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STEPHEN GALLAGHER L'ANGELO DELLE TENEBRE (Nightmare, With Angel, 1992) RINGRAZIAMENTI Com'è di prammatica, molti sono coloro che vanno ringraziati. In questo caso, si tratta di: il Polizeipräsident Dirk Reimers e il Kriminaloberrat Michael Daleki di Amburgo; il dottor Klaus Bielstein dell'Innenministerium des Landes Nordrhein-Westfalen, il Kriminalhauptkommissarin Edeltraud Wörz-Polachowski, lo Hauptmeister Liliensiek, l'Obelkommissar Bosimann, e il professor dottor Jürgen Barz del dipartimento di medicina legale dell'Università Heinrich Heine di Düsseldorf. Michael Anft e il console generale Rolf Oetter di Londra, per i loro consigli e i loro collegamenti. Nel nordovest dell'Inghilterra, Keith Marsland RGN, RMN all'ospedale Whittingham, mia moglie Marilyn per aver ritrascritto le annotazioni registrate e le interviste, e inoltre tutti quei contatti nella polizia ai quali mi sono rivolto in moltissime occasioni e la cui generosità è tanto più apprezzata quanto più è stata "non ufficiale". PARTE PRIMA La ballata del povero cane 1 Marianne, regina della spiaggia. Marianne e il suo miglior amico, il cane Rudi. Ma l'apprezzamento avrebbe dovuto essere fatto in quel preciso momento, perché Marianne a gran fatica si sentiva regina di qualcosa. Era bagnata, aveva freddo e poteva vedere, con spaventevole certezza, che il tempo rimasto loro per sostare su quella lingua di sabbia se n'era fuggito quasi tutto. La marea stava montando, e la marea era cattiva. Era una giornata storta. Il cielo era scuro come un brutto livido, con banchi di nuvole che s'appressavano basse; nel pomeriggio aveva piovuto, e minacciava ancora pioggia. Questo, in qualsiasi giorno, sarebbe stato più che sufficiente per far fuggire chiunque dalla spiaggia. Tutti, forse, ma non Marianne e il suo miglior amico, il cane Rudi. — Forza, Rudi — lo incitò. — Rudi? Su, forza.
Voleva spingerlo a mettersi sulle quattro zampe, ma lui non voleva. Non poteva. Aveva l'aria di chi vuole giocare e scodinzolava anche, ma le sue gambe posteriori non se la sentivano proprio. Nell'ultima ora si era spostato per non più di cinquanta metri, ma solo dopo lusinghe, preghiere, spinte. — Rudi — ripeté, con la disperazione nella voce, mentre lo cingeva col braccio e cercava di farlo alzare. E Rudi scodinzolava con ancora maggior vigore, e alzava il muso per guardarla col suo grande ghigno da bastardone, tutto lingua e denti e speranza negli occhi; ma le orecchie gli pendevano flosce e questo dimostrava che lui capiva qualcosa del pericolo che li sovrastava, benché non potesse comprenderlo appieno. Sempre accoccolata al suo fianco, lei si guardò alle spalle. La spiaggia su cui si trovavano non era più quella di prima con molte rocce. Adesso si era trasformata in uno schieramento di promontori e isolotti, tra i quali si approfondivano sempre più le secche. La porzione di terreno sulla quale si trovavano era non più di una lingua a forma di mezzaluna, e non fra le più alte di quante la circondavano. Ben presto sarebbe scomparsa anch'essa, perché le onde si sarebbero richiuse su di essa. Era un modo stupido, molto stupido di morire. — Forza, Rudi — disse di nuovo, e questa volta gli diede uno strattone prendendolo per il collare. Non era abbastanza forte per trasportarlo. La sua forza non era sufficiente nemmeno a trascinarlo col guinzaglio lontano da dove lui voleva ostinatamente andare, ma adesso, in qualche modo, doveva provarci. — Forza — ripeté. — Non aver paura, non ti lascio solo. — Lui né l'aiutava né opponeva resistenza, ma le ci voleva tutta la sua forza per tirarlo verso la linea dell'acqua. Lei lo trascinava e lui lasciava una traccia nella sabbia, tutta gambe e unghie e coda. Il muso gli scompariva in una confusa corona di pelle e pelo a causa dal collare che gli era scivolato lungo il collo. Ma in lui non c'era nulla di divertente. Non appena l'acqua gli lambì le zampe anteriori tentò di allontanarsene lottando con foga, dimenandosi come un demone per sfuggire alla presa di lei. Che non riuscì a resistergli e cadde di schianto sulle ginocchia. Rudi guaì alcune volte mentre ruzzolava all'indietro, poi si raddrizzò, con aria arruffata e ferita. — Tu, putrido culatone — disse Marianne con la forza che le davano le lacrime, mentre cercava dentro di sé le parolacce peggiori che osasse pronunciare.
Marianne aveva dieci anni. Rudi ne aveva... be', lei non ne era sicura, ma forse ne aveva uno o poco più di lei. Nessuno aveva saputo dirle che età avesse quando era andata a prenderlo col suo papà. L'unica cosa che le avevano detto al canile è che era gentile e abituato a vivere in una casa, e che tutti quelli che l'avevano visto nelle ultime due settimane l'avevano scartato in favore di cani più giovani o di cuccioli. E due settimane era il massimo che il canile poteva tenere un qualsiasi animale; dopo di che, quelli non reclamati o non adottati facevano un'ultima passeggiata fino alla piccola camera con la porticina di ferro, da cui uscivano dalla porta posteriore chiusi in un sacco nero dell'immondizia. Suo padre non aveva trovato nulla da ridire sulla sua scelta. Qualsiasi cosa lei volesse, per lui andava bene. La sua mente era fissa su altre cose. Questo era avvenuto quattro anni fa, più o meno. Marianne trasse un lungo, profondo respiro che sapeva di acqua salata, poi espirò. Quindi si alzò in piedi. Rudi la guardava, e lei si guardò di nuovo attorno. Con le mani strette in piccoli, pallidi pugni, percorse tutta la lingua di sabbia. Le bastarono una decina di passi, e alla fine s'arrestò, mentre sondava con lo sguardo la profondità dell'acqua. Esisteva sempre la possibilità che riuscisse a farcela da sola. Si voltò a guardare Rudi. Lui scodinzolò di nuovo, speranzoso, poi abbassò sorpreso lo sguardo quando la marea montante coprì di colpo la parte finale della sabbia, bordeggiandogli accanto. Che adesso si alzi? pensò lei. Invece no, si stava solo ritraendo con le zampe anteriori per cercare un rialzo, mentre la parte posteriore del corpo si spostava dietro di lui come una cosa addormentata. Il panico si stava impadronendo di lei. Sapeva che non poteva abbandonarlo. Anche se fosse stata capace di farlo e di vivere successivamente senza di lui, il momento di quella decisione era già scivolato via. L'acqua fra lei e la terraferma si era fatta veloce, profonda. Quella baia era un posto traditore, doveva la sua fama proprio a quello. Alla sua grandezza e stato di abbandono, e alle sue maree, e alle sue sabbie mobili; esistevano numerosi racconti di viandanti che s'erano proposti di attraversare quell'estensione sabbiosa di oltre dieci chilometri con la bassa marea, e non erano mai più stati visti, e quasi nessuna di quelle storie era leggenda. Il flusso marino venne assorbito dal terreno, e l'acqua gorgogliò fuori da migliaia di minuscoli pori, quasi si trattasse di un giacimento di gas appena
scoperto. Rudi era al di sopra di tutto ciò, e si guardava alle spalle come se fosse stato tradito. Si era azzoppato rincorrendo la sua palla, era successo tutto d'un colpo, e lei si era spaventata a morte. Nello stesso istante lui aveva fatto pipì, tutt'attorno a se stesso. Be', almeno il mare s'era preoccupato di nascondere quel disastro. Lui non era vecchio. A dodici anni non si è vecchi. Marianne si rivolse verso la spiaggia, si riempì i polmoni e gridò più forte che le riusciva. — Aiuto! Che qualcuno ci aiuti! Un paio di gabbiani si levarono in volo dai bassi dirupi. Erano erti, tagliati in maio modo, sovrastati da radici di alberi là dove il mare era giunto a scavarli e indebolirli. Alla base della scogliera c'erano gruppi di rocce su cui le onde s'infrangevano con alti spruzzi. Non c'era nessuno che stesse passeggiando da quelle parti. Si voltò a guardare lungo la spiaggia, nella direzione in cui c'erano le dune e oltre quelle la città lontana, e trasse un altro lungo sospiro e chiamò di nuovo. Questa volta ci provò con troppa forza e le parole sembravano lottarle in gola e ne uscirono alla fine come un amo che finalmente riesce a liberarsi. Si asciugò le lacrime con la manica. Le sue parole sembravano essersi perse nel vento e nella vastità che la circondava, e non le tornò nemmeno un'eco. Lungo la spiaggia, a chilometri e chilometri di distanza, riusciva a vedere un puntino che si muoveva contro le nubi: forse un elicottero, diretto a una delle piattaforme petrolifere che si trovavano al largo. Troppo distante. Nulla che gli assomigliasse passava mai di lì. Da quella parte della spiaggia, non succedeva proprio mai nulla. Era questo che gliel'aveva fatta eleggere come suo posto prediletto; ma se, in qualche modo, se la fosse cavata, era certa che non ci sarebbe mai più tornata. Mai più. Adesso Rudi stava guaendo. Tornò sui suoi passi, gli si inginocchiò accanto, lo abbracciò di nuovo. Stava tremando. — Va tutto bene — gli disse. — Presto saremo al sicuro. Presto arriverà qualcuno. Da un minuto all'altro. Da un minuto all'altro. Come parole confortanti, erano piuttosto deboli. Ma ci doveva essere un modo di cavarsela. Doveva esserci. Non è così? Il loro isolotto s'era fatto ancor più minuscolo negli ultimi minuti. La
crescita del mare era adesso meno titubante, aveva più l'aspetto dell'urgenza. Si sentiva la mente vuota. Ben presto l'acqua li avrebbe raggiunti come qualcosa di vivo, che cresceva per proclamare come suo anche quel pezzo di sabbia e allora... ecco, quella era la parte che non riusciva a immaginarsi. Era un colore che non rientrava nel suo spettro visivo, un grosso buco nero nel suo puzzle. — Da un momento all'altro, Rudi — ripeté, stringendolo con forza. — Aspetta, ti prego. Il giorno stava finendo e l'acqua si stava stringendo attorno a loro e nessuno, proprio nessuno, sapeva dove lei fosse. "E a nessuno" le sussurrò una vocina nella parte più intima della sua anima "a nessuno importa". Fu colpita da uno shock improvviso quando l'acqua gelida le lambì le gambe e lei, anziché essere inginocchiata sulla sabbia umida si trovò con le ginocchia immerse nell'acqua fredda che si ritirò con la stessa velocità con cui era arrivata; in un attimo si ritrovò in piedi e così fece, anche se solo per un attimo, anche Rudi, e mentre lei s'affrettava ad afferrare il guinzaglio e tentava di trascinarlo lui si provò a muovere qualche passo, ma la parte posteriore cedette di nuovo e il cane ricadde senza alcuna grazia su quanto rimaneva di sabbia asciutta. Adesso stavano entrambi tremando, e gli abiti di lei gocciolavano. La scogliera era a poco più di un centinaio di metri, e alla sua percezione sembrava allontanarsi sempre più. Quella spiaggia evanescente sembrava correre per chilometri, e nessuno era in vista. Alle sue spalle, il mare aperto, il cielo vuoto. Si chiese se ce l'avrebbe fatta a nuotare. Ma ogni volta che il mare avanzava o recedeva, le rocce sotto la superficie le ricordavano correnti sotterranee che ribollivano in un calderone. Marianne strinse il cane con quanta forza aveva. Non riusciva a credere che non stesse per succedere qualcosa. Cercò di pensare a una preghiera, ma le uniche che le vennero alla mente erano quelle che cantavano stancamente a scuola tutte le mattine e che per lei avevano lo stesso senso delle esercitazioni antincendio. Non c'era alcuna frase che riuscisse a esprimere la paura che stava provando. Era un terrore così grande che rasentava l'estasi e che sembrava minacciare di trascinarla fuori dal corpo. — Oh Dio — disse miseramente, poi spinse indietro la testa e strillò più forte che poteva. — Qual... cuno... per favore! Qualcuno... mi... aiuti!
Le parole le ruggivano nelle orecchie, e se ne sentì assordare; sentiva Rudi che indietreggiava e s'irrigidiva come se stesse per abbaiare, anche se non lo fece. E poi, qualcuno chiamò. 2 All'inizio non ci voleva credere, ma poi aguzzò lo sguardo verso la spiaggia. C'era un uomo, e stava sulla sabbia asciutta a un paio di centinaia di metri da lei. Non era certa di aver capito cos'avesse detto, ma forse era solo un: — Ehi! — Era là, fermo, e la stava guardando: sembrava che fosse comparso dal nulla, come inviato in risposta alla sua chiamata... tranne che non era l'effetto di un intervento divino, se non altro per il fatto che indossava alti stivali di gomma e un pesante pastrano già appartenuto all'esercito, con uno zaino color kaki appeso a una spalla e un sacco nero di plastica per la spazzatura nell'altra mano. Un sacco pieno a metà. Dal rumore che fece quando lo lasciò cadere a terra, doveva essere pieno di vecchie lattine. — Cosa stai facendo? — le gridò. — Sono bloccata qui — rispose lei, confessando l'ovvietà del fatto. — Come pensi di cavartela? — Il mio cane non ce la fa a camminare. Ha qualcosa che non va alle zampe. Lui guardò oltre la sottile striscia di sabbia, come se volesse misurarla, poi osservò la marea che montava. Il mare aveva il colore del ferro appena forgiato, ed era in moto continuo. — Se non venite via di lì, annegherete — disse infine. — Lo so, ma non posso abbandonarlo. — Non ti muovere — disse lui. — Allontanati dal margine. Se arriva una grossa onda, siete fatti. Si guardò attorno, come se volesse rassicurarsi che non ci fosse altro da fare se non quello che appariva tanto ovvio. Poi si scrollò di dosso lo zaino assieme al pastrano, ne fece un fagotto che lanciò sulla spiaggia alle sue spalle, poi s'avviò verso di loro. Fendeva le onde come un fuoribordo, ma dopo una decina di passi si sbilanciò in avanti all'improvviso, e l'acqua gli arrivò alla vita. Dovette rallentare, ma non si fermò. Si sforzava d'avanzare, ma i piedi non facevano più
presa e si sollevarono e lui dovette arrangiare una sorta di crawl per procedere. Marianne lo osservava mentre si apriva la strada attraverso i marosi come una foca dai movimenti mal coordinati. E poi, nel giro di pochi secondi, si rialzò di nuovo, uscì barcollando fra le onde approdando sulla sabbia. Aveva il viso tirato e pallido per il freddo patito, gli occhi sbarrati, la parola gli era stata mozzata via dallo shock del gelo. Raggiunse Marianne e si accasciò subito, semi-collassato, davanti a lei. L'acqua ruscellava via di dosso a lui come se egli fosse l'antico reperto di un tesoro appena ripescato dagli abissi del mare. Lei lo conosceva. Be', non che ne avesse una conoscenza diretta, però lo aveva già visto. Una figura lontana e solitaria che camminava sulla spiaggia con uno di quei grossi sacchi di plastica, più spesso quando c'era la bassa marea che non quando il mare montava. Viveva in un posto buffo da qualche parte nell'entroterra, tra il fiume e i binari della ferrovia; alcuni dei ragazzini della sua scuola di tanto in tanto andavano laggiù e lanciavano pietre sul tetto della sua casupola, e poi fuggivano a gambe levate. Nessuno di quanti lei conosceva l'aveva mai visto così da vicino. Nessuno fino a quel momento. Respirava a fatica, lottava per riprendersi. Aveva capelli scuri tagliati corti, come una spazzola, e c'era del grigio fra di loro. Aveva l'aria di chi non si lava da qualche giorno, e anche nella sua barba c'era del grigio. Aveva l'aspetto di chi trascorre la maggior parte della giornata all'aria aperta. Dal lobo dell'orecchio destro gli pendeva un minuscolo anello d'oro liscio. Non sapeva dargli un'età. A lei tutti gli adulti sembravano uguali, avevano tutti un'aria vecchia. — Sei pazza — le disse non appena gli tornò fiato a sufficienza per dire qualcosa. — Non hai letto i cartelli di pericolo? — Lo so che è pericoloso — rispose lei guardando poi Rudi. — Stavo cercando di farlo muovere. — Sei qui in visita da qualcuno? — Vivo da queste parti. — Quant'è lontana casa tua? — Devi averla vista. È quella grande, sul capo. — Capito — disse lui mentre prendeva una boccata d'aria come se fosse arrivato il momento di diventare pratici. Guardò Rudi, e Rudi ricambiò quello sguardo, con incertezza.
— Riesce a stare in piedi? — chiese. — Solo per un secondo. Poi si risiede di nuovo. — Quanti anni ha? — Nessuno lo sa. Viene dal canile. C'era qualcosa nell'espressione dell'uomo quando allungò la mano per posarla sulla testa del cane, che lei non riuscì a decifrare. Lo grattò dietro l'orecchio, e Rudi strusciò il muso contro la mano dell'uomo con un subitaneo moto di contentezza e gratitudine. Quella mano era grossa e larga e segnata da minuscoli tagli, come se avesse frugato fra la sabbia alla ricerca di lame di rasoio. Poi lui disse: — Andiamo — e cominciò ad alzarsi tenendosi al braccio di Marianne. Lei dovette alzarsi a sua volta con lui. Disse: — Rudi deve venire con noi. — Lo so — rispose lui. — Dov'è il guinzaglio? — Ce l'ha al collo. L'uomo s'abbassò e tolse il guinzaglio di sotto l'animale, mentre Marianne lanciava un altro sguardo al loro sempre più minuscolo isolotto. C'era una cassa di legno per il pesce che, come una zattera trasportata dalle onde, stava andando alla deriva. Aveva l'aria di essere in acqua da poco tempo, perché anche se aveva gli angoli ammaccati, la scritta nera sulle assi laterali era ancora ben visibile. C'era un sacco di roba del genere in arrivo. Marianne aveva passeggiato innumerevoli volte lungo la spiaggia e mai ci aveva trovato qualcosa di valore, solo erbacce, conchiglie vuote e bottiglie di plastica col tappo che, se non fossero mai state prelevate come invece succedeva, probabilmente avrebbero attraversato gli oceani del mondo per centinaia d'anni. — Forza, ragazzo — stava dicendo l'uomo. — Fammi vedere se stai diritto. Forza. Su. Su. Su. Lo stava incalzando con poca gentilezza, e il cane cercava di obbedire; poi, tremante, e con gran sorpresa di Marianne, ci riuscì. Teneva la coda fra le zampe e quelle zampe tremavano come quelle di un vitello appena nato, però era di nuovo in piedi. Il guinzaglio di Rudi era di quelli lunghi, oltre cinque metri di cuoio ben conciato. Per vecchio e docile che fosse, non lo si poteva lasciar andare da solo perché in giro, sull'alto della scogliera, c'erano molte pecore. L'uomo strinse il guinzaglio fra i denti prendendolo appena sotto l'impugnatura, poi si chinò per prendere in braccio Marianne.
— Annegherà — protestò lei quando lo vide avviarsi verso l'acqua. — No se riesce a muoversi — disse l'uomo fra i denti stretti, e con un movimento del capo diede uno strattone al guinzaglio. — Nessun cane è così stupido. Rudi barcollò, e cominciò a seguirli. — Così si fa — disse l'uomo. — Sei un bravo ragazzo. Erano già vicini all'acqua e lui si fermò un attimo per assicurare meglio la presa su Marianne che tenne più alta che poteva, poi si tolse il guinzaglio di bocca per un momento per sistemare meglio la presa. Mentre lo toglieva disse: — Ti avverto, è molto fredda. Non ti agitare perché ci sono un sacco di correnti lì sotto con cui fare i conti. Lo so che la spiaggia sembra vicina, ma è lontana abbastanza per essere pericoloso. D'accordo? Lei annuì. L'uomo girò la testa di lato, sputò, richiuse i denti sul guinzaglio e cominciò a guadare. La sua presa doveva essere ben salda perché Rudi, con un guaito, venne trascinato dietro di loro. Marianne si teneva con forza alla camicia dell'uomo, e lui non mandava alcun odore se non quello freddo del freddo mare. Avanzavano nell'acqua e adesso l'uomo la teneva alta per mantenerla fuori dall'acqua, e lei sentiva che le sue braccia stavano tremando per lo sforzo di tenerla più in alto che poteva mentre l'acqua già gli lambiva la vita. Cercò di voltare la testa per vedere cosa stesse facendo Rudi, ma quel gesto minacciava l'equilibrio dell'uomo; sia che volesse avvertirla di ciò, sia che volesse tenerla meglio, la sua stretta si fece ancor più salda, e Marianne disse: — Mi fai male. — Mi spiace — grugnì lui, ma non allentò la stretta. Aveva scelto una direzione diversa per avvicinarsi alla spiaggia, presumibilmente per evitare le correnti contrapposte che l'avevano quasi intrappolato all'andata. Stava succedendo, era questo il pensiero eccitato di Marianne; era come se il meccanismo del mondo si fosse rigirato, spezzando l'allineamento di quegli elementi che si erano riuniti per metterla in pericolo. La spiaggia sarebbe tornata di nuovo a essere la spiaggia, la marea, una semplice marea, e la più grande delle sue preoccupazioni sarebbe stata come spiegare alla signora Healey il ritardo e le condizioni dei suoi abiti. Ancora solo pochi passi, stava pensando. E poi, senza preavviso, si trovò tuffata nell'acqua, dove affondò di colpo. Lo shock del freddo era al di là di ogni credibilità. Letteralmente. Il gelo si chiuse sopra di lei come le pagine di un libro che viene chiuso di colpo.
Venne sbattuta e fatta ruzzolare dalle correnti che s'incrociavano e quando aprì gli occhi non vide altro che buio, e bollicine. Scalciò e si dibatté, le sue dita toccarono per un attimo la sabbia che stava scivolandole di sotto a velocità spaventosa; inghiottì acqua salata e poi ancora mentre cercava di afferrarsi a qualcosa, e per un attimo sbucò alla superficie. Stava ballonzolando su e giù come un ciocco, e in quel momento capì che era così, che era finita, che stava per annegare; la corrente la stava succhiando in giù come se fosse un semino e il suo ultimo sguardo, se fosse stata fortunata, sarebbe stato per le luci della città che stavano allontanandosi a gran velocità. Una mano ruvida afferrò il colletto del cappotto assieme a un ciuffo di capelli, e si sentì strattonare verso l'alto in un'esplosione di spuma e lì rimase, appesa come un pupazzo mentre l'uomo si apriva la strada fra le onde. Riuscì a sentire la parte sommersa della spiaggia che le premeva sotto i piedi e allora cercò di muoverli, ma lui stava procedendo troppo velocemente per lei e tutto quello che riuscì a fare fu di ballonzolare e scalciare a vuoto nell'acqua. Lui si stava stancando e vacillava, ma la mantenne ancora un poco finché lei non riprese l'equilibrio. Le sembrò che il peso le tornasse di colpo, raddoppiato, e dopo un paio di passi incespicò e quasi cadde sulle ginocchia. La mano di lui la sosteneva sotto il braccio, guidandola al sicuro. Lei si guardò attorno, disorientata. Il paesaggio sembrava essere completamente cambiato in quei pochi secondi trascorsi sott'acqua, e lei si rese conto che in quei brevi istanti avevano percorso una bella distanza dal punto in cui s'erano immersi. A Marianne sembravano chilometri. In realtà un centinaio di metri. — Bada a dove metti i piedi — disse l'uomo. — C'è un canale nascosto qui vicino. Lei guardò, e lo vide. Un rigagnolo di oscurità che si spostava velocemente verso l'acqua bassa, un'altra stupida trappola in quel campo minato acquoreo che solo poche ore prima non era stato più minaccioso di uno spazio qualunque nel quale gettare una palla. Si guardò attorno, all'improvviso. — Dov'è Rudi? — chiese. Ma l'uomo disse solo: — Guarda dove metti i piedi — e le fece saltare rudemente il corso sotterraneo strattonandole il braccio. Lei si provò a parlare, ma aveva già usato tutto il fiato che le restava. Alla fine, mentre sguazzavano per portarsi al riparo sulla spiaggia, riuscì a di-
re: — Dov'è? — Non lo so — rispose lui, senza guardarla. Lei si fermò. — L'hai lasciato andare? — Forse è arrivato a riva un po' più in là. Lei lo respinse. — No! — Si trattava di te o di lui. Cosa avresti voluto che facessi? Proseguì verso il luogo in cui aveva buttato il pastrano e lo zaino. Si erano separati quando li aveva lanciati, e il sacco era già nell'acqua bassa, e dondolava grazie alla sua leggerezza sotto il movimento di va-e-vieni della marea. Il cappotto, che ricordava uno spaventapasseri crollato a terra, si trovava un paio di metri più in là. Marianne non lo seguì. Rimase ferma con l'acqua fino alle caviglie, il viso rivolto verso il mare, a chiamare il suo cane. Lo cercava con gli occhi, e con l'immaginazione le sembrava di vedere la sua testa ballonzolare tra le onde. Per un attimo paralizzante le sembrò di vederlo per davvero, ma si trattava solo del sacco nero di plastica, già a una certa distanza, che ondeggiava mentre prendeva il largo. Ricordava una mongolfiera sgonfia, e quando lei lo scorse stava seminando lattine che fluttuavano nella sua scia come detriti abbandonati da un aereo di linea. Non c'era nulla. Null'altro se non la vasta, ampia e vuota baia. Null'altro all'infuori del grigio cielo nuvoloso, rigato da una pallida striscia gialla del sole del tardo pomeriggio che sbucava da un varco prossimo alla linea dell'orizzonte. L'uomo le era alle spalle, adesso. Questa volta non la toccò. Le disse: — Stava nuotando. L'ho visto io. Lei si voltò a fronteggiarlo. Lui parlava con calma, solo era un po' roco. — Non ti mentirei su una cosa come questa. Nuotava con vigore. Tienilo presente. La brezza le penetrò attraverso i vestiti bagnati. Stava battendo i denti. — È un buon nuotatore — disse, speranzosa. L'uomo distolse lo sguardo. — Ecco, così ti voglio. Riuscirebbe a trovare la strada di casa? Lei annuì. — Be' — aggiunse l'uomo — se ce la farà, è qui che dovrebbe arrivare. Ma adesso ascolta — aggiunse, e c'era un'ombra di gentilezza nella sua voce che richiamò in lei quelle paure che senza dubbio lui voleva invece acquietare. — C'è una cosa che voglio dirti. Non è un cane giovane, e quando le gambe cominciano a comportarsi in quel modo... be', a volte è
meglio dirgli addio subito, prima che le cose peggiorino. Capisci quel che voglio dire? — Ho sentito di cani ben più vecchi — disse lei, risentita. Lui non replicò. Né se ne sentì offeso. — Andiamo — le disse. E lei avvertì il peso del suo pastrano che le piombava all'improvviso sulle spalle mentre lui glielo sistemava addosso. Marianne si voltò ancora verso il mare mentre le lacrime le rigavano le guance aggiungendo sale al sale dell'acqua, poi s'avviò con l'uomo verso la scogliera. Oltre quel punto c'era la vera terra ferma. Attraversata la quale c'era il sentiero che li avrebbe portati fino alla casa di lei. 3 Da un lato c'era la terra vera e propria, dall'altro un terreno che il mare non aveva mai cessato di rivendicare. Il confine fra i due appezzamenti era segnato da una diga dalla cima piatta, costruita dall'uomo, accanto alla quale si snodava il sentiero. La diga racchiudeva un'ampia estensione di terreno basso, destinato a pascolo; al di fuori di ciò c'era la terra che veniva regolarmente sommersa, che correva fino alla baia. Seguirono la linea di uno steccato, fatto apposta per tenere lontane le pecore, con un singolo filo spinato che correva giusto sulla cima, e che denunciava i segni delle occasionali scorrerie entroterra del mare, sotto forma di ciuffi di alghe e di erbacce che ne pendevano come velli. Più oltre, si vedevano bizzarre polle di sale, grandi e strane forme scavate nelle zolle con una nettezza tale da sembrare tagliate da un pasticciere. Qui la terra era morbida e spugnosa, l'erba era liscia come un tappeto verde da gioco. Mentre salivano verso l'alto della diga, superarono uno dei cartelli menzionati dall'uomo. Era scritto con lettere fuse nel metallo, come nei cartelli che una volta si usavano sulla ferrovia, e le parole erano messe in rilievo dalla vernice bianca; vi si leggeva pericolo, e penzolava miseramente dal palo. Al suo piede c'erano diversi pezzi di legno portati dalla marea, secchi e asciutti come ossa preistoriche. Marianne si teneva il pastrano stretto addosso oltre che rialzato da terra, per evitare che le strisciasse dietro. Stava pensando a Rudi. Si era convinta che stava bene. Si stava persino chiedendo se fosse già arrivato in qualche modo a casa prima di loro e li stesse aspettando, anche se la logica le diceva di no, ma era una scena che non voleva decidersi a scacciare dalla mente. E se non c'era ancora, li avrebbe raggiunti presto. E se non succedeva
subito, sarebbe accaduto più tardi. Non le importava quello che gli altri potevano dire. Lei sapeva che sarebbe andata così. La sua vita doveva essere piena d'incantesimi. Non ne aveva appena fatta l'esperienza? Al termine del sentiero sovrastato dagli alberi, c'erano i resti della ciminiera di un'antica fonderia di rame. Solo la ciminiera, null'altro; un cumulo di otto metri di mattoni con un monticello di terra alla base e nulla che spiegasse chi l'avesse mai usata, né quando, né perché avessero deciso di situarla lì, nel bel mezzo di nulla. Da dietro la ciminiera si dipartiva un viottolo. E li c'era un altro cartello, scritto a mano questo, che diceva: PROPRIETÀ PRIVATA. Dietro, alla fine del viottolo, si scorgevano tre cottage, l'inizio della civiltà vera e propria. Marianne e l'uomo che l'aveva tratta fuori dall'acqua approfittarono di quell'opportunità e si sedettero sul muricciolo che recingeva i giardinetti dei cottage per sedersi e svuotare gli stivali dall'acqua. Se anche qualcuno li aveva visti, nessuno si fece vedere. L'uomo ruppe il silenzio. — La casa grande sulla punta. Forse quella vicina alla strada oltre il vecchio acquitrino salato? Lei rispose: — Si può camminare sul muro frangiflutti quando la strada è allagata. Lui si grattò la testa, poi si sfregò con forza i capelli. Tornarono di nuovo a ergersi come peli su una spazzola, come prima. — Sarà meglio che facciamo assieme il rimanente della strada — disse. — Non c'è bisogno. Lui fissò lo sguardo a terra. — Se mi fidassi a lasciarti andare lo farei. Ma guardaci un po'. — Io non sono così conciata — disse Marianne, ma poi si vide come l'avrebbe vista la signora Healey. Si chiese come avrebbe potuto spiegare lo stato in cui si trovava. Sarebbe stata rimproverata, questo era certo; la parte pericolosa non sarebbe nemmeno stata presa in considerazione perché, dopo tutto, era ancora tutta d'un pezzo, mentre la parte più stupida della storia sarebbe stata usata contro di lei da allora in avanti, per sempre. — Hai bisogno di qualcuno che ti accompagni — le disse lui, e lei si rese conto che l'altro sapeva esattamente cosa le stesse passando per la mente. — D'accordo — disse. E i due s'avviarono assieme lungo il sentiero.
Il viottolo era bordeggiato da alberi, e il terreno era punteggiato da bacche rosse cadute dai rami. Dopo un po' si trovarono alla vecchia cava di roccia, dove sovente venivano ricoverate le pecore quando il tempo peggiorava. Vi si trovavano un paio di vecchi vagoni ferroviari privi di ruote, che erano adibiti a riparo per gli animali; la ruggine colata dal metallo aveva colorato le pareti di legno rendendo tutto più o meno dello stesso colore. Un paio di pecore si affacciarono per guardar passare Marianne e il suo salvatore. — Tu vivi vicino alla ferrovia, vero? — chiese lei. — Ho vissuto in ogni sorta di posti — rispose lui. — Ma è lì che vivi adesso. Lui non rispose proprio di sì. Solo, reclinò leggermente la testa, come se volesse concederle quel punto. Sembrava che volutamente evitasse di guardarla. Lei attese un momento, poi disse: — Alcuni ragazzi ti chiamano Grizzly Adams. Lui alzò lo sguardo al cielo, come se volesse controllare se pioveva. — Comunque mi chiamino — rispose — posso assicurarti che sono stato chiamato in modi peggiori. Non sorrise mentre rispondeva: il suo sembrava essere un sorriso, ma non lo era. Marianne stava pensando che tutti i cani sono buoni nuotatori. E tutte le volte in cui era uscito a gironzolare da solo, Rudi aveva sempre trovato la strada di casa. Il viottolo svoltava davanti a loro, e oltre la curva il terreno tornava ad abbassarsi fino al livello dell'acquitrino. Avevano già attraversato il capo e stavano tornando giù, verso la linea costiera. — Dov'è finito il sentiero? — chiese l'uomo. — Ti faccio vedere — rispose Marianne. Poi guardò lungo la stradina dietro di loro nel caso, solo nel caso, in cui qualcuno, magari un cane, li stesse seguendo. Ma il viottolo era deserto. Raggiunsero la casa camminando sulla diga frangiflutti, perché la marea era alta e il normale sentiero era sommerso. La distanza era più o meno la stessa. C'erano state tre case sul capo, ma adesso una era in rovina, un'altra era sulla strada buona per seguirla, e solo quella di lei era ancora in piedi, isolata come un faro, nel punto in cui il cielo della sera incipiente e la terra
sembravano incontrarsi. L'auto di suo padre non era nel solito posto sassoso dov'era abituato a parcheggiarla. Ma in alcune delle stanze si vedeva brillare la luce. — Tua madre è in casa? — le chiese l'uomo. — Solo la signora Healey — rispose lei. — Probabilmente ci ha già visti arrivare. La signora Healey era la loro governante, e saliva da loro dal villaggio alcuni giorni alla settimana. Faceva loro la spesa, spazzava e si occupava del pasto serale. A volte, quando Marianne aveva bisogno di abiti, la portava con sé in città. Va detto che le visite della signora Healey non erano il punto più alto della vita di Marianne. L'esatta natura di quella sistemazione le era sempre apparsa in modo alquanto vago, ma in pratica sembrava che la signora Healey si facesse vedere solo quando suo padre non c'era, il che significa che la signora Healey stava lì per la maggior parte del tempo. La casa era alta, scura e triste; lei a volte la considerava la vera Casa degli Usher perché le ricordava quella del racconto. Il cartello IN VENDITA inchiodato a una delle finestre della stanza da letto era così consunto e squamato che sembrava essere diventato parte integrante del posto. Di solito Marianne non ci faceva caso, ma adesso, avvicinandosi a casa, le sembrava di vederla con gli occhi di un estraneo. La signora Healey non doveva averli visti arrivare, altrimenti si sarebbe già mossa per andare loro incontro. Marianne guidò l'uomo sul fianco della casa, dove c'era la porta della cucina. Una volta lì c'era stato un orto, ma adesso non c'era altro che un sottile velo di sporcizia a coprire il terreno argilloso, dove persino le erbacce trovavano difficile mettere radici. — Chiedo alla signora Healey se ti trova qualche vestito asciutto — disse Marianne mentre apriva il saliscendi. — Non ti preoccupare per questo — rispose l'uomo. — Non ho intenzione di fermarmi. La cucina era vasta, col soffitto molto alto, e deprimente quanto la maggior parte delle altre stanze della casa. Suo padre l'aveva ereditata da un qualche prozio che lei non aveva mai conosciuto. Quel prozio aveva vissuto lì gli ultimi quarant'anni della sua esistenza, e il posto non era cambiato granché in quel periodo. Da quando Marianne e suo padre vi si erano trasferiti, i cambiamenti erano stati ancora minori. La maggior parte dei pavimenti erano coperti da linoleum, il rimanente da tappeti consunti. Il mobilio era fuori moda da tempo anche per i gusti di una persona anziana, e stava cadendo a pezzi. Le camere superiori erano immerse in una penom-
bra permanente, quelle inferiori erano sinceramente tristi. Marianne si sentiva leggermente imbarazzata mentre entravano. Non aveva mai portato nessuno in quella casa. L'uomo si stava guardando attorno. — Bendix — disse, ma tanto per dire qualcosa. — Una buona macchina. Degna di fiducia. Lei guardò la lavatrice, nell'alcova accanto al lavello. A lei era sempre apparsa come qualcosa di antiquato, e ancora lo pensava. Vicino alla Bendix c'era la cuccia di Rudi con accanto la ciotola dell'acqua. Ma non c'era segno del cane. L'uomo rimase in piedi, immobile. Stava cercando di farsi credere a suo agio, ma lei avvertiva che era imbarazzato, e anche gli abiti bagnati di lui gli davano tanto fastidio quanto ne procuravano a lei. Lui aveva fatto un commento sulla Bendix, e questo era il massimo che si sentiva di dire. — Vuoi qualcosa da mangiare? — chiese lei, ma l'uomo stava già scrollando la testa. — Rendimi il pastrano che me ne vado — le disse. Si sentì un crepitio proveniente dal soffitto, seguito dal rumore di qualcuno che scendeva le scale. Una voce di donna chiamò mentre si avvicinava alla cucina. — Ci sono alcune cose come la cena, signorinella. Marianne guardò l'uomo e mormorò: — Signora Healey. — Lui annuì, come se quella fosse una notizia di notevole interesse. — Ho avuto qualche guaio, signora Healey — gridò Marianne. — E se non vuoi preoccupartene troppo tu — continuò la signora Healey ignorando quello che le aveva gridato Marianne — perché qualcuno dovrebbe preoccuparsi per... mio Dio! La signora Healey era arrivata sulla soglia dove si era arrestata. Li stava fissando a occhi sbarrati, ed era chiaro che era stata colta di sorpresa. Era impossibile dire se fosse dovuto al loro miserevole aspetto o all'inattesa presenza di un estraneo, La signora Healey sbatté le palpebre dietro le lenti. Era una donna dall'aria eccezionalmente severa e combattiva, una di quelle il cui aspetto suggerisce che il loro maggior piacere è discutere coi bottegai. Non che apparisse particolarmente villana, ma si capiva che aveva un'inclinazione per il sarcasmo. Lei lo chiamava parlar chiaro. Adesso stava in silenzio. Non diceva una parola. Boccheggiava come un pesce. Non guardava Marianne, ma l'uomo che le stava accanto. — Mi sono messa in un pasticcio — cominciò a dire Marianne — la marea stava salendo e Rudi non voleva camminare e io sono rimasta blocca-
ta... e allora quest'uomo mi ha aiutata e adesso siamo bagnati, e Rudi ha nuotato lontano da noi ma io penso che stia bene, non è vero? La voce di Marianne si spense in un sussurro. La signora Healey e l'uomo non distoglievano gli occhi l'uno dall'altra. Stava succedendo qualcosa, qualcosa che lei non riusciva ad afferrare. La labbra della signora Healey erano strette a fessura, ma lei continuava a tacere. L'uomo ne sosteneva lo sguardo senza battere ciglio. — Non è vero? — ripeté Marianne. E allora l'uomo rispose, con semplicità: — In realtà, non lo so. — Ma lui sta bene — insistette Marianne, e poi aggiunse, a beneficio della signora Healey: — Sta tornando a casa da solo. Ma stava suonando esattamente come lei aveva temuto che facesse: come una stupida scusa zoppicante inventata lì per lì per giustificare le sue condizioni più che per spiegare una situazione di vero pericolo. Finalmente, la signora Healey ruppe il silenzio. — Dov'è accaduto? — chiese. Fu l'uomo a rispondere. — Nel posto chiamato Rastrello Nero. Passavo di lì, e l'ho vista proprio in tempo. Non era colpa sua: la marea sale a una tale velocità in quel posto che si può rimanere intrappolati prima di rendersene conto. Si è comportata bene. Non ha perso la testa. La signora Healey la fissò. Poi riportò gli occhi sull'uomo e disse, con un senso di distacco come se non ci mettesse cuore in quel che diceva: — Bene, sono sicura che il padre di Marianne vorrà ringraziarla, signor...? — La gente mi chiama solo Ryan. — Abbassò lo sguardo. — E adesso è proprio venuto il momento di tornare a casa, se lei è d'accordo. La signora Healey non fece alcun tentativo per discutere della cosa o per cercare di dissuaderlo. L'uomo che rispondeva al nome di Ryan s'infilò sulla camicia bagnata il pastrano prelevato dalla bambina, fece un cenno a Marianne col capo, s'avviò verso la porta. L'ospite di Marianne non era certo una delle persone più dotate di comunicativa. — Grazie, signor Ryan — proruppe lei all'improvviso. Ma Ryan se n'era già andato. La signora Healey era rimasta immobile, lo sguardo fisso sulla porta, come se non riuscisse a credere o ad afferrare quanto era appena accaduto. E poi, involontariamente, Marianne cominciò a tremare negli abiti bagnati, e la signora Healey si riprese. Guardò Marianne come attraverso una nebbia, poi disse: — Faresti meglio a salire e a toglierti questi abiti bagnati.
— Posso avere qualcosa da bere? — Prima un bagno caldo, poi da bere. Forza, muoviti. Nella sua stanzetta, Marianne si spogliò mentre sentiva il rimbombo dell'acqua che riempiva la vasca da bagno, e il solito borbottio delle tubature che sempre accompagnava, in tutta la casa, l'erogazione dell'acqua. I suoi abiti avevano un aspetto terribile. Stavano l'uno appiccicato all'altro, e quelli a contatto della pelle stavano incollati a lei. La sabbia si era insinuata in tutte le pieghe e i pertugi possibili. Adulti, pensò. Non si riesce mai a capirli. A volte, è come se appartenessero a un'altra specie. Era atterrita all'idea di doverlo diventare anche lei: che cosa le sarebbe successo? Era come se uno dovesse dimenticare tante cose, lasciarsene tantissime alle spalle. Come la prospettiva di morire dentro, in modo che qualcun altro potesse prendere il tuo posto. Comunque, non era qualcosa che lei stesse aspettando con ansia. La voce della signora Healey la chiamava e allora lei percorse il freddo corridoio indossando solo sottoveste e mutande, coi piedi che battevano veloci sul tappeto consunto. La signora Healey era inginocchiata su un asciugamano piegato accanto alla vasca smaltata e dalle zampe a forma d'artiglio, con le maniche arrotolate fin sopra i gomiti. Il bagno era alto e stretto e pieno di vapore. Non c'erano tendine alla finestra, che era fatta di sezioni di vetro legate fra loro in piombo, e forse ai suoi giorni era anche stata bella. Adesso appariva spettrale, deprimente. Dovette alzare le braccia al cielo perché la signora Healey le sfilasse la sottoveste. — Ti prenderai una polmonite — disse. — A cosa mai stavi pensando? — Non glielo saprei dire. — Nulla di quello che fai mi sorprende più. Potevi annegare. È successo a tanti, da quelle parti. — Rudi non riusciva a camminare. — Me l'hai già detto. Dovette girarsi e tenersi con entrambe le mani al bordo della vasca per permettere alla signora Healey di sfilarle le mutande di cotone; così voltata verso la finestra, reggendosi sulle punte dei piedi, Marianne di colpo si rese conto che riusciva a vedere dalla parte più chiara del vetro, fino al muro frangiflutti. E vide Ryan, una figura lontana che seguiva la strada per tornare al capo. Se si fosse voltato, l'avrebbe vista. Non stava per caso guardando indietro? Agitò la mano per salutare. — Smettila! — scattò la signora Healey, afferrandola per il braccio e
strappandola via dalla finestra. — Smettila di esibirti a questo modo. Marianne si lasciò sfuggire un verso involontario, perché la morsa della mano le aveva stretto la parte morbida del braccio superiore; la signora Healey sembrò riprendersi, e si sforzò di apparire più calma. — Sto solo pensando — disse — a quello che potrebbe dire tuo padre. Marianne avrebbe voluto dire che stava agitando la mano perché Ryan non aveva sentito i suoi ringraziamenti, e che non c'era nessun altro in vista, ma preferì stare zitta. Lui aveva voltato la testa per guardarsi indietro. O stava per farlo. Più ci pensava, più ne era convinta. Si chiese se fosse riuscito a cogliere qualcosa del suo gesto. Il bagno era il più bollente in cui si fosse mai immersa. La signora Healey le disse di non essere ridicola perché l'acqua era a malapena calda. Si sedette spruzzando acqua mentre la signora Healey le versava, usando il vecchio contenitore del latte, altra acqua bollente sulla testa; lo tenevano lì in bagno solo per quello scopo. Seguì la soffice schiuma dello shampoo al catrame, che le venne passato sul capo con dita tanto gentili quanto può esserlo un rastrello. E mentre compiva tutte queste azioni, non cessava un attimo di borbottare qualcosa sul fatto che lei era una governante e non una bambinaia, ma si trattava del solito borbottio che era abituata ad ascoltare. Poi, dopo averla risciacquata, la lasciò per un poco a crogiolarsi nell'acqua e dopo un po' tornò con un asciugamano ruvido tanto grande da contenerla tutta. Avvolta nel telo, Marianne venne ricondotta nella sua camera. Lì scoprì che vi era stata trasportata la stufetta elettrica dello studio di suo padre, che aveva trasformato la stanza in un luogo accogliente e caldo. Fuori era già buio, e la luce del comodino era già accesa. Sul letto, la sua camicia da notte la stava aspettando. Sedette sul letto e accanto a lei sedette la signora Healey, che cominciò ad asciugarle i capelli con una parte del lenzuolo da bagno. Marianne disse: — Non voglio andare a letto subito. — Il letto è il posto migliore per te — rispose la signora Healey. Si avvertì un subitaneo cambiamento nell'aria. La signora Healey sembrò distendersi un poco; nella sua voce s'insinuò qualcosa di meno distaccato, di meno brusco di quanto Marianne avesse mai sperimentato con lei. — Non che te lo stia ordinando — aggiunse. — A volte però so cos'è meglio per te. Sei caduta in mare e hai preso freddo, e quell'acqua non è certo pulita come invece dovrebbe. Se vuoi puoi leggere, oppure posso
portarti la radio. Ti riscaldo la cena e poi te la porterò col vassoio. C'è qualcos'altro che desideri? — Da bere. — Va bene. I capelli di Marianne erano adesso abbastanza asciutti, per quanto lo permettesse un asciugamano. La signora Healey li lisciò con la mano con un gesto che era quasi affettuoso. Poi mise un dito sotto il mento di Marianne e le girò il viso finché i loro occhi s'incontrarono. C'era una qualità di chiarezza e una tristezza di fondo in essi quali Marianne non vi aveva mai scorto. — Adesso, ascoltami — le disse, e Marianne giunse le mani in grembo e si apprestò ad ascoltarla. — Quell'uomo che t'ha accompagnata a casa. Probabilmente è innocuo. Però, vedi di stargli alla larga. — Come sarebbe a dire? — Solo che... vedi di ricordartene. E se si proverà a rivolgerti la parola, digli semplicemente che hai altro da fare e vattene da un'altra parte. — Ma è la persona che mi ha salvato la vita — protestò Marianne, incapace di capire. Ma la signora Healey non rispose, limitandosi semplicemente a scostarle dalla fronte una ciocca di capelli umidi, prima di aggiungere: — E allora ricorda che sei stata molto, molto fortunata. Marianne rimase a letto, con la schiena appoggiata comodamente al cuscino, intenta a leggere un volume delle Cronache di Narnia, finché, una mezz'ora dopo, non arrivò la signora Healey col vassoio con la cena calda. La cioccolata mandava uno strano profumo; capì che la signora Healey ci aveva versato del brandy senza dirglielo, ma l'effetto fu più o meno lo stesso, perché per lei il sapore era troppo atroce perché riuscisse a berlo. Quando la governante fu scesa al piano inferiore, Marianne si avviò lesta fino al bagno dove lo versò tutto nel lavello. Sapeva bene quali parti del pavimento non scricchiolavano, e quindi le evitò. Fu mentre era in bagno e stava facendo scorrere lentamente l'acqua fredda per togliere qualsiasi traccia dal lavello che s'accorse delle luci dell'auto di papà che si stavano avvicinando. La marea doveva essersi ritirata, perché stava percorrendo la strada selciata. C'era luna piena quella sera, la cui luce trasformava la stradina in un nastro d'argento. La marea non la ricopriva mai interamente, se non in certi particolari periodi dell'anno; era una strada a una sola corsia, lunga circa cinquecento metri, che tagliava tutta
un'insenatura fino al capo e che scompariva alla vista solo per poche ore al giorno. E quando spariva, si potevano usare tutti gli altri sentieri che correvano attraverso i campi alle spalle della casa; l'unico problema era che non potevi sempre girare con l'auto dove volevi tu. Le luci della Vauxhall, ormai vecchia di cinque anni, scivolarono sotto la finestra, e lei riuscì anche a sentire lo stridio delle ruote sull'acciottolato mentre girava attorno alla casa. Marianne chiuse il rubinetto e tornò svelta in camera. Era insolitamente tardi. A volte arrivava persino più tardi, e in quelle occasioni non andava nemmeno a trovarla, forse perché convinto che stesse già dormendo. Ma lei lo aspettava lo stesso, lasciandosi trasportare da una sorta di dormiveglia fino a quando non sentiva i passi nel corridoio e, pochi attimi dopo, la porta della sua camera che si chiudeva piano. Allora abbandonava la sua veglia insonne e, come un uccello marino che si slancia da una cengia, allargava le ali e si tuffava nelle profondità del sonno. Lui non aveva quello che si chiama un lavoro. In quei giorni si definiva un commesso viaggiatore, ma non sembrava che lavorasse per qualche compagnia in particolare, e i soldi che portava a casa, quando li portava, arrivavano poco alla volta da posti sempre diversi. Passava la maggior parte del suo tempo in viaggio, guidando da una fabbrica in una grande città industriale a un'altra in qualche angolino nascosto della regione, e certe sere, quando tornava relativamente presto, non diceva mai molto su quanto faceva durante il giorno. Invece, si allungava su una sedia davanti alla TV e rimaneva a fissarla con sguardo ostile e un'espressione grave, ma era chiaro che la sua mente era fissa su qualcos'altro Sistemò la tazza sul vassoio accanto al piatto, poi s'infilò sotto le lenzuola. Sentì la porta della cucina che si chiudeva, poi delle voci, ma non abbastanza chiare perché potesse seguire il discorso, a causa del rimbombo del suono, come quando si sente un treno che corre lontano. Si chiese cosa stessero dicendo di lei. Sembrava che ci mettessero più di quello che si fosse aspettata e, mentre aspettava, la suspense cominciò a defluire. Affondò nei cuscini e sospirò. Non aveva nemmeno più voglia di leggere. Né voleva mettersi a dormire; era esausta e la sua mente galoppava, e non riusciva a riconciliare quei due stati. Doveva essersi appisolata, perché non lo sentì salire le scale. Dalla soglia, le disse: — Ho appena sentito di questo pomeriggio. Ci hai procurato un bello spavento. Di colpo era sveglia. Si mise seduta sul letto, coi cuscini alle spalle.
Chiese: — E Rudi, è tornato? Lui scrollò la testa. I suoi capelli neri stavano diradandosi sulla cima, ma che fosse una sua iniziativa oppure dovuto a semplice negligenza, li aveva lasciati crescere in modo disordinato. Non aveva un'aria anziana; i padri delle altre ragazze apparivano più vecchi di lui, anche se di fatto non lo erano. Era il suo sguardo che lo faceva decisamente più vecchio. A volte aveva guardato in quegli occhi, e non vi aveva mai ritrovato la persona che conosceva così bene. Gli disse: — Ti prego, vuoi lasciare aperta la porta per questa notte? Lui si passò una mano fra i capelli mentre si avvicinava per sedere sul bordo del letto. Indossava l'unico abito buono che aveva, ma tutte le volte che lei lo vedeva la cravatta era sempre un po' slacciata, e il dietro della camicia era sempre un po' fuori dai pantaloni. Ritirò le gambe per fargli posto. — Ascolta — le disse, mentre sedeva stancamente. — So che non sto tanto a casa quanto dovrei. Ma... credo che tu sia una ragazzina giudiziosa. Sai che la spiaggia è un posto pericoloso, per via delle maree e delle sabbie mobili. Tutte le storie che si raccontano, non sono tutte invenzioni. In tanti ci sono morti. Molti non sono mai stati più trovati. È questo che vuoi che ti succeda? — No — rispose lei. Quel che voleva da lui era che lasciasse la porta socchiusa perché Rudi, quando fosse arrivato fino a casa, non dovesse aspettare fuori al freddo fino al mattino. — Qui siamo come una squadra — disse lui. — Se me ne vado, ho bisogno di sapere che posso lasciarti con la sicurezza che non ti succeda nulla. Altrimenti, sarò obbligato a dirti di restare in casa senza mai uscirne. Lesta a cogliere ogni sfumatura, chiese: — Stai per andar via di nuovo? — Per alcuni giorni — ammise lui. — Un affare. — Quando? — La prossima settimana. Ho chiesto alla signora Healey se può fermarsi qui con te. So che non ti piace molto — aggiunse rapido, anticipando le sue obiezioni — ma, o lei viene qui oppure devi andare tu da lei, e credo che questo ti piacerebbe ancor meno. — Le posò una mano sul ginocchio, glielo strinse attraverso le coperte. — Mi rincresce, Marianne. È così che stanno le cose. Poi cominciò ad alzarsi. Se a Marianne fosse mai stato chiesto di descrivere una gamma di cose da fare che andassero da un viaggio a Disneyworld da un lato a un sog-
giorno dalla signora Healey, era più che chiaro da quale parte si sarebbe inclinata. L'unico soggetto di conversazione in grado di vivacizzare quella donna riguardava le eredità e la doppiezza dei parenti più stretti. Bastava menzionare l'esistenza di un pianoforte in questo contesto, e lei era subito pronta a prendere fuoco. Quel che Marianne voleva sapere in quel momento, prima di perdere di nuovo l'attenzione del padre, e che così tante volte aveva voluto che lui le dicesse, era che il suo unico desiderio era che tutto tornasse a essere com'era prima. Tanto tempo fa, tanto lontano da lì: senza grandi case deprimenti, senza signore Healey, e con la mamma tornata a vivere con loro due. Ma, come al solito, non riuscì a dire nulla di tutto ciò. Perché sapeva che le cose erano cambiate e che il tempo le aveva dilavate, e che quella possibilità, se mai c'era stata, era tanto lontana da poter essere abbandonata. Invece, disse: — Lascerai la porta aperta per Rudi? — Sono quasi convinto che Rudi se ne sia andato — rispose lui, non in tono aspro, ma neanche troppo tenero. — Lasciare le porte socchiuse di notte non è esattamente una buona idea. — Troverà la strada per casa — insistette lei. — Senti — aggiunse suo padre. — Sono cose che succedono. Doveva avere superato gli undici anni, ha avuto una buona esistenza. So che ti mancherà. E anche a me, se è per questo, ma non poteva vivere per sempre. — Non è morto — disse lei, convinta. — Stava nuotando per arrivare alla spiaggia. Suo padre era già sulla soglia. — Be'? — disse. — Chi può mai dire? E con queste parole di conforto uscì, chiudendosi la porta alle spalle. Io lo posso dire, pensò Marianne, decisa. Aveva perso talmente tanto di tutto il resto che la prospettiva di perdere quell'ultimo legame con la felicità le era insopportabile. Io lo so. Ed evocò mentalmente Rudi, e le appariva tanto vero che non poteva esserci la più remota possibilità che tutto fosse andato per il verso giusto. E poi, inesplicabilmente, vista la grande certezza che sentiva in sé, girò la faccia verso il cuscino e cominciò a piangere. 4 Si svegliò nelle tenebre. Sotto le lenzuola indossava solo la camicia da notte, ma si sentiva ac-
caldata. Forse perché stava sognando. Nel sogno si trovava in uno di quei labirinti fatti di specchi, in cui alcune pareti sono specchi veri, altre sono di vetro trasparente e tu non sei mai sicuro di quale sia l'uno o l'altro. Mentre cercava di uscirne, aveva colto un riflesso di se stessa, il quale, invece di andarle incontro, come sempre i riflessi fanno, si stava allontanando da lei. Era sicura che fosse un trucchetto dello specchio. Ma poi, attraverso parecchi strati di vetri, vide il suo riflesso trovare l'uscita e andarsene. Sapeva che era tardi. Papà doveva essere tornato a darle un'occhiata e aveva spento la lampada del comodino. Rotolò su se stessa e cercò di vedere le lancette luminose della sua sveglietta Westclock, ma i puntini erano troppo tenui perché ci capisse qualcosa. Rotolò nella posizione di prima sospirando, e rimase a fissare il buio. Non c'era nulla da vedere, ma dopo alcuni secondi la sua mente cominciò a evocare forme e disegni dalle venature dei mobili. Le succedeva sovente quando si svegliava durante la notte e non riusciva subito a riaddormentarsi. A volte, era riuscita persino a vedere delle facce. E a volte quelle facce l'avevano indotta ad accendere di scatto la luce. Accese la luce. C'erano momenti in cui pensava che qualsiasi posto fosse meglio che vivere lì. Era la casa di un vecchio, e ne aveva anche l'odore; nulla, fin da quando ci si erano trasferiti, l'aveva mai fatta sentire a casa sua. L'idea era stata quella di viverci finché non fossero riusciti a venderla, e poi avrebbero usato quei soldi per acquistare qualcosa di più appropriato nell'entroterra. Ma da quanto Marianne poteva ricordare, nessuno era mai venuto a darle un'occhiata. All'inizio aveva pensato che forse quella era meglio di una successione di appartamenti composti di una sola stanza o di alberghetti con colazione inclusa in cui avevano trascorso circa un anno; ma poi la novità aveva cominciato a stancarla fino da quando cominciava a vederla spuntare oltre l'acquitrino, e il paesaggio e la marina le avevano offerto minime compensazioni fino a quando non era giunto Rudi ad accompagnarla nelle sue esplorazioni. Suo padre non avrebbe lasciato la porta aperta. Di questo, era assolutamente certa. Lui non credeva, come lei, lui non sapeva. Era convinta che Rudi fosse adesso là fuori ad aspettare; silenzioso, a chiedersi come mai nessuno andasse ad aprirgli, innocente e sciocco e speranzoso com'era nel suo carattere. E se si fosse stancato di aspettare fino al mattino? E se avesse pensato che quella porta chiusa significava un rifiuto? Avrebbe fatto un giro attorno e se ne sarebbe andato offeso e allora lei l'avrebbe perso
per sempre, non l'avrebbe mai più né visto né sentito. Gettò le coperte di lato. Il vassoio con la cena non c'era più. Ormai si era convinta che era indispensabile che scendesse le scale e che aprisse subito la porta della cucina, e che il problema di vita o di morte per Rudi si sarebbe deciso non sulla spiaggia, ma lì, subito. Per quello che lei avrebbe fatto, o che non avrebbe fatto. Forse lui aveva provocato qualche rumore e lei l'aveva sentito e si era svegliata, e questo era un motivo valido per la sicurezza che avvertiva; era fede, la sua, senza incertezze di sorta, e sapeva che ne aveva lo stesso valore. Uscì dalla stanza ed, evitando le tavole che facevano rumore, percorse tutto il corridoio. La luce nella stanza di papà era ancora accesa. Marianne sapeva che non dormiva molto anche se lui diceva che non dormiva mai, ma lei sapeva che non era vero perché a volte lo sentiva russare. Non c'era nulla che le dicesse se in quel momento fosse sveglio o addormentato, ma la lama di luce che usciva di sotto la sua porta la aiutò a trovare le scale e a scenderle. "Rudi, sto arrivando" sussurrò. Sotto, le tenebre erano ancora più fitte. Non osò accendere la luce dell'ingresso, sarebbe stato come tradirsi. Ai piedi della scala cercò a tastoni attorno a sé finché trovò l'interruttore che accendeva la luce della cantina. La porta del sottoscala non era ben allineata sui cardini, e dalle fessure usciva luce a sufficienza per guidare i suoi passi. La cantina non era troppo usata: in una casa così bassa e vicina al mare era molto umida, e aveva la tendenza ad allagarsi. Attraversò la cucina, trovando a tentoni la strada attorno al tavolo. Riusciva a vedere le finestre, che erano grandi quadrati di luce biancastra come lastre di vetro opalino. Raggiunse la porta della cucina e scoprì che, come si aspettava, non solo era chiusa, ma aveva anche il paletto. Ne fu risentita. Cosa pensavano che potesse fare il suo cane? Non aveva chiesto che lasciassero la porta spalancata, solo accostata in modo che potesse spingerla col muso. Sapeva benissimo come fare, l'aveva già fatto altre volte. E poi, che rischio era? Chi passava da quelle parti? E se anche fosse venuto qualcuno, cosa poteva volere da loro? Tolse, il più piano possibile, il chiavistello. Poi prese la chiave dal chiodo cui stava appesa, l'infilò nella serratura, la fece girare. La porta si aprì. Lei la spalancò e fece un passo in avanti, verso la notte. — Rudi? — chiamò nel più alto sussurro che le riuscisse di emettere. — Rudi, sei qui?
L'aria fredda la fece rabbrividire. Sentiva il lontano respiro del mare, colse persino un guizzo di luna che si rifletteva sull'acqua. — Rudi — ripeté. — Forza, vieni. Fece un altro passo. Non era completamente buio, per lo meno non nell'area immediatamente attorno alla casa. Dalla finestra della cantina emanavano lunghe e pallide strisce di luce giallastra che bagnavano il terreno circostante. Facevano risaltare tutto quel che toccavano su quel terreno ineguale, traendo lunghe ombre frastagliate da ogni magro ciuffo d'erba che incontravano. Ma intensificavano anche le tenebre che giacevano oltre, e in quel buio Marianne non riusciva a vedere alcunché. Ascoltò. Il richiamo di un uccello, quasi certamente un gufo. Ma non troppo vicino. C'era qualcosa là fuori, se lo sentiva. E se era Rudi, lei sapeva che non l'avrebbe ignorata. Ma, e se non fosse stato in grado di rispondere? E se fosse arrivato fin quasi a casa, e poi non avesse più avuto la forza per proseguire? Continuava ad ascoltare, e la sua certezza si accrebbe. C'era qualcosa. E se c'era, doveva essere lui. Se solo fosse riuscita a trovarlo, farlo entrare perché si riscaldasse. Allora il peggio sarebbe passato. Sarebbe riuscita a persuadere papà a chiamare il veterinario perché facesse quel che poteva per farlo tornare come prima; iniezioni per l'artrite, vitamine, tutto quel che serviva per riportare slancio e vitalità in lui. Sarebbe tornato agile, avrebbe ripreso a correre, non sarebbe più stato... Coraggiosamente avanzò di un altro passo e quasi cadde; si stava allontanando dalla casa senza nemmeno rendersene conto, e aveva quasi raggiunto il punto in cui il terreno cominciava ad abbassarsi verso l'acquitrino. Un varco nelle nubi lasciò spazio alla luna, e lei ne approfittò per guardarsi attorno. Qualcosa si stava muovendo, ma quando guardò non capì cosa fosse. Una creatura della notte, forse, spaventata dal rumore che faceva lei? Oppure era Rudi, che faceva del suo meglio per risponderle? Si arrestò e si mise in ascolto, anzi, più che in ascolto, e adesso cominciò a esserne certa. C'era una presenza. — Rudi — mormorò con maggior sicurezza, e avanzò di un altro passo tenendo una mano tesa in avanti. — Forza, ragazzo, sono io, sei a casa.
Vieni a casa a scaldarti. E poi dovette voltare la testa, perché aveva sentito qualcosa che strisciava alle sue spalle. Si trovava a una quindicina di passi dalla casa o poco più, e lì c'era qualcosa, ne era certa, però non ricordava per niente un cane: scandagliò il giardinetto inselvatichito ma, mentre guardava, la luna si rifugiò di nuovo dietro le nuvole, e gli scarsi dettagli della scena che aveva davanti svanirono velocemente. In quel momento sentì, distintamente, un rumore di passi. Cominciò a sentirsi spaventata. Nessuno veniva mai da quelle parti. Nessuno. Nemmeno il giornalaio veniva a fare le consegne, e si trattava di venirci di giorno, poi. Se qualcuno si stava aggirando attorno alla casa, al buio, o si era perso o era un ladro. E doveva avere fatto uno sforzo notevole per perdersi, se era arrivato fin lì. Marianne cominciò a indietreggiare verso la porta lasciata aperta. Temeva di non farcela. Tutte quelle storie su sentirti due volte il tuo peso e di muoverti a metà della solita velocità come succede nei sogni, tutto questo le venne di colpo alla mente. Stava correndo, ma non era come se stesse veramente correndo. Era come un lungo, lento balletto; la porta della cucina si richiuse dietro di lei come la porta dell'estrema salvezza, e sembrava come se un branco di zebre avesse fatto irruzione attraverso di essa in un tempo infinitesimale. Si appoggiò all'uscio e lo chiuse di slancio. La porta obbedì come se fosse montata su cuscinetti idraulici. Il rumore che fece fu assordante. Nella fretta di agganciare il chiavistello si spellò un dito, senza avvertire alcun dolore. Sentì che la pelle stava saltando via, ma non le importava. Cercò a tastoni la chiave, la girò nella serratura e poi la strappò fuori. Si allungò per riappenderla al suo chiodo, ma lo mancò. La sentì tintinnare sul pavimento. Si chinò e cominciò a cercarla, ma non riusciva a trovarla. Non che importasse. Ormai, era chiusa dentro al sicuro. A non più di due metri da lei, qualcosa grattò con forza sul pavimento della cucina. Si girò di scatto, con le spalle alla porta. Per primo la colpì l'odore, quella puzza che già una volta aveva sfregato, e lavato e asciugato via: l'odore del freddo, il lezzo del mare. Il puzzo di qualcosa di annegato, che adesso era tornato in quella stanza con lei. La sua mano scattò, mancò l'interruttore, lo trovò.
La luce l'accecò per un attimo. Le forme le si impressero nelle retine, presero consistenza. Non era sola nella cucina. Abbassò lo sguardo. Il cane la stava guardando, con le mascelle gocciolanti, come se fosse stato colto a fare qualcosa di sbagliato. Aveva appena tolto il muso dalla ciotola dell'acqua che aveva trascinato al centro della stanza; Rudi era solito farlo quando l'aveva vuotata e ne voleva dell'altra. Faceva un gran baccano, e otteneva i risultati voluti. Il cuore di Marianne stava martellando. Non riusciva a muoversi. Rudi reclinò la testa, perplesso, e si sforzò di dimenare la coda; non ebbe grande successo, ma almeno ci aveva provato. Aveva un'aria esaurita, ma gli occhi gli brillavano. Gli s'inginocchiò accanto, lo abbracciò, ne pronunciò il nome, ma solo in un sussurro. Non voleva che suo padre scendesse; se lo sbattere della porta non l'aveva svegliato, doveva esserci andata vicina. Rudi tollerò per un poco quelle attenzioni, poi rificcò il muso nella ciotola, riprendendo a spingerla. Lei si rialzò, si asciugò gli occhi, e gliela riempì al livello. Quando gliela rimise davanti, lui abbassò il naso e cominciò a bere avidamente fin quasi a svuotarla. Poi arrancò fino al suo angolo dove si lasciò cadere nel suo cesto con un sospiro pesante, molto pesante. Il guinzaglio di cuoio, nero, irrigidito e semi-asciutto, strusciva sul pavimento dietro di lui, e lei s'affrettò a staccarglielo. Aveva la pelliccia irta e salata, e sembrava anche unta. Lo accarezzò sulla testa, e mentre lo faceva sentì l'acqua che gli gorgogliava nello stomaco come nelle tubature dell'impianto di riscaldamento. Di colpo sternuti esplosivamente cinque volte di seguito, assunse un'espressione confusa, poi si riadagiò di nuovo. Marianne si sdraiò accanto a lui sul freddo pavimento con le braccia attorno al collo, e lui era troppo stanco per farci caso. Spostò solo un poco la testa per mettersi più comodo, poi si lasciò andare con un grugnito di piacere. Cane e cuccia, indissolubilmente riuniti. Lei allungò la testa accanto a quella di Rudi. Nella casa, tutto era silenzio. — Er sagte dass Du zurück kommen würdest — gli sussurrò nell'orecchio. — Er heisst Ryan und für mich ist er ein Held. Si chiama Ryan. Ed è il mio eroe. 5
Si svegliò nelle tenebre. Senza far rumore, Jennifer McGann scivolò fuori dalle coperte e poi fuori dalla stanza. C'era la luce di un lampione che entrava quasi direttamente da una finestra, e la sua luce gialla era più che sufficiente per vederci. Un giorno, ci avrebbero messo una tendina. Qualche giorno, molto presto. Era una casa vecchia, vittoriana. Semi-elegante, e parecchio fuori mano. La stanza accanto a quella da letto era stata ripulita fino ad arrivare all'intonaco; era così vuota da sembrare vasta due volte la sua reale grandezza, che era comunque considerevole. A piedi nudi, Jennifer s'accostò alla finestra. Dove si fermò a guardare fuori. C'era qualcosa che la tormentava. Ma non riusciva a capire cosa. Mentre guardava, la luna tornò ad affacciarsi. Inargentò le tegole delle case prospicienti; grandi, vecchie residenze ben tenute, seminascoste da alberi fronzuti. Un'area molto appetibile. Potenzialmente, un buon investimento. Avvertì la sua presenza prima che lui la toccasse. — Avrei dovuto sapere che ti avrei trovata qui — disse Ricky a bassa voce, col fiato che le carezzava la pelle mentre le posava le mani sulle spalle e cominciava gentilmente a massaggiarle. — Non riuscivo a dormire — disse lei. — Non dovevi alzarti. — Mi stavo chiedendo dove fossi. Che succede? — Niente. Un brutto sogno. — Me lo vuoi raccontare? — Riguardava te. Un'auto imboccò la strada. Nessun rumore li raggiunse, ma le luci del mezzo gettarono ombre minacciose sulla terrazza dirimpetto a loro. — Ed è per questo che dici che è un brutto sogno? Sto cominciando a pentirmi di avertelo chiesto. — Voglio dire, nel sogno tu eri morto. — Ah — disse lui, e le mise le braccia attorno alle spalle, stringendola. Si era messo l'accappatoio, quello che ricordava un poco un kimono. — Be' — disse poi — come puoi vedere, non è vero. E l'abbracciò stretto da dietro per provarglielo, mentre anche lui guardava fuori, nella notte. Jennifer non rispose, e dopo un poco lui disse: — C'è qualche motivo specifico per tutto ciò?
— No — rispose lei. E poi: — Davvero, nessuno. Seguì un lungo silenzio. Poi Ricky, a voce bassa, disse: — Vorrei che cominciassi a cercarti qualche altra attività. Lei cominciò a irrigidirsi, come se si sentisse costretta a far fronte a una qualche vecchia, vecchissima discussione; ma Ricky non continuò sull'argomento, perché fece subito retromarcia. — Non voglio assolutamente farti fretta — disse. — Non crearti quest'idea. Ma se è questo quello che ti ci vuole, perché non pensarci con calma? Lei gli prese le mani. Ma solo per sciogliersi dal suo abbraccio. — È quello che cercavo — rispose. — Non ho mai voluto altro. E, veramente, non c'è altro che potrei aggiungere. — Poi, voltandosi a guardarlo, aggiunse: — Torna a letto. Ti raggiungo subito. Ho solo bisogno di pensare un poco. Lui non se ne sentì offeso. O, se lo era, non lo diede a vedere. Disse solo: — Be', sai... ho sentito che se sogni qualcosa del genere, è sicuro che non accadrà. Vecchie storie, sai. — Io non credo alle vecchie storie. — Be' — disse lui con un senso di trionfo come se avesse inseguito una preda e finalmente l'avesse catturata — comunque non puoi nemmeno credere ai sogni. — Si chinò in avanti, parlandole vicino all'orecchio. — Pensaci bene, a questo. — E quindi, con una pacca affettuosa sulla spalla, si avviò verso la stanza da letto. La casa era silenziosa. Sapeva che aveva parlato per rassicurarla. Ma si chiese cos'altro mai avrebbe potuto farlo. Preoccupazioni specifiche potevano essere eliminate perché sovente avevano cause specifiche; ma il suo era un turbamento che non aveva alcuna particolare origine. Voleva tornare a letto. Sapeva che al mattino si sarebbe sentita a disagio se non l'avesse fatto, e invece voleva sentirsi ben sveglia. Voleva mantenere in sé la sensazione che ciascun giorno era quello che avrebbe definito la vita che doveva seguire. E contava anche il modo in cui l'avrebbe capito, perché quello le avrebbe indicato il percorso da seguire. Come un atleta, impegnato nella più importante delle gare. Doveva tornare a letto. Invece s'appoggiò al davanzale, a guardare la luna. 6
Era trascorsa quasi una settimana, era l'ultima ora dell'ultimo giorno di scuola, prima della sospensione di metà corso, e Tony Gibbs aveva visto l'ultimo dei suoi alunni schizzare fuori dal cancello avendo l'assoluta certezza che nessuno di loro, ma proprio nessuno, si sentiva tanto esultante alla prospettiva di essere libero quanto lo era lui. Il tempo s'era schiarito. Splendeva un bel sole che rendeva l'erba tanto verde da essere abbagliante. Aveva perlustrato gli spogliatoi e gli armadietti del piano inferiore come prevedeva il suo turno di servizio, scovando un walkman della Sony dimenticato che s'era affrettato a portare in segreteria prima che qualche mano più lesta della sua lo facesse sparire definitivamente, poi aveva chiuso per bene l'aula del corso di ceramica e la camera oscura di quella fotografica prima di consegnare le chiavi e di dirigersi verso la nuova ala dell'edificio in cui erano situati i laboratori linguistici. La piccola utilitaria italiana di Isabella Weber, blu elettrico e grande a malapena poco più di uno skateboard, era una delle poche rimaste nel parcheggio riservato. Lui sapeva che avrebbe trovato Isabella in una delle aule, perché aveva colto una fugace visione di lei da dietro una finestra. Che diavolo. Le avrebbe chiesto di uscire. Non c'era insegnante maschio scapolo che non ci avesse provato, e con loro anche qualcuno degli assistenti. Era stata la visione di lei dietro i vetri che l'aveva fatto decidere. Inconsapevole di essere osservata, stava con la testa china sul lavoro, i neri capelli raccolti sull'alto della testa; la linea graziosa del suo viso gli aveva riportato alla mente uno di quegli interni dei dipinti fiamminghi, tutti pelli delicate e luci diffuse nella più semplice delle cornici. E ora, serio. Niente facezie. Era pronto all'attacco. Il problema di Tony era sempre stato quello che le donne con cui aveva trovato facile parlare erano quelle da cui non gli sarebbe importato essere respinto. E così i suoi successi, anche se limitati, erano sempre stati condizionati, e il risultato finale era che non duravano mai molto. Per due volte in vita sua si era sentito talmente intimidito dal timore di essere respinto da non essere in grado di fare alcunché. E due donne se n'erano così andate e avevano vissuto le loro vite e probabilmente si ricordavano a malapena di Tony Gibbs. Ma lui non le aveva dimenticate e a volte, quand'era in strada o tra la folla, s'era scoperto a cercare l'una o l'altra con lo sguardo, sperandole separate, divorziate, vedove, o in qualche modo libere e disponibili. Era una fantasia, lo sapeva, ma non poteva farci niente. La parte migliore della sua e-
sistenza di un tempo stava nel fatto che non aveva mai chiuso del tutto quella porta. La parte peggiore era che si sentiva consapevole di quanto stupido fosse. Ma solo ai propri occhi. Però, fino a che le cose stavano così, era ancora sopportabile. La porta del laboratorio linguistico era socchiusa. Isabella era ancora seduta alla cattedra, e stava controllando una serie di volumi di esercitazioni del suo corso. Era arrivata a quella scuola subito dopo la laurea: era il suo primo incarico. Di lontano veniva il rumore scattante di una falciatrice a motore. Lei avvertì la sua presenza prima che lui potesse dire qualcosa, e alzò lo sguardo. Le sorrise. — Ehi — disse poi. — Che succede? Lavori anche l'ultimo giorno di scuola? Anche Dio s'è preso una vacanza alla fine della settimana. — Poi vide la sua espressione, e parte della sua forzata disinvoltura evaporò. — Che succede? — le disse. Lei abbassò lo sguardo sul quaderno che aveva davanti, poi lo chiuse. Dal colore della copertina, capì che non faceva parte del gruppo di esercitazioni che aveva accanto a sé. — Non capisco — disse. — Niente. — Si chinò, aprì il cassetto della cattedra, cominciò a deporvi il quaderno. — Suvvia — le disse lui mentre girava attorno al tavolo. — Racconta tutto allo zio Tony. — Sono sicura che hai cose migliori da fare. — Nient'affatto, te l'assicuro. Qual è il problema? Lei sospirò, riprese il quaderno dal cassetto e glielo consegnò aperto. Aveva mani lunghe e snelle, unghie corte ma perfette. Tony sedette sull'orlo della scrivania e studiò il quaderno. Era aperto all'inizio di un saggio scritto con mano ferma e infantile. Era scritto in tedesco. Lo stile di quella scrittura, un po' asimmetrica, gli era inconsueto. — È di Marianne Cadogan — gli spiegò Isabella. — Questo è quanto mi ha consegnato. Di fatto, quello che devo fare è darle la grammatica e i libri adatti, e per il resto del tempo la lascio scrivere quel che vuole. Non ha alcun senso darle degli esercizi da seguire. La sua conoscenza della lingua è molto più fluente della mia. — Wochenende? — disse Tony, che stava confusamente perlustrando lo scritto alla ricerca di un punto che potesse riconoscere. Non sapeva leggere il tedesco. — Credo che sia un qualche tipo di automobile. — Parla del suo fine settimana — disse Isabella.
Chiuse il quaderno, lesse il nome sul frontespizio. Marianne Cadogan? Disse: — Mi sembra di ricordarla. — Dovresti — disse lei seccamente. — È una tua allieva dall'inizio dell'anno scolastico. — Be', e cosa posso dire? — Posò il quaderno sul tavolo. — Io insegno arte. Gente come me non è di questo pianeta. Che cos'ha combinato? — Ascolta — disse lei e, fatto scivolare il quaderno verso di sé, cominciò a tradurre. Lesse: Ero sola. Il cielo era buio e il mare mi circondava e nessuno sapeva dove fossi. Chiamai, chiamai, ma nessuno venne. Ero convinta che sarei annegata. Ma poi, fuori dal nulla, apparve lui, e mi disse di restare calma. Mi mise sulle spalle e mi trasportò attraverso la marea. Il mare era abbastanza profondo per inghiottirci tutt'e due, ma io mi sentivo al sicuro. Quando mi riportò a casa questa era vuota, e quando mi girai lui era scomparso. Tony aspettava dell'altro, ma era tutto. Assunse quella che gli sembrava potesse essere presa per un'espressione d'interesse e disse: — E allora? Isabella era molto seria. — Mi disturba. Lei mi disturba. La vedi, sta sempre da sola. Non sembra avere alcun amico, in una folla, semplicemente scompare. E l'unica volta che sembra aprirsi un po', ecco cosa ne viene fuori. — Ma è roba normale per una bambina della sua età — disse Tony. — Passano tutti attraverso fasi come questa, stanno annegando e nessuno li ama. — Non ha ancora dodici anni. — Be', e che vuol dire? E soprattutto, cosa vorresti fare? — Se lo sapessi, non me ne starei qui seduta. Lui si chinò in avanti. — Una proposta, ti va? Da uno qualsiasi, va bene? Tu puoi fare tutto quello che vuoi. Ma devi essere sicura dove cammini, e guardarti sempre le spalle. Perché davanti puoi avere un campo minato. Il viso di lei era inespressivo. — Mi stai dicendo di non fare niente. — Controlla e osserva, ecco quel che dico. Una mattina lei arriverà con un labbro gonfio e un occhio nero: ecco, risparmia la tua coscienza per quel momento.
Lei abbassò lo sguardo. Poi cominciò ad alzarsi. — Grazie — disse. Capì di non aver fatto buona impressione, e allora velocemente aggiunse: — Ehi. Il mio è un avvertimento serio. Non girare con tutte le tue armi spianate solo perché a volte una ragazzina appare depressa. Se qualcuno lo facesse per me, passerei l'intera esistenza a guardarmi alle spalle in attesa del Cavaliere Solitario. Lei raccattò i quaderni del proprio corso in un'unica bracciata e s'avviò verso la porta. — Mi sei stato di grande aiuto, Tony — disse mentre spingeva la porta col fianco e usciva di schiena. — Mai considerato di fare carriera coi samaritani? Sono quelli che buttano giù tutte le spallette dei ponti. E con queste parole, scomparve. Tony rimase a fissare la porta spalancata. Poi disse, alla stanza rimasta vuota: — Sospetto che questo significhi che tutto il resto va a puttane. Maledizione. Porco Giuda. Porca vacca. Abbandonò il laboratorio linguistico e tornò nel vecchio edificio, dove si trascinò per vuoti corridoi verso lo studio artistico dove aveva lasciato le sue cose. Maledizione. Avrebbe potuto fare molto meglio. Per cominciare, avrebbe dovuto pensare prima di aprire bocca. Per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordarsi di Marianne Cadogan. Riusciva a rievocare una forma che doveva più o meno essere quella di lei, ma quanto alle sue fattezze... be', a volte i bambini si assomigliano. E lui ne aveva molti, e per tanti di loro le sue lezioni erano solo un'opportunità per svignarsela o per fare casino o, in genere, per non doversi impegnare troppo. Come si poteva supporre che facesse loro capire che l'arte è osservazione, che l'arte è quella che cattura l'essenza della vita? Si pensava che avessero occhi, ma non era così. Non vedevano niente. Se pensava al termine del precedente trimestre, aveva creduto di essere riuscito a instillare in un paio di loro una scintilla di consapevolezza: aveva chiesto alla sua classe di disegnare a memoria una vecchia cabina telefonica, come quella che c'era appena fuori dal cancello della scuola. Ci passavano davanti tutti i giorni. Alcuni di loro avevano magari anche contribuito a danneggiarla. Ma nessuno riusciva a ricordarne la forma, né a disegnarne bene le porte. Uno dei ragazzi ci aveva persino disegnato sopra
una luce, come quella che si vede nel telefilm del Dottor Who. Maledizione. Il laboratorio artistico si stendeva su una vasta area, larga come tre grandi classi all'ultimo piano dell'edificio, con alte vetrate che ricordavano quelle delle cattedrali integrate dalle solite tristi lampade fluorescenti; ma, malgrado tutta quell'estensione di vetro, lo stanzone era stranamente poco luminoso. Lungo una delle paratie s'allineavano grandi vasche macchiate da generazioni di colori, e tabelloni che avrebbero potuto essere usati per ritagliarci un vestito per King Kong. Tony s'accostò a uno degli armadi e lo aprì. Era lì che immagazzinava i lavori per le valutazioni, grandi fogli di carta increspata sistemati sui ripiani e suddivisi da numeri. Ne prese una bracciata, li posò sul tavolo più vicino, cominciò a sfogliarli. In un angolo, trovò il nome di lei. La stessa scrittura. Forse, a un tedesco, non sarebbe apparsa tanto strana quanto a lui. Mentre spiegava il foglio, sul ripiano del tavolo caddero alcune falde di colore secco: lo portò alla finestra per vederlo con una luce migliore. Adesso che aveva un'immagine su cui lavorare, adesso sì ricordava. Era piccola, scura, tranquilla... e, sì, sembrava starsene sempre appartata. E mentre tutte queste informazioni gli passavno per la mente, alzò il disegno e guardò il parcheggio sottostante. Qualcuno aveva appena sbattuto una portiera: era Isabella, che stava girando attorno al suo mini-skate italiano per aprire la porta del passeggero a qualcuno. Sorrideva. A chi mai? Tony sbatté le palpebre, incredulo. Roy Bateman? Quel budinoso bastardo! Quel semplice fatto gli prosciugò la mente da ogni altro pensiero per alcuni minuti mentre osservava i due salire in auto come una coppia di contorsionisti che cerchino di entrare in una scatoletta di tonno, poi sentì il motore della Fiat avviarsi e la vide allontanarsi sputacchiando come un mezzo dell'autoscontro. Rimase a fissare il vuoto per un lungo momento. Poi riportò l'attenzione sul disegno. Era una massa mulinante di rossi e neri. E allora gli venne alla mente cosa la bambina aveva voluto esprimere. Cercò di riscuotersi. Non lasciarti trascinare, si disse. I bambini fanno cose del genere ogni minuto: scrivono storie o dipingono fogli o compongono poemi che fornirebbero incubi persino a Edgar Allan Poe. Erano anni, quelli, che più tardi avrebbero ricordato con invidia, mentre adesso trascorrevano il tempo meditando sull'atrocità dell'essere vivi. Era naturale. Mise il nero incubo di Marianne Cadogan in cima agli altri, rimise la pila di fogli al suo posto nell'armadio. Se per caso voleva sapere
come ci si sentiva veramente quando si è giù, allora doveva andare da un esperto; il fatto, secondo lui, è che non c'era nulla di fondamentalmente sbagliato in bambini come lei. Ed era sano che sfogassero sui fogli tutto quello che gli passava per la mente. Meglio sulla carta che tenuto dentro, a crescere e a diffondersi e a diventare sempre più orrendamente scuro. E non era a questo che serviva tutto ciò? Imparare ad affrontare gli incubi? Marianne scriveva una storia su un annegamento. Stava scacciando i suoi demoni, ecco tutto. Richiuse l'armadio, prese la borsa, ci chiuse dentro la cravatta, s'avviò all'uscita. Scacciare i demoni. Era quasi come se lei stesse scrivendo la sua biografia, o qualcosa del genere. 7 Ryan viveva in uno dei posti più strani che Marianne avesse mai visto. Aveva un'officina e un recinto sulla parte più lontana dei terreni sottratti al mare, oscurati da un terrapieno sul quale correva la ferrovia che da quelle parti scavalcava un sentiero sterrato e un canale di scolo. I suoi vicini erano le bestie che pascolavano nei campi, e alcune anatre che vivevano tra le erbe palustri e che si spingevano fin sotto il ponte alla ricerca di cibo. Il recinto era di forma irregolare, fiancheggiato da una muraglia continua alta poco meno di due metri e composto per la maggior parte di vecchie porte: porte interne, esterne, di garage, a quattro pannelli o in legno precompresso o a sporgenze-e-rientranze, non una che fosse uguale all'altra per stile o colore; alcune conservavano ancora la fessura in plastica o in metallo per le lettere. — Ehilà — chiamò lei. — C'è qualcuno? — Lui non era in vista. Provò il cancello d'ingresso, ma era chiuso da un grosso lucchetto. Così rimase lì ferma, con la busta in mano a guardarsi attorno, e si rese conto che, malgrado ci fossero così tante buche per le lettere, nessuna di loro aveva più alcuna funzione. Senza eccezione, erano state tutte tappate con listelle di legno inchiodate o con pezzi di lamiera. Pensò che, dopo tutto, poteva semplicemente infilare la busta nell'intelaiatura della porta in modo che lui la trovasse al suo ritorno. Oppure poteva cercare di buttarla nel cortiletto, sperando che non andasse a finire fuori vista o che la pioggia non decidesse di tornare prima di Ryan.
Ma nessuna delle soluzioni le aggradava. Se la infilava a fianco della porta, qualcuno poteva appropriarsene. E se la gettava dentro e lui non la vedeva, allora che senso aveva? Si mise la busta fra i denti e saltò per attaccarsi allo stipite. Il lucchetto e la cerniera le fornirono un buon appiglio, e lei riuscì a scavalcare la porta e a ricadere dall'altra parte. Adesso era passata, e la lettera era la sua scusa. La tenne bene in vista. Se Dio la stava guardando, non avrebbe potuto non vederla. Sentendosi come un turista, cominciò a guardarsi attorno. Contro il muro più lontano, dietro cui sorgeva il terrapieno della ferrovia, c'era un piccolo riparo a tettoia al quale erano state appoggiate due porte che non avevano trovato ancora il proprio posto nello schema del recinto. Inoltre, c'era molta altra paccottiglia. Un carretto con ruote tipo carrozzone, dalla struttura rugginosa e il cui legno era infradiciato e muschioso. La carcassa di una barca a remi, piena di cianfrusaglie e totalmente inservibile, ma ben sostenuta da mattoni come se il suo prossimo restauro non fosse un'idea scartata del tutto. Scale a pioli e gabbie per polli, tubi in plastica, damigiane, pneumatici bruciacchiati e cavi cacciati alla rinfusa in un forno a mattoni. Insegne smaltate vecchie di almeno quarant'anni e per la maggior parte smangiate dalla ruggine. La parte centrale del cortile aveva l'aspetto di essere stata usata, un tempo lontano, quale giardino; la terra era stata lavorata e nel terreno erano state inserite tavole di legno a formare una specie di separazione, ma non aveva l'aria di un posto in cui fosse mai stato seminato alcunché, tanto che trifoglio ed erbacce erano cresciuti alla rinfusa. L'officina di Ryan sovrastava questo panorama, un basso edificio in legno e tela cerata che ricordava qualcosa assemblato alla bell'e meglio in un corso di sopravvivenza e che in seguito fosse diventato permanente. Il tetto era stato ricoperto con parecchi strati di plastica gialla tenuta in sede da assicelle inchiodate, ma un forte vento, oppure uno stormo d'uccelli, l'aveva gettata d'un lato, e la plastica pendeva da tutte le parti, ondeggiando alla brezza. Le finestre erano piccole, e scure. La porta era chiusa con un lucchetto, come quella del cancello del cortile. Avanzò lentamente, con calma, senza perdere nulla di vista. Quella era la migliore delle scuse che era riuscita a escogitare, e non voleva buttarla via. Vide una serra abbandonata che aveva l'aria di essere stata aggredita con furia e che ora non aveva più un solo vetro; dentro, crescevano alcune piante da tempo abbandonate che stavano allungandosi libere attraverso il
tetto. Attorno, sacchetti di sabbia lacerati, che spargevano al suolo sabbia verde e terriccio. Accanto all'officina, protetto da un foglio trasparente di polietilene trattenuto a terra da mattoni, due lavatrici di seconda mano dall'aria di essere ancora in decenti condizioni. Una delle due le ricordava la Bendix che aveva a casa. La casa di Ryan stava in una sezione separata del cortile. Da quel che riusciva a vedere, consisteva di due antiquate case mobili unite al centro e con una veranda sistemata sulla parte frontale. Il tutto aveva un aspetto malfermo, con l'eccezione del porticato. Proprio davanti alla casa c'era la cassetta delle lettere. Bene, ecco dove doveva metterla. Ci infilò la busta e fece in modo che lo sportellino mobile la trattenesse lasciandone sporgere un angolo, nel caso in cui Ryan non fosse troppo abituato a ricevere posta o che non avesse l'abitudine di controllare. Poiché tutta quella struttura era sollevata dal terreno grazie a parecchi mattoni, e sotto c'era un sacco di sporcizia, incluso quello che sembrava essere un gruppo di finestre staccate da qualche edificio e sistemate lì sotto in orizzontale, era troppo alta perché lei potesse azzardare un'occhiata dentro. Voleva farlo, ma se non trovava qualcosa che l'aiutasse, da sola non ci sarebbe riuscita. Ma c'era qualcosa del genere, se voleva spingersi così lontano; quello che più desiderava era rimanere e continuare ad assorbire bizzarri dettagli su dettagli, ma era arrivato il momento di andarsene. Ma quando ci provò, si rese conto che non ce la faceva. All'interno non c'erano appigli per i piedi come il lucchetto all'esterno, e da sola non riusciva a saltare fino ad afferrarsi allo stipite superiore. Ci provò un paio di volte, ma tutto quello che riuscì a fare fu di staccare un po' di polvere dalla porta prima di lasciarsi ricadere a terra. Respirando a fatica, cominciò a guardarsi attorno. Se prima aveva camminato come sulle uova, adesso cominciava ad avere paura; di nulla e nessuno in particolare, ma aveva la sensazione di essere entrata in un labirinto solo per scoprire che la via del ritorno le era preclusa per sempre. Non voleva farsi trovare in quel modo. Batté sulla porta, ma senza risultato. Si mise in ascolto. Stava arrivando qualcuno? Forse Ryan stava tornando? Rimase in attesa e in ascolto per un po', chiedendosi cosa fare se fosse stato lui, cosa dovesse dire, ma non accadde nulla. Sentiva le anatre che gironzolavano e starnazzavano, e i cui suoni erano amplificati dall'arcata del ponte. Sentiva il vento che faceva ondeggiare l'erba tutt'attorno. Sentiva anche un grillo, ma solo Dio sapeva dove fosse.
Poi si decise: andò alla tettoia e prese una delle damigiane in plastica e la fece rotolare fin vicino alla porta. Era scomoda da trasportare, ma non pesante. La mise in posizione contro il divisorio poi ci saltò sopra usandola come scalino; dovette appoggiare prima i piedi di lato poi con uno sulla cima e di lì arrivò allo stipite della porta, e per un attimo rimase ferma, in precario equilibrio, appoggiata sulla pancia, e in mente aveva solo l'idea che poteva cadere a testa in avanti, ma si sforzò e riuscì a fare le cose per bene e, dopo aver fatto dondolare le gambe, atterrò sana e salva dalla parte giusta. Lui avrebbe capito che era entrata. Ma era solo per consegnare la lettera, questo gli sarebbe apparso più che evidente. Non avrebbe nemmeno pensato a lei che curiosava attorno. E poi, non poteva girare a occhi bendati, no? Seguì il sentiero fino al ponte e poi proseguì salendo sul terrapieno dove transitavano i treni. Ne passavano quattro al giorno, a orari più o meno regolari; era rimasta seduta con Rudi su una collinetta poco distante, una volta, e li aveva contati. Erano tutti treni merci, vagoni con contenitori anonimi, cisterne e cose del genere, e sembravano sempre essere lunghi un chilometro e ci mettevano un'eternità a transitare. Vicino al ponte c'era un binario di raccordo, dove sostava sovente parecchio materiale rotabile che era stato scartato e abbandonato nel bel mezzo del nulla. Marianne attraversò i binari ed entrò nella cabina del frenatore che si trovava accanto a un respingente fisso. Aveva un tetto ma era comunque aperta, senza porte per chiudersi dentro e senza vetri alle finestre, solo un nudo pavimento di legno e, al centro, una grande ruota di ferro orizzontale, che le ricordava quelle delle navi. Lo zainetto rosso di Marianne se ne stava posato in un angolo, dove lei l'aveva sistemato una ventina di minuti prima. Dentro, c'era la sua colazione. Sedette a gambe incrociate sul pavimento ricoperto di ruggine e polvere, e sciolse il nodo: Rudi avrebbe dovuto trovarsi con lei, perché dividersi la colazione era una tradizione dei fine settimana e delle vacanze, ma quando aveva cercato di incoraggiarlo al mattino lui si era stirato nella sua cuccia, l'aveva guardata con aria contrita, aveva sbattuto a terra un paio di volte la coda, facendole chiaramente capire che preferiva rimanere a casa a continuare a riprendersi. Marianne ne era contenta. Tutto quel che voleva, purché stesse di nuovo bene. Dallo zainetto prese patatine fritte, una mela, una sbarretta Crunchie dall'aria buffa, un sottile panino al formaggio diviso equamente fra pane e companatico. Marianne mangiò con gusto. Non che il formaggio fosse il
massimo per lei, ma sembrava che fosse l'unica cosa che avevano nel frigorifero. Aveva portato con sé il suo libro su Narnia. Lo stava rileggendo per la quarta volta. Dopo alcuni minuti si alzò per dare un'occhiata attorno grazie alle finestrelle del gabbiotto. Poteva vedere per parecchi chilometri tutt'attorno; riusciva facilmente a vedere anche dentro il cortile, attraverso una sterpaglia tanto fitta di rovi che avrebbe messo in crisi anche una sega a motore. Il cortile di Ryan era come lei l'aveva lasciato, il sentiero che portava a esso era deserto. Dopo un altro po', controllò di nuovo. E il cortile era sempre come l'aveva lasciato lei. Ma questa volta, c'era una figura che percorreva la stradina. Era un uomo, e stava trasportando qualcosa. Quando fu un po' più vicino fu certa che fosse lui, anche se l'andatura piegata in avanti e il lungo pastrano avrebbero dovuto farglielo identificare già da prima. Sulle spalle portava qualcosa che ricordava il telaio di una moto; non aveva motore, né ruote, né forcella, solo la struttura-base, come una cassa toracica senza testa o gambe. Quando arrivò al cortile, lo perse di vista a causa dello steccato; ma poi vide la porta aperta, e lui che entrava. Si fermò. Marianne era tesa. Stava fissando la damigiana in plastica subito dietro la porta. Lentamente, richiuse la porta. Marianne aveva creduto che non avrebbe notato il cambiamento. Con così tanta spazzatura in giro per il cortile, come faceva a notare le differenze? Ma Ryan l'aveva fatto. Lo vide avanzare con estrema cautela, esplorando il cortile da parte a parte, ma senza mai alzare lo sguardo nella sua direzione; tirò fuori un mazzo di chiavi e aprì l'officina, e per tutto il tempo continuava a guardarsi dietro le spalle. Lei lo stava mentalmente incitando: "Vai alla casa. Vai alla casa, e capirai". Rimase dentro per parecchi minuti e quando uscì si fermò sulla soglia e si stirò, come uno che vuole togliersi qualcosa di fastidioso dalle spalle. L'intelaiatura della moto doveva essere ben pesante; lei non riusciva a capire cosa avrebbe potuto cavarne fuori, tanto poco era quello che era rimasto attaccato. Forse l'aveva presa per il metallo, come faceva già con le lattine d'alluminio. O forse c'era una sorta di mercato per roba come quella, ma chi, se non un esperto, poteva dire? Con le chiavi in mano, Ryan si diresse verso la casa. Marianne si alzò per vedere meglio, cambiando lentamente posizione per tenerlo sempre in-
quadrato. Oltrepassò la barca, il varco che separava in due il cortile, salì i gradini del porticato. Pochi attimi dopo era in casa con la porta ben chiusa dietro di sé, e lei aveva visto che non aveva degnato la cassetta delle lettere di uno sguardo. Rimase a scrutare ancora per un poco, ma non accadde nulla. Contrariata, s'accovacciò di nuovo. Aveva sperato di vederlo prendere la lettera; le sarebbe piaciuto vedere che l'apriva e che la leggeva. Era forse chiedere troppo? Da quel che sembrava, sì. Si sfregò le mani sui pantaloni. Il pavimento era sporco, ma non era certo quello che l'avrebbe uccisa. Cercò nello zainetto e ne tolse un altro Crunchie. Non riusciva a capire perché li facessero sempre così piccoli, perché, se non volevi sentirti defraudata, dovevi sempre mangiarne più di uno. S'accorse di non essersi portata niente da bere. Sembrava che riuscisse sempre a dimenticare qualcosa. — E questo cos'è? — chiese una voce tranquilla dietro di lei. Quasi rimbalzò fino al soffitto. Ryan la stava guardando dall'altro capo del vagone, una grande massa scura che sembrava assorbire tutta la luce e che riempiva di sé quel posto. In mano teneva il biglietto e la busta; questa era tutta stropicciata, come se fosse stata aperta col pollice. — Mi hai fatto fare un salto — si lamentò lei. Non riusciva a vederlo bene in faccia, perché stava nella parte in ombra del carro. La luce del giorno era tutta alle sue spalle. — Mi dispiace. Ma che significa tutto ciò? — È un biglietto di ringraziamento — disse lei. — L'ho fatto io. — A che scopo? — Perché mi hai salvata. Adesso che aveva assorbito lo shock della sua improvvisa comparsa, c'era una certa indignazione nella sua voce. Uno deve essere praticamente ottuso se non riesce a riconoscere un biglietto di ringraziamento quando può leggere un GRAZIE scritto a lettere maiuscole sul davanti di una busta. Lui guardò il cartoncino. Era giallo, decorato con un merletto incollato sopra e un pezzetto di nastro rosso. L'aveva fatto in misura per la busta più grande che fosse riuscita a trovare (di solito faceva tesoro di quelle non scritte riciclabili da vecchi compleanni e feste simili) ma, in mano a lui, sembrava minuscola. — Non avresti dovuto — disse lui. — Ma volevo farlo.
— Voglio dire, non avresti dovuto venire qui dove vivo. La gente può farsi delle idee sbagliate. — Nessuno mi ha vista. — No? Hai lasciato una traccia larga come un elefante. Qui siamo nel bel mezzo del nulla, e tu non mi conosci per niente. Non è un bel modo di comportarsi per una ragazzina come te, giusto? Non riusciva a capire perché la facesse così lunga; aveva pensato che ne sarebbe stato contento, ma era chiaro che non lo era. Allora disse: — Quel che ho fatto è stato solo portare un biglietto. — Ascolta — disse lui, abbassando la voce come se volesse farle capire che non voleva intimidirla, ma che voleva che capisse bene il suo punto di vista. — Non posso spiegarti meglio. Ho capito quel che volevi dire. Ma fammi un grosso favore, non tornare qui mai più. Di colpo ispirata, Marianne disse: — Rudi è tornato. Questo lo bloccò. Vide subito che era rimasto sorpreso. E così, anche lui non aveva creduto che ce l'avrebbe fatta. Ma mentre formulava quel pensiero, lo perdonò. Rudi aveva fatto vedere di cos'era capace, no? — Quel vecchio cane? — disse Ryan. — Mi prendi in giro. — È come ti ho detto — disse Marianne, orgogliosa, avendo capito che il suo atteggiamento era cambiato e che avrebbe dovuto sfruttare quel vantaggio. — Ha trovato da solo la strada per casa. — E come sta? — Dorme tantissimo, ma forse perché è tanto stanco. E poi ha preso tanto freddo in acqua, ma quello se lo sta scrollando via. Papà dice che tornerà a stare bene. — Bene — disse Ryan. — Come avevi detto tu. Ne sono contento per te e per lui. — Ti piace? Lui non capiva. — Cosa? — Il biglietto. Ti piace? Si ricordò di averlo in mano, lo guardò. — Sì — disse. — È molto carino. Ma smetti di cambiare argomento. Ti ringrazio, ma basta biglietti. Niente più visite, niente più giri da queste parti. Vai per la tua strada. Chiaro? Lei annuì, riluttante. Non era così che si era immaginata l'incontro. Quello era un rimprovero, e lo sarebbe anche stato, se solo lui avesse saputo come si fanno. Invece sembrava imbarazzato. Come se gesti simili fossero inusuali per lui.
— Gioca coi tuoi amici — aggiunse lui. — Ma non da queste parti. Non ho nulla di personale, ma è solo... come dire, una precauzione. Dimmi che hai capito. — Ho capito — ripeté lei. Lui annuì. Sembrava che non sapesse cos'altro dire. Si voltò e saltò giù dal vagone, lasciandola sola. 8 Ma lei non lo abbandonò. Lui non se ne accorse mai, ma lei continuò a tenerlo d'occhio da molto lontano per il resto della settimana. Sedeva fra l'erba sulla scogliera e lo osservava mentre si spostava sulla spiaggia col suo sacco di plastica, spingendosi molto addentro nell'area pericolosa alla ricerca di rottami. Il tempo teneva, e continuava a migliorare. Lei guardava come lavorava. Raccoglieva e insaccava tutte le lattine che riusciva a scovare. Raccoglieva le cose che gli apparivano strane, e le ispezionava: alcune le teneva, la maggior parte le ributtava dove le aveva trovate. Rudi aveva ricominciato ad accompagnarla. Non tutti i giorni e non più con la stessa energia di una volta, ma le assicurava ancora la sua compagnia. C'era qualcuno che l'ascoltava quando parlava, e non le importava molto che lui la capisse o meno. Entrambi avevano quel che desideravano. Non andava mai molto lontano con lui: quando s'accorgeva che cominciava a stancarsi, tornava verso casa. E quando lo vedeva al sicuro, usciva di nuovo, per tenere di nuovo Ryan sott'occhio. Nel frattempo, Ryan continuava la sua vita e i suoi affari come prima. Sembrava inconsapevole del fatto di non trascorrere più da solo le sue giornate. Lunedì fece eccezione. Lunedì era il giorno in cui lei dovette andare in città con l'autobus assieme alla signora Healey per acquistare un paio di scarpe e, mentre la giornata si trascinava stancamente, Marianne si scoprì sempre più spesso a guardare verso la fermata del bus. Non ebbe nemmeno le scarpe che le piacevano di più, che non era vero che avessero quell'aria ridicola che veniva loro imputata. Ma quando tornarono era troppo tardi per uscire di nuovo, e così trascorse il tempo giocando con l'Amiga. Quella sera sentì il papà che scendeva in cantina solo per tornarne subito indietro e spegnere la luce. Le venne l'idea che forse c'era qualcosa di più importante del viaggio annunciato, e che, diversamente dal solito, questa volta non si trattasse solo di affari.
— Andrai molto lontano? — gli chiese la sera quando fu a letto. — No, non molto — rispose lui, in un tono che doveva essere di sorpresa per quell'inattesa domanda, ma che non la convinse per niente. Il mercoledì Rudi si mostrò alquanto riluttante a lasciare la cuccia, per cui lo lasciò a sonnecchiare nel suo angolo e uscì sola. Era arrivata al punto da poter prevedere, con ragionevole accuratezza, i movimenti di Ryan, poiché aveva notato che aveva la tendenza a seguire il moto della marea; quando l'acqua recedeva, lui arrivava, a frugare fra i nuovi arrivi infradiciati, alla ricerca di tutto quello che gli potesse tornare utile. Riusciva a rintracciarlo fra le colline e i pendii boscosi senza correre il rischio di farsi vedere; quando scompariva alla vista dietro un promontorio lei attraversava di corsa i campi e si appollaiava sul più vicino osservatorio, in attesa che lui ricomparisse. Funzionava quasi sempre, e lei sapeva che così facendo non infrangeva alcuna regola. Ma quando quel mercoledì la marea si ritirò e lui non si fece vedere, lei si portò sull'altro lato della collina in tempo per guardare giù e scorgerlo che stava risalendo il sentiero diretto verso la strada. Si trovava ad alcune centinaia di metri da lei, e la strada era distante un altro chilometro circa. Salì sul muretto servendosi degli appositi scalini e, mentre si sedeva per guardarlo allontanarsi, poté sentire la sensazione di cameratismo scivolare via da lei. Da lì poteva vedere tutto, dalle terre drenate alle marcite che venivano subito dopo. Vedeva le linee diritte dei canali che correvano a formare un disegno invisibile per chi stava a livello di terra, ma che da lì poteva ricordare una sorta di pista d'atterraggio per una qualche civiltà che non era mai arrivata. E più in là, oltre la linea del muro di contenimento, c'erano quelle strane polle ritagliate nel tufo, forme precise col colore del cielo incise nel verde, esattamente come le raffigurazioni dell'oceano nell'atlante scolastico, e che ricordavano la scrittura di una lingua sconosciuta. Così tanto spazio. E così poche cose che succedevano. Scese alla spiaggia, dove camminò restando all'interno della zona recintata. L'ultima marea era stata una di quelle alte, e il filo spinato riportava grossi ciuffi di alghe che sembravano essere state masticate e aver trascorso un lungo periodo nello stomaco di una qualche enorme creatura, che le aveva restituite semidigerite. Per il resto era il solito armamentario di bottiglie di plastica, lattine scolorite dalla salsedine, piume d'uccelli, fusti d'olio, galleggianti arancione strappati dalle reti dei pescatori, una soli-
taria Reebok. Si chiese che vita conducesse Ryan. In quali posti fosse stato. Mentalmente se lo figurava come un ex militare, ma questo, dovette ammettere, lo pensava a causa del pastrano, però anche per quell'aura di autosufficienza e per la sua natura solitaria. Se non era stato un soldato, allora non riusciva a pensare a nient'altro. Quindi, doveva essere un militare. Quando Ryan tornò, nel tardo pomeriggio, non tornò solo. La prima avvisaglia l'ebbe quando sentì, dal posto del frenatore in cui stava nascosta, il rumore di un motore che si avvicinava; posò allora il libro delle cronache di Narnia sullo zaino e guardò fuori, e vide il camioncino blu che ballonzolava sul sentiero a causa dei solchi e delle buche colme di fango, diretto verso il regno di Ryan. Quando fu più vicino, vide Ryan seduto al posto del passeggero. Sul retro del camion, che era a fondo piatto, c'era un carico di qualche sorta coperto con tela cerata e assicurato con funi. Riconobbe l'autista. Quando i due scesero, lasciarono il motore acceso, e Ryan si affrettò ad aprire l'ingresso. L'autista, poco più di un ragazzo, era magro e con orecchie vistosamente sporgenti. Lo conosceva perché l'aveva visto a scuola, che aveva abbandonato un paio d'anni prima, e poi, per qualche mese, l'aveva visto aggirarsi lì attorno all'ora di colazione con un gruppo di vecchi amici finché prima l'uno poi l'altro si erano trovati un lavoro ed erano tutti spariti. Quel ragazzo lavorava con lo zio allo scarico municipale delle immondizie, che attualmente era poco più di una capanna in una zona recintata un po' fuori strada ad alcuni chilometri da lì. Vi stavano allineate una mezza dozzina di grosse benne; la gente vi portava i rifiuti perché venissero selezionati, poi, quando uno dei contenitori era colmo, veniva issato sul retro del camion e portato ancora più all'interno, per essere venduto a chissà chi. Marianne di più non sapeva. Forse, l'immondizia veniva spostata da un posto all'altro, in eterno. Il ragazzo sciolse le funi, poi i due fecero scivolar via la cerata, scoprendo alcuni congegni di provenienza casalinga, che erano a loro volta accuratamente legati fra loro. Riuscì a distinguere un paio di lavatrici, un freezer, due frigoriferi normali, parecchi aspirapolvere tutti legati assieme come una serie di pinguini catturati, e impossibili, da dove era lei, da distinguere l'uno dall'altro. Tutta roba usata, tutta con quell'aspetto malinconico da defunto che hanno i rifiuti. Ryan andò a prendere il suo carrettino, che cominciarono a riempire. Era Ryan quello che lavorava di più. Prendeva le lavatrici da sé, e Marianne sapeva quanto fossero pesanti; sapeva che da qualche parte avevano
dei blocchi di cemento per impedire loro di agitarsi troppo quando funzionavano. Trasportava tutto col carretto fino al laboratorio, e quando l'ultima delle macchine fu scaricata lei vide Ryan che le guardava, con la fronte aggrottata, mentre faceva un rapido calcolo mentale. — Non è questo il materiale su cui ci eravamo accordati — lo sentì dire. — Dov'è la Zanussi? — Il ragazzo si strinse nelle spalle e disse qualcosa che non arrivò fino a lei, coperto com'era dal rumore del motore acceso. Ryan tornò allora in cortile per fare un rapido calcolo di tutte le cose ammucchiate, e mentre lui controllava il ragazzo saltò rapidamente a bordo del camioncino e cominciò a mandare il motore su di giri. Stava già avviandosi a retromarcia lungo il sentiero quando Ryan balzò fuori chiamandolo a gran voce; il camion ballonzolava nei solchi e continuò così fino a quando raggiunse la strada e il ragazzo riuscì a fargli fare manovra. Ryan era rimasto fermo in mezzo al sentiero, a pugni chiusi, a guardarlo impotente; poi si voltò e colpì con forza uno dei frigoriferi che si trovavano sul carrettino. Emise un suono cupo, come un tuono lontano. Tornò di colpo normale, perché aveva scavato un bozzo nel fianco del frigo. Espirò a fondo, rilasciò con calma il fiato, poi fece passare la mano sull'intaccatura. Era una bella ammaccatura su quel fondo bianco. Scrollò la testa. Marianne capiva che c'era qualcosa che non andava, ma dai suoi movimenti non capiva di cosa si trattasse. Che si fosse fatto male alla mano? Ma lo vide prendere le stanghe del carretto e spingerlo attraverso il cortile senza dimostrare particolari malesseri. Poi, chiuse l'ingresso. Dopo di che, rimase chiuso nell'officina, e lei non aveva più nulla da vedere. Cominciò a uscire fumo dal comignolo con la copertura che ricordava un cappellino cinese, dal che dedusse che doveva aver acceso la stufa. Marianne si attardò ancora un poco, ma poi il fresco della sera cominciò a farsi sentire, per cui raccolse le sue cose e le mise nello zainetto. Lo portava con sé tutti i giorni, adesso, tenendolo su una sola spalla, come aveva visto fare a Ryan. Se voleva essere giusta con se stessa, doveva ammettere che non era per niente comodo. Ma si convinse che presto si sarebbe abituata. Scese dal suo nascondiglio, cominciò ad attraversare i binari, arrancò giù dal terrapieno dal lato opposto al cortile di Ryan, e s'avviò verso casa. La luce, ormai prossima al tramonto, stava cominciando a calare sulla baia. Non aveva dubbio alcuno che l'avrebbe ritrovato al mattino successivo. O forse, se il momento era quello giusto, sarebbe stato lui a trovare lei. E allora avrebbe dovuto salutarla se non altro per gentilezza, perché è così
che si comporta la gente. La gente fa sempre così, si disse Marianne. Non è vero per caso? 9 — Non so proprio cosa fare — confessò Jennifer. — A volte penso che sia la cosa migliore che mi sia mai capitata. Altre, ho l'impressione che viviamo su due pianeti diversi. — Ho qualcosa che fa al caso tuo — disse Angela dall'altro lato del bancone della tavola calda. — Sono stata sposata per sei anni e questo è il meglio che si può riuscire ad avere. Quanto ci sei dentro? — Abbiamo venduto i nostri due appartamenti per comperare la casa. — Assieme? — Senza campane e cose così. Diciamo che è più come un affare. — Già — disse cinicamente Angela mentre spingeva da un lato il piatto vuoto e si tirava vicina la tazza del caffè. — Con la stanza da letto in comune e niente chiave alla porta del bagno. — Il lato personale di tutto ciò è un accomodamento assolutamente separato — disse Jennifer, consapevole del fatto che quello che diceva non suonava convincente quanto aveva sperato che fosse. — Ma adesso uno dei problemi è che... insomma, comincio a farmi domande. Stiamo per metterci a vivere assieme perché lo vogliamo? O perché non riusciamo a lasciarci e non vogliamo affrontare lo sforzo che ci costerebbe ricominciare tutto da capo? E alzò gli occhi per guardare Angela, che si stava guardando attorno. Angela si era tagliata cortissimi i biondi capelli e aveva cominciato a vestire jeans stretti e giacchino in cotone, tutte cose che facevano parte del suo attuale incarico, ma Jennifer non ci aveva ancora fatto l'occhio. La tavola calda era luminosa, moderna e piena per due terzi; le casse restavano aperte per la maggior parte della giornata, ma quello era il momento in cui tutte le commesse e le segretarie della zona avevano l'intervallo. Non era brutto, come spesso diventano certi posti. Il cibo era quello solito, si sa, ma si stava comodi e il panorama non era male, campi coltivati che si perdevano a vista d'occhio fuori dall'ampia vetrata. A Jennifer ricordava non tanto una mensa quanto l'attrezzatura per un piccolo, progredito zoo. Angela disse: — Aspetta fino a quando comincerà a dirti di cambiare lavoro.
— È già successo. — Come previsto. E tu cos'hai risposto? — L'ho lasciato dire. — Pessima mossa. Mettigli un filo scoperto attorno all'uccello e ogni volta che affronta questo tema fagli passare la corrente attraverso, perché questo è l'unico modo per fargli dimenticare l'argomento. Abbiamo già abbastanza cose contro di noi senza doverci portare appresso anche questo genere di bagaglio. — Dici così perché voi due avete chiuso? — No. Io che torno a casa presto e trovo lui che si prova la mia biancheria intima: è per questo che ho chiuso. Con la punta dell'indice, Jennifer stava pigramente tracciando alcune linee sul tavolo appena ripulito. Aveva rovesciato sul tavolo la sua Diet Pepsi, ma non era un gran danno, non era nemmeno fredda. Un giorno, avrebbe cercato di scoprire perché in quel posto le cose andavano così; le bibite non erano mai fredde, e quelle calde, be', quelle uscivano da una macchina, e non erano mai troppo calde. Disse: — Mi piacerebbe conoscermi meglio. Non riesco mai a mettere assieme quello che voglio con quello che ottengo. — È come un esercizio da funamboli — rispose Angela. — Se non ottieni cose peggiori di qualche brutto sogno, allora la mìa risposta è: non dir nulla, e ritieniti fortunata. Sono stata in guardia per sei settimane e adesso ho delle emicranie tali che ho la sensazione che qualcuno mi spinga fuori le palle degli occhi per schiacciarle con uno schiaccianoci. Ma tu sai bene com'è: mostra loro solo un'ombra di debolezza, e sei pronta per farti cacciare nell'angolino dei cattivi. Jennifer si guardò attorno. Un grosso sergente in uniforme che sembrava in attesa di un imminente attacco di cuore stava ciondolando troppo vicino a tre giovanissime ausiliarie e stava dicendo: — Bisogno di qualcosa a cui appendervi? — Nel suo caso — rispose una di loro — non credo che ce ne sia molto per una buona presa. — E non mi sembra che sia granché affidabile — aggiunse un'altra. Jennifer e Angela si scambiarono uno sguardo mentre il sergente, che agli occhi di Jennifer era tanto attraente quanto una boccata di collutorio, sorrideva e arrossiva prima di avviarsi verso la cassa con il vassoio sotto il braccio. Jennifer controllò l'orologio. L'intervallo era già terminato.
Disse: — È ora che me ne vada. Mentre si dirigeva verso il Nuovo Comm decise che, dopo tutto, si sentiva in forma. Era passato diverso tempo da quando lavoravano assieme in uniforme, e da allora le loro carriere avevano preso strade differenti: Angela era nella Squadra Antidroga, lei in quella Criminale, e da lì era passata all'Unità d'Appoggio per i Crimini Gravi, però continuavano a incontrarsi una volta al mese per scambiarsi informazioni sulle rispettive esistenze, sugli amori e sul conseguimento di una qualche sorta di felicità. Angela sapeva cose di Jennifer che lei non avrebbe mai osato raccontare ad altro essere vivente; solo Angela sapeva dei suoi ripetuti incubi dopo uno scontro con uno psicopatico a nome Johnny Mays. Per contrasto, la vita di Angela sembrava un libro aperto pieno di false partenze e delusioni che lei incontrava di continuo sul suo cammino come se non si fosse mai aspettata altro. Il nuovo quartier generale della polizia di contea era circondato da una verde spianata in quanto sorgeva nella cintura agricola a ovest della città. Si trovava a una decina di chilometri dal centro, e coi suoi edifici moderni dallo sviluppo irregolare aveva l'aspetto, e anche parte dell'atmosfera, di un campus universitario. L'unico tocco incongruo era rappresentato dalla grande antenna radio sul tetto dell'edificio delle comunicazioni; quello stesso edificio che ricordava un complesso sportivo ultramoderno e che sorgeva dinnanzi a un terreno da gioco e al maneggio dove la nuova unità montata compiva i propri esercizi. Era conosciuto come il Nuovo Comm, quando non veniva chiamato il Bunker, ed era il cuore operativo del progettato quartier generale. Il rimanente, due lunghe costruzioni per uffici e altri edifici, erano stati ceduti all'amministrazione, alla manutenzione veicoli e ai servizi. La sua squadra era di base in una vecchia casa lungo il viale, a un paio di chilometri di distanza, ma Jennifer doveva fare rapporto al Nuovo Comm una volta alla settimana per stabilire e mantenere i contatti con tutti. Nello scantinato del Nuovo Comm c'era una stanzetta che conteneva un Betacam e l'illuminazione meno dispendiosa che la scienza moderna fosse riuscita a creare. La riunione durava una mezz'ora, casi pendenti, persone scomparse, e veniva fatta circolare a mezzo videocassetta in tutte le stazioni di polizia della regione. Dall'altra parte della contea un altro minuscolo ufficetto le mandava regolarmente la posta dei suoi fan, firmata Jez and the Lads. Lei non lo gradiva troppo. Non le piaceva l'idea di essere conosciuta da persone che lei non sapeva nemmeno chi fossero; a volte, l'occhio della vi-
deocamera le ricordava quello della canna di una pistola. Quelle riunioni erano il prezzo da pagare, ecco quel che pensava. Il prezzo della sua accettazione in una delle squadre più duramente contestate a un livello in cui tu usi tutto quello che hai per mettere un limite alla competizione, e lo fai senza dovertene vergognare. Il suo capo gliel'aveva detto: o tu o Benny Moon, e Benny è così brutto che non troverebbe da scopare nemmeno in un convitto di infermiere il giorno del suo compleanno. Lei aveva sorriso a denti stretti, senza replicare. L'aveva sopportato finché c'era riuscita, ma appena avesse potuto se ne sarebbe andata; qualsiasi appiglio le si fosse offerto, lei era pronta ad afferrarlo. Attraversò il parcheggio riservato alle auto blu, e si presentò alla porta del Nuovo Comm; premette il campanello e attese davanti alle lenti squadrate e piatte di una telecamera, e dopo pochi secondi d'attesa sentì il ronzio dell'apriporta ed entrò. Quel procedimento la innervosiva tutte le volte. Nessuno che le dicesse mai una parola. Non aveva idea di chi potesse esserci all'altro capo della telecamera, né dove si trovasse. Una volta entrata, si trovò ai piedi di una scalinata che era stata trasformata in un salottino d'attesa grazie all'aggiunta di alcune poltroncine. Non c'era un tavolo né uno sportello, né lei aveva mai visto nessuno da quelle parti. Scese nel seminterrato, e per prima cosa entrò nel bagno delle donne per darsi una controllata allo specchio. Nemmeno lì aveva mai incontrato nessuno tranne, una volta, un idraulico, che si era perso. Il Nuovo Comm era il più strano edificio in cui avesse mai lavorato, ed era contenta di non dovercisi recare troppo spesso. Piccolo, dai colori smorzati, senza finestre e con l'aria condizionata, le comunicava la sensazione di un posto dove poteva succedere qualsiasi cosa tanto era fuori mano e fuori vista. L'ultimo piano era quello in cui c'era la vera azione, con la grande mappa illuminata di tutta la contea e la scrivania dell'agente di servizio che dominava l'intero schema delle radio; ma anche là vigeva la fredda quiete della biblioteca di un museo. Il tecnico part-time dello studio non era solo quando lei arrivò, due minuti prima del tempo previsto. Fu sorpresa nel trovarvi l'ufficiale di giornata; stava appoggiato al tavolo di lettura, e si mise ritto in piedi quando la vide. — Ecco arrivata la nostra Charlie's Angel. — Il lavoro è suo, se lo vuole — rispose lei. — No, grazie — rispose lui. Si chiamava Calcutt, ed era in maniche di camicia. — Controlli il suo cercapersone. Il suo capo sta cercando di met-
tersi in contatto. E dopo averle riportato il messaggio, fece un cenno al tecnico e se ne andò. Jennifer prese il cercapersone, un apparecchietto di plastica grigioscura con la forma e l'apparenza di un cronometro a scatto, e lo premette per controllarlo. Niente. — Mi scusi un momento — disse al tecnico, prese il telefono e formò il numero di Ray Stapleton. Non era in ufficio, ma al secondo tentativo lo trovò nella sua auto. Le arrivò la sua voce attraverso quello che stava cominciando a diventare un rumore familiare: quello distorto, metallico e distante di chi parla quando è su un'auto in movimento. — Dove sei? — chiese lui. — Il mio cercapersone è defunto — gli rispose. — Che problema c'è? — Ho fra le mani due morti sospette e niente agenti per occuparsene. C'è qualche motivo perché tu non mi possa dare una mano? — Finirò qui entro un'ora. Dove ci dobbiamo incontrare? — L'autopsia è all'una e mezzo. Spero che tu abbia fatto un buon pasto. Sapeva che Stapleton non la stava prendendo in giro. Insomma, forse no. Aveva già assistito alla sua parte di autopsie, e da tempo non l'infastidivano più; temeva piuttosto di dover presenziare prima o poi a quella di un bambino, ma quella era una cosa che non gradiva nessuno. La sua prima volta era stata, come prevedibile, anche la peggiore. Uno stupro finito con un omicidio. L'omicida aveva fatto irruzione in una casa in cui la vittima aveva cercato di barricarsi; le aveva dato la caccia fino al piano superiore, e lei s'era gettata dalla finestra e poi, malgrado ferite varie e la frattura di una caviglia, aveva cercato di sfuggirgli di nuovo. Lui l'aveva trascinata nella casa e, poiché lei continuava a resistergli, l'aveva stordita prima di abusare di lei. Poi l'aveva colpita ancora, più volte, causandole un'emorragia interna che l'aveva uccisa. La difesa al processo aveva sostenuto che tutti potevano dire che la vittima se l'era cercata. — Voglio avvertirti per tempo — aggiunse Stapleton. — Questo caso ti terrà sveglia per una settimana. — La colazione era ottima — rispose lei. — Dov'è successo? 10 Bene, eccoci qui. Oggi era il giorno. La signora Healey stava arrivando, e questo non valeva una fetta di dolce e una bella passeggiata?
Marianne fu la prima ad alzarsi. Saltò giù dal letto nel freddo della stanza, s'infilò di fretta i jeans e una maglietta. Bussò alla porta di papà, poi scese in cucina e accese la cucina elettrica, poi prese la bottiglia del latte, il barattolo dello zucchero e la scatola dei cereali, perché fossero pronti per quando lui sarebbe sceso. Accese la radio per il notiziario del mattino, perché sapeva che a lui piaceva ascoltarlo anche se non sembrava prestargli attenzione. A volte sembrava non importargli nemmeno della colazione, e usciva subito lasciandola sola a prepararsi per la scuola o, nei periodi di vacanza come adesso, ad aspettare l'arrivo della signora Healey. Aveva appena finito di preparare quando lo sentì muoversi al piano superiore. L'acqua gorgogliò lottando nelle vecchie tubature, raccontando a Marianne che lui era in bagno mentre lei si occupava di Rudi. Il cibo che gli aveva dato la sera prima era praticamente intoccato. Per contrasto, la scodella dell'acqua era quasi vuota, e lei la portò al lavello per riempirla di nuovo. Lui aveva gli occhi socchiusi quando gliela mise davanti, e le sue pallide palpebre rimasero così, e non sembrò volersi svegliare, anche quando lei l'accarezzò sulla testa. Era un cane dall'aria simpatica, persino quando dormiva. Non l'aveva mai sentito ringhiare, né visto mostrare i denti. Qualche borbottio, ma mai nulla di serio. Una volta aveva cercato di capire quali incroci ci fossero voluti per arrivare a lui, così, tanto per intuire quale potesse essere il suo possibile carattere, ma aveva dovuto lasciar perdere. La miglior definizione che era riuscita a trovare per lui era Vecchio Scendiletto Inglese. — Rudi, sei un bravo ragazzo — sussurrò, e lo lasciò ai suoi sogni. Risalì le scale. La porta del bagno era aperta. Dentro c'era papà, già vestito con giacca e cravatta, chino sul lavandino per scrutarsi nello specchio. Non s'era accorto della sua presenza, ma poi sembrò avvertire qualcosa. Si voltò a guardarla, e per un attimo lei ebbe difficoltà a riconoscerlo; i suoi occhi erano morti, il colorito era terreo, ma poi sembrò indossare una maschera, che fissò bene a posto. Era un viso coraggioso, ma era anche una simulazione, come lo sono tutte le facce così. — Rudi non vuole mangiare — disse Marianne. — Non ha toccato nemmeno le cose che gli piacciono di più. Penso che sia ammalato. — Gli ho dato un'occhiata ieri sera. Mi sembrava che stesse bene. — Sembra stare bene, ma si muove a fatica. Non vuole uscire con me, né fare altro. — È vecchio come cane — rispose papà. — Lascialo un po' per conto
suo, e vedrai che si riprenderà. — Non è vecchio! — disse lei, con voce tanto alta e appassionata da far sobbalzare anche lei; suo padre ne rimase sorpreso, quasi scioccato, incapace di reagire in un modo o nell'altro. Sedette sull'orlo della vasca e le fece cenno di avvicinarsi. Lei gli si accostò, imbarazzata. Si accorse che lui stava compiendo un grande sforzo. — Pensi tanto a lui, vero? — disse. Lei annuì, e lui le concesse un piccolo sorriso forzato. — Più a lui che a me? — Ma subito, vedendo il panico che le sorgeva negli occhi alla prospettiva di dover rispondere a una domanda che non sapeva come affrontare, aggiunse velocemente: — Lo so, non è una domanda leale. Tu non mi vedi, io non ti vedo, soprattutto non ti do tutta l'attenzione che meriti. Ma voglio farlo. E lo farò. Non appena avrò... voglio dire, non appena potrò... — Non riusciva a trovare le parole, s'aggrottò, esitò, come se la sensazione della propria sconfitta fosse anche fisica. Ma provò lo stesso a continuare. — Cerca di capire, le cose sono molto difficili. Tu non ci crederai, ma non stanno migliorando. È... roba da adulti, non voglio darti queste preoccupazioni. Ma devo assolutamente fare questo viaggio perché servirà a chiarire le cose, e dopo di ciò posso garantirti che le cose andranno meglio al mille per cento. Per cui, quello che dobbiamo fare è... tieni duro con la signora Healey per i prossimi due giorni e io farò quel che ho deciso di fare, poi metteremo Rudi in macchina e andremo in qualche posto carino. Dove vorrai tu. Mentre sono via, pensa a dove vuoi andare. Affare fatto? Era imbarazzante, come non lo era mai stato. Le aveva già fatto promesse del genere, e tutte, senza eccezione, erano state dimenticate. Marianne annuì, sperando di apparire abbastanza convincente, e papà si alzò da dove stava seduto e le strinse con affetto una spalla. — Lo tireremo su di morale, vero? È questo di cui ha bisogno. I cani sono come le persone. Un po' sono su, un po' sono giù. A fasi alterne. — Ma se non funziona, posso portarlo dal veterinario? — Certo che sì. Tornò nella sua camera, e Marianne scese dabbasso. Pochi istanti dopo, anche lui la raggiunse. Portava con sé la borsa da viaggio, che posò sul tavolo. Guardò l'orologio, riprese la borsa. — È più tardi di quel che pensavo — disse. — Mangerò qualcosa per strada. Le diede un bacio frettoloso sulla testa e si avviò verso la porta. Si fermò. — Ascolta — le disse, voltandosi per un'ultima volta prima di
uscire. — Cerca di stare più attenta, d'accordo? E sta' lontana dalla spiaggia. E dopo questo consiglio, uscì. Rudi emise un verso, ma stava sognando. Stava agitandosi come faceva di solito quando sognava: muoveva orecchie e zampe e i muscoli del muso, come se qualcuno gli facesse scorrere una leggera corrente elettrica nel corpo. Marianne lo accarezzò, poi risalì le scale. Dalla finestra, osservò papà che metteva la borsa nell'auto. Dovette sbattere tre volte il portellone prima che si chiudesse. Quand'erano in Germania avevano sempre avuto auto di marca, mai più vecchie di due anni. Gli aveva sentito dire che le auto invecchiano velocemente a causa dell'aria salmastra e, giudicando dallo stato della Vauxhall, aveva ragione. Se fosse entrato in una buca in piena velocità, non sarebbe rimasta sorpresa se avesse perso i fanali anteriori. Continuò a guardarlo mentre partiva. Erano passate da poco le nove. Sentiva la radio che continuava a trasmettere giù in cucina. Quando la Vauxhall fu fuori vista, scese le scale diretta alla cantina. Tenevano sempre chiusa quella porta, ma la chiave era riposta nel ventre del pendolo appeso alla parete. Si erano convinti che lei non lo sapesse. Prese la chiave, aprì la porta, accese la luce, scese. I gradini erano ripidi, e fatti di mattoni. La cantina sapeva di muffa, ed era umida. Non era molto grande, come due stanze unite fra loro con un passaggio a forma di L che non portava da nessuna parte ma le cui pareti dovevano avere un qualche scopo strutturale. Sulla parete di uno di quei locali, quello con la finestra, erano state messe parecchie mensole, sostenute da ganci metallici; nulla era stato messo sul pavimento a eccezione di alcuni attrezzi arrugginiti da giardino, di una sedia rotta oltre ad alcuni metri di canna per innaffiare. A mezzo metro dal suolo si vedeva il segno biancastro lasciato dall'ultimo livello raggiunto dalla marea. Marianne non sapeva dire quanto vecchio potesse essere. Trascinò la vecchia sedia e ci salì sopra. Rimosse alcune scatole su uno degli scaffali. Sapeva che non ci avrebbe trovato molto; il prozio era, apparentemente, un gran tesaurizzatore, che conservava dai mozziconi di candela ai cordoncini dei pacchetti. Dopo aver fatto spazio, da dietro una cappelliera prese una vecchia borsa di cuoio col manico rotto e gli angoli consunti. L'aprì. Conteneva tutti i documenti che riguardavano loro due. Fotocopie degli atti notarili, certificati di nascita, polizze, una manciata di titoli a nome
suo. Non le ci vollero più di due minuti per accorgersi che non c'era più il passaporto di papà. Marianne stava seguendo una traccia. Il problema era che in quei giorni non sempre ti mettevano il timbro sul passaporto. E lei era quasi certa che lui aveva fatto almeno due viaggi ad Amburgo nell'ultimo anno, una cosa che aveva dedotto principalmente dalle lettere dell'avvocato tedesco. E alcune di quelle lettere adesso sembravano essere scomparse. Anche la fotografia non c'era più. La foto di mamma. L'unica, da quanto ne sapeva lei, che fosse stata portata in quella casa e che, se non l'aveva buttata via come aveva fatto con le altre, doveva aver portato via con sé. Ma perché? Rimise tutto a posto come l'aveva trovato, chiuse la borsa e risistemò il tutto sullo scaffale com'era prima. Riportò la sedia dove l'aveva trovata, cancellando le tracce che aveva lasciato sul pavimento. Era scesa altre volte per guardare quella fotografia, per aiutarsi a mantenere viva nella memoria l'immagine della mamma, e adesso ne sentiva la mancanza. Era solo un'istantanea scattata nel giardino, col sole che l'illuminava da dietro, ma era la migliore che le fosse mai stata fatta. Non si era messa in posa, era stata scattata all'improvviso: una chiamata, lei che si gira, il click del pulsante, e in una frazione di secondo era come se la traccia di qualcosa di indefinibile fosse stato catturato dalla pellicola per l'eternità. Marianne se ne sarebbe fatta fare una copia se avesse saputo a chi rivolgersi, e se fosse stato fatto adesso non avrebbe rimpianto la scomparsa dell'originale. Se almeno ci fosse stato il negativo, ma probabilmente era andato smarrito. Il fatto che papà avesse conservato qualcosa come quell'immagine era comunque incoraggiante. Se i legami non fossero stati completamente recisi, se c'era ancora una possibilità, per minima che fosse, allora la vita avrebbe potuto di nuovo incanalarsi come una volta. Si trovò a pensare se non ci fosse del buono in quel fatto. Ma sotto quel pensiero positivo ce n'era un altro. Ne era trascorso di tempo. Tanto terreno perduto. Le cose non sarebbero mai più state com'erano solite essere, per quanto lei potesse sperarci. Ovunque lui fosse andato, non era certo per trovare un modo di tornare a casa. Il tenore delle lettere dell'avvocato gliel'aveva già detto. Nessuna riconciliazione all'orizzonte. Molto più facilmente, lui era partito per rendere definitivo il distacco. 11
— Rudi? — chiamò. — Vieni a fare una passeggiata? C'era stato un tempo in cui quella parola, pronunciata in una conversazione, l'avrebbe fatto scattare in piedi con la testa piegata di lato, in attesa di altri indizi, già pronto a partire. Ma adesso, sembrava che la sua felicità fosse starsene sdraiato sul pavimento nudo. Si trovava a pochi metri dalla porta posteriore, riluttante a muoversi; non mostrava di avere dolori o cose simili, solo era perfettamente felice di stare dov'era. Come se quello che aveva fosse quanto aveva sempre desiderato: una casa, un posto in cui giacere, e il sole del pomeriggio sul muso. Lo grattò fra le orecchie e lui si stiracchiò con un gemito di piacere prima di sdraiarsi di nuovo. Non sapeva cosa pensare. Aveva provato a fare alcune passeggiate con lei, ma adesso sembrava aver trovato l'accomodamento che più gli aggradava. Lei aveva elaborato un programma di allenamenti per riportarlo alla forma di prima, ma lui non voleva saperne. Lo trovava simpatico ma, umilmente, mostrava di non essere interessato. Forse papà aveva ragione. Forse gli voleva mettere fretta. L'occhio comunque era limpido, il naso umido, il fiato non puzzava più del solito; anche se aveva meno appetito, beveva moltissimo, e il libro sui cani diceva che questo non era un brutto segno. Quando voleva, si muoveva. Si alzava e ciondolava fino al suo solito posto per i suoi bisogni, a una ventina di metri dalla casa, dove poi tornava lentamente per sdraiarsi di nuovo con un sospiro di sollievo. — Come vuoi — gli disse. — Cerca di stare bene. Ci vediamo più tardi. "Ottimo" sembrò rispondere lui. "A me va benone." Mentre si allontanava dalla casa, le sembrava di sentire gli occhi della signora Healey che la seguivano dalla finestra della cucina. Si girò a mezzo e salutò con la mano, ma non vide se l'altra le rispondeva né se fosse dove lei pensava. La signora Healey aveva, come certe insegnanti, l'abilità di farti sempre sentire a disagio. Aveva sempre la sensazione che disapprovasse quello che lei faceva, anche quando non stava facendo nulla. Se guardava la televisione, si stava guastando la mente. Se leggeva un libro, si rovinava la vista. Se non faceva nulla, stava sognando a occhi aperti e non prendeva aria... e poi, quando usciva, diventava un'asociale. Comunque, fare l'asociale era la parola d'ordine di quel giorno. Come al solito, era un sollievo attraversare la palude e lasciarsi la casa alle spalle. Superò la collina là dove c'era il riparo per le pecore. Si fermò vicino a un muro a secco ricoperto di muschio per riprendere fiato; l'aria era pe-
sante, come se ci fosse un temporale in arrivo, anche se il cielo era pulito. Forse, tra qualche giorno. Discese fin nei pressi di una grossa cisterna per l'acqua che era stata trasformata in un grande trogolo. Tutt'attorno gli era stata costruita una staccionata in legno per impedire alle pecore di caderci dentro, e i loro zoccoli avevano così tanto calpestato l'erba da trasformare in fango tutta la zona circostante. Marianne ci girò attorno e attraversò il campo procedendo in diagonale fino al successivo passaggio. Le pecore, per la maggior parte radunate nell'angolo più lontano, non la degnarono di un'occhiata. Nel campo successivo, salita su una roccia, si guardò attorno per cercare di individuare Ryan. Ma sembrava che non fosse in giro. C'era qualcuno che camminava sulla spiaggia, ma non era lui. Sedette sul masso, chiedendosi cosa fare. La giornata era così lunga. Pensò al fine settimana, e si chiese se papà si sarebbe ricordato di mantenere le sue promesse. Le aveva chiesto di pensare a un posto in cui andare. Cos'avrebbe potuto dirgli? Al parco, allo zoo, o andare in città a vedere un film alla multisala? C'era sempre qualcosa di Disney o altri disegni animati quando i ragazzi erano in vacanza. Era lacerata tra proporgli un posto in cui non avrebbero dovuto fare lo sforzo di parlarsi e un luogo in cui non avrebbero avuto altra scelta. I lunghi silenzi di quand'erano assieme in quei giorni rendevano solo più ovvia la divisione fra loro. Ma se le avesse parlato e non ci fosse stato mezzo per evitarlo, forse finalmente avrebbe appreso qualcosa di significativo. Come il luogo in cui si trovava la mamma, cosa stesse facendo, se aveva voglia di rivederla ancora, e poi quell'altra domanda, mai fatta prima. Perché? Come una fatalità incombente sulla famiglia se n'era sentito parlare, ma non se ne era mai parlato davvero. Sapere, ignorare: negli anni, era arrivata al punto da non poter dire quale prospettiva la spaventava di più. Magari potevano andare a farsi un hamburger. In uno di quei posti in cui il mangiare era una specie di cacca, ma dove ti regalano il palloncino. Le più grosse falene che avesse mai visto stavano volando attorno alla roccia su cui s'era seduta. Giù, sulla spiaggia, si vedevano muovere i puntini brillanti delle giacche a vento fluorescenti di chi stava passeggiando più o meno nel luogo in cui lei e Rudi avevano rischiato di annegare. A volte, nei fine settimana, li vedeva muoversi in folti gruppi, mentre attraversavano la baia con le guide che li aiutavano a stare lontani dalle zone delle sabbie mobili. Ai vecchi tempi, si diceva che molti avevano attraver-
sato la baia a cavallo o in carrozza. Alcuni erano sfuggiti all'alta marea, altri non ce l'avevano fatta. Quando le condizioni erano ottimali, si diceva anche che era possibile sentire i loro sussurri e lo strascichio dei finimenti sulla sabbia. Marianne si issò in piedi e partì attraverso i campi diretta al rifugio di Ryan. La prima cosa che scoprì fu la scomparsa del suo punto d'osservazione. Nelle ultime ventiquattr'ore i vagoni parcheggiati, compreso quello con la cabina del frenatore, erano stati portati via, e il luogo era adesso deserto; c'erano solo le rotaie con le erbacce che crescevano fra le traversine, con qualche chiazza d'olio qui e là. In piedi sui binari guardò verso il cortile, consapevole di quanto fosse vistosamente visibile contro il cielo. Ma nulla si muoveva. Vedeva che la porta del laboratorio era semiaperta e la tenne d'occhio, ma non accadde nulla. L'interno era avvolto nelle tenebre. Dopo un po', quella porta aperta cominciò a ricordarle una trappola, pronta a scattare. E nulla ancora si muoveva. Cominciò a sentirsi preoccupata. E se fosse caduto a terra, ferito? Poteva succedere. Guardò in direzione della casa, ma nemmeno là c'era segno di vita. Si chiese se avrebbe dovuto chiamarlo. Se non poteva rispondere, almeno avrebbe sentito. Ma non osò farlo. Invece scivolò lungo la scarpata e si avvicinò al cancello. Era chiuso, ma questa volta non c'era il lucchetto. Forse era uscito, di gran fretta. Bussò. Ma all'aria aperta, quel rumore si disperdeva. Spinse la porta, non molto forte, e questa cominciò ad aprirsi. Esitava. Già una volta le aveva detto di andarsene, però... be', lei però sapeva che non lo intendeva sul serio. Per cui, andava tutto bene. E se poi era dentro e si era ferito, allora chi poteva aiutarlo? Ovviamente lui non aveva vicini, e dalle sue investigazioni lei sapeva che non riceveva mai visite. Se non lo faceva lei, sapeva che nessuno sarebbe venuto a dare un'occhiata. Sapeva che il prozio era rimasto per tre giorni morto sul pavimento fino a quando non l'aveva scoperto la donna delle pulizie, e forse aveva trascorso quei tre ultimi giorni in agonia. Era orribile pensare una cosa del genere; non alla morte, che non riusciva in realtà a immaginarsi, ma il morire da soli, quello sì riusciva a immaginarselo.
Questo la fece esitare. Non voleva trovare nessuno morto. E poi, il prozio era vecchio, Ryan non lo era; be', era più vecchio di lei, ma non tanto vecchio quanto i vecchi. Preferiva pensare che era svenuto, o che avesse battuto la testa o qualcosa del genere, o semplicemente che fosse caduto. Qualcosa che bastava un panno bagnato a curare, niente di più tecnico di così. Il fatto era che stava bruciando dalla voglia di dare un'occhiata più dappresso, e avrebbe gradito, si fa per dire, trovare Ryan imprigionato sotto un guardaroba caduto se questo avesse funzionato come valida scusa per trovarsi lì. Si chiese come fosse l'interno della casa. Si immaginava qualcosa di spoglio e funzionale come la capanna di tronchi di un cercatore. Guardò il sentiero da entrambi i lati. Deserto, come sempre. — Signor Ryan! — gridò. Le anatre sotto il ponte sbatterono le ali e starnazzarono un po', e quella fu l'unica reazione che suscitò. Il cancello ondeggiò verso l'interno, e lei entrò. Tutto le sembrava come l'aveva già visto. La damigiana di plastica che aveva usato per scavalcare era tornata al suo posto tra le erbacce. Null'altro sembrava essersi spostato, se si eccettua la porta sbadigliante del laboratorio. Si guardò attorno. Nessuno. Avanzò e spalancò l'uscio. Era una stanza vasta, male illuminata, senza soffitto, solo travi a vista, e un globale senso di essere e non essere in un interno, come in un garage o in un fienile. Era tutto legno o tela cerata a eccezione del pavimento, che era in cemento. Tutti gli elettrodomestici che aveva visto consegnargli erano ammucchiati l'uno sull'altro, e occupavano la maggior parte dello spazio; uno di essi, smontato, era sparpagliato sulle pagine di un numero di Exchange and Mart. Ryan non c'era. Ma c'erano un sacco di cose interessanti da guardare. C'era un banco da lavoro, segnato e consunto come il blocco di legno di un macellaio, e su di esso giaceva l'intelaiatura di motocicletta che gli aveva visto portare a casa giorni prima. L'aveva rimessa in ordine togliendole anche la ruggine, e attorno alle giunture aveva avvolto alcuni stracci imbevuti d'olio. Marianne si guardava attorno affascinata. Ovunque le cadeva lo sguardo, c'era qualcosa di diverso; era come trovarsi all'interno di una scultura fatta di rottami concepita da una mente ossessionata e alquanto turbata. C'erano catene di tutte le lunghezze e forme che pendevano come mo-
struose trecce da uncini d'acciaio attaccati alle pareti. Barattoli semi-usati di vernice. Casse di tè sul pavimento, ognuna ricolma come quelle alla pesca della fortuna; pompe e motori, rotori, bulloni di tutti i tipi, giocattoli, bambole rotte, automobiline di latta giapponesi e robot con la vernice scrostata dal tempo e dai maltrattamenti. Appeso come un grande sacco natalizio c'era un cestone da biancheria pieno di quelle lattine che trovava sulla spiaggia, solo che adesso erano appiattite e occupavano solo una frazione del volume originario. Quando sarebbe stato pieno, probabilmente sarebbe andato a venderle. Un triciclo, che sembrava riflesso da uno specchio distorcente, e che aveva l'aria di essere stato investito da un camion. Un blocco motore proveniente da chissà dove, troppo pieno di ruggine e incompleto per poter essere ancora di qualche utilità. Ogni qualvolta spostava qualcosa, come una scatola di cartone, scopriva che celava qualcosa di ancor più interessante. Soldatini di piombo. Una maschera a gas, con la gomma semidistrutta. Una pila di riviste, che lei guardò, poi riguardò di nuovo: non erano di quel tipo che i rivenditori lasciano a portata di mano dei ragazzini. Erano chiuse in sacchi di plastica, e lembi di carta colorata erano stati applicati sulle parti più esposte delle ragazze ritratte. Ne era morbosamente attratta, anche se la mettevano a disagio, ma non osò aprire uno degli involucri per dare un'occhiata. Di colpo, si accorse che aveva perso il conto del tempo. Poteva essere lì da due minuti, o da venti. Che tipo di samaritana si pensava di essere? C'era Ryan, che poteva essere disteso, gemente, da qualche parte, e lei stava ficcanasando fra quelle cose che, come si rese conto con subitaneo imbarazzo, erano molto personali. Non senza riluttanza, tornò sui suoi passi. Quando uscì mise in fuga un paio di merli, ma, eccetto loro, non c'era nessun altro in giro. Qualcosa si spezzò sotto i suoi piedi, e lei abbassò lo sguardo per vedere cosa fosse. Una lumaca. — Uuurrgh! — disse, o qualcosa di molto simile, e sfregò la suola della scarpa da ginnastica su una zolla erbosa per pulirla. La lumaca non si mosse, poiché aveva perso ogni interesse nelle cose del mondo. Allora, saltellando senza alcuna ragione al mondo, Marianne si diresse verso la casa di Ryan gridando: — Signor Ryan! È in casa? La casa era silenziosa. Bussò alla porta del porticato, e sentì una debole eco che rimbalzava dal vuoto di una casa deserta. Rimase in ascolto, speranzosa, in attesa di un qualche debole gemito, ma niente. Non giaceva a terra ferito.
Non era nemmeno lì. Il che, come lei sapeva, non era da lui. Mentre voltava le spalle alla casa, s'illuminò; allora le rimanevano altri giorni e altre opportunità di pensare a come avrebbe potuto essergli utile, e l'esplorazione odierna poteva essere considerata come un bonus. Questa volta non aveva spostato niente, non c'erano testimoni, non aveva lasciato tracce dietro di sé, e così lui non avrebbe scoperto che lei era stata lì. Aprì il cancello per uscire nello stesso istante in cui il camioncino dell'immondezzaio locale stava arrivando. Il mezzo si fermò col muso proprio davanti all'ingresso. Ryan, seduto al posto del passeggero, la stava guardando al colmo della sorpresa. Ma non quelle sorprese che uno si aspetta ai compleanni o per un incontro inatteso con amici che da tempo s'è perso di vista. Era piuttosto come quando si ha un incidente, o ti telefonano qualcosa di sgradevole. Lei fece un breve cenno di saluto e attese, con la bocca di colpo asciutta e il cuore che batteva all'impazzata. Il ragazzo che era alla guida stava scendendo dal mezzo. Come l'altra volta, aveva lasciato il motore acceso. Le venne in mente come si chiamava: Senzacervello Fishwick. Probabilmente non era quello il suo vero nome, ma era l'unico con cui l'aveva sempre sentito chiamare. Per un attimo si chiese se si ricordava di lei, ma lo sguardo che le lanciò era assolutamente privo di curiosità. Andò sul retro del veicolo e cominciò a liberare il carico. C'è qualcosa di vero nei nomi, dopo tutto. Ryan le si piantò davanti. — Cosa stai facendo qui? — le chiese, mentre sbatteva la portiera dietro di sé. Non sembrava contento di vederla. — Stavo passando — disse lei, poco convinta. — Nessuno "passa" da queste parti. Come hai fatto a entrare? — Il cancello era spalancato — mentì lei, imbrogliandolo un po' con efficacia, perché Ryan guardò oltre lei e fu subito chiaro, dalla sua momentanea esitazione, che non era sicuro al cento per cento se l'aveva chiuso bene o no. — Che lo fosse o non lo fosse — disse — lo sai che non devi entrare. — Mi stavo chiedendo se non stesse male. — E perché dovrei? Si sentì lo strusciare della corda sulla cerata, ed entrambi spostarono lo sguardo sul retro del camion. E videro una solitaria lavatrice, legata come
una strega sul rogo. Marianne si convinse che era la Zanussi mancante. Guardò Ryan; questi stava guardando il ragazzo, e nei suoi occhi scorse un'ansia ben definita. Come se si stesse chiedendo cosa mai stesse pensando quel ragazzo o, e questo era ancor più importante, cos'avrebbe potuto dire. Si voltò verso di lei e disse: — Ascolta. Te l'ho già detto. Non venire qui, non girare da queste parti. Voglio essere lasciato in pace. — Non ho toccato niente. — Non voglio ragazzi a girare da queste parti. C'è vernice e acido di batterie e un mucchio di altre cose pericolose. Mi hai capito? Lei lo fissò negli occhi. Stava alzando la voce più del necessario, e lei capì che quello scoppio d'ira era più a beneficio di Senzacervello che suo. I suoi occhi sembravano raccontare una storia diversa. "Ti prego, va' via. Per favore." Ecco quello che sembravano dire. Allora rispose: — Ho capito. — È quel che voglio. — E poi, con minor forza ma con quello che per lei conteneva una traccia di sincerità, aggiunse: — Non voglio che torni da queste parti. — Allora, me ne vado — disse lei. Ma non si mosse. — Ti prego. Lei rimase immobile ancora un poco ma poi, quando fu chiaro che nient'altro sarebbe stato aggiunto, si voltò di scatto e se ne andò. Prima di essere giunta fuori vista sotto il ponte si voltò e gridò: — Ho pestato una lumaca! — La sua voce echeggiò sotto la bassa arcata, ma i due stavano trascinando giù la Zanussi dal retro del camion e non sembrarono averla sentita. O, se la sentirono, non si voltarono verso di lei. E allora se ne andò. 12 Non c'era un vero motivo per cui quella sera la casa dovesse sembrare più vuota, eppure era così. Marianne era seduta al tavolo di cucina di fronte alla signora Healey, tutt'e due intente a lasciar scorrere via il tempo. Rudi era sdraiato nella sua cuccia. La signora Healey stava parlando e, come suo solito, stava divagando sui suoi soliti astiosi argomenti. Le origini di tutto ciò erano semplici: di tre sorelle che erano, una era morta nominando le altre due sue esecutrici testamentarie. Ne era seguita una guerra a tutto campo. Marianne si sentiva sicura che era solo questione di tempo prima
che venisse affrontato di nuovo il tema del pianoforte, e quando sarebbe successo era altrettanto sicura che si sarebbe messa a urlare. Si chiese quanto fosse decoroso per lei restare ancora prima di accampare qualche scusa per andarsene sopra e restarci. Poteva leggere, oppure giocare con l'Amiga, purché avesse tenuto basso il sonoro. E poi, c'erano anche i compiti che le erano stati dati a scuola e che in qualche modo doveva completare prima del termine della vacanza: comunque, c'erano limiti che non potevano essere superati. Poi, qualcosa di quello che stava dicendo la signora Healey la raggiunse. Marianne non sapeva se avesse fatto un brusco cambio di argomento, o se il vagare dei suoi pensieri le avesse fatto perdere l'attacco. Ma dopo aver simulato interesse per oltre mezz'ora prima di perdersi nei propri pensieri, ora la mente di Marianne veniva riportata in vita con un sussulto. La signora Healey stava dicendo: — E se quell'uomo dovesse seguirti ancora, dillo subito a qualcuno. Non c'era dubbio su chi fosse il soggetto. Ma Marianne rispose: — Quale uomo? Non poteva sapere del pomeriggio, non ancora comunque. Oppure sì? Da quel che ne sapeva lei, la signora Healey non era uscita di casa, ma, e se qualcuno le aveva telefonato? La signora Healey rispose: — Sappiamo bene noi due di chi sto parlando. — Ma lui non mi ha mai seguita. — Be'... — disse lei significativamente, determinata a mantenere il suo punto di vista senza alcun riguardo per i fatti veri — potrebbe anche essere una coincidenza che si trovava sulla spiaggia nello stesso momento in cui c'era una bambina sola. Ma, d'altro canto, non possiamo esserne sicuri, non ti pare? — Ma lui è sempre sulla spiaggia — disse Marianne. — Fa parte del suo lavoro, raccoglie le cose. — Molto conveniente per lui. — Cosa mai dovrebbe aver fatto? — Non importa necessariamente quello che ha fatto. È quello che potrebbe fare ciò da cui ci dobbiamo guardare. — Come cosa? — Stagli alla larga, e la domanda non avrà motivo di esistere. Ed è esattamente così che dev'essere. Cosa farai domani mattina? Era impossibile. Tutti intorno a lei parlavano a metà, e nessuno spiegava
mai nulla. — Mi incontrerò con alcuni compagni di scuola — rispose. E questo, per il momento, sembrò soddisfare la signora Healey. Ovviamente, non doveva incontrarsi con nessuno della sua classe. Avevano tutti le loro bande e i loro gruppetti di amici, e lei non faceva parte di niente di tutto ciò. Nessuno la sceglieva mai, non sovente, almeno, e di solito solo per chiacchiere senza costrutto, ma la maggior parte di loro si conosceva fin dalla nascita, avevano seguito la scuola assieme al villaggio, e avevano mantenuto intatti quei legami tribali anche alla scuola secondaria che serviva l'intera area. Marianne veniva da fuori, si era unita a loro tardi. E poi era una solitaria, e le andava bene così. Né faceva alcuno sforzo per trovare amici. Come spesso si diceva, certuni nascono per essere solitari. Molti sono felici così. E lei era convinta di essere una di costoro. Era sdraiata sul letto intenta a leggere quando la signora Healey si affacciò per augurarle la buonanotte. Come si aspettava, la signora Healey non sembrava approvare quanto stava facendo. — Perché non dormi ancora? — Leggo sempre un po' prima. — Ma lo sai che ora è? — Non importa, tanto sono già a letto. Per quanto per lei fosse ragionevole, non lo era affatto per la signora Healey. — E ci si immagina che io ci creda, vero? — disse mentre avanzava verso di lei. — Ne parliamo domattina. Dammi. Allungò la mano per farsi consegnare il libro. — Ma non ho ancora terminato il capitolo! — protestò Marianne, già sapendo che era una battaglia persa. — Lo finirai un'altra volta — disse la signora Healey, e le prese il libro. — Non dimentichi il segnalibro — disse Marianne, ma la signora Healey nemmeno l'ascoltava. Stava studiando con perplessità la copertina del libro. — Cos'è questo? — Il leone, la strega e l'armadio: è il mio libro preferito. L'ho già letto tre volte. — Ma questo è... — Der König von Narnia: è il titolo tedesco. Ho provato a leggerlo in inglese, ma così mi viene più facile.
La signora Healey girò il libro e ne guardò il retro, ma era ovvio che quanto vedeva non aveva alcun senso per lei. Guardò Marianne. — E tu lo capisci? — Sono bilingue. Per me, tutt'e due sono uguali. La signora Healey sembrava sconcertata. — Davvero. — Non è niente di speciale. Tutti possono farlo. — Ne sono sicura. Marianne s'accorse di aver fornito alla signora Healey qualcosa a cui pensare; poi la vide posare il libro sul comodino e spegnere la lampada, cosicché l'unica luce proveniva ora dalla porta accostata. La signora Healey era un'ombra contro quella striscia. — Be', buonanotte — disse, e poi sorprese Marianne chinandosi in avanti e dandole un rapido e asciutto bacio sulla testa. Quando se ne fu andata, Marianne restò un poco a pensare. La signora Healey sembrava decisa a trascorrere tutto il suo tempo in bagno, ma infine la sentì andare verso la stanza degli ospiti. La lama di luce che toccava il letto di Marianne svanì, e dopo pochi secondi sentì il rumore della porta della signora Healey che si chiudeva. La casa era buia e silenziosa. Tranne per gli scricchiolii d'assestamento. Marianne attese alcuni minuti, poi riaccese la lampada. Dapprincipio tutto le sembrò più luminoso e strano, ma ben presto la vista si aggiustò: prese il libro e si sistemò bene i cuscini. Di nuovo, riprese a leggere. Dopo poche righe, si fermò per grattarsi la testa dov'era stata baciata. Riprese a leggere. 13 Dopo tre giorni d'assenza di papà, Marianne non si preoccupava nemmeno più di trovare delle scuse per allontanarsi dalla signora Healey. Semplicemente, se ne andava, e capiva che il sollievo era condiviso da tutt'e due. Quel pomeriggio trovò Ryan di nuovo sulla spiaggia, con lo zaino e la sacca per le lattine. Lo osservò seguire come suo solito il filo di demarcazione, poi lo vide fermarsi e cercare qualcosa. Si era accucciato e stava lavorando a staccare qualcosa dal filo spinato. Da quel che poteva capire lei, era un lavoro lungo e paziente, che sembrava dover durare un bel po' di tempo.
Quel giorno non lo stava osservando dalle colline. Era sul frangiflutti, in un punto sovrastato da un albero morto e secco, che a volte dava l'impressione di voler tornare in vita. L'albero le forniva una parziale copertura, ma non sufficiente. Presumendo che Ryan seguisse il solito schema, sarebbe passato a pochi metri dal suo attuale nascondiglio. Non poteva non vederla, non deliberatamente: insomma, non in modo convincente, ecco. Cosa poteva esserci di più normale? Lei seduta sotto un albero rivolta verso la baia, e lui che passava. Tranne che sembrava metterci un secolo. Marianne allungò il collo, ma non riusciva a capire cosa stesse facendo. Si trovava a duecento metri da lei, oltre la curva del frangiflutti. Si alzò in piedi e lo guardò per un minuto abbondante. Se avesse alzato la testa l'avrebbe vista, ma non lo fece. Ma cosa stava facendo? Si avviò nella sua direzione. Si era fermato in un punto in cui dal muraglione sbucava un canale di scolo; il passaggio dell'acqua aveva scavato profondamente le zolle sottostanti, e nel fosso erano stati gettati, per prevenire ulteriori erosioni, alcuni massi oltre al vecchio copertone di un trattore. I paletti della recinzione erano piegati all'interno, e il filo che li collegava era un garbuglio indescrivibile. Proprio lì si era fermato lui, e sembrava che volesse sgarbugliare qualcosa. Marianne era sul ciglio erboso del frangiflutti. Dal mare proveniva una leggera brezza. Nell'entroterra, uno dei treni merci quotidiani stava passando col lento rumore di un tuono lontano. O forse era davvero un tuono lontano. Ryan s'era fermato un istante e stava frugando nello zaino. Lei si fermò, per vedere cosa stesse facendo. Ne tolse un paio di pinze e, senza dare segno di essersi accorto di lei, cominciò a lavorare sul filo. Ma poi, senza alzare la testa, disse: — Parlare con te non serve, vero? — Questa è una spiaggia pubblica — rispose lei. — Nessuno può dire che non ho il diritto di starci. — Come vuoi tu — disse lui. E continuò nel suo lavoro, ignorandola. O per lo meno, dandole quell'impressione. Lei scalciò pigramente un ciuffo d'erba sull'orlo del muro, e si avvicinò ulteriormente per dare un'occhiata a quello che stava facendo. Il filo tratteneva una figuretta. Una bambola, e non nelle migliori condizioni; il suo corpo sbrindellato era nero di mota, e il contenuto si riversava fuori dalle giunture. Sempre senza guardarla, disse: — Vorrei che tu non lo facessi. — Fare cosa? Non sto facendo niente.
— Mi innervosisce la gente che mi guarda. E adesso posso dirtelo, non faccio nulla di più interessante di questo. Così, adesso vattene a giocare. Torna a casa. — Cerco solo di essere amichevole. Cosa c'è di così terribile? — Non è una cosa giusta. — Perché no? — chiese lei, ma lui non rispose. Allora disse: — Sei cattivo come la signora Healey. Tutti mi dicono cose, ma nessuno mi spiega mai perché. — Non succede solo a te — disse lui. — È la vita che è fatta così. Fece forza con le due mani, e un filo di metallo si spezzò. Tutta la massa di metallo vibrò come una molla. La bambola fangosa aveva fatto un altro passo verso la libertà. Marianne disse: — Papà pensa che il mio cane starà meglio. Ryan strinse le pinze su un altro pezzo di filo e disse: — Bene. — Ti piacerebbe venirlo a trovare? — No. — Puoi venire quando non c'è nessuno. Alzò gli occhi per guardarla. — No. Poi tornò al suo lavoro, borbottando fra i denti. Marianne disse: — Non mi ero mai accorta che tu fossi così villano. Sedette sul ciglio del muraglione, dondolando le gambe e facendo sbattere i talloni contro le pietre muschiose. Aveva l'impressione che Ryan volesse tagliare il filo in diversi punti per liberare la bambola senza doverla tirare. Non capiva perché si prendeva tanto fastidio. Tirala con forza, e probabilmente si disintegrerà con un puzzo come quello di un water ingorgato. — Stai rovinando il recinto. — Era già rovinato prima che arrivassi io. — Ma ne vale la pena? — Non lo so ancora. La testa è di porcellana, potrebbe essere d'epoca vittoriana. Dovrò controllare alla biblioteca e, se ho ragione, so che c'è gente che pagherebbe buoni soldi per una cosa così. — E allora perché non ti prendi solo la testa? — Potrebbe rompersi — disse lui, tagliando un altro filo, e di colpo la bambola fu libera. Pezzetti di filo arrugginito e spezzato fuoriuscivano dal suo corpo, dandole l'aspetto di una martire cristiano. Dallo zaino prese un sacchetto di plastica in cui, dopo aver accuratamente piegato i pezzi di filo, avvolse la bambola che poi ripose assieme al-
le pinze prima di alzarsi. Guardò Marianne con viso immobile e scuro. Sembrava sul punto di dire qualcosa, ma poi prese il sacco e partì, senza degnarla di un'altra occhiata. Lei lo seguì. Ma lui tenne lo sguardo fisso in avanti come se ci fosse un punto che doveva superare e che non doveva perdere assolutamente di vista. Il frangiflutti svoltava dinnanzi a loro. Il sentiero lo seguiva ancora un po' prima di piegare verso l'interno e la lontana ferrovia. Non c'era altro posto in cui andare. — Pensi che pioverà? — chiese lei. Lui non rispose. Poi, bruscamente: — No. E lei capì di averlo agganciato, perché non era sufficientemente villano da ignorarla del tutto. Non ci riusciva. Come quella storia che le avevano raccontato del giovane Mozart che tutte le mattine si trascinava fuori dal letto perché non riusciva a rimanerci se solo sentiva una scala suonata al piano a cui mancava una nota. Ryan non riusciva a lasciare una domanda diretta e giusta senza risposta. — Sei un accattone? — gli chiese. Sospirò. Guardò a terra, sconfortato. Scrollò la testa un paio di volte. Poi rispose. — Sono uno spazzino. Raccolgo le cose che agli altri non interessano e cerco di trasformarle in qualcosa che a qualcuno può interessare. — Ci fai un sacco di soldi? — Be' — disse lui allargando le braccia per quanto gli permettevano i suoi bagagli in un gesto che diceva "guardami". — È ovvio. — Posso aiutarti a portare qualcosa — si offrì lei. — No, grazie. Marianne gli saltellò al fianco per un po'. Poi disse: — Papà vende parti di macchine. Non so cosa siano. — Be', sono sicuro che è meglio di quel che faccio io. — Non lo so. Abbiamo conti che sono mesi che non paga. L'inverno scorso volevano portargli via l'auto perché era molto in ritardo. Ma adesso deve aver risolto qualcosa. — Queste non sono cose che devi dire alla gente. Cosa direbbe tuo padre se ti sentisse parlare così? — Non lo dico a nessuno. Ma noi siamo amici, vero? — No, non lo siamo. — E allora, perché mi hai salvata? Lui si fermò di colpo e si voltò a guardarla: quella mossa la sorprese. Le
disse: — Ascolta. Non sto dicendo che non mi piaci. Non c'è nulla di personale. Ma, per l'ultima volta, non seguirmi. Non gironzolare dove vivo. La gente si fa idee sbagliate, e allora mi troverei nei pasticci. Si era tornati al punto di partenza. Marianne lo seguì ancora, lasciando un po' di distacco fra loro. Quando lui s'accorse che gli era ancora alle spalle, esitò un attimo, poi riprese la strada. — A chi può importare? — chiese lei. — Per favore. Non seguirmi. Basta. — Io non ti sto seguendo. Solo che questa è la strada che sto facendo anch'io. Non vuoi che stia ancora sulla spiaggia, non è così? E la marea sta cominciando. Abbassò le spalle. Non poteva vederlo in viso, ma poteva immaginare che era molto serio, minaccioso quasi. Continuò a parlare, dicendosi che quello era forse il modo migliore per calmarlo un poco e fargli cambiare idea. Gli raccontò una delle storie che aveva sentito dire sulla baia; la versione moderna, in cui carrozze e cavalli erano stati sostituiti da uno scuolabus, e invece del rumore dei finimenti erano il clacson e il canto dei bambini quelli che la nebbia portava nell'entroterra. Ryan teneva la testa bassa, sempre silenzioso. Poi lei disse: — Guarda, mi sono fatta male alla gamba — e cominciò a zoppicare. Ma lui non si voltò, e lei dovette smettere di zoppicare e mettersi a correre per raggiungerlo di nuovo. — Mi sembra pesante quella sacca — disse. — Sei sicuro che non possa aiutarti a portare qualcosa? Si voltò a guardarla. — Per amor di Dio — gridò a pochi centimetri dalla sua faccia. — Vattene! Sentì che impallidiva. Era come se l'avesse schiaffeggiata. Lui riprese la sua strada, con una specie di grugnito. Era sconvolta. Tradita. Ma anche in quel momento, c'era qualcosa nella sua rabbia a cui non riusciva a credere. Qualcosa di triste. Quasi disperato. Mantenne la distanza. Continuava a tallonarlo, ma non troppo da vicino. Fuori portata, anche di conversazione. Lui lasciò il muraglione e seguì il sentiero che andava verso terra, e lei si affrettò a seguirlo. Da lontano venne di nuovo il tuono: uno di quelli veri, niente a che fare col treno, e adesso era più vicino. Una decina di vitelli stavano pascolando sul terreno rubato al mare, sparpagliati a una certa distanza l'uno dall'altro. Ryan aprì un
cancelletto per attraversare un ponticello, e se lo richiuse alle spalle. Trenta secondi dopo, Marianne lo scavalcava. Erano quasi al terrapieno della ferrovia. Oltre questo c'era il terreno di Ryan, e il sentiero che portava alla strada. Quando lei passò sotto il ponte della ferrovia, lui era vicino al cancello e la stava fissando. Il cancello era senza lucchetto. Il viso di lui era inespressivo. Lei si fermò. Disse: — È una strada pubblica. Non puoi impedirmi di camminare su una strada pubblica se voglio. Lui non ripose. Si voltò, aprì il cancello, entrò. Poté sentire lo schiocco del chiavistello interno che entrava nella sua sede. Marianne spiccò una corsa, arrivò al cancello e fece un salto. Si afferrò alla cima del cancello e, di nuovo, cercò coi piedi un appiglio sulla cerniera per avere una spinta verso l'alto. Poi lanciò una gamba all'insù finché non riuscì a issarsi sulla cima. Ryan non s'era chiaramente aspettato nulla del genere: era già a metà strada verso il laboratorio e, al rumore che lei aveva fatto, si era voltato sorpreso. Alzò lo sguardo, con la bocca semiaperta, per osservarla. La chiuse di scatto, poi si avvicinò. — Bene — disse. — Questa non è una strada pubblica e questa non è una spiaggia pubblica, ma è casa mia. Pago l'affitto qui. Quello è il mio cancello e ti dico di scendere subito. E non pensare di scendere da questa parte. Scendi, o ti faccio scendere io. Lei non rispose, ma lo guardava con sfida. Lui alzò gli occhi al cielo. — Presto pioverà — disse. — Se vuoi inzupparti lì sopra, è affar tuo. Marianne non si mosse. Si stava chiedendo se l'avrebbe fatto, se avrebbe messo in atto la minaccia di buttarla giù dal cancello. O tirarla giù dalla sua parte e poi cacciarla via. Era convinta di averlo importunato a sufficienza. Il fatto era che non credeva che le avrebbe fatto alcunché, ma sapeva anche che la vita può essere piena di sorprese. Dopo un po' di attesa, Ryan si voltò e aprì il laboratorio. Ci trascinò dentro le prede del giorno. Per un po' si spostò tra il laboratorio e la casa, studiandosi di non guardare nella sua direzione. Poi disparve nell'officina e per un po' non lo vide più. Anche se allungava il collo dall'alto della sua posizione, dopo un poco
si sentì a disagio, anche perché cominciava a farle male. Guardò le nubi. Si chiese se non avesse ragione, se non si sarebbe messo a piovere; sperava di sì, perché allora gli avrebbe fatto vedere. Avrebbe visto di che pasta era fatta lei. Cominciò a piovere. Cominciò poco alla volta, ma quando cominciò arrivò con chiare e serie intenzioni. Era il temporale che si era annunciato da tutta la settimana: le prime gocce erano così grosse, e la colpirono con tale forza che la costrinsero a sbattere gli occhi. Poi, come se il caldo cielo fosse stato tagliato in due in una macelleria, mostrò di cos'era capace riversando un intero torrente d'acqua. Ma anziché sfogarsi e poi calmarsi, quel torrente continuò. Marianne teneva gli occhi stretti mentre si raggomitolava su se stessa facendo del suo meglio per proteggersi. In meno di un minuto la si sentiva battere come una grandinata sul tetto di latta di Ryan. Stava piovendo con quella forza che spinge le auto fuori strada e distrugge i raccolti. Dopo un solo minuto di quella cura le grondaie di Ryan non riuscivano più a smaltire l'acqua. Marianne era fradicia, con gli abiti inzuppati, pesta, con le lacrime che le scendevano mescolandosi con la pioggia. Il peggio passò ma la pioggia continuava, e un fulmine si scaricò dalle parti della baia. Seguì il tuono, a un solo battito di cuore di distanza. Aprì gli occhi. Ryan era in piedi nel vano della porta. E allora capì che aveva vinto. Lui ebbe un breve gesto di sconfitta, accennandole di raggiungerlo. Lei si lasciò cadere nel cortile. In certi posti l'acqua arrivava alle caviglie, poiché era piovuto così tanto che il terreno non l'aveva ancora assorbita. Non si mise a correre. Ma tanto non ne valeva la pena, perché era difficile che si bagnasse più di quanto lo fosse. Quando si fermò s'accorse di essere intirizzita, tanto da cominciare a tremare con forza. Ma con tutta la dignità che riuscì a raccogliere, marciò impettita dentro al laboratorio. 14 Il tetto perdeva, e Ryan aveva già disposto catini e bacinelle sotto le perdite più vistose. Marianne sedette su una sgangherata sedia da tipografo davanti alla stufetta elettrica a due elementi e lo osservò mentre sistemava un altro catino di polietilene sotto un nuovo rigagnolo d'acqua. Era di nuo-
vo avvolta nel suo pastrano militare. La pioggia non era proprio fredda, ma una volta che fu al riparo cominciò a sentirsela dentro. Lui la guardava. Senza pastrano, era rimasto in camicia e bretelle. La camicia era senza colletto, con le maniche arrotolate. Non era grosso, né molto muscoloso, ma aveva l'aria solida e resistente di un contadino o di uno zingaro. Non se n'era accorta prima, ma aveva le mani tatuate. Niente parole o disegni o cose del genere, solo piccole "x" e "o" sulle dita. Sembrava che se le fosse fatte da solo, con ago e inchiostro. Ryan, in casa sua. Lui sedette, vinto. — Sei una testarda piccola cosa, non è vero? Non sembrava che realmente volesse dire "cosa"; era partito per dire qualcosa che cominciava con la "s", ma si era ripreso in tempo. Lei tremò di nuovo, e non rispose. — Perché lo fai? — chiese lui. Lei fece spalluccia. — Non riesco a credere — disse lui — che non hai posti migliori in cui andare. Dovresti essere in giro coi tuoi amici. — Non ne ho. — Non ti credo. — È vero. Le altre ragazze mi chiamano crucca. Lui incrociò le braccia e si appoggiò al banco di lavoro. Si era aggrottato. — Perché? — Perché sono mezza tedesca. Ho vissuto in Germania per la maggior parte della mia vita, e tutto andava bene. Ma da quando sono in Inghilterra, ho già cambiato quattro scuole. — Perché mai? — Nessuno me l'ha mai spiegato. — Racconta. E così, raggomitolata nel suo pastrano e con l'accompagnamento dell'acqua che sgocciolava tutt'attorno a lei, gli raccontò la sua storia. Suo padre lavorava per un'industria elettronica americana il cui centro operativo si trovava appena fuori Amburgo, attorniato da altre ditte giapponesi. Lì aveva conosciuto e sposato Anneliese, sua madre, e si erano stabiliti in una grande casa nei sobborghi. Marianne era nata due anni dopo. Era cresciuta con le famiglie dei dipendenti e aveva frequentato scuole molto costose. Parlava un inglese senza accento, ma era stata in Inghilterra solo due volte, anche se ricordava con chiarezza sia i viaggi sul traghetto sia il paese. Questa era stata la sua vita fino a cinque anni prima: una vita che era cambiata completamente nel giro di un solo giorno.
— Un pomeriggio è venuto lui a prendermi a scuola. Mi ricordo che ero molto contenta di vederlo. Non veniva quasi mai a prendermi a scuola. Di solito, lavorava a quell'ora. Era fuori orario, e aveva dovuto raccontare qualcosa per poterla portare con sé; mentre procedevano verso l'auto, aveva notato che sembrava distratto, e aveva lasciato cadere le chiavi due volte prima di riuscire ad aprire la portiera. Mentre si stavano allontanando dalla scuola, Marianne aveva visto la piccola VW della mamma procedere in senso contrario. Il suo ultimo ricordo di Anneliese Cadogan era il suo sguardo attonito mentre li vedeva sfilar via in direzione opposta. Lo sguardo di suo padre era rimasto fisso in avanti. Erano andati diritti fino all'imbarco, a metà strada tra il Fischmarkt e il vecchio porto. C'erano molte valigie nel bagagliaio dell'auto, riempite di corsa e senza metodo alcuno; era giugno, e lui aveva preso tutti gli abiti invernali e nemmeno una T-shirt. — Molti degli indumenti che aveva raccolto venivano da un mucchio che stava accanto al guardaroba. Erano tutte cose che non mi andavano più bene e che dovevano essere date via. All'inizio le aveva raccontato che si trattava di una vacanza sorpresa, e nelle prime settimane avevano vissuto in hotel di buon livello. Poi si erano spostati da un bed-and-breakfast all'altro, ed era stato allora che aveva restituito l'auto. Non era sua, le aveva spiegato, e quindi non poteva più tenerla. Era stato in quel periodo che lei aveva cominciato a capire che alla sua vita era accaduto qualcosa di enorme e di irreversibile, e che qualsiasi cosa fosse, ormai era irrimediabile. Non aveva ancora capito bene come avesse pianificato la loro vita. Quel che sapeva era che tutti i suoi piani sembravano destinati a fallire. Dopo gli alberghetti avevano vissuto in affitto in una serie di appartamentini fino a quando si erano stabiliti dove stavano ora. La sua vita aveva subito una battuta d'arresto, senza alcuna spiegazione. Ricordava lezioni di equitazione, di nuoto, di ballo. Qui, aveva un vecchio cane, un computer di seconda mano e una spiaggia vuota in cui giocare. Ryan disse: — Nulla accade senza un motivo. E tuo padre deve averne avuto uno molto buono. — Di che tipo? — Non lo so. Smetti di sentirti infelice. — Ma io sono infelice. — Meno infelice, allora. È con lui che devi parlarne, non con me. — Ma lui non è come te — rispose lei. — Ogni volta che cerco di dirgli
qualcosa... è come se vedessi la sua mente che vaga, e io smetto di esistere per lui. Una volta gli ho detto che mi sento sola, ma lui non mi ha chiesto perché. Mi ha preso Rudi. Prima non era così. E io non so perché adesso invece lo è. Ryan guardò fuori dalla finestra. — Ha smesso di piovere — disse. — Per favore, adesso va' a casa. Lei scivolò giù dallo sgabello. — Volevo solo che fossimo amici. — Impossibile — rispose lui togliendole il pastrano dalle spalle. Lo disse nel modo più gentile che gli riuscì. — Mi rincresce, ma è così. Non tornare qui mai più. Non capiresti il perché, e io nemmeno lo vorrei. Un giorno capirai. E allora saprai che avevo ragione. L'accompagnò fino all'uscita. Era come camminare fra specchi fatti di cielo nei posti in cui l'acqua si era raccolta. L'aria era più pulita e fresca, lavata dal temporale. Presso il cancello le disse: — Aspetta un momento — poi aprì, mise fuori la testa per controllare in entrambe le direzioni prima di spalancarlo per lei. Che altro restava da dire? Gli aveva detto tutto, e lui la stava mandando via. Non che lo facesse per cattiveria, ma non si era lasciato influenzare dal suo racconto. Marianne s'avviò verso il ponte. Dopo alcuni metri, si guardò alle spalle. Lui era ancora sulla soglia. — Forza — le disse. — Va' a casa. E lei ci andò. 15 Quando arrivò a casa vide che l'auto del padre era già parcheggiata nel solito posto e, malgrado tutto, sentì il cuore fare un balzo. Lo trovò in cucina, intento a sfogliare conti e fatture che erano arrivati durante la sua assenza. Sembrava che la signora Healey se ne fosse già andata. Papà alzò gli occhi per guardarla con quello che sembrava un buon tentativo di sorriso amichevole ma poi, nel vederla in quello stato, il suo sguardò cambiò fino alla costernazione. — Cos'è successo questa volta? Lei fece il giro del tavolo. — Sono stata sorpresa dalla pioggia. — Cosa stavi facendo? — Passeggiavo.
Si chinò e accarezzò Rudi sulla testa. La pelliccia era asciutta, per cui capì che, appena aveva avvertito la pioggia, s'era ritirato in casa. Per un poco lui le diede retta, poi si riaccucciò di nuovo. — La signora Healey — disse papà — mi ha detto che dovevi vederti con gli amici. — È per questo che stavo camminando — rispose lei. — Oh, Marianne — disse lui senza vigore. — Cosa devo fare con te? — Salgo a cambiarmi. Salì nella sua stanza, lasciandolo alle sue buste da aprire e ai volantini da gettare. Persino i conti sembravano, in quei giorni, arrivare nella stessa quantità della pubblicità. In camera sua, scoprì che c'era già stato lui e che le aveva lasciato alcuni regali: una borsa W. H. Smith che conteneva tre giochi nuovi per l'Amiga. Uno gliel'aveva già comperato, in un viaggio di sei mesi prima. Si tolse i jeans e s'infilò la tuta sopra una T-shirt dalle maniche lunghe a strisce grosse come quelle degli ergastolani. Posò le scarpe da ginnastica sul calorifero per farle asciugare e da sotto il letto ne prese un secondo paio, che s'infilò. Seduta sul letto per allacciarle, sentì papà che saliva le scale. Pensava che non si sarebbe affacciato, invece lo fece. Teneva in mano una lettera aperta. — Grazie per i regali — gli disse. — Ho appena aperto questa lettera — disse lui. — È di una delle tue insegnanti. La signorina Webber. — Weber — lo corresse lei automaticamente. — Cosa insegna? — Lingue. Spagnolo e tedesco. — Hai idea del perché voglia vedermi? Marianne occhieggiò la lettera, ma era girata dalla parte sbagliata. — Non lo dice? — Non te l'avrei chiesto altrimenti. — Sedette sul letto, accanto a lei. Marianne strinse le mani in grembo e attese. — Me lo diresti se c'è qualcosa che non va, vero? Voglio dire, siamo sempre stati sinceri l'uno con l'altra, vero? Le stava porgendo un problema di piccola diplomazia, in quanto sembrava credere davvero in quello che diceva. E poiché capiva che era questo ciò che lui voleva, annuì. — Così non troverò sgradevoli sorprese, giusto?
— Credo proprio di no. — Ottimo. Forse vorrà rimproverarmi perché non ho partecipato all'ultima riunione dei genitori. Che tipo è? — Molto carina. Lui sorrise. In quei giorni, sembrava molto stanco quando sorrideva. — Sarà meglio che vada e che l'affronti da uomo, allora. Il letto cigolò quando si alzò. Marianne stava pensando a quale potesse essere il motivo per cui la signorina Weber voleva vedere suo padre. E poi, perché adesso, quando non c'erano lezioni? Si chiese se sarebbe riuscita a dare un'occhiata alla lettera. Chiedergli adesso di vederla poteva apparire come una reazione di colpa. — Ascolta. — Suo padre si era fermato sulla soglia; sembrava essersi ricordato di qualcosa. Ma aveva quell'aria fintamente casuale di chi non ha dimenticato cosa voleva dire ma che finge d'averlo fatto perché è un problema un po' spinoso da affrontare. — Si è accumulata un sacco di roba da quando sono partito, per cui sembra che dovrò lavorare nel fine settimana. È un grave problema per te? Marianne si strinse nelle spalle. Cosa voleva sentirsi dire? — Lo so cosa ti ho promesso, ma... non cambia niente, spostiamo tutto di qualche giorno. D'accordo? — D'accordo. Soddisfatto, si avviò; ma poi si fermò di nuovo e aggiunse: — Questi tuoi amici. Perché non li inviti qui? Prendete qualche video, qualcosa del genere, ti va? Lei non rispose e lui prese quel silenzio per assenso e se ne andò. Era diretto verso la sua camera, forse per terminare di togliere le sue cose dalla ventiquattrore. Marianne rimase seduta ancora per un attimo. Ma non riuscì a trattenersi. Saltò in piedi e corse alla porta. Lui era già in fondo al corridoio. Marianne chiese: — L'hai vista? Lui si bloccò. — Cosa vuoi dire? — Io so dove sei andato davvero. L'hai vista? Cosa ha detto? Una lunga pausa, sul viso di suo padre non si muoveva un muscolo. Ma lei sentiva che, sotto la superficie, era molto turbato. — No — rispose — non l'ho vista. E poi entrò nella sua camera, chiudendosi con forza eccessiva la porta alle spalle.
16 La signora Healey non pensava fosse giusto incoraggiare le inclinazioni dei bambini. Non aveva mai avuto figli, ma aveva trascorso la vita a seccarsi per il modo in cui la gente permetteva ai propri di comportarsi in pubblico. Li lasciavano sghignazzare e ridacchiare, correre come disperati e parlare a voce troppo alta. Giudicava la propria mancata maternità una benedizione del cielo. Lo pensava anche del signor Healey, quand'era ancora in vita a ingombrare la casa con la sua presenza. Bastava che lei sprimacciasse il cuscino di una poltrona perché lui ci piombasse sopra nel giro di cinque minuti. Marianne era un tipo tranquillo, ma riusciva a essere alquanto agitata quando le girava. Anche se aveva dimostrato una sorprendente maturità nell'interesse con cui aveva seguito il racconto della saga del pianoforte. Era rimasta ad ascoltarla senza dire una parola, troppo affascinata per interromperla. Il mattino dopo la signora Healey arrivò alla solita ora, e trovò Marianne con la testa nel frigorifero e con lo zainetto posato sul pavimento accanto a lei. E anche se non voleva incoraggiare le inclinazioni degli altri, capiva che Marianne stava maturando in gran fretta, per cui mise un pizzico di vivacità nella sua voce quando, posata la borsa sul tavolo, le disse: — Chi sta razziando la mia cucina? — È per un picnic — disse Marianne. — Se vuole venire, mi porto Rudi. La signora Healey si sbottonò il cappotto. Aveva visto il cane mentre arrivava, sdraiato al suo solito posto; nelle ultime settimane aveva schiacciato tutta l'erba lì attorno. — Pensi che ne abbia voglia? — le chiese. — I cani sono come le persone — rispose Marianne mentre allacciava la chiusura dello zainetto prima di alzarsi e chiudere la porta del frigo. — Un po' sono su, un po' sono giù. Questa potrebbe essere una buona occasione per lui. La signora Healey appese il cappotto nel ripostiglio delle scope. — Bene — disse — ricordati di stare alla larga dalla spiaggia. Non vogliamo che si ripeta quello che è successo l'altra volta, vero? — Ma quando si voltò, Marianne era già uscita. Andò sulla soglia per vederla. Marianne si era accucciata accanto a Ru-
di, che aveva alzato la testa e la stava guardando con entusiasmo battendo la coda; ma non accennò ad alzarsi. — No? — disse la signora Healey. — Però quasi ci siamo — disse Marianne. — Vede? Agita la coda. Forse domani. — Con un cane così, non si può mai dire — disse lei. Marianne strusciò la mano sulla testa di Rudi che si era sdraiato di nuovo. — Bravo Rudi — gli disse. — Sei un bravo ragazzo, Rudi. — Era il nome che aveva quando l'hai preso? — No, non ce l'aveva un nome. Allora gli ho dato il nome del vecchio capo di papà. — E come mai? — Perché si comportava bene con me e mi piaceva. Mi piaceva tutto di allora. Soprattutto la scuola. — Questo vuol dire che non ti piace nulla di qui? — Mi piace Rudi — rispose Marianne, e si alzò. La signora Healey preferì tacere, e restò a guardarla mentre se ne andava. Stava superando la zona acquitrinosa, e cominciò a sistemarsi gli spallacci dello zainetto. Una figuretta che si allontanava mostrando molta fiducia. Quel tipo di fiducia che può portare a qualche guaio senza rendersene conto. Ma come metterla in guardia senza distruggere quell'innocenza che si voleva proteggere? Mentre la guardava la vide togliersi lo zainetto e posarlo su una sola spalla. Proprio come faceva sempre Ryan, si rese conto con un brivido. Ich war ganz allein. Der Himmel war schwarz und ich war vom Meer umgeben und niemand wusste wo ich war. Ich rief nach Hilfe, aber niemand war zu sehen. Ich war sicher dass ich ertrinken würde. Aber dann erschien er wie aus dem Nichts und versuchte mich zu beruhigen. Er nahm mich auf seine Schulter und trug mich durch die Flut. Die Flut war tief genug dass sie uns beide verschlingen hätte können, aber ich fühlte mich trotzdem sicher. Als wir zuhause ankamen war das Haus leer und als ich mich umdrehte war er auf einmal nicht mehe da. 17
Patrick Cadogan, padre di Marianne, abbassò il quaderno della figlia e disse: — Mi deve scusare se sono così lento. Il mio tedesco è un po' arrugginito. — Sono un'insegnante di lingue — disse Isabella Weber. — Sono abituata alla lentezza. Capisce quello che dice? — Lo capisco. Erano nell'aula di lingue. La scuola era vuota, ma era stata aperta per tre giorni perché gli studenti più anziani potessero chiedere i risultati degli esami; secondo la tabella di servizio degli insegnanti, il turno della signorina Weber era terminato a mezzogiorno e quindi doveva essersene già andata, per cui Cadogan aveva chiesto alla segretaria se ci fosse qualcun altro che potesse parlare con lui di sua figlia. La segretaria non riusciva a ricordarsi della ragazzina per cui, sorridendo imbarazzata, aveva dovuto consultare i registri, e si era scusata dicendo che lavorava nella scuola solo dall'inizio dell'anno. Cadogan aveva cominciato a seccarsi, anche se non riusciva a dire perché: c'erano centinaia di alunni in quella scuola, ed era umano e naturale non ricordarsi di qualcuno in particolare. Nessuno degli insegnanti di Marianne era di servizio quel giorno. Stava attraversando il corridoio deserto, sempre con la lettera in mano, quando aveva sentito chiamare il suo nome: si era voltato, e l'aveva vista avanzare verso di lui. Si era fermata ancora un po' per mandare avanti il lavoro per il prossimo trimestre, e stava per andarsene quando l'aveva notato e aveva capito chi fosse, anche se non si erano mai incontrati prima. Sembrava assurdamente giovane per insegnare nelle secondarie, ma non era l'unica. Non erano loro a essere troppo giovani per fare quel lavoro. Era lui che stava invecchiando. Non era mai stato in nessuna delle classi di Marianne prima di allora. Avevano un aspetto simpatico anche se un po' trascurato, a differenza di quelle che ricordava di aver frequentato lui, che avevano lo stesso fascino di una cella. Terminò di leggere e poi posò il quaderno, dicendo: — Esattamente, perché voleva vedermi? — Be' — dissa Isabella Weber — fra le altre cose, volevo parlarle dello scritto di Marianne. Guardò la pagina scritta da sua figlia. — Mi sembra sufficientemente chiaro. — Non parlo della qualità del lavoro, ma del suo contenuto. — Be' — disse Cadogan — è abbastanza semplice. È qualcosa che le è
accaduto alcune settimane or sono. S'è trovata in difficoltà sulla spiaggia, e qualcuno l'ha accompagnata a casa. — Notò lo sguardo della signorina Weber, e allora si sforzò di anticiparla: — Aspetti un momento. Lei pensa che si sia inventata tutto e che questo sia un grido d'aiuto o qualcosa del genere? No. È reale. È esattamente quello che è successo. La signorina Weber disse: — Non è solo questo. Se fosse così, non mi preoccuperei. — Preoccuparsi? — disse lui chiudendo il quaderno e facendolo scivolare sul tavolo fino all'insegnante. — E cosa dovrebbe preoccuparla? — È un argomento già trattato con tutti i genitori, e se lei avesse partecipato... — Sì, ho capito, d'accordo — disse lui. — Lavoro sodo e lavoro fino a tardi. Sto costruendo qualcosa di mio e questo non mi lascia molto tempo. Non sto mendicando scuse, ma è così che stanno le cose. — Il suo lavoro va bene? — Già — disse lui, minaccioso. — È un successone. Va di meglio in meglio. — Però lei non si vede molto con Marianne. Lo stava osservando intensamente e, per quanto fosse giovane, lo stava innervosendo. Forse era a causa della sua professione; conosceva molta gente matura che diventava nervosa come ragazzini in presenza degli insegnanti. O forse era per il fatto che era una donna: per lui, dopo Anneliese, non c'era stata nessun'altra. — Ehi, un momento — disse. — Che vuol dire tutto ciò? Pensavo che mi avesse fatto chiamare perché aveva qualcosa da comunicarmi. — La sua è una famiglia con un solo genitore, vero signor Cadogan? Lui si guardò attorno, senza cercare nulla in particolare. — Famiglia con un solo genitore? Da che libro salta fuori questa definizione? — È solo un modo di dire. — No, è un'etichetta. E può anche tenersela per sé. Io lavoro duramente per Marianne, e non le faccio mancare nulla. — Tranne l'interessamento paterno. Si chinò in avanti: stava cominciando ad arrabbiarsi. Non lo era ancora, ma sentiva l'ira salire in lui. — E io cosa sarei? — Non lo so, signor Cadogan. Me lo dica lei. Per un lungo momento si affrontarono ai due lati del tavolo, non troppo interessati a prolungare lo scontro ma nemmeno a cedere; Cadogan sentiva di essere sul punto di esplodere, Isabella Weber era calma, tradita solo da
un nervetto che stava cominciando a ticchettare all'angolo di un occhio. Appariva veramente molto giovane. — Gesù — disse lui appoggiandosi allo schienale, e lo disse non come qualcosa di personale contro di lei, e lei si rese conto che la sua presa sulle realtà del mondo era ancora incompleta. — Anche questo, oltre a tutto il resto. Penso che dovrò fare un reclamo. — Questo sta solo a lei. Ma adesso possiamo parlare di Marianne? — Cosa c'è da dire? Ha un tetto sulla testa, è nutrita, è felice. E anche se non la vedo molto, è solo perché lei è sempre fuori coi suoi amici. — Può farmi il nome di qualcuno di loro? — No. Non posso citargliene nessuno. Lei la vede tutti i giorni, me li dica lei. — Da quel che ne so, Marianne non ha amici. So che alcune ragazze hanno cercato di fare amicizia, ma lei ha la tendenza a stare da sola. — Temo di dovermene andare — disse Cadogan guardando l'orologio. Non aveva nessun appuntamento, ma la Weber non poteva saperlo. — Dica quel che ha da dire. — Penso che sia disperatamente infelice e che lei non possa o non voglia rendersene conto: ecco quel che penso. Speravo che, assieme, potessimo fare qualcosa. — Le ho già detto come, signorina Weber. Lei si occupi di insegnare a mia figlia. Tutto il resto è al di là dei suoi compiti, e posso assicurarla che non abbiamo problemi che non possiamo risolvere da soli. Siamo una famiglia unita — disse mentre si alzava. — Non c'è nulla che non possa o non voglia dirmi. Noi parliamo. Parliamo sempre. A volte mi viene un fottuto mal di testa solo ad ascoltarla. Stava alzando il volume della voce e si accorse, forse un po' tardi, che era sul punto di mettersi a gridare; lei non si era mossa né aveva distolto lo sguardo, ma si era fatta sempre più pallida, e lui allora si voltò, perché non era sua intenzione aggredirla. Aggiunse: — Questo fine settimana lo passiamo fuori assieme. È già tutto pianificato. Non c'è nulla che non possa sistemare, signorina Weber. Non la stava guardando, e lei non rispose. Poi lui aggiunse: — Felice di averla conosciuta — e se ne andò. 18 — Dov'è Marianne? — chiese. — Non è qui?
Era tornato subito a casa. Non era quello che aveva in mente di fare, ma quel che aveva pianificato per quel giorno era una cosa che ricordava solo vagamente. Sulla via per casa si era inoltrato in uno di quei sentieri che portavano alla spiaggia e, lasciata l'auto nei pressi delle tre villette che ivi sorgevano, avevano camminato fino a raggiungere la sabbia; aveva avuto la folle idea che l'avrebbe trovata, ma una volta sul posto si rese conto di quanto impraticabile fosse il suo proposito. La spiaggia si allargava deserta in tutte le direzioni. Il vento lo fustigava e, anche se l'avesse chiamata per nome, sapeva che stava solo perdendo tempo. Così era tornato indietro e aveva riattraversato il villaggio, costellato di barche tirate a secco per evitare guai con la marea; alcune erano semidistrutte, altre erano enormi barche da pesca coricate su un fianco come dinosauri morti in attesa che il fango li sommergesse. Superò la casa della signora Healey, tutta pulitina con la sua striscia di giardino ben tenuto dietro la staccionata, passò davanti alla sala parrocchiale e la chiesetta della missione con l'unico telefono pubblico piantato davanti, e finalmente fu sul viottolo che portava a casa sua. La signora Healey s'era affrettata ad andargli incontro. Il cane di Marianne era fuori, nel suo solito posto, con la testa posata sulle zampe. In risposta alla sua domanda, la signora Healey disse: — È fuori. Ma c'è qualcosa che lei deve vedere prima che torni. Cadogan, che stava per voltarsi e andarsene di nuovo, si fermò e le chiese, con veemenza: — Lei ha visto gli amici di mia figlia, vero? — Mai visto nessuno, non porta mai nessuno a casa. Ma mi vuole ascoltare o no? — Io le do retta. Ci ha visti, no? Non importa quanto sia occupato, sono sempre qui per lei, non è così? Come fa qualcuno a dire che non è vero? — Signor Cadogan! — disse lei, con voce più secca e alta di quanto avesse mai fatto con lui. — Cosa? — disse lui. — C'è il suo cane morto proprio davanti a lei, e lei non se n'è nemmeno accorto. Per un attimo, non capì cosa gli stesse dicendo. Forse qualcosa sul fatto che il cane era morto. Guardò, e Rudi era dove l'aveva sempre visto. Era sdraiato, tutto lì. Niente d'insolito. Non si muoveva. S'avvicinò a Rudi, lo chiamò per nome, capì che era vero. Non respirava. Mise gentilmente la mano sotto il muso del cane e lo sollevò, e questo si
alzò con lo stesso patetico peso di una palla da bowling. Gli occhi erano socchiusi e fissi, e aveva sangue fresco sulle narici. L'equivalente, per ognuna delle due, di una bollicina scoppiata, nulla più. — È uscito subito dopo che Marianne se n'è andata. Si è sdraiato nel suo solito posto, e lì è rimasto. Non lo so da quanto è morto. Lui posò piano la testa del cane, senza scosse. — Oh Rudi — disse stancamente, e gli si sedette accanto sul nudo terreno. Povero vecchio cane. D'età e di razza indeterminate, ma di buon carattere, fedele e desideroso di compiacere. Stava per accarezzarlo ma arrestò il gesto a mezz'aria e lasciò ricadere la mano. Di colpo, sentì il cuore pesargli come un macigno; non riusciva a ricordare un momento in cui avesse mostrato dell'affetto per quella bestia. Forse qualche sera, ma non riusciva a ricordare quando, l'aveva accarezzato sulla testa passando e gli aveva mormorato qualcosa: tutto qui. Aveva desiderato ardentemente un cane proprio quand'era un ragazzo. Un ragazzo che Rudi non sarebbe mai giunto a conoscere. Si sentiva come se fosse stato colpito da una direzione inattesa. Rudi disperso in mare era una cosa, forse una conveniente soluzione del problema, l'atto finale posto in essere per scivolar fuori dalla mente di Cadogan, un posto nel quale non c'era mai stato troppo posto per lui. Ma Rudi morto davanti a lui, quella era un'altra cosa. Avvertì un complesso senso di colpa che non riusciva a spiegare, e sapeva che quella morte era una piccola parte di quel peso. Erano andati al canile alla ricerca di un cucciolo, ma era quello che Marianne aveva scelto, e lui aveva risposto con la profonda devozione che sempre alberga nei cani salvati, fino al punto in cui c'era stato un tempo in cui bastava che Marianne uscisse da una stanza perché lui balzasse in piedi e la seguisse ovunque. La signora Healey disse: — Deve portarlo via prima che Marianne torni a casa. Già. Staccarla da lui sarebbe stato sufficientemente difficile: ma non voleva che lo vedesse morto. Si alzò spazzolandosi i calzoni e disse: — Sarà meglio che lo seppellisca. — Non qui attorno, proprio no — disse la signora Healey. — C'è un posto dove può portarlo. — Oh — disse Cadogan. Ma non si mosse, e rimase a fissare Rudi, finché la signora Healey non disse: — Guardo se trovo un lenzuolo o qualcosa del genere — e rientrò in casa.
Aveva senso, si disse. Non si può scavare una tomba nel terreno attorno a casa: il terreno era troppo friabile e il mare troppo vicino. La marea avrebbe potuto strapparne il corpo e trasportarlo da qualche altra parte lungo la costa. Lei avrebbe potuto trovarlo durante le sue passeggiate. Si sentiva in parte colpevole. Non solo aveva prestato pochissima attenzione a Rudi, ma aveva spesso inciampato nell'animale quando se lo trovava sul cammino. Be', adesso era troppo tardi per emendarsi. Troppo tardi. Aveva lasciato che tutto scivolasse via. Era da tanto che stava succedendo, dai tanti mesi trascorsi da quando era fuggito da Anneliese. Mesi? Anni, erano. Questo per dimostrare che tipo di padronanza avesse. La sua idea era stata quella di rimettere assieme una vita nuova e migliore dalle rovine della precedente, ma niente era andato per il verso giusto. In qualche modo, era rimasto incastrato nei suoi vani tentativi. E, come adesso stava cominciando a rendersi conto, aveva perso il contatto con sua figlia, e aveva avuto bisogno di una frivola insegnante al suo primo incarico per afferrare la verità. Proprio come per il cane, del quale s'accorgeva solo quando se lo trovava tra i piedi. Si sorprese a pensare che forse la morte di Rudi era un segno. Un colpo d'avvertimento. Stava ritornando la signora Healey, con in mano un lenzuolo color pesca che lui non aveva mai visto. Lo allargarono accanto a Rudi, il cui corpo Cadogan fece rotolare dentro, dopo di che i due afferrarono gli angoli opposti del lenzuolo e trasportarono quel corpo verso la Vauxhall. Era pesante (un peso morto, fu il pensiero che Cadogan cercava di scacciare dalla mente). Quando l'ebbero sistemato sul sedile posteriore, gli ripiegarono sopra l'abbondanza del lenzuolo perché avesse un'apparenza normale. — Le ho scritto dove deve andare — disse la signora Healey consegnandogli un pezzo di carta strappato dal taccuino della cucina. Erano almeno una decina di righe, scritte col pallido inchiostro azzurro che lei amava usare per la lista della spesa. — Grazie — disse Cadogan, e chiuse la portiera dell'auto. Mentre girava attorno al mezzo, disse: — Non dica niente a Marianne, capito? — E se mi chiede qualcosa? — Le dica che Rudi è con me. Le spiegherò tutto al mio ritorno. So che le chiedo di fare molte cose per lei, ma questo è un compito che spetta a me. La signora Healey annuì.
Il motore della Vauxhall era ancora caldo e, per una volta, partì al primo tentativo. Cadogan tornò verso il villaggio e poi si spinse verso l'interno, seguendo strade secondarie che attraversavano campi verdeggianti fino a quando incrociò la strada principale. Era la strada che seguiva praticamente tutti i giorni, e la percorreva senza quasi rendersene conto. Sul sedile del passeggero aveva sempre la sua borsa e il catalogo per le ordinazioni. Sotto il cruscotto c'era la mensola su cui una volta stava il telefonino, fino a quando aveva dovuto renderlo al negoziante. Un salone d'esposizione della Nissan, uno di quegli edifici ultramoderni con pareti di cristallo, con un grande cortile anteriore e una dozzina di aste per bandiera, segnalava il termine della zona agricola e l'inizio di quella che si poteva definire la periferia della città. C'erano ancora campi, ma anche estensioni di terreni industriali abbandonati serviti da svincoli di nuova concezione che portavano, come al solito, nel nulla. Una terra immersa nella cultura dell'auto, ancora in attesa di essere completamente asfaltata e di veder sorgere centri commerciali per tutte le esigenze. Quand'ebbe superato l'intersezione con l'autostrada cominciò a guardare le indicazioni della signora Healey, ma dopo aver svoltato verso il centro un paio di volte dovette lasciare la strada e fermarsi in una zona di parcheggio per leggere con calma il biglietto. Aveva una calligrafia impacciata e piegata all'indietro, difficile da decifrare. Da come gli aveva spiegato le cose, era chiaro che non sapeva guidare. Dove s'era fermato c'erano due camion, che vennero raggiunti da un terzo subito dopo; mentre tornava a unirsi al traffico vide unirsi alla carovana un camioncino adattato a snackbar, che parcheggiò proprio dov'era stato lui. Non sembrava che potesse contenere qualcuno, ma sulla fiancata portava la scritta POSTI A SEDERE. A tre chilometri da lì, trovò una freccia che indicava la giusta direzione. La strada era poco più di un sentiero, ma era asfaltata e piena di buche, ovviamente a causa del traffico pesante che la percorreva. In cima alla collina al termine della stradina sorgeva la ciminiera in alluminio dell'inceneritore, il cui basso edificio era schermato dagli alberi. Dalla sommità della ciminiera usciva una colonna di fumo bianco, che si disperdeva nel cielo. Sentì che il cuore perdeva un colpo. Era l'inceneritore comunale: ma d'altra parte, cosa si era aspettato? In fondo al sentiero trovò un cancello con una catena con lucchetto, a-
perto solo da un lato: subito dopo, c'era una pesa a ponte con un cartello con la scritta: TUTTI I VEICOLI DEVONO FARE RAPPORTO ALL'UFFICIO, ma nella cabina della pesatrice non c'era nessuno. Cadogan si diresse verso l'area libera subito dietro. Arrestò l'auto e scese. Sembrava che non ci fosse in giro nessuno. Sentiva i rumori attutiti dei macchinari e un ronzio come quello di un generatore, ma non se ne vedeva uno. Adesso non sapeva proprio cosa fare. L'asfalto era sporco e oleoso. Vicino al muro di cinta si vedevano volteggiare i gabbiani che, discutendo fra loro, s'abbassavano sui rifiuti cittadini che erano stati ammucchiati in una collina dall'aria compatta. L'impianto d'incinerazione torreggiava su tutto, più grande di una rimessa per autobus e con la stessa, enorme entrata; quando Cadogan entrò, si sentì come Pollicino che entra nella caverna del gigante. Un fossato profondo dai dieci ai quindici metri attraversava l'edificio per tutta la lunghezza. Grandi compressori, simili ai respingenti della ferrovia, erano pronti a svuotarlo quando fosse stato colmo, sospingendone il contenuto verso la bocca della fornace in attesa. Era già semipieno di mucchi putrescenti di materiale d'ogni tipo. A parecchi metri da lui, un camion stava svuotando il suo contenuto, con un uomo che aiutava i sacchi di plastica a correre incontro al loro destino. Questi cadevano, uno dopo l'altro, e parecchi di loro si laceravano nell'impatto. L'aria era pesante. Nel canale, l'atmosfera doveva essere addirittura irrespirabile. Cadogan s'avvicnò alla cabina del guidatore. Su in alto, il braccio di una gru scorreva per tutta la lunghezza del canale, spostando il materiale in eccesso, ma non si vedeva nessuno alla manovra. Un altro sacco cadde, col rumore di un guantone da boxe che s'abbatte su una mascella. In quella vastità, il rumore si perse subito. Appena fu a portata di voce dell'operatore, Cadogan gridò: — C'è qualcuno a cui posso rivolgermi? L'uomo si fermò un attimo. Indossava una tuta e grossi guanti da lavoro. — Boh? — rispose, voltandosi a prendere un altro sacco. — Chieda all'ufficio. L'ufficio risultò essere un prefabbricato subito dietro l'angolo: non molto grande, ma almeno aveva dimensioni umane in quel contesto. Si sentiva una radio all'interno, e Cadogan pensava che il suo bussare non fosse stato sentito, quando un tipo nerboruto con un maglione unto aprì la porta e lo guardò. — Ho un cane in macchina — disse Cadogan.
— Spero che sia un buon acchiappatopi — disse l'altro. — Ci serve. — Voglio dire che, insomma... — Non riusciva a costringersi a pronunciare la parola "morto". Ma l'uomo afferrò al volo. — Per l'inceneritore? — chiese. — Quant'è grande? Esitante, Cadogan allargò le braccia a indicare approssimativamente la taglia di Rudi. — È in un lenzuolo. — Bene — disse l'altro. — Lo butti. Cadogan guardò verso la sua auto, poi verso il fossato. — Lì dentro? — È quello che facciamo se lo porta da noi — disse l'altro. — Cosa crede, questo è mica uno di quei cimiteri di lusso per botoli. Vada là se preferisce. Ma per il suo animale, non è che cambi molto. Cadogan esitò. Quell'uomo aveva ragione, però... Dio, che modo di mettere la parola fine alle cose, anche per un cane. Tuffato in un mucchio di spazzatura, dove rimanere sepolto fino al momento di entrare nella fornace; niente lapide, niente ceneri, solo la compagnia di lattine vuote e scarti di verdura, senza più nemmeno un raggio di luce. Ma che altra scelta aveva? Tutto il resto sarebbe venuto a costare. E poi, come aveva detto l'uomo, per Rudi un trattamento valeva l'altro. Allora disse: — Potrebbe farlo lei per me? L'altro lo guardò inespressivamente. Poi annuì e prese le chiavi che Cadogan gli porgeva. Accese il motore della Vauxhall mandandolo su di giri come se fosse alla partenza del gran premio. Si sentì echeggiare il lungo gemito dei freni, poi lo sbattere della portiera. Se Marianne gliel'avesse chiesto, avrebbe dovuto inventarsi qualcosa. Non sapeva ancora cosa, ma doveva essere qualcosa di confortevole, e se gli avesse chiesto se era andato in paradiso, le avrebbe risposto di sì. Quando lui aveva l'età di Marianne, credeva anche lui nel paradiso. A volte, avrebbe voluto crederci ancora. Stava arrivando un grosso camion, con un carico che doveva essere di metalli di recupero. Cadogan affondò le mani nelle tasche e guardò l'uomo corpulento, di mezza età, che scendeva e premeva con forza un campanello presso la porta dell'ufficio. Risuonò una specie di campana d'allarme. Scese anche il compagno del guidatore, un ragazzetto pelle e ossa con guanti da lavoro che facevano sembrare le sue mani troppo grandi per quel corpo; la cosa strana era che lo stava guardando fisso, come se si aspettasse che lui lo riconoscesse. Oltre ai grandi guanti aveva... be', non c'era altro segno
di riconoscimento se non due orecchie a sventola; quei due cospicui connotati gli davano un'aria da disegno animato. Agitò una mano e gridò: — Signor Cadogan! Si ricorda? Brian Fishwick. Le portavo il latte al sabato. Cadogan lo guardò meglio, schermandosi gli occhi. — Ma certo — disse, anche se non ricordava un bel nulla. — Adesso lavoro per il comune — disse il ragazzo avvicinandoglisi, poi indicò il guidatore, sempre fermo davanti all'ufficio. — Lavoro con zio Billy. — Felice di saperlo — disse Cadogan. Zio Billy applicò il pollice al pulsante, e ce lo tenne per almeno trenta secondi. Quando il frastuono cessò, il ragazzo disse: — Quando l'ho vista, ho sentito uno scatto. Ho visto sua figlia l'altro giorno, e da allora sto cercando di ricordare. — Hai visto Marianne? Dove? — Be' è di questo che volevo parlarle. Ha mai sentito di uno che sta dalle sue parti e che si chiama Ryan? — E dove sta? — Su un terreno vicino alla spiaggia. Uno che dà i brividi. Si raccontavano un sacco di storie su di lui quando andavo a scuola. — So chi è. Che mi devi dire? — Be', la sua Marianne era da lui. — Quando? — Due o tre giorni fa. — Che ci faceva? — Niente che io possa dire, però era là. Mi chiedevo se lei lo sapeva. — No — rispose lui. — Non lo sapevo. — Lui è sembrato sorpreso e ha agito come se volesse mandarla via, ma lei non sembrava dargli peso. — Poi, con un cenno del capo al conducente del camion, che si stava guardando attorno con lo stoicismo di uno che non ha alcuna fretta perché tanto sa che il resto delle sua giornata sarà una ripetizione di quegli stessi gesti, Brian Fishwick aggiunse: — Zio Billy ha detto che dovevo dirglielo. — Be' — disse Cadogan — adesso me l'hai detto. Grazie. — Anche se metà delle storie non sono vere... be', ci dev'essere qualcosa dietro, le pare? La Vauxhall entrò slittando come se fosse un ragazzino che scivola sul ghiaccio. L'uomo scese lasciando il motore acceso e la portiera aperta: il
sedile posteriore era vuoto. — Piantala di ciondolare, Billy — disse l'uomo dell'impianto. — Non abbiamo tempo da perdere. Cadogan salì in macchina e se ne andò. Guidava automaticamente mentre si lasciava l'inceneritore alle spalle. Si sentiva come se stesse andando alla deriva. Poi di colpo si rese conto, e dovette fermarsi a lato della strada. Tuffò il viso fra le mani e cominciò a piangere, con una serie di gemiti forzati. Si colpì con forza alla tempia, poi s'afferrò al volante: la botta gli aveva lasciato un dolore sordo che non voleva andarsene, ma almeno aveva ripreso il controllo di sé. Non se n'era mai accorto fino ad allora, ma si trovava su una china pericolosa. Si sentiva sospinto verso il baratro, come se ci fosse un bulldozer che inesorabilmente gli impedisse di tornare indietro. Si sforzò di guidare come se fosse una vecchia signora. Ma poi, raggiunta la statale, cominciò ad accelerare. 19 Non era stato uno dei suoi picnic più esaltanti. Non solo era stata pizzicata dagli insetti, ma aveva trovato alcuni dei suoi posti preferiti occupati da alcuni tizi che osservavano gli uccelli. La torta era rafferma, e poi ne aveva presa poca. L'unico yogurt rimasto in frigo era quello alla ciliegia nera, che aveva l'aspetto e il sapore di disinfettante. Marianne non aveva mai conosciuto qualcuno a cui piacesse la ciliegia nera, ma in ogni confezione, immancabile, ce n'era sempre uno di quel tipo. Era convinta che ce li mettevano perché non avevano altro modo per disfarsene. Come quando vendevano confezioni di tè selezionati e ci trovavi sempre l'Earl Grey, che come tutti sanno è il peggiore al mondo. Mentre insaccava nella pattumiera che stava sotto il lavello cartacce e altri rifiuti tolti dallo zainetto, s'accorse che la ciotola di Rudi era stata lavata e giaceva capovolta sullo scolapiatti. La riempì e la posò al solito posto. Mancava anche la coperta dalla cuccia: probabilmente la signora Healey aveva deciso di lavarla. Si era aspettata di trovare Rudi in casa quando non l'aveva visto all'esterno, ma sapeva che quando non c'era la coperta nella cuccia lui non la usava. A volte sgaiattolava al piano superiore e si sdraiava su un letto, generalmente il suo, e assumeva sempre un'aria colpevole quando lei lo trovava.
Incontrò la signora Healey in corridoio. Si stava infilando l'impermeabile, pronta ad andarsene. Indossava sempre quell'impermeabile scuro col cappuccio quando usciva. Poteva anche essere estate e una temperatura di quaranta gradi, lei lo portava sempre. C'era qualcosa di strano nei suoi modi, ma non avrebbe saputo dire cosa. — Tuo padre — le disse — sarà presto a casa. Ha qualcosa da dirti. "La signorina Weber" pensò lei con improvviso batticuore. Gli aveva senz'altro detto qualcosa e adesso era nei guai. Ma cosa? Quel che è certo, è che non esiste sensazione peggiore che sentirsi nei guai e non avere idea del crimine commesso. La signora Healey disse: — Devo andare. Ma quello che voglio dirti è... che non tutto il male viene per nuocere. A volte uno guarda ai periodi peggiori della sua vita, e si rende conto che quello è stato il momento in cui tutto ha cominciato a migliorare. E, senza aggiungere altro, se ne andò. Be', grande. Adesso non sapeva se aspettarsi brutte notizie, o buone notizie, o buone notizie che nascevano da qualcosa di cattivo, o chissà che. Voleva crescere, subito. Voleva che papà tornasse a casa e trovasse una donna e che finalmente si rendesse conto che i giorni delle cose minimizzate e delle verità differite erano terminati. Uscì e chiamò Rudi, ma sembrava che fosse in giro per conto suo. Comunque, non poteva essere andato lontano. Tornata in cucina guardò nel forno e, come si era aspettata, vi trovò una delle casseruole buone per tutti gli usi che la signora Healey era solita usare, con qualcosa di non identificabile che vi era stato bollito dentro. L'ingresso della casa era enorme, con un soffitto alto e praticamente niente mobili. C'erano stati una credenza in noce e un elegante quanto sfilacciato sofà, ma erano scomparsi al tempo delle difficoltà che avevano coinvolto, e travolto, anche l'auto. Accese la tv e sedette sul suo cuscino preferito col telecomando in mano per vedere Blockbusters. Di tanto in tanto, quando si annoiava, faceva un rapido giro dei canali, ma poi tornava sempre su quello primitivo. Fuori stava cominciando a scurire, ma non si alzò per accendere le luci. Non sentì l'auto che arrivava. Non sapeva da quant'era che la stava guardando dalla soglia. Sobbalzò quando alzò lo sguardo e lo vide. Era una sagoma nera contro il buio della parete, con la luce morente del giorno alle spalle. Se ne stava lì, immobile.
— Mi hai quasi spaventata — disse. Ma aveva appena parlato, che si rese conto che il peggio che aveva immaginato era ancora peggiore. Papà disse: — Tua mamma era una vagabonda. E mi sto rendendo conto che forse tu non sei migliore. Io mi do da fare per tenere tutto unito e ti chiedo di darmi una mano, e cosa ottengo? Che ignori tutto quello che ti dico e fai l'esatto opposto. Non so proprio cosa fare con te, Marianne. So solo che sono molto in collera con te. Potrei persino picchiarti, anche se non voglio farlo. Vai in camera tua. Metterò a posto io il tuo signor Ryan. — Cos'hai intenzione di fare? Lui si spostò, per permetterle di passare. — Spero che tu mi abbia capito — disse. Alla TV il pubblico cominciò ad applaudire e la musica a crescere di tono. I concorrenti erano tutti allineati dietro i titoli di coda, coinvolti nel balletto che era di prammatica alla fine del programma. Cadogan era diretto al telefono presso la finestra, e Marianne fece alcuni passi esitanti per cercare di mantenere le distanze fra loro. Mentre lui prendeva il telefono, lei raggiunse la porta. — Non ha fatto niente a nessuno — disse lei. Ma papà non le rispose. Formò un numero di tre cifre, attese qualche istante, poi disse: — Mi dà il numero della polizia, per favore? — No! — gridò Marianne, e lui le lanciò uno sguardo ammonitore. — No! — ripeté lei, poi si voltò e corse via. Attraversò di corsa l'ingresso, la cucina, uscì come un lampo dalla porta rimasta aperta. Poteva sentire papà che la stava inseguendo. — Marianne! — lo sentì gridare. — Torna qui! È troppo tardi, non c'è nulla che tu possa fare! Ma lei era più veloce di lui, correva come una meteora. Corse sul terreno, che sembrava toccare a malapena. Balzò sul frangiflutti e continuò la sua corsa. Non poteva seguirla con l'auto lungo quella strada, e si sentiva sicura che non avrebbe mai osato inseguirla a piedi. Lo sentì gridare il suo nome. Ma non si voltò. Continuò a correre. 20 Quando arrivò da Ryan, senza respiro, così ansimante che sembravano
dolerle persino le radici dei denti e con un dolore al fianco quasi vi avessero infisso un ago, trovò il lucchetto chiuso e nessun segno di vita tutt'attorno. Aveva corso, aveva camminato, aveva ripreso a correre più forte che poteva. Non si era mai fermata una sola volta. E tutto per niente. Incrociò le braccia e si sedette con la schiena al cancello, che arretrò di un poco sotto l'improvviso impatto del suo peso. Sentiva le gambe pesanti, il cuore continuava a martellare. Ma dov'era? E adesso, come faceva ad avvertirlo? Non aveva nemmeno un foglio di carta per scrivergli un avvertimento. Non l'aveva visto per tutto il giorno. Né nel suo cortile, né sulla spiaggia, né da nessuno dei suoi soliti posti sui declivi. Era come se se ne fosse andato. Ma non poteva averlo fatto. Quella era casa sua. Dove altro poteva andare? Stancamente, si alzò. Forse avrebbe potuto trovare un pezzo di mattone e scrivere attento sul cancello per quando fosse tornato... ma attento a cosa? A mio padre, alla polizia, sta' in guardia per tutto quello che dicono di te? Quando si arrivava al dunque, non sapeva più che dire. Comunque, se non c'era, non potevano nemmeno fargli qualcosa. Guardò lungo la stradina. Molto, molto lontano, nel punto in cui il viottolo incrociava la statale, c'era una figura che camminava alla luce morente del giorno. Non aveva dubbi che si trattasse di lui, forse era appena sceso dall'autobus e stava tornando a casa. Sventolò la mano, ma non ottenne risposta: forse non l'aveva vista. Cominciò a correre nella sua direzione. Prima che avesse fatto pochi passi, vide le luci rotanti di un'auto della polizia che svoltava nel viottolo. Lei si fermò, riprese a correre, si fermò di nuovo e lo chiamò a gran voce. Ma lui non la sentì: stava guardando l'auto di pattuglia che gli si avvicinava. Aveva lo zaino su una spalla: era tutto il bagaglio che aveva con sé. L'auto della polizia gli si fermò accanto e ne scesero due poliziotti: mentre uno di loro gli parlava, l'altro fece il giro dell'auto. Adesso aveva un uomo davanti e uno dietro, in modo che se le cose fossero andate storte non avrebbe potuto fuggire. Ma lui nemmeno ci provò. Uno dei poliziotti gli fece cenno di salire e lui, senza parlare né fare un gesto di protesta, salì. L'auto era una Metro a due porte, sicché dovette reclinare il sedile per sedersi dietro. Malgrado la sua mancanza di resistenza, vide che uno dei poliziotti gli faceva mettere le mani intrecciate sul capo prima di spingerlo fermamente a sedere.
Salirono anch'essi, chiusero con un botto le portiere, l'auto fece un'inversione a U sul viottolo e ripartì verso la strada. Marianne rimase sola. Nessuno si era accorto di lei. La strada tornò deserta. Cominciò la lunga strada del ritorno a casa. La stava aspettando. Non aveva acceso le luci né aveva spento la TV. Stava seduto accanto al telefono, e sembrava non essersi spostato da quel posto. Era passata almeno un'ora, o poco più. Lei si fermò sulla soglia e disse: — Cosa vuoi fargli? Nessuna risposta. Ma quel silenzio era già una risposta. — Non ha mai fatto male a nessuno; cosa ti ha fatto? — Non puoi capire — rispose papà. Lei non riusciva a vedergli il viso in quell'oscurità. — Ho fatto quello che era necessario, e l'ho fatto per te. — Non l'hai fatto per me — replicò lei, con voce ferma, anche se il resto di lei stava tremando per l'ira. — Tu non hai mai fatto niente per me. L'hai sempre fatto per te, come quando mi hai portata qui. Prima ero felice, ma qui è come essere morti. Io non so cosa ti abbia fatto lei, ma scommetto che te la sei cercata tu, e se saprò cos'era te la farò anch'io. La sua voce era salita fino a un grido, determinata com'era a dirlo ma a dirlo in fretta, perché lui si stava già alzando, e quando cominciò a muoversi lei corse via. Salì le scale perdendo lo slancio, e lui le era dietro, faceva i gradini a due alla volta, e quando fu in cima lui l'aveva quasi afferrata per i capelli. Ma lei era agile. Lo era sempre stata: fin da quando aveva tre anni era sempre stata difficile da acchiappare. Cadogan era grande e grosso, ma goffo. Non poteva voltarsi velocemente né conosceva tutti i trucchi; un tavolo crollò a terra dietro di lei. C'era un catenaccio alla porta della sua camera: niente di elaborato, solo un chiavistello che faceva parte del vecchio sistema di saliscendi, ma lei l'aveva provato e sapeva che funzionava. Il bagno era più vicino e aveva una vera serratura, ma un bagno non va bene per resistere a un lungo assedio. Voleva entrare in camera e chiudersi dentro e poi affrontare in silenzio tutti i suoi sforzi di farla uscire fino a quando non si fosse pentito. E se non fosse successo niente... be', allora, perché non restarci segregata per sempre? Si fiondò nella camera e si voltò per chiudere l'uscio. Ma lui era più vi-
cino di quanto si aspettasse, solo pochi centimetri. Stava per entrare e lei squittì perché forse era troppo tardi ma provò lo stesso a chiudere la porta; dovette averlo colpito al piede perché questa rinculò di colpo e l'ultima visione che per un certo periodo le rimase impressa fu quella di una pesante porta vittoriana che tornava indietro colpendola in pieno al viso. Non s'accorse quasi del colpo, né che stava cadendo. La forza della botta la fece quasi svenire, e la sensazione successiva fu quella di essere sollevata. Papà la stava abbracciando. Le stava mormorando qualcosa. Stava dicendo quanto fosse dispiaciuto mentre la deponeva sul letto. Fu allora che cominciò a sentire il dolore. Sembrava che una porzione della testa stesse gonfiandosi come una zucca, e il dolore andava lentamente aumentando. Voleva toccarsi, ma non osava. Papà aveva acceso la luce sul comodino, ma se n'era andato: la porta era aperta e, dal bagno, proveniva il rumore dell'acqua che scorreva. Dopo pochi istanti tornò, con un asciugamano bagnato. Alla luce della lampada appariva pallido e spaventato. Quando le si avvicinò, lei si fece forza e cercò di allontanarsi. Lui si fermò dov'era. — Oh, Dio, Marianne — disse. — Quanto mi dispiace. Cosa posso dirti? Lo guardava con ira, senza parlare. Esitando, come quando ci si avvicina a un animale selvatico, lui sedette in fondo al letto. Lei seguiva attentamente ogni suo spostamento, senza muoversi. Lui disse: — Lo so che non è come sembra. Ma non sono stato io a volere che andasse così. Le cose si muovono in un certo modo e... ecco i risultati. Vorrei poterti spiegare... — Si chinò in avanti come se volesse carezzarla ma lei scattò all'indietro, e allora rinunciò al tentativo. — Non so che dire — disse ancora e, dopo essersi guardato attorno, posò l'asciugamano bagnato sul comodino, dove lei avrebbe potuto raggiungerlo. — Può darsi che tu sia abbastanza grande per capire. Ma non sono sicuro di esserlo io. Tutto quel che so è che devo proteggerti, anche a costo di tutto il resto. Ma non sembra che abbia fatto un buon lavoro, vero? Al pian terreno, il telefono cominciò a squillare. Lui continuò. — So che lo andrai a cercare, così te lo dico subito. Rudi è morto. Non ha sofferto, era tranquillo, ha semplicemente chiuso gli occhi e si è addormentato. Stavo cercando di trovare un modo gentile per dirtelo, ma adesso sono costretto a fartelo sapere in questo modo. Il telefono continuava a squillare. — Forse è di nuovo la polizia — dis-
se. — Devo rispondere. Tutto questo lo faccio per te, lo sai. Sono sicuro che non mi credi, ma è così. Si alzò con riluttanza. Marianne, consapevole che la sua arma migliore era il silenzio, continuava a fissarlo senza aprir bocca. Lui stava per aggiungere qualcosa ma rinunciò e si allontanò scrollando la testa, come se volesse sottolineare il fatto che non c'era altro modo d'agire. Lo sentì scendere le scale. Provò ad alzarsi, ma il dolore aumentò; cercò allora di rimanere immobile, ma anche così le faceva male. Comunque, per principio, non avrebbe usato l'asciugamano bagnato. Lo sentiva parlare al telefono mentre andava in bagno, ma non riusciva a capire cosa stesse dicendo. Sotto la luce impietosa del bagno, inclinò lo specchietto che lui usava per radersi per vedersi bene in faccia. Lo spigolo della porta l'aveva colpita sul lato della fronte. Aveva un taglio sul sopracciglio e un grosso ematoma sullo zigomo sottostante. Tutta quella zona stava cominciando a gonfiarsi, ma non c'erano altre abrasioni. Prima di tornare in camera si fermò in cima alle scale cercando di ascoltare, ma non c'era molto da sentire perché stava parlando solo chi era all'altro capo della linea. Quando papà riappese, tornò nella sua camera più velocemente che le riuscì. Chiuse silenziosamente la porta. Il chiavistello, dopo qualche sforzo, scivolò nella sua sede, lasciandole un segno sul pollice. Rimase in ascolto, ma nulla sembrò accadere. Allora spinse la cesta della biancheria contro la porta e sopra ci ammucchiò un sacco di altre cose per rafforzare quella barricata. Lui arrivò a bussò gentilmente e la chiamò per nome. Lei rimase seduta, con lo sguardo alla porta, senza rispondere. Lui provò la maniglia, ma senza effetto. Allora se ne andò. Un paio d'ore dopo dovette uscire per andare in bagno, e lo fece come se fosse un'azione di commando, e non tirò l'acqua dello sciacquone per non tradire la sua presenza. Di nuovo in stanza, ricostruì la barricata, e ci spinse contro anche il letto dopo aver tolto il piumone. Sapeva che certi chiavistelli possono essere aperti con un cacciavite e un nichelino; si pensava che fosse una buona cosa specie in presenza di anziani o di bambini molto piccoli che potevano restare chiusi dentro. Nei gabinetti della sua scuola erano tutti così. Non sapeva se quello della sua camera si poteva aprire in quel modo, ma non voleva farne l'esperienza. Dormì sul piumone, dopo averlo piegato in due. In quel modo, lui non poteva entrare mentre lei riposava.
21 Tornò al mattino. Bussò all'uscio e la chiamò, ma lei non rispose. — Devo andare, adesso — disse lui. — Devo andare in città. Una pausa. Dopo un poco, aggiunse: — Mi stanno aspettando, non posso fare tardi. Un'altra attesa. — Non gli dirò — aggiunse — che sei andata dove vive anche se dovrei, lo capisci vero? Se loro non me lo chiedono direttamente, possiamo fingere che non sia mai successo. Sii gentile con la signora Healey quando arriva, capito? Le ho telefonato spiegandole tutto. Quando torno ne parleremo. Nessuna risposta. — Marianne? Stava seduta con la schiena contro la cesta della biancheria, in attesa che se ne andasse. E quando lo sentì scendere attese ancora un po', come se le mancasse l'energia anche solo per muoversi. Stava pensando a Rudi. A come se n'era andato, e al fatto che non sentisse nulla. Era come se avesse già pianto, come se l'avesse già salutato, da giorni, settimane, fin da quando aveva temuto che fosse annegato. Era tornato, ma era stato, come dire?, tempo perso. Qualche abbraccio, pochi pomeriggi a passeggiare sotto il sole, e tutto quel tempo era stato una sorta di regalo. Papà le era sembrato incerto, abbattuto. Non c'era forse una venatura di disperazione nella sua voce quando l'aveva chiamata? Se c'era, bene. Aveva dormito vestita, per cui ora si cambiò prima di andare in bagno a darsi un'occhiata. La sua faccia era molto più spettacolare. Adesso aveva un vero occhio nero. Non era come quelli che si vedono nei fumetti: questo era ammaccato e sgradevole. Scesa dabbasso prese lo zainetto, poi una scatola di barrette di cereali ricoperti di zucchero e una bottiglia di latte che riportò in camera. Mentre raccoglieva le sue cose cominciò a masticare i cereali prendendo, di tanto in tanto, una sorsata di latte. Doveva sostenersi più che poteva. Il problema con lo zainetto era che andava bene per le provviste di un giorno, ma era troppo piccolo per qualcosa di più ambizioso; comunque, se fosse stato più grande, sarebbe stato un problema trasportarlo.
Dalla stanza da letto si trasferì in cantina. L'equipaggiamento era quasi completo, mancavano solo alcune essenziali aggiunte. Il libretto di risparmio postale era una di queste cose. Quand'ebbe terminato di prendere quel che le serviva, si richiuse la porta alle spalle e risistemò la chiave dentro la pendola. S'infilò il giubbotto, poi si mise in spalla lo zainetto. Era pronta. Si guardò in giro nell'ingresso: la casa era dolorosamente vuota. Non c'era nulla che le sarebbe venuto a mancare. Così, con la sensazione di lasciarsi solo fantasmi alle spalle, partì. 22 — Sono io l'incaricato delle indagini. Si era presentato come agente investigativo Tomelty quando, una mezz'ora prima, aveva introdotto Cadogan nella sala colloqui; Cadogan l'aveva sentito chiamare Frank da un collega. Appariva istruito, ma anche un po' ordinario. Onesto. Uno che bada al sodo. Abito grigio e cravatta, ma non di modi troppo formali. A Cadogan ricordava quei dirigenti che conosceva, un po' compagnoni, quanta basta. Davanti a sé aveva un blocco convenzionale, sul quale aveva accuratamente scritto quanto s'erano detti. Ma non era stato un interrogatorio. Più come una normale conversazione. — Mi fermi se mi allontano troppo dalla realtà dei fatti — gli disse. — D'accordo — disse Cadogan. Intrecciò le mani davanti a sé sul tavolo mentre Tomelty scorreva gli appunti. — Ryan O'Donnell ha riportato sua figlia a casa dalla spiaggia il venticinque. La ragazzina era bagnata e lui ha detto che era caduta in mare. Lei non ha avuto alcun sospetto in quell'occasione. — Non c'era motivo per averne. — Le ha detto come mai s'è venuto a trovare da solo con sua figlia? — Io non l'ho mai visto né ho mai parlato con lui. L'ha fatto la nostra governante. — Lui l'ha chiarito alla donna? — Non che io sappia. Lei ha detto che sembrava ansioso, e che voleva andarsene subito. — Forse perché era bagnato? — Immagino di sì. Tomelty annuiva, come se quel che sentiva combaciasse coi fatti come lui s'aspettava. — E la volta successiva in cui lo vide fu...?
— Due giorni dopo, a meno di un chilometro da casa. — Ma non ricorda a che ora. — No. — E lei non ha avuto sospetti neanche allora, anche se adesso lei pensa che stesse studiando il posto. — No. — Come ha saputo chi è? Cadogan aprì la bocca, poi la richiuse. Il modo di esprimersi di Tomelty non era cambiato, ma lui avvertì l'improvvisa sensazione di qualcosa fuori posto, e non voleva fare passi falsi. La sua mente correva, alla ricerca dell'ostacolo. Tomelty alzò lo sguardo dagli appunti e disse: — Se non l'ha effettivamente visto la prima volta che è venuto a casa sua. — Tutti sanno chi è — rispose Cadogan. — L'ho riconosciuto da lontano. Il detective gli tenne gli occhi puntati addosso per una frazione di tempo più del necessario. Poi riabbassò gli occhi e fece scorrere la punta della penna sul foglio per ritrovare il punto. — Alle nove dell'altra sera — disse Tomelty — lei ha sentito un rumore ed è uscito, e ha visto lo stesso uomo correre via. Lei pensa che stesse per entrare attraverso una finestra. — E così che m'è sembrato. — Qualche idea sul motivo? — Be', me lo dica lei. Stava dalla stessa parte dove c'è la stanza di mia figlia. — E riuscito a vederlo bene? — Molto chiaramente. — C'era la luna quella sera? C'era? — Abbastanza per vederci — rispose. — E lei è sicuro che fosse Ryan Ó'Donnell. — Al cento per cento. — Bene — disse Tomelty; posò la penna e fece un cenno a un altro agente che aveva fatto capolino guardando significativamente verso Cadogan. — Adesso, venga con me per un momento. — Non abbiamo terminato? — Non ancora. Lo guidò fuori dalla stanza. C'era un certo traffico di persone, tra impie-
gati e operai che stavano ridipingendo le pareti. Cadogan seguì Tomelty fino a un corridoio più tranquillo. Il commissariato era un edificio moderno degli anni Sessanta, alquanto vicino al centro città; visto da fuori era un cubo scialbo, mentre all'interno aveva l'atmosfera di una scuola multimediale. Passando davanti a uno degli uffici, Tomelty salutò qualcuno che vi lavorava. Cadogan stava innervosendosi, ma neanche molto. Sarebbe stato contento quando sarebbe finita, ecco tutto. Perché non era esatto dire che aveva mentito, si stava dicendo, aveva solo aggiustato un po' le cose perché si adattassero meglio alla verità. Quando un uomo con la reputazione di Ryan O'Donnell comincia a mostrare un certo interesse per una ragazzina dell'età di Marianne, bisogna fare qualcosa. Non si può aspettare che un uomo come quello faccia la sua mossa, qualsiasi cosa dica la legge. Se puoi evitare il crimine e andare diritto alla punizione, eviti un bel po' di dolore innocente con lo stesso risultato. Ha senso, no? Gli aveva lasciato un bel po' per pensarci. Solo una persona era in grado di sfidarlo, a parte lo stesso O'Donnell, la cui credibilità non era esattamente quel che poteva creare problemi. E qualsiasi cosa potesse pensare Marianne, lo faceva per il suo bene. Scesero alcuni gradini. Si sentiva il ronzio muto di un condizionatore d'aria provenire da vicino, oltre una doppia porta che portava all'esterno. Portava la scritta USCITA DI SOCCORSO e si apriva con la lunga barra antipanico. Tomelty ci si appoggiò contro e la porta si aprì col rumore di un caricatore che viene armato. — Mi segua — disse. Incerto, Cadogan lo seguì all'esterno. La forte luce del giorno gli fece socchiudere gli occhi. Si trovavano in un parcheggio, fiancheggiato su tre lati da uffici e con un cancello all'altra estremità. Era controllato da alcune videocamere e da un semaforo interno. C'erano parcheggiati alcuni veicoli privati e quattro furgoni della polizia. In linea al centro del parcheggio c'erano sette uomini, più o meno indistinguibili fra loro, sorvegliati da una guardia. Cadogan sentì un tuffo al cuore. Aveva fatto bene? Gli stavano per chiedere di identificare Ryan O'Donnell. E lui non poteva, perché non l'aveva mai visto da vicino. — Percorra tutta la linea — disse Tomelty — e scelga il suo uomo. Se non è assolutamente sicuro, non tiri a indovinare. Cadogan annuì. Meglio non farsi prendere dal panico. Non s'era im-
maginato che gliel'avrebbero chiesto: aveva semplicemente pensato che avrebbero preso O'Donnell e l'avrebbero messo dentro. Arrivò fino al termine della fila. Non sapeva proprio cosa avrebbe fatto. Gli uomini stavano ritti e guardavano dappertutto, tranne che verso di lui. Variavano di peso, seppur di poco. Variavano gli abiti. Di poco. Due di loro si erano rasati quella mattina, gli altri no. Erano tutti diversi fra di loro, ovviamente, ma nel più comune e antispettacolare dei modi. Non c'era alcuna base efficace per scegliere fra di loro. Cominciò la sua ispezione. Nessuno lo guardava negli occhi. Guardavano oltre lui, attraverso di lui, al di sopra di lui. Uno studiava il terreno, ma su richiesta dell'agente alzò la testa. Cadogan lo guardò con particolare interesse, sperando in qualche segno. Ma non trovò nulla. Qualcuno tossì. — Si prenda tutto il tempo che le serve — disse Tomelty. L'aveva già superato? Stava cominciando a sudare, e si chiese se si notava. Si sentiva, grazie ai suoi sforzi, completamente, assolutamente fregato. Si fermò davanti al sesto uomo, come aveva fatto con gli altri. Voleva guardare Tomelty per vedere che espressione avesse, ma non osò. Sarebbe stato come tradirsi. Poteva tornare indietro e riguardarli di nuovo tutti, e forse la divina ispirazione l'avrebbe fulminato facendogli capire chi era. Le probabilità erano contro di lui: una contro sette. Ma non c'era altro da fare. Il sesto uomo lo guardò negli occhi. E sostenne il suo sguardo. Fu Cadogan a distogliere il suo per primo. Guardò le mani dell'uomo. Le teneva dietro la schiena, ma troppo strette, come se volesse nascondere i tatuaggi. Erano mani grandi, di uno che le usa per lavorare. Ryan si voltò a guardare Tomelty. — È lui — disse, senza più voltarsi. — Bene — disse Tomelty, e gli fece segno di seguirlo. Di ritorno nella stanza in cui erano stati prima, Cadogan si sentiva come se avesse superato un fondamentale ostacolo. Trasse un profondo sospiro, ma fece in modo da non farsi sentire da Tomelty. Per alcuni minuti si era sentito in serio pericolo, e non solo per la figura che poteva fare. Però ce l'aveva fatta. Aveva tenuto la testa a posto, e tutto s'era sistemato. Sedettero allo stesso tavolo, occupando le stesse posizioni di prima. Contro il muro opposto c'era un registratore, ma non l'avevano usato prima e non lo usarono adesso. Tomelty gli chiese se volesse un caffè, e lui disse
no grazie. Restò a fissarlo mentre l'altro ripassava gli appunti presi. — Ora — disse Tomelty — lo farò battere a macchina e, se lei sarà d'accordo con quanto c'è scritto, potrà firmarlo. — Capito — disse Cadogan. — Anche che lei ha formalmente identificato l'uomo che lei conosce come Ryan O'Donnell. Cadogan annuì. Tomelty, con un ultimo sguardo agli appunti, strappò il foglio dal taccuino. Poi, lentamente e deliberatamente, tenendolo sospeso davanti alla faccia di Cadogan, lo strappò in due parti che lasciò cadere nel cestino della carta straccia. — Desidero che lei ci pensi ancora un poco — disse alzandosi. — Poi, potremo ricominciare daccapo. Jennifer aveva appena dato un'ultima occhiata all'ufficio che avevano usato, e che ora appariva vuoto; i terminali erano spenti, il collegamento chiamato HOLMES era stato staccato, la parte attiva delle investigazioni della trascorsa settimana ormai chiusa. Gli agenti richiamati per quell'incarico erano tornati ai loro servizi e quelli dell'Anticrimine se n'erano andati per conto loro. Scorse Tomelty sulla soglia della stanza degli interrogatori che, con gli occhi strizzati, si massaggiava la sella del naso come chi cerchi di eliminare un'incipiente emicrania. — Cos'è tutto quel movimento di stamattina? Mai visto un allineamento come quello in cortile. — Non capisco — disse Tomelty esasperato. — Ho appena finito una settimana di ferie, e già la sto rimpiangendo. — Perché? Indicò la stanza alle sue spalle. — Sto attraversando le fasi di un dramma in tre atti su un personaggio locale con una certa reputazione. Ma quello che mi angustia è che sono sicuro che le cose non sono successe come quell'uomo mi sta raccontando. L'ho portato in cortile, e lui ha identificato il lavavetri. Mai avuta una giornata così? — Tutti i giorni. — Be', prima vai a dare un'occhiata a quel Ryan O'Donnell. Poi ti racconterò la parte più divertente. Lei andò alla porta successiva e aprì lo spioncino. In realtà si trattava di un pannello di vetro che rifletteva parte di una stanza. C'era un uomo, se-
duto da solo, con le mani posate sul tavolo davanti a sé, con lo sguardo perso nel vuoto con bovina pazienza. Ryan O'Donnell. Sembrava che si fosse allenato a comportarsi così. Poi Tomelty fece scorrere parte nel pannello e lei poté vedere la stanza accanto. Anche lui solo, si stava mordicchiando il pollice. Alzò lo sguardo nella sua direzione, come se avesse avvertito che era osservato. Jennifer non si mosse. Lo fissò a lungo, poi richiuse lo spioncino. Due uomini riflessi, in due stanze riflettenti. — Fatto — disse a Tomelty. — Qual è la parte divertente? — Si afferma che O'Donnell sarebbe stato visto mentre cercava di entrare nella stanza di una bambina di dieci anni — disse Tomelty. — Tranne che, nel momento in cui si dice che lo stesse facendo, stava giocando a carte con un'infermiera e due pazienti del vecchio ospedale, a oltre venti chilometri di distanza. Ho sentito parlare di schizofrenia, ma questa è una cosa dannatamente soprannaturale. Va là regolarmente per controlli, non ha auto propria per cui deve prendere l'autobus, ed è conosciuto da tutti i guidatori. Nel frattempo, ho fatto un controllo e ho scoperto che c'è un'annotazione sulla ragazza in questione nel registro dei soggetti "a rischio". L'ha depositata ieri un'insegnante, dopo un colloquio col padre. — Già — disse Jennifer. — Proprio una cosa divertente. — Ma non è ancora la parte migliore. Sai cos'altro viene adesso? — No, però so che me lo dirai. — Fa parte di uno dei programmi di reinserimento del ministero dell'Interno — disse Tomelty. — Il posto in cui lui vive è un'unità a basso profilo di sicurezza che dipende dalla casa di cura per malattie mentali, nella quale Ryan O'Donnell ha trascorso quindici anni per l'assassinio di una ragazzina di undici anni. 23 Era il tardo pomeriggio quando lo vide. L'arrivo di alcuni nuovi vagoni le aveva fornito la possibilità di celarsi in uno dei carri con le porte scorrevoli. Non era né troppo chiaro né troppo pulito, ma la proteggeva dall'eventuale arrivo di persone sgradite. Aveva atteso seduta sul pavimento polveroso; senza giocare né leggere, senza fare altro se non guardare fuori di tanto in tanto per controllare il paesaggio. Il sole s'era abbassato. Lui stava tornando a casa lentamente, come un pellegrino affaticato. L'avevano portato via in auto, ma nessuno l'aveva
riaccompagnato a casa. Sembrava non progredire. Quando finalmente raggiunse la porta, lo vide arrestarsi. Il cancello era stato divelto dai cardini, e pendeva con un angolo che ricordava un ponte levatoio. Ryan lo fissò, cercando di capire il perché di quello sfacelo. S'aspettava di vederlo entrare come una furia, invece avanzò con cautela, lentamente. Dentro era deserto. Lei aveva già guardato, per quello lo sapeva. Se fosse stato altrimenti, gli sarebbe corsa incontro per avvertirlo. Il cortile era una confusione prima, lo era molto di più adesso. La grande differenza era la stessa che esiste fra un rottame e un relitto, o fra un interessante senso del disordine e un deciso vandalismo. Ovunque c'era un vetro, adesso era rotto. La barca era stata capovolta. La porta del laboratorio era stata divelta, il contenuto del locale riversato fuori. Alcuni dei frigoriferi e una delle lavatrici erano stati fatti rotolare per il cortile, dove giacevano ormai inutilizzabili per sempre. Ryan non mostrò alcuna emozione camminando fra quelle rovine. Si guardava attorno cogliendo un particolare qui e uno là, ma il suo viso non rivelava nulla. Nemmeno quando raggiunse la sua abitazione e vide, come certo s'aspettava, che nemmeno quella era stata risparmiata. Dalla veranda guardò per un poco la porta scheggiata, poi l'aprì ed entrò. Marianne si alzò e saltò giù dal vagone. Lo zainetto che portava con sé era sporco per essere stato sul pavimento del vagone. Lo pulì velocemente con la mano. Se lo mise sulla spalla, e scese il terrapieno. Seguì il suo stesso percorso nel cortile. Dalla casa non veniva alcun rumore. Ovunque posasse il piede, qualcosa si rompeva o scricchiolava. Vide che in alcuni posti erano stati appiccati piccoli incendi, che però non si erano estesi; il vento trasportava frammenti di carta bruciacchiata. Salì i gradini della veranda con un senso d'eccitazione. Sarebbe stata la prima volta che entrava in casa sua. Ma se voleva vedere dove viveva Ryan, aveva perso l'occasione. Dentro, era peggio che fuori. La prima cosa che la colpì fu il puzzo d'urina, e anche peggio. Dalle pareti era stata strappata la tappezzeria, fino a mettere a nudo i fogli isolanti dell'intercapedine. Avanzò camminando con sempre maggior attenzione, finché trovò Ryan nel devastato soggiorno. Era stata una stanza semplice, con un cucina economica, un logoro divano e un televisore di terza mano. Lui era in piedi, a guardarsi attorno. Non si era nemmeno tolto lo zaino. In realtà, non c'era posto in cui posarlo. La testa della bambola era stata inchiodata alla parete. Il lungo chiodo
era persino più grande dell'occhio attraverso cui era stato fatto passare, e la testa si era incrinata. Sopra vi era stata gettata della vernice rossa, la maggior parte della quale disegnava un grande arco sulla parete, come una lunga falce gocciolante. In una pozza di vernice sul pavimento era stata gettata la latta vuota. Con altri colori erano state disegnate svastiche o scritte oscene. Sul camino qualcuno, che aveva mal calcolato lo spazio occorrente, aveva scritto in nero la parola "Vampiri"; la vecchia e logora moquette era stata strappata dal pavimento per esporre il linoleum sottostante, sul quale era stato versato quel che sembrava olio usato di macchina, nella cui pozza galleggiavano fiammiferi spenti. Era evidente che non erano riusciti ad appiccare il fuoco. Stranamente, la TV non era stata toccata. — Lo sapevo che ti avrebbero rilasciato subito — disse Marianne. — Non hai fatto niente di male. Gliel'avrei detto se me l'avessero chiesto. Lui la guardò una volta, solo per registrarne la presenza, ma senza reagire. Poi andò nella stanza successiva. Marianne lo seguì. Qui avevano cercato di abbattere la parete e in parte c'erano riusciti: giaceva inclinata e lasciava intravedere la lana di vetro isolante. Sul pavimento, strappati, giacevano numerosi libri economici. — Sono venuti alcuni uomini, nel pomeriggio. Sono rimasti fuori e ti hanno chiamato, poi si sono aperti la strada a calci. Perché fanno così? Luì non la guardò, né diede segno di averla sentita. — Hanno guardato in tutte le finestre — aggiunse lei — ma quando hanno visto che non c'eri se ne sono andati. Sono stati alcuni ragazzi che sono venuti dopo che hanno fatto tutto questo. Ne conosco alcuni. Lui spostò un libro con la punta del piede. — Hanno girato qui intorno finché non si sono resi conto che non c'era nessuno. Poi uno di loro ha scardinato la porta del laboratorio con un calcio, e allora si sono scatenati tutti. Non sapeva nemmeno lei come le fossero uscite tutte quelle parole così di fretta. Conosceva alcuni dei ragazzi, altri no. Da dove stava nascosta aveva colto brani di quello che si dicevano, ma era stato tutto una lunga sequela fatta solo di parolacce. C'era qualche altra parola che ogni tanto interveniva a modificare un po' quel suono continuo, ma con scarso risultato. Quando avevano finito, avevano abbattuto parte della recinzione prima di partire di corsa verso il terrapieno, e lei aveva dovuto ritirarsi in un angolo buio per paura di essere vista. Qualcosa aveva colpito la fiancata del vagone mentre passavano, ma non si erano fermati. — Immagino che pensi che sia tutta colpa mia — disse lei.
L'altra stanza era la cucina. Era piccola, ma non era stata dimenticata. Tutto quello che non aveva potuto essere aperto con l'apriscatole era stato frantumato o comunque svuotato. Avevano anche strappato i fili dalle pareti. Lui non aveva ancora aperto bocca. — Ryan? — Va' a casa — disse lui calmo, senza guardarla. — Quante volte devo dirtelo prima che ti si ficchi in testa? Tutto questo ancora non ti basta? — Non voglio tornare a casa — disse lei. — Guardami. Lui la guardò. Con consapevolezza, adesso, e lei lo capì dal cambiamento che gli vide negli occhi. — Questo è quello che mi ha fatto ieri sera. E poi mi ha detto che il mio cane è morto, così. Se torno, mi succederà di peggio. — Non me ne preoccuperei adesso — disse lui. — Alla polizia non piace che le si menta. L'hanno trattenuto. — Ma non possono trattenerlo per sempre. E allora, cosa farò? — Non è un mio problema. — Nessuno di noi può più restare qui. Hai un po' di soldi? Lui venne colpito da un improvviso pensiero perché la superò ed entrò in un'altra stanza. Lei lo seguì nella stanza da letto, sulle cui pareti si vedeva una larga chiazza di umidità che si stava allargando. Materasso e lenzuola erano state gettati a terra e insudiciati. Si inginocchiò vicino alla stufa e sollevò una delle piastrelle, scoprendo un buco. Dentro c'era una borsa di plastica, che conteneva un rotolo di quelli che sembravano biglietti di banca. A Marianne sembravano tantissimi; centinaia forse. Certamente non erano così tanti, ma Ryan, con la vita che conduceva, non doveva spendere moltissimo. Quale che fosse l'importo di quel rotolo, lui fu sollevato di trovarli. Rimanendo inginocchiato sul pavimento, come se non avesse più la forza per alzarsi, le disse: — Lo sapevo che tutto stava andando troppo bene. Avevo un posto mio, una specie di lavoro, non seccavo nessuno, nessuno seccava me. Poi, sei arrivata tu. — Quanto hai? — chiese lei. — Io ho portato il mio libretto di risparmio. — Per farne che? — chiese lui, guardingo. — Ho preso anche il certificato di nascita di papà. Non possiamo usare il suo passaporto perché c'è la sua fotografia e tu non gli assomigli. Ma col certificato ne possiamo avere uno provvisorio all'ufficio postale. Ci servirà
per quel che voglio fare. — Sei pazza. Ma di cosa stai parlando? — Non sono pazza. Devi portarmi dalla mamma. Non posso andarci da sola, e non c'è nessun altro a cui posso chiederlo. Sono convinta che mi ucciderà appena lo rilasceranno. E se non lo farà, e niente cambierà, allora mi ucciderò da me. Ryan appariva desolato. Guardò il pavimento. Si fece correre la mano fra i capelli. — Lo farò — disse lei. — No che non lo farai. — Gli uomini hanno detto che torneranno. — No che non torneranno — si provò a dire lui, ma la voce gli venne a mancare a mezza frase. Chiuse gli occhi, si coprì il viso con la mano. Tremava, un poco. — Perché io? — chiese. — Perché sei l'unico amico che ho. Lui scrollò la testa, ma non poteva negare a lungo, perché era la verità. Lei andò vicino alla stufa e ci ficcò dentro una mano. Lui s'irrigidì. — Ti prego — mormorò lei. Lo sguardo di lui corse alla mano, poi al viso di lei. Aveva vinto? Non sapeva. Guardandolo in viso, si rese conto che non c'era nulla che lei sapesse con certezza. PARTE SECONDA La piccola volpe attraente 24 Agli inizi della sua nuova carriera, Jennifer aveva partecipato all'irruzione mattutina in casa di un pedofilo. Erano in tre, due che si tenevano fuori vista mentre il più anziano suonava il campanello. Il proprietario era un vedovo, un pensionato che viveva solo, e che doveva aver capito qual era lo scopo per cui quell'uomo, che subito si era identificato, era lì. Tremante, aveva ascoltato l'agente che gli chiedeva di entrare, e nell'ingresso era stato informato che avevano un mandato per perquisire la casa in virtù della Legge per la Protezione dell'Infanzia. Quell'agente era Ralph Bruneau, noto a tutti come Bruno, e Jennifer aveva sempre ricordato il modo in
cui aveva condotto l'operazione; era stato scrupolosamente educato mentre informava l'altro che stavano cercando fotografie indecenti e gli aveva anche detto che avrebbero risparmiato un bel po' di tempo se l'uomo avesse fornito egli stesso quanto stavano cercando, sempre se ne aveva presso di sé. L'altro aveva salito le scale, e Bruno l'aveva seguito. Erano tornati con una busta contenente cinque Polaroid di bambini. Poi avevano cominciato lo stesso la perquisizione, che era durata più di un'ora e il padrone di casa, sempre stretto nella sua logora vestaglia, era sembrato disperatamente voglioso di aiutarli, ma sembrava avere alcuni punti che era altrettanto desideroso di evitare, perché senza alcun aiuto da parte sua avevano trovato un'altra busta colma di fotografie, alcune riviste d'importazione e una macchina Polaroid che loro avevano messo in una borsa contrassegnata per sequestrarla. Non potevano arrestarlo. Come dice la legge, potevano solo rimuovere il materiale offensivo e informare l'uomo che sarebbe stato convocato in tribunale. E questa, come aveva fatto rilevare a gran voce Bruno mentre tornavano al distretto, era la parte più frustrante di tutto quell'affare, perché adesso quel tizio era libero di uscire e mettere in guardia i suoi contatti e fare tutte le telefonate che voleva, il che significava che poteva eliminare qualsiasi traccia che potesse condurre a qualche altro molestatore di bambini o ai loro fornitori. In auto, Jennifer aveva chiesto se poteva vedere le foto. Bruno gliele aveva consegnate senza fare commenti e senza guardarla. Aveva già visto materiale del genere, per cui non rappresentavano nulla di nuovo per lei. Ma quelle non erano fotografie di riviste. Erano istantanee e, come tali, erano il filo diretto, fisico, che portava a preliminari erotici pederastici, e sembravano avere in sé una carica diversa, una sorta di carisma oscuro e negativo, che andava al di là del contenuto stesso. Aveva richiuso la busta restituendola a Bruno, che le aveva chiesto, preoccupato: — Stai bene? — È stato uno dei miei insegnanti — aveva risposto lei. Il professor Glick, matematica e geometria. Un nome che li aveva sempre fatti ridere quando lui non li sentiva. Era sempre stata la sua materia più debole, un'area totalmente senza speranza per lei fin da quando era entrata in quella classe, ma dopo tre anni ce l'aveva fatta a farsela entrare in testa. Era passata col punteggio minimo richiesto, ma per lei aveva avuto il valore di una conquista. Per tutto il tempo della perquisizione s'era aspetta-
ta che lui la riconoscesse. Ma non era successo, e di questo gli era grata. Aveva parlato ininterrottamente e le era sembrato persino più piccolo; l'aveva guardata diverse volte, anche se aveva sempre evitato di fissarla negli occhi. Ma lei era sicura che non l'avesse riconosciuta. La borsa in cui aveva trovato le altre foto era dietro il suo guardaroba e, a meno che non si bagliasse, era la stessa che usava quando insegnava. S'immaginava di sentirsi tradita. Oltraggiata. E lo era, ma per i bambini, che guardavano diritto nell'obiettivo con lo stesso sguardo da coniglio preso in trappola, tranne uno, che stava piangendo. Per il vecchio professor Glick, per il malato professor Glick, per l'indegno, pervertito professor Glick, si sentiva disperatamente triste. Nemmeno ventiquattr'ore dopo la dispersione della sua unità, era già sulla breccia in quella nuova, pronta a dare una mano in una nuova operazione. Quando un bambino scompare, tutto ha la tendenza a muoversi alla massima velocità. L'agente incaricato di guidare le indagini era lo stesso Stapleton, e per quel caso era stato messo assieme un gruppo di trenta persone. C'era un agente che si occupava di controllare tutta la documentazione, uno che assemblava tutte le informazioni in arrivo, uno che distribuiva gli incarichi e manteneva i contatti con quelli che lavoravano fuori, uno che registrava le loro annotazioni, e quattro segretarie civili che inserivano tutta la massa di informazioni nei computer in forma indicizzata e facilmente rintracciabile. Tomelty, in piedi accanto alla macchina del caffè, teneva tutti d'occhio, con una vaga aria di sconforto. Quando Jennifer si avvicinò per usare la macchina, le disse: — Non sembra che siano passati solo cinque minuti da quando vi siete messi in azione. — E non lo sono — rispose lei. — Hai visto Bill Stark qui in giro? — Stark era il dirigente dei sistemi unitari. — Ha detto che tornava nel giro di venti minuti. — HOLMES è già in linea? — Non credo proprio. Ma di quanto altro spazio avete ancora bisogno? — Lo stesso dell'ultima volta più una scrivania extra e un modem per la squadra antifrodi — disse lei. — In quanti sono? — Due. Dovranno tracciare un profilo finanziario del padre della ragazza mentre noi sistemiamo tutto il resto.
— D'accordo — disse Tomelty tristemente. Jennifer prese il suo caffè, che aveva già riempito la tazza. Alla fine di ogni giornata delle tre ultime settimane si era ripromessa di portarsi la propria caffettiera a spina e la sua tazza, e tutte le volte era uscita di corsa di casa, immemore di quanto aveva deciso di fare. Troppe notti era rincasata tardi. Troppi brutti sogni. — Cadogan è ancora qui? — chiese. — Sono andati a prenderlo — disse Tomelty staccandosi dal muro cui era appoggiato. — È da ieri sera che mi sentivo che non sarebbe stato così semplice — lo sentì mormorare mentre s'allontanava. Il padre della ragazzina scomparsa arrivò venti minuti più tardi nel parcheggio che aveva visto la sfilata del giorno prima. Gli uomini della squadra volevano sapere che farsene di lui, così ci pensò Jennifer. Cadogan era pallido e scosso, in qualche modo rimpicciolito. Tomelty l'aveva trattenuto fino a sera tardi e poi l'aveva lasciato andare con l'assicurazione che il tempo fatto perdere alla polizia sarebbe stato preso in seria considerazione. L'avrebbe rilasciato prima se non si fosse ostinato nella sua versione dei fatti, malgrado la sua credibilità fosse scesa a un livello pari o inferiore allo zero. Era accigliato, silenzioso, ma non aveva ritrattato, nemmeno davanti all'evidenza. "Ma allora cos'ha da dire su quelle discrepanze? Ce le spieghi." "Io so quel che so." Cadogan non sembrava un uomo che ammette facilmente di essersi sbagliato, a se stesso come agli altri. — Signor Cadogan? Sono l'ispettore investigativo McGann. Faccio parte della squadra che sta cercando sua figlia. La guardò, stupito. — La riporteremo a casa al più presto possibile — disse lei. — Ma quanto effettivamente potremo fare, dipende in larga parte da lei. — Io sono sempre stato un tipo a posto. Non avete il diritto di trattarmi così. — Ma lei non è stato molto sincero con noi, vero signor Cadogan? Come crede che vediamo noi le cose che ci ha raccontato? La sua pelle era grigiastra, aveva cerchi neri sotto gli occhi. — Se mi aveste dato retta — disse lui — questo non sarebbe successo. — L'abbiamo ascoltata, ma lei ha mentito, vero? O'Donnell non ha mai cercato di penetrare in casa sua, né quella notte né mai. E lei non ci ha mai
detto che sua figlia era andata da sé a trovare O'Donnell a casa sua. — Io ho solo cercato di tenerla lontana da tutto questo. — E guardi dove siamo arrivati. — Già — disse lui tetro. — Avete mandato lui a casa, tenuto me qui tutta la notte, e lui l'ha portata via. — Lo crede davvero? — disse lei, imparzialmente. Lui la guardò, stanco. — Cosa vuol dire? Jennifer, parlando con calma in modo che lui potesse seguirla, disse: — Quel che voglio dire è che se c'è qualcos'altro che mi vuole comunicare, è meglio che lo faccia adesso anziché più tardi. Cadogan era attonito. — Vuole dirmi qualcos'altro? — disse lei, poi indicò l'attività che proseguiva frenetica alle sue spalle. — Prima che tutto ciò si spinga troppo avanti? La fissò. Sbatté le palpebre. Cominciava a capire. — Sono in arresto? — chiese. — Insomma, nessuno me l'ha comunicato. — Lei non è in arresto. — Perché allora — e la sua voce si stava alzando di tono come se volesse farsi ascoltare da tutti quelli che erano a portata d'orecchio — lei sta cercando di puntare il dito contro di me mentre quello è in giro con Marianne, e se le accade qualcosa, be' allora si scriva questo e se lo ficchi nelle sue fottute prove. Perché se le succede qualcosa, io ammazzo qualcuno. — Si calmi — disse lei. Cadogan era nervosissimo, e gli altri stavano cominciando a guardarli. Non voleva far vedere che perdeva la calma in quel confronto, specie quando Cadogan non era nemmeno un soggetto suo da trattare. Lungo il corridoio stava avanzando l'investigatore Somerville col suo sergente, Benny Moon. — Lei mi dice di calmarmi? Ma lei ha bambini? — Non le diede nemmeno il tempo di rispondere. — No — rispose lui per lei — altrimenti lo saprebbe. Si tratta di amore e guerra giorno dopo giorno. Nessuno capisce. Nemmeno ci provano, a capire. — Stanno arrivando due agenti per parlare con lei. Non cerchi di trarci ancora in inganno, signor Cadogan. Sta vedendo cosa succede quando lo fa. Somerville e Benny Moon lo portarono nella stessa stanzetta in cui aveva trascorso la maggior parte del giorno e della notte precedenti. Mentre la porta si chiudeva alle sue spalle, Jennifer vide il suo sguardo disperato che si posava sul registratore sistemato sul tavolo. Non era ancora stato usato
con lui. Ma era sicuro che adesso l'avrebbero fatto. La mezz'ora successiva la trascorse col dirigente dell'ufficio. Una delle squadre stava per intraprendere un'esplorazione sistematica della spiaggia. Si dovevano rintracciare i parenti più prossimi di O'Donnell. Arrivò una chiamata per Jennifer, ma quando arrivò al telefono, qualcun altro aveva già risposto e riappeso. In tutto quel tempo si rese conto della presenza di Tomelty, che stava, per dirla in parole povere, ciondolando in giro. Come responsabile dell'ufficio non s'era visto assegnare alcun incarico, né era direttamente coinvolto nella scomparsa della bambina. La sua preoccupazione consisteva nel far sì che la regolarità del servizio quotidiano continuasse malgrado quell'inchiesta straordinaria che era capitata fra capo e collo a tutti. Però, c'era qualcosa che lo turbava. Lei stava prendendo alcuni appunti, quando lui le si chinò vicino. — Immagino che tu non ti raccapezzi più. — Riguardo a cosa lo dici? — Al fatto che noi ieri abbiamo lasciato andar via O'Donnell. — E che c'è da dire? Non c'era una sola maledetta ragione per trattenerlo più a lungo. — Tu lo sai, e anch'io lo so. Ma la storia a volte viene riscritta, non è vero? — Solo nei supplementi domenicali. — Già — disse lui rialzandosi dal tavolo a cui s'era appoggiato. — Gli unici che tutti leggono. Lei dovette uscire e un'ora dopo, quando tornò, in cortile trovò parcheggiata la Jaguar grigio-argentea di Stapleton. C'erano anche due furgoni per i cani, probabilmente da usare nelle ricerche alla spiaggia. Trovò il suo capo nell'ufficio centrale, dove tutte le scrivanie erano state messe l'una contro l'altra per fare spazio a una grande lavagna sulla quale annotare i progressi compiuti. Al momento, era pulitissima. Chiunque avrebbe potuto capire, alla prima occhiata, chi era Stapleton: era quello vestito meglio fra tutti loro. — Sono appena tornata dall'aver organizzato la sorveglianza della casa della sorella di O'Donnell — disse lei. — È da lei che è andato a rifugiarsi la prima volta che s'è reso latitante. — Cancellare — disse Stapleton. — Perché?
— Ci siamo mossi troppo lentamente. Hanno già lasciato il paese. Arrivati in nave di notte a Zeebrugge: entrambi viaggiavano con un passaporto turistico a nome Cadogan. — Alzò la mano con pollice e indice che quasi si toccavano. — Li abbiamo mancati per tanto così. Qualche idea su cosa potrebbe dirci Cadogan su questo fatto? — Da quel che ne so, Somerville e Moon ci stanno ancora lavorando su. Ho l'impressione che non sia un tipo facile. — E la madre? — È una delle cose su cui stanno lavorando. La madre vive da qualche parte in Germania, ma non siamo ancora riusciti a capire dove. O'Donnell potrebbe aver detto alla bambina che andavano alla ricerca della mamma. Stapleton rimase impassibile. — In alternativa — disse — potrebbe star violentando la bambina con una corda attorno al collo in un qualche fossato all'estero. Tu eri qui ieri quando c'erano O'Donnell e Cadogan vero? — Sì, c'ero, ed è proprio come Tomelty ha detto. Cadogan ha raccontato una favoletta, e Tomelty gliel'ha confutata. Non vedo cos'altro avrebbe potuto fare. Stapleton sospirò e scrollò la testa. — Non capisco — disse. — Forse la polizia di frontiera li prenderà e avremo un risultato veloce senza troppi drammi. Ma, e se dovesse succedere com'è solito in questi casi? Se hai avuto la possibilità di fermare uno prima che faccia qualcosa e non lo fai, allora sai come andrà a finire. — Come? — chiese Jennifer. — In un gran casino — rispose lui. 25 Peter Heym, agente in uniforme di servizio presso la divisione portuale della polizia di Amburgo, parcheggiò la Opel bianco-verde sul bordo della strada e frugò nel vano portaoggetti alla ricerca del cannocchiale. Era suo, un regalo dei genitori quand'era un ragazzino. L'aveva usato per osservare gli uccelli, le stelle, e di tanto in tanto anche con lo speranzoso desiderio di riuscire a vedere oltre le tende della diciassettenne Pauline Meier, che a quei tempi era la sua dirimpettaia. Adesso lo teneva in auto, per usarlo in servizio. La zona del porto era immensa, una città dentro la città, e a lui non era mai capitato di trovare qualcuno che non fosse rimasto impressionato dalla sua vastità la prima volta che la vedeva. Arrivavano pullman carichi di tu-
risti per fare il giro. Quel che vedevano era uno spettacolo fatto di un numero infinito di container e di magazzini, binari e canali, moli e gru, montagne di carbone e torba, oltre a un intreccio di strade e svincoli autostradali che ricordavano, nel loro viluppo, il paesaggio di un'illustrazione di fantascienza. Si trovava sul culmine di uno dei ponti più alti della zona. Aveva appena ricevuto una chiamata via radio che riportava la segnalazione di un controllore della ferrovia, che scorreva molto sotto di lui, il quale aveva visto due persone attraversare i binari a circa un chilometro da dove si trovava adesso lui. Nessuno mai camminava da quelle parti, se non qualche sfortunato alla ricerca di un telefono perché gli si era guastata l'auto. Lasciò accesa la luce rotante per avvertire gli altri veicoli in arrivo e scese dall'auto. Si vedevano le spirali di nebbia verdastra che si levava dalla città, attraverso l'intrico di case in cemento, contenitori d'acqua e sagome di gru. Cominciò l'osservazione con il cannocchiale. Sotto quella strada, all'ombra delle torri che lo sostenevano, esisteva una città in sé. C'erano moli e raccordi, chiatte e case galleggianti. Queste ultime erano dipinte a colori vivaci, ma mai volgari. Attorno a esse, nessuna attività. Continuò la lenta esplorazione in direzione dei binari. Transitò un grosso camion lanciato in piena velocità, tanto da far ondeggiare l'auto parcheggiata. Li trovò. Un uomo e un bambino. Da quella distanza non poteva individuarne il sesso: erano due figure in un paesaggio, due puntini in movimento. Stavano uscendo dal groviglio di binari per entrare in una grande area di parcheggio, nella quale si vedevano le aree destinate a centinaia di autoveicoli, nessuna delle quali occupata. Vide l'uomo allungare la mano, il bambino prenderla e scavalcare una bassa barriera. Continuarono la loro marcia. Be', non avevano l'aria di essere sabotatori della Rote Armée Fraction. Però non avevano nemmeno l'aspetto di chi sa dove sta andando. Tornò in auto, s'infilò nel primo varco del traffico. Attraversò il ponte e lasciò la strada alla prima uscita. Sapeva dove stava andando, e non c'era strada più rapida per arrivarci. Ma poco importava. Quei due non avevano troppe possibilità di fare molta strada. Passò accanto ai grandi mucchi di torba, enormi paesaggi di montagne morte sovrastate da immense gru e vagoncini sospesi, che pendevano su quelle masse come presenze aliene. Arrivarono un paio di messaggi radio, ma nessuno di loro lo riguardava.
Una giornata che stava per finire, e in cui non era successo alcunché di speciale. I due che stava cercando camminavano proprio davanti a lui, in quella tranquillissima via. Li superò e si fermò. Prima di scendere, li controllò nello specchietto retrovisore: si erano fermati. Erano immobili, senza alcuna espressione. Erano abbigliati per affrontare un viaggio a piedi. Entrambi avevano zaini, di quelli vecchio stile. L'uomo aveva un aspetto severo, la ragazzina meno. Doveva essere sui dieci-undici anni, ancora nella fase tutt'ossa dell'adolescenza. Attesero che si avvicinasse loro. — Dove state andando? — chiese. Fu la ragazzina a rispondere. — Stiamo cercando di andare in città — rispose. — Un signore ci ha dato un passaggio e ci ha detto che eravamo quasi arrivati, ma ci ha lasciati nel mezzo di un bel niente. È un'ora che stiamo camminando. Peter Heym guardò l'uomo. — Da dove venite? Risuonò ancora la voce della bambina. — Dall'Olanda — disse. — Stiamo cercando una persona. — Stavo parlando con lei — disse lui rivolto all'uomo. — Lui non parla tedesco — disse lei. L'espressione dell'uomo non era cambiata. Aveva occhi piccoli e scuri che non si spostavano dai suoi. Lui riportò lo sguardo sulla bambina che stava dicendo: — Non abbiamo fatto nulla di male. Forse era così. Tuttavia, c'era qualcosa che non gli suonava giusta. La bambina doveva essere del luogo, ma l'uomo non sapeva una parola. Vide che si muoveva un poco, per risistemare il peso dello zaino sulla spalla, ma il suo viso rimase sempre inespressivo. Qualcuno suonò a lungo il clacson sull'alto ponte che si arcuava sulle loro teste. — È sordomuto o qualcosa del genere? — chiese alla bambina. Lei scrollò la testa — Allora digli — aggiunse — che vi voglio tutt'e due sulla mia auto. E se ha qualche documento, digli che voglio vederlo. 26 Jennifer aveva speso più di un'ora al telefono per parlare prima con vari uffici del servizio carcerario, poi con quelli del servizio sanitario, nel tentativo di assemblare più informazioni possibili su Ryan O'Donnell. Nei loro
file avevano già tutte le informazioni sulla sua gioventù e la sua adolescenza, ricevute dall'unità di Broadmoor. Avevano i dettagli delle aggressioni che erano state tentate o portate a compimento contro di lui da altri detenuti, e informazioni dall'unità di sicurezza interna e poi quelle del servizio di vigilanza che era stata la sua via crucis obbligatoria sulla strada per ottenere la libertà vigilata. Aveva compilato una lista di lavoro e adesso stava cercando di capirci qualcosa, spuntando alcune voci e sottolineandone altre per approfondimenti futuri, quando vide che Somerville era uscito dalla stanza degli interrogatori e stava parlando con Stapleton. Afferrò una manciata di fogli e si diresse verso di loro, arrivando in tempo per sentire Somerville che diceva: — È un fottutissimo personaggio. Ci sta portando a spasso a piacer suo. — Si rifiuta di rispondere? — chiese Stapleton. — Noo, però... — Somerville fece una smorfia e scrollò la testa, come chi ha trascorso troppo tempo a cercare di afferrare qualcosa che è al tempo stesso semplice e indefinibile. — Nessuna delle sue risposte ci porta da qualche parte. Non sa nemmeno dove trascorresse le giornate sua figlia. Non sa cosa le piace, non sa nemmeno se ha in mente di andare a trovare la madre. Dice che la bambina non sa nemmeno dove si trovi la madre. Qualcuno spintonò Jennifer e borbottò una scusa mentre correva via. Jennifer si spostò di qualche passo, ma rimase a portata d'orecchio. — Punzecchialo un po' — stava dicendo Stapleton. — Cerca di farlo arrabbiare. — Le stiamo provando tutte. Sono maledettamente sicuro che ci sia sotto qualcosa. Gli stiamo continuamente girando attorno, ma non siamo ancora riusciti a sfiorarlo. — Be', stategli addosso. Assicuratevi che capisca che non uscirà da quella stanza se non per pisciare o se parla. Somerville, sfregandosi un occhio come se avesse un bruscolo che gli dava fastidio, tornò nella stanza degli interrogatori. Da dove stava, Jennifer poté vedere, attraverso i battenti della porta, un'ausiliaria in uniforme che stava arrivando con un vassoio con tre caffè e, prima che Somerville le precludesse la vista del tutto, colse una rapida visione di Cadogan, seduto dietro il tavolo. Appariva sottomesso, stralunato, ma inflessibile. Non riusciva a capire perché. Avrebbe dovuto avere gli occhi lustri e l'aria disperata mentre forniva loro tutte le informazioni di cui abbisognavano; invece dovevano fargli pressioni d'ogni tipo per estorcergli dati essenziali come in genere si fa con un testimone reticente. Santo cielo, era la sua unica figlia a
essere in pericolo, dopotutto. — Allora? — le chiese Stapleton. — Sono entrata in contatto col medico di O'Donnell, che è giù al gruppo. — Come ti sembra? — Dice che vuole essere d'aiuto. — Molti di questi medici vivono in un mondo tutto loro. È andato qualcuno a parlargli? — Vado io, a meno che non ci sia qualcos'altro per me da fare. — No, mi va bene — disse lui. — Usa tutto il tuo fascino, e cerca di tirargli fuori più informazioni possibili. — Gonfia per bene il petto — disse una voce alle sue spalle. — Non manca mai di fare impressione. Jennifer si voltò per guardare verso quella voce, prima a sinistra e poi a destra, perché l'altro intanto era già passato; era Burke, con barba rossa, che rappresentava Stapleton nelle indagini. — Ehi — lo richiamò il capo. — Se tu sei qui, chi sta tenendo i contatti con la Procura? Burke si fermò sulla soglia dei gabinetti per uomini. — Mi richiamano loro. — Be', sta' vicino al telefono, allora. Mentre stava scomparendo nel bagno, con un sorrisetto Burke alzò il cellulare che teneva in tasca. — Gli effetti sonori che ne potrà trarre impressioneranno seriamente il pubblico ministero — disse Stapleton guardando le porte che oscillavano. — Dobbiamo chiedere una commissione rogatoria? — chiese Jennifer. — Non appena potremo costringerci Pearson. — Chi andrà? — Non l'ho ancora deciso. La commissione rogatoria sarebbe stata il documento chiave che avrebbe consentito loro di ottenere la cooperazione internazionale per catturare O'Donnell. Scritta specificamente per quel caso, avrebbe consentito ai poliziotti locali di cooperare con quelli continentali. Avrebbero avuto solo compiti consultivi, senza poteri legali di arresto o di indagine. Però con sé avrebbero portato la conoscenza acquisita in patria assicurando così la continuità dell'investigazione. — Ho avuto il massimo dei voti in tedesco — disse lei. Poi, visto lo sguardo del suo capo, aggiunse: — È più di quanto abbia avuto chiunque
qui intorno. — Sei stata appena sei mesi fa ad Antwerp. — Sì, lo so, ma stiamo parlando di feste e di gite. Stapleton la fissò per un poco, soppesandola, come se ci fosse qualcosa in lei che vedeva per la prima volta. — Abbiamo un bel tipetto pieno d'ambizione, vero? Lei si guardò attorno. Le seccava essere sentita dagli altri; ma, malgrado la folla che stava lavorando nell'ufficio e la gente continuamente in movimento, tutti sembravano intenti solo al proprio lavoro e nessuno le prestava la minima attenzione. — Sì — rispose, senza la minima traccia di dubbio o di riluttanza. Stapleton annuì, pensieroso. — Non lo so se è una qualità che mi piace in una donna — disse, e se ne andò. 27 La procedura era semplice. Persone dall'aria sospetta che non potevano spiegare né identificare se stesse potevano essere fermate e diventare soggetto di un'investigazione. Dettagli potevano essere trasmessi per telex a tutti i dipartimenti e i soggetti potevano essere trattenuti per un massimo di due giorni. Dopo di che, dovevano essere o accusati o rilasciati. Ma la vita non è semplice quanto le procedure. E inoltre, come Peter Heym scoprì presto, quei due avevano le carte in regola; avevano esibito un passaporto turistico inglese a nome di Patrick Cadogan, di cui portava fotografia e caratteristiche. La bambina era registrata come sua figlia Marianne. I due sedettero sul sedile posteriore della Opel mentre lui controllava i documenti. La fotografia aveva l'aria di essere stata scattata in una cabina di foto-istantanea. Il passaporto era stato rilasciato due giorni prima. C'era anche il certificato di nascita di entrambi. E alcune lettere provenienti da uno studio legale di Amburgo, indirizzate all'uomo di cui aveva in mano i documenti. In più, la bambina era in grado di fornire l'indirizzo a cui erano diretti. Adesso non era più tanto sicuro del suo accento; all'inizio gli era sembrato perfetto, ma ora non gli sembrava più tale. Adesso ricordava quello di una qualsiasi bambina inglese in età scolare. Tremendo. Ripiegò di nuovo i documenti e li tese al di sopra della spalla. — Pren-
deteli — disse. Li prese la bambina. L'uomo non si mosse. Mentre accendeva il motore, Peter Heym controllò l'uomo nello specchietto retrovisore. Il suo viso era di pietra. Niente paura, né cordialità, nessun segno da lui se si eccettua quel singolo momento, colto col cannocchiale, in cui aveva teso la mano per aiutare la bambina a scavalcare il muricciolo. I loro occhi s'incontrarono nello specchietto. Peter Heym sentì un brivido. Li portò fino al lungomare al confine della città lasciandoli al cancello d'uscita, dove barriere e staccionate controllavano il traffico proveniente da una serie di ponti. Era il posto dove sorgeva il vecchio porto, con le sue stradine tortuose e i magazzini dai muri di mattoni, e dei pontili dove si trovavano i locali in cui chi doveva partire per un viaggio in mare trovava di che rifocillarsi. Prima di farli scendere, disse alla bambina: — Vedi dove passano i treni cittadini? Lei guardò. Accanto alla soprelevata correva una sezione parallela delle ferrovie prima di svoltare verso l'interno e scomparire nel dedalo di edifici. — Potete prendere un treno qui davanti, oppure seguire la linea che s'inoltra in città. Non è lontano. Da lì potrete prendere l'autobus 286 che vi porterà dove dovete andare. Pensi che ce la farete senza perdervi di nuovo? — Non ci siamo mai persi prima — disse lei. — Scendete — disse Peter Heym. — Potete andarvene. L'uomo guardò la bambina. Lei annuì, e allora i due smontarono dall'auto. Peter Heym fece un giro con la Opel e li osservò raggiungere la strada trafficata e attendere che il semaforo desse loro via libera. Strana coppia. Come se l'uomo fosse l'elemento passivo, e la bambina quella che comandava; ma sotto sotto si avvertivano le tensioni che sempre ci sono nella relazione fra due persone. Le luci cambiarono e i due si avviarono, con l'uomo che reagiva con un attimo di ritardo, sollecitato dalla bambina. Mai visti un padre e una figlia di quel tipo. Sembravano più una bambina col suo grosso, tardo fratellone, quello che in genere gli estranei cercano di evitare. Il traffico sulla strada riprese nell'altro senso, e i due scomparvero alla sua vista, assorbiti dalla città; due fra due milioni di persone, con poco o nulla che li distinguesse dagli altri. Però, a ben guardare...
Era sua intenzione buttare giù qualche appunto e registrarlo a futura memoria alla fine della giornata. Male non ne faceva, e l'avrebbe aiutato a scrollarsi di dosso il non facile ricordo di quella troppo saggia ragazzina e del suo orso ballerino. Una bambina più saggia dell'età che dimostrava. E il suo orso ballerino: senza museruola, né catena. 28 Jennifer sapeva dell'esistenza dell'ospedale di Wilmington, ma non aveva mai avuto motivo di andarci. Nato come manicomio in epoca vittoriana, sorgeva appena fuori dalla città in un'area costellata di fattorie e piccoli villaggi dormitorio. Era quel tipo d'istituzione sul quale la gente scherza e dove ci ambienta le barzellette, ma che nessuno conosce bene. Le molte strade che entravano o uscivano dalla proprietà erano a disposizione di tutti, e non c'erano né alte mura né cancellate. Ogni Natale vi si teneva un concerto organizzato dal personale, e in agosto la chiesa vi celebrava una festa d'estate, aperta a tutti. Non c'erano molte persone in quell'area le cui storie familiari non si fossero intrecciate, almeno una volta, con quella dell'istituzione. Ma per quanto fossero in molti a esservi coinvolti, rimaneva comunque quello strano posto dove vivono i matti. Dalla strada principale se ne dipartiva una secondaria lunga circa cinquecento metri, diritta e a tre corsie; solo quando l'ebbe percorsa quasi tutta ebbe una visione totale del complesso di edifici in mattoni rossi dagli alti tetti e dal caratteristico disegno goticheggiante, tipico di tante vecchie scuole e ricoveri pubblici. La potenziale severità dell'architettura era smorzata dai terreni che circondavano gli edifici, dove la strada lasciava il passo all'erba ben tagliata, e questa a giardini ben curati. C'era moltissimo posto per parcheggiare, ma lei cercò d'avvicinarsi più che poteva all'ingresso principale. Non c'era nessuno in giro, eccezion fatta per un uomo anziano che stava raccogliendo le foglie morte con un lungo bastone con puntale, e che poi infilava in un sacco che portava a tracolla; chiese a lui dove doveva dirigersi, e lui le indicò la porta giusta. Guardandosi attorno, notò che alcuni degli edifici più lontani erano stati chiusi con assi. Non perché fossero in rovina, ma più perché sembrava che fossero stati abbandonati. — Agente investigativo McGann?
Un uomo stava scendendo gli scalini con la mano tesa. Lei la strinse chiedendo: — Dottor Wallace? — Mi chiami Mike. Lei non è quello che mi aspettavo. — E cosa si stava aspettando? — Be', tenga a mente che ho quasi sempre a che fare con poliziotti villosi e volgari. Una cosa che deforma la tua visione del mondo. Entrarono. La prima impressione di Mike Wallace era quella di un uomo sui quarant'anni, d'aspetto piacevole, il cui abito blu sembrava essere in costante guerra con la forma del suo padrone, che era ovviamente la parte vincente. Non era alto, ma era solidamente costruito. Barba tendente al grigio. Avrebbero dovuto essere così anche i capelli, ma non ce n'erano abbastanza per poter giudicare. — Pensavo che qui vicino ci fosse un'unità di pronto intervento. — Sulla carta è così. Si trova a una decina di chilometri da qui, ma amministrativamente formiamo un tutto unico. Non c'è abbastanza lavoro da noi da giustificarne la presenza. L'ingresso era tutto marmi e colonne sottili, con una larga scala in quercia. — Sembra enorme — disse Jennifer. — Una volta lo era. Adesso sta lentamente scadendo d'utilità, e probabilmente verrà venduto. Abbiamo poco più di trenta pazienti, la maggioranza dei quali ultrasessantenni. Ha visto Terence, in giardino? Alto, diritto, uno che non si toglie mai il cappello? — Se è quello che mi ha indicato la strada, sì, l'ho visto. — Terence è qui da quand'era un ragazzo. Bene, è assolutamente stupefacente. Ricorda quando questo posto aveva la sua fattoria, e laboratori e così via. Non ha mai saputo che qui arrivava persino la ferrovia? — No — rispose Jennifer, chiedendosi quando avrebbero finito quelle chiacchiere e sarebbero finalmente entrati in argomento. — Mai saputo. Attraversarono una doppia porta dietro la quale c'era un corridoio il cui solo pavimento piastrellato avrebbe fruttato centinaia di sterline al momento della vendita. Da qualche parte arrivava fino a loro la cacofonia di suoni emessa da una trasmissione radiofonica. — Be' — disse Wallace — questo era il manicomio dell'epoca vittoriana. Adesso, ci siamo allargati alla comunità. La scorsa settimana mi sono imbattuto in uno dei miei ex-pazienti in un bar giù in città. Era senza scarpe, e stava elemosinando. — Svoltò in uno dei tanti corridoi laterali, su cui si allineavano cinque porte chiuse. — Penso che diventerà un centro per conferenze. E la vecchia fattoria diventerà un club golfistico.
Entrarono nel suo ufficio. Era una stanza che lui s'era sforzato di personalizzare più che poteva, con libri e piante da appartamento e alcuni poster psichedelici degli anni Sessanta; come se, malgrado tutto lo spazio che un posto deserto come quello avrebbe potuto offrirgli, egli preferisse quella claustrofobica tana con le sue strette finestre, il soffitto basso e il camino finto. Dietro la porta era appeso un camice bianco, non tanto nuovo né tanto usato, l'unica cosa che identificava quella come la stanza di un medico. — È questa la documentazione? — chiese Jennifer indicando con la testa la pila di fogli che stavano sul piano della scrivania. — È tutto quello che abbiamo su di lui — rispose Wallace mentre le faceva cenno di sedersi. — Posso anche risparmiarle un po' di tempo se mi dice cosa esattamente sta cercando. Tanto per cominciare, cos'avrebbe fatto? — Ha portato fuori dal paese una bambina di dieci anni, fingendosi suo padre. C'è anche un'accusa contro di lui che riguarda la stessa bambina; noi pensiamo che l'accusa sia falsa, ma crediamo anche che abbia qualche fondamento di realtà. La nostra maggiore preoccupazione adesso è per la bambina. — Dio mio — disse Wallace. Per un momento Jennifer non capì se fosse scioccato o impressionato. — La sorprende? — gli chiese. — È sicura che stiamo parlando dello stesso Ryan O'Donnell? — Assolutamente. Le due principali domande alle quali voglio trovare risposta sono: cos'ha fatto esattamente prima, e cosa è in grado di fare adesso? Wallace ci pensò un poco, grattandosi nervosamente la barba mentre assorbiva le nuove informazioni. — Lei capisce — disse infine — che ho avuto scarsi rapporti con lui negli ultimi cinque anni. Nulla che risalga a prima del suo rilascio. — Capisco benissimo. — Per quel che ha fatto, posso solo desumerlo dalla documentazione. Per quel che potrebbe fare... posso darle supposizioni informali, e alla luce di quanto mi ha appena detto non sarei molto incline ad avere molta fiducia nemmeno in questo. — Secondo lei tutto ciò non fa parte del suo carattere? Wallace scrollò la testa. — Non lo so. Veramente, non so proprio cosa dire. — Direbbe che è pazzo?
— No. È una persona marginalizzata di limitate capacità sociali. La gente, a causa di ciò, lo vede come un individuo strano. Lo è, ma non è matto. Seguì qualche attimo di silenzio. Jennifer aspettava. Wallace pareva sul punto di dire qualcosa, ma sempre sembrava che i suoi pensieri divergessero su un sentiero parallelo sul quale le parole non volevano seguirlo. — Dottor Wallace — lo interruppe lei. — Abbiamo poco tempo. — Indicò la documentazione. Wallace si riscosse e posò la mano sui documenti. — È tutto quello che sono riuscito a trovare. Da bambino, Ryan ha sempre avuto un'immaginazione fertile. Troppo. Distingueva a fatica fra realtà e fantasia. Era un bambino vivace nato in una famiglia operaia e, da quel che ricordavano i genitori, aveva sempre raccontato bugie. Lui, invece, le chiamava visioni. — Stiamo parlando di schizofrenia? — Questa è stata la diagnosi degli accertamenti pre-processuali. Non posso ufficialmente dirmi in disaccordo con la documentazione, perché all'epoca non ero qui. — E ufficiosamente? — Non ho mai visto in lui i segni tipici della schizofrenia. C'è una classificazione di schizofrenia semplice che non coinvolge più di una perdita di volontà e di energia, ma questo quadro è così vicino alla normale propensione adolescenziale per certi atteggiamenti che è difficile dire dove stia la differenza. Non può escludersi quindi un errore diagnostico. — Anche se si parla di visioni? — Le allucinazioni schizoidi di norma sono auditive. Qui in più c'è il fatto che lui sapeva cosa erano quelle visioni. Non è pazzo, e nemmeno privo d'intelligenza. È perfettamente possibile che fosse un bambino più o meno normale che si dibatteva in una situazione difficile. Non le è mai capitato di starsene sdraiata a letto e di guardare le facce che si muovono sulla tappezzeria? Adesso ci ripensa e sa che non si trattava altro che di un gioco di luci e della sua immaginazione, e che quindi non c'era nulla di vero. Ma persino adesso... non c'è un angolino nella sua mente che continua a rifiutarsi di lasciarsi convincere? Jennifer sapeva cosa voleva dire. C'era stata una sedia particolare che lei tutte le sere trascinava fuori dalla sua stanza da letto dopo che i genitori erano scesi al piano di sotto. Papà insisteva che le figure che vi erano scolpite rappresentavano dei frutti, ma per lei si trattava di una faccia. E quan-
do le luci si spegnevano, quella faccia avrebbe aspettato un poco e poi avrebbe cominciato a farle smorfie come se rappresentasse una massa di creature mostruose. — La mia opinione — proseguì Wallace — è sempre stata quella che la grande differenza tra Ryan e il resto di noi è che lui può farsi sopraffare dalle cose che vede e che non sa resistere dal raccontarle agli altri. Da quel che ne so, se fosse nato cinquecento anni fa, forse sarebbe diventato un santo. Lui le raccontava agli altri bambini, e s'è costruito una reputazione. Loro lo prendevano in giro per i suoi fantasmi e i suoi angeli. Una volta, una delle più piccole gli chiese di fargliene vedere uno. Si allontanarono assieme e lei venne ritrovata più tardi, nella stessa giornata, su un terreno incolto. — Elementi sessuali? — Apparentemente sì. Non era stata spogliata, né c'erano segni di tentativi di penetrazione, ma quando perquisirono la casa di lui trovarono tracce di liquido seminale negli slip che lui aveva cercato di nascondere nel sacco della spazzatura. Come avvennero i fatti è tutto frutto d'ipotesi, perché Ryan non era in grado di raccontare alcunché. Lei non era una ragazzina precoce, né aveva una qualche sorta di reputazione, cosicché nessuno poté dire che se l'era cercata. E poi, santo cielo, aveva solo undici anni. — E questo accadde circa venticinque anni fa. Ma di adesso, che mi dice? Potrebbe rifare adesso la stessa cosa? — Alla luce di quello che mi ha detto dovrei dire di sì. Voglio dire, da quel che so di lui, non credo che lui abbia una reale disfunzione mentale, quale che sia ciò che dice la documentazione e la commissione per la scarcerazione, il che significa solo che non posso dirle che adesso tutto è a posto grazie a qualche cura miracolosa. — Mi sta dicendo che è una persona più o meno normale, che però ha ucciso qualcuno. — L'abbiamo tenuto sotto osservazione per un bel po' di tempo, finché abbiamo potuto definirlo sano e lasciarlo andare. Ma tenga questo bene in mente: è un adulto, adesso, non ha più quindici anni. I suoi problemi, come quelli di tutti noi, sono cresciuti con lui. Per cui non so, non posso darle nessuna garanzia. Per bilanciare tutto ciò, aggiungo che non l'avrei mai creduto capace di una cosa simile. Ma, tanto tempo fa, lui è penetrato in un territorio che né io né lei abbiamo mai visitato. C'è gente nella mia professione che può raccontarle con estrema sicurezza quali paesaggi si trovano in quei luoghi. Ma il fatto nudo e crudo è che nessuno ne sa nulla con cer-
tezza. E se io fossi stato il medico di Ryan e l'avessi visitato il giorno precedente il fatto, non avrei adesso nessuna risposta migliore da darle di quella che le sto dando adesso. — Sembra averlo in simpatia — commentò Jennifer. — Perché riesce a essere molto plausibile — rispose lui. Con una bracciata di fotocopie sotto il braccio, Jennifer si avviò verso la sua auto. I parallelismi la disturbavano: O'Donnell che non dava chiari segni di essere pericoloso, la bambina che prendeva il comando, O'Donnell che la seguiva come qualcosa di grosso e domestico e insospettabile e... e poi succedeva qualcosa per cui solo lui tornava. Non poteva andare così due volte. Che tutti gli anni trascorsi non contassero proprio nulla? Jennifer sapeva che le spinte fisiche e sessuali di un quindicenne potevano essere comparate a un'arma carica nelle mani di un killer; la maggior parte dei suoi amici a quell'età potevano avere un'erezione se solo guardavano a lungo una ciambella. Ma O'Donnell non aveva più quindici anni. Aveva superato la quarantina. Ripensò ai maniaci sessuali che aveva incontrato. Molti di loro avevano già raggiunto la mezza età. Ma la maggior parte di loro aveva una serie continua di denunce; avevano calcolato che Glick, il suo ex-insegnante di matematica e già settantenne quando l'avevano beccato, aveva una storia di abusi che durava da almeno vent'anni. Ryan aveva solo una trasgressione, irripetuta, contro se stesso. E con le sue visioni ormai relegate all'infanzia e l'immaginazione molto più limitata di un adulto, era sicura che la situazione non potesse essere più la stessa. Ormai non sognava più le immagini vivide, reali, come aveva sempre fatto, adesso doveva sapere cos'erano in realtà. Fantasie. Solo fantasie. Non visioni. Avvicinandosi all'auto vide Terence, il paziente più anziano che l'aveva indirizzata al suo arrivo. Aveva abbandonato il sacco con le foglie morte in un canto, aveva preso un panno giallo, e con quello stava pulendo il finestrino del guidatore della sua auto. Le sorrise quando si avvicinò. Aveva solo quattro denti, spaiati fra loro. Si rialzò, con lo straccio in mano, in attesa. Per un attimo si sentì incerta. Si aspettava una mancia? — Lei è Terence? — gli chiese. Lui annuì, sempre sorridendo; un buco nero, con qualche paletto.
— Sono un'amica di Ryan O'Donnell. Lo conosce? — Tutti lo conoscono — rispose Terence. Parlava con un forte accento locale, ma la mancanza di denti rendeva indistinguibili le parole. Indietreggiò di un passo per permettere a Jennifer di aprire la portiera e posare le carte sul sedile posteriore. — Vi siete visti di recente? — Sono qui da più tempo di tutti gli altri — rispose lui. — Lo so. Ryan le ha raccontato qualcosa quando vi siete visti l'ultima volta? — Una volta — disse Terence indicando — là c'era la fattoria. — Lo so, e anche la ferrovia. Ryan le ha detto che voleva partire? — No. — Perché non riusciamo a trovarlo, e io sono molto preoccupata. — Non va mai molto lontano. Gli piace stare dove sta. Mi piace stare qui, ma dicono che adesso vogliono chiuderlo. Sono venuto qui a dodici anni. Lavoravo alla fattoria. Jennifer decise che non valeva la pena continuare, perché tanto non avrebbe ricavato nessuna informazione utile. Non era né pericoloso, né voleva una mancia, come lei s'era aspettata; era solo amichevole, tutto qui. — Grazie per la pulita — gli disse, e lui si strinse nelle spalle, ma lei s'accorse che ne era compiaciuto. — Perché l'hanno mandata qui? — gli chiese all'improviso. — La mamma diceva che ero irrequieto. E poi voleva sposarsi di nuovo, e lui non mi voleva. A lei piaceva l'odore della lavanda. — E quindi si chinò lentamente in avanti, come se volesse dirle qualcosa che non voleva condividere col vento e con gli uccelli. — Lo sa? — disse. — Ogni volta che lo sento, mi ricordo di lei. — Addio, Terence — disse Jennifer, a salì in auto. Stava per chiudere la portiera quando Terence disse: — Una volta, mi ha detto di aver visto il diavolo. Jennifer si fermò, coi sensi all'erta, uscì di nuovo dall'auto. — Chi? — Ryan. L'ha visto giù in città. Seduto a un caffè, a leggere il giornale. Lo voleva raccontare a qualcuno, ma non voleva dirlo ai medici, così l'ha detto a me. Questo prova che siamo amici, non è vero? — Quando è successo? Di recente, o tanto tempo fa? Se è troppo difficile per lei, ci pensi con calma. Ma Terence non ebbe bisogno di pensarci. — La settimana scorsa — disse.
29 Appena ebbero imboccato la strada che correva accanto al fiume, Marianne capì che erano a cavallo. Era la Elbchaussee, che conduceva ai sobborghi signorili. I lati della via erano densamente alberati in alcuni posti, in altri consentivano la vista del fiume, e mettevano in evidenza grandi case costruite in una varietà di stili che andavano dalla Vecchia Vienna al moderno più pacchiano. Conservava il chiaro ricordo di averla già percorsa in auto. In quei lontani giorni era stata un po' dappertutto in auto, la maggior parte delle volte con la mamma. Quando uscivano tutti assieme usavano la familiare della ditta di papà, ma di solito, nei fine settimana e negli spostamenti da e per la scuola, usavano la VW della mamma, e lei stava seduta dietro, nel seggiolino apposito, con la cintura allacciata. Si chiese se avesse ancora la VW. E se fosse ancora parcheggiata al suo solito posto, proprio appena fuori il viale d'accesso che si tuffava con un angolo assurdo nel garage sotto casa. Quella casa non era grande quanto quella sul mare, né occupava così tanto terreno, ma sorgeva in un'area molto migliore. Lì attorno viveva un sacco di gente della compagnia. I loro figli erano suoi amici. Mamma sarebbe rimasta meravigliata nel vederla così cresciuta. Per lei, non ci sarebbe più stato bisogno del seggiolino sul sedile posteriore. Guardò Ryan. Se ne stava seduto accanto a lei, con lo zaino sotto il sedile di cui teneva una cinghia con la mano. Il viso era inerte, e lui non guardava fuori dal finestrino. Da quel che ne sapeva, sul traghetto non aveva dormito. Era stato troppo male. Adesso aveva l'aria di uno che non ha altro da fare se non ascoltare un ronzio monotono che gli suona nel cranio; di colpo sembrò accorgersi di qualcosa, perché volse gli occhi verso di lei. Lei sapeva il perché. Aveva paura. Non si era mai trovato così lontano da casa in un posto di cui non conosceva la lingua, per cui era naturale. Se avessero ficcato Marianne nel bel mezzo della Francia o della Finlandia, anche lei si sarebbe sentita così. Ma qui, era diverso. Per lei, era casa sua. Se n'era resa conto non appena avevano attraversato la frontiera. Posò la mano su quella di Ryan, per rassicurarlo. Lui la scrollò via. — Non fare così — le disse. Lei si strinse nelle spalle, tornò a guardare fuori dal finestrino.
Stavano sfilando accanto a una lunga, scura serie di alberi, e per un attimo si vide riflessa nel vetro. Il gonfiore se n'era quasi andato. L'ammaccatura era stata coperta grazie a uno stick poco dispendioso che aveva trovato nel negozio a bordo del traghetto, del tipo che aveva visto acquistare dalle ragazze più grandi per nascondere i brufoli prima di andare a ballare. Marianne aveva girato lì intorno tenendole d'occhio mentre ballavano, ma le era sembrato il ballo dei Morti Viventi. Comunque... quella era un'avventura, no? Il poliziotto non s'era accorto dei lividi, il che significava che stavano svanendo. I poliziotti sono addestrati a vedere cose del genere. Invece lei s'era accorta che era rimasto incuriosito dalla sua perfetta conoscenza della lingua, per cui aveva imitato il balordo accento che aveva Kevin Dinsdale, il quale era convinto che imparare le lingue era una faccenda stupida oltre che una perdita di tempo. E pensava le stesse cose per quanto riguardava storia, geografia, matematica, computeristica... S'irrigidì. Per un attimo, aveva creduto che fossero arrivati. Era stato lo stesso ogni cinquecento metri nell'ultimo quarto d'ora. Si era creduta sicura di saper riconoscere qualsiasi cosa lungo il percorso, case, ponti, visuali dell'Elba, ma la certezza le veniva solo quando le avevano superate. Anche quando vedeva qualcuno a passeggio col cane si diceva "Sì, sì, anche quello me lo ricordo". Fra poco sarebbero arrivati. Oh Dio, pregò, non farmi superare il punto. Fa' che non me lo perda. Ci siamo già passati davanti? Quando quella parte fosse stata superata, avrebbe potuto mostrare a Ryan tutti i posti turistici prima che lui tornasse a casa. Non si era molto divertito in quel viaggio. Di fatto, a volte si meravigliava della propria abilità nel persuaderlo ad accompagnarla. Il paio di volte in cui s'era mostrato recalcitrante o aveva indietreggiato, la soluzione era stata semplice: aveva proseguito da sola. Lui l'aveva raggiunta abbastanza presto. Come quando avevano discusso e lei l'aveva abbandonato e aveva fatto l'autostop, e l'uomo con il camion verde con un carico di pietre e catrame si era fermato per raccoglierla. Ryan era saltato sul camion e aveva chiuso la porta all'ultimo momento. L'autista non lo aveva visto arrivare, era arrivato troppo velocemente. Non aveva gradito la sorpresa, e l'atmosfera era rimasta tesa per il resto del viaggio, come se ci fosse qualcosa di non detto fra i due uomini. Ryan aveva tenuto un atteggiamento minaccioso per tutto il tempo, senza distogliere una sola volta lo sguardo dall'autista. E dopo che li ebbe fatti scendere, l'altro uomo aveva sputato fuori dal proprio finestrino
prima di andarsene. Era convinta che la mamma avrebbe ringraziato Ryan di cuore, e avrebbe trovato anche il modo per dargli quanto gli necessitava. Avrebbero appianato qualsiasi difficoltà. Nulla sarebbe stato impossibile nel luminoso nuovo futuro che ormai sentiva a portata di mano. La sua mente stava vagando. Di colpo si voltò a guardare la strada percorsa. Il suo cuore ebbe un sobbalzo. Scattò in piedi. — Andiamo — disse a Ryan. — Presto, l'abbiamo appena superato! Era la cosa più strana che le fosse mai capitata. Non si accorse nemmeno dell'autobus che si allontanava. Di fronte a lei c'era la strada nella quale aveva trascorso più di metà della sua vita. Larga, fiancheggiata da alberi, tranquilla. La colpì come uno di quei luoghi che si vedono dopo averli sognati. Nel suo ricordo aveva cominciato a svanire per cominciare a entrare a far parte della sua immaginazione. Ma adesso era tornata di nuovo, concreta e reale. Tutto era come era stato. Ma in qualche modo era diverso. Corse avanti. Ryan era dietro di lei, praticamente dimenticato. Sentì che le gridava qualcosa ma non capì cosa. Correva disperatamente. Le case erano graziose, tutte in stili differenti. Tutte con almeno cinque o sei camere da letto. Una di tipo vittoriano con porticato a colonne con frontoni lavorati accanto a un blocco bianco di alta tecnologia seguito da un edificio di stile olandese con tetto mansardato. Poi una casa che sembrava un maniero in misura mini o un mausoleo americano. E poi, casa sua. Stava volando adesso. Il terreno era sempre sotto di lei, ma non aveva la sensazione di toccarlo. Sentiva il sangue che pulsava nelle orecchie. Eccola lì: pareti bianche, tetto di tegole rosse, staccionata alta fino alla vita sul lato strada. La sua mente vedeva la mamma che si alzava dalla sedia, la rivista che cadeva per terra, per correrle incontro sulla porta di casa. Il sentierino fino alla casa. La porta che si sta aprendo. Il cagnone che le corre incontro per farle festa. Sbagliato. Il cane di Marianne era morto. Rudi apparteneva a un altro tempo, un altro paese, e poi non c'era più. Questo era scuro e snello e sbavava mentre si
slanciava contro di lei con occhi feroci e denti snudati. Da una grande distanza, sentì Ryan che gridava: — Marianne! Fermati! Vieni via di lì! — e in quell'attimo il cane venne arrestato nella sua folle corsa dal lungo guinzaglio che lo tratteneva. Marianne si era bloccata di colpo; un altro paio di passi, e sarebbe finita fra le zampe del dobermann. Questi si era rizzato sulle zampe posteriori e si protendeva in avanti, abbaiando con forza, rapidamente, in modo assordante. Non riusciva a muoversi. Non riusciva a fare altro se non a restare immobile, tremante. Alcune gocce di saliva del cane le toccarono le guance. Mostrava il bianco degli occhi e si stava praticamente strangolando per la bramosia di raggiungerla e morderla. La porta di casa si aprì, come nella sua visione. Ma ne uscì un uomo, col giornale in mano, che si fermò sotto il portico a guardarla. Era uno che Marianne non conosceva. Gridò poche, brevi parole al cane, che le ignorò. Marianne provò a indietreggiare di un passo. Una mano salda la prese da dietro. — Cosa vuoi? — chiese l'uomo sotto il portico. Era di mezz'età, coi baffi. Indossava un cardigan grande e sformato, del tipo che nessuno indosserebbe mai fuori casa. In mano aveva un paio di occhiali da lettura. — Voglio vedere la mia mamma — disse Marianne. — Sei nel posto sbagliato — rispose l'uomo, e attese. Marianne si guardò attorno. Muoveva la testa a scatti, come se i muscoli rispondessero imperfettamente alla sua volontà. Nessuna VW nel vialetto, mentre invece c'era una nuova cassetta per le lettere che non aveva alcun diritto di stare dove stava. Le finestre apparivano diverse, ma non capiva perché. Imposte nuove, si disse. Ma la casa era la stessa. Era proprio lei. Ryan, che non aveva compreso nulla dello scambio di parole fra lei e il proprietario del cane, cominciò a guidarla indietro, verso la strada. Anche lui era senza fiato per averla dovuta rincorrere. All'inizio lei non si voltò, ma si spostò rinculando. Lui continuò a tenerla fermamente fino a quando lei non si voltò e si lasciò portare fino al cancello. — Stai bene? Lei annuì. — Lo so — le disse. — Lo so come ti senti. Andiamo. Le mise un braccio attorno alle spalle, e si avviarono assieme verso la strada.
Quando arrivarono al centro della città stava imbrunendo. Avevano aspettato l'autobus ma non ne erano arrivati, per cui avevano cominciato a camminare, e ovviamente un bus li aveva superati quando si trovavano a metà percorso fra una fermata e l'altra. Era una bella distanza da coprire a piedi. Ne fecero però una buona metà. Marianne era stordita. Non sapeva cosa fare. Era stato tutto così semplice, così perfetto; una tessera di un puzzle che lei sembrava sapere dove mettere, e che adesso non si adattava a nessuna parte. Presero poi il treno della S-Bahn. Marianne sedette con la fronte contro il freddo del finestrino. — Rinuncio — disse. — Non puoi — disse lui. E questa fu tutta la loro conversazione fino a quando il treno si fermò al capolinea alla Hauptbanhoff. Uscirono dalla stazione usando le scale mobili. La stazione era enorme, il più grande edificio che Marianne avesse mai visto dall'interno in tutta la vita; grande abbastanza da avere un soffitto arcuato che si perdeva nel buio che avrebbe potuto benissimo essere quello del cielo. Si trovarono su un passaggio sopraelevato che superava una vasta rete di binari e di fili dell'alta tensione. Con tutti quei treni, e la folla, e il rumore, avevano la sensazione di trovarsi all'interno di un'enorme creatura vivente, mezza biologica e mezza meccanica, una cosa dalle ossa d'acciaio, dalle costole annerite, coi treni che si spostavano sui percorsi prestabiliti come pistoni bene oliati. C'era una tale folla sui marciapiedi che sembrava che tutti i club, i teatri, i ristoranti e gli altri locali pubblici li avesero espulsi tutti nello stesso momento. L'atmosfera era elettrica, come una scarica di adrenalina. Vicino all'ingresso della stazione c'era uno snack aperto ventiquattr'ore, e tre poliziotti che stavano discutendo con un gruppo di ragazzi. I poliziotti indossavano giacche imbottite e bianchi elmetti antisommossa; in mano tenevano lunghi manganelli. I ragazzi erano del tipo vagabondo trasandato: un paio di loro avevano un taglio di capelli alla skinhead, e tutti si muovevano con l'aria di chi non sa che fare né dove andare. Molta gente passava lì accanto, gettando occhiate interessate alla scena. Del gruppo, erano le due ragazze quelle che strillavano di più e cooperavano di meno. — Andiamo — disse Ryan, trascinando Marianne. — Stavo solo guardando — rispose lei. A nord della stazione si stendeva il quartiere di St. Georg. Tutto quello
che lei sapeva era che una volta l'avevano avvertita di non andarci mai. Era un'area in cui si trovavano gioiellerie di poco conto e negozi d'elettrodomestici, ristoranti turchi, alberghi a poco prezzo e parecchi negozi che restavano aperti fino a tardi per vendere tutta una serie di merci che tenevano ammonticchiata alla rinfusa in grosse ceste. Sulla strada principale si apriva una serie di cinema a luci rosse e di locali con attrazioni dal vivo mentre nelle vie laterali, ogni trenta metri circa, stazionavano donne in pelliccette di scarso valore e pantaloni in lycra aderenti e lucidi, con l'aria di aspettare qualcosa e niente in particolare. Marianne sapeva chi erano, anche se non aveva le idee ben chiare su cosa, in realtà, facevano. Cominciava a sentirsi a suo agio. Stare con Ryan non era poi così male; con lui almeno andava in posti in cui i suoi non l'avrebbero mai portata. A ogni cantonata lui si fermava e si guardava attorno, pensieroso, calcolatore. Non aveva idea di dove fossero diretti, ma sembrava che avesse una sua idea in mente. Nessuno li guardava con particolare interesse. Gli chiese cosa dovevano fare. — Sto cercando un posto in cui fermarci — rispose lui. — Un posto di quelli che mettono fuori la tabella coi prezzi. Di solito sono i meno cari, e non gonfiano troppo i prezzi a causa della clientela che hanno. — Ne abbiamo passati almeno tre così — disse lei. — Dove? — Adesso ne abbiamo uno proprio davanti a noi. L'albergo che alla fine Ryan scelse aveva un'insegna giallastra sulla strada e un ingresso minuscolo incastrato fra due negozi. Il banco della reception era poco più di uno sportello in un corridoio; pagarono in anticipo. Fu Marianne quella che parlò, anche se c'era poco da dire. Ricevettero la chiave di una stanza a due letti. Salirono al secondo piano per mezzo di una scala strettissima, e Marianne dovette attendere che Ryan riuscisse ad aprire la serratura della stanza. Il bagno era al piano sottostante. Non si era aspettata che dovessero dividere la stessa stanza. Si chiese come avrebbero risolto la questione. Il tappeto era logoro, le tendine sporche, ma le lenzuola erano pulite. In un angolo c'era un lavello con un paio di asciugamani più volte rammendati ma comunque puliti. La finestra era semiaperta, e guardava sul retro di un altro edificio. — Non è male — disse Ryan, contento. Al posto dell'armadio c'era una rientranza nel muro con pochi appendiabiti, un tavolinetto da caffè con posata sopra una scatola di fiam-
miferi, un apribottiglie e una grossa radio. Ryan buttò lo zaino su uno dei letti e provò ad accendere la radio. Si accese, ma non riuscì a sintonizzarsi su nessuna stazione. Marianne era rimasta ferma sulla soglia. Non sapeva che fare. Ryan spense la radio, si alzò e la guardò. — Adesso scenderò le scale e aspetterò che tu ti sia messa a letto. Quando hai fatto, spegni la luce. Io mi arrangerò al buio. Ti bastano dieci minuti, o vuoi anche fare il bagno? — Sono in vacanza — rispose Marianne. — E quando sei in vacanza non c'è bisogno di fare il bagno. Lui riprese lo zaino e uscì, portandosi appresso la chiave. La porta gli si chiuse alle spalle con uno scatto secco. Marianne trasse un lungo, profondo respiro. Era sola in quella stanza. Sedette pesantemente sul letto, si tolse le scarpe da ginnastica. I piedi le facevano male. Le spalle bruciavano, la schiena era irrigidita a causa dello zainetto che aveva portato per lunghe ore. Ma la cosa peggiore era la sensazione di disperazione che l'aveva avvolta, e che non riusciva a dissipare. Erano secoli che non mangiava, ma non ne aveva voglia. Non sapeva proprio cosa fare, da quel momento in poi. La cosa peggiore è che si sentiva stupida. Se non fosse stato per Ryan sarebbe stata anche spaventata, una bambina sperduta nella strada della vita. Non aveva importanza che anche lui fosse nervoso e lontano da tutto quello che conosceva, perché la sua sola presenza era sufficiente a sostenerla e a permetterle di proseguire. Non aveva mai prenotato una stanza in un albergo, nemmeno in uno così schifoso come quello. Fosse stata sola, avrebbe girato nella stazione per tutta la notte, oppure si sarebbe avventurata nelle strade illuminate finché i piedi non avrebbero cominciato a sanguinarle. E nelle strade, ti può accadere di tutto. Questo lo sapeva bene. Forse, l'indomani tutto sarebbe apparso diverso. Forse, avrebbero avuto qualche nuova idea. Ma perché lui si era portato lo zaino con sé, se doveva solo aspettare fuori? Si stava sfilando il maglione dalla testa quando quel pensiero la colpì: che avesse deciso di abbandonarla? E allora, cos'avrebbe fatto? Fu assalita dal panico. E se stava telefonando a papà proprio adesso per dirle dov'erano? Per quanto limitate fossero le sue opzioni, questa era la più insostenibile.
Si tolse il maglione e lo buttò sul letto, poi si avviò, a piedi nudi, verso la porta. Bloccò il nottolino per evitarsi di rimanere chiusa fuori, e uscì nel corridoio. L'illuminazione era scarsa, perché veniva principalmente dal piano sottostante, e passando attraverso la ringhiera delle scale gettava lunghe ombre diritte sulle pareti. Ryan non c'era. Dal piano sotto il loro le venne il suono smorzato dello sciacquone di un bagno. Che fosse lui? Andò fino alla ringhiera e guardò giù. Qualcuno stava uscendo dal gabinetto. Non poteva vedere chi fosse, ma sapeva che non era lui. Lo sapeva perché lo vide seduto sui gradini dove la luce era migliore. Aveva aperto la borsa e ne aveva tolti alcune carte, che stava sfogliando. Anche a quella distanza riconobbe le lettere dell'avvocato. Non le stava leggendo, questo lei lo sapeva bene perché erano scritte in tedesco e poi erano altamente complicate; anche questo lei lo sapeva perché le aveva lette tempo addietro. Era tutta roba legale circa il patrimonio, proprietà congiunte e crediti e cose del genere. Lui li stava sfogliando, li guardava, alla ricerca di qualche indizio che potesse aiutarli. Non alzò lo sguardo, per cui non la vide. Lei s'allontanò dalla ringhiera e tornò nella stanza dove terminò di spogliarsi prima di infilarsi sotto le lenzuola. Aveva lasciato accesa la piccola lampadina sopra lo specchio del lavello, in modo che lui potesse orientarsi una volta che fosse entrato. Si tirò le coperte fin sotto il mento e attese, una forma anonima in un letto situato nella parte più buia della stanza. Pochi minuti dopo arrivò Ryan. Sentì la chiave che cercava la serratura e poi la porta che si apriva e lui che entrava, cercando di non fare rumore, ma il pavimento scricchiolava ovunque lui posasse il piede. La prima cosa che fece fu di spegnere la luce sopra il lavello. Poi, più che vedere, lo sentì posare lo zaino, togliersi il cappotto e posarlo su una sedia, levarsi le scarpe. Sentì che si lasciava cadere, praticamente vestito, sull'altro letto. Gli occhi cominciavano ad abituarsi al buio. Vedeva le forme della stanza, come in una caverna alla luce delle stelle. Sentiva il respiro di Ryan. Il respiro di un adulto, pesante, esausto. Si girò una volta, e le molle protestarono. Non le aveva rivolto una parola, probabilmente convinto che lei stesse dormendo. Marianne si stava chiedendo dove potesse essere la mamma. Papà non le aveva mai parlato di lei. Non le aveva nemmeno mai permesso di dirgli qualcosa di lei. Anneliese Cadogan era diventata un soggetto tabù, come se fosse un criminale che avesse gettato la vergogna sulla famiglia. Ma per-
ché? Cosa mai poteva aver fatto? Ryan emise un lungo gemito pensando che nessuno lo sentisse, ma l'attenzione di Marianne fu subito desta. Seguirono alcuni istanti di silenzio. Poi lo sentì borbottare qualcosa. — Ohhh Dio — lo sentì dire, col viso contro il cuscino. — Ma che cazzo sto facendo? 30 Per la polizia, quello era il Giorno Due. Jennifer si era alzata presto e stava mangiando in piedi quando finalmente apparve Ricky. Lo sentì scendere le scale, poi una pausa per prendere il giornale dallo zerbino. Finalmente arrivò in cucina, sbadigliando e grattandosi. Lui insisteva sempre nel dire che era mattiniero, ma trascorreva sempre le prime ore della mattinata con l'aria di chi sta smaltendo una sbornia colossale. — Cristo — disse con voce ottenebrata. — Sei già pronta. — Ho un sacco di cose da fare — rispose lei. Il tavolino da colazione era letteralmente coperto da appunti e documenti, per cui dovette raggrupparli in una pila per fare posto a Ricky. Stava leggendo alcune vecchie dichiarazioni dei compagni di scuola di Ryan O'Donnell che parlavano di lui e della sua vittima. Altri fogli riguardavano gli appunti presi da lei il giorno prima. Dopo il dottor Wallace, era andata a trovare l'insegnante di Marianne che le aveva confidato le sue preoccupazioni circa la piccola Cadogan. Aveva poi trascorso il resto della serata trascrivendo i due colloqui; nel frattempo, la maggior parte della documentazione storica aveva cominciato ad arrivare via fax. — Sembra che il tuo molestatore di bambini abbia gli onori della cronaca — disse Ricky. — Davvero? Le passò il quotidiano. Ed eccolo lì O'Donnell, in una fotografia un po' sbiadita nell'angolino basso della seconda pagina. Il pezzo che lo riguardava prendeva solo poche righe, che raccontavano i nudi fatti e non facevano alcun nome oltre quello di O'Donnell. Ricercato dalla polizia per informazioni sulla scomparsa di una bambina di dieci anni, si pensava che si trovasse attualmente in Germania o in Olanda con lei. — Mi chiedo dove hanno preso la fotografia — disse Jennifer. — La no-
stra è molto più vecchia. Lasciò Ricky a fissare il vuoto, ficcò tutte le carte nella sua valigetta, e uscì. Partire presto voleva dire trovare poco traffico, e lei doveva attraversare la città prima di imboccare l'autostrada. Gli aveva lasciato sullo specchio del bagno un biglietto con tutte le spiegazioni necessarie, così non avrebbe avuto nulla da ridire se avesse tardato. Ricky lavorava nell'amministrazione locale, addetto alla preparazione di programmi per disoccupati, pensionati e per chi voleva recuperare gli anni perduti; un lavoro per il quale era previsto un orario flessibile, ma nemmeno quello gli bastava. Jennifer stava pensando che se Ricky era un mattiniero, come lui diceva, allora era il Conte Dracula. Il posto di polizia era ancora sonnolento tranne per quelli del turno di notte, il blocco delle celle, e la sala dell'unità di Appoggio che si trovava nella parte interna. Tutto il personale era andato a casa per la notte, lasciando un presidio minimo per telefoni e terminali. A una cert'ora del mattino si sarebbe tenuta una riunione d'aggiornamento, ma Jennifer cominciò a chiedere quali fossero le novità portate dalla notte. Sembrava che la polizia di Amburgo si fosse imbattuta in loro e li avesse controllati, ma non li aveva trattenuti perché la loro richiesta non era stata ancora trasmessa dall'ufficio dell'Interpol di Wiesbaden. Un'altra ora, forse meno, e li avrebbero presi. Marianne Cadogan stava bene e non sembrava aver subito alcun danno. O'Donnell non aveva aperto bocca. Era un po' frustrante, ma almeno era qualcosa e restringeva il campo delle indagini. La commissione rogatoria era stata inviata ad Amburgo, e in giornata avrebbero dovuto partire gli agenti prescelti. Le voci dicevano che i favoriti dovevano essere Somerville e Moon, anche se fino a quel momento sembrava che i due si fossero cacciati in un vicolo cieco con l'interrogatorio di Patrick Cadogan. Secondo il sovrintendente Burke, appena si nominava la moglie di Cadogan l'uomo si trasformava in Marcel Marceau. Nel frattempo, i due esperti finanziari stavano lavorando sui suoi conti. Aveva preso a prestito denaro per pagare gli interessi sulle grosse somme che aveva preso in prestito per pagare i propri debiti, i quali stavano crescendo esponenzialmente. Il che non gli aveva impedito di affidarsi a un grosso e dispendioso studio legale di Amburgo, come lei apprese quando si riunì al gruppetto di investigatori che stavano ascoltando Benny Moon che faceva rapporto a Stapleton. — Ma gli chieda degli avvocati — stava dicendo Moon — e lui si irrigidisce e dice che non ricorda. Noi lo sappiamo, lui sa che sappiamo. Ma è
tutto quello che riusciamo a ottenere. — Posso provarci io? — chiese Jennifer. Benny Moon la fissò. Tutti la fissarono. Poi Moon disse: — Se c'è qualcosa che valga la pena di sapere, allora gliela tireremo fuori. Ma Jennifer stava concentrando la sua attenzione su Stapleton, chiudendo fuori gli altri e cercando di non immaginarsi cosa stessero pensando. — Mi lasci dieci minuti con lui — disse. — Senza registratore, senza altre persone. — Cosa vorresti fare — chiese Moon. — Fargli vedere la tua biancheria intima? Un paio di persone sorrisero, ma questo era troppo persino per Stapleton. — Benny — disse, con una nota d'ammonimento nella voce, ma Benny Moon era troppo agitato ed esacerbato per ragionare. — Un agente e niente registratore — proseguì. — Non è nemmeno ammissibile. — Non stiamo cercando di incriminarlo — disse Jennifer. — Ma ci serve quello che sa. Si tratta di qualcosa di molto delicato, e voi invece state usando il piede di porco. Attese, mentre Stapleton meditava. Sapeva che né Moon né Somerville avrebbero gradito. Poi Stapleton la guardò e disse: — Okay, provaci. Fagli vedere le mutandine. Dieci minuti al massimo. Sentiva gli occhi di Moon che le bruciavano la schiena mentre si avviava verso la saletta degli interrogatori. Cercò di non sentirsene preoccupata. Somerville e Cadogan si stavano fronteggiando in silenzio, come una coppia di pugili senza guantoni troppo esausti per continuare, ma il cui antagonismo non era affatto diminuito. Il registratore era fermo, ma la pila di cassette datate che gli giaceva accanto era la prova di parecchie ore d'interrogatorio. Erano tutte in due copie, una per la trascrizione e il controllo, l'altra per l'archivio. — Il capo ti vuole parlare — disse Jennifer. Somerville spostò lo sguardo su di lei poi di nuovo su Cadogan, senza capire. Lei fece un breve cenno col capo, facendogli capire che se ne doveva andare. Lui si alzò con malagrazia e uscì senza una parola. Non si chiuse la porta alle spalle, e Jennifer dovette farlo da sé prima di sedersi davanti a Cadogan. — Come va? — gli chiese in tono gentile. Come risposta, lui lasciò cadere la testa in avanti finché la fronte toccò il
tavolo con un tonfo attutito. — Così bene? — disse lei. Cadogan rialzò di nuovo la testa. Aveva sempre gli occhi cerchiati di rosso, ma adesso non erano così opachi. Avevano un'apparenza umana. — Perché? — chiese lui. — Lei non collabora — disse Jennifer alzando le spalle. — È così che la vedono. — Ho detto loro tutto quello che gli serviva. — Lei non ha detto quello che ci serve sapere. È per questo che sono così insistenti. — Devo dormire in una cella — disse lui. — Con la porta aperta, ma devo dormire in una cella. Senza cambiare tono, Jennifer disse: — Lei lo sa che lui la ucciderà. Cadogan la guardò senza parlare. Lei non aveva dubbi che qualcosa del genere doveva essergli già stata detta. Ma forse, questa volta ci avrebbe creduto. In quella stanza, in quel momento. — È solo questione di tempo — disse lei. — E solo Dio sa cosa le farà prima. Lo sa che sono in Germania, vero? Siamo convinti che Marianne stia cercando la mamma. Cadogan posò i gomiti sul tavolo e appoggiò la faccia sulla mani. C'era dolore su quel viso. — No — disse. — Questo la sconvolge più del pensiero di lei con O'Donnell, vero? Qualcosa l'ha messa contro di lei, qualcosa di cui lei non ha mai voluto parlare nemmeno con sua figlia. Ma ascolti. Siamo soli, io e lei. Il registratore è spento e nessun altro entrerà per un po'. In un modo o nell'altro sapremo tutto, ma voglio dirle una cosa: non sarà più così facile né per noi, né per lei. Attese. Con la testa fra le mani, lui fissava il pavimento. Poi si raddrizzò. — Sono pronta ad ascoltarla, signor Cadogan — disse Jennifer. Quando uscì, cinque minuti più tardi, appoggiato alla porta, con le braccia conserte, c'era Benny Moon, con l'aria di chi non ha nulla di meglio da fare. Stapleton era più in là, intento a parlare con Somerville. Si voltarono tutti verso di lei. Aveva lasciato solo Cadogan per un poco, di proposito. — Jezebel — mormorò Benny quando gli passò accanto. — Te la fa-
remo pagare, vedrai. — Solo nei tuoi sogni, Benny — rispose lei. Stapleton la guardò e lei con un cenno gli fece capire di entrare nella stanza accanto. Qualsiasi cosa gli avesse detto in quel momento, sarebbe diventato di dominio comune. Quello che aveva da dirgli sarebbe filtrato egualmente, ma sarebbe stato al momento opportuno e attraverso i canali più appropriati. Stapleton le fece strada nella stanzetta della squadra antifrode. Somerville e Moon li seguirono. Moon lasciò la porta socchiusa, per sottolineare la privatezza di quel dialogo. — Un giorno — cominciò Jennifer — Cadogan ricevette nel suo ufficio di Amburgo una videocassetta anonima. La mise nel videoregistratore, e vide che c'era sua moglie. Due uomini la stavano picchiando e le facevano mangiare escrementi. Era un'umiliazione rituale alla quale lei partecipava di sua spontanea volontà. Il pacchetto che conteneva la cassetta era stato scritto da lei. Era stato imbucato tre giorni prima. In quei giorni lui aveva creduto che lei non stesse bene e che non riuscisse a concentrarsi su nulla, ma lei non gli aveva detto nulla che gli potesse far sospettare qualche cosa. Portò via la bambina da scuola, e per la fine della giornata erano già in Inghilterra. Da allora, non ha mai più visto né sentito la donna. Si serve degli avvocati per rintracciarla perché è prossimo alla bancarotta e lui ha abbandonato tutte le loro proprietà comuni; ci sono anche parecchi soldi, ma sono in un conto che ha bisogno delle due firme abbinate per essere liberato. Non vuole più vederla. Sarà felice se qualcuno gli dice che è morta. Benny Moon fischiò piano. Somerville annuì e disse: — Buon lavoro. — Noi stiamo lavorando sull'ipotesi — disse Jennifer — che Ryan O'Donnell ha mentito a Marianne circa l'aiutarla a trovare la mamma. Forse dovremo cominciare a pensare che probabilmente non è stata una sua idea. 31 L'edificio in cui si trovava lo studio legale sorgeva in una piazza a pochi metri dal palazzo comunale. La piazza era vasta e pavimentata con ciottoli, e le strade che da lì si dipartivano erano strette e tortuose. Il palazzo del Comune era in puro stile gotico: enorme, pieno di guglie, macchiato di fuliggine, coi leoni ai due lati dell'entrata e così via. La facciata era così imponente ed elaborata e severa che la sua funzione principale sembrava es-
sere quella di tenere alla larga la gente. Per contrasto, l'entrata dell'edificio che interessava loro aveva linee aggraziate, e si collocava tra un parrucchiere per signora e una panetteria; il portone, di metallo scuro e vetro, si apriva di giorno durante le ore di lavoro, e veniva chiuso la notte come le porte di una fortezza. L'ingresso conteneva solo cassette per le lettere e grandi placche in ottone. Secondo le quali, tutti gli occupanti di quell'edificio, dal pianterreno all'ultimo piano, si occupavano di qualche aspetto della legge, alcuni da soli, altri in società. Lo studio il cui nome appariva sulla corrispondenza di Cadogan occupava tutto l'ultimo piano. Ryan e Marianne sedettero nella saletta d'attesa, e aspettarono. Tappeto e pareti erano di color beige e crema, le poltrone erano basse e nere e ricoperte di vera pelle. Ryan stava seduto sull'orlo della sua. — Ho il culo quasi per terra — si lamentò lui. — Hai detto "culo" — disse Marianne, disapprovando. Davanti a loro c'era la lussuosa scrivania in frassino scuro della segretaria. Dietro c'era una porta con una serratura a combinazione che presumibilmente portava allo studio vero e proprio. La ragazza che li aveva accolti era scomparsa dietro quella porta da pochi minuti. Il suo telefono aveva suonato alcune volte, poi qualcun altro, chissà dove, doveva aver risposto. Stava tornando. Non guardò né Marianne né Ryan, ma sedette al proprio posto e cominciò a sfogliare una grossa agenda ricoperta in pelle. Ryan si piegò in avanti e sussurrò: — Adesso ci faranno entrare o cosa? — Non lo so proprio — rispose Marianne con un sussurro. Goffamente Ryan si alzò, lottando per trovare l'equilibrio. La donna alzò lo sguardo. Aveva i capelli tinti di biondo e tagliati molto corti, che le conferivano un aspetto molto serio e pratico. Avevano visto parecchie donne come lei in strada mentre erano diretti lì; alcune di loro portavano con sé borse per documenti e indossavano abiti di ottima fattura e camminavano in modo spedito e sicuro. Ryan aveva detto che tutte gli ricordavano Michael J. Fox quand'era in caccia. — Mi scusi — chiese. — Possiamo entrare adesso? — Mi rincresce, ma non sono riuscita a fissare un appuntamento per lei — rispose l'altra in un inglese perfetto, con solo una punta d'accento. — Herr Boshammer è molto occupato per tutta la settimana. — Noi non vogliamo un appuntamento. Solo un indirizzo. — Se è solo per quello, potete guardare sulla guida del telefono.
Ciò detto chiuse la rubrica e si voltò verso la macchina per scrivere, dove l'attendeva una lettera lasciata a metà. Marianne vide chiaramente che si aspettava che se ne andassero. Allora si alzò, vedendo che non c'era altro da fare, ma Ryan avanzò ancora di qualche passo, portandosi a ridosso della scrivania. Posò le mani sul ripiano lucido e si chinò in avanti. — Senta — le disse. — Voi avete un cliente che usa questo posto per cercare di rintracciare la moglie. Questo è quanto abbiamo letto nella corrispondenza. Quello che vogliamo sapere è: l'avete trovata? Se sì, dove si trova? La donna lo guardò. Marianne si rese conto che, se non lo si conosceva bene come lo conosceva lei, Ryan poteva apparire come una figura intimidatrice. Ma la donna rimase calma. — Gli affari dei nostri clienti sono riservati — rispose. — E ora, devo insistere che ve ne andiate. — Lei è la figlia del vostro cliente — disse Ryan indicando Marianne alle sue spalle. — Sta cercando sua madre. Questo non conta niente? La donna non rispose. Continuò a fissarlo inespressiva, senza parlare. — Senta — continuò Ryan — non abbiamo un posto in cui andare. Per cui, resteremo seduti qui per darle tempo di pensarci, va bene? Lei allungò una mano verso il telefono mentre Ryan si voltava, ma lui se ne accorse e lo spostò lontano dalla sua presa. Ma era stato troppo brusco, e l'apparecchio stava cadendo a terra, e lui riuscì ad afferrarlo solo all'ultimo istante. — Mi dispiace — disse, e sistemò di nuovo telefono e ricevitore sul piano della scrivania. Sorrise educatamente alla donna. Poi sedette di nuovo accanto a Marianne, facendole l'occhiolino. La donna si alzò e batté velocemente il codice che le consentiva l'ingresso agli uffici. Ryan aveva appena sfiorato la poltrona che era di nuovo in piedi: attraversò l'ufficio con due lunghi passi. — Come si chiama quell'investigatore? Presto, tiralo fuori. Lei non se l'aspettava. Frugò nella corrispondenza che teneva nella tasca del cappotto mentre Ryan apriva con uno scatto lo schedario che stava sulla scrivania. Di colpo le dita di Marianne diventarono più cedevoli di una banana matura. Ryan teneva d'occhio la porta da cui era scomparsa la segretaria. Marianne aveva letto quel nome solo quella mattina per Ryan, ma dove diavolo s'era cacciato? Trovato.
— Schlesinger — disse. — Johann Schlesinger. — Con una "s" sola? — Sì. Ryan cercò la lettera "S". Non si mise a sfogliare i vari foglietti ma li strappò via a decine alla volta. Quando li ebbe tolti tutti scrollò gli altri perché coprissero il buco, poi chiuse il coperchio. — Andiamo — le disse intascandoli. — Usciamo da soli prima che lo facciano loro. Le scale erano antiche, ma scrupolosamente pulite. L'ascensore era una cabina che correva al centro delle scale, separato da queste da una rete di metallo. Stava salendo quando loro due arrivarono sul pianerottolo; avevano disceso un solo piano quando le porte si aprirono al piano che avevano appena lasciato e ne uscirono due uomini con l'uniforme della sicurezza. Da dove li vedevano loro, non sembravano una grande minaccia. Pareva che fossero stati assunti dopo essere andati in pensione, e c'erano andati non certo prima del tempo. — Problema risolto — gridò loro Ryan. — Ce ne stiamo andando. — Non credo che abbiano capito — disse Marianne. — Non ti preoccupare — rispose lui. — E continua a camminare. E se ne andarono. 32 Cadogan non era andato al distretto con la sua auto, sicché Jennifer si offrì di accompagnarlo a casa. Aveva un'aria confusa, e probabilmente era così che si sentiva. Non aveva molto da dire. Lei aveva trascorso un'altra mezz'ora nella stanza degli interrogatori con lui, questa volta col registratore acceso e le due cassette che giravano, e avevano ripetuto tutto quello che era stato giudicato essere essenziale. L'ostacolo principale era superato. Dopo lo shock della prima registrazione, tutto il resto era solo come un dolore postoperatorio. La strada svanì, trasformandosi in viottolo — Sicuro che si va di qui? — Sì. — Che succede quando arriva la marea? — Non arriva molto spesso fin qui. Poiché c'era qualche giornalista e alcuni fotografi all'ingresso, lei era andata a prenderlo nel parcheggio della polizia. Non erano in molti perché quella non era una notizia di quelle eclatanti, ma erano in numero suffi-
ciente a fargli passare qualche brutto momento. Era il padre della bambina scomparsa, il che significava che ci si aspettava che si assumesse il proprio ruolo. Ma solo Dio sapeva cosa sarebbe potuto succedere se lui avesse aperto bocca per rispondere a qualche domanda provocatoria. Sedeva muto, oppresso, accanto a lei, con lo sguardo perso fuori dal finestrino. Adesso Jennifer vedeva la casa. C'era parecchio bestiame che pascolava nella marcita. C'erano bestie giovani, adulte, decrepite. Null'altro si muoveva tranne gli uccelli che scendevano per frugare fra l'erba, e che volavano via al loro passaggio. Di tanto in tanto il viottolo era fiancheggiato da cartelli dipinti a mano con vernice nera o da altri cartelli più o meno di fattura artigianale. Era chiaro che la marea si faceva vedere poco da quelle parti, ma quando lo faceva lasciava il segno. Alcuni dei cartelli, anche se infilati in barili appesantiti da terra e sassi, erano stati spostati di parecchi metri. La casa era sempre più vicina. A Jennifer apparve come il posto più solitario sulla faccia della terra. Percorse con estrema attenzione il sentiero che costeggiava il capo. Quello non era un posto in cui distrarsi. Si fermò dietro l'auto di Cadogan, e spense il motore. Lo guardò. Se ne stava seduto con una mano sulla fronte. Sembrava troppo esausto persino per muoversi. — Mi ascolti — gli disse. — Quel che le è successo dev'essere stato devastante in quel momento. Ma, sulla scala delle sofferenze umane, non è la cosa peggiore al mondo che poteva succederle. — Davvero — rispose lui, atono. — Sì, davvero. E lei non può continuare a trattarlo come una vecchia piaga che non vuole lasciar guarire. Lei ha ancora una figlia, nel caso se lo sia scordato, e noi stiamo facendo del nostro meglio per riportargliela... ma a quale scopo? — Indicò la casa. — Questa può essere l'inferno o il paradiso, dipende da quel che ne vuole fare lei. A me sarebbe piaciuto crescere in un posto come questo, ma le voglio dire qualcosa. Non avrei mai voluto dividerla con un miserabile bastardo come lei. Già parecchie persone hanno avuto modo di vedere Marianne assieme a Ryan, e nessuno ha avuto il minimo sospetto. E sa perché? Perché lei sembra essere felice in sua compagnia. Cadogan la stava fissando, col viso ridotto a una maschera esangue mentre lei si preparava a scendere dall'auto.
Ma si fermò e aggiunse: — Un'ultima cosa. Se continua a sentirsi dispiaciuto per sé e cerca qualcosa su cui meditare, pensi a questo. Quando Marianne ha avuto bisogno di qualcuno, ha trovato un ex-criminale vagabondo che campa raccogliendo rifiuti sulla spiaggia che le ha offerto prospettive più incoraggianti di quelle che le ha offerto lei. Adesso forza, scenda. Una donna con un camice di nylon blu era uscita dalla casa e stava aspettando, incerta; Jennifer si sforzò di trovare uno sguardo di simpatia prima di dire: — Lei dev'essere la signora Healey. Io e il signor Cadogan abbiamo appena terminato di discutere questa terribile storia di Marianne. La signora Healey guardava, confusa, dall'uno all'altro; Cadogan stava scendendo rigidamente dall'auto. Si muoveva come se fosse sotto shock. — Signor Cadogan — disse. — Cos'è successo? È venuta la polizia l'altra sera con un mandato e hanno frugato dappertutto. Nessuno mi ha spiegato perché. Sembrò funzionare. Lui sembrò riprendere la padronanza di sé e, con la stessa determinazione di chi fa il primo passo per lasciarsi alle spalle la sedia a rotelle disse: — Marianne è scomparsa, signora Healey. — Guardò Jennifer. — Speravo che questo almeno gliel'avessero detto. — Volevano sapere — disse la signora Healey — cos'era successo fra lei e quel tizio. Ma nessuno mi ha spiegato niente. — Lo so e mi dispiace. Sembra che sia questo il modo in cui lavorano. Venga, rientriamo. Jennifer li seguì. Cadogan sedette al tavolo da cucina, la signora Healey riempì il bollitore e lo mise sul fuoco. Il tavolo era ingombro di scatole di documenti, fogli, vecchia corrispondenza, tutta roba fra cui avevano frugato i poliziotti e che poi avevano abbandonato in attesa che il padrone la rimettesse a posto. Parecchi dei contenitori erano semi-aperti e, in più, c'era anche una vecchia cartella in cuoio col manico rotto e gli angoli rovinati. Jennifer guardò Cadogan al di sopra di tutto ciò e disse: — Un'altra cosa. Non pensi di lasciare questo posto. Cadogan non reagì. — Potrei essere fermato? — chiese. — Non c'è nulla che lei possa fare. Invece, potrebbe peggiorare le cose. Ora deve solo essere sempre reperibile ed essere più cooperativo. Oggi è stato un inizio. La prossima volta potrebbe trovarsi a parlare con qualcun altro, ma chiunque egli sarà, lei dovrà sempre essere collaborativo. — Lei andrà laggiù a cercarla.
— Nessuno sa ancora chi andrà. Ricordi che prima o poi avrà a che fare con la stampa. Non voglio dirle di non parlare con loro, però gli tenga testa. Il nome di Marianne non verrà divulgato, ma ci sono sempre pettegolezzi e voci che filtrano. Possiamo ottenere un'ingiunzione perché il suo nome non venga pubblicato, ma questo non significa che non potranno mettersi a frugare in giro. Mi capisce? — Sì. — La cosa migliore è tacere. Non si lasci trascinare. Non verranno da lei perché gli è simpatico, ma perché questo è il loro lavoro. — Guardò la signora Healey. — Quel che ho detto vale per tutt'e due. Cadogan annuì. La signora Healey sembrava troppo stupefatta per rispondere. Aprì la bocca e la richiuse, senza che ne fosse uscito alcun suono. Senza aggiungere altro, Jennifer si alzò, li salutò, e li lasciò soli. Sentì la mano della signora Healey sulla spalla. Era un tocco esitante, e lei non profferì parola, ma era la cosa più espansiva che le avesse mai visto fare. Lui alzò la testa, che aveva posato sulle braccia, e le disse: — Grazie. Non si era mai sentito tanto debole. Si sentiva come chi ha appena portato a compimento un viaggio impossibile solo per trovarsi di fronte a una grande cancellata che gli si apre dinnanzi per dargli la prima, vera visione del viaggio che dovrà affrontare, e di cui quello appena terminato rappresenta solo il prologo. Ma lasciarsi mettere in ginocchio adesso significava gettar via quel che aveva appena appreso. E l'aveva imparato con grande difficoltà. Frugò fra le carte della borsa. Il suo passaporto c'era. Lo guardò. — Le ha detto di non partire — disse la signora Healey. — L'ho sentita. Rimase immobile. — Ma lei vuole partire, vero? — Avevano mille domande per me — rispose lui — e non ho potuto rispondere nemmeno alla metà di esse. Tutte su Marianne. Il giorno in cui è nata, penso di essere stato l'uomo più orgoglioso che ci sia mai stato al mondo. Ero solito annoiare tutti con tutte quelle stupide piccole storie che i genitori sono soliti raccontare. L'altra sera mi hanno chiesto quand'era il suo compleanno, e non ho saputo rispondere. Non riuscivo a ricordare la data. Questo significa che quest'anno quella data è venuta e passata, e lei non ne ha fatto parola. Me l'ero dimenticato. Mi sono fottuto il cervello,
capisce? — Signor Cadogan! — esclamò la signora Healey, ma quella protesta era solo di facciata. Lui cominciò ad alzarsi. — Se non parto — disse lui — qual è la cosa migliore che potrà succedere? Estranei la troveranno, estranei la riporteranno a casa. E io dovrò stare qui con questa stupida espressione sul viso, e dovrò dire grazie, bentornata a casa, adesso tutto tornerà come prima. — Batté con forza la mano sul tavolo. — Lei è mia. Devo andare, lo capisce? Io più di qualsiasi altro. Lei deve vedere che sono io quello che è andato a prenderla. Salì le scale. La porta della stanza di Marianne era aperta; la polizia aveva frugato dappertutto, ma lì c'era sempre stata una tale confusione che Cadogan non vedeva molte differenze. Rimase fermo per un po', a guardare. Poi si recò nella sua stanza e prese la valigia che teneva sotto il letto. Dopo alcuni minuti la signora Healey s'affacciò alla porta e rimase a fissarlo mentre faceva i bagagli. Tutti i cassetti erano stati aperti e saccheggiati. — Posso aiutarla? — chiese la signora Healey. — No — rispose lui. — Però quelli della carta di credito potranno venire a cercarmi quando sarà finito tutto. — Io ho... — disse la signora Healey con gran delicatezza — ...ho del denaro da parte. Non una gran somma. Potrei tenerli calmi con quello. — Non mi dica che le hanno finalmente pagato l'assicurazione — disse lui ficcando una maglietta in un angolino. — C'erano una o due cose riguardo la casa di mia sorella alle quali gli altri non avevano pensato. Lui si fermò e alzò gli occhi per fissarla. — Perché, signora Healey? — chiese. — Lei è una vecchia volpe. Scommetto che lei è tornata da quel funerale come in Ferrari. — Se ha intenzione di insultarmi — disse lei — lascio cadere la mia offerta. Lui abbassò il coperchio della valigia e lei gli si avvicinò come se volesse aiutarlo nel caso in cui non riuscisse a chiuderla. — La sua offerta — disse lui — è apprezzatissima. Vedremo se sarà necessaria. — Bene — disse lei riaprendo una cerniera. — Adesso vada a prenotare un aereo, che io gliela rifaccio per bene.
33 Marianne aveva fame. Lungo l'elegante arteria piena di negozi di lusso che stavano percorrendo avevano trovato un Burger King che era stato ricavato in quello che aveva tutto l'aspetto di un museo dedicato alla guerra: all'esterno tempio greco in miniatura, mentre l'interno era esattamente uguale a tutti gli altri fast food americani di quel tipo. C'era la folla del mezzogiorno, ma riuscirono lo stesso a trovare un tavolino d'angolo. Ryan disse che non voleva niente, ma poi si mise a piluccare le sue patatine. S'era tolto di tasca i foglietti dell'indirizzario e li stava sfogliando accuratamente uno alla volta. — È stata una furbata forte quando li hai presi — disse Marianne. — Io non sono furbo — disse Ryan. — Ma una volta o due mi è capitato di osservare gente che lo era. — Non c'era scritto nulla sul retro dei cartoncini, ma lui ci guardava lo stesso prima di posarli e passare al successivo. — Sei stato nell'esercito? — Be'... — Lei non capiva se l'indecisione di lui a rispondere era dovuto all'imbarazzo o alla modestia. — Be', sono stato in uniforme — disse infine mentre fissava intensamente un cartoncino come se volesse strappargli qualche segreto che teneva ben nascosto, ma poi lo ripose assieme agli altri e, mentre afferrava il successivo, disse: — Qual era quel nome? — Schlesinger. Voltò il cartoncino perché anche lei lo vedesse. — È questo per caso? Non capisco bene la calligrafia di quella donna. Marianne lo guardò da vicino. — È lui — disse — e mi sembra anche di sapere dov'è questo indirizzo. Non è molto lontano da qui. — Sicura? — Certo che sono sicura. — Non vorrei fare un altro giro attorno a montagne di carbone con finale sul sedile di un'auto della polizia. — Potremmo prendere un taxi. — Niente taxi. Costano troppo. — Te l'ho detto che te li restituisco i soldi. — Mai sentita l'espressione "soldi e amici non vanno d'accordo"? — Credo di sì. Da dove viene? — Non lo so.
— E cosa vuol dire? — Vuol dire che non prenderemo il taxi. Quanto ci vorrà a piedi? — Secoli. — Allora faremo meglio a metterci subito in marcia — disse cominciando a ficcare i cartoncini ormai inservibili nella confezione ormai vuota dell'hamburger mentre col capo le indicava le patatine ancora da finire. — Mandale giù alla svelta e andiamo. — Tu sei stufo di me. — Ti ho portata fin qui sì o no? Anziché rispondergli, lei gli mostrò la lingua. — E datti anche una pulita — aggiunse lui. — Hai lattuga dappertutto. Lei prese il tovagliolino di carta e si ripulì la faccia, poi protese il mento perché lui lo ispezionasse. Rimase così per parecchi secondi mentre Ryan la guardava in silenzio. Dopo un po' cominciò a dolerle la mascella e lei a sentirsi sciocca, ma lui disse: — Ti stai divertendo, vero? Lei rilassò il viso e s'appoggiò allo schienale. — Perché, faccio male? Lui scrollò la testa; si alzarono per uscire. Le strade erano affollate, e nessuno li degnava di una seconda occhiata. Da una delle piazzette laterali veniva il suono ritmato di una banda di ottoni, diffuso da un altoparlante situato all'esterno di una tenda promozionale nella quale si vendevano vini austriaci: una cosa alquanto anacronistica, incastonata com'era fra grandi magazzini e negozi di articoli sportivi. Quel mattino avevano lasciato i bagagli in un armadietto alla stazione, per cui viaggiavano leggeri. Era una giornata piacevole, calda ma non troppo. A Marianne non dolevano più i piedi. — Sai cosa mi piaceva inventare? — disse Marianne mentre camminavano. — Mi inventavo che papà se ne era andato e che un estraneo aveva preso il suo posto. Però il mio vero papà un bel giorno tornava e cacciava via quell'altro e tutto tornava a posto come prima. Mi piaceva molto. Ma era tanto, tanto tempo fa. Non saprei nemmeno dire quanto. Da quando siamo venuti via da qui, non mi ha più portata in nessun posto. Questa è la mia prima vacanza. Ryan non rispose. Continuarono a camminare. In primo momento, sembrò loro che l'indirizzo di Johann Schlesinger fosse sbagliato. Sembrava un vecchio mercato coperto ricavato in un anti-
co edificio di mattoni rossi in una delle vie che attraversavano la circonvallazione interna della città e che portavano dal centro al porto. Le finestre del piano terreno erano state dipinte di nero e sbarrate con reti metalliche, e le pareti, fino a un paio di metri d'altezza, erano ricoperte di manifesti fatti a mano che invitavano a raduni politici e pubblicizzavano jazz club, film in programmazione e concerti rock. In certi punti ne erano stati incollati così tanti l'uno sull'altro che si stavano staccando da sé dal muro, arrotolandosi all'insù. C'era anche un portone d'ingresso, la cui verniciatura grigia scompariva sotto una selva di graffiti, dall'aria tanto solida da poter resistere alla carica di un carro armato. C'era comunque anche un altro ingresso, proprio dietro l'angolo. Era accanto a un negozio d'antiquariato dell'edificio accanto, e ricordava molto l'ingresso posteriore di un gabinetto sgangherato. Per niente incoraggiante, però andarono lo stesso a dargli un'occhiata. Dalla porta a vetri dell'antiquario Marianne riuscì a cogliere l'ombra fantasmatica delle gambe di un pianoforte e di altri mobili indefiniti. Alcuni cartelli indicavano una scala che si perdeva nel buio della parete di fronte e che saliva fino al soffitto di quell'ingresso. Una volta le scale erano state verniciate, e la vernice adesso si stava squamando mettendo in vista il cemento sottostante. — Si direbbe che uno debba mettersi a fare l'investigatore per trovare questo investigatore — commentò Ryan. In cima alla scala svoltarono a sinistra, superarono una porta basculante e si trovarono alla luce del giorno. O quasi. Di fatto era la luce del giorno, ma resa opalescente da un soffitto a vetrate che si levava a una trentina di metri d'altezza. Lo spazio interno di quell'edificio era una lunga galleria con tre ordini di logge e una struttura portante in metallo tipica di tutti i centri commerciali europei e che ogni città cerca di imitare secondo propri criteri. Ma questo era originale e di fattura popolare, e mostrava tutti i segni dell'età. Controllato il numero di Schlesinger, fecero alcuni calcoli e salirono fino al secondo livello. Non si trattava di veri e propri negozi, né di uffici: si trattava di spazi a volte poco più grandi di stanzini, in cui alloggiavano sarti e orologiai e venditori di libri per corrispondenza, filatelici e numismatici e stampatori di partecipazioni di nozze, e ognuno di loro era incastrato in uno spazio minimo, e molti di loro avevano le veneziane abbassate e più di un ragionevole motivo per essere altrove. Trovarono l'unità numero 258, dove si doveva trovare Johann Schlesinger.
Ma non trovarono Johann Schlesinger. La porta era chiusa a chiave, la stanza dietro a essa era buia e sul vetro della porta c'era un bigliettino autoadesivo giallo. — Cosa c'è scritto? — chiese lui. — "Tutti i pacchi devono essere consegnati al numero centodiciotto" — lesse lei. — Che significa? — Immagino che voglia dire che qui non c'è nessuno che li possa ricevere. — Ci dovrebbe essere una segretaria, qualcosa del genere. — Non mi sembra che ci sia il posto per mettercene una. Da qualche parte, nella stanza buia cominciò a suonare un telefono, e Ryan appoggiò la faccia contro il vetro nel tentativo di vedere qualcosa attraverso le fessure della veneziana. Marianne lo imitò. Non vedeva molto, solo un ufficio buio: il telefono smise all'improvviso di suonare mentre si accendeva il puntino rosso di una segreteria telefonica, sepolta fra il disordine della scrivania. — Potremmo lasciargli un messaggio — suggerì lei. Il grugnito di Ryan poteva essere preso per un assenso, ma appariva anche poco entusiasta. Appoggiò di nuovo la fronte contro il vetro, ricavandone un suono vuoto e tremolante. Poi si raddrizzò e disse: — Andiamo a parlare con chi ne sa qualcosa. Il chiosco 118 era uno spazio occupato da un fotoritoccatore. Lavorava seduto su un alto scranno davanti a un alto tavolo, che faceva ricordare un contabile della fine del secolo, col materiale ben ordinato sugli scaffali che salivano fino al soffitto, tutti egualmente raggiungibili senza troppo sforzo. Stava eliminando imperfezioni e strappi dall'ingrandimento di un antico ritratto virato seppia che mostrava una donna con un abito dal colletto alto e un'espressione perplessa. Il malconcio originale, di dimensioni ridotte, era infilato in una busta di plastica e stava attaccato sull'alto del piano di lavoro. Fra l'uomo e la fotografia c'era una grossa lente d'ingrandimento montata su un braccio mobile, che l'uomo dovette spostare per guardare i nuovi arrivati. Per parlare con loro, si dovette togliere la mascherina che indossava a causa dell'aerografo che stava usando. Marianne fece le domande, poi tradusse le risposte per Ryan. — Dice che Herr Schlesinger lavora fuori città. Potrebbe trattarsi di pochi giorni oppure di una settimana; raramente sta fuori per più tempo. — Da quanto se n'è andato? — chiese Ryan. Lei tradusse la domanda.
— Non lo sa. — Ringrazialo e andiamocene — disse Ryan. Per un bel po', Ryan rimase in silenzio. Camminarono per un lungo tratto, poi sedettero su una panchina di fronte al lago Alster, che era il cuore e l'orgoglio della città. Lei ricordava quando papà aveva detto loro che si sarebbero trasferiti in una casa più grande, una che guardava sul lago anziché sul fiume. Non c'era stato un momento nella vita di Marianne in cui lei non avesse guardato dalla finestra della sua camera senza vedere dell'acqua, con l'eccezione, è ovvio, della lunga teoria di alberghetti "Bed & Breakfast". E adesso che era in quel luogo, cominciava ad avvertire i primi sintomi... Bloccò quei pensieri sul nascere, prima che potessero degenerare. — Non riesco a vedere cos'altro fare — disse Ryan. — Dovremo stare ad aspettare finché non sarà tornato. Oggi è venerdì, saremo bloccati per tutto il fine settimana. — Possiamo permettercelo? — chiese Marianne. — Io non posso permettermelo. Ma non chiedermi di spiegarti il perché. Si alzarono per riprendere la loro strada. Alla stazione ritirarono i bagagli e tornarono nel quartiere di St. Georg per cercare un'altra stanza nello stesso albergo o in uno similare. Di giorno St. Georg era un posto sonnolento, persino rispettabile in quegli angoli in cui sorgevano casamenti adibiti ad abitazioni popolari. Mentre stavano facendo acquisti in un mini-supermercato gestito da un turco, Marianne sentì delle grida in strada e, guardando fuori dalla vetrina, vide una trentina di giovanotti che transitavano cantando come una squadra di tifosi, agitando braccia e gambe. Si pavoneggiavano come gorilla, e quando furono passati lasciarono dietro di sé un'onda di nervosismo che era quasi palpabile. Guardò Ryan. Volgeva le spalle alla porta. Sembrava che stesse studiando qualcosa, e non alzò mai lo sguardo. Tornarono nello stesso albergo. La stanza era un'altra, ma avrebbe potuto anche essere quella di prima. Ryan si laciò cadere pesantemente su uno dei due letti mentre Marianne toglieva la spesa dai sacchetti. Il letto scricchiolava più forte dell'altro, il tappeto era costellato di macchie che lo facevano assomigliare a una pelliccia di leopardo, ma per il resto le due stanze erano intercambiabili. — Da dove salta fuori quella birra? — chiese Ryan. — L'ho presa per te — disse lei. — La Cherry Coke invece è per me.
— E quando l'hai presa? — Proprio davanti a te. Pensavo che stessi guardando. — Be' — disse lui allungando un braccio per prendere una delle due lattine per guardarla dappresso — grazie per il pensiero, ma io non bevo così tanto. — Sei un Testimone di Geova? Ryan depose la lattina, perplesso. — No. — In una delle classi che ho frequentato c'era una ragazza che aveva i genitori che erano Testimoni di Geova. Non bevevano né facevano altre cose. Non le facevano nemmeno guardare la televisione. Te lo immagini? Non sapeva niente di niente. Solo quello che c'è nella Bibbia: quello lo sapeva a memoria. — Non c'è niente di male in questo. — Papà dice sempre che è roba troppo antica per poterci credere ancora. — Ma non importa molto quello che dice. Quel che conta è il significato. — E qual è il significato? Attese, curiosa; lui per un attimo apparve incerto, come se quella fosse l'ultima domanda al mondo che si fosse aspettato. Poi sembrò riprendersi e disse: — C'è qualcosa che desidero dirti. — Hai solo un rene, vero? — Cosa? — Ho sentito di uno che ha avuto un'operazione e gli hanno tolto un rene, e da allora non beve più. — No, è che... be', non ne ho mai avuto l'abitudine. Nel frattempo lei aveva sistemato le loro spese sul tavolinetto. Il pane, il formaggio, le fette di prosciutto cotto conservate sotto vuoto, il pacchetto di biscotti. E se lui non voleva la birra che lei gli aveva preso, peggio per lui. La Cherry Coke era per lei e solo per lei. Lui stava frugando nelle tasche del pastrano, forse alla ricerca del coltellino, quando lei gli chiese: — Hai mai avuto un'operazione? — Una volta. — E com'è stato? — Non lo so. Non stavo guardando. — Che tipo di operazione è stata? — Ho avuto un incidente. Be', non proprio un incidente. Qualcuno mi ha buttato per terra e mi ha preso a calci sulla testa. Hanno dovuto alleggerire
la pressione perché altrimenti sarei morto. — Sei quasi morto? — Questo sì che era impressionante. — Così hanno detto. — E a cosa assomigliava? Lui aveva trovato il coltello, e quando la guardò i suoi occhi erano due fessure. — Perché vuoi sapere queste cose? — Perché è interessante. Mio zio è morto. Nella stanza accanto a quella in cui dormo io. È rimasto là un'infinità di tempo prima che lo trovassero. Una volta sono entrata in quella stanza. Faccio sempre brutti sogni quando ci penso. — Non devi fare brutti sogni su cose come questa. È naturale che la gente muoia. È sempre stato così. — Va be' — disse Marianne — ma a cosa assomiglia? Lui si sfregò il viso poi si grattò la nuca, come se nessuno gli avesse mai posto una domanda del genere e adesso scoprisse di non sapere come rispondere. — Be', era strano. Ho visto cose strane. Però c'era anche qualcosa di bello. Mi ha lasciato con l'impressione che per un attimo avevo capito tutto quello che non avevo mai capito prima, ma poi l'ho dimenticato di nuovo. Fino a quel momento avevo sempre avuto paura di morire. Da allora, non più. Stava cominciando a calare il sole. La vita notturna di St. Georg stava cominciando ad animarsi nelle viuzze sotto le loro finestre. Coi vetri aperti, sentivano le voci delle persone che passavano lì sotto. — E cosa hai visto? — incalzò Marianne. — Ehi, adesso basta. — Allungò il braccio per prendere il pane, poi aprì il coltello per tagliare l'involucro di plastica. La lama era lunga, più di quanto lei si fosse aspettata. — Non me lo vuoi dire? — Già — disse lui secco. — Però posso vedere noi due alla fine della strada con la polizia che ci chiede di cosa abbiamo parlato per tutto questo tempo e tu che gli racconti queste cose. Be', io avrò ben altre spiegazioni da dargli. — Con un colpo netto aprì il pacco da parte a parte, poi chiuse il coltello e lo intascò. — Tu non credi che la mamma sia morta, vero? — chiese Marianne, preoccupata. — Oh Dio — disse lui debolmente. — Proprio quello che ho sempre desiderato. Qualsiasi cosa, ma non questo.
— Pensi che la troveremo? — Sono convinto di sì. — Anch'io ne sono convinta. E sono contenta che tu sia stato con me per tutto questo tempo. Attese un suo commento ma lui rimase in silenzio, e allora aggiunse: — Sei contento di essere qui con me? Lui non la stava guardando. — Chiudi la bocca e mangia — le disse. E lei cominciò a mangiare, e il silenzio fra loro durò per quasi un minuto. — I Testimoni di Geova — disse lei — non possono farsi operare. Sono contrari alle trasfusioni di sangue. Non possono farsi operare altrimenti sanguinerebbero fino a morire. Ryan smise di masticare, la fissò per un attimo, poi riprese, ma più lentamente. — Aprimi quella lattina — disse appena ebbe svuotato la bocca. — Penso proprio di averne bisogno. 34 Gli investigatori inglesi s'incontrarono, al loro arrivo, con Werner Odendahl, alle nove di sera, al Polizei Praesidium. Un agente in uniforme li aveva prelevati all'aeroporto e li aveva portati direttamente all'alta torre in cemento e acciaio chiamata Berliner Tor; avevano avuto un colloquio di un quarto d'ora col comandante della sezione prima di essere affidati alle cure di Werner. Lui e un altro collega sarebbero stati i loro contatti principali al Landeskriminalamt, l'Ufficio Statale per le Indagini, l'equivalente tedesco della loro sezione. Appena usciti dal suo ufficio che si trovava all'undicesimo piano, Werner disse: — Devo scusarmi per il mio inglese, che non è certo dei migliori. — A me va più che bene — rispose Jennifer, che stava comparando le sue poche, stentate parole in tedesco, con la scorrevolezza dell'altro. Benny Moon rimase zitto. Scesero al secondo piano: l'edificio, a quell'ora, era praticamente deserto. Lei ebbe l'immediata sensazione che quel luogo fosse più formale di quanto non apparisse a prima vista, ma che la gente che lo usava lo fosse molto meno. Il capo di Werner indossava giacca e cravatta, ma lo stesso
Werner aveva l'aria di uno che il suo capo avrebbe arrestato senza tanti complimenti. — Cosa si pensa che sia successo nello studio degli avvocati? — chiese Jenniefer. — O'Donnell e la bambina ci sono andati questa mattina — rispose lui — ma non ci hanno informati. L'abbiamo scoperto quando li abbiamo chiamati in base alle informazioni che ci avete fornito. — Che scalogna — disse Jennifer. — Sì, lo so — disse Werner — ma guardiamo la parte ottimistica. Hanno usato i loro nomi, e sembra che stiano facendo uno sforzo genuino per trovare la madre della bambina. Guardi che non sto dicendo che le intenzioni dell'uomo siano oneste. Però, forse sta cominciando a capire cos'ha messo in moto, e magari ci sta ripensando. — Sappiamo dove sia la donna? — Non ancora. Ma ci aspettiamo di saperlo molto presto. — Una voce elettronica annunciò il piano d'arrivo. Mentre uscivano, Werner chiese: — Quali sono esattamente le vostre apprensioni riguardo la bambina? — Be' — rispose lei — l'uomo con cui si trova è stato imprigionato per assassinio oltre ad aver trascorso un lungo periodo in un istituto per malattie mentali. In più ha eluso i termini di custodia cautelare oltre a essere sospettato di aver cercato di entrare nella casa della bambina con scopi poco chiari, anche se questa parte forse non ha sostanza alcuna. Se mi vuol dire che la bambina apparentemente lo segue senza costrizione alcuna e che lui la sta aiutando in quel che lei vuol fare, allora la mia risposta è che fa tutto parte del quadro generale. La scorsa settimana lui ha visto il diavolo che leggeva il giornale seduto in un bar. Il crimine è rapimento, e non m'importa se nessuno la vuole vedere in questi termini; quel che vogliamo è che siano presi e separati prima che lui possa farle del male, e questo è il motivo per cui io sono qui. Si fermarono davanti a una porta e Werner estrasse di tasca un mazzo di chiavi, fra le quali cercò quella che gli serviva. — Perfetto — disse. — Farò quel che mi è possibile per aiutarvi. Entrò per primo, e accese la luce. Erano nella sezione rapine, con la quale avrebbero lavorato. Si trovavano in un corridoio lungo il quale si allineavano parecchi uffici, con un pavimento lucido color azzurro e pareti bianche sepolte sotto la solita massa di cartine, foto segnaletiche e avvisi. La loro fu una visita brevissima, prima che venissero accompagnati al loro albergo. Il vero lavoro sarebbe cominciato solo il mattino successivo.
— Sia che le cose peggiorino o che si trasformino in un rapimento vero e proprio — disse Benny Moon — cosa dobbiamo fare? — Mi spiace dirvi che voi non dovrete fare nulla — rispose Werner. — Voi siete qui solo come consulenti. — Lo sappiamo benissimo — disse Jennifer. — Ma qui avete una squadra di pronto intervento? — insistette Benny — con personale addestrato all'uso delle armi e pronto a far centro? — A far centro? — chiese Werner stupito. — Vuol dire — disse Jennifer — che se O'Donnell dovesse essere abbattuto per essere fermato, c'è chi può farlo con la massima efficienza? — Per le operazioni che richiedono l'uso delle armi, abbiamo un'unità apposita. — Grazie, Benny — disse allora Jennifer, secca. La risposta di Benny Moon fu un lungo, tormentato bramito soffiato nel fazzoletto. 35 Al mattino, Benny Moon non sembrava stare meglio di come stava quand'erano in aereo. Aveva gli occhi rossi e un aspetto assonnato; Jennifer lo attribuiva all'infruttuosa giornata e alla notte che aveva trascorso cercando di cavar fuori un pizzico di verità da quella conchiglia ermeticamente chiusa che era la vergogna in cui si avvolgeva Cadogan. Aveva dormicchiato durante il volo, per cui avevano parlato pochissimo. Ma forse era tutto voluto da parte di lui, per una serie di motivi suoi particolari. Il taxi non impiegò più di dieci minuti per portarli dal Praesidium all'albergo, e la maggior parte del tempo l'avevano trascorsa a guardare il traffico del sabato. Adesso che lo vedeva alla luce del giorno, Jennifer si rese conto che probabilmente lui avrebbe continuato nell'atteggiamento di mantenere le distanze fra di loro. Bene: anche lei. L'unica sua speranza era che si sbrigassero alla svelta. Alle 8,30 ricevettero i dettagli sui risultati del fine settimana alla squadra antirapina, poi scesero in un altro ufficio per pianificare le ricerche. I collegamenti erano una materia da trattare con estrema delicatezza. Come investigatori in visita non avevano alcun potere istituzionale, e gli agenti locali coi quali avevano a che fare avevano anche altri carichi di lavoro. Oltre ai furti, la squadra si occupava anche di ricatti, rapimenti, ferite d'arma da fuoco, ovvero tutto quel miscuglio di crimini che non rientrava nelle
competenze degli altri reparti. Ryan O'Donnell e Marianne Cadogan dovevano già essere in agenda, ma ovviamente non erano in cima alla lista di nessun agente della squadra. A loro non era stato assegnato nessun ufficio. Avevano due sedie accanto a un tavolo normale in un ufficio usato da cinque investigatori che, fortunatamente, non si trovavano mai presenti nello stesso momento. Benny uscì alla ricerca di una tazza di caffè mentre Jennifer telefonava a Stapleton per confermargli il loro arrivo. Quando Benny Moon tornò, aveva sempre un'aria da morto in piedi. — Ti senti in grado di lavorare? — gli chiese Jennifer. — Sono in grado di fare qualsiasi cosa — rispose lui lasciandosi cadere sulla sedia. — Ti ho lasciato l'elenco degli alberghi — disse Jennifer. — La maggior parte dei portieri parla inglese, così non dovresti avere problemi. Ho già trovato il nome da ragazza della madre in modo da vedere se trovo qualche aggancio coi nonni. In più, mi occuperò anche degli ospedali. Benny si guardò attorno. — Dov'è quell'hippy? — Vorresti dire Werner? — E chi sennò? — Guarda che non siamo più a casa, Benny. Qui le cose sono diverse. — Ovviamente. — Gli avvocati — proseguì Jennifer — avevano contattato un investigatore privato per trovare la mamma di Marianne. Werner sta cercando di rintracciarlo. È andato a Bruxelles dove si trova da due giorni: è tutto quello che sappiamo. Benny cominciò ad aprire il grosso elenco telefonico che la collega gli aveva piazzato davanti, e si tirò vicino il telefono. La lista degli alberghi era la più lunga di tutte, e non c'era modo di ridurla: nulla nei nomi distingueva i quattro stelle dalle topaie. Benny cominciava ad assumere l'aspetto di un toro che sta per essere condotto alla castrazione. — Salve — gli sentì dire al telefono — c'è qualcuno lì da voi che parla inglese? Neanche Jennifer riteneva quel lavoro il massimo delle sue aspirazioni, ma doveva essere fatto, e poi era qualcosa che permetteva loro di agire legittimamente. Werner li avrebbe raggiunti entro una mezz'ora, e forse per allora ci sarebbe stato qualcosa che li avrebbe aiutati a restringere il campo delle ricerche. Il problema col lavoro da poliziotto è che è fatto di cose del genere: per lo meno, quando non sei al livello del mani-in-alto e cose simi-
li. Voleva dire conoscere bene l'area in cui ti muovevi oltre ad avere il senso delle interconnessioni fra tutte le persone che vi vivono. Lei e Benny erano fuori territorio, e Werner aveva a che fare con due estranei. Ma, almeno, qualcosa da fare l'avevano. E con due persone come loro al lavoro, come poteva venire a mancare un risultato? Aveva già eliminato dieci persone dalla sua lista dei presunti nonni e non aveva ricevuto alcuna risposta da altri tre, che aveva sottolineato per richiamarli più tardi. All'inizio era stata esitante, ma adesso ci stava prendendo la mano. Alla quattordicesima telefonata era quasi al livello di pilota automatico, le domande le venivano spontanee e riusciva anche ad anticipare le risposte. La prontezza le tornò al suono della voce di una donna anziana. Quel che fece quella donna fu di dire il proprio cognome e, quando Jennifer cominciò a identificarsi come agente di polizia, riappendere. Ma quelle sole parole le erano suonate esitanti, fragili, preoccupate. Jennifer rimase con il ricevitore in mano e un'espressione stupita, ma anche con la sensazione di aver trovato una traccia. Rifece il numero e sentì dall'altra parte l'apparecchio che suonava e suonava, ma nessuno che rispondeva. Riprovò di nuovo, ma questa volta era stato staccato dalla forcella. E allora, che fare? Lanciò un'occhiata a Benny Moon, dall'altra parte del tavolo. Aveva spinto la sedia indietro e posato i piedi sul tavolo e stava guardando il soffitto. — Salve — stava dicendo. — C'è qualcuno lì da voi che parli inglese? Jennifer aprì il suo blocco a spirale e cominciò a scrivere l'indirizzo. Patrick Cadogan si fermò un attimo sulla soglia della sala da pranzo dell'albergo. Era già stato in quel posto, molti anni prima, ma adesso si sentiva nervoso. Era lì che la sua ditta prenotava sempre per i clienti che venivano da fuori, e lui stesso aveva avuto molti incontri d'affari in quella stessa sala. L'albergo era vasto, anonimo, moderno, discreto. Aveva caratteristiche da possessore di Gold Card. Cadogan aveva preso una stanza d'angolo al sesto piano, e forse perché si era presentato senza aver prima prenotato, l'avevano fatto sentire come se gli avessero concesso di usare l'ultima stanza rimasta libera in tutta la città. La sua carta di credito era buona, perché l'ultima fattura su un prestito a lungo termine l'aveva pagata circa sei mesi prima e poi non aveva più osato riutilizzarla. La compagnia aveva minacciato di ricorrere alle vie legali se non avesse pagato. Poche settima-
ne dopo il saldo, gli avevano esteso il credito. Anche se era mattina presto, la stanza era quasi al buio. L'arredamento era in marmo nero e oro. I tavolini erano bassi, con sedie ancor più basse. Cadogan si raddrizzò sul busto. Individuò un tavolo libero, e ci si diresse. Un cameriere con la giacca rossa gli si avvicinò. — Was möchten Sie mein Herr? — Einen Englischen Tee bitte — disse lui. — Mit Zitrone? — Nein, mit Milch. Nein, warten Sie einen Augenblick... bringen Sie mir einen Kaffee, aber schwarz. Il cameriere s'allontanò con l'ordinazione, e Cadogan sedette. Non male. Non tanto quanto aveva temuto. Fin dal suo arrivo aveva avuto la sensazione di tornare in una forma che aveva già occupato e che era rimasta vuota, in attesa che lui tornasse. Non ci si adattava più tanto bene; aveva aggiunto un po' di chili qui, si era allargato un po' là, ma c'era ancora un senso di appartenenza, e la sensazione di essere stato via troppo a lungo. La sera prima era passato con la macchina presa a nolo davanti alla vecchia casa. Era tornata di proprietà della compagnia, ma sembrava quasi che fosse stata venduta; tutto l'esterno era stato cambiato, e sul praticello anteriore aveva visto incatenato un dobermann che l'aveva guardato passare con occhi di ghiaccio. Erano stati felici in quel posto, se si può parlare di felicità quando c'è qualcosa di così terribile che aspetta pazientemente dietro l'angolo. Cadogan aveva smesso di andare a scuola all'età di sedici anni, aveva lavorato per tre in un magazzino rendendosi conto che non poteva fare quel lavoro per tutta la vita, e poi era tornato a scuola, in un istituto tecnico, che nella sua esistenza si situava all'inizio di un viaggio che l'aveva portato, dai venticinque anni in poi, alla divisione vendite della più grande compagnia nippo-americana operante in Europa, la Masako Electronics. Era sempre stato fiero delle sue origini proletarie così come delle sue conquiste. Maritato a una ragazza del luogo, figlia in una scuola privata: il conseguimento del sogno borghese trans-europeo. E poi, dopo il sogno, il risveglio. Arrivò il caffè nero. — Könnte ich bitte ein Telefon haben? — chiese al cameriere, che annuì brevemente e scomparve. Solo adesso si rendeva conto di come avrebbe dovuto affrontare la cosa. C'erano state cose molto più meritevoli nella loro vita cui lui avrebbe do-
vuto aggrapparsi. E non solo le cose materiali: lui s'era dato da fare per perdere tutto perché aveva scelto la linea della devastazione anziché quella della limitazione dei danni. Qualcuno avrebbe potuto dire che non era mai stato tanto saggio. E anche che non era mai stato troppo brillante. Ma non aveva nemmeno mai sperimentato lo shock di quella videocassetta, che gli era arrivata in ufficio una mattina. Il telefono che gli venne portato era una derivazione del centralino. Bene, ecco qualcosa di nuovo, finalmente. Fece un numero che anni prima gli era stato molto familiare, e un attimo dopo stava dicendo: — Rudi? Sono Pat Cadogan. Un silenzio sconvolto all'altro capo della linea. Poi: — Mi sta prendendo in giro. — Non ti sto prendendo in giro, Rudi. Sono arrivato in città ieri sera. — Non so cosa dire. — Che ne dici di un bentornato? — Be', sì, certo, ma... Gesù, Pat, sono anni! Cos'è successo? — Mi sono messo fuori vista. — Noi per un po' siamo stati convinti che tu fossi morto. Non riuscivamo a immaginarci perché eri scomparso senza una parola, poi ha telefonato Anneliese. Cadogan ne rimase sorpreso. — Ti ha chiamato? — Ha chiamato Christina. Ha detto che avevate rotto per colpa sua, e che lei se ne andava perché tu e Marianne riusciste a rimettere assieme i cocci. Pensavo di trasmetterti il messaggio, ma tu eri scomparso. — Ha detto dove andava? — No. Christine ha detto che, da come parlava, sembrava una già morta. Ci ha sconvolti. Eravamo preoccupati per tutt'e due. — Lo capisco, e mi dispiace. Sono solo tornato a casa. — Ma tu hai sempre detto che casa tua era qui. Dev'essere stata una bella burrasca quella che avete avuto voi due. — Lo è stata. — E ancora adesso non vuoi parlarne. — Parlarne non aggiusta le cose, Rudi. Parlarono ancora per alcuni minuti, ma la conversazione non aveva più anima. Cadogan si chiese se dire a Rudi che Marianne aveva chiamato un cane col suo nome, ma non lo fece. Solo gli amici possono comunicarsi cose del genere. Adesso fra loro c'era troppa distanza, uno spazio creato dalla sua imprevedibilità e dal trascorrere del tempo. Rudi non sapeva
niente di Anneliese, che bisogno aveva di sapere di Marianne? Finalmente, con le solite promesse d'uso, riappesero. Aveva tante altre telefonate da fare. Altri amici. La scuola, se riusciva a trovare qualcuno in un giorno come quello. Avrebbe fatto le telefonate, poi sarebbe uscito. Pronto a partire in un attimo. Era immobile, col ricevitore in mano. Apparve, in un angolo periferico della sua visuale, il cameriere, ma Cadogan scrollò la testa. Il nastro. L'aveva visto in realtà una sola volta, ma da allora l'aveva riproiettato mentalmente innumerevoli volte. Non aveva né scelta né controllo alcuno su quel materiale. Era come essere inseguito da qualcuno, stanza per stanza, che cantava una canzone che non si vuole sentire. Ci si può illudere di conoscere la gente, ma non è mai così, si disse. Aveva pensato che non ci fosse altro da scoprire su Anneliese, ma invece eccolo lì, una tendenza riprovevole tenuta nascosta fin dall'inizio e che era cresciuta senza farsi vedere, finché alla fine aveva consumato tutto, anche lei. Come si poteva concepire un tale vuoto interiore nutrito per così tanto tempo? E come mai non se n'era mai voluto accorgere? E poi, se n'era mai accorto? Oppure l'aveva fatto, e aveva distolto lo sguardo? Si chiese se sarebbe mai arrivato a provare pietà per lei. Sembrava proprio di no ma, di nuovo, si rese conto che c'era stato un tempo in cui non avrebbe nemmeno preso in considerazione un'idea del genere. Anneliese era stata una specie di estranea nella sua vita. E adesso stava cominciando a diventarlo sua figlia Marianne. Per la prima era troppo tardi, ma per lei... Doveva fare qualcosa. Era una situazione troppo seria, doveva affrontarla con calma. Aveva visto le tenebre nella voragine. Adesso era ora di cominciare a tornare verso la luce. — Tu credi che valga la pena aspettare? — chiese Marianne. — Che vuol dire? — rispose Ryan. — O c'è o non c'è. E al momento non c'è. Erano tornati di nuovo dall'investigatore e adesso si trovavano sulla balconata davanti all'Agentur Johann Schlesinger. Uomo di rimarchevole solidità, Johann Schlesinger era di nuovo da qualche altra parte. Per un attimo avevano pensato che ci fosse quando, salite le scale, avevano visto, da
lontano, che il biglietto giallo non era più al suo posto, ma poi avevano trovato la porta sempre chiusa e l'ufficio dietro al buio, e Marianne, guardandosi attorno, aveva scoperto il bigliettino sul pavimento. La parte collosa era adesso sporca di polvere e di minuscole fibre. Aveva provato a riattaccarla sul vetro, ma non funzionava. — Forse è in giro a cercarla — disse Marianne speranzosa. Ryan stava cercando di sbirciare nell'ufficio tenebroso. — Darei qualsiasi cosa per poter stare cinque minuti in quell'ufficio — disse. Provò di nuovo la maniglia, questa volta con più forza, spingendo anche con la spalla: non come se volesse abbattere la porta, ma come se si aspettasse che potesse aprirsi. Quella si scostò del solito mezzo centimetro, ma il movimento promettente venne fermato dalla serratura. Niente di più di una serratura, ma c'era. Marianne lo guardava con apprensione prossima alla meraviglia. La spaventava sempre un po' quando la sua ira cresceva a quel modo. Ma, come un fuoco acceso nel posto sbagliato, lo trovò più affascinante che temibile. Lui la guardò e le chiese: — Che succede? Ma lei si limitò a scrollare la testa. Mentre scendevano le scale, Marianne chiese: — Forse è già tornato, e non viene in ufficio il sabato. — Chi può dire — disse Ryan. — Quanti soldi ci sono rimasti? — Non abbastanza per farci un cazzo — rispose lui, poi aggiunse, rapidamente: — Scorda quel che ho detto. Lei rimase zitta per un po'. Stava pensando se doveva sgridarlo per aver detto bum. Ma non pensava che avrebbe gradito molto, visto l'umore che aveva. Mentre aspettavano per attraversare la strada, lei disse: — Potremmo andare a dare un'occhiata a quelle chiese. — Chiese — ripeté lui. Non sembrava entusiasta. La sera prima, mentre cercava di prendere sonno, gli aveva raccontato di come fosse solita andare a trovare i nonni che avevano un appartamento che si trovava vicino a una grande chiesa. Ma dove, e di quale chiesa si trattasse, be', questo non lo sapeva. Non c'era stata troppe volte. Non conosceva molto bene i nonni. La nonna tedesca era una specie di topo di chiesa, mentre del nonno ricordava che era una specie di grosso e vecchio leo-
ne a cui non piaceva mai niente. L'aveva raccontato a Ryan che le aveva detto: "Per favore, chiudi il becco. Per un poco almeno". E lei era rimasta sdraiata senza osare parlare finché non si era addormentata. La cosa strana era che al mattino lei aveva aperto gli occhi e l'aveva visto seduto vicino al suo letto sull'unica sedia dallo schienale alto e rigido. La stava guardando dormire, ma non poteva dire da quanto. Forse, stava aspettando che si svegliasse. — D'accordo — disse lui. — D'accordo per cosa? — Andiamo a guardare le chiese. Il semaforo passò al verde: cominciarono ad attraversare. — E mi dispiace di aver detto una parolaccia — le disse, senza guardarla. 36 Stavano suonando le campane quando Werner riuscì a trovare un posto per parcheggiare l'auto proprio dietro la chiesa. Nella piazza antistante era impossibile. Pullman turistici vuoti si stavano spostando l'uno col muso contro la coda di quello che lo precedeva sull'acciottolato e dovevano costantemente fermarsi per permettere al traffico di procedere. Come tutti gli edifici pubblici di Amburgo, la chiesa era enorme, sormontata da una torre campanaria dal tetto verderame. Lunghe file di turisti ne salivano e scendevano i gradini, e solo alcuni di loro erano senza macchina fotografica. Si trovavano a meno di un chilometro dalla zona del porto. Li guidava Werner. Dovettero fermarsi per far passare un tram che era stato dipinto per ricordare un treno, finché non riuscirono ad arrivare all'edificio che fronteggiava la chiesa dalla parte opposta della piazza. — Che tipo di casa è questa? — chiese Jennifer. — Era stata costruita per i marinai e le loro famiglie — rispose lui. — Ma è stato tanto tempo fa. Le cose cambiano. Adesso, ci abita ogni tipo di persona. — Comunque, non è un posto in cui trovarci una famiglia ricca. — Non ricca, non disperatamente povera. Solo comune. Entrarono nel complesso attraverso un ingresso a volta che portava in un cortile interno, che a sua volta digradava in vari livelli, per pareggiare la pendenza della collina. L'edificio era in mattoni rossi; sotto l'entrata a volta, nella pietra era stato inciso il disegno di alcune navi e ancore intrecciate
con viticci. Sul cortile, che era stato sistemato a giardino, si aprivano parecchie porte. Salirono una scala esterna che portava al secondo piano, e Werner si fermò a suonare un campanello. Seguì una lunga attesa, poi la porta si aprì di pochi centimetri. Werner parlò con calma mostrando il tesserino. Jennifer non riuscì a capire cosa veniva detto, ma sentì il nome "Anneliese". La porta si aprì un po' di più e Werner si voltò a guardarla, facendole cenno di seguirlo. Dal suo sguardo, era chiaro che era valsa la pena di arrivare fin lì. La donna sulla porta era sulla settantina. Aveva mani che ricordavano le zampe di un uccello, sottili e delicate, e color pergamena. Tremavano un poco. Il posto odorava leggermente di asprigno, come un termos vuoto da tanto tempo. Era molto in ordine. Sembrava un appartamento troppo grande per una persona, ma da quello che Jennifer poté capire la donna doveva vivere sola. Sedettero. Werner la presentò e lei fece un cenno alla donna, quindi cercò di seguire la conversazione mentre Werner poneva le domande. Gli occhi della donna frullavano dall'uno all'altro di loro, chiaramente in apprensione. Quando rispose, lo fece con voce simile a un sussurro. Jennifer non era sicura di aver ben capito tutto. Dopo un po' Werner si voltò verso di lei e le spiegò. — Vive sola. Suo marito è morto tre anni or sono. Ha detto che ha riattaccato perché aveva paura che le volessi comunicare che era morta anche sua figlia. — Perché mai deve pensare una cosa del genere? Werner glielo chiese. La donna rispose, poi si alzò e andò ad aprire un cassetto di un vecchio mobile scuro. Sopra, c'erano un orologio e alcune fotografie incorniciate. — Ha detto — disse Werner — di non aver avuto contatti con Anneliese dal momento in cui suo genero e sua nipote sono scomparsi. Tutto quello che ha è una lettera. La donna stava consegnando loro la lettera. Werner prese la busta, ne tolse un foglio e lo lesse con un'occhiata prima di passarlo a Jennifer. Era molto breve, e lei ebbe poca difficoltà con la traduzione. Ricordami quand'ero felice, pensa a me come a una che se n'è andata. Cara mamma, sono molto addolorata. Anneliese. Jennifer guardò la busta. Portava il timbro di Düsseldorf. Guardò Werner; anche lui l'aveva visto e ne aveva preso nota. La donna pose una domanda. — Chiede se stiamo cercando Anneliese — spiegò Werner — e se quin-
di sappiamo come mai è scomparsa così all'improvviso. Una cosa che ha ucciso suo padre. Cosa vuoi che le dica? Stava passando a lei la patata bollente. Anche gli occhi della donna erano fissi su di lei. Scegliendo le parole con cura, Jennifer disse: — Dille che mi dispiace, ma che è ancora un mistero per tutti noi. Mentre si stavano congedando, lo sguardo di Jennifer corse alle fotografie incorniciate. Ce n'erano alcune di una bambina bionda, probabilmente Anneliese. Nessuna di lei adulta. L'unica foto di una persona adulta era quella di un uomo, che lei immaginò essere il nonno di Marianne. Doveva avere vent'anni quando era stata scattata, e indossava una specie di uniforme. Forse la figura stava svanendo, forse era il processo di stampa dell'epoca, ma gli occhi erano ridotti a due pozze nere e la bocca era una linea che non si comprometteva. Cara mamma aveva scritto Anneliese. Nessuna parola per il padre. Si può leggere molto anche in poche parole. Werner lasciò alla donna un numero chiedendole di chiamare se avesse avuto notizie da comunicare, specie della nipote. Poteva darsi che si mettesse in contatto con lei, ed era di estrema importanza per tutti se li avvertiva. Se ne andarono subito dopo. — Com'è il vostro albergo? — le chiese Werner mentre rientravano negli uffici della squadra antirapina. A lei bastò un'occhiata per accorgersi che Benny Moon non era più alla scrivania alla quale l'aveva lasciato. Josef, il Kriminalhauptmeister che era stato assegnato loro come secondo contatto, stava scrivendo a macchina giusto due sedie più in là. Si chiese se Werner si fosse già dimenticato di averle rivolto la stessa domanda quella mattina. — Sono entrata e uscita così velocemente, che l'ho appena visto. Gli alberghi, poi, si assomigliano tutti. — Se ce la facciamo alla svelta a concludere questa faccenda — disse Werner — forse potresti restare un altro po' per vedere le zone della città di cui siamo tanto orgogliosi. — Riesco a immaginare il mio capo che firma il conto per una cosa del genere. — Ascolta me prima — disse Josef pur continuando a battere sui tasti — lascia che ti dia un avvertimento. Non lasciarti coinvolgere da questo individuo: è una sorta di cataclisma in libertà per tutte le donne dei dintorni.
Sembrava essere uno dei soliti scherzi da ufficio, e Jennifer risolse di accettarlo come tale. — Perché? — chiese. — Be' — rispose Josef gesticolando — guardalo. Non sanno mai come comportarsi con lui. Alla fine lo mollano e fuggono lontano. Werner sembrò incassare bene, anche se un po' a disagio. — Grazie per questi gentili pensieri, Josef — disse. — Comunque, sai dov'è andato l'altro inglese? — Era già uscito quando sono arrivato. — Controllo la sua scrivania — disse Jennifer. — Se ha scoperto qualcosa, deve aver lasciato qualche appunto. Werner raccolse un giornale abbandonato su un'altra scrivania, lo piegò in modo che gli potesse stare in tasca, e disse: — Sono nel mio ufficio a parlare con Düsseldorf. Ci vediamo. Passò dietro Josef e, mentre passava, lo colpì sulla testa col giornale piegato. Era ovviamente un gesto amichevole, ma sembrava un poco troppo forte per essere qualcosa di usuale fra di loro. Josef rimase a sfregarsi la testa per un po'. Guardò Jennifer. — Credo che questo voglia dire che gli piaci — spiegò. Jennifer ricambiò lo sguardo addolorato, poi si chinò per frugare fra gli appunti di Benny. La sua parte del tavolo era un casino unico, ma gli appunti erano nitidamente scritti. Vide il nome di Patrick Cadogan, e accanto quello di un albergo e il numero di una stanza. Stava per prenderlo quando squillò il telefono. Rispose. — Finalmente sei tornata — disse la voce di Benny. — Novità? — Niente che valga la pena. E tu? — Scendi le scale e vieni nella sala giochi a vedere cosa abbiamo scovato. Trovò Benny al piano sottostante, in uno vasto spazio aperto attualmente deserto tranne per Benny e una donna poliziotto che le stava dando le spalle. La donna, capelli corti, maglione largo e jeans, era seduta davanti a un PC Siemens e stava facendo passare una lunga lista di nomi e dati. Accanto al computer c'era un modem. — Ho visto i tuoi appunti — disse Jennifer. — Significa che Cadogan è in città? — C'è — rispose lui. — Anche dopo che gli hai detto di non farlo. — Come l'hai scoperto?
— Telefonando a tutti gli alberghi. Non si tratta di O'Donnell che usa il suo nome, è proprio lui. — Ne sei sicuro? — Gli ho parlato. Non era in camera, ma l'ho fatto cercare dal fattorino che l'ha beccato mentre stava uscendo. Ha detto che non vuole essere coinvolto, vuole solo trovarsi qui per quando la troveremo. — E tu ci credi? — Ho visto capelli rossi più convincenti. Jennifer guardò lo schermo del computer. I dati continuavano a scorrere, si fermavano ogni pochi secondi poi riprendevano. — Non è la lista dei passeggeri del traghetto, vero? — No — rispose Benny. — È qualcosa di molto più interessante. Di' ciao a Renata. — Renata alzò un attimo gli occhi. — Lavora alla omicidi e ai crimini a sfondo sessuale. Josef me ne ha parlato e poi l'ha chiamata a casa per me. Jennifer prese una sedia e si sedette dall'altro lato della donna. — A che scopo? — chiese. — La squadra antidroga di qui ha cominciato a fare controlli regolari sulla corrispondenza elettronica e sugli annunci delle riviste. Ce ne sono molti che ricordano le vecchie riviste per cercare contatti, solo che adesso sono molto più diffuse. Ho chiesto a Renata se può setacciare il tutto nella speranza che si trovi il nome di Anneliese Cadogan. — Indicò lo schermo. — Tutte le più strane forme di subcultura a cui tu possa pensare usano questi canali per interconnettersi. — Ottima idea — disse Jennifer. — Ma ricorda che noi dobbiamo rintracciare la madre solo nel caso in cui questo ci aiuti a intercettare la figlia. Se è sepolta molto più in profondità, per noi non farà differenza. Benny guardò la donna che lavorava. — Bene, racconta anche a lei quello che mi hai appena detto. Renata tolse le dita dalla tastiera e la lista di nomi si arrestò. Guardò Jennifer e disse: — Grazie a questo programma abbiamo accesso a informazioni che passano attraverso circoli di masochisti, neo-satanisti e pedofili. Una bambina in età preadolescenziale e irrintracciabile in questo mercato avrebbe un valore di almeno quindicimila dollari americani. Di questi, settemila verrebbero restituiti qualora venisse riconsegnata viva al venditore. Poi potrà essere rivenduta di nuovo e poi ancora con valore in diminuzione fino alla fine della linea. Da qualche parte, cominciò a levarsi il lamento dell'allarme di un'auto.
— Povera piccola Marianne, vero? — disse Benny Moon. — Quanto avrebbe preferito rimanere sulla spiaggia. — Cos'avete scoperto finora? — chiese Jennifer. — Be' — disse Benny. — È un mercato strano. Nessuno dà il proprio nome e nessuno dice chiaramente cosa esattamente vuole. È come quelle rubriche per cazzetti solitari. Tu mi mandi una fotografia, e io ti mando una foto del mio cavallo di battaglia. Quello che penso io è: immaginiamo che O'Donnell voglia tenerla al guinzaglio abbastanza a lungo per permetterle di trovare la madre ancora tutta intera; non stiamo necessariamente parlando di un lieto fine. Il tipo di amici che aveva sua madre fa sembrare O'Donnell un dilettante imbranato. Il tuo uomo può anche vedere i diavoli seduti al tavolino del bar, ma non ha ancora capito di essersi imbarcato sull'espresso che lo porterà diritto nella casa dell'articolo genuino. E una volta che ci sarà arrivato, potrà accadere di tutto. Possono limitarsi a prendersi il pacco e a fotterlo, senza doppi sensi. Oppure dimostreranno di essere quello che lui cercava. In questo caso, Marianne potrebbe essere il suo biglietto d'ingresso nel club. — Queste reti non sono solo locali — disse Renata. — Stiamo parlando di un sistema di scambio a livello mondiale. Se scompare dentro questo maelstrom, possiamo scordarci di riuscire mai a trovarla. — Diventa sempre più difficile, vero? — disse Benny. — No — disse Jennifer. — Lei non può. Non lo farà mai con sua figlia. Gli altri due la guardarono, in silenzio. — D'accordo — disse Jennifer. — Diamoci sotto. 37 Amburgo, sabato sera. Il giorno era finito con forse minor successo di com'era cominciato. Scoraggiati e doloranti, presero la U-Bahn per tornare verso il centro. Il vagone era pulito e spartano, gli strappi nei sedili erano stati ricuciti come vecchie ferite. Sullo stesso vagone viaggiavano due ragazze che avevano con sé le custodie di due violoncelli; scesero a Rödingsmarkt e il treno proseguì fino al capolinea sotto le volte della Hauptbahnhof, la stazione centrale alla quale sempre terminavano anche i loro spostamenti. — Mi dispiace — disse Marianne. — Per cosa? — Pensavo di saperlo. Pensavo di ricordare tutto. Ma niente è più lo
stesso. — È sempre così. — Ma io me lo sono sognato per anni. Di tornare, e di sapere subito che ero a casa. Ma questa non è casa mia. Non è niente. E allora, che cosa sognavo? Voglio dire, a cosa serve sognare se poi niente è vero? È crudele. Ryan sembrò esitare un poco, poi alzò la mano e le scompigliò i capelli per solidarietà. — Non fare così — disse lei scostando la testa con violenza. — Scusa. Avevano setacciato praticamente tutte le chiese della città. Tutte le volte, lei si era detta sicura che il posto fosse quello. E tutte le volte, senza fallo, malgrado le sue certezze, non lo era stato. Poi la luminosità del giorno aveva iniziato a svanire, si erano accese le prime luci elettriche, i negozi avevano cominciato a svuotarsi e ad abbassare le saracinesche pur mantenendo in funzione le luci, come trappole per insetti che avessero attenuato temporaneamente il loro potenziale offensivo. Mentre il traffico si smorzava, spostandosi in altre zone della città, si cominciarono a sentire in modo udibile i versi dei piccioni, che vivevano nella loro città segreta al di sopra della città vera e propria. Ryan e Marianne si fecero strada attraverso l'intrico di passaggi che correvano sotto la Hauptbahnhof, diretti di nuovo all'area in cui avevano lasciato i bagagli, chiusi negli armadietti metallici. Ryan non aveva fatto cenno ai soldi, ma Marianne sapeva che stavano diminuendo. Si stava chiedendo per quanto ancora sarebbero durati. Ma non osava chiederglielo, perché sapeva che non avrebbe gradito la risposta. La scala mobile li depositò nella sera incipiente che stava impadronendosi del piazzale della stazione. Era ancora più affollata adesso della sera del loro arrivo. In cima alle scale c'era il solito gruppetto di instabili, mal rasati ragazzotti, alcuni seduti, altri in piedi a chiacchierare, altri a vagabondare senza meta. Mentre tornavano al quartiere di St. Georg, Marianne vide che le donne di strada erano già accorse in massa ai loro posti. Le età erano le più varie, dalla ragazzetta fino a una donna di mezza età, che sembrava essersi vestita per andare a messa. Erano tutte ferme nelle loro zone, a intervalli regolari, con lo sguardo fisso in avanti in attesa che qualcuno lo intercettasse. Il loro albergo era pieno: dovevano cercarsene un altro. Marianne era troppo stanca per cercare, ma anche troppo stanca per protestare. Quello che li accolse aveva due luci accese davanti all'entrata, una verde e una
rossa, come un semaforo. Quella verde era accesa. Dal modo come procedevano le cose, una volta che furono entrati nella camera, il traffico sui corridoi sarebbe durato ininterrotto per tutta la notte. Paragonato all'altro, questo albergo era una topaia. Le porte non avevano nemmeno la serratura ma solo un chiavistello scorrevole, come quelli delle porte dei gabinetti. La stanza era molto più piccola e i letti molto più vicini. Nell'aria, c'era un forte sentore di cibi italiani. Per cena, era rimasto loro un po' di frutta e mezzo pacchetto di biscotti. Marianne sedette pesantemente su uno dei letti. — E adesso — chiese Ryan — cosa possiamo fare? — Non lo so — rispose Marianne. — Il tempo vola. Io non so come funzionano le cose, ma fra non molto ci metteranno le mani addosso. — Chi? — I poliziotti. — Non ha chiamato la polizia. — Perché no? — Perché non gli importa così tanto di me. Ryan sedette sull'altro letto. Le loro ginocchia si sfioravano. — Ma è sempre tuo padre — disse lui. — E questo conta qualcosa, ti pare? — Non è come pensi tu — disse lei. — Non più. L'anno scorso, non s'è nemmeno ricordato del mio compleanno. Ho ricevuto solo un biglietto, ma dalla signora Healey. L'ho messo dove lui non potesse vederlo. Se non può ricordare le cose da solo, non voglio fargliele venire in mente io. — Be' — disse Ryan — non so proprio cos'altro possiamo tentare. Non è solo un problema di tempo. Anche i soldi stanno finendo. — Scommetto che ti dispiace avermi incontrata. — Una parte di me, sì. — Ah, grazie tante. — Voglio solo essere onesto con te. Chi vorrebbe essere ficcato in una situazione come questa, senza via d'uscita? — Potresti andartene. — Potrei. — Perché non lo fai? — Diciamo che lo faccio e che ti succede qualcosa. Come credi che mi sentirei? Marianne si strinse nelle spalle.
— Te lo dico io. Mi sentirei tanto male come se ti avessi fatto del male io stesso, e non potrei più vivere con un pensiero simile. Una volta ho fatto qualcosa di cui ho motivo di vergognarmi, non chiedermi cosa. Ho pagato per quel che ho fatto, anche se ho scoperto che non è come pagare un debito finanziario. — Qual è la differenza? — Il prezzo è quello che tutti si aspettano da te. Il debito è la distanza che tu sai di dover percorrere per estinguerlo. Ma non mi aspetto che tu capisca. — Infatti. — Be', meglio così. Sei giovane, e niente di brutto è stato ancora scritto sulla tua lavagna. — Io non proverei mai vergogna per te — insistette lei. — A meno che tu non vada in prigione o qualcosa del genere. Ryan sorrise. Ma era un sorriso forzato. — Questo non ci aiuta a uscire da questa situazione, vero? — disse lui. — M'è venuta un'altra idea. — Non mi dire. — Un posto in cui eravamo soliti andare la domenica. E domani è domenica. Potremmo trovarcela. Ryan sospirò e allargò le mani in un gesto di resa. — Che diavolo — disse. — Cos'abbiamo da perdere? Si alzò e uscì nel corridoio, per permetterle di cambiarsi. Lei faceva fatica persino ad alzarsi. Si sentiva dolere dappertutto. Mentre si svestiva, teneva nervosamente un occhio fisso sulla porta, perché sapeva che non c'era serratura. — Sei lì? — chiese a un certo punto. — Sì — rispose lui. Dal suono della voce capì che era proprio dietro la porta. Allora si sentì più al sicuro. S'infilò l'ultimo cambio pulito di biancheria e scivolò sotto le lenzuola. — Pronta — gridò, tirandosi le coperte fin sotto il mento. Lui rientrò e chiuse la porta. Si levò il pastrano e le scarpe e si allungò sull'altro letto. Allungò un braccio per spegnere la luce. — Ti rovinerai i vestiti — disse lei — a dormire vestito come fai. — Sono già rovinati — le rispose, e spense la luce. La stanza non era propriamente al buio. Da fuori entravano le luci dei neon che, attraverso le tendine, gettavano lunghe ombre acquose sul soffitto e le pareti. Per un po' rimasero in silenzio.
— Ho ancora fame — disse Marianne. — Anch'io — rispose lui dalla penombra. — Ma dobbiamo resistere fino alla colazione. Lo sentì trarre un lungo sospiro e poi espirare lentamente, com'era solito fare tutte le sere prima di addormentarsi. — Ryan. Pausa. — Cosa? — Anche se sei stato in prigione, io non mi vergogno di te. Se fosse riuscita a vederlo in viso, vi avrebbe visto una smorfia di dolore. — Adesso dormi — le rispose. 38 — Mi hanno detto che certe zone della città sono pericolose — disse lei stando alle spalle di Cadogan che stava aspettando di ritirare la chiave della stanza, e al suono della sua voce lo vide irrigidirsi e voltarsi a metà. — Non dovrebbe stare in giro da solo fino a quest'ora. Lui ora la guardava. Appariva stanco, ma non troppo. — Qui non siamo in patria — le rispose. — Non può dirmi cosa devo fare. — Lo so — rispose Jennifer. — E allora, perché non cerchiamo di aiutarci l'un l'altro? Il portiere gli porse la chiave, Cadogan la prese con gesto brusco e fece segno a Jennifer di seguirlo. — Mi sento come chi non ha più segreti per nessuno — le disse mentre attraversavano l'atrio diretti a un posto tranquillo in cui sedersi. — Ma se vuole provarsi a pescare qualcos'altro, si accomodi. A quell'ora, la zona riservata ai visitatori era deserta. Le poltrone erano riproduzioni di qualcosa di vagamente antico, ma senza uno stile ben preciso. Tutt'attorno, splendevano le vetrinette che offrivano costosi profumi e costosissimi orologi. Cadogan si lasciò cadere come un sacco in un basso divanetto. — Lei ha buon gusto nello scegliere gli alberghi — disse Jennifer. — Specie per un uomo col suo profilo finanziario. — Gli assegni si appesantiscono se ci si ciba di caviale — rispose lui. — Ha intenzione di denunciarmi alla direzione? — Quel che voglio sapere è se oggi ha scoperto qualcosa di utile. — Immaginiamo che questa sia una transazione commerciale — disse
lui — per cui, perché non mi racconta per prima come vanno le cose dalle sue parti? Non era lì per discutere, per cui glielo disse. Ma non parlò di Düsseldorf e tralasciò tutta la parte allarmistica sulla rete di abusi ai bambini, ma per il resto gli fece un resoconto accurato delle loro indagini. Quel che gli aveva taciuto forse sarebbe servito in seguito, per spaventarlo se avesse ricominciato a diventare un problema. Dopo averla ascoltata, Cadogan le spiegò cos'aveva fatto. — Ho cercato anch'io Anneliese. Ho girato nei negozi in cui aveva dei conti aperti. — Una cosa alla quale non abbiamo pensato. — Perché non vi siete mai preoccupati dei soldi che spendeva. Ma non ci ho cavato niente. Non ha chiuso nessun conto, semplicemente non si è più fatta vedere. Avete contattato la scuola? — L'ha fatto per noi la polizia locale. Se Marianne si mette in contatto con qualcuno dei vecchi compagni, lo verremo a sapere. Ma è trascorso troppo tempo, e i bambini dimenicano in fretta. A meno che domani non succeda qualcosa di particolare, credo che l'unica possibilità che ci rimanga sia quella dell'investigatore assunto dai suoi avvocati. — Lui? Ma non serve a un accidenti. Il suo brillante contributo è stato quello di mettere degli avvisi sui quotidiani. Lei allora gli spiegò qual era la situazione. A nessuno di loro interessava sapere se Anneliese era stata trovata o no. La cosa interessante era che Ryan e Marianne stavano cercando di trovarla, il che portava un elemento di prevedibilità nei loro movimenti. Erano a conoscenza del furto dei cartoncini con gli indirizzi, e quindi sapevano dove avrebbero potuto trovarli. — All'apertura degli uffici, lunedì prossimo — disse Jennifer — che Schlesinger sia tornato oppure no, ci sarà qualcuno seduto dietro quella scrivania in attesa di una telefonata o di una visita da parte di O'Donnell e della bambina. — Uno dei vostri? — Esattamente. — L'ufficio, dove si trova esattamente? — Questo non glielo dico. E non perda tempo a cercarlo sulla guida perché è sotto il nome dell'agenzia. Se O'Donnell si farà vedere senza sua figlia, gli si racconta qualcosa e poi lo si segue. Se lei sarà con lui, li separeremo e metteremo lui dentro. Una cosa che esige la grazia e la destrezza del Royal Ballet e che la sua presenza, glielo posso garantire, potrebbe rovinare.
Cadogan la stava fissando. Si capiva che non era d'accordo ma anche che aveva afferrato quanto delicata fosse la faccenda e che era sul punto di accettarla. — Questo Ryan O'Donnell — disse. — Può essere pazzo. Però non è stupido, vero? — No — rispose lei. — Sono convinta di no. 39 Alle sette meno dieci di domenica mattina la luce del giorno aveva una chiarezza opalescente. Cadogan si era tirato su il colletto, ma continuava a tremare. I suoi sensi sembravano essersi acutizzati. Era partito che faceva ancora buio, sentendosi come un monaco o un cavaliere in partenza per un viaggio spirituale mentre il mondo ancora dormiva. Il traffico era ancora rado, e nulla disturbava la pace generale se non le lontane grida dei gabbiani che volteggiavano sul porto. Mentre passava sotto il traliccio della sopraelevata, di sopra transitò uno dei primi treni, le cui luci occhieggiavano veloci fra le travature. C'era gente nei vagoni. E molti di loro dovevano avere la sua stessa destinazione. Si chiamava Fischmarkt. Una volta lo era davvero, una banchina adibita alla vendita del pesce, ma adesso era cresciuto ed era diventato una specie di carnevale della domenica mattina che fiammeggiava ogni settimana al sorgere del sole per svanire entro le undici, lasciando uno spazio deserto e un mucchio di cartacce spazzate dal vento. Le undici erano l'ora magica in cui cominciavano le messe e quindi tutti i commerci, per antica tradizione, dovevano cessare. Ci andavano tutti. Chiunque avesse ospiti, li portava lì a fare un giro. Marianne aveva sempre opposto resistenza a lasciare quel posto. Gli adulti, dopo un paio d'ore ne avevano a sufficienza, ma per lei era come essere a Disneyland. Una volta era scomparsa e loro erano stati travolti dal panico fino a quando non l'avevano trovata davanti a un mezzo squalo dalle fauci tenute spalancate da un grosso gancio di ferro, col sangue che gli colava dalle branchie e gli occhi che sembravano essere implosi per l'improvvisa mancanza di pressione. Più si avvicinava, più le strade erano affollate. Davanti a lui c'erano due giovanotti, entrambi alti e snelli, che indossavano giacche a vento imbottite, jeans, guanti e stivaletti da cowboy. Uno stava finendo una birra, l'altro gettò la sua lattina vuota in uno dei tanti contenitori, già pieni fino all'orlo.
Si sentiva della musica. Quando la poliziotta l'aveva lasciato, la sera prima, era salito in camera, si era fatto portare del caffè e poi si era sdraiato sul letto, vestito, perché intendeva dormire solo una mezz'ora. Il suo piano era di uscire di nuovo e scandagliare la città notturna, parlare coi suoi abitanti; aveva lasciato la TV accesa per evitarsi di dormire troppo, ma non era andata secondo i suoi piani. Si era svegliato cinque ore più tardi. Il caffè era ancora lì, freddo, alla TV gli spettacoli erano terminati da tempo. Si era svestito e si era messo sotto la doccia fino a quando non si era sentito ben sveglio. Si era poi infilato un maglione pulito prima di pettinarsi. Aveva l'aria di chi si prepara per una qualche cerimonia importante. Come apparire in tribunale. O a un matrimonio. O magari, al proprio funerale. Era già un po' tardi. Erano le sette e venti e già in molti stavano lasciando il mercato, disperdendosi verso le auto con le braccia cariche di piante, felci, palmette e altri alberelli. Oltre la barriera controllata dalla polizia, la folla era compatta. Esitò, ma solo per un momento. I bar del molo stavano tutti emettendo musica ad alto volume dalle porte spalancate, e tutti i locali erano stipati di persone. Un ambulante strillava per richiamare l'attenzione, un altro sbatteva un pesce sul tetto della sua auto. Cadogan si lasciava trascinare dal flusso, con gli occhi vigili. Quanta gente s'era radunata in quel luogo? Cinque, diecimila persone? Non riusciva a fare una stima soddisfacente. Se O'Donnell e Marianne si trovavano lì in mezzo, era facilissimo non vederli. Ma non era neanche impossibile che invece li potesse trovare. Passò davanti a ogni sorta di baracchini che vendevano di tutto, dai pattini da ghiaccio a vecchie valigie a quelle che sembravano essere vecchie uniformi dell'esercito sovietico. Qualcuno stava magnificando le doti di un lucidante per auto, del quale si vedevano scatole e scatole impilate nel retro di una vettura che invece non brillava per niente. Si chiese come avessero trascorso la notte. Non voleva pensarci, ma non poteva evitarselo. Aveva letto di gente come O'Donnell. Alcuni di loro non avevano colpa, perché erano convinti nel profondo di non fare nulla di male; nelle loro menti erano innamorati perseguitati, incompresi da un mondo che non riusciva a vedere la bellezza di quanto facevano. Altri sapevano bene invece cosa stavano facendo. Afferravano e saccheggiavano e poi coprivano le proprie tracce e negavano sempre, tutto. Molti svolgevano lavori normali, conducevano vite irreprensibili. Altri stavano in posizioni privi-
legiate, dove potevano lavorare coi bambini. Lascia che metta le mani su O'Donnell. Allora sì che l'avrebbe messo lui in una qualche fottibile situazione. Qualcuno lo stava guardando. Aveva forse detto qualcosa ad alta voce? Abbassò la testa e proseguì. Stava cercando di convincersi che, almeno, non si trattava di un rapimento forzato. O'Donnell non l'aveva ficcata in una gabbia per portarla via. Non come gli uccelli e i conigli e le anatre che si trovavano nella parte del mercato che stava attraversando adesso. Sotto una tettoia qualcuno stava vendendo del bestiame, scaricato da appositi camion. Colombe, oche, pulcini venduti a un marco l'uno. Quelli implumi razzolavano alla luce di lampade a infrarosso. A Marianne piaceva girare in quella parte del mercato, credeva che fossero tutti cuccioli da portare a casa e da amare. Entrò, spingendo per venirsi a trovare sotto le vaste arcate del mercato vero e proprio. Qualcuno protestò dietro a lui che, senza voltarsi, borbottò una scusa. La musica che usciva dai bar era forte, ma qui, era dal vivo. Sul fondo di quell'ampio spazio c'era un palco, davanti al quale erano disposti tavoli a cavalletto e panche. Da alcuni box su entrambi i lati si vendeva cibo d'ogni genere: frittelle, gamberi fritti, salsicce di tutti i tipi con senape e no, pesce cotto in tutti i modi, panini imbottiti da cui sporgevano anelli di cipolla. Su tutto, si levava il fumo dei cibi che venivano cucinati. La gente mangiava, ballava, guardava, si divertiva. I suonatori erano il solito complessino di quattro elementi, i peggio assortiti possibile. Una ragazza bionda in nero, una specie di Johnny Cash di mezz'età abbarbicato al basso, un solista di chitarra in giacca di cuoio che sembrava un poliziotto travestito, e il nonno di uno di loro alla batteria. Stavano suonando At the Hop, e quando il pezzo finì la gente applaudì e fischiò e batté con forza i piedi a terra. Continuando a guardare quelle facce, contandole una a una, Cadogan cominciò a salire la scala di ferro che portava alla balconata soprastante. Dovette scavalcare due ragazzine che stavano mangiando pescando il cibo da due vassoietti. La loro colazione sembrava consistere di una montagnola di patatine fritte sormontate da due uova fritte, e di una bottiglia di latte caldo al cioccolato. Nessuna meraviglia che Marianne andasse pazza per quel posto. Per un bambino, doveva essere l'equivalente del miglior "viaggio" possibile. Cibo fritto, musica a tutto volume, un mucchio di cose strane da vedere. E in più potevi sederti sui gradini e mangiare con la mani e nessuno ti diceva nien-
te. Adesso stavano attaccando Wand'ring Star. Cadogan trovò un posto alla ringhiera, e guardò giù. Se lei aveva un minimo d'influenza su di lui, allora l'avrebbe portato lì. La cercava con lo sguardo, incessantemente. O'Donnell era sempre uno sconosciuto per lui, ma se uno sguardo di Marianne sarebbe bastato a metterlo sull'avviso lui era egualmente pronto, non importa chi ci fosse di messo, a volare diritto da lei, afferrarla e non mollarla più. La donna poliziotto aveva ragione, aveva guardato sua figlia e vi aveva visto troppo di Anneliese e si era voltato dall'altra parte. Forse c'era davvero qualcosa di più, adesso poteva ammetterlo, perché negli ultimi giorni era riuscito a essere abbastanza onesto con se stesso quanto non lo era stato negli ultimi anni. Si era sforzato, e adesso poteva ricordare, di quando nei primi giorni, trascorsi in alberghetti di infimo ordine, si fosse svegliato alle quattro o alle cinque del mattino per sentire contro di sé il peso e il calore di Marianne. Era scesa dal suo lettino per mettersi nel suo; andava da lui mezza addormentata, alla ricerca di quella consolazione che tanto le mancava. Lui l'aveva spaventata, consapevole solo di quello che pensava e provava lui, immemore di lei e dei suoi sogni; e allora sempre si alzava e la riportava nel suo lettino, senza svegliarla, per continuare a dormire da solo. Il fatto è che lui aveva trascorso il tempo ad aver paura di Marianne. Aveva paura persino di toccarla. Timoroso di cosa potesse essere un semplice contatto, in un mondo in cui tutta l'innocenza era stata spazzata via. E aveva ossessionato se stesso coi dettagli dei suoi inutili affari senza accorgersi che se ne serviva come una via di fuga. Era come se avesse messo Marianne in aspettativa, in attesa che lui si decidesse di nuovo, un qualche imprecisato giorno, a prestarle attenzione. Solo adesso si rendeva conto che non si può agire in tal modo con le persone. Il tempo non s'arresta solo perché i tuoi pensieri sono rivolti altrove. Lei non poteva rimanere per sempre la stessa. Solo i morti lo fanno. E qualcosa lo colpì. Oh Dio, pensò. Forse adesso O'Donnell la stava trattenendo in qualche alberghetto o in una pensioncina. E se lei riprendeva a camminare nel sonno? Gemette. Ne fu sorpreso, come da un colpo di singhiozzo. Si rese conto che le persone accanto a lui si erano scostate. Si strofinò la guancia. Era asciutta. Si strusciò gli occhi con la manica e si guardò attorno per vedere se qualcuno aveva notato il gesto. E i suoi occhi incontrarono quelli di Marianne.
40 Quando aprì gli occhi, le ci volle un bel po' per rendersi conto di dove fosse. La finestra era semi-aperta, le tendine svolazzavano. Si chiese se stava sognando ancora, e cosa stesse sognando. Avvertiva un senso di disagio, come se ci fossero cose senza nome in attesa di lei nel buio. Ma non era più buio: era mattino, fuori c'era il sole. Assonnata, un poco dolorante come dopo una giornata di duri esercizi, Jennifer scese dal letto, chiedendosi se per caso non stava sognando del vecchio signor Glick. Poco probabile: non aveva mai fatto capolino nel suo tribunale privato. Era stato ritrovato nella sua auto col motore acceso e un tubo che entrava dal finestrino, morto da cinque ore. Aprì le tende e, voltandosi, vide che durante la notte le era stato fatto scivolare un plico sotto la porta. Si trattava di una busta dell'albergo: non era sigillata. Guardò dentro, e vi vide alcuni fogli di fax. Si avvicinò al tavolino e li tolse con cura. I fax sono dei bastardi, difficili da trattare. Scivolano dappertutto e hanno la tendenza ad arrotolarsi. Questi sembravano essere stati trasmessi in sequenza direttamente dall'ufficio di casa, poco prima di mezzanotte. Sbadigliò, si sedette, e cominciò a sfogliarli. Altre notizie spicciole che risalivano al tempo del primo omicidio. Foto d'archivio della vittima e del luogo in cui era stata scoperta; la qualità della trasmissione di queste ultime era talmente grigia che sembrava fossero state trattate con la fuliggine, il che le faceva apparire ancor più truci. Il corpo della ragazza giaceva su un pianoro disseminato di mattoni, resti di un'area urbana demolita che non erano mai stati portati via. Sembrava che fosse stata ricoperta con una sorta di tappetino che era stato rimosso parzialmente per permettere l'ispezione del corpo. Sullo sfondo, si vedevano i profili di alcune case. La bambina sembrava una bambola rotta. C'erano anche alcuni particolari, sempre nello stesso stranito bianco e nero. No, non sembrava che stesse dormendo. Jennifer non aveva mai pensato che i morti ricordassero persone dormienti. Molto dell'altro materiale era d'origine medica, tutte quelle parti del dossier di O'Donnell che mancavano e che adesso servivano a tappare i pochi buchi rimasti. Si parlava dell'attacco che aveva subito da un altro ricoverato; sembrava che fosse stato colpito con forza alla testa da un calcio, tanto che avevano dovuto ricorrere a un intervento. Aggressioni del genere non erano insolite, specie contro chi aveva commesso crimini contro i minori. Li si poteva prevenire con la segregazione, ma non completamente. Altri
fogli riguardavano la sua fuga dalla custodia cautelare fino a casa della sorella, a oltre cento chilometri di distanza. Lei aveva chiamato l'ospedale e la polizia l'aveva prelevato nella mezz'ora successiva. Era una delle poche volte in cui si parlava della famiglia di O'Donnell, ed era una notizia che a Jennifer non comunicava nulla. Guardò l'orologio, poi si alzò e andò a fare la doccia. Non aveva ancora una buona foto di O'Donnell, e questo la impensieriva. Chi poteva dire cosa gli era frullato in testa in tutti quegli anni? Non certo i medici. Non sapevano nulla delle due chiacchierate relazioni che aveva avuto con donne adulte, nessuna delle quali era stato possibile rintracciare. Secondo le fonti, una beveva forte, l'altra quasi non parlava inglese. Nella sua abitazione devastata la polizia aveva trovato alcune riviste per uomini e sei macchine fotografiche, ma le riviste non erano del tipo porno, e le macchine fotografiche non funzionavano. Le uniche foto ritrovate erano vecchie immagini di famiglia, quella stessa che l'aveva così palesemente disconosciuto. Qual era la chiave? Jennifer non credeva nel diavolo. Non in senso assoluto. Diavolo era una parola troppo spesso usata per evitarsi di guardare in faccia la realtà. Chiamarlo opera del diavolo era negare la presenza di quei materiali basilari di cui certi orrori sembrano essere l'incarnazione. Lei non voleva accampare scuse, ma era convinta che ogni volta che ci si nascondeva dietro un dito si lasciava spazio a ulteriori atrocità. Lei stessa ricordava l'assassinio particolarmente sadico di un gioielliere durante un furto in casa sua. I ladri erano due ragazzi che non avevano nemmeno l'idea di come collocare la refurtiva. Erano stati presi mentre cercavano di vendere ai passanti il frutto della rapina che tenevano in una valigia. Li aveva interrogati nelle rispettive celle, e aveva avuto difficoltà a conciliare le due impressioni conflittuali che ne aveva ricevuto: perdenti al gioco della vita, ma con un tocco creativo nella loro brutalità. Aveva letto le stesse cose a proposito delle guardie dei campi di concentramento: date loro una vittima, toglietegli qualsiasi pressione d'ordine morale, e nelle tenebre che ne conseguono anche la persona più comune può brillare della luce abbagliante di Lucifero. Si vestì, rimise i fax nella busta e chiamò la camera di Benny. Nessuna risposta. Che fosse già uscito? Forse già a fare colazione? Se così era, si era scrollato di dosso quel che il giorno prima lo faceva apparire così scostante. Quel che lei aveva preso per stanchezza aveva cominciato ad appa-
rire come qualcosa di più profondo. Con la busta in mano, prese l'ascensore e scese di due piani. Il loro era un albergo più modesto di quello in cui stava Cadogan, ma la ricettività era ottima. Arrivò fino alla porta di Benny e bussò: non si aspettava di trovarcelo. Si era ormai convinta che fosse già a colazione. Una voce esalò un ottenebrato: — Avanti... — Non posso — disse lei, sentendosi il cuore in fondo ai piedi. — La porta è chiusa. Devi aprire tu. Una lunga attesa, poi il rumore di qualcuno che strascicava i piedi. La porta si aprì su una stanza completamente al buio. Le tende erano ancora tirate. Benny Moon stava sbattendo le palpebre pesanti, ancora in pigiama, con l'aria di chi vorrebbe far credere che è già sveglio da un po'. — Lo sai che ora è? — Lo so — rispose lui. — Lo so. — Dobbiamo incontrarci con Werner nel suo ufficio fra mezz'ora. — Be', non stare qui ad aspettarmi. Ci vediamo giù. — Aveva gli occhi rossi e semichiusi. Peggio di ieri, non meglio. — Se non te la senti, non sforzarti di mandare avanti il lavoro. Li avvertiamo e ci facciamo mandare un sostituto. — Sto bene — insistette lui. — Non mi sembra. — Ho detto che sto bene — ripeté, questa volta con più forza. Cosa le restava da fare? Gli consegnò la busta coi fax, e lo lasciò. Per lo meno, si disse mentre scendeva l'ultima rampa di scale, gli ho lasciato qualcosa su cui riflettere per questa mattina. 41 I suoi occhi incrociarono quelli di Marianne. Rimase immobile. Per parecchi secondi il significato di quel che vedeva non si fece luce in lui. Era imbambolato. Lei era sulla balconata opposta alla sua, fra di loro si stendeva l'invalicabile spazio del vasto capannone; lei si era sporta per guardare i musicisti e aveva alzato gli occhi nel preciso momento in cui lo faceva lui. C'era O'Donnell con lei? Se c'era, non riusciva a vederlo. I suoi occhi erano catturati da quelli della figlia, e dal suo visino pallido, sorpreso. Anche lei lo fissava. Ma poi si voltò e si tuffò nella folla alle sue spalle, scomparve fra due
adulti come inghiottita dalle tenebre tropicali del sottobosco. Cadogan strillò il suo nome, e cominciò a muoversi. Immediatamente si scontrò con qualcuno. Sentì un grugnito e alcune parolacce, ma lui era lanciato e non si voltò a guardare. Non poteva andare diritto, doveva fare il giro. Era una lunga distanza da percorrere. Una grande folla da attraversare. La cercò di nuovo con lo sguardo, ma non c'era più nulla di lei da vedere; gridò di nuovo il suo nome e quelli attorno a lui sbatterono gli occhi e abbassarono la testa, come se avesse sparato una revolverata. Ma che importa. Andò a sbattere contro qualcun altro, una donna, che cadde a terra, ma lui non si fermò. Continuava a gridare il nome di Marianne. Era come aprirsi la strada in un mare in tempesta; qualcuno l'afferrò per la spalla del cappotto come se volesse trattenerlo, ma lui si liberò con un colpo dell'avambraccio e proseguì. La gente attorno a lui adesso stava gridando, qualcosa volò giù dalla balconata, qualcosa di terracotta, a prima vista, atterrando con uno scoppio dietro di lui, e allora il quartetto smise di suonare, e attorno a lui ci fu solo il ruggito della folla. Lui continuava a lottare per proseguire, gridando il nome di Marianne, consapevole che la sua voce si perdeva nel baccano che si stava levando tutt'attorno a lui, e non aveva percorso nemmeno la metà della strada e quel mare adesso era un'enorme onda che si abbatteva su di lui... Qualcosa lo colpì alla nuca e lui cadde, e il mare lo sostenne, impedendogli di cadere, rendendolo senza peso e assorbendo in sé il controllo... Qualcuno stava invocando ad alta voce la polizia, e Cadogan vide un barlume di opportunità. Cercò di muoversi ma venne strattonato indietro e verso il basso. L'opportunità se n'era andata. Lottò, invocando il suo nome ancora una volta. Ma il mare si stava già richiudendo su di lui. — Sei sicura che fosse lui? — chiese Ryan. Avevano rallentato il passo, adesso, e stavano riprendendo fiato. Lei l'aveva trovato, l'aveva afferrato per la manica e l'aveva trascinato con sé con solo una veloce spiegazione. Con tutta la confusione ormai alle loro spalle, si erano venuti a trovare in una specie di vicolo cieco fra due magazzini. Alla fine del vicolo c'era una sorta di scalinata in pietra che risaliva il fianco della collina, sulla cima della quale si erano venuti a trovare in un'area di edifici di grandi dimensioni con strade spaziose e giardini ben curati.
Nessuno li aveva seguiti. La zona era deserta. Anche nella zona riservata ai giochi dei bambini, piccola, luminosa, funzionale negli spazi aperti fra gli edifici, non c'era nessuno. Se era sicura che fosse lui? Lo guardò con occhi increduli. — Va bene — disse Ryan. — Forse vuoi dire che, dopo tutto, vuole che torni con lui. — Tu non l'hai visto. È diventato matto. Non ho mai visto nessuno comportarsi così prima d'ora. Persino peggio di quando mi ha rincorsa in casa e picchiata. Ti prego, tienimi lontana da lui. — Siamo quasi al verde — disse lui. — Possiamo vendere qualcosa. — Qualcosa cosa? Dammi un'occhiata! — Be', non lo so! Camminarono in un silenzio teso. Ryan teneva la testa bassa, gli occhi fissi a terra. Poi, sembrò essere arrivato a una decisione. — Andiamo — disse, allungò il passo. Lei era convinta che sarebbero tornati a quell'orribile alberghetto, dove Ryan aveva stabilito di passare un'altra notte in attesa del lunedì mattina e di un'altra visita all'ufficio dell'investigatore. Avevano lasciato i bagagli in stanza, nascosti sotto il letto per risparmiare i soldi del deposito. Invece, mezz'ora dopo erano all'edificio in cui Johann Schlesinger aveva lo studio. — Ma che ci facciamo qui? — chiese lei. — Non c'è nessun ufficio aperto. — Lo so — rispose Ryan fermandosi e facendole cenno di tacere. Rimasero in ascolto sotto una finestra coperta di rampicanti. Si sentiva solo il lontano traffico della domenica, ma poi sentì qualcos'altro. Un ronzio distante, come quello di un motore. — C'è qualcuno dentro — disse Ryan. La squadra delle pulizie. Il furgoncino dell'impresa era fermo all'entrata posteriore, e la serranda di metallo dell'ingresso era alzata oltre la metà. Il vano posteriore del camioncino era aperto e Marianne poté vedervi ben allineato tutto l'equipaggiamento della squadra, dai barilotti di disinfettante ai lunghi cavi elettrici arrotolati sulle pareti. Non c'era nessuno. Ryan abbassò la testa, ed entrò. Marianne non dovette abbassarsi. Si guardarono attorno per capire cosa succedeva. Il rumore ronzante era cessato, adesso si sentiva una radio. Con passi guardinghi, Ryan salì i primi gradini di ferro. Arrivato al primo piano si guardò accuratamente attorno, poi le fece segno di salire pur mantenendo la distanza. Quando disparve alla vista lei si guardò in giro e vide due grosse macchine per lavare e
lucidare i pavimenti ferme al centro del grande spazio del pianterreno. Due uomini in tuta bianca, probabilmente turchi, stavano prendendosi una pausa accanto alla radio, giusto sotto di lei. Avevano due termos fra di loro. I cavi che collegavano le due macchine si allungavano sul pavimento come profonde fenditure. Marianne lo seguì al livello successivo. Non sapeva se poteva osare parlare ma, a due piani di distanza e con la radio a fare da copertura, Ryan sembrava propenso a rischiare. Comunque, davanti alla porta di Schlesinger si limitò a un semplice sussurro. — Sei un tipo che mi piace, Marianne — le disse. — Sei una bambina simpatica, e non ti meriti quello che t'è successo. Forse tutto questo l'ho cominciato per i motivi sbagliati. Tutto quello che so è che, più cerco di togliermi da questa situazione, più ne rimango coinvolto. E se alla polizia sanno fare il loro mestiere, dovrei già avere un Terminator sulle mie tracce per cui, un giorno o l'altro, farò bene a mollarti. Si tolse una fascia di tasca e cominciò ad avvolgersela attorno alla mano. Lei non riusciva a capire cos'avesse intenzione di fare. — Non voglio trascorrere un'altra notte sveglio ad ascoltare le sirene nelle strade e a chiedermi qual è quella che sta venendo per me. Ho paura. E non m'importa che lo si sappia. Le lucidatrici ripresero il loro lavoro. Ryan si mosse con rapidità. Marianne sobbalzò quando lui si voltò e colpì il vetro col pugno fasciato. Lo spezzò di netto. Tolse gli spuntoni rimasti, infilò il braccio per far scattare la serratura, ed entrarono. Con le tapparelle abbassate, il buio era intenso. Ryan chiuse la porta dietro di loro, poi accese la luce. La stanza non era nemmeno interessantemente malandata, come capita che lo siano gli uffici degli investigatori nei film; quel che vedevano era un buco senza alcuna pretesa con mobili di seconda mano. La lettera degli avvocati aveva fatto loro credere che si trattava di uno specialista con una vita fitta d'esperienze e con migliaia di contatti, ma questo era chiaramente un poveraccio che lavorava disperatamente da solo. — Tu guarda le carte sulla scrivania — disse Ryan. — Guarda se riesci a trovare un nome o qualcosa che ti suoni familiare. — Ci troveremo in un bel pasticcio se ci scoprono — commentò lei. — Vedo che finalmente cominci a capire la situazione. Sulla scrivania c'erano tre contenitori, e uno di essi ospitava un'alta pila di materiale in attesa di essere archiviato, con l'aspetto di chi sta aspettan-
do da tanto tempo. Quello accanto era pieno di tubetti d'aspirina e altri medicinali. L'ultimo dava rifugio a un pentolino, un cucchiaio e una tazza vuota. L'altra estremità della scrivania scompariva sotto un labirinto di fili dai quali emergevano un telefono, un fax, una segreteria telefonica oltre a un deviatore al quale tutti gli apparecchi erano collegati. Ryan stava affrontando uno degli archivi. Ce n'erano due, molto usati e di diversa fattura, tutt'e due apparentemente chiusi a chiave. Lei era infastidita dal suo atteggiamento. Voleva anche che lo sapesse e ne soffrisse, per cui cominciò a svuotare rumorosamente il contenitore afferrando manate di fogli alla volta. E se questo non funzionava, significava allora che era diventato sordo. Li conosceva tutti i trucchi dei grandi. Ma non riuscì ad andare molto lontano col suo teatrino, soprattutto perché non stava prestando molta attenzione a quel che stava facendo. La catasta che aveva fatto era troppo alta e precaria e i fogli stavano scivolando da tutte le parti e lei non riusciva più a trattenerli, e nella frenesia di impedir loro di cadere afferrò anche una manciata di fili. La macchina del fax, più pesante, rimase dov'era, ma il ricevitore del telefono schizzò verso l'alto mentre la segreteria telefonica si spostava pericolosamente verso l'orlo della scrivania. Mollò i fogli, bloccò la segreteria. La sua mano si abbatté su tutti i tasti contemporaneamente, e l'apparecchio squittì e cominciò a riavvolgere il nastro. Guardò Ryan. Lui la stava fissando. Altre lettere continuarono a scivolare terminando la loro corsa sul pavimento. Il nastro della segreteria cominciò a farfugliare, come un'anatra demente. — Non lo sapevo che faceva così — disse lei, nel tentativo di scusarsi. — Mettila giù — disse Ryan. Poi si voltò. Se l'avesse sgridata allora si sarebbe rivoltata, ma non l'aveva fatto. Aveva solo l'aria di chi è stufo di lei, e quella era una cosa per cui non aveva risposte. Rimise l'apparecchio sul tavolo, riappese il ricevitore del telefono. Poiché lei non l'aveva bloccato, il nastro completò il riavvolgimento e, mentre lei si chinava per raccogliere le lettere da terra, cominciò a snocciolare i suoi messaggi. Non stavano dicendo niente che valesse la pena di tradurre, così non ci provò nemmeno. Ryan aveva aperto il coltello e stava cercando, senza successo, di forzare la serratura di uno dei mobiletti. Marianne si era chiesta più volte come ci si doveva sentire a fare lo scassinatore. Si era immaginata qualcosa di eccitante, ma non lo era. Faceva spavento e ti faceva sentire anche un po' degradato; se qualcuno li avesse scoperti all'opera, quale stu-
pida scusa potevano tirar fuori? Ryan stava scrollando il mobiletto in un impeto di frustrazione. Uno dei cassetti inferiori scivolò fuori e lo colpì allo stinco. Lo guardò, stupito. — Non credo che sia chiuso a chiave — disse Marianne. — Ma prima non sono riuscito ad aprirlo. — È una misura di sicurezza. Se ne apre uno alla volta. Altrimenti il peso lo farebbe cadere. Spinse con la gamba, chiudendo delicatamente il cassetto. Il cassetto superiore si aprì con facilità. Ryan stava frugando fra una serie di fascicoli in ordine alfabetico dalla A alla F. — Ripetimi il nome di tua madre. E la segreteria telefonica disse: "Anneliese Cadogan". 42 Era un messaggio su di lei. Detto dalla voce di una donna, d'accordo, ma non diceva le cose che Marianne si sarebbe aspettata da lei. Le prime due volte che lo riascoltarono, Marianne incespicò nella traduzione perché la sua mente stava divagando in tutte le direzioni. Ryan allora scavò fuori da quel marasma una delle penne di Schlesinger e un notes e le disse di scrivere. All'inizio le parole erano un po' mangiate, ma si capiva qualcosa circa un avviso su un giornale cui seguiva un indirizzo. Lei lo trascrisse diligentemente, ma non scrisse quello che seguiva. Ryan ricominciò di nuovo a riavvolgere il nastro. — Non voglio più risentirlo — disse Marianne. Lui la guardò, capì che diceva sul serio. Fermò la segreteria. — Dimmi cos'altro stava dicendo — le chiese. — Senza saltare una parola. — Ha detto... ha detto che l'indirizzo lo si può usare in caso d'emergenza, ma di non aspettarsi una risposta. Non vuole che nessuno si ricordi di lei. Non vuole parlare con nessuno che lei abbia conosciuto. Vuole essere dimenticata dal mondo. Vuole che tutti la considerino morta. — E questo è esattamente quello che ha detto? Marianne si sforzò di annuire. — Ma perché qualcuno dovrebbe parlare così? — Aspetta un momento — disse Ryan. — Ha detto: "Io voglio essere dimenticata", oppure: "Lei vuole essere dimenticata?". — Lei — rispose Marianne. — Come se stesse parlando di qualcun altro. Così, potrebbe anche non trattarsi di lei, non è vero?
— Già — disse lui, ma non ne sembrava troppo convinto. Guardò il notes. — Non capisco la tua calligrafia. — È a Düsseldorf. A più di trecento chilometri da qui. — Oh, merda — disse tetramente Ryan. Non parlarono molto mentre tornavano all'albergo, ma si capiva che lui la considerava una grande calamità più che una conquista. Capiva benissimo il perché. Il tono depresso del messaggio, l'allargarsi del campo di ricerca anziché il suo restringersi verso una conclusione. E poi non era un vero indirizzo, solo il numero di una casella in un ufficio. — Abbiamo fatto tanta strada — disse lei. — Non è molto lontano. Ryan non rispose. La luce davanti al loro albergo segnava verde, il che significava che c'erano stanze libere. Perché facevano così, Marianne non riusciva a capirlo. Negli altri alberghi ti limiti ad andare dal portiere e chiedi, e se non hanno più posto mettono fuori un cartello. Quel posto lì invece sembrava riempirsi e svuotarsi a ogni ora. — Quando la troveremo — disse Marianne mentre salivano i gradini — spero che tu vorrai rimanere un poco con noi. Sono sicura che ti piacerà. E anche tu le piacerai. — Un bel pensiero — rispose lui. — Ma non succederà così. Aprì la porta. — Ryan. Si era fermata sugli scalini: lui si voltò a guardarla. — Sono anni che non la vedo. Non avrei mai pensato di sentirmi così. Ho paura, Ryan. Lui controllò la strada da entrambi i lati prima di guardarla di nuovo. I suoi occhi erano freddi, come se si fosse ritirato profondamente in se stesso. — Tu non sai cosa sia la paura. Non ancora. 43 Jennifer guardò l'orologio sulla parete. Werner era in ritardo, e non c'era ancora nessun segno di Benny Moon. Più il tempo passava, meno possibilità di vederlo arrivare c'erano. Grande, davvero. Questo significava che ci si aspettava che lei portasse avanti il tutto fino
a quando lui si fosse rimesso, e senza farlo sapere a nessuno. Era così che funzionava il codice non scritto: i ragazzi lavorano tutti uniti e si coprono l'un l'altro. Lui se l'aspettava da lei, qualsiasi atteggiamento diverso sarebbe stato considerato un tradimento. Il problema per Jennifer era che lei dubitava che le sarebbe stato applicato lo stesso trattamento se le posizioni fossero state invertite. Sarebbe stata un'ennesima prova che le ragazzette non ce la fanno, e l'avrebbero rispedita a casa. E non mandate più donne a fare un lavoro da uomini. Se il giorno prima il Praesidium era un luogo tranquillo, oggi era un mortorio. Nell'ultima ora, l'unico rumore che aveva sentito era stato l'arrivo di un contenitore di metallo nella stanza accanto, condotto fin lì dal sistema automatico di consegna posta. Era andata a controllare cos'era arrivato: una serie di fax in tutto uguali a quelli già ricevuti da lei in albergo. Li sfogliò lo stesso, nel caso in cui le fosse sfuggito qualcosa di vitale importanza. Ma era sempre lo stesso materiale. Li risistemò assieme e li portò fino all'ufficio di Werner. Il quale era appena arrivato. Stava estraendo un paio di fascicoli dalla sua borsa per posarli sulla scrivania. — Ho una buona scusa per il ritardo — disse velocemente. — Il tuo signor Cadogan. — Cos'è succeso? — È trattenuto dalla polizìa al Fischmarkt. Ho appena finito di parlargli. Due della squadra antiborseggio gli sono saltati addosso e l'hanno fermato. — Perché? — Sembra che sia impazzito improvvisamente in mezzo alla folla dopo aver visto, come dice lui, sua figlia. È partito come un folle in mezzo alla gente, travolgendo quanti gli sbarravano la strada. L'hanno fermato per la sua sicurezza più che per altri motivi. — L'ha vista davvero? — Adesso non ne è più tanto sicuro. Ma non me la sento di dargli la croce addosso. Se avessi una figlia nella stessa situazione, sono convinto che sarei un po' fuso anch'io. Abbiamo messo alcuni agenti perché tengano gli occhi aperti, non si sa mai. Ma se mai è stata in quel posto, adesso non c'è più. Era esattamente il tipo di reazione che Jennifer temeva da parte sua se in qualche modo gli avessero permesso di trovarsi sulla scena della trappola all'ufficio di Schlesinger l'indomani mattina. — Non c'è qualche scusa per
cui possiate metterlo su un aereo e rispedirlo a casa? Werner sorrise dispiaciuto, scrollando la testa. — Va al di là dei miei compiti. Per il momento lo trattengono, ma fra breve lo lasceranno andare. Alcune ore a dormire in una cella non possono fargli molto male. — Bene. Adesso, che facciamo? — Alcuni dei nostri stanno controllando tutti gli ostelli per poveri e quelli gestiti da religiosi. Ma credo che la maggior parte delle nostre speranze riposi nel vederli spuntare domattina all'ufficio di Schlesinger. Andrò io stesso a riceverli. — Immagino che io dovrò andare avanti con le telefonate, vero? — disse Jennifer senza alcun entusiasmo. — Non è il modo migliore per trascorrere il fine settimana, lo so. Se potessi, te lo renderei più interessante. — Va bene anche così. — Ne ho parlato con la mia amica, e le ho proposto di invitarti fuori per la serata. Ma lei mi ha ricordato che abbiamo già un appuntamento che non possiamo disdire. Amica? Ecco qualcosa di nuovo. — Non te ne dispiacere — disse. — È stato un pensiero gentile. Un'altra volta, caso mai. Werner sembrò rilassarsi. — Allora, tutto quel gran parlare di te e dei tuoi problemi con le donne... — Oh, quello — disse Werner con un gesto della mano. — È il solito Josef. Gli piace... come si dice? screditare la gente. Lo fa in continuazione. Ma io cerco di essere comprensivo con lui. Mi hanno detto che ha un pene straordinariamente minuscolo. Jennifer fece una smorfia, e lui anche. Poi lei tornò nel suo ufficio. Per quando ci fu arrivata, il momentaneo buonumore se n'era già svanito. Non sapeva dire perché, nemmeno a se stessa, ma stava cominciando a sentire qualcosa di molto simile alla disperazione. Werner e i suoi stavano facendo un lavoro sistematico, la Schutzpolizei era in allarme, loro avevano un piano da seguire e una trappola pronta a scattare, tuttavia... Tuttavia non riusciva a sfuggire alla sensazione di star perdendo di vista, giorno dopo giorno, la sua preda. Quando tutto era cominciato, aveva O'Donnell diritto davanti a sé e avvertiva un forte senso di pericolo per la bambina. Ma adesso se ne sentiva sempre più lontana, non più vicina. Sospirò, e prese la lista degli alberghi. Il lavoro di routine doveva continuare. Compose il primo numero non ancora controllato, e cominciò la
procedura. Tutte le presenze di maschi inglesi accompagnati da una bambina che conosce il tedesco. Alla terza telefonata, le venne risposto: — Credo che ci siano. Un momento, per favore, che controllo. Attese. L'eccitazione stava cominciando a impadronirsi di lei. L'altro tornò all'apparecchio e disse: — Sì, abbiamo il signor Moon e la signora McGann. Sono della polizia inglese. E solo allora si rese conto di aver chiamato il proprio albergo. — Ah... già — disse, cercando di non apparire imbarazzata e non riuscendoci. — Sì, capisco. In realtà, sono io la signora McGann. Può mettermi in contatto col signor Moon, per favore? Il telefono suonò a lungo. Quando finalmente rispose, disse solo: — Sii? — La sua voce era poco più di un gemito. — Stavi dormendo — disse lei. — Me lo sto scrollando di dosso — disse lui. — È una specie di virus, tutto qui. Lo combatto stando a letto. Se riesci a tenere il forte per oggi, ce la farò. Voglio dire, è solo domenica, e il piano entra in funzione domani. Devi ammettere che ha senso. — Dio, Benny, come la fai lunga. — Io farei lo stesso per te. — Credi che io te lo chiederei? — Se me lo chiedessi, lo farei. — Sogni d'oro, Benny. Ma se domattina non sarai qui, farai meglio a pensare a come tornare a casa. Ci sono abbastanza cose in ballo e non puoi pensare che me le voglia spupazzare tutte io. — Lo so — rispose lui. — Sei seccata con me. Be', potrebbe essere amore. — Non nel tuo caso, Benny. Io e te su un'isola deserta, tu saresti la seconda scelta. Riappese con un sospiro. Comunque, si sentiva quasi sicura che l'indomani si sarebbe fatto vivo. Anche per il semplice fatto che Benny era atterrito dalla prospettiva di dover tornare a casa e di doversi far rimpiazzare. Pensava che sarebbe stata una figuraccia, e come dargli torto? Ma se fosse diventato una responsabilità per lei, allora non avrebbe esitato un momento a impacchettarlo e rispedirlo a domicilio senza degnarlo di un'occhiata supplementare. La lista attendeva.
D'impulso, compose il numero di casa. Dopo pochi secondi, il telefono all'altro capo cominciò a suonare. Cosa stava facendo Ricky in quel momento? Si rese conto che era ancora presto. Sentì che sollevava il ricevitore nell'attimo in cui Werner si precipitava nel suo ufficio. Stava per parlare quando lui l'interruppe. — Chiamata urgente da un albergo — disse. — In una delle stanze è stata trovata morta una bambina. Età e descrizione corrispondono, e viveva in quella camera con un uomo di mezza età. Werner se n'era già andato e Ricky stava dicendo: — Pronto? Sei tu, Jen? — e lei gli rispose: — Mi dispiace, Ricky, ti richiamo più tardi. Sbatté giù il ricevitore e rincorse Werner. 44 Lo raggiunse all'ascensore. Stava fissando il pannello indicatore mentre s'infilava la giacca sulla fondina a spalla. Poiché non si muoveva abbastanza in fretta cominciò a tempestare di pugni il pulsante di chiamata. Quando lei lo raggiunse lo sentì imprecare per l'impazienza; l'ascensore tardava, e allora s'infilò nella porta accanto, che portava alle scale. Lo seguì. Ecco un aspetto di Werner che non aveva avuto modo di sperimentare prima. Stava scendendo i gradini a tre alla volta e lei non riuscì a raggiungerlo se non in fondo alle scale mentre lui stava già facendo cenno a un'auto verde e bianca della Schutzpolizei che stava nell'edificio di fronte. Le fece cenno di seguirlo e s'infilò nell'auto. L'auto partì che lei non aveva ancora chiuso la portiera. — Dobbiamo fare in fretta — disse Werner. — Quant'è lontano? — Un paio di minuti. L'autista sembrava voler fare di tutto per dimezzare quel tempo. Uscirono, fecero una stretta svolta a destra, poi un'altra. Accese la sirena, il traffico fece loro strada. Jennifer, che si teneva saldamente alla maniglia, chiese: — Sappiamo cos'è successo? — Qualcuno ha sentito un grido provenire da una delle stanze, e il padrone è andato a vedere. Ha trovato la bambina sdraiata sul letto. Ci sono già agenti in uniforme sul luogo. — Werner tacque per dire qualcosa all'autista. Questi alzò il volume della radio. Qualcuno stava scambiando informazioni con qualcun altro, ma Jennifer non riusciva a seguire. Werner bestemmiò. L'autista affondò il pedale dell'acceleratore e l'auto
balzò in avanti. Jennifer venne sbattuta all'indietro sul sedile. La sirena ululava al massimo e lei, nelle vie strette che stavano attraversando, coglieva lampi di auto parcheggiate e passanti che sfilavano via veloci come in una nebbia stroboscopica. Werner aveva sfilato dalla fondina la sua Sig Sauer e stava controllando che fosse carica. — E questo per cosa? — chiese lei. — C'è un problema con l'uomo — disse Werner infilando il caricatore con un colpo secco. — Ha preso la pistola di un agente dopo averlo ferito. Mi suona male. Gli stanno dando la caccia, ma penso che dovremmo arrivargli addosso fra breve. Dovettero rallentare per attraversare una strada trafficata, ma non molto. Negozi, colori, flash fotografici di facce sorprese mentre l'auto schizzava via. Finalmente fuori dalle stradine, sbucarono in una piazza contornata da alti edifici, con al centro un monumento e alcuni giardinetti cintati. Werner si chinò in avanti e disse concitatamente all'autista: — Es ist dort hinten. Du bist gerade daran vorbei gefahren. — Jennifer venne scagliata in avanti mentre il guidatore frenava, e sarebbe andata a sbattere contro il sedile anteriore se Werner non l'avesse afferrata per un braccio. Ripartirono in retromarcia, praticamente alla stessa velocità di prima: l'autista si era voltato all'indietro e stava controllando la strada guardando attorno alle loro due teste. Frenò di nuovo, e Jennifer s'aggrappò a Werner, mentre il suo stomaco protestava. Né l'aiutava molto sentire l'odore del disinfettante sul sedile posteriore messo apposta per cancellare tracce di vomiti recenti. Si tenne con forza per resistere alla prossima curva attorno a una Audi che li aveva quasi speronati e che si era fermata di schianto, ma quando l'autista cercò di rimandare su di giri il motore commise qualche errore perché il motore si piantò. — Lass es hier stehen — disse Werner. — Lasciamola qui. — E fece per aprire la portiera. — Laggiù! — gridò Jennifer. Indicava la piazza, in direzione di un edificio nerastro con una gradinata che portava all'ingresso principale. Come gli altri edifici che sorgevano in quella piazza, aveva un'aria da trascorsi splendori dal primo piano in su. Dalla cima della scalinata stava scendendo qualcosa che una volta doveva essere stato un uomo, ma che ora si era trasformato in una sorta di mugghiante animale che si muoveva pesantemente; un animale con una pistola in mano che, mentre lei lo fissava, lui alzò in aria per sparare due volte.
Qualcuno urlò. Qualche altro stava correndo, accucciato, e Werner stava bestemmiando e strapazzando la maniglia della portiera, ma senza alcun successo. Jennifer provò ad aprire quella dal suo lato, ma non funzionava. Le chiusure erano di quelle "a prova di bambino" e potevano essere aperte solo dall'esterno, ed erano di quel tipo per impedire agli arrestati di provare a fuggire. Il che, in quel momento, significava che erano intrappolati fino a quando qualcuno non fosse arrivato ad aprire loro le portiere. Alzò gli occhi. La bestia aveva visto l'auto, e si stava avvicinando a grandi passi. Jennifer si guardò attorno. Si sentivano delle sirene in avvicinamento, ma nella piazza non c'era ancora nessun poliziotto. Il loro autista stava facendo sforzi disperati per riaccendere il motore. Werner stava tentando di abbassare velocemente il finestrino per sporgersi e aprire la portiera. Gridò a uno che stava a una quindicina di metri da loro, ma quello non si mosse. — Oh, Dio mio — disse Jennifer. La bestia la stava fissando. Ululando di rabbia e dolore, avanzava verso di loro. Le poche persone rimaste nella piazza stavano correndo curve alla ricerca di un riparo. L'autista scaricò un'altra maledizione mentre riprovava a riaccendere il motore, che non voleva saperne. Sempre più vicino. — Werner! — gridò lei. La bestia umana alzò l'arma e prese di mira l'auto. Era giusto di fronte a loro in quel momento, inquadrato nel parabrezza come su uno schermo Cinemascope, e s'avvicinava sempre più. Sempre camminando, sparò. Vide il braccio che scattava all'indietro e sentì il sibilo del proiettile che si perdeva chissà dove dopo aver sfiorato il tetto dell'auto. L'autista era nel panico. L'interno dell'auto s'era riempito dell'odore della benzina del motore ingolfato. Altri tre colpi sparati a casaccio, uno dei quali ferì l'uomo nascosto nel portone. L'arma tornò ad abbassarsi, a pochi metri da loro ormai, e con poche speranze che sbagliasse di nuovo. Questa volta si fermò, e prese la mira con cura. Jennifer si rese conto di stare guardando diritto nel minuscolo foro tenebroso della canna della pistola. Era chiaro che non era uno abituato a sparare, ma a quella distanza non poteva mancarli. Lei poteva abbassarsi, a-
vrebbe schivato il primo colpo. Ma poi non poteva uscire, e non c'era niente che potesse fare per impedirgli di sparare una seconda volta. Voleva chinarsi, lo voleva con forza. Ma, chissà come, non riusciva a muoversi. Werner si lanciò in avanti e, con la mano allargata che spingeva con forza per vincere qualsiasi resistenza, forzò l'autista ad abbassare la testa e a spostarla di lato mentre l'altra mano alzava la pistola che impugnava puntandola diritta contro il parabrezza. Jennifer si trovò a pensare ai vapori di benzina che stavano impregnando l'abitacolo e al pericolo di un'esplosione, ma mentre quel pensiero le attraversava la mente era troppo tardi, perché Werner aveva già sparato. Il parabrezza esplose e venne proiettato, al rallentatore, verso l'esterno. Lo vide spezzettarsi e piombare addosso all'uomo avvolgendolo come un vento nucleare. Le orecchie le dolevano per l'improvviso, violento scoppio; mentre la nube di frammenti di vetro si disperdeva vide che la bestia, la cui parte inferiore del viso era stata spazzata via, indietreggiava barcollando e agitando selvaggiamente la mano armata. Sparò ancora, per riflesso, non intenzionalmente, e il colpo si perse in cielo. Accanto a lei Werner sparò di nuovo e questa volta lo colpì al corpo, come dicono i sacri testi, un colpo all'aorta con perdita istantanea della pressione dell'olio vitale, e le gambe della bestia si piegarono e lui cadde all'indietro e fuori vista. Le campane stavano suonando con forza minore nella testa di Jennifer. Qualcuno stava urlando. Ma non era lei. Werner batté due volte sulla schiena del guidatore, chiaramente un segnale, e l'altro si rialzò lentamente. Alcuni frammenti di vetro erano caduti anche all'interno, ma la maggior parte erano all'esterno. Qualcuno stava aprendo la portiera di Werner. Lasciato trascorrere un attimo per riprendersi, poiché il suo cuore stava battendo come un martello pneumatico, Jennifer scivolò lungo il sedile e lo seguì. — Stai bene? — le chiese Werner. Lei annuì. Ed eccolo là, con una pozza che si allargava dietro la sua testa e una ancora più grande che si andava formando sotto il corpo. Adesso la piazza era piena di auto della polizia, e molti agenti stavano correndo verso di loro. Altri stavano sbucando dall'edificio che aveva eruttato quell'uomo. Quanto era durato? Sembrava che fosse passata un'ora, ma non doveva essere stato più di un minuto. La mano dell'uomo era allargata, la rivoltella rubata al poliziotto era ad almeno un metro da quelle dita.
Werner gli s'inginocchiò accanto. Sembrava quasi voler cercare una pulsazione, ma non riusciva a convincersi a toccare quel corpo. Era malconcio. A parte le ferite dell'arma da fuoco, i vetri del parabrezza l'avevano tagliuzzato in molte parti come piccole lame di rasoio. A giudicare dal suo sguardo, era pura accademia cercare una qualsiasi pulsazione residua. Werner si rialzò. Alcuni agenti si avvicinarono al corpo, uno di loro allontanò con un piede la pistola. Werner consegnò la propria, che venne infilata in un apposito sacchetto. Sembrava confuso, ma era perfettamente in grado di reagire. Alla marea di veicoli che ingombravano la piazza, s'aggiunse ora anche un'ambulanza. La gente si stava cominciando ad avventurare fuori dalle case, incerta dapprima, vogliosa di vedere. Quelli che arrivavano a vedere il cadavere ne distoglievano velocemente lo sguardo. La piazza venne ben presto circondata dai nastri della polizia, dietro i quali vennero sospinti tutti i curiosi. Werner si stava guardando attorno, come se si fosse perso. Poi vide Jennifer, le si avvicinò. Aveva lo sguardo sorpreso di chi è passato attraverso un incendio uscendone senza nemmeno una bruciatura. Non era stato ancora colpito dallo shock, ma era sulla via giusta. — Bene — disse — immagino che adesso te ne tornerai a casa. — Fece un vago cenno in direzione del cadavere, che stava scomparendo sotto un lenzuolo. — Mi dispiace di non essere riuscito a fare meglio di così. Jennifer, lanciata un'ultima occhiata al cadavere, gli rispose: — Dovremo restare assieme ancora per un po'. Questo non è lui. 45 — Perché stai zitto? — gli chiese. Si erano fermati a un'ora di cammino dalla città. Si trovavano a una stazioncina di rifornimento con annessi abitazione del proprietario e locale per rifocillarsi. Sul davanti c'erano parcheggiate una trentina di motociclette e quattro grandi bus col muso puntato in direzione della strada. Tutt'attorno campi a perdita d'occhio; in distanza, un irrigatore automatico lanciava a intervalli il suo spruzzo verso il cielo. I campi si perdevano fin quasi all'orizzonte, bordeggiato da una foresta che ne segnava il lontano confine. Il cielo era terso, e i profili delle piante si disegnavano con chiarezza contro l'azzurro. Ryan stava piegato in avanti sul tavolino riparato dal grande tendone a
strisce. Tutti i tavoli erano uguali, ma non tutti erano occupati da qualcuno. Forse lui si stava chiedendo cosa ci facessero così tanti veicoli nel bel mezzo del nulla con così poche persone. — Tu non stai parlando con me — disse ancora Marianne. — È perché non so parlare e pensare nello stesso momento. — Io sì. — Già — rispose lui. — Ci credo. Lei attese un poco, poi: — A cosa stai pensando? — Non si fanno domande del genere alle persone. Sono cose private. Ancora un poco. Poi: — A cosa stai pensando? Ryan guardò nel bicchiere di carta vuoto. — A nulla. 46 Quando tornarono al Praesidium vennero informati che era arrivato anche Cadogan, che era stato sistemato al secondo piano, in un salottino d'attesa. Per visitatori, vittime e testimoni non era stato previsto altro che un tavolino di formica e una panca fissa in finto legno alla fine del corridoio. La panca era coperta da ogni sorta di graffiti. Non c'era nient'altro da guardare. Vide che si alzava quando s'accorse che era lei. Capì subito, dalla sua espressione, che non gli era stato detto niente di come s'era conclusa la faccenda. — Falso allarme — si affrettò a dirgli. Sembrava che fosse stato prosciugato e che non potesse avere più reazioni. Barcollò. — Farebbe meglio a sedersi — gli disse lei. Gli si sedette accanto e cominciò a fargli un resoconto. Per cominciare, "la ragazza della stessa età" trovata nell'alberghetto si era scoperto essere un ragazzo denutrito di dodici anni, figlio di un immigrante clandestino. La morte era avvenuta per cause naturali, probabilmente quale risultante di una meningite virale non curata. — Il padre non osava rivolgersi a un medico — gli spiegò — per cui lo curava lui stesso con medicinali di banco. È difficile stabilire se l'ha ucciso prima la malattia o le cure. — Perché niente medico? — Perché l'uomo è un illegale. Era un illegale. Forse era impazzito per
la morte del figlio e ha aggredito un poliziotto. Ma non è durato a lungo. — Lei c'era? — chiese Cadogan. — Sì. — Era così terribile? — Cose simili lo sono sempre. Quel che interessa lei è che non si trattava di Marianne. Tutto torna come prima. Può fare ritorno al suo albergo. Lui annuì a cominciò ad alzarsi. Aveva uno sguardo allucinato, come se avesse consumato tutta l'adrenalina in un disperato giro sull'ottovolante della vita e adesso non sapesse più dove fosse l'alto e il basso. Si muoveva come un vecchio. Si fermò prima della fine del corridoio. — Oggi ho fatto una gran figuraccia — disse. — No. Non credo proprio. Lui ci pensò un attimo. Poi azzardò un sorriso di ringraziamento, tuffò le mani in tasca e s'infilò nell'ascensore. Jennifer andò in bagno e cominciò a far scorrere un po' d'acqua. Le tremavano ancora le mani. Sperava che lui non se ne fosse accorto. Niente procedeve come doveva, anche se sembrava sempre che fossero vicini alla soluzione. Werner le aveva sorriso quando si erano lasciati, stava scherzando su quegli investigatori che arrivano a fatti già conclusi e che si stavano complimentando con lui per aver assolto a un compito sociale. Ma aveva scorto una sorta di disperazione dietro il suo sorriso, che non riusciva a nascondere bene. Sembrava che stesse cercando una via di scampo. E lei non poteva offrirgliene. Si sentiva bollire. Si riempì le mani d'acqua e vi affondò il viso. E mentre l'acqua colava via di tra le dita, lei si trovò sull'orlo delle lacrime. Ma solo sull'orlo. Non era entrata nella casa, non aveva visto il bambino. Ma da quel che aveva sentito e visto, le condizioni là dentro dovevano essere lugubri. L'edificio era di proprietà di un Arbeiter-Verleihfirmen, un'agenzia di reclutamento specializzata in lavoranti non-tedeschi che non avevano né lavoro né permesso di soggiorno. I due erano entrati nel paese con un biglietto di viaggio di andata e ritorno, la seconda metà del quale era inutilizzabile. Il suo scopo era quello di essere mostrato all'ingresso, quale prova della volontà di tornare in patria. Il lavoratore reclutato in questo modo veniva ceduto alle grandi compagnie attraverso una rete di agenti contrattuali che si tenevano la maggior parte della paga lasciando loro un minimo per la sopravvivenza, senza che venissero corrisposti né versati contributi di alcun
tipo. Non era entrata, no. Ma era là quando avevano portato fuori il corpo. Si asciugò la faccia. Su una delle porte qualcuno aveva applicato un adesivo tondo con la figura di un teschio con le tibie incrociate e la scritta GAS VELENOSO. Si raddrizzò, e si studiò la faccia allo specchio. Un po' di rosso attorno agli occhi, tutto qui. Avrebbe voluto che non fosse domenica. Avrebbe voluto che quel posto fosse pieno di gente, la cui presenza avrebbe creato una pressione costante che l'avrebbe aiutata a mantenere l'autocontrollo. Uscì. Una delle porte lungo il corridoio era aperta; portava nel vasto ufficio centrale, dove si tenevano le riunioni propedeutiche mattutine. Ci si trovavano una grande lavagna verde e un vasto tavolo per conferenze, con televisore e videoregistratore sistemati accanto a una finestra. Era in quel posto che tenevano il frigorifero e la macchina automatica per il caffè; dal muro pendevano placche con pendagli e coccarde di altre polizie europee e non, e le fotografie scolorite delle squadre di calcio del distretto. La giacca di Werner giaceva sulla spalliera di una sedia, come se vi fosse stata lanciata in uno scatto d'ira. Una spalla pendeva inerte, a sfiorare il pavimento. Werner non era presente. Non si trovava nemmeno nell'ufficio accanto, che lei raggiunse attraverso la porta intercomunicante, dove la bretella portapistola era stata gettata su un tavolo e di lì era scivolata a terra, trascinandosi dietro parecchi dei documenti che stavano sul ripiano della scrivania. La raccolse, e continuò nella sua ricerca. Lo trovò dopo altre due stanze. A testa bassa, con le mani aggrappate con forza alla spalliera di una sedia. A combattere la stessa battaglia. Solo che lui lo stava facendo con forza maggiore. — Werner? — Per favore, va' via — disse lui, piano. — Non puoi affrontare una cosa del genere da solo — disse lei. — Non ti hanno offerto i servizi di un consigliere? Lui non alzò la testa. — Non mi va di parlarne con estranei. — Vuoi parlarne con me? Scrollò la testa. — Forza, andiamo — disse lei accostandoglisi e afferrandolo per le braccia. — Sembra che sia io che ti debba accompagnare a casa. Lui, per un attimo, oppose resistenza.
Poi, lentamente, come un uomo che ricomincia a camminare, si lasciò guidare da lei. 47 Il lunedì mattina, dopo una notte che per la maggior parte Marianne aveva trascorso dormendo in braccio a Ryan con la testa posata sullo zaino, li trovò in un ufficetto costituito da una sola stanza accanto al negozio di un fiorista. Era difficile per Marianne dire quale impressione avrebbero fatto a chi li avesse visti. Aveva notato l'occhiata della commessa che scivolava sui tatuaggi fatti a mano sulle nocche di Ryan, e l'aveva sentita esitare. Marianne non ci vedeva nulla di male in quei segni, erano solo x e o come i baci e gli abbracci che si mettono alla fine di una lettera. All'inizio aveva pensato che avrebbe preferito che Ryan aspettasse fuori, nella piazza, ma non voleva nemmeno entrare da sola. Sentiva di avere bisogno di lui, anche se non c'era nulla che lui avrebbe potuto fare o dire per aiutarla. Lui, come dire, era la roccia a cui aggrapparsi, rappresentava il coraggio di andare avanti. — Chiedile come si mettono in contatto con lei — disse Ryan. — Non lo fanno — rispose Marianne. — E allora, che succede dei messaggi? — La gente li chiama perché gli dica se ce ne sono. È una cosa molto riservata. Ryan si guardò attorno, e per un attimo Marianne temette che stesse per dire: "Mi sono stancato" e, spinte le porte basculanti del banco, si mettesse a frugare fra le carte mentre le donne si mettevano a gridare e a correre da tutte le parti. Ma lui non fece nulla di tutto ciò. — Bene, andiamo — disse, e si voltò. Düsseldorf era una città ricca, di edifici bassi, di strade percorse da tram e con quel genere di negozi e di portici dove nessuno sembra mai comperare qualcosa e tu te ne stai fuori dalla vetrina e ti chiedi se ci potrà essere qualcuno in tutto il pianeta che si proverà mai ad acquistare quel tipo di merce, e perché poi qualcuno dovrebbe andare fin laggiù per comperare roba come quella. Penne d'oro con pennini decorati. Copertine in pelle di coccodrillo. Marianne non era mai stata prima in quella città, e si chiedeva come mai la mamma ci fosse finita. Non avevano parenti da quelle parti, da quanto ne sapeva lei. Forse per lavoro? Che la mamma lavorasse in uno di quei posti, a vende-
re camicette parigine o borse firmate o mobili d'antiquariato in negozi che erano addobbati come musei privati? Non riusciva a immaginare nulla di tutto ciò. Però, solo poche settimane prima non avrebbe nemmeno sognato di fare quel che stava facendo adesso. Passeggiarono per un po'. Non era come ad Amburgo. Lì tutto era su scala minore, con poca gente in giro. Sarebbe stato più difficile scomparire in quel luogo. — Perché non vuole farsi trovare da me? — chiese. — È questo quello che pensi? — Sto cominciando a crederlo, sì. — Ma lei non lo sa che la stai cercando — rispose lui. — La gente scappa da ogni genere di cose. Si nasconde per qualsiasi motivo, capisci? Ma non credo proprio che tu faccia parte di una di queste categorie. Sedettero su una panchina davanti a un grande magazzino, e fecero i conti di quanto rimaneva loro. — Gesù — disse Ryan quando realizzò quanto possedevano. Avevano perso soldi con l'albergo della notte precedente perché avevano pagato in anticipo e il proprietario si era rifiutato di rimborsarli. Poi, lungo la strada, si erano fermati a mangiare qualcosa. Che era risultato disgustoso anche se non a buon mercato. — Non ti scordare che tutto ti verrà rimborsato quando... — Lo so, lo so — l'interruppe Ryan facendole cenno con la mano come se si trattasse di una canzone che era stanco di sentir ripetere, poi le disse di prendere quanto le serviva per acquistare carta da lettera e busta. Mentre stavano per acquistarle, lui le disse di assicurarsi che la busta fosse di un bel colore vivace. La carta, invece, non importava di che colore fosse. Poi si recarono in una rosticceria accanto alla stazione, e lui le disse di scrivere una lettera. — E cosa scrivo? — Non importa molto cosa — disse lui — se verrà lei a ritirarla. È un'esca, capisci? E noi staremo ad aspettare che abbocchi. Marianne guardò la vetrinetta del negozio. Dietro il vetro facevano mostra di sé hamburger congelati e precotti, schnitzel, wurstel, insalate, fette di tonno pronte per essere messe sulla griglia. E tutto quel ben di Dio tornava dalla cucina che stava subito dietro contornato da paratine fritte, ben disposte sul piatto che veniva fatto scivolare sul piano zincato. — Non penso bene quando sono affamata — disse lei. E quando Ryan
sospirò, aggiunse: — Non possiamo stare qui senza comperare niente. E poi dobbiamo chiedere una penna in prestito. Le concesse un piatto di patatine. Lei discusse un po' per avere anche un Bratwurst, che si divisero. Solo che Marianne ne ebbe la parte più grossa. Gli altri avventori accanto a loro se ne stavano coi gomiti appoggiati sul ripiano, come cavalli nei loro stalli, con lo sguardo sperduto fuori dalla vetrina, catturato a tratti dai tram che transitavano instancabili. — Mettici tanto ketchup — la consigliò lui. — Non ci sarà altro per noi fino a domani. Poi, dopo dieci minuti che lei stava scrivendo, disse: — Ehi, non scrivere la storia della tua vita. — Le sto scrivendo chi sei. — Be', non farlo. Non c'è bisogno che lo sappia. — Va bene — rispose Marianne, e continuò a scrivere di lui. Sapeva che la prima impressione contava molto, e voleva che la prima impressione che ne avrebbe avuto la mamma fosse mediata dalle sue parole. Non sapeva come spiegarlo a lui, ma a vederlo era facile sbagliarsi nel giudicarlo. Una prova di questo, se ce n'era bisogno, era la signora Healey. Imbucarono la lettera nell'apposita buca del fiorista, poi si ritirarono nella piazza per aspettare. Nessuno andò a controllare fino a pomeriggio inoltrato. Fu allora che videro un commesso che la svuotava, e Marianne si sentì prendere dall'eccitazione. — Non ti agitare troppo — le disse Ryan. — C'è ancora tanto da aspettare. Il pomeriggio scivolò via. I bambini, che giocavano nel campo-giochi alle loro spalle, se ne andarono. Poi le due commesse uscirono e chiusero l'ufficio recapiti, e fu chiaro che nulla sarebbe successo fino all'indomani. — E adesso? — disse Marianne. — Torneremo domani — disse Ryan. Camminarono per un po'. Le strade cominciavano a svuotarsi. — Cerchiamo un albergo? — chiese Marianne. — Non lo so. — Potremmo mendicare, come fanno a Londra. Posso aggrapparmi al tuo cappotto e fare una faccia patetica, ti va? — No — disse lui. — Dammi un po' di tempo. Lasciami pensare. E fu allora che Marianne apprese ciò che c'è da sapere quando si vuol fare irruzione in un'automobile altrui.
48 Ryan aveva scelto l'auto più vecchia, quella che stava all'estrema destra, proprio sul limitare della zona illuminata. L'area di vendita era un gran cortile in cemento con cancelli in ferro da una parte, ma senza sicurezza sul retro, dove sorgeva un edificio che ricordava una slavina. L'ufficio vendite ricordava invece la cabina di un frenatore della ferrovia, con una breve scalinata da un lato e un caminetto dall'altro. Porte e finestre erano state sbarrate per la notte. Su quell'area sporgevano i balconcini delle basse case che la circondavano, ma nessuno sembrò fare caso a loro mentre sollevavano la recinzione e scivolavano dentro. La maggior parte delle auto erano Audi e VW, parcheggiate col muso rivolto verso la strada. La loro non aveva né volante né tergicristalli: a Ryan ci volle mezzo minuto per aprirla. Dopo un'ultima occhiata attorno per assicurarsi che nessuno li avesse visti, scivolarono dentro e Ryan chiuse la portiera prima di inclinare i sedili. Uno fece resistenza, ma un calcio vigoroso lo convinse a collaborare. — Finché terremo la testa bassa — disse lui — saremo al sicuro. Dovremo uscire da qui domattina presto, per non farci vedere da nessuno. — Chissà se la radio funziona — disse Marianne. — Non pensarci e non provarci. Avevano lasciato il centro della città, erano passati sotto la ferrovia per risalire in un'area non asfaltata dove sorgevano parecchie case anonime e nessun negozio. Il sole stava tramontando alle spalle di alcuni lugubri edifici. Il primo rivenditore di auto che avevano trovato traboccava di Cadillac, Pontiac e Buick, oltre a due o tre giganteschi caravan americani. In più, c'era anche un grosso cane che girava libero e che aveva l'aspetto di quello che si deve procurare il cibo strappandolo dalle ossa di chi si provava a entrare senza permesso. Comunque, quello era un rifugio. Meglio che niente, si disse Marianne. E poi, era solo una vecchia auto. Desiderò che le avesse lasciato accendere la radio. Erano assillati dal rumore continuo che proveniva dalla plastica che ricopriva parte del parcheggio, e che il vento increspava senza requie. Bandiere e stendardi, che dovevano conferire al posto un'aria festosa, carnevalesca, strusciavano senza fine su quel telo. — Ho ancora fame — disse.
— Domani mattina, non sarà più un problema. — Sono stufa di portarmi dietro i bagagli. Mi fanno male le spalle. — Neanche questo durerà a lungo. Lei sospirò, e guardò fuori. Le luci esterne tenevano quel posto sempre illuminato, e il sedile non era per nulla confortevole. Avrebbe passato la notte a girarsi in continuazione. Ryan si era sdraiato cercando di farsi più piccolo possibile, e giaceva con una mano sul viso, a schermarsi gli occhi. Sembrava che si fosse preparato a rimanere così per ore e, quel che la faceva impazzire, sembrava persino essere a suo agio. Non capiva proprio come fosse possibile. La maggior parte delle persone sembrava sempre irritarsi per come vanno le cose, ma non Ryan. Sembrava affrontare la vita come un grosso cavallo che trascina un aratro sotto la tempesta. Qualsiasi cosa potesse succedere, lui tirava diritto. Non riusciva a immaginarselo arrabbiato, o mentre si sbatteva una porta alle spalle. Alcuni facevano così: papà, tanto per dirne uno. Ryan aveva pazienza, e sapeva come giravano le cose. — Mi chiedo — disse lei — se Dio adesso ci sta guardando. Lui spostò la mano. La guardò. — Cosa? — Voglio dire, non passa tutto il suo tempo a guardare la gente? E se lo fa, come fa a concentrarsi? Io, per esempio, se ho la radio accesa non riesco a fare i compiti. Ryan si coprì di nuovo gli occhi. — Chi lo sa — disse. Lei posò il mento su una mano e si guardò attorno. Quello era un punto importante, e avrebbe dovuto sapere che lui non avrebbe capito. Perché, se Dio ti guarda sempre, cosa pensava quando ti cacciavi le dita nel naso o andavi al gabinetto? Era imbarazzante. — Forse — disse dopo un attimo — si limita a scegliere le persone. Uno qui e uno là. Controlla quello che hanno fatto, come succede in certi telefilm. Ryan emise un lungo, udibilissimo gemito. — Perché vedi — proseguì lei imperterrita — questo spiega perché i bambini muoiono e la gente fa male agli altri, non è vero? Perché lui c'è sempre, ma per la maggior parte del tempo sta guardando da un'altra parte. E così possono succedere le brutte cose, anche se poi, alla fine, lui si accorge di tutto. — Come vuoi tu. — Tu non credi che Dio esista?
Stancamente, lui spostò la mano dalla fronte e si rizzò a sedere. — Ma io questo non l'ho detto. — Certi non ci credono. — Lo so. E, se ci badi bene, quelli che dicono così sono quelli che vivono meglio. Dicono che Dio non può esistere perché c'è tanta sofferenza al mondo, e che c'è sempre qualcuno che non soffre mai. Ma scendi fino al fondo, e allora diventa tutta un'altra storia. È come per la luce. Dai tutto per scontato. Non ti rendi conto che c'è finché qualcuno non ti spinge nelle tenebre. A qualche centinaio di metri, un treno transitò sul ponte in un confuso baluginio di finestrini. Per tutta la sua lunghezza era attraversato da una scritta pubblicitaria bianco-rossa della Coca-Cola. Marianne avrebbe ucciso per una Coca. Una Coca e una frittella. Una Coca, una frittella e un posto caldo per stare seduti. — Una volta — disse Ryan — ho visto un angelo. Aveva lo sguardo perso lontano e si stava sfregando gli spuntoni della barba che gli stava crescendo, come se ci fosse qualcosa che gli premeva dire, ma che si vergognava di far sentire. — Davvero? — disse Marianne. — Proprio così. — Dove? — chiese lei, interessatissima perché sapeva che non le avrebbe mentito su una cosa del genere, e poi perché non aveva mai conosciuto nessuno che aveva detto di avere incontrato un angelo vero. — A cosa assomigliava? — Vedi — disse lui, sempre evitando di guardarla in viso — è proprio questo il problema. Dici a qualcuno che hai visto un angelo e quello comincia a pensare ad arpe e ali e a tutto quel genere di cose. E se dici che non assomigliava a niente del genere, ma che era solo una persona che hai visto e che appena l'hai vista tu hai pensato che quello è un angelo, allora tutti pensano che non vuoi dire quello che hai detto, ma che è solo una figura retorica. Come quando si dice che le infermiere sono degli angeli. Anche se molte di loro non lo sono per niente. Il viso, nel pronunciare quest'ultima frase, s'era fatto scuro. Rimase per un poco zitto, e Marianne si chiese se avrebbe mai ripreso il racconto. Attese, paziente. — Ero abituato ad andare tutti i sabati a quel mercato — disse lui. — Come facevi tu la domenica mattina. Si trovava a poco più di un chilometro da dove vivevo, e l'unica differenza con te era che io ci andavo da
solo. Andavo sempre dove vendevano i libri usati. Quelli economici. La serie del Santo. I romanzi di Sexton Blake. Mi piace leggere. I libri si trovavano in grandi valigie che stavano posate aperte sul pavimento, e sopra c'erano dei teli tirati per ripararli dalla pioggia. E quando pioveva, era come se... be', non c'era nessun suono come quello. Mi basta sentirlo una volta, e torno con la memoria a quei giorni. E ricordo anche la donna che vendeva i libri: aveva preso l'abitudine di tagliare un angolo dalle copertine dei libri per scriverci in quello spazio il nuovo prezzo. E quando ne comperavo qualcuno, lo portavo a casa, e tagliavo un angolo da una cartolina e lo incollavo al posto giusto e poi cercavo di colorarlo in modo che non si vedesse nulla. Era sciocco, lo so, ma era così che mi piaceva fare. — A me non sembra sciocco — disse Marianne. E poi tacque, in attesa della storia dell'angelo. — Me lo ricorderò per sempre quel sabato. Non sembrava essere una giornata diversa dalle altre. Ma ero lì, e per non so quale motivo ho alzato gli occhi e ho visto questa donna dall'altra parte dello stand. Stava passando e guardava i libri, ma senza guardarli davvero. Spero che tu capisca. Passi, ti fermi, giri un paio di volumi, li sfogli... e dopo un momento nemmeno ricordi cos'hai visto. Forse stavo facendo passare il tempo in attesa di qualcuno, non so. Ma quando alzai lo sguardo su di lei, lei mi guardò e di solito, quando succede una cosa del genere, tutt'e due si distoglie lo sguardo. Invece, noi non lo facemmo. E in quell'attimo capii chi era. E seppi che anche lei capì che avevo capito. — E che aspetto aveva? — Capelli biondi. Molto lunghi, come si usava allora. Trucco nero attorno agli occhi, ma labbra molto pallide. Vestita di bianco. Prese in mano un libro, e allora vidi che aveva dita lunghe, affusolate, con anelli. Marianne posò un braccio sul sedile per poterci appoggiare con comodo la testa mentre lo ascoltava. Si sentiva un poco delusa. — Sì, ma cosa faceva di lei un angelo? — Niente — rispose lui. — Solo che lo era. Mi guardò fisso per un paio di secondi, e la sua faccia era per me l'unica cosa che esisteva al mondo. Poi se ne andò. Tutto qui. Non l'ho mai più rivista dopo di allora. — Ma tu come fai a sapere che era un angelo? — Ho cercato di spiegarlo alla gente, ma non ci ho mai cavato niente di buono. Gli angeli sono persone. E le persone possono essere angeli. È come scoprire che vedi una faccia in una delle sfaccettature di un diamante che riflette la luce con forza maggiore di tutti gli altri. Devi trovarti nel po-
sto giusto e guardare dalla giusta angolatura, e uno che ti sta a fianco può anche non vedere niente. Io credo che questo sia quello che mi è successo quel giorno. I medici mi hanno chiesto di dirgli cos'avevo visto e io gliel'ho detto, e loro si sono messi a scrivere, e io avevo una gran voglia di piegarmi in avanti, afferrarli per il camice e dirgli: "Non scrivere, ascolta!", perché nessuno di loro mi stava veramente a sentire. Gli angeli sono persone. E le persone sono angeli. E anche i diavoli. E quando la luce li colpisce in un certo modo allora puoi vedere diritto dentro di loro, e quello che vedi in quel momento è tanto vero quanto lo è qualsiasi altra cosa. Niente di più, e niente di meno. Quelli che hanno scritto la Bibbia tanto tempo fa, be' io onestamente credo che sia questo quello che cercavano di dire. — E allora perché non l'hanno detto e basta? — Perché non si può dirlo e basta. Puoi solo cercare di convincere la gente di quello che hai visto. Ma loro non vogliono, perché non guardano secondo l'angolo giusto. Ma tu sai di cosa parla la gente? Se le donne possono o no fare il prete, ecco di cosa parla. Marianne annuì, come se capisse. Insomma, quasi. Quella storia di angeli non era come quelle di Storie incredibili. D'altra parte, anche lei capiva che la stava trascinando in una storia che non avrebbe raccontato a molti altri. — Sei un tipo strano — commentò. — Non sei la prima che lo crede. — Non voglio dire che fai paura. Voglio dire che sei uno interessante, ma strano. — Be' — disse lui, stiracchiandosi un poco — ci sono un sacco di cose su di me che tu non sai. E credo che sia meglio che le cose continuino a rimanere così. — Sei stato in prigione, non è vero? È per questo che mi dicono di stare alla larga da te. Lui sorrise a labbra strette, ma non negò. — Avrei voluto che li avessi ascoltati. — Ma se l'avessi fatto — disse lei — chi può dire cosa mi sarebbe successo? Anche se sei stato in prigione, a me non importa. Davvero. Io non credo che tu abbia fatto del male a qualcuno. Lo so, non ho bisogno di prove. È fede questa, non è vero? È la stessa cosa che stavi dicendo tu prima, e io la penso nello stesso modo. Seguì un lungo silenzio. Poi...
— Oh Marianne — disse poi, con un tono che stava fra la tristezza e la messa in guardia. — Vorrei che non mi guardassi a quel modo. — In che modo? — Come le bambine non dovrebbero guardare gli uomini — rispose lui. E la lasciò confusa e incerta, e voltandole la schiena le disse: — Adesso, cerca di dormire. 49 Durante la notte, piovve. Smise poco prima dell'alba, ma le strade conservavano ancora tracce di bagnato. L'aria era più fresca, e Marianne tremava e, quando cercò di frenare uno sbadiglio, i denti si misero a battere fra di loro. Ryan la consigliò di continuare a muoversi per scaldarsi. Ma lei aveva sempre freddo, e cominciò a scaldarsi solo nella piccola panetteria dove acquistarono alcune pagnottelle appena uscite dal forno. Lo zainetto che portava sulla spalla sembrava essere stato riempito di sassi. Anche il suo stomaco si sentiva in crisi quando il pane fu terminato. — Ho sete. — Capito — disse Ryan. — Ho anche un bisognino. — Capito. Tornarono in città seguendo una strada che costeggiava un grande cortile ripieno di container. Tutto, attorno a loro, stava tornando alla vita. In molte stanze c'erano già le luci accese e Marianne, guardando nelle finestre dei piani bassi, riusciva a vedere solo la parte alta dei letti a castello e quelle dei mobili alti fino al soffitto, e giocattoli sistemati sulla cima degli armadi. Strano come le stanze dei bambini sembrassero tutte uguali e tutte sistemate sul lato strada. Forse loro dormivano meglio esposti al rumore che non gli adulti. Si provò a cercare di ricordare la sua stanza di quand'era in Germania. Ma non ricordava nulla. Nessun dettaglio. Alla stazione, si separarono. Lei entrò nei servizi delle donne, lui andò in quelli degli uomini. Si prese tutto il tempo che le occorreva. Nei servizi degli uomini Ryan stava certo rasandosi col minuscolo rasoio che si portava appresso avvolto nella carta igienica. Quando fu riuscita, in quello spazio ristretto, a cambiarsi la biancheria, si lavò la faccia e poi rimase, a occhi chiusi, a lasciarsi asciugare dal getto d'aria calda. Finì lei per prima, e lo attese.
Quando arrivò anche lui, gli disse: — L'armadietto costa solo due marchi. Possiamo metterci tutt'e due i sacchi. — Va bene — disse lui. Furono nella piazza una ventina di minuti prima che l'ufficio aprisse. Il fioraio aveva già aperto, sembrava anzi che lo fosse da un bel po'. Davanti c'erano grandi ceste piene di fiori, e il pavimento era nero per l'acqua che vi era stata versata. Per aspettare sedettero sulla stessa panchina del giorno precedente. Ryan le disse che ci sarebbe voluto un bel po', e aggiunse che se voleva poteva andare a sgranchirsi nell'area riservata ai giochi. Se succedeva qualcosa, l'avrebbe chiamata. Quell'angolo di piazza conteneva alcuni vecchi tronchi d'albero mal squadrati, a simulare un angolo-divertimenti dedito all'avventura. Una fila di alberi lo divideva dall'altro lato della piazza. — No — disse Marianne. — È per i bambini. E rimasero assieme ad aspettare. Arrivò la prima delle due commesse. Entrò e rimase dentro una decina di minuti, prima di scendere a controllare la cassetta delle lettere. Marianne si agitò, a disagio. La panchina era troppo dura, per nulla confortevole. — Credi che adesso le telefonerà? — chiese Marianne. — Non lo so. — Sembrava essere affondato nel pastrano e che guardasse fuori da una tana confortevole e calda. — Vado a chiedere? — No. Quando arriverà, allora faremo la nostra mossa. Se richiamiamo troppo l'attenzione, allora potrebbe spaventarsi e non farsi più vedere. — Se fossi io, andrei a vedere tutti i giorni. Due volte al giorno. — Tacque un momento, pensierosa. — Due volte la mattina, e due volte al pomeriggio. — Giusto. — Se fossi io. — Giusto — rispose lui, sistemandosi meglio. Lei riuscì a rimanere in silenzio per la successiva ora. Ogni tanto si alzava per fare un giretto sul vialetto che correva nella piazza, si recò almeno una dozzina di volte a guardare le vetrine del fiorista, tanto che alla fine la proprietaria uscì e le regalò una rosa. Non era un gran regalo, perché aveva il gambo spezzato e per quello era troppo corta per stare bene in mezzo alle altre. La portò a Ryan perché l'ammirasse. Lui non s'era mosso. — Quando arriva, gliela darò — disse lei. Poi la sistemò accanto a sé sulla panchina, dove rimase seduta per un po' a dondolare le gambe.
Una delle commesse uscì dal negozio e svoltò l'angolo, in giro per qualche commissione, con le maniche del golf tirate giù a ripararle le mani dal freddo. Anche se, di fatto, la mattina non era più così fresca. — Ho ancora sete — disse Marianne. — Cercati una fontanella. — Non ho sete d'acqua. — Be', è tutto quello che ci possiamo permettere. — Vorrei un caffè. — Sei troppo giovane per il caffè. — Perché dicono sempre tutti la stessa cosa? — Perché contiene delle cose che sono come delle droghe. Che ti rendono nervoso e irritabile. Come se tu non lo fossi già abbastanza. Lei riprese a dondolare le gambe. Cominciava a sentire che si intorpidivano. — Vorrei una Coca, adesso. — Non ce la possiamo permettere. Più tardi potremo mangiare qualcosa. E forse, se facciamo bene i conti, potremo fare anche un altro pasto. E poi basta. — Possiamo mangiare adesso? — Questa sera. — Questa sera? Ma per allora sarò morta di fame! Lui la guardò, inespressivo. — Scommetto che sopravviverai. Dopo un altro minuto, quando i piedi, a furia di andare avanti e indietro, si erano intorpiditi del tutto tanto che cominciava a sentirli formicolare, si fermò, si alzò e disse: — Io ho un po' di soldi. Lui la guardò, accigliandosi. — Dove? Frugò nella tasca del cappotto e, un po' goffamente, ne trasse una manciata di spiccioli e un paio di biglietti di banca. Lui guardò quel bottino come se non credesse a quel che vedeva. — E questi da dove vengono? — La signora dei gabinetti aveva messo un piattino, e mentre non guardava io l'ho svuotato. — Marianne! — gridò quasi lui, tirandosi su diritto. Era scioccato. — Sì, lo so che è sbagliato — disse lei rapida. — Ma non è proprio sbagliato del tutto. Lei non ha messo nemmeno un pezzetto di sapone per lavarsi. Adesso, posso prendere una Coca? Ce la possiamo dividere. Lui si guardò attorno. La maggior parte degli edifici erano in stile conti-
nentale; a eccezione del fiorista, non c'erano altri negozi visibili. Lei non capiva perché si sentisse così agitato. Per lei, accaparrarsi di quei pochi centesimi non rientrava nella stessa categoria di infrazioni commesse da lui. — Forse c'è qualche negozio qui vicino — suggerì lei. — Allora va — disse lui. — Ma non andare troppo lontano. S'allontanò velocemente, lungo la Hohestrasse alla ricerca di un bar. E quando tornò dieci minuti dopo, Ryan non c'era più. Sulla panchina era rimasta solo la rosa, a segnare il luogo in cui era stato seduto fino a poco prima. 50 Gli avevano raccontato una storia su un pub che si chiamava Ammiraglio Nelson, e che era stato aperto fin quasi alla fine della guerra sulla Broad Street. Pieno zeppo di gente il sabato sera, con la garanzia di combattimenti a pugni nudi nel cortiletto retrostante. Al piano superiore c'era una stanza per ricevimenti matrimoniali, dove le numerose famiglie di operai s'incontravano come due clan decisi a discutere di pace, ma che, nel prosieguo della serata, decidevano quasi sempre che un bello scontro offriva maggiori possibilità di divertimento. L'Ammiraglio Nelson era stato centrato da una bomba tedesca proprio un sabato sera. Le sirene avevano lanciato l'allarme quando il nemico era stato avvistato ma, pronti alla sfida, gli avventori avevano deciso di oscurare le finestre e di continuare a divertirsi. Nell'edificio si trovavano all'incirca duecentocinquanta persone. Se si mettono nel conto anche quelli che morirono più tardi all'ospedale, sopravvissero solo dodici persone. Questa è la storia che più tardi si raccontava. Se uno si veniva a trovare da solo alla fermata dell'autobus di fronte a dove una volta sorgeva il pub, a tarda ora, e il servizio notturno si faceva attendere come una bella ragazza sicura del suo fascino, be', allora si poteva vedere una ragazzina. Uno non la vede mai arrivare, solo, quando si volta se la trova davanti. Indossa un abitino da damigella d'onore stracciato e sporco, e grandi cerchi scuri le orlano gli occhi. Vi chiederà un penny, e poi se ne andrà. Nessuno riesce mai a vedere bene dove vada, semplicemente scompare. E qui, a seconda di chi sta raccontando la storia, uno può tendere l'orecchio e sentire delle voci che cantano accompagnate da un piano, trascinate via dal vento laggiù, dove suoni non ce ne sono.
Nel vecchio Ammiraglio Nelson c'era una vecchia pianola. E per farla funzionare occorreva alimentarla con un penny. Tutti conoscono questa storia. I bambini se la raccontano durante l'intervallo. In tutti i casi, chi narra giura che è accaduto a un amico di un amico suo, qualcuno di cui si fa il nome, ma che non si riesce mai a convocare perché renda testimonianza. Solo Ryan O'Donnell aveva sempre detto quello che gli era accaduto di vedere: e alla luce del giorno, per di più. La maggior parte di quella zona era cambiata durante gli anni. I negozi non c'erano più, le case che li fronteggiavano nemmeno. Adesso c'era la nuova strada che attraversava il quartiere, e i nuovi edifici che la fiancheggiavano. Chi si era trasferito da quelle parti era felice perché si era lasciato alle spalle le vecchie case per venire ad abitare in veri palazzi. Nel giro di un anno si erano anch'essi trasformati in palazzi che, per essere trovati, ti costringevano a fare un giro in una specie di girone infernale. Gli autobus circolavano tra terreni incolti dove l'erba si rifiutava di crescere, gli atrii delle case erano caduti preda dei vandali, gli ascensori erano perennemente fuori servizio. Sulla Broad Street non era rimasto altro che una successione continua di buche, oltre alla fermata dell'autobus che sorgeva nelle ombre di un sottopasso. I bambini lo convincevano sempre ad andarci con loro per raccontargli quel che credeva di aver visto. Più tardi si trovavano fra di loro e confrontavano i suoi racconti, e ridevano così forte da cadere a terra in preda alle convulsioni. I bambini più piccoli gli credevano senza mai fargli domande, e forse per questo trascorreva più tempo in loro compagnia. Loro, però, si spaventavano più facilmente. Alcuni genitori se ne erano lamentati con la sua mamma. Una di queste lamentele era arrivata fino alla polizia, e un grosso poliziotto, con le strisce da sergente e l'accento scozzese era andato fino a casa e l'aveva trattato da bugiardo minacciando di chiuderlo in prigione, con una voce così tenebrosa da far vibrare di paura anche i vetri delle finestre. Ryan gli aveva creduto. A quell'epoca Ryan credeva a qualsiasi cosa, se solo si faceva in modo che s'incidesse profondamente in lui. E la domanda sulla quale si sarebbe a lungo esercitato negli anni a venire, quando avrebbe avuto più tempo di quanto desiderato oltre che l'opportunità di pensarci, era questa: se il vivido ricordo di qualcosa associato alla certezza assoluta non funzionava come guida a ciò che era effettivamente vero, allora, che dire? In cosa si poteva credere? Dove trovare un
punto fermo cui aggrapparsi? Gli avevano detto che si era autoconvinto di aver visto quella bambina vestita da damigella d'onore, anche se lui, chiudendo gli occhi, la rivedeva ancora adesso come allora. Rivedeva ogni lacrima, ogni livido, ogni lordura sulla sua pelle. Ricordava la pietà che aveva sentito. La consapevolezza negli occhi di lei. Ma poi, ecco che saltava fuori quello che aveva fatto a Vanessa Mulrooney, il giorno in cui lei gli aveva chiesto di raccontarle quella storia lontano da tutti gli altri; e quello era il ricordo che sfidava la convinzione, quello era l'incubo. Un incubo per tutti, ma non per lui, perché lui c'era, e sapeva. Sapeva quale facile scelta fosse quella di prendere una vita, quando quell'atto offriva un attimo di possesso assoluto che eccedeva qualsiasi possibilità di possesso fisico; e che poi passava, in modo devastante, lasciando solo orrore e disgusto di sé, e un lungo, indugiante sussurro nella mente che, una volta udito, non poteva più essere scordato. Rifallo. Non avrebbe mai più osato negare quel che aveva fatto quella volta, per lo meno non a se stesso. S'era provato a negarlo, ma non gli aveva portato alcun sollievo. Ma dove altro poteva rifugiarsi? Il suo era un viaggio che non offriva ritorni a casa. Tutte le pene del mondo non potevano cancellare quell'azione. A lui sarebbe sempre stato negato qualsiasi perdono, a meno che Vanessa Mulrooney non sorgesse dalla tomba e non riprendesse vita. E sarebbe continuato così, senza fine. Perché per qualsiasi sollievo che egli potesse mai raggiungere, qualsiasi felicità che avesse mai conseguito, una voce sussurrante gli avrebbe mormorato all'orecchio per ricordargli il debito che rimaneva aperto per sempre, che non avrebbe mai potuto ripagare. Era una voce che non si sarebbe mai placata. Quando l'avesse sentita, tutti i colori sarebbero scivolati via dalla sua esistenza. Piccoli piaceri si sarebbero trasformati in nullità. Tutto sarebbe inacidito. Doveva vivere a distanza, fra estranei. A quel modo, l'inferno gli sarebbe apparso un posto tranquillo. Perché era quello cui tendeva, a essere dannato. 51 Vide Marianne dal sedile posteriore del taxi. Stava tornando di malavoglia verso la piazza, succhiando una Coca dalla lattina con una can-
nuccia mentre guardava distrattamente la vetrina di un negozio di dischi. Cercò di abbassare il finestrino per chiamarla, ma quando fu riuscito a trovare la maniglia e ad aprirlo lei era già fuori vista. Cos'altro doveva fare? Fermare l'auto e tornare indietro? Continuare? Non sapeva decidere. Ma ormai, volente o nolente, la decisione era stata presa, anche se non direttamente da lui. Guardò dinnanzi a sé. L'auto che stavano seguendo era a due auto di distanza. Riusciva a vedere la nuca della donna attraverso il finestrino. Teneva lo sguardo abbassato. Le ruote del taxi fecero un rumore diverso, più sibilante, quando passarono su un intrico di binari del tram. Davanti a loro, alla fine del viale in cui avevamo svoltato, c'era uno svincolo multistradale che portava fuori dalla città. Una nuova preoccupazione, da aggiungere a tutte le altre. Cercò di guardare, al di sopra delle spalle del guidatore, il tassametro. Sapeva che non avrebbe dovuto abbandonare Marianne a quel modo. Ma cos'altro poteva fare? Aveva continuato a dimenarsi come un sacco pieno di serpenti fino a farlo impazzire, e nessuno poteva dire quanto avrebbero dovuto aspettare. La donna era arrivata in taxi circa dieci minuti dopo che Marianne se n'era andata. Aveva detto qualcosa all'autista ed era entrata nell'ufficio proprio mentre la commessa che era uscita stava tornando con in mano due caffè coperti e un sacchetto coi panini. Erano entrate assieme. Ryan era scattato in piedi, guardandosi attorno disperato. Non poteva esserne certo, ma le possibilità erano alte. La donna aveva qualcosa che ricordava Marianne, e gli abiti erano di buon taglio e, da quanto ne sapeva lui, molto eleganti. Ma cosa poteva fare se Marianne non c'era? Perché, se quella era sua madre, lei era l'unica che poteva riconoscerla. Un minuto dopo la donna era uscita, e lui aveva capito. Teneva fra le dita la busta rosa. Stava dirigendosi verso il taxi, ed entro pochi secondi sarebbe scomparsa e tutto sarebbe stato inutile. Raccogliendo tutto il coraggio che gli rimaneva, si era diretto alla volta della donna. Sapeva che avrebbe dovuto agitare la mano e chiamare, ma gli sembrava che ci fosse qualcosa che non andava. La faccia. Il viso era come di pietra. Grigio. Duro. Immobile. Aveva aperto la busta mentre s'infilava nel taxi e Ryan, incerto, non aveva fatto nulla per fermarla.
Ma poi, quando il taxi s'era avviato, aveva cominciato a seguirlo a piedi. A un centinaio di metri c'era un posteggio di taxi. L'auto di Anneliese Cadogan aveva rallentato a causa del semaforo, e questo gli aveva dato il tempo di raggiungere la testa delle auto stazionate e di farsi capire dall'autista. Solo immediatamente dopo aveva visto Marianne, ma era troppo tardi. Il tassametro ticchettava felice. Si trovavano su un ponte che superava il fiume, e stavano lasciando la città. Si disse che doveva trattarsi del Reno. Era largo e calmo e sontuoso, navigato da alcune chiatte. Poi entrarono in una galleria. Si sentiva stringere il cuore. Stava perdendo il controllo di ogni cosa. Come avrebbe potuto Marianne indovinare qual era il suo problema e decidere di aspettarlo, adesso poi che veniva trascinato così lontano dalla città da non sapere nemmeno come fare a tornare? Cercando di non farsi notare dall'autista, si mise a contare i soldi che gli erano rimasti. Da quel che diceva il tassametro, più della metà se n'erano andati. Non poteva nemmeno dirgli di tornare indietro e di lasciarlo più o meno vicino a dove l'aveva raccolto. Il punto di non ritorno. Una frase da aviatore, l'aveva letta da qualche parte. Si riferisce a quel punto del tuo viaggio in cui non hai più carburante per tornare indietro, e l'unica possibilità che hai è quella di continuare ad andare avanti. Un punto che lui aveva già raggiunto e superato. Il suo problema attuale era che non aveva alcuna idea di dove sarebbe andato a finire. Fuori dalla galleria, dentro una superstrada. Superarono una birreria, passarono attraverso alcuni sobborghi divisi dall'autostrada. Il tassista si chinò in avanti per risintonizzare la radio, che era uscita di sintonia. Trovò Radio Caroline, si sentirono le parole finali delle previsioni del tempo in inglese. Da quel che ne sapeva lui, erano nel bel mezzo di niente. L'auto che seguivano non accennava a volersi fermare. Non sapeva più cosa fare. Se avesse cercato di fregare l'autista, questi l'avrebbe denunciato. Adesso si trovavano in un'area residenziale, con case basse ed eleganti, con giardini ben tenuti fra l'una e l'altra, in alcuni dei quali si vedevano anche alcune serre. Era pronto a farlo fermare e a scendere. Il taxi davanti mise la freccia a sinistra. Non c'erano altre auto fra loro in quel momento.
Si rilassò, mentre anche il suo taxi svoltava. Si trovavano in una strada che odorava di soldi. Tanti soldi. Era lunga, e calma e a tre corsie, e dietro una cortina di alberi s'intravedevano graziose villette. Non erano vere magioni, ma poco ci mancava. — Credo che farebbe meglio a fermare qui — disse Ryan. — Altrimenti, non mi bastano più i soldi. L'autista aveva mostrato di capire poco l'inglese quando lui era montato, ma quella frase la capì subito. Frenò di colpo e si voltò a guardarlo. Ryan era già sceso. — Questo è tutto quel che ho — gli disse attraverso il finestrino aperto. Da quel che mostrava il tassametro, mancavano tre marchi. — Mi rincresce per la mancia — aggiunse. Il tassista lo guardò in tralice. Assunse un'espressione di sprezzo e, senza dire una parola, fece una rapida curva a U lasciando Ryan in mezzo alla strada. Ryan non lo seguì con lo sguardo. Stava guardando lungo la strada per seguire con gli occhi l'altro taxi. Sembrava che finisse nel nulla, per cui s'avviò di buon passo. Pochi attimi dopo gli passò davanti l'altro taxi, vuoto. Non c'era una casa che assomigliasse all'altra. Erano di tutti gli stili, dal moderno-bizzarro al tradizionale. C'erano case con tetti mansardati e imposte in legno bianco, ville con stucchi bianchi spagnoleggianti e finestre chiuse da elaborate inferriate, una era tutta spigoli e scivoli e vetri. Tutte avevano muretti di recinzione molto bassi, e vialetti molto brevi per collegarsi al marciapiede. Con l'eccezione dei camioncini di due ditte, la maggior parte delle auto parcheggiate lì fuori erano modeste BMW, VW, Peugeot. Dalle case promanava un senso di ricchi che abitavano spalla a spalla coi loro simili in una zona in cui nulla di particolare lo provava. La tranquillità regnava assoluta. Si sentiva suonare un telefono, cui nessuno rispondeva. Da una casa, quando ci passò davanti, un cane abbaiò cavernosamente. Da quel che gli era sembrato di vedere, Anneliese Cadogan era scesa all'ultima delle case di quella strada. Da lì, la strada si trasformava in aperta campagna. La casa era una fra le più grandi di quante sorgevano in quel luogo, a due piani con un rialzo dalle finestre stile attico che si aprivano su un tetto molto inclinato. Le pareti erano colorate di rosa, il prato antistante era ben curato: si vedeva la mano di un giardiniere. Su un lato si apriva un garage per almeno tre auto, sul retro si vedeva un altro box. Dall'aspetto
che aveva, doveva essere stata ampliata almeno un paio di volte. Ryan si fermò davanti al cancello, fece crocchiare le dita, poi si avviò verso la porta d'ingresso. Si rendeva acutamente conto di essere fuori posto in quel luogo. Sapeva anche che doveva mostrarsi sicuro, se non voleva correre il rischio di vedersi piombare addosso la polizia. Suonò il campanello poi indietreggiò di un passo, tenendo le mani allacciate dietro la schiena per nascondere i tatuaggi. Di solito si dimenticava persino di averli, ma quella era una delle volte in cui doveva ricordarsene. Sentì il campanello che risuonava come in uno spazio vuoto, e per un attimo credette d'essersi sbagliato. Che il taxi l'avesse fatta scendere poco prima, e che fosse poi arrivato in fondo alla strada solo per poter manovrare agevolmente? No, non era così. Suonò ancora, e poi di nuovo. E alla fine, lei arrivò. La porta si aprì di uno spiraglio, e gli occhi della donna furono su di lui. Capì allora di aver visto giusto; osservata così da vicino, la somiglianza era notevole. Non era alta, ma era molto magra, coi capelli tagliati corti corti, ma aveva gli stessi occhi grigi e il mento leggermente puntuto. Da una certa distanza, appariva quasi una bambina. Il suo sguardo era circospetto. — Perché ha preso la lettera di Marianne? — le chiese. Lei fece per chiudere la porta, ma in quel breve istante lui era balzato in avanti e aveva interposto il piede per fermarla. Lei dovette indietreggiare per il rimbalzo della porta, e lui la seguì. — Senta — le disse — ho messo da me la testa sul ceppo per portarla fino a lei, e lei non vuole nemmeno parlarmi, e io allora mi trovo nella merda. Non so cosa sia successo fra lei e suo marito e non m'interessa se glielo vorrà raccontare, ma io sono nei guai, e lei deve aiutarmi a uscirne. Si trovavano nell'ingresso della casa, da cui si dipartiva una larga scalinata che portava al piano e alla loggia superiore. Non c'erano altre persone in vista. Un po' tardivamente, Ryan chiese: — Lei... lei parla inglese? Lo sguardo di lei era gelido. — Non stia qui — rispose. — Mi segua. 52 Si voltò, e si diresse verso la scala. Lui si chiuse la porta alle spalle e la
seguì. Non riuscì a non guardarsi attorno. Non era mai stato in un posto come quello, pieno di mobili e di quadri veri appesi alle pareti. Non era mai stato nemmeno in una casa che valeva tanto quanto valevano i tappeti che vedeva in quel luogo. La casa, se si eccettuano loro due, appariva vuota. Salirono ancora, diretti verso la parte superiore dell'edificio. Lassù, tutto era più povero: aveva l'aria del luogo in cui vive la servitù, molto più spartano e meno luminoso del resto della casa. Ma Anneliese Cadogan non aveva l'aspetto di una che fa la cameriera. Entrò in una delle stanze dell'attico, facendo cenno a Ryan di seguirla. La stanza era piccola, quadrata e spoglia, col soffitto parzialmente inclinato per via del tetto mansardato. C'erano pochi mobili e un divano-letto. Su quello lei sedette, con grazia. Non c'era altro posto in cui sedere. Sembrava una cella, non una stanza da letto. Niente libri, né riviste. Niente alle pareti, nemmeno uno specchio. — Chi dorme qui? — chiese lui. — Io. Adesso dica quel che ha da dire. Non può rimanere a lungo qui. Ryan continuava a guardarsi attorno. Una volta era rimasto a lungo in una camerata con altri ventiquattro ricoverati, dove lo spazio privato era costituito dalle tendine che uno poteva tirare attorno al proprio letto; quello, e un comodino in cui tenere pochi effetti personali. In quel luogo, c'era lo stesso livello d'intimità. — Non è questo che speravo di trovare. — Davvero? — disse la donna. — Farà meglio a dirmi cosa sta combinando con Marianne. Perché non è con suo padre? Lui esitò per un attimo poi, perché non voleva starsene in piedi come se fosse alla presenza di un confessore o di un insegnante, sedette sul divano anche se lei non l'aveva invitato a farlo. Aveva la sensazione che forse lei non gliel'avrebbe mai chiesto. — Comincerò dall'inizio. E le raccontò tutto, a partire da quel famoso giorno sulla spiaggia. Da quel che aveva sentito, l'inglese di lei era perfetto, e infatti non sembrava incontrare difficoltà ad ascoltarlo; per lo meno, non ne diede segno, perché non lo interruppe mai. Ryan si sentiva a disagio. Più volte fu sul punto di fermarsi, ma c'era come un senso d'urgenza in lui che lo spingeva a continuare. Di sé, disse molto poco. Niente di quanto avrebbe potuto dire sarebbe stato di qualche utilità. Mentre ascoltava, il viso di Anneliese Cadogan,
che si era messa di profilo, non rivelava nulla. Quand'ebbe finito, attese, ma lei continuò a restare zitta. — Signora Cadogan? La donna fece un gesto secco, come se per il momento non potesse rispondere. Strinse le mani fra loro, tenendole davanti al viso. — Non posso credere che lui l'abbia resa infelice — disse. — L'ha sempre amata più d'ogni altra cosa. — Io so solo quel che ho visto e quello che mi ha raccontato Marianne. Lei si voltò a guardarlo. — Dice che l'ha picchiata? — Ne porta ancora i segni. — Durante tutto questo tempo — disse lei con voce amareggiata e occhi scintillanti — l'unica cosa di cui mi sentivo sicura era dell'amore che lui le portava. Sapevo che la stava aiutando a dimenticarmi, a costruirsi una nuova vita. Lui cominciò ad alzarsi. — Andiamo, ci sta aspettando. — Ma non posso farla venire qui. — E allora, dove? Lei stava scrollando lentamente la testa. — Lei non può capire, signor Ryan. — Per favore — intervenne lui. — Lei è sola nel bel mezzo di una città e non sa nemmeno dove io sia andato a finire. Si sentì un rumore in fondo alle scale. La porta principale che si stava chiudendo. Qualcuno era entrato. Anneliese Cadogan gli fece cenno di non muoversi. Si alzò e si avvicinò alla porta, tendendo l'orecchio. Si sentivano alcune voci impegnate in una discussione. Almeno due uomini. — Dev'essere tornato a casa prima — sussurrò lei. — Non faccia rumore. Una delle voci si alzò di tono, chiamandola per nome. Lei uscì e rispose dall'alto delle scale, poi tornò indietro e lasciò la porta socchiusa. In fretta, gli disse: — Deve andarsene, subito. Scenda dalla scala posteriore ed esca dalla cucina. Attraversi i campi e s'inoltri nel bosco. Io, intanto, stacco tutti gli allarmi. — E Marianne? — Mi dispiace. Non posso aiutarvi. Lui non riusciva a crederci. Lei gli aveva posato una mano sul braccio e stava riaprendo la porta, ma Ryan la fermò. — Signora Cadogan, lei non vuole capire. Mi ascolti. Ascolti bene quel che le dico. Io non sono la per-
sona più adatta per stare in compagnia di Marianne. Lei si fermò. — Oh, mio Dio. — Non l'ho mai toccata, né è mia intenzione farlo. Ma sono stato in prigione, e anche in istituto psichiatrico. Non so come mettergliela in modo gentile, signora Cadogan, ma lei deve portarla via da me. — La porti alla polizia. — Penserà subito che l'ho tradita. E lei pensa che sia l'unica persona al mondo che non lo farebbe mai. Le ho promesso di portarla da sua madre. — Le dica che sono morta. Il che, non è molto lontano dalla verità. Ryan si guardò attorno, incredulo che tutto dovesse finire in quel modo. — Parliamone al suo nuovo uomo — le propose. — Io, cos'ho da perderci? E si mosse, come se volesse scendere le scale. Ma lei lo afferrò e lo tirò indietro, sussurrando un rauco: — No! — con occhi spiritati. Ryan attese. — Lei non sa qual è la situazione — sussurrò con un tono che faceva capire come stesse lottando per tenere sotto controllo qualcosa che voleva erompere alla superficie. Lui la fissava, in attesa. — Mi lasci spiegare le cose — disse lei traendo un lungo sospiro. — Marianne è mia figlia, e io le voglio bene. Darei la mia vita per lei. Darei qualsiasi cosa pur di poter stare con lei. Ma io sono veleno. Ecco perché non ho mai cercato di contattarla, e perché non la voglio con me. La vita che adesso conduco non è qualcosa che io voglio che lei veda. — Una cosa l'ha detta giusta — disse Ryan. — Io non capisco. Da sotto, venne un altro richiamo. Più forte, questa volta, e con una ben distinta nota irritata. — Non posso non scendere. — Vengo con lei. — Per amor di Dio — disse lei a denti stretti — la smetta! Ryan rimase fermo, a fissarla. — Al Café Heinemann — disse lei — sulla Königstrasse. Domattina alle dieci, ma venga da solo. Cercherò di fare qualcosa per lei, ma se ci sarà la bambina me ne vado. Sia ben chiaro. E dopo essere uscita gli fece di nuovo segno di non fare alcun rumore. Lui la seguì cautamente, nel massimo silenzio possibile. Al piano sottostante lei gli indicò la strada da seguire, là dove c'erano le scale di servizio.
Le voci degli uomini erano proprio sotto di loro. Ryan annuì e, con un ultimo sguardo d'apprensione, lei si voltò e s'avviò per scendere lo scalone che portava all'ingresso. Ryan non si mosse. Non riusciva a convincersi a farlo. Poteva capire che lei non volesse far sapere che l'aveva fatto entrare in casa, ma oltre quello non riusciva ad andare. Tutto il resto, be', quello era al di là di ogni comprensione. Si trovava a pochi metri da dove cominciava lo scalone principale, e adesso poteva sentire la voce di lei. Era molto diversa quando parlava in tedesco. Si chiese di cosa stessero parlando. Adesso parlava uno degli uomini. Sembrava la voce di quello che l'aveva chiamata, ma non poteva esserne certo. Le pose cinque domande, una appresso all'altra. Le risposte di lei consistevano di una sola sillaba. L'uomo aggiunse qualcos'altro, e quando lei rispose si capiva che si stava allontanando. La balconata aveva un pavimento in legno con al centro un lungo e grande tappeto orientale. Ryan fece un paio di passi e poi, prima di raggiungere il punto in cui avrebbe potuto essere scorto dal basso, si mise sulle ginocchia. Allungandosi in avanti con gran cautela riuscì a guardare di sotto attraverso la ringhiera di legno, come un bambino che spia gli adulti dopo essere scappato dal letto. Due larghi e comodi divani si fronteggiavano davanti a un tavolino da caffè ricoperto da una lastra verde. Due uomini, ognuno seduto su uno dei due divani. Uno, quello che aveva chiamato Anneliese, aveva capelli scuri: doveva essere sulla quarantina. L'altro era più anziano, capelli bianchi, con un aspetto da vecchio orsacchiotto con gli occhiali. Entrambi indossavano abiti grigi, da uomini d'affari, ed entrambi avevano l'aria soddisfatta di chi ha avuto tutto dalla vita. Anneliese non era più presente. Stavano chiacchierando. Nulla di rimarchevole in questo. Quello più giovane era quello che parlava di più, e Ryan si disse che quella casa gli assomigliava molto. Dopo pochi istanti, entrambi si alzarono quando Anneliese tornò da loro. All'inizio Ryan non riusciva a vederla bene, perché era apparsa sotto di lui, ma poi, quando lei avanzò, vide che stava portando un vassoio con una caffettiera e una bottiglia di china. Ryan non capiva cosa ci fosse di sbagliato, ma sentiva che c'era qualcosa che non funzionava. Il vecchio disse qualcosa ad Anneliese, e lei si fermò accanto al tavolo, sempre col vassoio tra le mani. Lui aggiunse qualcosa, e
lei inclinò la testa, con gli occhi bassi. Il vecchio guardò l'altro con sguardo interrogativo e l'altro fece un gesto che chiaramente voleva dire: "Sì, certo". Il vecchio allora si voltò verso Anneliese alzando la mano e, senza cambiare espressione né mostrare alcuna emozione, la schiaffeggiò con forza inaudita. Il colpo risuonò come un colpo di frusta. La testa di lei scattò di lato, e il corpo la seguì subito dopo. Cadde in avanti mentre la bottiglia si infrangeva sul tavolo, e mentre lei crollava in ginocchio il caffè si versò con un fiotto improvviso. Il liquido corse sulla superficie del tavolo, mentre il vecchio scrollava la mano per alleviare il dolore della botta. Guardò l'altro uomo, e questi sorrise, approvante. Allora guardò ancora Anneliese e le chiese qualcosa. Lentamente, lei strisciò in avanti sulle ginocchia. Poi si chinò e, sempre con gran lentezza, cominciò a lappare il caffè versato. Ryan non s'era nemmeno accorto di avere la bocca spalancata. Dovette fare uno sforzo per chiuderla. I due uomini si alzarono e si scostarono da quella confusione, continuando la loro conversazione un poco più in là, come se nulla di strano fosse successo. Anneliese fece una pausa, prese un pezzo di vetro coi denti per spostarlo di lato, poi continuò come prima. I due uomini intanto stavano sfogliando un contenitore di indirizzi. Anneliese, ignorata, si pulì la bocca col dorso della mano, e Ryan s'accorse che vi aveva lasciato una lieve striatura di sangue. Impossibile dire se se l'era procurato col vetro o per via del colpo ricevuto. Ryan strisciò indietro e si alzò. Il tappeto orientale era sufficientemente folto per assorbire il suono dei suoi passi mentre si dirigeva verso il passaggio indicatogli, e fu solo quando giudicò di essere abbastanza lontano che osò riprendere di nuovo a respirare. C'era una conclusione inevitabile. Malgrado il loro rispettabile aspetto, quei due non erano certo due persone gentili. Scese le scale e si trovò in una moderna cucina, grande e tanto bene equipaggiata da poter servire un piccolo ristorante, ma con l'aria di essere poco usata. Si fermò per controllare il frigorifero: conteneva frutta e formaggio ma non molto altro, perché i ripiani erano quasi tutti vuoti. Si riempì le tasche poi ne chiuse la porta con cautela prima di dirigersi all'uscita che l'avrebbe portato in salvo. Il retro della casa era costituito da un prato ben tenuto. Conduceva diritto
a un boschetto poco lontano. Partì piano, ma ben presto si mise a correre. Qualsiasi cosa facesse, era troppo fuori posto in quel luogo, per cui era inutile stare a perdere tempo. Raggiunse il recinto, lo scavalcò agevolmente, poi s'inoltrò tra le felci che costellavano il terreno. Il boschetto sembrava essere ancora allo stato primitivo, se non fosse stato attraversato dal sentiero che seguiva lui. Gli alberi erano alti e diritti e ben spaziati fra di loro, e quasi non c'era sottobosco, ma solo un tappeto regolare di foglie morte e felci ben disposte. Nella maggior parte dei boschi, si disse Ryan, non si riesce a vedere a più di venti metri, qui sembrava di poter vedere ovunque, in una foresta che sembrava condurre dappertutto e in nessun luogo. Mentre seguiva quel sentiero, si guardava attorno alla ricerca di altre strade. Vide una donna che passeggiava con un cane di taglia notevole, un tizio che correva e che si muoveva come se stesse spostandosi sott'acqua: sembravano essere gli unici frequentatori di quel luogo. Ryan stava affrontando un nuovo tipo di problemi, e la testa gli doleva come non mai. Non sapeva cosa pensare di quel che aveva visto. Non riusciva a capirlo, né sapeva darsene una spiegazione. E a Marianne, cos'avrebbe potuto dire? L'aveva lasciata da almeno due ore, senza che sapesse dove lui fosse andato né se sarebbe mai tornato. Cosa stava pensando? In più, solo Dio sapeva quanto gli ci sarebbe voluto per tornare da lei. Ma sopra ogni altra cosa, si trovò a pensare al più giovane dei due uomini. Non al più anziano, e questo era interessante, perché era lui quello che aveva colpito la donna, mentre l'altro guardava. Ma il padrone di casa e, per estensione, anche dell'occupante dell'attico, continuava ad apparire nella mente di Ryan, molto più dell'altro. Aveva una qualità che solo poche stelle del cinema o del teatro hanno. C'è chi ce l'ha e chi no, eppure sfuggiva ogni definizione. Forse, aveva imparato come apparire. Una cosa che era alla portata di tutti vedere, ma che solo pochi sapevano cogliere. Era come se fosse riuscito a sviluppare una sorta di suscettibilità all'angolo esatto in cui si vede quella faccina nel diamante da cui la verità balza fuori. A volte, ne esce come un raggio di luce. Altre, com'era successo quel giorno, lo vedeva aprirsi su un buio tenebroso. 53
Marianne aspettava. Attese per quello che le parve un giorno intero, ma quando controllò l'orologio s'accorse che era trascorsa solo un'ora. Arrivò la folla della pausa del mezzogiorno, se ne andò. A volte stava seduta sulla panchina, a volte faceva un giretto, ma non osava lasciare la piazza. Doveva controllare se arrivava la mamma. E se Ryan fosse tornato e non l'avesse trovata più? Forse allora non sarebbero mai più riusciti a rimettersi assieme, anime disperse costrette a mulinare l'una lontana dall'altra come due relitti in un mare in tempesta. Faceva giochetti per farsi compagnia. Guardava il terreno sotto i suoi piedi e contava fino a cento, decisa a non alzare la testa fino a quando non avesse terminato, perché quando avrebbe alzato lo sguardo allora lui sarebbe stato lì davanti a lei. E quando non accadeva allora si diceva "Be', questa volta no, ma quest'altra è quella buona". E ricominciava a contare, e magari questa volta barava e alzava prima lo sguardo, e allora s'arrabbiava con se stessa per la propria debolezza e ricominciava daccapo. La fiorista uscì, raccolse alcune foglie che erano cadute e rientrò di nuovo. Era una donna di mezz'età coi capelli rossi e un aspetto gentile. Portava i capelli tagliati corti sui lati; indossava un grembiule da lavoro in plastica. Mentre stava rientrando lanciò un'occhiata a Marianne, ma non troppo rapida perché lei non potesse non accorgersene. Marianne saltò giù dalla panchina e si avviò verso il negozio. L'insegna diceva Blumer Rosenthal. Fiori, felci e boccioli stavano allineati nei loro vasi in ranghi serrati come persone allo stadio: era come entrare nel giardino più segreto che ci fosse al mondo. Il tasso d'umidità era alto, le ricordava la zona tropicale dello zoo. Dietro la cassa c'era una porta aperta che dava su una stanza interna, una specie di laboratorio. Da lì emerse la donna quando Marianne si chiuse la porta alle spalle. — Mi scusi — disse la bambina — ma mi può dire che ore sono? — Sono le due e mezzo passate — rispose la donna, mentre chiudeva un listino-prezzi e lo sistemava sotto la cassa. — È un bel po' che stai gironzolando da queste parti — aggiunse poi. — Lo so — rispose Marianne. — È tutto il giorno che stai là. Cosa stai aspettando? Perché, vedi, non è che accadano grandi cose qui attorno. — Sto aspettando il signore che era con me questa mattina. Ha per caso
visto dov'è andato? — È tuo padre? — No, non è il mio papà, è solo un amico. Per favore, l'ha visto? — Non l'ho visto andar via — disse la donna, chiaramente consapevole che quella non era l'informazione che l'altra desiderava. E Marianne, che pensava di avere già problemi a sufficienza senza doversi sobbarcare anche l'onere della simpatia di un estraneo, rispose semplicemente: — Oh. — Mi sembri esausta — aggiunse la donna. — Vivi da queste parti? — Siamo in viaggio — rispose lei. — Ah, bene. Comunque, non mi sembra una buona idea per te startene seduta da sola su una panchina per così tanto tempo. — Non sono da sola. Lui tornerà presto. — Vorresti restare qui dentro ad aspettarlo? Marianne non era sicura che quella sarebbe stata una buona idea. — Potrebbe sfuggirmi qualcosa — rispose. — Possiamo mettere una sedia vicino alla vetrina. E ti darò anche da bere. Vorresti qualcosa di caldo? Quell'offerta la convinse. — Posso avere un caffè? — chiese. — Se è questo che vuoi... Marianne annuì e la donna le disse: — C'è una sedia nel retro. Vai a prenderla. La stanza sul retro era bene illuminata, e praticamente deserta se comparata alla giungla da cui lei veniva. C'era un grande tavolo da lavoro, un grosso rotolo di carta colorata e lucida, rotoli più piccoli di nastri di vari colori. Sul tavolo c'era una composizione, lavorata a metà. E poi coltelli, forbici, taglierine, un cestino pieno di foglie e ritagli vari. Non c'era nessun altro nella stanza. C'era anche una piccola cucina economica con una caffettiera sopra. Una finestra, sbarrata, guardava su un cortiletto. Sotto la finestra, una scrivania col telefono, col piano di lavoro semisepolto da ordini e ricevute, mentre altri foglietti stavano pinzati alla parete, pronti per essere presi in considerazione. C'era un'unica sedia, davanti alla scrivania. Aveva lo schienale diritto ed era pesante, con un cuscino rosso con decorazioni che una volta erano state candide. Marianne cominciò a trascinare la sedia, e la donna disse: — Trovati il posto da dove vedi meglio. Io torno fra un paio di minuti.
Mentre si dirigeva sul retro, Marianne stava compiendo giochi di destrezza per sistemare la sedia dove più le aggradava. Era una soluzione più che ottima: era la prima buona cosa che le capitava. Aveva compagnia e stava al riparo, e poteva controllare sia l'arrivo della mamma sia quello di Ryan. Potevano prenderla per un oggetto messo in mostra così seduta com'era in vetrina, ma se quello era l'aspetto peggiore di quella situazione, poteva sopportarlo benissimo. Stava fronteggiando la panchina. Adesso c'era seduta una signora, col suo bambino nella carrozzina. Nessun segno di Ryan, a meno che non si fosse trasformato in un maestro del travestimento. La donna stava arrivando col caffè. Nessuno le aveva mai dato del caffè. L'aveva provato una volta e non le era piaciuto, ma era stato tanto tempo fa. Da allora era cresciuta, e adesso era sicura che l'avrebbe gradito. C'era qualcuno che si stava dirigendo verso il negozio. Un uomo ben vestito, ma tutto lì. Cercò di aprire la porta, ma questa sembrava essersi incastrata. Mosse su e giù la maniglia con foga, poi si voltò e se ne andò. Marianne guardò in direzione del retrobottega, ma la donna, malgrado il rumore, non si fece vedere. Riportò lo sguardo sull'esterno. Fu allora che si accorse che la porta era stata bloccata dall'interno. Avvertì una sensazione d'allarme. Il chiavistello era troppo alto per lei. Non era orario di chiusura, e poi la donna non aveva detto niente al riguardo. Allora, perché? Si alzò, attraversò il negozio diretta alla cassa. Adesso poteva sentire la donna che stava parlando al telefono. La porta di comunicazione era quasi completamente chiusa. Si avvicinò per ascoltare. — Be', non so — stava dicendo la donna. — Mi dica allora qual è l'ufficio giusto. L'assistenza all'infanzia, che ne so. Marianne tornò a prendere la sedia e la trascinò accanto alla porta d'uscita. Si mise in piedi sulla sedia e afferrò il chiavistello. Era duro, non si muoveva. E quando lo fece, scattò con gran rumore. Sentì, nell'altra stanza, che la donna riappendeva il ricevitore. Marianne saltò a terra, trascinò indietro la sedia mentre la donna appariva nel negozio. Spalancò la porta e fuggì nella strada. — Ehi! — gridò la donna. — Non aver paura, non c'è motivo di scappare! E Marianne pensava "Scommettiamo?" Continuò a correre finché non fu sull'ampia Königsallee, dove rallentò
fino al passo, perché la gente la stava guardando. Respirava con forza, e le doleva un fianco. Adesso, non sapeva più cosa fare. Cominciò a cercarlo fra la folla. Non poteva convincersi che l'avesse abbandonata. Non importava quello che la gente pensava, lì o a casa. Più tardi, quando negozi e uffici cominciarono a restituire la gente, ancora lo cercò con lo sguardo. Cominciò a tornare verso la piazza dove s'erano divisi, ma quel posto adesso le era proibito perché non sapeva se c'era qualcuno che la stava aspettando. Cominciava a scurire. Aveva fame, ma stava troppo male per mangiare. E man mano che la luce svaniva, cominciò anche a sentirsi sempre meno sicura. Si accesero le luci. Il traffico cominciò ad assumere un moto selvaggio, da predatori notturni. Non sapeva dove andare per dormire, né cosa fare nell'immediato. L'unica cosa che riusciva a pensare era che non poteva stare ferma per tenere desta la speranza che il prossimo minuto, o alla prossima svolta, se lo sarebbe trovato davanti, pronto a riprenderla sotto la sua protezione, perché lui sapeva cosa fare. I negozi stavano chiudendo. Per un po' rimase a ciondolare in un negozio di video aperto ventiquattr'ore a guardare i film trasmessi sui televisori finché un commesso con la coda da cavallo le fece notare a bassa voce il cartello che proibiva l'ingresso ai minori di 18 anni, facendole capire che non era sua intenzione mandarla via, ma lei era chiaramente minorenne, e doveva andarsene. Si preparò a uscire. Poi s'accorse che erano già le undici, e guardandosi attorno si rese conto di essersi persa. Attraversò un tunnel illuminato a giorno. Il marciapiede era scivoloso, e aveva l'impressione di essere diretta verso qualche posto fuori mano, perché lungo la strada sorgevano fabbriche e magazzini deserti, con le finestre sbarrate da assi inchiodate. C'era una Opel scassata parcheggiata poco avanti, con una pozza d'olio che s'era allargata sotto e con tutto il dietro danneggiato, nera come la notte che l'inghiottiva. Si guardò attorno, ma quei paraggi non avevano nulla di promettente da ambo i lati. Dietro l'angolo c'era una via, lunga e stretta, che sembrava portare a un viale illuminato. Sugli edifici che si vedevano laggiù brillavano le insegne pubblicitarie al neon di grandi banche e industrie varie. A quell'ora gli uffici erano tutti chiusi, ma forse le loro luci le avrebbero mostrato la strada del ritorno verso il centro della città. S'infilò in quella viuzza. Transitò un'auto. Stava passando accanto a un lavaggio-auto, dalla recinzione arrugginita e contorta. Ne sentì arrivare un'altra, e si accostò al
recinto per lasciarla passare. Ma quella non passò. Rallentò, invece. Senza fermarsi, si guardò alle spalle. Era una Mercedes gialla con un ferro da cavallo sulla griglia del radiatore. Le ricordò un sorriso di sghimbescio. Si voltò e accelerò la marcia, ma anche quella accelerò e le si mise accanto. Pareggiò la velocità sulla sua. Sentì il rumore di un finestrino che veniva elettricamente abbassato, ma lei non si voltò a guardare. — Ti sei persa? — chiese una voce d'uomo. Lei non rispose, e lui ripeté la domanda. — Sto bene — rispose. — Non mi sembra, a vederti. Direi che hai bisogno di aiuto. — No, grazie — disse lei, e partì di corsa. Si nascose in un passaggio in un vicoletto, e l'auto gironzolò lì attorno alcune volte, nel tentativo di ritrovarla. Lei attese ancora un buon quarto d'ora prima di arrischiarsi a tornare sulla strada. Di lontano, si sentiva lo sferragliare dei treni. Treni. I loro bagagli erano in un armadietto alla stazione, e la chiave dell'armadietto ce l'aveva Ryan. Le ci volle un'ora prima di trovare la strada giusta. Decise di correre il rischio, e salì su un tram senza avere il biglietto. Il tram arrivò nel piazzale della stazione e gli ultimi cinque passeggeri, fra cui Marianne, scesero. Era quasi mezzanotte. In completo contrasto con Amburgo, a quell'ora il piazzale della stazione di Düsseldorf sembrava sotto il coprifuoco. Un paio di passeggeri l'avevano guardata incuriositi, ma lei aveva fatto in modo di non incrociare lo sguardo di nessuno. All'interno della stazione, c'era ancora un po' di movimento. Era come se, alla fine della giornata, la stazione fosse diventata una sorta di calamita per tutti quelli che non avevano niente di meglio da fare. La luce, in quel posto alto, costruito come un hangar, grande come una decina di campi da calcio messi assieme, era pallida. Tutti i bar e i negozietti erano chiusi, e tutto sembrava concentrarsi attorno alla sala d'attesa notturna che si trovava nel cuore dell'edificio. Dentro, c'erano parecchie persone dall'aria stanca, avvilita. Fuori, transitavano alcuni ragazzotti. Una barbona, che aveva stivato tutti i suoi averi su un carrello portabagagli, stava seduta per terra accanto al suo tesoro. Accanto a un pilastro c'erano quattro tizi, gonfi di
birra e con altre lattine in mano, che cercavano in tutti i modi di assordarsi a vicenda. Marianne si diresse verso il locale in cui si trovavano gli armadi coi bagagli. I loro averi erano stati messi in un armadietto nella seconda fila. Non ne ricordava il numero, ma era certa di ricordarselo perché sullo sportello c'erano alcuni graffiti che non erano stati puliti molto bene. In quel luogo stagnava un odore d'urina. Ma come può la gente fare cose del genere? si chiese. Persino i cani la fanno all'aperto. Guardò la fila più bassa. A un armadietto mancava la porta e lo spazio interno era stato stipato di bottiglie e di cartacce, e capì di essere vicina alla sua. Era proprio dietro... Era vuoto. Lo fissò a bocca aperta. La levetta era scattata sul verde, la chiave era infilata al suo posto. Sentì un suono rimbombante e, alzando lo sguardo, vide un carretto a mano ricolmo di borse, scatole, cappotti e valigie, che stava passando spinto da due uomini in uniforme. Scattò al loro inseguimento e li raggiunse mentre si fermavano accanto a un armadietto, il cui tempo di custodia era terminato, e ne estraevano il contenuto. — Per favore — disse — avete per caso preso due zaini? Il mio e quello del mio amico? Siamo stati separati, e ho bisogno di sapere se è già stato qui o no. — Devi chiederlo alla cassa — disse uno degli uomini. — Dov'è? — È dietro l'ultimo pilastro sulla sinistra. Tutto quello che prendiamo qui, lo portiamo laggiù. Lei stava sbirciando i bagagli che avevano raccolto, ma non riusciva a capirci molto. C'era uno zainetto di naylon rosso, ma non sembrava del colore giusto e poi non aveva gli spallacci verdi. Il resto era un cumulo informe, nel quale avrebbe dovuto scavare. Si sentì chiamare. Si voltò. E vide Ryan. Teneva sulla spalla il suo sacco, e quello di lei per mano. Lei gli corse incontro, e lui lasciò cadere gli zaini a terra mentre si inginocchiava per accoglierla fra le braccia. Non ebbe nemmeno il tempo di prepararsi all'impatto che lei lo investì come un camion. Gli strinse le braccia al collo con tutta la forza che le restava. Stava tremando, ma lui la calmò carezzandole i capelli e abbracciandola con forza.
Si trovavano nel bel mezzo del corridoio, e i pochi passeggeri dovevano girare loro intorno per poter proseguire, fingendo che non stesse succedendo nulla di insolito. — Va tutto bene adesso — disse Ryan. — Va tutto bene. Non avere più paura. — Lo so — disse lei con la faccia contro la sua spalla. Aveva afferrato la stoffa del suo pastrano con tale forza che le dolevano le dita. — Non ho paura — disse. — Non ne ho mai avuta. 54 Si riunirono di nuovo dopo essere stati nei servizi a lavarsi la faccia per essere pronti ad affrontare la giornata. Avevano trascorso la notte in stazione, nella sala d'aspetto. Un tizio in uniforme si era fatto vedere alle tre e poi ancora alle cinque per svegliare i dormienti, ma nessuno aveva chiesto loro se avevano il biglietto. Marianne si sentiva rigida. Rigida come un palo, per usare un'espressione cara a suo padre. Si guardò nello specchio del bagno e, per uno spaventevole istante, stentò a riconoscersi. Ryan era davanti alla porta, in attesa. — Non mi devi guardare a quel modo — gli disse. — Questa volta non ho portato via niente a nessuno. — Bene — disse Ryan. — Non usare mai lo stesso metodo due volte di seguito. Non avevano più soldi, ma fecero lo stesso colazione. Ryan si frugò nelle tasche: tutto quello che aveva preso si era salvato tranne il formaggio, che si era inacidito e che gettarono via. Lui non le aveva detto dov'era stato né cos'aveva fatto il giorno precedente, né aveva intenzione di dirglielo. Erano nell'atrio della stazione, che stava affollandosi di viaggiatori frettolosi. — Voglio fare una doccia — disse Marianne. — Anch'io — rispose Ryan. — Magari presto. Dopo un po', Marianne aggiunse: — Credo proprio che non mi sto più divertendo. — Be', non è questo il modo per vedere il mondo — concesse Ryan mentre provava a stirarsi. — Te l'avrei potuto raccontare senza doverci spostare. — Qualcosa schioccò, e lui si rilassò. — Sei stato tu? — chiese Marianne, piena di meraviglia. — Vecchie giunture — disse lui. — Adesso, ascolta. Ci sono stati alcuni sviluppi, e io tra poco dovrò incontrarmi con qualcuno.
— Questo l'avevo già capito. — In che modo? — chiese lui, perplesso. — Perché questa mattina ti sei messo il dopobarba. È lei, vero? È arrivata, ed è questo il motivo per cui sei scomparso. Ho ragione? Dov'è? Dove dobbiamo andare? — Ehi, vacci piano. — Io non voglio andarci piano. Voglio vederla. — Be' — disse Ryan leggermente irritato — non puoi. — Poi, vista la sua espressione, aggiunse: — Non è facile come pensi. Devo incontrarmi con qualcuno e prendere alcune decisioni, e poi penso che la storia, in un modo o nell'altro, si risolverà. Però devi avere fiducia in me. Il che significa che non devi fare troppe domande perché a molte non so come rispondere, e finiresti col rendermi le cose più difficili di quanto già non siano. — Ma è lei, vero? È con lei che ti incontri, vero? Perché allora non vuole vedermi? — Cosa ho appena finito di dire? Lei aprì la bocca per rispondere, poi si controllò e rimase in silenzio. Non era facile. Strinse le labbra e lo fissò. — Mi sembri una rana — disse lui. Lei non rispose, e strinse ancor di più le labbra. — L'idea è questa — disse lui. — Tu dovresti rimanere da queste parti. Non lasciare la stazione e, se qualcuno cerca di parlare con te torna nella sala d'attesa e rimanici fino a quando arrivo io. Se qualcuno viene a dirti di seguirlo perché gliel'ho detto io, tu chiedigli la parola d'ordine così saprai se è vero. Vuoi sceglierne una? Una che tutti e due ci possiamo ricordare. — Rudi — disse lei. — E Rudi sia. Non so quanto tempo mi ci vorrà, ma non preoccuparti se farò tardi. Tornerò di sicuro. Allora, affare fatto? — Va bene — disse lei, poco convinta. — Ottimo — aggiunse lui, ed estrasse di tasca un'ultima mela rossa. — Il pranzo. E non preoccuparti: d'ora in poi, le cose non potranno che migliorare. Lei lo osservò allontanarsi. Prima che avesse raggiunto l'uscita aveva già inghiottito due bocconi di mela. Lui si voltò e la salutò, e lei rispose al saluto, ma senza troppo entusiasmo. Odiava aspettare. Appena fu fuori vista, si alzò e si avviò sulle sue tracce e, mentre si faceva largo fra la folla, si sistemò meglio lo zaino sulle spalle. Non voleva
perderlo di vista né stargli troppo vicina per non correre il rischio di farsi vedere. Era come giocare a fare la spia. Mentre Ryan O'Donnell fermava le persone per strada per farsi indicare la Königstrasse di Düsseldorf, Jennifer McGann stava salendo le scale del vecchio edificio prebellico di Amburgo dove l'ufficio di un certo investigatore privato aveva dimostrato di non valere nulla come trappola. Quando Werner ci era arrivato lunedì mattina per dare il via all'operazione, aveva trovato il vetro sfondato, l'ufficio aperto e il nastro della segreteria telefonica scomparso. Le prede erano state lì, ed erano scomparse di nuovo. Erano arrivati quelli della scientifica e avevano cominciato a frugare dappertutto con energia degna di miglior causa. Johann Schlesinger era arrivato alle quattro del pomeriggio, e c'era voluto un sacco di tempo per convincerlo che il suo ufficio non era stato vittima di un attentato da parte di un cliente insoddisfatto. Werner aveva trascorso con lui la maggior parte della giornata, cercando di capire cosa poteva essere scomparso dai suoi incartamenti e se c'era qualcosa che poteva far loro capire dove si fossero diretti Marianne e Ryan O'Donnell. Questo ammesso che la ricerca dei due fosse una realtà e che come tale stesse proseguendo. Quando Jennifer arrivò, la prima cosa che vide fu che il nastro di plastica della polizia, che doveva tenere alla larga i curiosi, era stato strappato e gettato fra le immondizie. Tutta l'area attorno alla serratura, oltre al corrimano della scala, recavano ancora i residui della polvere bianca di alluminio, che ricordavano le ditate di un bambino che avesse giocato col borotalco. Avevano trovato numerose impronte di O'Donnell sulla scrivania e sull'archivio, e altre, molto chiare, della bambina sulla segreteria telefonica. Il circo della scientifica aveva già smontato le sue tende. Rimanevano solo Werner e Schlesinger, che alzarono lo sguardo su di lei quando la sentirono arrivare. — È arrivata l'analisi del documento — disse lei a Werner. — O'Donnell ha strappato almeno cinque pagine dopo aver scritto sul taccuino, ma ne è rimasta una traccia sufficiente. Indovina dove sono. — Di nuovo a Düsseldorf? — Un indirizzo di comodo nel centro città. Ho già parlato con uno dell'ufficio di là. Lunedì qualcuno ha consegnato una lettera indirizzata ad Anneliese Cadogan. Qualcuno l'ha già ritirata. È tutto quello che sanno. Werner stava per dire qualcosa, poi rinunciò. Guardò invece Schlesin-
ger, che se ne stava seduto, senza espressione alcuna: era un uomo piccolo, molliccio, con occhiali e capelli imbrillantinati, e il suo viso recava l'espressione di un uomo a cui sono appena stati tolti tutti i denti. Non era un viso che si guarda due volte, né che si ricorda. Werner le fece cenno che era ora di andarsene. Lasciarono il piccolo Schlesinger da solo. — È una buona cosa, vero? — disse lentamente Werner, come se fosse un problema a cui avesse pensato a lungo. — Che vuoi dire? — Che sta facendo del suo meglio per portarla dove lei vuole andare, e non sembra che le abbia fatto alcun male. — Non sappiamo con certezza cosa le sta facendo. E non lo sapremo finché non li avremo presi. Si chiama seduzione di un innocente: lo porti per mano e lo induci a partecipare alla sua stessa corruzione. E se adesso O'Donnell cerca di riunirla alla madre... be', devo dire che, secondo la mia esperienza, questo significa comunque un grande pericolo. Domani andrò laggiù: Josef ha già sistemato le cose. Il sergente Moon è sempre fuori combattimento, ma mi è stato detto che mi verrà assegnato uno di voi. Vorresti essere tu? Werner distolse lo sguardo. — Non lo so — rispose. Lei lo osservava per cercare di capire, ma Werner era costruito nel granito, e non lasciava trapelare nulla. La descrizione di lui che ne aveva fatto Josef era solo una parte della storia. Così come superficialmente appariva tollerante e tranquillo, e sembrava che nulla dovesse turbarlo. Ma c'era molto altro in lui, e lei l'aveva visto subito dopo la sparatoria. Presero un taxi per andare a casa di lui. Abitava nei pressi dell'università, in una zona di strade larghe e vecchie case. Appena entrata in casa sua, si rese conto che viveva da solo. C'erano chiari segni che qualcuno se n'era andato di recente: c'erano larghi spazi vuoti negli scaffali della libreria, segni sulla tappezzeria dove alcuni quadri erano scomparsi e nulla li aveva rimpiazzati. Quando andò in bagno, vide alcuni oggetti usati di toeletta che né Werner, né alcun altro uomo, avrebbe mai acquistato per sé. Quando tornò nella stanza principale lo trovò seduto con la testa fra le mani, e allora gli sedette accanto e poi... be', è difficile descrivere esattamente come successe, però successe. Nessuno dei due aveva fatto qualcosa in quella direzione né aveva fatto qualcosa per fermarlo, ci si trovarono immersi come se li avesse travolti una valanga. Pochi minuti dopo erano
entrambi semi-svestiti senza alcuna logica o sistematicità, e lei gli teneva le gambe attorcigliate attorno alla vita e lui la stava trasportando verso la stanza da letto cercando contemporaneamente di scalciare via i calzoni che non volevano saperne di lasciarlo libero perché lui non s'era reso conto che aveva ancora una scarpa infilata, e quando atterrarono sul letto avvenne la cosa migliore che fosse mai accaduta nella loro vita. Fu termonucleare. Il tempo s'arrestò. Fu come un'esperienza extracorporea, cinque tonnellate di tritolo imbarcate su un treno lanciato a piena velocità che esplodono contemporaneamente. E quando fu tutto finito e cominciarono a tornare sulla terra e si trovarono intrecciati fra di loro ansimanti come una coppia di velocisti, lei s'accorse che lui aveva ancora pantaloni e mutande che gli pendevano da una gamba, come i ceppi di un forzato. Lei sapeva cos'era successo. Quello che era accaduto in quegli ultimi minuti non poteva essere disgiunto da quello che era accaduto nel pomeriggio. Sesso e morte, morte e sesso: il legame più potente possibile fra due opposti. Nessuno poteva dirsi immune da una tale connessione. Nessuno. Lui aveva di nuovo lo sguardo perso nel vuoto. — Werner — gli disse — non possiamo lasciare le cose così. — Lo credo anch'io — rispose lui. Poi la guardò. — Cosa ci sta succedendo, Jennifer? Parlo seriamente. Che futuro c'è per noi? Perché io non ne vedo. Per cui, penso che la cosa migliore sia che tu faccia il tuo lavoro e che poi te ne torni a casa da... quale che sia il suo nome. — Ricky — rispose lei. — Come che sia. Lei capì che lui era spaventato ed esilarato allo stesso tempo come lo era lei, che il coperchio aveva cominciato ad alzarsi su qualcosa di antico e di terrificante, e che li aveva scossi molto più di quanto osassero ammettere. — Bene — disse lei. — Immagino che questo significhi "grazie e addio". Allungò la mano, per stringere la sua, ma Werner strinse gli occhi con forza, come se avesse sentito un forte dolore, e scostò quella mano prima di alzarsi per tornare da solo nell'ufficio di Schlesinger. — Mi rincresce di averla fatta attendere — disse a Patrick Cadogan la segretaria riemergendo dagli uffici interni dello studio e porgendogli una cartelletta. — Questa è per lei. — Che cos'è? — chiese lui.
— Temo che sia il suo conto. Nessuno dei soci desidera incontrarsi con lei finché non verrà saldato. Cadogan sospirò. Prese la cartelletta e la tenne con entrambe le mani davanti a sé per leggere il proprio nome sull'intestazione. — Immagino che non accettiate una carta di credito. — Non questa volta — rispose lei scrollando la testa con un leggero sorriso. — Be', non credo che mi sentirò molto male — disse lui, perché l'istinto gli diceva che quella donna provava una qualche simpatia per lui anche se gli obblighi del suo lavoro la costringevano ad agire diversamente. — Non è colpa sua. Doveva succedere. Si lasciò cadere in una delle basse sedie di pelle dell'ingresso, sentendosi debole ed esausto. Negli ultimi due giorni si era sentito come un motore sul banco di lavoro mentre viene provato al massimo della velocità per saggiarne la robustezza. Stava cominciando a cedere, e non c'era nulla che potesse fare per porvi rimedio. Guardò la segretaria. — Lo sanno il motivo per cui sono venuto qui, vero? Voglio dire, non si tratta di discutere di punti di vista legali, la situazione è molto seria. — Io mi limito a lavorare per loro — rispose lei. — Il che non significa che sia sempre d'accordo con quello che fanno. — Lo so — disse lui. — Mi dispiace. Senta, non voglio rappresentare un problema per lei, ma... mi lasci un minuto perché mi rimetta in sesto. Lei gli si portò al fianco e abbassò la testa vicino al suo viso. — Li ho visti — gli disse. — Chi? — Sua figlia e quell'uomo. Assieme. Sono venuti qui. Alla polizia non gliel'hanno detto? — La polizia non mi ha detto niente. Per loro, i genitori delle vittime fanno solo confusione. Che aspetto aveva lei? — Mi sembrava che stesse bene. Non appariva spaventata, né niente del genere. — E di lui, che mi dice? — Con lui è diverso. Mi ha spaventata. E quando stavo chiamando la sicurezza, ha rubato del materiale e se ne sono andati. Non glielo sto dicendo perché stia più male. Ma lei ha diritto a sapere cos'è successo. — Nulla di quanto potrà dire mi farà stare più male di così — rispose lui sventolando la cartelletta col proprio conto. — Senta, se dovessero farsi
vivi di nuovo, lei me lo farà sapere? — Solo se sapessi dove posso trovarla. — Sempre un passo avanti ai miei creditori. Sono un esercito in continua crescita. Ma mi farò vivo io con lei, sempre se mi promette che non mi sguinzaglierà dietro i cani per il conto. — Vedremo cosa si potrà fare. Lui si alzò. Non c'era nulla di meglio che abbandonarsi su quella morbida pelle e chiudere gli occhi per riposarsi, ma sapeva che non ne aveva il tempo. — La ringrazio — disse. — Non tornerò più. Non voglio darle altri problemi. — Poi, mentre si dirigeva verso la porta, aggiunse: — Ma stia certa che lo ucciderò. Se solo riuscirò a mettergli le mani addosso prima di loro, stia certa che lo ucciderò. 55 Il Café Heinemann sorgeva nelle vicinanze di un teatro, e probabilmente la maggior parte dei suoi clienti erano gli spettatori degli spettacoli serali. Era infatti collegato all'atrio del locale tramite porte a vetri con le maniglie fatte a forma di maschere della commedia e della tragedia, per evitare alla gente il fastidio di uscire in strada. A quell'ora del giorno, l'ingresso del teatro era buio, il caffè quasi deserto. Ryan si fermò sulla soglia e guardò i tavoli. Solo la metà erano occupati, e in più c'erano tre persone che stavano sedute sugli alti sgabelli del bar. Era un posto con uno stile da teatro: non c'era mobile o decorazione che non avesse l'aria di essersi esibito su un palcoscenico, dai candelabri polverosi ai pupazzi appesi alle pareti, alle maschere alle gabbie in bambù che pendevano un po' dappertutto. Anneliese Cadogan non c'era, ma lui era in anticipo. Si chiese se voleva che l'aspettasse fuori o che si sedesse a un tavolino. Non aveva un soldo in tasca, e così non poteva chiedere nemmeno un bicchiere d'acqua. In posti come quello, l'acqua frizzava e costava bei soldoni. Poi la vide. Era a un tavolino nell'angolo più lontano, accanto alla cassa, nella parte più scura del caffè. E anche lì indossava occhiali scuri, ed era impossibile dire se stava guardando lui, o attraverso lui. Non alzò la mano, né fece altri segnali. Si fece largo a stento fra i tavoli per avvicinarsi a lei. Quando sedette, lei non girò la testa. Era voltata in modo da non mo-
strargli la parte lesa della faccia. Gli occhiali scuri avevano una colorazione graduata in modo da apparire più un accessorio di moda che veri e propri occhiali da sole, ma né loro né il pesante trucco potevano nascondere l'ematoma e il taglio sullo zigomo, che sembrava essere stato procurato da un anello. Senza alcun preliminare, lei disse: — Ho potuto riflettere. Credo che ci sia un modo per sistemare le cose. — Prima di cominciare — disse Ryan — lei deve sapere cosa so. Ieri sono rimasto, e ho guardato quello che succedeva. Silenzio. Poi lei disse: — Oh. — Cosa stava succedendo? — Non sono affari suoi. — Ma lei sopportava tutto senza dire niente! Perché? — Perché è così che vanno le cose — disse lei con una punta d'irritazione. — Non emetta giudizi su di me, signor Ryan, lei non sa nulla della mia situazione. Siamo qui solo per parlare di Marianne. — Lei deve lasciare quell'uomo. — La prego. — Lei si farà veramente male — insistette lui. — Non capisco cosa la leghi a quel posto. Se ne vada, adesso che ne ha la possibilità. — Non sono libera — rispose lei, abbassando la testa. — Non le importa nemmeno di cosa potrebbe succederle? — No. E quella, come lui capì, era la pura verità. — Non riesco a capire. — Non m'importa di quello che mi succede, perché la mia vita è già finita. È finita il giorno in cui l'ho buttata via. Adesso Axel è il custode delle mie ceneri, tutto qui. Quel che ne fa, riguarda solo lui. Io, vado dove lui mi manda. — Le piace che le facciano del male? — azzardò Ryan. — Ho conosciuto gente così. È di questo che si tratta? Lei stava scrollando la testa, lentamente. — Chi è Axel? — La prego. Non voglio parlarne. — Ho fatto esattamente come mi ha detto. Sono venuto qui per incontrarla e ho tenuto Marianne lontana. Se crede che sia stato facile, allora non la conosce. Adesso mi dica pure quello che le pare. Lei trasse un profondo sospiro e si guardò attorno, e fu come se si fosse
piantata un coltello nella schiena. Anche Ryan si guardò in giro, per controllare che nessuno si fosse seduto troppo vicino e potesse quindi ascoltare. Le pareti del loro séparé erano ornate con riproduzioni di vecchie locandine di teatro e cianografie di vecchi macchinari teatrali. — Va bene — disse Anneliese. — Le parlerò di Axel Reineger, e le dirò qualcosa anche di me. E forse allora capirà cosa le chiedo di fare, e perché. — Fece una pausa, non tanto per rinfrancarsi quanto per corazzarsi meglio. — Axel Reineger commercia in persone, in modi che lei nemmeno può arrivare a immaginare. Immigranti, gente senza documenti, tedeschi dell'Est... li assolda per pochi marchi e li vende dove il lavoro è più sporco, dove nessuno fa domande. Si tiene la maggior parte dei soldi che gli rendono, perché lui vende le loro vite, la loro salute. E a volte, molto più di questo. — Come ha fatto a impossessarsi di lei? — Oh — disse lei con un improvviso gesto della mano, come se quello fosse il meno importante dei dettagli. — Ci siamo incontrati. È una persona molto rispettabile... — fece una pausa, prima di correggersi. — È un uomo molto rispettato. Sembra conoscere tutte le persone che contano. È un fornitore di contratti di lavoro per la compagnia per cui lavorava mio marito e così, ogni volta che c'era una festicciola o un avvenimento mondano, lui c'era. L'ho visto guardarmi una volta, tutto qui. — Non mi dirà che si è innamorata di lui. — Niente del genere, signor Ryan — disse lei con calma. — Le sto dicendo che ho visto l'espressione dei suoi occhi, e ho capito che sapeva. Non mi aveva proprio guardata. Lui ha visto dentro di me, e ha capito chi ero. Ma non credo che lei possa capire queste cose. Ryan la fissava, in silenzio. — Mi telefonò un giorno, mentre ero in casa da sola. È così che è cominciata. All'inizio, credevo che mi volesse per sé. Ma non è così che agisce lui. Quando tutto mi crollò addosso, andai da lui, e lui si prese tutto di me. Adesso vado dove mi manda, faccio quello che mi dice di fare. — Come ieri. — Era solo una dimostrazione. Da oggi, trascorrerò due settimane quale proprietà di quell'uomo. È questo l'accordo che hanno fatto. — Chi è lui? — Non lo so. Un altro uomo rispettabile. Per me, non fa alcuna differenza. Quel che succederà dopo, dipenderà solo da quanto ci metterà il mio corpo a riprendersi.
— Perché gli permette di farle questo? — Non creda che abbia scelto io questo tipo di vita. È questa vita che ha scelto me. Noi amiamo credere di essere liberi, ma la verità è che siamo come su binari. Andiamo dove ci spingono, e nessuno di noi crede che ci sia una fine del suo binario finché non la raggiunge. È allora che ci guardiamo alle spalle. E ci chiediamo come abbiamo potuto illuderci che potesse finire in un altro modo che non fosse questo. — E Marianne in tutto questo come c'entra? — È l'unico rimpianto che ho. Io sono troppo pericolosa, e lei è inadatto. Non m'importa quello che le ha promesso. Adesso, deve portarla alla polizia. — Non posso. — Lei è molto tenace, signor Ryan, e le sono grata per quello che ha cercato di fare. Ma cerchi di capirmi quando le dico che non voglio che mia figlia rimanga ancora a lungo in sua compagnia. — Non posso consegnargliela perché, oltre al particolare che le ho fatto una promessa, la mia unica scusante è che l'ho portata qui per riunirla a lei. Senza quest'unica difesa, io sono fottuto. Non ho niente che dimostri che non l'ho portata con me per reconditi fini. — Sia onesto con me, signor Ryan — disse lei. — E con se stesso, anche. Vuol dire che non c'erano altri elementi in gioco? Ryan abbassò lo sguardo, senza rispondere. Lei posò una busta sul tavolo nello spazio fra loro due. — Questa l'ho rubata ad Axel — spiegò Anneliese. — Se le cose dovessero andar male per lui, questa è la sua via di fuga. È la chiave di tutto. Con questa, può entrare in possesso di quanto gli serve per scomparire e per riapparire come qualcun altro. Se lei lascia mia figlia, è sua. Lui la guardò, perplesso. — Una nuova vita, signor Ryan. Il passato, ripulito d'un colpo. Ci pensi. — E cosa ne sarà di Marianne? Lei s'appoggiò all'indietro, aumentando la distanza fra loro. — Appartiene al padre. Io so che l'amava. Ma adesso che è cresciuta lui la guarda e pensa a me e al dolore che gli ho causato. Non mi dimenticherà mai finché vivrò. Non crede che abbia ragione? — Sta già cominciando ad assomigliarle. Anneliese annuì, lentamente. — Questo — disse poi — è il problema a cui devo dedicarmi.
Anneliese fu la prima ad andarsene. Se ne andò senza guardarsi alle spalle. Era la donna più bella in quel locale, la meglio vestita, e apparentemente la più sicura di sé. Non sorrideva, non guardava nessuno. L'unica cosa che Ryan riuscì a pensare guardandola andar via fu: "Che spreco". Guardò la busta che teneva in mano. Di nuovo, quel viaggio che sembrava essere arrivato alla fine aveva rivelato di avere nuove regole del gioco di cui occuparsi. Era come stare incatenati a un gioco elettronico nel quale ogni schermo era più difficile del precedente e il premio finale coinvolgeva la vita o la morte del giocatore. Il principale contenuto della busta erano una chiave e un indirizzo. Non era la chiave della serratura di una porta: aveva due soli dentini e ricordava un po' uno scheletrino. L'indirizzo non gli diceva nulla. Inoltre, la busta conteneva alcuni biglietti di banca, alcuni permessi di lavoro usati e carte d'identità false, da usarsi per brevi periodi di tempo da immigrati illegali. Quello, gli aveva spiegato lei, era quanto era riuscita a rubare dall'ufficio di Reineger, e il materiale contenuto, se comparato a quello che la chiave gli avrebbe consentito di fare, rappresentava poco più di nulla. Una nuova vita. Cancellare il passato. Una cosa del genere era anche solo remotamente possibile? Visse un momento di panico quando si rese conto che se n'era andata lasciandogli il conto da pagare, ma subito ricordò che gli aveva lasciato anche soldi sufficienti per saldare il conto. Andò alla cassa, consegnò un biglietto di banca, attese il resto, poi prese lo zaino e uscì. La luce del giorno lo costrinse a socchiudere gli occhi. Si guardò attorno per orientarsi sulla strada da prendere per tornare alla stazione, e allora vide Marianne. Era dall'altro lato della strada, nascosta in un portone. Da quel posto non poteva vedere dentro il locale, però era in grado di osservare chiunque entrasse o ne uscisse. Doveva averlo seguito, quindi era rimasta lì tutto il tempo. Non c'era altro modo per scoprire dove lui fosse andato. Lasciò passare un paio di auto, poi attraversò. Aveva gli occhi sbarrati e vuoti, tremava per il freddo. Le si fermò accanto. Dopo un poco, lei alzò gli occhi per guardarlo. Non aveva pianto, ma gli occhi erano lucidi, leggermente arrossati. — Non è venuta, vero? Eri d'accordo per incontrarla qui, e lei non s'è fatta vedere, non è così?
Ryan non sapeva cosa dire. — La odio — disse Marianne, abbassando lo sguardo. — Andiamocene — disse Ryan. Lei si lasciò guidare fuori dal portone in cui s'era riparata. Sembrava essere stranamente cresciuta. Ryan non avrebbe voluto essere l'oggetto della sua collera, per giovane che fosse. Non s'era messa a piangere come una bambina. S'era tenuta tutto dentro, e nessuno poteva dire come o quando l'avrebbe tirato fuori. — Su, andiamo. Abbiamo un posto in cui andare. Marianne tirò su col naso, con gesto di sfida. Non aveva riconosciuto nessuno, anche se Anneliese Cadogan era passata a non più di dieci metri da dove stava sua figlia. Ryan si chiese se lo sguardo di Anneliese fosse scivolato sulla figlia, se l'avesse riconosciuta. Si disse certo che doveva averla riconosciuta, ma che egualmente aveva tirato diritto, senza fermarsi. — Non odiarla — le disse. — Non è giusto. — Li odio tutti e due. Poi, aggiunse: — Ma sono felice che tu sia qui con me. 56 Quella stessa sera Jennifer arrivò, sola, al suo albergo di Düsseldorf. Josef rimase fuori alla ricerca di un posto in cui parcheggiare; l'avrebbe raggiunta più tardi alla stazione di polizia. Benny Moon stava invece tornando in volo a casa, dove avrebbe potuto combattere l'influenza dal proprio letto anziché da quello di un albergo a tre stelle a spese del dipartimento. Non sarebbe stato rimpiazzato, almeno per le due settimane previste per l'incarico. Si chiese se qualcuno gliel'avesse detto. — Ho due stanze singole prenotate per voi — disse il portiere. — Mi dia la migliore delle due — disse Jennifer. Ma che diavolo. S'era dovuta sorbire la guida di Josef e la sua conversazione per le ultime quattro ore: ne aveva diritto. La stanza era al primo piano, accanto alla sala da pranzo. Aveva una brutta conformazione, probabilmente era stata ricavata nell'angolo dell'edificio, e il soffitto era altissimo. Ma era pulita e dall'aria confortevole, con in più quei piccoli tocchi di buon gusto che garantiscono un'illusione di lusso. E, cosa più importante di tutte, c'era un telefono.
Controllò il biglietto sul quale aveva trascritto il numero del comando di polizia. — Das Kriminalhauptkommissar Rilke non è in ufficio — le venne detto. — Vuole lasciare un messaggio? — Gli dica che l'ispettore McGann è arrivata dall'Inghilterra. Le sarò grata se riesce a rintracciarlo e a farglielo sapere subito. Lasciò nome dell'albergo e numero di stanza, poi riappese e cominciò a sistemare le sue cose. Avrebbe dovuto sentirsi eccitata, invece si sentiva abbattuta. Aveva a malapena posato i piedi ad Amburgo che aveva dovuto correre via in tutta fretta per trovarsi a ripartire da zero. E poi aveva già usato tutto quel poco che si era portata e adesso avrebbe dovuto lavare la biancheria nella vasca da bagno e poi lasciarla a gocciolare nella doccia. Tutta la documentazione era posata sul letto. Stava appendendo la sottoveste bagnata sul binario della tenda della doccia quando sentì suonare il telefono. Prese il ricevitore con una mano ancora bagnata. — McGann? — disse una voce maschile con un leggero accento. — Qui è l'Hauptkommissar Rilke. — Grazie per avermi chiamata — disse lei. — Vorrei poterla incontrare al più presto possibile. Se può dirmi dove la posso trovare... — Sono con Anneliese Cadogan — disse l'altro. — L'avete trovata? — Meno di un'ora fa. Jennifer s'allungò fino al tavolino sul quale era posato un blocchetto per appunti. Scrisse l'indirizzo che Rilke le dettava. Poi, abbandonando il suo bucato, s'infilò le scarpe e corse fuori. I nomi delle strade avevano un suono brutale per lei. Hellweg, Junkerstrasse, Dieselstrasse. Edifici d'appartamenti fiancheggiavano la strada, alti tutti cinque piani e così lunghi da sembrare senza fine. Strade larghe correvano verso le zone industriali, poco lontano si vedeva il profilo di un inceneritore e le ciminiere di alcuni cementifici. Mentre l'auto svoltava in una delle più strette strade residenziali, Jennifer vide alcuni ragazzini che giocavano a pallone su un campo in cui, una volta, cresceva l'erba. Altri stavano gridando per conversare con alcuni amici che abitavano ai piani alti. Si chinò in avanti per parlare al conducente. — Si fermi dove c'è il nastro della polizia. Il taxi dovette invertire la marcia per tornare indietro, perché la strada era stata sbarrata da alcuni veicoli della polizia. Fra quelle barriere mobili
di metallo, solo poche auto ricevevano il permesso di passare. La gente affollava i balconi, e alcuni puntavano le macchine fotografiche, ma non c'era nessuno fra loro con l'aspetto del professionista. Lei mostrò i documenti, compreso il pass del Praesidium di Amburgo, e le venne consentito di passare. Non dovette chiedere dove dirigersi: l'attività era concentrata attorno a un basso edificio in legno all'estremità di un lungo e stretto appezzamento di terreno tenuto a giardino. La casa era a malapena visibile dalla strada. La strada per arrivarci era segnata da una serie di nastri di plastica della polizia, per evitare che qualcuno calpestasse qualche prova. Passò un cancelletto in legno e s'avviò verso la casa. Alcuni giovani agenti, in ginocchio, stavano ispezionando con attenzione il prato. Erano state accese alcune fotocellule per compensare il declinare della luce diurna, e l'erba appariva vivida e irreale sotto la sferza di quelle luci. Si notava subito che quella casa aveva subito diversi lavori di allargamento e abbellimento, che le avevano fatto acquisire l'effetto di un ranch. Sembrava, in realtà, l'ultimo ritiro di un vecchio cowboy stile Bonanza. L'interno era tutta un'altra cosa. Invece della casa stile vacanze che si era aspettata, dentro era praticamente spoglia. Le pareti erano ricoperte da lastre di fibra di vetro dello spessore di parecchi centimetri, fermate a intervalli di mezzo metro da ganci in metallo. Dove le lastre s'incontravano, lo spazio che rimaneva era stato chiuso con nastro isolante. Gli scuri interni erano pesanti, e rivestiti con lo stesso materiale isolante. Con gli scuri chiusi la casa sarebbe stata buia e insonorizzata come una tomba, il che le fece pensare a cosa diavolo ci facesse l'enorme complesso hi-fi al centro della stanza. Chiese di Rilke, e dopo poco un uomo che teneva in mano una radio le fece segno di seguirlo. Superò una porta e trovò un'altra stanza anch'essa deserta di mobili. Con una sola eccezione. — Signorina McGann? — chiese una voce, e lei si voltò. Un uomo d'aspetto piacevole, in borghese, occhi scuri e luminosi. Sulla quarantina, ma con un aspetto ben curato che lo faceva apparire più giovane. Consegnò un blocchetto a qualcun altro e le porse la mano. — Sono Rilke — le disse. — Benvenuta a Düsseldorf. Jennifer si guardò attorno. Alle finestre, era stato aggiunto un pesante strato di tende scure. C'erano due sedie e un lettino. Un flash scattò di nuo-
vo. L'oggetto del loro interesse giaceva immobile sul materasso, con una stringa di plastica stretta attorno al collo. — Anneliese Cadogan? — azzardò Jennifer. — Adesso non ha più bisogno di correre — disse Rilke. — Non c'è nulla che ci potrà dire fino alle nove di domattina. PARTE TERZA Banditi sotto il tetto 57 Era un mattino frizzante. Jennifer parcheggiò l'auto che le era stata assegnata davanti all'obitorio dell'ospedale universitario Heinrich Heine poco prima delle nove. Rilke era appena arrivato. — Come mai sola? — le chiese. Non aveva ancora avuto la possibilità di spiegare la storia di Benny, per cui disse: — Il sergente Moon è dovuto rientrare in Inghilterra. Verrà rimpiazzato al termine di questa settimana. — Entriamo assieme — propose lui. — È stata una nottata interessante. L'autopsia di Anneliese Cadogan si doveva tenere nel seminterrato dell'Institut für Rechtsmedizin, il dipartimento di patologia forense dell'università. Era un edificio bianco, dal tetto a terrazza e con un breve tratto di giardino con parcheggio per biciclette sul davanti. Rilke suonò il campanello, e una donna, dopo averli controllati da dietro la vetrata, aprì loro la porta con un pulsante. Rilke fece strada fino alla fine di un corridoio, dove si trovava la scala che portava al seminterrato. — Cos'avete scoperto? — chiese Jennifer. — Il problema è da dove cominciare — disse Rilke. — Il corpo è stato scoperto quando uno dei vicini è andato a lamentarsi per il rumore. Una vecchia canzone, ripetuta all'infinito. Nessuno aveva mai sentito alcun rumore uscire da quella casa. Da com'era stata insonorizzata, non è difficile da credere. Porte e finestre, erano tutte aperte. Sembra proprio che volessero che venisse trovata, ma non troppo presto. — Propendete per il suicidio? — Non propendiamo per nessuna tesi. Si vennero a trovare in un atrio in cui si trovavano alcuni strumenti metallici e diversi camici appesi accanto a una lavagna sulla quale erano segnati i nomi e i dettagli dei deceduti. Il pavimento era di marmo paglieri-
no, le pareti erano dipinte di giallo. Una porta metallica, frangifiamme, era aperta a metà, e due tecnici stavano trasportando fuori il cadavere di Anneliese Cadogan. Dietro loro si potevano vedere parecchi altri corpi che attendevano sotto i lenzuoli, senza lamentele, il proprio turno. Attesero che Anneliese Cadogan passasse loro davanti. Il lenzuolo che le era stato gettato sopra la copriva, ma non completamente. Tutti i suoi abiti e quanto aveva indossato al momento della morte era stato riunito in un sacchetto di plastica che se ne stava appeso in fondo al lettino. — Abbiamo stabilito una connessione interessante — disse Rilke. — L'ufficio postale non ci ha potuto fornire un indirizzo, ma una delle impiegate ricorda che è arrivata in taxi e che l'ha fatto attendere all'esterno. Abbiamo trovato la registrazione di una prenotazione telefonica per un viaggio di andata e ritorno proveniente da una casa al di là del fiume. È stata fatta controllare questa mattina, ma non è stato trovato nessuno. Si è scoperto che quella casa è l'abitazione principale di un certo Axel Reineger, il quale è anche il proprietario del casino in cui è stata trovata la Cadogan, anche se ha cercato di nascondere la cosa intestandola a nome di un'azienda. Aggiungerò che Herr Reineger è un tipo che c'interessa molto da un certo tempo. All'entrata della stanza delle autopsie venne loro consegnato un paio di grembiuli di plastica bianca. Nella stanza c'erano già una dozzina di persone. Mentre s'infilava il grembiule, Jennifer chiese: — Questo Reineger sapeva che lei si era recata in quel casino? — Lui sostiene di no. — E O'Donnell come c'entra in tutto ciò? — Chi lo sa? Anche se la donna mi sembra un po' troppo in là con gli anni per uno con le preferenze attribuite a O'Donnell. — Non lo sottovaluti — disse Jennifer. — È una persona più complicata di quanto si supponga. Nel frattempo il corpo di Anneliese Cadogan era stato steso sul tavolo dell'autopsia, con la testa leggermente sollevata da un blocco di metallo curvo che le era stato posato sotto la nuca. Oltre ai due tecnici erano presenti anche due patologi e uno stenografo. Gli altri le vennero presentati come un perito legale e un esperto in impronte digitali. Tutti assieme rappresentavano una piccola folla, e lo spazio a disposizione era limitatissimo. L'illuminazione della stanza non era tanto fornita dall'ampio finestrone che la sovrastava quanto da due serie di tubi fluorescenti sistemati direttamente sopra il tavolo. Uno dei tecnici aveva aperto un armadietto da cui aveva
tratto una Polaroid con un pacco di pellicole. L'altro stava sistemando una serie di bottigliette e barattoli col tappo a vite. — Qualcosa sta cominciando a filtrare, e più cose scopriamo più la faccenda si fa interessante — disse Rilke. — Hai visto com'era quella casa. Reineger doveva averla attrezzata in quel modo per i suoi specifici scopi. — E quali sarebbero? — Io direi che si tratta di una perfetta camera di tortura, non trovi? — Esattamente, di cosa si occupa Reineger? — È un imprenditore di pochi scrupoli. Il che significa, per uno come lui, che non esistono limiti. Ci ha detto che Anneliese Cadogan era la sua donna di servizio. Donna di servizio! Ma guardala! Il cadavere di Anneliese Cadogan era adesso nudo sotto la luce impietosa dei neon. Gli occhi erano semiaperti, le ciglia incrostate. Il corpo era pallido in modo innaturale, le costole sporgenti come quelle di un cane affamato; sembrava il corpo di una ragazzina ancora poco sviluppata. Era praticamente senza peli, e nella zona rasata del pube si intravedeva una parola tatuata. Indossarono le mascherine igieniche. Lo stenografo prese posto alla scrivania metallica alla testa del tavolo, e Rilke scambiò alcune parole col patologo più anziano mentre l'altro medico, una donna dell'età di Jennifer, cominciava un'ispezione ravvicinata del corpo. Cominciò dalle mani, delle quali esaminò soprattutto le unghie. Indossava un paio di guanti gialli che ricordavano quelli che si usano in cucina. Nel frattempo commentava le sue osservazioni a beneficio dello stenografo; a un certo punto chiese che la aiutassero a rivoltare il corpo. — Cosa sta dicendo? — chiese Jennifer. — Non riesco a seguirla. — Il corpo presenta un gran numero di ferite ormai rimarginate e di vecchi ematomi. Chiaramente è stata sottoposta a un abuso regolare e sistematico. La ferita più recente, precedente la morte, è un colpo al viso. Il taglio alla guancia è forse dovuto a un anello. — Il tatuaggio: che significa? — Non è un tatuaggio — disse l'altro patologo che si era avvicinato a loro mentre la collega procedeva nel suo esame. Era piccolo e robusto, con lineamenti grossolani e modi piacevoli. — E allora, cos'è? — Ci fu un breve conciliabolo fra i due, poi Rilke tradusse: — Una bruciatura. — Vuol dire un marchio? — disse Jennifer orripilata. — È stata marchiata? Lì?
— La parola è Sklavin — disse Rilke. — Significa schiava. Jennifer era rimasta senza parole. — Non era una donna di servizio — aggiunse Rilke. Dopo aver preso alcuni campioni per ulteriori esami, il corpo venne misurato, fotografato e pesato. Poi, cominciarono a tagliare. La causa della morte era il legaccio che aveva attorno al collo. Ne avevano trovata una scatola in quella casa; cordoncini industriali di plastica seghettata usati per tenere assieme cavi e tubature. Una volta stretti, non potevano più essere allargati. Alla prima occhiata si sarebbe potuto pensare che li si poteva usare per legature erotiche, ma potevano essere usati anche per scopi mortali nel caso di una vittima senza sensi o da un suicida con sufficiente forza di volontà. Era stato trovato anche altro materiale. In solaio c'era una specie di palo della tortura, parecchie catene e un po' di grasso industriale. C'era sempre la possibilità che qualche giochino sadico si fosse spinto troppo in là, ma lei era completamente vestita quando era stata trovata. Sembrava che Rilke, che stava guardando il cadavere, stesse sorridendo. — Che succede? — chiese Jennifer. — Axel Reineger — disse lui con passione. — Il tuo impero comincia a vacillare. Che tu sia benedetta, ragazza. Jennifer si sentì raggelare. Rimasero ancora a lungo, ma non venne rilevato nulla di rimarchevole. Al termine dell'esame, Rilke chiese se il cadavere poteva essere risistemato nella maniera migliore possibile, poi spiegò il perché a Jennifer. — Dobbiamo far venire il marito per l'identificazione. — Chi gliel'ha fatto sapere? — chiese Jennifer, ma l'altro non sapeva cosa rispondere. Quando uscirono, Jennifer fu felice di sentire l'aria fresca sul viso. Aveva già assistito ad almeno una dozzina di autopsie. Ne stava cominciando a perdere il conto. Non aveva mai cercato di scansare quel compito, ma non era di quelli da cui si sentiva attratta. Non si sentiva disgustata: la sensazione prevalente era la tristezza. Mentre si dirigevano verso le auto, Rilke disse: — C'è un'altra cosa che non ti ho ancora detto. Quando abbiamo setacciato la casa, ieri sera, nelle camere abbiamo trovato numerosi posti in cui nascondere macchine fotografiche. Sospetto che il segreto dell'intoccabilità di Reineger stia per essere rivelato. — Che significa?
— Che non usava per sé quel posto. E perché doveva farlo? L'aveva acquistato perché lo usassero altri. — Avrei dovuto accorgermene subito — disse Jennifer. — Di cosa? — Che vi state eccitando per questo vostro Reineger e vi state dimenticando delle mie persone. — Quali persone? — Ryan Ò'Donnell e la figlia di quella donna. Voi tutti avete la testa piena delle vostre vecchie ossessioni su quell'Axel Reineger, mentre quei due sono ancora in giro. Bene, ho capito, tu sei il cane e quello è l'osso, per cui, forza, andate a prenderlo. Ma non si può lasciar soffrire una bambina di dieci anni a causa di tutto ciò. È lei la ragione della mia presenza qui, e se c'era anche un'ombra di dubbio sui pericoli che corre, adesso nessuno può più dubitarne. Lui non sembrava essersi offeso. — Lascia che ti dica qualcosa su come gestisce i suoi affari Axel Reineger. Una volta ha aperto un'agenzia di viaggi che vendeva falsi biglietti di andata e ritorno agli immigranti che convinceva a venire qui. — Ne ho sentito parlare. — Ma il suo era un sistema perfezionato. Riempiva i viaggi di andata di turisti. Per la maggior parte erano persone che volevano combinare legami con partner del terzo mondo, sia maschi sia femmine. Molte di loro erano prostitute di dieci anni. Alcune, anche più giovani. Quando stavamo per mettergli le mani addosso qualcuno lo avvertì e lui se la filò. Ha le mani pulite, e non abbiamo niente contro di lui. È sempre successo così, tutte le volte che gli siamo arrivati addosso. — Ho capito benissimo — disse lei. — Solo, non voglio che Marianne Cadogan venga calpestata nella corsa a chi acciuffa per primo quell'individuo. — Non lo faremo — promise lui. Jennifer sperava di essere tanto sicura di quello che le diceva quanto lui avrebbe voluto che fosse; se ne andarono entrambi sulla Skorpio argentata di Rilke. Guidava con calma, attento a ogni incrocio con le numerose piste ciclabili del campus. Mentre guidava, le stava raccontando quanto avevano appreso sulla vita di Anneliese Cadogan a Düsseldorf. Non era imprigionata, di questo erano sicuri: i vicini l'avevano vista andare e venire in completa indipendenza. Possedeva un guardaroba composto esclusivamente da
abiti firmati. Non aveva la patente, non era registrata nelle liste elettorali, il suo nome non appariva in alcuno schedario comunale; non aveva conti in banca, né aveva mai pagato tasse. Rilke disse che era come se fosse stata invisibile. Jennifer vi aveva letto un messaggio diverso. Per lei, Anneliese Cadogan aveva rinunciato a esistere, come se non si fosse più considerata un essere umano, ma una cosa da offrire a chi voleva farne uso. Ricorda quando ero felice diceva nella sua ultima lettera. Pensa a me come a una che se n'è andata. Cara mamma, mi dispiace così tanto. — Le sue condizioni fisiche ti dicono qualcosa? — È stata allenata — disse lei. — Come un atleta, o un pugile. Malgrado tutti i danni subiti, era ragionevolmente sana e robusta. — Un po' denutrita però, non credi? — Solo un po' — rispose lei, anche se aveva avuto lo stesso pensiero. Non sapeva perché sentisse quell'impulso a difenderla, ma continuò egualmente. — Solo magra. Conosco donne che darebbero la vita per un fisico come quello. Era una scelta infelice di parole, e le dispiacque di averle dette, ma Rilke sembrò non farci caso. — È una situazione che ho già visto. Donne di esile costituzione che soffrono la fame per avere una figura da ragazzina. Posano per le riviste o per i film porno. Non attrarrebbero mai l'attenzione di un pedofilo, ma non si sa mai. Ma per quello che cerchi tu, uno con una tendenza pedofila, che sta fra quel tipo di persona e le telecamere nascoste, be' credo che forse tutto questo ci porta vicini a quanto Herr Reineger ha cercato di tenerci nascosto così a lungo. Stavano procedendo nel flusso di traffico cittadino quando li raggiunse un messaggio radio che lei non riuscì ad afferrare. La sua impressione era che stavano usando un qualche linguaggio cifrato perché orecchie indiscrete non potessero coglierne il significato. Quando ebbe terminato la conversazione, Rilke le spiegò di cosa si trattava. — Il teatrino è già cominciato — le disse. — Axel Reineger ha prodotto un alibi appoggiato da uno degli uomini più in vista della città. Sta facendo sfoggio di tutta la sua potenza. Siamo in guerra, adesso. Oh, Dio, si disse Jennifer nel vedere la sua espressione di ferma sfida. La sede centrale della polizia di Düsseldorf, al contrario dell'alta torre del Praesidium di Amburgo, si trovava in un vecchio edificio in mattoni
tagliato fuori dal centro della città da un alto cavalcavia. Parcheggiarono e si avviarono verso l'entrata a passo di carica. Da dietro il vetro a prova di proiettile della guardiola, un uomo sulla cinquantina, in giacca di cuoio, fece loro segno che potevano passare. Si vennero a trovare in una rotonda dal pavimento a mosaico con un'alta volta echeggiante posta a corona dell'intero edificio. Un gruppo di persone stava scendendo la scalinata di fronte a loro, e Rilke le toccò il braccio, facendola fermare. Al centro di quella piccola folla che si stava avvicinando c'era un uomo i cui pensieri e le cui esternazioni erano la preoccupazione principale di quanti gli svolazzavano attorno. L'idea che si faceva la maggior parte delle persone dell'incarnazione del successo in lui si rispecchiava nei vestiti di gusto italiano e nella manicure dell'individuo, ma Jennifer sapeva che la realtà poteva essere molto più sottilmente sottolineata. Nel corso di un'investigazione su un caso di frode aveva una volta presenziato alla conferenza stampa del capo di una multinazionale europea. A causa dei suoi programmi l'avevano incontrato a bordo dell'aereo privato della sua compagnia. Jennifer s'era messa il suo miglior abito grigio, la cosa più elegante che aveva: acquistato in un grande magazzino, ma di classe. L'uomo d'affari indossava un vecchio maglione e un paio di vecchie e consunte ciabatte che gli erano state posate davanti da un segretario senza che l'altro avesse bisogno di chiederle. Le aveva ricordato la figura del nonno di qualche amico, sorpreso nel capanno degli attrezzi. Quell'uomo era dello stesso tipo. Capelli bianchi, aria condiscendente da orsacchiotto con gli occhialini. Guardò Rilke. È questo l'alibi? gli chiese con lo sguardo, e lui rispose annuendo. Quando il gruppo fu scomparso, si diressero verso la scalinata. — Aveva una bella fila di anelli alle dita quel pezzo grosso — osservò Jennifer. Rilke la gratificò di uno sguardo penetrante, di traverso. — Già — disse. Salirono al terzo piano. Lontano dalla rotonda, quell'edificio era tutto una fuga di corridoi dai pavimenti in marmo, illuminati dalla luce proveniente dalle finestrelle che sovrastavano ciascuna porta. Accanto a parecchie porte c'erano alcune sedie, per quanti dovevano aspettare prima di essere ammessi. — A noi questo posto piace definirlo kafkiano — disse Rilke che si stava accingendo ad aprire una delle porte con le sue chiavi. Dentro, era come trovarsi in un altro mondo. Non necessariamente un
mondo migliore, ma almeno era su scala umana, con tocchi umani. Come ad Amburgo, ogni ufficio dava su quelli circostanti, e ogni stanza ospitava due o tre scrivanie. Alle pareti, le solite fotografie, ufficiali e non. Rilke le mostrò la scrivania che le era stata assegnata. Era accanto alla finestra ma non aveva telefono, anche se gli apparecchi erano facilmente raggiungibili. — Sistemati come vuoi — le disse. — Devo fare alcune telefonate. Ci vediamo tra non molto. Lui uscì, e lei posò la borsa sul ripiano davanti a sé. Non sapeva dove altro metterla. Sospirò, si sfregò gli occhi. Aveva nostalgia di casa, era stanca di girare di qui e di là e ne aveva abbastanza di stanze d'albergo e di dover dipendere dagli altri. Non sapeva nulla di quel posto, e doveva chiedere ad altri anche le minime cose di cui aveva bisogno. Quello che adesso desiderava era mollare quel caso nelle mani di qualcun altro e tornarsene a casa. All'inizio era stata determinata a portare lei a compimento il caso. Poi aveva cominciato a temere che sarebbe potuto spuntare qualcuno a rubarle la gloria dopo che lei aveva fatto tutto il lavoro. Ma adesso, persino quella prospettiva non l'eccitava più. Era un lavoro nauseante. In cui non c'erano eroi. E per quelli che volevano esserlo, era come combattere le onde dell'oceano con una spada di legno. Marianne le stava scivolando dalle dita, e lei non sapeva cos'altro fare. Guardò fuori dalla finestra. Da dove si trovava lei, poteva vedere nel cortile interno. Era diviso in due da un muro: la porzione principale era adibita a parcheggio, l'altra sembrava uno di quei cortili adibiti alle passeggiate dei detenuti. Qualcuno stava uscendo da un'auto, e il suo cuore ebbe un improvviso sobbalzo. Era Patrick Cadogan. Si stava guardando attorno. Sembrava confuso. L'autista gli disse qualcosa e lui rispose con un po' di ritardo. Sembrava un uomo che fosse stato bastonato. Entrambi si avviarono verso l'entrata dell'edificio. Dovevano averlo già portato a identificare il cadavere della moglie, e lui ne portava chiaramente i segni. Tolse alcuni incartamenti dalla borsa e li posò sulla scrivania, tanto per occuparla con qualcosa di suo. Poi uscì e si affrettò a scendere le scale, con l'intento di intercettare il
nuovo arrivato. UNA SETTIMANA DOPO 58 L'inglese era tornato di nuovo nel bar con biliardo sull'angolo della Kiefterstrasse. Nessuno se l'era scordato. Come l'altra volta si muoveva lentamente, come se fosse irrigidito, simile a un uomo che s'è appena rialzato dopo una caduta. Come nella visita precedente si spostava di gruppo in gruppo, mostrando la stessa fotografia, ponendo le stesse domande. Sempre molto educato. Non alzava mai la voce. Qualcuno gli chiese se si sentiva bene. — Sì — rispose. — Sì, grazie. Sto molto bene. A Cadogan era stato detto di stare alla larga dalla Kiefterstrasse, ma lui non li stava ad ascoltare. Era una strada lunga, tutta costruita in curva, di disegno medievale nella progettazione, le cui case non erano state nemmeno sfiorate dalla modernizzazione. Le abitazioni erano basse, i loro abitanti rappresentavano un concentrato dei giovani radicali della città. Si mormorava che da quelle parti si nascondessero parecchi membri della Rote Armee Fraktion, perché per inclinazione quelli che vivevano in quei luoghi erano propensi a dare rifugio a chiunque fosse in fuga. Graffiti e striscioni con slogan si rincorrevano per tutta la lunghezza della strada. Parlò con due giovanotti che indossavano giacche nere di pelle e foulard legati in stile Mishima. Stavano seduti a un tavolino d'angolo, con davanti due birre e una borsa di cibarie ai piedi. Gli dissero che non sapevano come aiutarlo, ma si offrirono di farlo parlare con qualcun altro. Cadogan era stato avvertito di non accettare tali inviti. Potevano essere molto pericolosi. Accettò. Di lontano sembrava una zona di guerra, un ritrovo per allegri selvaggi. I piani superiori della casa erano un unico, lungo murale di figure accavallate, slogan, bandiere politiche e simboli. Sulla strada c'erano due grossi mucchi di spazzatura da cui s'affacciavano carrelli del supermercato, batterie d'auto, scatole vuote d'ogni genere. Alcune delle auto parcheggiate avevano l'aria di essere state salvate da un incendio. Non tutte erano ancora funzionanti. Alcune erano state trasformate in mini-mercatini. Dai balconi penzolava ogni sorta di biancheria stesa ad asciugare, dalle T-shirt ai pannolini dei bambini. Cadogan seguiva i due ra-
gazzi che lo stavano portando verso alcuni tizi dall'aspetto punk che stavano discutendo fra di loro. Non avvertiva nulla in sé. Quella era gente che forse poteva aiutarlo, e se non ci riusciva, pazienza, avrebbe ripreso la sua ricerca altrove. La sua vita si era estremamente semplificata. Trascorse in quel luogo la maggior parte del pomeriggio. Parlò con bambini seduti su lerci materassi stesi per terra, con giovani professionisti che vivevano in appartamentini arredati minimalisticamente. Lo passavano dall'uno all'altro, l'uno presentandolo al prossimo, altrimenti non sarebbe mai riuscito a varcare una sola di quelle porte. Vide una stanza attrezzata per stampare giornaletti underground, sentì macchine per cucire che funzionavano a tutto regime nelle stanze più interne. Alcuni erano circospetti, altri sospettosi, ma nessuno rifiutò apertamente di aiutarlo. Era un tipo innocuo, tanto valeva dargli una mano. Tornò a piedi, come suo solito, all'albergo. Cominciava a sentirsi come uno che sta annegando mentre Marianne gli veniva allontanata sempre più da forti correnti che lui non aveva la forza di controbattere. Stava facendo del suo meglio per lei, ma nemmeno quello era sufficiente. Una volta - gli sembrava che fossero trascorsi secoli - la sua paura era che le potessero fare del male, o che potesse morire. A questo aveva adesso aggiunto un terrore più sottile, che potesse crescere come un'estranea in qualche posto che lui non avrebbe mai raggiunto. Non aveva idea di cosa stesse facendo la polizia. I loro piani non comprendevano il suo apporto. Quello che poteva fare era agire da solo. Dopo quello che era accaduto ad Anneliese, il denaro non era più un problema; la notizia della sua morte gli avrebbe consentito l'accesso a quei fondi che prima gli erano negati a causa della doppia firma. Un tempo, quel problema era stato di straordinaria importanza per lui, adesso non più. A volte si sentiva come se fosse morto come lei, ma come poteva essere se dentro si sentiva le fiamme dell'inferno? L'avevano prelevato per portarlo all'obitorio. Un posto gradevole visto dall'esterno, ma non quando scendevi nel seminterrato. L'aveva accompagnato quella poliziotta inglese, e lui aveva apprezzato che, fra tanti estranei, ci fosse qualcuno con cui aveva avuto un qualche rapporto. Adesso lei non c'era più, era tornata a casa, e il suo posto era stato preso da due tipi insensibili che l'avevano contattato solo per dirgli di tenersi alla larga da loro. Uno dei due, Somerville, era stato uno di quelli che l'avevano interrogato a suo tempo. Nessuno dei due sapeva una parola di tedesco.
Chissà quali grandi progressi avrebbero fatto. Puzzava. Tutto puzzava. Non poteva dare fiducia a nessuno. Adesso però riusciva a tenere le cose sotto controllo, non si sentiva più come prima. La maggior parte della sua amarezza si era sciolta quando si era trovato all'obitorio a guardare il corpo di Anneliese. L'avevano un po' sistemata, ma non aveva un filo di trucco. E anche se a volte aveva sognato di vivere quel momento, non aveva provato nessuna soddisfazione. Si era trovato invece a ripensare a una cosa che era solita dirgli la nonna, che era di origine irlandese. "Solo i morti si possono perdonare." Solo i morti. Aveva telefonato alla mamma di Anneliese per la prima volta dopo tanti anni. Sapeva che una telefonata non era la cosa migliore da farsi, ma non voleva lasciare la città adesso che si sentiva così vicino a Marianne. Le aveva promesso di mandarle una copia della fotografia di Marianne, e di portargliela in visita quando l'avesse trovata. Aveva tenuto a sottolineare "quando", non "se". Quella fotografia era stata riprodotta più volte sui quotidiani tedeschi, ed era stata mostrata due volte anche alla TV. Era una brutta riproduzione, avevano anche dovuto ritoccarla. Guardando la foto di O'Donnell, si era reso conto con sorpresa che quella era la prima volta che ne vedeva le fattezze. Aveva appena ritirato la chiave della stanza quando il portiere lo richiamò. — Signor Cadogan — disse — c'è un messaggio per lei — e gli consegnò una busta che doveva essere arrivata tramite posta. La studiò mentre aspettava l'ascensore. Era su carta intestata dei suoi avvocati di Amburgo. Forse avevano saputo di Anneliese e avevano sentito la necessità di ricordargli il saldo del conto. Be', potevano aspettare. Tutti quelli che aspettavano qualcosa da lui potevano aspettare, fino a quando forse avrebbero perso ogni interesse e l'avessero lasciato perdere. Entrato in stanza, gettò la busta sul letto e andò in bagno. Si lavò più volte la faccia con l'acqua fredda per togliersi la polvere dagli occhi. Mentre si asciugava, studiò il proprio viso nello specchio. Aveva un'aria strana. Sembrava che cominciasse di nuovo a riconoscersi, come se rivedesse un fratello che era stato lontano per molti anni e che fosse finalmente tornato, più stanco e invecchiato. Troppe cose cambiano col trascorrere del tempo. All'inizio pensava a Marianne senza interruzione, era come un tarlo nella mente che impediva
l'ingresso a qualsiasi altra cosa. Per tutto il tempo pensava: cosa starà facendo adesso? Cosa sta guardando? Come si sente? Sembrava che dovesse durare all'infinito. Aveva cominciato a trovare trucchetti per tirare avanti, e ogni volta che l'aveva fatto gli era sembrato di tradirla un poco. Aveva scoperto, con un senso di sconfitta, che ci si adatta a qualsiasi situazione, che si impara a tenere alla larga i propri demoni in modo che le cose quotidiane possano continuare a esistere come al solito, anche se adombrate dalle tenebre di un pericolo incombente. Era sempre atterrito da qualsiasi idea di pericolo che pendesse sul suo capo, ma adesso era come se, dopo aver sperimentato tutte le possibilità nei suoi peggiori incubi, una minima parte di lui fosse già come morta. Come se avesse attraversato un ponte superato il quale, qualsiasi cosa potesse accadere nel futuro, non sarebbe più stato possibile tornare. Accese la TV per combattere il silenzio e si lasciò cadere sul letto. C'erano undici canali, compreso quello a pagamento incluso nel prezzo della stanza, in modo che uno potesse seguire gli stessi stupidi giochi televisivi in quattro lingue diverse ogni giorno. Si decise ad aprire la lettera degli avvocati. Due fogli scivolarono fuori dalla busta. Uno era un biglietto di ossequi, senza firma, l'altra era una lettera, chiusa. La fissò. La busta era color rosa acceso. Niente mittente, timbro postale confuso, la calligrafia non troppo curata, frettolosa. Non ricordava quella di una bambina, ma quella di una persona anziana con pochi studi alle spalle. La aprì con un sospiro, già con l'occhio pronto a misurare la distanza dal cestino in modo da potercela gettare a raggiungere l'altra decina o più di lettere che avevano cercato di aprire un dialogo con lui. Contenevano richieste sulla data e ora esatta della nascita di Marianne allo scopo di stabilire un oroscopo che l'avrebbe aiutato a ritrovarla, e dov'erano mai state quelle lettere quando lui avrebbe avuto bisogno di ricordarsi del suo compleanno? Ce n'era una scritta tutta in maiuscolo che gli imponeva di liberarsi di tutto quello che possedeva e di pregare, mentre un'altra, scritta sulla stessa carta e con gli stessi caratteri, gli prometteva di ritrovargli la figlia per la modica cifra - pagamento anticipato - di diecimila marchi. Qualsiasi cosa volesse quest'ultima, sapeva che non sarebbe stata una grande sorpresa. Ma questa era diversa da tutte perché, tanto per cominciare, era in inglese. Ed era stata scritta da Ryan O'Donnell.
59 — Per l'amor del cielo — disse Ricky — sei sempre a un milione di chilometri da quel che si dice. Cosa devo fare per avere la tua attenzione? Lentamente Jennifer staccò lo sguardo dalle montagne azzurrine che si stagliavano in distanza e lo guardò. Era di nuovo scocciato, e non senza ragione. Fin da quando era tornata a casa aveva scoperto che le era impossibile concentrarsi sulla vita e i lavori quotidiani. Non era esatto dire che la sua mente tornava a Düsseldorf e alla caccia che aveva dovuto abbandonare, né che i suoi pensieri corressero specificamente sempre là. Solo che succedeva, come se, venendosi a trovare in una stanza ormai vuota, non se la sentissero di lasciarla ancor più deserta. — Mi dispiace — disse poco convinta. — Stavo pensando. — Be', allora cerca di pensare a quello che ti ho chiesto. — Ricky attese un momento poi, non ricevendo risposta, disse: — Non hai nemmeno sentito cosa ti ho chiesto, giusto? — Non ho sentito — disse lei. — Ripeti. — Ho detto che è chiuso a causa di un funerale. Adesso, dove vuoi tentare? — Sinceramente, non m'interessa. Non era questo che lui voleva sentirsi dire, anche se era quello che più o meno si aspettava. Con uno sguardo di rassegnazione cominciò a scendere la scala di legno del ristorante sulle rive del lago. Lei guardò il biglietto che era stato attaccato alla porta poi, con un'ultima occhiata d'intorno, lo seguì. Dal lago veniva una brezza fredda. Il paese era piacevole anche se non grazioso; c'erano posti carini da andare a scoprire nei dintorni, specie nelle valli circostanti. L'avevano scelto a caso, e Ricky aveva preso il meglio che gli era capitato sotto mano. Lei non poteva fargliene nessuna colpa. La colpa non era di lui, a ben guardare: era stato la personificazione della pazienza fin da quando era tornata a casa. L'unica cosa che lei voleva per sé era di riuscire a comportarsi un po' meglio, o per lo meno riuscire a fingere che non ci fosse nulla che la turbava. Perché se pensava a Werner e a quello che era successo nel suo appartamento, sapeva di avventurarsi su un terreno oltremodo pericoloso. Erano avviati nella direzione del loro alberghetto. Lei si voltò a guardare le valli, le montagne in distanza. Ma quello che vi vide fu la lunga strada a
tratti sommersa e la casa solitaria di Cadogan. — Non sapevo niente del funerale — disse Ricky mentre attraversavano la piazzetta del paese, costellata di auto di turisti parcheggiate tutt'intorno e coi negozi tutti chiusi. — Sembra che siano morti tutti oggi. — Jennifer stette zitta, e lui allora proseguì: — Non è stata una bella idea la mia, vero? — Cosa vuoi dire? — Questo week-end. Si sta trasformando nel "più grande disastro dei nostri tempi", non è così? — Oh no, Ricky! — Andiamo, sii onesta. Non è una cosa che verrà trascritta e usata come prova a carico. Cosa poteva dirgli? Il fatto è che aveva ragione e la colpa era esclusivamente sua, ma non era qualcosa che poteva osare spiegargli. — Te lo prometto — riprese lui. — Su, racconta. — Ma non c'è niente di sbagliato nell'idea di venire qui. Solo che ho appena passato due settimane a vivere in alberghi con la valigia sempre pronta e... non mi sto lamentando, ma forse sarei stata più contenta se fossimo rimasti a casa. — Se vuoi la verità — disse lui — la sola vista del nostro appartamento sta cominciando a darmi sui nervi. — Credevo che avessi questa grande visione di come volevi che fosse sistemato. — Lo so. Ma è una cosa interminabile. — Forse è il momento di cominciare a scegliere fra le varie idee. — Non è un po' come ammettere la sconfitta? — No, se hai cambiato idea su quello che veramente vuoi. Lui la guardò. La fissò tanto a lungo da farla sentire a disagio. Poi tornò ad abbassare lo sguardo. Superarono la chiesa. Era un vecchio edificio col tetto d'ardesia, col piccolo cimitero tutt'attorno. Alcune lapidi risalivano a più di un secolo fa. Si sentiva il lontano suono di un inno cantato dalla piccola comunità. — Non mi hai ancora raccontato per bene cos'è successo laggiù — disse Ricky. — Sì che l'ho fatto. — Mi hai detto cosa hai mangiato sull'aereo e quanti asciugamani avevi nella stanza d'albergo. Quello che vorrei sapere è: valeva la pena di andarci? Lei cercò di scegliere con cura le parole. — Sono ancora in fuga, e io
non sono riuscita a riportare nessuno a casa. Questo è il successo che ho avuto. Se ne valeva la pena? Be', Benny Moon, che non mi ha mai fatto un favore in tutta la sua vita e che probabilmente si lamenterebbe della corrente d'aria se cadessi da una finestra, be' quello stesso Benny Moon adesso sta piagnucolando come un cucciolo perché è dovuto venir via e io non ho concluso niente. — Ti sta creando delle noie? — Lascia solo che ti dica che l'atmosfera attorno a me adesso è poco meno che confortevole. Ma ci sono abituata. È il prezzo che devi pagare se vuoi fuggire dal tuo angolino. — Fuggire? — ripeté Ricky, cupo. — È un modo di dire. Quel che voglio spiegarti è che se ti appaio distante non è a causa di qualcosa che tu possa o meno fare per me. Devo solo superare l'impatto che ho subito. — Ti rimanderanno di nuovo in Germania? — Proprio non lo so. È una rotazione a turni di due settimane, il che vuol dire che se dovessi tornarci, O'Donnell avrà tenuto con sé la bambina per un intero mese. È una cosa sulla quale non posso sperarci proprio. — Ma una parte di te lo spera, giusto? Jennifer dovette ammetterlo, con un mesto sorriso. — Dovrei vergognarmi a dirlo — disse — ma sì, una parte di me lo desidera. 60 Quella sera, mentre Cadogan aspettava nel buio della viuzza dietro il teatro dell'opera, sentì un oboe solitario che si esercitava. Credette di riconoscere il brano, ma non sapeva dargli un titolo. Non era un grande intenditore. Con la giusta compagnia poteva anche ammettere di poter cantare Money for Nothing dalla prima all'ultima nota, ma quello era il suo massimo. Poiché era la prima cosa che era intervenuta ad alleviare la monotonia dell'ultima ora, si spostò fin sotto la finestra dalla quale proveniva il suono. Ma l'oboista stava esercitandosi, non suonando per qualcuno e quindi, dopo aver ascoltato un po' di arresti e di nuove partenze, Cadogan si staccò dal muro e tornò al suo posto d'osservazione. Controllò l'orologio. Era arrivato in anticipo, ma adesso s'era fatto tardi. Gli avrebbe dato ancora dieci minuti, poi se ne sarebbe andato. Se l'era già detto dieci minuti prima. Ma malgrado qualsiasi cosa avesse
potuto decidere, sapeva che sarebbe rimasto inchiodato in quel posto finché non fosse successo qualcosa. Anche se avesse dovuto attendere l'alba. Con le mani affondate nelle tasche, Cadogan si mise a guardare dalle porte del ridotto del teatro. Oltre un pavimento di marmo lucidissimo poteva vedere la guardarobiera che presiedeva un'adunata di almeno trecento pellicce. Per il resto quel luogo era deserto, perché tutta la vita era stata risucchiata all'interno dell'auditorium. Ma quanto ancora doveva aspettare? Di nuovo nella viuzza e ritorno. Era in parte asfaltata e in parte aveva la vecchia struttura a ciottoli. C'erano solo poche automobili parcheggiate lì dietro. In alto luccicavano le luci degli uffici amministrativi e dei camerini. Erano stanze che, viste da dove stava lui, apparivano vuote e poco confortevoli. Si fermò un poco a guardare nel buio del parco. La zona del lago era immersa nel buio più fitto, oltre il quale si vedevano le luci della strada che portava a nord. Si chiese se non ci fosse qualcuno che lo stava tenendo d'occhio: e se c'era, perché non faceva una mossa, non si faceva vedere? Era tanto che aspettava. Ormai nessuno poteva dubitare che non fosse venuto solo. Avvertì un rumore. Cominciò a voltarsi. E di colpo, prima che avesse cominciato a rendersene conto, venne investito da un'ondata di persone. Lo spettacolo era terminato, le porte del teatro si erano spalancate, la gente ne scaturiva fuori come una folla espulsa da uno stadio. Arrivavano a ondate, e Cadogan riusciva a malapena a resistere alla loro pressione. Era disorientato nel trovarsi immerso in una tale folla di estranei: lo circondavano, lo spintonavano, si abbattevano su di lui in onde di abiti scuri, abiti luccicanti e gioielli a profusione. Una mano lo afferrò per un braccio, tenendolo ben stretto. — Segua la corrente — gli disse una voce all'orecchio. — Non cerchi di attirare l'attenzione. Cadogan cercò di indietreggiare, di liberarsi dalla stretta. Il braccio gli doleva, ma la mano non lo lasciò. — Stia calmo — disse la voce. — Faccia un segno o qualcosa di simile, e io me ne vado. Su, si muova. Si spostarono con gli altri, seguendone il flusso. Come camuffamento, era l'ideale; si stavano spostando in piena vista dove nessuno poteva azzar-
darsi a seguirli. E poi lasciarono la gente e si tuffarono nelle tenebre in cui affondava il retro del teatro. Si lasciarono ogni rumore e ogni presenza alle spalle. Cadogan veniva spinto a una velocità che riusciva a malapena a pareggiare. Cercò di guardarsi alle spalle, e la mano strinse con forza ancor maggiore. — Si è rivolto alla polizia? — No. — Ha fatto bene. Dobbiamo fidarci l'uno dell'altro o non ne caveremo niente di buono. Era ovvio che aveva calcolato tutto con accuratezza. Era trascorso meno di un minuto, e si trovavano diretti verso la scala bene illuminata che portava sottoterra alla stazione della U-Bahn. — Niente polizia. Solo io — disse Cadogan. — Ben fatto. Perché è un po' che la tengo d'occhio, e lo saprei se mi stesse mentendo. Proprio sotto la strada si apriva un grande spazio bene illuminato e pressoché deserto. La U-Bahn si trovava a un piano più sotto, ma Cadogan venne sospinto lontano dalle scale mobili, verso la zona ora deserta dei negozi. Accanto a un bar già chiuso fecero una svolta inattesa e si trovarono nel corridoio male illuminato dei servizi pubblici. — Aspetti, aspetti un momento, per favore — disse Cadogan. — Dov'è lei? È qui, per caso? — Non si preoccupi per Marianne — disse l'altro. — L'ho lasciata in salvo e... Questo bastava a Cadogan. Se lei non c'era, lui non aveva nulla da perdere. Si fermò e tirò una forte gomitata all'indietro. Sentì un gemito quando colpì, e la presa sul braccio si allentò. Adesso poteva prendere il coltello. Si mise a frugare nella tasca e ne trovò il manico, ma quando cercò di estrarlo s'impigliò nella fodera; fece forza contro la stoffa mentre la sagoma di O'Donnell cominciava a delinearsi fra le ombre, e si sentì il suono lacerante di uno strappo mentre la lama balzava fuori attraverso lo squarcio, e lui s'accorse con terrore misto a rabbia che comunque non poteva usarla perché... A questo punto O'Donnell, che si era ripreso, lo colpì con forza sulla spalla mandandolo a sbattere contro la parete; Cadogan perse l'equilibrio e, atterrito, cominciò a cadere, ed ebbe paura di infilzarsi col proprio coltello e allora cominciò a mulinare il braccio libero per salvarsi in qualche modo
e cadde a terra con un tonfo che gli fece sbattere i denti e rintronare tutte le ossa. La lama si protendeva fuori dal cappotto, simile a un singolo dente metallico. Alzò lo sguardo e vide O'Donnell ad alcuni metri di distanza. Si teneva fuori portata mentre lo teneva d'occhio. Il coltello di Cadogan non voleva saperne di liberarsi dalla stoffa in cui s'era così bene conficcato, e lui si sentiva un imbecille. — Senta — disse O'Donnell — perché non si dà una calmata e resta dov'è? Cadogan lo fissò. — Lei ha un bel coraggio. — Ho anche Marianne. Allora, vuole controllarsi e parlare con me, o no? Lentamente, con aria contrita, Cadogan cominciò ad alzarsi. E poi, non appena ebbe liberato il coltello, si lanciò di nuovo contro O'Donnell con un ruggito; ma Ryan fece due passi in avanti e, spostandosi velocemente di lato, chiuse un cancelletto di metallo che s'interpose fra lui e Cadogan, che vi si schiantò contro. Il rumore echeggiò per alcuni secondi in quello spazio vuoto. Il cancello non era sufficiente ad arrestare lo slancio di Cadogan che, facendo passare il braccio fra le sbarre, tirò un paio di fendenti all'altro, che si portò facilmente fuori tiro. Al terzo fendente, O'Donnell lo afferrò per il polso: adesso Cadogan era bloccato contro il cancello, completamente inerme. — Sia sincero — disse O'Donnell. — Non è questo il suo stile, vero? Cadogan scrollò con furia le sbarre, ma senza risultato. Si fermò un istante, per riprendere fiato. — Gridi, se proprio vuole — disse O'Donnell. — E io me ne vado. Sconfitto, Cadogan abbassò lo sguardo. O'Donnell gli lasciò andare il braccio che gli aveva bloccato e indietreggiò di un passo. Cadogan riprese possesso del proprio arto. Gli doleva là dov'era stato premuto con forza contro il metallo. O'Donnell, che si era tenuto il coltello, lo stava ispezionando con scrupolo. — L'ha comperato apposta per questa sera, o se lo porta sempre appresso? — gli chiese. Cadogan ripartì di nuovo alla carica, ma questa volta aveva perso la spinta interiore. Il cancello nemmeno si mosse. Cominciò allora a sbattere la testa contro il metallo per la frustrazione, con forza tale da farlo tremare. — Ehi — disse l'altro. — Non serve a niente. Cadogan si sentì toccare sulla spalla. Era la mano di O'Donnell. La
guardò, ma non fece nulla per afferrarla. Dopo un poco, O'Donnell la tolse. — Quando se la sente, me lo faccia sapere — disse. Cadogan, ansante, lo stava fissando. Benché si fossero già trovati vicini una volta nel cortile della polizia, stava guardando per la prima volta il rapitore della figlia. Si sentiva oltre qualsiasi tipo di paura. — Cosa sta fissando? — Guardo te, maledetto bastardo stupratore — disse Cadogan. — Può chiamarmi come le pare, ma ricordi che non ho nemmeno sfiorato sua figlia. — Si avvicinò alle sbarre. — Non le ho fatto niente. Mai. Non le ho mai fatto del male. Lei è suo padre: può dire lo stesso? Cadogan stava per rispondere, ma gli vennero a mancare le parole. Entrambi sapevano di cosa si stava parlando, e al momento Cadogan non aveva risposte da dare. — Sono finalmente riuscito a trovare la madre di Marianne — disse O'Donnell. — Ma lei non rivuole la figlia, e per il bene di Marianne sono d'accordo. Mi ha detto di portare la bambina alla polizia ma, da come la vedo io, sarebbe come ridarla a lei. — E allora ridammela. Tagliamo fuori la polizia, se è questo l'unico problema. — Non è così semplice. — Riportamela. Non chiamerò nessuno. Ti lascerò andare dove diavolo vuoi. Solo, riportala da me. — Lei non capisce. Ho avuto una buona offerta, posso scaricarla e scomparire. Ma da come Marianne la pensa su di lei, non accetterebbe mai. E anche se le mentissi e gliela portassi con un trucco, non rimarrebbe con lei. Per cui, che tipo di risposta è la sua? — Fallo lo stesso. Sarà un mio problema, non tuo. O'Donnell trasse un profondo sospiro e poi lo fissò diritto negli occhi. — Lei si è fatto ogni sorta di idee su di me. Ma lei sa veramente chi io sia, signor Cadogan? Io sono uno spazzino. Prendo le cose che gli altri gettano via e le trasformo in qualcosa che la gente desidera. Lei potrà anche pensare che è una ben misera ambizione per una vita, ma è l'unico modo che ho per tenere di nuovo alta la testa dopo il tempo trascorso in prigione. Amerei proprio scaricarla e andarmene. Sul serio. E mi piace anche pensare che potrei ricominciare da un'altra parte come qualcun altro, senza mai più sentire il nome di Ryan O'Donnell. Ma non siamo in uno di quei film dove uno si prende tutti i soldi e va a goderseli a Rio. Se c'è una cosa che so è che, qualsiasi cosa tu fai, prima o poi salta fuori. Nel bene come nel male.
Se io gliela riconsegnassi, e nulla fosse cambiato, allora sarebbe stato tutto uno spreco di tempo, e Marianne ne soffrirebbe, e sarei io quello che deve pagare. E sarebbe un rimorso che mi porterei ovunque andassi. — Adesso è diverso. Ma O'Donnell stava scrollando la testa. — Non era mia intenzione farle del male — insistette Cadogan. — È stato un incidente, e la bambina lo sa. Niente di quello che è successo è stato per colpa mia. — È proprio questo che volevo dire — disse O'Donnell. — Tutti noi abbiamo qualcosa che si vuole che venga dimenticato, ma lei è l'ultimo a poterlo desiderare, non il primo. Cominciò ad allontanarsi. — Cominci a pensarci su — gli disse in tono amareggiato. — Ci pensi con quanta più forza riesce a trovare. Fu in quel momento che Cadogan capì cosa stava succedendo: O'Donnell lo stava abbandonando. Se ne stava andando per un'altra via, e col cancello del corridoio di servizio chiuso non c'era niente che lui potesse fare per fermarlo. — Ma non vorrai abbandonarmi qui! — Provi un po' a guardare — disse O'Donnell, e fece alcuni passi, allontanandosi. Cosa poteva fare, o dire, per fermarlo? — Anneliese è morta — gli gridò dietro. — Ma tu lo sai già, vero? O'Donnell rallentò un attimo. Ma non si voltò, e dopo un attimo riprese il passo di prima. — O'Donnell! — gridò Cadogan. — O'Donnell!! Ma l'altro era già stato inghiottito dall'ombra. Fece i gradini a due alla volta per tornare a livello strada; O'Donnell doveva abitare da qualche parte lì attorno, ma dove cercarlo? Si sentiva sciocco, sconfitto. Non sapeva più cosa fare. A pochi metri da lui, un'auto frenò slittando sulla pavimentazione. — Cosa le è successo? — gridò Somerville dal finestrino dell'auto. — L'abbiamo tenuta d'occhio per tutto il tempo, e poi lei è scomparso in mezzo alla folla. — Non sono scomparso — disse Cadogan. — E lui è stato qui. Aveva pianificato tutto. Ed è ancora in giro da queste parti!
— Salga — disse Somerville. Sedette nel sedile posteriore. L'auto era già partita prima che lui si fosse seduto, e l'accelerazione lo mandò a sbattere contro il sedile. L'autista tedesco era già in contatto radio con la centrale per lanciare l'allarme alle altre pattuglie. — Dica loro di controllare tutte le vie d'accesso alla piazza — gli disse Cadogan, ma Somerville alzò una mano per fargli cenno di aspettare. Cadogan lo ignorò. — E dica anche che ha un coltello. — Poi aggiunse, quasi sottovoce, perché sapeva benissimo che era il proprio: — Non so dove l'abbia preso. Somerville si voltò a guardarlo. — Cosa le ha detto? — chiese. — Cosa esattamente le ha detto? Cadogan si strinse la testa fra le mani. Gli sembrava sul punto di esplodere. Gli avevano proposto di indossare un registratore, ma lui aveva rifiutato. — Sembra che voglia tenere Marianne per una sua qualche missione — disse. — E questa è l'unica parte sana di tutto il suo discorso. Si svegliò nelle tenebre. S'accorse subito che era tornato. Non le aveva promesso di svegliarla quando fosse rientrato, perché era sicuro che lei sarebbe stata nel pieno del sonno. Ma lei chissà come si era svegliata, e adesso avrebbe dovuto aspettare fino al mattino per sapere cos'era successo. Il mattino sembrava terribilmente lontano. Le molle le si conficcavano nella schiena, le lenzuola erano così ruvide che le avevano raschiato la pelle. Provò a girarsi, ma era come rotolare in salita, e non riuscì a farlo. Rimase sveglia a fissare il buio. Lo sentiva respirare. All'esterno c'erano luci che sarebbero rimaste accese tutta la notte, e le ricordavano quelle di un campo di prigionia. Lui aveva sistemato la finestra rotta con un foglio di formica, ma la luce entrava lo stesso. Lo guardò: era una forma grossa e scura sotto il pastrano. Aveva lasciato a lei tutto quanto avevano per coprirsi, eppure continuava ad avere freddo. Il giaciglio puzzava. E lei si sentiva sola. Molto prima aveva sentito qualcuno aggirarsi lì fuori, e si era spaventata. Fissò i disegni formati dalle ombre sulla parete di fronte, cercando di non pensare a niente. A volte funzionava. Così almeno le avevano detto. Rabbrividì di nuovo. Dopo alcuni minuti, muovendosi più piano che poteva, fece scivolare le gambe fuori dal letto. Il pavimento scricchiolò, ma lui non si mosse.
Il suo pastrano era gigantesco. Probabilmente, non se ne sarebbe nemmeno accorto. Scivolò sotto e si accoccolò contro di lui, cercando di restare in equilibrio fra la sua massa e l'orlo del letto. Doveva fare attenzione a non scivolare giù. Stava cominciando a sentire il tepore che emanava dal suo corpo, e non si sentiva più in pericolo. Lui si girò leggermente. Sembrò irrigidirsi, come se si fosse accorto di lei. Non accadde nulla. Lei trasse un lungo, profondo sospiro, senza emettere alcun suono. A volte aveva l'impressione che dormire male fosse molto peggio che non dormire affatto. Cominciava ad addormentarsi. L'ultima cosa di cui ebbe coscienza, mentre la sua consapevolezza stava sprofondando nel nulla, fu il lento movimento della mano di lui che scivolava sotto il suo corpo. DIECI GIORNI DOPO 61 Quando Jennifer entrò nella sezione dipartimentale di Rilke dopo due settimane d'assenza, trovò la maggior parte degli uomini nella sala riunioni: erano tutti alquanto su di giri. Da quel che riuscì a capire, si festeggiava il compleanno di qualcuno. Era presente anche il superiore di Rilke, una donna dai capelli biondissimi e cortissimi che portava orecchini molto grandi e un maglione largo dello stesso colore del rossetto. Al primo sguardo, la si sarebbe potuta scambiare per il direttore di una rivista anziché per il capo di una sezione le cui responsabilità andavano dalla ricerca delle persone scomparse ai crimini a sfondo sessuale. Comunque, nessuno dei presenti sembrava adattarsi a un qualche stereotipo. Rilke, che se ne stava vicino a una finestra, con quel suo abito molto distinto, sembrava un contabile. Stava conversando con un collega più giovane che indossava una giacca di tweed sopra una maglietta, e che ricordava più uno studente del Politecnico che un agente di polizia. Qualcuno allungò a Jennifer un bicchiere di carta contenente vino del Reno caldo. Rilke la vide, le fece cenno con la mano. Lei attese che si congedasse dal suo interlocutore, poi si fece strada fino a lui. — Da questa parte — le disse indicandole l'ufficio accanto. — Staremo più tranquilli.
Entrarono, e lui si chiuse la porta alle spalle. Sulla porta c'era appeso un bersaglio per le freccette. Il cicaleccio della festicciola ne risultò notevolmente diminuito. — Ti sei presa un bel po' di vacanza prima di tornare in caccia. Ryan O'Donnell è stato aggiunto alla nostra lista di sospetti per la morte di Anneliese Cadogan mentre l'alibi di Axel Reineger sta cominciando a cadere a pezzi. Non abbiamo ancora nessuna certezza, però. Reineger sfugge come una lepre. O'Donnell ci ha lasciato un'impronta sulla maniglia della porta, ma è sempre uccel di bosco. Quell'uomo è un mago. — E la bambina? — Niente nemmeno da quella parte. — Maledizione. — Abbiamo centralizzato il lavoro che prima era affidato a due sezioni. Adesso, abbiamo più risorse e più persone che lavorano al caso. Mi piace pensare che Anneliese Cadogan approverebbe. Lei era tutto il contrario di una donna felice. Per lo meno, in questo modo saremo d'aiuto anche alla figlia. Non lo credi anche tu? Aprì un cassetto e ne trasse una manciata di foglietti, che riportavano le chiamate arrivate. — Sono tutti messaggi per te — le disse lasciandoglieli cadere dinnanzi. — Vengono tutti da Herr Cadogan. Sembra che sia tu l'unica con cui voglia parlare. Disse che aveva qualcosa di preciso da dirle. Si accordarono per incontrarsi all'aperto, al capolinea del tram sulla Vennhauser Allee, in un sobborgo chiamato Eller. Le disse che ci si poteva recare a piedi, e inoltre che lui era molto indaffarato. Cadogan la stava aspettando accanto al chiosco in cui vendevano i biglietti. La persona che stava alla cassa lo stava nervosamente tenendo d'occhio, ma lui non sembrava essersene accorto. Era come un pugile pronto per il combattimento, incapace di stare fermo. I cerchi scuri sotto gli occhi aggiungevano un ulteriore livello d'intensità al suo nervosismo. — Grazie per essere venuta — le disse. — Ha un'auto? — No. — Molto bene. Non c'è problema. Non è lontano da qui. — Cosa non è lontano, signor Cadogan? Lui si guardò attorno e, prima di rispondere, abbassò il tono della voce. — Ho scoperto uno dei posti dove sono stati.
— A chi altri l'ha detto? — A lei sola. Ho promesso che non avrei fatto intervenire la polizia. Per cui, la prego, non gli dica chi è. E alzò un dito, per sottolineare l'avvertimento. Si avviarono. Gli abiti di lui erano puliti. Si sarebbero detti nuovi. Si sarebbe anche potuto dire che negli ultimi due giorni era capitato nei pressi di un negozio d'abbigliamento dove aveva scambiato i suoi vecchi abiti con questi, da professionista. Indossava stivali da lavoro, che brillavano da tanto erano lucidi. — Quant'è lontano? — chiese Jennifer. — Per essere franco — rispose lui — non glielo so dire. Ho girato così tanto che ho perso la traccia. Non so nemmeno dirle che giorno sia. Come vanno le cose a casa? Lei lo guardò freddamente, per fargli capire che stava superando il segno. — Mi scusi — disse lui stringendosi nelle spalle. Infilarono una laterale che s'inoltrava fra un terreno boschivo e una fabbrichetta, che comprendeva anche un cortile per i mezzi di trasporto e per le merci. Il sentiero che stavano seguendo adesso correva parallelo alla strada principale, addentrandosi fra le piante. — Giù di qui? — chiese lei. — Non è molto lontano. Davvero, mi creda. Continuarono a camminare. Il sentiero era pavimentato da ramoscelli e foglie morte, e sembrava addentrarsi sempre più nell'intrico di piante. Jennifer rallentò un poco, continuando a non perdere d'occhio Cadogan. Non c'era motivo di ritenerlo pericoloso, ma non si può mai dire. — L'altro giorno mi sono pesato. Ho perso circa tre chili. Sto in movimento tutto il giorno, come uno squalo. Non mi fermo mai. Passo così le mie giornate, a volte dimentico persino di mangiare. Le è mai successo? — No. Camminando, teneva lo sguardo fisso a terra. — Penso di poterle descrivere com'è. Dopo un po', non senti nemmeno più la stanchezza. Non senti più dolore. Solo, cambiano i colori. I suoni. Tutto è più acuminato, e luminoso. La mente si fa più chiara, tanto da spaventarti. Come essere rimasti chiusi in una stanza con un'unica lampadina, e di colpo riesci a vedere fino alla fine del mondo. E la cosa più spaventosa di tutte è che senti che, se tu potessi spingerti in avanti solo un poco di più, allora forse riusciresti anche a vedere un po' più in là.
— Dovrebbe tornare a casa — disse Jennifer, con tatto. — Lei è troppo stressato. — Lo pensa davvero? — Sì. Lui annuì, come se fosse d'accordo. — Lo penso anch'io. Il sentiero e la stradicciola s'incontravano in un'area di parcheggio mal tenuta. Sul lato opposto a loro l'area era recintata, e oltre il recinto c'era una sorta di deposito della ferrovia. Un sentiero si faceva largo attraverso i rovi, abbastanza largo perché ci si potesse passare con un minimo di fatica. Davanti a loro, nascosto dietro cinque cataste di binari arrugginiti, si intravedano alcuni carri ferroviari abbandonati. — E questo cos'è? — chiese Jennifer. — Vecchio materiale rotabile — disse lui — da rottamare. C'è gente che viene a dormire qui. La polizia ferroviaria lo sa, ma non riesce a mandarli via tutti. Si avvicinarono ai carri, che non avevano un'aria molto invitante. Anzi, più si avvicinavano e peggio diventavano. Nessuno aveva un solo vetro intatto, tutti erano ricoperti da strati sovrapposti di graffiti. Le coperture dei sedili interni erano state strappate e gettate fuori dai finestrini. Anche le porte interne erano state divelte dai cardini. I cocci dei servizi igienici scricchiolavano sotto le scarpe come capita con le conchiglie su una spiaggia. — Non c'è nessuno qui — disse Jennifer. — Sono sempre qui nei dintorni — la rassicurò Cadogan. All'interno di alcuni carri erano stati accesi fuochi di bivacco. Le parti in legno erano quasi interamente bruciate e mostravano l'intelaiatura metallica sottostante, incrostata di ruggine. Jennifer vide una faccia che scompariva dietro un finestrino. — Penso che ci siamo spinti troppo avanti — disse. — Abbia fede — disse l'altro. — Ci sono già passato. Era nervosa, continuava a guardarsi attorno. Se O'Donnell e Marianne erano mai stati da quelle parti, adesso non dovevano esserci più da tempo. Non c'era nessuna comodità, né alcun senso di sicurezza. Le luci esterne stavano accese, accecanti, tutta notte, e il rumore dei treni che transitavano da quelle parti doveva essere costante e assordante. Cadogan s'infilò due dita in bocca e fischiò. Jennifer lo guardò con cu-
riosità: era una cosa che non era mai riuscita a imparare. Apparve una faccia. Poi un'altra. Erano tutti giovani, tutti pallidi. Portavano i segni di una cattiva nutrizione, una peggiore igiene e di sonno scarso e continuamente interrotto. Cadogan gridò qualcosa a uno dei ragazzi, maschio o femmina, al momento non era in grado di dirlo, e scomparve all'interno. Pochi attimi dopo, da uno dei vagoni saltò giù un ragazzino, che si diresse alla loro volta. Mani in tasca, si fermò a fissarli, con gli occhi aggrottati per difenderli dalla forte luce del giorno. Ascoltò la spiegazione di Cadogan, poi si strinse nelle spalle. — Si chiama Matthias — spiegò Cadogan. — Adesso le dirà quello che ha detto a me. Non li condusse in un vagone, ma in un capannone della ferrovia che sorgeva nei pressi; all'interno, una piramide di vecchi e rugginosi carrelli e un mucchio immane di bottiglie di acetilene. Da lì partivano, e arrivavano, i binari. Mancava una fiancata di quel riparo. Sedettero su antiche panche di legno. Matthias parlava un inglese decente, con una sorta di accento americano, di incerta acquisizione. Aveva l'aria dello studente. Parlava piano, e non guardava mai nessuno negli occhi. Disse che O'Donnell e Marianne erano stati da quelle parti per alcuni giorni. Tutti si erano convinti che fossero padre e figlia, ma nessuno aveva mai pensato che potessero essere inglesi. Si erano convinti che fossero Ossis, immigranti dell'Est, oppure polacchi. Se ne stavano appartati, e se qualcuno rivolgeva loro la parola, era la bambina a rispondere. — Che ne è stato di loro? — chiese Jennifer. — A volte, da queste parti capita gente che offre del lavoro — disse Matthias. — Per lo più si tratta di lavorare nei campi, oppure di scavare fossi; tanto lavoro, paga minima, la maggior parte della quale finisce nelle tasche di qualcun altro. C'era questo tipo che cercava gente per il raccolto. Si trattava di poche settimane di lavoro, e ci sarebbe stato un bus per portarli avanti e indietro e un posto dove alloggiare. Sono andati. Sono stati gli unici di qui. — Avevi mai visto prima quell'uomo? — chiese Jennifer. Matthias scrollò la testa. — Un nome? Una scrollata di spalle. Mentre stavano tornando indietro, Jennifer disse: — Possono trovarsi
qui intorno, come essere già dall'altra parte del paese. Ed è questa la parte che io temo di più. — Io invece posso dire che forse mai come adesso le sono arrivato vicino. — Al primo telefono che vedo, chiamo un taxi — disse Jennifer. — Per oggi ho camminato abbastanza. — Camminare fa bene all'anima. — Io non ho problemi con la mia anima. Dieci minuti più tardi giungevano sulla strada principale. — Dormire è la cosa più difficile — disse Cadogan. — Io non ci riesco più. Quel che faccio è andare a un cinema, all'ultimo spettacolo. Non riesco a concentrarmi su quel che vedo, ma appena ci riesco, ecco che parto. La notte migliore l'ho passata davanti a due film di Chuck Norris. Riesce a immaginarselo? Dormire per tutta la durata di due film di Norris? — Mi riesce difficile immaginare che potrei fare qualcos'altro davanti a certi film. 62 Ryan smise per un attimo quel che stava facendo per fissare il tizio chiamato Ganz. Ryan era alla fine del campo, vicino all'imballatrice, e Ganz era indietro, in contropendenza. Teneva fra le mani una tanica di tipo militare e stava annaffiando le stoppie appena tagliate. Solo che quella che stava versando non era acqua, ma benzina, Ryan era sicuro che nessuno gli avesse chiesto di farlo. Era la tanica di riserva dell'imballatrice, e quando Ganz si era avvicinato per prenderla non l'aveva fatto apertamente ma guardandosi attorno furtivamente, come a chiedersi: "Vediamo se qualcuno mi ferma". La realtà era che, fra quanti lavoravano nei campi, non c'era nessuno che pensava anche solo lontanamente di fare qualcosa del genere. Erano lavoratori stagionali che facevano quello che veniva loro chiesto e poi salivano sull'autobus alla fine del giorno, con le mani piagate e le schiene doloranti. Erano stati tutti reclutati in città, e la maggior parte di loro ne aveva l'aspetto. Inoltre, Ganz aveva una figura che intimidiva. Era più grosso di Ryan, più largo, più brutale. Aveva un'aria da vecchio lottatore, prima che i wrestler cominciassero a gonfiarsi con gli steroidi. In tutto il tempo trascorso all'aperto, Ryan era giunto alla conclusione che Ganz non era il suo vero
nome, e che aveva accettato quel lavoro solo perché gli offriva l'opportunità di starsene fuori vista per un po'. A differenza della maggior parte di loro, era venuto solo. Marianne stava con un altro gruppo, che raccoglieva le spighe cadute e le impilava nella parte più bassa del campo. C'erano quattro ragazzine in quel gruppo, e Marianne era la più giovane di tutte. Marianne lavorava con energia, ma era difficile dire quanto lavoro riusciva a fare. A nessuno, comunque, sembrava importare. Ganz si stava avvicinando al gruppo. Le bambine si erano fermate, e lo stavano tenendo d'occhio. Ryan si guardò attorno. Il fattore era tornato alla fattoria con l'ultimo carico, lasciando Rolf a capo dei lavoranti. Rolf era magro e di mezz'età, con un'aria da studioso. Era stato capo della produzione in una fabbrica di scarpe finché la ditta non aveva chiuso a causa della concorrenza. Era simpatico, ma era anche un confusionario. Ganz non lo teneva in alcuna considerazione da quando il padrone se n'era andato. Ganz adesso era vicino alle ragazze. Troppo lontano per intervenire, Ryan poteva solo guardare. Vicino a lui l'imballatrice stava facendo un rumore infernale, ma anche così riuscì a sentire gli strilli delle bambine quando Ganz fece una finta improvvisa con la tanica. Vide il rivolo di benzina che, come mercurio, rilanciava i raggi del sole prima di cadere a terra, e vide Marianne che scappava lasciando cadere il rastrello mentre Ganz, ridendo, s'avvicinava ancora un po'. Ryan si strappò i guanti da lavoro, che gettò dietro di sé. Si avviò a grandi passi lungo il campo. Sentì le voci degli altri che lo richiamavano, ma non si voltò. Marianne aveva raccolto di nuovo il rastrello, mentre le altre ragazzine tenevano d'occhio l'uomo che si stava avvicinando. Ganz era ormai prossimo al confine del campo. Continuava a schizzare benzina da tutte le parti, senza guardarsi alle spalle. Non dava segno di sapere o di essersi accorto che Ryan si stava avvicinando. L'imballatrice si fermò di colpo. Il che significava che tutti adesso li stavano osservando. L'odore di benzina era forte e acre. Si era alla fine di una giornata ben dura, ma Ryan cercava di ignorare il dolore alle giunture. Quando passò accanto al gruppo delle bambine, Marianne gli gridò: — È tutto a posto, Ryan. Non ce l'ha gettata addosso. Ma Ryan non si fermò, teneva sempre lo sguardo incollato alla schiena di Ganz. Questi era arrivato alla fine del campo e, voltandosi, vide Ryan.
Lui si fermò. — Perché non provi a gettarla addosso a me? Ganz si limitava a fissarlo. Ryan sapeva che l'altro non parlava inglese ma attese, perché sapeva che il significato delle sue parole era chiaramente comprensibile per chiunque. Di lontano, sentiva la voce di Rolf e di altri che lo chiamavano. Ganz lo stava studiando. Ryan lo fissava, ben piantato sul terreno, apparentemente calmo ma col cuore che galoppava per la rabbia e la paura, e lui non riusciva più a dominarsi. Ganz cominciò a sorridere. Poi, fece la finta di lanciargli contro uno schizzo di benzina. Se si era aspettato che Ryan si muovesse, rimase deluso. Rimase fermo come una roccia. Poi, lentamente, Ganz girò sottosopra la tanica e la tenne così per un po'. Dopo alcuni secondi, ne caddero tre gocce, le ultime rimaste. Ganz scoppiò a ridere e gli passò accanto, sfiorandolo con la spalla, ma senza realmente toccarlo. Ryan si voltò per guardarlo allontanarsi, con la tanica che gli ballonzolava nella mano. Stagliati contro il cielo, l'imballatrice e gli altri lavoranti li stavano fissando; poi, resisi conto che era tutto finito, almeno per il momento, tornarono a piegarsi sul lavoro. Era tempo di fare pulizia. Marianne era ancora con le altre ragazze, col rastrello in mano. Ryan le fece cenno di seguirlo mentre le passava davanti. — Te l'ha buttata addosso? — le chiese. — Solo un piccolo schizzo — rispose lei mentre gli camminava al fianco. Quando arrivarono all'imballatrice, chiamò Rolf e chiese a Marianne di tradurre. Rolf stava lanciando occhiate nervose in direzione di Ganz. Ryan disse: — Digli che farà meglio a far uscire le bambine dal campo. Perché basta una scintilla, e tutto questo campo s'infiammerà come se fosse scoppiata una bomba e si porterà via tutte le bambine. Rolf deglutì e annuì, e cominciò a chiamare le bambine. Aveva l'aspetto di chi sarebbe stato più felice a fare il libraio, o il portiere, qualsiasi cosa, ma non quel tipo di lavoro cui la vita l'aveva costretto. Il vento aveva girato. Le ultime messi falciate erano state raccolte in una dozzina di balle, che erano già state legate e issate dietro il carro. Ci gettarono sopra gli strumenti, poi si aiutarono l'un l'altro a salire. Tutti, tranne Ganz. Era tornato verso il campo ora deserto, di nuovo una distesa digradante che sembrava essere stata visitata dalle cavallette. Mentre il trattore che trascinava il car-
ro accendeva il motore, Ganz cominciò a strofinare un fiammifero. Tutti guardavano in apprensione, incapaci di distogliere lo sguardo. Ganz strofinava impaziente fiammiferi su fiammiferi, ma il vento insistente glieli spegneva e lui li gettava a terra, uno dopo l'altro, nervoso. Fu colto anche lui di sorpresa. Uno dei fiammiferi doveva avere ancora la capocchia incandescente perché, incontrando i vapori che si stavano levando, li fece esplodere come una palla di fuoco. Ganz fu costretto a balzare indietro. Il fuoco cominciò a zigzagare sul campo a incredibile velocità. Da dove stava Ryan, sembrava che il campo venisse spazzato da un enorme raggio laser fuori controllo. Il fumo era nero e denso, e il vento faticava a disperderlo. Ganz, che stava indietreggiando lentamente, non riusciva a distogliere lo sguardo, affascinato. Solo quando l'autista suonò il clacson si decise a raggiungerli. Aveva il viso arrossato e sudato; era difficile dirlo, ma sembrava che si fosse strinato i capelli davanti e le sopracciglia. Aveva l'aria felice di un bambino che torna a casa dalla fiera. Rimase in piedi per tutto il viaggio, con lo sguardo fisso alla colonna di fumo che doveva essere visibile in un raggio di parecchi chilometri. Alla fattoria c'era un po' d'agitazione. Il fumo era stato avvistato e il fattore, con un paio d'aiutanti, stava per andare loro incontro, ma Ryan era troppo stanco per volerci pensare. Altre stoppie erano già state bruciate lì attorno, e loro ne avevano visti i risultati nei loro spostamenti; l'unica cosa insolita erano i metodi da piromane di Ganz e il fatto che avesse agito senza prima essersi consultato col padrone del campo. L'autobus della cooperativa li stava aspettando, e lui vi salì assieme a Marianne e agli altri. Il risultato del lavoro fatto era davanti ai loro occhi: una montagna di balle bene impilate che aspettavano solo di essere messe al riparo. L'autobus partì tra sbuffi di polvere e di gas di scarico. Nessuno parlava. Tutti i giorni era così. Ryan guardò Marianne. Si era lasciata cadere nel sedile e aveva subito chiuso gli occhi. Sembrava esausta, ma lui sapeva quanta energia c'era ancora in quella ragazzina; sapeva che quando l'autobus fosse arrivato alla loro destinazione lei avrebbe spalancato gli occhi e sarebbe stata pronta per ricominciare. O quasi. Erano stati sistemati in varie fattorie unifamiliari che aderivano alla cooperativa. Ognuna di esse rappresentava una piccola unità, con pochi animali, una dozzina di mucche al massimo, e un piccolo appezzamento di
terra di proprietà personale. Si erano messi assieme per poter avere la possibilità di acquistare i macchinari, e adesso stavano facendo lo stesso con la manodopera. La paga era al minimo salariale. E gli alloggi non erano meglio. Superarono un villaggio. Quei paesini erano piccoli e piacevoli, con piazze piccole e squadrate, chiese pretenziose ed edifici pubblici imbandierati. Ne attraversavano almeno cinque ogni giorno, mai gli stessi e mai nello stesso ordine. Era stata una buona giornata, ottima per mietere. Ma Ryan si preoccupò di coprire meglio Marianne, per evitare che prendesse troppa aria. — Non sto dormendo — disse lei, ma senza aprire gli occhi. Una mezz'ora dopo l'autobus si fermò in piena campagna e lui le tirò la manica per svegliarla. Saltò subito su, come un tappo. — Siamo arrivati — le disse. Scesero. L'autobus ripartì subito, perché la strada da percorrere era ancora tanta. Per arrivare alla fattoria Lüderssen dovevano percorrere un sentiero sterrato che si dipartiva dalla strada asfaltata. Ryan si tolse il pastrano e se lo mise negligentemente su una spalla. — Miseria — disse, guardando il mezzo che si allontanava. — Che ti succede? — Mi sono dimenticato di chiedere dove andiamo domani. — Di cosa ti preoccupi? Non sai nemmeno dove siamo adesso. Frau Lüderssen era vedova. Aveva una figlia all'incirca dell'età di Marianne, ma era via tutto il giorno per frequentare la scuola. Non aveva nessun aiutante. La fattoria consisteva in una casa bianca con un granaio sul retro, un recinto per il bestiame che, date le condizioni sembrava essere stato costruito nel 1400, e alcuni altri edifici in vari stadi di collasso. Il migliore di essi, in parte ricostruito, con una porzione di tetto nuova e alcuni muri intonacati prima che finissero del tutto i soldi e che il programma di restauro venisse abbandonato, era il loro rifugio. — Guarda — disse Marianne dandogli di gomito. Ed eccola là. Frau Lüderssen, in tutta la sua opulenza. Capelli biondi tagliati corti, con la crescita nera che faceva capolino. Stava in piedi sul silo, con il forcone in mano. Indossava un bikini giallo e un paio di stivaloni. Si fermò per salutarli sventolando una mano. Marianne rispose nello stesso modo, Ryan si limitò ad alzare una mano. — Credo proprio che le piaci — disse Marianne, che sapeva benissimo
quanto a Ryan desse fastidio sentirselo dire. — Che il cielo mi aiuti — borbottò lui. Il loro alloggio era pulito quanto spartano. Avevano la luce, portata da un cavo pendulo proveniente dalla casa principale. Avevano l'acqua, ma non corrente. Dormivano in letti da campo, mangiavano su un tavolo costituito da una porta stesa su due casse di frutta. Marianne aveva una stanzetta tutta per lei, Ryan dormiva invece nella stanza principale. Erano separati da una tenda appesa con gli anelloni. Frau Lüderssen li aveva forniti di una radio, ma dopo due giorni le pile si erano esaurite. Dopo una ventina di minuti apparve Ellinor, la figlia di Frau Lüderssen: portava loro la solita casseruola rossastra e il pane, avvolto in un panno fresco e pulito. Aveva capelli neri, ed era abbastanza carina, ma stava cominciando ad assumere la stazza della madre. Chiacchierò un po' con Marianne, e Ryan non capì nulla di quello che si dicevano. Come al solito non lo guardò in viso, e come al solito ridacchiò quando lui la ringraziò in tedesco. Quando se ne fu andata, tolse il piatto che fungeva da coperchio e guardò. — Cosa c'è? — chiese Marianne. — Non lo so — rispose lui. — Dimmelo tu. Non avevano mai avuto da lamentarsi per il cibo, con l'unica eccezione del pollo gommoso di tre giorni prima. Era un gioco che facevano tutte le volte. Marianne prese i piatti da sotto il tavolo e li riempì, chiacchierando in continuazione. Di cosa? Ryan non lo sapeva, si era abituato a escludere il suono della sua voce. — Direi che si tratta di pesce bollito — stava dicendo Marianne. — Ma dove credi che vadano a prendere il pesce da queste parti? — Nel freezer — rispose lui. Lei era contenta. Giocava a fare la donnina di casa, come se preparasse il tè per le bambole. Aveva preso quel tipo di vita meglio di quanto si fosse aspettato, malgrado il duro lavoro e gli orari estenuanti. Forse perché aveva già avuto un assaggio di realtà che era peggio di questo, per cui aveva sviluppato l'istinto di apprezzare le cose. In ogni caso, si disse, aveva acquisito qualcosa, nella sua ancor breve esistenza, che le sarebbe servito negli anni a venire. Più tardi, Marianne si recò nella casa padronale per il bagno che le era stato promesso. Ryan cominciò a rilassarsi. Non che gli desse fastidio la sua compagnia, ma lui era un solitario, e poteva sopportarla solo a piccole dosi. A tutt'ora, era trascorso molto tempo da che erano assieme. Si stava-
no abituando l'uno all'altra, ma lui non sapeva dire se era una buona cosa o meno. Probabilmente no. Questo, almeno, gli era chiaro. Lavò i piatti e li mise a scolare, poi diede una lavata ai pavimenti; quando Marianne sarebbe tornata, poteva occuparsi anche della biancheria. Gli era stato detto che poteva usare la lavatrice che si trovava dietro la casa padronale tutte le volte che gli serviva. Quando erano arrivati non funzionava ma, quando lui le aveva dato un'occhiata (era una Bendix) aveva ripreso a funzionare regolarmente. Accese il bollitore per scaldare l'acqua. Mentre aspettava, uscì a guardare il tramonto. Nei campi che si stendevano sotto di loro, il fieno era ancora rigoglioso e steso sul terreno in lunghe file. Erano tre giorni che stava così. Nella casa padronale tutte le luci erano spente; da una finestra si vedeva il tremolio azzurrastro di un televisore acceso. E adesso, cosa doveva fare? Qualunque decisione potesse prendere, era comunque incastrato. Da nessun altro tranne che da se stesso. Aveva perso il controllo delle cose spingendosi troppo oltre: Marianne adesso vedeva il suo futuro assieme a lui, e con nessun altro. E allora, cosa poteva escogitare? Senza mentire, si disse. Cosa poteva immaginarsi? Il dottor Wallace era stato l'unico che era riuscito a farlo parlare con sincerità di quel che aveva fatto a Vanessa Mulrooney. Lui aveva usato altre parole per gli altri medici, aveva detto loro quello che si volevano sentire dire, era arrivato a crederci persino lui, ma al dottor Wallace aveva detto la verità. Non aveva sentito voci. Niente e nessuno aveva assunto il controllo della sua persona. A volte era più facile dire che era stato spinto da qualcosa che non poteva controllare, e che quindi lui non aveva responsabilità alcuna. Ma nulla di tutto ciò era vero. La polizia aveva cercato di fargli ammettere che lei lo aveva seguito per ascoltare la storia delle sue visioni e che poi lo aveva deriso, come facevano tutti gli altri. A quel punto si poteva concludere che lui si era infuriato e che l'aveva aggredita. Ma il fatto è che lei gli aveva creduto. Vanessa Mulrooney era stata l'unica di tutti loro a credere in lui. E lui aveva fatto quel che aveva fatto. Quanti anni aveva? Quindici. Ma loro l'avevano trattato come un adulto perché lui stesso aveva provato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che poteva essere pericoloso quanto un adulto. La vita di lei se n'era andata
come una pietra scagliata da un ponte: era caduta nelle tenebre, e ormai era troppo tardi per richiamarla indietro. "Noi abbiamo qualcosa che desideriamo che venga dimenticato" aveva detto a Cadogan. "Ma lei è l'ultimo ad averne diritto. Non il primo." Rientrò in casa. L'acqua era sufficientemente calda. Non gli serviva bollente, né gliene serviva molta. Gli sarebbe piaciuto avere qualcosa da leggere. Marianne si era portata un libro, ma era una cosa in tedesco, e sulla copertina c'era la figura di un leone. Aveva cercato di farsi spiegare come funzionasse la cosa: pensava in una sola lingua alla volta e poi traduceva nell'altra? Lei aveva risposto di non saperlo. L'unica cosa che sapeva è che fin da quando era piccola la mamma le parlava quasi sempre in tedesco e il papà in inglese, e lei non aveva mai pensato a come funzionasse la cosa. Poi lo aveva accusato di metterle una gran confusione in testa, perché adesso si stava chiedendo come diavolo faceva e non riusciva a capirlo. Lei tornò un paio d'ore dopo, quando era già buio. Aveva i capelli bagnati e il viso lucente. — Sai di pulito — le disse lui. — Mi sono molto divertita — disse lei. — Frau Lüderssen ci ha lasciato vedere la TV. Perché non sei venuto anche tu? — Avevo qualcos'altro da fare. Marianne si guardò attorno nella stanza semivuota. — Cosa? — Di tanto in tanto, mi va di restare da solo. — Le giri alla larga, vero? — Fine della discussione — disse lui. — E poi, sai benissimo che non riesco a seguire i programmi. — Potevo dirti io cosa stava succedendo. E poi i video di rock sono in inglese. E molti di quelli che li fanno sono almeno vecchi quanto te. — Ah. Grazie. Marianne andò nella sua stanzetta, e lui lasciò ricadere la tenda che li divideva. Dovevano alzarsi all'alba per farsi trovare in tempo sulla strada per prendere l'autobus che li avrebbe portati da qualche parte a lavorare. Si svestì, spense la luce e si sdraiò. Il lettino si infossava e scricchiolava, ma era sufficientemente comodo. La luce dalla parte di Marianne rimase accesa per un po'. Forse stava leggendo. Ryan si voltò dall'altra parte. Per quanto ancora? E dopo, cosa lo aspettava? Erano stati reclutati da un certo Jansen. Forse, quando quell'ingaggio
fosse terminato, sarebbe riuscito a trovare loro qualcos'altro. Si erano incontrati allo scalo ferroviario, e lui poi aveva raccolto altra gente in varie parti della città. Avevano viaggiato quattro ore per arrivare fin lì, e all'arrivo aveva ritirato i documenti di tutti per la "registrazione", come aveva detto. Ryan gli aveva consegnato i fogli che venivano dal cassetto della scrivania di Reineger. Il pagamento sarebbe avvenuto in contanti: niente ricevute, niente buste-paga. La voce di Marianne disse: — Qui stiamo bene, non trovi? Lui esitò un attimo prima di rispondere. — Ho conosciuto di peggio — disse. — Voglio dire, è meglio che dormire in un vecchio vagone. — Mi avevi detto che lo trovavi divertente. — Lo è stato. La prima notte. Ma poi sembrava che dovesse essere per sempre. — E come pensi che sia qui? — Be', lo so che è temporaneo, però stiamo facendo dei bei soldi. E poi, potremo fare qualcos'altro. Per un po' rimasero zitti. Dormire sui vecchi e duri sedili di un treno in disuso era stato il punto più basso che avevano toccato. Ma anche così, lei l'aveva sopportato. La notte in cui lei era scivolata sotto il suo pastrano per riscaldarsi, non si era nemmeno svegliata quando lui l'aveva riportata dalla sua parte dello scompartimento. Anche se poi lui era rimasto sveglio per tutta la notte, a vegliarla. — Non hai nostalgia di casa? — chiese lui. — Neanche un po'? — Oh no. Ma sembrava che la sua voce cercasse più di convincere lui che non se stessa. Poi lei aggiunse, con voce ferma, come se stesse facendo una dichiarazione di fede: — Mi sto veramente divertendo molto. E tu? — Già — rispose lui, inespressivo. Non suonava convincente nemmeno a lui. Ma sembrava bastare a Marianne. 63 Ryan si svegliò che il sole era già alto. Per qualche secondo rimase a fissare il soffitto, poi s'accorse che qualcosa non funzionava. Avrebbe dovuto essere ancora buio, o per lo meno doveva esserci penombra. Si mise a sedere di colpo, sveglio e con l'affanno
di chi s'accorge di avere dormito troppo. — Marianne! — chiamò. — Presto, siamo in ritardo! Nessuna risposta. Saltò giù dal letto e si vestì di furia. La chiamò di nuovo mentre si abbottonava la camicia da lavoro. Poi scostò la tenda che li divideva. Il letto era vuoto. Di solito era Frau Lüderssen che li svegliava bussando alla porta, davanti alla quale lasciava una ciotola colma di latte fresco. La ciotola era sul tavolo, ma lui non aveva sentito niente. C'era anche una tazza vuota, con un cucchiaio usato dentro. Uscì. Stava ancora infilandosi la camicia nei pantaloni quando vide Marianne ed Ellinor che stavano uscendo dalla casa padronale. — Cosa sta succedendo? — chiese. — C'è qualcosa che non va? — Ma come — disse Marianne — non te l'ho detto ieri sera? Oggi il lavoro si svolge qui, per cui non c'era bisogno di alzarsi per prendere l'autobus. Ho appena finito di aiutare Ellinor a impacchettare le colazioni. Ho pensato bene di lasciarti riposare. — Ah. Ellinor diede di gomito a Marianne e le disse qualcosa. Mentre parlava lo guardò ma subito distolse lo sguardo, come suo solito. — Adesso cosa state complottando? — Ha detto che Frau Lüderssen ha bisogno di te nel granaio. — Davvero. — Sul serio — insistette Marianne. — È proprio questo che ha detto. Ryan la fissò per un attimo, sospettoso. Il suo sguardo era esageratamente innocente il che significava che stava cercando di imbrogliarlo oppure no, ma forse si stava solo divertendo cercando di farglielo credere. Mentre si dirigeva verso il granaio, si voltò per controllare se lo stavano guardando. Sì. Ma avevano un motivo. Frau Lüderssen aveva portato il trattore nel cortile sistemandolo sotto la catena che pendeva dal verricello: adesso aveva bisogno di aiuto per agganciare e posizionare il raccoglitore di balle a tre rebbi. Il motore del trattore, pur tenuto al minimo, stava cominciando a riempire col suo rumore tutta la zona circostante. Ryan tenne in posizione il pezzo da agganciare mentre la donna manovrava col trattore per metterlo nella giusta posizione. In pochi minuti il collegamento venne effettuato, e il trattore partì verso il campo.
Le due ragazzine lo rincorsero per farsi trasportare; Ryan fece loro cenno che invece lui ci sarebbe andato a piedi. Si prospettava un'altra splendida giornata, con un sole caldo e una fresca brezza per mitigarlo. L'autobus era già arrivato e stava scaricando i lavoranti. Anche l'imballatrice era già stata sistemata a un'estremità del campo. Era seguita da due camion Fendt coi rimorchi colorati di verde. Quando Ryan arrivò si guardò attorno, alla ricerca di Ganz; non aveva motivi particolari per cercarlo, ma voleva sapere se c'era anche lui e cosa stesse facendo. Alla fine lo vide emergere da dietro uno dei rimorchi. Si stava sfregando le mani sul davanti della camicia. Ryan colse l'occhiata di Marianne. — Sono contento che non si occupi lui dei panini — disse. Marianne tradusse per Ellinor. In quel mentre Ganz passò loro accanto e lui colse un lampo d'inquietudine nel suo sguardo quando si rese conto che si stava dicendo qualcosa che lo riguardava ma che lui non riusciva a capire. Poi si tolse di tasca i guanti da lavoro e se li infilò, sbattendoli con forza per farne uscire la polvere che li incrostava. Il motore dell'imballatrice partì con un ruggito. La giornata di lavoro stava cominciando. Lavorarono sodo e per le undici avevano già terminato; le macchine si spostavano instancabili sul campo, ballonzolando sul terreno ineguale, seguite dalle donne che raccoglievano quel poco che restava indietro. Ryan non sapeva nulla del lavoro dei campi. Non sapeva nemmeno come si lavora in un orto. Ma guardando gli altri aveva fatto presto ad adattarsi. Quel che stavano facendo probabilmente nei grandi appezzamenti dell'ovest veniva fatto da un paio di guidatori coi loro enormi trattori, ma qui erano in una parte povera del paese, dove si poteva usare quel poco di tecnologia che i mezzi a loro disposizione gli permettevano. Le macchine che avevano sputacchiavano e funzionavano a rate, ma funzionavano. I camion avevano conosciuto tempi migliori, ma erano stati ridipinti, e adesso avevano l'aria di vecchi contadini con gli abiti della domenica. Era un lavoro continuo, stancante, che non lasciava nemmeno il tempo per pensare. Ryan lavorava meglio che poteva, e sembrava riuscirci. Nessuno lo richiamò mai, né gli gridò improperi. Di notte, nessuno veniva a turbargli il sonno gettando pietre sul tetto come si usa fare in campagna. Il campo successivo aveva una strana forma, ed era dominato, nell'ango-
lo più lontano, da un enorme pilone dell'elettricità. Tre di loro dovevano lavorare coi falcetti sotto quel colosso, perché la macchina poteva avvicinarsi fino a un certo punto. Da lì, si riusciva a vedere il villaggio più vicino. La guglia della chiesa spiccava da un lato, l'antenna radio dall'altro. A mezzogiorno si fermarono per mangiare: come al solito, pane e salsiccia, accompagnati da succo di mela e birra fatta in casa. La maggior parte andò a sistemarsi all'ombra dei veicoli. Ryan preferì stendersi al sole. Le stoppie erano così dure che era come sdraiarsi su un letto di chiodi, ma era meglio adattarsi a quello che dover affrontare la fatica di spostarsi. — Mi sembri una salma — disse la voce di Marianne. Aprì un occhio per guardarla. Lo stava sovrastando, con la figura in controluce contro un cielo di un intenso azzurro. — Una cosa? — Un morto. — È così che mi sento. Lei si chinò, sedendoglisi accanto. — E quando russi — disse — sembri un camion in salita. — Grazie. Rimasero così per un poco, in un silenzio socievole. Da sopra le loro teste veniva il suono continuo dell'elettricità che scorreva nei fili dell'alta tensione. — Non hai mai finito di raccontarmi quella storia — disse Marianne. — Quale storia? — Di quella volta che sei quasi morto. — Non c'è molto da dire. Praticamente, è come puoi leggerla in uno dei tuoi libri. — Ma cos'è successo? Lui si alzò, appoggiandosi sui gomiti. Il sole era così accecante che lo costrinse a chiudere gli occhi. Lei stava aspettando. Prima o poi, lo sapeva, doveva raccontarglielo; lei non avrebbe smesso di tampinarlo finché non l'avesse fatto. — Si pensava che dovessi dormire — disse — ma non era così. Cioè, insomma, una parte di me era sveglia, un'altra no. Quella parte che era sveglia stava guardando, come se si trattasse di qualcun altro. È per questo che so che non stavo dormendo. Potevo guardare giù nella sala operatoria e vedere quello che mi stavano facendo. Poi cominciai ad allontanarmi e sentii qualcuno che diceva "Oh-oh", come se ci fosse qualcosa che stava andando storto. Ma a me non importava. Non mi importava di niente. Non
ricordo di essere stato più felice di come mi sentivo in quel momento. La vita, a volte, è complicata, ma in quel momento per me non lo era. — Stavi morendo allora? — disse Marianne. — Credo di sì. Loro hanno detto di no. Quello che io credo è che qualcuno ha commesso un errore che però sono riusciti in qualche modo a rimediare, e poi hanno messo tutto a tacere. Vedi, non sapevano che io li stavo guardando. Lei ci rifletté su per un po'. Poi: — Hai visto il paradiso? — chiese. — Non ne so niente. Ho visto qualcosa. — E che cos'era? — Una galleria. È quello che vedono tutti quando si trovano in una situazione del genere. Un lungo tunnel con una luce alla fine. E più mi avvicinavo, più era difficile raggiungerla, perché evidentemente quello è stato il momento in cui si erano accorti dell'errore e hanno cominciato a tirarmi indietro. Ecco quello che credo. Ti ricordi com'era quando eravamo sulla spiaggia? Quando cercavamo di raggiungere la riva, ma c'era quella terribile corrente sotterranea che cercava di continuo di portarci via con lei? Marianne annuì. — Be', è così che era. Ce l'avevo quasi fatta. Ero quasi alla fine e potevo vedere... che non era una sola luce. Era come vedere una città, con tutte le luci accese. Ma non ce l'ho fatta a raggiungerla. — E quello era il paradiso? — insistette Marianne. Lui esitò. Stava pensando a come poteva lanciarsi in una qualche complicata serie di precisazioni che, alla fine, l'avrebbero condotto nello stesso punto e quindi disse: — Forse lo era. — Ed è per questo che adesso non hai più paura di niente? — Chi ha detto una cosa del genere? — Ho pensato che se morire è la cosa peggiore che ti possa accadere e sei hai già visto il paradiso allora tu non puoi più averne paura, e quindi non c'è niente che ti possa fare più paura. È così, vero? Lui scandagliò l'orizzonte, come se là ci potesse essere un cenno di una città nascosta subito dietro la linea dell'orizzonte. — Ne saresti sorpresa — disse poi. — Cosa ti spaventa, allora? — Migliaia di cose — disse lui, evasivo. — Cioè? — Donnone in bikini giallo, per esempio. A una ventina di metri di distanza, Frau Lüderssen si stava alzando dopo
aver conversato con il guidatore della trebbiatrice. Si stava dirigendo verso la strada d'accesso al campo, dov'era in attesa una Golf, la stessa che l'aveva condotta fin lì. Sull'auto c'erano quattro donne, mogli dei fattori della zona: il bagagliaio dell'auto era talmente pieno di materiali vari che per tenerlo chiuso avevano dovuto assicurarlo con una corda. — Mi chiedo a cosa prelude tutta questa manfrina — disse Ryan. — Io lo so — disse Marianne, con aria compiaciuta. — Ah, davvero? — Me l'ha detto Ellinor questa mattina. Ma tu dovrai aspettare ancora un po' prima di scoprirlo. — Perché? — Perché è un segreto e io ho giurato di non dire niente. La Golf, imballando il motore, ripartì verso la fattoria, in una nuvola di polvere giallastra. Come a un segnale, tutti gli uomini cominciarono ad alzarsi per riprendere il lavoro. Anche Ryan si alzò, dolorante. Durante il pomeriggio, a un certo punto Marianne se ne andò. E non tornò. Con lei, non tornò nemmeno Ellinor. Ryan si sentiva perduto senza di lei. Nessuno parlava inglese, e lui non sapeva una parola di tedesco. Finalmente, col declinare del sole, anche il lavoro stava volgendo alla fine. Le ultime balle vennero caricate alla luce dei riflettori di tutti i veicoli, i cui fari s'incrociavano sul campo ormai scuro, trasformandolo in uno spettacolo di luci sciabolanti e di ombre gigantesche. Quando tutto fu terminato, si sentiva, palpabile, la stessa sensazione di una gara terminata vittoriosamente. S'imbarcarono tutti sull'ultimo mezzo che lasciava il terreno di lavoro. Si stava già muovendo quando Ryan era sul punto di salire, e parecchie mani si sporsero per aiutarlo. L'ultima a lasciare il campo fu Frau Lüderssen, che chiuse il recinto dietro di sé mentre il trattore l'aspettava col motore che ronfava tranquillo. Quando furono alla fattoria, s'accorsero che erano state stese parecchie file di lampadine che univano l'edificio principale a tutti gli altri. Sulle tavole imbandite erano state posate alcune lampade ad acetilene, che spandevano una luce molto forte. C'erano cibo e birra per tutti. Marianne lo stava aspettando. — È qui che sei venuta, allora? Per aiutare ad apparecchiare? Ma che scopo ha tutto questo? — È terminata la mietitura — disse lei. — È la festa che si fa tutti gli anni, alla fine del lavoro.
Esplose all'improvviso anche la musica, proveniente da un vecchio grammofono che era stato portato fuori dalla casa e sistemato sul prato. Era musica di Paul McCartney, con una qualità da disco-pirata. I fattori e le loro famiglie si stavano mescolando coi lavoranti stagionali: si stringevano mani, le voci si alzavano sempre più. Ryan si guardò attorno, alla ricerca di Ganz. Alla fine lo vide. Aveva in mano la stessa tanica e la stava riempiendo spillando benzina dalla grossa cisterna parcheggiata presso il silo. Ryan era più che sicuro che nessuno gli avesse chiesto di farlo. Si guardò attorno, chiedendosi se doveva avvertire qualcuno. Nessuno sembrava essersi accorto di alcunché. Cercò Marianne, ma lei stava parlottando con Ellinor e con altre bambine. Ganz aveva finito. Dalla figura leggermente curva, che si spostava senza scioltezza, si rese conto che la tanica doveva essere colma. Con calma e decisione si stava avviando verso il sentiero che portava ai campi appena mietuti. Si guardò attorno per vedere se qualcuno lo osservava, e incrociò lo sguardo di Ryan. Ryan restò immobile. Era più che ovvio che aveva in mente di incendiare le stoppie. Ryan si stava chiedendo quanto serebbe stato spettacolare. Da dov'era lui, sarebbe stato come assistere a un bombardamento. Come trovarsi davanti ai cancelli stessi dell'inferno. Ganz, continuando la marcia, non cessava di guardarlo. Per sfida, forse. O per disprezzo. O forse la sua era una richiesta di complicità. Poi, all'improvviso, le luci del trattore di Frau Lüderssen lo inquadrarono. Lui si fermò di colpo, strizzando gli occhi, mentre Frau Lüderssen bloccava il mezzo e scendeva avviandosi decisa verso di lui. Anche altri adesso l'avevano visto. Le teste si stavano voltando, le conversazioni cessavano: solo McCartney continuava come se nulla stesse succedendo. Ganz era più alto di tutta la testa di Frau Lüderssen, ma Ryan non avrebbe accettato di fare cambio con lui per nulla al mondo. Era chiaro che lei era stata informata di quello che amava fare, e lo stava redarguendo mentre avanzava a passi decisi. Sempre gridando, gli strappò di mano la tanica con una mano e con l'altra lo schiaffeggiò con forza. Il suono della mano che si abbatteva sulla guancia risuonò come uno sparo. Era un colpo portato con tutto il peso della spalla, sufficiente a far-
gli voltare la testa dall'altra parte e a farlo barcollare. La gente che li stava osservando cominciò ad applaudire. L'aveva colpito come se fosse un ragazzino cattivo e stupido, e lui adesso la fronteggiava coi pugni stretti tenuti lungo il corpo, ma lei gli volse le spalle, diretta al trattore con la tanica che le ondeggiava fra le mani. Infine, tardivamente, egli sembrò rendersi conto di avere un pubblico. Si voltò e li guardò. Ma Frau Lüderssen era già salita sul trattore e stava suonando con forza il clacson mentre si avviava nella sua direzione, e lui ebbe giusto il tempo di saltare di lato per evitare di essere investito. Le gridò dietro qualcosa, ma nessuno, a causa del frastuono del trattore, capì cosa. Mentre si allontanava nel buio, gli occhi di tutti erano fissi sulla sua figura. Aveva una lunga camminata da fare per arrivare a dov'era il suo alloggio. E all'arrivo non avrebbe trovato altro che i cani ad aspettarlo, perché tutta la gente era lì per celebrare la fine dei lavori. Fu il migliore inizio di festa che si potesse immaginare. C'era musica, da bere e da mangiare. E quando tutti ebbero bevuto a sufficienza, allora cominciarono i balli. E quando qualcuno cominciò a essere brillo, tutti si misero a cantare. Ryan sorrideva quando gli rivolgevano la parola, ma per la maggior parte del tempo continuava a spostarsi di gruppo in gruppo limitandosi a guardare. — Guarda cos'ho — gli disse Marianne che gli era arrivata senza fiato alle spalle, e lui si voltò. Uno dei contadini aveva scolpito in un ciocco di legno una bambola per ogni bambina. — È carina, vero? — Sì, molto. Era contento perché lei era felice. Era tornata a riallacciare i contatti con un mondo che le apparteneva, anche se la cosa non sarebbe durata. Era una parte di lei che lui non avrebbe mai conosciuto, né che avrebbe mai potuto contattare. L'osservò mentre si univa ai canti, inconsapevole di lui che la teneva d'occhio. E allora si rese conto di tre cose. La prima era che l'amava. La seconda era che non aveva mai amato nulla e nessuno con la stessa forza. E la terza era che molto presto, non importa cosa potesse succedere, avrebbe dovuto lasciarla andar via. Molto più tardi, quando tutti se n'erano andati lasciando dietro a sé ogni sorta di rifiuti, da spazzare via l'indomani mattina, Ryan se ne stava sdraiato sul suo lettino, desiderando di avere qualcosa da leggere. Qualsiasi cosa,
non era di gusti difficili. Gli sarebbe andato bene anche uno di quei libri tutti scritti in punta di penna, dove sembra non succedere mai niente. Aveva bisogno di distrarsi. Con qualsiasi cosa che servisse a sviare i suoi pensieri. Marianne batté sulla parete divisoria. — Che c'è? — chiese lui. — Sei ancora sveglio? — chiese lei con voce attutita. — Posso venire da te? — Va bene — rispose. — Vieni pure. Sentì il letto che scricchiolava. Poi Marianne scostò la tenda e accese la luce. Sopra la camicia da notte spiegazzata indossava il giaccone. Lui si mise a sedere facendole spazio perché potesse sedersi alla fine del letto. — Che c'è che non va? — le chiese. — Non c'è niente che non va. Stavo pensando, tutto qui. — A cosa? — Qui ci troviamo piuttosto bene, non trovi? — Non meglio né peggio che negli altri posti. — Ma io voglio dire che qui tutto sembra essere risolto. Siamo atterrati in piedi. Lui non riusciva a capire dove stesse mirando. — Immagino di sì — disse cautamente. — Prima o poi dovremo smettere di girare a vuoto — continuò lei. — Se vuoi dirmi che dobbiamo fermarci qui, non vedo come. Il raccolto è terminato. Nessuno ha più bisogno di noi. — Ellinor dice che per loro due il lavoro è troppo. E che è così per tutto l'anno, non solo per pochi giorni. — Be', non so, Marianne. Io non sto cercando nulla di permanente. — E allora, cosa faremo? — Neanche questo lo so. — Perché vedi, quello che mi piace... voglio dire, se ci fosse il modo... mi piacerebbe tornare di nuovo a scuola. Ma non voglio dire quelle scuole in Inghilterra. Mi piacerebbe fare come una volta, quando vivevo qui. — Be'... — disse lui — non saprei. Non so come si possa fare una cosa del genere. — Gli zingari lo fanno. Vanno in scuole sempre diverse, e a nessuno gli interessa da dove vengono. — Io non ti sto dicendo di no. Quel che sto dicendo è che non so come funzionano queste cose. Siamo in una situazione che non è per nulla per-
fetta. — Lo so — disse Marianne, depressa. Ryan esitò e poi, sapendo di avventurarsi su un terreno infido, chiese: — Non è che ti manca tuo padre, vero? — Prima sì — rispose lei. — Prima che cambiasse così tanto. — Ma se lui tornasse come prima? Allora torneresti da lui? — Ma allora mi mancherai tu, è vero? — disse lei allegra, alzandosi. Non era il caso di risponderle. — Buonanotte — disse lei, garrula, baciandolo sulla fronte. Poi, prima di lasciar ricadere la tenda, disse: — Ellinor mi ha detto che se Frau Lüderssen si dovesse sposare di nuovo, suo marito avrebbe metà della fattoria. — Scordatelo — rispose lui. Lei fece spallucce, e scomparve. Dopo un paio di minuti, Ryan disse: — Non hai spento la luce. Nessuna risposta, e allora lui lo ripeté, ma come risposta si ebbe il suono di un finto russare. — Mi sembri un camion — commentò lui. Niente. Stancamente, si alzò e andò a spegnere la luce. Dalla parte di lei il locale era già buio. Stava per girare l'interruttore, quando la porta si spalancò. E prima che Ryan si fosse reso conto di cosa stava succedendo, Ganz lo stava spingendo verso la parete opposta. 64 Ryan perse l'equilibrio, e non c'era nulla che potesse fare per riprenderlo. Sospinto all'indietro, colpì il lettino e ci cadde sopra, rovesciandolo. Prima che potesse fare una qualsiasi mossa, Ganz aveva girato il letto sopra di lui e, premendoci sopra con un piede, lo teneva inchiodato al pavimento. Ryan era intrappolato, perché tutto il peso dell'altro gravava su di lui. Sentì che altre persone stavano arrivando. Dall'altra stanza, Marianne cominciò a strillare. Il primo a entrare fu Jansen, l'uomo che li aveva contattati. In una mano teneva un fucile con le canne tagliate, in modo da poterlo agevolmente nascondere sotto un cappotto. Con quel mozzicone di canna aveva spostato di colpo la tenda che separava le due stanze, mentre Marianne aumentava i
suoi strilli. Ryan cercò di divincolarsi, ma Ganz aumentò la pressione. Con suo spavento le grida cessarono di colpo, e Jansen uscì dalla stanza rinculando, con un dito alzato per continuare a imporle silenzio. Il terzo e ultimo a entrare fu un uomo spettinato, non rasato da giorni, con un'aria logora: Axel Reineger. Aveva uno sguardo spiritato. Gli abiti di buon taglio avevano perso ogni forma. Sembrava uno uscito di casa per trascorrere una serata e che fosse rimasto fuori un anno. S'inginocchiò accanto a Ryan e gli rivolse una domanda. Aveva una voce aspra, ma Ryan non capì una sola delle parole che gli vennero sputate in viso. Cercò di rispondere, ma nessuno lo sentiva, perché tutti stavano gridando contro di lui. Sapeva che Jansen conosceva un po' d'inglese e cercò di rivolgersi a lui, ma l'altro non lo stava a sentire. Poi il letto gli venne tolto di sopra e Ganz e Reineger lo presero ognuno per un braccio strattonandolo in piedi e trascinandolo fuori in cortile. Non gli lasciarono nemmeno acquistare l'equilibrio, cosicché inciampò e quasi cadde trascinandoseli dietro. — Che succede? — continuava a dire. — Volete dirmi cosa volete da me? Il camioncino bianco era fuori in attesa, con luci e motore accesi. Lo trascinarono verso il mezzo. Una porta della fattoria si stava aprendo. Sulla soglia si stagliava Frau Lüderssen, col viso contorto dall'ira che si trasformò in shock quando Jansen puntò verso di lei la sua arma. Rientrò di scatto, chiudendo la porta con un colpo secco. Ryan venne gettato a terra davanti al furgone. Cercò di rialzarsi malgrado la botta l'avesse stordito, ma venne colpito alle terga con un calcio che lo fece ricadere. Qualcuno gli prese un braccio e lo forzò a terra, bocconi. Jansen si inginocchiò e, sempre impugnando l'arma con una mano, gli bloccò l'altro braccio, puntandogli le canne alla testa. Ryan era terrorizzato. Sarebbe bastata anche solo l'arma per quello scopo. Axel Reineger si era acquattato per guardarlo, abbaiandogli le stesse domande di prima, ma continuando a ottenere lo stesso risultato. Ganz balzò a bordo del furgone e fece salire di giri il motore. Con un forte stridio inserì la marcia, tolse il freno a mano, e cominciò ad avanzare. Allora Ryan capì cosa volevano fargli. Il copertone di una delle ruote si stava avvicinando al suo gomito. Cercò di divincolarsi, ma Jansen lo teneva saldamente, e Axel Reineger conti-
nuava a gridare le sue domande, anche se il rumore del motore copriva il suono di quella voce. Anche Ryan stava gridando, e Axel Reineger si era alzato e stava aiutando Ganz a fare manovra e Ryan sentì la ruota che cominciava ad appoggiarsi al gomito e si divincolò con forza maggiore, e quasi riuscì a liberarsi, ma solo quasi. Sentì che Ganz inseriva il freno a mano e che mandava su di giri il motore, e la pressione dei pneumatici cominciò a farsi sentire con forza, inchiodandolo al terreno, che cominciò lentamente a cedere. Ma troppo poco. Il gomito di Ryan cominciò a gridare più forte di tutti, ma solo Ryan poteva sentirlo. Ganz si stava sporgendo dal finestrino per controllare il lento progredire della sua manovra. Si sentiva odore di olio bruciato e di metallo incandescente. Anche con quel dolore che l'attanagliava, Ryan pregava che il freno tenesse. Il furgone spingeva, come un cane alla catena che vuole liberarsi a tutti i costi. Un altro millimetro. La schiacciante pressione sul gomito stava aumentando. Ryan batté con forza la testa sul terreno. E poi si sentì un urlo che lo strappò dalla sua agonia: era Marianne. Tutte le teste si voltarono da quella parte. La pressione sul suo gomito non diminuì, ma quella del motore sì. Ryan cercò di alzare la testa per vedere. Marianne era sulla soglia della casupola che faceva loro da dormitorio. Aveva in mano l'involucro che gli era stato consegnato da Anneliese Cadogan quando si erano incontrati per la seconda volta in quel caffè. — È questo che vogliono — stava dicendo. — È questo che stanno cercando. Il motore del furgone stallò e si spense. Il fucile venne allontanato dalla testa di Ryan, subito dopo anche la pressione alla schiena. Riuscì da solo a liberare il braccio. Vide Axel Reineger avvicinarsi a Marianne e strapparle l'oggetto di mano. Una volta entratone in possesso trasse un profondo sospiro e, con sforzo visibile, cercò di riprendere il proprio autocontrollo. Quel pacchetto sembrò riportargli la vita, infondergli una nuova personalità, rendendolo più forte e sicuro. Ryan non capiva cosa Reineger stesse dicendo. Ma venne rimesso in piedi, e si avviarono tutti assieme verso la casa padronale. 65
Era la seconda volta che Ryan entrava nella casa di Frau Lüderssen. Era semplice e moderna, arredata con gusto. Pavimenti di ceramica, pareti a stucco. Solo la cucina era in disordine, per i preparativi della festa. Axel Reineger aveva spazzato via tutto quello che c'era sul tavolo e vi aveva steso un certo numero di documenti. Che includevano anche la chiave e l'indirizzo che l'accompagnava oltre ai documenti falsificati tramite i quali doveva essere risalito a Ryan. Reineger li stava guardando sgomento. Probabilmente si aspettava ben altro, forse che Ryan fosse in possesso dei beni cui la chiave dava libero accesso. I soldi per la fuga. Quando si era reso conto che erano ancora in città, indisturbati, non l'aveva presa per niente bene. — Stai bene? — chiese a bassa voce Ryan a Marianne. — Credo di sì — rispose lei, e subito si zittì perché Jansen si era chinato verso di lei mostrandole la canna della lupara. Ryan era vicinissimo alla canna, avrebbe anche potuto afferrarla, ma non era un eroe. Quella è roba che si legge nei libri o che si sente raccontare da chi l'ha sentita dire da altri, ma quando ci si trova in mezzo uno spera che la faccenda finisca in fretta e non pensa affatto a intervenire. Erano stati fatti sedere contro il muro, in un'unica linea. Frau Lüderssen si comprimeva un occhio gonfio tenendo la testa appoggiata nell'incavo del braccio, come se si aspettasse di cominciare a sanguinare anche se la pelle non si era lacerata. Quello era lavoro di Ganz, che era andato di persona a trascinarle fuori dalla dispensa in cui si erano nascoste, terrorizzate. L'aveva colpita più per cattiveria che per necessità. Le bambine non erano state toccate. Stavano sedute fra i due adulti, ed erano spaventate a morte. Ryan rabbrividì. Non faceva freddo, ma lui rabbrividiva lo stesso mentre cercava di trattenersi, con poco successo, dal battere i denti. Reineger si voltò a guardarlo. Disse qualcosa, ma Ryan non capiva, per cui Reineger si voltò verso Marianne e le fece un cenno del capo come a invitarla a tradurre. — Ha detto che siamo stati stupidi a pensare di poterci nascondere da lui — ripeté Marianne. — Ha detto che per uno come lui è stato facile rintracciarci attraverso le carte che hai rubato. Ma quello che vuole sapere è: chi te le ha date? — Digli che le ho trovate. Lei ripeté, poi: — Dice che non ti crede.
— Digli che qualcuno me le ha vendute. Ma che non so chi fosse. — Vuole sapere se era una donna. Una donna di nome... E qui Marianne si fermò, e non ebbe bisogno di ripetere il nome che Reineger aveva appena pronunciato. Silenzio. Poi Reineger disse: — Und warum würde sie wohl so ein Risiko für einen Mann wie Dich eingehen? Al che Marianne rispose: — Weil ich ihre Tochter bin. — Gli hai appena detto quello che credo io? — chiese Ryan. — Gli ho detto che sono sua figlia. — Oh, grande — commentò amaro Ryan. — Ma lui deve saperlo dov'è lei adesso! Ryan preferì non rispondere. Reineger fece un breve cenno a Marianne, invitandola ad avvicinarsi. Ryan fu svelto ad afferrarla per un braccio per impedirle di alzarsi, ma fu costretto a mollare la presa non appena Jansen lo colpì due volte, con forza, con la canna del fucile a canne mozze sull'omero. Abbassò lo sguardo a terra per non vedere Marianne che si alzava. Era impossibilitato a intervenire. Stava pensando a quanto sarebbe stato meglio se l'avesse riportata a casa sua quel giorno che gli si era presentata pesta e malconcia. Era lo stesso pensiero che tornava, insistente. Ma prima sarebbe stato solo per la sua salvezza personale. Adesso, si trattava di quella di lei. Axel Reineger aveva afferrato una sedia e si era seduto, con Marianne davanti a sé. Le stava battendo una mano sulla spalla, e le parlava come uno zio; sconcertata e incerta, lei gli rispondeva a monosillabi. Reineger lanciò un'occhiata a Ryan, e lui si rese conto che era tutta scena. Uno come lui sapeva come minacciare senza averne l'aria. Malgrado la sua tecnica, era egualmente sotto pressione. Marianne avvertiva che c'era qualcosa di sbagliato, anche se non aveva l'esperienza di Ryan e la sua capacità di vedere dentro le persone. Perché lui sapeva vedere il demone che stava dietro lo specchio, e la maschera dietro la maschera. — Vuole sapere perché non hai usato la chiave — tradusse Marianne. — Digli di quando siamo andati alla casa — disse Ryan. — Digli anche che qualsiasi cosa ci avesse nascosto, non sono riuscito a trovarla. Lei tradusse. — Dice che dovrai tornare indietro — disse poi. — Dice che tu e lei gli avete causato molti seri problemi, e che lui adesso sarebbe
in salvo se non fosse stato per te. Dice che devi tornare indietro e prendere per lui quello che gli serve. — Adesso ce l'ha lui la chiave. Perché non ci va da sé? — Non lo so — disse Marianne. — Sembra che abbia paura di qualcosa. Axel Reineger disse: — Die Polizei. — Tu lo faresti? — chiese Marianne. — La polizia? Cosa gli fa pensare che con loro starei meglio? — Dice che è un tuo problema, non suo. Ma che si fida di te. Aspetta, vuole che ti traduca esattamente le sue parole. Reineger le parlò con estrema cura, con gli occhi fissi in quelli di Ryan. — Perché — tradusse lei — se verrai preso, o se cercherai di scappare con quello che troverai, o se per qualche motivo non tornerai indietro, allora la figlia di Anneliese Cadogan saprà certamente dimostrare che vale molto, ma molto di più di quanto valesse Anneliese Cadogan. Dice di annuire se hai capito. Ryan annuì, lentamente. — Ma questo cosa significa? — chiese Marianne. — Limitati a dirgli che farò quello che vuole — disse Ryan. 66 Ryan, ora vestito di tutto punto, venne condotto nel cortile un'ora prima del sorgere dell'alba. Con loro c'era anche Marianne. Frau Lüderssen e sua figlia erano state riportate nella dispensa dove erano state rinchiuse. Jansen aveva già provveduto, ore prima, a portare il furgone bianco sul retro per evitare che fosse visto e anche, come Ryan sospettava, con la speranza che, tenendolo al coperto, al mattino non l'avrebbe fatto impazzire per mettersi in moto. Ma lo fece lo stesso. Il motorino d'avviamento girava con calma inerte. Il motore tossì, come se fosse l'unica cosa che riuscisse a fare prima di esalare l'ultimo respiro di una lunga e faticosa esistenza. Reineger fece qualche commento che non aveva bisogno di essere tradotto. Mentre con una mano si toglieva dal viso i fuscelli che la brezza faceva mulinare, teneva l'altra saldamente sulla spalla di Marianne. Ryan fissava il furgone. Prima o poi si sarebbe acceso, non c'erano rinvii possibili. Sapeva che doveva affrontare quella prova, manovrato come una marionetta. E poi?
Il motore tossì di nuovo, ritossì, poi sembrò prendere vita. Ganz spalancò lo sportello dalla parte del passeggero e, con un gran sorriso, fece segno a Ryan di salire. Ryan obbedì. Il sedile era rotto, le sue molle erano passate da tempo a miglior vita. Sembrava che quel furgone, quando non trasportava persone, venisse adibito al trasporto di sacchi di cemento e altri materiali da costruzione. Ganz chiuse con un colpo secco la portiera; Ryan guardava Marianne. Anche Axel Reineger lo stava fissando, mentre pigramente accarezzava i capelli della bambina. — Non ti preoccupare — disse Ryan. — Non fare nulla che li irriti, ma limitati a stare seduta e ad aspettare. Io vado e torno nel più breve tempo possibile. Niente mi fermerà. D'accordo? — Se prometti di tornare. — Te lo prometto. Siamo d'accordo? Marianne annuì, piano. Reineger sorrise. Il furgone cominciò a fare manovra. Le possibilità che qualcuno l'avesse visto erano meno che remote. La fattoria era isolata da quelle dei vicini, e non era stato sparato nessun colpo. Reineger e i suoi soci avevano anche provveduto a tagliare la linea telefonica. E anche immaginando, per amore di supposizione, che ci fosse in giro qualcuno a quell'ora antelucana, cosa c'era di strano da vedere? Cosa c'era da sospettare? Certo, Axel Reineger non avrebbe potuto fermarsi per sempre da Frau Lüderssen. Ma per il momento, per uno in fuga come lui, era la sistemazione migliore. Il furgone procedeva sobbalzando sulla strada sterrata. Gli alberi che fiancheggiavano la strada rimandavano il rumore del motore attraverso il finestrino aperto. Ryan cercò di chiuderlo ma quello, giunto a metà corsa, ripiombò giù di nuovo. Jansen si chinò in avanti per prendere una vecchia cartina dal cassetto del cruscotto. La lasciò cadere sulle gambe di Ryan. — Controlla la strada — gli disse. Ryan aprì la carta. Non era particolarmente vecchia, ma era stata così tanto usata che lungo le pieghe la stampa era scomparsa. — Partendo da dove? Jansen lanciò un'occhiata e si chinò per fargli segno, facendo sbandare il mezzo mentre indicava un punto col dito. Parecchie fattorie erano state segnate con una X, ma solo una era stata cerchiata con un tratto di penna,
tracciato con forza. A Ryan ci volle un bel po' per trovare Düsseldorf. — Perché non ha mandato te? — chiese poi. — Perché ci conosciamo bene. E lui non si fida molto di me, come io di lui. Lavoriamo assieme, tutto qui. — Pensa per un attimo che io non torni. Cosa farà alla bambina? — Troverebbe chi se la compera — disse Jansen come se fosse ovvio. — Per cosa? Jansen lo guardò con un'espressione che diceva: "Possibile che tu sia così tanto stupido?". Ryan si adagiò debolmente sul sedile, e cominciò a controllare la cartina. Sentiva che gli tremavano le mani. Marianne gli aveva chiesto come poteva avere paura di qualcosa quando non aveva paura di morire. Be', forse era così, anche se certe cose si sanno solo quando viene il momento. Lei gli aveva anche chiesto se pensava che ci fosse qualcosa di peggio della morte. E se lui pensava ad Axel Reineger, e alla sua mano nei capelli della bambina, alla mancanza di vita che aveva visto negli occhi di Anneliese Cadogan, sì sentiva sicuro che sì, c'era qualcosa di peggio della morte. 67 Fecero un largo giro per avvicinarsi all'obiettivo. Se c'era una qualche attività di polizia nei pressi della casa, non se ne avvidero. Passarono una volta davanti alla casa, ma senza fermarsi. Durante il tragitto fino a Düsseldorf, Ryan aveva appreso da Jansen varie cose, oltre al fatto che quella casa era il luogo in cui era stata trovata morta Anneliese Cadogan. Axel Reineger era convinto che l'atto finale di quella donna era stato più di un gesto calcolato teso a rovinarlo, perché per prima cosa lei gli aveva sottratto i mezzi per la fuga, e poi aveva fatto scoppiare il bubbone. Autosacrificio? Sembrava, ma Ryan non se ne sentiva sicuro. Sacrificio significava essere preparato a dividerlo con qualcosa che tu, in realtà, non vuoi perdere. E poi, c'era un'altra possibilità. La ricaduta su Reineger poteva anche essere puramente casuale. Ryan sospettava che i veri bersagli del suo probabile suicidio dovevano essere stati la mente e il cuore di Patrick Cadogan. Jansen parcheggiò fuori strada in uno slargo dietro un impianto chimico. Il terreno era stato più volte arato dai mezzi pesanti che l'avevano usato per
cambiare direzione di marcia. Il traffico era pesante, ma nessuno si fermava in quel posto. Si trovavano a meno di un chilometro da dove la strada terminava e sorgeva la casa. — Io non vedo niente — disse Ryan. — E tu? Jansen si strinse nelle spalle. — Adesso che fai, torniamo assieme o ti fermi qui? — Chi cammina sei tu — disse Jansen, e quindi si rilassò sul sedile. Era chiaro che non voleva avvicinarsi più di così. Ryan saltò giù dal mezzo e si avviò a piedi. Nel cortile dell'impianto chimico fecero capolino due grossi cani da guardia, che lo seguirono dall'interno fino al limitare del loro recinto. Dopo di che, gli abbaiarono dietro. Lui si voltò a guardare il furgone. Jansen sembrava essersi appisolato. Ryan si sentiva stanco, ma più moralmente che fisicamente. Invidiava Jansen. Invidiava tutti, in quel momento. Non sembrava che fosse cambiato qualcosa dall'ultima sua visita. Sembrava che la casa fosse stata chiusa dai proprietari partiti per una vacanza, come tutte le altre in quella strada. Rifugi da fine settimana, piccoli e poco costosi, abbandonati a se stessi durante i giorni di lavoro. Era quello l'indirizzo che Anneliese Cadogan gli aveva dato assieme alla chiave. Lui c'era già stato con Marianne, ma non avevano scoperto niente. Alla fine avavano capito che la chiave serviva per la casella della posta, non per l'abitazione, ma quando l'avevano aperta l'avevano trovata desolantemente vuota. Da quel che aveva potuto capire, Anneliese Cadogan era stata trovata morta solo poche ore dopo la loro visita. Una cosa era diversa dalla volta precedente, a eccezione ovviamente della nuova catena con lucchetto al cancello e delle strisce di plastica della polizia che pendevano inerti. Questa volta, gli era stato detto dove doveva frugare. Si fermò al cancello per guardarsi attorno. Non c'erano auto parcheggiate nelle vicinanze, né fumo che usciva dai camini delle case circonvicine. Tutti i balconi apparivano deserti, tranne uno sul quale si vedevano dei panni stesi ad asciugare. La cassetta delle lettere era fissata a una colonnina di cemento all'interno della recinzione. Il filo metallico era stato tagliato e ripiegato su di sé per lasciare spazio allo sportellino di aprirsi. Dopo un'ultima occhiata tutt'attorno, Ryan aprì la cassetta. L'interno era vuoto, come l'altra volta: non c'era altro che un po' di polvere, una foglia ormai rinsecchita che il vento aveva spedito al posto di
una rivista. Spazzò via la foglia e fece scorrere la mano sul fondo, come gli era stato detto di fare. Spinse. Sentì di avere qualcosa di diverso sotto le dita. Sotto la verniciatura dell'allumìnio c'era una striscia di stucco che nascondeva una specie di doppio fondo della cassetta. Staccò lo stucco, che venne via con facilità. La cavità che portò alla luce conteneva un pacchetto della stessa grandezza della cassetta. Fece scivolare il pacchetto sotto il pastrano, richiuse lo sportellino e si allontanò rapidamente. Teneva il pacchetto sotto il braccio, all'interno del pastrano, perché non ci stava in nessuna delle tasche. Per prenderlo aveva impiegato circa trenta secondi. Non di più. Da quel che ne sapeva lui, nessuno l'aveva visto, nessuno gli aveva prestato la benché minima attenzione. Resistette alla tentazione di voltarsi indietro fino a quando non ebbe attraversato la strada. Giunto che fu al termine della strada si voltò, e allora si sentì veramente sollevato. Tutti i suoi problemi giacevano ancora dinnanzi a lui. Ma quella prova almeno era superata. Non aveva osato contemplare le conseguenze di quello che sarebbe potuto accadere se la polizia fosse stata ancora da quelle parti, né quella di tornare da Reineger a mani vuote. Il peggio, lo sapeva, sarebbe stato non tornare per niente. Quell'uomo era sull'orlo della disperazione, e l'unica persona su cui poteva sfogare la sua frustrazione era Marianne, e lui sapeva che non avrebbe esitato a convertirla in denaro sonante alla prima opportunità. Adesso lui aveva il pacchetto, ma non aveva nessuna intenzione di consegnarlo. Durante il viaggio di ritorno avrebbe pensato a come trasformarlo in una merce di scambio, come fanno sempre le spie. Jansen poteva rappresentare un problema, ma a quello poteva pensarci per tempo. Passò sotto un grande murale dipinto sulla parete di un edificio. Rappresentava un occhio umano, molto realistico, solo che era alto cinque piani: un inaspettato lampo d'immaginazione in un'architettura che non ne mostrava alcuno. Sperava che Jansen avesse già acceso il motore: non avrebbe sopportato un guasto meccanico, non a questo punto della storia. Ma sembrava che Jansen l'avesse già acceso il motore. Perché né lui né il furgone erano dove li aveva lasciati. 68
L'autobus extraurbano era vecchio e sporco; sotto la sporcizia s'indovinava che doveva essere stato bianco con una striscia arancione, che ancora ornava, si fa per dire, le lacere tendine dei finestrini. I bagagli che erano stati allineati in attesa di essere caricati avevano, più o meno, la stessa aria di decrepitezza. Molte donne indossavano pellicce dall'aria più funzionale che di lusso. Gli uomini indossavano giacche di pelle, sciarpe e stivali. Uno aveva con sé uno scatolone con un TV-color, un altro portava un lungo rotolo di carta da parati. Nessuno aveva l'aria di essere benestante. L'autobus era quasi completo, ma Ryan riuscì a trovarsi un posto. La sua destinazione finale era un luogo che Ryan non avrebbe mai osato pronunciare. La maggior parte dei suoi vicini erano turisti provenienti dalla vecchia DDR, diretti a casa. Parecchi, come lui, viaggiavano soli. Sedette, con il pacchetto di Reineger sulle gambe, e appoggiò stancamente la testa contro lo schienale. Di tanto in tanto, dalla radio manovrata dall'autista, arrivavano folate di musica popolare, che subito svanivano per tornare dopo un po'. Aveva trascorso tre ore nella disperazione più cupa. All'inizio era rimasto fermo dove avrebbe dovuto esserci il furgone, sconcertato. I due cani di prima si erano rizzati con le zampe anteriori contro la recinzione, che facevano oscillare ritmicamente all'unisono col loro abbaiare. Gli stessi cani, lo stesso posto, lo stesso scenario: non si era sbagliato. Quando s'era guardato ai piedi aveva visto che il terreno conservava una nuova traccia di olio, delle dimensioni di una moneta da cinque marchi. Era tutto quello che rimaneva di Jansen e del furgone. Ryan si era spostato lungo la strada per osservare in tutt'e due le direzioni, nella speranza che l'altro si fosse spostato per fare manovra e che stesse tornando per raccoglierlo. Passavano grossi camion trasporto, e null'altro. La triste, cruda verità si stava facendo strada in lui. Jansen doveva aver trascorso il tempo del tragitto a far funzionare quel che aveva nella scatola cranica. Doveva aver pensato a Reineger e a quale partner rischioso era diventato per lui. Per cui, fedele ai suoi principi di uomo senza principi, aveva deciso di togliersi da una situazione rischiosa e filarsela. Il che significava che lui adesso era solo, nella parte sbagliata del paese, senza mezzi per tornare indietro, senza soldi, senza documenti, ricercato dalla polizia di due nazioni, senza conoscenze della lingua, nemmeno a conoscenza del nome della città più vicina al posto in cui doveva recarsi, e col tempo a disposizione di Marianne che se ne andava rapidamente.
Si disse che un giorno avrebbe dovuto fermarsi e chiedersi com'era possibile che un uomo di modesto ingegno come lui avesse potuto meritarsi così tanto. La prima mossa era stata di guardare nell'involucro di Reineger. Come s'aspettava, era pieno di soldi. C'era anche un passaporto svedese intestato a un nome illeggibile, ma con la fotografia di Axel Reineger, oltre ad alcune carte di credito e a parecchi traveller cheque in dollari. E poi biglietti d'aereo, con la destinazione, ma senza data, e uno di quei dischetti che si usano per i computer, senza etichetta. Non avrebbe mai potuto usare niente di tutto ciò, ma adesso i soldi gli facevano comodo per cercare di tornare alla fattoria. Erano state tre ore terribili, ma adesso Ryan stava procedendo nella giusta direzione. Doveva cambiare mezzo due volte, e sarebbe arrivato a una distanza minima dalla fattoria verso mezzanotte. Aveva sempre il problema di come percorrere gli ultimi venti chilometri, ma ci avrebbe pensato al momento opportuno. A quell'ora sarebbe stato in ritardo di dodici ore. Era questa la parte che lo spaventava di più. L'autobus stava rallentando, per fermarsi in un'area di servizio. Ryan si svegliò di colpo. Si era addormentato? Da quanto dormiva? L'autista stava facendo una sorta di annuncio che Ryan non capiva, ma che suscitò un gemito sinistro da parte degli altri. Quando l'autobus si fermò, tutti si alzarono e cominciarono a prendere il bagaglio a mano. — Mi scusi — chiese a una delle donne più giovani — ma qual è il problema? — L'autista ha detto che ha noie al motore — disse l'altra mentre si caricava di due borse rigonfie. — Che tipo di noie? — Ha chiesto un altro autobus per rilevarlo. Dobbiamo scendere e aspettare. — Ha detto per quanto? Ma l'altra si strinse nelle spalle, rassegnata, mentre seguiva gli altri passeggeri lungo lo stretto corridoio. Ryan fu l'ultimo a scendere. Era rimasto seduto ancora un po', frastornato. Gli stava franando tutto attorno. Lentamente, scese dal mezzo. L'autista era scomparso. Se anche c'era un altro autobus pronto, ci sarebbe voluta un'ora, se non più, per arrivare fin lì. Aveva perso la prima coincidenza. Dodici ore che diventavano venti ore. Reineger se ne sarebbe andato, e con lui Marianne. Nessuno l'avrebbe
mai più rivista, e l'ultimo ricordo che avrebbe avuto di lui sarebbe stato una promessa infranta. Cominciò a guardarsi attorno, per rendersi conto di dove fosse. Un'idea gli attraversò la mente: poteva rubare un'auto, ma quello era forse il posto peggiore per provarcisi. Le auto restavano incustodite solo pochi minuti, non per ore, e l'inseguimento sarebbe cominciato prima che avesse percorso pochi chilometri. L'avrebbero preso prima della prossima uscita dell'autostrada. E allora, come avrebbe potuto aiutarla? L'area di servizio era stata costruita quando il traffico era minore, e adesso era affollatissima. Lunghe code di veicoli attendevano il turno per fare il pieno, e davanti al posto in cui servivano panini e dove c'erano due gabinetti autopulenti c'erano code ancor più lunghe. Gli altri passeggeri sembravano invece essere scomparsi dentro il ristorante, e fu lì che li seguì. Sedette e, quando arrivò la cameriera, le chiese un bicchiere d'acqua. Attese a lungo, e nel frattempo il suo senso di impotenza cresceva. Si sentiva un pazzo ad aver pensato di potercela fare. Marianne sembrava vederlo come un eroe, ma cos'era lui in realtà? Un raccoglitore di rifiuti, semiistituzionalizzato per di più. Anche chiamarsi in quel modo era una maniera per darsi un alone romantico. In realtà era un barbone, con la ferrovia come proprietaria. E adesso, nemmeno più quello. Per la prima volta dopo anni, si chiese se nella preghiera ci fosse qualcosa di utile. Sapeva che molti si rivolgono a Dio quando i problemi sono troppo grossi per poterli affrontare: era come un riflesso, qualcosa che gli veniva naturale. Tutte le domeniche, nella cappella, aveva guardato diritto davanti a sé mentre gli altri chinavano il capo; ma non che non credesse. Era convinto che doveva esserci un Dio. Ma preghiere, santi, miracoli, morti che resuscitano... quelli erano solo effetti speciali. Comunque poteva provarci, che male gli avrebbe fatto? Ma era convinto che né un atomo né un impulso si sarebbero alterati per lui. Pensarla in altro modo era come credere nella magia, anche se sotto un nome più rispettabile. Una voce di donna lo riscosse. — Mi scusi, l'ho sentita parlare con la cameriera. Lei è inglese? Si voltò per guardarla. Era giovane, ma non era una ragazza. Aveva capelli neri con un buon taglio. Era vestita completamente di nero, con una cintura dalla fibbia argentata. — Posso sedermi qui con lei? Non la disturbo? Adesso le spiego perché.
Lui fece un gesto incerto con la mano, e lei girò attorno al tavolo per sedersi. — Sto cercando di liberarmi da un autostoppista tedesco — gli spiegò. — Un amico me l'ha presentato a Hannover, dicendo che garantiva per lui. Ma è terribile. — Che ha fatto? — chiese Ryan. — Niente. Ma sono le sue domande, sono orripilanti. Cosa piace alle inglesi. Cosa gli piace fare. Cosa ne pensano. Mi sta facendo impazzire. Sono convinta che non sia del tutto normale. La mente di Ryan galoppava. Gli veniva offerto un appiglio? Qualcosa che poteva sfruttare? Lei stava per riprendere a parlare quando lui l'interruppe. — Prenda me al posto suo. Non era sua intenzione dirlo così bruscamente, ma ormai era fatta. La donna sobbalzò e lui la vide impallidire, come se all'improvviso si fosse resa conto di essersi avventurata nella parte sbagliata della città, e che quelle che aveva creduto essere le luci della città indicavano invece qualcosa di più sinistro. Allora aggiunse rapidamente: — Quel che voglio dire è, usciamo assieme diretti alla sua auto. Quando si sarà accorto che non siamo veramente assieme, lei sarà già partita e lui non potrà farci niente. Lei si rilassò visibilmente. — Ha il tempo per farlo? — Ho tutto il tempo che voglio — rispose lui. Si alzarono e si diressero verso la porta. Stavano lasciando il ristorante, quando un uomo si avvicinò loro. Era sulla trentina, snello, capelli radi, un orecchino all'orecchio, e quando vide la donna si capì che stava per dire qualcosa, ma poi passò oltre, e Ryan, voltandosi, vide che le parole gli si stavano formando sulle labbra, dove morirono inespresse; seguì la donna all'aria aperta e, dopo pochi passi, le chiese: — Era lui? — Non oso voltarmi — rispose lei senza rallentare il passo, e Ryan si voltò a mezzo, guardando al di sopra della spalla. — Tutto a posto — le disse. — Non ci sta seguendo. — Ci guarda? — Solo dall'interno del ristorante. Non è uscito. Raggiunsero l'auto di lei, un'utilitaria a noleggio. — Be' — disse lei aprendo la portiera. — Grazie. Ryan fece spallucce. Nessun problema. Rimase a guardarla. Lei non salì in auto.
— Dov'è la sua auto? — Non ce l'ho — rispose lui. — Sono in autobus, ma s'è guastato. — Ma allora... lei è bloccato qui. Lui tacque. Non doveva spingere troppo. Però poteva sperare. Ma non premere. — Ne hanno chiamato un altro? — Non arriverà abbastanza presto per me — disse. — E la mia bambina mi sta aspettando. Lei esitò per un lungo momento. Ma la bambina era il grimaldello giusto. — Credo che farebbe bene a venire con me — gli propose. Ryan non esitò. Sentiva che era a disagio quando imboccarono l'autostrada, ma non sapeva cosa dire per tranquillizzarla. Aveva sempre il pacchetto di Reineger con sé. Vide che lei lo guardava, ma non le diede spiegazioni. Gli chiese se era tutto il suo bagaglio, e lui rispose di sì. Il traffico era pesante. C'erano camion di tutti i tipi, e automobili, e motociclette. Quando glielo chiese, le disse che era un commesso viaggiatore in vacanza. In un certo senso, era vero. Lei gli disse di essere un'insegnante delle secondarie, e che anche lei era in vacanza, una vacanza di lavoro perché doveva andare a trovare alcune persone. Aveva prenotato una stanza in albergo a Magdeburgo. Conosceva quella città? Ryan rispose di no. E poi vide un veicolo dall'aria familiare, che li superava sulla corsia di sorpasso. — Non riesco a crederci — disse. — A cosa? — Quello è il mio autobus — disse. — Quello che hanno detto essere guasto. — Forse sono riusciti ad aggiustarlo. — Già, con parti di missile — disse lui, mentre l'autobus li superava a gran velocità. Sembrava che l'autista volesse recuperare il tempo perso. Lanciò un'occhiata al tachimetro, ma la velocità era in chilometri, il che non significava nulla per lui. — A quanto stiamo andando? — chiese. — Sufficientemente veloci per me — rispose lei. — Se non le va, rallento molto volentieri. Lui strinse le mani e non disse nulla. Le stringeva con forza tale che gli dolevano le dita. — Cosa le succede? — chiese la donna.
— Mi dispiace — disse lui. Stava respirando a fatica, e non se n'era accorto. — Non sta male, vero? — No — rispose lui. — Solo che ho qualcosa che devo fare. — Dove? — Non so come si chiami il posto. — E allora come farà a trovarlo? — Su una cartina, appena ne troverò una. — Senza offesa — disse lei — ma lei è uno strano tipo. Ryan teneva lo sguardo basso. Superarono quello che un tempo era stato la linea di confine, e dovettero rallentare per seguire la strada che s'insinuava fra gli edifici che una volta ospitavano il personale di controllo. Le aree di sosta che stavano dietro le paratie rompi-rumore erano deserte, i cavalletti divisori erano stati abbattuti, l'erba faceva capolino fra le fessure. I vecchi segnali stradali erano stati cancellati. La torre di controllo aveva tutti i vetri infranti. Lei mise la freccia per uscire e Ryan si rese conto, con un sussulto, che presto l'avrebbe lasciato chissà dove. — Mi dia la macchina — sparò di colpo. — Posso pagarla in dollari. Lei potrà dire che le è stata rubata oppure che gliela restituirò io più tardi. Tutto quello che vuole. — Non sia ridicolo. — Non lo sono. Ne ho bisogno. — Non dica un'altra parola — disse lei, e lui avvertì la rabbia che stava cercando di controllare. Diresse l'auto verso un'area di parcheggio piena di camion, sovrastata da un modesto autogrill. Prima di aprire la portiera, lei si assicurò di togliere le chiavi dal cruscotto. Indietreggiò e disse: — La prego, scenda dall'auto. Ryan scese. — Ma cosa le succede? — chiese lei. — È nei guai, per caso? — Non glielo posso dire. — Non ho mai visto nessuno così disperato come lei. — È probabilmente vero. Lei lo scrutò per un poco. — Non voglio portarla più avanti di così — aggiunse poi. — Però le concedo due minuti perché mi dica qual è il problema, e se c'è un modo per aiutarla... be', non so. Devo pensarci. Si avviò verso l'autogrill e, quando lui cominciò a seguirla si voltò e disse: — Non così da vicino.
Entrarono nell'edificio che comprendeva bar e negozi vari, una costruzione in cemento con ventilatori al soffitto e macchine distributrici di Coca-Cola. Dopo l'altro, questo sembrava vuoto. La donna lo guidò fino a un tavolino poi si recò alla cassa. Tornò con una cartina della zona e una penna a sfera. Li spinse verso di lui. Rimase in attesa. Aprì la cartina. Gli ci volle un minuto per trovare il posto. Gli tremava la mano mentre puntava la penna sulla fattoria di Frau Lüderssen. Non aveva alcun dubbio: in un modo o nell'altro quella donna l'avrebbe aiutato, e tutto allora tornava in gioco. Lui sapeva chi lei fosse. Lei non lo sapeva, ma lui sì. Chi ti viene in aiuto quando sei ridotto alla disperazione e ti sembra di stare guardando il male dritto negli occhi e non vedi nessuna via di scampo? Lei sedette con le braccia incrociate, col corpo sulla difensiva, ma impaziente. Lui girò la cartina per mostrargliela. — Qui — disse. — È qui che devo andare. — Ed è lì che si trova la sua bambina? Si era alzata, con la cartina in mano, pensierosa. — Aspetti un momento — disse, e si allontanò. Quando giunse alla porta, un paio di camionisti si scostarono per lasciarla passare. Ryan rimase seduto. Stava pensando furiosamente. Le cose ingranavano, forse tutto stava andando per il verso giusto. L'ordine nel quale aveva sempre creduto stava cominciando a mostrare il suo potere, e stava puntando verso la luce. C'erano diavoli, e c'erano anche angeli, ma erano tutti persone, ognuno che impersonava il suo personaggio nel gran dramma del bene e del male senza nemmeno sapere chi fossero in realtà e i significati profondi di quello che stavano facendo. Prese il pacchetto di Reineger, per posarselo davanti. Da dietro, una mano si protese e lo afferrò per il polso. Senza capire, alzò lo sguardo. Stava guardando la faccia dell'autostoppista lasciato prima a terra: gli stessi capelli radi, l'orecchino d'oro. Da vicino sembrava un po' più vecchio di come gli era apparso prima. Con voce fredda, impersonale, disse: — Alzati, per favore. Nell'altra mano aveva un disco d'ottone. Prima che Ryan potesse rispondere in qualche modo i due camionisti l'avevano affiancato afferrandolo per le braccia, poi lo costrinsero a piegarsi in avanti sul tavolino, e quando gli incrociarono le mani dietro la schiena allora capì cosa sarebbe
successo subito dopo, e cercò di divincolarsi perché era qualcosa che gli era già successa e che odiava, ma ormai era troppo tardi, e le manette scattarono; con la guancia premuta con forza sul tavolino, la faccia girata da una parte, poteva vedere il parcheggio e l'auto della polizia e i poliziotti in uniforme che prima non s'erano visti, e c'era gente che correva verso l'edificio. Lo misero in piedi e lo spinsero in avanti, con le braccia ben strette dietro. Si sentiva incredibilmente vulnerabile. Lo sospinsero un poco, costringendolo a saltellare per mantenere l'equilibrio. Cercò di vedere il tedesco con l'orecchino, ma si stava allontanando con il pacchetto di Reineger in mano. Uno spintone lo costrinse a seguirlo. Il ragazzo del bancone lo fissava a occhi spalancati. I pochi clienti si erano alzati e, abbandonati cibi e bevande, li stavano seguendo. Ryan incespicò, ma una mano ferma lo sostenne impedendogli di cadere. Adesso poteva vedere anche la donna: si era fermata e lo stava fissando. Il suo sguardo non era di sorpresa ma di grande tensione, una tensione che adesso stava abbandonandola, e l'uomo le stava chiedendo qualcosa e lei stava annuendo, dicendo che andava tutto bene. Quando passò loro davanti, sentì che l'uomo diceva: — Ben fatto, Jennifer. Ben fatto. E poi, mentre lo trascinavano via, sentì la donna dire: — Grazie, Werner, ma perché quella brillante idea di far partire così presto l'autobus? Perché è arrivato dannatamente vicino a mandare tutto a puttane. Era all'aperto adesso, e c'era un'auto della polizia che aspettava lui nel posto dove non si doveva parcheggiare, e poi venne fatto salire e si trovò compresso fra due uomini in uniforme. Aveva sempre le manette ai polsi, per cui dovette stare piegato in avanti. Le portiere si chiusero, l'auto partì. Ryan si voltò a guardare. La donna era ancora là, con il finto autostoppista che le parlava tenendole le mani sulle spalle. Da quando aveva preso la cartina dalle sue mani, non lo aveva più guardato. 69 Fu nel momento in cui vide i due furgoni della polizia che bloccavano la strada che Cadogan ebbe la certezza di essere nel posto giusto. Era sera, e si trovava in una zona agricola, quasi del tutto priva di segnali stradali. Gli
uomini in uniforme gli fecero cenno di rallentare e lui, quando si fu fermato, abbassò il finestrino e chiese: — Mi dovete lasciare passare. Sono stato convocato. L'Obermeister si avvicinò e si chinò a guardarlo. — Chi è lei? — Sono il padre della bambina inglese. Hanno bisogno di me, non mi faccia tornare indietro. L'uomo lo fissò a lungo, senza dire nulla. — Attenda un momento — disse alla fine, e andò alla radio della sua auto. — Chieda dell'agente inglese — gli gridò dietro Cadogan. — È lei che mi ha fatto chiamare. L'altro fece un vago gesto con la mano, come a dirgli di abbassare la voce. Cadogan aspettò, in tensione. Un paio di minuti dopo, l'altro tornò da lui. — Può passare — gli disse. — Non lasci la strada e vada fino al villaggio. Usi solo le luci di posizione, non mandi su di giri il motore, e non pensi minimamente di suonare il clacson. — Esattamente, a che distanza ci troviamo? — Siamo a circa quattro chilometri dalla fattoria. Da queste parti non accadono molte cose di notte, così ogni rumore strano richiama l'attenzione. Quattro chilometri. Sufficientemente vicino da essere sentito. Cadogan era teso, sentiva il cuore che martellava furiosamente mentre guidava, come se stesse per affrontare una qualche presenza opprimente. Entrò nel villaggio. Lungo il tragitto superò una fila di veicoli illuminati internamente dalle luci dei cruscotti, davanti alle quali si muoveva una parata di spettrali figure, che sembravano pronte per una guerra imminente: indossavano giubbotti antiproiettile ed elmetti, imbracciavano ogni sorta di armi. Ce n'erano alcune decine, troppi per contarli mentre gli passava davanti. Da quel che poteva vedere, nessuno di loro sembrava avere una faccia. Parcheggiò nella piazza del paese. Le case che la circondavano sembravano essere state tolte di peso da una favola, inalterata dall'uomo anche se guastata dal trascorrere dei secoli. Mura massicce, finestre strette, alti portali arcuati che portavano ai cortili interni. Cadogan scese dall'auto e attraversò la piazza. Un edificio era chiaramente il centro d'attenzione: era un enorme granaio in mattoni rossi e travi di quercia che sorgeva subito dietro la pensilina della fermata degli autobus. Le porte del granaio erano
spalancate, e dall'interno veniva una forte luce. Lì vicino c'era uno scassato furgone che una volta era stato bianco, attaccato a un rimorchio. L'interno del granaio, dal basso soffitto, era stracolmo di gente. Le luci funzionavano grazie a un gruppo elettrogeno provvisorio, e tutto il posto, compresi gli stalli vuoti degli animali, era stato trasformato in un gigantesco centro di controllo e di comando. Dal rumore che si sentiva provenire dal soffitto, anche la parte superiore dell'edificio doveva offrire uno spettacolo simile. Fermò uno e gli chiese dove fosse Jennifer McGann. L'altro non ne sapeva nulla, ma in quel momento si sentì chiamare. Era lei. — Ho dovuto discutere perché la lasciassero passare — gli disse subito. — Non faccia nulla che mi possa mettere in difficoltà. Era vestita di nero, e aveva un'aria esausta. — Sta bene? — le chiese Cadogan. — È stata una giornata di grande tensione — disse lei. — Non so se gliel'hanno già detto, ma abbiamo fermato O'Donnell. — Di già? — disse lui, stupito. — Ma allora...? — e lasciò incompleta la domanda, accennando a tutta l'attività attorno a loro. — Non è così semplice come può sembrare — disse lei, e Cadogan cominciò a sentirsi mancare la terra sotto i piedi, come quando uno ascolta il medico che sta cercando con grande tatto di dargli le notizie più tragiche. — Mi dica — la sollecitò. Si ritirarono in uno stallo, nel quale erano stati accatastati alcuni scatoloni vuoti. Sotto i piedi avevano una lettiera di paglia pulita. Mentre attorno l'attività proseguiva, lei cominciò a spiegare. La ricerca dei beni di Axel Reineger successiva alla morte di Anneliese Cadogan li aveva portati alla scoperta di parecchio denaro nascosto e di un passaporto falso intestato a nome suo. Avevano rimesso il tutto a posto e avevano cominciato una discreta sorveglianza del posto. Ma invece di Reineger avevano visto arrivare O'Donnell. Allora avevano arrestato il conducente del furgone bianco, guidato da un complice di Reineger, prima che O'Donnell tornasse da lui. Un agente in borghese gli aveva dato un passaggio fino alla fermata dell'autobus, dove un altro agente lo attendeva alla cassa per indirizzarlo bene. In questo modo avevano avuto un'idea dell'area in cui dovevano concentrare le ricerche, ma non erano riusciti ad avere una localizzazione esatta. Non volevano suscitare i suoi sospetti. Avevano finto un guasto all'autobus e il gioco era finito quando lui aveva
segnato sulla cartina il luogo esatto in cui Reineger, e Marianne, lo aspettavano. — Qui non capisco — disse Cadogan. — Che c'entra Reineger con Marianne? Ma prima che potesse ricevere una risposta dal piano superiore venne un rumore di tuono, come se una mandria si fosse messa in movimento, e dall'altra parte del granaio venne una lama intensa di luce e subito dopo un gioco di luci e ombre mentre una folla di persone in stivali scendeva dabbasso. Stavano discendendo lo scivolo in legno usato dal bestiame: si spostavano come guardie del corpo e come carcerieri, i visi pallidi e le mai tese in avanti, e fra loro, con le mani ammanettate, avanzava un uomo che Cadogan riconobbe immediatamente. — O'Donnell! — gridò, dimenticando tutto e tutti. Tutte le teste, compresa quella di O'Donnell, si voltarono verso di lui. Poi la sua guardia d'onore lo afferrò di nuovo per le braccia e ripartì a passo di carica. — Non li lasci farmi questo! — stava gridando O'Donnell, mentre la folla del pian terreno rallentava la loro avanzata. Cadogan si era slanciato in avanti, ma Jennifer McGann l'aveva già afferrato per un braccio, strattonandolo all'indietro. — Non portatelo via — stava strillando Cadogan. — Lo voglio qui! Il baccano a questo punto era indescrivibile, e tutti sembravano muoversi per dividere i due. Mentre O'Donnell veniva trascinato via, gridò all'indirizzo di Cadogan: — So quello che sta pensando di me, ma si sbaglia! Ho fatto un accordo per lei, e adesso non vogliono che mantenga la mia parola! — Che cosa vuol dire? — chiese Cadogan a Jennifer. — Mi hanno fatto fare dei diagrammi là sopra — stava gridando ancora O'Donnell. — Vogliono decidere tutto con le armi. Io ho fatto di tutto perché non le succedesse nulla, e adesso loro la faranno morire solo perché vogliono prendere qualcuno che gli interessa di più! Cadogan guardò Jennifer. — È vero quello che dice? — Certo che no. — Non ha l'aria molto sicura mentre lo dice. O'Donnell adesso era stato trascinato all'aperto. — Se io non torno e lui riesce a scappare — gridò — la venderà come faceva con sua madre. Glielo dica! Li fermi! Qualcuno lo afferrò per i capelli, girandogli brutalmente la testa. In-
capace di resistere, venne sospinto rudemente in avanti, nel buio, dove lo attendeva un'auto. Cadogan si rivolse di nuovo a Jennifer. — Cosa possiamo fare per fermarli? — Niente — rispose semplicemente lei. Mentre lo stavano sospingendo verso l'auto, O'Donnell puntò i piedi e si fermò. Non era facile, ma colse tutti di sorpresa. Quasi cadde in ginocchio, ma erano così in tanti a tenerlo che gli era impossibile. Davanti a lui c'era il furgone di Jansen, attaccato a un rimorchio. Due uomini stavano togliendo i bloccaruote, preparandosi a liberarlo. Adesso gli era chiaro il piano: il furgone sarebbe stato una sorta di cavallo di Troia, che avrebbe portato un gruppo armato fino a pochi metri dalla casa, con l'idea di prendere i due uomini con un'azione rapida, chirurgica. L'alternativa erano lunghi negoziati, pieni di incognite e con tre innocenti a fare da posta. Ma era una buona idea? A Ryan non importava quanto accurata fosse la loro preparazione. Quello che invece sapeva bene è che era in preparazione una tempesta di fuoco che stava per abbattersi su Marianne, e tutto a causa del suo fallimento. Adesso che avevano avuto quello che volevano da lui, lo stavano portando via. A molti chilometri da lì, fuori da quella zona. Nessuno gli avrebbe mai detto com'era andata a finire. A nessuno sarebbe importato quello che lui sentiva e pensava. Alzò le mani davanti all'ufficiale che gli stava dinnanzi e disse: — Può fare qualcosa per fermare tutto questo? L'altro lo guardò. I polsi di Ryan erano tutti spellati e sanguinanti per il continuo dibattersi. — Bel tentativo, Herr O'Donnell — gli disse secco. — Ma prima la ficcheremo in quell'auto. Quando fu tornata una relativa calma, qualcuno diede a Cadogan un bicchiere di carta colmo d'acqua. Non lo voleva, ma lo prese lo stesso. Sedette su una sedia di plastica, posò il bicchiere tra i piedi, e si prese la testa fra le mani. Jennifer lo guardò per un poco, poi uscì per assicurarsi che l'auto con O'Donnell a bordo fosse partita. Era così, infatti. C'erano due meccanici che stavano lavorando al furgone, che stava resistendo a tutti i loro sforzi di metterlo in moto. Sull'acciottolato erano posate due batterie nuove, mentre tutt'attorno gironzolavano, nervosi, gli uomini armati di tutto punto. I meccanici stavano lavorando agli spinotti dell'accensione. Jennifer tornò dentro.
Cadogan alzò lo sguardo. — Credo di sapere — disse — perché mi ha voluto qui. Lei non rispose. — Aveva ragione, vero? — proseguì lui. — O almeno, lei lo crede. È uno scambio pacchetto-Marianne, e l'attenzione di tutti non dev'essere solo su di lui, perché se io sono qui saranno costretti a ricordare che c'è di mezzo una bambina. — Siamo ormai alla fine — disse Jennifer. — Entro un'ora sarete di nuovo insieme. È questo il motivo per cui lei è qui. Qualcuno chiese di fare silenzio. Si stavano tutti radunando presso la radio situata in un angolo del granaio. Cadogan balzò in piedi quando sentì un certo nome. Il bicchiere di carta venne sbalzato via e l'acqua si sparse sul pavimento, ma lui non ci badò. S'avvicinò per sentire assieme agli altri. Jennifer non si mosse per fermarlo, ma lo seguì. Assieme ascoltarono il messaggio. La macchina che portava O'Donnell non era arrivata al posto di blocco. O'Donnell aveva persuaso le guardie a togliergli le manette; si trovava in un'auto in movimento con quattro uomini forzuti, due al fianco e due davanti, e i suoi polsi avevano urgente bisogno di essere medicati. Aveva colpito un agente con una testata, spezzato il naso di un altro, accecato un terzo ficcandogli con forza il pollice in un occhio e aveva stordito il guidatore. L'auto era uscita di strada finendo in un campo: O'Donnell era fuggito infrangendo il vetro posteriore. Dove fosse, era ignoto a tutti. Jennifer s'accorse che Cadogan la stava fissando. — Non so se è bene o male quello che è successo — le disse. L'unica cosa che Jennifer poté rispondere fu: — Me lo dica lei. Lei si voltò a guardare verso il buio della notte. O'Donnell era là fuori, da qualche parte. La maggior parte di quelli come lui ne avrebbe approfittato per eclissarsi. Ma, in qualche modo, lei si sentiva certa che lui avrebbe cercato di arrivare per conto suo alla fattoria. 70 Ganz si stava preparando a incendiare la fattoria Lüderssen. Nessuno, oltre a lui, lo sapeva, e il grande spettacolo non avrebbe avuto inizio fino a quando sarebbero partiti, al mattino; in quel momento, mentre
stavano per partire, la sua ultima mossa sarebbe stata di accendere un fiammifero e gettarselo alle spalle, e poi guardare la faccia della grassona mentre la casa e il suo lavoro scomparivano in una fiammata, in un colpo solo. Dopo l'umiliazione della sera prima, la sua espressione era l'unica cosa che gli interessava vedere, ancor più che non l'incendio. Ganz amava il fuoco. Lo amava praticamente da sempre. A tredici anni aveva cominciato a rubare automobili e a portarle al cimitero delle auto che stava vicino al fiume. Gli altri ragazzi che le rubavano le usavano per farci una gita e poi le abbandonavano nei campi, ma lui andava diritto al fiume, senza fermarsi, e una volta arrivato tagliava il tubo della benzina e dava fuoco al motore. Questo scoppiava e i vetri s'incrinavano e si deformavano, e quando il fuoco raggiungeva il serbatoio allora veniva la parte migliore di tutte, quando si formava quella grande palla di fuoco e tutto ma proprio tutto cominciava a bruciare. Seguiva allora il lento processo della cremazione, quando tutto quello che stava all'interno si consumava. La carrozzeria diventava un involucro pieno di bolle, le gomme scoppiavano e colavano in una pozza nerastra. Lui stava lì attorno a guardare, e qualche volta ci stava troppo: fu così che lo presero la prima volta, quando aveva diciassette anni, mentre stava incendiando una Corvette presa dalla base americana per realizzare un suo sogno giovanile. Axel Reineger non sapeva cosa stesse facendo. Da quel che gli risultava, era fuori a fare la guardia, non intento a spargere tutta la benzina che aveva trovato, sui campi e sulla struttura della casa. Ganz aveva la convinzione che né Jansen né l'inglese sarebbero tornati. Di Jansen era sicuro, dell'inglese, be', perché avrebbe dovuto tornare? La bambina non era nemmeno sua. Teneva la tanica sotto il rubinetto, in attesa che si riempisse. Veniva luce a sufficienza da sotto la porta della casa principale perché potesse vedere quel che stava facendo. Ormai aveva perso il conto di quante volte avesse fatto il pieno: almeno una dozzina. Aveva già annaffiato una buona metà della casa, tutti gli edifici intorno, e adesso era la volta della stalla. Il tappo faceva fatica ad avvitarsi, e la mano cominciava a dolergli per lo sforzo di farlo girare in un senso e nell'altro. Man mano che il peso della tanica aumentava, lui si chinava in avanti per controllare l'indicatore trasparente sul lato della cisterna. Avrebbe dovuto mostrare il livello di liquido rimasto mediante una pallina flottante, ma probabilmente l'indicatore s'era incastrato da qualche parte perché non riusciva a vederlo. Chiuse di nuovo col tappo, poi si avviò verso la stalla col suo carico. O
pensava di aver chiuso bene, perché mentre si stava allontanando sentì il rumore di qualcosa che sgocciolava a terra, come quando uno si mette a orinare all'aperto. Si guardò alle spalle: dove il liquido veniva investito dalla luce, si disegnava un arcobaleno. Rimase per un po' a contemplare quello spettacolo, contento che la sua vita avesse un così bel significato. Riprese la strada verso il ricovero degli animali. Benché la casa non fosse particolarmente vecchia, la stalla era antica e male in arnese. Per un po', almeno finché non fosse crollata, sarebbe stata il centro di quello spettacolo pirotecnico. Il legno si beveva avidamente il liquido infiammabile. Il risultato dopo che avesse acceso il fuoco sarebbe stato sensazionale. Come una foresta in fiamme. Una volta ne aveva vista una incendiata, alla TV, filmata alla fine di una lunga estate arida; gli alberi sembravano esplodere spontaneamente, uno dopo l'altro, mentre l'irresistibile ondata di calore li investiva. La sua immaginazione riusciva a malapena a resistere all'idea di essere sul punto di dare inizio a un tale spettacolo. Avrebbe voluto essere dappertutto nello stesso istante, per apprezzarlo appieno. Mentre versava con cura il liquido sulle travi, sentiva le bestie che si muovevano a disagio all'interno. Era evidente che avvertivano quell'odore sgradevole, e non ne capivano il perché. Be', avrebbero avuto una bella sorpresa. Non aveva mai tentato nulla su quella scala fino a quel momento; gatti randagi e cani nelle cucce erano stati il massimo cui s'era dedicato, ma molti, molti anni or sono. Cercò d'immaginare il trambusto e il terrore delle bestie quando il fuoco si fosse levato tutt'attorno a loro. Un barbecue vivente: non c'era che dire, era un artista. Poi cominciò a pensare a Frau Lüderssen e a chiedersi se avrebbe osato, solo osato contemplarla intrappolata nella casa... si sarebbe perso l'espressione del suo viso, ma probabilmente ne avrebbe sentito le urla, e se magari l'avesse anche incatenata l'avrebbe vista danzare fra le fiamme, intrappolata nella casa. Ma sapeva che era solo una fantasia. Axel, per esempio, non gliel'avrebbe permesso. Anche se stava pensando che cominciava a sentirsi sempre meno preoccupato di quello che Axel poteva pensare, perché stava cominciando sempre più ad assomigliare a un perdente. Si erano incontrati lungo la strada, mentre lui stava lasciando quella stupida festa dopo che la cicciona l'aveva schiaffeggiato davanti a tutti. Gliel'aveva restituito, è vero, però tutti avevano visto quel che gli aveva fatto e, a essere onesti, era stata una cosa inaspettata e mortificante per lui, e in
quel momento non aveva saputo come replicare. Di quei due tizi uno, Jansen, era una sua vecchia conoscenza. Jansen era quello che gli dava una mano a eclissarsi dalla città quando la sua presenza cominciava a diventare sconsigliabile. L'ultimo di questi episodi aveva al centro alcune pistole antiche, ma era un argomento che non amava molto ricordare. Di Reineger non ne sapeva nulla, solo quello che gli aveva detto Jansen. L'offerta che gli avevano fatto gli era sembrata più che ottima. Molto meglio che lavorare alla fattoria. Ma adesso tutto stava crollando, e quelle promesse, in quel momento, gli sembravano solo aria fritta. La tanica era quasi vuota. La capovolse per farne uscire le ultime gocce. — Ehi, Ganz — sentì. — Forza, faccia di merda, voltati. Non capì quello che gli era stato detto, ma sentì il suo nome, e si voltò di scatto. Le ultime gocce di liquido si sparsero ad arco davanti a lui. Di fronte c'era l'inglese. Era spettinato, malconcio, e aveva un'aria selvaggia. Eccitata. Ganz si guardò attorno alla ricerca di Jansen e del furgone, ma non c'era segno di nessuno dei due. L'inglese gli puntò contro un dito. Poi chiuse la mano a pugno e inarcò le sopracciglia, interrogativamente. Poi gli sputò fra i piedi, facendogli capire molte cose con quel gesto, poi gli voltò le spalle e si allontanò. Ganz sbatté via la tanica e lo seguì. L'inglese era già entrato nel granaio, e lui fece lo stesso. La luce s'accese proprio quando stava varcando la soglia e allora si fermò, perché gli occhi assuefatti al buio ne furono investiti in pieno e lui fu costretto a fare un passo indietro. Non si era ancora occupato di quella parte della fattoria: fatta di metallo e con il tetto in fibra di vetro, poteva sì bruciare, ma senza nessuna spettacolarità. La vista cominciò ad abituarsi. L'inglese era già arrivato nell'angolo più lontano, e si stava togliendo il pastrano. Ganz avanzò. Era una cosa da troppo rimandata. Quell'inglese non gli era piaciuto fin dal primo momento in cui l'aveva visto. Aveva l'aria del duro, e sembrava anche ragionevolmente forte. Ma non era un duro, non certo come lui. Lui non era mai stato sconfitto in un combattimento, mai. Era stato surclassato, era stato abbattuto, ma i suoi avversari avevano sempre commesso l'errore di girargli le spalle. Si fermò e guardò incredulo il terreno. Era stata versata un po' di farina, o di fertilizzante, a formare una specie di quadrato di tre metri di lato sul pavimento fatto di terra e paglia. Le ri-
ghe non erano diritte, denunciando così il tremito della mano che aveva versato la polvere, ma senza dubbio rappresentava un ring. Che voleva dire quella roba, una cosa tipo quelle che fanno gli inglesi nelle scuole? Stabilì che avrebbe rovesciato sottosopra quell'inglese come si fa con una carriola e gli avrebbe fatto mangiare tutta quella farina. Non appena si fosse messo in posa, quello sarebbe stato il momento di fargli mordere la polvere. Proprio in quel momento l'inglese stava ripiegando con fastidiosa cura il pastrano. Sembrava che avesse l'intenzione di appenderlo sulla parete. Ganz sollevò un po' di polvere con un calcio e fece crocchiare le dita. — Questo ti farà male — promise, sapendo che l'altro non lo capiva. L'inglese si guardò alle spalle da sopra le spalle e vide Ganz che si stava scaldando facendo mulinare le braccia. — Per primo, tu — disse come se l'avesse capito, e tolse una catena da un'assicella per fare posto al pastrano. Fu come una magia. Non appena mosse la mano, la catena sembrò scomparire. Ganz ebbe circa un secondo per pensarci. Registrò vagamente il sibilo del paranco che tagliava l'aria sopra la sua testa e che, se avesse avuto il tempo di pensarci, gli avrebbe fatto capire cosa stava per succedergli. Poi il gancio del trattore lo colpì, e tutto si fece buio. 71 In tutta la giornata erano state fatte uscire solo due volte dalla dispensa, una per mangiare e una per andare al gabinetto. Altrimenti, avevano dovuto rimanere sedute al buio. La polvere ivi accumulata dava molto fastidio a Marianne, ma per fortuna non tanto da farla starnutire. C'era spazio a sufficienza perché potessero starsene sedute sul pavimento, una vicina all'altra, col mento appoggiato alle ginocchia, ma non avevano altro spazio per stendersi o per cambiare posizione. Quando le giunture cominciavano a dolere, il che succedeva a intervalli sempre più brevi, l'unica cosa che potevano fare era strusciare un po' i piedi nel poco spazio rimasto. Per di più, quel luogo era troppo caldo e non c'era ricambio d'aria. Ellinor era quella che la prendeva peggio. Piangeva piano e in continuazione. Frau Lüderssen stava zitta, tranne qualche ssht alla figlia accompagnato da lievi carezze sulla spalla per confortarla. A Marianne non diceva niente. Lei capiva che riteneva loro due colpevoli di quanto stava succedendo.
Si stava chiedendo cosa sarebbe successo in seguito. Ryan sarebbe dovuto tornare al tramonto, ma non s'era visto. L'uomo dalla camicia bianca e sporca, che era stato in tensione per tutto il pomeriggio, era diventato via via sempre più nervoso. Marianne era tranquilla. Lei non aveva dubbi. Ryan le aveva promesso che sarebbe tornato per lei, e che tutto sarebbe andato per il meglio. E non aveva mai rotto una promessa, fin da quando Rudi era tornato a casa come lei aveva predetto. Ripensò al suo cagnolino. Ripensò a tutte le cose che aveva avuto, e che adesso non aveva più. E mentre rifletteva, scoprì che stava ripetutamente tornando al suo solito progetto. Che quando Ryan sarebbe tornato, se ne sarebbero andati assieme da lì. La porta della dispensa si spalancò. Tutt'e tre alzarono lo sguardo, sbattendo le palpebre. Era quell'uomo dal vestito stazzonato, con quel fucile dalle canne segate in mano. Si chinò e, afferrata Marianne per un braccio, la trascinò fuori. Poi sbatté la porta in faccia alle altre due. Per un breve attimo le rimasero impresse nelle pupille i loro due visi spaventati. Sentiva le gambe molli e formicolanti che la sostenevano a fatica mentre lui la trascinava per la casa. Era lì solo da poche ore, e l'aveva trasformata in un porcile. Non molto tempo prima aveva avuto uno scatto d'ira, che gli aveva fatto scagliare tutt'attorno le cose. Si chiese dove fosse l'altro tizio. La trascinò fuori casa e le fece segno di stare zitta. Lei cominciò a massaggiarsi il braccio. Le faceva molto male. Sussurrando, le disse: — Sembra che il tuo amico sia tornato, e vuole fare dei giochini. Sfortunatamente per lui, non sono dell'umore giusto. Lei si guardò attorno. Non vedeva nessuno. L'uomo la fece girare e poi, mettendole una mano sulla spalla, la spinse davanti a sé. Lei cercò di scrollarsi quella mano di dosso, ma la stretta era molto forte, e dolorosa. Stavano andando verso il granaio. C'era la luce accesa dentro. Lui la teneva davanti a sé, usandola come scudo. Nell'altra mano teneva quella sua strana arma. La pungolò un paio di volte sulla schiena per incoraggiarla a proseguire. Una delle porte del granaio era aperta. Dentro, nessun rumore. L'uomo la fece fermare, poi gridò il nome di Ganz. Nessuna risposta. — Mi sembra di vederlo — stava cominciando a dire lei, ma la mano dell'altro le tappò con forza la bocca.
La fece spostare con lentezza, cambiando l'angolo visuale. Adesso si vedeva Ganz, disteso sul pavimento del granaio. Aveva un braccio allungato e piegato ad angolo retto. Nella mano teneva un grosso pacco marrone. Sembrava che fosse stato abbattuto come un bue al macello, ma non si capiva come. Senza preavviso, Marianne venne scagliata in avanti. Incespicò, quasi cadde. Colse un movimento improvviso con la coda dell'occhio e lanciò uno strillo mentre qualcosa si muoveva verso di lei; alzò lo sguardo in tempo per vedere Ryan che si frenava in tempo evitando di colpirla con il bastone con cui stava per abbatterla. Per evitarsi di colpirla girò su stesso, perse l'equilibrio. La mazza colpì il terreno e, prima che potesse riprendere l'equilibrio, Reineger lo abbatté con un colpo secco del calcio del fucile. Poi lo colpì alla testa con un calcio, e Ryan cercò di afferrargli la caviglia. Furiosa, Marianne si scagliò con un salto contro l'uomo, e di colpo fu sbalzata all'indietro a vedere le stelle quando lui la colpì col gomito. Cadde a terra come un sacco. Li teneva sotto tiro, mentre loro cercavano lentamente di rimettersi in piedi. — Ma cosa volete fare? — disse. — Siete due buoni a nulla come tutti gli altri! Ryan non capiva quello che l'altro diceva. Scrollò la testa come se volesse farsi uscire dell'acqua dalle orecchie, poi sembrò dispiacersi d'averlo fatto. Marianne non si prese la cura di tradurre. Sempre tenendoli sotto mira, l'uomo s'accostò al corpo di Ganz. Costui gemette un poco, ma non riusciva a muoversi. La testa gli sanguinava, ed era ancora fuori causa. Gli tolse il pacco dalla mano, e fu allora che s'accorse che non si trattava d'altro che di un pezzo di sacco di fertilizzante. — Puoi dirgli che non è nemmeno del colore giusto — disse sprezzantemente gettandolo di lato. Ryan guardò Marianne. — Stai bene? — le chiese, e lei annuì. — Come stanno le Lüderssen? — Chiudi la bocca — disse l'uomo. — E alzati. 72 — Sei ruhig — disse l'uomo. — Und steh auf. — E fece loro segno di alzarsi.
Ryan guardò di nuovo Marianne. — Cosa vuole? — Vuole che ci alziamo e che non parliamo. Ryan era dell'opinione che il fucile dava ad Axel Reineger una certa naturale autorità, e quindi non commentò. Si alzò cautamente, e aiutò Marianne a rimettersi in piedi. Vide che lei guardava il sangue che gli aveva sporcato i polsini della camicia, i polsi spellati. Appena fu in piedi, lasciò che la camicia, ricadendo, li nascondesse. Reineger parlò ancora, e Marianne tradusse. — Vuole sapere cos'è successo. — Digli che eravamo quasi arrivati, ma che il furgone s'è rotto. — Non aveva pensato prima a cosa dire, e questo fu il meglio che riuscì a trovare in quel momento. E poi, la parte sul furgone che s'era rotto era abbastanza credibile. — Si trova alla base della collina — aggiunse — e l'autista sta cercando di aggiustarlo. Si è tenuto lui il pacco, ed è per questo che non ce l'ho con me. Marianna cominciò a tradurre, ma Axel la interruppe e lei fu costretta a tradurre di nuovo per Ryan. — Non penso che creda a quello che hai detto. Ryan non se la sentiva di biasimarlo. Allora, rassegnato, le disse: — Digli questo. La polizia teneva d'occhio il posto. Mi hanno seguito. Quando hanno capito dov'ero diretto, mi hanno arrestato. Si sono presi loro il pacchetto. Io sono riuscito a scappare. — E davvero quello che è successo? — chiese Marianne. Lui annuì. Allora lei lo tradusse per Axel. Quella versione venne accettata per buona. Gli occhi di Reineger si erano fatti calcolatori, come quelli di un animale intrappolato. Guardò fuori, nella notte, e prima di riprendere a parlare fece loro cenno di avviarsi all'uscita. — Dice che dobbiamo camminare davanti a lui — spiegò Marianne. — Dobbiamo tornare alla casa. Reineger si teneva ad alcuni metri dietro di loro, mentre si avviavano verso la luce che usciva dalla casa. — Noi non entreremo in casa con lui, capito? — disse Ryan mentre camminavano. — Se lo faremo, saremo degli ostaggi. Axel li interruppe, e Ryan aggiunse: — Digli che ti sto dicendo di non aver paura. Lei, guardandosi alle spalle, tradusse. Reineger non disse nulla, e Ryan continuò. — Quello che ha in mano è una lupara. Non serve a niente a die-
ci metri di distanza, perché i pallini si allargano subito. — Come fai a esserne sicuro? — Sono stato in cella con un ragazzo che aveva sparato a sua madre. Aveva usato un fucile a canne mozze. Se l'era fatto da sé. Dice che si disperdono subito, e che i pallini avevano disegnato la figura di sua madre sulla parete, come fosse un'ombra. — L'ha uccisa? — No. — Erano a metà strada adesso, e le loro possibilità stavano velocemente diminuendo. Le mise una mano sulla spalla e disse: — Adesso conto fino a tre... — Non contare — disse lei. — Capirebbe. — Già, giusto. Allora dirò i nomi dei tre Stooge. — Di chi? — Non importa, non li conosci, era un modo per contare fino a tre. — I nipoti di Paperino, allora. Venti metri. — Non conosco i nipoti di Paperino. — Be', io non conosco i tre Stooge. — Lascia perdere. Scattiamo — e invece di dirigersi verso la porta principale, la sospinse verso la stalla dove potevano gettarsi sotto il filo di ferro della recinzione e scomparire in un attimo nei campi. Un grido d'avvertimento. Stavano correndo entrambi. Ryan poteva sentire Reineger che stava mirando alla sua schiena, dove gli sembrava di sentire il calore di un mirino laser, e poi sentì lo scatto dei due cani che venivano armati e allora afferrò Marianne per il colletto e la gettò a terra e si buttò pesantemente su di lei nel momento in cui esplodeva il colpo, terrificantemente forte e vicino. I pallini sibilarono sopra di loro come uccellini incandescenti. Alcuni di loro s'infissero nel pastrano e gli penetrarono profondamente nella schiena e nella spalla come grandine ad altissima gradazione. Guardando sotto l'incavo del braccio, vide Reineger che alzava di nuovo il fucile e prendeva la mira; Marianne si stava agitando per respirare, e allora lui s'ingobbì e si spostò nel vano tentativo di assicurarsi che nessuna parte di lei rimanesse esposta al fuoco di Axel... E allora venne uno stridio, come di un motore che grippa, e le luci di un riflettore illuminarono il cortile, e Axel si voltò di scatto, colto di sorpresa. Il furgone di Jansen stava uscendo dalle tenebre, arrestandosi con una brusca frenata e una derapata che quasi lo facevano capovolgere. Axel, voltandosi all'improvviso, s'irrigidì, e l'arma si scaricò sul terreno. E la terra avvampò.
Una serie di detonazioni, ognuna più forte dell'altra e tutte con Axel al centro. Senza esitare un attimo, Ryan rialzò Marianne e, un po' correndo e un po' trascinandola, la portò via da quella palla di fuoco in rapida espansione. Le porte del furgone si erano spalancate e gli uomini in tuta ne stavano saltando fuori, ma era troppo tardi: era cominciata una sequenza infernale che nessuna polizia al mondo avrebbe potuto fermare, e anziché attaccare tutti loro si trovarono a fuggire in ogni direzione. L'ultima, indelebile immagine che rimase a Ryan fu la figura di Axel Reineger che stava saltando al centro dell'inferno; il suo urlo, alto, vibrante, acuto, rimase fermo nell'aria come se fosse l'urlo stesso dell'esplosione mentre il suo corpo in corsa al centro dell'incendio andava velocemente trasformandosi in carbone contro uno sfondo brillante. Sospinse avanti Marianne, lontano da quel calore infernale. Ma poi s'accorse che stavano correndo verso la stalla, e ricordò di averci trovato là Ganz con la tanica, e la fece deviare appena in tempo. Una parete s'incendiò all'improvviso, risucchiando l'aria a sé e spandendo tutt'attorno una tremenda vampa di calore. Le mucche stavano mugghiando terrorizzate, ma non c'era nulla che si potesse fare per loro. — Corri! — gridò a Marianne. — Stammi vicina! Ma lei si stava tappando le orecchie, e il suo grido rimase inascoltato. Comunque, non sarebbe riuscito lo stesso a competere col ruggito dell'incendio. Si trovavano nei campi, adesso, stavano rincorrendo le loro lunghe ombre. La fattoria si stava trasformando in un falò che sarebbe stato visibile per chilometri. Con spavento, Ryan s'accorse di essere ferito. In quello stesso istante il fuoco raggiunse la cisterna contenente gli ultimi residui di combustibile. Un getto di fuoco balzò più in alto di tutte le altre fiamme, come una fontana di napalm. 73 Jennifer, chiusa nella sua auto, arrivò con la terza ondata, al seguito dei gruppi d'assalto e delle ambulanze da campo, appena dopo tutti quelli che erano ritenuti necessari per le operazioni in corso. Ma alla fine, eccola arrivata; Cadogan aveva dovuto rimanere indietro al villaggio, e lei poteva solo immaginare come poteva reagire a tutto quello sconquasso. L'incendio della fattoria stava illuminando gran parte del cielo come un immenso dio-
rama dipinto di blu petrolio. Anche visto da lontano, infuriava con tale potenza da suscitare l'impressione che volesse scavarsi una strada fino al centro della terra. Il convoglio si fermò all'improvviso, per qualche inconoscibile motivo, che subito dopo le fu chiaro: era una fuga disperata, folle, di animali presi dal panico che scendevano a tutta la velocità loro consentita il fianco della collina, che non rallentarono nemmeno quando si trovarono muso a muso con i veicoli avanzanti. Gli autisti poterono solo bloccare i mezzi mentre l'onda vivente si divideva davanti a loro passandogli accanto con rumore di tuono e suoni smorzati di carne contro metallo, che fecero ondeggiare paurosamente l'auto di Jennifer. Uno specchietto divelto sbatté contro il tetto dell'auto davanti a loro, e tutti, istintivamente, si chinarono mentre rimbalzava contro il loro parabrezza per poi perdersi nella notte. Una scheggia di vetro si staccò di netto, ma il resto del cristallo resistette; attorno a loro il panorama si era trasformato in una muraglia di carne in movimento, finché di colpo passò l'ultimo animale, e il loro autista cominciò a cercare di riaccendere il motore. Il silenzio era generale. Jennifer si accorse di aver trattenuto il fiato fino a quel momento: lo rilasciò con cautela, mentre si risistemava sul sedile. Werner stava controllando la situazione alle loro spalle, ma non c'era più nulla da vedere. Ripartirono. In cima alla salita trovarono uno dei poliziotti locali che stava dirigendo tutti mezzi in uno dei campi mietuti. Non c'erano più né cancello né staccionata a proteggerlo dalla strada. Quando scese dall'auto, la scena che le si presentò alla vista le fece sentire un incongruo sentimento di nostalgia: non c'era altro nella sua vita che le ricordava tanto l'infanzia quanto i grandi falò pubblici nel parco, coi grandi ceppi che, per lei così piccola, sembravano essere persino più alti degli edifici che li circondavano, con la gente che li attorniava stagliandosi contro il buio, a distanza di sicurezza dal loro intenso calore. Qualcosa crollò. Il fuoco ruggiva intenso nella casa, le cui finestre erano esplose per la forza del calore. La stalla era ridotta a uno scheletro, ormai sul punto di crollare su se stessa. Anche da quella distanza, il caldo era una muraglia che bloccava tutti. Rilke era arrivato assieme alla seconda ondata di soccorsi, in compagnia del comandante della polizia locale. Nessuno dei due era in vista, al momento, ma il caos era a un punto tale che non c'era da sorprendersene. I pompieri del luogo si stavano dando un gran daffare per bagnare gli alberi
che si trovavano sottovento, nel tentativo di arrestare l'avanzata del fuoco; milioni di scintille volavano nell'aria, illuminandoli come operai in una fonderia. Due ambulanze, che avevano i portelloni posteriori aperti, erano state trasformate in centri d'emergenza, dove i membri delle forze speciali di pronto intervento, accorsi per affrontare un certo tipo di crisi, venivano trattati per gli effetti di un'altra: bruciature, soffocamento, inalazione di fumo. Si erano audacemente lanciati in avanti e avevano perlustrato velocemente la casa, salvandone la proprietaria e la figlia. Nel fienile era stato trovato un altro uomo; secondo uno dei messaggi radio aveva una profonda frattura cranica ma, malgrado ciò, era semicosciente anche se non coerente. Non aveva risposto ad alcuna domanda, ma si era messo a piangere e a ululare quando avevano chiuso le porte dell'ambulanza per portarlo lontano dal luogo dell'incendio. Alla fine trovò Rilke. Stava osservando qualcosa steso al suolo davanti alla fattoria dove sembrava che persino il terreno fosse bruciato. Nessuno poteva avvicinarsi, ma la figura che ancora esalava fumo era riconoscibile come umana. Una figura umana stesa a terra, raggomitolata per un dolore indicibile che l'aveva attanagliata nelle sue spire, e ormai ricoperta solo di cenere. Aveva già visto immagini di immolazioni a mezzo del fuoco, studenti e monaci che si erano impregnati di benzina e che si erano dati fuoco davanti agli occhi di tutti. Ma in quei casi le immagini erano state tagliate dal punto in cui la vita aveva abbandonato quei corpi. Qui, invece, lo spettacolo continuava, all'infinito. Nessuna nuova di Ryan O'Donnell. Né di Marianne Cadogan. Jennifer trasse un profondo respiro. L'aria era calda e intossicante, anche stando sottovento. Ed era anche impregnata del suono delle sirene dei mezzi che stavano ancora accorrendo per portare aiuto. E loro due erano da qualche parte in quell'inferno. Ci sarebbero volute ore per scoprirlo. Se c'erano, allora era proprio finita. Jennifer sperava con tutto il cuore che così non fosse. 74 Marianne, sul ciglio della strada, stava guardando il sole che sorgeva. Ryan era nell'auto, ancora addormentato, né lei voleva per il momento svegliarlo. Sapeva che era esausto, perché la sua testa aveva continuato a ciondolare verso il volante e poi a scattare all'indietro, quando l'auto co-
minciava a sbandare. S'era deciso a fermarsi attorno alle quattro. Adesso, erano quasi le otto. Nell'ultima ora lei era stata seduta sulla panca di un tavolo da picnic all'estremità del Parkplatz. La sua idea era di scrivere, ma aveva trascorso la maggior parte del tempo con lo sguardo perso nel vuoto. Si trovavano abbastanza in alto, e lo sguardo poteva spaziare per chilometri. Era un paesaggio ondulato, una distesa di campi e foreste con un orizzonte che aspirava a essere montagnoso ma che era troppo poco acuminato per poterlo diventare. Nuvole sfilacciate transitavano sopra di lei avvicinandosi alla zona che il sole stava cominciando a illuminare, salendo e scendendo a seconda dei rilievi, e là dove sfiorava la terra la risvegliava a una nuova, vivace vita. Portò lo sguardo sull'auto. Nessun movimento. Una parte di lei non voleva interrompere quel momento, non voleva essere lei quella che rimetteva in moto la realtà, perché era ben consapevole che adesso potevano spostarsi in una sola direzione, e che questa avrebbe ineluttabilmente portato a una fine. Perché ormai si era alla fine, non è vero? Lo vedeva con estrema chiarezza. Era arrivata a capire che il futuro che si era immaginata che avrebbero costruito assieme era un futuro fatto di mattoncini da bambini, tutto a colori vivaci e senza spigoli di sorta. La realtà era molto più oscura e complessa, e non era nel potere di nessuno controllarla. Mentre formulava questi pensieri si rese conto che, probabilmente, stava cominciando a crescere. Un pensiero che aveva sempre respinto, ma una cosa che comunque le stava accadendo. La perdita di cui una volta aveva tanto temuto era adesso una realtà, e si era adagiata su di lei, avvolgendola nelle sue spire, senza che lei se ne rendesse conto. Aveva cessato di far parte del sogno per diventare il sognatore: e quando non sei più tu il sognatore, puoi solo fermarti a guardarlo morire. Saltò giù dalla panca di legno e si avviò verso l'auto. Ryan aveva reclinato più che poteva il sedile del guidatore e adesso stava dormendo semigirato su un fianco. Si era raggomitolato più che poteva e si stava tenendo il pastrano tirato sulla faccia, con le grosse dita tatuate che lo tenevano stretto come potrebbe fare un bambino. Lei aveva cercato di convincerlo a sdraiarsi sul sedile posteriore per riposare meglio prima di riprendere la strada, ma lui aveva insistito che aveva bisogno solo di pochi minuti di riposo. L'aveva detto circa quattro ore fa, e stava ancora dormendo. Rimase a fissarlo per un po'. Lui ebbe un brivido. Continuò a guardarlo
fino a quando cominciò a stirarsi: poi alzò gli occhi e la vide attraverso il finestrino, e allora lei fece il giro dell'auto e salì. — Quanto ho dormito? — le chiese. — Non molto. — Hai visto qualcuno? — No. Lui guardò alla lunga strada deserta dal finestrino posteriore. — Allora li abbiamo seminati — disse sbadigliando; poi cominciò a risistemare il seggiolino nella giusta posizione. — Metteremo a posto anche questa. Tutto andrà per il meglio, vedrai. — Lo so — rispose Marianne. Gli sorrise, ma non le veniva facile. Lui si chinò con una smorfia sul viso per riattaccare i fili e riaccendere il motore. Sapeva che era stato ferito alla fattoria, ma lui faceva del suo meglio per non dare peso alla cosa. — Stai ancora sanguinando — notò lei. A parte gli strappi che gli deformavano il pastrano dov'era stato colpito, gli unici segni esteriori di ferite erano le sottili strisce di sangue che gli scendevano lente sul collo, come ferite fresche dovute a una rasatura. — Sì, lo so — disse lui. — Non capisco perché non smette. Ma non è nulla, sul serio. La Golf tossì e il motore cercò di mettersi in moto, finché ci riuscì. Era l'auto che aveva portato alla fattoria le vivande e le mogli dei fattori l'ultimo giorno di mietitura; l'avevano prelevata dalla proprietà più vicina mentre tutti erano corsi a guardare affascinati lo spettacolo dell'incendio. Si rimisero in strada. Lui non controllò finché non fu troppo tardi, ma fortunatamente non c'era nessuno in arrivo. Era in grado di padroneggiare l'auto e conosceva un po' la meccanica generale del mezzo, ma era chiaro che non era il suo lavoro guidare. Marianne dubitava che avesse mai preso una lezione di guida in tutta la sua esistenza. — Avrei preferito che fossi rimasta laggiù — disse lui, senza alcuna ragione precisa. — E chi baderebbe a te? — chiese Marianne col tono più discorsivo che le riuscì di assumere. Ma lui stava scrollando la testa. — È tutto cambiato di nuovo — disse lui. — E tutte le volte che succede, diventa sempre più difficile da maneggiare. Dobbiamo cominciare a pensare a come uscirne. Mi capisci, vero? Lei non rispose. Stavano attraversando un'altra cittadina caratterizzata
dai soliti tetti rossi e dalle case in legno e mattoni, con la chiesa e il campanile e il ponticello che scavalcava il fiumiciattolo, e le case nuove in periferia che ricordavano quelle del Monopoli. Il traffico era pressoché inesistente, per cui anche un guidatore inesperto come Ryan trovava scarse difficoltà. La maggior parte di quei posti si assomigliavano, anche se, malgrado fosse difficile dirlo, Marianne era sicura che quello in cui stavano passando in quel momento l'aveva già visto di recente. Quando vide alcuni punti che ricordava bene, allora fu certa di quel che pensava: di lì erano passati da poco. — Quando mangiamo? — chiese all'improvviso Ryan. — Non abbiamo mangiato di recente, vero? Non c'era posto per fermarsi, ma dopo un po' la strada cominciò ad allargarsi e incontrarono un'area di servizio moderatamente affollata, dove fecero sosta. Dieci minuti prima avevano superata un'auto della polizia ferma sul ciglio della strada, il cui autista era sceso a controllare un camper che era semisprofondato fuori strada. L'altro agente non li aveva degnati di uno sguardo. Marianne non era sicura che Ryan, tutto preso dalla guida, si fosse accorto dell'auto di pattuglia. L'area di servizio era sovrastata da un enorme autogrill di vecchia costruzione, accanto al quale si trovava un altro edificio lungo che fungeva da minimarket. Accanto a un filare d'alberi c'era un furgone di quelli che vendono bibite e panini. Nella stessa zona ombreggiata c'erano diversi tavoli da picnic, occupati solo in minima parte da gente che faceva colazione. Quand'ebbe fermata l'auto, Ryan cominciò a frugarsi attentamente nelle tasche. Lei sapeva che non aveva né documenti né biglietti di banca, perché la polizia gli aveva sequestrato tutto. Quel che riuscì a radunare fu un po' di moneta, che le consegnò. — Prendi — le disse. — Vedi cosa puoi farti dare per te. — E tu? — Io non ho fame — rispose lui. — Davvero. — Poi aggiunse: — Andrò invece a dare un'occhiata al negozio. Non la stava proprio spingendo fuori dall'auto, ma la sensazione che lei ne ricevette era quella. Lei scese e poi lo guardò, chiedendosi se quella era una mossa per liberarsi di lei. Ma lui rimase fermo solo pochi secondi, come se stesse raccogliendo le forze, poi con uno sforzo visibile, come se avesse radunato tutte le energie per spenderle in quel movimento, si proiettò fuori dall'auto.
— Forza, vai — le disse. — Ci rivediamo qui. I taglietti che aveva sul collo avevano cessato di sanguinare. Il colletto della camicia era inzuppato, ma lui alzò il collo del pastrano, nascondendo le macchie di sangue. Il furgone con le vettovaglie aveva una radio che emetteva musica a tutto volume. Una lavagnetta elencava i soliti schnitzel, wiener e Fischbrötchen. Alla cassa c'era una ragazzina con la camicetta bianca e lunghi capelli neri e ondulati. Erano poche le cose che Marianne poteva permettersi, per cui dovette scegliere con cura dal menu. Per fortuna non c'era niente di caro. Mentre aspettava che la servissero, Marianne guardò verso l'area di servizio. All'estremità più lontana c'era un gruppo di camper, e i bambini che giocavano a rincorrersi sull'asfalto dovevano essere zingari. Un movimento catturò la sua attenzione. Era Ryan. Stava guardandosi attorno con aria smarrita, come se si fosse perso. Lei posò i soldi sul bancone, radunò velocemente quello che aveva ordinato, prese alcuni tovagliolini di carta e si diresse rapidamente verso di lui. Stava girando senza meta fra le file di auto, senza riuscire a trovare la loro. Lo prese per un braccio. — Da questa parte, Ryan — gli disse. — È questa la nostra. Lo tirò verso la Golf. Si chiese se la ragazza della cassa li stesse tenendo d'occhio, ma non osò voltarsi per controllare. Lui teneva qualcosa sotto il pastrano, e lei si chiese se non avesse rubato qualcosa dal negozio. Se così era, sperò che si trattasse di un kit per il pronto soccorso, perché non c'era altro di cui loro avessero più bisogno in quel momento. Salirono in macchina. Marianne salì dietro in modo da avere più spazio per deporre tutto quello che aveva preso. Si trattava del solito pane a basso prezzo, salsiccia, e poco altro. Lui aprì il pastrano. Ne trasse un giocattolo di peluche. — Ti ho preso questo — le disse. — Cos'è? — Dovrebbe essere un leone — le disse lui consegnandoglielo. — Come quello che c'è sulla copertina di quel libro che ti porti sempre dietro. Voleva dire Der König von Narnia. La sua copia era rimasta alla fattoria di Frau Lüderssen, e ora era certamente ridotta in cenere. Non pensava che lui ci avesse fatto caso. — Sai — le disse — l'altra sera, alla fattoria, mi sono reso conto che non
ti avevo mai fatto un regalo. — Ma non devi farmene. — Be', è comunque un regalo. È il genere di cose che ti piacciono? Lei annuì. — Allora, tienilo. Lei lo prese. Poi, cominciarono a mangiare. Marianne teneva in braccio quel leone a mala pena riconoscibile come tale, ma la sua attenzione era focalizzata su Ryan. Stava prendendo il cibo a piccoli pezzi, osservandolo come se fosse la prima volta che lo vedeva. — Qual è il piano per adesso? — gli chiese. — Dobbiamo tenerci in movimento — disse lui, senza alzare lo sguardo; poi cominciò ad annuire, come se gli fosse appena spuntata un'idea e cominciasse a piacergli. — Se ci teniamo in movimento, qualcosa mi viene. Lei non sapeva cosa rispondere. Non potevano spostarsi ancora per molto. L'indice del serbatoio era quasi sullo zero, e non avevano più soldi per fare il pieno. Non avevano benzina a sufficienza nemmeno per quella mattina. E allora, senza cambiare tono, ma con quello che sembrava un improvviso lampo di lucidità, Ryan disse: — Ascolta. In qualsiasi modo vada a finire, qualsiasi cosa possa succedermi, dovrai spiegargli esattamente come sono andate le cose. Lo farai? Perché vedi, tu e io... noi siamo gli unici a sapere come sono realmente andate le cose. — Glielo dirò — disse lei. — Promettimelo. — Te lo prometto. — E noi non rompiamo mai le nostre promesse, vero? Lei riuscì solo ad annuire. L'auto della polizia, forse la stessa che avevano superato prima sulla strada, stava svoltando nel parcheggio. Rallentò quando uno degli zingarelli le passò davanti di corsa. Ryan voltava la schiena al parabrezza, per cui non poteva vederla. Lei attese finché non si fu portata fuori vista, poi raccolse nei tovagliolini di carta gli avanzi del cibo e scivolò sul sedile anteriore. — Aspetta un momento — disse mentre si accingeva a scendere. — Vado a buttare via queste cose. Lui non obiettò. Marianne si guardò attorno mentre camminava. L'auto della polizia stava cominciando un giro nel parcheggio cominciando dal punto più lontano:
cercò di non farsi prendere dal panico. Accanto alla staccionata c'era un contenitore giallo striato di ruggine. Mentre buttava dentro gli avanzi, si guardò alle spalle. Probabilmente era solo un giro di routine; si erano allontanati a sufficienza perché nessuno pensasse a cercarli proprio su quel tipo di auto. Ma, in realtà, di quanto si erano allontanati? Avevano girato a lungo, e Ryan aveva l'impressione che stavano filando verso la libertà diritti come il volo di una freccia, ma l'amara verità era che non avevano affatto lasciato l'area da cui erano partiti. Però non era sicura di niente. La polizia si stava avvicinando alla loro auto. Lei esitò. Si chiese se doveva proprio finire così. Avvertiva gli stessi sentimenti di quando era sulla spiaggia, inginocchiata accanto a Rudi e con la consapevolezza che, qualsiasi cosa potesse loro accadere, ormai era certa che il suo cane aveva i giorni contati e che non c'era nulla al mondo che potesse invertire quel processo. Forse non sarebbe avvenuto quel giorno né quello successivo, ma era certa che sarebbe successo, e molto presto anche. Anche il fatto che stava crescendo aveva a che fare con quella sensazione. C'era un unico modo per farla finita, e Ryan le aveva fatto chiaramente capire che ne era ben consapevole. Poteva fare segno all'auto della polizia, e in un minuto tutto sarebbe finito. Veloce. Pulito. Gentile. Gentile come una pallottola, o un'iniezione mortale. Non riusciva però a dimenticare come si erano comportati con lui, nel viottolo che portava a casa sua. Le loro facce, che già esprimevano un giudizio su di lui. La mano che si era posata sulla sua testa mentre lo spingeva dentro l'auto. Aveva promesso di dire tutto. Ma non poteva promettergli che l'avrebbero ascoltata. L'auto bianco-grigia superò la Golf. Ryan aveva chiuso gli occhi e si era adagiato sul sedile, e l'autista non sembrò nemmeno accorgersi di lui. Appena i poliziotti si furono allontanati, corse da lui. Ryan aprì gli occhi quando lei balzò sul sedile accanto al suo. — È appena passata un'auto della polizia — gli disse. Lui si drizzò e si guardò attorno, sorpreso. — Dove? — Non ti spaventare, stavano solo controllando. Non credo che ti abbiano visto. — Ma adesso dov'è? — Nell'altra fila. Prima che tornino, potremmo esserci già allontanati. Ryan si chinò per allacciare i fili e riaccendere il motore.
75 Quando fu giorno fatto, e fu chiaro a tutti che la ricerca avrebbe dovuto essere allargata di nuovo, cominciarono a smobilitare il comando di polizia dal granaio del villaggio spostandolo nel comando della Polizei della più vicina città. Da quel che poteva giudicare Jennifer, le attrezzature di cui disponevano avevano un'aria antica non priva di un certo fascino. Come i telefoni, che erano tutti modelli degli anni Venti e che avevano l'aria di essere stati usati pochissimo fino a quel momento. O il parco macchine formato di pesanti Lada, che potevano magari abbattere anche un muro, ma che erano meno che inutili in un inseguimento. Rilke lavorava a stretto contatto di gomito col capo della polizia locale, alla cui autorità era, strettamente parlando, sottoposto, così come gli uomini del pronto intervento, che Rilke aveva portato con sé. Avevano ordini speciali che consentivano loro di lavorare anche fuori dalla loro usuale giurisdizione. Jennifer invece, com'era previsto, aveva la solita posizione di osservatore/consigliere. L'ultima visione che aveva avuto del comando provvisorio era quella di un luogo che, malgrado la mancanza di apparecchiature, era ancora un centro in piena attività, con poliziotti e forze speciali in continuo movimento. Il fuoco aveva minacciato di estendersi anche dove avevano cercato preventivamente di fermarlo, e si erano dovuti reclutare molti volontari per lavorare su un'area più vasta; quando all'alba gli autobus erano tornati dai campi, Jennifer s'era accorta che Cadogan era fra la folla dei volontari, sporco e affaticato come tutti loro. L'aveva osservato chiacchierare con gli altri per un po', ora che le barriere fra civili e poliziotti si erano notevolmente abbassate, e non ebbe alcun dubbio che stesse cercando di afferrare più informazioni che gli riuscisse. Be', buona fortuna a lui, si disse, accingendosi a salire sull'auto che l'aspettava per portarla via da lì. E così, adesso si trovava al nuovo centro operativo. Sembrava un'antica sala di guerra, con cartine e telefoni d'epoca e tutto il resto. Su una scrivania che era stata ripulita alla bell'e meglio era stato posato un fucile da caccia con le relative cartucce, trovato alla fattoria di Frau Lüderssen. Accanto, un fucile a canne mozze bruciacchiato e in cattive condizioni. Rilke stava in piedi, le mani affondate nelle tasche, e li stava guardando. Era senza giacca, che probabilmente era stata rovinata dal fumo e dalla cenere. Al suo posto indossava un pullover dall'aspetto e dal colore militare. — Qual è il problema? — chiese Jennifer. — Queste cartucce non si adattano ai fucili — rispose. — Qualsiasi cosa
ciò significhi, c'era un'altra arma in quella fattoria. Non so cosa dire. — Perché non lo chiedi alla donna? — Già fatto. Prima ha detto di sì, poi di no, adesso dice che non ne è sicura. Suo marito aveva cinque fucili da caccia ma, quando è morto, suo fratello s'è portato via quelli in migliori condizioni. Dobbiamo dedurre che O'Donnell potrebbe essere armato. — Armato e pericoloso? Lui la guardò con le sopracciglia inarcate. — Be', penso che a questa domanda abbia già provveduto lui stesso a rispondere, vero? Due stanze più in là, Werner stava guardando la nuova apparecchiatura per il fax appena installata; si stava chiedendo se almeno questa volta il messaggio sarebbe passato al completo. C'erano stati numerosi errori di trasmissione ma, da quello che ne aveva capito, quello era materiale che avrebbe portato a una rapida conclusione dell'indagine. Aveva mandato qualcuno a cercare Rilke. Mentre aspettava che risistemassero il collegamento, cominciò a controllare i fogli che erano già arrivati. Non erano di facile decifrazione. Innanzi tutto erano scritti a mano e consistevano in un buon numero di scarabocchi, buttati giù in tutta fretta. Da quel che riusciva a capire, doveva trattarsi del resoconto di quanto era accaduto scritto dalla ragazzina rapita: era precipitoso, compresso, in certi punti illeggibile, ma con molte informazioni importanti, quali la marca e il numero di targa dell'auto sulla quale stavano viaggiando. Arrivò Rilke. Werner gli consegnò il materiale che era già arrivato. Anche altre persone si stavano avvicinando. I fogli erano stati fotocopiati prima di essere trasmessi; gli originali stavano arrivando portati da un motociclista. — Da dove vengono? — chiese Rilke. — Da un'area di parcheggio sulla superstrada nord-sud — rispose Werner. — Qualcuno ha messo questi fogli in una casella postale. L'addetto al ritiro della posta inizialmente li ha presi per cartaccia, stava per buttarli via. Gli consegnò l'ultimo foglio. Sembrava essere stato scritto con una certa difficoltà su un tovagliolo di carta. L'aveva letto una sola volta, ma sapeva che se lo sarebbe ricordato a lungo, parola per parola. "Er ist ein guter Mann. Er hat sich um mich gekümmert und mich beschütz. Er hat nichts falsch gemacht. Bitte tun Sie ihm nicht weh."
"È un brav'uomo. Si è preso cura di me e mi ha protetta. Non ha fatto nulla di sbagliato, vi prego non fategli del male." Rilke strinse la mano a pugno, poi alzò le dita in segno di vittoria. Sì. — Andiamo a prenderlo — disse. 76 — Possiamo fermarci? — chiese Marianne. — Non credo che sia una buona idea — disse Ryan. Si stava curvando in avanti in modo strano, stava troppo vicino al volante. Come se gli facesse male la schiena e lui non l'avesse ancora registrato come un fatto anomalo. — Solo per un minuto? Non mi sento molto bene in macchina. Lui la guardò un po' troppo a lungo. — Davvero? — Per un po' sto bene, poi comincio a sentirmi male. Voglio solo camminare un pochino e prendere un po' d'aria fresca. — Apri il finestrino — disse lui. — Mi fermo appena è possibile farlo. Era già un po' che si stavano arrampicando con regolarità in un paesaggio collinoso tanto densamente alberato da ricordare una foresta pluviale. Di tanto in tanto sembrava che d'improvviso sorgesse fuori dal verde un castello, appollaiato su un'altura. Erano tutti costruiti in pietra gialla, con torrette spiraleggianti. Creazioni di fantasia, lontane e irraggiungibili. Giunsero in un posto in cui il terreno era stato spianato, forse per costruirci qualcosa, con ancora i segni dei bulldozer bene impressi sul terreno. Ryan rallentò e si fermò. Marianne non riusciva a capire cosa volessero costruire in mezzo a quella desolazione: forse una stazione di rifornimento. Lo spazio c'era. Attese che Ryan avesse spento il motore prima di scendere. Cominciava a essere preoccupata per lui. Da quel che riusciva a capire, lui stava andando avanti per forza d'inerzia, diretto verso nulla, in corsa come un cervo ferito che corre fino a che l'esaurirsi delle forze o l'attacco dei cani non lo costringono alla resa. Aveva cercato di portare la conversazione sull'argomento almeno un paio di volte sulla loro situazione, il numero sempre decrescente di opzioni che rimanevano, ma entrambe le volte s'era trovata davanti un muro. O aveva fatto finta di non sentire, o aveva cambiato argomento. La sua grande paura era che volesse cercare la migliore opportunità per scaricarla e fuggire da solo. Sapeva che, se l'avesse fatto, sarebbe stato per la sua sicurezza. Ma se fosse successo, non osava nemmeno im-
maginare cosa gli avrebbero potuto fare una volta che gli avessero messo le mani addosso. Lei era la sua migliore assicurazione. L'unica, da come la vedeva lei. Si chiese se il suo appello fosse arrivato nelle mani giuste. Una volta che si fossero resi conto di chi lui veramente fosse, allora l'avrebbero considerato in modo differente. Finché... Si fermò sul margine della zona spianata, e guardò giù. Davanti e immediatamente sotto di lei si stendeva l'eccezionale panorama del fiume e della vallata. Qui e là, seguendo le sinuosità del terreno, era possibile vedere ampi tratti della strada che avevano percorso. E da quello che poteva vedere a due o tre tornanti di distanza, a un paio di chilometri da loro, c'era un'armata in movimento. Camion su camion, auto su auto, oltre a parecchi motociclisti. Apparivano e scomparivano a seconda della visibilità, curva dopo curva. Visti da lì, ricordavano una parata senza fine. Il convoglio si spostava lentamente ma con determinazione; era un'avanzata, non un inseguimento. Cominciò a contarli, ma erano troppi. — Oh, Dio mio — disse tetro Ryan dietro di lei. Cercò di arrivare all'auto prima di lei, ma Marianne era più veloce ed era già seduta quando lui stava aprendo la portiera. — Senti, Marianne — disse. — Adesso, è tutto fuori controllo. Rimani qui, e vai con loro. Ti prego. — Solo se anche tu rimani qui con me. — Non posso. Non voglio di nuovo ripetere tutta la trafila. — Dove vai tu, là vengo anch'io. Non ti faranno del male se ti sarò vicina. Faceva assegnamento sul fatto che ormai la conosceva bene e capiva quello che voleva dire. Lui cercò di controbattere, ma il tempo era limitato, gli argomenti ridotti a zero. Marianne teneva d'occhio la strada dietro di loro mentre Ryan, con un gesto di rassegnazione, riaccendeva il motore. Saltellando sul terreno ineguale, riguadagnarono la strada. — Cos'hai intenzione di fare? — gli chiese. Ma Ryan non rispose. Fu Marianne che vide l'auto per prima. Era una normale berlina con una sola persona a bordo. Li stava seguendo lentamente fino a quando li raggiunse. Ryan le disse di smetterla di guardare dietro e di tenere gli occhi
davanti, mentre il suo sguardo correva continuamente allo specchietto. — Potrebbe essere una sorta di esploratore — le disse. — L'hanno mandato avanti per dare un'occhiata e per non farci preoccupare. L'altra auto mantenne la loro velocità per un poco, poi cominciò la manovra di sorpasso. Marianne guardò Ryan. Era pallido e stava sudando. Lentamente la berlina li affiancò: Marianne tenne d'occhio il guidatore. Aveva capelli tagliati molto corti e portava occhiali da sole molto scuri. Non voltò lo sguardo verso di loro, ma li superò velocemente e poi accelerò, staccandoli. — Ce ne sono altri dietro di noi — disse Marianne. — Davvero? — Stanno arrivando lentamente, ma ce ne sono in vista almeno due. Cosa pensi che faranno adesso? — Non lo so. Sì che lo so. Adesso bloccheranno la strada un poco più avanti. È per quello che adesso stanno rallentando. Perché hanno già deciso che cosa succederà e si immaginano che io sarò l'ultimo ad accorgermene. L'altra auto aveva raggiunto il colmo della collina ed era scomparsa alla vista. Subito dopo la salita, un cartello indicava la prossimità di un villaggio, a meno di due chilometri. Ryan infilò la deviazione. 77 Cadogan stava seguendo la colonna, con la sua auto a nolo, nella sua veste di ospite non invitato; aveva continuato a stargli appresso anche se nessuno l'aveva invitato e adesso che stavano muovendosi si era messo in marcia con loro, perché non potevano impedirgli di seguirli. Aveva capito che qualcosa era andato storto quando aveva visto le macchine di testa fare un'improvvisa curva a U. Avrebbe dovuto saperlo. Erano troppo fiduciosi. Cadogan era dell'opinione che un pizzico d'umiltà nei confronti del pazzoide avrebbe già dovuto portare a dei risultati, senza bisogno di tutto quello spiegamento di forze. Adesso quella formazione bene addestrata e ben dislocata sul terreno era costretta a frenare, ad ammassarsi, e quindi a cercare di tornare indietro ripiegando su se stessa; l'auto di Rilke passò scansando le altre alla bell'e meglio e Cadogan, come tanti altri, dovette frenare per cedergli il passo, mentre l'autista di Rilke suonava il clacson all'impazzata per farsi strada.
Poi seguirono le forze speciali, tre uomini per ogni auto, a tutta velocità. Una volta fuori dall'ingorgo, si adattarono al passo dell'auto di Rilke. Infine arrivarono tutti gli altri, con le berline di fabbricazione russa che andavano un po' più piano; per ultimi, seguivano i furgoni. Cadogan cercò di sistemarsi in mezzo a quello schieramento, e rimase abbarbicato alla posizione conquistata fino a quando uno di loro quasi lo gettò fuori strada quando si trovarono alla svolta. E lì dovette rimanere fino a quando non furono passati tutti. La strada che avevano imboccato era stretta, e scendeva attraverso campi non protetti da alcuna recinzione. I campi lasciarono il posto ad alcune abitazioni, le case a muraglioni e quindi il convoglio, ricompattato come alla partenza, entrò nella cittadina. La strada era stata bloccata da due furgoni, che permettevano solo il passaggio ai veicoli autorizzati. Cadogan rallentò, e abbassò il finestrino. Conosceva il poliziotto che regolava il traffico; avevano lavorato gomito a gomito tra il fumo e le scintille solo poche ore prima. — Mi rincresce, Herr Cadogan — gli disse. — Ma questa volta lei non può passare. — Ma almeno può dirmi cosa sta succedendo? — Da quanto ne so, la sta ancora trattenendo con sé. Hanno abbandonato l'auto e stanno fuggendo in direzione delle miniere che si trovano da queste parti. I tiratori scelti li stanno inseguendo. — Con quali ordini? — La prego, non si preoccupi. Sono i migliori che ci siano. Cadogan non ne rimase impressionato. — Ho visto come hanno controllato bene la situazione la notte scorsa — disse. — Non sto dicendo che non potranno esserci incidenti. Però quella è gente che sa quello che fa. Molti di loro hanno famiglia. — Dovrei esserci anch'io — disse Cadogan, ma il poliziotto stava già scuotendo la testa. — Ha una figlia, lei? — chiese Cadogan. — Non mi faccia queste domande — disse l'altro. — Non posso lasciarla passare. — Guardi da un'altra parte. — No. Perciò fu costretto a fare manovra e a dirigersi in una delle tante viuzze di quel borgo.
Hirschberg era una cittadina agricola. Una buona metà della sua parte centrale consisteva in vie strette, acciottolate, con case unifamiliari e una grande piazza e l'aspetto di un villaggio dell'Ottocento. L'altra metà, separata dalla prima da un alto muraglione, era costituita da una fabbrica di pellami che s'inerpicava sul fianco della collina. Era quel tipico posto in cui tradizionalmente si fa il lavoro di conceria, e dove tutti o dipendono da chi lavora nella fabbrica oppure ci hanno già lavorato. Cadogan riuscì a parcheggiare l'auto davanti a un edificio d'appartamenti e poi si avviò a piedi per unirsi alla folla che si stava già radunando. C'erano molti punti d'osservazione privilegiati per vedere cosa stava succedendo, e la gente li stava già prendendo d'assalto. Per lo più erano uomini, la maggior parte dei quali indossava i grembiuli da lavoro, come se avessero appena terminato il turno o non avessero ancora cominciato il successivo. Si fece strada fra la gente finché giunse a un parapetto in pietra. La scena si dispiegava per intero davanti ai suoi occhi. La Polizei aveva steso un cordone che includeva sia la fabbrica sia la strada che le girava attorno, oltre a numerosi edifici adiacenti. Sul terreno si muovevano parecchi uomini armati che si stavano sistemando come cecchini, e tenevano di mira gli edifici attraverso i mirini telescopici. La struttura centrale della fabbrica ricordava un'enorme fortezza con la torre dell'orologio e così tante finestre che sembrava impossibile poterle contare tutte. Alla parte centrale erano stati aggiunti altri edifici, e tutti stavano già perdendo la lotta contro il tempo; in molti posti la copertura delle facciate era crollata lasciando intravedere i mattoni sottostanti. Rampe e camminamenti interni connettevano fra loro i vari edifici a diverse altezze. Sullo sfondo si ergevano gli alti camini della conceria. Binari correvano sul fianco della collina, in entrambe le direzioni. L'orologio della piazza del paese cominciò a suonare, seguito a distanza di pochi secondi da un altro. A prima vista, quel posto funzionava solo per una frazione delle sue capacità. I camini erano spenti. I cortili interni e le aree lavorative all'aperto sembravano scomparire sotto un'invasione di erbacce. Tra i binari dei trenini interni cresceva di tutto. La polizei stava sgomberando l'area da tutti i dipendenti, e la colonna di operai e impiegati che si stava avviando all'uscita dimostrava quante poche persone fossero rimaste a lavorare in quel complesso. E sua figlia era lì dentro, da qualche parte. Quasi direttamente sotto di lui c'erano i cancelli della ferrovia che porta-
va fino alla cima della collina. Erano stati aperti ma di poco, quel tanto sufficiente per permettere il passaggio di una persona. La Golf color oro che li aveva accompagnati nella fuga era lì, con le portiere spalancate e il cofano aperto. Poliziotti coi giubbotti antiproiettile la stavano setacciando, mentre altri coi mitra puntati li proteggevano. — Fra di voi c'è qualcuno che lavora là dentro? — chiese Cadogan a voce alta. Dalla strada sottostante venne il rumore di qualcosa che sbatteva. Tutte le teste si voltarono a guardare. Sul tetto di un edificio basso e squadrato, senza finestre, che fronteggiava la fabbrica, stavano arrivando di corsa alcuni tiratori scelti che si apprestavano a prendere posizione dietro le grandi torri di ventilazione che ricordavano alveari di dimensioni gigantesche. Quella era la Kulturhaus, il luogo in cui si tenevano le rappresentazioni per il personale, oltre che il posto migliore per tenere d'occhio gli edifici di fronte. — Qualcuno sa come entrare? — chiese Cadogan a voce alta. — Qualcuno mi risponda, per favore. Quell'uomo ha con sé mia figlia. Non credo che voglia farle del male, ma sembra che io sia rimasto l'unico a pensarla così. Adesso erano in molti a guardarlo, con una certa curiosità. — Non c'è più molto tempo — disse. — Io ci lavoro — disse uno degli uomini. — Siamo in molti qui. Cosa vuole sapere? — Voglio sapere come si fa a entrare senza farsi vedere dalla polizia — disse lui. 78 — Ryan! — gridò lei con quanto fiato aveva. Man mano che avanzavano, stava diventando sempre più scuro. Adesso sembrava che la luce fosse stata eliminata del tutto. Incespicò: sembrava una rotaia, ma era impossibile dirlo con sicurezza. Allungò una mano e toccò davanti a sé. Sì, era una rotaia, parte di quei binari stretti che di solito si usano per i carrelli delle miniere. Non erano nella fabbrica. Si trovavano nei sotterranei della fabbrica, e quei binari sembravano sprofondare sempre più nel fianco della collina. Lo chiamò di nuovo, e la sua voce echeggiò a lungo fra quelle pareti.
Nessuna risposta. Cominciò a essere assalita dal panico, perché si stava convincendo che lui aveva approfittato dell'occasione per abbandonarla grazie all'oscurità, ma poi si sentì prendere per un braccio da una mano che l'aiutava a risollevarsi. — Va tutto bene — le disse una voce disincarnata che le parlava accanto all'orecchio. — Solo, sta' attenta a dove metti i piedi. — Non possiamo continuare a questo modo — disse lei. — Non serve a nulla. Ci stiamo inoltrando sempre di più. — Lo so — rispose lui. — Ma non senti niente? Lei esitò per un attimo. Non sentiva altro che la mano di lui sul braccio, e il dolore al ginocchio dove l'aveva battuto sulla rotaia. — Cosa? — Aria fresca — rispose lui. — È per questo che sono convinto che ci sia un'altra uscita. C'è una brezza che soffia, e deve ben venire da qualche parte, ti sembra? Lei continuava a non sentire nulla. — Non lasciarmi sola in questo buio — gli chiese. — Non ti preoccupare — la rassicurò lui. 79 Rilke stava pensando che, per essere quella un'operazione improvvisata, le cose non stavano marciando poi così male. Avevano svuotato la fabbrica e stavano controllando sia la situazione, sia tutta l'area in cui si stavano spostando O'Donnell e la sua vittima. Non era la migliore delle sistemazioni perché la fabbrica era troppo grande e irregolare, ma era senz'altro meglio di quella della fattoria Lüderssen, dov'era stato impossibile stendere un efficiente cordone attorno all'area, per via della vastità e del buio, con gli uomini che aveva a disposizione. Questo posto aveva molte entrate, ma potevano essere tutte efficacemente controllate. O'Donnell poteva anche nascondervisi, ma non poteva sfuggire; la prossima mossa sarebbe stata l'occupazione di un settore alla volta fino a quando i due fossero chiusi in un angolo: solo allora potevano iniziare i negoziati. Sempre che O'Donnell ce la facesse a resistere fino a quel momento. Era un uomo instabile, e anche violento. Aveva dimostrato di essere capace di una notevole aggressività per proteggere la bambina, ma Rilke non si sentiva affatto confortato da questo pensiero. I ratti, in risposta allo stes-
so impulso, divoravano i loro piccoli, non è così? E sotto la stessa pressione che loro stavano esercitando su di lui. Rilke aveva la sensazione che i negoziati con quell'uomo non avrebbero proceduto secondo linee razionali. O'Donnell non l'aveva particolarmente impressionato l'unica volta che si erano visti; per lo meno, non nello stesso ordine in cui l'aveva impressionato quello che aveva fatto ai quattro uomini di scorta quando era fuggito, e ad Axel Reineger nel cortile della fattoria. Non era rimasto molto di quell'uomo, se non un pugno di denti e una macchia scura sul terreno. Sembrava che O'Donnell non fosse solo disturbato; sapeva anche essere maledettamente scrupoloso in quel che faceva. Scambiate poche parole con uno dei comandanti delle forze speciali, Rilke si diresse verso il camion con l'attrezzatura radio. Il direttore della fabbrica era sul retro del mezzo, e stava illustrando una serie di cianografiche del complesso, perché la squadra che si trovava nella boscaglia sul retro della fabbrica stava incontrando parecchie difficoltà nel localizzare le vecchie uscite d'emergenza dai tunnel sotterranei. Erano state realizzate durante il tempo di guerra, ma mai completate, e la conceria le aveva usate per immagazzinarci il materiale. Rilke non era molto preoccupato da quel lato. L'uscita principale era già stata bloccata, il sentiero che portava all'uscita era sepolto dalle erbacce. Delle due vie di fuga verticali rimaste, una sembrava che fosse stata sepolta da una frana interna, mentre l'altra non era mai stata completata. Era stata effettuata una ricerca a vista molto accurata della zona prima che l'invasione cominciasse. Rilke ascoltò per un poco i messaggi in arrivo, poi disse: — Vediamo se possiamo riavere l'energia per riaccendere le luci interne. Se si sono spostati verso il basso, non voglio che i miei uomini si avventurino nel buio dove un selvaggio li sta aspettando. In quel momento, mentre dalla radio erompevano numerosi messaggi che si andavano accavallando, cancellandosi vicendevolmente, si sentirono alcune urla d'avvertimento provenienti da diversi punti che sovrastavano la zona d'operazioni. Patrick Cadogan stava correndo da uno degli edifici esterni verso quello principale. Non avrebbe dovuto riuscire a superare il perimetro esterno, e invece ce l'aveva fatta. Stava correndo a testa bassa, con le braccia che stantuffavano a tutta forza, e sembrava sapere bene dove dovesse dirigersi. Ci dovevano essere almeno una decina di fucili, se non di più, che lo stavano inqua-
drando. Rilke trattenne il fiato. E se qualcuno avesse reagito? Se nessuno avesse riconosciuto Cadogan? E se qualcuno avesse sparato un colpo d'avvertimento davanti all'uomo in corsa e, per fatalità, l'avesse colpito gettandolo scalciante in un'ultima danza di morte sui ciottoli della pavimentazione? No, si disse, ma piano, solo per sé. Cadogan si lanciò contro una porta, che si spalancò sotto l'urto, e disparve all'interno. La porta si richiuse lentamente da sé. Fra tutti quelli che lo attorniavano si sentì, tangibile, una sensazione di sollievo. — Dica loro "ben fatto" — disse Rilke all'operatore radio. — Questo non cambia nulla. Che sappiano che c'è anche lui, ma tutto deve procedere come stabilito. Un rumore. Arrivò echeggiante lungo la galleria, come un ciottolo che rotola in un canale di scolo. Non c'era modo di sapere di cosa si trattasse, o da quanto lontano venisse. L'unica cosa certa per Marianne era che quel posto ormai non era più riservato solo a loro. Pochi secondi dopo, si accesero le luci. Dovette coprirsi gli occhi con le mani per proteggerli; era come essere colpiti in pieno dalla luce del sole quando qualcuno, la mamma, di solito, apriva di colpo le tende della stanza per svegliarla. Era la stessa sensazione di venire scagliato, brutalmente, da un mondo in un altro. Solo che questa volta era una sensazione piacevole; anziché essere strappata alla sicurezza dei sogni le sembrava di essere stata salvata dai terrori di un incubo. Gli occhi si abituarono alla luce, lentamente. Si era immaginata di trovarsi in una galleria sporca e scavata a nano, invece aveva muri lisci e bene arcuati, il pavimento era più o meno pulito, e sopra le loro teste correva tutta una serie di cavi ben protetti. I muri erano stati dipinti di bianco, per accrescere la visibilità. Le luci, poste a intervalli regolari, davano la sensazione di trovarsi bene addentro in una gola profonda. — Va avanti all'infinito — disse Marianne. — Più va avanti, più ci allontaniamo da loro — disse Ryan lasciandole andare il braccio. Ma non andava avanti per sempre. Dopo duecento metri s'incrociava ad
angolo retto con un'altra galleria. Prima di fare la svolta Ryan si pulì il naso con la mano, e per un attimo lei ebbe la sensazione che vi lasciasse una leggera striscia rossa. Ma lui si pulì la mano sul pastrano prima di proseguire. C'erano molte deviazioni laterali, moltissime stanze vuote e polverose. A un certo punto trovarono un bagno completo, con tutte le porte aperte e la polvere che la faceva da padrona su tutto. Dove gli scavi di allargamento erano stati interrotti, le deviazioni erano chiuse da cancellate. I loro passi echeggiavano sotto le volte perdendo di senso e di direzione; Marianne stava pensando che sarebbe stato facile per un inseguitore capire dove fossero diretti. Doveva solo fermarsi, ascoltare, e poi scegliere la direzione. C'erano anche molti macchinari, fissati su basi in cemento, fornaci ora fredde e pompe per la circolazione dell'aria che ricordavano dei prototipi vittoriani per un qualche motore a reazione. Strane parole e ancor più strani gruppi di disegni erano stati marchiati sulle superfici dei macchinari. In alcuni punti mancavano numerosi pezzi, sì che parecchie parti della struttura si drizzavano inutilizzate nell'aria. C'erano cataste di rotaie, di legname, di scaffalature, pezzi rotti di condutture. Marianne si sentì come se fossero giunti in un punto in cui non era mai pervenuto occhio umano, che fossero arrivati nell'officina del mondo, ai macchinari che facevano funzionare tutta la Terra, che vi pompavano l'aria e creavano i venti e sorreggevano il fondale che si era soliti chiamare cielo. — Ryan — disse — sto pensando. — Buona cosa. — No, una cosa seria. Voglio fare un patto. Lui abbassò lo sguardo per fissarla. — Che tipo di patto? — So che a questo punto vorresti sbarazzarti di me. E so anche che pensi che lo faresti per il mio bene, ma io non voglio lasciarti andare. Allora quello che voglio proporre è: noi continuiamo ancora per un poco, e se non funziona... — Allora? — Allora lascerai che io ti riporti indietro. Lui continuò a camminare, sempre fissandola. Appariva stanco, il viso era grigiastro e gli occhi erano sottolineati da pesanti borse. Cominciò a scrollare la testa, non come se volesse dire di no, ma come se volesse dimostrarle il dispiacere di non poterle dire di sì. — Non funzionerà — disse. — Mi rincresce, ma è così. — Ma se non sai nemmeno dove stiamo andando.
— Non posso tornare indietro. Nessuno di loro capirà mai. — Ma io gliel'ho già spiegato. Gli ho già detto tutto. Lui era perplesso. Stava per dire qualcosa, ma si fermò, sempre confuso. — Mentre stavi dormendo — spiegò lei — ho scritto tutta la nostra storia. Di come è successo, e di tutto quello che hai fatto per me. L'ho messo nella buca delle lettere mentre tu pensavi che stavo buttando via la spazzatura. E so che l'hanno letto perché gli ho anche detto della macchina e di dove eravamo diretti ed è per questo che ci hanno trovati subito. Mi dispiace di averti mentito. Anche se poi non è vero che ho detto una bugia. Mi sono limitata a non dirtelo, tutto qui. Penso di avere fatto la cosa giusta, Ryan. So che tu non la pensi così, ma io sì. Lui chiuse gli occhi, come per una fitta. Poi si voltò, malfermo, e riprese la sua strada. — Ryan! — gridò lei, e lo rincorse. Cercò di fermarlo, ma senza riuscirci. Non la guardava né mostrava di accorgersi di lei. Lei gli si mise di fronte per fermarlo e per farsi dire qualcosa, ma lui la scansò e la lasciò lì da sola, quasi facendola cadere passandole accanto con furia. Svoltarono un ultimo angolo. A venti metri da loro, la galleria finiva in un punto morto. C'era un muro di cemento armato con due porte gigantesche chiuse ermeticamente. Erano di metallo grigio, con cardini massicci. Invece della solita maniglia, ogni porta si apriva mediante una ruota. Erano del tipo di quelle che si usano per sigillare ermeticamente un posto. A Marianne sembrava che fossero anni che non venivano usate, ma Ryan, con una specie di ringhio, s'avvinghiò a quella più vicina cercando di farla ruotare con tutta la forza che aveva. Ti prego, Dio, stava pensando Marianne. Non fare che si muova. Fa' in modo che resti immobile. Lentamente, un millimetro alla volta, la ruota cominciò a cedere. Ryan moltiplicò i suoi sforzi; ne aveva bisogno, perché il meccanismo della porta non sembrava volerlo aiutare. Col viso paonazzo, con le vene che sembravano dover scoppiare da un momento all'altro, le fece compiere un quarto di giro. Era come un uomo intento a sollevare una cassaforte. Ma i suoi sforzi erano tesi a fargli raggiungere una sorta di libertà, o a morire nel tentativo. — Ryan, guarda! — gridò lei. Lui quasi non la sentì. Ma stava riprendendo fiato per il prossimo as-
salto, e i suoi occhi corsero là dove lei stava indicando. Nel punto dove la porta collimava col pavimento, stava cominciando a colare dell'acqua. Era salmastra e verde. Stava giungendo da almeno una dozzina di rivoletti e, mentre stava guardando, i rivoli s'ingrossarono, si unirono e divennero un vero filo d'acqua continuo. Dall'architrave cominciò a zampillare un sottilissimo schizzo d'acqua. Ryan li fissava, abbarbicato alla ruota. L'acqua stava cominciando a ingrossare nei pressi della porta. Al getto che s'arcuava sulla sua testa se ne erano aggiunti altri, che scintillavano come catene d'argento. Sul pavimento c'era una pozza ben visibile, che s'andava allargando. Mollò la presa sulla ruota e indietreggiò lentamente prima di sedersi pesantemente con la schiena contro la parete. Sembrava essersi completamente spento. Esitante, Marianne gli si accosciò vicino. — Ryan? — disse. Lentamente, lui voltò la testa per guardarla. — Adesso, andiamocene — gli disse, e gli porse la mano. Lui fissò quella mano per parecchi secondi, come se fosse uno strano oggetto il cui significato gli sfuggiva. Poi allungò la sua, e le minuscole dita di lei scomparvero nella grande mano di lui. Faticosamente, sgraziatamente, cominciò a levarsi in piedi. 80 Cadogan era diventato rauco a furia di gridare il suo nome. Aveva gridato ogni sorta di cose, implorazioni e avvertimenti fino a cadere nel silenzio assoluto dopo essersi reso conto che le sue parole cominciavano a non avere più senso alcuno. Molto lontano cominciò a suonare un telefono. Il vapore rumoreggiava nei tubi, i ventilatori risucchiavano l'aria. La fabbrica era stata evacuata, le spine erano state staccate, le macchine arrestate, le pompe chiuse, ma era come se nella sua consapevolezza fosse rimasta una scintilla e il suo cuore continuasse a ticchettare sfidando tutte le opinioni degli esperti. Era grandissima. Non aveva mai visto un posto come quello. Aveva visitato parecchi impianti della Masako quando ancora lavorava per la compagnia, ma erano tutti ad alta tecnologia e d'aspetto confortevole, mentre
questo aveva un aspetto medievale. Nel cortile c'erano pile su pile di pelli di animali, che puzzavano ancora di macello. Numerose vasche sgocciolanti che puzzavano anche peggio. Impianti di avvolgimento e stanze di disseccamento e laboratori per il taglio e file su file di macchine per cucire e assemblare. Negli uffici usavano ancora leggii e alti sgabelli, e la luce che entrava ricordava l'acqua sporca. In certi posti di lavoro, la luce del giorno non arrivava mai. C'erano anche luoghi di riposo, qui e là. E gallerie vaste e dagli alti soffitti dove l'unica prova di uso stava nelle macchie d'olio sul pavimento, che ricordavano che in quel posto c'era stato un qualche macchinario. Scale che riecheggiavano come quelle delle carceri, nelle quali sentiva deboli echi provenienti da una radio abbandonata sul pavimento. Ma non c'era segno alcuno di Marianne e di Ryan. Gli avevano detto di stare attento alle gallerie. Poiché quell'uomo era ritenuto pericoloso, gli avevano detto di non seguirlo perché poteva tendergli un agguato ovunque. Meglio stare alla larga e aspettare. Alla fine, doveva ben uscire; c'era un'unica altra uscita, attraverso un canale che sbucava nei boschi e che da tempo era inaccessibile perché da tempo allagato. Mentre compiva la sua ricerca frettolosa, era a quegli avvertimenti che andava ripensando. Perché, in quel momento, di cosa aveva paura? Un tempo era facile rispondere a quella domanda. La sua bambina era nelle mani di un bruto: fine delle considerazioni. Ma adesso era come se, mentre O'Donnell era andato crescendo sempre più sotto forma di mostro agli occhi degli altri che l'inseguivano, lui avesse cominciato a comprenderlo sempre più, a vedere sempre più chiaro nella scena che una volta era stata una sorta di macchia grigia e indistinta. Poteva anche essere un bruto, ma Marianne lo aveva scelto quando aveva avuto bisogno di conforto. E lui, invece, cosa le aveva fatto? Cosa, eccettuati i suoi inutili sforzi per tenerla alla larga dalla verità? Cadogan continuava a temere per Marianne; sentiva la sua mancanza, anche se gli ci era voluto molto per rendere ben distinto questo sentimento dagli altri. Doveva anmmettere che attualmente la sua paura più grande non veniva da O'Donnell, ma dalla potenza di fuoco che si era trascinato dietro indirizzandola verso di loro. Si fermò. Per un attimo, non capì bene perché. Davanti a lui c'era una delle gallerie in disuso, sufficientemente larga e alta da contenere una nave. Le finestre erano così alte da arrivare fino al soffitto, e lasciavano passare una lu-
minosità grigiastra che si rifletteva sul pavimento. La polvere turbinava indisturbata attraverso quei raggi di luce. Fece un altro passo esitante; una delle tavole scricchiolò, e in quello spazio vasto e vuoto quel rumore risuonò come uno scoppio. Guardò le finestre. Sembrava che fossero passati secoli da quando erano state pulite. Attraverso di esse poteva vedere il muro perimetrale che circondava il cortile e, oltre quello, la sagoma del tetto della Kulturhaus. Su quel tetto, nulla si muoveva. Con estrema cura fece un passo indietro, nel tentativo di togliersi dalla linea di tiro di quanti stavano sul tetto. E una voce dubbiosa, quasi incredula disse: — Papà? Si voltò. E loro erano là, contro il lato più lontano della galleria. Sua figlia e il suo orso ammaestrato. Sua figlia appariva priva d'espressione, perplessa di trovarlo in quel luogo. O'Donnell, accanto lei, era a disagio, così grosso, così grossolano, così tanto di tutto quanto lei lo era di nulla. Lei lo stava tenendo per mano: non come una prigioniera, ma cose se fosse lei a tirarselo dietro. Lei fece un passo in avanti, come se volesse dire qualcosa. Cadogan agitò le mani e gridò: — No! Vide che si fermava, perplessa. E poi fece per indietreggiare, incerta questa volta, e O'Donnell la trasse vicino a sé. — Che succede? — chiese Ryan. — Tengono d'occhio le finestre — disse Cadogan, alzando la voce per farsi sentire bene. — Tengono d'occhio tutto. Se uno di voi due fa un passo, potrebbe essere l'ultima cosa che farà. O'Donnell girò lo sguardo verso le finestre; poi la sua grande mano si posò sulla spalla di Marianne e, come due persone che si sono appena rese conto di essere entrate in un campo minato, la guidò all'indietro, verso l'ombra protettiva alle loro spalle. — Rimanete calmi — disse Cadogan. — È l'unico modo che abbiamo per uscirne sani e salvi. E anche se non poteva dirsene sicuro per la distanza, gli sembrò che sul viso di O'Donnell si disegnasse un debole sorriso. Nessuno parlò per un poco, poi fu O'Donnell a rompere il silenzio. — Be' — disse. — Rieccoci qui di nuovo. — Sembra che debba ricominciare a chiederle di restituirmi mia figlia. — Come l'ultima volta? — No — disse Cadogan, che ricordava la stazione deserta e come lui
avesse sbattuto la testa contro le sbarre per la frustrazione fino a quando la mano di O'Donnell e le sue parole calme non l'avevano aiutato a ricomporsi. — No — ripeté. — Non come l'ultima volta. Lei ha agito come ha detto che avrebbe fatto. Continuo a pensare che sia sbagliato, ma credo anche di avere capito perché. Adesso la rivoglio. Per favore. Marianne lo stava fissando. — Ti sto chiedendo di tornare a casa con me — le disse. — Voglio dirti alcune cose sulla mamma. Non ti racconterò tutto, non subito, ma non ti mentirò mai più, lo prometto. E aggiunse: — Bitte komme mit mir. Und versuche mir zu vergeben. La vide alzare lo sguardo verso O'Donnell. — Non so cosa fare — la sentì dire, esitante. — Io credo di sì — disse O'Donnell. Lei riportò lo sguardo sul padre. Ma questi stava guardando O'Donnell. — C'è un modo per uscirne — gli disse. — Lasci che porti Marianne in un posto sicuro, e poi usciremo assieme. Qualsiasi cosa vorranno farle, dovranno farla anche a me. Parlerò con tutti quelli che sono venuti qui. Dirò loro che razza di casino ho messo in piedi, e come tutto ha avuto inizio. Resterò accanto a lei per tutto il tempo necessario. Non voglio dire che lei non abbia sbagliato, ma spiegherò a tutti perché l'ha fatto. — Non voglio che gli facciano del male — disse Marianne. — Non glielo permetterò — disse suo padre. Tutto dipendeva da come O'Donnell avrebbe reagito. Non si poteva promettere che tutto sarebbe andato per il meglio, perché non sarebbe stato così. Troppa gente era rimasta coinvolta, troppi ne erano rimasti colpiti. Ma potevano lo stesso giocare le loro carte ed evitare che tutto corresse verso la tragedia, e la bilancia era in bilico proprio in quel momento. Marianne stava fissando O'Donnell, come se attendesse da lui una risposta a quello che doveva fare. — Vai — le disse, e con un moto della testa le indicò la lontana figura del padre. Ma lei continuava a esitare. — Vai! — ripeté con impazienza, e le diede una leggera spinta. Lei lo guardò incredula, ma lui ripeté il gesto. Questa volta lo fece senza guardarla. Cadogan trattenne il fiato mentre Marianne faceva il primo esitante passo entrando nella luce delle finestre. Adesso dovevano vederla chiaramente
dalle loro alte posizioni sul tetto della Kulturhaus. In quanti erano? Non li aveva contati. Tutti tiratori scelti. Dovevano aver visto che era sola e quindi aspettavano a sparare, ma solo la calma e la concentrazione e pochi millimetri di spostamento di un dito contro il grilletto stavano tra sua figlia e l'impatto di una pallottola ad alta velocità. Aveva percorso un terzo del cammino. Si guardò alle spalle come per essere rassicurata da O'Donnell, ma lui teneva lo sguardo fisso a terra. Non sembrava stare molto bene. Cadogan non capiva perché. Ma poi colse lo scintillio di un occhio quando O'Donnell guardò in direzione delle finestre, e allora capì che non era del tutto fuori dalla linea di tiro. Forse dalla sua posizione non aveva una visione completa come l'aveva lui, ma certamente aveva un'idea di cosa poteva aspettarsi. Marianne esitava. — Non fermarti adesso, per favore — disse Cadogan. — E se loro non ti volessero ascoltare? — Dovranno. Li costringerò. — Ma se non vogliono? — Ma cosa posso dirti? — disse lui esasperato. — Continua a camminare e ce la faremo a uscirne. Ma Marianne stava scrollando la testa. — Lo uccideranno — disse. — Gli daranno la colpa per tutte le cose che sono successe e per le quali lui non c'entra niente. Stava per tornare indietro. Oh Dio, stava per tornare indietro. — Marianne, vieni, presto... — Voglio restare con lui — gli rispose, e gli voltò le spalle. O'Donnell reagì tardivamente; si stava sfregando il viso e sembrava che stesse pensando ad altro, ma quando alzò lo sguardo e vide che stava tornando da lui assunse subito un'espressione allarmata e gridò: — No! Fece un passo in avanti per farle segno di fermarsi. Un solo passo, e forse non s'era nemmeno accorto di averlo fatto finché non fu troppo tardi. Un solo passo era più che sufficiente. Forse erano stati due spari, ma potevano anche essere tre. Era difficile essere sicuri di qualcosa, perché tutto stava avvenendo nell'ordine sbagliato. Ryan stava barcollando all'indietro persino prima che Cadogan sentisse il vetro delle finestre che s'infrangevano. Il lontano crepitio dei fucili sembrò arrivare un'eternità dopo. Il suo largo pastrano venne strattonato da un lato e dall'altro, mentre buchi rotondi si disegnavano sul pavimento di cemento con una serie di colpi secchi come quelli di un martello. Polvere si
aggiunse alla polvere, rotando come la pula del grano quando viene lavorato sull'aia. Ryan fu risospinto nell'ombra, e il fuoco cessò. Cadogan si lanciò. Afferrò Marianne che stava per correre in avanti e si buttò di lato con lei stretta fra le braccia, spostandola dalla linea di tiro prima che l'eco degli scoppi fosse svanito tra le alte volte. Si sbilanciò e quasi cadde, ma non mollò la presa sulla bambina. Solo quando si sentì sicuro di essere fuori dal raggio d'azione delle armi, solo allora le permise di guardare indietro, e anche così facendo non la lasciò per un solo attimo. O'Donnell non era caduto. Cadogan si sorprese a chiedersi se fosse stato veramente colpito. Ma poi s'accorse che ogni oncia della forza dell'uomo veniva incanalata nello sforzo di restare ritto, ed era una lotta che ben presto avrebbe perso. — Ryan? — disse Marianne. Con uno sforzo terribile O'Donnell riguadagnò l'equilibrio e la sua compostezza. Si drizzò. Cercò persino di lasciar trasparire un sorriso tremulo ma complice diretto a lei. — Va tutto bene — disse con voce debole. — Non ti preoccupare, sto bene. — Il suo sguardo corse verso Cadogan. — Vuoi fare qualcosa per me? — gli chiese. — Ryan — disse di nuovo lei, questa volta in tono di preghiera e di apprensione, che le uscì come un singhiozzo, ma lui sembrava volerla ignorare. Il loro legame era spezzato, per sempre. Era passata da un uomo all'altro come una trapezista che vola da un ricevitore all'altro; solo la presa di Cadogan le impediva di cadere nel baratro che si apriva fra i due uomini. — Cosa vuole che faccia? — chiese Cadogan. — La porti via — disse O'Donnell. — Voglio dire, la porti lontano da qui. Non aggiunse altro, ma il significato era chiaro. Non era solo: "La porti via" era: "Non lasciare che veda quello che succederà fra poco". — So che non le suonerà giusto, ma comunque, grazie. O'Donnell fece un unico, aggraziato cenno di ringraziamento, subito guastato da un colpo di tosse, che lo costrinse a mettersi le mani a coppa davanti alla bocca. Ce le tenne per un poco, come se stesse aspettando cosa sarebbe successo in seguito; poi se le tolse e deglutì con forza prima di schiarirsi la gola con gran fatica. — Andate — disse con calma.
Cadogan sollevò Marianne e, prima che lei cominciasse a protestare, cominciò a trasportarla verso il corridoio che li avrebbe condotti all'ingresso degli operai e quindi verso la salvezza. Lei si divincolò, ma solo per continuare a tenere d'occhio O'Donnell. Ma quando furono arrivati alla porta, O'Donnell era già svanito nel buio. Mentre Cadogan cominciava a correre, lei gli si strinse addosso. Gli girò la faccia contro la spalla e ce la seppellì. Non era più una bambina, ma per lui era leggera come una piuma. Tenendosela stretta addosso, aprì con un colpo la barra antipanico della prima uscita che vide e lasciò che la porta si spalancasse davanti a sé. E fu subito fuori, sull'acciottolato, continuando a correre, solo che questa volta lo faceva per la salvezza di tutt'e due, perché adesso non era più solo. Aveva i polmoni pieni del profumo di lei. Si sentiva la testa leggera. Lei gli si teneva così stretta da fargli quasi male. Era solo vagamente consapevole della linea di poliziotti verso cui erano diretti. C'era gente che correva loro incontro. Si sentì una serie di scoppi, e uno sciame di missili si inarcò sopra di loro. Lacrimogeni. Stavano sparandoli attraverso le finestre e lui cercò di gridare loro di smettere, ma c'era troppo rumore e quasi non sentiva lui stesso la propria voce. Sentì i vetri che s'infrangevano; una granata mancò il bersaglio e rotolò nel cortile, scagliando tutt'attorno una nuvola rabbiosa di gas. Mise la mano sulla testa di Marianne e la spinse con forza contro la spalla mentre la nube li avvolgeva; gli occhi cominciarono a bruciargli ed entrambi si misero a tossire, ma non si fermò. Uomini con maschere e giubbetti antiproiettile gli passarono accanto. Li superarono da entrambi i lati nella nebbia come truppe fantasma, anonimi e inumani, con occhi che ricordavano insetti e che brillavano neri, con le armi pronte al fuoco. Adesso gli occhi bruciavano, doveva togliersi di lì alla svelta. Arrivò una folata di vento, la nube di gas si dissolse ma poi tornò a riavvolgerli di nuovo. Si sentì un grido mentre una porta veniva colpita con forza perché si spalancasse. Dal nulla apparve un'auto, che si fermò derapando a pochi metri da loro. Qualcuno lo prese per le spalle spingendolo verso le portiere che si stavano aprendo. Qualcun altro cercò di togliergli Marianne dalle braccia, ma lui si divincolò sempre tenendola stretta. E poi l'auto se ne andò, con le portiere che sbattevano, e in qualche modo loro due erano a bordo. Stavano passando attraverso i cancelli della fabbrica, lontani dalla zona operativa, via da quella scena per sempre. Il desiderio di O'Donnell si realizzava.
E anche quello di Cadogan. Lei era tornata da lui. Era salva. Era sana e salva. E se anche era rimasto qualcosa nella sua vita di cui in quel momento ancora gli importava, non aveva alcun desiderio di pensarci. Non in quel momento. 81 Ryan era tornato nella galleria. Aveva un piano. Non aveva ancora deciso di chiudere la sua vicenda. Ma era così difficile. Mentre camminava l'energia sembrava lasciarlo lentamente, e avvertiva l'innaturale sensazione di avvicinarsi sempre di più al pavimento. Da un momento all'altro si sarebbero congiunti come succede in quei film dalle sequenze rallentate in cui si vede un uccello che fa un atterraggio fortunoso. Quando sarebbe successo, allora si sarebbe finalmente riposato. Avrebbe tolto la spina, e le luci si sarebbero spente dietro tutti i quadranti. In quel momento, in qualche modo, si sentiva come se avesse raggiunto il culmine di un'arcata e cominciasse di nuovo il movimento pendolare inverso. Si sentiva senza peso, e cominciò a risollevarsi. Se prima ogni passo che faceva gli era sembrato che lo avrebbe portato a contatto diretto col pavimento, adesso gli sembrava di poter volare senza dover fare il minimo sforzo. La sensazione che potesse trattarsi di una sorta di illusione venne spazzata via quando un paio di volte andò a sbattere contro i muri della galleria, mentre dolori lancinanti lo scuotevano da testa a piedi. Una cosa che lo riportò coi piedi per terra, ricordandogli quale fosse la sua vera situazione. Ma continuò, pur barcollando, e a ogni passo che faceva si faceva sempre più convinto che ce l'avrebbe fatta. Ecco le rotaie, dove Marianne aveva inciampato. Marianne che, per la salvezza di entrambi, non avrebbe mai più rivisto. Ma cosa cavolo avevano pensato di fare con tutto quello spazio a disposizione? Era il posto in cui si poteva nascondere un esercito. Solo alcune delle stanze laterali, le cui entrate erano sbarrate da cancelli in metallo, erano sufficientemente grandi da servire come dormitori. Alla fine di ognuno di questi stanzoni c'erano altre sbarre e, oltre quelle, un altro passaggio come quello in cui era lui, parallelo ed egualmente illuminato. Nessuno sembrava usare più quei luoghi che stavano lentamente cominciando
a deteriorarsi. Le pareti bianche avevano cominciato in alcuni punti a lasciar trapelare l'umido, oppure lasciavano intravedere strisce rossastre di ruggine, che ricordavano i tagli di una ferita. Sul soffitto, parecchi cavi si erano disconnessi e penzolavano inerti in lunghe curve. Fece un'altra svolta. Adesso s'accorse di non essere più solo. Di fronte a lui c'era la bambina vestita da damigella. Ne riconobbe i vestiti di antica foggia, gli occhi sbarrati per lo shock, i capelli sporchi per la polvere e i calcinacci dell'edificio crollato. Aveva braccia molto magre, e sulle mani una moltitudine di tagli. Se fosse sopravvissuta, la maggior parte della sua vita l'avrebbe già alle spalle. Invece era diventata questa cosa congelata, che attendeva incerta e per sempre davanti alla porta che le era stata chiusa in faccia. Voleva pronunciare il suo nome, Vanessa, ma lei si stava già allontanando. Era solo vagamente conscio di alcuni rumori molto lontani che probabilmente provenivano dal complesso che sorgeva sulla sua testa. Adesso si stavano avvicinando, più fiduciosi, ma era inevitabile. Alla fine, nulla più importa. E comunque, dovevano ancora trovarlo. Ma non c'era nulla in quel momento che potesse fermarlo. E niente poteva più fargli male. Niente fa male, e lui stava cominciando a credere di avere infranto una barriera e di essere stato trasformato in un essere senza alcuna sostanza come i pensieri, o l'aria, ed è esattamente a questo punto che cadde in avanti, pesantemente e senza alcun avvertimento. Venne scosso da uno spasmo d'intensa agonia che lo colpì con forza inaudita. Quando cominciò a rialzarsi, gli sembrò che il suo corpo fosse diventato una sorta di enorme peso che lui doveva trascinare attraverso una corrente d'acqua. Anche i suoni che venivano dalla galleria avevano cominciato a farsi più indistinti. Ma che importa. Nulla importa. La porta era davanti a lui. Fissò lo sguardo sulla ruota al centro. Tutto il resto fluttuava e ballonzolava attorno a lui come se fosse su una nave, ma quella ruota era solida come una roccia. Il pavimento alla fine di quella galleria era impregnato d'acqua, la maggior parte della quale sembrava però essere scivolata via grazie al pavimento in pendenza, per radunarsi chissà dove lontano da quel punto. Posò le mani sulla ruota. Si fece forza, in attesa del dolore, se mai ce ne sarebbe stato. Poi applicò tutta la sua energia nel tentativo di aprirla definitivamente. I lati esterni della porta erano corrosi dalla ruggine, e il metallo stava
cominciando a staccarsi in piccole sfoglie. Aveva l'aspetto, se non la struttura, di esser fatta di vecchio cartone bagnato. E così, dall'altra parte c'era l'acqua. E allora? Se l'avesse fatta uscire, sarebbe passato. E se ce n'era troppa e quel sistema di gallerie non poteva contenerla tutta... Be', ma cosa aveva da perdere? La ruota si spostò di un poco. Il suo corpo urlava per il brivido dell'impresa e lui si sforzò sempre di più, col sangue che gli pulsava nelle orecchie e la vista che cominciava a mancargli come se si stesse guardando su uno schermo TV che fosse stato colpito da un improvviso calo di tensione. Il rivolo divenne uno zampillo. Lo zampillo si trasformò in un getto. E i getti si moltiplicarono, e poi cominciarono a unirsi fra loro... E la ruota si mosse in avanti e colpì Ryan al torace sospingendolo all'indietro, fermandosi solo poco prima di schiacciarlo contro la parete mentre una colonna d'acqua ad alta pressione si scagliava attraverso la porta e riempiva ruggendo la galleria. Era alta poco meno di due metri, aveva la stessa forma della porta ed era altrettanto solida. Arrivò come una carica di cavalleria, assordante per il rumore che produceva. Ryan cercò di ancorarsi alla ruota. Ma la forza dell'acqua mulinante era troppo per lui, e la sua presa cedette e venne trascinato via. Sbatté la testa un paio di volte, o almeno furono quelle di cui si accorse. Ma dove si trovasse e dove stesse andando, questo proprio non poteva né voleva saperlo. Non sapeva nemmeno quanto a lungo fosse durato. Poteva essere un minuto, anche se a lui sembrò molto di più. All'improvviso si trovò contro una porta di legno ad almeno duecento metri dal posto in cui aveva perso la presa sulla ruota. Rimase sdraiato per parecchi secondi, con lo sguardo fisso sulle luci del soffitto che balbettavano acceso-spento, acceso-spento, e si disse che non aveva mai visto nulla di tanto rimarchevole e di rivelatorio coi suoi disegni di chiaro e scuro, e se soltanto fosse riuscito a fare quel piccolo sforzo extra sarebbe riuscito a capire cosa significava e quindi avere la chiave per tutto, per qualsiasi cosa che avesse mai sentito o calcolato o che avrebbe mai voluto conoscere... E le luci decisero di tacere e si spensero, e lui rimase al buio con la sensazione che una certa conoscenza definitiva e finale gli fosse sfuggita, come gli era sembrato di sapere in quei momenti di grande intensità così tante volte nel passato. Qualcosa era cambiato.
Alla fine della galleria c'era una luce. Si sforzò di rimettersi in ginocchio. Stava ansando, la testa era un rumore continuo. La massiccia porta era spalancata e lasciava entrare la luce del giorno, così brillante per contrasto da sembrare che fosse stata tagliata con un rasoio per dividerla nettamente dalle tenebre. Dove la luce si rifletteva sulle pareti e sul pavimento della galleria, lì era grigia, quasi opalescente. Ryan si alzò in piedi. L'acqua stava ancora correndo sul pavimento, passandogli accanto, come il mare quando cola dai fianchi di un sottomarino appena emerso. Si sentiva il puzzo di qualcosa troppo a lungo rinchiuso e finalmente liberato. Sguazzando, s'avviò verso l'apertura. Dio, com'era stanco. Era inzuppato, e i suoi vestiti s'erano appesantiti, e stava cominciando a chiedersi con dolore improvviso se sarebbe mai riuscito ad arrivare fino alla porta. Ogni passo sembrava indebolirlo sempre più. Più si avvicinava, più era difficile fare il successivo. Ma si sforzò lo stesso di continuare. Mentre si spostava, qualcosa sembrò cominciare a colare via da lui. E c'era qualcos'altro che lo rimpiazzava. Una sensazione di luminosità. Di potere. Il suo corpo non l'avrebbe tradito, se solo lui si fosse rifiutato di credere che poteva farlo. Perché lui era Ryan O'Donnell. Tagliagli una mano, o fagli di peggio, e lui sanguinerà; ma, quale che fosse il danno infertogli, sarebbe sempre rimasto Ryan O'Donnell. Raggiunse la soglia, e cercò di rammentare a se stesso di alzare il piede per superarla. Ma l'altro piede inciampò e gli fece sbattere la spalla contro l'intelaiatura della porta. Barcollò e cercò di mantenere l'equilibrio, ma senza rendersene quasi conto. Era già stato in quel posto. Stava guardando la sua città delle luci. Si spostavano, si offuscavano, baluginavano come la luce del sole fra gli alberi. Ne era quasi accecato. Tutt'attorno a lui l'acqua scorreva, zampillava, scivolava via. Si fermò come se fosse sul ponte di una nave appena strappata alle profondità del mare. Quella cosa tanto familiare gli appariva strana. E la stranezza era che aveva l'aria di essergli stata nota per tutto l'arco della sua esistenza. Nella luce si muovevano tante figure. Si stavano radunando, scendevano, andavano verso di lui. E lui, con un senso di terrore e di gioia, si rese conto di cosa volevano.
Avanzò di un passo, poi di un altro. Era già stato qui prima, e se n'era andato. Non voleva esserne spaventato. Non lo voleva, ma come fare per evitarlo? Ma era certo che loro avrebbero capito. Avrebbe voluto non essere tanto confuso. Desiderava poter vedere le loro facce. Una figura si stava avvicinando, sopravanzando tutte le altre. Aspetta un momento. Aspetta un momento... Quando fu vicina, vide le sbarre. Sbarre pesanti che si frapponevano fra loro, risaltando contro la sua figura, parzialmente nascosta dalla loro ombra. Un graticcio finale, ecco cos'era. Ancora pochi metri prima di potersi riposare per sempre. Adesso stava cadendo. Si trovò sulle mani e sulle ginocchia, e sembrava che non fosse rimasto nulla a cui potesse aggrapparsi per compiere quell'ultimo sforzo finale. Stava accovacciandosi. Lei aveva fatto passare una mano fra le sbarre. Gliela stava tendendo. Allungò la sua per prenderla, e nel farlo cadde. Cadde ma contemporaneamente si contorse e si trascinò in avanti fino a quando riuscì a tirarsi su e a porgerle la mano. La guardò fisso negli occhi ancora una volta; ancora una volta dopo tutto quel tempo, riconnettendosi con quell'indimenticabile momento di riconoscimento che li aveva avvinti al mercatino dei libri tanti anni prima. Le loro mani si toccarono, il circuito della sua vita venne completato. Le mani di lei si avvolsero attorno a lui come quelle di una mamma che abbracciano il suo bambino, e allora lui capì di essere a casa. 82 Anche altri stavano scendendo adesso, con estrema cura. Quando il livello dell'acqua si era abbassato a sufficienza, aveva rivelato quella che una volta era una scala di gradini in legno. Dopo anni di immersione erano ricoperti di mucillagine, e tutto quello che c'era attorno a lei le ricordava il letto appena rivelato di un oceano profondo a lungo dimenticato. L'Obermeister che era andato a prendere l'attrezzatura per tagliare la catena adesso stava facendosi strada fra tutti i presenti tenendo le cesoie ben alte; emetteva lievi suoni di disgusto a ogni passo che affondava nel fango che gli arrivava fino alle ginocchia. Qualcuno accanto a Jennifer disse, piano: — Credo che ormai sia finita.
Adesso può anche lasciarlo andare. — Sì — rispose Jennifer. — Sì, lo so. Il solido lucchetto arrugginito che stava a pochi centimetri da lei si spaccò con un suono che ricordava quello di una campana mentre l'Obermeister faceva forza contro la cancellata per aprirla. Anche altri tre poliziotti si misero ad aiutarlo per spingere il cancello sui cardini corrosi dall'età e dall'acqua. — Sì, lo farò — disse Jennifer, anche se nessuno la stava ascoltando. Ma continuava a tenere salda la stretta, senza lasciarla. Fino al momento in cui uno degli agenti gentilmente le staccò la mano in modo che potessero portare via il corpo di O'Donnell. FINE