cefalee sono benigne. Dal momento che la cefalea può essere un sintomo di gravi malattie, è importante un approccio ordinato nella diagnosi differenziale. In PS, quando si valuta un paziente con cefalea, il primo passo consiste nell’identificare o escludere una cefalea secondaria sulla base della storia clinica e dell’esame obiettivo generale e neurologico (Fig. 25.1) [1]. Quando sono presenti segnali diagnostici di allarme (Tab. 25.1) possono essere necessari degli accertamenti diagnostico-strumentali. Una volta escluse cefalee secondarie, bisogna diagnosticare il tipo di cefalea primaria per intraprendere un trattamento adeguato [2, 3]. È quindi necessario, nella valutazione iniziale, che il medico raccolga informazioni anamnestiche che includano gli eventi che hanno preceduto l’insorgere della cefalea (storia di traumi, uso di farmaci, esposizione a sostanze tossiche) e che osservi eventuali segni di allarme che suggeriscano la possibilità di una cefalea secondaria. Studi recenti hanno dimostrato che la Tomografia Computerizzata (TC) e la Risonanza Magnetica nucleare (RM) dell’encefalo hanno scarsa rilevanza nel paziente cefalalgico, in assenza di segni di allarme [4-7]. Tuttavia, la possibilità di una
Fig. 25.1 Gestione della cefalea in pronto soccorso
286 Tabella 25.1
P. Cortelli Segnali diagnostici di allarme nella valutazione delle cefalee
Allarmi di cefalea
Diagnosi differenziale
Possibile iter diagnostico
Cefalea che insorge dopo i 50 anni
Arterite temporale, neoplasie
Insorgenza improvvisa
Emorragia subaracnoidea, apoplessia pituitaria, emorragia in una lesione o malformazione vascolare Neoplasie, ematoma subdurale, abuso di farmaci Meningite (cronica o carcinomatosa), ascesso cerebrale (inclusa toxoplasmosi), metastasi Meningite, encefalite, malattia di Lyme, infezioni sistemiche, malattie vascolari Neoplasie, malformazioni vascolari, stroke, malattie vascolari del collageno
Velocità di eritrosedimentazione, Neuroimaging Neuroimaging, puntura lombare se TC negativa
Aumento della frequenza e gravità della cefalea Cefalea di nuova insorgenza in pazienti con fattori di rischio per HIV e cancro
Cefalea associata a malattie sistemiche lombare,(febbre, rigidità, rash) del collageno Sintomi o segni neurologici focali (diversi da una tipica aura) Papilledema Cefalea post-traumatica
Neoplasie, pseudotumor, meningite Emorragia intracranica, ematoma subdurale, ematoma epidurale, cefalea post-traumatica
Neuroimaging, screening tossicologico Neuroimaging, puntura lombare se neuroimaging negativo
Neuroimaging, puntura sierologia
Neuroimaging, valutazione vascolare collageno (anticorpi antifosfolipidi) Neuroimaging, puntura lombare Neuroimaging cerebrale, cranio e midollo cervicale
cefalea secondaria deve essere tenuta in considerazione, specie se non rientra nei criteri diagnostici dell’International Headache Society (IHS) [8] o se la risposta al trattamento è atipica. Dal 25 al 55% dei pazienti che afferisce al PS per cefalea risulta essere poi affetto da emicrania e da cefalea di tipo tensivo; le cefalee associate a malattie sistemiche riguardano il 33-39% dei pazienti, mentre le cefalee secondarie a gravi condizioni neurologiche (emorragia subaracnoidea, neoplasie, meningiti o emorragie intracraniche) sono presenti nell’1-19% dei pazienti. Gli strumenti per distinguere tra cefalee primarie e secondarie in PS sono l’anamnesi e l’esame obiettivo [9]. Poiché molti pazienti che si rivolgono al PS per cefalea presentano un esame obiettivo generale e neurologico normale, un’accurata anamnesi è spesso il passo più importante per giungere a una corretta diagnosi. In PS, nonostante il tempo a disposizione sia limitato, bisogna sempre analizzare il contesto in cui è insorta la cefalea per arrivare a un corretto inquadramento diagnostico. Nella Tabella 25.2 sono riassunte le principali domande da porre al paziente con cefalea in PS.
Cefalea in pronto soccorso Tabella 25.2
287
Anamnesi della cefalea in PS
– Perché questa cefalea ha spinto il paziente al PS? – Quando è iniziata questo tipo di cefalea? Il paziente ha già presentato precedentemente attacchi similari? – In che occasione è iniziato questo attacco di cefalea? – Localizzazione: dove fa male la testa? – Quale è la caratteristica del dolore? – Sono presenti altri problemi di salute? – Quali altri sintomi sono associati alla cefalea? – Segnali che annunciano malattie gravi
Esame obiettivo generale e neurologico Dopo aver completato l’anamnesi, bisogna innanzitutto valutare i parametri vitali (pressione arteriosa, frequenza cardiaca, temperatura); quindi il paziente deve essere attentamente esaminato mediante un esame obiettivo neurologico, cardiologico e polmonare e mediante un’attenta auscultazione delle carotidi. Particolare attenzione nell’esame obiettivo neurologico dovrà essere posta alla valutazione dello stato di coscienza, alla ricerca di una rigidità nucale, di eventuali segni focali (motori, sensitivi), di deficit del campo visivo, di alterazioni nella palpazione dell’arteria temporale e alla ricerca di trigger points. È utile inoltre eseguire: tonometria oculare, nel sospetto di un glaucoma; osservazione del canale auricolare per evidenziare un sanguinamento secondario a trauma, infezioni o colesteatomi; rilevazione di perdita di liquido dal naso o dalle orecchie, che suggerisce una possibile perdita di Liquor Cefalo-Rachidiano (LCR). Pertanto dovrebbe essere eseguito un esame obiettivo neurologico completo. Il rilievo di confusione mentale o di uno stato di coscienza alterato potrebbero indicare una grave lesione neurologica con coesistente effetto massa. Si dovrà, quindi, eseguire un esame del fondo oculare, senza l’uso di midriatici, in quanto potrebbero mascherare una dilatazione pupillare da erniazione cerebrale; un edema della papilla è indicativo di ipertensione endocranica ed è un campanello di allarme che induce a eseguire un esame neuroradiologico. Bisogna effettuare poi un test del campo visivo per scoprire eventuali difetti; una cefalea frontale associata a un deficit del campo visivo bitemporale suggerisce una massa pituitaria; nel glaucoma possono comparire alterazioni del campo visivo con piccoli scotomi, così come nella neurite ottica o nelle lesioni espansive o nell’emicrania. Una oftalmoplegia può risultare da un’aumentata pressione intracranica, da una lesione espansiva o da una compressione sui nervi oculomotori da aneurismi o malformazioni artero venose (MAV). Una sindrome di Horner può trovarsi in associazione con cefalea a grappolo, con emicranie parossistiche o con lesioni intracraniche o carotidee. La presenza di deficit neurologici focali può indicare una lesione cerebrale e richiede una valutazione neuroradiologica.
Diagnosi delle cefalee secondarie Dopo aver eseguito l’anamnesi e l’esame obiettivo neurologico, il medico deve identificare o escludere cause secondarie di cefalea. Le più comuni sono riassunte in Tabella 25.3.
288 Tabella 25.3 – – – – – – – –
P. Cortelli Cause secondarie di cefalea
lesioni espansive ascessi cerebrali emorragia subaracnoidea ictus meningite AIDS arterite a cellule giganti (arterite temporale) disordini di cranio, collo, orecchie e naso
Cefalee primarie Una volta escluse cefalee secondarie, il passo successivo è quello di diagnosticare e trattare le cefalee primarie secondo i criteri di classificazione IHS e le linee guida per il trattamento. Tuttavia in PS è sufficiente differenziare il primo livello della classificazione IHS, cioè distinguere emicrania con e senza aura, cefalea a grappolo e cefalea di tipo tensivo (Tab. 25.4). Un gruppo di lavoro multidisciplinare regionale emiliano romagnolo ha prodotto e pubblicato nel 2004 un documento di consenso in forma di raccomandazioni diagnostiche per differenziare i principali tipi di cefalea secondaria da causa organica non traumatica dalle cefalee primarie, nell’ambito del PS [10]. Il documento si articola in quattro scenari ai quali ricondurre il quadro clinico del paziente, ognuno formato da una costellazione di sintomi che dovrebbero facilitare l’identificazione dell’eziologia della cefalea (Tab 25.5). Lo studio di validazione dell’efficacia del citato algoritmo diagnostico utilizzato prospetticamente per 30 giorni in 8 PS della regione Emilia Romagna, ha evidenziato (dati non pubblicati) come l’applicazione dei 4 scenari clinici comprenda circa l’85% dei casi che si presentano al PS con il problema principale di cefalea. Lo strumento si è rivelato sensibile (con minor specificità) nell’identificare tutte le forme di cefalea secondarie riconducibili a cause organiche potenzialmente letali ma soprattutto efficace nell’identificare i pazienti con cefalea primaria che costituivano, come atteso, la maggior parte degli accessi in PS. Riconoscere i pazienti con cefalea primaria implica la possibilità di dimetterli da PS affidandoli ad una gestione ambulatoriale specialistica che riduca i futuri accessi in PS e i ricoveri spesso inappropriati in ambiente neurologico.
Trattamento delle cefalee primarie in pronto soccorso Il trattamento delle cefalee in PS è diviso in due fasi: inquadramento diagnostico e trattamento. Dal momento che la maggior parte dei pazienti che si presentano in PS sono molto agitati e preoccupati dal proprio mal di testa, vi è spesso una tentazione iniziale di trattare subito il paziente. Tuttavia, non bisogna assolutamente dimenticare che è sempre necessario porre una diagnosi accurata prima di iniziare una terapia. Spesso i pazienti emicranici che si presentano in PS tendono ad avere numerosi attacchi o necessitano di ulteriori terapie. Il sumatriptan per via sottocutanea è efficace nell’87% dei pazienti alleviando non solamente il dolore, ma anche la nausea e il vomito [11]. Il sumatriptan si somministra a un dosaggio di 6 mg e può essere ripetuto 1 ora dopo in caso di necessità fino a un massimo di due iniezioni
Diagnosi differenziale di alcuni disordini cefalalgici
Tipo di cefalea
Età esordio (anni)
Sede
Durata
Frequenza
Gravità
Qualità
Caratteristiche
Emicrania
10-30
emicranio
4-72 ore
variabile
moderatagrave
pulsante
nausea, vomito, foto-fono-osmofobia, deficit neurologici
Cefalea tensiva
20-50
bilaterale
30 min-7die
variabile
grave
tensionale
nausea, foto-fonofobia non vomito
Cefalea a grappolo
20-40
unilaterale peri-retro
15-180 min
1×6 die
costante attacchi
acuta penetrante notturni
congestione nasale rinorrea, miosi
orbitale Neoplasie
ogni età
ogni sede
variabile
intermittente notturna
moderata
pulsante
vomito, rigidità nucale alterazione coscienza
adulta
occipitonucale globale
variabile
non applicabile
invalidante
esplosiva
vomito, rigidità nucale perdita di coscienza
Nevralgia del trigemino
50-70
2-3-1 branca
secondi
parossistica
invalidante
scossa elettrica
trigger points facciali
Arterite a cell. giganti
>55
temporale
intermittente dopo continua
costante peggiora di notte
variabile
variabile
polimialgia reumatica
289
Emorragia Subaracnoidea
Cefalea in pronto soccorso
Tabella 25.4
290
P. Cortelli
Tabella 25.5
Possibili scenari clinici di presentazione al PS per cefalea
Scenario Sintomi
Indicazioni diagnostiche
1
grave cefalea, ad esordio improvviso (thunderclap headache), o con segni neurologici associati, o convomito o sincope all’esordio
* TC encefalo * se la TC encefalo è negativa, dubbia o di scarsa qualità diagnostica, è indicato eseguire la puntura lombare (PL); * se la PL è normale: esame neurologico eseguito entro 24 ore
2
grave cefalea associata a febbre e/o rigor nucale
TC encefalo+PL
3
cefalea di recente insorgenza (giorni o settimane), o progressivamente ingravescente o persistente
* TC encefalo+esami ematochimici+indici di flogosi (VES, PCR) * se gli accertamenti sono negativi: visita neurologica entro 7 giorni
4
storia di pregressa cefalea; l’attacco è qualitativamente simile ai precedenti
* parametri vitali+visita neurologica esami ematochimici * se negativi: dimissione dopo terapia sintomatica e affidamento al medico di medicina generale e a un ambulatorio neurologico o Centro Cefalee per un controllo a lungo termine
giornaliere; non dovrebbe essere somministrato in pazienti con un’ipertensione non ben controllata, con malattie coronariche, renali o epatiche, in gravidanza, o in pazienti che soffrono di emicrania basilare o emiplegica; non dovrebbe, inoltre, essere utilizzato in pazienti con cefalea e deficit neurologici associati. Inoltre, è spesso difficile in PS differenziare una emicrania con aura da una cefalea con un ictus in evoluzione. Il sumatriptan pertanto dovrebbe essere somministrato solamente dopo aver stabilito una diagnosi; non dovrebbe essere utilizzato come test diagnostico, dal momento che le cefalee associate a meningite e ad arterite a cellule giganti possono rispondere al sumatriptan. Spesso, i pazienti che si presentano in PS hanno presentato una cefalea con insorgenza improvvisa, associata a prolungati periodi di vomito: se si sospetta una disidratazione, è opportuno reidratare i pazienti per via endovenosa. Inoltre, presentando molti pazienti fotofobia e fonofobia è utile farli accomodare in una stanza buia e silenziosa. Anche la diidroergotamina (DHE), data per via endovenosa in associazione alla metoclopramide o proclorperazina, è spesso utile nel bloccare un attacco di emicrania [12]. Il paziente viene prima trattato con 10 mg di metoclopramide o 5 mg di proclorperazina; dopo trenta minuti, viene somministrato DHE 0,5-1,0 mg per infusione endovenosa lenta in due minuti. La DHE può essere ripetuta 1 ora dopo in caso di necessità. La DHE è controindicata nelle malattie vascolari, nella sepsi, in caso di ipertensione non controllata e in gravidanza. Gli effetti collaterali comprendono nausea, vomito e crampi muscolari. Se sumatriptan e DHE sono controindicati, può essere utile il trattamento con un agente antinfiammatorio non steroideo (FANS), quale Ketorolac per via intramuscolare. Il Ketorolac si somministra per via intramuscolare a un dosaggio iniziale di 30-60 mg, seguito da una dose successiva di 30 mg dopo circa 8 ore.
Cefalea in pronto soccorso
291
Gli antagonisti dopaminergici come la metoclopramide, la clorpromazina e la proclorperazina, dati per via orale, rettale o parenterale, sono molto efficaci e sono stati utilizzati per anni con successo per alleviare la nausea e il vomito associati all’emicrania [13]. In PS, la somministrazione per via endovenosa di questi farmaci è spesso molto efficace sia da sola che in associazione a DHE. Proclorperizina, a un dosaggio di 10 mg per via endovenosa, può essere somministrata inizialmente e ripetuta entro 30 minuti in caso di necessità [14]. Data l’alta frequenza di ipotensione ortostatica conseguente all’uso di clorpromazina, dovrebbero essere infusi 500 mg di soluzione salina prima di somministrare 10 mg endovena di cloropromazina, ripetibile in 30-60 minuti in caso di necessità [15]. Questi farmaci possono causare, inoltre, sedazione, acatisia, crisi distoniche acute e altri sintomi extrapiramidali inclusi torcicollo e crisi oculogire. Nonostante i neurolettici siano frequentemente usati in PS, è tuttavia preferibile limitare il loro utilizzo solamente in pochi pazienti, dal momento che sono farmaci difficili da dosare e con una modesta efficacia. Inoltre, tali farmaci, possono causare frequentemente ipotensione ortostatica e sedazione. Un’altra possibilità terapeutica di successo, specie nel sopprimere lo stato di male emicranico, è rappresentata dall’utilizzo di corticosteroidi come il desametazone a un dosaggio di 10 mg endovena seguito da una dose di 4 mg ogni 6 ore in caso di necessità.
Crisi di cefalea a grappolo Il trattamento sintomatico più efficace per la cefalea a grappolo è il sumatriptan, a dosi di 6 mg per via sottocutanea, ripetibile almeno 1 ora dopo ma non più di due volte al giorno, ha un rapido effetto ed è considerato un agente molto efficace per il trattamento di un attacco acuto [16]. L’ossigeno somministrato in quantità adeguate (a una velocità di flusso di 7 L/min per 10-15 minuti) e con una maschera senza un apparecchio per la respirazione, è un trattamento molto efficace; inoltre è di facile impiego, non ha effetti collaterali e agisce rapidamente [17].
Cefalea di tipo tensivo I pazienti che soffrono di cefalea di tipo tensivo raramente necessitano di una visita in PS, dal momento che possono far fronte al loro disturbo a casa mediante l’utilizzo di diversi analgesici. Tuttavia, un problema è rappresentato da quei pazienti che presentano una cefalea cronica o quotidiana associata ad abuso di analgesici e che si rivolgono al PS come ultima speranza per il sollievo dal dolore (“sindrome della goccia che fa traboccare il vaso”). Questi pazienti necessitano di una accurata visita specialistica e richiedono un trattamento sia profilattico che per gli attacchi di cefalea e vanno seguiti nel tempo in ambulatori specialistici.
Follow-up L’uso del PS per il trattamento di una cefalea primaria è il più delle volte una perdita di tempo e di risorse economiche. I pazienti che si presentano in PS per un trattamento della cefalea dovrebbero essere indirizzati al medico di base per essere adeguatamente curati e seguiti nel tempo. I pazienti che si recano frequentemente in PS dovrebbero essere inviati a uno specialista nel campo delle
292
P. Cortelli
cefalee, che dovrà intraprendere un programma di cura efficace riguardante sia la profilassi che la terapia dell’attacco. È necessario, pertanto, che venga rivolto ogni sforzo per garantire un trattamento efficace dei pazienti con emicrania e cefalea a grappolo a domicilio o presso lo studio del medico di base.
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PARTE IV
Casi clinici
Preambolo casi clinici
295
Capitolo 26
Casi clinici: introduzione G. Casucci
I casi clinici di seguito riportati costituiscono un esempio, peraltro molto parziale, di tutti quelli presentati dai discenti della nostra Scuola, sia nelle sessioni ristrette che in quelle plenarie, in circa 10 anni di esperienza formativa comune. È facile notare come sia stata volutamente mantenuta un’impronta da presentazione “scolastica”, interattiva. Così come appare evidente che siano state, altrettanto volutamente, lasciate difformità e imperfezioni. In un caso l’errore diagnostico diventa esso stesso strumento di formazione. Mi sembra che questi pochi esempi possano aiutare a comprendere lo spirito che anima l’attività pratica (e non solo quella) della nostra Scuola, in cui ciascuno è docente e discente allo stesso tempo, con il solo scopo condiviso di assicurare umiltà, professionalità e umanità a chi soffre.
296
G. Casucci
I Caso clinico Anamnesi • • • • • • • • • • • • • • • • • • • •
Paziente di 70 anni, sesso femminile Sposata, 1 figlio Abitudini di vita regolari BMI: 24,8 kg/m2 Ipertesa dall’età di 69 anni, in trattamento con eprosartan (600 mg/die) con buon compenso Diabete di tipo 2, non in trattamento farmacologico (regime dietetico ipocalorico) Da 2 anni depressione del tono dell’umore per la morte del marito Non familiarità per cefalea Mai sofferto di cefalea fino all’età di 63 anni Dall’età di 63 anni 1-2 attacchi quotidiani ad esordio notturno (03.00-04.00 a.m.) Sede del dolore: bilaterale, a localizzazione fronto-temporale all’esordio, successivamente diffuso Tipologia del dolore: continuo, non pulsante, Intensità del dolore: moderato ma invalidante tanto da svegliare la paziente Durata: mediamente 1h (max durata: 2 h) Sintomi associati: saltuariamente nausea, non segni autonomici locali Comportamento: durante l’attacco, la paziente si alza dal letto camminando per la stanza o mettendosi seduta su una sedia Non ha mai assunto analgesici per l’attacco, che pertanto ha risoluzione spontanea entro 1-2 h Mai attacchi diurni o dopo sonno pomeridiano Mai assunta terapia di profilassi Sonno: regolare, sebbene di minore durata totale dopo esordio della cefalea. Assenza di russamento e apnee del sonno
Ipotesi diagnostiche Forma primaria 1. Cefalea di tipo tensivo cronica 2. Cefalea ipnica
Forma secondaria 1. Cefalea attribuita a neoplasia intracranica 2. Cefalea attribuita a crisi ipertensiva acuta senza encefalopatia ipertensiva 3. Cefalea attribuita al digiuno
Esame obiettivo • EOG: nella norma (PA: 125/75 mmHg) • EON: nella norma
Casi clinici
297
Indagini diagnostiche Esami strumentali consigliati dal medico di base: • TC encefalo: nella norma • Ecocolordopler T.S.A.: nella norma • Rx rachide cervicale: spondiloartrosi diffusa • Esami ematochimici ed esame urine: nella norma Esami strumentali consigliati dal neurologo: • EEG: nella norma • RMN encefalo con m.d.c.: nella norma • Holter pressorio: nessun picco pressorio notturno durante gli attacchi di cefalea • EEG durante il sonno e polisonnografia: consigliati ma non eseguiti dalla paziente
Confutazione delle ipotesi Cefalea secondaria Cefalea attribuita a neoplasia intracranica: SI Cefalea attribuita a crisi ipertensiva acuta senza encefalopatia ipertensiva: SI Cefalea attribuita al digiuno: SI
RMN encefalo con m.d.c. nella norma PA notturna sempre nella norma Mai digiuno da >16 h
Cefalea primaria Cefalea di tipo tensivo cronica: Cefalea ipnica:
NO NO
Benché non confutabile secondo i criteri diagnostici ICHD-II, l’ipotesi di cefalea di tipo tensivo cronica sembra non verosimile a causa del comportamento stereotipato degli attacchi e della totale mancanza di ricorrenza diurna
Diagnosi conclusiva: cefalea ipnica Criteri diagnostici ICHD-II (2004): A. Cefalea continua che segue i criteri B-D B. Cefalea ad esordio unicamente durante il sonno, capace di svegliare il paziente C. Almeno 2 delle seguenti caratteristiche: 1. si verifica per > di 15 volte/mese 2. dura > di 15 minuti dopo il risveglio 3. esordio dopo i 50 anni di età D. Assenza di sintomi autonomici e non più di 1 sintomo associato tra nausea, fotofobia o fonofobia E. Non attribuibile ad altra patologia
SI SI SI SI SI SI SI
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G. Casucci
Terapia • • • • •
Caffeina: Melatonina: Indometacina: Litio Corticosteroidi
nessuna risposta nessuna risposta ottima risposta (50 mg tid) controindicato controindicati
Casi clinici
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II Caso clinico Anamnesi fisiologica • Paziente di 39 anni, sesso femminile • Dall’età 17 anni, episodi sporadici di emicrania con aura visiva tipica • A 37 anni, durante un episodio di aura visiva simile ai soliti, comparsa di emisindrome sensitivo-motoria sx • Quest’ultima è persistita per 4-5 giorni, con successiva completa remissione • Da circa 6 mesi assumeva la pillola anticoncezionale • A 39 anni, durante un episodio di aura visiva, sensazione di malessere diffuso: portata in PS, riscontro di ipostenia arto superiore sx
Punti di discussione 1. In cosa è carente quest’anamnesi? 2. Quali sono le caratteristiche di un’aura emicranica che permettono di sospettare una sintomaticità? 3. In quali casi è possibile fare diagnosi di infarto emicranico? 4. Quali farmaci potrebbero favorire l’infarto emicranico? 5. È consigliabile sospendere la pillola nei soggetti emicranici? 6. Quali sono gli elementi clinici che permettono di distinguere un’aura emicranica visiva da un TIA o da una crisi parziale occipitale? 7. Di quali malattie l’emicrania (con e senz’aura) può essere parte importante del quadro clinico? 8. Com’è possibile interpretare le lesioni della sostanza bianca cerebrale sovratentoriale, che talora si osservano in pazienti emicranici?
Analisi del punto 1 In cosa è carente quest’anamnesi? • Familiarità per emicrania con aura (EcA) • Costanza di emicampo nell’aura visiva • A 37 anni: – ha eseguito indagini? con che risultato? – ha sospeso la pillola? – ha intrapreso terapia antiaggregante? – che diagnosi fu posta? • A 39 anni: – quanto è durata l’ipostenia? – ha eseguito indagini? con che risultato? – che diagnosi fu posta?
300
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Analisi del punto 2 Quali sono le caratteristiche di un’aura emicranica che permettono di sospettare una sintomaticità? • Quando l’esordio è acuto, si verifica cioè in meno di 5 min • Quando dura più di 60 minuti • Quando la distribuzione anatomica della fenomenologia neurologica non rispecchia quella caratteristica dell’aura • Aura sempre dallo stesso lato • Aure subentranti • Improvviso cambiamento del pattern temporale con ingravescenza delle crisi • Esordio in età avanzata (>40 anni)
Analisi del punto 3 In quali casi è possibile fare diagnosi di infarto emicranico? Quando, nel corso di un episodio di emicrania con aura con caratteristiche tipiche, uno o più sintomi dell’aura durano più di 60 minuti ed è documentata con TAC/RM una lesione ischemica cerebrale congrua con la tipologia dell’aura, in assenza di altre cause di stroke
Analisi del punto 4 Quali farmaci potrebbero favorire l’infarto emicranico? • • • •
Ergotaminici Beta-bloccanti Contraccettivi orali Serotoninergici (?)
Analisi del punto 5 È consigliabile sospendere la pillola nei soggetti emicranici? • È utile sospenderla nelle donne con emicrania con aura, giovani (<45 anni) fumatrici e con altri fattori di rischio vascolare • L’associazione di fumo, pillola ed emicrania con aura aumenta significativamente il rischio di malattia cerebrovascolare
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Analisi del punto 6 Quali sono gli elementi clinici che permettono di distinguere un’aura emicranica visiva da un TIA o da una crisi parziale occipitale? Nel TIA • Esordio acuto dei fenomeni visivi • Più spesso i fenomeni visivi sono “deficitari” (emianopsia) piuttosto che “positivi” (scotomi scintillanti, spettri di fortificazione etc) • Non viene seguita la tipica “marcia” anatomica e temporale dell’aura emicranica • Non si accompagna a cefalea • Esordio in età avanzata • Presenza di fattori di rischio per malattia cerebrovascolare • Manca una storia pregressa di emicrania con aura (1° episodio?) Nell’Epilessia • Epilessia benigna a punte occipitali – Colpisce soggetti giovani – Presenta anomalie EEGrafiche in fase intercritica, in sede occipitale, che compaiono ad occhi chiusi o con SLI, caratterizzate da complessi punta-onda occipitali a 2-3 cicli/sec., ritmici – Disturbi visivi caratterizzati da immagini geometriche semplici colorate • Crisi parziali semplici (nei casi di aura parestesica) – Queste hanno generalmente durata molto inferiore (<3 min) rispetto ai fenomeni dell’aura
Analisi del punto 7 Di quali malattie l’emicrania (con e senz’aura) può essere parte importante del quadro clinico? • • • • •
Vasculiti Sindrome da anticorpi anticardiolipina Sindrome da anticorpi lupus anticoagulant (LAC) MELAS CADASIL
N.B: in tutti questi casi la fenomenologia emicranica è più frequentemente definibile come migraine-like poiché sono spesso presenti atipie cliniche
Analisi del punto 8 Com’è possibile interpretare le lesioni della sostanza bianca cerebrale sovratentoriale che talora si osservano in pazienti emicranici? • Non esistono a tutt’oggi linee-guida interpretative a riguardo • Approfondire mediante RM con m.d.c. (immagini T2 pesate o sequenze FLAIR) • Altre indagini (rachicentesi diagnostica, studio sieroimmunologico, studio neurofisiologico, doppler transcranico e/o ecocardiogramma per via transesofagea)
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III Caso clinico Storia clinica • • • • • • • •
Paziente di 47 anni, sesso femminile Sposata, un figlio di 20 anni sano Impiegata (80% tempo su video-terminale) Fuma 2-3 sigarette/die, non alcolici, raramente caffè Sonno: dorme 5-7 ore con risvegli (no farmaci) Ipertesa da circa 6-7 anni in buon compenso farmacologico Ipercolesterolemia Gastrite (terapia a cicli)
Anamnesi patologica prossima • • • • •
Dall’età di 22 anni cefalea ad attacchi Dolore diffuso, pulsante, per 24-48 ore Durante gli attacchi riduce o interrompe completamente ogni tipo di attività La cefalea è associata a nausea e fotofobia Se l’attacco è particolarmente intenso → vomito
Percorso diagnostico • È sufficiente quest’anamnesi per porre diagnosi? • Quali altre informazioni possono essere utili? • Prima di porre diagnosi, è opportuno eseguire un esame obiettivo?
1. È sufficiente questa anamnesi per porre diagnosi? No, mancano alcuni elementi chiave, secondo la classificazione IHS, per avere tutti i criteri rispettati (n° di attacchi ed esclusione di sintomaticità)
Criteri diagnostici ICHD-II, 2004 Emicrania senza aura A. Almeno 5 attacchi che soddisfino i criteri B-D B. La cefalea dura 4-72 ore (non trattata) C. La cefalea presenta almeno 2 delle seguenti caratteristiche: 1. Localizzazione unilaterale 2. Tipo pulsante 3. Dolore di intensità media o forte
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4. Aggravata da o limitante le attività fisiche di routine (camminare, salire scale, ecc.) D. Alla cefalea si associa almeno 1 delle seguenti condizioni: 1. Presenza di nausea e/o vomito 2. Presenza di fotofobia e fotofobia E. Non attribuita ad altra condizione o patologia
2. Quali altre informazioni possono essere utili? • • • • • • • • • • • •
Frequenza degli attacchi Familiarità Relazione con il ciclo mestruale Relazione con la pillola anticoncezionale Andamento in gravidanza Orario d’insorgenza degli attacchi Andamento nel tempo o eventuale recente modificazione dei sintomi Fattori allevianti e/o fattori scatenanti Presenza di sintomi premonitori e/o di aura Storia di precursori emicranici infanto-adolescenziali Risposta ai farmaci (sia per cefalea che per altro) Esami clinici già effettuati
3. Prima di porre diagnosi, è opportuno eseguire un esame obiettivo? È assolutamente necessario eseguire un esame obiettivo generale e neurologico per escludere una sintomaticità del disturbo
Percorso diagnostico Sono necessari esami strumentali?
Sono necessari esami strumentali? • NO • EON ed EOG nella norma
Quando sono necessari esami strumentali? L’EEG è un esame spesso abusato per la diagnosi di una cefalea. Può essere utile solo quando vi è un’alterazione della coscienza, quando si sospetta un’encefalopatia metabolica o un’encefalite e infine quando è presente un abuso di farmaci barbiturici. Le indagini radiologiche sono invece indicate e utili nel caso in cui la cefalea sia di sospetta natura sintomatica e, soprattutto, quando l’esordio è recente, l’età avanzata e comunque quando il/la paziente non ha mai sofferto di cefalea in precedenza o la sua cefalea si è modificata di recente.
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Diagnosi conclusiva Emicrania senz’aura
Terapia Che impostazione terapeutica adottereste in questo caso?
Impostazione terapeutica Formulare un’accurata diagnosi è essenziale per stabilire la cura più appropriata. Una volta posta la diagnosi, il trattamento sintomatico deve essere sempre prescritto tenendo conto delle caratteristiche dell’attacco (terapia stratificata) e dell'eventuale comorbilità e controindicazioni, facendo registrare su un diario le caratteristiche dell’attacco, la quantità di farmaci assunti, la risposta al trattamento. Se la frequenza degli attacchi è ≤ a 3 al mese e si riesce a trovare un farmaco che elimini il dolore entro un’ora, è probabile che il paziente non accetti l’idea di assumere un farmaco tutti i giorni. Viceversa, se la frequenza registrata su un apposito diario risulta essere superiore, se le crisi non sono completamente controllate dai farmaci sintomatici, se l’intensità dell’attacco è tale da invalidare, parzialmente o completamente, il paziente, o se la durata degli attacchi è di un’intera giornata o più, allora il trattamento preventivo diventa indicato.
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IV Caso clinico Storia clinica • • • • •
Paziente di 49 anni, sesso maschile Celibe Giornalista Non fuma, raramente alcolici, 3 caffè/die Non altre patologie associate
Anamnesi patologica prossima • • • • • • • • •
Negli ultimi 3 anni cefalea Ad attacchi A destra Durata: 1 ora Intensità: violentissimo Qualità: “a coltellata” Sede: orbito-fronto-parietale Frequenza: 1-3/die, specie di notte, 1-2 ore dopo l’addormentamento Fenomeni neurovegetativi: nessuno
Percorso diagnostico • È sufficiente quest’anamnesi per porre diagnosi? • Quali altre informazioni possono essere utili? • Prima di porre diagnosi, è opportuno eseguire un esame obiettivo?
Criteri diagnostici ICHD-II, 2004 Cefalea a grappolo A. Almeno 5 attacchi che soddisfino i criteri B-D B. Cefalea intensa o molto intensa, orbitaria, sopraorbitaria e/o temporale che dura 15-180 minuti (non trattata) C. La cefalea presenta almeno 1 dei seguenti: 1. Iniezione congiuntivale e/o lacrimazione dal lato del dolore 2. Congestione nasale e/o rinorrea dal lato del dolore 3. Edema della palpebra dal lato del dolore 4. Sudorazione facciale e frontale dal lato del dolore 5. Miosi e/o ptosi dal lato del dolore 6. Agitazione, impossibilità a stare fermo D. La frequenza delle crisi varia da 1 ogni 2 giorni, a 8/die E. Non attribuita ad altra condizione o patologia
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Cefalea a grappolo episodica A. Attacchi che soddisfano i criteri A-E per la cefalea a grappolo B. Almeno due periodi di grappolo che durano 7-365 giorni e separati da periodi di remissione liberi da dolore di almeno 1 mese Cefalea a grappolo cronica A. Attacchi che soddisfano i criteri A-E per la cefalea a grappolo B. Gli attacchi ricorrono per più di un anno senza periodi di remissione o con remissioni che durano meno di un mese
1. È sufficiente quest’anamnesi per porre diagnosi? No, mancano alcuni elementi chiave, secondo la classificazione ICH, per avere tutti i criteri rispettati (fenomeni associati, presenza di periodi liberi ed esclusione di sintomaticità)
2. Quali altre informazioni possono essere utili? – – – –
Comportamento (non è agitato durante la crisi – criterio IHS) Fattori di scatenamento (l’alcool non scatena le crisi) Periodismo (assente) Risposta ai farmaci
Diagnosi: probabile TAC 3.4.1 • Sono soddisfatti tutti i criteri eccetto uno • In questo caso, sono assenti i fenomeni associati al dolore • Non abbiamo la distinzione se episodica o cronica
3. Prima di porre diagnosi, è opportuno eseguire un esame obiettivo? È assolutamente necessario eseguire un esame obiettivo generale e neurologico per escludere una sintomaticità del disturbo EO generale e neurologico: nella norma. Pressione arteriosa nella norma.
Storia farmacologica • Attacco: – Sumatriptan fl sc: – Zolmitriptan cpr: – Indometacina im: – Ossigeno inalatorio: – FANS: – Ergot (spray nasale): • Profilassi: – Verapamil 360 mg/die:
inefficace inefficace inefficace inefficace inefficace inefficace inefficace
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Percorso diagnostico Sono necessari esami strumentali?
Principali segnali d’allarme – – – – – – –
Primo episodio Dolore unilaterale e violento >3-4 ore Assenza di fenomeni autonomici Sede atipica Non risposta ai farmaci (in particolare somministrazione per via parenterale) Età d’esordio atipica EON anormale
Esami eseguiti • Bioumorali con anche indici di flogosi aspecifici: ndr • EEG: ndr • TAC encefalo basale: nella norma (pochi mesi dall’esordio)
RM encefalo a 3 anni dall’esordio
Fig. 26.1 Adenoma ipofisario con invasione del seno cavernoso di dx
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Diagnosi finale Cefalea a grappolo sintomatica secondaria ad adenoma ipofisario
Follow-up • • • •
Asportazione per via endonasale dell’adenoma ipofisario La PRL si è normalizzata (era 2000 pg/ml) In terapia con Dostinex ½ cpr/die per tenere nel range la PRL Nei periodi di sospensione del Dostinex, la PRL aumenta; la cefalea non si è mai più ripresentata anche durante la sospensione del Dostinex (follow-up post-operatorio di oltre 2 anni)
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V Caso clinico Anamnesi familiare e fisiologica • Sesso femminile, 20 anni, studente • Familiarità positiva per diabete tipo 2 • Anamnesi fisiologica non significativa. In particolare: mestruazioni regolari, non assunzione di estroprogestinici orali, assenza di fumo e alcolici • Obesità
Anamnesi patologica • Rettocolite ulcerosa (luglio 2000) • Trattamento con mesalazina (Asacol) • Sospensione del trattamento dopo qualche giorno per comparsa di cefalea con scomparsa della stessa • Terapia steroidea ad uso locale con beneficio • Circa 15 giorni prima del ricovero reintroduzione della terapia con mesalazina per os (Pentasa), con conseguente ricomparsa di cefalea • Da circa dieci giorni secrezioni nasali purulente • In data 17/8/2000 modificazioni delle caratteristiche della cefalea (più intensa e accompagnata da ripetuti episodi di vomito alimentare) • Miglioramento della sintomatologia nei due giorni seguenti • Il 20/8/2000 la paziente si presenta al PS del nostro ospedale per il peggioramento della cefalea (in sede frontale) e la ricomparsa di vomito
È sufficiente questa anamnesi? Quali carenze presenta? • • • • •
Caratteristiche della cefalea? È stata sospesa la mesalazina dopo il secondo tentativo terapeutico? Con che risultato? Caratteristiche del vomito (a getto? nausea?) Presenza di febbre con secrezioni nasali purulente? Ha praticato terapia per la cefalea?
Ipotesi diagnostiche formulate dal neurologo di guardia • Emorragia subaracnoidea (ESA) non recente • Sinusite frontale
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Ipotesi diagnostiche suggerite dalla storia: pro e contro • ESA: – pro: insorgenza di cefalea acuta con caratteristiche diverse da quella dei 15 giorni precedenti – contro: secrezioni nasali purulente • Sinusite frontale: – pro: secrezioni purulente, cefalea frontale – contro: nessun elemento anamnestico
Altre ipotesi diagnostiche suggerite dalla storia: pro e contro • Pseudotumor cerebri: – pro: obesità, rettocolite ulcerosa (RCU), cefalea – contro: assenza di disturbi del campo visivo e papilledema • Meningo-encefalite: – pro: febbre, cefalea, secrezioni nasali purulente – contro: nessun elemento anamnestico • Lesione espansiva endocranica: – pro: vomito, cefalea – contro: secrezioni nasali purulente • Trombosi venosa cerebrale: – pro: RCU, cefalea – contro: secrezioni nasali purulente • Cefalea come effetto avverso da mesalazina: – pro: terapia con mesalazina, precedente scomparsa della cefalea con la sospensione del farmaco – contro: secrezioni nasali purulente
Storia clinica obiettività 20/8/2000 • EOG: nella norma • EON: – accenno a pronazione dell’arto superiore dx (restante obiettività neurologica negativa) – dolorabilità elettiva alla compressione dei punti di emergenza del n. trigemino bilateralmente in sede frontale. • T.C.: 37,5°C
Quali ipotesi diagnostiche avreste confutato dopo l’EOG e l’EON? • Cefalea come effetto avverso da mesalazina • Ridotta la forza dell’ipotesi diagnostica di sinusite frontale isolata per la presenza di segno di Gierlich
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Storia clinica: esami diagnostici eseguiti in PS • Esami ematochimici di routine: nella norma • Rx cranio e seni paranasali: normali • Tac encefalo senza mdc: nella norma
Quali delle ipotesi diagnostiche avreste confutato in base a questi esami? • Sinusite • Pseudotumor cerebri • Lesione espansiva endocranica
Storia clinica • Ricovero presso il reparto di Osservazione del Dipartimento di Emergenza per assenza di posti letto in Clinica Neurologica • Il giorno seguente scomparsa di cefalea e vomito dopo Novalgina e Plasil e normalizzazione del quadro neurologico ⇒ dimissione il 21/8/2000 • Il 22/8/2000 nuovo accesso al PS per la comparsa di ingravescente stato confusionale, rallentamento ideomotorio e dubbio episodio di clonie al volto
Quali ipotesi diagnostiche avreste formulato in base ai nuovi dati clinici? • Meningo-encefalite • Trombosi venosa cerebrale • ESA
Storia clinica: obiettività • EOG: ndp; si rilevano “atteggiamento distaccato” e insufficiente collaborazione • Visita psichiatrica: non segni/sintomi di patologia psichiatrica processuale in atto • Esame neurologico: negativo
Storia clinica • Viene posta indicazione alla rachicentesi, resa impossibile dalla scarsa collaborazione della paziente
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• Ricovero presso la Divisione di Medicina del nostro ospedale per mancanza di posti letto in Clinica Neurologica • 23/8/2000 ore 12.30: crisi convulsiva generalizzata trattata con Valium 1 fl e.v. • TC 37.6°: inizia terapia antibiotica con Rocefin (2 gr/24 h e.v.) • ore 13.00: EON stato di sopore, paralisi brachio-crurale dx ipotonica con segno di Babinski, non segni meningei • Ore 18.00: EON pz soporosa risvegliabile con stimoli verbali, modesta ipostenia arto superiore dx prevalentemente distale, restante obiettività negativa
Confutazione delle ipotesi in base all’evoluzione clinica Nessuna delle ipotesi precedentemente formulate (meningo-encefalite, TVC, ESA) può essere confutata, anche se in base all’evoluzione clinica si riduce la forza dell’ESA
Storia clinica esami di laboratorio • • • • • • •
Esami ematochimici (23/8/2000): esami di routine nella norma Esame delle urine (23/8/2000): nella norma Emocoltura (23/8/2000): negativa Sierologia HIV (23/8/2000): negativa D-Dimero (24/8/2000): 1378 (vn < 260) (piastrine 94) Fattori della coagulazione (24/8/2000): antitrombina III nella norma, proteina C ed S nella norma Autoanticorpi (24/8/2000): LAC negativo, anticorpi anticardiolipina (IgG ed IgM) negativi
Storia clinica esami diagnostici • Rachicentesi: iperproteinorrachia (51 mg/dL), conta cellulare 4 elementi/microL ed esame colturale negativo • TAC encefalo senza mdc: area di ipodensità parenchimale in sede sottocorticale frontale anteriore sinistra nel cui contesto si osservano iperdensità ematiche e piccola area di ipodensità corticale in sede fronto-centrale destra.
Ipotesi confutate in base ai nuovi esami diagnostici • Meningo-encefalite • ESA
Storia clinica RM encefalo s/c mdc e angioRm intracranico (24/8/2001): presenza di estesa area di alterato segnale intraparenchimale che interessa il lobo frontale sn a livello delle circonvoluzioni frontali superiore, media e pre-centrale, e di altre circoscritte aree lesionali in corrispondenza del giro-
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frontale superiore e a livello sottocorticale parietale al vertice nell’emisfero di dx: tali rilievi, visto anche il quadro evolutivo e TC, sono riferibili a lesioni vascolari acute a genesi venosa (trombosi di vene corticali). Lo studio mirato delle strutture venose consente di rilevare presenza di materiale iperintenso nel contesto del seno sagittale superiore nel tratto medio, probabilmente interessato solo parzialmente dai fenomeni trombotici.
Diagnosi conclusiva: trombosi venosa cerebrale Strategie terapeutiche adottate • Terapia: eparina (4000 UI in bolo, poi 25000 UI/die), diazepam (Valium) in infusione continua • Crisi epilettiche parziali motorie agli arti di dx, subentranti e secondariamente generalizzate in un’occasione, trattate con Fenitoina e.v. 600 mg in 10 ore seguita da Dintoina per os 1 cp ogni 6 ore
Storia clinica • 24/8/2000, ore 12.30 EON invariato • Terapia: aggiunto desametasone 1 cc x 4/die. • Ore 13.00: a seguito del riscontro di bradicardia sinusale (FC 40 bpm R; PA 110/90) la paziente viene trasferita in UCC per monitoraggio cardiovascolare • Ore 19.00: lieve miglioramento del quadro clinico, in particolare per quanto riguarda lo stato di coscienza; persistono ipostenia arto superiore dx di grado moderato e note afasiche con saltuarie anomie • 25/8/2000, ore 12.00: progressivo peggioramento del quadro neurologico • ore 14.00: la paziente viene trasferita presso la Clinica Neurologica EON: paziente soporosa risvegliabile con stimolo verbale, afasia espressiva, paresi grave arti di dx, Babinski a dx Persiste bradicardia sinusale (50 bpm) • Ore 20.00: rapido peggioramento delle condizioni cliniche: pz in coma (GCS 3/15), midriasi fissa, atteggiamento di decerebrazione degli arti superiori, Babinski bilaterale • La TAC encefalo (25/8/2000, ore 20.20) ematoma nel contesto della nota lesione ischemica frontale sn con ampio edema perilesionale, dislocazione controlaterale delle strutture della linea mediana e compressione dei ventricoli laterali. • 25/8/2001, ore 23.00: intervento NCH di decompressione esterna. • Trasferita in reparto di Rianimazione viene dichiarato lo stato di morte cerebrale alle ore 17.22 del giorno 26/8/2000. • Riscontro autoptico del 28/8/2000: – Vasta area di rammollimento cerebrale interessante quasi totalmente l’emisfero di sn con area centrale di infarcimento emorragico. Trombosi diffusa dei seni venosi frontale e sagittale superiore. Edema cerebrale e diffusa congestione meningea – Quadro di RCU interessante principalmente il colon traverso Ad un colloquio successivo con il medico curante della paziente si apprende che da circa due mesi la paziente presentava modificazioni della personalità (apatia, aggressività…) e cefalea quasi quotidiana
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Cosa pensate non sia stato fatto nel percorso diagnostico-terapeutico di questa paziente? – ricovero – neuroimmagini – terapia specifica (antiedemigeni, anticoagulanti, antiepilettici)
Nell’anamnesi di questa paziente esistono secondo voi fattori clinici pro-trombotici? – Rettocolite ulcerosa – Sinusite con secrezioni purulente – Mesalazina?
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VI Caso clinico Anamnesi • • • • • • • • • • •
Donna di 32 anni, impiegata, fumatrice Familiarità positiva per emicrania In APR: nulla da segnalare Esordio della cefalea da circa 1 anno Caratteristiche della cefalea: frontale, pulsante in regione bi-temporale Sintomi associati: nausea, sudorazione profusa, ansia, cardiopalmo, pallore, fonofobia Intensità del dolore: severa Durata del dolore: 30 – 50 minuti Frequenza delle crisi: da 1 episodio al giorno a 3 – 4 a settimana Fattori scatenanti/favorenti: crisi di riso, pasto abbondante, piegamento del busto in avanti Risposta ai comuni analgesici (FANS): assente
Obiettività clinica • EOG: buone condizioni generali, obiettività toracica e cardiaca nella norma, PA 140/95, polso 76 ritmico • Durante le crisi cefalalgiche riscontro di elevati valori pressori (PA 190/100 mmHg) • EON: nei limiti della norma
Quali ipotesi diagnostiche? • Cefalea primaria • Cefalea secondaria
Accertamenti eseguiti • • • • •
Esami ematochimici: nella norma RMN encefalo: nella norma EEG: nella norma ECG: nella norma Consulenza oculistica: fundus normale
Altri accertamenti • Dosaggio ormoni tiroidei: nella norma • Dosaggio delle catecolamine e dei loro metabolici (metanefrina, normetanefrina, acido vanilmandelico); nelle urine raccolte per 24 ore dopo crisi cefalalgica: acido vanilmandelico: 140 mg/24 h (vn < 10 mg/24 h) • Ecografia renale: neoformazione del surrene dx
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Criteri Diagnostici per Cefalea attribuita a Feocromocitoma (ICHD-II 2004) A. Attacchi intermittenti e distinti di cefalea accompagnati da almeno uno dei seguenti sintomi: 1. sudorazione 2. palpitazioni 3. ansia 4. pallore B. Il feocromocitoma è dimostrato da esami biochimici e strumentali C. La cefalea si sviluppa in concomitanza con l’aumento improvviso della pressione arteriosa D. La cefalea si risolve o migliora marcatamente entro 1 ora dalla normalizzazione della pressione arteriosa
Diagnosi conclusiva Cefalea attribuita a feocromocitoma
Terapia praticata Rimozione chirurgica della neoformazione surrenalica dx, con conseguente scomparsa della cefalea
Indice analitico
A Abuso 5, 36, 68, 77, 87, 95, 119, 121-129, 166, 172, 179, 180, 254, 286, 291, 303 Acetaminofene 53, 92 Acetazolamide 43, 44, 46, 47, 105, 205, 212, 261 Acido nalidixico 212 Acido valproico 38, 93, 163 Acufeni 25, 210-213 Ad Hoc Committee 9, 11, 15, 16, 281, 282 Agopuntura 37, 39, 55, 94, 179, 181 Algia facciale atipica 146, 277, 278 Algometro 83, 84, 120 Allattamento 52 Allodinia 25, 90 Amitriptilina 37, 55, 92, 93, 95, 128, 163, 164, 180, 181, 254 Analgesici 4, 35, 50, 59, 68, 78, 87, 92, 94, 117, 120129, 147, 153, 159, 170, 172, 180, 192, 207, 213, 217, 234, 235, 245, 250, 254, 261, 275, 291, 296, 315 Anamnesi della cefalea in PS 287 Angolo pontocerebellare 69 Ansia 33, 37, 38, 123, 124, 126-128, 159, 163, 165, 244, 245, 254, 264, 265, 283, 284, 315, 316 Antidolorifici 121, 123, 128, 205 Anziano 169, 170, 172-174, 177, 178, 179, 180, 181, 260 Ascesso 223-225, 228-230, 286 Aspetti comportamentali 124 Aspirina 39, 91, 92, 112 Asse ipotalamo-ipofisario-surrene (IIS) 75 Astinenza 123, 128 Attacchi 3, 4, 9, 11, 12, 14, 20-27, 30-34, 36-38, 40, 42-46, 49-55, 58, 59, 63-70, 73, 74, 77, 83, 85, 87, 90-93, 95, 102, 104, 105, 108-110, 118, 120, 122, 130, 133-135, 140, 141, 149-151, 153, 158, 160-166, 171-176, 179, 181, 196, 201, 204, 206, 207, 252, 262-264, 267, 274, 283, 287-289, 291, 296, 297, 302 Aura 4, 5, 9-11, 13, 19, 21-27, 29, 31-33, 39-50, 52, 53, 55-59, 61, 65, 87, 111, 115, 120, 122, 157159, 162, 164, 171, 172, 175, 181, 183, 186
– – – –
persistente 10, 11, 120 prolungata 24 tipica 10, 24-27, 171, 239 tipica senza cefalea 10, 24, 27, 171, 239
B Baclofen 136, 137 Benzodiazepine 46, 92, 93, 124, 126, 176, 178 Biofeedback 37, 39, 47, 55, 94, 97, 128, 147, 162, 164-167, 254 Blink reflex 135 Blood Patch 215 Bromazepam 93 C Caffeina 36, 54, 55, 70, 92, 95, 109, 117, 121, 123, 176, 178, 180, 215, 234, 235, 244, 245, 263, 267, 298 Cannabis 234-236, 242-244 Carbamazepina 39, 46, 136-138, 147, 218 Carcinomi nasofaringei 217 Cefalea – a grappolo 12, 15, 16, 63-67, 69, 71, 73-81, 102, 108, 112, 158, 171, 173, 174, 176, 181, 193, 199, 233, 237, 287, 288, 291, 292, 305, 306, 308 – associata ad attività sessuale 101, 106, 107 – cardiaca 259, 268 – continua 87, 118, 297 – cronica quotidiana 87, 112, 117, 118, 124, 157159, 164, 170, 173 – da compressione esterna 101, 141 – da gelato 141 – da sforzo 101, 105-107 – da stimolo freddo 101, 141 – da tosse 63, 70, 101, 104-106 – di tipo tensivo 9, 11, 13-15, 22, 83-85, 87, 8991, 93-95, 97, 102, 113, 117, 118, 120, 122, 129, 157-159, 164-166, 170, 171, 173, 175, 181, 192, 217, 233, 237, 262, 272, 286, 288, 291, 296, 297 – di tipo tensivo, cronica 11, 14, 113, 117, 120, 173, 296, 297
318 – – – – – – –
di tipo tensivo, episodica frequente 11 di tipo tensivo, episodica infrequente 22 e sonno 108 emicranica 10, 24, 26 in età evolutiva 157 intervallare 118, 119, 122 ipnica 63, 70, 101, 108, 121, 170, 171, 174-176, 182, 296, 297 – mista 118 – post-traumatica 87, 247-249, 251-254, 286 – rombo di tuono 109 – trafittiva 101, 158 Cefalee – altre primarie 12, 68, 86, 101, 103, 105, 107, 109, 111, 113, 115, 120, 174 – primarie 1, 3, 5, 9, 12, 45, 68, 86, 87, 99, 101, 103, 105, 107, 109, 111, 113, 115, 120, 157, 170, 171, 173, 174, 190, 210, 237, 252, 281, 283, 286, 288 – secondarie 9, 50, 87, 170, 171, 177, 187, 189, 223, 224, 247, 260, 271, 281, 285-288 Central sensitization 89, 90, 95 Ciclo mestruale 21, 33, 35, 49-52, 122, 303 Ciclobenzaprina 93 Circadianità 73 Circannualità 73 Cisterno-CT 214 Cisternografia con radioisotopi 214 Citalopram 93, 96 Classificazione ICHD-II 20, 21, 43, 118, 120, 121, 126, 129, 130, 157-160, 182, 236, 259, 262 Climaterio 49, 59 Clonazepam 138, 218 Clonidina 79, 163, 176 Clordiazepossido 93 Clorimipramina 93 Cluster-tic 68, 81, 82 Cocaina 77, 234, 235, 236, 242-244, 266 Codeina 54, 55, 92, 121 Comorbilità – bidirezionale 283 – somatica 127 Componenti e additivi alimentari 234-236, 242 Comportamento 20, 65, 86, 124, 126, 138, 158, 203, 216, 237, 296, 297, 306 Conflitto neurovascolare 134-136, 139 Contraccettivi orali 21, 23, 33, 40, 49, 50, 56, 206, 300 Cortical Spreading Depression 32, 39, 43, 48 Corticosteroidi 128, 150, 153, 154, 182, 196, 205, 212, 228, 291, 298 Cortisolo 75, 76 Crisi epilettiche 172, 194-197, 201-203, 207, 209, 216, 219, 228, 229, 231, 245, 265, 313 Criteri IHS per l’hemicrania parossistica 67
Indice analitico – per la cefalea a grappolo 66 – per SUNCT 67 Cronicizzazione 87, 95, 118, 120, 122, 124, 125, 127, 128, 130, 157, 162, 170, 251, 253 D Decompressione microvascolare 136, 138-140, 147 Deep brain stimulation 76, 80-82, 182, 186 Deficit – del linguaggio 24 – motori 24-27, 44, 196 – visivi transitori 210 Demenza 173, 174, 178, 196, 206, 213, 216 Depressione 20, 21, 36-38, 123, 124, 126, 128, 159, 163, 170-173, 175, 180, 181, 244, 245, 250, 254, 262, 296 Desametasone 78, 228, 230, 260, 313 Diario della cefalea 88 Diazepam 93, 313 Digrignamento 89 Dipendenza 92, 123, 124, 126, 162, 206, 245 Diplopia 25, 137, 138, 210, 211, 214, 274 Disabilità 3, 4, 34, 36, 51, 95, 159, 161, 164, 191 Disintossicazione 124, 128 Disordine dell’articolazione temporomandibolare 275 Disordini – intracranici 209, 211, 213, 215, 217, 219-221 – ipertensivi 56 Disturbi – del tono dell’umore 126 – psichiatrici 6, 125, 126, 127, 128, 281, 283, 284 – visivi 4, 23-27, 217, 219, 265, 274, 301 Disturbo – d’ansia da separazione 284 – d’ansia generalizzato 38, 127, 283, 284 – depressivo maggiore 283, 284 – di panico 126, 127, 283, 284 – post-traumatico da stress 284 – somatoforme indifferenziato 284 – visivo monoculare 25 Dolorabilità miofasciale 84 Dolore – a scossa elettrica 134 – facciale 68, 101, 143-147, 189, 195, 198, 271273, 277, 278 Donatori di ossido nitrico 234-238 Dotiepina 93 DSM-IV 123, 124, 126, 245, 282, 284 E Eclampsia 207, 259, 265, 266 Effetti teratogeni 53, 54
Indice analitico Emicrania 3-7, 9-13, 19-27, 29-33, 35-41, 43-47, 49 – addominale 10, 11, 160 – con aura 4, 10, 13, 19, 22, 24, 25, 32, 39, 40, 53, 55, 57, 122, 159, 171, 172, 181, 190, 193, 195, 206, 207, 219, 271, 290, 299, 300, 301 – correlata alle mestruazioni 36, 50 – cronica 10, 11, 22, 102, 103, 117-121, 125-129 – di tipo basilare 10, 25 – emiplegica 10, 24, 25, 32, 44, 46, 180, 243 – emiplegica familiare 10, 24, 32, 44, 46 – emiplegica sporadica 10, 25 – mestruale 21, 38, 49-52, 58, 59 – mestruale da contraccettivi orali 50 – mestruale pura 50 – oftalmoplegica 11, 149, 151, 153-155 – retinica 10, 19, 25 – senz’aura 9-11, 19, 21, 22, 29, 31-33, 49, 50, 52, 57, 120, 122, 157, 162, 164, 171, 181, 219, 237, 239, 271, 304 Empiema 223, 225 Encefalite 223, 225, 230, 286, 303, 310-312 Epidemiologia 9, 11-13, 15, 17, 101, 104-106, 108, 109, 111, 112, 121, 129, 133, 157, 180, 210, 216, 227, 250, 251 Epilessia 10, 55, 172, 173, 175, 193, 205, 219, 243, 253, 301 Ergot 6, 30, 34-36, 38, 207, 306 Ergotismo 6, 36 Età evolutiva 129, 130, 157, 159, 161-165, 167 F Familiarità 25, 68, 122, 126, 159, 175, 296, 299, 303, 309, 315 FANS e analgesici 91 Farmaci di combinazione 123 Fase algica 10, 13, 24, 25, 40, 41, 44, 47, 160, 219 Fattori peggiorativi – precipitanti 20, 21, 30, 33, 86, 250, 276 – scatenanti 21, 23, 40, 65, 66, 86, 88, 94, 102, 109, 113, 123, 161, 175, 179, 182, 303, 315 Fenitoina 136-138, 147, 313 Fenomeni associati 306 Feocromocitoma 106, 207, 259, 263-266, 316 Ferro 23, 32, 125, 274 Finestra perimestruale 49, 50 Fisiopatologia 29, 31, 33, 35, 37, 39, 41, 43, 45, 47, 67, 73, 75, 77, 79-81, 89, 91, 93, 95, 97, 135, 147, 176, 198, 252 Fistola liquorale 209, 213 Flunarizina 37, 41, 44, 45, 47, 163, 176, 180 Fluoxetina 38, 93 Fluvoxamina 93 Fobia sociale 126, 127, 284
319 Formulazioni trifasiche 58 Fotopsie 23, 210 Frovatriptan 7, 34, 35, 51, 60 Furosemide 43, 47, 212 G Gabapentin 137 Ganglio sfenopalatino 73, 77 Genetica dell’emicrania 32 Glaucoma 92, 171, 174, 181, 271-273, 287 Glutammato monosodico 33, 234, 236, 242, 243 Grappolo 12, 15, 16, 63-67, 69, 71, 73-81, 102, 103, 108, 112, 158, 171, 173, 174, 176, 181, 193, 199, 233, 237, 260, 287-289, 291, 292, 305, 306, 308 Gravidanza 21, 23, 33, 35, 39, 49-56, 58, 203, 265, 266, 290, 303 H Hemicrania – continua 35, 63, 67, 71, 81, 87, 101, 102, 111, 115, 118, 121, 122 – cronica parossistica 81 Heterocrania 4 I Ibuprofene 54, 91, 162, 216, 261 Idrocefalo 171, 173, 209, 210, 212, 216, 217, 231, 253 Imipramina 93 Indometacina 30, 36, 44, 66-70, 77, 81, 103, 105109, 111, 112, 121, 176, 181, 182, 212, 298, 306 Infarto emicranico 10, 23, 25, 199, 299, 300 Inibitori delle fosfodiesterasi 234-236, 238 Iperalgesia 90 Ipertensione – arteriosa 21, 23, 35-37, 87, 107, 124, 128, 171, 172, 175, 180, 191, 198, 259, 263, 265 – endocranica benigna 210 Ipoparatiroidismo 212 Ipostenia 25, 211, 220, 299, 312, 313 Ipotalamo 68, 74-76, 80, 81, 112, 177, 216 Ippocrate 4, 5 Istamina 65, 74, 233-236, 268 K Ketoprofene 44, 91, 212 L Lamotrigina 39, 44, 46, 47, 81, 138, 147 Levetiracetam 39, 163, 164, 167 Lidocaina 77, 140
320 Liquido cefalo-rachidiano 109, 211 Litio 35, 70, 75, 78, 108, 109, 176, 177, 181, 182, 212, 298 M Magnesio 30, 43, 55, 164, 181 Manipolazioni 94, 199 Manovra di Valsalva 212, 213, 217, 219, 220 Maprotilina 93 Marijuana 6, 236, 246 Medication overuse headache 121, 130, 184 Medulloblastomi 217 Melatonina 75, 76, 79, 111, 112, 176, 177, 298 Menarca 50, 52 Meningite 192, 197, 209-211, 216, 223-228, 286, 288, 290 Meningite carcinomatosa 209 Menopausa 21, 23, 49, 52, 58, 59, 124, 147 Metisergide 31, 38, 55, 79, 106, 107 Mianserina 93 Mielo-TC 214 Mirtazapina 93 Mitologia greca 4 Modificazioni ormonali 49 Monossido di carbonio 21, 87, 234-236, 240, 260, 262 Morbo di Addison 212 N Naprossene 51, 92, 103 Naprossene sodico 51 Naratriptan 7, 35, 51, 60 Neoplasie intracraniche 209, 210, 216 Nervo ottico 145, 146, 210, 212 Neurosarcoidosi 209, 215, 216 Nevralgia – del glossofaringeo 139 – del laringeo superiore 141 – del nervo intermedio 140 – del trigemino 12, 66, 68, 69, 73, 81, 133, 134, 274 – del trigemino sintomatica 134 – occipitale 140, 277 Nevralgie craniche 9, 11, 12, 101, 133, 135, 137, 139, 141, 146, 271, 277, 278 New daily persistent headache 87, 101, 112, 115, 116, 118, 120, 121 Nitrofurantoina 212 Nitroglicerina 6, 32, 41, 178, 237, 238 Nortriptilina 93, 181 O Obesità 23, 159, 162, 172, 210-212, 309, 310 Oppio 6
Indice analitico Oppioidi 35, 54, 76, 121, 124, 127, 129, 218, 234, 244, 262 Ossigeno 33, 77, 78, 103, 176, 181, 240, 260, 291, 306 Oxcarbazepina 39, 137 P Pain matrix 5 Palpazione 87, 120, 140, 273, 274, 287 Papilledema 151, 202, 203, 210-212, 217, 220, 286, 310 Paracetamolo 35, 44, 53-55, 92, 162, 164, 179, 181, 205, 261 Parasimpatico 74 Parkinsonismo 213 Paroxetina 38, 93 Patologie infiammatorie non infettive 209, 210, 215 Pattern temporale 12, 66, 68, 84, 102, 111, 121, 163, 224, 300 Periodicità 64 Popolazione generale 3, 13-15, 64, 85, 101, 104, 108-112, 121, 141, 210, 227, 263 Positron Emission Phonography (PET) 80 Prednisone 43, 78, 153, 176, 182, 186, 196, 197 Preeclampsia 56, 60 Pressione liquorale 104, 111, 210-215, 228 Prevalenza 3, 12-16, 19, 22, 25, 49, 58, 59, 64, 85, 101, 102, 104, 108, 109, 111, 112, 121, 133, 134, 135, 139-141, 151, 157-161, 169-172, 174, 177, 178, 196, 210, 233, 247, 250, 251, 254 Profilassi 33, 34, 36-40, 44-47, 51, 55, 58, 70, 7679, 91-93, 95, 107, 127-129, 163, 164, 166, 176, 179-181, 292, 296, 306 Profilo di personalità 126, 250 Pronto soccorso 191, 285, 287-289, 291 Propanololo 15, 16, 19 Pseudotumor cerebri 87, 210, 220, 310, 311 Pubertà 13, 19, 49 R Rachicentesi 87, 105, 110, 192, 205, 209, 213, 214, 227, 301, 311, 312 Rachide cervicale 87, 177, 248, 250, 255, 297 Radiochirurgia stereotassica 138 Rafe 125 Rebound headache 123 Recettori – 5HT-1B 6 – 5HT-1D 6 Relaxation Training 94, 97, 165 Riflesso trigemino-facciale 67, 68, 76 RM – cerebrale 211, 214, 217, 219
Indice analitico – spinale 214 Root Entry Zone (REZ) 133 S Scenari clinici in PS 291 Sclerosi multipla 69, 133-136, 138, 143-145 Segale cornuta 6, 8 Sindrome – di Alice nel paese delle meraviglie 24 – di Eagle 140 – di Marfan 213 – premestruale 58, 59 Sindromi periodiche dell’infanzia 10, 11, 19, 157, 159 Sintomi – associati 12, 20, 21, 25, 33, 65, 86, 88, 113, 122, 147, 158, 160, 179, 240, 296, 315 – negativi 172 – positivi 26 – premonitori 20, 23, 303 Sistema – limbico 125 – oppioide 76, 125 Sonno REM 65 Soporofilia 124 Soppressione esterocettiva 89 Sostanze – uso acuto 234 – uso cronico 234 – uso eccessivo 234, 254 Spettro di fortificazione 5, 43 Spinal sensitization 90 Stereotassi 80 Steroidi anabolizzanti 212 Storia naturale 9, 19, 22, 64 Stress 21, 23, 33, 40, 55, 65, 75, 76, 90, 94, 124, 127, 157, 165, 261, 284 Stretching 94 Stroke 25, 27, 56, 57, 60, 144, 172, 178, 180, 183, 184, 186, 189, 190, 198, 206-208, 286, 300 Studi genetici 24 Sulpiride 93, 96 Sumatriptan 6, 34, 35, 42, 43, 47, 51, 54, 55, 60, 77, 78, 79, 92, 96, 109, 125, 162, 167, 181, 207, 240, 246, 288, 290, 291, 292, 306 SUNCT 12, 63, 66-71, 81, 82, 102, 103, 115, 158, 174, 185, 193 Supplementazione estrogenica 51, 52 T Tecniche – di rilassamento 127, 162, 165, 179, 181 – percutanee 138, 139
321 Tenderness 11, 84, 89, 95, 96, 120 TENS 39, 94, 181 Teoria Centrale 29, 30 Terapia – cefalea a grappolo in PS 291 – chirurgica 79, 80, 138, 182, 200 – dell’attacco 34, 36, 40, 41, 47, 74, 76, 77, 91, 162, 164, 292 – dell’emicrania con aura 40 – emicrania in PS 288 – farmacologia 80, 162, 163, 166 – preventiva 94, 128 – sostitutiva ormonale 49, 58 Terapie – cognitive 94 – comportamentali 164 Thyrotropin-Releasing Hormone (TRH) 75 Tic douloureux 68 Tizanidina 92, 93 Tolosa-Hunt 149, 153-155, 174 Topiramato 39, 46, 55, 79, 93, 114, 129, 138, 163, 164, 181 Tossina botulinica 94, 127 Trapanazione della calotta 4, 5 Transformed migraine 119 Trattamenti non farmacologici 39, 47, 55, 94 Trauma cranico 25, 172, 247-252, 254, 256-258 Trazodone 93, 163 Trigeminal Autonomic Cephalgias (TACs) 63, 66, 73 Trigger – areas 134, 135, 136 – factors 134, 135 – points 68, 287, 289 Triptani 6, 7, 11, 31, 34, 35, 43, 50, 51, 54, 79, 92, 121-124, 128, 129, 162, 176, 180, 181, 192, 234, 235, 268 Trombosi dei seni venosi 110, 211 V Valproato 43, 46, 79, 128, 138, 164, 180, 181 Valproato di sodio 43, 46, 164, 180, 181 Verapamil 37, 78, 82, 180, 181, 306 Vertigini parossistiche 11 Vomito ciclico 10, 11, 160 Z Zolmitriptan 7, 34, 43, 77, 82, 162, 306