JOHN FARRIS L'ANGELO DELLE TENEBRE (Nightfall, 1987) Si ringrazia per il permesso di pubblicare i versi da «Wreck on the...
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JOHN FARRIS L'ANGELO DELLE TENEBRE (Nightfall, 1987) Si ringrazia per il permesso di pubblicare i versi da «Wreck on the Highway», parole e musica di Dorsey Dixon. Copyright 1946, renewed 1973 by Acuff-Rose/Opryland Music, Inc. 2510 Franklin Road, Nashville, TN. International Copyright Secured. Made in USA. All rights reserved. Questo romanzo è un'opera di fantasia. Personaggi e avvenimenti sono immaginari e qualsiasi riferimento a persone o a fatti realmente esistenti o esistiti è puramente casuale. A Peter John, giustiziere di draghi e gran bravo ragazzo «Non c'è nessuna notte così profonda come questo inevitabile abisso della mente, dove io ora dimoro solo con i miei nemici.» da una poesia senza titolo di OLIVE FRASER 1 Angel tornò alla vita nel reparto osservazione nella notte del 22 ottobre che, casualmente, era anche il suo compleanno. Aveva trentaquattro anni. Poche persone, ormai, si curavano di lui al punto di ricordare il suo compleanno e nessuna fra queste era venuta a fargli visita. Da tre settimane Angel era in stato di catatonia avanzata, la fine di un lungo cammino per lui, e neppure le più moderne cure sperimentali somministrategli dal capo del reparto neurologico del Silver Birches erano servite a sottrarlo al suo stato comatoso. E prima ancora che qualcuno si rendesse conto che era tornato in vita, Angel uccise ancora. La sua vittima fu LaDonna Morales, un'infermiera originaria di Long Island City arrivata da una settimana a Silver Birches con un diploma fre-
sco di un anno. Indubbiamente l'infarinatura psichiatrica ricevuta al corso costituì un fattore determinante nella sua morte. Inoltre, nelle esperienze di LaDonna non c'era mai stato niente di simile ad Angel (o Ahn-hel, come insisteva a chiamarlo), né era stata autorizzata a studiare tutte le cartelle cliniche archiviate nel computer dell'istituto. Quello che sapeva di lui lo aveva appreso dalla capoinfermiera del reparto cure intensive, una donna di nome Alma. Nel suo resoconto, Alma aveva fatto del suo meglio per metterle addosso una sacrosanta paura. Aveva trent'anni di esperienza di ospedali psichiatrici. Paragonato ad alcuni istituti statali nei quali Alma aveva lavorato, il Silver Birches era un giardino dell'Eden. Adesso, a sessant'anni, era una donna dura, con una crespa capigliatura biondo artificiale. Sorrideva come se avesse perennemente male ai piedi, il che era vero; il suo male ai piedi era stato un elemento determinante nella decisione di ritirarsi per andare a fare la missionaria part-time fra le tribù indiane del sudovest. Alma aveva le mani, gli avambracci e un lato del suo collo lentigginoso segnati dalle cicatrici lasciate da denti e unghie aguzzi. Era una di quelle creature per niente portate all'esasperazione; bastavano pochi minuti di conversazione con lei per rendersene conto. «Niente cazzate, tesoro», aveva detto Alma. «Io non frego nessuno e nessuno frega me.». Aveva preso LaDonna in simpatia e provava un po' di compassione per lei. Il reparto psichiatrico, la Torre, come lo chiamavano, poteva essere un gran brutto posto, anche da mezzanotte alle otto del mattino quando i suoi occupanti - da quattro a sette secondo i periodi - in teoria avrebbero dovuto dormire. Ma naturalmente alcuni di loro avevano cicli diversi (la signora Tashian, che aveva ucciso un neonato in un supermercato, stritolandogli d'impulso il cranio come fosse stato un melone, non prendeva sedativi per motivi terapeutici). E uno almeno, Angel, apparentemente non chiudeva mai occhio durante le crisi di catatonia. Era stato così che LaDonna lo aveva visto il suo primo giorno di servizio. Angel giaceva su una panca imbottita nella nuda stanza triangolare che occupava ormai da un anno e mezzo, la schiena appoggiata alla parete, anch'essa imbottita. Era attaccato a un'infinità di tubi: fleboclisi, catetere e cavi dell'elettroencefalogramma collegati a un oscilloscopio posto fuori dalla stanza. La prima cosa che colpì e turbò LaDonna furono i suoi occhi nocciola, tondi e scintillanti... occhi che sembravano emanare luce piuttosto che assorbirla. Le ricordavano gli occhi di un piranha visto una volta in un acquario. La seconda cosa che l'aveva colpita era stata la seminudità di Angel. Indossava soltanto il corto camice fornito dall'ospedale che arrivava
a coprirlo poco più di un bavaglino per neonati. Malgrado da un pezzo venisse nutrito per via endovenosa, si vedeva ancora che il corpo era ben fatto e attraente, non costruito artificialmente come quello di un culturista, ma dotato di una splendida muscolatura naturale. Aveva la carnagione liscia e olivastra e la pelle delle guance ben rasate era tesa e luminosa. La terza cosa che LaDonna notò fu la sua erezione. Il pene si ergeva quasi verticale, sollevando il bordo della corta camicia. LaDonna abbozzò una piccola smorfia; come faceva a starsene così prepotentemente ritto con un tubo infilato dentro, possibile che non sentisse dolore? Si chiese a che cosa stesse pensando l'uomo in quel momento, se pure pensava, che cosa potesse esserci nel profondo della sua mente, là dove il confine fra vita e morte era così tenue. «Non far caso a quello», disse Alma in tono indifferente, rendendosi conto di che cosa aveva attratto l'attenzione di LaDonna. «È un effetto collaterale dei farmaci.» «Priapismo», mormorò LaDonna con voce incerta. Voleva che Alma si rendesse conto che non era proprio l'ultima venuta. Si accarezzò il collo esile con una mano, abitudine rimastale dall'infanzia. Adesso Angel aveva spostato lo sguardo per posarlo sul finestrino di osservazione protetto dal vetro infrangibile dietro il quale stavano le due infermiere. Sbatté le palpebre un paio di volte... forse per mettere a fuoco LaDonna e registrare la sua presenza? Non c'era traccia di anima o di intelligenza dietro l'involucro di quel corpo, dietro quel sopore perenne nel quale veniva tenuto. La fronte di Angel era aggrottata. Come molti catatonici, sbavava; nel suo caso un rivolo di saliva scendeva dal lato sinistro della bocca macchiando con piccoli centri concentrici la salvietta che gli proteggeva la spalla. I capelli neri, appena spruzzati d'argento, erano tagliati corti e lasciavano scoperta la fronte alta e quadrata. L'ossatura del mento era vigorosa. Certo non lo si sarebbe potuto definire bello, pensò LaDonna; eppure era un tipo d'uomo che ti costringeva a guardarlo, a fissarlo addirittura. «Diceva che è un bipolare, giusto?» osservò, decisa a essere professionale a tutti i costi. Alma annuì abbassando le luci nella stanza di Angel con l'interruttore esterno. LaDonna provò un moto di sollievo nel non essere costretta a vedere più quegli occhi luccicanti e selvaggi, quella tormentata erezione e quell'energia che vibrava nelle membra irrigidite. In un certo senso non somigliava affatto agli altri due catatonici che aveva avuto modo di studiare durante il corso di infermiera; la rigidità di quell'uomo sembrava volontaria.
Ma in fondo non era così per tutti quanti? Nessuno poteva saperlo veramente, e coloro che soffrivano di quel raro disturbo non erano in grado di spiegarlo. Affascinante. LaDonna provò un senso di timidezza, una timidezza che aveva dovuto combattere tutta la vita. Sapeva che le sarebbe piaciuto lavorare in quel posto, sebbene Silver Birches fosse a più di un giorno di viaggio da casa sua, dalla sua famiglia e dai suoi amici. «Come ne può venire fuori?» volle sapere LaDonna, lanciando un'occhiata alla porta blu della camera di Angel. Alma sospirò. «Impossibile dirlo. Questa volta potrebbe essere andato per sempre. Il dottor Bushmill ci ha messo la croce sopra su di lui, quanto a questo non c'è dubbio.» LaDonna seguì l'anziana collega verso il centro del reparto, che era concepito a forma di stella, e la osservò sporgersi oltre il bancone delle infermiere - cosa che lei, di corporatura più minuta, non sarebbe mai riuscita a fare - e premere il pulsante che chiudeva la serratura di sicurezza della nuda cella di Angel. «Una regola cardinale. Mai entrare nella stanza di un paziente da sola. Essere sempre accompagnate da un inserviente maschio, anche se questo significa aspettare che ne arrivi uno dalla sala infermieri centrale. E se Angel dovesse riprendersi, non lasciarlo assolutamente uscire dalla sua stanza a meno che non abbia la camicia di forza.» «Ahn-hel è un nome latino? A guardarlo sembrerebbe.» Alma sospirò di nuovo, con meno tolleranza questa volta. «Tesoro, Angel è Angel e basta. Né Smith, né Jones né Brown... Angel soltanto. Come l'Angelo della Morte.» LaDonna scoppiò in una risatina incerta. «È qui, come dire, in incognito, giusto? Qual è la sua storia, allora?» «Ne ho sentito qualche pezzetto qua e là», replicò Alma, vaga. «Abbastanza da capire che non c'è niente di divertente in Angel. Basta girare lo sguardo al momento sbagliato e potresti essere morta.» Questa volta LaDonna non rise affatto, si limitò a raddrizzare la schiena. Di nuovo violenza. Aveva assistito a guerre fra bande rivali e accoltellamenti nelle strade del suo quartiere, drogati impazziti minacciare di scaraventare persone amate giù dalla finestra. All'età di quattordici anni un tizio aveva cercato di violentarla nel cantiere di una casa in costruzione, ma lei si era rivelata un boccone troppo duro per lui, tanto che gli aveva quasi spappolato il naso con un mattone. Era pronta a tutto, lì alla Torre. La notte in cui morì, LaDonna era uscita dalla pensione di Kelmore,
New York, nella quale abitava alle undici e mezzo e aveva preso la nuova Buick Skyhawk, sua gioia e orgoglio, per andare a Silver Birches. La lussuosa casa di cura sorgeva su un'isoletta priva di nome sul Lake George, collegata alla terraferma da uno stretto ponte privato. C'era stato da poco un temporale e il cielo, che quando si era svegliata nel primo pomeriggio aveva cominciato a schiarirsi, adesso era di nuovo coperto di nuvole. Aveva ripreso a piovere, una pioggia violenta sferzata da raffiche di vento che avevano spazzato via le ultime splendenti foglie autunnali. L'inverno era arrivato. Attraversò il ponte sotto la luce livida dei lampi che illuminavano la superficie increspata del lago. L'edificio principale era di pietra scura, a tre piani, con tre ali; un tempo era stato la dimora estiva di qualche magnate delle ferrovie dell'epoca vittoriana. Adesso, forse, i discendenti dei suoi facoltosi amici pagavano parecchie migliaia di dollari al mese per tenere alla larga parenti squinternati o devastati dalla droga. Pochi pazienti di Silver Birches erano considerati pericolosi. Questi pochi venivano internati alla Torre, un edificio separato prospiciente il ramo principale del lago, costruito su un piccolo promontorio a un centinaio di metri dal corpo principale. La Torre, il reparto nel quale lavorava LaDonna, era alta una ventina di metri, ma l'edificio era dotato di ascensore, una vera benedizione quando non mancava la corrente. Mentre saliva a piedi l'ultima rampa di scale, poiché l'ascensore non arrivava comunque fino in cima, LaDonna sentiva gemiti e grida attraverso le spesse pareti di pietra e la robusta porta d'acciaio: era chiaro che la luna piena e l'elettricità del temporale avevano messo tutti quanti in subbuglio quella sera. Britta, l'infermiera svedese che aveva fatto il turno dalle quattro a mezzanotte, aveva l'aria sfinita e felice di avere il cambio con qualche minuto di anticipo. Un vecchio attore, che aveva stretto un patto suicida non riuscito con l'anziana moglie, affetta da una malattia incurabile, recitava Goethe ad alta voce, in tedesco, nella sua stanza. La signora Tashian farfugliava storie lacrimevoli sulle povere creature del bosco destinate ad affogare sotto quella pioggia torrenziale. A sentire Alma, che conosceva gli altarini di tutti quanti, Britta aveva un problema con l'alcol; eppure non era possibile dire se quel giorno si fosse fatta qualche cicchetto mentre, con aria asciutta ed efficiente, passava le consegne a LaDonna scorrendo cartelle cliniche e sottolineando cambiamenti nelle terapie. «Stanotte è un vero circo equestre. Un girone infernale», commentò Britta fra un tuono e l'altro.
A LaDonna era stato assegnato un assistente per il suo turno, fatto che la riempì di gioia finché non vide che l'interessato era McSwain, un tipo che in tutta la sua vita non aveva fatto che passare da un lavoro all'altro e la cui fatica maggiore era stata quella di brandire una scopa o uno straccio per la polvere. Aveva gli avambracci ricoperti di vistosi tatuaggi violacei e la testa piena di idee balzane. Quell'unico paio di volte che avevano avuto a che fare, McSwain si era ostentatamente grattato i testicoli ogni volta che LaDonna aveva commesso l'errore di guardarlo. «La mocciosa se l'è di nuovo fatta addosso a letto», borbottò McSwain. Britta gli lanciò un'occhiata severa. «Sei pagato per questo, per pulire.» «Facciamolo fare alla nuova ragazzina», suggerì McSwain fissando LaDonna. «Le servirà da esperienza.» «Il mio nome è LaDonna, come già sai», lo rimbeccò quest'ultima. «Quanto all'esperienza, ne ho già fatta da vendere.» Intanto Lacey Steegmuller singhiozzava in camera sua. «E va bene, gira alla larga da Lacey. Mi occupo io di lei fra un momento.» McSwain non accennò a muoversi. «Cinquanta milioni di dollari», osservò, parlando di Lacey Steegmuller, «e tutto quello che è stata capace di comprarcisi è stato polvere d'angelo e crack. Si è rovinata con le sue mani, si è ridotta gli intestini come quelli di un neonato e il cervello di uno zombie.» Senza smettere di fissarlo, Britta le chiese: «Ti piace il tuo lavoro?» McSwain alzò le spalle. Britta continuò: «Oppure preferisci farti una passeggiata e tornare nel porcile dove ti hanno trovato, eh?» L'uomo sogghignò. «Quand'è così, va' immediatamente a rifare quel maledetto letto», concluse Britta, perentoria. «Abbiamo la puzza sotto il naso stasera, vero, Britta? Che cosa ne diresti di un bel clisterino più tardi? Mi sporcherei le mani proprio volentieri per te. Puoi sempre contare su McSwain.» Fischiò tra i denti, girò le spalle ed entrò nella stanza della ragazza. Britta si voltò verso LaDonna, che intanto alzava la mano in un gesto sconsolato. «Questa sì che è decisione.» Fece scorrere lo sguardo sulla fila di monitor, soffermandosi su quello della stanza numero sei. «Almeno Angel è tranquillo. Nessuna novità?» «Nessuna. È pulito, non dovresti avere bisogno di muoverlo. Peccato che tu debba rimanere qui tutta la notte con quel coglione di McSwain.» «Oh, non mi fa né caldo né freddo. Solo parole.» «Già, forse. Meglio che vada adesso. Spero che il ponte non sia di nuovo
inondato.» «Quando sono arrivata era a posto.» Britta lanciò un'occhiata preoccupata al lucernario illuminato dai lampi, poi prese l'impermeabile e l'ombrello dal suo armadietto e le augurò la buonanotte. LaDonna le aprì la porta di sicurezza ed entrò nella camera di Lacey Steegmuller. La ragazza aveva bisogno di una doccia, di un cambio di biancheria, di qualche parola di conforto, cose che occuparono LaDonna per una ventina di minuti. Quindi mise Lacey a letto. Quando uscì dalla stanza, trovò McSwain intento a bere una tazza di caffè appoggiato al bancone delle infermiere. La osservò compiere lentamente il giro delle stanze, scrutando all'interno attraverso i finestrini di sicurezza, soffermandosi a lungo di fronte a quella di Angel. «Sai qualcosa di frenologia, tu?» le chiese McSwain. «E tu?» replicò lei senza guardarlo. Notò che Angel aveva cambiato posizione, sia pure di poco, da quando l'aveva guardato l'ultima volta. Il collo aveva un'inclinazione diversa. Gli occhi erano fissi nella direzione di LaDonna, stranamente vigili nella luce intermittente dei lampi. «Io so un sacco di cose. Che tu ci creda o no, ho fatto un paio di corsi universitari.» «Io no.» «Quello lì, Angel, lo scimmione, ha tutti gli elementi classici, le misure del cranio, di un maniaco omicida.» LaDonna sentì un brivido gelato percorrerle la spina dorsale. «Perché lo chiami scimmione?» «Oh, ne so di cosette io di questo qua, l'altro giorno la sua mammina ha telefonato a Bushmill. Lui aveva passato la comunicazione sull'interfono e non si era accorto che la porta non era chiusa bene, così ho sentito tutto. Ha la voce di una di quelle donne vecchio stile, tutte piene di emotività italiana, siciliana addirittura. A ogni modo il suo vero nome è Barzatti. Ti fa venire qualche idea?» «No. Perché dovrebbe?» Le chiacchiere di McSwain le impedivano di concentrarsi mentre la luce fioca nella camera di Angel, squarciata dai lampi, le faceva venire male agli occhi. Li chiuse per un istante e quando li aprì avrebbe potuto giurare che Angel si fosse voltato ancora di più verso il finestrino. Il suo sguardo fisso, giallo e soprannaturale le fece scorrere un brivido lungo la schiena, un brivido di terrore misto a eccitazione e curiosità. Forse era possibile che stesse uscendo dallo stato catatonico; gli ordini in un caso del genere erano di telefonare immediatamente al dottor
Bushmill, a qualunque ora del giorno o della notte... McSwain la raggiunse silenziosamente alle spalle e le toccò il gomito; LaDonna trasalì e fece una smorfia. «Calma, calma», la esortò lui. «Ti stavo dicendo che sua madre vive a Howard Beach. Hai sentito parlare di Howard Beach?» «Forse, non mi pare.» «Un sacco di mafiosi laggiù: capoccia, pesci grossi addirittura... come li chiamano... don.» «Già, e anche gente perfettamente normale, ne sono certa.» «Cristo!» esclamò McSwain, sbirciando al di sopra della spalla di LaDonna e alitandole nel collo con il suo fiato rancido. «Mi sembra che si sia mosso. Si è mosso?» «Non saprei.» LaDonna girò l'interruttore e alzò le luci nella stanza di Angel, facendo risaltare le sopracciglia scure e il rivolo di saliva che gli solcava il mento. «Sta fissando te», osservò McSwain. «Guarda come gli è venuto duro! Gli è venuto duro proprio per te, piccola. Gli piaci. Angel ti vuole.» «Oh, magnifico. Finalmente la mia vita ha un senso.» «Ti andrebbe uno come Angel? Magari là da dove viene è davvero un pezzo grosso. Voglio dire, non si arriva a Silver Birches se il tuo paparino si sporca le mani lavorando.» «All'inferno, perché non ci rimbocchiamo le maniche e non facciamo qualcosa? Sarà il caso di dare qualcosa alla signora Tashian, altrimenti va avanti tutta la notte.» McSwain l'accompagnò all'armadio dei medicinali e poi nella camera della signora Tashian. «Ho delle belle canzoncine per lei, signora Tashian. Adesso deve dormire un po'.» Ma la signora Tashian voleva conoscere il numero dei decessi nella popolazione degli scoiattoli là fuori, nel bosco inondato dalla pioggia. LaDonna la rassicurò dicendo che la società per la protezione degli animali li aveva salvati tutti quanti, fino all'ultimo. Per un attimo la signora Tashian parve tranquillizzarsi, ma subito dopo attaccò a parlare di «quei lestofanti» e delle cose orribili che facevano, per esempio abbandonare nella carrozzina un neonato di due settimane con la testa fracassata facendo ricadere la colpa su di lei. LaDonna la lasciò andare avanti a ruota libera mentre le sprimacciava i cuscini, le sistemava le coperte e nel giro di pochi minuti la paziente perse il filo del discorso e lasciò che le palpebre rugose si chiu-
dessero. «Un tempo conoscevo una vecchia portoricana», disse McSwain mentre uscivano dalla stanza. «Era alta poco più di un metro e cinquanta, ma faceva delle cimiciangas favolose. Sai come si fanno le cimiciangas?» «Sono messicane, non portoricane.» «E con questo, che cosa sai cucinare tu?» «Empanadias. Alcapurias.» «Magari uno di questi giorni ti chiederò di invitarmi a cena e di prepararmele. Sono sempre andato pazzo per la cucina piccante.» «Che onore», commentò LaDonna, troppo annoiata per mettere il dovuto sarcasmo nella voce. Le rimanevano otto minuti e mezzo da vivere. LaDonna si diede da fare dietro il bancone delle infermiere e, dopo un ultimo tentativo di conversazione, McSwain se ne andò sbadigliando a guardare la televisione, fingendo di non avere sentito la richiesta di LaDonna di dare una pulita alle docce. Aveva smesso di piovere, ma in lontananza si udiva ancora il rombo sordo del tuono sottolineato da deboli lampi. L'indicatore del polso nell'oscilloscopio di Angel diede un balzo nel momento in cui il battito cardiaco accelerò. LaDonna fissò lo schermo dell'oscilloscopio e subito dopo l'immagine indistinta di Angel nel monitor. Si stava muovendo. Senza smettere di fissare lo schermo, l'infermiera allungò la mano verso il telefono, poi distolse per un attimo lo sguardo, alla ricerca del numero nell'elenco telefonico. In quei pochi istanti in cui i suoi occhi cercarono il numero di telefono di Bushmill, Angel entrò in convulsioni. Nell'oscilloscopio la linea del cuore segnava picchi e cadute terribili. Nel monitor televisivo LaDonna vide Angel riverso sul pavimento, le gambe scosse da spasmi. Si girò e premette il pulsante che apriva l'interruttore principale della porta della stanza di Angel. «McSwain!» LaDonna aveva ancora in mano il ricevitore del telefono, ma anziché fare il numero del dottor Bushmill, compose il numero 123, che avrebbe fatto scattare l'allarme nell'edificio principale mandandole automaticamente soccorsi. Fu in quel momento che il fulmine più forte che avesse mai visto colpì come una bomba la Torre, facendo saltare la corrente. LaDonna sussultò per lo spavento. Un istante dopo la luce accecante del fulmine, il generato-
re di emergenza, una coppia da 150 watt, entrò in funzione accendendo alcune lampadine sistemate strategicamente. In un certo senso quelle fioche luci resero ancora più spaventosa la penombra della Torre. Lacey Steegmuller cominciò a gemere. L'attore nella stanza numero 3 si svegliò e, convinto di avere ricevuto il segnale per l'attacco, cominciò a cantare Serata incantata da South Pacific. LaDonna spalancò un armadietto e afferrò la borsa del pronto soccorso. «Che cosa succede?» chiese McSwain, fissandola dalla porta della sala infermiere. «È Angel. Ha una crisi.» Il monitor, però, era spento e l'oscilloscopio aveva smesso di funzionare. «Vieni con me.» «Ehi, fa' attenzione, non...» LaDonna era già davanti alla porta di Angel. Infilò la chiave nella seconda serratura e la girò con decisione. La porta si aprì. Le luci di emergenza nel corridoio illuminavano fiocamente la stanza. Le piante dei piedi di Angel risaltavano, stranamente bianche, nella penombra. Il tubo della fleboclisi che era ancora attaccato alla mano sinistra si stava riempiendo di sangue. Tutti i cavi del monitor si erano staccati. LaDonna lo sentì digrignare i denti. Cercò con lo sguardo McSwain. «Ha bisogno di aiuto! Deve aver ingoiato la lingua. Non credo di essere abbastanza forte... vieni a darmi una mano, McSwain!» Lui non accennò a muoversi. «Meglio aspettare la squadra di soccorso, LaDonna. Quel tipo... senza scherzi, è...» «Fesserie!» esclamò lei con disprezzo, e senza indugiare oltre entrò nella stanza di Angel. Vide le fessure luminescenti dei suoi occhi, il tremito convulso. Non aveva paura. Si inginocchiò accanto a lui e spalancò la borsa maledicendo l'oscurità. La pioggia ricominciò a scrosciare, un diluvio universale. Nella stanza numero 3 il vecchio attore cantava a gola spiegata di serate incantate, di saloni affollati e di incontri romantici. In corridoio McSwain si decise finalmente a muoversi. Trascinò i piedi fino alla porta della camera di Angel, guardò dentro e vide LaDonna estrarre dalla borsa un divaricatore di metallo. Girò le spalle e a rapidi passi tornò verso il banco delle infermiere. Dovette frugare a lungo, non sapendo bene dove fosse. Ma aveva il sospetto che ne avrebbe avuto bisogno. La bocca di Angel era scivolosa per il sangue e il muco. Guardandolo meglio, LaDonna si rese conto che probabilmente non aveva ancora ingoiato la lingua. Dimenticando McSwain, si concentrò nel tentativo di dis-
serrargli le mascelle, infilando a forza fra i denti il divaricatore in modo da prevenire il rischio. Di botto Angel smise di tremare. Spalancò la bocca senza sforzo ed emise un getto di sangue misto a vomito sul volto sudato dell'infermiera, che ricadde all'indietro con un gemito di disgusto. McSwain, che intanto si stava affannando a caricare l'apposita pistola con il calmante istantaneo, la udì e pensò: Oh, Cristo! Mentre LaDonna cercava di pulirsi la faccia da quella massa disgustosa, una mano forte e per nulla tremante le ghermì la gola. Paralizzata dal terrore, l'infermiera vide gli occhi di Angel spalancati e vigili e capì di essere stata ingannata. Prima che l'oscurità l'avvolgesse, ripensò allo strano termine usato dalla signora Tashian: lestofante. In corridoio McSwain si lasciò sfuggire dalle mani la fiala di tranquillante che stava tentando di infilare nel caricatore della pistola. Andò a urtare la punta delle scarpe bianche dalla suola di gomma senza rompersi. Mi ami? Non c'era luogo nel quale LaDonna potesse guardare all'infuori di quegli occhi animali. Le sue labbra erano imbrattate di sangue misto a vomito e le dita forti e tozze di Angel le premevano sulla fragile carotide. Le unghie di LaDonna erano conficcate in una spalla del suo assalitore ma la presa andava rapidamente affievolendosi. La mano sinistra annaspò nell'aria e finì per ricadere inerte accarezzandogli quasi il pene turgido, mentre lui le torceva crudelmente la testa sempre più da una parte. «Mi ami?» le chiese. LaDonna non aveva mai conosciuto una forza come quella, né si era mai sentita così sola. Il delicato osso a forma di U in fondo alla gola finì per spezzarsi. Angel si tirò in piedi e LaDonna, lo sguardo ormai vuoto, si sollevò insieme con lui, avvinta in quella stretta mortale. Angel scagliò lontano da sé il corpo inerte, la gonna sollevata sopra i fianchi, il volto pietrificato girato in un angolo assurdo sopra la spalla, poi, sotto lo sguardo esterrefatto di McSwain, si avventò contro il bancone e colpì con forza l'infermiere. Mentre atterrava violentemente sul pavimento battendo la testa, la pistola con il tranquillante gli sfuggì di mano. Colse un lampo squarciare la volta scura del lucernario sopra la sua testa e poi, letteralmente, vide le stelle. Il dolore non fece che aumentare la sua paura, invano cercò di tirarsi in piedi. Aveva perso l'equilibrio e non riusciva a stare diritto, cercò disperatamente e inutilmente qualcosa a cui sostenersi. Ap-
pena provò a fare un passo, inciampò. Una cascata di stelle continuava a ostruirgli la vista mentre il pavimento e la stanza attorno a lui giravano vorticosamente. Vide un'ombra frapporsi fra lui e le luci di emergenza, nascondendole completamente. Cercò di urlare, ma riuscì a malapena a emettere un gemito. La pistola che Angel aveva raccolto dal pavimento sparò, emettendo un rumore sordo che McSwain non udì neppure al di sopra del fragore nelle sue orecchie. La fiala piena di tranquillante andò a conficcarsi al centro dell'occhio destro, spegnendo le luci nel suo cervello, piombandolo in un'oscurità mortale. Ciononostante McSwain non provò alcun dolore, solo l'impatto del colpo. Mollò la presa al bancone, cadde pesantemente sulle ginocchia, esitò per alcuni istanti, emise un altro suono soffocato e si accasciò in avanti. Angel gli passò sopra e studiò a lungo il pannello con gli interruttori che controllavano l'accesso al piano. Ne premette alcuni, rapidamente, finché non udì il ronzio della porta delle scale. Dopodiché sollevò McSwain, lo sistemò su una sedia e lo girò finché non riuscì a fare in modo che la sua fronte tenesse premuto il pulsante che controllava l'apertura della porta, che andò avanti a ronzare mentre Angel usciva. Avrebbe seguitato a funzionare per almeno mezz'ora grazie a un piccolo generatore indipendente, alimentato da una batteria da nove volt. Angel udì gli uomini della squadra di soccorso arrancare rumorosamente su per le scale, imprecando contro l'ascensore che non funzionava. Proprio sopra la sua testa c'era una luce di emergenza e sulla parete un estintore. Lo strappò dal suo supporto e si precipitò giù per le scale. I due uomini videro un uomo nudo e muscoloso con il pene eretto avventarsi verso di loro dall'alto e non ebbero via di scampo. Angel spaccò la testa a entrambi con il pesante estintore e se li lasciò dietro le spalle. Fece di corsa gli ultimi gradini di ferro, le cosce trafitte dai crampi, una fitta al fianco, e i resti del camice che gli svolazzavano sulla spalla. Brandiva ancora, come una bandiera, il suo pene eretto. Spalancò la porta che dava sul prato e fu investito da una raffica di pioggia; vide le luci dell'edificio principale, ma il prato ammantato di nebbia era deserto. Impiegò solo alcuni secondi per guardarsi attorno. Il corpo, non avvezzo a quegli sforzi violenti, lo torturava. Ma Angel capiva la tortura, ci credeva. Si costrinse a correre. Era l'Angelo della Morte ed era di nuovo libero. 2
Dopo il suo ottocentonovantanovesimo - nonché peggiore - atterraggio su ponte della sua carriera, il capitano Clay Tomlin rimase in Marina ancora per alcuni mesi; poi, quando fu evidente che per lui non c'era più modo di servire il proprio Paese, rassegnò le dimissioni. Aveva quarantatré anni, non si era mai sposato e non aveva la minima idea di cosa fare di se stesso. Una volta a terra, fece le solite cose di sempre: vide vecchi camerati, andò con un sacco di donne, bevve troppo. Quando alzava il gomito, rimuginava su se stesso e non trovava niente di divertente nella sua situazione. Cercò senza successo di farsi un'idea sensata del proprio futuro. Dal punto di vista finanziario era a posto. Negli Anni Cinquanta aveva guadagnato parecchio, con pochissime spese, e un vecchio compagno di vascello di Annapolis, adesso sistemato con una solida azienda a Wall Street, gli aveva vincolato i risparmi in obbligazioni irredimibili. Con il passare del tempo il valore delle obbligazioni era salito molto rispetto al prezzo di acquisto. Sprecò parte del denaro per pagare medici specialisti civili che non fecero altro che ripetergli ciò che i medici della Marina gli avevano già detto a Bethesda. Non avrebbe mai più potuto volare. E volare per lui era l'unica cosa che contasse. Alla fine ne aveva avuto abbastanza di se stesso e della sua precarietà e aveva deciso di tornare a casa solo perché non aveva un altro posto in cui andare. Inoltre, presto sarebbe arrivato l'inverno, e quella stagione mal si adattava alle sue ossa di meridionale. Nella tarda mattinata del 24 ottobre, una giornata fredda e limpida, Tomlin arrivò a Port Bayonne, Mississippi, una cittadina marittima che sorgeva a est di Biloxi. Parcheggiò la Corvette bianca davanti allo studio legale di Mace Lefevre, in una palazzina a un solo piano ben tenuta che dava sul corso principale. Sui davanzali delle finestre lunghi vasi di fiori ospitavano aranci nani. Con passo rilassato, varcò la porta aperta. Niente di nuovo sotto il sole. L'impiegata al ricevimento parlava al telefono con un'amica. Era un bocconcino niente male nello splendore dei suoi diciott'anni e nel suo metro e settanta di freschezza, ma un diamante a rosetta infilato al dito giusto la dichiarava terreno vietato. Sbocciavano presto e si sposavano ancora più presto, in quella parte del Paese. Normalmente i mariti avevano appena un paio di anni di più, lavoravano sui battelli che pescavano ostriche o gamberi, oppure al porto nelle vicinanze di Pascagoula. Provò un'ombra di nostalgia, come se varcando quella soglia si fosse lasciato alle spalle il profumo della propria giovinezza. L'impiegata coprì con la mano il microfono.
«Sì, signore?» «Ha per caso un posto per un povero diavolo malato di nostalgia da queste parti?» chiese Tomlin. Da una delle stanze sul retro giunse ben distinto il rumore delle gambe anteriori di una sedia che urtavano il pavimento. «Clay Tomlin! Sei proprio tu?» «Vieni a vederlo con i tuoi occhi, Mace.» La sagoma massiccia di Mace Lefevre si stagliò sulla porta dell'ufficio. Era più o meno della stessa età e altezza di Tomlin, circa uno e ottanta, ma in forma di gran lunga peggiore, con almeno cinquanta chili di troppo. Tomlin lo sentì ansimare. Mace portava un completo a righine bianche e azzurre con una cravatta blu. E diamanti. Sebbene avesse un impiegato per aiutarlo e una segretaria per fare il lavoro di dattilografia, sostanzialmente lo studio si reggeva tutto sulle sue spalle. Ciononostante, Mace era riuscito a portare avanti alcune trattative molto redditizie nella zona. «Per tutti i fulmini, guarda chi c'è! Come te la passi, vecchio selvaggio?» Tomlin rispose con la traccia di una smorfia, il massimo che gli riuscisse come sorriso: «Mi sono preso una piccola vacanza, così ho pensato di tornare a casa e darmi un po' alla pesca». «Quand'è così, entra, vecchia canaglia. Ne abbiamo di arretrati da recuperare.» «Se non sei troppo occupato.» «Per tutti i fulmini, e quando mai sono stato così occupato? Elizabeth, se Penine ritelefona, digli che sono andato in tribunale a raccogliere i documenti necessari e che alle quattro avrà tutto quello che gli occorre.» Elizabeth annuì e andò avanti a spettegolare con la sua amica, masticando chewing-gum. Mace Lefevre seguì l'amico nell'ampio ufficio sul retro che era esattamente come Tomlin lo ricordava, con i solidi mobili di quercia lasciati dal padre di Mace, insieme con lo studio avviato, le due poltrone di cuoio e la scrivania con il ripiano di pelle verde decorato in oro. Minacciosi trofei di pesce-spada impagliati alle pareti. Carte aeree della contea. In cornice, il rapporto di un architetto relativo a un terreno di proprietà di Mace che era salito alle stelle e che il legale aveva affittato a una catena di alberghi. «Bel pezzo di figliola», commentò Tomlin. «Oh, sì, al diavolo, ne ho assunte almeno una dozzina come lei; durano otto mesi, un anno magari, poi prendono il volo e fanno figli. Certe volte mi sbaglio persino a chiamarle. Sono tutte uguali, una volta che si arriva
alla mia età... A ogni modo, senti, se Elizabeth ti piace, ha una sorellina che potrei presentarti. Ha un paio di annetti in più sulle spalle, ma ancora non si vedono. Proprio un bel pezzo di figliola. Divorziata l'anno scorso, adesso lavora come hostess al Sea Sprite. Do per scontato, naturalmente, che non hai fatto il gran passo e hai preso moglie senza farcelo sapere, vero?» «Sono uno scapolo convinto, Mace.» «So come vanno queste cose. Tutto quel servizio in mare. E poi la storia di quella ragazza... già, Bob me ne ha parlato, infermiera in Vietnam. Poi le è capitato qualcosa.» Mace occupò una delle poltrone di fronte alla scrivania, le dita intrecciate sulla pancia prominente, gli occhi azzurri gravi nel volto abbronzato. «Una bomba a Cam Ranh Bay. Ha letteralmente spappolato la coda di un 707 che trasportava feriti a casa, negli Stati Uniti. Pat si è trovata a essere nel posto sbagliato al momento sbagliato. Dopo l'esplosione è sopravvissuta due mesi, ancora non so come.» «Sapessi quanto mi dispiace», mormorò Mace, valutando dall'espressione sul volto di Tomlin che era venuto il momento di cambiare argomento. «Allora ti sei preso una bella licenza. Che cosa sei adesso, tenente colonnello del Saratoga?» «Lo ero. Dopo che è stato messo in manutenzione sono stato assegnato alla Vinson. Però adesso è un anno che sono uscito dalla Marina.» «Dannazione! E dove ti sei nascosto tutto questo tempo, signor Tomlin?» «Oh, qua e là.» «Ci hai messo un po' a tornare a casa. L'ultima volta che ci siamo visti è stato per il funerale del vecchio Bob, pace all'anima sua. Tre anni fa, giusto?» «All'incirca.» Tomlin era a disagio; non era nel suo stile abbandonarsi all'onda dei ricordi, non provava alcuna nostalgia né dolore per la morte del fratello maggiore, che era stato tanto più vecchio di lui da essere quasi un estraneo. Bob, lo storico della Marina; sua moglie era morta dopo sei anni di matrimonio senza avere avuto figli. Così la famiglia si era andata lentamente esaurendo. Qualche parente anziano sparso qua e là, prozii, zie, nessuno nei paraggi con cui vantare vincoli familiari degni di questo nome. Cominciò a chiedersi perché mai fosse tornato a Port Bayonne. Ma dato che era lì... «Ci abita qualcuno alla casa grande, Mace?»
«Una coppia che viene dalle parti di New York. Sono qui da quasi undici mesi ormai. Maledizione, gli ho appena rinnovato l'affitto per un altro anno! Non avevo idea che tu stessi tornando. Se vuoi, puoi stare con noi, con me e Lorraine, voglio dire, finché ti fa comodo, Clay.» «Grazie, ma non preoccuparti, Mace. Ho voglia di starmene per conto mio per un po'. Troverò qualcosa.» «Vieni a fare un giro con me. Ci sono stati un bel po' di cambiamenti dall'ultima volta che sei venuto a casa. Facciamo colazione insieme. Hanno appena aperto un nuovo posticino dalle parti della Bluebelle Marina che fa il miglior salmone affumicato che tu abbia mai mangiato.» Presero la Cadillac nuova di zecca di Mace e andarono fino al lungomare, dove lasciarono l'auto nel parcheggio e percorsero a piedi la banchina alla quale erano attraccati grossi motoscafi per la pesca d'altura e scintillanti barche a vela, quasi tutte di proprietà di abitanti del posto. Data la stagione, facile ai violenti uragani, la maggior parte dei turisti aveva lasciato il golfo: lungo il molo c'erano parecchi posti liberi. Arrivarono davanti a un potente cabinato diesel Hatteras di oltre quindici metri e il passo di Mace rallentò mentre il volto gli si apriva in un sorriso sornione. La Shady Lady IV. Tomlin rammentò un altro paio di Shady Lady, a cominciare dalla modesta e vecchiotta sette metri O'Day che Mace si era comprato con tanti sacrifici all'epoca in cui il suo vecchio, dalla tempra d'acciaio, lo faceva lavorare sino allo sfinimento. «Gli affari vanno bene, Mace?» chiese Tomlin senza enfasi. «Al diavolo, mi conosci, porterei le pezze al culo e affamerei i miei bambini pur di permettermi qualche piccolo svago! Saliamo a bordo, vedo di racimolare un paio di birre gelate prima di puntare sul Landlubber. Oh, a proposito, ecco un paio di chiavi di scorta.» Tomlin lo fissò. «È tuo, prendilo pure quando ne hai voglia, Clay.» «Sembra un vero gioiello», commentò Tomlin. Da qualche parte, a un paio di barche di distanza qualcuno suonava Nine Tonight di Bob Seger. Tomlin si guardò attorno e scorse un tipo ben piantato, di pelo rosso e irsuto. Era inginocchiato davanti alla botola del motore di un potente motoscafo Fountain di 8.8 metri ormeggiato di poppa. Una vera bomba, con due motori entrobordo Mercs e un robusto scafo in fibra di vetro Kevlar. Stava cambiando le candele, sudando appena nel tiepido sole autunnale e fermandosi di tanto in tanto per seguire con la mano libera il tempo della musica rock.
«Bel giocattolino», osservò Tomlin. Mace alzò le spalle. «Se ne vedono un sacco di questi tempi qua attorno. Voglio dire, tipi che fino a ieri hanno fatto fatica ad arrivare a fine mese improvvisamente compaiono con questi mostri da settantamila dollari e passa.» Senza alzarsi, il tipo robusto cambiò posizione per mettersi più comodo, i bermuda a quadretti tesi sulle cosce muscolose. Un attimo dopo alzò lo sguardo verso di loro. Impossibile che li avesse sentiti dato il volume altissimo dello stereo portatile. Indossava occhiali da sole dalle lucide lenti a specchio. Lanciò a Mace Lefevre un sorriso di riconoscimento da marinaio a marinaio e tornò al suo lavoro. «Un pieno, prua in aria a tutta manetta e va e torna da Isla Mujeres o da Campeche in un batter d'occhio», osservò Tomlin. «Quanto a questo, se ne raccontano di storie», replicò Mace, vagamente a disagio, come se fosse ansioso di essere a bordo della sua barca. «La pesca è dura e non sempre rende. La droga è più facile, benché, a quanto sembri, la guardia costiera non dorma certo e pizzichi una barca su tre in arrivo dal Golfo dello Yucatan o dalle isole.» «C'è anche una squadriglia della Marina militare, chiamata Navy Bronco, con aerei FLIR che effettua questo servizio da Homestead, adesso: credo che usino anche i P3. Sono in grado di compiere missioni di sedici ore e coprire novantacinquemila miglia marine quadrate in un'ora», lo informò Tomlin. Continuava a fissare l'uomo dell'altra barca. «Ma se non sbaglio io quello lo conosco. Scusami, Mace, torno subito.» Percorse la banchina fino al motoscafo. Il tipo lavorava con entrambe le mani adesso, mordendosi il labbro inferiore, armeggiando con una chiave inglese attorno a una candela più ostinata delle altre. Finalmente l'ebbe vinta. Tomlin si tolse gli occhiali da sole Revo, strizzando gli occhi nella luce di mezzogiorno. «Ma lei non è Wink Evergood?» Il tipo robusto alzò la testa, vagamente sorpreso. Fissò Tomlin, poi gli tese la mano dalle nocche sbucciate e abbassò il volume dello stereo portatile. Non aprì bocca. Tomlin si presentò. Wink Evergood annuì e lentamente si alzò in piedi, tirandosi gli occhiali da sole sulla fronte stempiata. «Sì. E come va, amico? È passato un bel po' di tempo.» Tomlin annuì. «Campionato della Coast Conference.»
«Già, noi e Farragut. Ricordo. Partita strepitosa. Ma lo sai che mi hai fratturato la mascella in tre punti?» Sorrideva adesso. Aveva bisogno di un dentista. I suoi denti, per quanto relativamente bianchi, soprattutto in contrasto con l'abbronzatura, erano rotti in più punti. E attorno alla bocca aveva parecchie cicatrici. Un attaccabrighe con parecchio fegato, ricordò Tomlin. Ma tranquillo adesso, quasi amichevole mentre studiava Tomlin. «Le cose si sono messe piuttosto male dopo la partita, vero?» replicò Tomlin. «Maledizione se non è stato così. E tu ce l'hai poi fatta ad andare all'accademia?» Tomlin annuì di nuovo. «Mi pare di avere letto qualcosa su di te in qualche giornale, hai fatto un paio di giretti nel Vietnam. Nella squadriglia aerea, giusto?» «Giusto.» «Magnifico, sono contento di rivederti, amico. Ti fermi un po'?» Wink Evergood si strofinò il mento ombreggiato dalla peluria bionda di una barba incipiente e guardò alle spalle di Tomlin Mace, che aspettava al timone del suo motoscafo. «Un po'», rispose Tomlin laconico. Wink tornò a guardarlo. «Allora vieni a trovarmi quando hai tempo.» Si strofinò la mascella e sorrise. «Abbiamo un conto aperto, noi due.» «Se lo dici tu.» Wink scosse la testa con espressione divertita. «Hai capito male. Parlavo di un drink. Non sei stato tu a mandarmi quella bottiglia di Jack Daniel's all'ospedale? Già, lo pensavo. L'ho gradita molto.» Si portò la nocca sbucciata alle labbra e succhiò il sangue, soddisfatto, gli luccicò qualcosa di imprevedibile e forse pericoloso negli occhi grigi, uno dei due iniettato di sangue, come se avesse preso un colpo. Tomlin si accomiatò e tornò all'imbarcazione dove l'aspettava Mace. «Allora, di che cosa si tratta?» «Abbiamo fatto a botte al liceo. Non aveva gran tecnica, era solo grande e grosso e sleale. Me le ha suonate di santa ragione e una volta gli ho reso pan per focaccia. Volevo vedere se per caso mi era più simpatico di allora.» «E lo è?» «No.» Mace fece fare a Tomlin il giro della barca, sforzandosi di non fare troppo il gradasso; intanto mandarono giù un paio di birre. Poi andarono al Landlubber, il locale che un tempo si chiamava Al pesce che guizza, e di-
vorarono salmone e ostriche al limone, annaffiati da un ottimo Montrachet. Tomlin ascoltò per quasi tutto il tempo i racconti di Mace sulla moglie, i figli e la compravendita di immobili; a sentire lui, diventare ricco dipendeva da una serie di colpi di fortuna, occasioni d'oro che gli erano cadute in grembo senza che lui muovesse un dito e che era meno faticoso prendere che scansare. Tomlin, che conosceva Mace da quando erano bambini, sapeva bene invece che grinta avesse negli affari. I due amici rimasero insieme fino alle tre, quando Mace dovette tornare in ufficio. Tomlin gli disse che sarebbe passato a prendere le chiavi del motoscafo di lì a un paio di giorni e lo ringraziò per la sua gentilezza. Mace tentò di convincerlo ad andare a cena a casa sua ogni volta che lo avesse desiderato ma Tomlin riuscì a eludere l'invito. Nel parcheggio, disse a Mace che desiderava fare un salto alla casa di Lostman's Bayou, se non c'erano problemi con gli attuali inquilini. «Al diavolo, no, nessun problema, dimmi quando e penso a tutto io.» «Che cosa ne dici domani mattina?» «Dovrebbe andare bene. Dammi solo un colpo di telefono prima di muoverti.» Fu quasi inevitabile che, tornando verso il Ramada Inn, dove aveva preso una stanza, Tomlin svoltasse a destra imboccando la stradina che portava alla baia. Sorpreso, constatò quanto fosse cresciuta la città in quella direzione, stendendo neri tentacoli di casette e baracche, esplodendo in grovigli di roulotte e agglomerati di grandi magazzini e case stile ranch, fino al lungomare nord, dichiarato parco nazionale. Poi, di botto, ogni costruzione fu alle sue spalle e la strada si biforcò, puntando da una parte verso l'estremità nord-occidentale del territorio protetto e facendosi sempre più accidentata, piena di buche, finché non terminò di fronte a uno sbiadito cartello rosso che diceva: «STRADA PRIVATA - PROPRIETÀ PRIVATA - VIETATO L'INGRESSO». Da entrambe le parti si stendeva un terreno piatto, fitto di vegetazione mista e disordinata: cespugli a macchia, pini di palude e pini marittimi. Il mare ancora non si vedeva, ma uno stormo di colorati uccelli acquatici si levò in volo un attimo prima che il tetto rosso della casa sbucasse attraverso uno squarcio della vegetazione. Su un lato della stretta strada sterrata serpeggiava una lingua di terreno paludoso; sul lato opposto, una vista così insolita e inaspettata che Tomlin la superò prima di rendersi veramente
conto di che cosa si trattasse e frenasse. Fece marcia indietro per una quindicina di metri fino all'ombra dell'enorme quercia solitaria. Sulla spianata polverosa e priva di erba, sotto la volta dei grandi rami a ombrello, c'erano alcune file di sedie pieghevoli, disposte con uno scopo ben preciso e vuote. Con lo sguardo seguì la linea frastagliata di una scaletta che correva attorno al tronco scuro della quercia finendo su una piattaforma coperta da una tettoia grande a sufficienza da ospitare un pianoforte verticale e uno stanzino grande poco più di un paio di metri quadrati. Sul tetto metallico c'era un piccolo campanile che ospitava quella che sembrava essere stata la campana di una vecchia locomotiva. Dal campanile pendeva una corda. Numerosi gatti si aggiravano nei paraggi e sull'albero. Tomlin scese di macchina e diede un paio di strattoni alla corda della campana. Un istante dopo la porta della casa sopraelevata si aprì e ne uscì un negro che dovette chinarsi per non sbattere la testa contro lo stipite. Nel compiere quel gesto, il vecchio mostrò una corona di capelli grigi e crespi, simili a stoppa, attorno alla calotta calva. Portava una palandrana nera e un paio di pantaloni verde militare completati da scarpe da ginnastica bucate in punta. In mano teneva un alto cappello nero tempestato di specchietti. Tomlin riconobbe il cappello prima di riuscire a ricordare il nome del suo proprietario, tanto tempo era passato. «Allora, che cosa succede da queste parti, Wolfdaddy?» Con gesto cerimonioso Wolfdaddy mise in testa il cappello che rifletté i raggi del sole che filtravano attraverso le foglie ingiallite della quercia. «Tutti i pellegrini e gli umili fedeli», attaccò, «saranno sempre i benvenuti alla Chiesa-Vicino-al-Cielo della Giusta-Via al Vangelo. Le donazioni sono bene accette. Per un dollaro, se vuoi, ti leggo dieci versi della Bibbia. Per due dollari leverò al cielo una preghiera per le tue afflizioni. Per un inno, scegli tu, posso suonarli e cantarli tutti, tre dollari. Sia lode a Gesù.» «Niente più blues, Wolfdaddy? Si sentirà la mancanza di quella bella voce da baritono che hai.» «Niente più blues, sono peccaminosi. Canto solo le Sue lodi. Signore onnipotente. Sì, signore, fai come se fossi a casa tua, signor Bob.» «Bob è morto», gli ricordò Tomlin. «Sono Clay.» Wolfdaddy frugò nella tasca dei pantaloni sformati alla ricerca degli occhiali e li inforcò. «Ma guarda, guarda. Abbiamo messo su qualche chilo, vero? Che Dio ti benedica, signor Clay. È passato un secolo da quando ti ho visto l'ultima volta, vero?»
«Sì, è passato tanto tempo.» «Giusto.» Per un po' Wolfdaddy si limitò a dondolarsi avanti e indietro sorridendo sereno e nessuno dei due parlò. La brezza pomeridiana prese ad agitare gli alberi della vecchia quercia rotta a tutte le intemperie. Due gatti presero a soffiare azzuffandosi tra loro. Tomlin sentì il sole calare dietro le spalle. Aveva freddo adesso. «A proposito, stavo per dimenticarmi. La funzione è tutti i giovedì sera, abbiamo avuto dei prodigi davvero miracolosi da queste parti.» «E che cosa ti fa pensare che sia alla ricerca di un miracolo?» «Oh, ho i miei modi per sapere le cose», replicò Wolfdaddy con voce grave, anche se priva di compiacimento. Voltò la testa strappando bagliori ai raggi morenti del sole e riflettendo il verde delle foglie di quercia. «Vieni. Pregheremo per te.» 3 La mattina di un 25 ottobre nuvoloso e sferzato da un freddo vento del nord, nello stato di New York, il tenente Barney Greenland della polizia di stato parcheggiò l'automobile su una strada laterale che correva parallela alla superstrada piena di traffico e s'incamminò verso il boschetto che in quel momento brulicava di attività. Poliziotti. Due ambulanze. Investigatori e un'intera squadra del suo stesso ufficio. C'era anche il medico legale. Greenland era stato richiamato urgentemente da un altro caso del quale si stava occupando a Lake George e aveva percorso gli ottanta chilometri di distanza con l'acceleratore premuto a tavoletta per essere sul luogo il più presto possibile. Il primo corpo che vide fu quello di un individuo adulto bianco di sesso maschile, alto circa un metro e ottanta e probabilmente oltre la cinquantina; ma non avrebbe potuto dire altro. La vittima era stata percossa a morte più volte e la parte superiore della testa era letteralmente spappolata. Il sangue uscito dalla frattura al cranio aveva creato una maschera spessa e sinistra sul viso dell'uomo. Nessuno parlò a Greenland. Sul terreno c'erano tracce di pneumatici, ma niente macchina; gli uomini stavano facendo rilevamenti e prendendo misure. Si avvicinò al secondo corpo. Una donna, nuda dalla vita in giù salvo l'incongrua eccezione di un'unica scarpa, pratica e robusta. Era stata strangolata. Aveva il ventre cosparso di contusioni. I peli del pube erano neri e
crespi, ma i ripetuti stupri avevano tolto buona parte dell'arricciatura al triangolo scuro. Il sergente Wilkowski stava parlando con due ragazzini in giacca a quadri che, insieme con il segugio che uno di loro teneva al guinzaglio, avevano trovato i cadaveri. Alcuni poliziotti si davano da fare per tenere a distanza una piccola troupe televisiva che voleva avvicinarsi alla scena del crimine. Cogliendo al volo un'occhiata di Greenland, Wilkowski gli fu subito accanto. «Identificazione?» domandò Greenland, tendendo l'orecchio al gemito di un grosso autocarro che arrancava su per la curva della superstrada lievemente sopraelevata rispetto a loro. Nascosti fra il fogliame degli alberi i merli cantavano. Nell'aria si alzava un pennacchio di fumo di legna che sbucava dal camino di una casa appena visibile oltre il boschetto. Laggiù c'era una fattoria; vacche al pascolo nei prati. Qui due morti, vittime di un brutale assassinio. «Richard e Martha Pell. Residenza: Strada 119. Lui è un agricoltore in pensione. Entrambi parrocchiani della chiesa cattolica di San Stanislao a Comstock.» «E con questo?» «È lì che potrebbero averlo trovato ieri sera, dopo la messa. Guarda che cosa le ha fatto.» Greenland si chinò a guardare il corpo dell'anziana donna. Aveva la fronte imbrattata di tracce di sangue; poiché non c'erano tagli visibili, presumibilmente il sangue doveva venire dalla sua vagina. Si servì di uno dei biglietti da visita che aveva nel portafoglio per sollevare la pesante croce d'argento lavorato che pendeva da una catena praticamente conficcata nella pelle scura del collo e quasi completamente invisibile. «Un rosario?» Wilkowski annuì. «Ci scommetto una bistecca alla Claridge House che è il nostro amico di Silver Birches.» Greenland non fece commenti. Stava esaminando più da vicino le tracce di sangue sulla fronte della donna. Sembravano parole. Si frugò in tasca alla ricerca degli occhiali, poi alzò la testa e guardò il medico legale che stava avvicinandosi, seguito da due inservienti dell'ambulanza che trasportavano una barella. «Barney.» «Mal. Quanto tempo, secondo te?» «Almeno dodici ore. Di più probabilmente. Tiro a indovinare, ma direi che il vecchio se l'è sbrigata in fretta. Invece con la donna l'assassino se l'è
presa comoda.» Greenland si alzò in piedi, un lembo dell'impermeabile agitato dal vento. «Che cos'ha sulla fronte? Sembra una scritta.» Il medico legale annuì. «Da quel che mi sembra di capire, direi che c'è scritto 'Mi ami?'» Nella casa sulla Ottantatreesima strada di Howard Beach, a Queens, Antonia Barzatti si svegliò febbricitante prima che scoccassero le sei del mattino, la gola e il petto ancora doloranti malgrado la fase acuta della bronchite fosse passata. Fuori erano spuntate le prime luci del giorno, le luci di una mattina grigia e piovosa. Antonia sentiva la pioggia... e lo squillo del telefono, al piano di sotto. Aveva sognato Angel, Angel che le portava un mazzo di fiori; ma in mezzo ai fiori c'erano ragni neri. Troppo presto per il telefono. Troppo. Era successo qualcosa, ne era certa. Si alzò, con la testa che le girava, infreddolita malgrado la pesante camicia di flanella. Se suo genero non si fosse sbrigato a fare qualcosa per la caldaia prima che arrivasse l'inverno, sarebbero tutti morti assiderati. Infilò la vestaglia di Dior, regalo dei nipoti per l'ultima Festa della Mamma, e cercò di trattenere la tosse perché ogni colpo le dilaniava il petto come una mano adunca. Anche a piedi nudi era alta e le sue acconciature rialzate simili alla mitra di un vescovo di cui andava fierissima accentuavano la sua statura. Anche in quel momento la sua pettinatura era rigida e impeccabile, pressoché inalterata da un'intera notte a letto. Nei lineamenti duri e squadrati della donna non c'era niente di femmineo; solo il promontorio poderoso del seno tradiva inequivocabilmente il suo sesso. Antonia aprì le persiane e scrutò il cortiletto nebbioso con le aiuole di fiori avvizziti lungo la siepe che dava sui prati nei quali giocavano i bambini. Oltre il vialetto d'accesso all'autorimessa sostava, poco distante, una vettura modesta e anonima che Antonia non riconobbe. Con il passare degli anni aveva sviluppato un sesto senso per la presenza della polizia e, sebbene a prima vista la macchina sembrasse vuota, Antonia non ebbe dubbi sul fatto che erano nuovamente sorvegliati. Ma perché? Suo genero era un onesto impiegato governativo che lavorava per l'amministrazione comunale, sua figlia era una rispettata professionista; per quale motivo dovevano tenere la casa sotto controllo? Qualcuno bussò discretamente alla porta. Antonia Barzatti si voltò, la mano premuta al petto, proprio all'attaccatura del collo.
«Mamma?» la chiamò Carol a bassa voce. «Sei sveglia? C'è padre Tonelli.» In tutti quegli anni, fin da quando era arrivata in America, Antonia non si era mai persa una messa, anche quando era ricoverata in ospedale, distrutta dalla nascita dell'unico figlio maschio. Un maschio che aveva chiamato Dominic, come suo padre; un maschio che fin dalla nascita lei aveva soprannominato «Angel». Quando il neonato le era stato portato per la prima volta, Antonia aveva visto, ma era stata l'unica, un'inconfondibile aureola dorata attorno alla testolina scura del figlio. Aprì la porta della camera e guardò Carol. «Sta succedendo qualcosa. Perché non parli chiaro?» «Oh, mamma. Sei stata tanto male e...» «Angel è morto?» Per un attimo negli occhi di Carol ci fu un'espressione che cercò di nascondere alla madre. Se soltanto lo fosse! «No. È fuggito. L'altro ieri notte.» «Ah.» Antonia Barzatti sospirò sollevata. Era felice. Era andata a trovare Angel a Silver Birches e quel posto non le era mai andato giù. «Tutto qui? Fuggito? Vuoi dire che non sanno dov'è?» «Mamma... ha ucciso un'infermiera. E forse anche altri.» Carol aveva un'espressione terrorizzata e al tempo stesso affranta. Sua madre annuì con espressione solenne, quelle parole non significavano niente per lei. Per quel che ne sapeva lei, quell'infermiera poteva essere una donna malvagia che era stata crudele nei confronti di suo figlio. Non era mai riuscita a biasimare Angel per la sua violenza. In fondo non aveva mai creduto ai racconti che si facevano su di lui. «Questa notte ho sognato di Angel. Mi portava dei fiori, come faceva sempre lui. In mezzo ai fiori, però, c'erano nove ragni, li ho contati bene.» «Oh, Gesù», gemette Carol. Era troppo presto per farsi venire un'emicrania. Il piccolo intanto piangeva. E se Angel si fosse fatto vivo lì? «Nove ragni», seguitò sua madre, sottolineando le parole con un lento dondolio della testa. «E allora, che cosa significa?» «Ancora non lo so. Ti sto solo dicendo che li ho contati. Nostra Signora mi farà sapere, quando vorrà, il significato di questi ragni.» «Mamma...» Ma Carol aveva troppo buon senso per contrastare le visioni di Antonia Barzatti o mettere in discussione il legame privilegiato che la donna affermava di avere con La Vergine. Lo considerava solo un elemen-
to di stranezza in più, un elemento che rendeva ancora più difficile la convivenza con lei. A parte questo, Carol amava sua madre. «Mamma, devo occuparmi di Varonne e poi stamattina ho una riunione importantissima; devo assolutamente uscire entro le sette meno un quarto se voglio arrivare in tempo a Brooklyn. Adesso scendi, padre Tonelli è di sotto che ti aspetta nella camera dei giochi.» «Perché non vieni a messa con me stamattina, Carol? In fondo non ti chiedo molto del tuo tempo, tesoro.» «Il piccolo piange», le fece notare Carol risentita, dopodiché cercò di sorridere. «Comincia senza di me, cerco di arrivare appena posso.» «E non dimenticare di trovare il tempo per fare colazione. Sei troppo magra. L'inverno scorso hai avuto troppi raffreddori.» «Certo, mamma, farò colazione.» Joe la stava chiamando con voce irritata. Il labbro superiore di Antonia Barzatti si sollevò nella ben nota espressione di sdegno. In fondo non aveva mai perdonato la figlia per avere sposato un uomo di livello sociale inferiore. Un contabile, un impiegato comunale. Portava a casa uno stipendio miserabile, la metà di quello che la stessa Carol, autrice e produttrice di spot televisivi, guadagnava. Ma perlomeno tornava a casa tutte le sere. Non aveva altre donne né vizi costosi. Antonia Barzatti scese le tre rampe di scale fino al seminterrato, che già odorava di foglie morte e di umido per l'autunno incipiente. Padre Tonelli, un giovane sacerdote della parrocchia cattolica Festa dell'Assunzione, l'aspettava accanto al piccolo altare che Joe e Carol avevano innalzato in onore della Vergine che li fissava con occhi di smalto blu dal piedistallo di gesso, ignorando il tavolo da ping pong e la collezione di lattine di birra di Joe provenienti da tutto il mondo. Antonia Barzatti aveva rifiutato categoricamente di trasferirsi in casa loro finché non era stata trovata una sistemazione adeguata per la Vergine. Si inginocchiò pesantemente e baciò prima la mano destra della statua, poi quella del sacerdote. «È gentile da parte sua, padre Tonelli», osservò con una punta di raucedine nella voce che non c'era stata mentre parlava con la figlia al piano di sopra. Alzò gli occhi al cielo e poi tornò a fissare il sacerdote. «Di niente. Fa piacere vederla di nuovo in piedi e ristabilita.» Guardò speranzoso oltre la donna. Aveva una piccola, malinconica cotta priva di speranze per Carol. «No, no», protestò Antonia Barzatti, lottando per rialzarsi in piedi senza aiuto. «È inutile aspettare mia figlia. Questi ragazzi. Lavoro, lavoro, lavo-
ro. Non hanno tempo per gli aspetti spirituali dell'esistenza.» Padre Tonelli l'accompagnò verso la sua poltrona e si preparò per la messa. Antonia rispondeva a tono e con voce chiara, stringendo il rosario fra le dita e contemplando il volto infantile della Madonna. Intanto si chiedeva se non avesse bisogno di qualche ritocco, una delle guance rosate sembrava sbiadita per via dell'umidità. Preavvertita e fortificata dalla visione notturna, Antonia Barzatti non si meravigliò nel vedere la statua illuminarsi, rendendo oscuro e remoto il resto della stanza. Raggi di Luce Celestiale che si sprigionavano dal centro della fronte della statua, là dove tutti i veggenti sostenevano fosse sepolto il terzo occhio, la toccarono. Padre Tonelli dovette scuoterla con una certa energia quando venne il momento della comunione; sembrava preoccupato. La donna trattenne l'ostia sulla lingua il più a lungo possibile prima di inghiottirla. Fece il segno della croce e si lasciò andare contro lo schienale della poltrona. L'apparizione delle Luci Celestiali, un fenomeno che conosceva fin dall'infanzia, indicava che presto la Vergine sarebbe venuta da lei. Più forti e accecanti le luci, più grandi le novità. L'ultima volta che aveva avuto un'apparizione così formidabile, la Vergine le aveva comunicato che presto suo marito sarebbe morto di cancro. All'epoca, «Faccia di Marmo» aveva appena iniziato a scontare una condanna di sei anni nel penitenziario statale di Auburn State per concussione ed estorsione, i principali strumenti del suo commercio. L'uomo aveva riso alle parole della moglie. Prendeva la sua salute molto sul serio e in palestra riusciva a sollevare pesi superiori ai cento chili. E adesso dove si trovava? Steso a piedi in avanti sotto terra. «Si sente bene, signora Barzatti?» le chiese padre Tonelli. «Vuole che chiami sua figlia?» «No, la lasci stare.» Seguitò a fissare il volto infantile della Madonna divorata dal desiderio, ansiosa e impaziente per ciò che doveva arrivare. «Penso che rimarrò un po' qui giù a pregare. Arrivederci.» Il sacerdote sembrava riluttante a lasciarla sola, ma lei lo ignorò e alla fine l'uomo si decise ad andarsene. Da un pezzo Antonia era arrivata alla conclusione che era inutile cercare di spiegare al giovane sacerdote le Luci Celestiali. Solo l'anziano decano si dava la pena di ascoltarla e sembrava capire; ma ultimamente era così occupato che Antonia non riusciva neppure a parlargli per telefono. Angel sì, invece, Angel capiva che cosa significavano per lei le Luci Celestiali. Antonia gliele aveva mostrate quando era ancora bambino. Sede-
vano vicini, per ore intere, davanti a una statua della Madonna molto simile a questa, senza aprire bocca; identici per temperamento, le loro due anime si parlavano nell'intimità, senza bisogno di parole. Anche quando il bambino era diventato un ragazzo inquieto, ansioso, come ogni ragazzo, di correre fuori all'aperto per giocare con gli amici, ad Antonia bastava circondarlo con le braccia nella stanza oscurata, alla luce delle candele, e stringerlo al seno... le loro anime entravano in sintonia e di nuovo il ragazzo rimaneva immobile. Un giorno, in preda alla sua estasi, Antonia aveva stretto troppo; arrivando a casa, il marito l'aveva trovata immobile, lo sguardo perso nel vuoto, con il ragazzo quasi soffocato, svenuto, fra le braccia. E allora Faccia di Marmo aveva costretto Antonia a rivolgersi alla scienza medica. Ma Antonia non aveva svelato niente delle luci, né delle sue estasi divine. Le erano state prescritte numerose medicine che lei vuotava nella tazza del gabinetto quando nessuno la vedeva. Dopodiché era stata alla larga dai medici. 4 Carl era già sveglio e aveva mandato giù un paio di aspirine quando la bionda dall'abbronzatura integrale e con la parola Brazo tatuata su uno dei glutei diede segni di risveglio. L'uomo stava già pensando di scoparla ancora una volta allorché uno degli allarmi sistemati lungo il perimetro della cinta scattò con lunghi ronzii intermittenti. «Che succede?» domandò la ragazza, scostandosi dal viso la matassa di capelli aggrovigliati e lanciandogli un'occhiata perplessa dalla quale si capiva che non sapeva bene dove fosse. «Abbiamo compagnia», annunciò Carl, allungando la mano per spostare la tendina scozzese del finestrino superiore della cabina padronale del grosso motoscafo d'altura. Attraverso il vetro vide, a circa duecento metri di distanza, una Corvette bianca con un tipo in camicia o giacca a vento azzurra al volante. La Corvette aveva già superato il cancello e si dirigeva lentamente verso la casa. Carl aggrottò la fronte. «Qualcuno che conosco?» domandò la ragazza. Si stava tastando dubbiosa da tutte le parti, come se avesse il sospetto che durante il sonno lui l'avesse derubata di qualcosa di insostituibile, come il seno sinistro, o magari il lobo di un orecchio. «E tu chi conosci?» replicò Carl in tono indifferente. «Dio, sapessi come mi sento la testa! Ma che razza di roba abbiamo be-
vuto?» «Velluto nero.» «Dio. Adesso capisco. Dov'è il... dove sono i servizi, capitano?» «Mi chiamo Carl.» «Ma certo, Carl. Io sono Evie.» «Già, lo so.» Ma anche lui, fino a quel momento, non avrebbe potuto giurare sul nome della ragazza. Fece un cenno con la mano. «La porta con sopra lo specchio.» «Grazie. Faccio subito.» Sedette sul bordo della cuccetta e sollevò le spalle facendo ruotare la testa per sgranchire il collo. «Fai pure con calma», rispose Carl. «Devo sbrigare una piccola faccenda alla casa. Dopo che ti sei rinfrescata, perché non ti metti addosso qualcosa e non te la fili? Però lasciami il tuo numero di telefono, Evie. Prometto che ti chiamo.» «Come ho fatto ad arrivare qui?» chiese Evie, alzandosi in piedi e stiracchiandosi, le braccia levate verso l'alto, le mani premute contro il basso soffitto della cabina, i seni eretti che puntavano verso il cielo. Oh, Signore. Una vera tentazione. Carl dovette ricorrere a tutto il suo autocontrollo per non cedere. Quel tipo con la Corvette non gli andava a genio. «Siamo arrivati qui con il tuo fuoribordo. È ancorato dall'altra parte del molo.» «Oh, certo. Adesso ricordo. Bene, arrivederci, Carl.» Gli lanciò un sorriso malizioso e lo salutò con la mano prima di scomparire in bagno. «Addio, tesoro», la salutò Carl, imitando il suo pesante accento meridionale. Ebbe un'ultima, straordinaria visione del suo fondoschiena perfetto, delle gambe slanciate, e si congratulò con se stesso per il proprio buongusto chiedendosi quanti anni potesse avere. Subito dopo si alzò, afferrò un paio di short malandati, poi, pensando che fuori potesse fare fresco, infilò una maglietta di cotone traforato. La casa nella quale Clay Tomlin era cresciuto aveva due piani di vecchi mattoni scuri e un terzo con un rivestimento vittoriano fittamente decorato, parafulmini da tutte le parti. Lungo tutta la facciata e il lato occidentale della costruzione correvano lunghe verande coperte, sempre ombreggiate tranne che al mattino presto e a pomeriggio inoltrato. Le verande erano state rifatte dopo un uragano di nome Camilla che, nel 1969, aveva causato numerosi danni nella zona. Un prato di robusta erba verde digradava dolcemente per circa settantacinque metri verso la vegetazione palustre che
orlava lo stagno di Lostman's Bayou e la darsena coperta, a forma di U, anch'essa ricostruita dopo l'uragano. Tomlin attese sulla veranda che qualcuno venisse ad aprire. Guardandosi attorno, vide che al molo era ormeggiato uno splendido motoscafo d'altura collegato al pontile di legno da una robusta passerella. Accanto all'imbarcazione c'era un piccolo fuoribordo e un paio di modeste e vetuste barche a motore dal fondo piatto, di quelle che si usano per andare in palude. Sulla parte posteriore della casa, in direzione est ai piedi della collinetta sulla quale era costruita l'abitazione, si apriva la giungla selvaggia, dalla lussureggiante vegetazione palustre in mezzo alla quale gli alberi abbattuti dal vento marcivano con un odore acre. La vecchia casa padronale e l'adiacente casotto in cui erano situate le pompe e la caldaia sorgevano alla sommità della curva a gomito di un vialetto lastricato. Proprio di fronte alla casa, su una piattaforma di cemento c'era il lussuoso camper che suo fratello Bob aveva comperato per visitare il Paese prima che il suo cuore, da sempre malato, cedesse definitivamente. Per quel che Tomlin ne sapeva, Bob non aveva mai potuto godere di quel lusso. Però, si vedeva che il camper era stato tenuto in buono stato, magari anche guidandolo di tanto in tanto. La vernice rosso mattone e bianca e le cromature erano impeccabili. Tomlin aveva completamente dimenticato di essere proprietario anche di quel camper di tredici metri, che probabilmente valeva oltre un centinaio di bigliettoni, a seconda di quello che Bob ci aveva messo dentro. Mace non gli aveva mai chiesto istruzioni circa questa parte di eredità. Magari, si disse Tomlin, aggiungendo anche questa al ventaglio delle sue scelte, avrebbe finito per mettersi lui sulla strada con quel camper... già si vedeva sotto i vasti cieli occidentali dai colori improbabili occupato a scambiare consigli sulla manutenzione con gli altri anziani pensionati. Era sorpreso e affascinato da alcune migliorie apportate, a loro spese, dai nuovi inquilini. Un'antenna televisiva parabolica era stata installata dietro la casa. Numerosi riflettori illuminavano un'ampia zona della proprietà. Le telecamere di un sistema televisivo a circuito chiuso erano installate davanti alla porta d'ingresso e a ciascuna estremità della veranda. Ma di quanta sicurezza pensava di avere bisogno quella gente, in quel posto sperduto della palude? I visitatori erano scarsi comunque e gli alligatori se ne stavano per conto loro. Tomlin udì i latrati profondi di un cane di grossa taglia e un attimo dopo la porta esterna fu socchiusa da un'allampanata ragazza di colore che sembrava appena uscita da una scena di Via col vento: fazzoletto e turbante
avvolto attorno alla testa, grembiule lungo fino ai piedi. Si muoveva con gesti molli e pigri e sul volto aveva dipinta un'espressione languida, come se fosse in attesa, come la figlia di Bill Cosby in una delle sue serie televisive, che le capitasse qualcosa di meraviglioso. Si scostò facendo un piccolo passo indietro, fissandolo con un'occhiata che terminò in un sorriso timido. «Dio onnipotente... Signor Clay!» Tomlin non la conosceva. «Sono Opal, signor Clay... la nipote di Chessie.» «Quella con quel formidabile colpo a gancio di sinistro?» «Proprio così! Ma entri, entri, la signora Jeffords è avvertita del suo arrivo?» «Mace Lefevre le ha telefonato stamattina», rispose Tomlin entrando in casa. Si ritrovò nella familiare anticamera piena di sole, con l'alta finestra alla sommità della scala semicircolare. «E voialtre ragazze come ve la siete cavata?» «Oh, siamo entrate nelle semifinali nazionali per due anni di fila, ma non abbiamo mai vinto un bel niente.» «E Chessie come se la passa? Mio Dio, aveva già i suoi annetti quando me ne sono andato!» Alla sommità della scala scorse un'altra telecamera con l'obiettivo puntato su di lui. Si tolse la giacca a vento azzurra; in casa la temperatura era più alta che in veranda. «Chessie non si lamenta mai... ma, sa, le sue ossa. Non ce la fa più a lavorare. Le farà tanto piacere sapere che è tornato e che ha chiesto di lei. Lasci che le prenda la giacca.» Tomlin lasciò vagare lo sguardo sugli specchi, i quadri, i mobili cinesi raccolti a Hong Kong e in altri porti esotici. «Qui sembra rimasto tutto uguale.» «Il signor Bob non ha mai cambiato neppure un capello. Gli piaceva questa vecchia casa.» «E piace anche a me. Non mi ero mai reso conto di quanto mi mancasse.» «Intende dire che è tornato a casa per rimanerci?» gli chiese Opal, appendendo la giacca a vento all'elaborato appendiabiti dorato, con i rami di susino in fiore dipinti sulle ante. «È possibile.» La sua attenzione fu catturata dall'apparizione di una donna che si era fermata all'estremità del corridoio centrale per darsi un'ultima, rapida oc-
chiata in una delle specchiere antiche appese un po' ovunque in casa. Un istante dopo la donna puntò decisa verso l'ingresso con il passo di chi è avvezzo a muoversi rapidamente, con decisione. La mano destra infilata nella tasca dei calzoncini a quadretti, la donna gli porse la sinistra. «Salve, signor Tomlin. Sono Anita Jeffords.» Una lunga cicatrice segnava la parte alta del braccio destro, mentre una ragnatela di cicatrici più piccole si irradiava dal polso verso l'avambraccio. Tomlin si chiese che cosa ne fosse della mano che nascondeva nella tasca. Alla donna non sfuggì il suo interesse; goffamente estrasse la mano di tasca, costretta a sollevare l'intera spalla per riuscirci; era evidente che aveva difficoltà nel piegare il gomito. La mano penzolò inerte. Intatta, tutte le dita al loro posto. Tomlin provò un senso di sollievo. Era troppo giovane, troppo bella per essere mutilata. «Incidente d'auto», spiegò laconica la donna. Accento da East Coast, si disse Tomlin. La Grande Mela, Brooklyn, addirittura. Ma Brooklyn Heights, la parte nobile. Una leggera esitazione di pronuncia, come se anche la lingua o il palato fossero stati lievemente danneggiati, non proprio una pronuncia blasé, appena un bisbiglio liquido, un impedimento basso ed eccitante. «Mi è rimasto parte dell'uso della mano.» Strinse appena il pugno per dimostrarlo. «Per quanto ancora mi manchi la forza. Ma perché non andiamo a sederci in soggiorno?» «Magnifico», accettò Tomlin. «Una tazza di tè? Qualcosa di forte?» Tomlin si rivolse a Opal e disse: «Chessie ti ha insegnato il segreto per la sua famosa limonata, con uno schizzo di cordiale all'amarena?» Opal s'illuminò. «Ma certo che me l'ha insegnato!» «Vada per la limonata», approvò Anita. «Ottima scelta.» Sorrise a Tomlin, ma i suoi audaci occhi nocciola erano più cauti del necessario. Il padrone di casa venuto a fare una visita di controllo. Tomlin scoprì che gli piaceva guardarla negli occhi, forse perché c'era una spruzzata di giallo attorno alle pupille scure, come un granello di polline o un aculeo. Non era una donna alta, uno e sessanta al massimo, non un etto di grasso superfluo e ben fatta, con un seno eretto e sodo. Notò una traccia scura su una guancia, come di terra, una traccia che alla donna era sfuggita. Tracce della stessa sostanza grigia le macchiavano la camicia, altrimenti impeccabile, con le maniche corte, come se fino a un attimo prima fosse stata occupata a
curare il giardino o impegnata in qualche hobby particolare. Non era truccata. Aveva ciglia e sopracciglia scure e fitte. I folti capelli castano scuro erano legati in una coda di cavallo che le lasciava liberi spalle e collo, un'acconciatura da ragazzina che le donava molto. Il colorito era pallido, come se non uscisse mai di casa in nessuna stagione dell'anno. In quella prima occhiata scrutatrice Tomlin scorse molto di lei, eppure si rese conto che molto di più era ancora da scoprire e che desiderava farlo. Quando i loro sguardi s'incontrarono, Tomlin sentì un piacevole brivido alla base della nuca. Ma la donna era la signora Jeffords. Peccato. Con un gesto del capo indicò il soggiorno e le andò dietro. «Faccia come se fosse a casa sua... oh, che sciocca sono, in fondo questa è casa sua. Vuole dare un'occhiata in giro? Non abbiamo cambiato niente. Voglio dire che era perfetta così com'era. Una posizione e un arredamento davvero straordinari, ci piace molto vivere qui.» Prese una sigaretta da una scatola posta sul tavolino sotto una delle finestre che si aprivano ai lati del camino. «Lei fuma?» Tomlin scosse la testa. «Posso?» «Ma certo.» Opal, pensò, era un'ottima governante. Neanche un filo di polvere. Le tende di tulle color avorio sventolavano impeccabili nella luce del mattino. Quando ebbe finito di darsi da fare con la sigaretta, Anita si sistemò a braccia incrociate fra i ritratti gemelli appesi sopra la cappa del camino. Tomlin si avvicinò, guardandoli. Sua madre, regina dei mari, aveva i capelli tagliati corti, stile anni Trenta, occhi scuri e un modo struggente di intrecciare le mani, come se stesse contemplando una spiaggia solitaria. Suo padre sembrava fiero di essere in posa ma, come sempre, era avaro di sorrisi. Tutta l'infanzia di Tomlin era stata come una solitaria caccia al tesoro alla ricerca del segreto degli umori del vecchio. «Lei sembra più vicino a sua madre», osservò Anita. «Lo so.» «Suo padre era ammiraglio?» «Quando è andato in pensione era contrammiraglio. Comandava una flottiglia di corazzate nel Pacifico. Un paio gli sono state affondate praticamente sotto i piedi. Lui, però, è riuscito a diventare vecchio e a morire nel suo letto.» «Lei, invece, è in Marina, se non ricordo male quello che mi ha detto Mace.» Tomlin la fissò. C'era un che di italiano, di greco forse, in Anita. Il suo
naso era lievemente aquilino, ma in maniera quasi impercettibile. I suoi occhi diventavano vaghi e sognanti con facilità, sembravano perdersi in lontananza, improvvisi buchi neri nella sua attenzione. «Non più. Mi sono ritirato prima dello scadere del termine.» «Oh, capisco.» Parve alla ricerca di un altro argomento di conversazione. Non lo trovò. Si limitarono a guardarsi. Educatamente Anita si voltò da una parte per soffiare fuori il fumo della sigaretta, tenendola con la mano destra e sorreggendosi con la sinistra il gomito offeso. Tomlin aveva voglia di toccarla. Invece passò la mano sulla testa di uno dei ringhiosi cani Ming che facevano la guardia ai lati del camino. Le due statue erano riproduzioni. La roba davvero di valore collezionata da sua madre... paraventi giapponesi dipinti del periodo Edo, animali di porcellana della dinastia Liao, un fragile tavolino Lao Hua Li del 1750... erano stati messi al sicuro in un deposito. Quando finalmente riuscì a distogliere lo sguardo da Anita, Clay si accorse, guardando in una delle specchiere a parete, che una delle porte scorrevoli che davano sulla biblioteca era stata scostata di alcuni centimetri. Attraverso la fessura un ragazzino, che non poteva essere che di Anita stessi sfrontati occhi scuri - li stava fissando. «Salve», lo salutò Tomlin, sorridendo all'immagine riflessa nella specchiera antica. Anita seguì il suo sguardo e, vedendo anche lei il riflesso, fece segno al figlio di entrare. «Vieni avanti, Tony.» Il bambino non si mosse. Tornando a guardare Tomlin, Anita alzò le spalle in un gesto di disappunto. «È timido.» «Niente scuola oggi?» «Oh, lui non... gli faccio scuola io. Ho tutte le qualifiche per insegnargli a casa. Adesso è impegnato con la matematica.» Fece un paio di rapidi passi verso la biblioteca alzando la voce. «Tony, questo è...» Parve annaspare, poi, rivolta a Tomlin, disse: «Mi rendo conto che non conosco il suo grado». «Mi chiami Clay.» «Su, entra, Tony», insisté Anita. «Penso che un intervallo non ti faccia male, adesso.» Dopo alcuni istanti di incertezza, il bambino richiuse le porte. «Quanti anni ha?» chiese Tomlin. «Tony ha sette anni. È solo che... insomma, non è abituato agli estranei. Non vediamo molta gente da queste parti.»
Perché no? si chiese Tomlin. Intanto, guardandosi nella specchiera, Anita aveva visto la macchia scura sulla guancia. «Oh...» La sigaretta stretta fra le labbra, cercò di ripulire la macchia con un fazzoletto di carta. «Mi occupo di scultura», annunciò. «Ha presente la stanza sul retro della cucina? Non c'era granché là dentro e la luce era talmente buona. L'ho ripulita e l'ho trasformata in studio.» «Mi piacerebbe vederla qualche volta.» In verità gli sarebbe piaciuto seguirla per giorni interi, senza parlare, solo osservandola. «Da dove viene, signora Jeffords?» «Mi chiami Anita, per favore. Oh, da una cittadina nel New Jersey. Probabilmente non l'ha mai sentita nominare.» Trovò quella risposta deliberatamente evasiva. In fondo che differenza faceva se non aveva mai sentito nominare la cittadina dalla quale veniva? «Ritmi di vita completamente diversi quaggiù alla baia», osservò Tomlin, curioso di sapere perché mai fosse lì, con un braccio semiparalizzato e un bambino che non andava a scuola con gli altri bambini. Lei rispose alla domanda implicita in quella dichiarazione. «Mi piace la solitudine. E dal momento che sono un'artista, io...» «'Nita?» «Siamo in soggiorno, Carl.» Entrò con passo elastico (un altro yankee dai gesti scattanti), le gambe nude, abbronzatura perfetta; vide Tomlin e gli lanciò un rapido sorriso di benvenuto che mostrava chiaramente che non sapeva chi diavolo fosse. Un'occhiata ad Anita cadde nel vuoto. Tese la mano. «Salve, Carl Jeffords.». Finalmente Anita si decise a parlare. «Carl, questo è Clay... Clay Tomlin.» «Ma certo!» La stretta di mano di Carl era poderosa. Era più basso di Tomlin e di quindici chili più pesante, tarchiato ma non grasso. Sembrava in ottima forma fisica. Occhi azzurri e carnagione olivastra, le narici di un torello in calore, barba di un giorno e mascella aggressiva. Un bel pezzo d'uomo. Il tipo d'uomo che non ha un'ombra di dubbio su se stesso o sul mondo... il tipo che si è appena rifatto la polizza di assicurazione o gli accessori extra per l'automobile o che si è appena comprato la casa a pochi minuti dal mare prima ancora di averci pensato sopra. «È un vero piacere, capitano Tomlin.» Ci fu un attimo di silenzio. Carl guardò di nuovo Anita e scosse lievemente la testa, con un'espressione di disapprovazione (forse cercava da un
pezzo di farla smettere di fumare). Anita non aprì bocca, si limitò a giocherellare con la sigaretta. Carl tornò a fissare l'attenzione su Tomlin, come in attesa. Tomlin ruppe il silenzio. «Come va la vita?» La dentatura candida scintillò contro l'abbronzatura. «Mai stato meglio. Non più di un anno fa ero sicuro di essere destinato all'esaurimento nervoso. Lavoravo a Wall Street. Comproprietario di uno studio commerciale. Facevo un sacco di soldi, ma non ero felice. Quaggiù, al diavolo, faccio il mio lavoro attraverso il computer, metto insieme un piccolo contratto di sviluppo da una parte e dall'altra, mi rimane un sacco di tempo per pescare.» «Una bella vita», ammise Tomlin. Opal arrivò con una caraffa di limonata e due bicchieri disposti sul vassoio. «Limonata!» esclamò Carl entusiasta. Sembrava dotato di un entusiasmo illimitato. Gesticolava molto quando parlava. «Scommetto che ancora non hai fatto colazione», osservò Anita. «Già. Opal, ti spiacerebbe farmi un'omelette ai funghi e una mezza dozzina di salsicce?» «Niente affatto», rispose Opal. Riempì due bicchieri di limonata e ne porse uno ad Anita e l'altro a Clay con un sorriso. «Penso che mi farò un bicchiere di limonata anch'io», disse Carl. «Allora devo andare a prendere un altro bicchiere in cucina», replicò Opal con eccessivo formalismo, quindi uscì dalla stanza senza degnarlo di un'occhiata. Carl la seguì con lo sguardo, il sorriso dipinto sul volto, si grattò le guance mal rasate e rivolse di nuovo l'attenzione a Tomlin. «Splendida casa, Clay. Ci piace un mondo stare qui. Infatti proprio l'altro ieri abbiamo firmato il rinnovo dell'affitto.» «Già, così pare.» Avendo affermato i propri diritti legali sulla casa di Tomlin per un altro anno, Carl sollevò le mani in un gesto espansivo, come se i suoi diritti fossero destinati a durare una vita. Avanzò verso Tomlin, il sorriso sempre più raggiante. «Nessuna speranza che ti venga voglia di vendere, Clay?» «Non credo proprio. Al momento penso di fermarmi qui una settimana, due al massimo.» Anita beveva la limonata e fissava Carl al di sopra del bicchiere. Dopo un'esitazione appena troppo prolungata, Carl esclamò in tono cordiale: «Qui?»
Subito Anita si affrettò a intervenire. «C'è un sacco di spazio qui che...» «Non abbiate paura, non ho nessuna intenzione di buttarvi fuori di qui. C'è il camper di Bob, là fuori. Sarà perfetto per me.» Carl tossicchiò e chiese ad Anita: «Posso avere un sorso di limonata? Finché Opal non torna con quel bicchiere, cosa che presumo prima o poi accadrà». Senza parlare, Anita gli porse il bicchiere e prese la sigaretta che aveva appoggiato al portacenere. Carl mandò giù un sorso e con espressione pensosa disse: «Quindi hai intenzione di prendere il camper e di portarlo...» «Non ho detto questo, intendo lasciarlo dov'è. Non voglio andare da nessuna parte. Voglio solo starmene un po' a casa mia, davanti alla mia baia.» Carl fece un gesto di comprensione con la testa. «Oh, adesso capisco. Ma certo! In fondo è casa tua. Io non ci sono mai entrato, ma credo che debba essere dotato di tutti i comfort. Basta solo attaccare la corrente, mettere insieme un po' di provviste e...» Con voce neutra, Tomlin lo rassicurò: «Non intendo darvi alcun disturbo». «Perdiana, no! Felici di avere un po' di compagnia, per cambiare. Per caso vai a pesca, Clay?» «Mmm, un po'.» «Forse arrivando hai notato la mia barca.» «Ne ho notate due.» Senza smettere di fumare, Anita guardò Carl, poi distolse gli occhi. «Oh, certo, quel piccolo motoscafo fuoribordo? Di un amico. Il Davis, invece, è mio. Navigazione automatica, tutto elettronico. Armato Rupp. Ti porto fuori quando vuoi, devi solo chiedere. Bene...» Carl lanciò un'occhiata al suo orologio, un Rolex, modello subacqueo professionale, impermeabile e garantito fino a cento metri. «Ieri pomeriggio ho lanciato un paio di offerte alla chiusura, meglio controllare che non mi stiano spolpando. Tesoro, perché non dai una mano a Clay a sistemarsi?» «Va bene.» Carl tornò a stringere la mano a Tomlin. «Qualunque cosa ti occorra, fai un fischio.» Si diresse verso le porte scorrevoli della libreria e le aprì. Opal, che proprio in quel momento arrivava dalla cucina con un bicchiere in mano, girò sui tacchi e tornò da dov'era venuta. Dopo una decina di secondi di silenzio, Anita propose: «Se vuole, adesso posso mostrarle il mio studio, sempre che sia interessato».
«Ma certo», rispose Tomlin. Non aveva piani per quel giorno. Aveva tutto il tempo che voleva. In biblioteca, Carl si chinò ad accarezzare il testone peloso del pastore irlandese acciambellato sul tappetino steso sul pavimento di quercia. Il bambino, Tony, era appollaiato davanti al computer, intento in un videogioco a base di mostri, maghi e castelli incantati. Al posto del monitor c'era uno schermo di un metro per un metro. Era scuro nella biblioteca, tutte le imposte che davano sulla veranda erano sbarrate. I ventilatori appesi al soffitto cigolavano. Alle pareti erano appese vecchie stampe di velieri e altre imbarcazioni di ogni tipo. Buona parte dei volumi sugli scaffali erano dedicati alla storia della marina e all'architettura. «Finiti i compiti?» domandò Carl al bambino. Tony annuì, assorto nel gioco. Carl andò alla scrivania e prese i fogli dei compiti di matematica. «Ti va che dia un'occhiata per correggerli, tanto per vedere come va?» «Ci pensa la mamma.» Carl lanciò comunque un'occhiata alle pagine. «Guarda qui, il penultimo problema, trentanove meno sedici più quattro, la risposta giusta è ventisette.» Tony non diede cenno di avere udito. Invece fece una mossa sbagliata al videogame e, fra i denti, sibilò: «Merda». «Ho bisogno del computer adesso, Tony. Perché non leggi un libro o fai qualcos'altro? Esci a giocare.» Il bambino non fece commenti. Il pastore irlandese prese ad ansimare, la lingua penzoloni. Carl si avvicinò a Tony e indugiò in piedi dietro di lui. Osservò il procedere del gioco. Carl aveva giocato qualche volta, per pura noia. Tony era più bravo di lui in quei labirinti. «Te l'ho già detto», disse Carl, appoggiando una mano sulla spalla del bambino per sdrammatizzare il rimprovero, «questi giochi ti fanno fare brutti sogni. Non vogliamo che ti vengano altre crisi, che ti svegli urlando nel cuore della notte.» Tony non reagì. Carl si grattò la guancia nel punto in cui una zanzara l'aveva morsicato nel tragitto dalla barca alla casa, arrossandogli la pelle. Intensificò la stretta della mano, si sporse oltre la spalla del bambino e spense il computer, poi tolse il gioco dal porta floppy. Adesso il viso di Tony si rifletteva nello schermo scuro. Fissava Carl. «Chi è quel tipo, quello che parla con la mamma?» «Nessuno di cui avere paura.»
Tony rimase lì alcuni istanti, poi alzò la mano sinistra e scostò quella di Carl. Si lasciò scivolare giù dalla sedia. «Big Dog?» chiamò. Il cane si tirò in piedi e seguì docilmente Tony verso le porte che davano sulla veranda. Il bambino era poco più alto del cane. «Nessuno di cui avere paura, Tony», lo rassicurò Carl. «Sai bene che non permetterei a nessuno di venire a farti del male in questa casa.» Il bambino indugiò sulla soglia della veranda, fra le tende che si gonfiavano attorno a lui spinte dalla brezza proveniente dal Golfo del Messico. Sembrava triste. Forse, si disse Carl, non era stata una buona idea dirgli quelle cose. D'altro canto, qualunque cosa dicesse a Tony, finiva sempre per essere la cosa sbagliata. Maledetto bambino lunatico... Carl sorrise, confidando sull'effetto terapeutico del suo sorriso, profonde increspature attorno agli occhi. Certi giorni andava meglio che in altri. Riusciva a far presa su Tony, se proprio ce la metteva tutta. «Diretto da qualche parte in particolare?» domandò Carl. «Solo fuori.» «Fra un po' devo andare in città, Tony. Torno stasera tardi. Che cosa ne dici se ti porto qualche nuovo pezzo del Garbage Pail Kids, sarebbe fantastico, vero?» «Sì», replicò Tony, senza starci troppo a pensare. Andava ancora pazzo per la sua collezione di Garbage Pail Kids, per quanto non gli andasse quel mastice gommoso che c'era dentro. Non c'erano abbastanza personaggi adatti a lui, così aveva cominciato a inventarsene di suoi. Testa Rinsecchita. Hannah Cadaverica. Sal Cimiterioso. «Non vale un abbraccio?» suggerì Carl. Ma Tony era già fuori, forse consapevole della richiesta che stava per arrivare. «E va bene, me lo darai più tardi», disse Carl, fissando la propria immagine riflessa nel grande schermo spento. La verità era che si sentiva abbandonato. Di ritorno dal supermarket di Kroger a Port Bayonne, Tomlin incrociò Carl al volante della Mercedes Benz 450 SL sport coupé. Piccoli tergicristalli davanti ai fanali, quel genere di automobile. Carl portava giacca e cravatta. Lo salutò e sorrise, i capelli sospinti indietro dal vento. Aveva l'aria di un uomo che sa come godersi la vita. Tomlin aveva lasciato le finestre del camper aperte per arieggiarlo. C'era già una linea a 220 volt collegata al generatore installato sul retro della casa, bastava solo infilare la spina. Il camper era arredato alla perfezione.
Moquette, ripiani di legno e marmo, mobiletti su misura, un po' troppi velluti per i suoi gusti, stereo incorporato e televisione installata, frigorifero da cinque litri. Nella stanza da bagno c'era abbastanza posto per una vasca e in camera da letto troneggiava un vero letto matrimoniale, con il riscaldamento elettrico incorporato. Non poteva chiedere niente di meglio. Molto più spazio di quanto avesse nella più grande delle portaerei. Eppure si sentiva nervoso, insoddisfatto di qualcosa, forse scontento della sua decisione di fermarsi lì. Dopo avere portato nel camper le provviste alimentari, tornò fuori e vide il piccolo Tony che lo fissava da una decina di metri di distanza, giocherellando nell'erba con un bastone. L'enorme pastore irlandese era lontano, da qualche parte intento a cacciare uno scoiattolo. «Ciao, Tony», lo salutò Tomlin. Il bambino non rispose, continuava a fissare lontano, verso l'orizzonte dove il sole stava calando; tuttavia aveva preso ad agitare il bastone con più foga. «Ti va di dare un'occhiata?» Tony non si fidava di quell'invito, o forse non si fidava di Tomlin. Alzò le spalle e si allontanò. Tomlin tornò dentro, aprì una lattina di birra che aveva preso già fredda al negozio, si sistemò al sedile di guida foderato di pelle di pecora e contemplò attraverso il vetro aerodinamico la curva allungata del delta del fiume che si stendeva per circa un miglio, scintillante all'orizzonte fino al punto in cui si congiungeva al Sound. Sulla linea di demarcazione, dove l'acqua dolce si mescolava a quella salata, c'erano stormi di uccelli: egrette e falchi pescatori a caccia di cibo. Individuò anche un paio di grandi aironi azzurri. Fra le sculture di Anita c'erano molti uccelli, uccelli che modellava soprattutto con la mano sinistra, cercando lentamente di riconquistare le forze della mano destra offesa. I suoi uccelli avevano tutti una caratteristica particolare, nudi, oblunghi, che gli era rimasta impressa. Come lei, del resto. «Signor Clay?» Sulla soglia c'era Opal, che aveva interrotto le sue fantasticherie. Portava un carico di biancheria pulita per lui. «Vuole che le faccia il letto, signor Clay?» «Grazie, Opal.» Vide i sacchi della spesa sul tavolo del soggiorno e mise giù le lenzuola. «Prima però le metto via queste provviste. A proposito, la signora Jeffords vorrebbe che lei cenasse con lei e Tony stasera.»
«A che ora?» «Oh, loro mangiano presto. Alle cinque e mezzo, se va bene per lei.» «Ottimo.» Tomlin fece ruotare la poltrona sulla quale era seduto in modo da guardare Opal mentre disponeva le provviste negli armadietti e nel frigorifero. «Da quanto tempo lavori qui, Opal?» «Da quando sono arrivati i Jeffords e mi hanno assunta.» «Quindi da circa un anno.» «Sì, signore.» «E quanto tempo ci ha messo il vecchio Carl a cercare di portarti nel suo letto?» «Circa la prima volta che siamo stati soli noi due. Io però gli ho detto: 'Signore, te ne pentirai se ci riprovi'.» «Lei ti piace, però, vero?» «La signora Jeffords è una donna perbene. Quello che sopporta da... Opal, linguaccia mia, statti zitta.» «Che cosa c'è che non va con Tony?» Opal ci mise un po' a rispondere. «Oh, sa com'è, è terribilmente timido.» «Non solo timido. A guardarlo, direi che c'è qualcosa di veramente sbagliato in lui.» «Però può essere talmente dolce», mormorò Opal con una punta di fiera protettività. «Andiamo d'accordo davvero fantasticamente nei giorni buoni.» Lanciò un'occhiata a Tomlin. «Lei lo sa, signor Clay, è che solo non mi piace spettegolare sulle persone per le quali lavoro, Wolfdaddy dice che è la scorciatoia per l'inferno.» «Scusami, Opal. È solo che non posso fare a meno di essere curioso circa le persone che vivono nella mia casa.» «Non si preoccupi, signor Clay. Capisco. Io so che lei non ha un cuore malvagio. Insomma... poi se resterà da queste parti qualche giorno capirà da solo quello che vedrà con i suoi occhi.» Tomlin terminò la birra. «E che cosa c'è di buono per cena, Opal?» «Pollo fritto.» «Scommetto che è un'altra cosa che hai imparato da Chessie.» «Chessie, già. Però, per quanto riguarda il pollo fritto, sono io che potrei dare delle lezioni a lei.» 5
La proprietà di Alpine, New Jersey, di cinque acri di estensione, era stata commissionata da un cantante pop di origine mulatta legato da un contratto a una casa discografica in cui la famiglia Barzatti aveva interessi sostanziali. Il ragazzo somigliava a una di quelle creature dei boschi, un elfo uscito dalla penna di uno degli animatori di Walt Disney, eppure aveva totalizzato cinque dischi di platino prima di perdere il gradimento del suo pubblico di teenager e mettersi nei guai con l'ufficio delle tasse. La casa discografica aveva rilevato la proprietà, ne aveva passato i titoli da una società all'altra attraverso un labirinto di imprese Barzatti finché, dopo un sostanziale intervento dell'architetto per rendere più tradizionalmente accettabile l'arredamento, Aldo Barzatti vi si era installato abbandonando la casa di Long Beach dove gli inverni umidi e freddi dell'Atlantico non erano più l'ideale per le sue vecchie ossa. Ormai don Aldo lasciava ben di rado la proprietà per andare a fare visita ai club della zona in Mulberry Street e meno che mai a Manhattan o a Ozone Park, dalle parti dell'aeroporto che, d'altro canto, costituiva una delle maggiori fonti di reddito per la sua già facoltosa famiglia. Amava il verde isolamento di Alpine con la piscina coperta riscaldata. Erano i sottocapi della famiglia che si muovevano per venire da lui quando gli affari richiedevano la sua presenza; ma prevalentemente trattava con i capi delle altre famiglie nella zona metropolitana, servendosi di corrieri e incontrandoli soltanto alle sedute della Commissione oppure a matrimoni o funerali eccellenti. Il don aveva settantotto anni, suo fratello Johnny («Rip-Dog») Barzatti ne aveva un paio di più e stava diventando duro d'orecchio e smemorato. Il figlio di John, Frank, laureato a Wharton e Mark Greganti, un nipote con dieci anni di esperienza in una delle più accreditate società finanziarie di New York, erano entrambi sulla quarantina, giovani brillanti e destinati a un grande futuro che si occupavano anche degli affari quotidiani. I quattro uomini, insieme con Gabriel Solavarro, consulente della famiglia, si riunivano ad Alpine due volte al mese per una riunione di aggiornamento e per una cena di famiglia. Si incontravano in quello che un tempo era stato lo studio di registrazione della stella pop: una stanza insonorizzata situata nel seminterrato della lussuosa abitazione, così difficile da raggiungere che perfino la polizia federale aveva rinunciato a cercare di installarvi dei microfoni. La sera del 24 ottobre erano tutti riuniti attorno al pesante tavolo ovale di pregiato legno di cocco, ognuno davanti a un terminale. La memoria
centrale del computer occupava quasi interamente quella che un tempo era stata la cabina di registrazione, sostituendo l'impianto a ventiquattro piste del cantante. Frank Barzatti faceva del suo meglio per mantenere le sue relazioni entro la mezz'ora per rispetto ai due membri anziani, la cui capacità di attenzione era diminuita; ma certe volte Rip-Dog si metteva a fare il pagliaccio, probabilmente per noia, e a meno che don Aldo non lo zittisse, cosa che cercava di fare il meno possibile, la riunione poteva andare avanti a tempo indeterminato. «Proprio non capisco che cos'è questa merdata», si lamentò Rip-Dog, riferendosi a un grafico a quattro colori che evidenziava i ricavi delle case da gioco. «Questa roba che stiamo guardando sarebbero gli utili?» «Questa è solo la parte legale dell'operazione, zio John», gli spiegò pazientemente Mark, augurandosi che il don si decidesse in fretta a metterlo in pensione. Sebbene avesse occhi come due carboni ardenti e un volto segnato da cicatrici come un apache, Rip-Dog aveva un'aria eternamente trascurata, le guance mal rasate di un barbone che ha appena passato la notte in un dormitorio pubblico e gli abiti modesti e spiegazzati dei miserabili compari rimasti a Castelvetrano, il paese della lontana Sicilia in cui era nato. «Insomma, più alti, più bassi o che cosa?» «Gli utili delle case da gioco sono scesi di 2,6 punti per cento nel mese di settembre a causa del tempo particolarmente brutto ad Atlantic City», spiegò Frank. «Ciononostante sono di tre decimi di punto superiori alla media del mese grazie ai nuovi insediamenti nel New Jersey. Dal prossimo grafico si vede chiaramente che le nostre stime per l'anno rispettano gli obiettivi finali.» Rip-Dog estrasse un sigaro dal taschino della camicia e si guardò attorno alla vana ricerca di un portacenere. Sempre la stessa storia, pensò Mark. Sorrise e disse: «Zio John, se solo potessi fare a meno di fumare ancora per un po', danneggia i computer». «Danneggia i computer? Fumo questa roba da quando nessuno ancora aveva sentito parlare di computer e, guardami, sono ancora forte come una quercia.» Si guardò attorno pavoneggiandosi e tutti fecero di sì con la testa, in segno di rispetto per la sua longevità. «E come diavolo pensi che facessimo a trattare affari senza tutte queste cose colorate? E quella che cosa sarebbe, una pizza? La mia la voglio con le alici.» Risate; se non mostravano di gradire le sue battute trite e ritrite, era capace di tirare avanti tutta la sera. Ma don Aldo aveva lo sguardo perso nel
vuoto, sembrava che non sentisse suo fratello. Il don aveva la fronte prominente e il mento proteso in avanti come quello di un dio corrucciato. I suoi occhi avevano l'aspetto acquoso classico dell'età avanzata. Si leccò le labbra, assorto in tutt'altri pensieri. «E di chi sarebbe quella fetta di torta lì?» volle sapere Rip-Dog. «Quale fetta?» chiese Frank. «Ma la più grande!» «Nostra», rispose Mark. I grafici a torta erano un espediente infantile per cercare di illustrare nella maniera più semplice parte della sofisticata metodologia della quale si servivano per espandere le basi finanziarie della famiglia. Un tentativo per spiegare le sottigliezze di LBO, REIT, scambi di sicurezza e fondi monetari comuni e offerte di acquisizione: tutte novità quasi impossibili da spiegare ai membri anziani della famiglia. Rip-Dog sedette più comodo nella poltrona di pelle e si guardò attorno con aria scontenta. «Non è come guardare una valigia piena di banconote da cento dollari. Non ti dà la stessa soddisfazione viscerale, non vi pare?» «I trasferimenti fra banche sono molto più sicuri delle valigie», gli fece osservare Frank. La solita canzone di ogni incontro, era come cantare una ninnananna a un bambino capriccioso. «Sette è il numero magico.» «Sette!» ripeté Rip-Dog, strappando il cellophane del sigaro Davidoff con aria soddisfatta. «I liquidi diventano irreperibili dopo essere stati ripuliti attraverso sette conti diversi in sette diverse banche dall'altra parte dell'oceano.» Mark guardò il cugino. «Si sa niente dell'acquisizione?» Frank fece apparire alcune cifre sullo schermo. «Abbiamo lanciato un'offerta, tramite il nostro intermediario, per comperare il cinquantatré per cento delle azioni della Julep Time di Louisville, la società che imbottiglia liquori. Due milioni e quarantamila azioni a dodici punti e mezzo, operazione che finanzieremo interamente con azioni ad alto reddito.» «E perché non in contanti?» volle sapere Rip-Dog. «I liquidi non ci mancano, giusto?» Con gentilezza, Frank osservò: «Il contante è passato di moda, papà». Gabriel Solavarro distolse lo sguardo dallo schermo. «Chi diavolo è questo D. Foster Doyle?» «Il signor Doyle è il presidente del consiglio di amministrazione e amministratore delegato della Julep Time. Quella voce da due milioni di dollari che hai appena finito di guardare si chiama 'paracadute d'oro'... un regalino di ringraziamento per Doyle perché se ne vada dopo la scalata for-
zata che ci ha aiutato a mettere in piedi. Oltre a quelli, riceverà un altro milione e cinque in forma di rendita fissa, in Svizzera.» Rip-Dog leccò la punta del costoso sigaro e con un briciolo di animosità che era ancora in grado di terrorizzare i membri più giovani della famiglia affermò: «Il signor Doyle è un figlio di puttana». «Di questi tempi», obiettò Mark, «si chiamano capitani d'industria. Potrebbe essere molto peggio. Doyle ha promesso di non mettersi in politica. Bene, ho un'ultima cosa da discutere, ancora non è nel computer. Carlo non si lascia crescere l'erba sotto i piedi nel Mississippi. Ha messo le mani su un bel pezzo di proprietà sul mare che ungendo le ruote giuste potrebbe anche avere la licenza di edificabilità, il che, naturalmente, comporta un regalino a qualche pezzo grosso locale. Potremmo finanziare l'operazione attraverso la nostra nuova finanziaria St. Maarten, con un'offerta secondaria o un debito privilegiato. Naturalmente se siamo tutti d'accordo.» Rip-Dog e Gabriel Solavarro annuirono, cercando di avere un'aria interessata anche se in fondo la cosa li lasciava indifferenti. Anche il don sembrava annuire, d'altro canto era anche possibile che si fosse addormentato. «È tutto», annunciò Mark, e Frank spense il computer. I due uomini più giovani raccolsero alcune carte che infilarono nelle borse da novecento dollari. «Chi è che si fa una mano a zecchinetta con me?» chiese Rip-Dog. «Io mi guardo la partita alla televisione», annunciò Gabriel. L'ultima volta che avevano giocato a zecchinetta si era alleggerito di quasi quattromila dollari. Rip-Dog lanciò un'occhiata di sfida al figlio. «Ma papà, lo sai che con le carte non ci so fare», si lamentò Frank. Rip-Dog si strofinò le mani allegramente. «Lo so, lo so.» Intanto il don, che non si era mosso, alzò gli occhi e con un lieve cenno del capo indicò che era ora che gli altri uscissero. Poi, rivolgendosi a Mark: «Tu resta un attimo». «Sì, signore.» Quando furono soli, il don trafficò alla ricerca del pulsante per spegnere il suo monitor. Mark dovette aiutarlo a trovarlo. «Non dico che queste non siano cose belle. Gli affari sono più facili da seguire da quando Dominic ha installato i computer.» «Più facili e anche più sicure. Nessuno che non sia autorizzato può avere accesso.» Il don si guardò gli anelli che gli ornavano le grandi mani. Persino con le
dita intrecciate sul ripiano del tavolo le mani gli tremavano. «Allora, dimmi. Come ha fatto Dominic a fuggire così facilmente?» «Sorpresa. Forza bruta. Era nudo quando è fuggito e per giunta pioveva a dirotto. Ha forzato una macchina parcheggiata e si è procurato una divisa da guardia di sicurezza. Quella coppia di vecchi l'ha rimediata in una chiesa. Immagino che si siano fidati di lui. Del resto perché non fidarsi di una guardia di sicurezza?» «La coppia... dunque anche quella è opera di Dominic?» «Sì. Hanno analizzato il suo gruppo sanguigno con lo sperma lasciato nella donna.» «Incredibile, ancora non capisco come facciano a farlo.» «Già, incredibile.» «Antonia mi ha telefonato oggi, ma è come se mi avesse chiamato dieci volte. 'Notizie di Dominic?' Quella donna ha qualcosa in mente. L'amore di una mamma è una cosa preziosa.» «Presto sarà qui», disse Mark. Il don si strinse nelle spalle. «È probabile.» «Abbiamo rinforzato la sicurezza in tutta la zona. Il sistema di allarme è stato ricalibrato la settimana scorsa e quei nuovi sensori sono...» Lentamente il don si tirò in piedi. «Allarmi. Sensori.» Non riuscì a trattenere un sorriso, sebbene fosse un sorriso d'angoscia. «Quelli sono giocattoli per Dominic. In fin dei conti è lui che ha scritto i programmi per i computer, faranno quello che lui vuole. Che ragazzo brillante! Ci ha fatto guadagnare tanti di quei soldi. E mi ha anche spezzato il cuore. Ancora non capisco perché è fatto in quel modo. Ho sempre pensato che Antonia fosse un po' pazza. Troppa religione, capisci quello che voglio dire? La religione è okay per le donne, ma non va bene per gli uomini. Preti. Mai fidarsi di un uomo che nega di avere le palle.» «Angel non riuscirà a entrare quando arriverà», promise Mark, come sempre imbarazzato quando la mente del don vagava a ruota libera. «Che cos'hai detto? 'Angel'? Non chiamarlo mai più con quel nome in mia presenza.» «Okay, Padrino, ti chiedo perdono.» Il vecchio fece un gesto conciliatorio, bocca e mento scossi da un lieve tremito; ma quando Mark cercò di prenderlo per il braccio e di accompagnarlo verso la porta lo congedò con un brusco gesto della mano. Dall'esterno giunse la risata chiocciante di Rip-Dog, l'aria era impregnata di un buon profumo di cibo: bruschetta e luganega per cominciare, poi bucatini
al garganello, pasta con una salsa a base di anatra selvatica proveniente dalla Toscana. «Ascolta, è mio nipote. In un certo senso un po' capisco come funziona il suo cervello. Per Dominic non esistono né il bene né il male... solo i suoi bisogni.» Mark vide che gli occhi del vecchio, arrossati e spersi nelle sue fantasticherie durante la riunione, adesso erano duri e vigili. Il tremito che aveva notato era scomparso completamente. Sollevò il mento aguzzo. «Fa' in modo che entri in casa mia pacificamente», furono le istruzioni di don Aldo, «ma accertati che non ne esca più.» 6 Il pollo fritto di Opal valeva la modesta vanteria della donna. Usava soltanto sale, pepe, e una spolverata di farina; il segreto, rivelò, era friggerlo nel lardo puro, niente olio di semi o altri grassi. E poi ci voleva una padella di ferro ben stagionata. Cinquant'anni di stagionatura erano il minimo. Opal aveva messo un po' del grasso di cottura nei fagioli per insaporirli e aromatizzava le rape con erbe che coltivava lei stessa nell'orto sul retro. Il pane fatto in casa era così morbido e leggero che a soffiarci sopra si aveva l'impressione che potesse volare. Tomlin, che per tutta la vita si era rovinato lo stomaco con la sbobba della marina, mangiò a crepapelle. Tony mandò giù un pezzo di coscia e una forchettata di patate e bevve a malapena mezzo bicchiere di latte; e anche per quel poco sua madre dovette quasi costringerlo fissandolo severamente. Mangiò poco e parlò ancora meno. Era arrivato a tavola animato da un sordo antagonismo. Per tutta risposta ai tentativi di conversazione di Tomlin, dichiarò che non amava lo sport; magari un pochino la pesca e la caccia, la pesca soprattutto. Aveva perso due denti inferiori e quelli nuovi erano spuntati appena per metà. Per quasi tutta la durata della cena non fece che far dondolare un altro dente con il mignolo della mano sinistra contemplando il ventilatore appeso al soffitto. Tomlin non cercò di forzarlo, né pretese di fare amicizia a tutti i costi. Neppure Anita mangiò molto, però bevve tre buoni bicchieri di ottimo Dolcetto d'Alba prima che Opal arrivasse a sparecchiare. Sorrise a Tomlin, che non aveva lasciato neppure le briciole. Gli indicò il piatto di portata semivuoto. «Un vero peccato che questo petto vada buttato, signor Clay.»
«Opal, sono distrutto, non ce la faccio più.» «Se vuole glielo metto in un sacchetto di carta, così si fa uno spuntino stasera mentre guarda la partita alla televisione. E adesso non mi dirà che non vuole assaggiare la mia crostata di more?» Tomlin emise un gemito scherzoso e sollevò le mani come per difendersi. Non riusciva a vedere bene Opal in faccia; il sole, rosso e basso sull'orizzonte, lo accecava. Non aveva fatto caso all'ora. Il buio veniva presto e rapidamente in quella stagione. «Faccio un salto in cucina più tardi, Opal, quando nessuno mi vede.» «Ah, non creda di farla franca. Ma ci rimarrei molto male se non accettasse un po' della mia crostata.» Anita cercò il pacchetto delle sigarette con un sorriso assente dipinto sul volto, intanto studiava i lineamenti di Tomlin, imporporati dai raggi del sole. A bassa voce Tony chiese: «Mamma, posso andare?» «Non ancora. Clay...» «Sì?» Tomlin guardò Anita e riuscì a malapena a scorgerne i lineamenti. Proprio così, a malapena, perché, maledizione, stava perdendo la vista. Gesù, pensò, farò mai l'abitudine a questo? «Mi chiedevo. Lei voleva essere un pilota fin da bambino?» «No. Temevo di non avere le qualità necessarie. Pensi che ero uno di quei bambini che sulle giostre stanno male. Ma i miei compagni di corso all'accademia erano così spavaldi che alla fine ho dovuto dire sì, vengo anch'io a Pensacola. Certe volte si finisce per fare cose delle quali si ha paura perché in fondo si ha più paura di quello che potrebbe capitare se non si fanno.» «Già, so quello che intende dire.» «Poi, mi è bastato avere in mano la cloche di un T-2 per capire che quella era la mia vita.» «E i suoi compagni di corso come se la sono cavata?» «Ted si è ritirato; problemi alla parte interna dell'orecchio. Jeff è stato abbattuto in un'incursione notturna e i vietcong non l'hanno più restituito. Mi scusi, Anita, non voglio essere scortese, è stata una cena meravigliosa, è solo che ho alcune faccende da sbrigare, un paio di lettere a cui devo rispondere.» «Non deve scusarsi. È stato un piacere averla con noi. Tony, se ti vedo fare quella faccia un'altra volta te ne vai diritto in camera tua e ci rimani.» Muovendo le gambe sotto il tavolo, Tomlin urtò un pacco che vi aveva
sistemato prima di cena. «Oh, oh, quasi dimenticavo.» Si chinò e tirò su il pacchetto. Era avvolto in carta bianca, fermato con un nastro blu. Una confezione un po' goffa, ma il meglio che gli fosse riuscito di fare. «Un regalo per te, Tony.» Tony guardò il pacchetto e poi sua madre, confuso. «Ma non è il mio compleanno», osservò a bassa voce. Tomlin gli sorrise. «Già, lo temevo. Ma scommetto una cosa, qualcuno da qualche parte oggi sta festeggiando il suo compleanno. È solo che l'ho mancato, tutto qui. E quindi non possiamo abbandonare così uno splendido regalo di compleanno, non ti pare?» Tomlin vide la macchia luminosa della fiammella di un fiammifero mentre Anita si accendeva la sigaretta. «Allora...» disse la donna in tono divertito. Il fiammifero si spense. Tomlin sentì l'odore della sigaretta. Adesso non c'era niente nel punto in cui avrebbe dovuto essere il viso di Anita. Respirò profondamente, in silenzio. «Avanti, Tony», lo esortò Anita. Finalmente il bambino si decise ad alzarsi e a fare il giro del tavolo per andare accanto a Tomlin. «Che cos'è?» «Io lo so, ma non te lo dico», ribatté Tomlin. Finalmente Tony si decise a strappare la carta e ad aprire la scatola. Dentro c'era un modellino di aeroplano Corsair, preciso fin nei minimi dettagli, compresi i missili Sidewinder montati sotto le ali. «Caspita!» esclamò Tony, sollevando in alto il piccolo aeroplano grigio con le insegne vecchio stile e facendolo ruotare fra le mani. «Che tipo di aereo è, un caccia?» «No. L'A-7 non è un aeroplano Mach uno, perde velocità troppo facilmente per essere efficace come caccia. È un aereo da attacco. Riesce a portare oltre sette tonnellate di armamenti: una tonnellata di bombe, un cannone da venti millimetri e addirittura una coppia di missili aria aria.» «Sarebbero questi?» Tomlin allungò la mano e sfiorò l'aeroplano. «Sì, e quelli sono i Sidewinder.» «Allora, che cosa dici, Anthony?» «Grazie, mi piace», disse Tony. «Ma è sicuro che lo voglia dare proprio a me?» «È tuo.»
«In camera mia ho una portaerei GI Joe, ma un aeroplano così non ce l'ho. Tu sei mai atterrato su una portaerei?» «Un sacco di volte.» «Ma quante? È difficile?» «Non più difficile che stare in equilibrio su un piede solo e su una saponetta nella doccia», replicò Tomlin. Poi si pentì di avere usato quel paragone, bisognava fare attenzione con i bambini. Purché Tony non decidesse di provare e finisse per cadere e farsi male. «Un giorno o l'altro ti spiego esattamente come si fa.» «Tony, adesso Clay deve andare.» «Oh. Okay. Che tipo di aereo hai detto che è?» «Un Corsair A-7, Tony.» Tomlin spinse indietro la sedia e si alzò in piedi, la luce del sole morente era come una nebbia rossa nei suoi occhi, le pale del ventilatore ombre scure sulla tovaglia candida. A questo punto non sapeva come avrebbe fatto a cavarsela. Il pensiero di essere alla mercé degli altri lo rese goffo. Urtò contro il bambino, tese le mani in avanti per sostenersi contro il bordo della tavola e rovesciò il bicchiere pieno di vino, macchiando la tovaglia. «Al diavolo, mi dispiace! Che pasticcione sono.» «Non si preoccupi», lo tranquillizzò Anita. Poi, alzando la voce: «Opal, ti spiace portare dell'acqua, abbiamo rovesciato del vino». Con l'aeroplano sempre stretto fra le mani, Tony andò a rifugiarsi in un angolo della sala da pranzo e rimase a guardare Tomlin con aria sempre più avvilita. «Grazie per l'invito», disse Tomlin. «Adesso sarà meglio che vada.» Le porte della veranda erano più vicine. Inutile cercare di attraversare tutta la casa fino alla porta principale. Aveva aspettato troppo, tutto qui; però era stato bello. Tomlin uscì con passo esitante, ma non appena fu fuori si rinfrancò. Opal, che intanto era arrivata dalla cucina con una bottiglia di acqua gassata e uno straccio, seguì Tomlin con lo sguardo, poi fissò Anita. Tony abbandonò il modellino di aeroplano sulla credenza, come se avesse perso ogni interesse. «Ubriaco, vero?» «Non con mezzo bicchiere di Dolcetto d'Alba», osservò Anita, lanciando un'occhiata perplessa alla macchia sulla tovaglia. «Forse non si sente bene.» «È ubriaco», ripeté Tony, come sfidandola. «Proprio come tu sai chi.» «Che non ti senta mai più parlare a quel modo», lo rimproverò Anita,
con voce eccessivamente severa date le circostanze. Tony alzò la voce. «Non ho detto niente di male! Ho detto solo che...» Anita fece un passo verso di lui. Tony arretrò. «Non alzare la voce con me, Tony.» «Mi dispiace», disse il bambino. Perlomeno adesso aveva tutta la sua attenzione, anche se era arrabbiata con lui. Anita, invece, cambiò direzione e uscì sulla veranda stringendo il bicchiere fra le mani. Tony fece il broncio per pochi secondi, colse l'occhiata che Opal gli lanciò mentre era intenta a pulire la tovaglia di damasco e uscì di corsa dalla sala da pranzo. «Boccaccia mia...» mormorò Opal fra i denti. Sorseggiando il vino sulla veranda, Anita si meravigliò nel vedere Tomlin perdere l'equilibrio in prossimità del basamento di cemento della roulotte, poi tastare alla cieca alla ricerca della porta. Non fu una scena bella da vedere, ma Anita guardò comunque. Il cielo era striato di nubi bianche, la sera colore dell'indaco, la superficie della laguna viola e arancio. Gli insetti venivano a morire crepitando contro la lampada alogena appesa al soffitto della veranda. Sentì che Tony si era messo a giocare con il computer e lentamente si diresse verso la biblioteca. Le porte erano chiuse, ma attraverso le tende di pizzo Anita lo vedeva darsi da fare per trovare la strada giusta fra i mille tranelli del labirinto e le malvagità del mago cattivo. Il mago aveva palle di fuoco sulla punta delle dita e scatenava mostri alati che sbucavano da scure caverne. Il bambino non aveva che una spada per difendersi. La partita terminò rapidamente, e male. Tony sentì arrivare la madre. Si voltò a guardarla con un'espressione che andava oltre il terrore, le labbra scolorite, poi disse: «Sono morto. Mi ha ucciso». Lei lo strinse a sé, appoggiandogli il mento sulla testa. «È solo un gioco.» La sua manina, la metà di quella di un uomo fatto, le artigliò il braccio offeso. «Ti sei fatta male!» gridò. Ogni volta la spaventava, quando sembrava incapace di distinguere fra la realtà e le fantasie che ancora lo tormentavano. Con dolcezza lo tirò via dal computer e lo portò di sopra a fare il bagno. Big Dog si tirò lentamente in piedi stiracchiandosi e li seguì, come faceva tutte le sere. Era più di un anno ormai che Tony non permetteva a sua madre di vederlo nudo, faceva il bagno con la porta chiusa adesso. Però voleva che Big Dog fosse dentro con lui. Tony giocava con le barchette a molla e il cane partecipava al gio-
co infilando muso e zampe nella vasca, riempiendola di peli e facendo disperare Opal. Seduta sul letto di Tony, con la testa pesante per il vino bevuto, Anita sfogliava pigramente le pagine dell'ultimo numero del Time. Da lontano, a poco meno di un chilometro, arrivavano le note del pianoforte di Wolfdaddy che, accompagnato da altri tre ottimi musicisti, una tromba, un basso e un trombone, si esibiva in un vecchio spiritual, con accompagnamento Dixieland: «Signore, Signore, certo sei stato buono con me». Era da un pezzo che aveva voglia di partecipare a una di quelle funzioni che invece Opal seguiva con regolarità. Sapeva che l'avrebbero accolta con piacere e di certo avrebbe goduto la musica anche se non conosceva le canzoni. Quanta strada dalla sua infanzia cattolica, pensò. Ma ormai la religione non aveva più alcun significato per Anita; le creava solo un vago senso di disagio, sporadico, quando cedeva ai sensi di colpa e al pentimento che arrivavano da tutte le parti. In quel periodo, però, era semplicemente agnostica. Come definire quello stato? si chiese, poi nel suo ricco vocabolario trovò il termine giusto: nichilista. Il suono stesso della parola sembrava adattarsi al suo stato d'animo attuale. Sono una nichilista. Anita scese in camera sua, quella che un tempo era stata la camera da letto del proprietario, e dagli scaffali stracolmi prese uno dei suoi libri: Oliver Twist. Poi risalì in camera di Tony. Era uscito dalla vasca da bagno e si stava infilando il pigiama. La sera si era rinfrescata e Anita chiuse le finestre. «Ehi, aspetta», esclamò mentre Tony s'infilava a letto. Aveva i capelli ancora bagnati. Anita gli strofinò la testa con un asciugamano. Il bambino protestò e si difese ridendo. Questa era la parte del rituale serale che piaceva di più ad Anita. La parte invece che detestava di più talvolta non era necessaria, se Tony si addormentava mentre lei leggeva. Tony amava Dickens, in parte perché Anita era dotata di grande mimica e imitava alla perfezione diversi dialetti inglesi. Aveva doti di attrice, sebbene non avesse mai fatto granché a livello professionale. My Fair Lady e un paio di commedie di Oscar Wilde all'università. Quella sera, quando ebbe terminato di leggere, Tony era ancora sveglio e attento. Ma Anita non aveva voglia di andare avanti. Si sentiva inquieta, sconsolata. «Per favore, mamma!» «Per stasera basta, Tony, è ora di fare la nanna.» «E buonanotte alla vecchia signora che fa la nanna con te!» le fece eco Tony, citando da uno dei suoi libri preferiti. Anita si chinò a baciarlo. «Io non sono una vecchia signora.» Ma in cuor
suo provò una morsa di paura. Come se fosse destinata ad avvizzire, fra mezzanotte e l'alba. Signore onnipotente, che giornata sballata aveva avuto, solo perché un uomo che trovava interessante aveva fatto irruzione nella sua vita. Aveva bisogno di andare a rilassarsi nella vasca da bagno, di lavarsi i capelli e soprattutto di rifarsi le unghie che aveva trascurato troppo negli ultimi tempi. «Dov'è Big Dog?» volle sapere Tony, iniziando quella parte del rituale che sempre la turbava. «Proprio ai piedi del letto, come al solito.» «E l'Anello Magico?» Anita si frugò nelle tasche ed estrasse un grosso anello antico con una pietra in pasta di zaffiro grossa quasi quanto un uovo di colombo. Lo mise sul comodino accanto al letto di Tony. «Non dimentico mai l'Anello Magico.» «È potente stasera?» Anita annuì. «Ma devi dirlo forte!» Anita disse: «L'Anello Magico è sempre potente». «E che cosa succede se lui cerca di toccarmi mentre dormo?» «L'Anello Magico ti proteggerà.» Adesso l'emicrania era esplosa. Distolse lo sguardo da Tony e lo lasciò vagare sulla lavagna e sugli scaffali traboccanti di giocattoli e tutto l'armamentario Lego ammonticchiato sul comò. «Allora, che cosa gli farà? Dillo!» «Gli... l'Anello lo farà... saltare in aria...» «In quanti pezzi?» «In un miliardo di pezzi», rispose Anita, chiedendosi se sarebbe riuscita a uscire dalla camera da letto senza che il figlio la vedesse piangere. «Un milione di miliardi di pezzi più piccoli di noccioline?» «Più piccoli di noccioline», lo accontentò Anita. Cercò di sorridergli serena. Soddisfatto, Tony si raggomitolò sotto le coperte. Anita spense la luce centrale e lasciò accesa la lampadina notturna. Solo allora cominciò a piangere, terrorizzata dal flusso delle lacrime e dalla depressione, ma incapace di trattenersi. Tony aveva chiuso gli occhi. Soltanto Big Dog la guardò uscire dalla camera. Agitò la coda un paio di volte con un rumore sordo contro il pavimento, poi infilò la testa in mezzo alle zampe e anche lui chiuse gli occhi.
7 Carl arrivò al Murray's Driftwood alle otto e un quarto; individuò subito Wink Evergood seduto, da solo, in un separé imbottito e si unì a lui spingendo davanti a sé sul divanetto la grossa borsa portadocumenti. «Quasi pensavo che mi avessi tirato il bidone», lo apostrofò Wink cordialmente. Aveva al collo tre catene d'oro e la camicia, quasi completamente sbottonata, era confezionata con un tessuto così leggero e trasparente che lasciava vedere una sottile cicatrice sul bicipite destro. Carl annuì stancamente. Wink guardò la borsa portadocumenti. «Che cos'hai lì dentro?» «Un mare di cartacce. Opzioni su compravendite di terreni.» «Comincio a pensare che tu sia una specie di stakanovista, per quanto riguarda il lavoro. Mace Lefevre ti ha sistemato?» «Sa quali ruote vanno unte e quanto», osservò Carl, cercando la cameriera con lo sguardo. Aveva bisogno di bere e subito. La sala era quasi piena. Dietro il bar, su una piccola piattaforma sopraelevata c'era un pianoforte; la pianista portava un vestito nero lungo fino ai piedi e aveva una bocca straordinaria, dipinta in rosa fluorescente. Nella penombra del locale, non si riusciva a vedere altro di lei. La bocca e le ciglia lunghe e rigide per il mascara. Teneva a un livello basso e discreto sia il pianoforte sia la voce. Era una delle ragioni per le quali gli andava bene Murray's. «Hai investito un sacco di tempo in quella transazione, giusto?» chiese Wink. Carl fece un sorriso tirato. «Quanto a questo, di tempo ne ho da vendere, qui nel Sud.» Sempre pieno di sé, non senza un certo umorismo, Wink osservò: «Devono pur esserci modi più facili per fare quattrini». «La società per la quale lavoro gradisce operazioni a basso rischio e investimenti ad alto rendimento.» Di nuovo Carl si girò sulla panca cercando di attirare l'attenzione di una cameriera dalla pelle colore dell'ambra e occhi simili a onde di calore, che in piedi al tavolo accanto al loro aspettava paziente che un vecchio signore contasse un mucchietto di banconote da un dollaro. Sorrise nel vedere Carl che, finalmente rilassato, si voltò di nuovo a guardare Wink. «Con le società immobiliari corri pochi rischi, se sai dove comperare.» «Sì, signore?» li interruppe la cameriera. Carl la guardò, simulando sor-
presa. «Allora non mi hai creduto», disse. «Oh, sì che le ho creduto.» «Però vedo che sei ancora qui. Non sei ancora ad Atlantic City.» Aveva un paio di fossette deliziose. La carnagione non era delle migliori, ma il suo sorriso faceva dimenticare tutto il resto. «È solo che devo pensarci un po', Atlantic City è lontana.» «E su che cosa dovresti pensare? Almeno seicento dollari la settimana paragonati a... quanto hai detto che guadagni qui?» «Oh, duecentocinquanta. Trecento qualche volta, ma solo durante l'estate. Non saprei, devo pensarci, magari non sono all'altezza.» «All'altezza del blackjack? Tesoro, chiunque può imparare a maneggiare un mazzo di carte! E poi prima ti fanno dei corsi. Hai ancora quel biglietto da visita che ti ho dato?» «Uh-uh», fu la risposta della ragazza. «Allora ti consiglio di darci un'altra occhiata. Perché su quel biglietto ho scritto un nome. Un nome e un numero di telefono. Forse a te non sembrerà granché, ma in tutto il mondo ci sono al massimo dieci persone che hanno quel numero. E tutto quello che devi fare, non appena scendi dall'autobus, è trovare un telefono. Non devi dire altro che: 'Eddie, Carl mi ha detto di telefonarti'. Tutto qui. E sarai accolta con tutta la cortesia professionale in uno dei nostri grandi alberghi della zona. Penserà personalmente Eddie a te.» «E a lui che cosa gliene viene in tasca per questo?» chiese la ragazza, ancora sorridente ma sempre scettica. «Il piacere di farmi un favore», fu la risposta di Carl. «Ci sto pensando sul serio», lo rassicurò lei. «Magnifico! Intanto, mentre ci pensi, perché non mi porti un seven-andseven? A proposito, come ti chiami...» «Rochelle.» «Rochelle, se c'è qualcos'altro che vuoi sapere, se avessi voglia di parlare ancora un po' di questa faccenda, sarò lieto di trovare un po' di tempo per te. Voglio dire, ho già fatto molto più di quello che faccio per la maggior parte della gente, ma non voglio che ti rimangano dubbi sulle mie intenzioni. Voglio aiutarti davvero, credimi.» «Ne sono lusingata...» «Carl.» «... Carl.» Scomparve in direzione del bar mentre Carl fischiava a bassa
voce fra i denti. «Mio Dio, tutta quella materia prima e guarda come la butta via.» «Si fa sbattere da quel pilota, un tipo di prima classe, al Keesler, ecco come la butta via la sua materia prima. Ed è per questo che alla fine non se ne andrà da Biloxi.» «Merda, l'amore», brontolò Carl stizzito. «È completamente suonata. Non ha neppure capito a che cosa ti riferivi quando le hai detto che avresti trovato un po' di tempo per lei.» Carl contemplò il suo cronometro da polso costellato di pulsanti e ce la mise tutta per ritrovare il buonumore. «E le ragazze, quando le vediamo?» «Alle nove, ero sicuro che avresti fatto tardi. Ho prenotato al Swashbuckler.» «Magnifico, sono affamato. E chi mi hai trovato per stasera?» «Cindalou.» «Gesù, la boccona», commentò Carl, ma in fondo sembrava contento della scelta di Wink. Wink terminò la birra e si guardò attorno. «A quanto pare giovedì notte andrà tutto liscio. Quella tempesta tropicale che ha colpito la Florida e sembrava diretta qui ha girato verso l'interno. Ci toccherà un po' di pioggia e un po' di vento, probabilmente, ma nel complesso il golfo dovrebbe essere tranquillo.» Carl si strofinò la mascella ombreggiata dalla barba scura e con una punta di stizza disse: «Io ho problemi per giovedì». Wink lo fissò per parecchi secondi prima di replicare. «Che genere di problemi?» «Il proprietario della casa nella quale siamo in affitto si è fatto improvvisamente vivo. Dice che vuole fermarsi per qualche giorno, non ho potuto impedirglielo.» «Come si chiama?» «Clay Tomlin.» «Tomlin, perdiana! L'ho visto proprio ieri, almeno, credo che fosse lui, alla marina di Bluebelle. Che diavolo, sai, anni fa ci siamo pestati di santa ragione, io e lui, per una partita di basket. Ha incassato tutta la merda che sono riuscito a dargli e alla fine mi ha preso proprio sotto la mascella con il gomito, perdiana, sono rimasto immobilizzato per tre mesi. E pensare che probabilmente ci è costato il campionato. Clay Tomlin.» Wink piombò in una sorta di mutismo rievocativo, pensando al passato, sorridendo. Poi si scosse e pensò al futuro, non gli andavano quelle complicazioni poten-
ziali. «Ebbene, noi abbiamo le nostre consegne da rispettare, non c'è altro da aggiungere, il nostro uomo ad Atlanta esige la puntualità. Dal canto mio, non sopporto l'idea di vedere una consegna da due milioni e mezzo di roba di prima classe galleggiare di nuovo verso il Messico.» Wink agitò le spalle e fece schioccare le dita abbozzando l'ultima strofa di un ritmo messicano. Arrivò Rochelle con il seven-and-seven di Carl. «Ci sto pensando», ripeté la ragazza. «Brava ragazza», disse Carl. Wink chiese un'altra Miller alla spina e mise in bocca una manciata di noccioline. «Che cos'hai in mente di fare?» domandò a Carl. «Toglierlo dalle scatole.» «Già», fu il commento di Wink, a bocca piena. «Niente di grave, niente che possa attirare l'attenzione.» «Okay.» Carl bevve un sorso di seven-and-seven guardando Wink. «È appena venuto via dalla Marina, giusto?» domandò Wink. Carl alzò le spalle. «Mi pare che abbia accennato a una cosa del genere. Magari è venuto per fare un check-up, magari lo aspettano in qualche ospedale militare.» Carl annuì. «È possibile. Tre o quattro giorni di degenza, niente di grave.» «Che macchina ha?» «Una Corvette bianca.» Wink ridacchiò. «Il solito pilota fanatico! Non appena alzano il culo da terra, la prima cosa che devono farsi è una Corvette.» «Oh, già, è accampato fuori, in quella roulotte di proprietà di suo fratello.» «Okay», disse ancora Wink, «dimenticati questa faccenda. Parlerò con il mio cuginetto a Cajun. Fra me e Tom Paul ci faremo venire qualche idea brillante.» Rochelle posò la birra davanti a Wink e si abbassò per parlare a Carl nell'orecchio. «A proposito di quella cosa che dicevi prima, mi andrebbe di parlartene un po' di più. Quando sei libero, naturalmente.» «Io sono libero quando vuoi», fu la pronta risposta di Carl. «A che ora finisci il turno?» «A mezzanotte e mezzo.»
«Vengo a prenderti», disse Carl. Non appena Rochelle fu fuori portata di udito, Wink disse: «Dovresti raccontarle alcune cosucce che ho visto accadere nei casinò. Perché non le dici che certi clienti, quando non sono contenti delle carte che ricevono, scagliano portacenere pieni in faccia ai croupier, o che gli sputano addosso. Allora che cosa faccio, porto le tue scuse a Cindalou?» «Ma che diavolo vai dicendo? Sono le otto e trentacinque. Faccio in tempo a mangiare, a scoparla e a tornare qui per mezzanotte.» «Signore», ridacchiò Wink. «Dimmi un po' una cosa, ti piaceva la pelle scura prima di venire quaggiù?» «Vuoi sapere una cosa? Non l'ho mai provata. Ma quando si tratta di fica, sono decisamente imparziale.» Wink lanciò un'ultima occhiata alla cameriera con le fossette e la pettinatura alla Tina Turner. «Magari questa è la tua serata buona, almeno se fra due lenzuola è all'altezza di quello che si vede stando in piedi.» 8 Verso le undici di sera la temperatura era scesa attorno ai diciotto gradi, ma Anita non chiuse le finestre della camera da letto: le piaceva dormire al fresco. Dalla Chiesa-Vicino-al-Cielo della Giusta-Via al Vangelo non giungeva più alcuna musica, gli unici suoni a rompere il silenzio erano quelli emessi dalle creature di Dio, rospi di palude e grilli. Evidentemente Clay Tomlin aveva lasciato aperta la finestra del camper; sentiva anche la sua televisione. Stava trasmettendo una partita di basket. Nella camera da letto di Carl, accanto a un bagno comune che l'uomo non usava, c'erano sei monitor nascosti dentro un armadio. Quanto ad Anita, aveva un unico monitor nella libreria della sua camera da letto con un telecomando per cambiare l'immagine da una telecamera all'altra. Le immagini che apparivano sullo schermo erano di ottima qualità poiché le luci dei riflettori venivano lasciate accese tutta la notte. Anita si chiese se quelle luci non dessero noia a Tomlin. Si domandò anche quanto ci avrebbe messo a fare commenti su di loro e sulle telecamere e che cosa gli avrebbe risposto se avesse rivolto delle domande. Alle undici e un quarto andò in camera di Tony e lo trovò che dormiva profondamente sul bordo del letto, un piede che quasi sfiorava il pavimento. Lo tirò più in centro e lo coprì senza che si svegliasse. Ai suoi piedi Big Dog si stiracchiò; aveva voglia di fare un giretto. Scese al piano di sotto
con il cane e uscì con lui sulla veranda, gli occhi fissi sul camper, la mente alla ricerca di una ragione per andare fin là. L'attrazione era irresistibile, e anche un po' irritante. Anita rabbrividì per l'aria fresca della notte e si strinse addosso il golf che aveva infilato prima di scendere. Era a gambe nude. La porta del camper, socchiusa, sbatteva ogni volta che il vento la colpiva. Più che sufficiente come scusa, si disse. Solo una visitina veloce, per vedere se stesse bene. Il suo comportamento dopo la cena ancora non la convinceva. Attraversò il prato e il vialetto ed esitò a meno di un metro dalla porta del camper. C'era accesa un'unica luce, oltre a quella del televisore. Era entrata lì dentro un paio di volte, tanto per vedere com'era fatto. Roland, il fratello di Opal, faceva tutti i lavori pesanti di manutenzione in casa; era lui che lavava il camper e di tanto in tanto gli faceva fare un giro, lentamente, tanto per essere sicuro che tutto funzionasse. E anche così era evidente che le gomme avevano bisogno di essere cambiate, cominciavano ad ammuffire per via del clima. «Clay?» «Sì?» La reazione era stata pronta, ma Anita non ebbe dubbi che Clay stesse dormendo. Vigilanza immediata e reazioni tempestive dovevano essere due elementi chiave della sua professione. Gli avrebbe detto della porta, l'avrebbe chiusa per lui e sarebbe tornata subito a casa. Invece disse: «Posso entrare?» «Certo.» Anita spalancò la porta ed entrò nel camper. La luce notturna sopra la dinette era accesa. Tomlin era steso, senza scarpe, un cuscino tondo dietro la testa, su un divano letto posto dietro il sedile di guida. Voltava le spalle al televisore montato al di sopra del parabrezza. Aveva gli occhi aperti, un'espressione cordiale, ma non la guardava. «La porta non era chiusa», spiegò Anita. «Se non fosse per il vento, le zanzare l'avrebbero già mangiato vivo.» «Devo essermi addormentato.» Non accennò a muoversi. «Che cosa ne dice di un drink?» «Non importa, non credo che sia... è tardi, non posso fermarmi. Sono uscita solo per portare fuori Big Dog.» «Che ora abbiamo fatto?» Aveva al polso l'orologio, gli sarebbe bastato alzare il braccio, ma non lo guardò. Tese l'orecchio al commento della telecronaca della partita di basket, gli Hawks contro i Golden State. «Due
minuti alla fine», mormorò. «Ma come hanno fatto a perdere un vantaggio di diciassette punti?» Rivolto ad Anita chiese: «Le piace il basket?» «No. Il baseball. Quando ero bambina mio padre mi portava sempre a vedere gli Yankee.» Sul tavolo della dinette c'era un numero del Navy Times e un casco da pilota tutto rovinato; il casco aveva una banda quadrettata che correva lungo tutto il bordo con una parola scritta a grandi lettere su un lato: Cobra. «Cobra, sarebbe lei?» «Già. Tutti in aeronautica hanno un soprannome.» Si tirò a sedere stiracchiandosi. Ma ancora non lo guardava, sebbene Anita non si sentisse né ignorata né respinta. «Sicura che non le va un drink?» «Se proprio insiste... una birra, se ne ha.» «Nel frigorifero», disse Tomlin. «Di fronte al forno a microonde. Ne prenda una anche per me.» Numerose lattine di Miller's occupavano un intero ripiano del piccolo frigorifero. Anita ne aprì un paio e le portò a Tomlin, che adesso era seduto sul divano e fissava vagamente le finestre sbarrate che aveva di fronte. Anita lo guardò a lungo e poi, all'improvviso, rabbrividì senza sapere bene il perché. Gli porse una lattina. Lui non fece caso al suo gesto. Dopo alcuni secondi Anita si girò, posò la lattina sul tavolino e si voltò di nuovo verso Tomlin, rabbrividì ancora, meno violentemente questa volta, prese la mano di Tomlin e delicatamente la guidò verso la birra. Lui tastò la parte alta della lattina con l'indice della mano sinistra per vedere dove si trovasse l'apertura e, senza abbassare lo sguardo, bevve. «Grazie», disse. Anita sedette accanto a lui. «Io... non capisco che cosa...» «È una forma estrema di cecità notturna. Non è ereditaria e, grazie a Dio, non è degenerativa. Per quanto se ne sa, è un problema di carenza di certi enzimi responsabili della riproduzione di una sostanza chiamata rodopsina o porpora retinica. O meglio, gli enzimi ci sono, è solo che non si congiungono correttamente e non lavorano alla luce artificiale.» «Enzimi pigri?» Tomlin sorrise amaro e mandò giù un altro sorso di birra. «Intende dire che adesso non vede per niente?» domandò Anita. «No. È come se fossi seduto in un armadio foderato di nero. La vista si affievolisce fino a scomparire del tutto. Ricomincio a vedere di nuovo a circa duemilacinquecento lux... vale a dire una luminosità appena inferiore a quella della luce del sole quando è sopra l'orizzonte in una giornata lim-
pida. A quella intensità vedo delle forme e distinguo appena i colori. Consideri che in una giornata di sole, a mezzogiorno, in estate, la luce raggiunge un'intensità di circa centotredicimila lux. Al centro oftalmico Jules Stein dell'ospedale universitario dell'UCLA hanno calcolato che raggiungo i dieci decimi di visibilità intorno ai quarantacinquemila lux.» «Ma non c'è nessuno che costruisce luci fluorescenti capaci di duplicare alla perfezione lo spettro solare della luce diurna? In fondo quelle luci vengono già usate nelle serre per stimolare la crescita delle piante.» «Le piante sono più facili da stimolare dei miei fotoricettori. Volendo, potrei trovare delle Vita-Lites capaci di generare duemilacinquecento lux, ma occupano almeno due metri quadri di spazio l'una. E a me ne occorrerebbero almeno fra le quindici e le venti per avere luce sufficiente per riuscire a leggere un giornale.» «La partita è finita», annunciò Anita guardando il televisore. «Sì, lo so. Gli Hawks hanno perso per un punto. Che razza di maniera per cominciare la stagione.» «Bene, che sollievo», disse Anita. «Sollievo che cosa, non le piacciono gli Hawks?» «Non stavo parlando della partita. Stasera, quando se n'è andato, dopo cena...» «Oh, capisco, dev'essere stato uno spettacolo deprimente. A proposito, la macchia è venuta via?» «Ma certo, e poi chi è che pensa alla macchia? Avevo creduto... avevo immaginato le cose più orribili. Come... come a un tumore al cervello.» «Niente di così tragico. Il... il problema mi è costato la carriera e ha influito duramente sulla mia vita sociale. Ma ci farò l'abitudine. Mi conviene.» Aveva vuotato la lattina di birra e adesso la stava metodicamente piegando. Anita aveva visto fare la stessa cosa a Carl e le era sembrato un gesto infantile, esibizionista, in quel momento, invece, non poté fare a meno di ammirare la forza delle mani e dei polsi di Tomlin. «Vuole che gliene prenda un'altra? Può avere la mia, ho bevuto solo un paio di sorsi.» «Grazie», rispose lui, e Anita gli passò la lattina. «No. Gli specialisti del Johns Hopkins e dell'istituto oftalmico Wills di Filadelfia non sapevano dove sbattere la testa. Al Wills hanno fatto anche un paio di tentativi, iniezioni di calmodulin e altre sostanze attivanti negli umori vetrosi. Secondo loro sarebbe dovuto servire per aiutare la retina ad adattarsi ai bassi livelli di luce. Ha funzionato, ma il problema è stato che
il livello dei GMP è aumentato con il rischio di danneggiare in maniera irreversibile anche la vista diurna. Così ho deciso di arrendermi alla natura e di smetterla di comportarmi da dannata cavia.» «Non posso biasimarla. Se posso esserle d'aiuto in qualche modo...» «Grazie, comunque, finché ho un posto dove rifugiarmi quando viene la sera va tutto bene. Gli inverni sono brevi sulla costa e da marzo a novembre le giornate sono lunghe. Su quel tavolino laggiù c'è il telecomando del televisore, se vuole sentire il telegiornale. Tanto per sapere se oggi abbiamo dichiarato guerra a qualcuno.» «Volare deve mancarle molto.» «Sì, in continuazione. Poi mi costringo a riflettere. In fondo ho avuto fortuna per oltre vent'anni, sono passato indenne attraverso il tiro di due schifosi caccia di Gheddafi nel Golfo della Sirte. Non posso lamentarmi.» Sulla veranda Big Dog aveva preso ad abbaiare. «Ha finito di sbrigare le sue faccende e adesso vuole entrare. Sarà meglio che rientri anch'io, è tardi», disse Anita. «Non così tardi», obiettò Tomlin, poi, dopo avere atteso invano una replica: «Non ho sentito rientrare suo marito». Anita si alzò in piedi. Tomlin voltò la testa e la guardò diritto in faccia, tanto che per un attimo lei si chiese se le avesse detto tutta la verità sui suoi occhi. Poi si rese conto che non erano a fuoco, né su di lei, né su niente e non sbatteva le palpebre. Ancora una volta aspettava. Non c'era niente da dire, e invece disse: «Non è la prima volta». Appena un po' di causticità nella voce, niente amarezza. «Deve proprio andare?» «Sì», rispose lei, improvvisamente in collera, ma non per la sua domanda. Era già sulla porta, un piede sui gradini e la mano sulla maniglia, quando Tomlin la fermò di nuovo. «Quello che ha scoperto di me stasera, preferirei che non si sapesse in giro.» «Va bene, capisco.» Spinse la porta, ma non si decise a uscire nella notte. Sentì un'ondata d'eccitazione, il cuore le diede un balzo. Una tonificante sensazione, liberatoria, esilarante e un po' folle la investì. «Carl non è mio marito», disse. Tutto qui. Non guardò Tomlin né attese la sua reazione. Ma aveva già percorso due terzi del prato che la separava dalla veranda e Big Dog le stava correndo incontro festante quando i battiti del suo cuore cominciarono finalmente a calmarsi.
Quando fu di sopra andò di nuovo a guardare Tony. Forza dell'abitudine, certe volte faceva quel su e giù per tutta la notte e alla fine si stendeva nel letto accanto a lui nel tentativo di rubare un paio di ore di sonno, il cervello in fiamme per l'ossessione. Si era di nuovo scoperto. Si avvicinò al letto e vide qualcosa che prima non c'era: il modellino del Corsair che Tomlin gli aveva regalato a cena. Era sul guanciale. Tony l'aveva lasciato di sotto, in sala da pranzo, ne era certa. Tirò su la coperta e, guardando attentamente il volto del figlio, ebbe il sospetto che, sebbene i suoi occhi fossero chiusi, non dormisse. «Non vede quando è notte, tutto qui», mormorò Anita a bassa voce, già rivolgendosi in cuor suo a Tomlin, ma desiderosa che il bambino sapesse. Che male poteva fare, in fondo? 9 Ad Alpine, New Jersey, alle tre e mezzo del mattino del 26 ottobre uno dei due telefoni posti sul comodino accanto al letto di Aldo Barzatti suonò. Il don era sveglio. Non stava dormendo, in realtà non era riuscito a chiudere occhio. Malgrado le nuove cure, la prostata gli procurava fitte acute. Dal tipo di squillo seppe che era la linea interna. Girò la testa e guardò il telefono, intanto pensava con una punta di disprezzo priva di paura: Allarmi. Sensori. Un gioco da bambini. Quel ragazzo è un genio, non gliel'ho forse detto a tutti quanti? Non c'era stata traccia di allarme all'esterno della grande casa di pietra. I grossi cani etiopi dormivano tranquilli nel canile. Don Aldo lasciò che il telefono squillasse, ma continuò a fissarlo a lungo. Pensava rapidamente a che cosa fare. Calmo, certo, ma non sereno. Lo squillo era basso, niente che potesse innervosire, appena una richiesta persistente di attenzione. Naturalmente c'era una sola cosa giusta da fare, sebbene avesse la casa piena di picciotti. Perché rischiare spargimenti di sangue sotto il suo tetto? A un uomo come lui non si richiedeva forza fisica; la chiave di tutto era il desiderio, la volontà di farla finita. Ma don Aldo non si era mai sottratto alle scelte difficili, all'azione decisiva. Si spostò sul lato sinistro del letto da dove allungando una mano poteva prendere facilmente il telefono. C'erano stati dodici squilli. Al sedicesimo, al termine di un secondo gruppo di otto, sollevò il ricevitore e lo portò all'orecchio. Non aprì bocca. «Mi ami, nonno?» gli chiese l'Angelo della Morte.
«Sì», fu la risposta del don. L'accelerazione del battito cardiaco gli fece girare la testa, facendogli quasi perdere i sensi. Si lasciò andare contro la montagna di cuscini. La comunicazione era stata interrotta. Quando ebbe ripreso i sensi, fu una questione di mezzo minuto, don Aldo si accorse di essersi bagnato il pigiama. Rifiutava di indossare quegli indumenti intimi, concepiti appositamente per prevenire l'imbarazzo degli incidenti per l'incontinenza. Che diavolo, li chiamassero pure come volevano, rimanevano sempre pannolini per neonati. Don Aldo sedette sul bordo del letto e tastò nel buio, alla ricerca delle pantofole. Quando le ebbe trovate, andò in bagno, sul quale si apriva l'ampia finestra di forma circolare attraverso la quale si vedevano brillare le stelle. La stanza da bagno era attrezzata con tutti gli strumenti possibili e immaginabili per la comodità e l'igiene. La vasca di marmo incassata nel pavimento, munita di ringhiera con alcuni gradini per accedervi, una lussuosa poltrona da barbiere proveniente dalla bottega di un artigiano che aveva finanziato a Little Italy negli anni Venti. Gli piaceva farsi radere quotidianamente alla maniera antica, con panni caldi, la schiuma ricca e cremosa e lo schiocco sonoro della lama del rasoio vecchio stile sulla coramella. E poi il bicchiere di rum, sempre di rum. Tuttavia non si era mai concesso di diventare schiavo dell'abitudine, salvo che in casa sua. Era una delle ragioni grazie alle quali era sopravvissuto a quasi tutti i suoi pari. Il don lasciò cadere i calzoni del pigiama e rimase immobile davanti alla tazza del gabinetto, con il pene in una mano. «Volevi tanto pisciare, e ora piscia», sibilò irritato. Ma ci volle molto tempo. Contò ogni goccia. Otto, quando ebbe finito. Otto era un numero magico per lui, un numero riguardo al quale era molto superstizioso. Era nato l'ottavo mese di un anno che terminava con otto; era l'ottavo figlio sopravvissuto della famiglia originaria di un paesetto siciliano che sorgeva esattamente a otto chilometri dal mare. Il suo nome di famiglia era composto esattamente da otto lettere. In vita sua aveva ucciso di suo pugno otto uomini. Aveva scontato otto anni in prigione. E una volta aveva vinto più di trecentomila dollari a Las Vegas giocando alla roulette il numero otto che era uscito quattro volte di fila. E poiché non era una ruota truccata, le probabilità contro un evento di questo genere erano addirittura incalcolabili. Il destino. E quel giorno era il 26 ottobre. Due più sei fanno otto. In fondo la coincidenza era rassicurante. Udì bussare alla porta del bagno. «Tutto a posto, signor Barzatti?» Curly, il suo infermiere. «Sì, certo, sto solo tentando di pisciare», bor-
bottò il don. «Se le serve qualcosa mi chiami.» «Non riesco a dormire», disse il don. «Magari mi faccio un bagno di vapore, un massaggio. Dammi dieci minuti.» «Sì, signore», rispose Curly, e scese al piano di sotto per accendere la sauna. Il don si tolse il pigiama e azionò lo sciacquone, poi tornò in camera sua, quasi sicuro di trovarci Dominic seduto sul letto ad aspettarlo. Ma era ancora solo. Dominic avrebbe scelto lui l'ora e il luogo, quando fosse stato pronto lui, nel momento in cui si fosse sentito sicuro. Nel frattempo i picciotti potevano mettere sottosopra la casa, non l'avrebbero trovato. Seimila metri quadrati su tre piani, un'infinità di posti nei quali nascondersi pur non conoscendo a menadito la disposizione della casa. In quel periodo il genio di Dominic consisteva nella sua abilità di adattarsi alle circostanze pur concentrandosi come un predatore affamato sui propri bisogni immediati. La sua forza era la sua crudeltà, che in fondo era un tratto di famiglia, esaltata a proporzioni terrificanti. Don Aldo infilò il pesante accappatoio di spugna e dal cassetto del comodino prese la pistola, una calibro 38. L'arma non faceva un rigonfio visibile nella tasca destra dell'accappatoio, soprattutto se ci teneva sopra la mano per nasconderne l'inconfondibile sagoma. Curly, in pantaloni di cotone bianco e maglietta sotto il camice sbottonato, salì a cercarlo. Si servirono del piccolo ascensore e poi si diressero verso l'ala di ricreazione della casa che ospitava, assieme alla sala giochi e a un grande salone da pranzo per le feste, anche una piccola palestra e il complesso della piscina: era composta di una grande sauna, con la vasca gelata accanto, di una doccia e una stanza per i massaggi con alcuni armadietti contro una parete. La temperatura della sauna superava i novanta gradi quando don Aldo vi entrò e si tolse l'accappatoio. All'interno, sulle panche disposte su due livelli, c'era posto abbastanza per ospitare una dozzina di corpi nudi. Fischiettando, Curly andò nella stanza dei massaggi per scaldare gli asciugamani e disporre le creme. Il don versò un mestolo di acqua fredda sulle pietre roventi e prese posto su una panca. Venti minuti di caldo erano il massimo che gli fosse concesso. Quando uscì dalla sauna, con l'accappatoio su un braccio e la mano sulla pistola, si guardò attorno attentamente, ma Dominic non c'era. Curly, intanto, era ancora che fischiettava nella stanza dei massaggi dietro le docce; don Aldo ebbe una rapida visione del
camice bianco prima di appoggiare l'accappatoio sul muretto piastrellato accanto alla vasca fredda. L'acqua verde e lattiginosa era profonda due metri, trenta centimetri più dell'intera statura del don; il diametro era di circa due metri e mezzo. La temperatura dell'acqua, venti gradi, gli mozzò il fiato quando ci saltò dentro, tappandosi il naso. Rimase sott'acqua il tempo necessario per sfiorare con la punta dei piedi nudi il corpo sul fondo. Aprendo gli occhi e sforzandosi di guardare attraverso l'acqua resa opaca dai minerali, don Aldo vide Curly, nudo fino alla cintola e con una ferita di pugnale ancora sanguinante sotto la scapola destra. Nei pantaloni aveva infilato, per tenerlo sul fondo, un disco da venti chili preso dalla barra dei pesi poco distante. Don Aldo riemerse in superficie tossendo e annaspando alla ricerca dell'accappatoio che aveva lasciato sul bordo della vasca, ma non c'era più. Al suo posto era seduto l'Angelo della Morte che, protendendosi sopra di lui, lo sospinse di nuovo sott'acqua. Chiunque può fischiettare, pensò il don, cercando di mantenere il controllo dei nervi e di non lottare per sottrarsi alla morsa, sprecando preziose energie; questo non poteva essere quello che Dominic aveva in mente per lui, non poteva desiderare di annegarlo nella vasca. Aveva ragione; dopo pochi istanti suo nipote lasciò andare la presa alla testa e il don riuscì a tirare fuori il naso quel tanto che bastava per prendere fiato. Tuttavia non riuscì a trovare una presa sufficiente sulle piastrelle viscide e la scala era fuori portata. «Dominic... tu... che cosa... stai cercando...» «No, non Dominic. Sono Angel.» «Angel... che razza... di nome idiota ti ha dato... tua madre...» «Angel mi piace.» «E va bene... va bene... perché... perché vuoi... spaventarmi così?» «Voglio solo parlarti in un posto dove tu non possa farmi scherzi.» «E parliamo. Ma... prima fammi uscire.» Angel scosse la testa, tranquillo, assorto, un ginocchio sul pavimento, il gomito puntato sull'altro. «Dom...» fece per dire il don e mandò giù acqua; stava facendo una danza macabra sulle punte sopra la schiena di Curly, cercando di servirsi della muscolatura poderosa del massaggiatore come trampolino. Ma, via via che la lotta si protraeva, sentiva che le forze gli mancavano. «Angel, okay. Noi siamo... siamo la tua famiglia. Giusto? Nessuno... vuole... farti del male.
Solo aiutarti.» «Sì, è proprio quello che mi serve. Aiutami, nonno.» «Angel... sto annegando.» Angel scosse di nuovo la testa, non era d'accordo. «Non ti lascerò annegare. Prima dimmi quello che voglio sapere.» «E come faccio? Io... io devo proteggerti, Angel, devo proteggerti... da te stesso.» I piedi di don Aldo mancarono la presa sulla schiena di Curly e finì di nuovo sott'acqua con la testa, urtando malamente contro il bordo della vasca. Dell'acqua gli andò nei polmoni e riemerse in superficie tossendo orribilmente, senza che l'espressione sul volto dell'Angelo della Morte mutasse, sia pure impercettibilmente. «Voglio mia moglie. Mio figlio. Dimmi dove sono, nonno.» «Stammi a sentire... sai anche tu quello che hai fatto... a lei, ci ha quasi rimesso la vita...» «Ma mi dispiace di averlo fatto. Non le farei mai più del male.» «Tu non... non ti controlli», disse il don, calpestando la testa di Curly. Le labbra gli tremavano in maniera irrefrenabile. «C'è una bestia dentro di te. Io... anch'io ho ucciso degli uomini, ma... mai per il mio piacere.» «Mi ami, nonno?» «Io non... non li tradirò. Non... non alimenterò la bestia che c'è in te.» L'Angelo della Morte lo studiò con espressione grave, la fronte appena accigliata. E finalmente il don riuscì a trovare una presa sia pure minima sull'orlo delle piastrelle. Rimase il più possibile immobile nell'acqua, la testa rovesciata all'indietro, lo sguardo fisso in quegli occhi d'ambra. Nessun essere umano dovrebbe mai avere occhi così, pensava intanto. Sapeva che se fosse andato sotto un'altra volta sarebbe stata l'ultima. Alla fine Angel disse: «Li troverò comunque. Arrivederci, nonno». Protese entrambe le mani. Il don chiuse gli occhi, rassegnato, convinto di avere agito per il meglio. Le mani forti di Angel lo afferrarono sotto le ascelle e lo sollevarono. In un attimo fu fuori della vasca. Le ginocchia non lo ressero. Angel dovette tenerlo in piedi con una mano mentre sfiorava con le labbra la guancia fredda e tremante del don. Don Aldo sentì uno strappo improvviso, una fitta di dolore nei genitali, con la coda dell'occhio colse qualcosa, un tonfo, scorse una forma vagamente familiare galleggiare sull'acqua, seguita da un sottile filo di sangue. Sulla parte interna delle cosce sentì uno sconvolgente flusso caldo. Fissò negli occhi l'Angelo della Morte.
«Tu... mi hai ucciso?» Non aveva visto il coltello. Angel era stato troppo veloce per lui. Ma Angel scosse la testa, come se il nonno avesse appena pronunciato un sacrilegio. «Sei il don di tutti i don», affermò. «Ti rispetto troppo per ucciderti. Ti ho solo tagliato l'uccello.» 10 La serata di Carl non era andata così bene come si era vantato che sarebbe andata. Si era incontrato con Wink Evergood e con le ragazze per cena e Cindalou gli aveva dimostrato di essere felice di vederlo rannicchiandosi contro di lui sul divanetto del separé dalle luci fioche, lanciandogli occhiate cariche di significato e ridendo con voce bassa e sexy alle sue battute, lasciando che lui ordinasse anche per lei dal menu formato gigante con la copertina in similpelle. Poteva avere più o meno ventun anni e lavorava alla First Federai, dove Carl teneva il contante locale. Aveva una pettinatura semipunk, bocca sensuale e stravaganti occhi peccaminosi. Vistosi gioielli falsi, calze nere traforate, minigonna aderente, lunga giacca sopra una trasparente camicetta color lavanda. Carl le aveva comperato del profumo di marca, quarantanove dollari l'oncia, e adesso la ragazza puzzava per davvero, doveva esserselo versato tutto addosso in una volta sola. Eppure la serata andò in malora, fra le crèpe Newburg e i filetti al bacon. Cindalou era stata chiamata al telefono ed era tornata al tavolo premendosi le mani sullo stomaco, la bocca spalancata, lampi di isterismo negli occhi. Kent, il suo ex marito, diffidato dal tribunale ad avvicinarsi a Cindalou o alla loro figlioletta di quattro anni Shanda, si era fatto vivo al campeggio per roulotte nel quale viveva Cindalou con la figlia e la zia nubile, aveva tirato su la bambina e se l'era battuta con il suo furgone. Prima che Carl, Wink e la sua ragazza riuscissero a tirarla fuori dal ristorante e a calmarla un pochino, Cindalou era in preda a una vera e propria crisi di nervi. Carl aveva dovuto prendere il comando della situazione. Chiamarono la polizia e il legale di Cindalou, che corse a raggiungerli al pronto soccorso dell'ospedale, dove alla giovane era stata praticata un'iniezione calmante. La fermata successiva fu la stazione di polizia per sporgere denuncia con una Cindalou tramortita, biascicante e sudaticcia. Più o meno in quel momento erano arrivati Kent, ammanettato, e la piccola Shanda, in camicia da notte di flanella, una bambola stretta al petto,
gli occhi vigili e attenti a tutto quello che capitava. Un poliziotto della stradale aveva fatto un controllo di routine allo sgangherato furgone Volkswagen di Kent, fermo sul ciglio della Interstatale 10 a circa dodici miglia da Gulfport e aveva trovato Kent sdraiato sotto il veicolo che, con l'aiuto di una torcia elettrica, stava cercando di sistemare l'asse dello sterzo. Finito di controllare patente e documenti, il poliziotto aveva chiamato la centrale per un'ultima verifica ed era stato a quel punto che Kent se l'era data a gambe per una stradina laterale, senza peraltro andare troppo lontano. Kent era alto circa un metro e settanta, eccessivamente magro, con una cattiva disposizione d'animo, il tipo d'uomo che in un certo senso rimane per sempre vittima di se stesso. Alla sua vista Cindalou si era rianimata e aveva cercato di cavargli gli occhi con le unghie aguzze. Era seguito un parapiglia indescrivibile e Shanda, alla ricerca di attenzioni, aveva strillato più degli altri fra le braccia di una donna poliziotto. A quel punto Kent era andato a pezzi, aveva attaccato a farfugliare dicendo che conosceva i suoi diritti, perdio, e che se anche nessuno era disposto a dargli un'opportunità decente in quel mondo schifoso non potevano comunque tenerlo lontano da sua figlia perché Shanda era tutto quello che gli rimaneva in quella schifosa esistenza fetente. Che serata fantastica. Era mezzanotte e un quarto passata quando Carl era riuscito finalmente a venire via dalla stazione di polizia per scoprire che la sua fortuna non era migliorata. Giunto al Murray's Driftwood, aveva appreso che Rochelle, la nera alla quale intendeva fare la festa quella sera, aveva avuto un attacco di emicrania ed era tornata a casa in anticipo. E dove abitava? Nessuno lo sapeva. Così Carl era tornato a casa, dove era arrivato all'una e un quarto del mattino. Il camper era buio. Luci accese in camera di Anita. A quel punto si disse, che diavolo, quanto meno potevano fare uno spuntino insieme a base di salsiccia e salame di cinghiale selvatico della Sardegna e stappare una buona bottiglia di rosso dell'Etna e forse... forse... Ma non. appena ebbe bussato alla porta Anita gli aveva risposto con voce ferma: «Sto andando a letto, Carl», e anche quell'argomento fu chiuso. Di umore perfido, Carl si era deciso ad andare a letto, calcolando che era la terza notte, dal 4 luglio, in cui non era riuscito a soddisfare il suo feroce appetito di passera. Si svegliò verso le sette del mattino dopo una notte di sonno non particolarmente buona e subito si sentì fuori posto, intirizzito poiché il termosifone elettrico della sua camera non si era acceso. Sentì il motore di un motoscafo e andò alla finestra rabbrividendo nel pigiama per dare un'occhiata. Vide Clay Tomlin lasciare il molo sul barchino a fondo piatto con un son-
nolento, sputacchiante Evinrude montato fuori bordo. Il sole era appena spuntato, ma era già tardi perché i pesci abboccassero fra le radici contorte e i canneti e anche nelle pozze profonde ai margini della palude. Magari stava solo andando a dare un'occhiata alla sua proprietà. Carl si chiese se il tipo si rendesse conto di quello che aveva sotto il sole. Con l'idea di fare un'offerta al suo fantomatico padrone di casa, Carl aveva fatto alcune ricerche sulla proprietà e l'aveva trovata priva di vincoli, con una linea ereditaria diretta che risaliva fino a Tobias Park, il bisnonno materno di Tomlin. In origine la proprietà era stata ancora più imponente: 1128 acri di terreno boschivo, palude e fascia costiera; l'intero lotto, salvo 247 acri circa, era stato donato o venduto al governo federale perché venisse trasformato in parco nazionale per la difesa della flora e della fauna locali. Un territorio vergine protetto e che tale sarebbe rimasto per sempre. Carl era completamente a favore, era sensibile alle istanze ecologiche e chi, in fondo, sarebbe potuto essere a favore di una costa trasformata in una gettata di cemento con l'acqua del golfo che puzzava come quella di un cesso fino a cinquanta chilometri al largo? Bastava guardare che cosa ne era stato del Mediterraneo dopo meno di un secolo di inquinamento incontrollato. Andavi a farti un tuffo in uno dei paesini più belli del mondo e avevi ottime probabilità di uscirne con qualche malattia della pelle. Ma rimanevano ancora eccellenti possibilità di sviluppo in quella parte del mondo, se opportunamente gestite. La maggior parte della proprietà di Tomlin era edificabile e alcuni rami del delta e della laguna potevano essere facilmente riempiti. Port Bayonne era una zona in rapida crescita. La gente veniva ancora volentieri da quelle parti, attirata dalla clemenza e dalla brevità degli inverni e anche perché la Florida stava diventando così affollata e pericolosa. Molti di loro cercavano e potevano permettersi case lussuose, e da quelle parti c'era una dannata carenza di abitazioni dotate di bella vista e di facile accesso alle acque ancora pulite del Mississippi. Certo la zona era soggetta alla furia devastante degli uragani del golfo, ma il piccolo arcipelago di isole poco al largo delle coste rappresentava una sia pur modesta protezione. Carl si era già immaginato un insediamento edilizio da miliardari, sofisticato e costoso, con un campo da golf alla Jack Nicklaus. Aveva azzardato un paio di offerte a Mace Lefevre senza cavarne un ragno dal buco: Mace aveva risposto senza tanti complimenti che Tomlin non era disposto a vendere. Ma la natura stessa di Carl lo portava a diffidare della posizione strategica di Mace in una trattativa. Amico d'infanzia di Tomlin; un vero mago della finanza malgrado il suo stile senza pretese.
Ammanicato con i pescecani locali, i pezzi grossi di Cosa Nostra. Non era da escludere che avesse messo gli occhi sulla proprietà molto prima che Carl spuntasse all'orizzonte. Lui poteva permettersi di prendersela comoda, di convincere piano piano Tomlin a mollare l'osso. Gesù, il tipo era appena sulla quarantina, aveva volato per anni, non ci si liberava di una droga come quella nel volgere di una notte. L'opinione di Carl era che Tomlin sarebbe arrivato presto a desiderare il genere di vita e di azione acquistatali con quattro o cinque milioni di dollari di contante. Diamogli un paio di settimane di pesca e nostalgia e la strada sarà sgombra. Nel frattempo la strada che non era sgombra era la sua, considerazione che riportò di botto Carl alla realtà... rendendolo di nuovo nervoso. L'indomani sera sarebbe arrivato un altro carico. Il primo era andato liscio come l'olio, due milioni e mezzo distribuiti su una mezza dozzina di diramazioni: Wink, suo cugino Tom Paul che, a sentire Wink, sapeva tenere la bocca chiusa, il pilota dell'elicottero che avevano reclutato per l'occasione e i contatti di Carl a New Orleans che avevano organizzato l'acquisto. Il secondo viaggio sarebbe stato anche l'ultimo. Gli sforzi congiunti della marina degli Stati Uniti e della squadra narcotici della guardia costiera si stavano rivelando troppo efficienti in quella parte del golfo. Era molto più facile far passare nelle maglie della rete una barca come quella di Wink che un piccolo aeroplano, ma non era da escludere che qualche radar a lungo raggio e a infrarossi tenesse sotto controllo il canale dello Yucatan. Conta sulla fortuna una volta di troppo, diventa ingordo, e ti trovi in galera diritto come un fuso. A ogni modo sarebbe stato Wink a occuparsi del pilota, cosa che avrebbe anche potuto accelerare la sua decisione di andarsene di nuovo di lì, nel frattempo non sarebbe stata una brutta idea se Carl avesse elaborato una proposta che lui potesse cogliere al volo. Sostanzialmente si trattava di riuscire a scoprire che cosa volesse Tomlin per arrivare all'offerta giusta. Quelle riflessioni su una transazione che la famiglia non avrebbe potuto che approvare, una transazione che sicuramente avrebbe aumentato le sue quotazioni e avrebbe meritato al suo nome un posto nella lista di quelli che contano, risollevò il morale di Carl. Sentendo lo stomaco brontolare, ripensò alla bistecca che non era riuscito a mangiare la sera prima. Infilò la vestaglia di seta a pois e scese al piano di sotto per vedere che cosa aveva Opal da offrire quella mattina, oltre a un gelido buongiorno. Quella mattina Tomlin era uscito dal camper prima del tempo, tanto che
a malapena era stato in grado di arrivare al molo senza cadere. Ancora adesso stentava a vedere chiaramente mentre guidava la barca lungo il canale che si faceva sempre più stretto via via che si addentrava nell'entroterra e si divideva in mezzo all'erba alta in numerosi canaletti color bronzo, alcuni dei quali profondi appena mezzo metro e separati da brevi lingue di terra ricoperte da una rigogliosa vegetazione che erano la dimora di procioni, opossum e armadilli, del ritroso, stoico alligatore e di tante specie diverse di uccelli da non riuscire a ricordarne neppure la metà, anche se riusciva a scorgerli tra il fogliame lussureggiante dei canneti o appollaiati fra le fronde degli alberi. Alle sue spalle il sole era una palla arancione, ancora indistinta, sopra l'orizzonte, come se la vedesse attraverso una fitta nebbia. La prua stessa della barca, a meno di tre metri da lui, era confusa. Ma la vista stava tornando, lentamente, via via che la luce si faceva più intensa. La pace della mente nella fredda immobilità della palude. La purificazione dalla paura con la quale ogni mattina si svegliava, sempre troppo presto e nell'oscurità, che quello fosse il giorno in cui la vista non sarebbe tornata affatto. Malgrado le rassicurazioni degli specialisti, ancora non aveva imparato a gestire la paura; una paura che gli torceva i visceri. Tutte le altre volte in cui aveva avuto paura in vita sua... e numerose, non c'era che l'imbarazzo della scelta (il primo atterraggio sul ponte di una portaerei di notte, la prima volta sotto il fuoco nemico in Vietnam, occasioni con un fattore di pericolosità dieci)... la paura era scemata con la fine dell'impresa. Ma non c'era fine prevedibile alla prospettiva di vivere privato della vista dal tramonto del sole all'alba, con quella sottile incertezza che rendeva così terrificante e alla fine distruttivi la lotta e il possibile epilogo. Psicologicamente era quasi al punto di rottura, all'impotenza verso se stesso e verso gli altri. Di tanto in tanto affiorava una vena insidiosa di autocompassione e di disperazione morbosa che spesso non percepiva a tempo per difendersene. Ma oggi è una buona giornata, pensò Clay. Sarà caldo e sereno e durante le lunghe ore di luce arriverò quasi a dimenticare che cos'è l'oscurità. Superato un gomito ed entrato in un canale di circa dieci metri di larghezza, si accorse di avere compagnia, un uomo in una barca più piccola della sua. E colse un lampo di luce proveniente dai riflessi del cappello ornato di specchietti che l'altro pescatore si era tolto in un cerimonioso saluto. «Buongiorno, signor Clay.» Tomlin spense il motore e si lasciò portare dalla corrente. «Mangiano
oggi, Wolfdaddy?» «Più che mangiare annusano. Esca viva. Qualche gamberetto appena pescato, non uso altro.» Wolfdaddy, il filosofo della palude, l'uomo per il quale il pesce nell'acqua costituiva un piacere più tangibile di un pugno di monete in tasca. «Ti secca se mi fermo anch'io da queste parti e provo la fortuna?» «No, signore! Ancora venti minuti, forse, prima che smettano di mangiare. Ma se non prendi le trote al mattino, ebbene, ci sono le carpe al pomeriggio; così diceva sempre suo padre. Se non chiediamo troppo, se non vogliamo troppo, ebbene, allora ce ne sarà sempre abbastanza.» «Già, diceva proprio così», rispose Tomlin, ripensando al suo vecchio, rimpiangendo che non fosse ancora vivo per scambiare quattro chiacchiere con lui. Il vecchio era in grado di dare un nome a tutti gli uccelli che facevano sentire la loro voce. Era in grado di dirti che il martedì successivo, alle cinque e trentasette del pomeriggio, nel momento in cui la marea cominciava a cambiare, salendo esattamente di dodici centimetri e mezzo, in una pozza all'estremità est della radura a cento metri da Petit Bois i cefali sarebbero arrivati in quantità sorprendenti. I pesci sono creature abitudinarie, quindi era più questione di osservazione e conoscenza delle maree che di preveggenza, ma quello era stato proprio il punto forte del vecchio: prima l'osservazione, poi l'azione. L'emozione più grande che riuscisse a ricordare dei tempi dell'infanzia era quando il vecchio gli diceva, guardandolo negli occhi e non senza una grande comprensione: Capisco, è duro, ma tu sei più duro. Forse suo padre aveva capito qualcosa di lui di cui ancora non era sicuro egli stesso. Era consolante pensarlo. Seduto al tavolo della cucina, Tony mangiava Frosted Flakes e rileggeva una lista di parole sulla cui ortografia sarebbe stato esaminato più tardi; quasi non si accorse dell'arrivo di Carl e quando questo scherzosamente gli chiese se conoscesse esattamente l'ortografia di «fantastilione», Tony gli rispose che non era nella lista delle sue parole e che quindi non era necessario. Carl sentì che il sorriso gli si gelava. Ordinò a Opal la colazione addentrandosi di proposito nei minimi dettagli di come voleva che fossero cotte le sue uova, cosa che la irritava profondamente; ma chi cavolo le pagava lo stipendio, in fondo? Rivolgendosi di nuovo a Tony, disse: «Non ho dimenticato i tuoi Garbage Pail Kids, li ho di sopra, e forse te li darò quando ti deciderai a essere un po' più carino con me». Tony seguitò a ignorarlo, muovendo laboriosamente le labbra per ripassare l'ortografia delle paro-
le. Carl si versò una tazza di caffè, prese una brioche alla cannella e se li portò nello studio. Voleva controllare il bollettino del computer, suo unico legame, oltre a rare chiamate da qualche telefono pubblico, con la famiglia. 11 Anita era sotto la doccia e pensava alla scuola di Tony, come sempre faceva ogni mattina. Era molto più avanti del suo livello nella lettura e nella matematica, tanto che l'aprile precedente aveva passato con novantotto su cento gli esami da privatista. I suoi progressi con alcune delle materie di quarto grado che gli stava insegnando adesso la sorprendevano, malgrado il suo quoziente d'intelligenza. Era diligente e perfezionista, forse troppo esigente con se stesso quando non riusciva a capire qualche cosa al volo, come alcune semplici equazioni di algebra alle quali aveva appena cominciato ad applicarsi o la grammatica francese. Anita era soddisfatta dei progressi di Tony e al tempo stesso in certi momenti si sentiva a disagio perché sapeva che alla sua educazione mancava qualcosa di molto importante: la socializzazione con altri bambini della sua età, l'atmosfera positiva e stimolante di un'aula. I suoi scoppi d'ira, i suoi musi, le sue depressioni erano in parte il risultato della mancanza di amici e del suo isolamento alla baia. Anita aveva studiato con cura il sistema scolastico di Port Bayonne e l'aveva giudicato mediocre. In una scuola così suo figlio non avrebbe ricevuto gli stimoli intellettuali fondamentali per la sua educazione. Quello era il primo punto negativo, ma la sua decisione di tenerlo a casa era in buona parte emotiva. Sapeva che non avrebbe sopportato la tensione di averlo lontano per sette ore al giorno. Quella notte aveva sognato di tornare a casa, una grande riunione di famiglia. Suo padre, i suoi fratelli e le sue sorelle, tutti i nipoti, alcuni dei quali non aveva mai visto, neppure in fotografia. C'erano tutti, nella grande casa di Sheepshead Bay. Poi il sogno aveva preso una brutta piega; la casa si era riempita di fumo, ma nessuno riusciva a trovare il fuoco. Soltanto Anita sapeva dov'era scoppiato il primo focolaio dell'incendio, dove il fuoco stava ardendo senza controllo. Nella sua camera da letto. Il fuoco aveva consumato tutti i suoi tesori più preziosi, aveva distrutto ogni traccia di lei da bambina: la sua collezione di bambole Madame Alexander, il vestito della prima comunione, i suoi diari di adolescente, le foto e i manifesti con l'autografo di divi del cinema e della televisione o rockstar che uno zio,
agente di William Morris, aveva ottenuto per lei. Anita, con il cuore spezzato, singhiozzava nell'ingresso pieno di fumo di una casa dalla quale tutti gli altri erano fuggiti, per sempre. Un sogno triste più che spaventoso, di una tristezza che le era rimasta anche dopo essersi svegliata e che tardava a dileguarsi malgrado l'effetto tonificante della doccia. Un sogno migliore, comunque, di certi altri, come quello in cui telefonava, dava il codice e la voce all'altro capo del filo, familiare e terrificante, diceva: «Spiacente, niente messaggi questa volta: sono tutti morti, fino all'ultimo membro della famiglia». Oppure quello che aveva luogo nella metropolitana di Brooklyn e il treno si fermava sotto l'East River; di botto si ritrovava sola nella carrozza deturpata dalle scritte, con nessun altro in tutto il treno all'infuori di... Anita chiuse l'acqua e con uno strattone aprì la tenda della doccia. Si trovò davanti Carl, con la sua vestaglia da damerino sopra il pigiama, immobile sulla porta della camera da letto, gli occhi sbarrati, un'espressione colpevole, un'espressione da cane bastonato di chi è consapevole di fare una cosa sbagliata per la quale sa già che verrà punito. Con uno strattone richiuse la tenda per nascondere la propria nudità e tremando esclamò: «Il mio bagno è zona proibita per te, Carl. Adesso e sempre, e farai bene a non dimenticarlo, maledizione!» «Ho bisogno di parlarti, Anita», rispose Carl. «Puoi aspettare!» «Ecco l'asciugamano, perché non ti asciughi?» Prese il grande telo ripiegato che aveva lasciato sul comò e glielo passò; Anita glielo strappò di mano con un gesto irritato. «Ci vediamo di sotto, adesso lasciami vestire.» «Angel è fuori», disse Carl. Anita rimase immobile in piedi nella vasca; l'asciugamano premuto contro la tempia con una mano, cercava di respirare. Inutilmente. La sua reazione non fu di paura, in un primo momento, ma di profonda amarezza: Perché non sono riusciti a tenerlo? Poi arrivò il panico, la testa le girava, si sentì mancare, annaspò con la mano libera nel tentativo di sostenersi alla tenda della doccia come se potesse essere un sostegno sufficientemente solido. Mancandole l'appoggio, perse l'equilibrio e, tirandosi dietro alcuni anelli della tenda, cadde in avanti fra le braccia di Carl. «Ehi, ehi.» «Sto bene», boccheggiò. Carl le aveva passato un braccio attorno alla vita, fra i loro due corpi l'unica barriera era l'asciugamano. «Dov'è?» Sentiva
la lingua gonfia e goffa, paralizzata alla radice. Carl cercò di prenderla più solidamente fra le braccia, ma il corpo di lei era scivoloso per la crema da bagno che usava per mantenere soffice la pelle. I suoi capelli erano raccolti sulla testa per non bagnarli sotto il getto d'acqua. Anita tentò di spingerlo via con la mano offesa, di stare in piedi da sola. «Chi lo sa? È fuggito all'improvviso; ha fatto fuori un po' di gente.» «Oh... oh, Dio.» «Ieri notte è arrivato dal Padrino.» Lui sapeva che l'urlo era in arrivo e le mise la mano sopra la bocca. Dita che odoravano di cannella. Anita ebbe un sussulto, gli occhi al di sopra della mano di lui, grande e scura, colmi di terrore. Il braccio muscoloso attorno alla vita, Carl l'aveva sollevata da terra, così che le punte dei piedi gli grattarono l'interno della gamba, una tibia. L'uccello che gli diventava duro; fino a quel momento non era mai riuscito ad averla così, ma aveva pensato spesso a come fare. Il suo terrore, ora, una sorta di stimolante che spazzava via quel poco di inibizione che rimaneva, il rispetto per i desideri del don nei riguardi della moglie di suo nipote. «No, stammi a sentire, il vecchio è ancora vivo. Non ha detto un bel niente ad Angel. Sei al sicuro. Siete al sicuro, tu e Tony. Niente paura, 'Nita.» Adesso lei si divincolava apertamente, consapevole del suo calore, delle sue intenzioni, mentre lui si chinava a baciarle il seno. L'asciugamano che scivolava sempre più giù, in un panneggio attorno alla sua erezione. Carl cercò di tirarlo via, di farsi più vicino a lei. «Su, non fare così», la esortò, labbra contro la gola. «Che male c'è, sto morendo, anche tu hai bisogno di...» La rovesciò sul pavimento, sopra il tappetino da bagno. Anita scalciava, ma aveva le gambe troppo aperte, l'asciugamano non c'era più e invece lui era lì. Carl non sospettava che avesse tanta forza nella mano destra, quella offesa, da contrastarlo, eppure sentì le sue unghie lacerargli la carne proprio sotto gli occhi e, con una smorfia, fece un balzo indietro sufficiente perché lei potesse sfuggire alla sua presa e avventarsi verso la camera da letto singhiozzando. «Te l'ho detto di non provarci mai! Mai! Vattene!» Carl balzò in piedi digrignando i denti, un'abitudine che gli era costata parecchie corone, e corse a guardarsi allo specchio per controllare i danni. Un graffio appena, un po' di sangue. Lo asciugò con un po' di carta igieni-
ca e seguì Anita in camera da letto, stringendosi addosso la vestaglia, in grado di controllare la sua lussuria ormai, malgrado il tremito. Era ferito, Anita gli piaceva davvero, non era necessario che le cose andassero così, se soltanto lei fosse stata ragionevole... se si fosse comportata come una donna normale. Anita aveva infilato anche lei una vestaglia e adesso se ne stava davanti a una delle finestre, la mascella contratta, lo sguardo bellicoso, un candeliere di peltro nella mano sinistra, combattiva, pronta a uccidere. «Cristo, Anita», gemette Carl, tamponandosi il sangue che usciva dalla ferita sotto l'occhio, «non merito un trattamento come questo.» Lei si asciugò il naso con il dorso della mano destra. Il petto si alzava e abbassava affannoso sotto la vestaglia. «Si chiama stupro, Carl. Porco fottuto. Potrei farti uccidere per quello che hai cercato di farmi.» Con un gesto della mano, Carl accantonò stancamente la minaccia e si lasciò cadere sul letto. «Oh, merda, stammi a sentire, il don e io abbiamo fatto un bel discorso prima che mi mandasse quaggiù. Gli ho detto, sapete, che cosa succede se... E lui: basta che tu non le faccia male. Tutto qui, non vuole solo che tu soffra, per il resto lascia che la natura faccia il suo...» «Chiudi il becco, Carl. Sta venendo qui, vero?» Senza capire, Carl chiese: «Il don?» «Ma no, Angel, idiota!» «Perché non la fai finità con questo linguaggio, Anita? In fondo dobbiamo ancora andare d'accordo noi due, non ti pare? Quindi adesso calmati. Perché non c'è modo che Angel possa...» «Non mentirmi! Oh, Dio, non raccontarmi queste storie, Carl!» Cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza, alla ricerca delle sigarette. Le trovò. Si allontanò a distanza di sicurezza da lui, appoggiò il candeliere e accese una sigaretta. «Vorrei scusarmi per aver perso la testa a quel modo poco fa», mormorò Carl. Lei annuì, quasi con indifferenza, il volto ancora imperlato d'acqua e di sudore, il petto affannoso fra una nuvola e l'altra di fumo. La gola pulsante. «Anita. Tesoro. Anche se Angel trovasse un modo per scoprire dove sei... e, credimi, non lo troverà... non gli permetterei mai di avvicinarsi a te.» Lei si morse le labbra mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. «Tu non hai idea... di quello che può arrivare a essere Angel.»
«In fondo è solo un uomo», replicò Carl, pieno di indignazione per quei coglioni del New Jersey che, pur essendo considerati i migliori, avevano permesso che Angel rimanesse solo per dieci minuti interi con il don, che adesso non godeva proprio di ottima salute. «Ancora devo trovare l'uomo che mi metta sotto, in una maniera o nell'altra. E ne ho incontrati di tutte le risme nel quartiere, sotto le armi e nel resto del fottutissimo mondo. È per questo che don Aldo ha scelto proprio me per occuparmi di te e di Tony. Per un intero fottutissimo anno me ne sono stato qui a far niente in questa fottutissima palude. Ma... adesso è venuto il momento di mostrare che cosa so fare.» Lentamente si alzò in piedi, strinse il pugno e colpì ripetutamente la testiera del letto, la fronte aggrottata; stava cercando di essere sincero, più sincero di quanto non fosse mai stato in vita sua. «Ma tu non sei una sgualdrina qualunque per me. Devi sapere quello che provo per te e per il bambino. E allora perché non puoi...» si morse le labbra, la testiera del letto tremò «...lasciarti andare un po', Anita? Anche tu avrai del sangue nelle vene, in fondo un anno...» «L'hai vista la mia schiena?» Carl alzò lo sguardo, colto di sorpresa, dove diavolo voleva arrivare? «Già, certo, l'ho vista.» Anita, per alcuni lunghi attimi, tenne gli occhi fissi su di lui senza aprir bocca. «Scusa», borbottò Carl, mortificato per aver realizzato solo ora il significato di quello che aveva visto. «Dev'essere stato davvero terribile...» «Cerca di metterti in testa una cosa, Carl. Nessun uomo, mai, si servirà più del mio corpo. I medici lo hanno rimesso insieme, l'hanno fatto funzionare di nuovo e adesso nessuno, nessuno mi tocca.» Il gelo nella sua voce finalmente spense gli ultimi ardori di Carl, da moderato turgore il sesso gli si afflosciò completamente in mezzo alle gambe. Alzò le spalle in un gesto d'impotenza. «Proprio non capisco come facesse a essere un amante così orribile», mormorò, cercando una risposta razionale alla sua frigidità. «Angel? Amante non è la parola giusta. Il suo modo di volermi non aveva niente a che vedere con l'amore. E dopo un po' il confine fra sesso e tortura per lui non esisteva più. E adesso ti spiace lasciarmi vestire? Tony mi aspetta.» «Stai meglio ora? Capisco di essere stato un po' brusco, più di quanto avrei voluto, ma... credimi, puoi fidarti di me. Angel è a piede libero, ma presto lo prenderanno. È vero o no che ha delle crisi durante le quali sviene?»
«Una volta glien'è capitata una davanti a me», disse Anita come se le si fosse fermato qualcosa in gola. Spense rabbiosamente la sigaretta e si appoggiò alla parete, svuotata ed esausta. «Vado a prenderti una tazza di caffè», propose Carl, cercando davvero di rendersi utile. «Magari con una goccia di grappa dentro, un bel caffè corretto?» «Un caffè basterà», rispose Anita senza cambiare espressione, un nodo di paura fermo in mezzo alla fronte, in mezzo agli occhi terrorizzati. 12 Tony stava correndo in bicicletta sul viale, Big Dog dietro di lui, quando Tomlin apparve dal molo con la canna da pesca e niente pesce. Si fermò accanto al camper, lo sguardo fisso al cielo dove tre caccia dell'aeronautica, in formazione a tridente, stavano passando a meno di mille metri di altitudine. Probabilmente in rotta verso Pensacola. Li seguì con lo sguardo finché non furono troppo lontani. «Che tipo di aerei erano quelli?» gli chiese Tony alle spalle. Tomlin si voltò. Il bambino aveva messo giù la bicicletta. Aveva con sé il modellino del Corsair. «F-14. Tomcat.» «Sono veloci?» volle sapere Tony, simulando il volo e l'atterraggio con il modellino. «Molto veloci, quando accendono i retrorazzi.» «Che cosa sono?» «Potenza in più. È come se tu fossi sull'altalena, pompando con le gambe per andare più in alto e io ti arrivo alle spalle e ti do una grande spinta.» Il bambino annuì. «La scuola è finita presto oggi», osservò Tomlin. «La mamma ha detto che potevo prendermi un giorno di vacanza, recupero sabato. Non si sente troppo bene.» «Spiacente di sentirlo», disse Tomlin lanciando un'occhiata alla casa. «Tu non voli più?» domandò il bambino. «No, non posso.» Tony soppesò con cura quella dichiarazione, come se contenesse un segreto. Alla fine decise di non indagare. «E ti piacerebbe?» «Più di qualunque altra cosa al mondo, Tony.» Il bambino fece scendere in basso il suo modellino, fino quasi a toccare con le ruote la piattaforma di cemento. «È un buon atterraggio questo?»
«Devi tenere il muso dell'aeroplano rivolto verso l'alto, perché dietro hai un grosso gancio e arrivi veloce.» «E a che cosa serve il gancio?» volle sapere Tony, girando il modellino per guardare se c'era. «Okay, sul ponte di una portaerei ci sono quattro cavi. Tu devi assolutamente agganciare il terzo cavo perché quello è il punto giusto del ponte e tu arrivi a oltre duecento chilometri all'ora; quel cavo serve a fermare l'aereo in meno di cinquanta metri, anche se nel momento in cui tocchi terra hai i motori al massimo.» «Vuoi dire che freni e spingi allo stesso tempo?» chiese Tony cercando di capire la contraddizione. «A piena potenza, nell'eventualità qualcosa accadesse al cavo, oppure il gancio saltasse via. In caso contrario, non hai la minima possibilità di riprendere quota. A quel punto o cadi in acqua di lato, oppure oltre la prua o, peggio ancora, potresti avere un incidente sul ponte. E quello sarebbe terribile perché sul ponte ci sono un sacco di aerei carichi di esplosivo.» «Che cosa si...» fece per chiedere Tony, ma Tomlin lo interruppe con un gesto di impotenza. «Proprio non so descrivere che cosa si provi, Tony, devi vedere il ponte di una portaerei e devi vedere uno di questi ganci in azione per capire come funzioni la cosa. Magari posso vedere di portartici.» «Come?» «Ho detto magari. Oggi devo fare un salto a Pensacola per affari. Non sarà facile far salire a bordo della Lexington un bambino della tua età, ma... Ehi, dove stai andando?» Ma Tony era già quasi in casa, correndo all'impazzata. «A dirlo alla mamma!» Anita, in pantaloni di velluto a coste e maglione verde, era seduta a piedi nudi in mezzo al letto. Stava componendo un numero interurbano sul telefono portatile. Era un collegamento con due ponti radio via Wichita, Kansas, che richiedeva pochi secondi appena, ma che garantiva da ogni rischio di intercettazione da parte sia di professionisti sia del più appassionato dei radioamatori. La voce femminile che le rispose disse piacevolmente: «Sette sei otto due. Parli pure, prego». La pronuncia era britannica e di classe; ogni volta che la sentiva Anita pensava a sereni giardini inglesi, atmosfera familiare, tè con tanto latte, marmellate fatte in casa.
«Orfano», disse Anita. «Un attimo soltanto.» Dopo dieci secondi la voce tornò. «Roseanne ha dato alla luce un maschio il ventuno ottobre, il bambino è stato chiamato Michael Joseph. Al momento della nascita pesava tre chili e nove etti. Roseanne sta bene e ha riportato a casa il bambino l'altro ieri: Louis è stato nominato vicepresidente marketing, alla Waring-Sloane. I risultati del check-up di suo padre indicano che è in ottima salute, con un miglioramento di cinque punti nella pressione sanguigna...» «Merda», esclamò Anita tirando su con il naso. Allungò la mano alla ricerca di un fazzoletto di carta. «Prego?» fu la replica compita della piacevole voce inglese. «La pianti di leggermi quella roba. Non mi va di sentirla, non oggi. Quello che voglio... devo assolutamente mettermi in contatto con qualcuno.» «Non sono autorizzata a...» «Mi stia a sentire. Devo parlare con don Aldo, o con suo fratello John, oppure con uno dei...» «Non fa parte dei miei compiti», replicò la donna, la voce sempre ben modulata, senza la minima traccia di emozione. «Io me ne frego dei suoi... Ma possibile che non capisca che le cose sono cambiate, io... io devo sapere che cosa sta succedendo, qualcuno deve dirmi che cosa intendono fare, perché...» «Devo continuare con il resto del messaggio?» «Al diavolo il fottuto messaggio, ma non capisce quello che le sto dicendo? Ho paura, lui finirà per trovarmi. Prima o poi. Io... ho bisogno di... aiuto.» «Buona giornata», fu la risposta della voce anonima, per niente irritata, per niente allegra, solo professionale. E la comunicazione fu interrotta. Anita stringeva ancora fra le mani il telefono portatile, lo sguardo fisso alla finestra, le spalle curve, quando Tony fece irruzione nella sua camera, parlando tutto eccitato e felice per qualcosa. Cercò di riportare l'attenzione su di lui sorridendo automaticamente, ma non aveva la minima idea di che cosa stesse parlando finché non mise in relazione «portaerei» e «Pensacola» e alle spalle di Tony vide Clay Tomlin che se ne stava con aria imbarazzata sulla porta della camera che un tempo era stata dei suoi genitori. «Oh, Tony... oggi... non credo che...» «Ma, mamma! Perché no?» Anita lanciò un'occhiata all'orologio sull'alto comò Regency. «Sono qua-
si le nove e Pensacola è lontana più di centocinquanta chilometri...» «Ma Clay dice che torniamo prima che faccia buio!» Anita mise giù il telefono e si prese la testa fra le mani. «Tony, non urlare.» «Ma non sto urlando. È solo che voglio andare. Non andiamo mai da nessuna parte.» Anita guardò Tomlin. «Avrebbe dovuto consultarmi prima di invitarlo ad andare con lei.» «Me ne rendo conto», fu la risposta di Tomlin. «E so anche che cosa sta pensando. Ma perché non viene anche lei, invece? Lei è in grado di guidare.» «Guidare?» Negli ultimi tempi non era andata neppure al supermercato, lasciando che si occupasse Opal della spesa servendosi della seconda macchina, una giardinetta Olds Firenza. Non riusciva neppure a ricordare quando era stata l'ultima volta che era uscita da quella casa. Ma adesso un dolore sordo le martellava la testa, non voleva pensare a quelle cose in quel momento, né a quelle né a nient'altro. «Possiamo pranzare al club degli ufficiali», continuò Tomlin, «e se la Lex non è in porto posso sempre far fare a Tony un giro nello Sherman Field.» Vedendo che Anita non reagiva, lanciò un'occhiata al telefono che aveva in grembo. «Si direbbe che abbia appena avuto cattive notizie. Se è così chiedo scusa, non intendevo interferire.» Tony si voltò rapidamente a guardarlo, gli occhi colmi di delusione. Suo malgrado, Anita scosse la testa. «Oh, no.» Intanto si meravigliava di come riuscisse a mentire e, fatto più straordinario, della sensazione di sollievo all'idea che Tomlin fosse lì. L'ultima cosa al mondo che desiderava era che lui se ne andasse. O, nel caso lo avesse fatto, non c'erano dubbi che lei desiderava andare con lui. L'alternativa per quella giornata era Carl, così aggressivo ora che aveva una buona ragione per stare sul chi va là. Carl le avrebbe ronzato attorno tutto il giorno e magari, se lei avesse dato segni di debolezza, di depressione o di vulnerabilità, avrebbe fatto un altro dei suoi numeri, la sua risposta a ogni problema: triste, sola, spaventata fino a fartela sotto? Fatti fottere. «Insomma... è solo che mi sono svegliata con un'emicrania terribile, ma... Pensacola, tutto sommato, non è una brutta idea.» «Magnifico!» urlò Tony. Poi, constatando l'espressione sofferente della madre, fece un passo indietro. «Mi dispiace.» «Non importa. Tony, non ti sognerai di uscire con quei calzoni tutti
sporchi, corri a cambiarti. E metti le scarpe buone, i pantaloni cachi e la camicia di flanella, non fa poi tanto caldo fuori.» Lanciò un'occhiata al vecchio maglione che indossava. «Neppure io posso uscire in questo stato, giusto?» Incrociò lo sguardo di Tomlin notando che non aveva fatto il minimo caso ai suoi piedi nudi e ai capelli in disordine. «Ci dia solo venti minuti, Clay, per favore. Ci troviamo di sotto.» «Ottima idea», accettò lui, facendosi rapidamente da parte mentre Tony passava come un razzo per correre in camera sua. Carl era a bordo del suo motoscafo d'altura Davis battezzato Lollapalooza, intento a trafficare nel vano motori... stava controllando le candele, il carburatore, e un'infinità di filtri e manometri... quando gli arrivò la voce di Tony portata da un vento di sudest che non aveva fatto che aumentare nell'ultima ora. Carl non era sicuro, ma ebbe la sensazione che Tony lo stesse chiamando. Si issò faticosamente nella stretta apertura del boccaporto e sbucò all'aperto in tempo per vedere Anita sedersi al volante della Corvette bianca. Clay Tomlin era seduto sul sedile accanto al guidatore con il bambino in braccio; un attimo dopo erano partiti, prima che Carl avesse il tempo di saltare a terra e scoprire dove fossero diretti. E allora, che cosa diavolo era questa storia? Neppure una parola a lui, o magari Anita gli aveva lasciato un biglietto? Carl era irritato soprattutto perché era con Tomlin. Quel pilota. Non che fosse gasato come molti di loro, solo quel tanto di invidiabile sangue freddo che fa riconoscere al volo un uomo che ne ha viste talmente tante da non riuscire neppure a ricordarsi quante. Carl non aveva l'impressione che Anita stesse fuggendo, però, se l'era lavorata per oltre mezz'ora mentre beveva il caffè e lei non aveva aperto bocca, con quell'espressione sbattuta e tragica: condannata. Gli era parso di ridarle un po' di vita dopo averla convinta che Angel, per quanto mortalmente pericoloso, in fondo non era che un fuggitivo privo dì risorse, senza amici, isolato dalla famiglia. E se questo non bastava, c'erano le sue crisi catatoniche: era solo questione di tempo, prima o poi una l'avrebbe colto riducendolo inoffensivo e facile preda per i poliziotti. Nel frattempo Anita e Tony erano in una botte di ferro, neppure suo padre sapeva dove fossero. Carl dubitava che persino l'FBI, con tutta la sua esperienza e i suoi mezzi, sarebbe riuscito a trovarla. Angel non aveva la minima possibilità. Però aveva dimostrato di saperci fare liberandosi. Dopo la sua prima fuga era andato molto vicino al suo scopo, quasi era riuscito ad arrivare fino ad Anita quando ancora era inerme all'ospedale. Così il don aveva preso rigi-
de precauzioni. Sarebbe stato più semplice e più facile per Anita e Tony se solo il don avesse lasciato Angel al suo destino; ma Angel era carne della sua carne. Magari adesso il don aveva di che pentirsi della sua decisione. Poco più tardi, in mattinata, Carl uscì con la barca, ma non per pescare. Incontrò una piccola burrasca sulle acque basse, ma la superò senza fare una piega. Il diciotto metri della famiglia, mezzo milione accessori compresi, motore ed extra elettronici, era stato progettato non solo per le esigenze di un torneo di pesca. La Lolly era in grado di reggere a mari ben peggiori con il suo pescaggio di cinque metri e la chiglia in fibra di vetro rinforzata in Divinycell e Kevlar. L'aveva portata fino alle isole Padre Island, a ovest, e aveva in mente una crociera ben più lunga in primavera in qualche zona pescosa del Pacifico, al largo del Costa Rica. Ma naturalmente in un momento come quello non poteva allontanarsi da casa, almeno fintantoché Angel non fosse morto, o messo di nuovo in naftalina da qualche parte. La giornata era ancora soleggiata, ma grosse nubi cumuliformi si stavano addensando verso sud. La capitaneria di porto di Biloxi prevedeva venti alla velocità di venticinque nodi per il pomeriggio inoltrato e pioggia per la sera. I diesel 625 gemelli ronzavano senza perdere un colpo. Carl si mantenne a velocità moderata seguendo le indicazioni del canale fra le isole Horn e Petit Bois, poi cambiò direzione e dando la poppa al vento li spinse a trenta nodi nelle acque profonde al largo di Chandeleurs. Scelse un ancoraggio sottovento, l'orizzonte completamente sgombro di navi o imbarcazioni di altro genere. Scese nel saloncino e aprì un gavone sotto il divanetto a forma di L. Nel doppiofondo, ben conservati nella cassa di alluminio foderata di polistirolo, c'erano i suoi fucili. Li portò di sopra assieme a una cuffia antiacustica per proteggersi le orecchie e una tuta da paracadutista fatta della seta migliore. Quando fu sul ponte, allineò le bottiglie vuote che aveva tenuto come bersaglio e caricò due fucili, una futuristica mitraglietta a dodici canne chiamata Jackhammer e un più convenzionale Benelli a otto colpi attrezzato con piastra da rinculo. Caricò il cilindro di plastica usa e getta del Jackhammer con proiettili Double-O, buttò un paio di bottiglie con l'etichetta rossa, bianca e blu fuori bordo e quando si furono allontanate di una decina di metri le distrusse in mille pezzi con due rapide raffiche. I gabbiani, che sempre seguivano le piccole imbarcazioni in quelle acque, scomparvero istantaneamente. Un rumore assordante si propagò sull'acqua e Carl per primo rimase stupito dalla sua potenza. Gli fece venire la pelle d'oca. I Double-O, però, erano troppo po-
tenti per un combattimento al chiuso, le pallottole avrebbero facilmente forato una parete. Le numero 4 o 6 di tipo standard sarebbero andate meglio, soprattutto in considerazione della rapidità di fuoco del Jackhammer. Meglio tenere i Benelli a bordo e lo «Hammer» sotto il letto in casa, insieme con il Detonics 9 mm automatico di scorta. Il vecchio Mac, una di quelle affidabili carabine, nascosto sotto il sedile dell'automobile. E adesso vieni pure, Angel. Pazzo figlio di puttana. Sono pronto. Ti aspetto al varco... se riuscirai ad arrivare fin qui. 13 Camminò per un isolato e mezzo a est della Bergenline, il vento freddo gli mordeva la faccia, la linea frastagliata di Manhattan dall'altra parte del fiume gli rimandava il tramonto autunnale in un tripudio di fuochi celesti che gli ricordavano Isaia (30:27,30). E anche... a pensarci bene... la rivelazione 9 e Zephaniah. Indossava una giacca a vento da pochi soldi tirata su dal bancone di un grande magazzino della Upper West Side poche ore prima, quando la temperatura aveva cominciato a scendere, pagata nove dollari, che era quasi tutto quanto gli restava dei cinquantun dollari rubati dalla borsetta della donna uccisa nel nord dello stato di New York. Gli rimanevano in tasca tre o quattro dollari ancora, ma non si preoccupava del denaro, né di qualunque altra cosa. Si sentiva un po' stanco, dopo tutta una giornata passata a camminare nel tentativo di ritrovare l'uomo che finalmente aveva individuato qui, a Union City. Eppure, non appena si fosse messo al lavoro, lo sfinimento, l'apatia che sarebbero potuti diventare un problema se non avesse fatto attenzione, probabilmente sarebbero svaniti. Duecentosedici Quarantasettesima Strada. Non la peggiore strada della città, né il peggior palazzo dell'isolato. Da quello che aveva avuto modo di vedere, un quartiere di immigrazione, bottegucce esotiche, donne dalle grandi chiome dorate con labbra color rubino, uomini pallidi con cerchietti d'oro alle orecchie, baffetti e occhi liquidi e sfuggenti. Salì la rampa di scale d'accesso, superò una vecchia che stava portando fuori un neonato stizzoso nella carrozzina, trovò il nome sulla cassetta delle lettere, vide che il catenaccio del portoncino era rotto e udì una radio a tutto volume e voci ancora più alte. Spinse la porta ed entrò. Quattro ragazzini erano stravaccati sulle scale davanti a lui. Due ragazzi e due ragazze. L'enorme stereo portatile, come un blocco stradale, sistemato sul secondo gradino. Si fermò, le mani infilate nelle tasche della giacca a vento.
Camicia di flanella stinta, pantaloni da fatica blu non stirati, i risvolti consumati sui tacchi. Non alto, ma ben piantato. I quattro lo guardarono arrivare e giacché non lo conoscevano, non l'avevano mai visto prima, avrebbe dovuto conquistarsi il diritto di esistere, se voleva passare. Angel attese, ascoltando l'incomprensible musica rap, un linguaggio che non capiva. Le ragazze fra i quattordici e i quindici anni, una delle due molto magra e graziosa, l'altra già appesantita sui fianchi, entrambe con crespe capigliature rigogliose, fascia attorno alla fronte e sguardi scuri e torvi; i ragazzi con i capelli imbrillantinati, un accenno di peluria sul labbro superiore, liquidi sguardi cinici. L'ostentata indifferenza alla sua presenza si fece via via più elaborata, il piacere di quella situazione in rapida diminuzione via via che Angel si limitava a guardarli, immobile, né irritato né servile, niente di niente, salvo che il suo sguardo non vacillava e non una volta le sue palpebre sbatterono. I suoi occhi nella luce fioca delle scale e del sordido ingresso avevano bassi bagliori di ambra, insoliti e niente affatto piacevoli in un essere umano. Una delle ragazze spense la sigaretta e ne chiese un'altra; poi, mentre se la faceva accendere, lanciò ad Angel quattro occhiate successive. Il più grosso dei due ragazzi, con un elegante Borsalino e stretto in una giacca di pelle, cambiò posizione un paio di volte, magari preparandosi a qualcosa, l'espressione torva, ma senza guardare direttamente Angel, che aspettava paziente a poco meno di un metro di distanza. La conversazione languì, ma riuscirono a riavviarla; l'imbarazzo di entrambe le ragazze tradito da risate troppo stridule, dall'abbraccio sfacciato che la più disinvolta delle due diede al suo ragazzo cingendogli il collo con le braccia, usandolo come scudo mentre cercava di sfidare Angel con lo sguardo. Si sentivano insultati. Non aveva mosso un dito, non aveva aperto bocca, non stava cercando di dimostrare qualcosa: ma la tensione in quei pochi metri quadri in fondo alle scale era ormai al di là della sopportazione. Non riuscivano a pensare ad altri atteggiamenti strafottenti che del resto Angel evidentemente non comprendeva, come altrettanto evidentemente non aveva intenzione di andarsene con la coda fra le gambe; unica soluzione era liberarsi di lui con la forza della loro ostilità. Quattro paia di occhi contro uno. Un sogghigno appena accennato sulle labbra del grosso cubano. Poi l'Angelo della Morte li apostrofò: «Mi amate?» La musica seguitava ossessiva. L'altro ragazzo abbozzò una risata che gli morì in gola. E neppure riuscirono a guardarsi l'un l'altro fingendo in-
differenza. Quella domanda essenziale, demenziale addirittura, aveva fatto breccia nella loro insolenza di maniera, nel disprezzo per chiunque o qualunque cosa non facesse parte del loro piccolo gruppo. La più carina delle due ragazze si tirò lentamente in piedi e si appoggiò contro la ringhiera delle scale, senza togliere gli occhi di dosso ad Angel. Il ragazzo con il Borsalino si tirò la radio più vicina. Né impaurito né irritato, semmai vagamente stanco di quell'inutile gioco. Ma gli occhi scuri erano appena dilatati, attenti su Angel... quelle mani nascoste a quel modo nelle tasche. La ragazza dai fianchi pesanti diede una gomitata al suo ragazzo che, con un piccolo sospiro petulante, si tirò anche lui in piedi e scese un paio di gradini per fare posto, la sigaretta appesa a un angolo della bocca. Senza affrettarsi, Angel salì le scale e li superò. Sebbene non l'avesse neppure toccata, la ragazza contro la ringhiera sentì al suo passaggio come una scossa elettrica, infernale. Le venne la pelle d'oca. Non ci furono osservazioni pungenti al suo passaggio. Lo seguirono con lo sguardo finché non fu scomparso oltre il gomito delle scale. (Una settimana più tardi, dopo che il fetore insopportabile proveniente dall'appartamento 4B fece arrivare i poliziotti, la ragazzina cubana, quella carina, fece del suo meglio per descrivere Angel e il significato di quelle poche parole che aveva rivolto loro. Mi amate? «Bisognava sentirle dire da lui, altrimenti non significano niente. Ma a sentirlo parlare, signore, ti scappava la voglia di stargli in mezzo ai piedi. Anzi, ti scappava la voglia di stare addirittura nello stesso palazzo con uno così. Ha ucciso il tipo al 4B? Non è per la faccia che aveva, era come una sensazione che ho provato quando mi è passato accanto, che fosse capace di fare il servizietto a qualcuno, e quel qualcuno non volevo che fossi io.») Giunto al quarto piano, Angel si fermò di fronte all'appartamento B e suonò il campanello. Dopo circa un minuto capì di essere osservato attraverso lo spioncino, poi un numero indefinito di catenacci venne girato e la porta si aprì per lasciarlo entrare. «Credevo che ti fossi perduto. Entra. Quanto tempo, dove ti sei cacciato?» Era un ometto triste e trasandato, con spessi occhiali con le lenti sporche. Si chiamava Paul Baldric. Angel fece un paio di passi nell'angusto ingresso e disse: «Sono stato trattenuto». Baldric ridacchiò come se fosse quello che ci si aspettava da lui, ma non colse l'umorismo di quell'osservazione. Richiuse la porta rivestita d'acciaio e ripeté il rituale dei catenacci
prima di fare strada ad Angel nel soggiorno, che era nel caos più totale: mobili sgangherati, piatti sporchi sul tavolo, un televisore con un'immagine che aveva problemi di sincronizzazione. Baldric si affrettò a spegnere l'apparecchio. «Non trovo mai il tempo di far sistemare quell'affare. Sai niente di televisori tu?» «No.» Baldric si girò verso Angel strofinandosi le mani come se avesse problemi di circolazione, sebbene non dovesse avere più di trentacinque anni. E non faceva neppure particolarmente freddo nell'appartamento. Aveva il naso chiuso e il pallore di chi non esce mai all'aperto. «Allora, mmm, al telefono mi hai detto che hai un problemino. Che cosa posso fare per te?» Quel per te appena sottolineato, una punta di servilismo. «C'è un computer che ho bisogno di individuare», rispose Angel. «E nel nord del New Jersey.» «Questo indubbiamente restringe il campo d'azione», commentò Baldric, annuendo vigorosamente. «È probabile che abbiano modificato la sicurezza, ma il sistema l'ho progettato io. Sono certo che non ci metto niente a trovare la parola chiave una volta entrato.» Baldric fece un passo indietro, ormai si torceva apertamente le mani. «Non facile. Come, AT&T, diciamo? Un'operazione così potrebbe mettermi nei guai. L'FBI mi ha già fiutato per pirateria, anche se sanno che non l'ho fatto a scopo di lucro; al diavolo, lo sai anche tu, quegli analisti missilistici alla JPL non hanno il minimo senso dell'umorismo.» «No, non finirai nei guai.» Baldric tirò su con il naso gocciolante e si frugò in una tasca del golf che aveva indossato sopra la canottiera, alla ricerca di un fazzoletto di carta. «E va bene... quand'è così okay. Vieni con me.» Fece strada ad Angel verso una stanza, anche questa munita di catenacci, accanto alla camera da letto nella quale non c'era altro che un lacero materasso sul pavimento. Aprì la porta del suo santuario e accese le luci fluorescenti. In contrasto con il resto dell'appartamento, la stanza era in perfetto ordine, gremita di computer e scintillanti attrezzature elettroniche; sugli scaffali di metallo erano allineati tabulati e manuali. «Ho tutte le periferiche che ti occorrono», annunciò Baldric. «Teletype, processori digitali di segnali ad alta velocità.»
«Niente male», commentò Angel. «Un sacco di soldi.» «Oh, sai, ho lavorato qualche mese alla Disney, nel settore intensivodigitale del nuovo centro di ricerca, ho fatto su un po' di quattrini. Nessuno scrive codici meglio di me, tranne i presenti, ma non me la passo troppo bene in un ambiente controllato, è questo il problema con noialtri vecchi maniaci pirati, giusto? Magari posso darti una mano, ho sentito che sei il migliore con i codici segreti.» «Ma certo», concesse Angel e, dopo essersi dato un'occhiata in giro: «Posso andare al gabinetto?» «Quella porta.» Baldric gli fece strada ed entrò per primo nel bagno privo di finestra e tirò la cordicella che serviva per accendere la lampadina centrale. Mentre gli voltava le spalle, Angel fece un paio di passi veloci facendo scattare la sicurezza del coltello a serramanico e gli fu addosso. Nessuna emozione. Infilò la lama tutta intera nel collo di Baldric e quando questi boccheggiando si afflosciò in avanti sull'orlo della vasca da bagno, cercando di portarsi una mano alla gola, Angel fece un altro passo avanti e gli infilò la lama fino all'impugnatura proprio sotto la scapola destra, angolata in maniera tale da trafiggergli il ventricolo. Ritirò il coltello, lo appoggiò nel lavandino, prese Baldric per le caviglie e lo sospinse nella vasca. Mentre Angel faceva scorrere l'acqua nel lavandino lercio per ripulire la lama del coltello, Baldric cercò di sollevarsi, la testa ciondolante come quella di un neonato. Con il cuore trafitto e il respiro convulso, Baldric morì senza parlare mentre Angel scaricava la vescica. Dopo avere tirato lo scarico, Angel chiuse la tenda di plastica attorno alla vasca da bagno e aprì l'acqua per liberarsi del sangue. Eseguite queste operazioni, tornò nel laboratorio di Baldric e sedette davanti al computer, un clone IBM da quattro mega. Lo accese e per alcuni secondi rimase seduto paziente davanti alla console, le mani sul ripiano, in contemplazione delle luci, ascoltandolo mettersi in funzione, il monitor ancora scuro e incapace di rivelargli i suoi segreti. Ma con il tempo Angel avrebbe scoperto qualunque cosa altri uomini avevano confidato alle loro macchine. Era giunto alla fonte, all'essenza del suo vero amore. Al suo desiderio. Ma c'era qualcosa nelle sue narici, un profumo di donna giovane, accompagnato dall'immagine della piccola cubana dagli occhi scuri e dalle tette prepotenti sulle scale; nel passarle accanto la sua pelle aveva raccolto una traccia indelebile, una parte del suo flusso sessuale. Si sentì la gola stretta dalla forza della sua erezione in un momento in cui l'unica cosa che desiderava era liberare la mente per vagare senza vincoli nella vastità del mondo elettronico, nella macchina uni-
versale che cominciava nel tocco delle sue dita. Per anni aveva pensato che fosse possibile, con il suo intelletto, la sua conoscenza dei circuiti, algoritmi e combinazioni incrociate, fondere la sua mente nell'universo di silicio, scoprire i segreti che un cervello umano da solo non può neppure concepire. Aveva un compito importante da svolgere, ma ecco (di nuovo) l'indesiderata distrazione, il bisogno della carne. La carne che, lo sapeva, era volgare, bassa e volgare come il fango, spesso pestilenziale e sempre, alla fine, deludente. Il mistero che ancora non era riuscito a risolvere, malgrado le sue innumerevoli dissolutezze, era come facesse la carne a essere anche così misteriosamente, dolorosamente attraente. Tante tentazioni al mondo. Le interrogava incessantemente, ma non ascoltava le loro risposte: la carne rispondeva per loro. L'amore lo circondava. Tutti, uomini e donne, lo volevano. Ma un uomo solo non poteva purgare tante impurità, come quella piccola cubana, sebbene fosse gratificante quando la loro macchia scompariva con l'ultimo respiro morente. Il suo dilemma, questo ormai l'aveva capito, stava nella genesi del peccato originale, quello che gli era stato rovesciato addosso prima di tutti gli altri, il più difficile da sradicare. Alcuni lo chiamavano il Peccato della donna. Ma lui quella donna la conosceva per nome. La risposta al suo dilemma, al pari della risposta a tutti gli altri interrogativi per i quali ancora non conosceva la formulazione, stava nel fulcro in eterna espansione della macchina. Accese il monitor e compose sulla tastiera un'unica parola, il nome della donna con la cui morte sarebbe stato per sempre purgato dalla sua lussuria: ANITA. 14 La Lexington era in porto da un paio di giorni per alcune riparazioni, così Clay Tomlin e i suoi ospiti ottennero l'autorizzazione a salire a bordo per la giornata. Tomlin sembrava avere ottimi rapporti con tutti quelli che contavano alla base aeronautica di Pensacola, dove c'era il centro addestramento piloti. Negli ultimi cento anni c'era sempre un Tomlin nella marina degli Stati Uniti. Tre di loro si erano laureati ad Annapolis. Adesso, però, apparentemente il destino di Clay era di essere l'ultimo della linea. Già quarantatré anni, niente ragazza e niente figli. Il ponte della portaerei era molto più piccolo di quanto Anita si aspettasse e al campo aveva già visto un A-7, uno degli aeroplani sui quali Tomlin
aveva volato. Tre tonnellate di aereo. Un bestione che con tutto il suo peso riusciva a fermarsi su quel ponte dopo essere sceso alla velocità di tre metri al secondo. E Clay quella manovra l'aveva fatta e rifatta giorno e notte, talvolta in condizioni terribili: pioggia, visibilità zero, mare con onde da quindici metri che facevano rollare anche la più stabile delle portaerei. E ogni atterraggio notturno aveva un fattore di rischio elevatissimo. Alcune luci rosse sulle quali orientarsi, un incrocio di luci, come in uno specchio, a dirti se eri sulla rotta giusta oppure in procinto di schiantarti sul ponte della portaerei oscurata. Paura? Non esisteva un atterraggio su portaerei che potesse essere considerato di routine, neppure in una giornata limpida, un recupero difficoltàuno, in cui il pilota avesse piena visibilità nel contatto con il ponte. «Magari perché si rientrava da un giro di pattuglia con il serbatoio a secco, con appena quel tanto di carburante sufficiente a riprendere quota nel caso qualcosa andasse storto. E poi sul ponte l'equipaggio addetto agli atterraggi aveva sempre qualche problema con i cavi, con lo strappo vero e proprio, oppure con l'aereo atterrato prima di te. Normalmente avevo centodieci aerei in coda, Tom, Corsair, tutti quanti da essere recuperati e rimossi dal ponte di atterraggio con estrema precisione.» In quel momento si trovavano nel punto in cui la poppa della portaerei si apre a ventaglio. Tony aveva portato con sé il modellino Corsair. Tomlin indicò un punto a babordo. «Laggiù, a circa un chilometro, inizia la manovra di atterraggio vera e propria, Tony. La torre di controllo della portaerei che ha seguito la tua rotta di avvicinamento ti passa all'ufficiale addetto all'atterraggio che se ne sta proprio in questo punto. Lui è in contatto sia con il direttore delle manovre sul ponte sia con te sull'aereo. Inoltre è un pilota, quindi sa che cosa può andare storto nell'avvicinamento. L'ufficiale addetto all'atterraggio ha la responsabilità della decisione: se lasciarti atterrare o farti cenno di riprendere quota. Naturalmente lui sa se sei a destra o a sinistra o in planata, inoltre capisce a che velocità vai grazie alle luci montate sotto il muso del tuo aereo. Queste stesse tre luci di avvicinamento che hai sotto la carlinga.» «Me le hai già fatte vedere.» «Giusto. La luce rossa significa che arrivi troppo veloce, la verde troppo lento. La luce gialla vuol dire tutto a posto. Allora, dicevamo, arrivi sulla portaerei che comunque è sempre in posizione di allontanamento e la maggior parte delle volte ti tocca fare un avvicinamento visivo. Prendi il tuo
corridoio d'aria, molli il gancio e sei giù; tutto avviene così velocemente che non fai neppure in tempo a pensare. Eppure non diventi mai un qualcosa di automatico. Ho conosciuto ottimi piloti che dopo avere fatto centinaia di decolli e atterraggi un bel giorno non sono più capaci di salire a bordo di un aereo. C'era un ragazzo, nella mia squadriglia in Vietnam, che si è presentato una mattina per la sua ispezione prima del volo, ha fatto il giro dell'aereo, ha fatto dietrofront ed è sceso sottocoperta con il casco in mano. Aveva l'aria perplessa, smarrita. Si è limitato a scuotere la testa e a dire: 'È finita'.» «Ha avuto paura?» «Non credo che paura sia la parola giusta. Oggi si dice che è scoppiato. Aveva perso la fiducia in sé, oppure il senso dell'aria. Ma sono molto felice che non abbia cercato di farsi forza, di spingere le cose, magari di cacciarsi nei guai e di uccidere il suo equipaggio insieme con se stesso. Salire su uno di questi aerei e farli volare, giorno dopo giorno, in spedizioni che durano da sei a nove mesi deve essere assolutamente la cosa più bella della tua vita, l'unica addirittura. Devi desiderarlo con tutte le tue forze, voglio dire che l'emozione di balzare oltre la prua di una portaerei che corre a cinquecento nodi deve proprio piacerti.» Anita fissò il suo viso, i suoi occhi estatici, e cercò di immaginarlo da lì a dieci anni. Avrebbe ancora provato quello struggente desiderio di volare? Probabilmente no. Il suo era più un atteggiamento da uomo adulto che da ragazzo, avrebbe trovato altri interessi altrettanto appassionanti. Magari per ogni cosa brutta che accade nella vita ce ne sono altrettante di buone, pensò. Ma negli ultimi tre anni la sua filosofia era stata esattamente l'opposto. La battezzò la Prima (modificata) Legge di Anita. Lanciò un'occhiata all'orologio. Le tre del pomeriggio erano passate da ventuno minuti e diciassette secondi, una giornata cupa con troppo vento per starsene così a lungo all'aperto. Interessante conoscere il momento esatto in cui si prende coscienza, senza alcuna ombra di dubbio, di essere innamorata di un uomo. La cosa triste era che non poteva farci niente. La Seconda Legge di Anita: Per chi aspetta, le cose buone arrivano troppo tardi. Non erano solo i piloti a scoppiare. Rendendosi conto che Tony era sfinito e non sarebbe più stato capace di assorbire altre novità, si decise a dire con riluttanza: «È stata una giornata meravigliosa, Clay, ma penso che adesso sia ora di tornare». Tony protestò; non erano ancora stati sottocoperta, dove c'erano gli hangar. Ma Tomlin gli promise di riportarlo un'altra volta. Prese in braccio
Tony per portarlo giù dalla nave e prima ancora di arrivare alla macchina il bambino si era addormentato fra le sue braccia. Non parlarono molto sulla strada di casa, ascoltarono musica mentre Tony dormiva in braccio a Tomlin. La musica che amava era il genere country (poco di quello che era stato fatto dopo il 1970, quando sulla Music Row a Nashville avevano cominciato a portare completi di poliestere e a pensare ai Top Forty), il genere Cajun e il gospel. Più di ogni altro amava il blues: quel genere di blues nostalgico che nasceva nei campi di lavoro, nelle bettole dove si faceva il gioco d'azzardo e nelle prigioni del Delta South. Anita ascoltava Robert Johnson, Blind Lemon Jefferson, Sid Hemphill, Sonny Terry. Rudimentali strumenti a una corda che vibrava con suono metallico come un sitar. Tremule armoniche dal suono spezzato e chitarre acustiche miagolanti, con quel suono particolare prodotto quando si pizzicano le corde con un frammento di bottiglia di whisky. Il tuo papà era un pastore, la tua mamma un gatto randagio. Sentimenti cupamente ironici, essenziali. Scappa prima dell'alba domani mattina, il tuo vero uomo non saprà mai. Anita si divertì a guidare e la Corvette era una macchina fantastica. Giunta a casa si sentì quasi in pace. La barca di Carl non era al molo; magnifico. Big Dog li aspettava sulla veranda. Opal stava pulendo i vetri. Vorrei rimanere qui per sempre, pensò. Guardò Tomlin, appena perplessa. Lui sorrise, come se le avesse letto nel pensiero, poi scese dalla macchina con Tony sempre in braccio. Il bambino lottava per svegliarsi. Big Dog corse loro incontro e leccò la mano ferita di Anita. «Sono secoli che non ci divertivamo tanto», disse. «Adesso finalmente s'interesserà a qualcos'altro oltre a quei computer games.» Tomlin puntellò Tony contro il fianco dell'automobile e annaspò all'interno, alla ricerca del modellino Corsair e del berretto da ufficiale, blu scuro e con i gradi, che aveva comperato per il bambino. «Perché non entra?» propose Anita, augurandosi che lui si decidesse a parlare e la smettesse di sorridere... cosa che, a pensarci bene, era piuttosto insolita per lui; era un fatto che non sorrideva tanto spesso. Tomlin si posò sulla testa il berretto di Tony e guardò il cielo grigio; non ci sarebbe stato tramonto. E nel vento c'era già traccia di pioggia. «Troppo vicini all'ora stregata», spiegò in tono di scusa. Anita accarezzò il bambino che stava sbadigliando. «Che cosa c'è, Anthony?»
Con uno sforzo, Tony guardò Tomlin. «Grazie. Che cos'è l'ora stregata?» «Quando viene il buio.» Tony diede la migliore interpretazione che gli riuscì. «Hai paura del buio?» «Non esattamente. È solo che non ci sono abituato. Ci vediamo domani, Tony.» Stava attraversando il prato in direzione del camper quando Tony gli gridò: «Possiamo andare a pescare domani? Domani pomeriggio?» «Affare fatto», rispose Tomlin, e mentre scompariva nel camper di cui non aveva chiuso a chiave la porta, come il suo solito, attaccò a fischiettare When the Saints Go Marching In. Anche Tony cercò di fare altrettanto mentre, aiutato dalla madre, saliva i gradini della veranda. Era molto intonato. Tom Paul, il cugino di Wink Evergood, era arrivato da Morgan City diciotto mesi prima, quando il business del petrolio in Louisiana aveva cominciato ad andare male. Con tre dollari in tasca. Da allora, grazie alla guida di Wink, si era fatto un bilocale nella torre Stella Maris con arredamento di architetto, una Nissan 300 zx sport da ventunmila dollari e un motoscafo per la pesca d'altura. Era felice di fare qualunque cosa Wink gli chiedesse. Quello che Wink voleva che facesse quella sera era andare a caccia, ma non caricarono i segugi sul retro del furgone della Silverado di Wink. Invece, tra raffiche di vento e pioggia intermittente, imboccarono la stradina accidentata a sud della Interstate e puntarono verso le paludi della Tchoutacabouffa, parcheggiarono, infilarono gli stivaloni di gomma e i cappelli muniti di luci. «Adesso ti racconto di questa ragazzina con la quale mi sono dato da fare», disse Tom Paul. «È del nord. Dell'Indiana, mi pare. Stava passando qualche giorno con i genitori e questi mi chiedono dov'è che possono trovare dell'autentico cibo Cajun, e io rispondo: Da nessuna parte qui, questo è lo stato della Magnolia, non la Louisiana. Ma sapete che cosa faccio? Ve lo cucino io. Perché, se devo dirti la verità, la cucina Cajun mancava anche a me. Così attacco a cucinare il mio roux di buon'ora, sai come si fa, a fuoco lento per tutto il giorno. Ero nella cucina di Dolly praticamente all'alba. E i suoi genitori, a cui piace alzare il gomito, la notte prima hanno bevuto troppo e non si svegliano fino alle undici. La mamma arriva in cucina con
le borse sotto gli occhi; dovevi vederla, sente appena l'odore di cucina, gamberi e granchi con il sugo. Si mette una mano sullo stomaco, fa una smorfia e si vede lontano un miglio che muore dalla voglia di andarsene, ma questo non è educato, giusto? Fa una specie di sorriso e mi dice: Tom Paul, posso darti una mano? Allora, tu mi conosci, non so resistere a un bello scherzetto, così apro la borsa frigorifera e tiro fuori la coda di alligatore che avevo surgelato dall'ultima volta che sono andato a casa a Brex Bridge. La sbatto sul blocco di legno e dico: 'Perché non la tagli e non ne fai dei bei filettini sottili sottili, eh?' Dopodiché a lei e a Dolly tocca stare per una buona mezz'ora a quattro zampe per ripulire il vomito sulla moquette del soggiorno.» Wink ridacchiò, poi si mise in cammino alla ricerca del serpente. Le vipere d'acqua, quei serpenti mediamente velenosi chiamati scientificamente ancistrodon, più comunemente da quelle parti mocassini, avevano la tendenza a essere piuttosto riservati, soprattutto quando faceva freddo. Si arrotolavano tutti insieme sotto le palme nane o sotto i rami bassi dei cipressi; avevano anche la buona abitudine di spenzolarsi per la coda dai rami per fare la posta a qualunque cosa arrivasse sull'acqua. Erano dei gran mangioni, certe volte si ingozzavano fino a morire dal mal di pancia. Non erano neppure particolarmente aggressivi, per essere serpenti velenosi, ma se decidevano di attaccare un uomo lo facevano con la rapidità di un serpente a sonagli. Finalmente Wink trovò l'esemplare che gli piaceva nascosto fra le radici marcescenti di un cipresso caduto, un rettile color fango, senza particolari segni di riconoscimento sul dorso squamato. L'unico segno caratteristico era nella bocca, bianca, e nelle pupille verticali che lo distinguevano da altri serpenti acquatici simili ma innocui. «Bella bestiolina», commentò Tom Paul. «Sarà un metro e mezzo di lunghezza e due bei chiletti di peso.» «Non farlo scendere in acqua da quella parte.» «Oh, si è appena svegliato dal suo pisolino; ha troppo freddo per fare movimenti bruschi.» Wink tenne aperto il sacco di juta mentre Tom Paul vi sospingeva dentro il serpente. La bestia si agitò appena sul fondo prima di sistemarsi, in guardia e sibilante, in attesa di scoprire quello che avevano in mente per lei. «Inutile andarlo a stuzzicare, questo qui», osservò Tom Paul. «È già abbastanza irritato.»
«Magnifico», esclamò Wink. Nella confortevole casa sull'albero della Chiesa-Vicino-al-Cielo della Giusta-Via al Vangelo, Wolfdaddy aveva sistemato una brandina pieghevole munita di una coperta dell'esercito, un paio di scaffali, una lampada a kerosene, un bauletto chiuso a chiave che teneva nascosto sotto la branda e infine un braciere a carbone sul quale cucinava i pesci che pescava nel fiume e dei quali tirava le teste ai gatti. Si faceva ottime frittelle di granturco locale e certe volte riusciva a mettere insieme un'insalata di erbe selvatiche raccolte nel canneto. Nella baracca c'era appena spazio sufficiente per potersi rigirare a braccia aperte, sfiorando con le dita le pareti irregolari, ricavate dalle cassette dell'insalata. Ma per lui era un riparo più che sufficiente. Nelle serate quasi sempre miti della Lostman Bayou, stava quasi sempre all'aperto sotto le stelle, al di sopra dei nugoli di moscerini che arrivavano numerosi quando tirava vento. Fumava la vecchia pipa Dr. Grabow e si godeva la propria solitudine, rimuginando passi scelti della Bibbia che avrebbe incluso nel prossimo sermone. A causa della pioggerellina leggera, Wolfdaddy era in casa quando udì il furgone Silverado di Wink Evergood percorrere lentamente la stradina quasi sempre deserta, soprattutto dopo le dieci di sera. Conosceva il rumore di quel furgone. Subito capì che c'era qualcosa nell'aria. Aprì la porta della baracca e vide il furgone procedere lentamente verso la casa, con le sole luci di posizione accese. «Oh-oh», disse rivolto a un gatto che intanto gli camminava sui piedi, «ci risiamo. Tornano a riprendere un carico della loro droga malvagia da rivendere ai ragazzini.» Wolfdaddy fece dietrofront e andò a prendere dal gancio alla parete il vecchio binocolo comperato al banco dei pegni. Tornò fuori sul bordo della piattaforma e scrutò nel buio. La notte era scura, ma Wolfdaddy riuscì a vedere la coda del furgone di Wink con sufficiente chiarezza da essere certo della sua ipotesi. Poi, all'infuori di un vago bagliore rossastro, lo perse di vista. Tuttavia Wolfdaddy ebbe l'impressione che Wink si fosse fermato, dopo essersi infilato in una stradina laterale prima del cancello della casa. Il bagliore rossastro, infatti, era rimasto costante nel suo campo visivo. Dopo essersi strofinato gli occhi, guardò nella direzione opposta, verso un riflettore all'estremità del pontile coperto dalla tettoia. Vide la barca di Carl Jeffords all'ancora e qualcuno... che avrebbe potuto essere lo stesso Carl... in piedi sul ponte anteriore, curvo sopra una gomena. Ma tutto era confuso, difficile da individuare con chiarezza per gli occhi stanchi di
Wolfdaddy. Abbassò il binocolo, biascicando fra sé, la fronte aggrottata. Un gatto, disturbato, miagolò lamentoso. Wolfdaddy si passò il dorso della mano sulle labbra febbrili e diede un'altra occhiata con il binocolo, puntando sulla casa questa volta, immersa nella luce tremolante dei riflettori. «Proprio non va bene quello che fanno», mormorò fra sé, costernato. Un traffico di droga proprio qui, nel suo giardino. C'era stata un'epoca in cui la neve lo aveva portato a cinquantacinque chili, riducendolo a una larva a malapena in grado di portarsi la tromba alle labbra. Lui lo sapeva bene come ti conciava quella roba. Lode a Gesù, adesso era salvo. Ma c'erano gli altri, in pericolo mortale poiché ignoravano che cosa potesse accadere loro, gli altri che non erano stati lavati nel sangue divino. Wolfdaddy tornò in casa e ne uscì poco dopo con il suo berretto da meditazione, il cappello con la cupola cosparsa di specchietti. Si lasciò cadere sulle ginocchia doloranti e alzò gli occhi al cielo, che non gli rimandò altro che oscurità, neppure una traccia di luce divina per guidarlo, solo pioggia sul suo volto. «Che cosa vuoi che io faccia, Signore?» domandò, umile nella sua implorazione di guida. Wink e Tom Paul scesero dal furgone e Tom Paul prese dal retro il sacco con il serpente velenoso. Fecero a piedi l'ultimo tratto di strada che li separava dalla casa, Tom Paul con il braccio teso per evitare ogni contatto con il sacco. Il serpente sembrava tranquillo. Il fascio di una torcia elettrica, puntato sulla strada, si accese e si spense un paio di volte, fioco sotto la pioggia. Si imbatterono in Carl, che indossava pesanti abiti da marinaio, adatti per quel tempo. «Che cosa avete in quel sacco?» Docilmente, Tom Paul aprì l'imboccatura del sacco. «Gesù», esclamò Carl fra i denti, facendo un salto indietro, «ma con questo lo fate secco.» «Quasi nessuno muore per il morso di un serpente acquatico come questo», obiettò Tom Paul. «Un serpente a sonagli, è diverso. Quelli di veleno ne hanno tanto. Ma con questo passerà solo un brutto quarto d'ora e starà male per un po'.» «Dov'è? Nel camper?» domandò Wink, guardando il perimetro illuminato. «E come facciamo con tutte quelle luci?» Carl estrasse dalla tasca dell'incerata un comando a distanza e spense le luci.
«Questo sistema anche gli allarmi?» Carl annuì. «Tutto quanto. Adesso torno a casa. Qui non servo a niente. Tomlin sta facendo una doccia, almeno così era un minuto fa.» «Perfetto», disse Wink. Si separarono. Wink e suo cugino proseguirono nell'oscurità verso il camper parcheggiato accanto alla baracca degli attrezzi. In camera di Tony, Big Dog sollevò di colpo la testa e, dopo avere teso le orecchie in ascolto per alcuni istanti, balzò in piedi con un'agilità sorprendente per un cane della sua mole. Nel suo letto Tony dormiva sereno, girato su un fianco, immobile da quando sua madre gli aveva rimboccato le coperte. L'Anello Magico e il berretto blu della marina con il nome Lexington stampato in grandi lettere bianche sul comodino. Big Dog lo guardò, ma era inutile cercare di svegliare Tony. Andò alla porta e prese a grattare ansiosamente, sebbene non fosse stata la sua vescica a svegliarlo. In genere Anita lo sentiva e lo faceva uscire per una corsa notturna. Ma quella sera non era in camera sua. Aveva avuto un'ispirazione creativa e si era chiusa nello studio a lavorare. Wink Evergood fece il giro del camper per controllare se Tomlin fosse ancora sotto la doccia. Lo era. Faceva del suo meglio, e con successo, per cantare una canzone di Waylon. «Mamma non permettere che i tuoi figli diventino cowboy.» Wink si affrettò a tornare da Tom, che intanto aveva scoperto che la porta non era chiusa a chiave. «Okay», bisbigliò. Tom Paul afferrò il sacco che aveva lasciato provvisoriamente sullo zoccolo di cemento, aprì la porta ed entrò nel camper muovendosi delicatamente in modo da non farlo ondeggiare, tradendo così la sua presenza. Aprì la bocca del sacco e rovesciò fuori il serpente. La bestia rimase lì, poco più scura della moquette, inerte e disorientata. A guardarla da lontano, la si sarebbe potuta scambiare per un grosso escremento di vacca. Tom Paul non si preoccupò dell'immobilità dell'animale. Era un serpente, si sarebbe scaldato e si sarebbe mosso, alla ricerca di un angolino buio nel quale nascondersi. Tom Paul si gettò il sacco su una spalla, la voce di Tomlin più forte e chiara ora che il getto della doccia era stato chiuso. Senza perdere tempo, scese dal camper e richiuse silenziosamente la porta. Anita aveva lavorato per una mezz'ora, servendosi di fotografie come
modello, alla figura di un airone, incapace di ottenere l'effetto desiderato con la testa e irritata con se stessa per questo. Via via che il suo lavoro diventava sempre più difficile e frustrante, aveva smesso di guardare il monitor con regolarità. Quando finalmente fece un passo indietro per dare un'occhiata da lontano alla scultura, si accorse che lo schermo del monitor era scuro; eppure il monitor sembrava in funzione. Mentre lo fissava, lievemente allarmata, le luci tornarono ad accendersi attorno alla veranda e l'immagine, malgrado la pioggia e una leggera nebbia, migliorò. Anita sospirò. Tornò a guardare l'airone, decise di lasciare perdere per quella sera e prese a ripulirsi le mani. La destra le faceva male. Guidare tutto il giorno, cosa alla quale aveva perso l'abitudine, era stato una tensione per lei. L'uso della mano era ancora al sessanta per cento. Il dito mignolo sarebbe stato debole, quasi inutilizzabile, per sempre. Nelle ossa aveva all'incirca un totale di quattordici chiodi e viti d'acciaio di diversa misura, quasi tutti nella parte destra. In certe giornate umide si sentiva come se avesse centoquattro anni, non trentaquattro. Sotto l'attaccatura dei capelli aveva una piastrina di circa cinque centimetri di lato, fortunatamente invisibile a meno che non tirasse indietro i capelli. Le funzioni di quella parte del cervello che era stata distrutta erano state riprodotte da un'altra parte del cervello, piccole cellule di scorta che erano corse ai rinforzi come soldatini disciplinati. Aveva perso irrimediabilmente sensibilità in alcuni punti dello zigomo proprio sotto l'occhio destro e nella parte interna dell'avambraccio. Aveva due dita di un piede che non sentiva più; quando era molto stanca, talvolta zoppicava. Un colpo da una macchina guidata a tutta velocità da un pazzo. Se l'avesse presa in pieno e non di striscio, allora... Guardandosi tutta intera in uno specchio, con una luce favorevole, Anita si rendeva conto di avere ancora un bel corpo. Ma la sua emotività la spingeva a sentirsi deforme e intoccabile. Non si guardava più spesso allo specchio, ormai. Anita si accese una sigaretta e spense le luci dello studio. Non sapeva bene che cosa fare, ma ormai aveva la certezza che quella notte non avrebbe dormito, a meno che non si fosse decisa a bombardare le cellule superstiti del suo cervello con un sonnifero. No, grazie. Carl era a casa; aveva fatto capolino un paio di volte mentre lavorava, il viso colorito per il buonumore, una soddisfazione che non aveva cercato di spiegare. Le aveva chiesto com'era andata la giornata e Anita aveva risposto: Splendidamente, Carl, Tony si è divertito un sacco. Allora Carl aveva detto ad Anita che tanto per cambiare quella sera sarebbe rimasto a casa, che cosa ne diceva
di bere un bicchiere insieme, più tardi? Intanto andava a dare una controllata al computer per vedere se c'erano novità. Novità. Che strano modo di metterla. Finita la doccia, Tomlin aveva infilato una casacca di pelle di daino, un paio di Levi's e le ciabatte. Lentamente, a tentoni, era arrivato fino al soggiorno del camper, aveva aperto il frigorifero e aveva tirato fuori una Miller's. Aveva lasciato il telecomando del televisore sul tavolo della dinette, ma dovette tastare un po' in giro per ritrovarlo. Dopo essersi sistemato sul divano e acceso il televisore, aprì la birra e mandò giù un sorso. Intanto ripensava a quella giornata, a ciò che aveva provato nel risalire a bordo di una portaerei dopo un anno intero. Non era stato difficile come pensava, soprattutto perché Anita e Tony erano con lui. Guardando Tony per quell'intera giornata, Tomlin era arrivato a comprendere come mai tanti piloti finivano per abbandonare dopo qualche anno, incapaci di sopportare separazioni così prolungate dalle mogli e dai figli. Si sintonizzò sulla replica di una partita di pallacanestro fra i Celtics e i Rockets. Ascoltava la telecronaca, ma nel buio la sua mente andava ad Anita. Aveva uno di quei tagli di capelli arruffati che, all'aria aperta, diventano ancora più attraenti. Quanto tempo ci sarebbe voluto per contare tutte le pagliuzze d'oro nei suoi occhi nocciola? Si domandò perché, dopo una risata, tornava a ritrarsi così repentinamente nella reticenza, nella cupa introspezione. Si chiedeva molte cose su Anita e si rendeva conto di sapere ben poco. Ma non avrebbe lasciato passare ancora molto tempo senza fare uno sforzo sincero per scoprire tutto di lei. E intanto, perché non farsi un'altra birra? Anita era uscita sulla veranda e se ne stava accanto alla colonna che congiungeva i due lati della ringhiera con il tetto spiovente. Fumava lentamente, la brezza umida sul viso e nei capelli. Una pioggerella così leggera che non la si sentiva neppure cadere. Guardava il camper, la luce del televisore che si rifletteva sul finestrino sollevato, un bagliore tremolante come un spettro in una bottiglia. Ancora un paio di tiri e sarebbe rientrata per parlare con Carl, avrebbe finito per aprire il verdicchio di Villa Bucci, l'ultima bottiglia tenuta con tanta cura. Fu in quel momento che udì il grido lacerante provenire dal camper, un grido che la fece rabbrividire da capo a piedi e che la indusse a scottarsi
inavvertitamente il dorso di una mano con la sigaretta che aveva dimenticato di avere ancora stretta fra le dita. 15 «Clay? Clay!» Anita aprì con uno strattone la porta del camper e si precipitò dentro, tutta bagnata dopo essere scivolata nell'erba umida del prato mentre correva lì. Non vide subito Tomlin. «Clay, che cos'è successo?» Sentì lo scarico del gabinetto; un attimo dopo Tomlin uscì dal bagno, la mano protesa in avanti in modo da non picchiare il naso contro qualcosa. Sembrava sorpreso. «Anita, che cosa c'è?» «Che cosa intendi con...» La voce le morì in gola, faticava a respirare. Si lasciò andare in una poltrona fissandolo e cercando di asciugarsi il volto bagnato. «Ti ho sentito urlare.» «Davvero?» replicò lui, sorpreso. «Già, devo avere urlato. Quel piccolo esordiente dei Rockets ha fatto tre punti di fila, nell'ultimo minuto, che hanno fregato i Celtics.» «Tutto qui? A momenti me la facevo s...» «Sotto per la paura?» Clay indugiò in cucina, appoggiandosi contro un mobiletto. Un piccolo sorriso sul volto. Furiosa, Anita drizzò le spalle, poi colse anche lei il ridicolo della situazione e si strozzò di nuovo, questa volta per una risata. «Non... non proprio. Almeno non mi pare.» Tomlin cercò lo sportello del frigorifero e lo aprì. «Visto che sei qui, che cosa ne dici di una birra?» «Okay.» Non riusciva a stare ferma, così si alzò e andò verso di lui. «Ho bisogno di andare in bagno.» «Allora è vero che...» «No, niente affatto, e non fare il furbo. È che mi sono bagnata... per la pioggia... e vorrei asciugarmi.» «Ma certo, fai pure.» Si tirò su, birra in mano, e richiuse lo sportello del frigorifero. Anita dovette mettersi per traverso nell'angusto spazio della cucina per poterlo superare, ma anche così il contatto fra loro fu considerevole. «Piove ancora, vero?» osservò lui, i capelli umidi che gli sfioravano il mento.
«Già.» Quando fu in bagno, Anita prese un asciugamano e si strofinò il viso e i capelli. Specchi ovunque, sugli armadietti di quercia fatti su misura, vide la sua immagine riflessa in un'infinità di angolazioni diverse. Una vera fortuna che lui non potesse vedere com'era in quel momento. Tornata in soggiorno, lo trovò seduto sul divano accanto al tavolino sul quale aveva posato la lattina di birra nel supporto di sughero. Anita prese la sua e si sedette di fronte a lui nella comoda poltrona di pelle sentendosi rilassata, la stanza immersa nell'oscurità all'infuori della tremolante luce del televisore sullo schermo, uomini altissimi in calzoncini corti che si avventavano l'uno sull'altro. Tomlin aveva tolto l'audio. «Allora la pallacanestro è il tuo sport preferito», osservò Anita, incapace di condurre una conversazione sensata soprattutto essendo assolutamente certa che nessuno dei due avesse voglia di parlare; inoltre si sentiva stringere ancora lo stomaco per la paura o, no, non era più paura adesso. Mandò giù un sorso di birra fissandolo nella luce fioca. «Già, la pallacanestro. E poi mi piace il rugby australiano.» «Davvero? Confesso di non sapere che cos'è.» Lui non glielo spiegò. Non parlò affatto, per tutto il tempo che impiegò a mandare giù almeno mezza lattina di birra. Anita si sfilò le scarpe e si raggomitolò sulla poltrona che aveva la tendenza a ruotare. Non gli staccava gli occhi di dosso. «Ciao, Anita», le disse lui dopo un lungo silenzio e dandole del tu per la prima volta. «Ciao», rispose lei timidamente. «Ti chiami davvero Anita?» La domanda la sorprese; la birra che stava bevendo quasi le andò per traverso, ma riuscì a non tossire. «Ma certo. Perché?» «Allora sei Anita», replicò Tomlin con voce pacata, «e tuo figlio è Tony e Carl è Carl. Però Carl non è tuo marito e non è il padre di Tony. Allora chi è, esattamente?» Vergine santa, pensò Anita, ci siamo. E in cuor suo ringraziò il cielo, quel segreto aveva cominciato a essere un peso ogni volta che era in sua compagnia. «Potresti dire che... che è uno che bada a noi.» «Guardia del corpo per un testimone scomodo?» «No. Niente del genere.»
«E allora perché ti nascondi in un posto sperduto come Lostman's Bayou?» Anita sospirò, chiedendosi da che parte cominciare. E mentre stava riflettendo intensamente, vide qualcosa di strano, sebbene la luce fosse così fioca che forse... Si alzò lentamente, senza mettere giù la birra, con un cigolio della poltrona. «Dove stai andando?» Anita non aveva staccato lo sguardo dal cuscino del divano accanto a quello sul quale sedeva Tomlin. Maledizione, si era mosso o era una sua impressione? E com'era possibile? «Clay, vuoi stare zitto per un secondo, per favore?» Lui alzò la testa con espressione interrogativa. «E non muoverti», aggiunse Anita. «Perché?» «Sssst.» Adesso era in piedi quasi sopra di lui, gli occhi fissi sul divano, sul cuscino che si sollevava, era lui che lo faceva muovere? No, aveva entrambe le mani in vista, una stringeva la birra, l'altra sul ginocchio. Anita posò la birra sul tavolino, allungò la mano e con un gesto veloce sollevò il cuscino. Quasi svenne. «Signore...!» «Che cosa succede?» domandò Tomlin. «Un serpente. Enorme. Accanto a te.» «Vicino?» chiese lui, come se stesse parlando di una mosca, non di un rettile. «Sì... vicino.» «Okay, okay, non mi muovo. Non fare nulla che possa disturbarlo.» «Disturbarlo...» «Anita», disse Tomlin, «nel cassetto del mobile accanto alla stufa c'è un coltello da campo. Arretra lentamente, apri il cassetto e prendilo.» C'era tensione sul suo viso, ma aveva mantenuto tutto il suo sangue freddo e non si era mosso. Il suo atteggiamento diede ad Anita la forza di fare quello che le veniva chiesto. Mentre andava a prendere il coltello, che somigliava molto a un machete, si liberò del cuscino. Tomlin la sentì aprire il cassetto. «Lo vedi?» «Sss... sì.» «Descrivimi il serpente.» «È di un colore... color fango, la luce non è...» Per la paura balbettava.
«Che cosa sta facendo?» «Se ne sta fermo.» «Testa alta o bassa?» «Alta.» Anita brandiva il coltellaccio cori entrambe le mani scosse da un tremito. Lentamente tornò accanto a Tomlin. Consapevole del fatto che il serpente l'aveva vista. Le gambe molli. Gli occhi del serpente identici agli occhi di Angel, si sentì gelare, come ipnotizzata. «Alta a quarantacinque gradi?» «Uh-uh.» «Probabilmente una vipera acquatica», stabilì Tomlin. «Quanto spazio ho?» «La sua testa è... a trenta centimetri da te. Forse un pochino di più.» «Mettiti qui, alla mia sinistra. Non starmi davanti.» «Va bene.» «Non appena sono fuori tiro, taglia in due il serpente con quel coltello.» «Clay, non puoi essere abbastanza veloce da...» «Ho uno scatto che neppure questo serpente ha mai visto. Tieniti pronta.» «Io... non... non posso», implorò lei. Ma non arretrò. Le sue ossa rammendate erano come percorse da una scarica elettrica, una corrente a fior di pelle; sentì il sangue scorrerle più rapidamente nelle vene prima ancora che Tomlin la incoraggiasse. «Sì invece che puoi. Che cosa sta facendo adesso?» «È... tranquillo...» «Dal suono della tua voce, ho l'impressione che tu sia ancora troppo vicina. Fa' un altro passo indietro... Fatto?» «Sì.» E intanto si muoveva con una facilità che sorprese lei per prima. «Ci siamo», annunciò Tomlin, espressione rilassata, voce indifferente. Sorrideva, come se si stesse divertendo. Poi, in un battere di ciglia, non era più seduto lì, il camper ondeggiò sulle ruote mentre lui si avventava sulla poltrona e andava a sbattere contro la parete con il braccio rialzato per proteggersi. Il serpente aveva colpito, adesso la sua testa era sotto la lampada posata sul tavolino, stava già raccogliendosi di nuovo nelle spire allorché Anita fece un passo avanti e lo decapitò, affondando la lama affilata del coltello nel ripiano di legno. Mollò la presa e si girò, coprendosi la bocca con le mani. «Anita?» Lei respirò profondamente con un singulto e si aggrappò a Tomlin con
entrambe le mani per mantenere l'equilibrio. «Gli ho staccato la testa. Ma si muove ancora.» Fissava affascinata il corpo decapitato che si dimenava sul divano, schizzando sangue ovunque. «Non avvicinarti», la ammonì Tomlin. «E non toccare la testa, potrebbe ancora morderti.» Ma Anita in effetti non aveva alcuna intenzione di lasciarlo. Nell'eccitazione gli aveva staccato due bottoni della camicia. Tomlin le aveva preso il viso tra le mani, fredde per l'emozione. «Ti ha morsicato?» «Mi ha mancato per un pelo. Forse meno.» «L'ho ucciso», ripeté Anita, ancora sorpresa. Le lacrime le solcavano le guance. Emozionata e atterrita, si aggrappò a lui con ancor maggior forza. «Non credevo di farcela, ma ce l'ho fatta, l'ho ucciso.» «Smettila di tremare», mormorò lui. «Ti tengo.» «Lo so», rispose Anita. «E adesso che cosa pensi di fare?» Quindici minuti più tardi, sul letto matrimoniale in fondo al camper, Anita, metà estatica e metà dubbiosa, sussurrò: «Non posso». «Sì che puoi», replicò Tomlin, e andò avanti a fare quello che stava facendo, un vero perfezionista quando si trattava di togliere ogni dubbio, per sempre. 16 Per parecchie ore nello studio di Baldric il computer aveva composto quei numeri che Angel considerava più promettenti. Si era già collegato con settantacinque computer e adesso stava contattando il settantaseiesimo. Una centrale di North Bergen. Angel sedeva sulla scomoda seggiolina girevole e sorseggiava una tazza di tè che si era fatto poco prima in cucina, essendo il tè l'unica cosa che Baldric teneva, oltre a una scatola ancora intera di craker Ritz che Angel era stato in dubbio se aprire. Non aveva fame. Il suo stomaco si era ristretto notevolmente durante quei mesi di alimentazione per endovena a Silver Birches. Era una caratteristica dei suoi processi mentali non lasciarsi distrarre dai ricordi; la capacità di sognare a occhi aperti gli mancava quasi completamente. Ed era difficile per lui rammentare qualcosa che non fosse direttamente collegato ai suoi bisogni immediati. Era stato rinchiuso a Silver Birches per diciotto mesi, ma ora che ne era fuori quel luogo aveva cessato di esistere per lui. Lo avrebbe ricordato solo nel caso lo avesse rivisto. Era
privo di rimorsi o sensi di colpa. Conosceva la prudenza, ma raramente sperimentava la paura. Uccideva in uno stato di frenesia che era più simile a un attacco che a un'espressione di collera; uccideva per aumentare le possibilità di sopravvivenza. Uccideva perché era il momento di uccidere. L'impulso che lo spingeva verso una crisi omicida somigliava all'incontro di due cavi carichi di elettricità nello spazio angusto e oscuro delle sue emozioni primitive. Quando le nude estremità dei cavi entravano in contatto, Angel veniva galvanizzato. Urtato nella metropolitana, Angel poteva guardarti indifferente, senza fare caso a te. Oppure i cavi potevano toccarsi con una scintilla. Un messaggio apparve sullo schermo ad alta definizione che aveva davanti. Angel non pensava ad altro. ATTENZIONE! QUESTO SISTEMA È PROTETTO CONTRO INTRUSIONI E PIRATERIA. L'UTENTE CHE NON DICHIARI LA PROPRIA IDENTITÀ E PAROLA D'ORDINE ENTRO TRENTA SECONDI PUÒ ESSERE ARRESTATO E PERSEGUITO. Angel si protese sulla tastiera e scrisse SPIACENTE, BUONA GIORNATA. Il monitor si spense. Attese mentre il numeratore automatico componeva il numero settantasette, da una lista di duecentoventinove che Angel aveva selezionato da un tabulato di tutti i telefoni collegati a computer in tre contee. Dall'altra parte del corridoio la doccia gocciolava, ma Angel aveva dimenticato il corpo nella vasca. Finché rimaneva bagnato non avrebbe costituito un problema per lui, almeno per due giorni ancora. Angel guardò lo schermo e mangiò un cracker Ritz. Bevve un po' di tè. 17 L'alba. Gli uccelli sembravano divertirsi un mondo là fuori. Tomlin stesso non si sentiva così male con Anita vicina, profondamente addormentata. Non aveva acceso il riscaldamento la sera prima, ma dividevano un grosso piumino e il calore dei loro corpi. Quando le sue dita sfiorarono il solco della cicatrice sull'avambraccio destro, Anita gli si fece più vicina, nascondendo il viso contro il suo petto. Affascinato dall'anatomia, Tomlin seguitò la sua esplorazione: un orecchio, la linea della mascella, la curva del naso. I lineamenti del suo volto... niente di indefinito, di arrendevole o
debole. Niente che volesse cambiare. Non le folte sopracciglia, non la bocca troppo grande, non la lieve protuberanza agli angoli. Non aveva ancora visto le cicatrici sulla schiena e sull'anca, ma le aveva sentite nell'oscurità, dure al tatto come linfa sgorgata dalla corteccia giovane e liscia di un albero. Quelle sì avrebbe voluto cambiarle, pensò, per il suo bene. «Che cosa stai facendo?» mormorò Anita, felice che lui lo facesse. Gli mordicchiò un dito, il morso subito trasformato in una carezza con le labbra. «Non vedo l'ora di vederti», confessò Tomlin. «Non è abbastanza chiaro per te?» «Ancora mezz'ora.» «E allora mi vedrai.» Sotto la coperta, Tomlin le passò un braccio attorno alla vita e lei gli avvinghiò le gambe con le sue, sfiorandogli il pene eretto, vivo e guizzante. «Ti sei svegliato in questo stato?» «Proprio così», ammise lui, compiaciuto della propria potenza. Un grande amante. Lei lo accarezzò; teneramente, non ancora pronta ad affrontare un altro giro. «È accaduto davvero.» «Tre volte.» «Mi auguro», disse lei, una certa severità nella voce, «che tu non finisca per essere uno di quegli uomini che tengono il punteggio.» «Nemmeno quando gioco a golf. Soprattutto quando gioco a golf.» Anita gli baciò gli occhi, rapita. «Questo per non avermi dato retta quando stanotte ho avuto voglia di scappare. Devi avere pensato che ero matta.» «Ho saputo che sarebbe andato tutto bene dal momento in cui sono riuscito a metterti orizzontale.» Lei gli mordicchiò il lobo. «Immagino che tu sappia di avere scatenato un vespaio, vero?» «Non la metterei proprio così. Che cosa c'è dietro tutta questa storia, Anita? Dov'è il padre di Tony?» Lei si irrigidì; Tomlin la coccolò finché non tornò a sorridere, ancora segretamente preoccupata, però. «Non ho voglia di spiegare, adesso. Voglio solo godere... è stupendo svegliarsi così per una volta. Il problema è che ho quasi paura di provare di nuovo, perché com'è possibile che sia bello come l'ultima volta?» «Mai lamentarsi prima del tempo», la ammonì lui baciandola, le mani
sui suoi seni. «Clay? Sono ancora un po' indolenzita. È passato tanto tempo dall'ultima volta... ti spiace se ti chiedo di tenermi soltanto, di non eccitarmi più?» «Ma certo che no.» «Senti come mi batte il cuore? È questo che mi fai. Voglio dirti una cosa. Stanotte... ebbene... io sono venuta subito, non appena sei entrato in me. Ero sconvolta, non volevo che tu lo sapessi. E c'è dell'altro. Prima non avevo mai voluto parlare di sesso con un uomo. Ero sempre troppo imbarazzata. Non ho mai detto a nessuno 'prendimi' prima. Ma a te posso dire qualunque cosa, vero? È questo che provo per te, è questa la fiducia che ho in te. Mio Dio, balbetto. Da quanto tempo ti conosco? Due giorni?» «Io l'ho capito nel momento stesso in cui sei entrata nella stanza, l'altro giorno. Nel momento in cui mi hai dato la mano, la sinistra. Io mi sono sentito...» «Come hai detto?» «Desiderato. È stato davvero un incidente d'auto?» «Una specie.» Tomlin la sentì di nuovo ritrarsi, anche se non fisicamente. «Ti prometto che ti racconterò... tutto. Ma dopo. Che cosa facciamo oggi? Facciamo qualcosa?» «Mace Lefevre mi ha detto che posso usare la sua barca quando voglio.» «Perfetto.» «La luce sta aumentando.» «Mi vedi adesso?» «Non ancora. Non bene come desidero.» «Grazie a Dio per il sole», disse Anita. «È come... come un incantesimo, vero? L'ora del crepuscolo, l'ora stregata. 'Quando i sagrati si spalancano e l'inferno stesso spira un contagio su questo mondo con il suo alito.'» «Hai studiato recitazione? Che versi sono?» «Amieto. No, non sono mai stata un'attrice. Ho solo insegnato Shakespeare alla Rutgers prima di sposarmi.» «Sei piena di sorprese.» «Meravigliose, meravigliose sorprese.» Lo baciò una volta, due, la terza volta con un sacco di azione a contorno. Ormai gli era sopra. «Pensavo che ti facesse male.» «È vero», gemette lei. «Quindi... sai... ti spiace... con la lingua.» «È un vero piacere.» Ma prima la strinse con forza. «Mi ami?» le chiese. Anita lo colpì alle costole e poi al mento prima con un ginocchio e poi con il gomito mentre si divincolava per scappare.
«Non... non dirmi mai più una cosa simile!» Tomlin si tirò a sedere sbalordito e vide a malapena la sua ombra accoccolata contro la porta della camera da letto. Respirava affannosamente. «Anita?» Lei non gli rispose. La udì singhiozzare. Scese dal letto con gesti cauti. Lei non cercò di fuggire. «Devo essere io il primo a dirlo? E va bene, ti amo, Anita.» Tremando, piangendo, lei gli volò fra le braccia come una bambina smarrita. «È quello che diceva sempre lui. Prima di farmi qualcosa di terribile.» «Un altro matrimonio andato a male.» «Andato a male, no, Signore. Un vero incubo. Ho tanta paura. Devo andare in bagno. Voglio fare una doccia.» «La facciamo insieme una doccia.» «E va bene. Sarà bello, farla insieme con te, Clay, oh, Clay. Che cosa farò?» I singhiozzi esplosero in una piena inarrestabile. Lui fece del suo meglio per calmarla, ma questa volta lei dovette vincere la paura da sola. Un'ultima convulsione e si calmò, priva di forze tra le sue braccia. «Ma che razza di uomo è?» Quasi senza fiato, Anita disse: «Angel è... l'inferno in persona». Tomlin ancorò la Shady Lady IV sopra una secca con un fondo di circa tre metri sul Mississippi Sound, in prossimità delle boe che segnavano il limite del Dog Keys Pass. Era una zona con un ottimo fondo erboso e tanta ombra perfetta per attirare quei grossi pesci che da quelle parti venivano chiamati tre code o pesce negro. Aveva visto suo padre tirarne su da dieci chili in quelle acque, una preda troppo grossa per Tony da solo. Avevano deciso di usare insieme la canna a mulinello con un'esca insaporita con gamberi freschi. Il pesce negro era difficile da prendere, ma una volta abboccato c'era da divertirsi sul serio per tirarlo a riva. Lanciavano l'amo sulla parte in ombra della barca lasciando che il galleggiante seguisse dolcemente la corrente verso la parte più profonda, dov'era probabile che si nascondesse il pesce negro in attesa di pesci più piccoli da mangiare. Dopo venti minuti di lanci, con Tony che già si lamentava dell'inutile attesa, ne abboccò uno. Dalla velocità con cui il mulinello girava e dalla direzione che aveva preso il pesce, veloce verso l'ombra, Tomlin capì che dovevano averne preso uno da almeno cinque chili, magari addirittura sei. Il pesce stava u-
sando tutta la sua forza e il suo peso per rompere la lenza contro la catena dell'ancora. Ma Tomlin aveva fatto una prova con un peso da venticinque chili su quella lenza e quel mulinello cosicché riuscì a trascinare il pesce lontano dalla catena spiegando esattamente a un Tony tutto eccitato che cosa stava cercando di fare la preda per liberarsi. «Dobbiamo tenerlo lontano dalla catena e tirarlo in continuazione finché non si stanca. Adesso diamogli un po' di lenza e lasciamo che vada a sudovest, con la corrente. Inutile cercare di tirarlo su in un sol colpo, anche una lenza forte come questa si spezzerebbe. Come vanno le braccia, stanche?» «Per niente!» «Vedremo fra un minuto. Non farà troppi salti, cercherà di andare sotto e di usare la forza come in un braccio di ferro. Ecco, adesso ritira un po' di lenza e preparati. Bravissimo! Vedrai che questo qui finiremo per tirarlo fuori, in un modo o nell'altro!» «Davvero!» «Posso fare qualcosa?» interloquì Anita, godendo del loro piacere, una mano appoggiata sulla spalla di Tony. «Va' a prendere il retino», rispose Tom, guidando il grosso pesce verso babordo. «Ehi, l'ho visto!» Anche Tomlin aveva avuto una rapida visione del pesce, a meno di un metro sotto la superficie dell'acqua, che lottava con tutta la forza delle sue pinne e del suo corpo squamato per liberarsi dell'amo. Dopo una quindicina di minuti di estenuante lavoro, riuscì a infilarlo nel retino. Anita scattò loro una foto con il pesce, usando la Polaroid che Mace Lefevre teneva a bordo. Tomlin portò la Shady Lady IV più vicino all'isolotto chiamato Ship Island e buttò l'ancora su una secca che probabilmente ospitava pesci più piccoli, dopodiché diede a Tony, ormai pescatore provetto, una canna più piccola per pescare da solo, mentre lui e Anita scendevano nel soggiorno a bere una birra fresca. «Sei bravo con Tony.» «Cerco solo di ricordarmi com'ero quando avevo la sua età.» «Molta gente non è capace di farlo. Oppure preferisce non ricordare.» Stava cercando di girare intorno all'argomento che li turbava entrambi; ci girava intorno proprio come un pesce che fiuta l'esca, cambia direzione e poi si gira di nuovo a guardarla da lontano. Alla fine, dopo avere inutilmente cercato una poltrona di suo gusto, dopo essersi alzata e avere fatto una puntata fuori per vedere come se la cavasse suo figlio, Anita si decise
a parlare. «Immagino che Angel possa essere considerato un genio. C'è da chiedersi da dove gli venga. Cento anni fa i nostri nonni allevavano capre, avevano qualche ulivo o qualche filare di vite e cercavano di sopravvivere alle faide locali. C'è una vena di crudeltà nella nostra gente, naturalmente. E anche quel genere di fatalismo che pianta le radici nella consapevolezza di essere arroccati su un sasso in mezzo al mare. La crudeltà si trasmette. Non ne ho ancora visto i segni in Tony; ma chissà?» «Sei siciliana?» domandò Tomlin. «Lo siamo tutti quanti. Angel si chiama Dominic Barzatti. Il mio nome da ragazza è Morecante e quello di Carl è Buffano. Jeffords è solo una copertura.» Tomlin annuì gravemente. Dopo un lungo silenzio, Anita andò a sederglisi vicino e lui le prese la mano. «Dove hai conosciuto tuo marito?» «Conosco Angel praticamente da sempre. Siamo parenti di sangue, prima che per matrimonio. Cugini di terzo grado. Ci incontravamo quando eravamo bambini, a quei matrimoni con tanta gente. E ai funerali. Ci dicevamo soltanto ciao, come stai, come te la cavi? Non ci siamo mai visti altrimenti. Io uscivo raramente con i ragazzi al liceo, mio padre era molto severo. Pensava che non mi servisse andare all'università. Era dell'opinione che le sue figlie dovessero stare in casa a occuparsi di lui e del suo benessere. Le mie sorelle si sono sposate molto giovani. Io, invece, ho minacciato di raparmi a zero se mio padre non mi avesse permesso di accettare la borsa di studio che avevo vinto per il St. John's. Mio padre non mi ha quasi rivolto la parola per due anni perché con il mio comportamento avevo rischiato di disonorarlo. Deve essere stato fiero di me quando ha visto che all'università me la cavavo con onore, ma non me l'ha mai lasciato capire. I siciliani sono in gamba, ma non sono degli intellettuali e non hanno alcun rispetto per gli eruditi, secondo loro è uno spreco di intelligenza. Inoltre non si fanno quattrini a insegnare a scuola. Tornando ad Angel... era intelligente in un modo che si è dimostrato utile per la sua famiglia. Computer. Ti ripeto che credo che sia un genio. Penso che sia fra i migliori programmatori che ci siano al mondo.» «Com'è che vi siete messi insieme voi due?» «Stavo lavorando al mio dottorato a Princeton. C'era anche Angel, abitava in città. Lavorava in una di quelle aziende piccole e di grande prestigio, finanziate con il denaro dello stato, che fanno ricerca nelle punte più avan-
zate della tecnologia dei supercomputer. Non ho mai finto di capire di che cosa si occupasse veramente. Ci siamo incontrati una sera da Houlihan's, o da Ruby Tuesday, o in un altro posto del genere. Io ero con un ragazzo, lui con un paio di colleghi. Era un pezzo che non ci vedevamo, sei o sette anni forse. Quella sera accadde qualcosa; lui era maturato, era diventato adulto, non saprei. Ne fui attratta e probabilmente anche lui, mi telefonò un paio di sere dopo. Sei mesi più tardi ci sposammo. Il mio errore fu di non andare a letto con lui prima.» «Perché un errore?» volle sapere Tomlin, più che altro per farla continuare a parlare. Sapeva già quale sarebbe stata la risposta. «Perché... dopo la prima ondata della luna di miele, seguita a uno di quei fastosi matrimoni cattolici che mio padre pagò con enorme piacere, io... io mi sono accorta che non mi piaceva farlo con lui. Non che fossi vergine prima di sposarmi, niente affatto, l'avevo fatto con uomini che mi erano piaciuti e uomini che non mi erano piaciuti, ma mai, prima di allora, mi era capitato di farlo con un uomo del quale non mi importava. Mi spiego?» «È che non lo amavi.» «Già», ammise lei cupa. «La mia prima reazione razionale, dopo quello sciagurato matrimonio, fu: 'Oh, merda, che cos'hai combinato?' La soppressi fintantoché mi fu possibile. Fino a dopo che Tony fu nato.» «Ma perché sposarsi, tanto per cominciare?» «Ero stata pazzamente innamorata di un ragazzo molto brillante che si era dimostrato un totale fallimento. Era un tipo pieno di pretese, in maniera affascinante, ma totalmente irresponsabile. Ho sparso molte lacrime sul caro vecchio Bill finché non ho trovato la forza di liberarmi di lui e con lui di un pezzo di me stessa. Una storia dolorosa, quel genere di amore. Angel è arrivato al momento giusto. Un altro ragazzo brillante, evidentemente un requisito essenziale per me, ma questa volta solido, affidabile, serio... e di famiglia. Qualcuno con cui potevo parlare su serio. Il problema era stato proprio questo. Era un ascoltatore fantastico, almeno così pensavo, solo che non aveva niente da dire di sé, quando non si trattava di computer. Non aveva il minimo interesse in quello che accadeva nel mondo, ma che cosa dico il mondo, dall'altra parte della strada. Non guardava mai la televisione. Non leggeva nient'altro che roba tecnica. Giocava un sacco a pallavolo per mantenersi in forma e lavorava per quarantott'ore, sessanta certe volte, senza interrompersi. Quando eravamo insieme io parlavo e parlavo; mi sembrava che il nostro rapporto fosse meraviglioso, in realtà mi tenevo solo occupata.»
«Lui ti amava?» «E che cos'era l'amore per Angel? Il sesso lo disturbava. Non faceva che lavarsi dopo, come se per lui fosse una specie di penitenza. Però continuava a riprovarci e ne voleva di più, sempre di più, senza controllo, come un'automobile che va a duecento all'ora senza guidatore. Capisci quello che voglio dire? Si applicava al sesso come si applicava ai suoi computer, come se fosse davanti a un problema che era necessario codificare per poterlo programmare. Finché un giorno mi sono ridotta a dirgli no, basta, sono incinta, non posso più farlo finché non nasce il bambino.» «E ti ha dato retta?» «È stato allora che sono cominciate le prostitute. Tutte le sere, o addirittura durante l'intervallo di colazione; dieci minuti qui, un'ora lì. Adesso so che Angel non aveva mai avuto donne prima di sposarsi. Credo che non abbia mai saputo... come... come scaricarsi. Era terribile. Era come se... come se dopo avermi caricata... perdesse il controllo. Poi è nato Tony. Ho l'impressione che Angel fosse terrorizzato, in un certo senso, per la presenza di Tony in casa. In fondo che cosa fanno i neonati? Strillano quando hanno fame e sbavano e se la fanno addosso. La... la totale mancanza di controllo della situazione mandava Angel su tutte le furie. Per un certo periodo non è più neppure tornato a casa. In fondo a me andava bene così. Ormai avevo paura di lui. Un giorno ho visto Angel in bagno che si guardava un'ulcerazione al pene. E che espressione c'era nei suoi occhi, di tale orrore e disgusto... sapessi che colpo è stato per me. Gli sono saltata agli occhi. Come poteva farci una cosa del genere, non avrei mai più permesso che mi toccasse, e via di questo passo, una vera scenata. Lui è andato in pezzi e si è messo a piangere, con lacrime a fiotti, come un bambino. Quella notte ho l'impressione di avere rotto in lui qualcosa che non si è mai più aggiustato. Dopo non è stato più lo stesso. Fino a quel momento ero sempre riuscita a comunicare con lui, a ritrovare almeno un briciolo di sentimento. Ma quel pianto selvaggio l'aveva come sterilizzato. Era come se i sentimenti umani non ci fossero più. E allora sono cominciati gli assassinii.» «Signore», esclamò Tomlin. La stretta di Anita era così selvaggia da fargli male. E non era neppure mancina. «È stata colpa mia, colpa mia», gemette Anita. «Se solo l'avessi lasciato in pace, se non ci fossimo incontrati... Lui aveva la sua vita, allora, se la cavava benone, e io...» «Anita, finiscila. Chi ha ucciso Angel?»
«Una prostituta, una ragazzina. Magari quella che lo aveva contagiato, non me l'ha mai detto.» «Però ti ha detto che cosa aveva fatto?» «Nei dettagli. Non gli ho creduto. Ho pensato che stesse farneticando o qualcosa del genere. Ero spaventata, naturalmente. Ma non è stato niente in confronto alla paura che ho provato quando lui è uscito e l'ha rifatto e dopo è tornato con una videoregistrazione: c'era lui che montava una bagascia come un cane mentre le spezzava il collo.» Questa volta Tomlin non fece commenti. La Shady Lady IV ondeggiò lievemente mentre una barca passava poco lontano. Di sopra Tony seguitava a pescare pazientemente. Anita si tormentava una scaglia di smalto dall'unghia del pollice, le labbra bianche. «Così hai chiamato la polizia?» «Questa è la parte che stenterai a capire.» «Prova comunque a spiegarmela.» «Era terribilmente... terribilmente malato, questo è evidente, giusto? E... nella famiglia di Angel nessuno ha mai chiamato la polizia a meno che non ci fosse da chiedere un favore o da organizzare un pagamento.» «Mafia?» «È il termine che usano tutti quanti, ma non nella Fratellanza.» «Io non so niente dei gangster.» «Il termine generico è uomini d'onore, od onorata società. Lascia perdere, ti terrò una lezione più tardi. Se ci sarà un più tardi.» Tomlin la guardò fisso. «Non credo che tu ne faccia parte.» «No, è vero, non ne ho mai fatto parte. Resta il fatto che non appena ho superato il colpo mi sono messa in contatto con il nonno di Angel. Suo padre è morto e sua madre... insomma, è una donna, tutto qui, quindi soltanto il don poteva trattare con Angel. Don Aldo Barzatti. È il capo della più potente famiglia del paese, è il capo di tutti i capi, conosciuto e rispettato in tutto il mondo. La famiglia Barzatti è proprietaria del cinquanta per cento dell'impresa di importazioni di mio padre, che non è poco. Io l'ho saputo solo dopo essermi sposata con Angel; lui lo stava registrando sul computer una sera. Immagino che il don sia stato l'unico a prestare a mio padre dei soldi quando si sbatteva per mantenere una famiglia numerosa con la sua botteguccia di droghiere.» «Così hai chiamato il don e...» «E lui ha detto che sarebbe stato felice di vedermi, al piccolo bar di Mulberry Street dove andava sempre. All'epoca io e Angel vivevamo dalle
parti di New Brunswick, nel New Jersey, io facevo l'assistente all'università. Dunque sono andata in centro per il mio appuntamento con il don e ci siamo seduti a un tavolino in fondo alla sala dove le mosche erano meno voraci e abbiamo bevuto caffè amaro mentre io gli raccontavo tutta la storia.» «Avevi il nastro con te?» «Angel lo aveva cancellato dopo avermelo fatto vedere.» «Quindi non avevi prove che lui avesse assassinato quelle donne. Il don ti ha creduto?» «Non credo, ma era sconvolto. Immagino che non abbia faticato a scoprire tutto della prostituta e del nastro. Mi ha accarezzato la mano e asciugato le guance. Mi ha detto che avrebbe fatto quattro chiacchiere con Dominic e di non preoccuparmi. Non preoccuparmi! Certo che mi preoccupavo, ho fatto i bagagli, ho preso su Tony e mi sono rifugiata a casa, a Brooklyn. Ed è lì che Angel ci ha ritrovato quattro sere dopo, immagino dopo che lui e il don avevano fatto le loro 'quattro chiacchiere'.» «Ritrovato?» «Ero uscita con mia sorella Roseanne e i bambini per andare a fare compere al King's Plaza. Eravamo noi due con Tony e le sue due bambine. Guidava Roseanne. Era luglio, un giovedì sera, le strade erano affollate. Dopo avere fatto i nostri acquisti, abbiamo deciso di fare quattro passi per un paio di isolati e risalire fino alla Avenue R, dove suo suocero aveva un ristorante, per salutarlo e comperare una Coca ai bambini. Ancora non era buio. Sulla Flatbush Avenue c'era parecchio traffico, un sacco di gente sui marciapiedi. Angel doveva avere parcheggiato in seconda fila all'uscita del garage, oppure era venuto a cercarci e passando ci ha visti camminare. Era al volante della nostra seconda macchina, una Subaru grigia. Io camminavo sulla parte esterna del marciapiede e tenevo Tony per mano, intanto chiacchieravo con Roseanne. Lei si è fermata qualche secondo per guardare qualcosa in una vetrina. Abbigliamento prenatale, credo, Roseanne è sempre incinta. Angel ha imballato il motore della Subaru, ha tagliato la strada a un'altra macchina sulla corsia interna ed è balzato sul marciapiede. È stato lo stridore dei freni a salvarci. Mi sono girata a guardare, ho riconosciuto la macchina... forse ho anche riconosciuto il suo viso dietro il parabrezza, non saprei. Le cose che ti sto raccontando ancora sono confuse nella mia testa e ci sono voluti sette mesi dopo il fatto perché cominciassi a ricordare qualcosa. «Il mio primo pensiero dev'essere stato Tony. Lo tenevo per mano e l'ho
spinto con tutte le forze verso Roseanne, è stato un miracolo che non gli abbia staccato il braccio. Angel ha strisciato con la fiancata della Subaru contro un lampione, cosa che deve averlo fatto uscire di traiettoria, e io sono riuscita a fare un paio di passi verso sinistra prima che la macchina mi colpisse. Ho ancora una visione frammentaria della faccia di Roseanne un attimo prima dell'urto. Stava spalancando la bocca per gridare. Io sono stata proiettata in aria. Tutto quello che ti sto raccontando adesso mi è stato riferito più tardi. Stavano tirando su il tendone del fruttivendolo accanto al negozio dove Roseanne si era fermata. Era ripiegato a fisarmonica a circa due metri e mezzo di altezza sopra il marciapiede. Sono finita lassù, sono caduta di sotto e sono atterrata fra le pesche, le pere e le zucchine del fruttivendolo, poi sono rotolata nel canale di scolo; se fossi andata a finire contro qualunque altra cosa, tranne quel tendone... una vetrina, un muro... sarebbe stata la fine. Anche così è stato terribile. Avevo quasi un terzo del cuoio capelluto strappato. Un buco nel palato. Sanguinavo da tutte la parti e mi ero rotta la testa contro il bordo del marciapiede. Tony ha pensato che fossi morta; ha avuto uno choc, uno choc dai quali certe volte non ci si riprende. Anche Angel deve avere pensato la stessa cosa. È fuggito. Nessuno ha pensato a prendere il numero della targa. Roseanne ha visto chi era, ma ha tenuto la bocca chiusa.» «E che cosa ne è stato di Angel?» «Il don ha mandato a cercarlo. Angel non aveva spiegazioni. Fingeva che non fosse accaduto niente. Magari non ricordava davvero. Mentre parlava con don Aldo ha avuto un attacco catatonico. Io l'avevo visto un paio di volte rimanere seduto per ore intere a fissare nel vuoto, senza muoversi né aprire bocca. All'epoca non sapevo di che cosa si trattasse e lui rifiutava di farsi vedere da un medico. Questa volta lo hanno ricoverato in un posto a Long Island. Puoi immaginare che la prognosi non è stata molto ottimista.» «E di te che cosa ne è stato?» «Sono stata operata più volte, fisioterapia, terapia della parola. Assistenza psicologica. È stata una ripresa molto lenta. Non tornerò mai più come prima. È stato allora che Angel è scappato dalla clinica, che evidentemente non era munita di misure di sicurezza adeguate, ha scoperto dove mi trovavo ed è venuto a farmi visita. Don Aldo aveva messo un paio di uomini ad aspettarlo. Avrebbe dovuto mandarne dieci. Ci sono voluti entrambi i suoi uomini, tre guardie dell'ospedale e due pattuglie della polizia per farlo ragionare nel parcheggio. Angel non è poi così grosso, ma non credo che
sia davvero umano. Che cosa sia non saprei. Non riesco neppure a capire perché abbia deciso di uccidermi. Forse perché ho parlato di lui con il don? Oppure perché non dividevo il suo piacere nello strangolare prostitute?» «Ti senti responsabile per quello che Angel è oggi?» «Non più. Voglio solo vivere la mia vita! Voglio che la vita mi ripaghi per quello che ho passato.» «Ed è questo che volevi? Un rifugio qui alla Lostman Bayou? Una guardia del corpo a tempo pieno e un nome fasullo?» «Al don era sembrata una buona idea. Almeno per un po'. Nel caso accadesse di nuovo... il peggio.» Si guardarono senza parlare per qualche istante. «Ed è accaduto?» domandò Tomlin. Anita annuì. «Quando?» «Tre sere fa.» «Che cosa intendi fare?» «Ieri volevo fuggire.» «E oggi che cosa vuoi?» «Voglio te», rispose Anita, fissandolo guardinga. Non implorava, ma non sembrava neppure ottimista. «Clay!» strillò Tony in quel momento. «Ha abboccato! Un altro grosso!» «Tieni quella canna!» Tomlin balzò in piedi, si fermò, si girò verso Anita. Per un attimo lei rimase paralizzata, lo sguardo fisso in quello di lui. Tomlin non sorrideva. Ma andava tutto bene. Aveva l'aria felice. Si chinò a baciarla, rapidamente, con calore. «Scommetto che fra tutti e due riusciamo a trovare una soluzione», disse. 18 Wolfdaddy stava pranzando, seduto al tavolo della cucina alla casa grande di Lostman's Bayou, quando Tony e Tomlin fecero irruzione, portando la borsa frigorifera con il pesce che avevano preso. Tomlin aveva già pulito e tagliato il più grosso dei due, che altrimenti non sarebbe entrato nella borsa. «Opal, questi li ho presi proprio io! Clay mi ha solo aiutato a tenere la canna. Ce li prepari per cena?»
Opal lo guardò scettica. «Fino a ieri giravi la testa dall'altra parte quando c'era pesce. Dicevi: 'A me gelatina e burro d'arachidi'.» «Lo so, ma questi li ho presi io! Clay dice che se no li cucina lui sulla griglia, lui sa come si fa.» Non stava nella pelle per la gioia. «Meglio che andiamo a lavarci», suggerì Tomlin. «Sì, va bene. Ci vediamo dopo? La mamma dice che prima devo fare i compiti.» «Ci vediamo dopo, Tony.» Opal intanto ispezionava il pesce. Anche Wolfdaddy si alzò per dare un'occhiata. «Questi sarà meglio surgelarli», decise Opal. «E che cos'è questo qui grosso?» «Pesce negro.» Tomlin si versò un bicchiere di tè gelato dalla caraffa. «Come te la passi, Wolfdaddy?» «Cantiamo le lodi del Signore.» Aveva divorato due piatti di minestrone e adesso si stava lavorando un sandwich con carne salata. «Bene a sapersi.» Wolfdaddy tagliò via la crosta del pane italiano che faticava a masticare. «Sento che qui non va tutto liscio. Opal mi ha raccontato del serpente ritrovato stanotte nel camper.» «Nessun danno», minimizzò Tomlin. Wolfdaddy annuì. «Però avrebbe potuto morsicarti.» «Questo è certo.» «Chissà come ha fatto un serpente di quelle dimensioni a entrare senza che nessuno se ne accorgesse.» «Impossibile dirlo. E poi ai serpenti non piace stare in casa.» «Questo lo so.» Wolfdaddy mise giù il panino, la fronte aggrottata. Ruttò, sospirò, bevve un po' di tè. «E se qualcuno ce l'avesse messo apposta?» Di botto Opal smise di avvolgere il pesce nel cellophane, lanciò un'occhiata a Wolfdaddy e si diresse verso la lavanderia. «Questo non voglio sentirlo.» Tomlin attese che Opal fosse uscita; quindi sedette davanti a Wolfdaddy che intanto aveva preso il cappello con gli specchietti e se l'era messo in testa: indice di serietà, gravità. «Che cos'hai in testa, Wolfdaddy?» domandò Tomlin. «Adesso ti racconto quello che ho visto ieri sera e altre sere prima che tu tornassi alla baia. E tirerai tu stesso le tue conclusioni.» Quella sera, al Landlubber con Wink Evergood, Carl era di malumore,
in parte perché Wink seguitava a mangiare tranquillamente e non sembrava per niente turbato dal fallimento del loro piano per togliersi Clay Tomlin dai piedi. Inoltre Carl aveva passato una notte agitata sapendo che Anita se la stava facendo con Tomlin. Carl era uscito sotto la pioggia quando aveva cominciato a capire che qualcosa non andava e davanti alla porta del camper aveva trovato i due pezzi sanguinolenti del serpente tagliato a metà. Poi aveva fatto il giro sul retro e li aveva sentiti, Tomlin che se la sbatteva e Anita che mugolava come se fosse in paradiso. Quella cagna non aveva fatto altro che prenderlo a calci nelle palle, giurando e spergiurando che nessun uomo l'avrebbe mai più toccata, e invece aveva sempre saputo che cosa voleva veramente. Carl seguitava a strofinarsi la fronte come se gli occorresse la prova che non gli stavano spuntando le corna. Aveva voglia di uccidere Clay Tomlin, di cacciargli un'ancora su per il culo e scaraventarlo in acqua a dieci miglia dalla costa. «Ehi», lo apostrofò Wink, «fatti una birra.» Si asciugò con il tovagliolo le labbra sporche di salsa alle vongole. «Pauli Girl», disse Carl alla cameriera matronale che era venuta a servirli. «Una birra e che sia gelata.» Erano quasi le tre, il locale era tutto per loro. Fuori faceva caldo, c'era foschia. Un grande ventilatore era in funzione proprio sopra il loro tavolo, cosa che rendeva più facile la conversazione, evitando che le loro voci venissero udite da altri tavoli. «E adesso che cosa si fa?» ringhiò Carl rivolto a Wink. Wink alzò le spalle. «Abbiamo ancora un sacco di tempo. Ma questa volta dovremo avere la mano più pesante con lui, visto che l'idea del serpente non ha funzionato.» «Non dirmelo, fallo e basta.» Wink si fece un'altra fetta di pane strofinato di aglio. La cameriera portò una bottiglia di birra gelata insieme con un bicchiere che non sembrava troppo pulito. Carl bevve la birra direttamente dalla bottiglia. «Come dice il vecchio adagio», osservò Wink, «se hai fortuna, ti basta anche avere segatura al posto del cervello.» «Quel Clay non è per niente uno sciocco. È questo che mi preoccupa.» Nel parcheggio un'automobile frenò rumorosamente. Wink si sporse all'indietro e cercò di guardare attraverso la finestra, ma non vide nulla. Tornò a rivolgere la sua attenzione incondizionata al sugo che gli era rimasto nel piatto. Carl rimuginava fra sé. Voltava le spalle alla porta, così non vide Clay Tomlin quando fece il suo ingresso e si guardò attorno. Non ci mise molto a trovarli. Tomlin puntò diritto verso di loro con un sacchetto di
carta in mano. Quando fu a pochi passi di distanza Wink sollevò lo sguardo, la bocca in movimento; deglutì sorpreso prima di riuscire a ritrovare un sorriso. «Ehi, salve, amico.» Tomlin non aprì bocca. Carl si guardò attorno e scostò la sedia di qualche centimetro. La forza del ventilatore gli scostò la cravatta dal petto. Fissò Tomlin, che non lo guardava. Tomlin tirò fuori una bottiglia di Jack Daniel's da un quarto dal sacchetto e la posò davanti a Wink. La bocca di Wink tremò; non capiva. «E quella che cosa sarebbe?» «Per un'altra mascella rotta, coglione», rispose Tomlin. Wink non aveva certo bisogno di un invito scritto. Fu pronto a balzare in piedi, ma Tomlin aveva anticipato la sua reazione e prima che Wink potesse muovergli addosso lo colpì forte alla caviglia. Poi di nuovo al ginocchio. Non appena Wink cominciò a piegarsi in due, gli mollò un dritto e poi un gancio, colpendolo alla mascella nel punto in cui l'osso era più fragile; com'era prevedibile, la mascella si spezzò con uno scricchiolio e Wink ricadde sulla sedia, rovesciando quasi il ventilatore. Non poteva combattere con un ginocchio lussato e la mascella spappolata. Rimase inerte, respirando affannosamente, mentre Carl piombava addosso a Tomlin, bloccandogli le braccia dietro la schiena. Si abbatterono su un tavolo vicino, rovesciandolo. «La prossima cosa che romperò sarà il tuo affitto, Carl», lo avvertì Tomlin, divincolandosi; ma Carl lo teneva stretto, con una presa d'acciaio al polso. «Datti una calmata; sei diventato matto?» Intanto dal banco la proprietaria del ristorante aveva afferrato il telefono e stava urlando: «Fatela finita, maledetti balordi! Altrimenti chiamo la polizia!» Subito Carl lasciò andare Tomlin, si sistemò i polsini della camicia, raddrizzò la cravatta e si diresse con un sorriso amichevole verso la donna. «Non ce n'è bisogno. Solo una piccola discussione. È finita adesso. Li porto io fuori di qui.» Aveva estratto il portafoglio. «Le bastano cento dollari per i danni?» Wink si tirò in piedi lentamente, sostenendosi allo schienale della sedia, in equilibrio sul piede sinistro. Fece una smorfia. Lanciò un'altra occhiata a Tomlin, con l'aria di chi ancora non ha ben realizzato l'accaduto, poi zoppicò faticosamente verso la porta grugnendo. Andò a sbattere contro un ta-
volino e quasi perse l'equilibrio. La mascella aveva cominciato a gonfiarsi. Passò accanto a Carl a capo chino, con la gamba che Tomlin aveva colpito ancora incapace di sostenere il suo peso. «Ospedale», biascicò. Carl mollò alla padrona due biglietti da cinquanta dollari e lo seguì fuori. Tomlin tornò a infilare la bottiglia di whisky nel sacchetto di carta e uscì anche lui. «E che non vi veda mai più nel mio locale!» urlò loro dietro la proprietaria. Carl stava aiutando Wink a infilarsi nella Mercedes. «Voglio parlarti», lo apostrofò Tomlin. Carl esitò, poi gli andò vicino. «Hai un'idea di che cosa sia questa storia?» volle sapere Tomlin. Carl fece un gesto di indifferenza, teneva entrambe le mani in alto nel caso l'altro volesse attaccar briga anche con lui; Tomlin era rosso in volto. «Allora ce l'hai con Wink. E questo che cos'ha a che vedere con me?» «Ha a che vedere con le consegne notturne di droga sul mio molo.» Carl piegò la testa di lato e sorrise, incredulo. «Vuoi negarlo?» «Negare che cosa? Io non ho sentito niente che debba negare.» «Mettiamola così. Che cosa ne dici del don per il quale lavori? Che cosa farebbe se venisse a sapere che hai fatto entrare della coca dal Messico e ti sei incassato tutti i profitti?» Non poteva sapere se fosse la verità, cioè che Carl avesse tagliato fuori il suo capo da quell'impresa, ma quando Carl lo sfidò con lo sguardo qualcosa nel suo viso lo tradì; le spalle gli ricaddero. «Anita non sa tenere la bocca chiusa», commentò irritato. «Questo non significa che io sappia qualcosa della tua maledetta droga.» Accalorandosi, Tomlin ribatté: «Lasciala fuori da questa storia, capito? Prega il cielo di averla lasciata fuori». Carl alzò le spalle. «Allora siete a questo punto, voi due.» «Già, a questo punto.» «Avrei dovuto accorgermene. Mettiamo le cose a questo modo, magari in questo momento sei tu che approfitti della sua situazione, di com'è in questo momento. Ma quello che conta davvero per Anita sono io, che sia disposta ad ammetterlo oppure no.» Il respiro di Carl si stava facendo affannoso a mano a mano che perdeva la calma. «A ogni modo, per quel che dicevi prima Anita è innocente come un bambino.»
«Già, grazie. Voglio che tu ti tolga dai piedi. Stasera stessa.» «Merda», sibilò Carl, disgustato. Ma l'espressione sul viso di Tomlin non gli piaceva affatto ed era meglio andarci piano con un uomo che aveva appena rifatto i connotati a Wink Evergood. «Okay, se proprio insisti posso trasferirmi per un po' alla barca...» «Ho detto che devi toglierti dai piedi. Voglio che te ne vada via da Lostman Bayou.» «C'è qualcosa che tu non capisci. Non posso tagliare la corda e lasciare Anita e Tony. Non ti ha detto...» «Di quello svitato di suo marito? Sì, me l'ha detto. E allora? Prenditi la barca e vattene da qualche parte dove non debba vederti.» «Ho un contratto d'affitto regolare, amico.» «Firmato con un nome falso.» «Ancora congetture. Lascia che ti dica una cosa, Tomlin. Ti stai cacciando in un guaio dal quale potresti non uscire vivo.» Dietro di loro Wink Evergood aprì la portiera della Mercedes, si protese fuori e vomitò il pranzo sull'asfalto. «Straordinario, Carl. Perché non mi fai vedere quanto vali? Questa è la mia città, il liceo porta il nome di mio nonno. Davvero vuoi trovare qualcuno che ti metta a posto?» disse Tomlin. «Non parlavo di me. Parlavo di lui. Di Angel. Guarda bene Anita a letto qualche volta. Dai un'occhiata alle sue cicatrici. È stato Angel a procurargliele. E quello era solo il principio per lui. Non oso neppure pensare a quello che farebbe a te se ti trovasse con lei.» Wink lo chiamò stizzito. «Carl? Devo andare a farmi sistemare questa mascella.» Tomlin ficcò la bottiglia di Jack Daniel's nelle mani di Carl e s'incamminò verso la Corvette. «Entro stasera stessa», ripeté senza voltarsi. Elizabeth, la ragazza di Mace Lefevre, prese la copia dei contratti d'affitto per la casa di Lostman's Bayou e li portò insieme con una cartellina di corrispondenza. Mace inforcò gli occhiali con le mezze lenti per leggerli, poi porse i contratti, voltati sull'ultima pagina, a Clay Tomlin. «Niente di illegale con questi, Clay. Puoi vederlo da te. Sia il vecchio sia il nuovo contratto sono stati firmati a nome della Stan-Dak Corporation di Mamaroneck, New York, e firmati dal consulente legale della corporation, Franklin E. Bookhultz. L'intero affitto di un anno è stato pagato in antici-
po, al momento della firma.» «E questo Bookhultz è un vero avvocato con tutte le carte in regola?» Mace si tolse gli occhiali aggrottando la fronte. «Naturalmente, ho controllato il suo nome all'Ordine. Vecchio studio di famiglia. Bookhultz, Rediger e Seaborn. Di Larchmont, New York. Ma che cos'è questa storia?» «Carl ha le mani in pasta con la mala. La famiglia Barzatti, chiunque essa sia. Ha usato la mia proprietà come copertura per un traffico di droga. E il suo vero nome non è Jeffords, questo lo sapevi, almeno?» Mace si appoggiò allo schienale della poltrona. «Certo che lo sapevo, è Carlo Buffano.» «Ma, allora, che diavolo significa Mace?» «Clay, un sacco di gente usa nomi diversi e non c'è niente di male in questo, a meno che non sia fatto con intenti fraudolenti. In una cosa hai ragione: non ero al corrente dei suoi legami familiari. E certo ero del tutto all'oscuro circa il suo presunto coinvolgimento in un traffico di droga. A proposito, hai le prove di questo?» «Gesù Cristo, Mace, ma tu chi rappresenti?» «Rappresento le proprietà di tuo padre e di tuo fratello buonanima. Rappresento te e non voglio vederti finire nei pasticci perché non sei maledettamente certo delle cose che vai raccontando in giro. E, lo ammetto, ho fatto anche qualche piccolo lavoro di consulenza per Carl, la compravendita di un piccolo lotto di terreno a ovest per il quale ho appena finito di stilare i documenti.» «Torniamo alla roba, Mace. La Marina aveva un problema grave con la droga. Ho visto un ragazzino di diciannove anni addetto alle manovre sul ponte della Kennedy perdere entrambe le braccia, sopra il gomito, per il cattivo funzionamento di una catapulta. Ho visto un altro ragazzino con la testa fra le nuvole bruciare vivo. Entrambi avevano sniffato coca. In Vietnam ho perso tre piloti della mia squadriglia perché erano diventati tossicodipendenti. Io odio la droga, Mace. Voglio che Carl lasci subito la mia casa.» Mace scosse la testa. «Non senza una buona causa. Quindi, se hai le prove di quello che secondo te ha fatto, allora...» «Una notte Wolfdaddy ha visto chiaramente la barca che arrivava dal Messico. Era la barca di Wink Evergood, quella che abbiamo visto l'altro giorno al molo. Wink e Carl in persona, insieme con il pilota della barca, hanno scaricato la coca e l'hanno portata sul retro del furgone di Wink coprendola con un telone impermeabile. Poi Wink si è messo al volante del
furgone ed è andato a un punto d'incontro, nelle vicinanze di Red Creek, alla darsena di DeSoto, dove un elicottero ha preso su la roba e l'ha portata da qualche altra parte.» «E come diavolo fa Wolfdaddy a sapere tutto questo!» «Ha semplicemente messo insieme quello che ha visto con i suoi occhi con altre piccole cose. Tornando indietro da Red Creek, Wink è rimasto bloccato da un acquazzone; sai anche tu come sono quelle stradine in terra battuta, così è stato costretto a proseguire a piedi e a chiedere aiuto il mattino dopo. Il traino che lo ha tirato fuori dai pasticci è quello del signor Dawlie Simms, cognato di un membro del gregge di Wolfdaddy alla Chiesa-Vicino-al-Cielo. È così che Wolfdaddy ha scoperto dov'era andato il furgone dopo essere partito da Lostman's Bayou.» «E con questo?» «Mentre stavano pulendo il furgone di Wink al garage dove lavora Simms, qualcuno ha notato polvere di coca sul telone. Era un tipo che conosceva esattamente come fosse fatta perché prima di tornare alla religione ne aveva fatto uso. L'uomo ha portato un campione di quella polvere a Wolfdaddy. Allora Wolfdaddy ha chiesto a Dawlie Simms di fare un salto a Red Creek, dove fra l'altro lui fa la pesca con il cucchiaino durante i fine settimana, e guardarsi un po' in giro. Da quelle parti non c'è abbastanza spazio per l'atterraggio di un aereo, anche piccolo, ma ce n'è più che a sufficienza per un elicottero. Infatti Simms ha trovato una zona ancora spazzata dal vento delle eliche e le tracce di due pattini che la pioggia non aveva cancellato. Fine della storia. Allora, pensi che basti per fare arrestare Carl?» «Al diavolo, no. Non dico che la DEA non sarebbe interessata a tenerlo d'occhio per un po', ma non puoi rescindere un contratto sulla testimonianza di qualcuno che vive in cima a un albero e di un branco di disgraziati neri che probabilmente si rifiuterebbero comunque di testimoniare.» «Magnifico. E, a questo punto, pensi ancora di trattare affari con Carl?» Senza esitare, Mace rispose: «Non dopo quello che mi hai detto». «Ma non sai ancora tutto», seguitò Tomlin, dopodiché riferì la storia del serpente e del suo incontro con Wink Evergood al Landlubber. «Gesù!» esclamò Mace preoccupato. «Probabilmente ti stanno sparando una querela proprio in questo istante.» «Quei due hanno troppe cose da nascondere. Però il fatto che si siano presi la briga di mettere quel serpente in casa mia significa perlomeno che Carl vuole liberarsi di me. Certo, potrebbe essere gelosia...» Mace gli lan-
ciò un'occhiata interrogativa, ma Tomlin non la raccolse, «solo che io non lo credo. Hanno un altro carico in arrivo, fra poco, e Carl ha paura che io possa essere d'intralcio.» Mace parve riflettere. «Tu sei già stato d'intralcio, non c'è dubbio, anzi, secondo me hai fatto il passo più lungo della gamba. Te lo dico e te lo ripeto, non abbiamo in mano un solo elemento sufficiente per andare dallo sceriffo.» «Intendi dire che devo tenermi Carl, che lo voglia o no?» «Proprio così. In quest'ultimo anno ho imparato a conoscere qualcosa di Carl, ma mi rendo conto che è tutta superficie: è affabile, se la intende con gente di tutti i tipi, possiede una barca stupenda e una Mercedes-Benz, gioca bene a golf. Quanto alle donne, sembra avere una tendenza per le poco di buono, almeno quel genere. Eppure, chissà perché, non mi ha mai dato la sensazione di essere una persona su cui si possa contare. Magari quando è a secco di argomenti, quando non riesce ad avere quello che vuole con i sorrisi e la gentilezza, è il tipo che passa alle maniere spicce.» «Sì, questo è il Carl che io conosco», convenne Tomlin. «Stai attento», lo ammonì Mace Lefevre. 19 Erano trentotto ore filate (da quando aveva lasciato la casa di don Aldo) che Angel non chiudeva occhio; poi, finalmente, il sistema al quale aveva dato la caccia si annunciò sul monitor del computer dello studio di Baldric in un codice segreto familiare ad Angel perché era stato proprio lui a inventarlo. Mandò giù un'altra sorsata di tè che intanto si era raffreddato prima di protendersi sulla tastiera e battere una risposta, dopo un'impercettibile esitazione, lasciando che il codice affiorasse dalla sterminata banca dati che aveva archiviato nel suo cervello. Angel provò un vero piacere nell'atto del ricordo, nella memoria, il piacere che un altro uomo potrebbe provare alla vista di una splendida alba, di un'opera d'arte. Quindi batté le istruzioni nel codice che non si erano dati la pena di cambiare. La lista dei comandi scomparve dal monitor per lasciare posto a un'unica, intermittente parola: CHIUSURA. Adesso poteva assumere il controllo del sistema che lui stesso aveva progettato attivando un ingresso alternativo che aveva inserito anni prima
nel programma di base, un comando nascosto così bene che neppure il più brillante fra i professionisti del computer poteva sperare di ritrovare, anche se ne avesse sospettato l'esistenza. Attese; sette secondi. Un'altra parola lampeggiò sullo schermo, CENTRO. Angel battè un saluto, ANGEL È A CASA. E il computer della famiglia Barzatti rispose: SALVE, ANGEL. CHE COSA POSSO FARE PER TE? Esattamente un minuto e quaranta secondi più tardi Angel scostò la sedia e si allontanò dal monitor che lasciò acceso. Si stiracchiò voluttuosamente, sentendo le giunture delle ginocchia e le vertebre crepitare, poi andò in bagno. Un rivolo d'acqua scorreva lentamente sulla testa del cadavere che aveva abbandonato nella vasca. Nell'aria stagnava un vago odore sgradevole. Angel scaricò a lungo la vescica, svuotandola di tutto il tè che aveva bevuto. Dopodiché si spogliò, appese gli abiti al gancio sulla porta del bagno. Entrò nella vasca, in mezzo alle ginocchia spalancate di Baldric, e aprì tutto il getto della doccia. Si insaponò con un'espressione di cupa soddisfazione sul volto, senza guardare mai in basso. Dopo essersi asciugato e rivestito tornò nello studio. Aveva perso la nozione del tempo e dalla luce che entrava nell'appartamento avrebbe potuto essere sia l'alba sia il tramonto. L'informazione ottenuta dal computer della famiglia era ancora sul monitor: BARZATTI, ANITA (MORECANTE) AKA JEFFORDS LOSTMAN'S BAYOU, MISSISSIPPI (601) 939-6757. Il numero di telefono gli aveva permesso di identificare il computer installato alla casa della baia. Mentre si lavava, Angel aveva deciso di mandare un messaggio che già aveva concepito nella sua testa, anche se ci sarebbe voluto un sacco di lavoro per realizzarlo. Ma lui non aveva fretta. Tornò a sedere davanti alla tastiera, gambe allungate, sguardo fisso al monitor. Presto gli occhi si chiusero e la testa ricadde in avanti. Cadde in un sonno profondo, come se fosse stato ipnotizzato. 20 Sul ponte del Lollapalooza, Carl stava iniziando la manovra di allontanamento quando Tomlin arrivò al volante della Corvette. Carl suonò la sirena e salutò con la mano, rilassato e cordiale. Tomlin non rispose al saluto, rimase in piedi accanto alla macchina finché il motoscafo di Carl non fu
lontano, la prua rivolta verso il Sound. Tony era appena uscito di casa quando udì la sirena. «Dove va?» «A fare un viaggio», rispose Tomlin, chiedendosi se fosse vero. «È probabile che non lo vedrai più tanto spesso.» Tony si puntò le mani sui fianchi, imitando inconsciamente Tomlin, lo sguardo fisso sul motoscafo di Carl. «Va bene», disse. Poi guardò Tomlin. «E tu?» «Questa per me sarà sempre casa mia, Tony. Dov'è tua madre?» «Sta lavorando.» Il bambino si rilassò. Si inginocchiò sull'erba per allacciarsi una scarpa. «Mi hai detto che magari avevi tempo di insegnarmi a fare qualche lancio per la pesca con il cucchiaino.» Tomlin guardò un cumulo di nuvoloni minacciosi in lontananza vicino ai quali la Lolly sembrava un giocattolino. Il sole però brillava ancora. «Certo che ho tempo.» Mise il motore fuoribordo su una delle due barche a fondo piatto e lentamente presero a risalire il braccio di fiume con Tony al timone; non era da escludere che il pesce abboccasse, pensò Tomlin, non aveva senso sprecare così una lezione anche se teorica. I suoi pensieri correvano ancora a Carl; andarsene così, senza un vero saluto, appena un suono di sirena, sarebbe tornato. Magari dopo avere sbrigato qualche faccenda poco pulita da qualche altra parte lungo la costa. Dopodiché non era da escludere che si arrivasse a un confronto, con Anita in mezzo; e magari, pensò, Anita non se la sarebbe sentita di mandare al diavolo la famiglia di Angel. Il padrino, o chiunque fosse, sarebbe potuto giungere alla conclusione che, per il bene del bambino, lei e Tony dovevano spostarsi di nuovo. E lei che cos'altro avrebbe potuto fare? La controproposta di Tomlin avrebbe offerto ben poca sicurezza. Ogni sera, al tramonto, sarebbe toccato a lei prendersi cura di lui. Eppure il pensiero di perderla, di perdere entrambi, lo faceva star male. «Carl non è il mio papà», disse inaspettatamente Tony. Dalla posizione in cui si trovava Tomlin non poteva vedere il suo viso, nascosto sotto la visiera del berretto. «Sì, lo so.» «Posso riprovare con un'altra esca, adesso?» «Okay.» «Che cosa peschiamo?» «Trote. Trote maculate.» «E quanto sono grandi?»
«Abbastanza da farti sudare.» Non presero niente. Tony ruppe la lenza un paio di volte mandandola a impigliarsi fra le alghe, ma non perse la pazienza né mise il broncio, si limitò a voltarsi per vedere come la prendeva Tomlin. E Tomlin capì che quello che dava maggior piacere al bambino quel pomeriggio era stargli seduto accanto e imparare da lui cose che avrebbe amato per tutta la vita. Prima che entrambi si rendessero conto di quanto fosse tardi, stava già diventando buio e Tomlin faticava a vedere il galleggiante. «Una volta avevo un altro papà», disse Tony, dopo quaranta minuti di silenzio sull'argomento. «Me l'hanno detto. Te lo ricordi?» Poi rimpianse di avere posto quella domanda. «No», rispose Tony. Aprì la borsa frigo che si erano portati dietro e prese una Mountain Dew. Tomlin dovette aiutarlo ad aprire la lattina perché le mani del bambino erano irrigidite per avere tenuto la canna troppo a lungo. Bevvero un sorso a testa. Tony sedette in mezzo alle ginocchia di Tomlin e appoggiò la testa contro il suo petto. «Certe volte sì», mormorò guardando il cielo. Poi, nello stesso tono di voce tranquillo: «Sono stanco». «Anch'io. Troppa pesca oggi. Meglio tornare.» «Per via dell'ora delle streghe?» «Quella è una cosa che avevo detto perché al momento non volevo confessarti che... che ho un problema.» «Non ci vedi quando è buio.» «Proprio così. Come hai fatto a scoprirlo?» «L'ha detto la mamma. Parlava da sola. Pensava che io dormissi e non la sentissi. Ma non vedi proprio niente!» «No, non dopo che il sole è tramontato. Niente fino al mattino dopo.» «Dev'essere strano. Hai paura?» «Ne ho avuta», ammise Tomlin. «Io dormo con la luce accesa. Non permetto a nessuno di spegnermi la luce da notte. Sai.» Girò verso di lui il visetto con la bocca appiccicosa di Mountain Dew e gli lanciò un bel sorriso, con qualche dente di meno. «Big Dog potrebbe farti da cane guida. Scommetto che riusciremmo ad addestrarlo. Ti piacerebbe?» «La vera domanda è: a Big Dog piacerebbe?» «Oh... in fondo tu dormi comunque quasi tutta la notte, giusto? Quindi potrebbe andare peggio.» «Già, lo penso anch'io. Vuoi finire questa Mountain Dew?»
«No, grazie. Preferisco la Sprite. Stasera ci cucini il pesce alla griglia, come hai promesso?» «Sarà meglio lasciare cucinare a Opal, stasera. E adesso che cosa ne dici di muoverci e tornare a casa?» Carl se ne stava comodamente sdraiato sotto il tendone Bimini del motoscafo ancorato al largo delle acque intercostali, al riparo dal traffico del Golfo... barche a noleggio, pescherecci... sul lato nord della Ship Island. Si stava godendo un tramonto splendido e un'altra seven-and-seven mentre seguitava a rimuginare sui suoi problemi. Il carico di coca da Cancun era previsto per le due di quella mattina. Lui e Tom Paul potevano sbrigarsela da soli, anche senza Wink, sebbene il punto d'incontro di riserva, un cantiere semiabbandonato a sette miglia a est di Port Bayonne, mancasse di quella totale tranquillità alla quale si era abituato a Lostman's Bayou. E poi i detriti galleggianti erano sempre un rischio, con la navigazione senza luci. Insomma, nella vita non si aveva mai niente per niente; un'ora di sudore gelato nel tentativo di vederci nel buio, chiedendosi se la guardia costiera non avesse per caso scelto proprio quella notte per fare un controllo casuale al cantiere era in fondo il giusto prezzo da pagare. Sicuramente, però, non aveva intenzione di sfidare la fortuna dopo quella notte. E poi era comunque il tramonto della coca. L'aveva saputo dal computer, collegato con altri sistemi clandestini. Qualunque chimico con un minimo di competenza era ormai in grado di sintetizzare droghe capaci di darti una sferzata mille volte più forte della morfina; buona parte di queste non erano ancora illegali ed era possibile trasportarne per un valore di un miliardo di dollari in una scatola da scarpe. Con un quindici per cento della popolazione biogeneticamente predisposta alla dipendenza ai farmaci, le droghe sintetiche rappresentavano il business del futuro per un imprenditore com'era lui. Prima dell'alba avrebbe avuto un milione e sei in contanti ben nascosto a bordo della Lolly, così ben nascosto in realtà che sarebbe stato necessario fare a pezzi il fottuto motoscafo per riuscire a trovarlo. La primavera prossima un viaggetto di piacere alle isole Caimano e qualche piccolo deposito nei conti della società che suo cugino Rollie aveva aperto laggiù. Distribuire il denaro con cura: in altre banche a Panama, Curacao, Hong Kong. Sfortunatamente Carl non aveva modo di sapere a chi Tomlin avesse spifferato tutto quanto, se pure lo aveva fatto. Se aveva un minimo di buonsenso, avrebbe dovuto rendersi conto, dopo avere fracassato la ma-
scella di Wink, che era andato davvero troppo in là. Non era da escludere, però, che si fosse confidato con Anita. Ma di questo Carl non si preoccupava. Si sentiva ancora tradito da Anita; avevano vissuto insieme un anno intero, era stato quasi come un matrimonio. Doveva assolutamente superare quel sentimento distruttivo, quella gelosia cieca, poiché in fondo sapeva bene di avere lui il controllo della situazione. In fondo era in suo potere allontanare Anita e Tony dalla baia, doveva soltanto convincere il don che quello spostamento era necessario. E la famiglia lo aveva già messo sul chi vive. Statemi a sentire, avrebbe detto, è solo una precauzione finché non sappiamo che Angel è di nuovo al sicuro sotto chiave. Un altro spostamento sarebbe costato parecchi quattrini, ma il don aveva il suo onore da difendere e un reale rispetto per Anita. E poi c'era il piccolo Tony, sangue del suo sangue. In un certo senso, per quanto gli fosse sgradevole ripensare al colpo di testa di Anita, non era da escludere che Tomlin gli avesse fatto un piacere. Gliel'aveva sciolta, aveva rimesso in circolazione i suoi umori. Oh, Signore. Una volta allontanata Anita dalla baia, rimuginò Carl, magari da qualche parte sulla costa occidentale... Santa Barbara era una città stupenda... avrebbero ripreso la vita di prima, ma con una differenza sostanziale. Anita sarebbe arrivata alla conclusione che l'unica cosa che contava era la famiglia; nessuno, neppure quel pilota, si sarebbe preso a cuore il suo benessere quanto la famiglia. Finalmente avrebbe capito quanto bene le voleva Carl. Adesso si sarebbe potuto permettere di comperarle qualcosa di carino. Quanto al sesso, aveva avuto paura di forzarla, pensando che fosse davvero frigida. Sorpresa! La prossima volta non se la sarebbe lasciata scappare. Saltandole addosso come aveva fatto il giorno prima nel bagno, aveva visto più di un'appetitosa fica sprecata, aveva visto il desiderio balenare e spegnersi nei suoi occhi. Nessuna meraviglia che Tomlin si fosse trovato la strada spianata. Soltanto al pensiero, Carl sentiva che gli diventava duro. Gesù, con tutte le mignotte che si era fatto, nessuna lo aveva mai eccitato come Anita. In calzoncini corti e gambe nude le batteva tutte quante. Un culo da schianto. Angel, in fondo, non aveva fatto danni dove contava veramente. Senza neppure accorgersene, Carl aveva terminato il secondo drink. Ne voleva un terzo. L'uccello continuava a pulsare. Scagliò in mare il bicchiere e aprì i calzoncini, ripetendo il suo nome con ingorda voluttà. Anita salì al piano di sopra per dare un'occhiata in camera di Carl, poi
scese di nuovo in soggiorno dove Tomlin l'aspettava. Si accese una sigaretta prima di parlare. «Non si è portato dietro molta roba, se pure ne ha presa.» «Forse a bordo ha tutto quello che gli occorre per una crociera bella lunga.» Anita gli passò davanti e andò verso le porte scorrevoli, lievemente socchiuse, della biblioteca. Tony era seduto davanti al computer e faceva un gioco dal titolo «Corridoi stregati». Su un piatto accanto alla tastiera c'erano i resti di un sandwich al burro d'arachidi e gelatina. Big Dog la guardò dal tappetino sul quale era accovacciato. Anita richiuse fino in fondo le porte e andò a sedersi per terra vicino a Tomlin, con una smorfia per il dolore all'anca destra. Gli appoggiò la testa sul ginocchio. Lui allungò la mano e le sfiorò la nuca, una spalla. «Vorrei che tu mi avessi consultata prima di accusare Carl...» «Non è stata solo un'accusa.» «Lo so, lo so. Me l'hai già spiegato. Solo non posso credere che lui...» «Ma quanto sai tu di Carl veramente?» «Oh, non molto.» Aveva la voce stanca quella sera, le parole uscivano imprecise, come un bisbiglio roco. «È stato assegnato a te, in un certo senso, giusto?» «Giusto. Ma se se n'è andato per davvero...» «Senti la sua mancanza?» «Questo è sleale! Qualunque cosa sia, o possa essere, Carl è stato gentile con noi. E ce l'ha messa tutta con Tony. Mi sentivo al sicuro con lui.» «Più al sicuro che con un cieco?» Anita si alzò in piedi, staccandosi da lui con un gesto esasperato. Tomlin la udì camminare avanti e indietro per la stanza. Fino ai cani Ming ai lati del camino, fino alla porta del soggiorno. Stava diventando bravo a seguire i movimenti della gente con il solo rumore. Era un bene che il pavimento scricchiolasse un po'. Oppure era solo perché si sentiva tanto in sintonia con Anita, forse non avrebbe funzionato altrettanto bene con un estraneo. Lei gli tornò subito accanto e lo prese per le spalle. «Tu non sei cieco, quindi finiscila di compatirti.» Lo baciò e lui se la tirò in grembo. Anita appoggiò la sigaretta in un portacenere mentre Tomlin le infilava la mano nella camicetta e le sfiorava il capezzolo sotto il reggiseno. Dalla libreria giunse un grido stridulo e malevolo dal computer, quando l'omino dei corridoi stregati vinse la partita. Senza staccare le labbra da
quelle di Tomlin, Anita tirò via la mano dal seno. Ma la tenne stretta nella sua. Dopo un respiro profondo e soddisfatto, disse: «Tony ti vuole bene, ma... io e te, Clay, forse è un po' troppo da imporgli in una volta sola. Non credo che gli farebbe bene entrare in camera mia in piena notte, cosa che qualche volta fa, e trovarti lì. Capisci quello che voglio dire?» «Che non devo avere fretta a trasferirmi qui.» «Dagli solo un po' di tempo per abituarsi alla tua presenza.» Anita lo baciò di nuovo, poi balzò in piedi precipitosamente mentre Tomlin udiva il rumore delle porte scorrevoli che venivano aperte. Tuttavia mantenne il contatto con la sua mano dietro la schiena. «Ciao, Tony! Finito di giocare?» Dal tono della sua voce Tomlin non ebbe dubbi che Tony l'aveva... li aveva... colti in flagrante. Sorrise fra sé. «Mi sono annoiato», disse Tony. «Mi dai un altro panino con il burro d'arachidi e la marmellata?» «Puoi fartelo da solo, Tony. E dopo subito a letto, sono già le nove e un quarto.» «Buonanotte, Tony», disse Tomlin. «Buonanotte», lo salutò il bambino dopo qualche secondo, passando accanto alla poltrona dov'era seduto. Big Dog lo seguiva ansimando. «Come fai ad andartene?» gli domandò poi. «Mi aiuterà tua madre.» Tony si rivolse ad Anita. «Poi vieni di sopra? Subito?» «Va bene.» Il bambino partì verso la cucina, lo sentirono fischiettare. «Sei tutta rossa in faccia», disse Tomlin. «Come fai a saperlo, tu non... Oh, che furbacchione sei.» «Già», convenne Tomlin. 21 Il marito di Marilyn Anstedt, Jack, un analista di mercato, era a Chicago per lavoro. Marilyn aveva fatto tardi al lavoro, e prima di ritornare nella loro casetta in stile coloniale su Birchall Road a Cherry Hill, New Jersey, anche se il piccolo Larry di quindici mesi avrebbe dovuto essere a letto da un pezzo, si fermò per fare una rapida spesa nel piccolo supermercato di Pathmark, nelle vicinanze di casa sua. Il piccolo stava mettendo i denti e pia-
gnucolava; Marilyn gli diede un biscotto per tenerlo occupato mentre ammonticchiava frettolosamente nel carrello gli ultimi articoli di prima necessità, come i Pampers. Con il visetto imbrattato di briciole al cioccolato, Larry puntava il dito qua e là, esprimendo il suo interesse in un linguaggio comprensibile a lui solo. Marilyn avrebbe preferito non lavorare, almeno fino al giorno in cui Larry non fosse stato abbastanza grande da andare all'asilo, ma la nuova casa era costata un po' più di quanto potessero permettersi e tutti gli agenti immobiliari che avevano consultato li avevano spinti a comperare subito perché l'anno prossimo i tassi di interesse e i prezzi d'acquisto sarebbero saliti alle stelle. Jack aveva trentun anni e aveva davanti a sé almeno tre anni di anticamera prima di sperare di diventare dirigente e guadagnare il doppio dei trentottomila dollari che portava a casa attualmente. Marilyn, che a sedici anni aveva partecipato alle eliminatorie per le Olimpiadi, faceva l'insegnante di ginnastica in una palestra comunale. In quel momento indossava un grosso maglione fatto a mano sopra una calzamaglia verde e scarpe con la suola di corda. Controllò diligentemente le voci della lista scribacchiata in fretta e furia. Avevano spostato di nuovo gli articoli per animali? Non facevano che cambiare disposizione in quel negozio. Chiese a un inserviente che le indicò il corridoio giusto. Tre scatole di Tabby Treet. E con questo aveva finito. La cassiera aveva fatto recentemente un corso con lei. Ottima negli esercizi a terra, senza speranza all'asse d'equilibrio. Larry aveva ripreso a piagnucolare, sbavava, un disastro. Marilyn lo tirò su e gli sculacciò il sederino infagottato mentre la ragazza le infilava gli acquisti nei sacchi di carta. «Fai gli straordinari stasera, Barbi?» «È per il concerto di Bruce Springsteen. Non ho nessuna voglia di restare qui, ma ho bisogno dei soldi per pagarmi il biglietto. Se aspetta solo un minuto le trovo qualcuno che le dia una mano, signora Anstedt.» «Nessun problema, ce la faccio da sola.» Bilanciò il piccolo su un braccio e guidò con l'altra mano il carrello verso il parcheggio bene illuminato. Era difficile trovare un buco la sera. Su un lato del supermercato c'era un cinema a quattro sale e sull'altro un bowling. Marilyn si fermò dietro la macchina, una Toyota giardinetta ultimo modello. Prima di scaricare la spesa, sistemò per bene Larry nell'apposito seggiolino dietro il posto di guida e gli diede un altro biscotto, infischiandosene delle briciole, tanto il sedile era già talmente sporco. Sabato avrebbe portato la macchina a lavare, in ogni caso sarebbe stato ora di fare ben-
zina. Lavaggio gratuito a ogni pieno. Doveva badare al centesimo, un giorno o l'altro non si sarebbero più dovuti preoccupare... Uno dei sacchi, troppo pieno, si ruppe nel tirarlo su dal carrello. Verdure avvolte nel cellophane e scatolette rotolarono da tutte le parti. «Merda!» sibilò, vedendo il suo fiato trasformarsi in una nuvoletta di condensa riflessa nel vetro dell'automobile. In quel momento si rese conto di essere così stanca da avere voglia di piangere. Pazienza, Marilyn, pazienza. Si chinò per raccogliere alcuni articoli che erano caduti e quando si rialzò, le braccia cariche, andò a urtare contro un uomo che era sopraggiunto in quel momento e le stava porgendo un mazzo di broccoli. Rapida visione di una giacca a vento nera, camicia di flanella. L'uomo aveva un viso quadrato e capelli scuri, tagliati corti, un modo di fissarla che non le piacque per niente. «Oh, grazie... questo dev'essere tutto. Questi sacchetti sono...» Lui non aprì bocca. Lei gli voltò le spalle e gettò le lattine nella macchina. Al diavolo, pensò, sbattessero pure da tutte le parti, l'unica cosa che voleva era andarsene di lì. Fece per prendere i broccoli che lui le stava porgendo e in quel momento vide l'altra mano. L'uomo le puntò il coltello all'inguine, proprio sotto l'orlo del maglione. Marilyn tirò un respiro talmente profondo che l'aria le scese direttamente nel punto in cui il coltello la solleticava. Si sentì mancare, le gambe non la sostenevano. «Oh, Dio. La prego. Ho un bambino.» «Mettiti al volante», ordinò l'Angelo della Morte. Qualunque cosa sarebbe stata migliore che lasciarlo salire in macchina dove c'era Larry, ma Marilyn aveva sempre avuto un sacro terrore dei coltelli. Non le piaceva neppure usarli in cucina. Se solo l'uomo avesse spinto la lama, non avrebbe mai più avuto un altro bambino. Sarebbe morta lì, in quel parcheggio in cui era stata centinaia di volte, un luogo che le era familiare come il giardino di casa sua. Il labbro inferiore si curvò all'interno in un arco tremante, cercò di arretrare, ma la Toyota le era d'intralcio. «No», disse l'uomo, sempre tenendo la punta del coltello contro il suo inguine. «Voltati.» Da qualche parte, non lontano, giunse il rumore di una portiera che si chiudeva, udì una risata, ebbe un attimo di speranza. Qualcuno avrebbe visto che cosa stava accadendo, l'avrebbe aiutata. Lui chiuse il portello posteriore. «Andiamo», ordinò. La prese per il braccio facendo scivolare il coltello sotto il maglione più in alto, proprio sull'ombelico, intanto la spingeva verso il posto di guida. Aprì la portiera e
la costrinse a salire. Aveva preso la borsetta dal carrello. Vi frugò dentro senza fretta mentre lei sedeva rigida al volante, fissando le decorazioni della festa del Ringraziamento in una delle vetrine del negozio. Zucche, gatti neri, streghe. Terrore fittizio. Poco più in là camicie da bowling e lattine di birra. Nessuno che facesse caso a quello che stava accadendo. Ma in fondo non stava accadendo proprio niente. Una donna seduta in macchina e un uomo, che avrebbe potuto essere suo marito, che rovistava nella borsetta alla ricerca delle chiavi. Vide il suo viso riflesso nel parabrezza e lottò contro l'impulso di urlare. L'avrebbe uccisa se avesse urlato. Quando ebbe trovato le chiavi, lui si infilò sul sedile posteriore accanto al bambino. Poi porse le chiavi a Marilyn. «Okay», disse. Lei lo guardò nello specchietto retrovisore; la sua testa scura accanto ai riccioli biondi di Larry. Qualcosa le si rattrappì dentro, era come se il suo ventre stesse morendo nel punto in cui era entrato in contatto con la lama. «Io... non credo... di riuscire a guidare», balbettò, l'espressione contrita, ma sull'orlo di una crisi di nervi. «Fra un po' ti lascio andare. Voglio solo la macchina.» «E allora la prenda subito! Ci lasci in pace.» «Lui come si chiama?» «Larry.» «Vuoi che gli tagli la mano destra?» Marilyn infilò la chiave nel cruscotto e accese il motore con la solenne precisione del primo giorno alla scuola guida. Fece marcia indietro con cura e si diresse verso l'uscita del parcheggio. «Che via è questa?» le chiese l'uomo. Stava mangiando una delle mele che Marilyn aveva appena comperato. «Haddonfield Berlin Road.» «La superstrada dov'è?» «A destra. A un paio di miglia. È lì che ci lascerà...» «Sì», tagliò corto lui. Marilyn capì che era una bugia. Una fottuta sporca bugia, non aveva alcuna intenzione di lasciarli andare. Ma che cosa poteva fare? Il piccolo era nervoso. Stanco. E quell'uomo seduto vicino che faceva: «Ssst, Ssst». E se avesse perso la pazienza con Larry? Marilyn provò un'ondata di sollievo allorché l'uomo scavalcò la spalliera del sedile e andò a sedersi accanto a lei. Gettò il torsolo della mela dal finestrino e tornò a frugare nella borsetta, senza mollare il coltello.
«Non ho troppi... soldi. In genere... uso la carta di credito.» Avvertendolo si sarebbe irritato meno. Riusciva a malapena a ricacciare indietro le lacrime, un uragano di terrore. Una dimostrazione di debolezza avrebbe potuto essere fatale. Lui non sembrava troppo interessato a lei, guardava raramente nella sua direzione. Ma Marilyn sentiva che era consapevole di ogni suo movimento, di ogni pensiero di fuga che le attraversava la mente. Attorno a loro macchine che andavano in entrambe le direzioni. Fare uno scarto verso sinistra, provocare uno scontro. Larry se la sarebbe cavata, legato sul sedile posteriore. Ma se avesse perso il controllo della Toyota avrebbe potuto causare un incidente multiplo. Un incendio. E quali possibilità di cavarsela avrebbe avuto in quel caso? L'Angelo della Morte intascò tutto il denaro che aveva, undici dollari, e una carta di credito per la benzina che apparteneva a Jack. Poi aprì un sacchetto di camoscio e tirò fuori un crocifisso appeso a un pesante rosario d'oro a quattordici carati. Sollevò in alto il crocifisso e studiò il piccolo Cristo morente alla luce intermittente delle macchine che incrociavano. «Un tempo c'era un Uomo Perfetto», attaccò. Qualcosa nel tono della sua voce suggeriva che questa consapevolezza lo rendeva felice. «Questa è la superstrada.» «Continua ad andare.» «Dove?» «Da qualche parte. Un parco. Un campo da golf. Un bosco.» Lei aveva la bocca secca. Non riusciva più a parlare. Non conosceva bene il New Jersey, lei e Jack vi si erano trasferiti da Filadelfia soltanto l'anno prima. Quella zona non le era familiare. Sembrava un quartiere residenziale, i giardini diventavano sempre più grandi e le case costose sempre più distanti l'una dall'altra. L'illuminazione sempre più scarsa e il traffico diminuiva. «Lassù svolta a destra», indicò lui. Percorsero una lunga stradina di campagna fino a un cantiere in costruzione. Un cancello con i pilastri di mattoni. Hedgemoor. Una stradina asfaltata che s'inoltrava nei boschi oscuri. Lui le ordinò di imboccarla. Superati scheletri di edifici in costruzione, la strada ora si arrampicava in salita fiancheggiando case non illuminate. Alla sommità della collinetta si ritrovarono in una rotonda non lastricata con un grosso estintore, sotto il cielo trapunto di stelle. «Qui.» Marilyn frenò con un cigolio del freno anteriore destro.
«Spegni le luci.» Marilyn eseguì. Riuscì a lanciare un'occhiata dietro di sé e vide che suo figlio si era addormentato, riposava tranquillo, il pollice in bocca. La vista del bambino la fece gemere di amore e di paura. L'Angelo della Morte la guardò. «Fuori.» Marilyn scese sotto le stelle luminose, premendosi le mani alla testa, sentendosi mancare. Riuscì a restare in equilibrio. In lontananza sentì un cane latrare. A ovest un aereo stava scendendo rapidamente, le luci d'atterraggio già accese. Lui tornò sul sedile posteriore. Marilyn cadde in ginocchio sulla strada sassosa, sempre stringendosi la testa fra le mani, incapace di guardare. Pochi istanti più tardi lo udì scendere dalla Toyota. Al rumore dei suoi passi sulla strada sterrata Marilyn ebbe uno spasimo, la vescica le si svuotò con un getto caldo. L'uomo teneva fra le braccia il seggiolino del bambino, di cui aveva tagliato senza troppe cerimonie le cinture. Larry dormiva sereno, illeso. Marilyn si alzò in piedi come un automa per prendere il seggiolino che l'uomo le porgeva. Poi dovette metterlo giù: nel suo stato di terrore quel peso era eccessivo per le sue forze. L'Angelo della Morte salì in macchina, accese il motore e fece un mezzo giro. Per un attimo Marilyn fu accecata dai fari. Poi la macchina la superò, prese velocità, infilò la discesa e continuò a scendere finché il rumore del motore non svanì nella notte. Attorno a lei l'oscurità gelida; e il silenzio. Marilyn afferrò l'ingombrante seggiolino, senza darsi la pena di liberare Larry; quel seggiolino era costato parecchi soldi e non aveva voglia di comperarne un altro. La giardinetta era assicurata. Era in ansia poiché sicuramente a quell'ora Jack le aveva telefonato da Chicago e lei non era a casa. Pietre aguzze, triturate dai bulldozer per formare un rudimentale fondo stradale, le tagliavano i piedi attraverso le suole sottili delle scarpe da casa mentre cercava di correre, pensando al telefono e al suo desiderio spasmodico di parlare con Jack. Ormai ansimava rumorosamente, procedendo alla cieca e inciampando. Alla fine dovette rallentare. La calzamaglia fradicia le si era gelata addosso. Era da quando aveva otto anni che non si faceva più la pipì addosso. Il primo gruppo di case in costruzione fece capolino al di sopra delle cime degli alberi. Stava arrivando una macchina.
Marilyn si fermò per qualche secondo ansimando, l'orecchio teso, poi ricominciò a correre goffamente in mezzo alla strada. La macchina risaliva lentamente, passarono venti interminabili secondi prima che superasse la sommità della collina costringendola a girare la testa dall'altra parte per proteggersi gli occhi dalla luce improvvisa. Si tirò di lato mentre la macchina rallentava ancora di più e fu in quel momento che Marilyn sentì il cigolio del freno anteriore destro. Trasalì per il terrore allorché la sua giardinetta si arrestò a pochi centimetri da lei, il viso dell'Angelo della Morte inquadrato nel finestrino, occhi sinistri colore dell'ambra. La portiera si aprì e il rosario, ora diventato minaccioso, penzolò dal pugno chiuso. In quel momento comprese che l'uomo aveva cambiato idea, non poteva lasciarli vivere; e seppe anche che l'orrore al di là di ogni descrizione avrebbe riempito l'oscurità prima che le fosse dato di esalare l'ultimo respiro. Marilyn urlò, svegliando il bambino che portava ancora in braccio; un secondo più tardi anche lui cominciò a urlare. 22 Tomlin aprì gli occhi nel buio subito sveglio, la mente limpida, tutti i sensi, tranne quello della vista, vigili. Aveva udito qualcosa. Dalla porta, che questa volta aveva chiuso a chiave, venivano dei rumori. E non era solo per via del vento, che sentiva distintamente scuotere il camper. Allungò la mano alla ricerca della mazza per il pesce, una sorta di manganello chiodato all'estremità che aveva sistemato sul pavimento accanto al letto. Poi si rilassò nell'udire una voce soffocata. «Clay. Fammi entrare. Clay.» Si alzò, senza lasciare la mazza. Indossava un paio di boxer bianchi con una maglietta di cotone. A tentoni andò alla porta e l'aprì. «Posso entrare?» «Che cosa fai fuori a quest'ora, Tony?» «Niente. Non riuscivo a dormire. P... posso stare qui con te per un po'?» «Ma certo.» Faceva freddo sulla porta. Tomlin arretrò, ma Tony non lo seguì. «Big Dog è con me. Posso fare entrare anche lui?» «E perché no? Ma, dimmi un po', che ore sono esattamente?» «Non lo so. Penso che presto farà giorno.» Big Dog fu il primo a entrare, salì con un balzo i gradini facendo ondeg-
giare il camper con il suo peso. Tony richiuse la porta. Poi mise il catenaccio. Tomlin cercò a tentoni la lampada sul tavolino e l'accese. «Ti va di bere qualcosa? Una cioccolata calda?» «Okay.» «Ti toccherà aiutarmi. C'è un cartone di cioccolata nel frigorifero, ti faccio vedere dove tengo le pentole.» «Ma anche tu bevi la cioccolata?» «Sempre. Mi piace molto.» Tony versò la cioccolata nel pentolino e con gesti diligenti lo mise sul fornello. Tomlin accese il gas. Sfiorando il bambino si accorse che tremava malgrado il pigiammo di flanella. In testa portava il berretto che Tomlin gli aveva regalato. Con un gesto impercettibile si strinse al fianco di Tomlin. «Ti va di sederti davanti, sul sedile del guidatore?» chiese Tomlin. «No. Qualcuno potrebbe vederci, giusto?» «Immagino di sì. Ma che male c'è?» «Intendo dire qualcuno che ti vuole male.» «E chi mi vuole male, Tony?» domandò Tomlin, subito pensando a Carl. «Non lo so», borbottò il bambino. «Quand'è così, mi chiedo perché ne parli.» Tony non gli rispose. Big Dog andava avanti e indietro agitando la coda, poi andò in camera da letto, fiutandosi attorno. «La cioccolata è calda adesso.» Tomlin posò due tazze nel lavandino, poi prese in braccio Tony e lo mise a sedere sul bancone. Spense il fornello, riuscì a trovare il manico del pentolino senza scottarsi e lo appoggiò nel lavandino accanto alle tazze. «Riesci a versarlo?» chiese a Tony. «Non importa se ne rovesci un po'.» Mentre riempiva le tazze fino all'orlo, Tony domandò: «Hai qualche osso per Big Dog?» «No. Ma pensi che apprezzerebbe un biscotto?» «Lui mangerebbe qualunque cosa.» Tony ripose il pentolino. «Ne ho rovesciato un sacco.» «Io l'avrei rovesciata tutta.» Mise giù Tony. «I biscotti sono nell'armadietto davanti a te.» Prese le tazze dal lavandino d'acciaio inossidabile e le appoggiò sul bancone dove un attimo prima era seduto Tony. Dal rumore con il quale Big Dog ingollò i biscotti che Tony gli porgeva, Tomlin fu lieto che non fosse il suo polpaccio. Poi andò a sedersi sul divano insieme con Tony. Prima, però, il bambino gli chiese se voleva che gi-
rasse i cuscini per controllare che non ci fossero serpenti. Tomlin lo accontentò. Quando finalmente si furono sistemati, Tony si raggomitolò sotto una coperta che aveva trovato sullo schienale del divano, la testa contro la spalla di Tomlin. Bevvero in silenzio la cioccolata. «Allora, che cos'è che ti ha svegliato in piena notte?» Tony si chinò in avanti e posò per terra la tazza vuota, poi si sistemò meglio la coperta. Era ancora infreddolito. «È stato un... un brutto sogno. Ho sognato che era nel computer.» «Ma di chi stai parlando?» Poi Tomlin capì. «Del tuo vero papà?» «Sì. Di lui. Dell'Angelo Cattivo. Lui non c'era quando sono andato a dormire. Poi ho guardato e... adesso c'è.» «Ma sei sicuro che non sia stato un sogno anche questo, Tony?» Il bambino era pesante e assente, come se si fosse addormentato di colpo. Poi, senza il minimo preavviso, esplose come una bomba, tempestò Tomlin di pugni, urlando e piangendo in un attacco di paura. Big Dog cominciò a ringhiare. Tomlin circondò Tony con entrambe le braccia e lo strinse forte, augurandosi che il cane non interpretasse male il suo gesto e si lanciasse all'attacco. Impiegò cinque minuti per tranquillizzare Tony, finché la piena di terrore e disperazione non si fu trasformata in una serie di lunghi tremiti punteggiati da desolati singulti. «Va tutto bene. Adesso calmati.» Big Dog gli appoggiò il muso sul ginocchio, mugolando ansiosamente. «Okay, Tony. Ti credo. Lui è nel computer. Adesso ti dico quello che farò... però lo sai anche tu che non posso fare niente finché non sorge il sole. Abbi pazienza. Non appena ci sarà abbastanza luce, vengo a vedere di che cosa si tratta.» Erano le sette e un quarto. Dopo un'interminabile ora di inquietudine Tony si era addormentato profondamente con la testa sulle ginocchia di Tomlin. Ai suoi piedi era steso Big Dog. L'uomo aveva la gamba destra addormentata, insensibile come un blocco di cemento dalla coscia in giù, tuttavia aveva evitato di muoversi per non disturbare il bambino. La sua vista... la luce del mattino era smorzata dai vetri oscurati... era ormai al cinquanta per cento. Il tempo che avrebbe impiegato per arrivare alla casa gli avrebbe permesso di vedere a sufficienza per poter verificare quello che Tony gli aveva descritto. Il respiro di Tony cambiò appena quando Tomlin lo spostò con delicatezza sull'altro lato del divano, tuttavia il bambino non aprì gli occhi. Big Dog era già pronto sulla porta. Tomlin lo fece uscire, poi andò in camera
da letto, infilò qualcosa e uscì. Sulla baia aleggiava una nebbiolina leggera, il prato era bagnato di rugiada. Al molo non vide il motoscafo di Carl. Appena entrò in casa Opal lo salutò dalla cucina. «L'ho vista arrivare sulla televisione, signor Clay. Vuole la colazione?» «Grazie, Opal. Tony è venuto da me stanotte. Adesso dorme.» Tomlin attraversò il soggiorno e spalancò le porte della biblioteca. Fissò il grande schermo, ancora acceso. C'era qualcosa, ma non riusciva a distinguerlo. Che cosa, una faccia? Aprì le porte della veranda lasciando entrare il sole. Adesso riusciva a scorgere con chiarezza l'immagine generata dal computer. E anche le parole scritte accanto a quella faccia, nella tipica nuvoletta delle vignette. Il viso sembrava come mosso da piccole onde, come se vibrasse sullo schermo. La bocca si apriva e si chiudeva. Tomlin non poteva sapere quanto fosse buona la somiglianza, ma a giudicare dalla reazione di Tony non ebbe dubbi che dovesse essere terribilmente prossima al vero Angel. Mi ami? Mi ami? «Figlio di puttana», sibilò Tomlin, fuori di sé. Corse accanto al monitor. La luce del modem era accesa, il che significava, dedusse, che l'immagine era stata trasmessa via cavo da un altro computer chissà dove. Localizzò il quadro elettrico sotto la scrivania e strappò con furia tutti i cavi. Lo schermo si spense e il suo sistema nervoso smise di vibrare. C'era un solo interrogativo nella sua testa: chi aveva messo quel grottesco saluto sullo schermo perché Tony lo vedesse? Non aveva l'impressione che Carl fosse dotato delle capacità necessarie per generare una grafica così sofisticata né, a pensarci bene, della crudeltà necessaria. Dunque c'erano buone probabilità che l'autore fosse proprio Angel. Il mago del computer e maniaco omicida. Aveva scoperto dove si nascondevano sua moglie e suo figlio e voleva che loro sapessero che lui sapeva. 23 Riportato a casa dall'ospedale dove era stato operato d'urgenza, don Aldo Barzatti giaceva a letto in ascolto del ronzio delle macchine sofisticate che monitorizzavano lo stato della sua fragile salute. Era letteralmente circondato da strumenti e sistemi di supporto di tutti i generi ed era tenuto sotto costante osservazione da due infermiere e, a fasi alterne, da un sacer-
dote. Un'ambulanza era pronta nel cortile. Ma lui aveva giurato a se stesso che non sarebbe più uscito da quella casa se non cadavere. E c'erano stati momenti nei quali si era sentito davvero supremamente distaccato dal proprio corpo, con la sensazione di guardarsi da un angolo scuro della camera da letto, mentre le dita forti di sua madre lo tiravano per la manica e lui aspettava rassegnato che quel guscio vuoto che era ormai il suo corpo cedesse. Poi lentamente scivolava via dall'abbraccio che lei desiderava dargli, ondeggiava in una bruma argentea e luminosa per ricongiungersi al corpo, con una fitta di dolore prima e di disagio poi, ma non di delusione perché ancora non era scoccata la sua ora. L'infermiera gli deterse la fronte madida di sudore e lui le sorrise. La donna gli disse alcune parole che lui non comprese. Poi il suo volto si trasformò in quello della sua adorata moglie, un cuore perfetto dall'attaccatura a punta dei capelli al mento, le labbra così piene e rosse che non aveva mai avuto bisogno di dipingerle. Ad Aldo non sembrava affatto uno spettro, sebbene fosse assolutamente consapevole che lei era morta per una febbre puerperale nella fetida calura dell'appartamento in cui vivevano parecchi anni prima. Aveva vissuto in quel paese quattordici anni e certamente capiva l'inglese molto meglio di quanto non desse a vedere, ma rifiutava cocciutamente di parlarlo. Gli si rivolgeva soltanto in siciliano. «L'ultima parola sta a te, Aldo. Spetta a te dire quello che deve essere fatto. Dillo, cosicché possano riposare in pace tutti quanti, per l'eternità.» «Giuliana!» gridò don Aldo, estasiato nell'udire ancora la sua voce. Nessuno fra i presenti capì quello che aveva detto; il suo grido era stato poco più che un gorgoglio. Forse aveva detto «Greganti». Così venne chiamato Mark Greganti, che entrò e andò a inginocchiarsi accanto al padrino. Mark baciò le dita trasparenti della mano destra di don Aldo, quella libera dai tubi, e attese vigile di ricevere istruzioni. Don Aldo aveva gli occhi aperti, ma non parlò finché Mark non ebbe l'idea di incitarlo. Casualmente in quel momento don Aldo era presente nel suo corpo e in stato di lucidità. «Hai notizie per me?» domandò, stringendo la mano di Mark. «Sì, don Aldo. Una giovane donna è stata uccisa stanotte nel South Jersey. È stata strangolata con... credo che fosse un rosario. Certamente con il suo crocifisso.» «I metodi di Dominic», sospirò il vecchio. «La donna aveva un bambino con sé. Il bambino è stato trovato illeso accanto al corpo, ancora legato al seggiolino della macchina.»
«E adesso Dominic dove si trova?» Mark dovette protendersi sul letto, l'orecchio a pochi centimetri dalla bocca di don Aldo, per udirlo. «Non lo sappiamo. Ma la macchina della donna è stata ritrovata due ore fa, a un distributore di benzina dalle parti di Augusta, Georgia.» «Georgia. È diretto a sud. Dunque sa. Sa dove trovarli.» «Che cosa volete che facciamo, don Aldo?» «Non serve più sperare. Dominic non tornerà mai più un essere umano normale. Di' a Carlo di portare subito via Anita e suo figlio. Manda un gruppo di bravi ragazzi alla baia, ad aspettare Dominic. E quando arriva, nessuna pietà.» «Va bene. C'è altro che posso fare per voi, don Aldo?» «Voglio il prete.» Il prete era un vescovo, un vecchio amico della famiglia. Era al capezzale del morente fin dalla mezzanotte. Gli aveva somministrato l'estrema unzione ore prima. Ma probabilmente don Aldo non se ne rammentava. I due uomini intrecciarono le mani. «Casco.» «Aldo, mio stimato amico.» «Sono timoroso davanti a Dio.» «Dio ti ha già assolto per i tuoi peccati. Non hai niente da temere.» «Ti ho detto di avere fatto il servizio anche a Toffo Magliotti?» «Credo di sì.» «Toffo non era un uomo d'onore. Andava in giro a fottere le bambine. E ha rubato a mio padre, un uomo che lavorava sodo.» «Toffo Magliotti brucerà in eterno nelle fiamme dell'inferno per i suoi peccati.» Gli occhi di don Aldo erano fissi su qualcosa di remoto, oltre la testa grigia del vescovo. «Vedo... è Dio quello? No, non credo. È qualcun altro.» Il respiro accelerò, il corpo si contrasse. Il bip regolare delle macchine cambiò e l'infermiera appoggiò una mano, in segno di avvertimento, sulla spalla del vescovo che la fulminò con un'occhiata. «Ho lasciato... quattro milioni di dollari alla Chiesa. Forse non era abbastanza.» «Che tu sia benedetto per la tua generosità. Ma se desideri... vuoi che chiami qualcuno?» «La prudenza non è mai troppa», mormorò don Aldo.
24 Tomlin salì al piano di sopra con una tazza di caffè in mano e bussò alla porta di Anita. Lei gli disse di darle un paio di minuti, era appena uscita dalla doccia. Quando aprì la porta era completamente vestita. Portava un paio di calzoni di lana grigia e un pesante gilè di lana norvegese sopra una camicia a righe. Chiuse la porta e si tennero stretti per alcuni secondi, poi Anita lo guardò in faccia e domandò: «Brutte notizie?» Lui le raccontò tutto. Anita lo ascoltò quasi senza cambiare espressione, solo un'aria di sfinimento che in un certo senso fu peggiore dell'esplosione isterica di Tony. Gli voltò le spalle e andò alla finestra, strofinandosi nervosamente il collo con una mano. «Non può essere stato che Angel. Solo lui potrebbe pensare a una cosa del genere.» «Mi chiedo come lavori la sua mente. Se sta venendo qui, perché metterti in guardia?» Anita si guardò attorno alla ricerca delle sigarette, le prese, poi le rimise giù. «Non è stato necessariamente un avvertimento. È anche possibile che avesse voglia di salutarci. Non che io sia un'autorità riguardo i suoi processi mentali, eppure ho vissuto con lui per quasi cinque anni. Non è da escludere che pensi che siamo felici di rivederlo.» In quel momento il tremito l'assalì e dovette incrociare le braccia sul petto per cercare di calmarlo. «È possibile che lui sia contento di vedere me. Per cinque minuti. Poi potrebbe scattargli qualcosa nel cervello, qualcosa che nessuno di noi sarà mai in grado di capire, e potrebbe fare del suo meglio per gettarmi giù dalla finestra. Oh, Signore, non ne posso più.» «Supponiamo che lui volesse soltanto spaventarti. Non può non sapere che sei sotto la protezione del don. Questo potrebbe dissuaderlo dal venire qui.» «Credimi, è l'ultima cosa della quale Angel si preoccuperebbe. Sta arrivando. Verrà. È solo una questione di quando e che cosa fare. Ma dov'è la mia protezione adesso?» «Se decidi di rimanere, troveremo qualcosa.» «Se decido di rimanere...? Mi stai forse chiedendo educatamente di fare armi e bagagli e andarmene?» «Ho pensato che potresti preferire di tornare dalla tua famiglia. Oppure,
non saprei...» «Mio padre ha avuto due infarti nell'ultimo anno; una preoccupazione simile lo ucciderebbe, se prima non ci pensa Angel. Non so come fare a mettermi in contatto con il don, ci ho già provato. Si è sempre occupato Carl di tenere i contatti con la famiglia. Certo, potrei trasferirmi in albergo. E presto in Argentina sarà estate, giusto? Che diavolo.» «L'Argentina non ti piacerebbe. Sei con me, Anita. Quindi mettiamo i carri in cerchio e prepariamoci all'attacco.» «Alla maniera dei vecchi cowboy», commentò Anita, con un sorriso che per un attimo fu splendente prima che diventasse disperato. «Coraggiosi sì, ma non pazzi. Tony è giù che sta facendo colazione. Mangiamo qualcosa con lui e poi andiamo in città. Ho bisogno di rinforzi extra. Hai una foto di Angel?» «Le ho gettate tutte via. No, aspetta, forse c'è anche lui in qualche istantanea della mia famiglia, dei vecchi tempi felici. Adesso guardo.» I due vicesceriffi che si presentarono nell'ufficio di Mace Lefevre a Port Bayonne erano talmente simili che avrebbero potuto essere gemelli: uno e ottantacinque, collo taurino, fianchi pesanti. Entrambi almeno quindici chili al di sopra del loro peso forma all'accademia. DeeJay Voisin aveva giocato in difesa con i Bear Bryant's nell'Alabama l'anno prima, mentre Shelby Burleson aveva fatto la gavetta come guardia forestale nello stato del Mississippi. DeeJay aveva innocenti occhi azzurri, una faccia da bambino e una mascella che ricordava un Caterpillar e che lui teneva costantemente occupata masticando gomma americana. Il viso di Shelby aveva una buffa conformazione orizzontale, come se un elefante gli avesse camminato sulla testa. Aveva un naso minuscolo, una bocca invisibile, zigomi enormi e ciglia e orecchie alla Dumbo. Era di grado superiore rispetto a DeeJay e fu lui a parlare dopo che ebbe udito quello che Tomlin e Anita avevano da dire. Sollevò nella manona gigantesca un'istantanea, scattata durante una gita parecchi anni prima, nella quale, in mezzo a un nutrito gruppo di famiglia, si vedeva anche Dominic «Angel» Barzatti. DeeJay studiò la mappa della contea appesa alla parete dell'ufficio di Mace facendo i palloncini con la gomma americana. «Se per lei va bene, signora, ecco che cosa vorrei fare: prendo questa istantanea e faccio ingrandire questa parte qui, dove si vede suo marito. Mettiamo giù un bel rapportino su di lui e lo facciamo circolare insieme
con la fotografia in tutte le centrali della costa.» «Pensa che servirà a qualcosa?» «Oh, sì, signora, non lo immagina neppure. Da quello che riesco a vedere di lui qui, e con la sua descrizione, non credo che sarebbe difficile identificarlo, a meno che non faccia un tentativo per camuffarsi. Pensa che potrebbe farlo?» «Non lo so.» «C'è una sola strada, vedo, che porta fino alla Lostman's Bayou», osservò DeeJay, un dito sulla mappa. «Ce ne sono altre che partono dalla nazionale, ma da lì è impossibile arrivare fino al confine occidentale senza dover guadare un bel pezzo di palude. Si potrebbe dire che è praticamente impossibile; gli occorrerebbe quanto meno una barca.» «C'è un braccio d'acqua aperto fra il Sound e casa mia», interloquì Tomlin. «Circa mezzo miglio, e nessun posto dove nascondersi. Tutta l'area del molo è bene illuminata. Potrebbe nuotare. Io però non ci proverei.» «Gesù, no», convenne Shelby. «Con tutti quegli alligatori, bisognerebbe essere pazzi per...» Lanciò un'occhiata ad Anita, che non fece commenti. «Terremo a mente quella possibilità, anche se remota. E adesso torniamo a noi. Avete un cane?» «Sì», rispose Anita. «Grosso?» «Un pastore irlandese.» «Vale un cane e mezzo. Abbaia parecchio, giusto? E ha un buon fiuto.» «Dunque pensate di poter dare una mano a questa gente quando non siete in servizio?» domandò Mace Lefevre. «Oh, sicuro, nessun problema. Mi lasci solo dare un'occhiata al foglio di servizio e fare un paio di telefonate. Inoltre, nella polizia dell'aria a Keesler ci sono un paio di ragazzi che conosciamo che farebbero volentieri gli straordinari per qualche soldo extra. Io e DeeJay finiamo il nostro turno alle quattro, così, sa che cosa le dico, copriamo noi la casa stanotte, diciamo a partire dalle otto.» «Quello che mi piacerebbe fare», disse DeeJay studiando la cartina, «è portare il mio camper lì e bloccare la strada. Così nessuno può entrare e uscire senza che noi lo sappiamo, e per pattugliare la zona possiamo usare la tua macchina, Shelby.» «Già, staremo molto più comodi con il camper», convenne Shelby. Sorrise ad Anita, gli occhi circondati da una ragnatela di rughe. «Si faccia una bella notte di sonno, signora, e dorma fra due guanciali.»
«Credo...» attaccò Anita, poi si fermò e lanciò un'occhiata impotente a Clay. «Dopo avere cercato di investirla con la macchina, suo marito ha cercato di entrare nell'ospedale dov'era ricoverata, forse per terminare il lavoro. Ha steso un paio di guardie del corpo e non so quanti poliziotti nel parcheggio; uno di questi se l'è vista talmente brutta che ha dovuto andare in pensione in anticipo con un ottanta per cento di invalidità», spiegò Tomlin ai due vicesceriffi. «Davvero un matto da legare», commentò DeeJay, per niente impressionato. «Insomma, ne sappiamo abbastanza da non correre rischi inutili con lui, se dovessimo trovarci a faccia a faccia», li rassicurò Shelby. «Oh, un'altra cosa. Qui al negozio di ferramenta c'è una sirena a batteria che sarebbe opportuno comperare. In caso di pericolo basta premere un bottone e suona per una buona mezz'ora, la si sente a miglia di distanza. Al primo ululato arriviamo al galoppo.» «Vi sono molto grato per essere venuti, ragazzi», disse Mace Lefevre, accompagnando i due poliziotti alla porta. Tornato nello studio, trovò Anita che fumava nervosamente una sigaretta. Non sembrava granché sollevata ma aveva l'aria di essere imprigionata nei ricordi. Mace, al contrario, sprizzava soddisfazione da tutti i pori. «Avere due ragazzi come quelli dalla sua parte dovrebbe aiutarla a mettere il problema nella giusta prospettiva», osservò. «Immagino di sì. Ma non posso fare a meno di pensare... Qualunque cosa facciamo, Angel... non ci sono parole per descrivere com'è fatto a quelli che non lo conoscono. Non ci sono parole.» «Signora Jeffords...» «Anita. Non so mai da che parte guardare quando mi chiamano Jeffords.» «Anita, non è possibile che lei stia sopravvalutando la gravità della minaccia a causa delle esperienze terribili che ha vissuto? A ogni modo non importa, quello che voglio dirle è che non sarebbe una brutta idea se lei e suo figlio veniste a stare a casa mia per un po', almeno finché la situazione non si è calmata. Rainie sarebbe felice di avere compagnia, è una lettrice accanita anche lei, e ho tre figlie adolescenti che vizierebbero Tony fino alla nausea.» Anita gli rivolse un sorriso riconoscente, ma scosse la testa. «Grazie, non potrei mai. Finché Angel non è di nuovo rinchiuso o... morto... non
posso correre il minimo rischio di mettere in pericolo qualcun altro.» In quel momento arrivò Tony, che era andato a comprarsi un gelato con la segretaria di Mace. Anita lo abbracciò con tanto impeto che il bambino si dibatté imbronciato poi, con un mutamento repentino di stato d'animo, anche lui la baciò, lasciandole una traccia di fragola accanto alla bocca. «Mi annoio», disse. «Possiamo tornare a casa adesso?» Prima si fermarono a fare compere. Tony era affascinato dalla nuova sirena a batteria della quale era stata fatta una dimostrazione a suo stretto uso e consumo. Anita comperò un regalo per i genitori di Opal che stavano per celebrare le nozze d'oro e poi, giacché Opal sarebbe andata a Meridian per un paio di giorni, andò anche al supermercato. «Che cosa avresti voglia di mangiare stasera?» domandò a Tomlin. «Crocchette di elfo.» Tony lo fissò, poi capì lo scherzo e rise forte. «Allora non vuoi collaborare», lo redarguì Anita imbronciata. «È il tuo turno, Anthony.» «Cannelloni!» «Sì, cannelloni. Alla siciliana. E che cosa ne dici di un po' di carciofini all'olio? E magari di una bella cassata siciliana, di quelle fatte in casa, per dolce, con tanti pistacchi e frutta candita dentro?» «Una prospettiva deliziosa», commentò Tomlin, la mano sul suo gomito, poi alla vita, tanto per mantenere il contatto. Lei gli si appoggiava discretamente contro, rispondeva alla sua richiesta di contatto, e Tony non si perdeva una sfumatura. Eppure non cercò d'intromettersi, di reclamare l'attenzione di sua madre, come avrebbe potuto fare un qualunque bambino geloso. Chiese il permesso di andare a guardare i giocattoli che si trovavano nella stessa sezione del negozio in cui si vendevano le piante, oggetti da giardinaggio, segatura per animali e romanzi di Danielle Steel. «Quindi sei convinto che andrà tutto bene», disse Anita, senza tradire la tensione, ma incapace di scacciare la situazione dalla mente. Si affidava completamente a lui, voleva essere rassicurata e sapere che lui aveva le risposte giuste. «Burleson e Voisin mi sono piaciuti, mi auguro che abbiano una decina di amici della stessa stazza. Non sarei affatto contento se Big Dog ce l'avesse con me, anche se non è stato addestrato al combattimento. L'allarme suona forte e chiaro e lo porterai sempre con te, dovunque tu vada. Se davvero pensassi che siamo in pericolo, non perderei un minuto a cercare un altro posto in cui rifugiarci.»
Una nota conclusiva nella voce, l'esame della situazione era terminato. Era chiaro che era abituato a vedere accettate le sue decisioni. Anita decise che le andava bene così... la sua sicurezza, la sua autorevolezza. Fintantoché non fosse diventato pomposo, o avesse cercato di stabilire lui tutte le regole. «Tornerò a insegnare», dichiarò. «Non appena sarà possibile.» «Ottimo.» Aveva temuto che chiedesse: «Perché?» E lei avrebbe dovuto rispondere: «Perché non sono una fottuta casalinga, ecco perché», e magari qualche cosa si sarebbe incrinato nella loro relazione, lì e in quel momento. Che cos'altro? Era vanitoso? Poteva prenderlo in giro? «Hai mai portato i baffi?» «I baffi non mi stanno bene. Sembro più vecchio, sfortunato e derelitto. Sembro un commesso viaggiatore che vende bigiotteria da quattro soldi.» Anita rise. No, non era vanitoso. Aveva una consapevolezza precisa di ciò che era bene per lui e un modo ironico di esprimerlo. «Quand'è il tuo compleanno?» «Quante domande.» «Ho voglia di fartele.» «Il cinque agosto.» «Il cinque agosto!» A momenti mandò il carrello a sbattere contro una montagna di scatole di uvette poste in mezzo al corridoio. «Ma è il giorno del mio compleanno!» «Ma guarda che coincidenza! Ti sembra una cosa incestuosa?» Anita ricordò che le occorrevano delle uvette e ne mise una scatola nel carrello. «Mmm. Immagino che ormai sia troppo tardi per preoccuparci di dettagli del genere, giusto?» 25 Nel pomeriggio Tomlin smontò il motore fuoribordo, lo pulì e lo lubrificò. Roland e Akeem, rispettivamente fratello e fratellastro di Opal, stavano trafficando in giardino e pulendo il camper prima che partissero tutti quanti per la loro riunione di famiglia a Meridian. Alle tre del pomeriggio Tony terminò i compiti e scese al molo per vedere che cosa stesse facendo Tomlin. Dal golfo arrivava un vento a raffiche così forti da fare sbattere le tegole della tettoia che serviva da riparo per le barche e scricchiolare il pontile;
all'orizzonte si stavano ammassando cumuli di nuvoloni densi e cupi, che ricordavano il fumo di un incendio. Il tempo sarebbe potuto diventare brutto nel giro di un paio d'ore, pensò Tomlin. «Possiamo andare a pescare?» «Non saprei, Tony. L'acqua si sta agitando.» «Ti prego!» Tomlin decise che in fondo era meglio che starsene lì a fare niente. Roland e Akeem sarebbero rimasti lì ancora per un po'. E all'interno della baia, là dove i bracci del fiume si stringevano, c'erano un sacco di posticini tranquilli e isolati dove le trote si sarebbero rifugiate per sfuggire ai marosi e al vento. Collegò il motorino a una semplice batteria d'automobile sistemata nel barchino a fondo piatto e subito questo partì docilmente. Lasciò che fosse Tony a timonare su per il canale principale verso un punto, circa mezzo chilometro a ovest, dal quale la casa era praticamente invisibile a eccezione di una piccola parte del tetto e di un paio di parafulmini. Da lì seguirono un altro braccio di acqua color caffè disturbando a malapena uno stormo di anatre migratrici che, appena arrivato, si stava acclimatando alla baia. Tony gli chiese se gli piacesse cacciare le anatre. Tomlin rispose che aveva una certa avversione per le armi da fuoco da quando un suo amico era rimasto ucciso in un incidente di caccia al cervo nel parco nazionale di Homochitto. «Qualunque idiota con una carabina potente in mano può definirsi un cacciatore», dichiarò Tomlin. «Tu ce l'hai un fucile?» «Ho soltanto la .357 Magnum che usavo in Vietnam, nel caso il mio aereo venisse abbattuto in territorio nord-vietnamita. Credo che adesso si trovi in un baule che ho lasciato a un mio compagno a Oceana. È un pezzo che non la vedo.» «Che cos'è il Vietnam?» «È un paese molto, molto lontano da qui in cui una volta c'è stata una guerra.» «Oh. Il tuo aereo è mai stato abbattuto?» «No.» «E che cos'hai fatto in guerra?» «Facevo saltare ponti che venivano ricostruiti nel giro di una notte. Una specie di esercizio di futilità.» «Che cosa...» L'attenzione di Tony fu catturata da un paio di occhi pro-
tuberanti, sporgenti da quello che si sarebbe potuto scambiare facilmente per un tronco immobile a meno di due metri da loro, sul lato assolato del canale. «Hai visto quello, è un alligatore!» Tomlin annuì. Lo guardò senza eccessiva emozione, di alligatori ce n'erano in quantità da quelle parti. «Bello grosso, vero?» «Hai mai ucciso un alligatore?» «Una volta uno è arrivato sulla veranda, si è mangiato uno dei miei cuccioli. Ero talmente furioso che l'ho assalito e gli ho legato le mascelle con un fil di ferro.» «Tu hai assalito un alligatore?» «Non sono così pericolosi quando sono fuori dell'acqua. E poi le loro mascelle non sono potenti come si crede, quando sono chiuse. Si riesce a tenerle serrate con una mano sola. Bisogna solo fare attenzione alla coda.» Ora erano in meno di due metri d'acqua, in quel punto il canale era largo ma costellato da numerose secche, alcune appena sommerse e rivelate dalla presenza di erbe palustri, altre abbastanza sopraelevate da ospitare alti cipressi. Dappertutto tronchi e radici affioranti. Avevano il vento alle spalle e Tony continuava a trattenere il berretto per evitare di perderlo. Tomlin prese a srotolare la lenza e aprì la scatola delle esche. Non era certo l'ora giusta, pensò, ma talvolta prima di un cambiamento del tempo il pesce abboccava. Nel giro di pochi minuti, nelle vicinanze di un canneto, presero tre belle trote, di un chilo circa ciascuna. Tomlin le ributtò tutte in acqua; avevano in frigorifero molto più pesce di quanto potessero mangiare. Cambiando discorso, come spesso faceva, Tony chiese: «La mamma ti piace tanto, vero?» «Insomma, l'hai visto anche tu che la baciavo. Tu che cosa ne pensi?» «Non c'è problema. Sono contento che sia tu.» Il pesce aveva smesso di abboccare in quel punto. Il sole scomparve, il vento si stava alzando ancora più forte. Tomlin era sul punto di muoversi quando, guardandosi attorno, vide il fisherman di Carl imboccare il canale. In quelle acque sembrava ancora più grande e fuori posto. Per via del vento contrario non aveva sentito i motori. Carl era al timone nella cabina di comando e nel vederli suonò la sirena, una vera fesseria. Tony, che ancora non aveva visto la Lolly, sobbalzò e quasi cadde in acqua. Tomlin lo afferrò appena in tempo mentre il barchino dondolava e imbarcava acqua. Tomlin sentì il formicolio alla radice dei capelli che provava sempre quando si sentiva particolarmente oltraggiato.
«Calma.» Carl aveva messo i motori al minimo, ma stava correndo un grosso rischio con la Lolly in quelle acque: c'erano troppe piante e radici sotto il pelo dell'acqua che potevano danneggiare le eliche. Continuava ad avvicinarsi, lentissimo e sul traverso, creando comunque onde che minacciavano di affondare la fragile imbarcazione di Tomlin e Tony. «Che cosa vuoi, Carl?» urlò Tomlin. «Attaccati al traino e mandami su Tony.» «Perché?» Per tutta risposta Carl tirò su qualcosa che teneva nascosto dietro il parapetto. Una carabina, a giudicare dalla lunghezza della canna, ma Tomlin non ne aveva mai vista una così. «Obbedisci e basta.» «No», s'intromise Tony, rincantucciandosi contro il fianco di Tomlin, al centro della barchetta. «Non avere paura, Tony. Carl non ha intenzione di farti del male.» Non aveva la minima idea di che cosa avesse in mente Carl. Il fucile era solo un tocco di ridicolo, che cosa avrebbe potuto farne? Farli saltare fuori dell'acqua? Correre il rischio di ferire Tony? Il viso di Carl era scuro e da quello che Tony riusciva a vedere da quella distanza non era ubriaco. «A che cosa serve spaventare così il bambino?» disse rivolto a Carl. «Non è spaventato. Tony sa che si può fidare di me. Lo riporto da sua madre. Partiamo per un viaggetto.» Adesso la barchetta era a meno di un metro dalla fiancata della Lolly, che incombeva sopra di loro. Tomlin passò rapidamente in rassegna le alternative che aveva a disposizione. C'erano circostanze in cui era possibile dire di no a chi ti puntava addosso un fucile e farla franca. Se questo era il caso, bastava accendere il motorino e andarsene piano piano, infilando un canale dove l'acqua non fosse abbastanza profonda perché Carl potesse seguirli. Organizzare un colloquio, una tregua, con un po' di distanza fra le due barche. Cercare di parlamentare con Carl, di spiegargli quali precauzioni erano state prese perché Anita e Tony fossero protetti in casa. Vacci tu a fare un viaggetto, Carl. Le Bahamas sono splendide in questa stagione. Ma c'era un ostacolo a questo piano, basato sul tempo. Il cielo si era oscurato e la vista di Tomlin stava peggiorando rapidamente. Già non riusciva più a distinguere il viso di Carl, sia pure a così breve distanza. Non gli andava di essere in mezzo al fiume di lì a un'ora, ormai cieco, a cercare di convincere Carl a comportarsi come una persona ragionevole. Avrebbe avuto maggiori probabilità di successo una volta che fosse stato a bordo
della Lolly, giacché Carl non avrebbe potuto puntargli addosso il fucile e contemporaneamente stare al timone per tenere il motoscafo fuori dei guai. Tomlin si rivolse a Tony con voce bassa, indifferente, un po' annoiata addirittura. «Sai che cosa ti dico? Magari ci conviene stare al suo gioco per un po'. Okay?» Il bambino batteva i denti. «Ma lui ha il fucile.» «Già, un bel gioiellino. Magari ci lascerà anche fare un paio di tiri.» Tony lo guardò in faccia ansiosamente e Tomlin sorrise per dimostrargli che non era per niente spaventato da Carl. Dopodiché prese un remo e lo puntò sul fondo per far girare la barca, in modo che la poppa fosse contro la fiancata della Lolly. Afferrò una maniglia per tenerla ferma e mantenere il contatto mentre Tony scavalcava il sedile e gli porgeva una cima, che lui assicurò con un nodo a un anello. «Adesso», ordinò Carl, «aiutalo a salire.» Con gli occhi dilatati dalla paura, il bambino guardò Tomlin, il vento gli gonfiava la giacca di nylon e gli scompigliava i capelli scuri. Tomlin lo prese sotto le ascelle e lo issò di slancio, facendogli superare di un balzo il parapetto della Lolly. Poi fece per arrampicarsi anche lui, ma sentì lo scatto della sicura della carabina e s'immobilizzò, gli occhi fissi su Carl. «Tu no, Tomlin. Salta giù. Trovati un bell'albero sul quale passare la notte, lontano dagli alligatori.» Tomlin non riusciva a credere alle proprie orecchie ed esitò un attimo di troppo a fissare la bocca della canna del fucile. Carl alterò appena la mira e fece fuoco, sparando tre colpi in una sequenza così rapida che i rimbombi si propagarono sull'acqua sovrapponendosi l'uno sull'altro in un unico suono. Aveva mirato a una radice che affiorava sul pelo dell'acqua verso poppa, ma uno almeno dei tre colpi era passato talmente vicino alla testa di Tomlin che quasi avvertì il calore dei pallettoni sulla pelle. Con la mano libera Carl diede un colpo di manetta e la Lolly fece un balzo in avanti, dando uno strattone alla barchetta, mandando Tomlin a gambe all'aria e facendolo atterrare in mezzo agli spruzzi e al fumo di scarico del motoscafo. La sua spalla sinistra andò a urtare contro qualcosa di duro e frastagliato subito sotto il pelo dell'acqua e quando finalmente riuscì a riemergere, tossendo e sputando, vide la Lolly compiere lentamente un ampio giro e allontanarsi con la barchetta al traino. Se solo avesse potuto nuotare, sarebbe riuscito ad attaccarsi, ma la spalla gli faceva troppo male, il braccio era praticamente paralizzato e riusciva a malapena a tenersi a galla. Tony lo
guardava dalla poppa della barca e urlava qualcosa che Tomlin non riuscì a udire a causa del rombo dei motori diesel. Dio, quanto male gli faceva quella spalla, forse era rotta. Carl aveva quasi completato il suo giro. Tomlin si rese conto che avrebbe dovuto passargli molto vicino per riprendere l'imboccatura del canale, ma nello stato in cui si trovava quella consapevolezza non gli fece affatto piacere. Ed ecco di nuovo Carl sul ponte, in bianco immacolato, immagine spettrale in dissolvimento, una mano sul timone, un sogghigno crudele sul volto, la carabina puntata, forse semplicemente per l'effetto che faceva. Ma Tomlin, ricordando il suono delle pallottole sopra la testa, preferì non correre rischi. Prese fiato e si immerse, cercando di mantenersi sul fondo melmoso del canale, assordato dal rombo poderoso dei motori della Lolly e travolto dalla turbolenza delle acque mentre il motoscafo lo superava. Quando riemerse alla superficie, il braccio sinistro inerte lungo il fianco, fece un futile tentativo di afferrare la falchetta del barchino al traino e la mancò di almeno trenta centimetri. Poi fu travolto da una grossa onda sollevata dal motoscafo, e quando riemerse loro erano lontani. Tony urlava ancora e questa volta, con il vento favorevole, Tomlin udì il bambino implorare Carl. «No! Non lasciarlo lì! Si sta facendo buio! Lui non ci vede al buio!» Triste ma vero, pensò Tomlin, i cui problemi, però, erano ancora più immediati della vista che stava calando: aveva assolutamente bisogno di uscire dall'acqua, e presto. L'alternativa era nuotare fino a casa, un paio di chilometri, forse, impossibile con il braccio sinistro inutilizzabile. Furioso e frustrato, cercò di ritrovare il suo sangue freddo mentre il vento ricominciava a soffiare furiosamente. Anita arrivò con il regalo per Opal proprio nel momento in cui la donna si accingeva a salire sulla Buick di Roland per partire per Meridian. Commossa, Opal le disse che non era proprio il caso che si disturbasse. «Un cinquantesimo anniversario di nozze è un'occasione piuttosto speciale. Porta i miei migliori auguri ai tuoi genitori.» Partirono e Anita lanciò un'occhiata al cielo sempre più minaccioso e poi al molo, dove la barchetta mancava ancora. L'acqua della baia era grigio piombo con piccole increspature bianche qua e là. Al limitare della palude vide Big Dog trotterellare con il naso per terra, dietro qualche pista, un procione o un topo muschiato, o chissà che altro. Quando lo chiamò, il cane la ignorò. Era sola e la cosa non le piaceva affatto. Il vento ululava at-
torno alla casa, la luce del giorno calava rapidamente. Ecco un'altra cosa di cui preoccuparsi, pensò, irritata con Tomlin. E quei due erano là fuori, con un uragano in arrivo e in una barchetta che era poco più solida di un guscio di noce. Tony nuotava appena, probabilmente niente del tutto in preda al panico. Fissò la baia, pregando perché la barca apparisse. Non c'era ragione di uscire comunque... un vero rischio inutile, una scommessa con il tempo. Se non fossero arrivati nel giro di cinque minuti Tomlin avrebbe fatto la conoscenza di un'Anita che non avrebbe mai pensato potesse esistere. Un'Anita «maestosamente indignata», prendendo a prestito Dickens nella descrizione di Sir Leicester Dedlock. L'apparizione della Lollapalooza non fu una vista gradita. Né lo fu il fatto che Carl aveva al traino una barchetta apparentemente vuota. Oh, Dio! Corse freneticamente al molo, ma si fermò sollevata quando a bordo vide Tony illeso. Però sembrava che piangesse. Anita li aspettava sul molo allorché Carl mise al minimo i motori e andò a urtare dolcemente contro i parabordi del pontile. Tese le braccia per afferrare la cima che Carl le passava e l'assicurò alla bitta. «Ha lasciato Clay! Ha lasciato Clay nel canale! Dobbiamo andare a cercarlo, mamma!» Anita strinse fra le braccia Tony che le era corso incontro e guardò Carl, che scendeva lentamente dalla Lolly. «Che cosa ne è stato di Clay?» «Stanotte Tomlin campeggia fuori. Che differenza fa? Intanto vi porto via di qui, tutti e due.» «Niente affatto!» Tony singhiozzava. «Ha sparato a Clay con il fucile!» Senza fiato, Anita chiese: «Carl, hai preso la...» «Anita, Angel sta venendo qui. Ho avuto ordini. Il don vuole che vi porti via di qui subito.» «Dov'è Clay? È ferito?» «No. Prendi su solo quello che ti occorre per stanotte e, perdio, andiamocene di qui.» Carl alzò le spalle, sfidò per alcuni istanti l'ostilità dello sguardo di Anita, poi s'incamminò verso la casa. «Voglio sapere dov'è Clay!» Carl si limitò a scuotere la testa continuando a camminare. Anita prese Tony per mano e lo seguì. «Carl, maledetto miserabile...!» Lui si girò di scatto, puntandole contro un dito. «Ehi, non chiamarmi mai più così! Non mi meraviglio che il bambino non mi rispetti. E allora
sentiamo, che cosa c'è, sei preoccupata per lui? Tomlin ci è nato, in questa fottuta palude. È di Angel, di Angel piuttosto che dovresti preoccuparti.» Tony sollevò di scatto la testa. «Clay ha assunto un paio di guardie del corpo. Due vicesceriffi fuori servizio», disse Anita. «Davvero? Interessante.» Carl si guardò attorno. Aveva cominciato a piovere. Il vento soffiava sempre forte, a raffiche. «E dove sono adesso?» «Arrivano più tardi.» «Più tardi? Quanto più tardi? Dopo che Angel è stato qui e ti ha tagliato la gola...» Tony si staccò dalla mano di sua madre e si avventò su Carl, colpendolo furiosamente con una gragnuola di pugni. Carl cercò di afferrarlo per tenerlo fermo; poi, non riuscendoci, fece un passo indietro e lo schiaffeggiò con forza. Tony si fermò, la bocca spalancata, sbattendo gli occhi, bianco in volto all'infuori del segno della mano di Carl sulla guancia. «Bastardo!» urlò Anita. «Stammi a sentire, adesso non ho tempo per queste cazzate, parlo sul serio.» Si inginocchiò davanti al bambino sconvolto, lo prese delicatamente per le spalle e gli ispezionò la guancia. «Non ti ho fatto poi tanto male, vero? Devi cercare di controllarti, Tony, non va bene lasciarsi trascinare così dai nervi...» «Torniamo al motoscafo, Carl, tutti quanti, e andiamo a cercare Clay. Lui non ci vede di notte. Non può difendersi da solo laggiù!» Senza lasciare Tony, Carl guardò Anita. «Sei tu la cieca, e devi essere anche sorda. Ti comporti come se non ricordassi che cosa ti è capitato l'ultima volta che hai visto Angel.» Tony prese a strofinarsi la guancia arrossata emettendo un piccolo suono strozzato che sgorgò in due parole: «L'Angelo Cattivo...» Carl annuì, guardandolo fisso negli occhi. «Sì, proprio così. L'Angelo Cattivo, Tony. Lui ha fatto male alla tua mamma. E ci riproverà se la trova qui. Allora che cosa ne dici, andiamo a fare le valigie e...» «L'Anello Magico.» Tony si avventò freneticamente su sua madre. La sua vocina si fece stridula. «L'Anello Magico!» Carl gli diede un piccolo strattone d'incoraggiamento e Tony tornò a rivolgere a lui la propria attenzione. «Già, farai bene a prendere con te il tuo Anello Magico», approvò Carl. Confuso e terrorizzato, Tony tornò a guardare la madre, poi si divincolò
da entrambi e corse verso casa. Big Dog, che stava trotterellando verso di loro da chissà quale spedizione, vide Tony correre e cambiò direzione per seguirlo abbaiando gioiosamente. «Ma lo vedi che cosa gli hai fatto!» Carl si tirò stancamente in piedi. «Vorrei che qualcuno mi desse un po' di credito, una volta tanto», borbottò. «Sto solo cercando di salvarti la vita.» 26 Wolfdaddy rientrò dalla città in bicicletta verso le sei e mezzo di sera. Il fanalino attaccato al manubrio mandava un debole fascio di luce tremolante sulla strada accidentata. Era quasi buio ormai e pedalare controvento era estremamente faticoso, ma per il momento la pioggia vera e propria ancora l'aveva risparmiato. Solo poche gocce sufficienti a bagnarlo appena. Portava il cappello con la cupola cosparsa di specchietti e una sdrucita sacca da boyscout che conteneva la sua Bibbia e due grossi hamburger che la famiglia della donna ammalata, alla quale era andato a fare visita, generosamente gli aveva regalato per la cena. Legata alla sacca c'era una guaina di cuoio intrecciato nella quale era infilato un coltellaccio per tagliare le canne, l'impugnatura avvolta in più strati di nastro isolante tutto unto, la lama resa assottigliata e affilatissima da anni di lavoro costante. Arrivando a casa, miriadi di foglie di quercia gli volarono addosso. Legò l'arrugginito ferrovecchio a un anello assicurato nel tronco, in modo che il vento non se lo portasse via. Sulla piattaforma sopra di lui un ramo basso, scosso dal vento, premeva a casaccio i tasti del pianoforte. Di certo sarebbe scoppiato un uragano prima che arrivasse l'alba, avrebbe fatto bene a coprire il vecchio pianoforte con il telo di plastica che aveva recuperato nel deposito di rottami dietro Kroger's e trasformato, usando altro nastro isolante, in una specie di tendone a tenuta stagna. Poi l'avrebbe assicurato ancora meglio con qualche mattone. Scorse un bagliore di occhi animali in mezzo alla grassa vegetazione palustre e udì un miagolio desolato, ciononostante c'era una considerevole mancanza di gatti attorno alla sgangherata scaletta che conduceva alla sua abitazione. «Kitty?» chiamò. «Kitty? Dove sono finiti tutti i miei micetti?» Oh, insomma. Wolfdaddy si arrampicò sulla piattaforma e si liberò della sacca. Passò le mani sui tasti del pianoforte, nel tentativo di far rivivere un inno che gli era vagamente ritornato in testa durante il tragitto. Ma adesso
aveva troppa fame per pensare alla musica, non toccava cibo da quella mattina. Meglio andare a prendere il telone di plastica prima; poi... Aprì la porta della capanna e trasalì per la sorpresa allorché l'uomo che lo aspettava all'interno gli si avventò ferocemente contro, brandendo il binocolo in una mano, a mo' di arma. Lo sconosciuto colpì Wolfdaddy con un colpo di rovescio del binocolo che fu più doloroso del peccato. Wolfdaddy barcollò e il cappello gli cadde mentre annaspava inutilmente alla ricerca di un sostegno. Le dita gli scivolarono sul nylon della giacca a vento nera del tipo che gli stava davanti e il piede sinistro non trovò alcun appoggio nel vuoto. Precipitò con uno strano movimento avvitato, schiantandosi sulla terra battuta fra un rovinio di sedie pieghevoli. La caduta gli fratturò un'anca, gli provocò un violento strappo alla schiena e lo lasciò senza fiato. Cercò debolmente di muoversi, ma non riuscì a tirarsi su. Vide i rami dell'albero squassati dal vento e in mezzo a essi gli occhi terrificanti dell'Angelo della Morte contemplare dall'alto la sua disfatta. Poi la vista gli si annebbiò, lottò per respirare e perse conoscenza per alcuni secondi. Quando rinvenne, fiato rantolante fra le labbra socchiuse, dolore ovunque, vide confusamente qualcosa muoversi sulla piattaforma sopra di lui. In un primo momento non capì che cosa fosse. Poi udì i suoni discordanti e capì, con un lampo di terrore che annullò momentaneamente gli altri dolori, che qualcuno stava spingendo il pianoforte proprio sull'orlo della piattaforma, in bilico addirittura, fra gli ululati del vento. Un gemito gli sfuggì dalla gola... Per l'amor del cielo, no! Fa già abbastanza male così! Ti prego, non buttarmi addosso il pianoforte! Da quando era riuscito a tirarsi fuori dall'acqua torbida della palude, Tomlin si era dato da fare per prepararsi a una notte lunga e scomoda, sebbene gli rimanesse ancora una vaga speranza che qualcuno venisse a salvarlo. Si chiedeva se Anita avesse collaborato con Carl; ma si poteva poi parlare di collaborazione quando il pistolero di Cosa Nostra infilava la coppola nera e imbracciava il suo piccolo strumento di persuasione? Magari a quell'ora erano già partiti e lui non sarebbe mai più stato in grado di trovarli. Il dolore per la perdita era aggravato dalla collera che provava contro se stesso, per avere permesso che una cosa così sciocca potesse accadere. Inutile starsi a dire che non aveva avuto alternative, Carl l'aveva
fatto fesso. Certo Anita avrebbe mandato aiuto, se solo le fosse stato possibile. Alla fine, quando era diventato troppo buio perché gli riuscisse di vedere il quadrante dell'orologio, Tomlin aveva fatto saltare il vetro con la punta del coltellino da pesce e aveva cercato di mantenere il senso del tempo con il tatto. Venti minuti alle sette, adesso. Troppo presto perché Burleson e Voisin fossero già arrivati. Nessun altro era a portata di voce tranne, forse, Wolfdaddy; ma Tomlin sapeva anche troppo bene che non c'era speranza di farsi sentire controvento. Suo padre gli aveva insegnato a portarsi appresso qualche fiammifero impermeabile ogni volta che saliva a bordo di un'imbarcazione, anche se per fare soltanto dieci metri. Dopo tanti anni quella precauzione si era finalmente rivelata utile: era riuscito a farsi un bel fuoco. Ma la legna secca che aveva raccolto quando ancora aveva l'uso della vista stava diminuendo rapidamente. Presto non gli sarebbe rimasto altro che roba verde, capace di fare tanto fumo ma poca fiamma. Un'altra ora al massimo e poi per lui sarebbe stata l'oscurità totale. Intanto, però, gli abiti si erano quasi asciugati grazie al vento e al calore delle fiamme e c'era un'altra ragione per essere relativamente soddisfatto... la spalla non era né rotta né slogata, sebbene ancora gli dolesse. Diagnosticò una contusione o uno stiramento. L'uso della mano sinistra gli era tornato, sebbene ancora non riuscisse a sollevare il braccio. Scoprì di avere compagnia poco lontano, un paio di alligatori che grugnivano rivolti l'uno all'altro; ma gli alligatori non lo preoccupavano. Era in tensione, non spaventato, annoiato quando non provava i morsi della fame. Non poteva far altro che mettere nuova legna sul fuoco, non perdere la nozione del tempo e augurarsi che il vento continuasse a soffiare da sud. Perché, se fosse diminuito o caduto del tutto, allora avrebbe piovuto. Forte. 27 Anita aveva passato un bel po' di tempo con Tony, tenendolo tra le braccia, rassicurandolo. Lui era rimasto seduto per più di un'ora sul suo letto stringendo l'Anello Magico e rifiutandosi di parlare. Carl, dopo avere terrorizzato Tony a quel modo, aveva avuto perlomeno il buonsenso di lasciarli soli. Il bambino sembrava caduto in uno stato di apatia, quasi di trance. Ma quando Anita aveva cercato di uscire dalla stanza un attimo, solo per andare a prendere qualche cosa per l'emicrania, si era messo a urla-
re, con grida agghiaccianti, chiedendole di non lasciarlo solo. Sembrava regredito all'età di quattro anni; esattamente l'età che aveva l'estate in cui Angel l'aveva investita in Flatbush Avenue. Ma piano piano, cullato e rassicurato dalle sue parole e dal suo amore, Tony cominciò a reagire in maniera più normale, sebbene si rifiutasse di lasciare l'anello con la pietra blu o di scendere dal letto. «Tony, devo proprio fare la tua valigia», disse Anita alla fine. «Okay. Okay.» Il bambino guardò la madre prendere la valigia dall'armadio a muro e affaccendarsi attorno ai cassetti. «Voglio il mio Garbage Pail Kids.» «Lo so.» «E posso portare anche la mia portaerei?» «Tutto quello che vuoi, tesoro.» Guardando la portaerei, Tony ripensò all'episodio alla baia, a Tomlin in acqua dopo che Carl gli aveva sparato contro. Ricominciò a tremare. «Ma lasciamo Clay lì?» «Tony, sai bene che non farei mai una cosa del genere.» Anita si rialzò dopo avere vuotato un cassetto e sollevò la testa. Si sentiva svenire. «Che cosa intendi fare?» volle sapere Tony. Evidentemente non le aveva creduto. Lei si costrinse a sorridergli. «Dopo che abbiamo fatto i bagagli e siamo sulla Lolly andiamo a prenderlo.» «Ma Carl non lo farà!» protestò Tony, in collera con lei. «Sì, invece. Posso fare un patto con Carl.» Che Dio mi aiuti, pensava intanto. Ma non aveva importanza in quel momento. L'unica cosa che importava era salvare Clay, poi Carl avrebbe potuto portarli dovunque il don pensasse fossero al sicuro. E se Carl avesse insistito a volersela portare a letto, a esigere la sua ricompensa sessuale per un anno di fedele servizio, ebbene, neppure quello contava più tanto perché presto o tardi lei e Tony avrebbero ritrovato la strada per tornare a Lostman's Bayou e da Clay Tomlin; se ancora li voleva. Stava sostenendo valorosamente il suo sorriso fiducioso, pur sentendo le lacrime pungerle gli occhi, allorché le luci tremarono, si abbassarono, rimasero così per alcuni istanti e poi si spensero del tutto mentre il vento assaliva ruggendo la casa. Unica luce nella camera da letto era il bagliore fioco della faccia di Topolino sulla sveglia gigante di Tony. «Mamma!» «È... non avere paura, credo che sia il generatore.» Le si era gelato il
sangue nelle vene. Sapeva che non era possibile che avessero finito il carburante, Roland aveva controllato il serbatoio proprio quel pomeriggio. Cercò di parlare con voce indifferente. «Ci penserà Carl a vedere che cos'è successo. Adesso vado ad accendere le lampade a kerosene.» «Dove vai?» La voce di Tony aveva già un accenno di pianto. «In cucina. Non so dove ho messo le sigarette e non ho i fiammiferi con me. Guarda, Topolino è tutto illuminato. E lì c'è la sirena che abbiamo comperato stamattina.» La prese e gliela mise accanto al letto. «Ti ricordi come si fa per farla funzionare?» «Sì.» «Suona forte!» «Pensi che spaventerà l'Angelo Cattivo?» «L'Angelo Cattivo non è qui, Tony. Se lo fosse, Big Dog gli sarebbe già saltato addosso e Carl lo legherebbe. Quindi non devi preoccuparti.» A Tony non venne in mente di obiettare che, se fosse stato davvero così semplice, perché mai dovevano andarsene? «Vorrei che Big Dog fosse qui. Dov'è?» «Oh, fuori, a scavare qualche buca. Oppure magari è giù alla barca con Carl.» «Torna subito», ordinò Tony alla madre. «Certo», lo rassicurò Anita, coprendolo di baci. Carl si era infilato nel vano motori della Lollapalooza ed era occupato a scoprire perché il diesel di babordo avesse cominciato a perdere colpi, allorché la corrente mancò e anche le luci di bordo si spensero tremolando. Per parecchi secondi rimase assolutamente immobile nell'oscurità, cercando di ricordare con precisione dove avesse messo la torcia di emergenza, riluttante a muoversi alla cieca in quell'angusto spazio sottocoperta, dove avrebbe certamente finito per picchiare la testa da qualche parte. Quando finalmente ebbe individuato a tentoni la MagLite e l'ebbe accesa, uscì divincolandosi sul ponte e puntò il fascio sul cavo a 220 volt che correva dal ponte al generatore situato a circa settantacinque metri di distanza, dietro la casa. Il cavo era ancora collegato e sembrava a posto. Però anche i riflettori attorno alla veranda erano spenti, il che significava che il generatore si era fermato. La cosa non gli piacque affatto. Intanto il vento che spingeva il motoscafo, facendo tendere gli ormeggi e scricchiolare le assi di legno del pontile che si alzava e si abbassava con il movimento delle onde, cominciava a dargli sui nervi.
Si diresse verso il saloncino per accendere il generatore di emergenza, poi decise di non sprecare inutilmente le batterie. Meglio usare soltanto l'altro diesel finché non avesse avuto modo di controllare il generatore. Si domandò se Roland avesse fatto la manutenzione. Quel negro non faceva mai niente a meno che Carl non glielo ordinasse almeno tre volte. Sul ponte superiore la chiave non era più nella console, dove Carl era certo di averla lasciata. Insomma, aveva tante cose per la testa, magari... Ispezionò le numerose tasche del giubbotto sportivo che aveva addosso e alla fine si convinse di non essersi sbagliato. Non c'erano dubbi: aveva proprio lasciato le chiavi nell'accensione. Luci spente, niente chiavi. La coincidenza non gli piacque affatto. Possibile che l'amico Tomlin fosse riuscito a rientrare da quell'acquitrino nel quale l'aveva gettato? Carl non riusciva a immaginare come avesse potuto, ma se fosse riuscito ad arrivare a casa a nuoto ovviamente non sarebbe stato di ottimo umore. Innervosito, corse sul ponte superiore. Quella fottuta carabina faceva bene a essere al suo posto. Lo era. Appena ebbe fra le mani il Jackhammer, Carl si sentì più sollevato. Non lo aveva ancora ricaricato dopo avere sparato quelle tre raffiche in direzione di Tomlin, ma in una tasca interna del giubbotto aveva ancora qualche cartuccia. Cariche standard numero 4. Meglio passare alle doppio0 quella sera, non si sa mai. Tornò in soggiorno e trovò i proiettili che cercava nel doppiofondo del gavone sotto il divano, svuotò il cilindro di plastica delle cariche leggere e lo ricaricò con la cosa più prossima alla dinamite utilizzabile in un'arma a mano. Con la carabina in pugno e il morale sollevato, Carl decise che era meglio andare in casa, dare un'occhiata al generatore e dare una mossa ad Anita, se ancora quel piccolo episodio di oscuramento non l'aveva messa in pista. Quando fu sul pontile, il vento calò di colpo e nel silenzio che seguì udì un tintinnio che non poteva essere altro che di chiavi. Magari prima di salire a bordo le aveva fatte cadere sul pontile e adesso le aveva inavvertitamente gettate in acqua. Maledizione. Agitò il fascio potente della MagLite... troppo potente; quando si distoglieva lo sguardo dal raggio luminoso per un po' non si vedeva nulla... spazzò con la luce le assi del molo, ma non vide niente di metallico. Il vento ricominciò con più forza; la barchetta che poco prima aveva slegato dalla poppa della Lolly e aveva assicurato
sull'altro lato del pontile andò a urtare con forza contro i bidoni che facevano da sostegno al pontile galleggiante. Poi udì di nuovo il tintinnio. Proprio come se qualcuno, poco lontano di lì, tenesse le chiavi e le scuotesse di tanto in tanto nel buio. Ma guarda un po', pensò Carl. Fece scorrere lentamente in grandi archi regolari il fascio di luce spazzando il pontile centimetro per centimetro, poi la tettoia delle barche, il prato fino al punto in cui andava a congiungersi con la vegetazione della palude. Non vide nessuno, ma il tintinnio persisteva; difficile dire da che direzione provenisse a causa del fischio del vento nelle orecchie. Poi gli venne in mente di guardare in alto e scoprì, a un paio di metri di distanza, le chiavi appese a un chiodo conficcato in uno dei pali della luce, proprio accanto al cavo che normalmente portava la corrente al motoscafo. Le chiavi erano troppo in alto per poterle prendere senza un appoggio. Dunque qualcuno era salito a bordo della Lolly mentre lui era nel vano motori, assorto nello studio del manuale per la manutenzione, aveva preso le chiavi dalla console della cabina di comando, le aveva appese a quel palo ed era andato in casa, probabilmente per fermare il generatore. Carl non riusciva a capire il senso di quell'operazione. Dall'idea che si era fatta di Clay Tomlin, non gli sembrava un tipo così tortuoso. Ma chi poteva dire che cosa invece passasse per la mente di Angel Barzatti? Carl sogghignò, ma aveva la gola così stretta da fargli male. Impugnò la carabina abbassandola all'altezza della vita in modo da poter sparare senza mirare, se fosse stato necessario. Effettuò un'ultima, rapida esplorazione alle sue spalle con il fascio della MagLite, ma il molo era deserto. Che diavolo, se Angel fosse stato a bordo della Lolly avrebbe avuto un sacco di occasioni per aggredirlo, e in circostanze ben più critiche per lui di quelle nelle quali si trovava in quel momento. Accettando l'ipotesi che quel bastardo pazzoide fosse lì, cosa diavolo poteva volere? Carl, però, sapeva bene quello che voleva lui, invece. Voleva indietro le sue chiavi. Assolutamente. Non riusciva a pensare una ragione per la quale non dovesse prenderle, sebbene la posizione in cui erano state sistemate, in cima a quel palo, gli sembrasse una specie di trappola. Lanciò un'ultima occhiata in giro e si convinse di essere assolutamente solo sul molo.
Fucile nella mano destra, dito sul grilletto. Torcia elettrica nella sinistra. Avrebbe dovuto allungarsi e agganciare il portachiavi con il dito mignolo per tirarlo giù. Due secondi. Facile. Di che cosa si preoccupava, allora? Il baluginante dondolio di quelle chiavi era diventato in un certo senso il centro del suo universo. Le chiavi del suo motoscafo, di tutto il suo contante nascosto a bordo, nonché le chiavi della Mercedes di cui tanto si vantava. Rubargli le chiavi era quasi come rubargli la virilità. Appenderle in cima a un palo gli sembrava un oscuro gesto di disprezzo. Una specie di messaggio segreto e tortuoso, forse... adatto alla mente di un pazzo. Carl fece un paio di passi, il fascio della torcia elettrica puntato verso l'alto, poi si allungò per prendere le chiavi, tutto il peso sulla punta del piede destro. La lama affilata del coltello di Wolfdaddy, affilata come un rasoio, sbucò diritta attraverso la fessura che separava due assi del pontile, attraversò senza fatica la suola di gomma delle scarpe da barca di Carl e gli tagliò via di netto tutte le dita del piede destro, eccetto l'alluce. Privato di quattro dita, Carl perse l'equilibrio e cadde in avanti, andando a urtare con la spalla sinistra contro il palo che lo deviò verso il barchino a fondo piatto ancorato lì sotto. Si abbatté pesantemente sul fucile e il colpo partì. L'esplosione fu soffocata dal peso del suo corpo. La violenza del colpo e l'entità del danno furono molto simili a quelli che avrebbe potuto subire cadendo su una mina antiuomo. Il fascio luminoso della MagLite che lentamente affondava nell'acqua accanto alla prua della barca illuminò per un attimo il viso dell'Angelo della Morte mentre emergeva dalla nicchia fra i bidoni di sostegno che gli avevano dato asilo e aria sotto il pontile. «Maaaammmma!» Anita terminò di accendere la seconda lampada a kerosene, andò ai piedi della scala e gridò a Tony: «Okay! Arrivo subito!» All'ululato sinistro del vento che si infilava fra lo schermo per le zanzare e la porta posteriore si aggiungeva il sibilo stridulo di una striscia di metallo che vibrava nella corrente. Un rumore così agghiacciante da farle battere i denti. Mentre si avviava verso la porta della cucina con una delle due lampade in mano divenne improvvisamente consapevole dell'odore della salsa che aveva cominciato a preparare e che aveva lasciato sul fuoco. Tornò sui suoi passi per spegnere il gas. Non che in quel momento avesse voglia di mangiare, ma forse non sarebbe stata una cattiva idea portare
qualcosa a Tony. Un bicchiere di latte. Posò la lampada e aprì il frigorifero. Fuori, sulla veranda, Big Dog guaì e un attimo dopo Anita udì un tonfo. Quasi svenne per il terrore. Lasciando aperto lo sportello del frigorifero, si voltò, l'orecchio teso, il cuore che le batteva all'impazzata. Ma il vento le rimandò solo il gemito stridulo di quella striscia di metallo che vibrava. Versò un bicchiere di latte per Tony e riprese la lampada, con l'intenzione di andare di filato alle scale. Ma non sopportava di non sapere che cosa fosse successo sulla veranda. Magari un ramo secco si era staccato da un albero e aveva colpito Big Dog? Non era normale che non stesse mugolando e grattando contro la porta per farsi aprire. Lasciò il latte sul ripiano tra il frigorifero e la cucina economica e si diresse verso la porta esterna. Le tendine arricciate nascondevano il vetro e qualunque cosa si celasse là fuori nell'oscurità. Anita scostò le tende, ma non riuscì a vedere. Esitò, poi mise una mano sulla maniglia e l'altra sul catenaccio. Intendeva aprire la porta lentamente, appena appena, ma la forza del vento incanalata nella fessura le strappò di mano il battente e rovesciò la lampada a kerosene. Il vetro della cupola andò in mille pezzi sulle piastrelle del pavimento e la fiamma, privata della protezione, presto languì. «Carl!» urlò Anita. «Carl, dove sei?» Il vento non le restituì alcuna voce umana, ma da qualche angolo oscuro della veranda le giunse il mugolio di Big Dog. Anita tornò verso il tavolo della cucina per prendere la seconda lampada. Alle sue spalle la porta a zanzariera si aprì e si richiuse rapidamente, con un rumore secco. Si voltò boccheggiando, ma non vide nessuno; era stato di nuovo il vento. La zanzariera si spalancò di nuovo mentre lei si avvicinava. Dall'oscurità emerse Big Dog e ad Anita si accapponò la pelle; arrancava come se stesse camminando su qualcosa di viscido e solo a fatica riuscì a varcare la soglia. Per un attimo Anita rischiò di far cadere anche la seconda lampada. «Oh, Dio!» Big Dog era fradicio e coperto di fango come se avesse attraversato la palude. Si trascinò affannosamente accanto a lei e si lasciò cadere sul tappetino davanti al lavello, rovesciandosi su un fianco. Nel petto aveva uno squarcio sanguinolento lungo circa tre centimetri. Lottava per respirare malgrado la ferita profonda. In ginocchio davanti al cane, Anita gli accarezzò la testa e ritrasse la
mano sporca di sangue; l'orecchio era quasi completamente staccato. Anita lasciò la lampada sul pavimento e fece un salto verso la porta, vi si appoggiò con tutto il peso del proprio corpo e tirò il catenaccio. Big Dog ormai rantolava, la bava gocciolante dalle fauci contorte in uno spasimo. Aveva bisogno di Carl, maledizione. Ma non aveva intenzione di riaprire quella porta. Il vento seguitava a emettere il suo gemito metallico. L'orrore l'aveva paralizzata, ottundendo le sue percezioni. Si guardò la mano sporca di sangue. Se era accaduto a Big Dog, forse stava accadendo anche a Carl. Si rese conto che erano tre o quattro minuti che non sentiva più la voce di Tony. Afferrò la lampada e corse ai piedi delle scale. Il buio del piano superiore parve avvolgere e quasi inghiottire l'alone luminoso in cui si trovava Anita. «Tony!» Il silenzio la circondò come un muro minaccioso. Lo infranse precipitandosi su per le scale. Sulle pareti le ombre saltavano e ballavano attorno a lei, come in un folle gioco di bambini. Si fermò sulla porta della camera da letto di Tony, il braccio teso per fare luce all'interno, a illuminare le coperte spiegazzate del letto: vuoto. Tony non c'era più. La sveglia con la faccia di Topolino la guardò irridente dal comodino, mentre il terrore riempiva la stanza come una nebbia, i capelli le si rizzavano sulla testa e il sangue non affluiva più al cervello, dandole un senso di mancamento. Il vetro della lampada tintinnava contro il supporto metallico. Tic-toc peccato, le disse Topolino. «Mamma?» Anita si voltò verso la porta chiusa del bagno. «Tony? Stai bene?» «Ho dovuto andare. Avevo i crampi», rispose il bambino con una vocina contrita. Ne provò uno anche lei, un crampo di sollievo. Ma il suono della voce di suo figlio l'aveva miracolosamente corroborata, il suo cuore aveva nuovamente ripreso a battere. «Stammi a sentire, Tony. Adesso prendiamo la macchina e ce ne andiamo in città. Immediatamente.» «E Clay?» domandò Tony, con una voce prossima al pianto. «Non te ne importa di lui?»
Anita si passò la mano, ancora appiccicosa del sangue di Big Dog, sulla guancia, sforzandosi di mantenere il controllo dei propri nervi ancora per pochi, cruciali minuti. «Certo... lo sai. In città possiamo chiedere al signor Lefevre, o a qualcun altro, di aiutarci a cercarlo, ma... adesso noi... tu, voglio che tu rimanga dove sei e mi aspetti, devo trovare la borsa e le chiavi. Mi hai capita, Tony? Chiudi a chiave la porta.» «L'ho già fatto.» Anita uscì dalla camera del figlio e si diresse verso la propria. Ma davanti a quella di Carl si fermò. Cercò di concentrarsi intensamente su un'unica cosa, una cosa che forse avrebbe portato lei e Tony fuori da quella casa, sani e salvi. Ma per questo, forse, avrebbe avuto bisogno di aiuto. Aprì la porta della camera di Carl. Dentro l'aria era calda, quasi irrespirabile. L'imposta di una finestra sbatteva ritmicamente. Sentì odore di acqua di colonia, ma Carl non c'era. La sua roba, in parte sistemata nella valigia, era ammonticchiata sul letto. Le porte del guardaroba erano spalancate. Anita appoggiò la lampada su un tavolino di marmo accanto alla porta e con decisione si avvicinò al letto dall'alta testiera antica e prese a frugare fra la roba di Carl, gettando da parte biancheria, camicie e calzini neri. Non trovò quello che cercava in nessuna delle due valigie di cinghiale. Per terra, accanto allo scrittoio, c'era la valigetta portadocumenti e Anita la rovesciò senza tanti complimenti. L'ultima cosa a rotolare fuori fu proprio la pistola automatica Detonics calibro 380, nel suo fodero di pelle. Dietro di lei la porta della camera sbatté con forza e nell'istante esatto in cui si girò, cercando contemporaneamente di estrarre la pistola dal fodero, la lampada andò in pezzi e la luce svanì. Addossata alla parete dietro lo scrittoio, Anita rimpianse di avere ostentato tanto disinteresse ogni volta che Carl aveva cercato di istruirla sull'uso delle armi da fuoco. Ciononostante aveva sparato un po' di colpi proprio da quella pistola. Sapeva come funzionava e si preparò a sparare, senza doverci pensare troppo sopra. Giù la sicura con il pollice, tira indietro il caricatore, lascialo andare... un suono secco e rassicurante nella trappola buia della camera di Carl. Il vento sibilava attorno alla casa, ma l'ansimare di Anita era ancora più forte di quello del vento. Respirò a fondo e trattenne il fiato. Strinse l'automatica con entrambe le mani e mirò. Dito sul grilletto, prossimo al punto di massima tensione. Ma lui dov'era? Tese l'orecchio. Il rombo del sangue nelle orecchie le impediva di udire,
l'ululato del vento distoglieva la sua attenzione. Tendeva l'orecchio per cogliere uno scricchiolio delle assi del pavimento che tradisse l'avanzare di qualcuno. Invece sentì il suo odore. Un odore diverso da quello che aleggiava nella stanza; più forte della colonia preferita di Carl. Un odore nauseabondo, morboso, che l'avvolse come la tela di un ragno. Era arrivato, alla fine, l'Angelo della Morte. Quel nome sulle sue labbra la liberò finalmente del bozzolo gelato di odio in cui lui l'aveva rinchiusa. «Angel?» «No, questa volta no, Angel, è finita!» Metodicamente Anita fece fuoco, svuotando il caricatore nell'oscurità, assordata dopo i primi due colpi e raggelata in una sorta di immobilità attonita allorché il percussore batté fiocamente a vuoto quando tirò il grilletto per l'ultima, inutile volta. 28 Udendo gli spari, Tony uscì dal bagno, le dita strette attorno all'Anello Magico, aprì la porta dell'armadio della biancheria e tremando vi ci si acquattò dentro, sotto lo scaffale più basso. Aspettava il ritorno di sua madre, ma temeva di non vederla mai più. Strofinò la pietra dell'Anello Magico finché le dita non gli scottarono. Gradualmente il tremito cessò e ai suoi occhi la pietra assunse nell'oscurità un bagliore pallido ed etereo. Poi, da qualche parte in casa, Big Dog abbaiò flebilmente. Tony si sentì scoppiare il cuore dalla gioia; non doveva più nascondersi. Si abbottonò i jeans e spinse la porta dell'armadio a muro. Udiva le raffiche del vento contro la casa e una specie di vibrazione sibilante che conosceva bene perché spesso gli aveva tenuto compagnia nelle notti tempestose, quando non riusciva a dormire. Tony non aveva paura del vento. Però sua madre si era portata via la lampada e nel buio la sua camera gli appariva più minacciosa che familiare. Coprì con una mano la pietra dell'Anello Magico per non sprecare il suo potere finché non ne avesse avuto bisogno per fare esplodere l'Angelo Cattivo in un miliardo di pezzi, come gli diceva sempre sua madre. «Mamma?» chiamò a bassa voce. Nella camera non si vedeva quasi
niente all'infuori della faccia di Topolino sulla sveglia ticchettante e della lampadina da notte, che ne sostituiva il naso, azionata da una piccola batteria a dieci watt. Infilò l'Anello Magico nella tasca dei jeans e prese la sveglia per usarla come lanterna. Sulle scale udì di nuovo Big Dog, questa volta non un latrato, solo un mugolio. Dove? «Big Dog?» chiamò timidamente. Poi, con più forza nella voce, chiamò sua madre. La casa era invasa dal vento umido e sferzante, ma quel fatto non lo turbava quanto la consapevolezza che qualcuno aveva sparato parecchi colpi e sua madre ora non gli rispondeva. Ricominciò a tremare; aveva voglia di piangere. «Carl! Hai sparato a qualcosa? Ma dove siete andati tutti quanti?» Difficile trattenere le lacrime mentre il silenzio persisteva, infine sgorgarono violente e presero a scorrergli giù per le guance. Era più che spaventato adesso, al pensiero che se ne fossero andati tutti quanti, dimenticandosi di lui, perché non gli volevano bene. Cercò di non pensare che qualcosa di inimmaginabile e terrificante fosse accaduto. Scese di corsa gli ultimi gradini, gli occhi ormai abituati all'oscurità appena rotta dal bagliore della sveglia. Il ticchettio rumoroso e regolare ebbe uno strano effetto calmante su di lui. Si era addormentato tante sere in quella casa ascoltando il suono rassicurante di quella sveglia, aprendo gli occhi al mattino ai profumi della prima colazione che salivano dalla cucina, magari con sua madre seduta sul suo letto. Okay, dormiglione. Ora di andare a scuola. Corri a lavarti la faccia. Non fare quella faccia da coniglio. Faccia da coniglio. Per qualche ragione, ogni volta che glielo diceva, Tony pensava al coniglio che correva con la sveglia in mano in Alice nel paese delle meraviglie. Arrivò nell'ingresso e si fermò per guardarsi attorno, sentendo il vento sul viso. Vide che le porte della biblioteca che davano sul soggiorno erano chiuse ma sbattevano, come se Big Dog fosse dall'altra parte e vi si gettasse contro con tutto il suo peso nel tentativo di entrare. Tony aveva avuto l'intenzione di andare in cucina, invece cambiò idea e attraversò il soggiorno. Alla luce fioca nel naso di Topolino gli occhi dei cani Ming, ai lati del caminetto, parvero seguirlo, sporgendo fuori delle orbite. Non era difficile, in
quell'atmosfera, immaginare che le due bestie si stessero animando e fossero sul punto di balzargli addosso. Affrettò il passo. «Big Dog! Mamma! Siete lì?» Nessuno rispose, né venne ad aprire le porte della biblioteca. Tony dovette lasciare per un attimo l'Anello Magico e posare la sveglia per riuscire a fare scivolare sulle guide le pesanti porte scorrevoli. Una folata di vento lo investì scompigliandogli i capelli. Le porte della veranda erano spalancate; le tende spettrali, gonfie sino a sfiorare il soffitto a cassettoni. Qualcuno aveva acceso la lampada a kerosene che veniva sempre lasciata per precauzione accanto al tavolo delle mappe. Tony si guardò attorno, ma vide solo il volto malinconico di un ammiraglio britannico dal naso a becco raffigurato in un ritratto a olio appeso alla parete. Il visetto di Tony si contrasse in una smorfia di disappunto e di paura. L'alone di luce della lampada superava le porte-finestre, illuminando una parte della veranda. Dietro di lui c'era il soggiorno buio e i cani di porcellana con gli occhi sporgenti che lo seguivano. Tony non riuscì a trovare il coraggio per riattraversare le stanze vuote e buie alla ricerca di sua madre o di Big Dog. Se lei aveva lasciato lì la lampada, pensò, forse era fuori; non gli aveva risposto perché il vento le aveva impedito di sentirlo. Lentamente Tony avanzò fino alla porta della veranda, la sua ombra che lo precedeva gigantesca e allungata. L'Anello Magico faceva un rigonfiamento rassicurante nella tasca dei jeans. Per una tregua momentanea del vento le tende gli ricaddero addosso facendolo correre fuori, in preda al panico. Proprio in quel momento fu colpito da un suono inaspettato, simile al campanello di una bicicletta. «Chi c'è?» Non vedeva quasi niente, forse adesso udiva anche suoni inesistenti. Aveva voglia di scappare, di correre verso il camper... ma Clay non c'era. La gola si strinse al pensiero di Clay da solo, privo della vista. Magari un alligatore stava per mangiarselo proprio in quel momento. Tony non riusciva a sollevare i piedi da terra. Soffriva e l'incubo che da troppo tempo lo tormentava adesso gli minava la capacità di prendere decisioni, di reagire al pericolo. Udì di nuovo il tintinnio del campanello e l'Angelo della Morte fece la sua apparizione svoltando l'angolo della casa. Portava la marsina e il cappello di Wolfdaddy e inforcava goffamente la vecchia bicicletta arrugginita, con i grossi copertoni fuoristrada. Il faro montato sul manubrio lanciava fiochi bagliori giallastri.
Entrò, pedalando lentamente, nell'incubo di Tony, che non poté fare altro che fissare a bocca aperta quella bizzarra apparizione. L'Angelo della Morte faticava a tenersi in equilibrio nel vento poderoso, ciononostante era evidente che puntava diritto sul bambino, paralizzato dal terrore. Guidava con una mano sola perché con l'altra era impegnato a prendere il coltello di Wolfdaddy dalla sacca da boy-scout che portava sulla spalla. Nella luce riflessa del faro della bicicletta e in quella della lampada in biblioteca, gli innumerevoli specchietti del cappello di Wolfdaddy occhieggiavano come un cielo stellato. Il viso di Angel, però, era pieno di oscurità, oscuro come la morte che aveva portato con sé alla baia. Tony riuscì a liberarsi dalle sabbie mobili dell'incubo e fece un passo indietro; quasi troppo tardi si rammentò dell'Anello Magico. Frugò freneticamente nella tasca dei jeans e finalmente le sue dita trovarono il contatto con l'Anello; arretrò ancora un paio di passi. Chinò la testa e tese davanti a sé la mano che stringeva l'Anello. Il coltello uscì tutto quanto dal suo fodero proprio davanti alla porta della veranda, mentre l'Angelo della Morte continuava inesorabile a pedalare nel raggio luminoso. La bicicletta era a meno di un metro dal bambino raggomitolato, quando Big Dog sbucò con un balzo dal groviglio delle tende agitate dal vento colpendo l'Angelo della Morte lateralmente. La bicicletta sterzò e si abbatté giù per i gradini della veranda; uomo e cane rovinarono nel prato sottostante, mentre il coltello descriveva un arco nell'aria. Udendo il tonfo e il ringhio rabbioso di Big Dog, Tony si decise ad alzare la testa. Li vide lottare sull'erba. Big Dog avrebbe avuto facilmente la meglio sull'Angelo della Morte se non fosse stato fortemente indebolito dalla perdita di sangue; era ormai a un passo dalla morte quando aveva sentito che Tony aveva bisogno di lui. L'Angelo della Morte colpì il muso del cane con un pugno, poi con un calcio e a quattro zampe corse a recuperare il coltello. Tony vide Big Dog rialzarsi con passo vacillante e quindi attaccare senza un attimo di esitazione l'Angelo della Morte, che intanto aveva afferrato il coltello. Poi Tony dovette distogliere lo sguardo perché aveva già capito che cosa sarebbe accaduto. Udì il suono umido della lama che entrava nella carne e l'ululato straziante di Big Dog. Tony non si fermò a riflettere sul da farsi. Lo fece e basta. Corse in direzione del lato opposto della veranda e saltò oltre il parapetto; andò ad atterrare sul prato e si fece male a una caviglia,
fatto che lo rallentò, ma non riuscì a fermarlo. Lasciandosi alle spalle Big Dog morente, corse verso il molo. L'Angelo della Morte udì il grido di dolore di Tony per la caviglia ed esitò con il coltello sollevato sopra il cane ormai agonizzante. Con la coda dell'occhio scorse la sagoma del bambino, appena visibile contro la luminosità fosforescente della baia, e si lanciò all'inseguimento. Tony trovò la cima che assicurava la barca e freneticamente cercò di slegarla, sapendo che l'Angelo della Morte lo stava inseguendo. Lo sapeva perché lo aveva sentito ansimare al di sopra del vento. Liberata finalmente la cima, balzò a bordo e lanciò uno strillo di paura. Era atterrato sulla schiena di Carl; Carl che era un ammasso di sangue e di indumenti lacerati. Sospinta dal balzo di Tony, la barca si staccò misericordiosamente dal molo. Nella sua corsa affannosa, l'Angelo della Morte scuoteva le assi del pontile, facendo sobbalzare nell'acqua i bidoni che lo sorreggevano; con un balzo si protese oltre l'orlo, artigliò con le dita la poppa della piccola barca e cominciò a tirare verso riva. Tony afferrò l'unica arma che gli riuscì di trovare, un vecchio remo pieno di schegge, e colpì con tutta la forza la faccia di Angel, prendendolo in mezzo agli occhi. Angel mollò la presa e fece un balzo indietro, premendosi le mani sul naso e su un occhio, parzialmente accecato dal colpo e dalle schegge. Tony calpestò il corpo supino di Carlo Buffano e premette il bottone di accensione del motore che reagì immediatamente. Sospinta da un colpo di vento, la barca adesso era a poco meno di tre metri dal molo; Tony non riusciva più a vedere l'Angelo della Morte, ma temeva che potesse essere sceso in acqua e che avanzasse nel buio verso di lui. Era gelato per la paura e per il sudore. Riuscì a girare la piccola imbarcazione e ad allontanarsi ancora di più dal molo prima che il vento, finalmente a suo favore, lo investisse sospingendolo verso il largo. Il motorino era talmente silenzioso che Tony non riusciva a sentirlo nell'urlo del vento, ma toccandolo sapeva che funzionava. Uno spruzzo d'acqua sollevato dalla prua lo investì, bagnandolo. Ormai aveva perso il senso dell'orientamento. Pensava di avere puntato verso l'interno della baia, imboccando il canale in cui avevano lasciato Clay quel pomeriggio; ma era anche possibile che stesse puntando esattamente nella direzione opposta, verso il mare aperto. Si curvò sulla poppa della barca, la mano stretta attorno alla barra del ti-
mone, il piede di Carl che gli premeva contro l'anca. Non sapeva se fosse veramente Carl, ma non aveva modo di accertarsene. Un tremito convulso lo squassò di nuovo, seguito da una sorta di paralisi. Tremito, paralisi; tremito, paralisi: aveva voglia di urlare: magari Clay lo avrebbe udito, ma non ci riuscì. Un altro spruzzo d'acqua sferzò l'interno della barca bagnandogli la faccia. Adesso era davvero spaventato, perché aveva perso Big Dog e perché era solo con un uomo morto. L'Anello Magico aveva chiamato Big Dog a salvarlo. Ma perché Big Dog doveva morire? Quel pensiero lo colmò di amarezza e dolore. Non era così che dovevano andare le cose, sua madre era una bugiarda. Solo allora si rese conto che nella sua folle fuga verso la barca aveva perso l'Anello Magico. Chi lo avrebbe salvato, adesso? 29 Shelby Burleson seguì DeeJay Voisin a Lostman's Bayou e pochi minuti dopo le otto arrivarono al punto in cui la strada si biforcava. DeeJay parcheggiò il camper di traverso. Shelby era al volante della macchina della moglie, una Cougar celeste. Aveva preso con sé la Smith & Wesson .44 magnum che portava in una fondina sotto l'ascella, nascosta dalla giacca a vento di nylon rossa costellata di etichette dei tornei di pesca. Adesso che era fuori servizio DeeJay era passato dalla gomma da masticare al tabacco. Red Man per la precisione. Saltò giù dal camper, lanciò uno sputo di succo di tabacco sottovento e disse a Shelby: «Meglio dare un'occhiata in giro, avvertirli che siamo qui». «Già.» DeeJay prese la carabina semiautomatica dalla rastrelliera collocata sopra il posto di guida del camper. Era un modello regolamentare chiamato Roadblocker. Portava anche la sua pistola personale, una calibro .38, nella fondina appesa alla cintura. Aveva indossato una tuta con la giacca munita di cappuccio. Entrambi gli uomini avevano torce elettriche e manette. Salirono sulla Cougar che era munita di fari supplementari e percorsero lentamente la strada sterrata. «Un vento della malora, stasera», osservò DeeJay. «Già.» «Ti è piaciuta la partita 'Bama e sei di sabato?» «Non più dell'ultima volta che me ne hai parlato.»
«E allora che cosa ne dici dei Dogs e otto allo LSU?» «Ci penserò», lo rassicurò Shelby. DeeJay sorrise, poi si protese in avanti e disse: «Rallenta». Ma Shelby aveva già cominciato a rallentare prima ancora che lui glielo dicesse. «Che cosa c'è sotto quella quercia laggiù? Non è l'albero di Wolfdaddy? Sicuro che lo è.» «Sembrerebbe il suo pianoforte, caduto di sotto.» «Stanotte tira un bel vento, è vero, ma non così forte.» DeeJay puntò sul pianoforte i fari supplementari e subito videro il corpo. Fosforescenti occhi di gatto brillavano nell'oscurità ai margini del raggio luminoso e un grosso tigrato scese con un balzo dalla sommità del pianoforte, che per l'angolazione in cui si trovava faceva pensare a un vascello che stesse affondando. «Caspita, merda», mormorò DeeJay, con la voce carica di tensione. «Ho l'impressione che non sarà una notte tranquilla come avevo creduto.» Scesero cautamente dalla macchina. Per prudenza, Shelby lasciò il motore acceso. DeeJay teneva con entrambe le mani il Roadblocker, pronto a sputare fuoco, e Shelby avanzava con la .44 a canna lunga puntata verso l'alto. Si avvicinarono lentamente al pianoforte da due direzioni diverse. DeeJay lo accerchiò da una parte, cercando di evitare di guardare nel campo luminoso, al centro del quale brillava la testa calva di Wolfdaddy. «Sì, è proprio Wolfdaddy», disse Shelby, inginocchiandosi nell'erba. DeeJay intanto aveva continuato a muoversi, guardandosi attorno, scrutando verso l'alto, accerchiando la scena del pianoforte, le spalle rivolte a Shelby. Il vento gli fischiava nelle orecchie. Tirò su il cappuccio della tuta. Shelby appoggiò due dita sulla gola di Wolfdaddy e non sentì calore né pulsazioni. «È andato da un pezzo, DeeJay.» «Quanto?» DeeJay sputò altro succo di tabacco, ma calcolò male l'angolazione del vento e a momenti se lo riprese tutto in faccia. Fece una smorfia e si asciugò la guancia con la manica della giacca. Shelby lanciò un'occhiata al sangue, ormai rappreso, uscito dalla bocca spalancata di Wolfdaddy. «Forse un'ora.» Si alzò in piedi e guardò in alto verso la piattaforma, che non aveva affatto l'aria di avere ceduto. Là sopra la leggera porta della baracca sbatteva, spinta dal vento. «Non riesco a credere che il piano sia caduto così da solo da lassù. A
meno che Wolfdaddy non stesse cercando di spostare i mobili, magari per fare posto a un letto a due piazze.» «No, una spiegazione come questa non la bevo», replicò DeeJay, sempre muovendosi, scrutando l'oscurità che li circondava, sentendosi goffo, a disagio e sotto tiro. «Bene, penso che sia il caso di denunciare l'incidente.» «Ma prima facciamo un salto alla casa, socio. Per Wolfdaddy non farà neanche un po' di differenza. Così possiamo usare il telefono.» «Pensavo proprio la stessa cosa», ammise Shelby. DeeJay arretrò fino alla Cougar e aspettò che il compagno lo raggiungesse. Con un balzo Shelby fu al volante e allora anche DeeJay si infilò dentro mentre l'altro mollava la frizione e, con tutte le luci spente all'infuori di quelle di posizione, puntava verso la baia. «Allora, chi pensi che volesse uccidere Wolfdaddy?» azzardò DeeJay, cercando di togliersi il resto del Red Man dal viso con un fazzoletto tutto inzaccherato. «Proprio nessuno. O meglio, di quelli che non si lasciano dietro testimoni. Nessuno. Quel tipo di operazione lì.» «Mi auguro che non finiremo per rimpiangere di essere arrivati un pelo troppo tardi.» «Riesci già a vedere la casa? Io non vedo un accidente con questo buio.» «Non ci sono luci», osservò DeeJay. «Caspita, merda. Come la mettiamo?» «Piano e in silenzio.» «Se non ricordo male, c'è un po' di pendenza dal cancello alla casa. Potresti spegnere il motore e scendere in folle da lì.» «Ci avevo già pensato», disse Shelby. «Deve pure avere una macchina fuori della strada principale, magari nascosta da qualche parte in mezzo ai cespugli.» Erano quasi arrivati alla casa sulla baia prima che riuscissero a vederla. Il vento assaliva con violente folate la loro macchina facendola ondeggiare malgrado il peso dei due passeggeri. Superarono il cancello e scesero a motore spento per il resto della strada. Sul vialetto d'accesso c'era una Mercedes sport coupé e Shelby parcheggiò subito dietro. Solo allora spense anche le luci di posizione. Per scendere dalla macchina dovettero lottare contro la forza del vento che impediva alle portiere di aprirsi, poi le richiusero senza fare rumore. Shelby accese per un attimo la torcia elettrica e orientò il fascio contro il camper parcheggiato sul blocco di cemento. Dee-
Jay illuminò per un attimo l'interno della Mercedes, tanto per essere certo che fosse vuota. Due secondi e via. Indugiarono a meno di un metro di distanza, studiando la casa. «C'è una luce», disse finalmente DeeJay a Shelby, a voce così bassa che il compagno lo udì a malapena. «Da quella parte, dietro l'angolo? Potrebbe essere una lampada a gas. Non c'è dubbio che la corrente è caduta.» «Questo significa che forse va tutto bene.» «Facciamo il giro e andiamo a vedere.» «Tu va' da quella parte», suggerì DeeJay, «io salgo dalla veranda.» «DeeJay?» «Sì?» «Immagino che è proprio quello che farebbe Eastwood, giusto?» «Dovrebbe essere qui adesso, per capire com'è nella vita vera.» DeeJay sogghignò. «Eastwood prenderebbe il Tide e sei, non è una femminuccia, lui.» «Finiamola con le chiacchiere», tagliò corto Shelby; poi si separarono. DeeJay salì di corsa i gradini della veranda, cercando di mantenere il senso dell'orientamento e della posizione di Shelby che intanto, alla sua sinistra, accerchiava lentamente l'angolo della casa. DeeJay provò silenziosamente con le Nike le travi della veranda che si rivelarono ragionevolmente solide. Qualcosa gli ostruiva la strada: oh, soltanto un dondolo. Lo aggirò silenziosamente. Non voleva accendere la torcia; c'erano un sacco di porte-finestre che davano sulla veranda e qualcuno, nascosto là dentro, avrebbe potuto tirare piombo questa volta, anziché pianoforti. In quel momento preferiva ascoltare piuttosto che guardare, sebbene il vento rendesse difficile cogliere altri rumori, persino il cigolio ben distinto delle catene alle quali era appeso il dondolo proprio alle sue spalle. Le porte-finestre della veranda che davano nella biblioteca erano spalancate, le tende aggrovigliate come funi e tirate sopra i battenti. All'interno vide la lampada, posta sullo spigolo di un tavolo. Si guardò intorno, scrutò il prato e vide Shelby che avanzava lentamente. All'estremità opposta della veranda c'era una bicicletta rovesciata con una ruota quasi incastrata sotto la ringhiera. DeeJay compì tutte le operazioni di rito prima di entrare in una stanza che gli era ignota e nella quale qualcuno poteva aspettarlo per fargli saltare le cervella; ma quando finalmente fu dentro, con le spalle contro la parete, non vide nessuno, niente e nessuno tranne un'altra stanza, ancora più scura,
che si apriva oltre la biblioteca. «DeeJay?» Shelby lo chiamò dal prato. Correndo praticamente a quattro zampe, DeeJay uscì sulla veranda, fece un giro completo su se stesso con la pistola spianata, poi con un balzo saltò oltre la ringhiera. Si unì al compagno e seguitò a ispezionare la casa e il terreno circostante. «Che cos'hai trovato?» domandò, voltando le spalle a Shelby. «Un fottuto cane morto. Fatto a fette. Al diavolo, probabilmente è il pastore irlandese di quella gente.» DeeJay guardò nella direzione che gli indicava l'amico, ma non vide granché. «Fatto a fette?» «Già.» «La faccenda si sta facendo divertente», osservò DeeJay, sputando di nuovo. «Hai visto un fottuto telefono in casa?» «Già, sicuro che l'ho visto.» «E allora entriamo.» «Anche tu?» «No, io rimango qui fuori e faccio la guardia al cadavere del cane.» Scavalcarono di nuovo la ringhiera ed entrarono insieme nella biblioteca usando le stesse precauzioni che DeeJay aveva usato poco prima. «Da questa parte», disse DeeJay, indicando il telefono. Prima, però, decise di dare un'occhiata anche in salotto. Si avvicinò lateralmente alla porta; poi, con un balzo felino e più agilità di quanto avesse dimostrato in anni, fu dentro. Nessuno sparò. Non trovò cadaveri. Oltre il salotto c'era un ingresso, scale. Decise di lasciare perdere per il momento il giro turistico della casa e tornò da Shelby, sempre tenendo sotto controllo le porte della biblioteca sui due lati con il fucile spianato. Shelby, intanto, si era portato il ricevitore all'orecchio e aveva assunto un'espressione contrariata. «Morto?» chiese DeeJay. «L'hai detto.» «E adesso che cosa vuoi che facciamo?» «Facciamo un'ultima ispezione all'esterno e poi passiamo al setaccio pianterreno e primo piano. Il giro lo faccio io, tu fai il palo.» «Okay, socio.» DeeJay e Shelby si separarono sulla porta della veranda. DeeJay corse con il Roadblocker imbracciato verso la Cougar. Controllò rapidamente
l'interno con la torcia elettrica, poi si sistemò al volante, abbassò il finestrino e si nascose con la canna del fucile puntata, i pulsanti delle luci a portata di mano nel caso avesse avuto bisogno di illuminare la casa. Adesso non doveva fare altro che tenere a mente che aveva le spalle scoperte e fare in modo che il vento non lo tirasse matto mentre aspettava. Tuttavia c'erano buone probabilità che l'uomo che stavano cercando se ne fosse già andato da un pezzo, lasciandosi dietro Dio solo sa quale massacro nella casa buia. Non era passato molto tempo quando udì Shelby chiamarlo. DeeJay si sollevò e, sempre piegato in due, corse verso il retro della casa. Vide il compagno all'estremità della veranda, la .44 in una mano e la torcia elettrica nell'altra, puntata su qualcosa di strano. «Un corpo?» «Non posso crederci. Maledizione, proprio non posso crederci.» DeeJay guardò con i suoi occhi. C'era un uomo sulla veranda, seduto eretto sul gradino più alto della porta della cucina. Nella luce concentrata della torcia elettrica, l'occhio non offeso era spalancato e vitreo, dello stesso giallo rossastro della luna di Halloween. Sembrò non fare caso alla luce, infatti il suo sguardo era sperso altrove, al di là di loro, in direzione della baia. Era completamente nudo. Il corpo era rigido, i pugni serrati sotto le cosce muscolose, di alabastro. Era terreo, del colore delle ossa calcinate a eccezione del triangolo scuro dei peli del pube e delle sopracciglia, il viso e gli avambracci macchiati di sangue, il turgore violaceo del pene eretto. «E questo chi diavolo è?» domandò DeeJay a se stesso, in un tono di voce pieno di meraviglia. «Non può essere che lui. Gli ho puntato addosso la luce e non ha reagito. Io, invece, a momenti rimango secco. Hai mai visto niente del genere?» «È così che sono stato tutte le sere per sei mesi dopo essermi sposato, aspettando che Myrna tornasse a casa con il treno delle sette e undici.» «Deve essere un... come lo chiamano? Cat... cat... qualcosa.» «Cataplegico? Non saprei. Gli hai parlato?» «Sì, e neppure a lui interessa il 'Bama e sei.» «Quand'è così, mettiamogli le manette e dopo scopriamo se c'è rimasto qualcuno vivo lì dentro.» «Stai attento. Magari adesso se ne sta seduto così, ma...» «Tu vagli dietro con le manette e se fa tanto di muoversi, gli faccio saltare il piede destro alla caviglia.»
«Vuoi sapere una cosa, DeeJay, ci sono volte in cui ho l'impressione che farai strada in questo lavoro. Però punta alle palle, anziché al piede.» DeeJay accese la torcia elettrica e Shelby scavalcò la ringhiera della veranda grugnendo per la fatica. Non parve attirare l'attenzione dell'Angelo della Morte mentre camminava lentamente verso i gradini, la pistola nella fondina adesso perché aveva bisogno di entrambe le mani per infilargli le manette. Dal prato, più in basso, DeeJay seguiva l'avanzata di Shelby passo passo, mantenendo la luce sul soggetto, che adesso sbavava come un neonato. Più insanguinato di quanto non fosse apparso da lontano. E aveva un odore, anche, ora che il vento veniva dall'altra parte. Fetido, sanguinolento, disgustoso. La mascella di DeeJay continuava a lavorare; sputò un nuovo getto di tabacco sulle travi del pavimento. Mentre terminava di fare il giro e si trovava di fronte all'Angelo della Morte, la testa all'altezza dell'inguine dell'uomo nudo, DeeJay spostò per un attimo la sua attenzione su quello che stava facendo Shelby. Questo si rivelò fatale. Ebbe appena una rapida visione della carabina automatica sistemata con cura dietro il traliccio sotto il gradino sul quale l'Angelo della Morte era seduto e troppo tardi si rese conto che il cavo legato attorno a un dito della mano destra stretta a pugno probabilmente era collegato proprio al grilletto della carabina nascosta. Cazzo. Fu l'ultimo pensiero di DeeJay; prima che avesse il tempo di muoversi e di scansarsi dalla linea del fuoco, l'Angelo della Morte era balzato in piedi e aveva tirato con forza il cavo. Il Jackhammer esplose come una carica di dinamite, sollevando uno spruzzo di sangue e mandando il corpo, ora senza testa, di DeeJay a rotolare giù per il pendio. Shelby Burleson, spiazzato dall'inaspettata e violenta azione di Angel e così sconvolto dalla dipartita di DeeJay, riuscì a fare appena un goffo, esitante tentativo per estrarre la pistola dalla fondina prima che l'Angelo della Morte, liberatosi del cavo, gli sfondasse lo stomaco con una spallata che lo mandò a rotolare in cucina attraverso la finestra. Shelby stava ancora lottando, senza fiato, per liberarsi dai frammenti dello stipite che lo tenevano come una morsa, allorché l'Angelo della Morte fece un passo indietro, si chinò a raccogliere da terra la pistola abbandonata e arretrò con espressione gelida. Consapevole della sua mancanza di tempismo, tutto sanguinante per le dozzine di tagli che gli dilaniavano il corpo, Shelby cercò di tirarsi in piedi e di fare un paio di passi vacillanti in direzione di Angel. Allungò le mani
e parecchi proiettili gli forarono i palmi. Era morto prima ancora che l'impeto del colpo lo mandasse a rotolare, portandosi dietro un pezzo di ringhiera, sul prato accanto a DeeJay. 30 Malgrado gli sforzi di Tomlin, il fuoco si stava inesorabilmente spegnendo. Aveva raccolto tutto quello che gli era riuscito di trovare nel raggio di tre metri, muovendosi a quattro zampe. Adesso non gli rimaneva più niente da bruciare per alimentare le ceneri e la fiammella ormai morente. Gli alligatori non lo avevano infastidito e probabilmente non l'avrebbero fatto; succedeva raramente che attaccassero l'uomo, soprattutto sulla terraferma, e poi questa non era per loro stagione di aggressività, con le notti che si facevano sempre più lunghe e pungenti. Presto gli alligatori della Lostman's Bayou avrebbero trascorso giornate intere immersi sul fondo dei canali, dove l'acqua rimaneva tiepida tutto l'anno, restando parecchi mesi senza mangiare. Tomlin non era disperato. Però aveva freddo ed era furioso con se stesso. Non faceva che pensare ad Anita e a Tony, chiedendosi se il bambino le avesse raccontato in che situazione lo avevano abbandonato. Certo che l'aveva fatto, il che significava che Anita non era libera di correre in suo soccorso. Parlare da solo era noioso alla lunga, e per giunta Tomlin non poteva neppure muoversi; correva il rischio di inciampare in un alligatore venuto a tenergli compagnia, o di cadere nel fuoco. Una bella ironia per un uomo che in fondo aveva ancora il suo orgoglio da salvare. Gli occorreva assolutamente qualcosa per alleviare la noia e la tensione, per mantenere il sangue in circolazione. Cercò di immaginarsi quanto sarebbe stato bello quando finalmente si sarebbe trovato sotto il getto potente di una doccia calda, una volta che qualcuno lo avesse tirato fuori da quell'isolotto. Il pensiero della doccia lo indusse a cantare. «When I heard the crash on the highway I knew what it was from the start. I went to the scene of destruction
A picture was stamped on my heart.» «Quando ho sentito lo schianto / sull'autostrada / ho saputo subito / che cos'era accaduto. / Sono corso sulla scena / di distruzione e morte / Nel mio cuore era impressa / un'immagine.» Niente male, si disse Tomlin. Naturalmente gli mancava il patos potente che Roy Acuff riusciva a trasmettere nel suo cavallo di battaglia; per giunta Tomlin non aveva Wilma Lee o Maybelle Carter a fargli il coro, con l'accompagnamento di strumenti a corde. Ma magari gli alligatori si divertivano. Contenti, amici? Però è il ritornello che mi prende, ogni volta. «I heard the groans of the dying, but I didn't hear nobody pray.» «Ho sentito i gemiti / di chi moriva, ma / nessuno fra questi / ho sentito pregare.» Una volta, in un luminoso pomeriggio sul Pacifico, in quella che adesso gli sembrava un'altra vita, Tomlin stava per concludere un volo di routine quando si era verificato un improvviso calo nella pressione dell'olio del suo A-7, con una relativa perdita di potenza, mentre la portaerei ancora non era in vista. La torre di controllo gli aveva ordinato di saltare e salvarsi la vita. Lui, invece, aveva deciso di cercare ugualmente di portare a terra il suo uccello e l'aveva spuntata, anche se era atterrato praticamente senza carburante. Mancare il cavo in quelle condizioni probabilmente avrebbe significato finire in fondo al mare. Eppure in quel momento Tomlin si era sentito fiducioso, quasi felice, mentre arrivava il momento cruciale. Anche allora aveva intrattenuto tutto l'equipaggio sul ponte con qualche strofa di Incidente sull'autostrada prima di atterrare sano e salvo. Più tardi, in privato, l'ammiraglio lo aveva ripassato per bene per quel tocco di umorismo macabro, ma quando si era comandante di pattuglia si riusciva a farla franca anche se ci si permetteva certi piccoli esibizionismi, perlomeno fintantoché non si spingevano le giovani teste calde ad agire imprudentemente alla prima occasione. Canta ancora, Tomlin.
«Who did you say it was, brother Who was it felt by the way? When whiskey and blood ran together Did you hear anyone pray?» «Chi hai detto che era, / fratello, / laggiù riverso / sulla strada? / Quando whiskey e sangue / scorrevano insieme / hai forse udito / qualcuno pregare?» Meglio che niente, decise, domandandosi se sarebbe riuscito a ricordare la parole di Cogliendo fiori sulla collina. Quella sì che era una canzone nella quale potevi mettere tutta l'anima. Come facevano Wilma Lee e Stoney Cooper, con il basso che entrava e usciva sfumando e facendoti venire brividi gelati alla spina dorsale: straordinario. Tomlin ci provò. «I know that you have seen troubles But never hang down your head Your love for me is like the flowers Your love for me is dead.» «So che anche tu hai conosciuto / il dolore / Ma non hai mai chinato / la testa / Il tuo amore per me è simile / ai fiori / Il tuo amore per me è morto.» Allora, che cosa ne dite di versi come questi, punk rocker? Tomlin si alzò in piedi e letteralmente espettorò l'ultima strofa. «I shot and killed my darling; And what will be my doom?»
«Ho sparato e ucciso il mio / tesoro; e quale sarà la mia condanna?» «Clay! Clay!» Sbalordito, Tomlin tacque e si mise in ascolto. Tanto flebile e lontano quel richiamo, l'aveva sentito davvero o aveva sognato? Possibile che fosse Tony? «Clay, dove sei?» «Tony?» Fece un ampio sorriso e cominciò a urlare. «Ehi! Giovanotto! Dove sei?» Non servì a granché. La vocetta sottile di Tony gli ritornò portata dal vento. «Qui! Ma tu dove sei?» Tomlin si guardò attorno, cieco, ridendo. «Non lo so! Chi c'è con te?» Si aspettava di sentire la voce di Anita, questa volta. Ma fu Tony a rispondere. «Nessuno! C'è Carl. Ma è morto.» Gesù Cristo. Tomlin chiuse le mani a coppa attorno alla bocca e urlò: «Tony, ho acceso un fuoco! Cerca di vederlo! Sei venuto con il barchino? Prova a seguire il suono della mia voce!» «Canta qualcosa! Ma non di gente che muore!» Tomlin scosse la testa, chissà perché gli mancava l'ispirazione. Poi rammentò lo spiritual che Wolfdaddy aveva eseguito poche sere prima alla Chiesa-Vicino-al-Cielo. «Lord, Lord, you sure been good to me Lord, Lord, Lord, you sure been good to me 'Cause I'm a soldier, a soldier of the cross!'» «Signore, Signore, tu sì / che sei stato buono con me / Signore, Signore, Signore, tu sì / che sei stato buono con me / Poiché sono un soldato, un / soldato della croce!» Mica male come imitazione dello stile blues, un po' roco, di Wolfdaddy. Tomlin si chiese a che punto fosse il fuoco. Ne sentiva ancora l'odore e un vago alone di calore. Figlio di puttana, non provare a spegnerti ora. Si do-
mandò se era ancora capace di imitare, con le mani chiuse attorno alla bocca, il suono del corno. Continua a fare rumore e spera che il piccolo sia capace di seguire la tua voce. «Tony! Tony! Tony!» «Clay!» Adesso la voce era più forte, più vicina, più squillante. «Mi pare di vedere il fuoco. Arrivo!» «Coraggio, Toooonyyyy!» lo salutò Tomlin. «Sei un campione! Diritto sulla rotta, capitano!» «Canta!» Tomlin cantò, cercando di superare con la voce il sibilo del vento. Era quasi senza fiato, cominciava a sentirsi sfinito. «Ti vedo!» La voce salì di un tono. «Clay!» «Che cosa?» «Non muoverti! Ci sono gli alligatori!» «Oh, quello. Quanti?» «Uno, due, tre... oh, quattro. No, cinque!» Tomlin tornò a guardarsi attorno, sorridendo agli invisibili alligatori. «Grazie, amici. Siete stati un pubblico meraviglioso, dico sul serio. La settimana prossima, Liza Minnelli per voi!» Fece un profondo respiro, mettendo da parte gli scherzi. «Tony, sei già qui?» «Sì.» La voce era davvero vicina, adesso. «Dovrai venire a prendermi.» «Non ci mangeranno?» «No.» «Ho paura.» «E va bene... ci incontriamo a metà strada.» «Ce n'è uno steso proprio davanti a te.» Tomlin allungò prudentemente il piede e sentì l'ostacolo. «Che cos'è questa, la testa o la coda?» «La coda.» Tomlin scavalcò l'insonnolito alligatore e lentamente camminò verso il punto in cui aveva sentito la voce di Tony. «Okay, adesso?» «Vengo.» Sentì lo sciacquio dei passi del bambino nell'acqua bassa. «Sta' attento che la barca non se ne vada.» «Tengo la cima.» «Quanto manca?»
«Continua a camminare così.» «Tony, stai bene?» «S-sì, ma ho freddo.» «Anch'io.» «Ecco, prendi la mia mano.» Tomlin tese la mano e Tony l'afferrò e la tenne stretta. Tomlin gli prese la cima e la seguì fino alla barca, affondando nell'acqua melmosa. Tastò sul fondo della barchetta e subito individuò il corpo inerte. «È Carl?» chiese a Tony. Il bambino prese a singhiozzare. «Okay, okay, sei stato un vero campione fino adesso, Tony. Non... te lo giuro, davvero, sei il bambino più fantastico che abbia mai incontrato in vita mia. E adesso dobbiamo... riflettiamo un attimo su quale sarà la nostra prossima mossa. Sei in grado di timonare? Ma che domanda idiota, sei arrivato fin qui da solo, giusto?» Attese che Tony dicesse qualcosa e per un attimo temette che si rifiutasse di salire in barca fintantoché c'era quel cadavere steso sul fondo. Non sapeva come Carl fosse morto, ma toccando la schiena bucata capì che doveva essere una vera poltiglia. «Tu... tu non devi smettere di parlarmi, Tony. Sai che non posso vederti. Dimmi come stai.» «La mamma....» Tomlin rabbrividì, scosso dalla paura. Si tenne alla falchetta della barca con entrambe le mani. «Dov'è tua madre?» Tony piagnucolò e non poté, o non volle, rispondere alla sua domanda. «Tony, per favore, dimmelo.» «Io... io non lo so dov'è. Credo che l'Angelo Cattivo l'abbia presa.» 31 Prima ancora di rendersi conto dove si trovasse o che cosa le fosse capitato, Anita scorse sopra di sé il volto dell'Angelo della Morte e si sentì non tanto spaventata, quanto terribilmente ingannata. Poiché era certa di avergli sparato, su di sopra, in camera di Carl. Non poteva averlo mancato. Eppure lui adesso le stava davanti, quasi sopra, il volto perlopiù in ombra, simile a una rozza scultura lignea. Anita si sentiva gli occhi gonfi e aveva la vista oscurata; sbatté le palpebre più volte cercando di mettere a fuoco le immagini. La bocca di Angel si muoveva. Le stava parlando? No, stava masticando. Mangiava.
C'era poca luce nella stanza. Anita sentì una corrente fredda dietro le spalle, come se qualche finestra fosse aperta. Le parve di cogliere il riflesso di una lampada a gas sulla fronte di Angel, sul naso aquilino, su una spalla nuda. Mangiava tranquillamente, raccogliendo qualcosa di denso e scuro dal piatto. Sentendo l'odore della salsa per i cannelloni che lei stessa aveva preparato, Anita dovette soffocare un conato di vomito, ricacciando indietro la saliva. Angel sentì il suo suono strozzato e la guardò. Aveva l'occhio destro pesto, come se avesse fatto a botte con qualcuno. Aveva un taglio sul naso e altre tracce di sangue rappreso; era sporco dappertutto come se fosse emerso da un sepolcro. Non fosse per l'accentuata stempiatura, notò lei, non era cambiato affatto. Anita si rese conto che dovevano essere in cucina, fra loro due c'era il tavolo. E sul tavolo, in mezzo a loro, accanto al piatto di Angel brillava qualcosa. Un coltello dalla lunga lama e una pietra per affilarla. Cercò di alzare la testa e si rese conto che la morsa che sentiva alla gola era una corda. Anche le ginocchia erano legate, strette vicine. Poteva muovere le punte dei piedi, ma nient'altro. Era legata come un salame con le mani dietro la schiena, ma non le sentiva. Era inerme, in balia di Angel, che invece avrebbe dovuto essere morto. «Ti ho sparato», disse Anita con voce gracchiante. Lui la guardò con aria grave mentre spezzava in due una pagnotta, coprendosi di briciole il torace privo di peli. Scosse la testa ma non parlò. Non ce n'era bisogno. Lo aveva mancato, tutto qui. Sei colpi nel buio... no, sette. Mancato. Poi, a coronamento della sua incapacità, era svenuta, lasciando Tony senza difesa in... «Che cosa hai fatto a Tony?» Denti candidi che aggredivano la crosta dorata del pane. Aveva sempre avuto una dentatura splendida. Lui scosse ancora la testa, come se le parole gli pesassero. Anita interpretò il suo gesto, ma... poteva credergli? «Perché sei venuto, Angel? Vuoi farmi ancora del male? Perché ti ho tradito?» Lui non la degnò di uno sguardo; sembrava non averla neppure udita. «E va bene. Magari l'ho fatto. Ma io... io ci riproverò, Angel. Se è questo che vuoi. Vero?» La sedia fu sospinta all'indietro. Angel era in piedi. Nudo. Peggio, aveva un'erezione. L'indecenza del suo pene eretto la turbò. L'aveva già usato su di lei? Si guardò, era ancora vestita. Non aveva la sensazione di essere sta-
ta violentata. Ma anche quello sarebbe arrivato, senza dubbio. Anita si sentì soffocare dall'odio. L'Angelo della Morte uscì temporaneamente dal suo campo visivo, poi vi rientrò con una bottiglia di Valpolicella. Bevve a canna, senza staccarle gli occhi di dosso. Anita aveva tanta sete. Ma sarebbe morta prima di chiedergli qualcosa. Sarebbe morta. «Che cos'hai in... intenzione di fare di me?» Lui posò la bottiglia, girò attorno al tavolo e andò verso di lei. Anita sentì la vicinanza di quel corpo sudicio, profano proprio dietro la sedia alla quale era legata e gemette. Lui la sollevò senza fatica, la girò con tutta la sedia e la rimise giù davanti alla cucina economica. Anita vide che tutti i fornelli erano accesi. Fissò le quattro fiamme azzurrine per parecchi secondi, rifiutandosi di comprendere che cosa passasse nella mente di Angel. Poi capì. Invano tentò di gridare. La sua sedia dondolò e si rovesciò all'indietro, facendole sbattere la testa sul pavimento della cucina. La corda attorno alla gola si strinse, soffocandola crudelmente. Mentre perdeva di nuovo i sensi, sentì una zaffata di qualcosa, l'odore mortale del gas. L'ultima cosa che vide fu Angel a gambe aperte sopra di lei, sulla testa l'eccentrico cappello tempestato di specchietti che era appartenuto a Wolfdaddy, il coltello appena affilato che oscillava come un pendolo dalla sua mano. 32 «Dove siamo, Tony?» «Stiamo arrivando al molo.» «Vedi qualcuno in giro?» «No.» «Bene. Il motoscafo di Carl e lì?» «Sì.» «Qualche luce?» «No. Prima c'era una lampada a gas in biblioteca, ma adesso non la vedo più. Aspetta!» Tomlin lo sentì protendersi in avanti, come se stesse cercando di individuare qualcosa nell'oscurità. Aveva appoggiato una mano sulla spalla di Tony. Il bambino tremava ancora, spasimi forti e intermittenti, ma non aveva ceduto come avrebbero fatto un sacco di ragazzini nella sua situazione, ritirandosi in un loro mondo incantato, il pollice in bocca. Tomlin pen-
sò a quanto suo padre avrebbe ammirato Tony. Allora è un duro. Ma tu sei più duro. «Che cosa c'è, Tony?» «Mi pare che ci sia una luce in cucina.» «Okay. Adesso, Tony, voglio che mi aiuti a salire sul motoscafo di Carl per usare la radio. Sai dove si trova?» «Sì.» «Però non devi accendere nessuna luce. Quanto siamo lontani dal molo adesso?» «Ci siamo quasi.» Pochi secondi più tardi il barchino sbatté contro uno dei bidoni. Senza che nessuno dovesse dirglielo, Tony balzò a terra, la cima in mano. Tomlin spense il motore, afferrò il bordo del pontile per alcuni secondi, visualizzando nella sua mente la mossa che avrebbe fatto prima di scendere a terra. Difficile, dopo essere stati accoccolati nel barchino, mantenere l'equilibrio. «Tony?» Si sentì tirare la manica da dietro. «Ah, eccoti qui. La barca di Carl ha la passerella giù?» «Sì.» «Aiutami a salire a bordo.» «Che cosa vuoi fare?» «Voglio fare una chiamata Mayday. Con quella dovremmo riuscire a far accorrere le lance della guardia costiera, dei finanzieri e magari anche lo sceriffo.» «Dammi la mano», disse Tony, e lo guidò per qualche passo lungo il pontile. Annaspando nel buio, Tomlin trovò la maniglia sulla poppa della Lolly. Balzò a bordo, si girò e tese entrambe le mani a Tony per tirarlo su. «Ehi, ce la caviamo benone.» «Ma la mamma no», gli ricordò Tony. «Andiamo a cercare la radio.» Lentamente Tony lo guidò attraverso il soggiorno, verso la cabina di comando. Tomlin si sistemò sul sedile del pilota e passò le mani sulla console di comando finché non ebbe trovato il microfono. «Sai come accendere la radio?» chiese a Tony. «Una volta Carl me l'ha fatto vedere. E se non funziona?» «Funzionerà, se le batterie sono cariche», lo rassicurò Tomlin. «Mi pare che bisogna spingere questo bottone...» «Avanti. Dovrebbe accendersi una lucetta rossa, adesso...»
«È accesa!» Tomlin premette il pulsante del microfono, quello che sotto aveva la scritta trasmissione. Non gli importava su quale canale fossero sintonizzati, sebbene sarebbe stato molto più rapido se fossero stati sul 16. «Mayday! Mayday! Mayday! Questa è la Lollapalooza alla Lostman's Bayou. Ripeto. La Lollapalooza alla Lostman's Bayou. C'è stata una sparatoria a bordo. Siamo attaccati da un uomo armato e pericoloso. Occorre assistenza medica immediata. Chiedo che chiunque sia in ascolto su questo canale contatti la polizia di Port Bayonne e lo sceriffo della contea di Jackson. Ripeto...» «Clay!» «Mayday! Mayday! Mayday!» «È inutile, Clay! L'ha tagliato, non ti sentono!» Tomlin mise giù il microfono. Con l'altra mano toccò l'estremità del cavo, reciso cinque centimetri sotto l'attaccatura del microfono. «Che cosa facciamo adesso?» Tony aveva urlato questa volta; subito dopo in lontananza udirono il grido di Anita, come se avesse risposto alla sua angoscia con un tormento ancora più indicibile. Tony si strinse forte a Tomlin, il viso contro il suo petto. «Le sta facendo male!» «C'è una radio a onde corte sul camper... ma probabilmente ha messo fuori uso anche quella. Carl era un maniaco delle armi da fuoco, deve pur avere qualche fucile a bordo, da qualche parte. Tony, dove teneva Carl i suoi fucili?» «Non lo so! Fa' qualcosa!» «Tony, ci sto provando... io ho bisogno... devo avere...» Si alzò in piedi allontanando da sé il bambino, le mani alla ricerca febbrile del vano di sicurezza della console. Lo trovò. Non era chiuso a chiave, per fortuna. Fece l'inventario del contenuto. Torcia elettrica, inutilizzabile. Uno strumento non meglio identificato, come una leva. Forse. Stava cominciando a venirgli qualche idea, una più pazza dell'altra, addirittura suicida. Una grossa chiave inglese. Tienila. Si stava riempiendo la cintura di attrezzi pesanti. Così dipendente da Tony. Se il bambino non avesse mantenuto i nervi saldi, se non avesse fatto quello che gli chiedeva, sarebbero morti tutti quanti. Era quasi arrivato in fondo al cassetto, ma dove diavolo era? «Che cosa stai cercando?» chiese Tony. Spaventato, ma non più in preda
al panico. «Dobbiamo farcela da soli, Tony. Tu e io. Ma non possiamo provarci senza...» Trattenne il fiato e s'immobilizzò per qualche istante. Tony gli sfiorò il collo con dita gelate. Lentamente Tomlin ritrasse la mano dal cassetto. «Che cos'è?» «È un solo colpo, Tony. Un unico, maledetto colpo! Ma meglio di niente.» Tomlin aprì il caricatore della pistola lanciarazzi trovata in fondo al cassetto per accertarsi che fosse carica. Aveva il viso imperlato di sudore. Richiuse con uno scatto la pistola e la infilò nella cintura, insieme con gli altri attrezzi. Si girò e prese fra le braccia il bambino. «Tony, hai passato un sacco di tempo a fare quei giochi con il computer, giusto? Adesso ne facciamo uno proprio uguale a quelli, solo che è tutto vero. Angel...» «L'Angelo Cattivo.» «E va bene, l'Angelo Cattivo è il... il drago. Il mostro in fondo alla grotta. Capito?» Posò entrambe le mani sulla testa di Tony; il bambino annuì solennemente: «Come si gioca?» «Adesso ti insegno, subito. È facile. Tu devi fare solo un paio di cose. Ma prima voglio dirtene un'altra. Sai riconoscere la mano sinistra dalla destra?» «Sì.» Tomlin allungò la mano destra, palmo verso l'alto. «Metti la sinistra sopra la mia.» Tony ubbidì, senza esitazione. Bene. Più avanti anche la minima esitazione avrebbe potuto risultare fatale. Ma Tomlin si sentì incoraggiato. «Penso che funzionerà», disse. «Non temere, vedrai che tireremo tua madre fuori di lì.» In cucina, Angel aveva appena terminato di assicurare la robusta corda di plastica del bucato alla maniglia del frigorifero. Provò la resistenza del cavo che legava la parte superiore del corpo di Anita, attorno al petto e sotto le braccia. Aveva spento i fornelli dopo avere preso anche la lampada a gas della biblioteca. Anita era stesa, gambe e braccia tese, sopra la cucina a gas, le braccia tirate sopra la testa e legate al ventilatore appeso al soffitto. I piedi, invece,
erano legati al rubinetto sopra il lavello. Poteva muovere la testa, nient'altro. Già il calore della fiammella guida della cucina economica le bruciava la parte bassa della spina dorsale. Ma quel dolore era niente a paragone di ciò che avrebbe provato quando Angel avrebbe acceso tutti e quattro i fuochi. «Angel, ti prego, non farlo! Ti prego!» Aveva urlato; aveva implorato e scongiurato finché la voce le era venuta a mancare; in bocca aveva il sapore del sangue, per essersi morsicata la lingua. Lui non aveva detto una sola parola e aveva seguitato a fare quello che stava facendo. Adesso fece un passo indietro, scomparendo nell'ombra, contemplativo, ma non statico... alacremente al lavoro, spinto dalla pura forza di inerzia dell'irrazionalità. La contemplava mentre lei agitava freneticamente la testa da una parte e dall'altra (l'orrore simile all'estasi), priva di risorse all'infuori del potere della parola, del bisogno disperato di convincere, implorare. «Questo non migliorerà la tua posizione, Angel. Perché devi uccidermi? Parliamone, invece. Io non voglio morire! È questo che volevi sentirmi dire? Io... noi... abbiamo un figlio. Pensa a Tony. Devi pure pensare a lui qualche volta.» L'Angelo della Morte allungò una mano dietro di sé e dal tavolo prese il coltello. Si avvicinò alla cucina economica e si fermò con il coltello in mano, un centimetro sopra la fronte di Anita, le mani troppo pazienti. Lei lo fissò, immobile, atterrita dalle conseguenze di un suo movimento, anche minimo. Quando la lama le sfiorò una tempia, emise un gemito folle, mentre un filo di saliva misto a sangue le colava agli angoli della bocca. Con gesti precisi, lui le tagliò una ciocca di capelli e tenendola sul palmo della mano, osservandola con aria pensierosa, tornò al tavolo. Quando l'ondata di sangue pompato dal cuore impazzito si fu calmata, le orecchie di Anita si sbloccarono e tornò a sentire l'ululato del vento, un ululato luttuoso. «Spero che ti sia divertito, figlio di puttana», lo apostrofò, a fatica. Spezzata, forse, ma non del tutto. Lui si voltò di nuovo a guardarla e proprio in quel momento un vetro andò in frantumi da qualche parte nella casa, distogliendo per un attimo la sua attenzione. In un primo momento Anita pensò che fosse stato il vento; ma c'era qualcosa di regolare, di intenzionale addirittura in quel rumore di vetri infranti. Poi udì la voce di Clay Tomlin.
«Angel! Vieni qui, Angeli Ti vogliamo!» E la voce di Tony, una cantilena stridula: «Angel! Angel! Angel! Angel!» Anita emise un singulto, di sollievo e terrore. Che coraggio. E Angel li avrebbe uccisi entrambi. Coltello in una mano, nudo e osceno nel suo priapismo, l'Angelo della Morte afferrò la lampada e voltò le spalle ad Anita, puntando verso la porta del soggiorno che sbatteva agitata dal vento. Il rumore di vetri infranti seguitava. «State attenti!» urlò Anita. «State attenti, arriva!» «Avanti, vieni fuori, Angel! Ti vogliamo!» «Ti vogliamo! Ti vogliamo!» gli fece eco Tony. No, scappate! pensò Anita, troppo debole e senza fiato per riuscire a urlare ancora. Vide Angel esitare in ascolto davanti alla porta della sala da pranzo, mentre i vetri delle porte-finestre che davano sulla veranda andavano anch'essi in frantumi. Poi la distruzione ebbe fine. Angel scostò la porta a molle e sbirciò nella sala da pranzo, tenendo la lampada alta sopra la testa, il coltello in continuo movimento, come la coda di un predatore. In un balzo fu in sala da pranzo e nel momento in cui la porta a molla si chiudeva dietro di lui Anita gemette. Stava andando a cercarli. Sedevano vicini sulla panca che costeggiava la ringhiera della veranda, a una ventina di metri dalle porte-finestre spalancate della sala da pranzo; frammenti di vetro riflettevano la luce della lampada a gas che dondolava a ogni passo di Angel. La mano destra di Tomlin era casualmente appoggiata dietro la sponda della ringhiera. La sinistra attorno alle spalle di Tony, che si era messo in ginocchio sul sedile e tutto tremante si stringeva a lui, il viso nascosto nella sua spalla. Il bambino sembrava perdere forze a ogni istante via via che quella notte si riempiva di orrore. Respiravano entrambi affannosamente; avevano rotto un sacco di vetri. L'orecchio sinistro di Tony, colpito da una scheggia, sanguinava. «Arriva?» chiese Tomlin. Tony lanciò un'occhiata furtiva. «È ancora in sala da pranzo. Vedo la lampada.» Poi ebbe un'immagine fugace e terrificante dell'Angelo della Morte, riflessa in un pezzo di vetro rotto, nel momento in cui il vento spalancò una delle porte della sala da pranzo. «Eccolo!» «È fuori?»
«Non ancora.» «Ehi, An-gel», chiamò Tomlin, disprezzo nella voce. «Che cosa ti prende? Hai paura? Hai paura di un cieco e di un bambino? Avanti, vieni fuori, voglio parlarti. Mi ha sentito, muoviti, cagasotto!» «Non ha niente addosso», disse Tony, affascinato. «È già sulla veranda?» «No, vedo il suo riflesso nel vetro.» «Angel, il mio nome è Tomlin. Questa è casa mia. Non mi pare di averti invitato. Dunque, fuori dai piedi!» Guardandosi indietro di traverso, sopra la spalla, Tony disse con voce preoccupata: «Non viene!» «E neppure Anita ti vuole fra i piedi. A lei non gliene frega niente di te, Angel, stai solo perdendo tempo. Vuoi sapere quello che mi ha detto Anita? Che a letto sono molto meglio di te!» «Che cosa significa?» volle sapere il bambino. «Te lo spiego dopo, Tony. Che cosa succede ora?» «Niente. È fermo in... no, ha girato la testa. Ma adesso è...» «Incuriosito.» Tomlin alzò la voce, esasperato. «Vergogna, Angel! Che femminuccia sei! Non avere paura, femminuccia, non ti farò del male, purché tu ubbidisca. Ma, se non ubbidisci, ti faccio saltare le palle e le trasformo in cibo per gli alligatori.» L'Angelo della Morte uscì sulla veranda, compiendo un passo lungo e cauto per evitare i frammenti di vetro. «Arriva», bisbigliò Tony, e tornò a nascondere la faccia contro il suo petto. «Veloce?» «È a piedi nudi. Ci sono i vetri per terra.» «Continuiamo a provocarlo.» «Ha l'aria buffa. Il suo pipino è grosso, davvero tanto grosso.» «Ehi, Angel! Tony mi dice che ce l'hai duro! Scommetto che quando avevo dodici anni il mio era già più grosso di così!» Strinse la spalla di Tony. «E adesso avanti, secondo per secondo. Ricordati quello che ti ho detto.» Tony si guardò rapidamente attorno e attaccò diligente: «Sulla veranda. In traiettoria». «Angel, non ho intenzione di aspettarti tutta la notte...» «Ha un coltello!» «Tu fai male alle donne! Spaventi i bambini, giusto? Ma a un uomo, che
cosa gli fai a un uomo? Di un uomo hai paura, giusto? Anche di uno che non può vedere.» Angel continuava ad avanzare verso di loro, un passo dopo l'altro, circospetto. «In traiettoria!» bisbigliò Tony frenetico. «È vicino alla ringhiera.» «Ricordati quello che ti ho detto... quando ti dico via, corri! Corri più veloce che puoi e non guardarti indietro finché non sei al sicuro.» L'Angelo della Morte esitò, il piede destro proprio sopra la tavola che Tomlin aveva allentato, servendosi della leva. Fece un passo indietro, si staccò dalla ringhiera, spostandosi più verso il centro della veranda, la lampada alta sopra la testa adesso, il coltello diritto davanti a sé. Fissando gli occhi di Tomlin, agitò a destra e a sinistra la lampada. «Arriva! Sulla veranda.» «Scommetto che sei ancora più brutto di quello che mi ha detto Anita, Angel! Già, mi ha detto tutto di te. Il tuo piatto forte sono le baldracche, giusto? Ti piace prenderle dal didietro. E fai bene, probabilmente non ti vorrebbero se dovessero guardare il tuo brutto muso.» «Al centro della veranda!» «Dove?» «Biblioteca...!» «Anita è felice con me, Angel; dunque te la prendo e me la porto via. Credi di potermelo impedire? Bene, perché non ci provi, figlio di puttaaaanaaaa!» Con un ruggito, Angel fece un balzo su Tomlin e Tony, ancora seduti sulla panca, il coltello alto sopra la testa. «Adesso, adesso!» strillò Tony. Tomlin si mise nella traiettoria di Angel, spingendo il bambino lontano da sé, verso il prato. Puntò la pistola lanciarazzi che aveva tenuto nascosta dietro la spalliera. Avvertendo il pericolo, Angel fece uno scarto verso il muro, lasciando il vuoto davanti a Tomlin. Mentre rotolava per terra, Tony vide la mossa e urlò: «No, più a sinistra!» Tomlin cambiò la mira di sette, otto centimetri buoni, seguendo le istruzioni del bambino. Adesso o mai più. Tirò il grilletto della pistola lanciarazzi. Il lampo al magnesio, cruciale cometa sufficientemente luminosa da riportare per un attimo prezioso la vista a Tomlin, mancò il bersaglio nel
momento in cui Angel con un balzo saltò verso di lui, il coltello a un'angolazione tale da squarciargli le budella. Nella mano sinistra, scostata dal corpo, Angel stringeva ancora la lampada a gas. Tomlin ebbe una visione di due occhi disumani e della lama del coltello che fendeva l'aria proprio, nell'istante in cui il razzo colpì la lampada a gas, facendola esplodere. In un lampo metà del corpo di Angel fu trasformata in una torcia umana. Il piede gli rimase imprigionato in una seconda asse allentata da Tomlin e perse provvidenzialmente l'equilibrio a pochi centimetri da lui. Tomlin arretrò per il calore insopportabile. Tony urlò. Il vento alimentò sinistramente le fiamme che già avvolgevano l'Angelo della Morte. Lasciò cadere il coltello, l'impugnatura fiammeggiante, e si piegò in due, cercando di liberarsi con le mani ustionate la caviglia imprigionata. Si districò dalla sua trappola improvvisata e guardò Tomlin, indifferente adesso, ardendo vivo nel suo rogo. Con i capelli trasformati in una fiammata azzurrina che quasi lambiva il soffitto della veranda, l'Angelo della Morte compì tre passi come di danza verso la ringhiera, forse sperando di riuscire a trovare refrigerio nelle acque color della pece della baia. Cadde riverso sulla ringhiera, lasciandosi dietro brandelli brucianti, lottò con tutte le sue forze per rimettersi in piedi. Poi, mentre si copriva le orecchie nel tentativo di non udire le urla, Tony vide l'Angelo della Morte fiammeggiante correre giù per il prato, simile a un drago seguito da una scia di fuoco. Non arrivò mai all'acqua. 33 Arrivarono alla baia con le prime luci dell'alba, quattro uomini in una Chevrolet berlina ultimo modello. Si fermarono alla Chiesa-Vicino-alCielo per dare un'occhiata, uno soltanto di loro scese per accertarsi che l'uomo sotto il pianoforte fosse morto, poi proseguirono fino alla casa e parcheggiarono dietro la Cougar celeste. Scesero, le pistole in pugno, e guardarono il prato e la casa avvolti dalla nebbia. Resti carbonizzati sulla veranda, sul prato cadaveri già circondati da sciami di mosche. Nel soggiorno Clay Tomlin si svegliò al suono di voci soffocate, al rumore di passi sulla veranda. Era semisdraiato sul divano, con Anita da una parte e Tony dall'altra, entrambi addormentati. Tony con i pugni serrati. Nessuno di loro aveva pensato a lavarsi, né a cambiarsi. Si erano solo stretti l'uno all'altro per quello che rimaneva della notte.
«Che cosa c'è?» domandò Anita con un piccolo sussulto, senza aprire gli occhi. Voleva continuare a tenerli chiusi. «C'è qualcuno.» Le baciò le guance esangui per mostrarle che non era preoccupato. «Vado a vedere.» Uscì all'aperto attraversando le porte semismantellate e si ritrovò a faccia a faccia con degli Uzi e altre potenti armi da fuoco. Guardò gli uomini che l'avevano circondato, distinguendoli appena, malgrado il sole stesse spuntando sopra le cime degli alberi. «Chi è lei?» chiese uno di loro. «Tomlin. Questa è casa mia.» Odore di bruciato, la veranda annerita dal fuoco e dal fumo; ma l'odore pulito del mare già arrivava alle sue narici. Sarebbe stato ancora un buon posto per viverci. «E lei come si chiama?» domandò a quello che aveva parlato «Vic.» «Polizia?» «No. Angel è stato qui?» La risata di Tomlin fu aspra. «C'è stato ed è ancora qui. Se trovate qualcosa che somiglia ai resti di un barbecue, quello è Angel.» Abbassarono le armi. «Vi ha dato qualche problemino, vero?» commentò Vic. Tomlin si appoggiò alla parete della casa e incrociò le braccia sul petto; non si curava più di Angel. Adesso soltanto Anita contava. E Tony. «Immagino che non abbiate bisogno di noi», osservò Vic. «Se siete quelli che credo... laggiù, in quel barchino ancorato al molo c'è Carl. Credo che sia morto.» Vic alzò le spalle. «Non sono affari nostri. Chiami la polizia.» «Il telefono non funziona.» «La chiamiamo noi, se vuole, dopo che ce ne siamo andati.» Si stavano già dirigendo verso la Chevy noleggiata quando Vic esitò, poi tornò da Tomlin. «Il don vorrà sapere come sta Anita.» «Devo ripulire un po' questo posto. Dopodiché la sposerò.» Vic piegò la testa di lato, poi sorrise. «Glielo riferirò.» Tomlin seguì con lo sguardo la Chevy finché non fu scomparsa oltre il cancello. Sentì un tintinnio di vetri rotti dietro di sé e si voltò. Sulla porta c'era Anita, le braccia strette attorno al petto per l'aria fredda del mattino, il viso pallido. Poi la sua espressione cambiò, un raggio di sole la illuminò ravvivandola miracolosamente; le guance tornarono a riempirsi mentre, in
un tono di sfida, chiedeva: «Chi è che si sposa?» Tomlin rise della sua aggressività. Poi le passò un braccio attorno alle spalle e insieme rientrarono in casa. FINE