JOHAN THEORIN L'ORA DELLE TENEBRE (Skuntimmen, 2007) Ai Gerlofsson dell'isola di Öland RINGRAZIAMENTI L'ora delle tenebr...
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JOHAN THEORIN L'ORA DELLE TENEBRE (Skuntimmen, 2007) Ai Gerlofsson dell'isola di Öland RINGRAZIAMENTI L'ora delle tenebre è in massima parte ambientato intorno alla metà degli anni Novanta sulla bella isola di Öland, ma un'Öland che in parte esiste solo nella fantasia dell'autore. Né i personaggi né le vicende narrate nel romanzo fanno riferimento a fatti concreti, e anche molte località sono inventate. Per avermi raccontato tante delle loro storie e dei ricordi tratti delle loro vite avventurose voglio esprimere la mia riconoscenza a mio nonno materno, il capitano Ellert Gerlofsson e a suo fratello, il barbiere e sommozzatore Egon Gerlofsson. Per i dati storici desidero ringraziare il capitano Stellan Johansson del Bohuslän, il giornalista Kristian Wedel di Göteborg e l'avvocato Lars Oscarsson di Jönköping. Molti amici mi hanno aiutato, in modi diversi, durante la stesura di L'ora delle tenebre. Grazie a Kajsa Asklöf, Monica Bengtsson, Victoria Hammar e Peter Nilsson del gruppo di scrittura Litter; a Jacob Beck-Friis, Niclas Ekström, Caroline Karlsson, Rikard Hedlund, Mats Larsson, Carlos Olguin, Catarina Oscarsson, Michael Sevholt, Kalle Ulvstig e Anders Weidemann, e ai miei parenti Lasse ed Eva Björk di Kalmar, Hans e Birgitta Gerlofsson di Färjestaden, Gunilla e Per-Olof Rylander di Borgholm. Voglio anche esprimere gratitudine a tutti i miei bravi editor, soprattutto Rickard Berghorn della rivista "Minotauren" e Kent Björnsson della casa editrice Schakt, che si è presa a cuore gran parte dei miei racconti, oltre a Lotta Aquilonius di Wahlström & Widstrand, che è stata altrettanto abile con L'ora delle tenebre. Mia madre Margot Theorin si merita un grande elogio per tutti i libri di storia locale e tutti gli articoli su Öland, vecchi e nuovi, di cui mi ha rifornito. Infine, un grazie e un grande abbraccio a Helena e Klara perché sopportano i miei sogni a occhi aperti. Johan Theorin
Öland, settembre 1972 Il muretto di grosse pietre arrotondate coperte di licheni grigio-biancastri era alto quanto il bambino, che riusciva a vedere oltre la sommità soltanto alzandosi sulla punta dei sandaletti. Al di là del muro non c'era altro che nebbia grigia. Poteva essere il confine del mondo quello davanti al quale si trovava, ma il bambino sapeva che era vero il contrario: il mondo, il grande mondo, cominciava dall'altra parte del muro, oltre il giardino dei nonni materni. E l'idea di andare a esplorarlo lo attirava fin dall'inizio dell'estate. Per due volte cercò di scavalcare il muro, e per due volte le mani gli scivolarono sulle pietre ruvide e cadde all'indietro, nell'erba umida. Il bambino non si arrese, e la terza volta ci riuscì. Prese fiato, si issò, tenendosi aggrappato alle pietre fredde, e si ritrovò in cima. Fu una vittoria: tra poco avrebbe compiuto sei anni e per la prima volta nella sua vita stava scavalcando un muro. Rimase seduto lì per qualche istante, come un re sul trono. Il mondo dalla parte opposta era grande e sconfinato, ma anche grigio e fosco. La nebbia calata sull'isola quel pomeriggio impediva al bambino di distinguere granché di quello che c'era fuori, ma ai piedi del muretto vide l'erba giallo-bruna di un prato. Un po' più in là scorse dei cespugli nodosi di ginepro e dei massi coperti di muschio. Il terreno era piatto come nel giardino alle sue spalle, ma da questa parte tutto appariva molto più selvatico, diverso e interessante. Il bambino appoggiò il piede destro su un grosso masso semisepolto nella terra e scese sul prato al lato opposto del muretto. Per la prima volta in vita sua si trovava da solo fuori dal giardino, e nessuno sapeva dove fosse. Sua madre aveva lasciato l'isola quel giorno. Il nonno era sceso in spiaggia poco prima, e quando il bambino si era messo i sandali ed era uscito di soppiatto di casa, la nonna era a letto a dormire. Poteva fare quello che voleva. Stava cominciando un'avventura. Mollò la presa sulle pietre del muretto e fece un passo nell'erba incolta. Era rada, e non si faceva fatica a camminare. Avanzò ancora di qualche metro, e il mondo intorno a luì assunse lentamente contorni un po' più nitidi. Vide i cespugli di ginepro prendere forma in fondo al prato e si mosse in quella direzione. Il terreno era morbido e tutti i rumori venivano attutiti: dei suoi passi si udiva solo un leggero fruscio nell'erba. Neanche quando provò a saltare a
piè pari battendo forte, si sentì qualcosa di più che una scossetta, e appena sollevava i sandali l'erba si rialzava dietro di lui, facendo scomparire rapidamente ogni traccia del suo passaggio. Procedette in quel modo per diversi metri: saltello, scossetta; saltello, scossetta. Una volta lasciato il prato alle spalle, si ritrovò in mezzo ai cespugli di ginepro e smise di saltellare. Tirò il fiato, inspirò l'aria fresca e si guardò intorno. Nel tempo che aveva impiegato per attraversare a saltelli la piccola distesa d'erba la nebbia che prima era sospesa solo davanti a lui l'aveva silenziosamente aggirato e ora si trovava anche alle sue spalle. Il muretto di pietra in fondo al prato si distingueva a malapena nella foschia, e la casa di legno scuro era scomparsa del tutto. Per un istante il bambino soppesò la possibilità di tornare indietro, riattraversare il prato e scavalcare di nuovo il muretto. Non aveva un orologio e lo scandire esatto del tempo non aveva significato per lui, ma il cielo sopra la sua testa era grigio scuro, adesso, e l'aria tutt'intorno si era fatta ancora più fredda. Sapeva che la giornata stava volgendo al termine e che presto sarebbe scesa la notte. Voleva andare avanti solo per un altro piccolo tratto su quel terreno soffice. Tanto sapeva dove si trovava: la casa in cui stava dormendo la nonna era alle sue spalle, anche se adesso era invisibile. Avanzò verso il muro indistinto di nebbia che si vedeva ma non si poteva afferrare e che magicamente si spostava ogni volta un po' più in là, come se giocasse con lui. Il bambino si fermò. Trattenne il respiro. Regnava il silenzio e tutto era immobile, ma d'un tratto ebbe la sensazione di non essere solo. Aveva sentito un rumore nella nebbia? Si voltò. Ora non vedeva più né il muretto né il prato. Alle sue spalle c'erano solo erba e cespugli di ginepro, immobili, e pur sapendo che non erano vivi - non vivi come lui, almeno - non poté fare a meno di riflettere su quanto fossero grossi: silenziose figure nere che lo circondavano e forse, quando non guardava, si avvicinavano. Si girò di nuovo e vide altri cespugli di ginepro. Cespugli e nebbia. Ora non sapeva più in che direzione si trovava la casa, ma la paura e la solitudine lo indussero a proseguire. Strinse forte le mani e iniziò a correre in cerca del muretto di pietra e del giardino sul lato opposto, ma non vide altro che erba e cespugli. Alla fine non vide più neanche quelli: il mondo
era appannato dalle lacrime. Si fermò a prendere fiato, e le lacrime cessarono. Vedeva altri cespugli nella nebbia, ma uno aveva due grossi tronchi, e all'improvviso il bambino si accorse che si muoveva. Era una persona. Sbucò dal grigiore della foschia e si fermò a una decina di passi di distanza. L'uomo era alto e robusto, vestito di scuro, e si era accorto del bambino. Immobile nell'erba, con pesanti stivali ai piedi, lo guardava dall'alto. Aveva un berretto nero calcato sulla fronte e sembrava vecchio, ma non tanto quanto il nonno. Il bambino rimase immobile. Non conosceva quel signore, e la mamma gli aveva insegnato che non bisognava fidarsi degli estranei. Però adesso non era più solo nella nebbia con i cespugli di ginepro. Poteva sempre fare dietrofront e scappare, se quel signore non era buono. «Ciao» disse l'uomo a voce bassa. Aveva il fiato grosso, come se fosse reduce da una lunga camminata nella nebbia o avesse corso. Il bambino non rispose. L'uomo si voltò di scatto e si guardò intorno. Poi, senza sorridere, fissò di nuovo il bambino e chiese sottovoce: «Sei solo?». Il bambino annuì senza parlare. «Ti sei perso?» «Mi sa di sì» rispose il bambino. «Niente paura... Io mi oriento benissimo qui.» Avanzò di un passo. «Come ti chiami?» «Jens» rispose il bambino. «Jens e poi?» «Jens Davidsson.» «Bene» disse l'uomo. Esitò, quindi aggiunse: «Io mi chiamo Nils». «Nils e poi?» chiese Jens. Era un po' come un gioco. L'uomo sbottò in una risatina. «Mi chiamo Nils Kant» rispose, facendo un altro passo avanti. Jens rimase dov'era, ma aveva smesso di guardarsi intorno. Nella nebbia non c'era altro che erba, pietre e cespugli. E poi quello sconosciuto, Nils Kant, che adesso gli stava sorridendo, come se fossero già amici. La nebbia si chiuse intorno a loro, non si sentivano rumori. Neanche il cinguettio degli uccelli. «Niente paura» disse Nils Kant tendendo la mano. Adesso erano uno accanto all'altro.
A Jens le mani di Nils Kant parvero le più grandi che avesse mai visto, e capì che era troppo tardi per scappare via. 1 Quando, per la prima volta da quasi un anno, suo padre Gerlof le telefonò la sera di un lunedì d'ottobre, il pensiero di Julia corse a delle ossa sospinte dalle onde su una riva sassosa. Ossa bianche come madreperla e levigate dal mare, quasi fosforescenti in mezzo ai ciottoli grigi della battigia. Frammenti di ossa. Julia non sapeva se c'erano, là sulla spiaggia, ma erano più di vent'anni che aspettava di vederli. Qualche ora prima, quello stesso giorno, Julia aveva avuto una lunga telefonata con l'Ufficio della Previdenza sociale, ed era andata male come tutto il resto, quell'autunno, quell'anno. Come al solito aveva rimandato la chiamata il più possibile per evitare di sorbirsi i sospiri degli impiegati, e quando alla fine aveva telefonato, aveva risposto una segreteria automatica che le chiedeva il codice fiscale. Una volta inserite tutte le cifre sulla tastiera, era stata rinviata nel labirinto della rete telefonica, che era poi come essere rinviati nel vuoto. Si costrinse a restare in cucina, a guardare fuori dalla finestra e ad ascoltare il fruscio del ricevitore, un fruscio appena percettibile, come d'acqua che scorresse in lontananza. Se tratteneva il respiro e premeva forte la cornetta sull'orecchio, capitava che Julia riuscisse a sentir echeggiare le voci di spiriti lontani. A volte suonavano attutite come un sussurro, a volte stridule e disperate. Era prigioniera del mondo spettrale della rete telefonica, inchiodata da quelle voci imploranti che ogni tanto sentiva anche dalla ventola della cappa della cucina, quando si metteva lì a fumare. Echeggiavano e borbottavano nelle condotte di ventilazione del condominio. Non captava quasi mai delle parole, ma ascoltava ugualmente concentrata. Una sola volta aveva sentito una voce femminile dire in modo chiaro e nitido: «Sì, è venuto il momento». Davanti alla finestra della cucina ascoltava il fruscio e guardava per strada. Fuori faceva freddo e tirava vento. Le foglie di betulla ingiallite dall'autunno, sollevate a forza dall'asfalto appiccicoso bagnato di pioggia,
turbinavano cercando un riparo dal vento. Lungo il bordo del marciapiede c'era una poltiglia di foglie schiacciate dalle ruote delle auto che non si sarebbe mai più staccata da terra. Si chiese se qualcuno che conosceva potesse comparire là fuori. Jens avrebbe potuto girare l'angolo in fondo alla fila di case della via, in giacca e cravatta come un vero avvocato, i capelli tagliati di fresco e una ventiquattrore in mano. Passi lunghi, lo sguardo verso l'alto. L'avrebbe vista alla finestra, si sarebbe fermato sorpreso sul marciapiedi, poi avrebbe sollevato un braccio e l'avrebbe salutata sorridendo... Il fruscio sparì all'improvviso, e dalla cornetta uscì una voce stressata: «Previdenza sociale, sono Inga». Quella non era la sua nuova impiegata di riferimento. Si chiamava Magdalena, lei. O forse Madeleine? Non si erano mai incontrate di persona. Inspirò profondamente. «Sono Julia Davidsson, volevo sapere se potete...» «Codice fiscale?» «Ma... ho inserito le cifre sulla tastiera.» «Non mi è comparso sullo schermo. Me lo può ridare?» Julia ripeté le cifre, e nel ricevitore scese il silenzio. Quasi non sentiva più neanche il fruscio. Che avessero interrotto la comunicazione di proposito? «Julia Davidsson?» chiese l'impiegata, come se non l'avesse sentita presentarsi. «Come posso aiutarla?» «Vorrei prolungarla.» «Prolungare cosa?» «La malattia.» «Dove lavora?» «All'Östersjukhus, nel reparto di ortopedia» rispose Julia. «Sono infermiera.» Lo era ancora? Negli ultimi anni era stata assente per periodi così lunghi che probabilmente in ortopedia nessuno sentiva più la sua mancanza. E di certo a lei non mancavano i pazienti, sempre lì a lamentarsi dei loro problemi ridicoli senza avere un'idea di che cosa fosse la vera infelicità. «Ha il certificato medico?» chiese l'impiegata. «Sì.» «È stata dal medico oggi?» «No, mercoledì scorso. Dal mio psichiatra.»
«E perché non ha chiamato prima?» «È che non sono stata bene negli ultimi giorni...» rispose Julia, pensando: "Neanche prima, veramente". Un dolore costante, il dolore della nostalgia, al petto. «Avrebbe dovuto chiamare il giorno stesso...» Julia sentì chiaramente un respiro, forse un sospiro. «Ora faremo così» continuò l'impiegata. «Entro nel programma e faccio un'eccezione per lei. Solo per questa volta.» «È gentile da parte sua» disse Julia. «Un attimo...» Julia rimase alla finestra a guardare per strada. Nessun movimento. Anzi sì: stava arrivando qualcuno lungo il marciapiede, dalla traversa più grande. Era un uomo. Julia sentì delle dita gelide stringerle lo stomaco, ma poi si accorse che era troppo vecchio, calvo e sulla cinquantina, con una tuta da lavoro macchiata di vernice bianca. «Pronto?» Vide che l'uomo si fermava davanti a una casa al lato opposto della via, per poi comporre un codice al citofono, aprire il portone ed entrare. Non Jens. Era un qualsiasi uomo di mezza età. «Pronto? Julia?» Era di nuovo l'impiegata. «Sì? Sono qui.» «Allora, ho preso nota che il suo certificato medico sta per arrivare qui. Giusto?» «Bene. Io...» Julia tacque. Guardò di nuovo per strada. «C'è qualcos'altro?» «Credo...» Julia strinse forte il ricevitore. «Credo che domani farà freddo.» «Mmh» rispose l'impiegata come se fosse del tutto normale. «Ha cambiato numero di conto corrente oppure è sempre lo stesso?» Julia non rispose. Stava cercando qualcosa di normale e quotidiano da dire. «A volte parlo con mio figlio» sbottò alla fine. Un istante di silenzio, poi si udì di nuovo la voce dell'impiegata: «Okay, comunque come le ho detto ho preso nota...». Julia si affrettò a riattaccare. Rimase in piedi in cucina, lo sguardo fisso fuori dalla finestra. Le parve
che le foglie, giù in strada, formassero un disegno, un messaggio che lei non riusciva a capire per quanto a lungo le fissasse, e desiderò intensamente che Jens tornasse a casa da scuola. Anzi no, dal lavoro. Era dal lavoro che sarebbe tornato. Jens avrebbe completato gli studi da diversi anni. "Che cosa sei diventato alla fine, Jens? Pompiere? Avvocato? Insegnante?" Più tardi, quello stesso giorno, seduta sul letto davanti al televisore nella stretta zona soggiorno del monolocale, Julia stava guardando un programma sulle vipere. Poi cambiò canale trovandone uno in cui una donna e un uomo arrostivano della carne. Quando fu finito tornò in cucina per vedere se i bicchieri da vino che teneva nel pensile avessero bisogno di essere spolverati. Sì, se li si metteva controluce verso il lampadario, si potevano notare piccole particelle di polvere sulla superficie di vetro, e così tirò fuori i bicchieri uno a uno e li strofinò con un panno. Julia aveva ventiquattro bicchieri da vino, e li usava tutti, a turno. Ogni sera beveva due bicchieri di vino rosso, a volte tre. Quel pomeriggio, sul tardi, mentre era stesa sul letto di fianco al televisore, vestita dell'unica camicetta pulita che le era rimasta nell'armadio, in cucina suonò il telefono. Al primo squillo Julia sbatté le palpebre ma non si mosse. No, non avrebbe ubbidito. Non era obbligata a rispondere. Il telefono squillò di nuovo. Julia decise che non era in casa: si trovava fuori per una commissione importante. Riusciva a guardare fuori dalla finestra senza sollevare la testa, anche se non vedeva altro che i tetti delle case lungo la via, i lampioni spenti e le cime degli alberi che li superavano in altezza. Il sole era tramontato oltre la città e il cielo si stava lentamente incupendo. Il telefono squillò per la terza volta. Julia non si alzò a rispondere. Era l'imbrunire. Il crepuscolo. Il telefono trillò per la quarta volta. Julia non si alzò per rispondere. Un ultimo squillo, poi silenzio. Fuori, i lampioni si accesero con un guizzo di luce intermittente, illuminando l'asfalto sottostante. Era stata una giornata abbastanza positiva. No. Veramente non c'erano giornate positive. Ma alcune passavano più
in fretta di altre. Julia era sempre sola. Un secondo figlio avrebbe potuto aiutarla. Michael avrebbe voluto provare a dare un fratellino a Jens, ma Julia aveva detto di no. Non si era mai sentita abbastanza sicura, e poi, naturalmente, Michael aveva rinunciato. Spesso, se non rispondeva al telefono, come ricompensa trovava un messaggio registrato, e quella sera, quando gli squilli cessarono, Julia si alzò dal letto e provò ad ascoltare, ma dal ricevitore uscì solo un fruscio. Riattaccò e aprì il pensile sopra il frigorifero. Dentro c'era la bottiglia del giorno, e la bottiglia del giorno era come al solito una bottiglia di vino rosso. A dire la verità era la seconda della giornata, perché a pranzo ne aveva finita una aperta la sera prima. Quando l'aprì, il tappo uscì con un plop sommesso. Si riempì il bicchiere e lo svuotò rapidamente. Lo riempì di nuovo. Il calore del vino le si diffuse nel corpo, e solo a quel punto poté girarsi e guardare fuori dalla finestra. Era sceso il buio, i lampioni riuscivano a illuminare soltanto qualche chiazza isolata d'asfalto. All'interno del loro raggio di luce non si muoveva nulla. Ma cosa si nascondeva nell'ombra? Non era possibile vederlo. Julia diede le spalle alla finestra e vuotò il secondo bicchiere. Adesso era più calma. Si era sentita tesa dopo la telefonata con l'impiegata della Previdenza sociale, ma era passata. Meritava un terzo bicchiere di vino, ma questo l'avrebbe sorseggiato davanti al televisore. Forse tra un po' avrebbe messo della musica. Satie, magari, e poi avrebbe preso una pastiglia e si sarebbe addormentata prima di mezzanotte. Fu allora che il telefono suonò di nuovo. Al terzo squillo si mise a sedere sul letto a testa bassa. Al quinto si alzò e dopo il settimo si ritrovò in cucina. Prima che il telefono emettesse il nono squillo sollevò la cornetta e sussurrò: «Julia Davidsson». La risposta che ottenne non era un fruscio ma una voce chiara: «Julia?». Capì subito chi era. «Gerlof?» chiese sottovoce. Non lo chiamava mai papà. Non più. «Sì... sono io.» Scese di nuovo il silenzio, e si obbligò a tenere il ricevitore più vicino
all'orecchio per sentire. «Credo... di sapere qualcosa di più su come andò.» «Cosa?» Julia fissava un punto sul muro. «Come andò cosa?» «Be', come andò quella faccenda... di Jens.» Julia tenne lo sguardo fisso. «È morto?» Era come girare con un bigliettino numerato in mano. Un giorno veniva chiamato il tuo numero, e allora dovevi presentarti per ricevere il verdetto. E Julia pensò ad alcuni frammenti di ossa bianche sospinti sulla spiaggia giù a Stenvik, sebbene Jens avesse paura dell'acqua. «Julia, dev'essere per forza...» «Ma l'hanno trovato?» lo interruppe lei. «No, però...» Julia sbatté le palpebre. «Allora perché mi telefoni?» «Non l'ha trovato nessuno. Però io ho...» «Non telefonarmi, se è così!» gridò lei riattaccando. Chiuse gli occhi e rimase accanto al telefono. Un biglietto numerato, un posto nella coda. Ma quello non era il giorno giusto, Julia non voleva che quello fosse il giorno in cui veniva ritrovato Jens. Si sedette al tavolo della cucina e rivolse lo sguardo alle tenebre oltre la finestra, senza pensare a niente, e poi fissò di nuovo il telefono. Si alzò, andò più vicino e attese, ma l'apparecchio rimase muto. "Lo faccio per te, Jens." Sollevò il ricevitore, guardò il foglio incollato da anni sulle piastrelle bianche della cucina sopra il portapane e compose il numero. Suo padre rispose dopo il primo squillo. «Gerlof Davidsson.» «Sono io» disse. «Ah, Julia.» Silenzio. Julia si fece forza. «Non avrei dovuto sbattere giù la cornetta.» «Mmh...» «Non serve a niente.» «No, è vero» rispose suo padre. «Ma sono cose che si fanno.» «Com'è il tempo a Öland?» «Grigio e freddo» rispose Gerlof. «Oggi non sono uscito.»
Di nuovo silenzio, e Julia prese fiato. «Perché hai chiamato?» chiese. «Dev'essere successo qualcosa.» La risposta impiegò qualche secondo ad arrivare. «Be'... sono successe un po' di cose qui» disse, e aggiunse: «Ma non so niente. Niente più di prima». "Niente più di me" pensò Julia. "Mi dispiace, Jens." «Credevo ci fosse qualche novità.» «Però ho riflettuto parecchio» disse Gerlof. «E ritengo che ci siano delle cose che si possono fare.» «Fare? A che scopo?» «Per andare avanti» rispose Gerlof, affrettandosi ad aggiungere: «Puoi venire qui?». «Quando?» «Presto. Credo che sia necessario.» «Non posso venire via» affermò, anche se non era poi così impossibile: in fondo era in malattia a tempo indeterminato. Poi aggiunse: «Devi dirmi qualcosa... Di che si tratta? Non puoi?». Suo padre rimase in silenzio. «Ti ricordi com'era vestito quel giorno?» chiese poi. Quel giorno. «Sì.» Quella mattina l'aveva aiutato lei a vestirsi, e solo dopo si era resa conto di avergli fatto mettere degli indumenti estivi anche se ormai era autunno. «Portava dei pantaloncini corti gialli e una maglia di cotone rosso» rispose. «Con l'Uomo mascherato sul davanti. L'aveva ereditata da suo cugino, era una di quelle stampe di plastica sottile che si potevano applicare in casa con il ferro da stiro...» «Ti ricordi che scarpe portava?» domandò ancora Gerlof. «Dei sandali» rispose Julia. «Un paio di sandali di pelle marrone con la suola di gomma nera. Sull'alluce del destro si era rotta una delle fascette di cuoio, e anche il sinistro era messo male... Era sempre così alla fine dell'estate, ma io l'avevo cucito...» «Con del filo bianco?» «Sì» rispose subito Julia. Poi ci pensò un attimo. «Sì, mi pare che fosse bianco. Perché?» Qualche secondo di silenzio. Poi Gerlof rispose: «Sulla mia scrivania c'è un vecchio sandalo destro. Riparato con del filo bianco da cucito. Parrebbe della misura di un bambino di cinque anni... Lo sto guardando proprio adesso».
Julia barcollò e dovette appoggiarsi al bancone della cucina. Gerlof disse qualcos'altro, ma lei abbassò di scatto la forcella, e il ricevitore tacque. Il biglietto numerato: era quello il numero che le era stato assegnato, e presto avrebbero chiamato il suo nome. Dieci minuti dopo, recuperata la calma, tolse la mano dalla forcella e compose il numero di Gerlof. Rispose dopo uno squillo, come se l'aspettasse. «Dove l'hai trovato?» chiese. «Dove, Gerlof?» «È complicato» rispose. «Sai che ormai... che ormai non mi muovo più tanto facilmente, Julia. È sempre più difficile. È per questo che desidero tanto che tu venga.» «Non lo so...» Julia chiuse gli occhi e udì solo un gran fruscio nel telefono. «Non so se posso.» Vedeva se stessa sulla spiaggia, a vagare tra i ciottoli raccogliendo delicatamente tutti i pezzetti di scheletro che riusciva a trovare, per poi premerseli forte al petto. «Forse.» «Cosa ti ricordi?» chiese Gerlof. «Di cosa?» «Di quel giorno. Ricordi qualcosa di particolare? Vorrei che ci pensassi su.» «Ricordo che Jens svanì nel nulla... Che...» «Non sto pensando a Jens, in questo momento» la interruppe Gerlof. «Cos'altro ricordi?» «Cosa vuoi dire? Non capisco...» «Ti ricordi la nebbia che era calata su Stenvik?» Julia rimase in silenzio. «Sì» disse poi. «La nebbia...» «Pensaci» la esortò Gerlof. «Cerca di ricordarti la nebbia.» La nebbia... La nebbia faceva parte di tutti i ricordi di Öland. Julia rammentava. Non che nella parte settentrionale dell'isola la nebbia fitta fosse un fenomeno frequente, ma a volte, d'autunno, risaliva dallo stretto. Fredda e umida. Ma cos'era accaduto nella nebbia quel giorno? Cos'era accaduto, Jens? Öland, luglio 1936 L'uomo destinato a seminare tanto terrore e tante sofferenze sull'isola di
Öland è a metà degli anni Trenta un bambino di dieci anni. È padrone di una spiaggia sassosa e di un'immensa distesa d'acqua. Il bambino si chiama Nils Kant, è abbronzato, e siccome fa caldo, porta i calzoncini corti. Seduto al sole su un grosso masso arrotondato sulla riva sottostante le case e i capanni da pesca di Stenvik, sta pensando: "Tutto questo è mio". Ed è vero, perché la famiglia di Nils è proprietaria della spiaggia. È proprietaria di vaste zone della parte settentrionale di Öland, la discendenza dei Kant possiede quelle terre da secoli, e da quando è morto suo padre, tre anni prima, Nils sente di doversene prendere cura. Non gli manca il papà, lo ricorda solo come un uomo alto, silenzioso e severo, a volte violento, e Nils trova che sia un'ottima cosa che nella villa di legno sovrastante la spiaggia lo aspetti solo sua madre Vera. Non ha bisogno di nessun altro, lui. Non gli servono amici: sa bene che ci sono bambini di tutte le età nei paesini disseminati lungo la costa e ragazzi più grandi che stanno dove vive lui e lavorano già alla cava, ma quel tratto di spiaggia è solo suo. I mugnai e i pescatori che si aggirano intorno ai capanni in cima alla falesia non rappresentano una minaccia. Si prepara a lasciarsi scivolare giù dal masso. Farà un altro bagno, l'ultimo prima di andare a casa. «Nils!» chiama una voce infantile. Non si volta, ma sente un rumore di ghiaia e pietrisco dalla scarpata che scende alla spiaggia e poi dei passi veloci che si avvicinano. «Nils! La mamma mi ha dato delle caramelle al latte! Le ha date anche a me! Tantissime!» È suo fratello che sta arrivando: Axel, tre anni meno di Nils e sempre in movimento. In mano stringe un fagottino di tela grigia. «Guarda!» Axel si avvicina di corsa e si piazza accanto al grosso masso alzando gli occhi su Nils, e poi apre l'involto e ne sparge il contenuto sul tovagliolo. Dentro ci sono un coltellino tascabile e le caramelle al latte fatte in casa dalla mamma: scure, lucide e burrose. Nils ne conta otto. A lui ne ha date solo cinque, prima che uscisse, e ormai se l'è mangiate. Il cuore prende a battergli forte, accelerato da una rabbia improvvisa. Axel afferra una delle sue caramelle, la esamina, se la infila in bocca e guarda in direzione dell'acqua scintillante. Mastica lentamente, appagato, come se non solo le caramelle fossero sue, ma anche la spiaggia, l'acqua e
perfino il cielo sopra la loro testa. Nils distoglie lo sguardo. «Adesso faccio il bagno» dice fissando l'acqua. Poi salta giù, si sfila i pantaloni corti e li mette sul masso. Volta le spalle ad Axel e si immerge tra le onde, con i piedi in equilibrio sui sassi coperti di alghe. Sottili filamenti di fuchi scuri gli s'infilano tra le dita dei piedi. L'acqua è calda di sole e s'infrange schiumosa quando Nils ci si tuffa a una decina di passi dalla riva. Quest'estate ha imparato a nuotare sott'acqua. Prende fiato, s'immerge sotto la superficie, scivola verso il fondo, gira su se stesso e riemerge con un balzo, di nuovo alla luce del sole. Axel si è piazzato sul bagnasciuga. Nils scivola avanti e indietro nell'acqua, solleva spruzzi e fa capriole con le bolle che gli sfrigolano intorno alla testa. Nuotando si allontana di qualche metro, tanto che i suoi piedi non toccano più il fondo. Da quelle parti c'è un grosso macigno, un masso erratico che se ne sta appena sotto la superficie come un mostro marino addormentato. Nils si arrampica sul dorso del mostro, si alza in piedi con l'acqua che gli arriva alle caviglie e poi si tuffa. Lì non tocca. Galleggia agitando le gambe e vede che Axel è rimasto sulla riva. «Non hai ancora imparato a nuotare?» gli grida. Sa benissimo che non è capace. Axel non risponde, ma il suo sguardo si abbassa, incupendosi per la vergogna e la rabbia. Si sfila i calzoncini e li mette sul masso accanto al fagottino. Nils nuota lentamente intorno al macigno da cui si è tuffato, prima a pancia in giù e poi in su, come per dimostrare quanto è facile quando si è capaci. Scalcia con le gambe e risale sul masso. «Ti aiuto io!» grida ad Axel, e per un attimo riflette sulla possibilità di farlo davvero: di insegnargli a nuotare, quel giorno, da bravo fratello maggiore. Ma ci vorrebbe troppo tempo. Gli fa un cenno con la mano. «Vieni!» Axel avanza di un passo, incerto, tastando i sassi con i piedi e mulinando le braccia, come se fosse in equilibrio sul ciglio di uno strapiombo. Nils osserva in silenzio l'esitante procedere del fratellino nell'acqua. Dopo quattro passi Axel si trova con l'acqua che gli arriva alle cosce e alza gli occhi su Nils, lo sguardo fisso.
«Hai il coraggio o no?» chiede Nils. Uno scherzo: vuole solo scherzare un po' con suo fratello. Axel scuote la testa. Nils si tuffa subito dal masso e nuota verso la riva. «Tranquillo» dice. «Si tocca quasi fino a là.» Axel brancola verso di lui, si sporge in avanti. Nils arretra, e il fratellino avanza involontariamente di un altro passo. «Bravo» dice Nils. L'acqua gli arriva alla vita, adesso. «Ancora un passo.» Axel ubbidisce, fa un passo e poi alza gli occhi con un sorrisetto nervoso. Nils lo ricambia e annuisce, e Axel avanza ancora. Nils si sporge indietro, lasciandosi cadere lentamente con le braccia tese, per mostrare com'è carezzevole l'acqua. «Tutti sanno nuotare, Axel» dice. «Io ho imparato da solo.» Lentamente batte i piedi verso il largo, in direzione del masso da cui si è tuffato poco prima. Axel lo segue, ma senza staccare i piedi dal fondo. L'acqua gli arriva al petto. Nils salta di nuovo sul masso. «Ancora tre passi!» lo rassicura. Veramente però non è proprio così, saranno sette o otto. Ma Axel fa un passo, due passi, tre passi, è costretto ad allungare il collo per tenere la bocca sopra la superficie, eppure mancano ancora tre metri al masso. «Devi respirare» gli dice Nils. Axel inspira boccheggiando. Nils si siede sul masso e tende calmo le mani verso di lui. E suo fratello si getta in avanti. Ma è come se si pentisse subito, perché prende fiato di colpo e l'acqua fredda gli riempie la bocca e la gola. Si mette a mulinare le braccia, fissando Nils. Il masso è appena fuori dalla sua portata. Nils osserva la lotta di Axel nell'acqua per qualche secondo, per poi sporgersi di scatto e tirare su il fratellino, mettendolo al sicuro sul masso. Axel gli si avvinghia addosso, tossendo e respirando a singhiozzo. Nils si alza in piedi accanto a lui e pronuncia la frase che ha continuato a frullargli in testa per tutto il tempo: «La spiaggia è mia». Poi si tuffa in acqua, dritto come un fuso, riemerge diversi metri più in là e nuota a lunghe bracciate sicure finché le mani non urtano i sassi sulla spiaggia e lo scherzo è portato a compimento. Ora può goderselo fino in fondo. Scuote la testa per stapparsi le orecchie e si avvicina al masso su cui suo fratello ha aperto il piccolo involto.
Ci sono anche i calzoncini che Axel si è tolto poco prima. Nils li prende, gli pare di vedere una pulce che striscia lungo una cucitura e li getta sulla spiaggia. Poi si china sul tovagliolo: ecco le caramelle ammonticchiate, luccicanti al sole. Nils ne prende una e se la mette lentamente in bocca. Dal masso in mezzo al mare sente un urlo inviperito, ma fa finta di niente. Mastica con calma, deglutisce e ne prende un'altra. Un tonfo nell'acqua, seguito da spruzzi, e Nils alza gli occhi: alla fine il fratellino si è tuffato dal masso. Quanto a lui, si sta già asciugando al sole e, sopprimendo l'impulso di raggiungere Axel, prende una terza caramella dal tovagliolo. Più in là si continua a sentire sguazzare, e Nils alza gli occhi. Naturalmente Axel non tocca e cerca disperatamente di riguadagnare il masso, ma le mani non riescono a far presa. Nils mastica la caramella. Bisogna sapersi dare la spinta per riuscire a salire sul masso. Axel non ce la fa e si volta per cercare di tornare a riva. Dibatte le braccia sollevando una quantità di spruzzi, ma non avanza e lo fissa con gli occhi sbarrati. Nils sostiene il suo sguardo, manda giù e prende un'altra caramella. In pochi secondi gli schizzi diminuiscono d'intensità, laggiù. Il fratellino grida qualcosa, ma Nils non capisce le parole. Poi le onde si chiudono sopra la testa di Axel. Ora Nils fa un passo verso il mare. La testa di suo fratello compare di nuovo, ma non alta come prima. In realtà Nils vede solo i capelli bagnati. Poi torna a immergersi. Qualche bolla d'aria risale in superficie, ma un'onda le spazza via. Nils si decide, adesso, e si tuffa in acqua. Le gambe sollevano spruzzi e le braccia mulinano decise, lo sguardo è puntato sul masso. Ma Axel non si vede più. Nils raggiunge rapidamente il punto in cui è sprofondato suo fratello, e quando è quasi arrivato s'immerge, ma non è molto bravo a tenere gli occhi aperti sott'acqua. Li chiude e si muove tentoni in quel buio gelido, senza trovare nulla con le mani, e poi riemerge nel sole. Si aggrappa al masso, tossisce e si issa. Solo acqua intorno a lui, ovunque volga lo sguardo. Lo scintillio del sole sulle onde nasconde tutto ciò che si trova sotto la superficie. Axel è sparito.
Nils aspetta e aspetta nel vento, ma non succede niente, e alla fine, quando comincia ad avere freddo, si tuffa e nuota lentamente verso riva. Non c'è altro da fare. Esce dall'acqua, riprende fiato e si appoggia al grosso masso sulla spiaggia. Rimane lì al sole a lungo. Aspetta il rumore di qualcuno che sguazza, il richiamo familiare di Axel, ma non si sente niente. Silenzio assoluto. È difficile capirlo. Sul tovagliolo di Axel sono rimaste quattro caramelle, e Nils le guarda. Pensa alle domande che lo aspettano, da parte di sua madre e di altri, e riflette su cosa dire. Poi pensa a quando è morto suo padre e all'atmosfera lugubre durante l'interminabile funerale alla chiesa di Marnäs. Erano tutti vestiti di nero e cantavano dei salmi sulla morte. Nils tira su con il naso. Suona piuttosto convincente. Andrà da sua madre e, tirando su con il naso, racconterà che Axel è rimasto sulla spiaggia. Voleva restare lì anche se lui, Nils, preferiva tornare a casa. E quando tutti cominceranno a cercarlo, potrà pensare alla triste musica d'organo del funerale di suo padre e piangere con sua madre. Tra poco risalirà in casa, e una volta rientrato sa che cosa dovrà dire e che cosa non dovrà dire. Prima, però, finisce le caramelle. 2 Seduto nella sua stanza della residenza per anziani di Marnäs, Gerlof Davidsson stava guardando il sole tramontare fuori dalla finestra. La campanella della cucina aveva appena smesso di risuonare nei corridoi dopo la prima chiamata: tra poco sarebbe stata servita la cena. Gerlof si sarebbe alzato dalla sedia e sarebbe andato in sala da pranzo. La sua vita non era finita. Se avesse ancora abitato a Stenvik, il villaggio di pescatori di cui era originario, avrebbe potuto starsene seduto sulla spiaggia a guardare il sole sprofondare lentamente nello stretto di Kalmar. Ma Marnäs si trovava sulla costa orientale dell'isola, e così tutte le sere lo vedeva scomparire dietro un boschetto di betulle, tra la residenza per anziani e la chiesa di Marnäs, a ovest. In quel periodo, in ottobre, i rami delle betulle erano quasi completamente spogli e somigliavano a braccia sottili che si tendevano verso il disco giallo-rosso del sole calante. Era sceso il crepuscolo, l'ora delle storie paurose.
Quando era bambino, a Stenvik, quello era sempre stato il momento della giornata in cui si concludeva il lavoro, sia nei campi che intorno ai capanni da pesca. Nell'attesa del calar della sera ci si radunava tutti in casa, ma le lampade a cherosene non venivano accese subito. Gli anziani restavano seduti nella penombra del crepuscolo, discutevano di ciò che era stato fatto quel giorno e di quanto era successo nelle altre corti del villaggio. E di tanto in tanto raccontavano delle storie ai bambini che popolavano la casa. Gerlof aveva sempre trovato che quelle più paurose fossero le migliori: i racconti di fantasmi, troll, oscuri presagi e morti repentine nei luoghi più sperduti dell'isola. O quelli sui relitti di navi sospinte a riva lungo la costa frastagliata e destinate a schiantarsi contro le rocce. La campanella della cucina suonò per la seconda volta. Un capitano che, travolto dalla tempesta, si fosse avvicinato troppo a terra avrebbe prima o poi sentito le rocce sul fondo urtare la chiglia, sempre più forte, e quello era l'inizio della fine. Magari in qualche raro caso poteva essere tanto abile e fortunato da riuscire a gettare in acqua l'ancora e trascinarsi lentamente verso il largo lottando contro il vento, ma nella maggior parte dei casi le imbarcazioni non potevano più essere spostate di un metro, una volta incagliate. Spesso, per salvarsi la pelle, il capitano insieme all'equipaggio doveva abbandonare in tutta fretta la nave, cercando di arrivare vivo a riva in mezzo alle onde spumeggianti. Allora si sarebbe ritrovato tutto bagnato e infreddolito sulla spiaggia a guardare la tempesta che scaraventava ancora più violentemente la nave contro le rocce e le onde che cominciavano a farla a pezzi. Un'imbarcazione incagliata era come una bara sfasciata, abbandonata all'aria aperta. La campanella della cucina suonò per l'ultima volta, e Gerlof si afferrò al bordo di legno della scrivania e si alzò. Sentì la sindrome di Sjögren risvegliarsi nelle articolazioni. Faceva male. Guardò pensoso la sedia a rotelle parcheggiata in fondo al letto, ma non l'aveva mai usata all'interno della residenza e non aveva intenzione di cominciare adesso. Però prese nella mano destra il bastone e lo strinse forte incamminandosi verso l'ingresso, dove le sue giacche erano appese agli ometti e le scarpe erano sistemate in fila. Si fermò, si appoggiò al bastone e poi aprì la porta. Uscì e si guardò intorno. Lungo il corridoio si sentivano passi strascicati, e Gerlof li vide arrivare uno a uno: erano gli altri ospiti della casa alloggio. Eccoli che si avvicina-
vano piano, con l'aiuto di bastoni o deambulatori. Gli ospiti della residenza per anziani di Marnäs si riunivano per mangiare. Alcuni si salutarono a bassa voce, altri continuarono imperterriti a fissare il pavimento. "Quanta conoscenza è accumulata in queste gambe che si muovono stanche" pensò Gerlof, unendosi al branco diretto verso la sala da pranzo. «Benvenuti a tavola!» disse sorridendo Boel, la responsabile del reparto, in piedi tra i carrelli davanti alla cucina. Tutti si sedettero piano al proprio posto consueto. Quanta conoscenza. Intorno allo stesso tavolo di Gerlof erano seduti un calzolaio, un sacrestano e un agricoltore, dotati di un'esperienza e una competenza che nessuno richiedeva più. E poi lui stesso, ancora in grado di fare, a occhi chiusi e in pochi secondi, un nodo bolina assolutamente inutile. «Stanotte potrebbe venire la prima gelata, Gerlof» disse Maja Nyman. «Già, i venti soffiano da nord» commentò. Maja era seduta di fianco a lui, piccola, magra e rugosa ma più arzilla di qualsiasi altro ospite del reparto. Gli sorrise e Gerlof contraccambiò. Era una delle poche che sapesse pronunciare correttamente il suo nome: Jerlof, semplicemente. Maja era originaria di Stenvik ma negli anni Cinquanta si era sposata con un agricoltore ed era andata a stare a nordest di Marnäs. Quanto a lui, diventando capitano mercantile si era trasferito a Borgholm. Prima di ritrovarsi alla comunità alloggio, non si erano visti per quasi quarant'anni. Gerlof prese una fetta di pane croccante e cominciò a mangiare, come al solito lieto di riuscire ancora a masticare. Niente più capelli, vista imperfetta, energie quasi nulle e muscoli indolenziti: se non altro, però, aveva ancora i suoi denti. Dalla cucina proveniva l'odore di cavolo. Oggi il menu prevedeva il minestrone, e Gerlof sollevò il cucchiaio e aspettò che arrivasse il carrello. Una volta finito di mangiare, la maggior parte degli ospiti della residenza si sarebbe seduta a guardare la televisione per quello che restava della serata. I tempi erano cambiati. Le navi incagliate erano sparite dalle coste di Öland, e al crepuscolo nessuno raccontava più storie. La cena era finita e Gerlof era di nuovo nella sua stanza. Appoggiò il bastone a una mensola e si sedette alla scrivania. Ora fuori
dalla finestra era sera. Se si fosse proteso sul ripiano avvicinando il naso al vetro, avrebbe potuto vedere uno scorcio dei campi a nord di Marnäs e, più in là, la spiaggia e il mare scuro. Il Baltico, quello che un tempo era il suo posto di lavoro. Ma ormai non poteva più permettersi esercizi ginnici del genere, e doveva accontentarsi di guardare le betulle dietro la casa di riposo. Chi la gestiva non la chiamava più casa di riposo, ma non era altro che questo. Cercavano sempre di inventare definizioni nuove che suonassero meglio, ma era sempre un modo di mettere insieme i vecchi, che in troppi casi restavano semplicemente lì seduti ad aspettare la morte. Accanto a una pila di giornali, sulla scrivania, era appoggiato un taccuino nero, e Gerlof allungò una mano per prenderlo. Dopo aver passato tutta la prima settimana alla casa alloggio con lo sguardo fisso fuori dalla finestra, si era riscosso ed era andato in paese a comprare il taccuino nel piccolo negozio di alimentari. Poi aveva cominciato a scrivere. Il taccuino conteneva sia riflessioni che promemoria. Lì annotava le cose da fare e poi, una volta che erano state portate a termine, le cancellava con una riga, eccetto l'esortazione FATTI LA BARBA! in cima alla pagina, che non veniva mai depennata perché si trattava di un impegno quotidiano. Radersi era indispensabile, e quel giorno si era ricordato di farlo qualche ora prima. La prima riflessione annotata sul taccuino era: "Il paziente val più di un eroe, chi domina se stesso val più di chi conquista una città". Era un versetto biblico, tratto dal sedicesimo capitolo del Libro dei Proverbi, su cui valeva la pena meditare. Gerlof aveva cominciato a leggere la Bibbia da piccolo, e non aveva più smesso. In fondo al taccuino c'erano tre righe non cancellate: PAGARE LE BOLLETTE DEL MESE. MARTEDÌ SERA ARRIVA JULIA. PARLARE CON ERNST. Le fatture del telefono, i giornali, la retta della casa alloggio e la quota per la manutenzione della tomba di sua moglie non erano da pagare prima della settimana successiva. E Julia stava arrivando, alla fine aveva promesso di venire. Non doveva dimenticarsene. Sperava che sua figlia si fermasse per un po' a Öland. Anche dopo tutti quegli anni, era ancora prigioniera del dolore, e Gerlof avrebbe voluto sottrarla a quella sofferenza. L'ultima annotazione era altrettanto importante e aveva anch'essa a che
fare con Julia. Ernst faceva il marmista a Stenvik, ed era uno dei pochi che vivesse per tutto l'anno nel paesino, ormai. Lui, Gerlof e il loro comune amico John si parlavano al telefono ogni settimana. A volte si trovavano perfino al crepuscolo per raccontarsi vecchie storie a vicenda, cosa che Gerlof apprezzava molto, per quanto spesso le avesse già sentite. Una sera di qualche mese prima, però, Ernst era venuto alla residenza di Marnäs con una nuova storia: quella sull'assassinio del suo nipotino. Gerlof non era affatto pronto ad ascoltarne il racconto - in realtà non voleva neanche pensare al piccolo Jens - ma Ernst, seduto sul letto, aveva insistito per riferirglielo. «Ho riflettuto parecchio su come dev'essere andata» aveva sussurrato. «Davvero?» aveva risposto Gerlof, seduto alla scrivania. «Sono convinto che tuo nipote non sia sceso fino al mare per poi annegare» aveva continuato Ernst. «Penso che magari possa essersi incamminato verso il tavoliere calcareo, nella nebbia. E che lì in mezzo al nulla abbia incontrato un assassino.» «Un assassino?» aveva detto Gerlof. Ernst era rimasto in silenzio, con le mani allacciate in grembo. «E chi sarebbe?» aveva chiesto Gerlof. «Nils Kant» aveva risposto Ernst. «Credo che quello che ha incontrato nella nebbia fosse Nils Kant.» Gerlof si era limitato a fissarlo, ma lo sguardo dell'amico era serissimo. «Sono convinto che sia andata così» aveva detto. «Credo che Nils Kant sia tornato via mare, da qualunque posto fosse andato a finire, e abbia portato a termine l'ennesimo delitto.» In realtà si era fermato lì, quella volta. Una breve storia raccontata al crepuscolo, ma Gerlof non era riuscito a dimenticarla. Sperava che Ernst tornasse presto per dargli spiegazioni. Continuò a sfogliare il taccuino. Le riflessioni annotate erano decisamente meno numerose dei promemoria, e ben presto arrivò all'ultima. Chiuse il libriccino. Non poteva far molto altro alla scrivania, ma rimase ugualmente seduto lì a guardare le betulle ondeggiare nel buio. Somigliavano un po' a vele scosse dal vento di burrasca, e da quel pensiero non ci volle molto a passare al ricordo di quando lui stesso si trovava sul ponte di una goletta, circondato dai venti autunnali, e guardava sfilare lentamente la costa ölandese, a volte da vicino, con le rocce e le case ben definite, a volte solo sotto forma di una striscia scura all'orizzonte. Proprio mentre nella sua mente si era materializzata quell'immagine, il telefono sulla scrivania
squillò all'improvviso. Il primo trillo risuonò alto e acuto nella stanza silenziosa. Gerlof aspettò il secondo. Spesso intuiva in anticipo chi stava chiamando, ma questa volta non ne era sicuro. Sollevò il ricevitore dopo il terzo squillo. «Pronto?» Nessuna risposta. La linea non era caduta e si sentiva un fruscio costante di elettroni o qualunque cosa fossero quelli che turbinavano nei cavi telefonici, ma la persona che teneva il ricevitore all'altro capo del filo non parlò. Gerlof pensava di sapere ugualmente che cosa volesse. «Sono Gerlof» disse rivolto al microfono «e se è per il sandalo che stai chiamando, l'ho ricevuto.» Gli parve di udire respirare nel ricevitore. «Mi è arrivato per posta qualche giorno fa.» Silenzio. «Credo sia stato tu a spedirmelo» continuò Gerlof. «Perché l'hai fatto?» Nient'altro che silenzio. «Dove l'hai trovato?» L'unica cosa che si sentiva era il fruscio. Dopo aver tenuto il ricevitore premuto contro l'orecchio abbastanza a lungo, a Gerlof parve di trovarsi solo in tutto l'universo, intento ad ascoltare il silenzio dello spazio nero. Oppure il mare. Dopo trenta secondi qualcuno tossì piano. Poi si sentì uno scatto. All'altro capo del filo il ricevitore era stato riattaccato. 3 La sorella maggiore di Julia, Lena Lundqvist, teneva le chiavi strette in una morsa e guardava l'automobile, quasi soltanto l'automobile. Gettò una rapida occhiata in direzione di Julia, per poi subito riabbassare lo sguardo sulla macchina di cui erano comproprietarie. Era una piccola Ford rossa. Non nuova, ma con la vernice ancora lucida e delle buone gomme estive. Si trovava parcheggiata per strada, di fianco al vialetto d'ingresso dell'imponente villa in muratura di Lena e di suo marito Richard, a Torslanda. La villa aveva un grande giardino che, pur non godendo della vista sul mare, ne era così vicino che a Julia pareva di av-
vertire nell'aria il gusto della salsedine. Julia sentì una risata stridula dalla finestra socchiusa e capì che i figli erano tutti in casa. «In realtà non dovremmo prestartela... Quand'è stata l'ultima volta che hai guidato?» chiese Lena. Teneva ancora le chiavi in una mano, con le braccia strettamente incrociate sul petto. «L'estate scorsa» rispose Julia, affrettandosi ad aggiungere, tanto per ricordarlo alla sorella: «Ma la macchina è mia... per metà». Un vento freddo e umido proveniente dal mare risalì lungo la via. Lena indossava solo un golfino sottile e una gonna, ma non invitò Julia a entrare nella villa per continuare la conversazione al caldo e, anche se l'avesse fatto, Julia non ci avrebbe mai messo piede. Richard era sicuramente in casa e lei non voleva vedere né lui né i loro figli adolescenti. Richard era un qualche genere di dirigente di alto livello, o almeno piuttosto alto, alla Volvo. Naturalmente aveva un'auto aziendale, e lo stesso valeva per Lena, che era preside di una scuola di Hisingen. Erano due persone che nella vita avevano fatto carriera. «Tu non ne hai bisogno» continuò Julia con la voce ferma. «L'hai tenuta fino adesso, dato che io... dato che non volevo guidare.» Lena guardò di nuovo l'auto. «Già, ma Richard ha qui sua figlia un fine settimana sì e uno no, e lei vuole...» «Pagherò io tutta la benzina» la interruppe Julia. Non aveva paura della sorella maggiore, non l'aveva mai avuta, e adesso aveva deciso di andare a Öland. «Ma sì, non è questo» rispose Lena. «Il fatto è che non mi sento tranquilla. Sai, c'è anche la faccenda dell'assicurazione. Richard dice che...» «La userò soltanto per andare a Öland» la rassicurò Julia. «E poi per tornare a Göteborg.» Lena alzò gli occhi verso la villa e le finestre, quasi tutte illuminate. «Gerlof vuole che ci vada» continuò Julia. «Ho parlato con lui ieri.» «Ma perché proprio adesso?» chiese Lena, continuando senza aspettare risposta: «E poi dove starai, scusa? Mica puoi chiedergli di farti dormire alla residenza. Non hanno stanze per gli ospiti, per quel che ne so. E giù a Stenvik abbiamo chiuso la casa e anche il capanno fino all'estate prossima...». «Mi arrangerò» si affrettò a rispondere Julia, rendendosi conto in quel momento che nemmeno lei aveva idea di dove sarebbe andata a dormire.
Non ci aveva pensato. «Allora posso prenderla?» Sentiva che la sorella stava per cedere e voleva una risposta rapida, prima che uscisse Richard e cominciasse a dar manforte a sua moglie nel tentativo di rimandare il prestito dell'auto. «Ma sì...» disse Lena. «Prendila, dai. Tiro giù un po' di roba.» Si avvicinò alla macchina, l'aprì, prelevò dei fogli e un paio di occhiali da sole, oltre a una mezza tavoletta di cioccolato Marabou. Tornò da Julia, tese la mano e lasciò andare il portachiavi. Julia lo prese, e in quel momento Lena le porse un altro oggetto. «Prendi anche questo, così almeno possiamo raggiungerti» disse. «Me ne hanno appena dato uno nuovo al lavoro.» Era un cellulare, nero. Forse non proprio il modello più minuscolo, ma abbastanza piccolo. «Non li so usare, questi» commentò Julia. «È facile. Prima devi inserire un codice... ecco qui.» Lena scrisse su un foglietto sia il PIN che il numero del telefono. «Quando chiami componi semplicemente tutto il numero, compreso il prefisso, e premi il pulsante verde. Ci sono rimasti su un po' di soldi, poi dovrai ricaricarlo.» «Okay» Julia prese il telefono. «Grazie.» «Sì... vai piano, allora» disse Lena. «Salutami papà.» Julia annuì e andò alla macchina. Montò, sentendo nelle narici il profumo di sua sorella, avviò il motore e partì. Era già l'imbrunire. E mentre attraversava Hisingen, procedendo a una velocità di venti chilometri inferiore al limite, si chiese come mai lei e Lena non riuscivano a guardarsi in faccia più di qualche secondo alla volta. Un tempo erano molto legate - in fondo era stato per Lena che Julia si era trasferita a Göteborg, all'epoca -, ma adesso era l'esatto contrario. E le cose andavano male da quél venerdì di diversi anni prima in cui Julia era stata nella villa di Lena e Richard per l'ultima volta, in occasione di una cena senza figli. La serata si era conclusa quando Richard aveva messo giù il bicchiere del vino e si era alzato da tavola con la domanda: «Possibile che si debba sempre stare qui a rimuginare su disgrazie accadute vent'anni fa? Me lo chiedo soltanto. È obbligatorio?». Era arrabbiato, un po' alticcio e aveva la voce roca, sebbene Julia avesse accennato solo di sfuggita alla scomparsa di Jens come motivo del suo stato di salute. La voce di Lena era calma quando, subito dopo, l'aveva guardata e aveva pronunciato quella frase... la frase che aveva indotto Julia, due anni dopo, a
rifiutarsi di accompagnare la sorella a Öland per aiutare Gerlof a traslocare dalla casa di Stenvik alla residenza per anziani di Marnäs. «Non tornerà mai più» aveva detto. «Lo sanno tutti... Jens è morto, Julia. Lo capisci perfino tu, no?» Non era servito a niente alzarsi in piedi di scatto e investirla con una sfuriata isterica dalla parte opposta del tavolo, ma Julia l'aveva fatto ugualmente. Arrivò a casa, parcheggiò l'auto per strada ed entrò a preparare i bagagli. Una volta messi nella borsa cambi per una decina di giorni, un po' di roba per la toilette e qualche libro (oltre a due bottiglie di rosso e alcune pastiglie), mangiò un panino e bevve dell'acqua invece del vino. E a quel punto era sera, l'ora di andare a dormire. Nel letto, però, si ritrovò a fissare il buio dal cuscino senza riuscire a prendere sonno. Si alzò, andò in bagno, prese una pastiglia di quelle per cui era necessaria la prescrizione del medico e tornò a letto. La scarpa di un bambino. Un sandalo. Quando chiuse gli occhi rivide se stessa, giovane mamma, mentre metteva i sandali a Jens, e a quel ricordo avvertì un peso nero sul petto, un'opprimente incertezza che la fece rabbrividire sotto il lenzuolo. La scarpina di Jens, dopo vent'anni senza la minima traccia di lui. Dopo tutte quelle ricerche a Öland, tutte le rimuginazioni nelle notti insonni. Il sonnifero cominciò lentamente a fare effetto. "Basta tenebre, ora" pensò nel dormiveglia. "Aiutaci a ritrovarlo." La mattina impiegò molto tempo ad arrivare, e quando Julia si svegliò e si alzò era ancora buio. Fece colazione, lavò i piatti, chiuse a chiave l'appartamento e salì in macchina. Una volta avviato il motore azionò i tergicristallo per spazzar via dal parabrezza le foglie cadute, e poi, finalmente, si lasciò alle spalle la via in cui abitava e la città, immergendosi nel sorgere del sole e nel traffico mattutino. L'ultimo semaforo divenne verde e Julia poté immettersi sull'autostrada in direzione est, lontano da Göteborg, verso l'aperta campagna. Per qualche decina di chilometri guidò con il finestrino abbassato, lasciando che la fredda aria mattutina spazzasse via dall'auto ogni traccia del profumo di sua sorella. "Sono partita, Jens" pensò. "Sono partita davvero, e ora non può fermarmi nessuno."
Sapeva che non avrebbe dovuto parlare con lui, neanche tra sé e sé, in silenzio. Era sintomo di uno squilibrio, ma di tanto in tanto lo faceva, fin da quando Jens era scomparso. L'autostrada finiva a Borås e di lì in poi le case diventavano man mano più piccole e meno numerose. Le fitte foreste di abeti dello Småland premevano ai due lati del nastro d'asfalto. Avrebbe potuto imboccare un'uscita, dirigendosi verso una meta ignota, ma le strade che s'inoltravano nel bosco parevano troppo desolate. Proseguì dritto, attraverso il paese, in direzione della costa orientale, e cercò di provare gioia per il fatto di aver appena intrapreso da sola un viaggio più lungo di quanto non accadesse da tempo. All'altezza di una stazione di servizio, ad alcune decine di chilometri dalla costa, si fermò per far benzina e mangiare qualche boccone di un pasticcio di carne, patate e cipolle che a dire il vero era duro, unto e non all'altezza del prezzo, e poi si rimise per strada. Proseguì verso Ölandsbron, il ponte che portava a Öland. Si staccava dalla terraferma a nord della città di Kalmar, proseguendo verso l'isola. Era stato costruito oltre vent'anni prima, completato e inaugurato lo stesso giorno d'autunno. Non doveva più pensarci, almeno fino a quando non fosse arrivata. Il ponte, alto e solido, sostenuto da larghi pilastri di cemento, valicava lo stretto senza spostarsi di un millimetro sotto le folate che urtavano violente la macchina. Era largo e assolutamente diritto, a eccezione di un dosso dalla parte della terraferma, nel punto in cui dovevano passare sotto la strada le imbarcazioni più alte. Dalla sommità del dosso si godeva di un vasto panorama, e in quel momento Julia scorse il profilo piatto dell'isola che si estendeva lungo l'orizzonte da nord a sud. Vide il vasto tavoliere calcareo rivestito d'erba, simile a una steppa, che copriva gran parte dell'isola. Basse nuvole scure scivolavano lente al di sopra del paesaggio, simili a dirigibili oblunghi. Sia i turisti che gli abitanti dell'isola adoravano fare lunghe camminate per guardare gli uccelli in mezzo alla scarsa vegetazione di quella vasta distesa calcarea, ma a Julia non piaceva. Troppo grande, e oltretutto non c'era niente sotto cui ripararsi se il cielo immenso lassù fosse crollato. Dopo il ponte si diresse a nord, verso Borgholm. Era un rettilineo di diverse decine di chilometri lungo la costa occidentale, con poche auto che viaggiavano in direzione opposta, adesso che era finita la stagione turistica. Julia guardava dritto davanti a sé per evitare di dover spaziare con gli
occhi sul tavoliere desolato e sull'immensa distesa d'acqua al lato opposto, cercando di non pensare a un sandaletto con una cinghia rappezzata. Non significava niente, non doveva per forza significare qualcosa. Il tragitto dal ponte durò quasi mezz'ora. Una volta raggiunta Borgholm, c'era un solo incrocio regolato da un semaforo, e a quel punto Julia decise di svoltare a sinistra, verso il piccolo abitato sul mare. Si fermò a una pasticceria all'inizio di Storgatan, evitando in questo modo il porto e la piazza della chiesa: quella chiesa dietro cui abitava con i suoi genitori all'epoca in cui Gerlof era proprietario di una goletta e voleva stare vicino al porto. A Borgholm c'era la sua infanzia. Julia non aveva voglia di vedere se stessa arrivare di corsa dalle vie intorno alla piazza, simile a un fantasma sottile, una bimba di otto o nove anni con tutta la vita davanti. Non voleva incrociare giovani uomini che camminavano a passi distesi lungo la strada, venendole incontro e inducendola a pensare a Jens. Di rievocazioni del genere ne aveva a sufficienza a Göteborg. Quando aprì la porta della piccola pasticceria, il campanellino appeso alla traversa tintinnò. «Buongiorno.» La ragazza dietro il bancone era bionda e graziosa e sembrava molto annoiata. Ascoltò con lo sguardo perso nel vuoto mentre Julia ordinava due ciambelline alla cannella e un paio di paste alla panna e fragole ricoperte di gelatina per sé e Gerlof. Quella ragazza avrebbe potuto essere lei trent'anni prima, anche se, a dire il vero, Julia si era trasferita a soli diciotto anni e aveva fatto in tempo ad abitare e a lavorare sia a Kalmar che a Göteborg prima di compierne ventidue. A Göteborg aveva conosciuto Michael ed era rimasta incinta di Jens dopo qualche settimana soltanto, ed era stato allora che gran parte della sua irrequietezza era scomparsa per non tornare più, neanche dopo la separazione. «Non è che ci sia molta gente in giro, eh?» disse mentre la ragazza prelevava le paste dalla vetrina. «Adesso che è autunno, voglio dire.» «Già» rispose la ragazza senza sorridere. «Ti trovi bene qui?» chiese Julia. La commessa scosse brevemente la testa. «A volte. Ma non c'è niente da fare. Borgholm è viva solo d'estate.» «Chi è che lo pensa?» «Lo pensano tutti» rispose la ragazza. «Per lo meno quelli che vengono da Stoccolma.» Finì di confezionare il vassoio delle paste e glielo porse.
«Tra un po' mi trasferisco a Kalmar» aggiunse. «È a posto così?» Julia annuì. Avrebbe potuto raccontare che anche lei, da adolescente, aveva lavorato a Borgholm, in un bar vicino al porto, che anche lei a quell'epoca era annoiata e aspettava che la vita cominciasse. Poi le venne improvvisamente voglia di parlare di Jens, del proprio dolore e della speranza che l'aveva indotta a tornare. Un sandaletto in una busta. Non disse nulla. Si sentiva ronzare un ventilatore, ma a parte quel basso fruscio, nella pasticceria regnava il silenzio più assoluto. «Lei è una turista?» chiese la ragazza. «Sì... cioè no» rispose Julia. «Vado qualche giorno a Stenvik. La mia famiglia ha una casetta lì.» «Lassù è come nel Norrland, adesso» commentò la ragazza dandole il resto. «Quasi tutte le case sono vuote. Qualsiasi cosa si faccia, non si vede nessuno.» Quando Julia uscì dalla pasticceria e si guardò intorno lungo la strada erano le tre e mezzo del pomeriggio. Borgholm era una cittadina deserta. Una decina di persone in giro, qualche auto isolata che procedeva a velocità ridotta lungo le vie: non molto più di questo. Dall'altura il grande castello in rovina vegliava sulla città attraverso le orbite scure delle sue finestre. Un vento freddo spazzava le vie mentre Julia tornava alla macchina. Il silenzio era quasi sinistro. Passò davanti a un grosso pannello con alcuni manifesti appiccicati uno sopra l'altro, come in un patchwork: film d'azione americani proiettati al cinema di Borgholm, concerti rock nelle rovine del castello e vari generi di corsi serali. I manifesti erano scoloriti dal sole, con gli angoli rosicchiati dal vento. Era la prima volta, da quando era adulta, che Julia visitava l'isola in un periodo dell'anno così avanzato, durante la bassa stagione, l'epoca in cui Öland rallentava il passo. Tornò all'auto. "Sto arrivando, Jens." A nord della cittadina la distesa di erba secca del tavoliere calcareo proseguiva su entrambi i lati della strada, che in quel punto cominciava lentamente a penetrare verso l'interno, lasciandosi alle spalle la costa per inoltrarsi nel paesaggio piatto. Dai campi erano stati cavati dei massi di granito coperti di licheni, accatastati poi a formare dei muri lunghi e bassi che davano origine a una sorta di gigantesco labirinto disegnato sul tavoliere calcareo.
Sotto quel cielo immenso Julia avvertì un vago senso di agorafobia e si ritrovò a desiderare sempre più intensamente un bicchiere di vino rosso, desiderio che si fece ancora più pressante man mano che si avvicinava a Stenvik. A casa sua cercava ogni giorno di smettere, e quando guidava non beveva mai, ma in quella desolazione le bottiglie nella sua borsa finivano per configurarsi come l'unica compagnia interessante. Avrebbe voluto chiudersi a chiave da qualche parte e dedicarvisi finché non fossero finite. Procedendo verso nord incrociò solo due veicoli: un autobus e un trattore. Lungo la strada oltrepassò diversi cartelli gialli con i nomi di piccole frazioni e corti rurali, nomi che ricordava da tutti i viaggi precedenti. Li sapeva snocciolare a memoria, come una filastrocca della buonanotte. Luoghi a cui si era limitata a passare davanti, un anno dopo l'altro. Per sua madre e suo padre in estate esisteva solo Stenvik e la casetta delle vacanze che lì avevano costruito alla fine degli anni Quaranta, molto prima che i turisti scoprissero il paesino. Autunno, inverno e primavera a Borgholm, ma per Julia l'estate aveva sempre coinciso con Stenvik. E prima di andare da Gerlof a Marnäs voleva rivedere il paesino. Aveva brutti ricordi di quel luogo, ma ne aveva anche di belli, e molti. Ricordi di lunghe, calde giornate estive. Vide l'insegna gialla di lontano, Stenvik 1 km, e sotto la scritta CAMPING cancellata da una croce fatta di nastro adesivo nero. Rallentò e svoltò nella strada che portava al paese, lasciandosi il tavoliere alle spalle e cominciando a scendere verso lo stretto. Dopo cinquecento metri sbucò il primo grappolo di seconde case, tutte sprangate per l'inverno, con le tendine bianche ad avvolgimento abbassate davanti alle finestre. Poi c'era il chiosco, d'estate costante punto di incontro per gli abitanti del paese. La parte anteriore ora era sgombra da locandine, cartelloni pubblicitari e gagliardetti, e davanti alle vetrine erano stati messi dei pannelli di legno. Accanto, un cartello stradale indicava verso sud un campeggio e una pista di minigolf chiusa. Le venne in mente che il campeggio era gestito da un amico di Gerlof. La strada del paese proseguiva fino al mare, svoltava a destra sulla falesia che sovrastava la spiaggia e riprendeva a correre verso nord, con altre case estive chiuse, allineate sul lato orientale della strada. Sul lato opposto c'era la spiaggia sassosa, e la superficie dello stretto era increspata da piccole onde. Julia oltrepassò lentamente il vecchio mulino a vento che si ergeva al di sopra dell'acqua sul suo massiccio basamento di legno. Si trovava lì, isola-
to su quella roccia a una decina di metri dalla spiaggia, fin da quando Julia riusciva a tornare indietro con la memoria, ma si era ingrigito. La vernice rossa era quasi completamente scrostata e delle pale non restava che una croce di tavole di legno crepate. Un centinaio di metri oltre il mulino c'era il capanno da pesca della famiglia Davidsson. Dava l'impressione di essere molto curato, con le sue pareti di legno rosso, le finestre bianche e il tetto nero incatramato. Qualcuno doveva averlo riverniciato di recente: Lena e Richard? Julia aveva nella memoria un'immagine di Gerlof seduto a riparare le sue lunghe reti su uno sgabello davanti al capanno, in estate, e di se stessa che, insieme a Lena e ai cuginetti, correva sulla spiaggia più sotto con il pungente odore di catrame nelle narici. Ma quel giorno Gerlof si trovava lì al capanno a pulire le reti da sogliole. Da allora Julia aveva sviluppato una profonda avversione per la pesca di suo padre. Adesso davanti al capanno non c'era nessuno. L'erba secca fremeva nel vento. Una barca di legno verniciata di verde era adagiata su un fianco nel prato accanto all'edificio: era la vecchia barca di Gerlof, con lo scafo talmente secco che Julia riusciva a vedere delle striscioline chiare di cielo tra una tavola e l'altra della parte superiore. Spense il motore senza scendere dall'auto. Non aveva né scarpe né abiti adatti ad affrontare i venti autunnali dell'isola e, oltretutto, vedeva chiaramente che la porta del capanno era chiusa da una sbarra dotata di un grosso lucchetto. Le tendine ad avvolgimento erano abbassate davanti alle finestre, esattamente come nelle altre case del paese. Stenvik era deserta. Quinte: erano tutte quinte di un teatro estivo. Una triste rappresentazione, almeno per Julia. A questo punto non restava che dare un'occhiata alla casa di Gerlof, la casetta di legno che suo padre aveva costruito con le sue mani su un vecchio appezzamento di famiglia. Riaccese il motore e proseguì lungo la strada comunale, che si biforcava. Prese a destra, di nuovo verso l'interno dell'isola. Lì, a riparare le poche case abitabili anche in inverno c'era qualche macchia di alberi bassi, ma erano tutti leggermente piegati dal vento incessante, come a volersi allontanare dalla spiaggia. In un grande giardino a destra della strada principale si ergeva un'imponente casa gialla di legno che, dietro gli alti cespugli, pareva ormai pericolante. La vernice era tutta scrostata e sul tetto le tegole erano rotte e rivestite di muschio. Julia non ricordava chi fossero un tempo i proprietari della
casa, ma le pareva di non averla mai vista in buone condizioni. Tra gli alberi sulla destra si diramava una strada, stretta e percorsa, sul crinale al centro, da una striscia di erba che arrivava al ginocchio. Julia riconobbe il vialetto d'ingresso, svoltò e fermò l'auto. Poi s'infilò il cappotto e scese, sentendosi investire dall'aria fredda e frizzante, piena di ossigeno. Non regnava un silenzio assoluto lì fuori, perché il vento faceva frusciare le foglie secche degli alberi, e in sottofondo si sentiva il mormorio delle onde sulla spiaggia. Ma a parte questo non c'era un suono: né uccelli, né voci, né traffico. La ragazza della pasticceria aveva ragione: era come ritrovarsi tra le montagne del Norrland. La strada che portava alla casetta di Gerlof era breve e si fermava davanti a un basso cancello di ferro inserito in un muro di pietre. Julia aprì il cancello che cigolò appena. Entrò nel giardino. "Sono qui, adesso, Jens." La casa verniciata di marrone con gli spigoli bianchi non aveva la stessa aria sprangata della maggior parte delle altre sparse per Stenvik. Se Gerlof ci avesse abitato, però, non avrebbe mai aspettato che l'erba crescesse tanto, o lasciato che aghi gialli e foglie secche riempissero il giardino. Suo padre era preciso nel proprio lavoro e procedeva sempre in silenzio e metodicamente finché non lo aveva portato a termine. Erano stati una coppia che lavorava sodo, lui e la madre di Julia. Soprattutto Ella, casalinga tutta la vita, a volte era stata percepita da Julia come una visitatrice arrivata dall'Ottocento, da quell'epoca segnata dalla povertà in cui sull'isola non c'era tempo né energia per le risate e i sogni, e ogni pezzetto di carta da cucina doveva essere asciugato e utilizzato più volte. Ella era minuta, taciturna e compassata, e la cucina era il suo regno. Julia e Lena avevano ricevuto dalla madre una carezza sulla guancia di tanto in tanto, ma mai un abbraccio. E Gerlof era quasi sempre in mare, durante la loro infanzia. Nel giardino non si percepiva alcun movimento. Al centro del prato, quando Julia era piccola, c'era una pompa dell'acqua, una pompa alta un metro e verniciata di verde, con un grosso rubinetto e una leva elegantemente ricurva, ma adesso l'avevano tolta. Al suo posto si vedeva solo un tombino di cemento. A est della casa c'era un muro di pietre, oltre il quale cominciava il tavoliere calcareo che correva fino all'orizzonte, a oriente. Se non ci fossero stati in mezzo gli alberelli, Julia avrebbe potuto vedere la chiesa di Marnäs
svettare laggiù come una nera punta di freccia: era lì che era stata battezzata, quando aveva pochi mesi di vita. Julia Voltò le spalle al tavoliere e si avvicinò alla casa. Girò intorno a un graticcio di viti selvatiche e risalì i grossi gradini di pietra calcarea rosa che nella sua infanzia le parevano giganteschi. La scalinata si fermava davanti a una piccola veranda con una porta di legno. Julia abbassò la maniglia, ma era chiusa a chiave, com'era prevedibile. Quello era l'inizio e insieme la fine del suo viaggio. Era strano che la casetta fosse ancora lì, secondo Julia, perché dalla scomparsa di Jens erano successe tante cose nel mondo. Si erano formati nuovi stati e altri avevano cessato di esistere. Stenvik si era trasformata in un paesino praticamente disabitato per la maggior parte dell'anno, eppure quella casa, la casa che quel giorno Jens si era lasciato alle spalle, si trovava ancora lì. Julia si sedette su un gradino ed espulse l'aria dai polmoni, sospirando. "Sono stanca, Jens." Fissò una piccola raccolta di pietre che Gerlof aveva messo insieme davanti alla casa. In cima ce n'era una grigio-nera, ruvida, che lui sosteneva fosse precipitata dal cielo come un globo sfrigolante scavando un cratere alla cava, più o meno all'epoca in cui ci lavoravano il padre di Gerlof stesso e suo nonno, alla fine dell'Ottocento. Il vetusto visitatore giunto dallo spazio era striato di bianco a causa del guano degli uccelli. Jens aveva oltrepassato il meteorite, quel giorno. Si era messo i sandali, si era lasciato alle spalle la casa in cui dormiva la nonna materna ed era sceso dalla scala per poi attraversare il giardino. Quelli erano gli unici dati di fatto. Dove fosse andato a finire dopo e perché, nessuno lo sapeva. Quando era rientrata dalla terraferma, quella stessa sera, si era aspettata che Jens le corresse incontro. Invece aveva trovato ad attenderla due poliziotti, insieme a una Ella piangente e a un Gerlof dall'espressione grave. Julia aveva voglia di tirare fuori una bottiglia di vino rosso, subito. Di stare seduta sulla scalinata a bere senza interruzione e lasciarsi andare ai sogni finché non fosse scesa l'oscurità, ma si trattenne. Quinte. Anche quel giardino vuoto era per lei un palcoscenico tanto quanto il resto del paesino, ma la rappresentazione era finita da anni, erano andati tutti a casa e Julia si sentiva prigioniera di una solitudine paralizzante. Rimase immobile sulla scala per qualche minuto, finché al mormorio del mare si affiancò un altro suono. Un motore.
Era un'auto, un'auto vecchia e stanca che procedeva lentamente lungo la strada comunale. Il rumore non si allontanò. Rimase, invece, e si avvicinò. Poco dopo il motore venne spento in un punto nei pressi del giardino. Julia si alzò, si protese in avanti e scorse in mezzo agli alberi un'auto dalla forma arrotondata: una vecchia Volvo PV. Il cancelletto che dava sulla strada comunale cigolò: qualcuno lo stava aprendo. Julia si sistemò meglio il cappotto, si passò automaticamente le dita tra i capelli chiari e aspettò. I passi che risalivano verso la casa calpestando le foglie morte erano corti e pesanti. Basso e pesante era anche il vecchio che avanzò in silenzio e si fermò ai piedi della scalinata, guardando Julia con espressione accigliata. Somigliava un po' a suo padre, ma non avrebbe saputo dire perché. Forse era il berretto con la visiera, abbinato ai pantaloni cascanti e al maglione di lana color avorio, che gli conferiva un aspetto da marinaio autentico. Però era più basso di Gerlof, e il bastone su cui si appoggiava indicava che non navigava più da tempo. Aveva le mani punteggiate di graffi, vecchi e recenti. Julia ricordava vagamente di aver già incontrato quell'uomo in passato. Era uno degli abitanti permanenti di Stenvik. Quanti altri ce ne saranno stati? «Salve» esordì accennando un sorriso. «Buongiorno.» L'uomo le rivolse un cenno di saluto con la testa. Si tolse il berretto e Julia vide i radi capelli grigi pettinati a ciocche sottili sul cranio ormai quasi calvo. «Sono passata a dare un'occhiata» continuò Julia. «Eh, già... ogni tanto è meglio passare a controllare» rispose l'uomo con l'accento ölandese più marcato che Julia avesse mai sentito, un'inflessione dura nonostante la voce sommessa. «Sicuramente fa piacere anche a lui.» Julia annuì. «Pare che sia tutto a posto.» Silenzio. «Mi chiamo Julia» disse aggiungendo rapidamente, con un cenno della testa verso la casa. «Sono la figlia di Gerlof Davidsson. Vengo da Göteborg.» Il vecchio annuì, come se fosse scontato. «Sì, sì, lo so» rispose. «Io mi chiamo Ernst Adolfsson. Abito laggiù.»
Indicò un punto alle sue spalle, verso nord. «Io e Gerlof ci conosciamo. A volte facciamo una chiacchierata.» Fu allora che Julia ricordò. Quello era Ernst, il marmista. Girava per il paesino anche quando lei era giovane, già allora simile a un oggetto da museo. «Ma la cava è aperta, adesso?» chiese. Ernst abbassò lo sguardo e scosse la testa. «No, no. Non ci lavora più nessuno, ormai. Ogni tanto viene qualcuno a prendere dei blocchi di scarto... ma non si fanno più escavazioni.» «Però lei ci lavora?» chiese Julia. «Io faccio pezzi d'arte» rispose Ernst. «Sculture. Si possono anche acquistare... Stasera avrò visite, ma se passa domani, va bene.» «Ma sì, magari» disse Julia. Di sicuro non poteva permettersi di comprare niente, considerato il suo reddito da quando era in malattia, ma dare un'occhiata non costava nulla. Ernst annuì e si girò lentamente, muovendosi a passi dondolanti e incerti. Julia capì che la conversazione era finita solo quando le ebbe voltato completamente le spalle. Lei però non aveva ancora finito di parlare, così prese fiato di scatto: «Ernst, lei viveva qui a Stenvik vent'anni fa, vero?». L'uomo si bloccò e si voltò di nuovo, ma solo a metà. «Sono cinquant'anni che abito qui.» «Pensavo che...» Julia si fermò. In verità non aveva pensato affatto. Voleva fargli una domanda, ma non sapeva quale scegliere. «Mio figlio sparì, vent'anni fa» continuò con uno sforzo immane, come se si vergognasse del proprio dolore. «Mio figlio Jens... Se lo ricorda?» «Certo.» Ernst annuì brevemente, senza trasporto. «E ce ne stiamo occupando. Io e Gerlof ce ne stiamo occupando.» «Ma...» «Se vede suo padre, gli dica una cosa» continuò Ernst. «Cosa?» «Gli dica che la cosa più importante è il pollice» disse. «Non solo la mano.» Julia lo fissò. Non ci capiva niente, ma Ernst riprese a parlare: «La risolveremo, questa faccenda. È una storia vecchia, che risale addirittura alla guerra... Ma la risolveremo». Poi si voltò di nuovo e si avviò a passi corti e dondolanti. «La guerra?» chiese Julia alle sue spalle. «Quale guerra?»
Ma Ernst Adolfsson se ne andò senza rispondere. Öland, giugno 1940 Una volta scaricato per l'ultima volta alla spiaggia, il carro a forcella trainato dai cavalli viene riportato alla cava e si comincia a caricare il calcare appena tagliato e sgrezzato. È il lavoro più duro, e da sei mesi a questa parte bisogna farlo a mano, dato che i due camion della cava sono stati requisiti dallo stato per trasformarli in veicoli militari. C'è la guerra, una guerra mondiale, ma a Öland il lavoro quotidiano deve continuare come al solito. I blocchi di pietra vanno estratti dalla montagna e trasportati fino alle golette. «Forza!» grida il capo stivatore Jan Augustsson, detto Jan-Issa. Sta dirigendo le manovre dal ponte della nave Vento e fa cenno agli scaricatori dalle mani larghe, seccate e crepate dai blocchi ruvidi. Accanto a lui gli stivatori aspettano di sistemare a bordo i lastroni. La Vento è ancorata a un centinaio di metri dalla riva, a distanza di sicurezza nel caso che una tempesta dovesse investire improvvisamente la costa ölandese. A Stenvik non c'è un molo dietro cui ripararsi, e vicino a terra il fondale roccioso, poco profondo, non aspetta altro che frantumare lo scafo delle navi. I blocchi da caricare a bordo vengono trasportati su due piccole chiatte scoperte da una tonnellata. Al remo di tribordo di uno dei due barconi è seduto il barcaiolo Johan Almqvist che ha diciassette anni e da due lavora come scalpellino e rematore. A quello di babordo c'è il novellino Nils Kant. Ha quindici anni compiuti, ormai: è quasi un adulto. Sua madre gli ha dato lavoro nella cava di famiglia dopo la bocciatura all'esame di licenza media. Vera Kant ha deciso che può fare il barcaiolo nonostante la sua giovane età, ma Nils sa che, con il tempo, subentrerà allo zio materno nell'amministrazione dell'intera cava. Sa che lascerà il proprio segno profondo nella montagna. Vuole scavare tutta Stenvik. A volte, di notte, Nils sogna si sprofondare nell'acqua nera, ma di giorno è raro che pensi a suo fratello Axel che annega. Non è stato omicidio, per quanto in paese si mormori il contrario. Si è trattato di una disgrazia. Il corpo di Axel non è mai stato ritrovato: è stato risucchiato dal fondo dello stretto, come tanti altri annegati mai riemersi in superficie. Una disgrazia. L'unico ricordo di suo fratello è una foto incorniciata sul comò della ma-
dre. Il legame tra lei e Nils si è molto rafforzato, da quando è annegato Axel. Vera dice sempre che non le rimane nient'altro, e allora Nils capisce quanto lui sia importante. Le chiatte a remi aspettano di essere caricate accanto a un pontile provvisorio di legno a una decina di metri dalla riva, sul quale i blocchi di pietra vengono portati a braccia, presi dai mucchi accatastati sulla spiaggia grazie a una catena ininterrotta di abitanti di Stenvik. Sono ragazzini, donne, anziani e quei pochi uomini nel pieno degli anni che non sono stati reclutati per il servizio militare legato allo stato di emergenza preventiva. Ragazze, anche: Nils vede girare sul pontile Maja Nyman con un vestito a quadretti rossi. Sa che lei sa che lui la guarda, di tanto in tanto. La guerra incombe su Öland come un'ombra. Qualche mese prima, la Norvegia e la Danimarca sono state invase dai tedeschi senza incontrare grandi resistenze. La radio trasmette ogni giorno delle edizioni straordinarie dei notiziari. La Svezia è davvero in grado di respingere un attacco? Nello stretto sono state avvistate corazzate straniere, e a Stenvik si è sparsa più volte la voce che la parte meridionale di Öland è stata invasa. Se arrivano i tedeschi, gli abitanti dell'isola sanno che dovranno arrangiarsi da soli, perché nei secoli passati, quando sono scesi su Öland gli eserciti nemici, gli aiuti dalla terraferma non sono mai arrivati in tempo. Mai. Si dice che i militari metteranno sott'acqua alcune zone della parte settentrionale di Öland per impedire l'invasione dell'isola, il che sarebbe un brutto scherzo proprio adesso che le grandi pozze lasciate dalle inondazioni primaverili sul tavoliere calcareo sono evaporate al sole. Quando, quella stessa mattina, al di sopra della distesa d'acqua si è sentito un motore lontano, le operazioni di scarico si sono fermate, e tutti hanno scrutato inquieti il cielo coperto. Tutti tranne Nils, che si chiede che effetto faccia un vero bombardamento aereo: ordigni sibilanti che si trasformano in globi infuocati, fuoco, pianti, grida e caos? Ma sull'isola non è comparso nessun aereo e le operazioni di scarico sono ricominciate. Nils odia remare. Non che trascinare blocchi di pietra sia meglio, ma il movimento rotatorio del remo gli ha fatto venire mal di testa fin dall'inizio. Non riesce a pensare, quando è costretto a dirigere la pesante imbarcazione da carico con il remo, ed è tenuto continuamente d'occhio. Jan-Issa segue il tragitto delle due chiatte tenendosi il berretto con la visiera calato sulle sopracciglia, e intanto dirige le operazioni con le corde vocali.
«Dacci dentro, Kant!» tuona al di là della distesa d'acqua, una volta che l'ultimo blocco viene caricato dal piccolo molo. «Rallenta, Kant, attento al pontile!» urla non appena Nils imprime troppa forza al movimento del remo quando, una volta scaricato, il barcone è più facile da riportare indietro. «Più veloce, Kant!» lo richiama Jan-Issa. Nils lo guarda in cagnesco dirigendosi verso la goletta. È lui il padrone della cava. O meglio: i proprietari sono sua madre e suo zio, eppure JanIssa lo tratta come uno schiavo, fin dal primo giorno. «Caricate!» grida Jan-Issa. La mattina, quando sono cominciate le operazioni di carico, la gente chiacchierava e rideva, c'era quasi un'atmosfera festosa, ma i blocchi hanno inesorabilmente messo a tacere tutti con il loro peso e i loro spigoli duri. Ora li si trasporta con il volto grave e la schiena curva, il passo strascicato e i vestiti coperti della polvere grigia del calcare. Nils non ha nulla in contrario al silenzio: tanto, non parla mai con nessuno, se non è costretto a farlo. Di quando in quando, però, lancia un'occhiata a Maja Nyman, sul pontile. «Il carico è completo!» grida Jan-Issa quando i lastroni sono accatastati fino a un'altezza di un metro sul barcone dove si trova Nils, e l'acqua del mare gorgoglia quasi a filo del parapetto. Due scaricatori salgono a bordo e si siedono sulle cataste di blocchi, torreggiando sul ragazzino di nove anni addetto alla gottazza. Il bambino sbircia spaventato in direzione di Nils, prima di prendere il suo recipiente di legno e cominciare a tirar su acqua dal fondo che non tiene come dovrebbe. Nils si puntella con i piedi e fa leva sul remo. La chiatta si muove lentamente verso la goletta, dove l'altro barcone è appena stato scaricato. Avanti e indietro con il remo, avanti e indietro senza interruzione. Nils ha le mani che bruciano e i muscoli delle braccia e della schiena che pulsano. In questo momento desidera sentire il frastuono dei bombardieri tedeschi. Alla fine la barca urta lo scafo della nave con un tonfo sordo. A poppa i due scaricatori si mettono in movimento: si chinano, trovano la presa e cominciano a sollevare i lastroni oltre il parapetto della Vento. «Diamoci dentro!» ordina Jan-Issa dal ponte, dove se ne sta con la camicia macchiata e la pancia sporgente. I blocchi vengono sollevati oltre il parapetto, portati fino alla botola a-
perta e fatti scendere nella stiva usando una larga tavola come scivolo. Nils ha il compito di dare una mano nelle operazioni di scarico. Solleva alcune pietre, ma poi esita un secondo di troppo con un grosso blocco sul bordo, e questo ricade all'interno della barca. Gli atterra sul piede sinistro, sulle dita, e fa un male bestiale. Furibondo, solleva di nuovo il blocco e lo scaraventa oltre il parapetto senza guardare dove atterra. «Al diavolo!» borbotta rivolto al mare e al cielo, risedendosi al remo. Si slaccia la scarpa, si tasta le dita doloranti e le massaggia delicatamente. Potrebbero anche essersi rotte. Intorno a lui vengono scaricati dalla chiatta gli ultimi lastroni, e gli scaricatori saltano oltre il parapetto per completare la sistemazione nella stiva della Vento. Il rematore Johan Almqvist li segue. Nils rimane seduto nella barca con il piccolo sgottatore. «Kant!» È Jan-Issa che si sporge dal parapetto sopra di lui. «Vieni su e datti da fare!» «Mi sono fatto male» risponde Nils, sorpreso del proprio tono calmo quando un'intera squadriglia di bombardieri gli rintrona nella testa come uno sciame di api furiose. Con la stessa calma appoggia la mano sul remo. «Mi sono rotto le dita dei piedi.» «Tirati su.» Nils si raddrizza. In effetti non è che faccia poi tanto male e Jan-Issa, guardandolo, scuote la testa. «Avanti, vieni su a caricare, Kant.» Nils scuote la testa e stringe la mano sul remo. Nella sua testa le bombe fendono l'aria sibilando. Sgancia lo scalmo e solleva il remo di qualche decimetro, poi lo fa oscillare lentamente all'indietro. «Rotto le dita...» Un altro scaricatore, un ragazzo basso e dalle spalle larghe di cui Nils non ricorda il nome, si sporge dal parapetto accanto a Jan-Issa. «Ma corri a casa dalla mamma, allora!» gli dice in tono canzonatorio. «Me ne occupo io» dice il capo stivatore girando la testa verso lo scaricatore. È un errore. Jan-Issa non vede arrivare il remo di Nils. La larga pala del remo lo colpisce alla nuca. Jan-Issa emette un "uhhhh" prolungato mentre gli si piegano le ginocchia.
«Tu sei una mia proprietà!» grida Nils. In equilibrio su un piede sul bordo della barca, fa oscillare il remo una seconda volta e colpisce il capo stivatore alla schiena, guardandolo cadere oltre il parapetto come un sacco di farina. «Merda!» urla qualcuno a bordo della nave e poi, nel momento in cui Jan-Issa cade di schiena tra la chiatta e lo scafo della goletta, si sente un gran tonfo. Da terra riecheggiano delle grida, ma Nils non ci fa caso. Lo ucciderà! Solleva il remo e lo scaraventa sull'acqua colpendo le mani tese di JanIssa. Le dita si spezzano con uno schiocco secco, la testa viene proiettata all'indietro e l'uomo scompare sott'acqua. Nils lascia ricadere il remo, e mentre Jan-Issa sprofonda in un turbinio di bolle bianche, lo solleva di nuovo per sferrare un altro colpo. Qualcosa gli sfreccia accanto all'orecchio e lo centra alla mano sinistra. Le dita si frantumano prima che il dolore quasi anestetizzi la mano. Nils barcolla e il remo gli sfugge, ricadendo all'interno del barcone. Strizza gli occhi e poi alza lo sguardo. Lo scaricatore che l'ha preso in giro poco prima è al parapetto con una lunga gaffa tra le mani. Lo sguardo che punta su Nils è spaventato ma deciso. Ritira la gaffa e la solleva di nuovo, ma nel frattempo Nils è riuscito a puntellare il remo contro lo scafo della nave spingendo il barcone verso terra. Rimette il remo nello scalmo, abbandonando gli scaricatori sulla nave e Jan-Issa che sprofonda verso il fondo del mare. Poi rema, dritto verso terra, con le dita rotte della mano sinistra che pulsano doloranti. Il piccolo sgottatore è raggomitolato a prua come una polena tremante. «Tiratelo su!» urla qualcuno dietro di lui. Intorno alla nave si sentono tonfi e grida quando il corpo inerte di JanIssa viene sollevato oltre il parapetto della Vento. Una volta al sicuro, il capo stivatore vomita acqua e riprende conoscenza sotto gli scossoni dei compagni. Ha avuto fortuna, considerando che non sa nuotare. Nils è uno dei pochi del paesino a esserne capace. Lo sguardo di Nils è puntato molto più in là, verso la linea diritta dell'orizzonte. Il sole ha trovato qualche varco nella coltre di nubi laggiù e la sua luce filtra sull'acqua, facendola rilucere come un pavimento d'argento. È una bella sensazione, nonostante il dolore alla mano sinistra. Ora ha mostrato a tutti chi è il vero padrone di Stenvik. Presto sarà proprietario
dell'intera parte settentrionale di Öland e la difenderà a costo della vita, se arrivano i tedeschi. Il barcone urta il fondo e Nils solleva il remo di babordo e salta giù. È preparato, ma non lo attacca nessuno. Sul pontile gli scaricatori - donne, uomini e bambini - sono come impietriti. Lo guardano in silenzio con occhi spaventati. Maja Nyman sembra sul punto di piangere. «Andate all'inferno!» tuona Nils Kant a tutti quanti, gettando davanti a sé il remo sui sassi. Poi si gira per tornare di corsa in paese da sua madre Vera, che lo aspetta nella grande casa gialla. Ma né lei né nessun altro sanno ciò che Nils sa con assoluta certezza: che lui è destinato a grandi cose, più grandi di Stenvik, grandi quanto la guerra. Un giorno sarà famoso e rinomato in tutta Öland. Lo sente. 4 Gerlof Davidsson aspettava sua figlia nella stanza della residenza per anziani. Davanti a lui, sulla scrivania, c'era l'edizione di quel giorno dell'"ÖlandsPosten", su cui si leggeva di un ottantunenne affetto da demenza senile scomparso dalle parti di Kastlösa, nella zona meridionale di Öland. Il giorno prima l'uomo era semplicemente uscito dal suo piccolo podere per poi scomparire senza lasciare tracce, e ora la polizia e un gruppo di volontari stavano setacciando il tavoliere calcareo; perfino un elicottero si era alzato in volo per cercarlo. Ma la notte era stata fredda e non era detto che lo si sarebbe ritrovato in vita. Un vecchio affetto da demenza senile, e di ottantun anni. Gerlof era più giovane di un anno e rotti, tra poco sarebbe arrivato il suo ottantesimo compleanno. Non che fosse un'età poi così avanzata, ma sicuramente era più comprensibile che a scomparire senza lasciare traccia fossero dei vecchi che dei bambini. Chiuse il giornale e guardò l'orologio. Le tre e un quarto. «Sono contento che tu sia venuta» mormorò tra sé e sé. Fece una pausa, tossì e continuò: «Sei sempre bella come ti ricordavo, Julia. Adesso che sei qui a Öland, abbiamo alcune cose da fare. Dovrai sbrigarne diverse da sola, anche. E poi possiamo parlare... So di non essere sempre stato un bravo papà per te, durante la tua infanzia, spesso ero via e tu e tua sorella siete
state costrette a stare sole con Ella a Borgholm, quando ero in mare. Era il mio lavoro, fare il capitano e trasportare merci sul Baltico, lontano dalla famiglia... Ma adesso sono qui e non vado più da nessuna parte». Smise di parlare e fissò lo sguardo sulla scrivania. Aveva annotato sul taccuino il discorsetto che avrebbe fatto a Julia. Si preparava a pronunciarlo dal giorno in cui gli aveva comunicato la data in cui sarebbe arrivata sull'isola, e in effetti suonava poco spontaneo. Doveva riuscire a farlo sembrare il discorso di un padre che parla in maniera del tutto normale alla propria figlia. «Sono contento che tu sia venuta» ripeté Gerlof. «Sei sempre bella come ti ricordavo.» Oppure carina? Carina in effetti era una descrizione migliore, per una figlia di cui si è sentita la mancanza. Alla fine, quando erano quasi le quattro e mancava solo un'ora alla cena, si sentì bussare alla porta. «Avanti» disse, e la porta si aprì. Boel fece capolino dalla fessura. «Sì, è qui» sussurrò a qualcuno alle sue spalle, e poi, a voce più alta: «Hai visite, Gerlof». «Grazie» rispose lui, e Boel sorrise e fece un passo indietro. Un'altra donna comparve sulla soglia, avanzò di un paio di passi nell'ingressino e Gerlof prese fiato: «Sono contento che tu sia venuta...» cominciò, ma poi smise di parlare. Davanti a sé aveva una donna di mezza età, con il cappotto stazzonato, che lo fissava dall'ingresso con gli occhi stanchi e la fronte corrugata. Dopo un paio di secondi la donna distolse lo sguardo e strinse le braccia sulla borsetta marrone a tracolla quasi come uno scudo, mentre avanzava ancora di qualche passo nella stanza. Gerlof faticò a riconoscere sua figlia nel volto segnato e grave della donna: Julia appariva molto più stanca di quanto si fosse aspettato. Più stanca, e decisamente più magra. Evocava in lui amarezza e autocommiserazione. Sua figlia era diventata vecchia. Ma quanto doveva essere vecchio lui, allora? «Ciao, Gerlof» esordì Julia, e rimase in silenzio qualche secondo prima di aggiungere: «Eccomi qui, sono tornata». Gerlof annuì e prese mentalmente nota del fatto che sua figlia non aveva ancora la benché minima intenzione di chiamarlo papà, neanche quando
erano faccia a faccia. Pronunciava il suo nome con lo stesso tono di quando ci si rivolge a un lontano parente. «È andato bene il viaggio?» chiese lui. «Sì.» Si sbottonò il cappotto, lo appese a un gancio nell'ingressino e appoggiò a terra la borsa. A Gerlof parve che si muovesse lentamente, senza energia. Voleva chiederle come stava, ma forse era troppo presto. «Già.» Di nuovo silenzio. «È un bel po' che non ci si vede.» «Quattro anni, credo» precisò Julia. «Più di quattro anni.» «Sì. Però ci siamo sentiti abbastanza spesso per telefono.» «È vero. Avevo pensato di venire a dare una mano quando ti sei trasferito qui da Stenvik, ma non è stato...» Julia smise di parlare e Gerlof annuì. «È andata bene lo stesso» disse. «Mi hanno aiutato in tanti.» «Bene» rispose Julia, che nel frattempo era arrivata al centro della stanza. Poi si spostò e andò a sedersi sul letto rifatto. A Gerlof tornò in mente all'improvviso il discorsetto che si era preparato. «Adesso che sei qui abbiamo alcune cose da...» Ma Julia lo interruppe: «Dove ce l'hai?». «Cosa?» «Lo sai» continuò Julia. «Il sandalo.» «Ah, lo tengo qui nella scrivania.» Gerlof la guardò. «Ma pensavo che prima...» «Posso vederlo?» lo fermò Julia. «Ci tengo molto.» «Forse resterai delusa» disse Gerlof. «È solo una scarpa. Non ha... non ha vere risposte.» «Voglio vederlo, Gerlof.» Julia si alzò. Fino a questo momento non aveva accennato neppure all'ombra di un sorriso e ora lo guardava con un'intensità tale che Gerlof cominciò a pensare che fosse stato tutto un grande sbaglio. Forse non avrebbe dovuto telefonarle. Ma ormai aveva messo in moto qualcosa che non poteva fermare. Tuttavia cercò di rimandare il più possibile. «Non hai portato nessun altro con te?» chiese. «Perché, chi avrei dovuto portare?» «Il papà di Jens, magari» disse Gerlof. «Mats... era così che si chiamava?»
«Michael» rispose Julia. «No, abita a Malmö. Ma ormai non siamo praticamente più in contatto.» «Ah» fece Gerlof. Di nuovo silenzio. Julia avanzò di un paio di passi, ma a Gerlof venne in mente un'altra cosa. «Hai fatto quello che ti ho detto di fare al telefono?» chiese. «Cosa?» «Hai pensato a quanto era fitta la nebbia quel giorno?» «Sì... forse» Julia annuì appena. «Che cosa c'entra la nebbia?» «Non penso...» Gerlof scelse accuratamente le parole. «Non penso che sarebbe potuto accadere qualcosa... che sarebbe potuta andare com'è andata se non ci fosse stata la nebbia. E quante volte succede che ci sia la nebbia a Öland?» «Non tanto spesso» rispose Julia. «Appunto. Tre o quattro volte all'anno, forse. Per lo meno fitta come quel giorno. E sapevano in molti che sarebbe arrivata, perché era stato detto alle previsioni del tempo.» «E tu come lo sai?» «Ho telefonato all'Istituto Idrometeorologico» rispose Gerlof. «Conservano tutti i rapporti.» «La nebbia ha tutta quest'importanza?» chiese Julia. «Sì. Io credo... che qualcuno abbia sfruttato la presenza della nebbia» rispose Gerlof. «Qualcuno che non voleva essere visto da queste parti.» «Che non voleva essere visto quel giorno, intendi dire?» «Che non voleva essere visto per niente» disse Gerlof. «Dunque qualcuno avrebbe sfruttato la nebbia per... per portare via Jens?» lo incalzò Julia. «Non lo so» rispose Gerlof. «Ma mi chiedo se fosse quello lo scopo. Chi sapeva che sarebbe uscito, quel giorno? Nessuno. Giusto? Non lo sapeva neanche Jens. Lui ha solo... colto l'occasione quando gli si è presentata.» Gerlof si accorse che, nel momento in cui erano arrivati a parlare della scomparsa del figlio, Julia aveva cominciato a stringere le labbra, e così si affrettò a riprendere: «Ma la nebbia che si presentò quel giorno... era prevista». Julia non disse nulla. Guardava solo la scrivania, adesso. «Dovremmo rifletterci» continuò Gerlof. «Dovremmo riflettere su chi poteva sfruttare al meglio la nebbia quel giorno.» «Adesso posso vederlo?» chiese Julia.
Gerlof sapeva che non sarebbe riuscito a rimandare oltre. Annuì e si girò poi sulla sedia, verso la scrivania. «È qui» disse. Aprì il primo cassetto, tese una mano ed estrasse delicatamente un piccolo oggetto. Sembrava non pensare più di qualche decina di grammi, ed era avvolto in un foglio di carta velina bianca. 5 Julia si avvicinò lentamente a Gerlof, che aprì il piccolo involto sulla scrivania. Gli guardò le mani, sulle quali la vecchiaia traspariva dalle rughe, dalle macchie della pelle e dalle vene blu, quasi nerastre. Le parve che il fruscio della carta, quando il pacchettino venne aperto, fosse assordante. «Vuoi che ti aiuti?» chiese. «No, ce la faccio.» Gli ci vollero alcuni minuti per aprirlo, o forse era solo un'impressione. Alla fine sollevò anche l'ultimo lembo di carta e Julia vide cosa c'era nascosto sotto. La scarpa era infilata in un sacchettino di plastica trasparente, e lei non riusciva a staccarne lo sguardo. "Non devo piangere" pensò. "È solo una scarpa." Poi sentì che gli occhi le si riempivano di un bruciore intenso, e dovette sbattere le palpebre per scacciare le lacrime e mettere a fuoco. Vide la suola di gomma nera e le fascette di pelle marrone, secche e crepate dal tempo. Un sandalo. Il sandaletto logoro di un bambino. «Non so se sia la scarpa giusta» disse Gerlof. «Per come lo ricordo io era più o meno così, ma potrebbe essere...» «È di Jens» lo interruppe Julia con la voce impastata. «Non possiamo esserne sicuri» obiettò Gerlof. «Non va bene essere troppo sicuri. Non credi?» Julia non rispose. Lei sapeva. Si asciugò con la mano le lacrime dalle guance e poi sollevò delicatamente il sacchettino. «L'ho infilato lì dentro non appena l'ho ricevuto» continuò Gerlof. «Potrebbero esserci delle impronte digitali...» «Lo so» disse Julia. Era così leggero... Quando una mamma deve mettere al figlioletto un sandalo come quello, lo prende da terra davanti alla porta d'ingresso senza pensare al fatto che non pesa quasi niente. Poi si mette di fianco a lui e curva la schiena, avverte il calore del suo corpicino e gli prende il piede
mentre lui si attacca con la mano alla maglia della mamma e sta in silenzio o dice qualcosa, tutte quelle chiacchiere di bambini a cui si dà ascolto solo per metà perché nel frattempo si pensa ad altro: bollette da pagare, la spesa da fare, uomini assenti. «Avevo insegnato a Jens a mettersi i sandali da solo» disse Julia. «Ci era voluta tutta l'estate, ma quando in autunno cominciai a studiare, era capace.» Aveva ancora in mano il sandaletto. «Ed è stato per questo che è potuto uscire da solo quel giorno, che è riuscito ad andare via senza che nessuno se ne accorgesse... Si era messo le scarpe da solo. Se non gliel'avessi insegnato, non sarebbe...» «Non pensare così.» «Voglio dire... che gliel'avevo insegnato solo per risparmiare un po' di tempo» continuò Julia. «Tempo per me.» «Non accusare te stessa, Julia» disse Gerlof. «Grazie per il consiglio» rispose lei senza guardarlo «ma sono vent'anni che lo faccio.» Scese il silenzio e Julia si rese conto che l'immagine nella sua memoria non era più quella di piccole ossa sulla spiaggia di Stenvik. Vedeva suo figlio da vivo, quando si accovacciava tutto concentrato per mettersi i sandali da solo, con quelle piccole dita difficili da controllare. «Chi l'ha trovato?» chiese poi guardando Gerlof. «Non lo so. Mi è arrivato per posta.» «Da chi?» «Non c'era scritto il mittente» rispose Gerlof. «Era in una busta marrone con il timbro postale sbiadito. Ma credo che sia stato spedito da Öland.» «Niente lettere?» «Niente» rispose Gerlof. «E non sai chi l'abbia spedito?» «No» disse Gerlof, ma senza più guardarla negli occhi: aveva lo sguardo abbassato sulla scrivania, e non le diede altre risposte. Forse intuiva più di quanto volesse dirle. Nessuna risposta. Julia sospirò. «Ma ci sono altre cose da fare» si affrettò ad aggiungere Gerlof. Poi tacque. «Tipo?» «Be'...» Gerlof sbatté le palpebre senza rispondere e la guardò come se avesse già dimenticato il motivo per cui l'aveva invitata a venire lì.
Ma neanche Julia aveva delle idee su cosa fare adesso, e rimase in silenzio. D'un tratto si rese conto di non aver degnato neanche di un'occhiata la stanza di suo padre: era stata del tutto presa dal desiderio di vedere il sandalo, tenerlo in mano. Ora diede un'occhiata intorno. Da infermiera, notò subito dov'erano posizionati i pulsanti d'allarme sulle pareti, e come figlia si accorse che Gerlof aveva portato via da casa i propri ricordi della vita sul mare. Le targhe di legno verniciato con i nomi delle sue tre golette, Amazzone delle onde, Vento e Nore, erano appese al di sopra di altrettante foto in bianco e nero incorniciate, raffiguranti i tre piccoli bastimenti. Su un'altra parete erano appesi, protetti da un vetro, i certificati di navigazione con tanto di timbri e sigilli. Nella libreria di fianco alla scrivania erano disposti in fila i giornali di bordo rivestiti di pelle, accanto a un paio di modellini di nave lunghi una decina di centimetri che avevano finito la loro corsa in altrettante bottiglie. Era tutto in ordine e ben disposto come in un museo marittimo, spolverato e scintillante, e Julia si rese conto di invidiare suo padre che poteva starsene lì nella propria stanza con i propri ricordi, evitando di affrontare il mondo reale, dove si era costretti a fare cose, fingersi giovani e abili e dimostrare continuamente il proprio valore. Sul comodino accanto al letto di Gerlof c'erano una bibbia nera e una mezza dozzina di flaconi di pillole. Julia spostò di nuovo lo sguardo sulla scrivania. «Non mi hai chiesto come sto» mormorò. Gerlof annuì. «E tu non mi hai chiamato papà» rispose. Silenzio. «E allora, come stai?» chiese poi. «Bene» rispose Julia laconica. «Lavori ancora in ospedale?» «Certo» confermò lei senza accennare al fatto che era in malattia a tempo indeterminato. Invece disse: «Sono passata da Stenvik prima di venire qui. Ho dato un'occhiata alla casa». «Bene. E com'era la situazione?» «Come al solito. Era sprangata per l'inverno.» «Tutte le finestre erano intere?» «Sì, sì» rispose Julia «ma c'era un uomo. O meglio, è arrivato mentre io ero lì.»
«Sarà stato John» disse Gerlof. «Oppure Ernst.» «Si chiamava Ernst Adolfsson. Vi conoscete, no?» Gerlof annuì. «Fa lo scultore. È un vecchio marmista. Veramente è originario dello Småland, ma...» «Ma è un brav'uomo lo stesso, vuoi dire?» chiese Julia rapidamente. «Abita qui da un sacco di tempo» rispose Gerlof. «Sì, me lo ricordo vagamente da quando ero piccola... Prima di andarsene ha detto una cosa strana su una storia di guerra. Parlava della Seconda guerra mondiale?» «Tiene d'occhio la casa» rispose Gerlof. «Abita alla cava e raccoglie il materiale in mezzo ai blocchi di scarto rimasti lì. Prima ci lavoravano cinquanta uomini, ora c'è solo Ernst... Mi ha dato una mano a sbrogliare questa faccenda.» «Questa faccenda? Vuoi dire quello che è successo a Jens?» «Già. Ne abbiamo parlato e abbiamo fatto qualche ipotesi» rispose Gerlof, chiedendo poi: «Per quanto ti fermi?». «Be'...» Julia era impreparata alla domanda. «Non lo so.» «Rimani un paio di settimane. Sarebbe una bella cosa.» «È troppo» si affrettò a rispondere Julia. «Sai, devo tornare a casa.» «Devi proprio?» chiese Gerlof, come se fosse una sorpresa. Sbirciò in direzione del sandalo sulla scrivania e Julia seguì il suo sguardo. «Mi fermo per un po'» disse secca. «Ti darò una mano.» «A fare cosa?» «A fare... quello che serve. Per andare avanti.» «Bene» commentò Gerlof. «Allora, cosa c'è da fare?» domandò lei. «Dobbiamo parlare con delle persone... ascoltare le loro storie. Come si faceva una volta.» «Vuoi dire... diverse persone?» chiese Julia. «È stato più d'uno a farlo?» Gerlof guardò il sandalo. «Voglio parlare con certe persone qui a Öland» disse. «Penso che sappiano delle cose.» Ancora una volta non aveva dato una risposta diretta alle sue domande. Julia cominciava ad averne abbastanza e in realtà avrebbe solo voluto andarsene, ma ormai era lì e aveva perfino portato delle paste. "Rimarrò, Jens" pensò. "Qualche giorno, per te."
«È possibile avere del caffè, qui dentro?» chiese. «In genere sì» rispose Gerlof. «Allora possiamo berlo mangiando le paste» disse Julia, e pur accorgendosi di suonare sgradevolmente simile alla sua sempre previdente sorella maggiore, chiese: «Dove potrei dormire stanotte? Hai qualche idea?». Gerlof tese a fatica la mano verso la scrivania. Aprì un cassettino e frugò dentro con le dita. Si sentì un tintinnio, ed estrasse un mazzo di chiavi. «Tieni» disse. «Dormi nel capanno, stanotte... Adesso c'è la corrente elettrica.» «Ma non posso...» Julia rimase vicino al letto e guardò Gerlof. Tutto ciò che stava accadendo sembrava pianificato nei minimi dettagli. «Non ci sono dentro un sacco di reti da pesca e altra roba?» chiese. «Galleggianti e sassi e barattoli di catrame?» «Non c'è più niente, io non pesco più» rispose Gerlof. «Non pesca più nessuno, a Stenvik.» Julia prese il mazzo di chiavi. «Prima non si riusciva quasi a entrare, nel capanno, con tutta la roba che c'era dentro» disse. «Mi ricordo...» «È stato sistemato, adesso» la interruppe Gerlof. «Tua sorella ha messo a posto il capanno.» «Devo dormire a Stenvik?» chiese Julia. «Da sola?» «Il paese non è disabitato, anche se lo sembra.» Mezz'ora dopo aver concluso la visita da Gerlof, Julia era di ritorno a Stenvik e si trovava a pochi passi dall'acqua scura. Il cielo era coperto come la mattina, e popolato di ombre. Era l'imbrunire e Julia aveva voglia di un bicchiere di vino rosso, seguito da un altro. Vino, o una pastiglia. Era colpa delle onde. Le onde che quella sera sciabordavano lente sulla ghiaia e sui sassolini del bagnasciuga, ma che quando si scatenava la tempesta diventavano alte come uomini e si avventavano rombando sulla spiaggia. Potevano portare con sé qualsiasi cosa dal fondo dello stretto: pezzi di relitti, pesci morti o frammenti di ossa. Julia non voleva guardare con troppa attenzione ciò che si trovava tra i ciottoli della spiaggia. Non aveva più fatto il bagno a Stenvik, dopo quel giorno. Si girò e guardò il capanno, che appariva minuscolo e solo sul piccolo rialzo alle spalle della spiaggia.
"Così vicina a te, Jens." Julia non sapeva perché aveva preso le chiavi e accettato di dormire lì, ma per una notte poteva andare. Non aveva mai avuto particolare paura del buio, ed era abituata a stare da sola. Per un giorno o due andava bene. Poi sarebbe tornata a casa. Quando aprì il lucchetto della porta bianca del capanno Julia aveva con sé sia la borsetta che lo zaino. Un'ultima folata di vento freddo proveniente dallo stretto la spinse a entrare nella penombra. La porta sbatté chiudendo fuori di botto il sibilo del vento autunnale. Tra le pareti scese il silenzio più assoluto. Julia accese il lampadario e rimase in piedi appena oltre la soglia. Gerlof aveva ragione: il capanno non era affatto come lo ricordava. Non era più il locale di lavoro di un pescatore, ingombro di reti maleodoranti, galleggianti rotti e mucchi di edizioni ingiallite dell'"ÖlandsPosten". Dall'ultima volta che l'aveva visto, sua sorella l'aveva fatto ristrutturare completamente, arredandolo in stile rustico, con pannelli di legno piallato alle pareti e pavimento di pino verniciato. C'erano un piccolo frigorifero, un termosifone elettrico e una piastra per cucinare davanti alla finestra che dava sulla spiaggia. Sotto quella, su un tavolino, si vedeva una grossa bussola da nave, di bronzo e ottone lucido, rivolta verso terra: l'ennesimo ricordo di Gerlof degli anni trascorsi in mare. Nel capanno l'aria era secca. Sapeva solo vagamente di catrame e una volta tirate su le tendine ad avvolgimento e aperte le finestre avrebbe avuto un odore anche più gradevole. Sarebbe stato possibile dormire lì senza dover sopportare alcuna privazione, se si escludeva la solitudine totale. Probabilmente Ernst Adolfsson, giù alla cava, era il vicino più prossimo. Ernst era venuto con una vecchia Volvo PV, e in quel momento Julia sarebbe stata contenta di vederla arrivare lungo la strada comunale, ma sbirciando dalla finestra, al di sopra della bussola, non vide muoversi un bel niente là fuori, a parte l'erba sottile sulla falesia, accarezzata dal vento. Perfino i gabbiani erano spariti. Nel capanno c'erano due brandine. Su una delle due sistemò il contenuto delle sue borse: vestiti, la bustina della toilette, le scarpe di ricambio e la pila di romantici tascabili rosa, che aveva messo in fondo alla borsa e leggeva solo di nascosto. Appoggiò i libri sul comodino di fianco al letto. Sulla parete accanto alla porta era appeso uno specchietto con la cornice di legno verniciato, e Julia si soffermò a guardare il proprio viso. Aveva l'aria tirata e stanca, ma la pelle non era proprio grigia come a Göteborg.
L'intenso vento dell'isola aveva in effetti dato un po' di colorito alle guance. E adesso, cosa fare? Dopo essere andata a trovare Gerlof si era fermata a un chiosco accanto alla residenza per anziani a comprare un hot dog che, per quanto insapore, le aveva fatto passare la fame. Leggere? No. Scolarsi il vino che si era portata? No, non ancora. Decise di andare in esplorazione. Julia uscì dal capanno e tornò lentamente alla spiaggia per poi proseguire verso sud, lungo la riva. Le riusciva sempre più facile avanzare sui ciottoli man mano che riacquistava, almeno in parte, il senso d'equilibrio che aveva da scolaretta a Stenvik, quando saltellava in giro per la spiaggia dalla mattina alla sera senza mai scivolare. Poco di lato rispetto al capanno c'era ancora Occhiogrigio, anche se le onde e i ghiacci invernali l'avevano lentamente spostato verso il mare. Era un macigno bislungo, alto un metro circa, che somigliava alla groppa di un cavallo. Un tempo Julia lo considerava il suo masso personale, e ora, passando, lo accarezzò con la mano. Pareva essere sprofondato nel terreno, con il passare degli anni. Anche il mulino sembrava più piccolo. Era l'edificio più alto di Stenvik, quel vecchio mulino a vento che si trovava a picco sulla falesia, un paio di centinaia di metri a sud del capanno. Ma avvicinandosi si accorse che le rocce erano troppo scoscese per riuscire ad arrivarci. A sud del mulino, nella parte più interna della baia, c'erano diversi capanni da pesca, e lì, d'estate, veniva posizionato il lungo pontile da cui si tuffavano i bagnanti di Stenvik. In quel momento non si vedeva anima viva, neanche una. Julia salì sulla strada e proseguì verso nord, ripassando davanti al capanno di Gerlof. Si fermò e spaziò con lo sguardo sulla distesa d'acqua, in direzione della terraferma. Lo Småland era solo una sottile striscia grigia all'orizzonte. Sul mare non si vedevano imbarcazioni. Julia si voltò lentamente per abbracciare con lo sguardo tutto l'ambiente circostante, come se quel paesaggio costiero fosse un enigma che poteva risolvere, se solo avesse individuato i dettagli giusti. Se era vero quanto tutti temevano, se Jens era riuscito a scendere fino al mare, allora quella sera aveva camminato lì nella nebbia. Avrebbe potuto cercare le sue tracce ora, ma naturalmente era già stato fatto. Aveva cerca-
to lei, aveva cercato la polizia, tutti a Stenvik avevano cercato. Julia riprese a camminare, e dopo una passeggiata di qualche centinaio di metri arrivò alla cava. Era chiusa, ovviamente. Nessuno estraeva più pietra calcarea dalla montagna. Su un'insegna di legno rivolta verso la strada che correva lungo la costa, con la vernice scrostata che si staccava a scaglie, si vedeva la scritta STEN IK STENE SPA. Una strada secondaria svoltava in direzione del tavoliere, ma sia quella che il paesaggio giallo-marrone s'interrompevano all'improvviso davanti a una profonda cavità. Julia si avvicinò al ciglio roccioso che scendeva ad angolo retto verso il fondo. La cava non poteva essere più profonda di quattro o cinque metri nel punto più alto, ma superava in ampiezza diversi campi da calcio affiancati. Erano secoli che gli abitanti dell'isola tagliavano la pietra in quella zona, penetrando sempre più in profondità nell'antica roccia sedimentaria, ma Julia ebbe come l'impressione che un bel giorno tutti avessero smesso di lavorare da un momento all'altro e fossero tornati a casa per sempre. In mezzo alla ghiaia erano ancora allineati diversi blocchi già tagliati. Al lato opposto della cava c'erano delle alte figure chiare disposte sul tavoliere: era buio e la distanza era troppa perché potesse vedere dei particolari, ma dopo un po' Julia si rese conto che erano statue o, per lo meno, sembravano una serie di opere d'arte di pietra di varia misura. Proprio sul ciglio dello scavo si ergeva un grosso blocco di pietra ad altezza d'uomo, con la cima a punta, simile a un campanile medievale. Una copia della chiesa di Marnäs, forse. Capì che quelle che stava guardando erano le sculture di Ernst Adolfsson. Dietro i blocchi allineati si vedeva una casa di legno, simile a un cubo rosso scuro in mezzo al tavoliere, tra alberi bassi e cespugli di ginepro, e accanto era parcheggiata la Volvo tondeggiante di Ernst. Diverse finestre erano illuminate. Julia decise di esaminare più da vicino le sculture la mattina dopo, prima di andare via da Stenvik. Da lì riusciva a vedere anche Blå Jungfrun, la "Vergine azzurra", una collinetta grigio-blu all'orizzonte. Blåkulla, "Colle azzurro" era l'altro nome dell'isola su cui, secondo la leggenda, le streghe si riunivano per far bagordi con Satana. Non ci abitava nessuno, l'intera Blå Jungfrun era parco nazionale, ma la si poteva raggiungere con i battelli che organizzavano gite di qualche ora. Julia ci era stata da piccola in una giornata di sole con Le-
na, Gerlof ed Ella. Sulle spiagge dell'isoletta c'erano un sacco di bellissimi sassi tondi, ma Gerlof l'aveva avvertita di non portarne via neanche uno: era di malaugurio, e lei aveva ubbidito. Eppure nella vita aveva avuto sfortuna ugualmente. Voltò le spalle all'isola delle streghe e tornò verso il capanno. Venti minuti più tardi era seduta sulla brandina e ascoltava il vento. Non si sentiva stanca. Verso le dieci cercò di cominciare a leggere uno dei libri rosa che si era portata, dal titolo Il segreto del maniero, ma procedeva a rilento. Chiuse il libro e rimase a fissare la vecchia bussola sul tavolo sotto la finestra. Avrebbe potuto essere a Göteborg, adesso, seduta al tavolo della cucina con un bicchiere di vino rosso davanti e lo sguardo sui lampioni che illuminavano la via deserta. A Stenvik il buio era compatto. Era uscita per fare pipì scivolando sui sassi e si era quasi persa nell'oscurità a pochi metri dal capanno. Non vedeva neanche il mare poco più sotto, sentiva solo lo sciabordio delle onde e il rumore dei sassi che si urtavano quando l'acqua raggiungeva la spiaggia. Guardando in alto si intuivano rapidi movimenti nel cielo nero attraversato da spesse nubi cariche di pioggia, simili a spiriti maligni che incombevano sull'isola. Mentre stava accovacciata al buio, Julia prese involontariamente a pensare allo spettro comparso su quella spiaggia una notte all'inizio del Novecento. Ricordò una delle storie raccontate dalla nonna paterna, Sara, al crepuscolo: di come suo marito fosse sceso in spiaggia con i fratelli in una sera ventosa per tirare in secca, al sicuro dalle onde di tempesta, le loro barche. Mentre si trovavano davanti all'acqua spumeggiante, impegnati a tirare e strattonare le barche di legno, all'improvviso dall'ombra era uscita una figura, un uomo che indossava una pesante cerata, il quale aveva cominciato a tirare una delle barche in direzione opposta, verso il mare. Il nonno aveva cominciato a gridargli contro, e quello aveva risposto urlando in uno svedese alquanto stentato, ripetendo continuamente una parola: «Saaremaa!» gridava. «Saaremaa!» I pescatori avevano tenuto duro, e all'improvviso quello strano essere si era voltato, gettandosi tra le onde rumoreggianti, per poi scomparire nella tempesta senza lasciar traccia di sé.
Julia si affrettò a finire di fare pipì lungo il sentiero davanti al capanno e a rientrare al calduccio chiudendo a chiave la porta alle proprie spalle. Solo allora si ricordò che lì non c'era acqua corrente: avrebbe dovuto salire alla casa a riempirne una tanica. Tre giorni dopo la violenta tempesta era giunta una notizia dalla punta settentrionale di Öland: tre giorni prima una nave si era incagliata dalle parti di Böda ed era stata fatta a pezzi dalle onde. La nave proveniva dall'isola estone di Saaremaa. Tutti i membri dell'equipaggio erano annegati nella tempesta, e dunque il marinaio che i pescatori di Stenvik avevano incontrato e con cui avevano parlato a quell'ora doveva essere morto. Morto annegato. La nonna aveva annuito lenta guardando Julia, al crepuscolo. Uno spettro della spiaggia. Julia credeva a quella storia. Era ben raccontata, e lei credeva a tutte le vecchie storie che aveva ascoltato al crepuscolo. In qualche punto della costa sicuramente il marinaio annegato stava ancora vagando, solo e perso. Julia non voleva più uscire, quella sera. Non aveva la minima intenzione di andare a prendere l'acqua, e rinunciò a lavarsi i denti. Sulle finestre del capanno c'erano delle grosse candele rosse. Prima di stendersi sul letto ne accese una con il suo accendino, e lasciò che si consumasse per un po'. Una candela per Jens, accesa anche per sua madre. Alla luce della fiammella prese una decisione: quella sera, niente bicchieri di vino né sonniferi. Avrebbe lottato contro il dolore. Tanto, c'era dappertutto, non solo a Stenvik. Appena incontrava un ragazzino per strada le capitava ancora di sentirsi sopraffare dalla sofferenza. Vedendo la sua piccola rubrica sul letto accanto al vecchio cellulare di Lena, d'impulso prese in mano entrambi, cercò un numero tra le pagine e lo compose. Funzionava. Si sentirono due squilli, poi tre e quattro. Infine rispose una voce maschile, profonda. «Pronto?» Erano già le dieci e mezzo di un normale giorno feriale. Julia aveva chiamato troppo tardi, ma non poteva non continuare. «Michael?» «Sì?» «Sono Julia.» «Ah... ciao, Julia.»
Suonava più stanco che sorpreso. Lei cercò di immaginarsi che aspetto potesse avere adesso, ma non riuscì a creare un'immagine nella propria mente. «Sono a Öland. A Stenvik.» «Mmh... Be', io sono a Malmö, come al solito. Stavo dormendo.» «So che è tardi» rispose Julia. «Volevo solo dirti che è saltata fuori una nuova pista.» «Una pista?» «Riguardo a nostro figlio» spiegò. «Jens.» Michael rimase in silenzio per qualche secondo. «Ah» disse poi. «E così sono venuta qui... Ho pensato che volessi saperlo. Probabilmente non è una pista importante, ma forse è possibile...» «Come stai, Julia?» «Bene... Posso farmi viva, se succede qualcos'altro?» «Sì, fallo» disse lui. «Il mio numero ce l'hai ancora, a quanto pare. Ma magari telefona un po' più presto, la prossima volta.» «Okay» rispose lei velocemente. «Ciao.» Michael riattaccò e il cellulare tacque. Julia rimase lì seduta, tenendolo in mano. Bene. Ora aveva avuto la conferma che funzionava, ma anche di aver scelto la persona sbagliata a cui telefonare. Michael era andato per la propria strada da molto tempo, addirittura prima che si separassero. Fin dall'inizio si era convinto che Jens fosse sceso in spiaggia e fosse annegato. A volte le era capitato di odiarlo per quella sua sicurezza, a volte, invece, era solo stata spasmodicamente invidiosa di lui. Quando, qualche minuto più tardi, Julia ebbe spento la candela e si fu stesa nel letto, ancora in pantaloni e maglione, si scatenò l'acquazzone che per tutta la sera era rimasto sospeso nell'aria. Esplose di punto in bianco, sotto forma di un tamburellio serrato e furibondo sul tetto di lamiera del capanno. Stesa nel buio, Julia sentì che lungo il pendio lì fuori cominciavano a formarsi dei rivoli d'acqua. Sapeva che il capanno sarebbe rimasto dov'era, aveva sempre retto a tutte le tempeste più violente, e così chiuse gli occhi e si addormentò. Non si accorse che, mezz'ora dopo, la pioggia cessò. Non sentì dei passi
aggirarsi nel buio intorno alla cava. Non sentì nulla. Öland, maggio 1943 Nils è stato padrone della spiaggia, poi padrone di Stenvik, ora è padrone di tutto il tavoliere calcareo intorno al paesino. Quando sua madre non ha bisogno del suo aiuto in casa o in giardino, lo percorre a lunghi passi, ogni giorno. Immerso nella luce gialla del sole avanza in mezzo alla steppa ölandese con uno zaino in spalla e il fucile da caccia tra le mani. Le lepri spesso se ne stanno nascoste in mezzo alla sterpaglia finché non credono di essere state individuate: a quel punto escono precipitosamente allo scoperto, e allora bisogna essere pronti a puntare il fucile. Nils è sempre all'erta, mentre va a caccia. Da quando sua madre, dopo il litigio con Jan-Issa qualche anno prima, gli aveva detto che non poteva più lavorare alla cava, il suo mondo si è ridotto alla casa e al tavoliere. Nessuno degli altri scalpellini lo voleva intorno. Ma a Nils non importa, tanto si sarebbe rifiutato di tornare in mezzo alle pietre, e anche di chiedere scusa. L'unica cosa che lo infastidisce è che sua madre abbia dovuto pagare il salario a Jan-Issa per le settimane in cui il capo stivatore non ha potuto lavorare, mentre le dita rotte guarivano. Era stata tutta colpa sua, per la miseria! Anche a Nils è rimasto un ricordino di quella colluttazione: due dita rotte alla mano sinistra. Si era rifiutato di andare dal medico a Marnäs, nonostante il dolore, e così si sono saldate male, curvandosi verso l'interno, tanto che gli risulta difficile piegarle. Non fa niente, tanto non è mancino, e riesce lo stesso a tenere il fucile. La gente del paese lo evita, adesso, ma neanche questo gli importa. Le rare volte che, mentre si dirigeva verso il tavoliere, ha visto Maja Nyman sulla strada comunale, lei si è limitata a guardarlo, in silenzio come tutti gli altri. Maja ha dei grandi occhi azzurri, ma Nils se la cava benone senza di lei. Sua madre gli ha regalato il fucile Husqvarna a doppia canna per tenergli compagnia. E lui le porta tutte le lepri che uccide, così fa a meno di farsi fregare pagando troppo cara la carne dai contadini del paese. Il campanile bianco di Marnäs si staglia all'orizzonte, a est, ma Nils non ha bisogno di punti di riferimento. Ha imparato a orientarsi nel labirinto di lunghi muretti di pietre, blocchi di roccia, cespugli e sconfinati campi erbosi del tavoliere.
Di fronte a sé, un po' spostato di lato, ha il tumulo votivo, l'alto mucchio di pietre che funge da monumento commemorativo sul luogo in cui un garzone impazzito aveva ucciso un prete o un vescovo, diversi secoli prima che Nils nascesse. La gente che passa di lì aggiunge ancora un sasso al mucchio, a volte. Nils non lo fa mai, ma è un buon posto per sedersi e mangiare il suo pranzo al sacco. E adesso si ferma, ci pensa su un attimo e avverte un vago languorino in fondo allo stomaco. Si avvicina al tumulo, sposta qualche pietra smussata e poi si siede con il fucile a fianco e lo zaino sulle ginocchia. Lo apre e trova due panini al formaggio e due al salame, avvolti nella carta oleata, e una bottiglietta di latte ancora appannata. È stata sua madre a metterci dentro tutta quella roba; quanto a Nils, ha solo riempito, senza chiederle il permesso, la fiaschetta piatta di rame che tiene nella tasca del gilet con il cognac che lei ripone sempre in fondo al ripiano più basso della dispensa, contro la parete. Nils inaugura il pranzo al sacco aprendo la fiaschetta e bevendo un lungo sorso che gli diffonde in gola un piacevole senso di calore. Poi apre l'involto dei panini. Mangia e beve con gli occhi chiusi e lascia correre i pensieri. Sta rimuginando sulla caccia. Oggi non ha ancora preso neanche una lepre, ma ha davanti tutto il pomeriggio. Poi pensa alla guerra che riempie ancora i notiziari non appena si accende la radio. La Svezia non è stata attaccata, anche se nell'estate del 1941 tre cacciatorpedinieri tedeschi sono entrati per errore in una zona minata al largo della parte meridionale di Öland, saltando in aria. Più di cento soldati di Hitler sono finiti in acqua e sono annegati o morti in mezzo al gasolio in fiamme. E l'estate successiva molti ölandesi si erano convinti che la guerra fosse definitivamente arrivata quando un bombardiere tedesco, per qualche oscuro motivo, aveva sganciato otto bombe nel bosco sottostante le rovine del castello di Borgholm. Le esplosioni si erano sentite fino a Stenvik. Nils era stato svegliato da quei botti sordi e aveva scrutato fuori dalla finestra buia con il cuore che batteva forte; avrebbe potuto giurare di aver sentito i motori dell'aereo mentre si allontanava dall'isola. Forse era un Messerschmitt. Aveva teso le orecchie augurandosi altre esplosioni, una pioggia di bombe intorno a Stenvik. Invece l'invasione tedesca non c'era stata, e adesso è troppo tardi perché
Hitler possa fare qualcosa. Nils ha letto sull'"Ölands-Posten" le cronache sulla grande capitolazione di Stalingrado nel corso del gelido inverno dell'inizio di quell'anno. Hitler sembra ormai destinato a perdere. Nils sente un nitrito alle sue spalle. Apre gli occhi e gira la testa. Dietro di lui ci sono diversi cavalli. Quattro giovani esemplari bianchi e marroni si sono fermati dietro il tumulo votivo, e ora lo stanno oltrepassando, tracciando al trotto un arco intorno a lui, con la testa abbassata e nuvole di polvere sottile intorno alle zampe. Gli zoccoli calpestano l'erba quasi senza far rumore. Cavalli. Si muovono in branchi dove vogliono, sul tavoliere calcareo. Un paio di volte, mentre Nils si guardava intorno in cerca di lepri senza badare a dove metteva i piedi, è capitato che finisse in pieno con gli stivali nei loro escrementi, simili a piccoli tumuli votivi marroni sparsi qua e là. Questo piccolo branco pare diretto a una meta precisa, ma quando Nils emette un breve fischio e infila la mano sinistra nello zaino, il capobranco rallenta e si volta verso di lui. Tutti i cavalli si fermano in fila e lo guardano. Uno di loro si abbassa ad annusare l'erba gialla, ma non la mangia. Stanno aspettando qualcosa di più appetitoso. Nils tiene la mano nello zaino e fa frusciare la carta oleata ormai vuota, per poi appoggiare lentamente la mano destra accanto a sé, sui sassi del tumulo votivo. I cavalli esitano, annusano l'aria e grattano il terreno con gli zoccoli. Nils fa frusciare di nuovo la carta, e a quel punto il capobranco dal mantello scuro fa un passo cauto in direzione di Nils. Gli altri lo seguono lentamente, avvicinandosi al tumulo, con le narici che fremono appena. Lo stallone si ferma di nuovo, a cinque metri di distanza. «Vieni a prendere la pappa, dai» dice Nils con un sorriso teso. Le lepri non si possono adescare in questo modo, solo i cavalli. Il capobranco scuote la grossa testa e sbuffa emettendo un basso nitrito. Poi avanza di un paio di passi, e a quel punto Nils solleva rapidamente la mano destra dal tumulo e scaglia la prima pietra. Centro! Il frammento smussato di calcare colpisce in pieno muso l'animale, che arretra come per una scossa elettrica. Indietreggia atterrito, urtando il cavallo dietro di lui, e poi gira su se stesso accecato dal panico, e in quel momento Nils si alza e lancia il secondo sasso. È più piatto e affilato e fende l'aria come la lama di una sega. Colpisce al fianco lo stallone, che nitrisce forte, spaventato: adesso tutti i
cavalli capiscono il pericolo. Partono al galoppo verso il tavoliere, con gli zoccoli che risuonano sul terreno, e scompaiono tra i cespugli. Nils sente di avere poco tempo e la terza pietra finisce per volare troppo a sinistra. Male. Si china rapidamente, ma il quarto lancio risulta corto. L'ultima cosa che vede è comunque una stria scintillante di sangue rosso sul mantello del capobranco, lungo il. fianco destro. La ferita è profonda, ci vorranno diversi giorni prima che si rimargini. Nils cercherà di ritrovare la pietra che ha provocato il taglio, prima di andare a casa, per vedere se è macchiata di sangue. Il rimbombo della fuga selvaggia dei cavalli si spegne. Sul tavoliere è tornato a regnare il silenzio. Nils tira il fiato e si risiede sul tumulo votivo, facendo un sorrisino al pensiero di quanto è apparso ridicolo lo sguardo inebetito del cavallo quando l'ha colpito con la prima pietra. "Cavalli della malora." Nils ha dimostrato chi è il padrone del tavoliere intorno a Stenvik. Continua a sorridere tra sé e sé e si rimette lo zaino in spalla. Chissà se la mamma ha messo qualche caramella al latte sul fondo? 6 Alla residenza di Marnäs era sera. Gerlof, seduto davanti alla scrivania, aveva davanti a sé il suo taccuino e teneva in mano una biro, ma senza scrivere. Quando stava seduto davanti al ripiano in quel modo, gli capitava di autoconvincersi di non essere poi così vecchio come pensava e di avere ancora un bel po' di energie: tra un minuto si sarebbe alzato su un paio di gambe robuste, le avrebbe sgranchite per bene e sarebbe partito. Uscire. Scendere alla spiaggia di Stenvik, spingere in acqua la barca e remare fino alla nave che aspettava poco più al largo. Levare l'ancora, issare le vele e partire per il mondo. Gerlof era sempre stato affascinato dalla consapevolezza che dalle acque ölandesi un capitano potesse raggiungere qualsiasi costa volesse. Con un po' di fortuna, molta abilità, le attrezzature giuste e ingenti quantità di provviste a bordo si poteva navigare da Öland a qualsiasi porto nel mondo e poi tornare a casa. Straordinario. Che libertà. Qualche minuto più tardi in corridoio suonò la campanella della cena, e Gerlof si ritrovò nuovamente prigioniero del suo corpo fiacco. Le gambe erano rigide, e le braccia non avrebbero mai più avuto la forza necessaria
per issare le vele. Erano passati in fretta gli anni sul mare. E in realtà non erano poi stati tanti. Verso la fine degli anni Venti Gerlof aveva cominciato come secondo di suo padre sul ketch Ingrid Maria e cinque anni più tardi, quando il padre aveva lasciato l'attività per diventare mediatore marittimo, aveva rilevato l'imbarcazione ribattezzandola Vento e aveva assunto l'incarico di trasportare legna e materiali legnosi dallo Småland a Öland. A ventidue anni si era ritrovato capitano. Durante la Seconda guerra mondiale aveva prestato servizio come pilota al largo di Öland. Per due volte era stato costretto a veder affondare, con equipaggio e tutto, una nave il cui capitano era convinto di conoscere una via più sicura di quella seguita dalla nave pilota per attraversare la zona minata. In quegli anni Gerlof aveva vissuto nel costante terrore delle mine. In un incubo che certe notti lo faceva ancora svegliare di colpo, bagnato di sudore freddo, si trovava in piedi affacciato al parapetto della nave pilota, molto al di sopra del mare luccicante al tramonto, e guardava giù, vedendo all'improvviso una grossa mina nera sotto il pelo dell'acqua. Vecchia, arrugginita e coperta di alghe, ma munita di punte che solo qualche secondo più tardi avrebbero urtato lo scafo innescando la carica esplosiva. La nave non si poteva fermare e si avvicinava in silenzio alle punte... e invariabilmente, appena prima che lo scafo urtasse la mina, Gerlof si svegliava. Dopo la guerra aveva comprato la sua seconda imbarcazione da carico, l'Amazzone delle onde, e aveva cominciato a fare la spola tra Borgholm e Stoccolma lungo il canale di Södertälje. Il carico era rappresentato all'andata dal marmo di Öland, cioè la pietra calcarea rossa destinata ai cantieri della capitale, e al ritorno da carburante, collettame o gesso per il Consorzio di Borgholm. Nei porti lungo la rotta c'erano sempre imbarcazioni che si conoscevano, e chi aveva bisogno di assistenza la trovava dai colleghi. Non c'era concorrenza a quell'epoca, e Gerlof aveva ricevuto un aiuto prezioso la notte del dicembre 1951, quando l'Amazzone delle onde aveva preso fuoco mentre era all'ancora dalle parti di Ängsö. Si era incendiato il carico di olio di lino, e Gerlof e il suo secondo, John Hagman, erano saliti sul ponte giusto in tempo prima che il fuoco divorasse l'intera imbarcazione. Nessuno dei due sapeva nuotare, ma un altro piccolo bastimento proveniente da Oskarshamn era ancorato lì vicino, ed erano riusciti a salire a bordo di quello, ricevendo tutto il sostegno di cui avevano bisogno. Pur-
troppo per l'Amazzone delle onde non c'era stato altro da fare che tagliare la cima dell'ancora e lasciare che andasse alla deriva nel buio. Per Gerlof il piccolo bastimento che, bruciando, veniva inghiottito dalla notte invernale rappresentava il simbolo più adeguato del commercio marittimo ölandese, per quanto all'epoca non l'avesse capito con la stessa lucidità. Avrebbe potuto cessare l'attività dopo essere stato assolto nell'inchiesta seguita all'incendio. Invece, per pura sfida, con i soldi dell'assicurazione aveva comprato una nuova nave a motore, continuando a fare il capitano per altri nove anni. La Nore era stata la sua ultima nave, e anche la più bella: elegante, con una splendida poppa e un motore a testa calda che scoppiettava deliziosamente. A volte, subito prima di addormentarsi, Gerlof sentiva ancora il suo pulsare ritmato. Nel 1960 aveva venduto la Nore ed era sbarcato per lavorare negli uffici comunali di Borgholm, e così era cominciata la sua vita sedentaria dietro una scrivania. Il vantaggio era, naturalmente, che poteva tornare a casa da Ella tutte le sere. Si era perso gran parte dell'infanzia delle figlie, ma per lo meno da quel momento in poi aveva avuto la possibilità di vederle crescere da adolescenti. E quando alla fine degli anni Sessanta la figlia minore, Julia, era rimasta incinta, a Gerlof non aveva fatto né caldo né freddo che fosse sposata o no: adorava quel bambino. Il suo nipotino. Jens Gerlof Davidsson. E poi era arrivato quel giorno. Era autunno, ma all'epoca Julia frequentava la scuola per infermiere a tempo parziale e si era potuta fermare con Jens a Öland più a lungo del solito. Il padre di Jens, Michael, era rimasto sulla terraferma. Dopo pranzo, Julia aveva affidato il figlio a Ella e Gerlof per tornare verso Kalmar valicando il ponte appena costruito. Bevuto il caffè, Gerlof aveva lasciato la moglie e Jens, senza esitazioni e senza cattivi presentimenti, scendendo a districare delle reti da pesca che aveva intenzione di calare in acqua la mattina dopo. Una volta raggiunto il capanno, aveva notato la nebbia risalire dallo stretto di Kalmar: la più fitta che avesse visto dall'epoca in cui andava per mare. Quando era arrivata sulla spiaggia, l'aveva avvertita sulla pelle, simile a una cortina fredda, ed era stato scosso da un brivido, come se si fosse trovato sul ponte di una nave, al gelo. Qualche minuto dopo tutto il mondo intorno a lui si era trasformato in una foschia lattiginosa che impediva di vedere a un palmo dal naso. Sarebbe dovuto rientrare, a quel punto, sarebbe dovuto tornare da Ella e
Jens. E aveva soppesato la possibilità di farlo. Ma era rimasto al capanno e aveva continuato a lavorare alle reti ancora per un'oretta. Così era stato. Ma poiché si era fermato al capanno e aveva un ottimo udito, sapeva una cosa di cui non era riuscito a convincere nessun altro, eccetto forse Julia: quel giorno Jens non era sceso fino al mare, perché se così fosse stato, lui l'avrebbe sentito. I rumori erano leggermente attutiti dalla nebbia, ma si udivano. Jens non era annegato come credeva la polizia, e il corpo non era stato risucchiato verso il fondo dello stretto di Kalmar. Jens era andato da qualche altra parte, non nell'acqua. Gerlof si allungò sul ripiano e scrisse una sola frase: IL TAVOLIERE CALCAREO È COME UN MARE. Proprio così. Là in mezzo poteva accadere qualsiasi cosa, senza che nessuno se ne accorgesse. Appoggiò la penna sulla scrivania e chiuse il taccuino, e quando aprì il cassetto vide di nuovo il sandalo avvolto nella carta velina, e accanto un libriccino pubblicato pochi mesi prima. Era un opuscolo commemorativo di sessanta pagine dal titolo I quarant'anni della Malm Spedizioni sulla copertina. Sotto il titolo era raffigurata una nave da carico. Gli era stato prestato da Ernst nel corso della sua ultima visita, due settimane prima. «Questo potrebbe servire» aveva detto. «Guarda a pagina diciotto.» Gerlof prese il libro, lo aprì e lo sfogliò fino a quella pagina. In fondo, sotto il testo, c'era una piccola foto in bianco e nero che aveva già esaminato con attenzione più e più volte. La foto era vecchia. Ritraeva un molo di pietra di un piccolo porto, su cui era accatastata una partita di lunghe assi. Dietro il mucchio di tavole, un po' di lato, si vedeva la poppa nera di un'imbarcazione a vela non troppo grande, simile a quelle un tempo comandate da Gerlof, e di fianco alla catasta si era messo in posa un gruppo di operai con abiti da lavoro scuri e il berretto con la visiera in testa. Davanti, a gambe divaricate, c'erano due uomini, uno dei quali con la mano amichevolmente appoggiata sulla spalla dell'altro. Gerlof fissò gli uomini che a loro volta lo fissarono dalla pagina. Si sentì bussare alla porta. «È l'ora del caffè serale, Gerlof» disse la voce di Boel. «Arrivo» rispose, spostando indietro la sedia. Poi si alzò stentatamente dalla scrivania, ma faticò a distogliere lo
sguardo dagli uomini nella foto del libro commemorativo. Nessuno di loro sorrideva, e neanche Gerlof sorrise guardandoli. Dopo l'ultima conversazione con Ernst era praticamente sicuro che uno degli uomini su quella vecchia foto fosse responsabile della morte del suo nipotino Jens, e che ne avesse poi occultato il cadavere. Solo che non sapeva quale. Con un sospiro sommesso chiuse il libro e lo rimise nel cassetto della scrivania. Poi afferrò il bastone e uscì lentamente per andare a bere il caffè. 7 A Öland l'alba arriva sotto forma di una luce silenziosa e abbagliante che risale dalla linea diritta dell'orizzonte, ma quella mattina d'ottobre Julia dormì ben oltre il sorgere del sole. Davanti a tutte e tre le finestre del capanno di Gerlof erano appese delle tendine a rullo che un tempo erano di un colore rosso scuro, sbiadito ormai dal sole fino a diventare rosa pallido. Poco prima delle otto e mezzo si allentò un gancio di quella più vicina al letto di Julia: la tendina si avvolse di scatto con un rumore improvviso che nel silenzio risuonò come un tuono. Julia aprì gli occhi. Non era stato lo schianto a svegliarla, ma il sole che improvvisamente aveva inondato la stanza da est. Sbatté le palpebre e sollevò la testa dal cuscino caldo. Vide fuori dalla finestra l'erba giallognola dell'autunno piegata dal vento e ricordò dove si trovava. Vento forte e aria tersa. "Stenvik" pensò. Sbatté di nuovo le palpebre e cercò di tenere su la testa, ma le ricadde subito nell'incavo del cuscino. Al mattino era lenta, ma lo era da sempre, e negli ultimi vent'anni spesso l'oblio del sonno l'aveva alquanto tentata. Le depressioni seguite a quel giorno l'avevano indotta a sprecare dormendo una fetta di vita molto più consistente del dovuto. Era difficile alzarsi alla mattina quando non se ne vedeva il motivo. Alzarsi a Stenvik risultava ancora più arduo, dato che non c'era un bagno riscaldato verso cui barcollare. Davanti al capanno non l'aspettava altro che una spiaggia sassosa e dell'acqua gelida. Julia ricordava vagamente un tamburellio di pioggia intensa durante la notte, ma ora si sentivano solo le onde. Quello sciabordio ritmico la indusse a soppesare la possibilità di alzarsi di scatto, strapparsi di dosso i vestiti e correre giù a gettarsi in acqua, ma la voglia le passò subito.
Rimase stesa per qualche minuto sulla stretta branda, poi si alzò. Fuori l'aria era fredda e umida e il vento soffiava ancora, ma la Stenvik che vide una volta infilata la giacca e aperta la porta del capanno non era lo stesso paesaggio spettrale della sera precedente. La pioggia torrenziale della notte sembrava aver spazzato via tutto il grigiore: era tornato a splendere il sole e la costa rocciosa dell'isola era pulita, austera e splendida. L'insenatura che dava nome a Stenvik, letteralmente "cala di pietra", non era profonda: piuttosto, una piccola baia arrotondata, scolpita dall'acqua scintillante dello stretto, che si estendeva ai due lati del capanno. A duecento metri dalla spiaggia i gabbiani vagavano con le ali spiegate sulle onde, emettendo i loro gridi o le loro risate stridule nel vento. La luce del sole racchiudeva in sé anche il dolore della consapevolezza che non tutto fosse meraviglioso come appariva, ma Julia tentò di ricacciarlo indietro. Quella mattina voleva solo star bene, senza pensare a frammenti di ossa o parlare con il ricordo di Jens. Sentì un cane abbaiare festosamente. Voltandosi verso la strada costiera vide una donna con i capelli bianchi e una giacca a vento rossa che passeggiava in direzione sud, con un piccolo cane marrone chiaro che correva senza guinzaglio avanti e indietro, annusando qua e là. Dando le spalle a Julia, deviarono dalla strada ed entrarono a passi veloci in una delle case sul lato opposto della via. Era evidente che a Stenvik c'erano altri residenti fissi, oltre a Ernst. La sonnolenza sparì un po' alla volta, e Julia si sentì colmare di energia. Prese una tanica di plastica e salì a passo rapido alla casa di Gerlof per riempirla d'acqua potabile dal rubinetto in giardino. Adesso, illuminata dal sole, la casetta di legno aveva un'aria decisamente accogliente, nonostante l'erba alta tutt'intorno, ma Gerlof non le aveva dato la chiave, e dunque dovette rinunciare all'idea di entrare per dare un'occhiata alla stanza della sua infanzia. Facendo scorrere l'acqua si rese conto che in effetti si sarebbe potuta fermare a Öland più di un giorno. Se c'era qualcosa di sensato da fare - se Gerlof si fosse dato una regolata e avesse fatto delle proposte concrete su come muoversi o che cosa cercare -, sarebbe potuta restare due giorni, o magari tre. Poi si guardò intorno nel giardino deserto e decise. No, sarebbe tornata a Göteborg quel giorno, ma più tardi. Mentre tornava verso il capanno stringendo con forza la tanica dell'ac-
qua, si fermò un attimo lungo il pendio a guardare la villa gialla dietro la siepe di biancospino. Era circondata da alti frassini dai rami scomposti e in realtà si vedeva appena al di là della siepe, ma quel poco che si scorgeva non faceva certo una buona impressione. La casa non era soltanto vuota, ma anche del tutto abbandonata. La vite canadese si era arrampicata lungo i muri cominciando a coprire anche le finestre rotte. Julia ricordava vagamente che lì aveva abitato una donna anziana, una che non usciva mai di casa né frequentava la gente del paese. Era strano che la villa fosse stata lasciata andare in malora a quel modo: sotto le crepe si nascondeva una casa imponente. Qualcuno avrebbe dovuto ristrutturare tutta la corte. Julia proseguì verso il capanno per far bollire del tè e preparare la colazione. Quarantacinque minuti più tardi chiuse a chiave il capanno, con la borsetta a tracolla e lo zaino in mano. Dentro, il letto era rifatto, l'elettricità accuratamente staccata tramite il contatore principale e le tendine abbassate. Il capanno era di nuovo vuoto. Julia attraversò la parte superiore della falesia in direzione dell'auto, si guardò intorno senza vedere anima viva lungo la costa e poi salì al posto di guida. Avviò la macchina e lanciò un'ultima occhiata al capanno. Fissò la falesia, il mulino cadente e tutta quell'acqua scintillante là sotto e sentì tornare il dolore. Si affrettò a svoltare verso la strada provinciale. Oltrepassò la fattoria ora trasformata in residenza estiva, la villa gialla dissestata e il cancello della casa di Gerlof. Arrivederci. "Arrivederci, Jens." A sinistra della strada comunale si diramava una via che portava a un altro grappolo di seconde case, e c'era anche un blocco squadrato di calcare, infilato nella terra, con la scritta SCULTURE D'ARTE 1 KM tracciata a lettere bianche. Su un palo di ferro lì accanto era attaccato un cartello stradale con il simbolo di strada senza uscita. Julia vide l'insegna e ricordò ciò che si era ripromessa di fare quella mattina prima di andare a congedarsi da Gerlof: fermarsi alla cava chiusa per dare un'occhiata alle sculture di Ernst Adolfsson. In realtà non aveva soldi per acquistare oggetti d'arte, ma li avrebbe guardati volentieri. E magari avrebbe tentato di fare qualche altra domanda su Jens, se Ernst ricordava la sua scomparsa e se magari aveva voglia di
dirle dove si trovava lui quel giorno. Male non poteva fare. Svoltò nella stradina e la piccola Ford cominciò subito a sobbalzare e sbandare. Era il fondo peggiore su cui Julia avesse guidato fino a quel momento, sull'isola, in gran parte a causa del temporale. L'acqua piovana ristagnava nelle lunghe pozzanghere che correvano nei solchi delle ruote; rallentò e procedette in prima, ma l'auto slittava ugualmente nelle buche lucide di fango. Si lasciò alle spalle le casette dei villeggianti estivi e procedette lungo il ciglio del tavoliere calcareo. La strada piegava verso la cava seguendo la costa, ma poi si raddrizzava puntando sulla bassa abitazione di Ernst Adolfsson e terminando in uno spiazzo circolare davanti alla casa, dove la vecchia Volvo PV bianca di Ernst era ancora parcheggiata. Nel cortile regnava l'immobilità più assoluta, ma al centro dello spiazzo si vedeva un secondo masso piatto e lucido con una scritta nera: SCULTURE D'ARTE - BENVENUTI. Julia si fermò dietro la Volvo e spense il motore. Poi scese prendendo dalla borsa il portafogli sottile. Il vento faceva frusciare l'erba rasata e il paesaggio era quasi del tutto privo di alberi. Su un lato del cortile si trovava l'enorme ferita nella montagna rappresentata dalla cava, su quello opposto solo erba e cespugli di ginepro sparsi fin dove l'occhio poteva arrivare. Il tavoliere. Si girò e guardò la casa. Era chiusa e silenziosa. «C'è qualcuno?» chiamò. Il vento attutì la sua voce e non ci fu risposta. Un largo vialetto di ghiaia di pietra calcarea portava alla porta d'ingresso sul lato corto della casa, e accanto c'era un campanello. Julia si avvicinò e lo premette. Ancora nessuna risposta. Ma l'auto era lì, e dunque dove poteva essersi cacciato Ernst? Suonò ancora il campanello, a lungo. Non successe niente. D'istinto provò ad abbassare la maniglia. La porta non era chiusa a chiave e si socchiuse, come per invitarla a entrare. Fece capolino con la testa. «C'è qualcuno?» Nessuna risposta. La luce era spenta e l'ingresso immerso nella penombra. Tese l'orecchio nel tentativo di percepire dei passi pesanti e un bastone che veniva appoggiato sul pavimento, ma regnava il silenzio. "Non è in casa, lascia perdere e vai da Gerlof, adesso" le suggerì la sua
voce interiore. Ma era troppo curiosa. Non si chiudevano le porte a chiave, a Öland, quando si usciva? Possibile che ci si fidasse ancora tanto del prossimo? BENVENUTI, si leggeva su uno zerbino di plastica verde davanti alla porta. Julia si pulì le scarpe ed entrò. «C'è qualcuno?» chiamò. «Ernst? Sono Julia, la figlia di Gerlof...» Al soffitto dell'ingresso era appeso uno scacciaguai composto da navicelle di legno che giravano spinte dalla corrente d'aria. A destra c'era la cucina, pulita e in ordine, con una piccola tavola sparecchiata e due sedie. A sinistra, una camera con il letto rifatto. Il corridoio proseguiva diritto aprendosi in un soggiorno con un divano, il televisore e una portafinestra da cui si vedevano la cava e, più in là, il mare azzurro dello stretto. Sul tavolo al centro della stanza c'erano pile di giornali e libri, ma anche il soggiorno era deserto. Appeso a una parete si vedeva un orologio esagonale fatto di pietra calcarea levigata, con frammenti di ardesia per lancette. L'unica cosa strana di quella casa era che l'orologio pareva essere il solo oggetto d'arte realizzato in pietra. Possibile che a Ernst bastassero quelli che teneva all'esterno? Julia tornò nell'ingresso e si guardò intorno un paio di volte, come se un qualche aggressore ignoto potesse spuntare da una fessura delle pareti. Poi uscì di nuovo sulla scala e chiuse piano la porta. Rimase immobile nella luce del sole, incerta sul da farsi. Sicuramente Ernst Adolfsson era solo uscito un attimo dimenticando di chiudere la porta a chiave. Spostò lo sguardo sulle sculture allineate sul ciglio della cava. Accanto c'era un piccolo capanno da lavoro verniciato di rosso, circondato da basse betulle, e in un mucchio lì di fianco si vedevano alcuni blocchi e macigni di misure diverse. Erano stati intaccati in più punti, ma non si poteva ancora dire che fossero opere compiute. Le parve che alcune somigliassero a esseri umani deformi. Nella pietra vedeva volti sfigurati e orbite nere che le richiamavano alla mente ai troll di cui si diceva che rapissero i piccoli umani portandoseli per sempre nella montagna. Gerlof le aveva raccontato che un tempo, quando spariva qualche attrezzo a chi lavorava alla cava, si dava sempre la colpa ai troll. Che potesse averlo rubato un collega era impensabile. Distolse lo sguardo dai blocchi di pietra e tornò a posarlo sui pezzi finiti e levigati, disposti lungo il ciglio della cava. Piccoli fari, qualche copertura
per pozzo, alti gnomoni da meridiana e un paio di grandi lapidi, ancora privi della targa con il nome. Mancava qualcosa. Nella lunga fila di sculture c'era un ampio varco, e Julia si avvicinò. Dal lato opposto della cava, la sera prima, aveva visto l'alto campanile che somigliava a quello di Marnäs, e adesso non c'era più. Nella ghiaia, vicino al ciglio roccioso oltre il quale si apriva la cava, si vedeva un piccolo avvallamento. Julia avanzò lentamente in mezzo ai massi levigati, e davanti a lei la cava si aprì come un'enorme vasca senz'acqua. Non era molto profonda, in quel punto, solo qualche metro, ma la roccia cadeva a strapiompo. Tenendosi sul ciglio, si sporse silenziosamente su quell'arido paesaggio di pietra e all'improvviso vide proprio sotto di sé l'alto campanile. Era caduto oltre il ciglio, giù nella cava, finendo rovesciato sul fianco, con la punta rivolta a ovest, verso il mare. Il campanile non si era rotto. Ma sotto la forma allungata della scultura era steso Ernst Adolfsson. Stava fissando il cielo dal fondo della cava, con la bocca insanguinata e il corpo fracassato. Öland, maggio 1945 Tutto è cambiato. Stanno per accadere grandi cose, sia nel mondo che nella sua vita. Nils Kant lo percepisce nel vento. Il sole che splende sul tavoliere è più intenso che mai, i venti dell'isola sono più frizzanti, l'aria più cristallina e i fiori completamente sbocciati. L'erba è verde e non ancora bruciata dal sole della piena estate. Nel cielo, puntini indistinti e sfuggenti crescono diventando rondini che per qualche istante sfrecciano come dardi neri sul terreno piatto, riprendono velocità con un colpo d'ali e rimbalzano, ritrovandosi improvvisamente di nuovo in alto. La primavera è arrivata sul serio a Öland, e Nils Kant avverte dei cambiamenti nell'aria. Ormai ha quasi vent'anni, è adulto e completamente libero. La vita gli si apre davanti e accadranno grandi cose. Lo sente in tutto il corpo. Nils sta cominciando a essere un po' troppo cresciuto per vagare nel silenzio cacciando lepri. Ha altri progetti. Ora che la guerra è finita si avventurerà nel mondo. Vorrebbe portare con sé Maja Nyman, la ragazza che abita in una casetta dalle parti della falesia, a Stenvik. Se la ricorda bene, e
pensa a lei piuttosto spesso. In realtà, però, non si sono mai parlati, limitandosi al saluto quando s'incontrano, e solo se lei non è in compagnia di qualcun altro. Se entro breve non avrà occasione di parlarle come si deve, gli toccherà partire da solo. Quel giorno si trova più lontano del solito da Stenvik, è quasi ai margini orientali dell'isola. Prima di oltrepassare la strada provinciale ha abbattuto due lepri lasciandole poi sotto un cespuglio per raccoglierle lungo la via di casa. Ha intenzione di ucciderne ancora una o due, e magari anche qualche rondine, tanto per divertirsi, prima di tornare da sua madre. Su tutto il tavoliere calcareo ristagnano larghe pozze lasciate dal disgelo della spessa coltre di neve invernale: è un po' come vagare in un paesaggio di muschio punteggiato di laghetti. L'acqua evapora velocemente, al sole. Nils porta degli alti stivali spessi e se vuole, può passare tranquillamente in mezzo alle pozzanghere. A volte lo fa, altre volte le aggira. È del tutto libero ed è padrone del mondo. Adolf Hitler ha tentato di diventarne il signore assoluto. Adesso è morto, si è sparato a Berlino da poco più di una settimana. E per la Germania è finita. Nessuno, laggiù, aveva più la voglia o la forza di combattere contro i russi e gli americani. Nils attraversa una pozza d'acqua sollevando schizzi e prosegue inoltrandosi in una macchia di cespugli di ginepro. Ricorda che, quando era più giovane, Hitler gli andava a genio. Se non altro, la sua grande forza di volontà gli ispirava rispetto. Gli era capitato di ascoltare rapito dei frammenti degli appassionati discorsi del Führer, quando sua madre teneva accesa la radio in soggiorno, e per molti anni aveva aspettato che i bombardieri tedeschi comparissero nel cielo sopra Öland, che arrivasse la guerra. Ma ora Hitler non c'è più e la grande Germania è stata distrutta dalle bombe degli aerei inglesi. La Germania non gli pare più un posto interessante come un tempo. L'Inghilterra, invece, lo attira. E l'America sembrerebbe immensa e piena di promesse, ma troppi ölandesi sono già partiti per quella meta senza più fare ritorno: a migliaia sono scomparsi senza lasciare tracce, nell'Ottocento. Lui vuole girare il mondo e poi ripresentarsi a Stenvik come un imperatore. Nils sente qualcosa, un rumore basso ma secco, e si ferma. Non si vede neanche una lepre in giro, eppure ha l'impressione... Non è solo. C'è qualcuno, lì.
Ha sentito qualcosa nel vento, un breve rumore che non è un cinguettio, un ronzio d'insetti o un nitrito. Sono anni che percorre il tavoliere in lungo e in largo, sa quando le cose stanno come dovrebbero stare e quando non è così. E in quel momento c'è qualcosa che non quadra affatto. Sente dei brividi di diffidenza lungo la nuca e la schiena. Non si tratta di lepri, ma di qualcos'altro. Lupi? La nonna di Nils, morta da tempo, raccontava storie di lupi sul tavoliere. Ce n'erano, un tempo. Ma adesso non più. Esseri umani? Qualcuno che lo sta seguendo di nascosto? Nils si sfila lentamente il fucile Husqvarna dalla spalla, lo solleva tenendolo in posizione di tiro con entrambe le mani e toglie la sicura con il pollice. Due cartucce a pallettoni della fabbrica Gyttorp sono pronte a schizzare fuori dalla canna. Si guarda intorno: quasi dappertutto cespugli di ginepro, per lo più contorti e piegati dal vento e non superiori al metro d'altezza, ma anche fitti al punto da non riuscire a vederci in mezzo. Se Nils si alza in piedi, riesce a spingersi con lo sguardo fin dove vuole arrivare, e allora nessuno sarà in grado di avvicinarglisi di nascosto, ma quando si accovaccia gli arbusti sembrano crescere di colpo e richiudersi su di lui. Adesso non sente nessun rumore, ammesso che prima ne avesse davvero sentito uno. Forse era solo nella sua testa: è già successo, nella solitudine. Nils rimane in silenzio e assolutamente immobile nell'erba, in attesa. Respira calmo e ha tutto il tempo del mondo. Le lepri escono sempre allo scoperto quando aspetta, alla fine i loro nervi cedono sempre, e si precipitano fuori dal loro nascondiglio alla cieca, procedendo a balzelloni, per sfuggire al cacciatore. A quel punto non resta che portarsi con calma il fucile alla spalla, puntare sulla sagoma scura e premere il grilletto. E poi, andare a recuperare il corpo scosso da deboli spasmi. Nils trattiene il respiro e tende le orecchie. Ora non sente niente, ma il vento cambia direzione per un attimo e all'improvviso Nils avverte chiaramente nelle narici l'odore di sudore stantio e stoffa unta. Un odore acre di corpo umano, o di più corpi, gli viene portato dal vento. Ci sono delle persone, vicinissime. Nils si gira di scatto verso destra, con il dito sul grilletto. Un paio di occhi spaventati lo guarda da un arbusto di ginepro a poco più di un metro di distanza.
Lo sguardo di una persona che incrocia il suo. Quello che prende forma nella penombra degli spessi aghi di ginepro è un viso di uomo, un viso grigio di sporcizia sotto un cespuglio di capelli spettinati. Dietro la testa c'è un corpo premuto contro il terreno e coperto di abiti verdi sformati. Un'uniforme, si accorge Nils. L'uomo è un soldato. Un soldato sconosciuto senza elmetto e senza armi. Nils tiene davanti a sé il fucile e sente il sangue pulsargli violentemente fino all'estremità delle dita. Solleva la bocca della canna di qualche centimetro. «Vieni fuori!» intima a voce alta. Il soldato apre la bocca e dice qualcosa. Non è svedese, per lo meno non uno svedese che Nils abbia mai sentito parlare. È una lingua straniera. Potrebbe essere tedesco. «Cosa?» dice subito Nils. «Cosa dici?» Il soldato alza lentamente le mani, sporche e piagate, e nello stesso istante Nils si accorge che non è solo, nel suo nascondiglio. Poco dietro di lui, nell'erba sotto i cespugli, c'è un secondo uomo con lo sguardo vitreo, in uniforme. Hanno entrambi un'aria braccata, come se stessero fuggendo da ricordi terribili. «Bitte nicht schiessen» bisbiglia il soldato più vicino a Nils. 8 Julia aveva chiamato Gerlof dal telefono di Ernst Adolfsson riferendogli l'accaduto: che aveva trovato Ernst e dove, e che era morto. Gerlof aveva sentito quello che lei aveva raccontato, eppure era riuscito a non pensare o provare troppe emozioni, concentrandosi invece quasi solo sull'ascolto della voce di sua figlia. Suonava tesa, naturalmente, ma non tremava. Julia aveva mantenuto il controllo. «Dunque Ernst è morto» disse. Silenzio all'altro capo del filo. «Ne sei sicura?» chiese. «Faccio l'infermiera» rispose Julia. «Hai chiamato la polizia?» domandò lui. «Ho telefonato al pronto intervento» disse lei. «Manderanno qualcuno. Ma non servirà l'ambulanza, per Ernst... È troppo tardi.» Rimase in silenzio per qualche secondo. «Comunque, sicuramente verrà anche la polizia, per quanto sia una disgrazia. Ha...»
«Vengo da te» la interruppe Gerlof. Aveva preso la decisione nel momento in cui pronunciava quelle parole. «La polizia arriverà di certo tra poco, ma vengo anch'io. Siediti sul divano di Ernst e aspetta.» «Sì, va bene» rispose Julia. «Ti aspetto.» Suonava ancora calma. Riattaccarono e Gerlof rimase per un minuto alla scrivania, per raccogliere le forze. Ernst. Ernst era morto. Gerlof cercò di assimilare il dato di fatto. Fino a un attimo prima aveva avuto due amici intimi ancora in vita, John ed Ernst. Adesso gliene era rimasto uno solo. Prese il bastone e si alzò. In quel momento non era altro che determinato, nonostante i reumatismi e il dolore gli impacciassero i movimenti più che mai. Uscì in corridoio, udì delle risate dalla cucina e proseguì in quella direzione. C'era Boel, lì, insieme a una nuova ragazza, che evidentemente stava ricevendo istruzioni sul funzionamento della lavastoviglie. Si accorsero di Gerlof e Boel gli sorrise, ma poi vide la sua espressione e si fece seria. «Boel, devo andare a Stenvik. È successa una disgrazia. Il mio miglior amico è morto» disse Gerlof con voce ferma. «Qualcuno deve darmi un passaggio.» Non abbassò lo sguardo, e alla fine Boel annuì. Non le andava a genio che si cambiassero le routine, ma questa volta non fece obiezioni. «Aspetta due minuti che ti accompagno io» si limitò a dire. All'altezza dell'ingresso nord per Stenvik, che portava giù alla cava, Gerlof alzò in braccio dal sedile del passeggero e indicò di proseguire diritto. «Prendiamo la strada a sud» disse. «Perché?» obiettò Boel. «Volevi andare...» «Ho due amici a Stenvik» la interruppe Gerlof. «Uno era Ernst. L'altro deve essere informato dell'accaduto.» Non era una lunga deviazione: poco dopo comparve il bivio meridionale annunciato dal cartello con la scritta CAMPING cancellata dalla croce di nastro adesivo nero a indicare che il campeggio di Stenvik era temporaneamente chiuso. Era stato John Hagman a provvedere, per quanto il rischio che in ottobre arrivasse qualcuno con la tenda o la roulotte fosse piuttosto remoto. Sulla sinistra spuntò il chiosco sprangato, poi il campo di minigolf, dove un uomo di mezza età in tuta verde stava spazzando le piste con una presa
piuttosto stanca sulla scopa. Mentre passavano, lanciò all'auto un'occhiata timida. Era Anders Hagman, l'unico figlio di John. Era scapolo e taciturno, e Gerlof l'aveva visto quasi sempre vestito con quella logora tuta verde. Forse ne aveva varie, tutte uguali. Spuntò anche la strada che portava al campeggio. «Siamo arrivati» annunciò Gerlof. «È laggiù.» Indicò una casetta di fianco alla strada che portava al campeggio, un edificio basso con finestre strette che somigliava all'abitazione di un custode. Davanti alla porta c'era una Passat verde, vecchia e arrugginita, e dunque John doveva essere in casa. Boel frenò e si fermò. Gerlof aprì la portiera, scese aiutandosi con il bastone, e quasi contemporaneamente si aprì la porta della casetta. Un uomo, basso di statura, in tuta da lavoro blu e con i capelli grigi pettinati all'indietro e raccolti in una crocchia sulla nuca uscì in calzettoni sulla scala. Era John Hagman, sempre rapido nell'accogliere i visitatori. D'estate, John e Anders Hagman gestivano insieme il campeggio di Stenvik. D'inverno, Anders stava per lo più a Borgholm. John si fermava invece per tutto l'anno a Stenvik, occupandosi da solo della manutenzione ordinaria del campeggio quando il figlio non veniva a trovarlo. Era un bell'impegno per un uomo anziano. Gerlof l'avrebbe aiutato volentieri, se non fosse stato ancora più vecchio. Gli fece un cenno di saluto, e John rispose allo stesso modo infilandosi un paio di stivali di gomma neri che si trovavano sulla scalinata. «Ciao» disse. «Proprio non me l'aspettavo.» «Già. È successa una disgrazia» rispose Gerlof. «Dove?» «Alla cava.» «Ernst?» chiese John a voce bassa. Gerlof annuì. «È ferito?» «Sì. Brutta faccenda» continuò Gerlof. «Molto brutta.» John lo conosceva da quasi cinquant'anni: dopo il periodo trascorso in mare insieme, erano sempre rimasti in contatto. Parve capire dal solo sguardo di Gerlof la portata della disgrazia. «C'è qualcuno là?» chiese. «A quest'ora dovrebbe esserci qualcuno» rispose Gerlof. «Ha chiamato mia figlia Julia. Lei si trova lì. È arrivata ieri da Göteborg.» «Ah.» John tornò in casa con un paio di passi e quando ricomparve ave-
va in mano una giacca a vento e un mazzo di chiavi. «Possiamo prendere la mia macchina» disse. «Vado a dire che andiamo via.» Gerlof annuì. Era una buona idea. Di certo Boel voleva tornare in reparto, e lui avrebbe potuto parlare più liberamente con l'amico se fossero stati soli. John andò da Anders, si fermò davanti a lui e indicò la pista di minigolf dicendo qualcosa a bassa voce. Anders scosse la testa. John lo indicò e Gerlof sentì che alzava la voce. Gli Hagman, padre e figlio, avevano un rapporto piuttosto teso, Gerlof lo sapeva. Dipendevano troppo l'uno dall'altro. Alla fine Anders annuì, e allora John scosse la testa e gli voltò le spalle. Il litigio era finito. Mentre John apriva la macchina, Gerlof tornò a fatica da Boel per ringraziarla del passaggio. «Allora Ernst è morto» disse John, seduto al volante. «È quello che mi ha detto Julia» rispose Gerlof accanto a lui, spaziando con lo sguardo sulla spiaggia e sull'acqua scintillante sotto la strada costiera. «Gli è caduta addosso una scultura» continuò John. «Una grossa scultura. Così mi ha detto Julia» confermò ancora Gerlof. Si rese conto che erano più di sessant'anni che alla cava non succedeva una disgrazia di una qualche entità, e proprio adesso che era chiusa Ernst era rimasto schiacciato da un blocco di pietra. «Mi sono portato la chiave di riserva» disse John. «Nel caso l'abbiano già portato via.» «Ti aveva dato una chiave?» chiese Gerlof, che non aveva mai avuto da Ernst la stessa dimostrazione di fiducia. D'altra parte, neanche lui aveva mai fatto fare una copia della chiave di casa sua per Ernst. Forse non si erano mai veramente fidati l'uno dell'altro. «Sapeva che non avrei ficcato il naso» rispose John. «Forse però adesso ci toccherà lo stesso darci un'occhiata intorno, là dentro» disse Gerlof. «Non che sappia con esattezza cosa cercare. Ma che si debba cercare è sicuro.» «Sì» rispose John. «Adesso è un'altra cosa.» Gerlof non aggiunse altro, limitandosi a guardare dritto davanti a sé, perché in quel momento incrociarono un'ambulanza lungo la strada costiera. Non gli era mai capitato prima di vedere un'ambulanza a Stenvik.
Veniva dalla stradina della cava, senza fretta, e i lampeggianti blu sul tettuccio erano spenti. Non era un buon segno, ma se l'aspettavano. John rallentò e l'ambulanza li oltrepassò per poi svoltare verso nord. «Aveva venduto un bel po' di oggetti d'arte, l'estate scorsa» disse John dopo qualche istante di silenzio. «Ci abbiamo scherzato su: aveva avuto più clienti lui di quanti pesci avevo pescato io.» Gerlof si limitò ad annuire. In quel momento non c'era altro da dire. La morte di Ernst era per lui un altro grosso peso che gli gravava sulle spalle. John svoltò nella stretta strada che portava allo spiazzo che dominava sulla cava, e Gerlof notò nel fango i solchi di diverse auto. Sì, adesso vedeva laggiù le macchine di Ernst e di Julia, e dietro due auto della polizia e un'altra auto privata, una Volvo azzurra scintillante. Accanto c'era un uomo di mezza età con un cappellino da baseball e una macchina fotografica appesa al collo. «Bengt Nyberg ha di nuovo cambiato macchina» commentò Gerlof. «Si vede che li pagano bene, i giornalisti» disse John. «Tu dici?» chiese Gerlof, e contemporaneamente John fermò l'auto all'altezza dell'insegna OGGETTI D'ARTE - BENVENUTI e spense il motore. Calò il silenzio. Gerlof scese a fatica dall'auto. Aveva come al solito le articolazioni irrigidite che protestavano contro quei movimenti inusuali. Puntò il bastone a terra, raddrizzò la schiena e salutò con un cenno il corrispondente locale dell'"Ölands-Posten" per la parte settentrionale dell'isola, che si avvicinò trascinando i piedi, con la mano sulla macchina fotografica. «L'ambulanza l'ha appena portato via» esordì. «L'abbiamo vista» rispose Gerlof. «L'ho mancato anch'io. Ho scattato qualche foto ai poliziotti e alla grossa chiazza là sotto, ma non credo che potremo pubblicarle. Dovranno decidere quelli su a Borgholm.» A giudicare dal tono, sembrava che stesse parlando di foto scattate a un'auto finita nel fosso o a una finestra rotta. Gerlof l'aveva sempre ritenuto un tipo dotato di scarso tatto. «Meglio lasciar perdere quelle foto» suggerì. «Sapete chi l'ha trovato?» chiese Nyberg premendo un pulsante dell'apparecchio, che emise un ronzio a indicare che il rullino si stava riavvolgendo. «No» rispose Gerlof. Poi si avviò a passo lento verso il ciglio dello strapiombo della cava.
Dov'era Julia? «Adesso vai a casa a scrivere il tuo articolo, Bengt» disse John alle sue spalle. «Sì, ora vado» rispose Nyberg. «Domani avrete da leggere sull'argomento.» Dopodiché si diresse verso la sua macchina nuova, salì e avviò il motore. Gerlof proseguì oltre la casa e il capanno da lavoro, in direzione della cava. Quando si trovò a qualche metro dal ciglio, spuntò un poliziotto in uniforme che aveva appena completato l'arrampicata dal fondo. Scavalcò il bordo con una gamba, si issò e si chinò poi ad aiutare un altro poliziotto, un collega più giovane. Riprese fiato e guardò Gerlof, che non riconobbe nessuno dei due. Dovevano essere arrivati da Borgholm, o dalla terraferma. «Siete dei parenti?» chiese il più anziano. «Vecchi amici» rispose Gerlof. «I suoi familiari stanno nello Småland.» Il poliziotto annuì. «Non è che ci sia molto da vedere» disse. «È stata una disgrazia?» «Un incidente sul lavoro» rispose il poliziotto. «Stava spostando una scultura sul ciglio» disse il suo collega più giovane, indicando il punto in cui nella ghiaia si vedeva un piccolo avvallamento. «Quindi era qui in piedi e deve averla afferrata. E poi...» «Be', è scivolato o inciampato, e cadendo se l'è tirata addosso» continuò il poliziotto più anziano. «È successo tutto molto in fretta, probabilmente» aggiunse il suo collega. Gerlof fece un altro passo avanti, appoggiandosi al bastone. Ecco, ora vedeva. Il campanile, la scultura più grande tra quelle realizzate da Ernst, si trovava giù nella cava. Si vedeva chiaramente dov'era atterrata cadendo. Nella ghiaia lì sotto c'era un solco profondo. L'impronta lasciata da Ernst. Gerlof si affrettò a distogliere lo sguardo, spaziando verso il resto della cava, ma quando gli venne in mente quante lapidi e stele tombali erano state ricavate da quella montagna nel corso degli anni, lo spostò ancora più in là, verso la spiaggia e il mare, e solo allora si sentì un pochino meglio. Poi guardò a destra lungo il ciglio dello strapiombo, dove erano allineate le altre sculture. Ernst le aveva disposte a intervalli di circa due metri, ma a
un certo punto c'era uno spazio più ampio... Gerlof si avvicinò. Anche lì mancava una scultura, una variante più piccola. La vide giù nella cava, un oggetto oblungo e arrotondato che avrebbe potuto essere una specie di uovo o una testa di troll. A differenza del campanile, quella scultura si era spaccata in due. "Ah, interessante." Gerlof si girò, lentamente per non perdere l'equilibrio sul terreno ghiaiato e sconnesso, e si avviò verso la casa. «Julia Davidsson è ancora qui?» chiese ai due poliziotti. Si erano fermati a dare un'occhiata nel capanno da lavoro di Ernst dove insieme ad altre sculture di dimensioni diverse si affollavano mazzuoli, carriole e una vecchia levigatrice. «È dentro con Henriksson» rispose il poliziotto anziano indicando la casa. «Grazie.» La porta d'ingresso era socchiusa, dunque John doveva essere entrato. Gerlof salì a fatica i pochi gradini di legno, fece un tentativo infruttuoso di pulirsi le scarpe sullo zerbino e poi aprì la porta. In mezzo all'ingresso erano sparse diverse paia di scarpe, e Gerlof dovette scostarle con il bastone per proseguire. Che potesse a sua volta chinarsi per togliersi le sue era impensabile, così le tenne ai piedi e avanzò lungo lo stretto ingressino. Alle pareti erano appese delle foto incorniciate di vecchi scalpellini con leve e badili tra le mani. Sentì un borbottio di voci da un punto più interno della casa. John era in piedi davanti alla finestra del soggiorno e stava guardando fuori. Sul divano erano seduti Julia e un terzo poliziotto in uniforme, un uomo di una certa età che si era tolto il berretto della divisa. Gerlof lo salutò con un cenno del capo. «Ciao, Lennart.» Quello seduto sul divano era il primo poliziotto sul posto che Gerlof avesse riconosciuto. Lennart Henriksson era nella polizia da quasi trentacinque anni e lavorava in tutta la zona settentrionale di Öland, ma abitava in una villetta a nord di Marnäs e disponeva di un ufficio di polizia locale vicino al porto. Aveva i capelli grigi e si stava avviando alla pensione. Di norma aveva lo sguardo un po' spento e le spalle larghe sprofondate nell'uniforme, ma ora era seduto con la schiena diritta accanto a Julia. «Ciao, capitano» rispose Henriksson a Gerlof. «Ciao, papà» sussurrò Julia. Era la prima volta da molti anni che utilizzava quell'appellativo per ri-
volgersi a lui, e Gerlof capì che doveva essere scossa. Si avvicinò lentamente e si fermò davanti al tavolo. «Vuoi sederti?» chiese Lennart. «Va bene così, Lennart. Di tanto in tanto ho bisogno di fare un po' di movimento.» «Hai l'aria di essere in forma, Gerlof.» «Grazie.» Scese il silenzio. Dietro di loro, John si voltò e uscì dalla stanza senza una parola. «Julia mi ha appena detto di essere tua figlia» disse Lennart. Gerlof annuì e di nuovo scese il silenzio. «L'ambulanza è già ripartita?» domandò Julia guardando Gerlof. «Sì... John e io l'abbiamo incrociata lungo la strada.» Julia annuì. «Allora l'hanno portato via.» «Sì.» Guardò Henriksson. «C'era anche un medico?» chiese. «Già. Un giovane sostituto di Borgholm... non l'ho mai visto prima. Si è limitato a constatare l'accaduto.» «Ha detto che si è trattato di una disgrazia?» chiese Gerlof. «Sì. Poi è ripartito.» «Però stanotte è rimasto lì sotto la pioggia» precisò Gerlof. «Sì» confermò Lennart. «Dev'essere successo ieri sera.» «Dunque non c'era del sangue» continuò Gerlof. «Tutte le tracce sono state portate via dalla pioggia?» In realtà non sapeva bene nemmeno lui perché stava facendo quelle domande o dove avrebbero potuto condurlo; probabilmente, era solo un tentativo di darsi arie di importanza. La speranza di trovarsi al centro dell'attenzione è forse l'ultima ad abbandonare gli esseri umani. «Aveva del sangue sul viso» intervenne Julia. «Un po' di sangue.» Gerlof annuì. Dal corridoio si sentirono dei passi pesanti, e il più giovane degli altri due poliziotti fece capolino nella stanza. «Noi abbiamo finito, Lennart» disse. «Andiamo a casa.» «Bene, lo credo che mi fermerò ancora un po'.» «Ottimo, allora tieni tu la posizione.» A Gerlof parve che nella voce del sottoposto ci fosse una certa deferenza. Forse erano i molti anni di servizio accumulati a creare quel tipo di rispetto, o magari il fatto che anche il padre di Lennart fosse stato poliziotto, ucciso tra l'altro in servizio.
«Andate piano» disse Henriksson, e il suo collega annuì e se ne andò. Dietro di lui c'era John con un grosso portafogli di pelle marrone tra le mani. Lo sollevò verso Gerlof, Julia e Henriksson. «Tremiladuecentocinquantotto corone, ricavate dalla vendita degli oggetti d'arte» disse. «Lo teneva nell'ultimo cassetto in cucina, sotto i sacchetti di plastica.» «Occupatene tu» disse Henriksson dal divano. «Sarebbe una sciocchezza lasciare qui tutti quei soldi.» «Posso tenerli io fino al momento in cui l'eredità verrà suddivisa tra i parenti» intervenne Gerlof, allungando la mano verso il portafogli. John parve sollevato all'idea di consegnarglielo. Nella stanza scese di nuovo il silenzio. «Be'» disse poi Henriksson, piegandosi in avanti e alzandosi dal divano con qualche difficoltà. «È ora che me ne vada anch'io.» «Grazie per aver...» Julia rimase seduta sul divano, cercando le parole «... per avermi concesso il tempo necessario.» «Non c'è di che.» Henriksson la guardò. «Non è facile arrivare per primi sul luogo di una disgrazia. Naturalmente è capitato anche a me, più volte, nel corso degli anni. Ci si sente piuttosto... soli. Impotenti.» Julia annuì. «Adesso però sto meglio.» «Bene.» Henriksson si mise il berretto della divisa. «Ho un ufficio a Marnäs. Libera di passare, se c'è qualcosa.» Guardò John e Gerlof. «È ovvio che vale anche per voi. È sempre aperto, siete i benvenuti. Chiudete voi a chiave qui?» «Sì, ci pensiamo noi» rispose Gerlof. Dopodiché Lennart Henriksson si congedò con un cenno del capo e uscì. Sentirono un motore avviarsi e allontanarsi lentamente. «Tra poco ce ne andremo anche noi» disse Gerlof a Julia. S'infilò in tasca il portafogli di Ernst e poi guardò John. «Possiamo uscire un attimo?» chiese. «Voglio solo mostrarti una cosa... Una cosa che ho notato fuori.» «Devo venire anch'io?» chiese Julia. «Non è necessario.» Una volta usciti dalla casa John lasciò che Gerlof lo precedesse. Sostenendosi con il bastone, scese la breve scalinata, proseguì sulla ghiaia e girò l'angolo, in direzione della cava. «Cosa dobbiamo guardare?» chiese John.
«È qui sul ciglio, una cosa che ho notato prima di entrare... Ecco.» Gerlof indicò giù nella cava il punto in cui si trovava il macigno levigato che somigliava a un grosso uovo o a una testa deforme, spaccato in due metà, una più grande dell'altra. «La riconosci, no?» domandò. John annuì lentamente. «Era quella che Ernst aveva battezzato "Il cantone"» disse «un po' per ridere.» «È stata spinta giù» continuò Gerlof. «Vero?» «Già.» John annuì di nuovo. «Così pare.» «Quest'estate era esposta dietro la casa» aggiunse Gerlof. «Quando sono passato, la settimana scorsa, era qui» rispose John. «Ne sono sicuro.» «Ernst l'ha gettata giù di proposito» disse Gerlof. «Credo proprio di sì.» I due vecchi amici si guardarono. «Tu cosa pensi?» chiese John. «Mah, non lo so.» Gerlof sospirò. «Non lo so. Ma penso che Nils Kant possa essere tornato.» 9 Julia preparò del caffè forte per i due vecchi amici in lutto. Utilizzò il servizio bianco di Ernst, decorato con soli gialli ölandesi, e prima di andare via ne portò una tazza a ciascuno, con la sensazione di fare, per una volta, qualcosa di utile. John e Gerlof, seduti sul divano, parlavano a bassa voce di Ernst. Erano solo piccoli aneddoti e frammenti di memoria, spesso inconcludenti: qualche errore commesso da Ernst nei primi tempi in cui, appena trasferito sull'isola, era stato assunto come scalpellino, o gli splendidi pezzi che aveva creato, ormai anziano, nel suo laboratorio. Julia capì che Ernst, a parte alcuni anni trascorsi sul Baltico come marinaio durante la guerra, aveva lavorato la pietra per tutta la vita. Quando, negli anni Sessanta, la cava era stata chiusa, aveva continuato per conto suo. Prendeva i blocchi di scarto, messi da parte dai tagliapietre, e poi li scolpiva e li levigava trasformandoli in oggetti d'arte. «Amava questa cava» disse Gerlof guardando fuori dalla finestra. «L'avrebbe sicuramente comprata da Gunnar Ljunger, se solo avesse avuto de-
naro a sufficienza. Non voleva vivere in nessun altro posto. Sapeva tutto su come si dovevano tagliare, dividere e lavorare i diversi tipi di pietra.» «Ernst realizzava le lapidi più belle» disse John. «Basta fare un giro al cimitero di Marnäs o giù a Borgholm per accorgersene.» Julia, in silenzio, guardava una pila di vecchi libri sulle tradizioni locali sistemata sul tavolino del salotto. Stava ascoltando con attenzione John e Gerlof, ma faticava a dimenticare l'aspetto di Ernst quando l'aveva trovato. Il poliziotto arrivato per primo sul luogo della disgrazia, Lennart Henriksson, si era affrettato a stendergli addosso una coperta che aveva in macchina, per poi condurre lei in casa. Le era rimasto accanto, pur senza dire granché, e questo era servito a confortarla. Da quel giorno famoso le era toccato ascoltare troppe parole di consolazione vuote, assolutamente non richieste. «Te la senti di accompagnarmi tu, Julia?» chiese Gerlof una volta bevuto il caffè ed esauriti gli aneddoti. «Certo.» Si alzò per andare in cucina a lavare le tazze, quasi irritata dalla domanda. "Ho trovato un uomo schiacciato da un blocco di pietra" pensò "con la bocca insanguinata e gli occhi fuori dalle orbite. Ma ho già visto del sangue, e anche dei morti. Mi sono capitate cose peggiori." E nel bel mezzo di quel rimuginare ricordò di punto in bianco un particolare forse importante. Si bloccò sulla porta e si voltò verso suo padre. «Mi aveva lasciato un messaggio per te» esordì. «Me n'ero dimenticata.» Gerlof alzò lo sguardo. «Ernst, intendo» spiegò. «L'ho incrociato davanti a casa tua arrivando a Stenvik, e dovevo darti un messaggio... L'ha detto subito prima di andarsene.» Tacque, cercando di ricordare. «Qualcosa sul fatto che l'importante era il pollice, non la mano.» «Che il pollice era la cosa più importante?» chiese Gerlof. Julia annuì. «Sai cosa intendeva?» Gerlof scosse la testa. Guardò John. «E tu?» «Non ne ho idea» rispose John. «Che sia un proverbio?» «Comunque, è così che ha detto» concluse Julia, andando in cucina. Julia e Gerlof tornarono con la Ford fino al campeggio, e John li seguì
con la sua auto. La cortina grigia di nuvole compatte aveva ora raggiunto lo stretto di Kalmar, oscurando il sole. La Stenvik riportata in vita dai racconti dei due vecchi, dove la gente abitava e lavorava per l'intero arco dell'anno e dove ogni corte e ogni stradina avevano il proprio nome, si era di nuovo addormentata. Tutte le case erano vuote e sprangate, le pale del mulino a vento non giravano e nello stretto non si vedevano le lunghe tese assicurate ai pali di legno per catturare le anguille. Una volta che Julia ebbe svoltato, fermandosi accanto al campo di minigolf, John parcheggiò la sua auto e si avvicinò. Gerlof abbassò il finestrino, e il vecchio guardò Julia: «Prenditi cura di tuo padre, mi raccomando». Era la prima volta che John Hagman si rivolgeva direttamente a lei. Annuì. «Tenterò.» «Teniamoci in contatto, John» disse Gerlof, accanto a lei. «Fatti vivo se vedi qualcuno... qualche sconosciuto.» "Qualche sconosciuto" pensò Julia, ricordando un episodio della sua infanzia negli anni Cinquanta, quando un'estate, a Stenvik, era capitato un uomo di colore che faceva dei gran sorrisi, ma parlava male l'inglese, non sapeva una parola di svedese e passava di casa in casa con una borsa in mano. La gente, in paese, chiudeva la porta a chiave rifiutandosi di aprirgli, e quando alla fine qualcuno aveva trovato il coraggio di informarsi su che cosa volesse, si era scoperto che l'uomo non era affatto un rapinatore ma un cristiano venuto dal Kenia, che vendeva bibbie e libri di salmi. A Stenvik gli sconosciuti non erano apprezzati. «Certo, ci sentiamo» rispose John Hagman. Julia lo guardò andare verso casa e afferrare la scopa come se fosse il suo bene più prezioso. Con quella in mano si diresse poi verso il campo di minigolf e ricominciò a gesticolare verso il figlio. «John ha gestito il campeggio per venticinque anni» disse Gerlof. «Ora è Anders il direttore, ma è sempre con la testa tra le nuvole. È ancora John a dover spazzare, riverniciare e tenere lontano il degrado... Dovrebbe rallentare un po' il ritmo, ma non mi ascolta.» Sospirò. «Be', pazienza» aggiunse. «A questo punto possiamo passare da casa mia.» Julia scosse la testa, «Ti riporto a Marnäs» disse. «Vorrei dare un'occhiata alla casa» replicò Gerlof «visto che ho a dispo-
sizione un'autista così brava.» «È già tardi» ribatté Julia. «Avevo pensato di rientrare in città in giornata.» «Non c'è mica fretta» rispose Gerlof. «Vedrai che Göteborg è ancora lì.» Dopo, Julia non ricordava se fosse stata lei oppure Gerlof a proporre di passare la notte nella casa di Stenvik. Forse era stato deciso quando suo padre era entrato in soggiorno, ancora con il cappotto addosso, e si era lasciato cadere con un sospiro profondo sull'unica poltrona della stanza. Oppure quando Julia era uscita ad aprire la valvola dell'acqua sotto il tombino in strada e aveva azionato l'interruttore principale del contatore elettrico in cucina. O ancora, quando aveva acceso i lampadari e i termosifoni e preparato a entrambi una tazza di tisana di sambuco sulla piastra elettrica. Comunque fosse, per un tacito accordo fu deciso di fermarsi a Stenvik, quella sera. Julia accese il cellulare in modo che suo padre potesse chiamare e informare della sua intenzione il personale della residenza per anziani. Poi, Gerlof fece un giro in giardino. «Nessuna traccia di topi» constatò soddisfatto rientrando in casa. Julia si guardò intorno, cauta e silenziosa, nelle stanzette immerse nella penombra, come se si trovasse in un museo. Lì era racchiusa una parte della sua infanzia, ma le sembrava incapsulata in teche di vetro. Che cosa c'era da vedere in quella casa delle vacanze? Non molto. Cinque stanzucce con i mobili coperti da lenzuoli bianchi, sei letti, una cucina con una finestra sul cui davanzale si affollavano le mosche morte, simili a nere lettere alfabetiche sbilenche. A una parete era appesa una vecchia carta nautica della parte settentrionale di Öland, scolorita dal sole, e su un comò era esposta una foto in bianco e nero incorniciata, risalente agli anni Sessanta, che ritraeva Julia adolescente vicino alla sorella Lena. In un angolo c'era una libreria. Per il resto, le stanze sarebbero potute appartenere a una casetta da affittare, tanto erano prive di oggetti personali. Il pavimento di legno, senza neanche un tappeto, era gelido. Non restava quasi nulla di quanto Julia ricordava della propria infanzia. Ma un tempo c'erano altri oggetti personali, e quando Julia aprì l'ultimo cassetto del comò in quella che era stata la sua cameretta, ne trovò uno: la foto incorniciata di un bambino abbronzato in maglietta bianca che sorrideva timidamente al fotografo. Per molti anni quella foto era rimasta esposta sul comò, ma poi qualcuno l'aveva nascosta.
Julia la rimise dove sarebbe dovuta stare. Scrutò il ritratto del figlioletto scomparso e provò il bisogno di vino rosso: qualche bicchiere sarebbe servito a riscaldarla e a distrarla, rendendo più facile la permanenza in quella casa. Ma non aveva intenzione di far vedere a Gerlof che beveva. Suo padre non parve notare il suo stato d'animo: vagava lentamente da una stanza all'altra, come se quella fosse la sua vera casa. E in un certo senso era così. Aveva abitato lì tutte le estati e, da pensionato, tutti i fine settimana, prima con Ella e poi da solo, fin da quando Julia riusciva a ricordare. Era immancabilmente al cancello a salutare con la mano ogni volta che le figlie, dopo qualche settimana di vacanze estive, tornavano sulla terraferma. "Non è estate e tra poco dovrò ripartire" pensò Julia davanti alla porta, con le chiavi della macchina in mano, ma a Gerlof disse a voce alta: «Io e Lena dormivamo nel letto a castello, quando eravamo qui... Io stavo su quello in alto». Gerlof annuì. «Già, quando c'eravamo tutti, qui in vacanza, si stava stretti, ma non mi sembra di ricordare che qualcuno si lamentasse.» «No. Io mi ricordo soltanto che ci divertivamo con tutti i cugini, dall'inizio alla fine dell'estate... Il sole splendeva sempre, per come me lo ricordo io» disse Julia, guardando poi l'orologio. «Adesso però dobbiamo andare a letto...» «Così presto?» chiese Gerlof, raddrizzando la carta nautica sulla parete. «Non hai altre domande?» «Domande?» chiese Julia. «Esatto...» Gerlof tolse lentamente il lenzuolo che copriva una poltrona nel soggiorno e lo piegò. «Fai tutte le domande che vuoi» disse. Si sedette con cautela, e in quel momento squillò il cellulare di Julia, che si trovava nella tasca della giacca appesa nell'ingresso buio. Quel segnale elettronico era fuori luogo nel silenzio, e Julia si affrettò a rispondere. «Pronto?» «Ciao, come va?» Era Lena, forse l'unica ad avere il numero di telefono di Julia. «Sei arrivata?» «Sì... sì, sono arrivata.» Che cosa doveva dire? Incrociò lo sguardo irrequieto della sua immagine riflessa nel vetro scuro e si accorse di non avere nessuna voglia di raccon-
tare alla sorella quanto era accaduto: del sandalo di Jens e della morte di Ernst nella cava. «Va tutto bene» disse alla fine. «Sei andata a trovare Gerlof?» «Sì... siamo a casa, adesso.» «A casa a Stenvik, vuoi dire?» chiese Lena. «Mica avrete intenzione di dormirci?» «Sì» rispose Julia. «Abbiamo aperto l'acqua e attaccato la corrente.» «Papà non deve prendere freddo» si raccomandò Lena. «Non lo prenderà» rispose Julia vergognandosi, e subito dopo si vergognò di essersi vergognata. «Stiamo soltanto chiacchierando... Cosa volevi?» «Ecco... si tratta della macchina. Ha chiamato Marika dicendo che nel fine settimana deve frequentare un qualche corso di teatro in Dalsland, e quindi le servirebbe l'auto. Le ho detto che andava bene... Non vuoi fermarti lì, no?» «Ho deciso di restare ancora un po'» disse Julia. Marika era la figlia di Richard, il marito di Lena, nata da un precedente matrimonio. Julia aveva sempre pensato che lei e Lena non fossero in buoni rapporti, ma evidentemente lo erano a sufficienza perché sua sorella volesse prestarle l'auto. «Per quanto, esattamente?» «Difficile dirlo... Qualche giorno.» «Ma come, scusa... Per quanto? Tre giorni?» la incalzò Lena. «Allora riporti qui la macchina domenica?» «Lunedì» si affrettò a rilanciare Julia. Qualsiasi giorno della settimana avesse proposto sua sorella, ne avrebbe aggiunto uno comunque. «Allora arriva sul presto» disse Lena. «Tenterò» rispose Julia. «Lena...» «Bene. Saluta papà. Ciao.» «Lena... sei stata tu a mettere la foto di Jens nel comò?» si affrettò a chiedere Julia, ma Lena aveva già riattaccato. Spense il telefono con un sospiro. «Chi era?» chiese Gerlof dalla sua poltrona. «L'altra tua figlia» rispose Julia. «Mi ha detto di salutarti.» «Ah» fece Gerlof. «Vuole che torni a casa?» «Già. Mi vuole tenere d'occhio.» Julia si sedette nel soggiorno, all'angolo opposto rispetto alla poltrona di
Gerlof. Sul tavolo c'era la sua tisana con il miele. Era diventata tiepida, quasi fredda, ma la bevve lo stesso. «È preoccupata per te?» domandò Gerlof. «Un po'» rispose Julia. "Preoccupata per la sua macchina, più che altro" pensò. «Qui sì è più al sicuro che a Göteborg» sorrise Gerlof. Poi, però, parve ricordare quanto era accaduto quello stesso giorno alla cava e smise di sorridere. Abbassò gli occhi a terra, in silenzio. Neanche Julia parlò. L'aria cominciava a scaldarsi. Fuori dalle finestre stava calando la notte. Erano quasi le nove. Julia si chiese se ci fossero delle lenzuola, da qualche parte. Dovevano essercene di certo. «Non ho paura della morte» disse Gerlof di punto in bianco. «Da giovane, quando andavo per mare, l'ho avuta per molti anni: paura di incagliarmi, delle mine e delle tempeste, ma adesso sono troppo vecchio... E gran parte della paura si è volatilizzata quando Ella è finita in ospedale, quell'autunno in cui è diventata cieca e ci ha lasciati, un po' alla volta.» Julia annuì in silenzio. Non aveva nessuna voglia di pensare alla morte di sua madre. Erano due i motivi per cui Jens era potuto uscire dal giardino e perdersi nella nebbia, quel giorno di settembre. Il primo, che Gerlof non si trovava in casa. Il secondo, che nonna Ella era andata a letto, addormentandosi profondamente in pieno pomeriggio. Quell'estate era stata a poco a poco sopraffatta da una sonnolenza cronica, che aveva spazzato via la sua innata vivacità. Un sintomo parso del tutto inspiegabile fino al momento in cui, un anno più tardi, i medici le avevano diagnosticato il diabete. Jens era scomparso, e sua nonna gli era sopravvissuta soltanto qualche anno, appassendo lentamente, tormentata dal dolore e dai sensi di colpa per essersi addormentata quel giorno. «La morte diventa un po' un'amica, quando s'invecchia» disse Gerlof. «Per lo meno una conoscente. Voglio solo che tu lo sappia, perché non creda che io non sia in grado di affrontare questa faccenda... della morte di Ernst.» «Bene» disse Julia. In realtà, però, quel giorno non aveva proprio avuto il tempo di soffermarsi a pensare a come si sentisse suo padre. «La vita continua» disse Gerlof sorseggiando la sua tisana. «In un modo o nell'altro» commentò Julia.
Per un minuto nessuno parlò. «Volevi che ti chiedessi qualcosa?» continuò Julia. «Certo. Chiedi pure.» «A proposito di cosa?» «Mah... Magari ti interesserebbe sapere come si chiamava la scultura tondeggiante che qualcuno ha spinto giù nella cava.» Gerlof guardò Julia. «Quel macigno informe... Per caso i poliziotti di Borgholm ti hanno fatto qualche domanda in proposito? Oppure Lennart Henriksson?» «No» rispose Julia, riflettendo. «Credo che neanche l'abbiano vista: guardavano solo più in là, la scultura a forma di campanile, e...» smise di parlare. «Neanch'io ho dato peso a quella scultura. Cosa c'entra?» «C'è da domandarselo» rispose Gerlof. «Più che altro si tratta del nome.» «Perché, come si chiamava?» Gerlof inspirò profondamente e si appoggiò allo schienale della poltrona, per poi buttare fuori il fiato in un lungo sospiro. «Ernst non era soddisfatto di come era venuta...» cominciò. «Era crepata e malriuscita, secondo lui. Così l'aveva battezzata "Il cantone", ispirandosi a Nils Kant. Kant... Cantone.» Di nuovo silenzio. Gerlof guardò Julia come aspettandosi una reazione, ma lei non capì perché. «Nils Kant» commentò. «E con questo?» «Mai sentito nominare?» chiese Gerlof. «Nessuno che l'abbia citato, quando tu eri piccola?» «Non che io ricordi» rispose Julia. «Però il nome Kant l'ho già sentito.» Suo padre annuì. «La famiglia Kant abitava qui a Stenvik» disse poi. «Nils era il figlio, la pecora nera... Ma quando sei nata tu, dopo la guerra, non si trovava più qui.» «Ah.» «Se n'era andato» continuò Gerlof. «E cos'ha combinato di tanto terribile questo Nils Kant?» chiese Julia. «Ha fatto fuori qualcuno?» Öland, maggio 1945 Nils Kant tiene il fucile puntato sui due soldati stranieri, il dito sul grilletto. Il vento, il cinguettio degli uccelli e tutti gli altri rumori del tavoliere
sono cessati. Il paesaggio intorno a lui è sfocato: Nils vede solo i soldati e la bocca della doppia canna del fucile, orientata verso di loro. Davanti a lui, i due militari si alzano lentamente, come a comando. Hanno l'aria di non avere più forza nelle gambe: si aggrappano con le mani all'erba per mettersi in piedi e poi alzano le braccia. Ma Nils non abbassa l'arma. «Cosa ci fate qui?» chiede. I due si limitano a guardarlo con le mani in alto sopra la testa, senza rispondere. Il soldato davanti arretra di mezzo passo, urta l'altro e si ferma. Sembra più giovane di quello dietro, ma il viso di entrambi è coperto da una maschera di polvere grigia e terriccio e da una sottile barba ispida, il che rende impossibile stabilirne l'età. Gli occhi, che sembrano vecchi di secoli, hanno il bianco segnato da sottile venuzze arrossate. «Da dove venite?» chiede Nils. Nessuna risposta. Abbassando velocemente lo sguardo, vede che i soldati sono senza bagaglio. Le divise grigio-verdi hanno le ginocchia lise e le cuciture sfilacciate, e quello davanti ha uno strappo proprio sul ginocchio. Nils ha il fucile, ma non basta a calmarlo. Cerca di respirare lentamente attraverso le narici perché le braccia non comincino a tremare e la canna del fucile a spostarsi di qua e di là. Un invisibile cerchio di ferro gli si stringe sempre di più intorno alla testa, sopra le orecchie, e il dolore gli impedisce di ragionare a mente lucida. «Nicht schiessen» ansima di nuovo il soldato davanti. Nils non capisce le parole ma quei suoni gli ricordano la lingua parlata da Adolf Hitler nei discorsi alla radio. Dunque sono tedeschi, vengono dalla grande guerra. Come sono finiti sull'isola? "Una barca" pensa. "Devono essere arrivati qui con una barca attraversando il Baltico." «Adesso... venite con me» dice. Parla lentamente, in modo che capiscano. Deve prendere il comando della situazione, in fondo è lui a tenere tra le mani un fucile. Fa un cenno con la testa. «Capite cosa dico?» Parlare lo fa sentire meglio, anche se loro non afferrano il senso delle sue parole. Serve a far scemare la paura e a sconfiggere la paralisi al cervello. Nils potrebbe portarli a Stenvik, diventare un eroe. Quello che pen-
sano gli altri in paese non gli importa, ma sua madre sarebbe fiera di lui. Il soldato davanti risponde al cenno del capo e abbassa lentamente le braccia. «Wir wollen nach England fahren» dice. «Wir wollen in die Freiheit.» Nils lo guarda. L'unica parola che capisce è England, che suona come in svedese, ma è convinto che i due non siano inglesi. È praticamente sicuro che siano tedeschi. Il soldato più indietro abbassa una mano verso le tasche della divisa. «No!» Nils ha il cuore che batte forte, apre la bocca. Il soldato infila la mano in tasca. Si muove troppo velocemente, lo sguardo di Nils non riesce a seguirlo. Deve fare qualcosa e intima: «Su le ma...». Un boato copre quello che resta della parola. Il fucile ha una scossa. Dalla bocca della canna esce un filo di fumo, cancellando per un attimo gli uomini davanti a lui. Non aveva intenzione di sparare, ha solo stretto un po' più forte il fucile per indicare, puntandolo verso l'alto. Ma il colpo è partito e la scarica scaraventa a terra il soldato davanti, come se fosse stato tramortito da una mazza. Nils lo vede come un'ombra dietro il fumo, un'ombra che cade, ha un fremito e poi rimane immobile nell'erba. Il fumo si disperde, tutti i rumori cessano, ma il soldato resta dov'è, sul fianco, con la giacca della divisa strappata. Per qualche secondo il suo corpo appare del tutto illeso, ma poi il sangue comincia ad affiorare dagli strappi nella stoffa, sotto forma di macchie scure che si espandono sempre più. Il soldato chiude gli occhi, sembra moribondo. «Merda...» mormora Nils tra sé e sé. È fatta. Ha sparato, e al soldato sbagliato, oltretutto. Non era stato quello davanti a infilarsi la mano in tasca, eppure è lui a essere steso per terra, insanguinato. Nils ha sparato a una persona come se fosse una lepre: è stato lui a sparare, nessun altro. Il soldato a terra sbatte piano le palpebre, le braccia hanno un fremito. Cerca disperatamente di sollevare la testa, senza riuscirci. Espira ansimando, tossisce, espira ancora, senza mai prendere fiato. Il sangue gli copre la divisa. Il suo sguardo vaga irrequieto, fissandosi infine sul cielo.
Dietro di lui c'è l'altro soldato, quello che si è frugato in tasca, con la bocca serrata e gli occhi vuoti. È assolutamente immobile, ma tiene qualcosa tra il pollice e l'indice della mano sinistra. Un oggetto che ha tirato fuori dalla tasca un attimo prima che partisse il colpo. Non un'arma, qualcosa di molto più piccolo. Sembra un sasso rosso e nero che scintilla e manda lampi, per quanto sul tavoliere non stia splendendo il sole. Nils stringe il fucile, il soldato la sua pietra. Nessuno dei due abbassa lo sguardo. Nils ha sparato, ha ucciso. Il panico dei primi istanti si placa, sostituito da una calma fredda. Ora ha il controllo della situazione. Butta fuori il fiato, fa un passo avanti verso il soldato e accenna con la testa alla pietra. «Da' qua» dice calmo. 10 Gerlof non rispose alla domanda di Julia su Nils Kant. Si limitò a indicare un punto oltre le sue spalle, verso il buio fuori dalla finestra. «La famiglia Kant abitava proprio qui sotto» raccontò. «Nella grande casa gialla. Stavano lì da molto tempo prima che noi costruissimo questa casetta.» «Mi ricordo che ci viveva una signora anziana, quando ero piccola» disse Julia. «Era la madre di Nils, Vera» confermò Gerlof. «Morì all'inizio degli anni Settanta, quando ormai viveva sola da molti anni. Era ricca... La sua famiglia era proprietaria di una segheria in Småland e lei personalmente aveva molti terreni lungo la costa, ma non credo che abbia mai gioito dei suoi soldi. Immagino che i suoi parenti stiano ancora litigando per quanto resta dell'eredità, perché la villa sta cadendo a pezzi. Oppure, nessuno ha il coraggio di andare ad abitarci.» «Vera Kant...» disse Julia. «Me la ricordo solo vagamente. Non era molto benvoluta, no?» «No, era troppo acida e rancorosa per esserlo» confermò Gerlof. «Se tuo nonno le aveva fatto qualche torto, odiava anche tua madre, te e perfino il tuo cane, per il resto della sua vita. Era cocciuta e orgogliosa. Quando morì suo marito, si affrettò a riprendere il suo cognome da ragazza.» «E non andava mai in paese?»
«No. Vera era un'asociale» disse Gerlof. «Per lo più se ne stava rinchiusa nella sua villa, a crogiolarsi nella nostalgia di suo figlio.» «E lui cos'ha fatto?» chiese Julia per la seconda volta. «Ne ha combinate diverse...» rispose Gerlof. «Da piccolo fu sospettato di aver annegato il fratello minore. Pare che quando successe, fossero da soli sulla spiaggia, e dopo Nils disse che era stata una disgrazia... dunque la verità non la conosceremo mai.» «Eravate amici?» «No, no. Aveva qualche anno meno di me, e io sono andato per mare piuttosto presto. Da piccolo non lo vedevo quasi mai.» «E neanche da adulto?» Gerlof stava per abbozzare un sorriso, ma trattandosi di Nils Kant c'era ben poco di cui sorridere. «Decisamente non da adulto» aggiunse. «Come ti dicevo, se n'è andato via dal paese.» Sollevò una mano e indicò la piccola libreria in un angolo della stanza. «Là c'è un libro su Nils Kant. Per lo meno, in parte parla di lui. È sul terzo ripiano dall'alto, e ha il dorso sottile, giallo.» Julia si alzò e si avvicinò ai libri. Ne scorse i dorsi e alla fine tirò fuori un volume dal terzo ripiano. Lesse il titolo. Crimini ölandesi. Guardò Gerlof con aria interrogativa. «È quello» disse lui. «È stato un collega di Bengt Nyberg all'"ÖlandsPosten" a scriverlo, qualche anno fa. Leggilo e saprai quasi tutto.» «Okay.» Guardò l'orologio. «Non stasera, però.» «No. Andiamo a letto» concordò Gerlof. «Dormirei volentieri nella mia vecchia camera» disse Julia. «Se per te va bene.» Andava bene. Gerlof scelse quella di fianco, che lui e Ella avevano diviso per tanti anni. Il vecchio letto matrimoniale era stato portato via, ma quelli singoli che l'avevano sostituito si trovavano nella stessa posizione. Mentre Gerlof andava in bagno, Julia mise le lenzuola: era un esercizio fisico a cui suo padre non poteva più dedicarsi. Una volta che Julia ebbe finito e fu andata in camera sua, Gerlof si spogliò restando in mutande lunghe e maglietta intima e si infilò nel letto. Il materasso era più duro di quello a cui si era abituato negli ultimi tempi. Per un po' rimase a riflettere nel silenzio, ma si rese conto di non sentirsi più a proprio agio lì che nella camera su alla residenza per anziani di
Marnäs. Era stato un passo difficile riconoscere di essere troppo vecchio per cavarsela da solo a Stenvik e trasferirsi, ma forse era stata la decisione giusta. Si evitava di lavare i piatti e prepararsi il caffè da soli. Gerlof ascoltò per un po' il vento tra gli alberi e poi si addormentò, sognando a un certo punto della notte di essere steso su un letto di dure pietre giù nella cava. Il cielo sopra di lui era di un azzurro intenso, c'era vento ma inspiegabilmente a livello del terreno era sospesa una nebbia sottile. Ernst Adolfsson era seduto sul ciglio roccioso e spaziava con le orbite vuote sulla cava. Gerlof aprì la bocca per chiedere all'amico se era stato veramente lui a gettare la scultura nello strapiombo e, in questo caso, che significato aveva voluto dare a quel gesto, ma un sussurro aveva indotto Ernst a voltarsi. "Li ho uccisi tutti." Era stato Nils Kant a bisbigliare quella frase. "Gerlof, devo portarti il saluto del tuo nipotino." Nils Kant era arrivato dal tavoliere con il suo fucile fumante, e ora si trovava proprio dietro l'angolo della casa di Ernst, sul punto di uscire allo scoperto. Gerlof sollevò la testa e trattenne il respiro, trepidante: finalmente avrebbe visto che aspetto aveva Nils Kant da adulto, da vecchio. Aveva ancora i capelli? Erano grigi? Portava la barba? Ma era stato Ernst a girarsi e scomparire dietro l'angolo della casa: si era dileguato nella nebbia, come una silenziosa nave fantasma. Gerlof l'aveva chiamato, ma Ernst era svanito. Quando alla fine si svegliò, il dolore per la perdita dell'amico era penosamente intenso. «Svolta a sinistra» disse Gerlof a Julia in macchina, la mattina dopo. Julia lo guardò e rallentò. «Non stiamo andando a Marnäs?» chiese. «Alla casa alloggio?» «Tra poco, ma non ancora» rispose Gerlof. «Ho pensato che prima potremmo berci un caffè qui a Stenvik.» Julia lo guardò per qualche altro secondo e poi svoltò a sinistra, scendendo di nuovo verso la strada che costeggiava la spiaggia. Gerlof gettò automaticamente un'occhiata verso il suo capanno per controllare che i vetri delle finestre fossero intatti. «Ancora a sinistra» disse poi, indicando una casa affacciata sulla strada
costiera. «Dobbiamo andare lì.» Julia rallentò e svoltò senza controllare se arrivava qualche veicolo dalla parte opposta e senza neanche guardare nello specchietto retrovisore. «Qui abita una donna anziana» aggiunse, quando la macchina si fermò davanti alla casa. «L'ho vista l'altro ieri... Era fuori con il cane.» «Non è poi tanto anziana» ribatté Gerlof. «Astrid Linder deve avere solo sessantasette o forse sessantotto anni. È appena andata in pensione... ha fatto il medico giù a Borgholm per molti anni. Però è cresciuta qui.» «E abita a Stenvik per tutto l'anno?» «Adesso sì. Io mi sono trasferito dalla mia casetta delle vacanze e invece Astrid, quando è diventata vedova, ha fatto il contrario: è andata a stare nella sua.» Gerlof aprì la portiera e si girò, sentendo una fitta di dolore alle articolazioni. Sospirò. «Naturalmente, è un po' più in forma di me.» Riuscì a spostare le gambe da solo, ma Julia dovette fare il giro dell'auto per aiutarlo a mettersi in piedi. Lui le fece un cenno del capo per ringraziarla e insieme si diressero verso la porta. Gerlof si guardò intorno. «Quando torno a Stenvik, faccio finta che in tutte le case abiti della gente per l'intero arco dell'anno» disse. «A volte mi pare che le tende si muovano, nelle case qui intorno. Si possono scorgere ombre che camminano lungo la strada comunale, piccoli movimenti ai margini del campo visivo... Gli spettri si vedono meglio con la coda dell'occhio.» Julia non rispose e aprì il cancelletto di legno inserito nel basso muro di pietre. Il giardino all'interno era deserto ma attrezzato. Su una bassa terrazzina di pietra calcarea davanti alla casa c'erano quattro sedie di plastica intorno a un tavolino, e accanto si vedeva un piccolo gnomo di ceramica con il berretto verde, intento a scrutare verso la baia con un sorriso irrigidito. Ancora prima che fossero arrivati al campanello, dall'interno si udirono dei latrati concitati. «Zitto, Willy!» ordinò una voce femminile, ma il cane non si calmò. Quando la porta si aprì, uscì saltellando come un piccolo fulmine bianco e marrone verso le gambe di Julia e Gerlof, che dovette aggrapparsi alla figlia per non perdere l'equilibrio. «Fermo, stupidone!» lo rimproverò Astrid di nuovo. Comparve sulla porta, piccola, con i capelli bianchi e, agli occhi di Gerlof, bellissima. «Ciao, Astrid.» La donna afferrò il collare del fox terrier, lo tenne fermo e alzò gli occhi.
«Ciao, Gerlof! Sei tornato a casa?» Poi vide Julia e si affrettò a domandare: «Oh oh! Hai portato una nuova fidanzata?». Sebbene in cielo fosse comparso un pallido sole, il vento autunnale che veniva dal mare era insistente e gelido. Astrid apparecchiò ugualmente sulla terrazza per il caffè mattutino, andò a prendere una coperta che avvolse intorno a Gerlof e indossò uno spesso golf di lana verde. «Ho bisogno anch'io di un maglione pesante» disse Gerlof. «Ma no. L'aria è bella frizzante, qua fuori» rispose Astrid, andando a prendere il caffè e il vassoio, su cui non campeggiavano biscotti fatti in casa ma solo quattro meringhe ricoperte di cioccolato, di quelle che si comprano confezionate. Astrid non amava preparare dolci e torte. Versò il caffè e si accomodò anche lei. Gerlof aveva presentato Julia come la sua figlia minore, lei e Astrid si erano date la mano, avevano parlato un po' della strabiliante energia di Willy e l'avevano guardato calmarsi lentamente fino a mettersi disteso sotto il tavolo. Nessuno di loro aveva ancora nominato Ernst. Gerlof non pensava che Astrid ricordasse chi era Julia, e dunque rimase stupito quando la donna, di punto in bianco, disse a voce bassa: «Tu probabilmente non ti ricordi di me, Julia, ma... c'ero anch'io a cercare lungo la spiaggia quel giorno. Io, e mio marito». Gerlof si accorse che Julia s'irrigidiva, al lato opposto del tavolo. Poi, lentamente, aprì la bocca, cercando le parole. «Grazie» disse poi. «Io non ricordo... Fu un giorno così... confuso.» «Lo so, lo so.» Astrid annuì e bevve un sorso di caffè. «Tutti che correvano in ogni direzione. La polizia mandò anche fuori delle barche, ma nessuno sapeva dove andare. E un gruppo di abitanti del paese venne indirizzato verso sud, lungo la costa, mentre noi fummo spediti a nord, con un altro gruppo. Camminammo senza sosta lungo la spiaggia, guardando nell'acqua, sotto tutte le barche tirate in secca e dietro ogni blocco di roccia. Alla fine scese la sera e non ci si vedeva più a un palmo dal naso... e così dovemmo rientrare. Fu una cosa terribile.» «Già» disse Julia, lo sguardo fisso sulla tazza. «Tutti cercarono quella sera. Finché non scese il buio.» «Fu così terribile» continuò Astrid. «E non è stato lui il primo né l'ultimo a venire inghiottito dal mare.» Intorno al tavolino scese il silenzio. Il vento soffiava debolmente. Accanto ai piedi di Astrid, Willy starnutì e si mosse irrequieto.
«È stato ritrovato il sandalo del bambino» disse poi Gerlof. Non aveva distolto lo sguardo da Astrid, ma con la coda dell'occhio percepì la reazione sorpresa di Julia. «Ah» commentò Astrid. «Era nell'acqua?» «No» rispose Gerlof. «A terra. Qualcuno deve averlo conservato per tutti questi anni, ma per il momento non sappiamo chi.» «Ma...» fece Astrid. «Ma non è stato un... un caso di annegamento?» Julia appoggiò la tazza sul tavolo senza dire nulla. «Pare di no» rispose Gerlof. «È complicato... Non sappiamo granché, per il momento.» «Quell'uomo che hai nominato ieri, Gerlof» intervenne Julia. «Nils Kant. Pensi che possa sapere qualcosa di Jens?» «Nils Kant?» si stupì Astrid, guardando Gerlof. «Cosa c'entra lui?» «L'ho nominato di sfuggita, ieri sera.» Julia spostò lo sguardo da Astrid a Gerlof, insicura, come se avesse detto qualcosa di sbagliato. «Pensavo soltanto... che magari fosse coinvolto. Dato che evidentemente aveva già causato dei guai in precedenza.» Astrid sospirò. «Ero convinta che a questo punto Nils Kant fosse stato dimenticato» disse. «Quando partì da Stenvik...» «È dimenticato, per lo più» la interruppe Gerlof. «Se non altro lo dimostra il fatto che Julia non abbia mai sentito parlare di lui prima di ieri.» «Aveva qualche anno più di me» continuò Astrid «però frequentavamo ugualmente la stessa classe, alle scuole medie. A me sembrava che fosse sempre di cattivo umore, non lo vedevo mai allegro. Si picchiava con tutti ed era alto e robusto. Noi ragazze avevamo paura di lui... e anche i maschi, a dire il vero. Era sempre lui a cominciare, però dava invariabilmente la colpa a qualcun altro.» «Io per fortuna non l'ho mai avuto come compagno di classe, perché ero più grande» disse Gerlof «ma John Hagman mi ha raccontato delle risse in cui era costantemente coinvolto.» «Poi cominciò a lavorare nella cava di famiglia» continuò Astrid «ma le cose non andarono troppo bene.» «Già, combinò dei guai pure lì. Per poco un capo stivatore non annegò.» Gerlof scosse la testa. «Ti ricordi che una nave utilizzata per il trasporto della pietra calcarea prese fuoco la notte dopo che Nils aveva smesso di lavorare alla cava, Astrid? Si chiamava Isabell. Era in porto a Långvik e il
capitano fu svegliato dall'incendio che si era scatenato a bordo. Riuscirono per un pelo a rimorchiarla oltre il molo prima che il fuoco la divorasse. "Autocombustione", dichiararono durante l'inchiesta, ma qui a Stenvik erano in molti a essere convinti che fosse stato Nils Kant a incendiarla. E fu allora che cominciò.» Julia lo fissò con un'espressione interrogativa. «Che cominciò cosa?» «Be'... che Nils Kant divenne il capro espiatorio di Stenvik» rispose. «Tutto ciò che succedeva di male era colpa sua.» «Non proprio tutto» ribatté Astrid. «Solo i misfatti. Incendi, furti, animali feriti...» «Anche le disgrazie» la contraddisse Gerlof. «Se si spezzavano le pale di un mulino, si rompevano le reti o si scioglievano le cime delle barche lasciando che andassero alla deriva...» «Meritava tutti quei sospetti» disse Astrid. «E infatti l'ha dimostrato.» «Aveva anche una storia particolare alle spalle» osservò Gerlof. «Un padre severo morto quando lui era piccolo e una madre che non faceva che ripetergli che era migliore di tutti gli altri abitanti del paese. Non si può dire che abbia avuto un'educazione sana.» Astrid annuì ma rimase in silenzio, pensosa, per qualche istante, per poi chiedere a voce bassa: «Ho sentito della disgrazia alla radio locale, ieri... Quando ci sarà il funerale?». Si era affrettata a cambiare discorso, notò Gerlof. A meno che anche Astrid ritenesse che in qualche modo la morte di Ernst avesse a che fare con Nils Kant. «Mercoledì, a quanto ho capito» rispose. «Per lo meno, così mi ha detto John.» «Si terrà nella chiesa di Marnäs?» «Già» rispose Gerlof sollevando la tazza. «Anche se quel maledetto campanile ha rappresentato la sua fine.» «Ernst era sempre così cauto, con le sue sculture» disse Astrid. «Proprio non capisco cosa sia andato a fare lì sul ciglio dello strapiombo.» Gerlof scosse la testa ma non parlò. «Sono tutti qui?» chiese Julia dopo il caffè da Astrid, una volta che si ritrovarono in macchina diretti a Marnäs. «Tutti qui chi?» chiese Gerlof. «Quelli che abitano a Stenvik. Li abbiamo conosciuti tutti, adesso?»
«Praticamente» rispose Gerlof. «Tutti i veri abitanti permanenti di Stenvik. Poi ce ne sono alcuni che vengono nei fine settimana, da Borgholm e Kalmar. Saranno quindici o venti. Non li conosco troppo bene.» «E d'estate?» «Un diluvio universale» rispose Gerlof. «Una marea di villeggianti estivi... diverse centinaia. I turisti aumentano di anno in anno. Infatti si continua a costruire. E almeno altrettanti stanno al campeggio di John, ogni settimana. Tutti insieme sono quasi più numerosi dei residenti fissi di quando ero piccolo io. Ma giù a Långvik è ancora peggio: lì hanno un porticciolo per le imbarcazioni da diporto e un albergo sulla spiaggia.» «Mi ricordo com'era qui, d'estate» disse Julia. Gerlof sospirò. «Non che mi lamenti. In fondo dalla terraferma arriva gente che porta soldi.» «Però è difficile tener d'occhio tutti» commentò Julia rallentando per svoltare verso Marnäs. «Già, d'estate è impossibile» ammise Gerlof. «Diventa un po' come da te, nella grande città: la gente va e viene come le pare.» «Be', veramente questo vale anche per l'autunno» constatò Julia. «In fondo adesso non c'è nessuno giù a Stenvik che possa controllare...» Si bloccò di botto, come se le fosse venuto in mente qualcosa. «Astrid in genere tiene gli occhi aperti» disse Gerlof. Poi si accorse del silenzio di Julia e la guardò. «Cosa c'è?» «Mi sono solo ricordata... che Ernst aveva detto che avrebbe avuto visite» disse Julia. «Quando l'ho incrociato davanti a casa tua, l'altro ieri. Ha detto: "Venga pure a guardare le mie sculture, ma non stasera, perché avrò visite". O qualcosa del genere.» «Davvero?» chiese Gerlof, guardando fuori dal finestrino. «Era sempre di lui che si trattava... di Nils Kant?» «Forse.» «Possibile che fosse lui il suo ospite?» «Non credo» rispose Gerlof. Nell'auto scese il silenzio. Oltrepassarono la chiesa di Marnäs, e a Gerlof tornarono in mente Ernst e il funerale imminente. Non era ansioso di parteciparvi. «Tu sai più di quanto voglia raccontarmi» disse poi Julia. «Qualcosa di più» ammise Gerlof a voce bassa. «Non molto. Abbiamo fatto qualche ipotesi, io e John.»
Naturalmente anche Ernst ne aveva fatte alcune, di congetture, pensò addolorato. «Non è un gioco, questo» mormorò Julia. «Jens è mio figlio.» «Lo so.» Gerlof avrebbe voluto pregarla di non parlare più di Jens come se fosse ancora vivo. «E presto potrai venire a sapere quello che penso sia successo.» «Perché hai nominato ad Astrid il sandalo di Jens?» «Perché si sparga la notizia» rispose Gerlof. «Astrid la diffonderà di sicuro: è brava, in queste cose.» Guardò Julia. «Hai detto del sandalo ai poliziotti, ieri?» «No... avevo altro a cui pensare. E poi perché avrei dovuto parlarne?» «Mah... potrebbe far emergere altri particolari. Far saltar fuori qualcuno.» «Chi?» «Non si sa mai» rispose Gerlof. Ormai erano davanti alla residenza per anziani. Julia lo aiutò di nuovo a scendere dall'auto. «Adesso cosa fai?» le domandò. «Non so... Un giro in chiesa, magari.» «Buona idea. C'è un portalume sulla tomba di Ella, puoi portare una candela da metterci dentro. Ce l'ho in camera.» «Certo» rispose Julia, accompagnandolo verso la porta. «Così puoi darti un'occhiata intorno anche nel cimitero. Una volta accesa la candela per tua madre puoi fare un giro verso il muro occidentale della chiesa e guardare le tombe che ci sono lì.» «E perché?» chiese Julia premendo il pulsante che apriva la porta d'ingresso della residenza. «Lo scoprirai quando lo vedrai» rispose Gerlof. 11 Nel cimitero di Marnäs, Julia, in piedi, fissava la tomba di Nils Kant. Era addossata al muro occidentale, all'estremità di una lunga fila. Sulla lapide era scolpito il nome NILS KANT, insieme alle date: 1925-1963. Era bassa e sobria, in normalissima pietra calcarea, probabilmente estratta dalla cava giù a Stenvik. Magari era stato Ernst Adolfsson a tagliarla. Risaliva a più di trent'anni prima, e la parte superiore cominciava a essere chiazzata di licheni bianchi.
Sulla tomba cresceva dell'erba gialla e secca, senza neanche un fiore. Julia si era chiesta come mai nessuno avesse nominato Nils Kant come possibile sospetto quando Jens era scomparso. Per tutta risposta, Gerlof l'aveva mandata lì, nel cimitero deserto di Marnäs, e ora poteva constatare di persona che Nils Kant non poteva aver avuto a che fare con la scomparsa di Jens. Nel 1972, era morto da quasi dieci anni. Era una risposta scolpita nella pietra. Bene. L'ennesimo vicolo cieco. A due metri di distanza c'era un'altra lapide, in pietra calcarea come la prima ma più alta e più larga. Su quella erano incisi due nomi con le rispettive date: KARL-EINAR ANDERSSON 1889-1935 e VERA ANDERSSON KANT 1897-1972. A caratteri più piccoli, sotto i due nomi, ce n'era un altro: AXEL TEODOR KANT 1929-1936. Era il fratello annegato di Nils, il cui corpo era stato risucchiato nello stretto. Fu quando stava per voltarsi e andarsene che Julia vide qualcosa di piccolo e bianco fremere dietro la lapide sulla tomba di Nils Kant. Si bloccò, avanzò di un paio di passi e si chinò. Era una busta bianca che si muoveva appena nel vento, incuneata tra i gambi di un paio di rose ormai secche. Julia si rese conto che quei fiori non potevano trovarsi lì dietro la lapide da troppo tempo, perché i petali rosso scuro, per quanto secchi, non erano ancora caduti. Raccogliendo la lettera si accorse che era umida. Se inizialmente c'era scritto qualcosa, l'inchiostro doveva essere stato sciolto almeno in parte dalla pioggia. Si guardò intorno. Il cimitero era ancora del tutto deserto. La chiesa bianca di Marnäs si ergeva a una cinquantina di metri di distanza, ma quando Julia aveva cercato di aprire il portone l'aveva trovato chiuso a chiave, e all'interno delle finestre alte e strette della chiesa tutto sembrava immobile. S'infilò velocemente la busta nella tasca del cappotto e tornò sui suoi passi. Di nuovo davanti alla tomba della madre, tolse una foglia gialla di betulla che era volata sulla lapide nei pochi minuti in cui si era allontanata e si chinò a controllare che la candela nel portalume fosse ancora accesa. Poi tornò alla macchina per percorrere il chilometro scarso fino al centro del paese. All'epoca in cui Julia era piccola, una gita dalla casetta di legno fino a
Marnäs rappresentava un'avventura. Lì non c'era solo un chiosco, ma si trovavano dei veri e propri negozi. Si potevano comprare i giocattoli. Quando la Julia adulta entrò nel centro del paese, fu però soprattutto contenta di trovare dei parcheggi gratuiti: un grosso vantaggio, rispetto a Göteborg. C'era posto davanti al supermercato ICA, lungo la corta via principale e al porto di Marnäs. Julia scelse quest'ultimo. Lì si trovava una piccola trattoria, la Moby Dick, ristorante e pub, i cui tavoli allineati lungo la vetrina erano deserti, mancando ancora una mezz'ora all'ora di pranzo. Nel porticciolo non erano attraccati né barche da diporto né pescherecci. Julia scese dall'auto e si avvicinò al pontile di cemento, deserto, che puntava verso l'orizzonte. Rimase lì qualche minuto spaziando con lo sguardo sul mare grigio increspato da piccole onde. All'orizzonte non si vedeva niente. Poco oltre, a nordest, si trovava l'isola di Gotland, e al lato opposto del Baltico c'era l'Europa orientale, con l'Estonia, la Lettonia e la Lituania, paesi antichi eppure nuovi dopo essersi staccati dall'Unione Sovietica. Un mondo che Julia non aveva mai visitato. Si girò e percorse la via principale senza incontrare anima viva. Oltrepassò un negozietto di abbigliamento, un fiorista e uno sportello Bancomat, dove si fermò a prelevare trecento corone. Il saldo le confermò che come al solito era a corto di soldi, e Julia si affrettò ad appallottolare la lista dei movimenti. Sulla porta accanto era appesa una targa con la scritta ÖLANDSPOSTEN. A caratteri più piccoli, sotto il nome della testata, si leggeva: Il quotidiano di tutta l'Öland settentrionale. Julia esitò qualche secondo, e poi entrò. Quando aprì la porta, sopra la sua testa tintinnò una campanella d'ottone. Si ritrovò in un piccolo locale ben illuminato ma mal ventilato: l'aria era viziata dal fumo di sigaretta. Accanto all'entrata c'era il banco della reception, e dietro un ufficio con due scrivanie coperte di giornali e carte. Davanti ai due computer accesi erano seduti due uomini, entrambi di una certa età, uno grigio di capelli e l'altro completamente calvo, ed entrambi in jeans e camicie che avevano l'aria di aver bisogno di una stirata. Sulla scrivania del pelato c'era la targhetta con il nome, LARS T. BLOHM. Su quella del brizzolato non se ne vedevano, ma Julia lo riconobbe come Bengt Nyberg, il cronista che si era rapidamente presentato sul luogo della disgrazia, alla cava. Lo aveva scorto dalla finestra, e Lennart Henriksson le aveva riferito il suo nome. Sulla parete era appesa una lunga serie di locandine: su quella all'estre-
ma sinistra si leggeva a spessi caratteri TRAGICO INCIDENTE MORTALE ALLA CAVA. Non erano forse tutti tragici, gli incidenti mortali? «Posso esserle utile?» Bengt Nyberg non parve averla riconosciuta: stava guardando Julia attraverso un paio di lenti spesse, mentre lei si avvicinava al banco. «Si tratta di un'inserzione?» «No» rispose Julia, che in realtà non sapeva bene perché fosse entrata nella redazione. «Sono solo passata qui davanti... Abito giù a Stenvik in questo momento e... Mio figlio è scomparso.» Sbatté le palpebre. Perché l'aveva detto? «Ah» disse Nyberg. «Ma questa non è la stazione di polizia. Deve andare alla porta accanto.» «Grazie» rispose Julia sentendo accelerare il battito del cuore, come se avesse detto qualcosa di imbarazzante. «Oppure vuole che lo scriviamo?» «No» si affrettò a rispondere Julia. «Andrò dalla polizia.» «Quando è scomparso?» chiese l'altro giornalista, Lars Blohm. Aveva una voce profonda e rauca. «A che ora? È stato qui a Marnäs?» «No, non è successo oggi» rispose Julia. Sentì che stava arrossendo sempre di più, come se avesse mentito a entrambi. «Adesso devo andare. Grazie.» Mentre si affrettava a voltarsi e uscire, avvertì il loro sguardo sulla schiena. Una volta fuori, sul marciapiede, inspirò l'aria gelida e cercò di rilassarsi. Perché poi era entrata nella redazione? Perché aveva parlato di Jens? Non era abituata a incontrare degli estranei. Ed era ancora peggio in quei posti così piccoli, dove tutti si conoscevano e i forestieri attiravano subito l'attenzione e le chiacchiere della gente. Sentì la mancanza di Göteborg, dove le persone venivano considerate come alberi nel bosco e s'incrociavano per strada senza scambiarsi un'occhiata. Per sottrarsi alla vetrina lucida dell'"Ölands-Posten" si spostò di qualche passo e di fianco a quella del giornale vide un'altra targa, sormontata dallo stemma giallo-blu del corpo: POLIZIA. Sotto, attaccato alla porta con il nastro adesivo, c'era un biglietto scritto a pennarello nero. Julia salì i due gradini e lo lesse. "La stazione di polizia è aperta al pubblico il mercoledì dalle ore 10 alle 12." Era un venerdì, e dunque era chiusa. Che cosa succedeva se a Marnäs veniva commesso qualche reato in un giorno diverso dal mercoledì? Non
c'era nessun foglietto che rispondesse alla domanda. Guardò attraverso la finestra e vide che dentro si muoveva qualcuno. Scese dalla scala di cemento e contemporaneamente si sentì un tintinnio di chiavi e la porta si aprì. Sulla soglia comparve Lennart Henriksson, con un sorrisino sulle labbra. «Ho visto che avevo visite» disse. «Come si sente, oggi?» «Buongiorno» rispose Julia. «Bene, grazie... non pensavo che ci fosse qualcuno. Ho letto il biglietto e...» «Già, devo tenere aperto due ore tutti i mercoledì» ribatté Lennart. «Ma ci sono anche in altri orari. Però è un segreto: riesco a sbrigare un po' più di lavoro, in questo modo. Si accomodi.» Indossava la giacca nera della divisa, e alla cintura portava una ricetrasmittente della polizia e una pistola nera, così Julia chiese: «Stava uscendo?». «Avevo intenzione di andare a pranzo, ma entri pure un attimo.» Si spostò e la fece accomodare. Il locale le parve più vecchio della redazione del giornale che aveva appena visto, ma era ben tenuto, con piante verdi alle finestre, e non puzzava di fumo stantio di sigarette. Si vedeva una sola scrivania, rivolta verso la porta, con tutte le carte disposte in pile ordinate. Un computer, un fax e un telefono erano allineati in modo impeccabile. Sopra una mensola ingombra di raccoglitori era appeso un poster con l'illustrazione di un telefono che pubblicizzava il filo diretto della polizia sugli stupefacenti. Su un'altra parete, invece, campeggiava una grande carta geografica della parte settentrionale di Öland. «Bell'ufficio» commentò. Lennart Henriksson amava l'ordine, e la cosa le andava a genio. «Le piace davvero?» domandò Lennart. «Sono più di trent'anni che abbiamo sede qui.» «Ci lavora solo lei?» «In questo periodo, sì. In estate abbiamo un po' più di gente, ma a quest'epoca dell'anno sono solo. Hanno tagliato i posti uno dopo l'altro.» Si guardò intorno nella stanza con aria scoraggiata e aggiunse: «Si vedrà per quanto tempo ancora riusciremo a tenere aperto». «Perché, vogliono chiudere l'ufficio?» «Forse. Se ne parla continuamente, a livello di dirigenti. Per tagliare i costi, sa» rispose Lennart. «Secondo loro bisogna accentrare tutto a Borgholm: è la soluzione migliore e più economica. Ma io spero di poter
restare qui fino alla pensione, tra qualche anno.» Guardò Julia. «Ha già pranzato?» «No.» Julia scosse la testa, ci pensò su un attimo e si rese conto di avere una certa fame. «Vogliamo prendere un piatto del giorno insieme?» «Mah... sì, magari.» Julia non riuscì a inventarsi una ragione per cui non avrebbe dovuto accettare. «Bene. Allora andiamo qui al Moby Dick... Devo solo spegnere il computer e attaccare la segreteria telefonica.» Cinque minuti più tardi Julia era di nuovo giù al porticciolo insieme a Lennart. Entrarono nel miglior ristorante di Marnäs: il migliore e anche l'unico, come le aveva spiegato il poliziotto. L'arredamento all'interno del locale era in stile marinaresco, con carte nautiche, reti da pesca e vecchi remi crepati, appesi alla pannellatura di legno delle pareti. Ora quasi metà dei tavoli era occupata dagli avventori del pranzo, e nel locale si udiva un basso brusio e l'acciottolio di stoviglie. Quando Julia entrò, alcuni visi curiosi si voltarono verso di lei, ma Lennart le passò davanti come per proteggerla e scelse un tavolino in disparte, davanti alla finestra, con vista sul Baltico. Quando era stata l'ultima volta che Julia aveva mangiato al ristorante? Non lo ricordava. Sedersi a un tavolo in mezzo a un sacco di estranei era un'esperienza a cui non era più abituata, ma si sforzò di respirare con calma e sostenere lo sguardo di Lennart al lato opposto del tavolo. «Buongiorno, benvenuti.» Un uomo con una grossa pancia e le maniche della camicia arrotolate si avvicinò e porse a entrambi il menu, rilegato in pelle. «Ciao, Kent» lo salutò Lennart, prendendo il menu. «Cosa volete bere, in questa splendida giornata?» «Io prendo una birra analcolica» rispose Lennart. «Io dell'acqua con qualche cubetto di ghiaccio, grazie» disse Julia. Naturalmente il primo impulso era stato ordinare del vino rosso, possibilmente un'intera caraffa, ma lo represse. Doveva superare quella prova restando sobria. Non era poi tanto difficile: la gente pranzava al ristorante in tutto il mondo, ogni giorno. «Come piatto del giorno ci sono le lasagne» disse Kent.
«Per me va bene» rispose Lennart. «Anche per me.» Julia annuì e quando il ristoratore tese la mano per prendere i menu, si accorse che, sotto la manica della camicia, sul bicipite destro, aveva un grande tatuaggio verde scuro e scolorito dal tempo. Parevano delle lettere alfabetiche incorniciate. Un nome? Quello di una nave, magari? «L'insalata e il caffè sono compresi nel prezzo» disse Kent, dileguandosi verso la cucina. Henriksson si alzò per andare a servirsi al buffet dell'insalata e Julia lo imitò. «Lennart!» chiamò una voce maschile dal lato opposto del locale mentre stavano tornando al loro tavolo. «Lennart!» Il poliziotto si lasciò scappare un sospiro. «Torno subito» bisbigliò a Julia deviando verso l'uomo che l'aveva chiamato, un tipo anziano con il viso rubizzo che indossava una specie di tuta da agricoltore. Julia si sedette da sola al tavolo e lo guardò gesticolare freneticamente riferendo qualcosa a Lennart con espressione corrucciata. Il poliziotto gli diede una breve risposta a bassa voce e quello riprese a gesticolare. Dopo qualche minuto Lennart tornò al tavolo e fece appena in tempo a sedersi che Kent arrivò con due piatti pieni di lasagne ancora sfrigolanti. Lennart sospirò di nuovo. «Mi scusi» disse a Julia. «Non fa nulla.» «È uno che si lamenta di un furto con scasso nel suo capanno. Gli hanno portato via una tanica di benzina» continuò. «Quando si è poliziotti in una zona rurale, si è in servizio permanente. Nessun problema su come occupare il tempo libero. Adesso però mangiamo.» Si chinò sul piatto. Anche Julia cominciò a mangiare. Aveva fame e le lasagne erano buone, con molto ragù. Quando il suo piatto cominciò a essere quasi vuoto, Lennart bevve un sorso di birra e si appoggiò allo schienale. «Dunque lei è qui per far visita a suo padre?» chiese. «Non per prendere il sole e fare bagni?» Julia sorrise e scosse la testa. «No» rispose «anche se Öland è bella anche in autunno.» «Gerlof sembra in forma» disse Lennart «a parte i reumatismi.»
«Già... soffre della sindrome di Sjögren» gli confidò Julia. «È una specie di dolore reumatico alle articolazioni che va e viene. Però ha la mente perfettamente lucida. E riesce ancora a costruire le navi in bottiglia...» «Già, sono belle... In effetti avevo pensato di ordinargliene una per la stazione di polizia, una volta o l'altra, ma alla fine non l'ho mai fatto.» Tacquero per qualche istante. Poi Lennart vuotò il suo bicchiere e chiese a voce bassa: «E lei, Julia? Sta bene, adesso?». «Ma sì...» si affrettò a rispondere Julia. In parte era una bugia, ma poi si rese conto che forse il poliziotto era davvero interessato a saperlo e disse: «Intende dire... dopo ieri?». «Certo» rispose Lennart «in parte mi riferisco a questo. Ma anche a quello che è successo tanto tempo fa... negli anni Settanta.» «Oh...» Lennart era al corrente. Certo che lo era, come poteva non esserlo? Faceva il poliziotto da trent'anni, lo aveva detto lui stesso. Ed esattamente come Astrid aveva trovato il coraggio di affrontare quell'argomento proibito, con calma e tatto... un argomento di cui sua sorella si era stancata da un pezzo e che diversi tra i parenti di Julia non avevano mai osato sfiorare. «C'era anche lei?» chiese a bassa voce. Lennart abbassò lo sguardo sul tavolo ed esitò, come se quella domanda risvegliasse ricordi sgradevoli. «Sì, partecipai anch'io alle ricerche» disse alla fine. «Fui uno dei primi poliziotti ad accorrere sul posto, giù a Stenvik... Organizzai i gruppi di persone da mandar fuori a perlustrare la zona lungo la spiaggia. Camminammo laggiù per tutta la sera, le ricerche furono interrotte solo a mezzanotte passata. Quando sparisce un bambino nessuno vuole smettere di cercare...» Tacque. Julia ricordò che Astrid Linder aveva detto quasi la stessa cosa e abbassò lo sguardo sul tavolo. Non aveva intenzione di mettersi a piangere. Non davanti a un poliziotto. «Mi scusi» disse un attimo dopo, quando arrivarono le lacrime. «Non c'è niente di cui scusarsi» rispose Lennart. «Anche io ho pianto, a volte.» Aveva la voce bassa e calma, simile alla superficie immobile di un lago. Julia sbatté le palpebre e si concentrò sul viso serio di lui per mantenere lo sguardo limpido. Voleva dire qualcosa, qualsiasi cosa. «Gerlof...» disse, fermandosi poi a schiarirsi la voce «Gerlof non crede che Jens... che mio figlio sia annegato.»
Lennart la guardò. «Ah» disse, e basta. «Lui... ha trovato una scarpa» continuò Julia. «Un sandaletto, da bambino. Uguale a quelli che indossava Jens quando...» «Una scarpa?» Lennart continuava a guardarla. «Un sandaletto? Lei l'ha visto?» Julia annuì. «L'ha riconosciuto?» «Sì... forse.» Julia prese il bicchiere. «All'inizio ero sicura... ma adesso non lo so con certezza.» Guardò il poliziotto. «È stato tanto tempo fa. Si pensa sempre che certe cose non si dimentichino, e invece sì.» «Vorrei vederlo» disse Lennart. «Non dovrebbe essere un problema.» Non conosceva l'opinione di Gerlof in merito alla possibilità di coinvolgere la polizia nella cosa, ma non importava più di tanto. Jens era figlio suo. «Ritiene che possa avere qualche significato?» chiese. «Non credo che si debba sperare troppo» rispose Lennart. Finì gli ultimi bocconi di lasagne e aggiunse: «E così Gerlof è diventato investigatore privato, negli ultimi tempi?». «Investigatore privato... mah, può darsi.» Julia sospirò. Era bello poter parlare di questa faccenda con qualcuno che non fosse Gerlof. «Ha un sacco di teorie, o non so come chiamarle. Vaghe ipotesi... Non ho idea di cosa pensi esattamente. Ha detto che il sandalo gli è stato spedito per posta, in una busta senza mittente, e ha parlato di un uomo che si chiamava Kant e che aveva...» «Kant?» la interruppe Lennart. Era immobile, adesso. «Nils Kant? Ha detto proprio così?» «Sì» rispose Julia. «Era originario di Stenvik, ma quando sono nata io non ci abitava più. Sono passata al cimitero, oggi, e ho visto...» «Che è sepolto nel cimitero di Marnäs» disse Lennart. «Sì, ho visto la lapide» confermò Julia. Il poliziotto davanti a lei fissò il tavolo. Le spalle gli si erano afflosciate, e d'un tratto parve di nuovo molto stanco. «Nils Kant... Quell'uomo si rifiuta di morire.» Öland, maggio 1945 Un moscone verde cangiante arriva ronzando nella luce del sole che bat-
te sul tavoliere. Procede a zigzag in mezzo ai cespugli di ginepro e alle altre piantine atterrando alla fine pesantemente al centro di un palmo aperto. Le ali del moscone si fermano, le zampine si allungano. Resta all'erta, pronto ad alzarsi in volo al minimo accenno di pericolo, ma la mano giace immobile nell'erba. Nils Kant è in piedi, ancora con il fucile alzato, e guarda il moscone che riposa le ali sulla mano del soldato tedesco. È steso supino nell'erba. Gli occhi sono aperti, il viso girato di lato e si direbbe quasi che stia guardando, sorpreso, il moscone. Ma parte del collo e la spalla sinistra del soldato sono state spappolate dalla scarica di pallettoni di Nils, il sangue ha imbrattato la logora giacca dell'uniforme e il soldato non vede niente. Nils trattiene il respiro e rimane in ascolto. Adesso che non si sente più nemmeno il ronzio del moscone, sul tavoliere regna il silenzio più assoluto, anche se Nils ha ancora nelle orecchie il fischio provocato dai due colpi sparati. Devono essere riecheggiati in un raggio molto ampio, ma non pensa che qualcuno li abbia sentiti. Non ci sono strade nelle vicinanze, ed è raro che la gente si spinga tanto in là sul tavoliere. È tranquillo. È molto tranquillo. Dopo il primo colpo, il colpo involontario che ha abbattuto il primo tedesco, era come se due mani invisibili gli avessero afferrato le spalle tremanti, bloccandole. "Ecco, così, calma." Il sangue aveva smesso di pulsargli nelle dita, le mani avevano cessato di tremare e Nils sì era sentito più sicuro che mai, quando aveva puntato il fucile Husqvarna sul secondo tedesco. Lo sguardo era diritto, il dito aveva sfiorato il grilletto, la mira della canna era perfetta. Se quella era la guerra, o comunque quasi come la guerra, somigliava moltissimo alla caccia alla lepre. «Da' qui» aveva ripetuto. Aveva teso la mano e il tedesco, compresa la richiesta, gli aveva consegnato con un cauto movimento della mano la piccola e scintillante pietra preziosa che gli aveva mostrato. Nils aveva chiuso le dita sulla pietra senza abbassare né lo sguardo né il fucile, e l'aveva infilata nella tasca posteriore. Aveva annuito, come rivolto a se stesso, e con estrema calma aveva agganciato il grilletto con l'indice. Il tedesco aveva alzato sconsolato le mani, capendo che era tutto perduto, e aveva piegato le ginocchia aprendo la bocca, ma Nils non aveva intenzione di ascoltarlo.
«Heil Hitler» aveva sussurrato, facendo partire il colpo. Un ultimo colpo, e poi silenzio. Semplicissimo. Ora i due soldati sono lì stesi tra gli arbusti di ginepro, uno gettato all'indietro sopra l'altro, con la schiena inarcata. Il moscone si arrampica sulla punta dell'indice di quello che sta sopra, apre le ali e si alza in volo senza sforzo. Nils lo segue con lo sguardo finché, doppiato un grosso cespuglio, scompare alla sua vista. Poi fa un passo avanti, appoggia uno scarpone contro il soldato steso sopra, e spinge. Il corpo scivola pesantemente verso l'erba. Meglio. Nils potrebbe anche sistemare i soldati in maniera più decorosa, come per una vera veglia funebre, ma è sufficiente così. Guarda i due morti. I soldati hanno l'aria di essere vecchi ma hanno la sua stessa età, e ora che sono lì immobili riflette di nuovo su chi siano veramente. Da dove vengono? Non li capiva, ma è praticamente sicuro che parlassero tedesco. Le uniformi sono infangate e logore, con i bordi sfilacciati e le ginocchia lise. Nessuno dei due ha armi, ma quello sopra portava una bisaccia di colore verde, che al momento della caduta è scivolata di lato. Nils l'ha vista solo adesso. Si china e slaccia la bisaccia, che è asciutta e non è stata quasi schizzata di sangue. Solleva la patta e vede un mucchietto di oggetti: un paio di scatolette di latta senza etichetta, un coltellino con il manico di legno consumato, un fascio di lettere tenute insieme da uno spago, un mezzo filoncino di pane secco e scuro. Qualche mozzicone di corda, un paio di bende sporche, una piccola bussola di ottone opaco. Nils prende il coltellino e se lo infila in tasca, come ricordo. Dal punto di vista economico è senza valore. C'è anche qualcos'altro nella bisaccia: un astuccio di latta, poco più piccolo del calcio di un fucile. Nils lo tira fuori e sente tintinnare qualcosa all'interno. Premendo con il pollice, apre il coperchio. L'astuccio di latta è pieno di scintillanti pietre preziose. Se le rovescia in mano e ne avverte il contorno duro e sfaccettato. Alcune sono piccole come pallini da caccia, altre grosse come spolette, e in tutto sono più di venti. Di fianco c'è un oggetto più grande, avvolto in un pezzo di stoffa verde. Lo tira fuori e apre i lembi del panno. È un crocifisso di oro puro, grande come il palmo di una mano, con una serie di pietre rosse incastonate nell'oro. Bello. Lo guarda a lungo, poi lo riavvolge nel panno.
Nils chiude il coperchio e infila nel suo zaino il bottino di guerra. Poi risistema la bisaccia accanto al suo proprietario morto. In realtà lì non c'è altro da fare. Naturalmente dovrebbe seppellire i soldati, ma non ha niente con cui scavare. I corpi dovranno restare dove sono, coperti dai cespugli, e poi, magari, potrà tornare con un badile robusto un altro giorno. Però allunga la mano e chiude loro gli occhi, così almeno non sono costretti a fissare il cielo. Poi si raddrizza: è ora di tornare a casa. Mette lo zaino in spalla, prende il fucile ancora caldo e circondato dall'odore di polvere da sparo e si dirige a ovest, verso Stenvik. Il sole splende in mezzo alle nuvole. Dopo una cinquantina di passi si volta per un istante a guardare indietro la distesa di erba chiara. La radura tra i cespugli di ginepro è in ombra e le uniformi verdi dei soldati si perdono sullo sfondo, ma una mano bianca e immobile emerge dall'erba, stagliandosi chiaramente contro i rami contorti dei ginepri. Nils riprende a camminare. Adesso comincia a rimuginare su cosa dire a sua madre, come spiegare le macchie di sangue sui pantaloni. Vuole raccontarle tutto, non tenerle nascosto neanche un segreto su quello che fa in giro per il tavoliere, ma a volte percepisce che ci sono cose che in realtà lei non vuole sentirsi dire. Forse lo scontro con i soldati rientra tra queste. Deve pensarci sopra. E così riflette, senza però giungere a una conclusione soddisfacente. Ormai si sta avvicinando alla strada che porta a Stenvik. È deserta, e Nils prosegue. No, la strada non è completamente deserta. All'altezza di una leggera curva a qualche centinaio di metri dalle prime abitazioni del paese vede arrivare qualcuno. Il primo impulso di Nils è di battere in ritirata, ma alle proprie spalle vede solo piccoli cespugli rachitici. E poi, che motivo ha, in realtà, di correre a nascondersi? È stato protagonista di una grande impresa, là in mezzo al tavoliere, qualcosa di sconvolgente, e adesso non ha nessun bisogno di avere paura. Si ferma dietro il muro di pietre a qualche metro dalla strada per il paese e aspetta che la persona si avvicini. D'un tratto si rende conto che è Maja Nyman. Maja, la ragazza di Stenvik che ha guardato spesso e alla quale ha pensato, ma con cui non ha mai scambiato una parola. Non può parlarle neanche adesso, ma lei si sta avvicinando, con un sorrisino sulle labbra, come se
quella fosse soltanto una normale giornata estiva. L'ha visto, e per quanto non abbia accelerato il passo, gli sembra di notare che raddrizzi la schiena, sollevi il mento di un paio di centimetri e spinga in avanti il petto. Nils rimane come pietrificato di fianco al muretto e vede Maja fermarsi sul lato opposto. Lei lo guarda. Lui la guarda a sua volta ma non trova le parole neanche per un saluto. Il silenzio diventa ancora più insopportabile quando dal fosso che corre parallelo al muretto si leva il canto di un usignolo allegro. Alla fine è Maja ad aprire la bocca. «Hai sparato a qualcosa, Nils?» chiede con voce squillante. La domanda lo fa quasi barcollare all'indietro. All'inizio si convince che Maja sappia tutto, poi si rende conto che non ha parlato di soldati. In fondo ha il fucile in spalla, e poi tornando in paese porta sempre delle lepri uccise. Scuote la testa. «No» risponde. «Niente lepri.» Fa un passo indietro, sente nello zaino il peso dell'astuccio di latta e dice: «Adesso devo... andare. Da mia madre, in paese». «E non cammini per la strada?» chiede Maja. «No.» Nils continua ad arretrare. «Io vado più veloce sul tavoliere.» Le parole gli salgono alle labbra sempre più facilmente: in effetti riesce a parlare con Maja Nyman. Lo farà ancora, qualche volta, ma non oggi. «Be', allora ciao» dice semplicemente, voltandosi senza attendere risposta. Intuisce che lei è rimasta lì a guardarlo, e si avvia in direzione opposta alla strada contando duecento passi, per poi svoltare di nuovo verso il paese. Per tutto il tempo sente il tintinnio attutito dell'astuccio di latta che scorre avanti e indietro sul fondo dello zaino, e a un certo punto si rende conto di non avere il coraggio di portarlo a casa. Deve procedere con cautela, con il suo bottino di guerra. Dopo qualche altro centinaio di passi, quando la strada che porta in paese è scomparsa dietro gli arbusti, davanti a lui spunta un mucchietto di pietre. L'antico tumulo votivo. È un punto di riferimento a cui Nils quasi sempre si limita a passare davanti, sia andando che venendo da Stenvik, ma adesso si avvicina e si ferma. Fissa il cumulo di sassi, grandi e piccoli, riflette e si guarda intorno.
Il tavoliere è deserto. Non si sente altro che il vento. Dentro di lui prende forma un'idea, sgancia lo zaino e lo mette a terra. Poi lo apre e ne estrae l'astuccio con le pietre preziose, lo soppesa in mano e si mette vicinissimo al tumulo. Quasi perfettamente a est c'è la chiesa di Marnäs. Nils vede il campanile ergersi dalla linea dell'orizzonte, simile a una piccola freccia scura. Puntando lo sguardo sul campanile, si piazza come sull'attenti dando le spalle al tumulo e fa un lungo passo avanti. Poi comincia a scavare. Il sole splende da giorni e il terreno è quasi del tutto secco: Nils riesce ad asportare lo strato superiore del terreno staccando zolle d'erba di una decina di centimetri, poi scava con l'aiuto delle mani e del coltellino del tedesco. Non ci si mette molto ad arrivare alla roccia sottostante, in quel punto: su tutto il tavoliere lo strato di terra è molto sottile. Nils gratta via la terra per allargare il buco, zappa e scava, sempre guardandosi intorno. Una volta ricavata una larga buca, profonda una trentina di centimetri, Nils è già al livello della roccia, ma può bastare. Prende l'astuccio di latta e lo depone con cura sul fondo, prelevando poi dal tumulo alcuni sassi piatti con cui costruisce una specie di cupola, per coprirlo. Infine riempie velocemente la buca e preme la terra il più possibile con la mano. La cosa che richiede più tempo è risistemare le zolle erbose sullo strato di terra: è importante che la zona intorno al tumulo votivo appaia com'è sempre stata. Ci vuole un bel po' a ricomporre l'erba a dovere, ma alla fine Nils si alza e osserva il punto da diverse direzioni. Il terreno sembra intatto, gli pare, anche se quando si rimette in spalla lo zaino ha le mani sporche. Si dirige di nuovo verso casa. Racconterà a sua madre dell'incontro con i tedeschi. Ormai ha deciso, però cercherà di procedere con cautela, per non farla preoccupare. Non le dirà niente delle pietre preziose che ha seppellito. Non ancora: sarà una sorpresa. Per il momento, il bottino di guerra è un tesoro nascosto noto solo a lui. Alla fine scavalca un muretto di pietre e si ritrova sulla strada che porta in paese, ma più vicino alle case rispetto al punto in cui ha incrociato Maja. Ormai è quasi a Stenvik. Prima di raggiungere casa sua vede due uomini con gli stivali spessi risalire dalla strada che scende al mare e passargli accanto a passi pesanti. Sono pescatori di anguille che, con le mani annerite, portano tra di loro
una nassa appena incatramata. Nessuno dei due lo saluta: entrambi girano la testa dall'altra parte. Nils non ricorda i loro nomi, ma non ha importanza, così come non ha importanza la loro scortesia. Nils Kant vale più di loro, vale più di tutti gli abitanti di Stenvik. Lo ha dimostrato oggi, nello scontro in mezzo al tavoliere. È quasi sera. Apre il cancello di casa sua ed entra nel giardino silenzioso per poi risalire lungo il vialetto lastricato a lunghi passi fieri. Il giardino deserto è rigoglioso e si sente l'odore dell'erba. Tutto appare identico a come l'ha lasciato quella mattina andando a caccia di lepri, ma Nils è un'altra persona. 12 In piedi davanti alla scrivania di Gerlof, Lennart Henriksson soppesava con una mano la bustina di plastica contenente il sandaletto, come se il peso potesse rivelargli se fosse autentico o no. Quel ritrovamento non pareva averlo messo affatto di buon umore. «Bisogna riferire alla polizia queste cose, Gerlof» disse. «Lo so» rispose lui. «Circostanze come questa vanno comunicate subito.» «Ma sì» borbottò Gerlof. «Non ne ho avuto il tempo. Ma che ne pensi?» «Di questo?» Il poliziotto guardò il sandalo. «Non lo so, preferisco non trarre conclusioni avventate. Tu che ne pensi?» «Penso che avreste dovuto cercare in posti diversi dall'acqua.» «Fu quello che facemmo, Gerlof» ribatté Lennart. «Non ti ricordi? Setacciammo l'intera cava, tutte le case e i capanni e le rimesse nell'intero paese, e io stesso mi misi a girare in auto su e giù per il tavoliere. Non trovammo niente. Ma se Julia dice che è la scarpa giusta, dovremo prendere sul serio la cosa.» «Io credo che sia il sandalo di Jens» disse Julia dietro di lui. «E ti è arrivato per posta?» chiese Lennart. Gerlof annuì con la sgradevole sensazione di essere sottoposto a un interrogatorio. «Quando?» «La settimana scorsa» rispose Gerlof. «Ho telefonato a Julia e gliel'ho detto... in parte è per questo che è venuta.» «Hai ancora la busta?» chiese Lennart.
«No» si affrettò a rispondere Gerlof. «L'ho buttata via... a volte sono un po' distratto. Ma non c'era nessuna lettera e mancava il mittente, questo lo so. Penso che ci fosse scritto solo "Capitano Gerlof Davidsson, Stenvik". La posta l'ha inoltrata qui. Ma la busta non sarà poi tanto importante, no?» «Mai sentito parlare di impronte digitali?» sospirò Lennart. «Ci sono capelli e molto altro che si può... Be', comunque prendo volentieri con me il sandalo, adesso. Può darsi che anche su quello ci sia qualche traccia.» «Veramente io preferirei...» fece per dire Gerlof, ma Julia lo interruppe con una domanda: «Lo porterà in un laboratorio?». «Sì» rispose Lennart. «C'è un laboratorio di medicina legale a Linköping, quello della scientifica. È lì che esaminano i reperti come questo.» Gerlof non disse niente. «Bene, allora che lo facciano» concluse Julia. «Posso avere una ricevuta?» chiese Gerlof. Julia parve irritata, come se si vergognasse per lui, ma Lennart abbozzò un sorriso stanco e annuì. «Certo, Gerlof» disse. «Ti firmo una ricevuta, così puoi citare in giudizio la polizia di Borgholm se il laboratorio di Linköping perde la scarpa. Però se fossi in te non mi preoccuperei.» Quando, pochi minuti dopo, il poliziotto se ne andò, Julia lo accompagnò fuori, ma tornò poco dopo. Gerlof era ancora seduto alla scrivania con la ricevuta scarabocchiata in fretta da Lennart in una mano, lo sguardo incupito fisso su un punto oltre la finestra. «Lennart ha detto di non parlare con altri del sandalo» disse Julia alle sue spalle. «Ma va'?» Gerlof continuò a guardare fuori. «Cosa c'è?» chiese Julia. «Non era necessario che gli parlassi del sandalo» rispose Gerlof. «Mi hai detto tu di dirlo in giro.» «Non alla polizia» ribatté Gerlof. «Possiamo risolverla da soli, questa faccenda.» «Risolvere?» disse Julia a voce più alta. «Risolvere cosa? Che cosa ti sei messo in testa? Che la persona che portò via Jens, ammesso che esista... che quella persona si presenti qui e chieda di vedere il sandalo? Lo credi davvero? Che venga a spiattellarci cos'ha fatto?» Gerlof non rispose. Stava ancora guardando fuori, dandole le spalle, e la
cosa la mandò ancora più in bestia. «Cosa stavi facendo tu, quel giorno?» continuò. «Lo sai» rispose Gerlof a voce bassa. «Lo so» confermò Julia. «La mamma era stanca e c'era bisogno che qualcuno tenesse d'occhio tuo nipote... e tu scendesti fino al mare per sistemare le reti. Perché volevi uscire a pescare.» Gerlof annuì. «Fu allora che scese la nebbia» disse. «Già, una nebbia che si tagliava con il coltello... ma andasti a casa, allora?» Gerlof scosse la testa. «Continuasti a occuparti delle reti...» lo rimproverò Julia «perché era molto più divertente starsene per conto proprio che correre dietro a un bambino, vero?» «Mentre me ne stavo laggiù tenni le orecchie tese per tutto il tempo» replicò Gerlof senza guardarla. «Non udii nulla. Avrei sentito Jens se...» «Non è questo il punto!» lo interruppe Julia. «Il punto è che tu eri sempre via quando saresti dovuto stare a casa. Che tutto girava intorno a te... Era così, sempre così.» Gerlof non rispose. Gli parve che il cielo si fosse incupito, fuori dalla finestra. Possibile che fosse già l'imbrunire? Stava ascoltando con attenzione ciò che diceva sua figlia, ma non riusciva a farsi venire in mente una buona risposta. «Evidentemente sono stato un cattivo padre» disse alla fine. «Ero spesso via, ne sentivo il bisogno. Ma se avessi potuto fare qualcosa per Jens quel giorno... Se quell'intera giornata avesse potuto essere cambiata...» Smise di parlare, lottando per controllarsi. Nella stanza regnava un silenzio insopportabile. «Lo so, papà» disse Julia alla fine. «Non ho il diritto di dire niente, io non ero neanche a Öland. Ero partita per Kalmar e avevo visto la nebbia risalire da sotto il ponte mentre attraversavo lo stretto.» Sospirò. «Quante volte credi che abbia provato rimorso per aver lasciato Jens quel giorno? Non l'avevo neanche salutato.» Gerlof prese fiato e poi espirò lentamente. Si girò e la guardò. «Martedì, il giorno prima del funerale di Ernst, andremo insieme da chi mi ha mandato il sandalo.» Julia restò in silenzio. «Come sarebbe?» chiese infine.
«So chi è stato» rispose Gerlof. «Al cento per cento?» «Novantacinque.» «Dove abita?» domandò Julia. «Qui a Marnäs?» «No.» «A Stenvik?» Gerlof scosse la testa. «Giù a Borgholm» rispose. Julia non parlò per qualche secondo, come se pensasse che fosse una specie di trucco. «Okay» disse poi. «Allora andremo con la mia auto.» Si alzò per prendere il cappotto che aveva appoggiato al letto. «E adesso cosa fai?» chiese Gerlof. «Non lo so... Andrò giù a Stenvik a rastrellare le foglie nel giardino di casa tua o qualcosa del genere. Adesso che abbiamo attaccato la corrente e l'acqua posso mangiare lì, però credo che continuerò a dormire nel capanno. Mi concilia il sonno.» «Bene. Però tieniti in contatto con John e Astrid» le raccomandò Gerlof. «Dovete far fronte comune.» «Certo.» Julia s'infilò il cappotto. «A proposito, sono passata al cimitero. Ho acceso una candela per la mamma.» «Bene... così resterà accesa per cinque giorni, fino a domenica. È il consiglio parrocchiale a occuparsi della tomba, io purtroppo non ci vado spesso...» Gerlof tossì. «Era stata scavata la fossa per Ernst?» «Non che io abbia visto» rispose Julia. Poi aggiunse: «Però ho trovato la tomba di Nils Kant contro il muretto di pietra. Era quella, no, che volevi mostrarmi?». «Già.» «Prima di vedere la tomba pensavo che Nils Kant doveva essere tra i sospettati...» disse Julia «ma adesso capisco perché nessuno fece il suo nome, all'epoca.» Gerlof rifletté sulla possibilità di dire qualcosa - magari farle notare che per un assassino la scelta migliore era fingersi morto -ma lasciò perdere. «Però c'erano delle rose, sulla tomba» continuò Julia. «Rose fresche?» chiese Gerlof. «Non proprio» rispose Julia. «Forse rimaste lì da quest'estate. E anche un'altra cosa...» Infilò la mano nella tasca del cappotto e ne estrasse la bustina che aveva
trovato infilata nel mazzo. Si era asciugata, ormai, e la tese a Gerlof. «Forse non dovremmo aprirla» disse «in fondo è privata e...» Ma Gerlof aprì rapidamente la busta, ne estrasse un biglietto bianco e lo lesse. Prima in silenzio, poi a voce alta: «Tutti ci presenteremo al tribunale di Dio». Guardò Julia. «Non c'è scritto altro... È una citazione dalla Lettera ai Romani. Posso tenerlo?» Julia annuì. «Ci sono spesso fiori e lettere sulla tomba di Kant?» chiese. «Non proprio» rispose Gerlof, infilando la busta in un cassetto della scrivania. «È successo di tanto in tanto nel corso degli anni... sto parlando dei fiori, almeno. Ho visto mazzi di rose.» «Dunque Nils Kant ha degli amici ancora in vita?» «Sì... per lo meno c'è qualcuno che vuole ricordarlo, per qualche motivo» disse Gerlof, aggiungendo poi: «A volte le persone con una cattiva reputazione conquistano degli ammiratori». Ci fu una pausa. «Okay. Allora vado a Stenvik» disse Julia, abbottonando il cappotto. «Che programmi hai per domani?» «Magari farò un giro a Långvik» rispose. «Vedremo.» Una volta che sua figlia fu uscita, le spalle di Gerlof si afflosciarono per la stanchezza. Sollevò le mani davanti a sé e vide che gli tremavano le dita. Era stato un pomeriggio faticoso, ma aveva un'altra cosa importante da fare, quel giorno. «Torsten, sei stato tu a seppellire Nils Kant?» chiese Gerlof qualche ora più tardi. Lui e l'altro uomo anziano erano seduti ciascuno al proprio tavolino, completamente soli nel locale del seminterrato. Non era un caso, per Gerlof: dopo cena aveva preso l'ascensore fino alla stanza utilizzata per le varie attività manuali, ed era rimasto lì per più di un'ora ad aspettare che un'altra ospite della residenza, la cui stanza si trovava al primo piano, concludesse il suo interminabile lavoro al telaio. Lo scopo era rimanere solo con Torsten Axelsson, che aveva fatto il becchino nella parrocchia di Marnäs dal periodo della guerra fino alla metà degli anni Settanta. Durante l'attesa, fuori dalle finestrelle del seminterrato il buio autunnale si era infittito sempre più. Ormai era sera. Prima di porre quella domanda determinante Gerlof aveva chiacchierato con Axelsson dell'imminente funerale di Ernst, più che altro per trattenerlo
nella stanza. Anche l'ex becchino soffriva di reumatismi, ma era del tutto lucido e le conversazioni con lui erano per lo più piacevoli. Non sembrava provare, per il suo lavoro al cimitero, la stessa nostalgia che Gerlof provava per il proprio scorrazzare per i mari, ma per lo meno si era fermato a parlare dei vecchi tempi. Gerlof era seduto dietro un bancone ingombro di pezzi di legno, colla, attrezzi e carta smerigliata. Stava costruendo un modellino della galeazza Pollux, l'ultimo veliero di Borgholm, diventato, negli anni Sessanta, una nave da diporto a Stoccolma. Lo scafo era finito, ma Gerlof aveva ancora da lavorare parecchio sull'attrezzatura, e naturalmente il lavoro sarebbe stato completo solo una volta dentro la bottiglia, quando avrebbe potuto alzare gli alberi e fissare le ultime corde. Tutto richiedeva tempo. Gerlof limò delicatamente una piccola tacca in cima a uno degli alberi e aspettò una risposta dal becchino in pensione. Axelsson era seduto con la schiena curva su un tavolo ingombro di migliaia di tessere di puzzle. Era a metà circa di una grande riproduzione delle ninfee gialle e bianche di Monet. Inserì una tessera al suo posto, nello stagno nero, e poi alzò gli occhi. «Kant?» chiese. «Nils Kant, esatto» confermò Gerlof. «È una tomba un po' in disparte, addossata al muro occidentale. E mi è venuto in mente il suo funerale. Sai, io all'epoca non abitavo quassù e...» Axelsson annuì, prese un'altra tessera e rifletté. «Sì, scavai io la fossa e portai anche la bara, insieme ai colleghi del cimitero... in mancanza di altri portatori che si fossero offerti spontaneamente per quel servizio.» «Ma non c'erano lì i familiari in lutto?» «Be', sì... sua madre. Rimase per tutto il tempo. Praticamente non l'avevo mai vista prima. Era magrissima, nodosa e portava un cappotto nero» disse Axelsson. «Ma se la si potesse definire in lutto, non lo so. Aveva l'aria un po' troppo compiaciuta.» «Compiaciuta?» «Ma sì... Naturalmente non la vidi in chiesa» disse Axelsson. «Però ricordo di averla sbirciata mentre calavamo la bara. Vera era lì, a un metro dalla fossa, a guardare la cassa che veniva inghiottita dalla terra, e sono sicuro che sotto il velo aveva un mezzo sorriso sulle labbra. Come se fosse soddisfatta del funerale.» Gerlof annuì. «E c'era solo lei alla cerimonia? Nessun altro?»
Axelsson scosse la testa. «Qualcuno sì, ma non li definirei familiari in lutto. C'erano anche dei poliziotti, ma più in là, quasi all'altezza del cancello.» «È ovvio che volevano assicurarsi che Kant finisse sottoterra una volta per tutte» commentò Gerlof. «Già.» Axelsson annuì. «E probabilmente non c'era nessun altro, a parte il pastore Fridland.» «Be', lui era pagato.» Per un po' nessuno aprì bocca. Gerlof lucidò il piccolo scafo della Pollux per qualche minuto. Poi prese fiato e disse: «Quella cosa che hai detto sul sorrisino di Vera Kant davanti alla fossa fa venire qualche dubbio sul contenuto della bara...». Axelsson abbassò gli occhi sul puzzle e prese in mano un'altra tesserina. «Vuoi chiedermi se era stranamente leggera da portare, Gerlof?» disse. «È una domanda che mi è stata fatta molte volte nel corso degli anni.» «Già, a volte la gente ne parla...» ammise Gerlof «dicono che la bara di Kant fosse vuota. Ne hai sentito parlare anche tu, no?» «Puoi anche smettere di chiedertelo, perché non lo era» rispose Axelsson. «La portammo in quattro, sia prima che dopo la funzione, e servivamo tutti. Altroché se pesava.» Gerlof sentì che forse stava mettendo in discussione la professionalità del vecchio becchino, ma fu costretto a continuare: «Qualcuno dice che forse c'erano solo sassi, nella bara, o magari sacchi di sabbia» disse a bassa voce. «So anche di questa voce» disse l'altro. «Certo io non ci guardai dentro, ma qualcuno deve pur averlo fatto... se non altro quando arrivò a Öland con il traghetto.» «Io invece ho sentito dire che non l'aprì nessuno» ribatté Gerlof. «Era sigillata, e nessuno aveva il fegato, o l'autorità, per forzarla. Sai se qualcuno l'aprì?» «No...» ammise Axelsson. «Ricordo solo vagamente che c'era un certificato di morte proveniente dall'America del Sud ad accompagnare la bara su uno dei mercantili di Malm. Uno del centro smistamento merci giù a Borgholm, che masticava un po' di spagnolo, l'aveva letto... Nils Kant era annegato, c'era scritto, e poi era rimasto a mollo per un po', prima che lo tirassero su. E quindi il cadavere non aveva proprio un bell'aspetto.» «Forse la gente aveva paura che Vera Kant scatenasse un putiferio» disse Gerlof. «Meglio seppellire Nils e fare finta di niente.»
Axelsson guardò Gerlof ma si limitò ad alzare le spalle. «Non chiederlo a me» disse inserendo un altro frammento di ninfea nello stagno del dipinto di Monet. «Io non ho fatto altro che metterlo sottoterra, portare a termine il mio lavoro e tornarmene a casa.» «Questo lo so, Torsten.» Axelsson aggiunse ancora una tesserina al puzzle, rimirò per un attimo il risultato e poi guardò l'orologio a parete. Si alzò a fatica. «Manca poco al caffè» disse. Prima di uscire dalla stanza, però, si fermò e si voltò. «E tu cosa ne pensi, Gerlof?» chiese. «Nils Kant è in quella bara o no?» «Ma sì, lo sarà di sicuro» rispose Gerlof a voce bassa senza guardare l'anziano becchino. Quando Gerlof tornò nel suo reparto, erano già le sette passate e mancava solo mezz'ora al caffè serale. Nella residenza di Marnäs era tutto scandito dalle routine. La conversazione con Torsten Axelsson nel seminterrato, comunque, era andata bene. Gerlof l'aveva trovata utile. Forse era stato un po' troppo insistente e chiacchierone, verso la fine, con il risultato che Axelsson gli aveva lanciato qualche occhiata dubbiosa. Probabilmente nei corridoi della residenza per anziani si era già sparsa la voce dello strano interesse di Gerlof nei confronti di Nils Kant. Magari si sarebbe diffusa anche al di fuori di quelle pareti, ma anche se così fosse stato, pazienza. In fondo era questo che voleva: rimescolare nel calderone facendo in modo che cominciassero a succedere delle cose. Si sedette pesantemente sul letto e prese dal comodino l'edizione di quel giorno dell'"Ölands-Posten". Quella mattina non aveva avuto il tempo, o meglio, la voglia, di leggerlo. La disgrazia fatale di Stenvik era la grande notizia della prima pagina, su cui campeggiava una delle foto della cava scattate da Bengt Nyberg, con una freccia sovrapposta per indicare chiaramente il punto in cui era avvenuta la caduta. Secondo la polizia di Borgholm si trattava di un incidente. Ernst Adolfsson aveva tentato di spostare una statua vicino al ciglio della cava, per poi inciampare e cadere tirandosi addosso il grosso blocco di pietra. Non c'era motivo di sospettare di un reato. Gerlof lesse solo l'inizio dell'articolo di Bengt Nyberg. Poi sfogliò il giornale arrivando a notizie che lo toccavano meno da vicino: alcuni progetti edilizi a Långvik che avevano accumulato ritardi, un incendio in una
stalla nei pressi di Löttorp e l'ottantunenne affetto da demenza senile che qualche giorno prima era uscito dalla sua abitazione nella parte meridionale di Öland per fare una passeggiata ed era ancora disperso sul tavoliere. L'avrebbero trovato di sicuro, ma non in vita. Gerlof piegò il giornale e lo rimise sul comodino, e fu allora che l'occhio gli cadde sul portafogli di Ernst. L'aveva appoggiato lì tornando a casa da Stenvik. Lo riprese in mano, lo aprì e guardò le banconote e gli scontrini, anche più numerosi delle prime. Lasciò nel portafogli i soldi e passò lentamente in rassegna gli scontrini. Per la maggior parte erano relativi a piccole spese nei negozi di alimentari di Marnäs o Långvik, oppure ricevute scritte a mano da Ernst stesso per la vendita di pezzi d'arte l'estate precedente. Gerlof ne cercò di più recenti, possibilmente risalenti addirittura allo stesso giorno in cui la riproduzione del campanile di Marnäs era caduta addosso al suo autore, ma non ne trovò. Quasi in fondo al mucchietto di scontrini ne notò uno diverso: un piccolo biglietto d'ingresso giallo di un museo. "Museo del legno di Ramneby" si leggeva sulla parte anteriore, dove era stampato anche un disegno in miniatura di assi accatastate. C'era un timbro eseguito con l'inchiostro blu: 13 settembre. Tenne il biglietto sul comodino e fissò gli altri scontrini con una graffetta presa dalla scrivania, per poi metterli in un cassetto. Infine si sedette alla scrivania, si allungò verso il suo taccuino e aprì la prima pagina bianca. Prese una matita, rifletté un po' e fece due annotazioni: MENTRE LA BARA DI NILS VENIVA CALATA NELLA TERRA, VERA KANT SORRIDEVA. E poi: ERNST È ANDATO A VISITARE LA SEGHERIA DELLA FAMIGLIA KANT A RAMNEBY. Poi mise nel taccuino il biglietto del Museo del legno, lo chiuse e si sedette ad aspettare l'ora del caffè. Routine: quando si diventa vecchi, si riduce tutto a routine. 13 Il primo bicchiere di vino Julia non ricordava neanche di averlo bevuto. Seduta alla tavola della cucina, aveva guardato Astrid versarlo e osservato il liquido rosso turbinare nel bicchiere. Poi aveva teso la mano, pregustan-
dosi il piacere... e tutt'a un tratto il bicchiere era sul ripiano, vuoto. Sentiva in bocca il sapore di vino e una dose di alcol che le si diffondeva in corpo, riscaldandolo, con l'impressione di aver appena rivisto un caro, vecchio amico. Fuori dalla finestra della cucina di Astrid il sole stava calando, e Julia aveva i muscoli delle gambe doloranti dopo la lunga pedalata sulla strada costiera. «Ne vuoi un altro bicchiere?» chiese Astrid. «Sì, grazie» rispose Julia, con la voce il più possibile calma e indifferente. «È buono.» Naturalmente si sarebbe scolata quel vino anche se avesse avuto il sapore di aceto. Cercò di bere il secondo bicchiere molto più lentamente. Ne bevve soltanto un paio di sorsi, lo riappoggiò sul tavolo e tirò il fiato. «È stata una brutta giornata?» chiese Astrid. «Abbastanza» rispose Julia. Non che fosse successo granché, a dire il vero. Era andata in bicicletta, seguendo la costa, fino al paese vicino, Långvik, e aveva pranzato lì. Dopodiché si era sentita dire da un contadino che vendeva uova in una piccola fattoria che suo figlio Jens era stato assassinato. Non solo era morto e sepolto da un pezzo, ma l'avevano assassinato. «Una giornata abbastanza brutta» ripeté Julia e vuotò il secondo bicchiere. La sera prima, quando Julia si preparava all'ennesima notte da sola nel capanno, il cielo era stellato. Lì, su quella spiaggia deserta, le era parso che le stelle fossero le sue uniche amiche. A est era sospesa la luna, simile a una scheggia ossea grigiobianca, ma Julia, in piedi sulla spiaggia nera come il carbone, era rimasta mezz'ora a guardare le stelle prima di risalire al capanno. Da lì si vedeva anche un'altra luce che le dava sicurezza: la lampada da giardino davanti alla casa di Astrid al lato opposto della strada. Le altri luci delle poche case abitate lungo la costa, a nord e a sud, erano lontane e quasi deboli come quella delle stelle, ma il lampioncino di Astrid, che splendeva con intensità, mostrava che nel buio c'erano altre persone. Julia si era addormentata, più rapidamente e tranquillamente del solito, e otto ore più tardi, riposata, era stata svegliata dal rumore delle onde che s'infrangevano sulla spiaggia, quasi a ritmo con il suo respiro.
Il paesaggio roccioso era tranquillo, Julia aveva aperto la porta e guardato le onde senza pensare a frammenti di ossa. Era salita alla casetta di Gerlof per lavarsi e fare colazione, e poi, facendo un giro in giardino, aveva trovato dietro il ripostiglio degli attrezzi una vecchia bicicletta da donna, probabilmente di Lena. Aveva l'aria di essere arrugginita e cigolante, ma nelle gomme c'era ancora aria a sufficienza. Era stato allora che aveva deciso di pedalare verso nord fino a Långvik per pranzare. Lì avrebbe cercato di rintracciare un vecchio che si chiamava Lambert e scusarsi con lui per avergli dato, molti anni prima, uno schiaffo. La strada costiera che portava a nord era ghiaiata e polverosa, e punteggiata di buche profonde, ma si riusciva ugualmente a percorrerla in bicicletta. E il paesaggio era splendido com'era sempre stato, con il tavoliere calcareo sulla destra e a sinistra l'acqua scintillante qualche metro più sotto del ciglio roccioso. Julia evitò di guardare verso la parte opposta della cava mentre la oltrepassava. Non voleva sapere se la pozza di sangue era ancora lì. Da quel punto in poi la pedalata era stata solo piacevole, con il sole di lato e il vento alle spalle. Långvik si trovava cinque chilometri a nord di Stenvik, ma era più grande, e completamente diversa. C'era una spiaggia attrezzata, di sabbia, un porticciolo per le imbarcazioni da diporto, diversi condomini di appartamenti in comproprietà in centro e piccoli agglomerati di seconde case sia nella parte a nord che in quella a sud. Su un'insegna sul ciglio della strada si leggeva la scritta LOTTI IN VENDITA. A Långvik si continuava a costruire: recinzioni, paletti di delimitazione e nuove strade sterrate si estendevano in direzione del tavoliere, andando a terminare in mezzo a grossi pallet carichi di tegole avvolte nella plastica e mucchi di legname impregnato. Inoltre, naturalmente, c'era l'albergo del porto, che si sviluppava su tre piani per tutta la lunghezza della spiaggia e ospitava anche un grande ristorante. Julia entrò per mangiare un piatto di pasta provando un vago senso di nostalgia. All'inizio degli anni Sessanta lo frequentava, quel locale. All'epoca della sua adolescenza, quando ci veniva in bicicletta da Stenvik insieme ai suoi coetanei, l'albergo era più piccolo, ma già allora dava un'impressione di gran lusso. C'era un'ampia terrazza di legno che si affacciava sulla spiaggia, ed era lì che si ballava fino a mezzanotte. Musica rock in-
glese e americana, alternata allo sciabordio delle onde sulla spiaggia buia nelle pause tra un disco e l'altro. L'odore di sudore, dopobarba e sigarette. Julia aveva bevuto il suo primo bicchiere di vino, lì a Långvik, e a volte capitava che qualcuno le desse un passaggio fino a casa su un motorino scoppiettante, a notte fonda. A tutta velocità senza casco nel buio, con la profonda convinzione che la vita sarebbe stata sempre più fantastica. La terrazza non c'era più, adesso, e all'hotel erano state annesse grandi e luminose sale riunioni e una piscina privata. Dopo pranzo Julia si era messa a leggere il libro che le aveva dato Gerlof, quello dal titolo Crimini ölandesi. Nel capitolo "L'assassino che la fece franca" aveva letto di Nils Kant, di ciò che aveva fatto un giorno dell'estate 1945 sul tavoliere, e poi la prosecuzione: Chi erano dunque i due uomini in divisa che Nils Kant giustiziò a sangue freddo sul tavoliere in quella soleggiata giornata estiva? Probabilmente si trattava di soldati tedeschi riusciti ad attraversare il Baltico fuggendo dalle violente battaglie in Curlandia, sulla costa occidentale della Lettonia, durante la fase conclusiva della Seconda guerra mondiale. In Curlandia i tedeschi erano circondati dall'Armata Rossa, e l'unica possibilità di fuga era rappresentata dalla traversata per mare a bordo di una qualche zattera. I rischi erano elevati, eppure in quel periodo molti militari, e anche civili, scelsero di tentare la fuga dai paesi baltici verso la Svezia. Nessuno, però, ne ha la certezza. I due soldati morti non avevano con sé né documenti né passaporti che potessero identificarli, ed ebbero una tomba senza nome. Però si erano lasciati alle spalle numerose tracce. Quello che Kant non sapeva quando aveva abbandonato i due cadaveri nel bel mezzo del tavoliere era che quella stessa mattina era stata trovata, in una cala a qualche chilometro a sud di Marnäs, una piccola barca a motore verniciata di verde con il nome russo. Nella barca, scoperta e in parte invasa dall'acqua, c'erano anche elmetti tedeschi, decine di lattine di conserva arrugginite, un vaso da notte, un remo spezzato e una scatolina del preparato contro i pidocchi russi messo a punto dal dottor Theodor Morell, il medico personale di Hitler, e prodotto a Berlino esclusivamente per i soldati della Wehrmacht. Il ritrovamento della barca aveva destato grande scalpore - come tutto ciò che di insolito viene sospinto a riva lungo le coste ölandesi - e molti
abitanti di Marnäs avevano saputo dunque prima di Kant che nella zona c'erano degli stranieri. Alcuni avevano perfino cominciato a cercarli, chi armato e chi no. Nils Kant non aveva sepolto i due uomini che aveva ucciso né aveva tentato di coprirli. Sul tavoliere, i cadaveri attirano rapidamente ogni genere di spazzini, uccelli e animaletti vari, e i loro versi e le zuffe per il bottino si sentono e si vedono in un largo raggio. Era una questione di tempo: prima o poi i soldati sarebbero stati trovati. Quando la cameriera del ristorante dell'albergo venne a sparecchiare la tavola, Julia chiuse il libro e fissò meditabonda la spiaggia sabbiosa completamente deserta sotto l'hotel. La storia di Nils Kant era interessante, ma era morto e sepolto, e lei non sapeva ancora perché Gerlof ritenesse così importante che s'informasse su di lui. «Posso pagare subito» disse alla cameriera. «Bene. Sono quarantadue corone, allora.» Era giovane, probabilmente non aveva ancora vent'anni, e pareva che il suo lavoro le piacesse. «Tenete aperto tutto l'anno?» chiese Julia dandole i soldi. La sorprendeva il fatto che ci fosse ancora tanta gente a Långvik in generale e nell'albergo in particolare, sebbene fosse ormai autunno. «Da novembre a marzo teniamo aperto solo nei fine settimana, per i congressi» rispose la cameriera. Prese i soldi e aprì il portafogli che teneva sul fianco per tirare fuori qualche moneta da una corona. «Tenga pure il resto» disse Julia. Poi gettò un'occhiata all'acqua grigia fuori dalla finestra del ristorante e continuò: «C'era un'altra cosa che mi chiedevo... Sa per caso se qui a Långvik c'è una persona che si chiama Lambert? Lambert e poi un cognome di quelli che finiscono con "-son": Svensson, Nilsson oppure Karlsson. C'è qualche Lambert qui?». La cameriera ci pensò su un attimo e scosse la testa. «Lambert?» disse. «È un nome che si dovrebbe ricordare. Non penso di averlo mai sentito.» Era troppo giovane per conoscere gli abitanti più anziani del paese, pensò Julia. Annuì e si alzò, ma la cameriera aggiunse: «Chieda a Gunnar. Gunnar Ljunger. È il proprietario dell'hotel. Conosce quasi tutti, a Långvik». Si girò e indicò con il dito. «Deve solo uscire dall'ingresso principale e svoltare a sinistra, e così ar-
riva al lato corto dell'albergo. Lì c'è l'ingresso degli uffici. A quest'ora dovrebbe esserci.» Julia la ringraziò per il consiglio e uscì. Aveva bevuto acqua a pranzo anche quel giorno. Cominciava a diventare un'abitudine. Era piacevole sentirsi la mente limpida ritrovandosi nell'aria fredda del parcheggio, anche se la calma che le infondeva il vino rosso forse le sarebbe servita, se fosse riuscita a trovare quel Lambert... Svensson o Nilsson o Karlsson che fosse. Julia si passò una mano nei capelli e fece il giro dell'albergo. Lungo la fiancata c'era una porta di legno con una serie di targhe di fianco, e su quella più in alto si leggeva LÅNGVIK CONFERENCE CENTER SPÄ. Aprì la porta e si ritrovò in una piccola reception con la moquette gialla e delle grosse piante di plastica. Era come entrare in un ufficio nei centro di Göteborg. In sottofondo si sentiva una musica a basso volume. Dietro il bancone era seduta una giovane donna elegante, e appoggiato davanti c'era un uomo altrettanto giovane in camicia bianca. Entrambi guardarono Julia come se avesse interrotto un'importante conversazione, ma la ragazza fu la più veloce a rivolgerle un sorriso e salutarla. Julia ricambiò il saluto, tesa come sempre quando si trovava di fronte a persone nuove, e chiese di Gunnar Ljunger. «Gunnar?» chiese la donna, guardando l'uomo davanti al bancone. «È rientrato dal pranzo?» «Sì, sì» rispose lui, facendo un cenno a Julia. «Venga con me, le faccio strada.» Julia lo seguì lungo un breve corridoio che terminava davanti a una porta socchiusa. Il giovane bussò e contemporaneamente spinse la porta. «Papà?» disse. «Hai visite.» «Ah» rispose una bassa voce maschile. «Prego.» L'ufficio non era molto grande, ma il panorama sulla spiaggia e sul Baltico che si apriva oltre la grande vetrata era davvero straordinario. Dietro una scrivania era seduto il proprietario dell'hotel, Gunnar Ljunger, un uomo robusto con la barba grigia e le sopracciglia cespugliose, intento a digitare sui tasti di una rumorosa calcolatrice. Portava una camicia bianca con le bretelle, e sullo schienale della sedia alle sue spalle era appesa una giacca marrone. Sul tavolo di fianco alla calcolatrice era aperto l'"ÖlandsPosten" di quel giorno, e l'uomo sembrava scorrere il giornale con gli oc-
chi mentre faceva i suoi calcoli. «Buongiorno» disse gettando un'occhiata a Julia. «Buongiorno.» «Posso esserle utile in qualche modo?» Ljunger sorrise, sempre continuando a digitare numeri sulla calcolatrice. «Ho solo una domanda» disse Julia avanzando di un passetto nella stanza. «Sto cercando Lambert.» «Lambert?» «Un certo Lambert di Långvik... Credo si chiami Lambert Karlsson.» «Lambert Nilsson, piuttosto» rispose Ljunger. «Non c'è nessun altro Lambert qui a Långvik.» «Esatto... Nilsson, ecco come si chiama» si affrettò a confermare Julia. «Ma Lambert non è più tra noi» continuò Ljunger. «È morto cinque o sei anni fa.» «Ah.» Julia avvertì una fitta di delusione, ma in parte si era aspettata di ricevere quella risposta. Lambert le era parso anziano già negli anni Settanta, quel pomeriggio che era arrivato a bordo del suo motofurgone per capire che cosa ne era stato di Jens. «Però suo fratello minore, Sven-Olof, è vivo» aggiunse Ljunger indicando un punto alle spalle di Julia. «Sven-Olof Nilsson. Sta in cima alla salita dietro la pizzeria, dove abitava anche Lambert. Sven-Olof vende uova, e quindi basta che si guardi intorno in cerca di un cortile con delle galline.» «Grazie.» «Se ci va, gli dica che adesso costa ancora meno collegarsi all'acquedotto comunale» disse Ljunger sorridendo. «È l'unico in tutta Långvik ancora convinto che un pozzo privato rappresenti la soluzione migliore.» «Okay» rispose Julia. «Lei è nostra ospite?» chiese Ljunger quando Julia fece per voltarsi. «No, ma da giovane venivo spesso a ballare qui... Sto giù a Stenvik. Mi chiamo Julia Davidsson.» «Parente del vecchio Gerlof?» chiese Ljunger. «Sono sua figlia.» «Ah!» commentò Ljunger. «Allora me lo saluti tanto. Ha fatto alcune navi in bottiglia per noi, per il ristorante. Ne vorrei delle altre.» «Glielo dirò.» «Si sta bene giù a Stenvik, vero?» continuò Ljunger. «Regnano la calma
e la tranquillità, con la cava chiusa e le case vuote.» Fece un sorrisino. «Certo quassù abbiamo scelto un'altra strada... quella dell'espansione, dell'investimento nel turismo, nel golf e nei congressi. Pensiamo che sia l'unico modo per tenere in vita i paesi costieri dell'Öland settentrionale.» Julia annuì, un po' esitante. «Pare che funzioni, in effetti» disse. Chissà, forse anche Stenvik avrebbe dovuto investire nel turismo. Uscendo dall'ufficio dell'albergo e attraversando il parcheggio spazzato dal vento Julia se lo chiese. Era una domanda senza risposta, perché ormai Långvik aveva un vantaggio troppo netto. A Stenvik non si sarebbe mai potuto costruire un hotel o una pizzeria direttamente sul mare. Il paesino era destinato a rimanere quasi deserto per la maggior parte del tempo, rianimandosi solo un paio di mesi all'anno, quando arrivavano i villeggianti estivi. Non c'era niente da fare. Oltrepassò un piccolo distributore di benzina all'altezza del porto e proseguì lungo la larga strada principale fino alla pizzeria. La via svoltava verso l'interno e s'impennava in una salita. Julia si ritrovò con il vento alle spalle. In cima c'era un boschetto e dietro vide un basso muro che circondava un giardino con una casetta bianca e un pollaio di pietra recintato. Non si vedevano galline in giro, ma su un'insegna di legno accanto al cancello si leggeva VENDITA UOVA. Julia lo aprì e si ritrovò su un vialetto di ruvide lastre di pietra calcarea. Oltrepassò una pompa verniciata di verde e ricordò quello che le aveva detto Gunnar Ljunger all'hotel riguardo all'acquedotto comunale. La porta d'ingresso della casa era chiusa, ma c'era un campanello. Quando Julia lo premette, per qualche secondo regnò il silenzio, ma poi si udì un rumore e poco dopo la porta venne aperta. Un uomo anziano fece capolino, magro, rugoso e con i radi capelli argentei pettinati sulla testa quasi calva. «Buongiorno» disse. «Buongiorno» rispose Julia. «Vuole delle uova?» Il vecchio sembrava essere stato interrotto nel bel mezzo del pranzo, perché stava ancora masticando. Julia annuì. Certo, poteva benissimo comprare qualche uovo. «Lei si chiama Sven-Olof?» domandò, senza avvertire il consueto disa-
gio di quando s'imbattevano in una persona sconosciuta. Forse stava cominciando ad abituarsi agli incontri con gli estranei, qui a Öland. «Proprio così» rispose l'uomo, infilandosi un paio di stivali neri di gomma messi davanti alla porta. «Quante ne vuole?» «Mah... sei dovrebbero bastare.» Sven-Olof Nilsson uscì di casa e un attimo prima che chiudesse la porta, un gatto scivolò fuori silenzioso, simile a un'ombra nera come il carbone, senza degnare Julia di un'occhiata. «Vado a prenderle» disse l'uomo. «Bene» rispose Julia, ma seguì Sven-Olof che si diresse verso il piccolo pollaio. Quando aprì la porticina verde ed entrò nella recinzione, lei rimase nel piccolo spazio antistante il pollaio vero e proprio, dove non si vedevano galline ma soltanto dei vassoi di uova bianche su un tavolino. «Ne vado a prendere qualcuno appena deposto» disse Sven-Olof, per poi aprire una porticina sgangherata senza vernice e proseguire all'interno del pollaio. Julia sentì l'odore di uccelli e scorse lungo le pareti delle mensole di legno, ma non vedeva granché: la lampadina al centro del soffitto era spenta, e nel piccolo locale regnava la penombra. Lì dentro l'aria era calda e polverosa. «Quante galline ha?» chiese. «Non tante, adesso» rispose Sven-Olof. «Una cinquantina... vedremo per quanto tempo potrò tenerle ancora.» Dall'interno si sentì un chiocciare sommesso. «Ho saputo che Lambert non è più tra noi» disse Julia. «Come... Lambert? Sì, è morto nell'87» rispose Sven-Olof dalla penombra. Julia non capiva perché non accendesse la luce. Forse la lampadina era rotta. «L'ho conosciuto, una volta» continuò Julia. «Molti anni fa.» «Davvero?» disse Sven-Olof. «Pensa un po'.» Non pareva particolarmente interessato a sentir parlare del fratello defunto, ma Julia non aveva altra scelta, doveva continuare: «Fu giù a Stenvik, dove sto io». «Mmh» mugolò Sven-Olof. Julia fece un passo oltre la soglia, verso di lui, nel buio. L'aria era polve-
rosa e viziata. Sentì che le galline si spostavano irrequiete lungo le pareti, ma non riusciva a vedere se fossero libere o in gabbia. «Mia madre Ella telefonò a Lambert» continuò «perché ci serviva... ci serviva aiuto nelle ricerche di una persona scomparsa. Erano tre giorni che mancava all'appello, e non c'era traccia di lui, da nessuna parte. Fu allora che mia madre cominciò a parlare di Lambert... Disse che riusciva a ritrovare le cose. Aveva fama di saperlo fare, diceva.» «Ella Davidsson?» chiese Sven-Olof. «Sì. Lei gli telefonò e il giorno dopo Lambert venne da Långvik a bordo di un vecchio motofurgone.» «Già, quando poteva dava volentieri una mano» disse Sven-Olof, ora ridotto a un'ombra in fondo al locale. La sua voce bassa si udiva a malapena in mezzo al chiocciare delle galline. «Lambert trovava le cose. Le sognava e poi le trovava. Trovava anche l'acqua, con una bacchetta da rabdomante di legno di nocciolo. Veniva apprezzato.» Julia annuì. «Si era portato dietro il suo cuscino, quando venne da noi» continuò. «Voleva dormire nella camera di Jens, con le sue cose attorno. E così fu.» «Sì, faceva proprio così» confermò Sven-Olof. «Vedeva delle cose, in sogno. Persone annegate e oggetti scomparsi. E anche eventi futuri, cose che potevano accadere. Per diverse settimane ha sognato il giorno della sua morte. Diceva che sarebbe arrivato presto, che sarebbe successo nel letto, in camera sua, alle due e mezzo di notte, che il cuore avrebbe smesso di battere e l'ambulanza non sarebbe arrivata in tempo. E così è stato, esattamente il giorno che aveva predetto. E l'ambulanza non arrivò in tempo.» «Ma funzionava sempre?» chiese Julia. «Coincideva tutto?» «Non sempre» disse Sven-Olof. «A volte non sognava niente. Oppure non ricordava più il sogno... capita, in certi casi. E di nomi non ne tirava mai fuori, erano sempre tutti senza nome, nei suoi sogni.» «Ma quando diceva qualcosa» domandò ancora Julia «era sempre vero?» «Quasi sempre. La gente si fidava di lui.» Julia avanzò di un paio di passi. Non poteva fare a meno di parlare, adesso. «La sera in cui arrivò suo fratello con il motofurgone erano tre giorni che non dormivo» disse a voce bassa. «Ma non riuscii a prendere sonno neanche quella notte. Ero sveglia, e lo sentii stendersi nel lettino della cameretta di Jens. Appena si muoveva, le molle cigolavano. Poi scese il silenzio, ma io non riuscivo a dormire... Quando si svegliò e si alzò, verso le
sette del mattino, ero seduta in cucina ad aspettarlo.» Le galline chiocciavano irrequiete intorno a lei, ma da Sven-Olof non venne alcun commento. «Lambert aveva sognato mio figlio» proseguì. «Glielo lessi nello sguardo quando entrò in cucina con il suo cuscino sotto il braccio. Mi fissò, e quando glielo chiesi, mi rispose che era così, che aveva sognato Jens. Aveva l'aria triste... Sono sicura che aveva altro da dire, ma non ebbi la forza di ascoltarlo. Lo colpii e gli gridai di andarsene. Mio padre Gerlof lo accompagnò al motofurgone davanti al cancello, e io, in cucina, piangevo sentendolo andare via.» Fece una pausa e sospirò. «È stato il mio unico incontro con Lambert. Purtroppo.» Nel pollaio scese il silenzio. Perfino le galline si erano zittite. «Quel bambino...» disse Sven-Olof nel buio. «È stata quella cosa terribile?... Il bambino scomparso a Stenvik?» «Era mio figlio Jens» rispose Julia sottovoce, sentendo un gran bisogno di un po' di vino rosso. «Non è mai stato ritrovato.» Sven-Olof non disse altro. «Vorrei tanto sapere... Lambert le rivelò mai qualcosa di ciò che aveva sognato quella notte?» «Ecco cinque uova» disse una voce dal buio. «Non ne trovo altre.» Julia capì che non aveva intenzione di rispondere alla sua domanda. Buttò fuori il fiato in un pesante e profondo sospiro. "Non ho niente" disse tra sé e sé. "Non ho niente." I suoi occhi avevano lentamente cominciato ad abituarsi all'oscurità, e vide che Sven-Olof era in piedi al centro del pollaio e la stava guardando, stringendo al petto cinque uova. «Lambert deve averle raccontato qualcosa, Sven-Olof» disse. «Una volta deve averle raccontato cosa sognò quella notte. Non è così?» Sven-Olof tossì. «Parlò del bambino una sola volta.» Julia rimase in silenzio, trattenendo il respiro. «Aveva letto un articolo sull'"Ölands-Posten"» riprese Sven-Olof. «Dovevano essere passati circa cinque anni dalla scomparsa. Lo leggemmo a colazione, ma sul giornale non c'era niente di nuovo.» «Non c'era mai niente di nuovo» disse Julia stancamente. «Non c'era mai niente di nuovo, eppure continuavano a scrivere articoli lo stesso.» «Eravamo seduti a colazione e io avevo letto il giornale per primo» continuò Sven-Olof. «Poi lo passai a Lambert. E quando vidi che stava leg-
gendo del bambino, gli chiesi cosa ne pensasse. Lambert abbassò il giornale e disse che il bambino era morto.» Julia chiuse gli occhi. Annuì in silenzio. «In mare?» chiese. «No. Disse che era accaduto sul tavoliere. Era stato ucciso sul tavoliere.» «Ucciso» ripeté Julia, sentendo un gelo agghiacciante sulla pelle. «Era stato un uomo a farlo, disse Lambert. Lo stesso giorno della scomparsa. Un uomo pieno di odio lo aveva ucciso sul tavoliere. Poi aveva messo il bambino in una tomba vicino a un muro di pietra.» Di nuovo silenzio. Una gallina sbatté irrequieta le ali in un punto accanto alla parete. «Non disse altro» concluse Sven-Olof. «Né del bambino né dell'uomo.» "Niente nomi" pensò Julia, Nei sogni di Lambert erano tutti senza nome. Sven-Olof si mosse di nuovo. Uscì dal pollaio con le cinque uova tra le mani e la guardò spaventato, come se temesse che potesse aggredire anche lui. Julia espirò lentamente. «Allora adesso so» disse. «Grazie.» «Le serve una scatola?» chiese Sven-Olof. Julia sapeva. Poteva cercare di convincersi che Lambert si sbagliasse o che suo fratello si fosse semplicemente inventato tutto, ma non ne valeva la pena. Lei sapeva. Lungo la strada del ritorno si fermò sulla strada costiera sovrastante la spiaggia vuota, guardò l'acqua trasformarsi in schiuma sulla cresta delle onde, e pianse per più di dieci minuti. Sapeva, e la certezza era terribile. Era come se fossero passati solo pochi giorni dalla scomparsa di Jens, come se tutte le ferite interiori sanguinassero ancora. Ora poteva cominciare a lasciarlo entrare, da morto, nel proprio cuore, un pezzettino alla volta. Doveva farlo lentamente, perché il dolore non la sopraffacesse. Jens era morto. Lo sapeva. E tuttavia voleva rivedere suo figlio, vedere il suo corpo. Se non fosse stato possibile, almeno voleva sapere cosa gli era successo. Per questo era lì. Le lacrime vennero asciugate dal vento. Dopo un po' Julia rimontò in
sella e riprese a pedalare lentamente. All'altezza della cava incrociò Astrid che era fuori con il cane e che la invitò a cena a casa sua, senza commentare i suoi occhi arrossati né con una parola né uno sguardo. Astrid mise in tavola braciole, patate bollite e vino rosso. Julia mangiò parecchio e bevve anche di più, più di quanto avrebbe dovuto. Ma dopo tre bicchieri di vino il pensiero che Jens era morto da tanto tempo non era più invadente come prima: si era ridotto a un dolore sordo al petto. E in fondo non c'era mai stata speranza, non dopo che i primi giorni erano passati senza il minimo segno di vita. Nessuna speranza... «E così oggi sei stata a Långvik?» chiese Astrid, interrompendo i pensieri che si accavallavano nella mente di Julia. Annuì. «Sì. E ieri sono stata a Marnäs» aggiunse subito per allontanare la mente da Långvik e dai sogni rivelatori di Lambert Nilsson. «C'era qualche novità lassù?» chiese Astrid riempiendole il bicchiere. «Non molte» rispose Julia. «Sono andata al cimitero, e ho visto la tomba di Nils Kant. Gerlof ci teneva a mostrarmela.» «Già, quella tomba» disse Astrid sollevando il bicchiere. «Mi chiedevo una cosa» continuò Julia. «Forse tu non saprai rispondermi, ma quei soldati tedeschi che Nils Kant uccise sul tavoliere... Ne arrivarono molti, a Öland?» «Non che io sappia» rispose Astrid. «Saranno stati magari un centinaio a riuscire a giungere ancora vivi in Svezia dalla guerra nei paesi baltici, ma la maggior parte scese a terra lungo la costa dello Småland. Volevano tornare a casa, naturalmente, o magari arrivare in Inghilterra. Ma in Svezia regnava la paura di Stalin, e così furono rispediti in Unione Sovietica. Un'autentica vigliaccheria. Ma sono cose che avrai studiato, no?» «Sì, un po'... ma molto tempo fa» disse Julia. Le sembrava di ricordare vagamente di aver letto, a scuola, dei profughi di guerra provenienti dalla Russia, ma all'epoca non era molto interessata alla storia della Svezia e di Öland. «E cos'altro hai fatto a Marnäs?» chiese ancora Astrid. «Io... ho pranzato con il poliziotto che è dislocato lì» rispose Julia. «Lennart Henriksson.» «Ah» disse Astrid. «Un uomo simpatico. Ha un certo stile.» Julia annuì. «Hai parlato con lui di Nils Kant?» chiese Astrid.
Julia scosse la testa, poi rifletté e disse: «Anzi sì, credo di avergli detto che ero stata a vedere la tomba di Kant. Ma non ne abbiamo parlato». «Meglio non nominarglielo più» disse Astrid. «Potrebbe aversene a male.» «A male?» sbottò Julia. «E perché?» «È una storia vecchia» disse Astrid, bevendo un sorso di vino dal suo bicchiere. «Lennart è figlio di Kurt Henriksson.» Guardò seria Julia, come se quel nome dicesse tutto. Ma lei scosse la testa, senza capire. «Chi?» «Il capo della polizia di Marnäs» spiegò Astrid. «O meglio, il sovrintendente di polizia, come si diceva allora.» «E cosa fece?» «Era compito suo arrestare Nils Kant per aver sparato ai tedeschi» rispose Astrid. Öland, maggio 1945 Nils Kant sta segando la canna del suo fucile. Si trova nella legnaia torrida, dove i ciocchi di betulla sono impilati fino al soffitto. La catasta sembra sul punto di rovinargli addosso da un momento all'altro. Sul grosso ceppo è appoggiato il suo Husqvarna, e la canna è già quasi tutta segata. Nils tiene lo scarpone sinistro piazzato sul calcio del fucile e regge il seghetto con entrambe le mani. Lento ma ostinato, sega in due la canna, fermandosi ogni tanto a scacciare le mosche che ronzano nella legnaia e tentano continuamente di posarsi sul suo viso sudato. Fuori, nella corte, regna il silenzio. Sua madre Vera è in cucina e gli sta preparando lo zaino. Un'attesa colma di tensione satura l'aria calda di quell'inizio d'estate. Nils sega senza interruzione, alla fine la lama penetra attraverso l'ultimo millimetro di acciaio e la canna si stacca e cade tintinnando sul pavimento di pietra della legnaia. Lui la raccoglie, la infila in un foro vicino alla base della catasta di legno e appoggia il seghetto sul ceppo. Tira fuori due cartucce dalla tasca e carica l'arma. Poi esce dalla legnaia e mette il fucile all'ombra, di fianco all'ingresso. È pronto. Sono passati quattro giorni da quando ha sparato i due colpi in mezzo al
tavoliere, e adesso tutti, a Stenvik, sanno cos'è accaduto. Soldati tedeschi trovati morti - giustiziati con un fucile a pallettoni. La scritta campeggiava sulla prima pagina dell'"Ölands-Posten" del giorno precedente. I caratteri erano delle stesse dimensioni di quando era stato bombardato il bosco lungo la costa nei pressi di Borgholm, tre anni prima. Ma quel titolo mente: Nils non ha giustiziato nessuno. Si è trovato coinvolto in un conflitto a fuoco con due soldati, e alla fine è stato lui a risultare vittorioso. Ma forse non tutti la vedono così. Per una volta, Nils è stato in paese di sera, ha percorso la via passando davanti al mulino e ha incrociato lo sguardo muto dei mugnai. Non ha detto niente, ma sa che sparlano alle sue spalle. Le voci girano. E le storie su quello che è successo sul tavoliere si diffondono come anelli sull'acqua. Entra in casa. Sua madre Vera è in silenzio, immobile, davanti al tavolo della cucina, le spalle rivolte alla porta. Sta guardando verso il tavoliere, fuori dalla finestra. Si accorge che sotto la camicetta grigia le sue spalle magre sono tese per la preoccupazione e il dolore. I timori di Nils stesso sono altrettanto inesprimibili. «È ora, adesso» dice. Vera si limita ad annuire senza voltarsi. Lo zaino e la valigetta sono pronti sul tavolo accanto a lei, e Nils si avvicina per prenderli. È quasi insopportabile: se tentasse di dire qualcosa, la voce gli s'incrinerebbe. Così, se ne va e basta. «Tornerai, Nils» dice sua madre con voce roca dietro di lui. Annuisce senza che lei possa vederlo e prende dalla mensola accanto alla porta il suo berretto blu con la visiera. Dentro è nascosta la fiaschetta di rame, piena di cognac. La infila nello zaino. «È ora» dice a voce bassa. Ha il portafogli con i suoi soldi per il viaggio nello zaino, e anche venti grosse banconote di Vera, arrotolate in fondo alla tasca posteriore dei pantaloni. Sulla porta si gira. Ora sua madre è voltata di profilo in cucina, ma non lo guarda ancora. Forse non ne ha la forza. Tiene le mani allacciate sul ventre, le lunghe unghie bianche le penetrano nei palmi, la mascella serrata trema. «Ti voglio bene, mamma» dice Nils. «Tornerò.» Poi infila rapidamente la porta, scende la scalinata di pietra ed esce in
giardino. Si ferma solo un attimo davanti alla legnaia per prendere il fucile, e poi gira intorno alla casa e s'inoltra in mezzo ai frassini. Nils sa come si può uscire dal paese senza essere visti, ed è quello che fa. Percorre con la schiena curva i sentieri delle vacche attraverso la fitta sterpaglia, lontano dalla strada che porta al centro abitato. Scavalca muretti di pietra coperti di licheni e, di tanto in tanto, si ferma per assicurarsi che dietro il ronzio degli insetti nell'erba non ci siano bisbigli di voci. Riemerge alla luce del sole che splende sul tavoliere in un punto a sudovest del paese, senza che nessuno l'abbia visto. Lì non corre più rischi: si orienta meglio di chiunque altro e si sposta agile e veloce sull'erba. È in grado di accorgersi della presenza di un'altra persona molto prima che quella si accorga di lui. Procede quasi dritto verso il sole, tracciando un ampio cerchio intorno al punto in cui ha incontrato i tedeschi. Non vuole vedere se i corpi sono ancora lì o sono stati portati via. Non ci vuole pensare, perché sono loro, adesso, a costringerlo a lasciare sua madre. I soldati morti lo costringono a partire, per un po'. «Devi stare alla larga» gli ha detto Vera la sera prima. «Prenderai il treno per Borgholm da Marnäs, e poi salirai sul traghetto per lo Småland. Zio August verrà a prenderti a Kalmar, e tu farai quello che ti dice. E ricordati di toglierti il berretto, quando lo ringrazi. Non parlerai con nessun altro e non tornerai a Öland finché le acque non si saranno calmate, qui. Ma vedrai che sarà così, Nils, se solo aspetteremo abbastanza.» D'un tratto gli pare di udire una voce attutita dietro di sé, un po' di lato, e si ferma. Ma non si sente niente. Nils procede con maggiore cautela in mezzo ai cespugli di ginepro, ma non può camminare troppo lentamente. Il treno non aspetta. Dopo un paio di chilometri raggiunge la strada provinciale, coperta di ghiaia. Da sud sta arrivando un carro e Nils si affretta ad attraversare e a nascondersi nel fosso. Ma il carro è trainato da un solo cavallo con la testa penzoloni, e quando arriva all'altezza del punto in cui si trovava Nils, lui è già lontano dalla strada. Ormai si trova all'incirca a metà dell'isola e pensa a quanto ha letto sul giornale: è lungo questa strada che si presume i soldati tedeschi si siano inoltrati di nascosto, dopo che la loro barca aveva avuto un guasto al motore ed era stata sospinta a riva, a sud di Marnäs. Non vuole pensarci, ma per un attimo gli torna in mente l'astuccio con le pietre preziose che ha preso ai soldati, e rivede se stesso mentre scava la
buca di fianco al tumulo votivo. Gli ultimi giorni, durante i quali sia lui che sua madre sono rimasti per lo più in casa, è stato più volte sul punto di raccontarle del suo bottino di guerra, ma qualcosa l'ha indotto a tacere. Glielo dirà, andrà a disseppellire il tesoro e lo mostrerà a sua madre, ma ha intenzione di aspettare finché non sarà tornato a casa. Dopo altri venti minuti di cammino gli si presenta davanti la massicciata della ferrovia. Si tratta del binario singolo tra Böda e Borgholm, e Nils si dirige a nord camminando lungo le rotaie verso la stazione di Marnäs. L'edificio di legno a due piani sorge isolato, come una villa, appena a sud dell'abitato. È una stazione combinata, ferroviaria e postale, e Nils avvista la costruzione nello stesso momento in cui le rotaie, davanti a lui, si sdoppiano e da due diventano quattro. I binari sono deserti. Il suo treno non è ancora arrivato. Nils è andato e tornato da Borgholm tre volte, prima d'ora, e sa come si comporta un viaggiatore. Entra in stazione, dove regnano silenzio e tranquillità, si avvicina allo sportello e compra un biglietto di sola andata per la città. L'arcigna impiegata con gli occhiali alza gli occhi su di lui da dietro la grata dello sportello e poi li riabbassa velocemente sul ripiano per emettere il biglietto ferroviario. La sua penna di legno con il pennino in acciaio gratta la carta. Nils aspetta, teso. Si sente osservato e si gira per guardarsi intorno. C'è una mezza dozzina di persone, sedute sulle panche di legno della sala d'aspetto. Sono quasi tutti uomini con la giacca ben abbottonata, da soli o a gruppetti, e diversi hanno accanto a sé borse di pelle nera. Nils è l'unico che abbia sia uno zaino che una valigia. «Ecco a lei. Ultima carrozza, numero tre.» Nils prende il biglietto, paga e va al binario con lo zaino in spalla e la valigia in mano. Dopo qualche minuto si sente un fischio penetrante e il treno entra in stazione, con tre vagoni rossi di legno a traino. La locomotiva nera a vapore, che rallenta davanti all'edificio facendo stridere i freni, racchiude in sé una potenza immensa. Nils sale sull'ultima carrozza. Dietro di lui un capostazione grida qualcosa, le porte della sala d'aspetto si aprono ed escono altri viaggiatori. Nils si volta sull'ultimo gradino, li fissa in silenzio, e allora tutti scelgono di montare sugli altri vagoni. La carrozza è immersa nella penombra e completamente vuota. Nils mette la valigia sulla reticella e si siede su un sedile rivestito di pelle vici-
no al finestrino, con vista sul tavoliere, tenendo accanto a sé lo zaino. Il treno sussulta, solido e pesante, e comincia a muoversi. Nils chiude gli occhi e tira un sospiro di sollievo. Il treno si ferma di nuovo con un sibilo sordo. Le carrozze restano immobili. Nils apre gli occhi, aspetta. È ancora solo nel vagone. Passa un minuto, poi due. Qualcosa non va? Fuori si sente vociare, e alla fine il treno riparte. Questa volta prende poco per volta velocità. Nils vede allontanarsi per poi scomparire del tutto l'edificio della stazione. Attraverso le fessure dei finestrini nel vagone entra dell'aria fresca. Sembra quasi la brezza marina sulla spiaggia di Stenvik. Le spalle di Nils si rilassano lentamente. Mette la mano sullo zaino, lo apre e si appoggia allo schienale. La velocità continua ad aumentare. La locomotiva fischia. D'un tratto la porta del vagone si apre. Nils gira la testa. Un uomo alto e robusto, con il berretto della divisa e la giacca nera con i bottoni lucidi della polizia compare sulla soglia e lo guarda con insistenza. «Nils Kant, di Stenvik» dice con espressione grave. Non è una domanda, ma Nils annuisce in modo automatico. È come inchiodato al suo sedile e sente il treno sfrecciare sul tavoliere. Un paesaggio verde e marrone fuori dal finestrino, cielo azzurro. Nils vorrebbe fermare il treno e saltare giù, vorrebbe tornare sul tavoliere. Ma la velocità è alta, adesso, il treno sussulta ritmicamente contro le rotaie e il vento sibila. «Bene.» L'uomo in divisa si siede pesantemente sul sedile di fronte a quello di Nils, così vicino che le loro ginocchia si sfiorano. Poi si sistema la giacca, abbottonata di tutto punto nonostante il caldo. Sotto la visiera del berretto ha la fronte lucida di sudore. Nils lo riconosce vagamente: Henriksson. È il sovrintendente di polizia di Marnäs. «Nils» dice Henriksson come se si conoscessero. «Sei diretto a Borgholm?» Nils annuisce lentamente. «Devi andare a trovare qualcuno?» chiede Henriksson. Scuote il capo. «E allora cosa ci vai a fare?»
Nessuna risposta. Il sovrintendente si volta e guarda fuori dal finestrino. «Be', comunque possiamo viaggiare insieme» dice, «così nel frattempo ci facciamo una chiacchierata.» Nils non apre bocca. Il sovrintendente continua: «Quando mi hanno telefonato dicendo che eri sul treno ho chiesto di aspettare un attimo a ripartire, in modo da poter arrivare in tempo in stazione e salire anch'io». Torna a posare lo sguardo su Nils. «Volevo parlare con te, capisci, delle tue lunghe passeggiate sul tavoliere...» Il treno ricomincia a rallentare per la fermata di una delle stazioni tra Marnäs e Borgholm. Attraverso il finestrino Nils scorge una casetta di legno circondata da meli. Gli pare di sentire il profumo di frittelle. Ieri sua madre gli ha preparato le frittelle con lo zucchero. Nils guarda il sovrintendente. «Non c'è niente da dire... sul tavoliere» dice. «Io invece penso di sì.» Il sovrintendente tira fuori un fazzoletto dalla tasca. «Penso che valga la pena di parlarne, Nils, e molti altri sono della stessa opinione. Tanto, prima o poi, la verità viene sempre a galla.» Il poliziotto inchioda Nils con lo sguardo e si asciuga il sudore dal viso. Poi si protende in avanti. «Diversi abitanti di Stenvik si sono fatti vivi con noi negli ultimi giorni. Hanno detto che se vogliamo sapere chi ha sparato con il fucile a pallettoni sul tavoliere, dobbiamo parlare con te.» Nils rivede nella sua testa i due soldati morti, stesi a terra, il loro sguardo vitreo. «No» risponde, scuotendo la testa. Sente un fischio nelle orecchie. Il treno frena. «Hai incontrato degli stranieri sul tavoliere, Nils?» gli domanda il sovrintendente rimettendo via il fazzoletto. Il treno si ferma con un leggero sobbalzo delle carrozze. Rimane immobile per un minuto scarso e poi riparte. «È così, vero?» Il sovrintendente continua a fissarlo. Aspetta una risposta. Il suo sguardo fermo gli brucia in viso. «Abbiamo trovato i corpi» continua il poliziotto. «Sei stato tu a ucciderli?» «Non ho fatto niente» nega Nils a bassa voce, cincischiando con le dita
intorno all'apertura dello zaino. «Cos'hai detto?» chiede il poliziotto. «Cos'hai lì dentro?» Nils non risponde. Di nuovo si sente lo sferragliare ritmato delle rotaie, il fischio della locomotiva. Nils ha le dita che tremano, rovistano e scavano sempre più in fondo allo zaino, che cade di lato sul sedile con l'apertura rivolta verso di lui. La mano destra fruga ancora più in profondità in mezzo a vestiti ed effetti personali. Il sovrintendente di polizia si alza a metà dal sedile. Forse capisce anche lui che sta per accadere qualcosa. La locomotiva emette un fischio spaventato. «Nils, che cos'hai...» All'interno dello zaino le dita di Nils si stringono sul fucile a pallettoni segato. Aggancia il grilletto e il fucile sobbalza in mezzo ai vestiti ripiegati. Il primo colpo stacca di netto il fondo dello zaino e la scarica di pallettoni sventra il sedile di fianco al poliziotto. Schegge di legno schizzano verso il soffitto. Il sovrintendente sussulta per il colpo, ma non cerca riparo. Non c'è posto in cui rifugiarsi. Nils solleva rapidamente lo zaino sfondato e preme di nuovo, senza guardare dove colpisce. Lo zaino esplode. La seconda scarica colpisce il poliziotto. Il suo corpo viene scaraventato all'indietro con tanta violenza che si sente il frantumarsi delle ossa; ricade pesantemente sul fianco, rotola di schiena sul sedile sfasciato e atterra battendo forte contro il pavimento della carrozza. Il treno sferraglia sulle rotaie, sfrecciando sul tavoliere. Il poliziotto è steso a terra ai suoi piedi, scosso da deboli spasmi alle braccia. Nils mantiene la stretta sul fucile, ma lascia cadere lo zaino ridotto a brandelli e si alza su gambe malferme. Merda. "Devi prendere il treno per Borgholm" sente ripetere Vera nella sua testa. Il piano che sua madre aveva preparato per lui è andato a rotoli. Nils si guarda intorno e vede il paesaggio sfrecciare fuori dal finestrino. Là fuori ci sono ancora il tavoliere e il sole. Capovolge lo zaino, da cui cadono vestiti lacerati che emanano un forte odore di polvere da sparo: calze, pantaloni, un maglione di lana. In fondo
c'è un sacchettino di caramelle al latte, e anche il portafogli e la fiaschetta di rame piena di cognac sono intatti. Prende la fiaschetta, manda giù velocemente un sorso di cognac tiepido e la infila nella tasca posteriore dei pantaloni. Si sente meglio. I soldi, il maglione, la fiaschetta, il fucile e le caramelle al latte. Non può portare con sé nient'altro. La valigia con i vestiti deve lasciarla dov'è. Nils scavalca il corpo immobile del sovrintendente di polizia, apre la porta e si ritrova immerso nel frastuono tra una carrozza e l'altra. Il treno sfreccia in mezzo al tavoliere. Il vento provocato dalla velocità lo strattona, costringendolo a socchiudere gli occhi. Attraverso un finestrino vede all'interno del vagone davanti: un uomo con un cappello nero è seduto dandogli le spalle e oscilla a ritmo con i movimenti del treno. Le scariche di pallettoni sono state attutite dai vestiti nello zaino; la locomotiva procede sferragliando sulle rotaie e nessuno sembra aver sentito niente. Nils apre la porta sul lato del treno, sente il profumo delle erbe che crescono sul tavoliere e vede la ghiaia della massicciata sfrecciare via sotto di lui come un fiume grigio pallido. Scende sull'ultimo gradino verso terra, controlla che davanti a lui la massicciata sia sgombra, e salta. Cerca di correre per aria e atterrare con le gambe che ancora si muovono, ma l'impatto gli toglie i piedi da sotto. Le ruote del treno rimbombano contro i binari, il mondo gli gira intorno. Viene scaraventato a terra e prende un colpo sulla fronte, irrigidendosi in vista della possibilità di morire sotto il treno. Ma la massicciata lo respinge. Solleva la testa e osserva il treno allontanarsi, l'ultimo vagone farsi sempre più piccolo in fondo ai binari. Il treno scompare in lontananza. Tutti i rumori cessano. Ce l'ha fatta. Si alza a fatica e si guarda intorno. È di nuovo nel bel mezzo del tavoliere, ancora con il fucile in mano. Non si vedono case, né persone. Solo l'erba sconfinata e il cielo azzurro. Nils è libero. Senza una sola occhiata verso la ferrovia si addentra rapidamente nel tavoliere, verso la costa orientale dell'isola. È libero, e adesso scomparirà. È già scomparso. 14
«Ecco, questa è una tipica storia del crepuscolo» disse Astrid a voce bassa. Quando concluse il suo racconto su Nils Kant, la bottiglia di vino era finita. Fuori dalla finestra della cucina il riflesso del sole era andato calando lentamente, riducendosi a un sottile segno rosso scuro sull'orizzonte. «E così il poliziotto sul treno... morì?» chiese Julia. «Quando il controllore entrò nel vagone e lo trovò, era morto» rispose Astrid. «Colpito al petto.» «Il padre di Lennart?» Astrid annuì. «Lennart doveva avere otto o nove anni a quell'epoca, e dunque non credo ricordi molto.» Poi aggiunse: «Ma sicuramente rimase profondamente segnato... So che non vuole mai sentir parlare di com'è morto suo padre». Julia abbassò gli occhi sul suo bicchiere. «Capisco che non voglia parlare nemmeno di Nils Kant» disse. Forse sotto l'influenza del vino, provò un improvviso senso di affinità nei confronti del poliziotto di Marnäs: lui aveva perso un padre, lei un figlio. «Già» disse Astrid. «E sicuramente lo angustiano ancora di più tutte le voci sul fatto che Nils Kant possa essere ancora vivo.» Julia alzò gli occhi. «Chi è che lo dice?» chiese. «Non lo sapevi?» «No. Però ho visto la tomba a Marnäs» disse Julia. «C'è la lapide con le date e...» «Non sono più molti a ricordare Nils Kant, ma chi non l'ha dimenticato, i vecchi... Alcuni pensano che ci fossero solo sassi nella cassa, quando è arrivata dall'estero» disse Astrid. «Lo crede anche Gerlof?» «Non l'ha mai detto» rispose Astrid. «Non che io abbia sentito. È un vecchio capitano, e non credo sia il tipo da dar retta a dicerie di questo genere. E tutte queste chiacchiere su Nils Kant sono... solo dicerie e pettegolezzi. Alcuni dicono di averlo visto in piedi di fianco alla strada provinciale nella nebbia autunnale, intento a guardare le auto, barbuto e ingrigito... altri l'hanno visto vagare sul tavoliere, come faceva da giovane, o in mezzo alla folla a Borgholm, d'estate.» Astrid scosse la testa. «Quanto a me, non ne ho più visto nemmeno l'ombra. Dev'essere morto.» Prese i due bicchieri da vino e si alzò da tavola. Julia rimase seduta e si chiese se lei e sua madre sarebbero state sedute così a parlare, a Stenvik,
nel caso che Ella fosse stata ancora viva. Probabilmente no: sua madre non rivelava quasi mai le sue opinioni e le sue riflessioni. Poi sentì qualcosa di caldo e morbido contro la gamba dei pantaloni e trasalì, ma era solo Willy, il fox terrier di Astrid che stava uscendo da sotto il tavolo. Allungò la mano verso il basso e lo grattò in mezzo al pelo ruvido sul collo, guardando pensosa, fuori dalla finestra, il riflesso rosso del sole sulla terraferma. «Mi piacerebbe poter restare» confidò. Astrid si girò dal bancone della cucina. «Sta' pure lì seduta» disse. «Non devi mica andare via subito, non è troppo tardi. Possiamo parlare ancora un po'.» Julia scosse la testa. «Voglio dire... mi piacerebbe poter restare qui a Stenvik.» Era proprio così. Forse era solo il vino, ma in quel momento sentiva il ricordo di tutte le estati trascorse nel paesino della sua infanzia come l'eco di una bella melodia nella testa, una canzone popolare ölandese, quasi che la sua vera casa fosse lì a Stenvik. Nonostante il dolore legato alla scomparsa di Jens, e nonostante la morte di Ernst. «E non potresti farlo, scusa?» chiese Astrid. «Verrai, no, al funerale di Ernst su a Marnäs?» Julia scosse la testa per la seconda volta. «Devo riportare l'auto a mia sorella.» Era una motivazione piuttosto inconsistente, in fondo la Ford apparteneva anche a lei, ma non gliene venivano in mente altre. «Credo che partirò domani sera o dopodomani mattina.» Si alzò da tavola con un certo sforzo. Dopo il vino, aveva le gambe un tantino malferme. «Grazie mille per la cena, Astrid» disse. «Mi ha fatto solo piacere» rispose Astrid, sfoderando, per una volta, un largo sorriso. «Dovremmo cercare di rivederci, prima che tu riparta. O almeno la prossima volta che verrai a Stenvik.» «Senz'altro» rispose Julia. Fece una carezza a Willy e uscì dalla porta della cucina. Fuori non era ancora notte, solo sera. Non era necessario procedere a tentoni nell'oscurità. «Vieni pure da me, se ti viene paura del buio!» le gridò dietro Astrid. «Ricordati che a Stenvik siamo rimasti solo noi, adesso: tu, io e John Hagman. Il paese aveva trecento abitanti, all'apice della sua espansione.
C'erano la Lega antialcolica, la missione e una fila di mulini lungo la riva. Ora restiamo solo noi.» Poi, prima che Julia potesse rispondere, chiuse la porta. Lo stordimento che aveva percepito così nettamente nella cucina di Astrid si attutì un po' grazie all'aria fresca, o almeno così le parve. La serata era fredda e limpida, e al lato opposto dello stretto, sulla terraferma, scintillavano delle luci fioche. Altre brillavano a nord e a sud lungo la costa ölandese, venivano da case e lampioni troppo lontani perché si potessero vedere di giorno. Julia aveva tenuto la chiave della casetta di Gerlof, e dopo qualche centinaio di metri sulla falesia piegò verso l'interno. Percorse la strada comunale a passi il più possibile lunghi e diritti, gettò un'occhiata nel giardino di Vera Kant, e per un breve attimo si chiese se la vecchia Vera avesse potuto rivedere il suo amato figlio, Nils, prima che lui morisse. Il giardino all'interno della recinzione era silenzioso e popolato di ombre. Julia proseguì fino alla casetta di suo padre, aprì la porta d'ingresso e accese la luce. Niente ombre, qui. Jens si trovava lì dentro, ma solo come un vago ricordo. Jens era morto. Approfittò del bagno per darsi una sciacquata, andare alla toilette e lavarsi i denti. Quando ebbe finito spense la luce dell'ingresso, ma l'ultima cosa che fece fu prendere il cellulare, rimasto tutto il giorno in carica. In piedi nell'ingresso, davanti alla grande finestra, compose il numero di Gerlof alla residenza per anziani. Rispose dopo tre squilli. «Pronto?» «Ciao, sono io.» Si sentiva sempre in colpa quando parlava con suo padre senza essere del tutto sobria, ma non c'era niente da fare. «Ciao» disse Gerlof. «Dove sei?» «A casa tua. Ho cenato giù da Astrid, e adesso scendo al capanno a dormire.» «Bene. E di cosa avete parlato?» Julia rifletté un istante. «Abbiamo parlato di Stenvik... di quanto è successo a Nils Kant.» «Non l'avevi letto sul libro che ti ho dato?» chiese Gerlof. «Non l'ho ancora finito» rispose Julia, poi cambiando argomento chiese: «Allora andiamo a Borgholm, domani?».
«Pensavo di sì» rispose suo padre. «Ammesso che mi diano il permesso di farlo. Tra un po' mi sa che servirà l'autorizzazione scritta di Boel per uscire dalla residenza.» Tipico umorismo da Gerlof. «Se ti danno il permesso» disse Julia «passo a prenderti verso le nove e mezzo.» D'un tratto smise di parlare e si sporse verso la finestra. Vedeva qualcosa, là fuori. Una luce fioca... «Pronto?» disse Gerlof. «Sei ancora lì?» «Abita qualcuno nella casa qui di fianco?» chiese Julia nel microfono, con lo sguardo fisso sulla finestra. «Quale casa?» «Quella di Vera Kant.» «Sono vent'anni che è disabitata» rispose Gerlof. «Perché?» «Non lo so.» Julia cercò di scrutare nel buio. Adesso non si vedeva più nessuna luce nel giardino. Eppure era certa di avere visto illuminarsi una delle stanze del pianoterra, un attimo prima. «E chi è il proprietario della casa?» domandò Julia. «Mah... lontani parenti, credo» rispose Gerlof. «I figli di qualche cugino di Vera Kant, mi pare. Nessuno, comunque, ha mostrato la minima intenzione di rimetterla in sesto. Hai visto, no, in che condizioni è tutta la corte... ed era già malmessa quando morì Vera, negli anni Settanta.» Fuori dalla finestra regnava ancora l'oscurità. «Be'» disse Gerlof. «Allora ci vediamo domani.» «E troveremo l'uomo che ha portato via Jens?» «Io questo non l'ho detto» ribatté Gerlof. «Ho solo promesso di mostrarti chi ha mandato la lettera con il sandalo. Solo questo.» «E non è la stessa persona?» chiese Julia. «Non credo» rispose Gerlof. «Puoi spiegarmi perché?» «Lo farò a Borgholm.» «Okay» disse Julia, che comunque non aveva più la forza di continuare la conversazione. «Allora ci vediamo.» Spense il cellulare. Di ritorno lungo la strada comunale, procedette più lentamente di prima davanti alla casa di Vera Kant. Sotto il fitto di quei vecchissimi alberi re-
gnava l'oscurità, e per tutto il tempo Julia scrutò verso le grandi finestre vuote della villa. Erano buie. La casa pericolante era solo una grande ombra nera stagliata contro il cielo notturno. L'unico modo per accertarsi se qualcuno si nascondeva là dentro era... entrare nella villa di Vera e guardare di persona. Ma sarebbe stata un'idiozia, e Julia lo sapeva, almeno da sola. La villa di Vera Kant era una casa popolata di fantasmi, ma... E se Jens fosse entrato lì dentro, quel giorno? E se fosse stato ancora lì? "Entra, mamma. Vieni dentro, vieni a prendermi..." No, non doveva ragionare a quel modo. Proseguì fino al capanno, aprì, entrò e si richiuse la porta alle spalle. 15 La mattina di martedì era grigia e ventosa, e per Gerlof fu umiliante non riuscire neanche ad arrivare alla macchina da solo, senza l'aiuto del personale. Quando uscì dalla residenza per raggiungere la Ford di Julia sullo spiazzo, fu costretto ad appoggiarsi sia a Boel che a Linda, e anche così era alquanto instabile. Gerlof sentiva lo sforzo delle due donne per riuscire a far avanzare il suo corpo pesante e restio, ma non poteva far altro che tenere il bastone con una mano, la cartella con l'altra e lasciarsi aiutare da loro. Era umiliante, ma inevitabile. Certi giorni camminava senza particolari problemi, altri non riusciva quasi a muoversi. Quella mattina d'autunno era fredda, e questo contribuiva a peggiorare le cose. Era il giorno prima del funerale di Ernst, e lui e Julia dovevano fare una piccola escursione. Julia aprì dall'interno la portiera sul lato del passeggero, e Gerlof salì. «Dove andate?» chiese Boel, accanto all'auto. Voleva sempre tenerlo sotto controllo. «Verso sud» rispose. «A Borgholm.» «Rientrate per l'ora di cena?» «Presumibilmente sì» rispose Gerlof, chiudendo la portiera. «Andiamo» disse a Julia, sperando che non commentasse la penosa condizione in cui si trovava quella mattina. «Sembra premurosa nei tuoi confronti» disse Julia mentre la macchina si lasciava alle spalle la residenza per anziani. «Boel, voglio dire.» «È la responsabile, ed evidentemente non vuole che mi capiti qualcosa» rispose Gerlof, aggiungendo: «Non so se ne hai sentito parlare, ma è
scomparso un pensionato nella parte meridionale di Öland... La polizia lo sta cercando». «L'ho sentito alla radio, in macchina» rispose Julia. «Ma noi non andiamo sul tavoliere, oggi, no?» Gerlof scosse la testa. «Andiamo a Borgholm, come si era detto» rispose. «Dobbiamo incontrare tre uomini, ma non contemporaneamente: uno alla volta. E uno di loro mi ha spedito il sandalo di Jens. Immagino che tu voglia parlargli, no?» Julia annuì in silenzio. «E gli altri?» «Uno dei due è un mio amico» rispose Gerlof. «Si chiama Gösta Engström.» «E il terzo?» «È un tipo particolare.» Avvicinandosi allo stop dell'incrocio con la provinciale, Julia rallentò. «Devi sempre fare il misterioso, Gerlof» disse. «È perché vuoi darti arie d'importanza?» «Ma no» rispose subito Gerlof. «Io credo di sì» disse Julia imboccando l'ampia strada che portava a Borgholm. Gerlof pensò che forse aveva ragione. Non aveva mai riflettuto su cosa lo spingesse a comportarsi così. «Non mi do arie d'importanza» disse. «Sono solo convinto che sia meglio raccontare le storie al loro ritmo. Una volta ci si prendeva tutto il tempo necessario per raccontare le storie, mentre adesso va tutto così in fretta.» Julia non parlò. Proseguirono verso sud, superando la svolta per Stenvik. Qualche centinaio di metri dopo Gerlof vide profilarsi all'orizzonte, a ovest, la vecchia stazione. Proprio lì era diretto Nils Kant quel giorno d'estate subito dopo la fine della guerra, quello conclusosi con l'uccisione del sovrintendente Henriksson sul treno. Gerlof si ricordava ancora lo scalpore che sì era scatenato. Prima due soldati tedeschi abbattuti sul tavoliere, poi l'omicidio di un poliziotto e un assassino in fuga... eventi sensazionali che avevano occupato uno spazio significativo sui media pur negli ultimi drammatici mesi della Seconda guerra mondiale. Erano arrivati dei cronisti da lontano per riferire dei misfatti e dei raccapriccianti crimini commessi a Öland. In realtà Gerlof si trovava a Stoccol-
ma, in quel periodo, per riprendere la sua attività sul mare in ambito civile, e aveva potuto leggere del dramma ölandese solo sulla stampa nazionale, in particolare sul "Dagens Nyheter". La polizia aveva chiamato a raccolta unità provenienti da tutta la Svezia meridionale per setacciare l'isola alla ricerca di Kant, ma una volta saltato dal treno, l'assassino era riuscito a scappare. Ora non c'erano più treni sull'isola, perfino i binari erano stati asportati, e la stazione di Marnäs era stata riconvertita in abitazione. Di villeggianti estivi, naturalmente. Gerlof spostò lo sguardo dall'edificio e si appoggiò allo schienale, ma dopo qualche minuto da un qualche punto dell'auto cominciò a risuonare un fastidioso trillo intermittente. Si guardò intorno, mentre Julia, mantenendo la calma, estrasse il cellulare dalla borsetta senza smettere di guidare. Rispose e parlò a voce bassa, a monosillabi, per qualche istante, per poi spegnere l'apparecchio. «Non ho mai capito come funzionano quegli affari» disse Gerlof. «Quali?» «I telefoni senza fili. I cellulari, o come si chiamano.» «Basta premere i pulsanti e chiamare» disse Julia. Poi aggiunse: «Era Lena. Mi ha detto di salutarti». «Ah, grazie. Cosa voleva?» «Credo che più che altro rivolesse indietro la macchina» rispose Julia laconica. «Questa. Continua a telefonarmi solo per chiedermela.» La sua presa sul volante si serrò. «Siamo comproprietarie, ma lei se ne frega.» «Ah» commentò Gerlof. Evidentemente tra le sue figlie c'erano conflitti di cui lui era all'oscuro. La loro mamma probabilmente avrebbe cercato di intervenire in qualche modo, se fosse stata ancora viva, ma purtroppo lui non aveva idea di che cosa fare. Dopo la telefonata Julia rimase in silenzio, e a Gerlof non venne in mente nulla per rompere il ghiaccio. Dopo un quarto d'ora Julia imboccò l'ingresso nord per Borgholm. «E adesso da che parte si va?» chiese. «Prima di tutto beviamo il caffè di metà mattina» rispose Gerlof. Nell'appartamento degli Engström alla periferia meridionale di Borgholm regnava un'atmosfera calda e confortevole. Dal balcone del basso condominio in cui abitavano, Gösta e Margit godevano di una vista fan-
tastica sulle rovine del castello. Al lato opposto di un vasto campo deserto c'era un lungo pendio scosceso a cui si abbarbicavano alberi imponenti, e sulla sommità si trovava il castello medievale. All'inizio dell'Ottocento era stato devastato da uno dei tanti incendi misteriosi di Borgholm, e ora erano spariti sia il tetto che l'arredamento di legno. Là dove un tempo c'erano le finestre del castello restavano solo delle grandi cavità nere. A Gerlof quelle finestre bruciate facevano pensare a un teschio con le orbite vuote. Sapeva che ad alcuni abitanti di Borgholm il castello non era mai piaciuto, per lo meno dal momento in cui si era trasformato, da diroccato oggetto di vanto, in un'antica rovina fatta per attirare turisti. Gli ölandesi erano stati costretti a costruire quel castello, ma era stato solo l'ennesimo decreto reale che per loro aveva comportato sudore, sangue e delusioni. Gli abitanti della terraferma avevano sempre cercato di sfruttare l'isola. In silenzio davanti alla portafinestra del balcone, Julia osservava le rovine, e Gerlof si rivolse a lei. «Nell'età della pietra, da quello sperone roccioso gettavano giù i vecchi malati» disse a voce bassa, indicandolo. «Così si dice, almeno. Ma naturalmente era ben prima che venisse costruito il castello. E molto prima che i governanti cominciassero a costruire le case di riposo...» Margit Engström li raggiunse. Aveva tra le mani un vassoio con il servizio da caffè e indossava un grembiule giallo con la scritta LA MIGLIOR NONNA DEL MONDO. «D'estate organizzano dei concerti, nelle rovine» disse «e in quelle occasioni si sente un po' di rumore. Per il resto del tempo, però, è piacevole abitare nelle vicinanze di un castello.» Appoggiò il vassoio sul tavolino davanti al televisore e versò il caffè per tutti, per poi tornare in cucina a prendere il cesto delle ciambelline alla cannella e il piatto dei biscotti. Suo marito Gösta portava un abito grigio con la camicia bianca e le bretelle, e aveva un perenne sorrisino stampato sulle labbra. Gerlof ricordava che aveva quell'aria allegra anche all'epoca in cui era capitano in mare, almeno finché la gente ubbidiva ai suoi ordini. «Fa piacere ricevere visite, ogni tanto» disse sollevando la sua tazza di caffè fumante. «Naturalmente domani verremo su a Marnäs. Ci andate anche voi, vero?» Stava parlando del funerale di Ernst. Gerlof annuì. «Io sì. Forse Julia dovrà rientrare a Göteborg.»
«E cosa ne sarà della casa?» chiese Gösta. «Se n'è parlato?» «No, evidentemente è troppo presto per deciderlo» rispose Gerlof. «Ma probabilmente diventerà una casa per le vacanze per i suoi parenti in Småland. Non che la parte settentrionale di Öland abbia bisogno di altre seconde case ... ma temo che sarà quello il suo destino.» «Già, ci vuole proprio un miracolo perché qualcuno decida di venire a stare lassù per tutto l'anno» disse Gösta bevendo un sorso dalla sua tazza. «Noi ci troviamo benissimo qui in città, con tutto a portata di mano» disse Margit mettendo i due vassoi colmi sul tavolino. «Però siamo anche membri del circolo per la preservazione delle tradizioni locali, a Marnäs.» Suo marito le rivolse un sorriso innamorato. Non si erano fermati a lungo dagli Engström: una mezz'ora scarsa. «Ecco fatto» disse Gerlof, una volta che furono risaliti sull'auto parcheggiata nella via davanti al piccolo condominio «adesso puoi andare verso Badhusgatan. Prima però ci fermiamo un attimo al negozio di Blomberg a comprare qualcosa, e poi proseguiremo per il porto.» Julia lo guardò, prima di avviare il motore. «Che scopo avremmo raggiunto, con questa visita?» «Abbiamo bevuto un caffè e mangiato dei dolcetti» rispose Gerlof. «Non basta? E poi vedere Gösta mi fa sempre piacere. È stato anche lui capitano di una goletta che navigava nel Baltico, come me. Non siamo rimasti in molti, ormai...» Julia svoltò in Badhusgatan e proseguì lungo i marciapiedi deserti. Anche i veicoli erano pochissimi. Davanti a loro, in fondo alla via, si ergeva l'albergo del porto, tutto bianco. «Svolta qui» disse Gerlof indicando a sinistra. Julia mise la freccia e si fermò su uno spiazzo asfaltato. Un'insegna con la scritta BLOMBERG AUTO era appesa davanti a un basso edificio che fungeva sia da officina sia da rivendita di macchine usate. Alcune Volvo dei modelli più recenti avevano l'onore di essere esposte all'interno, dietro una vetrina, ma la maggior parte dei veicoli si trovava sullo spiazzo asfaltato con cartelli scritti a mano dietro il parabrezza, su cui si leggevano prezzo e chilometri percorsi. «Vieni con me» disse Gerlof quando Julia ebbe parcheggiato. «Compriamo un'auto nuova?» chiese lei. «No, no» rispose Gerlof. «Diamo solo un'occhiata da Robert Blomberg.» Le articolazioni si erano riscaldate e grazie al caffè dagli Engström si
sentiva rianimato. I dolori si erano attutiti al punto che poté attraversare lo spiazzo con il solo aiuto del bastone, ma Julia lo precedette e aprì la porta dell'officina. Si sentì tintinnare un campanello, ed entrambi furono investiti dall'odore di olio. Gerlof sapeva molte cose delle imbarcazioni a vela ma decisamente poco di auto, e la vista di tutti quei motori lo faceva invariabilmente sentire insicuro. Al centro del locale c'era una macchina, una Ford nera circondata da saldatrici e altri attrezzi, ma al momento non ci stava lavorando nessuno. Lo stanzone era deserto. Gerlof si diresse lentamente verso il piccolo ufficio ricavato all'interno dell'officina e sbirciò dentro. «Buongiorno» disse rivolto al giovane meccanico che indossava una tuta blu piuttosto sporca ed era seduto dietro la scrivania, curvo sulla pagina delle vignette dell'"Ölands-Posten". «Veniamo da Stenvik e vorremmo comprare un litro d'olio per la macchina.» «Ah... veramente lo vendiamo nel locale di fianco» rispose il ragazzo «ma se vuole vado a prenderglielo.» Il meccanico si alzò. Era alto almeno dieci centimetri più di Gerlof. Doveva essere il figlio di Robert Blomberg. «Veniamo anche noi, così diamo un'occhiata alle auto in vendita» disse Gerlof. Fece un cenno a Julia, e insieme seguirono il giovane meccanico attraverso una porta che conduceva nel reparto vendite. Qui non si sentiva odore d'olio, e il pavimento era pulito e verniciato di bianco. Nel salone erano parcheggiate file di auto lucide. Il meccanico si diresse verso una mensola carica di prodotti per auto e piccole parti di ricambio. «Normale olio da motore?» chiese. «Sì, grazie» rispose Gerlof. Poi vide un uomo più anziano uscire da un piccolo ufficio e piazzarsi sulla soglia del salone a qualche metro di distanza. Era alto e robusto quasi quanto il meccanico, e aveva il viso solcato dalle rughe, con le guance arrossate dai capillari rotti. Non si erano mai parlati, perché per la sua auto Gerlof si era sempre rivolto a un'officina su a Marnäs, ma sapeva che quello era Robert Blomberg. Era arrivato dalla terraferma e aveva aperto l'officina e la piccola attività di rivendita a metà degli anni Settanta. John Hagman aveva avu-
to parecchio a che fare con il vecchio proprietario dell'officina e aveva parlato di lui con Gerlof. Il più anziano dei due Blomberg fece un muto cenno del capo a Gerlof, il quale ricambiò il saluto allo stesso modo. Sapeva che in passato Blomberg aveva avuto dei problemi con l'alcol, e forse li aveva ancora, ma non era certo un buon argomento di conversazione. «Ecco fatto» disse il ragazzo, mettendo sul banco un flacone di plastica pieno d'olio da motore. Robert Blomberg si ritirò lentamente dalla soglia rientrando nel suo ufficio. A Gerlof parve che avesse le gambe un tantino malferme. «A dire il vero non mi serviva dell'olio» disse Julia una volta che furono rimontati sull'auto. «Tenerne un po' di riserva non fa mai male» rispose Gerlof. «Che te ne è parso dell'officina?» «Mah, era un'officina come le altre» rispose Julia imboccando Badhusgatan. «Non parevano avere molto da fare.» «Vai verso il porto.» Gerlof indicò con la mano. «E dei proprietari... dei Blomberg? Che ne dici di loro?» «Non è che abbiano parlato granché. Perché me lo chiedi?» «Ho sentito dire che Robert Blomberg ha lavorato in mare per molti anni» rispose Gerlof. «Marinaio sui sette mari, fino in America del Sud.» «Ah.» Per qualche secondo nessuno aprì bocca. L'albergo si avvicinava, in fondo alla via. Gerlof guardò il porto di fianco all'hotel e provò un dolore sordo. «Niente lieto fine» disse. «Come?» chiese Julia. «Molte storie sono senza lieto fine.» «Be', l'importante è che finiscano» rispose Julia. Lo guardò. «Stai pensando a qualche storia in particolare?» «Mah... forse penso più che altro alla marina mercantile di quest'isola» rispose Gerlof. «Avrebbe potuto andare meglio. È tramontata troppo in fretta.» Il porto di Borgholm era naturalmente più grande di quello di Marnäs, ma non certo così vasto da non essere abbracciato con un solo sguardo: alcuni moli di cemento, completamente deserti, e basta. Non c'era neanche un peschereccio. Una grande imbarcazione ancora verniciata di nero era stata sistemata sullo spiazzo asfaltato davanti al mare, forse per ricordare i
tempi in cui l'attività era più vivace. «Negli anni Cinquanta qui erano allineate un'imbarcazione da carico dietro l'altra» disse Gerlof guardando l'acqua grigia attraverso il finestrino. «In una giornata autunnale come oggi, a quest'ora le stavano caricando, oppure venivano sottoposte a interventi di manutenzione, e intorno avevano molta gente. L'aria era satura dell'odore di pece e vernice. Se c'era il sole, i capitani facevano issare le vele perché prendessero aria con la brezza. Vele bianche e gialle che si stagliavano una dopo l'altra contro il cielo azzurro: era un gran spettacolo...» Tacque. «E quando smisero di venire qui le navi?» chiese Julia. «Mah... negli anni Sessanta. Però, più che di venire, smisero di partire da qui. La maggior parte degli armatori dell'isola avrebbe dovuto sostituire le proprie navi con mezzi più moderni, a quell'epoca, per poter concorrere con le società di navigazione della terraferma, ma le banche non concedevano mutui. Non credevano più nelle possibilità della marina mercantile ölandese.» Fece una pausa e poi aggiunse: «Non venne concesso alcun prestito neanche a me, e così vendetti la mia ultima goletta, Nore... e poi mi iscrissi a un corso serale di amministrazione contabile per far passare il tempo d'inverno». «Non ho ricordi di un inverno in cui tu eri a casa» disse Julia a mezzavoce. «Anzi, non ho ricordi di te a casa, punto.» Gerlof gettò una rapida occhiata alla figlia. «Sì, rimasi a casa. E per diversi mesi. Avevo pensato di farmi assumere come capitano a bordo di una nave transoceanica, l'anno seguente, ma mi venne offerto un lavoro d'ufficio in comune, e lì rimasi. John Hagman, che era stato il mio secondo, si comprò una nuova goletta, quando io sbarcai, e la mantenne per un altro paio d'anni. Fu una delle ultime di Borgholm. Non a caso si chiamava Addio.» Julia aveva lasciato che l'auto procedesse piano, allontanandosi dai moli e addentrandosi tra le grandi ville di legno distribuite a nord del porto dietro staccionate curate. Quella più vicina al porto era la più grande: larga e verniciata di bianco, era quasi alta quanto l'albergo. Gerlof sollevò una mano. «Puoi fermarti qui» disse. Julia accostò al marciapiede davanti alle ville, Gerlof si sporse lentamente in avanti e aprì la cartella. «I piccoli armatori ölandesi erano troppo cocciuti» continuò prendendo
una busta marrone e il libriccino che aveva prelevato dalla sua scrivania. «Avremmo potuto mettere insieme i nostri capitali per comprare delle navi nuove e più grandi. Ma l'idea non venne neanche presa in considerazione. "Chi fa da sé fa per tre" pensavamo evidentemente. Ci mancò il coraggio di investire sul serio.» Consegnò il libriccino a sua figlia. I quarant'anni della Malm Spedizioni, recitava il titolo, e sulla copertina c'era una foto aerea in bianco e nero raffigurante un grande bastimento a motore che avanzava in un oceano sconfinato, immerso nel sole. «Questa era l'eccezione: la Malm Spedizioni» continuò Gerlof. «Martin Malm era un armatore, ed ebbe il coraggio di investire in mezzi più grandi. Mise insieme una piccola flotta mercantile in grado di attraversare i mari di tutto il mondo. Cominciò a far soldi e con i profitti acquistò altre navi. Martin diventò uno degli uomini più ricchi di Öland, verso la fine degli anni Sessanta.» «Ah» commentò Julia. «Buon per lui.» «Nessuno però sa dove abbia preso il suo capitale iniziale» riprese Gerlof. «A quanto mi risulta, non aveva più contanti di chiunque di noi.» Indicò il libro. «La Malm Spedizioni ha pubblicato questo opuscolo commemorativo la scorsa primavera» proseguì. «Se lo giri, ti faccio vedere una cosa.» In quarta di copertina c'era un breve testo che spiegava lo scopo della pubblicazione celebrativa sulla società di navigazione più prospera di Öland. Sotto si vedeva un logo che consisteva nella scritta MALM SPEDIZIONI, sormontata da tre gabbiani stilizzati. «Guarda i gabbiani» disse Gerlof. «Mmh» fece Julia. «Tre gabbiani stilizzati. E allora?» «Confrontali con questa» disse Gerlof dandole la busta marrone. Era affrancata con un francobollo svedese su cui era stato apposto un timbro illeggibile, e indirizzata a lui, alla residenza per anziani di Marnäs. Il destinatario era tracciato con una scrittura tremolante, in inchiostro blu. «Qualcuno ha strappato l'angolo, qui. Ma si vede ancora un pezzo d'ala del gabbiano di destra... lo vedi?» Julia guardò e annuì. «Che busta è questa?» «Quella del sandalo» rispose Gerlof. «Il sandalo da bambino.» Julia girò la testa di scatto. «Ma non l'avevi buttata via? Così hai detto a Lennart, almeno.»
«Una bugia innocente. Ho ritenuto sufficiente che si portasse via il sandalo. Ma l'importante è che questa busta venga dalla Malm Spedizioni. Ed è stato Martin stesso a inviarmi il sandalo di Jens. Ne sono sicuro. E credo che mi abbia anche telefonato.» «Telefonato?» ripeté Julia. «Non me l'avevi detto.» «Forse mi ha telefonato» Gerlof spostò lo sguardo sulle grandi ville. «Non è che avessi molto da dirti in proposito: è solo qualcuno che mi ha chiamato nel corso dell'autunno, di sera. È cominciato dopo che avevo ricevuto il sandalo. Solo che chi mi telefonava non diceva una parola.» Julia abbassò la busta e lo guardò. «Lo incontreremo adesso?» «Lo spero.» Gerlof indicò la grande villa bianca di legno lì accanto. «Abita qui.» Aprì la portiera e scese sul marciapiede. Julia rimase seduta immobile al volante per qualche secondo, e poi lo imitò. «Sei sicuro che sia in casa?» «Martin Malm è sempre in casa» rispose Gerlof. Intorno a loro soffiava un vento freddo proveniente dallo stretto, e Gerlof gettò un'occhiata al mare alle sue spalle. Stava di nuovo pensando a Nils Kant, e al fatto che, quasi cinquant'anni prima, in un modo o nell'altro era riuscito ad attraversare quello stretto. Småland, maggio 1945 Nils Kant è seduto in un boschetto sulla terraferma con lo sguardo puntato oltre il braccio di mare, verso Öland, ridotta a un sottile nastro di pietra calcarea lungo l'orizzonte. Negli occhi ha un'espressione triste e sopra la sua testa il vento, solitario, fa frusciare le chiome degli alberi. L'isola dall'altra parte dello stretto è illuminata dal sole mattutino; gli alberi sono verde chiaro, le lunghe spiagge rilucono come argento. La sua isola. Nils ci tornerà. Non adesso, ma appena potrà. Appena sarà al sicuro. Sa di aver commesso delle azioni per le quali non verrà perdonato per lungo tempo, e al momento Öland rappresenta per lui un luogo insidioso. Eppure nulla di tutto ciò è in realtà colpa sua. Le cose sono successe senza che lui potesse controllarle. Il grasso sovrintendente di polizia gli ha teso un agguato sul treno, cercando di catturarlo, ma Nils è stato più veloce. «Legittima difesa» sussurra rivolto alla sua isola natale. «Gli ho sparato,
ma è stato per legittima difesa...» Smette di parlare e si schiarisce la voce per scacciare il pianto dalla gola. Sono passate venti ore da quando è saltato giù dal treno. Ha evitato di farsi scoprire procedendo velocemente verso la parte meridionale dell'isola, restando in mezzo al tavoliere, dove si sente più a suo agio, ed evitando tutte le strade e i paesi. A qualche decina di chilometri a sud di Borgholm, nel punto in cui lo stretto si assottiglia, è sceso fino alla riva attraversando il bosco. Lì ha trovato una botte da pece semimarcita, con il fondo ormai secco e la parte superiore tagliata, in cui mettere i suoi pochi averi. Ha aspettato nel bosco fino al calar del buio, si è spogliato e ha spinto la botte nell'acqua fredda. Vi si è avvinghiato con le braccia e il busto e poi ha cominciato a nuotare attraverso lo stretto, diretto alla linea scura della terraferma. Sicuramente gli ci è voluto un paio d'ore a completare la traversata, ma nel momento in cui ha oltrepassato la zona navigabile, non c'erano imbarcazioni in giro, e nessuno sembra averlo visto. Quando, alla fine, ha raggiunto la costa, nudo e con le gambe mezze congelate, è riuscito soltanto a tirare fuori dalla botte la sua roba e poi strisciare sotto gli alberi, dove è sprofondato nel sonno. Ora è completamente sveglio, ma è ancora mattina presto. Alzandosi, Nils sente di avere le gambe un tantino doloranti dopo la nuotata, ma è necessario rimetterle in moto. Si rende conto di essere piuttosto vicino a Kalmar, e deve allontanarsi dalla città. Di certo le strade sono pattugliate da un'infinità di agenti, lì. I vestiti sono asciutti e Nils si mette camicia, maglione, calze e scarponi, e s'infila in tasca il portafogli. Deve fare tesoro dei soldi di sua madre, perché senza quelli sarebbe perduto e non riuscirebbe a tenersi nascosto. Il fucile Husqvarna a pallettoni non ce l'ha più: è in fondo allo stretto, ora. Quando si trovava più o meno a metà strada tra l'isola e la terraferma l'ha tolto dalla botte, l'ha preso per la canna mozzata e l'ha lasciato cadere in acqua sollevando appena qualche spruzzo. In un attimo il mare l'ha inghiottito. Tanto non c'erano più cartucce. Nils però sentirà la mancanza di quel peso che gli dava sicurezza. Pensa al suo zaino ridotto a brandelli e sente la mancanza anche di quello. Ora gli tocca portare tutto ciò che ha con sé nelle tasche dei pantaloni e in un fagottino che ha ricavato da un fazzoletto, e certo non è molto. Si avvia verso nord, nel sole della mattina. Sa dove è diretto, ma la di-
stanza da coprire è lunga, e richiederà gran parte della giornata. Procede lungo la costa, tenendosi alla larga da centri abitati. Quando deve attraversare le strade che passano nel bosco, lo fa a passo spedito, ed è solo in mezzo agli alberi che si sente sicuro. Due volte vede dei caprioli in mezzo alla vegetazione, tanto silenziosi che lo colgono di sorpresa. Le persone, invece, le sente arrivare a centinaia di metri di distanza, e le può semplicemente evitare. Nils sa con una certa precisione dove si trova Ramneby: ci è stato diverse volte, l'estate scorsa. Non è necessario che entri in paese o lo aggiri, perché la segheria di proprietà di suo zio August, che ne è anche amministratore, si trova a sud dell'abitato. Avvicinandosi, sente in lontananza lo stridio delle seghe, e poco dopo avverte anche l'odore familiare di legna appena tagliata che si mescola a quello di alghe proveniente dalle acque del Baltico. Nils sbuca circospetto dal bosco riparandosi dietro un grosso magazzino pieno di assi. È stato qui in visita qualche volta, ma non conosce con esattezza il punto in cui si trova l'ufficio. D'altra parte, non può neanche mostrarsi allo scoperto. A qualche centinaio di metri a sud della segheria si trova la grande villa di legno dello zio August, ma Nils non osa andare neanche lì. Nella corte ci sono bambini, autisti, domestici... gente che può spifferare tutto alla polizia, se lo vede. Gli tocca aspettare dietro il magazzino, nascosto da un fitto cespuglio di lillà punteggiato di fiori dal profumo greve che attirano una quantità di insetti. L'orologio di Nils si è fermato mentre attraversava lo stretto a nuoto, ma è certo che sia passata almeno mezz'ora quando il suo campo visivo viene attraversato dalle prime persone. Sono tre operai della segheria che passano ridendo davanti al magazzino senza lanciare neanche un'occhiata in direzione di Nils. Continua ad aspettare. Qualche minuto dopo arriva una persona sola, trascinando i piedi. È un ragazzo che deve avere tredici o quattordici anni ma è alto quasi quanto lui. Porta un berretto spesso calcato sulla fronte e ha le mani infilate nelle tasche di un paio di calzoni macchiati d'olio. «Ehi, tu!» lo chiama Nils da dietro il cespuglio. Ha tenuto la voce troppo bassa, e il ragazzo non reagisce, continuando a camminare. «Tu con il berretto!» Il tipo si ferma. Si guarda intorno diffidente, e Nils si alza con cautela
dietro il cespuglio, facendogli cenno di avvicinarsi. «Da questa parte.» Il ragazzo cambia direzione e si avvicina di qualche passo al cespuglio. Rimane lì in silenzio e lo guarda. «Lavori alla segheria?» chiede Nils. Il ragazzo annuisce, tutto fiero. «È la mia prima estate qui.» Ha un accento marcato dello Småland e sta cominciando a cambiare voce. «Bene» dice Nils, sforzandosi di mostrarsi calmo e gentile. «Ho bisogno di aiuto. Voglio che tu vada a chiamarmi August Kant. Devo parlare con lui.» «Il direttore?» chiede il ragazzo, sorpreso. «Il direttore Kant, sì» conferma Nils. Tiene inchiodato il suo sguardo in quello del ragazzo e tende la mano per mostrare che tra le dita ha una moneta da una corona. «Digli che Nils è qua. Va' in ufficio e di' al direttore che deve venire.» Il fattorino annuisce, senza reagire quando sente il nome, e si affretta a prendere la corona. Poi fa dietrofront e si avvia senza troppa fretta, ficcando la moneta in profondità nella tasca. Nils tira un sospiro di sollievo e torna a nascondersi dietro il cespuglio. Ecco, adesso è tutto sistemato. Suo zio si occuperà di ogni cosa, lo terrà nascosto finché non si saranno calmate le acque. Dovrà sicuramente restare lì nello Småland per il resto dell'estate, ma vorrà dire che si accontenterà. Di nuovo gli tocca aspettare, e troppo a lungo. Alla fine sente dei passi avvicinarsi dal magazzino. Solleva la testa, sorridendo, e fa un passo avanti, ma quello che gli si presenta non è zio August. È soltanto il ragazzino con il berretto. Nils lo guarda. «Non era in ufficio, il direttore?» chiede. «Sì che c'era.» Il ragazzo annuisce. «Ma non ha voluto venire.» «Come, non ha voluto?» domanda Nils, senza capire. «Ha detto di darti questa» risponde il ragazzo. Ha in mano una busta bianca. Nils la prende, gira le spalle al fattorino e apre. Non c'è nessuna lettera nella busta, solo tre banconote. Tre biglietti da cento corone, piegati. Nils chiude la busta e si volta.
«Tutto qui?» chiede. Il fattorino annuisce. «Il direttore non ha detto niente... non ti ha lasciato un messaggio?» Il ragazzo scuote la testa. «Solo la lettera.» Nils abbassa gli occhi e fissa le banconote. Soldi, nient'altro. Soldi per la fuga, ed è un messaggio molto chiaro. Suo zio non vuole saperne di lui. Sospira e alza di nuovo la testa, ma il fattorino non c'è più. Nils lo scorge solo di sfuggita mentre scompare dietro l'angolo del magazzino. È di nuovo solo, adesso. Gli tocca cavarsela per conto proprio. Dunque, deve fuggire. Ma dove? Lontano dalla costa, prima di tutto. Poi, si vedrà. Nils si guarda intorno. Gli insetti ronzano, il lillà profuma. L'estate è luminosa e verdeggiante. A nordest vede una striscia sottile di acqua azzurra. Tornerà. Forse adesso possono cacciarlo, ma tornerà. Öland è la sua isola. Guarda il mare per l'ultima volta, e poi si gira e s'inoltra nuovamente a lunghi passi nell'abbraccio protettivo della foresta di abeti. 16 Un ampio vialetto di grandi lastre di pietra calcarea saliva verso la villa bianca di Martin Malm, e Julia, guardando l'edificio, pensò alla casa di Vera Kant a Stenvik. Erano più o meno delle stesse dimensioni, però naturalmente questa era verniciata, ben tenuta e abitata. Ma chi accendeva delle candele nella casa di Vera Kant la sera tardi? Julia non riusciva a smettere di pensarci: aveva davvero visto una luce attraverso la finestra della villa? Quando aprirono il pesante cancello di ferro e si avviarono lungo i lastroni ruvidi, sostenne Gerlof per il braccio. Forse era lui a sostenere lei tanto quanto il contrario, pensò Julia, perché ora si sentiva piuttosto agitata. Per lei quello era l'incontro con l'assassino di Jens. Se davvero era stato Martin Malm a spedire il sandalo nella busta, doveva esserlo, per quante riserve potesse avere Gerlof in proposito. Il vialetto terminava davanti a una scala che portava a una pesante porta di mogano con una targa di ferro su cui era inciso il nome MALM. Al centro della porta stessa, sotto una finestra di vetro colorato, c'era un campa-
nello a forma di chiave. Gerlof guardò Julia. «Pronta?» Julia annuì e tese la mano verso il campanello. «Solo un'altra cosa» puntualizzò Gerlof. «Martin ha avuto un'emorragia cerebrale, diversi anni fa. Ha giornate migliori e giornate peggiori, più o meno come me. Se è una buona giornata, potremo parlargli. In caso contrario...» «Okay» disse Julia con il cuore che batteva forte. Fece ruotare il campanello a forma di chiave, e dall'interno si udì uno squillo attutito ma prolungato. Dopo qualche istante, oltre il riquadro di vetro comparve un'ombra, e la porta si aprì. Davanti a loro c'era una giovane donna, bionda e minuta, tra i venti e i venticinque anni. Li guardò con aria interrogativa. «Buongiorno» disse. «Buongiorno» rispose Gerlof. «Martin è in casa?» «Sì» rispose la ragazza «ma non credo che...» «Sono un suo vecchio amico» si affrettò a dire Gerlof. «Mi chiamo Gerlof Davidsson, vengo da Stenvik. E questa è mia figlia. Volevamo salutarlo.» «Okay» disse la ragazza. «Adesso vado a vedere.» «Possiamo entrare al caldo, nel frattempo?» chiese Gerlof. «Va bene.» Arretrò di qualche passo. Julia aiutò Gerlof a oltrepassare la soglia, raggiungendo il pavimento di marmo nell'ingresso. Era un ambiente vasto, con pannelli di legno alle pareti, a cui erano appese delle fotografie incorniciate, raffiguranti navi vecchie e nuove. Tre porte conducevano in altre parti della casa e uno scalone saliva al piano di sopra. «Lei è parente di Martin?» domandò Gerlof quando ebbero chiuso la porta d'ingresso. La ragazza scosse la testa. «Sono un'infermiera, vengo da Kalmar» rispose, dirigendosi verso la porta centrale. L'aprì e Julia cercò di sbirciare nell'altra stanza, ma oltre il battente era appeso un drappo di stoffa scura. Lei e Gerlof rimasero lì in piedi, in silenzio, come se quella grande casa,
con le sue porte chiuse, non invitasse alla conversazione. Regnava un silenzio solenne simile a quello di una chiesa, ma tendendo le orecchie a Julia parve di sentire che qualcuno camminava al piano superiore. La porta centrale si aprì e l'infermiera ricomparve. «Martin non si sente troppo bene, oggi» disse a bassa voce. «Mi dispiace. È stanco.» «Ah» disse Gerlof. «Peccato. Sono anni che non ci vediamo.» «Dovrete passare un'altra volta» disse l'infermiera. Gerlof annuì. «Va bene. Prima però telefoneremo.» Arretrò verso la porta e Julia lo seguì di malavoglia. Fuori in giardino l'aria era ancora più fredda di prima, o almeno così le parve. Procedette in silenzio di fianco a Gerlof, aprì il cancello di ferro e poi guardò di nuovo la villa. A una delle finestre del piano superiore vide un volto pallido fissare nella sua direzione. Quella che da lassù li osservava con sguardo serio da dietro il vetro era una donna anziana. Julia aprì la bocca per chiedere a Gerlof se la riconosceva, ma lui era già quasi arrivato alla macchina. Dovette affrettarsi per andare ad aprirgli la portiera. Quando si voltò di nuovo, la donna alla finestra era scomparsa. Gerlof si sistemò sul sedile e guardò l'orologio. «L'una e mezzo» disse. «Forse sarebbe meglio mangiare qualcosa. Poi dobbiamo passare al punto vendita del Systembolaget. Ho promesso ad alcuni dei miei vicini alla residenza di comprare qualche bottiglia. Ti va bene?» Julia si sedette al volante. «L'alcol è un veleno» commentò. Mangiarono il piatto del giorno in uno dei pochi ristoranti di Borgholm aperto d'inverno. La sala era quasi vuota, ma quando Julia cercò di indurre Gerlof a discutere della visita a Martin Malm, lui si limitò a scuotere la testa, dedicandosi al suo piatto di pasta. Dopo insistette per pagare il conto, e poi andarono al Systembolaget, il punto vendita del Monopolio di Stato per gli alcolici, dove Gerlof comprò un paio di bottiglie di vermut, una di liquore all'uovo, e sei lattine di birra tedesca. Julia dovette portare tutti i sacchetti. «Allora si va verso casa» disse Gerlof una volta rimontati in macchina.
Aveva il tono spensierato di uno che avesse trascorso in città una giornata pienamente riuscita, e la cosa irritò Julia. Ingranò subito la prima e svoltò sulla strada. «Non è successo niente» disse quando, imboccata la via principale, si fermarono al semaforo a est di Borgholm. «In che senso?» chiese Gerlof. «Come "in che senso"?» replicò Julia svoltando verso nord lungo la strada provinciale. «Oggi non abbiamo concluso praticamente niente.» «Ma sì, invece. Prima di tutto abbiamo mangiato dei buoni dolcetti da Margit e Gösta» disse Gerlof. «Poi sono riuscito a dare un'occhiata da vicino al commerciante d'auto usate Blomberg. Inoltre...» «E perché volevi dargli un'occhiata?» chiese Julia. Gerlof rimase in silenzio. «Per diversi motivi» disse poi. Julia inspirò profondamente. «Bisogna che ti decida a cominciare a dirmi le cose, papà» disse guardando fisso oltre il parabrezza. Aveva voglia di fermarsi, aprire la portiera e scaricarlo sul tavoliere a nord di Köpingsvik. Le pareva che la stesse prendendo in giro. Gerlof rimase in silenzio ancora per qualche istante. «Ernst Adolfsson si era convinto di una cosa, quest'estate» disse poi. «Si era costruito una teoria. Credeva che il mio nipotino, cioè il nostro Jens, si fosse incamminato nella nebbia verso il tavoliere, invece di scendere in spiaggia. E che laggiù avesse incontrato un assassino.» «Chi?» «Forse Nils Kant.» «Nils Kant?» «Il defunto Nils Kant, esatto. Era morto e sepolto da dieci anni, a quell'epoca... Hai visto la sua lapide, no? Ma giravano voci...» «Lo so» disse Julia. «Astrid me ne ha parlato. Ma da dove arrivavano quelle voci?» Gerlof sospirò. «C'era un postino a Stenvik... Erik Ahnlund. Quando andò in pensione cominciò a raccontare una storia, e la riferì a me, a Ernst e a tutti quelli del paese che volevano ascoltarlo. Diceva che Vera Kant riceveva delle cartoline senza mittente.» «Ah.» «Quando cominciarono ad arrivare, non lo so» continuò Gerlof «ma se-
condo Ahnlund nella cassetta delle lettere di Vera arrivarono parecchie cartoline da luoghi diversi dell'America del Sud, negli anni Cinquanta e Sessanta. Diverse volte all'anno. E sempre senza mittente.» «Erano di Nils Kant?» chiese Julia. «Presumibilmente. Diciamo che è la spiegazione più a portata di mano.» Gerlof guardò in direzione del tavoliere. «Poi naturalmente Nils Kant arrivò a casa in una bara e venne sepolto a Marnäs.» «Lo so» disse Julia. Gerlof la guardò. «Ma le cartoline continuarono ad arrivare anche dopo il funerale» disse. «Dall'estero, e senza mittente.» Julia gli lanciò un'occhiata. «Sarà vero?» «Penso proprio di sì» rispose Gerlof. «Erik Ahnlund era l'unico che avesse effettivamente visto le cartoline indirizzate a Vera, ma giurava che continuarono ad arrivare con la posta per diversi anni dopo la morte di Nils.» «E questo indusse la gente di Stenvik a pensare che Kant fosse vivo?» «Certo» rispose Gerlof. «Da sempre la gente, al crepuscolo, si siede a raccontare storie. Ma Ernst non era troppo incline ai pettegolezzi, eppure era convinto della stessa cosa.» «E tu cosa pensi?» Gerlof esitò. «Sono come Tommaso» disse poi. «Voglio le prove che è vivo. E non le ho ancora trovate.» «E perché hai voluto vedere quel Blomberg, allora?» Gerlof esitò di nuovo, come se avesse paura di apparire vecchio e pazzo. «John Hagman pensa che Robert Blomberg possa essere Nils Kant» disse alla fine. Julia continuò a fissarlo. «Ah» disse poi. «Ma tu non lo pensi, no?» Gerlof scosse lentamente la testa. «Mi pare un po' campato per aria» disse. «Però John ha dalla sua alcuni elementi. Blomberg era marinaio, come ti ho detto. È cresciuto in Småland e ha preso il mare come macchinista quando era ancora adolescente. È rimasto lontano per molti anni... Venti o venticinque o anche di più. Alla fine è rientrato in Svezia e si è trasferito a Öland. Qui si è sposato e ha avuto dei figli. Credo che quello che lavora nell'officina sia uno di loro.»
«Be', non mi pare poi così losca, la cosa.» «No» ammise Gerlof. «L'unico particolare degno di nota è che è stato via così tanto. John ha sentito dire che era stato licenziato dalla sua nave e che poi aveva vagato a lungo per i porti dell'America del Sud, ridotto molto male dall'alcolismo, prima che un capitano svedese alla fine lo riportasse a casa.» «Ma Blomberg non sarà mica l'unico che si è trasferito a Öland, no?» osservò Julia. «No, certo» confermò Gerlof. «Sono centinaia quelli venuti a stare qui dalla terraferma.» «E John sospetta tutti loro di essere Kant?» «No. E ti dirò che non mi sembrava che Blomberg gli somigliasse tanto» disse Gerlof. «Ma si vede sempre ciò che si desidera vedere. Mia madre, cioè tua nonna Sara, una volta, da giovane, vide un folletto nel bosco... Te lo ricordi? Lo chiamava "l'omino grigio".» «Sì, l'ho sentita, quella storia» lo interruppe Julia. «Non c'è bisogno che...» Ma fermare Gerlof era impossibile: «Qualunque cosa fosse, la vide un giorno di primavera alla fine dell'Ottocento, mentre stava risciacquando i panni giù nello stretto, dalle parti di Grönhögen. A un tratto udì dei passetti veloci alle sue spalle, ed ecco che sbucò precipitosamente dal bosco... un ometto alto un metro e vestito di grigio. Non disse niente, corse soltanto verso il mare, oltrepassando Sara senza neanche guardarla. E quando raggiunse la riva non si fermò... Mia madre lo chiamò, ma quello s'immerse nell'acqua, finché le onde non lo coprirono e lui sprofondò sotto la superficie. E dopo un attimo non c'era più». Julia annuì. Era una storia bizzarra, forse la più strana tra tutte quelle che venivano tramandate nella sua famiglia ölandese. «Un folletto che si suicida» commentò. «Non sono cose di tutti i giorni.» «È evidente che non è una storia vera» continuò Gerlof. «Però io ci credo. Io credo che mia madre vide un folletto, o comunque un qualche evento naturale o fenomeno sconosciuto che lei interpretò come un folletto. E, allo stesso tempo, so che i folletti e i troll non esistono.» «Per lo meno, oggigiorno non se ne vedono troppi in giro» disse Julia. «Esatto» rispose Gerlof misurando le parole «e lo stesso vale per Nils Kant. Nessuno gli parla, nessuno lo vede. Dalla polizia è stato archiviato come deceduto, ed è sepolto nel cimitero di Marnäs, dove c'è una lapide che chiunque può andare a vedere. Eppure, come ti ho già detto, qui a
Öland ci sono persone convinte che sia ancora vivo. Per lo meno tra quelli abbastanza anziani da ricordarlo.» «E tu cosa pensi?» chiese di nuovo Julia. «Penso che sarebbe una bella cosa se si riuscisse a mettere ordine tra tutte le stranezze che riguardano Nils Kant.» «Io invece preferirei trovare mio figlio» disse Julia a bassa voce. «È per questo che sono venuta.» «Lo so» rispose Gerlof. «Ma può darsi che le due vicende siano collegate.» «Nils Kant e Jens?» Gerlof annuì. «In realtà so già per certo che un legame c'è. Attraverso Martin Malm.» «In che senso?» «Aveva lui il sandalo, no?» disse Gerlof. «Ed è stata una delle navi della Malm Spedizioni a portare in Svezia la bara di Nils Kant.» «Davvero? E tu come lo sai?» «Non è un segreto» rispose Gerlof. «Ero giù al porto anch'io quando arrivò la cassa. Se ne occupò un'impresa di pompe funebri di Marnäs.» Julia rifletté su quest'ultima notizia mentre si avvicinava alla svolta per Marnäs. Rallentò e girò. «Però con chi ha spedito il sandalo non siamo riusciti a parlare, oggi» disse poi. «No, ma hai visto casa sua» rispose Gerlof. «Martin non stava bene, ma prima o poi riusciremo a parlare con lui. La settimana prossima, magari.» «Non posso restare solo per questo» si affrettò a dire Julia. «Devo tornare a Göteborg.» «Sì, me l'hai detto» rispose Gerlof. «Quando parti?» «Non lo so. Presto... forse domani.» «Domani c'è il funerale nella chiesa di Marnäs» le ricordò Gerlof. «Alle undici.» «Non so se ci vengo» disse Julia, svoltando nello spiazzo davanti alla residenza per anziani. «In fondo io non conoscevo Ernst. È una tragedia che sia morto, e non dimenticherò mai la mattina in cui l'ho trovato... però non lo conoscevo.» «Cerca di venire lo stesso» disse Gerlof aprendo la portiera. Julia scese per aiutarlo, tenendo in mano il sacchetto delle bottiglie e la cartella. «Grazie» disse Gerlof appoggiandosi al bastone. «Le mie gambe stanno
molto meglio, adesso.» «Allora ci vediamo» si congedò Julia dopo averlo accompagnato all'ascensore. «Grazie per la giornata di oggi.» Uscì di nuovo sullo spiazzo, salì in macchina e guardò Gerlof aprire la porta dell'ascensore ed entrarci senza cadere. Rimise in moto l'auto e imboccò di nuovo la strada, in direzione est. Voleva fare un po' di spesa a Marnäs prima di tornare al capanno. Erano le quattro e venti e il cielo cominciava lentamente a scurirsi. Le persone normali, quelle che avevano un lavoro, stavano per tornare a casa dall'ufficio. Alcune, però, erano ancora in servizio. Passando davanti alla piccola stazione di polizia di Marnäs vide che la finestra era illuminata. Julia si fermò al negozio di alimentari e comprò latte, pane e un po' di affettati. Non le restavano molte centinaia di corone, sul conto, e mancava più di una settimana al prossimo versamento dall'Istituto di Previdenza sociale. L'unica cosa che poteva fare era non pensarci. Uscendo dal negozio vide di nuovo la finestra illuminata della stazione di polizia. Pensò a Lennart Henriksson e a quello che Astrid le aveva raccontato di lui. Anche Lennart era stato colpito da una grande tragedia. Julia rimase lì in piedi, guardando la luce filtrare dalla finestra. Poi mise la spesa nel baule della Ford e la chiuse. Attraversò la strada e bussò alla porta della stazione di polizia. 17 «Ho dato la colpa a mia madre» disse Julia. «Quel pomeriggio era andata a letto e si era addormentata.» Sbatté le palpebre per scacciare le lacrime e continuò: «E ancora di più l'ho data a mio padre... Gerlof, voglio dire... perché era sceso in spiaggia a occuparsi delle sue reti. Se fosse rimasto in casa, Jens non sarebbe uscito. Adorava suo nonno». Julia tirò su con il naso e sospirò. «Per anni ho dato la colpa a loro» disse «ma in realtà era stata colpa mia. Avevo lasciato Jens per andare a Kalmar a incontrarmi con un uomo, pur sapendo che era tempo perso. Neanche si presentò all'appuntamento.» Fece una pausa e poi aggiunse: «Era il padre di Jens... Michael. Ci eravamo separati e lui abitava in Scania, ma aveva parlato della possibilità di prendere il treno, in modo che ci incontrassimo... Mi ero illusa che potessimo ripro-
varci, ma lui non la pensava allo stesso modo». Di nuovo tirò su con il naso. «E così naturalmente Michael non fu di nessun aiuto quando Jens sparì. Era rimasto a Malmö... ma il vero errore è stato mio.» Seduto al lato opposto del tavolo, Lennart ascoltava in silenzio - sapeva ascoltare davvero, Julia se n'era accorta - e la lasciava parlare. Quando lei tacque, disse: «Non è stata colpa di nessuno, Julia. Si è trattato soltanto, come diciamo noi della polizia, di una serie di sfortunate circostanze». «Sì» ammise Julia. «Se è stata una disgrazia.» «Cosa vuoi dire?» chiese Lennart. «Voglio dire... A meno che Jens, una volta uscito, non abbia incontrato qualcuno che l'ha portato via.» «Sì, ma... chi?» chiese Lennart. «Chi farebbe una cosa del genere?» «Non lo so» rispose Julia. «Un pazzo? Di queste cose sai molto più tu di me, essendo un poliziotto.» Lennart scosse lentamente la testa. «Bisogna essere degli squilibrati... dei veri e propri squilibrati» disse. «E in questi casi è praticamente certo che si abbia già avuto a che fare, in un modo o nell'altro, con la polizia, magari per altri reati. A quell'epoca non c'erano persone del genere a Öland. Credimi, abbiamo cercato dei sospetti... Siamo passati di casa in casa e abbiamo esaminato il nostro registro penale.» «Lo so» disse Julia. «Avete fatto quello che potevate.» «Noi della polizia abbiamo concluso che doveva essere finito in acqua» disse Lennart. «In fondo distava solo qualche centinaio di metri, e quel giorno era facile perdersi nella nebbia. Molti annegati nello stretto di Kalmar sono scomparsi per sempre, sia prima che dopo...» Smise di parlare. «Immagino che per te sia difficile parlare di questa cosa... Non volevo...» «Non preoccuparti» lo interruppe Julia sottovoce. Rifletté un attimo e poi aggiunse: «Non pensavo che fosse una buona idea venire qui, quest'autunno, e affrontare tutto da capo, e invece mi ha fatto bene. Sto cominciando a superare la perdita di Jens... e so che non tornerà più». Si sforzò di suonare del tutto convinta: «La vita deve continuare». Era martedì sera, a Marnäs. Julia era entrata nella stazione di polizia con l'intenzione di passare soltanto a salutare Lennart un attimo, e invece era rimasta lì. Evidentemente il poliziotto aveva concluso il lavoro della giornata, ed era sul punto di spegnere il computer e andarsene a casa, ma si era
fermato con lei. "Dunque stasera non ha impegni?" gli aveva chiesto Julia. "Sì, ma più tardi" aveva risposto Lennart. "Faccio parte della commissione edilizia e stasera c'è una riunione di lavoro, ma non prima delle sette e mezzo." Julia avrebbe voluto chiedergli che partito politico rappresentava, ma preferiva non saperlo piuttosto che correre il rischio che fosse uno di quelli che non le andava a genio. Poi le era venuta voglia di domandargli se era sposato, ma non era certa neanche che le sarebbe andata a genio quella seconda risposta. "Potremmo ordinare una pizza al Moby Dick" aveva proposto Lennart. "Che ne dice?" "Benissimo" era stata la risposta di Julia. Nella piccola stazione di polizia c'era una cucina a cui si accedeva dall'ufficio. Pur essendo piuttosto impersonali, i locali avevano qualche elemento d'atmosfera: tende, tappeti tessuti a mano in cui predominava il colore rosso e perfino un paio di quadri appesi alle pareti. Sul bancone della cucina, luccicante, c'era una macchina per il caffè altrettanto pulita. In un angolo si vedeva un tavolino basso con delle poltrone intorno, e lì Lennart e Julia si erano accomodati per mangiare le pizze al prosciutto consegnate a domicilio dal ristorante del porticciolo. Tra un boccone e l'altro avevano cominciato a parlare - non soltanto del più e del meno - e la loro conversazione pacata aveva finito per affrontare il dolore e la nostalgia. In seguito Julia non avrebbe ricordato chi dei due avesse portato il discorso su argomenti così personali e dal lei fosse passato al tu, ma probabilmente era stata una sua iniziativa. «La vita deve continuare anche per me» disse. «Se Jens è annegato in mare, dovrò farmene una ragione. È già successo altre volte, proprio come dici anche tu.» Dopo una pausa, aggiunse: «È solo che aveva una certa paura dell'acqua, tanto che non gli piaceva giocare in spiaggia. E così, a volte mi sono convinta che fosse andato nella direzione opposta, inoltrandosi sul tavoliere. Mi rendo conto dell'impressione che posso dare ma... Gerlof la pensa allo stesso modo». «Perlustrammo anche il tavoliere» sussurrò Lennart. «Cercammo dappertutto, in quei giorni.» «Lo so, ho cercato di ricordare... Ci eravamo conosciuti, in quell'occasione?» chiese Julia. «Io e te, voglio dire.»
I poliziotti che erano venuti a farle delle domande dopo la scomparsa di Jens per lei erano solo una serie di volti senza nome. Le avevano chiesto alcune cose e lei aveva risposto, meccanicamente. Chi fossero non aveva alcuna importanza, se solo avessero ritrovato Jens. Molto più tardi si era resa conto che alcune domande dei poliziotti partivano dall'ipotesi che lei stessa - per una causa ignota, forse follia - avesse ucciso il figlio per poi occultarne il cadavere. Lennart scosse la testa. «Io e te non ci incontrammo, a quell'epoca... non ci parlammo, almeno» disse. «Erano altri i poliziotti che tenevano i contatti con te e la tua famiglia, mentre io ero appunto uno di quelli che organizzavano le ricerche. Raccolsi i volontari giù a Stenvik, che perlustrarono la spiaggia per tutta la sera, e io girai lungo le strade intorno a Stenvik e sul tavoliere nell'auto della polizia. Però non lo trovammo...» Smise di parlare e sospirò. «Furono giorni terribili» riprese. «Soprattutto perché avevo avuto anch'io... un'esperienza simile. Mio padre era stato...» S'interruppe di nuovo. «Ne sono al corrente, almeno in parte, Lennart» disse Julia con il massimo tatto possibile. «Astrid Linder mi ha raccontato quello che era successo a tuo padre...» Lennart annuì e abbassò gli occhi. «Già, non è un segreto» disse. «A proposito di Nils Kant» disse Julia. «Quanti anni avevi quando... quando è successo?» «Otto. Avevo otto anni» rispose Lennart tenendo gli occhi fissi sul pavimento. «Andavo alle elementari a Marnäs. Era uno degli ultimi giorni di scuola, con il sole che splendeva. Ero contento... non vedevo l'ora che iniziassero le vacanze. Poi tra gli allievi cominciò a girare la voce che c'era stata una sparatoria a bordo del treno per Borgholm, e che qualcuno di Marnäs era stato colpito... ma nessuno sapeva niente di sicuro. Fu solo una volta arrivato a casa che ne ebbi la certezza. Mia madre era in casa e c'erano anche le sue sorelle. Rimasero in silenzio a lungo, ma alla fine mia madre si decise a dirmi cos'era successo...» Lennart smise di parlare, lo sguardo perso nel passato. Julia ebbe l'impressione di leggergli negli occhi lo shock e la tristezza di quel bambino di otto anni. «Non possono piangere, i poliziotti?» chiese dolcemente.
«Sì che possono» rispose Lennart a voce bassa «ma temo che siamo più portati a tenere a freno le emozioni.» Poi continuò: «Nils Kant... non sapevo neanche chi fosse. Aveva oltre dieci anni più di me, non ci eravamo mai incontrati, anche se abitavamo a pochi chilometri di distanza. E adesso aveva ucciso mio padre». Di nuovo scese il silenzio. «E cos'hai provato nei suoi confronti, dopo?» chiese Julia. «Voglio dire... ti capirei, se l'avessi odiato...» Pensò a se stessa e a quante volte aveva riflettuto su come avrebbe reagito incontrando l'assassino di Jens. Non sapeva cos'avrebbe fatto. Lennart sospirò e guardò fuori dalla finestra buia, verso il retro della stazione di polizia. «Sì, odiavo Nils Kant» ammise. «Profondamente e con tutto me stesso. Ma avevo anche paura di lui... Soprattutto di notte, quando non riuscivo ad addormentarmi. Avevo il terrore che potesse tornare a Öland e uccidere anche me e mia madre.» S'interruppe. «Ci volle un bel po' di tempo prima che quelle paure se ne andassero.» «Qualcuno dice che è ancora vivo» disse Julia sottovoce. «Ne hai sentito parlare?» Lennart la guardò. «Chi sarebbe ancora vivo?» «Nils Kant.» «Vivo?» ripeté Lennart. «Ma non è possibile.» «Già, non credo neanch'io che...» «Kant non è vivo» disse Lennart tagliando un pezzo di pizza. «Chi lo dice?» «Anch'io la penso come te» si affrettò a chiarire Julia. «Ma Gerlof ha continuato a parlarne da quando sono arrivata... ho quasi l'impressione che stia cercando di convincermi che dietro la sparizione di Jens ci sia lui. Che Jens abbia incrociato la strada di Kant, quel giorno. Per quanto a quell'epoca fosse morto da una decina d'anni.» «Morì nel 1963» disse Lennart. «La bara arrivò al porto di Borgholm quell'autunno.» Abbassò gli occhi. «E ciò che sto per dirti sarebbe meglio non venisse fuori... comunque la polizia di Borgholm l'aprì. Con estrema discrezione, per qualche motivo, forse per paura o rispetto nei confronti di Vera Kant, che aveva un bel po' di soldi e di terreni... però venne aperta.» «E dentro c'era un corpo?» chiese Julia. Lennart annuì.
«L'ho visto» sussurrò e aggiunse: «Anche questo non è ufficiale, ma quando la bara fu sbarcata...». «Da una delle navi della Malm Spedizioni» lo interruppe Julia. Lennart annuì. «Sì, penso di sì. È stato Gerlof a fornirti tutte queste informazioni?» chiese, per poi continuare senza aspettare risposta: «Ero stato assunto da poco a Marnäs come agente di polizia, dopo un paio d'anni a Växjö, e chiesi di andare a Borgholm per assistere all'apertura della bara. Naturalmente avevo solo motivi personali per farlo, non legati a indagini di polizia, ma i colleghi furono comprensivi. La bara si trovava in uno dei capannoni del porto, in attesa dell'agenzia di pompe funebri. Era una cassa di legno inchiodata, con i documenti e i timbri di un qualche consolato svedese dell'America del Sud». Si fermò, per poi continuare: «Fu un agente anziano a forzare il coperchio. Dentro c'era il corpo di Nils Kant, parzialmente disidratato e coperto di una muffa nera. Un medico venuto dall'ospedale di Borgholm constatò che era annegato in acqua salata. Probabilmente era rimasto a mollo per un po', perché i pesci avevano cominciato...». Lo sguardo di Lennart si era perso in lontananza, mentre raccontava, ma d'un tratto abbassò gli occhi sul tavolino e parve ricordarsi che stavano mangiando la pizza. «Scusami per tutti questi particolari» si affrettò a dire. «Nessun problema» lo tranquillizzò Julia. «Ma come riusciste ad accertarvi che era Kant? Grazie alle impronte digitali?» «Non avevamo a disposizione delle impronte digitali sicure di Nils Kant» rispose Lennart. «E neanche radiografie ai denti. Però venne identificato grazie a una vecchia lesione alla mano sinistra. Si era rotto diverse dita durante una rissa alla cava. L'ho sentito riferire io stesso da diversi abitanti di Stenvik. E il corpo nella bara aveva esattamente le stesse fratture. Dunque fu questo elemento a fornire la prova.» Nella cucina scese il silenzio per qualche secondo. «E che cosa provasti allora?» chiese poi Julia. «Vedendo il corpo di Kant, voglio dire.» Lennart parve rifletterci su. «Niente, a dire il vero. Era il Kant vivo che avrei voluto incontrare. Un cadavere non può essere messo di fronte alle sue responsabilità.» Julia annuì pensosa. C'era un favore che aveva pensato di chiedere a Lennart. «Sei mai stato in casa di Vera Kant?» chiese. «La polizia cercò mai Jens
là dentro?» Lennart scosse la testa. «Perché avremmo dovuto farlo?» «Non lo so... Ho solo cercato di capire dove potesse essere andato Jens. Se magari non fosse sceso in spiaggia e neanche si fosse diretto verso il tavoliere, forse entrò in una delle case vicine, e in fondo la villa di Vera Kant non dista che un paio di centinaia di metri dalla nostra casetta...» «E perché avrebbe dovuto entrarci?» domandò Lennart. «E soprattutto, restarci?» «Non lo so. Metti che fosse entrato e caduto da qualche parte, oppure...» disse Julia, pensando che Vera Kant avrebbe anche potuto essere pazza come suo figlio. "Forse sei entrato lì, Jens, e Vera ti ha chiuso la porta a chiave alle spalle." Poi continuò a voce alta: «Sicuramente è un'ipotesi che non regge... ma vorresti venire a dare un'occhiata, insieme a me?». «Dare un'occhiata... Vuoi dire entrare nella villa dei Kant?» chiese Lennart. «Solo un rapido giro, prima che riparta per Göteborg, domani» continuò Julia, sostenendo lo sguardo perplesso del poliziotto. Voleva riferirgli della luce che aveva visto accesa all'interno della villa, ma decise di lasciar perdere, temendo di essersela solo immaginata. «Non è mica un reato, no, entrare in una casa abbandonata?» chiese. «E come poliziotto almeno tu avrai pure il diritto di farlo, dico bene?» Lennart scosse la testa. «Abbiamo dei regolamenti piuttosto severi» disse. «A volte, essendo in servizio in una zona rurale praticamente da solo, ho potuto improvvisare un po', ma...» «Non ci vedrà nessuno» lo interruppe Julia. «Stenvik è praticamente deserta, e le case intorno alla villa di Vera Kant sono tutte abitate solo d'estate. Non c'è nessuno, nelle vicinanze.» Lennart diede un'occhiata all'orologio. «Adesso devo andare alla riunione» disse. Se non altro, non aveva del tutto respinto la sua proposta. «E dopo?» «Vuoi dire che volevi farlo stasera?» Julia annuì. «Vedremo» rispose Lennart. «La riunione potrebbe durare parecchio.
Posso chiamarti se finisco presto. Hai un cellulare?» «Sì, telefonami.» Sul tavolino della cucina c'erano due matite e Julia strappò un pezzetto del cartone della pizza e scrisse il suo numero. Lennart se lo infilò nel taschino e si alzò. «Non prendere iniziative da sola» disse guardandola. «No, no» promise Julia. «L'ultima volta che ci sono passato davanti, la casa di Vera Kant aveva tutta l'aria di essere sul punto di crollare.» «Lo so. Non ci entrerò senza di te.» Ma se Jens era lì, da solo al buio... l'avrebbe mai perdonata sapendo che non lo aveva cercato? Quando uscirono dalla stazione di polizia, le vie di Marnäs erano completamente deserte. Le vetrine dei negozi erano buie e solo il chiosco in piazza era ancora aperto. L'aria umida sembrava vicina allo zero. Lennart spense la luce e chiuse a chiave la porta. «Allora adesso scendi a Stenvik?» chiese. Julia annuì. «Però magari ci vediamo dopo?» «Forse.» A Julia venne in mente un'altra cosa. «Lennart» disse «hai saputo qualcosa del sandalo, quello che ti ha dato Gerlof?» Lui la guardò perplesso, ma poi parve ricordare. «No, purtroppo no» disse. «Non ancora. L'ho mandato in una busta sigillata a Linköping, al laboratorio della scientifica, ma le risposte non sono ancora arrivate. Chiamerò la settimana prossima. Ma forse non dovremmo sperarci troppo. È passato un bel po' di tempo e non è neanche certo che sia il sandalo...» «Lo so... Non è detto che sia quello giusto» si affrettò a completare la frase Julia. Lennart annuì. «Stammi bene, Julia.» Le tese la mano, gesto che parve un tantino impersonale come congedo dopo tutte le cose che si erano raccontati. Ma neanche Julia era il tipo da abbracciare la gente, e gliela strinse. «Ciao. E grazie della pizza.»
«Figurati. Ti chiamo dopo la riunione.» Il suo sguardo indugiò per qualche secondo di troppo sul viso di lei, in quel modo a cui, dopo, si può attribuire qualsiasi significato. Poi se ne andò. Julia attraversò la strada e raggiunse l'auto. Uscì lentamente dal centro di Marnäs, passando davanti alla casa di riposo in cui Gerlof probabilmente stava bevendo il caffè serale, e oltre la chiesa buia e il cimitero. Chissà se Lennart Henriksson era sposato o scapolo? Julia non lo sapeva e non aveva avuto il coraggio di chiederglielo. Scendendo verso Stenvik si domandò se gli aveva rivelato troppo di sé e dei propri sensi di colpa. Ma era stato un sollievo potersi sfogare e prendere un po' le distanze da quella strana giornata a Borgholm, con le teorie di Gerlof, secondo le quali l'assassino di Jens era bloccato a letto in una lussuosa villa di Borgholm e quello del sovrintendente Henriksson, Nils Kant, era vivo e faceva il rivenditore d'auto nella stessa cittadina. Difficile capire se suo padre la stesse prendendo in giro o no. No. Non erano argomenti su cui avrebbe scherzato. Però la sensazione era che le sue idee non portassero da nessuna parte. Tanto valeva tornare a casa. Decise di rientrare a Göteborg il giorno successivo. Prima sarebbe andata al funerale di Ernst Adolfsson, poi avrebbe salutato Gerlof e Astrid, e nel pomeriggio sarebbe andata a casa e avrebbe cercato di vivere una vita migliore. Bere meno vino, mandar giù meno pasticche. Rientrare il più presto possibile dalla malattia e ricominciare a lavorare come infermiera. Smettere di tenersi aggrappata al passato e di rimuginare su misteri irrisolvibili. Vivere una vita normale e cercare di guardare avanti. Poi, in primavera, poteva tornare a trovare Gerlof, e magari anche Lennart. Di fianco alla strada intravide le prime case di Stenvik e rallentò. Davanti a quella di Gerlof si fermò, scese nel buio e aprì il cancello, per poi entrare con l'auto nel giardino. Quest'ultima notte avrebbe dormito nella sua stanza, decise. Vicino a tutti i ricordi, belli e brutti, un'ultima volta. Entrò e accese qualche luce. Poi uscì di nuovo e scese al capanno per andare a prendere lo spazzolino e le altre cose che aveva lasciato lì, comprese le bottiglie di vino che si era portata da Göteborg e che, contro ogni previsione, non aveva neanche aperto. Mentre camminava lungo la strada comunale avvertiva acutamente la presenza della casa di Vera Kant nel buio, alla sua sinistra, ma non girò la testa. Gettò soltanto una rapida occhiata in direzione delle luci accese nella
casa di Astrid Linder e in quella di John Hagman, a sud, prima di entrare nel capanno. Una volta raccolte le sue cose, le cadde l'occhio sulla vecchia lampada a cherosene appesa alla finestra, e dopo qualche secondo d'esitazione la staccò dal gancio e se la portò dietro, per sicurezza. Tornando indietro finì per alzare gli occhi verso l'imponente villa buia di Vera dietro l'alta siepe di biancospino. Adesso non si vedevano luci alle finestre. "Lì dentro non abbiamo mai cercato" aveva detto Lennart. E perché la polizia avrebbe dovuto farlo? Certo Vera Kant non era sospettata di aver rapito Jens. Ma se Nils si fosse tenuto nascosto lì dentro, sotto la protezione di sua madre? Se Jens si fosse incamminato, nella nebbia, lungo la strada comunale, scendendo verso il mare e fermandosi al cancello di Vera Kant per poi aprirlo e... No, era un'ipotesi campata per aria. Julia proseguì. Rientrò nel calore della casetta e accese le luci in tutte le stanze. Tirò fuori dalla borsa una delle bottiglie di vino, e dato che era l'ultima sera a Öland andò in cucina, l'aprì e riempì un bicchiere di vino rosso. Lo bevve in piedi davanti al bancone e lo riempì velocemente una seconda volta, per poi portarselo in soggiorno. L'alcol le si diffuse in corpo. Però... un'occhiatina veloce... Se Lennart avesse finito presto con la riunione e avesse telefonato, gli avrebbe chiesto di nuovo di raggiungerla. Possibile che non volesse entrare a guardarsi intorno nella casa in cui era cresciuto l'assassino di suo padre? Solo una rapida occhiata, tutto qui. Era come una febbre. Gerlof doveva averla contagiata: Julia non riusciva a smettere di pensare a Nils Kant. Göteborg, agosto 1945 La prima estate dopo i sei anni di guerra mondiale è luminosa e calda e traboccante di speranze per il futuro. A Göteborg, nella metropoli, si progettano interi quartieri residenziali nuovi, e le vecchie catapecchie di legno vengono demolite. Vagando per le vie della città, Nils Kant vede molte ruspe in azione. PACE NEL MONDO, ha letto sulle locandine gialle e bianche sui muri del centro, all'inizio di agosto. Qualche giorno più tardi compra il
"Göteborg-Posten" e trova in prima pagina il titolone Bomba atomica: la nuova sensazione mondiale. Il Giappone ha capitolato incondizionatamente: la nuova bomba degli americani ha messo fine alla guerra. Dev'essere stato un ordigno davvero potente, per ottenere un effetto del genere: Nils ha sentito la gente fare commenti in proposito sul tram. Ma quando vede sul giornale la foto del grande fungo atomico che s'innalza verso il cielo, per qualche strano motivo il pensiero gli corre al moscone sulla mano del soldato morto. Per lui la pace non è arrivata: è ancora un uomo braccato. È pomeriggio, sul tardi. Nils è in piedi sotto un albero in un piccolo parco alla periferia della città e da una delle vie laterali vede avvicinarsi a passo sostenuto un giovane uomo in giacca e cravatta. Anche Nils indossa un abito scuro, che ha comprato di seconda mano in un negozietto di Haga: né nuovo né logoro al punto da saltare all'occhio. In testa porta un cappello. Ha smesso di radersi e si è fatto crescere la barba, una barba folta e scura che regola una mattina sì e una no davanti allo specchio della stanzetta da scapolo nel quartiere di Majorna. Per quanto ne sa, esiste una sola foto che gli sia mai stata scattata, risalente a sei o sette anni prima: una fotografia scolastica di gruppo in cui si trova nell'ultima fila, con gli occhi in ombra a causa della visiera del cappello. È sfocata, e Nils non sa se la polizia è riuscita a procurarsela, ma preferisce essere del tutto irriconoscibile. La via che corre lungo il margine inferiore del parco confina con il porto ed è una delle più squallide di Göteborg, coperta com'è di fango e polvere più che di ciottoli, e fiancheggiata da casette di legno grezzo che paiono appoggiarsi l'una all'altra per non crollare. Con il suo abito di seconda mano e i capelli pettinati all'indietro, il barbuto Nils Kant si inserisce perfettamente nell'ambiente. Ha l'aria di essere povero, ma non un criminale. O almeno lo spera. Gran parte della sua fuga da Öland è stata dedicata a inserirsi nell'ambiente circostante, senza essere visto e soprattutto senza essere notato. Nils aveva faticato ad allontanarsi dal mare e dalla costa del Baltico da cui riusciva a scorgere la sua isola in mezzo agli abeti. Era rimasto nei pressi della segheria di zio August, e solo quando, la terza mattina, aveva visto un'auto della polizia parcheggiata davanti all'ufficio, si era incamminato verso ovest, immergendosi nella fitta foresta di abeti. Era abituato alle lunghe camminate grazie ai suoi vagabondaggi sul ta-
voliere e sapeva trovare la strada con l'aiuto del sole e della propria intuizione. Nel mese di luglio aveva attraversato il paese, come molti giovani uomini che, dopo la guerra, si erano diretti verso città più grandi in cerca di nuove possibilità, e dunque non aveva attirato particolare attenzione. Erano ben poche le persone che lo vedevano: evitava le strade, passando per i boschi, mangiando bacche e bevendo l'acqua dei ruscelli e dormendo sotto qualche abete particolarmente grande e fitto, o in un fienile se pioveva. A volte trovava delle mele selvatiche, altre volte s'infilava di nascosto in una fattoria e rubava delle uova o una brocca di latte. La riserva di caramelle al latte datagli da Vera si era esaurita già al terzo giorno. A Husqvarna si era fermato per qualche ora a visitare il luogo dove era stato prodotto il suo fucile a pallettoni, ma non aveva trovato la fabbrica e non aveva avuto il coraggio di chiedere a qualcuno dove si trovava. La città gli era parsa grande quasi quanto Kalmar, e quella vicina, Jönköping, lo era ancora di più. Anche se il suo abito sapeva di boschi e di sudore, le strade erano sufficientemente affollate perché osasse girare senza il timore che qualcuno lo fissasse in viso. Aveva perfino trovato il coraggio di mangiare al ristorante e comprare un nuovo paio di scarponi robusti. Gli erano costati trentun corone, attinte dalla cassa di banconote che gli aveva dato sua madre, successivamente rimpinguata dallo zio. Cominciava ad assottigliarsi, ma Nils era entrato lo stesso in una piccola osteria vicino alla stazione e aveva ordinato una grossa bistecca, una birra e un bicchierino di cognac Grönstedt per due corone e sessantatré centesimi in tutto. Caro, ma gli pareva di esserselo meritato quel pasto, dopo la lunga camminata. Ritemprato dal pranzo, si era lasciato alle spalle Jönköping per proseguire verso ovest attraverso i boschi del Västergötland per qualche altra settimana. Alla fine era arrivato alla costa. Göteborg è la seconda città del regno di Svezia, Nils l'ha imparato a scuola. Gli pare sterminata: un quartiere dopo l'altro di alte case distribuite lungo il fiume Göta, centinaia di veicoli per le strade e persone di tutti i generi. All'inizio gli era quasi venuto il panico, con tutta quella gente intorno, e i primi giorni non faceva che perdersi. Lungo le vie intorno al porto ha sentito parlare lingue straniere: marinai provenienti dall'Inghilterra, dalla Danimarca, dalla Norvegia e dall'Olanda. Ha visto bastimenti partire
alla volta di porti lontani o attraccare al molo con carichi provenienti da altri paesi. Per la prima volta in vita sua ha mangiato una banana: era quasi nera e un po' marcia, ma buona lo stesso. Una banana venuta dall'America del Sud. Tutto, nel porto, è grande, a paragone dei porti di Öland; grande e diverso. File di gru si levano verso il cielo, simili a neri animali preistorici, e i rimorchiatori emettono sbuffi di fumo grigio in mezzo ai grandi transatlantici bianchi a vapore che aspettano al largo. Nel porto di Göteborg le vele e gli alberi sono praticamente scomparsi: lungo le banchine sono attraccate solo lunghe file di imbarcazioni da carico a motore. Nils ha vagato lì intorno, esaminando i lunghi scafi e pensando alle banane in America del Sud. Nella squallida stanzuccia del pensionato per scapoli passa meno tempo possibile: rientra tardi e si alza presto. Non che gli manchino le notti fredde trascorse sul muschio e sulle frasche d'abete, ma quando è steso nel letto le pareti intorno gli sembrano quelle di una cella, e non fa altro che tendere le orecchie per sentire i passi pesanti di poliziotti lungo le scale. Una notte la porta si è spalancata e la figura imponente del sovrintendente Henriksson è entrata nella stanza, in uniforme. Aveva i vestiti zuppi di sangue e ha allungato verso il letto la sua mano gocciolante di rosso. "Mi hai assassinato, Nils. Adesso ti ho trovato." Nils è balzato a sedere sul letto con le mascelle serrate. La stanza era vuota. Ha spedito a Vera una sola cartolina, da quando si trova a Göteborg. Una in bianco e nero, che raffigura il faro di Vinga. Nils l'ha spedita da una parte all'altra del paese, fino a Stenvik, senza metterci il mittente e nemmeno un saluto sul retro. A sua madre non osa rivelare altro: solo che è ancora libero e si trova in un qualche punto della costa occidentale, ma pensa che possa bastare. Il giovane uomo è entrato nel parco, adesso. Ha più o meno la sua stessa età e si chiama Max. La prima volta che l'ha visto è stato tre giorni prima, in un piccolo locale del porto, dove Max era seduto a un paio di tavoli da Nils. Non era difficile notarlo, dato che fumava delle sigarette che estraeva da un astuccio d'oro e parlava a voce alta con un forte accento di Göteborg con le cameriere, il sorridente proprietario del caffè e gli altri avventori. Lo chiamavano tutti Max. Di tanto in tanto dalla via entravano delle persone e si sedevano al suo tavolo: uomini giovani o anziani, che parlavano con tono sommesso.
In quei casi anche Max abbassava il tono, e le conversazioni si svolgevano a gesti e frasi veloci. Max vendeva qualcosa, questo era lampante, e dato che non consegnava mai niente ai visitatori, Nils ha intuito che la merce di scambio era rappresentata da consigli e informazioni preziose. Così, dopo un'oretta, Nils si è alzato ed è andato a sedersi a sua volta al tavolo d'angolo, ma senza dire il proprio nome. Da vicino si è accorto che Max è ancora più giovane di lui, con i capelli unti e il viso brufoloso. Ma mentre ascoltava Nils, lo sguardo era attento. Ha provato una strana sensazione a star lì a parlare con un estraneo dopo tanto tempo trascorso da solo, ma l'impresa non si è rivelata impossibile. A voce sommessa come tutti gli altri che si erano seduti su quella sedia, ha chiesto un consiglio particolarmente prezioso. E un grosso favore. Max ha ascoltato e annuito. «Due giorni» ha detto. È il tempo che gli serve per il grosso favore. «Ti darò venticinque corone» ha risposto Nils. «Trentacinque andrebbero meglio» si è affrettato a rilanciare il giovane. Nils ha riflettuto. «Facciamo trenta.» Max ha annuito e si è proteso in avanti. «Non ci dobbiamo rivedere qui» ha detto a voce ancora più bassa. «Ci incontreremo in un parco... un buon posto che sfrutto spesso.» Ha detto un indirizzo, si è alzato ed è uscito rapidamente dal caffè. Adesso Nils è nel parco e sta aspettando. Si trova lì da una mezz'ora, durante la quale ha fatto un giro controllando che il parco sia completamente deserto; ha anche trovato due vie di fuga, nel caso qualcosa andasse storto. Non ha detto al suo nuovo conoscente come si chiama, ma è sicuro che Max abbia capito al volo che è ricercato dalla polizia. Il giovane va dritto da lui senza sbirciare di lato né fare segnali a qualche invisibile sentinella. Non che Nils si rilassi solo per questo, ma non fugge neanche. Tiene lo sguardo fisso su Max, che ora si è fermato a un metro circa di distanza da lui. «Celeste Horizon» dice. «È la tua nave.» Nils annuisce. «È inglese.» Max si siede su un masso in mezzo agli alberi e tira fuori
una sigaretta. «Il capitano però è danese e si chiama Petri. Non era troppo curioso di sapere chi sarebbe salito a bordo, gli interessano solo i soldi.» «Se ne parlerà» replica Nils. «Stanno caricando legna, al momento. Partono fra tre giorni» dice Max soffiando fuori il fumo. «Per dove?» «Londra est. Lì scaricheranno la legna, andranno a Durban a prendere del carbone, e poi proseguiranno per Santos. A quel punto potrai scendere.» «Io voglio andare in America» si affretta a ribadire Nils. «Negli USA.» Max alza le spalle. «Santos si trova in Brasile, a sud di Rio» risponde. «Prenderai un'altra nave da lì.» Nils ci pensa su. Santos, in America meridionale? Può essere un buon punto di partenza per altri viaggi, prima di tornare in Europa. Annuisce. «Bene.» Max si alza di scatto e tende la mano. Nils gli mette nel palmo cinque pesanti monete da due corone. «Prima voglio incontrare questo Petri» dice. «Dopo ti darò il resto. Ma dovrai mostrarmi dove trovarlo.» Max fa un sorrisino. «Farai il giornante.» Nils lo guarda senza capire, e Max continua: «I giornanti vengono al porto la mattina presto e aspettano di vedersi assegnare un qualche ingaggio. Alcuni trovano da lavorare, altri tornano a casa. Dovrai andare là a metterti in fila con loro domani mattina... e vedrai che qualcuno della Celeste Horizon verrà a prelevarti». Nils annuisce di nuovo. Il giovane si affretta a infilarsi le monete in tasca. «Mi chiamo Max Reimer» dice. «E tu?» Nils non apre bocca. Non ha forse pagato proprio per evitare le domande? Il sangue prende a pulsargli più forte nelle vene: è la sua collera che comincia a tornare a galla. Max gli sorride compiaciuto. Non pare sentirsi minacciato. «Io credo che tu venga dallo Småland» dice spegnendo la sigaretta. «Per lo meno da come parli.» Nils continua a tenere la bocca chiusa. Sa di poter battere Max: è più
piccolo di lui e sarebbe facile gettarlo a terra, prenderlo a calci, e poi usare un sasso pesante per chiudere la faccenda, e nascondere il corpo nel parco. Sarebbe piuttosto facile. Ma poi? Poi Max potrebbe tornare di notte, esattamente come il sovrintendente morto. «Non fare troppe domande» si limita a rispondergli, avviandosi in direzione della zona del porto. «Potresti rimetterci dei soldi.» 18 Lennart non l'aveva chiamata. Julia era rimasta seduta nella casetta di suo padre per diverse ore. Erano arrivate le otto e mezzo, poi le nove, ma il cellulare era rimasto muto. Aveva fatto in tempo a scolarsi la bottiglia di vino rosso. Niente di più facile. E la decisione di entrare nella casa di Vera Kant era riuscita a diventare così irremovibile che in realtà non aveva più importanza che Lennart arrivasse o no. Rifletté sulla possibilità di telefonare a Gerlof e dirgli cosa intendeva fare, ma rinunciò. Non aveva più niente da mettere via o da pulire per far passare il tempo. Era irrequieta e curiosa. L'oscurità e il silenzio premevano sulle pareti della casetta. Alla fine, alle dieci meno un quarto, Julia si alzò, leggermente stordita dal vino, ma più determinata che ubriaca. Si mise un altro maglione sotto il cappotto e dei calzettoni pesanti. Nell'armadio di fianco alla porta d'ingresso trovò un berretto di lana marrone in cui infilò i capelli, dopodiché si diede una rapida occhiata allo specchio. Non le si erano spianate un pochino le rughe di preoccupazione sulla fronte, dopo la chiacchierata con Lennart? Magari era così. O forse dipendeva dal vino. Si mise in tasca il cellulare, prese nella mano sinistra la vecchia lampada a cherosene e spense la luce. Era pronta. "Solo un'occhiata." La serata era adesso serena e fredda, mossa soltanto da una leggera brezza tra gli alberi. Julia imboccò la strada comunale e le tenebre si richiusero su di lei, ma vedeva dei punti luminosi scintillare sulla terraferma. Si fermò dopo qualche decina di metri e tese l'orecchio verso i rumori tra le ombre: foglie fruscianti o lo schiocco di rami. Ma non si sentiva niente: regnava l'immobilità più assoluta.
Stenvik era deserta. La ghiaia scricchiolava appena sotto le sue scarpe quando riprese a camminare verso la casa di Vera Kant. Lì si fermò di nuovo. Il cancello risplendeva biancastro nel buio ed era chiuso come sempre. Julia tese lentamente una mano e tastò la fredda maniglia di ferro, ruvida di ruggine e ben piantata nel legno. Spinse. Il cancello cigolò debolmente ma non si aprì. Forse si erano arrugginiti i cardini. Alla fine Julia appoggiò sulla ghiaia la lampada a cherosene e, mettendosi vicinissima al cancello, ne afferrò la parte superiore con entrambe le mani e lo sollevò verso l'alto, spingendo contemporaneamente. Riuscì così a socchiuderlo di una ventina di centimetri, prima che si bloccasse di nuovo. Adesso, però, poteva passare attraverso la fessura. Lo stordimento dovuto al vino teneva lontana la paura del buio, ma solo in parte. Il giardino, all'interno, era circondato da alti alberi e popolato da ombre nere. Julia rimase immobile per un minuto e aspettò che gli occhi si abituassero. A poco a poco cominciò a distinguere i particolari in quella nuova oscurità: un tortuoso vialetto di lastre di pietra calcarea che proseguiva verso l'interno del giardino come un muto invito. Accanto, un pozzo rotondo con la copertura punteggiata di foglie e di macchie di muffa nera e dappertutto erba alta e selvatica. Al di là del pozzo c'era una legnaia di forma allungata, il cui tetto imbarcato sembrava sul punto di crollare, come una tenda montata male. Julia avanzò cautamente di un passo. Poi di un altro. Tese le orecchie e ne fece un terzo. Avanzare le riusciva sempre più difficile. D'un tratto il cellulare si mise a trillare, e il cuore le fece una capriola nel petto. Estrasse fulmineamente il telefono dalla tasca del cappotto, come se avesse potuto disturbare qualcuno o qualcosa nel buio, e premette il tasto per rispondere. «Pronto?» «Pronto... Julia?» Era la voce pacata di Lennart. «Ciao» disse, sforzandosi di suonare sobria. «Dove sei?» «Sempre alla riunione» rispose. «E non abbiamo ancora finito... è andata per le lunghe. Però dopo devo andare direttamente a casa.» «Okay» rispose Julia, avanzando di un altro paio di passi lungo il vialetto. Ora vedeva un angolo della casa di Vera Kant. «Bene. Almeno adesso lo so...»
«Domani, come ricorderai certamente, ci sarà il funerale, e prima devo riuscire a lavorare qualche ora» continuò Lennart. «Non credo che avrò le energie per venire a Stenvik stasera...» «No, certo, capisco» si affrettò a dire Julia. «Sarà per la prossima volta.» «Sei all'aria aperta?» chiese Lennart. Dalla voce non sembrava sospettoso, ma Julia s'irrigidì ugualmente mentre tirava fuori una bugia facendola suonare il più naturale possibile: «Sono fuori sulla falesia. Ero solo... Stavo facendo una passeggiatina serale». «Ah... Ci vediamo domani? In chiesa?» «Sì... ci sarò» rispose Julia. «Okay» disse Lennart. «Allora, buonanotte.» «Buonanotte... Dormi bene.» La voce di Lennart sparì con un clic. Julia era di nuovo sola, ma ora si sentiva meglio. Aveva intuito che non sarebbe venuto. Dopo una mezza dozzina di passi, il vialetto di pietra finiva, e in quel punto partiva una scala molto larga, anche quella di pietra, che saliva fino a una porta di legno bianco e una veranda a vetrate con le parti in legno smerlate che la pioggia e il vento avevano fatto del proprio meglio per spaccare e smussare. La villa si ergeva davanti a Julia simile a un silenzioso castello di legno. Le finestre buie le fecero correre il pensiero alle rovine bruciate del castello di Borgholm. "Sei lì, Jens?" Nemmeno le tenebre riuscivano a nascondere lo stato pietoso della casa. I vetri ai due lati della porta d'ingresso erano rotti e dai telai delle finestre si staccavano scaglie di vernice. All'interno, la veranda era immersa nel buio più completo. Julia percorse lentamente gli ultimi passi sul vialetto, le orecchie tese. Ma per chi si stava muovendo con tutta quella circospezione, poi? Perché parlando al telefono con Lennart aveva praticamente sussurrato? Si rese conto di quanto fosse ridicolo cercare di non fare rumore quando non poteva sentirla nessuno, ma non riuscì ugualmente a rilassarsi. Salì i gradini con le gambe rigide e la schiena diritta. Cercò di ragionare come Jens, provare la sue stesse emozioni, ammesso che il giorno della sua scomparsa fosse stato lì. Se era entrato nel giardino di Vera Kant, aveva avuto il coraggio di salire la scala e avvicinarsi alla porta d'ingresso per bussare? Forse. La maniglia di ferro della porta della veranda pendeva verso il basso,
come se qualcuno la stesse aprendo dall'interno. Dando per scontato che fosse chiusa a chiave, Julia non si prese neanche la briga di tendere la mano verso la porta, finché non vide che era socchiusa. Un pezzo del legno dello stipite era stato fatto saltare via, in modo che il catenaccio non potesse più incastrarsi nel legno. A quel punto bastava aprire ed entrare. Dunque qualcuno aveva forzato la porta di Vera Kant. Forse dei ladri? Venivano spesso nei luoghi di vacanza, d'inverno, per lavorare indisturbati nelle seconde case disabitate. Una corte abbandonata appartenuta a una delle donne più ricche di Öland interessava sicuramente a gente del genere. Oppure si trattava di qualcos'altro? Julia allungò la mano e tirò, ma la porta era bloccata. Abbassando gli occhi vide perché. Un piccolo cuneo di legno era stato infilato sotto la fessura. Qualcuno ce l'aveva messo, probabilmente, perché la porta forzata non venisse fatta spalancare dal vento. Possibile che uno scassinatore avesse tanto riguardo? No. Julia spostò il cuneo con il piede e tirò di nuovo la maniglia. I cardini cigolarono, ma la porta si aprì lentamente. Le tenebre compatte oltre la soglia aumentarono il suo nervosismo, ma non poteva tornare indietro adesso. Curiosa, era troppo curiosa. Oltretutto, chi aveva infilato il cuneo sotto la porta lo aveva fatto da fuori e dunque non era più nella casa. Sempre ammesso che non ci fosse un'altra uscita. Avanzando circospetta, Julia oltrepassò la soglia della villa di Vera Kant. Dentro faceva freddo quanto fuori, mentre l'aria era immobile come in una grotta buia. Non vedeva niente, ma all'improvviso si rese conto che teneva in mano una lampada a cherosene. Tirò fuori dalla tasca della giacca una scatola di fiammiferi, ne accese uno e sollevò il vetro della lampada. Il largo stoppino prese fuoco: una timida fiammella, che si fece più forte e luminosa quando Julia riabbassò il vetro. La luce era sufficiente a illuminare la veranda vuota di una fioca luce grigiastra, anche se le tenebre rimasero sotto forma di ombre appostate negli angoli del locale. Sollevò la lampada e attraversò la veranda verso la porta interna. Era chiusa, ma non a chiave, e Julia l'aprì.
L'ingresso era un corridoio lungo e stretto con le tappezzerie fiorate sbiadite dal sole, vuoto come la veranda. Julia non sarebbe rimasta sorpresa se avesse trovato ancora lì un attaccapanni con i cappotti neri di Vera, o una fila di scarpe da donna, ma il pavimento era completamente sgombro. Lungo le pareti e dal soffitto pendevano bianchi drappeggi di ragnatele. Nel corridoio c'erano quattro porte, tutte chiuse. Allungò una mano verso quella più vicina e l'aprì. La stanza era piccola, poco più di un metro quadrato appena, e del tutto vuota a parte alcuni barattoli di vetro sul pavimento, contenenti qualcosa di ammuffito. Un ripostiglio. Chiuse piano la porta e aprì quella successiva. Era la grande cucina di Vera. Julia vide un pavimento di linoleum marrone che nella parte centrale della stanza, dove una stufa di ghisa nera troneggiava contro la parete, lasciava il posto alla pietra levigata. Dritto davanti a lei c'erano due finestre che davano sul retro della casa, e Julia sapeva che dietro quegli alberi, a poche centinaia di metri, si trovava la casetta di suo padre. Quel pensiero la fece sentire meno sola e la spinse a oltrepassare la soglia. A sinistra, contro la parete, una scala di legno ripida e stretta con un corrimano sgangherato portava al piano superiore. Nell'aria immobile e buia si percepiva un vago odore di piante marce. Sul pavimento c'erano mucchi di polvere e mosche morte. Qui, alla sera, Vera Kant era stata china sulle sue pentole. E di qui, una bella giornata estiva dopo la guerra, era uscito Nils con il suo fucile a pallettoni nascosto nello zaino. "Tornerò, mamma." Gliel'aveva promesso? Sotto la scala c'era una porta socchiusa, e avvicinandosi di un paio di passi, in silenzio, Julia vide che oltre la soglia scendeva una rampa ripidissima. Era la scala della cantina. La cantina era un buon punto di partenza se stava cercando... Un corpo ucciso e nascosto. Ma non era quello che stava facendo. O forse sì? "Solo un'occhiata." Julia avvertiva il peso del cellulare nella giacca. Aveva memorizzato il numero di Lennart, e dunque avrebbe potuto chiamarlo quando voleva: una piccola consolazione.
Così si chinò per passare dalla porticina sotto la scala, con la lampada a cherosene sollevata davanti al viso. I gradini che scendevano sottoterra erano fatti di tavole grezze, e ai piedi della scala c'era un pavimento sterrato e compatto che riluceva nero e umido alla luce della lampada. Ma... qualcosa non quadrava. Julia scese di un paio di gradini per vedere meglio. Abbassò la testa per non sbatterla contro il soffitto digradante e scrutò nella penombra. Il pavimento sterrato della cantina era tutto smosso. Ai piedi della scala era intatto, ma qualcuno aveva scavato delle buche, grandi e piccole, lungo tutto il perimetro delle pareti di pietra. E appoggiato alla scala di legno c'era un badile, come se chi aveva scavato fosse uscito solo per un attimo. Sugli scalini, una serie di impronte di fango ormai secco lasciate da un paio di stivali salivano fino al punto in cui si trovava. La terra era stata addossata lungo le pareti in una specie di piccolo argine, e un po' più in là si vedevano due secchi pieni. Qualcuno stava scavando metodicamente tutta la cantina. Che cosa succedeva là sotto? Julia risalì all'indietro, arretrando lungo la scala cercando di non fare rumore. Una volta arrivata in cucina, trattenne il respiro, in ascolto. Regnava ancora un silenzio assoluto. Adesso avrebbe potuto chiamare Lennart, ma non voleva farsi sentire, né vedere. Allungò cauta una mano verso la tasca e ne estrasse il cellulare. Cominciò ad attraversare la cucina a passi corti, scorrendo contemporaneamente la rubrica del telefono in cerca del numero di Lennart. Poi appoggiò il pollice sul tasto della chiamata. Se fosse successo qualcosa, se... Cercò di autoconvincersi che Jens si trovava con lei in quella casa buia, anche se era morto, e che voleva che lo cercasse. Funzionò, almeno in parte, e Julia proseguì. I batuffoli di polvere si allontanavano silenziosi dalle sue scarpe volando lungo le pareti mentre percorreva il linoleum della cucina, passando davanti alla stufa di ghisa e alla parte di pavimento in pietra. Con il cuore che batteva forte, mise il piede sul primo gradino che portava al piano superiore. Il legno scricchiolò sotto il suo peso, ma solo debolmente. Julia appog-
giò appena la mano destra, in cui teneva il cellulare, per rassicurarsi con la confortante stabilità del muro, e continuò a salire dove la luce della lampada non arrivava. Quando un gradino scricchiolava, spostava il piede su quello successivo. Sopra di lei il buio era nero e compatto. A circa metà della scala si fermò, tirò il fiato e tese di nuovo le orecchie. Poi proseguì. Il corrimano terminava davanti a un varco senza porta, e Julia mise cauta il piede sul pavimento di legno del piano superiore. Si trovava al centro di un corridoio, stretto come l'ingresso di sotto, e alle cui estremità c'erano delle porte chiuse. La paura e l'indecisione la indussero a fermarsi di nuovo. Destra o sinistra? Se fosse rimasta ferma per troppo tempo, alla fine le sarebbe riuscito impossibile muoversi, e così scelse la parte sinistra del corridoio, che le pareva un po' meno buia. Continuò ad avanzare, in mezzo a una quantità anche maggiore di batuffoli di polvere e cadaveri di mosche nere. Sulle pareti c'erano chiazze più chiare: il segno lasciato dai quadri staccati. Era alla fine del corridoio. Spinse la porta e tenne alta la lampada davanti a sé. La stanza era piccola e non ammobiliata, come le altre. Però non era completamente vuota. Julia oltrepassò la soglia e si bloccò vedendo una sagoma scura stesa contro la parete accanto all'unica finestra della stanza. No. Non era una persona, si accorse. Solo un sacco a pelo, simile a un bozzolo nero srotolato. Sopra, sulla parete, era attaccata una collezione di articoli di giornale. Julia fece un altro passo avanti. Vide che i ritagli erano vecchi e ingialliti, e fissati alla parete con delle puntine. SOLDATI TEDESCHI TROVATI MORTI - COLPITI DA UN FUCILE A PALLETTONI si leggeva in grassetto su un ritaglio. Su un altro c'era scritto: L'ASSASSINO DEL POLIZIOTTO RICERCATO IN TUTTO IL PAESE. E su un terzo, meno ingiallito: BAMBINO SPARISCE INSPIEGABILMENTE A STENVIK. Da una foto accanto al titolo, un bambino le sorrideva spensierato, e Julia fu colta dalla stessa disperazione che s'impadroniva di lei ogni volta che vedeva suo figlio. C'erano altri ritagli, ma Julia non si fermò per leggerli.
Distolse rapidamente lo sguardo e uscì arretrando dalla stanza. Si fermò. Grazie alla luce della lampada a cherosene, vide che la porta all'estremità opposta del corridoio era aperta. Prima era chiusa, mentre ora si vedeva la soglia oltre la quale si apriva il buio compatto della stanza. Non si trattava di penombra, ma di tenebre nere come carbone. E la stanza non era vuota. Julia sentì che qualcuno la stava aspettando, lì dentro. Una donna anziana, seduta su una sedia davanti alla finestra. Era la camera di Vera. Una stanza da letto gelida, piena di solitudine, attesa e amarezza. Aspettava che venisse a farle compagnia, ma Julia era come impietrita nel corridoio. Dal buio sentì un fruscio. La donna si era alzata, e ora si stava lentamente avviando verso la porta. Dei passi strascicati si avvicinavano... Julia doveva andarsene. Doveva scendere il più rapidamente possibile. Quando si mosse, veloce, la fiammella della lampada a cherosene oscillò. Sul pianerottolo della scala, e poi giù. Le parve di udire dei passi, di sopra, e avvertì alle proprie spalle la gelida presenza della donna. "Mi ha ingannato!" Julia si sentì investire dall'odio e avvertì una forte spinta alla schiena. Il suo piede si spostò in avanti nella penombra, mancò il gradino successivo e perse l'equilibrio, a tre o quattro metri di distanza dal pavimento di pietra. Annaspò con le braccia nel vuoto, mentre sia il cellulare che la lampada a cherosene le sfuggivano di mano. Entrambi si fracassarono sul pavimento della cucina, più sotto. Il cherosene prese fuoco, e Julia si rese conto che molto presto anche lei sarebbe atterrata sulla pietra levigata lì sotto. Strinse i denti, preparandosi al dolore dell'impatto. 19 Lo stesso giorno in cui Ernst Adolfsson doveva essere seppellito, Gerlof si svegliò nell'alba grigia e fredda sentendosi come se fosse stato gettato a terra da un punto molto in alto. Il dolore alle articolazioni delle braccia e delle ginocchia era paralizzante.
Colpa dello stress: la sindrome reumatica di Sjögren era tornata a trovarlo. Che disastro. Gli sarebbe servita la sedia a rotelle per poter raggiungere la chiesa. Sjögren era un suo compagno di viaggio, non certo un amico, per quanto Gerlof avesse cercato di accoglierlo e disinnescarlo molte volte rilassandosi e cercando di mostrarsi garbato quando arrivava. Aveva libero accesso al suo corpo: prego, si accomodi... eppure non serviva a niente. Quando arrivava, Sjögren era sempre ugualmente implacabile, gli si avventava addosso e gli s'insinuava nelle articolazioni, gli strattonava e irritava i nervi, gli prosciugava la bocca e gli faceva bruciare gli occhi. Gerlof lasciò imperversare il dolore finché non si stancò. Poi sorrise in faccia a Sjögren. «Sono tornato in passeggino» constatò dopo la colazione. «Vedrai che presto sarai di nuovo in gamba.» Marie, la sua assistente per quel giorno, gli piazzò un cuscinetto a sostegno della schiena e gli aprì i poggiapiedi della sedia a rotelle sotto le scarpe di vernice. Con il suo aiuto, Gerlof aveva faticosamente indossato l'unico abito nero che possedeva, lucido e di ottimo taglio. L'aveva comprato per le esequie di sua moglie Ella per poi metterlo in occasione di un'altra ventina di funerali di amici e parenti nella chiesa di Marnäs. Prima o poi, avrebbe dovuto indossarlo per il proprio. Sopra portava il cappotto grigio, con una spessa sciarpa di lana intorno al collo e un berretto di feltro calcato sulle orecchie. La temperatura era scesa quasi fino allo zero, in quella tetra giornata d'ottobre. «Siete pronti?» chiese Boel uscendo dall'ufficio. «Quanto starete via?» La solita domanda ricorrente. «Dipende da quanto è ispirato oggi il pastore Högström» rispose Gerlof. «Possiamo scaldarti il pranzo nel microonde» disse Boel. «Se ce ne fosse bisogno.» «Grazie» annuì Gerlof, anche se dubitava di avere una gran fame, dopo il funerale. Pensò che, visto il suo bisogno di avere la situazione sotto controllo, Boel doveva essere contenta adesso che Sjögren l'aveva costretto in sedia a rotelle, facilitandole il compito di sorvegliare i suoi movimenti. Ma non appena la sindrome si fosse calmata, si sarebbe rimesso in piedi. Avrebbe ripreso a camminare, dopodiché avrebbe trovato l'assassino di Ernst. Marie s'infilò un paio di guanti e prese le maniglie della sedia a rotelle.
Poi, partirono: dentro l'ascensore, la lenta discesa verso il pianoterra, poi nel gelo luminoso davanti alla residenza per anziani, giù per la rampa e infine lungo la via deserta in direzione della chiesa. Gerlof strinse i denti. Si sentiva sgradevolmente inerme in sedia a rotelle, ma cercò di rilassarsi e di affidarsi alla sua assistente. «Siamo in ritardo?» chiese. Mettere l'abito nero era stata una faccenda molto lunga. «Non troppo» rispose Marie. «Solo un pochino, ma è colpa mia... Per fortuna la chiesa è vicina.» «Be', per questa volta allora non ci beccheremo la punizione dalla maestra» scherzò Gerlof, e Marie rise garbatamente. Lui apprezzò: non tutte le assistenti della residenza capivano che era un dovere dei giovani ridere alle battute dei vecchi. Proseguirono verso la chiesa e Gerlof abbassò la testa nel tentativo di proteggere il viso dal vento pungente che soffiava dallo stretto di Kalmar. Grazie ai lunghi anni di esperienza, si accorse subito che era un vento di sudovest, potente e regolare, che sarebbe bastato per far navigare di bolina una goletta puntando quasi direttamente verso nord, lungo la costa svedese, fino a Stoccolma. Però non aveva nostalgia del mare aperto in una giornata come quella. Il vento avrebbe frustato le onde oltre il parapetto, e il gelo avrebbe rivestito di ghiaccio le tavole di legno. Dopo più di trent'anni a terra, Gerlof si sentiva ancora un capitano, e nessun marinaio voleva andare per mare d'inverno. Le campane cominciarono a suonare quando oltrepassarono la fermata dell'autobus nei pressi della chiesa, nel momento in cui svoltavano nella via. I rintocchi, desolanti e protratti, riecheggiarono sul paesaggio piatto, e Marie accelerò il passo. Gerlof non aveva fretta di arrivare al funerale: più che altro, lo riteneva un rito per gli altri, i parenti e i conoscenti in lutto. Quanto a lui, aveva preso congedo da Ernst la settimana prima, alla cava, insieme a John. La nostalgia dell'amico si era mescolata a quella che provava per la moglie Ella, che sarebbe rimasta fino alla fine dei suoi giorni. E nello stesso tempo aveva la sgradevole sensazione che Ernst non riposasse in pace: aspettava impaziente che Gerlof riuscisse, alla fine, a ricomporre tutte le tessere del puzzle che si era lasciato alle spalle. Nello stretto parcheggio davanti alla chiesa era allineata almeno una dozzina di auto. Gerlof cercò con lo sguardo la Ford rossa di Julia, senza trovarla. Vide però la Volvo di Astrid Linder e immaginò che le avesse da-
to un passaggio da Stenvik. Sempre ammesso che sua figlia avesse poi deciso di venire al funerale. L'edificio ottocentesco intonacato di bianco si stagliava imponente contro il cielo grigio. Da quasi mille anni, in quel punto, si ergeva una chiesa cristiana. L'attuale era la terza in ordine di tempo, costruita quando quella medievale era diventata troppo piccola e cadente. Entrarono nel cimitero e risalirono rapidamente il largo vialetto di pietra, dopodiché Marie rallentò e sollevò leggermente la sedia sulle rotelle posteriori per oltrepassare la soglia del portone aperto. Gerlof si tolse il berretto non appena si ritrovarono nel vestibolo, buio e vuoto. La chiesa vera e propria, invece, brulicava di persone vestite di nero. Nell'aria si percepiva un brusio sommesso: la funzione funebre non era ancora cominciata. Molte teste chine si girarono con discrezione di lato quando Gerlof venne accompagnato, sulla sedia a rotelle, lungo la navata sinistra. Si rese conto di quanto la gente doveva trovarlo indebolito e malmesso, e naturalmente aveva ragione. In fondo lo era. Ma aveva la mente lucida, ed era quello che contava. Alcuni andavano ai funerali solo per vedere chi pareva destinato a essere il prossimo a finire in una bara. "Guardate, guardate pure" pensò Gerlof. Tanto più divertente di così non potrà essere di certo. Presto si sarebbe alzato e avrebbe ripreso a camminare. Una sottile mano bianca spuntò nel corridoio, salutandolo, da uno dei primi banchi. Era Astrid Linder, con un cappellino nero a veletta. Aveva un posto libero accanto, in quarta fila, e parve non accorgersi che Gerlof era sulla sedia a rotelle. Marie si fermò, e con il suo aiuto Gerlof si alzò dalla sedia e si piazzò sulla panca di fianco ad Astrid. «Non ti sei perso niente» gli sussurrò lei all'orecchio. «Fino a qui è stata una gran noia.» Gerlof si limitò ad annuire con la testa, dopo aver sbirciato oltre Astrid constatando che Julia non era lì. Marie si ritirò verso il fondo della chiesa con la sedia a rotelle e nello stesso istante, sotto le alte volte della chiesa, il brusio cessò del tutto e l'organista intonò il salmo L'antica masseria. Gerlof aveva ascoltato quella melodia malinconica in occasione di più funerali di quanti ne potesse ricordare. Si rilassò, ascoltando la musica, e si guardò intorno senza farsi troppo notare.
Quella raccolta in chiesa era una folla di anziani. Del centinaio di presenti, solo una manciata era sotto i cinquant'anni. Tra quelle persone in lutto si nascondeva anche l'assassino di Ernst: Gerlof ne era praticamente sicuro. Accanto ad Astrid era seduto suo fratello Carl, l'ultimo capostazione di Marnäs che, quando la ferrovia era stata chiusa a metà degli anni Sessanta, si era riciclato aprendo un negozio di ferramenta. Adesso era in pensione. Era stato il collega più anziano di Carl, Axel Månsson, a dare il segnale di partenza al treno su cui viaggiava Nils Kant quel giorno d'estate, appena finita la guerra, ma in stazione era presente anche Carl. Faceva il fattorino, all'epoca, e aveva raccontato a Gerlof di aver visto la bigliettaia, Margit, telefonare alla polizia a Marnäs e sussurrare che il giovane ricercato Nils Kant aveva appena acquistato un biglietto per Borgholm. Aveva anche visto il sovrintendente Henriksson affrettarsi da Marnäs qualche minuto più tardi, caracollando con il suo pancione lungo il binario per riuscire ad acciuffare il sospetto assassino. Carl era forse l'ultimo ölandese ancora in vita ad aver visto da vicino Nils Kant adulto, ma una volta che Gerlof gli aveva chiesto che aspetto avesse, si era limitato a scuotere la testa: non aveva memoria per i visi. Più in là, nello stesso banco, erano seduti altri pensionati di Marnäs: il vecchio custode della Casa del popolo, Bert Lindgren, che negli anni Cinquanta e Sessanta era stato marinaio e aveva trascorso lunghi periodi in mare, e accanto il pescatore di anguille Olof Håkansson, al di là del quale si vedeva Karl Lundstedt, un colonnello dell'esercito di Kalmar trasferitosi nella sua seconda casa, a Långvik, dopo essere andato in pensione. Non era insolito che i pensionati si trasferissero a Marnäs, ma nello stesso tempo Gerlof sapeva benissimo che non era di altri vecchi che la parte settentrionale di Öland aveva bisogno. Piuttosto, di manodopera giovane e di un maggior numero di posti di lavoro. La musica dell'organo cessò e il pastore Åke Högström, parroco di Marnäs da una decina d'anni, si mise davanti alla bara bianca decorata di rose. Tra le mani aveva una grossa bibbia rilegata in pelle marrone, e guardò serio la congregazione attraverso le lenti rotonde degli occhiali. «Siamo qui riuniti oggi per prendere congedo da un caro amico, il marmista Ernst Adolfsson...» Il pastore fece una pausa, raddrizzò gli occhiali e poi cominciò la sua orazione funebre partendo da una domanda importante: "Chi conosce i segreti dell'uomo se non lo spirito dell'uomo che è in lui?".
La Prima Lettera di san Paolo ai Corinzi, capitolo secondo, notò Gerlof. «Noi esseri umani sappiamo tanto poco gli uni degli altri» continuò il pastore «solo Dio sa tutto. Vede ogni nostro difetto e ogni nostra carenza e tuttavia vuole offrire a tutti noi un rifugio sicuro per l'eternità...» Da un qualche punto delle ultime file di banchi si udirono dei colpi di tosse simili a rantoli. Gerlof chiuse gli occhi e ascoltò a mente serena, appisolandosi soltanto un paio di volte. Quando poi fu intonato il Salmo 113 sulla rosa dischiusa, si unì anche lui al canto, pur con qualche difficoltà. Seguì la preghiera condotta dal pastore, altri brani della Bibbia e altri salmi, e infine la splendida melodia di Dove le rose non appassiscono mai. Pur essendosi in effetti già congedato da Ernst a casa sua, alla cava, quando vide sei uomini dal volto grave alzarsi per avvicinarsi alla bara e portarla fuori mentre veniva suonato l'ultimo pezzo d'organo, Gerlof sentì prendere forma nel petto un grumo sempre più denso di dolore profondo. Tra i portatori c'erano anche i suoi amici Gösta Engström di Borgholm e Bernard Kollberg, che per decenni aveva gestito l'emporio del paesino di Solby a sud di Stenvik e spesso aveva consegnato a domicilio a Ernst gli articoli di cui aveva bisogno. Gli altri venivano dal ramo smålandese della famiglia del defunto. Anche Gerlof avrebbe voluto alzarsi e sentire il peso della bara di Ernst sulla spalla, ma dovette invece aspettare seduto finché tutti gli altri non ebbero cominciato ad alzarsi. Solo allora Marie poté raggiungerlo con la sedia a rotelle. «Penso di poter camminare da solo, adesso» le disse, ma naturalmente non era così. Marie lo aiutò a rimettersi sulla sedia, e quando ebbe finito, Astrid si sporse in avanti e la toccò sulla spalla. «Aiuto io Gerlof» intervenne decisa, prendendo le maniglie della sedia a rotelle. Marie la guardò dubbiosa: Astrid era più bassa di lei di tutta una testa e magra come un uccellino, ma Gerlof sorrise incoraggiante. «Ce la caviamo bene da soli, Marie» disse. L'assistente annuì e Astrid spinse la carrozzella lungo la navata con il fratello Carl di fianco. «Ecco lì John» disse. Gerlof girò la testa e vide John Hagman uscire dalla chiesa insieme al figlio Anders.
Non appena fuori dal portone della chiesa, si abbottonò il cappotto per ripararsi dal vento freddo, e fu allora che sentì un oggetto piatto nella tasca. Si ricordò di aver preso con sé il portafogli di Ernst. Lo tirò fuori, tastò la pelle liscia con le dita e chiese ad Astrid: «Hai visto mia figlia, oggi?». «No, oggi no» rispose Astrid. «Ma non doveva rientrare a Göteborg? Quando sono passata di lì, non ho visto la sua auto sulla falesia.» «Ah» fece Gerlof. Dunque Julia era ripartita quella mattina. Certo che avrebbe anche potuto fare un salto al funerale, rifletté, o almeno telefonargli per salutarlo. Ma sua figlia era fatta così. Era comunque riuscito a trattenerla a Öland più di quanto avesse programmato, e anche se non avevano fatto grandi passi avanti Gerlof era convinto che quella visita le avesse giovato. Tra poco l'avrebbe chiamata a Göteborg. «Quello non è il portafogli di Ernst?» chiese Astrid. Gerlof annuì. «Devo darlo ai suoi parenti smålandesi» disse. Avrebbe consegnato loro anche tutto il contenuto, eccetto il biglietto del Museo del legno di Ramneby che aveva nascosto in un. cassetto della scrivania. «Sei onesto, tu, Gerlof» disse Astrid. «È questione di correttezza» disse. «Non mi piacciono le cose lasciate a metà.» Erano in mezzo alle tombe, adesso, e stavano passando lentamente tra quelle lapidi familiari. Diverse tra le più belle erano state fatte da Ernst prima di andare in pensione. Tra queste, anche quella di Ella, piuttosto grande. Era liscia e pulita, e c'era posto sufficiente per il nome e le date di nascita e morte di Gerlof, sotto quelli della moglie. La fossa appena scavata per Ernst si trovava in una fila di tombe di residenti di Stenvik. I partecipanti al funerale si erano raccolti a semicerchio, e Astrid spinse risoluta la sedia a rotelle tra due persone. Gerlof vide il profondo foro nella terra aprirsi davanti a lui. Era nero e freddo e se ci si fosse caduti dentro, sarebbe stato impossibile venirne fuori. Non aveva proprio nessuna fretta di finire in una fossa come quella, per quanto Sjögren gli tormentasse le articolazioni nel gelo. Davanti alla tomba i portatori si erano presi una breve pausa, per poi cominciare a calare la cassa nella terra. Lì fuori Gerlof individuò diversi visi noti: Bengt Nyberg, il cronista dell'"Ölands-Posten", era al lato oppo-
sto della fossa, per una volta senza una macchina fotografica in mano, e Gerlof cercò di ricordare da quanto tempo abitasse a Marnäs e lavorasse al giornale. Una quindicina d'anni, forse venti. Era venuto dalla terraferma, come tanti altri. Accanto a lui si trovava l'agricoltore Örjan Granfors, a cui una volta, negli anni Ottanta, erano state sequestrate le vacche della fattoria, situata a nordest di Marnäs. Era anche stato condannato per la sua negligenza nei confronti degli animali. Gerlof ricordava bene l'episodio. Gomito a gomito con lui c'era la coppia Linda e Gunnar Ljunger, i proprietari dell'hotel di Långvik. Parlottavano a bassa voce, probabilmente di nuovi progetti edili nella località di villeggiatura. Di fianco a loro si vedeva Lennart Henriksson, il poliziotto. Questa volta non era in divisa ma in abito scuro. Gerlof abbassò nuovamente gli occhi sulla fossa. Cosa voleva che facesse, Ernst? Come doveva continuare? Nel corso delle ultime visite da lui, durante quell'autunno, Ernst era tornato ripetutamente su Nils Kant e sul piccolo Jens, come se i due enigmi gli rodessero dentro e fossero collegati da un elemento oscuro a tutti tranne che a lui. Con il tempo, Gerlof si era rassegnato alla scomparsa di Jens, per quanto possibile, così come si era rassegnato alla morte di Ella. Ma all'inizio di settembre Ernst era venuto a trovarlo alla residenza per anziani di Marnäs per parlare con lui. Si era portato dietro un libriccino sottile con la copertina morbida. "L'hai visto questo, Gerlof?" gli aveva chiesto. Lui aveva scosso la testa, protendendosi in avanti. Era il libriccino commemorativo sulla società Malm Spedizioni. Gerlof aveva letto sull'"Ölands-Posten" della sua pubblicazione un mesetto prima, ma non l'aveva ancora visto. "Tu conosci Martin Malm, vero?" aveva continuato Ernst. "Questa è una sua vecchia foto risalente alla fine degli anni Cinquanta, davanti alla segheria smålandese della famiglia Kant." "Non è che lo conosca proprio bene" aveva risposto Gerlof, prendendo sorpreso il libriccino. "Più che altro ci s'incontrava in porto, quando eravamo in mare." "E dopo, quando sbarcaste entrambi?" "Molto di rado. Tre o quattro volte, forse. In occasione di qualche cena per ex capitani."
"Cene?" "A Borgholm." "Sai da dove ebbe i soldi Martin per la sua prima nave transoceanica?" aveva chiesto Ernst. "Sì... no. In effetti no" aveva risposto. "Dalla famiglia?" "Non certo la sua" aveva detto Ernst. "Venivano dalla famiglia Kant." "C'è scritto sul libro?" aveva domandato Gerlof. "No, ma l'ho sentito dire" era stata la risposta. "E guarda questa foto. August Kant tiene un braccio sulle spalle di Martin. Tu lo faresti?" "No" aveva convenuto Gerlof. E in effetti era così: l'austero direttore August Kant teneva amichevolmente una mano sulla spalla dell'altrettanto accigliato capitano di goletta Martin Malm. Molto strano. Ernst non voleva dire di più, ma sapeva cose che non aveva raccontato. Doveva aver visto o sentito qualcosa che gli aveva fornito nuovi spunti. Era andato al Museo del legno di Ramneby a cercare qualcosa, senza comunicarlo a Gerlof. E dopo qualche settimana aveva fissato un appuntamento con qualcuno, probabilmente per stringere un accordo di cui Gerlof doveva essere tenuto all'oscuro. «Vuoi andare più vicino per dargli il tuo addio, Gerlof?» La domanda di Astrid lo riscosse da quell'ondata di pensieri disordinati. Fece cenno di no con la testa. «L'ho già fatto» rispose. Sul coperchio della bara di Ernst furono gettate le ultime rose e il funerale si concluse. I convenuti si mossero verso la canonica di fianco alla chiesa per un piccolo rinfresco. «Il caffè ci tirerà un po' su» disse Astrid. Arretrò con la sedia a rotelle e poi cominciò a spingerla. Sebbene Sjögren gli avesse irrigidito il collo, Gerlof si sporse di lato e guardò verso la parte opposta del cimitero, in direzione di una vecchia lapide addossata al muro occidentale. La tomba di Nils Kant. Chi riposava là sotto, in realtà? Puerto Limón, ottobre 1955 La città che si affaccia sul mare è rumorosa e puzza di fango e piscio di cane. Nils Kant le ha voltato le spalle. È seduto al suo tavolino abituale sulla
terrazza dell'osteria Casa Grande, al porto, con una bottiglia di vino davanti e lo sguardo puntato sul mare, il mar dei Caraibi su cui si affaccia la Costa Rica. Sebbene l'odore di melma e fuchi in putrefazione non sia molto meglio del tanfo che aleggia nelle stradine della città, per lo meno il mare rappresenta una via di fuga. Di giorno si mette spesso su qualche molo a fissare la distesa d'acqua scintillante. La via di casa. Il mare è la via per la Svezia. Con una quantità di denaro sufficiente, Nils non avrebbe che da tornare a casa. "Cin cin." Solleva la coppa piena di vino rosso tiepido e ne beve un lungo sorso per dimenticare il grande ostacolo che gli impedisce di rientrare in patria. La verità è che ormai non ha più abbastanza denaro. Ha quasi finito i soldi. Un paio di giorni alla settimana carica banane e barili di petrolio giù al porto, ma il guadagno gli basta appena per pagare vitto e alloggio. Avrebbe bisogno di lavorare di più, solo che non sta troppo bene. «Estoy enfermo» borbotta rivolto alla notte. Ha spesso dolori allo stomaco e mal di testa, e gli tremano le mani. Quanti brindisi ha dedicato alla Svezia dalla terrazza del bar Gasa Grande? E a Öland? E a sua madre Vera? Le coppe e le bottiglie che ha scolato non si contano. Questa sera è uguale a tutte quelle che l'hanno preceduta nel bar, a parte il fatto che Nils festeggia il suo trentesimo compleanno. Anche se, a dire il vero, non c'è niente da festeggiare: lo sa, e questo lo fa sentire ancora peggio del solito. «Quiero regresar a casa» sussurra nel buio. Piano piano ha imparato lo spagnolo e anche un po' d'inglese, ma lo svedese rimane ancora la lingua più viva dentro di lui. È in fuga da oltre dieci anni, ormai, dal momento in cui è salito di nascosto a bordo della nave da carico Celeste Horizon nel porto di Göteborg, l'estate successiva alla fine della guerra. Sulla Celeste Horizon era stato messo in una cabina stretta come una bara, una bara d'acciaio. Da allora ha viaggiato su diversi vecchi bastimenti lungo le coste sudamericane, ma la Celeste è stata in assoluto la peggiore. A bordo non c'era un solo angolino asciutto: l'umidità del mare penetrava ovunque, e quello che non era bagnato e ammuffito era rotto o corroso dalla ruggine. L'acqua scorreva o gocciolava dappertutto. In un mese e più la luce non era mai riuscita a penetrare attraverso l'oblò della sua cabina, dato che si trovava sul
lato di babordo e il continuo filtrare dell'acqua faceva sì che la nave intera fosse inclinata da quella parte. I motori pulsavano ventiquattr'ore su ventiquattro. Nils era rimasto steso al buio, mezzo morto di mal di mare, su una branda, e spesso nel silenzio accanto a lui c'era il sovrintendente Henriksson, con il sangue nero che gli usciva a fiotti dal petto. In quei momenti Nils chiudeva gli occhi e sperava che la nave urtasse una mina. I mari ne erano pieni, nonostante la guerra fosse finita: quello stronzo del capitano Petri glielo aveva ricordato in più di un'occasione. Aveva anche chiarito che se la Celeste Horizon fosse saltata in aria, Nils sarebbe stato l'ultimo a poter scendere in una scialuppa. Durante le operazioni di scarico e carico in Inghilterra era stato costretto a non lasciare mai la sua cabina per due settimane, rischiando d'impazzire in quell'isolamento prima che fosse ora di partire, finalmente, verso ovest, attraverso l'Atlantico. Nel mare al largo del Brasile aveva visto un albatros: un uccello gigantesco che, libero e spensierato, scivolava con le ali aperte al di sopra delle onde nell'aria calda che circondava la nave. Nils l'aveva preso come un buon auspicio e aveva deciso di fermarsi per un po' in Brasile, Aveva lasciato la Celeste Horizon e quel folle di un Petri senza rimpianti. Ma nel porto di Santos aveva visto per la prima volta gli sballati, che l'avevano riempito di terrore: creature ridotte in uno stato pietoso, che si erano avvicinate barcollando alla Celeste Horizon ancor prima che attraccasse, con lo sguardo vacuo e i vestiti laceri. "Sono gli sballati, quelli" aveva detto sprezzante un marinaio svedese, appoggiato al parapetto insieme a Nils, e gli aveva dato un consiglio: "Se si avvicinano troppo, colpiscili con dei pezzi di carbone". Gli sballati erano gli uomini dimenticati, gli alcolizzati, quelli che non avevano un posto né a terra né in mare. Marinai europei che avevano fatto un giro di troppo nei bar ed erano stati lasciati in porto dalla nave al momento della partenza. Nils non era uno sballato: aveva denaro a sufficienza per dormire in albergo tutte le notti ed era rimasto a Santos per qualche mese. Beveva vino nei locali che gli sballati non potevano permettersi di frequentare, vagava sulle spiagge bianche come gesso ai margini della città, imparando lo spagnolo e il portoghese anche se non parlava con nessuno, almeno non più di quanto fosse costretto a fare. Pur essendo dimagrito parecchio era ancora alto e robusto e non aveva mai subito tentativi di rapine, e per tutto il tempo era stato assillato dalla nostalgia di Öland. Ogni mese spediva a sua
madre una cartolina senza mittente per farle capire che era vivo. A bordo di una nave spagnola aveva proseguito fino a Rio, dove c'era molta più gente: persone più povere, più ricche, scarafaggi più grassi e un maggior numero di sballati nel porto e sulle spiagge. E tutto si era ripetuto: peregrinazioni senza meta, bevute di vino, nostalgia di casa e alla fine un'altra nave per sfuggire a tutto quanto. Era riuscito a far durare di più i soldi facendo le pulizie e lavando i piatti a bordo. Aveva toccato una lunga serie di città portuali: Bonaventura, La Piata, Valparaiso, Chañaral, Panama, Saint Martin nei Caraibi, pullulante di francesi e olandesi, l'Avana a Cuba, che brulicava di americani. E nessuna città si rivelava migliore, neanche di un briciolo, di quelle che si era lasciato alle spalle. Inviava una cartolina a sua madre non appena metteva piede in un posto nuovo. Senza messaggi e senza mittente, tanto avrebbe comunque capito che era vivo e pensava a lei. Nils si teneva in riga, non gettava via i soldi con le donne e non faceva quasi mai a botte. Voleva andare negli Stati Uniti, e aveva trovato posto su una nave francese diretta a nord, per raggiungere l'umida Louisiana al di là del golfo. Le luci che filtravano dai bar di New Orleans erano calde e giallo oro, ma senza passaporto svedese l'accesso negli USA gli era stato negato, e non aveva potuto farci niente. Non avendo più denaro a sufficienza per corrompere qualcuno, era stato costretto a riprendere la nave verso sud. Non amava l'idea di tornare in America del Sud, tanto più che anche lì stava diventando sempre più difficile oltrepassare le frontiere. Così era sceso a terra in Costa Rica, nella città portuale di Limón. E lì era rimasto. Da oltre sei anni abita a Limón, tra il mare e la giungla. Nella foresta fumante al di là della città crescono banani e azalee grandi come meli, ma non ci va mai. Gli manca il tavoliere calcareo di Öland. La giungla tropicale emana un odore simile a quello soffocante di un letamaio ammuffito. A ogni precipitazione atmosferica le strade diritte di Limón si trasformano in lunghi tratti melmosi e le fogne traboccano. I giorni, le settimane e i mesi sono volati via. Dopo un anno o poco più a Limón ha scritto per la prima volta una vera lettera a sua madre, raccontandole una parte di ciò che gli è successo e dandole il proprio indirizzo nella città. Gli è arrivata una risposta con un po' di soldi, e lui ha scritto una seconda volta, chiedendo a sua madre di aiutarlo a mettersi in contatto con zio August. Vuole tornare a casa, adesso. È lontano da Öland da più di dieci
anni e dovrebbe bastare, come punizione. Se c'è una persona che può farlo tornare a casa, è zio August. Vera ha la volontà, ma non riuscirebbe mai a organizzare il viaggio di ritorno da sola. Ci è voluto del tempo, ma adesso Nils è seduto con una busta davanti a sé sul tavolo, di fianco al bicchiere di vino, con il suo indirizzo di Limón scritto in inchiostro sulla parte anteriore, insieme a un francobollo svedese del valore di quaranta centesimi. La lettera gli è arrivata dalla Svezia tre settimane fa, con un assegno di duecento dollari in allegato, e lui l'ha letta e riletta. Viene da suo zio August, che l'ha spedita da Ramneby, in Småland. Ha saputo dalla sorella Vera che Nils si trova in America Latina e che vuole rientrare in patria. "Non potrai mai tornare a casa, Nils." Ha scritto così, zio August. La lettera è di un'unica pagina e consiste quasi soltanto di severe ammonizioni, ma è quella breve frase che Nils legge e rilegge. "Non potrai mai tornare a casa." Nils cerca di dimenticare quelle parole, senza riuscirci. Ripete la frase una volta dopo l'altra, e ha la sensazione che dietro di lui ci sia il defunto sovrintendente Henriksson che, sorridendo, legge alle sue spalle. "Mai più, Nils." Si versa ancora un po' di vino rosso dalla bottiglia. Sulla spiaggia ronzano zanzare grandi come monete svedesi da una corona, e sul parapetto di legno sta strisciando uno scarafaggio lucido. Dall'interno buio del bar si sentono delle risate, mentre per le strade fangose della città passano motociclette scoppiettanti. A Limón non regna mai il silenzio. Nils beve e chiude gli occhi. Il mondo gli gira intorno, è malato. «Quiero regresar a casa» borbotta rivolto al buio. "Mai più." Nils ha solo trent'anni, è ancora giovane. Non ha intenzione di ascoltare zio August. Continuerà a scrivere a sua madre, invece. A implorarla, e supplicarla. Lei sistemerà tutto. "Adesso puoi tornare a casa, Nils." Sono le parole che aspetta in una lettera da parte sua. E devono arrivare, presto.
20 Sulla sedia a rotelle, mentre attraversavano il cimitero, Gerlof rifletteva. Era convinto che Ernst non fosse riuscito ad arrivare a un accordo con qualcuno la sera in cui era morto: ma un accordo su che cosa? Ernst non aveva mai tenuto particolarmente al denaro, per quanto ne sapeva Gerlof: si accontentava di lavorare alla cava e vendere a qualche turista una scultura ogni tanto per avere i soldi necessari al vitto e alle spese quotidiane. Gli bastava questo. Ma allora perché non aveva voluto parlargli delle sue idee sulla scomparsa di Jens? Aveva gettato nella cava "Il cantone". L'aveva fatto, ma che significato aveva quel gesto? Gerlof avrebbe potuto andare avanti a riflettere su quelle domande in eterno, continuando a girare in tondo. Eppure tornava sempre al fatto che, se Nils Kant non era morto, se in qualche modo aveva simulato il proprio decesso ed era riuscito a tornare in Svezia sotto un altro nome, come pensava John, in questo caso le persone che cercavano di scoprire la verità rappresentavano un pericolo per lui. «Sei pronto, Gerlof?» chiese Astrid alle sue spalle quando si trovarono davanti alla canonica. Annuì. «Allora entriamo» disse lei prendendo un po' di rincorsa per far salire la sedia a rotelle lungo la rampa per i disabili. I presenti non erano numerosi come alla funzione, ma Gerlof e Astrid furono comunque costretti a procedere a zigzag in mezzo alla gente. Alcuni si chinarono a chiedergli come stava, ma dopo la terza umiliante conversazione di quel genere si costrinse a mettersi in piedi. Voleva dimostrare di riuscire a camminare nonostante i dolori, e di non essere un invalido. Astrid portò via la sedia a rotelle, e Gerlof riprese a salutare i conoscenti appoggiandosi al bastone. Grazie a Dio, Gösta Engström di Borgholm non era interessato alla sua salute, e ancora meglio era che Margit non si trovasse di fianco a lui quando Gerlof gli si avvicinò su gambe malferme. I due amici poterono così condurre una conversazione sommessa sugli eventi di quell'autunno, e alla fine Gerlof gli riferì le proprie riflessioni sulla morte di Ernst. «Dunque non è stato un incidente?» Gerlof scosse la testa. «Intendi dire... un omicidio?»
«Qualcuno l'ha spinto nella cava e gli ha poi fatto cadere addosso la scultura» rispose Gerlof. «Sia io che John ne siamo convinti.» Temeva di ricevere in risposta una risata incredula, ma Gösta lo guardò serio. «E chi potrebbe aver fatto una cosa simile?» chiese. Gerlof scosse nuovamente la testa. «È questo il problema.» In quel momento arrivò Margit Engström a salutarlo, e Gerlof le strinse la mano per poi proseguire a passetti incerti. S'imbatté in Bengt Nyberg dell'"Ölands-Posten", che come al solito non perse occasione per sondare il terreno in cerca di qualche notizia: «Pare che in questo periodo la residenza per anziani sia a corto di personale. È vero? Voi che ci abitate ritenete che il servizio non sia soddisfacente?». Gerlof non aveva niente da dirgli. Pareva che una persona su due, tra i presenti, volesse qualcosa da lui. Prima di riuscire a raggiungere il tavolo del caffè incrociò Gunnar Ljunger e signora, venuti da Långvik. Come al solito, Gunnar andò dritto al sodo. «Me ne servono altre sei, Gerlof» disse il proprietario dell'hotel. «Tua figlia ti ha riferito? È passata da Långvik l'altro giorno, e le ho chiesto di dirtelo: altre sei.» Naturalmente era delle navi in bottiglia che stava parlando. «Ma non staranno un po' strette sulle mensole?» chiese Gerlof. «Stiamo per ampliare i locali» si affrettò a rispondere Ljunger. «Vogliamo metterle alle finestre della nuova zona ristorante.» Tirò fuori un blocchetto per appunti e una penna con la scritta pubblicitaria FOLLEGGIA A LÅNGVIK E GODITI LA VITA! e annotò qualche numero su un foglietto che poi allungò a Gerlof. «Ecco il prezzo» disse. «Per ciascun pezzo, naturalmente.» Gerlof abbassò gli occhi sul foglio. Non condivideva ciò che la famiglia Ljunger stava facendo su a Långvik: era puro e semplice sfruttamento del territorio. D'altra parte, quella somma a quattro cifre sarebbe stata a sufficiente per la manutenzione della casetta e del capanno a Stenvik per almeno un anno. «Ne ho già due pronte» disse a bassa voce. «Per le altre ci sarà da aspettare... forse anche fino a primavera.» «Bene, non c'è problema.» Ljunger si raddrizzò. «Le comprerò man mano che le avrai pronte. Vieni a Långvik a mangiare, un giorno o l'altro.» Gunnar gli strinse la mano e sua moglie Linda gli sorrise, dopodiché la
coppia proseguì. Finalmente Gerlof poté raggiungere il tavolo per bere il caffè e mangiare una fettina di torta di carote. Astrid e Carl erano già lì seduti, e quando si accomodò, non senza difficoltà, e gli fu servito il caffè, di fronte a lui si sedette un altro uomo. Era Lennart Henriksson. «E così è finita» gli disse il poliziotto. Gerlof annuì. «Ma il dolore, naturalmente, rimane.» «Già. E tua figlia... È qui?» chiese Lennart. «No, è tornata a Göteborg.» «È partita ieri?» Gerlof scosse la testa. «Stamattina, credo.» Lennart lo guardò. «Come, non è passata a salutarti?» «No. Ma non è che la cosa mi sorprenda poi tanto.» Avrebbe potuto aggiungere che, durante la breve visita sull'isola, lui e sua figlia non erano riusciti a riavvicinarsi più di tanto, ma tanto valeva che il poliziotto lo intuisse da solo. Lennart rimase in silenzio, con lo sguardo fisso sul contenuto della tazza. Aveva una ruga di preoccupazione sulla fronte e stava tamburellando nervosamente sul tavolo con le dita della mano destra. Poi alzò gli occhi su Gerlof. «Ma sei sicuro al cento per cento che sia partita?» «Astrid ha detto che l'auto non c'era più.» Accanto a lui, l'anziana donna annuì per confermare. «Lo spiazzo sulla falesia era vuoto. E il capanno era sprangato. Vero, Carl?» Suo fratello fece cenno di sì con la testa. «È venuta a salutarvi?» chiese Lennart. Gerlof non capiva perché fosse tanto preoccupato. «Non proprio» rispose Astrid. «Ma non è detto che si abbia sempre il tempo per queste cose...» «Le telefono» la interruppe Lennart. «Va bene per te, Gerlof?» «Naturalmente» rispose Gerlof. «C'è qualcosa di particolare che vuoi chiederle?» «No» rispose Lennart, tirando fuori il cellulare. «Hai il suo numero?» domandò Gerlof.
«Sì.» Lennart digitò le cifre sulla tastiera. «Voglio solo controllare dov'è. Aveva detto che forse...» Tacque e si portò il telefono all'orecchio. «Io di cellulari non capisco proprio niente» sussurrò Astrid a Gerlof. «Come si fa a telefonare?» «Non ne ho idea» rispose Gerlof, per poi chiedere a Lennart: «Risponde?». Il poliziotto abbassò l'apparecchio. «Il numero non è raggiungibile. C'è la segreteria telefonica.» Guardò Gerlof e aggiunse: «Naturalmente li si può spegnere... se non si vuole essere disturbati». «Allora sarà di sicuro così» disse Gerlof. «Si vede che in questo momento sta guidando. Sarà in Småland.» Lennart annuì lentamente, ma non sembrava del tutto convinto. Continuò a tamburellare con le dita sul tavolo e alla fine si alzò. «Scusatemi» disse. «Devo... devo andare a controllare una cosa.» Poi prese la sua tazza e si allontanò. Gerlof lo guardò affrettarsi verso l'uscita e si chiese se sua figlia e Lennart Henriksson avessero in ballo qualcosa di cui lui era all'oscuro, ma qualche secondo dopo un cucchiaino cominciò a tintinnare contro una tazzina poco più in là. Si sentì grattare una sedia contro il pavimento e qualcuno si alzò. Con sua grande sorpresa, Gerlof si accorse che era John Hagman. Sia lui che suo figlio Anders parevano alquanto a disagio nei loro abiti scuri. John si schiarì la voce, rosso in viso e con le dita che lisciavano nervosamente i lati della giacca nera. Poi esordì nel suo discorso commemorativo. «Be'...» disse. «In genere non faccio queste cose... in realtà... Però volevo dire qualche parola su Ernst Adolfsson, amico mio e di molti altri, e sul paesino di Stenvik. Ormai laggiù il silenzio e il buio si fanno sempre più profondi...» Poco più di un'ora dopo Gerlof era di ritorno alla residenza di Marnäs grazie a un passaggio di Margit e Gösta - e finalmente poté tirare il fiato. Consumò il pranzo che Boel gli aveva riscaldato. Su uno dei tavolini della sala da pranzo deserta trovò una copia dell'"Ölands-Posten" di quel giorno. Lo sguardo di Gerlof cadde su un titolo della prima pagina: ANZIANO SCOMPARSO TROVATO MORTO. L'ennesima brutta notizia. L'articolo parlava del vecchio che si era allon-
tanato dalla sua casa dell'Öland meridionale una settimana prima, e ora era stato ritrovato in mezzo alla sterpaglia sul tavoliere, morto di freddo. La polizia aveva classificato l'accaduto come una disgrazia, riferiva il giornale. L'uomo era anziano e affetto da demenza senile, ed evidentemente si era perso a meno di un chilometro di distanza dal paesino in cui aveva abitato per tutta la vita. Gerlof non lo conosceva, ma gli parve ugualmente che l'articolo fosse di cattivo auspicio. Per il resto del pomeriggio rimase in camera sua, saltando il caffè. Uscì solo all'ora di cena: il menu prevedeva le tipiche polpette di patate e pancetta di Öland, ma poco salate e con una quantità insufficiente di condimento, del tutto diverse da quelle, squisite, che Ella preparava un paio di volte al mese. Gerlof ne mangiò un paio lo stesso. «È andato tutto bene in chiesa, senza di me?» chiese Marie mettendogliele nel piatto. «Sì, sì» rispose Gerlof. «E così Ernst Adolfsson è sottoterra, adesso?» chiese Maja Nyman dal lato opposto del tavolo. In effetti era anche lei di Stenvik, pensò Gerlof, pur non abitandoci più da quarant'anni. Annuì. «Già, adesso Ernst riposa di fianco alla chiesa.» Prese la forchetta e cominciò a mangiare, rallegrandosi come al solito di avere i denti buoni. Oltretutto anche Sjögren si era dato una calmata, alla fine. «Era bella la bara?» chiese Maja. «Ma sì» rispose Gerlof. «Di legno bianco, lucida ed elegante.» «A me ne piacerebbe una di mogano» disse Maja. «Se non viene a costare troppo... Altrimenti mi sa che dovrò optare per del legno economico e la cremazione.» Gerlof annuì educatamente, inforcò un boccone di polpetta di patate e stava per dire che per quanto lo riguardava la cremazione era sicuramente l'opzione preferibile, quando qualcuno gli toccò la spalla. Era Boel. «Ti vogliono al telefono, Gerlof» disse a voce bassa. Girò la testa. «Nel bel mezzo della cena?» «Già. Pare che sia importante. È Lennart Henriksson... della polizia.» Gerlof avvertì di colpo un gelo allo stomaco, un gelo che risvegliò im-
provvisamente Sjögren dal suo torpore serale inducendolo ad aggredirgli di nuovo le articolazioni. I reumatismi peggioravano sempre, con la tensione. «Allora vengo» disse. Julia? Si trattava quasi certamente di Julia, e quasi certamente erano cattive notizie. Si alzò con qualche difficoltà. «Puoi prendere la telefonata in cucina» disse Boel. Si avviò, appoggiandosi al bastone. La cucina era deserta. Sollevò il ricevitore del telefono di plastica rossa attaccato alla parete. «Pronto?» disse. «Gerlof... sono Lennart.» La sua voce suonava terribilmente seria. «È successo qualcosa?» chiese, pur sapendo già la risposta. «Sì, si tratta di Julia... Non era partita per Göteborg.» «Dov'è?» Gerlof trattenne il respiro. «Giù a Borgholm» rispose Lennart. «In ospedale.» «È grave?» «Abbastanza. Ma avrebbe potuto andare molto peggio. Si è fratturata in diversi punti. La stanno medicando... Andrò a prenderla più tardi.» «Ma cos'è successo?» chiese Gerlof. «Cos'ha fatto?» Lennart esitò, poi prese fiato e rispose: «Ieri sera è entrata in casa di Vera Kant ed è caduta dalle scale del piano superiore. Era un po'... be', insomma, era piuttosto confusa, quando l'ho trovata. Sostiene che la casa è abitata. Che ci abita Nils Kant». 21 Julia fu svegliata dal torpore del sonno da un cigolio prolungato, e dopo qualche secondo ricordò dove si trovava: nella grande casa di Vera Kant a Stenvik. Aveva freddo. Il dolore delle fratture subite l'aveva fatta assopire dopo una lunga veglia sul pavimento, e chiudendo gli occhi aveva sognato la sua ultima estate con Jens, quando il sole pareva continuare a splendere su Stenvik senza interruzione e l'autunno era parso tanto lontano. Vide sotto di sé il pavimento sporco e polveroso della veranda e si rese conto che si era fatto giorno. Il cigolio proveniva dalla porta d'ingresso che si stava per aprire.
«Julia?» echeggiò una voce da qualche parte sopra di lei. Due mani le sollevarono la testa e le misero una giacca piegata o un maglione sotto la nuca. «Mi senti? Julia, svegliati!» Lei rivolse il viso dolorante verso l'alto. Riusciva a usare solo l'occhio sinistro: l'occhio destro era troppo gonfio per poterlo aprire. Era la voce pacata di Lennart: l'aveva riconosciuta prima ancora di vedere che era proprio lui. Non indossava l'uniforme della polizia, ma un abito nero e delle scarpe lucide. Si erano incrostate del fango del giardino di Vera Kant, ma lui non sembrava farci caso. «Ti sento» rispose. «Bene.» Non suonava irritato, solo stanco. «In questo caso, buongiorno.» «Sono venuta qui e... sono caduta dalle scale» riprese Julia con voce debole, sollevando la testa da terra. «È stato stupido da parte mia.» «Gerlof ha detto che eri andata a casa» disse Lennart. «Ma io ero convinto di poterti trovare qui.» Julia era stesa in veranda. Durante la notte non era riuscita a trascinarsi oltre, dopo essersi svegliata sul pavimento della cucina in mezzo a quello che restava del cellulare e della lampada andati in pezzi. Il cherosene era fuoriuscito, prendendo fuoco, ma le fiamme si erano subito spente sul pavimento di pietra. Non era riuscita ad alzarsi in piedi, perché qualcuno aveva piantato un chiodo incandescente nel suo piede destro. Così aveva faticosamente preso a strisciare verso la porta d'ingresso, solo per allontanarsi dalla cucina, e nel buio della veranda si era di nuovo accasciata a terra. Sentiva il vento soffiare all'esterno e non aveva energie sufficienti per uscire nella notte. Si era fermata vicino alla porta, terrorizzata all'idea di sentire dei passi avvicinarsi dall'interno della casa. «Che stupida...» ripeté Julia a mezza voce. «Stupida, stupida...» «Non pensarci, adesso. Avrei dovuto venire ieri sera, ma la riunione...» Lennart smise di parlare, e Julia sentì le sue mani sotto le braccia. Stava cercando di farla alzare, piano piano. «Pensi di reggerti in piedi?» chiese. Sperava che non si accorgesse del vino che aveva bevuto. I postumi della sbornia le avevano lasciato un cattivo sapore in bocca. «Non lo so... Mi sono rotta qualcosa... qualche osso.» «Ne sei sicura?» Julia annuì stancamente.
«Faccio l'infermiera.» In effetti era la verità. E la diagnosi che aveva stabilito per sé ancora prima di uscire strisciando dalla cucina era una frattura a un polso e alla clavicola e forse anche un piede rotto, il destro. Poteva anche essere una distorsione grave, difficile dirlo. Julia aveva avuto dei pazienti che non riuscivano ad appoggiare il piede per settimane, dopo una slogatura, mentre altri, dopo esserselo rotto, ci avevano camminato sopra quasi subito, convinti che sarebbe passato tutto. Quanto al viso, non aveva idea del proprio aspetto. Orribile, probabilmente. Forse aveva anche perso del sangue dal naso, perché se lo sentiva del tutto chiuso. «Prova ad alzarti, Julia» disse Lennart. Le fece piacere che la sua voce suonasse ancora pacata: non rabbiosa, non tesa. «Scusami» disse con la voce impastata. «Per cosa?» Lennart la sollevò delicatamente tenendola sotto le ascelle. «Scusami per essere venuta qui senza di te.» «Non pensarci» ripeté Lennart. Ma Julia non voleva stare in silenzio, voleva raccontargli tutto, e subito. «Stavo cercando Jens. Una sera ho visto una finestra illuminata, e credo che... che abiti qui.» «Abiti? Chi?» «Nils...» rispose Julia. «Nils Kant, il figlio di Vera. Ha un sacco a pelo al piano di sopra. L'ho visto. E dei vecchi ritagli di giornale.» «Riesci a camminare?» le domandò Lennart. «Ha anche scavato in cantina... Non so perché. Possibile che il corpo di Jens sia sepolto lì sotto? Pensi che sia così, Lennart? L'avrà nascosto lì?» «Vieni, adesso.» Lennart cominciò faticosamente ad accompagnarla fuori dalla porta d'ingresso, nel vento gelido e poi lungo gli scalini. Non fu un'impresa facile: Julia non riusciva a reggersi sul piede destro, ma Lennart la sostenne per tutto il tempo. Una volta che si ritrovarono sul vialetto, Julia vide un'auto verde scuro parcheggiata fuori dal cancello. «È tua, Lennart?» chiese. «Sì.» «Non hai un'auto della polizia? Dovresti averne una.»
«È la mia personale... Sono stato al funerale oggi.» «Ah, già.» Il funerale di Ernst. Ecco, ora ricordava. L'aveva perso. Il vecchio cancello era difficile da aprire come la sera prima, e così Lennart dovette lasciarla in equilibrio su un piede solo mentre lo strattonava e calciava in modo da aprire un varco sufficiente a farli passare entrambi. Julia salì con difficoltà in auto, come se avesse novant'anni. «Lennart» si affrettò a dire prima che lui chiudesse la portiera. «Potresti entrare solo un attimo nella villa a guardare? Voglio solo essere sicura di... di aver visto quello che ho visto stanotte. Al piano di sopra, e in cantina.» La guardò per qualche secondo, poi annuì. «Immagino che mi aspetterai qui» scherzò. Julia fece cenno di sì con il capo. «Senti... ce l'hai una pistola?» «Una pistola?» «Sì... se c'è qualcuno... là dentro. Non penso, ma...» Lennart sbottò in una risatina. «Non ho con me nessuna pistola, solo una torcia tascabile» disse. «Niente paura, Julia, me la caverò. Torno subito.» Poi chiuse la portiera e andò a prendere la torcia nel baule. Julia l'osservò entrare in giardino e scomparire oltre la legnaia fatiscente. Tirò il fiato, immersa nel silenzio dell'auto, si appoggiò piano allo schienale e fissò con sguardo perso la falesia e il mare grigio oltre la strada comunale. Lennart non rimase via per molto, forse cinque o dieci minuti. Julia aveva cominciato ad agitarsi nel momento stesso in cui si era allontanato, e vedendolo ricomparire oltre il cancello provò un grande sollievo. Il poliziotto aprì la portiera dalla parte del conducente, montò e annuì. «Avevi ragione» confermò. «Qualcuno è stato lì, e anche da poco.» «Sì» disse Julia. «Secondo me...» Lennart sollevò una mano di scatto. «Non Nils Kant» la interruppe. Poi mise un piccolo oggetto sul cruscotto. «In cantina ho trovato questa. Ce n'erano diverse, sparse sul pavimento.» Era una scatola vuota di snus, il tipico tabacco svedese che, modellato in una presa, s'infila sotto il labbro superiore. «Un consumatore di snus, dunque» disse Julia.
«Sì, chiunque sia stato lì ne fa uso abitualmente» confermò Lennart girando la chiave d'avviamento. «Adesso andiamo a Borgholm.» In ospedale tagliarono i vestiti di Julia, sia il maglione che i pantaloni, e le fecero un'iniezione di analgesico. Un giovane medico venne a visitarla e le chiese come si fosse procurata quelle lesioni. «È stato stanotte, si tratta di una caduta» disse Lennart, che era sulla soglia della sala visite, in procinto di uscire. «Su a Stenvik.» «Sulla spiaggia?» Lennart esitò solo un secondo prima di annuire. «Sì, in spiaggia.» Poi uscì, e il medico cominciò a palparle schiena e pancia e muoverle braccia e gambe, dopodiché le infermiere la sottoposero a una serie di lastre. Infine cominciarono ad applicarle le bende gessate, fredde e umide. Julia non protestò: conosceva la procedura e non vedeva l'ora che fosse tutto finito. C'erano cose più importanti a cui pensare. Nella villa di Vera Kant aveva fatto una scoperta importante, ne era certa. Nils Kant era vivo. Era vivo e abitava nella vecchia casa della madre, proprio come in quel terribile film di Hitchcock. Si nascondeva nella villa e quando Jens ci era entrato, Kant aveva dovuto ucciderlo. Sempre ammesso che invece non si fossero incontrati nella nebbia sul tavoliere. Forse a Nils Kant piaceva ancora fare le sue lunghe passeggiate. Julia non voleva restare in ospedale. Chiese di poter usare il telefono, visto che il suo cellulare era rotto, e chiamò Astrid a Stenvik. Le riferì quanto era successo e le fece una domanda. Astrid era in casa, e rispose affermativamente: certo che Julia poteva andare a stare da lei per qualche giorno. Un po' di compagnia faceva sempre piacere. Lennart era tornato a prenderla dopo poco più di un'ora. «Bisogna stare attenti a tutti i sassi e le rocce, in spiaggia» aveva detto il giovane medico controllando il gesso per poi stringerle la mano. «Soprattutto quando è buio.» «Avevi da fare in città?» chiese Julia mentre tornavano verso nord. «Sono andato alla stazione di polizia» rispose Lennart, al volante. «I loro computer sono più veloci del mio a Marnäs, e così ho potuto fare qualche denuncia.» La guardò. «Tra le altre cose, su un'effrazione a Stenvik.»
«Oh.» «Non si tratta di te» si affrettò a specificare Lennart. «Ho denunciato il fatto che qualcuno ha forzato la porta della villa dei Kant e ci ha dormito. Tu non hai mai messo piede lì dentro, ricordatelo. Hai solo visto che una finestra era illuminata, una sera. Il giorno dopo mi hai telefonato e me lo hai comunicato. Intesi?» Julia gli lanciò una rapida occhiata. «Okay» disse. «Sono inciampata e caduta in spiaggia. Al buio.» «Esatto» confermò Lennart. Poco dopo svoltò per imboccare la strada secondaria che portava a Stenvik. «Comunque sono ancora convinta che Nils Kant sia stato lì» aggiunse Julia a voce bassa. «Non credo che sia morto.» «Puoi credere quello che vuoi» rispose Lennart laconico. «Kant è morto.» Ma Julia gli lesse negli occhi, o almeno così le parve, un'ombra d'incertezza. Puerto Limón, marzo 1960 Il sole è scomparso, il buio è calato sulla costa orientale della Costa Rica. Nelle ombre sulla piccola spiaggia sabbiosa sotto la terrazza del bar Casa Grande, qualcuno tossisce piano e poi comincia a fischiettare tre sé e sé una melodia allegra e spensierata che sale e scende d'intensità quasi a tempo con il ritmico frangersi delle onde serali sulla rena. Dall'interno del bar si sentono risate e il tintinnio di bicchieri. Lampi silenziosi s'infiammano bianchi lungo l'orizzonte, seguiti da un brontolio sordo. Al largo, sul mar dei Caraibi, si sta scatenando un temporale notturno, che poi si avvicinerà lentamente a terra. Nils Kant è seduto al solito tavolo all'estremità della terrazza, solo come sempre, sotto le piccole lanterne rosse. Fissa per un po' il suo bicchiere semivuoto, per poi scolarne il contenuto in un sorso. È il sesto o il settimo bicchiere della serata? Non lo ricorda, e non importa. Aveva pensato di non bere più di cinque bicchieri di vino rosso tiepido, quella sera, ma non fa nessuna differenza. Tra poco ne ordinerà un altro. Non c'è nessuna ragione per smettere di bere, proprio nessuna. Appoggia il bicchiere vuoto e si gratta sul braccio sinistro, arrossato e
gonfio. Negli ultimi anni il sole ha cominciato a fargli venire delle irritazioni brucianti sulla pelle delle braccia e delle gambe. Le scaglie di epidermide chiara si staccano una dopo l'altra, la pelle si lacera e quando si sveglia al mattino le lenzuola sono tutte macchiate di sangue. Sul cuscino, poi, ci sono sempre più spesso dei capelli. Comincia ad avere una zona calva alla sommità della testa. È il sole, il caldo, l'umidità. Nils sta perdendo i pezzi, piano piano. Non c'è niente da fare. Nient'altro da fare che continuare a bere. Il vino, da qualche anno, è di quello più a buon mercato, perché dalla metà degli anni Cinquanta in poi il flusso di denaro da parte di sua madre si è assottigliato sempre di più. Come unica spiegazione Vera ha addotto il fatto che la cava di famiglia è stata venduta e chiusa, senza dire quanti soldi le sono rimasti. Zio August, poi, non gli scrive dallo Småland da anni. Da quando è partito da Öland, Nils non si è battuto con nessuno e non ha nemmeno fatto seriamente male ad anima viva. Eppure il sovrintendente Henriksson compare ancora accanto al suo letto, certe notti, sanguinando in silenzio. L'unica consolazione è che capita meno di frequente, adesso. Nils afferra il bicchiere e si sporge in avanti per alzarsi ed entrare a farselo riempire, e in quel preciso istante si rende conto di conoscere la melodia che viene fischiettata nel buio sotto di lui. Si ferma al tavolo e ascolta con maggiore attenzione. Sì, l'ha già sentita, quella musichetta, anche se molti anni fa. Spesso veniva trasmessa alla radio durante la guerra, e c'era anche nella collezione di settantotto giri di sua madre Vera. Ehilà, compagni di baldorie... Una canzoncina allegra e briosa. Non ne ricorda il titolo, ma il testo gli torna in mente. Ciao, guarda che se vuoi, dimmelo e via, ce ne andiamo a Söder, a casa mia... Nils non la sente da quando è partito da Stenvik: è una melodia svedese. Si alza e si sporge cauto oltre la balaustra di legno, tre o quattro metri più sotto. Ombre. Poi, proprio accanto ai pilastri su cui poggia la terrazza, gli pare di scorgere una sagoma sulla sabbia. «Ehilà!» chiama piano, in svedese. Il fischiettio cessa di botto.
«Ehilà a te» risponde una voce calma dalle tenebre. È come pensava: ora che gli occhi si sono abituati all'oscurità, distingue chiaramente una sagoma seduta lì sotto. È un uomo con un cappello. Ha smesso di fischiettare, e non si muove. Mentre Nils si dirige verso la scala all'estremità opposta della terrazza, cominciano a scendere goccioline di una pioggia leggera ma fredda. Appoggia il palmo sul corrimano e scende su gambe malferme. Sempre più in basso, nel buio, un gradino dopo l'altro, finché sotto i sandali di pelle sente la sabbia morbida, ancora calda. Sono anni che Nils passa le serate sulla terrazza, ma non è mai stato su quella spiaggetta, al buio, prima d'ora. Possono esserci dei topi, lì: grossi ratti affamati. Si avvicina cauto ai robusti pilastri che sostengono la terrazza. La persona che gli ha risposto è ancora seduta lì, tranquilla e rilassata su una di quelle sedie a sdraio che si possono prendere a noleggio per qualche colón al chiosco distante un paio di centinaia di metri. È un uomo, ora Nils lo vede, con le maniche della camicia arrotolate e una specie di cappello che gli nasconde il viso. Sta mugolando tra sé e sé, la stessa melodia di prima. ... dimmelo e via, ce ne andiamo a Söder... Nils avanza di altri due passi e si ferma. Cerca di stare immobile, ma il suo corpo ondeggia leggermente, a causa del vino ma anche del nervosismo. «Buonasera» lo saluta l'uomo. Nils si schiarisce la gola. «Lei viene... dalla Svezia?» chiede. Quelle parole svedesi hanno un sapore strano, sulla lingua. «Non si sente?» chiede l'uomo sulla sdraio, e nello stesso istante un fulmine inonda di luce l'orizzonte. Nel chiarore improvviso Nils riesce a intravedere il volto bianco dello svedese. Qualche secondo più tardi si sente un debole brontolio di tuono dal mare. «Mi è sembrato meglio che scendessi tu da me, al buio, invece del contrario» continua lo svedese. «Come?» chiede Nils. «Ti ho cercato nella tua stanza in affitto, ma la padrona di casa mi ha detto che di sera in genere sei qui al bar a bere. Forse non c'è molto altro
da fare in Costa Rica, vero?» «Cosa vuoi?» «È più importante parlare di cosa vuoi tu, Nils.» Nils non dice niente. Per un breve attimo ha la sensazione di aver già visto quell'uomo, quando era giovane. Ma dove? A Stenvik? Non lo ricorda. Lo svedese afferra il bracciolo della sdraio e si alza. Lancia un'occhiata in direzione del mare e poi fissa lo sguardo su di lui. «Vuoi tornare a casa, Nils?» gli domanda. «In Svezia? A Öland?» Nils annuisce lentamente. «Io posso organizzare la cosa» dice lo svedese. «Ti daremo una vita completamente nuova, Nils.» 22 «Io non ti accuso di niente, Gerlof» disse Lennart «ma evidentemente hai indotto tua figlia a credere che Nils Kant sia ancora vivo. Che abiti nella vecchia casa di sua madre Vera. E che abbia rapito Jens dopo averlo trovato sul tavoliere.» Era pomeriggio tardi, alla residenza per anziani di Marnäs, e Gerlof era seduto alla sua scrivania. Teneva lo sguardo abbassato come uno scolaretto preso in castagna. «Io non ho mai accennato a niente del genere» sbottò alla fine. «Che Nils si nasconda nella casa di Vera non l'ho mai detto, ma che sia possibile che si trovi ancora in vita...» Lennart non poté far altro che sospirare. Si trovava in piedi al centro della stanza, in divisa, davanti a Gerlof. Era venuto alla residenza per comunicare che Julia stava riposando a casa di Astrid a Stenvik, dopo essere stata ingessata e medicata all'ospedale di Borgholm, il giorno prima. «Come sta?» chiese Gerlof a voce bassa. «Distorsione al piede destro, un polso rotto, una clavicola fratturata, un'emorragia nasale, lividi vari e una commozione cerebrale» disse Lennart. Poi sospirò e aggiunse: «Come ho già detto, poteva andare peggio: poteva rompersi l'osso del collo. Ma poteva anche andare meglio... Per esempio avrebbe potuto fare a meno di entrare in casa di Vera Kant». «Verrà incriminata, adesso?» chiese Gerlof. «Per l'effrazione, intendo.» «No» rispose Lennart. «Non da me, almeno. E neanche dai proprietari
dell'immobile, direi.» «Hai parlato con loro?» Lennart annuì. «Sono riuscito a trovare un nipote di Vera, il figlio di un fratello, a Växjö» disse. «Gli ho telefonato prima di venire qui. Un cugino di Nils, ma più giovane di lui... Non viene a Stenvik da anni ed era piuttosto sicuro che lo stesso valesse per gli altri parenti. Sono diversi cugini smålandesi a possedere la villa, ma evidentemente non riescono a mettersi d'accordo sulla ristrutturazione o la vendita.» «Immaginavo che si trattasse di qualcosa del genere» disse Gerlof. Poi scosse la testa e guardò il poliziotto. «Non ho mai detto a Julia che io credo che Nils Kant sia vivo, Lennart» continuò. «Ho soltanto detto che alcuni lo pensano.» «E chi?» chiese Lennart. «Mah... Ernst, per esempio» rispose Gerlof, che non voleva coinvolgere John Hagman in questioni che avevano a che fare con la polizia. «Ernst Adolfsson lo pensava. Sono convinto che ritenesse che Nils Kant fosse vivo e che avesse ucciso Jens sul tavoliere. E così ha tentato di convincere anche me...» Lennart gli rivolse uno sguardo pieno di stanchezza. «Investigatori privati» lo interruppe. «Li chiamo così, io, quelli che pensano di saper risolvere i casi meglio di noi poliziotti.» Gerlof rifletté sulla possibilità di ribattere con una battuta sarcastica, ma non gliene venne in mente nessuna. «Comunque, il fatto che qualcuno in effetti sia stato a casa di Vera Kant è tutta un'altra faccenda» continuò Lennart. Gerlof guardò sorpreso il poliziotto. «Sul serio?» chiese. «La porta era stata forzata. E al piano superiore c'erano delle tracce. Ritagli di giornale attaccati alla parete, avanzi di cibo... e un sacco a pelo. E il pavimento della cantina è stato scavato.» Gerlof rifletté. «Hai perlustrato la casa?» chiese. «Soltanto un controllo veloce» rispose Lennart. «Ho privilegiato l'urgenza di accompagnare tua figlia in ospedale.» «Bene. E suo padre ti ringrazia per averlo fatto» disse Gerlof. «L'ho lasciata da Astrid, e questa mattina sono entrato di nuovo nella villa di Vera Kant, prima di venire qui» riprese il poliziotto. «Julia ha avu-
to fortuna, perché la lampada a cherosene è andata a pezzi sbattendo sul pavimento di pietra in cucina, quando le è sfuggita di mano. Se fosse finita contro la parete, la casa avrebbe potuto andare a fuoco.» Gerlof fece cenno di sì. «Ma cosa mi dici della cantina?» lo incalzò. «Hanno scavato per seppellire o per disseppellire qualcosa?» «Difficile da sapere. Disseppellire, direi. O solo scavato.» «I ladri d'appartamento non vanno in giro a scavare in cerca di qualcosa, di solito» commentò Gerlof. «E neanche passano la notte nella casa che svaligiano.» Lennart lo guardò stancamente. «Ecco che giochi di nuovo all'investigatore privato.» «Sto solo pensando a voce alta. E secondo me...» «Cosa?» lo interruppe Lennart. «Be', dev'essere stato qualcuno di Stenvik ad andare alla villa.» «Gerlof...» «Si possono fare molte cose qui a Öland, del tutto indisturbati» continuò Gerlof. «Lo sai anche tu. Si può agire tranquillamente senza essere visti da nessuno, in pratica...» «Manda pure una lettera al direttore sulle carenze della polizia» si affrettò a dire Lennart. «... ma di una cosa ci si accorge sempre» proseguì Gerlof. «I forestieri. Estranei muniti di badile, macchine sconosciute parcheggiate davanti alla villa di Vera Kant... la gente se ne sarebbe accorta, a Stenvik. E invece non è stato così, per quanto ne so.» Lennart rifletté. «Chi abita permanentemente a Stenvik?» chiese. «Non molti.» Lennart rimase di nuovo in silenzio per qualche secondo. «Potrei avere bisogno del tuo aiuto, Gerlof» disse poi, affrettandosi ad aggiungere: «Non per le indagini, ma per verificare alcune informazioni. Ho trovato una cosa in cantina». S'infilò la mano nella tasca della divisa. «Sui davanzali delle finestre e ai piedi della scala c'erano diverse scatole di snus, tutte vuote. Difficile che risalgano ai tempi di Vera Kant.» Tirò fuori la scatola vuota, inserita in un sacchettino di plastica, e un blocchetto per appunti. «Io non ne faccio uso» disse Gerlof. «Lo immaginavo. Ma conosci qualcuno che lo fa, a Stenvik?»
Gerlof parve esitare per qualche secondo, ma poi annuì. Non aveva senso nascondere informazioni che la polizia avrebbe potuto avere in un altro modo. «Solo una persona» rispose. Poi fornì il nome a Lennart. Il poliziotto prese nota sul blocchetto e annuì. «Grazie dell'aiuto.» «Verrei volentieri con te» disse Gerlof. «Se hai intenzione di andare a parlargli, intendo.» Lennart aprì la bocca per rispondere ma lui lo precedette: «Sto bene, oggi, riesco a camminare da solo. Si rilasserà di più e parlerà più volentieri, se ci sono io. Ne ho quasi la certezza». Lennart sospirò. «Allora prendi il cappotto» disse. «Andiamo a fare un giretto.» «È stato un bel discorso, il tuo, John» disse Gerlof. «Quello che hai tenuto al funerale di Ernst, intendo.» Seduto al lato opposto del tavolo nel cucinotto della sua casa di Stenvik, John annuì appena, senza rispondere. Si appoggiò allo schienale per qualche secondo, poi si protese di nuovo in avanti. Era teso, Gerlof lo vedeva chiaramente, e la ragione non era difficile da intuire: la terza persona seduta intorno al tavolo era Lennart Henriksson, ancora in divisa. Erano le sei meno un quarto di sera e fuori dalla finestra regnava l'oscurità. La scatola vuota di snus era appoggiata sul tavolo. «Avete intenzione di riaprire il caso?» chiese John. «Mah, riaprire...» rispose Lennart alzando le spalle. «Ci farebbe piacere parlare con Anders, ammesso che la scatola gli appartenga. Perché in questo caso è sicuramente lui ad aver dormito nella villa di Vera Kant, ad aver scavato nella sua cantina e attaccato al muro un sacco di ritagli su Nils Kant e Jens Davidsson. E se è così, vorremmo sapere dove si trovava Anders il giorno in cui il piccolo Jens sparì.» «Non c'è bisogno che lo chiediate a lui» disse John. «Lo so io.» «Ah» commentò Lennart, tirando fuori penna e blocchetto. «Di' pure.» «Era qui» rispose John laconico. «A Stenvik?» John annuì. «E c'eri anche tu? Puoi fornirgli un alibi per quel giorno?» John alzò le spalle. «Sono passati tanti anni» disse. «Non mi ricordo... però la sera uscimmo
a cercare sulla spiaggia. Tutti e due. Ne sono sicuro.» «Anch'io» disse Gerlof. Per quanto molti altri ricordi di quella sera fossero assolutamente sfocati, aveva scolpita nella mente l'immagine di John e suo figlio, il quale all'epoca doveva avere una ventina d'anni, che camminavano fianco a fianco verso sud lungo la spiaggia. «E nel pomeriggio?» lo interrogò Lennart. «Cos'aveva fatto Anders?» «Non me lo ricordo» rispose John. «Può darsi che sia uscito. Ma sicuramente non è salito a casa dei Davidsson.» John lo guardò. «Anders non è assolutamente una persona cattiva, Gerlof.» Gerlof annuì. «Nessuno pensa il contrario.» Lennart continuò a prendere appunti. «Dobbiamo parlargli comunque» disse poi. «Tuo figlio è qui?» «Al momento si trova a Borgholm» rispose John. «Ci è andato ieri, dopo il funerale.» «Abita lì?» «A volte... sta con sua madre» disse John. «E a volte sta con me. Può fare come vuole. Non ha la patente, per cui va avanti e indietro in autobus.» «Quanti anni ha adesso?» «Quarantadue.» «Quarantadue anni... e abita ancora in famiglia?» chiese Lennart. «Non è mica un reato.» John fece un segno con il pollice alle proprie spalle. «E poi ha una casa sua, qui dietro la mia.» «Penso che si possa dire» s'intromise Gerlof con il massimo tatto possibile «che Anders è un tipo un po' particolare. Sei d'accordo, no, John? È buono e disponibile, ma è fatto a modo suo.» «L'ho incontrato in un paio di occasioni» disse Lennart «e mi è parso del tutto affidabile.» John teneva la testa rigida, in avanti. «Anders sta per conto suo» disse. «Pensa molto. Non parla altrettanto spesso, né con me né con qualcun altro. Ma in lui non c'è cattiveria.» «E l'indirizzo?» chiese Lennart. John indicò un numero civico di Köpmansgatan e Lennart prese nota. «Bene» disse. «Allora non ti disturbiamo oltre, John. Torniamo a Marnäs.» Quest'ultima frase era rivolta a Gerlof, che si trovava alle sue spalle e si sentiva sempre di più come il secondo poliziotto della compagnia.
Era una sensazione alquanto sgradevole, perché si era accorto del terrore paralizzante che era lentamente comparso nello sguardo di John durante la conversazione. Il terrore che il Potere, che tracciava alti cerchi nel cielo come un uccello predatore, avesse infine individuato sia lui che il suo unico figlio nella deserta piattezza dell'Öland settentrionale e che ora non li avrebbe più lasciati andare. «Non c'è cattiveria in lui» ripeté, sebbene Lennart si fosse già alzato e si stesse dirigendo verso la porta. «Non hai motivo di preoccuparti, John» lo confortò Gerlof a bassa voce, pur non suonando troppo convincente. «Ci sentiamo più tardi, per telefono? Che ne dici?» John annuì, ma stava ancora guardando teso Lennart, che aspettava sulla soglia. «Vieni, ora, Gerlof» disse. Suonava come un ordine. Gerlof non si sentiva più un poliziotto, adesso: un cagnolino, piuttosto. Tuttavia seguì ubbidiente il poliziotto fuori dalla porta d'ingresso. In realtà gli avrebbe fatto piacere passare a salutare anche sua figlia, a casa di Astrid, ma voleva dire che avrebbe rimandato a un'altra occasione. I muscoli gli tremavano più del solito, mentre camminava verso la sua stanza; anche le articolazioni gli dolevano parecchio. Era tornato alla residenza per anziani di Marnäs, accompagnato da Lennart che gli aveva dato un passaggio. Sentì il telefono suonare nella stanza e non pensava di fare in tempo ad aprire la porta, ma gli squilli continuarono. «Pronto?» «Sono io.» Era John. «Come va?» Si sedette pesantemente sul letto. John non rispose. «Hai parlato con Anders?» chiese Gerlof. «Sì. Ho chiamato a Borgholm. Ho parlato con lui.» «Bene. Forse, però, non dovresti dirgli che la polizia vuole...» «Troppo tardi» lo interruppe John. «Gli ho riferito che la polizia era stata qui.» «Ah» rispose Gerlof. «E luì che ha detto?»
«Niente. Ha ascoltato e basta.» Silenzio. «John... penso che sia io che te sappiamo cosa faceva Anders a casa di Vera Kant. E anche cosa cercava in cantina» disse Gerlof. «Il tesoro dei soldati. Il bottino di guerra che la gente ha sempre pensato che avessero con sé quando sbarcarono a Öland.» «Già» confermò John. «Il tesoro che si portò via Nils Kant» continuò Gerlof. «Ammesso che poi l'abbia fatto davvero.» «Anders ne parla da molti anni» disse John. «Non lo troverà» disse Gerlof. «Lo so per certo.» John rimase di nuovo in silenzio. «Dobbiamo andare a Ramneby» continuò Gerlof. «Alla segheria e al Museo del legno. Possiamo andarci domani.» «Domani no» rispose John. «Devo andare a Borgholm a prendere Anders.» «La settimana prossima, allora. Quando è aperto il museo» disse Gerlof. «Dopo, magari, possiamo fare una puntata a Borgholm e vedere come sta Martin Malm.» «Certo» disse John. «Dobbiamo trovare Nils Kant, John» concluse Gerlof. Erano quasi le nove di quella stessa sera. I corridoi della residenza per anziani di Marnäs erano deserti e silenziosi. Gerlof si trovava davanti alla porta chiusa di Maja Nyman, appoggiato al suo bastone. Dall'interno della stanza non si sentivano rumori. Al di sopra dello spioncino era appeso un biglietto con una scritta a mano: BUSSATE, PER FAVORE! (GV., 10, 7). «In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore» recitò sottovoce Gerlof a memoria. Esitò un attimo, poi sollevò la mano destra e bussò. Ci volle un po', ma poi Maja venne ad aprire. Si erano visti a cena qualche ora prima, e indossava ancora lo stesso vestito giallo con una camicetta bianca. «Ciao» la salutò Gerlof con un sorriso mite. «Volevo solo vedere se eri in casa.» «Gerlof.» Maja sorrise a sua volta, ma gli parve di vedere una ruga di tensione in
mezzo alle altre sulla fronte, sotto i capelli bianchi. La visita era inaspettata. «Posso entrare?» chiese. Lei annuì, esitando appena, e arretrò nella stanza. «Non ho messo in ordine, però» disse. «Non fa niente, te lo assicuro» rispose Gerlof. Appoggiandosi al bastone, entrò a passo lento nella stanza, che aveva l'aria di essere linda e ordinata come tutte le altre volte che ci era entrato. Un tappeto persiano rosso cupo copriva quasi tutto il pavimento, e sulle pareti si affollavano quadri e ritratti. Gerlof era stato da lei molte volte. Avevano avuto una relazione, cominciata solo qualche mese dopo che Gerlof era arrivato alla residenza e conclusasi un anno più tardi, quando i dolori dovuti alla sindrome di Sjögren erano diventati troppo intensi. Da allora avevano continuato a coltivare una pacata amicizia che teneva ancora. Venivano entrambi da Stenvik, ed erano entrambi soli dopo un lungo matrimonio. Avevano avuto parecchio di cui parlare. «Stai bene, Maja?» chiese Gerlof. «Sì. Della salute non posso lamentarmi.» Maja scostò una sedia dal tavolino scuro da tè davanti alla finestra e Gerlof si sedette, riconoscente. Si sedette anche lei, e scese il silenzio. Gerlof doveva per forza dire qualcosa. «Mi stavo chiedendo, Maja, se potresti raccontarmi qualcosa di più su una cosa di cui abbiamo già parlato una volta...» S'infilò una mano in tasca e tirò fuori la bustina bianca che Julia gli aveva dato la settimana prima. «Mia figlia ha trovato questa lettera al cimitero, accanto alla lapide di Nils Kant» proseguì Gerlof. «So che sei stata tu a scriverla e metterla lì, ma non era questo che volevo chiederti. Mi domandavo solo...» «Non ho niente di cui vergognarmi» si affrettò a interromperlo Maja. «Certo che no» confermò Gerlof. «Infatti non ho mica...» «A Nils non riservo mai il mazzo più bello» aggiunse Maja. «Quello è sempre per mio marito... Prima mi occupo della tomba di Helge, e solo dopo passo da quella di Nils.» «È una bella cosa» disse Gerlof. «Tutte le tombe dovrebbero ricevere cure adeguate.» Poi continuò: «Ma non era questo che volevo chiederti: si tratta di un'altra cosa... Mi ricordo che una volta mi hai detto di aver incontrato Nils Kant sul tavoliere lo stesso giorno in cui... affrontò i soldati tede-
schi». Maja annuì seria. «Glielo lessi in faccia» raccontò. «Non aprì bocca, ma mi accorsi lo stesso che era successo qualcosa... soltanto che lui non volle dire cosa. Cercai di parlargli, ma si dileguò di nuovo sul tavoliere.» «Capisco» disse Gerlof. Fece una pausa e poi disse, procedendo con il massimo tatto possibile: «Mi hai detto anche che quel giorno avevi avuto qualcosa da lui...». Maja lo guardò fissa e annuì. «Mi chiedevo soltanto se potevi mostrarmi ciò che ti diede» continuò Gerlof. «E se l'hai detto a qualcun altro. L'hai fatto?» Immobile, Maja lo fissò. «Non ne sa niente nessuno» rispose brevemente. «E non si tratta di qualcosa che mi fu dato: qualcosa che presi, piuttosto.» «Scusa?» «Nils non mi diede niente» spiegò Maja. «Fu una cosa che presi io. E me ne sono pentita tante volte...» «Un pacchettino» disse Gerlof. «Avevi parlato di un pacchettino.» «Avevo seguito Nils» disse Maja. «Ero giovane e curiosa. Decisamente troppo curiosa... così rimasi nascosta dietro i cespugli di ginepro e vidi Nils che se ne andava. Era diretto verso il tumulo votivo nei pressi di Stenvik.» «Il tumulo? E che ci doveva fare lì?» Maja rimase in silenzio. Il suo sguardo era perso lontano, adesso. «Si mise a scavare nella terra» rispose alla fine. «Per seppellire qualcosa?» chiese Gerlof. «Il pacchettino?» Maja lo guardò e disse: «Nils è morto, Gerlof». «Così pare.» «È così» insistette Maja. «Non tutti ne sono convinti, ma io lo so. Altrimenti si sarebbe fatto sentire.» Gerlof annuì. «Disseppellisti il pacchettino dopo che Nils se ne fu andato?» Maja scosse la testa. «Corsi via» rispose. «Fu in seguito... dopo che era tornato a casa.» Gerlof impiegò qualche secondo a capire. «Vuoi dire... quando rientrò in una bara?» Maja annuì. «Andai sul tavoliere e lo disseppellii» disse.
Si alzò, lisciò la gonna con i palmi delle mani e si avvicinò al televisore nell'angolo della stanza. Gerlof rimase dov'era ma girò la testa per seguirla con lo sguardo. «Era un giorno d'autunno, negli anni Sessanta, un paio d'anni dopo il funerale di Nils» disse Maja al di sopra della spalla. «Helge era nei campi e i bambini a scuola, a Marnäs. Così chiusi a chiave la porta e andai da sola sul tavoliere, con una vanga da giardino in un sacchetto di plastica.» Gerlof osservò Maja prendere con qualche sforzo da una mensola sotto la televisione un cofanetto di legno verniciato di blu e decorato con delle rose rosse. L'aveva visto altre volte prima d'allora: era la sua vecchia cassetta del ricamo. Maja portò il cofanetto fino al tavolino da tè e lo mise davanti a Gerlof. «Attraversai la strada principale» continuò «e dopo una mezz'ora mi ritrovai sul tavoliere nei pressi di Stenvik. Trovai quello che restava del tumulo votivo e cercai di ricordarmi esattamente il punto in cui avevo visto scavare Nils... E alla fine ci riuscii.» Aprì il coperchio del cofanetto. Gerlof vide delle forbici, dei gomitoli e una serie di rocchetti di filo e il pensiero gli corse ai tempi in cui cuciva di persona gli strappi nelle vele. Poi Maja sollevò il doppio fondo e lo mise da parte, in modo che Gerlof potesse vedere l'astuccio piatto nascosto nell'intercapedine. Un astuccio metallico, segnato da vecchie chiazze di ruggine. Per lo meno, Gerlof sperava che fosse ruggine. «Eccolo qui.» Maja tirò fuori l'astuccio e glielo diede. Dall'interno si udì un tintinnio. «Posso aprirlo?» chiese Gerlof. «Puoi farne quello che vuoi.» L'astuccio non aveva serratura, e Gerlof lo aprì con estrema delicatezza. Il contenuto scintillava e mandava lampi. Forse dentro c'era solo una ventina di fondi di bicchiere, chincaglieria senza valore, ma era difficile non notare qualcos'altro, qualcosa di più prezioso. Accanto alle pietre, c'era anche un crocifisso. Gerlof non era un esperto, ma pareva d'oro massiccio. Chiuse il coperchio prima di essere tentato di prendere in mano le pietre e farsele rotolare tra le dita. «Hai detto a qualcun altro di questo ritrovamento?» chiese a voce bassa. «Ne parlai a mio marito prima che morisse» rispose Maja. «E pensi che lui, a sua volta, l'abbia riferito a qualcuno?»
«Non parlava di queste cose con la gente» ribatté Maja. «E se l'avesse fatto, me l'avrebbe sicuramente detto. Non avevamo segreti tra noi.» Gerlof le credeva. Helge non era certo un chiacchierone. Tuttavia, in un modo o nell'altro, le voci secondo le quali i due soldati uccisi da Nils avevano portato con sé un tesoro dai paesi baltici avevano cominciato a prendere piede in tutta l'Öland settentrionale. Le aveva sentite anche Gerlof, oltre a John e Anders Hagman. «E così le hai tenute qui nascoste per tutto il tempo?» chiese. Maja annuì. «Non ne ho mai fatto niente. Non erano mie.» Poi aggiunse: «Però una volta ho tentato di darle alla madre di Nils, Vera». «Davvero? E quando?» Maja si sedette piano sulla sedia accanto alla sua, e Gerlof notò che l'accostava in modo che le loro ginocchia si sfiorassero tra le gambe sinuose del tavolino da tè. «Fu qualche tempo dopo, alla fine degli anni Sessanta. Helge aveva sentito dire che Vera Kant aveva cominciato a vendere tutti i suoi terreni lungo la costa e che non era messa molto bene, economicamente. E così pensai che forse era giusto che riavesse le pietre...» «Andasti a trovarla?» Maja annuì. «Presi la corriera per Stenvik ed entrai nel giardino di Vera... Era estate, e così, quando salii la scala con le gambe che mi tremavano, trovai la porta d'ingresso socchiusa. Avevo paura di Vera, come la maggior parte della gente...» Maja fece una pausa, e poi riprese: «All'interno della casa c'era un giradischi acceso, o forse la radio: sentivo della musica bassa. E delle voci. Aveva visite». Gerlof trattenne il fiato. «Per diversi anni ha avuto una donna delle pulizie, forse si trattava...» «No. Erano due uomini» lo interruppe Maja. «Dalla cucina udii due voci maschili. Una che mormorava, e un'altra che parlava a voce molto più alta e decisa, quasi come un capitano...» «Riuscisti a vederli, o almeno a vederne uno?» chiese Gerlof. «No, no» rispose subito Maja. «E nemmeno rimasi lì a origliare... Bussai non appena arrivai all'ultimo gradino. Le voci tacquero immediatamente e Vera uscì come una furia sulla veranda chiudendosi la porta della cucina alle spalle. Fu uno shock tornare in paese e vederla, dopo tanti anni. Era diventata così emaciata e rinsecchita... sembrava una fune secca. Ma era
diffidente come sempre: mi guardava come se fossi una ladra o qualcosa del genere. "Cosa vuole?" mi chiese. Niente saluti, nessuna gentilezza. Persi completamente il lume della ragione. Avevo l'astuccio in tasca, ma neanche lo tirai fuori. Balbettai qualcosa a proposito di Nils e del tavoliere... e probabilmente fu una sciocchezza. Anzi, lo fu di sicuro, perché Vera mi gridò di andarmene. Poi rientrò in cucina. E io me ne tornai a casa... e qualche anno dopo morì.» Gerlof annuì. Vera era morta rotolando giù dalla stessa scala lungo la quale era caduta Julia. Domandò: «Riuscisti a sentire di cosa stavano parlando i due uomini?». Maja scosse la testa. «Solo qualche parola, prima di bussare» rispose. «Qualcosa a proposito della nostalgia. Era quello con la voce potente che parlava di qualcuno che aveva nostalgia: "E in fondo è nostalgia reciproca", o qualcosa del genere.» Gerlof rifletté. «Magari erano parenti di Vera» disse. «Il ramo smålandese della famiglia, forse?» «Può darsi» rispose Maja. Scese il silenzio. Gerlof non aveva altre domande. Doveva rimuginare su quanto era venuto a sapere. «Bene...» disse, allungandosi per darle una pacca sulla spalla, ma Maja si protese in avanti e la mano finì sulla guancia. Rimasero immobili così, quasi per inerzia, muovendosi leggeri in un fremito che si trasformò lentamente in una carezza. Maja chiuse gli occhi. Gerlof si riscosse e si alzò. «Ecco...» disse. «Io non posso... non più.» «Ne sei sicuro?» chiese Maja aprendo gli occhi. Gerlof annuì tristemente. «Troppi dolori in questo mio corpo» disse. «Magari con la primavera passeranno» disse Maja. «A volte succede.» «Già» annuì Gerlof, alzandosi alla massima velocità consentitagli dalle membra rigide. «Grazie della chiacchierata, Maja. Non ne parlerò con altri. Lo sai.» Maja rimase seduta al tavolino da tè. «Mi fa piacere.» Gerlof si rese conto che stringeva ancora l'astuccio nella mano sinistra e
lo riappoggiò sul tavolino, ma Maja lo prese, ne estrasse il crocifisso e glielo porse di nuovo. «Prendile» disse. «Non voglio più tenerle. È meglio che le conservi tu.» «Va bene, se è questo che desideri.» Fece un cenno con il capo, e poi un altro, nel goffo tentativo di prendere congedo da lei, e uscì dalla stanza con l'astuccio nella tasca dei pantaloni. Era pesante e freddo e mentre camminava nel corridoio vuoto, si sentiva un debole tintinnio. Una volta rientrato in camera sua, Gerlof si chiuse dentro a chiave. Normalmente non lo faceva, ma questa volta era necessario. "Il bottino di guerra" pensò. I soldati cercano sempre dei bottini di guerra. A chi avevano preso quelle pietre preziose i due tedeschi? E chi altro era morto, oltre a loro, per prenderne possesso? Dove metterle? Gerlof si guardò intorno. Lui non aveva nessun cofanetto da ricamo con il doppiofondo. Alla fine si avvicinò alla libreria. Su una delle mensole c'era la nave in bottiglia che riproduceva il brigantino Rondine azzurra di Hull al suo ultimo viaggio, come l'immaginava lui in quella notte di tempesta lungo la costa del Bohuslän. La Rondine azzurra mentre veniva sospinta verso gli scogli. Gerlof sollevò la bottiglia e ne tolse il tappo. Poi aprì l'astuccio e fece scendere lentamente e con cura le pietre lungo il collo di vetro. Scosse la bottiglia perché si sistemassero sul fondo. Ecco fatto: se non si guardava con troppa attenzione, sembravano scogli sui quali il brigantino si sarebbe presto incagliato. Per il momento doveva accontentarsi di quella soluzione. Gerlof rimise a posto sulla mensola la nave in bottiglia e nascose l'astuccio vuoto dietro una fila di libri su un ripiano più basso. Durante il resto della serata, prima di andare a letto, lo sguardo gli corse più volte alla bottiglia. Dopo la dodicesima o quindicesima occhiata cominciò a capire perché Maja gli fosse parsa così sollevata, consegnandogli il vecchio astuccio metallico. Quella notte tornò a visitarlo l'unico incubo davvero terribile dell'epoca in cui andava per mare. Sognò di trovarsi di fronte al parapetto di una nave che procedeva a bassa velocità nel Baltico, in un qualche punto compreso tra l'estremità settentrionale di Öland e l'isola Oaxen. Era il crepuscolo, non soffiava neanche
un filo di vento e Gerlof scrutava verso l'orizzonte oltre la distesa immobile senza riuscire ad avvistare terra in nessuna direzione... ... poi guardava nell'acqua e vedeva una vecchia mina risalente alla Seconda guerra mondiale. Galleggiava appena sotto la superficie: una grossa sfera nera coperta di alghe e cozze, con le punte nere che sporgevano. Non era possibile evitarla. Gerlof non poté fare altro che guardare in silenzio mentre lo scafo e la mina si avvicinavano lentamente ma inesorabilmente l'uno all'altra, sempre di più. Si svegliò di soprassalto un attimo prima che la mina esplodesse, lanciando un grido che si perse nel buio della residenza di Marnäs. 23 Domenica pomeriggio. Julia, seduta alla finestra del soggiorno di Astrid con le stampelle appoggiate allo schienale della sedia, osservava la sorella maggiore Lena e suo marito Richard riprendere possesso della sua auto parcheggiata sulla falesia. Era riuscita a tenere la macchina due settimane più a lungo del previsto, ma adesso era finita. Meglio così, comunque: tanto, con le ossa rotte non poteva guidare. Lena e Richard erano arrivati il sabato per una breve visita a Öland: si erano fermati a salutare Gerlof e avevano bevuto il caffè a Marnäs, prima di passare la notte nella casetta. La mattina erano venuti da Astrid Linder a salutare, e in quel momento era risultato chiaro che l'intenzione era di riportare Julia a Göteborg. Naturalmente non si erano presi la briga di informare la diretta interessata del loro programma. Neanche sapeva che Lena e Richard sarebbero arrivati, quando vide la Volvo verde scuro svoltare dalla strada e parcheggiare davanti a casa di Astrid. E a quel punto era troppo tardi per scappare. «Ciao, care!» esclamò Lena tutta pimpante quando Astrid la fece entrare. Abbracciò Julia con una foga che le provocò una fitta di dolore alla clavicola incrinata. «Come stai?» Lena stava guardando le stampelle. «Meglio, adesso» rispose Julia. «Papà mi ha telefonato per dirmi quello che era successo» continuò Lena. «Che sfortuna... ma poteva andare anche peggio... Devi ragionare in questo modo: poteva andare peggio.» E più di così Lena non ebbe da dire riguardo alle ossa rotte di sua sorella. Aggiunse soltanto: «È stato gentile
da parte di Astrid ospitarti qui, vero?». «Astrid è un angelo» disse Julia. Ed era vero. Astrid era un angelo che si trovava a suo agio nella desolazione di Stenvik, ma aveva ammesso di sentirsi sola anche lei, a volte. In fondo era vedova, la sua unica figlia lavorava come medico in Arabia Saudita e tornava a casa solo a Natale e per la festa di mezz'estate. Richard invece non aveva proprio niente da dire: rivolse solo un impaziente cenno di saluto a Julia, non si tolse la giacca autunnale marrone chiaro e cominciò a guardare il suo Rolex pochi minuti dopo essere entrato. Evidentemente per lui l'unica cosa importante era riportare l'auto a Torslanda, pensò Julia, in modo che potesse usarla sua figlia. Astrid offrì agli ospiti caffè e biscotti, e Lena decantò l'atmosfera calma e tranquilla che regnava a Stenvik in ottobre, ora che i turisti se n'erano andati. Richard, seduto con la schiena diritta accanto alla moglie, non aprì bocca. Julia si trovava di fronte, con lo sguardo fisso fuori dalla finestra e la mente rivolta alla casa di Vera Kant dietro il filare di alberi. «Bene, adesso è meglio che ci muoviamo» disse Lena dopo il caffè. «La strada è lunga.» Diede velocemente una mano alla padrona di casa sparecchiando le tazze, mentre Richard usciva per aiutare Astrid a fissare una grondaia che stava per staccarsi sul retro della casa. Julia non poteva fare niente, se non stare a guardare. Non aveva gambe, lavoro, figli. Ma la vita sarebbe continuata lo stesso, in qualche modo. «Siete stati gentili a venire» disse. Lena annuì. «Abbiamo deciso subito di venire qui e aiutarti a tornare a casa» disse. «Adesso non puoi mica guidare.» «Grazie» rispose Julia «ma non era necessario. Mi fermo qui.» Lena non l'ascoltava. «Se io guido la Ford con te, Richard può tornare da solo con la Volvo» continuò sciacquando la caraffa del caffè. «Di solito facciamo tappa a Rydaholm per il pranzo. Lì c'è una bella trattoria.» «Non posso tornare a casa senza Jens» disse Julia. «Devo trovarlo, adesso.» Lena si voltò e la guardò. «Cos'hai detto?» le chiese. «Non ci sono...» Julia scosse la testa e la interruppe: «So che Jens è morto, Lena» disse, sostenendo lo sguardo di sua sorella. «È morto. Ora me ne sono resa conto,
ma non si tratta di questo. Voglio solo che lo troviamo, ovunque sia.» «Ma sì, è una buona idea. In fondo a papà fa piacere che tu sia qui» rispose Lena. «Quindi va bene così.» "Già: meglio che bere vino e mandar giù pillole davanti alla tele a Göteborg" pensò Julia. Per un attimo avvertì sul petto il peso di tutti quegli anni gettati via, anni in cui la nostalgia del figlio scomparso era diventata molto più importante dei luminosi ricordi di lui che avrebbero potuto consolarla: un buco nero di dolore in cui si era lasciata sprofondare evitando di affrontare la vita. Ma adesso c'era la pace. Un pezzetto di pace. Alla fine, quando si è vecchi a sufficienza, tutto si riduce a trovare un luogo tranquillo in cui sentirsi a casa propria, insieme alle persone a cui si tiene. Come Stenvik, con l'angelo Astrid. E Gerlof. E Lennart. Julia voleva bene a tutti loro. E Lena era animata dalle migliori intenzioni. Julia sapeva che, in qualche modo, anche sua sorella desiderava il suo bene. «Sì, è una buona idea» disse. «Ci vediamo a Göteborg.» Mezz'ora più tardi Richard montò sulla grande Volvo verde scuro davanti a casa di Astrid, e Lena salì sulla piccola Ford. Si sporse dal finestrino e salutò con la mano. Poi partirono: prima Richard, lei subito dopo. Julia tirò un sospiro di sollievo. Un minuto più tardi nell'ingresso cominciò a suonare il telefono, ma non ebbe la forza di alzarsi per rispondere. «Vado io» disse Astrid. Julia la sentì sollevare il ricevitore, ascoltare e poi chiamarla: «Julia, è per te! È la polizia... Lennart». Sul pavimento regolare di casa Julia riusciva a muoversi con maggiore facilità e rapidità con una sola stampella, e fu così che si spostò in quel momento. Sollevò il ricevitore. «Eccomi.» «Come ti senti?» chiese Lennart. «Meglio» rispose Julia. «Il tempo fa rimarginare tutte le fratture... e Astrid si prende cura di me.» «Bene» commentò Lennart. «Ho delle novità... anche se magari le hai già sentite.» «Avete trovato Nils Kant?» domandò Julia.
Le parve che Lennart sospirasse piano nel ricevitore. «Non è stato un fantasma a scavare dei buchi in cantina» rispose. «Gerlof non te l'ha detto?» «Non abbiamo parlato molto» rispose Julia. «Tuo padre mi ha aiutato a rintracciare il proprietario delle scatole di snus» spiegò Lennart. «Sai, quelle che c'erano nella cantina di Vera.» «E di chi si tratta?» «Anders Hagman.» «Anders Hagman?» chiese Julia. «Vuoi dire Anders... quello del campeggio? Il figlio di John?» «Proprio lui.» «Ne sei sicuro?» «Non l'ha ammesso lui stesso, perché non siamo ancora riusciti a parlargli» disse Lennart. «Non si fa trovare. Però tutto porta in quella direzione.» «Allora non era stato Nils Kant a dormire nella villa.» «No» confermò Lennart. «Quasi sempre c'è una spiegazione banale, Julia. Anders Hagman abita solo a qualche centinaio di metri di distanza. È stato facile per lui andare di nascosto alla villa mentre era buio.» «Ma perché ha scavato in cantina?» «Ci potrebbero essere diverse ragioni. Io ho le mie idee, e ne ho discusso con i colleghi di Borgholm» disse Lennart, per poi chiedere: «Tu conosci Anders? Vi frequentavate, quando abitavi a Stenvik?». «No. È più giovane di me... di quattro o cinque anni» disse Julia, che a malapena si ricordava di Anders Hagman dagli anni della propria infanzia. Nella sua mente c'era solo l'immagine vaga di un ragazzino robusto, taciturno e schivo. Stava per conto suo, lavorava al campeggio di suo padre e non partecipava mai ai balli di mezz'estate, alle feste della birra o ad altre iniziative organizzate a Stenvik, almeno per quanto ricordava. «È stato condannato per maltrattamenti» la informò Lennart. «Lo sapevi?» «Maltrattamenti?» «Una rissa tra ubriachi al campeggio, dodici anni fa. Anders si sentì minacciato e mise fuori combattimento un giovane di Stoccolma. Toccò a me andarlo a prendere, quella sera. Fu condannato con la condizionale e un'ammenda.» Per qualche secondo nessuno dei due parlò. «E adesso è sospettato di qualche reato?» chiese Julia. «Gli state dando la caccia?»
«No, nessuna caccia» rispose Lennart. «Vogliamo solo trovarlo, parlargli... scoprire cosa stava facendo a casa di Vera Kant. Se non altro, si è reso colpevole di un'effrazione.» "Se è per questo, pure io" pensò Julia. «Non gli farete domande su Jens?» chiese. «Dove si trovava al momento della sua sparizione?» «Forse» rispose Lennart. «Dovremmo?» «Non lo so» rispose Julia. Non ricordava neanche se Anders Hagman aveva conosciuto suo figlio. Però era probabile di sì. In fondo d'estate facevano il bagno sulla spiaggia, entro il raggio visivo del campeggio. Jens correva dalla mattina alla sera sulla spiaggia in calzoncini da bagno e cappellino. Chissà se dalla cima della falesia Anders lo guardava, di tanto in tanto? «Pare che al momento sia a Borgholm. Lo troveremo» continuò Lennart. «Se dovessimo scoprire qualcosa di interessante, mi farò vivo.» Anche Gerlof aveva telefonato a Julia dopo la caduta, ma lei non aveva lasciato che la conversazione si protraesse più di tanto. Si vergognava. Più pensava alla propria pessima idea di entrare di nascosto nella villa di Vera Kant nella convinzione che Jens vi si fosse nascosto, più si vergognava. Il lunedì pomeriggio, alla fine, Gerlof venne a Stenvik, accompagnato da John Hagman nella sua auto, e suonò il campanello. Julia si arrabattò con le stampelle per andare ad aprire, essendo sola in casa. Astrid era a Marnäs a fare la spesa. John faceva da autista, ma aveva preferito restare in auto. Julia vide il proprietario del campeggio seduto al volante, mogio e pensoso. «Ho solo fatto un salto per vedere come stavi» disse Gerlof appoggiandosi al bastone, con il fiato grosso per aver percorso da solo la ventina di metri che separavano l'auto dalla casa. «Sto abbastanza bene» rispose Julia, sostenuta dalle stampelle. «Andate a fare una gita, tu e John?» «Siamo in partenza per la terraferma» rispose brevemente Gerlof. «E quando tornate?» Gerlof sbottò in una risatina. «Alla residenza per anziani Boel mi ha fatto esattamente la stessa domanda. Fosse per lei, dovrei starmene in camera mia dalla mattina alla sera.» Poi continuò: «Comunque, sarà stasera, o nel tardo pomeriggio... Può darsi che passiamo anche a trovare Martin Malm, se è più lucido della vol-
ta scorsa». «È qualcosa che ha a che vedere con Nils Kant?» chiese Julia. «Non lo escludo» rispose Gerlof. «Vedremo.» Julia annuì. Se non voleva dirle altro, pazienza. «Ho saputo di Anders Hagman» disse. «E che sei stato tu a fare in modo che la polizia lo individuasse.» «Ho fatto il suo nome... Mi sa che John non ne è troppo contento» ammise Gerlof. «Ma tanto ci sarebbero arrivati, prima o poi.» «Vogliono parlargli» disse Julia. «Non ne sono sicura... ma ho l'impressione che la polizia di Borgholm sia sul punto di riaprire l'inchiesta. Quella su Jens, voglio dire.» «Già... Però credo che siano sulla pista sbagliata, per quanto riguarda Anders. E ne è convinto anche John, naturalmente.» «E non avete intenzione di metterli su quella giusta, allora?» «La polizia non dà retta a noi pensionati, soprattutto se ritiene che abbiamo idee troppo folli» disse Gerlof. «Non siamo affidabili.» «Però non vi arrendete, ed è ammirevole.» «Be'» disse Gerlof, aprendo la porta d'ingresso. «Facciamo quello che possiamo.» «Allora continuate a investigare» concluse Julia. «Male non fa.» Un'osservazione ironica, per quanto inconsapevole, la sua: quando avrebbe rivisto suo padre, sarebbe stato tra la vita e la morte. «Ci vediamo più tardi» disse Gerlof. Ciudad de Panamá, aprile 1963 Panama City, nello stato istmico di Panama. Grattacieli e putride catapecchie, gli uni di fianco alle altre. Macchine, autobus, motociclette e jeep. Meticci, agenti della polizia militare, banchieri, accattoni, mosche ronzanti e grappoli di soldati americani sudati lungo i viali. L'odore di benzina bruciata, di frutta marcia e pesce alla griglia. Nils Kant vaga ogni giorno per le strette viuzze, con le piante dei piedi che gli bruciano nelle scarpe. Sta cercando dei marinai svedesi. In Costa Rica non ce ne sono, o almeno, Nils non ne ha mai incontrati. Per essere sicuri di trovare degli svedesi bisogna venire qui, a Ciudad de Panama. Il viaggio verso sud in corriera dura sei ore. In quasi due anni Nils ne ha
compiuti cinque. Nello stretto canale che congiunge i due oceani le navi si mettono in fila per evitare la lunga circumnavigazione di Capo Horn. I marinai scendono a terra per fare baldoria nel grande porto. Alcuni restano lì: gli sballati. Sta cercando l'uomo giusto tra i marinai abbandonati a terra: quelli che si raccolgono in porto quando arrivano le navi dal nord, o davanti alla chiesa scandinava negli orari in cui viene distribuito il pane, ed entro il raggio di bar e botteghe per il resto del tempo. Quelli che bevono qualsiasi liquido che contenga dell'alcol, dal rum colombiano da poco prezzo all'alcol puro distillato dal lucido per scarpe. La seconda sera del quinto viaggio, mentre cammina lungo i marciapiedi di cemento pieni di crepe, vede in un portone buio, a mezzo isolato dall'ingresso della chiesa scandinava, una sagoma simile a un'ombra con una bottiglia in mano. Movimenti lenti su ginocchia piegate. Accessi di tosse, catarro e odore di vomito. Nils gli si ferma davanti. «Come ti senti?» chiede. Parla in svedese. Con quelli che non lo capiscono subito non vale la pena sprecare tempo. «Cosa?» borbotta l'ubriacone. «Ho detto: come ti senti?» «Sei svedese?» Lo sguardo dell'ubriacone è più triste e stanco che spento. La barba è incolta, ma le rughe intorno alla bocca e agli occhi non sono troppo profonde. Quell'uomo non beve da troppo tempo, pur avendo l'aria di avere superato i trentacinque anni: più o meno la sua stessa età. Nils annuisce. «Vengo da Öland.» «Öland?» L'ubriacone alza la voce e tossisce. «Öland, cazzo... Io vengo dallo Småland... Già, per la miseria. Sono nato a Nybro.» «Il mondo è piccolo» commenta Nils. «Solo che adesso... mi sono perso il passaggio della chiusa.» «Davvero? Che peccato.» «L'anno scorso. Ho perso... la nave. Doveva passare la chiusa dopo due giorni. Su, e poi giù. Sono finito in gattabuia qui... c'è stata una rissa nel bar, stavo bevendo birra direttamente dalla caraffa.» L'uomo alza gli occhi con una luce nuova nello sguardo. «Hai dei soldi?» «Può darsi.»
«Allora compra qualcosa. Del whisky... so io dove.» L'uomo vorrebbe alzarsi, ma le gambe sono troppo rigide. «Magari potrei andare a comprarne una bottiglia» dice Nils. «Una bottiglia di whisky, da dividere. Però devi aspettarmi qui. Lo farai?» L'uomo annuisce e si lascia scivolare di nuovo, accovacciandosi. «Compra qualcosa» mormora. «Bene» dice Nils, raddrizzandosi senza guardare l'uomo negli occhi e aggiungendo: «Magari potremmo diventare amici». Cinque settimane più tardi a Jamaica Town, il quartiere inglese di Puerto Limón. Hotel Tican, si legge sull'insegna, ma è difficile definirlo un hotel, e la reception è solo una tavola crepata su dei cavalletti con un registro delle presenze macchiato di muffa. Una scala all'esterno dell'edificio conduce ad alcune piccole stanze al piano superiore. Nils sente parlare in inglese ad alta voce da una casa al lato opposto della via. Sale silenziosamente la scala, oltrepassando un grosso scarafaggio scintillante che sta scendendo in direzione opposta lungo la parete. Arriva alla stretta terrazza del piano superiore e bussa alla seconda porta nella fila di quattro. «Yes, sir!» risponde una voce da dentro, e Nils apre. Per la terza volta rivede lo svedese che sostiene di essere venuto per aiutarlo a rimpatriare. È seduto sull'unico letto della soffocante stanza d'albergo, in un groviglio di lenzuola attorcigliate e cuscini macchiati di scuro, con il torso nudo luccicante di sudore. Tiene in mano un bicchiere. Sul comò accanto al letto ronza un piccolo ventilatore. È l'uomo che mentalmente Nils ha cominciato a chiamare l'ölandese. Non ha mai detto da dove viene, ma Nils lo ha ascoltato attentamente e gli pare di percepire un debole accento dell'isola, quando parla. Ha anche capito che l'uomo la conosce molto bene. Possibile che Nils l'abbia già incontrato là? «Entra, entra.» Lo svedese sorride e si appoggia alla parete, accennando con la testa a una bottiglia di rum delle Indie Occidentali sul comò. «Qualcosa da bere, Nils?» «No.» Si richiude la porta alle spalle. Ha smesso di bere alcol. Non del tutto, ma quasi.
«Limón è una città meravigliosa, Nils» dice l'uomo sul letto, senza che nella sua voce si possa percepire alcun sarcasmo. «Sono andato a fare un giretto, oggi, e ho trovato un autentico bordello, per puro caso, nascosto in un paio di stanze sul retro di un bar. Donne stupende. Ma naturalmente non mi sono concesso, come si dice con belle parole... Ho preso un drink e me ne sono andato.» Nils annuisce e si appoggia contro la porta chiusa. «Ho trovato una persona, adesso» dice. «Un ottimo candidato.» Non si sente del tutto a suo agio a parlare svedese a voce alta, dopo diciotto anni all'estero. Deve cercare le parole. «Viene dallo Småland, tra l'altro.» «Ah, benissimo» commenta lo svedese. «E dove l'hai trovato, a Panama City?» Nils annuisce. «Me lo sono portato dietro... I controlli al confine sono diventati più severi, ho dovuto corrompere qualcuno, ma è andata. Adesso si trova a San José, in un alberghetto. Ha perso il passaporto, ma ne abbiamo richiesto uno sostitutivo all'ambasciata svedese.» «Bene, molto bene. Come si chiama?» Nils scuote la testa. «Niente nomi» dice. «Tu non mi hai detto il tuo.» «Non devi far altro che leggerlo giù alla reception» ribatte l'uomo sul letto. «L'ho annotato sul registro delle presenze. È obbligatorio.» «L'ho letto» risponde Nils. «Ah. E allora?» «C'è scritto Fritiof Andersson» osserva Nils. L'uomo annuisce soddisfatto. «Puoi chiamarmi Fritiof, è sufficiente.» Nils scuote la testa. «Quello è il protagonista di una ballata popolare. Voglio sapere il tuo vero nome.» «Il mio nome non è importante» replica l'uomo, fissando lo sguardo su di lui. «Fritiof basta e avanza. Giusto?» «Forse.» Nils annuisce lentamente. «Per il momento.» «Bene.» Fritiof si asciuga il petto e la fronte con un lenzuolo. «Adesso abbiamo un certo numero di argomenti di cui parlare. Prima di tutto...» «È vero che sei stato mandato da mia madre?» chiede Nils. «Te l'ho già detto.» L'uomo sul letto non pare contento dell'interruzione.
«Avrebbe dovuto darti una lettera» dice Nils. «Arriverà» risponde Fritiof. «I soldi li hai avuti, no? Vengono da tua madre.» Beve un sorso del suo drink. «In questo momento dobbiamo parlare di altre cose... Tra due giorni rientrerò a casa. Dunque non ci sentiremo per un po'. Ma tornerò quando sarà tutto sistemato, e quella sarà l'ultima volta. Quanto tempo ci vorrà, secondo te?» «Mah... un paio di settimane, forse. Deve ricevere il passaporto e venire qui» risponde Nils. «Bene» commenta Fritiof. «Tienilo d'occhio e fai tutto nell'ordine stabilito. Così, dopo, potrai tornare a casa.» Nils annuisce. «Bene» dice Fritiof, asciugandosi di nuovo il viso. Per strada qualcuno ride, una motocicletta passa scoppiettando. Nils non desidera altro che aprire la porta e uscire da quella stanza maleodorante. «Come ci si sente, a proposito?» chiede l'uomo protendendosi in avanti. «A fare cosa?» chiede Nils. «Sai, sono incuriosito.» L'uomo che dice di chiamarsi Fritiof Andersson abbozza un sorrisino in mezzo alle lenzuola sporche. «Mi chiedevo solo, Nils, per pura curiosità... come ci si sente ad ammazzare qualcuno?» 24 Gerlof e John valicarono l'Ölandsbron, oltrepassarono Kalmar e procedettero verso nord lungo la costa smålandese. Nessuno dei due parlò molto, durante il tragitto. Gerlof pensava soprattutto al fatto che allontanarsi dalla residenza di Marnäs diventava ogni giorno più difficile: la caporeparto Boel l'aveva interrogato a lungo, quella mattina, su dove doveva andare e per quanto tempo sarebbe stato via. Alla fine aveva addirittura lasciato intendere che forse Gerlof era troppo sano per poter essere ospitato nella residenza. «Ci sono molti anziani con seri problemi di deambulazione nell'Öland settentrionale che sono in lista per avere una stanza qui, Gerlof» gli aveva detto. «Bisogna che si diano le priorità nella maniera più appropriata. Sempre.» «Mi sembra giusto» aveva risposto Gerlof, avviandosi con l'aiuto del suo bastone. Dunque non avrebbe avuto diritto all'assistenza che riceveva? Proprio lui, che a malapena riusciva a percorrere dieci metri senza aiuto? Boel a-
vrebbe dovuto essere contenta che uscisse all'aria aperta, di tanto in tanto, con dei vecchi amici come John. O no? «E così Anders è andato via» disse alla fine, quando ormai mancavano pochi chilometri a Ramneby. «Sì» rispose John. Si atteneva sempre al limite di velocità, quando viaggiava, e ormai alle loro spalle si era formata una lunga fila. «Immagino che tu gli abbia detto che la polizia lo cercava» continuò Gerlof. John, al volante, rimase silenzioso, ma alla fine annuì. «Non so se sia stata una buona idea» disse Gerlof. «I poliziotti se la prendono sempre se la gente non vuole parlare con loro.» «Vuole solo essere lasciato in pace» disse John. «Non sono sicuro che sia la scelta giusta» ripeté Gerlof. John rimase di nuovo in silenzio. «Hai parlato con Robert Blomberg quando sei stato a Borgholm, la settimana scorsa?» chiese poi. «Il rivenditore di auto, intendo dire.» «L'ho visto» rispose Gerlof. «Era in negozio. Non abbiamo parlato, però... non sapevo esattamente cosa dirgli.» «Potrebbe essere Kant?» domandò John. «Se proprio vuoi saperlo... Ci ho pensato su, e non credo» rispose Gerlof. «Mi pare inverosimile che uno come Nils Kant sia potuto tornare dall'America del Sud con un nuovo nome, per poi riuscire a inserirsi nell'ambiente di Borgholm e cominciare una nuova vita.» «Mah» fece John. «Forse hai ragione.» Qualche minuto più tardi oltrepassarono il cartello giallo con la scritta RAMNEBY. Erano le undici meno un quarto della mattina. Un TIR carico di legna appena tagliata passò rombando accanto a loro. Gerlof non era mai stato a Ramneby prima d'allora, né in auto né in goletta: ci era sempre solo passato. Il paesino in sé non era molto più grande di Marnäs, e in poco tempo lo attraversarono, per poi svoltare verso la segheria. C'era un cancello di metallo, chiuso, e fuori un parcheggio, dove John si fermò con l'auto. Gerlof prese con sé la sua cartella, e insieme si avvicinarono al cancello e suonarono. Dopo un po' da un piccolo altoparlante accanto al campanello si udì un crepitio. «C'è qualcuno?» chiese Gerlof, incerto se parlare rivolto al campanello o
all'altoparlante, o magari al cielo. «Dovremmo visitare il Museo del legno. Potete aprire?» L'altoparlante smise di frusciare. «Ti avranno sentito?» sussurrò John. «Non lo so.» Gerlof sentì gracchiare alle proprie spalle. Girò la testa e vide un paio di cornacchie su una betulla spoglia di fianco al parcheggio. Gli parve che i loro versi suonassero diversi da quelli dei loro simili di Öland. Possibile che anche gli uccelli avessero un accento locale? Poi vide che qualcuno si avvicinava dal lato opposto del cancello. Era un uomo di una certa età, in berretto con la visiera e giacca a vento nera, che si muoveva quasi con la sua stessa lentezza. L'uomo premette un pulsante e il cancello si aprì. «Heimersson» si presentò l'uomo, tendendo la mano. Gerlof la strinse. «Davidsson» disse. «Hagman» lo salutò John. «Dovremmo visitare il Museo del legno» ripeté Gerlof. «Ho telefonato ieri...» «Certo» disse Heimersson, voltandosi per fare strada. «Avete fatto bene. Per la verità il museo è aperto soltanto d'estate. Agosto compreso. Ma se si telefona prima, in genere non ci sono problemi.» Ormai si trovavano all'interno del perimetro della fabbrica. Gerlof si era aspettato di avvertire nelle narici l'odore di legna appena tagliata e di vedere gruppi di uomini in berretto con la visiera aggirarsi tra i mucchi di segatura portando assi: come al solito, era rimasto ancorato al passato. In realtà non c'era altro che strade e spiazzi asfaltati tra enormi edifici in acciaio e alluminio, su cui si leggevano grandi insegne con il nome LEGNAMI RAMNEBY. «Lavoro qui da quarantotto anni» disse Heimersson rivolgendosi a Gerlof oltre la spalla. «Cominciai a quindici anni, e qui rimasi. Così è la vita... E adesso mi occupo del museo.» «Noi veniamo dal paesino d'origine dei proprietari» disse Gerlof. «Nell'Öland settentrionale.» «I proprietari?» chiese Heimersson. «La famiglia Kant.» «Non sono più loro i titolari» lo informò Heimersson. «Vendettero alla fine degli anni Settanta, quando morì il direttore, Kant. Ora è una società
canadese a detenere la proprietà di Ramneby.» «Il vecchio titolare... August Kant» disse Gerlof. «Lei lo conosceva?» «Sì, l'ho conosciuto» confermò Heimersson, sorridendo come se la domanda fosse divertente. «Lo incrociavo tutti i giorni. Arrivava sempre al volante della sua vecchia MG... Ah, ecco, siamo arrivati. Questi sono i vecchi uffici. Alla fine erano diventati troppo piccoli.» MUSEO DEL LEGNO, si leggeva su un'insegna di legno sopra la porta. Heimersson aprì con la chiave, entrò e accese la luce. «Bene... benvenuti, allora. Fanno trenta corone a testa.» Si era infilato dietro un bancone su cui campeggiava un enorme registratore di cassa. Gerlof pagò per entrambi e ricevette in cambio due biglietti identici a quello che aveva trovato nel portafogli di Ernst Adolfsson, dopodiché proseguirono verso l'interno del museo. Non era molto grande: due sale soltanto, oltre al corridoio che le univa. Al centro dei locali si trovavano vecchie seghe e apparecchi per la misurazione, mentre alle pareti erano appese delle fotografie: una quantità di foto in bianco e nero messe in cornice, tutte munite di didascalie esplicative su listelli di carta. Gerlof vi si avvicinò in silenzio e fissò le foto di gruppo dei dipendenti della segheria, dei taglialegna con la sega in mano e delle golette all'ancora con il ponte coperto di cataste di legna. «Nella sala successiva ci sono foto più recenti» gli spiegò Heimersson, alle sue spalle. «Ah» fece Gerlof. Preferiva girare da solo e notò che John stava ben attento a tenersi alla larga dal custode. «C'è anche il nostro primo computer» continuò Heimersson. «È il progresso... Ormai tutta l'attività della segheria viene controllata dai computer. Io veramente non capisco come, però evidentemente funziona.» «Mmh.» Gerlof continuò a cercare tra le foto in bianco e nero. «Ramneby esporta legno pregiato fino in Giappone» continuò Heimersson. «Non credo che voi ölandesi abbiate mai fatto affari laggiù, o sbaglio?» «No» rispose Gerlof, aggiungendo subito dopo: «Però la nostra pietra calcarea è stata utilizzata per il pavimento della cattedrale di Saint Paul a Londra». Heimersson rimase in silenzio e Gerlof cambiò argomento: «Un nostro
amico è stato qui il mese scorso, al museo. Ernst Adolfsson». «Veniva da Öland?» Gerlof annuì. «Un vecchio marmista. È stato qui a metà settembre.» «Sì, me ne ricordo benissimo» confermò Heimersson. «Ho aperto il museo per lui, esattamente come nel vostro caso. È stata una visita piacevole. Ha detto che abitava a Öland ma che era originario proprio di qui.» «Di Ramneby?» chiese Gerlof. «Già. Era cresciuto qui in paese, prima di trasferirsi a Öland.» Era una novità, per Gerlof, che non aveva mai sentito Ernst parlare del suo paese natale. Si spostò di un paio di passi, e fu allora che vide la foto: Martin Malm e August Kant uno di fianco all'altro nel porto della segheria, rigidamente in posa davanti a una schiera di giovani operai. "Amichevole incontro d'affari sul molo della segheria, 1959" c'era scritto a macchina sulla strisciolina di carta sotto, per quanto fossero ben pochi quelli che, nella foto, sorridevano amichevolmente. Gli altri, Martin e Kant compresi, fissavano seri l'obiettivo. Millenovecentocinquantanove. Già, diversi anni prima che Martin comprasse il suo primo vero bastimento, notò Gerlof. In quella copia della foto, più grande della riproduzione sul libretto, la mano sulla spalla sinistra di Martin si vedeva chiaramente, e quello poteva in effetti essere considerato il segno di un rapporto amichevole. A Gerlof non sarebbe mai venuto in mente di circondare con un braccio le spalle di Martin Malm: non era proprio il tipo da incoraggiare la minima forma d'intimità. Ma evidentemente per August Kant non era stato un problema. «Questo è uno dei nostri amici» disse indicando il viso di Martin Malm. «Un armatore ölandese.» «Ah» commentò Heimersson, non particolarmente interessato. «Qui arrivavano di continuo le vostre navi... Portavano legna a Öland. Non avete molte foreste, dalle vostre parti.» «Ne avevamo, ma sono state abbattute da gente venuta dalla terraferma» rispose Gerlof. Poi indicò di nuovo la foto. «E quello è August Kant, vero?» «Sì, è il direttore.» «Aveva un nipote piuttosto famoso» continuò Gerlof. «Nils Kant.» «Già» disse Heimersson. «L'assassino del poliziotto: se ne sentì parlare parecchio. E se ne lesse pure sul giornale. Ma poi morì, no? Non morì
all'estero, dove era fuggito?» «Sì» confermò Gerlof. «Ma venne mai qui, prima di allora?» «Non credo che il direttore avesse particolare simpatia per Nils» proseguì Heimersson. «Non parlava mai di suo nipote. E così nessuno lo nominava, per lo meno se il direttore era nei paraggi.» «Forse non voleva rivelare di sapere dove si trovava?» suggerì Gerlof. «Mah» rispose Heimersson «può darsi. Ma Nils passò di qui durante la fuga da Öland, dopo l'omicidio del poliziotto.» «Davvero? E incontrò suo zio?» «Questo non lo so. Comunque rimase nei paraggi per un po'... alcune persone lo videro nel bosco» disse Heimersson indicando la foto. «Gunnar, questo qui, era fattorino come me, all'epoca, e si vantava di averlo incontrato e aver ricevuto da lui del denaro. Si vantava spesso... Ricordo soltanto che alla fine qualcuno fece sapere alla polizia che Nils Kant era da queste parti. Vennero a sorvegliare la segheria per alcuni giorni, nel caso si fosse fatto vivo. Eravamo tutti un po' in agitazione... ma naturalmente facevamo il nostro lavoro. E l'assassino rimase alla larga.» A Gerlof pareva quasi di riuscire a vedere il giovane Nils che si aggirava di soppiatto intorno agli uffici al lato opposto dello spiazzo, accucciandosi per sbirciare cauto da una finestra nella speranza di trovare lo zio August. «Per caso il nostro amico Ernst ha parlato di questa foto sul molo?» chiese. Heimersson ci pensò su. «Sì» rispose. «Si è fermato a guardarla. Voleva sapere i nomi.» «I nomi?» domandò Gerlof. «Degli operai?» «Già. Gli dissi quelli che ricordavo. Sono cose che si dimenticano con il passare degli anni, per esempio non riesco più...» «Potrebbe dirli anche a me?» lo interruppe Gerlof. Aveva tirato fuori dalla cartella il suo taccuino, e anche una penna. «Certo» rispose Heimersson. «Dunque, vediamo, da sinistra...» Heimersson non ricordava i nomi di tre uomini della fila, probabilmente marinai, ma Gerlof prese nota degli altri: Per Bengtsson, Knut Lindkvist, Anders Åkergren, Claes Frisell, Gunnar Johansson, Jan Ekendahl, Mikael Larsson. Poi riguardò l'elenco senza riconoscere neanche uno dei nomi. Non capiva ancora cosa andasse cercando Ernst. Heimersson proseguì tranquillo, precedendolo attraverso il corridoio in direzione della seconda sala del museo. «Qui abbiamo il nostro primo computer... grande come una casa. D'altra
parte erano così, una volta.» Gerlof annuì assente e si lasciò condurre da Heimersson in giro per la stanza in cui veniva presentato lo sviluppo tecnologico della segheria e della selvicoltura in generale. Più che altro si trattava di statistiche e di grossi macchinari. «Davvero molto interessante» tagliò corto Gerlof dopo una decina di minuti. «La ringrazio molto.» «Prego» rispose Heimersson. «Fa sempre piacere conoscere gente interessata al legno.» Li accompagnò fuori, sullo spiazzo asfaltato, e indicò uno degli edifici in acciaio. «Abbiamo appena avviato una nuova procedura radiografica per verificare la qualità del legno» disse. «Volete vedere come funziona?» Gerlof percepì un rapido movimento della testa di John, che evidentemente ne aveva anche lui abbastanza di legno. «Grazie» rispose «ma è decisamente troppo tecnologico per noi. Andiamo più volentieri giù al porto a dare un'occhiata. Per conto nostro.» «Al porto?» chiese Heimersson. «Io non lo chiamerei proprio un porto. Il fondale è troppo poco profondo perché le navi possano entrarci. Tutta la legna è trasportata su gomma.» «Be', daremmo volentieri un'occhiata lo stesso» disse Gerlof. «Fate pure» rispose Heimersson. «Allora io chiudo il museo.» In effetti non era un gran porto: Gerlof se ne accorse non appena ebbero percorso il centinaio di metri fino alla riva. Praticamente non c'era neanche una banchina, l'asfalto era tutto crepato e i blocchi squadrati di granito lungo il ciglio erano stati spostati, tanto che tra uno e l'altro si aprivano larghe fessure. Di fianco alla banchina un pontile di legno si protendeva per una decina di metri nel mare. Anche quello avrebbe avuto bisogno di essere riparato, secondo Gerlof. Possibile che nella segheria non ci fossero le assi necessarie per dargli una sistemata? Una solitaria barchetta a remi beccheggiava accanto al pontile, in silenziosa attesa che il suo proprietario la tirasse a riva prima delle tempeste invernali. Il vento veniva dall'entroterra, freddo e pungente, e Öland si profilava come una strisciolina nera all'orizzonte. Sebbene la costa smålandese fosse molto bella, con le sue isole e le sue insenature, Gerlof aveva già nostalgia di casa.
«Sarà stato qui che attraccavano le golette di Martin Malm, no?» disse. «Già» confermò John. «La foto è stata scattata qui.» Non c'era molto altro da vedere, e Gerlof sentiva il freddo penetrargli attraverso il cappotto. Non aveva nessuna voglia di avventurarsi sul pontile, nel vento, e quando John girò sui tacchi lo imitò. Mentre tornavano, Gerlof si fermò a guardare il grande spiazzo tra i diversi edifici della segheria. Era ancora completamente deserto. In quel preciso istante fu colto da un'improvvisa certezza. Non era dettata dalla logica, veniva dal suo inconscio, come un pesce scuro che emerge e guizza appena sotto la superficie, e prima ancora di aver concepito quell'idea aprì la bocca: «È cominciato qui». «Cosa?» chiese John. «Tutto quanto. Nils Kant e Jens e... Mio nipote è morto a causa di una vicenda che ha avuto inizio qui.» «Qui a Ramneby?» «Sì, qui. Alla segheria.» «E come lo sai?» «Lo sento» rispose Gerlof, accorgendosi da solo di quanto suonasse stupida quella risposta. E tuttavia fu costretto a continuare: «Si trattò di un qualche genere di incontro, credo. Quando Nils venne qui... Deve aver incontrato suo zio August e aver preso un accordo. Dev'essere successo qualcosa del genere». Ma quel senso di certezza assoluta si era già dileguato. «Ah. Allora, andiamo a casa?» chiese John. Gerlof annuì lentamente e riprese a camminare. Gerlof era seduto, solo, nell'auto parcheggiata nella deserta Larmgatan nel centro di Kalmar, davanti alle case in muratura. John aveva voluto fermarsi in città per una breve visita a sua sorella Ingrid, prima di ripartire per Öland. Gerlof rifletté. La visita al Museo del legno aveva fornito qualche indizio? Non ne era del tutto sicuro. Al lato opposto della strada il portone del palazzo in cui abitava Ingrid si spalancò, e John uscì. Andò dritto alla macchina e aprì la portiera del guidatore. «Stava bene?» s'informò Gerlof. John si sedette al volante senza rispondere. Poi avviò il motore e s'immise nella via.
Si allontanarono da Kalmar e percorsero l'autostrada diritta in direzione di Öland in assoluto silenzio, ma fu solo quando si ritrovarono sul ponte che Gerlof decise che era durato abbastanza. «Qualcosa non va?» chiese. «È successo qualcosa da Ingrid?» John annuì brevemente. «La polizia ha preso Anders» disse. «Sono stati lì all'ora di pranzo e l'hanno portato via.» «Dove?» chiese Gerlof. «Da Ingrid?» John annuì. «Anders era da sua zia, da Ingrid. Si era nascosto lì. E adesso l'hanno arrestato.» «Arrestato? Ne sei sicuro?» chiese Gerlof. «La polizia arresta qualcuno solo se è convinta che...» «Ingrid ha detto che sono entrati senza bussare» lo interruppe John. «Sono entrati e hanno detto ad Anders di andare con loro a Borgholm. Si sono rifiutati di rispondere alle domande di Ingrid.» «Tu sapevi che era andato a Kalmar?» chiese Gerlof. John non rispose, si limitò ad annuire. «Come dicevo stamattina» commentò Gerlof «non è mai una buona idea tenersi alla larga se la polizia vuole parlare con qualcuno. Si suscitano solo dei sospetti.» «Anders non si fida dei poliziotti» disse John. «Aveva cercato di sedare quella rissa al campeggio. E invece fu lui a finire in tribunale, non quelli di Stoccolma.» «Lo so» rispose Gerlof. «E fu un'ingiustizia.» Rifletté un attimo e poi chiese, con il massimo tatto possibile: «Se per caso la... la polizia avesse in qualche modo la convinzione che Anders abbia a che fare con la scomparsa di mio nipote, e volesse parlare con lui di questo... c'è qualcosa che può farti pensare che abbiano ragione? In fondo tu conosci Anders meglio di chiunque altro... Hai mai avuto questo sospetto?». John scosse la testa. «Anders è un tipo a posto.» «Non devi neanche rifletterci sopra?» chiese Gerlof. «L'unica cosa stupida che gli ho visto fare» disse John «è stato quando una sera si era appostato in mezzo ai cespugli di ginepro. Guardava di nascosto delle ragazzine che si cambiavano per il corso di nuoto. Avrà avuto tredici anni. Gli dissi di non farlo mai più. E per quanto ho potuto constatare, non l'ha mai più fatto.»
Ormai si erano lasciati alle spalle il ponte, ed erano nuovamente sull'isola. Gerlof rifletté e rivolse lo sguardo sul tavoliere spazzato dal vento, a ovest della strada provinciale. Annuì di nuovo. «Allora andiamo a Borgholm» disse. «Devo parlare un'ultima volta con Martin Malm. Bisogna che gli dia la possibilità di dire cosa accadde veramente.» 25 «Non sarò io a parlare con Anders Hagman» disse Lennart a Julia mentre procedevano verso Borgholm a bordo dell'auto della polizia. «Verrà qui un ispettore di polizia da Kalmar, appositamente addestrato per queste cose.» «Sarà un interrogatorio molto lungo?» chiese Julia, guardando Lennart seduto al volante. Indossava un'altra giacca, diversa dalla solita, anche se sempre da poliziotto. Era una giacca invernale, foderata, con l'emblema della polizia sulla spalla. La divisa da città. «Non credo che lo si possa definire un interrogatorio» si affrettò a chiarire Lennart. «È solo una chiacchierata, un colloquio. Non è stato né fermato né arrestato: non ce n'è motivo. Ma se Anders ammette di essere stato lui a fare effrazione nella villa di Vera Kant e a conservare i ritagli di giornale, parleranno sicuramente parecchio anche di tuo figlio. E vedremo che cosa ha da dire Anders in proposito.» «Ho cercato di ricordarmi se... se avesse mostrato un qualche interesse nei confronti di Jens» disse Julia. «Ma non ricordo niente del genere.» «Bene. Non bisogna cominciare a sospettare troppo delle persone.» Lennart l'aveva chiamata mentre stava bevendo il caffè con Astrid, il martedì. Le aveva comunicato la notizia che Anders Hagman era stato trovato a Kalmar e portato a Borgholm. Una mezz'ora più tardi era venuto a prenderla con l'auto della polizia. Julia gli era riconoscente per il fatto che volesse coinvolgerla fin dall'inizio in quell'inchiesta, se così la si poteva chiamare, ma contemporaneamente era un po' agitata. «Non sarò nella stessa stanza, vero?» chiese. «Non credo che...» «No, no» la rassicurò Lennart. «Ci saranno solo Anders e Niklas Bergman, l'ispettore della squadra criminale.»
«Avete gli specchi unidirezionali... o qualcosa del genere?» chiese Julia. Si pentì della domanda non appena vide il sorriso di Lennart. «No, niente del genere» disse. «Quello succede più che altro nei telefilm americani, quando si fanno i confronti con i testimoni e altre cose emozionanti del genere. A volte usiamo le registrazioni video, ma non troppo spesso. Qualche confronto si fa, a Stoccolma, ma non qui.» «Credi che sia stato lui?» chiese Julia quando si fermarono al primo semaforo di Borgholm. Lennart scosse la testa. «Non lo so. Ma dobbiamo parlargli.» La stazione di polizia di Borgholm si trovava in una laterale della strada d'ingresso della città. Lennart si fermò nel parcheggio e aprì il vano portaoggetti. Julia lo guardò frugare tra fogli, biglietti da visita e pacchetti di gomme da masticare. «Non devo dimenticarmi questa» disse. «Non perché mi serva, ma non la si può lasciare in auto.» Stava tirando fuori la pistola, chiusa in una fondina nera con il nome Glock inciso nel cuoio. Lennart se l'allacciò rapidamente al fianco e aspettò che Julia fosse scesa dall'auto e ben salda sulle stampelle prima di farle strada verso l'ingresso. Julia dovette aspettare nella saletta dove si beveva il caffè, nella stazione di polizia di Borgholm. Aveva lo stesso aspetto di tutti i locali di quel genere nei posti di lavoro, ma in un angolo c'era un televisore e a un certo punto si ritrovò seduta davanti allo stesso programma americano di televendite che guardava regolarmente a casa sua, a Göteborg. Adesso le sembrava inconcepibile. Come aveva mai potuto trovare interessanti le televendite? Appena prima delle due, Lennart tornò nella stanza. «Abbiamo finito» disse. «Per questa volta, almeno. Vuoi scendere a mangiare qualcosa?» Julia annuì, cercando di non lasciar trapelare la propria curiosità. Lennart le avrebbe sicuramente detto tutto al momento opportuno. Prese le stampelle e lo seguì fuori dall'edificio. «Anders è ancora lì dentro?» chiese quando uscirono al freddo, in Storgatan. Lennart scosse la testa. «Gli è stato permesso di tornare nel suo appartamento qui a Borgholm.»
Procedeva a passo lento lungo il marciapiede per mantenere lo stesso ritmo di Julia, che cercava di avanzare sulle stampelle alla massima velocità possibile, nonostante il vento gelido le facesse perdere la sensibilità nelle mani strette sull'impugnatura. Lennart continuò: «Anzi, può darsi che l'appartamento sia di sua madre, non lo so con certezza. Comunque ha promesso di non sparire, nel caso si renda necessario parlare di nuovo con lui... Ti va bene il cinese? Sono un po' stufo della pizza». «Basta che sia vicino» rispose Julia, e lasciò che Lennart le facesse strada fino a un ristorante cinese vicino alla chiesa di Borgholm. Nel locale erano rimasti pochi avventori, Lennart e Julia si tolsero le giacche e si sedettero a un tavolino accanto alla finestra. Julia guardò la chiesa bianca là fuori e si ricordò dell'estate torrida in cui era stata cresimata proprio lì e si era presa una cotta per un ragazzino del gruppo di catechismo che si chiamava... Come si chiamava? All'epoca era così importante, e invece ora non lo ricordava più. «E allora, cosa ci faceva Anders nella villa?» chiese a voce bassa dopo che ebbero ordinato il menu a base di cinque assaggi. «Ve l'ha spiegato?» «Sì... ha detto che stava scavando in cerca dei diamanti» disse Lennart. «Diamanti?» Lennart annuì e guardò fuori dalla finestra. «È una vecchia diceria... ho sentito dire anch'io che i tedeschi uccisi da Nils Kant avevano con sé un bottino di guerra portato dai paesi baltici. Un qualche genere di pietre preziose, si dice. Anders si è convinto che Nils li avesse nascosti in cantina prima di scappare. E così ha cominciato a scavare... ma non li ha trovati» disse Lennart, aggiungendo: «Così dice, almeno. È un tipo un po' particolare». «E i ritagli?» chiese Julia. «Erano nascosti in un armadio, lui li ha trovati e li ha attaccati al muro. Anders pensa che sia stata la madre di Nils a conservarli.» Lennart la guardò: «Sai cos'altro ha detto? Sostiene di avvertire la presenza di Vera, là dentro. Dice che è nella villa. Il suo fantasma, insomma». «Ah» si limitò a dire Julia. Non voleva ammettere di nutrire lo stesso sospetto. Preferiva non pensare neanche per un istante alla notte passata in quella casa. Julia aveva un'altra domanda, ma non sapeva se farla o no. Subito prima che i piatti fossero portati in tavola, Lennart le diede ugualmente la risposta: «Anders dice di non aver incontrato tuo figlio, quel giorno d'autunno.
Gli è stata posta una domanda esplicita su questo punto, e ha risposto che non sapeva niente. Era rimasto in casa a causa della nebbia e del freddo, e aveva saputo che cos'era successo solo quando avevamo chiesto aiuto a tutti per le ricerche». Poi aggiunse: «Niklas Bergman, che ha parlato con lui, ha avuto l'impressione che dicesse la verità. Sull'argomento è stato sincero come sull'effrazione in casa di Vera Kant». Julia si limitò ad annuire. «Quindi non credo che potremo scavare più a fondo su questa faccenda» continuò Lennart. «A meno che non salti fuori qualcosa di nuovo.» Julia annuì di nuovo. Abbassò gli occhi sulle proprie mani e disse: «Ho tentato di andare avanti... di non seppellirmi nel passato. Prima d'ora non è che abbia funzionato molto bene, ma quest'autunno qualcosa è cambiato. Comincia ad andare un po' meglio. Sono riuscita a piangerlo... prima non ce l'avevo mai fatta». Alzò di nuovo gli occhi su Lennart. «E dunque penso che sia stato un bene per me venire qui a Öland... a rivedere papà. E conoscere te.» «Mi fa molto piacere sentirtelo dire» disse Lennart. «Anch'io sono rimasto ancorato al passato, e per moltissimo tempo.» Fece una pausa e poi disse: «E per alcuni periodi sono stato molto male, finché non ho capito che non si diventa più felici vendicandosi sulle persone. Bisogna guardare avanti. È difficile, ma credo che sia necessario». «Già» concordò Julia in un sussurro. «I morti devono essere lasciati in pace.» Puerto Limón, luglio 1963 Nils se ne va dalla spiaggia sabbiosa alla periferia di Limón, la Playa Bonita, quando il vino finisce e la festa si è quasi conclusa. Si è scolato da solo due bottiglie di vino rosso cileno, nel corso della serata, eppure non si sente ubriaco a sufficienza per ciò che lo aspetta. Quel giorno sono stati in pochi a venire alla Playa Bonita, e quasi tutti sono già andati via da un pezzo. Sono rimasti solo due uomini, seduti come ombre sulla sabbia, davanti a un piccolo falò di tizzoni ardenti. Cantano a voce sommessa e ridono sguaiatamente, l'uno con il braccio sulle spalle dell'altro. Una delle ombre è l'uomo che Nils conosce sotto il nome di Fritiof Andersson, l'altra è la loro vittima. A volte Nils pensa a lui come lo smålandese, ma più spesso come il borrachon, l'ubriacone.
La Costa Rica è molto meglio di Panama, secondo il borrachon, tanto che non capisce perché non è venuto lì molto prima. E Limón è una città fantastica. In realtà non ha nessuna voglia di tornare a casa. Nils gli ha detto che può fermarsi quanto vuole. È stato lui ad aiutare il borrachon ad arrivare in Costa Rica. Ha fatto in modo di farlo riemergere almeno un po' dalle nebbie dell'alcol e di procurargli un passaporto dall'ambasciata di Panama City, in sostituzione di quello che aveva lasciato a bordo dell'ultima nave, e poi gli ha fatto prendere il treno per San José, a nord. Gli ha prenotato una stanza in un alberghetto a buon mercato vicino alla stazione centrale, gli ha dato i soldi per il vino e un po' di cibo e poi ha aspettato l'arrivo di Fritiof Andersson. Il borrachon si è mostrato molto riconoscente, fino allo sfinimento. Ha trovato un nuovo amico, qualcuno che lo capisce. Qualcuno per cui sarebbe pronto a morire. Nils ha annuito, rivolgendo al borrachon dei mezzi sorrisi, ma nel suo intimo ha desiderato con tutto il cuore che Fritiof tornasse il più presto possibile per dargli una mano. Ecco che arriva Fritiof Andersson... Nils non vuole fare amicizia con quel balordo che somiglia a lui: vuole solo tornare a casa, a Öland. Fritiof ha promesso di organizzare la cosa e in cambio vuole soltanto... Guarda che se vuoi, dimmelo e via, ce ne andiamo... ... Fritiof non vuole altro che le pietre preziose che lui ha nascosto. Per lo meno, è quello che sospetta Nils. Durante le sue visite, Fritiof le ha nominate diverse volte. Sa che cosa è successo a Nils sul tavoliere subito dopo la guerra. «Ti dissero da dove venivamo quei tedeschi?» gli ha chiesto. «È vero che avevano con sé un bottino di guerra, quando sono sbarcati a Öland? E se ce l'avevano... che cosa ne è stato? Che cosa ne hai fatto, Nils?» Tante domande. Ma sospetta che l'uomo che si fa chiamare Fritiof conosca già la risposta a quasi tutte. Nils ha risposto, anche se a monosillabi, ma del nascondiglio delle pietre preziose non ha fatto parola. Quel tesoro è suo, qualsiasi valore abbia. Sono tanti anni che sopravvive con quasi niente, e se lo merita. Il borrachon ha cominciato abbastanza rapidamente a diventare irrequieto nella piccola stanza di San José, ma Nils ha dovuto tenerlo lì fino all'arrivo di Fritiof. Nel giro di tre giorni tutti gli argomenti di conversazione si erano esauriti, e dopo una settimana Nils e il borrachon avevano in comu-
ne solo le bevute di vino. Se ne sono rimasti in silenzio nella stanza d'albergo, circondati da bottiglie vuote, mentre fuori il sole inondava la strada. Alla fine all'aeroporto era finalmente atterrato il volo di Fritiof, il quale si era presentato all'hotel con un largo sorriso sotto gli occhiali da sole. Il borrachon si era svegliato dalla sbornia senza capire veramente chi fosse quell'altro svedese e che cosa volesse, ma Fritiof si era procurato delle altre bottiglie di vino e la festa era ricominciata. Fritiof cantava e rideva ma manteneva costantemente il controllo, e studiava il borrachon con lo sguardo fermo. Il giorno successivo all'arrivo di Fritiof, Nils aveva preso il treno per Limón, precedendo gli altri due. Era tornato alla sua camera, aveva pagato l'ultimo mese d'affitto alla padrona di casa, Madame Mendoza, e si era fatto tagliare i capelli corti come quelli del borrachon. Poi era tornato al bar del porto salutando con un cenno tutti i poveracci che non se ne sarebbero mai andati da Limón. Aveva bevuto del vino e fatto in modo di farsi vedere in giro per le vie fangose della città per diverse sere di seguito, apparentemente ubriaco fradicio. «Echa» diceva. Ringraziava tutti. Aveva anche detto a Madame Mendoza e a diversi baristi che presto sarebbe partito per un giro verso nord lungo la costa, passando da Playa Bonita, ma che sarebbe rientrato nel giro di un paio di giorni, quando avrebbe ricevuto la visita di un amico svedese. «Echa» diceva soltanto. «Hasta pronto.» All'alba dell'ultimo giorno a Limón si era alzato, aveva lasciato un po' di soldi nei cassetti della cucina e la maggior parte della sua roba, prendendo solo un po' di vestiti e di cibo, il portafogli e le lettere di Vera. Poi, alla fine era partito da Limón. Aveva attraversato la piazza del mercato, dove i commercianti di pesce, già al loro posto, erano stati testimoni dell'inizio del suo ritorno a casa. Senza guardarsi indietro aveva oltrepassato la stazione ferroviaria, proseguendo verso nord per uscire dalla città e arrivare all'incontro con Fritiof Andersson. Non più in fuga ma, finalmente, diretto a casa. Per la prima volta da quasi vent'anni a questa parte, Nils è davvero diretto a casa, a Öland. 26 Non fu una giovane infermiera ad aprire il pesante portoncino della villa
di Martin Malm, questa volta. Fu invece una donna anziana con lunghi capelli grigi, che indossava una camicetta e dei pantaloni chiari. Gerlof la riconobbe: era la moglie di Martin, Ann-Britt Malm. «Buongiorno» la salutò Gerlof. La donna rimase rigida sulla soglia, con il viso pallido molto serio. Gerlof capì che non l'aveva riconosciuto. «Gerlof Davidsson» si presentò, spostando il bastone nella sinistra per tenderle la mano destra. «Di Stenvik.» «Ah, sì» disse. «Gerlof, certo. Sei stato qui anche la settimana scorsa, con una donna.» «Era mia figlia» disse Gerlof. «Vi ho visti dal piano superiore mentre andavate via, ma quando ho chiesto a Ylva, non ricordava più i vostri nomi» spiegò Ann-Britt Malm. «Già» rispose Gerlof. «Avrei voluto parlare un po' con Martin dei vecchi tempi, ma allora era indisposto. Forse oggi va un po' meglio?» Gerlof aveva il vento gelido dello stretto alle spalle e cercava di non tremare. Sarebbe stato molto contento di poter entrare nella villa, al calduccio. «Veramente Martin non si sente molto meglio, oggi» disse Ann-Britt. Gerlof annuì con aria comprensiva. «Un pochino meglio, però?» disse sentendosi come un venditore porta a porta. «Non ho intenzione di fermarmi a lungo.» Alla fine la donna si fece di lato. «Possiamo vedere come si sente» disse. «Accomodati.» Prima di entrare, Gerlof si girò in direzione della strada. John era ancora seduto in auto. Gli fece un cenno del capo. «Trenta minuti» gli aveva detto. «Se vedi che mi fanno entrare, puoi tornare dopo trenta minuti.» John alzò una mano dietro il parabrezza e avviò l'auto. Poi partì. Gerlof entrò al caldo e le articolazioni smisero gradualmente di tremare. Appoggiò la cartella sul pavimento di pietra del grande ingresso e si tolse il cappotto. «È quasi inverno, fuori, oggi» disse ad Ann-Britt Malm. Lei si limitò ad annuire, evidentemente poco interessata alle chiacchiere. La porta sul lato lungo dell'ingresso era socchiusa, e lei si avvicinò e l'aprì ancora di più. Gerlof la seguì in silenzio. Dietro c'era una stanza più grande, un salone. L'aria era soffocante, viziata, e sapeva di fumo stantio. Diverse finestre davano sul giardino sul re-
tro della villa, ma le tende scure erano tirate. Dal soffitto pendeva un lampadario di cristallo avvolto in tela bianca. Ai due angoli del salone c'erano delle stufe di maiolica, e in un terzo si vedeva un televisore, acceso, sintonizzato a basso volume su un cartone animato. "Gli antenati" notò Gerlof. Davanti all'apparecchio c'era una sedia a rotelle su cui era accasciato un vecchio con una coperta sulle ginocchia. La sua testa calva era coperta di macchie pigmentate, e la fronte era attraversata da una vecchia cicatrice biancastra. Il mento gli tremava continuamente. Era Martin Malm, l'uomo che gli aveva spedito il sandalo di Jens. «Hai visite, Martin» disse Ann-Britt Malm. Il vecchio armatore girò di scatto la testa distogliendo lo sguardo dallo schermo. I suoi occhi si posarono su Gerlof e vi si fermarono. «Buongiorno, Martin» lo salutò Gerlof. «Come stai?» Il mento tremulo di Malm si abbassò di qualche centimetro in una sorta di cenno. «Stai bene?» chiese Gerlof. Martin scosse la testa. «No? Neppure io» rispose Gerlof. «Stiamo come ci meritiamo.» Silenzio. Sullo schermo, Fred saltò nella sua auto e scomparve in una nuvola di polvere. «Vuoi un caffè, Gerlof?» chiese Ann-Britt Malm. «No, grazie, sono a posto.» Gerlof sperava ardentemente che la moglie di Malm non volesse fermarsi nel salone. Per fortuna pareva non averne l'intenzione. Si girò con la mano sulla maniglia e guardò Gerlof un'ultima volta, come se tra loro ci fosse un'intesa. «Torno tra un po'» disse. Poi uscì e chiuse la porta. Nel salone cadde un silenzio profondo. Gerlof rimase immobile per qualche istante, e poi si diresse verso una sedia addossata alla parete. Era a diversi metri da Martin, ma Gerlof sapeva di non avere la forza per avvicinarla, e quindi si sedette senza spostarla. «Eccoci qui» disse. «Allora adesso possiamo fare una chiacchierata.» Malm lo stava ancora guardando. Gerlof notò che il salone era completamente sgombro da qualsiasi oggetto che avesse a che fare con il mare, a differenza dell'ingresso e della sua
stanza alla residenza di Marnäs. Lì non c'erano foto di navi, carte nautiche incorniciate, vecchie bussole. «Non ti manca il mare, Martin?» chiese. «A me sì. Perfino in una giornata ventosa come questa, quando non si dovrebbe stare all'aperto. Però ho ancora questa...» sollevò la sua cartella. «Qui conservavo tutte le carte quando andavo in mare, e tiene ancora benissimo. Volevo mostrarti una cosa...» Aprì il fermaglio della cartella e, tirando fuori il libriccino della Malm Spedizioni, continuò: «Questo lo riconosci. L'ho sfogliato spesso e ho imparato un sacco di cose su tutte le tue navi e le tue avventure in mare, Martin. Però c'è una foto più interessante delle altre». Aprì il libretto e lasciò che si spalancasse sulla foto scattata a Ramneby. «Questa» continuò. «Risale alla fine degli anni Cinquanta, vero? Prima che acquistassi il tuo primo transatlantico.» Alzò gli occhi su Martin Malm e vide che era riuscito a catturare l'attenzione del vecchio armatore. Malm fissò la foto, e Gerlof si accorse che la sua mano destra era scossa da un sussulto, come se volesse sollevarla e indicare la foto. «Ti riconosci?» chiese. «Certo che ti riconosci. E anche la goletta, no? È l'Amelia, giusto? In genere era attraccata di fianco alla mia Amazzone delle onde al molo di Borgholm.» Martin Malm fissò la foto senza dire niente. Respirava ansimando, come se gli mancasse l'aria. «Ti ricordi dove è stata scattata questa foto? Io trasportavo soprattutto carburante a Oskarshamn, quando navigavo nella zona dello Småland, ma questo è un punto più meridionale. Vero?» Martin non rispose, ma non aveva ancora distolto lo sguardo dalla vecchia foto che Gerlof gli aveva messo davanti. Gli uomini allineati sul pontile ricambiavano il suo sguardo, e Gerlof si accorse che il mento aveva preso a tremargli di nuovo in modo incontrollato. «La segheria di Ramneby, giusto? Non ci sono didascalie, ma è stato Ernst Adolfsson a riconoscere il posto. Quando fu scattata questa foto si riusciva ancora a mantenersi con una sola goletta. Un po' a fatica, ma era possibile.» Gerlof indicò di nuovo la foto. «E qui c'è il proprietario della segheria in persona, August Kant. Il fratello di Vera Kant a Stenvik. August lo conoscevi piuttosto bene, vero? Avete fatto affari insieme.» Martin cercò di alzarsi dalla sedia a rotelle per avvicinarsi a Gerlof. Per lo meno così parve: respirava a scatti, le spalle ebbero un sussulto e le
gambe si tesero contro gli appoggi per i piedi. Con lo sguardo ancora fisso sulla fotografia, aprì la bocca. «Frr-tf» disse con la voce impastata. «Scusa?» chiese Gerlof. «Cos'hai detto, Martin?» «Frr-tf» ripeté Martin. Gerlof lo guardò perplesso e abbassò il libro con la foto scattata alla segheria. Che cosa aveva detto Martin? "Freddo", a giudicare dal suono. O forse "fritto"? O magari si trattava di un nome... Fridolf? O Fritiof? Puerto Limón, luglio 1963 Nils aspetta teso al buio più di mezz'ora sotto le palme, con le spalle rivolte alla spiaggia. Le zanzare gli ronzano intorno. Le scaccia con la mano e pensa a Öland, a com'era quando vagava sul tavoliere calcareo, libero e spensierato. Contemporaneamente tiene le orecchie tese, ma dalla spiaggia non provengono rumori. Alla fine sente avvicinarsi dei passi sulla sabbia. «C'è voluto del tempo, ma adesso dorme» dice Fritiof. «Bene.» Nils ritorna indietro sulla spiaggia insieme a Fritiof. Il borrachon svedese è accasciato come un sacco di carbone di fianco ai tizzoni incandescenti, con la testa penzoloni e la mano appoggiata all'ultima bottiglia di vino. «Datti da fare» gli ordina Fritiof. «Io?» «Tu, certo.» Fritiof lo fissa con insistenza. «Io ho già fatto la mia parte tenendo sveglio quest'ubriacone per tutto il viaggio. Adesso tocca a te.» Nils guarda il borrachon ma non si muove. «Non ha nessun valore, Nils» dice Fritiof. «Ce l'ha solo per noi.» Nils continua a restare immobile. «Pensi di andare all'inferno per questo?» chiede Fritiof. Nils scuote la testa. «Non sarà così» continua Fritiof. «Andrai a casa.» «È qui» dice Nils. «Cosa?» «L'inferno è qui» chiarisce Nils. «Esatto.» Fritiof è d'accordo. «Allora è venuto il momento di lasciarlo.»
Nils annuisce stancamente, e poi si china e afferra il busto del borrachon. L'uomo si mette a borbottare nel sonno ma non oppone resistenza. Nils lo trascina sulla sabbia, lontano dal fuoco, in direzione dell'acqua nera. «Occhio agli squali» dice Fritiof alle sue spalle. L'acqua è tiepida e le onde lunghe ma senza vigore. Nils s'immerge arretrando nel mar dei Caraibi, trascinandosi dietro il corpo del borrachon. D'un tratto, prende a muoversi. Quando l'onda increspata gli bagna il viso, il borrachon tossisce e comincia a opporre resistenza. Nils stringe i denti, arretra di un altro paio di metri, finché l'acqua gli arriva alle cosce, e poi lo spinge sotto la superficie. Chiude gli occhi e comincia a contare: "Uno, due, tre...". L'uomo si mette a mulinare le braccia per riuscire a riemergere con la testa. Nils lo tiene giù, pensa a Öland e continua a contare. "... quarantotto, quarantanove, cinquanta..." Gli pare che trascorra un'ora prima che il corpo smetta di agitarsi nell'acqua. Nils rimane ugualmente immobile, tenendolo ancora sotto in una stretta spasmodica. Via anche gli ultimi rimasugli di vita, non deve restare niente. Se aspetta abbastanza a lungo, forse il borrachon non comparirà nei suoi sogni, come ha fatto il sovrintendente di polizia. «Hai finito?» lo chiama Fritiof dalla spiaggia. «Sì.» «Bene, Nils.» Fritiof s'immerge nell'acqua, si china sul borrachon, solleva un braccio e lo lascia ricadere. «Ottimo lavoro.» Nils tace. Rimane lì nella risacca, mentre Fritiof trascina il corpo fino al bagnasciuga, e improvvisamente gli viene in mente suo fratello, Axel. "È stata una disgrazia, Axel, non volevo..." Uccidere fa riemergere in superficie i volti dei morti, più distintamente che mai. Fritiof risale sulla spiaggia e si asciuga la fronte con la manica della camicia, tirando il fiato. «Bene, e questa è fatta» dice girandosi verso Nils. «Adesso devi parlare.» «Parlare di cosa?» Nils esce con calma dall'acqua e gli si piazza davanti. «Del bottino di guerra che hai nascosto. Dove si trova, Nils?» Il corpo dello smålandese è tra loro sulla spiaggia. Nils sente che Fritiof è in posizione di vantaggio, adesso, ma non intende cedere. «E allora come ti chiami tu, Fritiof Andersson? Sul serio?»
L'uomo davanti a lui non risponde. «Se mi fai arrivare a casa» dice Nils alla fine «allora tirerò fuori il bottino.» «Ci vorrà ancora un po'» risponde Fritiof scacciando una zanzara. «Mi occuperò di tutto, ma ci vorrà un po'. Un passo alla volta. Prima il corpo dovrà arrivare a Öland... ed essere sepolto e dimenticato, per quanto possibile. Poi potrai tornare a casa. Lo capisci, no?» Nils annuisce. Fritiof tocca con la scarpa il corpo in mezzo a loro. «Adesso lo dobbiamo spingere di nuovo in acqua, a qualche metro dalla riva, rovinargli un po' la faccia e ancorarlo al fondo... e lasciare che i pesci vengano a fare il loro dovere. Dopodiché, nessuno riuscirà a vedere la differenza tra voi.» Accenna con la testa alla piccola sacca del borrachon abbandonata accanto al fuoco. «Non dimenticare di prendere il suo passaporto. Altrimenti rischi di non riuscire a entrare in Messico.» «E dopo» chiede Nils «tu tornerai qui?» «Sì. Tu ti fermi a Mexico City, e io vengo tra una settimana o giù di lì. Tiro a riva il corpo e spazzo via le tracce, poi torno giù a Limón e comincio a chiedere in giro se qualcuno ha visto il mio amico svedese Nils. La cosa migliore sarebbe che qualcun altro venisse qui e trovasse il corpo. Altrimenti, vorrà dire che lo farò io.» Nils comincia a spogliarsi. «Allora ci cambiamo.» Fritiof lo guarda. «C'è qualcos'altro.» dice. «Qualcosa che hai dimenticato.» Nils si toglie la camicia nel buio. «Cosa?» Fritiof indica in silenzio la mano sinistra di Nils, le due dita piegate. Poi si china e prende il braccio del borrachon, lo stende in modo che la mano sinistra poggi sulla sabbia e abbatte violentemente il tacco della scarpa sull'anulare e sul medio. Sempre più forte, finché nel buio non si sente uno schianto sordo. «Ecco fatto» dice Fritiof, estrae dalla tasca un fazzoletto e lega le dita rotte piegandole verso il palmo. «A questo punto siete due copie quasi identiche.» Nils sta lì a guardare. Quell'uomo, Fritiof, è sempre avanti di una lunghezza rispetto a lui, nella pianificazione. Come si è immaginato la fine di questa storia?
Poi però mette da parte l'inquietudine. «Sfilagli i calzoni» dice. «Li asciugherò sul fuoco. Gli mettiamo i miei, lasciandoci dentro il mio portafogli.» Ora non vuole altro che tornare a casa. Se solo potrà tornare a Stenvik, tutta questa storia avrà un lieto fine. Non importa che in questo momento si trovi all'inferno. 27 «In fondo siamo anziani tutti e due» disse Gerlof a Martin Malm. «E abbiamo tempo per pensare. Infatti io ho pensato parecchio nelle ultime settimane...» Incrociò lo sguardo di Martin. Erano ancora seduti uno di fronte all'altro nella penombra del salone. Sullo schermo del televisore si vedeva Fred che picconava una parete rocciosa. Gerlof teneva ancora in mano il libro commemorativo con la foto scattata a Ramneby. «La tua società di spedizioni non era poi tanto grande, quando fu scattata questa foto» continuò. «Lo so, perché la mia era altrettanto piccola. Possedevi alcune golette che navigavano entro i confini del mar Baltico trasportando pietra calcarea, legno e merci di vario tipo, esattamente come noi altri. Poi però, nel giro di tre o quattro anni soltanto, comprasti la tua prima nave in acciaio e cominciasti a viaggiare in tutta Europa e sull'Atlantico. Noi continuammo ad arrabattarci con le nostre golette ancora per qualche tempo, finché le regole sugli equipaggi minimi e sul carico massimo non diventarono troppo restrittive. Le banche non ci concessero i mutui necessari per l'acquisto di navi più grandi, solo tu investisti nel tonnellaggio moderno al momento giusto.» Stava ancora guardando Malm. «Ma dove li prendesti i soldi, Martin? Avevi una quantità di liquidi pari a quelli di qualsiasi altro armatore dell'epoca, e le banche dovevano essere tirchie nei tuoi confronti quanto lo erano con noi.» Martin strinse le mascelle, ma non parlò. «Venivano da August Kant, Martin?» lo incalzò Gerlof. «Dal proprietario della segheria di Ramneby?» La testa di Martin, i cui occhi erano ancora fissi su Gerlof, ebbe uno scatto. «No? E invece io penso di sì.» Gerlof infilò di nuovo una mano nella sua cartella, poi fece perno sul ba-
stone e si alzò. Lentamente, aggirò il televisore e si avvicinò a Martin. «Io credo che tu prendesti dei soldi per portare a casa dall'America del Sud un assassino, Martin. L'omicida di un poliziotto, Nils Kant. Il nipote di August Kant.» Ora Martin stava muovendo la testa avanti e indietro. Di nuovo aprì la bocca. «Ee-ra» balbettò. «Ee-ra A-ant.» «Vera Kant» disse Gerlof. Cominciava a capirlo un po' meglio, adesso. «La madre di Nils. Sicuramente anche lei voleva far tornare a casa il figlio. Ma fu suo zio August a pagare, no? Ti pagò prima per portare a Öland una bara con un corpo, che venne sepolto su a Marnäs in modo che tutti credessero che Nils Kant fosse morto. Poi tu stesso portasti a casa Nils diversi anni più tardi, con maggiore discrezione.» Si piazzò davanti a Martin, che fu costretto a inclinare la testa all'indietro per guardarlo. «Nils arrivò a casa, probabilmente verso la fine degli anni Sessanta, e si nascose da qualche parte qui a Öland. Non aveva bisogno di nascondersi particolarmente bene, perché dopo venticinque anni non è che fossero molte le persone in grado di riconoscerlo. Di certo di tanto in tanto poteva andare a trovare sua madre e gironzolare per il tavoliere.» Gerlof abbassò gli occhi sull'uomo in carrozzella. «Penso che fosse proprio lì intorno che Nils vagava in una fosca giornata di settembre, quando incontrò un bambino che si era perso nella nebbia. Mio nipote Jens.» Gerlof abbassò gli occhi a terra. «E a quel punto qualcosa andò storto» continuò a voce bassa. «Accadde qualcosa che lo fece impaurire. Io non credo che Nils Kant fosse così malvagio e folle come affermano certi. Era solo pauroso e impulsivo, e a volte diventava violento. Ed è per questo che Jens è morto.» Gerlof sospirò. «E poi... ma tu lo sai meglio di me. Credo che Nils sia venuto a chiederti aiuto. Insieme seppelliste il corpo in un qualche punto del tavoliere. Però tu conservasti qualcosa.» Gli mise davanti l'oggetto che aveva tirato fuori dalla cartella: era la busta marrone con il logo della Malm Spedizioni parzialmente strappato, quella che Gerlof aveva ricevuto per posta, «Tenesti un sandalo di Jens. Me l'hai mandato un paio di mesi fa, in questa busta.» Gerlof fece una pausa e chiese: «Perché l'hai fatto? Volevi confessare?».
Martin guardò la busta e il mento si mise a tremare di nuovo. «Unge e... p... zito» disse. Gerlof annuì senza capire. Si sedette lentamente per riprendere fiato e lanciò a Martin un'ultima occhiata. «Hai ucciso Nils Kant, Martin?» L'ultima domanda di Gerlof non ricevette alcuna risposta, e così proseguì lui stesso: «Io credo proprio di sì... Credo che Nils fosse diventato troppo pericoloso per te. E sono convinto che sia stato lui a lasciarti quella cicatrice sulla fronte. Ma neanche questo posso dimostrarlo, come ben sai». Si chinò e infilò lentamente il libretto e la busta nella vecchia cartella. Era stato faticoso, quel monologo. Su una mensola lungo la parete più corta erano esposte delle foto di famiglia in cornice, e Gerlof vide che diverse ritraevano dei giovani sorridenti. «I nostri figli, Martin...» disse. «Dobbiamo rassegnarci al fatto che ci dimenticheranno. Vorremmo che ricordassero quanto di buono abbiamo fatto, nonostante tutto, ma non sempre è così.» Gerlof era stanco, ora, e lasciava solo correre la lingua. Anche Martin Malm pareva del tutto privo di energie, sulla sua sedia a rotelle. Non si muoveva né tentava più di dire qualcosa. Sembrava che l'aria nel salone si fosse del tutto esaurita, e che anche la penombra fosse diventata più fitta. Gerlof si alzò a fatica. «Bene, Martin, a questo punto ti ringrazio» disse. «Spero che tu stia bene, o almeno il meglio possibile... Può darsi che ritorni.» Ebbe lui stesso l'impressione che quell'ultima frase suonasse minacciosa, e in effetti era quella l'intenzione, almeno in parte. La porta che dava sull'ingresso si aprì prima che lui l'avesse raggiunta e comparve il volto pallido di Ann-Britt Malm. Gerlof le sorrise senza energia. «Abbiamo fatto la nostra chiacchierata» disse. In realtà era stato soltanto Gerlof a parlare, e non aveva ricevuto neanche una risposta chiara. Passò davanti alla moglie di Martin Malm, e la donna si chiuse alle spalle la porta del salone. «Grazie mille, allora» la salutò Gerlof, facendole un cenno con il capo. «Sono stata io a spedirlo» disse Ann-Britt Malm. Gerlof si bloccò. Lei indicò la cartella, da cui spuntava l'angolo superio-
re della busta marrone. «Martin ha un cancro al fegato» continuò Ann-Britt. «Ormai è agli sgoccioli.» Gerlof rimase in piedi senza sapere che cosa dire. Abbassò gli occhi sulla cartella. «Come faceva lei... come facevi a sapere...» si schiarì la voce «dove doveva essere spedito?» «Martin mi ha dato la busta l'estate scorsa» rispose Ann-Britt Malm. «Il sandalo era già dentro, e lui aveva scritto il tuo nome. Non restava che imbucare.» «Mi hai anche telefonato?» le domandò. «Dopo averlo ricevuto, qualcuno mi ha telefonato... qualcuno che ha interrotto la comunicazione.» «Sì... io... volevo farti delle domande sul sandalo» replicò la donna. «Perché l'aveva Martin, e cosa poteva significare. Avevo paura della risposta... che Martin potesse aver fatto qualcosa a tuo figlio.» «Non era mio figlio» rispose Gerlof stancamente. «Era mio nipote. Però non so che significato abbia quel sandalo.» «Non lo so neanch'io ed è...» Smise di parlare. «Martin non ha voluto dire niente quando l'ha tirato fuori, ma io... mi sono convinta che avesse conservato quel sandalo come per avere una sorta di garanzia. Può essere così?» «Garanzia?» chiese Gerlof. «Nei confronti di qualcuno» spiegò Ann-Britt. «Non lo so.» Gerlof la guardò. «Martin ha mai parlato dei Kant? Della famiglia Kant?» Ann-Britt esitò, ma poi annuì senza guardare Gerlof. «Sì, ma solo perché avevano fatto affari insieme... Vera Kant aveva investito del denaro nelle navi di Martin.» «Vera Kant?» chiese Gerlof. «Ma non era stato August a farlo?» Ann-Britt scosse la testa. «Vera Kant di Stenvik investì i soldi necessari all'acquisto della prima nave a motore di Martin» disse. «E a lui quei soldi servivano, questo lo so per certo.» Gerlof si limitò ad annuire. Gli restava solo una domanda, poi voleva lasciare quella grande casa tetra. «Quando Martin ti ha dato la busta» disse «aveva ricevuto qualche visita, da poco?» «Non riceviamo molte visite» rispose Ann-Britt.
«Io credo che qualcuno di Stenvik sia venuto qui» disse Gerlof. «Un vecchio marmista... Ernst Adolfsson.» «Ernst, sì» disse Ann-Britt. «Abbiamo acquistato da lui diverse sculture. Ormai è morto. È stato qui a trovare Martin... ma penso che sia stato prima, all'inizio dell'estate.» Gerlof pensò che Ernst era riuscito ancora una volta a precederlo. «Grazie» disse soltanto, prendendo il suo cappotto. Gli parve molto più pesante, adesso, come un'armatura. «Martin sarà ricoverato entro breve?» chiese. «No, niente ospedale» rispose Ann-Britt. «I medici vengono sempre qui.» Fuori, sulla scala, il vento lo investì di nuovo, e questa volta lo fece ondeggiare. Era la stanchezza. Aveva anche cominciato a piovigginare. Vedendo che nella via non c'erano auto, chiuse gli occhi per affrontare il freddo da solo, ma poi si accorse che la macchina di John era parcheggiata a una decina di metri. Quando aprì la portiera e montò, John si limitò a fargli un cenno con la testa. «Fatto» disse Gerlof. «Bene» rispose John. Soltanto allora Gerlof si accorse che sul sedile posteriore era seduto qualcuno: una sagoma dalle spalle larghe che era riuscita a sprofondare nascondendosi dietro a John. Era suo figlio Anders. «Sono passato dall'appartamento» disse John. «Anders è tornato a casa. L'hanno lasciato andare.» «Benissimo. Ciao, Anders.» Il figlio di John gli fece un cenno con la testa. «Sarai contento che la polizia ti abbia creduto, no?» «Sì» rispose Anders. «Adesso non entrerai più nella villa di Vera Kant, vero?» «No.» Anders scosse la testa. «C'è un fantasma, lì.» «Ne ho sentito parlare» disse Gerlof. «Però non ne avevi paura, a quanto pare.» «No» ripeté Anders. «Lei rimaneva in camera sua.» «Lei? Intendi dire Vera?» Anders annuì. «È amareggiata.»
«Amareggiata?» «Si sente ingannata.» «Ah, davvero?» commentò Gerlof. Pensò a quanto gli aveva raccontato Maja Nyman delle due voci maschili che aveva sentito nella cucina di Vera. Possibile che una delle due appartenesse a Martin Malm? La pioggia non mollava e, immettendosi nella via, John azionò i tergicristallo. «Pensavo di fermarmi per un po' con Anders a Borgholm» disse. «Andiamo a prendere il caffè con sua madre. Sicuramente sei il benvenuto anche tu.» «No, mi sa che è meglio che torni a casa» si affrettò a replicare Gerlof. «Altrimenti rischio che Boel diventi isterica.» «Già» ammise John. «Posso prendere l'autobus per Marnäs» propose Gerlof. «Non ce n'è uno alle tre e mezzo?» «Possiamo guardare alla stazione» disse John. Mentre attraversavano Borgholm, Gerlof rimase in silenzio, immerso nei suoi pensieri. Come al solito aveva la sensazione di non aver colto dei particolari, da Martin Malm, di aver fatto le domande sbagliate e di non aver interpretato correttamente le poche risposte che gli erano state date. Avrebbe dovuto prendere appunti. «Martin non riesce più a parlare» disse sospirando. «Davvero?» chiese John. Quando l'auto svoltò a destra all'altezza della piazza Gerlof girò la testa e d'un tratto vide Julia oltre una vetrina al lato opposto della via. Era seduta in un ristorante vicino alla chiesa insieme a Lennart Henriksson, il poliziotto. Gerlof non rimase sorpreso di vederli insieme. Julia guardava Lennart e aveva l'aria serena, gli parve, mentre l'auto si lasciava alle spalle la vetrina del ristorante. Forse non allegra, ma tranquilla. E anche Lennart aveva un aspetto più pimpante di quanto non accadesse da anni. Era una buona cosa. «Quindi puoi prendere l'autobus?» chiese John. Gerlof annuì. «Adesso sto bene» disse. Era vero solo in parte, però riusciva almeno a camminare. Poi aggiunse: «In fondo bisogna contribuire al trasporto pubblico, altrimenti tra un po' sopprimeranno anche le linee degli autobus». John svoltò verso il vecchio edificio della stazione di Borgholm. Un
tempo era una stazione ferroviaria, il capolinea di quel treno da cui era saltato Nils Kant dopo l'omicidio del poliziotto, ma ora vi si fermavano solo le corriere e i taxi. John parcheggiò, scese e fece il giro verso il lato del passeggero per aprire la portiera. «Grazie» disse Gerlof, mettendosi in piedi con qualche difficoltà. Poi salutò Anders con un cenno del capo. Era stata una giornata faticosa, ma si sforzò al massimo di avviarsi verso gli autobus dietro la stazione con un'andatura regolare e dignitosa, tenendo la cartella in una mano e il bastone nell'altra. La pioggerella si era un po' intensificata. La corriera diretta a Byxelkrok via Marnäs era già alla fermata. L'autista stava leggendo il giornale. Gerlof si fermò davanti alla porta dell'autobus. «Comunque sia, ora finisce qui» disse. «Abbiamo fatto tutto quello che abbiamo potuto. A Martin toccherà convivere con il suo passato. Anche se gli resta poco da vivere.» «Già, proprio così» convenne John. «A proposito...» aggiunse Gerlof. «Fridolf... sai per caso se c'è qualche conoscente di Martin Malm che si chiama così?» John scosse la testa. «Fridolf?» chiese. «Come il "piccolo Fridolf" del cinema?» «Sì. O forse Fritiof» rispose Gerlof. «Fridolf o Fritiof.» «Non che mi ricordi» disse John. «È importante?» «No. Non credo.» Gerlof rimase immobile davanti a John per qualche istante, mentre un paio di adolescenti con la giacca a vento nera e i capelli a spazzola li oltrepassavano di corsa e saltavano sull'autobus d'un balzo, senza degnare di un'occhiata i due vecchi. Gerlof si rese conto che non aveva alcuna importanza che avesse appena smascherato un assassino. Non cambiava nulla. Intorno a lui la vita continuava come prima, e Öland restava quello che era, un'isola scarsamente popolata. Si sentiva piuttosto depresso. Forse era una crisi degli ottant'anni. «Grazie di tutto» disse a John. «Ti telefono quando arrivo.» «Bene, aspetto la chiamata.» John lo salutò con un cenno del capo e gli tenne il bastone mentre Gerlof si sollevava a fatica sugli alti gradini dell'autobus per poi riprendere il bastone, pagare all'autista il biglietto scontato per i pensionati e sedersi a de-
stra, accanto al finestrino. Oltre il vetro vide John tornare alla sua vecchia auto e salirci. Gerlof si appoggiò allo schienale, chiuse gli occhi e sentì che la corriera veniva messa in moto. Lentamente, come una vecchia goletta, partì dalla stazione. "Fridolf o Fritiof" pensò. E un incontro a Ramneby, dov'era cresciuto Ernst. "Fridolf? Fritiof?" Gerlof non conosceva nessuno, a Öland, che rispondesse a uno di quei due nomi. 28 «No, non sono sposato» disse Lennart. «E non lo sono mai stato.» «Niente figli?» chiese Julia. Lennart scosse la testa. «No, niente figli.» Abbassò gli occhi sul bicchiere d'acqua mezzo vuoto. «Ho avuto una sola relazione importante in tutta la mia vita, ma in compenso è durata quasi dieci anni. È finita cinque anni fa... adesso lei abita a Kalmar, e siamo ancora amici.» Abbozzò un sorriso. «Da allora ho investito le mie energie nella casa e nell'orto.» «Forse l'Öland settentrionale non è proprio il posto migliore del mondo» osservò Julia. «Voglio dire, se si vuole conoscere qualcuno.» «La scelta è piuttosto limitata, in altre parole» disse Lennart continuando a sorridere. «Sì, è vero. Immagino che a Göteborg sia molto meglio...» «Non saprei...» rispose Julia. «Io ho quasi smesso di cercare.» Finì di bere il suo bicchiere d'acqua e continuò: «In realtà anche io ho avuto una sola relazione seria. Ed è stato ancora più tempo fa della tua... Era quella con l'irrequieto padre di Jens, Michael, ed è finita... be', dopo. Hai capito». Lennart annuì. «Bisogna essere determinati per tenere in vita una relazione» constatò. Julia annuì. «E adesso, che progetti hai?» chiese Lennart. «Pensi di fermarti a Öland?» «Non lo so... forse» rispose Julia. «Non ho molto che mi trattenga a Göteborg. E Gerlof non è propriamente in salute. Non credo che voglia avere qualcuno che lo tiene d'occhio, ma può darsi che ne abbia bisogno.» «L'Öland settentrionale ha scarsità di infermiere, questo lo so per certo»
disse Lennart, guardandola. «E mi farebbe piacere che tu...» Venne interrotto da un ronzio ripetuto, che quasi fece sussultare Julia. Lennart guardò il cercapersone che teneva alla cintura. «Mi chiamano di nuovo» borbottò. «Qualcosa di importante?» chiese Julia. «No, pare che sia una riunione veloce alla stazione per fare il punto.» Si alzò. «Vado a pagare.» «Possiamo fare a metà» tentò Julia. «No, no.» Lennart agitò una mano per respingere la proposta. «Sono stato io a portarti qui.» «Grazie» disse Julia. Come sempre, era a corto di soldi. «Che ne dici di trovarci...» Lennart guardò l'orologio, «... verso le quattro meno un quarto, alla stazione di polizia? A quell'ora dovrei aver finito. Così possiamo andare via dalla metropoli e tornare a casa.» «Bene.» «Ti piacerebbe venire a vedere dove abito? Non è che sia una gran casa, ma è sul mare, a nord di Marnäs. Il sole sorge dal mare ogni nuovo giorno, se ci si vuole esprimere poeticamente.» «Volentieri» rispose Julia. Si separarono fuori dal ristorante. Lennart s'incamminò a passo svelto verso la stazione, e Julia si avviò saltellando sulle stampelle verso Kungsgatan per dare un'occhiata ai negozi. Non aveva l'aria di essere periodo di saldi, per l'abbigliamento, ma poteva almeno guardare la merce esposta nelle vetrine. Passò davanti a una tabaccheria che vendeva anche i giornali e lesse in modo automatico una serie di titoli sulle locandine - GRAVE INCIDENTE SULLA E22; IMPOSSIBILE IDENTIFICARE I CORPI. CAROLA È DI NUOVO FELICE. TUTTO SUI PROGRAMMI DEL FINE SETTIMANA! HAI VINTO ALLA LOTTERIA NAZIONALE? - senza lasciarsi toccare minimamente. Stava bene, adesso, nonostante le fratture. Era quasi contenta, addirittura. Contenta che lei e Gerlof si fossero riavvicinati come mai prima d'allora, contenta di essersi separata da Lena più o meno amichevolmente qualche giorno prima e contenta anche di accorgersi che Lennart Henriksson apprezzasse la sua compagnia. Era perfino contenta che la polizia avesse rilasciato Anders Hagman. Sarebbe stato terribile se qualcuno di Stenvik avesse avuto a che fare con la
scomparsa di suo figlio. Meglio, a quel punto, se quel giorno Jens fosse sceso fino alla spiaggia nella nebbia, senza che lo vedesse nessuno. Che avesse superato la propria paura dell'acqua cominciando a saltare da uno scoglio all'altro, finendo per scivolare. Julia lo pensava, adesso. Jönköping, aprile 1970 «Non è molto grande, ma uno scorcio di vista sul Vättern ce l'ha» dice il proprietario dell'immobile, indicando una finestra. «E il letto e l'arredamento della cucina sono inclusi nell'affitto.» L'uomo tira il fiato, ansimando, nelle piccole stanze dell'appartamento. L'ascensore del palazzo è rotto, e salendo i quattro piani di scale la fronte gli si è imperlata di sudore. Sotto la giacca dell'abito, la camicia è tesa da un grosso pancione. «Bene» dice il futuro inquilino. «Si riesce anche a parcheggiare senza problemi.» «Grazie, ma non ho l'auto.» Non ci vogliono più di cinque minuti a perlustrare l'intero appartamento; anzi, anche meno. Un monolocale più la cucina, lungo Gröna gatan nella zona meridionale di Jönköping. «Lo prendo. Per sei mesi. Forse anche qualcosa di più.» «Un mestiere che comporta frequenti spostamenti? Senza automobile?» «Mi muovo in treno e in corriera» risponde l'inquilino. «Giro parecchio... E sto aspettando che la direzione mi richiami alla base.» Nils sta ancora mettendo alla prova il suo nuovo nome e la sua nuova vita. Ci si sta lentamente abituando, e sente che la vecchia identità recede piano piano, pur senza scomparire mai del tutto. È come avere una seconda vita conservata sotto una campana copriformaggio. La nuova vita è più libera, comprende un codice fiscale e un passaporto che al confine funziona, ma nonostante tutto non dà mai l'impressione di essere totalmente autentica. Né in Costa Rica, né durante gli anni in Messico, né in quello trascorso alle porte di Amsterdam o negli ultimi sei mesi in un appartamento quasi completamente vuoto a Bergsjön, nei dintorni di Göteborg, dove a volte gli capitava di svegliarsi madido di sudore freddo e convinto di essere di nuovo immerso nella calura afosa della Costa Rica. «Posso chiederle la sua età?» chiese il padrone di casa. «Quarantaquattro anni.»
«I migliori della vita.» «Già, può darsi.» Finora, chiedendo a Fritiof quando potrà finalmente tornare a casa sua, a Öland, Nils ha sempre e soltanto ricevuto risposte evasive. «Chi è impaziente commette degli errori» gli ha detto tre settimane prima, lungo una linea telefonica disturbata. «Devi procedere con calma, Nils. La bara è sepolta a Marnäs, sulla tomba ha cominciato a crescere l'erba bella fitta e la tua vecchia madre ogni tanto va a metterci dei fiori. Ti sta aspettando.» «Sta bene?» si è informato Nils. «Sì, sta bene.» Fritiof fa una pausa e poi continua: «Ma le sono arrivate delle cartoline. Strane cartoline. Prima alcune dalla Costa Rica, poi dal Messico e dall'Olanda. Ne sai qualcosa?». Nils ne sa qualcosa. Da sempre spedisce lettere e cartoline a sua madre, ma è sempre stato molto cauto. «Non ci ho mai messo il mittente» dice Nils. «Bene. Sicuramente sarà stata contenta» commenta Fritiof «... ma ora gira voce che Nils Kant sia vivo. Non tra i poliziotti, che se ne fregano dei pettegolezzi di paese, ma a Stenvik. È per questo che non puoi mostrarti impaziente. Lo capisci, no?» «Sì. Ma cosa succederà quando tornerò?» «Già, cosa succederà...» dice Fritiof, come se la risposta fosse interessante. «Cosa vuoi che succeda? Che te ne torni a casa, da tua madre. Prima però faremo la nostra caccia al tesoro. Giusto?» «È quello che abbiamo detto. Se torno a casa, ti faccio vedere il tesoro.» «Bene. Dobbiamo solo aspettare l'occasione giusta» dice Fritiof. «Sì. E quando sarà?» Ma Fritiof aveva già riattaccato. Quell'uomo, che di certo ha un altro nome, ha semplicemente riattaccato il ricevitore. Nils ha la sensazione di essere un progetto già portato a termine per Fritiof Andersson, un uomo morto. Morto e sepolto al cimitero di Marnäs. «L'affitto si paga anticipato» dice il padrone di casa. «Sta bene» dice Nils. «Posso pagare già adesso.» «E la disdetta deve essere comunicata un mese prima.»
«Certo. Non mi serve più tempo.» Nils non è morto. Sta tornando a casa. E l'uomo che si fa chiamare Fritiof non deve commettere l'errore di pensare il contrario. 29 Sulla corriera per Marnäs, Gerlof si mise a riflettere. Si era appisolato per un breve tratto tra Borgholm e Köpingsvik, svegliandosi però non appena l'autobus si era inoltrato sul tavoliere. E ora stava rimuginando. Durante il monologo da Martin Malm aveva tirato fuori più cose di quanto non avesse avuto in mente di fare: un sacco di congetture prive di fondamento che probabilmente non sarebbe mai stato possibile dimostrare. Di confessioni non ne aveva ottenute, ma per lo meno adesso aveva avuto modo di dire tutto. Ora avrebbe potuto cercare di andare avanti. Fare altre navi in bottiglia, ricevere le visite di John e bere il caffè con lui. Leggere i necrologi sul giornale e guardare avvicinarsi l'inverno fuori dalle finestre della residenza di Marnäs. Ma era difficile dimenticare. Erano tante le cose su cui rimuginare. Tirò di nuovo fuori il libriccino sulla Malm Spedizioni, l'opuscolo commemorativo che cominciava ad avere gli angoli un po' logori a forza di essere tolto e rimesso nella cartella. Gerlof aprì la pagina con la foto sul molo a Ramneby, e ancora una volta vide Martin Malm e August Kant uno di fianco all'altro, davanti agli operai della segheria. Pensò a quanto gli aveva detto Ann-Britt Malm, che era stata Vera Kant a fornire a suo marito i soldi per il suo primo grande bastimento, e non August. In altre parole, ciò significava che Vera aveva pagato Martin Malm per riavere a casa Nils. Ma se August Kant non aveva voluto avere niente a che fare con il nipote, desiderando magari che se ne restasse per sempre in America del Sud, che cosa significava allora quella foto, da cui traspariva una stretta intesa, affaristica e non solo, con Martin Malm? La mano di August sulla spalla di Martin... Perché era la mano di August, no? Gerlof osservò con più attenzione. Il pollice pareva posto al lato sbagliato rispetto alle altre dita. Fissò la foto finché non gli bruciarono gli occhi e i contorni in bianco e nero cominciarono a stemperarsi diventando indistinti. A quel punto tirò
fuori dalla cartella gli occhiali da lettura, li inforcò e riprese a guardare. Accorgendosi che non cambiava nulla, se li tolse e li tenne appena sopra la foto, come una lente d'ingrandimento. In quel modo i volti bianchi e dallo sguardo fisso degli operai si avvicinarono, disintegrandosi contemporaneamente in tanti puntini bianchi e neri. Gerlof spostò la lente sulla foto guardando meglio la mano sulla spalla di Malm. Eccola lì, appoggiata in maniera confidenziale vicino al collo dell'armatore, ma ora Gerlof vedeva chiaramente che quella che avrebbe dovuto essere la mano destra di August era in realtà una mano sinistra. E proprio dietro la mano... Gerlof guardò i visi della foto. D'un tratto, vide per la prima volta ciò che doveva aver visto Ernst. «Per la santa croce!» Il richiamo alla croce di Gesù era un'imprecazione molto antica: sua madre gli aveva proibito di pronunciare quelle parole più di settant'anni prima, e da quel giorno lui non l'aveva mai più fatto. Per essere completamente sicuro, prese anche il suo taccuino, e lo sfogliò fino a trovare i nomi che si era appuntato al Museo del legno di Ramneby, rileggendone uno. «Per la santa...» ripeté. Per qualche secondo rimase del tutto immerso nella sua scoperta, ma poi alzò gli occhi e si ricordò che era seduto su un autobus di linea diretto a nord, verso Marnäs. Non era ancora arrivato a destinazione, però: si trovava ancora a sud di Stenvik, e guardando fuori dal finestrino vide che la corriera stava oltrepassando la prima insegna che indicava il campeggio a due chilometri. Stenvik. L'autobus avrebbe presto raggiunto Stenvik. Doveva assolutamente parlare con John della sua scoperta. Gerlof si tese rapidamente verso uno dei pulsanti rossi per la prenotazione della fermata e lo premette. Quando l'autobus cominciò a rallentare alla fermata a cento metri a nord dalla deviazione per Stenvik, mise via il libriccino e gli occhiali e si alzò su gambe malferme. La porta centrale dell'autobus si aprì con un sibilo, e Gerlof scese dai gradini sentendosi investire dal freddo e dal vento. Sjögren gli si mise a borbottare nelle braccia e nelle gambe, ma per il momento non erano dolori insopportabili. La porta si richiuse dietro di lui e l'autobus ripartì. Gerlof era solo alla
fermata, e piovigginava ancora. Un tempo c'era una piccola pensilina di legno sotto la quale ripararsi in caso di pioggia, in attesa di tornare a casa o dell'arrivo della corriera, ma naturalmente adesso l'avevano tolta. Tutto quello che serviva ed era gratuito veniva eliminato. Quando il rumore sordo del motore dell'autobus cessò, Gerlof si guardò intorno nel paesaggio deserto, si allacciò il primo bottone del cappotto e si girò verso il cartello giallo che indicava Stenvik. Era lì che doveva arrivare. Guardò più volte a destra e sinistra per non rischiare di farsi investire attraversando la strada, ma non si vedeva un'auto. La provinciale era deserta. Coprì i cinquanta metri fino alla deviazione a passo abbastanza svelto. Quando svoltò, si ritrovò controvento, e dovette rallentare l'andatura. Aveva percorso almeno duecento metri sul ciglio della strada che portava in paese quando d'un tratto si ricordò che John non era a Stenvik. Si trovava a Borgholm. Gerlof si fermò e sbatté le palpebre. Come diavolo aveva fatto a dimenticarsene? Aveva salutato John alla fermata neanche mezz'ora prima, ma la scoperta che aveva fatto guardando la foto l'aveva esaltato al punto da farglielo dimenticare. Ma qualcuno doveva pur esserci, giù a Stenvik, no? Forse Julia non aveva ancora fatto in tempo a tornare, ma Astrid c'era senz'altro. Stava quasi sempre in casa. Comunque, non c'era altro da fare che proseguire: Marnäs era ancora più lontana. I passi si fecero più pesanti, e il gelo aveva cominciato a penetrare attraverso il cappotto. Il vento lo strattonava, al punto da costringerlo ad abbassare la testa. Un passo alla volta sull'asfalto crepato. Li contò: uno, due, tre... al venticinquesimo alzava la testa, ma gli alberi all'orizzonte che segnavano il confine tra il tavoliere calcareo e il paesino non parevano avvicinarsi. Per la prima volta Gerlof cominciò a sentirsi un tantino inquieto, come un nuotatore che abbia audacemente deciso di attraversare un lago gelato perdendo però tutte le energie a metà della traversata. Tornare sulla provinciale era impossibile, ma anche proseguire si prospettava altrettanto difficile. All'improvviso appoggiò male il piede sinistro, inciampò sul bordo d'asfalto e per poco non finì nel fosso. Con l'aiuto del bastone riuscì per un pelo a mantenersi in equilibrio, e fu allora che udì il rumore sordo di un motore.
Era un'auto, e arrivava da Stenvik. L'auto era grande, lucida e verde scuro, vide Gerlof una volta che cominciò ad avvicinarsi: una Jaguar con i tergicristallo che oscillavano ritmicamente. La macchina non lo superò: rallentò, invece, e il finestrino fumé si abbassò automaticamente, rivelando al volante un viso incorniciato da una barba grigia. «Ehilà!» lo chiamò una voce allegra. Gerlof riconobbe Gunnar Ljunger, di Långvik. Il proprietario dell'albergo, che insisteva per comprare nuove navi in bottiglia ogni volta che si incontravano, era l'ultima persona che Gerlof avrebbe voluto vedere in quel momento, e tuttavia si sentì costretto a sollevare una mano in un saluto stanco. «Buongiorno, Gunnar» disse con la voce debole nel vento, e fece un passo come per continuare per la sua strada. «Ciao, Gerlof» rispose Ljunger dall'interno dell'auto. «Dove sei diretto?» Era una domanda stupida che avrebbe meritato una risposta stupida, ma Gerlof si limitò ad accennare con la testa verso il paese e rispose: «Giù a Stenvik». «Vai a trovare qualcuno?» «Sì, forse.» Gerlof ondeggiò in una folata improvvisa. «Astrid, magari.» «Astrid Linder?» domandò Ljunger. «Non mi pareva che fosse in casa, quando sono passato di lì... Le finestre erano buie.» «Davvero?» Se neanche Astrid si trovava a casa, allora a Stenvik non c'era proprio nessuno, e Gerlof sarebbe morto di freddo a causa del vento che soffiava dal mare. La polizia avrebbe ritrovato il suo corpo rigido il giorno dopo, dietro qualche cespuglio di ginepro. Rifletté e guardò Ljunger. «Per caso sei diretto a Marnäs, Gunnar?» chiese. «Dalle parti della residenza per anziani?» «Sì... devo andare a prendere un po' di roba dal ferramenta. Ti do un passaggio io.» «Sei sicuro?» «Certo.» Ljunger si sporse sul sedile del passeggero e gli aprì la portiera. «Salta su.» «Grazie, molto gentile.»
Gerlof montò a fatica con bastone e cartella sull'auto ben riscaldata. Nell'abitacolo regnava il silenzio e faceva molto caldo; la ventola del riscaldamento era al massimo. Ljunger aveva slacciato la giacca a vento gialla, e per quanto Gerlof si sentisse ancora infreddolito, sbottonò anche il suo cappotto. «Bene, allora si parte» disse Ljunger. «Direzione Marnäs.» Premette a fondo il pedale dell'acceleratore, e la grossa auto partì con una potenza tale che Gerlof venne premuto contro lo schienale del sedile. «Devi essere lì per un'ora precisa?» chiese Ljunger. Gerlof scosse la testa. «No, ma vorrei...» «Bene, allora facciamo in tempo a guardare una cosa.» Erano già all'incrocio, e la provinciale era deserta come prima. Ljunger la imboccò. Non in direzione nord, però, verso sud. «Non so se posso...» tentò Gerlof, ma Ljunger lo interruppe: «Allora, come va con le navi in bottiglia?». «Bene» rispose Gerlof, sebbene nell'ultima settimana non ci avesse lavorato su neanche un minuto e non avesse dedicato al suo hobby un solo pensiero. «Potresti venire da me alla residenza di Marnäs intorno a Natale, così le guardiamo...» Ljunger annuì. Percorse poche centinaia di metri sulla strada principale, svoltò di nuovo, questa volta in una stradina sassosa senza indicazioni, che correva tra un campo sopraelevato e un vecchio muretto di pietra. Portava a est, verso il mare. «Stavo pensando... è troppo tardi per chiederti di verniciare lo scafo tutto di rosso?» chiese Ljunger. «Se si può, farebbero un figurone.» «Sì, sì. Non è un problema.» Gerlof annuì e prese fiato. «Gunnar, dove stiamo andando?» «Non manca molto» rispose Ljunger. «Ci siamo quasi.» Poi non parlò più e lasciò che la macchina proseguisse lentamente lungo la strada stretta. Gerlof non poteva far altro che lasciarsi trasportare e seguire con gli occhi il monotono ondeggiare dei tergicristallo sul parabrezza. Abbassò lo sguardo sullo spazio vuoto tra i sedili. C'era il cellulare di Gunnar, nero con le fasce laterali argentate, e molto più piccolo di quelli che Gerlof aveva visto fino a quel momento: sì e no la metà di quello di Julia. «Dove siamo diretti, Gunnar?» domandò a voce bassa.
Ljunger non rispose, era come se non lo ascoltasse più. Si limitava a fissare la strada ghiaiata bagnata di pioggia davanti all'auto, evitando con mano leggera le buche e i dossi dei solchi lasciati dalle altre ruote. Le labbra erano increspate in un sorrisino. La fronte di Gerlof era madida di sudore. Avrebbe dovuto dire qualcosa, qualcosa di leggero e quotidiano. Una domanda educata sulla congiuntura nel settore alberghiero, magari. Ma era stanco e quel giorno nella sua mente non c'era posto per le chiacchiere vuote. Alla fine gli venne una sola domanda: «Sei mai stato in America del Sud, Gunnar?». Ljunger scosse la testa, sempre con quel sorrisino sulle labbra. «Purtroppo no» rispose. E poi aggiunse: «Il posto più vicino all'America del Sud dove sono arrivato è la Costa Rica». Öland, settembre 1972 Dal posto del passeggero di una Volvo blu, alla sommità del nuovo ponte, Nils Kant si protende verso il finestrino e spazia con lo sguardo sullo stretto di Kalmar. È pomeriggio e sul mare si sta addensando la foschia: un fitto banco di nebbia si è formato nello stretto e si dirige verso l'isola. «Nebbia, stasera» dice. «Era quello che speravamo» risponde Fritiof accanto a lui. «Speravamo?» chiede Nils. «C'è qualcun altro?» Fritiof annuisce. «Tra poco li conoscerai.» Nils cerca di rilassarsi e guardare oltre il parapetto del ponte. Quasi riesce a rivedere se stesso da giovane lì sotto nello stretto, intento a nuotare verso la terraferma per salvarsi la vita, quando ancora non aveva vent'anni. Com'era riuscito a fare quella traversata nell'acqua fredda? Adesso ha quarantasei anni e non riuscirebbe a percorrere a nuoto neanche cento metri. Il ponte di Öland è grandioso: tonnellate di acciaio e cemento che si ergono sopra il mare formando una struttura larga quasi quanto un'autostrada e lunga diversi chilometri. Nils non immaginava neanche che la sua isola un giorno potesse avere un collegamento del genere con la terraferma. «A quando risale il ponte?» chiede. «È nuovissimo» risponde Fritiof guidando.
È stato alquanto taciturno da quando è andato da Nils a Jönköping la sera prima, portandogli degli abiti scuri per il viaggio e un berretto di maglia nero da calcarsi sulla fronte. A malapena ha detto qualche parola. L'allegro e disinvolto Fritiof Andersson che è andato a cercarlo in Costa Rica più di dieci anni prima non c'è più: in realtà è sparito fin da quando lo smålandese è annegato nel mare a nord di Limón. Dopo quella sera, Fritiof ha trattato Nils come una specie di pacco, spostandolo da un posto all'altro e da un paese all'altro, prendendogli in affitto miniappartamenti o stanze singole nei pensionati per scapoli in quartieri squallidi, e facendosi sentire solo al telefono non più di un paio di volte all'anno. La sera prima della partenza per Öland, Fritiof ha ricominciato a insistere sulla faccenda del tesoro. Dov'è? Dove l'ha nascosto Nils? Nella villa? Nils ha scosso la testa, e alla fine l'ha detto: «È sepolto sottoterra, sul tavoliere, appena a sud di Stenvik. Dalle parti del vecchio tumulo votivo. Possiamo andare a prenderlo insieme». Fritiof ha annuito. «Bene, faremo così.» Nils aspetta da tanto tempo di compiere quell'ultimo viaggio. Adesso è qui. «Rimarrò a casa, d'ora in poi» dice a Fritiof. Chiude gli occhi, nel momento in cui scendono dal ponte e si ritrovano a terra, a nord di Färjestaden. Finalmente a Öland. «Rimarrò a casa» ripete. «Me ne starò con mia madre e farò in modo che non mi veda nessuno.» Fa una pausa e chiede: «Sta ancora bene, vero?». «Sì, certo.» Fritiof Andersson annuisce brevemente e preme sul pedale dell'acceleratore mentre si dirigono verso Borgholm, sul grande tavoliere. Molte cose sono cambiate a Öland da quando era giovane, e Nils se ne rende conto subito. Ci sono più cespugli e alberi di una volta, sull'isola, e la stretta strada sterrata per Borgholm è diventata una provinciale larga e asfaltata, diritta e regolare come il ponte. La ferrovia che correva da nord a sud sull'isola dev'essere stata chiusa, perché Nils non vede più i binari sul tavoliere. Anche i mulini che si allineavano lungo le spiagge per catturare il vento dello stretto sono spariti, ne sono rimasti pochi. Pare che ci siano meno abitanti sull'isola, eppure gli sembra che sulle rive le case di legno si siano moltiplicate. Nils accenna in direzione della spiaggia con la testa. «Chi ci abita in tutte quelle casette?» chiede.
«I villeggianti estivi» risponde brevemente Fritiof. «Fanno i soldi a Stoccolma e comprano le casette di legno qui a Öland. Valicano il ponte in auto e passano le loro vacanze a prendere il sole, dopodiché corrono di nuovo a casa per fare altri soldi. In inverno non ci vogliono stare, qui... troppo freddo e tetro.» A sentirlo, pare quasi che li capisca. Nils non apre bocca. Fritiof deve avere ragione, riguardo i villeggianti, perché quasi tutte le auto che vede stanno procedendo in direzione opposta, verso il ponte. L'estate è finita, sta arrivando l'autunno. Le rovine del castello, se non altro, sono ancora dov'erano, uguali a come sono sempre state con le finestre vuote, in cima alla roccia che sovrasta Borgholm. Una volta superato il castello sono quasi in città, e la nebbia comincia lentamente a saturare l'aria. Fritiof rallenta e svolta in un piccolo parcheggio al confine della cittadina, entro il raggio visivo delle rovine. Spegne l'auto senza spiegazioni. «Ecco qui» si limita a dire. «Ti avevo preannunciato che avremmo avuto compagnia.» Apre la portiera e fa un cenno con la mano. Nils si guarda intorno. Lungo la via sta arrivando a passo lento una persona, a piedi: un uomo sui cinquant'anni. Indossa un maglione grigio, pantaloni di gabardine e scarpe lucide di cuoio dall'aria costosa. Saluta Fritiof con un cenno. «Siete in ritardo.» L'uomo porta un cappello, che si è calcato sulla fronte. Non ha bagagli, solo una sigaretta fumata a metà, fra le dita. Fa un ultimo tiro, lancia via il mozzicone e si guarda intorno con aria tesa prima di avvicinarsi all'auto. «Nils, credo che ora dovresti sederti sul sedile posteriore» dice Fritiof a voce bassa. «È più sicuro, quando arriviamo a Stenvik.» Poi scende lui stesso dall'auto. C'è una cabina telefonica in fondo al parcheggio, e Nils vede che Fritiof si avvia rapidamente in quella direzione. Infila delle monete, compone un numero e dice poche parole nel ricevitore. Anche Nils scende dalla macchina. L'uomo dagli abiti costosi spegne la sigaretta con la scarpa destra e lo guarda senza salutare, per poi montare in auto sul sedile anteriore. Nils non si siede subito su quello posteriore. Percorre una decina di metri in direzione della strada, godendosi il ritorno a casa e la possibilità di muoversi di nuovo liberamente sull'isola.
La sua isola. D'un tratto sulla strada principale passa qualche auto. Nils vede dei volti pallidi fissarlo da dietro il parabrezza. Li segue con lo sguardo finché non scompaiono nella nebbia. «Vieni!» lo chiama irritato Fritiof da dietro. È tornato all'auto. Nils ripercorre lentamente i pochi metri, apre la portiera posteriore e sente l'uomo sul sedile anteriore chiedere a voce bassa: «Tutto bene, Gunnar?». Poi si volta verso Nils, con uno scatto nervoso e colpevole, come se volesse mordersi la lingua. Anche l'uomo che si è sempre fatto chiamare Fritiof gira la testa e abbozza un sorrisino. «Non importa, tanto vale che ci presentiamo tutti come si deve, ormai» dice. «Io mi chiamo Gunnar, e questo è Martin. Sul sedile posteriore c'è Nils Kant. Ciascuno di noi, qui, si fida degli altri. Giusto?» «Certo.» Nils annuisce e chiude la portiera. Dunque Fritiof si chiama Gunnar. E Nils sa di averlo già incontrato da qualche parte ma non ricorda dove. «Allora ci muoviamo verso Stenvik» dice Gunnar. L'auto si immette nuovamente sulla provinciale, superando Borgholm e proseguendo verso nord. Il paesaggio diventa man mano più familiare per Nils, ma la nebbia salita dallo stretto s'infittisce, cancellando l'orizzonte. L'aria si fa sempre più grigia. Gunnar sapeva che ci sarebbe stata la nebbia, ci ha contato ed è per questo che ha voluto portare a casa Nils proprio oggi. Che cos'altro ha già calcolato? A nord di Köpingsvik Gunnar accende i fendinebbia e accelera. Nils vede scivolare accanto all'auto dei cartelli gialli. Nomi familiari di paesini ölandesi. Ma è soprattutto il paesaggio a toccarlo di più: i campi, l'erba selvatica, i muretti diritti di pietra che cominciano ai lati della strada e si perdono nella nebbia. E il tavoliere, il suo tavoliere. Si estende in tutte le direzioni e, con i suoi grevi colori grigio-bruni e il suo cielo sterminato, è grande e splendido come lo ricordava. Nils è tornato a casa. Nell'auto nessuno apre bocca, e dopo un quarto d'ora di silenzio Nils vede il cartello che aspettava: STENVIK. Sotto c'è una grossa freccia con la
scritta CAMPING. La strada che scende in paese è asfaltata, adesso, e Stenvik ha un campeggio. Quando è successo? L'auto oltrepassa la deviazione per Stenvik prima di cominciare a rallentare. «Prendiamo l'ingresso nord» dice Gunnar. «C'è meno traffico, e poi eviteremo di attraversare il paese.» Qualche minuto più tardi svolta nella strada che corre a nord di Stenvik, all'altezza di una piattaforma per i bidoni del latte, vuota e abbandonata, a lato della strada provinciale. L'ultima volta che Nils l'ha vista era carica di bidoni metallici pieni di latte portati lì dalle fattorie lungo la strada. Adesso è macchiata di muschio bianco e ha tutta l'aria di essere sul punto di crollare. Tutta Öland è cambiata nel giro di venticinque anni, ma la strada che porta giù in paese è più o meno come se la ricorda: stretta, tortuosa e ancora coperta di ghiaia. È deserta, fiancheggiata su entrambi i lati da fossi pieni d'erba, oltre i quali si apre il tavoliere. Gunnar prosegue lentamente con la Volvo, e dopo qualche centinaio di metri si ferma. Si volta verso Nils e accanto a lui anche Martin si gira. Lo guardano entrambi. Gunnar lo fissa in modo diretto, mentre gli occhi di Martin sono più sfuggenti. «Allora» dice Gunnar serio. «Ti abbiamo portato a Stenvik. E adesso tu devi disseppellire il tuo bottino di guerra nascosto vicino al tumulo. Giusto?» «Prima voglio vedere mia madre» replica Nils fissando Gunnar senza distogliere lo sguardo. «Vera non va da nessuna parte» risponde lui. «Può aspettare ancora un po'. Meglio così, perché è più sicuro entrare in paese quando è completamente buio. Vero?» «Le pietre ce le dividiamo» si affretta a precisare Nils. «Naturale. Prima però dobbiamo tirarle fuori.» Nils lo fissa ancora per qualche secondo, poi sposta lo sguardo fuori dal finestrino. La nebbia è compatta, adesso, e tra poco scenderà il crepuscolo. Annuisce. Darà a Gunnar e a Martin la metà delle pietre preziose, così poi saranno pari. «Ci serve qualcosa con cui scavare» dice a voce bassa. «Naturale. Nel baule ci sono badili e leve di ferro» risponde Gunnar.
«Abbiamo pensato a tutto. Non preoccuparti.» Ma Nils non si rilassa. Adesso è solo con due estranei, esattamente come lo smålandese sulla spiaggia buia nel mar dei Caraibi. La differenza è che lo smålandese si fidava dei suoi nuovi amici, mentre Nils no. Gunnar non parcheggia lungo la strada, accosta invece a un piccolo varco nel muro di pietra e gira il volante. La macchina si lascia alle spalle la strada. Lentamente, s'inoltra nel piatto mondo d'erba del tavoliere. Nils gira la testa ma dal lunotto posteriore vede solo nebbia. La strada che porta al suo paesino natale è scomparsa. 30 Gerlof era seduto in silenzio e con la schiena diritta sul sedile del passeggero, accanto a Gunnar Ljunger, diretto alla zona deserta che si estendeva a sud di Marnäs. La cauta conversazione che aveva tentato di avviare era fallita per mancanza di risposte da parte di Ljunger. Gerlof non poteva far altro che restare seduto e cercare di sbottonarsi il cappotto, sfilandoselo con qualche difficoltà, dato che nell'auto il calore era a livelli tropicali. Forse si poteva regolare il ventilatore dalla parte del passeggero, ma non sapeva come. Tutto pareva gestito elettronicamente, e Gunnar non fece alcun tentativo di aiutarlo. Ormai erano vicini alla costa orientale dell'isola. L'auto procedeva lentamente su un argine alto una cinquantina di centimetri e largo diversi metri che correva attraverso il paesaggio piatto. Gerlof riconobbe i dintorni: era lì che la ferrovia ölandese passava attraverso il tavoliere, prima che le Ferrovie dello Stato la chiudessero. Guardò l'orologio. Quasi le cinque. «Temo di dover tornare, adesso, Gunnar» disse a bassa voce. «Tra un po' cominceranno a chiedersi che fino ho fatto, alla residenza di Marnäs.» Gunnar annuì. «Già, magari se lo chiedono» rispose. «Ma è difficile che ti vengano a cercare qui. O sbaglio?» La minaccia era talmente palpabile, ormai, che Gerlof si girò e strattonò la maniglia della portiera. Dato che la Jaguar procedeva a velocità ridotta, avrebbe potuto gettarsi giù, magari evitando addirittura delle fratture, per poi riguadagnare la strada provinciale prima che scendesse l'oscurità, ma la portiera non si apriva.
Ljunger l'aveva bloccata con un qualche genere di comando a distanza. «Gunnar, voglio scendere» disse cercando di suonare deciso, come il capitano che era stato una volta. «Tra poco ti accontenterò» rispose Ljunger proseguendo. Oltrepassarono una vecchia griglia arrugginita tra due muretti di pietra, di quelle usate una volta per impedire che le pecore passassero dà un terreno all'altro, e finalmente poco oltre comparve il Baltico, dall'aria grigia e fredda. «Perché fai questo, Gunnar?» chiese Gerlof. «A dire il vero non era pianificato» rispose Ljunger. «Ho seguito l'autobus da Borgholm e ti ho visto scendere alla deviazione sud per Stenvik. Non mi è restato che proseguire fino all'ingresso nord, attraversare il paese e prenderti a bordo.» Rallentò ulteriormente e si voltò verso di lui. «Cosa sei andato a fare da Martin Malm oggi, Gerlof?» Gerlof si sentì smascherato. Esitò a rispondere. «Da Martin?» domandò. «Che vuoi dire?» «Tu e John Hagman» precisò Ljunger. «Tu sei entrato e John ha aspettato fuori.» «Be', io e Martin abbiamo fatto una chiacchierata... In fondo siamo tutti e due vecchi capitani» disse Gerlof, aggiungendo: «E tu come fai a saperlo?». «Ann-Britt Malm mi ha chiamato sul cellulare mentre tu parlavi di vecchi ricordi con Martin» continuò Ljunger. «Era un po' preoccupata di tutte le visite che Martin ha cominciato a ricevere dai vecchi capitani di goletta... prima Ernst Adolfsson, e poi tu. Due volte nelle ultime settimane, evidentemente. C'è stato un gran viavai dalle parti della villa dei Malm.» «Ah, e così tu e Ann-Britt siete amici» disse Gerlof stancamente. Ljunger annuì. «In realtà siamo Martin e io a essere vecchi soci, ma non è che con lui si possa conversare molto» disse. «Ann-Britt si occupa dei suoi affari, e spesso mi chiede qualche consiglio.» Gerlof si appoggiò allo schienale. Tanto valeva smettere di fingere, a questo punto. «Soci, già» disse. «È un bel pezzo che lo siete, no? Dagli anni Cinquanta.» Infilò la mano nella cartella e tirò di nuovo fuori il libriccino commemorativo della Malm Spedizioni. «Ho mostrato questa foto a Martin» proseguì «e l'ho guardata molte vol-
te... ma ci ho messo un bel po' a capire cosa raffigurava in realtà.» «Davvero?» chiese Ljunger svoltando dietro una macchia di bassi olmi. Ormai distavano solo un centinaio di metri dal mare. «E invece adesso ci sei riuscito?» Gerlof annuì. «Si tratta di due uomini dotati di un certo potere su un molo di Ramneby: il piccolo industriale August Kant e il capitano di goletta Martin Malm, al centro di un gruppo di giovani operai della segheria. E la mano di August pare amichevolmente appoggiata alla spalla di Martin.» Fece una pausa e poi continuò. «Ma non è la mano di August Kant. Appartiene all'uomo che si trova dietro Martin Malm sul molo. Me ne sono accorto solo poco fa, a bordo dell'autobus.» «Una foto dice più di mille parole» ironizzò Ljunger rallentando. «Non si dice così?» Ora, davanti a loro, al di là di un prato di erba ingiallita, si apriva la costa orientale dell'isola. La pioggia cadeva su terra e acqua, una pioggia fredda che in realtà aspirava a trasformarsi in neve. «E l'uomo in piedi alle spalle di Martin Malm è un operaio della segheria che si chiamava Gunnar Johansson. Ma che poi cambiò cognome» continuò Gerlof. «Giusto?» «Non proprio: a quell'epoca ero caposquadra, alla segheria» precisò Ljunger. «Ma che ho cambiato cognome è vero. Fu quando mi trasferii a Öland.» Spense il motore, e all'improvviso scese un gran silenzio. Non si udiva altro che vento e pioggia. «Quella foto non avrebbe mai dovuto essere inserita nel libro» disse Ljunger. «È stata Ann-Britt a farla mettere, e io non l'ho saputo se non dopo che era stato stampato. Ma solo tu ed Ernst Adolfsson mi avete riconosciuto. Ernst, evidentemente, si ricordava di me dagli anni di scuola...» «Era cresciuto a Ramneby, ora lo so» disse Gerlof. «Per me non è stato altrettanto facile riconoscerti. Ma mi chiedo una cosa...» Sapeva di essere vicino alla fine, ormai: Ljunger l'avrebbe ucciso come aveva fatto con Ernst. Continuò a parlare per rimandare l'inevitabile. «... mi chiedo, essendo caposquadra lì alla segheria avevi sicuramente sentito parlare del terribile nipote di August Kant, Nils. Fu allora che ti venne l'idea di...» «A dire il vero l'avevo conosciuto di persona» lo interruppe Ljunger. «Chi?» chiese Gerlof. «Nils Kant?»
«Nils, esatto.» Ljunger annuì. «Dopo la guerra avevo cominciato a lavorare alla segheria come fattorino, e quando Nils sfuggì alla polizia da Öland, venne lì. Si nascondeva dietro a dei cespugli, quando mi vide. Mi chiese di andare a chiamare il direttore. Io lo feci, ma August Kant non ne voleva sapere di lui. Mi diede cinque biglietti da cento corone che dovevo consegnare a suo nipote perché sparisse. Ne intascai due e ne diedi tre a Nils.» Ljunger sorrise, a quel ricordo. «Poi vissi da re per il resto dell'estate, con quel denaro.» «Dunque capisti molto presto che c'erano dei soldi da guadagnare, su Nils Kant» commentò Gerlof guardando la pioggerella che continuava a cadere oltre il finestrino. «Già» ammise Ljunger «ma non esattamente quanti. Non ne avevo idea. Pensavo che forse avrei potuto intascare qualche biglietto da mille e un viaggio gratis oltreoceano per portare a casa Nils, una volta che il putiferio si fosse calmato. Fu quanto proposi ad August dopo che mi ebbe nominato caposquadra alla segheria, ma lui rifiutò categoricamente. Non aveva alcun interesse a far rientrare in Svezia la pecora nera della famiglia.» Alzò una mano e premette un pulsante vicino al volante. Dalla portiera accanto a Gerlof si sentì uno scatto. «Ecco, è aperta» disse. «Scendi.» Gerlof rimase dov'era. «Tu però non rinunciasti» disse guardando Ljunger. «Quando August ti rispose di no, contattasti la madre di Nils, Vera Kant, a Stenvik, e le facesti la stessa proposta. E lei rispose di sì. Ho ragione?» Gunnar Ljunger sospirò, come se avesse accanto un bambino ostinato. Guardò fuori dal finestrino, osservando il paesaggio costiero. «Fu Vera a farmi scoprire questa splendida isola» disse. «Venni qui nell'estate del '58, la prima volta. Presi il traghetto per Stora Rör e poi il treno verso nord. La ferrovia stava per essere smantellata, all'epoca, e anche la marina mercantile ölandese stava tirando gli ultimi respiri. Molti pensavano che per Öland fosse finita... ma sul treno sentii parlare delle persone di un ponte che forse sarebbe stato costruito. Un lungo ponte, che permettesse agli abitanti dell'isola di andarsene quando volevano. E alla gente della terraferma di venire qui.» «I ricchi della terraferma» precisò Gerlof. «Esatto.» Ljunger prese fiato e proseguì: «Poi venni qui, nella parte settentrionale dell'isola, e scoprii il sole e tutte le spiagge che ci sono. Un'infinità di sole e di acqua, e pochissimi turisti. Così, cominciai a riflettere,
ancor prima di bussare alla porta di Vera Kant a Stenvik». Sospirò. «Vera, sola e infelice nella sua grande villa, sentiva la mancanza di suo figlio. Cominciai a parlarle.» «Sola e infelice» disse Gerlof. «Ma molto ricca.» «Non tanto quanto si poteva pensare» lo corresse Ljunger. «La cava stava per essere chiusa e suo fratello aveva messo le mani sulla segheria di famiglia in Småland.» «Ma era ricca di terreni» disse stancamente Gerlof. «Terreni lungo la costa... lotti vicini alle spiagge.» Si chiese come sarebbe morto. Che Ljunger avesse con sé qualche arma? O avrebbe preso una delle pietre che a milioni coprivano Öland e gliel'avrebbe semplicemente sbattuta sulla testa, più o meno come aveva fatto con Ernst? «Vera aveva molta terra, sì» ammise Ljunger. «Credo che nessuno, a Stenvik, capisse quanta ne possedeva, sia a nord che a sud del paese. Naturalmente era priva di valore finché non se ne fosse fatto qualcosa, ma la persona giusta avrebbe potuto rilevarla e venderla agli investitori venuti dalla terraferma...» Cominciò a chiudersi la giacca a vento e aggiunse: «Negli anni Cinquanta quassù c'erano poche seconde case, ma io sapevo che la domanda sarebbe salita parecchio, e che ci sarebbe stato anche lo spazio per gli hotel e i ristoranti. Una volta costruito il ponte, i prezzi si sarebbero impennati». «E così Vera ti regalò Långvik» concluse Gerlof. «Non mi fu regalato niente.» Ljunger scosse la testa. «Comprai tutti i suoi terreni, in modo del tutto legale. Naturalmente, a basso prezzo e con denaro ottenuto in prestito da lei, ma è tutto documentato e legale.» «E Martin Malm ebbe in prestito dei soldi per navi più grandi.» «Esatto. Ci eravamo conosciuti all'epoca in cui Martin consegnava il legno a Ramneby» spiegò Ljunger, annuendo. «Mi servivano dei collaboratori affidabili... qualcuno che portasse a casa dall'estero la bara di Nils Kant, e in seguito anche lui. Naturalmente si poteva aspettare a farlo rientrare, dato che Vera avrebbe smesso di cedermi i terreni, in quel caso. Questo lo capivo.» Sorrise a Gerlof, compiaciuto. «Vieni, adesso.» Ljunger aprì la portiera del conducente. Gerlof guardò fuori attraverso il parabrezza. Vide un prato deserto, con l'erba schiacciata a terra dal vento.
«Cosa c'è qui?» chiese. «Non molto» rispose Ljunger, scendendo. «Adesso vedrai.» 31 «Salta giù. Gerlof.» Gunnar Ljunger aveva chiuso la sua portiera, aveva fatto velocemente il giro dell'auto e aveva aperto quella del passeggero. Aspettava impaziente che Gerlof scendesse. «Devo rivestirmi...» tentò Gerlof. Ma Ljunger tese una mano guantata. «Non ti serve il cappotto» disse. «Hai caldo, adesso, no?» Ljunger aveva almeno quindici anni meno di Gerlof ed era alto, grosso e decisamente forte. Afferrò saldamente Gerlof sotto il braccio e lo tirò fuori dall'auto. Quanto a lui, indossava la sua giacca a vento gialla, con la scritta nera LÅNGVIK CONFERENCE CENTER sulla schiena. «Vieni.» Chiuse la portiera, sollevò il portachiavi e premette un pulsantino. L'auto si chiuse con uno scatto appena udibile. Per Gerlof quelle cose erano quasi magia. Aveva fatto in tempo a prendere il bastone, ma la cartella era rimasta in macchina. Avanzò incerto di qualche passo, nel prato, e d'un tratto intuì che cosa aveva intenzione di fare Ljunger. Per il primo minuto, in effetti la sensazione fu di sollievo, per il corpo, dopo quell'auto surriscaldata: il vento lo rinfrescò, dandogli l'impressione che non ci fosse bisogno di coprirsi di più. Ma non se la sarebbe cavata senza il cappotto invernale, Gerlof lo sapeva. Fuori faceva un freddo paralizzante, appena qualche grado sopra lo zero. Il vento arrivava a violente folate dal mar Baltico, e le goccioline di pioggia erano come spilli sul viso. «Guarda qui, Gerlof.» Ljunger si era allontanato di qualche passo sulla strada sterrata che correva lungo il prato e stava indicando un muretto di pietra davanti a un piccolo bosco. Addossato al muro cresceva un albero solitario e contorto. «Vedi cos'è questo?» chiese. Gerlof si avvicinò su gambe malferme. «Un melo» disse a voce bassa. «Esatto, un vecchio melo.» Ljunger lo prese per il braccio e lo condusse,
attento ma deciso, più vicino alla spiaggia. Indicò di nuovo, questa volta un cespuglio deformato. «E guarda là» disse «lo si vede appena, ma in realtà è un cespuglio di uva spina.» Guardò Gerlof. «E questo cosa significa?» «Un giardino abbandonato» rispose Gerlof. «Esatto, e sotto l'erba si possono trovare le pietre delle fondamenta.» Ljunger si guardò intorno. «Mi sono imbattuto in questa spiaggia, per caso, alcuni anni fa. Per lo più qui si rimane del tutto indisturbati, perfino in estate. Si può stare seduti a pensare e a volte...» Ljunger guardò di nuovo il melo: «A volte me ne sto semplicemente a riflettere e penso a quel melo e alle persone che vivevano qui. Perché non sono più in un posto così bello?». «Povertà» disse Gerlof, rabbrividendo per la prima volta. Cercava di tenersi ritto nel vento, senza tremare e ondeggiare. Ma sulla parte superiore del corpo indossava solo una camicia sottile e una maglietta intima quasi altrettanto leggera, e cominciava a sentire penetrare il freddo autunnale attraverso la stoffa. «Già. Erano sicuramente poveri» disse Ljunger. «Magari partirono su una nave per andare oltreoceano, come Nils Kant e migliaia di altri ölandesi. Ma il punto è...» Fece di nuovo una pausa. «Il punto è che non si resero mai conto delle grandi opportunità offerte da quest'isola. Non le avete mai viste, voi ölandesi.» Gerlof si limitò ad annuire, Ljunger poteva blaterare quanto voleva. «Voglio tornare in macchina» disse. «È chiusa a chiave» rispose Ljunger. «Tra poco morirò di freddo.» «Vai pure a casa, a Marnäs, allora.» Ljunger indicò il muro accanto all'albero. «Là c'è un varco. Dietro troverai un sentiero che va verso nord, passando davanti a una vecchia pista da ballo... in effetti in linea d'aria non saranno più di due chilometri.» Gerlof ondeggiò, spinto da una folata. Ma non gliene importava, adesso: aveva qualcosa di importante da dire. «Sono solo io a sapere, Gunnar.» Ljunger lo guardò senza rispondere. «Come ho già detto... Ho capito tutto quanto solo ora, sull'autobus, quando ho visto che dietro Martin Malm c'eri tu.» Ljunger alzò le spalle. «Anche Ernst Adolfsson mi ha sventolato davanti quella foto» disse.
«Però mi ha sventolato davanti anche altre cose, come vecchie registrazioni catastali eccetera. Non mi lascio spaventare tanto facilmente.» «Era molto più avanti di me» disse Gerlof con voce stanca. «Pensavo che mi raccontasse tutto, e invece non era così. Cosa voleva da te?» «La cava. Voleva comprare la cava per una cifra simbolica, in cambio del silenzio su tutto ciò che sapeva delle transazioni tra me e Vera.» «Non era poi una richiesta tanto esosa, no?» commentò Gerlof. «Non dirlo» si affrettò a rispondere Ljunger. «Per il momento è terra priva di valore, ma in futuro potrebbe diventare qualcosa. Un casinò scavato nella roccia, magari... chissà? E così ho declinato la proposta.» Ljunger guardò Gerlof. «Voi vecchi capitani sopravvalutate la vostra importanza, temo, se pensate che qualcuno sia interessato a eventi che risalgono a molti decenni fa.» «Be', evidentemente tu lo sei, Gunnar» ribatté Gerlof «altrimenti non ci troveremmo qui.» «Non posso permettere che una banda di pensionati vada in giro a diffondere chiacchiere» rispose Ljunger stancamente. «Lo capisci anche tu, no? Non si tratta solo delle attività in corso... Abbiamo importanti progetti, riguardo a Långvik, che sono attualmente all'esame della commissione edilizia. Si tratta di grossi investimenti. Nei prossimi sei mesi verranno venduti sessanta nuovi lotti, a est del paese. Quanto pensi che possano valere?» Gerlof capì. «Ma come dicevo, sono solo io a sapere, nessun altro. Né John, né mia figlia.» Ljunger gli sorrise divertito. «È nobile da parte tua prenderti tutti gli onori, Gerlof. E ti credo.» «Uccidesti tu anche Vera Kant, Gunnar?» «No, no. Vera cadde e si ruppe l'osso del collo lungo la scala di casa sua, ho sentito dire. Io non ho mai ucciso nessuno.» «Hai ucciso Ernst Adolfsson.» «No» ribatté Ljunger. «Abbiamo avuto una discussione, che è degenerata in una piccola lite.» «Durante la quale lui ha fatto precipitare nella cava una delle sue sculture, vero?» «Già, mi pare proprio di sì. E poi io ho spinto lui, che nella caduta si è trascinato dietro una di quelle più grandi. È stata una disgrazia, proprio come ha stabilito la polizia.»
«Hai ucciso Nils Kant» disse Gerlof. «No.» «Allora è stato Martin» concluse Gerlof. «E Jens? Chi di voi uccise Jens?» Ljunger non sorrideva più. Guardò il suo orologio da polso e fece un paio di passi verso l'auto. «Jens s'imbatté in voi sul tavoliere, vero?» continuò Gerlof a voce più alta. «Perché non lasciaste vivere il mio nipotino? Aveva sei anni... non rappresentava una minaccia, per voi.» «Lasciamo perdere questo triste argomento, Gerlof. Tanto, adesso devo andare.» E sicuramente era così: Gunnar Ljunger aveva un'agenda densa di impegni. Uccidere lui era solo uno dei tanti, per quel giorno. Gerlof chiuse gli occhi per lasciar fuori la pioggia e il freddo. Non avrebbe avuto la forza di stare in piedi ancora per molto, ma non aveva intenzione di cadere in ginocchio davanti a Gunnar Ljunger: era al di sotto della sua dignità. «Io so dove sono le pietre preziose» disse. Poi fece un passo in direzione dell'auto, appoggiandosi al bastone. Se si fosse avvicinato a sufficienza, forse avrebbe fatto in tempo ad assestare un bel colpo sulla carrozzeria lucida, sfregiandola. «Le pietre preziose?» Ljunger lo guardò. Aveva la mano sulla maniglia della portiera. Gerlof annuì. «Il bottino dei soldati. Mi è stato dato e l'ho nascosto. Fammi salire in macchina, e andiamo a prenderlo.» Ljunger scosse la testa e abbozzò di nuovo un sorrisino. «Grazie dell'offerta» disse. «Ho chiesto ripetutamente a Nils del bottino, ma in realtà era soprattutto Martin a volerle, quelle pietre preziose. Non è neanche sicuro che valgano qualcosa. A me bastava e avanzava la terra di Vera... Non bisogna essere troppo avidi.» Dopodiché aprì di scatto la portiera, salì e mise in moto. Il motore non rombò neanche: si limitò a emettere un sommesso brontolio, perfettamente calibrato. Ljunger ingranò la retromarcia e l'auto scivolò piano all'indietro lungo la strada sterrata, fuori dalla portata di Gerlof proprio quando era riuscito a fare l'ultimo passo e sollevare il bastone. Troppo tardi. "Per la santa croce!"
Gerlof rimase impotente nel prato. Abbassò piano il bastone guardando l'auto, e con essa il cappotto invernale, che scompariva lontano. Seduto comodamente al volante, Ljunger non degnò Gerlof neanche di un'occhiata: aveva voltato la testa per poter fare una rapida retromarcia lungo la strada sterrata. Nel punto più alto, dove un tempo passava la ferrovia, girò l'auto e proseguì. Ancora più avanti, quasi all'altezza della provinciale, la Jaguar si fermò per un attimo. Socchiudendo gli occhi Gerlof vide Ljunger aprire la portiera e gettare fuori prima la sua cartella e poi il cappotto. Infine la richiuse e ripartì. Il rumore del motore cessò. Gerlof rimase dov'era, le spalle rivolte alla pioggia. Il vento forte gli fischiava nelle orecchie. Cominciava a sentirsi decisamente bagnato e infreddolito, e adesso non ce l'avrebbe mai fatta a tornare fino alla provinciale, o a Marnäs. Lo sapeva anche Ljunger. Sollevò un piede e compì un mezzo giro con il corpo, voltandosi a passetti ondeggianti. Il paesaggio, lungo la costa, era ancora grigio e deserto. Il vecchio giardino che Ljunger gli aveva mostrato si trovava a una cinquantina di metri di distanza. Forse avrebbe avuto la forza di arrivarci e trovare un po' di riparo dal vento dietro il muretto di pietra. «Allora deciditi e fallo» borbottò tra sé e sé. Cominciò a muoversi. Un passo dopo l'altro, con il bastone che gli dava sicurezza ogni volta che le gambe gli cedevano. Il braccio libero lo teneva sollevato sulla parte anteriore della camicia fradicia, per quanto fosse un misero riparo dal vento. La strada ghiaiata sotto le scarpe era dura e compatta, costruita com'era di pietra calcarea, molti anni prima. L'auto di Gunnar Ljunger non aveva lasciato tracce nella terra, e se più avanti, nelle pozze fangose, c'erano delle impronte delle gomme, ci avrebbe pensato la pioggia a cancellarle. Era come se Ljunger non fosse mai stato lì, come se Gerlof fosse venuto per conto suo. "La polizia esclude l'eventualità di un reato." Sicuramente avrebbero scritto così, alla fine del trafiletto sull'"Ölands-Posten", una volta che l'avessero trovato morto di freddo, laggiù. Il cielo sopra di lui aveva cominciato a scurirsi. Un passo alla volta. Gerlof sollevò una mano tremante e asciugò dalla fronte le gocce di pioggia gelida. Avvicinandosi a fatica alla spiaggia udì man mano più chiaramente le
onde e il loro ritmico sciabordio contro la sottile striscia di sabbia al di là del prato. Più in là, sul mare aperto, un gabbiano solitario volteggiava nel vento. Non era l'unico segno di vita presente, perché a diverse miglia nautiche di distanza Gerlof vedeva la sagoma grigia e indistinta di un grosso bastimento diretto a nord. Ma avrebbe potuto agitare le braccia e gridare quanto voleva: nessuno l'avrebbe visto né sentito. Non era mai stato su quella spiaggetta erbosa prima d'allora, almeno per quanto potesse ricordare. Sentiva la mancanza della costa scoscesa di Stenvik, così bella nella sua aridità. Quella orientale era troppo piatta e ricca di vegetazione per i suoi gusti. La stradina sterrata s'interrompeva di colpo e al suo posto un sentiero stretto s'inoltrava in mezzo all'erba. Non lo calpestava nessuno da un pezzo, perché l'erba era alta e ostacolava il passo, almeno per Gerlof che a malapena riusciva a sollevare le gambe. Di tanto in tanto dal mare giungeva una folata più violenta delle altre che lo faceva ondeggiare e quasi cadere. Ma continuò a camminare, un passo alla volta, e alla fine raggiunse il melo. I pochi metri per arrivarci gli erano costati quasi tutte le energie rimastegli. Era un melo alquanto malridotto, secco e contorto dai forti venti provenienti dal mare. I rami, completamente spogli, non offrivano alcuna protezione, ma Gerlof poté almeno appoggiare la schiena al tronco ruvido e riprendere un po' fiato. Si tastò la tasca destra dei pantaloni. C'era un oggetto duro, e lo tirò fuori. Il cellulare nero di Gunnar Ljunger. Gerlof si ricordò: aveva raccolto il piccolo apparecchio tra i sedili quando Ljunger era sceso per fare il giro della macchina. Subito prima che lo facesse scendere a forza dall'auto, era riuscito a lasciarselo scivolare in tasca. Ma il furto del cellulare non serviva a niente, perché Gerlof non aveva idea di come si telefonasse con quel minuscolo apparecchio. Provò a digitare qualche cifra - il numero di John Hagman - ma non accadde niente. Il cellulare non dava segno di vita. Lentamente, se lo infilò di nuovo in tasca. Doveva provare gratitudine nei confronti di Gunnar Ljungren per avergli lasciato tenere le scarpe? Senza, non si sarebbe potuto muovere di un metro. No, niente gratitudine. Odiava Ljunger.
Terreni e denaro: non si era trattato di nient'altro. Martin Malm aveva avuto i soldi per delle nuove navi. E Gunnar Ljunger aveva avuto una quantità di terreni intorno a Långvik, da sfruttare a suo piacimento. Vera Kant era stata ingannata un anno dopo l'altro, e lo stesso valeva per Nils. E naturalmente anche per lui, Gerlof. Ormai sapeva quasi tutto ciò che era successo: era stato il suo obiettivo fin dall'inizio, ma era tutto inutile. Avrebbe voluto raccontarlo ad altri, a John, a Julia e soprattutto alla polizia. Fin dall'inizio aveva desiderato ritrovarsi di fronte a tutte le persone coinvolte nella tragedia, spiegare come erano andate le cose e poi smascherare il responsabile, l'uomo che aveva ucciso Nils Kant e il piccolo Jens. Grande scalpore, voci mormoranti in sala. L'assassino sarebbe crollato e avrebbe confessato, tutti gli altri sarebbero rimasti sbigottiti dalla realtà. Avrebbero applaudito. «Vuoi solo darti delle arie» gli aveva detto una volta Julia. Ed era convinto che avesse ragione. Probabilmente era tutto lì: potersi sentire importanti. Non vecchi, non dimenticati, non mezzi morti. Ma adesso era mezzo morto. La vita era luce e calore, e ora che il sole era tramontato anche il calore si stava esaurendo. I piedi di Gerlof erano come due blocchi di ghiaccio nelle scarpe, le dita delle mani avevano perso la sensibilità. Il gelo era paralizzante ma anche stranamente rilassante, quasi piacevole. Chiuse gli occhi per qualche secondo. Dentro di sé immaginò Gunnar Ljunger che si allontanava a bordo della sua grossa auto. Aveva gettato fuori la cartella e il cappotto per creare una falsa pista, immaginò Gerlof. Per chi alla fine l'avesse trovato sarebbe risultato tutto chiaro: un vecchio affetto da demenza senile che era sceso dall'autobus e si era perso, incamminandosi nella direzione sbagliata e togliendosi, nel suo stato di confusione mentale, anche il cappotto lungo il percorso. Alla fine, quando era scesa l'oscurità, era morto di freddo. A Ljunger non bastava sottrargli la vita: aveva dovuto mettergli addosso anche il marchio di idiota. Inspirò l'aria fredda a brevi scatti ansimanti. Quando si arrendeva, un corpo, smettendo di funzionare? Nel momento in cui la temperatura del sangue scendeva sotto i trenta gradi? Avrebbe dovuto fare qualcosa, magari raggiungere la spiaggetta e cercare di tracciare un messaggio nella sabbia prima di morire: GUNNAR
LJUNGER - ASSASSINO. A grandi lettere, in modo che la pioggia non potesse cancellarle. Ma non ne aveva la forza. Era come essere stati sbalzati in mare da una nave: lo stesso gelo, la stessa sensazione di bagnato, la stessa solitudine. Gerlof non aveva mai imparato veramente a nuotare, e cadere in acqua in mare aperto era sempre stata una delle sue grandi paure. Avrebbe significato la fine, per lui. Pensò a Ella. Aveva sempre creduto che, in qualche modo, trovandosi vicino alla morte, avrebbe avvertito la sua presenza, e invece non provava niente. Poi pensò a Julia. Era ripartita da Borgholm, ormai? Magari in quel preciso momento stava passando sulla provinciale a bordo dell'auto della polizia di Lennart. Sperava che Ljunger la lasciasse stare. "Mai stare in piedi quando ci si può sedere e mai stare seduti quando ci si può sdraiare." Era una citazione che aveva letto da qualche parte, ma al momento non ricordava dove. Le gambe gli si piegarono. Non avevano più la forza per reggerlo, e Gerlof scivolò piano piano verso il basso con la schiena che grattava dolorosamente contro la corteccia dell'albero. Sotto i rami spogli del melo si accosciò sulle gambe piegate, sapendo che non avrebbe avuto la forza di rialzarsi. Non senza un aiuto. Sarebbe stato un grosso errore sedersi e chiudere gli occhi sotto il melo, Gerlof lo sapeva. Una volta seduto, prima o poi si sarebbe steso a terra e infine avrebbe chiuso gli occhi lasciandosi portare alla deriva nel buio. Addormentarsi sarebbe stato un errore anche più grave. Ma alla fine, Gerlof si arrese e si lasciò andare lentamente sull'erba. Si sarebbe soltanto seduto lì e avrebbe chiuso gli occhi per un attimo e basta. Öland, settembre 1972 Gunnar ha una leva di ferro e due badili nel baule della Volvo. Tira fuori gli attrezzi, dà uno dei due badili a Martin e poi guarda Nils. «Bene, eccoci qui» disse. «Dove si va?» Nils, in piedi al freddo, si guarda intorno nella nebbia che preme sul tavoliere. Sente il familiare odore d'erba, spezie e terra magra, e vede cespugli di ginepro, blocchi di pietra e sentieri appena accennati, proprio come nella sua giovinezza... eppure non riesce a orientarsi. Tutti i punti di riferimento si sono persi nella nebbia.
«Dobbiamo avvicinarci al tumulo votivo» sussurra. «Questo lo so, l'hai detto ieri sera» risponde Gunnar irritato. «Ma dove si trova, esattamente?» «Qui... da queste parti.» Nils si guarda intorno di nuovo e comincia ad allontanarsi dall'auto. Martin, che a malapena ha aperto bocca per tutto il tragitto, lo raggiunge rapidamente. Appena sceso dalla macchina ha acceso un'altra sigaretta, e mentre camminano la succhia con le labbra tirate. Gunnar si unisce ai due, affiancandoli. Nils rallenta un po' il passo, come se non avesse fretta. Vuole avere gli altri davanti a sé, tenerli d'occhio. La nebbia è più fitta di quanto gli sembri sia mai stata; a dire il vero ricorda solo un sole perenne, sul tavoliere, dai tempi in cui lo percorreva in lungo e in largo da adolescente. Adesso ci si sente come dentro una sacca d'aria sul fondo del mare. A distanza di dieci metri il paesaggio è completamente cancellato, tutti i colori sono grigio-bianchi, tutti i rumori attutiti. Indossa solo una maglia leggera e una giacca scura di pelle, oltre ai jeans, e in quell'aria fredda rabbrividisce. «Vieni, Nils?» Gunnar si è fermato e si è girato. È solo una sagoma alta e grigia davanti a Nils, indistinta come un disegno a carboncino. Il suo sguardo è sfuggente e difficile da interpretare. «Non vogliamo mica perderti» dice, ma prima che Nils sia riuscito a raggiungerlo, si volta di nuovo e riprende a camminare a lunghi passi sull'erba piegata. Lentamente sul tavoliere scende il crepuscolo. Sarà sera inoltrata prima che Nils riesca ad andare a casa, da sua madre. Chissà se è stata informata del suo arrivo? Scavalca un lastrone piatto dai contorni irregolari in mezzo all'erba, quasi a forma di triangolo, e all'improvviso lo riconosce. Adesso sa dove si trova. «Un po' più a sinistra» dice. Gunnar cambia direzione senza aprire bocca. A Nils pare di udire un brontolio sordo nella nebbia, si ferma e tende le orecchie. Un'auto sulla strada comunale? Ascolta in silenzio, ma non si sente altro. Sono vicini, adesso, ma quando alla fine Gunnar e Martin si fermano davanti a una zolla di terra piuttosto grande, Nils non pensa di essere anco-
ra arrivato. Non vede ergersi da nessuna parte il tumulo di sassi. «È qui» dice Gunnar secco. «No» obietta Nils. «Sì, invece.» Gunnar molla qualche calcio all'erba, facendo emergere il bordo di una pietra. Solo allora Nils si rende conto che non esiste più nessun tumulo votivo: è stato dimenticato. Da decenni nessun passante mette più un sasso in cima al cumulo per onorare i morti, e l'erba gialla del tavoliere l'ha ricoperto. Nils ripensa all'ultima volta che è stato lì, quando ha nascosto il tesoro. Era così giovane, allora, giovane e quasi fiero di aver sparato ai soldati in mezzo al tavoliere. E invece, dopo, le cose erano solo andate a rotoli. Era andato tutto a rotoli. Nils indica un punto. «Qui... qui, da qualche parte» dice. «Scavate qui.» Guarda Martin, in piedi con il badile in mano, intento a mettersi l'ennesima sigaretta all'angolo della bocca. Perché è così nervoso? «Scavate, adesso» ripete Nils. «Se volete il tesoro.» Si sposta di lato e si mette al di là del tumulo votivo. Alle sue spalle sente la lama di un badile conficcarsi nella terra. Si comincia a scavare. Nils scruta nella nebbia, ma non si muove niente. Regna il silenzio. Dietro di lui Martin sta aprendo un solco profondo nella terra. Con la lama del badile ha già urtato diverse pietre, che Gunnar ha dovuto spostare con l'aiuto della leva, ed è rosso in viso. Ansimando, guarda Nils con aria seccata. «Qui non c'è niente» dice. «Solo sassi.» «Sì invece» ribatte Nils guardando nella fossa appena scavata. «È qui che l'ho nascosto.» Ma la buca è vuota, lo vede: proprio come dice Martin. «Passami quello» dice allungando irritato la mano verso il secondo badile. Poi si mette a scavare personalmente, a colpi rapidi e violenti. Dopo un minuto circa vede le pietre calcaree piatte che tanto tempo prima aveva preso dal tumulo: quelle che aveva messo intorno all'astuccio metallico per proteggerlo. Sono lì, anche se la terra le ha annerite, ma il tesoro non c'è più. Nils alza gli occhi su Martin.
«L'hai preso tu» dice a voce bassa, facendo un passo avanti. «Dov'è?» 32 «Eccoci arrivati» disse Lennart spegnendo il motore dell'auto della polizia. «Che ne dici del mio rifugio?» «È stupendo» rispose Julia. Aveva svoltato con l'auto in una stradina privata tra i pini e gli olmi, circa cinque chilometri a nord di Marnäs, per poi proseguire a velocità ridotta in mezzo agli alberi e fermarsi in una radura, davanti alla quale si apriva il mare grigio-azzurro. E lì c'era la casetta di mattoni rossicci di Lennart con il suo giardino. Non era molto grande, come le aveva preannunciato, ma la posizione era fantastica. Oltre la casetta non si vedeva altro che l'ampio orizzonte. Il prato curato del giardino digradava verso il mare stemperandosi quasi inavvertitamente in una larga spiaggia sabbiosa. I rami semispogli delle conifere incorniciavano il giardino come le pareti di una chiesa, offrendo ombra e attutendo i rumori. Quando Lennart spense il motore, calò un silenzio solenne, rotto solo dal fruscio leggero delle chiome degli alberi. «Naturalmente i pini sono stati piantati» disse Lennart «ma è stato molto tempo prima che arrivassi io.» Scesero dall'auto, e Julia inspirò l'odore del bosco con gli occhi chiusi. «Da quanto tempo abiti qui?» «Da un pezzo... quasi vent'anni. Ma mi ci trovo ancora bene.» Si guardò intorno, come se cercasse qualcosa, e chiese: «Sei allergica ai gatti? Ho un persiano, Missy, ma credo che sia uscita a fare una passeggiata». «Nessun problema, li reggo bene, i gatti» rispose Julia, seguendolo sulle stampelle verso la casa. Aveva un'aria così solida, con le pareti di mattoni, come se nessuna tempesta del Baltico potesse mai portarla via. Lennart aprì la porta della cucina sul lato più corto della casa e le tenne la porta aperta. «Non hai ancora fame, vero?» chiese. «No, possiamo aspettare» rispose Julia entrando in un piccolo ingresso adiacente alla cucina. Lennart non era un tipo pedante, solo metodico. In casa sua c'era molto più ordine che nell'appartamentino di Julia a Göteborg, con i numeri dell'"Ölands-Posten" accuratamente inseriti in un portariviste di legno a
parete. Tra i quotidiani spuntava qualche esemplare del giornale "Polizia svedese", l'unico elemento che potesse svelare la sua professione. Per il resto, c'erano diverse canne da pesca nell'ingresso, due o tre vasi di fiori su ogni davanzale, e un ripiano carico di libri di cucina sopra i fornelli. Da nessuna parte si vedevano lattine di birra o bottiglie di alcolici. Anche questo le fece piacere. Lennart entrò nella stanza accanto alla cucina accendendo le lampade vicino alle finestre. «Vuoi scendere in spiaggia» chiese «prima che faccia troppo buio? Possiamo portarci un ombrello.» «Volentieri, a patto che mi lasci prendere anche le stampelle.» Lennart rise. «Staremo attenti. Arrivando fino alla punta si riesce a vedere Böda, con il bel tempo. Sai, la baia con quella grande spiaggia sabbiosa.» Julia sorrise. «Sì, lo so cos'è Böda» disse. «Ah già, naturale.» Fece capolino in cucina. «Dimenticavo che anche tu sei di queste parti. Andiamo?» Julia annuì e gettò una rapida occhiata all'orologio. Le cinque e un quarto. «Potrei fare una telefonata, prima?» «Ma certo.» «Volevo solo chiamare Astrid per dirle dove sono.» «Il telefono è sul bancone della cucina» disse Lennart. Astrid rispondeva sempre dicendo il proprio numero, quando qualcuno le telefonava, e così Julia l'aveva imparato a memoria. Lo compose velocemente e udì gli squilli. Astrid rispose al quinto, con Willy che abbaiava frenetico in sottofondo. «Julia!» esclamò sentendo chi la chiamava. «Stavo rastrellando le foglie dietro casa. Dove sei?» «Sono a Marnäs, anzi, a nord di Marnäs. A casa di Lennart Henriksson. Abbiamo...» «Gerlof è con te?» «No» rispose Julia. «Sarà nella casa alloggio.» «No, non c'è» rispose Astrid, decisa. «La responsabile, Boel, mi ha chiamato poco fa chiedendo se sapevo dov'era. È partito stamattina con John Hagman e non è rientrato. Ma non sono preoccupata, se non lo sei tu.»
«Allora sarà con John» rispose Julia. «No» ripeté Astrid, altrettanto decisa. «È stato proprio lui a chiamare Boel. Aveva lasciato Gerlof alla fermata dell'autobus e avrebbe dovuto ricevere una sua telefonata all'arrivo alla residenza.» Julia rifletté. Naturalmente Gerlof poteva fare quello che voleva, e di certo non era in pericolo, ma... «Be', allora telefonerò alla casa alloggio» disse, anche se al momento avrebbe voluto scendere in spiaggia con Lennart. «Buona idea» disse Astrid, e si salutarono. Julia riattaccò. «Tutto bene?» domandò Lennart alle sue spalle. Era sulla soglia dell'ingresso e si era già rimesso la giacca. «Scendiamo? Così poi possiamo bere il caffè.» Julia annuì, ma aveva sulla fronte una ruga preoccupata. Seguì Lennart nell'ingresso e indossò il cappotto. Fuori il cielo si era scurito, ormai era quasi sera e faceva ancora più freddo di prima. Il fruscio del vento nelle chiome dei pini intorno alla casa suonava più sinistro, adesso. "Impossibile identificare i corpi" pensò Julia. Era il titolo di una locandina, relativo a un incidente stradale, che aveva letto a Borgholm. Ora aveva cominciato a girarle e rigirarle nella mente: "Impossibile identificare i corpi, impossibile identificare i corpi...". Si girò. «Lennart» disse «so che sono noiosa e mi preoccupo per niente... ma non potremmo scendere in spiaggia un po' più tardi e andare alla residenza per anziani, adesso? Devo solo controllare che Gerlof sia rientrato.» Öland, settembre 1972 «Ma quale tesoro? Io non ho portato via nessun tesoro del cazzo!» sbotta l'uomo che si fa chiamare Martin. «Hai nascosto l'astuccio di metallo» insiste Nils, avanzando di un passo. «Quando ho voltato le spalle.» «Ma quale astuccio?» dice Martin, tirando di nuovo fuori il pacchetto di sigarette. «Diamoci una calmata, tutti quanti» ordina Gunnar alle spalle di Nils. «Siamo dalla stessa parte.» È troppo vicino, a un passo da lui.
Non gli va a genio che stia lì. Si getta un'occhiata alle spalle, e poi guarda di nuovo Martin. «Stai mentendo» dice facendo un altro passo avanti. «Io? Io ti ho fatto tornare a casa!» esclama Martin irritato. «Io e Gunnar abbiamo organizzato tutto e ti abbiamo portato a casa, sulla mia nave. Fosse stato per me, potevi anche restare dov'eri.» «Io comunque non ti conosco» dice Nils, pensando: "Il mio tesoro. La mia Stenvik". «E allora?» Martin accende una sigaretta. «A me non frega proprio niente di chi conosci e chi non conosci.» «Molla il badile, Nils» gli intima Gunnar. È ancora dietro di lui, troppo vicino. Anche Martin è troppo vicino. D'un tratto alza il badile. Nils intuisce che Martin ha in mente di sferrargli un colpo con il manico, ma se è così, è troppo tardi. Anche Nils ha un badile tra le mani, e l'ha già sollevato in alto. Lo abbatte stringendo il manico con tutte e due le mani, con la stessa forza che aveva impresso al remo mirando a Jan-Issa trent'anni prima. Una furia antica risale gorgogliando dal profondo, tutta la pazienza viene spazzata via. Ha aspettato troppo. «È mio!» urla, e l'uomo davanti a lui si fa improvvisamente sfocato. Si sposta, ma non riesce a evitare il colpo. La lama del badile si abbatte sulla sua spalla sinistra, completando la traiettoria appena sotto l'orecchio. Martin barcolla di lato, perdendo l'equilibrio, e Nils prende la mira e colpisce di nuovo, con la stessa forza di prima, questa volta sulla fronte. «No!» Martin urla, fa un giro su se stesso e cade riverso sul tumulo votivo. Nils alza di nuovo il badile, mirando adesso al volto privo di qualsiasi protezione. «Fermo!» grida Gunnar. Ai piedi di Nils, Martin solleva le braccia. Il sangue gli scorre sul viso: sta aspettando il colpo mortale. Ma Nils non può colpire. «Smettila, Nils!» Una mano si è chiusa sul manico. È il braccio di Gunnar ad aver fermato il badile, e a dargli uno strattone talmente violento che Nils perde la presa. «Basta così!» dice Gunnar a voce alta. «Questo litigio è stato del tutto fuori luogo. Come sei messo, Martin?»
«Merda...» sussurra Martin con la voce impastata e le braccia ancora sollevate a proteggere la testa. «Fallo, Gunnar! Non aspettare che... Fallo!» «È troppo presto» risponde Gunnar. «Io me ne vado» dice Nils. Arretra di un passo, sempre guardando Gunnar. «Lascia perdere il piano... Lo facciamo e basta» dice Martin. «Questo bastardo è fuori di testa...» Cerca di alzarsi, lentamente, con il sangue che gli scorre dal naso e un taglio aperto sulla fronte. «Qualcuno ha preso il tesoro... voi due, o qualcun altro» dice Nils, guardando fisso Gunnar senza batter ciglio. «Dunque il patto non vale più.» Fa un respiro profondo. «Adesso me ne vado, vado a casa. A Stenvik.» «Okay...» Gunnar sospira stancamente senza guardare Nils negli occhi. «Niente patti, allora. Tanto vale che mettiamo via, qui.» «Voglio andarmene» dice Nils. «No.» «Sì, invece. Me ne vado.» «Tu non ti muovi di qui» dice Gunnar, facendo un passo avanti. «Non è mai stato nei piani che tu te ne andassi. Non l'hai ancora capito? Rimarrai qui.» «No, me ne vado» risponde Nils. «Non finisce qui.» «E invece sì... tu sei morto, no?» Gunnar solleva lentamente la pesante leva di ferro e si guarda intorno nella nebbia, come se volesse essere sicuro che nessuno possa vedere ciò che accade. «Non puoi andare a casa, Nils» dice. «Sei morto. Sei sepolto a Marnäs.» 33 In bilico tra la vita e la morte Gerlof si vide sfilare davanti agli occhi una serie di persone defunte. Facevano anche dei rumori: dalla spiaggia sottostante si sentiva l'acciottolio delle ossa di un guerriero, caduto durante una qualche battaglia dell'età del bronzo ormai dimenticata. Chiuse gli occhi per non vederne il fantasma che danzava là sotto, ma continuò a udire chiaramente il rumore. Quando li riaprì vide il suo amico Ernst Adolfsson, con il torace insanguinato, tracciare camminando dei cerchi sul prato in cerca di pietre nell'erba.
E quando spostò lo sguardo sul mare, là, nel crepuscolo, vide navigare controvento la Morte stessa a bordo di un'antica nave di legno con le vele nere. Peggio di tutto fu quando sua moglie Ella, seduta accanto al melo in camicia da notte, lo guardò seria e gli chiese di smettere di lottare. Gerlof chiuse gli occhi, desiderando davvero arrendersi e seguirla sulla nave nera; voleva addormentarsi e lasciare la pioggia e il freddo, lasciare ogni preoccupazione e fingere soltanto di essere steso sul suo letto nella residenza di Marnäs. Non sapeva perché continuava a restare sveglio. La morte si faceva attendere, e la cosa lo disturbava. Sulla spiaggia il rumore non cessava, e Gerlof girò lentamente la testa e aprì gli occhi. L'orizzonte, la linea tra il cielo e il mare, era stato inghiottito dalla penombra. Ma erano davvero delle vecchie ossa a produrre quel rumore, o qualcos'altro? Possibile che nelle vicinanze ci fosse qualcuno, una persona viva? In un qualche punto del suo corpo ormai insensibile era rimasto un briciolo di voglia di vivere, e Gerlof riuscì in effetti ad alzarsi a fatica, sostenendosi al tronco del vecchio melo. Fu come issare una vela maestra con il vento forte: difficile, ma non impossibile. Contò: "Uno, due tre" e poi si mise in ginocchio. "Oh... issa, oh... issa" pensò, e appoggiò il piede destro sul terreno. Poi dovette riposare per qualche minuto. Era immobile, se si escludeva il tremito alle ginocchia, dopodiché diede un ultimo strappo e si alzò in piedi, come un sollevatore di pesi. "Oh... issa, oh...issa." Funzionò. Si ritrovò eretto, con una mano appoggiata all'albero e l'altra stretta sul bastone. La vela maestra era stata issata, adesso la goletta poteva cominciare a muoversi verso il mare. Poteva anche utilizzare il motore, se fosse stato necessario. Gerlof si era sempre preso cura delle sue macchine. Le sue golette avevano sempre avuto il motore a testa calda, che richiedeva di essere lubrificato una volta all'ora, quando era acceso, ma non aveva mai dimenticato di farlo. "Oh... issa" ripeté tra sé e sé. Mollò il tronco dell'albero e fece un passetto in direzione del mare. Si sentiva abbastanza bene: le articolazioni erano insensibili, ormai, e non gli
facevano più male. Si tenne vicino al muro di pietra, dove l'erba era più corta che al centro del prato, e lentamente si avvicinò alla spiaggia. Il vento soffiava dal mare, passando dritto attraverso la camicia bagnata e penetrandogli in corpo, o almeno quella era la sensazione. Ma il rumore era più forte, ora, e quel suono lo indusse ad andare avanti. Cominciava a essere sempre più sicuro di che cosa fosse. Aveva ragione: si trattava di un sacchetto di plastica vuoto. O meglio, un sacco della spazzatura, grosso e nero e mezzo sepolto nella sabbia. Probabilmente gettato da qualche imbarcazione in mezzo al Baltico. C'erano anche altri rifiuti, più giù sulla spiaggia: un pacchetto del latte, una bottiglia di plastica verde, una latta arrugginita. Era allucinante constatare quante schifezze gettasse in mare la gente dalle barche, ma se Gerlof voleva sopravvivere, quel sacco di plastica gli sarebbe servito. Tirandolo fuori dalla sabbia, bucandolo sul fondo e infilandoselo addosso avrebbe ottenuto un riparo dalla pioggia che avrebbe potuto mantenere accettabile la temperatura corporea nel corso della notte. "Bene." Era stata una buona idea, considerando il grado di congelamento della sua testa. Il problema poteva essere scendere in spiaggia, perché il prato s'interrompeva con un alto dislivello dovuto all'erosione delle onde. Era ripido come una scala, e alto diverse decine di centimetri. Vent'anni prima, o forse anche soltanto dieci, Gerlof avrebbe semplicemente fatto un passo per scendere sulla sabbia, senza neanche pensarci, ma ora non si fidava più del proprio senso dell'equilibrio. Si concentrò, inspirò profondamente l'aria gelida e, sollevato il piede destro, si sporse nel vuoto tenendo il bastone davanti a sé. La manovra non riuscì. Il bastone urtò la spiaggia per primo e sprofondò nella sabbia bagnata. Gerlof cadde in avanti, mollò il bastone troppo tardi e lo sentì spezzarsi con uno schiocco sonoro. Rovinò sulla spiaggia, cercando di mettere avanti la mano destra. Quando atterrò, la superficie sabbiosa era dura come il cemento, e al momento dell'impatto con il torace tutta l'aria gli uscì dai polmoni. Gerlof rimase steso a pochi metri dal sacco di plastica. Non riusciva a muoversi: qualcosa si era rotto. Cercare di raggiungere il sacco era stato un buon piano, ma questa volta non sarebbe riuscito ad alzarsi.
Chiuse di nuovo gli occhi. Non li riaprì nemmeno quando il rumore di un motore d'auto raggiunse le sue orecchie. Quel suono non lo riguardava. 34 La radio della polizia accanto al volante era rimasta in silenzio finché Lennart non aveva preso il microfono e lanciato l'allarme alla centrale di Kalmar: da quel momento in poi aveva cominciato a emettere dei messaggi crepitanti che Julia non riusciva a interpretare. Lennart, invece, ascoltava concentrato. «Le pattuglie con i cani non arriveranno ancora per un po'» disse, scrutando nel buio oltre il parabrezza «ma tra poco manderanno un elicottero.» «Quando?» chiese lei. «Decollerà da Kalmar nel giro di qualche minuto» rispose Lennart, e aggiunse: «È dotato di termocamera». «Termocamera?» «Una telecamera particolare» spiegò Lennart. «Registra il calore corporeo. Al buio è uno strumento davvero utile.» «Molto bene» disse Julia, ma l'informazione non le bastava a stare tranquilla. Guardava continuamente fuori dai finestrini, ma ormai si vedeva ben poco. Erano le sei e mezzo ed era quasi buio pesto. A malapena riusciva a capire a che punto della provinciale si trovavano. Poco prima, alla residenza per anziani, Boel inizialmente si era mostrata piuttosto irritata per il fatto che Gerlof non si fosse fatto vivo. «Cosa dobbiamo fare, chiuderlo dentro a chiave?» aveva detto, sospirando. «Possibile che ci debba costringere a questo?» Poi però si era preoccupata quasi quanto Julia e aveva messo insieme una pattuglia di ricerca chiamando a raccolta il personale del turno serale, che si era incamminato a piedi dalla residenza per vedere se Gerlof fosse rimasto a qualche fermata di autobus. Lennart aveva mantenuto la calma, ma aveva capito che la faccenda era grave e aveva allertato via radio il comando di polizia di Borgholm. Dopo alcune brevi telefonate era anche riuscito a rintracciare l'autista dell'autobus, che a Byxelkrok era ripartito in direzione opposta e in quel momento era rientrato a Borgholm. Non ricordava con chiarezza di aver
avuto Gerlof a bordo, ma sapeva di aver fatto scendere qualcuno a un paio di fermate sulla provinciale, prima di Marnäs, e almeno altre tre volte tra Marnäs e Byxelkrok. Quando Lennart e Julia erano rimontati in macchina e avevano cominciato le ricerche, erano le sei appena passate. Contemporaneamente alcuni dipendenti della residenza per anziani erano partiti a bordo di due auto, mentre Boel era rimasta in ufficio per tenere sotto controllo il telefono. Pioveva ancora. Julia e Lennart si erano diretti a sud, anche se non era affatto scontato che Gerlof fosse sceso in quella zona: poteva anche essersi addormentato, per poi scendere dall'autobus dopo Marnäs. Ma da qualche parte dovevano pur cominciare. Lennart procedeva lentamente, più o meno alla velocità di un motorino, e a ogni fermata e a ogni parcheggio accostava per non lasciare inesplorata nessuna parte della strada. «Non si vede niente...» mormorò Julia. Non che ci fosse qualcosa da vedere: certo non c'era nessuno che camminasse lungo la strada provinciale, in una serata fredda e piovosa come quella. Julia scorgeva solo fossi scuri e cespugli e, dietro, qualche tronco grigio pallido. La radio della polizia cominciò a crepitare di nuovo. Lennart ascoltò. «L'elicottero è decollato» disse. «Adesso si sta dirigendo verso Marnäs.» Julia annuì. Si rese conto che era la loro unica speranza. «È da lui questo comportamento?» chiese Lennart dopo un po'. «In che senso?» «Voglio dire... è già stato... come si dice... inaffidabile in altre occasioni?» «No.» Julia scosse la testa ma poi rifletté e aggiunse: «Ma non sono del tutto sorpresa... se davvero è sceso dall'autobus e si è semplicemente incamminato... Chissà cosa può essere successo. Credo che pensi troppo». «Lo troveremo» la rassicurò Lennart a voce bassa. Julia annuì. «Quando è uscito, stamattina, aveva il cappotto invernale. Dovrebbe cavarsela, no?» «Con il cappotto può superare la nottata» rispose Lennart. «Soprattutto se trova anche un riparo dal vento.» "Peccato che sul tavoliere di ripari dal vento non ce ne siano" pensò Julia.
35 «Gerlof! Dov'è, Gerlof?» Risvegliato dall'ennesimo rincuorante sogno di viaggi a vele spiegate, Gerlof aprì lentamente gli occhi e sbatté le palpebre nella pioggerella che continuava a cadere. «Come?» chiese con la voce roca, o forse si limitò a pensarlo. Era ancora steso supino giù sulla spiaggia, con la gamba destra che pulsava di dolore. Sul ciglio del prato soprastante, simile a una grossa ombra stagliata contro il cielo serale, c'era Gunnar Ljunger, con l'oscena giacca a vento gialla che faceva pubblicità al suo albergo. Era lì davvero? Sì, non si trattava di un sogno. Ma Ljunger non sorrideva più, Gerlof se ne accorse. Tra gli occhi gli si era invece formata una ruga d'irritazione. «Dov'è il mio telefono?» chiese. Gerlof deglutì, aveva la bocca secca e non riusciva quasi a parlare. «L'ho nascosto» sussurrò. «Hai chiamato qualcuno?» chiese Ljunger. Gerlof scosse appena la testa. Non era riuscito a telefonare. Troppi pulsanti, non si capiva quali dover premere. «Dov'è? Te lo sei infilato su per il culo?» «Scendi a cercarlo, Gunnar» sibilò a voce bassa. Ma Ljunger rimase dov'era. Gerlof sapeva perché: se fosse sceso sulla spiaggia, le sue scarpe avrebbero lasciato delle impronte profonde. Neanche la pioggia le avrebbe spazzate via. Il cellulare era nella sua tasca dei pantaloni, non particolarmente ben nascosto, ma ora Ljunger era costretto a escogitare un modo per riprenderselo. «Hai una buona fibra, Gerlof» disse, raddrizzando la schiena. «Ma sei caduto e ti sei fatto male, vedo.» Gerlof non pareva più avere voce, perché quando aprì la bocca non ne uscì neanche un suono. Le labbra erano secche e irrigidite dal freddo. «I più beati sono i morti» recitò Ljunger con voce calma sopra di lui. «Dai modi spicci ma onesta è la morte, e dunque cantate ehi oh oh!... È Dan Andersson, se non lo sai. Adoro i suoi canti, e anche le vecchie ballate marinare di Taube. Ti dirò che è stata Vera Kant a insegnarmi ad ascoltar-
le. Aveva un sacco di settantotto giri.» «Aveva terreni e soldi» sussurrò Gerlof nella sabbia. «Scusa?» «I terreni e i soldi di Vera... È tutto lì.» Ljunger scosse la testa. «No, ci sono tante altre cose» disse. «Terreni, soldi, vendetta, grandi sogni... e anche l'amore per Öland, come ho detto. Io amo quest'isola.» Gerlof lo vide infilarsi le mani nella tasca della giacca ed estrarne un paio di guanti di pelle. «Penso che sia ora che tu ti metta a dormire, Gerlof» disse. «E quando lo farai, io troverò il cellulare. Non avresti dovuto prenderlo.» Gerlof era stanco delle chiacchiere di Ljunger. Chiacchiere, chiacchiere, chiacchiere. Il proprietario dell'albergo era lassù sul ciglio del prato e non faceva altro che parlare, non voleva lasciarlo in pace, e intanto nel buio si cominciava a udire un debole fruscio ritmato. «È ora di salutarsi, con tante grazie» continuò Ljunger. «Credo che...» D'un tratto tacque e girò la testa. Il fruscio risuonava più forte sulla spiaggia, simile all'infrangersi di onde, come se il vento stesse cominciando a trasformarsi in tempesta. Il rumore aumentò rapidamente d'intensità, trasformandosi in un rimbombo, mentre le folate strattonavano gli indumenti leggeri di Gerlof. Si accorse che la sagoma torreggiante di Ljunger aveva rivolto la testa verso il cielo, ammutolita dalla sorpresa. Alzò gli occhi. Un'ombra gli passò sopra. Un corpo immenso con gli occhi che brillavano a intermittenza era sospeso sopra la spiaggia. La parte superiore buia, quella inferiore illuminata, il rombo ritmato che non cessava, e sotto il ventre piatto la scritta POLIZIA a lettere rifrangenti. Era un elicottero. Ljunger non incombeva più su di lui. Era sparito, scappato, come un troll che, scoperto e smascherato, corresse a lunghe falcate sulla strada sterrata. Gerlof rimase lì con lo sguardo fisso verso l'alto. Le grandi eliche ruotavano senza fermarsi. Sì, quello sospeso lassù era davvero un elicottero. Dopo essersi inclinato in avanti, scivolò verso il prato e si abbassò. L'elicottero della polizia atterrò dolcemente e Gerlof chiuse gli occhi. Non provava né gioia né sollievo, non provava niente. Il suo cervello stava ancora aspettando che la nave della morte arrivasse e lo trascinasse
in mare con sé. E invece non arrivò. Il rumore ritmato delle pale del rotore si attenuò, e i portelloni vennero aperti. Due uomini con un casco in testa scesero tenendo la schiena piegata. Indossavano divise simili a tute: erano piloti o poliziotti addestrati al volo e si spostarono rapidamente sull'erba in direzione di Gerlof. Uno dei due teneva sotto il braccio una coperta termica, l'altro reggeva una borsa bianca. Gerlof cominciò a capire perché erano arrivati e tirò il fiato. L'elicottero era lì per lui. Se la sarebbe cavata. 36 «Eccolo!» Il grido di Julia risuonò alto, e Lennart frenò talmente di colpo che le ruote slittarono. La velocità era però ridotta, e l'auto si fermò quasi subito, un po' di traverso lungo la provinciale. Si trovavano appena a sud della deviazione per Stenvik. «Dove?» chiese Lennart. Julia indicò un punto oltre il finestrino. «Lo vedo» la tranquillizzò. «Là, nel campo... È disteso lì!» Lennart si sporse in avanti, poi accelerò di nuovo e sterzò. «Faccio inversione.» L'auto fece una curva secca sull'asfalto bagnato. «C'è una strada, qui... vediamo dove porta.» Ma quando la macchina ebbe imboccato la stradina sterrata, Julia si accorse di aver visto male. Non era un corpo. Era... Lennart fermò l'auto e Julia si affrettò ad aprire la portiera. Le stampelle, però, la rallentarono, e arrivò prima lui. Si chinò e raccolse l'oggetto dal piccolo fosso che correva lungo la stradina. «È solo un cappotto» disse sollevandolo. «Un cappotto gettato via.» Julia si avvicinò e lo guardò, trattenendo il respiro. «È di papà» disse. «Ne sei sicura?» chiese Lennart. «Sembra un...» «Guarda nella tasca interna.» Lennart aprì il cappotto e frugò nella tasca. Ne estrasse un portafogli e lo aprì. «Ci vorrebbe una torcia...» mormorò, tentando di tenere il portafogli entro il raggio di luce dei fanali dell'auto.
«È di Gerlof» confermò Julia. «Lo riconosco.» Lennart tirò fuori una vecchia patente e annuì. «Sì. È suo.» Poi si guardò intorno. «Gerlof!» chiamò. «Gerlof!» Ma il vento e il motore acceso soffocarono il richiamo. «Dobbiamo risalire in macchina e cercare» disse. «Non riconosco questa stradina... Penso che scenda in spiaggia.» Si girò, rimontò in macchina e disse qualcosa al microfono della radio. Julia lo seguì e si sedette di nuovo sul sedile del passeggero. «Ora l'elicottero sa dove ci troviamo» disse Lennart. Ingranò la prima e cominciò ad avanzare lentamente, sforzando gli occhi per vedere qualcosa oltre il parabrezza. «Spengo i fanali» disse «così vediamo meglio.» La strada davanti a loro di colpo si fece nera come la pece, ma una volta che gli occhi si furono abituati Julia si accorse che riusciva a vedere il tavoliere ai due lati dell'auto. Ogni nuova ombra che spuntava le sembrava un vecchio in mezzo all'erba, ma erano solo cespugli di ginepro. D'un tratto Lennart indicò un punto in alto. «Eccolo lì» disse. «Si è fatto desiderare.» Julia fissò le lucine intermittenti, bianche e rosse, che si muovevano nel cielo. Si rese conto che era l'elicottero, e nello stesso tempo la radio della polizia riprese a crepitare. Lennart tese le orecchie. «Credo che abbiano trovato qualcosa» disse. «Giù, sulla spiaggia.» Accelerò, oltrepassò una curva... e un attimo dopo l'intera macchina fu inondata da un riflesso bianco e accecante. Era un'altra auto. «Merda!» gridò Lennart di fianco a Julia. Premette a fondo il freno, ma era troppo tardi. L'auto che veniva dalla parte opposta procedeva a velocità sostenuta. «Tieniti!» Julia strinse i denti e lanciò le braccia verso il cruscotto, preparandosi all'urto. L'impatto la proiettò in avanti, ma la cintura la trattenne, mentre davanti a lei il cofano dell'auto si accartocciava come carta stagnola. La cintura aveva tenuto, ma il colpo contro le costole le aveva fatto male lo stesso. Silenzio. Dopo l'urto, trascorsero alcuni secondi di silenziosa immobili-
tà. Julia udì Lennart tirare il fiato dietro il volante e imprecare a bassa voce. Poi accese di nuovo i fanali. Pareva che ne funzionasse uno solo, quando illuminò l'auto lucida che si era scontrata con la loro. Lennart si allungò verso il vano portaoggetti, che si era aperto con l'impatto, e ne estrasse la fondina. «Stai bene, Julia?» chiese. Lei sbatté le palpebre e annuì. «Bene... Sì, credo di sì.» «Rimani lì. Torno subito.» Lennart aprì la portiera del conducente, lasciando entrare il freddo. Julia esitò e poi aprì anche la sua. Quasi contemporaneamente si spalancò quella dell'altra auto. Una sagoma alta e con le spalle larghe scese precipitosamente. «Chi è là?» sentì chiamare Lennart. «Da dove cazzo venivi?» udì rispondere un'altra voce, decisamente più forte. «Accendi i fari, porca troia! Perché andavi a le luci spente?» «Calma» disse Lennart. «Sono un poliziotto.» «Chi?... Sei Henriksson?» chiese l'altra voce. Julia tirò fuori le gambe e cercò a tastoni le stampelle. Riuscì a mettersi in piedi, nonostante il terreno non fosse propriamente piano. «Vieni dalla spiaggia?» chiese Lennart. Grazie alla luce dei fanali Julia riconobbe improvvisamente l'altro conducente, il proprietario dell'hotel di Långvik. Poi ricordò anche il nome: Gunnar Ljunger. «E quella chi è?» stava chiedendo. Era evidente che ormai l'aveva riconosciuto anche Lennart. «Calmati, Gunnar» disse. «Da dove vieni?» «Da... dalla spiaggia.» Ljunger aveva abbassato la voce. «Sono stato a fare un giretto in macchina.» «Hai visto Gerlof Davidsson?» chiese Lennart. Ljunger rimase in silenzio per qualche secondo. «No» disse poi. «Lo stiamo cercando» spiegò Lennart, indicando un punto nel cielo. «Lo cerca anche quell'elicottero.» «Ah.» Ljunger pareva stranamente poco interessato, o almeno questa fu l'impressione di Julia. Avanzò di un passo e chiese a Lennart, dalla parte op-
posta del cofano: «Manca molto alla spiaggia?». «Non troppo, credo» rispose lui. «Qualche centinaio di metri.» A Julia bastava. «Devo arrivarci» disse. Afferrò saldamente le stampelle e cominciò a procedere saltellando, oltre la macchina di Ljunger e poi lungo la stradina. «Gunnar, metti la retro e togliti di mezzo» sentì dire Lennart alle sue spalle. «Devo scendere giù in spiaggia con l'auto.» «Henriksson, guarda che non puoi...» «Indietro, adesso!» ripeté Lennart a voce più alta. «Poi dovrai restare in macchina. È necessario capire...» La sua voce si perse rapidamente nel vento. Oltre le due macchine Julia vide di nuovo le luci dell'elicottero, atterrato a un paio di centinaia di metri di distanza. Aumentò l'andatura, scivolando ripetutamente nelle pozzanghere lungo la strada sterrata ma riuscendo sempre a tenersi in equilibrio sulle stampelle e a proseguire. Avvicinandosi, grazie alla luce dei riflettori dell'elicottero vide due uomini in tuta chiara chini su qualcosa nella sabbia. Un corpo. Lo sollevarono e lo avvolsero in una coperta. «Papà!» Gli uomini le lanciarono una rapida occhiata e poi continuarono il loro lavoro. Il corpo sulla sabbia giaceva immobile nella coperta. Julia voleva vederlo muoversi, sollevare la testa, ma fu solo quando era a pochi metri dalla spiaggia che ottenne un cenno di vita. Gerlof emise un colpo di tosse. Un rumore secco, rauco. «Papà!» chiamò Julia di nuovo. Lui girò lentamente la testa. «Julia...» Tossì di nuovo. «Piano, adesso» disse uno dei due uomini. «Ora lo spostiamo.» Sollevarono Gerlof avvolto nella coperta e lo portarono via velocemente. «Posso venire anch'io?» chiese Julia alle loro spalle, aggiungendo: «Sono sua figlia. E faccio l'infermiera». «Non si può» rispose il più vicino a lei senza alzare gli occhi. «Non abbiamo posto.» «E dove lo portate?» chiese lei.
«Al pronto soccorso di Kalmar.» Li accompagnò ugualmente fino all'elicottero, sebbene le stampelle continuassero a impigliarsi nell'erba. Cercava di restare vicina al corpo avvolto nella coperta. «Ti raggiungo in ospedale, papà.» Un attimo prima che lo caricassero sull'elicottero Gerlof sollevò la testa, e Julia poté vedergli il viso. Era bianco come un cencio. Ma gli occhi erano aperti, e all'improvviso la fissarono. Disse qualcosa, a voce bassa, impercettibile. «Cosa?» Si protese in avanti, ascoltando con tutta se stessa. «È stato Ljunger» sussurrò Gerlof. Julia gli rispose in un bisbiglio: «A fare cosa, papà?». «A prendere... il nostro Jens.» Poi scomparve, caricato come un pacco inanimato sul sedile posteriore dell'elicottero. Il portellone si richiuse su di lui. «Deve scostarsi, adesso» disse uno dei piloti, prima di chiudere anche il suo. Julia arretrò goffamente sulle stampelle. Quando le pale ricominciarono a ruotare si trovava a una distanza di una cinquantina di metri, e le osservò girare sempre più velocemente. Le meraviglie della tecnica. Un frastuono nel buio, e l'elicottero che trasportava il suo vecchio padre si levò nel cielo nero, salì sempre più in alto e partì a velocità sostenuta verso sudovest. Poco alla volta tornarono a udirsi i rumori più attutiti della risacca e del vento. Julia sentì un richiamo distante e si voltò. Era Lennart. Le due auto erano ancora ferme alla curva, e per quanto le braccia le dolessero, afferrò di nuovo le stampelle e tornò al luogo dell'incidente lungo la strada sterrata. «Hanno trovato Gerlof laggiù?» chiese Lennart vedendola arrivare. Julia annuì. «L'hanno portato a Kalmar.» «Bene.» Gunnar Ljunger era ancora seduto nella sua auto con la portiera aperta, ma non era riuscito a fare marcia indietro e lasciar passare l'auto della polizia. Una volta spento dopo la collisione, il motore non si era più avviato. Quando girava la chiave non si sentiva altro che un ticchettio. Ljunger colpì irritato il volante rivestito di pelle.
«Dovrai chiuderla a chiave e lasciarla qui» disse Lennart. «Tornerai con noi a Marnäs.» Ljunger sospirò, ma non aveva altra scelta. Prese una cartella dalla Jaguar e montò poi sul sedile del passeggero dell'auto della polizia, di fianco a Lennart. Julia dovette mettersi su quello posteriore. Durante il tragitto verso Marnäs si sporse in avanti e osservò Gunnar da dietro. Cos'aveva fatto sulla spiaggia? Cos'aveva detto a Gerlof? Ljunger era seduto con la schiena diritta e non parve accorgersi delle sue occhiate, ma l'atmosfera nell'auto era tesa. «Vuoi dirlo, adesso?» chiese Lennart dopo qualche minuto. «Dire cosa?» «Cosa ci facevi su quella stradina.» «Mi godevo il bel tempo» rispose laconico Ljunger. «Perché andavi tanto forte?» «Ho una Jaguar.» «Sapevi che Gerlof era lì sulla spiaggia?» «No.» Julia sospirò. «Sta mentendo» disse a Lennart. Ljunger non fece commenti. «Di sicuro è stato il tuo calore corporeo a essere rilevato dall'elicottero, Gunnar» disse Lennart. «La temperatura di Gerlof era troppo bassa. Per noi è stato un bene che fossi lì.» Ljunger mantenne il suo mutismo. Teneva lo sguardo fisso oltre il parabrezza, gli occhi semichiusi, o per mancanza d'interesse o per estrema stanchezza. Dopo qualche minuto l'auto entrò nel centro di Marnäs. C'era un posto libero proprio davanti alla stazione di polizia, e Lennart parcheggiò lì. Aprì la porta con la chiave ed entrarono tutti e tre. Lennart accese la luce e il computer. Ljunger si piazzò al centro della stanza, come un militare davanti alle sue truppe. «Rilascerò una breve dichiarazione, niente di più» disse guardando Lennart. «Non ho intenzione di fermarmi più a lungo del necessario, stasera. Voglio tornare a casa.» «È quello che vogliamo tutti, Gunnar» rispose Lennart. Andò alla scrivania e digitò qualcosa sulla tastiera. «Vuoi un caffè?» «No.» Ljunger guardò Julia e chiese: «Quella lì deve restare?».
Lennart parve irrigidirsi sentendo definire Julia come "quella lì", ma lei si limitò a scuotere la testa. Aveva ben altri problemi a cui pensare. «Quella lì raggiungerà suo padre in ospedale» rispose Julia «per vedere se sopravvive.» Fissò Ljunger senza abbassare gli occhi. «Gli chiederò cos'è accaduto giù in spiaggia.» «Brava, ottima idea.» Ljunger non la guardò neanche, ma l'angolo della bocca gli si era increspato in uno strano sorrisino, come se tutta la faccenda lo divertisse e basta. «Siediti, Gunnar» disse Lennart indicando la poltroncina davanti alla scrivania. Poi fece un paio di passi in direzione di Julia, vicino alla porta, e abbassò la voce. «Te la cavi da sola?» Lei annuì e raccolse le stampelle. «Vedo se c'è un autobus serale» rispose «altrimenti prenderò un taxi.» «Okay» disse Lennart. «Poi mi chiami? Andrò a casa non appena avremo finito qui.» Julia sorrise e annuì, come se quella sera fosse tutto normale. «Ci vediamo presto.» Avrebbe voluto abbracciare affettuosamente Lennart, ma non aveva intenzione di farlo davanti a Gunnar Ljunger. Scese gli scalini, sentendosi di nuovo avvolgere dal freddo nella strada deserta, e guardò in direzione della stazione delle corriere al lato opposto della piazza. Un autobus c'era, ma chissà se era diretto a sud? Un taxi fino a Kalmar sarebbe costato diverse centinaia di corone, ma nella peggiore delle ipotesi era quella l'alternativa che avrebbe dovuto scegliere. Anche se avesse dovuto prosciugare il suo conto in banca, e anche se avesse dovuto restare seduta tutta la sera al pronto soccorso, doveva arrivare in ospedale. Voleva essere lì, quando Gerlof si sarebbe svegliato. Lennart avrebbe capito che era necessario per lei stare vicino a suo padre, e poi aveva anche lui parecchio da fare, quella sera. Cominciò ad attraversare la strada sulle stampelle, per raggiungere la piazza. All'improvviso le tornò in mente il sorriso, lo strano sorrisino di Gunnar Ljunger. Aveva distrutto l'auto ed era stato più o meno additato come assassino di Gerlof, eppure, davanti alla scrivania di Lennart alla stazione di polizia le
sue labbra si erano increspate in quel sorrisino, come se in quell'ufficio si aspettasse di trovare una via di fuga. Come se pensasse... Julia si bloccò di colpo sul marciapiede al lato opposto della via. Era a metà strada, ma senza riflettere fece dietrofront. Si mise a saltellare sulle stampelle, in direzione della stazione di polizia. Distava solo un centinaio di metri, ma non arrivò ugualmente in tempo. Quando era ancora fuori sul marciapiede udì il colpo di pistola. Un colpo secco senza eco, ma veniva dall'interno. Attraverso la finestra si sentì un tonfo sordo. Qualche secondo più tardi risuonò un secondo colpo di pistola. Julia fece ancora tre passi saltellando sulle stampelle, ma procedeva troppo lentamente, e le gettò sull'asfalto, mettendosi a correre. Superò i gradini fino al portoncino della stazione in due lunghi passi, che le provocarono delle intense fitte di dolore al piede slogato. Aprendo la porta sentì l'odore di polvere da sparo, e solo allora si fermò. Era tutto immobile. Non si udivano rumori. Julia sbirciò cauta verso l'interno, e all'inizio vide solo le gambe di Lennart spuntare di fianco alla scrivania. Il cuore perse un colpo, ma poi si accorse che si muovevano. Era semidisteso sulle ginocchia sotto la scrivania, con una mano sul pavimento e l'altra premuta contro la fronte insanguinata. La fondina era aperta, e raddrizzandosi a fatica Lennart alzò su Julia uno sguardo annebbiato e confuso. «Dov'è?» chiese. «Dov'è Ljunger?» Julia si rese conto di che cosa era successo. Non era Lennart a essere stato colpito, ma Gunnar Ljunger. L'aveva visto, adesso. Il proprietario dell'albergo aveva trovato una via di fuga. Ljunger non sorrideva più. Il corpo giaceva sul pavimento al lato opposto della scrivania, e le scarpe di pelle lucida erano scosse da brevi spasmi. Sotto la testa aveva cominciato a formarsi una pozza di sangue, e dei piccoli spruzzi rosa avevano macchiato la giacca a vento gialla. Il sangue riluceva nel riflesso del lampadario. Ljunger fissava il soffitto con la bocca semiaperta. Gli occhi parevano sorpresi, come se non capisse che era davvero tutto finito. Nella mano destra stringeva ancora l'arma di servizio di Lennart.
37 «Come stai, Lennart?» chiese Gerlof a voce bassa dal letto d'ospedale. Il poliziotto, in divisa, alzò stancamente le spalle. «Così così. Avrei dovuto stare più all'erta» disse con un sospiro profondo. «Avrei dovuto capire cos'aveva intenzione di fare.» «Non pensarci più, Lennart» disse Julia dal lato opposto del letto di Gerlof. «Mi ha ingannato. Si è seduto, e pensavo che si fosse rilassato... ma è stato allora che si è lanciato in avanti e mi ha scaraventato sulla scrivania aprendo con uno strattone la fondina. Non ero pronto.» Sospirò di nuovo e sfiorò il cerotto sulla fronte. «Sono troppo vecchio, reagisco con troppa lentezza. Avrei dovuto...» «Non pensarci, Lennart» ripeté Julia. «È stato Ljunger a fare del male a te, non il contrario.» Lennart annuì, ma senza sembrare convinto. Il primo proiettile sparato da Gunnar Ljunger si era conficcato in una parete della stazione di polizia, ma Lennart aveva battuto la testa sul bordo della scrivania lottando per recuperare la pistola di servizio. Gli avevano dovuto dare diversi punti, al pronto soccorso di Marnäs, e sotto il cerotto sulla fronte c'era un taglio profondo. Ora Lennart e Julia si trovavano in una camera dell'ospedale di Borgholm, seduti ai due lati del letto di Gerlof. Era tardo pomeriggio e fuori dalla finestra stava calando sulla città un sole autunnale giallo intenso. Gerlof sperava che la visita non durasse troppo a lungo, perché in realtà desiderava soltanto stare solo e dormire. Non aveva ancora assolutamente le forze per alzarsi. Se non altro, adesso si sentiva lucido, ma non ricordava molto degli ultimi giorni. Probabilmente, senza il rapido trasporto in elicottero al reparto di rianimazione di Kalmar, non sarebbe sopravvissuto. Nel giro di due giorni le sue condizioni erano passate dal pericolo di vita a una generica gravità, ma poi c'era stato un miglioramento, fino ad arrivare a una situazione stabile, e al quarto giorno gli era stato concesso il trasferimento in ambulanza fino all'ospedale di Borgholm. Si stava un po' più tranquilli che a Kalmar, e Gerlof aveva avuto una camera singola al secondo piano, con vista sul parco del Castello e sulle ville della cittadina. Era lì che Julia e Lennart erano venuti a trovarlo a
cinque giorni dal tentativo di Ljunger di farlo fuori sulla spiaggia nei pressi di Marnäs. «È la terza volta che vengo qui nelle ultime quarantott'ore, papà» disse Julia. «Ma la prima che ti trovo sveglio.» Gerlof si limitò ad annuire stancamente. Aveva il braccio sinistro steccato e bendato e un piede ingessato in seguito alla caduta sulla spiaggia. Da una sacca di soluzione fisiologica partiva un deflussore collegato a un ago infilato nel braccio, e un altro tubicino era attaccato a un catetere. Si trovava sotto un doppio strato di coperte, ma si sentiva comunque più in forze del giorno prima. La febbre continuava a calare, lentamente ma senza ricadute. Gerlof cercò di alzarsi a sedere per vedere meglio Julia e Lennart, e sua figlia si affrettò ad aiutarlo aggiungendogli un cuscino dietro la schiena. «Grazie.» La voce era molto debole, ma riusciva a parlare. «Come ti senti, oggi, papà?» chiese Julia. Gerlof sollevò il pollice destro verso il soffitto della camera. Tossì e inspirò con qualche difficoltà. «Prima pensavano... che avessi la polmonite» sussurrò. Riprese fiato e continuò: «Ma stamattina... hanno detto che è solo bronchite». Tossì di nuovo. «E sono abbastanza sicuri che... potrò tenere tutti e due i piedi.» Fece una pausa e aggiunse: «Il che mi fa piacere». «Hai una buona fibra» disse Lennart. Gerlof annuì. «Già. L'ha detto anche Gunnar Ljunger.» All'improvviso il cercapersone di Lennart si mise a ronzare. «Ancora...» Il poliziotto sospirò stancamente e guardò il display. «Pare che il mio capo mi voglia parlare di nuovo, le domande non finiscono mai...» disse. «Mi tocca andare a telefonare. Torno tra poco.» Lennart sorrise a Julia, che ricambiò, e accennò con la testa al letto. «Non sparire, Gerlof.» Gerlof rispose con un cenno del capo, e Lennart chiuse la porta. Nella stanza scese il silenzio, ma non era un silenzio carico di tensione. In realtà non c'era bisogno di dire niente. Julia mise la mano sulla coperta di Gerlof e si protese in avanti. «Devo portarti i saluti di amici e parenti» disse. «Ieri sera ha telefonato Lena da Göteborg, verrà presto. E ti saluta anche Astrid, naturalmente.
John e Gösta sono stati qui a trovarti ieri, ma hanno detto che dormivi. Dunque, tutti quelli che conosci ti pensano.» «Grazie.» Gerlof tossì di nuovo. «E tu... come stai?» sussurrò. «Bene, davvero» rispose subito Julia. «Sono stata parecchio con Lennart, negli ultimi giorni, nella sua bella casa tra i pini. Anche se naturalmente lui ha dovuto soprattutto scrivere un sacco di rapporti o andare a Borgholm... quindi non è che abbia potuto fare molto per lui. Più che altro sono stata seduta qui nella stanza accanto a preoccuparmi per te.» «Io... me la caverò» sussurrò Gerlof. «Sì, adesso lo so» disse Julia. «E me la caverò anch'io.» Suo padre diede un colpo di tosse e chiese: «Allora sei forte?». «Certo.» Julia sorrise, come se non capisse esattamente cosa intendeva dire. «Se non altro, sono molto più forte.» Gerlof continuò a sussurrare: «Ho riflettuto...» disse. «Non ne sono sicuro... ma penso di sapere come si sono svolti i fatti, adesso.» Julia lo guardò. «Tutti?» chiese. «Tutti» bisbigliò Gerlof. «Vuoi sapere... cosa ne è stato di Jens?» Julia lo guardò seria, trattenendo il respiro. «Adesso lo sai, papà?» domandò. «Ljunger ti ha detto esattamente come andò?» «Mi ha detto... diverse cose» rispose Gerlof. «Non tutto, credo. E quindi una parte di ciò che è accaduto... l'ho solo indovinata. Ma non è... un lieto fine, Julia. È andata com'è andata. Vuoi sapere tutto?» Julia strinse le labbra e fece un piccolo cenno del capo. «Dimmi.» «Ricordi che quando sei arrivata a Öland ti ho detto... che forse l'assassino sarebbe stato attirato... dal sandalo di Jens... e sarebbe venuto a vederlo?» chiese Gerlof. Julia annuì. «Però non è mai venuto.» Gerlof spostò lo sguardo sul sole che si stava abbassando sugli alberi fuori dalla finestra. Desiderò essere piccolo e poter ascoltare le storie paurose dell'ora del crepuscolo, invece di essere vecchio e doverle raccontare. «Penso che in realtà l'abbia fatto» concluse. «L'assassino è venuto da noi... anche se io e te non ce ne siamo accorti.» Öland, settembre 1972
Ritto davanti a Nils, Gunnar solleva lentamente la pesante leva di ferro. Si guarda intorno nella nebbia, come se volesse essere sicuro che nessuno possa vedere ciò che accade sul tavoliere. O ciò che accadrà. «Non puoi tornare a casa, Nils» dice. «Sei morto. Sepolto su a Marnäs.» Nils scuote la testa. «Molla la spranga» intima. Su tutto il tavoliere sembra essere improvvisamente calato un silenzio mortale, come se dalla cappa del cielo fosse stata risucchiata tutta l'aria. «Prima molla tu il badile.» Nils scuote di nuovo la testa. Lancia una rapida occhiata all'altro cercatore del tesoro, Martin, che respira affannosamente steso a terra a qualche metro di distanza, con una mano sulla fronte. Non costituisce più una minaccia, adesso. Ma Gunnar non è innocuo. A gambe divaricate, tende le orecchie e improvvisamente pare udire qualcosa in lontananza. «Okay» dice poi «adesso lascio andare la spranga.» E così fa. Il ferro cade con un tonfo sordo accanto al tumulo votivo. «Bene.» Anche Nils molla il badile, ma rimane sul chi va là. «E adesso voglio andare...» D'un tratto sente pure lui un rumore, che aumenta d'intensità. Un debole ronzio dalla strada comunale, che rapidamente si trasforma in un rombo sordo. Un motore d'auto. «Credo che avremo compagnia» dice Gunnar. Non sembra sorpreso. Passano ancora alcuni secondi. Poi, nella nebbia alle loro spalle, prende forma una grossa ombra. Un'ombra che si avvicina sull'erba, su quattro ruote. È un'altra Volvo, una seconda Volvo marrone che emerge lentamente dalla nebbia. Con una rapida manovra si ferma accanto all'auto di Gunnar, e il motore viene spento. La porta del conducente si apre. Nils non riconosce l'auto e neanche l'uomo che ne scende. Vede però che è molto più giovane di lui e che indossa una divisa nera da poliziotto stirata con cura. Ha anche una pistola nella fondina. Chiude la portiera, si sistema la giacca e si avvicina in silenzio. L'uomo che è appena arrivato si ferma a qualche metro da Nils. Il suo
sguardo è puntato su di lui. «Non ci siamo mai incontrati» dice il poliziotto «ma ho pensato molto a te.» Nils lo fissa a bocca aperta. «Hai assassinato mio padre» dice il poliziotto. Per diversi secondi Nils non capisce niente. «Questo è Lennart, Nils» interviene Gunnar a qualche metro di distanza. «Lennart Henriksson. Suo padre era sovrintendente di polizia. Te lo ricorderai: è successo quando eri giovane, molti anni fa... Vi incontraste sul treno per Borgholm.» Il figlio del sovrintendente di polizia. Solo adesso, finalmente, Nils capisce. Capisce che cosa sta per accadere e reagisce. Vede Henriksson armeggiare con la mano intorno alla fondina. Arretra nella nebbia e si mette a correre. «Fermo!» Naturalmente Nils non si ferma, scappa. La trappola che gli è stata preparata sta per richiudersi su di lui, ma può ancora farcela. Non è più giovane e si muove con minore destrezza di un tempo sul terreno erboso, ma quello è il tavoliere, il suo territorio. Fugge a testa china nei vapori della nebbia, mirando al cespuglio più vicino e aspettandosi di udire alle sue spalle un colpo di pistola, ma si abbassa e riesce a mettersi al riparo dietro i ginepri prima che arrivi. Nils sente diverse grida nella nebbia, ma sono più distanti, adesso. Non si ferma. Dritto davanti a sé, a passi lunghi. È quella la strada che scende in paese? Nils pensa di sì. Sta tornando a casa, adesso. Finalmente andrà a casa, da sua madre, e nessuno può fermarlo. All'improvviso vede una figura emergere dalla nebbia un po' più avanti. Si ferma e riprende fiato. È pronto a rimettersi a correre, ma quello che ha davanti non è un inseguitore. È un bambino, non avrà più di cinque o sei anni. Avanza nella nebbia grigiastra e si ferma a una decina di passi di distanza. Il bambino è piccolo, magro e indossa un paio di pantaloni corti e una maglia rossa, leggera, e ai piedi ha un paio di sandaletti. Guarda Nils in silenzio, curioso, ed esita, come se non avesse paura ma sapesse che bisognerebbe averla. Ma Nils non è pericoloso, non per un bambino. Si è sempre soltanto difeso, ha veramente cercato di salvare suo fratello dall'annegamento quel
giorno d'estate, anche se era troppo tardi, e non ha mai fatto male a un bambino in vita sua. Mai. «Ciao» dice, tirando il fiato. Cerca di calmare il respiro affannoso per non spaventarlo. Il bambino non risponde. Nils si guarda intorno girando rapidamente la testa, ma pare che non lo stia inseguendo nessuno. La nebbia lo protegge. Non può fermarsi troppo a lungo, ma ha qualche minuto per riprendere fiato. Poi, senza sorridere, guarda di nuovo il bambino e chiede a voce bassa: «Sei solo?». Il bambino annuisce senza parlare. «Ti sei perso?» «Mi sa di sì» risponde il bambino a voce bassa. «Niente paura... Io mi oriento benissimo qui.» Nils avanza di un passo. «Come ti chiami?» «Jens» dice il bambino. «Jens e poi?» «Jens Davidsson.» «Bene. Io mi chiamo...» Esita... quale dei suoi nomi sarà il caso di usare? «Mi chiamo Nils» dice alla fine. «Nils e poi?» chiede Jens. È un po' come un gioco. Nils sbotta in una risatina. Il bambino rimane dov'è, in un mondo fatto solo di erba e granito e cespugli di ginepro. Erba, pietra e cespugli: non si vede altro, nella nebbia. Nils cerca di sorridergli per fargli capire che va tutto bene. La nebbia si chiude intorno a loro, non si sente alcun rumore. Nemmeno il canto degli uccelli. «Niente paura» lo rassicura Nils. Pensa di portare il bambino in paese e accompagnarlo a casa, prima di andare da Vera. Adesso sono vicinissimi, Nils e Jens. Poi, dalla nebbia alle loro spalle emerge il rombo di un motore, e Nils cerca di girarsi e correre, ma non fa in tempo a fare un solo passo. Il rombo aumenta d'intensità e pare venire da tutte le direzioni. È l'auto, la Volvo marrone, e sta arrivando in mezzo ai sassi e ai cespugli, slittando sull'erba per poi raddrizzarsi e puntare dritto su di lui, su Nils, senza rallentare.
Destra o sinistra? L'auto è sempre più grande, è larghissima. Nils ha solo qualche secondo per scegliere, un secondo... e poi è troppo tardi. Non può fare altro che guardare, con il braccio intorno alle spalle del bambino. Non c'è riparo. Per un attimo, scompare tutto. Silenzio. Tenebre fredde. I rumori tornano sotto forma di sordi riverberi. Nebbia, freddo e un motore in folle. «L'hai beccato?» chiede una voce. «Sì... lo vedo.» Nils è supino, steso nell'erba. La gamba destra è sotto di lui in un'angolazione strana, ma non sente alcun dolore. L'auto è a pochi metri, con il motore acceso. La portiera del conducente è aperta. Il poliziotto scende lentamente con la pistola in mano. Si apre anche la portiera al lato opposto. Gunnar scende, ma si ferma vicino all'auto e si guarda intorno. Il poliziotto si avvicina a Nils e si ferma. Adesso non dice niente, guarda e basta. D'un tratto a Nils viene in mente il bambino nella nebbia, Jens... dove sarà andato? È scomparso. Spera che Jens Davidsson sia scappato, che se la sia svignata nella nebbia e sia tornato a Stenvik correndo nei suoi sandaletti. Una fuga riuscita. Nils lo vuole seguire, tornare a casa sua, ma non riesce a muoversi. La gamba dev'essere rotta. «Fine» dice, e basta. "Fine, mamma. È finita qui, sul tavoliere." Nils è molto stanco. Potrebbe arrivare strisciando fino a Stenvik, ma non ne ha la forza. I morti gli si raccolgono intorno, ombre grigie che premono in silenzio. Suo padre e il fratellino Axel. I due soldati tedeschi. Il sovrintendente sul treno e il marinaio svedese di Nybro. Tutti morti. Il giovane poliziotto davanti a lui annuisce. «Sì, è finita, adesso.» Si ferma solo a due passi da Nils. Toglie la sicura alla pistola con la canna rivolta verso il basso, poi la solleva, punta alla testa di Nils e preme il grilletto. 38
Gerlof aveva raccontato la storia della morte di Nils Kant sussurrando lentamente. Julia aveva dovuto protendersi in avanti per sentire. Ma aveva udito tutto, fino alla fine. Ora era seduta rigida, in silenzio, accanto al letto d'ospedale. Guardava Gerlof. «Tutto questo... è successo realmente?» chiese dopo un lungo istante di silenzio. «Quanto hai appena raccontato... è successo davvero? Ne sei sicuro?» Gerlof annuì piano. «Praticamente sicuro» sussurrò. «Perché?» chiese Julia. «Come fai a esserlo?» «Mah... alcune cose che mi ha detto Ljunger... mentre aspettava che morissi di freddo» disse Gerlof. «Ha parlato del fatto che... non era solo questione di ingannare Vera Kant per sottrarle terreni e denaro. Ha detto che si trattava anche di vendetta. Ma... vendetta su chi? E chi voleva vendicarsi? Mentre ero qui disteso ho pensato... e mi è venuta in mente una sola persona.» Julia scosse la testa. «No» disse soltanto. «Perché Nils Kant avrebbe dovuto essere riportato a casa... in realtà?» sussurrò Gerlof. «Di certo Gunnar Ljunger non ci teneva. Per lui, Nils valeva di più finché se ne stava in America... In quel modo era innocuo, e per ogni anno che passava Gunnar riusciva ad avere altri terreni da Vera... Il bottino di guerra dei tedeschi era insignificante rispetto a tutti i lotti su cui Gunnar poteva mettere le mani.» Prese fiato. «Ma qualcun altro voleva che Nils tornasse a casa... e intendeva lasciare che arrivasse a un passo dal ricongiungersi con sua madre prima di giustiziarlo. Sarebbe stato un castigo adeguato.» Julia scosse di nuovo la testa, ma senza convinzione. «Qualcuno che diede una mano» continuò Gerlof. «Che aiutò Gunnar Ljunger e Martin Malm a far arrivare la bara a Öland, che era presente quando venne aperta ed esaminata... e che poteva convincere tutti che il corpo di Nils Kant era tornato a casa. Un poliziotto giovane e affidabile.» Scese di nuovo il silenzio. Gerlof girò la testa e fissò lo sguardo sulla porta. Julia si voltò.
Lennart era tornato. Aveva aperto la porta della stanza senza che lei se ne accorgesse. Entrò come se fosse tutto come al solito. «Ecco fatto» disse. «Era il mio capo a chiamare, di nuovo. Hanno finito con gli accertamenti su a Marnäs, adesso, e così potrò ricominciare a lavorare quando...» Smise di parlare, si fermò e incrociò i loro sguardi seri. «È successo qualcosa?» chiese mettendosi dietro la sedia su cui era seduto fino a poco prima. «Parlavamo... del sandalo, Lennart» disse Gerlof. «Del sandalo di Jens.» «Il sandalo?» «Quello che ti avevo dato... se ti ricordi» continuò Gerlof. «È mai arrivata una risposta dalla scientifica... avevano trovato qualche traccia?» Lennart guardò Gerlof in silenzio per un paio di secondi, e poi scosse la testa. «No» disse. «Nessuna traccia... Non hanno trovato niente.» «Avevi detto che l'avevi spedito» disse Julia guardandolo. «L'hai fatto, vero?» chiese Gerlof. «Possiamo controllare, no, che... che l'abbiano ricevuto?» «Non saprei... forse» rispose Lennart. Teneva lo sguardo fisso su Gerlof, ma nei suoi occhi non c'era traccia di collera. Nessuna emozione. Era pallido in viso, e lentamente sollevò le mani e le appoggiò sullo schienale della sedia. «Mi chiedevo una cosa, Lennart...» disse Gerlof, e continuò: «Quand'è stata la prima volta che hai incontrato Gunnar Ljunger?». Lennart abbassò lo sguardo sulle proprie mani. «Non me lo ricordo» disse. «Davvero?» «Sarà stato... nel '61 o nel '62.» La sua voce era piatta e senza energia. «In estate, quando ero in servizio a Marnäs. C'era stato un furto con scasso nel suo ristorante di Långvik... e io ero andato lì per raccogliere la denuncia. Fu così che cominciammo a parlare.» «Di Nils Kant?» Lennart annuì. Continuava a evitare lo sguardo di Julia. «Anche di lui» disse. «Ljunger sapeva... Si era informato e aveva scoperto che ero il figlio del sovrintendente di polizia ucciso. Qualche settimana dopo mi telefonò e m'invitò a passare di nuovo nel suo ufficio. Mi chiese se volevo provare a trovare Kant e indurlo a tornare, con il tempo, per potermi vendicare di mio padre... La cosa poteva interessarmi?»
Lennart smise di parlare. «E quale fu la tua risposta?» «Dissi che ero interessato» rispose Lennart. «Io avrei aiutato lui, e lui me. Era un accordo d'affari.» Gerlof annuì lentamente. «Che si è concluso qualche giorno fa?» chiese poi a voce bassa. «Alla stazione di polizia di Marnäs? Temevi che cominciasse a raccontare delle cose su di te ai tuoi colleghi? Chi teneva in mano la pistola, in realtà, Lennart... quella con cui è stato ucciso Gunnar Ljunger?» Lennart si limitò a tenere lo sguardo fisso sulle proprie mani. «Non ha importanza» replicò. «Un accordo d'affari» ripeté Julia a bassa voce. Guardò fuori dalla finestra. Il sole stava tramontando, ma lei pensava a tutt'altro. Pensava al fatto che Martin Malm aveva avuto il denaro per le sue nuove navi. E che Gunnar Ljunger aveva ottenuto per pochi soldi una quantità di terreni da rivendere a caro prezzo. E che Lennart Henriksson, del quale fino a un attimo prima pensava di essere innamorata, aveva finalmente messo in atto la sua vendetta su Nils Kant. Tutto questo al prezzo della vita di suo figlio. «Era un accordo» disse Lennart. «Avrei dato una mano a Ljunger e a Martin Malm per risolvere certe faccende... e loro avrebbero aiutato me.» «E così v'incontraste nella nebbia sul tavoliere... quel giorno» disse Gerlof. «Ljunger mi chiamò la mattina e mi disse che erano diretti al tumulo votivo» disse Lennart. «Ci saremmo trovati lì. Ma io arrivai in ritardo, e quando mi trovai sul posto regnava il caos... Martin Malm era steso a terra, tutto insanguinato. Kant lo aveva aggredito con il badile. Malm non si rimise più... Ebbe la sua prima emorragia cerebrale solo qualche giorno dopo.» «E Jens?» chiese Julia a voce bassa. «Fu un incidente, Julia. Io non lo vidi affatto...» rispose Lennart con la voce impastata, senza guardarla. «Una volta morto Nils, trovammo... il corpicino sotto l'auto. Non aveva... non aveva fatto in tempo a scansarsi quando avevo investito Kant.» Tacque.
«Dove lo seppelliste?» chiese Gerlof. «È al cimitero, nella tomba di Kant» rispose Lennart. Parlava come qualcuno che fosse costretto a rivivere un terribile incubo. «Trasportammo il bambino e il corpo di Kant nel buio della notte. Appendemmo una campanella al cancello del cimitero in modo da sentire se arrivava qualcuno e sollevammo il tappeto erboso. Poi spalammo la terra su un telo di plastica, scavando per metà notte. Martin Malm, Ljunger e io. Scavammo tutti e tre. Fu una cosa terribile.» Julia chiuse gli occhi. "Vicino a un muro di pietra" pensò. Jens era sepolto vicino al muro di pietra che correva intorno al cimitero di Marnäs, assassinato da un uomo traboccante d'odio, esattamente come aveva detto Lambert. Prese fiato. «Ma prima di seppellire Jens» disse con la voce fioca e gli occhi chiusi «venisti a Stenvik, quella sera, e contribuisti a cercarlo. Coordinavi le operazioni di ricerca del bambino che avevi ucciso... mio figlio.» Julia sospirò stancamente. «E poi ti mettesti a vagare in auto fingendo di cercare sul tavoliere per cancellare le tue stesse tracce.» Lennart annuì in silenzio. «Ma non è stato facile» ammise con voce sommessa, ancora senza guardarla. «Voglio dirti solo questo, Julia. Non è stato facile non dire niente. E adesso, quest'autunno, quando sei tornata... desideravo tanto poterti aiutare. Ho cercato... volevo dimenticare tutto quanto era successo vent'anni fa, e fare in modo che anche tu potessi dimenticare.» Fece una pausa e poi aggiunse: «Pensavo che potesse funzionare». «Dunque Nils Kant è nella sua bara» disse Gerlof. Lennart annuì e lo guardò. «Erano anni che non parlavo con Gunnar Ljunger. Non di questa faccenda... Non avevo idea delle intenzioni che aveva nei tuoi riguardi, Gerlof.» Mollò la presa sullo schienale della sedia e si girò lentamente, e d'un tratto sembrò stanco come la prima volta che Julia l'aveva visto, alla cava. O forse ancora più stanco. Si avviò verso la porta e si girò un'ultima volta. «Posso dire che... uccidere Ljunger mi ha fatto sentire meglio che vendicarmi di Nils Kant» disse. Poi aprì la porta e uscì. Gerlof tirò il fiato nel silenzio della stanza d'ospedale. Niente applausi.
Guardò sua figlia. «Mi... mi dispiace, Julia» sussurrò. «Mi dispiace tantissimo.» Lei annuì e sostenne il suo sguardo, pur velato dalle lacrime che scorrevano. E in quel momento le parve di vedere che aspetto avrebbe avuto Jens da adulto. Lo vide nel viso di Gerlof. Pensò che si sarebbero somigliati moltissimo, nonno e nipote. Jens avrebbe avuto degli occhi grandi e un po' tristi, la fronte perennemente aggrottata a forza di pensare e uno sguardo saggio e acuto, capace di percepire sia il buio che la luce del mondo. «Ti voglio bene, papà.» Prese la mano di Gerlof e la strinse forte. EPILOGO Era il primo giorno di primavera autentica, un giorno di sole, caldo, fiori e uccellini, in cui il cielo sopra Öland pareva steso al vento come un lenzuolo azzurro. Un giorno in cui la vita sembrava di nuovo piena di possibilità, qualsiasi età si avesse. Per il corrispondente locale Bengt Nyberg la primavera aveva sempre rappresentato, in qualunque momento si decidesse ad arrivare, il vero inizio d'anno a Öland. Era contento di poter stare all'aperto il più possibile, nelle giornate come quella. Aveva parecchi giorni di recupero straordinari, e avrebbe potuto prenderseli per passeggiare nell'aria tiepida della primavera e ascoltare il canto spensierato dell'usignolo sul tavoliere, dove le ultime pozze lasciate dal disgelo si stavano asciugando al sole, ma quel giorno aveva preferito lavorare. Chiuse gli occhi per qualche secondo, il viso rivolto verso il sole, e poi spostò lo sguardo sulla chiesa di Marnäs, al lato opposto del muro di pietra. In occasione dell'apertura della tomba, quell'inverno, al cimitero si erano presentati un sacco di curiosi non invitati, un vero mare di pubblico che aveva dovuto essere tenuto a distanza dalla transennatura della polizia. Al funerale di quel giovedì, invece, i curiosi erano pochi, ed erano stati invitati dal prete a restare al di fuori del muro del cimitero. E così Bengt era l'unico cronista, con il suo blocco in mano, e accanto a lui c'era un giovane fotografo mandato lì dalla redazione centrale di
Borgholm, per quanto Bengt avesse comunicato che poteva pensare lui alle foto. Ma quella era una notizia abbastanza importante, che forse avrebbe potuto essere venduta ai giornali delle grandi città, e a questo punto la piccola macchina fotografica di Bengt Nyberg con le sue istantanee non poteva certo bastare. Il fotografo che avevano mandato era stato assunto da poco: un giovane smålandese che si chiamava Jens, proprio come il bambino, e probabilmente vedeva l'"Ölands-Posten" come il primo gradino della sua carriera: forse, nel giro di qualche anno sarebbe approdato in un qualche giornale del pomeriggio di Stoccolma. Era ambizioso ma noioso. Quando non scattava, parlava tutto il tempo dei vip che avrebbe voluto immortalare di nascosto oppure di cavalli da trotto su cui far soldi, e Bengt non era minimamente interessato né agli uni né agli altri. Jens era un irrequieto. Non appena i giornalisti furono fatti spostare dal custode del cimitero in un punto al di là del muretto, cominciò a cercare un posto migliore tenendo sollevato l'apparecchio. «Penso di poter entrare» disse a Bengt, guardando frenetico oltre il muretto. «Se solo m'infilo...» Bengt scosse la testa e non si mosse. «Fermo dove sei» disse a voce bassa. «Qui va benissimo.» Così restarono al sole, al di là del muro, ad aspettare, e dopo un po' dalla chiesa uscì il corteo funebre. La macchina automatica di Jens cominciò a scattare a ripetizione. Julia Davidsson, la mamma, avanzava con passo lento sul vialetto lastricato alle spalle del prete. Accanto a lei camminava Gerlof, il nonno materno. Entrambi erano vestiti di nero. Dietro veniva un uomo alto dell'età di Julia, con un soprabito nero. «Chi è quel tizio?» chiese Jens abbassando la macchina fotografica. «Il padre del bambino» rispose Bengt. Julia Davidsson teneva sottobraccio suo padre, che si appoggiò a lei fino alla tomba, sul lato meridionale del cimitero rispetto al campanile. Rimasero fianco a fianco mentre la bara veniva calata nella terra. Gerlof chinò il capo, Julia gettò una rosa. L'atmosfera era serena, secondo Bengt. Erano accadute tante cose orribili, in quella zona, in soli sei mesi: la brutta fine di Ernst Adolfsson nella cava di Stenvik all'inizio dell'autunno, la morte violenta di Gunnar Ljunger alla stazione di polizia un mese più tardi e il secondo sandalo del bambino trovato dalla polizia nella sua cassaforte nell'ufficio dell'albergo, a
Långvik, una scarpina che faceva il paio con quella spedita a Gerlof tempo prima dall'armatore Martin Malm, ora defunto. Il caso pareva chiuso, ma improvvisamente Lennart Henriksson aveva chiesto una nuova ricostruzione della morte di Ljunger a cui aveva fatto seguito un'incriminazione nei suoi confronti presso il tribunale di Kalmar, sia per l'assassinio di Gunnar Ljunger sia per l'omicidio colposo di Jens Davidsson. Infine, in una fredda e grigia giornata invernale, era stata aperta la tomba di Nils Kant. I tecnici della scientifica avevano montato intorno allo scavo una tenda come quelle usate sui luoghi in cui sono stati commessi dei reati, simile a una piccola chiesa di tela bianca di fianco alla chiesa vera, e per diversi giorni avevano lavorato in silenzio rifugiandosi di tanto in tanto nel vestibolo riscaldato per non congelarsi. Durante gli scavi, nella bara non era stato rinvenuto soltanto il corpo di Nils, ma anche i resti di un uomo fino a quel momento rimasto non identificato, probabilmente un cittadino svedese che per lungo tempo era rimasto in America Latina, dov'era anche stato ucciso. Nascosto in una cavità sotto la cassa di Nils Kant i tecnici avevano infine trovato un terzo corpo, molto più piccolo degli altri due. E così, finalmente, il caso era stato chiuso. I giornali del pomeriggio, la radio nazionale e i reporter televisivi erano venuti a Marnäs per riferire sullo svolgimento della vicenda. Era stato un periodo frenetico per un corrispondente locale al centro degli eventi, ma Bengt aveva avuto qualche problema a mantenere la giusta distanza giornalistica del caso in questione, e nel riportare le notizie aveva spesso provato una grande tristezza. Conosceva personalmente Lennart Henriksson da decenni, e in quella vicenda non aveva trovato nulla di cui rallegrarsi. Ma adesso splendeva il sole, era una sorta di capodanno ölandese. Dopo più di vent'anni sottoterra, il bambino poteva finalmente essere sepolto come meritava. Una volta conclusa la breve cerimonia presso la tomba, Julia e Gerlof Davidsson si avviarono verso la chiesa, seguiti dal padre di Jens, Michael, che camminava a qualche metro di distanza. Julia e Gerlof non stavano parlando, a quanto riusciva a vedere Bengt dal lato opposto del muretto. Non li aveva visti scambiarsi neanche una parola, durante l'intera cerimonia. Eppure aveva la netta sensazione che a unirli era l'intimità più profonda che potesse legare due membri di una stes-
sa famiglia, e all'improvviso si sentì invidioso. «Bene, siamo a posto» disse il fotografo abbassando l'apparecchio. «Vero?» «Certo» rispose Bengt. «Possiamo tornare a casa.» Non aveva annotato una sola parola sul suo blocco, e probabilmente avrebbe scritto solo un breve testo da affiancare alla foto sul giornale. Poteva bastare. Ma se qualcuno, più tardi, gli avesse chiesto com'era stato il funerale del bambino, Bengt Nyberg avrebbe potuto rispondere che era avvenuto in un'atmosfera luminosa, piena di dignità e di pace, come... sì, come una sorta di conclusione. FINE